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Italian Pages 740 Year 1986
Alessandro Manzoni
I PROMESSI SPOSI Ret 0 A
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N. Sapegno e G.Viti
Le Monnier
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Alessandro
Manzoni
I Promessi Sposi a cura di
Natalino Sapegno Gorizio Viti
Le Monnier
Prima edizione: aprile 1971. Prima ristampa corretta: agosto 1971. Seconda ristampa: giugno 1972. Terza ristampa: gennaio 1973. Quarta ristampa: marzo 1974. Quinta ristampa aggiornata: giugno 1975.
Sesta ristampa: aprile 1976. Settima ristampa: dicembre 1976. Ottava ristampa: gennaio 1978. Nona ristampa: luglio 1978. Decima ristampa: giugno 1979. Undicesima ristampa: aprile 1980. Dodicesima ristampa: settembre 1980. Tredicesima ristampa: novembre 1981. Quattordicesima ristampa: ottobre 1982. Quindicesima ristampa: febbraio 1983. Sedicesima ristampa: gennaio 1984. Diciassettesima ristampa aggiornata: luglio 1984.
Diciottesima ristampa: febbraio 1985. Diciannovesima ristampa: ottobre 1985. Ventesima ristampa: luglio 1986. Ventunesima ristampa: dicembre 1986.
ISBN 88-00-45143-8
PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA
Si ritengono contraffatte le copie non firmate o non munite del contrassegno della S.LA.E.
C.M. 451.439 15190-X — Stabilimenti Tipolitografici «E. Ariani» e «L’Arte della Stampa» della S.p.A. Armando Paoletti — Firenze
Prefazione
La prima redazione del romanzo manzoniano, il Fermo e Lucia, fu composta di getto dal 24 aprile 1821 al 17 settembre 1823. Due anni e cinque mesi, durante i quali il Manzoni trova il tempo anche di riprendere e completare la sua seconda, e più bella, tragedia, l'Ade/chi, di abbozzarne nella mente una terza presto tralasciata, lo .Spartaco, di dettare infine le prove più alte ed intense della sua lirica storica e religiosa, i cori dell’Ade/chi appunto eil Cinque maggio e la Pentecoste. Un periodo di fervida e incalzante attività creativa, che si prolunga nei due anni successivi, nel corso. dei quali tutto il romanzo viene
riscritto e prende la sua forma definitiva. Entro il ‘25 i ‘Promessi Sposi sono un libro compiuto, pronto per la stampa che sarà terminata nel: ‘27: i mutamenti introdotti più tardi, nell'edizione del ‘40, ne lasciano intatta la struttura e, a ben guardare, anche lo stile (benché insistano proprio su certe particolarità, e perfino pedanterie, lessicali e grammaticali). In quel breve giro di stagioni, fra la primavera del ‘21 e l'autunno del '25, un travaglio artistico di estrema complessità e di rara concentrazione tocca dunque il suo vertice e si esaurisce. Frutto di quel travaglio è una formula espressiva di straordinaria novità in quel tempo, non soltanto in Italia: il primo modello del romanzo, modernamente inteso come sintesi poetica di una realtà sociale e di una situazione ideologica, con un anticipo di anni su Stendhal e Balzac e addirittura di decenni su Gogol e Tolstoj, e preceduto soltanto dalla fortunata esperienza di Walter Scott, che del resto non era in grado di fornirgli molto di più che uno schema strutturale esteriore. Tale novità ottenne subito un esplicito riconoscimento in Francia, da Fauriel e più tardi da Sainte-Beuve, e in Germania, da Goethe, senza dire naturalmente dell’Italia, dove ia portata innovatrice dell'operazione manzoniana doveva essere immediatamente avvertita, tra consensi e resistenze ugualmente appassionati, e determinare una svolta profonda nella cultura letteraria e nel gusto, di cui il riflesso più maturo si coglierà nelle lezioni e nei saggi del De Sanctis. Occor-
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prefazione vie si rerà ora vedere meglio, e più da vicino, per quali la convenisse maturando nel Manzoni il proposito e ardui di a somm quale quista di una nuova letteratura, e se doves sito problemi, ideologici e formali, quel propo no. cammi incontrare e risolvere nel suo tenace e solitario Già l’esperienza letteraria svolta dallo scrittore adoante lescente nell'ambito del gusto neo-classico domin i, Sermon ai libertà della agli inizi del secolo, dal Trionfo a portav nia, all’Ura al carme /n morte di Carlo Imbonati e poeesiti in sé alcuni segni che, pur nella gracilità degli tici, bastavano a distinguerla e caratterizzarla originalmente, non solo a paragone dell'arte estroversa e dispersiva di un Monti, ma di quella stessa di tanto più impegnata e consapevole del Foscolo: l'istintivo rifiuto di
ogni estetismo; l'esigenza di una tematica realistica che si tenesse attaccata ai «fatti e costumi» del proprio
tempo; il concetto di una letteratura non lirica ed evasiva né idealizzante e trasfiguratrice, bensì sempre conscia di una sua funzione sociale, educatrice e polemica; un rigore morale intransigente e alquanto acerbo di schietta discendenza illuministica. La conversione religiosa del 1810, che rappresenta la svolta più importante nella biografia ideale dello scrittore, illumina e trasforma i dati e le conquiste di questa esperienza giovanile, senza per altro capovolgerla radicalmente. Essa matura la sua ideologia, sistemando in maniera definitiva, alla luce di una convinzione incrollabile, un patrimonio già ricco di atteggiamenti mentali e di propositi; corregge quel che di astratto e di chiuso persisteva nel suo moralismo, riportandolo sotto il segno di una dottrina comune e popolare e di un'esperienza associata; imprime un sigillo di religiosità alle sue istanze umanitarie e democratiche; offre un orientamento concreto alla sua volontà realistica, alle non sopite esigenze polemiche, al suo concetto tutto funzionale e non esornativo della letteratura. Soprattutto, negli anni che immediatamente precedono e preparano la conversione religiosa e in quelli immediatamente susseguenti, attra-
verso i contatti diretti con il Fauriel e con gli ideologi francesi, poi con i giansenisti e con gli storici della Restaurazione, e infine entrando in rapporto con il vivace
fermento di idee e di programmi innovatori di tutta la più moderna cultura ‘europea, il Manzoni viene a poco a poco scoprendo i precisi confini di una tematica storica, sociale e morale e le esigenze parallele di una adeguata , soluzione espressiva, attua cioè la conquista di un originale contenuto e di una sua specifica forma, in cui è poi tutto il senso della sua adesione al romanticismo. Un romanticismo, si sa, che esclude ogni avven-
tura della fantasia, ogni ‘esaltazione lirica, ogni compiaci-
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prefazione
mento introspettivo, ogni cedimento all'irrazionale, per configurarsi piuttosto come sistemazione teorica di quei preesistenti propositi realistici, razionalistici, antiumanistici, e precisazione di quel severo concetto di una letteratura chiamata ad inserirsi nel moto di progresso della ‘società con una sua ben delimitata funzione: il romanticismo, insomma, del Conciliatore, che appunto riflette in ogni suo aspetto questa esperienza personale del Manzoni, con i suoi evidenti agganci alla cultura illuministica, con il suo fervido impegno politico, con il suo moralismo anche troppo intransigente, con le sue sane ed equilibrate proposte polemiche e riformattrici. L'esperienza antilirica e corale degli /nn/ sacri, che segna la prima rottura con la tradizione classica ed è anche la conquista di un nuovo linguaggio tutto oggettivato e denso di sostanza psicologica; la scoperta, nelle odi civili, e nelle tragedie, di una nuova materia umana (analisi dei processi della vita interiore, quadro di. costume e rappresentazione di rapporti sociali, senso della storia ampliato e articolato in una nuova visione dei
rapporti fra i personaggi singoli e l’ambiente, fra gli eroi e le folle ignorate e conculcate), e ad un tempo ritrovamento di mezzi espressivi appropriati, già tendenzialmente prosastici; la scelta infine, tutt'altro che facile in quel clima culturale e in particolare sullo sfondo della tradizione culturale italiana, della. prosa narrativa, e in ispecie del romanzo, come del genere letterario più confacente alle esigenze della sua ispirazione; sono le tappe successive di un percorso complesso ma coerente, che ha il suo coronamento nell'invenzione dei Promessi
Sposi. Nella prima stesura dell'introduzione premessa al Fermo e Lucia, questo nodo di problemi convergenti si riflette in un discorso ancor tutto permeato di acerba ironia polemica, fortemente allusivo e denso fino a sfiorare l'oscurità. La polemica si svolge in primo piano contro la cultura letteraria attardata e contro il purismo linguistico; irride ai pregiudizi di un ambiente che proscrive tutte le moderne forme di espressione e, in particolare,. ritiene il romanzo « altrettanto falso e frivolo quanto vero e importante era ed è il poema epico e il romanzo cavalleresco in versi »; guarda con sarcasmo agli innamorati della «buona lingua » e ai fedeli dell’ « aureo Cinquecento »; ironizza a proposito delle ubbie dei misoneisti, paurosi di tutte le « invasioni letterarie » e di ogni « corruttela straniera », nostalgici dei bei tempi in cui « almeno non si leggevano ancora libri francesi, perché la Francia non aveva avuto ancora quegli insigni scrittori che per disgrazia delle lettere ebbe dappoi ». Agli elementi negativi e polemici se ne intrecciano, nella stessa introdu-
prefazione
VI
zione, altri positivi sul carattere e sulla finalità dell'opera, sia dove si insiste sulla verità del contenuto (il romanzo vuol essere infatti « esposizione di costumi veri e reali per mezzo di fatti inventati »), sia dove si tocca della ragione morale che presiede all'arte e fa tutt'uno con essa, come strumento di riflessione « sui mali dell'umanità » e mezzo atto a suscitare « simpatia e rispetto per tutto ciò che è pio, nobile, umano e giusto ». La polemica, che, al di là delle specifiche ragioni letterarie, sottintende infine il problema urgente di una profonda e radicale trasformazione di tutta la vita culturale, e, in ultima istanza morale, della nazione; la difesa della scelta di un genere letterario, che solo nella mente dell'autore s'impone come strumento di una conoscenza analitica e appro-
fondita della realtà umana e sociale, tale quindi da assorbire nelle pieghe della rappresentazione anche tutto il contenuto di quella polemica; la proclamazione, che ne
consegue, di un concetto della letteratura, la cui utilità
e funzionalità sia garantita in ogni momento dalla presenza -non esteriore e superficiale, bensì intrinseca e profonda, di una ragione morale; rispecchiano e riassumono il lungo e intenso travaglio riflessivo che aveva accompagnato l’attività dello scrittore nel decennio successivo alla conversione e aveva toccato. i. suoi momenti culminanti nella Lettre.è M. Chauvet, nel Discorso su alcuni punti della storia longobardica in Italia e nella Morale cattolica. Più e prima del modello fortunato di Walter Scott (certo non trascurabile, ma riducibile nei precisi termini di una proposta. strutturale, e per giunta assai imperfetta), alla radice della genesi dei Promessi Sposi sta la scoperta di Shakespeare, che presiede alla poetica enunciata nella Lettre, dove alla letteratura si assegna il compito di « penetrare nella profondità della storia », per trarne alla luce «tutto ciò che la volontà umana ha di forte e di misterioso, la sventura di religioso e di profondo »; sta la visione tragica, esplorata nel Discorso e variamente ragionata nella Morale cattolica, dei « vari svolgimenti e adattamenti della natura umana
nel corso
della
società;
di quello
stato
così
naturale
all'uomo e così violento, così voluto e così pieno di dolori, che crea tanti scopi dei quali rende impossibile l'adempimento, che sopporta tutti i mali e tutti i rimedi piuttosto che cessare un momento, di quello stato che è un mistero di contraddizioni in cui l'ingegno si perde, se non lo considera come uno stato di prova e di preparazione ad un'altra esistenza ». Si capisce che, considerata su questo sfondo di riflessioni, la trovata scottiana del romanzo storico si presentasse al Manzoni come niente di più che un parti, un
prefazione
VII espediente, uno schema, in cui egli avrebbe riversato tutta la sua dolorosa concezione della storia e del destino umano, la sua pietà e la sua religione: il-che comportava anche una struttura romanzesca ben altrimenti complessa, dove alla narrazione dei fatti fosse continuamente sottesa la riflessione morale e l’interpretazione polemica dello scrittore, e in cui l'interesse si spostasse consapevolmente dalla rappresentazione dei grandi personaggi e degli eventi in apparenza più pertinenti allo storico, a quella delle infinite miserie, dei lutti e delle lacrime, degli umili, del « volgo disperso », affidando alla fantasia (a una fantasia sempre controllata e aliena da ogni concessione al pittoresco) il compito paradossale di ricostruire, attraverso l'invenzione, i lineamenti di una storia più vera. Ai diversi problemi fin qui descritti e relativi, tanto per intenderci, al contenuto del libro, alla sua funzione morale, alla scelta e alla definizione della materia storica, alla complessa struttura del genere letterario moderno, se ne intreccia fin dal principio un altro che, appena accennato nella prima stesura dell'introduzione al Fermo e Lucia, acquista un rilievo preponderante nella seconda stesura della stessa introduzione e intanto era diventato un oggetto assillante della riflessione dello scrittore e uno dei temi preminenti del dialogo che, in margine alla composizione del romanzo, si era venuto svolgendo tra il Manzoni e il Fauriel. È il problema, non sovrapposto agli altri ma intimamente connesso fino a far tutt'uno con essi, della lingua; di uno strumento espressivo che si adegui appunto alla funzione e alla materia del genere prescelto e instauri la possibilità di una comunicazione con il pubblico più vasto e meno selezionato a cui il romanzo si rivolge; un linguaggio e uno stile che spezzino i limiti della tradizione aulica e puristica e, senza cadere nel dialetto, ne conservino tuttavia le caratteristiche di naturalezza, duttilità, ricchezza lessicale e disinvoltura sintattica. Impresa veramente «tra le più disperate » quella di «scriver bene un romanzo in italiano »: come il Manzoni scriveva appunto al Fauriel nel novembre del ‘21, insistendo sulle difficoltà quasi insuperabili cui, per questo verso, andava incontro lo scrittore costretto a servirsi « se non è toscano, di una lingua che non ha quasi mai parlato, e anche se è nato in quella regione privilegiata, di una lingua parlata solo da un piccolo numero di italiani, una lingua in cui non si discute oralmente di importanti questioni, in cui le opere riguardanti le scienze morali sono rarissime e distanziate, che per giunta (se si dà retta a quelli che ne _discorrono
di più) è stata corrotta e sfigurata dagli scrittori che hanno trattato negli ultimi tempi le materie di maggior impegno;
VIII
prefazione ore il così che... manca del tutto a questo povero scritt rivolge, sentimento di comunicare con il lettore a cui si mente la certezza di maneggiare uno strumento noto ugual ad entrambi ». oma Prima di diventare oggetto di un'indagine auton della e distaccata, teoria e formula dell'uso, la questione lingua si presentava dunque allora al Manzoni come problema immediato di stile, legato e immedesimato all'atto del comporre, risorgente ad ogni momento e ad ogni momento risolto in quell'atto, in una successione di scelte sempre insoddisfacenti e approssimative, operando a tentoni per fare «con una fatica più penosa e ostinata, il meno male possibile, ciò che in Francia si farebbe bene e quasi facilmente ». Perché, da un lato, era ben chiaro all'autore il fine, immanente ad ogni genere di scrittura, ma tanto più urgente nel caso di un genere popolare come. il romanzo, di trovar « parole .e frasi tanto famigliari ad ognuno che il parlatore triviale e l'egregio cavino dallo stesso fondo, e dopo averli uditi successivamente, un uomo colto senta fra di loro differenza d'idee, di raziocinio, di forza, etc. ma non di lingua »; e dall'altra rinasceva ad ogni passo il dubbio se un tale fondo di lingua comune e comunemente intesa e riconoscibile esistesse da noi, come senza dubbio esisteva, per esempio, in Francia. Anche il problema delle scelte formali si presentava dunque al Manzoni in maniera particolarmente ardua, perché si. complicava e raddoppiava di un problema teorico apparentemente irresolubile. Questa complessità e convergenza di problemi di ordine diverso — morale, religioso, storico, fantastico, stilistico — si avverte chiaramente nel Fermo e Lucia, che è appunto una congerie di materiali eterogenei e in gran parte inconditi; dove alle pagine che nascono dal cuore dell'invenzione, con una spontaneità immediata e freschissima nelle avventure degli umili sposi, con un abbandono alla curiosità dell'analisi psicologica nelle storie di Geltrude e del Conte del Sagrato (spontaneità ed abbandono che potranno in parte andar perduti nella stesura definitiva), se ne alternano e mescolano altre di pura ricostruzione storica, di discussione teorica, di riflessione morale, di polemica intellettuale. Si passa dal romanzo alla storiografia, al saggio, con un sovrapporsi incongruo di piani distinti di contenuto, di intonazione, di stile, dove non è tanto questa diversità e complessità di elementi compositivi a turbare e disorientare il lettore, quanto il mancato contemperamento e fusione delle varie componenti; i contrasti stridenti che si istituiscono fra le pagine più strettamente narrative e le digressioni allotrie, e quelli meno stridenti ma pur gravi all'interno
prefazione
IX della narrazione stessa, legati a un ancora insufficiente equilibrio nella proporzione e distribuzione degli episodi. Segnata la data del 17 settembre 1823 sull'ultima pagina dell'autografo del Fermo e Lucia, cominciava
quasi subito il lavoro di sfrondamento, di ripulitura, di revisione, anzi di radicale rifacimento dell’opera. Scrivendo il Fermo, in quella prima lieta furia di ispirazione, il Manzoni aveva lasciato che nel libro trovasse posto tutto il contenuto della sua mente in quel periodo di intenso e tumultuoso travaglio spirituale: immagini e intenzioni, riflessioni e fantasie, interpretazioni storiche e scoperte narrative e commenti polemici, e perfino le perplessità nate nel processo stesso della composizione, di ordine stilistico o strutturale. Taluni excursus gli si erano rivelati subito superflui rispetto al fine e all'organismo del libro: così la digressione, di natura storico-giuridica, sugli untori . e sui loro processi che, staccata assai presto dal contesto e costituita in appendice, diventerà la Storia della colonna infame; o l'altra sulla lingua che, precisandosi nella sua qualità teorica, richiedeva un'appropriata e rigorosa trattazione in altra sede. Ma altre digressioni rimanevano incorporate nel contesto ed estranee ad esso e fastidiose: come quella, trattata e risolta in termini di aspro moralismo, sul posto da concedere alla materia amorosa nelle opere letterarie; o l'altra, del resto molto interessante in rapporto con la poetica dello scrittore, sulle origini del rinnovamento culturale dell’Italia alla fine del Settecento, da attribuirsi non all'azione dell'Arcadia e dei letterati petrarchisti, bensì all'apporto sostanziale delle idee e delle forme attinte alla civiltà europea, e specialmente francese, degli ultimi due secoli. Tutte queste digressioni erano bensì incorporate inizialmente al processo compositivo del libro, in quanto si innestavano nel viluppo di problemi di contenuto e di forma che avevan presieduto alla sua genesi; ma pur dovevano essere sacrificate alle esigenze di armonia, di proporzionalità e di compattezza del romanzo. Altre correzioni, di qualità più duttile ma non meno importante, si rendevano necessarie all'interno stesso dell'intreccio più propriamente romanzesco, al fine. di attuare una maggiore fusione dei toni e agevolezza di trapassi stilistici, nel vario rapporto delle vicende storiche e di quelle inventate, dei personaggi grandi e degli umili. Tra gli spunti che avevano avuto una parte cospicua a suggerire la trama narrativa, quelli che già di per sé s'eran presentati con una suggestione di forte coloritura romantica avevano finito con lo svilupparsi ampiamente in modo troppo autonomo. La narrazione minuta, per esempio, e per se stessa assai interessante (tanto da costituire ancor oggi l'elemento di maggior novità e cu-
prefazione de, riosità per il lettore del Fermo e Lucia), dei casi di Geltru a svolti in ogni particolare passionale e criminoso, si potev
unidubitare se non risultasse a scapito dell'organismo linea alla to rispet esse, tario del racconto e non si risolv e in fondamentale del libro, in una troppo compiaciuta l'altra parte vana digressione episodica. Analogamente, storia del Conte del. Sagrato appariva nel Fermo come un episodio a sé, scarsamente inserito nella trama e nel eri tono della vicenda principale, gustato nei suoi caratt alle ancora di singolarità e di pittoresco, molto legato fonti cronachistiche, tale quindi da richiedere (ancor più di quello della monaca) di esser rielaborato e ridotto a giuste proporzioni (e infatti nella stesura definitiva sarà quello che subirà un rifacimento più profondo e radicale). In molte parti, del resto, del Fermo persistevano i segni di un romanzesco e pittoresco di tipo scottiano, che certo aveva avuto la sua parte nello spingere il Manzoni a sbrigliare la fantasia in divertite invenzioni, ma doveva essere anch'esso contenuto e subordinato all'intenzione ideale dell’opera, la quale nel corso della composizione si veniva sempre più chiarendo e rassodando e imponeva una revisione anche dell'ordine dei fatti affinché tutto il racconto procedesse nella maniera più piana e naturale, con una giusta proporzione delle parti e contemperamento dei toni comici e patetici e fusione di scene, di situazioni, di passaggi psicologici. Infine tutta la lingua adoperata nella prima stesura era da rifare in omaggio alla convinzione teorica, che s'era nel frattempo maturata, dell'uso toscano, e in cui s'incarnava per allora l'esigenza di una maggiore semplicità e spontaneità di stile, e cioè la poetica realistica dello scrittore, nonché il desiderio di una maggiore unità dei diversi piani stilistici. La redazione dei Promessi Sposi, compiuta fra la primavera del ‘24 e l'autunno del ‘25, operando sul testo del Fermo e Lucia con un felicissimo intuito che investe di pari passo l'ordine e il ritmo narrativo e l'invenzione lessicale, e consegnata alle stampe nell'edizione milanese del ‘27, conclude propriamente la storia poetica del libro (le varianti, di ordine strettamente linguistico e grammaticale, tardivamente introdotte nell'edizione definitiva del ‘40, non ne modificano sostanzialmente la struttura e neppure lo stile) e conclude anche, come tutti sanno, la fase veramente creativa del Manzoni scrittore, che si era iniziata con la composizione degli /nn/ sacri e l'aveva visto impegnato per un decennio in un proposito di rinnovamento letterario di portata non pur italiana, ma europea. La storia, che qui si è sommariamente tracciata, della genesi del romanzo era tutta intesa a illustrarne la straor-
dinaria complessità, identificando e distinguendo i diversi
prefazione
XI problemi ideologici, strutturali e tecnici che avevano concorso nella sua attuazione. Questa complessità è tutta presente anche nella stesura definitiva. Cadrebbe in errore perciò chi si illudesse di descrivere il trapasso dal Fermo e Lucia ai Promessi Sposi, restringendolo nei limiti di un'ordinaria operazione artistica, rivolta a circoscrivere il nucleo propriamente inventivo e fantastico dell'ispirazione, liberandolo dalle scorie dei presupposti dottrinali, laddove per il Manzoni si trattava piuttosto di assimilare e ridurre ad unità le varie componenti, senza respingerne nessuna. La differenza fra i due momenti è da intendere soltanto come una differenza di ordine e di compagine, non di riduzione e semplificazione, ma di raggiunta fusione in una tessitura che, pur eliminando ogni stridore, resta pur sempre composita e comporta diversi piani di lettura. I motivi di alta meditazione religiosa, gli spunti aspramente polemici, la lunga riflessione sulla storia e sulla realtà dolorosa della condizione umana e degli istituti sociali cessano bensì di proporsi in maniera autonoma e di costituirsi come materia di digressioni staccate e sono felicemente calati e dissolti nel contesto narrativo; ma è vero anche che l'intreccio delle vicende e il destino dei personaggi si compenetra di quelle meditazioni e riflessioni e incarna quegli spiriti polemici, attenuando le sue punte pittoresche e rinunziando a tutto ciò che, in un primo atteggiamento di puro abbandono fantastico, poteva persistere di compiaciuto e di arbitrario. Di qui è nata una certa difficoltà, da parte dei lettori, e dei critici, di leggere e accettare il libro come pura opera di poesia, e la tendenza a negarne o almeno a dissolverne, sul piano della lettura, l'unità compositiva, distinguendo tra le varie parti e liberamente trascegliendo in armonia con le proprie esigenze di gusto. Né si può dire che questo difficile processo di accostamento dei lettori e della critica si sia del tutto risolto neppure oggi, approdando ad un pieno intendimento del libro in tutta la sua complessità, che è poi anche la sua ricchezza e la ragione del suo alto significato storico. I Promessi Sposi richiedono infatti un lettore capace di abbandonarsi al libero ritmo della trama e di coglierne in ogni sfumatura la straordinaria fertilità inventiva, senza perderne di vista tutte le implicazioni morali e religiose; di assaporare la novità e la portata polemica nella rappresentazione del mondo degli umili e insieme la forza di interpretazione psicologica di alcune grandi figure come Gertrude o l’Innominato; di accettare la varietà e l'alternanza di piani diversi nei modi della narrazione, secondo la diversa complessità dei personaggi e la materia che muta dall’invenzione alla storia alla riflessione, dal quadro
XII
prefazione particolare al grande affresco d'insieme, e comporta una di parallela alternanza e varietà di linguaggio e di stile; il erso attrav e zioni distin sentire infine, al di là di queste vario ritmo delle componenti ideali e dei procedimenti tecnici, l'unità articolata e infinitamente complessa della struttura. Meglio che da un discorso generale, in sede letintroduttiva, un primo avviamento a questo tipo di senza testo, del te tura inteso a raccogliere tutte le propos rifiutarne o metterne tra parentesi o subordinarne nessuna, e nel contempo a porne in evidenza i molteplici rapporti e i vari raccordi ideali e stilistici, potrà esser fornito da un minuto sforzo di esegesi, che è quello che qui si è tentato di fare attraverso il commento a piè di pagina e le schede critiche poste in fine ad ogni capitolo.
Nota. - Il testo seguito è quello curato da A. Chiari e F. Ghisalberti in Tutte /e opere di Alessandro Manzoni, Milano, Mondadori, 1964. _ Per quanto i due autori, Professori N. Sapegno e G. Viti, abbiano provveduto al presente lavoro in stretta collaborazione in ogni sua parte, in particolare il primo ha curato la prefazione e le schede critiche, il secondo il commento.
I Promessi Sposi Storia milanese del secolo XVII
scoperta e rifatta da Alessandro Manzoni
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1. Introduzione”
L’Historia si può veramente deffinire una guerra illustre contro il Tempo, perché togliendoli di mano gl’anni suoi prigionieri, anzi già fatti cadaueri, li richiama in vita, li passa in rassegna, e li schiera di nuovo in battaglia. Ma storici non si curano che delle più splendide gesta e dei più grandi personaggi. Ad altezze di tal genere io non penso di potermi sollevare; e perciò, avendo avuto notizia di cose memorabili accadute ‘a gente umile, di queste io intendo fare il racconto. Si assisterà ad azioni portentose, di malvagità e di virtù: ad atti di bontà angelica si vedranno opposte operazioni diaboliche. E davvero, pensando agli illustri personaggi che governano le nostre terre, dal re Cattolico nostro Signore al Governatore ai Senastile barocco, tanto ricercato e noioso quantorti ai Magistrati, che tutti insieme si adoto sguaiato e scorretto, lo avevano indotto perano a vantaggio dei sudditi, non si poa prendere dall’Anonimo secentista soltanto trebbe trovare altra causa di tante malva«la serie dei fatti» e a rifarne di suo «la gità e sevizie che l’intervento del demonio. dicitura ». L’Introduzione, dunque, è costituita di Ora, nel trascrivere questi fatti, accaduti al tempo della mia giovinezza, per comprensidue parti: la prima è la trascrizione dell’inibili motivi tacerò nomi di personaggi e di seconda la »; o scartafacci « supposto zio del località. Questo niente toglierà alla compleè l'esposizione del ragionamento dell’autotezza del racconto, essendo i nomi *se non re, insieme con la scherzosa allusione che, puri purissimi accidenti...’ ». in fondo, la storia del manoscritto è tutta 2. gl’anni... cadaueri: è una delle immagiun'invenzione. Si può dire che queste pani tipiche dello stile del Seicento, tutto bagine introduttive costituiscono la presentasato su ampollosità e concettini, su figure zione, in una sintesi ironica e insieme ragiostravaganti ed espressioni frondose, su annata, dei principi essenziali a cui s'ispirerà titesi ricercate e ritmi solenni: il repertorio la poetica de I Promessi Sposi: quale storia narrare, quale posizione tenere di fron- barocco, dunque, al gran completo. Infatti, non vi manca neppure la precisa grafia di te al Seicento, quale forma di scrittura usaallora: » iniziali (Historia, horrori), t per re: tutto nella visione cristiana della vita, sentita come eterno dramma di lotta tra îl z (Relatione), v per w e viceversa (cadaueri); raddoppiamenti di consonanti (defini bene e il male, e misterioso intervento delre) e di vocali (occhij); uso frequentissimo l’azione redentrice della Provvidenza. e ingiustificato di maiuscole (Arringo, Palme, Allori...) ecc. ecc. Nella perfezione di questo rifacimento dello stile del Seicento prima questa in può... si a 1. L’Histori è la prima nota polemica del romanzo: la pagina, composta dal M. in perfetto stile secentesco, l’Anonimo viene ad esprimere i condanna di quanto di sfarzoso, di vuoto, di retorico c’era in quella civiltà, e in priseguenti concetti: «La storia è come una luogo in quella letteratura, che al M. mo a chiama quanto in guerra contro il tempo, vera nuova vita fatti ed eroi del passato. Ma gli appare, per stile e idee, l’opposto della
* Nell’Introduzione l’autore espone la genesi della sua opera. Questa sarebbe nata dall’interesse che un giorno il M. provò nel leggere, da un « dilavato e graffiato » autografo del Seicento, certi « fatti memorabili » accaduti a gente del popolo, « gente meccaniche, e di piccol affare ». Si era proposto, in un primo tempo, di trascrivere quella storia perché gli era parsa « bella», « molto bella »; ma poi la difficoltà di decifrare certi « scarabocchi » e il disgusto per quello
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î promessi sposi
gl’illustri Campioni che in tal Arringo fanno messe di Palme e d’Allori, rapiscono solo che le sole spoglie più sfarzose e brillanti, imbalsamando co’ loro inchiostri le Imprese de Prencipi e Potentati, e qualificati Personaggi, e trapontando coll’ago finissimo dell'ingegno i fili d’oro e di seta, che formano un perpetuo ricamo di Attioni gloriose. Però alla mia debolezza non è lecito solleuarsi a tal'’argomenti, e sublimità pericolose, con aggirarsi tra Labirinti de’ Politici maneggj, et il rimbombo de’ bellici Oricalchi: solo che hauendo
hauuto notitia di fatti memorabili, se ben capitorno a gente meccaniche, e di
piccol affare, mi accingo di lasciarne memoria a Posteri, con far di tutto schietta e genuinamente il Racconto, ouuero sia Relatione. Nella quale si vedrà in angusto Teatro luttuose Traggedie d’horrori, e Scene di malvaggità letteratura, Egli vuole uno stile semplice, vivo, che corrisponda al vivere reale degli uomini. Sarà, questa, la sua « dicitura ». 4. gl’illustri Campioni: gli storici famosi, i quali non trattano altro che delle imprese dei grandi: Imperatori, Papi, Re, Principi... Tutto il resto, cioè il popolo, rimane muto, assente in quelle storie: le sue aspirazioni, i suoi dolori, sepolti per sempre. Qui c’è già la seconda nota polemica: la condanna dell’esaltazione dei potenti, che soffocano l’esistenza degli umili. La voce del M. sarà sempre in difesa della dignità della persona umana, di qualunque persona. Anzi, gli umili soprattutto egli chiamerà a dar vita alla storia e in questa storia farà vedere come proprio da essi scaturiscano, il più delle volte, i pensieri e le azioni più nobili. Nel Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia, il M. ha alcune espressioni che sono altamente significative a questo riguardo: « I cronisti del medioevo raccontano per lo più i soli avvenimenti principali e straordinari, e fanno la storia del solo popolo conquistatore, e qualche volta dei soli re e dei personaggi primari di quel popolo ». E aggiunge: « un’immensa molti.tudine d’uomini, una serie di generazioni, che passa sulla terra, sulla sua terra, inosservata, senza lasciarci traccia, è un triste ma importante fenomeno ». Col sentire nel popolo un protagonista essenziale della storia, e col chiamarlo a protagonista del suo romanzo storico, il M. dà inizio ad un nuovo corso della letteratura italiana, rimasta fin dalle sue origini sostanzialmente aristocratica e lontana dalla partecipazione al mondo dei miseri e dei vinti. Poi, anche in virtù della fondamentale influenza dei Promzessi Sposi, questo grande tema di un romanticismo realistico e cristiano troverà la sua fioritura più rigogliosa nel verismo del secondo Ottocento. — fanno messe di Palme e d’Allori: raggiungono tanta gloria. L’ironia è più che manifesta; e sempre ironico resterà l’atteggiamento dell’autore per tutto
il passo secentesco,
5. solo che le sole: è un bisticcio barocco. Bastava « solo », oppure « sole ». La semplicità non era, davvero, dote del XVII secolo; sarà dote del M. 7. coll’ago finissimo... i fili d’oro.... è tutto uno sbocciare d’immagini: l’una più goffa dell’altra. Non ne segnaleremo più, ché altrimenti dovremmo segnalare quasi ogni parola. Notiamo invece una bella sgrammaticatura, o solecismo come più avanti la chiamerà l’autore, la quale del resto non resterà sola: dice #rapontare i fili, mentre si dovrebbe dire trapontare coi fili, perché trapontare significa ‘ ricamare’. 8. alla mia debolezza: nuova ironia del M. (non certo dell’Anonimo!) che si finge incapace di giungere a così sublimi vette della storia. 9-10. labirinti de’ Politici maneggj: gl’intrighi politici. — Oricalchi: trombe di guerra. Le parole solenni e sonore « il rimbombo de’ bellici Oricalchi » fanno un endecasillabo e nascondono un sorriso. Nel romanzo non mancheranno pagine di operazioni belliche e di maneggi politici: nelle une e nelle altre l’arte del M. non sarà inferiore a quella delle pagine, tanto più numerose e gradite al poeta, che racconteranno le vicende della povera gente. 13. schietta e genuinamente: schiettamente e genuinamente; l’uso di coppie di avverbi con una sola desinenza in -mente è un’eleganza spagnolesca; queste forme avverbiali, diffuse dapprima in tutte le lingue romanze, erano scomparse dall’italiano dopo il Duecento. Anche subito dopo c’è un’altra eleganza barocca in quel pomposo arrotondamento del periodo ottenuto con l’inu-
tile sinonimo: « cuuero sia Relatione ». È naturale che tutte queste eleganze, nelle mani del perfetto imitatore dello stile se-
centesco, si risolvano in altrettanti motivi caricaturali dello spagnolismo vuoto e .borioso.
14. in angusto Teatro: la Lombardia, spa-
zio ceftamente « angusto » a paragone degli altri immensi domini del re di Spagna.
introduzione 15
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grandiosa, con intermezi d’Imprese virtuose e buontà angeliche, opposte alle
operationi diaboliche. E veramente, considerando che questi nostri climi sijno sotto l’amparo del Re Cattolico nostro Signore, che è quel Sole che mai tramonta, e che sopra di essi, con riflesso Lume, qual Luna giamai calante, ri-
splenda l’Heroe di nobil Prosapia che pro tempore ne tiene le sue parti, e 20
gl Amplissimi Senatori quali Stelle fisse, e gl’altri Spettabili Magistrati qual’er-
ranti Pianeti spandino la luce per ogni doue, venendo così a formare un nobilissimo Cielo, altra causale trouar non si può del vederlo tramutato in inferno d’atti tenebrosi, malvaggità e sevitie che dagl’buomini temerarij si 23
vanno moltiplicando, se non se arte e fattura diabolica, attesoché l’humana malitia per sé sola bastar non dourebbe a resistere a tanti Heroi, che con occhij d’Argo e braccj di Briareo, si vanno trafficando per li pubblici emolumenti. Per locché descriuendo questo Racconto auuenuto ne’ tempi di mia verde staggione, abbenché la più parte delle persone che vi rappresentano le loro parti, sijno sparite dalla Scena del Mondo, con rendersi tributari delle Parche, pure per degni rispetti, si tacerà li loro nomi, cioè la parentela,
et il medemo si farà de’ luochi, solo indicando li Territorij generaliter. Né alcuno dirà questa sij imperfettione del Racconto, e defformità di questo mio rozzo Parto, a meno questo tale Critico non sij persona affatto diggiuna della Filosofia: che quanto agl’huomini in essa versati, ben vederanno nulla
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mancare alla sostanza di detta Narratione. Imperciocché, essendo cosa evidente, e da verun negata non essere i nomi se non puri purissimi accidenti... » 16. nostri climi: nostri paesi, il ducato di Milano. 17. amparo: protezione, dominio; è uno spagnolismo. 17-22. Re cattolico... nobilissimo Cielo: serie d'immagini iperboliche, tipicamente barocche, collegate argutamente a formare davvero «un nobilissimo Cielo »: il Re è il sole che non tramonta mai; il Governatore, lume riflesso, è luna giammai calante; i Senatori stelle fisse; i Magistrati pianeti erranti... L'ironia investe tutti, specie i più meschinelli, i magistrati, di cui non ci mancherà la riprova che sono «erranti». Ma l'ironia, com'è facile capire, è del M. che, sfruttando fin d’ora l’espediente dell’Anonimo, preannunzia così uno dei motivi di fondo del romanzo: la condanna di quel mondo di potenti orgogliosi e presuntuosi, nei quali alla sonora grandigia dei titoli fa riscontro la più disastrosa inettitudine di governo e la più ottusa insensibilità morale. Naturalmente il buon secentista non sa nulla d’ironia, né su lo stile né su le cose; egli ha messo soltanto un grand’impegno a rendere il doveroso tributo d’omaggio e d’adulazione verso i signori: anzi, per essere uomo di quel secolo, è stato modesto: ne vedremo di peggio. 26. occhij d’Argo e braccj di Briareo: cento gli uni e gli altri, come narra la mitolo-
gia. — si vanno trafficando per li pubblici emolumenti: si adoperano per il pubblico
bene. Ma questa sarebbe l’interpretazione dell’Anonimo. Quella del M. è un’altra, e tutta il contrario: si danno da fare per il proprio vantaggio. Il doppio senso della frase incomincia a mettere in luce lo sdoppiamento di personalità, e quindi di interventi, di critiche, di polemiche, che l’invenzione dell’Anonimo procurerà allo scrittore, in un giuoco malizioso d’atteggiamenti e di significati. Naturalmente l'espediente dell’Anonimo non si limita a questo; basterebbe osservare come esso ha già contribuito con questa pagina barocca — che ha il sapore del documento storico, o, come si suol dire, della « stampa secentesca » — ad accentuare quella critica del secolo XVII che è nei propositi artistici e morali del romanziere. 29-30. con rendersi tributarij delle Parche: morendo. Metafora macchinosa, in armonia con tutte le altre. Si sa che le Parche (Cloto, Lachesi, Atropo) presiedevano alla vita e alla morte dell’uomo. 31. generaliter: genericamente, senza precise indicazioni. 32. questa sij imperfettione: non lo è; ma per ragioni a cui non pensa il secentista, ma pensa il M. L’Anonimo tace nomi di persone e di luoghi per prudenza; il poeta li tacerà perché all’opera d’arte possono essere ingombro e limite. 36. puri purissimi accidenti...: il periodo s'interrompe proprio nel bel mezzo di così
classicheggiante sostenutezza, e quando era
i promessi sposi
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— Ma, quando io avrò durata l’eroica fatica di trascriver questa storia da questo dilavato e graffiato autografo, e l’avrò data, come si suol dire, alla luce, si troverà poi chi duri la fatica di leggerla? —
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Questa riflessione dubitativa, nata nel travaglio del decifrare uno scarabocchio che veniva dopo accidenti, mi fece sospender la copia, e pensar più seriamente a quello che convenisse di fare. —
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tabellando figure non voluto sul narrazione,
Ben è vero, dicevo tra me, scar-
il manoscritto, ben è vero che quella grandine di concettini e di continua così alla distesa per tutta l’opera. Il buon secentista ha principio mettere in mostra la sua virtù; ma poi, nel corso della e talvolta per lunghi tratti, lo stile cammina ben più naturale e
più piano. Sì; ma com'è dozzinale! com'è sguaiato! com'è scorretto! Idiotismi lombardi a iosa, frasi della lingua adoperate a sproposito, grammatica arbitratia, periodi sgangherati. E poi, qualche eleganza spagnola seminata qua e là; e poi, ch’è peggio, ne’ luoghi più terribili o più pietosi della storia, a ogni
occasione d’eccitar maraviglia, o di far pensare, a tutti que’ passi insomma
che richiedono bensì un po’ di rettorica, ma rettorica discreta, fine, di buon gusto, costui non manca mai di metterci di quella sua così fatta del proemio. E allora, accozzando, con un’abilità mirabile, le qualità più opposte, trova la maniera di riuscir rozzo insieme e affettato, nella stessa pagina, nellò stesso periodo, nello stesso vocabolo. Ecco qui: declamazioni ampollose, composte a forza di solecismi pedestri, e da per tutto quella goffaggine ambiziosa, ch’è il proprio carattere degli scritti di quel secolo, in questo paese. In vero, non è stata portata in campo addirittura la sapienza dei filosofi. E s’interrompe con un termine famoso, « accidenti », tipico di quella
filosofia aristotelica che imperava nel Seicento, e col quale si indicavano elementi puramente esteriori e transitori, in contrapposizione alle « sostanze » (Vedi la n. 325 del Cap. XXXVII). La parodia di quel mondo
culturale è già condotta con uno spasso vivissimo e accresciuta dalla maliziosa interruzione. Senza dire che il termine « accidenti » implica scherzosamente anche ben altro senso: un senso che fa tutt'uno con la noia che quel manoscritto ha incominciato:a dare all’autore e al lettore! 37:38 questa storia da... autografo: questo espediente del manoscritto antico, che serve da fonte storica, è piuttosto comune nelle narrazioni fantastiche. Ricordiamo che di tale trovata si era servito, fra gli altri, Walter Scott, il famoso romanziere scozzese, grande diffusore del romanzo storico. In Italia, alcuni decenni prima del M., si erano appellati a manoscritti antichi Vincenzo Cuoco nel Platone in Italia, e Alessandro Verri nelle Avventure di Saffo poetessa di Lesbo. Forse più degli autori quasi contemporanei, influirono sulla determinazione del M. due poeti lontani, ma sprizzanti di fantasia e d’ironia: l’Ariosto, che per il suo Orlando Furioso diceva di aver trovato le testimonianze di Turpino, e il
Cervantes, che per il suo Don Chisciotte
finse di aver tradotto dall’immaginario arabo Cide Hamete Benengeli. 47-49. com’è dozzinale... sgangherati: c’è qui, e più avanti si riprende e si completa, un commento delle due pagine secentesche. Il M., per merito dell’Anonimo, si fa dunque critico dell’opera sua o, meglio, fa la critica alla letteratura del Seicento. — Idiotismi: espressioni particolari. — frasi della lingua: frasi italiane. 51. eccitar maraviglia: in questo stava l’essenza dell’arte per gli scrittori del Seicento. Giambattista Marino, il più celebre poeta del secolo, aveva cantato: «È del poeta il fin, la maraviglia ». 52. rettorica discreta: cioè, non l’ampollosa oratoria e la vacua declamazione, ma una retorica fime e di buon gusto che sa dare calore umano alla scena e armonia musicale all’espressione. Cioè un’arte letteraria spontanea e controllata ad un tempo. 58. in questo paese: in Lombardia. Non che il resto dell’Italia fosse molto diverso da questa regione (anche se altrove hanno vissuto e scritto un Galileo, un Sarpi, ecc.); ma il M. pone l’accento sulla Lombardia per l’influsso dannoso che egli attribuisce alla dominazione spagnola nei riguardi della cultura italiana. Osserviamo che il giudizio tanto negativo che il M. dà della letteratura e della civiltà interna del ’600 è conforme all’interpretazione critica che di quel secolo dette in generale la storiogra-
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cosa da presentare a lettori d’oggigiorno: son troppo ammaliziati, troppo disgustati di questo genere di stravaganze. Meno male, che il buon pensiero m'è venuto sul principio di questo sciagurato lavoro: e me ne lavo le mani. — Nell’atto però di chiudere lo scartafaccio, per riporlo, mi sapeva male che una storia così bella dovesse rimanersi tuttavia sconosciuta; perché, in quanto storia, può essere che al lettore ne paia altrimenti, ma a me era parsa bella, come dico; molto bella. — Perché non si potrebbe, pensai, prender la serie de’ fatti da questo manoscritto, e rifarne la dicitura? — Non essendosi presentato alcuna obiezion ragionevole, il partito fu subito abbracciato. Ed ecco l’origine del presente libro, esposta con un’ingenuità pari all'importanza del libro medesimo. Taluni però di que’ fatti, certi costumi descritti dal nostro autore, c’eran sembrati così nuovi, così strani, per non dir peggio, che, prima di prestargli
fede, abbiam voluto interrogare altri testimoni; e ci siam messi a frugar nelle osservi comunque la sorridente modestia dello scrittore: bella la «storia» finché si vuole, ma «in quanto storia ». Come trama e soluzione dei fatti, vuol dire: non come libro, che su quella storia egli riuscirà a comporre. 66. la dicitura: lo stile; e quindi, in primo luogo, la lingua. La questione della lingua, il problema cioè di quale lingua dovessero usare i letterati italiani, fu, com’è noto, una delle più dibattute del primo Ottocento. 68-69. con un’ingenuità... medesimo: 7genuità qui ha il senso di sincerità. Perciò, siccome il M. nella sua modestia valuta ben poca, o nulla, l’importanza del libro, vuol dire che nulla è la sincerità dell’origine che ha qui descritta. Quindi: tutto è stato una malizia, un'invenzione. Un modo garbato e sorridente per dirci di non credere a tutto ciò che fin qui ci ha raccontato: e per dirci anche che quelle due pagine secentesche sono opera sua. — Nonostante l’impegno del M. a farci capire che i Promessi Sposi sono invenzione sua e basta, più volte nel passato si è cercato di rintracciare la genesi del romanzo in opere dei secoli precedenti. Ma si è trattato di tentativi di scarso o nessun valore. Recentemente G. Getto ha scoperto numerose analogie fra il romanzo del M. e quello del secentista vicentino Pace Pasini, Historia del cavalier perduto (Venezia, 1644), ed è giunto a supporre che proprio il Pasini possa essere l’Anonimo autore da cui il M. dice di avere attinto la sua storia (In « Lettere italiane », aprile-giugno 1960). Ma altri critici escludono ogni correlazione, se non proprio con la trama dei fatti, con l'identità del secentista; e quindi per loro l’Anonimo del M. resta tale. 72-73. frugar nelle memorie...: inconttesempre un M. attento indagatore del remo Si Dio. di mano si, decisivi interventi della
fia romantica dell’Ottocento. Il De Sanctis, per esempio, che‘ di tale interpretazione sarebbe stato il massimo esponente, scrisse, fra l’altro, che il mondo secentesco è «un mondo ipocrita e inquisitoriale, dove la vita religiosa e sociale fuori della coscienza è meccanizzata e immobilizzata in forme fisse e inviolabili », un mondo quindi in cui «l’arte intisichisce », perché mondo «mantenuto nelle apparenze, rimbombante nelle frasi, non sentito, non meditato, non ventilato e rinnovato. [...] Il tarlo della società era l’ozio dello spirito, una assoluta indifferenza sotto quelle forme abituali religiose ed etiche. [...] La letteratura era a quella immagine, vuota d’idee e di sentimenti, un giuoco di forme, una semplice esteriorità » (Storia della letteratura italiana, 1870-71). Naturalmente il giudizio sul Seicento ora è notevolmente mutato per l’apporto di nuovi e più approfonditi studi; ma dell’interpretazione ottocentesca occorre sempre ricordarsi nel seguire la lettura del romanzo. 58-60. In vero... stravaganze: il tono ironico ricopre una verità di grande importanza: la condanna delle malizie e del manierismo di tanta parte della letteratura contemporanea e antecedente. Il M. ebbe la coscienza di contribuire all’affermazione di un gusto poetico nuovo, basato sulla concretezza dei fatti e sulla chiarezza dell'espressione. In queste parole, quindi, si è sentita giusta-, mente l’eco di un pensiero famoso della Lettre è M. Chauvet: «l'essenza della poesia non consiste nell’invenzione degli episodi, perché tale invenzione è ciò che di più facile e volgare esiste nella vita dello spirito » (1820). 63-65. în quanto storia... molto bella: perché, come vedremo, non si tratterà solo di vicende dei poveri uomini, ma di misterio-
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î promessi sposi
memorie di quel tempo, per chiatirci se veramente il mondo camminasse allora a quel modo. Una tale indagine dissipò tutti i nostri dubbi: a ogni passo ci abbattevamo in cose consimili, e in cose più forti: e, quello che ci parve più decisivo, abbiam perfino ritrovati alcuni personaggi, de’ quali non avendo mai avuto notizia fuor che dal nostro manoscritto, eravamo in dubbio se fossero realmente esistiti. E, all’occorrenza, citeremo alcuna di quelle testimonianze,
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per procacciar fede alle cose, alle quali, per la loro stranezza, il lettore sarebbe più tentato di negarla. Ma, rifiutando come intollerabile la dicitura del nostro autore, che dicitura vi abbiam noi sostituita? Qui sta il punto. Chiunque, senza esser pregato, s’intromette a rifar l’opera altrui, s’espone a rendere uno stretto conto della sua, e ne contrae in certo modo l’obbligazione: è questa una regola di fatto e di diritto, alla quale non pretendiam punto di sottrarci. Anzi, per conformarci ad essa di buon grado, avevam proposto di dar qui minutamente ragione del modo di scrivere da noi tenuto; e, a questo fine, siamo andati, per tutto il tempo del lavoro, cercando d’indovinare le critiche possibili e contingenti, con intenzione di ribatterle tutte anticipatamente. Né in questo sarebbe stata la difficoltà; giacché (dobbiam dirlo a onor del vero) non ci si presentò alla mente una critica, che non le venisse insieme una risposta trionfante, di quelle risposte che, non dico risolvon le questioni, ma le mutano. Spesso anche, mettendo due critiche alle mani tra loro, le facevam battere l’una dall’altra; 0, esaminandole ben a fondo, riscontrandole attentamente, riuscivamo a scoprire e a mostrare che, così opposte in apparenza, eran però d’uno stesso genere, nascevan tutt’e due dal non badare ai fatti e ai principi su cui il giudizio doveva esser fondato; e, messele, con loro gran sorpresa, insieme, le mandavamo insieme a spasso.
Ngn ci sarebbe mai stato autore che provasse così ad evidenza d’aver fatto
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bene. Ma che? quando siamo stati al punto di raccapezzar tutte le dette obiezioni e risposte, per disporle con qualche ordine, misericordia! venivano Seicento: uomini, vicende, usi, costumi, con-
dizioni sociali, ecc. saranno sempre oggetto di coscienziose indagini in conformità del gusto squisitamente storico del narratore. « Io fo quello che posso per penetrarmi dello spirito del tempo che devo descrivere, per viverci », scriveva in una lettera all’amico Claudio Fauriel nel 1822. Tutto questo però non vuol dire che la sua ricostruzione di quel secolo sia perfettamente rispondente alla realtà. Sarebbe stato impossibile, perché è ricostruzione artistica e poetica, e quindi essenzialmente personale: è storia idealizzata e vivificata dall’azione dello scrittore. Si aggiunga poi che il M., come avremo modo di osservare a suo tempo, non ha potuto usare sempre documenti fedeli e imparziali. 78. citeremo... testimonianze: in modo particolare il Ripamonti. Queste citazioni, destinate a « procacciar fede alle cose », contribuiranno a dare maggior solidità storica all'opera; la quale è appunto romanzo storico, in quanto del fatto storico è, ad' un
tempo, rappresentazione vera e trasfigurazio-
ne fantastica. 88-90. siamo andati... anticipatamente: il M. fu sempre attento studioso della lingua, specialmente negli stessi anni in cui componeva la prima stesura del romanzo (18211823), e poi mentre preparava la prima edizione (1827) e la seconda (1840-42). Generalmente si è pensato che qui il M. voglia alludere al libro Sentir messa, pubblicato soltanto molti anni dopo la sua morte. Il Caretti, dato che il Sentir messa fu composto nel 1836, pensa che il M. si riferisca ad uno scritto precedente, messo insieme ma non completato fra il 1823 e il 1824 e andato poi distrutto con altre carte. 89. contingenti: eventuali; rafforza con un certo sussiego, e non senza sorriso, « possibili ». 93-98. mettendo due critiche... a spasso: modo arguto vivacissimo che personificando, per così dire, le critiche, riversa tutta la carica d’ironia sui critici, che tanto spesso si contrastano e si combattono con argomenti
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introduzione
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a fare un libro. Veduta la qual cosa, abbiam messo da parte il pensiero, per due ragioni che il lettore troverà certamente buone: la prima, che un libro impiegato a giustificarne un altro, anzi lo stile d’un altro, potrebbe parer cosa ridicola: la seconda, che di libri basta uno per volta, quando non è d’avanzo. a non finire e col risultato di neutralizzarsi a vicenda. 102-106. Veduta... d’avanzo: l’Introduzione finisce così con un discorso serio e nello stesso tempo garbatamente scherzoso. Il suo tono pacato avvia pianamente alla lettura della «bella » storia. Ma già conosciamo non poco di questo libro e del suo autore: una visione pensosa del mondo, un impegno
Scheda
storico attento, una
polemica pronta e vi-
vace, una saggezza serena, uno stile semplice e armonioso. — Nella « Appendice Prima », costituita da un’antologia di pagine del Fermo e Lucia, è riportata la prima Introduzione che il M. scrisse per questo romanzo;
in nota
si danno
anche
alcune
notizie sulle altre Introduzioni che furono successivamente composte dall’Autore.
critica all’ Introduzione L'espediente del ricorso a una presunta fonte storica scritta od orale, inteso a restituire un fondamento di verità e credibilità all'invenzione letteraria, era antico e diffuso nella tradizione novellistica (almeno dal Boccaccio in poi) e in quella del poema narrativo (dall’Ariosto e dal Tasso ai loro tardi imitatori ed epigoni) ed era stato ripreso con spirito diverso dagli autori del nuovo genere di romanzo in voga, che appunto ambiva a presentarsi con la qualifica di « storico » (per esempio, da Walter Scott). Il Manzoni lo fa proprio, ma lo trasforma. Infatti egli non si limita a dichiarare l'esistenza della fonte, ma la fa vivere e la pone, per così dire, sotto gli occhi del lettore, in una pagina riprodotta con sorprendente facoltà mimetica, con tutte le sue precise connotazioni ideali e formali, dalla retorica moralistica all'ampollosità cortigianesca fino agli artifici dello stile metaforico barocco, fino addirittura alle peculiarità di una grafia obsoleta. Vero è che, con la sua maliziosa imitazione portata fino ai limiti della interpretazione parodistica senza cadere tuttavia nella caricatura, lo scrittore mostra subito di essersi calato appieno nella realtà dell'epoca che si propone di rappresentare, e vi allude richiamandosi per inciso alle vere fonti della sua non som(« abbiamo voluto interrogare altri testimaria informazione di moni »): e intanto fin dal principio ricrea l'atmosfera tipica che polemici idoli gli uno ad una stagione, individuando ad uno del presiederanno a tutto il suo racconto, la retorica appunto magniloquenza. la e decoro il costume, linguaggio e la falsità del apparenti
e il vuoto
All’abilissimo implicazioni,
interiore.
pastiche, già di per sé ricco di allusioni
si contrappone
in maniera
nettissima
e di
la seconda
di stile e parte di questa introduzione, con la sua « modernità » dicitura» la di contenuto, proponendo il problema di «rifare
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i promessi spost dell'Anonimo, che non sarà, ben inteso, un mero restauro formale, ma un modo nuovo di collocarsi di fronte ai fatti e ricostruirli nella loro verità e giudicarli. In due precedenti stesure il Manzoni s'era, a questo punto, addentrato a fondo in una serie e in un nesso di problemi che gli stavano a cuore, nell'ambito della sua poetica moderna e romantica, puntando nella prima essenzialmente sulla giustificazione del genere, nuovo specie in Italia, del romanzo, e nella seconda sulla scelta di un linguaggio aperto e vivo e comunicativo da inventare al di fuori di tutta una tradizione aulica e pretenziosa: problemi e scelte intorno ai quali egli si era a lungo travagliato nella fase preparatoria alla composizione del libro, e ai quali ora accenna appena, senza insistere sulle componenti ideologiche e riflesse della sua invenzione artistica, per rituffarsi al più presto nella conquistata concretezza della « bella storia » da raccontare. AI concettismo barocco dell’Anonimo contrappone il suo discorso « naturale e piano », a quella vacua retorica una retorica diversa « discreta, fine, di buon gusto » e sottolinea così, senza parere, la novità della poetica moderna: il trapasso dalla stilizzazione al realismo, dal linguaggio oratorio al familiare e al parlato.
Capitolo I
Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti, tutto a seni e a golfi, a seconda dello sporgere e del rientrare di quelli, vien, quasi a un tratto, a ristringetsi, e a prender corso
e figura di fiume, tra un promontorio a destra, e un’ampia costiera dall’altra parte; e il ponte, che ivi congiunge le due rive, par che renda ancor più sensibile all’occhio questa trasformazione, e segni il punto in cui il lago cessa, e l’Adda rincomincia, per ripigliar poi nome di lago dove le rive, allontanandosi di nuovo, lascian l’acqua distendersi e rallentarsi in nuovi golfi e in nuovi seni. La costiera, formata dal deposito di tre grossi torrenti, scende 1. Quel ramo del lago di Como: il lago di Como, verso la metà della sua lunghezza alla punta di Bellagio, si divide in due rami stretti e profondi: quello orientale porta a Lecco, quello occidentale a Como. Il ramo orientale, che ha un andamento piuttosto verticale (« volge a mezzogiorno »), giunto a Lecco si restringe fino a divenire fiume, l’Adda; poi di nuovo si allarga nel piccolo lago di Garlate, da cui infine le acque si dipartono formando definitivamente l’Adda. — La località era ben nota al M., che su questo ramo del lago, a Caleotto, non lontano da Lecco, aveva trascorso da fanciullo e da giovane lunghi periodi, in una villa di famiglia. Si tratta quindi di un paesaggio domestico e caro, come dimostra la cura della descrizione, che nell’esatta rievocazione geografica e storica si sviluppa in un susseguirsi di particolari precisi e minuti, e come apertamente l'Autore aveva confessato nella prima stesura del romanzo, Fermo e Lucia: « La giacitura della riviera, i contorni, e le viste lontane, tutto concorre a renderlo un paese che chiamerei uno dei più belli del mondo, se avendovi passata una gran parte della infanzia e della puerizia, e le vacanze autunnali della prima giovinezza,
non
riflettessi che è impossibile dare un
giudizio spassionato dei paesi a cui sono associate le memorie di quegli anni ». Quel ramo del lago di Como: le sei parole costituiscono un verso, un novenario. Avremo altre volte occasione di trovare nel romanzo versi perfetti, e capaci, col loro ritmo discreto, d’infondere alla descrizione 0
al racconto note di particolare valore. Come avviene appunto qui, ove il verso apre un ampio periodo che, « oltre e più che per la precisione stilistica, è notevole per l'andamento placido e ritmico, per la sapienza della costruzione che distribuisce armonicamente le singole parti e ricongiungendo chiasticamente la fine («in nuovi golfi e nuovi seni») al principio («tutto a seni e a golfi ») lascia l’impressione di un motivo pittorico in sé musicalmente compiuto » (Momigliano). — due catene... di monti: le Alpi Orobie ad oriente, i monti della Brianza ad occidente. 3-4. corso e figura di fiume: è l’Adda, che dopo essersi immessa nel lago nella sua parte più a Nord, ne esce, come abbiamo già detto, dall’estremo punto del ramo orientale. L’Adda compare, dunque, nel romanzo fino da questa iniziale descrizione dei luoghi, e poi ne accompagnerà tante delle più intense vicende: sicché, con la sua « buona voce » (Cap. XVII) potrà sembrare davvero, come da qualcuno è stata definita, « una presenza tutelare » degli umili personaggi. 4. costiera: in generale significa un tratto di costa che si innalza sul mare (es., la costiera amalfitana): qui indica la zona di leggero pendio che dalla riva del lago sale lungo il fianco del monte. 5. il ponte: è del sec. XIV, c’è ancora ed è chiamato « il ponte » per antonomasia. 7. nome di lago: il lago di Garlate o Pescarenico.
9. tre grossi torrenti: il Galdone, il Gerenzone, il Bione.
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appoggiata a due monti contigui, l’uno detto di san Martino, l’altro, con voce lombarda, il Resegone, dai molti suoi cocuzzoli in fila, che in vero lo fanno somigliare a una sega: talché non è chi, al primo vederlo, purché sia di fronte, come per esempio di su le mura di Milano che guardano a settentrione, non lo discerna tosto, a un tal contrassegno, in quella lunga e vasta giogaia, dagli altri monti di nome più oscuro e di forma più comune. Per un buon pezzo, la costa sale con un pendìo lento e continuo; poi si rompe in poggi e in valloncelli, in erte e in ispianate, secondo l’ossatura de’ due monti, e il lavoro dell’acque. Il lembo estremo, tagliato dalle foci de’ torrenti, è quasi tutto ghiaia e ciottoloni; il resto, campi e vigne, sparse di terre, di ville, di casali; in qualche parte boschi, che si prolungano su per la montagna. Lecco, la principale di quelle terre, e che dà nome al territorio, giace poco discosto dal ponte, alla riva del lago, anzi viene in parte a trovarsi nel lago stesso, quando questo ingrossa: un gran borgo al giorno d’oggi, e che s’incammina a diventar città. Ai tempi in cui accaddero i fatti che prendiamo a raccontare, quel borgo, già considerabile, era anche un castello, e aveva perciò l’onore d’alloggiare un comandante, e il vantaggio di possedere una stabile guarnigione di soldati spagnoli, che insegnavan la modestia alle fanciulle e 10-11. con
voce
lombarda,
il Resegone:
una delle voci lombarde del romanzo, ormai divenute voci italiane, quali risore (riso non ancora mondato), carrobio (quadrivio), ecco — Come l’Adda è il fiume dei Promessi Sposi, così il Resegone ne è il monte. Il suo nome grave dà bene l’imma-
gine maestosa della cima che si staglia contro il cielo a forma di grande sega. Sullo sfondo del paesaggio lombardo apparirà più volte come motivo di conforto o di rimpianto.
14. discerna tosto: sono due parole che, nonostante l’attenta cura del M, di scrivere nel fiorentino parlato dalle persone colte, di fiorentino non hanno niente: discerzere è, infatti, un latinismo per niente in uso, e tosto è un’antiquata raffinatezza. Noi non ci fermeremo su simili incongruenze della prosa manzoniana, che in generale è tanto viva ed attuale dopo più di un secolo, ma vogliamo fare osservare, una volta per tutte, che la lingua dei Prorzessi Sposi non è in senso assoluto quella fiorentina, che il M. si studiò di prendere a modello: ma è una lingua, che ha curato lui, armonica e puntuale il più delle volte, ma non completamente immune da qualche stranezza o errore. 19. sparse di terre, di ville: cioè, di paesi e di villaggi. Il M. usa spesso zerra nel senso di paese. Così, poco più avanti, presentando don Abbondio, dirà che era curato « di una di quelle terre ». 23-24. che s’incammina a diventar città: anche questo è un verso, un endecasillabo, il quale chiude il periodo con un che di maestoso e di sicuro. Il M. fu facile profeta, x . perché Lecco è oggi una fiorente città della
Lombardia:
e al poeta, grata dell’augurio, ha innalzato un bel monumento, inaugurato nel 1891 con un discorso del Carducci. 24. Ai tempi in cui accaddero i fatti: cioè nel 1628, quando da circa un secolo il ducato di Milano, comprendente gran parte della Lombardia, si trovava sotto la dominazione spagnola: e vi sarebbe rimasto fino ai primi del Settecento. Due secoli, quasi, di mal governo, di violenze, di miseria, di guerre. 25. castello: fortezza con una guarnigione di soldati. 26. l’onore d’alloggiare un comandante...: quali fossero le condizioni degli Italiani sotto la dominazione degli Spagnoli, il M. avrà tempo e modo d’illustrare nel corso di tutto il romanzo, in cui la vita del Seicento ci apparità
così
attentamente
ed
umanamente
osservata e descritta, che si potrebbe dar ragione a chi ha affermato che il Seicentò è il protagonista vero e immanente di ogni pagina del romanzo. Ma già qui il M. apre, con un periodo tutto ironia finissima e penetrante, un quadro melanconico sulla prepotenza dei dominatori e sulla miseria dei soggetti: una condizione, questa, che si ripete in ogni tempo e in ogni nazione sottoposta a signoria straniera. Perciò nell’umorismo pacato, che fugacemente ritrae questo scorcio del Seicento spagnolo, è da riscontrare il sentimento dell’Italiano del primo Ottocento, offeso dal dominio austriaco. Ma accanto ad una rivelazione patriottica, il periodo esprime anche una rivelazione umana più generale: lo sdegno del poeta cristiano di fronte ad ogni atto di prepotenza e di violenza.
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alle donne del paese, accarezzavan di tempo in tempo le spalle a qualche marito, a qualche padre; e, sul finir dell’estate, non mancavan mai di span30 dersi nelle vigne, per diradar l’uve, e alleggerire a’ contadini le fatiche della vendemmia. Dall’una all’altra di quelle terre, dall’alture alla riva, da un poggio all’altro, correvano, e corrono tuttavia, strade e stradette, più o men ripide, o piane; ogni tanto affondate, sepolte tra due muri, donde, alzando lo 35
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sguardo, non iscoprite che un pezzo di cielo e qualche vetta di monte; ogni tanto elevate su terrapieni aperti: e da qui la vista spazia per prospetti più o meno estesi, ma ricchi sempre e sempre qualcosa nuovi, secondo che i diversi punti piglian più o meno della vasta scena circostante, e secondo che questa o quella parte campeggia o si scorcia, spunta o sparisce a vicenda. Dove un pezzo, dove un altro, dove una lunga distesa di quel vasto e variato specchio dell’acqua; di qua lago, chiuso all’estremità o piuttosto smarrito in un gruppo, in un andirivieni di montagne, e di mano in mano più allargato tra altri monti che si spiegano, a uno a uno, allo sguardo, e che l’acqua riflette capovolti, co’ paesetti posti sulle rive; di là braccio di fiume, poi lago, poi fiume ancora, che va a perdersi in lucido serpeggiamento pur tra’ monti che l’accompagnano, degradando via via, e perdendosi quasi anch'essi nell’orizzonte. Il luogo stesso da dove contemplate que’ vari spettacoli, vi fa spettacolo da ogni parte: il monte di cui passeggiate le falde, vi svolge, al di sopra, d’intorno, le sue cime e le balze, distinte, rilevate, mutabili quasi a ogni passo, aprendosi e contornandosi in gioghi ciò che v’era sembrato pri-
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ma un sol giogo, e comparendo in vetta ciò che poco innanzi vi si rappresentava sulla costa: e l’ameno, il domestico di quelle falde tempera gradevolmente il selvaggio, e orna vie più il magnifico dell’altre vedute. Per una di queste stradicciole, tornava bel bello dalla passeggiata verso casa, sulla sera del giorno 7 novembre dell’anno 1628, don Abbondio, cu31. Dall’una all’altra...: da qui fino al termine del capoverso la descrizione del paesaggio ha un andamento poetico ben più sicuro di quello dei primi periodi, dove i particolari erano così numerosi e dettagliati da creare una sensazione piuttosto dispersiva. Ora; sì, che anche a noi, in questo pacato e armonioso comparire di «cielo» e di « vette », in questo riposato spaziare dello sguatdo per « prospetti » estesi e ricchi e nuovi, viene l’illusione di muoverci per quelle stradette silenziose e romite, e di lassù contemplare lago, fiume, balzo, monti, paesi.. — Cfr. « Appendice Prima», n. 2, e « Appendice Seconda », n. 1. 53. Per una di queste stradicciole..: finita la descrizione del paesaggio, incomincia il racconto delle vicende e la presentazione dei personaggi. Il passaggio è misurato: niente stacco violento; che anzi, proprio qui, si sente quanto la precedente attenta rappresentazione dei luoghi — con quell’insistere su «strade e stradette », « più o meno ripide o piane », « sepolte tra due muri» 0 «elevate su terrapieni aperti» — non costituisca un passo di bravura pittorica, ma lo sfondo realistico e necessario per com-
prendere appieno fatti e individui. — bel bello: è il primo tocco che definisce il personaggio; subito poi ne verranno altri che lo completano e lo arricchiscono: « diceva tranquillamente il suo ufizio », girava « oziosamente gli occhi all’intorno ». Già in queste prime determinazioni si scopre l’uomo: il suo desiderio di quieto vivere, la sua limitatezza di orizzonti e di ideali. Ed è facile anche
scoprire subito un sorriso ironico del M., che a questo suo tormentato personaggio i guai li fa capitare proprio quando costui ci appare più riposato e sereno, e meno se li aspetta: come quella sera del 7 novembre 1628! 54. sulla sera del giorno 7 novembre del. l’anno 1628: si osservi il tono solenne con cui sono indicati il momento e la data: c’è davvero qualcosa di eroicomico in questo sottolineare con tanta sostenutezza e precisione il « memorabile avvenimento » a cui fra poco assisteremo, l’incontro del pauroso curato coi due bravi prepotenti. Incontro, a dir vero, che non è di poco conto, se da esso dipenderà tutta la vicenda e la storia del romanzo. Quanto poi alla data qui indicata e a tutta la cronologia successiva, si
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i promessi sposi
rato d’una delle terre accennate di sopra: il nome di questa, né il casato del e. aggio, non si trovan nel manoscritto, né a questo luogo né altrov
person , chiuDiceva tranquillamente il suo ufizio, e talvolta, tra un salmo e l’altro , e, destra deva il breviario, tenendovi dentro, per segno, l’indice della mano cammino, suo il uiva proseg a, messa poi questa nell’altra dietro la schien che fali ciotto i muro il guardando a terra, e buttando con un piede verso gli mente cevano inciampo nel sentiero: poi alzava il viso, e, girati oziosa già occhi all’intorno, li fissava alla parte d’un monte, dove la luce del sole e là scomparso, scappando per i fessi del monte opposto, si dipingeva qua poi o Apert a. porpor di sui massi sporgenti, come a larghe e inuguali pezze della a voltat di nuovo il breviario, e recitato un altro squarcio, giunse a una stradetta, dov'era solito d’alzar sempre gli occhi dal libro, e di guardarsi di-
di‘ nanzi: e così fece anche quel giorno. Dopo la voltata, la strada correva
ritta, forse un sessanta passi, e poi si divideva in due viottole, a foggia d’un
ipsilon: quella a destra saliva verso il monte, e menava alla cura: l’altra
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scendeva nella valle fino a un torrente; e da questa parte il muro non arrivava che all’anche del passeggiero. I muri interni delle due viottole, in vece
di riunirsi ad angolo, terminavano in un tabernacolo, sul quale eran dipinte
badi che il M. fu particolarmente attento anche in questo, in modo che, come avremo altre volte occasione di notare, c’è precisa corrispondenza cronologica fra i vari eventi storici rievocati nel romanzo e le vicende inventate. — don Abbondio: a parte il fatto che Sant'Abbondio è il protettore di Como, e che quindi questo nome aveva nella zona una certa diffusione, bisogna riconoscere — e lo riconosceremo sempre meglio man mano che andremo avanti nella lettura del romanzo — che il nome, per tutto quello che può suggerire nel fisico e nel morale, si attaglia perfettamente al personaggio che ora entra in scena. Aveva ragione il Graf: «Il nome di don Abbondio? Si potrebbero frugare da cima a fondo tutti gli onomastici antichi e moderni senza riuscire a trovarne uno più adatto, più proprio, più raffigurativo ». 54-55. curato: parroco. Nell’uso fiorentino più comune si chiama curato il coadiutore del parroco. 56. nel manoscritto: nel manoscritto si diceva che i nomi dei personaggi, come quelli dei luoghi, sarebbero stati taciuti per degni rispetti, cioè pet giusti motivi di riguardo verso chiunque, anche se ormai la più parte delle persone menzionate era sparita dalla Scena del Mondo. Ma il M. tace o maschera nomi di luoghi e di personaggi esclusivamente per ragioni artistiche, perché proprio in tal modo circonda il racconto di un’atmosfera più suggestiva e poetica. Del resto sappiamo, da quanto ci racconta Stefano Stampa, figliastro del poeta, che il M. stesso dichiarò più volte che «le descrizioni di tutti quei luoghi marcati di un aste-
risco invece che dal nome, erano non solo
immaginarie, ma fatte in modo e con l’intenzione di dérouter, di sviare il lettore dal poterli riconoscere come realmente esistenti». Tuttavia una tale asserzione non ha impedito a molti commentatori di ricercare quale abbia potuto essere, nella mente del M,, il paese di cui effettivamente don Abbondio sarebbe stato il curato: ed i più propendono per Olate, un paesino di poche centinaia di anime ai piedi del Resegone. 64. a larghe e inuguali pezze di porpora: questa vasta pennellata di splendido paesaggio del tramonto non è espressione di un sentimento del protagonista, ma dello sctittore. La poesia dell’ora don Abbondio non la può sentire, come non può sentire quella dei luoghi. A lui non resta che guardare in terra o girare gli occhi attorno, ma oziosamente, senza niente provare dentro di sé. Ogni suo gesto, d’altra parte, non è che una consuetudine di ogni giorno, di sempre: un moto meccanico ed esterno, non una partecipazione della mente e del cuore. Si osser-
vi, per esempio, come poco avanti don Abbondio alzerà gli occhi dal libro, dove era solito alzarli, e poi drizzerà lo sguardo ad un tabernacolo, com’era solito dirizzarvi ogni sera. Tutto metodico, dunque, e tutto solito in lui, ogni giorno: la passeggiata, l’ufizio, i movimenti... e tutto puramente meccanico. Solo di fronte ad un pericolo, quando ne andrà della vita — come vedremo fra poco é vedremo altre volte — don Abbondio aguzzerà ed impegnerà tutto il suo ingegno. 69. alla cura: alla casa parrocchiale.
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certe figure lunghe, serpeggianti, che finivano in punta, e che, nell’intenzion 75
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dell’artista, e agli occhi degli abitanti del vicinato, volevan dir fiamme;
e,
alternate con le fiamme, cert’altre figure da non potersi descrivere, che volevan dire anime del purgatorio: anime è fiamme a color di mattone, sur un fondo bigiognolo, con qualche scalcinatura qua e là. Il curato, voltata la stradetta, e dirizzando, com’era solito, lo sguardo al tabernacolo, vide una cosa che non s’aspettava, e che non avrebbe voluto vedere. Due uomini stavano, l’uno dirimpetto all’altro, al confluente, per dir così, delle due viottole: un di costoro, a cavalcioni sul muricciolo basso, con una gamba spenzolata al di fuori, e l’altro piede posato sul terreno della strada; il compagno, in piedi, appoggiato al muro, con le braccia incrociate sul petto. L’abito, il portamento, e quello che, dal luogo ov’era giunto il curato, si poteva distinguer dell’aspetto, non lasciavan dubbio intorno alla lor condizione. Avevano entrambi intorno al capo una reticella verde, che cadeva sull’omero sinistro, terminata in una gran nappa, e dalla quale usciva sulla fronte un enorme ciuffo: due lunghi mustacchi arricciati in punta: una cintura lucida di cuoio, e a quella attaccate due pistole: un piccol corno ripieno di polvere, cascante sul petto, come una collana: un manico di coltellaccio che spuntava fuori d’un taschino degli ampi e gonfi calzoni: uno spadone, con una gran guardia traforata a lamine d’ottone, congegnate come in cifra, forbite e lucenti: a prima vista si davano a conoscere per individui della specie de’ bravi. Questa specie, ora del tutto perduta, era allora floridissima in Lombardia,
e già molto antica. Chi non ne avesse idea, ecco alcuni squarci autentici, che 77. con qualche scalcinatura qua e là: è un tocco magistrale che chiude in sintonia questa scherzosa ed umanissima rappresentazione del tabernacolo, dipinto con atte così pedestre, e ritratto con ironia così sottile: la quale nasce, soprattutto, dall’accostamento sottinteso fra la goffaggine di quelle «figure da non descriversi » e la goffaggine della figura del curato alla vista dei bravi. 87-88. enorme ciuffo: serviva in generale come maschera, per nascondere il volto, quando ce n’era bisogno. 89. un piccol corno: «ecco un esempio di quei tanti troncamenti, che il M. usò in omaggio al parlar fiorentino, ma che i fiorentini non fanno; qui doveva dire un piccolo corno » (Bianchi). 93. specie de’ bravi: erano uomini violenti, pronti ad ogni ribalderia e ad ogni delitto, sgherri prezzolati di signorotti. Il termine bravo, che è di etimo incerto (sembra falsa, per esempio, l'etimologia medioevale di bravo da pravus = * malvagio ’), si trova già diffuso negli scritti letterari del ’500 (Castiglione, Berni, Cellini, ecc.) col significato di soldato mercenario al servizio di un signore. La presentazione che ora il M. ha fatto dei due in attesa di don Abbondio è una stupenda pittura di costume del secolo: una — come si suol dire —
stampa del Seicento. Tutto il loro ritratto è, infatti, penetrato dell’atmosfera del tempo, nella quale la violenza s’incontrava con la vanità e la pompa. Da qui la sfrontatezza dell’« enorme ciuffo » accanto agli strumenti della sopraffazione: le « pistole », il « corno tipieno di polvere », il « coltellaccio », lo « spadone »; e, mescolati insieme, i segni di una raffinatezza pacchiana e barocca: i « lunghi mustacchi », gli « ampi e gonfi calzoni », la « gran guardia traforata di lamine d’ottone »... 95. alcuni squarci autentici: in realtà i brani che leggeremo fra poco sono veramente autentici, vere gride, provvedimenti legislativi emanati dai governatori spagnoli. Si apre quindi, qui, una vera e proptia pagina storica, che a qualcuno è sembrata troppo lunga, ed è parsa interrompere il racconto con notevole danno artistico. Il Tommaseo, in particolare, sentenziò: « Qui viene troppa lungaggine; bastava citare i passi senza citare i decreti ». — Sono obiezioni non valide, non tanto perché, come diremo più avanti, qui spunta accanto all’arte del M. narratore anche un’altra arte non meno interessante, quella del M. storico; ma soprattutto perché la pagina storica si armonizza perfettamente con la narrazione romanzesca, fornendoci una più chiara comprensione della personalità dei due indivi-
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darne una bastante de’ suoi caratteri principali, degli sforzi fatti
i per ispegnerla, e della sua dura e rigogliosa vitalità. siFino dall’otto aprile dell’anno 1583, l’Illustrissimo ed Eccellentissimo gnor don Carlo d’Aragon, Principe di Castelvetrano, Duca di Terranuova, Marchese d’Avola, Conte di Burgeto, grande Ammiraglio, e gran Contestabile di Sicilia, Governatore di Milano e Capitan Generale di Sua Maestà Cattolica in Italia, pienamente informato della intollerabile miseria in che è vi-
vuta e vive questa città di Milano, per cagione dei bravi e vagabondi, pubblica un bando contro di essi. Dichiara e diffinisce tutti coloro essere compresi in questo bando, e doversi ritenere bravi e vagabondi... i quali, essendo
forestieri o del paese, non hanno esercizio alcuno, od avendolo, non lo fanno... ma, senza salario, o pur con esso, s'appoggiano a qualche cavaliere 0
gentiluomo, officiale o mercante... per fargli spalle e favore, o veramente, come si può presumere, per tendere insidie ad altri... A tutti costoro ordina che, nel termine di giorni sei, abbiano a sgomberare il paese, intima la galera a’ renitenti, e dà a tutti gli ufiziali della giustizia le più stranamente ampie e indefinite facoltà, per l'esecuzione dell'ordine. Ma, nell’anno seguente, il 12 aprile, scorgendo il detto signore, che questa Città è tuttavia piena di detti bravi... tornati a vivere come prima vivevano, non punto mutato il co-
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stume loro, né scemato il numero, dà fuori un’altra grida, ancor più vigorosa e notabile, nella quale, tra l’altre ordinazioni, prescrive: Che qualsivoglia persona, così di questa Città, come forestiera, che per due testimonj consterà esser tenuto, e comunemente
riputato per bravo, et
aver tal nome, ancorché non si verifichi aver fatto delitto alcuno... per que-
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sta sola riputazione di bravo, senza altri indizj, possa dai detti giudici e da ognuno di loro esser posto alla corda et al tormento, per processo informa dui che attendono il curato, e facendoci ca-
pire più a fondo lo sviluppo del dialogo e il comportamento di don Abbondio. E tutto questo il M. realizza col solito stile ironico e pungente che, mentre ricrea le note di un regime tanto autoritario e altezzoso nella forma quanto vuoto di forza e privo di morale, ci fa intuire, come sempre, la riprovazione dello scrittore. 101. Governatore di Milano e Capitan Generale: « il Governatore aveva il compito di sorvegliare che il Senato, il Magistrato ordinario e quello straordinario, e gli altri tribunali svolgessero le proprie funzioni in libertà e conformemente alle leggi stabilite dal re; che non mutassero i loro ordinamenti e le forme di amministrazione in uso nello Stato. Egli non poteva menomare le prerogative di cui godevano le varie magistrature: queste potevano ricorrere al Consiglio d’Italia che risiedeva a Madrid. [...] In pratica poi i governatori si comportavano secondo il loro arbitrio, cioè applicando il motto: *Il re comanda a Madrid, io a Milano’, poco curandosi degli interessi della popolazione. [...] Il governatore era anche capitano generale, cioè co-
mandante di tutte le truppe esistenti nel Mi-
lanese » (Gessi). — Osserva come il M., citando questi personaggi d’autorità, metta in evidenza tutti i loro titoli nobiliari ed ufficiali per ridicolizzarli il più possibile. Nell'animo dello scrittore le concezioni egualitarie dell'Illuminismo si sono bene incontrate con la sua visione cristiana della vita. — Sua Maestà Cattolica: il re di Spagna, che nel 1583 era Filippo II. 111. ufiziali: per ufficiali. Il M. qui ha voluto usare una parola fiorentina: l’ha presa, però, non dalla lingua viva, ma da quella antica ed ormai rimasta a Firenze solo in alcune determinazioni tradizionali, come nel nome della famosa Galleria degli Uffizi. 115. grida: questi bandi delle autorità si chiamavano gride perché, oltre ad essere affisse stampate, venivano gridate, cioè lette ad alta voce nelle piazze e ai canti delle vie dai banditori. 121. alla corda et al tormento: si tratta di quella che lo scrittore definirà più avanti (Cap. XXXIV) « abominevole macchina della tortura », costituita da « due travi, rette con una corda e con certe carrucole », per .mezzo delle quali il disgraziato era tirato in alto per i polsi legati dietro la schiena; in modo da storcergli le braccia. Qui e altrove
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LI
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tivo... et ancorché non confessi delitto alcuno, tuttavia sia mandato alla galea, per detto triennio, per la sola opinione e nome di bravo, come di sopra. Tutto ciò, e il di più che si tralascia, perché Sua Eccellenza è risoluta di voler esser obbedita da ognuno.
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All’udir parole d’un tanto signore, così gagliarde e sicure, e accompagnate da tali ordini, viene una gran voglia di credere che, al solo rimbombo di esse, tutti i bravi siano scomparsi per sempre. Ma la testimonianza d’un signore non meno autorevole, né meno dotato di nomi, ci obbliga a credere tutto il contrario. È questi l’Illustrissimo ed Eccellentissimo Signor Juan Fer-
nandez de Velasco, Contestabile di Castiglia, Cameriero maggiore di Sua Maestà, Duca della Città di Frias, Conte di Haro e Castelnovo, Signore della Casa di Velasco, e di quella delli sette Infanti di Lara, Governatore dello 135
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Stato di Milano, etc. Il 5 giugno dell’anno 1593, pienamente informato anche lui di quanto danno e rovine sieno... i bravi e vagabondi, e del pessimo effetto che tal sorta di gente, fa contra il ben pubblico, et in delusione della giustizia, intima loro di nuovo che, nel termine di giorni sei, abbiano a sbrattare il paese, ripetendo ‘a un dipresso le prescrizioni e le minacce medesime del suo predecessore. Il 23 maggio poi dell’anno 1598, inforzzato, con non poco dispiacere dell'animo suo, che... ogni dì più in questa Città e Stato va crescendo il numero
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di questi tali (bravi e vagabondi), né di loro,
giorno e notte, altro si sente che ferite appostatamente date, omicidii e ruberie et ogni altra qualità di delitti, ai quali si rendono più facili, confidati essi bravi d'essere aiutati dai capi e fautori loro,... prescrive di nuovo gli stessi rimedi, accrescendo la dose, come s’usa nelle malattie ostinate. Ognuzo dunque, conchiude poi, onninamente si guardi di contravvenire in parte alcuna alla grida presente, perché, in luogo di provare la clemenza di Sua Eccellenza, proverà il rigore, e l’ira sua... essendo risoluta e determinata che questa sia l’ultima e perentoria monizione. Non fu però di questo parere l’Illustrissimo ed Eccellentissimo Signore, il Signor Don Pietro Enriquez de Acevedo, Conte di Fuentes, Capitano, e Governatore dello Stato di Milano; non fu di questo parere, e per buone ragioni. Pienamente informato della miseria in che vive questa Città e Stato
per cagione del gran numero di bravi che in esso abbonda... e risoluto di to-
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talmente estirpare seme tanto pernizioso, dà fuori, il 5 decembre 1600, una nuova grida piena anch’essa di severissime comminazioni, cor fermo proponimento che, con ogni rigore, e senza speranza di remissione, siano onninamente eseguite.
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Convien credere però che non ci si mettesse con tutta quella buona voglia che sapeva impiegare nell’ordir cabale, e nel suscitar nemici al suo gran si suol ricordare che il nonno materno del M., Cesare Beccaria, giurista ed economista insigne, aveva pubblicato nel 1764 il suo capolavoro Dei delitti e delle pene, appassionata denuncia delle atrocità giudiziarie che si trascinavano da secoli. 121-122. per processo informativo: basato, cioè, non su prove, ma soltanto su informazioni. Poco prima aveva detto: « comunque riputato per bravo », « per questa sola reputazione... »; e più oltre confermerà: « per la sola opinione ». Espressioni come
queste dovevano sembrare ai legislatori motivo di sconfinato tertore per qualunque eventuale indiziato. 122.-123. mandato alla galea: condannato a remare sulle galere. 146. onninamente: assolutamente, in tutto e per tutto. Il latinismo, bene a posto in una grida, doveva contribuire, come i tanti nomi solenni e minacciosi sparsi ovunque senza economia, a dare forza a chi forza non aveva.
160. cabale:
intrighi.
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nemico Enrico IV; giacché, per questa parte, la storia attesta come riuscisse
ad armare contro quel re il duca di Savoia, a cui fece perdere più d’una
città: come riuscisse a far congiurare il duca di Biron, a cui fece perder la testa; ma, pet ciò che riguarda quel seme tanto pernizioso de’ bravi, certo è
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che esso continuava a germogliare, il 22 settembre dell’anno 1612. In quel giorno l’Illustrissimo ed Eccellentissimo Signore, il Signor Don Giovanni de Mendozza, Marchese de la Hynojosa, Gentiluomo etc., Governatore etc., pensò seriamente ad estirparlo. A quest’effetto, spedì a Pandolfo e Marco Tullio Malatesti, stampatori regii camerali, la solita grida, corretta ed accresciuta, perché la stampassero ad esterminio de’ bravi. Ma questi vissero ancora per ricevere, il 24 decembre dell’anno 1618, gli stessi e più forti colpi dall’Illustrissimo ed Eccellentissimo Signore; il Signor Don Gomez Suarez de Figueroa, Duca di Feria, etc., Governatore etc. Però, non essendo essi morti neppur di quelli, l’Illustrissimo ed Eccellentissimo Signore, il Signor Gonzalo
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Fernandez di Cordova, sotto il cui governo accadde la passeggiata di don Abbondio, s'era trovato costretto a ricorreggere e ripubblicare la solita grida
contro i bravi, il giorno 5 ottobre del 1627, cioè un anno, un mese e due giorni prima di quel memorabile avvenimento. Né fu questa l’ultima pubblicazione; ma noi delle posteriori non crediamo dover far menzione, come di cosa che esce dal periodo della nostra storia. Ne accenneremo soltanto una del 13 febbraio dell’anno 1632, nella quale l’Illustrissimo ed Eccellentissimo Signore, el Duque de Feria, per la seconda volta governatore, ci avvisa che le maggiori sceleraggini procedono da quelli che chiamano bravi. Questo basta ad assicurarci che, nel tempo di cui noi trattiamo, c'era de’ bravi tuttavia.
Che i due descritti di sopra stessero ivi ad aspettar qualcheduno, era cosa troppo evidente; ma quel che più dispiacque a don Abbondio fu il dover accorgersi, per certi atti, che l’aspettato era lui. Perché, al suo apparire, coloro s’eran guardati in viso, alzando la testa, con un movimento dal quale si scorgeva che tutt'e due a un tratto avevan detto: è lui; quello che stava a cavalcioni s’era alzato, tirando la sua gamba sulla strada; l’altro 161. Enrico IV:
Enrico di Borbone,
re
di Francia (1589-1611). Salito al trono di Francia, quando era già re di Navarra, do-
po aver consolidato l’autorità della monarchia, tese a scalzare il predominio che le Case d’Asburgo d’Austria e di Spagna avevano sull’Europa e, in particolare, mirò alla riconquista del Milanese, che era stato sotto la dominazione francese nella prima metà del Cinquecento. 162. duca di Savoia: Carlo Emanuele I (1580-1630), il quale nella lotta contro Enrico IV ottenne il Marchesato di Saluzzo, ma perse più vasti territori che possedeva oltre il Rodano. 163. duca di Biron: Carlo Gontaut, duca di Biron e generale di Enrico IV. Accotdatosi con Carlo Emanuele I, fu scoperto e decapitato nel 1602. 169. stampatori regii camerali: tipografi delle stampe di stato, che oggi sarebbero
le Gazzette Ufficiali. La Regia camera cor-
risponderebbe al nostro erario, la Cassa dello Stato. 185. c’era de’ bravi tuttavia: è l’ultima battuta umoristica, fra le tante argute e vivissime che il M. ha sparso nel rifare la storia delle gride arnti-bravo. Una specie di storia eroicomica, e insieme un’altra mirabile pagina che dipinge il costume del secolo ed esprime l’umana saggezza del M. 188. l’aspettato era lui: abbiamo conosciuto il don Abbondio metodico, superficiale, gretto; ora incominciamo a conoscere il don Abbondio più tipico: l’egoista e il pauroso. Ci apparirà sempre più l’uomo del quieto vivere, per il quale l’unica preoccupazione è quella di non turbare la pace di un'esistenza grigia ed appartata: tutto, d’ora in avanti, egli farà per difendere — con le piccole armi dell’astuzia, del calcolo, della dissimulazione — il suo povero mondo, che si va d’un tratto sfasciando sotto i colpi di una prepotenza imprevista.
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s'era staccato dal muro; e tutt’e due gli s’avviavano incontro. Egli, tenendosi sempre il breviario aperto dinanzi, come se leggesse, spingeva lo sguardo in su, per ispiar le mosse di coloro; e, vedendoseli venir proprio incontro, fu assalito a un tratto da mille pensieri. Domandò subito in fretta a sé stesso, se, tra i bravi e lui, ci fosse qualche uscita di strada, a destra o a sinistra; e gli sovvenne subito di no. Fece un rapido esame, se avesse peccato contro qualche potente, contro qualche vendicativo; ma, anche in quel turbamento, il testimonio consolante della coscienza lo rassicurava alquanto: i bravi però s’avvicinavano, guardandolo fisso. Mise l’indice e il medio della mano sinistra nel collare, come per raccomodarlo; e, girando le due dita intorno al collo, volgeva intanto la faccia all’indietro, torcendo insieme la bocca, e guardando con la coda dell’occhio, fin dove poteva, se qualcheduno arrivasse; ma non vide nessuno. Diede un’occhiata, al di sopra del muricciolo, ne’ campi: nessuno; un’altra più modesta sulla strada dinanzi; nessuno, fuorché i bravi.
Che fare? tornare indietro, non era a tempo: darla a gambe, era lo stesso che dire, inseguitemi, o peggio. Non potendo schivare il pericolo, vi corse
incontro, perché i momenti di quell’incertezza erano allora così penosi per 210
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lui, che non desiderava altro che d’abbreviarli. Affrettò il passo, recitò un versetto a voce più alta, compose la faccia a tutta quella quiete e ilarità che poté, fece ogni sforzo per preparare un sorriso; quando si trovò a fronte dei due galantuomini, disse mentalmente: ci siamo; e si fermò su due piedi. « Signor curato », disse un di que’ due, piantandogli gli occhi in-faccia. « Cosa comanda? » rispose subito don Abbondio, alzando i suoi dal libro, che gli restò spalancato nelle mani, come sur un leggìo.
197. se avesse peccato... quando sapremo di più riguardo a don Abbondio potremo meglio capire tutta l’ironia dello scrittore che contempla dall’alto il suo povero uomo già fuori di sé in questo convulso esame di coscienza. Anche l’espressione «il testimonio consolante della coscienza » aggiunge una particolare nota di sarcasmo col richiamo, voluto o no dal M., di certi solenni versi di Dante: « coscienza m’assicura, La buona compagnia che l’uom francheggia Sotto l’usbergo del sentirsi pura» (Inf., XXVIII, 115-117). 200. Mise l’indice e il medio...: perfetta evidenza dei movimenti, da cui traspare tutto il tremore e lo sgomento del cuore, che trovano il loro culmine in quel deso-. lato crescendo: «... non vide nessuno...; nessuno...; nessuno, fuorché i bravi ». 209. Affrettò il passo...: la decisione e tutto il comportamento del curato sono naturalissimi; eppure fanno parte della grande arte dissimulatrice di cui troveremo ripetuti esempi, qui e altrove, nella condotta di don Abbondio. 212. galantuomini: vedremo più volte usata dal M. questa parola e proprio quando — se presa nel suo significato etimologico — meno l’aspetteremmo. Si tratterà quindi, in generale, di un ‘galantuomo’
detto per antifrasi, cioè per significare l’opposto, come: ‘subdolo; astuto, disonesto, violento, mascalzone, furfante, cretino...’ e roba del genere; ma sempre con finissima dosatura d’ironia. L’uso di galantuomo con tutte queste sfumature non è, veramente, una scoperta del M., ma lo troviamo abbastanza diffuso in vari autori di tempi diversissimi: dal Bibbiena al Bruno, dall’Alfieri al Croce. Fra gli scrittori dell’Ottocento che l’hanno impiegato spesso è il Giusti, del quale più avanti riferiremo un esempio (Cap. VII, n. 428). 214. Cosa comanda?: in questa domanda, che sembra uscire dalla bocca di un automa, si esprime la tragedia dell'incontro: la sicurezza dei ribaldi, il servilismo del pauroso. Il quale, in tutti i suoi gesti imbambolati come in tutte le sue parole sconcertanti, non farà che rivelare debolezza e terrore. Si guardi quel libro « spalancato », che resterà per tutto il colloquio sulle mani di don Abbondio come «sur un leggio »: e non si chiuderà che quando i bravi se ne andranno lasciandolo solo. È una pennellata di quelle che meglio rivelano quale abile caricaturista sia il M., che con estrema na-
turalezza sa cogliere e lumeggiare gesti e frasi che caratterizzano un uomo e te lo fissano per sempre davanti.
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« Lei ha intenzione, » proseguì l’altro, con l’atto minaccioso e iracondo di chi coglie un suo inferiore sull’intraprendere una ribalderia, « lei ha intenzione di maritar domani Renzo Tramaglino e Lucia Mondella! » « Cioè... » rispose, con voce tremolante, don Abbondio: « cioè. Lor signori son uomini di mondo, e sanno benissimo come vanno queste faccende. Il povero curato non c'entra: fanno i loro pasticci tra loro, e poi... e poi, vengon da noi, come s’anderebbe a un banco a riscotere; e noi... noi siamo i servitori
del comune.‘
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« Or bene, » gli disse il bravo, all’orecchio, ma in tono solenne di comando, « questo matrimonio non s’ha da fare, né domani, né mai. » « Ma, signori miei, » replicò don Abbondio, con la voce mansueta e gentile di chi vuol persuadere un impaziente, « ma, signori miei, si degnino di mettersi ne’ miei panni. Se la cosa dipendesse da me,... vedon bene che a me non me ne vien nulla in tasca... »
« Orsù, » interruppe il bravo, « se la cosa avesse a decidersi a ciarle, lei ci metterebbe in sacco. Noi non ne sappiamo, né vogliam saperne di più. Uomo avvertito... lei c’intende. » « Ma lor signori son troppo giusti, troppo ragionevoli... »
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« Ma, » interruppe questa volta l’altro compagnone, che non aveva parlato fin allora, « ma il matrimonio non si farà, o...» e qui una buona bestemmia, « o chi lo farà non se ne pentirà, perché non ne avrà tempo, e... » un’altra bestemmia. « Zitto, zitto, » riprese il primo oratore:
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«il signor curato è un uomo
che sa il viver del mondo; e noi siam galantuomini, che non vogliam fargli del male, purché abbia giudizio. Signor curato, l’illustrissimo signor don Rodrigo nostro padrone la riverisce caramente. » Questo nome fu, nella mente di don Abbondio, come, nel forte d’un tem-
porale notturno, un lampo che illumina momentaneamente e in confuso gli oggetti, e accresce il terrore. Fece, come
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disse:
per istinto, un grand’inchino, e
« se mi sapessero suggerire... »
219. Cioè...: « Che cosa è questo cioè? — si chiede il De Sanctis —. È l’uomo che si mette subito nella posizione di chi ha torto, perché avvezzo a tremare dinanzi al più forte, il quale piglia l’aria di superiore mentre egli piglia l’aria di inferiore: quello ha il piglio minaccioso e iracondo ed egli risponde con voce tremula; quello ha il tono di accusatore ed egli si scusa ». 228-229. a me... nulla in tasca: è la ragione più meschina fra quante il disgraziato poteva metter fuori per cercar di giustificare il suo comportamento. Che il dovere sacerdotale, per esempio, gli imporrebbe ben altra condotta, nemmeno gli passa per la mente di dirlo. È sempre la paura che chiude l’uomo nella grettezza e nel ridicolo. 238. il primo oratore: sempre attento a tutto e a tutti, il M. ci fa sentire quanto diverso, se pure con un fondo comune, sia il carattere dei due bravi, che si sono così bene divisi le parti: uno usa l’arte dell’oratoria e della diplomazia, l’altro esplodè nel-
le minacce e nelle bestemmie. Naturalmente il rilievo artistico del primo è di gran lunga superiore; il suo capolavoro è alla fine, quando mette il nome di don Rodrigo a conclusione del discorso: è il suggello del tiranno, sarà il capestro di don Abbondio. 242-243. come... un lampo: il M. è veramente magistrale nelle similitudini, e ne vedremo di bellissime: come questa, così concisa e pure così esatta nella corrispondenza dei termini. 244. un grand’inchino: non è tanto un modo più o meno goffo di comportarsi, quanto un moto spontaneo e naturale di quel povet’uomo atterrito, che si era presentato al colloquio dicendo: «Cosa comanda? », e che fra poco se ne staccherà balbettando: «... Disposto... disposto sempre all’obbedienza ». 245. se mi sapessero suggerire: è una espressione ambigua: potrebbe significare un ultimo tentativo di resistenza, come anche il cedimento completo. Bene, comunque, ri-
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« Oh! suggerire a lei che sa di latino! » interruppe ancora il bravo, con un riso tra lo sguaiato e il feroce. « A lei tocca. E sopra tutto, non si lasci uscir parola su questo avviso che le abbiam dato per suo bene; altrimenti... ehm... sarebbe lo stesso che fare quel tal matrimonio. Via, che vuol che si dica in suo nome all’illustrissimo signor don Rodrigo? » « Il mio rispetto... » « Si spieghi meglio! » « ... Disposto... disposto sempre all’ubbidienza. » E, proferendo queste parole, non sapeva nemmen lui se faceva una promessa, o un complimento. I bravi le presero, o mostraron di prenderle nel significato più serio. « Benissimo, e buona notte, messere, » disse l’un d’essi, in atto di partir
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col compagno. Don Abbondio, che, pochi momenti prima, avrebbe dato un occhio per iscansarli, allora avrebbe voluto prolungar la conversazione e le trattative. « Signori... » cominciò, chiudendo il libro con le due mani; ma quelli, senza più dargli udienza, presero la strada dond’era lui venuto, e s’allontanarono, cantando una canzonaccia che non voglio trascrivere. Il povero don Abbondio rimase un momento a bocca aperta, come incantato; poi prese quella delle due stradette che conduceva. a casa sua, mettendo innanzi a stento una gamba dopo l’altra, che parevano aggranchiate. Come stesse di dentro, s’intenderà meglio, quando avrem detto qualche cosa del suo naturale, e de’ tempi in cui gli era toccato di vivere. Don Abbondio (il lettore se n’è già avveduto) non era nato con un cuor di leone. Ma, fin da’ primi suoi anni, aveva dovuto comprendere che la peggior condizione, a que’ tempi, era quella d’un animale senza artigli e senza zanne, e che pure non si sentisse inclinazione d’esser. divorato. La forza legale non proteggeva in alcun conto l’uomo tranquillo; inoftensivo, e che non avesse altri mezzi di far paura altrui. Non già che mancassero leggi
e pene contro le violenze private. Le leggi anzi diluviavano; i delitti erano enumerati, e particolareggiati, con minuta prolissità; le pene, pazzamente esorbitanti e, se non basta, aumentabili, quasi per ogni caso, ad arbitrio del legislatore stesso e di cento esecutori; le procedure, studiate soltanto a liberare il giudice da ogni cosa che potesse essergli d’impedimento a proferire 260. dond’era lui venuto: ha ragione un commentatore nel definire « duro e brutto » questo modo di esprimersi, nel posto del vo: « Oh! suggerire a lei che sa di latino ». quale si sarebbe dovuto usare, per manteneproprio, sarà latino di saper Eppure questo re al discorso la forma parlata, « dond’era lo vedremo più avanti, un mezzo di cui don venuto lui». — L'edizione del ’27 reca ma Renzo; irretire per Abbondio si servirà « donde egli era venuto »: la sostituzione alla fine del romanzo servirà a Renzo per di egli con lui e lo spostamento di era fu(Cap. curato ritorcerlo ironicamente sul. ‘ rono dovuti, probabilmente, al proposito di quando a e accennar non Per ). XXXVIII togliere quel che di letterariamente sostesaper il — sulla bocca di fra Cristoforo — nuto si sentiva nella frase. santa più ben funzione una avrà di latino 264. ... che parevano aggranchiate: povere $ (Cap. VIII). gambe, intirizzite e avviluppate dalla pau256. e buona notte, messere: sghignazzata ra: e povero vecchio, che si trascina verso feroce, degna ricompensa per il vile che ha casa col cuore a pezzi! Nel narratore, che ne ceduto: come sempre accade nella storia segue il barcollante scomparire, non c’è più degli uomini. Messere (dal provenzale meser, riso, ma solo umana tristezza. onore di titolo mio signore) fu anticamente non era nato con un cuor di leo267-268. ' dotti, uomini agli poi , signori gran ai rivolto ne: la è prima, e certo una delle più note appel, talvolta e quindi semplice cortesia e, M. dà del suo personaggio; il che definizioni è mente, natural qui, ma so; lativo scherzo vedremo altre ugualmente ne presto ben e tutto e solo scherno.
vela l’avvilimento del curato, cui farà subito riscontro la sprezzante ironia del bra-
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una condanna: gli squarci che abbiam riportati delle gride contro i bravi, ne sono un piccolo, ma fedel saggio. Con tutto ciò, anzi in gran parte a cagion di ciò, quelle gride, ripubblicate e rinforzate di governo in governo, non servivano ad altro che ad attestare ampollosamente l’impotenza de’ loro autori; 0, se producevan qualche effetto immediato, era principalmente d’aggiunger molte vessazioni a quelle che i pacifici e i deboli già soffrivano da’ perturbatori, e d’accrescer le violenze e l’astuzia di questi. L’impunità era
organizzata, e aveva radici che le gride non toccavano, o non potevano smo-
vere. Tali eran gli asili, tali i privilegi d’alcune classi, in parte riconosciuti dalla forza legale, in parte tollerati con astioso silenzio, o impugnati con
vane proteste, ma sostenuti in fatto e difesi da quelle classi, con attività d’interesse, e con gelosia di puntiglio. Ora, quest’'impunità minacciata e insultata, ma non distrutta dalle gride, doveva naturalmente, a ogni minaccia, e a ogni insulto, adoperar nuovi sforzi e nuove invenzioni, per conservarsi. Così
accadeva in effetto; e, all’apparire delle gride dirette a comprimere i violenti, questi cercavano nella loro forza reale i nuovi mezzi più opportuni, pet continuare a far ciò che le gride venivano a proibire. Potevan ben esse inceppare a ogni passo, e molestare l’uomo bonario, che fosse senza forza propria e senza protezione; perché, col fine d’aver sotto la mano ogni uomo, per prevenire o per punire ogni delitto, assoggettavano ogni mossa del privato al volere arbitrario d’esecutori d’ogni genere. Ma chi, prima di commettere il delitto, aveva prese le sue misure per ricoverarsi a tempo in un convento, in un palazzo, dove i birri non avrebber mai osato metter piede; chi, senza altre precauzioni, portava una livrea che impegnasse a difenderlo la vanità e l'interesse d’una famiglia potente, di tutto un ceto, era libero nelle sue operazioni, e poteva ridersi di tutto quel fracasso delle gride. Di quegli stessi ch’eran deputati a farle eseguire, alcuni appartenevano per nascita alla parte privilegiata, alcuni ne dipendevano per clientela; gli uni e gli altri, per educazione, per interesse, per consuetudine, per imitazione, ne avevano abbrac-
ciate le massime, e si sarebbero ben guardati dall’offenderle, per amor d’un pezzo di carta attaccato sulle cantonate. Gli uomini poi incaricati dell’ese-
‘‘cuzione immediata, quando fossero stati intraprendenti come eroi, ubbidienti 310 come: monaci, e pronti a sacrificarsi come martiri, non avrebber però po-
tuto venirne alla fine, inferiori com’eran di numero a quelli che si trattava di sottomettere, e con una gran probabilità d’essere abbandonati da chi, in astratto e, per così dire, in teoria, imponeva loro di operare. Ma, oltre di ciò costoro eran generalmente de’ più abbietti e ribaldi soggetti del loro tempo; incisive e celebri, come: un animale senza artigli e senza zanne...; un vaso di terra cotta, costretto a viaggiare in compagnia di
molti vasi di ferro... Ma in queste pagine, o almeno in buona parte di esse, l’interesse dello scrittore, e nostro, ‘sono rivolti essenzialmente al quadro che viene fatto del secolo, nel quale la figura di don Abbondio si stempera in una nota di compatimento e di tristezza. Un quadro mirabile in sé, per la varietà degli aspetti toccati: pagina autentica di storia civile ed umana, che il poeta indaga con occhio vigile e ricrea con animo veramente perturbato e commosso. Carenza
di autorità, impotenza delle leggi, corruzione della giustizia, sopraffazione della violenza, impunità organizzata, omertà, terrore... sono gli aspetti più generali e diffusi di uno stato di fatto in cui la dominazione spagnola aveva ridotto il Milanese, riportandolo addietro di secoli in una nuova specie. di feudalesimo, coi suoi signori prepotenti e onnipotenti e la sua massa di umili lasciata all’arbitrio del più forte o del più astuto. 286. gli asili: le chiese, i conventi, i castelli, i palazzi dei signori, ove i delinquenti, come vedremo altre volte nel romanzo, po-
tevano rifugiarsi e trovare impunità.
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l’incarico loro era tenuto a vile anche da quelli che potevano averne terrore, e illoro titolo un improperio, Era quindi ben naturale che costoro, in vece d’arrischiare, anzi di gettar la vita in un’impresa disperata, vendessero la loro inazione, o anche la loro connivenza ai potenti, e si riservassero a esercitare la loro esecrata autorità e la forza che pure avevano, in quelle occasioni dove non c’era pericolo; nell’opprimer cioè, e nel vessare gli uomini pacifici e senza difesa. ‘uomo che vuole offendere, o che teme, ogni momento, d’essere. offeso, cerca naturalmente alleati e compagni. Quindi era, in que’ tempi, portata al massimo punto la tendenza degl’individui a tenersi collegati in classi, a formarne delle nuove, e a procurare ognuno la maggior potenza di quella a cui
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apparteneva. Il clero vegliava a sostenere e ad estendere le sue immunità, la nobiltà i suoi privilegi, il militare le sue esenzioni. I mercanti, gli artigiani erano arrolati in maestranze e in confraternite, i giurisperiti formavano una lega, i medici stessi una corporazione. Ognuna di queste piccole oligarchie aveva una sua forza speciale e propria; in ognuna l’individuo trovava il van-
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taggio d’impiegar per sé, a proporzione della sua autorità e della sua destrezza, le forze riunite di molti. I più onesti si valevan di questo vantaggio a difesa soltanto; gli astuti e i facinorosi ne approfittavano, per condurre a termine ribalderie, alle quali i loro mezzi personali non sarebber bastati, e per assicurarsene l’impunità. Le forze però di queste varie leghe eran molto
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disuguali; e, nelle campagne principalmente, il nobile dovizioso e violento, con intorno uno stuolo di bravi, e una popolazione di contadini avvezzi, per tradizione famigliare, e interessati o forzati a riguardarsi quasi come sudditi e soldati del padrone, esercitava un potere, a cui difficilmente nessun’altra
frazione di lega avrebbe ivi potuto resistere.
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Il nostro Abbondio, non nobile, non ricco, coraggioso ancor meno, s’era dunque accorto, prima quasi di toccar gli anni della discrezione, d’essere, in quella società, come
un vaso di terra cotta, costretto
316. il loro titolo: quello di birri. 321-322. L'uomo... alleati e compagni: è , la prima massima che il M. espone nel suo ‘ romanzo. Andando avanti nella lettura, molte altre ne incontreremo, tutte chiare, nitide, penetranti, dettate da saggezza antica e insieme da spirito illuminato e moderno, frutto di studio psicologico attento ed emapensosa degli uomini nazione di un’anima e delle loro vicende. È in queste massime che il M. sembrerà, per così dire, fissare per l'eterno quel suo saper guardare pacato, € insieme solenne, tutti gli aspetti della realtà, quel suo saper frugare, con severità € compatimento ad un tempo, in tutti gli uomini, i buoni e i cattivi, i deboli e i prei potenti, i furbi e gli stolti. 325-326. immunità..., privilegi..., esenzioni: immunità,
dispense di gravami civili o
fiscali; privilegi, eccezioni alla legge per il proprio interesse; esenzioni, da obblighi vari e, in particolare, da imposte. 335. nelle campagne principalmente...: 0sserva con quanta accortezza, ed insieme con quanta naturalezza, il M., dopo aver spaziato in lungo e in largo su quegli che
a viaggiare in compa-
gli appaiono i mali peggiori del Seicento — e da ultimo su le maestranze, le confraternite, le corporazioni, e le leghe, fra le quali ne aveva trovata, con meraviglia, anche una dei medici, di gente cioè che dovrebbe essere aperta verso tutti, per quel minimo di umanità che non può mancare in una tale professione —, con quanta accortezza e na- . turalezza, dicevamo, dopo la lunga digres- ‘ sione, il M. ci riporta nelle campagne, ci parla di un certo mobile dovizioso e violento, che col suo stuolo di bravi, sopra una popolazione di contadini esercita un potere a cui nessuno può opporsi. Eccoci, dunque, ritornati al nostro paesetto, ai nostri personaggi, che già conosciamo o direttamente o di riflesso, e quindi al rostro don Abbondio; del resto tutto l’ultimo capoverso sulle caste, sulle maestranze, sulle leghe ecc., contribuisce proprio ad introdurre la spiegazione del motivo di fondo per cui don Abbondio si era fatto prete. - 341. gli anni della discrezione: gli anni del giudizio: di un giudizio, cioè, sicuro e° responsabile delle proprie scelte e decisioni. 342. come un vaso di terra cotta...: forse
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gnia di molti vasi di ferro. Aveva quindi, assai di buon grado, ubbidito ai
parenti, che lo vollero prete. Per dir la verità, non aveva gran fatto pensato
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agli obblighi e ai nobili fini del ministero al quale si dedicava: procacciarsi di che vivere con qualche agio, e mettersi in una classe riverita e forte, gli eran sembrate due ragioni più che sufficienti per una tale scelta. Ma una classe qualunque non protegge ‘un individuo, non lo assicura, che fino a un certo segno: nessuna lo dispensa dal farsi un suo sistema particolare. Don Abbondio, assorbito continuamente ne’ pensieri della propria quiete, non si curava di que’ vantaggi, per ottenere i quali facesse bisogno d’adoperatsi molto, o d’arrischiarsi un poco. Il suo sistema consisteva principalmente nello scansar tutti i contrasti, e nel cedere, in quelli che non poteva scansare. Neu-
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tralità disarmata in tutte le guerre che scoppiavano intorno a lui, dalle contese, allora frequentissime, tra il clero e le podestà laiche, tra il militare e il civile, tra nobili e nobili, fino alle questioni tra due contadini, nate da una parola, e decise coi pugni, o con le coltellate. Se si trovava assolutamente costretto a prender parte tra due contendenti, stava col più forte, sempre però alla retroguardia, e procurando di far vedere all’altro ch’egli non gli era volontariamente nemico: pareva che gli dicesse: ma perché non avete saputo esser voi il più forte? ch’io mi sarei messo dalla vostra parte. Stando alla larga da’ prepotenti, dissimulando le loro soverchierie passeggiere e capricciose, corrispondendo con sommissioni a quelle che venissero da un’intenzione più seria e più meditata, costringendo, a forza d’inchini e di rispetto
gioviale, anche i più burberi e sdegnosi, a fargli un sorriso, quando gl’incontrava
per la strada, il pover’'uomo
era riuscito
a passare
i sessant’anni,
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Non è però che non avesse anche lui il suo po’ di fiele in corpo; e quel continuo esercitar la pazienza, quel dar così spesso ragione agli altri, que’ tanti bocconi amari inghiottiti in silenzio, glielo avevano esacerbato a segno che, se non avesse, di tanto in tanto, potuto dargli un po’ di sfogo, la sua salute n’avrebbe certamente sofferto. Ma siccome v’eran poi finalmente al
è la similitudine più nota di tutti i Promessi Sposi, passata ormai in proverbio. In essa due elementi, soprattutto, si devono osservare: da un lato, la capacità di riassumere l’intera precedente analisi della società del Seicento, in cui i deboli e i pacifici erano alla mercé dei violenti e dei prepotenti; dall’altro, l’indulgente comprensione del M. verso il suo personaggio, che il destino ha posto a vivere in un mondo che non era fatto per lui. 344. parenti: genitori, nel senso latino che troveremo altre volte. Dunque don Abbondio nel farsi prete aveva soltanto « ubbidito »
ai genitori:
nessuna
vera
vocazione
c’era stata in lui verso i « nobili fini del ministero ». Ma questo ubbidire non era stato forzato — come, vedremo, avverrà per la monaca di Monza —, ma era avvenuto di buon grado: cioè, come si dice subito dopo, in seguito ad un calcolo di vantaggi puramente materiali. Già, dunque, in questa scelta primigenia interviene l’atteggiamento cal-
colatore di don Abbondio: un atteggiamento che non gli mancherà mai, anche se non sempre gli darà i frutti sperati. 352. Il suo sistema...: in questo « sistema » di don Abbondio, è stato osservato dai critici, il M. ha messo buona parte del suo carattere di uomo onestamente e profondamente contemplativo, che si sente inetto alla vita pubblica e che ha un amore senza limiti per la vita solitaria, in un tranquillo isolamento da tutto e da tutti. In una lettera all'amico Fauriel una volta il M. scrisse: « Noi viviamo nella più grande solitudine, tremanti di paura tutte le volte che sentiamo una vettura scorrere pet la corte, perché potrebbe essere un qualche importuno che viene a rapire a noi la nostra giornata, per disfarsi della sua». Allora, concludendo, ha proprio ragione chi dice che il sistema di vita di don Abbondio — quale qui è appena
accennato
e poi per tutto il
romanzo verrà costantemente ritratto — è riuscito un capolavoro anche perché il M.
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mondo, e vicino a lui, persone ch’egli conosceva ben bene per incapaci di far male, così poteva con quelle sfogare qualche volta il mal umore lungamente represso, e cavarsi anche lui la voglia d’essere un po’ fantastico, e di gridare a torto. Era poi un rigido censore degli uomini che non si regolavan come lui, quando però la censura potesse esercitarsi senza alcuno, anche lon-
tano, pericolo. Il battuto era almeno almeno un imprudente; l’ammazzato 380
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era sempre stato un uomo torbido. A chi, messosi a sostener le sue ragioni contro un potente, rimaneva col capo rotto, don Abbondio sapeva trovar sempre qualche torto; cosa non difficile perché la ragione e il torto non si divi-
don mai con un taglio così netto. che ogni parte abbia soltanto dell’una o dell’altro. Sopra tutto poi, declamava contro que’ suoi confratelli che, a loro tischio, prendevan le parti d’un debole oppresso, contto un soverchiatore potente. Questo chiamava un comprarsi gl’impicci a contanti, un voler raddrizzar le gambe ai cani; diceva anche severamente, ch’era un mischiarsi nelle cose profane, a danno della dignità del sacro ministero. E contro questi predicava, sempre però a quattr’occhi, o in un piccolissimo crocchio, con tanto più di veemenza, quanto più essi eran conosciuti per alieni dal risentirsi, in cosa che li toccasse personalmente. Aveva poi una sua sentenza prediletta, con la quale sigillava sempre i discorsi su queste materie: che a un galantuomo, il qual badi a sé, e stia ne’ suoi panni, non accadon mai brutti incontri. Pensino ora i miei venticinque lettori che impressione dovesse fare sull’animo del poveretto, quello che s'è raccontato. Lo spavento di que’ visacci e di quelle parolacce, la minaccia d’un signore noto per non minacciare invano, un sistema di quieto vivere, ch’era costato tant’anni di studio e di pa-
zienza, sconcertato in un punto, e un passo dal quale non si poteva veder come uscirne: tutti questi pensieri ronzavano tumultuariamente nel capo basso di don Abbondio. — Se Renzo si potesse mandare in pace con un stesso, sia pure con una condotta tanto più nobile e con idealità ben più elevate, lo praticava nella realtà della sua quotidiana esistenza. 375. d’esser un po’ fantastico...: dopo tan-
te considerazioni serie, ritornano il sorriso e l'ironia. Ed è giusto che sia così, ora che lo scrittore ci presenta un don Abbondio che
di fare, anche lui, quando non c'è pericolo, il duro e il prepotente, e vuol dimostrare di essere, anche lui, qualcuno. 381. la ragione e il torto...: altra famosa sentenza, espressa con l’abituale sereno distacco che il M. ha sempre quando, come. qui, è in atteggiamento di commentatore. La sentenza è anche rivelatrice di quell’amara sfiducia, tutta manzoniana, nelle cose degli uomini: anche, e soprattutto, quando essi vorrebbero fare giustizia. A commento si potrebbe leggere un’altra gustosissima pagina del M. nel discorso Del romanzo storico, ove è narrato l’aneddoto di un giudice, il quale, trovandosi a dirimere una questione fra due litiganti, ascoltato il primo dette ragione a lui, ma ascoltato il secondo dette ragione anche a questo. Però «c’era lì accanto un suo bambino di sette o ott’anni,
si intestardisce
il quale, giuocando pian piano con non so quali balocchi, non aveva lasciato di stare anche attento al contradditorio, e a quel punto, alzando un visino stupefatto, non senza un certo che di autorevole, esclamò: ma babbo non può essere che abbiano ragione tutt'e due. Hai ragione anche tu, gli disse il giudice ». 390. una sua sentenza prediletta: ma questa, potremmo aggiungere, non è sentenza ‘ manzoniana ’: fu di un illuso, la cui illusione è ormai crollata per sempre nell’incontro coi bravi. Ma al di là dell’ironia che dalla sentenza si manifesta, si badi, ancora, alla capacità del M. nel riportare il discorso a ciò che gli preme: la ripresa e la con-
clusione del racconto.
i
393. i miei venticinque lettori: l’espressione, ormai divenuta d’uso comune, tanto è arguta la sua finezza, ha anche, nella condotta del romanzo, un notevole valore, in quanto serve ad avvicinare lo scrittore al lettore. Questi si sente, per così dire, chiamato dall’autore a pattecipare di persona al suo impegno di osservatore e di critico: da qui l’aria di familiarità che emana da ogni pagina del romanzo. 399, Se Renzo si potesse...: ha inizio il
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bel no, via; ma vorrà delle ragioni; e cosa ho da rispondergli, per amor del cielo? E, e, e, anche costui è una testa: un agnello se nessun lo tocca, ma se uno vuol contraddirgli... ih! E poi, e poi, perduto dietro a quella Lucia, innamorato come... Ragazzacci, che, per non saper che fare, s’innamorano, voglion maritarsi, e non pensano ad altro; non si fanno carico de travagli in che mettono un povero galantoomo. Oh povero me! vedete se quelle due figuracce dovevan proprio piantarsi sulla mia strada, e prenderla con me! Che c'entro io? Son io che voglio maritarmi? Perché non son andati piuttosto a parlare... Oh vedete un poco: gran destino è il mio, che le cose a proposito mi vengan sempre in mente un momento dopo l’occasione. Se avessi pensato di suggerir loro che andassero a portar la loro imbasciata... — Ma, a questo punto, s’accorse che il pentirsi di non essere stato consigliere e cooperatore dell’iniquità era cosa troppo iniqua; e rivolse tutta la stizza de’ suoi pensieri contro quell’altro che veniva così a togliergli la sua pace. Non conosceva don Rodrigo che di vista e di fama, né aveva mai avuto che far con lui, altro che di toccare il petto col mento, e la terra con la punta del suo cappello, quelle poche volte che l’aveva incontrato per la strada. Gli era occorso di difendere, in più d’un’occasione, la riputazione di quel signore, contro coloro che, a bassa voce, sospirando, e alzando gli occhi al cielo, maledicevano qualche suo fatto: aveva detto cento volte ch’era un rispettabile cavaliere. Ma, in quel momento, gli diede in cuor suo tutti que’ titoli che non aveva mai udito applicargli da altri, senza interrompere in fretta con un cibò. Giunto, tra il tumulto di questi pensieri, alla porta di casa sua, ch’era in fondo del paesello, mise in fretta nella toppa la chiave, che già teneva in mano; aprì, entrò, tichiuse
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chiamò
diligentemente;
subito:
e, ansioso
« Perpetua!
di trovarsi
in una
compagnia
fidata,
Perpetua! ». avviandosi pure verso il salotto,
dove questa doveva essere certamente ad apparecchiar la tavola per la cena. Era Perpetua, come ognun se n’avvede, la serva di don Abbondio: serva af-
fezionata e fedele, che sapeva ubbidire e comandare, secondo l’occasione, tollerare a tempo il brontolìo e le fantasticaggini del padrone, e fargli a tempo primo soliloquio di don Abbondio e dell’intero romanzo. Altri ancora ne troveremo, in particolare dello stesso don Abbondio e di Renzo. In tutti il M. rivelerà un’arte sapiente, cui non sfugge nessun palpito del cuore. Si noti qui, per esempio, la naturalezza del terrore, che fa sfociare l’impaccio di pochi istanti prima nella stizza grottesca: «Son io che voglio maritarmi? », per concludersi nell’amaro mea culpa: « Se avessi pensato... ». 423. che già teneva in mano: la frase non è superflua, ma dice e fa vedere: fretta, tremito, ansia, terrore... quasi i bravi lo stessero inseguendo... quasi il porto sicuro fosse ancora tanto lontano... Così è, subito dopo, col fremito di quei due verbi brevi e accentati: « aprì, entrò », e poi con la gran cura di quel «tichiuse diligentemente ». Si ha la sensazione che il M. sia lì, insieme con noi, attento a spiare e sorridere alle spalle del povero prete. n 425. Perpetua! Perpetua!: ecco chi è la
« compagnia fidata », di cui ha bisogno don Abbondio, la sua unica persona fidata. Perpetua è la serva del curato; una serva, però, che sa ubbidire e comandare, perché, come vedremo, possiede proprio le doti che il suo padrone non ha: acutezza d’intuito, buon senso, prontezza nelle decisioni. Per questo, più volte, essa assolverà sul piano umano, come su quello artistico, una funzione complementare rispetto a don Abbondio. — Riguardo al nome Perpetua — raro e singolare nel passato, ma ormai, per merito del M., divenuto designazione per antonomasia di tutte le serve dei parroci — si è molto discusso sulla fonte che l’abbia suggerito allo scrittore: ma nessuna ipotesi soddisfa abbastanza. La verità si dovrà forse ricercare in questa maliziosa insinuazione del Belloni? « Vedete combinazione: Perpetua, rimasta da maritare ‘ per non aver mai trovato un cane che la volesse” portava il nome d’una santa che... è alta protettrice delle donne maritate! ».
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tollerar le proprie, che divenivan di giorno in giorno più frequenti, da che aveva passata l’età sinodale dei quaranta, rimanendo celibe, per aver rifiutato tutti i partiti che le si erano offerti, come diceva lei, o per non aver mai trovato un cane che la volesse, come dicevan le sue amiche. « Vengo, » rispose, mettendo sul tavolino, al luogo solito, il fiaschetto del vino prediletto di don Abbondio, e si mosse lentamente; ma non aveva ancora toccata la soglia del salotto, ch’egli v’entrò, con un passo così legato, con uno sguardo così adombrato, con un viso così stravolto, che non ci sarebbero nemmen bisognati gli occhi esperti di Perpetua, per iscoprire a prima vista che gli era accaduto qualche cosa di straordinario davvero. « Misericordia! cos'ha, signor padrone? » « Niente, niente, » rispose don Abbondio, lasciandosi andar tutto ansante sul suo seggiolone. « Come; niente?
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La vuol dare ad intendere
a me?
così brutto com'è?
Qualche gran caso è avvenuto. » « Oh, per amor del cielo! Quando dico niente, o è niente, o è cosa che non posso dire. » « Che non può dir neppure a me? Chi si prenderà cura della sua salute? Chi le darà un parere?... » « Ohimé! tacete, e non apparecchiate altro: datemi un bicchiere del mio vino. »
« E lei mi vorrà sostenere che non ha niente! » disse Perpetua, empiendo
il bicchiere, e tenendolo poi in mano, come se non volesse darlo che in pre-
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mio della confidenza che si faceva tanto aspettare. « Date qui, date qui,» disse don Abbondio, prendendole il bicchiere, con la mano non ben ferma, e votandolo poi in fretta, come se fosse una medicina.
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« Vuol dunque ch’io sia costretta di domandar qua e là cosa sia accaduto al mio padrone? » disse Perpetua, ritta dinanzi a lui, con le mani arrovesciate sui fianchi, e le gomita appuntate davanti, guardandolo fisso, quasi volesse succhiargli dagli occhi il segreto. « Per amor del cielo! non fate pettegolezzi, non fate schiamazzi: ne va... ne va la vita! » « La vita! » « La vita. »
dire ». E con questo don Abbondio ha già 431. l’età sinodale dei quaranta: il sinodo cominciato la sua confessione! e, general in è, no) conveg = s ssnodo gr. (dal 458-459. con le mani arrovesciate sui fianvescodal l’adunanza dei sacerdoti indetta ‘ chi...: è l'atteggiamento che più ricordereche ni diocesa sinodi dei zione prescri vo. Era Perpetua: una posa da battaglia e di di mo o avesser le donne a servizio in casa di preti Atteggiamento certamente un po’ vittoria. ’anni. più di quarant dozzinale, ma che, assecondando e sforzato que: 433. come dicevano le sue amiche deciso parole altrettanto decirealismo con ad luogo darà amiche delle sto pettegolezzo nte conclude tutti i precedenmagistralme se, una delle scene più vivaci del cap. VIII. cos'è accaduto e, nello sapere per sforzi ti invevoglia, che ma 441, Niente, niente: anche un’affettuosa esprime tempo, stesso ce, di dir tutto, anche se la prudenza non del padrone. Sarà pena alla ne partecipazio presto Ben ». cessa di ordinare: « niente! ora voglio sa«se dirlo: a stessa Perpetua però il bisogno dello sfogo prenderà il sopoterla voglio perché premura, per è pere anno suoner » pravvento, e i nuovi « niente motivo abbiamo non noi e »: soccorrere... ben più deboli dei primi: « Quando dico la sincerità.
niente, 0 è niente, o è cosa che non posso
di metterne in dubbio
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« Lei sa bene che, ogni volta che m'ha detto qualche cosa sinceramente, in confidenza, io non ho mai... »
« Brava! come quando... »
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Perpetua s’avvide subito d’aver toccato un tasto falso; onde, cambiando
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subito il tono, « signor padrone, » disse, con voce commossa e da commovere, «io le sono sempre stata affezionata; e, se ora voglio sapere, è per premura, perché vorrei poterla soccorrere, darle un buon parere, sollevarle l’animo... »
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Il fatto sta che don Abbondio aveva forse tanta voglia di scaricarsi del suo doloroso segreto, quanta ne avesse Perpetua di conoscerlo; onde, dopo aver respinti sempre più debolmente i nuovi e più incalzanti assalti di lei, dopo averle fatto più d’una volta giurare che non fiaterebbe, finalmente, con molte sospensioni, con molti ohimè, le raccontò il miserabile caso. Quando si venne al nome terribile del mandante, bisognò che Perpetua proferisse un nuovo e più solenne giuramento; e don Abbondio, pronunziato quel nome, si rovesciò sulla spalliera della seggiola, con un gran sospiro, alzando le mani, in atto insieme di comando e di supplica, e dicendo: « per amor del cielo! » « Delle sue! » esclamò Perpetua. « Oh che birbone! oh che soverchiatore! oh che uomo senza timor di Dio! » « Volete tacere? o volete rovinarmi del tutto? » « Oh! siam qui soli che nessun ci sente. Ma come farà, povero signor padrone? » « Oh vedete, » disse don Abbondio, con voce stizzosa: « vedete che bei pareri mi sa dar costei! Viene a domandarmi come farò, come farò; quasi fosse lei nell’impiccio, e toccasse a me di levatnela. » « Ma! io l’avrei bene il mio povero parere da darle; ma poi... » « Ma poi, sentiamo. »
« Il mio parere sarebbe che, siccome tutti dicono che il nostro arcivescovo è un sant'uomo, e un uomo di polso, e che non ha paura di nessuno, 495
e, quando può fare star a dovere un di questi prepotenti, per sostenere curato, ci gongola; io direi, e dico che lei gli scrivesse una bella lettera, informarlo come qualmente... » « Volete tacere? volete tacere? Son pareri codesti da dare a un ver'uomo? Quando mi fosse toccata una schioppettata nella schiena, liberi! l’arcivescovo me la leverebbe? » 477. il miserabile caso:
la definizione la-
crimosa ti fa vedere il povero prete col terrore ancora negli occhi; ma.ti fa vedere anche il sorriso malizioso del narratore che, nonostante tutto, non riesce più a far la faccia seria col suo personaggio. 482. Delle sue!...: dopo l’istintiva esplosione Perpetua, lì per lì, sembra non sapere neppure lei come dipanar la matassa:
« Ma come farà, povero signor padrone? ». Però l’incertezza è d’un attimo solo, perché subito lei, sì, l'avrebbe bene il suo « povero parere» da dare. 495. io direi, e dico...: il periodo, specie qui, si sviluppa per forme asintattiche e che sembrano nascondere un certo impaccio. Ma
Perpetua il suo parere lo esprime e ribadi-
un pet poDio
sce ben chiaramente con la sua parlata di donna del popolo, che non sa di lettere, ma che ha buon senso e decisione. — Un’osservazione merita, in particolare, quell’accenno all’arcivescovo: un « sant'uomo », sì, ma «uno di polso, che non ha paura di nessuno... »: quanto diverso, pensa Perpetua, dal
suo padrone! Il quale un giorno, proprio di fronte a quel sant'uomo, dovrà ricordarsi con amarezza dei pareri della serva. 498. una schioppettata nella schiena: è stato, è e resterà sempre l’assillo più terribile per don Abbondio e l’elernento determinante della sua condotta. Di fronte ad una simile prospettiva, che la perversità dei tempi poteva facilmente trasformare in realtà,
don Abbondio non ubbidisce ad alcun’altra
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« Eh! le schioppettate non si danno via come confetti: e guai se questi cani dovessero mordere tutte le volte che abbaiano! E io ho sempre veduto che a chi sa mostrare i denti, e farsi stimare, gli si porta rispetto; e, appunto perché lei non vuol mai dir la sua ragione, siam ridotti a segno che tutti vengono, con licenza, a... » « Volete tacere? » «Io taccio subito; ma è però certo che, quando il mondo s’accorge che uno, sempre, in ogni incontro, è pronto a calar le... » « Volete tacere? È tempo ora di dir codeste baggianate? » « Basta: ci penserà questa notte; ma intanto non cominci a farsi male da sé, a rovinarsi la salute; mangi un boccone. »
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« Ci penserò io, » rispose, brontolando, don Abbondio: « sicuro; io ci penserò, io ci ho da pensare. » E s’alzò, continuando: « non voglio prender niente; niente: ho altra voglia: lo so anch'io che tocca a pensatci a me. Ma! la doveva accader per l’appunto a me. » « Mandi almen giù quest’altro gocciolo, » disse Perpetua, mescendo. « Lei sa che questo le rimette sempre lo stomaco. » « Eh! ci vuol altro, ci vuol altro, ci vuol altro. » Così dicendo, prese il lume, e, brontolando sempre: « una piccola bagat-
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tella! a un galantuomo par mio! e domani com’andrà? » e altre simili lamentazioni, s’avviò per salire in camera. Giunto su la soglia, si voltò indietro verso Perpetua, mise il dito sulla bocca, disse, con tono lento e solenne:
« per amor del cielo! » e disparve.
voce che a quella della paura: e per lui i suggerimenti del buon senso — «le schioppettate non si danno via come confetti » — non saranno che « baggianate ». 508. baggianate: sciocchezze, cose da babbei. Il termine, che troveremo altra vol. ta ma con altro significato, deriverebbe da una faba baiana, fava di Baia: una varietà di fava piuttosto grossa e scipita, e quindi facilmente implica un senso dispregiativo. 513-514. a pensarci a me... a me: è il solito ritornello dell’egoista: lui e solo lui è l’oppresso, attaccato da tutti; lui, il galantuomo: « a un galantuomo par mio! ». 516. questo le rimette sempre lo stomaco:
Scheda
è l’ultimo consiglio del buon senso pratico della contadina lombarda: ma per il suo pa-
drone, ora, «ci vuol altro! ». 522. e disparve: è come il calar della tela sul palco di un teatro. E qualcosa di teatraquest’ultima scena, con quell’affannoso lamento « e domani com’andrà? », con quel salir per la scala e fermarsi sulla soglia di camera, con quel voltarsi a dire « pet amor del cielo! » in foro lento e solenne... È una teatralità in cui il comico si mescola all’elegiaco, la satira alla compassione: il suggello più umano ed artistico che si potesse pensare per questa giornata
le. ha veramente
di don Abbondio.
critica al cap. È possibile, se si vuole, distinguere ed elencare già nella complessa struttura di questo primo capitolo (che si rifletterà, in un analogo alternarsi di atteggiamenti, nella più vasta struttura di tutto il romanzo) una serie di momenti successivi, ai quali corrispondono di volta in volta differenti intonazioni di voce dello storico-narratore e differenti» modulazioni del discorso: la minuta
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il luogo in | e affettuosa descrizione del paesaggio, che definisce ione sentaz rappre prima la umili; degli cui si collocherà la storia la ribravi; sui a storic sione digres la io; in atto di don Abbond la seconda presa del racconto che volge rapidamente in dialogo; aggio in digressione costituita dal ritratto psicologico del person il mohe; stretto rapporto con le già accennate condizioni storic quella ti eviden i nologo di don Abbondio che ripropone in termin do psicologia e prepara l'ultimo felicissimo episodio del secon sulle ere insist che sto dialogo del curato con Perpetua. Piutto della differenti soluzioni stilistiche richieste dai distinti piani cronamenti riferi dei tale, creazione poetica, della pittura ambien chistici, della rappresentazione psicologica indiretta, gioverà sot-
raggiunta del linguaggio tutto ta », di un'immediata codiscre a retoric « una intonato nei modi di non si saprebbe in alcun che ggio lingua ; lettori municativa con i e concorso di eleagevol quell’ senza o, divers inare modo immag arsi di momenti di altern quell' senza ivi, rifless e ici menti fantast immediata e obliosa adesione alla materia, fatti e personaggi, e di momenti di ripiegamento meditativo. Perché proprio questa ione alternativa costituisce il tono e la qualità specifica dell'ispiraz un senza mai va non manzoniana, la sua forza fantastica che impegno morale. Si capisce che il lettore moderno potrà poi prediligere, nel complesso, questo o quell'altro momento che più gli riesca persuasivo e congeniale (purché non dimentichi mai che tutti sono ugualmente, se pure variamente, spontanei e necessari nella complessa genesi di quest'arte, e le stesse sezioni più apparentemente inventive suonerebbero, senza quelle altre, meno autentiche e meno profonde). Già i contemporanei del Manzoni accennarono a riserve sui modi che a loro parevano eccessivamente minuti, quasi di pittura fiamminga, della descrizione iniziale, e consimili riserve avanzarono a proposito delle digressioni storiche qui e altrove ricorrenti. E ben s'intende che l'arte tocca il suo vertice e la sua pienezza solo, o soprattutto, nella figura variamente ritratta, direttamente e indirettamente, del curato pavido in balia di forze che lo sovrastano. Don Abbondio può subito assurgere all'universale e al tipico, con quella sua filosofia del quieto vivere, che nasce da una prima e segreta radice di corruttela e infermità dell'energia morale, e si risolve in questo caso, in virtù di simpatia artistica, comicamente, nella rappresentazione dei vari modi della paura (altrove la stessa malattia della volontà potrà, con maggiore ditolineare la fusione perfettamente
stacco, assumere
veste tragica, per esempio
nel personaggio di
Gertrude). Ma, come è chiaro che la simpatia dell'artista non esclude la severità del giudizio morale e non conduce ad un totale oblio fantastico, così pure è evidente che l'invenzione del carattere di don Abbondio non ha nulla di generico, nella sua tipicità, né potrebbe configurarsi in quelle precise forme, nell'intensità delle sue reazioni psicologiche e persino nelle parti-
colarità pittoresche dei suoi gesti e pensieri e parole, se non in rapporto con lo sfondo dell'ambiente e del tempo, che iriferimenti storici e le riflessioni morali vengono via via e tutt'altro che pedantescamente illuminando. Analogo discorso sarà da fare a proposito della vivacissima presentazione dl personaggio minore di Perpetua nell'episodio
capitolo I
31 conclusivo del capitolo, che è una di quelle pagine in cui meglio appare quanto vigorosa e prepotente fosse in quegli anni nel Manzoni la vena inventiva (e come assurda, tra parentesi, la tesi di una iniziale disposizione non poetica, bensì moralistica e didascalica, dello scrittore). Ma la freschezza della rappresentazione non dovrà farci dimenticare il suo valore funzionale nella totalità della struttura: il carattere di Perpetua non è soltanto complementare, artisticamente, a quello di don Abbondio, così da metterlo in risalto e stimolarne le reazioni; la scioltezza di linguaggio, che è anche arditezza di giudizio, nella serva brontolona, contrapponendosi alle infinite cautele e reticenze e intime perplessità dell'amato e vezzeggiato e pur severamente giudicato padrone; la prontezza in lei ad accogliere le proposte del buon senso, di contro alla paura dell'altro, sono sì motivi qui perfettamente incarnati in figure, nei gesti e nel freschissimo dialogato, ma sono anche elementi del giudizio etico che investe la figura del sacerdote infedele al suo ufficio e tutta la condizione storica di una società in cui una figura siffatta può prender forma quasi fatalmente.
Capitolo Il
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Si racconta che il principe di Condé dormì profondamente la notte avanti la giornata di Rocroi: ma, in primo luogo, era molto affaticato; secondariamente aveva già date tutte le disposizioni necessarie, e stabilito ciò che dovesse fare, la mattina. Don Abbondio in vece non sapeva altro ancora se non che l'indomani sarebbe giorno di battaglia; quindi una gran parte della notte fu spesa in consulte angosciose. Non far caso dell’intimazione ribalda, né delle minacce, e fare il matrimonio, era un partito, che non volle neppur mettere in deliberazione. Confidare a Renzo l’occorrente, e cercar con lui qualche mezzo... Dio liberi! « Non si lasci scappar parola... altrimenti... eh72! » aveva detto un di que’ bravi; e, al sentirsi rimbombar quell’ebm! nella mente, don Abbondio, non che pensare a trasgredire una tal legge, si pentiva anche dell’aver ciarlato con Perpetua. Fuggire? Dove? E poi! Quant’impicci, e quanti conti da rendere! A ogni partito che rifiutava, il pover’'uomo si rivoltava nel letto. Quello che, per ogni verso, gli parve il meglio o il men male, fu di 1. Si racconta che il principe di Condé...: lo racconta il grande scrittore e predicatore francese J. Bossuet (1627-1704), che in una orazione funebre per quel principe scrisse: «La notte prima della battaglia, andò ul. timo al riposo e mai l’ebbe più tranquillo. Tanto che la mattina seguente bisognò destare questo nuovo Alessandro da un sonno profondo ». Questo principe, chiamato anche il Gran Condé, è Luigi II di Borbone, figlio del re Enrico II, che al comando dell’esercito francese il 16 maggio del 1643 sconfisse. gli Spagnoli nella pianura di Rocroi nelle Ardenne. —È facile sentire l’umorismo che nasce dal malizioso accostamento di un tanto eroe col povero prete di campagna. Riguardo poi al tono generale dell’inizio del capitolo, uno degli inizi più famosi di tutto il romanzo, dice bene il Russo: « Artisticamente, dopo la chiusa lenta e solenne del capitolo precedente, ricominciare di botto nel tono umile realistico, sarebbe stato passaggio troppo brusco. Da ciò l’elevarsi del tono: la commedia diventa, per un momento, tragedia. [...] Quel tono epico-comico, che era appena accennato quando si comincia a discorrere della passeggiata di don Abbondio, di cui si ama fissare la data cronologica, qui ha il suo pieno sviluppo ».
7-8. neppur mettere in deliberazione: neppure prendere in considerazione: mentre era proprio il partito che la sua posizione gli imponeva di seguire. Ma nemmeno altri partiti don Abbondio sarà capace di escogitare e di affrontare, se non quello di chi niente sa decidere: il rimandare più lontano possibile, o, come si dirà, il guadagnar tempo. Scartate, infatti, tutte le possibilità — compiere a qualunque costo il proprio dovere; informare Renzo e con lui escogitare la strada da seguire; rivolgersi al diretto superiore... —, che altro rimane al parroco che ripiegare sulle menzogne e sull’inganno? Così, e solo così, egli crede di poter sfuggire alla pressione del momento, rimettendo al caso e al domani quelle soluzioni che oggi né sa né vuole tentare. 8. l'occorrente: ciò che accadeva; è forma arcaica e ben lontana dal fiorentino parlato. 13-14. si rivoltava nel letto: immagine vivissima in cui si concretizzano tutti i pensieri della paura: un’immagine che ha sì dell’ironico, ma che rivela anche tanta compassione. 14. il men male: è facile sentire che suona piuttosto... male; meglio sarebbe stato « il meno male ». Ma già abbiamo accennato a questa esagerazione manzoniana nell’eli-
capitolo II 15
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guadagnar tempo, menando Renzo per le lunghe. Si rammentò a proposito, che mancavan pochi giorni al tempo proibito per le nozze; — e, se posso tenere a bada, per questi pochi giorni, quel ragazzone, ho poi due mesi di respiro; e, in due mesi, può nascer di gran cose. — Ruminò pretesti da metter in campo; e, benché gli paressero un po’ leggieri, pur s’andava rassicurando col pensiero che la sua autorità gli avrebbe fatti parer di giusto peso, e che la sua antica esperienza gli darebbe gran vantaggio sur un giovanetto ignorante. — Vedremo, — diceva tra sé: — egli pensa alla morosa; ma io penso alla pelle: il più interessato son io, lasciando stare che sono il più accorto. Figliuol caro, se tu ti senti il bruciore addosso, non so che dire; ma io non voglio andarne di mezzo. — Fermato così un poco l’animo a una deliberazione, poté finalmente chiuder occhio: ma che sonno! che sogni! Bravi, don Rodrigo, Renzo, viottole, rupi, fughe, inseguimenti, grida, schiop-
pettate.
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Il primo svegliarsi, dopo una sciagura, e in un impiccio, è un momento molto amaro. La mente, appena risentita, ricorre all’idee abituali della vita dere le finali, dovuta «alla falsa idea che si trattasse di un diffuso uso fiorentino. Il M,, andato a risciacquare i suoi panni in Arno, dette un po’ troppo ascolto ai suoi consiglieri di Firenze (Gaetano Cioni, G. B. Niccolini, Emilia Luti, ed altri) che non
sempre seppero consigliarlo a. dovere; per fortuna lo aiutò, quasi sempre, il suo fine senso artistico. 16. tempo proibito per le nozze: dalla prima domenica d’Avvento all’Epifania e cioè, secondo il calendario ambrosiano, quell’anno dal 12 novembre al 6 gennaio. Tenendo presente che in quei tempi tale proibizione era rigorosamente osservata, il nostro don Abbondio, se fosse riuscito a rimandare il matrimonio di appena cinque giorni (siamo al 7 novembre)
avrebbe poi avuto ben due mesi di tempo, e, in due mesi, « può nascer di gran cose! ». — Ricordiamo che esisteva anche un secondo periodo di proibizione delle nozze, dalle Ceneri all’ottava di Pasqua. Oggi, per l’uno e l’altro, rimane solo il divieto della celebrazione della Messa propria con la speciale benedizione per gli sposi; ma anche a questo divieto ci sono possibilità di deroghe. 18. Ruminò: sono molte le cose che indica questo verbo: affanno, incubo, soddisfazione, ecc. ecc.; e, da parte del narratore, un senso di nausea. 20. gli avrebbe fatti: li avrebbe fatti; gli per l’accusativo li è di uso arcaico o toscano. 21-22. giovanetto ignorante: un attimo prima l’ha chiamato « ragazzone », ora « giovanetto ignorante »; eppure poche ore prima aveva pensato di Renzo in tutt'altra maniera: «Costui è una testa...; un agnello se nessuno lo tocca, ma se uno vuol contraddirgli... ih! ». È facile capire che cosa può aver determinato così profonda differenza di valutazione: la fiducia di aver scoperto la
salvezza nei due mesi di respiro! È proprio dei paurosi questo cambiare tanto facilmente d’umore e di giudizio, abbattersi ed essere euforici: e don Abbondio ce ne darà altri e più clamorosi esempi. ; 22. morosa: è un lombardismo crudo e volgare (qualcuno pensa che Lucia, a sentirsi chiamar così dal suo curato, chissà che viso rosso avrebbe fatto!): ma è un’espressione significativa, messa qui non sulle labbra ma nel segreto della testa del pover’uomo, a cui
il terrore toglie tante volte il lume della mente. E bene poi si continua nell’altra non meno volgare e cruda: «se tu ti senti il bruciore addosso ». — Tutto il monologo notturno di don Abbondio rende stupendamente la carica emotiva che agita il suo animo meschino. Un confronto col Fermo e Lucia, in cui tutto si riduceva ad un rapido susseguirsi d’immagini astratte e senza vita, mostra uno straordinario progresso artistico. Qui la desolazione e l’incertezza del personaggio sono espresse in un crescendo drammatico e realistico, che ci fa partecipi, anche se sorridenti, del tormento e dell’astuzia dell’uomo. 29. Il primo svegliarsi...: la sentenza è verissima, e vale per ogni persona. Si suol ri| cordare, per esempio, una confessione del Pellico: «Lo svegliarsi la prima notte in carcere è cosa orrenda ». Tuttavia è facile sentire come tutto il discorso, pur nella sua serietà, si attaglia perfettamente, con una sfumatura d’ironia, alla situazione di don Abbondio: le «idee abituali », la « vita tranquilla » e poi, soprattutto, quello « sgarbatamente » ci fanno vedere, è stato ben detto, quasi le boccacce del povero prete. Così la figura di don Abbondio ricompare sulla scena per i prossimi incontri, che saranno, per lui specialmente, tutt’altro che tranquilli. — Perché si possa meglio capire quanto
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î promessi Spost
tranquilla antecedente; ma il pensiero del nuovo stato di cose le si affaccia subito sgarbatamente; e il dispiacere ne è più vivo in quel paragone istan35
taneo. Assaporato dolorosamente questo momento, don Abbondio ricapitolò subito i’suoi disegni della notte, si confermò in essi, gli ordinò meglio, s’alzò, e stette aspettando Renzo con timore e, ad un tempo, con impazienza.
Lorenzo 0, come dicevan'tutti, Renzo non si fece molto aspettare. Appena gli parve ora di poter, senza indiscrezione, presentarsi al curato, v’andò, con la lieta furia d'un uomo di vent'anni, che deve in quel giorno sposare quella che ama. Era, fin dall’adolescenza, rimasto privo de’ parenti, ed eser40 citava la professione di filatore di seta, ereditaria, per dir così, nella sua famiglia; professione, negli anni indietro, assai lucrosa; allora già in decadenza, ma non però a segno che un abile operaio non potesse cavarne di che vivere onestamente. Il lavoro andava di giorno in giorno scemando; ma l’emigrazione continua de’ lavoranti, attirati negli stati vicini da promesse, da privi45. legi e da grosse paghe, faceva sì che non ne mancasse ancora a quelli che rimanevano in paese. Oltre di questo, possedeva Renzo un poderetto che faceva lavorare e lavorava egli stesso, quando il filatoio stava fermo; di modo che, per la sua condizione, poteva dirsi agiato. E quantunque quell’annata fosse ancor più scarsa delle antecedenti, e già si cominciasse a provare una 50 vera carestia, pure il nostro giovine, che, da quando aveva messi gli occhi addosso a Lucia, era divenuto massaio, si trovava provvisto bastantemente, e non aveva a contrastar con la fame. Comparve davanti a don Abbondio, in gran gala, con penne di vario colore al cappello, col suo pugnale del manico
bello, nel taschino de’ calzoni, con una cert’aria di festa e nello stesso tempo
non -disdice affatto nel presentarci un’altra la prosa manzoniana sia piana e fluida, prenota del carattere di Renzo: la laboriosità sentiamo un concetto analogo a quello ora espresso dall’Autore in una frase del Leo- ‘ e la parsimonia. 53. in gran gala...: tutto l’abbigliamento pardi, di pochi anni anteriore a quella manche viene ora indicato, mentre completa con zoniana: « Il misero non è prima desto, che un sorriso d’affetto, da parte dello scrittore, egli ritorna nelle mani dell’infelicità sua» la figura del giovane, inserisce esteriormen(Dal Cantico del gallo silvestre). te anche Renzo nella realtà della società se38. con la lieta furia d’un uomo di vencentesca: una società in cui sfarzo e brat’anni...: l’espressione caratterizza già molto veria erano componenti così essenziali della di questo nuovo personaggio, di cui seguivita da intaccare perfino gli uomini più oneremo a lungo le alterne vicende, ma del sti e più semplici. Sicché questo giovanotto quale non dimenticheremo mai questo pricon le « penne di vario colore al cappello », mo apparire sulla scena. Freschezza, vivacol « pugnale dal manico bello » che spunta cità, un certo che di braveria, e insieme un dal taschino dei calzoni, è, un po’ come quei animo fine — si presenta al curato quando due bravi, un’altra mirabile stampa del segli pare di poter farlo « senza indiscreziocolo. C'è da aggiungere, tuttavia, che l’umine» —; ma anzitutto un cuore caldo, sinle montanaro, filatore e contadino d’un cero e puro, per la donna che vuole sposare, paesotto sperduto, innalzato da qui alla fine quella su cui «aveva messi gli occhi addosso ». del romanzo a protagonista della « storia », 39. privo de’ parenti: orfano; al solito è anche il segno più evidente della rivoluzioparenti significa genitori. ne democratica che il M. ha portato nella no44. negli stati vicini: nel Piemonte e, in stra letteratura ottocentesca, andando ben particolare, nella Repubblica di Venezia: cooltre i propositi affermati dal suo Anonimo. me vedremo per Bortolo, il cugino di Renzo, Lo vedremo più volte questo Renzo, uomo che aveva fatto fortuna andando a Bergamo. meccanico e di piccolo affare, contrapposto 51. massaio: economo, buon amministraa qualificati personaggi: ma nelle vittorie come nelle sconfitte egli resterà il simbolo tore. La parola (che è venuta dal lat. mepiù concreto dell’esaltazione manzoniana dedioev. massarius, derivante da massa = ingli umili. E del resto, con la sua semplice sieme di fondi agricoli) fu in uso special ma profonda fede religiosa, egli sarà anche mente dal Trecento al Cinquecento. Ma qui
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capitolo II
dA di braverìa, comune allora anche agli uomini più quieti. L’accoglimento in-
certo e misterioso di don Abbondio fece un contrapposto singolare ai modi gioviali e risoluti del giovinotto. —
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Che abbia qualche pensiero per la testa, —
argomentò Renzo tra sé;
poi disse: « son venuto, signor curato, per sapere a che ora le comoda che ci troviamo in chiesa. » « Di che giorno volete parlare? »
« Come, di che giorno? non si ricorda che s’è fissato per oggi? » « Oggi? » replicò don Abbondio, come se ne sentisse parlare per la prima volta. « Oggi, oggi... abbiate pazienza, ma oggi non posso. » « Oggi non può! Cos’è nato? » « Prima di tutto, non mi sento bene, vedete. » « Mi dispiace; ma quello che ha da fare è cosa di così poco tempo, e di così poca fatica... » 1 « E poi, e poi, e poi... » « E poi che cosa? »
« E poi c’è degli imbrogli. » « Degl’imbrogli? Che imbrogli ci può essere? » 75
« Bisognerebbe trovarsi nei nostri piedi, per conoscer quanti impicci nascono in queste materie, quanti conti s'ha da rendere. Io son troppo dolce di cuore, non penso che a levar di mezzo gli ostacoli, a facilitar tutto, a far
le cose secondo il piacere altrui, e trascuro il mio dovere; e poi mi toccan de’ rimproveri, e peggio. » « Ma, col nome del cielo, non mi tenga così sulla corda, e mi dica chiaro e netto cosa C'è. » uno dei personaggi con cui il M. meglio darà consistenza poetica ad alcuni dei suoi più alti sentimenti ed ideali di vita cristiana, specialmente quelli della giustizia e della fratellanza. 61. Di che giorno volete parlare?: Da qui incomincia la difesa di don Abbondio e insieme il suo attacco. Ma è tutto un susseguirsi di mosse sbagliate, degne solo di un diplomatico da strapazzo, che neppure sa coprire le sue bugie. Per questo otterrà, in sostanza, proprio l’effetto opposto a quello che vorrebbe; vorrebbe dare a bere tante cose a « quel ragazzone » per mandarlo via tranquillo: e invece, col mutare continuo dei pretesti —
« oggi non posso », « non mi sen-
to bene », «e poi, e poi... », « c'è degli im-. brogli» — non farà che insospettirlo sempre di più. 71-72 ... degli imbrogli. — Degl’imbrogli?: dice un vecchio commentatore, il D’Ovidio,
che dal M. « fin un apostrofo di più o di meno, è usato con intenzione ». Ed è vero, e qui il risultato è molto realistico: le pa-
role di don
Abbondio,
senza
l’apostrofo,
le sentiamo pronunziare lente, strascicate, si
direbbe proprio per tirare il discorso il più in lungo possibile; quelle di Renzo, invece, con l’apostrofo, si sentono più vive, decise, impetuose, di un uomo che non vorrebbe
davvero perdete tempo. Si tratta, dunque, di notazioni psicologiche finissime, che il M. sa rendere con estrema semplicità e vivezza, proprio usando, o meno, soltanto... un apostrofo. 74-75. Io son troppo dolce di cuore..: commenta argutamente il Nardi: «C'è un personaggio che parla in prima persona, ma c'è anche un Autore sempre vigile, sempre un tantino spietato che lo fa parlare. [...] E l'A. sembra dire: la verità è che la tua dolcezza di cuore si chiama, precisamente, mancanza di coraggio; perciò, non pensi che a levar di mezzo l’ostacolo fra te e i bravi, il quale è poi il matrimonio di Renzo, né pensi che a far le cose secondo il piacere di don Rodrigo; ed è vero, verissimo, che trascuri il tuo dovere: ‘ trascuro il mio dovere ?, parole di don Abbondio, ma è impossibile non avvertire, dietto il personaggio, l’A., che le volge a fini d’ironia, ammici cando al lettore ». 78. non mi tenga così sulla corda: non mi tenga nell’incertezza, nel tormento. La espressione si ricollega alla tortura piuttosto usuale della corda, per cui, come abbiamo già detto (Cap. I, n. 121), il suppliziato veniva sollevato a più riprese da terta per mezzo di una corda legata alle sue mani
dietro la schiena.
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« Sapete voi quante e quante formalità ci vogliono per fare un matrimosa : nio in regola? » « Bisogna ben ch’io ne sappia qualche cosa, » disse Renzo, cominciando ad alterarsi, « poiché me ne ha già rotta bastantemente la testa, questi giorni addietro. Ma ora non s'è sbrigato ogni cosa? non s’è fatto tutto ciò che s'aveva a fare? » « Tutto, tutto, pare a voi: perché, abbiate pazienza, la bestia son io, che trascuro il mio dovere, per non far penare la gente. Ma ora... basta, so quel che dico. Noi poveri curati siamo tra l’ancudine e il martello: voi impaziente;
vi compatisco, povero giovane; e i superiori... basta, non si può dir tutto. E noi siam quelli che ne andiam di mezzo. »
« Ma mi spieghi una volta cos'è quest'altra formalità che s'ha a fare, co.
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e.
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me dice; e sarà subito fatta. » « Sapete voi quanti siano gl’impedimenti dirimenti? » « Che vuol ch’io sappia d’impedimenti? » « Error, conditio, votum, cognatio, crimen, Cultus disparitas, vis, ordo, ligamen, honestas, Si sis affinis,... » cominciava don Abbondio, contando sulla punta delle dita. « Si piglia gioco di me? » interruppe il giovine. « Che vuol ch’io faccia del suo latinorum? »
« Dunque, se non sapete le cose, abbiate pazienza, e rimettetevi a chi le sa. » « Orsù!... » 105
« Via, caro Renzo, non andate in collera, che son pronto a fare... tutto quello che dipende da me. Io, io vorrei vedervi contento; vi voglio bene io. Eh!... quando penso che stavate così bene; cosa vi mancava? V’è saltato il grillo di maritarvi... » 89. i superiori: a Renzo, che non sa niente, questi « superiori » dovrebbero apparire l'Arcivescovo, o giù di lì; per don Abbondio, che sa tutto ed ha tanta paura, sono esclusivamente don Rodrigo e i suoi bravi. 93. impedimenti dirimenti: motivi che impediscono o rendono nullo un matrimonio. Di questi impedimenta dirimentia si era occupato in particolare il Concilio di Trento nel 1563, in un tempo perciò non molto lontano dal nostro 1628. Successivamente i nomi dei vari impedimenti erano stati raccolti, nel rituale ambrosiano, in sei versi esametri per facilitarne il ricordo ai chierici. Ma giustamente il M. fa interrompere da Renzo la filastrocca del latizorum (nella parola c’è la stizza del popolano che si sente umiliato e preso in gito). — In sintesi il significato di ciascun impedimento elencato da don Abbondio è il. seguente: « Error, errore di persona o in generale nella sostanza del contratto; conditio, errore sulla condizione della persona; vot47, l'aver fatto un voto, la ‘professione’ religiosa;
cognatio, la parentela, o più precisamente la
consanguineità fra gli sposi, che è ammessa soltanto in certi gradi; crizzen, un delitto o un adulterio dal quale dipenda il patto tra i coniugi; cultus disparitas, differenza di religione; vis, violenza, mancanza di libero consenso; ordo, l’ordine sacro; ligamzen, vincolo matrimoniale già contratto con altri; honestas, motivi di onestà, promessa mancata, che impedisce il matrimonio coi consanguinei di primo grado della persona a cui s'è mancato di parola; si sis affinis, l'affinità tra uno degli sposi e i parenti dell’altro... » (Pistelli). 106-107. V’è saltato il grillo di maritarvi: una sciocchezza più grossa, in quel momento, in quel giorno, don Abbondio difficilmente poteva dirla a Renzo. Ed è una volgare offesa per un uomo, come il nostro giovane, che intende l’amore e il matrimonio con tanta onestà e serietà. Da qui la sua reazione sdegnosa: «Che discorsi son questi, sigror #20? ». Allora al curato non resta che far macchina indietro: « Dico per dire... ». Ma capite che don Abbondio in questo duello oratorio già si sente vincito-
re, perché lui sa di leggi e di latino.
capitolo II
b/
« Che discorsi son questi, signor mio? » proruppe Renzo, con un volto
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tra l’attonito e l’adirato.
« Dico per dire, abbiate pazienza, dico per dire. Vorrei vedervi contento. »
«In somma... »
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_ «In somma, figliuol caro, io non ci ho colpa; la legge non l’ho fatta io. E, prima di conchiudere un matrimonio, noi siam proprio obbligati a far molte e molte ricerche, per assicurarci che non ci siano impedimenti. » « Ma via, mi dica una volta che impedimento è sopravvenuto? »
« Abbiate pazienza, non son cose da potersi decifrare così su due piedi. Non ci sarà niente, così spero; ma, non ostante, queste ricerche noi le dobbiam fare. Il testo è chiaro e lampante: antequam matrimonium denunciet... » 120 « Le ho detto che non voglio latino. » « Ma bisogna pur che vi spieghi... » « Ma non le ha già fatte queste ricerche? » « Non le ho fatte tutte, come avrei dovuto, vi dico. » « Perché non le ha fatte a tempo? perché dirmi che tutto era finito? per125 ché aspettare... » « Ecco! mi rimproverate la mia troppa bontà. Ho facilitato ogni cosa per servirvi più presto:
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ma... ma ora mi son venute... basta, so io. »
« E che vorrebbe ch’io facessi? » « Che aveste pazienza per qualche giorno. Figliuol caro, qualche giorno non è poi l’eternità: abbiate pazienza. » « Per quanto? » — Siamo a buon porto, — pensò fra sé don Abbondio; e, con un fare più manieroso che mai, « via, » disse: « in quindici giorni cercherò,... pro-
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CUrerò... » « Quindici giorni! oh questa sì ch'è nuova! S'è fatto tutto ciò che ha
voluto ‘lei; s'è fissato il giorno; il giorno arriva; e ora lei mi viene a dire che aspetti quindici giorni! Quindici... » riprese poi, con voce più alta e stizzosa, stendendo il braccio, e battendo il pugno nell’aria; e chi sa qual diavoleria avrebbe attaccata a quel numero,
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se don Abbondio
non l’avesse in-
terrotto, prendendogli l’altra mano, con un’amorevolezza timida e premurosa: « via, via, non v’alterate, per amor del cielo. Vedrò, cercherò se, in una settimana... » «E a Lucia che devo dire? » 133. in quindici giorni...: è il culmine del119. antequam matrimonium denunciet: l’astuzia calcolatrice di don Abbondio. Quesi ’; onio far le denuncie di matrim ma ‘ pridi gli permetterà di parare la naturast’'uscita ° cioè i, cazion pubbli dette tratta delle così di Renzo e di mostrare tutta la reazione le tenuto delle comunicazioni che il parroco è nel ridurre la richiesta ad una generosità sua da oni matrim sui zione a fare alla popola il « ragazzone », per quecosì e settimana: enza celebrare, in modo che chi è a conosc appagato, in un modo andrà ne se volta, sta glie» nti dirime i iment di eventuali « imped o nell’altro. ne dia tempestiva notizia. 143. E a Lucia che devo dire?: ci sembra 128. E che vorrebbe ch’io facessi?: è il nota più dolce e melanconica di tutto il la primo segno del cedimento di Renzo, che quella che meglio svela l’animo buodialogo, di e falso di ancora non può capire quanto to di Renzo, che soffre soinnamora e disonesto vi sia in tutte le chiacchiere del no che soffrirà la sua Luquello per prattutto reaginon e suo parroco. Per questo cede Abbondio è, questa don di cia. La risposta sce: la reazione verrà, e violenta, quando volta, pronta e sicura: lui, ora che si sente
avrà scoperto l’inganno.
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« Ch’è stato un mio sbaglio. » « E i discorsi del mondo? » « Dite pure a tutti, che ho sbagliato io, per troppa furia, per troppo buon cuore: gettate tutta la colpa addosso a me. Posso parlar meglio? via, per una settimana. »
« E poi, non ci sarà più altri impedimenti? »
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« Quando vi dico... »
« Ebbene: avrò pazienza per una settimana; ma ritenga bene che, passata questa, non m’appagherò più di chiacchiere. Intanto la riverisco. » E così detto, se n’andò, facendo a don Abbondio un inchino men profondo del solito, e dandogli un’occhiata più espressiva che riverente. Uscito poi, e camminando di mala voglia, per la prima volta, verso la casa della sua promessa, in mezzo alla stizza, tornava con la mente su quel colloquio; e sempre più lo trovava strano. L'accoglienza fredda e impicciata di don Abbondio, quel suo parlare stentato insieme e impaziente, que’ due occhi grigi che, mentre parlava, eran sempre andati scappando qua e là, come se avesser avuto paura d’incontrarsi con le parole che gli uscivan di bocca, quel farsi quasi nuovo del matrimonio così espressamente concertato, e sopra tutto quell’accennar sempre qualche gran cosa, non dicendo mai nulla di chiaro; tutte queste circostanze messe insieme facevan pensare a Renzo che ci fosse sotto un mistero diverso da quello che don Abbondio aveva voluto far credere. Stette il giovine in forse un momento di tornare indietro, per metterlo alle strette, e farlo parlar più chiaro; ma, alzando gli occhi, vide Perpetua che camminava dinanzi a lui, ed entrava in un orticello pochi passi distante dalla casa. Le diede una voce, mentre essa apriva l’uscio; studiò il passo, la raggiunse, la ritenne sulla soglia, e, col disegno di scovar qualche cosa di più positivo, si fermò ad attaccar discorso con essa.
« Buon giorno, Perpetua: io speravo che oggi si sarebbe stati allegri insieme. »
« Ma! quel che Dio vuole, il mio povero Renzo. » « Fatemi un piacere: quel benedett'uomo del signor curato m’ha impa-
salvo, non ha tentennamenti: le dica pure che ha sbagliato il curato, che la colpa è sua. Una bugia in più — e anche un po’ di vergogna, se c'è — valgono bene una schioppettata. 152. Intanto la riverisco: il tono deciso del commiato rivaluta, in un certo senso, la figura di Renzo. Ci fa sentire che il giovane, se ha ceduto questa volta, lo ha fatto per rispetto e per fiducia; ma non sarebbe disposto a cedere un’altra volta. È ciò che ci dice, ancor più chiaramente di qualunque parola, quell’« occhiata più espressiva che riverente ». 156-157. tornava... su quel colloquio: in questo e nel successivo periodo assistiamo ad un procedimento molto spesso seguito dal M.: il tornare o direttamente o attraverso il pensiero dei suoi personaggi, ma sempre con acuta indagine psicologica, «sulle scene prima rappresentate, nell’intento di
scrutare più a fondo possibile il cuore umano ed arrivare ad una maggiore chiarificazione di fatti o di persone. 158-159. que’ due occhi grigi: il M. è sempre parco nel presentare gli aspetti fisici dei suoi personaggi. Quando lo fa, generalmente, riverbera in quelle note esteriori altre note interioti. È il caso di questi « occhi grigi », che così bene rivelano smarrimento, tremore, insincerità; per tale corrispondenza, colta con tanta acutezza, il ritratto perde ogni punta caricaturale e si posa su un piano poetico più alto di quello della scena precedente. 171. io speravo che oggi...: Renzo sa avviare con grande naturalezza, e senza destar sospetti, il colloquio. E naturalissima, ma già estremamente rivelatrice, è la sconsolata risposta di Perpetua, specialmente con quel compassionevole accento: «il mio povero
Renzo ».
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stocchiate certe ragioni che non ho potuto ben capire: spiegatemi voi meglio perché non può o non vuole maritarci oggi. »
« Oh! vi par egli ch'io sappia i segreti del mio padrone? »
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cin Eiho detto io, che c’era mistero sotto, — pensò Renzo; e; per tirarlo in luce, continuò: « via, Perpetua; siamo amici; ditemi quel che sapete, aiutate un povero figliuolo. » « Mala cosa nascer povero, il mio caro Renzo. » « È vero, » riprese questo, sempre più confermandosi ne’ suoi sospetti; e, cercando d’accostarsi più alla questione, « è vero, » soggiunse, « ma tocca ai preti a trattar male co’ poveri? » « Sentite, Renzo; io non posso dir niente, perché... non so niente; ma quello che vi posso assicurare è che il mio padrone non vuol far torto, né a voi né a nessuno; e lui non ci ha colpa. » « Chi è dunque che ci ha colpa? » domandò Renzo, con un cert’atto trascurato, ma col cuor sospeso, e con l’orecchio all’erta. « Quando vi dico che non so niente... In difesa del mio padrone, posso parlare; perché mi fa male sentire che gli si dia carico di voler far dispiacere a qualcheduno. Pover’uomo! se pecca, è per troppa bontà. C’è bene a questo mondo de’ birboni, ide’ prepotenti, degli uomini senza timor di Dio... »
— Prepotenti! birboni! — pensò Renzo: — questi non sono i supetiori. « Via, » disse poi, nascondendo a stento l’agitazione crescente, « via, ditemi chi è. »
« Ah! voi vorreste farmi parlare; e io non posso parlare, perché... non
so niente: quando non so niente, è come se avessi giurato di tacere. Potreste
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darmi la corda, che non mi cavereste nulla di bocca. Addio; è tempo perduto
per tutt’e due. » Così dicendo, entrò in fretta nell’orto, e chiuse l’uscio.
Renzo, rispostole con un saluto, tornò indietro pian piano, per non farla
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accorgere del cammino che prendeva; ma, quando fu fuor del tiro dell’orecchio della buona donna, allungò il passo; in un momento fu all’uscio di don Abbondio; entrò, andò diviato al salotto dove l’aveva lasciato, ve lo trovò, e corse verso lui, con un fare ardito, e con gli occhi stralunati.
« Eh! eh! che novità è questa? » disse don Abbondio. « Chi è quel prepotente, » disse Renzo, con la voce d’un uomo ch'è ri-
175. non ho potuto ben capire: anche qui Renzo è furbo: non dice che il curato gli ha taciuto qualcosa, ma che è stato lui a non aver capito abbastanza. E Perpetua cade ancora nella trappola e prima parla di «segreti », poi esce nella gran confessione che è « mala cosa nascer poveri », ed infine arriverà a dire che in questo mondo ci sono purtroppo dei « birboni », dei « prepotenti... »: sicché a Renzo non mancherà che conoscere un nome, il nome di quel prepotente che non vuole che lui sposi Lucia. E intanto il M., con una scena di vivace reali-
na al solito supplizio della corda, in uso molto frequente a quei tempi. (Cfr. n. 78). 206. con un fare ardito...: Renzo, che durante tutto il colloquio con Perpetua aveva saputo nascondere, con tanta diplomazia,
ogni segno esterno del suo crescente turba-
mento, qui, com'è naturale, esplode apertamente. Si suole tuttavia osservare una sfumatura psicologica: mentre il «fare ardito» è segno di braveria e di violenza, gli «occhi stralunati » indicano l’angoscia interiore del galantuomo, trascinato ai modi risoluti contro la sua stessa natura. 20. Chi è quel prepotente: Renzo va dismo, attraverso una serie di botte e riche non ammette sposte animate e dinamiche, completa la ritto all’obiettivo: è chiaro Abbondio lo don E inganni. ed indugi più lege presentazione del carattere pettegolo verrà confessione la e presto: ben capirà gero della serva. »! cavadenti del tanaglie le « sotto... 200. darmi la corda: torturarmi. Si accen-
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soluto d’ottenere una risposta precisa, « chi è quel prepotente che non vuol i ch’io sposi Lucia? »
« Che? che? che? » balbettò il povero sorpreso, con un volto fatto in un
istante bianco e floscio, come un cencio che esca del bucato. E, pur brontolando, spiccò un salto dal suo seggiolone, per lanciarsi all’uscio. Ma Renzo, che doveva aspettarsi quella mossa, e stava all’erta, vi balzò prima di lui, girò la chiave, e se la mise in tasca. « Ah! ah! parlerà ora; signor curato? Tutti sanno i fatti miei, fuori di me. Voglio saperli, per bacco,08 anch'io. Come si chiama colui? » Dee « Renzo! Renzo! per carità, badate a quel che fate; pensate all’anima vostra. »
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« Penso che lo voglio saper subito, sul momento. » E, così dicendo, mise,
forse senza avvedersene, la mano sul manico del coltello che gli usciva dal taschino. « Misericordia! » esclamò con voce fioca don Abbondio.
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« Lo voglio sapere. » « Chi v'ha detto... » « No, no; non più fandonie. Parli chiaro e subito. » « Mi volete morto? »
« Voglio sapere ciò che ho ragion di sapere. » 230
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«Ma se parlo, son morto. Non m'ha da premere la mia vita? » « Dunque parli. » Quel « dunque » fu proferito con una tale energia, l'aspetto di Renzo divenne così minaccioso, che don Abbondio non poté più nemmen supporre la possibilità di disubbidire. « Mi promettete, mi giurate, » disse « di non parlarne con nessuno, di non dir mai...? »
« Le prometto che fo uno sproposito, se lei non mi dice subito il nome
di colui. »
A quel nuovo scongiuro, don Abbondio, col volto, e con lo sguardo di
chi ha in bocca le tanaglie del cavadenti, proferì: « don... » 213. spiccò un salto...: la scena ha un che di felino. Forse una tale agilità non ce la saremmo aspettata nel vecchio curato « bianco e floscio come un cencio che esca di bucato ». È il terrore che fa fare questo ed altro: e non solo ad un pover’uomo come il nostro don Abbondio, del quale avremo occasione di vedere qualcosa di simile nella scena del tentativo del matrimonio clandestino (Cap. VII). — Ma ora è l’arte del M. che dobbiamo osservare: quel suo saper accostare tragedia e commedia — il tragico dei gesti di Renzo; il comico delle parole, del volto, dei movimenti di don Abbondio — in modo che, mentre l’atteggiamento di un personaggio dà risalto a quello dell’altro, contemporaneamente le punte estreme della minaccia si stemperano nella satira della paura, e certi moti grotteschi si smorzano nella serietà del momento. 218-219. pensate all’anima vostra: a Renzo deve premere l’« anima »: ma a lui, il
curato, preme soprattutto la « vita ». L’ironia è manifesta, ma non sapremmo dire se amara o gioviale, in una situazione come
questa. 230. Dunque parli: è il culmine, diremmo oggi, dell’escalation di Renzo, il quale, più per istinto naturale e per ira che non per
calcolo mentale, con i gesti e il timbro della voce ha impresso alle sue parole un tono sempre più deciso ed inequivocabile, almeno: per don Abbondio. E questi, messo ora di fronte, senza possibilità di scampo, al pericolo lontano dei bravi e a quello sovrastante di Renzo, non potrà fare altro, come sempre, che cercar di sottrarsi al male più vicino. 239. chi ha in bocca le tanaglie...: la scena va prendendo, ormai, un andamento sempre più umoristico. Lo scrittore, portati i suoi personaggi al culmine della tensione, ora che tutto sta per risolversi nella confessione non più dilazionabile, vuol ricondurre
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capitolo II 240
«Don? » ripeté Renzo, come per aiutare il paziente a buttar fuori il
resto; e stava curvo, con l’orecchio chino sulla bocca di lui, con le braccia tese, e i pugni stretti all’indietro. « Don Rodrigo! » pronunziò in fretta il forzato, precipitando quelle po-
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che sillabe, e strisciando le consonanti, parte per il turbamento, parte perché, rivolgendo pure quella poca attenzione che gli rimaneva libera, a fare una transazione tra le due paure, pareva che volesse sottrarre e fare scomparir la parola, nel punto stesso ch’era costretto a metterla fuori. « Ah cane! » urlò Renzo. « E come ha fatto? Cosa le ha detto per...? » « Come eh? come? » rispose, con voce quasi sdegnosa, don Abbondio, il quale, dopo un così gran sagrifizio, si sentiva in certo modo divenuto creditore. « Come
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eh? Vorrei che la fosse toccata a voi, come è toccata a me,
che non c’entro per nulla; in capo. » E qui si fece a nel discotrere, accorgendosi e che fin allora era stata
che certamente non vi sarebber rimasti tanti grilli dipinger con colori terribili il brutto incontro; e, sempre più d’una gran collera che aveva in corpo, nascosta e involta nella paura, e vedendo nello
stesso tempo ‘che Renzo, tra la rabbia e la confusione, stava immobile, col
capo basso, continuò allegramente: « avete fatta una bella azione! M°’avete reso un bel servizio! Un tiro di questa sorte a un galantuomo, al vostro curato! in casa sua! in luogo sacro! Avete fatta una bella prodezza! Per cavar260
mi di bocca il mio malanno, il vostro malanno! ciò ch’io vi nascondevo per prudenza, per vostro bene! E ora che lo sapete? Vorrei vedere che mi faceste...! Per amor del cielo! Non si scherza. Non si tratta di torto o di ragione; si tratta di forza. E quando, questa mattina, vi davo un buon parere... il racconto su quel comico che sente nel fondo di tanto nostro umano affannarsi. E veramente comico è ora il povero prete, che trema con gli occhi sbarrati di fronte... « alle tanaglie del cavadenti »; ma non meno comico è Renzo tutto proteso sul sud... paziente, con quell’« orecchio chino sulla bocca di lui» e i « pugni stretti all’indietro ». — È facile notare, anche qui, il gusto mimico del M., e la sua capacità di fissare in un gesto il dramma e la personalità di ‘un individuo.
244. strisciando le consonanti: altra argu-
ta nota ironica: don Abbondio, -anche nell’attimo stesso in cui si confessa, vorrebbe vanificare la sua confessione. Abbiamo l’im-
pressione che ormai il M., narratore e spettatore, vuol divertirsi insieme con noi. 250-251. si sentiva... creditore: c’è, sì, anche qui, dell'umorismo, ma un umorismo che si farà più amaro man mano che la considerazione si sposterà dalla paura dell’egoista (che, per aver fatto il sacrificio di parlare, ha solo la sensazione del torto ricevuto e non gli passa neppure per la mente di essere stato lui a fare il torto più grave) al fondo di tutta la questione: la cupezza dei tempi, quando nei rapporti fra gli uomini « non si tratta di torto o di ragione: si tratta di forza »,
257. continuò allegramente: può sembrare strano, ma invece è tanto vero. C'è, in questo avverbio, come poi in tutto il racconto e in tutte le considerazioni del curato, qualcosa del ghigno sardonico di chi, pur contro voglia, si è levato un gran peso dallo stomaco, e prova la soddisfazione di uno sfogo che ormai non ha più motivo di rite-
gno. Può tornare alla mente quella parte del ritratto di don Abbondio, nel cap. I, in cui si diceva che il nostro uomo con le persone che conosceva e sapeva incapaci di far del male sfogava talvolta «il mal umore lungamente represso », cavandosi « anche lui la voglia d’essere un po’ fantastico, e di gridare a torto ». 259. luogo sacro!: com’è eloquente e ridicolo questo don Abbondio, che nel momento stesso in cui conculca i diritti degli altri si erge a geloso difensore dei suoi: «in casa sua, in luogo sacro ». Ma accanto a tutto ciò, nel fondo delle cose che il cu-
rato continua a dire c’è la triste serietà che nasce dalla constatazione dei mali del mondo e delle colpe degli uomini. 262-263. Non si tratta... si tratta di forza: il De Michelis accosta questo pensiero alla dolente conclusione cui giunge Adelchi nella tragedia omonima: «Non resta Che far
torto, o patirlo. Una feroce Forza il mon-
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eh! subito nelle furie. Io avevo giudizio per me e per voi; ma come si fa?
Aprite almeno; datemi la mia chiave. » « Posso aver fallato, » rispose Renzo, con voce raddolcita verso don Abbondio, ma nella quale si sentiva il furore contro il nemico scoperto: « posso
aver fallato; ma si metta la mano al petto, e pensi se nel mio caso... »
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Così dicendo, s'era levata la chiave di tasca, e andava ad aprire. Don Abbondio gli andò dietro, e, mentre quegli girava la chiave nella toppa, se gli accostò, e, con volto serio e ansioso, alzandogli davanti agli occhi le tre prime dita della destra, come per aiutarlo anche lui dal canto suo, « giurate alb meno... » gli disse. « Posso aver fallato; e mi scusi, » rispose Renzo, aprendo, e disponendosi ad uscire. « Giurate... » replicò don Abbondio, afferrandogli il braccio con la mano tremante. « Posso aver fallato, » ripeté Renzo, sprigionandosi da lui; e partì in furia, troncando così la questione, che, al pari d’una questione di letteratura o di filosofia o d’altro, avrebbe potuto durar dei secoli, giacché ognuna delle parti non faceva che replicare il suo proprio argomento. « Perpetua! Perpetua! » gridò don Abbondio, dopo avere invano richiamato il fuggitivo. Perpetua non risponde: don Abbondio non sapeva più in che mondo si fosse. È accaduto più d’una volta a personaggi di ben più alto affare che don Abbondio, di trovarsi in frangenti così fastidiosi, in tanta incertezza di partiti,
che parve loro un ottimo ripiego mettersi a letto con la febbre. Questo ripiego, egli non lo dovette andare a cercare, perché gli si offerse da sé. La paura del giorno avanti, la veglia angosciosa della notte, la paura avuta in
do possiede e fa nomarsi Dritto », e aggiunge: « Vero è che lì Adelchi muore, e di lì don Abbondio si adatta a vivere; ma l'accostamento fa intendere fino a che punto il M., se condannava la resa del sacerdote alla forza del mondo, condivideva il suo
pessimismo mondano: cioè, nelle contraddizioni del comico personaggio, ne sentiva la tragedia ». 266. Posso aver fallato: per tre volte Renzo ripeterà queste parole: sono come una formula fissa, oltre la quale il giovane, ora, non sa né vuole andare. Ma in questo ritornello c’è tutto uno stato d’animo: abbattimento, difesa della propria azione, sospensione angosciosa di fronte al futuro... 271-272. le tre prime dita della destra: un atto di giuramento: le tre prime dita spiegate simboleggiano la Santissima Trinità invocata. 279. questione di letteratura... il confronto non è, obiettivamente, molto calzante; tuttavia l’allusione alle polemiche fra gli intellettuali (come, ai tempi del M., quella lunghissima e insistente fra i classici e i romantici) serve a scaricare completamente la tensione delle ultime pagine, e a ripor-
tare la narrazione in un clima medio; dal quale, a sua volta, potrà armonicamente rispuntare il comico che si diffonderà sulla scena con la nuova comparsa di Perpetua. 282. Perpetua! Perpetua!: già un’altra volta (al rientro dall’incontro coi bravi) avevamo udito questo grido sulle labbra di don Abbondio: ma allora c’era solo una invocazione, il bisogno di una « compagnia fidata »; ora, insieme con la paura e il tormento, c'è, soprattutto, la stizza di essere stato tradito proprio da quella persona fdata. 285. È accaduto...: il paragone, col suo tono pacato e disteso, col pensiero a « personaggi di ben più alto affare », richiama alla mente quello del principe di Condé. Quindi, con un altro spunto di fine ironia, la giornata del nostro curato si chiude nel bonario accostamento ad uomini di lui tanto più grandi; i quali, talvolta, non sapendo come disbrigare le loro matasse, ricorrono alle malattie diplomatiche e politiche. Anche questo riferimento riporta in quel clima di wmredietas artistica, che costituisce il substrato di tutto il romanzo.
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quel momento, l’ansietà dell’avvenire, fecero l’effetto. Affannato e balordo, si ripose sul suo seggiolone, cominciò a sentirsi qualche brivido nell’ossa, si
guardava le unghie sospirando, e chiamava di tempo in tempo, con voce tremolante e stizzosa: « Perpetua! » La venne finalmente, con un gran cavolo sotto il braccio, e con la faccia tosta, come se nulla fosse stato. Risparmio ali lettore i lamenti, le condoglianze, le accuse, le difese, i « voi sola potete aver parlato », e i « non ho parlato », tutti i pasticci in somma di quel colloquio. Basti dire che don Abbondio ordinò ‘a Perpetua di metter la stanga all’uscio, di non aprir più per nessuna cagione, e, se alcun bussasse, risponder dalla finestra che il curato era andato a letto con la febbre. Salì poi lentamente le scale, dicendo, ogni tre scalini, « son servito»; e si mise davvero a letto, dove lo lasceremo. Renzo intanto camminava a passi infuriati verso casa, senza aver determinato quel che dovesse fare, ma con una smania addosso di far qualcosa di strano e di terribile. I provocatori, i soverchiatori, tutti coloto che, in qualunque modo, fanno torto altrui, sono rei, non solo del male che commettono, ma del pervertimento ancora a cui portano gli animi degli offesi. Renzo era un giovine pacifico e alieno dal sangue, un giovine schietto e nemico d’ogni insidia; ma, in que’ momenti, il suo cuore non batteva che per l’omicidio, la sua mente non era occupata che a fantasticare un tradimento. Avrebbe voluto correre alla casa di don Rodrigo, afferrarlo per il collo, e... ma gli veniva in mente ch’era come una fortezza, guarnita di bravi al di dentro, e guardata al di fuori; che i soli amici e servitori ben conosciuti v’entravan liberamente, senza essere squadrati da capo a piedi; che un artigianello sconosciuto non vi potrebb’entrare senza un esame, e ch’egli sopra tutto... egli vi sarebbe forse troppo conosciuto. Si figurava allora di prendere il suo
schioppo, d’appiattarsi dietro una siepe, aspettando se mai, se mai colui
venisse a passar solo; e, internandosi, con feroce compiacenza, in quell’immaginazione, si figurava di sentire una pedata, quella pedata, d’alzar chetamente la testa; riconosceva lo scellerato, spianava lo schioppo, prendeva la mira,
zo in furia: ma quale e quanta diversità 290. Affannato e balordo: il M., maestro in tante cose, lo è in particolare nella scel- fra questi « passi infuriati» e la « lieta furia» di un’ora prima! ta e nell’accostamento degli aggettivi; ce ne 304. I provocatori, i soverchiatori...: è danno un esempio questi due, che rendono una delle sentenze in cui l’animo onesto del morale e fisico sfacelo così evidente lo M. ci appare più dolorosamente pensoso sulprete. povero il ridotto stato è cui in la cattiveria degli uomini e sul male del gran un con 293. La venne finalmente, mondo. Udremo non di rado, in cadenze produce frase questa che comico il cavolo: gravi come quella di ora, la voce di questa è davvero irresistibile, ed è merito sia della È saggezza manzoniana. popoe na fiorenti ente tipicam a sua struttur 315-316. Si figurava... il suo schioppo... Jlaresca (con quel /4 per lei in principio di siamo sicuri che si tratterà solo di fantasie, accoiabile mparegg quell’i ‘discorso), sia di perché già sappiamo chi è Renzo. Eppure la stamento del gran cavolo con la faccia tosta vivacità del racconto ci fa seguire commossi «come se nulla fosse accaduto ». 300-301. ...e si mise davvero a letto: la il cuore sospeso e la mente sconvolta del analogia con la fine del giorno precedente è giovane nel fantasticare tradimenti, appiattamenti, schioppettate, fughe... Osserva, fra evidente: e noi, come allora, seguiamo con l’altro, il valore di quelle due ripetizioni nico commiserazione e sorriso questo malinco — « aspettando se mat, se mai colui venisse ter dal disfatto prete, povero scomparire del a passare... », e « sentire una pedata, quella rore di oggi e di domani. pedata...» —: hai la percezione di come sal302. a passi infuriati: anche al suo pri ga la febbre vendicativa di Renzo. mo apparir sulla scena avevamo visto Ren
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sparava, lo vedeva cadere e dare i tratti, gli lanciava una maledizione, e correva sulla strada del confine a mettersi in salvo. — E Lucia? — Appena questa parola si fu gettata a traverso di quelle bieche fantasie, i migliori pensieri a cui era avvezza la mente di Renzo, v’entrarono in folla. Si rammentò degli ultimi ricordi de’ suoi parenti, si rammentò di Dio, della Madonna e de’ santi, pensò alla consolazione che aveva tante volte provata di trovarsi senza delitti, all’orrore che aveva tante volte provato al racconto d’un omicidio; e si risvegliò da quel sogno di sangue, con ispavento, con rimorso, e insieme con una specie di gioia di non aver fatto altro che immaginare. Ma il pensiero di Lucia, quanti pensieri tirava seco! Tante speranze, tante promesse, un avvenire così vagheggiato, e così tenuto sicuro,\e quel giorno così
sospirato! E come, con che parole annunziarle una tal nuova? E poi, che partito prendere? Come farla sua, a dispetto della forza di quell’iniquo potente? E insieme a tutto questo, non un sospetto formato, ma un’ombra tormentosa gli passava per la mente. Quella soverchieria di don Rodrigo non poteva esser mossa che da una brutale passione per Lucia. E Lucia? Che avesse data a colui la più piccola occasione, la più leggiera lusinga, non era un pensiero che potesse fermarsi un momento nella testa di Renzo. Ma n’era informata? Poteva colui aver concepita quell’infame passione, senza che lei se n’avvedesse? Avrebbe spinte le cose tanto in là, prima d’averla tentata in qualche modo? E Lucia non ne aveva mai detta una parola a lui! al suo promesso!
Dominato da questi pensieri, passò davanti a casa sua, ch’era nel mezzo 321. E Lucia?: commovente e naturalissimo è questo comparire improvviso dell’immagine della donna amata nell’animo buono ma sconvolto del giovane. E già dalla sola domanda — « E Lucia? » — ne presentiamo le conseguenze. Lucia inizia, qui, quell’opera di purificazione e di rasserenamento
che vedremo connaturata con la sua presenza. Questa sarà la sua forza e il suo potere: portare a sentimenti onesti i più biechi propositi: e questo il suo motivo poetico più vivo. — Sentendo così il valore del personaggio, si può pensare che la scelta. del suo nome sia stata fatta dal M. anche in relazione con la Lucia dantesca, « nimica di ciascun crudele » e simbolo della Grazia illuminante. 323-324. Si rammentò... de’ suoi parenti, ... di Dio...: ossetva giustamente il Getto come sia bello questo passare della mente di Renzo da Lucia alla propria famiglia, a Dio, alla Madonna e ai santi. E aggiunge: « E si osservi intanto come Dio venga qui significativamente nominato per la prima volta nel romanzo, Il pensiero di Dio non è mai passato per la mente di don Abbondio o di Perpetua. Il suo nome, che è comparso implicitamente sulle labbra blasfeme dei bravi (di uno di essi almeno), compare anche sulle labbra di don Abbondio e di Perpetua in espressioni proverbiali che non impegnano il sentimento religioso: « Dio “libe-
ri»; «uomo senza timor di Dio »; « quel che Dio vuole ». Soltanto nel giovane contadino Dio diventa preoccupante pensiero, voce interiore. Ma si veda appunto come sorga in Renzo il pensiero di Dio, al seguito cioè del pensiero di Lucia e di quello dei suoi cari scomparsi. Se, come avrebbe potuto immaginare uno spirito di meno sottile sensibilità, si fosse affacciato alla mente di Renzo per primo il pensiero di Dio, ne sarebbe risultata una situazione meno spontanea, più convenzionale e oleografica, Il primo pensiero che sorge nell’innamorato Renzo, nel cuore ferito proprio dal crollare del suo sogno d’amore, è ben naturale che sia quello di Lucia, che con il delitto sarebbe perduta per sempre. Ed è pieno di verità quel movimento del pensiero da Lucia agli ‘ ultimi ricordi de’ suoi parenti’, a quel patrimonio morale ed affettivo che è come tutelato ed esaltato dall’amore ». 340-341. ... al suo promesso: ecco il nuovo dramma di Renzo, ma con quanta delicatezza sentito ed espresso! Nessun dubbio sul conto di Lucia, ché il solo supporlo sarebbe offenderla; ma soltanto il triste pensiero che l’amata abbia tenuto qualcosa segreto per sé, insieme con la delicata preoccupazione di quanto ella, da sé, possa aver sofferto. 342-343. nel mezzo del villaggio, ... in fondo: è opportuno che il lettore, per la mi-
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del villaggio, e, attraversatolo, s’avviò a quella di Lucia, ch’era in fondo, anzi un po’ fuori. Aveva quella casetta un piccolo cortile dinanzi, che la separava 345 dalla strada, ed era cinto da un murettino. Renzo entrò nel cortile, e sentì un misto e continuo ronzìo che veniva da una stanza di sopra. S’immaginò che sarebbero amiche e comari, venute a far corteggio a Lucia; e non si volle mostrare a quel mercato, con quella nuova in corpo e sul volto. Una fanciulletta che si trovava nel cortile, gli corse incontro gridando: « lo sposo! 350 lo sposo! »
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_< Zitta, Bettina, zitta! » disse Renzo. « Vieni qua; va su da Lucia, tirala in disparte, e dille all’orecchio... ma che nessun senta, né sospetti di nulla, ve’... dille che ho da parlarle, che l’aspetto nella stanza terrena, e che venga subito. » La fanciulletta salì in fretta le scale, lieta e superba d’avere una com-
mission segreta da eseguire. Lucia usciva in quel momento tutta attillata dalle mani della madre. Le amiche si rubavano la sposa, e le facevan forza perché si lasciasse vedere: e lei s'andava schermendo, con quella modestia un po’ guerriera delle contadine, facendosi scudo alla faccia col gomito, chinandola sul busto, e aggrottando i lunghi e neri sopraccigli, mentre però la bocca s’apriva al sorriso. I neri e giovanili capelli, spartiti sopra la fronte, con una bianca e sottile dirizzatura, si ravvolgevan, dietro il capo, in cerchi moltiplici di trecce, tragliore comprensione dello svolgimento di vari fatti che accadranno nel villaggio, si fissi in mente la dislocazione qui e altrove accennata: la canonica si trova in fondo al paese, la casa di Renzo wel mezzo, quella di Lucia in fondo dalla parte opposta, ed anzi « un po’ fuori ». Si tenga anche presente che la casetta di Lucia dà sulla strada, ha davanti un « piccolo cortile», e questo è cinto da un « murettino ». 348. mercato: il ciarlare delle comari intorno a Lucia. Di per sé la parola non è molto felice, perché esprime un senso di disprezzo; si può perdonare, pensando al fastidio che quel « misto e continuo ronzio » procura a Renzo oppresso da tanta tristezza. 349-350. « Lo sposo! lo sposo! »: la graziosa figurina di Bettina — il M. dipinge con tanto affetto, se pur con brevissimi segni, i bambini — è già per buona parte in questo grido festoso: poi balza tutta nel suo salire « in fretta » le scale, « lieta e superba » per la missione «segreta ». E c’è un nome più adatto di « Bettina » per rendere, con un solo soffio di voce, il vibrare di questa creatura innocente? 354, lieta e superba: è una nota psicologica verissima: i fanciulli sono felici quando si mostra di aver fiducia in loro. Il superba suggerisce il ricordo di un bel verso del Carducci, ove si parla di un fanciulletto che « con piccolo passo di gloria » andava superbo dell’amore materno (Sogno d'estate).
356. Lucia usciva... tutta attillata....: Lucia ci appare ora per la prima volta nel racconto. Sentiamo subito con quanto affetto
il M. segua e contempli la cara figura, che resterà sempre al centro di ogni sua attenzione. È stato detto che con essa il M. ha realizzato, nell’arte come nella vita, il motivo del grande salmo biblico Deposwit potentes de sede et exaltavit bumiles; aggiungiamo che con Lucia il M. ha anche idealizzate le sublimi virtù femminili che egli ammirò nella sua sposa, Enrichetta Luigia Blondel. Enrichetta, ha scritto G. Salvadori (Il dramma reale di A. M.) per il M. fu «la Lucia nel significato che questo nome ha nel grande dramma di Dante: da luce. La portatrice della luce, che col solo suo sostegno e le poche parole, con la sincerità dell’amore vero spirante dalla sua persona, e dei puri affetti che le parlano sul viso, con la schiettezza custodita dall’alito di Dio, fa distinguere il vero dal falso nella confusione mascherata del mondo; che fa distinguere chiaramente il bene dal male nell’incertezza della coscienza. [...] Ma anche le altre note di carattere e i difetti (come una coscienza a volte troppo severa, l’ostinazione, i silenzi e le tacite tristezze), il Manzoni li tolse dalla sua compagna, che, secondo la sua testimonianza [nella dedica dell’ Adelchi], ‘con le affezioni coniugali e la sa‘pienza materna poté serbare un animo verginale’ ». — Si osservi, infine, che l’espressione dalle mani della madre ricorda un’altra sposa manzoniana, Ermengartda (nell’Adelchi) che era stata. presa da Carlo « bella e pura dalle man materne ». 362. dirizzatura: scriminatura, linea che segna la spartizione dei capelli (bianca, a
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passate da lunghi spilli d’argento, che si dividevano all’intorno, quasi a guisa 365
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de’ ‘raggi d’un’aureola, come ancora usano le contadine nelMilanese. Intorno
al collo aveva un vezzo di granati alternati con bottoni d’oro a filigrana: portava un bel busto di broccato a fiori, con le maniche separate e allacciate da bei nastri: una corta gonnella di filaticcio di seta, a pieghe fitte e minute, due calze vermiglie, due pianelle, di seta anch'esse, a ricami. Oltre a questo, ch'era l’ornamento particolare del giorno delle nozze, Lucia aveva quello
quotidiano d’una modesta bellezza, rilevata allora e accresciuta dalle varie
affezioni che le si dipingevan sul viso: una gioia temperata da un turbamento leggiero, quel placido accoramento che si mostra di quand’in quando sul volto delle spose, e, senza scompor la bellezza, le dà un carattere particolare. La piccola Bettina si cacciò nel crocchio, s’accostò a Lucia, le fece intendere accortanfente che aveva qualcosa da comunicarle, e le disse la sua parolina all’orecchio. « Vo un momento,
e torno, » disse Lucia alle donne; e scese in fretta.
Al veder la faccia mutata, e il portamento inquieto di Renzo, « cosa c’è? » disse, non senza un presentimento di terrore. 380
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« Lucia! » rispose Renzo, « per oggi, tutto è a monte; e Dio sa quando potremo esser marito e moglie. » « Che? » disse Lucia tutta smarrita. Renzo le raccontò brevemente la storia di quella mattina: ella ascoltava con angoscia: e quando udì il nome di don Rodrigo, « ah! » esclamò, arrossendo e tremando, « fino a questo segno! » « Dunque voi sapevate...? » disse Renzo. « Pur troppo! » rispose Lucia; « ma a questo segno! »
« Che cosa sapevate? » « Non mi fate ora parlare, non mi fate piangere. Corro a chiamar mia madre, e a licenziar le donne: bisogna che siam soli. » 390
Mentre ella partiva, Renzo susurrò: « non m’avete mai detto niente ». « Ah, Renzo! » rispose Lucia, rivolgendosi un momento, senza fermarsi.
Renzo intese benissimo che il suo nome pronunziato in quel momento, con
quel tono, da Lucia, voleva dire: potete voi dubitare ch’io abbia taciuto se
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non per motivi giusti e puri? Intanto la buona Agnese (così si chiamava la madre di Lucia), messa -in causa della pelle che appare sotto); il termine più diffuso è divisa. 365. granati: pietre rosse, di scarso valore. 366. broccato: tessuto piuttosto pesante e di un certo lusso, generalmente decorato con vari disegni: quello di Lucia, « a fiori ». 371. una gioia temperata... quel placido accoramento...: è il momento più sublime di tutto il ritratto, quello che, con sensibilità meravigliosa, fonde la dolcezza di sempre col turbamento della grande attesa. — Questo ritratto raccolto e discreto, nel quale pochi cenni fisici creano soprattutto un'immagine psicologica e morale, è stato delineato dal M. con grande cura, e diffondendo intorno alla fanciulla un alone
commovente
di purezza
e di candore.
È
naturale che molti critici del passato (e»del presente), desiderando, in conformità di un
loro gusto romanzesco, una Lucia più donna passionale, non abbiano compreso, o voluto comprendere, l'impegno e la poesia del M., inteso a forgiare una creatura del nostro mondo comune, sì, ma tutta sublimata da un’eccezionale coscienza morale e da un altissimo afflato religioso. 375. la sua parolina: osservate quel sua: quant’accortezza nella piccina, quale affettuosa contemplazione nello scrittore! 384. arrossendo e tremando: tante volte avremo occasione di scorgere sul volto di. Lucia rossore e tremito, esterna espressione di un’anima sensibilissima. 391. Ah, Renzo!: spesso basta una parola, un nome solo, a dire tanto e tutto. ime qui, e come altrove. 395-396. in sospetto e in curiosità: sono due elementi, il secondo specialmente, che già fissano Agnese.
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sospetto e in curiosità dalla parolina all’orecchio, e dallo sparir della figlia, era discesa a veder cosa c’era di nuovo. La figlia la lasciò con Renzo, tornò
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alle donne radunate, e, accomodando l'aspetto e la voce, come poté meglio, disse: « il signor curato è ammalato; e oggi non si fa nulla ». Ciò detto, le salutò tutte in fretta, e scese di nuovo.
Le donne sfilarono, e si sparsero a raccontar l’accaduto. Due o tre andaron fin all’uscio del curato, per verificar se era ammalato davvero. « Un febbrone, » rispose Perpetua dalla finestra; e la trista parola, riportata all’altre, troncò le congetture che già cominciavano a brulicar ne’ loro
cervelli, e ad annunziarsi tronche e misteriose ne’ loro discorsi. 399. oggi non si fa nulla: il tono di Lucia è netto e deciso. Quando la conosceremo meglio, sapremo quale forza d’animo e
chiarezza d’intuito si nascondono nella sua fragilità di fanciulla. Del resto, anche in questi momenti lo sta dimostrando: nel modo di parlare a Renzo, nel non abbandonarsi a moti inconsulti di turbamento, nella naturalezza con cui si rivolge alle donne... 403. Un febbrone: mirabili la battuta e la chiusa di capitolo. Come per la finale del primo capitolo, anche qui sembra di assistere al calar del sipario sulla scena di un teatro. Ma c’è differenza: là il sipario calava sulla pena di una sola persona, qui sulla vita d’un intero villaggio, rappresentato da quelle donne curiose, che,
Scheda
dopo le tronche e misteriose congetture, non potranno fare altro che diffondere la « trista parola ». Si ha la sensazione di un progredire del mondo e dell’arte del poeta verso orizzonti sempre più vasti e complessi; e veramente con ogni capitolo conosceremo genti nuove e problemi nuovi. — Ecco ora come finiva il capitolo nella prima stesura del roînanzo, Fermo e Lucia; era un modo sbrigativo e incolore: «La società si disciolse: la madre seguì la figlia per ansietà e per curiosità di saper tutto, e le donne uscirono per poter verificare il fatto, e per far loto congetture. Ma la verità del fatto le troncò tutte. Fermo seppe allora dalle donne gli antecedenti che noi racconteremo nel seguente capitolo » (I, 11).
i
critica al cap. Il La struttura è forse meno
di questo capitolo, a paragone
del precedente,
complessa, ma certamente più compatta e serrata;
e tutta risolta com'è in rappresentazione diretta, quasi senza pause riflessive, anzi quasi tutta in dialogo vivo, è specchio evidente dell'intensità e dell'urgenza con cui la situazione poetica operava nella fantasia dello scrittore traducendosi naturalmente nella concretezza e nel movimento incalzante delle vicende e nell'umanità e verità dei personaggi. | due grandi colloqui fra don Abbondio e Renzo, e quello più breve, ma non meno attento, con Perpetua sono tra le prime e più robuste prove della sapienza con cui Manzoni maneggia il difficile strumento del dialogo, senza ombra di artificio, ma anche senza nulla di dispersivo e di gratuito, in modo che ogni battuta sia funzionale e aggiunga un tratto, un particolare, una nota alla delineazione in atto di una psicologia. Si veda intanto come qui si completi, acquistando in evidenza, il ritratto del curato. Il tono della rap-
i promessi spost
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presentazione resta fondamentalmente comico; il che serve a mediare e temperare tutt'insieme la drammaticità inerente ai fatti e il rigore morale del giudizio. Ma, pur attraverso la comicità degli atteggiamenti e delle parole in cui si esplica la mediocre tattica di piccole astuzie, di reticenze, di menzogne di don Abbondio, vien fuori il fondo più tristo e serio del suo carattere, la viltà, quelli che nella prima redazione del romanzo erano detti più esplicitamente i « bassi sentimenti » del povero prete. Quella viltà che, nell'incontro con i bravi, si mostrava per così dire nel suo aspetto passivo, così da suscitare quasi la pietà del lettore, qui appare invece nel suo risvolto attivo, e a guardar bene più ripugnante, che è poi quello della rivalsa del debole sul più debole: quando il fiele esacerbato « da tanti bocconi amari inghiottiti in silenzio » trovava modo di sfogarsi con « persone che egli conosceva ben bene per incapaci di far male» e « cavarsi anche lui la voglia di essere un po' fantastico, e gridare a torto ». Occorre saper cogliere in tutto il comportamento del personaggio questa nota profonda sottesa alla vivacità comica: il vizio della volontà, che determina le distorsioni e le ambiguità del « sistema » e si risolve alla fine in un totale sovvertimento delle ragioni morali; che è comico appunto per quel che d’'imprevedibile è nel suo improvviso contrapporsi a un canone
di norme
prefissate e di giudizi consacrati
e in contrasto con le idealità solenni, ma un po' astratte, far valere i dati di una psicologia elementare, l'abietta ma insopprimibile realtà della paura; ma al tempo stesso si sottrae alla pura sfera del comico per riportarsi sotto il segno di una indagine psicologica severa e spietata. AI centro del capitolo, tuttavia, elemento sempre presente e unificatore dei diversi episodi, sta il nuovo personaggio di Renzo, tratteggiato con quell'amore e finezza di disegno sapiente e ricco di sfumature, che l'autore sente di dovere qui ed altrove al protagonista della sua storia. La figura prende rilievo nella contrapposizione netta con quella del suo ambiguo interlocutore, accentuando, nel confronto con un mondo ostile qui impersonato in don Abbondio, le qualità positive della natura popolana e contadina che egli rappresenta: la bontà generosa e schietta, l'istinto della giustizia, la religiosità semplice e non artefatta, la freschezza non corrotta dei sentimenti. La battaglia che Renzo combatte,
e di cui
appaiono
qui
le prime
avvisaglie,
contro
i
soprusi e le prepotenze dei signori, contro l'ingiustizia di quelli che hanno fatto la legge e l'adoperano secondo i loro fini e il loro capriccio a danno dei poveri, contro la boria e l'abilità stregonesca di quelli che san leggere e scrivere e servirsi a tempo del latino dei decreti e dei canoni, è una battaglia profondamente seria in cui s'incarna, in uno dei suoi aspetti fondamentali, la nota polemica che presiede alla prima ispirazione del romanzo: il sentimento della giustizia, il cristianesimo autentico, la disposizione umana e non umanistica del Manzoni. E perciò Renzo è un personaggio tipico, al quale l'autore si accosta (come all'altro che qui compare brevemente e di scorcio, Lucia) con
affetto e riverenza
e con
quella pietà, che era cosa
nuova
allora nel quadro di una realtà sociale e di una tradizione letteraria ancor tutta chiusa e aristocratica. D'altra parte il distacco di
condizione e di Cultura, che persiste tra l’autore e il suo perso-
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capitolo II
naggio, fa sì che il tipo non cada mai nel generico e che la pietà non si tramuti in adesione sentimentale. Il mondo degli umili conserva tutte le sue caratteristiche, i suoi limiti e le sue debolezze, che per altro non scadono mai a materia di comicità e tanto meno di caricatura. Si veda come qui l'indole generosa e istintivamente giusta del popolano sia portata con naturalezza a maturare un proposito di vendetta e di sangue, e come con altrettanta naturalezza quel proposito venga superato in nome di una religiosità che non ha nulla di astratto, anzi si cala in una semplice e dimessa realtà di concreti sentimenti. Così, fin dal suo primo apparire, Renzo riesce la figura più lieta e franca, la più cordiale e convincente forse, perché la più connaturata alle radici della sua ispirazione, che il Manzoni abbia saputo inventare.
Capitolo III
Lucia entrò nella stanza terrena, mentre Renzo stava angosciosamente in-
formando Agnese, la quale angosciosamente lo ascoltava. Tutt'e due si volsero a chi ne sapeva più di loro, e da cui aspettavano uno schiarimento, il
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quale non poteva essere che doloroso: tutt'e due, lasciando travedere, in mezzo al dolore, e con l’amore diverso che ognun d’essi portava a Lucia, un cruccio pur diverso perché avesse taciuto loro qualche cosa, e una tal cosa. Agnese, benché ansiosa di sentir parlare la figlia, non poté tenersi di non farle un rimprovero. « A tua madre non dir niente d’una cosa simile! » « Ora vi dirò tutto, » rispose Lucia, asciugandosi gli occhi col grembiule.
« Parla, parla! — Parlate, parlate! » gridarono a un tratto la madre e lo sposo. « Santissima Vergine! » esclamò Lucia: « chi avrebbe creduto che le cose potessero arrivare a questo segno! » E, con voce rotta dal pianto, raccontò come, pochi giorni prima, mentre tornava dalla filanda, ed era rimasta indietro dalle sue compagne, le era passato innanzi don Rodrigo, in compagnia 1-2. angosciosamente... angosciosamente...: la ripetizione dell’avverbio non solo mette bene in risalto l’affanno delle due persone, ma anche la verità della situazione psicologica per cui, quando c’è compartecipazione di affetti, l'angoscia di chi parla si comunica a chi ascolta. 4. travedere: meglio avrebbe detto intravedere. 10. gridarono: anche questo non è un verbo felice, per quanto voglia esprimere l'intensità della commozione. 10-11. la madre e lo sposo: tutta questa scena iniziale si sviluppa sulla diversità di reazione di Agnese e di Renzo di fronte ad una identica realtà: ed è naturale che, essendo diverso il loro amore verso Lucia, diverso sia anche il loro cruccio. E poi Agnese pensa di avere ancora più diritti sulla figlia: da qui il non sapersi trattenere dal rimprovero: «A tua madre non dir niente d’una cosa simile! ». 13. con voce rotta dal pianto: già poco prima Lucia aveva incominciato a parlare « asciugandosi gli occhi col grembiule», e
sempre continuerà il racconto piangendo, finché le sue parole non saranno troncate «da un violento scoppio di pianto »: e il pianto l’accompagnerà a lungo, e in questo giorno che doveva essere per lei di festa e di nozze, e in tanti altri giorni ancora. Il pianto è una delle note più istintive della fragilità e del pudore di questa creatura, che, proprio così, rivela tutta la sua sensibilità di fanciulla timida e disperata per il sogno d’amore che s'è infranto. 14. mentre tornava dalla filanda...: è una immagine che inserisce la figura di Lucia nella più vasta vita del villaggio. Così tante volte farà il M.: gli basterà un rapido tocco, una sola espressione, per farci sentire tutto lo scenario quotidiano del borgo: già un esempio l’abbiamo avuto con le amiche di Lucia che «si rubavano la sposa» e poi, alcune, eran corse a verificare se don Abbondio fosse ammalato davvero. Altre volte, invece, il villaggio comparirà nel suo complesso, e allora costituirà una folla intera, su cui l’occhio dello scrittore si poserà sempre attento e pensoso.
capitolo III
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d'un altro signore; che il primo aveva cercato di trattenerla con chiacchiere, com ella diceva, non punto belle; ma essa, senza dargli retta, aveva affrettato il passo, e raggiunte le compagne; e intanto aveva sentito quell’altro signore rider forte, e don Rodrigo dire: scommettiamo. Il giorno dopo, coloro s’eran 20 trovati ancora sulla strada; ma Lucia era nel mezzo delle compagne, con gli occhi bassi; e l’altro signore sghignazzava, e don Rodrigo diceva: vedremo, vedremo. « Per grazia del cielo, » continuò Lucia, « quel giorno era l’ultimo della filanda. Io raccontai subito... » , « A chi hai raccontato? » domandò Agnese, andando incontro, non senza 25 un po’ di sdegno, al nome del confidente preferito. « Al padre Cristoforo, in confessione, mamma, » rispose Lucia, con un accento soave di scusa. « Gli raccontai tutto, l’ultima volta che siamo andate insieme alla chiesa del convento: e, se vi ricordate, quella mattina, io andava mettendo mano ora a una cosa, ora a un’altra, per indugiare, tanto che pas30 sasse altra gente del paese avviata a quella volta, e far la strada in compagnia con loro; perché, dopo quell’incontro, le strade mi facevan tanta paura... » Al nome riverito del padre Cristoforo, lo sdegno d’Agnese si raddolcì. « Hai fatto bene,» disse, « ma perché non raccontar tutto anche a tua madre? »
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Lucia aveva avute tare la buona donna, medio; l’altra, di non ria che voleva essere
due buone ragioni: l’una, di non contristare né spavenper cosa alla quale essa non avrebbe potuto trovar rimetter a rischio di viaggiar per molte bocche una stogelosamente sepolta: tanto più che Lucia sperava che
16. un altro signore: è il conte Attilio, cugino di don Rodrigo. Impareremo presto a conoscerne il carattere violento e superficiale, e l’animo veramente maligno e cattivo: una prima presentazione si ha subito dopo con quel suo «rider forte » e « sghignazzare ». 19. scommettiamo: è da questa scommessa, da questo puntiglio, o, come si soleva dire, punto d’onore, che nasceranno tutti i mali di Lucia e dei suoi cari, ed entreranno in azione tanti personaggi. un segno, anche questo, del costume del secolo, che il M. vuol condannare. Nota, a proposito, giustamente, lo Steiner: « Non per una passione che potrebbe avere in sé qualche scusa e qualche bellezza, ma pet un ignobile capriccio, sorretto da un miserabile puntiglio, don Rodrigo perseguita Lucia! Così la violenza si palesa nel più repugnante de’ suoi aspetti, come quella che cerca il male per il male, senza altra scusa che la soddisfazione d’un capriccio passeggero. Vi corrisponde, nella parte storica, la guerra per la successione di Mantova, mossa per gelosia di potere, senza nessuna seria ragione, e condotta e conclusa tra incredibili rovine. Il romanzo è una protesta contro la prepotenza titannica che turba, per le proprie passioni, e anche per più futili motivi, la pace sociale ». 26. padre Cristoforo: è un altro perso-
naggio che conosceremo
fra poco, e la sua figura grandeggerà sempre più nel romanzo. Per il momento ci appare soltanto come il « confidente preferito » di Lucia attraverso il segreto ed il conforto della confessione: ma già intorno al suo nome si diffonde un’aura di profonda ed unanime riverenza. 26-27. un accento soave di scusa: quanta delicatezza in queste parole e nell’animo di Lucia, che ora si scusa con la madre per un segreto che ha mantenuto con lei soltanto per prudenza e per bontà! E, poco più oltre, a questa delicatezza filiale si accompagnerà la dolcezza melanconica verso il fidanzato, a cui la fanciulla parlerà « con quella voce che vuol far riconoscere ad un amico che ha avuto torto ». Sempre la voce .di Lucia è così « soave », dolce e suadente insieme: e tale l’ascoltertemo anche nei momenti più tragici e dolorosi, come, ad esempio, nel lazzeretto (cfr. Cap. XXXVI, n. 171). 31. le strade mi facevan tanta paura...: è un'espressione efficacissima nel rendere il pudore e il tremito di Lucia; ed è una espressione di cui dovremo tener conto in altra situazione, quando, lungo una strada, la vicenda di Lucia toccherà — col rapimento — il suo culmine più tragico (Cap. XX). La strada rimarrà sempre un motivo commovente del romanzo, specie nell’odissea di Renzo, l’altro protagonista.
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le sue nozze avrebber troncata, sul principiare, quell’abbominata persecuzione. Di queste due ragioni però, non allegò che la prima. « E a voi, » disse poi, rivolgendosi a Renzo, con quella voce che vuol far riconoscere a un amico che ha avuto torto: questo? Pur troppo lo sapete ora! »
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«e a voi doveva io parlar di
« E che t'ha detto il padre? » domandò Agnese. « M’ha detto che cercassi d’affrettar le nozze il più che potessi, e intanto stessi rinchiusa: che pregassi bene il Signore; e che sperava che colui, non vedendomi, non si curerebbe più di me. E fu allora che mi sforzai, » proseguì, rivolgendosi di nuovo a Renzo, senza alzargli però gli occhi in viso, e
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DI
arrossendo tutta, « fu allora che feci la sfacciata, e che vi pregai io che procuraste di far presto, e di concludere prima del tempo che s’era stabilito. Chi sa cosa avrete pensato di me! Ma io facevo per bene, ed ero stata consigliata, e tenevo per certo... e questa mattina, ero tanto lontana da pensare... » Qui le parole furon troncate da un violento scoppio di pianto. « Ah birbone! ah dannato! ah assassino! » gridava Renzo, correndo innanzi e indietro per la stanza, e stringendo di tanto in tanto il manico del suo coltello.
« Oh che imbroglio, per amor di Dio! » esclamava Agnese. Il giovine si
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fermò d’improvviso davanti a Lucia che piangeva; la guardò con un atto di tenerezza mesta e rabbiosa, e disse: « questa è l’ultima che fa quell’assassino ».
« Ah! no, Renzo, per amor del cielo! » gridò Lucia. « No, no, per amor
del cielo! Il Signore c’è anche per i poveri; e come facciam del male? » 49. arrossendo tutta: questo rossore, insieme col non alzare «gli occhi in viso » a Renzo, costituisce un’altra delle reazioni esterne, attraverso le quali ora si manifesta. l’interiorità delicata e turbata di Lucia. Ma gli occhi bassi e il rossore sul volto saranno sempre fra le note più caratteristiche della fanciulla, elementi distintivi della sua origine campagnola e di quel dramma: del pudore che è costantemente presente in lei. 49-52. fu allora che... tanto lontana da pensare...: il ritmo incalzante di queste ultime frasi rivolte a Renzo, mentre preannunzia l’inevitabile scoppio di pianto, trivela il tremito dell’affanno interiore, fatto di quella sofferta e segreta vergogna che solo le anime più sensibili, e tale è Lucia, possono provare. 55-56. stringendo... il manico del suo coltello: questa nuova sfuriata di Renzo, la prima che egli fa davanti alla promessa sposa, può richiamare alla mente tante cose, e soprattutto la massima per cui tutti coloro che «fanno torto altrui, sono rei, non solo del male che commettono, ma del pervertimento ancora a cui portano gli animi degli offesi» (Cap. II). Tuttavia anche questa volta, e soprattutto questa volta
che Renzo ha davanti a sé Lucia, non_dubitiamo che il nostro
giovane ben presto
volete che ci aiuti, se
si placherà. — In questa scena si incomincia a notare un elemento tipico della figura di Renzo, e cioè come egli abbia, in un certo senso, una parte inferiore rispetto a quella di Lucia. Le sue parole, infatti, in questo terzo capitolo saranno piuttosto scarse, e spesso inconcludenti: quello invece per cui sovrasterà saranno i gesti nei quali, più che nelle parole, si riveleranno i suoi sentimenti, ora di collera ora di timidezza ora di abbattimento. Tutto questo, come osserveremo altrove, costituirà un’altra manifestazione delle capacità psicologiche ed artistiche del M. 61-62. Il Signore... del male?: in queste due frasi — «Il Signore c'è anche per i poveri », « come volete che ci aiuti, se facciam del male» — c’è tutto il motivo animatore della condotta di Lucia, ed insieme gran parte del pensiero del M. sulla vita e sul comportamento degli uomini. Per la prima frase è opportuno il confronto che si suol fare col famoso verso della Pentecoste « A tutti i figli d’Eva Nel suo dolor pensò », ma precisando che nelle parole della fanciulla c'è più appassionata umanità, in quanto nascono da una realtà personale e sofferta; per la seconda frase è da notare che l’abbandono di Lucia all’assistenza del Signore non significa affatto acquiescenza passiva di fronte all’oppressione
capitolo III
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« No, no, per amor del cielo! » ripeteva Agnese. _« Renzo, » disse Lucia, con un’aria di speranza e di risoluzione più tranquilla: « voi avete un mestiere, e io so lavorare: andiamo tanto lontano, che colui non senta più parlar di noi. » « Ah Lucia! e poi? Non siamo ancora marito e moglie! Il curato vorrà farci la fede di stato libero? Un uomo come quello? Se fossimo maritati,
oh allora...! » Lucia si rimise a piangere: e tutt’e tre rimasero in silenzio, e in un abbattimento che faceva un tristo contrapposto alla pompa festiva de’ loro abiti. « Sentite, figliuoli; date retta a me, » disse, dopo qualche momento, Agnese. « Io son venuta al mondo prima di voi; e il mondo lo conosco un poco.
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Non bisogna poi spaventarsi tanto: il diavolo non è brutto quanto si dipinge. A noi poverelli le matasse paion più imbrogliate, perché non sappiam trovarne il bandolo; ma alle volte un parere, una parolina d’un uomo che abbia studiato... so ben io quel che voglio dire. Fate a mio modo, Renzo; andate a Lecco; cercate del dottor Azzecca-garbugli, raccontategli... Ma non lo chiamate così, per amor del cielo: è un soprannome. Bisogna dire il signor dottor... Come si chiama, ora? Oh to”! non lo so il nome vero:
lo chiaman tutti
a quel modo. Basta, cercate di quel dottore alto, asciutto, pelato, col naso rosso, e una voglia di lampone sulla guancia. » dei violenti, sibbene richiamo convinto a perseverare nella rettitudine della vita, pro-
prio perché il nostro agire sia degno della protezione divina. 68. la fede di stato libero: la dichiarazione, che il curato avrebbe dovuto rilasciare, che i due promessi erano liberi da qualunque impedimento dirimente. Ma don Abbondio non avrebbe avuto tanto coraggio: per lui sarebbe stato lo stesso... « che fare quel tal matrimonio »! 71. un tristo contrapposto...: quanta tristezza in questo contrasto fra una « pompa festiva» da tanto agognata e l’« abbattimento » presente di quegli umili cuori! E da parte del narratore quanta umana pietà per i poveretti e segreta condanna per i sopraffattori. 74. Io sono venuta al mondo prima di
voi...: motivo più volte ricorrente della personalità e dell’autorità di Agnese. La esperienza del mondo e degli uomini la pone, a suo parere, su di un piano ben più alto di quello dei due giovani. Ma non di rado tutta questa sua saggezza antica si rivelerà un fallimento: come ora, al suo primo consiglio. — Il M. scherza con gli uomini furbi: il mondo, vuol dirci, va per ben altre strade da quelle che costoro presumono di conoscere o di fissare. 79. dottor Azzecca-garbugli: sarà una delle macchiette più vivaci di questi primi capitoli del romanzo. Il nome, o meglio il soprannome, la gente glielo aveva appiop-
pato bene: un giorno sentiremo don Rodrigo, preoccupato di come comportarsi con Renzo, dire di lui: «Il dottore non è un’oca; qualcosa che faccia al caso mio saprà trovare, qualche garbuglio da azzeccare a quel villanaccio: altrimenti gli muto nome ». — Alla capacità del M. di scoprire nomi veramente calzanti per i suoi personaggi e tali da renderne la personalità storica, morale e psicologica, abbiamo già accennato a proposito dei nomi di don Abbondio e di Perpetua, e avremo occasione di riparlarne per molti altri casi. Qui, tanto per indicare con quanta cura il M. pensasse a questi nomi, ricordiamo che nel Fermo e Lucia chiamava l’avvocato dapprima dottor Pettola e poi dottor Duplica: un nome, quest’ultimo, particolarmente idoneo ad esprimere la doppiezza così tipica del comportamento del nostro dottore e, per il M., un po’ tipica del comportamento di tutti i legulei. — Osserviamo, infine, come attraverso le parole di Agnese il ritratto di Azzeccagarbugli si completi in una pittura perfetta, che dell’uomo comprende il fisico e il morale: sicché, quando poi costui lo vedremo in azione, fin dal primo istante ci parrà di conoscerlo da sempre. E quando, più tardi, dalle vesti di leguleio lo vedremo passato in quelle di parassita ghiottone e beone, di questa «cima d’uomo » niente ci resterà più fisso nella mente che quel « naso rosso » con la « voglia di lampone sulla guancia ».
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î promessi spost
« Lo conosco di vista, » disse Renzo. ; i « Bene, » continuò Agnese: « quello è una cima d’uomo! Ho visto io più d’uno ch’era più impicciato che un pulcin nella stoppa, e non sapeva dove batter la testa, e, dopo essere stato un’ora a quattr’occhi col dottor Azzeccagarbugli (badate bene di non chiamarlo così!), l’ho visto, dico, ridersene. Pigliate quei quattro capponi, poveretti! a cui dovevo tirare il collo, per il banchetto di domenica, e portateglieli; perché non bisogna mai andar con le mani vote da que’ signori. Raccontategli tutto l’accaduto; e vedrete che vi dirà, su due piedi, di quelle cose che a noi non verrebbero in testa, a pensarci un anno. »
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Renzo abbracciò molto volentieri questo parere; Lucia l’approvò; e Agnese, superba d’averlo dato, levò, a una a una, le povere bestie dalla stìa, riunì le loro otto gambe, come se facesse un mazzetto di fiori, le avvolse e le strinse con uno spago, e le consegnò in mano a Renzo; il quale, date e ricevute parole di speranza, uscì dalla parte dell’orto, per non esser veduto da’ ragazzi, che gli correrebber dietro, gridando: lo sposo! lo sposo! Così, attraversando
i campi o, come dicon colà, i luoghi, se n’andò per viottole, fremerido, ripensando alla sua disgrazia, e ruminando il discorso da fare al dottor Azzeccagarbugli. Lascio poi pensare al lettore, come dovessero stare in viaggio quelle povere bestie, così legate e tenute per le zampe, a capo all’in giù, nella mano d’un uomo il quale, agitato da tante passioni, accompagnava col gesto i pen-
sieri che gli passavan a tumulto per la mente. Ora stendeva il braccio per collera, ora l’alzava per disperazione, ora lo dibatteva in aria, come per mi-
naccia, e, in tutti i modi, dava loro di fiere scosse, e faceva balzare quelle quattro teste spenzolate; le quali intanto s’ingegnavano a beccarsi l’una con l’altra, come accade troppo sovente tra compagni di sventura. 89. quei quattro capponi: son passati alla loro, come tante altre umili cose descritte dal M. con questa prosa, che sembra tanto semplice e modesta, e che pure è tanto attenta e precisa: alla stessa maniera, per esempio, del «cavolo» di Perpetua, che già conosciamo, o delle « noci» di fra Galdino, che fra poco incontreremo. Ma per i polli di Renzo — anzi, sono « capponi », che Agnese, chi sa da quanto tempo, andava ingrassando pet il giorno della festa! — c’è qualcosa di più: essi costituiscono, come vedremo, il motivo più umile, ma non meno eloquente, di tutta la missione di Renzo presso Azzeccagarbugli. 89-90. il banchetto di domenica: è uso ancora in certe nostre campagne fare due banchetti per le nozze: uno il giorno stesso del matrimonio, riservato ai parenti più prossimi e a pochi intimi, l’altro la domenica successiva, più solenne e festoso, quando, tutti, parenti ed amici liberi dal lavoro, possono intervenirvi. Quindi non c’è alcuna contraddizione, come qualche critico ha sostenuto, tra quello che ora afferma Agnese e quello che Renzo poco prima aveva detto a Perpetua: «speravo che oggi si sarebbe stati allegri insieme » (Cap. II). storia, anche
95. superba d’averlo dato: è l’ultima pennellata di questo primo ritratto di Agnese. — Entrata improvvisamente sulla scena, senza nessuno di quei cenni retrospettivi che hanno introdotto altri personaggi, Agnese si è affermata subito con la sua esperienza di popolana, con la prontezza dei suoi ritrovati, coll’affetto profondo verso i suoi giovani. Il M. ne coglierà sempre, con studio attento e con un sorriso leggero, i pensieri, le parole, le azioni, facendone una delle figure più simpatiche e più care di tutto il romanzo. 96. come se facesse un mazzetto di fiori: si vede la mano esperta di Agnese, fiera anche qui di far mostra delle sue virtù; ma si pensa, insieme col M. che compassiona e sorride, alla mala sorte che attende quelle. povere « otto gambe ». 107-108. ... quelle quattro teste spenzolate: in questo capoverso c’è una delle scene più note e famose di tutto il romanzo: una scena, in cui il gesticolare fremente di un uomo e l’agitarsi convulso di quattro bestie esprimono, più di qualunque parola, tutta la tempesta di un cuore angosciato e deluso sotto il peso delle ingiustizie del mondo.
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i Giunto al borgo, domandò dell’abitazione del dottore; gli fu indicata, e
Vvandò. All’entrare, si sentì preso da quella suggezione che i poverelli illet-
terati provano in vicinanza d’un signore e d’un dotto, e dimenticò tutti i di115
scorsi che aveva preparati; ma diede un’occhiata ai capponi, e si rincorò. Entrato in cucina, domandò alla serva, se si poteva parlare al signor dottore. Adocchiò essa le bestie, e, come avvezza a somiglianti doni, mise loro le mani addosso, quantunque Renzo andasse tirando indietro, perché voleva che il dottore vedesse e sapesse ch’egli portava qualche cosa. Capitò appunto mentre la donna diceva: « date qui, e andate innanzi ». Renzo fece un grande inchino:
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il dottore l’accolse umanamente,
con un « venite, figliuolo », e lo
fece entrar con sé nello studio. Era questo uno stanzone, su tre pareti del quale eran distribuiti i ritratti de’ dodici Cesari; la quarta, coperta da un grande scaffale di libri vecchi e polverosi: nel mezzo, una tavola gremita d’allegazioni, di suppliche, di libelli, di gride, con tre o quattro seggiole all’intorno, e da una parte un seggiolone a braccioli, con una spalliera alta e quadrata, terminata agli angoli da due ornamenti di legno, che s’alzavano a foggia di corna, coperta di vacchetta, con grosse borchie, alcune delle quali, cadute da gran tempo, lasciavano in libertà gli angoli della copertura, che s’accartocciava qua e là. Il dottore era in veste da camera, cioè coperto d’una toga ormai consunta, che gli aveva servito, molt’anni addietro, per perorare,
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ne’ giorni d’apparato, quando andava a Milano, per qualche causa d’importanza. Chiuse l’uscio, e fece animo al giovine, con queste parole: « figliuolo, ditemi il vostro caso ». « Vorrei dirle una parola in confidenza. »
119. venite, figliuolo: si ricordi, più tardi, 109. tra compagni di sventura: la conquanto « umanamente » è accolto Renzo. clusione moralistica giunge improvvisa. Ma Ma in quest’accoglienza c’è già, come è non diremo che stona: rientra in quell’armonico susseguirsi di motivi e di ritmi stato ben detto, « l’ipocrisia paterna del mestierante ». Per di più, aggiungiamo, di un diversi, tipici di tante pagine manzoniane. mestierante di quei tempi, di un leguleio Riguardo poi a chi, in pratica, il M. pendel Seicento, quale il M. si dipinge: un sesasse nel fare questo paragone, è facile credere che prima di tutto si riferisse agli colo in cui coloro che avevano a che fare con le leggi erano soltanto dei mascalzoni Italiani del suo e di tanti altri tempi; ma di second’ordine; i potenti, giustizia se la poi, più in generale, anche a tutti quanti facevano da sé; per i poveri e i deboli la ricollegare potremmo allora Ed gli uomini. giustizia non c’era. questo pensiero, per limitarci ad un ben 120. Era questo uno stanzone...: questa noto poeta contemporaneo del M., ad uno pagina, tanto nota, costituisce la prima dedei motivi di fondo della grande Ginescrizione d’interno del romanzo. È un instra leopardiana. 112-113. dimenticò tutti i discorsi... si terno di vecchio studio barocco, ove tutto rincorò: questo passaggio dall’abbattimento .è decrepito, confuso, polveroso. Vi senti alla fiducia è naturalissimo. A Renzo basta l’aria di un mondo passato, sul quale il tempo e l’incuria sembrano aver lasciato soun'occhiata ai suoi capponi per sentirsi pravvivere intatti soltanto i segni del domiaveva », signori que’ «da a posto, perché nante assolutismo: i ritratti dei dodici Cedetto Agnese, « non bisogna mai andar con sari « distribuiti » su tre pareti. V’è dunque, le mani vote». E quest’« occhiata » rivela in questa ricostruzione manzoniana pera noi anche la singolare prontezza dello vasa da un umorismo sottile e pungente, bamossa scrittore nel saper ricavare da una l'impronta di quella che fu l’esistenza d’un a. commedi da gesto un di nale il brio modesto leguleio di provincia, e di quella 115. Adocchiò essa le bestie: i polli continuano ad essere parte importantissima del- che è l’arroganza boriosa dei tempi. 122-123. allegazioni: ‘ allegati’, cioè docule vicende: ora costituiscono il centro di menti legali che si allegano alle pratiche costume di to un indimenticabile quadret giudiziarie. paesano.
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î promessi sposi « Son qui, » rispose il dottore:
« parlate. » E s’accomodò sul seggiolone.
Renzo, ritto davanti alla tavola, con una mano nel cocuzzolo del cappello, che
faceva girar con l’altra, ricominciò: « vorrei sapere da lei che ha studiato... » « Ditemi il fatto come sta, » interruppe il dottore. « Lei m'ha da scusare: noi altri poveri non sappiamo parlar bene. Vorrei dunque sapere... » « Benedetta gente! siete tutti così: in vece di raccontar il fatto, volete interrogare, perché avete già i vostri disegni in testa. » « Mi scusi, signor dottore. Vorrei sapere se, a minacciare un curato, perché non faccia un matrimonio, c’è penale. » — Ho capito, — disse tra sé il dottore, che in verità non aveva capito. — Ho capito. — E subito si fece serio, ma d’una serietà mista di compassione e di premura; strinse fortemente le labbra, facendone uscire un suono inarticolato che accennava un sentimento, espresso poi più chiaramente nelle sue prime parole. « Caso serio, figliuolo; caso contemplato. Avete fatto bene a venir da me. È un caso chiaro, contemplato in cento gride, e... appunto, in una dell’anno scorso, dell’attuale signor governatore. Ora vi fo vedere, e toc-
car con mano. » Così dicendo, s’alzò dal suo seggiolone, e cacciò le mani in quel caos di carte, rimescolandole dal sotto in su, come se mettesse grano in uno staio. « Dov'è ora? Vien fuori, vien fuori. Bisogna aver tante cose alle mani! Ma la dev’esser qui sicuro, perché è una grida d’importanza. Ah! ecco, ecco. » La prese, la spiegò, guardò alla data, e, fatto un viso ancor più serio, esclamò: «il 15 d'ottobre 1627! Sicuro: è dell’anno passato: grida fresca; son quelle che fanno più paura. Sapete leggere, figliuolo? » « Un pochino, signor dottore. » « Bene, venitemi dietro con l’occhio, e vedrete. » E, tenendo la grida sciorinata in aria, cominciò a leggere, borbottando a precipizio in alcuni passi, e fermandosi distintamente, con grand’espressione, sopra alcuni altri, secondo il bisogno: « Se bene, per la grida pubblicata d'ordine del signor Duca di Feria ai 14 di dicembre 1620, et confirmata dall’Illustriss. et Eccellentiss. Signore il 135. con una mano nel cocuzzolo del cappello...: il complesso di inferiorità toglie a Renzo non solo la capacità di parlare ma anche quella di tenere le mani al posto giusto. La mimica rende a perfezionare l’imbarazzo: come poi lo renderanno benissimo anche le parole ingenue e le frasi cerimoniose, tipiche le une e le altre di un uomo di campagna e di un ragazzo perbene, ma ignaro del mondo. 144-145. Ho capito... Ho capito: sì, ha capito proprio tutto il contrario. Abituato com'è ad avere per clienti soltanto dei mascalzoni, crede che la minaccia al curato sia stato Renzo a farla. Su questo equivoco d’ora in avanti correrà, in una pungente ironia, tutto il colloquio fra i due; finché la scoperta della verità farà esplodere l’incontro nell’unico esito possibile. 157. grida fresca: quindi, come dice il
il dottore e come già sapevamo dal discorso
sulle gride contro i bravi (Cap. I), una di quelle che facevano più paura: se pur di paura ne facevano. Questa grida del 15 ottobre 1627 è storica, e sembra, secondo quanto riferisce C. Fabris nelle sue Merzorie manzoniane (1901), che da essa il M. ricevesse l’idea iniziale del romanzo. Mentre, infatti, nelle storie del Ripamonti aveva trovato «gli strani personaggi della Signora di Monza, dell’Innominato, del Cardinal Federigo; la descrizione della carestia e della rivolta di Milano, del passaggio dei Lanzichenecchi e della peste », fu proprio la grida che il dottor Azzeccagarbugli fa vedere a Renzo, e in cui si parla delle violenze che si compivano per impedire qualche matrimonio, che avrebbe spinto il M. « a inventare il fatto dei Promessi Sposi». Si deve quindi porre attenzione soprattutto alla frase se seguano o non seguano matrimonio, e che
Renzo appunto commenta: « È il mio caso ».
capitolo III
57
Signor Gonzalo Fernandez de Cordova, eccetera, fu con rimedii straordinari e rigorosi provvisto alle oppressioni,
concussioni
et atti tirannici che alcuni
ardiscono di commettere contro questi Vassalli tanto divoti di S. M., ad ogni 170
modo la frequenza degli eccessi, e la malitia, eccetera, ha posto in necessità l’Eccell. Sua, eccetera. Onde, col una Giunta, eccetera, ha risoluto che si pubblichi la «E cominciando dagli atti tirannici, mostrando
è cresciuta a segno, che parere del Senato et di presente. l’esperienza che molti,
così nelle Città, come nelle Ville... sentite? di questo Stato, con tirannide
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esercitano concussioni et opprimono i più deboli in varii modi, come in operare che si facciano contratti violenti di compre, d'’affitti... eccetera: dove sei? ah! ecco; sentite: che seguarzo o non seguano matrimonii. Eh? »
« È il mio caso, » disse Renzo. « Sentite, sentite, c'è ben altro; e poi vedremo la pena. Si testifichi, o 180
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non si testifichi; che uno si parta dal luogo dove abita, eccetera; che quello paghi un debito; quell’altro non lo molesti, quello vada al suo molino: tutto questo non ha che far con noi. Ah ci siamo: quel prete non faccia quello che è obbligato per l’uficio suo, o faccia cose che non gli toccano. Eh? » « Pare che abbian fatta la grida apposta per me. » « Eh? non è vero? sentite, sentite: et altre simzili violenze, quali seguono da feudatarii, nobili, mediocri, vili, e plebei. Non se ne scappa: ci son tutti: è come la valle di Giosafat. Sentite ora la pena. Tutte queste et altre simili male attioni, benché siano proibite, nondimeno,
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convenendo
metter mano
a
miggior rigore, S.E., per la presente, non derogando, eccetera, ordina e comanda che contra li contravventori in qualsivoglia dei suddetti capi, o altro simile, si proceda da tutti li giudici ordinarii di questo Stato a pena pecuniaria e corporale, ancora di relegatione o di galera, e fino alla morte... una pic-
cola bagattella! all’arbitrio dell’Eccellenza Sua, o del Senato, secondo la qua-
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lità dei casi, persone e circostanze. E questo ir-re-mis-si-bil-mente e con ogni rigore, eccetera. Ce n’è della roba, eh? E vedete qui le sottoscrizioni: Gonzalo Fernandez de Cordova; e più in giù: Platonus; e qui ancora: Vidit Ferrer: non ci manca niente. » Mentre il dottore leggeva, Renzo gli andava dietro lentamente con l’occhio, cercando di cavar il costrutto chiaro, e di mirar proprio quelle sacrosante parole, che gli parevano dover essere il suo aiuto. Il dottore, vedendo il nuovo cliente più attento che atterrito, si maravigliava. — Che sia matri-
colato costui, — pensava tra sé. « Ah! ah! » gli disse poi: « vi siete però fatto
173. nelle Ville: cioè nei villaggi, nei paesi: e il dottore, che ha riconosciuto in Renzo uno che viene di campagna, insiste nel fargli notare la parola. 178. Sentite, sentite: l’espressione, già
ora ripetuta e più avanti di nuovo ripresa, indica bene l’interessata premura del dottore, che continua a fare sfoggio d’acume e a capire sempre meno di Renzo; il cui atteggiamento e le cui parole, del resto, favoriscono il perdurare dell’equivoco. 186. la valle di Giosafat: tra Gerusalemme e il monte Oliveto, ove, secondo la tradizione nata da una frase del profeta Giaele, nel giorno del giudizio universale si detta sopra,
raccoglieranno tutti gli uomini, i vivi e i morti. 194-196. Gonzalo..., Platonus..., Ferrer: sono, rispettivamente, il Governatore di Milano, il Segretario del Consiglio Segreto, il Gran Cancelliere. L’ultimo, in particolare, lo incontreremo fra non molto; e vedremo che allora (Cap. XIII) Renzo si ricorderà di questo « visto» in fondo alla grida: widit Ferrer. 200-201. Che sia matricolato costui: cioè, un furfante matricolato, di un’abilità straordinaria. L’idea pensata rende bene la meraviglia del dottore di fronte alla condotta di Renzo; poi le cose dette ne accresceranno, ai nostri occhi, la balordaggine.
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Î promessi sposti
tagliare il ciuffo. Avete avuto prudenza: però, volendo mettervi nelle mie
mani, non faceva bisogno. Il caso è serio; ma voi non sapete quel che mi ba205
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sti l'animo di fare, in un’occasione. » Per intender quest’uscita del dottore, bisogna sapere, o rammentarsi che,
a quel tempo, i bravi di mestiere, e i facinorosi d’ogni genere, usavan portare un lungo ciuffo, che si tiravan poi sul volto, come una visiera, all’atto d’affrontar qualcheduno, ne’ casi in cui stimasser necessario di travisarsi, e l’impresa fosse di quelle, che richiedevano nello stesso tempo forza e prudenza. Le gride non erano state in silenzio su questa moda. Comanda Sua Eccellenza (il marchese de la Hynojosa) che chi porterà i capelli di tal lunghezza che coprano il fronte fino alli cigli esclusivamente, ovvero porterà la trezza, 0 avanti o dopo le orecchie, incorra la. pena di trecento scudi; et in caso d’inha-
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bilità, di tre anni di galera, per la prima volta, e per la seconda, oltre la suddetta, maggiore ancora, pecuniaria et corporale, all’arbitrio di Sua Eccellenza.
Permette però che, per occasione di trovarsi alcuno calvo, o per altra ragionevole causa di segnale o ferita, possano quelli tali, per maggior decoro e sanità loro, portare i capelli tanto lunghi, quanto sia bisogno per coprire simili mancamenti e niente di più; avvertendo bene a non eccedere il dovere e pura necessità, per (non) incorrere nella pena agli altri contraffacienti im-
posta. E parimente comanda a’ barbieri, sotto pena di cento scudi o di tre tratti di corda da esser dati loro in pubblico, et maggiore anco corporale, all’arbi-
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trio come sopra, che non lascino a quelli che toseranno, sorte alcuna di dette
trezze, zuffi, rizzi, né capelli più lunghi dell'ordinario, così nella fronte come
dalle bande, e dopo le orecchie, ma che siano tutti uguali, come sopra, salvo
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nel caso dei calvi, o altri difettosi, come si è detto. Il ciuffo era dunque quasi una parte dell'armatura, e un distintivo de’ bravacci e degli scapestrati; i quali poi da ciò vennero comunemente chiamati ciuffi. Questo termine è rimasto e vive tuttavia, con significazione più mitigata, nel dialetto: e non ci sarà forse nessuno de’ nostri lettori milanesi, che non si rammenti d’aver sentito, nella sua fanciullezza, o i parenti, o il maestro, o qualche amico di casa,
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o qualche persona « In verità, da ciuffo in vita mia. « Non facciam riso, tra malizioso
di servizio, dir di lui: è un ciuffo, è un ciuffetto. povero figliuolo, » rispose Renzo, « io non ho mai portato » niente, » rispose il dottore, scotendo il capo, con un sore impaziente. « Se non avete fede in me, non facciam
niente. Chi dice le bugie al dottore, vedete figliuolo, è uno sciocco che dirà
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la verità al giudice. All’avvocato bisogna raccontar le cose chiare: a noi tocca
poi a imbrogliarle. Se volete ch’io v’aiuti, bisogna dirmi tutto, dall’a fino alla
zeta, col cuore in mano, come al confessore. Dovete nominarmi la persona da
205. Per intendere quest’uscita...: si apre qui una parentesi gustosissima sui ciuffi dei bravi. È una pausa intelligente, proprio mentre il dialogo fra Renzo ed Azzeccagatbugli sta per subire la svolta improvvisa, e passare dal comico al drammatico. Il M. ha una tempestività sensibilissima nel creare questi riposi per sé e per il lettore, e nel colorire, pet mezzo di un richiamo stosico, un'età, illuminando scene e personaggi.
239-240. a noi... imbrogliarle: tant'è vero che proprio a lui avevano appioppato il soprannome che sappiamo. Tutta la parlata di Azzeccagarbugli, mentre crea un ritratto fedele delle ciniche arti del leguleio disonesto ed ipocrita, rappresenta anche una pagina di satira feroce e di vivace polemica nei riguardi di una certa condotta di vita e di certi aspetti di un’intera civiltà. Vedremo più avanti ciò che ne penserà don Rodrigo.
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capitolo III
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cui avete avuto il mandato: sarà naturalmente persona di riguardo; e, in questo caso, io anderò da lui, a fare un atto di dovere. Non gli dirò, vedete, ch’io sappia da voi, che v’ha mandato lui: fidatevi. Gli dirò che vengo ad implorar la sua protezione, per un povero giovine calunniato. E con lui prenderò i concerti opportuni, per finir l’affare lodevolmente. Capite bene che, salvando sé, salverà anche voi. Se poi la scappata fosse tutta vostra, via, non mi ri-
tiro: ho cavato altri da peggio imbrogli... Purché non abbiate offeso persona di riguardo, intendiamoci, m’impègno a togliervi d’impiccio: con un po’ di
spesa, intendiamoci. Dovete dirmi chi sia l’offeso, come si dice: e, secondo la condizione, la qualità e l’umore dell’amico, si vedrà se convenga più di tenerlo a segno con le protezioni, o trovar qualche modo d’attaccarlo noi in criminale, e mettergli una pulce nell’orecchio; perché, vedete, a saper ben maneggiare le gride, nessuno è reo, e nessuno è innocente. In quanto al curato, 255 se è persona di giudizio, se ne starà zitto; se fosse una testolina, c’è rimedio
anche per quelle. D’ogni intrigo si può uscire; ma ci vuole un uomo: e il vostro caso è serio, vi dico, serio: la grida canta chiaro; e se la cosa si deve decider tra la giustizia e voi, così a quattr’occhi, state fresco. Io vi parlo da 260
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amico: le scappate bisogna pagarle: se volete passarvela liscia, danari e sincerità, fidarvi di chi vi vuol bene, ubbidire, far tutto quello che vi sarà suggerito. » Mentre.il dottore mandava fuori tutte queste parole, Renzo lo stava guardando con un’attenzione estatica, come un materialone sta sulla piazza guardando al giocator di bussolotti, che, dopo essersi cacciata in bocca stoppa e stoppa e stoppa, ne cava nastro e nastro e nastro, che non finisce mai. Quand’ebbe però capito bene cosa il dottore volesse dire, e quale equivoco avesse preso, gli troncò il nastro in bocca, dicendo: « oh! signor dottore, come l’ha intesa? l’è proprio tutta al rovescio. Io non ho minacciato nessuno; io non fo di queste cose, io: e domandi pure a tutto il mio comune, che sentirà che non ho mai avuto che fare con la giustizia. La bricconeria l'hanno fatta a me; e vengo da lei per sapere come ho da fare per ottener giustizia; e son ben contento d’aver visto quella grida. » « Diavolo! » esclamò il dottore, spalancando gli occhi. « Che pasticci mi fate? Tant'è; siete tutti così: possibile che non sappiate dirle chiare le cose? » « Ma mi scusi; lei non m’ha dato tempo: ora le racconterò la cosa, com'è.
Sappia dunque ch’io dovevo sposare oggi, » e qui la voce di Renzo si commosse, « dovevo sposare oggi una giovine, alla quale discorrevo, fin da quest’estate; e oggi, come le dico, era il giorno stabilito col signor curato, e s’era 267-268. oh! signor dottore, come l’ha intesa?: le parole di Renzo che, dopo aver fissato a lungo e con «attenzione estatica » il dottore che parlava e parlava, si risolve finalmente ad interromperlo, sono davvero di una comicità straordinaria, in virtù di quel tono trasognato del montanaro di fronte all’abbaglio dell’uomo di scienza. Ma il M. qui, come altrove, è pungente non tanto coi suoi poveri personaggi d’« umile. affare », quanto con quei falsi dotti, di cui Azzeccagarbugli è il rappresentante, che della loro
cultura, limitata e presuntuosa,
si servono
allo scopo d’ingannare e d’opprimere i deboli. Anche per questo aspetto nei Promessi Sposi lo spirito dell’Illuminismo settecentesco s'incontra con l’ideale cristiano della fraternità e della dignità umana. 269. il mio comune: il mio paese. 278. alla quale discorrevo: con la quale facevo all’amore. Osserva la commozione di Renzo e pensa — come egli stesso dice — che proprio in quel giorno avrebbe dovuto sposarsi con quella ragazza.
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Î promessi sposti
disposto ogni cosa. Ecco che il signor curato comincia a cavar fuori certe
scuse... basta, per non tediarla, io l’ho fatto parlar chiaro, com'era giusto; e lui m'ha confessato che gli era stato proibito, pena la vita, di far questo matrimonio. Quel prepotente di don Rodrigo... » | « Eh via! » interruppe subito il dottore, aggrottando le ciglia, aggrinzando il naso rosso, e storcendo la: bocca, « eh via! Che mi venite a rompere il capo con queste fandonie? Fate di questi discorsi tra voi altri, che non sapete misurar le parole; e non venite a farli con un galantuomo che sa quanto valgono. Andate, andate; non sapete quel che vi dite: io non m’impiccio con
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ragazzi; non voglio sentir discorsi di questa sorte, discorsi in aria. » « Le giuro... » « Andate, vi dico: che volete ch’io faccia de’ vostri giuramenti? Io non c'entro: me ne lavo le mani.» E se le andava stropicciando, come se le lavasse davvero. « Imparate a parlare: non si viene a sorprender così un galantuomo. » « Ma senta, ma senta, » ripeteva indarno Renzo: il dottore, sempre gridando, lo spingeva con le mani verso l’uscio; e, quando ve l’ebbe cacciato,
aprì, chiamò la serva, e le disse: « restituite subito a quest'uomo quello che ha portato: io non voglio niente, non voglio niente. » Quella donna non aveva mai, in tutto il tempo ch’era stata in quella casa, eseguito un ordine simile: ma era stato proferito con una tale risoluzione, che non esitò a ubbidire. Prese le quattro povere bestie, e le diede a Renzo, con un’occhiata di compassione sprezzante, che pareva volesse dire: bisogna che tu l’abbia fatta bella. Renzo voleva far cerimonie; ma il dottore fu inespugnabile; e il giovine, più attonito e più stizzito che mai, dovette riprendersi le vittime rifiutate, e tornar al paese, a raccontar alle donne il bel
costrutto della sua spedizione. Le donne, nella sua assenza, dopo essersi tristamente levate il vestito del-
le feste e messo quello del giorno di lavoro, si misero a consultar di nuovo, Lucia singhiozzando e Agnese sospirando. Quando questa ebbe ben parlato 283....don Rodrigo...: c'è qualcosa di fatale quando si pronunzia questo nome. Ri-
cordiamo l’effetto che la parola aveva fatto su don Abbondio nell’incontro coi bravi: ora l’effetto non è dissimile, perché Azzeccagarbugli è dello stampo del vecchio curato nella paura e nell’ossequio servile. 287. un galantuomo: dunque anche Azzeccagarbugli è, o pensa di essere, un galantuomo, e lo ripete per due volte. Ma è di quei galantuomini di cui abbiamo già visti certi esempi (i bravi e don Abbondio), e di cui troveremo altri begli esemplari in quel Ferrer e in quel conte Attilio, sui quali abbiamo da poco saputo qualcosa, e in altri personaggi ancora. Si tratta, quindi, di una parola usata, di solito, coi più ironici sottintesi. 298. non voglio niente: questo rifiuto dei quattro bei capponi, bisogna pur riconoscerlo, è un gesto di pudore, anche se è,det-
tato più dalla paura e dall’interesse che non
dall’onestà. Come capiremo meglio, quando vedremo Azzeccagarbugli commensale sod: disfatto e rubicondo nel palazzo di don Rodrigo (Cap. V). 305. vittime rifiutate: anche loro, le povere bestie, come il povero Renzo: e anche loro, come Renzo, sbatacchiate di qua e di là senza costrutto; anzi, dirà il giovane, con quel «bel costrutto ». La finale della « spedizione » di Renzo è tutta pervasa d’amaro umorismo, indice della retta coscienza del poeta; il quale guarda il male degli uomini, lo biasima e lo condanna: ma sempre con modi finissimi e controllati. .307. Le donne...: ecco un altro quadro di vita paesana, in cui s'inserisce una nuova figura di uomo, l’umile cercatore fra Galdino: un personaggio dei Promessi Sposi fra i più maltrattati da critici vecchi e nuoVi; e pure, a nostro giudizio, una creazione
umana e poetica fra le più interessanti e riuscite del M,
capitolo III 310
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de’ grandi effetti che si dovevano sperare dai consigli del dottore, Lucia disse che bisognava veder d’aiutarsi in tutte le maniere; che il padre Cristoforo era uomo non solo da consigliare, ma da metter l’opera sua, quando si trattasse
di sollevar poverelli; e che sarebbe una gran bella cosa potergli far sapere ciò ch’era accaduto. « Sicuro », disse Agnese: e si diedero a cercare insieme 315
la maniera; giacché andar esse al convento, distante di là forse due miglia, non se ne sentivano il coraggio, in quel giorno: e certo nessun uomo di giu-
dizio gliene avrebbe dato il parere. Ma, nel mentre che bilanciavano i partiti, si sentì un picchietto all’uscio, e, nello stesso momento, un sommesso ma distinto « Deo gratias ». Lucia, immaginandosi chi poteva essere, corse ad 320 aprire; e subito, fatto un piccolo inchino famigliare, venne avanti un laico cercatore cappuccino, con la sua bisaccia pendente alla spalla sinistra, e tenendone l’imboccatura attortigliata e stretta nelle due mani sul petto. « Oh fra Galdino! » dissero le due donne. * « Il Signore sia con voi, » disse il frate. « Vengo alla cerca delle noci. » 325 . « Va a prender le noci per i padri, » disse Agnese. Lucia s’alzò, e s’avviò all’altra stanza, ma, prima d’entrarvi, si trattenne dietro le spalle di fra Galdino, che rimaneva diritto nella medesima positura; e, mettendo il dito 330
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alla bocca, diede alla madre un’occhiata che chiedeva il segreto, con tenerezza, con supplicazione, e anche con una certa autorità. Il cercatore, sbirciando Agnese così da lontano, disse: « e questo matri-
monio? Si doveva pur fare oggi: ho veduto nel paese una certa confusione, come se ci fosse una novità. Cos’è stato? » « Il signor curato è ammalato, e bisogna differire, » rispose in fretta la donna. Se Lucia non faceva quel segno, la risposta sarebbe probabilmente stata diversa. « E come va la cerca? » soggiunse poi, per mutar discorso. « Poco bene, buona donna, poco bene. Le son tutte qui. » E, così di-
cendo, si levò la bisaccia d’addosso, e la fece saltar tra le due mani. « Son tutte qui; e, per mettere insieme questa bella abbondanza, ho dovuto picchiare a dieci porte. » « Ma! le annate vanno scarse, fra Galdino; e, quando s'ha a misurar il pane, non si può allargar la mano nel resto. » «E per far tornare il buon tempo, che rimedio c’è, la mia donna? L’elemosina. Sapete di quel miracolo delle noci, che avvenne, molt’anni sono, in quel nostro convento di Romagna? » « No, in verità; raccontatemelo un poco. » 320-321. un laico cercatore cappuccino: bisognerà ricordarsi bene chi è fra Galdino — un umile frate converso incaricato di domandare la carità per il convento, laico dunque e non sacerdote: come invece, per esempio, era fra Cristoforo —, prima di credere di scoprire in lui, come qualcuno ha creduto di scoprire, limitatezza di ideali, egoismo di classe, ottusità, ‘insensibilità, pettegolezzo, avarizia, malizia, avidità... e tante altre simili doti! È,.certo, una «levatura modesta » la sua: ma è quella ideale per lui. 322. l’imboccatura attortigliata...: anche per questi particolari, così realisticamente
descritti, c'è chi ha trovato da dir male di fra Galdino: quasi che, dal suo tenere la bisaccia in quel modo, già trasparisse « un primo annunzio della psicologia del personaggio » con quelle doti che abbiamo sopra elencate. 329. una certa autorità: è stato notato che questa è l’unica volta, in tutto il romanzo, che Lucia parla con autorità; ma insieme, e prima, con tanta tenerezza. Del resto, è lei, Lucia, che è ora al centro dell’attenzione di tutti, benevola o maligna che sia, Tant'è vero che la prima domanda di fra Galdino è su « questo matrimonio » e una
« certa confusione » che ha visto in paese,
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î promessi sposti « Oh! dovete dunque sapere che, in quel convento, c’era un nostro padre,
il quale era un santo, e si chiamava il padre Macario. Un giorno d’inverno, passando per una viottola, in un campo d’un nostro benefattore, uomo dab350
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bene anche lui, il padre Macario vide questo benefattore vicino a un suo gran noce; e quattro contadini, con le zappe in aria, che principiavano a scalzar la pianta, per metterle le radici al sole. — Che fate voi a quella povera pianta? domandò il padre Macario. — Eh! padre, son anni e anni che la non mi vuol far noci; e io ne faccio legna. — Lasciatela stare, disse il padre: sappiate che, quest'anno, la farà più noci che foglie. Il benefattore, che sapeva chi era colui che aveva detta quella parola, ordinò subito ai lavoratori, che gettasser di nuovo la terra sulle radici; e, chiamato il padre, che continuava la sua strada, —
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padre Macario, gli disse, la metà della raccolta sarà per il
convento. Si sparse la voce della predizione; e tutti correvano a guardare il noce. In fatti, a primavera, fiori a bizzeffe, e, a suo tempo, noci a bizzeffe. Il buon benefattore non ebbe la consolazione di bacchiarle; perché andò, prima della raccolta, a ricevere il premio della sua carità. Ma il miracolo fu tanto più grande, come sentirete. Quel brav’uomo aveva lasciato un figliolo di stampa ben diversa. Or dunque, alla raccolta, il cercatore andò per riscotere la metà ch’era dovuta al convento: ma colui se ne fece nuovo affatto,
ed ebbe la temerità di rispondere che non aveva mai sentito dire che i cap-
puccini sapessero far noci. Sapete ora cosa avvenne? Un giorno (sentite questa), lo scapestrato aveva invitato alcuni suoi amici dello stesso pelo, e, gozzovigliando, raccontava la storia del noce, e rideva de’ frati. Que’ giovinastri ebber voglia d’andar a vedere quello sterminato mucchio di noci; e lui li mena su in granaio. Ma sentite: apre l’uscio, va verso il cantuccio dov'era stato riposto il gran mucchio, e mentre dice: guardate, guarda egli stesso e
vede... che cosa? Un bel mucchio di foglie secche di noce. Fu un esempio questo? E il convento, in vece di scapitare, ci guadagnò; perché, dopo un
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così gran fatto, la cerca delle noci rendeva tanto, tanto, che un benefattore, mosso a compassione del povero cercatore, fece al convento la carità d’un asino, che aiutasse a portar le noci a casa. E si faceva tant’olio, che ogni povero veniva a prenderne, secondo il suo bisogno; perché noi siam come il mare, che riceve acqua da tutte le parti, e la torna a distribuire a tutti i fiumi. » Qui ricomparve Lucia, col grembiule così carico di noci, che lo reggev a a fatica, tenendone le due cocche in alto, con le braccia tese e allunga te. Men-
tre fra Galdino, levatasi di nuovo la bisaccia, la metteva giù, e ne sciogli eva la bocca, per introdurvi l’abbondante elemosina, la madre fece un volto att 346. Oh! dovete dunque sapere...: s’inizia così, in un’atmosfera che sa leggermente d’incanto e di novella, il racconto del miracolo delle noci. Racconto, anch’esso, spesso criticato come il suo narratore: fra l’altro, perché risentirebbe troppo di letteratura. Noi pensiamo che si debba ascoltarlo soprattutto come ingenua ma convinta espressione di uno spirito umilmente francescano. E tutto qui sa di francescano, e ha il profumo dei Fioretti: dalla figura di padre Macario, «che va per il mondo come
uno dei tanti fraticelli che seguitono Fran-
cesco, alla commozione per la « povera pian-. ta » che sta per essere scalzata e che il buon frate difende; da quel parlare semplice, popolano e stupito — fiori 4 bizzeffe, ... noci a bizzeffe... — alla punizione divina che deve essere di «esempio » per tutti; e, infine, alla conclusione edificante, anche se un po’ oratoria: dove l’immagine grandiosa del mare che riceve acqua da tutte le parti e poi torna a distribuirla a tutti i fiumi, ren-
de con singolare efficacia il senso della carità cristiana che non conosce né limiti né soste,
capitolo IIl
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tonito e severo a Lucia, per la sua prodigalità; ma Lucia le diede un’oc-
385 chiata, che voleva dire: mi giustificherò. Fra Galdino proruppe in elogi, in augùri, in promesse, in ringraziamenti, e, rimessa la bisaccia al posto, s’avviava. Ma Lucia, richiamatolo, disse: « vorrei un servizio da voi; vorrei che diceste al padre Cristoforo, che ho gran premura di parlargli, e che mi faccia
la carità di venir da noi poverette, subito subito; perché non possiamo andar noi alla chiesa. » « Non volete altro? Non passerà un’ora che il padre Cristoforo saprà il vostro desiderio. »
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« Mi fido. »
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« Non dubitate. » E così detto, se n’andò, un po’ più curvo e più contento, di quel che fosse venuto. Al vedere che una povera ragazza mandava a chiamare, con tanta confidenza, il padre Cristoforo, e che il cercatore accettava la commissione, senza maraviglia e senza difficoltà, nessun si pensi che quel Cristoforo fosse un frate di dozzina, una cosa da strapazzo. Era anzi uomo di molta autorità, presso i suoi, e in tutto il contorno; ma tale era la condizione de’ cappuccini, che nulla pareva per loro troppo basso, né troppo elevato. Servir gl’infimi, ed esser servito da’ potenti, entrar ne’ palazzi e ne’ tuguri, con lo stesso contegno d’umiltà e di sicurezza, esser talvolta, nella stessa casa, un soggetto di passatempo, e un personaggio senza il quale non si decideva nulla, chieder 394. se n’andò, un po’ più curvo...: COSì, leggermente com’era arrivato, esce e parte questo cordiale narratore di miracoli e buon raccoglitore di noci, preparando la venuta di un altro cappuccino, fra Cristoforo, un uomo di ben più alta levatura e salda personalità, ma per il quale egli, l'umile Gal dino, è servito da provvidenziale strumento. Se ne va dunque il semplice fraticello senza cultura e con poco ingegno, ma con una fede candida che gli fa compiere la sua missione con tanto entusiasmo; e se ha, come si continua a dire, dell’egoismo, questo non è a vantaggio suo ma del convento, cioè dei poveri: altro che « materialista incapace di un senso profondo della religione », come lo definisce, fra i tanti, un commentatore moderno! Ad ogni modo, siccome c'è chi crede che il M. abbia descritto questo frate « alla scia » di Azzeccagarbugli, volendone fare addirittura un «ciarlatano » come il dottore di Lecco, si rifletta almeno che, mentre l’astuto uomo di mondo, il leguleio interessato, non ha fatto altro che procurare nuovo dolore e nuova delusione, l'umile uomo di chiesa, ignorante e zotico quanto si vuole, ha saputo dire parole che hanno aperto l’animo a un lieve conforto e ad una tenue speranza. Il che non ci sembra poco, in tale frangente.
400, tale era la condizione de’ cappuccini: quanto qui il M. dice in generale e in astratto dei cappuccini, avremo modo di vederlo concretamente e individualmente
attuato nel corso del romanzo. Ora ci pare
opportuno riferite su questo passo un acuto pensiero del Momigliano: « Il capoverso ‘ AI vedere... ?, tutto bilanciato sui due opposti motivi ‘rispetto’ e ‘disprezzo’, è uno dei passi più ignorati e più sapienti del romanzo, uno di quelli in cui le facoltà logiche, morali e poetiche del Manzoni si fondono e si equilibrano meglio. È il ritratto di una classe, e non vale meno del ritratto dedicato nel I capitolo all’impunità organizzata. [...] Il Manzoni è non soltanto un grande ritrattista morale dei personaggi singoli, ma anche un grande ritrattista di folle e di classi. Questi ritratti nascono da una profonda esperienza umana, alimentata dall’abito dell’osservazione,, da una salda tempra religiosa e da una ricca coscienza
morale. [...] Il fermento poetico di questi
ritratti è, talora, una compartecipazione, tan.to più profonda quanto più dominata, ai sentimenti e alle condizioni dei personaggi descritti. È questo il caso dei cappuccini: la sorte contraddittoria di questi frati è riassunta nella frase ‘a tutto era avvezzo un cappuccino ’, che si leva come una sintesi nel centro del ritratto, e che riecheggia il tono di tutta la descrizione, apparentemente impassibile, in realtà governata da una sovrana padronanza interiore; sicché da tutto il capoverso vien fuori l’immagine di una classe singolare nel secolo per dignità e umiltà (il Manzoni dice ‘umiltà e sicurezza’)».
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i promessi sposi
l'elemosina per tutto, e farla a tutti quelli che la chiedevano al convento, a tutto era avvezzo un cappuccino. Andando per la strada, poteva ugualmente
abbattersi in un principe che gli baciasse riverentemente la punta del cordone, o in una brigata di ragazzacci che, fingendo d’esser alle mani tta loro, 410
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gl’inzaccherassero la barba di fango. La parola « frate » veniva; in que’ tempi, proferita col più gran rispetto, e col più amaro disprezzo: e i cappuccini, forse più d’ogni altr’ordine, eran oggetto de’ due opposti sentimenti, e provavano le due opposte fortune; perché, non possedendo nulla, portando un abito più stranamente diverso dal comune, facendo più aperta professione d’umiltà, s’esponevan più da vicino alla venerazione e al vilipendio che queste cose possono attirare da’ diversi umori, e dal diverso pensare degli uomini. Partito fra Galdino, « tutte quelle noci! » esclamò Agnese: «in quest'anno! » « Mamma,
perdonatemi, » rispose Lucia; « ma, se avessimo fatta un’ele-
mosina come gli altri, fra Galdino avrebbe dovuto girare ancora, Dio sa quanto, prima d’aver la bisaccia piena: Dio sa quando sarebbe tornato al convento; e, con le ciarle che avrebbe fatte e sentite, Dio sa se gli sarebbe rimasto in mente... »
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« Hai pensato bene; e poi è tutta carità che porta sempre buon frutto, » disse Agnese, la quale, co’ suoi difettucci, era una gran buona donna, e si sarebbe, come si dice, buttata nel fuoco per quell’unica figlia, in cui aveva riposta tutta la sua compiacenza. In questa, arrivò Renzo, ed entrando con un volto dispettoso insieme e mortificato, gettò i capponi sur una tavola; e fu questa l’ultima trista vicenda delle povere bestie, per quel giorno. « Bel parere che m’avete dato! » disse ad Agnese. « M’avete mandato da un buon galantuomo, da uno che aiuta veramente i poverelli! » E raccontò
il suo abboccamento col dottore. La donna, stupefatta di così trista riuscita, 435
voleva mettersi a dimostrare che il parere però era buono, e che Renzo non
doveva aver saputo far la cosa come andava fatta; ma Lucia interruppe quella
questione, annunziando che sperava d’aver trovato un aiuto migliore. Renzo accolse anche questa speranza, come accade a quelli che sono nella sventura e nell’impiccio. « Ma, se il padre », disse, « non ci trova un ripiego, lo tro-
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verò io, in un modo onell’altro. »
Le donne consigliaron la pace, la pazienza, la prudenza. « Domani, » disse Lucia, « il padre Cristoforo verrà sicuramente: e vedrete che troverà qualche rimedio, di quelli che noi poveretti non sappiam nemmeno imma-
ginare. »
419. Mamma, perdonatemi...: questo discorso di Lucia a sua madre è un capolavoro di bontà e d’intelligenza, come tutta la sua precedente condotta era stata un capolavoro
di lucidità e di presenza di spirito. Di queste e d’altre doti spirituali ed intellettuali di Lucia avremo possibilità di renderci conto ancora, attraverso le più varie esperienze a cui vedremo sottoposta la ragazza. . 429. gettò i capponi sur una tavola: così 1 capponi concludono, per quel giorno) la
loro « trista vicenda », esprimendo ad un tempo il dispetto e la mortificazione di Ren-
zo e il superiore sorriso del narratore pronto a mettere in luce quanto, nelle tante pe-
ne degli uomini, accanto al dolore ci può essere di comico e di grottesco. ©’ A 431. Bel parere...: povera Agnese: era stata tanto orgogliosa di quel suo parere ed ora com'è andata afinire! ES purtroppo, non sarà questo l’ultimo dei suoi pareri de-» stinati a fallire.
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capitolo III
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« Lo spero; » disse Renzo, « ma, in ogni caso, saprò farmi ragione, o tar-
mela fare. A questo mondo c’è giustizia finalmente. » . Co dolorosi discorsi, e con le andate e venute che si son riferite, quel giorno era passato; e cominciava a imbrunire. « Buona notte, » disse tristamente Lucia a Renzo, il quale non sapeva
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risolversi d’andarsene. « Buona notte, » rispose Renzo, ancor più tristamente. « Qualche santo ci aiuterà, » replicò Lucia: «usate prudenza, gnatevi. »
e rasse-
La madre aggiunse altri consigli dello stesso genere; e lo sposo se n’andò, col cuore in tempesta, ripetendo sempre quelle strane parole: « a questo mondo c’è giustizia, finalmente! » Tant'è vero che un uomo sopraffatto dal dolore non sa più quel che si dica. 445. A questo mondo c’è giustizia finalmente: il miglior commento a quest’uscita del povero Renzo — a cui sembra che la vita non abbia ancora insegnato niente — lo farà fra poco il M. stesso, quando il suo personaggio « quelle strane parole » le avrà ripetute con veemenza ancora maggiore: «Tant'è vero che un uomo sopraffatto dal dolore non sa più quel che si dica». — Tutta l’opera del M. — si pensi, per esempio, all’Adelchi oltre che al romanzo — è un atto di costante sfiducia nella giustizia umana, e di certezza nella sola giustizia divina: i cui effetti però, il più delle volte, non è dato percepire nel mondo perché si proiet-
Scheda
tano nella vita eterna. Ma sul tema della giustizia torneremo: e proprio con Renzo.
447. e cominciava a imbrunire: il tocco brevissimo sembra soltanto una fuggevole nota dell’ora che passa. È, invece, un’immagine colma dell’angoscia degli uomini: quello sfondo di cielo, che imbrunisce sui « dolorosi discorsi » e sui saluti « tristamente » ri-
petuti, conferma
e accresce la desolazione dei cuori. Nel M. si può trovare tanto dell'animo e della poesia di Virgilio: qui ci sembra di sentire qualcosa di quel mesto tramonto che scende sull’esule stanco: 74i0resque cadunt altis de montibus umbrae (Egl. I, 84).
critica al cap. III In un capitolo, in cui il Manzoni sembra più abbandonarsi alle sollecitazioni del suo estro inventivo e al puro gusto del narrare, in un alternarsi incalzante di episodi e anche di scenari (dal tono tutto intimo e dimesso della casa di Agnese, la « stanza terrena », gli abiti « del giorno di lavoro », alla colorita rappresentazione dello studio dell'avvocato intrigante), è da notare soprattutto la sapienza costruttiva del regista che tiene saldamente in mano e i tutti i fili del racconto, senza perdere mai di vista i nodi particolae precisare a intento tutto vicenda, della protagonisti reggiare concretamente la situazione e ad arricchire di nuove conze notazioni la psicologia dei personaggi, attraverso le concordan la qui Di e i contrasti con il mondo che li circonda e li delimita. naturalezza
con
cui ora
entra
in scena
il personaggio,
appena
presenza di accennato nel capitolo precedente, di Lucia. In lei la una sensuscitato ha una fede semplice ma fervida e profonda ritrosia, una pudore, un sottile, sibilità più alta, più delicata e
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{ promessi sposi una superiore gentilezza di affetti che reca con sé una luce ineffabile, e la proietta su tutte le cose e persone con cui si incontra, e insieme la distingue e la distacca al di sopra del suo umile mondo: una creatura che non sembra di questa terra e pure non può dirsi in nessun momento artificiosamente idealizzata, perché rimane sempre una contadina con il suo modo di sentire spontaneo e quadrato, ben circoscritto in una precisa misura di tempi e di luoghi e di educazione. E questa segreta ricchezza di sentimenti gentili e questa fermezza di religiosità non esteriore né superficiale assumono tutto il loro rilievo proprio nel contatto e contrasto con i dati del mondo circostante, che essa accetta ma al tempo stesso trascende: mondo senza cattiveria, ma senza bontà vera, con una sua religiosità meno pura e come attutita dall'attrito di una dura e terrena esperienza: la chiacchiera bonaria della madre, Agnese, il miracolismo facile e la disinvolta parlantina del frate cercatore Galdino. Allo stesso modo, nella contrapposizione con l'avvocato Az-
zeccagarbugli,
riceve una nuova sfumatura il ritratto già amorosamente delineato di Renzo: la sua onestà semplice e ingenua, ma non disarmata, il suo istintivo rifiuto di ogni ambiguità e ciurmeria. L'avvocato è un altro di quei personaggi in cui si incarna la vena polemica del Manzoni contro l'ingiustizia e la falsità del privilegio sociale, attraverso i mediocri e meschini strumenti e intermediari di cui quello s'avvale per operare e coonestare la sua iniquità a danno dei poveri e degli umili. E, come per don Abbondio, lo scrittore si serve qui del tono comico, ma
in una forma
più insistita e insieme
più sommaria,
fino a rasen-
tare la beffa e l'arguta caricatura, come sempre gli accade per certi personaggi minori (si pensi a don Ferrante o a donna Prassede). Intanto qui la viltà, l'artificio retorico, l'astuzia compiaciuta dell'intrigante risultano smascherati, e alla fine idealmente vinti, proprio dall’onestà e dal buon senso dell’ingenuo popolano, che, senza volerlo, ha costretto lo scaltro dottore a spiattellare i segreti meno confessabili della sua professione truffaldina.
Capitolo IV
Il sole non era ancor tutto apparso sull’orizzonte, quando il padre Cristoforo uscì dal suo convento di Pescarenico, per salire alla casetta dov'era aspettato. È Pescarenico una terricciola, sulla riva sinistra dell’Adda, o vogliam dire del lago, poco discosto dal ponte: un gruppetto di case, abitate la più parte da pescatori, e addobbate qua e lì di tramagli e di reti tese ad
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asciugare. Il convento era situato (e la fabbrica ne sussiste tuttavia) al di fuori, e in faccia all'entrata della terra, con di mezzo la strada che'da Lecco conduce a Bergamo. Il cielo era tutto sereno: di mano in mano che il sole s’alzava dietro il monte, si vedeva la sua luce, dalle sommità de’ monti opposti, scendere, come spiegandosi rapidamente, giù per i pendìi, e nella valle. Un venticello d’autunno, staccando da’ rami le foglie appassite del gelso, le portava a cadere, qualche passo distante dall’albero. A destra e a sinistra, nelle vigne, sui tralci ancor tesi, brillavan le foglie rosseggianti a varie tinte; e la terra lavorata di fresco, spiccava bruna e distinta ne’ campi di stoppie 1. Il sole non era...: siamo al mattino del l’incontro di don Abbondio coi bravi era avvenuto la sera del 7. 3. È Pescarenico una terricciola: cioè, un piccolo paese; ma ai nostri tempi è ormai incorporato con Lecco. 5. tramagli: reti molto fitte, per la pesca del pesce minuto. 8. Il cielo era tutto sereno: è la seconda descrizione di paesaggio nel romanzo, dopo quella dell'inizio del primo capitolo. In questa, come in quante altre incontreremo successivamente, su luoghi e ore diverse del giorno e della notte, « è facile notare come gli spettacoli dell’alba o del tramonto, del mattino: 0 della notte, quasi sempre ritratti alla sfuggita e con misurato realismo, siano rivolti a far partecipare la natura stessa alla vita degli individui e delle folle. Natura, anzi, che è vista il più delle volte con l’animo stesso dei personaggi, o sentita in funzione a loro antitetica: una natura che è atmosfera che circonda le creature umane, musica che ne accompagna le vicende. Esempio caratteristico è la descrizione del mattino di padre Cristoforo, all’inizio del capitolo IV. Il cielo è sereno, la luce si dispiega nella valle, il venticello d'autunno stacca 9 di novembre;
le foglie appassite, nelle vigne brillano ancora altre foglie rosseggianti e la terra lavorata di fresco spicca bruna e distinta... La scena è lieta: ma tutta la pagina ha una
mestizia segreta e raccolta. È la mestizia deche portano sui volti i segni della carestia e negli animi l’affanno della dura esistenza. Ma c'è anche un’altra mestizia più grave: quella che padre Cristoforo porta con sé fin dal tempo del suo pentimento, ed in quel giorno ancora più profonda per il triste presagio dell’avvenire. E, dobbiamo aggiungere, c’è anche, e intensa, la mestizia del poeta, che nelle note raccolte del cielo, delle piante, della terra, nei gesti gravi degli uomini, rispecchia la sua dolorosa sensibilità. Pagina dunque di paesaggio, ma insieme effusione di umanità: pagina profondamente manzoniana » (G. Viti, Conoscere ‘I Promessi Sposi’ (Firenze, 198518). Cfr. Cap. VIII, n. 158. 14. bruna e distinta: nel M. è assai frequente, e sempre realizzato con grande abilità, l’uso di coppie di aggettivi, i quali non costituiscono affatto dei doppioni, ma insieme si armonizzano e completano l’immagine. Ricordate, per esempio, la scena della sera precedente (Cap. Ill) quando Lucia viene
gli uomini,
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biancastre e luccicanti dalla guazza. La scena era lieta; ma ognifigura d’uomo che vi apparisse, rattristava lo sguardo e il pensiero. Ogni tanto, s’incontravano mendichi laceri e macilenti, o invecchiati nel mestiere, o spinti allora dalla necessità a tender la mano. Passavano zitti accanto al padre Cristoforo, lo guardavano pietosamente, e, benché non avesser nulla a sperar
da lui, giacché un cappuccino non toccava mai moneta, gli facevano un inchino di ringraziamento, per l’elemosina che avevan ricevuta, o che andavano a cercare al convento. Lo spettacolo de’ lavoratori sparsi ne’ campi, aveva qualcosa d’ancor più doloroso. Alcuni andavan gettando le lor semente, rade, con risparmio, e a malincuore, come chi arrischia cosa che troppo gli preme; altri spingevan la vanga come a stento, e rovesciavano svogliatamente la zolla. La fanciulla scarna, tenendo per la corda al pascolo la vaccherella magra stecchita, guardava innanzi, e si chinava in fretta, a rubarle, per cibo della famiglia, qualche erba, di cui la fame aveva insegnato che anche gli uomini potevan vivere. Questi spettacoli accrescevano, a ogni passo, la mestizia del frate, il quale camminava già col tristo presentimento in cuore, d’andar a sentire qualche sciagura. i — Ma perché si prendeva tanto pensiero di Lucia? E perché, al primo avviso, s'era mosso con tanta sollecitudine, come a una chiamata del padre provinciale? E chi era questu padre Cristoforo? — Bisogna soddisfare a tutte queste domande. Il padre Cristoforo da *** era un uomo più vicino ai sessanta che ai
cinquant'anni. Il suo capo raso, salvo la piccola corona di capelli, che vi gicol grembiule carico di noci, tenendolo con le braccia tese ed allungate, e Agnese la guarda con volto affonito e severo, e poi fra Galdino se ne va un po’ più curvo e più contento? Ed ora troveremo che le stoppie erano biancastre e luccicanti dalla guazza, e vedremo mendichi laceri e macilenti; più avanti nell’atteggiamento di padre Cristoforo un non so che d’altero e inquieto... e potremmo continuare a lungo: fino al termine del romanzo, quando scopriremo (non sarà male saperlo fin d’ora) che il « sugo di tutta la storia » è questo: «i guai vengono bensì spesso, perché ci si è dato cagione; ma che la condotta più cauta e più innocente non basta a tenerli lontani; e che quando vengono, o per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce, e li rende utili per una vita migliore » (Cap. XXXVIII). 26. La fanciulla scarna...: è l’ultimo elemento di questo quadro immenso e vario di miseria, di fatica, di dolore: un quadro in cui si sente l’anima del narratore partecipate intimamente alle angosce dei poveri e dei sofferenti. 32-34. Ma perché...? E perché...? E chi era?: con questa serie di domande, poste da un eventuale lettore sul comportamento di padre Cristoforo, il M. si crea la ragione per presentare la storia e il ritratto del personaggio. Alla fine del lungo racconto, che occuperà tutto il capitolo, il M. troverà
un altro utile espediente per riprendere le vicende del romanzo: farà coincidere il tempo impiegato a « raccontare i fatti del padre Cristoforo » con quello che è occorso al cappuccino per arrivare a casa delle due donne. 36. Il padre Cristoforo: riguardo al nome e a certe vicende del personaggio, nelle Memorie di Pio La Croce, cronista della peste del 1630 e che vedremo citato in nota al cap. XXXII, il M. trovò, oltre un fra Galdino, anche un fra Cristoforo Picenardi da Cremona, morto nel lazzeretto ove era andato volontario ad assistere gli appestati.
(Nel Fermzo e Lucia il M. dice esplicitamente «il Padre Cristoforo da Cremona »). Ri-
guardo poi alla conversione di Cristoforo qualcuno ha creduto di poter stabilire un parallelo con quella di Alfonso III d’Este, duca di Modena, fattosi cappuccino nel 1629, dopo aver trascorso una giovinezza sfrenata, e in seguito alla morte della moglie Isabella di Savoia; la storia di quest’uomo «di cervello gagliardo, di umore risoluto, di talento vivacissimo » il M. può averla letta nelle Antichità Estensi del Muratori. Ma, a parte quanto il M. possa aver realmente preso dalle vicende storiche e dal carattere di questi due personaggi nel creare il suo fra Cristoforo, ci limitiamo, per il momento, ad osservare che nel Seicento si ebbero vari esempi di conversione, che, almeno nei loro aspetti esteriori, si potrebbero
capitolo IV
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rava intorno, secondo il rito cappuccinesco, s’alzava di tempo in tempo, con un movimento che lasciava trasparire un non so che d’altero e d’inquieto; e subito s’abbassava, per riflessione d’umiltà. La barba bianca e lunga, che gli copriva le guance e il mento, ‘faceva ancor più risaltare le forme rilevate della
parte superiore del volto, alle quali un’astinenza, da gran pezzo abituale, 45
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aveva assai più aggiunto di gravità che tolto d’espressione. Due occhi incavati eran pet lo più chinati a terra, ma talvolta sfolgoravano, con vivacità repentina; come due cavalli bizzarri, condotti a mano da un cocchiere, col quale sanno, per esperienza, che non si può vincerla, pure fanno, di tempo in tempo, qualche sgambetto, che scontan subito, con una buona tirata di morso. Il padre Cristoforo non era sempre stato così, né sempre era stato Cristoforo: il suo nome di battesimo era Lodovico. Fra figliuolo d’un mercante di *** (questi asterischi vengon tutti dalla circospezione del mio anonimo) che, ne’ suoi ultim’anni, trovandosi assai fornito di beni, e con quell’unico
figliuolo, aveva rinunziato al traffico, e s'era dato a viver da signore.
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Nel suo nuovo ozio, cominciò a entrargli in corpo una gran vergogna di tutto quel tempo che aveva speso a far qualcosa in questo mondo. Predominato da una tal fantasia, studiava tutte le maniere di far dimenticare ch’era stato mercante: avrebbe voluto poterlo dimenticare anche lui. Ma il fondaco, le balle, il libro, il braccio, gli comparivan sempre nella memoria, come l’omaccostare a quella del nostro cappuccino, e che il M., proprio per il suo vivo gusto della storia, e volendo fare un romanzo basato sulla realtà del Seicento, si è più volte ispirato a cronache autentiche di quel periodo. 38. rito: significa « regola », ma con un accento più religioso e raccolto. 47. ..con una buona tirata di morso: potremmo discutere la validità artistica della similitudine finale dei due cavalli, similitudine che alcuni critici esaltano come perfetta, considerandola la nota « più celebre e proverbiale » dell’intero ritratto, e che altri invece tacciano come «barocca » o come troppo sproporzionata e concepita con intenti umoristici. Ma l’insieme del ritratto è pieno di vivacità, e veramente capace di esprimere il motivo di fondo che il M. porrà in tutto il comportamento di padre Cristoforo. Abbiamo, infatti, in queste pagine una figura fisica, sì, ma, come avviene nella presentazione di tanti altri personaggi maggiori o minori del romanzo, il M. si preoccupa, più di tutto, di delineare la figura morale. Questo di padre Cristoforo è, appunto, un ritratto essenzialmente spirituale: è l’immagine già netta e vigorosa di quella, per così dire, duplice personalità che vedremo sempre in lui: l’uomo vecchio con tutto l’ardore battagliero degli anni giovanili; l’uomo nuovo sottomesso al vigile sentimento dell’umiltà e del sacrificio. È vero che il primo uomo sarà sempre domato e vinto dal secondo, ma è altrettanto vero che padre Cristoforo, e come figura umana e come
creazione artistica, vivrà, in ogni situazione,
del sofferto incontro dell’antico col nuovo. 50. mio anonimo: e infatti nel brano dell’Introduzione attribuito all’Anonimo si dice: «... per degni rispetti, si tacerà il loro nome, cioè la parentela, et il medesmo si farà de’ lochi... ». Ma queste reticenze giustificate con l’Anonimo (come l’invenzione stessa dell’autografo) servono al M. per spa-
ziare più liberamente nel conseguimento dei suoi fini poetici. 54-55. Predominato da una tal fantasia: è l’espressione con cui più direttamente il M. inserisce la sua condanna morale verso il comportamento dell’anziano mercante. Del resto tutto il ritratto del padre di Lodovico è condotto sul tema di questa « fantasia », cioè dalla sciocca vergogna di aver trascorso una vita di lavoro quando, vuol dirci appunto il M., proprio il lavoro è legge di vita e mezzo d’elevazione materiale e spirituale. Ma in questa pagina non c’è soltanto la condanna di un tipo di uomo, che d’altra parte è comune in tutti i tempi, sibbene anche un nuovo elemento di quella costante polemica manzoniana nei riguardi del Seicento, un’età in cui i privilegi di casta offrivano incentivo a simili balordi sentimenti. È polemica, però, che, dando vita a figure e a vicende presentate con sottile umorismo e con bonaria comprensione del mondo, si svolge sempre vivace ed attraente. 56-57. fondaco..., balle..., libro..., braccio: il fondaco è la bottega, le balle i pacchi dei tessuti, il libro il registro delle entrate e delle uscite, detto comunemente libro ma-
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bra di Banco a Macbeth, anche tra la pompa delle mense, e il sorriso de’ parassiti. E nofi si potrebbe dire la cura che dovevano aver que’ poveretti, per schivare ogni parola che potesse parere allusiva all’antica condizione del convitante. Un giorno, per raccontarne una, un giorno, sul finir della tavola, ne’ momenti della più viva e schietta allegria, che non si sarebbe potuto dire chi più godesse, o la brigata di sparecchiare, o il padrone d’aver apparecchiato, andava stuzzicando, con superiorità amichevole, uno di que’ commensali, il più onesto mangiatore del mondo. Questo, per corrispondere alla celia, senza la minima ombra di malizia, proprio col candore d’un bambino, rispose: « eh! io fo l’orecchio del mercante ». Egli stesso fu subito colpito dal suono della parola che gli era uscita di bocca: guardò, con faccia incerta, alla faccia del padrone, che s’era rannuvolata:. l'uno e l’altro avrebber voluto riprender quella di prima; ma non era possibile. Gli altri convitati pensavano, ognun da sé, al modo di sopire il piccolo scandolo, e di fare una diversione; ma, pensando, tacevano, e, in quel silenzio, lo scandolo era più manifesto. Ognuno scansava d’incontrar gli occhi degli altri; ognuno sentiva che tutti erano occupati del pensiero che tutti volevan dissimulare. La gioia, per quel giorno, se n’andò; e l’imprudente o, per parlar con più giustizia, lo sfortunato, non ricevette più invito. Così il padre di Lodovico passò gli ultimi suoi anni in angustie continue, temendo sempre d’essere schernito, e non riflettendo mai
che il vendere non è cosa più ridicola che il comprare, e che quella profes80
sione di cui allora si vergognava, l'aveva pure esercitata per tant’anni, in pre-
senza del pubblico, e senza rimorso. Fece educare il figlio nobilmente, se-
condo la condizione de’ tempi, e per quanto gli era concesso dalle leggi e dalle consuetudini; gli diede maestri di lettere e d’esercizi ‘cavallereschi; e morì, lasciandolo ricco e giovinetto. Lodovico aveva contratte abitudini signorili; e gli adulatori, tra i quali stro, il braccio l’unità di misura di quel tempo, corrispondente press’a poco al metro di oggi. 57-58. l’ombra di Banco a Macbeth: nella tragedia Macbeth dello Shakespeare l’ombra di Banco, fatto uccidere da Macbeth, compare minacciosa in frequenti visioni a sconvolgere il suo uccisore. L'espressione è divenuta proverbiale per indicare un incubo incessante; qui è facile sentire tutto l’umorismo che la similitudine crea intorno al mercante, per il quale gli umili strumenti dei suoi lunghi anni di lavoro si sono trasfigurati in immagini ossessionanti, quasi fossero stati strumenti di delitti. — C'è anche chi ha visto, in questa citazione shakespeariana, un modo di propagandare il romanticismo (Shakespeare era uno degli idoli dei romantici) in un’età in cui perdurava ancora la polemica fra romantici e classicisti. Scrive, per esempio, il Bezzola: «Oggi il Macbeth di Shakespeare è celebre dovunque, ma citarlo in Italia nel 1827, quando i classici erano ancora numerosi e autotevoli, costituiva pur sempre un ardimento ». (Precisiamo che la citazione era già anche
nel Fermo e Lucia, che fu composto negli anni 1821-23).
59. que’ poveretti: quanta ironia verso questi disgraziati parassiti {!), costretti a star sempre all’erta anche quando si trovavano davanti ad una bella tavola imbandita! 61. Un giorno, per raccontarne una... senti con quanto gusto il M. si mette a raccontare: e con quale tono di cordialità coi suoi lettori. 80. ...e senza rimorso: fra i tanti motivi artistici di questa pagina, tre cose si debbono soprattutto notare: la macchietta di quel povero parassita, «il più onesto mangiatore del mondo », folgorato dalla sua stessa battuta, che pure aveva pronunziata « proprio col candore d’un bambino »; il muto coro dei commensali allibiti, attento ognuno a scansare « d’incontrar gli occhi degli altri»; la riflessione morale che, con mesto umorismo sulle follie degli uomini, conclude la scena del banchetto e tutta la. storia del vecchio mercante. 84. Lodovico aveva...: questa pagina, che delinea un vigoroso ritratto dell’indole di
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era cresciuto, l'avevano avvezzato ad esser trattato con molto rispetto. Ma, quando volle mischiarsi coi principali della sua città, trovò un fare ben diverso da quello a cui era accostumato;
e vide che, a voler esser della lor
compagnia, come avrebbe desiderato, gli conveniva fare una nuova scuola di 90
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pazienza e di sommissione, star sempre al di sotto, e ingozzarne una, ogni
momento. Una tal maniera di vivere non s’accordava, né con l’educazione, né con la natura di Lodovico. S’allontanò da essi indispettito. Ma poi ne stava lontano con rammarico; perché gli pareva che questi veramente avrebber dovuto essere i suoi compagni; soltanto gli avrebbe voluti più trattabili. Con questo misto d’inclinazione e di rancore, non potendo frequentarli famigliarmente, e volendo pure aver che far con loro in qualche modo, s'era dato a competer con loro di sfoggi e di magnificenza, comprandosi così a contanti inimicizie, invidie e ridicolo. La sua indole, onesta insieme e violenta, l’aveva poi imbarcato per tempo in altre gare più serie. Sentiva un orrore spontaneo e sincero per l’angherie e per i soprusi: orrore reso ancor più vivo in lui dalla qualità delle persone che più ne commettevano alla giornata; ch’erano appunto coloro coi quali aveva più di quella ruggine. Per acquietare, o per esercitare tutte queste passioni in una volta, prendeva volentieri le parti d’un debole sopraffatto, si piccava di farci stare un soverchiatore, s’intrometteva in una briga, se ne tirava addosso un’altra; tanto che, a poco a poco, venne a costituirsi come un protettor degli oppressi, e un vendicatore de’ torti. L’impiego era gravoso; e non è da domandare se il povero Lodovico avesse nemici, impegni e pensieri. Oltre la guerra esterna, era poi tribolato continuamente da contrasti interni; perché, a spuntarla in un impegno (senza parlare di quelli in cui restava al di sotto), doveva anche lui adoperar raggiri e violenze, che la sua coscienza non poteva poi approvare. Doveva tenersi intorno un buon numero di bravacci; e, così per la sua sicurezza, come per averne un aiuto più vigoroso, doveva scegliere i più arrischiati, cioè i più ribaldi; e vivere co” birboni, per amor della giustizia. Tanto che, più d’una volta, o scoraggito, dopo una trista riuscita, o inquieto per un pericolo im-
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minente, annoiato del continuo guardarsi, stomacato della sua compagnia,
in pensiero dell’avvenire, per le sue sostanze che se n’andavan, di giorno in giorno, in opere buone e in braverie, più d’una volta gli era saltata la fan-
Lodovico, è molto importante. Essa fissa e la preoccupazione morale dell’autore, a fissare un nuovo e mirabile quadro della magistralmente quelle caratteristiche morali società del Seicento: nella quale società e spirituali — onestà, impetuosità, senso « anarchica e autoritaria » ad un tempo, della giustizia, amore per i deboli, impegno come è stata ben definita, Lodovico e Cricostante urto difesa, loro la per bile infatica contro i prepotenti... — su cui si inneste- . stoforo si inseriscono con perfetto e coranno, una volta accettato con pienezza il stante realismo. 96. comprandosi... a contanti: procuranmessaggio cristiano, tutte le virtù dell’uomo dosi facilmente. dalo, sacrifici al edienza nuovo — dall’obb 105. protettor. degli oppressi, ... vendical'umiltà allo sdegno —: sicché il padre Cri stoforo, che vedremo più tardi in azione, ci tore de’ torti: come continuerà ad essere da frate, quando, come vedremo, non lascerà apparirà come sviluppo umanamente concremai un’occasione per « accomodar differenLoquesto di to ed artisticamente rigoroso ze e proteggere oppressi ». gioanni gli amo osservi ora cui di dovico, 113. vivere co’ birboni... giustizia: tocco co, inoltre vanili (cfr. n. 47). — Notiamo, umoristico dopo la pagina seria. sl non ana, manzoni pagina la qui me anche 117-118. fantasia di farsi frate: è un prilimiti, però, ad esprimere un’acuta. indagine psicologica su un determinato indivi- mo annunzio di quella che sarà la conversione futura. Sembra un cenno venuto lì a duo, ma si estenda, secondo il gusto storico
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i promessi sposi
tasia di farsi frate; che, a que’ tempi, era il ripiego più comune, per uscir 120
d’impicci. Ma questa, che sarebbe forse stata una fantasia per tutta la sua vita, divenne una risoluzione, a causa d’un accidente, il più serio che gli fosse capitato.
Andava un giorno per una strada della sua città, seguito da due bravi, e accompagnato da un tal Cristoforo, altre volte giovine di bottega e, dopo
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chiusa questa, diventato maestro di casa. Era un uomo di circa cinquant’anni, affezionato, dalla gioventù, a Lodovico, che aveva veduto nascere, e che, tra salario e regali, gli dava non solo da vivere, ma di che mantenere e titar
su una numerosa famiglia. Vide Lodovico spuntar da lontano un signor tale, arrogante e soverchiatore di professione, col quale non aveva mai parlato in vita sua, ma che gli era cordiale nemico, e al quale rendeva, pur di cuore, il contraccambio: giacché è uno de’ vantaggi di questo mondo, quello di poter odiare ed esser odiati, senza conoscersi. Costui, seguito da quattro bravi, s’avanzava diritto, con passo superbo, con la testa alta, con la bocca composta all’alterigia e allo sprezzo. Tutt'e due camminavan rasente al muro; ma Lodovico (notate bene) lo strisciava col lato destro; e ciò, secondo una consuetudine, gli dava il diritto (dove mai si va a ficcare il diritto!) di non istaccarsi dal detto muro, per dar passo a chi si fosse; cosa della quale allora si faceva gran caso. L’altro pretendeva, all’opposto, che quel diritto competesse a lui, come a nobile, e che a Lodovico toccasse d’andar nel mezzo; e ciò in forza d’un’altra consuetudine. Perocché, in questo, come accade in molti altri affari, erano in vigore due consuetudini contrarie, senza che fosse deciso qual delle due fosse la buona; il che dava opportunità di fare una guerra,
ogni volta che una testa dura s’abbattesse in un’altra della stessa tempra.
Que’ due si venivano incontro, ristretti alla muraglia, come due figure di ‘ caso; e per ora non si tratta affatto di una vocazione: bensi soltanto di una reazione alla noia e al disgusto. Ma già è indicata la strada su cui la Provvidenza opererà per gradi e per modi misteriosi. Così anche la conversione di Lodovico, come più tardi quella dell’Innominato, sono preparate attraverso un lungo travaglio interiore, su cui
poi si inserirà più deciso ed irresistibile l’intervento della Grazia. 118-119. per uscir d’impicci: abbiamo già accennato che il Seicento è ricco di conversioni: ma in quelle avvenute per questi e simili motivi c’era ben poco di vocazione, 122. Andava un giorno...: si apre, con tono per ora disteso e pacato, un nuovo racconto, in cui il M. torna a rivelare il suo gusto di fine narratore ma anche di attento storico e di implacabile polemista contro la civiltà secentesca: perché episodi, come quello a cui fra poco assisteremo, erano allora comunissimi e di essi eran pieni, come vedremo, i libri di cavalleria. sila 130. uno de’ vantaggi...: il fatto ‘illogico è tanto
più rimarcato,
in quanto
que-
sto « vantaggio » il M. non lo sente circoscritto ad una sola età storica ma diffuso per tutta l'umanità di ogni tempo. 132. diritto, con passo superbo: ritratto
stupendo. Senti anche come tutta la scena si anima, e il racconto si fa subito avvin-
cente.
134. (notate bene): che cosa? Naturalmen-
te, la futilità del motivo che darà luogo alla sfida e alla strage. E di sfide e stragi simili, abbiamo già detto, son piene le storie del tempo ei trattati di cavalleria, come quelli di F. Birago (che troveremo nella biblioteca di don Ferrante: cap. XXVII) e di G.B. Olevano. In uno dei quali si legge fra l’altro: «Curzio si incontra in Carlo, col quale passava alcuni disgusti; e volen- do Carlo tenersi ad alto (poiché la strada era sua, camminando egli col braccio destro al muro), Curzio gli dice: tiratevi abbasso. E Carlo risponde: Non vi voglio andare perché la strada è mia. Curzio ritorna a dirgli: Coi pari vostri è sempre mia. E Carlo gli replica: Io sono nobile quanto voi. E Curzio gli soggiunge: Questo no... ». — È facile sentire l'ironia che il M. diffonde su tutta la scena, e che le frequenti osserva-
zioni fanno risaltare ad ogni passo; come alla fine: «...il che dava l’opportunità di fare una guerra... ». 143. ristretti alla muraglia: li vedi, i due zucconi caparbi; ed osserva che qui il M.
non
dice
«muro»,
ma
«muraglia »:
c’è
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capitolo IV 145
basso rilievo ambulanti. Quando si trovarono a viso a viso, il signor tale,
squadrando Lodovico, a capo alto, col cipiglio imperioso, gli disse, in un tono corrispondente di voce: « fate luogo ». « Fate luogo voi, » rispose Lodovico. « La diritta è mia. » « Co’ vostri pari, è sempre mia. » « Sì, se l’arroganza de’ vostri pari I bravi dell’uno e dell’altro eran padrone, guardandosi in cagnesco, con taglia. La gente che arrivava di qua e
fosse legge per i pari miei. » rimasti fermi, ciascuno dietro il suo le mani alle daghe, preparati alla batdi là, si teneva in distanza, a osservare il fatto; e la presenza di quegli spettatori animava sempre più il puntiglio de’ contendenti. 155 « Nel mezzo, vile mecanico; o ch’io t'insegno una volta come si tratta co’ gentiluomini. » « Voi mentite ch’io sia vile. » «Tu menti ch'io abbia mentito. » Questa risposta era di prammatica. « E, se tu fossi cavaliere, come son io, » aggiunse quel signore, « ti vorrei far 160° vedere, con la spada e con la cappa, che il mentitore sei tu. » « È un buon pretesto per dispensarvi di sostener co’ fatti l’insolenza delle vostre parole. » < Gettate nel fango questo ribaldo, » disse il gentiluomo, voltandosi a’ suoi. 165 « Vediamo! » disse Lodovico, dando subitamente un passo indietro, e mettendo mano alla spada. « Temerario! » gridò l’altro, sfoderando la sua: «io spezzerò questa, quando sarà macchiata del tuo vil sangue. » Così s’avventarono l’uno all’altro; i servitori delle due parti si slan170 ciarono alla difesa de’ loro padroni. Il combattimento era disuguale, e per il numero, e anche perché Lodovico mirava piuttosto a scansare i colpi, e a disarmare il nemico, che ad ucciderlo; ma questo voleva la morte di lui, a ogni costo. Lodovico aveva già ricevuta al braccio sinistro una pugnalata d’un bravo, e una sgraffiatura :leggiera in una guancia, e il nemico princi175 pale gli piombava addosso per finirlo; quando Cristoforo, vedendo il suo padrone nell’estremo pericolo, andò col pugnale addosso al signore. Questo, rivolta tutta la sua ira contro di lui, lo passò con la spada. A quella vista,
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Lodovico, come fuor di sé, cacciò la sua nel ventre del feritore, il quale cadde
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moribondo, quasi a un punto col povero Cristoforo. I bravi del gentiluomo, visto ch’era finita, si diedero alla fuga, malconci: quelli di Lodovico, tartassati e sfregiati anche loro, non essendovi più a chi dare, e non volendo trovarsi impicciati nella gente, che già accorreva, scantonarono dall’altra parte:
già, almeno nell’aria, lo sferragliar delle spade.
Nota
anche
la successiva
sferzata
di
quella felicissima caricatura: « come due figure di basso rilievo ambulanti » e di quello « quadrando » da gradasso. 150-152. I bravi... La gente...: la scena si anima di nuovi personaggi, la cui presenza interferisce psicologicamente nel contrasto, accentuando l’orgoglio e la spavalderia dei due contendenti.
151. daghe: spade corte e larghe. 157. Voi mentite ch’io sia vile: Lodovico deve subire il « meccanico », perché il padre era stato un mercante e non un nobile; ma reagisce al « vile », che è offesa più grave, e quella che l’avversario ripeterà ancora: «tuo vil sangue». 158. di prammatica: di norma; anche le botte e le risposte, che i due si scambiano, erano di prammatica cavalleresca.
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{1 promessi sposi
e Lodovico si trovò solo, con que’ due funesti compagni ai piedi, in mezzo a una folla. « Come è andata? — È uno. — Son due. — Gli ha fatto un occhiello nel ventre. — Chi è stato ammazzato? — Quel prepotente. — Oh santa Maria, che sconquasso! — Chi cerca trova. — Una le paga tutte. — Ha finito anche lui. — Che colpo! — Vuol essere una faccenda seria. — E quel.
l’altro disgraziato! — Misericordia! che spettacolo! — Salvatelo, salvatelo. —
Sta fresco anche lui. —
—
Vedete com’è concio! butta sangue da tutte le parti.
Scappi, scappi. Non si lasci prendere. » Queste parole, che più di tutte si facevan sentire nel frastono confuso di quella folla, esprimevano il voto comune; e, col consiglio, venne anche
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l’aiuto. Il fatto era accaduto vicino. a una chiesa di cappuccini, asilo, come
ognun sa, impenetrabile allora a’ birri, e a tutto quel complesso di cose e di persone, che si chiamava la giustizia. L’uccisore ferito fu quivi condotto 0 portato dalla folla, quasi fuor di sentimento; e i frati lo ricevettero dalle mani del popolo, che glielo raccomandava, dicendo: «è un uomo dabbene che ha freddato un birbone superbo: l’ha fatto per sua difesa: c’è stato tirato per i capelli ». i
Lodovico non aveva mai, prima d’allora, sparso sangue; e, benché l’omicidio fosse, a que’ tempi, cosa tanto comune, che gli orecchi d’ognuno erano avvezzi a sentirlo raccontare, e gli occhi a vederlo, pure l'impressione ch'egli ricevette dal veder l’uomo morto per lui, e l’uomo morto da lui, fu nuova e indicibile; fu una rivelazione di sentimenti ancora sconosciuti. Il cadere del suo nemico, l’alterazione di quel volto, che passava, in un momento, dalla minaccia e dal furore, all’abbattimento e alla quiete solenne della morte, fu una vista che cambiò, in un punto, l’animo dell’uccisore. Strascinato al convento, non sapeva quasi dove si fosse, né cosa si facesse; e, quando fu tornato in sé, si trovò in un letto dell’infermeria, nelle mani del frate chirurgo ‘ (i cappuccini ne avevano ordinariamente uno in ogni convento), che accomo-
dava faldelle e fasce sulle due ferite ch’egli aveva ricevute nello scontro. Un
padre, il cui impiego particolare era d’assistere i moribondi,
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spesso avuto a render questo servizio sulla strada, fu chiamatoe che aveva subito al luogo del combattimento. Tornato, pochi minuti dopo, entrò nell’in fermeria, e, avvicinatosi al letto dove Lodovico giaceva, « consolatevi, » gli disse: « al-
183-184. solo..., in mezzo a una folla: dopo la scena convulsa del duello e della strage, il quadro dell’uccisore grondante di sangue coi due cadaveri ai piedi e la folla sospesa all’intorno, è ciò che, in tutte queste ultime pagine, è scolpito con maggiore potenza e più ci resta impresso nella mente. La solitudine spirituale di Lodovico, solitudine che intuiamo più che trovar descritta, preannunzia quella straordinaria penetra zione psicologica del M. nel ritrarre i rimorsi della colpa, che incontreremo in alcune fra le pagine più drammatiche del romanzo. D’altra parte anche questa folla che, in una gamma naturalissima di reazioni individuali e collettive, commenta, domanda, esorta, costituisce, per così dire, una riuscita prova dello scrittote prima di presentarci com-
portamenti e psicologia di masse ben più imponenti e agitate da ben più sconvolgenti passioni. 204. morto per lui, ... morto da lui: l’uso di « morto » per « ucciso » è del linguaggio toscano popolare; ma qui tutta l’espressione ha un certo andamento retorico e insieme vigoroso. Naturalmente il primo morto è il servitore Cristoforo, l’altro il nobiluomo. — La morte assume, ora, una forza determinante nel processo di conversione di Lodovico: la sua « quiete solenne », il « perdono » di un ucciso, l’« angosciosa compassione » pet l’altro, divengono altrettante voci di cui la Grazia si serve per avviare a concretezza cosciente quella che, fino allora, era stata soltanto una « fantasia ». E sulla morte descritta dal M. avremo più volte da meditare.
capitolo IV
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meno è morto bene, e m’ha incaricato di chiedere il vostro perdono, e di portarvi il suo ». Questa parola fece rinvenire affatto il ‘povero Lodovico, e 220
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gli risvegliò più vivamente e più distintamente i sentimenti ch’eran confusi
e affollati nel suo animo: dolore dell’amico, sgomento e rimorso del colpo che gli era uscito di mano, e, nello stesso tempo, un’angosciosa compassione dell’uomo che aveva ucciso. « E l’altro? » domandò ansiosamente al frate. « L’altro era spirato, quand’io arrivai. » Frattanto, gli accessi e i contorni del convento formicolavan di popolo curioso: ma, giunta la sbirraglia, fece smaltir la folla, e si postò a una certa distanza dalla porta, in modo però che nessuno potesse uscirne inosservato. Un fratello del motto, due suoi cugini e un vecchio zio, vennero pure, armati da capo a piedi, con grande accompagnamento di bravi; e si misero a far la ronda intorno, guardando, con aria e con atti di dispetto minaccioso, que’ curiosi, che non osavan dire: gli sta bene; ma l’avevano scritto in viso. Appena Lodovico ebbe potuto raccogliere i suoi pensieri, chiamato un frate confessore, lo pregò che cercasse della vedova di Cristoforo, le chiedesse in suo nome perdono d’essere stato lui la cagione, quantunque ben certo involontaria, di quella desolazione, e, nello stesso tempo, l’assicurasse ch'egli prendeva la famiglia sopra di sé. Riflettendo quindi a’ casi suoi, sentì rinascere più che mai vivo e serio quel pensiero di farsi frate, che altre volte
gli era passato per la mente: gli parve che Dio medesimo l’avesse messo sulla strada, e datogli un segno del suo volere, facendolo capitare in un convento, in quella congiuntura; e il partito fu preso. Fece chiamare il guat240
diano, e gli manifestò il suo desiderio. N’ebbe in risposta, che bisognava guardarsi dalle risoluzioni precipitate;
ma
che, se persisteva, non
sarebbe
rifiutato. Allora, fatto venire un notaro, dettò una donazione di tutto ciò che gli rimaneva (ch’era tuttavia un bel patrimonio) alla famiglia di Cristo245
foro: una somma alla vedova, come se le costituisse una contraddote, e il resto a otto figliuoli che Cristoforo aveva lasciati. La risoluzione di Lodovico veniva molto a proposito per i suoi ospiti,
i quali, per cagion sua, erano in un bell’intrigo. Rimandarlo dal convento,
ed esporlo così alla giustizia, cioè alla vendetta de’ suoi nemici, non era 250
partito da metter neppure in consulta. Sarebbe stato lo stesso che rinunziare a’ propri privilegi, screditare il convento presso il popolo, attirarsi il biasimo di tutti i cappuccini dell’universo, per aver lasciato violare il di-
ritto di tutti, concitarsi contro tutte l’autorità ecclesiastiche, le quali si con225. smaltir: meglio avrebbe detto «allontanare ». 236. vivo e serio quel pensiero: l’idea di farsi frate non è più, dunque, una « fantasia », ma pensiero « vivo e serio ». In questo sta il valore della vera conversione, e da questo deriva la validità di quella decisione finale, rievocata con una concisione che benissimo esprime l’irrevocabilità della scelta: «e il partito fu preso ». Ma non si tratta, si badi, d’una conversione che esplode da crisi improvvisa, bensì dall’effetto conclusi vo di un ripensamento che affonda le radici nell'anima generosa ed impetuosa del giovane. E, d’altra parte, è necessario che
la Grazia di Dio intervenga:
lo fa spe-
cialmente col riproporre alla mente, dopo le immagini dei contrasti, delle zuffe, del sangue inutilmente versato, il mistero della «quiete solenne della morte». V’è quindi un punto d’incontro fra una natura congenita e un pensiero lontano da una parte, e dall’altra l’azione illuminatrice e redentrice di Dio. Dinanzi alla conversione dell’Innominato la sintesi di questo binomio si ripeterà, ma in forme tanto più ricche e complesse di passione e di poesia. 248. alla giustizia, cioè alla vendetta: ma far vendetta non è far giustizia: tutt’altro! Anche qui una rapida espressione dà, senza parere un’altra stoccata polemica alla civiltà secentesca,
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î promessi sposi
sideravan come tutrici di questo diritto. Dall’altra parte, la famiglia del-
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l’ucciso, potente assai, e per sé, e per le sue aderenze, s'era messa al punto di voler vendetta; e dichiarava suo nemico chiunque s’attentasse di mettervi ostacolo. La storia non dice che a loro dolesse molto dell’ucciso, e nemmeno che. una lagrima fosse stata sparsa per lui, in tutto il parentado: dice sol-
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tanto ch’eran tutti smaniosi d’aver nell’unghie l’uccisore, o vivo o morto. Ora questo, vestendo l’abito di cappuccino, accomodava ogni cosa. Faceva, in certa maniera, un’emenda, s’imponeva una penitenza, si chiamava implicitamente
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in colpa, si ritirava da ogni gara;
era in somma
un nemico che
depon l’armi. I parenti del morto potevan poi anche, se loro piacesse, credere e vantarsi che s’era fatto frate per disperazione, e per terrore del loro sdegno. E, ad ogni modo, ridurre un ‘uomo a spropriarsi del suo, a ‘tosarsi la testa, a camminare a piedi nudi, a dormir sur un saccone, a viver d’ele-
mosina, poteva parere una punizione competente, anche all’offeso il più borioso. Il padre guardiano si presentò, con un’umiltà disinvolta; al fratello del morto, e, dopo mille proteste di rispetto per l’illustrissima casa, e di desi-
derio di compiacere ad essa in tutto ciò che fosse fattibile, parlò del pentimento di Lodovico, e della sua risoluzione, facendo garbatamente sentire che
la casa poteva esserne contenta, e insinuando poi soavemente, e con maniera
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ancor più destra, che, piacesse o non piacesse, la cosa doveva essere. Il fratello diede in ismanie, che il cappuccino lasciò svaporare, dicendo di tempo in tempo: «è un troppo giusto dolore ». Fece intendere che, in ogni caso,
la sua famiglia avrebbe saputo prendersi una soddisfazione: e il cappuccino, qualunque cosa ne pensasse, non disse di no. Finalmente richiese, impose come una condizione, che l’uccisor di suo fratello partirebbe subito da quella città. Il ‘guardiano, che aveva già deliberato che questo fosse fatto,
disse che si farebbe, lasciando che l’altro credesse, se gli piaceva, esser que-
sto un atto d’ubbidienza: e tutto fu concluso. Contenta la famiglia, che ne usciva con onore; contenti i frati, che salvavano un uomo e i loro privilegi, senza farsi alcun nemico; contenti i dilettanti di cavalleria, che vedevano un affare terminarsi lodevolmente; contento il popolo, che vedeva fuor d’im256. La storia non dice...: e neppure c’è bisogno che lo dica, per capire da tutto il resto che, lacrime per il morto, i parenti non ne sparsero neppure una. Ma il ricorso alla « storia » è (come quasi ogni altro ricorso all’Anonimo) un espediente per dare più forza all’ironia. 262. depon: fra i tanti, troppi, troncamenti di parole che ad ogni passo incontriamo nel romanzo, questo è uno dei peggiori, perché fa suonare la frase, « depon l’armi », veramente male. 266. competente: adeguata, proporzionata. 268. un’umiltà disinvolta: è questa, nell'aspetto esteriore come nella realtà interiore, l'arma più potente del padre guardiano. Dall’accostamento finissimo dei due uomini, che a-prima vista sembrano eludersi a vicenda, traspare l’essenza della diplomazia
del frate. Nel quale non vediamo affatto, co-
me fa alcuno, una « macchietta » che sa condurre « la commedia a lieto fine »; ma sentiamo che con lui il M. ha creato, nel succedersi di pochissime frasi, un uomo abile, cosciente della forza che gli deriva ‘dal rappresentare tutto l’ordine dei cappuccini, ma insieme comprensivo della posizione del suo antagonista: un uomo che è formalmente umile come la veste gli impone, ma sostanzialmente deciso come il sentimento cristiano gli richiede, i 281-287. Contenta... d’espiazione: abilmente il M., restando sempre sullo stesso concetto della « contentezza », conduce il periodo dall’ironica rassegna della boria soddisfatta e dei privilegi salvaguardati, alla contemplazione del gaudio puro e raccolto di un’anima che in Dio finalmente ha tro-
vato la pace. E con sorriso bonario osserva
ancora individui, gruppi, folle.
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piccio un uomo ben voluto, e che, nello stesso tempo, ammirava una conversione; contento finalmente, e più di tutti, in mezzo al dolore, il nostro Lodovico, il quale cominciava una vita d’espiazione e di servizio, che potesse, se non riparare, pagare almeno il mal fatto, e rintuzzare il pungolo intolle-
rabile del rimorso. Il sospetto che la sua risoluzione fosse attribuita alla pau: 290
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ra, lafflisse un momento;
ma si consolò subito, col pensiero che anche quel-
l’ingiusto giudizio sarebbe un gastigo per lui, e un mezzo d’espiazione. Così, a trent'anni, si ravvolse nel sacco; e, dovendo, secondo l’uso, lasciare il suo nome, e prenderne un altro, ne scelse uno che gli rammentasse, ogni momento, ciò che aveva da espiare: e si chiamò fra Cristoforo. Appena compita la cerimonia della vestizione, il guardiano gl’intimò che sarebbe andato a fare il suo noviziato a ***, sessanta miglia lontano, e che partirebbe all’indomani. Il novizio s’inchinò profondamente, e chiese una
grazia. « Permettetemi, padre, » disse, « che, prima di partir da questa città,
dove ho sparso il sangue d’un uomo, dove lascio una famiglia crudelmente
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offesa, io la ristori almeno dell’affronto, ch’io mostri almeno il mio rammarico di non poter risarcire il danno, col chiedere scusa al fratello dell’ucciso, e gli levi, se Dio benedice la mia intenzione, il rancore dall’animo. » AI
guardiano ‘parve che un tal passo, oltre all’esser buono in sé, servirebbe a riconciliar sempre più la famiglia col convento; e andò diviato da quel signor fratello, ad esporgli la domanda di fra Cristoforo. A proposta così inaspettata, colui sentì, insieme con la maraviglia, un ribollimento di sdegno, non
però senza qualche compiacenza. Dopo aver pensato un momento, « venga domani », disse; e assegnò l’ora. Il guardiano tornò, a portare al novizio il
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consenso desiderato. Il gentiluomo pensò subito che, quanto più quella soddisfazione fosse solenne e clamorosa, tanto più accrescerebbe il suo credito presso tutta la parentela, e presso il pubblico; e sarebbe (per dirla con un’eleganza moderna) una bella pagina nella storia della famiglia. Fece avvertire in fretta tutti i parenti che, all'indomani, a mezzogiorno, restassero serviti (così si diceva
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allora) di venir da lui, a ricevere una soddisfazione comune. A mezzogiorno,
lettore osservi e pesi ogni frase, ogni pa308. ...e assegnò l’ora: dice bene il Prorola (per esempio, quei due versi armoniovenzal, che nell’animo di questo signore, il si: un endecasillabo, «un muoversi libramoun scopre zione quale nell’altrui umilia to di gorgiere »; un settenario, « inamidate tivo per la propria soddisfazione, c'è tane crespe »): da ogni parte vedrà balzare un M. il miserie ta miseria; e che di queste colore, un movimento, un suono. Ne nasce temogni in e o Seicent nel tante ne vedeva un quadro finito di vita tipica della nopo. E conclude: «C'è molta amarezza, ma biltà del XVII secolo. Ma questa scena è nomo dobbia qui; ci fermar mo dobbia non ° secentesca non tanto per quell’apparato sfarpadi no cristia tare come l’atto veramente zoso « di gran cappe, di alte penne, di duraniquelle tutte rà tocche foro dre Cristo pendenti », per quel « muoversi liin lindane nuovi enti me, susciterà pensieri e sentim gorgiere inamidate e crespe », per di brato godere a pronta a, superbi di gente gonfia di rabescate zimarre », «strascico è quello Questo della mortificazione di un nemico. per l’atmosfera d’arspirito, lo per il quanto iano: manzon ismo pessim il segreto del se ha il suo rapche, d’orgoglio e roganza ente mondo è, per il M., una poco divert nell’altezzosa fieccentrico più presentante e piccin tante di sopra di commedia, ma al dai pacircondato casa, di padrone del gura iniquirie, a conforto di tante malvagità e della mezzo nel immobile ed ritto e renti l’inc’è fede, della tà, c'è la luce consolante società una tutta di proprio è sala, grande fallibile giustizia di Dio ». fatta d’apparenze, d’orpelli, di superbia, ma 315. A mezzogiorno...: ha inizio una delcon l’anima insulsa e vuota, più spettacolari del romanzo. Il
le scene
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il palazzo brulicava di signori d’ogni età e d’ogni sesso: era un girare, un rimescolarsi di gran cappe, d’alte penne, di durlindane pendenti, un moversi librato di gorgiere inamidate e crespe, uno strascico intralciato di rabescate zimatre. Le anticamere, il cortile e la strada formicolavan di servitori, di paggi, di bravi e di curiosi. Fra Cristoforo vide quell’apparecchio, ne indovinò il motivo, e provò un leggier turbamento; ma, dopo un istante, disse tra sé: — sta bene: l’ho ucciso in pubblico, alla presenza di tanti suoi nemici: quello fu scandolo, questa è riparazione; — Così, con gli occhi bassi, col padre compagno al fianco, passò la porta di quella casa, attraversò il cortile, tra una
folla che lo squadrava con una curiosità poco cerimoniosa; salì le scale, e, di
mezzo all’altra folla signorile, che fece ala al suo passaggio, seguito da cento sguardi, giunse alla presenza del padron di casa; il quale, circondato da’ parenti più prossimi, stava ritto nel mezzo della sala, con lo sguardo a terra, e il mento in aria, impugnando, con la mano sinistra, il. pomo della spada, e stringendo con la destra il bavero della cappa sul petto. C'è talvolta, nel volto e nel contegno d’un uomo, un’espressione così immediata, si direbbe quasi un’effusione dell’animo interno, che, in una folla di spettatori, il giudizio sopra quell’animo sarà un solo. Il volto e il contegno di fra Cristoforo disser chiaro agli astanti, che non s'era fatto frate, né veniva a quell’umiliazione pet timore umano: e questo cominciò a concigliarglieli tutti. Quando vide l’offeso, affrettò il passo, gli si pose inginoc chioni ai piedi, incrociò le mani sul petto, e, chinando la testa rasa, disse queste parole: «io sono l’omicida di suo fratello. Sa Iddio se vorrei restit uirglielo a costo del mio sangue; ma, non potendo altro che farle ineffic aci e tarde scuse, la supplico d’accettarle per l’amor di Dio ». Tutti gli occhi erano immobili sul novizio, e sul personaggio a cui egli parlava; tutti gli orecchi eran tesi. Quando fra Cristoforo tacque, s’alzò, per tutta la sala, un mormorìo di pietà e di rispetto. Il gentiluomo, che stava in atto di degnazione forzata, e d’ira compressa, -fu turbato da quelle parole; e, chinandosi verso. l’inginoc317-319. durlindane..., gorgiere..., zimarre: durlindane, lunghe spade, dal nome di quella famosissima di Orlando, il paladino di Carlo Magno el’eroe delle Chansons de geste; gorgiere, ampi collari increspati a fitti cannelli; zimzarre, lunghi ed ampi soprabiti di foggia spagnola. 1 331. C'è talvolta...: la riflessione generale vuol richiamare la nostra attenzione su quanto sta per accadere, ed insieme spiegare il perché di certi repentini cambiamenti nei cuori dei singoli e nella psicologia delle folle. Ma in più essa ha la funzione di distogliere la nostra mente dalle immagini di « quell’apparecchio » superbo e terreno, che abbiamo fin qui visto, per rivolgerla alla meditazione dei grandi ed eterni problemi dello spirito. 337. chinando la testa rasa: ma è proprio quest’umile testa rasa, che si china dinanzi a tanti sfarzosi cappelli piumati, che compirà il miracolo di vincere l'orgoglio e la
vanità,
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342-343. ...un mormorìo di pietà e di ri-
spetto: il De Sanctis, che su questo episodio del perdono ha scritto alcune delle sua
più belle pagine manzoniane, dice a questo « Padre Cristoforo non fa le cose mezzo: beve il calice sino alla feccia. Nes-a sun segno di ripugnanza, di esitazione; nessun tentativo di un compromesso tra la sua naturale alterezza e la sua sottomissione. I suoi atti di contrizione e di umiliazione sono quali li vorrebbe l’offeso; la riparazion e è intera, come intero fu lo scandalo. Mentre piega le ginocchia a terra, nel suo animo c’è questo pensiero così netto: quello fu scandalo, questa è riparazione. Nelle sue parole non perifrasi, non esordi, nessuna titubanza. Non cerca scuse; non va mendicando raddolcimenti e palliativi; va diritto e rapido; la sua parola rassomiglia al suo pentimento; è sicura e sincera. Le mutate disposizioni della folla ora prorompono; a quella impertinenza degli sguardi succede un mormorio di pietà e di rispetto ». punto:
capitolo IV 345
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chiato, « alzatevi », disse, con voce alterata: « l’offesa... il fatto veramente... ma l’abito che portate... non solo questo, ma anche per voi... S’alzi, padre...
Mio fratello... non lo posso negare... era un cavaliere... era un uomo... un 350
po’ impetuoso... un po’ vivo. Ma tutto accade per disposizion di Dio. Non se ne parli più... Ma, padre, lei non deve stare in codesta positura ». E, presolo per le braccia, lo sollevò. Fra Cristoforo, in piedi, ma col capo chino,
rispose: « io posso dunque sperare che lei m’abbia concesso il suo perdono! E se l’ottengo da lei, da chi non devo sperarlo? Oh! s’io potessi sentire dalla sua bocca questa parola, perdono! »
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« Perdono? » disse il gentiluomo. « Lei non ne ha più bisogno. Ma pure, poiché lo desidera, certo, certo, io le perdono di cuore, e tutti... »
« Tutti! tutti! » gridarono, a una voce, gli astanti. Il volto del frate s’aprì a una gioia riconoscente, sotto la quale traspariva però ancora un’umile e profonda compunzione del male a cui la remissione degli uomini non poteva riparare. Il gentiluomo, vinto da quell’aspetto, e trasportato dalla commozione generale, gli gettò le braccia al collo, e gli diede e ne ricevette il bacio di pace. Un « bravo! bene! » scoppiò da tutte le parti della sala; tutti si mossero, e si strinsero intorno al frate. Intanto vennero servitori, con gran copia di rinfreschi. Il gentiluomo si raccostò al nostro Cristoforo, il quale faceva segno di volersi licenziare, e gli disse: « padre, gradisca qualche cosa; mi dia questa prova d’amicizia ». E si mise per servirlo prima d’ogni altro; ma egli, rititandosi, con una certa resistenza cordiale, « queste cose, » disse, « non
fanno più per me; ma non sarà mai ch'io rifiuti i suoi doni. Io sto per mettermi in viaggio: si degni di farmi portare un pane, perché io possa dire d’aver goduto la sua carità, d’aver mangiato il suo pane, e avuto un segno del suo perdono ». Il gentiluomo, commosso, ordinò che così si facesse; e venne subito un cameriere, in gran gala, portando un pane sur un piatto d’argento, e lo presentò al padre; il quale, presolo e ringraziato, lo mise nella sporta. Chiese quindi licenza; e, abbracciato di nuovo il padron di casa,
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e tutti quelli che, trovandosi più vicini a lui, poterono impadronirsene un
momento, si liberò da essi a fatica; ebbe a combatter nell’anticamere, per isbrigarsi da’ servitori, e anche da’ bravi, che gli baciavano il lembo dell'abito, il cordone, il cappuccio; e si trovò nella strada, portato come in trionfo, e accompagnato da una folla di popolo, fino a una porta della città; d’onde uscì, cominciando il suo pedestre viaggio, verso il luogo del suo no-
viziato. 345. con voce alterata: qui è nel senso di commossa. Il che si capisce benissimo da tutte le parole seguenti, in cui è da osservare, in particolare, quel passaggio dal voi al lei, e come il nobiluomo, non sapendo che cos'altro dire, vada sempre più stringendo il discorso verso la conclusione: «Non se ne parli più... ». 361. ...il bacio di pace: finalmente, sotto l'impulso della sincera umiltà, ogni impalcatura del cerimoniale cavalleresco e superbo è crollata, e il dramma, che avrebbe dovuto concludersi col trionfo dell’orgoglio, si spegne nella pacata vittoria dell'amore.
362. Un «bravo! bene! »...: la scena, che ‘ con l’abbraccio aveva raggiunto il punto di più alta tensione, ora lentamente si dissolve per spunti diversi, comuni e realistici: le congratulazioni, i complimenti, il rinfresco, il pane del perdono, l’ultimo abbraccio, l’uscita del novizio... Così tutto e tutti rientrano nel loro mondo. Ma a noi, di queste ultime cose, resta in mente soprattutto quel pane: il quale, nonché concludere una. vicenda di sangue, apre quel motivo del perdono cristiano che resterà caratteristico della figura di padre Cristoforo fino al termine del romanzo.
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i promessi sposi Il fratello dell’ucciso, e il parentado, che s’erano aspettati d’assaporare in
quel giorno la trista gioia dell’orgoglio, si trovarono in vece ripieni della gioia 385
serena del perdono e della benevolenza. La compagnia si trattenne ancor qualche tempo, con una bonarietà e con una cordialità insolita, in ragionamenti
ai quali nessuno era preparato, andando là. In vece di soddisfazioni prese, di soprusi vendicati, d’impegni spuntati, le lodi del novizio, la riconciliazione, 390
la mansuetudine furono i temi della conversazione. E taluno, che, per la cinquantesima volta, avrebbe raccontato come il conte Muzio suo padre aveva saputo, in quella famosa congiuntura, far stare a dovere il marchese Stanislao,
ch’era quel rodomonte che ognun sa, parlò in vece delle penitenze e della pazienza mirabile d’un fra Simone, morto molt’anni prima. Partita la com395
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pagnia, il padrone, ancor tutto commosso, riandava tra sé, coni maraviglia, ciò che aveva inteso, ciò ch’egli medesimo aveva detto; e borbottava tra i
denti: — diavolo d’un frate! (bisogna bene che noi trascriviamo le sue precise parole) — diavolo d’un frate! se rimaneva lì in ginocchio, ancora per qualche momento, quasi quasi gli chiedevo scusa io, che m’abbia ammazzato il fratello. — La nostra storia nota espressamente che, da quel giorno in poi, quel signore fu un po’ men precipitoso, e un po’ più alla mano. Il padre Cristoforo camminava, con una consolazione che non aveva mai più provata, dopo quel giorno terribile, ad espiare il quale tutta la sua vita doveva esser consacrata. Il silenzio ch’era imposto a’ novizi, l’osservava, senza avvedersene,
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assorto com’era, nel pensiero delle fatiche, delle priva-
zioni e dell’umiliazioni che avrebbe sofferte, per iscontare il suo fallo! Fermandosi, all’ora della refezione, presso un benefattore, mangiò, con una specie di voluttà, del pane del perdono: ma ne serbò un pezzo, e lo ripose nella sporta, per tenerlo, come un ricordo perpetuo. Non è nostro disegno di far la storia della sua vita claustrale: diremo soltanto che, adempiendo, sempre con gran voglia, e con gran cura, gli ufizi che gli venivano ordinariamente assegnati, di predicare e d’assistere i moribondi, non lasciava mai sfuggire un’occasione d’esercitarne due altri, che
s'era imposti da sé: accomodar differenze, e proteggere oppressi. In questo genio entrava, per qualche parte, senza ch’egli se n’avvedesse, quella sua vecchia abitudine, e un resticciolo di spiriti guerreschi, che l’umiliazioni e le macerazioni non avevan potuto spegner del tutto. Il suo linguaggio era abitualmente umile e posato; ma, quando si trattasse di giustizia o di verità com- Gi battuta, l’uomo s’animava, a un tratto, dell’impeto antico, che, secondato e modificato da un’enfasi solenne, venutagli dall’uso del predicare, dava a quel 388-392. E taluno che... prima: quel processo, per così dire, di « degradazione » di cui abbiamo parlato nella nota precedente, qui continua arrivando — specialmente con quel « diavolo d’un frate! » — all’umotismo sereno e più congeniale del M., quello di una temperatura media con cui l’autore si porta allo stesso piano dei suoi lettori, e . con loro osserva, racconta, sorride. — Riguardo, poi, ai due nomi di gentiluomini ricordati come esempio di duellanti da leggenda, sembra che il M. li abbia trovati nelle cronache cremonesi, ove si parla di un certo conte Muzio Pallavicino che avrebbe ‘uc.
pra!
“
ciso un certo marchese Stanislao Piasio. Già abbiamo notato come a quelle cronache il M. abbia attinto a proposito del nome e della figura di padre Cristoforo. 399. ..e un po’ più alla mano: quindi, . anche per lui c’è stato un ravvedimento, se non si può parlare di conversione. Un ravvedimento il cui processo è stato presentato dal M. con una nota maliziosa, ma insieme con un fare così spontaneo ed espansivo che non vi scorgi nessun proposito di morale edificazione ma vi trovi soltanto il naturale diffondersi del bene: quando, fra gli uomini, si fa il bene,
capitolo IV 420
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linguaggio un carattere singolare. Tutto il suo contegno, come l’aspetto, an-
nunziava una lunga guerra, tra un’indole focosa, risentita, e una volontà opposta, abitualmente vittoriosa, sempre all’erta, e diretta da motivi e da ispirazioni superiori. Un suo confratello ed amico, che lo conosceva bene, l’aveva
una volta paragonato a quelle parole troppo espressive nella loro forma naturale, che alcuni, anche ben educati, pronunziano, quando la passione tra425
bocca, smozzicate, con qualche lettera mutata; parole che, in quel travisamento, fanno però ricordare della loto energia primitiva. Se una poverella sconosciuta, nel tristo caso di Lucia, avesse chiesto l’aiuto del padre Cristoforo, egli sarebbe corso immediatamente. Trattandosi poi di Lucia, accorse con tanta più sollecitudine, in quanto conosceva e ammi-
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rava l’innocenza di lei, era già in pensiero per i suoi pericoli, e sentiva un’indegnazione santa, per la turpe persecuzione della quale era divenuta l’oggetto. Oltre di ciò, avendola consigliata, per il meno male, di non palesar nulla, e di starsene quieta, temeva ora che il consiglio potesse aver prodotto qualche tristo effetto; e alla sollecitudine di carità, ch'era in lui come ingenita, s’aggiungeva, in questo caso, quell’angustia scrupolosa che spesso tormenta i buoni. Ma, intanto che noi siamo stati a raccontare i fatti del padre Cristoforo,
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è arrivato, s'è affacciato all’uscio; e le donne, lasciando il manico dell’aspo che facevan girare e stridere, si sono alzate, dicendo, a una voce: « oh pa-
dre Cristoforo! sia benedetto! »
426 ...loro energia primitiva: il ritratto di padre Cristoforo si completa, così, in una sintesi dell’uomo nuovo con l'antico, che ne richiama alla mente la prima presentazione (cfr. n. 47). 427. Se una poverella sconosciuta...: conclusa l’ampia parentesi, il M. sa ritornare con estrema naturalezza al racconto, che si era fermato alla domanda sul. comportamento di padre Cristoforo: « Ma perché si pren-
Scheda
deva tanto pensiero per Lucia? ». Noi ora sentiamo che il lungo racconto non è stato tempo perso, non solo ai fini dell’arte, ma anche della stessa comprensione delle vicende e dei personaggi del romanzo. 439-440. oh padre Cristoforo! sia benedetto!: il saluto commosso chiude sapientemente il capitolo, convogliando ancora sull’umile frate le vicende e le speranze degli uomini.
critica al cap. IV Accanto ai personaggi degli umili, protagonisti della storia manzoniana, il vasto e complesso ritratto di una società, l'affresco storico che pertiene al grandioso progetto inventivo del romanzo, comporta anche la presenza di alcune figure ideali, rappresentanti dei ceti e degli ordini privilegiati :(il clero, l'aristocrazia, i dotti), i quali vi entrano, come è giusto, in funzione artisticamente subordinata (ma non perciò meno necessaria): o per antitesi, come le ombre che hanno il'compito di delimitare e porre in rilievo le zone di luce (don Rodrigo, il conte Attilio, il conte zio, ecc.): ovvero come elementi di sostegno e di con-
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î promessi sposi forto del concetto che regola la rappresentazione nel suo complesso, in quanto si tratti di potenti che s'adeguano al mondo degli umili e si mettono al loro servizio (fra Cristoforo, il Cardinale, l'Innominato). Come appare chiaro già in questo capitolo, per la figura di fra Cristoforo, anche la tecnica della presentazione si avvale, in questo caso, di modi profondamente diversi da quelli che lo scrittore aveva adottato per descrivere gli umili (Renzo, Lucia, Agnese, Perpetua): alla rappresentazione immediata e diretta, tutta risolta in azione e in dialogo, si sostituisce quella indiretta, retrospettiva e storica, appunto, che lega la fisionomia del personaggio al quadro di una situazione sociale tipica. Questo si giustifica in parte per la maggiore complessità psicologica dei personaggi, che richiede un ritratto più sfumato e analitico; ma anche, e in maggior misura, si ricollega alla natura « ideale », in senso desanctisiano, non del tutto risolta cioè in termini realistici, di queste figure e della loro funzione nello svolgimento esemplare e nella trama morale della storia. Questo va tenuto presente non per sminuire l'alta sapienza artistica dello scrittore, che si rivela anche in queste parti, del resto essenziali in rapporto alle complessità dell’intento e della poetica del Manzoni, con le sue profonde ragioni etiche e polemiche (in assenza delle quali anche le parti più propriamente fantastiche perderebbero molto del loro significato e della loro forza); sì soltanto per meglio caratterizzare l'indole e la qualità di queste figure e la particolarità dei modi tecnici e stilistici con cui vengono introdotte e svolte. Del resto anche il grado di « idealità » e tipicità di questi personaggi varia dall'uno all'altro; e così lo schema della rappresentazione indiretta si modifica, toccando forme di maggiore o minore verità psicologica. Intanto, in questo capitolo, il ritratto di fra Cristoforo tende a risolversi in colorita storia sociale e di costume, ben caratterizzata negli atti, nei discorsi e nei sentimenti, nella linea della grande pittura storica cara al gusto dell'età neoclassica e romantica (si pensi soprattutto alla superba scena del perdono in casa del fratello del nobile ucciso); e inoltre è da notare la cura che il Manzoni dedica a illuminare l'umanità del personaggio e la sua coerenza psicologica: il persistere nel convertito della prima « indole focosa », dell’« impeto antico »; le lontane e umanissime radici, legate all'orgoglio e magari all'invidia di casta, della sua vocazione tenace di nemico dei soprusi e protettore degli oppressi.
Capitolo V
Il qual padre Cristoforo si fermò ritto sulla soglia, e, appena ebbe data un'occhiata alle donne, dovette accorgersi che i suoi presentimenti non eran falsi. Onde, con quel tono d’interrogazione che va incontro a una trista risposta, alzando la barba con un moto leggiero della testa all’indietro, disse: « ebbene? » Lucia rispose con uno scoppio di pianto. La madre cominciava a far le scuse d’aver osato... ma il frate s’avanzò, e, messosi a sedere sur un panchetto a tre piedi, troncò i complimenti, dicendo a Lucia: « quietatevi, povera figliuola. E voi,» disse poi ad Agnese, « raccontatemi cosa’ c'è! » Mentre la buona donna faceva alla meglio la sua dolorosa relazione, il frate
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diventava di mille colori, e ora alzava gli occhi al cielo, ora batteva i piedi. Terminata la storia, si coprì il volto con le mani, ed esclamò:
« o Dio bene-
detto! fino a quando...! » Ma, senza compir la frase, voltandosi di nuovo alle donne: « poverette! » disse :« Dio vi ha visitate. Povera Lucia! » 6-7. un panchetto a tre piedi: sarà, con 1. Il qual padre Cristoforo...: l’inizio del l’aspo, l’unico oggetto che vedremo, in quepronodel presenza la capitolo, specie per me relativo che lo lega strettamente alla fi- st’'interno di casa modesta. 10. diventava di mille colori... tutto — ne del precedente, ha un tono deciso che conferisce un andamento spedito a tutto il gesti e parole — rivela un’indole focosa e discorso: quasi che il M. abbia fretta, do- impulsiva: ma tutto è, contemporaneamente, la realistica manifestazione di quanto nel po l’ampia digressione, di riprendere il raccapitolo precedente abbiamo imparato del scrittore lo conto. Osserviamo anche come e del mondo di padre Cristoforo. carattere a , immagini prime dalle fin riuscito, sia ben anzi, osserva che c’è una corriQualcuno, Cridi scolpire stagliata e netta la figura po’ troppo voluta, quasi reciun spondenza soglia, sulla pensoso o l’indugi stoforo: con se giusto, non diminuianche ciò, Ma », tata. col gesto energico ed insieme « leggero sce l'evidenza della scena. un ad deciso e pacato » con quell’« ebbene 11-12. o Dio benedetto! fino a quando...!: tempo, e che già dice tutta la partecipazione anche il tono enfatico di questa esclamaall’angoscia delle due donne. e delle parole successive fa parte del‘zione 3. trista: naturalmente era meglio dire à, che già conosciamo, di padre personalit la mentre a, doloros ca «triste », che signifi di quella sua «enfasi solenne, , Cristoforo tratta si Forse . cattiva dire vuol a» «trist di predicare ». Quindi dall’uso di venutagli quanto M., non tanto di una svista del espressioni oratorie © di tanto tratta si non dallo o derivat ito, propos te coscien un suo poeta, quanto di del e passional sfogo pedi di ione avere intuito la maggiore sensaz del suo realismo, zione manifesta un’accorta sfugse anche , razione allitte na che la cupa personaggio i ogni ad assegnare ad attento ». a gente, riesce a creare: « trist4 rispost zano. caratteriz lo meglio che toni i e gesti è : pianto di o scoppi 5. rispose con uno delicacon scrive, visitate: ha vi Dio 13. la risposta più spontanea e tipica del caratreligiosa, l’Angelini: «il vertere di Lucia, come è tipico del carattere di ta percezione bellissimo suono, qui ha un di visitare, bo Agnese, subito dopo, quel suo prendere le alto valore morale. Nel linguaggio mistico, cose da lontano.
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i promessi spost « Non ci abbandonerà, padre? » disse questa, singhiozzando..
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i
« Abbandonarvi! » rispose. « E con che faccia potrei io chieder a Dio qualcosa per me, quando v’avessi abbandonata? voi in questo stato! voi, ch’Egli mi confida! Non vi perdete d’animo: Egli v’assisterà: Egli vede tutto: Egli può servirsi anche d’un uomo da nulla come son io, per confondere un... Vediamo, pensiamo quel. che si possa fare. » i Così dicendo, appoggiò il gomito sinistro sul ginocchio, chinò la fronte nella palma, e con la destra strinse la barba e il mento, come per tener fer-
me e unite tutte le potenze dell’animo. Ma la più attenta considerazione non serviva che a fargli scorgere più distintamente quanto il caso fosse pressante e intrigato, e quanto scarsi, quanto incerti e pericolosi i ripieghi. — Met25
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tere un po’ di vergogna a don Abbondio, e fargli sentire quanto manchi al suo dovere? Vergogna e dovere sono un nulla per lui, quando ha paura. E fargli paura? Che mezzi ho io mai di fargliene una che superi quella che ha d’una schioppettata? Informar di tutto il cardinale arcivescovo, e invocar la sua autorità? Ci vuol tempo: e intanto? e poi? Quand’anche questa povera innocente fosse maritata, sarebbe questo un freno per quell’uomo? Chi sa a qual segno possa arrivare?... E resistergli? Come? Ah! se potessi, pensava il povero frate, se potessi tirar dalla mia i miei frati di qui, que’ di Milano! Ma! non è un affare comune; sarei abbandonato. Costui fa l’amico del convento, si spaccia per partigiano de’ cappuccini: e i suoi bravi non son
ch
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venuti più d’una volta a ricoverarsi da noi? Sarei solo in ballo; mi buscherei anche dell’inquieto, dell’imbroglione, dell’accattabrighe; e, quel ch’è più, potrei fors’anche, con un tentativo fuor di tempo, peggiorar la condizione di questa poveretta. — Contrappesato il pro e il contro di questo e di quel partito, il migliore gli parve d’affrontar don Rodrigo stesso, tentar di smoverlo dal suo infame ‘proposito, con le preghiere, coi terrori dell’altra vita, anche di questa, se fosse possibile. Alla peggio, si potrebbe almeno conoscere, per questa via, più distintamente quanto colui fosse ostinato nel suo sporco impegno, scoprir di più le sue intenzioni, e prender consiglio da ciò. Mentre il frate stava così meditando, Renzo, il quale, per tutte le ragioni che ognun può indovinare, non sapeva star lontano da quella casa, era comparso sull’uscio; -ma, visto il padre sopra pensiero, e le donne che facevan cenno di non disturbarlo, si fermò sulla soglia, in silenzio. Alzando la fac-
cia, per comunicare alle donne il suo progetto, il frate s’accorse di lui, e lo la disgrazia è vista come una visita del Signore. Dice che la sofferenza è un dono, una ricchezza, quasi un privilegio; usata
bene è occasione di meriti nuovi, di nuove
purificazioni. Nel romanzo troveremo, spesso, parole non meno ispirate di quelle della Scrittura; vi si sorprende la vicinanza dello spirito di Dio a quello dell’uomo ». 22. tutte le potenze dell’animo: col segreto lavorio della mente, che succede alla prima esplosione, il personaggio acquista qualcosa di più commovente e poetico. 39. affrontar don Rodrigo: questo pare a Cristoforo il partito migliore: vedremo che si risolverà in un fallimento completo e penseremo che forse altri partiti — specie quel-
lo di informare il Cardinale (il parere di Perpetua!) — avrebbero potuto avere un esito migliore. Ma la decisione di affrontare don Rodrigo, padre Cristoforo la prende perché è quella che risponde meglio al suo spirito combattivo. Essa rientra nella linea di altre decisioni, che già conosciamo da un pezzo, in Lodovico e in Cristoforo: il continuo contrastare contro i prepotenti, la zuffa col nobiluomo sul marciapiede, il presentarsi al fratello dell’ucciso...: e tutto perché nel mondo ci siano meno soprusi e più giustizia. 46-47. facevan cenno...: un cenno delicato: una nota gentile e rispettosa nel mondo doloroso degli umili e dei buoni.
capitolo V 50
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salutò in un modo ch’esprimeva un’affezione consueta, resa più intensa dalla
pietà. « Le hanno detto..., padre? » gli domandò Renzo, con voce commossa. « Pur troppo; e per questo son qui. »
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« Che dice di quel birbone...? » « Che vuoi ch'io dica di lui? Non è qui a sentire: che gioverebbero le mie parole? Dico a te, il mio Renzo, che tu confidi in Dio, e che Dio non
t'abbandonerà. » « Benedette le sue parole! » esclamò il giovane. « Lei non è di quelli che dan sempre torto a’ poveri. Ma il signor curato, e quel signor dottor delle cause perse... »
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« Non rivangare quello che non può servire ad altro che a inquietarti
inutilmente. Io sono un povero frate; ma ti ripeto quel che ho detto a queste donne: per quel poco che posso, non v’abbandonerò. » « Oh, lei non è come gli amici del mondo! Ciarloni! Chi avesse creduto alle proteste che mi facevan costoro, nel buon tempo; eh eh! Eran pronti a 65‘ dare il sangue per me; m’avrebbero sostenuto contro il diavolo. S’io avessi avuto un nemico?... bastava che mi lasciassi intendere; avrebbe finito presto di mangiar pane. E ora, se vedesse come si ritirano... » A questo punto, alzando gli occhi al volto del padre, vide che s’era tutto rannuvolato, e s’accorse d’aver detto ciò che conveniva tacere. Ma volendo raccomodarla, s’an70 dava intrigando e imbrogliando: « volevo dire... non intendo dire... cioè, volevo dire... » ve « Cosa volevi dire? E che? tu avevi dunque cominciato a guastar l’opera mia, prima che fosse intrapresa! Buon per te che sei stato disingannato in 75
tempo. Che! tu andavi in cerca d’amici... quali amici!... che non t’avrebber potuto aiutare, neppur volendo! E cercavi di perder Quel solo che lo può e lo vuole! Non sai tu che Dio è l’amico de’ tribolati, che confidano in Lui?
Non sai tu che, a metter fuori l’unghie, il debole non ci guadagna? E quan-
do pure... » A questo punto, afferrò fortemente il braccio di Renzo: il suo
66-67. avrebbe finito presto di mangiar pane: è, di tutto il discorso di Renzo, la espressione più popolare e pittorica. Dunque i suoi amici, quando non ne aveva bi-
sogno, avrebbero fatto di tutto per lui, avrebbero dato anche la vita... Ma ora! Nella sua impulsiva semplicità Renzo svela, vuol dirci il M., l'amara realtà delle amicizie umane — gli « amici del mondo»! — che si reggono solo finché c’è interesse e finché manca il pericolo. — Da tutti questi discorsi del giovane, traspare un’altra volta l’immagine del secolo violento: quest’'aria di braveria, che ogni poco spunta fuori negli atteggiamenti e nelle parole di Renzo, come abbiamo osservato fino dal suo primo apparire nel romanzo, è il segno dei tempi in cui anch’egli è nato e vive. 77-78. E quando pure... cioè: anche quando tu avessi ucciso il tuo nemico, che cosa avresti ottenuto? Nel cuore di fra Cristoforo c'è sempre, vivo ed opprimente, il ricordo del suo delitto. È l’eco più umana
e poetica di un’affermazione famosa che il M. aveva fatto nella Morale cattolica: «il sangue di un uomo solo, sparso per mano del suo fratello, è troppo per tutti i secoli e per tutta la terra ». Ci vengono alla mente, anche se ispirate da ben altro motivo, quello della guerra civile, certe frasi di Cesare Pavese nella sua ultima pagina de La casa in collina: « ... anche vinto il nemico è qualcuno, [...] dopo averne sparso il san‘gue bisogna placarlo, [...] si ha l’impressione che lo stesso destino che ha messo a terra quei corpi, tenga noi altri inchiodati a vederli... ». — Tornando a padre Cristoforo, osserviamo che egli non svela mai apertamente la sua intima tragedia: ed è anche per questo che ne percepiamo più forte. il tormento; si pensi all’esclamazione seguente: «è un terribile guadagno! » e all’insistenza della richiesta rivolta a Renzo: «.. prometti che non affronterai, che non provocherai... che ti lascerai guidare... ». Non riusciamo perciò a capite come, in un
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î promessi sposi
aspetto, senza perder d’autorità, s’atteggiò d’una compunzione
solenne, gli
occhi s’abbassarono, la voce divenne lenta e come sotterranea: « quando pure... è un terribile guadagno! Renzo! vuoi tu confidare in me?... che dico in me, omiciattolo, fraticello? Vuoi tu confidare in Dio? »
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« Oh sì! » rispose Renzo. « Quello è il Signore davvero. » « Ebbene; prometti che non affronterai, che non provochertai nessuno che ti lascerai guidar da me. » « Lo prometto. »
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Lucia fece un gran respiro, come se le avesser levato un peso d’addosso; e Agnese disse: « bravo figliuolo ». « Sentite, figliuoli, » riprese fra Cristoforo: «io anderò oggi a parlare a quell’uomo. Se Dio gli tocca il cuore, e dà fotza alle mie parole, bene: se no, Egli ci farà trovare qualche altro rimedio. Voi intanto, statevi quieti, ritirati, scansate le ciarle, non vi fate vedere. Stasera, o domattina al più tardi, mi rivedrete. » Detto questo, troncò tutti i ringraziamenti e le benedizioni, e partì. S'avviò al convento, arrivò a tempo d’andare in coro a cantar sesta, desinò, e
si mise subito in cammino, verso il covile della fiera che voleva provarsi d’ammansare. Il palazzotto di don Rodrigo sorgeva isolato, a somiglianza d’una bicocca, sulla cima d’uno de’ poggi ond’è sparsa e rilevata quella costiera. A questa indicazione l'anonimo aggiunge che il luogo (avrebbe fatto meglio a scriverne alla buona il nome) era più in su del paesello degli sposi, discosto da questo forse tre miglia, e quattro dal convento. Appiè del poggio, dalla parte che
guarda a mezzogiorno, e verso il lago, giaceva un mucchietto di casupole, abitate da contadini di don Rodrigo; ed era come la piccola capitale del suo piccol regno. Bastava passarvi, per esser chiarito della condizione e de’ costumi del paese: Dando un’occhiata nelle stanze terrene, dove qualche uscio fosse aperto, si vedevano attaccati al muro schioppi, tromboni, zappe, racommento dei più moderni, a proposito di questa risposta di fra Cristoforo a Renzo si sia potuto dire che essa « non appare perfettamente intonata, e non solo ci lascia
to vero e proprio, solitario sull’alto di un poggio, greve nella sua rozza architettura
invece, con chi sen-
barocca: «rade e piccole finestre », « grosse inferriate », «avvoltoi inchiodati » sui battenti...: una costruzione, dunque, massiccia, fosca, pacchiana. Ora, tutto questo com-
nato al dramma interiore di fra Cristoforo; conferisce al colloquio una tragica serietà. 94. cantar sesta: l’ora sesta è il mezzogiorno, ed una delle ore canoniche dell’ufficio divino, o Breviario. I frati la cantavano in coro. 97. Il palazzotto di don Rodrigo...: La descrizione della dimora di don Rodrigo è fatta in due momenti distinti, ma convergenti nel risultato. Dapprima l’ambiente umano, che di lontano fa corona al palazzo: omacci «tarchiati e arcigni», vecchi pronti a « digrignar le gengive », donne con « facce maschie » e « braccia nerborute »..., e le stanze di costoro zeppe di schioppi, tromboni, zappe...: insomma, una plebaglia pronta all’offesa e alla rissa, un ambiente che ovunque spira violenza. Poi il palazzot-
modo estremamente evidente, e talvolta con tinte anche troppo marcate, le caratteristiche essenziali del tirannello che vi abita. In questo, dunque, i due momenti dell’ampia descrizione convergono: nel costruire in prospettiva la personalità di don Rodrigo. Di costui il M. non ha fatto né farà, come per altri personaggi, né una biografia né una presentazione prima di mostrarcelo in azione: ma solo descrivendocene il regno e la tana, ce ne dà, contemporaneamente, il più esauriente ritratto morale. — Si osservi, infine, che già il nome palazzotto ha in sé una nota trista e meschina ‘ad un tempo, che ci apparirà ancor più evidente nel confronto col castello dell’Innominato. Nel Fermo e Lucia è chiamato castellotto,
freddi, ma ci riesce perfino un poco fasti-
diosa ». Concordiamo,
te che il cruccio giovanile di Renzo, avvici-
plesso
di abitanti
e di edifici esprime
in
capitolo V
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strelli, cappelli di paglia, reticelle e fiaschetti da, polvere, alla rinfusa. La gente che vi s’incontrava erano omacci tarchiati e arcigni, con un gran ciuffo arrovesciato sul capo, e chiuso in una reticella; vecchi che, perdute le zanne, parevan sempre pronti, chi nulla nulla gli aizzasse, a digrignar le gengive; donne con certe facce maschie, e con certe braccia nerborute, buone da venire in aiuto della lingua, quando questa non bastasse: ne’ sembianti e nelle mosse de’ fanciulli stessi, che giocavan per la strada, si vedeva un non so che di petulante e di provocativo. Fra Cristoforo attraversò il villaggio, salì per una viuzza a chiocciola, e pervenne sur una piccola spianata, davanti al palazzotto. La porta era chiusa, segno che il padrone stava desinando, e non voleva esser frastornato. Le rade e piccole finestre che davan sulla strada, chiuse da imposte sconnesse e consunte dagli anni, erano però difese da grosse inferriate, e quelle del pian terreno tant’alte che appena vi sarebbe arrivato un uomo sulle spalle d’un altro. Regnava quivi un gran silenzio; e un passeggiero avrebbe potuto credere che fosse una casa abbandonata, se quattro creature, due vive e due morte, col-
‘locate in simmetria, di fuori, non avesser dato un indizio d’abitanti. Due grand’avoltoi, con l’ali spalancate, e co’ teschi penzoloni, l’uno spennacchiato 125 e mezzo roso dal tempo, l’altro ancor saldo e pennuto, erano inchiodati, ciascuno sur .un battente del pottone; e due bravi, sdraiati, ciascuno sur una
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delle panche ser chiamati ritto, in atto se: « padre,
poste a destra e a sinistra, facevan la guardia, aspettando d'’esa goder gli avanzi della tavola del signore. Il padre si fermò di chi si dispone ad aspettare; ma un de’ bravi s’alzò, e gli dispadre, venga pure avanti: qui non si fanno aspettare i cappuc-
cini: noi siamo amici del convento: e io ci sono stato in certi momenti che fuori non era troppo buon’aria per me; e se mi avesser tenuta la porta 135
chiusa, la sarebbe andata male. » Così dicendo, diede due picchi col martello. A quel suono risposer subito di dentro gli urli e le strida di mastini e di cagnolini; e, pochi momenti dopo, giunse borbottando un vecchio servitore; ma, veduto il padre, gli fece un grand’inchino, acquietò le bestie, con le mani e con la voce, introdusse l’ospite in un angusto cortile, e richiuse la porta.
122-123. quattro creature... in simmetria...: la simmetria dà al quadro un che di
asserragliato e di sinistro. Osserva poi l’ironia dell’accostamento dei due bravi coi due avvoltoi spennacchiati e inchiodati, e pensa che il primo rumore che verrà dal di dentro sarà quello degli urli e delle strida « di mastini e di cagnolini ». C'è, dunque, una voluta insistenza su note animalesche (e il De Michelis dice maliziosamente che «i cagnolini ci stanno a immeschinire la terribilità dei mastini») con cui si tende a svilire, non solo la dimora, ma anche la personalità del padrone del palazzotto. 130. padre, padre, venga pure- avanti...: questa famigliarità del bravo verso il cappuccino è davvero urtante, ma è altrettanto naturale in un luogo in cui tutto sa di violenza e di presunzione, e con petsone a cui serve essere «amici del convento ». Per un certo rapporto ripensiamo al modo
sguaiato con cui i due bravi avevano lasciato don Abbondio due sere prima. 135. un vecchio servitore: quel « borbottando », che per primo ci qualifica questo vecchio, può farcelo apparire dello stesso stampo dei bravi, o giù di lì. Ma ben presto vedremo che è tutto l'opposto, e che è l’unica anima buona che abiti fra quelle mura; già l’inchino e l’acquetare le bestie indicano una premura nuova. E poi quella « cert’aria di meraviglia e di rispetto », e quel dire « non èlei... il padre...? », e infine quel mormorare « sarà per far del bene » e « del bene se ne può far per tutto », ci fanno scoprite un cuore trepidante. Perciò di questo vecchio giusto e solo ci sentiamo di prendere un po’ la difesa contro chi ha detto che il M. ne ha fatto una « figurina » disegnata con pochi tratti « abbastanza convenzionali ». Ma avremo tempo di rivederlo in azione e di riparlarne.
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Accompagnatolo poi. in up salotto, e guardandolo con una cert’aria di maraviglia e di rispetto, disse « non è lei... il padre Cristoforo di Pescarenico? » « Per l’appunto. » « Lei qui? » « Come vedete, buon uomo. » « Sarà per far del bene. Del bene, » continuò mormorando
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tra i denti, e
rincamminandosi, « se ne può far per tutto. » Attraversati due o tre altri salotti oscuri, arrivarono all’uscio della sala del convito. Quivi un gran frastuono confuso di forchette, di coltelli, di bicchieri, di piatti, e sopra tutto di voci discordi, che cercavano a vicenda di soverchiarsi. Il frate voleva ritirarsi, e
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stava contrastando dietro l’uscio col servitore, per ottenere d’esser lasciato in qualche canto della casa, fin che il pranzo fosse terminato; quando l’uscio s'aprì. Un certo conte Attilio, che stava seduto in faccia (era un cugino del padron di casa; e abbiam già fatta menzione di lui, senza nominarlo), veduta
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una testa rasa e una tonaca, e accortosi dell’intenzione modesta del buon frate, « ehi! ehi! » gridò: « non ci scappi, padre riverito: avanti, avanti ». Don Rodrigo, senza indovinar precisamente il soggetto di quella visita, pure, per non so qual presentimento confuso, n’avrebbe fatto di meno. Ma, poiché lo spensierato d’Attilio aveva fatta quella gran chiamata, non conveniva a lui di tirarsene indietro; e disse: « venga, padre, venga ». Il padre s’avanzò, in-
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chinandosi al padrone, e rispondendo, a due mani, ai saluti de’ commensali. L’uomo onesto in faccia al malvagio, piace generalmente (non dico a tutti)
immaginarselo con la fronte alta, con lo sguardo sicuro, col petto rilevato, con 146-147. voci discordi...: potremmo
dire
che queste voci discordi «che cercavano a vicenda di soverchiarsi » costituiscono il motivo ispiratore di tutto il restante capitolo V; il quale è, forse, il migliore di quelli fin qui incontrati, per l’organicità dello svolgimento, per l’acume dei ritratti, per la scioltezza del dialogo. È un capitolo, che segna insieme l’apoteosi e la condanna della parola superba, oziosa, vana, della parola profanata dagli uomini volgari e presuntuosi; perciò, se vogliamo prendere dalla fine di queste stesse pagine un'immagine manzoniana, potremmo definirlo la fiera delle parole. In quella fine, appunto, troveremo che il narratore, volendo ritrarre l’eco, diciamo così, della conversazione dei commensali di don Rodrigo, la paragonerà all’« armo nia » che fa una compagnia di cantambanchi in una fiera, « quando fra una suonata e l’altra, ognuno accorda il suo strumento, facendolo stridere quanto. più può, affine di sentirlo distintamente, in mezzo al rumore degli altri ».
150. Un certo conte Attilio: lo conosciamo già un po’: è quel signore che Lucia, di ritorno dalla filanda, aveva udito «rider forte» accanto a don Rodrigo. Qui
lo sentiamo
subito
«gridare»
come. un
villano. La sua figura si va, quindi, len-
tamente caratterizzando. Più avanti vedremo che è definito spensierato («lo spensierato d’Attilio »): e sarà questa, almeno per il momento, la qualifica che più gli si attaglia. 160. L’uomo onesto...: per capire il motivo di fondo di questa osservazione, occorre rifarsi alla prima stesura del romanzo, Fermo e Lucia, dove il M. fa, come la chiama lui stesso, una lunga « riflessione », che incomincia così: «Bisogna confessare che nei romanzi e nelle opere teatrali, generalmente parlando, è un più bel vivere che a questo mondo: ben è vero che vi s'incontrano birboni più feroci, più diabolici, più colossali, vi si scorgono scelleratezze più raffinate, più ingegnose, più recondite, più ardite che non nel corso reale degli avvenimenti; ma vi ha pure dei grandi vantaggi, ed uno che basta a compensare molti mali, uno dei più invi diabili si è, che gli onesti, quelli che difendono la causa giusta, per quanto sieno inferiori di forze, e battuti dalla fortuna, hanno sempre in faccia dell’empio ancor che trionfante una sicurezza, una risoluzione, una superiorità di animo e di linguaggio che dà loro la buona coscienza, e che la buona coscienza non dà sempre agli uomini realmente viventi». È evidente,
capitolo V
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lo scilinguagnolo bene sciolto. Nel fatto però, per fargli prender quell’attitudine, si richiedon molte circostanze, le quali ben di rado si riscontrano insieme. Perciò, non vi maravigliate se fra Cristoforo, col buon testimonio della 165 sua coscienza, col sentimento fermissimo della giustizia della causa che veniva a sostenere, con un sentimento misto d’orrore e di compassione per don Rodrigo, stesse con una cert’aria di suggezione e di rispetto, alla presenza di quello stesso don Rodrigo, ch’era lì in capo di tavola, in casa sua, nel suo regno, circondato d’amici, d’omaggi, di tanti segni della sua potenza, con un 170 viso da far morire in bocca a chi si sia una preghiera, non che un consiglio, non che una correzione, non che un rimprovero. Alla sua destra sedeva quel conte Attilio suo cugino, e, se fa bisogno di dirlo, suo collega di libertinaggio e di soverchieria, il quale era venuto da Milano a villeggiare, per alcuni h75
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giorni, con lui. A sinistra, e a un altro lato della tavola, stava, con gran rispetto, temperato però d’una certa sicurezza, e d’una certa saccenteria, il signor podestà, quel medesimo a cui, in teoria, sarebbe toccato a far giustizia
a Renzo Tramaglino, e a fare star a dovere don Rodrigo, come s’è visto di sopra. In faccia al podestà, in atto d’un rispetto il più puro, il più sviscerato, sedeva il nostro dottor Azzecca-garbugli, in cappa nera, e col naso più rubicondo del solito: in faccia ai due cugini, due convitati oscuri, de’ quali la nostra storia dice soltanto che non facevano altro che mangiare, chinare il capo, sorridere e approvare ogni cosa che dicesse un commensale, e a cui un altro non contraddicesse. « Da sedere al padre, » disse don Rodrigo. Un servitore presentò una sedia, sulla quale si mise il padre Cristoforo, facendo qualche scusa al signore, d’esser venuto in ora inopportuna. « Bramerei di parlarle da solo a solo, con suo comodo, per un affare d’importanza, » soggiunse poi, con voce più somi messa, all'orecchio di don Rodrigo. « Bene, bene, parleremo; » rispose questo: « ma intanto si porti da bere al padre. »
quindi, che il pensiero del M. nel formulare l’immagine dell’« uomo onesto in faccia ai malvagi » era polemicamente rivolto alla retorica declamatrice e falsa di tante opere letterarie, ed intendeva compiere una professione di realismo, affermare cioè che
di tutto, verità. (Notiamo per inciso che la riflessione del Fermo e Lucia si distende per una pagina intera, mentre qui ha appena quattro o cinque righe: è un tipico esempio di taglio sug-
l’arte è, prima
gerito
da più sicura
visione
artistica).
|
176. in teoria: in pratica, come facilmente comprendiamo e come meglio ve‘dremo, era tutt’altra cosa. Notava giustamente un vecchio critico, il Donadoni, che i guai per cui passeranno Renzo e Lucia dipendono non meno dalla viltà del curato che dalla viltà di questo podestà di Lecco. 179-180. col naso più rubicondo del solito: Agnese aveva detto soltanto, e di sfuggita, col naso rosso: la più intensa... coloritura è, naturalmente, il frutto delle
abbondanti libagioni. Il trovarcelo qui al tavolo di don Rodrigo, ci spiega a sufficienza il suo comportamento del giorno prima col povero Renzo: lo sapeva bene, lui, perché quelli di Renzo non erano discorsi da farsi «con un galantuomo » par suo. Ecco in Azzeccagarbugli sempre più netta la figura del beone e del parassita, oltre a quella ormai nota del leguleio disonesto. 181. non facevano altro...: definizione perfetta del perfetto parassita. 189. Bene, bene, parleremo: don Rodrigo, dopo il primo turbamento che l’improvvisa venuta di padre Cristoforo gli ha arrecato e della quale ben volentieri « avrebbe fatto a meno», si va sempre più riprendendo, e presto tornerà sicuro di sé. È, forse, la corte dei commensali, che gli fanno corona, a ridargli nuovo ardire e nuova arroganza: quell’uscita « ... le legna de’ miei boschi» non è soltanto una battuta spiritosa da par suo, ma una larvata minaccia.
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Il padre voleva schermirsi; ma don Rodrigo, alzando la voce, in mezzo al trambusto ch’era ricominciato, gridava: « no, per bacco, non mi farà que195
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sto torto; non sarà mai vero che un cappuccino vada via -da questa casa, senza aver gustato del mio vino, né un creditore insolente, senza aver assaggiate le legna de’ miei boschi. » Queste parole eccitarono un riso universale, e interruppero un momento la questione che s’agitava caldamente tra i commensali. Un servitore, pottando sur una sottocoppa un’ampolla di vino, e un lungo bicchiere in forma di calice, lo presentò al padre; il quale, non volendo resistere a un invito tanto pressante dell’uomo che gli premeva tanto di farsi propizio, non esitò a mescere, e si mise a sorbir lentamente il vino. « L’autorità del Tasso non serve al suo assunto, signor podestà riverito; anzi è contro di lei; » riprese a urlare il conte Attilio: « perché quell’uomo erudito, quell'uomo grande, che sapeva a menadito tutte le regole della cavalleria, ha fatto che il messo d’Argante, prima d’esporre la sfida ai cavalieri cristiani, chieda licenza al pio Buglione... » « Ma questo » replicava, non meno urlando, il podestà, « questo è un di più, un mero di più, un ornamento poetico, giacché il messaggiero è di sua natura inviolabile, per diritto delle genti, jure gentium: e, senza andar tanto a cercare, lo dice anche il proverbio: ambasciator non porta pena. E, i proverbi, signor conte, sono la sapienza del genere umano. E, non avendo il messaggiero detto nulla in suo proprio nome, ma solamente presentata la la sfida in iscritto... »
« Ma quando vorrà capire che quel messaggiero era un asino temerario, che non conosceva le prime...? » 201. L’autorità del Tasso...: da qui si apre, e durerà per tutto il capitolo, « una vasta parentesi che solo apparentemente è inutile, ma che in realtà contribuisce con vasta conoscenza dell’epoca e con effetti ar-
tistici all’illustrazione di quella società milanese del secolo XVII di cui il M. tesseva la storia. Dai diversi pareri, dalle sciocchezze e dalle assurdità di queste volgari discussioni, risalta al vivo un secolo grossolano e barbaro, mosso solo da pregiudizi di casta, da istintive idee di violenza, da ignoranza, da volgare sufficienza, da più volgare meschinità, e così lontano dalla mortale cristiana da guardare con stupita meraviglia chi ne enuncia una delle massime fonda mentali: il rispetto e l’amore per il prossimo, la rinuncia ad ogni tristo pensiero di violenza. Ma questo quadro storico, che, si capisce, è tutto permeato dell’ormai nota polemica manzoniana contro la miseria del secolo, diviene tutto e senza residui arte, nella vivezza dei vati personaggi, nella finezza delle osservazioni psicologiche, nell’arguzia sorridente di tante battute, nella discreta presenza del poeta, il cui sorriso arguto si affaccia di tra le pieghe del racconto ad improntarlo della sua passionalità e della sua arte» (Petronio). — Con le parole che vengono pronunziate (0 meglio... urlate!) dal conte Attilio, riprende l’animata conversazione che, prima della
comparsa di fra Cristoforo, si svolgeva fra i commensali (ma soprattutto fra il conte e il podestà) su una questione di cavalleria, nella quale il podestà aveva introdotto «la autorità del Tasso» a sostegno della sua tesi. 205. ... chieda licenza al pio Buglione...:
dunque
l’argomento
della conversazione è,
se sia lecito o no bastonare un messo che viene a portare la sfida. Per il conte Attilio, sì, perché il messo non è un cavaliere: per il podestà, no, perché il messo è persona sacra e inviolabile (come afferma il diritto delle genti, come sostiene la saggezza dei proverbi, come dimostrerà la storia romana...). — Avremo occasione di osservare con don Ferrante (Cap. XXVII) che le opere
del Tasso, specie la Gerusalemme liberata e la Gerusalemme conquistata, nel Seicento facevano « testo in materia di cavalleria », e moltissimo fu detto e scritto in quel secolo non tanto sul Tasso poeta quanto sul Tasso dotto, che « sapeva a menadito le regole della cavalleria ». Nel canto VI della Liberata, st. 17, si natra, dunque, che il messaggero di Argante, presentando la sfida al duce supremo dei crociati, Goffredo di Buglione, chiede: « O Signore, ai messagget licenza Dassi tra voi di liberi sermoni? »; e subito dopo: «— Dassi, rispose il capitano; e senza Alcun timor la tua proposta esponi ».
capitolo V 215
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« Con buona licenza di lor signori, » interruppe don Rodrigo, il quale non avrebbe voluto che la questione andasse troppo avanti: « rimettiamola nel padre Cristoforo; e si stia alla sua sentenza. » « Bene, benissimo, » disse il conte Attilio, al quale parve cosa molto gar-
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bata il far decidere un punto di cavalleria da un cappuccino; mentre il podestà, più infervorato di cuore nella questione, si chetava a stento, e con un
certo viso, che pareva volesse dire: ragazzate. « Ma, da quel che mi pare d’aver capito, » disse il padre, « non son cose di cui io mi deva intendere. » ia Solite scuse di modestia di loro padri; » disse don Rodrigo: « ma non mi scapperà. Eh via! sappiam bene che lei non è venuta al mondo col cappuccio in capo, e che il mondo l’ha conosciuto. Via, via: ecco la questione. » « Il fatto è questo, » cominciava a gridare il conte Attilio. « Lasciate dir a me, che son neutrale, cugino, » riprese don Rodrigo. « Ecco la storia. Un cavaliere spagnolo manda una sfida a un cavalier milanese: il portatore, non trovando il provocato in casa, consegna il cartello a un fratello del cavaliere; il qual fratello legge la sfida, e in risposta dà alcune bastonate al portatore. Si tratta... » « Ben date, ben applicate, » gridò il conte Attilio. « Fu una vera ispirazione. »
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« Del demonio, » soggiunse il podestà. « Battere un ambasciatore! persona sacra! Anche lei, padre, mi dirà se questa è' azione da cavaliere. » « Sì, signore, da cavaliere, » gridò il conte: «e lo lasci dire a me, che devo intendermi di ciò che conviene a un cavaliere. Oh, se fossero stati pugni, sarebbe un’altra faccenda; ma il bastone non isporca le mani a nessuno. Quello che non posso capire è perché le premano tanto le spalle d’un mascalzone. »
scrittore ne aveva accompagnata la presen223. ... io mi deva intendere: cioè, la mia tazione: « spensierato ». Ma c’è ben altro condizione non solo non mi offre la possi in questo gentiluomo vacuo e presuntuoso, bilità di trattare tali questioni, ma anzi mi pronto a trinciare giudizi e condanne: vi impone il dovere di non occuparmene. senti l’astuta disinvoltura di chi sa vivere 226. ...e che il mondo l'ha conosciuto: nel mondo dei raffinati, e pure ha sempre da il discorso di don Rodrigo è villano. Sotto ridere di chicchessia; sa farsi centro di atle sue parole c’è la stizza nel vedersi rotrazione, e pure sparare le idee più paradosvinata la giornata da quell’intruso, e il tensali; sa, a tempo opportuno, fomentare e tativo di mettersi fin d’ora in posizione d’atattuare azioni spregiudicate, e conservare il tacco pet il prossimo scontro. 233-237. ...gridò il conte Attilio; ... gri- sotriso sulle labbra. Il podestà, nel sostenere puntualmente ed dò il conte: grida sempre, lui; e sempre, accanitamente tutto l’opposto del. conte, ma torto, hanno che coloro tutti lui, come vogliono avere ragione con la forza e la ‘vuole apparire quell'uomo di cultura che crede di essere, che sa di diritto, di latino, violenza. Anche il podestà gli replica « non di retorica forbita: ma senti bene che è meno urlando »: ma anche il podestà è una tutta roba di superficie, più presunzione e un’au: qualunque uomo un non autorità e torità del Seicento spagnolo. In queste in- boria che cultura sul serio. Per di più egli terminabili discussioni del banchetto, le due riveste una carica ufficiale, è un’autorità del regime: perciò le idee che sostiene sono otfigure che predominano, e che il M. scolpitodosse, rispettose della legalità e della forbattudi i sce con un avvincente susseguirs ma. Ma non facciamo fatica a capire che te da grande artista, sono, senz'altro, il conte Attilio e il podestà, i quali ad ogni in- animo vuoto e meschino sia anche il suo: né potrebbe essere altrimenti per un’autotervento vanno sempre meglio delineandosi e prendendo risalto a vicenda. Il conte ci rità ridottasi a parassita e serva di signorotti conferma la validità dell’epiteto con cui lo di provincia.
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« Chi le ha parlato delle spalle, signor conte mio? Lei mi fa dire spropositi che non mi son mai passati per la mente. Ho parlato del carattere, e non di spalle, io. Parlo sopra tutto del diritto delle genti. Mi dica un poco, di grazia, se i feciali che gli antichi Romani mandavano a intimar le sfide agli altri popoli, chiedevan licenza d’esporre l'ambasciata: e mi trovi un poco uno scrittore che faccia menzione che un feciale sia mai stato bastonato. » « Che hanno a far con noi gli ufiziali degli antichi Romani? gente che andava alla buona, e che, in queste cose, era indietro, indietro. Ma, secondo le leggi della cavalleria moderna, ch’è la vera, dico e sostengo che un messo il quale ardisce di porre in mano a un cavaliere una sfida, senza avergliene chiesta licenza, è un temerario, violabile violabilissimo, bastonabile bastonabilissimo... » « Risponda un poco a questo sillogismo. »
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« Niente, niente, niente. »
« Ma ascolti, ma ascolti, ma ascolti. Percotere un disarmato è atto proditorio; aqui il messo de quo era senz’arme;
« Piano, piano, signor podestà. »
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« Che piano? » 260
« Piano, le dico: cosa mi viene a dire? Atto proditorio è ferire uno con la spada, per di dietro, o dargli una schioppettata nella schiena: e, anche per
questo, si posson dar certi casi... ma stiamo nella questione. Concedo che questo generalmente possa chiamarsi atto proditotio; ma appoggiar quattro
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bastonate a un mascalzone! Sarebbe bella che si dovesse dirgli: guarda che ti bastono: come si direbbe a un galantuomo: mano alla spada. — E lei, signor dottor riverito, in vece di farmi de’ sogghigni, per farmi capire ch’è del mio parere, perché non sostiene le mie ragioni, con la sua buona tabella, per
aiutarmi a persuader questo signore? » 245. i feciali: costituivano un collegio di venti
sacerdoti
(fecizles:
parola che si ri-
collega al perf. feci di facio = fare, stabilire, ecc.) che avevano il compito di dichiarare la guerra o sancire i trattati di pace. Per capire a fondo la cultura del podestà ed insieme l’arguzia del M., si pensi che tutto quello che il podestà dice si trovava in una pagina dei già ricordati Consigli cavallereschi del Birago: il quale, trattando proprio della presente questione di cavalleria, riferisce il passo della Gerusalemme liberata citato dal podestà e poi ricorda l’opinione di alcuni, secondo i quali «i portatori non hanno colpa veruna secondo quel volgar detto ambasciatot non porta pena, e che li Feciali, i quali erano quelli che al tempo degli antichi romani intimavano la guerra, erano sicuri, per la ragion delle genti, d’andare e di tornar tra Barbari ». 248. gli ufiziali: con ignoranza pari alla
disinvoltura (doti che in ogni tempo è fa-
cilissimo trovare tenacemente accoppiate), Attilio scambia fecigli per ufiziali; e poi, tanto a digiuno di scienza cavalleresca quanto di storia civile, eccolo col suo bel giudizio, al quale non manca il sorriso pole-
mico del M., sugli antichi Romani: « Gente che andava alla buona... ». 254. sillogismo: ragionamento rigidamente deduttivo, per cui, poste certe premesse,
derivano precise e infallibili conclusioni. Il sillogismo perfetto presenta tre elementi: premessa
maggiore,
premessa
minore,
con-
clusione perfetta. E così ragiona il dotto podestà: I. percuotere un disarmato è atto proditorio (premessa maggiore); II. ora (afqui) il messo di cui si parla (de quo) era disarmato (premessa minore); III dunque (ergo) percuotere il messo è atto proditorio (conclusione perfetta). — Conclusione perfetta, sì, per certa vecchia filosofia e per il nostra podestà, non per il conte Attilio: per lui non esiste uguaglianza di diritti dove non c’è uguaglianza di sangue. 267. tabella: parlantina, chiacchiera; è un lombardismo ancora molto diffuso; il suo significato deriva, probabilmente, dal nome di una tavoletta di legno congegnata con dei battenti in modo da fare un suono strepitoso. Ma riguardo all’origine e alla storia della parola tabella (oggi si dice tabéla o tapéla) esistono non poche discordanze di opinione.
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«Io... » rispose confusetto il dottore: « io godo di questa dotta disputa; e ringrazio il bell’accidente che ha dato occasione a una guerra d’ingegni così graziosa. E poi, a me non compete di dar sentenza: sua signoria illustrissima ha già delegato un giudice... qui il padre... » «E vero; » disse don Rodrigo: « ma come volete che il giudice parli, quando i litiganti non vogliono stare zitti? » « Ammutolisco, » disse il conte Attilio. Il podestà strinse le labbra, e alzò la mano, come in atto di rassegnazione. « Ah sia ringraziato il cielo! A lei, padre, » disse don Rodrigo, con una serietà mezzo
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canzonatoria.
« Ho già fatte le mie scuse, col dite che non me n’intendo, » rispose fra Cristoforo, rendendo il bicchiere a un servitore. « Scuse magre: » gridarono i due cugini: « vogliamo la sentenza. » « Quand'è così, » riprese il frate, « il mio debole parere sarebbe che non vi fossero né sfide, né portatori, né bastonate. »
I commensali si guardarono l’un con l’altro maravigliati. « Oh questa è grossa! » disse il conte Attilio. « Mi perdoni, padre, ma è grossa. Si vede che lei non conosce il mondo. » « Lui? » disse don Rodrigo: « me lo volete far ridire: lo conosce, cugino mio, quanto voi: non è vero, padre? Dica, dica, se non ha fatta la sua carovana? »
290
In vece di rispondere a quest'amorevole domanda, il padre disse una’ pa-
rolina in segreto a sé medesimo: — queste vengono a te; ma ricordati, frate, che non sei qui per te, e che tutto ciò che tocca te solo, non entra nel conto.
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« « « sime,
—
Sarà, » disse il cugino: « ma il padre... come si chiama il padre? » Padre Cristoforo, » rispose più d’uno. Ma, padre Cristoforo, padron mio colendissimo, con queste sue maslei vorrebbe mandare il mondo sottosopra. Senza sfide! Senza basto-
269. confusetto: l’ironia del diminutivo fa apparire l’impaccio scontroso del dottore come il turbamento vergognoso di un bambinello. L’Azzeccagarbugli di oggi è un uomo che ha poca voglia di parlare e tanto meno di dar torto a qualcuno di quelli di cui è servo e parassita; e poi ha ben altro da fare (ricorda il suo naso più rosso del solito; e fra poco vedrai la sua forchetta « brandita in aria »). Non si può negare, tuttavia, che il suo discorsino sia un capolavoro di furbizia nel distribuire complimenti a tutti e nel levarsi d’impaccio: almeno per il momento! 278. serietà mezzo canzonatoria: senti il gusto di mettere il frate in una situazione imbarazzante e amara. Osserva però, soprattutto, la bravura del M. nel portare avanti la conversazione fra tipi e cervelli tanto diversi. 288-289, la sua carovana: cioè, la sua parte; le sue avventure. Oggi si direbbe che
ha corso la cavallina. La villania del padrone di casa raggiunge il colmo: le sue parole sono tanti colpi a cui — ci pare voglia avvertire — potrebbero seguire le bastonate vere, quelle della «legna dei suoi boschi ». 291. ricordati, frate...: di fronte a queste parole e a tutto il comportamento di padre Cristoforo alla presenza dei commensali, dobbiamo pensare a quella « lunga guerra » che si svolgeva sempre nel suo animo tra un’indole focosa, risentita, e una volontà opposta, abitualmente vittoriosa, « sempre all’erta, e diretta da motivi e da ispirazioni superiori» (Cap. IV). 296. padron mio colendissimo: i titoli che Attilio appioppa ai suoi interlocutori sono sempre di una spassosità straordina: ria, e fra le cose che più rivelano l’indole del personaggio. Ricorda, per esempio, il « signor podestà riverito » e il « signor dottor riverito ».
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î promessi sposi
nate! Addio il punto d’onore: impunità per tutti i mascalzoni. Per buona sorte che il supposto è impossibile. » 300
« Animo, dottore, » scappò fuori don Rodrigo, che voleva sempre più divertire la disputa dai due primi contendenti, « animo, a voi, che, perdar ragione a tutti, siete un uomo. Vediamo un poco come farete per dar ragione
in questo al padre Cristoforo. »
x
« In verità, » rispose il dottore, tenendo brandita in aria la forchetta, e 305
310
rivolgendosi al padre, « in verità io non so intendere come il padre Cristoforo, il quale è insieme il perfetto religioso e l’uomo di mondo, non abbia pensato che la sua sentenza, buona, ottima e di giusto peso sul pulpito, non val niente, sia detto col dovuto rispetto, in una disputa cavalleresca. Ma il padre sa, meglio di me, che ogni cosa è buona a suo luogo; e io credo che, questa volta, abbia voluto cavarsi, con una celia, dall’impiccio di proferire una sentenza.
315
»
Che si poteva mai rispondere antica, e sempre nuova? Niente: Ma don Rodrigo, per voler scitare un’altra. « A_ proposito, »
a ragionamenti dedotti da una sapienza così e così fece il nostro frate. troncare quella questione, ne venne a sudisse; « ho sentito che a Milano correvan
voci d’accomodamento. » Il lettore sa che in quell’anno si combatteva per la successione al ducato di Mantova, del quale, alla morte di Vincenzo Gonzaga, che non aveva la298. Addio il punto d’onore: quello su cui, come abbiamo già visto, si basava tanta parte dell’alterigia e della violenza di una società fatta da uomini che restano « maravigliati » di fronte all'insegnamento evangelico della pace, del perdono, dell’amore. 301-302. per dar ragione a tutti...: evidentemente don Rodrigo conosce molto bene Azzeccagarbugli, dalla cui viva voce noi abbiamo già sentito dire, per esempio, che «a saper bene maneggiare le gride, nessuno è reo, e nessuno
è innocente » (Cap. III). 315. A proposito: a dire il vero, l’introduzione della nuova questione da parte di don Rodrigo non viene molto 4 proposito; anzi, a sproposito. Ma notiamo anche qui la sensibilità del M. nel chiudere al momento giusto un tema ormai esaurito sotto ogni aspetto, e nell’introdurne un altro, che sarà di grande importanza a meglio comprendere le successive vicende del romanzo, e che ci aprirà nuove possibilità di conoscenza della storia e della vita del Seicento; e, ciò che più conta, renderà più ricchi ed attraenti i ritratti del conte Attilio e del podestà. 317. Il lettore sa...: potremmo dire, scherzosamente; che è molto probabile che il lettore di questa guerra, che si combatteva nel 1628 per la successione del ducato di Mantova, non ne sappia proprio niente. Allora, in attesa di conoscerne molto di più dal cap. XXVIII, sintetizziamo la storia dei fatti, premettendo che al M. stesso
qui, evidentemente, non interessa tanto ap-
profondire la vicenda, quanto lanciare qualcuna delle sue puntate ironiche contro i grandi del tempo, in modo speciale i re di Francia e di Spagna — Luigi XIII e Filippo IV —, due fantocci nelle mani dei loro primi ministri: il Cardinale di Richelieu, Armando Giovanni Duplessis, che governò la Francia dal 1624 al 1642, e il Conte d’Olivares, Gaspare Guzman (il quale era anche duca di S. Lucar: e per questo detto conte-duca), che per oltre venti anni, dal 1621 al 1643, tenne il potere in Spagna. Nel dicembre del 1627 era morto, senza lasciare figli, Vincenzo Gonzaga, duca di Mantova. L’erede legittimo risultava di un ramo cadetto naturalizzatosi in Francia, Carlo Gonzaga, duca di Nevers e di Rétlel. Costui nel gennaio successivo veniva a Mantova e prendeva la signoria del ducato. Que-
sta successione era fortemente appoggiata da Luigi XIII, «ossia» dal cardinale di Richelieu, ma fieramente contrastata da Filippo IV, «ossia» dal conte d’Olivares. Ma siccome il ducato di Mantova era feudo imperiale, nella questione si inseriva anche l’imperatore di Germania, che allora era Ferdinando II d’Asburgo, il quale appoggiava le pretese della Spagna; mentre in favore del duca di Nevers, e quindi con la Francia, si schieravano il papa Urbano VIII e la Repubblica di Venezia. E l’Italia tornava, così, ad essere il centro delle ambizioni e delle lotte delle grandi potenze europee.
capitolo V
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sciata prole legittima, era entrato in possesso il duca di Nevers, suo parente 320
più prossimo. Luigi XIII, ossia il cardinale di Richelieu, sosteneva quel prin-
cipe, suo ben affetto, e naturalizzato francese: Filippo IV, ossia il conte d’Olivares, comunemente chiamato il conte duca, non lo voleva lì, per le stesse ragioni; e gli aveva mosso guerra. Siccome poi quel ducato era feudo dell'impero, così le due parti s'adoperavano, con pratiche, con istanze, con mi325
nacce, presso l’imperator Ferdinando II, la prima perché accordasse l’investitura al nuovo duca; la seconda perché gliela negasse, anzi aiutasse a cacciarlo da quello stato. i
« Non son lontano dal credere, » disse il conte Attilio, « che le cose si possano accomodare. Ho certi indizi... »
« Non creda, signor conte, non creda, » interruppe il podestà. « Io, in questo cantuccio, posso saperle le cose; perché il signor castellano spagnolo, che, per sua bontà, mi vuole un po’ di bene, e per esser figliuolo d’un creato del conte duca, è informato d’ogni cosa... » « Le dico che a me accade ogni giorno di parlare in Milano con ben al335° tri personaggi; e so di buon luogo che il papa, interessantissimo, com'è, per la pace, ha fatto proposizioni... »
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« Così dev'essere; la cosa è in regola; sua santità fa il suo dovere; un papa deve sempre metter bene tra i principi cristiani; ma il conte duca ha 340
la sua politica, e... » « E, e, e; sa lei, signor mio, come la pensi l’imperatore, in questo momento? Crede lei che non ci sia altro che Mantova a questo mondo? le cose a cui si deve pensare son molte, signor mio. Sa lei, per esempio, fino a che segno l’imperatore possa ora fidarsi di quel suo principe di Valdistano o di Vallistai, o come lo chiamano, e se... »
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«Il nome legittimo in lingua alemanna, » interruppe ancora il podestà, «è Vagliensteino, come l’ho sentito proferir più volte dal nostro signor castellano spagnolo. Ma stia pur di buon animo, che... » « Mi vuole insegnare...? » riprendeva il conte; ma don Rodrigo gli diè
d’occhio, per fargli intendere che, per amor suo, cessasse di contraddire. Il conte tacque, e il podestà, come un bastimento disimbrogliato da una secca,
continuò, a vele gonfie, il corso della sua eloquenza. « Vagliensteino mi dà 330-331. in questo cantuccio...: sempre saccente incorreggibile il podestà, che dal suo «cantuccio » di Lecco pretende di saperne più del nobile Attilio, che abita a Milano! Le vanterie dell’uomo, come vedremo, non finiranno qui, ma daranno ancora al M. la possibilità di diffondere a larghe mani il suo sorriso ironico su questa indimenticabile macchietta di piccolo mondo borghigiano, pettegolo e pretenzioso, meschino e altezzoso, servile e borioso ad un
tempo.
i
336. proposizioni: proposte. Qualcuno in queste battute (« ... la cosa è in regola; sua santità fa il suo dovere») vede una nota polemica sulla condotta di Urbano VIII, che in realtà temeva una conflagrazione generale e desiderava la pace, ma inclinava per la Francia.
343-344. Valdistano o... Vallistai:
Alber-
to Wallestein (pron. Vallestàin), famoso con-
dottiero delle forze imperiali, nominato « generalissimo di terra e di mare», fu poi fatto uccidere da Ferdinando II perché non si fidava di lui. Questo personaggio è stato reso ben noto da un trilogia drammatica di F. Schiller. 351. Vagliensteino: il podestà pronunzia il nome alla spagnola, il conte l'aveva pronunciato all’italiana. Quindi sproposito contro sproposito, presunzione contto presunzione: e poi via «a vele gonfie» e «col vento in poppa»!
‘
351-352. mi dà poco fastidio: il podestà si sente ormai attore e regolatore della storia, e quest’uscita è, forse, il punto più comico di tutta la prosopopea che ha inizio da qui e che in un susseguirsi di frasi
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i promessi spost
poco fastidio; perché il conte duca ha l’occhio a tutto, e per tutto; e se Va-
gliensteino vorrà fare il bell’umore, saprà ben lui farlo rigar diritto, con le 355
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buone, o con le cattive. Ha l’occhio per tutto, dico, e le mani lunghe; e, se
ha fisso il chiodo, come l’ha fisso, e giustamente, da quel gran politico che è, che il signor duca di Nivers non metta le radici in Mantova, il signor duca di Nivers non ce le metterà; e il signor cardinale di Riciliù farà un buco nell’acqua. Mi fa pur ridere quel caro signor cardinale; a voler cozzare con un conte duca, con un Olivares. Dico il vero, che vorrei rinascere di qui a dugent’anni, per sentir cosa diranno i posteri, di questa bella pretensione. Ci vuol altro che invidia; testa vuol essere: e teste come la testa d’un conte duca, ce n’è una sola al mondo. Il conte duca, signori miei, » proseguiva il podestà, sempre col vento in poppa, e un po’ maravigliato anche lui di non incontrar mai uno scoglio: « il conte duca è una volpe vecchia, parlando col dovuto rispetto, che farebbe perder la traccia a chi si sia: e, quando accenna a destra, si può esser sicuri che batterà a sinistra: ond’è che nessuno può mai vantarsi di conoscere i suoi disegni; e quegli stessi che devon metterli in esecuzione, quegli stessi che scrivono i dispacci, non ne capiscon niente. Io posso parlare con qualche cognizion di causa; perché quel brav’uomo del signor castellano si degna di trattenersi meco, con qualche confidenza. Il conte duca, viceversa, sa appuntino cosa bolle in pentola di tutte l’altre corti; e tutti que’ politiconi (che ce n’è di diritti assai, non si può negare) hanno appena immaginato un disegno, che il conte duca te l’ha già indovinato, con quella sua testa, con quelle sue strade coperte, con que’ suoi fili tesi per tutto. Quel pover’uomo del cardinale di Riciliù tenta di qua, fiuta di là, suda, s’ingegna: e poi? quando gli è riuscito di scavare una mina, trova la contrammina già bell’e fatta dal conte duca... » Sa il cielo quando il podestà avrebbe preso terra; ma don Rodrigo, stimolato anche da’ versacci che faceva il cugino, si voltò all'improvviso, come
se gli venisse un'ispirazione, a un servitore, e gli accennò che portasse un
certo fiasco. « Signor podestà, e signori miei! » disse poi: « un brindisi al conte duca; e mi sapranno dire se il vino sia degno del personaggio. » Il podestà rispose con un inchino, nel quale traspariva un sentimento di riconoscenza particolare; perché tutto ciò che si faceva o si diceva in onore del conte duca, lo riteneva in parte come fatto a sé. « Viva mill’anni don Gasparo Guzman, conte d’Olivares, duca di san Lucar, gran privato del re don Filippo il grande, nostro signore! » esclamò, alzando il bicchiere. boriose e bislacche sarà sostenuta fino in fondo con tanta alterigia. Osservatene qualche campione: «mi fa pur ridere quel caro signor cardinale »; «teste, come la testa d'un conte duca», «quel brav’uomo del signor castellano si degna di trattenersi meco »; e guardate dove il podestà pone l'essenza della furbizia del suo grand’'uomo di stato: fare il contrario di quello che aveva mostrato di voler fare, e così gli « stessi che scrivono i dispacci non ne capiscon. niente », ì
379. versacci che faceva il cugino: per la gran voglia d’intervenire e riprendere a «gridare» e controbattere il podestà. Conoscendo ormai Attilio, potremmo dire che questi « versacci » ci par di vederli. 382. un brindisi al conte duca: su questo si troveranno tutti d’accordo, sia per il gusto del bere sia per il servilismo generale. Amara realtà del nostto Seicento, anche se qualche voce, ogni tanto, vi si alzò a condannate quello stato di vergogna. E capisci che il M. ne soffre.
capitolo V 390
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Privato, chi non lo sapesse, era il termine in uso, a que’ tempi, per significare il favorito d’un principe. « Viva mill’anni! » risposer tutti. « Servite il padre, » disse don Rodrigo. «Mi perdoni; » rispose il padre: « ma ho già fatto un disordine, e non
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potrel... »
« Come! » disse don Rodrigo: «si tratta d’un brindisi al conte duca. Vuol dunque far credere ch’ella tenga dai navarrini? » Così si chiamavano allora, per ischerno, i Francesi, dai principi di Navarra, che avevan cominciato, con Enrico IV, a regnar sopra di loro. 400
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A tale scongiuro, convenne bere. Tutti i commensali proruppero in esclamazioni, e in elogi del vino; fuor che il dottore, il quale, col capo alzato, con gli occhi fissi, con le labbra strette, esprimeva molto più che non avrebbe
potuto far con parole. « Che ne dite eh, dottore? » domandò don Rodrigo. Tirato fuor del bicchiere un naso più vermiglio e più lucente di quello, il dottore rispose, battendo con enfasi ogni sillaba: « dico, proferisco, e sen-
tenzio che questo è l’Olivares de’ vini: censui, et in eam ivi sententiam, che
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un liquor simile non si trova in tutti i ventidue regni del re nostro signore, che Dio guardi: dichiaro e definisco che i pranzi dell’illustrissimo signor don Rodrigo vincono le cene d’Eliogabalo; e che la carestia è bandita e confinata in perpetuo da questo palazzo, dove siede e regna la splendidezza. » « Ben detto! ben definito! » gridarono, a una voce, i commensali: ma quella parola, carestia, che il dottore aveva buttata fuori a caso, rivolse in un punto tutte le menti a quel tristo soggetto; e tutti parlarono della carestia. Qui andavan tutti d’accotdo, almeno nel principale; ma il fracasso era forse più grande che se ci fosse stato disparere. Parlavan tutti insieme. « Non c'è carestia, » diceva uno: « sono gl’incettatori... » « E i fornai, » diceva un altro: « che nascondono il.grano. Impiccarli. » « Appunto; impiccarli, senza misericordia. » « De’ buoni processi, » gridava il podestà. « Che processi? » gridava più forte il conte Attilio: « giustizia somma397. navarrini: denominazione dispregiativa abbastanza diffusa anche nel dialetto, se, come si suol ricordare, una Navarineida del 1625 terminava con queste parole: Viva Spagna, e viva il vin; E crepen tugg 1 Navarin ». 405. Tirato fuor del bicchiere un naso...: nota bene quel tirato: c’è il dispiacere di dover interrompere per un momento la dolce libagione! 406-411. dico... splendidezza: Azzeccagarbugli sa fare un bel discorso davvero: non si direbbe che il bere e il mangiare gli abbiano offuscato troppo le idee. Nelle. sue parole c’è il linguaggio fiorito dei tribunali secenteschi (dico, proferisco, e sentenzio); c'è l’eco solenne di antiche formule giuridiche (censui ef in eam
ivi sententiam
= ho valutato e approvo l’opinione che); c'è l'omaggio devoto al « re nostro signore » (che Dio guardi!); c'è la dottrina storica
che agli altri è forse ignota (le cene di Eliogabalo, il dissoluto imperatore romano che governò dal 218 al 222); c’è, infine, l’immagine molesta dell’ora presente (la carestia), che, cacciata dallo splendore del palazzo, vi rientra nel bel mezzo della festa, come voce di una coscienza insopprimibile. 417. sono gl’incettatori: è tipico degli ignoranti e degli stupidi di ogni tempo e paese scappar fuori con sentenze tanto semplicistiche ed irresponsabili, di fronte ai più grossi problemi della vita pubblica. 421-422. processi... giustizia sommaria: il podestà e il conte hanno ripreso ormai ciascuno il suo posto: quello del giurista formale da una parte, quello del prepotente dall’altra. Ma il grido di tutti « impiccarli! impiccarli! » preannunzia una delle scene più drammatiche del romanzo, l’assalto ai forni da parte del popolo affamato (Cap. XII).
î promessi sposi
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ria. Pigliarne tre o quattro o cinque o sei, di quelli che, per voce pubblica, son conosciuti come i più ricchi e i più cani, e impiccarli. »
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« Esempi! esempi! senza esempi non si fa nulla. » « Impiccarli! impiccarli!; e salterà fuori grano da tutte le parti. »
Chi, passando per una fiera, s'è trovato a goder l’armonia che fa una compagnia di cantambanchi, quando, tra una sonata e l’altra, ognuno accorda
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il suo stromento, facendolo stridere quanto più può, affine di sentirlo distintamente, in mezzo al rumore degli altri, s'immagini che tale fosse la consonanza di quei, se si può dire, discorsi. S’andava intanto mescendo e rimescendo di quel tal vino; e le lodi di esso venivano, com'era giusto, fram-
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mischiate alle sentenze di giurisprudenza economica; sicché le parole che s'udivan più sonore e più frequenti, erano: amzbrosia, e impiccarli. Don Rodrigo intanto dava dell’occhiate al solo che stava zitto; e lo vedeva sempre lì fermo, senza dar segno d’impazienza né di fretta, senza far atto che tendesse a ricordare che stava aspettando; ma in aria di non voler andarsene, prima d’essere stato ascoltato. L’avrebbe mandato a spasso volentieri, e fatto di meno di quel colloquio; ma congedare un cappuccino; senza avergli dato udienza, non era secondo le regole della sua politica. Poiché la seccatura non si poteva scansare, si risolvette d’affrontarla subito, e di liberarsene;
s’alzò da tavola, e seco tutta la rubiconda brigata, senza interrom-
pere il chiasso. Chiesta poi licenza agli ospiti, s’avvicinò, in atto contegnoso, al frate, che s’era subito alzato con gli altri; gli disse: « eccomi ‘a’ suoi comandi »; e lo condusse in un’altra sala. 433. ambrosia, e impiccarli: sintesi allegra e macabra ad un tempo. Naturalmente a7brosia esprime l'elogio del vino di don Rodrigo, impiccarli la massima per spacciare i fornai e far saltare fuori il grano. — Mondo di superficiali e di violenti, sul quale si piega amareggiato l’animo del poeta cristiano; ma il sorriso dell’arte lo ricrea e solleva.
Scheda
444, e lo condusse in un’altra sala: la chiusa èx molto bella: fa-sentire che atmosfera tesa e drammatica si stia preparando, e a che incontro assisteremo fra poco: un incontro dove non ci saranno più tanti spensierati a ciarlare e gridare intorno ad una tavola imbandita, ma due uomini soli, l'uno di fronte all’altro, ciascuno sotto il peso delle proprie passioni,
critica al cap. V Le conversazioni conviviali nel palazzotto di don Rodrigo sono
anzitutto un pezzo di bravura:
una vivacissima
scena
di comme-
dia, dove le psicologie ben differenziate dei numerosi personaggi (la prudenza diplomatita di don Rodrigo, la viltà del parassita Azzeccagarbugli, la prepotenza istintiva e a modo suo innocente del conte Attilio, la ridicola boria del podest à) sono tutte affidate all'alterno ritmo delle battute, alle voci che s'incalzano, si rispondono
e si sovrappongono
in una sorta di sapien-
tissimo concertato: Ma la commedia è al tempo stesso un quadro della vita di ud’epoca, che si arricchisce di una minuta trama
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capitolo V
di riferimenti ai costumi, all'ideologia e alla problematica di una società ben determinata e di un preciso momento storico: questioni di procedura cavalleresca, pettegolezzi sulla situazione politica, ragionamenti insipienti sul tema della carestia, e sullo sfondo, quell'apparato scientifico che regola tanta parte del mondo secentesco, la ragion di stato, con le sue varie diramazioni e applicazioni sul terreno pubblico e in quello privato, con i suoi sofismi e le sue distinzioni, che all'illuminista e cristiano Manzoni si rivelano in tutta la loro assurdità logica e distorsione morale. II motivo etico e polemico, che presiede a questa scena, come a tutta l'invenzione del romanzo, non si insinua in forma astratta, ma vive nella realtà della situazione, anzitutto nella contrapposizione immediata, a quel mondo di signorotti prepotenti e di servi astuti, della figura del frate, assertore e simbolo di una verità religiosa, formalmente riverita, ma di fatto obliterata e spregiata, deformata e corrotta nella pratica quotidiana; e vive più sottilmente all'interno della coscienza stessa di quei falsi cristiani del secolo XVII (ma anche, sembra dire il Manzoni, del nostro tempo, di tutti i tempi), in quella dualità che essi accettano fra la norma evangelica e le opposte leggi che regolano il « mondo », per cui una « sentenza buona, ottima e di giusto peso
sul pulpito, non
sul terreno pratico e nelle circostanze tutti i giorni.
il « dovuto rispetto », concrete dell'operare di
val niente », nonostante
Capitolo VI
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« In che posso ubbidirla? » disse don Rodrigo, piantandosi in piedi nel mezzo della sala. Il suono delle parole era tale; ma il modo con cui eran proferite, voleva dir chiaramente: bada a chi sei davanti, pesa le parole, e sbrigati. Per dar coraggio al nostro fra Cristoforo, non c’era mezzo più sicuro e più spedito, che prenderlo con maniera arrogante. Egli che stava sospeso, cercando le parole, e facendo scorrere tra le dita le ave marie della corona che teneva a cintola, come se in qualcheduna di quelle sperasse di trovare il suo esordio; a quel fare di don Rodrigo, si sentì subito venir sulle labbra più parole del bisogno. Ma pensando quanto importasse di non guastare i fatti suoi o, ciò ch’era assai più, i fatti altrui, corresse e temperò le frasi che gli si eran presentate alla mente, e disse, con guardinga umiltà: « vengo a proporle un atto di giustizia, a pregarla d’una carità. Cert'uomini di mal affare hanno messo innanzi il nome di vossignoria illustrissima, per far paura a un povero curato, e impedirgli di compire il suo dovere, e per soverchiare due innocenti. Lei può, con una parola, confonder coloro, restituire al diritto
la sua forza, e sollevar quelli a cui è fatta una così crudel violenza. Lo può; e potendolo... la coscienza, l’onore... » 1. In che posso ubbidirla?: stupendo inizio di capitolo. Hai subito la sensazione che l’incontro sarà uno scontro: i due non si son messi neppure a sedere, e don Rodrigo ha preso immediatamente l’offensiva con una frase arrogante e sarcastica. Ora il signorotto non tiene più conto delle norme dell'ospitalità, come quando era nell’altra sala con tutti i convitati: il suo sfogo per la rabbia a lungo repressa è spontaneo, sollecitato dalla stessa bramosia di far presto e liquidare il frate. 5. Per dar coraggio...: cioè, per farlo ritornare l’uomo vecchio con tutto l’impeto e l’ardore di un tempo. Padre Cristoforo ha il temperamento degli spiriti polemici: l’arroganza dell’interlocutore gli mette fuoco alla passione. 7. le ave marie: i grani della corona del rosario, che non sapremmo ben dire se fra Cristoforo li fa scorrere tra le dita più per frenare lo sdegno o per sfogare l’imbarazzo. Qualcuno paragona questo atteggiamenta del
frate con quello di Renzo quando, davanti ad Azzeccagarbugli, teneva « una mano nel cocuzzolo del cappello che faceva girar con l’altra »: ma ci sembrano situazioni ben diverse. 13. proporle un atto di giustizia: evidentemente padre Cristoforo è umile, ma non è diplomatico. Parlare così come parla all’inizio del discorso, significa rinfacciare a don Rodrigo un’ingiustizia da lui commessa. Questa era, sì, la realtà; ma nelle mani del prepotente diviene lo strumento per mostrarsi lui l’offeso e per passare al contrattacco. Del resto tutto il discorso di fra Cristoforo esulerà dalle regole della diplomazia, perché non è certamente il religioso delle arti diplomatiche che il M. ha voluto creare in lui (come sarà per il padre provinciale: Cap. XIX), ma il religioso che soltanto da Dio attinge la forza di proclamare e difendere la verità e la giustizia. 18. ...la coscienza, l’onore...: qui padre Cristoforo compie l’imprudenza maggiore.
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capitolo VI 20
« Lei mi parlerà della mia coscienza, quando verrò a confessarmi da lei.
In quanto al mio onore, ha da sapere che il custode ne son io, e io solo; e che chiunque ardisce entrare a parte con me di questa cura, lo riguardo come
il temerario che l’offende. » | Fra Cristoforo, avvertito da queste parole che quel signore cercava di tirare al peggio le sue, per volgere il discorso in contesa, e non dargli luogo 5) di venire alle strette, s'impegnò tanto più alla sofferenza, risolvette di mandar giù qualunque cosa piacesse all’altro di dire, e rispose subito, con un
tono sommesso:
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« se ho detto cosa che le dispiaccia, è stato certamente con-
tro la mia intenzione. Mi cortegga pure, mi riprenda, se non so parlare come si conviene; ma si degni ascoltarmi. Per amor del cielo, per quel Dio, al cui cospetto dobbiam tutti comparire... » e, così dicendo, aveva preso tra le dita,
e metteva davanti agli occhi del suo accigliato ascoltatore il teschietto di legno attaccato alla sua corona, « non s’ostini a negare una giustizia così facile, e così dovuta a de’ poverelli. Pensi che Dio ha sempre gli occhi sopra di loro, e che le loro grida, i loro gemiti sono ascoltati lassù. L'innocenza è potente 35 al suo... » « Eh, padre! » interruppe bruscamente don Rodrigo: «il rispetto ch’io porto al suo abito è grande: ma se qualche cosa potesse farmelo dimenticare,
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sarebbe il vederlo indosso a uno che ardisse di venire a farmi la spia in casa. » Questa parola fece venir le fiamme sul viso del frate: il quale però, col sembiante di chi inghiottisce una medicina molto amara, riprese: «lei non crede che un tal titolo mi si convenga. Lei sente in cuor suo, che il passo ch'io fo ora qui, non è né vile né spregevole. M’ascolti, signor don Rodrigo; e voglia il cielo che non venga un giorno in cui si penta di non avermi ascol-
45
tato. Non voglia metter la sua gloria... qual gloria, signor* don Rodrigo! qual gloria dinanzi agli uomini! E dinanzi a Dio! Lei può molto quaggiù; ma... » « Sa lei, » disse don Rodrigo, interrompendo, con istizza, ma non senza una qualche raccapriccio, « sa lei che, quando mi viene lo schiribizzo di sentire
Quelle due parole sono richiami troppo sco-
perti per uno che, umanamente, può tutto, e che di coscienza, e d’onore specialmente, ha un ben altro concetto. E poi sono ele-
menti chi va po di l’urto 22.
che offrono una facile replica per proprio in cerca di pretesti allo scoeludere la questione e giungere alviolento. ...il temerario che l’offende: la con-
troffensiva di don Rodrigo è cominciata: atrogante e violento, egli offende il frate tirando in campo confessione, predica, spia. Ma ancora le sue parole restano sul generico, non toccano scopertamente la persona di Cristoforo. Don Rodrigo vuole essere sempre dalla parte della ragione. 31-32. ...il teschietto di legno...: il buon Cristoforo fa del suo meglio (parla « con un tono sommesso », chiede scusa, ecc.): ma l’arte del diplomatico assolutamente non la conosce. Ora, come se non bastassero parole che tornano a riproporre insistentemente giustizia e riparazione e giungono a far ba-
lenare la punizione di Dio, Cristoforo ha l’idea — buona forse su un pulpito, ma non certo in questo palazzo — di alzare il te-
schietto verso il volto del suo ascoltatore.
La reazione non si fa attendere: questa volta più scoperta e personale: «il rispetto ch’io porto al suo abito... ». 45. metter la sua gloria...: nel condurre a termine un’impresa tanto vile. Cristoforo non finisce la frase, ma l’allusione è chiara, e, anzi, la reticenza di questa e d’altre espressioni comunica un senso di più vasta e misteriosa condanna. 47-48. non senza qualche raccapriccio: è il primo effetto misterioso delle parole del frate e il preannunzio di un motivo costante nella figura di don Rodrigo. Il Galletti giustifica questo raccapriccio affermando, a ragione, che «don Rodrigo, come tutti i nobili del tempo, è stato educato cattolicamente: certi principi, certe massime della religione gli sono famigliari sin dall'infanzia, ed egli può violarle, ma non
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.i promessi sposi
predica, so benissimo andare in chiesa, come fanno gli altri? Ma in casa mia!
Oh! » e continuò, con un sorriso forzato di scherno: « lei mi tratta da più di quel che sono. Il predicatore in casa! Non l’hanno che i principi. » « E quel Dio che chiede conto ai principi della parola che fa loro sentire, nelle loro regge; quel Dio le usa ora un tratto di misericordia, mandando un suo ministro, indegno e miserabile, ma un suo ministro, a pregar per una innocente... »
« In somma, padre, » disse don Rodrigo, facendo atto d’andarsene, « io non so quel che lei voglia dire: non capisco altro se non che ci dev'essere qualche fanciulla che le preme molto. Vada a far le sue confidenze a chi le piace; e non si prenda la libertà d’infastidir più a lungo un gentiluomo. » Al moversi di don Rodrigo, il nostro frate gli s'era messo davanti, ma con gran rispetto; e, alzate le mani, come per supplicare e per trattenerlo ad un punto, rispose ancora: « la mi preme, è vero, ma non più di lei; son due anime che, l’una e l’altra, mi premon più del mio sangue. Don Rodrigo! io non posso far altro per lei, che pregar Dio; ma lo farò ben di cuore. Non mi dica di no: non voglia tener nell’angoscia e nel terrore una povera innocente. Una parola di lei può far tutto. » « Ebbene, » disse don Rodrigo, « giacché lei crede ch’io possa far molto pet questa persona; giacché questa persona le sta tanto a cuore... »
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« Ebbene? » riprese ansiosamente il padre Cristoforo, al quale l’atto e il contegno di don Rodrigo non permettevano d’abbandonarsi alla speranza che parevano annunziare quelle parole. « Ebbene, la consigli di venire a mettersi sotto la mia protezione: Non
le mancherà più nulla, e nessuno valiere. »
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ardirà d’inquietarla, o ch'io non son ca-
A siffatta proposta, l’indegnazione del frate, rattenuta a stento fin allora, traboccò. Tutti que’ bei proponimenti di prudenza e di pazienza andarono dimenticarle. Tra queste ve n’è una, spesso ripetuta, che, cioè, Dio, presto o tardi, punisce il malvagio; e a quell’* innanzi a Dio!’ di padre Cristoforo un brivido involontario lo tutba ». 52. E quel Dio...: qui l’otatoria religiosa sì accentua. È il tema stesso di Dio — che è provvidenza e giustizia, è misericordia e punizione — che spontaneamente potta sulle labbra del vecchio predicatore la parola appassionata e solenne. 58. qualche fanciulla che le preme molto: ormai don Rodrigo ha deposto ogni ritegno ed è passato alle offese peggiori. Il dialogo va assumendo una drammaticità sempre più intensa, e nei due personaggi si va polarizzando sempre più il contrasto del bene e del male, della sopportazione e della perfidia: della terra con le sue malvage contraddizioni, e del cielo con la «sua luce di speranza e di giustizia. 62-63. due anime che... mi premon...: qui è l’essenza della missione sacerdotale, e in questo sta la nobiltà dell'andata di padre Cristoforo al palazzotto di don Rodrigo.
Ma oltre a queste considerazioni morali, si avverta, fra l’altro, la cura del M. anche nelle sfumature più sfuggenti: qui, per esempio, in quel sapere modificare, sulle labbra di Cristoforo, in senso spirituale e cristiano (m77 preme) ciò che don Rodrigo aveva pronunziato con significato volgare e mondano (le preme). 73-74. o ch’io non son cavaliere: la frase è protocollare; ma dice bene il Guerri: «è un’espressione tragica e insieme buffonesca, per quel misto che compendia di aberrazione seria, vera, dell’individuo e dell’età; e di dissonanza con la situazione del dialogo, che deve supporsi avvertita anche da chi la pronuncia ». E pol aggiunge: «sin qui il dialogo l’ha guidato don Rodrigo, nonostante l'immensa
forza morale dell’avversario, perché questa forza non ha trovato l’oggetto che cercava, cioè, un po’ di coscienza non indurita da richiamare al dovere. D'ora innanzi i due andranno ciascuno per la propria strada, di esaltazione spirituale il frate, di violenza sfacciata e brutale il tirannello ».
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in fumo: l’uomo vecchio si trovò d'accordo col nuovo; e, in que’ casi, fra Cristoforo valeva veramente per due. « La vostra protezione! » esclamò, dando indietro per due passi, postandosi fieramente sul piede destro, mettendo 80
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la destra sull’anca; alzando la sinistra con l’indice teso verso don Rodrigo, e
piantandogli in faccia due occhi infiammati: «la vostra protezione! È meglio che abbiate parlato così, che abbiate fatta a me una tale proposta. Avete colmata la misura; e non vi temo più. » « Come parli, frate?... » « Parlo come si parla a chi è abbandonato da Dio, e non può più far paura. La vostra protezione! Sapevo bene che quella innocente è sotto la pro-
tezione di Dio; ma voi, voi me lo fate sentire ora, con tanta certezza, che non ho più bisogno di riguardi a parlarvene. Lucia, dico: vedete come io pronunzio questo nome con la fronte alta, e con gli occhi immobili. » « Come! in questa casa...! » « Ho compassione di questa casa: la maledizione le sta sopra sospesa. State a vedere che la giustizia di Dio avrà riguardo a quattro pietre, e suggezione di quattro sgherri. Voi avete creduto che Dio abbia fatta una creatura a sua immagine, per darvi il piacere di tormentarla! Voi avete creduto che
Dio non saprebbe difenderla! Voi avete disprezzato il suo avviso! Vi siete giudicato. Il cuore di Faraone era indurito quanto il vostro; e Dio ha saputo spezzarlo. Lucia è sicura da voi: ve lo dico io povero frate; e in quanto a voi, sentite bene quel ch'io vi prometto. Verrà un giorno... » Don Rodrigo era fin allora rimasto tra la rabbia e la maraviglia, attonito, non trovando parole; ma, quando sentì intonare una predizione, s’aggiunse alla rabbia un lontano e misterioso spavento. 77. l’uomo vecchio... col nuovo: il vecchio è, per esempio, in quel balzare «indietro due passi, portandosi fieramente sul iede destro, ...»: pare di aver davanti ovico che sguaina la spada e inizia il duello; il nuovo, in tutte le parole che tonano come da un pulpito e chiamano Dio a difesa degli umili. Ma forse, si potrebbe obiettare, la passione è così vivace che anche il « nuovo » Cristoforo è fatto, per gran parte, del « vecchio » Lodovico. 84. Come parli, frate?: dal lei è passato al tu: l’ingiuria non ha più schermi; ma anche Cristoforo è passato dal lei al voi. — Ricordate, invece, che il fratello dell’ucciso era passato dal voi al lei? (Cap. IV). Notiamo anche l’impaccio naturalissimo di don Rodrigo sorpreso dall’irruenza del frate; più sotto, non saprà dire altro che: «Come! in questa casa! ». 91. Ho compassione di questa casa...: siamo al colmo della tensione di padre Cristoforo, in questa pagina talmente drammatica, che qualcuno l’ha chiamata la più dantesca del M. C'è dell’enfasi in tutto questo periodo, che sembra. uscire dalle labbra di un profeta. Ma, insieme, c'è anche tanta umana commozione, che raggiunge il suo punto più sublime quando com-
pare il nome di Lucia, veduta nella sua fragilità di fanciulla soggetta alle persecuzioni degli uomini, ma anche difesa dalla protezione di Dio. L’ispirazione originaria di queste ultime parole di Cristoforo deriva, però, dalla volontà di esaltare la dignità di ogni creatura, nell’uguaglianza di tutti gli uomini: «... avete. creduto che Dio abbia fatto una creatura... per darvi il piacere di tormentarla! ». E tale motivo della fondamentale uguaglianza degli uomini nella comune discendenza divina — motivo che rappresenta uno degli aspetti più tipici e più nobili della personalità morale ed artistica del M. — ricollega questa pagina a tante altre, non solo del romanzo, ma di tutte le maggiori opere manzoniane, dagli Inni sacri all’Adelchi, alle Odi civili. 98. Verrà un giorno...: le parole restano mozzate, ma la profezia minacciosa è completa. Con essa l’impeto del frate si arresta: e tace. Poi Cristoforo uscirà, riprenderà la sua vita di sempre, e di lui vedremo e udiremo tante altre cose ancora:- ma non Verrà. un più questo: dimenticheremo giorno...
101. un lontano e misterioso spavento: tre parole stupendamente scelte. e fissate.
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{ promessi sposi Afferrò rapidamente per aria quella mano minacciosa, e, alzando la voce,
per troncar quella dell’infausto profeta, gridò: « escimi di tra’ piedi, villano 105
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temerario, poltrone incappucciato ». Queste parole così chiare acquietarono in un momento
il padre Cristo-
foro. All’idea di strapazzo e di villania, era, nella sua mente, così bene, e da tanto tempo, associata l’idea di sofferenza e di silenzio, che, a quel complimento, gli cadde ogni spirito d’ira e d’entusiasmo, e non gli restò altra risoluzione che quella d’udir tranquillamente ciò che a don Rodrigo piacesse d’aggiungere. Onde, ritirata placidamente la mano dagli artigli del gentiluomo; abbassò il capo, e rimase immobile, come, al cader del vento, nel forte della burrasca, un albero agitato ricompone naturalmente i suoi rami, e riceve la grandine come il ciel la manda. « Villano rincivilito! » proseguì don Rodrigo: «tu tratti da par tuo. Ma ringrazia il saio che ti copre codeste spalle di mascalzone, e ti salva dalle carezze che si fanno a’ tuoi pari, per insegnar loro a parlare. Esci con le tue gambe, per questa volta; e la vedremo. » Così dicendo, additò, con impero sprezzante, un uscio in faccia a quello per cui erano entrati; il padre Cristoforo chinò il capo, e se n’andò, lasciando don Rodrigo a misurare, a passi infuriati, il campo di battaglia. Quando il frate ebbe serrato l’uscio dietro a sé, vide nell’altra stanza dove entrava, un uomo ritirarsi pian piano, strisciando il muro, come per non esser veduto dalla stanza del colloquio; e riconobbe il vecchio servitore ch'era
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venuto a riceverlo alla porta di strada. Era costui in quella casa, forse da qua-
rant’anni, cioè prima che nascesse don Rodrigo; entratovi al servizio del pa-
dre, il quale era stato tutt’un’altra cosa. Morto lui, il nuovo padrone, dando
L’indignazione
profetica
del frate ha già
creato un vago turbamento: il quale, se fra poco sarà soffocato dalla reazione della protervia e dalla sensazione’ della potenza,
ricomparirà in una notte di fine agosto per tramutarsi in terrore e in castigo (Cap. XXXIII). 105-13. Queste parole... come il cielo la manda: tutto è finito. Finché l’avversario insolentiva, ma almeno mostrava di capire, il frate poteva subire in silenzio l’offesa e continuare a dire parole rifiutate ma sublimi. Ora che di fronte a sé padre Cristoforo non trova altro che l’ottusa presunzione della forza, non gli resta che tacere. Potrà anche pregare, sì: ma Iddio soltanto, non più l’uomo. — Guarda in particolare l'evidenza plastica di quella mano che « placidamente » si ritira « dagli artigli del gentiluomo », e osserva come l’immagine bellissima dell’albero che al cadere del vento « ricompone naturalmente i suoi rami» e «riceve la grandine come il ciel la manda» non solo suggelli un’improvvisa immobilità del corpo, ma rende la calma sublime dello spirito: potrebbero tornarci alla mente certi versi della Pentecoste, ove è cantata una pace di terrori immobile e che il mondo rapir non piò.
117. e la vedremo: dopo le ingiurie più volgari — villano..., poltrone incappucciato..., mascalzone... — anche don Rodrigo aggiunge la sua minaccia lontana; anzi, una minaccia che prenderà ben presto consistenza reale. Le mani dell’uomo hanno furia di punire e di colpire; la giustizia di Dio no: essa lascia a tutti — sembrerà volerci dire il M. — il tempo per riflettere e pentirsi. Del resta, anche Dante ci insegna che «La spada di qua sù non taglia in fretta Né tardo, ma che al parer di colui Che disiando o temendo l’aspetta » (Par. XXII, 16-18). 120. ...il campo di battaglia: è, per ora, l’ultima occhiata su questo don ‘Rodrigo infuriato e meschino; e, senza che ancora ce n’accorgiamo abbastanza, serve allo scrittore per scaricare, con una venatura umoristica, un po’ di tensione, e per riportare il racconto sul tono medio e pacato. 124. Era costui... la breve digressione biografica sul vecchio servitore servirà a farci meglio capire il suo successivo comportamento. È un discorso, questo, che vale per tutte le parentesi e tutte le digressioni che si incontrano nel romanzo: elementi sempre necessari, non solo strutturalmente
ma
anche artisticamente.
capitolo VI
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lo sfratto a tutta la famiglia, e facendo brigata nuova, aveva però ritenuto quel servitore, e per esser già vecchio, e perché, sebben di massime e di costume diverso interamente dal suo, compensava però questo difetto con due 130 qualità: un’alta opinione della dignità della casa, e una gran pratica del cerimoniale, di cui conosceva, meglio d’ogni altro, le più antiche tradizioni, e i più minuti particolari. In faccia al signore, il povero vecchio non si sarebbe mai atrischiato d’accennare, non che d’esprimere la sua disapprovazione di ciò che vedeva tutto il giorno: appena ne faceva qualche esclamazione, qual135 che rimprovero tra i denti a’ suoi colleghi di servizio; i quali se ne ridevano, e prendevano anzi piacere qualche volta a toccargli quel tasto, per fargli dir di più che non avrebbe voluto, e per sentirlo ricantar le lodi dell’antico modo di vivere in quella casa. Le sue censure non arrivavano agli orecchi del padrone che accompagnate dal racconto delle risa che se n’eran fatte; dimodo140 ché riuscivano anche per lui un soggetto di scherno, senza risentimento. Ne’
giorni poi d’invito e di ricevimento, il vecchio diventava un personaggio serio e d’importanza. ‘ Il padre Cristoforo lo guardò, passando, lo salutò, e seguitava la sua strada; ma il vecchio se gli accostò misteriosamente, mise il dito alla bocca, 145 e poi, col dito stesso, gli fece un cenno, per invitarlo a entrar con lui in un andito buio. Quando furon lì, gli disse sotto voce: « padre, ho sentito tutto, e ho bisogno di parlarle ». « Dite presto, buon uomo. » « Qui no: guai se il padrone s’avvede... Ma io so molte cose; e vedrò di 150 venir domani al convento. »
« C'è qualche disegno? » « Qualcosa per aria c'è di sicuro: già me ne son potuto accorgere. Ma
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ora starò sull’intesa, e spero di scoprir tutto. Lasci fare a me. Mi tocca a vedere e a sentir cose...! cose di fuoco! Sono in una casa...! Ma io vorrei salvar l’anima mia. » « Il Signore vi benedica! » e, proferendo sottovoce queste parole, il frate
mise la mano sul capo bianco del servitore, che, quantunque più vecchio di
lui, gli stava curvo dinanzi, nell’attitudine d’un figliuolo. « Il Signore vi ricompenserà, » proseguì il frate: « non mancate di venir domani. »
144. il vecchio se gli accostò misteriosamente: a ragione il Momigliano nota che la riapparizione del vecchio servitore « È misteriosa come quella di una spia »; e aggiunge: «ma questa sensazione è appena nata che scompare, e lascia il luogo ad una più alta. Qualcuno, perché il vecchio è uno strumento della Provvidenza, ha trovato che è una figura convenzionale e introduce quell’elemento romanzesco dal quale il Manzoni si voleva guardare (Petronio). Ma l’arte va giudicata non dallo scheletro dei fatti ma dal modo come essi sono coloriti. La battaglia fra don Rodrigo e il frate è compresa fra l’apparizione e la riapparizione del vecchio. [...] Quando ricompare, c'è un così piano e logico senso di realtà nella descrizione della sua vita in casa di don Rodrigo, una tale sempli-
cità nel suo colloquio preciso ‘e ansioso con fra Cristoforo, che tutto sembra, pur rivelando la mano nascosta della Provvidenza, non un voluto disegno dell’autore, ma lo svolgimento naturale di naturali premesse, Con un’arte simile saranno delineate le circostanze e le coincidenze della conversione dell’Innominato ». — Il «se gli accostò » per « gli si accostò », è un’espressione arcaica e pesante. 149. Qui no...: da ogni parola del vecchio traspare trepidazione, paura, sofferenza; il suo comportamento ha sempre qualcosa di umbratile e di sospettoso. Perciò la mano di padre Cristoforo, posandosi su quel « capo bianco », non solo, come è stato detto, assume una solennità biblica, ma esprime per ambedue i personaggi il valore di un pegno della Provvidenza divina.
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f promessi sposi
« Verrò, » rispose il servitore: « ma lei vada via subito e... per amor del cielo... non mi nomini. » Così dicendo, e guardando intorno, uscì, per l’altra parte dell’andito, in un salotto, che rispondeva nel cortile; e, visto il campo
libero, chiamò fuori il buon frate, il volto del quale rispose a quell’ultima
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parola più chiaro che non avrebbe potuto fare qualunque protesta. Il servitore gli additò l’uscita; e il frate, senza dir altro, partì. Quell’uomo era stato a sentire all’uscio del suo padrone: aveva fatto bene? E fra Cristoforo faceva bene a lodarlo di ciò? Secondo le regole più comuni e men contraddette, è cosa molto brutta; ma quel caso non poteva riguardarsi come un’eccezione? E ci sono dell’eccezioni alle regole più comuni e men contraddette? Questioni importanti; ma che il lettore risolverà da sé, se ne ha voglia. Noi non intendiamo di dar giudizi: ci basta d’aver dei fatti da raccontare. Uscito fuori, e voltate le spalle a quella casaccia, fra Cristoforo respirò
più liberamente, e s’avviò in fretta per la scesa, tutto infocato in volto, commosso e sottosopra, come ognuno può immaginarsi, per quel che aveva sen-
tito, e per quel che aveva detto. Ma quella così inaspettata esibizione del vecchio era stata un gran ristorativo per lui: gli pareva che il cielo gli avesse dato un segno visibile della sua protezione. — Ecco un filo, pensava, un filo che la provvidenza mi mette nelle mani. E in quella casa medesima! E senza ch’io sognassi neppure di cercarlo! — Così ruminando, alzò gli occhi verso l’occidente, vide il sole inclinato, che già già toccava la cima del monte, e pensò che rimaneva ben poco del giorno. Allora, benché sentisse le ossa gravi e fiaccate da’ vari strapazzi di quella giornata, pure studiò di più il passo, per poter riportare un avviso, qual si fosse, a’ suoi protetti, e arrivar
poi al convento, prima di notte: che era una delle leggi più precise, e più severamente mantenute del codice cappuccinesco. Intanto, nella casetta di Lucia, erano stati messi in campo e ventilati disegni, de’ quali ci conviene informare il lettore. Dopo la partenza del frate, 166-167. aveva fatto bene?: né a questa né alle successive domande il M. risponde, e lascia al lettore di risolverle da sé, «se ne ha voglia». Secondo alcuni il M. non intende risolvere il caso perché è difficile, e soggetto a troppe distinzioni; secondo altri il fatto stesso di aver posto la questione implica già una risoluzione negativa; secondo altri ancora l’autore lascerebbe capire che, trattandosi di cosa fatta a fin di bene, approva il comportamento del vecchio servitore. Noi, senza indagare le cause di pareri tanto discordi, siamo più propensi all’ultima ipotesi, anche perché, in quesiti del genere, il M. è incline a dare ragione a tutti: l’abbiamo visto già (cfr., ad es., Cap. I, n. 381) e lo vedremo altre volte. Piuttosto osserviamo come fino dall’Introduzione siano frequenti gli interventi diretti dell’autore nel racconto: è come se intendesse mettersi accanto ai suoi lettori e discutere con loro del più e del meno. Questo gusto per la riflessione fatta alla buona, ma sagase e
comprensiva, ammaestramento pet la vita sociale di ogni tempo, è un altro notevole elemento della novità narrativa dei Promessi Sposi. 179. un filo che la provvidenza... può sembrare che qui il M. insista troppo sul motivo della Provvidenza, lasciandolo diluire in un complesso di riflessioni minute. Ma tanta insistenza deriva da ben diversa ragione che non quella di porre in risalto il valore dell’intervento di Dio nelle vicende umane. Essa nasce dal proposito di far vedere come è facile per ognuno, e quindi anche per un padre Cristoforo, ingannarsi su quelle che ci sembrano le vie della Provvidenza. Vedremo, appunto, che tutto l'impegno di Cristoforo per salvare Lucia si risolverà in un fallimento totale. 180-181. gli occhi verso l’occidente...: poni mente a questo accenno al tramonto e a quei monti lontani: quanta pace solenne nella natura, e come discende nel cuore turbato dell’uomo a portarvi il suo arcano conforto!
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i tre rimasti erano stati qualche tempo in silenzio; Lucia preparando tristamente il desinare; Renzo sul punto d’andarsene ogni momento, per levarsi
dalla vista di lei così accorata, e non sapendo staccarsi; Agnese tutta intenta,
in apparenza, ‘all’aspo che faceva girare. Ma, in realtà, stava maturando un progetto; e, quando le parve maturo, ruppe il silenzio in questi termini: « Sentite, figliuoli! Se volete aver cuore e destrezza, quanto bisogna, se vi fidate di vostra madre, » a quel vostra Lucia si riscosse, « io m’impegno di cavarvi di quest’impiccio, meglio forse, e più presto del padre Cristoforo, quantunque sia quell’uomo che è. » Lucia rimase lì, e la guardò con un volto
ch’esprimeva più maraviglia che fiducia in una promessa tanto magnifica; e
Renzo disse subitamente: «cuore? destrezza? dite, dite pure quel che si 200 può fare ». « Non è vero, » proseguì Agnese, « che, se foste maritati, si sarebbe già un pezzo avanti? E che a tutto il resto si troverebbe più facilmente ripiego? » «C'è dubbio? » disse Renzo: « maritati che fossimo... tutto il mondo è paese; e, a due passi di qui, sul bergamasco, chi lavora seta è ricevuto a 205‘ braccia aperte. Sapete quante volte Bortolo mio cugino m'ha fatto sollecitare d’andar là a star con lui, che farei fortuna, com’ha fatto lui; e se non gli ho mai dato retta, gli è... che serve? perché il mio cuore era qui. Maritati, si va di tutti insieme, si mette su casa là, si vive in santa pace, fuor dell’unghie vero, questo ribaldo, lontano dalla tentazione di fare uno sproposito. N'è 210
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Lucia? » « Sì, » disse Lucia: « ma come...? » «Come ho detto io, » riprese la madre:
« cuore e destrezza; e la cosa è
facile. » « Facile! » dissero insieme que’ due, per cui.la cosa era divenuta tanto stranamente e dolorosamente difficile. « Facile, a saperla fare, » replicò Agnese. « Ascoltatemi bene, che vedrò di farvela intendere. Io ho sentito dire da gente che sa, e anzi ne ho veduto
ma non è io un caso, che, per fare un matrimonio, ci vuole bensì il. curato, necessario che voglia; basta che ci sia. » « Come sta questa faccenda? » domandò Renzo. ben d’ac« Ascoltate e sentirete. Bisogna aver due testimoni ben lesti e
riflettere, non solo perché ha un cuore 189.i tre rimasti: ciascuno è ritratto appassionato e risoluto, ma anche perché colpo di coglie ne che nell’atteggiamento è tanto più semplice e impulsivo: è come del mo il carattere consueto e lo stato d’ani Agnese. tratto il o quadr il tutto momento; ma di 208. si mette su casa là...: come corre il iù umanamente commovente è quello di Renzo: per lui la cosa è bell’e fatta, nostro per sene andar di enzo: sempre sul punto che Agnese ha detto, e ripemomento dal . Lu«levarsi dalla vista così accorata » di soltanto «cuore e debastano che terà, ». rsi stacca « cia, eppure incapace a strezza ». 195. a quel vostra Lucia si riscosse: 218-219. il curato... basta che ci sia: sì, amore e pudore si confondono nell’anima perché chi celebra il matrimonio sono gli delicatissima di Lucia, mentre Agnese parsposi stessi. Il sacerdote non fa che prenute. avven già la come se le nozze fossero dere atto della loro volontà, dopo essersi 198. più maraviglia che fiducia: altra noche non esista nessuno degl’imaccertato seo ament ta dell'animo di Lucia: un accor che ben conosciamo; egli è soli pediment e giung le che ciò tutto greto dinanzi a io necessario, e la valitestimon un tanto lei in nuovo ed improvviso, e che turba, iale, per quanto lo matrimon dell'atto riflessiva e guardinga, il corso della vita dità dal suo assenso ma dipende non riguarda, , da lungo tempo sognata. Renzo, invece dalla sua presenza,
dirà subito di sì, senza dubitare e senza
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î promessi sposi
cordo. Si va dal curato: il punto sta di chiapparlo all'improvviso, che non abbia tempo di scappare. L’uomo dice: signor curato, questa è mia moglie; 225
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la donna dice: signor curato, questo è mio marito. Bisogna che il curato senta, che i testimoni sentano; e il matrimonio è bell’e fatto, sacrosanto come se l’avesse fatto il papa. Quando le parole son dette, il curato può strillare, strepitare, fare il diavolo; è inutile; siete marito e moglie. » « Possibile? » esclamò Lucia. « Come! » disse Agnese: « state a vedere che, in trent’anni che ho passati in questo mondo, prima che nasceste voi altri, non avrò imparato nulla. La cosa è tale quale ve la dico: per segno tale che una mia amica, che voleva prender uno contro la volontà de’ suoi parenti, facendo in quella maniera, ottenne il suo intento. Il curato, che ne aveva sospetto, stava all’erta; ma i due diavoli seppero far così bene, che lo colsero in un punto giusto, dissero le parole, e furon marito e moglie: benché la poveretta se ne pentì poi, in capo a tre giorni. »
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Agnese diceva il vero, e riguardo alla possibilità, e riguardo al pericolo di non ci riuscire: ché, siccome non ricorrevano a un tale espediente; se non persone che avesser trovato ostacolo o rifiuto nella via ordinaria, così i par-
rochi mettevan gran cura a scansare quella cooperazione forzata; e, quando
un d’essi venisse pure sorpreso da una di quelle coppie, accompagnata da testimoni, faceva di tutto per iscapolarsene, come Proteo dalle mani di coloro che volevano farlo vaticinare per forza. « Se fosse vero, Lucia! » disse Renzo, guardandola con un’aria d’aspettazione supplichevole. « Come! se fosse vero! » disse Agnese. « Anche voi credete ch’io dica fandonie. Io m’affanno per voi, e non sono creduta: bene bene; cavatevi d’impiccio come potete: io me ne lavo le mani. » « Ah no! non ci abbandonate, » disse Renzo. « Parlo così, perché la cosa mi par troppo bella. Sono nelle vostre mani; vi considero come se foste proprio mia madre. » Queste parole fecero svanire il piccolo sdegno d’Agnese, e dimenticare un proponimento che, per verità, non era stato serio.
226-227. strillare, strepitare, fare il diavolo: nelle parole vivacissime e popolaresche di Agnese si pregusta già una delle scene più comiche di tutto il romanzo (Cap. VIII). 235. la poveretta
se ne pentì...: questa poi Agnese se la poteva tenere per sé: ma le è proprio scappata di bocca senza pensarci. Fra le virtù della buona donna, quella di saper frenare la lingua a tempo non è delle più spiccate. 242. iscapolarsene: sfuggire, non lasciarsi prendere. Verbo poco comune, ma qui di grande effetto. — Proteo: dio marino, che per evitare di dar profezie, anche se legato, assumeva mille forme diverse e così cercava di sfuggire. Si suol ticordare che questo di Proteo è — insieme con quello di Psiche del cap. XV — uno dei due soli richiami mitologici di tutto il romanzo.
Forse perché il M., da buon romantico, condannava la mitologia? Questa similitudine risulta ancor più umoristica se la riferiamo non tanto alla situazione dei poveri parroci in generale, ma a quella particolare del nostro don Abbondio. 252. il piccolo sdegno d’Agnese: Agnese conosce l’arte della persuasione: anche lo sdegno fa comodo per superare certe opposizioni. — Agnese in queste pagine si sta rivelando una delle figure più vivaci del romanzo. Comare furba, esperta conoscittice degli uomini (così, almeno, è sicura di essere!), è sempre pronta ad escogitare soluzioni ingegnose. Ma è ben lontana dai sentimenti delicati e dalla rettitudine della figlia: ed il M., sempre e orà in particolare, è attento ed abilissimo nel creare giochi di contrasto fra la madre impulsiva e pratica
e la figlia riflessiva e piena di timor di Dio.
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« Ma perché dunque, mamma, » disse Lucia, con quel suo contegno sommesso, « perché questa cosa non è venuta in mente al padre Cristoforo? » « In mente? » rispose Agnese: « pensa se non gli sarà venuta in mente! Ma non ne avrà voluto parlare. » « Perché? » domandarono a un tratto i due giovani.
« Perché... perché, quando lo volete sapere, i religiosi dicono che vera£
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mente è cosa che non istà bene. »
« Come può essere che non istia bene, e che sia ben fatta, quand'è fatta? » disse Renzo.
« Che volete ch’io vi dica? » rispose Agnese. « La legge l’hanno fatta loro, come gli è piaciuto; e noi poverelli non possiamo capir tutto. E poi quan265
te cose... Ecco; è come lasciar andare un pugno a un cristiano. Non istà bene;
ma, dato che gliel’abbiate, né anche il papa non glielo può levare. » « Se è cosa che non istà bene, » disse Lucia, « non bisogna farla. » « Che! » disse Agnese, « ti vorrei forse dare un parere contro il timor di Dio? Se fosse contro la volontà de’ tuoi parenti, per prendere un rom270 -picollo... ma, contenta me, e per prender questo figliuolo; e chi fa nascer tutte le difficoltà è un birbone; e il signor curato... » « L’è chiara, che l’intenderebbe ognuno, » disse Renzo. « Non bisogna parlarne al padre Cristoforo, prima di far la cosa, » pro-
seguì Agnese: « ma, fatta che sia, e ben riuscita, che pensi tu che ti dirà il 275
padre? —
Ah figliuola! è una scappata grossa; me l’avete fatta. —
Eppure sono anche quegli umani difetti che fanno Agnese vicina a noi, attraente e simpatica: la sua incapacità di tacere, la superficialità di certe valutazioni morali, l’emotività nel risentimento e nella stizza, la vanità e la testardaggine. 254. Ma perché, dunque,...?: dopo un «ma come? », dopo un « possibile? », ecco da parte di Lucia il primo « perché? » netto e deciso, espressione di un dubbio che deriva dalla svalutazione obiettiva, anche se delicata e affettuosa, del progetto della madre e dalla fiducia assoluta nell’opera di padre Cristoforo. 261. non istia bene, e... sia ben fatta: sì, sta proprio così; in quanto occorre far distinzione fra la non liceità della forma e la validità della sostanza. Quindi il matrimonio di sorpresa, una volta fatto, è valido an-
che se compiuto in maniera illecita. Ma la distinzione è un po’ troppo sottile per dei poveretti indotti, quali sono i nostri tre personaggi. Per fortuna fra loro c'è Agnese, che, col suo senso sagace della vita, risolve, a parer suo, tutta la matassa, per mezzo dell’esempio del pugno — così realisti co: tutto Agnese! — che a darlo a un cri-
stiano « non istà bene », ma che una volta dato «né anche il papa non glielo può levare ». È un esempio però che, se soddisfa più che a sufficienza Renzo, non vale per Lucia. 266. il papa non glielo può levare: scri-
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ve argutamente il Belloni: « Quest’uscita è un portento di comicità, specialmente petché l’esempio non calza affatto: un pugno, quand’è ben dato è dato, e su ciò non c’è dubbio; è dubbio invece, se un matrimonio per sorpresa, una volta fatto, sia valido: un pugno il papa non può levarlo di certo; ma un matrimonio per sorpresa, il papa lo può annullare, se non lo ritien legittimo. L’argomentazione di Agnese non solo zoppica, ma ottiene l’effetto opposto a quello desiderato, perché Lucia, seguendo l’ispirazione morale che le viene dagli insegnamenti di fra Cristoforo, osserva: ‘Se è cosa che non istà bene, non bisogna farla ’ ». 267 Se... non istà bene: l’aveva detto sua madre che mon istà bene: e a questo Lucia si attacca e, trascurando tutto il resto, arriva all’unica conclusione che la sua anima cristallina può ammettere: «non bisogna farla ». 275. Ah figliuola!... me l’avete fatta: è una delle uscite più briose di Agnese: la quale sa già, lei, che cosa penserà e che cosa dirà padre Cristoforo: e quindi sa già che tutto andrà a finire per il meglio, cioè secondo il suo disegno! — Come è bonaria l'ironia del narratore che segue i discorsi di questi umili, e come è sereno il suo spasso nel mettere in bocca ad Agnese quei piani e quei giudizi sugli uomini! Perché il M. se, come bene osserva il Busetto « ha in mente il Vangelo e i comandamenti del-
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giosi devon parlar così. Ma credi pure che, in cuor suo, sarà contento anche lui. » Lucia, senza trovar che rispondere a quel ragionamento, non ne sembrava
però capacitata: 280
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ma Renzo, tutto rincorato, disse: « quand’è così, la cosa è
fatta. »
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« Piano, » disse Agnese. « E i testimoni? Trovar due che vogliano, e che intanto sappiano stare zitti! E poter cogliere il signor curato che, da due giorni, se ne sta rintanato in casa? E farlo star lì? ché, benché sia pesante di sua natura, vi so dir io che, al vedervi comparire in quella conformità, diventerà lesto come un gatto, e scapperà come il diavolo dall’acqua santa. » « L’ho trovato io il verso, l’ho trovato, » disse Renzo, battendo il pugno sulla tavola, e facendo balzellare le stoviglie apparecchiate per il desinare. E seguitò esponendo il suo pensiero, che Agnese approvò in tutto e per tutto.
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« Son imbrogli, » disse Lucia: « non son cose lisce. Finora abbiamo operato sinceramente: tiriamo avanti con fede, e Dio ci aiuterà: il padre. Cristoforo l’ha detto. Sentiamo il suo parere. » « Lasciati guidare da chi ne sa più di te, » disse Agnese, con volto grave. « Che bisogno c’è di chieder pareri? Dio dice: aiutati, ch'io t’aiuto. Al padre racconteremo tutto, a cose fatte. » « Lucia, » disse Renzo, « volete voi mancarmi
ora? Non
avevamo
noi
fatto tutte le cose da buon cristiani? Non dovremmo esser già marito e moglie? Il curato non ci aveva fissato lui il giorno e l’ora? E di chi è la colpa, se dobbiamo ora aiutarci con un po’ d’ingegno? No, non mi mancherete. Vado e torno con la risposta. » E, salutando Lucia, con un atto di preghiera, e Agnese, con un’aria d’intelligenza, partì in fretta. Le tribolazioni aguzzano il cervello: e Renzo il quale, nel sentiero retto e piano di vita percorso da lui fin allora, non s’era mai trovato nell'occasione d’assottigliar molto il suo, ne aveva, in questo caso, immaginata una, da far onore a un giureconsulto. Andò addirittura, secondo che aveva disegnato, alla casetta d’un certo Tonio, ch’era lì poco distante; e lo trovò in cucina, che la Chiesa, non sempre, però, ne trae argomento per condannare e colpire: nel gioco vario, complicato, misterioso degli impulsi e delle affezioni del cuore umano, si guarda dalle fiere antitesi, massime se si tratti d’anime buone e angustiate; le riserva invece dove e il motivo dell’azione e le sue conseguenze contrastano scelleratamente alla legge di Dio ». 285. lesto come un gatto: bellissima similitudine, che vedremo realizzarsi appieno, e con cui ora torna sulla scena, sia pure in prospettiva lontana, il nostro don Abbondio paragonato subito dopo, come se non bastasse il gatto, anche al diavolo! 286. L’ho trovato io...: appassionato e impetuoso (come fa « balzellare » le stoviglie sulla tavola!) Renzo è in puntuale sincronia con Agnese. Ma mentre suocera e genero sono infervorati nell’architettare l’im-
presa, Lucia soffre in disparte: e, se parla,
parla sempre soave e dolce, pur restando ferma nell’ascolto della sua coscienza. 302. Le tribolazioni aguzzano il cervello...: la nuova pagina s’inizia con tono pacato e disteso, e con un elogio al nostro Renzo. Questo elogio del sapere « aguzzare » 0 « assottigliare » il cervello non è affatto superfluo: ci fa capire che si tratta di una dote che Renzo, quando ce n’è bisogno, nonostante sia un povero ragazzo di campagna, ce l’ha, eccome. E perciò comprenderemo meglio, in seguito, tante sue furbizie per liberarsi da impicci molto più gravi e peticolosi di quello di ora. 306. casetta d’un certo Tonio...: la scena che ora stiamo per leggere, e che qualcuno ha paragonata ad un quadro fiammingo, è la pittura dell’interno di un’umile casa di contadini lombardi, tutta pervasa di rac-
colta mestizia. È la stessa mestizia che si è vista al mattino seguendo la camminata di
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con un ginocchio sullo scalino del focolare, e tenendo, con una mano, l’orlo d’un paiolo, messo sulle ceneri calde, dimenava, col matterello ricurvo, una piccola polenta bigia, di gran saraceno. La madre, un fratello, la moglie di Tonio, erano a tavola; e tre o quattro ragazzetti, ritti accanto al babbo, sta-
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vano aspettando, con gli occhi fissi al paiolo, che venisse il momento di scodellare. Ma non c’era quell’allegria che la vista del desinare suol pur dare a chi se l’è meritato con la fatica. La mole della polenta era in ragion dell’annata, e non del numero e della buona voglia de’ commensali: e ognun d'’essi, fissando, con uno sguardo bieco d’amor rabbioso, la vivanda comune, pareva pensare alla porzione d’appetito che le doveva sopravvivere. Mentre Renzo barattava i saluti con la famiglia, Tonio scodellò la polenta sulla tafferìa di faggio, che stava apparecchiata a riceverla: e parve una piccola luna, in un gran cerchio di vapori. Nondimeno le donne dissero cortesemente a Renzo: « volete restar servito? », complimento che il contadino di Lombatdia, e chi sa di quant’altri paesi! non lascia mai di fare a chi lo trovi a mangiare, quand’anche questo fosse un ricco epulone alzatosi allora da tavola, e lui fosse all’ultimo boccone. « Vi ringrazio,» rispose Renzo: « venivo solamente pet dire una parolina a Tonio; e, se vuoi, Tonio, per non disturbar le tue donne, possiamo
andar a desinare all’osteria, e lì parleremo. » La proposta fu per Tonio tanto
più gradita, quanto meno aspettata; e le donne, e anche i bimbi (giacché, su questa materia, principian presto a ragionare) non videro mal volentieri
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che si sottraesse alla polenta un concorrente, e il più formidabile. L’invitato non istette a domandar altro, e andò con Renzo. Giunti all’osteria del villaggio; seduti, con tutta libertà, in una perfetta solitudine, giacché la miseria aveva divezzati tutti i frequentatori di quel luogo di delizie; fatto portare quel poco che si trovava; votato un boccale di
vino; Renzo, con aria di mistero, disse a Tonio: «se tu vuoi farmi un piccolo servizio, io te ne voglio fare uno grande ». « Parla, parla; comandami butterei nel fuoco per te. »
pure, » rispose Tonio, mescendo.
padre Cristoforo verso la casa di Lucia (Cap. III). La realtà della carestia colpisce per ora i più poveri: in seguito diverrà una pubblica disgrazia, e ne vedremo effetti ben più estesi e drammatici. — Parliamo dunque, com’è giusto, a proposito di quest’interno della casetta di Tonio, di pittura fiamminga sul tipo dei dipinti di un David Teniers (1528-1649) o, come vuole qualche altro, sul tipo dei dipinti di un Jacopo Ceruti (il Pitocchetto, della prima metà del Settecento); ma aggiungiamo che è pittura essenzialmente manzoniana, perché al di là del colore e del realismo degli oggetti e delle persone, ciò che più ci colpisce è la pena dipinta sui volti e ritratta sulle cose. 309. gran saraceno: è un grano scuro, che dà una farina bigia, assai diversa dalla farina gialla del grano turco. Il M. parla espressamente di « polenta bigia, di gran saraceno », non solo per un’accorta notazione
« Oggi mi
artistica che mette bene in risalto il viver
gramo della famigliola, ma anche per una ragione storica (e il M. sta sempre attento alla verità storica), in quanto il granoturco (o mais, o melica)
fu importato
in Italia
soltanto alcuni anni dopo il periodo in cui
l’autore colloca queste vicende. 313. La mole della polenta...: il nostro pensiero torna al banchetto nel palazzotto di don Rodrigo, mentre osserviamo quegli sguardi biechi «d’amor rabbioso »: e ancora una volta sentiamo come l’animo del M. si piega, melanconico e meditativo, sulle tribolazioni dei poveri. 317. tafferìa: piatto incavato, una specie di tagliere. 333. luogo di delizie: è detto con una certta ironia: delizie da povera gente, e da temdi carestia! 336-337. Oggi mi butterei nel fuoco pet te: torna a mente quanto Renzo aveva det-
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«Tu hai un debito suo campo, che lavoravi, « Ah, Renzo, Renzo! fuori? M’hai fatto andar
di venticinque lire col signor curato, per fitto del l’anno passato. » quat tu mi guasti il benefizio. Con che cosa mi vieni via il buon umore. » ne « Se ti parlo del debito, » disse Renzo, « è perché, se tu vuoi, io intendo di darti il mezzo di pagarlo. » « Dici davvero? » Davvero. Eh? saresti contento? » « Contento? Per diana, se sarei contento! Se non foss’altro, per non veder più que’ versacci, e que’ cenni col capo, che mi fa il signor curato, ogni volta che c’incontriamo. E poi sempre: Tonio, ricordatevi: Tonio, quando ci vediamo, per quel negozio? A tal segno che quando, nel predicare, mi fissa quegli occhi addosso, io sto quasi in timore che abbia a dirmi, lì in pubblico: quelle venticinque lire! Che maledette siano le venticinque lire! E poi, m’avrebbe a restituir la collana d’oro di mia moglie, che la baratterei in tanta polenta. Ma... » « Ma, ma, se tu mi vuoi fare un servizietto, le venticinque lire son preparate. »
« Dì su. » « Ma...! » disse Renzo, mettendo il dito alla bocca. « Fa bisogno di queste cose? tu mi conosci. »
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« Il signor curato va cavando fuori certe ragioni senza sugo, per tirare
in lungo il mio matrimonio; e io in vece vorrei spicciarmi. Mi dicon di sicuro che, presentandosegli davanti i due sposi, con due testimoni, e dicendo io: questa è mia moglie, e Lucia: questo è mio matito, il matrimonio è bell’e fatto. M’hai tu inteso?
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« Tu vuoi ch’io venga per testimonio? » « Per l’appunto. » « E pagherai per me le venticinque lire? » « Così l’intendo. »
« Birba chi manca. »-
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« Ma bisogna trovare un altro testimonio. » « L’ho trovato. Quel sempliciotto di mio fratel Gervaso farà quello che gli dirò io. Tu gli pagherai da bere? » «E da mangiare, » rispose Renzo. « Lo condurremo qui a stare allegro con noi. Ma saprà fare? » to la mattina a padre Cristoforo sul conto dei suoi amici: « eran pronti a dare il sangue per me ». Il buon Tonio, ad ogni mo-
do, è pronto anche oggi a far tutto per il suo Renzo, perché ne ha interesse: qualcosa da mangiare ora, un servizio « grande » più tardi; e tutto senza dover cotrere pericoli grossi. 347. que’ versacci... que’ cenni col capo: il M. ha il gusto del ritrattista, e don Abbondio gli offre sempre lo spunto per qualche pennellata spassosa. Ma al di là della mimica scopriamo, anche qui, l’animo del personaggio:
avaro,
usuraio,
meschino,
so-
spettoso... 359. ... certe ragioni senza sugo: sapeva-
mo che Renzo è buono ad «aguzzare » il cervello quando ce n’è bisogno; ma ancora non ne conoscevamo le doti oratorie: quando, come qui, si trova davanti a gente del suo rango. Abile davvero è ora nel condurre tutto questo discorso, con un argomentare sempre preciso, concreto, sicuro. Ricordate come poco fa ha saputo buttare davanti all’amico il debito di quelle venticinque lire, in modo da fargli apprezzare il beneficio d’estinguerlo in un batter d’occhio; ed ora osservate la sagacia con cui tiesce a tacere le ragioni vere dell’opposizione del curato, pet cui, senza bisogno di svelare un segreto, convince l’amico sul suo buon diritto.
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« Gl’insegnerò io: tu sai bene ch'io ho avuta anche la sua parte di cervello. » »°
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« Domani... »
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« « « «
Bene. » Verso sera... » Benone. » Ma!... » disse Renzo, mettendo di nuovo il dito alla bocca.
« Poh!... » rispose Tonio, piegando il capo sulla spalla destra, e alzando la mano sinistra, con un viso che diceva: mi fai torto. « Ma, se tua moglie ti domanda, come ti domanderà, senza dubbio... » « Di bugie, sono in debito io con mia moglie, e tanto tanto, che non so
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se arriverò mai a saldare il conto. Qualche pastocchia la troverò, da metterle
il cuore in pace. » « Domattina, » disse Renzo, « discorreremo con più comodo, per inten390
derci bene su tutto. » Con questo, uscirono dall’osteria, Tonio avviandosi a casa, e studiando “la fandonia che racconterebbe alle donne, e Renzo, a render conto de’ concerti presi.
In questo tempo, Agnese s’era affaticata invano a persuader la figliuola. Questa andava opponendo a ogni ragione, ora l’una, ora l’altra parte del suo dilemma:
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o la cosa è cattiva, e non bisogna farla; o non è, e perché non
dirla al padre Cristoforo? Renzo arrivò tutto trionfante, fece il suo rapporto, e terminò con un abn? interiezione che significa: sono o non sono un uomo io? si poteva trovar di meglio? vi sarebbe venuta in mente? e cento cose simili. Lucia tentennava mollemente il capo; ma i due infervorati le badavan poco, come si suol fare con un fanciullo, al quale non si spera di far intendere tutta la ragione d’una cosa, e che s’indurrà poi, con le preghiere e con
l’autorità, a ciò che si vuol da lui. « Va bene, » disse Agnese: « va bene; ma... non avete pensato a tutto. » « Cosa ci manca? » rispose Renzo. « E Perpetua? non avete pensato a Perpetua. Tonio e suo fratello, li la385. Qualche pastocchia la troverò: p4stocchia, fandonia. — È questa l’ultima, indimenticabile battuta di Tonio, figura minore fra le più attraenti del romanzo. Ora è tutto sorridente e gioviale, e attraverso un dialogo che il M. conduce con. acume brillante, rivela non solo prontezza nell’afferrare la fortuna insperata e scaltrezza nel condurre le sue faccende, ma anche un’amicizia sincera ed ingenua. Intanto alle spalle dei
due borghigiani senti il sorriso del M.: cioè il sorriso alle spalle dei furbi di turno, indaffarati a costruire castelli che crolleranno al primo imprevisto. 394. dilemma: è un dilemma
perfetto: rigida della volta, sua espressione perfetta, a morale di Lucia, che è la morale del M. stesso. Ha ragione perciò l’Angelini quando di fronte a questa argomentazione della fanciulla, risalendo alla genesi ‘ideale del ro-
manzo, afferma: « In questo sentimento del peccato, Lucia può ben esser sicura maestra a molti, e a noi. I Prorzessi Sposi non sono soltanto il libro delle vicende di Renzo e di Lucia, ma il libro in cui si pongono i fondamentali problemi del bene e del male; e il timor di Dio e la fiducia in Lui e nella sua provvidenza. È un libro che, se si prende in mano, bisogna essere a posto con la coscienza e con i proprii doveri. Se no, s’artischia di sentirci rimproverati a ogni pagina ». 399. tentennava mollemente il capo: che delicato sconforto in questo gesto di diniego, tanto contrastante con l’ardore degli altri due familiari, così « infervorati » da far conto di lei come se fosse un fanciullino, e così orgogliosi di scoprire ciascuno le proprie astute trovate: Renzo coi testimoni, Agnese con Perpetua.
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scerà entrare; ma voi! voi due! pensate! avrà ordine di tenervi lontani, più
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che un ragazzo da un pero che ha le frutte mature. » « Come faremo? » disse Renzo, un po’ imbrogliato. « Ecco: ci ho pensato io. Verrò io con voi; e ho un segreto per attirarla, e per incantarla di maniera che non s’accorga di voi altri, e possiate entrare. La chiamerò io, e le toccherò una corda... vedrete. » « Benedetta voi! » esclamò Renzo: «l’ho sempre detto che siete nostro aiuto in tutto. » « Ma tutto questo non serve a nulla, » disse Agnese, « se non si persuade costei, che si ostina a dire che è peccato. » Renzo mise in campo anche lui la sua eloquenza; ma Lucia non si lasciava smovere.
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«Io non so che rispondere a queste vostre ragioni, » diceva: « ma vedo che, per far questa cosa, come dite voi, bisogna andar avanti a furia di sotterfugi, di bugie, di finzioni. Ah Renzo! non abbiam cominciato così. Io voglio esser vostra moglie, » e non c’era verso che potesse proferir quella parola, e spiegar quell’intenzione, senza fare il viso rosso: « io voglio esser vo-
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fare a Quello lassù. Non volete. che sappia trovar Lui il bandolo d’aiutarci, meglio che non possiamo far noi, con tutte codeste furberie? E perché far misteri al padre Cristoforo? »
stra moglie, ma per la strada diritta, col timor di Dio, all’altare. Lasciamo
La disputa durava tuttavia, e non pareva vicina a finire, quando un cal-
pestìo affrettato di sandali, e un rumore di tonaca sbattuta, somigliante a
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quello che fanno in una vela allentata i soffi ripetuti del vento, annunziarono il padre Cristoforo. Si chetaron tutti; e Agnese ebbe appena tempo di susurrare all’orecchio di Lucia: « bada bene, ve’, di non dirgli nulla ». »
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Scheda
zo, la sua fedeltà alla legge di Dio, la certezza nella Provvidenza, la fiducia devota in padre Cristoforo... Creatura di questo mondo, Lucia è superiore a questo mondo, e rispecchia, come abbiamo altrove osservato, l'ideale manzoniano della donna. 429. in una vela allentata...: che immagine fresca! Sembra portare, con cieli e mari lontani, un soffio di vita. più alta e di speranza più aperta, sopra i piccoli sotterfugi degli uomini.
critica al cap. VI Nella prima parte del capitolo il colloquio fra don Rodrigo e fra Cristoforo è una grande scena secondo i modi del genere storico-romanzesco dell'Ottocento, con un'ombra perfino di enfasi melodrammatica, ma pur risolta in fiera concitazione di gesti e di discorsi proposti e ripercossi con vivacissimo ritmo. La sce-
capitolo VI
115 na giova non tanto a rifinire l'immagine del frate (sì, se mai, a sottolinearne l'idealità in una situazione specificatamente combattiva, lasciando trasparire persino una certa trama di cultura letteraria fortemente presente nel Manzoni, l'eco della grande oratoria religiosa del Seicento francese); quanto piuttosto a penetrare nel segreto della coscienza di don Rodrigo, in cui le parole di Cristoforo suscitano, insieme con la « rabbia » e la « maraviglia », anche « un lontano e misterioso spavento ». « Il contegno di don Rodrigo è quello beffardo del prepotente che se ne fa scudo per non veder la propria ingiustizia... Il motivo animatore del colloquio è la penetrazione nell’atteggiamento del prepotente, il quale ha un'oscura consapevolezza della propria malvagità, ma, poiché questa è diventata la sua vita, la difende come una fortezza assediata... Ci vuole la forza evangelica di fra Cristoforo straordinariamente accresciuta dalla provocazione, ci vuole la sua semplice e terribile minaccia, perché quella coscienza addormentata dia un segno visibile di un remoto risveglio: questo momento è una data nella vita di Don Rodrigo, ed è il centro della concezione » (Momigliano). ‘ L'alto tema religioso (del Dio giusto protettore degli umili e della sua grazia misteriosamente operante) perdura, pur nel tono mutato e attenuato del racconto, nell'intermezzo dell'incontro tra il frate e il servitore recalcitrante del signorotto, dove il commento discreto del Manzoni sottolinea l'indefinibile qualità degli interventi provvidenziali nell'umile trama delle vicende umane, e trapassa infine, in modi più sfumati e segreti, nella sezione conclusiva del capitolo, dove ancora una volta tocca a Lucia di rappresentare, quasi con caparbietà, la posizione del docile e semplice abbandono alla Grazia di contro agli improvvidi e quasi sempre fallaci tentativi messi in opera dall'uomo per mutare le sue sorti e far trionfare la giustizia con le deboli risorse della sua astuzia. Ai fini della struttura, questa chiusa del capitolo viene a contrapporre, secondo un procedimento costante, alla tematica ideale del mondo nobile e colto quella realistica e dimessa della società degli umili, al tono alto dei momenti di tensione quello pacato e senza risalti che caratterizza il movimento
consueto della narrazione. E sono pagine assai belle,
di grande finezza psicologica (intesa a definire meglio, in atto, i caratteri di Agnese e di Renzo) e di sottile sapienza descrittiva (specie nell’affettuosa e impietosita rappresentazione dell'interno della casa di Tonio).
Capitolo VII
Il padre Cristoforo arrivava nell’attitudine d’un buon capitano che, petduta, senza sua colpa, una battaglia importante, afflitto ma non scoraggito, sopra pensiero ma non sbalordito, di corsa e non in fuga, si porta dove il bisogno lo chiede, a premunire i luoghi minacciati, a raccoglier le truppe, a
dar nuovi ordini. « La pace sia con voi, » disse, nell’entrare. « Non c’è. nulla da sperare dall’uomo: tanto più bisogna confidare in Dio: e già ho qualche pegno della sua protezione. » 10
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Sebbene nessuno dei tre sperasse molto nel tentativo del padre Cristoforo, giacché il vedere un potente ritirarsi da una soverchieria, senza esserci costretto, e per mera condiscendenza a preghiere disarmate, era cosa piuttosto inaudita che rara; nulladimeno la trista certezza fu un colpo per tutti. Le donne abbassarono il capo; ma nell’animo di Renzo, l’ira prevalse all’abbattimento. Quell’annunzio lo trovava già amareggiato da tante sorprese dolorose,
da tanti tentativi andati a vòto, da tante speranze deluse, e, per di più, esacerbato, in quel momento,
dalle ripulse di Lucia.
1. d’un buon capitano: ricordate che. il colloquio fra padre Cristoforo e don Rodrigo si era concluso con uno scontro violento e che la sala, in cui era avvenuto, era stata chiamata, sia pur scherzosamente, un campo di battaglia; pensate poi all’indole battagliera del nostro cappuccino, e vedrete che l’immagine del «buon capitano » non solo non è « alquanto esagerata » (Rigutini e Mestica) ma ben s’intona al momento e all'uomo, e contribuisce ‘a portare la scena, che ora leggeremo, su quel piano di moderata tensione che la situazione richiede. 1 6. La pace sia con voi: non è solo una formula di saluto consueta per un cappuccino (anche fra Galdino aveva detto press’a
poco la stessa frase, entrando la sera prima in casa di Agnese e di Lucia: « Il Signore sia con voi »); ma in queste parole di pace c'è l’invito alla serenità dello spirito, al dominio di sé, di fronte alla sventura, nella fiduciosa attesa dell’aiuto celeste: «... bisogna confidare in Dio », aggiunge appunto, subito dopo, fra Cristoforo. 6-7. ... nulla da sperare dall'uomo: la frase è biblica e solenne. Il Getto conamen-
ta: «Le parole di fra Cristoforo sono piene di una pensosa malinconia e di un’affettuosa comprensione. Egli annunzia subito che ron c'è nulla da sperare dall'uomo: ed è un modo finissimo per accennare a don Rodrigo senza nominarlo, e insieme per indicare l’uomo in generale, il limite della condizione umana nell’operare il bene ». E aggiunge: « Il frate sviluppa questo tema pessimistico, restando il più possibile ad una considerazione universale, e passando ad un riferimento personale a don Rodrigo (tuttavia mai nominato) solo sotto l’incalzare delle domande di Renzo ». 11. preghiere disarmate: rivolte, cioè, da povera gente, a cui manca l’appoggio della forza e delle armi. 12. nulladimeno: pesante e letterario per non di meno. — fu un colpo per tutti...: la scena è condotta con grande realismo, lungo una linea di commossa pietà. Osserva la naturalezza dell’atto di Agnese e Lucia: «abbassarono il capo »; e la spontaneità del moto di Renzo, nel cui animo « l’ira » prevale sull’abbattimento. 16. dalle ripulse di Lucia: le sue resistenze al matrimonio di sorpresa,
capitolo VII
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« Vorrei sapere, » gridò, digrignando i denti, e alzando la voce, quanto non aveva mai fatto prima d’allora, alla presenza del padre Cristoforo; « vorrei sapere che ragioni ha dette quel cane, per sostenere... per sostenere che la mia sposa non dev'essere la mia sposa. »
« Povero Renzo! » rispose il frate, con una voce grave e pietosa, e con uno sguardo che comandava amorevolmente la pacatezza: « se il potente che vuol commettere l’ingiustizia fosse sempre obbligato a dir le sue ragioni, le cose non anderebbero come vanno. » i 25 « Ha detto dunque quel cane, che non vuole, perché non vuole? » « Non ha detto nemmen questo, povero Renzo! Sarebbe ancora un vantaggio se, per commetter l’iniquità, dovessero confessarla apertamente. » « Ma qualcosa ha dovuto dire: cos'ha detto quel tizzone d’inferno? » « Le sue parole, io l’ho sentite, e non te le saprei ripetere. Le parole del30 l’iniquo che è forte, penetrano e sfuggono. Può adirarsi che tu mostri sospetto di lui, e, nello stesso tempo, farti sentire che quello di che tu sospetti è certo: può insultare e chiamarsi offeso, schernire e chieder ragione, . atterrire e lagnarsi, essere sfacciato e irreprensibile. Non chieder più in là. Colui non ha proferito il nome di questa innocente, né il tuo; non ha figudi conoscervi, non ha detto di pretender nulla; ma... ma pur
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rato nemmen
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so mettermi ne’ tuoi panni, ch'io sento quello che passa nel tuo cuore. Ma, pazienza! È una magra parola, una parola amara, per chi non crede; ma tu...! non vorrai tu concedere a Dio un giorno, due giorni, il tempo che vorrà prendere, per far trionfare la giustizia? Il tempo è suo; e ce n’ha promesso tanto! Lascia fare a Lui, Renzo; e sappi... sappiate tutti ch'io ho già in mano
troppo ho dovuto intendere ch’è irremovibile. Nondimeno, confidenza in Dio! Voi, poverette, non vi perdete d’animo; e tu, Renzo... oh! credi pure, ch’io
19. quel cane: l’espressione, che ci pare di sentire come digrignata fra i denti, è, forse, sul piano artistico un po’ troppo violenta ed anche grossolana. Meglio comprendiamo, invece, quella specie di pasticcio finale («la mia sposa
non
dev’esser
la mia
sposa »), in cui amore e sdegno bene si confondono insieme. 21. Povero Renzo!: altra volta noi, e Renzo, abbiamo sentito questa parola: « il mio povero Renzo» aveva esclamato Perpetua (Cap. II). Ad un giovane di vent'anni, nei
giorni in cui avrebbe dovuto. sposare la donna che ama! — Le parole di padre Cristoforo, pronunziate « con una voce grave € pietosa », fanno contrasto con quelle di Renzo, nelle quali continuano accenti troppo «quel cane », veementi e drammatici: o «quel tizzone d’infern ». 29. Le sue parole...: discorso bellissimo, questo di padre Cristoforo. Leggilo attentamente, perché in esso c’è tanta parte della visione dolorosa che il M. ha del mondo e, insieme, della sua fiduciosa attesa cristiana. 41-42. ce n’ha promesso tanto!: la vita eterna. È in questa luce che le ingiustizie
del mondo si stemperano e la giustizia di
Dio trionfa. Perciò quando il Goffis, a questo punto, dopo aver detto che le parole di padre Cristoforo vanno riferite alla sua « fede francescana » e al suo « desiderio di incoraggiare i poveretti », scrive: «Il M. concederebbe a Dio il tempo che volesse prendere, ma poi chinerebbe la fronte se la giustizia non si attuasse », e giustifica que-
sta idea affermando che «il cristiano non può rinnegare Cristo dinanzi alla realtà »; è da aggiungere che il cristiano non rinnega Cristo dinanzi alla realtà di questo mondo, perché sa che al di là di essa esiste una realtà più vera ed eterna, dove ogni creatura è destinata alla giustizia riparatrice, dove ogni miseria, come ogni splendore mondano, è «silenzio e tenebre»: dove, per tutti coloro che hanno saputo accettare i dolori e le offese della terra, è preparato «un premio che i desideri avanza ». — Notiamo, infine, come tono e sostanza di queste parole di padre Cristoforo derivino, come giustamente si addice ad un uomo di chiesa, dai testi biblici. Se ne ricordano tre: Ipse pollicitus est nobis vitam aeternam (Giovanni, II, 25); cum accepero tempus ... ego iustitias iudicabo (Salmo 74, 3); tuus est dies, tua est nox (Salmo 73, 16).
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i promessi sposi
un filo, per aiutarvi. Per ora, non posso dirvi di più. Domani io non verrò quassù; devo stare al convento tutto il giorno, per voi. Tu, Renzo, procura di venirci: o se, per caso impensato, tu non potessi, mandate un uomo fidato, un garzoncello di giudizio, per mezzo del quale io possa farvi sapere quello che occorrerà. Si fa buio; bisogna ch'io corra al convento. Fede, col è Om raggio; e addio. » Detto questo, uscì in fretta, e se n’andò, correndo, e quasi saltelloni, giù per’ quella viottola storta e sassosa, per non arrivar tardi al convento, a rischio di buscarsi una buona sgridata, o quel che gli sarebbe pesato ancor più, una penitenza, che gl’impedisse, il giorno dopo, di trovarsi pronto e spedito a ciò che potesse richiedere il bisogno de’ suoi protetti. « Avete sentito cos'ha detto d’un non so che... d’un filo che ha, per aiutarci? » disse Lucia. « Convien fidarsi a lui; è un uomo che, quando promette dieci... »
« Se non c’è altro...! » interruppe Agnese. « Avrebbe dovuto parlar più chiaro, o chiamar me da una parte, e dirmi cosa sia questo... » 60
« Chiacchiere! la finirò io: io la finirò! » interruppe Renzo, questa volta, andando in su e in giù per la stanza, e con una voce, con un viso, da non lasciar dubbio sul senso di quelle parole.
47-48. Fede, coraggio; e addio: sono da sintesi di tutto il discorso e di tutte le azioni di padre Cristoforo: un uomo il cui cristianesimo attivo è turbato dal pessimismo che gli deriva dalla constatazione della cat‘tiveria degli uomini, ma rasserenato dalla certezza dell’aiuto di Dio. Perciò potremmo dire che questa sintesi di tutto il discorso era già nel primo saluto: «Non c’è nulla da sperare dall’uomo: tanto più bisogna confidare in Dio ». 51. una buona sgridata: questa sgridata è narrata per filo e per segno nel Ferzzo e Lucia, e alcuni commentatori (Renier, Fassò, ecc.) si sono doluti che il M. l’abbia completamente eliminata dai Promessi Sposi. Noi siamo fra quelli che non la rimpiangono affatto, sia perché ha troppo sapore polemico (si pensi che il padre guardiano vi è presentato tutto soddisfatto di rimproverare Cristoforo perché fino a quel giorno la condotta di costui era stata tanto irreprensibile che il suo superiore «non aveva mai avuto occasione di far uso sopra lui della sua autorità, voglio dire della autorità di riprendere e di punire, e alla prima occasione che aveva gli pareva di essere daddovero il padre guardiano »); sia perché ci sembra che porti su un piano ridicolo cose serie (come avviene quando Cristoforo, nella sua cella, dopo aver recitato un miserere come penitenza « conclude dicendo: — Dio, fate misericordia a me e a quel poveretto che io... toccate il cuore di don Rodrigo, tenete la mano in testa al povero Fermo, salvate Lucia, e benedite il padre guardiano,
Abbiate pietà dei peccatori, dei penitenti, dei giusti, dei fedeli, e degli infedeli, degli oppressi e degli oppressori, dei cappuccini, dei zoccolanti, e di tutti i regolari, di tutti gli ecclesiastici e di tutti i laici, dei popoli e dei principi, dei carcerati, dei giudici, dei banditi, dei. ladri, dei birri, delle vedove, dei pupilli, dei bravi, degli zingari, degli indemoniati, dei vivi, e dei morti. Così sia. — Quindi si gettò anch’egli nel suo canile, dove lo lasceremo; che ne ha bisogno ».); sia, infine, perché pensiamo che Ferzzo e Lucia e I Promessi Sposi debbano essere considerate due opere d’arte diverse, e quindi valutate ciascuna a sé: nel suo mondo appassionato e romanzesco la prima, nella sua visione serena e realistica la seconda. 55-59. Lucia... Agnese... Renzo: subito la reazione dei tre alle parole di padre Cristoforo si manifesta conforme al loro carattere e al comportamento fin qui seguito: fiduciosa e trepidante attesa in Lucia, per la speranza dell’aiuto celeste; disappunto per la curiosità inappagata in Agnese, unita all’infatuazione di portare avanti il proprio progetto; ripresa violenta della furia in Renzo, deciso più che mai a farsi giustizia da sé. Questa coerenza di caratteri è uno dei tanti pregi del romanzo, e non dei minori. 59. la finirò io: io la finirò!: efficacissimo chiasmo (disposizione invertita delle parole). Ne viene a mente uno leopardiano molto simile e abbastanza famoso: «Io solo combatterò, procombetò sol io» (Al l’Italia).
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capitolo VII
« Oh Renzo! » esclamò Lucia. « Cosa volete dire? » esclamò Agnese. « Che bisogno c’è di dire? La finirò io. Abbia pur cento, mille diavoli 65
nell’anima, finalmente è di carne e ossa anche lui... » « No, no, per amor del cielo...! » cominciò Lucia; ma il pianto le troncò
la voce. « Non son discorsi da farsi, neppur per burla, » disse Agnese. 70
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« Per burla? » gridò Renzo, fermandosi ritto in faccia ad Agnese seduta, e piantandole in faccia due occhi stralunati. « Per burla! vedrete se sarà burla. » « Oh Renzo! » disse Lucia, a stento, tra i singhiozzi: « non v’'ho mai visto così. » « Non dite queste cose, per amor del cielo, » riprese ancora in fretta Agnese, abbassando la voce. « Non vi ricordate quante braccia ha al suo comando colui? E quand’anche... Dio liberi!... contro i poveri c'è sempre giustizia. »
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‘.«La farò io, la giustizia, io! È ormai tempo. La cosa non è facile: lo so anch'io. Si guarda bene, il cane assassino: sa come sta; ma non importa. Risoluzione e pazienza... e il momento arriva. Sì, la farò io, la giustizia: lo libererò io, il paese: quanta gente mi benedirà...! e poi in tre salti...! »
L’orrore che Lucia sentì di queste più chiare parole, le sospese il pianto, e le diede forza di parlare. Levando dalle palme il viso lagrimoso, disse a
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Renzo, con voce accorata, ma risoluta: « non v’importa più dunque d’avermi per moglie. Io m’era promessa a un giovine che aveva il timor di Dio; ma un uomo che avesse... Fosse al sicuro d’ogni giustizia e d’ogni vendetta, foss’an-
che il figlio del re... » «E bene! » gridò Renzo, con un viso più che mai stravolto: « io non v’avrò; ma non v’avrà né anche lui. Io qui senza di voi, e lui a casa del... »
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« Ah no! per carità, non dite così, non fate quegli occhi: no, non posso vedervi così, » esclamò Lucia, piangendo, supplicando, con le mani giunte;
mentre Agnese chiamava e richiamava il giovine per nome, e gli palpava le
spalle, le braccia, le mani, per acquietarlo. Stette egli immobile e pensieroso,
86. Fosse al sicuro d’ogni giustizia... per sentire ancora una volta quanta distanza ci sia fra Lucia e Agnese, si osservi che questa ha cercato di distogliere Renzo dall'idea della vendetta e dell'omicidio con la paura delle « braccia » che don Rodrigo ha ai suoi ordini, e quindi della giustizia che i poveri li sa colpire; Lucia, invece, si Oppone decisamente alla violenza perché questa ripugna ai suoi sentimenti cristiani. — Il M. però non fa mai di Lucia la voce impersonale di una coscienza religiosa, ma sempre una creatura innamorata che trepida e piange e implora, perché sente che può perdere la persona che ama. Questa situazione psicologica — una situazione che vedremo ripresentarsi tante volte, in forme diverse —, questo accordo in Lucia fra un’appassionata sensibilità femminile e un’eroica fermezza religiosa, è qui plasti-
camente espresso, più ancora che dalle parole che la fanciulla pronunzia, da quel « viso lacrimoso » e da quella « voce accorata»: delicatissimi tocchi di un mirabile quadro. 92-93. gli palpava le spalle, le braccia...: è vero che anche questo è segno di affetto, e la buona Agnese, in quel momento, non saprebbe che altro dire e che altro fare: ma non negheremmo che il gesto, pur così naturale, porti una certa nota di comicità fra tanto pathos e tanta tragedia. 93. Stette egli immobile...: l'esplosione di collera, il grido di vendetta e di sangue, sono, sì, sincera effusione dello sdegno che ha rotto gli argini, ma anche l’artificio che dal subcosciente balena alla mente di Renzo per far crollare l’ultima resistenza di Lucia. Su questo «guazzabuglio » della mente e del cuore incontreremo subito dopo
î promessi Spost
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, ; ; ; ) qualche tempo, a contemplar quella faccia supplichevole di Lucia; poi, tutt'a
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un tratto, la guardò torvo, diede addietro, tese il braccio e l’indice verso di I essa, e gridò: « questa! sì questa egli vuole. Ha da morire! » «E io che male v’ho fatto, perché mi facciate morire? » disse Lucia,
i
buttandosegli inginocchioni davanti.
F
« Voi! » rispose, con una voce ch’esprimeva un’ira ben diversa, ma un’ira
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tuttavia:
« voi! Che bene mi volete voi? Che prova m’avete data? Non
v’ho io pregata, e pregata, e pregata? E voi: no! no! »
i
« Sì sì,» rispose precipitosamente Lucia: « verrò dal curato, domani. i ora, se volete; verrò. Tornate quello di prima; verrò. » « Me lo promettete? » disse Renzo, con una voce e con un viso dive-
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nuto, tutta un tratto, più umano. « Ve lo prometto. » « Me l’avete promesso. » « Signore, vi ringrazio! » esclamò Agnese, doppiamente contenta. In mezzo a quella sua gran collera, aveva Renzo pensato di che profitto poteva esser per lui lo spavento di Lucia? E non aveva adoperato un po’ d’artifizio a farlo crescere, per farlo fruttare? Il nostro autore protesta di non ne saper nulla; e io credo che nemmen Renzo non lo sapesse bene. Il fatto sta ch’era realmente infuriato contro don Rodrigo, e che bramava ardentemente il consenso di Lucia; e quando due forti passioni schiamazzano ‘una scherzosa riflessione dello scrittore, che si pone ancora una volta a discutere col suo Anonimo e con noi, in un atteggiamento che ricorda, ad esempio, quello sul modo di agire del vecchio servitore di don Rodrigo (cfr. Cap. VI, n. 166-167). 102. Sì, sì: è la risposta alla domanda d’amore: una risposta che, per capirla in tutta la sua intensità affettiva, occorre col-
legarla alla precedente supplica: « Tornate quello di prima ». Lucia è creatura d’amore profondo e caldo, indomito e verecondo ad un tempo. Il sentimento religioso che la penetra, non limita questo amore ma lo trasporta in un'atmosfera di purezza non comune, sì, ma non pet questo meno reale e sublime; e se tra fede e amore nasce in lei, più d’una volta, come vedremo, un urto angoscioso, la sua figura di donna appassionata ne esce più risentita e concreta. — Torneremo ancora su questo amore di . Lucia: una grande e cara realtà, che certuni non riescono a capite, perché vorrebbero che Lucia fosse ciò che il suo poeta non ha voluto che fosse: un’eroina dei romanzi d’ieri, o qualcosa fra la diva e la ninfetta di oggi. Lucia, invece, è donna nata più a sentite che ad esprimere, a pregare e a piangere più che a parlare e gestire. 108. doppiamente contenta: perché Lucia ha ceduto, e Renzo si è calmato. L’uscita di Agnese, così spontanea, e — potremmo aggiungere — accompagnata da un gran sospiro di sollievo, riporta la scena dalla
tensione drammatica ed eccezionale al ritmo del vivere medio e comune. La successiva riflessione dello scrittore completerà questo ritorno. 111-112. Il nostro autore...; e io...: fra ciò che l’Anonimo « protesta» e ciò che il M. « crede » passa un sorriso arguto. È questo uno dei punti in cui la funzione dell’Anonimo nel romanzo più notevolmente rivela la sua giustificazione artistica — oltre a quella letteraria di imitazione di una moda in uso, per esempio, nello Scott; e a quella polemica di più facile critica alla società secentesca —; per cui, lungo tutti i Promessi Sposi, assistiamo ad un vivace e drammatico sdoppiamento tra l’autore di oggi e quello di alcuni secoli prima, e vediamo che le cose sono insieme raccontate e criticate, esposte e meditate, in un giuoco malizioso di persone e di toni: quel giuoco di insinuarsi nella coscienza dei personaggi, di esaminarli, di scrutarli da ogni parte e in ogni momento. Press’a poco quella che un giorno sentitemo, in un melanconico monologo di don Abbondio, essere la mania del cardinale Federigo: « purché frughi, rimesti, critichi, inquisisca: anche sopra di sé » (Cap. XXVI). Cfr. Introduzione, n. 37-38. 114. schiamazzano: c’è una vivezza, per così dire, plastica, in. questo verbo applicato alle passioni dell’uomo; e per capitne il valore si ripensi al recente comportamento di Renzo.
capitolo VII bi5
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insieme nel cuor d’un uomo, nessuno, neppure il paziente, può sempre distinguer chiaramente una voce dall’altra, e dir con sicurezza qual sia quella che predomini. « Ve l'ho promesso, » rispose Lucia, con un tono di rimprovero timido e affettuoso: « ma anche voi avevate promesso di non fare scandoli, di ri: mettervene al padre... » « Oh via! per amor di chi vado in furia? Volete tornare indietro, ora?
e farmi fare uno sproposito? »
« No no, » disse Lucia, cominciando
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a rispaventarsi.
« Ho promesso,
e
non mi ritiro. Ma vedete voi come mi avete fatto promettere. Dio non vo-
glia... »
« Perché volete far de’ cattivi augùri, Lucia? Dio sa che non facciam male a nessuno. » « Promettetemi almeno che questa sarà l’ultima. » « Ve lo prometto, da povero figliolo. » « Ma, questa volta, mantenete poi,» disse Agnese. Qui l’autore confessa di non sapere un’altra cosa: se Lucia fosse, in tutto e per tutto, malcontenta d’essere stata spinta ad acconsentire. Noi lasciamo, come lui, la cosa in dubbio. Renzo avrebbe voluto prolungare il discorso, e fissare, a parte a parte, quello che si doveva fare il giorno dopo; ma era già notte, e le donne gliela augurarono buona; non parendo loro cosa conveniente che, a quell’ora, si trattenesse più a lungo. La notte però fu a tutt’e tre così buona come può essere quella che suc- ‘ cede a un giorno pieno d’agitazione e di guai, e che ne precede uno destinato a un’impresa importante, e d’esito incerto. Renzo si lasciò veder di buon’ora, e concertò con le donne, o piuttosto con Agnese, la grand’operazione della sera, proponendo e sciogliendo a vicenda difficoltà, antivedendo contrattempi, e ricominciando, ora l’uno ora l’altra, a descriver la faccenda, come si racconterebbe una cosa fatta. Lucia ascoltava; e, senza approvar con parole ciò che non poteva approvare in cuor suo, prometteva di far meglio che saprebbe. « Anderete voi giù al convento, per parlare al padre Cristoforo, come v’ha detto ier sera? » domandò Agnese a Renzo. « Le zucche! » rispose questo: « sapete che diavoli d’occhi ha il padre: mi leggerebbe in viso, come sur un libro, che c’è qualcosa per aria; e se cominciasse a farmi dell’interrogazioni, non potrei uscirne a bene. E poi,
io devo star qui, per accudire all’affare. Sarà meglio che mandiate voi qualcheduno. » « Manderò Menico. »
131. Qui l’autore confessa...: questo dubbio dell’« autore », cioè dell’Anonimo, su Lucia è dello stesso genere di quello precedente su Renzo (n. 93): identica la maniera maliziosa e comprensiva dell’esposizione, identica l’affettuosa e realistica penetrazione nei segreti del cuore umano. 144. Lucia ascoltava: e, possiamo aggiungere, taceva: dove il suo ascolto silenzioso,
insieme con le promesse
«di far meglio
che
saprebbe », rivela
scienza. 149. Le zucche!:
l’affanno
della
co-
‘fossi matto’, diremmo oggi, per significare ‘niente affatto’. Pare che questa esclamazione il M. l’abbia trovata nei commediografi toscani del Cinquecento. 154. Menico: resterà una delle figure più care di tutto il romanzo. Anche lui, come Bettina, compirà la parte di messaggero,
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aveva « Va bene, » rispose Renzo; e partì, per accudire all’affare, come detto.
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Agnese andò a una casa vicina, a cercar Menico, ch’era un ragazzetto di circa dodici anni, sveglio la sua parte, e che, per via di cugini e di cognati, veniva a essere un po’ suo nipote. Lo c hiese ai parenti, come in prestito, per tutto quel giorno, « per un certo servizio », diceva. Avutolo, lo condusse nella sua cucina, gli diede da colazione, e gli disse che andasse a Pescarenico, e si facesse vedere al padre Cristoforo, il quale lo rimanderebbe poi, con una risposta, quando sarebbe tempo. « Il padre Cristoforo, quel bel vecchio, tu sai, con la barba bianca, quello che chiamano il santo... » « Ho capito, » disse Menico: « quello che ci accarezza sempre, noi altri ragazzi, e ci dà, ogni tanto, qualche santino. » « Appunto, Menico. E se ti dirà che tu aspetti qualche poco, lì vicino al convento, non ti sviare: bada di non andar, con de’ compagni, al lago, a veder pescare, né a divertirti con le reti attaccate al muro ad asciugare, né a far quell’altro tuo giochetto solito... » Bisogna saper che Menico era bravissimo per fare a rimbalzello; e si sa che tutti, grandi e piccoli, facciam volentieri le cose alle quali abbiamo abilità: non dico quelle sole. « Poh! zia; non son poi un ragazzo. » « Bene, abbi giudizio; e, quando tornerai con la risposta... guarda; queste due belle parpagliole nuove son per te. » « Datemele ora, ch’è lo stesso. » « No, no, tu le giocheresti. Va, e portati bene; che n’avrai anche di più. » Nel rimanente
di quella lunga mattinata, si videro certe novità che mi-
sero non pocò in sospetto l’animo già conturbato delle donne. Un mendico, non sono che dei guasta mestieri. Così i sassi di Menico hanno fornito un... sasso s’addice alla sua età. Intanto con un sotanche al M.: meno noto, ma non meno acudoti le a present ne ce M. il so affettuo riso to, di quelli che più tardi avrebbe lanciati e le marachelle, che Agnese conosce ad una un altro poeta, il Carducci: «e sassi in ad una, specie quel « solito giochetto ». specie non ne tiro più. E massime alle 171. a rimbalzello: di questo « giochetpiante » (Davanti San Guido). deissima delicat la riporta ini to» l’Angel 176. parpagliole: monete milanesi del vascrizione che ne fa uno dei primi scrittori cristiani, Minucio Felice, del sec. III, nel lore di pochi soldi. Ma come brillano « belle» e «nuove» davanti agli occhietti di suo Octavius: «Il divertimento infantile, Menico! Sembrano fatte apposta per lui; piedelle lido sul iere consiste nel raccogl truzze levigate per lo sfregamento delle e, del resto, assicura la zia, « sono per te »; e poi, per sollecitare ancora l’impegno del onde, poi piegarsi quasi a fior d’acqua, scaragazzo: « n’avrai anche di più ». gliare la pietruzza tenuta orizzontalmente 180. Nel rimanente di quella...: incomintra le dita e farla scivolare sulle acque, di cia una pagina intensa di dramma e di inmodo che rasenti il pelo dell’acqua, e, per cubo, reso sempre più grave ed opprimente e così dire, nuoti, quando si muove piacedai fatti che si susseguono e dal presenvolmente, oppur guizzando appaia sulla cretimento di una tragedia che incombe. Si sta delle onde, quando è rimbalzata da un tratta di una processione misteriosa, che continuo saltellare. È vincitore chi manda dura quasi tutta la mattinata, di facce lola pietruzza più lontano e la fa rimbalzare sche e strane che sbirciano il più possibile più volte ». la casetta di Agnese: sono — lo sapremo 172-173. tutti... quelle sole: guarda un più tardi — i bravi di don Rodrigo, che po’ dove il M. trova l’occasione per fare vengono a vedere più che possono, per poi una tiratina d’orecchi a tutti noi; special mente a quelli che si credono qualcuno, e rapire Lucia. ma con un incarico ben più gravoso, come
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capitolo VII
né rifinito né cencioso come i suoi pari, e con un non so che d’oscuro e di sinistro nel sembiante, entrò a chieder la carità, dando in qua e in là cert’occhiate da spione. Gli fu dato un pezzo di pane, che ricevette e ripose, con 185 un’indifferenza mal dissimulata. Si trattenne poi, con una certa sfacciataggine, e, nello stesso tempo, con esitazione, facendo molte domande, alle quali Agnese s’affrettò di risponder sempre il contrario di quello che era. Movendosi, come per andar via, finse di sbagliar l’uscio, entrò in quello che metteva alla scala, e lì diede un’altra occhiata in fretta, come poté. Gridatogli 190 dietro: « ehi ehi! dove andate galantuomo? di qua! di qua! » tornò indietro, e uscì dalla parte che gli veniva indicata, scusandosi, con una sommissione, con un’umiltà affettata,, che stentava a collocarsi nei lineamenti duri di quella faccia. Dopo costui, continuarono a farsi vedere, di tempo in tempo, altre strane figure. Che razza d’uomini fossero, non si sarebbe potuto dir fa195 cilmente; ma non si poteva creder neppure che fossero quegli onesti viandanti che volevan parere. Uno entrava col pretesto di farsi insegnar la strada; altri, passando davanti all’uscio, rallentavano il passo, e guardavan sott’occhio nella stanza, a traverso il cortile, come 200
chi vuol vedere senza dar so-
spetto. Finalmente, verso il mezzogiorno, quella fastidiosa processione finì. Agnese s’alzava ogni tanto, attraversava il cortile, s’affacciava all’uscio di strada, guardava a destra e a sinistra, e tornava dicendo: « nessuno »: parola che proferiva con piacere, e che Lucia con piacere sentiva, senza che né l’una né l’altra ne sapessero ben chiaramente il perché. Ma ne rimase a tutt’e
due una non so quale inquietudine, che levò loro, e alla figliuola principal205
mente, una gran paite del coraggio che avevan messo in serbo per la sera. Convien però che il lettore sappia qualcosa di più preciso, intorno a que’
ronzatori misteriosi: 210
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e, per informarlo di tutto, dobbiam tornare un passo
indietro, e ritrovar don Rodrigo, che abbiam lasciato ieri, solo in una sala del suo palazzotto, al partir del padre Cristoforo. Don Rodrigo, come abbiam detto, misurava innanzi e indietro, a passi lunghi, quella sala, dalle pareti della quale pendevano ritratti di famiglia, di varie generazioni. Quando si trovava col viso a una parete, e voltava, si vedeva in faccia un suo antenato guerriero, terrore de’ nemici e de’ suoi soldati, torvo nella guardatura, co’ capelli corti e ritti, co’ baffi tirati e a punta, che sporgevan dalle guance, col mento obliquo: ritto in piedi l’eroe, con le gambiere, co’ cosciali, con la corazza, co’ bracciali, co” guanti, tutto di ferro; con la destra sul fianco, e la sinistra sul pomo della spada. Don Rodrigo lo guardava; e quando gli era arrivato sotto, e voltava, ecco in faccia un altro antenato, magistrato, terrore de’ litiganti e degli avvocati, a sedere sur una gran x
193-194. Dopo costui... figure: il periodo è breve, incisivo, con forti pause prima e dopo. E così è per tutta la pagina, cui ritmo calca la sospensione e il mistero. 204. ... una non so quale inquietudine: le due donne, che anche prima sentivamo al centro della vicenda, ora sono osservate con più esplicita attenzione psicologica, per i riflessi che la misteriosa processione avrà sulla loro capacità di affrontare la prova 3 della sera. dei pagina la dopo .: 210. Don Rodrigo..
«ronzatori misteriosi », che tanto hanno turbato Agnese e Lucia, eccone un’altra in cui il motivo è ancora l’incubo. C'è, nell'accostamento delle due scene, quasi una specie di nemesi misteriosa: le vittime hanno sofferto per visioni di facce vere, l’oppressore per la visione di facce soltanto dipinte su vecchi quadri. Prosegue così l’azione del M, tesa a svilire la personalità del tirannello, baldanzoso e spietato se circondato da amici o da sgherri, tremante e impacciato appena si trova solo.
î promessi Spost
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seggiola coperta di velluto rosso, ravvolto in un’ampia toga nera; tutto nero, fuorché un collare bianco, con due larghe facciole, e una fodera di zibellino no, arrovesciata (era il distintivo de’ senatori, e non lo portavan che l'inver
ragion per cui non si troverà mai un ritratto di senatore vestito d’estate);
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macilento, con le ciglia aggrottate: teneva in mano una supplica, e pareva che dicesse: vedremo. Di qua una matrona, terrore delle sue cameriere; di là un abate, terrore de’ suoi monaci:
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tutta gente in somma che aveva fatto terrore,
e lo spirava ancora dalle tele. Alla presenza di tali memorie, don Rodrigo tanto più s’arrovellava, si vergognava, non poteva darsi pace, che un frate avesse osato venirgli addosso, con la prosopopea di Nathan. Formava un disegno di vendetta, l’abbandonava, pensava come soddisfare insieme alla passione, e a ciò che chiamava onore; e talvolta (vedete un poco!) sentendosi fischiare ancora agli orecchi quell’esordio di profezia, si sentiva venir, come si dice, i bordoni, e stava quasi per deporre il pensiero delle due soddisfazioni. Finalmente, per far qualche cosa, chiamò un servitore, e gli ordinò che lo scusasse con la compagnia, dicendo ch’era trattenuto da un affare urgente. Quando quello tornò a riferire che que’ signori eran partiti, lasciando i loro rispetti: « e il conte Attilio? » domandò, sempre camminando, don Rodrigo.
« È uscito con que’ signori, illustrissimo. »
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« Bene: sei persone di seguito, per la passeggiata: subito. La spada, la cappa, il cappello: subito. » Il servitore partì, rispondendo con un inchino; e, poco dopo, tornò, portando la ricca spada, che il padrone si cinse; la cappa, che si buttò sulle spalle; il cappello a gran penne, che mise e inchiodò, con una manata, fieramente sul capo: segno di marina torbida. Si mosse, e, alla porta, trovò i sei tibaldi tutti armati, i quali, fatto ala, e inchinatolo, gli andaron dietro. Più burbero, più superbioso, più accigliato del solito, uscì, e andò passeggiando verso Lecco. I contadini, gli artigiani, al vederlo venire, si ritiravan rasente 220-221. nero... bianco: vedremo ancora, in questo capitolo e in altri (specie nel IX con la Monaca di Monza), vari incontri significativi di bianco e di nero. 221. facciole: strisce di tela bianca inamidata, collegate al collare e scendenti sul petto. I magistrati in toga le portano ancora. — zibellino: dal nome dell’animale, simile alla martora, è una pelliccia morbida di colore castano chiaro. 223. mai... vestito d’estate: il tocco fugace basta al M. per mettere in ridicolo tanta boria. 226. terrore... terrore...: è il motivo dominante e ricorrente di questa nuova stampa secentesca, in cui il sarcasmo per il tirannello sconfitto si mescola, e si accentua, con la satira insistente e divertita di una società boriosa ed insulsa. 229. prosopopea di Nathan: la solennità minacciosa con cui il profeta ebreo Nathan rimproverò al re David di avere ucciso Uria e aver preso con sé sua moglie Betsabea. Probabilmente don Rodrigo non sapeva un bel niente di Nathan; ma ciò non toglie
potenza all'immagine, che fa sentire come la figura di padre Cristoforo grandeggi sempre più minacciosa davanti al signototto, costrettu a confessare a se stesso che un « frate » è venuto a minacciarlo in casa sua con « quell’esordio di profezia ». 232-233. venir... i bordoni: espressione popolare, molto diffusa in Toscana, indica quel comune accapponar della pelle che si ha per freddo o per terrore. I bordozi sono propriamente le penne degli uccelli appena spuntate. 239-240. La spada, la cappa, il cappello: i segni della forza e della ricchezza; e, nella richiesta concitata, l’indice della « marina torbida », insieme con la superbia del grado sociale in uno spirito meschino. Osservate subito dopo, quei tre oggetti (la spada « ricca », il cappello «a gran piume » e poi « inchiodato » con una manata sul capo, e la cappa «buttata» sulle spalle): rivelano il realismo dello scrittore nel rappresentare con note quasi sonore, oltreché visive, le mosse iraconde e spavalde, e l’abilità del ritrattista spedito.
capitolo VII
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al muro, e di lì facevano scappellate e inchini profondi, ai quali non rispondeva. Come inferiori, l’inchinavano anche quelli che da questi eran detti signori; ché, in que’ contorni, non ce n’era uno che potesse, a mille miglia, competer con lui, di nome, di ricchezze, d’aderenze e della voglia di servirsi di tutto ciò, per istare al di sopra degli altri. E a questi corrispondeva con una degnazione contegnosa. Quel giorno non avvenne, ma quando avveniva che s’incontrasse col signor castellano spagnolo, l’inchino allora era ugualmente profondo dalle due parti; la cosa era come tra due potentati, i quali non abbiano nulla da spartire tra loro; ma, per convenienza, fanno onore al grado l’uno dell’altro. Per passare un poco la mattana, e per contrapporre all’immagine del frate che gli assediava la fantasia, immagini in tutto diverse, don Rodrigo entrò, quel giorno, in una casa, dove andava, per il solito, molta gente, e dove fu ricevuto con quella cordialità affaccendata e rispettosa, ch'è riserbata agli uomini che si fanno molto amare o molto temere; e,a notte
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già fatta, tornò al suo palazzotto. Il conte Attilio era anche lui tornato in quel momento; e fu messa in tavola la cena, durante la quale, don Rodrigo fu sempre sopra pensiero, e parlò poco. « Cugino, quando pagate questa scommessa? » disse con un fare di malizia e di scherno, il conte Attilio, appena sparecchiato, e andati via i servitori. « San Martino non è ancor passato. » « Tant'è che la paghiate subito; perché passeranno tutti i santi del lunario, prima che... » « Questo è quel che si vedrà. » « Cugino, voi volete fare il politico; ma io ho capito tutto, e son tanto certo d’aver vinta la scommessa, che son pronto a farne un’altra. » « Sentiamo. » « Che il padre... il padre... che so io? quel frate in somma v’ha convertito. »
« Eccone un’altra delle vostre. » « Convertito, cugino; convertito, vi dico. Io per me, ne godo. Sapete che
sarà un bello spettacolo vedervi tutto compunto, e con gli occhi bassi! E che gloria per quel padre! Come sarà tornato a casa gonfio e pettoruto! Non son sato anche un termine di tempo: l’11 novembre, il giorno di S. Martino. Ed ora siamo alla sera del 9. 265-266. malizia ... scherno: sono i due toruto, dietro i sei ribaldi non meno arci- aspetti che meglio esprimono l’animo di Attilio, la sua perversione senza preoccupagni, ai lati «scappellate e inchini profondi». Ecco dunque il tirannello tornato a zione e ritegno, il suo gusto del male. Da essi ora nasce il suo colloquio col cugino; troneggiare in mezzo ad un coro servile. un giorno quello con lo zio (Cap. XVIII). 259. una casa: mentre alcuni commen277-87. Convertito... messo gli occhi...: fantastihanno Toffanin tatori, specie il questo discorso di Attilio è la precisa concato su che casa fosse mai questa, a noi cretizzazione della «malizia» e dello «schersembra giusta la spiegazione più comune: no » prima indicati; ma insieme è la conche si tratti di un ritrovo per signori, una ferma di quel fare sbarazzino e sfrontato specie di quei circoli che anche oggi sono che è tipico del personaggio, e che conocentri. piccoli nei te specialmen diffusi molto sciamo da un pezzo. Attilio ha la furbizia 265. questa scommessa: di aver in suo maligna del diavolo tentatore: sa indivi scommet« lo Ricordate Lucia. possesso duare i punti deboli del cugino, ferendolo tiamo » di don Rodrigo col conte Attilio, soprattutto con la beffarda parodia della riferito da Lucia alla madre e a Renzo? (Cap. III). Fra i due cugini era stato fis- predica.
248-249. non rispondeva: sembra di vederlo. Come sembra di vedere ogni elemento e personaggio di questa « passeggiata trionfale »: avanti Rodrigo tronfio e pet-
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pesci che si piglino tutti i giorni, né con tutte le reti. Siate certo che vi porterà per esempio; e, quando anderà a far qualche missione un po’ lontano, parlerà de’ fatti vostri. Mi par di sentirlo. » E qui, parlando colnaso, accomuna pagnando le parole con gesti caricati, continuò, in tono di predica: «in i uditor viveva, , nomino parte di questo mondo, che, per degni rispetti, non
e, carissimi, e vive tuttavia, un cavaliere scapestrato, più amico delle femmin aveva che degli uomini dabbene, il quale, avvezzo a far d’ogni erba un fascio,
messo gli occhi... » « Basta, basta, » interruppe don Rodrigo, mezzo sogghignando, e mezzo annoiato. « Se volete raddoppiar la scommessa, son pronto anch'io ». « Diavolo! che aveste voi convertito il padre! » « Non mi parlate di colui: e in quanto alla scommessa, san Martino deciderà. » La curiosità del conte era stuzzicata; non gli risparmiò interrogazioni, ma don Rodrigo le seppe eluder tutte, rimettendosi sempre al giorno della decisione, e non volendo comunicare alla parte avversa disegni che non erano né incamminati, né assolutamente fissati. La mattina seguente, don Rodrigo si destò don Rodrigo. L’apprensione che quel verrà un giorno gli aveva messa in corpo, era svanita del tutto, co’ sogni della notte; e gli rimaneva la rabbia sola, esacerbata anche dalla vergogna di quella debolezza passeggiera. L’immagini più recenti della passeggiata trionfale, degl’inchini, dell’accoglienze, e il canzonare del cugino, avevano con-
tribuito non poco a rendergli l’animo antico. Appena alzato, fece chiamare il Griso. — Cose grosse, — disse tra sé il servitore a cui fu dato l’ordine; per-
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ché l’uomo che aveva quel soprannome, non era niente meno che il capo de’ bravi, quello a cui s’imponevano le imprese più rischiose e più inique, il fidatissimo del padrone, l’uomo tutto suo, per gratitudine e per interesse. Dopo aver ammazzato uno, di giorno, in piazza, era andato ad implorar la
pronto anch’io: c'è voluto o — un po’ di « malizia » e di « scherno », doti facili a possedere e a mettere in atto — ad Attilio per esasperare il cugino e legarlo definitivamente al « punto d’onore ». Conoscendo i turbamenti che in don Rodrigo aveva suscitato l’incontro con fra Cristoforo, potremmo essere sicuri che, senza le canzonature di Attilio, don Rodrigo non avrebbe insistito nell’impresa di rapire Lucia. Con tutto ciò ci sembrano un po’ troppe categoriche certe conclusioni a cui atriva il Mazzamuto, le quali tuttavia sono interessanti e quindi le riportiamo: «La figura del conte Attilio assume un particolare colorito romantico, proprio per il suo satanismo morale, che ci ricorda alcune incarnazioni romantiche del male. Nell’ideazione del personaggio, anzi, non è escluso che il M. si sia ricordato dello shakespeariano Jago, a proposito del quale, scrive, nella Lestre è Mr. Chauvet, che è grande ‘la potenza infernale che uno scellerato di sangue freddo esercita su un temperamento ardente e generoso’ ». 296. don Rodrigo si destò don Rodrigo: 289....son
bene definì questa espressione un vecchio commentatore dei Promessi Sposi e gran manzoniano, il Petrocchi: « frase giustamente divenuta proverbiale, di quelle che paion bisticci, scherzi di parole, ma che, se vengono di rado e opportunamente, dicon più di un discorso ». Ed infatti l’espressione dice, come non sapremmo dire meglio, il ritorno, in questo tirannello di provincia, di tutta la sua rabbia vendicativa e mascalzona; nello stesso tempo la frase, col suo piglio deciso, bene avvia al racconto di una nuova tumultuosa vicenda. 302. il Griso: è forma dialettale lombarda per il grigio. Il nome, o soprannome, secondo alcuni sarebbe stato suggetito dal colore dei capelli, secondo altri dall’aspetto sinistro dell’uomo. Ad ogni modo la parola ci colpisce subito per un che di grinta torva, che si accorderà con tutto il suo agire: e, in specie, col suo ultimo misfatto. 305. il fidatissimo..., l’uomo tutto suo: sarà bene ricordarsi di queste virtù del Griso, per quando don Rodrigo avrà davvero bisogno di lui, e di lui soltanto (Cap. XXXIII).
capitolo VII protezione di. don Rodrigo;
127 e questo, vestendolo
della sua livrea, l’aveva
messo al coperto da ogni ricerca della giustizia. Così, impegnandosi a ogni de310
litto che gli venisse comandato, colui si era assicurata l’impunità del primo. Per don Rodrigo, l’acquisto non era stato di poca importanza; perché il Griso, oltre all’essere, senza paragone, il più valente della famiglia, era anche una
prova di ciò che il suo padrone aveva potuto attentar felicemente contro le leggi; di modo che la sua potenza ne veniva ingrandita, nel fatto e nell’opinione. 315 « Griso! » disse don Rodrigo: « in questa congiuntura, si vedrà quel che tu vali. Prima di domani, quella Lucia deve trovarsi in questo palazzo. » seat Non si dirà mai che il Griso si sia ritirato da un comando dell’illustrissimo signor padrone. » 320
« Piglia quanti uomini ti possono bisognare, ordina e disponi, come ti par meglio; purché la cosa riesca a buon fine. Ma bada sopra tutto, che non le
sia fatto male. »
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« Signore, un po’ di spavento, perché la non faccia troppo strepito... non si potrà far di meno. » « Spavento... capisco... è inevitabile. Ma non le si torca un capello; e sopra tutto, le si porti rispetto in ogni maniera. Hai inteso? » « Signore, non si può levare un fiore dalla pianta, e portarlo a vossignoria, senza toccarlo. Ma non si farà che il puro necessario. » « Sotto la tua sicurtà. E... come farai? » « Ci stavo pensando, signore. Siam fortunati che la casa è in fondo al paese. Abbiam bisogno d’un luogo per andarci a postare: e appunto c’è, poco distante di là, quel casolare disabitato e solo, in mezzo ai campi, quella casa... vossignoria non saprà niente di queste cose... una casa che bruciò, pochi anni sono, e non hanno avuto danari da riattarla, e l’hanno abbandonata, e ora ci vanno le streghe: ma non è sabato, e me ne rido. Questi villani, che son pieni d’ubbie, non ci bazzicherebbero, in nessuna notte della settimana,
per tutto l’oro del mondo: sicché possiamo andare a fermarci là, con sicurezza che nessuno verrà a guastare i fatti nostri. »
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« Va bene; e poi? » Qui, il Griso a proporre, don Rodrigo a discutere, finché d’accordo ebbero concertata la maniera di condurre a fine l'impresa, senza che rimanesse trac-
cia degli autori, la maniera anche di rivolgere, con falsi indizi, i sospetti altrove, d’impor silenzio alla povera Agnese, d’incutere a Renzo tale spavento,
fosse sabato avrebbe, l’eroe, lo stesso ter311. il più valente della famiglia: cioè, dei rore dei villani «che son pieni d’ubbie ». servitori, quindi dei bravi. 316. quella Lucia: « quella », perché il ° In questa umoristica battuta sulle streghe qualcuno ha creduto di scoprire un’eco di Griso già sapeva abbastanza del capriccio romanticismo; noi pensiamo piuttosto che del padrone. rientri, anche questa, in quel tipico gusto 325. le si porti rispetto: c'è della comstorico del M., il quale ben sapeva che il una soltanto O Rodrigo? don passione in Seicento fu un secolo tanto superstizioso da certa gelosia sensuale? Oppure conoscenza essere pieno di streghe (le quali, secondo la di Forse uomini? suoi i di che razza sono tutto un po’ nel « guazzabuglio » di quel fantasia popolare, avevano l’abitudine di ritrovarsi in raduni notturni il sabato secuore. ra!) e di processi contro donne credute tali. 326. non si può levare un fiore... com'è Vedremo che un uomo dotto e santo come galante e strisciante questa canaglia, nell’acil cardinale Federigo un po’ di superstizione - costarsi all'amore del padrone! l’aveva anche lui. se 334. non è sabato, e me ne rido: ma
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da fargli passare il dolore, e il pensiero di ricorrere alla giustizia, e anche la volontà di lagnarsi; e tutte l’altre bricconerie necessarie alla riuscita della bricconeria principale. Noi tralasciamo di riferir que’ concerti, perché, come il lettore vedrà, non son necessari all’intelligenza della storia; e siam con-
tenti anche noi di non doverlo trattener più lungamente a sentir parlamentare que’ due fastidiosi ribaldi. Basta che, mentre il Griso se n’andava, per metter mano all'esecuzione, don Rodrigo lo richiamò, e gli disse: « senti: se per caso, quel tanghero temerario vi desse nell’unghie questa sera, non sarà male che gli sia dato anticipatamente un buon ricordo sulle spalle. Così, l’ordine che gli verrà intimato domani di stare zitto, farà più sicuramente l’effetto. Ma non l’andate a cercare, per non guastare quello che più importa: tu m'hai inteso ». « Lasci fare a me, » rispose il Griso, inchinandosi, con un atto d’ossequio e di millanteria; e se n’andò. La mattina fu spesa in giri, per riconoscere il paese. Quel falso pezzente che s’era inoltrato a quel modo nella povera casetta, non era altro che il Griso, il quale veniva per levarne a occhio la pianta: i falsi viandanti eran suoi ribaldi, ai quali, per operare sotto i suoi ordini, bastava una cognizione più superficiale del luogo. E, fatta la scoperta, non s’eran più lasciati vedere, per non dar troppo sospetto. Tornati che furon tutti al palazzotto, il Griso rese conto, e fissò definitivamente il disegno dell’impresa; assegnò le parti, diede istruzioni. Tutto ciò non si poté fare, senza che quel vecchio servitore, il quale stava a occhi aperti, e a orecchi tesi, s’accorgesse che qualche gran cosa si macchinava. A forza di stare attento e di domandare;
accattando una mezza
notizia di qua, una
mezza di là, commentando tra sé una parola oscura, interpretando un andare misterioso, tanto fece, che venne in chiaro di ciò che si doveva eseguir quella notte. Ma quando ci fu riuscito, essa era già poco lontana, e già una piccola 370
vanguardia di bravi era andata a imboscarsi in quel casolare diroccato. Il povero vecchio, quantunque sentisse bene a che rischioso giuoco giocava, e avesse anche paura di portare il soccorso di Pisa, pure non volle mancare: 344-345. bricconerie... bricconeria...: nella frase si scopre il sorriso ironico del M., perché sa già come andrà a finire tutto questo indaffararsi dei « due fastidiosi ribaldi ». 350. tanghero temerario: il povero Renzo. Passi, semmai, per « tanghero », se tale poteva essere un giovanottone di campagna che ben poco sapeva del mondo; ma « temerario » perché? Forse perché Renzo pretendeva di sposare la ragazza su cui si era rivolto il puntiglio del tirannello? O perché don Rodrigo facendo — come si suol dire oggi — il processo alle intenzioni, immaginava «che Renzo, dopo il rapimento di Lucia, osasse reagire? O perché, piuttosto, fa parte della politica dei violenti e dei tiranni di ogni tempo accusare i più deboli di azioni non compiute, e dichiarare a loro volta se stessi. minacciati e attaccati, e mostrarsi offesi? È la favola del lupo e dell’agnelio. 355. Lasci fare a me: si tenga a. mente
quest’uscita
presuntuosa
del Griso:
vale
quanto un giuramento sulle proprie capacità realizzatrici. Anche il vecchio servitore di don Rodrigo aveva detto « Lasci fare a me » a fra Cristoforo
(Cap. VI): ma con quanta differenza, a cominciare dal tono della voce. 358-359. levarne a occhio la pianta: imprimersene nella mente la conformazione, la disposizione delle stanze. 359. suoi ribaldi: i suoi sgherri; cioè gli altri bravi che don Rodrigo ha posto ai suoi ordini. 364-365. a occhi aperti, e a orecchi tesi: bella e pittorica immagine, che esprime tutta la trepidazione del povero vecchio a cui toccava vedere e sentire « cose di fuoco », in quella casa. 370. vanguardia: avanguardia, il primo gruppetto. 372. il soccorso di Pisa: un soccorso che arriva troppo tardi, del tutto inutile. Sull'origine del motto si fanno più congetture. Secondo lo storico L.A. Muratori (1672-
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uscì, con la scusa di prendere un po’ d’aria, e s'incamminò in fretta in fretta al convento, per dare al padre Cristoforo l’avviso promesso. Poco dopo, si mossero gli altri bravi, e discesero spicciolati, per non parere una compagnia: il Griso venne dopo; e non rimase indietro che una bussola, la quale doveva esser portata al casolare, a sera inoltrata; come fu fatto. Radunati che
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furono in quel luogo, il Griso spedì tre di coloro all’osteria del paesetto; uno che si mettesse sull’uscio, a osservar ciò che accadesse nella strada, e a veder quando tutti gli abitanti fossero ritirati: gli altri due che stessero dentro a giocare e a bere, come dilettanti; e attendessero intanto a spiare, se qualche cosa da spiare ci fosse. Egli, col grosso della truppa, rimase nell’agguato ad
aspettare. i : Il povero vecchio trottava ancora; i tre esploratori arrivavano al loro po385
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sto; il sole cadeva; quando Renzo entrò dalle donne, e disse: « Tonio e Gervaso m’aspettan fuori: vo con loro all’osteria, a mangiare un boccone; e,
quando sonerà l’ave maria, verremo a prendervi. Su, coraggio, Lucia! tutto dipende da un momento. » Lucia sospirò, e ripeté: « coraggio », con una voce che smentiva la parola. Quando Renzo e i due compagni giunsero all’osteria, vi trovaron quel tale già piantato in sentinella, che ingombrava mezzo il vano della porta, ap-
poggiato con la schiena a uno stipite, con le braccia incrociate sul petto e guardava e riguardava, a destra e a sinistra, facendo lampeggiare ora il bianco, ota il nero di due occhi grifagni. Un berretto piatto di velluto chermisi, messo storto, gli copriva la metà del ciuffo, che, dividendosi sur una fronte
fosca, girava, da una parte e dall’altra, sotto gli orecchi, e terminava in trecce, fermate con un pettine sulla nuca. Teneva sospeso in una mano un grosso randello; arme propriamente, non ne portava in vista; ma, solo a guardargli in viso, anche un fanciullo avrebbe pensato che doveva averne sotto quante ce ne poteva stare. Quando Renzo, ch’era innanzi agli altri, fu lì per entrare, colui, senza scomodarsi, lo guardò fisso fisso; ma il giovine, intento a schivare ogni questione, come suole ognuno che abbia un’impresa scabrosa alle mani, non fece vista d’accorgersene, non disse neppure: fatevi in là; e, rasentando l’altro stipite, passò per isbieco, col fianco innanzi, per l'apertura lasciata da 1750) deriverebbe da un tardivo intervento di Massimiliano re dei Romani, il quale, quando nel 1508 scese in Italia « per ristabilire i diritti dell'impero germanico... e per recare a Pisa, continuamente infestata da’ Fiorentini, quel soccorso tante volte promesso, e non mai eseguito, fece nascere poi il proverbio del soccorso di Pisa ». Secondo . altri il motto sarebbe stato originato dal tardivo contributo che la flotta pisana portò alla prima Crociata, arrivando a cose fatte. 376. bussola: portantina. Si chiamavano anche lettighe, ed erano molto in uso in quei tempi; si portavano a mano, come fanno ora i bravi, o con due muli, come vedremo più avanti (Cap. XXIV). 384-389. Il povero vecchio... parola: dopo il lungo capoverso precedente, in cui c'era soltanto una chiara presentazione di dati di fatto, su cui si svilupperà il capitolo successivo, in questo capoverso il racconto
si ravviva nel ritmo incalzante dei personaggi in movimento: il vecchio, gli esploratori, Renzo...: poi fievolmente si spegne nel sospiro di Lucia. 393-394. ora il bianco, ora il nero:
vedi
la nota n. 220-221. 394. occhi grifagni: occhi di sparviero. Espressione classica: Dante l’usa per Cesare «armato con occhi grifagni» (Irf., IV). — chermisi: cremisi, rosso vivo. Questa arrogante mole di bravo, messa lì sulla
porta a far da palo e da guardia, e descritta con tanta minuta cura di particolari (e di armamentario!) è tutta grottesca, oltre che secentesca: il suo centro è in quel « grosso randello » in una mano. I due compagnoni, che dentro giocano alla mora, non sono da meno. 404-405. passò per isbieco, ... cariatide: il periodo, bellissimo, dà la sensazione visiva dei contorcimenti di Renzo per non toccare
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o quella cariatide. I due compagni dovettero far la stessa evoluzione, se voller cioè entrare. Entrati, videro gli altri, de’ quali avevan già sentita la voce,
alla mora, que’ due bravacci, che seduti a un canto della tavola, giocavano dosi or mescen e e), gridando tutt’e due insieme (lì, è il giuoco che lo richied
l’uno or l’altro da bere, con un gran fiasco ch'era tra loro. Questi pure guar-
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daron fisso la nuova compagnia; e un de’ due specialmente, tenendo una ma-
no in aria, con tre ditacci tesi e allargati, e avendo la bocca ancora aperta, per un gran « sei » che n’era scoppiato fuori in quel momento, squadrò Renzo da capo a piedi; poi diede d’occhio al compagno, poi a quel dell’uscio, che rispose con un cenno del capo. Renzo insospettito e incerto guardava ai suoi due convitati, come se volesse cercare ne’ loro aspetti un’interpretazione di tutti que’ segni: ma i loro aspetti non indicavano altro che un buon appetito. L’oste guardava in viso a lui, come per aspettar gli ordini: egli lo fece venir con sé in una stanza vicina, e ordinò la cena.
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« Chi sono que’ forestieri? » gli domandò poi a voce bassa, quando quello tornò, con una tovaglia grossolana sotto il braccio, e un fiasco in mano. « Non li conosco, » rispose l’oste, spiegando la tovaglia. « Come? né anche uno? »
« Sapete bene, » rispose ancora lui, stirando, con tutt'e due le mani, la
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tovaglia sulla tavola, « che la prima regola del nostro mestiere, è di non domandare i fatti degli altri: tanto che, fin le nostre donne non son curiose.
Si starebbe freschi, con tanta gente che va e viene: è sempre un porto di mare: quando le annate son ragionevoli, voglio dire; ma stiamo allegri, che tornerà il buon tempo. A noi basta che gli avventori siano galantuomini: chi siano poi, o chi non siano, non fa niente. E ora vi porterò un piatto di polpette, che le simili non le avete mai mangiate. »
« Come potete sapere...? » ripigliava Renzo; ma l’oste, già avviato alla cucina, seguitò la sua strada. E lì, mentre prendeva il tegame delle polpette summentovate, gli s’accostò pian piano quel bravaccio che aveva squadrato il nostro giovine, e gli disse sottovoce:
la terribile « cariatide ». La parola, usata qui nel senso di persona ingombrante e immobile, significa propriamente una figura umana di pietra, posta a sostenere un architrave. La scultura medioevale è ricchissima di cariatidi; il nome pare derivi dalle donne di Caria, fatte schiave dai Greci (ai tempi delle guerre persiane), ed effigiate poi nell’atto di sorreggere un carico. 407. mora: o #otra, gioco che si fa tra due persone e che, in passato, è stato comunissimo nelle nostre campagne. Consiste nell’indovinare, gridandolo forte («è il giuoco che lo richiede »,. dice umoristicamente il M.) la somma delle. dita aperte contemporaneamente e con slancio dai due contendenti. 411. tre ditacci tesi e allargati: pare di vederceli davanti, sugli. occhi, questi « ditacci »!
414. con un cenno del capo: per confermarsi a vicenda che quello era il « tanghero temerario » a cui, secondo l’ordine di don
« Chi sono que’ galantuomini? »
Rodrigo, non sarebbe stato male dare fin da quella sera « un buon ricordo sulle spalle ». 417. L’oste guardava...: l’oste è furbo, e ha già annusato qualcosa. Osserva come risponderà alle domande dei clienti di questa sera. 424. la prima regola: se la prima regola di un oste è quella di non domandare i fatti degli altri, sembra derivarne che la seconda dovrebbe essere quella di non raccontarli; ben presto vedremo come il nostro oste si attenga, nella pratica, a queste belle regole. 428. gli avventori siano galantuomini: anche il Giusti dice: «L’oste non s’occupa Di far confronti: I galantuomini Li tasta ai conti» (cfr. Cap. I, n. 212). Fra poco sapremo, dalla bocca stessa dell’oste, quali per lui siano gli avventori galantuomini. Notiamo come proprio in questa pagina, in mezzo a tanti ribaldi, torni a risuonare più volte la parola « galantuomini », ormai a noi ben familiare nelle sue più varie ed umoristiche accezioni.
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_< Buona gente qui del paese, » rispose l’oste, scodellando le polpette nel piatto.
« Va bene; ma come si chiamano?
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chi sono? » insistette colui, con voce
alquanto sgarbata. | «Uno si chiama Renzo, » rispose l'oste, pur sottovoce:
« un buon giovine, assestato; filatore di seta, che sa bene il suo mestiere. L’altro è un contadino che ha nome Tonio: buon camerata, allegro: peccato che n’abbia pochi; che gli spenderebbe tutti qui. L’altro è un sempliciotto, che mangia però volentieri, quando gliene danno. Con permesso. » E, con uno sgambetto, uscì tra il fornello e l’interrogante; e andò a portare il piatto a chi si doveva. « Come potete sapere, » riattaccò Renzo, quando lo vide ricomparire, « che siano galantuomini, se non li conoscete? » « Le azioni, caro mio: l’uomo si conosce all’azioni. Quelli che bevono il vino senza criticarlo, che pagano il conto senza tirare, che non metton su lite con gli altri avventori, e se hanno una coltellata da consegnare a uno, lo vanno ad aspettar fuori, e lontano dall’osteria, tanto che il povero oste non ne vada di mezzo, quelli sono i galantuomini. Però, se si può conoscer la gente bene, come ci conosciamo tra noi quattro, è meglio. E che diavolo vi vien voglia di saper tante cose, quando siete sposo, e dovete aver tutt’altro in testa? e con davanti quelle polpette, che farebbero resuscitare un morto? » Così dicendo, se ne tornò in cucina. Il nostro autore, osservando al diverso modo che teneva costui nel soddisfare alle domaride, dice ch’era un uomo così fatto, che, in tutti i suoi discorsi, faceva professione d’esser molto amico de’ galantuomini in generale; ma, in atto pratico, usava molto maggior compiacenza con quelli che
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avessero riputazione o sembianza di birboni. Che carattere singolare! eh? La cena non fu molto allegra. I due convitati avrebbero voluto godersela con tutto loro comodo; ma l’invitante, preoccupato di ciò che il lettore sa, e infastidito, e anche un po’ inquieto del contegno strano di quegli sconosciuti, non vedeva l’ora d’andarsene. Si parlava sottovoce, per causa loro; ed eran parole tronche e svogliate. « Che bella cosa, » scappò fuori di punto in bianco Gervaso, « che Renzo voglia prender moglie, e abbia bisogno...! » Renzo gli fece un viso brusco. «Vuoi stare zitto, bestia? » gli disse Tonio, accompagnando il titolo con una gomitata. La conversazione fu sempre più fredda, fino alla fine. Renzo, stando indietro nel mangiare, come nel bere, attese a mescere ai due testimoni, con
discrezione, in maniera di dar loro un po’ di brio, senza farli uscir di cervello. Sparecchiato, pagato il conto da colui che aveva fatto men guasto, dovettero tutti e tre passar novamente davanti a quelle facce, le quali tutte
si voltarono a Renzo, come quand’era. entrato. Questo, fatti ch’ebbe pochi
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passi fuori dell’osteria, si voltò indietro, e vide che i due che aveva lasciati
447. L'uomo si conosce all’azioni: ecco la norma di giudizio dell’oste, e da questa la sua norma di vita. 460. Che carattere singolare! eh?: si suol dire in cauda venenum; e così è senz’altro per quest’arguto ed amaro intervento del M. Il quale sa, e vuol ricordarlo, che, purtroppo, uomini come quell’oste, egoisti ac-
comodanti e subdoli, complici necessari dei birbanti, ce ne sono molti. 466. Che bella cosa...: l'uscita di Gervaso rivela l’idiota completo, ed ha l’effetto di far
crescere l’imbarazzo negli altri sali, che già tiravano avanti tronche e svogliate ». Ma è di degna del migliore umorismo
due commencon « parole una comicità manzoniano.
oa
î promessi sposi
gni, come seduti in cucina, lo seguitavano: si fermò allora, co’ suoi compa o s’accorse dicesse: vediamo cosa voglion da me costoro. Ma i due, quand e torsero d’essere ossetvati, si fermarono anch'essi, si parlaron sottovoce, parole, loro le sentir da narono indietro. Se Renzo fosse stato tanto vicino
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contar gli sarebbero parse molto strane. « Sarebbe però un bell’onore, senza imo la mancia, » diceva uno de’ malandrini, « se, tornando al palazzo, potess raccontare d’avergli spianate le costole in fretta in fretta, e così da noi, senza i ( che il signor Griso fosse qui a regolare. » avvis'è Ecco: « « E guastare il negozio principale! » rispondeva l’altro. sto di qualche cosa; si ferma a guardarci. Ih! se fosse più tardi! Torniamo indietro, per non dar sospetto. Vedi che vien gente da tutte le parti: lasciai moli andar tutti a pollaio. » , villaggio un C'era in fatti quel brulichìo, quel ronzìo che si sente in sulla sera, e che, dopo pochi momenti, dà luogo alla quiete solenne della notte. Le donne venivan dal campo, portandosi in collo i bambini, e tenendo per la mano i ragazzi più grandini, ai quali facevan dire le divozioni della sera; venivan gli uomini, con le vanghe, e con le zappe sulle spalle. All’aprirsi degli usci, si vedevan luccicare qua e là i fuochi accesi per le povere cene: si sentiva nella strada barattare i saluti, e qualche parola, sulla scarsità della raccolta, e sulla miseria dell'annata; e più delle parole, si sentivano i tocchi
misurati e sonori della campana, che annunziava il finir del giorno. Quando
Renzo vide che i due indiscreti s’eran ritirati, continuò la sua strada nelle tenebre crescenti, dando sottovoce ora un ricordo, ora un altro, ora all'uno,
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ora all’altro fratello. Arrivarono alla casetta di Lucia, ch’era già notte. Tra il primo pensiero d’una impresa terribile, e l'esecuzione di essa, (ha
detto un barbaro che non era privo d’ingegno) l'intervallo è un sogno, pieno di fantasmi e di paure. Lucia era, da molte ore, nell’angosce d’un tal sogno: e Agnese, Agnese medesima, l’autrice del consiglio, stava sopra pensiero, e trovava a stento parole per rincorare la figlia. Ma, al momento di destarsi,
477. vediamo cosa voglion da me: abbiamo detto altre volte che Renzo è un giovane intelligente. Tutta la scena dell’osteria ne è conferma, come quest’ultima mossa è conferma di un carattere risoluto e coraggioso. 487. andar tutti a pollaio: a letto; senti lo scherno del presuntuoso verso la gente buona e semplice (e che ha lavorato tutto il giorno!), che va a dormire all’ora delle galline. Ma subito dopo, nel capoverso che segue, sentirai anche una voce ben diversa, quella del M. che guarda commosso alla sera dell’umile borgo. 488-496. C'era in fatti quel brulichio... il finir del giorno: è uno dei momenti di più pura poesia di tutto il romanzo, uno dei quadretti più deliziosi di quei paesaggi manzoniani che sono incontro dei sentimenti degli uomini con gli scenari della natura. Una natura partecipe dell’esistenza delle creatute umane, sfondo su cui ora, nella malinconia del tramonto, si proietta l’elegiaco incanto della vita familiare e dell’umile onesto lavoro. (Cfr. Cap. IV, n. 8).
500. Tra il primo pensiero...: la sentenza; profonda per verità psicologica, è pronunziata da Bruto, nel Giulio Cesare di Shakespeare, nell’intervallo fra la decisione di
uccidere Cesare e l’esecuzione dell’« impresa terribile ». Il « barbaro non privo d’ingegno » è, appunto, il grande drammaturgo
inglese; l’espressione manzoniana, naturalmente ironica, è rivolta contro il Voltaire, che l’aveva detta sul serio perché lo Shakespeare si era staccato dai vecchi canoni classicistici sostenuti dal filosofo francese. Quanto, invece, il M. ammirasse lo Shakespeare si può dedurre, fra l’altro, da questa definizione che ne dette in una lettera al suo traduttore inglese dei Promessi Sposi: «così potente nella pittura di tante e tanto varie passioni, nel linguaggio di tanti caratteri e di tante situazioni, così umano e così poetico, così inaspettato e così naturale ». 504-511. Ma, al momento... con più sicurezza: non si tratta soltanto di una notazione psicologica esatta, che vale per ogni persona e per ogni momento. Vi senti in
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VII
al momento cioè di dar principio all'opera, l’animo si trova tutto trasformato. Al terrore e al coraggio che vi contrastavano, succede un altro terrore e un altro coraggio: l’impresa s’affaccia alla mente, come una nuova apparizione: ciò che prima spaventava di più, sembra talvolta divenuto agevole tutt’a un tratto: talvolta comparisce grande l’ostacolo a cui s'era appena badato; l’im-
maginazione dà indietro sgomentata; le membra par che ricusino d’ubbidire;
e il cuore manca alle promesse che aveva fatte con più sicurezza. Al picchiare sommesso di Renzo, Lucia fu assalita da tanto terrore, che risolvette, 515
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in quel momento, di soffrire ogni cosa, di star sempre divisa da lui, piuttosto ch’eseguire quella risoluzione; ma quando si fu fatto vedere, ed ebbe detto: « son qui, andiamo »; quando tutti si mostraron pronti ad avviarsi, senza esitazione, come a cosa stabilita, irrevocabile; Lucia non ebbe tempo né forza di far difficoltà, e, come strascinata, prese tremando un braccio della madre, un braccio del promesso sposo, e si mosse con la brigata avventuriera. Zitti zitti, nelle tenebre, a passo misurato, usciron dalla casetta, e preser la strada fuori del paese. La più corta sarebbe stata d’attraversarlo: che s’andava diritto alla casa di don Abbondio; ma scelsero quella, per non esser. visti. Per viottole, tra gli orti e i campi, arrivaron vicino a quella casa, e lì si divisero. I due promessi rimaser nascosti dietro l’angolo di essa; Agnese con loro, ma un po’ più innanzi, per accorrere in tempo a fermar Perpetua, e a impadronirsene; Tonio, con lo scempiato di Gervaso, che non sapeva far nulla da sé, e senza il quale non si poteva far nulla, s’affacciaron bravamente
alla porta, e picchiarono. « Chi è, a quest'ora? » gridò una voce dalla finestra, che s’aprì momento: era la voce di Perpetua. « Ammalati non ce n'è, ch’io È forse accaduta qualche disgrazia? » « Son io, » rispose Tonio, « con mio fratello, che abbiam bisogno lare al signor curato. » « È ora da cristiani questa? » disse bruscamente Perpetua. « Che zione? Tornate domani.>
in quel sappia.
di pardiscre-
« Sentite: tornerò o non tornerò: ho riscosso non so che danari, e venivo a saldar quel debituccio che sapete: aveva qui venticinque belle berlinghe nuove; ma se non si può, pazienza: questi, so come spenderli, e tornerò
quando n’abbia messi insieme degli altri. » « Aspettate, aspettate: vo e torno. Ma perché venire a quest'ora? »
più la viva partecipazione dell’autore alla trepidazione dei suoi umili personaggi: anche per Agnese che, una volta tanto, trova «a stento» parole per rincorare la figlia. Ma certamente per Lucia, come vedremo subito dopo, il cuore del narratore batte più forte: c’è qualcosa di paterno nelle parole del M. che guarda la fanciulla e ne descrive il passare da una decisione disperata di rifiuto ad un’accettazione quasi supina dell'impresa, fino a quel muoversi «come strascinata » e tremante al braccio della madre e dello sposo. 518. la brigata avventuriera: l’espressione, fra tanta pena, suggerisce un leggero sorriso; avventuriera, che va verso l'avventura.
519. Zitti zitti, nelle tenebre...:
tuazione, ritmata come
l’accen-
una musica in sor-
dina, sembra esprimere il battito dei cuori dei poveri « avventurieri ». 525-526. non sapeva... non si poteva...: un’altra nota umoristica e rasserenatrice che attenua l’incubo del momento. 528-544. Chi è? ... torno con la risposta: tutte queste battute fra Perpetua e Tonio costituiscono uno dei dialoghi più ameni del romanzo, Per la serva si badi anche a quei tocchi che ne ricreano il carattere angoloso e stizzoso, come il «gridò... dalla finestra » e il « disse bruscamente ». 536-537. berlinghe: monete d’argento con cavallo. l’effige di S. Ambro'*-
î promessi spost
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«Gli ho ricevuti, anch'io, poco fa; e ho pensato, come vi dico, che, se li tengo a dormir con me, non so di che parere sarò domattina. Però, se l’ora non vi piace, non ne
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so che dire:
per me, son qui; e se non
VO. »
« No, no, aspettate un momento:
mi volete, me
torno con la risposta. »
Così dicendo, richiuse la finestra. A questo punto, Agnese si staccò dai promessi, e, detto sottovoce
a Lucia:
« coraggio;
è un momento;
è come
farsi cavar un dente », si riunì ai due fratelli, davanti all’uscio; e si mise a ciarlare con Tonio, in maniera che Perpetua, venendo ad aprire, dovesse credere che si fosse abbattuta lì a caso, e che Tonio l’avesse trattenuta un 550
momento.
545-546. Agnese... a Lucia: quanto batticuore e quanto affetto fra madre e figlia! Conclude bene il Gessi: «Par di sentire un lieve fruscio delle parole che escono amorose dalla bocca di Agnese più che mai infervorata e sollecita. Ed è questo amo-
Scheda
roso trasporto che ha la sua buona efficacia. Come efficace a far coraggio alla giovine, sarà fra pochi momenti la stretta silenziosa al braccio che le darà Renzo, per quell’imponderabile potere comunicativo che ha l’affetto, in qualsiasi maniera esternato ».
critica al cap. VII I capitoli VII e VIII sono tra le prove più intense della felicità inventiva del Manzoni, qui tutta calata, si direbbe, in un puro e liberissimo gioco di procedimenti fantastici, con un abbandono ai suggerimenti immediati dell’intrigo e una scioltezza pronta a coglierne e a renderne la fitta trama delle successioni, delle confluenze, delle sospensioni e delle riprese, quali di rado, almeno così aperte e schiette, s'incontrano nello svolgimento di un romanzo sempre così sorvegliato e regolato (anche qui, del resto, ma in maniera meno urgente e più segreta) da una solenne intenzione morale e religiosa. In queste pagine, infatti, viene a raccogliersi uno dei nodi dell'invenzione propriamente romanzesca, e perciò il ritmo della narrazione si fa più rapido e incalzante, e anche più mosso e ricco di svolte e di sorprese, in un continuo variare di scene, di ambienti, di situazioni edi personaggi. Non mai forse come qui si avverte così forte, nell'alternarsi dei toni e delle atmosfere, nelle sequenze dei fatti, nel vario intreccio delle occasioni e degli incontri che contrassegnano il percorso della vicenda e la fanno progredire, la presenza dell'esperienza teatrale vissuta dal Manzoni, e soprattutto la lunga, appassionata e approfondita lettura e meditazione dei grandi testi shakespeariani. Il capitolo VII, intanto, serve a preparare il groviglio dei casi, che si intrecceranno e troveranno il loro scioglimento in quello seguente. Qui infatti si maturano ad una ad una le varie e indipendenti iniziative dei principali personaggi, che diventeranno operanti e saranno tutte, senza eccezione, se pur in diverso
capitolo VII
19) modo e misura, sconfitte e travolte nella gran notte degli imbrogli: le pratiche appena avviate da fra Cristoforo per proteggere gli sposi dal pericolo più imminente, i progetti per il matrimonio di sorpresa di Agnese e di Renzo, a cui acconsente anche Lucia ma riluttante e piena di oscuri presentimenti, la risoluzione puntigliosa e torbida di don Rodrigo, la strategia accorta del Griso e le operazioni di avanscoperta dei bravi. La regia sapiente dello scrittore illumina via via le scene che rapidamente si susseguono, assecondando il variare delle situazioni psicologiche e degli ambienti con il mutare dei modi stilistici, del tono e del linguaggio. Nel'breve incontro con fra Cristoforo (le cui parole ci riportano, per un istante, all'intensa intonazione religiosa della prima parte del capitolo precedente) già matura l'impazienza di Renzo, che esploderà in una sorta di furia spontanea e calcolata nel successivo drammatico colloquio con l’innamorata Lucia. La processione dei falsi viandanti e mendicanti crea un'atmosfera di incubo e di sospensione, che prepara le pagine su don Ro‘drigo e i suoi disegni di orgoglio offeso e di vendetta: pagine di grande sapienza psicologica, che ci fanno penetrare a fondo nella psicologia del prepotente, e sempre in maniera concreta attraverso la rappresentazione dell'ambiente e delle circostanze: le immagini di superbia e di terrore che emanano dai ritratti degli antenati del signorotto, e ne eccitano la vergogna e il punto d'onore (di «ciò che chiamava onore »); l'atmosfera di ossequio e di servilità che accompagna la sua passeggiata serale, e quindi gli scherzi del cugino, che entrambi e per opposte vie ne stuzzicano l'ombrosa vanità, finché don Rodrigo si ridesta don Rodrigo e, svanita l'oscura inquietudine insorta in lui nel colloquio col frate, resta « la rabbia sola, esacerbata anche dalla vergogna di quella debolezza passeggiera ». | quadri che seguono, del colloquio di don Rodrigo col Griso, dei preparativi per il progettato rapimento di Lucia, del coraggioso se pur tardivo intervento del vecchio servitore, contribuiscono a creare un crescendo di aspettativa drammatica, subito sapientemente attenuata dalla pausa distensiva, in tono « comico », della scena all'osteria, nonché dall'altra bellissima pausa descrittiva dell'affaccendato brusio del villaggio nel crepuscolo; attenuata tuttavia, ma non distratta, ché anzi proprio quelle pause aiutano direttamente e indirettamente a suscitare una vaga e trepida atmosfera di tristezza e di sospetto. Infine quello stato di attesa e di sospensione raggiunge il suo culmine nella pagina finale, dei due promessi che si recano, con Agnese, verso la casa di don Abbondio per mettere in atto il loro avventato disegno, « Zitti zitti, nelle tenebre, a passo misurato »: lo scrittore suscita insieme il quadro notturno e il senso di ansia e di inquieta esitazione che lo riempie, la scena e la psicologia variamente turbata e commossa dei personaggi.
Capitolo VII
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— Carneade! Chi era costui? — ruminava tra sé don Abbondio seduto sul suo seggiolone, in una stanza del piano superiore, con un libricciolo aperto davanti, quando Perpetua entrò a portargli l’imbasciata. — Carneade! questo nome mi par bene d’averlo letto o sentito; doveva essere un uomo di studio, un letteratone del tempo antico: è un nome di quelli; ma chi diavolo era costui? — Tanto il pover’uomo era lontano da prevedere che burrasca gli si addensasse sul capo! Bisogna sapere che don Abbondio si dilettava di leggere un pochino ogni giorno; e un curato suo vicino, che aveva un po’ di libreria, gli prestava un libro dopo l’altro, il primo che gli veniva alle mani. Quello su cui meditava
in quel momento don Abbondio, convalescente della febbre dello spavento,
1. Carneade!.Chi era costui?: l’espressione, ormai in proverbio per indicare meraviglia di fronte ad uno sconosciuto, costituisce uno degli inizi più noti di tutto il romanzo, per il modo originale e imprevedibile con cui si presenta. — Per chi, come don Abbondio, non sapesse, o non si ricordasse, chi era Carneade, diciamo che fu un filosofo greco di Cirene (213-129 a.C.), il quale, recatosi a Roma in ambasceria nel 156 a.C., suscitò intorno a sé grande am. mirazione. Cicerone, che lo loda molto, nel De finibus ha un’espressione che si potrebbe ricollegare a questa manzoniana: audistine modo de Carneade? (hai sentito recentemente su Carneade?). Ed un’altra simile
frase la scrisse, alcuni secoli dopo, S. Ambrogio nel dialogo Contra Academicos: «Tum Licentius: Carneades, inquit, tibi sapiens non videtur? — Ego, ait, graecus non sum, nescio Carneades iste qui fuerit » (Allora Licenzio disse: non ti sembra sapiente Carneade? — Io, rispose, non sono greco e non so chi sia codesto Carneade). Sotto questa celebre battuta di don Abbondio, che sembra tanto spontanea e semplice, si nasconde, dunque, un M. dotto, e sagace studioso degli antichi. — ruminava: bene dice il faticoso ed inutile annaspare nella mente. Ù 6. che burrasca...: al povero curato le
più grosse burrasche cadono addosso proprio quando meno se le aspetta. Come quell’incontro coi bravi, mentre al tramonto tornava tranquillo verso casa la sera del giorno 7 novembre. 8. don Abbondio si dilettava...: quella nota di mediocrità, che conosciamo da sempre nella: figura di don Abbondio, trova ora una decisa conferma in questo periodo, nel quale ogni parola ha un suo preciso valore ironico: « si dilettava », e quindi non pensava affatto ad istruirsi per l’attività sacerdotale; « un pochino », e perciò senza alcuna fatica e forse annoiandosi presto; « ogni giorno », perché tutto in lui è consuetudine e basta; «gli prestava un libro », dato che don Abbondio un po’ di libreria non ce l'aveva neppure... Così il M. sa, una dopo l’altra, caricare le tinte della sua satira bonaria, con la quale prende di mira non tanto un singolo uomo, quanto la cultura -— o l’ignoranza — di un’intera età. Un motivo fra i più ricorrenti nel romanzo. 11. convalescente della febbre dello spavento: è il tocco più sarcastico del quadro: ma vi si sente qualcosa di compassionevole ed umano. Maliziosa è quell’aggiunta « guarito (quanto alla febbre)»: ma non certo, noi pensiamo, quanto allo spavento. E col nuovo spavento, che fra poco gli capiterà. che succederà di quella febbre?
capitolo VIII
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anzi più guarito (quanto alla febbre) che non volesse lasciar credere, era un panegirico in onore di san Carlo, detto con molta enfasi, e udito con molta 15
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ammirazione nel duomo di Milano, due anni prima. Il santo v’era paragonato, per l’amore allo studio, ad Archimede; e fin qui don Abbondio non trovava inciampo; perché Archimede ne ha fatte di così curiose, ha fatto dir tanto di sé, che, per saperne qualche cosa, non c’è bisogno d’un’erudizione molto vasta. Ma, dopo Archimede, l’oratore chiamava a paragone anche Carneade: e lì il lettore era rimasto arrenato. In quel momento entrò Perpetua ad annunziar la visita di Tonio. « A quest'ora? » disse anche don Abbondio, com'era naturale. « Cosa vuole? Non hanno discrezione: ma se non lo piglia al volo... » « Già: se non lo piglio ora, chi sa quando lo potrò pigliare! Fatelo venire... Ehi! ehi! siete poi ben sicura che sia proprio lui? » « Diavolo! » rispose Perpetua, e scese; aprì l’uscio, e disse: « dove siete? » Tonio si fece vedere; e, nello stesso tempo, venne avanti anche Agnese,
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e salutò Perpetua per nome. « Buona sera, Agnese, » disse Perpetua: « di dove si viene, a quest'ora? » « Vengo da... » e nominò un paesetto vicino. « E se sapeste... » continuò: « mi son fermata di più, appunto in grazia vostra. » « Oh perché? » domandò Perpetua; e voltandosi a’ due fratelli, « entrate, » disse, « che vengo anch’io. » « Perché, » rispose Agnese, « una donna di quelle che non sanno le cose,
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e voglion parlare... ctedereste? s’ostinava a dire che voi non vi siete maritata con Beppe Suolavecchia, né con Anselmo Lunghigna, perché non v’hanno
voluta. Io sostenevo che siete stata voi che gli avete rifiutati, l'uno e l’al-
tro... »
« Sicuro. Oh la bugiarda! la bugiardona! Chi è costei? » « Non me lo domandate, che non mi piace metter male. »
24. Ehi! ehi! siete poi ben sicura...: ci 13. panegirico... san Carlo: sappiamo che sembra di scoprire un sottinteso paragone, e elogio di (discorso si tratta del panegirico anch’esso pieno d’ironia: Archimede potein onore di un santo) pronunziato nel 1626 va bene essere immerso nella meditazione da un certo padre Vincenzo Tasca; l’opuscolo esiste ancora ed è conservato nella Bi- fino a non accorgetsi che il nemico stava per ucciderlo; ma il nostro ‘curato ha l’ocblioteca Ambrosiana. chio sveglio ed attento, lui! Eppure, anche 16. Archimede ne ha fatte di così curioa lui, fra poco giocheranno un brutto tiro. se: il M. è decisamente in vena di scherzare, 34-35. non vi siete maritata: ricordiamoil Così parte. ogni da motivo e ne trova ci che Perpetua era «celibe per aver rifiugrande matematico e filosofo greco di. Siratato tutti i partiti che le si erano offerti, cocusa, del III sec. a. C., gli offre lo spunto me diceva lei, o per non aver mai trovato per un’altra battuta che ricade, in definitiun cane che la volesse, come dicevano le cose « le fra quale, Il va, sul nostro curato. curiose » di Archimede, avrà probabilmente ‘ amiche» (Cap. I). Questo è il debole di ricordato i famosi specchi ustorii con cui lo Perpetua, quel debole che Agnese conosce scienziato avrebbe bruciato da lontano le a perfezione: per Perpetua, aveva detto a Renzo e a Lucia mentre stavano tramando navi romane che assediavano la città; e ansul matrimonio, «ho un segreto per attigridato trovato’) (‘ho a! quell’èurek che da Archimede, in seguito alla scoperta di rarla, e per incantarla... La chiamerò io, e le toccherò una corda... vedrete ». Per ora, un principio di idrostatica, con tanto entusiasmo da uscire dal bagno senza pensare a dunque, tutto va secondo i piani prestabiliti. Anzi, Perpetua ha abboccato tanto, che esorvestirsi; e infine, perché no?, quella morte ta i due fratelli ad entrare in canonica, per bizzarra che il grand’uomo ricevette da un rimanere a parlare con Agnese. Il duetto accorto essersi non soldataccio romano per fra le due comari non poteva avere un avche Siracusa era stata presa dal nemico: tanvio con più attraente naturalezza. ! matematici È to era assorto nei suoi calcoli
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« Me lo direte, me l’avete a dire: oh la bugiarda! » « Basta... ma non potete credere quanto mi sia dispiaciuto di non saper bene tutta la storia, per confonder colei. » « Guardate se si può inventare, a questo modo! » esclamò di nuovo Perpetua; e riprese subito: «in quanto a Beppe, tutti sanno, e hanno potuto vedere... Ehi, Tonio! accostate l’uscio, e salite pure, che vengo. » Tonio, di dentro, rispose di sì; e Perpetua continuò la sua narrazione appassionata. In detta, volesse dietro.
faccia all’uscio di don Abbondio, che, finite quelle, voltava\in un tirarsi alquanto in disparte, per Quand’ebbero voltato, e furono
s’apriva, tra due casipole, una stracampo. Agnese vi s’avviò, come se parlar più liberamente; e Perpetua in luogo, donde non si poteva più
veder ciò che accadesse davanti alla casa di don Abbondio, Agnese tossì forte. Era il segnale: Renzo lo sentì, fece coraggio a Lucia, con una stretta di braccio; e tutt'e due, in punta di piedi, vennero avanti, rasentando il muro, zitti zitti; arrivarono all’uscio, lo spinsero adagino adagino; cheti e chinati, entraron nell’andito, dov’erano i due fratelli ad aspettarli. Renzo accostò di nuovo l’uscio pian piano; e tutt'e quattro su-per le scale, non facendo rumore neppur per uno. Giunti sul pianerottolo, i due fratelli s’avvicinarono all’uscio della stanza, ch’era di fianco alla scala; gli sposi si strinsero al muro.
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« Deo gratias, » disse Tonio, a voce chiara. « Tonio, eh? Entrate, » rispose la voce di dentro. Il chiamato aprì l’uscio, appena quanto bastava per poter passar lui e il
fratello, a un per volta. La striscia di luce, che uscì d’improvviso per quella apertura, e si disegnò sul pavimento oscuro del pianerottolo, fece riscoter Lu46. Perpetua continuò...: delle varie scene da commedia, che vedremo in questo capitolo, il dialogo fra Agnese e Perpetua, sempre agile e serrato di botte e risposte, è, forse, la più serena e gaia. 53-57. e tutt’e due... neppur per uno: è un periodo in cui il M. ha saputo creare tanta atmosfera di sospensione, di angoscia, di avventura che la commedia sfuma naturalmente nella tragedia, per l’umana comprensione del dolore che è al fondo di tutto quest’imbroglio. Bene il Petronio così sintetizza i vari e complessi elementi spirituali che costituiscono il motivo delle scene che ora stiamo leggendo: «Il tono di queste pagine mirabili è un’accorta fusione di malinconia e sommessa musicalità con scoppiettii di sorridente e scintillante vivacità comica da opera buffa dell’ultimo Settecento. La comicità, una tenue e bonaria comicità, investe tutto questo piccolo intrigo destinato a fallire così miseramente; ma intanto dal fondamentale tessuto comico emergono musicali e malinconiche note ogni volta che compare in iscena Lucia. E i periodi brevi e staccati, tutti coordinazione, le pause frequenti, il respiro misurato e sommesso di tutta la prosa, dànno il senso di un cospirare guardingo, sottolineato, quasi musicalmente ritmato, dalla voce chiara di Tonio e
dal martellare di quel povero cuore di Lucia ». 58-59. gli sposi si strinsero al muro: dovremo ricordarci di questi attimi in cui Lucia è così accanto al suo promesso sposo, stretta al suo braccio, sola con lui nella penombra del pianerottolo, per capire quanto delicato e complesso e tormentante sia l’animo di questa ragazza. 60. Deo gratias: già sappiamo, dal saluto di fra Galdino (Cap. III), che questa era nel Seicento una forma molto comune di saluto, specie con un religioso. L’astuto Tonio la pronunzia «a voce chiara », sia per farsi riconoscere subito e non dar sospetti, sia per far del rumore che possa nascondere meglio la presenza degli sposi. — Nota l’abilità dello scrittore nel creare questi giuochi di silenzi e di voci che accompagnano l’impresa; fra poco troverai giuochi di luci e di ombre. i 63-64. striscia di luce... sul pavimento oscuro: l’immagine è bellissima; ma al M. non interessa tanto nel suo effetto di chiaroscuro, quanto per l’esito psicologico che ne può trarre, e che ancora una volta riguarda Lucia. Lucia, la sola persona venuta riluttante all’ayventura, perché la sentiva, prima che un’offesa agli altri, un’offesa a sé stessa, al suo animo di donna che crede e
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cia, come se fosse scoperta. Entrati i fratelli, Tonio si tirò dietro l’uscio: gli sposi rimasero immobili nelle tenebre, con l’orecchie tese, tenendo il fiato:
il rumore più forte era il martellar che faceva il povero cuore di Lucia. Don Abbondio stava, come abbiam detto, sur una vecchia seggiola, rav70
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volto in una vecchia zimarra, con in capo una vecchia papalina, che gli fa-
ceva cornice intorno alla faccia, al lume scarso d’una piccola lucerna. Due folte ciocche di capelli, che gli scappavano fuor della papalina, due folti sopraccigli, due folti baffi, un folto pizzo, tutti canuti, e sparsi su quella faccia bruna e rugosa, potevano assomigliarsi a cespugli coperti di neve, sporgenti da un dirupo, al chiaro di luna. « Ah! ah! » fu il suo saluto, mentre si levava gli occhiali, e li riponeva nel libricciolo. « Dirà il signor curato, che son venuto tardi, » disse Tonio, inchinandosi,
come pure fece, ma più goffamente, Gervaso. « Sicuro ch'è tardi: tardi in tutte le maniere. Lo sapete, che sono ammalato? » « Oh! mi dispiace. » « L’avrete sentito dire; sono ammalato, e non so quando potrò lasciarmi 85
vedere... Ma perché vi siete condotto dietro quel... quel figliuolo? » « Così per compagnia, signor curato. » « Basta, vediamo. » « Son venticinque berlinghe nuove, di quelle col sant’Ambrogio
vallo, » disse Tonio, levandosi un involtino di tasca. « Vediamo, » replicò don Abbondio:
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a ca-
e, preso l’involtino, si rimesse gli
occhiali, l’aprì, cavò le berlinghe, le contò, le voltò, le rivoltò, le trovò senza difetto. 78. come pure fece... Gervaso: che è la che ama; da qui la notazione stupenda: « il rumore più forte era il martellar che fa- copia del fratello, senza il quale non sa far nulla (come vedremo più tardi): tutto quelceva il povero cuore di Lucia ». lo che fa, lo fa «goffamente». È quindi 68-74. Don Abbondio... chiaro di luna: «l’effetto di luna su que’ sopraccigli, baffi, un esempio del comico ottenuto per germinazione, dal contatto cioè di un persopizzo cespugliosi e nevicati, sporgenti su naggio col suo partrer, diremmo oggi. Ma quel viso dirupato (bruno e rugoso), le cui prominenze acquistano anche maggiore ri- tutto il comico che ora la figura dello scimunito — o, come dirà eufemisticamente salto dal giuoco delle ombre nel lume della don Abbondio riprendendosi a tempo, di E ritratto. il te comicamen rifinisce lucerna, « quel... figliuolo » — riesce a suscitare, anche l’insistere sull’aggettivo vecchia (« sur rientrerà, un giorno, nella grandiosa viwvecuna in ravvolto seggiola, una vecchia sione del mistero della storia che il M. ha chia zimarra, con in capo una vecchia pasempre presente: lo vedremo molto più tarpalina »), e poi sull’aggettivo folto (« due folte ciocche di capelli, ... due folti sopracci- . di (Cap. XXXIII). 82. sono ammalato, e non so...: c'è un gli, due folti baffi, un folto pizzo »), è per senso di compiacimento pet la condizione un finale effetto comico. Il M., con un sottil di ammalato (vera o presunta che sia); comgusto caricaturale sotto il sorriso della bopiacimento che si ‘accorda benissimo con la nomia, delinea una specie di grottesco: tutpersonalità del curato, il quale si sente seme gio personag te cose invecchiate intorno al pre creditore verso tutti e con tutti. papalizimarra, (seggiola, gio personag sul 89. contò... voltò... rivoltò... trovò: il M. na); e anche tanta foltezza di peli sul viso è abilissimo nello scoprire e fissare queste rugoso è una manifestazione di quella vecserie di verbi, che insieme scandiscono il chiaia, che invade tutto, come una incrostamovimento dell’azione e sviluppano il caè grottesco dal offerta ne zione: l’immagi rattere dei personaggi. Fra poco ne troverequella del quieto -vivere cristallizzato, per mo un altro carattenistico esempio nella deche gio personag del così dire, nella passività scrizione del comportamento di don Abbonsi lascia invecchiare » (Nardi).
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« Ora, signor curato, mi darà la collana della mia Teclazm s
amo
« È giusto, » rispose don Abbondio; poi andò a un armadio, si levò una chiave di tasca, e, guardandosi intorno, come per tener lontani gli spetta-
tori, aprì una parte di sportello, riempì l’apertura con la persona, mise den-
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tro la testa, per guardare, e un braccio, per prender la collana; la prese, e, i chiuso l’armadio, la consegnò a Tonio, dicendo: « va bene? »
« Ora, » disse Tonio, « si contenti di mettere un po’ di nero sul bianco. »
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« Anche questa! » disse don Abbondio: «le sanno tutte. Ih! com'è dii venuto sospettoso il mondo! Non vi fidate di me? » mio il siccome Ma torto. fa mi Lei fido? mi sio « Come, signor curato! nome è sul suo libraccio, dalla parte del debito... dunque, giacché ha già avuto l’incomodo di scrivere una volta, così... dalla vita alla morte... » « Bene bene, » interruppe don Abbondio, e brontolando, tirò a sé una cassetta del tavolino, levò fuori carta, penna e calamaio, e si mise a scrivere, ripetendo a viva voce le parole, di mano in mano che gli uscivan dalla penna. Frattanto Tonio e, a un suo cenno, Gervaso, si piantaron ritti davanti al tavolino, in maniera d’impedire allo scrivente la vista dell’uscio; e, come per ozio, andavano stropicciando, co’ piedi, il pavimento, per dar segno a quei ch’erano fuori, d’entrare, e per confondere nello stesso tempo il rumore del«le loro’ pedate. Don Abbondio, immerso nella sua scrittura, non badava ad altro. Allo stropiccìo de’ quattro piedi, Renzo prese un braccio di Lucia, lo strinse, per darle coraggio, e si mosse, tirandosela dietro tutta tremante, che da sé non vi sarebbe potuta venire. Entraron pian piano, in punta di piedi, rattenendo il respiro; e si nascosero dietro i due fratelli. Intanto don Abbondio, finito di scrivere, rilesse attentamente, senza alzar gli occhi dalla carta; la piegò in quattro, dicendo: « ora, sarete contento? » e, levatosi con una mano gli occhiali dal naso, la porse con l’altra a Tonio, alzando il viso. Tonio, allungando la mano per prender la carta, si ritirò da una parte; Gervaso, a un suo cenno, dall’altra; e, nel mezzo, come al dividersi d’una scena, dio appena avrà scoperto l’inganno. Tanto per mostrare la continuità dell’arte manzoniana, citiamo due versi famosi, costituiti ciascuno da una serie di tre verbi: « soffri, combatti e preghi » (Pentecoste), « cadde, risorse e giacque » (Cinque Maggio). — Ora, osserva come quei verbi mettano in risalto la diffidenza del curato, e poi segui don Abbondio in tutte le operazioni che compie, e come le compie, per restituire a Tonio la collana: nell’evidenza grottesca delle mosse, senti come il M. è anche un grande caricaturista. 97. mettere un po’ di nero sul bianco: espressione popolare: mettere un po’ d’inchiostro sulla carta; cioè, rilasciare una ricevuta. 98-99. com’è divenuto sospettoso il mondo!: lui lo dice! La comicità della battuta è veramente irresistibile. 102. dalla vita alla morte: di per sé stessa, non sapremmo ben dire che cosa ci stia a fare questa frase, che il Belloni così completa: « è breve il passo ». Il suo valore co-
me battuta, valida quanto un’altra qualsiasi, sta nel fatto che Tonio la butta là pet indurre il curato a scrivere la ricevuta, e quindi per tenerlo impegnato prima della grande sorpresa. 105. ripetendo a viva voce le parole: se ne deduce che don Abbondio, se con la lettura aveva poca dimestichezza, con lo scrivere ne aveva ancora meno. Ma tutta questa sua concentrazione nell’atto che compie, derivata da un’innata meticolosità, si rivela mezzo efficacissimo per lo svolgimento naturale della vicenda. Ecco il perché della cura minuziosa del narratore, che ci presenta il curato «immerso nella sua scrittura » e che quindi « non badava ad altro », e poi ce ne fa vedere tutti i movimenti accurati e soddisfatti: « rilesse..., la piegò in quattro..., la porse... a Tonio... ». 119. come al dividersi d’una scena: l’immagine dà nettissima l’impressione dell’improvvisa comparsa dei due giovani, e accresce veramente la nostra sensazione di assistere allo svolgimento di una commedia.
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apparvero Renzo e Lucia. Don Abbondio, vide confusamente, poi vide chiaro, si spaventò, si stupì, s’infuriò, pensò, prese una risoluzione: tutto questo nel tempo che Renzo mise a proferire le parole: « signor curato, in presenza di questi testimoni, quest'è mia moglie ». Le sue labbra non erano ancora tornate al posto, che don Abbondio, lasciando cader la carta, aveva già afferrata e alzata, con la mancina, la lucerna, ghermito, con la diritta, il tappeto del tavolino, e tiratolo a sé, con furia, buttando in terra libro, carta, calamaio e polverino; e, balzando tra la seggiola e il tavolino, s’era avvicinato a Lucia.
La poveretta, con quella sua voce soave, e allora tutta tremante, aveva appena potuto proferire: «e questo... » che don Abbondio le aveva buttato sgarbatamente il tappeto sulla testa e sul viso, per impedirle di pronunziare intera la formola. E subito, lasciata cader la lucerna che teneva nell’altra ma-
no, s’aiutò anche con quella a imbacuccarla col tappeto, che quasi la soffogava; e intanto gridava quanto n’aveva in canna: « Perpetua! Perpetua! tradimento! aiuto! » Il lucignolo, che motiva sul pavimento, mandava una luce 135
languida e saltellante sopra Lucia, la quale, affatto smarrita, non tentava neppure di svolgersi, e poteva parere una statua abbozzata in creta, sulla quale l’artefice ha gettato un umido panno. Cessata ogni luce, don Abbondio lasciò
la poveretta, e andò cercando a tastoni l’uscio che metteva a una stanza più
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interna; lo trovò, entrò in quella, si chiuse dentro, gridando tuttavia: « Perpetua! tradimento! aiuto! fuori di questa casa! fuori di questa casa! » Nell’altra stanza, tutto era confusione: Renzo, -cercando di fermare il curato, e remando con le mani, come se facesse a mosca cieca, era arrivato all’uscio, e picchiava, gridando: « apra, apra; non faccia schiamazzo. » Lucia chiamava Renzo, con voce fioca, e diceva, pregando: « andiamo, andiamo, per l’amor di Dio ». Tonio, carpone, andava spazzando con le mani il pavimento, per veder di raccapezzare la sua ricevuta. Gervaso, spiritato, gridava e saltellava,
cercando l’uscio di scala, per uscire a salvamento. In mezzo
a questo serra serra, non possiam lasciar di fermarci un mo-
mento a fare una riflessione. Renzo, che strepitava di notte in casa altrui, che « languida i e saltellante » che sta per mori120-121. vide..., vide..., si spaventò, si sture. E Lucia sgomenta, « affatto smarrita », pì...: questa nuova serie di azioni e di verin un mondo che non può essere il suo, bi si ricollega ironicamente alla prima, quanresta muta e immobile, fissata nei nostri do con tanta flemmatica meticolosità don occhi attraverso l’originale similitudine delAbbondio « prese l’involtino, cavò le berlinla «statua abbozzata di creta» su cui è secalma la Ora ». voltò... le contò, le ghe, gettato un umido panno. Quella immobilità rena è scomparsa d’un colpo: tutto è agitadi statua e quella voce fioca e supplichevole zione, furia, terrore. creano davvero, come è stato ben detto, 127. polverino: vasetto contenente sab. quasi « un’isola di più raccolta intimità » in sullo gettava si forellini alcuni bia, che da mezzo a tanto agitarsi tumultuoso e grottescritto per asciugarlo. sco. — Gli scultori avvolgono con stracci 129-130. le aveva buttato... il tappeto...: la paura rende deciso e aggressivo don Ab- umidi le statue di creta che stanno sbozzando, perché non si secchino e si screpolino. bondio, delle cui mosse era stata facile in141-146. Renzo... Lucia... Tonio... Gervadovina Agnese quando aveva detto: « ...benso: ognuno agisce in perfetta coerenza coi à diventer ... ché sia pesante di sua natura, suoi interessi e col suo carattere. E in quei diail come scapperà e gatto, un come lesto gesti e in quelle loro parole traspaiono tutscena La volo dall’acqua santa » (Cap. VI). te le capacità drammatiche, che il M., più di comico realismo un con ntata è rapprese ancora che nelle opere teatrali vere e proeccezionale evidenza. 134-137. Il lucignolo... umido panno: è prie, riesce ad esplicare al massimo proprio qui, nel romanzo. il momento più intenso del dramma, quando 149. fare una riflessione: per la stessa raluce quella anche Lucia, tutto converge su
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vi s'era introdotto di soppiatto, e teneva il padrone stesso assediato in una
stanza, ha tutta l'apparenza d’un oppressore; eppure, alla fin de’ fatti, era l’oppresso. Don Abbondio, sorpreso, messo in fuga, spaventato, mentre NE tendeva tranquillamente a’ fatti suoi, parrebbe la vittima; eppure, in realta, era lui che faceva un sopruso. Così va spesso il mondo... voglio dire, così no: steel andava nel secolo decimo settimo. aprì una ritirarsi, di segno dava non L’assediato, vedendo che il nemico « aiuto! gridare: a diede si e finestra che guardava sulla piazza della chiesa, fuori in più aiuto! » Era il più bel chiaro di luna; l'ombra della chiesa,e l’ombra lunga ed acuta del campanile, si stendeva bruna e spiccata sul piano erboso e lucente della piazza: ogni oggetto si poteva distinguere, quasi come di giorno. Ma, fin dove arrivava lo sguardo, non appariva indizio di persona vivente. Contiguo però al muro laterale della chiesa, e appunto dal lato che rispondeva verso la casa parrocchiale, era un piccolo abituro, un bugigattolo, dove dormiva il sagrestano. Fu questo riscosso da quel disordinato grido, fece un salto, scese il letto in furia, aprì l’impannata d’una sua finestrina, mise fuori la testa, con gli occhi tra’ peli, e disse: « cosa c’è? » « Correte, Ambrogio! aiuto! gente in casa, » gridò verso lui don Abbondio. « Vengo subito, » rispose quello; tirò indietro la testa, richiuse la sua impannata, e, quantunque
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mezzo
tra ’l sonno, e più che mezzo
sbigottito,
trovò su due piedi un espediente per dar più aiuto di quello che gli si chiegione per cui nelle tragedie il M. aveva inventato i cori, come i « cantucci » da cui poter liberamente intervenire a valutare uomini e fatti, nel romanzo si è create queste zone di più aperto intervento da osservatore e da critico. Di solito questo suo uscire, per così dire, sul palcoscenico, ha luogo quando l’azione è giunta al culmine, sicché la riflessione, oltre ad esporre una valutazione od un pensiero morale, ha l’ufficio di riportare il racconto in un tono mediano e meno intenso. Talvolta, come qui, in queste riflessioni c'è tanta grazia maliziosa e satirica; e nella finale la puntura più acuta: « ... voglio dire, così andava nel secolo decimo settimo ». 158. Era il più bel chiaro di luna: è facile sentire la bellezza di questo scorcio lunare, e tornare con la mente ad alcune simili immagini leopardiane, come « Dolce e chiara è la notte e senza vento... » (La sera
del dì di festa). Ma nel M. il quadro paesistico non va mai visto a sé o legato esclusivamente al proprio mondo interiore, sibbene calato nella realtà storica ed umana di tutto il racconto; e i passi descrittivi, sia quelli ampi (ma rari, che abbiamo altre volte incontrati), sia quelli sobri e fugaci (sparsi qua e là per il romanzo, come quello che abbiamo davanti) riflettono sempre altrettanti stati d’animo, e divengono abbandoni lirici, in cui l’autore rivivé ed esprime da poeta l'emozione dei suoi personaggi. 164. quel disordinato grido: l’ironico ag,
gettivo, dice bene quanto... disordine venga a portare d’un tratto il grido del curato nella grande pace della notte. 165. impannata: finestra da povera casa, fatta di tela o carta, invece di vetro. - 166. con gli occhi tra’ peli: espressione tipicamente toscana e fiorentina; rende a meraviglia lo stato del primo vedere e capire dopo un brusco risveglio, quasi le palpebre durassero fatica a staccarsi le une dalle altre. Non ci sembrerebbe perciò da prefe: rire, come fa qualcuno, l’espressione dell’edizione ventisettana, «con le palpebre incollate tuttavia », che, a nostro parere, è pesante e impacciata. 168-174. Vengo subito... e suona a martello: è una delle scene più vivaci e più ricche di comicità non solo di questo capitolo (che pure ha tanti spunti comici) ma di tutto il romanzo. Ci senti lo spasso dell’artista, felice d’aver fatto centro nel sorprendere il suo personaggio con le «brache» a quel modo: l’« arnese » che non scorderemo mai più. Ma nel comportamento del sagrestano potremmo osservare anche qualcosa di meno gioioso: la preoccupazione egoista di non correre rischi e di togliersi dai guai nella maniera più sbrigativa possibile. Sotto questo aspetto Ambrogio non è che uno dei tanti individui che in questa agitatissima notte
(come in ogni giorno della vita!) si
muovono indaffarati sotto passioni diverse, ma accomunati dalla paura di rimetterci sempre qualcosa di proprio.
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deva, senza mettersi lui nel tafferuglio, quale si fosse. Dà di piglio alle brache, che teneva sul letto; se le caccia sotto il braccio, come un cappello di 175
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gala, e giù balzelloni per una scaletta di legno; corre al campanile, afferra la corda della più grossa di due campanette che c’erano, e suona a martello. Ton, ton, ton, ton: i contadini balzano a sedere sul letto; i giovinetti sdraiati sul fenile, tendon l’orecchio, si rizzano. « Cos'è? Cos'è? Campana a martello! fuoco? ladri? banditi? » Molte donne consigliano, pregano i mariti, «di non moversi, di lasciar correre gli altri: alcuni s’alzano, e vanno alla finestra: i poltroni, come se si arrendessero alle preghiere, ritornan sotto: i più curiosi e più bravi scendono a prender le forche e gli schioppi, per correre al rumore: altri stanno a vedere. Ma, prima che quelli fossero all’ordine, prima anzi che fosser ben desti, il rumore era giunto agli orecchi d’altre persone che vegliavano, non lontano, ritte e vestite: i bravi in un luogo, Agnese e Perpetua in un altro. Diremo prima brevemente ciò che facesser coloro, dal momento in cui gli abbiamo lasciati, parte nel casolare e parte all’osteria. Questi tre, quando videro tutti gli usci chiusi e la strada deserta, uscirono in fretta, come se si fossero avvisti d’aver fatto tardi, e dicendo di voler andar subito a casa; diedero una giravolta per il paese, per venire in chiaro se tutti eran ritirati; e in fatti, non incontrarono anima vivente, né sentirono il più piccolo strepito. Passarono anche, pian piano, davanti alla nostra povera casetta: la più quieta
di tutte, giacché non c’era più nessuno. Andarono allora diviato al casolare, e fecero la loro relazione al signor Griso. Subito, questo si mise in testa un
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cappellaccio, sulle spalle un sanrocchino di tela incerata, sparso di conchiglie; prese un bordone da pellegrino, disse: « andiamo da bravi: zitti, e attenti agli ordini », s'incamminò il primo, gli altri dietro; e, in un momento, per le vie del borgo. Fin d’ota ci appare la 175. Ton, ton, ton, ton: è un #or ton capacità psicologica del M. nel saper distinche determina un fuggi fuggi da tutte le parguere i vari impulsi che determinano il comti del paesetto mezzo addormentato: i braportamento degli uomini: per i quali, spesso, vi dalla casa di Lucia, gli sposi rimasti pronon sono indifferenti, anzi sono utilissime, messi dalla canonica, Agnese e Perpetua dalle parole ... delle donne. Avremo più avanti Ambrointanto e mano...; fuori stradetta la occasione di osservare ben altre folle e ben gio continua a suonare con le brache chi sa altri interessi; ma al fondo di tutte e di dove...; e i contadini balzano dai letti o tutti ci sarà quasi sempre l'egoismo umano, dai fienili... In tutti questi quadri vivacissirivestito delle fogge più diverse. mi c’è una così straordinaria accumulazione 191. alla nostra povera casetta...: com'è di comico, che poco ci sentiamo di condiaffettuosa l’espressione! Ma subito tien diepagiqueste critica chi di videre l'opinione tro un malizioso sorriso: perché il M., fin ne come mancanti di « simultaneità ideale ». Ammesso che tale difetto ci sia, e che ci d’ora, e prima dello scorno finale, pensa a mettere alla berlina tutta la tresca dei siano passaggi piuttosto « prosastici » (come * bravi col loro «signor Griso ». facesche ciò te « Diremo prima brevemen 192. diviato: difilato, di corsa. sero costoro... »; « Lasciamoli andare e tor194. sanrocchino: è un mantello piuttoniamo un passo indietro a prendere Agnesto corto, fatto apposta per coprire le spaloccaaltre in mentre ..»), Perpetua. e se le, e tipico dei pellegrini: il suo nome vesioni il M. apparirà più sicuro dominatore niva, appunto, da San Rocco, il loro prodi scene molteplici (per esempio, nella detettore. Anche i particolari del sanrocchino scrizione dei tumulti di Milano: capp. XII usato dal Griso, « tela incerata », « sparso di negargli possiamo qui e XIII), neppure essere padrone sapiente e brioso di tutte le di conchiglie », come poi il bordone (lungo bastone con manico ricurvo), sono tutti sefila del racconto. gni caratteristici dei pellegrini che andavano 175-181. i contadini... a vedere: è il prioltremare, in Terrasanta. La sa lunga, il nopaese, di folla mo spettacolo della piccola stro mascalzone! Cfr. Cap. XI, n. 33. che più tardi seguiremo meglio in azione
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atrivarono alla casetta, per una strada opposta a quella per cui se n’era allontanata la nostra brigatella, andando anch’essa alla sua spedizione. Il Griso trattenne la truppa, alcuni passi lontano, andò innanzi solo ad esplorare, e, visto tutto deserto e tranquillo di fuori, fece venire avanti due di quei tristi, diede loro ordine di scalar adagino il muro che chiudeva il cortiletto, e, calati dentro, nascondersi in un angolo, dietro un folto fico, sul quale aveva messo l’occhio, la mattina. Ciò fatto, picchiò pian piano, con intenzione di dirsi un pellegrino smarrito, che chiedeva ricovero, fino a giorno. Nessun risponde: ripicchia un po’ più forte; nemmeno uno zitto. Allora, va a chiamare un terzo malandrino, lo fa scendere nel cortiletto, come gli altri due, con l’ordine di sconficcare adagio il paletto, per aver libero l'ingresso e la ritirata. Tutto s’eseguisce con gran cautela, e con prospero successo. Va a chiamar gli altri, li fa entrar con sé, li manda a nascondersi accanto ai primi; accosta
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adagio adagio l’uscio di strada, vi posta due sentinelle di dentro; e va diritto all’uscio del terreno. Picchia anche lì, e aspetta: e’ poteva ben aspettare. Sconficca pian pianissimo anche quell’uscio: nessuno di dentro dice: chi va là» nessuno si fa sentire: meglio non può andare. Avanti dunque: «st», chiama quei del fico, entra con loro nella stanza terrena, dove, la mattina, aveva scelleratamente accattato quel pezzo di pane. Cava fuori esca, pietra, acciarino e zolfanelli, accende un suo lanternino, entra nell’altra stanza più terna, per accertarsi che nessun ci sia: non c’è nessuno. Torna indietro, va l’uscio di scala, guarda, porge l’orecchio: solitudine e silenzio. Lascia due tre sentinelle a terreno, si fa venir dietro il Grignapoco, ch’era un bravo
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contado di Bergamo, il quale solo doveva minacciare, acchetare, comandare, essere in somma il dicitore, affinché il suo linguaggio potesse far credere ad Agnese che la spedizione veniva da quella parte. Con costui al fianco, e gli 198. anch’essa alla sua spedizione: non manca mai l’umano sorriso del poeta; il quale, del resto, già ci sembra pensare alla conclusione morale di tutto questo intrigo di avventure, cioè il fallimento delle due imprese, ambedue violente ed illecite: anche se — com’è chiaro — tanto diverse l’una dall’altra per colpevolezza. 198-199. Il Griso trattenne...: da qui, per due pagine, assistiamo all'impresa dei bravi venuti a rapire Lucia. Ma Lucia non c’è; anzi, non c'è nessuno in quella casa. Una casa, ricordiamo, che è in fondo al paese, sola; ed ora vuota, silenziosa nel gran silenzio della notte stellata. Così proprio l’« orchestrazione del silenzio » è il motivo poetico di queste pagine, scritte dal M., com’è stato ben detto, « con l'orecchio della mente fisso ad un motivo musicale ». Si sente benissimo l’intensità di quelle, pet così dire, note mute: « picchiò pian piano», «accosta adagic adagio », «sconficca pian pianissimo », «porge l’orecchio: solitudine e silenzio », « sale adagio adagio »: e tante altre ancota, in mezzo alle quali magistral-
mente si inseriscono alcune di leggero rumore. Ma anche queste, non che interrompere la grande cappa di silenzio, la tendono
più vasta e misteriosa: « picchiò », « ripicchia un po’ più forte», « ’st’, chiama quei del fico», «ogni scalino che scricchiolasSE... ». 219. Grignapoco: poi sapremo i nomi di altri bravi: Sfregiato, Tiradritto, Tanabuso, Montanarolo. Ci pare d’essere un po’ come Dante, quando ha vicino a sé Libicocco, Cagnazzo, Graffiacane, Calcabrina, Malacoda e compagni: cioè i diavoli neri di una certa bolgia infernale. Il M. fu attentissimo nella ricerca dei nomi per i suoi personaggi, come avremo modo di osservare altre volte. Riguardo al nome da dare a questo bravo bergamasco, scrisse un giorno all’amico Tommaso Grossi (che incontreremo citato più avanti: Cap. XI, n. 318): « Quanto al soprannome del bravo bergamasco, sappi che non ti lascio requiare fin che non ne hai trovato uno a mio talento. Nessuno dei proposti è buono. Ella si ingegni. Voglio o una. parola indicante qualche qualità fisica notabile che non sia però parola ingiuriosa, o una parola di giuramento, però decente, o un aggiunto di qualità morale, etc. Io ho dovuto inventarne due, e sono lo Sfregiato, e il Tira-dritto. Così s’inventano i soprannomi ».
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altri dietro, il Griso sale adagio adagio, bestemmiando in cuor suo ogni scalino che scricchiolasse, ogni passo di que’ mascalzoni che facesse. rumore. #25 Finalmente è in cima. Qui giace la lepre. Spinge mollemente l’uscio che mette alla prima stanza; l’uscio cede, si fa spiraglio: vi mette l’occhio; è buio: vi mette l’orecchio, per sentite se qualcheduno russa, fiata, brulica là dentro; niente. Dunque avanti: si mette la lanterna davanti al viso, per vedere, senza esser veduto, spalanca l’uscio, vede un letto; addosso: il letto è fatto e spia230 nato, con la rimboccatura artovesciata, e composta sul capezzale. Si stringe nelle spalle, si volta alla compagnia, accenna loro che va a vedere nell’altra stanza, e che gli vengan dietro piano piano; entra, fa le stesse cerimonie, trova la stessa cosa. « Che*diavolo è questo? » dice allora: « che qualche cane traditore abbia fatto la spia? » Si metton tutti, con men cautela, a guardare, 235 a tastare per ogni canto, buttan sottosopra la casa. Mentre costoro sono in tali faccende, i due che fan la guardia all’uscio di strada, sentono un calpestìo di passini frettolosi, che s’avvicinano in fretta; s'immaginano che, chiunque sia, passerà diritto; stan quieti, e, a buon conto, si mettono all’erta. In 240
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fatti, il calpestìo si ferma appunto all’uscio. Eta Menico che veniva di corsa, mandato dal padre Cristoforo ad avvisar le due donne che, per l’amor del cielo, scappassero subito di casa, e si rifugiassero al convento, perché... il perché lo sapete. Prende la maniglia del paletto, per picchiare, e se lo sente tentennare in mano, schiodato e sconficcato. — Che è questo? — pensa; e spinge l’uscio con paura: quello s’apre. Menico mette il piede dentro, in gran sospetto, e si sente a un punto acchiappat per le braccia, e due voci sommesse, a destra e a sinistra, che dicono, in tono minaccioso: « zitto! o sei morto ». Lui in vece caccia un urlo: uno di que’ malandrini gli mette una mano alla bocca; l’altro tira fuori un coltellaccio, per fargli paura. Il garzoncello trema come una foglia, e non tenta neppur di gridare; ma, tutt’a un tratto, in vece di lui, e con ben altro tono, si fa sentir quel primo tocco di campana così fatto, e dietro una tempesta di rintocchi in fila. Chi è in difetto è in sospetto, dice il proverbio milanese: all’uno e all’altro furfante parve di sentire in que’ tocchi il suo nome, cognome e soprannome: lasciano andar le braccia di Menico, ritirano le loro in furia, spalancan la mano e la bocca, si guardano in viso, e corrono alla casa, dov’era il grosso della compagnia. Menico, via a gambe per la strada, alla volta del campanile, dove a
buon conto qualcheduno ci doveva essere. Agli altri furfanti che frugavan la casa, dall’alto al basso, il terribile tocco fece la stessa impressione: si conluoghi, c'è chi vede in questa |espressione 225. Qui giace la lepre: evidente il realicerta ‘sferzatina’ del M. ai suoi conuna senti quale nel pensiero, smo volgare del cittadini: verrebbe a dire, infatti, che quel pregustata la soddisfazione della cattura. proverbio si addice in modo speciale alla Più amara sarà, perciò, la constatazione gente di Milano. del fallimento. 254-255. spalancan la mano e la bocca...: 237. passini frettolosi... in fretta: l’allitterazione (più che ripetizione, perché fret- guardateli gli eroi, sembra dirci lo scrittore, come sono ridotti: e in questo stato li ha tolosi può significare fitti) ricrea il motivo ridotti il suono di una campana! Ma anche ruquel da rigato silenzio, del musicale gli « altri furfanti », in fatto di paura, non more sottile: il « calpestio di passini ». Col sono da meno; tanto che qualcuno ha creritorno di Menico, ricompare l’intima parteduto di poter definire questo ottavo cacipazione del poeta alle pene dei suoi perpitolo, il capitolo delle paure: di Lucia, di sonaggi; qui al terrore del ragazzetto. don Abbondio, di Agnese, di Menico, dei 252. dice il proverbio milanese: siccome borghigiani e... dei bravi: di tutti, insomma. altri di proverbi i però lo dicono anche
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fondono, si scompigliano, s’urtano a vicenda: ognuno cerca la strada più cor-
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ta, per arrivare all’uscio. Eppure era tutta gente provata e avvezza a mo-
strare il viso; ma non poterono star saldi contro un pericolo indeterminato,
e che non s'era fatto vedere un po’ da lontano, prima di venir loro addosso. Ci volle tutta la superiorità del Griso a tenerli insieme, tanto che fosse ritirata e non fuga. Come il cane che scorta una mandra di porci, corre or qua
ot là a quei che si sbandano; ne addenta uno per un orecchio, e lo tira in
ischiera; ne spinge un altro col muso; abbaia a un altro che esce di fila in
quel momento; così il pellegrino acciuffa un di coloro, che già toccava la so-
glia, e lo strappa indietro; caccia indietro col bordone uno e un altro che
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s'avviavan da quella patte: grida agli altri che corron qua e là, senza saper dove; tanto che li raccozzò tutti: nel mezzo del cortiletto. « Presto, presto!
pistole in mano, coltelli in pronto, tutti insieme; e poi anderemo: così si va. Chi volete che ci tocchi, se stiam ben insieme, sciocconi? Ma, se ci lasciamo
acchiappare a uno a uno, anche i villani ce ne daranno. Vergogna! Dietro a me, e uniti.» Dopo questa breve aringa, si mise alla fronte, e uscì il primo. La casa, come abbiam detto, era in fondo al villaggio; il Griso prese la strada che metteva fuori, e tutti gli andaron dietro in buon ordine. Lasciamoli andare, e torniamo un passo indietro a prendere Agnese e Perpetua, che abbiam lasciate in una certa stradetta. Agnese aveva procurato d’allontanar l’altra dalla casa di don Abbondio, il più che fosse possibile; e, fino a un certo punto, la cosa era andata bene. Ma tutt’a un tratto, la serva s'era ricordata dell’uscio rimasto aperto, e aveva voluto tornare indietro. Non c'era che ridire: Agnese, per non farle nascere qualche sospetto, aveva dovuto voltar con lei, e andarle dietro, cercando però di trattenerla, ogni volta che la vedesse riscaldata ben bene nel racconto di que’ tali matrimoni andati a monte. Mostrava di darle molta udienza, e, ogni tanto, per far vedere che
stava attenta, o per ravviare il cicalìo, diceva: « sicuro: adesso capisco: va benissimo: è ‘chiara e poi? e lui? e voi? » Ma intanto, faceva un altro discorso con sé stessa. — 290
Saranno usciti a quest'ora? o saranno ancor dentro?
Che sciocchi che siamo stati tutt'e tre, a non concertar qualche segnale, per avvisarmi, quando la cosa fosse riuscita! È stata proprio grossa! Ma è fatta: ora non c’è altro che tener costei a bada, più che posso: alla peggio, sarà
un po’ di tempo perduto. — Così, a corserelle e a fermatine, erano tornate
poco distante dalla casa di don Abbondio, la quale però non vedevano, per ragione di quella cantonata: e Perpetua, trovandosi a un punto importante
264-270. Come il cane... cortiletto: il paragone iniziale è preciso (il Griso, arrab-
biato per l'insuccesso, va bene come care ringhioso e che azzanna; e così i bravi, balordi e sbandati, si comportano tali e quali altrettanti porci); ma il complesso della similitudine, pur bellissima in sé, ci appare
gnità dei furbi; la Provvidenza ci s'è messa di mezzo e ha fatto sì che l’azione non
del tutto onesta, ma umanamente giustificabile, della povera «brigata avventuriera» divenisse l'occasione di salvezza per i buoni, e specialmente per Lucia.
292. a corserelle e a fermatine: sono gli alquanto ricercato e tale da attenuare la scatti di Perpetua, che pensa alla porta drammaticità della scena. aperta e poi si lascia facilmente trattenere . 276. dietro in buon ordine: il drappello dalle chiacchiere lusingatrici di Agnese. Ma si è ricostituito e ha ripreso l’aspetto martutti i nostri discorsi esplicativi non dicon ziale: e ce ne sarebbe bisogno, se la camnulla della suggestione che nasce dai due pana suonasse per loro! — L’impresa dei diminutivi, che sono al centro della scena bravi si è risolta in un fallimento della mali- . comaresca.
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del racconto, s’era lasciata fermare senza fat resistenza, anzi senza avvedersene; quando, tutt’a un tratto, si sentì venir rimbombando dall’alto, nel vano immoto dell’aria, per l’ampio silenzio della notte, quel primo sgangherato grido di don Abbondio: « aiuto! aiuto! » « Misericordia! cos'è «stato? » gridò Perpetua, e volle correre. « Cosa c'è? cosa c'è? » disse Agnese, tenendola per la sottana. « Misericordia! non. avete sentito? » replicò quella, svincolandosi. « Cosa c’è? cosa c’è? » ripeté Agnese, afferrandola per un braccio. « Diavolo d’una donna! » esclamò Perpetua, rispingendola, per mettersi in libertà; e prese la rincorsa. Quando, più lontano, più acuto, più istantaneo, si sente l’urlo di Menico.. « Misericordia! » grida anche Agnese; e di galoppo dietro l’altra. Avevan quasi appena alzati i calcagni, quando scoccò la campana: un tocco, e due, e tre, e seguita: sarebbero stati sproni, se quelle ne avessero avuto bisogno. Perpetua arriva, un momento prima dell’altra; mentre vuole spinger l’uscio, l’uscio si spalanca di dentro, e sulla soglia compariscono Tonio, Gervaso, Renzo, Lucia, che, trovata la scala, eran venuti giù saltelloni; e, sentendo poi quel terribile scampanìo, correvano in furia, a mettersi in salvo. « Cosa c’è? cosa c'è? » domandò Perpetua ansante ai fratelli, che le risposero con un urtone, e scantonarono. « E voi! come! che fate qui voi? » domandò poscia all’altra coppia, quando l’ebbe raffigurata. Ma quelli pure usciron senza rispondere. Perpetua, per accorrere dove il bisogno era maggiore, non domandò altro, entrò in fretta nell’andito, e corse, come poteva al buio, verso la scala.
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I due sposi rimasti promessi si trovarono in faccia Agnese, che arrivava tutt’affannata. « Ah siete qui! » disse questa, cavando fuori la parola a stento: « com'è andata? cos'è la campana? mi par d’aver sentito... »
« A_ casa, a casa, » diceva Renzo, « prima che venga gente. » E s’avviavano; ma arriva Menico di corsa, li riconosce, li ferma, e, ancor tutto tre325
mante, con voce mezza fioca, dice: « dove andate? indietro, indietro! per di qua, al convento! » « Sei tu che...? » cominciava Agnese. « Cosa c'è d’altro? » domandava Renzo. Lucia, tutta smarrita, taceva e tremava.
296-298. rimbombando... grido...: questo grido «sgangherato » che « rimbombando dall’alto » squarcia «l'ampio silenzio della notte », sembra, tanto è brutto e cupo, una offesa alla grande pace della natura, prima ancora che alle orecchie degli uomini. 299-306. Misericordia!... Misericordia!: il Guerri, sempre attento alla rappresentazione di ogni elemento del romanzo, così presenta questo ultimo dialogo fra Agnese e Perpetua: « Sono sei battute, delle quali non ti fermerai ad ammirare il dialogo soltanto, perché le didascalie che lo accompagnano sono anche più belle. I gesti che esse segnano e seguono, sono più espressivi delle parole. Nelle prime cinque battute hai la disperazione di Perpetua tra la sollecitudine «
e l’impedimento, sicché essa invoca la Mi sericordia! due volte con diversa passione; e hai la statica di Agnese, che replica il suo Cosa c’è? cosa c’è?. Poi, alla sesta battuta, il grido improvviso di Menico dà l’identico moto di ansia ad Agnese. Identità e concomitanza che il capoverso successivo conferma, con lo scenario ch’esso mette ugualmente dinanzi alle due contendenti ». 319. I due sposi rimasti promessi: e così rimarranno per tanto tempo ancora. L'’espressione ha una nota melanconica ed anche un po’ ironica. Gli uomini, grandi e piccini — sembra dirci il M. — come s'illudono delle loro capacità! E non sanno niente delle vie della Provvidenza!
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« C'è il diavolo in casa, » riprese Menico ansante. « Gli ho visti io: m’han330
no voluto ammazzare:
l’ha detto il padre Cristoforo:
e anche voi, Renzo,
ha detto che veniate subito: e poi gli ho visti io: provvidenza che vi trovo i qui tutti! vi dirò poi, quando saremo fuori. »
Renzo, ch’era il più in sé di tutti, pensò che, di qua o di là, conveniva
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andar subito, prima che la gente accorresse; e che la più sicura era di far ciò che Menico consigliava, anzi comandava, con la forza d’uno spaventato. Per istrada poi, e fuor del pericolo, si potrebbe domandare al ragazzo una spiegazione più chiara. « Cammina avanti, » gli disse. « Andiam con lui, » disse alle donne. Voltarono, s'incamminarono in fretta verso la chiesa, attra-
versaron la piazza, dove per grazia del cielo, non c’era ancora anima vivente;
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entrarono in una stradetta che era tra la chiesa e la casa di don Abbondio;
al primo buco che videro in una siepe, dentro, e via per i campi. Non s’eran forse allontanati un cinquanta passi, quando la gente cominciò ad accorrere sulla piazza, e ingrossava ogni momento. Si guardavano in viso gli uni con gli altri: ognuno aveva una domanda da fare, nessuno una risposta da dare. I primi arrivati corsero alla porta della chiesa: era serrata. Corsero al campanile di fuori; e uno di quelli, messa la bocca a un finestrino, una specie di feritoia, cacciò dentro un: « che diavolo c’è? » Quando Ambrogio
sentì una voce conosciuta, lasciò andar la corda; e assicurato dal ronzìo, ch’era accorso molto popolo, rispose: « vengo ad aprire ». Si mise in fretta l’arnese
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che aveva portato sotto il braccio, venne, dalla parte di dentro, alla porta della chiesa, e l’aprì. « Cos'è tutto questo fracasso? — Cos'è? — Dov'è? — Chi è? » « Come, chi è? » disse Ambrogio, tenendo con una mano un battente della porta, e, con l’altra, il lembo di quel tale arnese, che s’era messo così in fretta: « come! non lo sapete? gente in casa del signor curato. Animo, figiuoli: aiuto.» Si voltan tutti a quella casa, vi s’avvicinano in folla, guardano in su, stanno in orecchi: tutto quieto. Altri corrono dalla parte dove c'era l’uscio: è chiuso, e non par che sia stato toccato. Guardano in su anche loro: non c’è una finestra aperta: non si sente uno zitto. « Chi è la dentro? — Ohe, oche! — Signor curato! — Signor curato! » Don Abbondio, il quale, appena accortosi della fuga degl’invasori, s’era ritirato dalla finestra, e l’aveva richiusa, e che in questo momento stava a bisticciar sottovoce con Perpetua, che l’aveva lasciato solo in quell’imbro-
329. C'è il diavolo in casa...
naturalissi-
ma, nel bambino atterrito ed ansante, questa trasfigurazione dell’incontro. Spontaneo è anche il modo con cui il motivo della Provvidenza si introduce nel discorso e nei fatti, facendoci riflettere come essa si è servita della piccola violenza tentata da Renzo, Agnese e Lucia proprio per salvare le donne dalla grossa violenza dei bravi, e far sì che Renzo fosse con esse nell’ora del pericolo e delle decisioni. E con questo senso del divino s’inizia, per loro, l’esilio. 349. larnese: le brache; ci resteranno indimenticabili insieme col personaggio, tanta è l’abilità con cui il M. ha saputo servir-
sene, presentandole prima sottobraccio, poi infilate, e quindi tenute per una mano,
perché sbottonate. 363. bisticciar sottovoce: potremmo dire, parafrasando il M.: don Abbondio si è destato don Abbondio. Finito il grande assalto e fuggiti gli assalitori, il curato, ormai al sicuro, ritorna l’uomo degli incubi e dei pericoli immaginari. Per lui, ora, il pericolo grosso è che il putiferio di quella notte si spanda fra le ciarle della gente e da lì arrivi alle orecchie di don Rodrigo. Per questo bisticcia « sottovoce », e infine, fattosi animo, dice la bella bugia: « Cattiva gente, gente che gira di notte... ».
capitolo VIII 365
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glio, dovette, quando si sentì chiamare a voce di popolo, venir di nuovo alla finestra; e visto quel gran soccorso, si pentì d’averlo chiesto. « Cos’è stato? — Che le hanno fatto? — Chi sono costoro? — Dove sono? » gli veniva gridato da cinquanta voci a un tratto. « Non c’è più nessuno:
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vi ringrazio:
tornate pure a casa. »
« Ma chi è stato? — Dove sono andati? —
Che è accaduto? »
« Cattiva gente, gente che gira. di notte; ma sono fuggiti: tornate a casa;
non c'è più niente:
un’altra volta, figlioli:
vi ringrazio del vostro buon
cuore. » E, detto questo, si ritirò, e chiuse la finestra. Qui alcuni comincia-
rono a brontolare, altri a canzonare, altri a sagrare; altri si stringevan nelle spalle, e se n’andavano: 375
quando arriva uno tutto trafelato, che stentava a
formar le parole. Stava costui di casa quasi dirimpetto alle nostre donne, ed essendosi, al rumore, affacciato alla finestra, aveva veduto nel cortiletto quello scompiglio de’ bravi, quando il Griso s’affannava a raccoglierli. Quand’eb-
be ripreso fiato, gridò: « che fate qui, figliuoli? non è qui il diavolo; è giù 380
in fondo alla strada, alla casa d’Agnese Mondella: gente armata; son dentro; par che vogliano ammazzare un pellegrino; chi sa che diavolo c’è! » « Che? —
gna andare. — sono? —
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Che? —
Che? » E comincia una consulta tumultuosa. « Biso-
Bisogna vedere. —
Il console!
Quanti sono? —
Quanti siamo? —
Chi
il console! »
« Son qui, » risponde il console, di mezzo alla folla: «son qui; ma bisogna aiutarmi, bisogna ubbidire. Presto: dov'è il sagrestano? Alla campana, alla campana. Presto: uno che corra a Lecco a cercar soccorso: venite qui tutti... » Chi accorre, chi sguizza tra uomo e uomo, e se la batte; il tumulto era grande, quando arriva un altro, che gli aveva veduti partire in fretta, e grida: « correte, figlioli: ladri, o banditi che scappano con un pellegrino: son già fuori del paese: addosso! addosso! ». A quest’avviso, senza aspettar gli ordini del capitano, si movono in massa, e giù alla rinfusa per la strada; di mano in mano che l’esercito s’avanza, qualcheduno di quei della vanguardia rallenta il passo, si lascia sopravanzare, ‘e si ficca nel corpo della battaglia: gli ultimi spingono innanzi: lo sciame confuso giunge finalmente al luogo indicato. Le tracce dell’invasione eran fresche e manifeste: l’uscio spalancato, la serratura sconficcata; ma gl’invasori erano spariti. S’entra nel cortile; si va alluscio del terreno: aperto e sconficcato anche quello: si chiama: « Agnese! Lucia! Il pellegrino! Dov'è il pellegrino? L’avrà sognato Stefano, il pellegrino. — No, no: l’ha visto anche Carlandrea. Ohe, pellegrino! — Agnese! Lucia! » Nessuno risponde. « Le hanno portate via! Le hanno portate via! ». Ci fu allora di quelli che, alzando la voce, proposero d’inseguire i rapitori: che era un’infamità; e sarebbe una vergogna per il paese, se ogni birbone potesse a man salva venire a portar via le donne, come il nibbio i pulcini da 378. non è qui il diavolo: il diavolo, dunque, l’ha visto anche lui, spirito trafelato e senza corpo. Uno dei tanti che formeranno, poi, l’« esercito » del villaggio. 383. Il console: il capo del comune; ma a tanto nome non corrispondevano né autorità né prestigio. E, quanto a coraggio, vediamo subito che questo console ne ha ben poco da vendere ai suoi uomini, perché la
sola cosa che sa fare è un chiedere aiuti da tutte le parti: come don Abbondio, come Ambrogio. 395. lo sciame confuso: è il tocco che forse meglio dipinge quella folla contadinesca. Già abbiamo accennato all’arte del M. nel rappresentare le folle; presto avremo l’occasione di riparlarne ben più a lungo e per quadri ben più vasti e complessi.
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sl seppe un’aia deserta. Nuova consulta e più tumultuosa: ma uno (e non e Lucia mai bene chi fosse stato) gettò nella brigata una voce, che Agnese e creottenn mente, rapida s'eran messe in salvo in una casa. La voce corse sparpasi brigata la denza; non si parlò più di dar la caccia ai fuggitivi; €
gliò, andando ognuno a casa sua. Era un bisbiglio, uno strepito, un picchiare donne e un aprir d’usci, un apparirè e uno sparir di lucerne, un interrogare di
dalle finestre, un rispondere dalla strada. Tornata questa deserta e silenziosa, i discorsi continuaron
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nelle case, e moriron
negli sbadigli, per ricominciar
poi la mattina. Fatti però, non ce ne fu altri; se non che, quella medesima mattina, il console, stando nel suo campo, col mento in una mano, e il gomito appoggiato sul manico della vanga mezza ficcata nel terreno, e con un piede sul vangile; stando, dico, a speculare tra sé sui misteri della notte passata, e sulla ragion composta di ciò che gli toccasse a fare, e di ciò che gli convenisse fare, vide venirsi incontro due uomini d’assai gagliarda presenza, chiomati come due re de’ Franchi della prima razza, e somigliantissimi nel resto a que’ due che cinque giorni prima avevano affrontato don Abbondio, se pur non eran que’ medesimi. Costoro, con un fare ancor men cerimonioso, intimarono al console che guardasse bene di non far deposizione al podestà dell'accaduto, di non rispondere il vero, caso che ne venisse interrogato, di
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non ciarlare, di non fomentar le ciarle de’ villani, per quanto aveva cara la speranza di morir di malattia. I nostri fuggiaschi camminarono un pezzo di buon trotto, in silenzio, voltandosi, ora l’uno ora l’altro, a guardare se nessuno gl’inseguiva, tutti in affanno per la fatica della fuga, per il batticuore e per la sospensione in cui erano stati, per il dolore della cattiva riuscita, per l’apprensione confusa del nuovo oscuro pericolo. E ancor più in affanno li teneva l’incalzare continuo di que’ rintocchi, i quali, quanto, per l’allontanarsi, venivan più fiochi e ottusi, tanto pareva che prendessero un non so che di più lugubre e sinistro. Finalmente cessarono. I fuggiaschi allora, trovandosi in un campo disabitato, e non sentendo un alito all’intorno, rallentarono il passo; e fu la prima Agnese che, ripreso fiato, ruppe il silenzio, domandando a Renzo com’era andata, doman405. uno: chi? un bravo travestito, oppure un favoreggiatore paesano di don Rodrigo, o, come pensano i più, uno della folla, che non aveva più voglia di far l’eroe notturno? È piuttosto difficile indovinarlo, anche perché il M. stesso ‘afferma che « non si seppe mai bene chi fosse stato »! 412... moriron negli sbadigli: così si acquieta e finisce, in rapide bellissime righe, tutta la lunga tempesta notturna. Votrà il M. ricordarci, così, una triste verità: che i dolori profondi sono soltanto di chi è personalmente colpito dalla disgrazia, e per tutti gli altri non sono che agitazione di un’ora, destinata a perdersi nelle ciance o scomparire nel sonno? 414-417. il console, stando... stando...: il discorso sottintende un che di polemico, perché in questo personaggio il M. vede uno dei tanti uomini {già conosciamo un don Abbondio, un Azzeccagarbugli, sun podestà, ecc.) che sanno bene quello che do-
vrebbero fare, ma che, per interesse o per paura, non lo fanno. Proprio in questo stava la «ragion composta »; cioè il calcolo complicato del nostro console, al quale sarebbe toccato di denunciare il fatto, ma conveniva non farne parola. 419. chiomati come due re de’ Franchi...: tutto può servire all’umorismo del M.: la pennellata della « gagliarda presenza », come la specificazione dei Franchi « della prima razza », quelli cioè dalle chiome più lun ghe. Proprio qual era Carlo Magno, che la trepida sposa osservava: «E sulle sciolte redini Chino il chiomato sir...» (Adelchi). Inutile dire che i due erano bravi di don Rodrigo. 426. I nostri fuggiaschi...: il racconto prende un tono nuovo: più lento, più sommesso, più elegiaco. È perché alla grande notte drammatica e comica dell’impresa e del tumulto, ora succede la grande notte dolorosa delle delusioni e dell’addio.
capitolo VIII
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dando a Menico cosa fosse quel diavolo in casa. Renzo raccontò brevemente la sua trista storia; e tutt’e tre si voltarono al fanciullo, il quale riferì più espressamente l’avviso del padre, e raccontò quello ch’egli stesso aveva veduto e rischiato, e che pur troppo confermava l’avviso. Gli ascoltatori com-
presero più di quel che Menico avesse saputo dire: a quella scoperta, si sen-
tiron rabbrividire; si fermaron tutt'e tre a un tratto, si guardarono in viso l'un con l’altro, spaventati; e subito, con un movimento unanime, tutt’e tre
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posero una mano, chi sul capo, chi sulle spalle del ragazzo, come per accarezzarlo, per ringraziarlo tacitamente che fosse stato per loro un angelo tutelare,
per dimostrargli la compassione che sentivano dell’angoscia da lui sofferta, e del pericolo corso per la loro salvezza; e quasi per chiedergliene scusa. « Ora torna a casa, perché i tuoi non abbiano a star più in pena per te, » gli disse Agnese; e rammentandosi delle due parpagliole promesse, se ne levò quattro di tasca, e gliele diede, aggiungendo: « basta; prega il Signore che ci rivediamo presto: e allora... » Renzo gli diede una berlinga nuova, e gli raccomandò molto di non dir nulla della commissione avuta dal frate; Lucia l’accarezzò di nuovo, lo salutò con voce accorata; il ragazzo li salutò tutti, intenerito; e tornò indietro. Quelli ripresero la loro strada, tutti pensierosi; le donne in-
nanzi, e Renzo dietro, come per guardia. Lucia stava stretta al braccio della 455
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madre, e scansava dolcemente, e con destrezza, l’aiuto che il giovine le offriva ne’ passi malagevoli di quel viaggio fuor di strada; vergognosa in sé, anche in un tale turbamento, d’esser già stata tanto sola con lui, e tanto fa-
migliarmente, quando s’aspettava di divenir sua moglie, tra pochi momenti. Ora, svanito così dolorosamente quel sogno, si pentiva d’esser andata troppo avanti, e, tra tante cagioni di tremare, tremava anche per quel pudore che non nasce dalla trista scienza del male, per quel pudore che ignora sé stesso, somigliante alla paura del fanciullo, che trema nelle tenebre, senza saper di che. « E la casa? » disse a un
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tratto Agnese. Ma, per quanto
la domanda
fosse importante, nessuno rispose, perché nessuno poteva darle una risposta soddisfacente. Continuarono in silenzio la loro strada, e poco dopo, sboccarono finalmente sulla piazzetta davanti alla chiesa del convento. Renzo s’affacciò alla porta, e la sospinse bel bello. La porta di fatto 444. angelo tutelare: aleggia intorno al fanciullo l’animo buono e religioso dei tre fuggiaschi, che vedono in lui quasi l’angelo mandato da Dio a salvarli. La scena è una delle più intense di commozione profonda e raccolta. 451-452. Lucia l’accarezzò di nuovo, lo salutò...: Agnese dà a Menico quattro parpagliole, Renzo una berlinga; Lucia, che non ha niente altro che un cuore sensibilissimo e dolce, una carezza di più: ed è l’ultima, lei, a staccarsi dal ragazzo. 460. tremava anche per quel pudore: non bisogna accusare Lucia, come qualcuno con superficiale sufficienza suole accusarla, di fare la ragazza smotfiosa. A parte la riservatezza di costume che nel Seicento era diffusa nelle campagne lombarde, si deve tener presente che Lucia è una creatura che il
poeta, pur ancorandola alla realtà della vita, ha voluto forgiare con una squisitezza di sentimenti non comuni, come già abbiamo più volte veduto. La fine del periodo accresce l’immagine vereconda della ragazza con la gentilezza della similitudine del fanciullo e con la cadenza musicale delle ultime parole: due versi perfetti, un settenario sdrucciolo, « che trema nelle tenebre », ed un tronco, «senza saper di che ». 464. E la casa?: la domanda concreta è naturale che venga dal personaggio più pratico e meno idealista dei tre. Quel tenue sorriso che l’uscita, sgorgando così improvvisa, suscita lì per lì, si smorza subito al pensiero della sventura di questi poveretti che d’improvviso stanno per perdere tutto. 468. bel bello: questo bel bello non ha l’evidenza poetica del primo; quello di don
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la faccia pallida, e la s'aprì; e la luna, entrando per lo spiraglio, illuminò ritto in aspettativa. Vibarba d’argento del padre Cristoforo, che stava quivi » disse, e fece lor cenno sto che non ci mancava nessuno, « Dio sia benedetto! era il laico sagre-
cino; ed ch’entrassero. Accanto a lui, stava un altro cappuc so a vegliar con lui, stano, ch’egli, con preghiere e con ragioni, aveva persua accogliere que’ poa lasciar socchiusa la porta, e a starci in sentinella, per à del padre, della sua veri minacciati: e non si richiedeva meno dell’autorit losa
oda, perico fama di santo, per ottener dal laico una condiscendenza incom porta adagio la stò e irregolare. Entrati che furono, il padre Cristoforo riacco padre da una adagio. Allora il sagrestano non poté più reggere, e, chiamato il di notte... in parte, gli andava susurrando all’orecchio: « ma padre, padre! nava la techiesa... con donne... chiudere... la regola... ma padre! » E tenten — penpoco! un sta. Mentre diceva stentatamente quelle parole, — vedete fra Fazio non sava il padre Cristoforo, — se fosse un masnadiero inseguito, dagli gli farebbe una difficoltà al mondo; e una poverta innocente, che scappa tutt’a dosi voltan poi, disse » , mundis artigli del lupo... — « Omnia munda Ma latino. il eva intend un tratto a fra Fazio, e dimenticando che questo non fosse si padre il Se una tale dimenticanza fu appunto quella che fece l’effetto. messo a questionare con ragioni, a fra Fazio non sarebber mancate altre ragioni da opporre; e sa il cielo quando e come la cosa sarebbe finita. Ma, al sentir quelle parole gravide d’un senso misterioso, e proferite così risolutamente, gli parve che in quelle dovesse contenersi la soluzione di tutti i suoi dubbi. S’acquietò, e disse: « basta! lei ne sa più di me ». « Fidatevi pure, » rispose il padre Cristoforo; e, all’incerto chiarore della lampada che ardeva davanti all’altare, s’accostò ai ricoverati, i quali stavano sospesi aspettando, e disse loro: «figliuoli! ringraziate il Signore, che v’ha scampati da un gran pericolo. Forse in questo momento...! » E qui si mise a spiegare ciò che aveva fatto accennare dal piccol messo: giacché non sospettava ch’essi ne sapesser più di lui, e supponeva che Menico gli avesse trovati tranquilli in casa, prima che arrivassero i malandrini. Nessuno lo disingannò, nemmeno Lucia, la quale però sentiva un rimorso segreto d’una tale dissimulazione, con un tal uomo; ma era la notte degl’imbrogli e de’
sotterfugi. Abbondio che tornava dalla passeggiata vespertina (Cap. I). Qui vale piano piano. Di bel bello non ne compariranno più, nel romanzo. 469-470. la luna... padre Cristoforo: bene il Lipparini: « Questo lume di luna sulla faccia del frate è come una queta aureola di santità ». Per naturale contrasto, la mente torna a quel lume di lucerna che prima aveva rischiarato la faccia tozza di don Abbondio; in ogni caso senti l’evidenza ritrattistica del M., che sempre dai lineamenti fisici fa comparire il segreto dell’animo. 472. laico: cioè non sacerdote; come vedemmo per fra Galdino. I /aici erano addetti ai servizi più semplici e la loro cul“tura, evidentemente, era molto limitata. 476-477. incomoda, pericolosa e irregolare: incomoda perché doveva vegliare; pe-
ricolosa perché lo esponeva ai rimproveri dei superiori e, forse, alle vendette di don Rodrigo; irregolare perché contro la regola che vietava l’ingresso di donne nel convento di notte. 484. Omnia munda mundis: ‘tutto è puro per i puri’; sono parole di S. Paolo nella lettera a Tito (I, 15). 500-501. .la notte degl’imbrogli‘e de’ sot-
terfugi: la definizione si addice perfettamente alla gran confusione di questa arruf-
fata notte di villaggio, ma nel pensiero dello scrittore ha anche il valore di una giustificazione del comportamento di Lucia: « nemmeno Lucia », aveva detto prima. Eppure quel silenzio di Lucia non va inteso davvero come un suo sotterfugio; esso è determinato, anzi, da delicatezza nei confronti di padre Cristoforo, della madre e di Renzo.
capitolo VIII
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« Dopo di ciò, » continuò egli, « vedete bene, figliuoli, che ora questo paese non è sicuro per voi. È il vostro; ci siete nati; non avete fatto male a
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nessuno; ma Dio vuol così. È una prova, figliuoli: sopportatela con pazienza, con fiducia, senza odio, e siate sicuri che verrà un tempo in cui vi troverete contenti di ciò che ora accade. Io ho pensato a trovarvi un rifugio, per que-
sti primi momenti. Presto, io spero, potrete ritornar sicuri a casa vostra; a
ogni modo, Dio vi provvederà, per il vostro meglio; e io certo mi studierò di non mancare alla grazia che mi fa, scegliendomi per suo ministro, nel ser510 vizio di voi suoi poveri cati tribolati. Voi, » continuò volgendosi alle due donne, « potrete fermarvi a ***. Là sarete abbastanza fuori d’ogni pericolo, e, nello stesso tempo, non troppo lontane da casa vostra. Cercate del nostro convento, fate chiamare il padre guardiano, dategli questa lettera: sarà pet voi un altro fra Cristoforo. E anche tu, il mio Renzo, anche tu devi metterti, 515 per ora, in salvo dalla rabbia degli altri, e dalla tua. Porta questa lettera al padre Bonaventura da Lodi, nel nostro convento di Porta Orientale in Milano. Egli ti farà da padre, ti guiderà, ti troverà del lavoro, per fin che tu non possa tornare a viver qui tranquillamente. Andate alla riva del lago, vicino allo sbocco del Bione. » È un torrente a pochi passi da Pescarenico. 520 « Lì vedrete un battello fermo; direte: barca; vi sarà domandato per chi; risponderete: san Francesco. La barca vi riceverà, vi trasporterà all’altra riva, dove troverete un baroccio che vi condurrà addirittura fino a ***.» 525
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Chi domandasse come fra Cristoforo avesse così subito a sua disposizione que’ mezzi di trasporto, pet acqua e per terra, farebbe vedere di non conoscere qual fosse il potere d’un cappuccino tenuto in concetto di santo. Restava da pensare alla custodia delle case. Il padre ne ricevette le chiavi, incaricandosi di consegnarle a quelli che Renzo e Agnese gl’indicarono. Quest’ultima, levandosi di tasca la sua, mise un gran sospiro, pensando che, in quel momento, la casa era aperta, che c’era stato il diavolo, e chi sa cosa ci rimaneva da custodire! « Prima che partiate, » disse il padre, « preghiamo tutti insieme il Signore perché sia con voi, in codesto viaggio, e sempre; e sopra tutto vi dia forza, vi dia amore di volere ciò ch’Egli ha voluto. » Così dicendo s’inginocchiò nel mezzo della chiesa; e tutti fecer lo stesso. Dopo ch’ebbero pregato, alcuni momenti, in silenzio, il padre, con voce sommessa, ma distinta, articolò queste parole: 505-506. verrà un tempo... ora accade: è questa la parte centrale del discorso di fra Cristoforo, ed insieme l’espressione mode- sta, ma decisa, di quel motivo di fondo della visione cristiana e manzoniana della vita, che si suol chiamare la « provvida sventura » (Adelchi): il dolore, cioè, sentito come mezzo di bene e di gioia infiniti, quando sia sopportato «con pazienza, con fiducia, senza odio ». È in questi momenti, d’altra parte, che padre Cristoforo ci appare davvero come l’uomo di Dio, perché vivendo tutta la sua vita nella fede e nella carità, è lui che sa trovare le parole del conforto e della speranza: e fra poco, nella preghiera troverà quelle, ancora più grandi e difficili, specie per i perseguitati, del perdono e dell’amore.
514. tu, il mio Renzo: è giusto che la nota affettiva del frate sia più insistente, qui, con Renzo che con gli altri due poveretti: perché Renzo, lo sappiamo noi come lo sa padre Cristoforo, è più soggetto all'impulso delle azioni inconsulte e disastrose, e perciò è quello che più ha bisogno di chi gli faccia « da padre » e lo « guidi ». 519. Bione: sappiamo già (Cap. I) che è uno dei « tre grossi torrenti » che scendono nel lago. 525. il potere d’un cappuccino...: per il potere dei cappuccini in generale rimandiamo ad alcune pagine significative del cap. IV; per l’autorità particolare di fra Cristoforo si pensi a quel sentimento di rispetto e di venerazione che più volte abbiamo visto intorno alla sua persona.
i promessi sposi
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« noi vi preghiamo ancora per quel poveretto che ci ha condotti a questo passo. Noi saremmo indegni della vostra misericordia, se non ve la chiedestribolazione, simo di cuore per lui: ne ha tanto bisogno! Noi, nella nostra
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abbiamo questo conforto, che siamo nella strada dove ci avete messi Voi: possiamo offrirvi i nostri guai; e diventano un guadagno. Ma lui!... è vostro nemico. Oh disgraziato! compete con Voi! Abbiate pietà di lui, o Signore, toccategli il cuore, rendetelo vostro amico, concedetegli tutti i beni che noi possiamo desiderare a noi stessi. » Alzatosi poi, come in fretta, disse: « via, figliuoli, non c'è tempo da perdere: Dio vi guardi, il suo angelo v'accompagni: andate ». E mentre s’avviavano, con quella commozione che non trova parole, e che si manifesta senza di esse, il padre soggiunse, con voce alterata: « il cuor mi dice che ci rivedremo presto ». Certo, il cuore, chi gli dà retta, ha sempre qualche cosa da dire su quello che sarà. Ma che sa il cuore? Appena un poco di quello che è già accaduto. Senza aspettar risposta, fra Cristoforo, andò verso la sagrestia; i viaggiatori usciron di chiesa: e fra Fazio chiuse la porta, dando loro un addio, con la voce alterata anche lui. Essi s’avviarono zitti zitti alla riva ch’era stata loro indicata; videro il battello pronto, e data e barattata la parola, c’entrarono. Il barcaiolo, puntando un remo alla proda, se ne staccò; afferrato poi l’altro remo, e vogando a due braccia, prese il largo, verso la spiaggia opposta. Non tirava un alito di vento; il lago giaceva liscio e piano, e sarebbe parso immobile, se non fosse stato il tremolare e l’ondeggiar leggiero della luna, che vi si
specchiava da mezzo il cielo. S’udiva soltanto il fiotto morto e lento frangersi
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sulle ghiaie del lido, il gorgoglìo più lontano dell’acqua rotta tra le pile del
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zurra del lago, uscivano a un colpo grondanti, e si rituffavano. L’onda segata dalla barca, riunendosi dietro la poppa, segnava una striscia increspata, che s’andava allontanando dal lido. I passeggieri silenziosi, con la testa voltata indietro, guardavano i monti, e il paese rischiarato dalla luna, e variato qua
ponte, e il tonfo misurato di que’ due remi, che tagliavano la superficie az:
536. vi preghiamo... per quel poveretto: più alto di questa pagina coreligiosa. E bene lo sente ente intensam sì il Rizzi: «Il M. rivive in sé e nell’opera sua la grande verità cristiana che con l’intelletto ha conquistato; e ora ce ne presenta un aspetto, ora un altro. Il Cristianesimo comanda non soltanto di perdonare, ma di amare chi ci ha fatto del male; ed ecco i poveretti, angosciati, cacciati dalla loro casa, dal loro paese, minacciati nel loro affetto più sacro e più caro, pregare Dio proprio per colui che di tutto ciò è la causa volontaria e colpevole. Non una parola di odio: l’oppressore è diventato un poveretto,
è il momento
che ha bisogno della misericordia divina, è un disgraziato, che vuol competere con Dio
e ‘a cui Dio deve toccare il cuore. Ma che intima superiorità sull’oppressore in questa umile preghiera degli oppressi: essi sono amici di Dio, e possono pregarlo generosamente anche per lo sciagurato che li op-
prime. A un tratto le posizioni sono inverti-
te: in alto sono gli oppressi che intercedono, in basso l’oppressore che ha bisogno di misericordia ». 550. Ma che sa il cuore?: la realtà smorza l'ideale; e con la domanda del poeta, uscito ancora sul palcoscenico a dir la sua, la scena perde la tensione delle pagine precedenti, e «dal dramma ci riporta al racconto. 552-553. con la voce alterata anche lui: e così il M., e noi con lui, ci riconciliamo con l’umile laico. 556-557. Non tirava un alito di vento...: il passaggio dal motivo della barca a quello del lago e quindi alla visione del paesaggio sereno ed immobile sotto la luna, avviene con. grande naturalezza. Sicché questa pagina, mirabile di colori e di suoni, di silenzio e di melanconia, anche se tutta pervasa da profonda commozione lirica, si svolge con la verità di una visione vissuta, e costituisce il più delicato preludio alla pa-
gina dell’« Addio »,
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capitolo VIII
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e là di grand’ombre. Si distinguevano i villaggi, le case, le capanne: il palazzotto di don Rodrigo, con la sua torre piatta, elevato sopra le casucce ammucchiate alla falda del promontorio, pareva un feroce che, ritto nelle tenebre, in mezzo a una compagnia d’addormentati, vegliasse, meditando un delitto. Lucia lo vide, e rabbrividì; scese con l’occhio giù giù per la china, fino al suo paesello, guardò fisso all’estremità, scoprì la sua casetta, scoprì la chioma folta del fico che sopravanzava il muro del cortile, scoprì la finestra della sua camera; e, seduta, com’era, nel fondo della barca, posò il braccio sulla sponda, posò sul braccio la fronte, come per dormire, e pianse segretamente. Addio, monti sorgenti dall’acque, ed elevati al cielo; cime inuguali, note a chi è cresciuto tra voi, e impresse nella sua mente, non meno che lo sia l'aspetto de’ suoi più familiari; torrenti, de’ quali distingue lo scroscio, come il suono delle voci domestiche; ville sparse e biancheggianti sul pendìo, come branchi di pecore pascenti; addio! Quanto è tristo il passo di chi, cresciuto tra voi, se ne allontana! Alla fantasia di quello stesso che se ne parte volontariamente, tratto dalla speranza di fare altrove fortuna, si disabbelliscono, in quel momento, i sogni della ricchezza; egli si maraviglia d’essersi potuto risolvere, e tornerebbe allora indietro, se non pensasse che, un giorno, tornerà dovizioso. Quanto più s’avanza nel piano, il suo occhio si ritira, disgustato e stanco, da quell’ampiezza uniforme; l’aria gli par gravosa e morta; s’inoltra mesto e disattento nelle città tumultuose; le case aggiunte a case, le strade che sboccano nelle strade, pare che gli levino il respiro; e davanti agli edifizi ammirati dallo straniero, pensa, con desiderio inquieto, al campicello del suo paese, alla casuccia a cui ha già messo gli occhi addosso, da gran tempo, e che comprerà, tornando ricco a’ suoi monti. Ma chi non aveva mai spinto al di là di quelli neppure un desiderio fuggitivo, chi aveva composti in essi tutti i disegni dell’avvenire, e n’è sbalzato lontano, da una forza perversa! Chi, staccato a un tempo dalle più care abitudini, e disturbato nelle più care speranze, lascia que’ monti, per avviarsi in
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traccia di sconosciuti che non ha mai desiderato di conoscere, e non può con
l'immaginazione arrivare a un momento stabilito per il ritorno! Addio, casa natìa, dove, sedendo, con un pensiero occulto, s’imparò a distinguere dal ru568. pareva un feroce...: com’è naturale sensazione! Fra tante immagini care, mentre il cuore è in pianto, il palazzo del malvagio, con quanto di terrore implica per Lucia, sembra ancora più torvo. questa
î nella sua pudicizia non può tradurre ciò ciò che ella sente in quel momento: i pensieri che quella vista le risveglia in mente e che non può dire a se stessa, si esprimono con
una lacrima, che il poeta poi traduce in lingua poetica ». 575. Addio, monti...: ecco la pagina più diamo, meglio del De Sanctis ha sentito que- . celebre, o almeno una delle più celebri sto pianto di Lucia: « Quante cose dice quel di tutto il romanzo. Pagina, si suol dire, da pianto. Il poeta se ne fa interprete per metantologia: ma staccata da quello che precede terlo in comunicazione col mondo più eleperderebbe tutto il suo pathos interiore e vato degli spettatori, e fa quell’addio che non vi resterebbero che immagini e suoni. tutti ricordate. Quel pianto per Lucia erano La nota più diffusa che la pervade, come immagini confuse, che il poeta traduce prisarà facile sentire, è quella di una melancoma in immagini più generali e poi più parnia mestissima, con lacrime amare e silenzioticolari di Lucia. Ella vedendo la sua casa, se, ma senza nessuna disperazione, perché ha pensa? No, piange. Anche noi in simili casi con sé il sostegno della fiducia nel Signore. prima di riflettere c’inteneriamo. Quelle che È per questo che pianto e nostalgia si supensa Lucia son cose che una giovane non dice nemmeno a se stessa; per esempio quel- blimano in una cadenza sinfonica dal fascino eccezionale. la casa le ricorda gli amori con Renzo, ma 574. e pianse segretamente:
nessuno, cre-
i promessi sposi
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un misterioso timore de’ passi comuni il rumore d’un passo aspettato con alla sfuggita, more. Addio, casa ancora straniera, casa sogguardata tante volte ava un soggiorno passando, e non senza rossore; nella quale la mente si figur tornò tante volte mo l’ani dove , tranquillo e perpetuo di sposa. Addio, chiesa rato un rito; prepa sereno, cantando le lodi del Signore; dov'era promesso, te benedetto, e dove il sospiro segreto del cuore doveva essere solennemen voi tanta giol’amore venir comandato, e chiamarsi santo; addio! Chi dava a non per precondità è per tutto; e non turba mai la gioia de’ suoi figli, se pararne loro una più certa e più grande. e poco Di tal genere, se non tali appunto, erano i pensieri di Lucia, andava avvicidiversi i pensieri degli altri due pellegrini, mentre la barca gli nando alla riva destra dell'Adda.
604.606. Chi dava a voi... più grande: ricordate le parole pronunciate poco prima in chiesa da padre Cristoforo: «e siate sicuri che verrà un tempo in cui vi troverete contenti di ciò che accade ora ». Sono, le une ele altre, parole della fede e dell’abbandono in Dio. Cioè del più genuino sentimento cristiano della vita: e la sintesi del motivo di fondo di tutta l’opera manzoniana. 607. Di tal genere... i pensieri di Lucia:
questa precisazione sembra messa apposta per demolire l’obiezione che una contadina, qual è Lucia, non saprebbe esprimersi tanto bene come abbiamo sentito ora. Ma a parte il fatto che, se le parole dell’Addio non ‘sono di Lucia, suo però è tutto quel ritmo
Scheda
dolente e pur rassegnato, sua quell’anima stanca e pur fiduciosa che pervade la pagina: a parte tutto questo, il M. vuol dirci che accanto ai suoi personaggi c’è lui, il poeta, e che funzione del poeta è anche quella d’interpretare ed esprimere i sentimenti degli uomini. E questa funzione il M. l’assolve tanto più volentieri quanto più si rivolge ad ascoltare il cuore degli umili: ai quali, egli sa, se non è stato concesso il pregio della parola e della cultura, non è stato negato il dono dei sentimenti più nobili. — Nella « Appendice Prima», n. 3, e nella « Appendice Seconda », n. 2, sono riportate le pagine dell’Addio rispettivamente del Ferzzo e Lucia e dei Promessi Sposi dell’edizione del ’27.
critica al cap. VIII Si è già detto, nella nota precedente, della singolare qualità poetica del VII e dell'VIII capitolo e della loro importanza strutturale, in quanto essi rappresentano uno dei nodi essenziali dello svolgimento narrativo e in qualche modo ne concludono e ne riassumono la prima fase. Dopo di essi infatti il racconto, abbandonando la chiusa cerchia del villaggio, si aprirà su uno scenario più vasto di città e paesi e su una più varia e mossa trama di vicende. Questo capitolo VIII poi, elaborando e intrecciando gli sparsi elementi della situazione storicamente individuata dal romanziere — violenze e soprusi di potenti, persecuzione degli umili inermi, matrimonio di sorpresa — sembra addirittura riportarci al primo nucleo dell'invenzione fantastica, e può ben darsi che ne costituisca, come ha pensato qualche critico, il germe iniziale e lo spunto generatore. Questo può in buona parte giovare ad intendere il movimento
vivacissimo, la ricchezza e la complessità, e al tempo stesso
capitolo VIII
197 la suprema
coerenza
e compattezza dell'insieme. La varietà delle
vicende, l'affannosa azione dei personaggi, lo spostarsi delle scene, l'intrecciarsi alla cieca e il vicendevole annullarsi delle diverse intenzioni, l'allargarsi infine dei riflessi ‘della trama fino a coinvolgere ad un certo punto le scomposte e disordinate reazioni di tutta una folla, non creano affatto confusione: alla fine il lettore ha la sensazione di avere contemplato distintamente, ma in una visione unitaria, quasi in una sorta di ideale contemporaneità,
tutti
gli sparsi
elementi
e scenari
in cui
si fran-
tuma e di volta in volta si ricompone l’immagine di questa « notte degl’'imbrogli e de’ sotterfugi », unificati e dominati dalla nota insistente di sfondo, che è quella del paesaggio notturno inconsueto e della chiara serenità lunare, in cui sembrano placarsi e vanificarsi gli incerti e precari tumulti delle
passioni umane. Parallelamente si spiega anche il movimento ascendente del racconto, dal pacato e sorridente esordio (« Carneade! Chi era costui? ») fino al grande respiro lirico conclusivo dell'addio ai monti, attraverso l'incalzante resoconto dei fatti, che vede via via sconfitti gli ambiziosi disegni e gli accurati preparativi dei diversi protagonisti (e non solo le speranze degli sposi promessi e la sicurezza baldanzosa dei bravi, perché perfino la pietosa intenzione soccorritrice di fra Cristoforo riesce a buon esito solo per una fortuita combinazione di avvenimenti del tutto imprevisti). Cosicché cresce a poco a poco e insensibilmente il segreto motivo religioso, che guida, regola e ricompone tutti gli elementi dell’ispirazione; l'impressione di una forza superiore che conduce gli eventi, al di là delle previsioni umane, di una presenza divina sovranamente giusta e buona, quella che si rende esplicita nella pagina finale del capitolo. Questa presenza è in ogni oggetto, anche il più umile, assiste ad ogni atto e a ogni pensiero, santifica le gioie e allevia le pene, suscita la pace e la giocondità nel cuore degli innocenti, « e non turba mai la gioia de’ suoi figli, se non per prepararne loro una più certa e migliore ». Qui è il senso che pervade specialmente gli ultimi episodi del capitolo —- la preghiera nella chiesa dei cappuccini, il discorso confortatore di fra Cristoforo, e soprattutto l'apertura lirica dell'addio ai monti — ma che qui appunto si rivela, retrospettivamente, come preparato di lunga mano da tutto lo sviluppo narrativo che precede. L'ispirazione religiosa del Manzoni non suona mai così alta e pura come in quei luoghi dove il tema provvidenziale non si sovrappone dall'esterno, ma si incarna e si distende nell'azione, in una trama animata di fatti e di sentimenti. E la stessa pausa lirica dell'addio suona qui tanto più genuina e necessaria, quanto più in quella tonalità lirica sembra riassumersi il senso di una sequela di vicende e il moto di ripiegamento che ne consegue nell'animo dei protagonisti. Presentandosi come trascrizione poetica dello stato d'animo del personaggio più sensibile e pensoso, ed esprimendo intanto il segreto sentimento di tutti nel momento del distacco — misto d'angoscia, di nostalgia e di cari sogni e speranze — anche questa pagina riflessiva cessa di apparirci come un intervento arbitrario del narratore, si ricompone nella linea del racconto e acquista la sua misura.
contrastanti
Capitolo IX
L’urtar che fece la barca contro la proda, scosse Lucia, la quale, dopo aver asciugate in segreto le lacrime, alzò la testa, come se si svegliasse. Renzo
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uscì il primo, e diede la mano ad Agnese, la quale, uscita pure, la diede alla figlia; e tutt’e tre resero tristamente grazie al barcaiolo. « Di che cosa? » rispose quello: « siam quaggiù per aiutarci l’uno con l’altro, » e ritirò la mano, quasi con ribrezzo, come se gli fosse proposto di rubare, allorché Renzo cercò di farvi sdrucciolare una parte de’ quattrinelli che si trovava indosso, e che aveva presi quella sera, con intenzione di regalar generosamente don Abbondio, quando questo l’avesse, suo malgrado, servito. Il baroccio era lì pronto; il conduttore salutò i tre aspettati, li fece salire, diede una voce alla bestia, una frustata, e via. Il nostro autore non descrive quel viaggio notturno, tace il nome del pae-
se dove fra Cristoforo aveva indirizzate le due donne; anzi protesta espressamente di non lo voler dire. Dal progresso della storia si rileva poi la cagione
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di queste reticenze. Le avventure di Lucia in quel soggiorno, si trovano avviluppate in un intrigo tenebroso di persona appartenente a una famiglia, co- 1. L’urtar...: la parola tronca e improvvisa ben rende l’impressione del brusco risveglio di Lucia dal suo pianto segreto. Ma si può dire che ridesti anche noi lettori dal mondo elevato e lirico dell’Addio, e tutti riporti ai pensieri e alle cure di sempre. 2-3. Renzo... la mano ad Agnese: e non a Lucia. Qualcosa di quel « pudore » misterioso della fanciulla è, dunque, penetrato anche in lui. 5... per aiutarci l’uno con l’altro: la figura del barcaiolo e quella, che vedremo poco più avanti, del barrocciaio, risentono dell'alone di padre Cristoforo. Ambedue hanno « in mira un’altra ricompensa, più lontana e più abbondante ». Sul piano umano e su quello artistico potremmo dire che queste due figure miti e serene, da un lato continuano l’opera confortatrice del cappuccino, dall’altro aiutano i nostri tre fuggitivi — ed anche il lettore — ad entrare senza bruschi contrasti in quel mondo di terrore e di intrighi che fra poco incominceremo a conoscere.
8-9. regalar... don Abbondio: si tratta, a nostro giudizio, di un pensiero gentile che Renzo aveva avuto e che fa parte della sua indole generosa, quale avremo modo di conoscere in altre situazioni. Non riusciamo perciò a capire come ad un critico, per altro fornito di molto gusto e di fine sensibilità, questa idea sia parsa, da parte del M. verso don Abbondio una « canzonatura: il danno e la beffa», e da parte di Renzo «una goffaggine contadinesca ». 10. il conduttore: meglio, il conducente. 12. Il nostro autore: il solito Anonimo dell’Introduzione, del quale ricordiamo che « per degni rispetti» aveva deciso di tacere nomi di persone e di luoghi. Il M. ne trae motivo di sorriso, felice di sfruttare queste « reticenze » del suo « autore » perché il romanzo, che non è cronaca, ha bisogno tante volte del vago e dell’indefinito. 16. un intrigo tenebroso: è il primo accenno di fosche vicende ed insieme di un nuovo clima che sta penetrando nel romanzo, e verrà sempre più a pesare sui tre fug-
capitolo IX
n
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me pare, molto potente, al tempo che l’autore scriveva. Per render ragione della strana condotta di quella persona, nel caso particolare, egli ha poi anche dovuto raccontarne in succinto la vita antecedente: e la famiglia ci fa quella figura che vedrà chi vorrà leggere. Ma ciò che la circospezione del po-
ver’'uomo ci ha voluto sottrarre, le nostre diligenze ce l'hanno fatto trovare in
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altra parte. Uno storico milanese * che ha avuto a far menzione di quella persona medesima, non nomina, è vero, né lei, né il paese; ma di questo dice ch’era un borgo antico e nobile, a cui di città non mancava altro che il nome; dice altrove, che ci passa il Lambro; altrove, che c'è un arciprete. Dal riscontro di questi dati noi deduciamo che fosse Monza senz’altro. Nel vasto tesoro dell’induzioni erudite, ce ne potrà ben essere delle più fine, ma delle più sicure, non crederei. Potremmo anche, sopra congetture molto fondate, dire il nome della famiglia; ma, sebbene sia estinta da un pezzo, ci par meglio lasciarlo nella penna, per non metterci a rischio di far torto neppure ai morti, e per lasciare ai dotti qualche soggetto di ricerca. I nostri viaggiatori arrivaron dunque a Monza, poco dopo il levar del sole: il conduttore entrò in un'osteria, e lì, come pratico del luogo, e conoscente del padrone, fece assegnar loro una stanza, e ve gli accompagnò. Tra i ringraziamenti, Renzo tentò pure di fargli ricevere qualche danaro; ma quello, al pari del barcaiolo, aveva in mira un’altra ricompensa, più lontana, ma più abbondante: ritirò le mani, anche lui, e, come fuggendo, corse a governare la sua bestia. Dopo una sera quale l'abbiamo descritta, e una notte quale ognuno può immaginarsela, passata in compagnia di que’ pensieri, col sospetto incessante di qualche incontro spiacevole, al soffio d’una brezzolina più che autunnale, e tra le continue scosse della disagiata vettura, che ridestavano sgarbatamen-
te chi di loro cominciasse appena a velar l’occhio, non parve vero a tutt’e tre * Josephi Ripamontii, Historiae Patriae, Decadis V. Lib. VI, Cap. III, pag. 358 et seq.
giaschi. La « persona », che è al centro di questo intrigo, è quella che si suol chiamare la monaca di Monza, o più precisamente Gertrude, che sarà il personaggio dominante di questo e del successivo capitolo; più avanti ne parleremo. 16-17. famiglia... molto potente: i De Leyva, che furono governatori spagnoli di Milano.
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17. Per render ragione... così il M. abilmente, fingendo di riferire le notizie dell’Anonimo, trova il modo di narrare, pet i fini che si propone, la « vita antecedente » e la «strana condotta» di quella persona, aggiungendovi poi di suo tutto ciò che «la circospezione del pover’uomo », un pauroso come tanti, aveva taciuto. 22. Uno storico milanese: Giuseppe Ripamonti (1574-1643), autore di una Historia patria, considerato dal M. scrittore « che per le sue circostanze doveva essere informatissimo, e negli scritti del quale si scor-
ge una attenzione di osservatore non comune, e un candore quale non si può dissimulare ». Lo incontreremo più volte nei richiami storici del romanzo. 26-28. Nel vasto... non crederei: ironia elegante e pungente verso le presunzioni degli eruditi; ironia che si rinnova subito dopo col proposito di lasciare ai dotti, soven. te indagatori. accaniti di questioni insulse, « qualche soggetto di ricerca ». 37-38. corse a governare la sua bestia: tocco umanissimo e poetico insieme: di una poesia che sa perfettamente cogliere le mos-
se spontanee e talvolta scontrose degli umili. 42-43. sgarbatamente: dice bene l’amarezza dei bruschi risvegli. Altre volte, e sempre con vivo effetto, il M. ha usato questo avverbio: così nel cap. II lo troviamo a proposito di altri crudi risvegli che turbano la mente, allorché «il pensiero del nuovo stato di cose le si affaccia subito sgarbatamente ».
i promessi sposi
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qualunque fosse. di sedersi sur una panca che stava ferma, in una stanza, scarsi 1n
e i mezzi Fecero colazione, come permetteva la penuria de’ tempi, il poco appetito. proporzione de’ contingenti bisogni d’un avvenire incerto, e
s’aspettaA tutt'e tre passò per la mente il banchetto che, due giorni prima, fermarsi voluto be avreb Renzo van di fare; e ciascuno mise un gran sospiro. i primi loro render lì, almeno tutto quel giorno, veder le donne allogate, per la servizi; ma il padre aveva raccomandato a queste di mandarlo subito i; sua strada. Addussero quindi esse e quegli ordini, e cento altre ragion sa, doloro più e sarebb ata ritard che la gente ciarlerebbe, che la separazione più ette ch’egli potrebbe venir presto a dar nuove e a sentirne; tanto che si risolv più rsi, di partire. Si concertaron, come poterono, sulla maniera di rivede nne a presto che fosse possibile. Lucia non nascose le lacrime; Renzo tratte
stento le sue, e, stringendo forte forte la mano a Agnese, disse con voce soffogata: «a rivederci », e partì. Le donne si sarebber trovate ben impicciate, se non fosse stato quel buon barocciaio, che aveva ordine di guidarle al convento de’ cappuccini, e di dar loro ogn’altro aiuto che potesse bisognare. S’avviaron dunque con lui a quel convento; il quale, come ognun sa, era pochi passi distante da Monza. Arrivati alla porta, il conduttore tirò il campanello, fece chiamare il padre guardiano; questo venne subito, e ricevette la lettera, sulla soglia. « Oh! fra Cristoforo! » disse, riconoscendo il carattere. Il tono della voce e i movimenti del volto indicavano manifestamente che proferiva il nome d’un grand’amico. Convien poi dire che il nostro buon Cristoforo avesse, in quella lettera, raccomandate le donne con molto calore, e riferito il loro caso con molto sentimento, perché il guardiano, faceva, di tanto in tanto, atti di sorpresa e d’indegnazione; e, alzando gli occhi dal foglio, li fissava sulle
donne con una certa espressione di pietà e d’interesse. Finito ch’ebbe di leggere, stette lì alquanto a pensare; poi disse: « non c’è che la signora: se la signora vuol prendersi quest’impegno..
46. contingenti: eventuali, possibili. 49. allogate: sistemate, nel nuovo alloggio. 57. ...« a rivederci », e partì: quante co-
se penose e vere e grandi sa farci sentire
il M. nel racconto, pur così dimesso, di questa separazione! Osserva che Renzo stringe « forte forte » la mano ad Agnese; a Lucia sembra che non rivolga nemmeno un saluto. Ma il pianto spento di Lucia, pianto di dolore e d’amore, è tutt'uno col pianto segreto di Renzo. I sentimenti paiono soffocati; eppure sono d’una intensità che dà al pudore di questi due giovani qualcosa di sacro. 61. come ognun sa: ognuno di quei suoi venticinque lettori, i quali dovrebbero essere tutti milanesi, e quindi esperti, come lui, dei luoghi! È un vezzo del M. questo dialogare con i suoi scarsi lettori, e tutti, per così dire, di casa (un po’ più avanti vedremo che scrive: «... forse dieci de’ miei lettori possono ancor rammentarsi... »); un
«L
vezzo che aggiunge alla sua prosa un tono di discreta confidenzialità. 64. Oh! fra Cristoforo!: la spontaneità dell’esclamazione dice subito un lontano e affettuoso ricordo; e già indica un carattere aperto e cordiale. È il quarto cappuccino che abbiamo trovato in questi primi capitoli del romanzo, ed altri ancora ne troveremo. A proposito della parte notevole che i cappuccini hanno nei Promessi Sposi «è bene tenere presente quanto il M. ha detto nel cap. I sulla tendenza, favorita dalla necessità, che gli uomini del Seicento avevano a costituirsi in leghe per difendersi dalle prepotenze che un balordo sistema giudiziario non poteva impedire. In tanto disordine morale, i cappuccini costituivano anche essi una lega: a difesa dei poveri e degli oppressi. Naturalmente, poi, perché anch’essi erano uomini, a volte erano propensi più a custodir gelosamente i loro privilegi n a ricordare la loro missione » (Provenzal).
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capitolo IX
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Tirata quindi Agnese in disparte, sulla piazza davanti al convento, le fece
alcune interrogazioni, alle quali essa soddisfece; e, tornato verso Lucia, disse VO a tutt'e due: « donne mie, io tenterò; e spero di potervi trovare un ricovero più che sicuro, più che onorato, fin che Dio non v’abbia provvedute in miglior maniera. Volete venir con me? » Le donne accennarono rispettosamente di sì; e il frate riprese: « bene:
io vi conduco subito al monastero della signora. State però discoste da me alcuni passi, perché la gente si diletta di dir male; e Dio sa quante belle chiacchiere si farebbero, se si vedesse il padre guardiano per la strada, con una bella giovine... con donne voglio dire ». Così dicendo, andò avanti. Lucia artossì; il barocciaio sorrise, guardando Agnese, la quale non poté tenersi di non fare altrettanto; e tutt’e tre si mos85 sero, quando il frate si fu avviato; e gli andaron dietro, dieci passi discosto. Le donne allora domandarono al barocciaio, ciò che non avevano osato al padre guardiano, chi fosse la signora.
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« La signora, » rispose quello, « è una
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monaca;
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è una monaca
come l’altre. Non è che sia la badessa, né la priora; che anzi, a quel che dicono, è una delle più giovani: ma è della costola d’Adamo; e i suoi del tempo antico erano gente grande, venuta di Spagna, dove son quelli che comandano; e per questo la chiamano la signora, per dire ch’è una gran signora; e tutto il paese la chiama con quel nome, perché dicono che in quel monastero non hanno avuto mai una persona simile; e i suoi d’adesso, lag-
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giù a Milano, contan molto, e son di quelli che hanno sempre ragione; e in creare una certa serenità prima dell’incontro 79. monastero della signora: l’espressione con la signora. piuttosto equivoca accresce la nostra curio86. domandarono al barocciaio: e non al sità; e, naturalmente, anche la sospensione padre guardiano, perché il barrocciaio gli dà di Agnese e di Lucia. Alle quali ben pochi meno soggezione, lo sentono della loro steslumi porteranno subito dopo le spiegazioni sa classe sociale. Osserva ovunque l’attenziodel barrocciaio: «è una monaca; ma non è ne psicologica del M. una monaca come l’altre », non è «la ba88-101. La signora... sull’altare: il discordessa, né la priora... ma è della costola so del barrocciaio, tutto condotto con sind’Adamo... ». tassi ed immagini popolaresche, vivacissime 81-82. con una bella giovine...: è l’usci(ti fa pensare a certe parlate dei personaggi ta rimasta la cosa più famosa fra tutto del Verga), non solo dà una presentazione quello che dice e che fa questo padre guardella signora che è un vero capolavoro; ma diano. Un uomo dal cuore gioviale e dal cacrea un ritratto perfetto anche dello stesso rattere arguto e disinvolto, a cui possiamo barrocciaio, cioè di un povero uomo del Seiperdonare che una frase come questa gli sia cento, nato e cresciuto in quel determinato sfuggita così spontaneamente di bocca. Ma, mondo, oltre il quale non pensa che posforse, in questa battuta del padre guardiasano esisterne altri: un mondo in cui le più di qualcosa anche trovare no potremmo bello e più nobile: e cioè che di proposito ° disuguaglianze e le ingiustizie sociali sono da accettare con tutta naturalezza. — Ma egli abbia voluto fare un complimento alle due poverette — di cui conosce ormai le allora in certe battute — come: «son di quelli che hanno sempre ragione », « può tante pene — per riportare (come appunto fare alto e basso nel monastero » — non va riesce a riportare) un sorriso in quei cuori vista soltanto, come per esempio dice un disfatti e su quelle labbra stanche. Ci semcommentatore, 515
quando lo vide comparire, con quel cipiglio, con quella carta in mano, avrebbe voluto esser cento braccia sotto terra, non che in un chiostro. Le parole non furon molte, ma terribili: il gastigo intimato subito non fu che d’essere rinchiusa in quella camera, sotto la guardia della donna che aveva fatta la scoperta; ma questo non era che un principio, che un ripiego del momento; si prometteva, si lasciava vedere per aria, un altro gastigo oscuro, indeterminato, e quindi più spaventoso. Il paggio fu subito sfrattato, com’era naturale; e fu minacciato anche a lui qualcosa di terribile, se, in qualunque tempo, avesse osato fiatar nulla dell'avvenuto. Nel fargli questa intimazione, il principe gli appoggiò due solenni schiaffi, per associare a quell’avventura un ricordo, che togliesse al ragazzaccio ogni tentazion
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di vantarsene.
Un pretesto qualunque,
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nestare la licenza data a un paggio, non era difficile a trovarsi; in quanto alla figlia, si disse ch’era incomodata. Rimase essa dunque col batticuore, con la vergogna, col rimorso, col terrore dell’avvenire, e con la sola compagnia di quella donna odiata da lei, come il testimonio della sua colpa, e la cagione della sua disgrazia. Costei odiava poi a vicenda Gertrude, per la quale si trovava ridotta, senza saper per quanto tempo, alla vita noiosa di carceriera, e divenuta per sempre custode d’un segreto pericoloso. Il primo confuso tumulto di que’ sentimenti s’acquietò a poco a poco; ma tornando essi poi a uno per volta nell’animo, vi s’ingrandivano, e si fermavano a tormentarlo più distintamente e a bell’agio. Che poteva mai esser quella punizione minacciata in enimma? Molte e varie e strane se ne affacciavano alla fantasia ardente e inesperta di Gertrude. Quella che pareva più probabile, era di venir ricondotta al monastero di Monza, di ricomparirvi, non più come la signorina, ma in forma di colpevole, e di starvi rinchiusa, chi sa fino a quando! chi sa con quali trattamenti! Ciò che una tale immaginazione, tutta piena di dolori, aveva forse di più doloroso per lei, era l’apprensione della vergogna. Le frasi, le parole, le virgole di quel foglio sciagurato, passavano e ripassavano nella sua memoria: le immaginava osservate, pesate da un lettore tanto impreveduto, tanto diverso da quello a cui eran destinate; si figurava che avesser potuto cader sotto gli occhi anche della madre o del fratello, o di chi sa altri; e, al paragon di ciò, tutto il rima-
nente le pareva quasi un nulla. L'immagine di colui ch’era stato la prima origine di tutto lo scandolo, non lasciava di venire spesso anch’essa ad infestar la povera rinchiusa: e pensate che strana comparsa doveva far quel fantasma, tra quegli altri così diversi da lui, seri, freddi, minacciosi. Ma, appunto perché non poteva separarlo da essi, né tornare un momento a quelle fuggitive castigo può darlo senza scrupolo e apertamente: e minacciarne anche un altro oscuro e più spaventoso. 528-537. Il primo confuso... vergogna: « Qui il dramma delle due volontà contrapposte, il padre e la figlia, volge all'ultima stretta. Il primo deve soltanto attendere; tutto contribuisce a domare l’altra, a spezzarla. Tutto: cioè anche i motivi non nobili, fra cui l’odio per la cameriera, che le avvelena l’otgoglio; ma altresì i nobili, ‘l’apprensione della vergogna’. E non impor-
ta che la vergogna si abbassi in termini quasi totalmente mondani, vergogna di venir forse umiliata di fronte al monastero dove fu (e sdegnava d’essere) ‘la signorina’; in nuce altro vi si muove, che si attiene alla consapevolezza ch’ella ha del suo fallo, nelle proporzioni in cui subito le apparve riflesso nello sdegno del padre. Che si trattasse di un servo, persino ciò vi diventa nulla (mai se ne fa cenno): tanto l’innocente idillio crebbe a proporzioni di dissolutezza mostruosa » (De Michelis).
176 compiacenze,
senza che subito non
le s’affacciassero
i dolori presenti che
n’erano la conseguenza, cominciò a poco a poco a tornarci più di rado, a rispingerne la rimembranza, a divezzarsene. Né più a lungo, o più volen-
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tieri, si fermava in quelle liete e brillanti fantasie d’una volta: eran troppo
opposte alle circostanze reali, a ogni probabilità dell’avvenire. Il solo castello nel quale Gertrude potesse immaginare un rifugio tranquillo e onorevole, e che non fosse in aria, era il monastero, quando si risolvesse d’entrarci per
sempre. Una tal risoluzione (non poteva dubitarne) avrebbe accomodato ogni cosa, saldato ogni debito, e cambiata in un attimo la sua situazione. Contro questo proposito insorgevano, è vero, i pensieri di tutta la sua vita: ma i tempi eran mutati; e, nell’abisso in cui Gertrude era caduta, e al paragone di ciò che poteva temere in certi momenti, la condizione di monaca festeggiata, ossequiata, ubbidita, le pareva uno zuccherino. Due sentimenti di ben
diverso genere contribuivan pure a intervalli a scemare quella sua antica avversione: talvolta il rimorso del fallo, e una tenerezza fantastica di divozione; talvolta l’orgoglio amareggiato e irritato dalle maniere della carceriera, la quale (spesso, a dire il vero, provocata da lei) si vendicava, ora facendole
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paura di quel minacciato gastigo, ora svergognandola del fallo. Quando poi voleva mostrarsi benigna, prendeva un tono di protezione, più odioso ancora
dell’insulto. In tali diverse occasioni, il desiderio che Gertrude sentiva d’uscir dall’unghie di colei, e di comparirle in uno stato al di sopra della sua collera e della sua pietà, questo desiderio abituale diveniva tanto vivo e pungente, da far parere amabile ogni cosa che potesse condurre ad appagarlo. In capo a quattro o cinque lunghi giorni di prigionia, una mattina, Gertrude stuccata ed invelenita all'eccesso, per un di que’ dispetti della sua guardiana, andò a cacciarsi in un angolo della camera, e lì, con la faccia nascosta tra le mani, stette qualche tempo a divorar la sua rabbia. Sentì allora un bisogno prepotente di vedere altri visi, di sentire altre parole, d'esser trattata diversamente. Pensò al padre, alla famiglia: il pensiero se ne arre‘trava spaventato. Ma le venne in mente che dipendeva da lei di trovare in loro degli amici; e provò una gioia improvvisa. Dietro questa, una confusione e un pentimento straordinario del suo fallo, e un ugual desiderio d’espiarlo. Non già che la sua volontà si fermasse in quel proponimento, ma
giammai non c’era entrata con riprese quella penna fatale, e e d’abbattimento, d’afflizione strandosi indeterminatamente doveva accordarlo.
tanto ardore. S’alzò di lì, andò a un tavolino, scrisse al padre una lettera piena d’entusiasmo e di speranza, implorando il perdono, e mopronta a tutto ciò che potesse piacere a chi
551. Il solo castello...: il travaglio dell’animo della prigioniera, dalla disperazione all’apparire di quel «rifugio tranquillo e onorevole », è seguito momento per momento. 581. quella penna fatale: è la penna della sua vicenda d’amore e di morte; fatale per quanto aveva già scritto e, soprattutto, pet quanto avrebbe scritto ora. Nella breve sto-
ria di questa penna c’è tanto di Gertrude: bisogno d’affetto, illusione, paura orgoglio e, secondo quant’essa scrive, tanto « d’entusiasmo e d’abbattimento, d’afflizione e di speranza ». 583. indeterminatamente: il lungo, cupissimo avverbio sembra distruggere per sempre ogni capacità di reazione: e sarà così!
Capitolo X
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Vi son de’ momenti in cui l’animo, particolarmente de’ giovani, è disposto in maniera che ogni poco d’istanza basta a ottenerne ogni cosa che abbia un’apparenza di bene e di sacrifizio: come un fiore appena sbocciato, s’abbandona mollemente sul suo fragile stelo, pronto a concedere le sue fragranze alla prim’aria che. gli aliti punto d’intorno. Questi momenti, che si dovrebbero dagli altri ammirare con timido rispetto, son quelli appunto che l’astuzia interessata spia attentamente e coglie di volo, per legare una volontà che non si guarda. AI legger quella lettera il principe *** vide subito lo spiraglio aperto alle sue antiche e costanti mire. Mandò a dire a Gertrude che venisse da lui; e aspettandola, si dispose a batter
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il ferro, mentr’era caldo. Gertrude comparve, e,
senza alzar gli occhi in viso al padre, gli si buttò in ginocchioni davanti, ed ebbe appena fiato di dire: « perdono! » Egli le fece cenno che s’alzasse; ma, con una voce poco atta a rincorare, le rispose che il perdono non bastava desiderarlo né chiederlo; ch’era cosa troppo agevole e troppo naturale a chiunque sia trovato in colpa, e tema la punizione; che in somma bisognava meritarlo. Gertrude domandò, sommessamente e tremando, che cosa dovesse fare. Il principe (non ci regge il cuore di dargli in questo momento il titolo
1. Vi son de’ momenti...: il M. in ogni atto della sua vita, come in ogni momento della sua opera di artista, ha manifestato il più profondo rispetto per la personalità umana, sentendo, con scrupolo quasi religioso, quanto di divino e di eterno in ogni creatura Dio abbia infuso. Da questo sentimento deriva la partecipazione del M. alla sofferenza dei suoi personaggi sottoposti alle offese dei violenti, e quindi la commozione che tante pagine manzoniane esercitano sul lettore. In quella che ora si apre questi caratteri sono ancor più evidenti, perché qui l’oggetto della malvagità umana è una giovane creatura che sta appena aprendosi alla vita. E ai giovani e ai fanciulli, già lo abbiamo visto, il M. guarda con animo particolarmente affettuoso. 3-4. fiore... fragile stelo: immagine gentile e che musicalmente si armonizza con l’anima giovinetta di Gertrude e col « timido rispetto » con cui tutti dovremmo guardare i più delicati momenti della vita. — Più vol-
te il M. presenta nel suo romanzo, come nelle poesie, il paragone del fiore. La similitudine di ora ricorda, in modo speciale, una meno nota, che si trova nel frammento dell’inno sacro I Santi: «Fa sorgere il tacito fior, Che spiega davanti a lui solo, La pompa del pinto suo velo, Che spande ai deserti del cielo Gli olezzi del calice, e muor ». 11. batter. il ferro, mentr’era caldo: nel.la brutalità dell’espressione popolaresca c’è la cinica soddisfazione dell’astuto calcolatore, privo di ogni sentimento di compassione. La sua durezza di cuore si rivela sempre più demoniaca, e si dispiegherà completamente nella scena successiva — nei gesti, nelle parole, con la figlia disfatta, inginocchiata ai suoi piedi —, quando tutto tenderà a pottare la ragazza a chiedere ciò che lui le impone, sempre però fingendo di lasciarla libera di decidere. 18-19. titolo di padre: dice titolo e non nome. Ma a quest'uomo preme, di titoli, solo quello di principe.
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fallo di padre) non rispose direttamente, ma cominciò a parlare a lungo del lo
di Gertrude: e quelle parole frizzavano sull’animo della poveretta, come anscortete d'una mano ruvida sur una ferita. Continuò dicendo che, quand’
nel che... caso mai... che avesse avuto prima qualche intenzione di collocarla un a é giacch secolo, lei stessa ci aveva messo ora un ostacolo insuperabile; e a cavalier d'onore, com'era lui, non sarebbe mai bastato l’animo di regalar
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La misera uni galantuomo una signorina che aveva dato un tal saggio di sé.
ascoltatrice era annichilata: allora il principe, raddolcendo a grado a grado la voce e le parole, proseguì dicendo che però a ogni fallo c'era rimedio e misericordia; che il suo era di quelli per i quali il rimedio è più chiaramente indicato: ch’essa doveva vedere, in questo tristo accidente, come un avviso che la vita del secolo era troppo piena di pericoli per lei... « Ah sì! » esclamò Gertrude, scossa dal timore, preparata dalla vergogna, e mossa in quel punto da una tenerezza istantanea. « Ah! lo capite anche voi, » riprese incontanente il principe. « Ebbene, non si parli più del passato: tutto è cancellato. Avete preso il solo partito onorevole, conveniente, che vi rimanesse; ma perché l’avete preso di buona voglia, e con buona maniera, tocca a me a farvelo riuscire gradito in tutto e per tutto: tocca a me a farne tornare tutto il vantaggio e tutto il merito so-
pra di voi. Ne prendo io la cura. » Così dicendo, scosse un campanello che stava sul tavolino, e al servitore che entrò, disse: « la principessa e il principino subito ». E seguitò poi con Gertrude: « voglio metterli subito a parte della mia consolazione; voglio che tutti comincin subito a trattarvi come si conviene. Avete sperimentato in parte il padre severo; ma da qui innanzi proverete tutto il padre amoroso ». A queste parole, Gertrude rimaneva come sbalordita. Ora ripensava come
mai quel sì che le era scappato, avesse potuto significar tanto, ora cercava se ci fosse maniera di riprenderlo, di ristringerne il senso; ma la persuasione del principe pareva così intera, la sua gioia così gelosa, la benignità così condizionata,
che Gertrude non osò proferire una parola che potesse turbarle menomamente. Dopo pochi momenti, vennero i due chiamati, e vedendo lì Gertrude, la guardarono in viso, incerti e maravigliati. Ma il principe, con un contegno 20-21. frizzavano... sur una ferita: le parole danno una sensazione penetrante del tormento, anche per la ripetizione onomatopeica della r: scorrere... ruvida sur una ferita. 21. Continuò dicendo...: è tutto un discorso farisaico, controllatissimo; ogni parola, mentre sembra non dire niente di coercitivo ma solo preoccuparsi del bene della figlia, è studiata per prostrare sempre più la poverina sotto il peso di un’orribile colpa, divenuta il disonore di tutta la famiglia: «la misera ascoltattice era annichilita ». 31. Ah sì!: è il primo « sì », a cui ne seguiranno altri, fino all’ultimo della professione religiosa. Questo « sì » di ora Gertrude l’ha pronunziato in modo generico, sotto l’impulso della vergogna e della commozione. Per lei non vuol essere ancora un impegno di sempre, ma solo un umile ricono-
scimento di certi pericoli della vita « nel secolo »: il padre lo afferra e lo porta d’un balzo alle estreme conseguenze, senza che la ragazza abbia la forza di reagire. 43. padre amoroso: c'è anche scherno in questo ultimo, ovattato discorso del principe. Da astuto e maligno commediante qual è, mentre sembra rispondere con affetto al bisogno di affetto della figlia, chiamando la principessa e il principino lega ancor più quell’incauto «sì» con la presenza di due testimoni — e che testimoni! — rendendolo un impegno ufficiale e solenne. 48. non osò proferire una parola: soprattutto per la debolezza della sua volontà, che la rende insieme vittima e colpevole; poi per la sua incapacità di trovare una via di uscita di fronte all’astuzia sopraffina del principe; e anche per un vago senso di tenerezza filiale e per il timore di perdere, ancora, la « benignità » del padre.
capitolo X
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lieto e amorevole, che ne prescriveva loro un somigliante, « ecco; » disse, « la pecora smarrita: e sia questa l’ultima parola che richiami triste memorie.
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Ecco la consolazione della famiglia. Gertrude non ha più bisogno di consigli; ciò che noi desideravamo per il suo bene, l’ha voluto lei spontaneamente. È risoluta, m'ha fatto intendere che è risoluta... » A questo passo, alzò essa verso il padre uno sguardo tra atterrito e supplichevole, come per chiedergli che sospendesse, ma egli proseguì francamente: « che è risoluta di prendere il velo ».
« Brava! bene! » esclamarono, a una voce, la madre eil figlio, e l’uno dopo l’altra abbracciaron Gertrude; la quale ricevette queste accoglienze con lacrime,
che furono interpretate per lacrime di consolazione. Allora il principe si diffuse a spiegar ciò che farebbe per render lieta e splendida la sorte della figlia. Parlò
delle distinzioni di cui goderebbe nel monastero e nel paese; che, là sarebbe come una principessa, come la rappresentante della famiglia; che, appena l’età 6 uN l'avrebbe permesso, sarebbe innalzata alla prima dignità; e, intanto, non sarebbe soggetta che di nome. La principessa e il principino rinnovavano, ogni momen‘ to, le congratulazioni e gli applausi: Gertrude era come dominata da un sogno. « Converrà poi fissare il giorno, per andare a Monza, a far la richiesta alla badessa, » disse il principe. « Come sarà contenta! Vi so dire che tutto 70 il monastero saprà valutar l’onore che Gertrude gli fa. Anzi... perché non ci andiamo oggi? Gertrude prenderà volentieri un po’ d’aria. »
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Andiamo pure, » disse la principessa. Vo a dar gli ordini, » disse il principino. Ma... » proferì sommessamente Gertrude. Piano, piano, » riprese il principe: « lasciam decidere a lei: forse oggi non si sente abbastanza disposta, e le piacerebbe più aspettar fino a domani. Dite: volete che andiamo oggi o domani? » « Domani, » rispose, con voce fiacca, Gertrude, alla quale pareva ancora
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di far qualche cosa, prendendo un po’ di tempo. « Domani, » disse solennemente il principe: « ha stabilito che si vada domani. Intanto io vo dal vicario delle monache,
a fissare un giorno per l’e-
same. » Detto fatto, il principe uscì, e andò veramente (che non fu piccola degnazione) dal detto vicario; e concertarono che verrebbe di lì a due giorni. 57. ma egli proseguì francamente:
nuova
pennellata potente al ritratto di questo pa-
dre machiavellico e farisaico. 66. La principessa e il principino: due marionette, senza volto e senza cuore, e l’una più odiosa dell’altra. La principessa resta sempre così lontana dalla vita della figlia che ci sembra difficile capirne l’insensibilità, se non pensandola meccanicamente succube della volontà del marito; il principino è solo un vanitoso e superficiale che volentieri trae profitto dalla condotta del padre. 68-71. Converrà... un po’ d’aria: questo discorso così conciso, quasi deciso, è la traduzione pratica dell’idea di batter il ferro, mentr'era caldo. Un povero ferro, invero, che già si va raffreddando, e per questo il principe stringe i tempi. Nelle sue parole, accanto alla su4 contentezza di quel « come
sarà contenta! », c'è da notare, ancora una volta, la falsità su cui verrà a reggersi la vocazione di Gertrude: un «onore» che ella fa al monastero e che «tutto il monastero saprà valutare ». 78-80 Domani... Domani: al primo « domani » detto con voce « fiacca », segue quello pronunziato « solennemente ». L’apparente ritirata del principe non è tanto una rispettosa concessione alla libertà della figlia, come avrebbe tutta l’aria di volere apparire, quanto una categorica conferma di una decisione su cui il padre vuol far capire che non c’è più nulla da discutere, Tant'è vero che subito si affretta ad aggiungere che intanto egli andrà dal vicario delle monache «a fissare un giorno per l’esame ». Il cerchio si stringe sempre più inesorabile intorno a Gertrude: e il M. lo sente, e ce lo fa sentire, con commozione e con sdegno.
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i promessi sposi
non ebbe un minuto di In tutto il resto di quella giornata, Gertrude commozioni, lasciar, per bene. Avrebbe desiderato riposar l’animo da tante a di ciò che aveva stess dir così, chiarire i suoi pensieri, render conto a sé se, rallentare un mofatto, di ciò che le rimaneva da fare, sapere ciò Cche voles ipitosamente; ma mento quella macchina che, appena avviata, a ndava così prec ione, s’incastrainterruz non ci fu verso. L’occupazioni si succedevan o senza
condotta nel gabivano l'una con l’altra. Subito dopo partito il principe, fu ata e rivestita pettin one, netto della principessa, per essere, sotto la sua direzi ima mano, l’ult dar dalla sua propria cameriera. Non era ancor terminato di agl’inchini della che furon avvertite ch’era in tavola. Gertrude passò in mezzo trovò alcuni paservitù, che accennava di congratularsi per la guarigione, e e per ralonore, farle per renti più prossimi, ch’erano stati invitati in fretta, spiegata la e , salute legrarsi con lei de’ due felici avvenimenti, la ricuperata vocazione.
al suo La sposina (così si chiamavan le giovani monacande, e Gertrude, e da dire da ebbe a sposin apparire, fu da tutti salutata con quel nome), la
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Sentiva fare a rispondere a’ complimenti che le fioccavan da tutte le parti. ma; confer e e una ; bene che ognuna delle Èsue risposte era come un’accettazion * ma come rispondere diversamente? Poco dopo alzati da tavola, venne l’ora o della trottata. Gertrude entrò in carrozza con la madre, e con due zii ch’eran allora che Marina, stati al pranzo. Dopo un solito giro, si riuscì alla strada attraversava lo spazio occupato ora dal giardin pubblico, ed era il luogo dove i signori venivano in carrozza a ricrearsi delle fatiche della giornata. Gli zii parlarono anche a Gertrude, come portava la convenienza in quel giorno: e uno di loro, il qual pareva che, più dell’altro, conoscesse ogni persona, ogni carrozza, ogni livrea, e aveva ogni momento qualcosa da dire del signor tale e della signora tal altra, si voltò a lei tutt’a un tratto, e le disse: « ah fur-
betta! voi date un calcio a tutte queste corbellerie; siete una dirittona voi;
89. L’occupazioni si succedevano...: altra tattica astuta della strategia del principe: non lasciare ormai alla figlia un attimo pet ritornare su se stessa, per «chiarire i suoi pensieri ». La «macchina» inesorabile è in moto, offrendo e distruggendo, una volta per sempre, anche quelli che erano stati sogni intravisti e cullati: le cure della bellezza, il pranzo in famiglia, l’ossequio dei servi, i complimenti degli invitati... Per questo è stato osservato giustamente che il tempo che Gertrude passa tra il colloquio col padre e la monacazione «ha insieme dell'incubo e del sogno ». 98. La sposina: così si chiamava una giovane monacanda, perché sarebbe stata la dolce « sposa di Cristo ». Ma per chi non aveva quella vocazione e aspirava a ben altre nozze, quel nome è il colmo di un macerante sarcasmo. 104. strada Marina...: presso Porta Venezia. La precisazione topografica sembra fatta apposta per i soliti venticinque lettori, concittadini milanesi. s 106. fatiche della giornata: il discorso iro-
nico, che qui il M. fa sulla vita e sui pettegolezzi dei signori, ricorda certi motivi e certe scene del Giorzo del Parini. Ma nelle parole del M. c’è un’amarezza ben più profonda, perché nella commedia che si svolge intorno a Gertrude egli, da uomo nutrito ad un tempo dei principi ideali della Rivoluzione francese e della religione cristiana, soffre la gravità dell’offesa arrecata con l’intrigo e con la violenza alla libertà e alla vita di una creatura indifesa. 110-113. ah furbetta! ... in carrozza: il discorso di questo zio gaudente è così pieno di « corbellerie » che non sapremmo se riveli più cinismo o stupidità, e se al M. dispiaccia più l’osservare, in tipi del genere, la superficialità nel trattare cose di fede, o l’insensibilità nell’ascoltare il travaglio di una creatura che soffre. Per tali motivi ci pare alquanto generosa la conclusione di chi nelle parole di questo zio, più sincero degli altri, crede si rifletta l'animo di quegli « scioperati signori », che, in qualche momento di tedio delle loro fatiche, vedrebbero nel chiostro un’oasi di pace e di riposo.
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piantate negl’impicci noi poveri mondani, vi riurate a fare una vita beata, e andate in paradiso in carrozza ». Sul tardi, si tornò a casa; e i servitori, scendendo in fretta con le torce, avvertirono che molte visite stavano aspettando. La voce era corsa; e i parenti e gli amici venivano a fare il loro dovere. S’entrò nella sala della conversazione. La sposina ne fu l’idolo, il trastullo, la vittima. Ognuno la voleva per sé: chi si faceva prometter dolci, chi prometteva visite, chi parlava della madre tale sua parente, chi della madre tal altra sua conoscente, chi lodava il cielo di Monza, chi discorreva, con gran sapore, della gran figura ch’essa avrebbe fatta là. Altri, che non avevan potuto ancora avvicinarsi a Gertrude così assediata, stavano
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spiando l’occasione di farsi innanzi, e sentivano un
certo rimorso, fin che non avessero fatto il loro dovere. A poco a poco, la compagnia s’andò dileguando; tutti se n’andarono senza rimorso, e Gertrude rimase sola co’ genitori e il fratello. « Finalmente, » disse il principe, « ho avuto la consolazione di veder mia
, figlia trattata da par sua. Bisogna però confessare che anche lei s’è portata benone, e ha fatto vedere che non sarà impicciata a far la prima figura, e a sostenere il decoro della famiglia. » 130
Si cenò in fretta, per ritirarsi subito, ed esser pronti presto la mattina
seguente. Gertrude contristata, indispettita e, nello stesso tempo, un po’ gonfiata 135
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da tutti que’ complimenti, si rammentò in quel punto ciò che aveva patito dalla sua carceriera; e, vedendo il padre così disposto a compiacerla in tutto, fuor che in una cosa, volle approfittare dell’auge in cui si trovava, per acquietare almeno una delle passioni che la tormentavano. Mostrò quindi una gran ripugnanza a trovarsi con colei, lagnandosi fortemente delle sue maniere. « Come! » disse il principe: « v'ha mancato di rispetto colei! Domani, domani, le laverò il capo come va. Lasciate fare a me, che le farò conoscere chi è lei, e chi siete voi. E a ogni modo, una figlia della quale io son contento, non deve vedersi intorno una persona che le dispiaccia. » Così detto, fece chiamare un’altra donna, e le ordinò di servir Gertrude; la quale intanto, masticando e assaporando la soddisfazione che aveva ricevuta, si stupiva di trovarci così poco sugo, in paragone del desiderio che n’aveva avuto. Ciò che, 117. vittima: dopo idolo e trastullo questa è la definizione vera, perché ogni cosa che ora è detta o fatta intorno a Gertrude ricade su di lei a stringerne la catena senza pietà e con crudele ironia. 118. chi parlava...: di tutto si parla, meno che del sentimento religioso che, per primo, dovrebbe essere al fondo di una professione monacale. 124. se n’andarono senza rimorso: gli pareva di aver fatto il loro: dovere (e l’avevano fatto, certamente, nei riguardi del principe padre), mentre in realtà avevano contribuito a tormentare e sacrificare quella povera ragazza. i 128. a far la prima figura: in convento, si capisce, ove Gertrude dovrà portare tutto l’orgoglio della casta: altro che vocazione! Sappiamo da molto tempo che non si era
mai parlato a Gertrude della monacazione come di una scelta nobile, ma piena di sacrifici e di rinunce: figuriamoci se il padre gliene parla ora che ha scelto i motivi della soddisfazione e del fasto per convincerla alla vita claustrale. 140. chi è lei, e chi siete voi: continua la lezione dell’orgoglio e della soddisfazione. Occorrerà tenerla presente per capire, se non proprio giustificare, il contegno di Gertrude monaca. 144. così poco sugo: conclusione logica; sia perché il vantaggio che Gertrude ha ricavato è ben poca cosa di fronte al sacrificio a cui ormai si sente condannata per tutta la vita, sia perché la soddisfazione della vendetta (vuol dirci il M. col suo moralismo cristiano) non può essere che effimera e transitoria.
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sentimento anche suo malgrado; s’impossessava di tutto il suo animo, era il del chiode’ gran progressi che aveva fatti, in quella giornata, sulla strada ezza risolut e forza più molta be stro, il pensiero che a ritirarsene ora ci vorreb sentita s’era non di quella che sarebbe bastata pochi giorni prima, e che pure ‘ d’avere. casa, di vecchia una era camera, in gnarla La donna che andò ad accompa dalle uscito appena ricevuto stata già governante del principino, che aveva sue fasce, e tirato su fino all’adolescenza, e nel quale aveva riposte tutte le compiacenze, le sue speranze, la sua gloria. Era essa contenta della decisione fatta in quel giorno, come d’una sua propria fortuna; e Gertrude, per ultimo divertimento, dovette succiarsi le congratulazioni, le lodi, i consigli della vecchia, e sentir parlare di certe sue zie e prozie, le quali s’eran trovate ben contente d’esser monache, perché, essendo di quella casa, avevan sempre goduto i primi onori, avevan sempre saputo tenere uno zampino di fuori, e, dal loro parlatorio, avevano ottenuto cose che le più gran dame, nelle loro sale, non c’eran potute arrivare. Le parlò delle visite che avrebbe ricevute: un giorno poi, verrebbe il signor principino con la sua sposa, la quale doveva esser certamente una gran signorona; e allora, non solo il monastero, ma tutto il paese sarebbe in moto. La vecchia aveva parlato mentre spogliava Gertrude,
quando Gertrude era a letto; parlava ancora, che Gertrude dormiva. La gio-
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vinezza e la fatica erano state più forti de’ pensieri. Il sonno fu affannoso, torbido, pieno di sogni penosi, ma non fu rotto che dalla voce strillante della vecchia, che venne a svegliarla, perché si preparasse per la gita di Monza. « Andiamo, andiamo, signora sposina: è giorno fatto; e prima che sia vestita e pettinata, ci vorrà un’ora almeno. La signora principessa si sta vestendo; e l’hanno svegliata quattr’ore prima del solito. Il signor principino è già sceso alle scuderie, poi è tornato su, ed è all’ordine per partire quando 147-149. ci vorrebbe... d’avere: questo pensiero, mostrando come la giovane abbia coscienza della fiacchezza del suo volere, è fondamentale per capire quanto di colpa lo scrittore attribuisca a Gertrude. Per il M. la responsabilità della monacazione non è tutta del principe; ma, sia pure in parte limitata e compassionevole, è anche della ragazza. La colpa di lei consiste nel lasciarsi influenzare continuamente dalle suggestioni della fantasia, nell’agire sotto l’impressione contingente di immagini esterne, invece di ascoltare la voce e l’imperativo della coscienza. La rovina e la colpa di Gertrude risalgono dunque, per non poco, alla fiacchezza della sua volontà. 154. sua propria fortuna: un passo del Fermo e Lucia può servire a meglio illuminare questa vecchia: « Era questa la vecchia governante del Marchesino e Gertrude faceva poco guadagno nel cambio. La vecchia alla quale il Marchesino era stato dato in guardia quando fu tolto alla nutrice, aveva per lui una falsa affezione di madre: in lui aveva poste tutte le sue compiasenze, le sue speranze, la sua gloria. Dopo il Marchese
ella era stata la prima a dite che Gertrude aveva ad esser monaca per non rubare una parte d’entrata al Marchesino. Quel giorno ella era e si mostrava tanto soddisfatta che aveva ricevute le congratulazioni dei suoi conservi » (II, II). 161. il signor principino con la sua sposa: la meschinità della vecchia, a cui neppure passa per la mente quanto tali parole debbano bruciare nel cuore di una ragazza che è costretta a prendere il velo, qui raggiunge il colmo. Anche se in questa donna vogliamo riconoscere soltanto della « buona fede », perché la sua mentalità è tutta imbevuta dello splendore della casa patrizia e di un amore morboso verso il principino, nel suo loquace entusiasmo per la decisione di Gertrude ci sembra di sentire qualcosa di crudele. 164-165. La giovinezza e la fatica...: c’è una nota di affetto paterno in queste parole del M. 168-181. Andiamo... fuor della cuccia: questo discorso della vecchia è un capolavoro d’insensibilità, ed apre un nuovo quadro sui parenti del principe.
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si sia. Vispo come una lepre, quel diavoletto: ma! è stato così fin da bambino; e io posso dirlo, che l’ho portato in collo. Ma quand’è pronto, non bisogna farlo aspettare, perché, sebbene sia della miglior pasta del mondo, allora s impazientisce e strepita. Poveretto! bisogna compatirlo: è il suo naturale: e poi questa volta avrebbe anche un po’ di ragione, perché s’incomoda per lei. Guai chi lo tocca in quei momenti! non ha riguardo per nessuno, fuorché per il signor principe. Ma finalmente non ha sopra di sé che il signot principe, e un giorno, il signor principe sarà lui; più tardi che sia possibile, però.
Lesta, lesta, signorina!
Perché mi guarda così incantata?
A quest'ora do-
vrebbe esser fuor della cuccia. » i All’immagine del principino impaziente, tutti gli altri pensieri che s’erano affollati alla mente risvegliata di Gertrude, si levaron subito, come uno stormo di passere all’apparir del nibbio. Ubbidì, si vestì in fretta, si lasciò pettinare, e comparve nella sala, dove i genitori e il fratello eran radunati. Fu fatta sedere sur una sedia a braccioli, e le fu portata una chicchera di cioccolata: il che, a que’ tempi, era quel che già presso i Romani il dare la veste virile.
Quando vennero a avvertir ch’era attaccato, il principe tirò la figlia in disparte, e le disse: « orsù, Gertrude, ieri vi siete fatta onore: oggi dovete superar voi medesima. Si tratta di fare una comparsa solenne nel monastero € nel paese dove siete destinata a far la prima figura. V’aspettano... » È inutile dire che il principe aveva spedito un avviso alla badessa, il giorno avanti. « V’aspettano, e tutti gli occhi saranno sopra di voi. Dignità e disinvoltura. La badessa vi domanderà cosa volete: è una formalità. Potete rispondere che chiedete d’essere ammessa a vestir l’abito in quel monastero, dove siete stata
educata così amorevolmente, dove avete ricevute tante finezze: che è la pura
verità. Dite quelle poche parole, con un fare sciolto: che non s’avesse a dire
184. passere... nibbio: la similitudine, bellissima, compare improvvisa e ben rende lo smarrimento della fanciulla. Nell’immagine delle passere spaventate senti la comprensione del M. e in quella del nibbio l’avidità del principino: e se questa non è mai esplosa esteriormente, è stato soltanto perché su tutti c'è il padre che provvede e dispone. 184-185. si lasciò pettinare...: ogni proponimento di reazione è ormai completamente disfatto. Gertrude, stordita dal corso che gli avvenimenti hanno preso dopo il suo « sì », è divenuta come un automa, dentro la prigione dorata in cui il padre la sta chiudendo: ecco la «sedia a braccioli », ecco la « chicchera di cioccolata ». 186-187. cioccolata... veste virile: c'è una amara allusione nel confronto: la « veste virile », che i Romani davano ai giovani di 17 anni, era indice di dignità e libertà; la « cioccolata » è solo un povero segno esteriore destinato, come gli altri, a legare sempre più Gertrude alla strada intrapresa: « non è più tempo di far ragazzate » dirà, appunto, fra poco il padre. — La cioccolata nel Seicento era bevanda rara e preziosa, da persone adulte; tutta la scena ha quindi i colori del tempo. La cioccolata continuò ad
essere bevanda prelibata anche nel Settecento, come ci mostra un passo famoso del Giorno del Parini, ove al « giovin signore » si propone di bere al mattino il « brun cioccolatte ». 189-203. orsù, Gertrude... nessuno sopra di voi: « il discorso del principe è una sintesi di tutto quanto egli ha detto e fatto fin qui: comincia e termina allo stesso modo, lusingando l’amor proprio della figlia, adoperando parole d’orgoglio, insiste nel dire che questo nuovo passo è un’altra formalità (queste formalità sono tutti anelli della catena che legherà Gertrude per sempre), fa pesare il perdono da lui magnanimamente concesso per il grave fallo che è una vergogna segreta della famiglia, e suggerisce la maniera di esprimersi, l’atteggiamento da prendere, i movimenti da fare:. suggerisce, ossia impone » (Provenzal). Ma si osservi anche il quadro del discorso: dapprima il principe ha fatto venire la figlia « in disparte », come per sottolineare la gravità delle parole; poi, appena ha finito, si muove « senza aspettar risposta », quasi che fosse tardi: così Gertrude non ha nemmeno il tempo, se pur ne avesse la voglia, di dire una parola.
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che v'hanno imboccata, e che non sapete parlare da voi. Quelle buone madri
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non sanno nulla dell’accaduto: è un segreto che deve restar sepolto nella famiglia; e perciò non fate una faccia contrita e dubbiosa, che potesse dar qualche sospetto. Fate vedere di che sangue uscite:
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manierosa, modesta;
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cordatevi che, in quel luogo, fuor della famiglia, non ci sarà nessuno sopra di voi. » Senza aspettar risposta, il principe si mosse; Gertrude, la principessa e il principino lo seguirono; scesero tutti le scale, e montarono in carrozza. Gl’impicci e le noie del mondo, e la vita beata del chiostro, principalmente per le giovani di sangue nobilissimo, furono il tema della conversazione, durante il tragitto. Sul finir della strada, il principe rinnovò l’istruzioni alla figlia, e le ripeté più volte la formola della risposta. All’entrare in Monza, Gertrude si sentì stringere il cuore; ma la sua attenzione fu attirata per un istante da non so quali signori che, fatta fermar la carrozza, recitarono non so qual complimento. Ripreso il cammino, s’andò quasi di passo al monastero, tra gli sguardi de’ curiosi, che accorrevano da tutte le parti sulla strada. Al fermarsi della carrozza, davanti a quelle mura, davanti a quella porta, il cuore si strinse ancor più a Gertrude. Si smontò tra due ale di popolo, che i servitori facevano stare indietro. Tutti quegli occhi addosso alla poveretta l’obbligavano a studiar continuamente il suo contegno: ma più di tutti quelli insieme, la tenevano in suggezione i due del padre, a’ quali essa, quantunque ne avesse così gran paura, non poteva lasciar di rivolgere i suoi, ogni momento. E quegli occhi governavano le sue mosse e il suo volto, come per mezzo di redini invisibili. Attraversato il primo cortile, s’entrò in un altro, e
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lì si vide la porta del chiostro interno, spalancata e tutta occupata da monache. Nella prima fila, la badessa circondata da anziane; dietro, altre monache alla rinfusa, alcune in punta di piedi; in ultimo le converse ritte sopra panchetti. Si vedevan pure qua e là luccicare a mezz’aria alcuni occhietti, spuntar qualche visino tra le tonache: eran le più destre, e le più coraggiose tra l’educande, che, ficcandosi e penetrando tra monaca e monaca, eran riuscite a farsi un po’ di pertugio, per vedere anch’esse qualche cosa. Da quella calca uscivano acclamazioni; si vedevan molte braccia dimenarsi, in segno d’acco-
glienza e di gioia. Giunsero alla porta; Gertrude si trovò a viso a viso con
la madre badessa. Dopo i primi complimenti, questa, con una maniera tra il
giulivo e il solenne, le domandò cosa desiderasse in quel luogo, dove non
c'era chi le potesse negar nulla. 211-212. recitarono non so qual complimento: questo incontro fugace è come la prima scena della lunga recita, commedia e tragedia insieme, in cui si risolverà tutta la visita di Gertrude al monastero. È stato scritto che la sola che qui non recita è Gertrude: a noi pare invece che sia lei, puttroppo, a recitare più di tutti: e non, come gli altri, da attrice ma da povera marionetta mossa dai fili occultamente maneggiati dal padre. 220-221. quegli occhi... redini invisibili: ecco i fili, anzi le « redini » che muovono tutta la recitazione di Gertrude. Il paragone, di forte effetto nella sua concisione impres-
sionante, rivela l’animo dello psicologo e il tocco del poeta. 223-231. Nella prima fila... madre badessa: questo monastero di un giorno di gala richiama alla mente il palazzo del fratello dell’ucciso il giorno di sfarzo nell’attesa di padre Cristoforo. È un quadro movimentato ed arguto, dipinto con arte penetrante ed ironica; guarda in modo speciale il tocco efficacissimo di quegli occhietti e di quei visini che spuntano «tra le tonache »; e poi quella magistrale presentazione della madre badessa. per scolpire la quale nell’aspetto e nell’animo bastano al M. due aggettivi: « tra il giulivo e il solenne ».
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« Son qui... » cominciò Gertrude; ma, al punto di proferir le parole che
dovevano decider quasi irrevocabilmente del suo destino, esitò un momento, e rimase con gli occhi fissi sulla folla che le stava davanti. Vide, in quel mo-
mento, una di quelle sue note compagne, che la guardava con un’aria di passione e di malizia insieme, e pareva che dicesse: ah! la c'è cascatacomla
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brava. Quella vista; risvegliando più vivi nell'animo suo tutti gli antichi sen-
timenti, le restituì anche un po’ di quel poco antico coraggio: e già stava cercando .una risposta qualunque, diversa da quella che le era stata dettata ; quando, alzato lo sguardo alla faccia del padre, quasi per esperimentar le sue forze, scorse su quella un’inquietudine così cupa, un’impazienza così minaccevole, che, risoluta per:paura, con la stessa prontezza che avrebbe preso la 245 fuga dinanzi un oggetto terribile, proseguì: « son qui a chiedere d’esser ammessa a vestir l’abito religioso, in questo monastero, dove sono stata allevata così amorevolmente ». La badessa rispose subito, che le dispiaceva molto, in una tale occasione, che le regole non le permettessero di dare immediatamente una risposta, la quale doveva venire dai voti comuni delle suore, e 250” alla quale doveva precedere la licenza de’ superiori. Che però Gertrude, conoscendo i sentimenti che s’avevan per lei in quel luogo, poteva preveder con certezza qual sarebbe questa risposta; e che intanto nessuna regola proibiva alla badessa e alle suore di manifestare la consolazione che sentivano di quella richiesta. S’alzò allora un frastono confuso di congratulazioni e d’acclama255 zioni. Vennero subito gran guantiere colme di dolci, che furon present ati, prima alla sposina, e dopo ai parenti. Mentre alcune monache facevano a rubarsela, e altre complimentavan la madre, altre il principino, la badessa fece pregare il principe che volesse venire alla grata del parlatorio, dove l’atten«deva. Era accompagnata da due anziane; e quando lo vide comparire, « si260 gnor principe, » disse: « per ubbidire alle regole... per adempire una formalità indispensabile, sebbene in questo caso... pure devo dirle... che, ogni volta che una figlia chiede d’essere ammessa a vestir l’abito,... la superiora, quale io sono indegnamente,... è obbligata d’avvertire i genitori... che se, per caso... forzassero la volontà della figlia, incorrerebbero nella scomunica. Mi scu265
serà... » « Benissimo, benissimo, reverenda madre. Lodo la sua esattezza: ‘è troppo giusto... Ma lei non può dubitare... »
« Oh! pensi, signor principe,... ho parlato per obbligo preciso,... del restom sbru'me
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« Certo, certo, madre badessa. » Barattate queste poche parole, i due interlocutori s’inchinarono vicendevolmente, e si separarono, come
se a tutt'e due pesasse di rimaner lì testa
testa; e andarono a riunirsi ciascuno alla sua compagnia, l’uno fuori, l’altra 2554 tiere: vassoi. Qui si tratta di vassoi rie i dolci nei rinfreschi, ma il nome deriva dai piatti eleganti (o anche scatole) in cui si usava deporre i guanti. 259-270. signor principe... madre badessa: tutto il colloquio fra il principe e la madre badessa è stato ben definito « una trista scena di odiosa ipocrisia ». Ma occorre aggiungere che lo scrittore di queste pa-
gine è anche l’autore delle Osservazioni sul-
la morale cattolica, e un grande -indagatore del cuore umano. Da qui la manifesta con-
danna di chi riduce le leggi sagge ed umane della Chiesa ad una « formalità indispensabile » e ad un pretesto per alcuni meccanici complimenti; da qui l’arte di farci sentire, attraverso l’imbarazzo e la fretta del colloquio, la voce di un insopprimibile rimorso che attanaglia nel momento stesso in cui si ha la coscienza di peccare,
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dentro la soglia claustrale. Dato luogo a un po” d’altre ciarle, « oh via, »
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disse il principe: « Gertrude potrà presto godersi a suo bell’agio la compa-
gnia di queste madri. Per ora le abbiamo incomodate abbastanza. » Così detto, fece un inchino; la famiglia si mosse con lui; si rinnovarono 1 compli-
menti, e si partì. Gertrude, nel tornare, non aveva troppa voglia di discorrere. Spaventata
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del passo che aveva fatto, vergognosa della sua dappocaggine, indispettita contro gli altri e contro sé stessa, faceva tristamente il conto dell’occasioni, che le rimanevano ancora di dir di no; e prometteva debolmente e confusamente a sé stessa che, in questa, o in quella, o in quell’altra, sarebbe più destra e più forte. Con tutti questi pensieri, non le era però cessato affatto il terrore di quel cipiglio del padre; talché, quando, con un’occhiata datagli alla sfuggita, poté chiarirsi che sul volto di lui non c’era più alcun vestigio di collera, quando anzi vide che si mostrava soddisfattissimo di lei, le parve una bella cosa, e fu, per un istante, tutta contenta. Appena arrivati, bisognò rivestirsi e rilisciarsi; poi il desinare, poi alcune visite, poi la trottata, poi la conversazione, poi la cena. Sulla fine di questa,
il principe mise in campo un altro affare, la scelta della madrina. Così si chiamava una dama, la quale, pregata da’ genitori, diventava custode e scorta della giovane monacanda, nel tempo tra la richiesta e l’entratura nel monastero; tempo che veniva speso in visitar le chiese, i palazzi pubblici, le conversazioni, le ville, i santuari: tutte le cose in somma più notabili della città e de’ contorni; affinché le giovani, prima di proferire un voto irrevocabile, vedessero bene a cosa davano un ‘calcio. « Bisognerà pensare a una madrina, » disse il principe: « perché domani verrà il vicario delle monache, per la formalità dell'esame, e subito dopo, Gertrude verrà proposta in capitolo, per esser accettata dalle madri.» Nel dir questo, s’era voltato verso la principessa; e questa, credendo che fosse un invito a proporre, cominciava: « ci sarebbe...» Ma il principe interruppe: «No, no, signora principessa: la madrina deve prima di tutto piacere alla sposina; e benché l’uso universale dia la scelta ai parenti, pure Gertrude ha tanto giudizio, tanta assennatezza, che merita bene che si faccia un’eccezione per lei. » E qui, voltandosi a Gertrude, in atto di chi annunzia una grazia singolare, continuò: « ognuna delle
dame che si son trovate questa sera alla conversazione, ha quel che si richiede per esser madrina d’una figlia della nostra casa; non ce n’è nessuna, crederei, che non sia per tenersi onorata della preferenza: scegliete voi. »
285-286. con ‘ un'occhiata ... allaÈ sfuggita:: è il momento più commovente di questo ritratto di Gertrude. Della quale ci fa pena, soprattutto, la sua anima infantile, pronta, dopo tanta tempesta di sdegni e rimorsi, a sentirsi « tutta contenta » perché il padre non le si mostra più in collera. Ma il padre, di fronte a quel cuore di bambina, non ha mai la minima commozione, il minimo turbamento d’affetto. 309. scegliete voi: « L'episodio della scelta della madrina è introdotto per ribadire e legate ancora una volta la volontà di Gertrude. Il principe, si può dire, non è mai sazio di questa opera sottile e silenziosa di
violenza. Come l’ebbro desidera il vino, Nel-
l’offese quell’odio s’irrita; E al maggior dei delitti gl’incita Del delitto la gioia crudel. Sentiamo in questi versi della Passione l’acume psicologico del futuro natratore: l’ebbrezza eccita il desiderio di altra ebbrezza, l’offendere genera nuovo odio, e. il gusto della sevizia incita all’ultimo eccidio. Orbene, anche qui, la violenza del principe eccita in lui nuovi accorgimenti di violenza, il disagio della menzogna viene soffocato e superato con altre menzogne. E nella scelta della madrina, il principe osserva la regola costante del suo operare: far trionfare la propria volontà, rispettando formalmen-
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Gertrude vedeva bene che far questa scelta era dare un nuovo consenso;
ma la proposta veniva fatta con tanto apparato, che il rifiuto, per quanto fosse umile poteva parer disprezzo, o almeno capriccio e leziosaggine. Fece dunque anche quel passo;‘e nominò la dama che, in quella sera, le era andata più a genio; quella cioè che le aveva fatto più carezze, che l’aveva più
lodata, che l’aveva trattata con quelle maniere famigliari, affettuose e premurose, che, ne’ primi momenti d’una conoscenza, contraffanno un’anti ca ami-
cizia. « Ottima scelta, » disse il principe, che desiderava e aspettava appunto
quella. Fosse arte o caso, era avvenuto come quando il giocator di bussolotti
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facendovi scorrere davanti agli occhi le carte d’un mazzo, vi dice che ne pensiate una, e lui poi ve la indovinerà; ma le ha fatte scorrere in maniera che
ne vediate una sola. Quella dama era stata tanto intorno a Gertrude tutta la sera, l’aveva tanto occupata di sé, che a questa sarebbe bisognato uno sforzo di fantasia per pensarne un’altra. Tante premure poi non eran senza motivo: la dama aveva, da molto tempo, messo gli occhi addosso al principino, per farlo suo genero: quindi riguardava le cose di quella casa come sue proprie; ed era ben naturale che s’interessasse pet quella cara Gertrude, niente meno de’ suoi parenti più prossimi. Il giorno dopo, Gertrude si svegliò col pensiero dell’esaminatore che doveva venire; e mentre stava ruminando se potesse cogliere quella occasione così decisiva, per tornare indietro, e in qual maniera, il principe la fece chiamare. « Orsù, figliuola, » le disse: « finora vi siete portata egregiamente: oggi si tratta di coronar l’opera. Tutto quel che s’è fatto finora, s'è fatto di vostro consenso. Se in questo tempo vi fosse nato qualche dubbio, qualche pentimentuccio, grilli di gioventù, avreste dovuto spiegarvi; ma al punto a cui sono ora le cose, non è più tempo di far ragazzate. Quell’uomo dabbene che deve venire stamattina, vi farà cento domande sulla vostra vocazione: e se vi fate monaca di vostra volontà, e il perché e il per come, e che so io? Se voi titubate nel rispondere, vi terrà sulla corda chi sa quanto. Sarebbe un’uggia, un tormento per voi; ma ne potrebbe anche venire un altro guaio più
serio. Dopo tutte le dimostrazioni pubbliche che si son fatte, ogni più piccola esitazione che si vedesse in voi, metterebbe a repentaglio il mio onore, te la volontà altrui. E il M., che ci ha fatto assistere al giuoco di questa diplomazia farisaica del principe, alla fine, con ironica
voluttà, ci offre la chiave per intendere le ragioni fatali di quella scelta e ci svela il segreto della complicità interessata del nuovo personaggio » (Russo). 318. il giocator di bussolotti...: il paragone vale non tanto perché calza a pennello {il giocator di bussolotti = il principe; la catta vista lei sola = la dama che era stata sempre intorno a Gertrude), quanto perché ci dà la sensazione di portare un po’ di aperto sorriso fra tanta ipocrisia. 331. Orsù, figliuola...: questo nuovo discorso del principe è ineccepibile per completezza, chiarezza, organicità di premesse e di deduzioni. Dopo le lodi per il passato comportamento, e la riconferma della libertà delle scelte fin qui fatte, viene l’avvertimen-
to che non c’è più tempo per i ripensamenti, e quindi la ferma difesa del proprio onore, con la terribile minaccia di svelare il «vero motivo » della risoluzione; seguono le indicazioni su come regolatsi col prete « dabbene », sulla forma e sulla: sostanza delle risposte, e infine l’accenno della gran soddisfazione, se tutto si farà presto e bene. Fra quanti discorsi il principe ha fatto alla figlia, questo, pur rivestito del velluto dei complimenti e delle blandizie, si rivela il più aspro e il più minaccioso. Ed è ovvio che sia così, perché siamo giunti al momento decisivo non solo per Gertrude, ma anche per il principe: è ora che la ragazza potrebbe, fra pochi istanti, se avesse la forza di volerlo, dare una sterzata decisiva e salvarsi per sempre: ed è ora, anche, che l'onore del principe potrebbe ricevere, per sempre, un colpo fatale.
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rezza per una ferma potrebbe far credere ch’io avessi presa una vostra legge so io? In questo che ... risoluzione, che avessi precipitato la cosa, che avessi i dolorosi: o lasciar caso, mi troverei nella necessità di scegliere tra due partit partito che non che il mondo formi un tristo concetto della mia condotta: O svelare il vero mopuò stare assolutamente con ciò che devo a me stesso. diven-
ude era tivo della vostra risoluzione e...» Ma qui, vedendo che Gertr come le foeva, tata scarlatta, che le si gonfiavan gli occhi, e il viso si contra quel discorso, e, con glie d’un fiore, nell’afa che precede la burrasca, troncò o buon giudiaria serena, riprese: « via, via, tutto dipende da voi, dal vostr fine una cosa sulla r guasta zio. So che n’avete molto, e non siete ragazza da e restiam più; parli ne fatta bene; ma io doveva preveder tutti i casi. Non se nascer far d’accordo che voi risponderete con franchezza, in maniera di non fuori più dubbi nella testa di quell'uomo dabbene. Così anche voi ne sarete azioni più presto ». E qui, dopo aver suggerita qualche risposta all’interrog n prech’era nti godime de’ probabili, entrò nel solito discorso delle dolcezze e un venne che fin parati a Gertrude nel monastero; e la trattenne in quello, i avvert gli servitore ad annunziare il vicario. Il principe rinnovò in fretta menti più importanti, e lasciò la figlia sola con lui, com’era prescritto. de L’uomo dabbene veniva con un po’ d’opinione già fatta che Gertru e, princip il detto avesse una gran vocazione al chiostro: perché così gli aveva la quando era stato a invitarlo. È vero che il buon prete, il quale sapeva che diffidenza era una delle virtù più necessarie nel suo ufizio, aveva per massima d’andar adagio nel credere a simili proteste, e di stare in guardia contro le preoccupazioni; ma ben di rado avviene che le parole affermative e sicure d’una persona autorevole, in qualsivoglia genere, non tingano del loro colore la mente di. chi le ascolta. Dopo i primi complimenti, « signorina, » le disse, «io vengo a far la parte del diavolo; vengo a mettere in dubbio ciò che, nella sua supplica lei ha dato per certo; vengo a metterle davanti agli occhi le difficoltà, e ad accer-
tarmi se le ha ben considerate. Si contenti ch'io le faccia qualche interrogazione. »
« Dica pure, » rispose Gertrude. Il buon prete cominciò allora a interrogarla, nella forma prescritta dalle
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regole. « Sente lei in cuor suo una libera, spontanea risoluzione di farsi mo348-349. come le foglie d’un fiore...: l’immagine gentilissima bene esprime il tormento della fanciulla, e porta anche noi a sentire nuova pietà per quella povera creatura divenuta « scarlatta », con gli occhi gonfi, col viso contratto. 357. la trattenne... fin che: abbiamo visto altra volta questa tattica astuta del principe: tenere la figlia, nei momenti decisivi, tutta presa dai suoi discorsi in modo da non lasciarla punto sola a rimuginare una qualsiasi linea d’azione. 360-362. uomo dabbene... buon prete: il ripetersi di queste e simili determinazioni sulla persona dell’esaminatore, mentre setve ad esprimere l’impaccio del poveretto, implicato in una vicenda di falsità e di raggiri, sembra anche volere insistere su una
dolorosa verità: che cioè, in una società corrotta e lontana dalle più umane norme di vita, anche coloro che agissero rettamente, possono farsi strumento inconsapevole di oppressione e di ingiustizia nelle mani dei
malvagi. Attraverso la figura del vicario c’è, dunque, un nuovo spunto polemico contro la società del Seicento. — Ma forse il M. ha pensato anche ad altro, creando questo prete dabbene: ha voluto, cioè, ammonire proprio gli uomini di Chiesa, ministri di Dio, che la loro opera non richiede soltanto una comune bontà — che può sfociare nella dabbenaggine —, ma anche una mente lucida ed un intuito psicologico pronto, per non cadere preda dei figli delle tenebre, tante volte più astuti dei figli della luce. Che è, d’altra parte, un ammonimento del Vangelo.
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naca? Non sono state adoperate minacce, o lusinghe? Non s’è fatto uso di nessuna autorità, per indurla a questo? Parli senza riguardi, e con sincerità, a un uomo il cui dovere è di conoscere la sua vera volontà, per impedire che non le venga usata violenza in nessun modo. » La vera risposta a una tale domanda s’affacciò subito alla mente di Gertrude, con un’evidenza terribile. Per dare quella risposta, bisoghava venire a una spiegazione, dire di che era stata minacciata, raccontare una storia... L’in-
felice rifuggì spaventata da questa idea; cercò in fretta un’altra risposta; ne trovò una sola che potesse liberarla presto e sicuramente da quel supplizio, 385
la più contraria al vero. « Mi fo monaca, » disse, nascondendo il suo turbamento, « mi fo monaca, di mio genio, liberamente. » |
« Da quanto tempo le è nato codesto pensiero? » domandò ancora il buon prete. 390
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« L'ho sempre avuto, » rispose Gertrude, divenuta, dopo quel primo passo, più franca a mentire contro sé stessa. « Ma quale è il motivo principale che la induce a farsi monaca? » Il buon prete non sapeva che terribile tasto toccasse; e Gertrude si fece una gran forza per non lasciar trasparite sul viso l’effetto che quelle parole le producevano nell’animo. « Il motivo, » disse, « è di servire a Dio, e di fuggire i pericoli del mondo. » « Non sarebbe mai qualche disgusto? qualche... mi scusi... capriccio? Alle volte, una cagioné momentanea può fare un’impressione che par che deva durar sempre; e quando poi la cagione cessa, e l’animo si muta, allora... » « No, no, » rispose precipitosamente Gertrude: « la cagione è quella che le ho detto. » Il vicario, più per adempire interamente il suo obbligo, che per la persuasione che ce ne fosse bisogno, insistette con le domande; ma Gertrude era determinata d’ingannarlo. Oltre il ribrezzo che le cagionava il pensiero di render consapevole della sua debolezza quel grave e dabben prete, che pareva così lontano dal sospettar tal cosa di lei; la poveretta pensava poi anche ch’egli poteva bene impedire che si facesse monaca; ma lì finiva la sua autorità sopra di lei, e la sua protezione. Partito che fosse, essa rimarrebbe
sola col principe. E qualunque cosa avesse poi a patire in quella casa, il buon prete non n’avrebbe saputo nulla; o sapendolo, con tutta la sua buona
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intenzione, non avrebbe potuto far altro che aver compassione di lei, quella compassione tranquilla e misurata, che, in generale, s’accorda, come per cortesia, a chi abbia dato cagione o pretesto al male che gli fanno. L’esaminatore 383. rifuggì... da questa idea: e quindi dall’estrema possibilità di scampo. Poi, « en-
trata nel cammino della menzogna, essa va fino in fondo. La sua indole, naturalmente
sincera, pervertita dalla frode e dalla violenza altrui, diventa alla sua volta ingannatrice e — preannuncia opportunamente il Galletti — ripagherà poi gli uomini e la società della stessa moneta. Tutti gli errori e le colpe successive di Gertrude derivano inevitabilmente da questa perversione ». 392. che terribile tasto: l’episodio del paggio e la storia del biglietto. In realtà una cosa da nulla, una vera « ragazzata »; ma
il principe era riuscito a farla penetrare nella mente ingenua e fantasiosa di Gertrude come la più disonorevole delle colpe. 404. consapevole della sua debolezza: l’orgoglio del padre e della casta lo ha nel sangue anche lei. 410. non... altro che aver compassione: tutta questa osservazione è molto importante: sia come estrema giustificazione della condotta della ragazza, che con tragica chiarezza intuisce quale vita avrebbe vissuta con quel padre, in quella casa; sia come espressione della triste conoscenza che il M. ha degli uomini.
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de fu prima stanco d’interrogare, che la sventurata di mentire: €, sentendo
le risposte sempre conformi, e non avendo alcun motivo di dubitare della
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loro schiettezza, mutò finalmente linguaggio; si rallegrò con lei, le chiese, in certo modo, scusa d’aver tardato tanto a far questo suo dovere; aggiunse ciò che credeva più atto a confermarla nel buon proposito; e si licenziò. Attraversando le sale per uscire, s’abbatté nel principe, il quale pareva che passasse di là a caso; e con lui pure si congratulò delle buone disposizioni in cui aveva trovata la sua figliuola. Il principe era stato fino allora in una sospensione molto penosa: a quella notizia, respirò, e dimenticando la sua gravità consueta, andò quasi di corsa da Gertrude, la ricolmò di lodi, di carezze e di promesse, con un giubilo cordiale, con una tenerezza in gran par: te sincera: così fatto è questo guazzabuglio del cuore umano. Noi non seguiremo Gertrude in quel giro continuato di spettacoli e di divertimenti. E neppure descriveremo, in particolare e per ordine, i sentimenti dell'animo suo in tutto quel tempo: sarebbe una storia di dolori e di fluttuazioni, troppo monotona, e troppo somigliante alle cose già dette. L’amenità de’ luoghi, la varietà degli oggetti, quello svago che pur trovava nello scorrere in qua e in là all'aria aperta, le rendevan più odiosa l’idea del
luogo dove alla fine si smonterebbe per l’ultima volta, per sempre. Più pun-
genti ancora eran l’impressioni che riceveva nelle conversazioni e nelle feste. La vista delle spose alle quali si dava questo titolo nel senso più ovvio e
413. la sventurata: fino ad ora era stata chiamata l’infelice. La nuova designazione, mentre accentua le responsabilità di Gertrude, suona più cupa e più lugubre. Ed è questa la parola che troveremo ripetuta con una coloritura ancora più intensa all’inizio della colpa che sarà tutta di Gertrude. 419. passasse di là a caso: tutt’altro; noi sappiamo che il principe, nonostante tutta la sua autorità, non era, né poteva essere,
assolutamente sicuro sull’esito dell’esame: per questo ci sembra di vederlo non solo sospeso ma come impegnato, anche al di là delle pareti, a guidare con la forza misteriosa della suggestione le parole della figlia. 424. guazzabuglio del cuore umano: è una delle definizioni più famose del M., che nell’esame di questo « guazzabuglio » di bene e di male, di crudeltà e di tenerezze, è sempre un grande poeta. Il principe, che ormai ha ottenuto il sacrificio della figlia per soddisfare l'ambizione del casato, può bene ricolmare la sventurata « di lodi, di carezze, di promesse ». Ma, come è esaurita la sua fatica, così è esaurita la sua vita artistica: perciò egli ora esce, e per sempre, dalla scena, lasciandoci il ricotdo di una delle figure più cupe, o, come è stata detta, « la più bassa moralmente» del romanzo. Un uomo che il M. certamente condanna, ma che allo stesso tempo, con un superiore ed umano equilibrio, considera vittima, e non solo tiranno, della società secentesca» un maniaco tormentato dall’orgoglio di classe e
dal decoro della famiglia. — Sono, queste, valutazioni morali che comunque non intaccano il valore della creazione artistica; il Principe padre è senz’altro fra i personaggi minori del romanzo più rifiniti e poeticamente più validi. 433-436. La visita delle spose... d’ogni felicità: dunque la passione d’amore, la bramosia d’essere sposa, sono il rodimento che divorerà, fatalmente, Gertrude da suora. A questo proposito nel Ferzzo e Lucia c'è un passo particolarmente significativo, nel colloquio fra la signora e Lucia riguardo alle intenzioni di don Rodrigo. Alla ragazza che si mostrava sicura che costui, dopo averla eventualmente sedotta non l’avrebbe sposata, la monaca rispondeva: « Perché no, sposarvi? Se ne vede tante a questo mondo. Sareste la signora donna Lucia: che meraviglia! Non sareste la donna più stranamente nominata del mondo ». E, riferendosi a come l’aveva chiamata il padre guardiano, la signora concludeva con frase che nel suo tono beffardo nasconde tanto strazio: «— Avete sentito come mi chiamava quel buon uomo con la barba bianca che vi ha condotta qui? * Reverenda madre ?. Io, vedete, sono la sua reverenda madre. Bel bambino davvero ch’io ho. — E a questa idea si pose a ridere sgangheratamente: ma tosto aggrondatasi, e levatasi a passeggiare nel patlatorio... — madre!... — continuò... — avrei dovuto sentirmelo dire, non da un vecchio calvo e barbato — ». Questo brano illumina
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più usitato, le cagionava un’invidia, un rodimento intollerabile; e talvolta l'aspetto di qualche altro personaggio le faceva parere che, nel sentirsi dare quel titolo, dovesse trovarsi il colmo d’ogni felicità. Talvolta la pompa de’ palazzi, lo splendore degli addobbi, il brulichìo e il fracasso giulivo delle feste, le comunicavano un’ebbrezza, un ardor tale di viver lieto, che prometteva a sé stessa di disdirsi, di soffrir tutto, piuttosto che tornare all’ombra fredda e morta del chiostro. Ma tutte quelle risoluzioni sfumavano alla considerazione più riposata delle difficoltà, al solo fissar gli occhi in viso al principe. Talvolta anche, il pensiero di dover abbandonare per sempre que’ godimenti, gliene rendeva amaro e penoso quel piccol saggio; come l’infermo assetato guarda con rabbia; e quasi rispinge con dispetto il cucchiaio d’acqua che il medico gli concede a fatica. Intanto il vicario delle monache ebbe rilasciata l’attestazione necessaria, e venne la licenza di tenere il capitolo per l'accettazione di Gertrude. Il capitolo si tenne; concorsero, com’era da aspet-
tarsi, i due terzi de’ voti segreti ch’eran richiesti da’ regolamenti; e Gertrude fu accettata. Lei medesima, stanca di quel lungo strazio, chiese allora 450 ‘ d’entrar più presto che fosse possibile, nel monastero. Non c’era sicuramente chi volesse frenare una tale impazienza. Fu dunque fatta la sua volontà; e, condotta pomposamente al monastero, vestì l’abito. Dopo dodici mesi di noviziato, pieni di pentimenti e di ripentimenti, si trovò al momento della professione, al momento cioè in cui conveniva, o dire un no più strano, più 455 inaspettato, più scandaloso che mai, o ripetere un sì tante volte detto; lo ri- peté, e fu monaca per sempre. È una delle facoltà singolari e incomunicabili della religione cristiana, il poter indirizzare e consolare chiunque, in qualsivoglia congiuntura, a qualsivoglia termine, ricorra ad essa. Se al passato c’è rimedio, essa lo prescrive, lo 460 somministra, dà lume e vigore per metterlo in opera, a qualunque costo; se non c’è, essa dà il modo di far realmente e in effetto, ciò che si dice in proanche il senso di quel « qualche altro personaggio »: un giovane, probabilmente, di cui avrebbe desiderato divenire sposa. 439-440. ombra fredda e morta del chiostro: tragica immagine. Riflettendo sul passo che or ora abbiamo riportato dal Fermo e Lucia ne puoi intendere meglio il senso recondito. ù 443-444. come l’infermo assetato...: la similitudine del malato diffonde nuova pietà LO sulla sventurata ragazza. 447. capitolo: così si chiama la riunione che periodicamente tengono i frati e le suore nel corivento, per trattare quanto riguarda la loto vita. Lo stesso nome ha anche il luogo dell’assemblea, e da qui il termine sala capitolare.
451. Fu... fatta la sua volontà: quanto sarcasmo e quanta compassione di fronte a questo crollo assoluto della volontà. Il principe ha conseguito il più completo successo: il consenso sollecitato dalla vittima! 452. vestì l'abito: la vestizione è il primo atto rituale della monacazione; segue il r0-
viziato, cioè l’anno di prova; conclude la
e ne, cioè il giuramento 7 professione, di mantenere i tre voti di povertà, castità, obbedienza. 456. e fu monaca per sempre: dopo il denso e frettoloso periodo che pareva voler sorvolare su un anno inteto di lotte vane fra il «sì» e il «no», la frase finale suggella con lapidarietà la tragedia di una decisione contro la quale si è tormentata una vita, e che niente potrà più revocare. 457-469. È una delle facoltà... lieto fine: pagina di pacata e accorata poesia, che apre una gran luce di speranza e di serenità dopo tanto tormento. L'efficacia della religione a lenire i dolori e ad accettare con animo rassegnato la vita, è certamente valida per tutti, ma qui, com'è naturale, il M. ha la mente rivolta a Gertrude: a lei la religione avrebbe potuto insegnare a prendere come dato dalla mano di Dio ciò che le era stato imposto dagli uomini, e avrebbe potuto procurare quelle intime gioie dello spirito che altra volta il poeta aveva invocato, proprio sulle suore, dallo Spirito Santo: « Dona alle ascose vergini Le pure gioie ascose » (Pentecoste).
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verbio, di necessità virtù. Insegna a continuare con sapienza ciò ch'è stato
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intrapreso per leggerezza; piega l’animo ad abbracciar con propensione cio che è stato imposto dalla prepotenza, e dà a una scelta che fu temeraria, ma che è irrevocabile; tutta la santità, tutta la saviezza, diciamolo pur francamente, tutte le gioie della vocazione. È una strada così fatta che, da qualunque laberinto, da qualunque. precipizio, l’uomo capiti ad essa, e vi faccia un
passo, può d’allora in poi camminare con sicurezza e di buona voglia, e arrivar lietamente a un lieto fine. Con questo mezzo, Gertrude avrebbe potuto
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essere una monaca santa e contenta, comunque lo fosse divenuta. Ma l’infe-
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stato presente, un vagar faticoso dietro a desidèri che non sarebbero mai soddisfatti, tali erano le principali occupazioni dell’animo suo. Rimasticava quell’amaro passato, ricomponeva nella memoria tutte le circostanze per le quali si trovava lì; e disfaceva mille volte inutilmente col pensiero ciò che aveva fatto con l’opera; accusava sé di dappocaggine, altri di tirannia e di perfidia; e si rodeva. Idolatrava insieme e piangeva la sua bellezza, deplorava una gio-
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lice si dibatteva in vece sotto il giogo, e così ne sentiva più forte il peso e le scosse. Un rammarico incessante della libertà perduta, l’abborrimento dello
ventù destinata a struggersi in un lento martirio, e invidiava, in certi momenti, qualunque donna, in qualunque condizione, con qualunque coscienza, potesse liberamente godersi nel mondo que’ doni. La vista di quelle monache che avevan tenuto di mano a tirarla là dentro, le era odiosa. Si ricordava l’arti e i raggiri che avevan messi in opera, e le pagava con tante sgarbatezze, con tanti dispetti, e anche con aperti rinfacciamenti. A quelle conveniva le più volte mandar giù e tacere: perché il principe aveva ben voluto tiranneggiar la figlia quanto era necessario per
ispingerla al chiostro; ma ottenuto l’intento, non avrebbe così facilmente sofferto che altri pretendesse d’aver ragione contro il suo sangue: e ogni po’ di rumore che avesser fatto, poteva esser cagione di far loro perdere quella gran
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protezione, o cambiar per avventura il protettore in nemico. Pare che Gertrude avrebbe dovuto sentire una certa propensione per l’altre suore, che non avevano avuto parte in quegl’intrighi, e che, senza averla desiderata per compagna, l’amavano come tale; e pie, occupate e ilari, le mostravano col loro esem-
pio come anche là dentro si potesse non solo vivere, ma starci bene. Ma queste pure le erano odiose, per un altro verso. La loro aria di pietà e di contentez-
za le riusciva come un rimprovero della sua inquietudine, e della sua condotta bisbetica; e non lasciava sfuggire occasione di deriderle dietro le spalle, come 470. comunque lo fosse divenuta: si è soliti ricordare più casi di suore che, monacate per forza, seppero condurre una vita claustrale ineccepibile; in particolare Jacqueline Arnaud, monacata contro sua voglia e poi divenuta Mère Angèlique, la grande badessa del famoso convento di Port-Royal, e Suor Maria Celeste, la figlia di Galileo Galilei, anch’essa messa in convento senza vocazione e poi riuscita monaca esemplare. 478. e si rodeva: è il momento: centrale di questo grande ritratto di Gertrude suora: una donna devastata dall’assillo di sentirsi sfuggire di momento in momento gli unici beni che crede di possedere, gli strumenti
di ogni gioia: la bellezza e la giovinezza. Quel che di morboso che pervade la frase successiva — «Idolatrava insieme e piangeva la sua bellezza, deplorava una gioventù...» — preannurzia stupendamente lo sfrenartsi delle passioni peggiori: basterà una occasione per farle esplodere. — L’indagine di questo cuore sventurato, che pare venuto al mondo ormai condannato dal destino, è delle più impressionanti di tutto il romanzo. 488. aver ragione contro il suo sangue: l’aveva ripetuto più volte il principe stesso alla figlia: «Fate vedere di che sangue uscite ».
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pinzochere, o di morderle come ipocrite. Forse sarebbe stata meno avversa ad
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esse, se avesse saputo o indovinato che le poche palle nere, trovate nel bossolo che decise della sua accettazione, c'erano appunto state messe da quelle. Qualche consolazione le pareva
talvolta di trovar
nel comandare,
l’esser corteggiata in monastero, nel ricever visite di complimento
nel-
da per-
sone di fuori, nello spuntar qualche impegno, nello spendere la sua prote-
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zione, nel sentirsi chiamar la signora; ma quali consolazioni!
Il cuore, tro-
vandosene così poco appagato, avrebbe voluto di quando in quando aggiungervi, e goder con esse le consolazioni della religione; ma queste non ven-
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gono se non a chi trascura quell’altre: come il naufrago, se vuole afferrar la tavola che può condurlo'in salvo sulla riva, deve pure allargare il pugno, e abbandonar l’alghe, che aveva prese, per una rabbia d’istinto. Poco dopo la professione, Gertrude era stata fatta maestra dell’educande; ora pensate come dovevano stare quelle giovinette, sotto una tal disciplina.
Le sue antiche confidenti eran tutte uscite; ma lei serbava vive tutte le passioni di quel tempo; e, in un modo o in un altro, l’allieve dovevan portarne il peso. Quando le veniva in mente che molte di loro eran destinate a vivere in quel mondo dal quale essa era esclusa per sempre, provava contro quelle poverine un astio, un desiderio quasi di vendetta; e le teneva sotto, le bistrat-
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tava, faceva loro scontare anticipatamente i piaceri che avrebber goduti un giorno. Chi avesse sentito, in que’ momenti, con che sdegno magistrale le gridava, per ogni piccola scappatella, l’avrebbe creduta una donna d’una spiritualità salvatica e indiscreta. In altri momenti, lo stesso orrore per il chiostro, per la regola, per l’ubbidienza, scoppiava in accessi d’umore tutto opposto. Allora, non solo sopportava la svagatezza clamorosa delle sue allieve, ma l’eccitava; si mischiava ne’ loro giochi, e li rendeva più sregolati; entrava a parte de’ loro discorsi, e li spingeva più in là dell’intenzioni con le quali esse gli avevano incominciati. Se qualcheduna diceva una parola sul cicalìo della madre badessa, la maestra lo imitava lungamente, e ne faceva una scena di commedia; contraffaceva il volto d’una monaca, l’andatura d’un’altra: rideva
allora sgangheratamente; 530
ma eran risa che non la lasciavano più allegra di
prima. Così era vissuta alcuni anni, non avendo comodo, né occasione di far. di più; quando la sua disgrazia volle che un’occasione si presentasse. Tra l’altre distinzioni e privilegi che le erano stati concessi, per compensarla di non poter esser badessa, c’era anche quello di stare in un quartiere a 498. pinzochere: bacchettone, bigotte. 499. poche palle nere: cioè i voti contrari che alcune suore avevano dato alla sua monacazione, mettendo nell’urna delle votazioni la palla nera invece della bianca. 504. ma quali consolazioni!: quelle offerte non dalla religione vera, che avrebbe potuto avviarla alla calma interiore della fede, ma dalla religione che le era stata insegnata: una religione « privata della sua essenza » perché « non bandiva l’orgoglio, anzi lo santificava e lo proponeva come un mezzo per ottenere una felicità terrena ». 507-509. come il naufrago... istinto: è, forse, la più bella fra tante bellissime similitudini manzoniane che abbiamo finora incontrate. Nella corrispondenza dei termini,
la « tavola » è la religione, le « alghe » le consolazioni dell’orgoglio. 519-520. spiritualità: devozione, pietà o, ‘meglio ancora, un rigore morale che si esprimeva senza ritegno,e senza riguardo. 529-530. occasione di far di più: vuol dire che una qualunque occasione avrebbe potuio spingerla a far peggio, molto peggio, perché l’odio per il passato e l’insoddisfazione per il presente tenevano disposto l’animo di Gertrude ad accogliere volentieri e
senza troppo riflettere qualunque mutamento. Così il poeta ci ha preparati a capire l’effetto che su la monaca produce l’incontro di cui ora parlerà. 532. non poter esser badessa: perché non aveva ancora l’età prescritta dalla regola.
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parte. Quel lato del monastero era contiguo a una casa abitata da un giovine, scellerato di professione, uno de’ tanti, che, in que’ tempi, e co’ loro sgherti, e con l’alleanze d’altri scellerati, potevano, fino a un certo segno, ridersi della
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parlar del casato. Costui, da una sua finestrina che dominava un cortiletto di quel quartiere, avendo veduta Gertrude qualche volta passare o girandolar lì, per ozio, allettato anzi che atterrito dai pericoli e dall’empietà dell’impresa, un giorno osò rivolgerle il discorso. La sventurata rispose.
forza pubblica e delle leggi. Il nostro manoscritto lo nomina Egidio, senza
In que’ primi momenti, provò una contentezza, non schietta al certo, ma
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viva. Nel vòto uggioso dell’animo suo s’era venuta a infondere un’occupazione forte, continua e, direi quasi, una vita potente; ma quella contentezza era simile alla bevanda ristorativa che la crudeltà ingegnosa degli antichi mesceva al condannato, per dargli forza a sostenere i tormenti. Si videro, nello stesso tempo, di gran novità in tutta la sua condotta: divenne, tutt’a un tratto, più regolare, più tranquilla, smesse gli scherni e il brontolìo, si mostrò anzi carezzevole e manierosa, dimodoché le suore si rallegravano a vicenda del cambiamento felice; lontane com’erano dall’immaginarne il vero motivo, e dal comprendere che quella nuova virtù non era altro che ipocrisia aggiunta all’antiche magagne. Quell’apparenza però, quella, per dir così, imbiancatura esteriore, non durò gran tempo, almeno con quella continuità e uguaglianza: ben presto tornarono in campo i soliti dispetti e i soliti capricci, tornarono a farsi sentire l’imprecazioni e gli scherni contro la prigione claustrale, e talvolta espressi in un linguaggio insolito in quel luogo, e anche in quella bocca. Però, ad ognuna di queste scappate veniva dietro un pentimento, una gran cura di farle dimenticare, a forza di moine e buone parole. Le suore sopportavano alla meglio tutti questi alt'e bassi, e gli attribuivano all’indole bisbetica e leggiera della signora. Per qualche tempo, non parve che nessuna pensasse più in là; ma un giorno che la signora, venuta a parole con una conversa, per non so che pet: tegolezzo, si lasciò andare a maltrattarla fuor di modo, e non la finiva più, la conversa, dopo aver sofferto, ed essersi morse le labbra un pezzo, scappatale finalmente la pazienza, buttò là una parola, che lei sapeva qualche cosa, e che, a tempo e luogo, avrebbe parlato. Da quel momento in poi, la signora non ebbe più pace. Non passò però molto tempo, che la conversa fu aspet536. Egidio: questo il nome del manoscritto; il nome storico è Gian Paolo Osio;
per il quale vedi la nota 269 del Cap. IX. 540. La sventurata rispose: così ha principio la catastrofe. La frase, mentre ricopre
con un velo di segretezza e di pudore la colpa della peccatrice, rivela tutta la dolente ed umana comprensione dello scrittore. Perciò non può non tornare alla mente Dante con Francesca: «Quel giorno più non vi leggemmo avante » (Inf. V); con Pia: « Sal. si colui
che
’nnanellata
pria Disposando
m’avea con la sua gemma » (Purg. V); con
Piccarda: « Iddio si sa qual poi mia vita fusi » (Par. III). E, per non parlare di altre corrispondenze, ricordiamo che Francesca e Pia e Piccarda sono tre donne d’amoré; come lo era la sventurata Gertrude. — Per
narrare gli amori e gli intrighi di questa monaca il M. in Ferzzo e Lucia aveva scritto più pagine, spinto dal gusto del romanzesco: qui gli bastano tre parole: la sventurata rispose. E mentre in Fermzo e Lucia quelle
pagine il M. le aveva scritte perché pensava che «la cognizione del male quando ne produce l’orrore sia non solo innocua ma utile», nei Prozzessi Sposi le ha tolte per altrettanti validi motivi morali e religiosi, oltre che per una ragione essenzialmente artistica: non gravare troppo a lungo sull’econo-
mia del romanzo
con una
storia puramente
accessoria e di colorito tanto romanzesco. Sono riportate nell’« Appendice Prima », n. 5. 544. bevanda ristorativa ... tormenti: altra stupenda similitudine in cui è sintetizzato il nuovo stato di Gertrude,
capitolo X
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tata in vano, una mattina, a’ suoi ufizi consueti: si va a veder nella sua cella, e non si trova: è chiamata ad alta voce; non risponde: cerca di qua,
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cerca di là, gira e rigira, dalla cima al fondo; non c'è in nessun luogo. E chi sa quali congetture si sarebber fatte, se, appunto nel cercare, non si fosse scoperto una buca nel muro dell’orto; la qual cosa fece pensare a tutte, che fosse sfrattata di là. Si fecero gran ricerche in Monza e ne’ contorni, e principalmente a Meda, di dov’era quella conversa; si scrisse in varie patti: non se n’ebbe mai la più piccola notizia. Forse se ne sarebbe potuto saper di più, se, in vece di cercar lontano, si fosse scavato vicino. Dopo molte maraviglie,
perché nessuno l’avrebbe creduta capace di ciò, e dopo molti discorsi, si concluse che doveva essere andata lontano, lontano. E perché scappò detto a una suora: « s'è rifugiata in Olanda di sicuro », si disse subito, e si ritenne per un pezzo, nel monastero e fuori, che si fosse rifugiata in Olanda. Non pare però che la signora fosse di questo parere. Non già che mostrasse di non credere, o combattesse l’opinion comune, con sue ragioni particolari: se ne aveva, certo, ragioni non furono mai così ben dissimulate; né c’era cosa da
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cui s’astenesse curasse meno parlava, tanto donna veniva
più volentieri che da che di toccare il fondo più ci pensava. Quante a cacciarsi d'improvviso
non voleva moversi!
rimestar quella storia, cosa di cui si di quel mistero. Ma quanto meno ne volte al giorno l’immagine di quella nella sua mente, e si piantava lì, e
Quante volte avrebbe desiderato di vedersela dinanzi
viva e reale, piuttosto che averla sempre fissa nel pensiero, piuttosto che dover trovarsi, giorno e notte, in compagnia di quella forma vana, terribile, im590
passibile! Quante volte avrebbe voluto sentir davvero la voce di colei, qualunque cosa avesse potuto minacciare, piuttosto che aver sempre nell’intimo dell’orecchio mentale il susurro fantastico di quella stessa voce, e sentirne parole ripetute con una pertinacia, con un’insistenza infaticabile, che nessuna
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persona vivente non ebbe mai! Era scorso circa un anno dopo quel fatto, quando Lucia fu presentata alla signora, ed ebbe con lei quel colloquio al quale siam rimasti col racconto. La signora moltiplicava le domande intorno alla persecuzione di don Rodrigo, e entrava in certi particolari, con una intrepidezza, che riuscì e doveva riuscire più che nuova a Lucia, la quale non aveva mai pensato che la curiosità delle monache potesse esercitarsi intorno a simili argomenti. I giudizi poi che quella frammischiava all’interrogazioni, o che lasciava trasparire, non eran meno strani. Pareva quasi che ridesse del gran ribrezzo che Lucia aveva sempre avuto di quel signore, e domandava se era un mostro, da far tanta paura: pa571. una buca nel muro:
doveva averla
aperta il complice di Gertrude per agevolare la diceria che la conversa fosse fuggita, « sfrattata di là », dal convento. 574. saper di più: chi, anche oggi, volesse saperne di più potrebbe leggere il libro di M. Mazzucchelli, La Monaca di Monza (1961). Ma
alla completezza
del raccon-
to manzoniano basta quel misterioso accenno: «se... si fosse scavato vicino ». 585. tanto più ci pensava: da qui alla fine del capoverso il M. compone uno degli squarci più potenti della sua poesia. Una poesia costruita sui fantasmi che, nascendo
dalla coscienza del delitto, assediano senza
posa la mente, sui tertori che le immagini degli uccisi suscitano più terribili di quelle di qualunque essere vivente. Una poesia, insomma, del rimotso: nelle pagine dell’Innominato ne troveremo un’altra grandiosa testimonianza. 597. persecuzione di don Rodrigo: la frase, dopo il lungo intervallo della storia di Gertrude, ci riporta benissimo all’inizio del discorso nel parlatorio del convento, quando la signora aveva detto a Lucia: « Tocca a voi a dirci se questo cavaliere era un persecutore odioso ».
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reva quasi che avrebbe trovato irragionevole e sciocca ‘la ritrosia della giovine, se non avesse avuto per ragione la preferenza data a Renzo. E su questo pure s’avanzava a domande, che facevano stupire e arrossire l’interrogata. Avvedendosi poi d’aver troppo lasciata correr la lingua dietro agli svagamenti del cervello, cercò di correggere e d’interpretare in meglio quelle sue ciarle; ma non poté fare che.a Lucia non ne rimanesse uno stupore dispiacevole, e come un confuso spavento. E appena poté trovarsi sola con la madre, se n’aprì con lei: ma Agnese, come più esperta, sciolse, con poche parole, tutti que’ dubbi, e spiegò tutto il mistero. « Non te ne far maraviglia, » disse: « quando avrai conosciuto il mondo quanto me, vedrai che non son cose da farsene maraviglia. I signori, chi più, chi meno, chi per un verso, chi per un altro, han tutti un po’ del matto. Convien lasciarli dire, principalmente quando s'ha bisogno di loro; far vista d’ascoltarli sul serio, come se dicessero delle cose giuste. Hai sentito come m’ha dato sulla voce, come se avessi detto qualche gran sproposito? Io non me ne son fatta caso punto. Son tutti così. E con tutto ciò, sia ringraziato il cielo, che pare che questa signora t’abbia preso a ben volere, e voglia proteggerci davvero. Del resto, se camperai, figliuola mia, e se t’'accaderà ancora d’aver che fare con de’ signori, ne sentirai, ne sentirai, ne sentirai. »
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Il desiderio d’obbligare il padre guardiano, la compiacenza di proteggere, il pensiero del buon concetto che poteva fruttare la protezione impiegata così santamente, una certa inclinazione per Lucia, e anche un certo sollievo nel far del bene a una creatura innocente, nel soccorrere e consolare oppressi, avevan realmente disposta la signora a prendersi a petto la sorte delle due povere fuggitive. A sua richiesta, e a suo riguardo, furono alloggiate nel quartiere della fattoressa attiguo al chiostro, e trattate come se fossero addette al servizio del monastero. La madre e la figlia si rallegravano insieme d’aver trovato così presto un asilo sicuro e onorato. Avrebber anche avuto molto piacere di rimanervi ignorate da ogni persona; ma la cosa non era facile in un monastero: tanto più che c’era un uomo troppo premuroso d’aver notizie d’una di loro, e nell'animo del quale, alla passione e alla picca di prima s’era
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aggiunta anche la stizza d’esser stato prevenuto e deluso. E noi, lasciando le donne nel loro ricovero, torneremo al palazzotto di costui, nell’ora in cui stava
attendendo l’esito della sua scellerata spedizione. 612. spiegò tutto il mistero: al solito con la sua saggezza antica e con la sua improntitudine popolana, che traggono ancor più vivo risalto dal candore dell’inesperta Lucia. Inutile dire che non manca l’affettuosa e sorridente presenza dello scrittore. 626. far del bene...: e il far del bene,
come il soffrire, non va mai perduto dinanzi all’occhio di Dio. Così sarà, un giorno lontano, per questa sventurata, che ora lasciamo con tanti ricordi di debolezze, di orgogli, di colpe, ma anche con quello di un animo naturalmente buono e disposto all’amore.
capitolo X
197
Scheda critica ai capp. IX e X La storia di Gertrude si presenta come una novella a sé, inserita nella più vasta trama narrativa e legata per mille fili al suo svolgimento, eppure isolata e fino ad un certo punto autonoma, in virtù di una particolare e prolungata attenzione dell’autore alla complicata psicologia del suo personaggio, attenzione pietosa e severa ad un tempo, che richiede un procedimento di analisi minuta ed estremamente lucida. E' la storia dettagliata di una volontà peccaminosa, colta nelle sue radici individuali e sociali, in un carattere
determinato
e in una
precisa situazione
storica. La tecnica che il Manzoni adotta per introdurre i suoi personaggi di più complessa psicologia, già sperimentata nella presentazione di fra Cristoforo, qui ritorna dilatata nello spazio e raffinata nei modi, e soprattutto adattata nel ritmo lento, par.ticolareggiato, sottilmente sfumato alla perplessità e tortuosità della vicenda interiore. Già il ritratto esterno della monaca, disegnato con una precisione e una mobilità di tratti che coglie dietro le parvenze fisiche la realtà segreta dei sentimenti — quell'impressione di una « bellezza sbattuta, sfiorita e, direi quasi, scomposta », quel « contorno delicato e grazioso, ma alterato e reso mancante da una lenta estenuazione », quei moti delle labbra e degli occhi, « subitanei, vivi, pieni di espressione e di mistero » — fa presentire una realtà intima torbida e contrastata: « un forte temperamento, minato da un'immensa debolezza; un orgoglio smisurato che si estenua nella costrizione; ...una sete insaziata d'affetto che si dispera nell'aridità, nel rancore » (Battaglia). La storia che segue descrive il lungo processo per cui si è determinata quella condizione dell'anima attraverso un'opera lenta e tenace di corruttela, che, a poco a poco, ha stroncato lo sviluppo di una personalità in via di formazione, distrutte le ancora deboli resistenze della volontà, artificiosamente coltivato e solleticato le incipienti deviazioni e deformazioni degli affetti. E' una storia di corruzione, disegnata con una fermezza che non arretra di fronte alle pieghe più ambigue di una sensibilità violentata e distorta, ma senza la minima ombra di compiacimento decadentistico, checché sia stato insinuato da taluni critici ansiosi di rivendicarne un po' goffamente la novità e la modernità. Infatti, da un lato, la superiorità morale dello scrittore e la sua capacità di distacco rimangono in ogni punto intatti. « Il Manzoni traccia la storia di Gertrude con una pietà che non vieta una giusta condanna. Comprende ma non assolve. Pur senza cedere alle lusinghe della triste e appassionata poesia della vita, penetra con una potenza ignota ai romantici nell'anima oscillante della giovane, nello ’ splendido ritiro’ della sua mente, che, abbattuto dalla volontà feroce del padre, finisce naturalmente in una 'tenerezza fantastica di devozione'; guarda con una compassione vigile contro gli inganni del sentimentalismo, tanto il castello fatato e insidioso della adolescenza morbida quanto il romitaggio della voluttuosa rinunzia, e vede sotto le apparenze poetiche di entrambi lo stesso germe peccaminoso:
î promessi sposi
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l'incapacità di volere. La fonte poetica dell'episodio è il senso di pietà diffuso con cui il Manzoni guarda il formarsi di quell'esistenza colpevole e triste e il sorgere della deformità spirituale di Gertrude; la commossa imparzialità con cui segue l'’intrecciarsi della colpa e della sventura in quel destino» (Momigliano). E' proprio questa fermezza di distacco morale che consente allo scrittore, a differenza di quanto accadeva nel Fermo e Lucia, di troncare qui pietosamente il racconto, dove presto potrebbe decadere a gratuita contemplazione di una viziosa vicenda:
« La sventurata
rispose »
(dove
sventurata
è vo-
cabolo pregnante, in cui si fondono, senza confondersi, la compassione del poeta e il rigore del moralista). Per un altro lato, la storia di un'anima s'inserisce in un quadro sociale; perché intorno alla figura di Gertrude il Manzoni crea uno sfondo di costume, il ritratto lucido e penetrante di una società con la sua vanità, il suo orgoglio distorto, la sua ipocrisia, il suo conformismo, la sua crudeltà implacabile ammantata di falsa religiosità. E così la vicenda individuale diventa esemplare e tipica, si anima di un preciso intento polemico, che la ricollega, senza violarne l'autonomia poetica, alle ragioni etiche e religiose che regolano tutta intera la struttura del romanzo. Forse non mai come qui il Manzoni ha rivelata tutta la sua straordinaria attitudine a penetrare negli abissi più segreti e contorti della coscienza, a sentire tutta la grandezza del male in termini di tragedia, investita dalla commozione, riscattata da un'austera pietà. Ma vano risulterebbe ogni tentativo di scindere questa forza di penetrazione psicologica dalla sua profonda radice. morale. Vien fatto di ripensare a quegli appunti che lo scrittore raccoglieva per meglio definire la sua poetica del vero, dove, dopo aver additato il limite del teatro classicheggiante francese e sottolineato per contrasto l'ampiezza del mondo di passioni contemplate nelle opere di Shakespeare e la sua capacità terribile ma stimolante di scandagliare a fondo, anche nelle sue zone più incontrollate e pervertite, la realtà dell'anima, finiva per concludere che appunto « Shakespeare sovrasta gli altri perché è più morale »: che era poi il modo di circoscrivere, anche per sé, i confini di una materia artistica tutta pervasa di profonde ragioni etiche, se pur senza ingombro di moralismo esteriore e pedantesco. E invero, nel Manzoni più grande, la moralità fa tutt'uno con l'ampiezza dell'orizzonte ideologico e dell'esperienza umana, il che è quanto dire con l'intensità della sua voce poetica.
Capitolo XI
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Come un branco di segugi, dopo aver inseguita invano una lepre, tornano mortificati verso il padrone, co’ musi bassi, e con le code ciondoloni, così, in quella scompigliata notte, tornavano i bravi al palazzotto di don Rodrigo. Egli camminava innanzi e indietro, al buio, per una stanzaccia disabitata dell’ultimo piano, che rispondeva sulla spianata. Ogni tanto si fermava, tendeva l’orecchio, guardava dalle fessure dell’imposte intarlate, pieno d’impazienza e non privo d’inquietudine, non solo per l’incertezza della riuscita, ma anche per le conseguenze possibili; perché era la più grossa e la più arrischiata a cui il brav’uomo avesse ancor messo mano. S’andava però rassicurando col pensiero delle precauzioni prese per distrugger gl’indizi, se non i sospetti. — In quanto ai sospetti, — pensava, — me ne rido. Vorrei un po’ sapere chi sarà quel voglioso che venga quassù a veder se c'è o non c’è una ragazza. Venga, venga quel tanghero, che sarà ben ricevuto. Venga il frate,
venga. La vecchia? Vada a Bergamo la vecchia. La giustizia? Poh la giustizia! Il podestà non è un ragazzo, né un matto. E a Milano? Chi si cura di 1. Come
un branco di segugi...: li ave-
vamo lasciati (Cap. VIII) come una r7awdra di porci, scortati dal cane, il Griso: li
ritroviamo branco di segugi. Sempre bestie, dunque, li vede con sferzante sarcasmo il M. Vero è che il paragone di ora ha, in più dei precedenti, un tono sostenuto che svela una certa origine letteraria. Si pensi, per esempio, a questa famosa similitudine del Tasso: «Qual dopo lunga é faticosa caccia Tornansi mesti ed anelanti i cani Che la fera perduta abbian di traccia... Tal pieni d’ira e di vergogna in faccia Riendono
stanchi i cavalier cristiani » (Gerusalemme
Liberata, VII, 2). 3. scompigliata: l’aggettivo è efficacissimo per farci ritornare alla mente tutti gli imbrogli, i sotterfugi, gli scompigli di quella notte. 9. il bravuomo: il ridicolo è molto nella rappresentazione di questi momenti di sus pense di don Rodrigo, titannello mediocre anche nel male, e ombroso per le conscguenze delle sue azioni, specie di questa che era « la più grossa e la più arrischiata ».
Si badi alla sfumatura di quel guardare trepidante « dalle fessure dell’imposte intarlate »: c’è tanta meschinità — nelle cose, nell’atteggiamento, nell'uomo — che potremo capir meglio quando, in una situazione
analoga, leggeremo che l’Innominato guardava «da un’alta finestra del suo castellaccio » (Cap.
XX).
13. quel tanghero: naturalmente è Renzo; « se per caso, quel tanghero temerario vi desse nell’unghie...» aveva detto di lui il
è giorno
Renzo,
prima
don
poveretto,
Rodrigo
al Griso.
sarà destinato
Ma
a sentir-
selo appioppare anche da altri, questo bel titolo: «in malora, tanghero », gli griderà in Milano impestata un monatto (Cap. XXXIV). 14. Vada a Bergamo la vecchia: secondo quel che ora fantastica don Rodrigo, Agne-
se sarebbe andata a cercare la figlia a Ber-
gamo, perché bergamasca era la pronunzia di uno dei rapitori, il Grignapoco, che durante il rapimento avrebbe dovuto parlare a bella posta per sviare lontano le future indagini.
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costoro a Milano? Chi gli darebbe retta? Chi sa che ci siano? Son come gente perduta sulla terra; non hanno né anche un padrone: gente di nessuno.
Via, via, niente paura. Come rimarrà Attilio, domattina! Vedrà, vedrà sio fo
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ciarle o fatti. E poi... se mai nascesse qualche imbroglio... che so io? qualche nemico che volesse cogliere quest’occasione,... anche Attilio saprà consigliarmi: c'è impegnato l’onore di tutto il parentado. — Ma il pensiero sul quale si fermava di più, perché in esso trovava insieme un acquietamento de’ dubbi, e un pascolo alla passion principale, era il pensiero delle lusinghe, delle promesse che adoprerebbe per abbonire Lucia. -— Avrà tanta paura di trovarsi
qui sola, in mezzo a costoro, a queste facce, che... il viso più umano qui son io, per bacco... che dovrà ricorrere a me, toccherà a lei a pregare; e se
prega... — Mentre fa questi bei conti, sente un calpestìo, va alla finestra, apre un poco, fa capolino; son loro. — E la bussola? Diavolo! dov’è la bussola? Tre,
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40
cinque, otto: ci son tutti; c'è anche il Griso; la bussola non c’è: diavolo! diavolo! il Griso me ne renderà conto. — Entrati che furono, il Griso posò in un angolo d’una stanza terrena il suo bordone, posò il cappellaccio e il sanrocchino, e, come richiedeva la sua carica, che in quel momento nessuno gl’invidiava, salì a render quel conto a don Rodrigo. Questo l’aspettava in ‘cima alla scala; e vistolo apparire con quella goffa e sguaiata presenza del birbone deluso, « ebbene, » gli disse, o gli gridò: « signore spaccone, signor capitano, signor lascifareame? » « L’è dura, » rispose il Griso, restando con un piede sul primo scalino, « l’è dura di ricever de’ rimproveri, dopo aver lavorato fedelmente, e cercato
di fare il proprio dovere, e arrischiata anche la pelle. » « Com'è andata? Sentiremo, sentiremo, » disse don Rodrigo, e s’avviò verso la sua camera, dove il Griso lo seguì, e fece subito la relazione di ciò che aveva disposto, fatto, veduto e non veduto, sentito, temuto, riparato; e 16. Chi gli darebbe retta?: su questo famoso gli per loro, un idiotismo toscano frequente nel M., scrisse argutamente il Pistelli: « Non è una sgrammaticatura (come afferma il Rigutini), ma ha esempi anche classici ed è dell’uso (nessuno direbbe in Toscana chi loro darebbe retta). Gli è stata sempre torma comune per il singolare e per il plurale, per il maschile e per il femminile; e le maestre farebbero bene a essere un po’ più indulgenti, su questo punto, coi poveri ragazzetti di terza elementare ». 26-27. e se prega...: tutto questo soliloquio di don Rodrigo è tipica espressione di sentimenti individuali dell’uomo, mescolati con altri comuni alla nobiltà del tempo: l’arrogante alterigia, il connaturato disprezzo per la povera gente, un po’ di paura per averla fatta grossa, la vergogna d’essere stato gabbato, la bramosia di vendicarsi, il puntiglio d’onore e il capriccio sensuale del gaglioffo che, se anche scornato, si sente gran seduttore... 28-29. apre un poco, fa capolino: il M. continua ad immeschinire il nostro eroè, riducendolo ai ridicoli atteggiamenti di at-
tore di terz’ordine. Né meno ridicolo è il suo ‘successivo gridare meravigliato e deluso: « diavolo!... diavolo!... »; e il tutto dopo tanti « bei conti »!
33. bordone... cappellaccio... sanrocchino: i ben noti strumenti del suo camuffamento da pellegrino. Ci fanno ricordare alcuni versi di una delle più belle poesie di C. Govoni (1884-1965): «Com'è strano quel pellegrino Col suo cappello a larga tesa, Il bordone e la zucca appesa, che gli grava nel sanrocchino! » (L'albergo del Pellegri no). Cfr. Cap. VIII, n. 194. 37. signor lascifareame: è divenuto, meritatamente, l’appellativo più famoso del Griso; gli altri, « spaccone » « capitano », non dicono niente in confronto: anche se, in verità, tutti e tre costituiscono una bella escalation. Deriva, com’è facile ricordare, dalla presuntuosa affermazione con cui il Griso aveva assicurato il padrone del buon esito dell’imminente spedizione: « Lasci fare a me» (Cap. VII). 39. fedelmente: fedeltà di cane al padrone, è stata ben definita. Ma di un cane, vedremo, pronto ad azzannare.
capitolo
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XI
la fece con quell’ordine e con quella confusione, con quella dubbiezza e con quello sbalordimento, che dovevano per forza regnare insieme nelle sue idee. «Tu non hai torto, e ti sei portato bene, » disse don Rodrigo: « hai fatto quello che si poteva;
ma... ma, che sotto questo tetto ci fosse una
spia! Se c’è, se lo arrivo a scoprire, e lo scopriremo se c’è, te l’accomodo io; ti so dir io, Griso, che lo concio per il dì delle feste. » 50
55
« Anche a me, signore, » disse il Griso, « è passato per la mente un tal sospetto: e se fosse vero, se si venisse a scoprire un birbone di questa sorte il signor padrone lo deve metter nelle mie mani. Uno che si fosse preso il divertimento di farmi passare una notte come questa! toccherebbe a me a pagarlo. Però, da varie cose m'è parso di poter rilevare che ci dev'essere qualche altro intrigo, che per ora non si può capire. Domani, signore, domani se ne vetrà in chiaro. » « Non siete stati riconosciuti almeno? »
Il Griso rispose che sperava di no; e la conclusione del discorso fu che don Rodrigo gli ordinò, per il giorno dopo, tre cose che colui avrebbe sa60 pute ben pensare anche da sé. Spedire la mattina presto due uomini a fare al console quella tale intimazione, che fu poi fatta, come abbiam veduto; due altri al casolare a far la ronda, per tenerne lontano ogni ozioso che vi capitasse, e sottrarre a ogni sguardo la bussola fino alla notte prossima, in cui ‘+ si manderebbe a prenderla; giacché per allora non conveniva fare altri mo65 vimenti da dar sospetto; andar poi lui, e mandare anche altri, de’ più disinvolti e di buona testa, a mescolarsi con la gente, per scovar qualcosa intorno all’imbroglio di quella notte. Dati tali ordini, don Rodrigo se n’andò a dormire, e ci lasciò andare anche il Griso, congedandolo con molte lodi, dalle quali traspariva evidentemente l’intenzione di risarcirlo degl’improperi pre70 cipitati coi quali lo aveva accolto. Va a dormire povero Griso, che tu ne devi aver bisogno. Povero Griso! In faccende tutto il giorno, in faccende mezza la notte, senza contare il pericolo di cader sotto l’unghie de’ villani, o di buscarti una taglia per rapto di donna honesta, per giunta di quelle che hai già addosso; e poi esser ricevuto 48-49. te l’accomodo io;... lo concio per il dì delle feste: due mirabili battute di efficace colore popolaresco, frequenti specialmente nell’uso toscano; le quali, poi, a noi che sappiamo il mistero che il signorotto non ° sa, suscitano un ironico compatimento *per quest'altro spaccone. E lo scrittore si gode la scena non meno di noi. 51. un birbone di questa sorte: e questo sarebbe il povero vecchio, che aveva ri schiato la pelle per far fallire una « bitbonata » delle peggiori! 71. Va a dormire, povero Griso...: tutto questo discorso è un bell'esempio del gusto del M. di scendere a parlare, non solo coi suoi lettori, ma anche coi suoi personaggi. Ma è un discorso che, iniziato con un accento che pare scherzoso, va a concludersi con un tono di serietà e di mistero. Dice giustamente lo Steiner: « Rifà il M. stesso
le parole di lode consolatrice con le quali
don Rodrigo manda a riposare il suo fidato servitore, ma, rifacendole, le accentua e le fa diventare ironiche, specialmente accennando alla ingiustizia degli uomini, e portandoci così subito a pensare alla giusti zia, che è la sola infallibile e vera, e cioè. alla giustizia di Dio, che premierà veramente il Griso, secondo i suoi meriti, facendolo morire di morte improvvisa, tra i bagordi dopo che avrà spogliato e tradito il suo padrone. C’è in questa profezia quella fretta del castigo che è risarcimento, che assilla sempre l’animo degli onesti davanti alla colpa, e ci attesta come il M. viva e segua l’opera de’ suoi personaggi nel romanzo con una cura che è insieme estetica e morale ». 73-74. per rapto di donna honesta: così dicevano spesso le gride: e siccome valevano quanto sappiamo, anche questa frase aggiunge un’altra dose di umorismo,
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in quella maniera! Ma! così pagano spesso gli uomini. Tu hai però potuto vedere, in questa circostanza, che qualche volta la giustizia, se non arriva alla prima, arriva, o presto o tardi anche in questo mondo. Va a dormire per ora: che un giorno avrai forse a somministrarcene un’altra prova, e più notabile di questa. La mattiria seguente, il Griso era fuori di nuovo in faccende, quando don Rodrigo s’alzò. Questo cercò subito del conte Attilio, il quale, vedendolo spuntare, fece un viso e un atto canzonatorio, e gli gridò: « san Martino! » « Non so cosa vi dire, » rispose don Rodrigo, arrivandogli accanto: « pagherò la scommessa; ma non è questo quel che più mi scotta. Non v’avevo detto nulla, perché, lo confesso, pensavo di farvi rimanere ‘stamattina. Ma... basta, ora vi racconterò tutto. » « Ci ha messo uno zampino quel frate in quest’affare, » disse il cugino, dopo aver sentito tutto, con più serietà che non si sarebbe aspettato da un cervello così balzano. « Quel frate, » continuò, « con quel suo fare di gatta morta, e con quelle sue proposizioni sciocche, io l’ho per un dirittone, e per
un impiccione. E voi non vi siete fidato di me, non m’avete mai detto chiaro cosa sia venuto qui a impastocchiarvi l’altro giorno. » Don Rodrigo riferì il dialogo. « E voi avete avuto tanta sofferenza? » esclamò il conte Attilio: 95
« e l’avete lasciato andare com’era venuto? » « Che volevate ch’io mi tirassi addosso tutti i cappuccini d’Italia? »
« Non so, » disse il conte Attilio, « se, in quel momento, mi sarei ricor-
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dato che ci fossero al mondo altri cappuccini che quel temerario birbante; ma via, anche nelle regole della prudenza, manca la maniera di prendersi soddisfazione anche d’un cappuccino? Bisogna saper raddoppiare a tempo le gentilezze a tutto il corpo, e allora si può impunemente dare un carico di bastonate a un membro. Basta; ha scansato la punizione che gli stava più bene; ma lo prendo io sotto la mia protezione, e voglio aver la consolazione d’insegnargli come si parla co’ pari nostri. »
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« Non mi fate peggio. »
« Fidatevi una volta, che vi servirò da parente e da amico. »
« Cosa pensate di fare? » è® « Non lo so ancora; ma lo sertvirò io di sicuro il frate. Ci penserò, e... il
signor conte zio del Consiglio segreto è lui che mi deve fare il servizio. Caro 82. gridò: «san Martino »: al solito, grida sempre lui e ha sempre l’atteggiamento canzonatorio: coerenza di uomo nel personaggio, e coerenza di narratore nel M. — San Martino: l’11 novembre, il giorno in cui scadeva la scommessa (Cap. VII). 88. più serietà: sì, perché ora è in giuoco l’onore della famiglia, e con questo non scherza neppure un tipo balzano e superficiale come Attilio. Anche qui, dunque, il colore del secolo in un motivo che vedremo tornare altre volte nel romanzo. 94. andare com’era venuto?: lui certamente non l’avrebbe lasciato andare così: perché per il conte fra Cristoforo sarebbe stato un uomo bastonabile, anzi bastona-
bilissimo. Poco dopo sentiremo che, con
l’accortezza, si può dare proprio « un carico di bastonate » anche a un cappuccino. 95. tutti i cappuccini d’Italia: sappiamo già della potenza dei cappuccini (Cap. VIII, n. 525): e sappiamo anche che don Rodrigo è un tirannello di provincia che teme e sfugge i grossi impegni, e che vuole sempre apparire a posto con le leggi e con le buone regole. Tutto il contrario dell’Innominato, fra le cui principali passioni vedremo che c’era proprio quella di « fare ciò ch'era vietato dalle leggi, o impedito da una forza qualunque » ( ap. XIX). 108. conte zio del Consiglio segreto: il Consiglio segreto, come sapremo meglio al cap. XVIII, era una Consulta di tredici consiglieri del governatore di Milano, Que-
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capitolo XI
signor conte zio! Quanto mi diverto ogni volta che lo posso far lavorare
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per me, un politicone di quel calibro! Doman l’altro sarò a Milano, e, in una maniera o in un’altra, il frate sarà servito. » i
Venne intanto la colazione, la quale non interruppe il discorso d’un af-
fare di quell’impottanza. Il conte Attilio ne parlava con disinvoltura; e, seb-
bene ci prendesse quella parte che richiedeva la sua amicizia per il cugino,
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e l’onore del nome comune, secondo le idee che aveva d’amicizia e d’onore, pure ogni tanto non poteva tenersi di non rider sotto i baffi, di quella bella riuscita. Ma don Rodrigo, ch’era in causa propria, e che, credendo di far
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quietamente un gran colpo, gli era andato fallito con fracasso, era agitato da passioni più gravi, e distratto da pensieri più fastidiosi. « Di belle ciarle, » diceva, « faranno questi mascalzoni, in tutto il contorno. Ma che m'importa? In quanto alla giustizia, me ne rido: prove non ce n’è; quando ce ne fosse, me ne riderei ugualmente: a buon conto, ho fatto stamattina avvertire il console che guardi bene di non far deposizione dell’avvenuto. Non ne seguirebbe nulla; ma le ciarle, quando vanno in lungo, mi seccano. È anche troppo ch’io sia stato burlato così barbaramente. » « Avete fatto benissimo, » rispondeva il conte Attilio. « Codesto vostro podestà... gran caparbio, gran testa vota, gran seccatore d’un podestà... è poi un galantuomo, un uomo che sa il suo dovere; e appunto quando s’ha che fare con persone tali, bisogna aver più riguardo di non metterle in impicci. Se un mascalzone di console fa una deposizione, il podestà, per quanto sia ben intenzionato, bisogna pure che... » « Ma voi, » interruppe, con un po’ di stizza, don Rodrigo, « voi guastate le mie faccende, con quel vostro contraddirgli in tutto, e dargli sulla voce, e
canzonario anche, all’occorrenza. Che diavolo, che un podestà non possa es135
ser bestia e ostinato, quando nel rimanente è un galantuomo! »
« Sapete, cugino, » disse guardandolo, maravigliato, il conte Attilio, « sapete, che comincio a credere che abbiate un po’ di paura? Mi prendete sul serio anche il podestà... » « Via via, non avete detto voi stesso che bisogna tenerlo di conto? » « L’ho detto: e quando si tratta d’un affare serio, vi farò vedere che non
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sono un ragazzo. Sapete cosa mi basta l’animo di far per voi? Son uomo da sto conte, zio di Attilio e di Rodrigo, ne era uno dei pezzi più grossi. Quale, in realtà, fosse il valore di costui come uomo e come politico, possiamo già capirlo dalle parole riverenti e canzonatorie dell’astuto, nipote: il quale, neppure per un parente « politicone di quel calibro » ha pietà, e già pregusta il lavoro a cui sottoporrà quel « caro signor conte zio »! 121. In quanto alla giustizia: ha proprio ragione don Rodrigo di ridersene, perché quelli che dovrebbero farla rispettare sono i primi a tradirla, ricavando vantaggio dalla disonestà del loro agire. Il capovolgimento dei valori è completo: il podestà, se non
prende
prendere,
uomo
i provvedimenti
è un
che dovrebbe
«galantuomo », anzi « un
che fa il suo dovere »; il console, se
fa la deposizione che dovrebbe fare, è « un
mascalzone ». Nell’esasperazione dei termini, che escono spontanei dalle labbra dei due nobilotti, senti il disgusto del M. Il quale, del resto, non è la prima volta che guarda sfiduciato alla giustizia degli uomini. Ricordiamo le « strane parole » del povero Renzo la sera che doveva essere la prima di nozze: « A questo mondo c’è giustizia, finalmente! »; e la riflessione dell’autore: « Tant'è vero che un uomo sopraffatto dal dolore non sa più quel che si dice » (Cap. III; n. 445). 141. mi basta l’animo di far...: una simile professione d’impegno l’avevamo sentita dalla bocca di Azzeccagarbugli nel colloquio con Renzo, quando costui ancora non sapeva che nella faccenda del matrimonio impedito era implicato don Rodrigo: « voi
non sapete quel che mi basti l’animo di
î promessi spost
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andare in persona a far visita al signor podestà. Ah! sarà contento dell’onore?
E son uomo da lasciarlo parlare per mezz'ora del conte duca, e del nostro signor castellano spagnolo, e da dargli ragione in tutto, anche quando ne
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dirà di quelle così massicce. Butterò poi là qualche parolina sul conte zio del Consiglio segreto: e sapete che effetto fanno quelle paroline nell’orecchio del signor podestà. Alla fin ‘de’ conti, ha più bisogno lui della nostra protezione, che voi della sua condiscendenza. Farò di buono, e ci anderò, e ve lo
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lascerò meglio disposto che mai. » Dopo queste e altre simili parole, il conte Attilio uscì, per andare a caccia; e don Rodrigo stette aspettando con ansietà il ritorno del Griso. Venne costui finalmente, sull’ora del desinare, a far la sua relazione. Lo scompiglio di quella notte-era stato tanto clamoroso, la sparizione di tre persone da un paesello era un tal avvenimento, che le ricerche, e per premura e per curiosità, dovevano naturalmente esser molte e calde e insistenti; e dall’altra parte, gl’informati di qualche cosa eran troppi, per andar tutti d’accordo a tacer tutto. Perpetua non poteva farsi veder sull’uscio, che non fosse tempestata da quello e da quell’altro, perché dicesse chi era stato a far quella gran paura al suo padrone: e Perpetua, ripensando a tutte le circostanze del fatto, e raccapezzandosi finalmente ch’era stata infinocchiata da Agnese, sentiva tanta rabbia di quella perfidia, che aveva proprio bisogno d’un po’ di sfogo. Non già che andasse lamentandosi col terzo e col quarto della maniera tenuta per infinocchiar lei: su questo non fiatava; ma il tiro fatto al suo povero padrone non lo poteva passare affatto sotto silenzio; e sopra tutto, che un tiro tale fosse stato concertato e tentato da quel giovine dabbene, da quella buona vedova, da quella madonnina infilzata. Don Abbondio poteva ben comandarle risolutamente, e pregarla cordialmente che stesse zitta; lei poteva bene ripetergli che non faceva bisogno di suggerirle una cosa tanto chiara e tanto naturale; certo è che un così gran segreto stava nel cuore della povera donna, come, in una botte vecchia e mal cerchiata, un vino molto giovine, che grilla e gorgoglia e ribolle, e, se non manda il tappo per aria, gli geme all’intorno, e vien fuori in ischiuma, e trapela tra doga e doga, e gocciola di qua e di là, tanto che uno può assaggiarlo, e dire a un di presso che vino è. Gervaso, a cui non pareva vero d’essere una volta più informato degli altri, a cui non pareva piccola gloria l’avere avuta una gran paura, a cui, per aver tenuto di mano a una cosa che puzzava di criminale,
fare...» (Cap. III). Vedremo che il conte Attilio, a differenza di Azzeccagarbugli, manterrà davvero . la parola data: e. come bene! 150. il conte Attilio uscì: e così questo personaggio, tanto ameno nella sua spregiudicatezza,
quanto esteticamente riuscito nelle mani dell’artista, esce per alcuni capitoli anche dal romanzo. Quando vi ritornerà lo ritroveremo sempre in forma, anzi più in forma che mai! 153. Lo scompiglio di quella notte... le pagine che seguono portano sulla scena un po’ tutte le figure, a noi già note, del piccolo borgo ancora sconvolto dallo « scom-
piglio » di quella notte
novembrina.
Le
chiacchiere, le impressioni, i turbamenti, le voglie di questi umili paesani sono visti e ritratti con bonarietà e con maliziosa ironia. Anche se non si tratta di pagine fra le più altamente poetiche del M., sono certamente da considerare fra le più squisitamente ‘manzoniane’ per l’acuto interesse psicologico, per. l’attenta ricostruzione dei particolari, per l’originalità dei paragoni, per l’affabile festività che si diffonde su tutto e su tutti. 166. madonnina infilzata: è un detto -ancora diffuso per indicare una ragazza dall'aspetto timido e riservato, e deriva dalle immagini della Madonna trafitta nel cuore da sette spade.
capitolo
XI
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pareva d’esser diventato un uomo come gli altri, crepava di voglia di vantarsene. E quantunque Tonio, che pensava seriamente all’inquisizioni e ai processi possibili e al conto da rendere, gli comandasse, co’ pugni sul viso, di 180
non dir nulla a nessuno, pure non ci fu verso di soffogargli in bocca ogni parola. Del resto Tonio, anche lui, dopo essere stato quella notte fuor di casa in ora insolita, tornandovi, con un passo e con un sembiante insolito, e con
un’agitazion d’animo che lo disponeva alla sincerità, non poté dissimulare il fatto a sua moglie; la quale non era muta. Chi parlò meno, fu Menico; per185 ché, appena ebbe raccontata ai genitori la storia e il motivo della sua spedizione, parve a questi una cosa così terribile che un loro figliuolo avesse avuto parte a buttare all’aria un'impresa di don Rodrigo, che quasi quasi non lasciaron finire al ragazzo il suo racconto. Gli fecero poi subito i più forti e minacciosi comandi che guardasse bene di non far neppure un cenno 190 di nulla: e la mattina seguente, non parendo loro d’essersi abbastanza assicurati, risolvettero di tenerlo chiuso in casa, per quel giorno, e per qualche altro ancora. Ma che? essi medesimi poi, chiacchierando con la gente del paese, e senza voler mostrar di saperne più di loro, quando si veniva a quel punto oscuro della fuga de’ nostri tre poveretti, e del come, e del perché, e
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del dove, aggiungevano, come cosa conosciuta, che s’eran rifugiati a Pescarenico. Così anche questa circostanza entrò ne’ discorsi comuni.
Con tutti questi brani di notizie, messi poi insieme e cuciti come s’usa,
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e con la frangia che ci s’attacca naturalmente nel cucire, c'era da fare una storia d’una certezza e d’una chiarezza tale, da esserne pago ogni intelletto più critico. Ma quella invasion de’ bravi, accidente troppo grave e troppo rumoroso per esser lasciato fuori, e del quale nessuno aveva una conoscenza un po’ positiva, quell’accidente era ciò che imbrogliava tutta la storia. Si mormorava il nome di don Rodrigo: in questo andavan tutti d’accordo; nel resto tutto era oscurità e congetture diverse. Si parlava molto de’ due bravacci ch’erano stati veduti nella strada, sul far della sera, e dell’altro che stava sull’uscio dell’osteria; ma che lume si poteva ricavare da questo fatto così asciutto? Si domandava bene all’oste chi era stato da lui la sera avanti; ma l’oste, a dargli retta, non si rammentava neppure se avesse veduto gente
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quella sera; e badava a dire che l’osteria è un porto di mare. Sopra tutto, confondeva le teste, e disordinava le congetture quel pellegrino veduto da Stefano e da Carlandrea, quel pellegrino che i malandrini volevano ammazzare, 196. entrò ne’ discorsi comuni: c’entrò, come si è visto, e come era facile immaginare, un po’ per colpa di tutti: Perpetua,
Gervaso, Tonio e sua moglie, i genitori di. Menico. Ci sono tornate davanti, così, tutte
queste figure del borgo, ciascuna col suo animo piccino e pettegolo, che « crepa di voglia » di sfogarsi o di vantarsi. 199-200. pago ogni intelletto più critico: è chiara la stoccata pungente verso i letterati e, più in particolare, verso gli storici forniti, a loro giudizio, di tanto acume critico. Opportuno è quanto più dettagliatamente nota il Goffis: « L’ironia del Manzoni in questo processo di scoperta della verità è rivolta nelle due direzioni di sprezzo del popolino credulo e degli storici abi-
tuati a congetturare ed inventare. Dopo aver asserito la certezza e chiarezza della ricostruzione degli avvenimenti, tale da render ‘pago ogni intelletto più critico’, ci offre un esempio delle congetture critiche fatte sul pellegrino (anima del purgatorio? anima dannata? addirittura un malandrino travestito), e nel riferire l’ipotesi esatta la ironizza come stranezza. Il che viene a dire che quanto è chiaro e certo per gli storici va spesso assai lontano dal vero ». 208. Poste... non si rammentava...:i come quella sera non aveva saputo niente di chi gli conveniva non saper niente, cioè dei bravi (Cap. VII). Come vedremo, tutti gli osti il M. li dipingerà coerenti nel loro mestiere enel loro interesse.
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2a
Î promessi sposi
e che se n’era andato con loro, o che essi avevan portato via. Cos’era venuto a fare? Era un’anima del purgatorio, comparsa per aiutar le donne; era un’anima dannata d’un pellegrino birbante e impostore, che veniva sempre di notte a unirsi con chi facesse di quelle che lui aveva fatte vivendo; era un pellegrino vivo e vero, che coloro avevan voluto ammazzare, per timor_ che gridasse, e destasse il paese; era (vedete un po’ cosa si va a pensare!) uno
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di quegli stessi malandrini travestito da pellegrino; era questo, era quello, era tante cose che tutta la sagacità e l’esperienza del Griso non sarebbe bastata a scoprire chi fosse, se il Griso avesse dovuto rilevar questa parte della storia da’ discorsi altrui. Ma, come il lettore sa, ciò che la rendeva imbro-
gliata agli altri, era appunto il più chiaro per lui: servendosene di chiave per interpretare le altre notizie raccolte da lui immediatamente, o col mezzo degli esploratori subordinati, poté di tutto comporne per don Rodrigo una re225 lazione bastantemente distinta. Si chiuse subito con lui, e l’informò del colpo tentato dai poveri sposi, il che spiegava naturalmente la casa trovata vota e il sonare a martello, senza che facesse bisogno di supporre che in casa ci fosse qualche traditore, come dicevano que’ due galantuomini. L’informò della fuga; e anche a questa era facile trovarci le sue ragioni: il timore degli 230 sposi colti in fallo, o qualche avviso dell’invasione, dato loro quand’era scoperta, e il paese tutto a soqquadro. Disse finalmente che s’eran ricoverati a Pescarenico; più in là non andava la sua scienza. Piacque a don Rodrigo. l’esser certo che nessuno l’aveva tradito, e il vedere che non rimanevano . tracce del suo fatto; ma fu quella una rapida e leggiera compiacenza. « Fug235Ì giti insieme! » gridò: « insieme! E quel frate birbante! Quel frate! » la parola gli usciva arrantolata dalla gola, e smozzicata tra’ denti, che mordevano il dito: il suo aspetto era brutto come le sue passioni. « Quel frate me la
pagherà. Griso! non son chi sono... voglio sapere, voglio trovare... questa
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sera, voglio ‘saper dove sono. Non ho pace. A Pescarenico, subito, a sapere, a vedere, a trovare... Quattro scudi subito, e la mia protezione per sempre. Questa sera lo voglio sapere. E quel birbone...! quel frate...! » Il Griso di nuovo in campo; e, la sera di quel giorno medesimo, poté riportare al suo degno padrone la notizia desiderata: ed ecco in qual ‘maniera. 217. (vedete un po’ cosa si va a pensa-
re!): dunque fra le tante ipotesi fantasticate sul pellegrino c’era anche quella vera. Ma come sembra strana la verità! E come al M. basta una piccola parentesi, quasi lasciata cadere lì di sfuggita, per diffondere tanta ironia che, in sostanza, investe tutti: anche noi, sempre indaffarati a ricercare invano qualcosa nella vita. 218. era questo, era quello...: senti l’insistente, vario pettegolare di tutto il borgo. E senti come si sviluppa sereno e arguto lo studio psicologico che il M. continua a fare sui suoi protagonisti, individui e folle. 222. il più chiaro per lui: cioè, chi era stato quel pellegrino e che cosa era successo la notte prima in casa di Lucia. 228. que’ due galantuomini: la. Provvidenza, mentre salva il vecchio servitore, facendo cadere la supposizione dell’esistenza
di un traditore, sembra anche prendersi bef-
fa dei due birbanti, architetti dell’impresa, e, al solito,... galantuomini. 234-235. Fuggiti insieme!: alcuni commentatori in questa uscita di don Rodrigo vedono il segno di una « gelosia » addirittura « carnale » del signorotto verso Lucia. Non neghiamo che una certa passionaccia delusa ci si possa trovare; ma in quel «grido» che non va staccato dagli altri che seguono, ci pare di sentire, soprattutto, la rabbia di essere stato gabbato, lui potente ed astuto, da due contadini e da un povero frate.
236. artantolata... smozzicata...: queste pa-
role, e le altre che seguono, rendono bene il gran ribollimento delle passioni in don Rodrigo. Ma ci pare che qui il M. abbia usato dei toni eccessivi e alquanto melodrammatici, sia nei gesti (« tra’ denti, che mordevano il dito »), sia nelle grida (« Non ho pace... subito, a sapere, a vedere, a trovare... »).
capitolo XI 245
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Una delle più gran consolazioni di questa vita è l’amicizia; e una delle consolazioni dell’amicizia è quell’avere a cui confidare un segreto. Ora, gli amici non sono a due a due, come gli sposi; ognuno, generalmente parlando, ne ha più d’uno: il che forma una catena, di cui nessuno potrebbe trovar la fine. Quando dunque un amico si procura quella consolazione di deporre un segreto nel seno d’un altro, dà a costui la voglia di procurarsi la stessa consolazione anche lui. Lo prega, è vero, di non dir nulla a nessuno; e una tal condizione, chi la prendesse nel senso: rigoroso delle parole, troncherebbe immediatamente il corso delle consolazioni. Ma la pratica generale ha voluto
che obblighi soltanto a non confidare il segreto, se non a chi sia un amico ugualmente fidato, e imponendogli la stessa condizione. Così, d’amico fidato 255 in amico fidato, il segreto gira e gira per quell’immensa catena, tanto che arriva all’orecchio di colui o di coloro a cui il primo che ha parlato intendeva appunto di non lasciarlo arrivar mai. Avrebbe però ordinariamente a stare un gran pezzo in cammino, se ognuno non avesse che due amici: quello che gli dice, e quello a cui ridice la cosa da tacersi. Ma ci son degli uomini privile260 ‘ giati che li contano a centinaia; e quando il segreto è venuto a uno di questi uomini, i giri divengon sì rapidi e sì moltiplici, che non è più possibile di seguirne la traccia. Il nostro autore non ha potuto accertarsi per quante bocche fosse passato il segreto che il Griso aveva ordine di scovare: il fatto sta che
il buon uomo da cui erano state scortate le donne-a Monza, tornando, verso 265
le ventitré, col suo baroccio, a Pescarenico, s’abbatté, prima d’arrivare a ca-
sa, in un amico fidato, al quale raccontò, in gran confidenza, l’opera buona che aveva fatta, e il rimanente; e il fatto sta che il Griso poté, due ore dopo, correre al palazzotto, a riferire a don Rodrigo che Lucia e sua madre s’eran ricoverate in un convento di Monza, e che Renzo aveva seguitata la sua 270
strada fino a Milano. i Don Rodrigo provò una scellerata allegrezza di quella separazione, e sentì rinascere un po’ di quella scellerata speranza d’arrivare al suo intento. Pensò
alla maniera, gran parte della notte; e s’alzò presto, con due disegni, l’uno stabilito, l’altro abbozzato. Il primo era di spedire immantinente il Griso a 24p)
Monza, per avere più chiare notizie di Lucia, e sapere se ci fosse da tentar 244. Una delle più gran consolazioni...: la digressione sembra dapprima rivolta ad esaltare i grandi vantaggi dell'amicizia; man mano che si procede va sempre più divenendo un’arguta satira del cicalare degli uomini, ed insieme una bonaria parodia dell’amicizia stessa (ridotta al consolante ufficio di confidente dei segreti), con la realistica conclusione sul modo come vanno a finire certi begli ideali. Il discorso passa, così, dall'andamento solenne della massima classica (ricorda addirittura il trattatello ciceroniano De amicitia) ad un fraseggiare familiare e sempre più colorito di comicità: ma tutto il capoverso è amabile e riposante. 264. il buon uomo: il barrocciaio è, dunque, colui che per primo riferisce la cosa ». in gran confidenza ad «un amico fidato dire così per trattazione, lunga Dopo la teorica, sulle consolazioni dell’amicizia e sul-
la diffusione dei segreti deposti « nel seno d’un altro », il periodo, che in concreto riferisce come il Griso poté in appena « due ore » venire a capo di tutto, è rapidissimo: com’è rapidissima, appunto, la diffusione dei segreti confidati agli amici! 265. le ventittè: le diciassette, circa; sul ‘tramonto, essendo in novembre. Le 24 ore del giorno, in quei tempi, si incominciavano a contate dal tramonto. 271-272. scellerata... scellerata: tanto 1’4/legrezza quanto la speranza, perché dietro l’una e dietro l’altra sono la colpa, la violenza, la sopraffazione, di nuovo eccitate dalla voglia di insistere nello sporco impegno. 274. immantinente: l’avverbio è letterario e ricercato, ma esprime benissimo la gran furia e la gran confusione che c’è nella testa di don Rodrigo.
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i promessi spost
qualche cosa. Fece dunque chiamar subito quel suo fedele, gli mise in mano i quattro scudi, lo lodò di nuovo dell’abilità con cui gli aveva guadagnati, e gli diede l’ordine che aveva premeditato. « Signore... » disse, tentennando, il Griso. « Che? non ho io parlato chiaro? » « Se potesse mandar qualchedun altro... » « Come? »
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« Signore illustrissimo, io son pronto a metterci la pelle per il mio padrone: è il mio dovere; ma so anche che lei non vuole arrischiar troppo la vita de’ suoi sudditi. » « Ebbene? » « Vossignoria illustrissima sa bene quelle poche taglie ch'io ho addosso: e... Qui son sotto la sua protezione; siamo una brigata; il signor podestà è amico di casa; i birri mi pottan rispetto; e anch’io... è cosa che fa poco onore, ma per viver quieto... li tratto da amici. In Milano la livrea di vossignoria è conosciuta; ma in Monza... ci sono conosciuto io in vece. È sa vos-
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signoria che, non fo per dire, chi mi potesse consegnare alla giustizia, o presentar la mia testa, farebbe un bel colpo? Cento scudi l’uno sull’altro, e la facoltà di liberar due banditi. » « Che diavolo! » disse don Rodrigo: «tu mi. riesci ora un can da pagliaio che ha cuore appena d’avventarsi alle gambe di chi passa sulla porta, guardandosi. indietro se quei di casa lo spalleggiano, e non si sente d’allontanatsi! »
« Credo, signor padrone, d’aver date prove... » 300
« Dunque! »
« Dunque, » ripigliò francamente il Griso, messo così al punto, « dunque vossignoria faccia conto ch'io non abbia parlato: cuor di leone, gamba di lepre, e son pronto a partire. » 305
« E io non ho detto che tu vada solo. Piglia con te un paio de’ meglio...
lo Sfregiato, e il Tiradritto; e va di buon animo, e sii il Griso. Che diavolo! Tre figure come le. vostre, e che vanno per i fatti loro, chi vuoi che non sia 276. quel suo fedele: già lo sappiamo che il Griso era «il fidatissimo del padrone » e lo era « per gratitudine e per interesse » (Cap. VII); tuttavia nel prossimo colloquio scorgeremo
un
certo
« tentennamento », su-
bito però rientrato « pet interesse ». Ma un giorno, quando l’interesse sarà tutt’altro, non esisterà più la gratitudine, e il « suo fedele » si cambierà in « traditore infame »
(Cap. XXXIII). 289-290. i birri... da amici: queste parole del Griso, che si sente disonorato a trattare i birri con reciproco rispetto, potrebbero sembrare strane se non si ricordasse quanto già il M. aveva scritto su quei tutori dell'ordine: « erano generalmente dei più abbietti e ribaldi. soggetti del loro tempo; l’incarico loro era tenuto. a vile anche da quelli che potevano averne terrore, e il loro titolo un improperio » (Cap. I). L’espressione del Griso, come varie altre di questo
suo colloquio col padrone (l’amicizia col podestà, i rapporti coi bravi, la presenza delle taglie, l’importanza della livrea, ecc.), evocano ancora ai nostri occhi l’immagine del Seicento così come lo ha sentito il M.: un secolo di violenza e di servilismo, di arroganza e di viltà. Il solito rovesciamento di valori, ritratti con genialità. 294. liberar due banditi: dice acutamente il Messina che in queste parole del Griso c'è «un senso di compiacimento per la grossa taglia che pesa su di lui: sente di essere qualcuno, di valere assai più di due banditi ». E noi potremmo aggiungere che doveva essere proprio una bella giustizia quella che, per catturare un ribaldo, ne liberava due! 305. e sii il Griso: come lui, don Rodrigo era ritornato don Rodrigo. Riguardo ai nomi di quel « paio de’ meglio », lo Sfregiato e il Tiradritto, vedi Cap. VIII, n. 219.
capitolo XI
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contento di lasciarle passare? Bisognerebbe che a’ birri di Monza fosse ben venuta a noia la vita, per metterla su contro cento scudi a un gioco così rischioso. E poi, e poi, non credo d’esser così sconosciuto da quelle parti, che la qualità di mio servitore non ci si conti per nulla. » Svergognato così un poco il Griso, gli diede poi più ampie e particolari istruzioni. Il Griso prese i due compagni, e partì con faccia allegra e baldanzosa, ma bestemmiando in cuor suo Monza e le taglie e le donne e i capricci de’ padroni; e camminava come il lupo, che spinto dalla fame, col ventre raggrinzato, e con le costole che gli si potrebber contare, scende da’ suoi monti, dove non c’è che neve, s’avanza sospettosamente nel piano, si ferma ogni tanto, con una zampa sospesa, dimenando la coda spelacchiata, Leva il muso, odorando il vento infido,
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se mai gli porti odore d’uomo o di ferro, rizza gli orecchi acuti, e gira due occhi sanguigni, da cui traluce insieme l’ardore della preda e il terrore della caccia. Del rimanente, quel bel verso, chi volesse saper donde venga, è tratto
da una diavoleria inedita di crociate e di lombardi, che presto non sarà più 325
inedita, e farà un bel rumore; e io l’ho preso, perché mi veniva in taglio; e dico dove, per non farmi bello della roba altrui: che qualcheduno non pensasse che sia una mia astuzia per far sapere che l’autore di quella diavoleria ed io siamo come fratelli, e ch'io frugo a piacer mio ne’ suoi manoscritti. L’altra cosa che premeva
a don Rodrigo, era di trovar la maniera che
314. camminava come il lupo: poco prima don Rodrigo lo aveva sferzato come un care da pollaio, e lui si era riabilitato presentandosi come cuor di leone e gamba di lepre; altra volta lo abbiamo visto come care che scorta una mandra di porci (Cap. VIII) e all’inizio di questo capitolo come in un branco di segugi. In ogni situazione c'è, dunque, qualcosa della bestia nel Griso; ma
questo del /upo è certamente il paragone che è rimasto più celebre. — Si suol dire che la similitudine del lupo non è nuova: e sarebbe davvero lungo ricordare i poeti che, da Omero in poi, l'hanno usata. Ma tutta manzoniana è l'ironia che qui la pervade e che, coi colori più realistici — ventre raggrinzito, costole che si potrebber contare —, le fa perdere ogni traccia di accademismo. E veramente bella è in se stessa questa raffigurazione del lupo, proiettato sullo sfondo di un desolato paesaggio montano, e plasticamente ritratto nell’evidenza delle forme e dei movimenti. 318. Leva il muso...: il verso si trova nell'ottava 168 del Canto X del poema I lombardi alla prima crociata di Tommaso Grossi (1750-1853),
tore di varie è il romanzo ragionamento e che suona
amico carissimo
del M. e au-
opere, delle quali la più nota storico Marco Visconti. — Nel sereno e scherzoso che segue, tutto cordialità e dimestichezza
col Grossi, ci sono da osservare, in patticolare, due affermazioni del M.: che quello sia un del verso e che la stampa di quella « diavoleria » farà un del rumore. Per l’uno e per l'altro bisogna riconoscere che il M. ha trattato con molta bontà l’amico. Quel verso è, sì, bello: ma è anche uno dei pochissimi belli di tutto il poema del Grossi. Il quale, aggiungiamo per pura curiosità, non parla di un /upo, ma di una leonessa, una leena. 322. diavoleria inedita: il poema del Grossi uscì nel 1826; quando il M. nel 1827 pubblicò il romanzo non ritoccò questo passo, che evidentemente aveva scritto prima della pubblicazione de I lombardi alla prima crociata; e neppure lo ritoccò nell’edizione definitiva del 1840-42, che ora leggiamo. Riguardo al del ruzzore per l’uscita del poema si può pensare che, in un primo tempo, il M. sia stato un profeta troppo benevolo e poco felice, perché il libro al suo apparire suscitò subito molte delusioni e molte critiche. Ma poi si potrebbe supporre che, in un secondo tempo, il M. abbia conservato bel rumore a bella posta, sfruttando l’ambiguità a cui il termine si prestava, spinto da quel gusto del malizioso di cui non si spogliava nei riguardi di chicchessia, nemmeno degli
amici più cari né di se stesso: e che è sempre pronto a ravvivare il racconto,
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î promessi spost
Renzo non potesse più tornar con Lucia, né metter piede in paese; e a questo fine, macchinava di fare sparger voci di minacce e d’insidie, che, venen330
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dogli all'orecchio, per mezzo di qualche amico, gli facessero passar la voglia di tornar da quelle parti. Pensava però che la più sicura sarebbe se si potesse farlo sfrattar dallo stato: e per riuscire in questo, vedeva che più della forza gli avrebbe potuto servir la. giustizia. Si poteva, per esempio, dare un po’ di colore al tentativo fatto nella casa parrocchiale, dipingerlo come un’aggressione, un atto sedizioso, e, per mezzo del dottore, fare intendere al podestà ch’era il caso di spedir contro Renzo una buona cattura. Ma pensò che non conveniva a lui di rimestar quella brutta faccenda; e senza star altro a lambiccarsi il cervello, si risolvette -d’aprirsi col dottor Azzecca-garbugli, quanto era necessario per fargli comprendere il suo desiderio. — Le gride son tante! — pensava: — e il dottore non è un’oca: qualcosa che faccia al caso mio saprà trovare, qualche garbuglio da azzeccare a quel villanaccio: altrimenti gli muto nome. — Ma (come vanno alle volte le cose di questo mondo!) intanto che colui pensava al dottore, come all'uomo più abile a servirlo in questo, un altr’'uomo, l’uomo che nessuno
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s’immaginerebbe,
Renzo
medesimo,
pet
dirla, lavorava di cuore a servirlo, in un modo più certo e più spedito di tutti quelli che il dottore avrebbe mai saputi trovare. Ho visto più volte un caro fanciullo, vispo, per dire il vero, più del bisogno, ma che, a tutti i segnali, mostra di voler riuscire un galantuomo; l’ho visto, dico, più volte affaccendato sulla sera a mandare al coperto un suo gregge di porcellini d'India, che aveva lasciati scorrer liberi il giorno, in un giardinetto. Avrebbe voluto fargli andar tutti insieme al covile; ma era fatica buttata: uno si sbandava a destra, e mentre il piccolo pastore correva per cacciarlo nel branco, un altro, due, tre ne uscivano a sinistra, da ogni parte. Dimodoché, dopo essersi un po’ impazientito, s’adattava al loro genio, spingeva prima dentro quelli ch’eran più vicini all’uscio, poi andava a prender gli altri, a uno, a due, a tre, come gli riusciva. Un gioco simile ci convien 333. la giustizia: quella che potevano mettere in moto due « galantuomini » quali il podestà e Azzeccagarbugli. Del resto abbiamo già parlato dell’atteggiamento di don Rodrigo di fronte alla legge: a lui piace apparire sempre in regola, sempre dalla parte del diritto, perché talvolta anche la giustizia potrebbe servirgli. Nel cap. XIX si dirà appunto che «don Rodrigo voleva bensì fare il tiranno, ma non il tiranno salvatico » e che badava ad avere «una mano sulle bilance della giustizia, per farle a un bisogno traboccare dalla sua parte, o per farle sparire, o per darle anche, in qualche occasione, sulla testa di qualcheduno ». Ed ora sarebbe proprio il caso di darle sulla testa del povero Renzo, per mezzo dei garbugli che il dottore riuscirà ad azzeccare per « quel villanaccio ». 336. una buona cattura: oggi si dice ur mandato di cattura. 342. (come vanno... mondo!): la parentesi, che sembra messa lì per caso, è un melanconico e insieme scherzoso sospiro che
s'alza, come altre volte, dalla mesta visione che il M. ha della storia. 347. Ho visto... un caro fanciullo...: è un suo figlio, Enrico. Così, dopo la nota cordiale pei l’amico, ecco quella affettuosa per il figliolo. Il M. porta nel romanzo non solo « una storia », ma tutto se stesso, per un bisogno di effusione, che in questo capitolo si rivela particolarmente insistente, dato che avrebbe potuto continuare a parlare dei casi di Renzo senza punto soffermarsi sul paragone del « caro fanciulo ». Ma forse, dopo la tensione dei precedenti capitoli, il M. ha anche sentito, per sé e per i lettori, il bisogno di una pausa rasserenatrice: ‘alla quale niente poteva meglio servire che gli effetti domestici. 356-358. Un gioco simile... vista: un gioco che per il narratore era un godimento, come il M. stesso avrebbe confessato più tardi: « Alzarsi ogni mattina colle immagini vive del giorno innanzi davanti alla mente, scendere nello studio, tirar fuori dal cassetto dello scrittoio qualcuno di quei soliti perso-
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fare co’ nostri personaggi: ricoverata Lucia, siam corsi a don Rodrigo; e ora lo dobbiamo abbandonare, per andar dietro a Renzo, che avevam perduto di vista. Dopo la separazione dolorosa che abbiam raccontata, camminava Renzo da Monza verso Milano, in quello stato d’animo che ognuno può immaginarsi facilmente. Abbandonar la casa, tralasciare il mestiere, e quel ch’era più di tutto, allontanarsi da Lucia, trovarsi sur una strada, senza saper dove anderebbe a posarsi; e tutto per causa di quel birbone! Quando si tratteneva col pensiero sull’una o sull’altra di queste cose, s’ingolfava tutto nella rabbia, e nel desiderio della vendetta; ma gli tornava poi in mente quella preghiera che aveva recitata anche lui col suo buon frate, nella chiesa di Pescarenico; e si ravvedeva: gli si risvegliava ancora la stizza: ma vedendo un'immagine sul muro, si levava il cappello, e si fermava un momento a pregar di nuovo: tanto che, in quel viaggio, ebbe ammazzato in cuor suo don Rodrigo, e risuscitatolo, almeno venti volte. La strada era allora tutta sepolta tra due alte rive, fangosa, sassosa, solcata da rotaie profonde, che, dopo una pioggia, divenivan rigagnoli; e in certe parti più basse, s’allagava tutta, che si sarebbe potuto andarci in barca. A que’ passi, un piccol sentiero erto, a scalini, sulla riva, indicava che altri passeggieri s’eran fatta una strada ne’ campi. Renzo, salito per un di que’ valichi sul terreno più elevato, vide quella ‘gran macchina del duomo sola sul piano, come se, non di mezzo a una città, ma sorgesse in un deserto; e si fermò su due piedi, dimenticando tutti i suoi guai, a contemplare anche da lontano quell’ottava maraviglia, di cui aveva tanto sentito parlare fin da bambino. Ma dopo qualche momento, voltandosi indietro, vide all'orizzonte quella cresta frastagliata di montagne, vide distinto e alto tra quelle il suo Resegone, si sentì tutto rimescolare il sannaggi, disporli davanti a me come tanti burattini, osservarne le mosse, ascoltarne i discorsi, poi mettere in carta e rileggere, era per me un godimento così vivo come quello di una curiosità soddisfatta» (Da una lettera del genero G. B. Giorgini). 361. Abbandonar la casa...: il M. segue con paterna tenerezza le angosce di Renzo, povero montanaro che la cattiveria degli uomini ha strappato da tutto il suo mondo. 369-370. ammazzato... venti volte: da questi propositi di vendetta, fatti e disfatti continuamente, non ci pare affatto di poter dedurre, come pensa qualcuno, che in Renzo il sentimento della collera prevalga su quello del perdono cristiano. Anzi, ci sembra che il M. dica e ridica proprio l’opposto sul conto del giovane, da quando abbiamo visto i suoi primi sfoghi di delusione e di rabbia, subito sfumati al pensiero di Lucia, a quando lo vedremo nel lazzeretto in preghiera insieme con padre Cristoforo dinanzi al corpo agonizzante di don Rodrigo (Cap. XXXV). Renzo, pur così bistrattato dagli uomini e perseguitato dalla sorte, resta sempre quello che è nel suo profondo: un giovane saldamente cristiano e timorato di Dio, e al quale basta un buon pensiero o
un’immagine cara per placarlo di ogni col-
lera. L’ammazzare e il risuscitare di ora ne sono briosa conferma. 376. gran macchina del duomo: il M. è stato sapiente nell’introdurre nel racconto questa « ottava meraviglia » del mondo; sicché anche a noi, dopo aver seguito Renzo per quella strada, « tutta sepolta » fra le rive, « solcata da rotaie », e che si allarga « in certe parti più dasse », la mole del Duomo appare grandiosa e solenne, sola sul piano, come se «sorgesse i2 un deserto ». 381. il suo Resegone: bellissimo questo tocco rapido di paesaggio montano che appare all’orizzonte e su cui distinto e alto si erge il Resegone. La vista dei monti fami.liari dà a Renzo una commozione che gli fa
« rimescolare il sangue », e a noi fa ticordare l’Addio di Lucia. Ma mentre nel cuore della ragazza la visione di « monti sorgenti... ed elevati al cielo » portava tanti pensieri e tante lacrime, in Renzo tutta la melanconia, condensata in quel tristazente ripetuto due volte, si esprime con uno sguardo sol-
tanto, ed è scossa dal voltarsi deciso e dalla ripresa del cammino:
« si voltò, e seguitò la
sua strada ». Due anime tanto diverse, quelle di Lucia e di Renzo, come tanto profonda e attenta è sempre la cura del M. nel ritrarre
tutte le sfumature dell’una e dell’altra.
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gue, stette lì alquanto a guardar tristamente da quella parte, poi tristamente si voltò, e seguitò la sua strada. A poco a poco cominciò poi a scoprir campanili e torri e cupole e tetti; scese allora nella strada, camminò ancora qualche tempo, e quando s’accorse d’esser ben vicino alla città, s’accostò a un
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viandante, e, inchinatolo, con tutto quel garbo che seppe, gli disse: « di grazia, quel signore ». « Che volete, bravo giovine? » « Saprebbe insegnarmi la strada più corta, per andare al convento de’ cappuccini dove sta il padre Bonaventura? » L’uomo a cui Renzo s’indirizzava, era un agiato abitante del contorno, che, andato quella mattina a Milano, per certi suoi affari, se ne tornava,
senza aver fatto nulla, in gran fretta; ché non vedeva l’ora di trovarsi a casa, e avrebbe fatto volentieri di meno
di quella fermata. Con tutto ciò, senza
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dar segno d’impazienza, rispose molto gentilmente: « figliuol caro, de’ conventi ce n’è più d’uno: bisognerebbe che mi sapeste dir più chiaro quale è quello che voi cercate ». Renzo allora si levò di seno la lettera del padre Cristoforo, e la fece vedere a quel signore, il quale, lettovi: porta orientale,
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cate è poco lontano di qui. Prendete per questa viottola a mancina: è una scorciatoia: in pochi minuti arriverete a una cantonata d’una fabbrica lunga e bassa: è il lazzeretto; costeggiate il fossato che lo circonda, e riuscirete a
gliela rendette dicendo:
« siete fortunato, bravo giovine; il convento che cer-
porta orientale. Entrate, e, dopo tre o quattrocento passi, vedrete una piaz-
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zetta con de’ begli olmi: là è il convento: non potete sbagliare. Dio v’assista, bravo giovine. » E, accompagnando l’ultime parole con un gesto grazioso della mano, se n’andò. Renzo rimase stupefatto e edificato della buona maniera de’ cittadini verso la gente di campagna; e non sapeva ch’era un giorno fuor dell’ordinario, un giorno in cui le cappe s’inchinavano ai farsetti. Fece la strada che gli era stata insegnata, e si trovò a porta orientale. Non bisogna però che, a questo nome, il lettore si lasci correre alla fantasia l’immagini che ora vi sono associate. Quando Renzo entrò per quella porta, la strada al di fuori non andava diritta che per tutta la lunghezza del lazzeretto; poi scorreva serpeggiante e stretta, tra due siepi. La porta consisteva in due pilastri, con sopra una tettoia, per riparare i battenti, e da una parte, una casuccia per i gabellini. I bastioni scendevano in pendìo irregolare, e il terreno
386. inchinatolo: l’espressione, alquanto letteraria ha un che d’arcaico e di rozzo insieme. Tuttavia contribuisce a rendere l’impaccio dell’uomo di campagna (di quelli, soprattutto, dei tempi passati!) di fronte all’uomo di città, e bene si accompagna all’ingenuità con cui Renzo rivolge la domanda al viandante. 395. rispose... gentilmente: sapremo tra poco il motivo di tanta gentilezza; è un
giorno di tumulti popolari, e costui, « agiato abitante guai.
del
contorno »,
400. per questa viottola:
non
vuole
e di là Renzo
incontrerà una fabbrica lunga e piatta, e poi un fossato, e quindi porta orientale,e in-
fine una piazzetta con de’ begli olmi...:
in
questi cenni, e soprattutto nella più ampia
descrizione che fra poco leggerai, c'è tanta
vecchia Milano, di quella che ora rimane appena in qualche stampa, e c’è tanto cuore del milanese M. 403. porta orientale: oggi Porta Venezia. Il nome antico era più poetico (« quant’era bello quell’oriente che entrava dalla porta! » esclama un commentatore che è anche poeta, C. Angelini); ed ha avuto fortuna coi poeti: il Foscolo, nelle vesti del giovane Ortis, racconta che si trovò a passeggiare col vecchio Parini « nel sobborgo orientale della città sotto un boschetto di tigli » (J. Ortis). 415. gabellini: oggi si chiamerebbero guardie daziarie: in quel giorno, anche costoro, avevano ben altre preoccupazioni.
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era una superficie aspra e inuguale di rottami e di cocci buttati là a caso. La strada che s’apriva dinanzi a chi entrava per quella porta, non si paragonetebbe male a quella che ora si presenta a chi entri da porta Tosa. Un 420
fossatello le scorreva nel mezzo, fino a poca distanza dalla porta, e la divi-
deva così in due stradette tortuose, ricoperte di polvere o di fango, secondo la stagione. Al punto dov'era, e dov'è tuttora quella viuzza chiamata di Botghetto, il fossatello si perdeva in una fogna. Lì c’era una colonna, con sopra una croce, detta di san Dionigi: a destra e a sinistra, erano orti cinti di siepe e, ad intervalli, casucce, abitate per lo più da lavandai. Renzo entra, passa;
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nessuno de’ gabellini gli bada: cosa che gli parve strana, giacché, da que’ pochi del suo paese che potevan vantarsi d’esser stati a Milano, aveva sentita raccontar cose grosse de’ frugamenti e dell’interrogazioni a cui venivan sottoposti quelli che arrivavan dalla campagna. La strada era deserta, dimodoché, se non avesse sentito un ronzìo lontano che indicava un gran movimento, gli
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sarebbe parso d’entrare in una città disabitata. Andando avanti, senza saper cosa si pensare, vide per terra certe strisce bianche e soffici, come di neve; ma neve non poteva essere; che non viene a strisce, né, per il solito, in quella stagione. Si chinò sur una di quelle, guardò, toccò, e trovò ch’era farina. — Grand’abbondanza, — disse tra sé, — ci dev'essere in Milano, se straziano in
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questa maniera la grazia di Dio. Ci davan poi ad intendere che la carestia è per tutto. Ecco come fanno, per tener quieta la povera gente di campagna. — Ma, dopo pochi altri passi, arrivato a fianco della colonna, vide, appié di quella, qualcosa di più strano; vide sugli scalini del piedestallo certe cose sparse, che certamente non eran ciottoli, e se fossero state sul banco d’un fornaio, non si sarebbe esitato un momento a chiamarli pani. Ma Renzo non ardiva creder così presto a’ suoi occhi; perché, diamine! non era luogo da pani quello. — Vediamo un po’ che affare è questo, — disse ancora tra sé; andò verso la colonna, si chinò, ne raccolse uno: era veramente un pan tondo, bianchissimo, di quelli che Renzo non era solito mangiarne che nelle solennità. — È pane davvero! — disse ad alta voce; tanta era la sua maravi-
glia: — così lo seminano in questo paese? in quest'anno? e non si scomodano neppure per raccoglierlo, quando cade? Che sia il paese di cuccagna questo? — Dopo dieci miglia di strada, all’aria fresca della mattina, quel pane, insieme con la maraviglia, gli risvegliò l’appetito. — Lo piglio? — deliberava tra sé: — poh! l’hanno lasciato qui alla discrezion de’ cani; tant'è che ne goda anche un cristiano. Alla fine, se comparisce il padrone, glielo pagherò. — Così pensando, si mise in una tasca quello che aveva in mano, ne prese un secondo, e lo mise nell’altra; un terzo, e cominciò:a mangiare; e si rincamminò, più incerto che mai, e desideroso di chiarirsi che storia fosse quella. Appena mosso, vide spuntar gente che veniva dall’interno della 425. gli parve strana: e di stranezze Renzo ne vedrà subito tante altre, e più grosse
di questa, man mano che s’inoltrerà nella città. Sarà un crescendo costante, dalla periferia al centro. 431. bianche... come di neve: lo racconta benissimo anche lo storico, il Ripamonti: albentia tamItinera urbis cernebantur quam ninxisset. È farina: la seconda meraviglia per Renzo, e, quindi, la sua spon-
tanea protesta per la palese ingiustizia: mi-
seria nella campagna, opulenza e sciupio nella città. 454-455. che storia fosse quella: dal passaggio per la porta è stato per Renzo tutto un susseguirsi di cose nuove e strane, e con esse un crescendo d’ingenua meraviglia, di gioioso stupore, di sincera riprovazione. I vari momenti e sentimenti sono stati ossetvati e ricostruiti con una magistrale capacità di far rivivere il senso del reale e del vero fino nei più minuti aspetti.
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î promessi spost
città, e guardò attentamente quelli che apparivano i primi. Erano un uomo, una donna e, qualche passo indietro, un ragazzotto; tutt'e tre con un carico addosso, che pareva superiore alle loro forze, e tutt'e tre in una figura strana. I vestiti o gli stracci infarinati; infarinati-i visi, e di più stravolti e 460
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accesi; e andavano, non solo curvi, pet il peso, ma sopra doglia, come se gli fossero state peste l’ossa. L'uomo reggeva a stento sulle spalle un gran sacco di farina, il quale, bucato qua e là, ne seminava un poco; a ogni intoppo, a ogni mossa disequilibrata. Ma più sconcia era la figura della donna: un pancione smisurato, che pareva tenuto a fatica da due braccia piegate: come una pentolaccia a due manichi; e di sotto a quel pancione uscivan due gambe, nude fin sopra il ginocchio, che venivano innanzi barcollando. Renzo guardò più attentamente, e vide che quel gran corpo era la sottana che la donna teneva per il lembo, con dentro farina quanta ce ne poteva stare, e un po’ di più; dimodoché, quasi a ogni passo, ne volava via una ventata. Il ragazzotto teneva con tutt'e due le mani sul capo una paniera colma di pani; ma, per aver le gambe più corte de’ suoi genitori, rimaneva a poco a poco indietro, e, allungando poi il passo ogni tanto, per raggiungerli, la paniera perdeva l’equilibrio, e qualche pane cadeva. «.Buttane via ancor un altro, buono a niente che sei, » disse la madre,
digrignando i denti verso il ragazzo. « Io non li butto via; cascan da sé: com’ho a fare? » rispose quello. «Ih! buon per te, che ho le mani impicciate, » riprese la donna; dimenando i pugni, come se desse una buona scossa al povero ragazzo; e, con quel movimento, fece volar via più farina, di quel che ci sarebbe voluto per farne i due pani lasciati cadere allora dal ragazzo. « Via, via, » disse l’uomo: « torneremo indietro a raccoglierli, o qualcheduno li raccoglierà. Si stenta da tanto tempo: ora che viene un po’ d’abbondanza, godiamola in santa pace. » In tanto arrivava altra gente dalla porta; e uno di questi, accostatosi alla donna, le domandò: « dove si va a prendere il pane? » « Più avanti,» rispose quella; e quando furon lontani dieci passi, soggiunse borbottando: « questi contadini birboni verranno a spazzar tutti i forni e tutti i magazzini, e non resterà più niente per noi. » « Un po’ per uno, tormento che sei,» disse il marito:
bondanza. »
456-457. un uomo, una donna,... un ragazzotto: una famiglia intera, che torna a casa con la preda del saccheggio di un forno. 465-466. pancione... due gambe, nude...: è la pennellata più realistica di tutta la realistica descrizione dei tre personaggi, ciascuno sbozzato con straordinaria evidenza pittorica. Ma al di là dell’acume del ritrattista, nei colori del quadro si sente l’anima cristiana del M. offesa dall’avidità, dallo sperpero, dalla violenza. Perciò la sua penna è catica di accenti beffardi, soprattutto per la donna — quella specie di pentolaccia a due manichi — perché è proprio lei che, invece di essere la più composta, è la più ingorda e volgare. Più benevolo, come lo è sempre coi fanciulli, il M. è col ragazzo, vittima innocente dell’avidità dei genitori.
« abbondanza, ab-
475. digrignando i denti: qui il M. carica eccessivamente le tinte; ma si vuol divertire anche lui alle spalle di questa donnaccia.
479. fece volar via più farina: il sorriso si accentua di fronte all’ingordigia punita: perché si è punita da sé! Vengono alla mente gli iracondi danteschi con quel « fiorentino spirito bizzarro », che «in sé medesmo si volgea coi denti » (Inf. VIII). 484. dove si va a prendere il pane?: come se dicesse: dove si va a comprare il pane? Il saccheggio, nel tumulto, appare la cosa più naturale di questo mondo. Ma a poco a poco spunterà sempre più la riprovazione del M. non solo per la violenza, ma anche per la stupidaggine degli uomini.
488. Un po’ per uno...: almeno lui, il marito, è per le cose giuste! Tanto più che ha
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Da queste e da altrettali cose che vedeva e sentiva, Renzo cominciò a raccapezzarsi ch'era arrivato in una città sollevata, e che quello era un giorno di conquista, vale a dire che ognuno pigliava, a proporzione della voglia e della forza, dando busse in pagamento. Per quanto noi desideriamo di far fare buona figura al nostro povero montanaro, la sincerità storica ci obbliga a dire che il suo primo sentimento fu di piacere. Aveva così poco da lodarsi dell'andamento ordinario delle cose, che si trovava inclinato ad approvare ciò che lo mutasse in qualunque maniera. E del resto, non essendo punto un uomo superiore al suo secolo, viveva anche lui in quell’opinione o in quella passione comune, che la scarsezza del pane fosse cagionata dagl’incettatori e da’ fornai; ed era disposto a trovar giusto ogni modo di strappar loro dalle mani l’alimento che essi, secondo quell’opinione, negavano crudelmente alla fame di tutto un popolo. Pure, si propose di stat fuori del tumulto, e si rallegrò d’esser diretto a un cappuccino, che gli troverebbe ricovero, e gli farebbe da padre. Così pensando, e guardando intanto i nuovi conquistatori che venivano carichi di preda, fece quella po’ di strada che gli rimaneva per ar“rivare al convento. Dove ora sorge quel bel palazzo, con quell’alto loggiato, c’era allora, e c’era ancora non son molt’anni, una piazzetta, e in fondo a quella la chiesa e il convento de’ cappuccini, con quattro grand’olmi davanti. Noi ci rallegriamo, non senza invidia, con que’ nostri lettori che non han visto le cose in quello stato: ciò vuol dire che son molto giovani, e non hanno avuto tempo di far molte corbellerie. Renzo andò diritto alla porta, si ripose in seno il mezzo pane che gli rimaneva, levò fuori e tenne preparata in mano la lettera, e tirò il campanello. S’aprì uno sportellino che aveva una grata, e vi comparve la faccia del frate portinaio a domandar chi era. « Uno di campagna, che porta al padre Bonaventura una lettera pressante del padre Cristoforo. » « Date qui, » disse il portinaio, mettendo una mano alla grata. «No, no, » disse Renzo: « gliela devo consegnare in proprie mani. » « Non è in convento. » « Mi lasci entrare, che l’aspetterò. » « Fate a mio modo », rispose il frate: « andate a aspettare in chiesa, che intanto potrete fare un po’ di bene. In convento, pet adesso, non s’entra. » scambiato il saccheggio di un giorno per l’abbondanza di sempre. 495. primo sentimento... piacere: è l’insorgere, ancora vago e indistinto, di quell’atteggiamento rivoluzionario e tribunizio che farà di Renzo l’eroe dei capitoli seguenti. Allora occorrerà ricordarsi come la sua inclinazione ad approvare un netto cambiamento «in qualunque maniera » eta, in sostanza, una reazione a quell’« andamento ordinario delle cose» che aveva fatto di lui una vittima di prepotenze e di ingiustizie. Come dovremo ricordare che in fatto di idee sulle cause della carestia Renzo non era
« punto un uomo superiore al suo secolo »:
del resto conosciamo in proposito le opinioni di don Rodrigo, del conte Attilio e dei loto commensali (Cap. Vi).
507. quel bel palazzo: il palazzo RoccaSaporiti edificato nel 1812. In questo capitolo torna di frequente il motivo milanese, sempre gradito anche al lettore ... straniero. 516. Uno di campagna...: la presentazione rispecchia bene l’impaccio e l’umiltà di Renzo. — Pressante, urgente. È 523. In convento... non s’entra: il porttinaio è tanto deciso perché quello era un giorno di tumulti. Qualcuno, quasi scandalizzato,
si chiede se padre Cristoforo avrebbe agito così. Pensiamo di no, ma ci pare che sia sbagliato il termine di confronto: questo portinaio si dovrebbe confrontare non con padre Cristoforo ma, semmai, con fra Fazio, il sagrestano. Ad ogni modo non dimentichiamo che a Renzo dà un consiglio saggio, specie in quel giorno: quello di andare in chie-
i promessi sposi
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E detto questo, richiuse lo sportello. Renzo rimase lì, con la sua lettera in
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mano. Fece dieci passi verso la porta della chiesa, per seguire il consiglio del portinaio; ma poi pensò di dar prima un’altra occhiata al tumulto. Attraversò la piazzetta, si portò sull’orlo della strada, e si fermò, con le braccia incrociate sul petto, a guardare a sinistra, verso l’interno della città, dove il brulichìo era più folto e più rumoroso. Il vortice attrasse lo spettatore. — Andiamo a vedere, — disse tra sé; tirò fuori il suo mezzo pane, e sbocconcellando, si mosse
verso
quella parte. Intanto
che s’incammina,
noi racconte-
remo, più brevemente che sia possibile, le cagioni e il principio di quello sconvolgimento. sa a « fare un po’ di bene », cioè a recitare qualche orazione. 529. Il vortice attrasse lo spettatore: la
frase è forte ed espressiva. Si suole accostare a quella ben nota su Gertrude: La sventura
ta rispose. Ma se simile è la struttura, e se
in entrambe c’è l’idea che il personaggio viene attratto come da una forza misteriosa
Scheda
verso il futuro, ben diverso è lo spirito che div circola nelle due frasi: in quella per Gertrude non c’è che tragedia e tormento, in quella per Renzo non può sfuggire un sottile e malizioso sorriso del narratore, il quale subito dopo si mette a seguire il suo uomo «di campagna », che s’incammina verso l’interno della città « sbocconcellando » il mezzo pane.
critica al cap. XI La ripresa del racconto, dopo la grande digressione della storia di Gertrude, si esplica in un tono medio e conversevole, tutto percorso da un umore allegro ed ironico, punteggiato dai frequenti interventi in prima persona del narratore, pausato da moduli stilistici (similitudini, citazioni) che conferiscono alla pagina un distacco letterario assai pù forte che non altrove. « Dopo tanta tensione di analisi psicologica e dopo tanto indugiare in un'atmosfera tenebrosa, l'autore sembra sentire il bisogno di una distensione... Compiuti i primi dieci capitoli, mentre il ritmo dell'avventura rallenta, e matura una nuova fase narrativa, Manzoni sembra godersi il felice compimento della prima parte del romanzo, e pregustarne il successivo sviluppo, intrattenendosi con i personaggi, osservandone i gesti, ascoltandone la voce con una partecipazione nuova, più personale e divertita » (Getto). Questo mutamento di tono già si avvertiva nelle ultime pagine del capitolo precedente, dove il narratore, calandosi dall'atmosfera rarefatta e tragica della storia di Gertrude e riprendendo contatto con il mondo degli umili, registrava le opposte reazioni delle due popolane al contegno irrequieto ed ambiguo della monaca, di « confuso spavento» nella sensibile Lucia, di saggio agnostico distacco nell'esperta Agnese, introdotta qui a pronunciare. una delle sue sentenze più memorabili: «i signori, chi più, chi meno, chi per un verso, chi per un altro, han tutti un
po' del matto ». Nel cap. XI la medietà dello stile si adegua alla
capitolo XI
217 qualità e alla funzione di queste pagine, che è di ripresa e di complemento, di preparazione e di apertura agli svolgimenti ulteriori della favola, e insomma di raccordo. Questo consente l'indugio divertito su questo o quel particolare, la riflessione scherzosa destinata a diventar proverbiale (come il paragrafo sulla divulgazione dei segreti), il gusto letterario dei paragoni che anch'esso tende ad alleggerirsi nello scherzo; ma permette inoltre, senza parere, di rifinire e illustrare meglio taluni disegni di personaggi maggiori e minori, don Rodrigo e il Griso e il conte Attilio, Perpetua e Tonio e Gervaso. L'ultima, e la più elaborata, delle similitudini segna lo stacco fra la. prima parte del capitolo e la seconda, dove il tono muta e il ritmo narrativo si concentra, col ritornare in primo piano del grande personaggio di Renzo, giunto ora ad uno dei momenti culminanti della sua storia. Il Manzoni lo coglie in quel primo uscire dal suo mondo consueto e addentrarsi nel più vasto mondo della città, e torna a presentarcelo nell'umana cordialità che gli è propria, con le sue giovanili furie e i suoi pentimenti, la sua acuta nostalgia e il fresco stupore e l'ansiosa aspettazione di cose nuove. Nello sfondo il tema della carestia, e più prossimi i segni di una città in tumulto, sui quali già si delinea chiara la condizione dell'animo del contadino attento a quei segni e pronto a lasciarsi trascinare nel « vortice » della sommossa: « il suo primo sentimento fu di piacere. Aveva così poco da lodarsi dell'andamento ordinario delle cose, che si trovava inclinato ad approvare ciò che lo mutasse in qualunque maniera ». Sembra che il Manzoni guardi con distacco e:con ironia al suo personaggio, facile preda dei pregiudizi diffusi. Ma il lettore non si lasci ingannare. L'ironia del Manzoni è sempre più complicata che non paia a prima vista. Quell’insoddisfazione circa l'andamento ordinario delle cose, quell’inclinazione a mutarlo in qualunque maniera, sono, prima che del personaggio, e sia pure in una forma più contrastata e perplessa, anche dell'autore stanno alle radici della sua ideologia.
Capitolo XII
Era quello il second’anno di raccolta scarsa. Nell’antecedente, le provvisioni rimaste degli anni addietro avevan supplito, fino a un certo segno, al difetto; e la popolazione era giunta, non satolla né affamata, ma, certo, affatto
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sprovveduta, alla messe del 1628, nel quale siamo con la nostra storia. Ora questa messe tanto desiderata riuscì ancor più misera della precedente, in parte per maggior contrarietà delle stagioni (e questo non solo nel milanese, ma in un buon tratto di paese circonvicino); in parte per colpa degli uomini. Il guasto e lo sperperìo della guerta, di quella bella guerra di cui abbiam fatto menzione di sopra, era tale, che, nella parte dello stato più vicina ad essa, molti poderi più dell’ordinario rimanevano incolti e abbandonati da’ contadini, i quali, in vece di procacciar col lavoro pane per sé e per gli altri, 1. Era quello il second’anno di raccolta scarsa: il periodo asciutto e vigoroso dà inizio alla presentazione di uno degli episodi storici più importanti toccati dal romanzo, la carestia; gli altri saranno il passaggio dei lanzichenecchi e la peste. Nel presente episodio i fatti storici si intrecceranno con gli argomenti economici: e di storia e di economia il M. fu sempre appassionato cultore, come in parte abbiamo già accennato e come altrove avremo occasione di osservare più a fondo. Per le fonti storiche, qui tenute presenti dal M., sono da ricordare il Ripamonti e il Tadino (che poi troveremo più volte citati nelle pagine sulla peste), e per le opere economiche il libro di M. Gioia, Sul commercio de’ commestibili e caro prezzo del vitto. i 4. con la nostra storia: si può dire che fin dall’inizio di questa storia, cioè del romanzo, il tema della ‘carestia è sempre stato presente. Ricordiamo che alla carestia si richiamavano più o meno direttamente tante situazioni del racconto, come l’episodio di fra Galdino (Cap. III), l'andata di padre Cristoforo alla casa di Agnese (Cap. IV), la conversazione dei convitati di don Rodrigo (Cap. V), alcune scene collegate a Tonio (Cap. VI), la descrizione della sera del villaggio (Cap. VII), certe parole della signora
nel convento di Monza (Cap. IX) e, infine, l’entrata di Renzo in Milano (Cap. XI). Ma, mentre fin qui questo tema della carestia era stato presentato solo con rapidi accenni, ora diviene il motivo di fondo della narrazione e l’elemento determinante nella vicenda del protagonista. 7. per colpa degli uomini: osserveremo ben presto che proprio sulla responsabilità degli uomini il M. insiste, vedendola, insieme, fra le cause e le conseguenze della carestia. Questa, a sua volta, ci apparirà descritta dapprima negli aspetti economici e poi in quelli morali, offrendo così all’autore la possibilità di presentarsi, ancor prima che con le sue doti di narratore, con le sue cono-
scenze di economista. Ricordiamo, in proposito che il M., era nipote di Cesare Beccaria, uno dei maggiori illuministi ed economisti del nostro Settecento (cfr. Cap. I, n. 121), e che fra i libri che egli lesse al tempo della genesi del romanzo c'erano, accanto alle storie milanesi del Ripamonti, le opere economiche e politiche del Gioia. 8. quella bella guerra: la guerra di successione al ducato di Mantova, della quale già si è parlato nel cap. V. Nel bella sentiamo l’ironia del M., che vide in tutte le guerre una manifestazione di violenza e di follia (cfr. Cap. XXVII, n. 16-17).
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eran costretti d’andare ad accattarlo per carità. Ho detto: più dell’otdinatio: perché le insopportabili gravezze, imposte con una cupidigia e con un’insensatezza del pari sterminate, la condotta abituale, anche in piena pace, delle
truppe alloggiate ne’ paesi, condotta che i dolorosi documenti di que’ tempi uguagliano a quella d’un nemico invasore, altre cagioni che non è qui il luogo
mentovare, andavano già da qualche tempo operando lentamente quel tristo effetto in tutto il milanese: le circostanze particolari di cui ora parliamo,
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erano come una repentina esacerbazione d’un mal cronico. E quella qualunque raccolta non eta ancor finita di riporre, che le provvisioni per l’esercito, e lo sciupinìo che sempre le accompagna, ci fecero dentro un tal vòto, che la penuria si fece subito sentire, e con la penuria quel suo doloroso, ma salu-
tevole come inevitabile effetto, il rincaro. Ma quando questo arriva a un certo segno, nasce sempre (o almeno è sempre nata finora; e se ancora, dopo tanti scritti di valentuomini, pensate in quel tempo!), nasce un’opinione ne’ molti, che non ne sia cagione la scarsezza. Si dimentica d’averla temuta, predetta; si suppone tutt’a un tratto che ci sia grano abbastanza, e che il male venga dal non verdersene abbastanza per il consumo: supposizioni che non stanno né in cielo, né in terra; ma che lusingano a un tempo la colleta e la speranza. Gl’incettatori di grano, reali o immaginari, i possessori di terre, che non lo vendevano tutto in un giorno, i fornai che ne compravano, tutti coloro in somma che ne avessero o poco o assai, o che avessero il nome d’averne, a questi si dava la colpa della penuria e del rincaro, questi erano il bersaglio del lamento universale, l’abbominio della moltitudine male e ben vestita. Si diceva di sicuro dov’erano i magazzini, i granai, colmi, traboccanti, appuntellati; s’indicava il numero de’ sacchi, spropositato; si parlava con certezza dell’immensa quantità di granaglie che veniva spedita segretamente in altri paesi; ne’ quali probabilmente si gridava, con altrettanta sicurezza e con fremito uguale, che le
granaglie di là venivano a Milano. S'imploravan da’ magistrati que’ provve dimenti, che alla moltitudine paion sempre, o almeno sono sempre parsi finora, così giusti, così semplici, così atti a far saltar fuori il grano, nascosto,
murato, sepolto, come dicevano, ed a far ritornar l’abbondanza. I magistrati
qualche cosa facevano: come di stabilire il prezzo massimo d’alcune derrate,
23. il rincaro: è detto qui salutevole perché dovrebbe portare ad una limitazione dei consumi non strettamente necessati. Ma poi-
ché esistono gli accapatratori, in tempo di carestia la merce si fa sempre più rara e i prezzi sempre più alti. Automaticamente si diffonde l’idea che la causa della penuria sia tutta da addossarsi agli incettatori, e, sotto la pressione popolare, i governanti sono indotti ad abbassare i prezzi d’autorità: da qui nuovi sperperi e nuovo assottiglia mento dei beni di consumo. Tutti questi fenomeni il M. descrive, ora, da economista erudito e da osservatore attento ed ironico. 35. Si diceva di sicuro dov’erano...: rappresentazione vivacissima delle fantasie e delle collere della moltitudine. Dopo l’esposizione storica generale, fatta con tono pacato e distaccato, il periodo, che analizza e
ricostruisce i sentimenti della « moltitudine male e ben vestita », esprime con un ritmo incalzante il tumulto degli animi agitati. In particolare lo esprime quel frequente accavallarsi di aggettivi: i granai «colmi, traboccanti, appuntellati »; il grano « nascosto, murato, sepolto »; i provvedimenti da prendere « così giusti, così semplici, così atti... ». Col crescere degli spropositi dei popolani, cresce, com'è facile sentire, la satira del natratore. 41. o almeno sono sempre patsi finora: poco prima aveva detto «o almeno è sempre nata finora ». Sembra che il M. si divetta nel confrontare il presente col passato, e sorrida sulle povere opinioni degli uomini: i quali tutti, di qualunque genere e di qualunque tempo, e con la stessa meschina superficialità, tanto facilmente sragionano.
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d’intimar pene a chi ricusasse di vendere, e altri editti di quel genere. Siccome però tutti i provvedimenti di questo mondo, per quanto siano gagliardi, non hanno virtù di diminuire il bisogno del cibo, né di far venire derrate fuor di stagione; e siccome questi in ispecie non avevan certamente quella d’attirarne da dove ce ne potesse essere di soprabbondanti; così il male durava e cresceva. La moltitudine attribuiva un tale effetto alla scarsezza e alla debolezza de’ rimedi, e ne sollecitava ad alte grida de’ più generosi e decisivi. E per sua sventura, trovò l’uomo secondo il suo cuore.
Nell’assenza del governatore don Gonzalo Fernandez de Cordova, che
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comandava l’assedio di Casale del Monferrato, faceva le sue veci in Milano il gran cancelliere Antonio Ferrer, pure spagnolo. Costui vide, e chi non l'avrebbe veduto? che l’essere il pane a un prezzo giusto, è per sé una cosa molto desiderabile; e pensò, e qui fu lo sbaglio, che un suo ordine potesse bastare a produrla. Fissò la zeta (così chiamano qui la tariffa in materia di commestibili), fissò la meta del pane al prezzo che sarebbe stato il giusto, se il grano si fosse comunemente venduto trentatre lire il moggio: e si vendeva fino a ottanta. Fece come una donna stata giovine, che pensasse di ringiovinire, alterando la sua fede di battesimo. Ordini meno insensati e meno iniqui eran, più d’una volta, per la resistenza delle cose stesse, rimasti ineseguiti;
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ma
all’esecuzione di questo ve-
gliava la moltitudine, che, vedendo finalmente convertito in legge il suo desiderio, non avrebbe sofferto che fosse per celia. Accorse subito ai forni, a chieder pane al prezzo tassato; e lo chiese con quel fare di risolutezza e di minaccia, che danno la passione, la forza e la legge riunite insieme. Se i fornai strillassero, non lo domandate. Intridere, dimenare, infornare e sfornare senza posa; perché il popolo, sentendo in confuso che l’era una cosa violenta, assediava i forni di continuo, per goder quella cuccagna fin che durava; affacchinarsi, dico, e scalmanarsi più del solito, per iscapitarci, ognun vede che bel piacere dovesse essere. Ma, da una parte i magistrati che intimavan pene, dall’altra il 49-50. il male durava e cresceva: la frase riassume bene e con vivezza il quadro di una tragica realtà, al di sopra delle vane parole e delle sciocche supposizioni. 52. pet sua sventura: perché costui, una
61. Fece come una donna...: il paragone malizioso fa ben risaltare la leggerezza con cui agisce il gran Cancelliere: mutando il prezzo del pane, non è mutata la situazione. volta presi dei provvedimenti graditi alle 62. fede di battesimo: oggi si dice di nascita; ai tempi del M. non c'erano gli uffici folle, non li volle modificare quando vide che non servivano ai reali interessi della di Stato civile, e quindi la fede di battesipopolazione. Con tale espressione si può di-_ mo, documentata dai registri dei parroci, re che abbia inizio la lunga canzonatura che serviva anche come fede di nascita. il M. fa di questo personaggio, l’uomo che 63-66. Ordini... per celia: l'ironia che fin vedremo comportarsi con la moltitudine proqui aveva colpito un solo uomo, Ferrer, ora prio « secondo il suo cuore ». si diffonde su tutto il popolo, che si prepa55. Antonio Ferrer: fu gran Cancelliere in ra il suo danno con le sue stesse mani. Milano dal 1619 al 1635. Il suo nome lo ab69. Intridere... sfornare: a questa serie di biamo già incontrato (vidit Ferrer) nella griquattro verbi all'infinito ne tiene dietro, poda che Azzeccagarbugli mostra a Renzo (Cap. co più avanti, un’altra: « dimenare... venIII). Qui è definito spagnolo; ma poi anche dere ». Ambedue rendono plasticamente la lui, come molti altri funzionari venuti dalla dura ed irata fatica dei fornai, che non hanSpagna, si italianizzò e sposò una italiana. no un momento di sosta e sono ormai esa58. meta: il calmiere, cioè il prezzo massperati. Ma, in modo speciale e con frizzansimo fissato per una derrata. È scritta dapte umorismo, dicono tutto questo, ed altro prima in corsivo perché parola dialettale. ancora, quei tre strani infiniti centrali: « af60. moggio: misura di ‘capacità del grano, facchinarsi... scalmanarsi... iscapitarci ». Afequivalente ad un ettolitro e mezzo circa. facchinarsi, durar fatica come i facchini.
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popolo che voleva essere servito, e, punto punto che qualche fornaio indugiasse,
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pressava e brontolava, con quel suo vocione, e minacciava una di quelle sue giu-
stizie, che sono delle peggio che si facciano in questo mondo; non c’era reden-
zione, bisognava rimenare, infornare, sfornare e vendere. Però, a farli continua re in quell’impresa, non bastava che fosse lor comandato, né che avessero mol-
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ta paura; bisognava potere: e un po’ più che la cosa fosse durata, non avrebbero più potuto. Facevan vederai e magistrati l’iniquità e l’insopportabilità del carico imposto loro, protestavano di voler gettar la pala nel forno, e andarsene; e intanto tiravano avanti come potevano, sperando, sperando che, una volta o l’altra, il gran cancelliere avrebbe inteso la ragione. Ma Antonio Ferrer, il quale era quel che ora si direbbe un uomo di carattere, rispondeva che i fornai s'erano avvantaggiati molto e poi molto nel passato, che s’avvantaggerebbero molto e poi molto col ritornar dell'abbondanza; che anche si vedrebbe, si penserebbe forse a dar loro qualche risarcimento; e che intanto tirassero ancora avanti. O fosse veramente persuaso lui di queste ragioni che allegava agli altri, o che, anche conoscendo dagli effetti l’impossibilità di mantener quel suo editto, volesse lasciare agli altri l’odiosità di rivocarlo; giacché, chi può ora entrar nel cervello d’Antonio Ferrer? il fatto. sta che rimase fermo su ciò che aveva stabilito. Finalmente i decurioni (un magistrato municipale composto di nobili, che durò fino al novantasei del secolo scorso) informaron
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per lettera il governatore, dello stato in cui eran le cose: trovasse lui qualche
ripiego, che le facesse andare. Don Gonzalo, ingolfato fin sopra i capelli nelle faccende della guerra, fece ciò che il lettore s’immagina certamente: nominò una giunta, «alla quale con-
ferì l’autorità di stabilire al pane un prezzo che potesse correre; una cosa da poterci campar tanto una parte che l’altra. I deputati si radunarono, o come qui si diceva spagnolescamente nel gergo segretariesco d’allora, si giuntarono; e dopo mille riverenze, complimenti, preamboli, sospiri, sospensioni, proposizioni in aria, tergiversazioni, strascinati tutti verso una deliberazione 74-15. il popolo... suo vocione: è una prima pennellata con cui il M. incomincia a dipingere la folla in agitazione. Se c’è già la condanna della violenza, c'è anche la comprensione per le ingiustizie e le offese.
84. era... un uomo di carattere: la definizione eufemistica costituisce un’altra battuta mordace e polemica su Ferrer, uomo ostinato e caparbio. — Alcuni studiosi moderni (in particolare F. Nicolini, Arte e storia nei Pr. Sp., Milano, 1958), ricostruendo i fatti quali in realtà si svolsero in quel tempo a Milano; contestano la validità di questo e di altri giudizi negativi che il M. ha dato su certi personaggi storici. Ma se tali indagini sono opportune e capaci di modificare opinioni sul piano puramente storico, dobbiamo tener presente che il M. è soprattutto artista, che vede e presenta i suoi personaggi ubbidendo alla voce di una profonda coscienza motale. Inoltre, come osserva a ragione l’Ulivi, «a parte la discussione sui singoli fatti, il disconoscimento di quei personaggi sul piano pubblico e amministrativo dipendeva dalla certezza manzoniana dell’im-
possibilità d’effetti positivi di un governo straniero in terra di conquista e d’oppressione. Nel caso di Ferrer si veda, infatti, l’accenno all’essere lui pure spagnolo ». 84-88. rispondeva... avanti: il periodo enfatico e scontorto dipinge bene quell’« uomo di carattere »: capatbio, altezzoso, presuntuoso di conoscere tutto, il passato e il futuro; ma che alla fine, stringi stringi, ai fornai esasperati non sa dare altro consiglio che «intanto tirassero ancora avanti ». . 91. rimase fermo: con questa nota di caparbietà termina il ritratto di Ferrer. Più tardi avremo modo di vederlo direttamente in azione. 92. un magistrato: una magistratura. 93. movantasei del secolo scorso: 1796, quando Napoleone discese in Italia. 97. giunta: commissione. 101-102. riverenze... tergiversazioni: la lunga sfilata degli aggettivi esprime benissimo l’interminabile e inconcludente pavoneggiarsi e affannarsi di quei personaggi, finché, dopo tanto, si arriva ad una conclusione.
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i promessi sposi
da una necessità sentita da tutti, sapendo bene che giocavano una gran carta, ma convinti che non c’era da far altro, conclusero di rincarare il pane. I fornai respirarono; ma il popolo imbestialì. | La sera avanti questo giorno in cui Renzo arrivò in Milano, le strade e le piazze brulicavano d’uomini, che trasportati da una rabbia comune, predominati da un pensiero comune, conoscenti o estranei, si riunivano in crocchi, senza essersi dati l’intesa, quasi senza avvedersene, come gocciole sparse sullo
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stesso pendìo. Ogni discorso accresceva la persuasione e la passione degli uditori, come di colui che l’aveva proferito. Tra tanti appassionati, c’eran pure alcuni più di sangue freddo, i quali stavano osservando con molto piacere, che l’acqua s’andava intorbidando; e s’ingegnavano d’intotbidarla di più, con que’ ragionamenti, e con quelle storie che i furbi sanno comporre, e che gli animi alterati sanno credere; e si proponevano di non lasciarla posare, quell’acqua, senza farci un po’ di pesca. Migliaia d’uomini andarono a letto col sentimento indeterminato che qualche cosa bisognava fare, che qualche cosa si farebbe. Avanti giorno, le strade eran di nuovo sparse di crocchi: fanciulli, donne, uomini, vecchi, operai, poveri, si radunavano a sorte: qui era un bisbiglio confuso di molte voci; là uno predicava, e gli altri applaudivano; questo faceva al più vicino la stessa domanda ch’era allora stata fatta a lui; quest'altro ripeteva l’esclamazione che s’era sentita risonare agli orecchi; per tutto lamenti, minacce, maraviglie: un piccol numero di vocaboli era il materiale di tanti discorsi. Non mancava altro che un'occasione, una spinta, un avviamento qualun-
que, per ridurre le parole a fatti; e non tardò molto. Uscivano, sul far del giorno, dalle botteghe de’ fornai i garzoni che, con una gerla carica di pane, andavano a portarne alle solite case. Il primo comparire d’uno di que’ malcapitati ragazzi dov'era un crocchio di gente, fu come il cadere d’un salterello acceso in una polveriera. « Ecco se c’è il pane! » gridarono cento voci insieme. « Sì, per i tiranni, che notano nell’abbondanza, e voglion far morire noi di fame, » dice uno; s’accosta al ragazzetto, avventa la mano all’orlo della
gerla, dà una stratta, e dice: «lascia vedere ». Il ragazzetto diventa rosso, 104-105, I fornai...; ma il popolo...; stupenda nella sua concisione la rappresenta-
zione dei due diversi risultati; ma soprattutto quel il popolo imbestialì, mentre chiude una lunga serie di ondeggiamenti inconcludenti, getta una luce precorrittice sulle vicende che’ incalzano, e preannunzia il tema della seconda parte del capitolo. 106. questo giorno: è l’11 novembre del 1628. Il tumulto di Milano, a cui ora assisteremo, si svolse l’11 e il 12, e perciò è detto il tumulto di San Martino, essendo l’11 novembre dedicato a questo santo. 109-110. gocciole sparse sullo stesso pendìo: l’immagine è delicata e serena; ma ben presto si cambierà in acqua che « s’andava
intorbidando » e nella quale i furbi si preparavano a « farci un po’ di pesca ». 110-124. Ogni discorso... tanti discorsi:
questa prima presentazione della folla in sommossa è condotta tutta sul tema dei di-
scorsi: tante e tante le parole, ma ben poche le idee. Si tratta di gente incolore, di un volgo disperso, che incomincia sì a fre
mere, ma non ha un capo che ne interpreti le aspirazioni e lo guidi. Già in questo primo quadro generico sentiamo come il M. sia sicuro e felice nella rappresentazione della psicologia popolare. 129. salterello: uno stretto cartoccio di polvere da sparo; acceso, saltella e scoppia. 133. Il ragazzetto diventa rosso...: la condizione di questo ragazzetto, rappresentata con tanta evidenza, ricorda quella di Menico caduto nelle mani dei bravi (Cap. VIII). Con questa scena la folla, che fin qui abbiamo vista muoversi e parlare in forma anonima, incomincia ad individualizzarsi. Il M. sempre più cercherà in essa singole persone o gruppi, ciascuno scrutando nel suo intimo, e di ciascuno rappresentando colpe ed errori.
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pallido, trema, vorrebbe dire: lasciatemi andare; ma la parola gli muore in bocca; allenta le braccia e cerca di liberarle in fretta dalle cigne. « Giù quella gerla, » si grida intanto. Molte mani l’afferrano a un tempo:
è in terra; si
butta per aria il canovaccio che la copre: una tepida fragranza si diffonde all’intorno. « Siam cristiani anche noi: dobbiamo mangiar pane anche noi, » dice 140
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il primo; prende un pan tondo, l’alza, facendolo vedere alla folla, l’addenta: mani alla gerla, pani per aria; in men che non si dice, fu sparecchiato. Coloro a cui non era toccato nulla, irritati alla vista del guadagno altrui, e animati dalla facilità dell’impresa, si mossero a branchi, in cerca d’altre gerle: quante incontrate, tante svaligiate. E non c’era neppur bisogno di dar l’as-
salto ai portatori: quelli. che, per loro disgrazia, si trovavano in giro, vista
la mala parata, posavano volontariamente il carico, e via a gambe. Con tutto ciò, coloro che rimanevano a denti secchi, erano senza paragone i più; anche i conquistatori non eran soddisfatti di prede così piccole, e, mescolati poi con gli uni e con gli altri, c'eran coloro che avevan fatto disegno sopra un di-
sordine più co’ fiocchi. « Al forno! al forno! » si grida.
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Nella strada chiamata la Corsia de’ Servi, c’era, e c’è tuttavia un forno, che conserva lo stesso nome; nome che in toscano viene a dire il forno delle grucce, e in milanese è composto di parole così eteroclite, così bisbetiche,
così salvatiche, che l’alfabeto della lingua non ha i segni per indicarne il suono *. A quella parte
s’avventò
la gente.
Quelli della bottega
stavano
* El prestin di scansc.
140. mani alia gerla, pani per aria: così, dopo tanto parlare e dopo gli ultimi attimi di trepidazione, si compie il primo atto della rivolta. La scena bellissima è stata descritta con ritmo vivace, reso mosso e colorito anche dall’uso del presente storico e dal succedersi di battute brevi e spontanee. In tanta agitazione di mani, in tanta varietà di movimenti e verità di reazioni, c'è un centro poetico di particolare efficacia: la « tepida fragranza » di pane appena sfornato, che s’alza dalla gerla scoperchiata, e sembra suscitare l’effetto d’un richiamo fraterno: « Siam cristiani anche noi... ». 143. svaligiate: « non era forse la parola adatta. Sebbene derivi da * valigia ’, tuttavia ‘ svaligiare ’ si riferisce sempre a luoghi, non a oggetti; si svaligia una bottega, una casa, un magazzino; non un baule o una cassa »
del tumulto. Manzoni parla, all’inizio di essa, di ‘una rabbia comune’. Ma questa rabbia non ha nulla di pauroso. La parola riprende quella proposizione in cui è in germe tutto il tumulto: ‘ma il popolo imbestialì ’. La bestialità di cui dà prova il popolo in queste pagine del capitolo XII è in sostanza tutta d’ordine razionale: è stupidità più che violenza. La violenza è limitata, si direbbe, al puro indispensabile: ed è rivolta contro le cose più che contro le persone. Solo nel capitolo seguente la violenza si rivolgerà contro una persona, si ergerà, avida di sangue, contro la vita di un uomo; e.allora il tono cambierà. Ma per tutto questo capitolo il contegno di Manzoni è divettito ». 150. la Corsia de’ Servi: oggi si chiama Corso Vittorio Emanuele.
152-153. eteroclite..., bisbetiche..., salvatiche: senti il sorriso del M. nel voler dire, 148-149, un disordine più coi fiocchi: anlui sostenitore della lingua fiorentina parlata che questa non è un’espressione giusta; a parte l’inutile più, nel parlare toscano si dalle persone colte, quanto aspro e strano suoni talvolta il dialetto milanese in condice coi fiocchi soltanto di una cosa bella e ° fronto col toscano: e questo sarebbe,’ per che piace: per es., un pranzo coi fiocchi. lui che esagera un po’, un caso veramente ti149. « AI forno! al forno! » si grida: c’è un senso di giocosa baldoria in questo gri- pico, perché il corrispondente del « forno delle grucce » era E/ prestin di Scansc. La do, come in buona parte della descrizione di parola prestin, prestino, dal lat. pistrinum, queste giornate milanesi. Dice bene il Getto: « Un tono allegro, quasi carnevalesco, è significa forno; Scansc pare derivi da Scansi, una nobile famiglia proprietaria del fordel resto diffuso su tutta la rappresentazione
(Bianchi).
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interrogando il garzone tornato scarico; il quale, tutto sbigottito e abbaruffato, riferiva balbettando la sua trista avventura; quando si sente un calpestìo e un urlìo insieme; cresce e s’avvicina; compariscono i forieri della masnada. Serra, serra; presto, presto: uno corre a chiedere aiuto al capitano di giustizia; gli altri chiudono in fretta la bottega, e appuntellano i battenti. La gente comincia a affollarsi di fuori, e a gridare: « pane! pane! aprite! aprite! » Pochi momenti dopo, arriva il capitano di giustizia, con una scorta d’alabardieri. « Largo, largo figliuoli: a casa, a casa; fate luogo al capitano di giustizia, » grida lui e gli alabardieri. La gente, che non era ancor troppo fitta, fa un po’ di luogo; dimodoché quelli poterono arrivare, e postarsi, insieme, se non in ordine, davanti alla porta della bottega. « Ma figliuoli, » predicava di lì il capitano, « che fate qui? A casa, a casa. Dov'è il timor di Dio? Che dirà il re nostro signore? Non vogliam farvi male; ma andate a casa. Da bravi! Che diamine volete far qui, così ammontati? Niente di bene, né per l’anima, né per il corpo. A casa, a casa. » Ma quelli che vedevan la faccia del dicitore, e sentivan le sue parole, quand’anche avessero voluto ubbidire, dite un poco in che maniera avrebber potuto, spinti com'erano, e incalzati da quelli di dietro, spinti anch’essi da altri, come flutti da flutti, via via fino all’estremità della folla, che andava sempre crescendo. Al capitano, cominciava a mancargli il respiro. « Fateli dare addietro ch'io possa riprender fiato, » diceva agli alabardieri: « ma non fate male a nessuno. Vediamo d’entrare in bottega: picchiate; fateli stare indietro. »
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« Indietro! indietro! » gridano gli alabardieri, buttandosi tutti insieme addosso ai primi, e respingendoli con l’aste dell’alabarde. Quelli urlano. si tirano indietro, come possono; danno con le schiene ne’ petti, co’ gomiti nelle pance, co’ calcagni sulle punte de’ piedi a quelli che son dietro a loro: si fa un pigìo, una calca, che quelli che si trovavano in mezzo, avrebbero pagato qualcosa a essere altrove. Intanto un po’ di vòto s’è fatto davanti alla porta: il capitano picchia, ripicchia, urla che gli aprano: quelli di dentro vedono dalle finestre, scendon di corsa, aprono; il capitano entra, chiama gli alabardieri, che si ficcan dentro anch'essi l’un dopo l’altro, gli ultimi rattenendo la folla con l’alabarde. Quando sono entrati tutti, si mette tanto di catenaccio, si riappuntella; il capitano sale di corsa, e s’affaccia a una finestra. Uh, che formicolaio! « Figliuoli, » grida: molti si voltano in su; « figliuoli, andate a casa. Per: dono generale a chi torna subito a casa. » no: e siccome in milanese scarsc significa gruccia, se ne formò l’appellativo « forno delle srucce ». — Il forno (che è stato chiuso nel 1919) restò famoso per queste pagine. Quando nel 1870 fu restaurato, il proprietario inviò in dono al M. alcune sue paste con questa scritta: « Il celebre Forno delle grucce — di nuova vita ringiovanito — a grata testimonianza — questo saggio divotamente offre ». E il M. rispondeva ringraziando: « Al Forno delle Grucce — ricco oramai di nova fama propria — e non bisognoso di fasti genealogici — Alessandro Manzoni — solleticato voluttuosamente —
con un vario e squisito saggio — nella gola e nella vanità — due passioni che crescono con gli anni — presenta i più vivi e sinceri ringraziamenti ». 155-156. abbaruffato: sconvolto. 158. capitano di giustizia: era un alto ufficiale incaricato di amministrare la giustizia e tutelare l’ordine pubblico. 174. AI capitano, cominciava a mancargli: il gli è pleonastico, ma dà vivezza alla rappresentazione del malcapitato ufficiale. Il quale ci diviene subito comico per i tremanti tentativi di ammansire la folla. Ma x qui .tutto è comico.
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« Pane! pane! aprite! aprite!» eran le parole più distinte nell’urlìo orrendo, che la folla mandava in risposta. « Giudizio, figliuoli! badate bene! siete ancora a tempo. Via, andate, tornatea casa. Pane, ne avrete; ma non è questa la maniera. Eh!... eh! che fate laggiù! Eh! a quella porta! Oibò oibò! Vedo, vedo: giudizio! badate bene! è un delitto grosso. Or ora vengo io. Eh! eh! smettete con que’ ferri; giù quelle mani. Vergogna! Voi altri milanesi, che, per la bontà, siete nominati in tutto il mondo! Sentite, sentite: siete sempre stati buoni fi... Ah canaglia! » Questa rapida mutazione di stile fu cagionata da una pietra che, uscita dalle mani d’uno di que’ buoni figliuoli, venne a batter nella fronte del capitano, sulla protuberanza sinistra della profondità metafisica. « Canaglia! canaglia! » continuava a gridare, chiudendo presto presto la finestra, e ritirandosi. Ma quantunque avesse gridato quanto n’aveva in canna, le sue parole, buone e cattive, s’eran tutte dileguate e disfatte a mezz'aria, nella tempesta delle grida che venivan di giù. Quello poi che diceva di vedere, ‘era un gran lavorare di pietre, di ferri (i primi che coloro avevano potuto procacciarsi per la strada), che si faceva alla porta, per sfondarla, e alle finestre, per svellere l’inferriate: e già l’opera era molto avanzata. Intanto, padroni e garzoni della bottega, ch’erano alle finestre de’ piani di sopra, con una munizione di pietre (avranno probabilmente disselciato un cortile), urlavano e facevan versacci a quelli di giù, perché smettessero; facevan vedere le pietre, accennavano di volerle buttare. Visto ch’era tempo perso, cominciarono a buttarle davvero. Neppur una ne cadeva in fallo; giacché la calca era tale, che un granello di miglio, come si suol dire, non sarebbe
andato in terra. « Ah birboni! ah furfantoni! È questo il pane che date alla povera gente?
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Ahi! Ahimé! Ohi! Ora, ora! » s’urlava di giù. Più d’uno fu conciato male; due ragazzi vi rimasero morti. Il furore accrebbe le forze della moltitudine:
la porta fu sfondata, l’inferriate, svelte; e il torrente penetrò per tutti i
199-200. buoni fi... Ah canaglia!: così arriva al suo punto culminante una delle scene più brillanti e realistiche di tutto il libro. La predica, per così dire, del capitano è stata tutta lusinghevole e dolce per la crescente paura di quel gran « formicolaio ». Ma le parole della dolcezza paterna: «Figliuoli..., figliuoli »; quelle della promessa allettatrice: « Pane, ne avrete »; quelle del benevolo rimprovero: « Vergogna! Voi altri milanesi... »: tutto, insomma, ciò che il meschino dice alla folla non è che untuosità esteriore, destinata ad esplodere e disfarsi alla sassata. La sassata della verità: « Ah canaglia! ». 203. protuberanza... metafisica: è la bozza frontale sinistra, ove, secondo le teorie del medico tedesco F. G. Gall (1758-1828), che nel primo Ottocento ebbero gran diffusione, risiederebbe lo spirito metafisico, cioè la capacità di osservazioni profonde e nebulose insieme. — L’espressione manzoniana continua ed accentua l’ironia diffusa su tutta
la scena, investendo ad un tempo la dottrina del Gall e il comportamento del capitano: .ma, in modo speciale, il capitano, che, soltanto quando è colpito dalla sassata, si decide a cambiare registro al suo discorso. 213-217. facevan versacci... andato in terra: la comicità centra tutti; ritiratosi dalla scena il capitano, essa si diffonde in parti uguali su assediati e assedianti. 220 due ragazzi vi rimasero morti: la notizia è data di sfuggita, come d’un puro fatto di cronaca, quale in realtà fu. Per questo il M. non si dilunga sull’incidente, perché ora il suo interesse è tutto rivolto a caricare il comico della scena tenendo dietro al capitano e agli alabardieri, che si rannicchiano ne? cantucci, e agli altri, che scappano su per i tetti come i garti. Potremmo aggiungere, per meglio comprendere l’atteggiamento del M., che nella morte dei due ragazzi egli vede solo una disgrazia accidentale, e non una responsabilità individuale.
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varchi. Quelli di dentro, vedendo la mala parata, scapparono insoffitta: il capitano, gli alabardieri, e alcuni della casa stettero lì rannicchiati ne’ cantucci; altri, uscendo per gli abbaini, andavano su pe’ tetti, come i gatti. La vista della preda fece dimenticare ai vincitori i disegni di vendette sanguinose. Si slanciano ai cassoni; il pane è messo a ruba. Qualcheduno in vece corre al banco, butta giù la serratura, agguanta le ciotole, piglia a manate, intasca, ed esce carico di quattrini, per tornar poi a rubar pane, se ne
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rimarrà. La folla si sparge ne’ magazzini. Metton mano ai sacchi, li strasci-
cano, li rovesciano: chi se ne caccia uno tra le gambe, gli scioglie la bocca, e, per ridurlo a un carico da potersi portare, butta via una parte della farina: chi, gridando: « aspetta, aspetta », si china a parare il grembiule, un fazzoletto, il cappello, per ricever quella grazia di Dio; uno corre a una madia, e prende un pezzo di pasta, che s’allunga, e gli scappa da ogni parte; un altro, che ha conquistato un burattello, lo porta per aria: chi va, chi viene: uomini, donne, fanciulli, spinte, rispinte, urli, e un bianco polverìo che per tutto si posa, pet tutto si solleva, e tutto vela e annebbia. Di fuori, una calca composta di due processioni opposte, che si rompono e s’intralciano a vicenda, di chi esce con la preda, e di chi vuol entrare a farne. Mentre quel forno veniva così messo sottosopra, nessun altro della città era quieto e senza pericolo. Ma a nessuno la gente accorse in numero tale da potere intraprender tutto; in alcuni, i padroni avevan raccolto degli ausi-
liari, e stavan sulle difese; altrove, trovandosi in pochi, venivano in certo modo a patti: distribuivan pane a quelli che s’eran cominciati a affollare davanti alle botteghe, con questo che se n’andassero. E quelli se n’andavano, non. tanto perché fosser soddisfatti, quanto perché gli alabardieri e la sbirraglia, stando alla larga da quel tremendo forno delle grucce, si facevan però vedere altrove, in forza bastante a tenere in rispetto i tristi che non fossero una folla. Così il trambusto andava sempre crescendo a quel primo disgra-
ziato forno; perché tutti coloro che gli pizzicavan le mani di far qualche bell'impresa, cotrevan là, dove gli amici erano i più forti, e l’impunità sicura. A questo punto eran le cose, quando Renzo, avendo ormai sgranocchiato 225. La vista della preda...: è questo il capoverso famoso dell’atto conclusivo dell’assalto e del saccheggio, descritti con un brio che sembra inesauribile. — Si è posta la domanda se il M. approvi questa che, di fatto, è un’azione criminosa. Il moralista che è in lui non prende posizione, perché se l’azione in sé è riprovevole, essa però è nata da motivi a loro volta condannabili. Quello che conta è l’artista, che guarda (e ci fa guardare) con occhio divertito tutto l’affaccendarsi furibondo e puerile degli assalitori, che il «bianco polverio » fa filtrare in una ancor più comica prospettiva. In questo sorriso non possono mancare comprensione e assoluzione. 245. con questo che: a patto che. 248-249. i tristi che non fossero una folla: un’altra osservazione amata: quando manca una salda autorità, l’essere folla assicura impunità ai fristz. si
250. coloro che gli: forma popolare vivacissima; per sentirne l’efficacia sostituiscila con una corrispondente letteraria: coloro 4 cui, coloro ai quali. 252. A questo punto...: con felice inventiva, il M. sa inserire, nelle vicende grandi e tumultuose della storia vera, quelle più umili dei personaggi creati dalla sua fantasia, sicché i due elementi costitutivi del romanzo, storia e fantasia, si fondono in queste pagine, come in tante altre, con perfetta unione. Vedremo che l’inserimento di Renzo nel tumulto di Milano ha un andamento progressivo ed è realizzato con magistrale scioltezza natrativa: sempre più attratto dal « vortice » e dall’atcana confluenza d’interessi generali con preoccupazioni personali, il nostro montanaro passerà in breve da spettatore superficiale ad osservatore appassionato, da attore qualunque a protagonista.
capitolo XII
il suo pane, veniva avanti pet il borgo di porta orientale, e s’avviava, senza saperlo, proprio al luogo centrale del tumulto. Andava, ora lesto, ora ritar-
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dato dalla folla; e andando, guardava e stava in orecchi, per ricavar da quel
ronzìo confuso di discorsi qualche notizia più positiva dello stato delle cose. Ed ecco a un di presso le parole che gli riuscì di rilevare in tutta la strada che fece. « Ora è scoperta », gridava uno, «l’impostura infame di que’ birboni, che dicevano che non c’era né pane, né farina, né grano. Ora si vede la cosa chiara e lampante; e non ce la potranno più dare ad intendere. Viva l’abbondanza! » « Vi dico io che tutto questo non serve a nulla, » diceva un altro: « è un buco nell’acqua; anzi sarà peggio, se non si fa una buona giustizia. Il pane verrà a buon mercato, ma ci metteranno il veleno, per far morir la povera gente, come mosche. Già lo dicono che siam troppi; l’hanno detto. nella
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giunta; e lo so di certo, per averlo sentito dir io, con quest’orecchi, da una mia comare, che è amica d’un parente d’uno sguattero d’uno di que’ signori. » Parole da non ripetersi diceva, con la schiuma alla bocca, un altro, che teneva con una mano un cencio di fazzoletto su’ capelli arruffati e insanguinati. E qualche vicino, come per consolarlo, gli faceva eco. « Largo, largo, signori, in cortesia; lascin passare un povero padre di famiglia, che porta da mangiare a cinque figliuoli. » Così diceva uno che veniva barcollando sotto un gran sacco di farina; e ognuno s’ingegnava di ritirarsi, per fargli largo. « Io? » diceva un altro, quasi sottovoce,
a un suo compagno:
«io me
la batto. Son uomo di mondo, e so come vanno queste cose. Questi merlotti che fanno ora tanto fracasso, domani o domarnì l’altro, se ne staranno in casa, tutti pieni di paura. Ho già visto certi visi, certi galantuomini che giran,
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facendo l’indiano, e notano chi c’è e chi non c'è: quando poi tutto è finito, si raccolgono i conti, e a chi tocca, tocca. » «Quello che protegge i fornai, » gridava una voce sonora, che attirò l’attenzione di Renzo, «è il vicario di provvisione. »
« Son tutti birboni, » diceva un vicino. « Sì; ma il capo è lui, » replicava il primo. Il vicario di provvisione, eletto ogn’anno dal governatore tra sei nobili proposti dal Consiglio de’ decurioni, era il presidente di questo, e del tribunale di provvisione; il quale, composto di dodici, anche questi nobili, aveva, con altre attribuzioni, quella principalmente dell’annona. Chi occupava un
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tal posto doveva necessariamente, in tempi di fame e d’ignoranza, essere detto 257. Ed ecco... le parole...: ed ecco anche
come la fantasia si inserisce a completare la storia, secondo un certo ideale poetico manzoniano: il seguire Renzo che guarda e sta în orecchio permette allo scrittore di creare, solo riferendo fuggevoli battute, una
setie attraente di figurine della gente del popolo, avvinta dal tumulto comune e dalle proprie passioni. 277. uomo di mondo: esperto delle cose del mondo. — merlotti: ingenui, sempliciotti, che chiacchierano tanto e poi hanno pau-
ra. Alla sciocchezza del merlo allude anche un verso famoso di Dante: «come fe’ il merlo per poca bonaccia » (Purg. XIII). 283. vicario di provvisione: sapremo fra breve qual era il compito di questo magistrato. In quel tempo ricopriva la carica il notaio Ludovico Melzi d’Eril: lo vedremo in primo piano nel capitolo successivo. 289. annona: vettovagliamento della città. Il significato primitivo di anmona (dal lat. annus, anno) era l'insieme della produzione agricola dell’intero anno, per tutto lo Stato.
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Î promessi sposti
l’autore de’ mali: meno che non avesse fatto ciò che fece Ferrer; cosa che non
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gi era nelle sue facoltà, se anche fosse stata nelle sue idee. « Scellerati! » esclamava un altro: « si può far di peggio? sono arrivati a dire che il gran cancelliere è un vecchio rimbambito, per levargli il credito, e comandar loro soli. Bisognerebbe fare una gran stia, e metterli dentro, a viver di vecce e di loglio, come volevano trattar noi. » « Pane eh? » diceva uno che cercava d’andar in fretta: « sassate di libbra: pietre di questa fatta, che venivan giù come la grandine. E che schiacciata di costole! Non vedo l’ora d’essere a casa mia. » Tra questi discorsi, dai quali non saprei dire se fosse più informato o sbalordito, e tra gli urtoni, arrivò Renzo finalmente davanti a quel forno. La gente era già molto diradata, dimodoché poté contemplare il brutto e recente soqquadro. Le mura scalcinate e ammaccate da sassi, da mattoni, le finestre sgangherate, diroccata la porta. — Questa poi non è una bella cosa, — disse Renzo tra sé: — se concian così tutti i forni, dove voglion fare il pane? Ne’ pozzi? — Ogni tanto, usciva dalla bottega qualcheduno che portava un pezzo di cassone, o di madia, o di frullone, la stanga d’una gramola, una panca, una paniera, un libro di conti, qualche cosa in somma di quel povero forno; e gridando: « largo, largo », passava tra la gente. Tutti questi s’incamminavano dalla stessa parte, e a un luogo convenuto, si vedeva. — Cos'è quest'altra storia? — pensò di nuovo Renzo; e andò dietro a uno che, fatto un fascio d’asse spezzate e di schegge, se lo mise in ispalla, avviandosi, come gli altri, per la strada che costeggia il fianco settentrionale del duomo, e ha preso nome dagli scalini che c'erano, e da poco in qua non ci son più. La voglia d’osservar gli avvenimenti non poté fare che il montanaro, quando gli si scoprì davanti la gran mole, non si soffermasse a guardare in su, con la bocca aperta. Studiò poi il passo, per raggiunger colui che aveva preso come ‘per guida; voltò il canto, diede un’occhiata anche alla facciata del duomo, rustica allora in gran parte e ben lontana dal compimento; e sempre dietro a colui, che andava verso il mezzo della piazza. La gente era più fitta quanto più s'andava avanti, ma al portatore gli si faceva largo: egli fendeva l’onda del popolo, e Renzo, standogli sempre attaccato, arrivò con lui al centro della folla. Lì c'era uno spazio voto, e in mezzo; un mucchio di brace, reliquie de-
gli attrezzi detti di sopra. All’intorno era un batter di mani e di piedi, un frastono di mille grida di trionfo e d’imprecazione. L’uomo del fascio lo buttò su quel mucchio; un altro, con un mozzicone di pala mezzo abbruciacchiato, sbracia il fuoco: il fumo cresce-e s’addensa; la 300. Tra questi discorsi: scorsi che Renzo lo hanno, più sbalordito che informato, hanno procurato una diecina
sono stati diprobabilmente, ma che a noi di macchiette
sbozzate tutte stupendamente per. mezzo di una sola battuta, accompagnata talvolta da un gesto, 305-306. Questa poi... Ne’ pozzi?: nelle parole di Renzo c’è tanto buon senso, espresso nella forma che si addice a lui, semplice montanaro che si è inurbato or ora. Perciò, se è vero che nel giudizio di Renzo dobbia-
mo sentire anche il giudizio del M., il personaggio vive ugualmente la sua vita autonoma, al di là delle concezioni morali dell’autore. 312. e andò dietro a uno...: così il vortice continua ad attrarre il nostro Renzo. Si osservi come dopo quell’istintiva ma momentanea ammirazione, a bocca aperta e con gli occhi in su, della gran mole del duomo; subito Renzo studia il passo per raggiungere quel tale, e con lui si spinge fino 4 centro della folla.
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fiamma si ridesta; con essa le grida sorgon più forti. « Viva l'abbondanza!
Moiano gli affamatori! Moia la carestia! Crepi la Provvisione! Crepi la giunta!
Viva il pane! » Veramente,
la distruzion de’ frulloni e delle madie, la devastazion: de’
forni, e lo scompiglio de’ fornai, non sono i mezzi più spicci per far vivere 335
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il pane; ma questa è una di quelle sottigliezze metafisiche, che una moltitu-
Ine non ci arriva. Però, senza essere un gran metafisico, un uomo ci arriva
talvolta larne, e in fatti tornava ce n’era
alla prima; finch’'è nuovo nella questione; e solo a forza di pardi sentirne parlare, diventerà inabile anche a intenderle; A_Renzo quel pensiero gli era venuto, come abbiam visto, da principio, e gli ogni momento. Lo tenne per altro in sé; perché, di tanti visi, non uno che sembrasse dire: fratello, se fallo, correggimi, che l’avrò
caro. Già era di nuovo finita la fiamma; non si vedeva più venir nessuno con altra materia, e la. gente cominciava a annoiarsi; quando si sparse la voce, che, 345
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al Cordusio (una piazzetta o un crocicchio non molto distante di lì), s'era
messo l'assedio a un forno. Spesso, in simili circostanze, l’annunzio d’una cosa la fa essere. Insieme con quella voce, si diffuse nella moltitudine una voglia di correr là: «io vo; tu, vai? vengo; andiamo », si sentiva per tutto: la calca si rompe, e diventa una processione. Renzo rimaneva indietro, non movendosi quasi, se non quanto era trascinato dal torrente; e teneva intanto consiglio in cuor suo, se dovesse uscir dal baccano, e ritornare al convento, in cerca del padre Bonaventura, o andare a vedere anche quest'altra. Prevalse di nuovo la curiosità. Però risolvette di non cacciarsi nel fitto della mischia, a farsi ammaccar l’ossa, o a risicar qualcosa di peggio; ma di tenersi in qualche distanza, a osservare. E trovandosi già un poco al largo, si levò di tasca il secondo pane, e attaccandoci un morso, s’avviò alla coda dell’esercito tumultuoso. Questo, dalla piazza, era già entrato nella strada corta e stretta di Pescheria vecchia, e di là, per quell’arco a sbieco, nella piazza de’ Mercanti. E lì eran ben pochi quelli che, nel passar davanti alla nicchia che taglia il
mezzo della loggia dell’edifizio chiamato allora il collegio de’ dottori, non dessero un’occhiatina alla grande statua che vi campeggiava, a qual viso serio, butbero, accipigliato, e non dico abbastanza, di don Filippo II, che, anche 334. una di quelle sottigliezze metafisiche: è evidente l'ironia del M., che vuol colpire il comportamento dissennato delle moltitudini, le quali, appena si accendono per qualche passione, ne sono così infatuate da non capire le verità più semplici. Altro esempio di uso popolare, e vivissimo, del relativo: « sortigliezze... che una moltitudine non ci arriva »: dove il che sta per « alle quali », «a cui » (cfr. n. 250). 342. finita la fiamma: il terzo episodio del tumulto, il falò degli attrezzi dei forni saccheggiati, è stato descritto molto più rapidamente dei due precedenti (il saccheggio delle gerle, l’assalto al forno delle grucce), ma conservando quella nota di baldoria che ha caratterizzato tutta questa prima parte della rivolta. Lo smorzarsi delle fiamme bene si
armonizza con lo smorzarsi dell’iniziativa della folla e dell’attenzione di Renzo. Ma sarà solo questione di poco: basterà, dapprima, una voce — l’assedio al forno del Cordusio —, e poi un’altra wz4ledetta voce — la casa del vicario —, per dare nuovo impulso alla folla e nuova curiosità a Renzo. 344. Cordusio: il nome deriva, forse, da curia ducis, corte del duca. La piazza c’è ancora e conserva lo stesso nome. 345-346. l’annunzio... la fa essere: è proprio vero; è un fenomeno di suggestione comunissimo, come quello a cui si accennerà al cap. XXXII riguardo alla peste, quando « il sentire faceva l’effetto del vedere ». 362. don Filippo II: figlio di Carlo V, fu re di Spagna dal 1527 al 1598. Di lui fece un celebre ritratto, che si conserva al
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dal marmo, imponeva un non so che di rispetto, e, con quel braccio teso, i pareva che fosse lì per dire: ora vengo io, marmaglia. i settant'ann cento Circa singolare. caso un Quella statua non c’è più, per dopo quello che stiam raccontando, un giorno le fu cambiata la testa, le fu levato di mano lo scettro, e sostituito a questo un pugnale; e alla statua fu messo nome Marco Bruto. Così accomodata stette forse un par d’anni; ma, una mattina, certuni che non avevan simpatia con Marco Bruto, anzi dove-
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vano avere con lui una ruggine segreta, gettarono una fune intorno alla sta-
tua, la tiraron giù, le fecero cento angherie; e, mutilata e ridotta a un torso informe, la strascicarono, con gli occhi in fuori, e con le lingue fuori, per le strade, e, quando furon stracchi bene, la ruzzolarono non so dove. Chi l'avesse detto a Andrea Biffi, quando la scolpiva! Dalla piazza de’ Mercanti, la marmaglia insaccò, per quell’altr’arco, nella
via de’ fustagnai, e di lì si sparpagliò nel Cordusio. Ognuno, al primo sboccatvi, guardava subito verso il forno ch’era stato indicato. Ma in vece della moltitudine d’amici che s’aspettavano di trovar lì già al lavoro, videro sol-
tanto quale dersi. tava,
alcuni starsene, come esitando, a qualche distanza della bottega, la era chiusa, e alle finestre gente armata, in atto di star pronti a difenA quella vista, chi si maravigliava, chi sagrava, chi rideva; chi si volpet informar quelli che arrivavan via via; chi si fermava, chi voleva
tornare indietro, chi diceva:
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« avanti, avanti ». C’era un incalzare e un rat-
tenere, come un ristagno, una titubazione, un ronzìo confuso di contrasti e di consulte. In questa, scoppiò di mezzo alla folla una maledetta voce: « c’è qui vicino la casa del vicario di provvisione: andiamo a far giustizia, e a dare il sacco ». Parve il rammentartsi come d’un concerto preso, piuttosto che l’accettazione d’una proposta. « Dal vicario! dal vicario! » è il solo grido che si possa sentire. La turba si move, tutta insieme, verso la strada dov'era la casa nominata in un così cattivo punto. altro che marmaglia!), i quali «con gli ocMuseo del Prado di Madrid, il Tiziano, calchi in fuori, e con le lingue fuori » strascicandone l’aspetto serio e burbero. 368. Marco Bruto: uno degli uccisorti di cano per le strade il torso informe e poi Cesare. La metamorfosi della statua, che da lo ruzzolano non so dove! tiranno diviene tirannicida, fu opera, nel 373. stracchi: popolare, ma molto più in1797, dei rivoluzionari, dei giacobini. Quantenso di stanchi. do poi nel 1799 giunsero gli austro-russi cac374. Andrea Biffi: scultore milanese, morciando i francesi, e a Milano si scatenò la to nel 1630. reazione, la statua fu abbattuta e ridotta a 375. la marmaglia insaccò: si infilò, cioè, torso informe. Nel racconto di tutte queste ‘ pigiandosi dentro il sacco della via. È inutidisavventure della statua del re, c'è una vile dire che questa espressione, in cui si rivace satira nei riguatdi della politica e delle pete marmaglia per indicare la folla in tusue vicende, soggette a tanto facili e improvmulto, non ha alcun senso dispregiativo; il visi cambiamenti di passione. Comicità ed M. guarda bonario a tutto questo agitarsi ironia sprizzano da tutte queste righe: ma della gente pronta a correre orta qua ora le sentiamo particolarmente pungenti se al- là, solo che una voce più forte delle altre la
l’accigliata autorevolezza della prima imma-
gine del sovrano che « con quel braccio teso, pareva che fosse lì per dire: ora vengo io, marmaglia », si accosta la finale carnevalesca impresa di quei « certuni » (che non
erano
chiami e la inciti.
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389. tutta insieme: è l’ultimo tocco, nel capitolo, di questa grande massa che, come enorme branco di pecore, si ferma o si
muove.
Capitolo XIII
Lo sventurato vicario stava, in quel momento, facendo un chilo agro e stentato d’un desinare biascicato senza appetito, e senza pan fresco, e attendeva, con gran sospensione, come avesse a finire quella burrasca, lontano però dal sospettar che dovesse cader così spaventosamente addosso a lui.
Qualche galantuomo precorse di galoppo la folla, per avvertirlo di quel che
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gli sovrastava. I servitori, attirati già dal rumore sulla porta, guardavano sgomentati lungo la strada, dalla parte donde il rumore veniva avvicinandosi. Mentre ascoltan l’avviso, vedon comparire la vanguardia: in fretta e in furia, si porta l’avviso al padrone: mentre questo pensa a fuggire, e come fuggire, un altro viene a dirgli che non è più a tempo. I servitori ne hanno appena tanto che basti per chiuder la porta. Metton la stanga, metton puntelli, corrono a chiuder le finestre, come quando si vede venire avanti un tempo nero, e s’aspetta la grandine da un momento all’altro. L’urlìo crescente, scendendo dall’alto come un tuono, rimbomba nel voto cortile; ogni buco della
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casa ne rintrona: e di mezzo al vasto e confuso strepito, si senton forti e fitti colpi di pietre alla porta. 1. Lo sventurato vicario: il capitolo si rapidissime — il chilo agro e stentato, il deapre col vicario di provvisione, e con lui si sinare biascicato... — che fanno venire un sorriso; ma è un sorriso che dura un mochiude: e tutto è centrato su questa figura, anche quando essa non compare in primo mento, perché poi la scena prende tinte più cupe. piano sulla scena. Sappiamo già (Cap. XII, 5. Qualche galantuomo: una volta tanto n. 283) chi fu storicamente quell’uomo, il questa patola presenta un galantuomo davnotaio Ludovico Melzi d’Eril. Come abbiavero, e senza alcun sottinteso ironico. mo detto a proposito di Ferrer (Cap. XII, 6-7. dal rumore... donde il rumore...: tutn. 55), anche riguardo al vicario recenti inta questa prima pagina del capitolo con la dagini hanno rivelato varie discordanze fra scena della folla tumultuante e del vicario la sua reale personalità e la rappresentazione che ne fa il M., mostrandoci una figura ben atterrito, risuona costantemente di grida, di urla, di strepiti, di colpi: è una successione più positiva di quella che incontreremo nel di notazioni acustiche, realisticamente perceromanzo. Occorre anche qui tener presente di pite e ritratte. non solo che il M. non fu a conoscenza 8. vanguardia: avanguardia. documenti storici successivamente scopetti e roman12-13. come... un tempo nero: la similitunel egli che soprattutto ma studiati, dine si trova nella storia del Ripamonti. La zo non fa né lo storico né il biografo, ma rappresenta vicende e personaggi secondo la presentiamo nella traduzione del Belloni: « Come una procella, scatenatasi da un nero sua sensibilità umana e ai fini di un’opera ammasso di nubi, riempie tutto di melma e di poesia. d’acqua e di terrore, così la turba de’ ple2. senza pan fresco: quel giorno il pane bei citconda quella casa ». Si ossetvi, otra, fresco era andato a finire in tutt’altre direquanto l’immagine manzoniana, nella sua zioni, come quello delle gerle mattutine. La semplicità, sia più potente e più lirica. espressione conclude una serie di pennellate
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« Il vicario! Il tiranno! L’affamatore! Lo vogliamo! vivo o morto! » Il meschino girava di stanza in stanza, pallido, senza fiato, battendo palma a palma, raccomandandosi a Dio, e a’ suoi servitori, che tenessero fermo, che trovassero la maniera di farlo scappare. Ma come, e di dove? Salì in soffitta; da un pertugio, guardò ansiosamente nella strada, e la vide piena zeppa di furibondi; sentì le voci che chiedevan la sua morte; e più smarrito
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che mai, si ritirò, e andò nicchiato, stava attento, tumulto s’acquietasse un feroce e più rumoroso,
a cercare il più sicuro e riposto nascondiglio. Lì ranattento, se mai il funesto rumore s’affievolisse, se il poco; ma sentendo in vece il muggito alzarsi più e raddoppiare i picchi, preso da un nuovo sopras-
salto al cuore, si turava gli orecchi in fretta. Poi, come fuori di sé, stringendo
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i denti, e raggrinzando il viso, stendeva le braccia, e puntava i pugni, come se volesse tener ferma la porta... Del resto, quel che facesse precisamente non si può sapere, giacché era solo; e la storia è costretta a indovinare. Fori 0 tuna che c’è avvezza. portatovi già non tumulto, del forte nel trovava si Renzo, questa volta, dalla piena, ma cacciatovisi deliberatamente. A quella prima proposta di sangue, aveva sentito il suo rimescolarsi tutto: in quanto al saccheggio, non avrebbe saputo dire se fosse bene o male in quel caso; ma l’idea dell’omicidio gli cagionò un orrore pretto e immediato. E quantunque, per quella funesta docilità degli animi appassionati all’affermare appassionato di molti, fosse persuasissimo che il vicario era la cagion principale della fame, il nemico de’ poveri, pure, avendo, al primo moversi della turba, sentita a caso qualche parola che indicava la volontà di fare ogni sforzo per salvarlo, s'era subito proposto d’aiutare anche lui un’opera tale; e, con quest’intenzione, s’era cacciato, quasi fino a quella porta, che veniva travagliata in cento modi. Chi con ciottoli pic-
28. e puntava i pugni: quanta disperazione nel pover’uomo! Ma non diremmo che manchi il sorriso del poeta; il quale sorride davvero, in queste righe e dopo, perché sa che la gran pauta del povero vicario si risolvetà soltanto... in paura. 29-30. Del resto... era solo: dopo l’agitazione della scena precedente, l’ironica riflessione alleggerisce l'atmosfera e apre l’anima alla contemplazione più serena. 30-31. Fortuna che c’è avvezza: al di là del sorridente umorismo sulle capacità della storia, qui affiota il problema dell’essenza artistica del romanzo storico: lo scrittore vi rievoca certi determinati avvenimenti realmente accaduti ma con la sua fantasia ricostruisce gli stati d’animo dei petsonaggi. Nella Leftre a M. Chauvet, il M. sui rapporti fra storia e poesia scrive: « Che ci dà la storia? Avvenimenti che sono, per così dire, conosciuti solo per i loro aspetti esteriori; ciò che gli uomini hanno pensato, i sentimenti che hanno accompagnato le loro deliberazioni ed i loro progetti, i loro successi e i loro infortuni: i discotsi coi quali hanno fatto o cercato di fare prevalere le
loro passioni e la loro volontà su altre pas-
sioni e su altre volontà... tutto questo è il domani della poesia ». 32-33. Renzo... deliberatamente: quindi ciò che ora, e d’ota in avanti, spinge Renzo nel forte del tumulto, non è più quella curiosità superficiale che lo aveva avvinto nei primi momenti, ma un nobile impulso che agisce sul suo animo. Put nella varietà delle situazioni è sempte il Renzo cristiano che rifugge dalla violenza e dal sangue, in perfetta coerenza di carattere: una coscienza semplice e facilmente impressionabile, ma insieme profondamente onesta. 42.51. Chi con ciottoli... impedimento: è tutta una gamma avvincente di atti bestiali ed insulsi, nei quali si sfoga la passione della folla. Dice bene, a proposito della descrizione di questo agitarsi convulso e inconcludente, il Sansone « Una visione stupenda di folle imbestiate, di magistrati pavidi, di violenza e di stoltezza è il tumulto di San Martino: ma tutto è sollevato in una malizia sorridente e bonaria, entro un’ironia senza punte e cordiale, com’è la poesia che non
conosce urti e violenza di reazioni. Al fondo è il sentimento non proprio delle follie umane, ma dell’oblìo dell’anima dentro il
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chiava su’ chiodi della serratura, per isconficcarla; altri, con pali e scatpelli e martelli, cercavano di lavorar più in regola: altri poi, con pietre, con coltelli
spuntati, con chiodi, con bastoni, con l’unghie, non avendo altro, scalcinavano
e sgretolavano il muro, e s’ingegnavano di levare i mattoni, e fare una breccia. Quelli che non potevano aiutare, facevan coraggio con gli urli; ma nello stesso tempo, con lo star lì a pigiare, impicciavan di più il lavoro già impicciato dalla gara disordinata de’ lavoranti: giacché, per grazia del cielo; accade talvolta anche nel male quella cosa troppo frequente nel bene, che i fautori più ardenti divengano un impedimento. I magistrati ch’ebbero i primi l’avviso di quel che accadeva, spediron su-
bito a chieder soccorso al comandante del castello, che allora si diceva di porta Giovia; il quale mandò alcuni soldati. Ma, tra l’avviso, e l’ordine, e il radunarsi, e il mettersi in cammino, e il cammino, essi arrivarono che la casa era già cinta di vasto assedio; e fecero alto lontano da quella, all’estremità della folla. L’ufiziale che li comandava, non sapeva che partito prendere. Lì non era altro che una, lasciatemi dire, accozzaglia di gente varia d’età e di sesso, che stava a vedere. All’intimazioni che gli venivan fatte, di sban-: darsi, e di dar luogo, rispondevano con un cupo e lungo mormorio; nessuno si moveva. Far fuoco sopra quella ciurma, pareva all’ufiziale cosa non solo crudele, ma piena di pericolo; cosa che, offendendo i meno terribili, avrebbe
irritato i molti violenti: e del resto, non aveva una tale istruzione. Aprire quella prima folla, rovesciarla a destra e a sinistra, e andare avanti a portar
moto angusto e vorticoso della passione, il senso della frattura della misura umana che governa, illumina, santifica il nostro agire. [...] M. guarda e sortide a questo triste e stupendo gioco umano; l’assurdo è innalzato nella sfera del sogno; cotesta inversione dei termini logici, cotesta difesa di sé offendendosi e danneggiandosi è un segno di questo imbroglio incantevole del mondo; e perciò il poeta
non
rimprovera,
non
inveisce, non
satireggia, e alla fine, non ironizza neppure: libera nella comicità, anzi in una specie di leggerezza ilare, il suo animo». 49. gara disordinata de’ lavoranti: tutto, in questo periodo, è mordace; specialmente quel lavoranti riferito a demolitori scalmanati. 49-50. accade talvolta...: quante, e quanto impensabili, sono le vie della Provvidenza! E come il M. tutto osserva e tutto nota, guardando da lontano le vicende degli uomini e insegnando la sua saggezza! 53-54. castello... di porta Giovia: è il castello Sforzesco, che durante l’occupazione spagnola fu trasformato in fortezza. Porta Giovia (dal lat. Jovis) è oggi Porta Sempione. 54. tra l’avviso, e..., e...: l'andamento del periodo con tutte le sue e fa risaltare sarcasticamente la lentezza e l’impaccio con cui l’aiuto dei soldati si sviluppa, proprio quando ci volevano rapidità e decisione.
57. L’ufiziale che li comandava...: da qui alla fine del capoverso il M. costruisce una scena di grande interesse umano ed artistico, prendendone i dati storici da una pagina del Ripamonti. Ci sembra opportuno riportare questa pagina, nella traduzione del Belloni, nelle sue parti essenziali, affinché si possa osservare! come nel nostro scrittore — secondo quello che egli stesso, come abbiamo poco fa ricordato, considerava il metodo da seguire nell’opera narrativa — la fantasia si incontri con la storia, la interpreti, la ravvivi c ne costtuisca opera poetica: «La squadra di Spagnoli mandata colà per difesa... quando vide quella moltitudine, che come un esercito circondava la casa, più che metter paura, fu presa da paura. Che cosa avrebbero potuto far là i soldati armati, . ‘quarido avessero fatto fuoco su quella folla mista d’uomini, di donne e di fanciulli, ed anche avessero poi messo mano alle spade? Né del resto avevano istruzioni di tal genere, Î...] e avrebbero invipetito di più quella moltitudine che già infuriava con tanto impeto e cotreva agli eccessi senza freno. [...] Pertanto tremavano i soldati e stavano alla larga, ed erano oggetto di scherno essi e i loro fucili, che, temuti altre volte pei loro proiettili, or erano vani ed inutili; e i guastatori, senza punto curarsi della presenza dei soldati, continuavano a colpir la casa ».
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la guerra a chi la faceva, sarebbe stata la meglio; ma riuscirvi, lì stava il punto. Chi sapeva se i soldati avrebber potuto avanzarsi uniti e ordinati? Che se, in vece di romper la folla, si fossero sparpagliati loro tra quella, si sarebber trovati a sua discrezione, dopo averla aizzata. L’irtesolutezza del comandante e l’immobilità de’ soldati parve, a diritto o a torto, paura. La gente che si trovavan vicino a loro, si contentavano di guardargli in viso, con un’aria, come si dice, di me n’impipo; quelli ch’erano un po’ più lontani, non se ne stavano di provocarli, con visacci e con grida di scherno; più in là, pochi sapevano
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o si curavano
che ci fossero; i guastatori seguitavano
che, spalancando due occhi affossati e infocati, contraendo
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rare, senz’altro pensiero che di riuscir presto nell'impresa; gli spettatori non v cessavano d’animarla con gli urli. vissuto, mal vecchio un spettacolo, stesso lui era ed questi, tra Spiccava
le grinze a un
sogghigno di compiacenza diabolica, con le mani alzate sopra una canizie vituperosa, agitava in aria un martello, una corda, quattro gran chiodi, con che diceva di volere attaccare il vicario a un battente della sua porta, ammazzato che fosse. « Oibò! vergogna! » scappò fuori Renzo, inorridito a quelle parole, alla vista di tant’altri visi che davan segno d’approvarle, e incoraggito dal vederne degli altri, sui quali, benché muti, traspariva lo stesso orrore del quale era compreso lui. « Vergogna! Vogliam noi rubare il mestiere al boia? assassinare un cristiano? Come volete che Dio ci dia del pane, se facciamo di queste atrocità? Ci manderà de’ fulmini, e non del pane! » « Ah cane! ah traditor della patria! » gridò, voltandosi a Renzo, con un viso da indemoniato, un di coloro che avevan potuto sentire tra il frastono quelle sante parole. « Aspetta, aspetta! È un servitore del vicario, travestito da contadino: è una spia: dalli, dalli! » Cento voci si spargono all’intorno. « Cos'è? dov'è? chi è? Un servitore del vicario. Una spia. Il vicario travestito da contadino, che scappa. Dov'è? dov’è? dalli, dalli! » Renzo ammutolisce, diventa piccino piccino, vorrebbe sparire; alcuni. suoi vicini lo prendono in mezzo; e con alte e diverse grida cercano di confondere
76. un vecchio mal vissuto: anche lui è ricordato dal Ripamonti. Il M. con pochi tratti di grande potenza espressiva {« due occhi affossati e infocati », .« contraendo le grinze... », « agitava in aria un martello... ») lo isola dalla folla, ne scolpisce i segni della più disumana abiezione, e ne fa, in un certo senso, il simbolo della bestialità collettiva. Figura « diabolica » tanto da suscitare la reazione immediata di Renzo, cioè la reazione del M. stesso: che, commosso poeta dell’onesta vecchiaia, ha cantato più volte, e lo vedremo anche nel corso dei Promessi Sposi, la « decorosa vecchiezza » di nobili personaggi, e nella Pentecoste ha invocato lo $pirito Santo perché adorni « la canizie di liete voglie sante », e nel coro del Conte di Carmagnola ha chiamato proprio i vecchi a placare le stolte passioni dei guerrieri fratticidi: « E i vegliardi che ai casti pensieri Della tomba già schiudon la mente, Ché non
tentan la turba furente Con prudenti parole placar? ». 88. ah traditor della patria!: giustamente sconsolato scrive il Galletti: « Dove va a cacciarsi la patria! Ma per molti, o stolti o malvagi, essa infatti non è talvolta che un pretesto a mal fare ». Dobbiamo tuttavia osservare col Donadoni, e con altri critici che l'hanno seguito, che questo grido è « satira di atteggiamenti demagogici troppo recenti e frase che in popolani del Seicento non avrebbe seriso ». — Si noti, infine, il crescendo degli epiteti appioppati al povero Renzo: cane, traditore, spia; e poi quel dalli, dalli! ripetuto: e, tutto questo, per aver detto una parola da cristiano e da vero galantuomo. Sicché il nostro giovane, dopo aver subito la prepotenza e l’ingiustizia dei signori, deve constatare che anche il popolo, quando non ragiona, in fatto di prepotenze e d’ingiustizie non scherza.
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quelle voci nemiche e omicide. Ma.ciò che più di tutto lo servì fu un « largo, largo, » che si sentì gridar lì vicino: « largo! è qui l’aiuto: largo, che! » Cos’era? Era una lunga scala a mano, che alcuni portavano, per appog-
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giarla alla casa, e entrarci da una finestra. Ma per buona sorte, quel mezzo, che avrebbe resa la cosa facile, non era facile esso a mettere in opera, I por-
tatori, all’una e all’altra cima, e di qua e di là della macchina, urtati, scompigliati, divisi dalla calca, andavano a onde: uno, con la testa tra due scalini, e gli staggi sulle spalle, oppresso come sotto un giogo scosso, mugghiava; un altro veniva staccato dal carico con una spinta; la scala abbandonata picchiava spalle, braccia, costole: pensate cosa dovevan dire coloro de’ quali erano. Altri sollevano con le mani il peso morto, vi si caccian sotto, se lo mettono addosso, gridando: « animo! andiamo! » La macchina fatale s’avanza balzelloni, e serpeggiando. Arrivò a tempo a distrarre e a disordinare i nemici di Renzo, il quale profittò della confusione nata nella confusione; e, quatto quatto sul principio, poi giocando di gomita a più non posso, s’allontanò da quel luogo, dove non c’era buon’aria per lui, con l’intenzione anche d’uscire, più presto che potesse, dal tumulto, e d’andar davvero a trovare o a aspettate il padre Bonaventura. Tutt’a un tratto, un movimento straordinario cominciato a una estremità,
si propaga per la folla, una voce si sparge, viene avanti di bocca in bocca: « Ferrer! Ferrer! » Una maraviglia, una gioia, una rabbia, un’inclinazione, una
ripugnanza, scoppiano per tutto dove arriva quel nome; chi lo grida. chi vuol soffogarlo; chi afferma, chi nega, chi benedice, chi bestemmia. 120
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« È qui Ferrer! — Non è vero, non è vero! — Sì, sì; viva Ferrer! quello
che ha messo il pane a buon mercato. — No, no! — È qui, è qui in catrozza. — Cosa importa? che c’entra lui? non vogliamo nessuno! — Ferrer! viva Ferrer! l’amico della povera gente! viene per condurre in prigione il vicario. — No, no: vogliamo far giustizia noi: indietro, indietro! — Sì, sì: Ferrer! venga Ferrer! in prigione il vicario! » E tutti, alzandosi in punta di piedi, si voltano a guardare da quella parte donde s’annunziava l’inaspettato arrivo. Alzandosi tutti, vedevano né più né
97. largo! è qui l’aiuto: potremmo esclamare, parafrasando il M.: Come va il mondo! Quella scala, che è portata per dare aiuto ad uccidere un uomo, il vicario, si trasforma in un diuto 4 salvare un altro uomo, Renzo. Senti la soddisfazione dello scrittore nel constatare come e quanto la Provvidenza sappia risolvere in bene le. cattive azioni e i malvagi propositi degli uomini. Nella successiva descrizione del trasporto di quella macchina fatale, oltre alla soddisfazione dell’onesto, traspare anche il sorriso canzonatorio del saggio. 100-108. I portatori... serpeggiando: Ja scala resta ora, per qualche minuto, il centro d’attrazione di tutta la scena, in un crescendo di spunti realistici e satirici: dall’immagine di quel tale che «con la testa tra due scalini » mugghia proprio come un bue sotto il giogo, al tocco volutamente solenne della macchina fatale che «s’avanza
balzelloni », e che ha fatto ricordare il famoso cavallo di Troia nel virgiliano Scardit fatalis machina muros (En. II). 112-113. andar... padre Bonaventura: e se ci fosse andato davvero, come diverso sarebbe stato il futuro ‘di Renzo! Potremmo pensarlo, come ha fatto qualcuno; ma allora, che sarebbe successo del romanzo? 114-118. Tutt'a un tratto... bestemmia: inatteso e pur naturale nella successione dei fatt: giunge l’elemento che dissolverà tutt.) il tumulto, placando gli sdegni più accesi, salvando l’uomo in pericolo. Anche qui l’attenzione dello scrittore è quasi esclusivamente psicologica, rivolta com’è ad osservare le diversissime reazioni degli individui, e a fissarle in una serie vivacissima di esclamazioni, ognuna delle quali è rivelatrice di un particolare stato d’animo. 126-127. Alzandosi tutti... tutti s’alzavano: un'osservazione di lapalissiana saggez-
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meno che se fossero stati tutti con le piante in terra; ma tant'è, tutti s’alzavano.
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In fatti, all’estremità della folla, dalla parte opposta a quella dove stavano i soldati, era arrivato in carrozza Antonio Ferrer, il gran cancelliere; il quale, rimordendogli probabilmente la coscienza d’essere co’ suoi spropositi e con la sua ostinazione, stato:causa, o almeno occasione di quella sommossa, veniva ora a cercar d’acquietarla, e d’impedirne almeno il più terribile e irreparabile effetto: veniva a spender bene una popolarità mal acquistata. Ne’ tumulti popolari c'è sempre un certo numero d’uomini che, o per un riscaldamento di passione, o per una persuasione fanatica, o per un disegno scellerato, o per un maledetto gusto del soqquadro, fanno di tutto per ispinger le cose al peggio; propongono o promovono i più spietati consigli, sotfian nel fuoco ogni volta che principia a illanguidire: non è mai troppo per costoro; non vorrebbero che il tumulto avesse né fine né misura. Ma per contrappeso, c'è sempre anche un certo numero d’altri uomini che, con pari ardore e con insistenza pari, s'adoperano per produr l’effetto contrario: taluni mossi da amicizia o da parzialità per le persone minacciate; altri senz’altro impulso che d’un pio e spontaneo orrore del sangue e de? fatti atroci. Il cielo li benedica. In ciascuna di queste due parti opposte, anche quando non ci siano concerti antecedenti, l’uniformità
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de’ voleri crea un concerto
istantaneo nell’operazioni. Chi forma poi la massa, e quasi il materiale del tumulto, è un miscuglio accidentale d’uomini, che, più o meno, per gradazioni indefinite, tengono dell’uno e dell’altro estremo: un po’ riscaldati, un po’ furbi, un po’ inclinati a una certa giustizia, come l’intendon loro, un po’ vogliosi di vederne qualcheduna grossa, pronti alla ferocia e alla misericordia, a detestare e ad adorare, secondo che si presenti l'occasione di provar con pienezza l’uno o l’altro sentimento; avidi ogni momento di sapere, di credere qualche cosa grossa, bisognosi di gridare, d’applaudire a qualcheduno, o d’urlargli dietro. Viva e moia, son le parole che mandan fuori più volenza, che argutamente esprime la faceta attenzione del M., onnipresente nel guardare
l’irragionevole ed inconcludente agire della folla. La forma studiata del periodo, col chiasmo dei due termini che ben rendono il moto della moltitudine, contribuisce alla pittoricità e all’umorismo della frase. — A proposito di chiasmi (costruzioni sintattiche, per cui due termini o due espressioni sono disposti in ordine inverso rispetto ad altri due, a cui si riferiscono) se ne troverà poco più avanti un altro di particolare efficacia: «con pari ardore e con insistenza pari». Cfr. Cap. VII, n. 59. 134. spender bene...: frase vigorosa ed epigrammatica; ma il M., mentre riconosce la nobiltà del gesto di Ferrer, non giustifica le sue precedenti responsabilità. 135. Ne’ tumulti popolari...: si apre una delle pagine meditative più belle fra quante il M. abbia scritto, certamente la più completa come analisi d’insieme dei sentimenti delle masse in rivolta. In questa pagina,non
| c'è però soltanto l’acutezza. dell’indagatore,
l’attenzione dello psicologo, la precisione dell’espositore, ma anche la reazione morale dell’uomo retto di fronte al comportamento delle folle tumultuanti: delle quali, appunto, egli non solo rappresenta, ma anche giudica, loda e condanna le azioni, nella genesi e nello sviluppo. Pare che qui si debba sentire anche un riflesso dell’amara esperienza personale che il M. ebbe nel 1814 in occasione dell’uccisione del conte Prina, fedele di Napoleone e ministro delle finanze durante il Regno italico. A proposito ricordiamo che in un passo della lettera all'amico Fauriel, in cui gli riferiva di quell’eccidio, l’autore parla esplicitamente di gente che ha approfittato del movimento rivoltoso per indirizzarlo contro un uomo odiato dal popolo e che è stato massacrato nonostante gli sforzi di molte persone per sottrarlo alla furia della folla. Quindi già in quella testimonianza | diretta comparivano le tre componenti del tumulto ora analizzate: i malvagi; i buoni, la massa di manovra.
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tieri; e chi è riuscito a persuaderli che un tale non meriti d’essere squartato, non ha bisogno di spender più parole per convincerli che sia degno d’esser
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attori, spettatori, strumenti, ostacoli, secondo il vento;
pronti anche a stare zitti, quando non sentan più grida da ripetere, a finirla,
quando manchino gl’istigatori, a sbandarsi, quando molte voci concordi è non contraddette abbiano detto: andiamo; e a tornarsene a casa, domandan-
dosi l’uno con l’altro: cos'è stato? Siccome però questa massa, avendo la maggior forza, la può dare a chi vuole, così ognuna delle due parti attive
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usa ogni arte per tirarla dalla sua, per impadronirsene:
sono quasi due ani-
me nemiche, che combattono per entrare in quel corpaccio, e farlo movere.
Fanno..a chi saprà sparger le voci più atte a eccitar le passioni, a dirigere i movimenti a favore dell’uno o dell’altro intento; a chi saprà più a proposito trovare le nuove che riaccendano gli sdegni, o gli affievoliscano, risveglino le speranze o i terrori; a chi saprà trovare il grido, che ripetuto dai più e più forte, esprima, attesti e crei nello stesso tempo il voto della pluralità, per l’una o per l’altra parte. Tutta questa chiacchierata s’è fatta per venire a dire che, nella lotta tra le due parti che si contendevano il voto della gente affollata alla casa del vicario, l'apparizione d’Antonio Ferrer diede, quasi in un momento, un gran vantaggio alla parte degli umani, la quale era manifestamente al di sotto, e, un po’ più che quel soccorso fosse tardato, non avrebbe avuto più, né forza, né motivo di combattere. L’uomo era gradito alla moltitudine, per quella tariffa di sua invenzione così favorevole a’ compratori, e per quel suo eroico star duro contro ogni ragionamento in contrario. Gli animi già propensi erano ora ancor più innamorati dalla fiducia animosa del vecchio che, senza guardie, senza apparato, veniva così a trovare, ad affrontare una moltitudine irritata e procellosa. Faceva poi un'effetto mirabile il sentire che veniva a condurre in prigione il vicario: così il furore contro costui, che si sarebbe scatenato peggio, chi l’avesse preso con le brusche, e non gli avesse voluto conceder nulla, ora, con quella promessa di soddisfazione, con quell’osso in bocca, s’acquietava un poco, e dava luogo agli altri opposti sentimenti, che sorgevano in una gran parte degli animi. 164-165. due anime nemiche...: vengono alla mente il cavaliere buono e quello cattivo, che si contendono il Conte di Rheingrafenstein nel Cavaliere feroce del poeta tedesco G. Goffredo Biirger (1747-1797): «Il cavaliero a destra compare in candido vestimento, con un volto soave, come la primavera. Il cavaliero a sinistra, orrendo, e vestito di fosco giallo, vibrava folgori dall’occhi, come la tempesta... ». Questa ballata del Biirger, com'è noto, è tradotta e discussa nella Lettera semiseria di Grisostomo (1816) di G. Berchet: e il Berchet fu intimo amico del M. e fra i primi sostenitori, insieme col M., degli ideali romantici. 168. gli affievoliscano: al solito, gli per li. 175. parte degli umani: dei più buoni, quelli che non vogliono il sangue e i fatti atroci., 177. gradito alla moltitudine: il M. non
si lascia sfuggire l’occasione di ironizzare su questo gradimento popolare: gli basta, per farlo, esprimere le due ragioni del gradimento stesso lasciandoci capire che si trattava, in fondo, di due colpe di Ferrer, e l’una più grave dell’altra. Ma il popolo, .vuol dirci ancora il M., non guarda tanto per il sottile, quando crede che una cosa sia conforme al suo interesse. 179-187. Gli animi... degli animi.: la stessa parola, al principio del primo petiodo e alla fine del secondo, sembra ripetuta ap-
posta per far risaltare l’acutezza delle nuove osservazioni sulla psicologia della folla: alle quali, al solito, non manca l’attrattiva di una divertita presenza dello scrittore. 185-186. con quell’osso in bocca: è la promessa di portare il vicario in prigione, quasi buttata al popolo per rabbonirlo,. come ad un mastino affamato si butta un osso.
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I partigiani della pace, ripreso fiato, secondavano Ferrer in cento maniere: quelli che si trovavan vicini a lui, eccitando e rieccitando col loro il pubblico applauso, e cercando insieme di far ritirare la gente, per aprire il passo alla carrozza; gli altri, applaudendo, ripetendo e facendo passare le sue parole, o quelle che a lor parevano le migliori che potesse dire, dando sulla voce ai furiosi ostinati,.e rivolgendo contro di loro la nuova passione della mobile adunanza. « Chi è che non vuole che si dica: viva Ferrer? Tu non vorresti eh, che il pane fosse a buon mercato? Son birboni che non vogliono una giustizia da cristiani: e c'è di quelli che schiamazzano più degli. altri, per fare scappare il vicario. In prigione il vicario! Viva Ferrer! Largo a Ferrer! » E crescendo sempre più quelli che parlavan così, s’andava a proporzione abbassando la baldanza della parte contraria; di maniera che i primi dal predicare vennero anche a dar sulle mani a quelli che diroccavano ancora, a cacciarli indietro, a levar loro dall’unghie gli ordigni. Questi fremevano, minacciavano anche, cercavan di rifarsi; ma la causa del sangue era perduta: il grido che predominava era: prigione, giustizia, Ferrer! Dopo un po’ di dibattimento, coloro furon respinti: gli altri s'impadroniron della porta, e per tenerla difesa da nuovi assalti, e per prepararvi l’adito a Ferrer; e alcuno di essi, mandando dentro una voce a quelli di casa (fessure non ne mancava), gli avvisò che arrivava soccorso, e che facessero star pronto
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il vicario, « per andar subito... in prigione: ehm, avete inteso? » « È quel Ferrer che aiuta a far le gride? » domandò a un nuovo vicino il nostro Renzo, che si rammentò del vidit Ferrer che il dottore gli aveva gridato all’orecchio, facendoglielo vedere in fondo di quella tale. « Già: il gran cancelliere, » gli fu risposto.
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« È un galantuomo, n'è vero? » « Eccome se è un galantuomo! è quello che aveva messo il pane a buon mercato; e gli altri non hanno voluto; e ora viene a condurre in prigione il vicario, che non ha fatto le cose giuste. » Non fa bisogno di dire che Renzo fu subito per Ferrer. Volle andargli incontro. addirittura:
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la cosa non era facile; ma con certe sue spinte e go-
mitate da alpigiano, riuscì a farsi far largo, e a arrivare in prima fila, proprio di fianco alla carrozza. Fra questa già un po’ inoltrata nella folla; e in quel momento stava ferma, per uno di quegl’incagli inevitabili e frequenti, in un’andata di quella sorte. Il vecchio Ferrer presentava ora all’uno, ora all’altro sportello, un viso 194. mobile adunanza: tutto il capoverso dipinge la volubilità della folla, facendo plasticamente vedere come di momento in momento sale l’ardire di una parte e diminuisce la baldanza dell’altra. L’ironia si nota soprattutto nel fatto che i « partigiani della pace » gridano, ora, press’a poco le stesse parole che poco prima erano state gridate dai fautori dell’assalto; e poi passano, loro, ad usare la maniera forte nei riguardi degli assalitori, fino a der sulle mani a costoro. 196. c'è di quelli: l’espressione popolare — come la successiva « fessure non ne mancava» — si addice alla scena, dandole disinvoltura e vivacità,
206-207. fessure non ne mancava: battuta gustosissima: altro che fessure avevano fatto nella povera porta quelli della causa del sangue!
213. È un galantuomo, n’è vero?: la solita parola, detta ora con l’ingenuità di Renzo, desideroso d’incontrare finalmente’ nel gran cancelliere un galantuomo davvero: e col sorriso del M., che continua a divertirsi e a divertire, invertendo il significato del sostantivo e dandogli sempre nuove sfumature. Vedi Cap. I, n. 212. 223-233. Il vecchio Ferrer... un po’ di silenzio: ecco il primo e indimenticabile ritratto di Ferrer: un ritratto ora sbozzato sull’aspetto esteriore e sui gesti, poi rifinito at-
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tutto umile, tutto ‘ridente, tutto amoroso, un viso che aveva tenuto sempre
in serbo per quando si trovasse alla presenza di don Filippo IV; ma fu costretto a spenderlo anche in quest'occasione. Parlava anche; ma il chiasso e il ronzìo di tante voci, gli evviva stessi che si facevano a lui, lasciavano
ben poco e a ben pochi sentir le sue parole. S'aiutava dunque co’ gesti,
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ora mettendo la punta delle mani sulle labbra, a prendere un bacio che le mani, separandosi subito, distribuivano a destra e a sinistra in ringrazia mento alla pubblica benevolenza; orta stendendole e movendole lentamente fuori d’uno sportello, per chiedere un po’ di luogo; ora abbassandole garbatamente, per chiedere un po’ di silenzio. Quando n’aveva ottenuto un poco, i più vicini sentivano e ripetevano le sue parole: « pane, abbondanza: vengo a far giustizia: un po’ di luogo di grazia ». Sopraffatto poi e come soffogato dal fracasso di tante voci, dalla vista di tanti visi fitti, di tant’occhi addosso a lui, si titava indietro un momento, gonfiava le gote, mandava un gran soffio, e diceva tra sé: — por mi vida, que de gente! — « Viva Ferrer! Non abbia paura. Lei è un galantuomo. Pane, pane! » « Sì; pane, pane, » rispondeva Ferrer: « abbondanza; lo prometto io, » e metteva la mano al petto. « Un po’ di luogo, » aggiungeva subito: « vengo per condurlo in prigione, per dargli il giusto gastigo che si merita: » e soggiungeva sottovoce: « si es culpable. » Chinandosi poi innanzi verso il cocchiere, gli diceva in fretta: « adelante, Pedro, si puedes. » Il cocchiere sorrideva anche lui alla moltitudine, con una grazia affettuosa, come se fosse stato un gran personaggio; e con un garbo ineffabile,
dimenava adagio adagio la frusta, a destra e a sinistra, per chiedere agl’inco-
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modi vicini che si ristringessero e si ritirassero un poco. « Di grazia, » diceva anche lui, « signori miei, un po’ di luogo, un pochino; appena appena da poter passare. » traverso le parole pronunziate o pensate. Ne deriva una figura magistralmente carattetizzata nella sua essenziale doppiezza: l’istrione abilissimo nel lusingare la folla, il calcolatore egoista e preoccupato. 225. don Filippo IV: è il re. L’espressione, come tutto il pensiero, è maliziosa: quel viso così uzzile e ridente era riservato pet un momento, tanto atteso, di regale intimità. 238. por mi vida, que de gente!: per la mia vita, quanta gente! Sull’uso che Ferrer fa dello spagnolo in tutto l’episodio, bene ha scritto il Russo: «Si cominci a notare che tutte le volte che Ferrer deve esprimere i suoi sentimenti più intimi, che vengono ex corde, parla spagnuolo; e quelle volte che deve parlare o mentire al popolo, parla italiano. Dal punto di vista storico, Ferrer è pienamente in carattere: i funzionari spagnuoli adoperavano indifferentemente le due lingue, nel Cinque e Seicento, anche perché lo spagnuolo era largamente inteso in
Italia. Ma questo particolare storico serve al M. a unfineartistico, per colorire la du-
plicità diplomatica dell’uomo. Lo spagnuolo sale dai precordi, quando c'è da esprimere le passioni sincere dell’animo turbato (la lingua nativa, che è come fatta natura in noi,
di solito esplode più istintivamente in tali momenti), mentre l’italiano vien fuori come x lingua della menzogna e della commea». 239. Non abbia paura. Lei è un galantuomo: sono fra le battute più ingenue pronunziate dal popolino illuso e gabbato. 244. si es culpable: se è colpevole. È detto sottovoce: fotse pensando a chi è davvero ben più colpevole dello sventurato vicario? 245. adelante, Pedro, si puedes: avanti, Pietro, se puoi. 246. Il cocchiere sorrideva...: macchietta indimenticabile di vanesio e di commediante, il cocchiete si mostra degno servitore di tanto padrone: e completa, con gtazia vellutata, la scena tutta secentesca e spagnolesca. Il suo capolavoro sta in quel dimenare adagio adagio la frusta: il simbolo della sua autorità,
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Intanto i benevoli più attivi s'adopravano a far fare il luogo chiesto così
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gentilmente. Alcuni davanti ai cavalli facevano ritirar le persone, con buone parole, con un mettere le mani sui petti, con certe spinte soavi: «in là, via, un po’ di luogo, signori »; alcuni facevan lo stesso dalle due parti della car-
rozza, perché potesse passare senza arrotar. piedi, né ammaccar
mostacci;
che, oltre il male delle persone, sarebbe stato porre a un gran repentaglio l’auge d’Antonio Ferrer. Renzo, dopo essere stato qualche momento a vagheggiare quella decorosa vecchiezza, conturbata un po’ dall’angustia, aggravata dalla fatica, ma animata dalla sollecitudine, abbellita, per dir così, dalla speranza di togliere un uomo all’angosce mortali, Renzo, dico, mise da parte ogni pensiero d’andarsene; e si risolvette d’aiutare Ferrer, e di non abbandonarlo, fin che non fosse ot-
tenuto l’intento. Detto fatto, si mise con gli altri a far far largo; e non
era certo de’ meno attivi. Il largo si fece; « venite pure avanti », diceva più . d’uno al cocchiere; ritirandosi o andando a fargli un po’ di strada più innanzi. « Adelante, presto, con juicio, » gli disse anche il padrone; e la carrozza si mosse. Ferrer, in mezzo ai saluti che scialacquava al pubblico in massa, ne faceva certi particolari di ringraziamento, con un sorriso d’intelligenza, 270 a quelli che vedeva adoprarsi per lui: e di questi sorrisi ne toccò più d’uno
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a Renzo, il quale per verità se li meritava, e serviva in quel giorno il gran cancelliere meglio che non avrebbe potuto fare il più bravo de’ suoi segretari. Al giovane montanaro invaghito di quella buona grazia, pareva quasi d’aver fatto amicizia con Antonio Ferrer. La carrozza, una volta incamminata, seguitò poi, più o meno adagio, e non senza qualche altra fermatina. Il tragitto non era forse più che un tiro di schioppo; ma riguardo al tempo impiegatovi, avrebbe potuto parere un viaggetto, anche a chi non avesse avuto la santa fretta di Ferrer. La gente si moveva, davanti e di dietro, a destra e a sinistra della carrozza, a guisa
di cavalloni intorno a una nave che avanza nel forte della tempesta. Più 259-260. Renzo... decorosa vecchiezza: l’incanto di Renzo di fronte alla figura di Ferrer è naturalissimo, perché il giovane vede in lui il tutore dei suoi interessi personali (il vidit Ferrer ora Renzo lo ha fisso dinanzi alla mente), il protettore dei poveri (ha messo il pane a buon mercato) e il difensore della giustizia (viene per portare in prigio-. ne il vicario). A tutti questi meriti morali si aggiunga una decorosa vecchiezza accoppiata alla più astuta diplomazia, e si capirà bene che il giuoco è fatto. 264-265. non... de’ meno attivi: è facile immaginarlo, coh tutto quello che di Renzo sappiamo. 267. Adelante... con juicio: avanti, presto, con giudizio. 268. scialacquava: prodigava; il verbo, non comune in questa accezione (si dice generalmente di denari, di beni, e simili) esprime con realistica evidenza la gran pro-
fusione di saluti a destra e a sinistra. 278. la santa fretta: per giungere in tempo a salvare il vicario. Qui, come anche po-
co avanti, il M. nobilita la figura di Ferrer; ancor più lo aveva fatto nel Ferzzo e Lucia con una lunga disquisizione sull’alacrità che prende l’animo di colui che ha disegnato di salvare un uomo. Ma noi possiamo pensare che, sotto tanta fretta per l’opera buona, si nasconda anche il calcolo dei personali interessi. 279-280. a guisa di cavalloni: l’immagine del fiume o del mare in tempesta è stata più volte rievocata dal M. in questo e nel precedente capitolo per rendere la visione della massa tumultuante nel suo spostarsi e premere da una parte o dall’altra. Ricordiamo, per esempio: andavano a onde, la moltitudine procellosa, come flutti da flutti, ecc. Poi su queste onde procellose s’innalza a placarle Ferrer, il vecchio saggio e autorevole; e allora si suol rammentare la famosa immagine virgiliana di Nettuno che, turbato dall'agitazione delle onde, appare dal fondo dell’oceano, nella serena maestà d’un dio, a placare i cavalloni in tempesta: Placidum caput extulit unda (En. I, 127).
capitolo
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XIII
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acuto, più scordato, più assordante di quello della tempesta era il frastono. Ferrer, guardando ora da una parte, ora dall’altra; atteggiandosi e gestendo insieme, cercava d’intender qualche cosa, per accomodar le risposte al bisogno; voleva far alla meglio un po’ di dialogo con quella brigata d’amici;
ma la cosa era difficile, la più difficile forse che gli fosse ancora capitata, in tant’anni di gran-cancellierato. Ogni tanto però, qualche parola, anche qualche frase, ripetuta da un ‘crocchio nel suo passaggio, gli si faceva sentire, come lo scoppio d’un razzo più forte si fa sentire nell’immenso scoppiettìo
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d’un fuoco artifiziale. E lui, ora ingegnandosi di rispondere in modo soddisfacente a queste grida, ora dicendo a buon conto le parole che sapeva dover esser più accette, o che qualche necessità istantanea pareva richiedere,
parlò anche lui per tutta la strada. « Sì, signori; pane, abbondanza. Lo condurrò io in prigione: sarà gastigato... si es culpable. Sì, sì, comanderò io: il pane a buon mercato. Asì es... così è, voglio dire: il re nostro signore non vuole che codesti fedelissimi vassalli patiscan la fame. Ox! ox! guardaos: non si faccian male, signori. Pedro, adelante con juicio. Abbondanza, abbondanza. Un po’ di luogo, per carità. Pane, pane.
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In prigione, in prigione.
Cosa? » domandava ‘poi a uno che s’era buttato mezzo dentro lo spottello, a urlargli qualche suo consiglio o preghiera o applauso che fosse. Ma costui, senza poter neppure ricevete il « cosa? », era stato tirato indietro da uno che lo vedeva lì lì per essere schiacciato da una rota. Con queste botte e risposte, tra le incessanti acclamazioni, tra qualche fremito anche d’opposizione, che si faceva sentire qua e là, ma era subito soffogato, ecco alla fine Ferrer arrivato alla casa, per opera principalmente di que’ buoni ausiliari. Gli altri che, come abbiam detto, eran già lì con le medesime buone intenzioni, avevano intanto lavorato a fare e a rifare un po’ di piazza. Prega, esorta, minaccia; pigia, ripigia, incalza di qua e di là, con quel raddoppiare di voglia, e con quel rinnovamento di forze che viene dal veder vicino il fine desiderato; gli era finalmente riuscito di divider la ‘calca in due, e poi di spingere indietro le due calche; tanto che, tra la porta e la carrozza, che vi si fermò davanti, v’era un piccolo spazio voto. Renzo, che, facendo un po’ da battistrada, un po’ da scorta, era arrivato con la carrozza, poté collocarsi in una di quelle due frontiere di benevoli, che facevano, nello stesso tempo, ala alla carrozza e argine alle due onde prementi di popolo. E aiutando a rattenerne una con le poderose sue spalle, si trovò anche in un bel posto per poter vedere. Ferrer mise un gran respiro, quando vide quella piazzetta libera, e la porta ancor chiusa. Chiusa qui vuol dire non aperta; del resto i gangheri eran quasi sconficcati fuor de’ pilastri: i battenti scheggiati, ammaccati, sforzati e scombaciati nel mezzo lasciavano veder fuori da un largo spiraglio un pezzo di catenaccio storto, allentato, e quasi divelto, che, se vogliam dir
295. ne; e zione: 313. scorta:
ox! ox! guardaos: ohi, ohi, attenzioquanta cortesia e quanta preoccupa« non si facciano male, signori ». un po’ da battistrada, un po’ da fa sorridere questo nostro Renzo
tutto indaffarato a correre avanti e indietro, e a lavorare di mani e di spalle: e poi, sod-
disfatto della buona azione, saldo e impalato in un bel posto per poter vedere! 319. Chiusa qui vuol dire non aperta: la battuta pungente fa rivivere in un attimo la ferocia dell’assalto e l’imminenza del. pericolo. Osserva l’effetto «... chiusa. Chiusa... ».
dell’accostamento:
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così, li teneva insieme. Un galantuomo s’era affacciato a quel fesso, a gridar che aprissero; un altro spalancò in fretta lo sportello della carrozza: il vecchio mise fuori la testa; s’alzò, e afferrando con la destra il braccio di quel
galantuomo, uscì, e scese sul predellino.
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La folla, da una parte e dall'altra, stava tutta in punta di piedi per vedere: mille visi, mille barbe in aria: la curiosità e l’attenzione generale creò un momento di generale silenzio. Ferrer, fermatosi quel momento sul predellino, diede un’occhiata in giro, salutò con un inchino la moltitudine, come da un pulpito, e messa la mano sinistra al petto, gridò: « pane e giustizia »: e franco, diritto, togato, scese in terra, tra l’acclamazioni che an-
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davano alle stelle. Intanto quelli di dentro avevano aperto, tirando via il catenaccio insieme con gli anelli gando lo spiraglio, appena quanto bastava per ospite. « Presto, presto, » diceva lui: « aprite
ossia avevano finito d’aprire, già mezzi sconficcati, e allarfare entrare il desideratissimo bene, ch'io possa entrare: e voi, da bravi, tenete indietro la gente; non mi lasciate venire addosso... per l'amor del cielo! Serbate un po”. di largo per tra poco... Ehi! ehi! signori, un momento, » diceva poi ancora a quelli di dentro: «adagio con quel battente, lasciatemi passare:
eh! le mie costole; vi raccomando le mie
costole. Chiudete ora: no; eh eh! la toga! la toga! » Sarebbe in fatti rimasta presa tra i battenti, se Ferrer non n’avesse ritirato con molta disinvoltura lo strascico, che disparve come la coda d’una serpe, che si rimbuca 345
inseguita.
Riaccostati i battenti, furono anche riappuntellati alla meglio. Di fuoti,
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quelli che s’eran costituiti guardia del corpo di Ferrer, lavoravano di spalle, di braccia e di grida, a mantener la piazza vota, pregando in cuor loro il Signore che lo facesse far presto. « Presto, presto, » diceva anche Ferrer di dentro, sotto il portico, ai servitori, che gli si eran messi d’intorno ansanti, gridando: « sia benedetto! ah eccellenza! oh eccellenza! uh eccellenza! » « Presto, presto, » ripeteva Ferrer: « dov'è questo benedett’uomo? » 323. Un galantuomo s’era affacciato: li troviamo dovunque i galantuomini: e sanno
fare d’ogni cosa. 326-332. La folla... alle stelle: è uno dei capoversi più sapienti e gioiosi, non solo del racconto del tumulto di San Martino, ma di tutto il romanzo. La grandezza della scena deriva non soltanto dalla bravura con cui tutti i particolari (specialmente i gesti di Ferrer,
commediante
sopraffino)
sono
stati
pensati e ritratti, in maniera che ci balzano
dinanzi quasi assistessimo ad una rappresentazione cinematografica; ma dal sottofondo sarcastico che pervade l’intera vicenda. La folla, che non sa nulla di come stanno le cose, va in delirio per colui che è il reale
colpevole di tanti disagi, e vuole ammazzare
il povero vicario che non ha colpa di niente, se non di portare quel titolo; e il disgraziato, intanto, geme ed implora l’arrivo del suo salvatore, che è colui che l’ha rovinato! Così va il mondo, diciamo anche noi col M.
344. come la coda d’una serpe: la similitudine è bellissima per l’effetto fortemente visivo, ma anche per la malizia che contiene. Con questa immagine il M. prende il suo eroe «franco, diritto, togato » dal piedistallo superbo e acclamato e lo riporta sull’umile terra, anzi... sotto la terra (o... dietro la porta!) ove la serpe si rimbuca înseguita. 352. ah..., oh..., uh eccellenza!: è certamente buffo questo succedersi di esclamazioni. Si noti come una semplice variazione di sillaba offra tutta la possibilità di svelare con realismo ed ironia la differenza di sentimento dei singoli assediati, pur nella coralità di una comune paura e di una comune gioia per lo scampato pericolo. 353. dov'è questo benedett'uomo?: il povero atterrito vicario; ma, nell’espressione di Ferrer, si sente più la fretta d’andarsene che la compassione per il prigioniero della folla inferocita.
capitolo XIII 355
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Il vicario scendeva le scale, mezza strascicato e mezzo portato da altri suoi servitori, bianco come un panno lavato. Quando vide il suo aiuto, mise
un gran respiro; gli tornò il polso, gli scorse un po’ di vita nelle gambe, un po’ di colore sulle gote; e corse, come poté, verso Ferrer, dicendo: « sono
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nelle mani di Dio e di vostra eccellenza. gente che mi vuol morto ». « Venga usted con migo, e si faccia rozza; presto, presto. » Lo prese pet la facendogli coraggio tuttavia; ma diceva silis; Dios nos valga! —
Ma come uscir di qui? Per tutto c’è i coraggio: qui fuori c'è la mia carmano, e lo condusse verso la porta, intanto tra sé: — aqui està el bu-
La porta s’apre; Ferrer esce il primo; l’altro dietro, rannicchiato, attaccato, incollato alla toga salvatrice, come un bambino alla sottana della mamma. Quelli che avevan mantenuta la piazza vota, fanno ora, con un alzar di
mani, di cappelli, come una rete, una nuvola, per sottrarre alla vista pericolosa della moltitudine il vicario; il quale entra il primo nella carrozza, e vi si rimpiatta in un angolo. Ferrer sale dopo; lo sportello vien chiuso. La moltitudine vide in confuso, riseppe, indovinò quel ch’era accaduto; e mandò un urlo d’applausi e d’imprecazioni. i La parte della strada che rimaneva da farsi, poteva parer la più diffi cile e la più pericolosa. Ma il voto pubblico era abbastanza spiegato per lasciar andare in prigione il vicario; e nel tempo della fermata, molti di quelli che avevano agevolato l’arrivo di Ferrer, s’eran tanto ingegnati a preparare e a mantener
come
una corsìa nel mezzo
della folla, che la carrozza poté,
| questa seconda volta, andare un po’ più lesta, e di seguito. Di mano in mano che s’avanzava, le due folle rattenute dalle parti, si ricadevano addosso e si rimischiavano, dietro a quella. 380 Ferrer, appena seduto, s’era chinato per avvertire il’ vicario, che stesse ben rincantucciato nel fondo, e non si facesse vedere, per l’amor del cielo; ma l’avvertimento
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era superfluo. Lui, in vece, bisognava che si facesse ve-
dere, per occupare e attirare a sé tutta l’attenzione del pubblico. E per tutta questa gita, come nella prima, fece al mutabile uditorio un discorso, il più continuo nel tempo, e il più sconnesso nel senso che fosse mai; interrompendolo però ogni tanto con qualche parolina spagnola, che in fretta in fretta si voltava a bisbigliar nell’orecchio del suo acquattato compagno. 360. Venga usted con migo: vossignoria venga con me. Usted è sincope di vwestra merced, vostra mercede, vostra grazia; la parola si addice al superiore che si rivolge all’inferiore usando i termini ufficiali. 362-363. aqui... valga!: qui sta il busillis; Dio ci aiuti. Busillis significa difficoltà, dall’aneddoto di un tale che, per la sua poca dimestichezza col latino, divise la frase ir diebus illis in în die e busillis, rendendosela incomprensibile. 364-365. rannicchiato, attaccato, incollato: per gustare appieno il valore di questi tre participi, dobbiamo ricollegarli coi tre verbi che più tardi indicheranno la risoluzione di quella paura: «si svolse, si sgruppì, s’alzò ». Ma l’abilità del M. nello scoprire ed unire setie di verbi, infondendo con essi
una evidenza straordinaria a scene e a situazioni, l’abbiamo. già. incontrata varie
altre volte; ci limitiamo a ricordare il tipico atteggiamento di don Abbondio dinanzi alle venticinque berlinghe nuove di Tonio: «le contò, le voltò, le rivoltò, le trovò senza
difetto»
(Cap.
VIII).
369. si rimpiatta in un angolo: siamo al colmo del terrore, che fa del vicario quasi un bambino fuori di sé, 0, se vogliamo, un secondo don Abbondio.
385. il più continuo... il più sconnesso: ma è il capolavoro oratorio di Ferrer, dove
costui impegna fino allo spasimo, potremmo dire, tutte le sue doti istrioniche. Ma nel flusso senza sosta di parole, guizza continuo il sorriso dello scrittore, che ha creato una scena di straordinario ritmo comico.
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« Sì, signori; pane e giustizia: in castello, in prigione, sotto la mia guardia. Grazie, grazie, grazie tante. No, no: non iscapperà. Por ablandarlos. È troppo giusto; s’esaminerà, si vedrà. Anch'io voglio bene a lor signori. Un gastigo severo. Esto lo digo por su bien. Una meta giusta, una meta onesta, e gastigo agli affamatori. Si tirin da parte, di grazia. Sì, sì; io sono un galantuomo, amico del popolo. Sarà gastigato: è vero, è un birbante, uno scellerato. Perdone, usted. La passerà male, la passerà male... si es culpable. Sì, sì, li faremo rigar diritto i fornai. Viva il re, e i buoni milanesi, suoi
fedelissimi vassalli! Sta fresco, sta fresco. Animo; estamos ya quasi fuera. » Avevano in fatti attraversata la maggior calca, e già eran vicini a uscit al largo, del tutto. Lì Ferrer, mentre cominciava a dare un po’ di riposo a’ suoi polmoni, vide il soccorso di Pisa, que’ soldati spagnoli, che però sulla fine non erano stati affatto inutili, giacché sostenuti e diretti da qualche cittadino, avevano cooperato a mandare in pace un po’ di gente, e a tenere il passo libero all’ultima uscita. All’arrivar della carrozza, fecero ala, e presen-
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taron l’arme al gran cancelliere, il quale fece anche qui un saluto a destra, un saluto a sinistra; e all’ufiziale, che venne più vicino a fargli il suo, disse, accompagnando le parole con un cenno della destra: « beso 4 usted las manos »: parole che l’ufiziale intese per quel che volevano dir realmente, cioè: m’avete dato un bell’aiuto! In risposta, fece un altro saluto, e si ristrinse nelle spalle. Era veramente il caso di dire: cedant arma togae; ma Ferrer non aveva in quel momento la testa a citazioni: e del resto sarebbero state parole buttate via, perché l’ufiziale non intendeva il latino. A Pedro, nel passar tra quelle due file di micheletti, tra que’ moschetti
così rispettosamente alzati, gli tornò in petto il cuore antico. Si riebbe af415
fatto dallo sbalordimento, si rammentò chi era, e chi conduceva; e gridando: « che! oche! » senz’aggiunta d’altre cerimonie, alla gente ormai rada abbastanza per poter esser trattata così, e sferzando i cavalli, fece loro prender la rincorsa verso il castello. « Levantese,
levantese;
estàmos
389. Por ablandarlos: per abbonirli. Sulla via del ritorno le parole spagnole spiccano di più: perché ora, rintanato in carrozza, c'è uno che le intende. È tutta una commedia frizzante. 391. Esto lo digo por su bien: questo lo dico per il suo bene. 394. Perdone, usted: vossignoria perdoni. 396. Animo; estamos ya quasi fuera: coraggio, siamo già quasi fuori. 399. il soccorso di Pisa: per il significato dell’espressione vedi n. 372 del cap. VII. Per quanto riguarda quei soldati, già sappiamo che tra l’avviso, e l’ordine, e il radunarsi... ecc. ecc., erano arrivati quando la casa del vicario era già cinta d’assedio, e per la paura di tutta quella moltitudine scatenata si erano fermati all’estremità della folla. 405. beso a usted las manos: bacio le mani a vossignoria. L’ironia esprime il rimpro-
vero, ma l’ufficiale non mostra di prender-
ya fuera », disse Ferrer
al vicario;
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sela molto. È anche lui una macchietta fugace, ma così caratterizzata che non si dimentica più, specie per la pennellata finale: « fece un altro saluto, e si ristrinse nelle spalle ». 408. cedant arma togae: ‘le armi cedano alla toga’, cioè l’autorità militare a quella,
civile, la forza alla diplomazia. È un famoso motto di Cicerone, e si potrebbe considerare il motivo di tutto il capitolo. 411. micheletti: soldati spagnoli; derivavano il loro nome dal santuario di San Michele nei Pirenei, da dove venivano.. 413. chi era, e chi conduceva: è la metamor*osi determinata dalla cessazione della paura. Anche la macchietta del cocchiere ha così la sua vita artistica. Basta quell’ohe! ohe!, gridato « senz’aggiunta d’altre cerimonie », per scolpire l’alterigia del servitore che si sente importante, ora che è al sicuro. 417. Levantese... fuera: si alzi, si alzi, siamo già fuori.
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quale, rassicurato dal cessar delle grida, e dal rapido moto della carrozza, e da quelle parole, si svolse, si sgruppò, s’alzò: e tiavutosi alquanto, cominciò a render grazie, grazie e grazie al suo liberatore. Questo, dopo essersi
condoluto con lui del pericolo e rallegrato della salvezza: « ah! » esclamò battendo la mano sulla sua zucca monda, « que dirà de esto su excelencia, che ha già tanto la luna a rovescio, per quel maledetto Casale, che non vuole arrendersi? Que dirà el conde duque, che piglia ombra se una foglia fa più rumore del solito? Que dirà el rey nuestro sefior, che pur qualche cosa bisognerà che venga a risapere d’un fracasso così? E sarà poi finito? Dios lo sabe. »
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« Ah! per me, non voglio più impicciarmene, » diceva il vicario: « me ne chiamo fuori; rassegno la mia carica nelle mani di vostra eccellenza, e vo a vivere in una grotta, sur una montagna, a far l’eremita, lontano, lontano da questa gente bestiale. » « Usted farà quello che sarà più conveniente por el servicio de su magestad », rispose gravemente il gran cancelliere. « Sua maestà non vorrà la mia morte,» replicava il vicario: «in una grotta, in una grotta; lontano da costoro ».
Che avvenisse poi di questo suo proponimento non lo dice il nostro autore, il quale, dopo avere accompagnato il pover’uomo in castello, non fa più menzione de’ fatti suoi. 419. si svolse, si sgruppò, s’alzò: ricorda « rannicchiato, attaccato, incollato », n. 364-
365. 422. que dirà... su excelencia: che dirà di questo sua eccellenza, cioè il governatore. È, purtroppo, non si finirà lì, poi verranno
le lagnanze del conte duca e poi quelle del re nostro signore. Sicché come finirà soltanto Dios lo save, Dio lo sa! — Ecco l’ultimo Ferrer, non più attore astuto, ma uomo preoccupato soltanto di sé. e del suo domani: ed ecco perché — ora, sì, si capisce bene — ha rischiato tanto per salvare il vicario! 434-435. in una grotta, in una grotta: la paura è stata tanto grossa e ha così disfatto il poveretto che ormai, si potrebbe dire an-
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che di lui, sol nell'oblio si sente sicuro. Tant'è vero che anche dopo il primo sfogo, « rassegno la mia carica..., e vo a vivere in una grotta... », ribadisce il proposito anche di fronte alla sostenuta risposta del superiore: «in una grotta... lontano da costoro ». 436-437. il nostro autore: l’Anonimo. Riguardo a quanto accadde al vicario, si sa che costui, dopo essere stato sottoposto ad un processo del tutto formale, fu rilasciato ed. anzi, dopo un certo tempo, fu creato conte. Chi invece ci rimise fu il governa. tore, don Gonzalo, il quale, come vedremo, dopo quei tumulti fu costretto a lasciare Milano e venne sostituito da don Ambrogio Spinola.
critica ai capp.: XII e XIII Nella seconda parte del romanzo, lo spazio dell'azione si amplia, trasportando gli umili protagonisti contadini fuori del loro paesaggio familiare, costringendoli ad intrecciare rapporti con un ambiente estraneo alla loro esperienza ed infido, il mondo della città e quello dei « signori »; e parallelamente si allarga il quadro della rappresentazione storica, aprendosi, oltre i particolari di costume, su un vasto scenario di grandiosi eventi e sommovimenti popolari. Ma come l'ampliamento della sce-
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na si attua per il tramite e attraverso il metro della coscienza che via via ne prendono gli umili personaggi sbalestrati fuori del loro luogo naturale, e il mondo dei « signori» è quello giudicato una volta per tutte da Agnese, a proposito di Gertrude, un poco matto e sempre pericoloso, e la città è quale può vederla e sentirla nei suoi rari e forzati incontri un contadino, grande e stupenda, ma irta di sorprese, di insidie e di tranelli; così il quadro degli eventi storici, sentiti e ritratti per quel tanto che essi toccano la vita degli umili, li agitano, li fanno soffrire, recano un improvviso sconquasso nelle loro abitudini e nelle loro coscienze, si capovolge e si piega ad esprimere il sentimento polemico con cui l'illuminista e cristiano Manzoni contempla le « imprese de principi e potentati», la stoltezza e la crudeltà dei grandi e delle loro ragioni politiche, e l'inversa pietà con cui si volge invece a considerare la sorte delle « gente mecchaniche e di piccol affare », delle masse senza nome
oppresse
e sacrificate.
Da questo
punto
di vista
occorre
interpretare il potente affresco del tumulto di San Martino, in cui s'incarna appunto uno dei grandi temi storici (la guerra, la carestia, la peste) — d'altronde strettamente fra di loro correlati e concatenati — che costituiscono la travatura di base del romanzo. . II tema della carestia era stato introdotto da lontano e per molti accenni, attraverso le descrizioni dei miseri interni del villaggio e delle campagne desolate (nell'apertura del IV e poi nel VI e VII capitolo) e perfino attraverso i frivoli e sciocchi conversari dei convitati di don Rodrigo (nel V). Qui l'attenzione del Manzoni, a norma della poetica del romanzo storico, che appunto vuol essere anzitutto storico, « rappresentazione di uno stato della società », si concentra sul tema, per sviscerarne le ragioni e ricavarne tutto il profondo contenuto e il significato morale. L'inizio del cap. XII costituisce una pausa riflessiva, che prende la misura di un vero e proprio saggio, in cui si rivela l'intelligenza storica non comune dello scrittore e la sua lucida valutazione delle circostanze. La carestia è bensì una calamità naturale, ma vi ha molta parte anche la «colpa degli uomini », cioè proprio di quegli uomini che avrebbero il compito di provvedere alla sorte dei più. Intanto essa era un fatto cronico, determinato dall'abituale malgoverno; e in quel momento era inoltre aggravata per «il guasto e lo sperperio della guerra, di quella bella guerra », di cui la genesi e le vicende erano già state altrove oggetto dell'ironia del Manzoni. Il racconto dei caotici e contraddittori provvedimenti dei governanti, dell'intreccio di pregiudizi e di passioni di volta in volta fomentati e repressi nell'opinione pubblica, dalla crescente esacerbazione della povera gente, fino all'esplosione dell'ira in forma di inconsulta ribellione, è un modello di analisi economicopolitica, condotta naturalmente secondo i criteri della dottrina liberista ottocentesca, ma nient’'affatto. partigiana, almeno nel senso che per lo più s'intende. Non è invero, come si dice, una satira dei « pregiudizi popolari » ‘(i quali sono poi in realtà i pregiudizi di tutti, a cominciare dai magistrati); e anche quel che vi è di eccessivo nell'ira del popolo in rivolta, e persino nell'insorgere che essa favorisce degli elementi più torbidi e feroci della collettività scatenata, è ricondotto anzi in ultima ana-
capitolo XIII
247 lisi alla responsabilità dei grandi, alle ambizioni della loro ragion di stato dapprima e poi alla loro imprevidenza e incapacità e al loro egoismo. A questo spirito di ironia illuministica e cristiana si adegua la bellissima rappresentazione della città in tumulto, dove i movimenti della folla imbestialita, la « rabbia comune », le scene di saccheggio e dì vendetta, sono visti in termini di stupore e magari di dolente commiserazione, e comunque seri e drammatici, mentre
il tono comico è riservato tutto ai personaggi di autorità, dal capitano di giustizia al vicario di provvisione, a Ferrer. E perciò è importante che il quadro storico sia così strettamente intrecciato alla storia di Renzo, visto, per così dire, attraverso gli occhi di Renzo e le sue umane reazioni, la sua ingenua ansia di giustizia, la sua giustificata inclinazione a modificare l' « andamento ordinario delle cose », il suo senso di moderazione, fino al punto che persino le sentenze introdotte ad esprimere la superiore riflessione dell'autore (come quella che « la distruzione de' frulloni. e delle madie, la devastazione dei forni, e lo scompiglio dei fornai, non sono i mezzi più spicci per far vivere il pane ») sembrano nascere proprio dal fondo del buon senso popolano di Renzo, così implicato col cuore alle radici prime e generose della sommossa e pur capace con la mente di sollevarsi al di sopra dello sfrenamento inconsulto della « moltitudine ». E’ forse proprio in queste pagine che si può meglio misurare la natura del ‘rapporto fra il Manzoni e questo suo personaggio, non per nulla il più vivo e spontaneo di tutto il libro: rapporto in cui il distacco, essenzialmente di cultura e di educazione e. non di privilegio sociale, non esclude in nessun punto una disposizione di simpatia affettuosa e persino
una
certa
idee e di sentimenti.
più o meno
consapevole,
consonanza
di
Capitolo XIV
La folla rimasta indietro cominciò a sbandarsi, a diramarsi a destra e a sinistra, per questa e per quella strada. Chi andava a casa, a accudire anche alle sue faccende; chi s’allontanava, per respirare un po’ al largo, dopo tante ore di stretta: chi, in cerca d’amici, per ciarlare de’ gran fatti della giornata. Lo stesso sgombero s’andava facendo dall’altro sbocco della strada, nella
quale la gente restò abbastanza rada perché quel drappello di spagnoli potesse, senza trovar resistenza, avanzarsi, e postarsi alla casa del vicario. Ac-
costo a quella stava ancor condensato il fondaccio, per dir così, del tumulto; un branco di birboni, che malcontenti d’una fine così fredda e così 10: imperfetta d’un così grand’apparato, parte brontolavano, parte bestemmiavano, parte tenevan consiglio, per veder se qualche cosa si potesse ancora intraprendere; e, come per provare, andavano urtacchiando e pigiando quella povera porta, ch’era stata di nuovo appuntellata alla meglio. All’arrivar del drappello, tutti coloro, chi diritto diritto, chi baloccandosi, e come a 15 stento, se n’andarono dalla parte opposta, lasciando il campo libero a’ soldati, che lo presero, e vi si postarono, a guardia della casa e della strada. Ma tutte le strade del contorno erano seminate di crocchi: dove c’eran due 1. diramarsi: come i rami che si staccano dal tronco, così la folla dal centro del tumulto si perde. per le strade della città. L’immagine, pittorica e vivace, racchiude il motivo di tutta questa prima pagina del capitolo, volta a rappresentare, con la solita abilità psicologica e col solito gusto ritrattistico ed ironico, la diversità di comportamento della moltitudine, dopo la conclusione della vicenda del vicario e di Ferrer. 2-3. anche alle sue faccende: quell’arche, che sembra posto lì per caso, dà una sfumatura umoristica all’atteggiamento dei popolani; i quali, dopo aver agito per il bene pubblico, sentono ora il giusto richiamo degli interessi privati. 4, per ciarlare.... come vero ed arguto! Ci ricorda la conclusione della gran notte degli imbrogli e dei sotterfugi per la gente del piccolo borgo: tutto finì nei discorsi che dalle strade « continuaron nelle case, e moriron negli sbadigli ». Dunque, città o campagna, gli uomini sono... sempre uomini.
6. quel drappello di spagnoli: èè il classico soccorso di Pisa. Il vicario èè già in salvo, l'ira della folla è sbollita: possono quindi farsi avanti costoro e, spagnolescamente, assumere l’aria di aver fatto molto e di vatere altrettanto. 8-9. il fondaccio... del tumulto:'e, subito dopo, un branco di birboni. Non sfugge un certo sorriso dello scrittore alle spalle di questi facinorosi, che volevano mettere tutto a ferro e fuoco, ed ora son rimasti lì, delusi e insoddisfatti, e non gli resta di meglio da fare che urtacchiare e pigiare « quella povera porta ». 14. chi diritto diritto, chi baloccandosi...: è reso benissimo l’atteggiamento e di coloro che vogliono mettersi subito al sicuro e di queili che sono restii a ritirarsi e, pur ritirandosi, ci tengono a darsi l’aria di farlo senza paura. Continua, così, l’analisi dei sentimenti della folla attraverso la serie sempre vivace e sempre nuova delle figurine dei tumultuanti. x
capitolo XIV
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o tre persone ferme, se ne fermavano tre, quattro, venti altre: qui qualcheduno si staccava: là tutto un crocchio si moveva insieme: era come quella nuvolaglia che talvolta rimane sparsa, e gira per l’azzurro del cielo, dopo una burrasca; e fa dire a chi guarda in su: questo tempo non è rimesso bene. Perisate poi che babilonia di discorsi. Chi raccontava con enfasi i casi particolari che aveva visti; chi raccontava ciò che lui stesso aveva fatto; chi si rallegrava che la cosa fosse finita bene, e lodava Ferrer, e pronosticava guai seri per il vicario; chi, sghignazzando, diceva: « non abbiate paura. che non l’ammazzeranno: il lupo non mangia la carne del lupo »; chi più stizzosamente mormorava che non s’eran fatte le cose a dovere, ch’era un inganno, e ch'era stata una pazzia il far tanto chiasso, per lasciarsi poi canzonare in quella maniera.
30
Intanto il sole era andato sotto, le cose diventavan tutte d’un colore; e molti, stanchi della giornata e annoiati di ciarlare al buio, tornavano verso casa. Il nostro giovine, dopo avere aiutato il passaggio della carrozza, finché c'era stato bisogno d’aiuto, e esser passato anche lui dietro a quella, tra le ‘ file de’ soldati, come in trionfo, si rallegrò quando la vide correr liberamente, 35 e fuor di pericolo; fece un po’ di strada con la folla, e n’uscì, alla prima
40
cantonata, per respirare anche lui un po’ liberamente. Fatto ch’ebbe pochi passi al largo, in mezzo all’agitazione di tanti sentimenti, di tante immagini, recenti e confuse, sentì un gran bisogno di mangiare e di riposarsi; e cominciò a guardare in su, da una parte e dall’altra, cercando un’insegna d’osteria; giacché, per andare al convento de’ cappuccini, era troppo tardi. Camminando così con la testa per aria, si trovò a ridosso a un crocchio; e 19-20. era come quella nuvolaglia...: la bella similitudine richiama alla mente quella con cui, all’inizio del cap. XIII, è presentato il primo avanzare della folla verso la casa del vicario: « come quando si vede venire avanti un tempo nero, e s’aspetta la grandine... ». Forse non manca una nota di malizia nel ravvicinamento dei postumi del tumulto con quelli della burrasca: nel capriccio con cui la « nuvolaglia » gira per il cielo, e poi alla fine svanirà, si riflette il comportamento dei volubili « crocchi ». degli uomini. 30. il sole era andato sotto...: si osservi come questa gran giornata di S. Martino, che ora volge al termine, il M. l’ha rappresentata in tre capitoli, fissandola cronologicamente nei tre momenti essenziali: il mattino nel XII (« Avanti giorno, le strade eran di nuovo sparse di crocchi... »); il pomeriggio nel XIII (« Lo sventurato vicario stava, in un quel momento, facendo un chilo agro e stentato... »); la sera in questo XIV, ove quell’accenno alle- prime tenebre («le cose diventavan tutte d’un colore ») diffonde un senso di tristezza e di uggia. Sarà soprattutto questa malinconia della sera a gravare su Renzo, solo e lontano da casa, in un paese sconosciuto ed infido. Così l’indicazione cro-
nologica si fa motivo spirituale e asseconda
felicemente l’ingresso del protagonista sulla scena del capitolo. Un capitolo che, come vedremo, è tutto di Renzo. — A proposito dell’espressione /e cose diventavan tutte d’un colore, si suol ricordare che Ovidio aveva cantato Jam color unus inest rebus {« Ormai un solo colore hanno le cose »): ma la
solennità della reminiscenza classica si perde nell’ironia dell'immagine dei popolani stanchi della giornata e annoiati di ciarlare al buio: quasi che le parole non dessero gusto abbastanza se... non si vedessero! 34. come in trionfo: un umorismo bonario accompagna l’ingresso di Renzo sul primo piano del racconto. Dapprima, in questo suo avanzare da trionfatore « tra le file de’ soldati » dopo la gran fatica e i tanti rischi della giornata; poi, nella soddisfazione per l'esito positivo della vicenda (osserva l’accorta ripetizione di quel liberamente: pet la carrozza che corre via e per lui, che alla fine respira);
da ultimo,
nell’accostamento
dell’« agitazione di tanti sentimenti, di tante immagini... » con il « gran bisogno di mangiare e di riposarsi ». 41. con la testa per aria: è un atteggiamento tipico di Renzo; e non significa affatto distrazione e smemoratezza, perché al nostro giovane di cose. ne sfuggono ben poche.
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fermatosi, sentì che vi discorrevan di congetture, di disegni, per il giorno dopo. Stato un momento a sentire, non poté tenersi di non dire anche lui la sua; parendogli che potesse senza presunzione proporre qualche cosa chi aveva fatto tanto. E persuaso, per tutto ciò che aveva visto in quel giorno, che ormai, per mandare a effetto una cosa, bastasse farla entrare in grazia a quelli che giravano per le strade, « signori miei! » gridò, in tono d’esordio: « devo dire anch’io il mio debol parere? Il mio debol parere è questo: che non è solamente nell’affare del pane che si fanno delle bricconerie: e giacché oggi s’è visto chiaro che, a fatsi sentire, s’ottiene quel che è giusto; bisogna andar avanti così, fin che non
si sia messo
rimedio
a tutte
quelle altre scelleratezze, e che il mondo vada un po’ più da cristiani. Non è vero, signori miei, che c'è una mano di tiranni, che fanno proprio al rovescio de’ dieci comandamenti, 55
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e vanno
a cercar la gente quieta, che non
pensa a loro, per farle ogni male, e poi hanno sempre ragione? anzi quando n’hanno fatta una più grossa del solito, camminano con la testa più alta, che pat che gli s’abbia a rifare il resto? Già anche in Milano ce ne dev'essere la sua parte ». « Pur troppo, » disse una voce. « Lo dicevo io, » riprese Renzo: « già le storie si raccontano anche da noi. E poi la cosa parla da sé. Mettiamo, per esempio, che qualcheduno di costoro che voglio dir io stia un po’ in campagna, un po’ in Milano: se è un diavolo là, non vorrà esser un angiolo qui; mi pare. Dunque mi dicano 47. signori miei!: l’esordio di Renzo è veramente felice. C'è, in queste parole, lo slancio e la passione del giovane onesto e sincero, preoccupato ed angustiato dalle tante brutte cose del mondo. Possiamo dire, anche, che questo è un Renzo trasformato rispetto al campagnolo semplice e impacciato che abbiamo trovato altre volte: si pensi al suo primo incontro con don Abbondio e poi a quello con Azzeccagarbugli. Sono state le poche ore trascorse in Milano — a contatto con tanta gente, in mezzo ad espetienze tanto nuove e in un impegno così decisivo nell’evoluzione stessa della rivolta — che hanno infuso in lui una sicurezza ed una franchezza straordinatie, sì, ma perfettamente reali e coerenti col suo carattere impulsivo e col suo animo generoso. 51-52. bisogna andar avanti... da cristiani: questa frase contiene il motivo di fondo di gran patte del discorso e del comportamento di Renzo: un ardore rivoluzionario ‘dettato dall’ansia di migliorare la condizione di vita degli oppressi e dei deboli, in una visione democratica e cristiana della società. Perciò nelle parole di Renzo, qui e altrove, si esprime un ideale di vita proprio del M.: e da ciò la comprensione dello scrittore verso le sofferenze e i discorsi del personaggio. 54. vanno a cercar la gente quieta: è evidente che qui Renzo ha il pensiero a se
stesso, e alla violenza che è stata commessa
ai suoi danni. Questa presenza dell’interesse
particolare, entro la visione generale, è essenziale e costante, in tutto quello che da ora in avanti Renzo dirà. I suoi guai personali vengono ad inserirsi perfettamente nelle so-
prattfazioni e nelle ingiustizie più vaste che sconvolgono tutta l’umanità, e danno alle sue parole passione e colore. Così qui, dietro quella «mano di tiranni», che fanno
ogni male «e poi hanno sempre ragione », c’è don Rodrigo; e sempre e solo don Rodrigo è in quei tali che, quando « n’hanno fatta una più grossa del solito, camminano con la testa più alta... ». In queste ultime parole, in particolare, riecheggia quanto Renzo aveva udito due giorni prima da padre Cristoforo, reduce dal palazzotto di don Rodrigo: l’iniquo « può insultare e chiamarsi offeso, schernire e chieder ragione, atterrire e lagnarsi » (Cap. VII).
60. Lo dicevo io...: la voce di consenso di un ascoltatore — « purtroppo » — dà nuovo vigore, se pur ce n’era bisogno, all’ora-
toria di Renzo, sempre più trascinato dall’assillante presenza delle proptie disgrazie. Ma, con grande abilità, su quelle disgrazie il M. sa costruire, come vedremo, un quadro ben più vasto, in cui si rispecchiano con forte concretezza molteplici aspetti della civiltà del Seicento. 62. un po’ in campagna, un po’ in Milano: proprio come usava fare il suo nemico, don Rodriso. Lo vedremo, per esempio, nel Cap. XXV.
capitolo XIV 65
PIA:
un poco, signori miei, se hanno mai visto uno di questi col muso all’inferriata. E quel che è peggio (e questo lo posso dir io di sicuro), è che le gride ci sono, stampate, per gastigarli: e non già gride senza costrutto; fatte benissimo, che noi non potremmo
trovar niente di meglio; ci son nominate le
bricconerie chiare. proprio come succedono; e a ciascheduna, il suo buon gastigo. E dice: sia chi si sia, vili e plebei, e che so io. Ora, andate a dire ai 70 dottori, scribi e farisei, che vi facciano far giustizia, secondo che canta la grida: vi danno retta come il papa ai furfanti: cose da far girare il cervello a qualunque galantuomo. Si vede dunque chiaramente che il re, e quelli che comandano, vorrebbero che i birboni fossero gastigati; ma non se ne fa nulla, perché c'è una lega. Dunque bisogna romperla; bisogna andar domat23 tina da Ferrer, che quello è un galantuomo, un signore alla mano; e oggi s'è potuto vedere com’era contento di trovarsi con la povera gente, e come cercava di sentir le ragioni che gli venivan dette, e rispondeva con buona grazia. Bisogna andar da Ferrer, e dirgli come stanno le cose; e io, per la parte mia, gliene posso raccontar delle belle; che ho visto io, co’ miei occhi, una
80.
grida con tanto d’arme in cima, ed era stata fatta da tre di quelli che possono, che d’ognurio c’era sotto il suo nome bell’e stampato, e uno di questi nomi era Ferrer, visto da me, co’ miei occhi: ora, questa grida diceva proprio le cose giuste per me; e un dottore al quale io gli dissi che dunque mi facesse render giustizia, com’era l'intenzione di que’ tre signori, tra i 64-65. col muso all’inferriata: cioè in x prigione. Non è chiaro il motivo per cui il M. abbia scritto in corsivo l’espressione; forse ritenne, erroneamente, che non fosse del vivo uso fiorentino, oppure volle sottolineare così il particolare impegno di Renzo nel pronunziarla. Un discorso simile può valere anche per l’altra frase in corsivo che troveremo fra poco: ho le spalle al muro. 69. vili e plebei: certamente Renzo voleva dire mobili e plebei. Il suo sproposito deriva dall’aver capito male, e dal ricordare ugualmente male, quella grida che gli aveva letto Azzeccagarbugli, là dove si parlava delle violenze compiute da feudatari, nobili, mediocri, vili e plebei (Cap. III). Così come viene ora sulle labbra di Renzo, l’espressione risulta umoristica: le punizioni ricadrebbero tutte quante sul popolino, mai sui nobili: che poi era proprio quello che avveniva davvero! 70. scribi e farisei: le due parole stanno bene nella foga del discorso, in rapporto con vili e plebei; e, insieme con dottori (che fa pensare ad Azzeccagarbugli), sono un’eco più che manifesta di nomi che Renzo ha sentiti ripetere tante volte in chiesa. 78. Bisogna andar da Ferrer: «In tutto questo capoverso c’è, insieme con il ribollire di un motivo personale e con l’ingenuità del popolano che crede che il Ferrer di quel giorno eccezionale sia il Ferrer
di tutti i giorni, anche il potenziamento oc-
casionale
del fare solito di Renzo, un po’ da millantatore, largo e accentuato, da alpigiano che fa sentir volentieri la sua voce robusta e veder le sue braccia gagliarde. Anche Renzo fa il saputo, in fatto di avvenimenti cittadini e in fatto di gride, come il podestà in fatto di politica: ma il Manzoni non lo canzona. Anche Renzo tratta con confidenza Ferrer, come il podestà i pezzi grossi e minori della politica: ma quella di Renzo è assai più ingenuità che vanteria. Anche Renzo usa, oltre un linguaggio alla buona, frasi colotite’ suggeritegli dal sentitsi oratore: ma il Manzoni ha l’aria di non sottolinearle ma di riferirle » (Momigliano). 80-31. tre di quelli che possono: si tratta, come sappiamo, del governatore, del gran cancelliere, e del segretario del Consiglio segreto. (Cap. III). Poco prima Renzo ave‘va nominato il « re, e quelli che comandavano »; ora «quelli che possono »: in tutte queste espressioni riverenziali Renzo ci appare uomo d’ordine e ossequioso all’autorità; quindi, anche nel giorno del tumulto, un vero uomo del Seicento e non ancora un popolano della Rivoluzione francese. 84-85, que’ tre signori... questo signor: l’eccitazione dell'animo risalta mirabilmente nel procedimento infervorato del discorso, specialmente con questi anacoluti, così naturali e « parlati ».
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quali c’era anche Ferrer, questo signor dottore, che m’aveva fatto veder la grida lui medesimo, che è il più bello, ah! ah! pareva che gli dicessi delle pazzie. Son sicuro che, quando quel caro vecchione sentirà queste belle cose; che lui non le può saper tutte, specialmente quelle di fuori; non vorrà più che il mondo vada così, e ci metterà un buon rimedio. E poi, anche loro, se
fanno le gride, devono aver piacere che s’ubbidisca: che è anche un disprezzo, un pitaffio col loro nome, contarlo per nulla. E se i prepotenti non vogliono abbassar la testa, e fanno il pazzo, siam qui noi per aiutarlo, come s'è fatto oggi. Non dico che deva andar lui in giro, in carrozza, ad acchiappar tutti i birboni, prepotenti e tiranni: sì; ci vorrebbe l’arca di Noè. Bisogna che lui comandi a chi tocca, e non solamente in Milano, ma per tutto, che faccian le cose conforme dicon le gride; e formare un buon processo addosso a tutti quelli che hanno commesso di quelle bricconerie; e dove dice prigione, prigione; dove dice galera, galera; e dire ai podestà che faccian davvero; se no, mandarli a spasso, e metterne de’ meglio: e poi, come dico, ci saremo anche noi a dare una mano: E ordinare a’ dottori che stiano a sentire i poveri e parlino in difesa della ragione. Dico bene, signori miei? » Renzo aveva parlato tanto di cuore, che, fin dall’esordio, una gran parte de’ radunati, sospeso ogni altro discorso, s’eran rivoltati a lui; e, a un certo punto, tutti erano divenuti suoi uditori. Un grido confuso d’applausi, di « bravo: sicuro: ha ragione: è vero pur troppo », fu come la risposta dell’udienza. Non mancaron però i critici. « Eh sì, » diceva uno: « dar retta a’
montanari: son tutti avvocati »; e se ne andava. « Ora, » mormorava un altro, «ogni scalzacane vorrà dir la sua; e a furia di metter carne a fuoco, non
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s’avrà il pane a buon mercato; che è quello per cui ci siam mossi. » Renzo però non sentì che i complimenti; chi gli prendeva una mano, chi gli prendeva l’altra. «A rivederci a domani. — Dove? — Sulla piazza del duomo. — Va bene. — Va bene. — E qualcosa si farà. — E qualcosa si farà. » « Chi è di questi bravi signori che voglia insegnarmi un’osteria, per mangiare un boccone, e dormire da povero figliuolo? » disse Renzo. « Son qui io a servirvi, quel bravo giovine, » disse uno, che aveva ascol91. pitaffio: per epitaffio, nel senso di scritto solenne. Ma Renzo, con parole di tal genere, evidentemente, ha poca confidenza; però le vuole adoprare perché giovano al discorso! 93-94. birboni, prepotenti e tiranni: altra triade che fa magnifico effetto come la prima: dottori, scribi e farisei. E così è ad effetto, subito dopo, quell’« arca di Noè »: altro segno di cultura biblica appresa dalle labbra di don Abbondio. 95. ma per tutto: cioè, anche al suo paesello. 98-100. ai podestà... a’ dottori: specie a quelli che conosciamo noi! 101. Dico bene, signori miei?: perorazione finale veramente degna di tanto discorso. Il quale, osserviamo a conclusione col Titta Rosa, « registrato con così viva aderenza dal M. (o meglio, inventato sulla bocca di Renzo con la più corposa e 3cher-
zosa fantasia) è da cima a fondo, fino alla chiusa eloquente di « dico bene, signori miei? », irrorato di amabile
ironia. Finge di compiacersene lo stesso ‘ storico” quando lo commenta con le parole: aveva parlaio tanto di cuore, attenuando così la stessa inflessione ironica. È uno dei momenti in cui il M. è più vicino al suo ‘buon figliolo ’ ». 106. udienza: uditorio. 110. non senti che i complimenti: un’altra sorridente notazione psicologica: era naturale che, con tanta effervescenza, andasse a finire a questo modo, anche perché, in simili casi, le critiche son fatte più sottovoce. Così, dopo le nuove macchiette del cittadino saputo e del cittadino diffidente, con l’intrecciarsi. delle ultime fugaci battute, si. chiude la grande giornata di Renzo, eroe del tumulto e paladino della giustizia.
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capitolo XIV
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tata attentamente la predica, e non aveva detto ancor nulla. « Conosco appunto un'osteria che farà al caso vostro; e vi raccomanderò al padrone, che è mio amico, e galantuomo. » « Qui vicino? » domandò Renzo. « Poco distante, » rispose colui. l La radunata si sciolse; e Renzo, dopo molte strette di mani sconosciute; s’avviò con lo sconosciuto, ringraziandolo della sua cortesia. « Di che cosa? » diceva colui: « una mano lava l’altra, e tutt'e due la-
vano il viso. Non siamo obbligati a far servizio al prossimo? » E camminan-
do, faceva a Renzo, in aria di discorso, ota una, ora un’altra domanda. « Non 125
per sapere i fatti vostri; ma voi mi parete molto stracco:
da che paese ve-
nite? » « Vengo, » rispose Renzo, « fino, fino da Lecco. » 130
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« Fin da Lecco? Di Lecco siete? » « Di Lecco... cioè del territorio. » « Povero giovine! per quanto ho potuto intendere da’ vostri discorsi, ve n’hanno fatte delle grosse. » « Eh! caro il mio galantuomo! ho dovuto parlare con un po’ di politica, per non dire in pubblico i fatti miei; ma... basta, qualche giorno si saprà; e allora... Ma qui vedo un’insegna d’osteria; e, in fede mia, non ho voglia d’andar più lontano. » « No, no! venite dov’ho detto io, che c’è poco, » disse la guida: « qui non istareste bene. » « Eh, sì; » rispose il giovine: « non sono un signorino avvezzo a star nel cotone: qualcosa alla buona da mettere in castello, e un saccone, mi basta: quel che mi preme è di trovar presto l’uno e l’altro. Alla provvidenza! » Ed entrò in un usciaccio, sopra il quale pendeva l’insegna della luna piena. « Bene; vi condurrò qui, giacché vi piace così, » disse lo sconosciuto; e gli andò dietro.
«Non occorre che v’incomodiate di più,» rispose Renzo. « Però, » sog-
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giunse, « se venite a bere un bicchiere con me, mi fate piacere. »
« Accetterò le vostre grazie, » rispose colui; e andò, come più pratico del
è la vita, e così sono gli uomini, pare com116-117. Conosco... un’osteria: sapremo mentare il M., guardando l’ingenuità del nella era, osteriz ben presto che questa suo personaggio. mente del servizievole cittadino — che è 123. Non siamo obbligati a far servizio un birro travestito, una spia — la prigioal prossimo?: vedremo presto che bel « serpadroil che deduce qualcuno ciò da ne: vizio al prossimo » farà questo sconosciuto. samo, ne, suo amico, e, al solito, galantuo Il frizzo non è solo nel tranello della spia Renzo cui con e criminal notaio il rebbe ai danni di Renzo, ma anche nell’arguzia avrà poi a che fare. Ma quest’ultimo riferimento è poco certo e l’espressione « pa- ‘ del M. che ha creato un personaggio, il quale, proprio per avere di che vivere, è drone, che è mio amico, e galantuomo » è « obbligato » a fare di simili servizi. como spontane lo solo probabile che sia 132. parlare con... politica: cioè, con dipletamento di un discorso che vuol perE veramente in pubblico Renzo plomazia. erza. quell’ost in suadere ad andare ha saputo usarne di diplomazia; ma ora, in 120-121. sconosciute... sconosciuto: la riprivato, con lo sconosciuto? gdabbena sulla . petizione sembra insistere gli 139. da mettere in castello: da mettere che primo al darsi nell’affi Renzo di gine stomaco, da mangiare. Renzo, ancora nello pensa si se si offre. E l’ironia è più viva eccitato per la gran giornata, parla tutto trappola nella cade giovane che il nostro con tono colorito e vivace; e vedrespesso bel quel dello sconosciuto, proprio dopo poi, sotto l’effetto del vino, lo farà che mo quale il per e fatto aveva discorso che sempre più. così aveva avuto tante congratulazioni. Ma
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luogo, innanzi a Renzo, per un cortiletto; s’accostò all’uscio che metteva in cucina, alzò il saliscendi, aprì, e v’entrò col suo compagno. Due lumi a mano, pendenti da due pertiche attaccate alla trave del palco, vi spandevano una mezza luce. Molta gente era seduta, non però in ozio, su due panche, di qua e di là d’una tavola stretta e lunga, che teneva quasi tutta una parte della stanza: a intervalli, tovaglie e piatti; a intervalli, catte voltate e rivoltate, dadi buttati e raccolti; fiaschi e bicchieri per tutto. Si vedevano anche correre berlinghe, reali e parpagliole, che, se avessero potuto parlare, avrebbero detto probabilmente: — noi eravamo stamattina nella ciotola d’un fornaio, o nelle tasche di qualche spettatore del tumulto, che tutt’intento a vedere come andassero gli affari pubblici, si dimenticava di vigilar le sue faccendole private. — Il chiasso era grande. Un gatzone girava innanzi e indietro, in fretta e in furia, al servizio di quella tavola insieme e tavoliere: l’oste era a sedere sur una piccola panca, sotto la cappa del cammino, occupato, in apparenza, in certe figure che faceva e disfaceva nella cenere, con le molle; ma in realtà intento a tutto ciò che accadeva intorno a lui. S’alzò, al ramore del saliscendi; e andò incontro ai soprarrivati. Vista ch’ebbe la guida, — maledetto! — disse tra sé: — che tu m’abbia a venir sempre tra’ piedi, quando meno ti vorrei! — Data poi un’occhiata in fretta a Renzo, disse, ancota tra sé: —
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non ti conosco; ma venendo con un tal cacciatore, o cane o lepre sarai:
quando avrai detto due parole, ti conoscerò. — Però, di queste riflessioni nulla trasparve sulla faccia dell’oste, la quale stava immobile come un ritratto: una faccia pienotta e lucente, con una barbetta folta, rossiccia, e due occhietti chiari e fissi. « Cosa comandan questi signori? » disse ad alta voce. « Prima di tutto, un buon fiasco di vino sincero, » disse Renzo: « e poi 148. Due lumi a mano...:
pochi cenni’
creano una descrizione indimenticabile da interno di pittura fiamminga del Seicento. Una pittura, questa, che tante volte compì mirabili riproduzioni di scorci di vita modesta, di locali squallidi, di scene di osteria: ricordiamo, pet esempio, certi quadri di Adrien Van Ostade (1610-1684)) e di Jan Steen (1626-1679). In questa pittura proprio il particolare dei lumi a mano, e della luce che da lì parte e rompe le tenebre, è uno dei motivi più ricercati ed efficaci. 154. berlinghe, reali e parpagliole: berlinghe e parpagliole già le abbiamo incontrate (Cap. IV); i reali erano monete d’argento spagnole di valore inferiore alle berlinghe e superiore alle parpagliole. I tre tipi di monete sono petciò ricordati in ordine decrescente. 159-162. l’oste... intorno a lui: la figura dell’oste completa perfettamente il quadro delia stanza in penombra. Ritratto con immediata e realistica intuizione nella sua sorniona immobilità, quest'uomo ci appare, subito, accorto dominatore di tutta quella baraonda. Nel chiasso grande di quella sera tumultuosa, quel suo stare in dispat-
te sotto la cappa del cammino a fare e di-
sfare figure nella cenere, esprime magistral-
mente
l’atteggiamento
prudente
e astuto
dell’uomo che tutto osserva e che in ogni momento è pronto ad intervenire. 169-170. due occhietti chiari e fissi: sono l’ultimo, stupendo tocco di un ritratto che in ogni particolare indica furbizia e caute la: occhi che osservano tutto, ma non svelano nulla. C'è, in quest'uomo, una corrispondenza completa fra l’intima capacità di frenare e dissimulare i propri sentimenti e ragionamenti, e l’aspetto esteriore, che — specie con quella faccia pienotta e lucente, così degna dell’osteria della luna pie-
na — sembra infondere confidenza e dolcezza. Osserviamo ancora una volta l’abilità del M. nell’uso di coppie di aggettivi (la faccia pienotta e lucente, la barbetta folta e rossiccia, gli occhietti chiari e fissi), che non sono doppioni, ma completano artisticamente e spiritualmente il ritratto. Si noti, infine, anche la forza suggestiva dei tre termini diminutivi: pienotta,. barbetta, occhietti. E l’analisi degli elementi fisionomici, psicologici e stilistici del ritratto non finirebbe qui: lasciamo al lettore di continuarla da sé.
capitolo XIV
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un boccone.» Così dicendo, si buttò a sedere sur una panca, verso la cima
della tavola, e mandò un « ah! » sonoro, come se volesse dire: fa bene un
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po’ di panca, dopo essere stato, tanto tempo, ritto e in faccende. Ma gli
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venne subito in mente quella panca e quella tavola, a cui era stato seduto l’ultima volta, con Lucia e con Agnese: e mise un sospiro. Scosse poi la testa, come per iscacciar quel pensiero: e vide venir l’oste col vino. Il compagno s'era messo a sedere in faccia a Renzo. Questo gli mescè. subito da bere, dicendo: « per bagnar le labbra ». E riempito l’altro bicchiere, lo tracannò in un sorso.
« Cosa mi darete da mangiare? » disse poi all’oste. « Ho dello stufato: vi piace? » disse questo. 185
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« Sì, bravo; dello « Sarete servito, ». forestiero. » E s’avviò so Renzo: « ma pane, « Al pane, » disse
stufato. » disse l’oste a Renzo; e al garzone: « servite. questo verso il cammino. « Ma... » riprese poi, tornando vernon ce n’ho in questa giornata. » Renzo, ad alta voce e ridendo, « ci ha pensato la provvidenza. » E tirato fuori il terzo e ultimo di que’ pani raccolti sotto la croce
di san Dionigi, l’alzò per aria, gridando: « ecco il pane della provvidenza! » All’esclamazione, molti si voltarono; e vedendo quel trofeo in aria, uno gridò: « viva il pane a buon mercato! » « A buon mercato? » disse Renzo:
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« gratis et amore. »
« Meglio, meglio. » « Ma, » soggiunse subito Renzo, « non vorrei che lor signori pensassero a male. Non è ch’io l’abbia, come si suol dire, sgraffignato. L’ho trovato in terra; e se potessi trovare anche il padrone, son pronto a pagarglielo. » « Bravo! bravo! » gridarono, sghignazzando più forte, i compagnoni; a nessuno de’ quali passò per la mente che quelle parole fossero dette davvero. « Credono ch’io canzoni; ma l’è proprio così, » disse Renzo alla sua gui173-174. si buttò... della tavola: ora Renzo si butta a sedere verso la cima della tavola perché è pieno di baldanza e di soddisfazione di sé; il giorno dopo, in tutt’altre condizioni di spirito, in un’altra osteria, quella di Gorgonzola, si metterà a sedere in fondo della tavola, vicino all’uscio: «il posto dei vergognosi» (Cap. XVI, n. 194). 176-177. quella panca... un sospiro: notazione psicologica giustissima. Questo sentimento di sconforto così naturale sarà presto ana delle cause del troppo bere di Renzo: quasi che il vino potesse soffocare tanta melanconia. Ma una causa fugace e percepita. appena PT80. Dei bagnar le labbra: altra imma| gine colorita, e sempre in uso. in Renzo : ridendo e voce alta ad 188. questi primi momenti che passa all’osteria, e finché non sarà sopraffatto dai fumi del vino, parla ed agisce sempre con un fare sicuro e spavaldo. Egli diviene ben presto il centro della scena, anch'essa, del resto, già eccitata dai fatti del giorno, dall’aria chiusa, dal baccano continuo, dal continuo
bere. Ma se tutto lì è eccitato, due uomini vi resteranno sempre padroni di sé, l’oste
e la guida, ognuno col suo fondo di pensieri e di propositi, ambedue’ scolpiti con un'attenzione psicologica cui niente sfugge. 193. gratis et amore: anche Renzo sa di latino, quando vuole. La frase completa sarebbe gratis et amore Dei, gratis e per amot di Dio: come, appunto, era avvenuto! Ma è più che ovvio che quella gente dell’ostetia non creda a ciò che dice il giovanottone di campagna. Al M., però, preme sempre mettere in risalto la bontà nativa del suo Renzo: niente di meglio, quindi, che porla in contrasto con l’incredulità di quei furfanti sbornioni. 196. sgraffignato: rubato. Mentre Renzo dice così, ci par di vedetlo accompagnare la parola con un gesto significativo della mano, Il M. è sempre attento a cogliere la mimica dei personaggi; e quando non la dipinge esplicitamente, ce la fa intuire lo stesso. Così possiamo ‘immaginarci i gesti che avranno fatto gli ascoltatori di Renzo sghignazzando più forte alle parole del giovane.
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da; e, gitando in mano quel pane, soggiunse: « vedete come l'hanno accomodato; pare una schiacciata: ma ce n’era del prossimo! Se ci-si trovavan di quelli che han l’ossa un po’ tenere, saranno stati freschi. » E subito, divorati tre o quattro bocconi di quel pane, gli mandò dietro un secondo bicchier di vino; e soggiunse: « da sé non vuol andar giù questo pane. Non ho avuto i mai la gola tanto secca. S'è fatto un gran gridare! » | « perguida: la disse » giovine, bravo questo « Preparate un buon letto a ché ha intenzione di dormir qui. » « Volete dormir qui? » domandò l’oste a Renzo, avvicinandosi alla tavola. « Sicuro, » rispose Renzo: « un letto alla buona; basta che i lenzoli sian di bucato; perché son povero figliuolo, ma avvezzo alla pulizia. » « Oh, in quanto a questo! » disse l’oste: andò al banco, ch’era in un angolo della cucina; e ritornò, con un calamaio e un pezzetto di carta bianca in una mano, e una penna nell’altra. « Cosa vuol dir questo? » esclamò Renzo, ingoiando un boccone dello stufato che il garzone gli aveva messo davanti, e sorridendo poi con maraviglia, soggiunse: « è il lenzolo di bucato, codesto? » L’oste, senza rispondere, posò sulla tavola il calamaio e la carta; poi appoggiò sulla tavola medesima il braccio sinistro e il gomito destro; e, con la penna in aria, e il viso alzato verso Renzo, gli disse: « fatemi il piacere di dirmi il vostro nome, cognome e patria ». « Cosa? » disse Renzo: « cosa c'entrano codeste storie col letto? » « Io fo il mio dovere, » disse l’oste, guardando in viso alla guida: « noi siamo obbligati a render conto di tutte le persone che vengono a alloggiar da noi: nome e cognome,
e di che nazione sarà, a che negozio viene, se ha
seco armi... quanto tempo ha di fermarsi in questa città... Son parole della grida. » Prima di rispondere, Renzo votò un altro bicchiere: era il terzo; e d’ora in poi ho paura che non li potremo più contare. Poi disse « ah ah! avete la
grida! E io fo conto d’esser dottor di legge; e allora so subito che caso si fa delle gride. » « Dico davvero, » disse l’oste, sempre guardando il muto compagno di Renzo; e, andato di nuovo al banco, ne levò dalla cassetta un gran foglio > 207. Preparate un buon letto...: lo sconosciuto va presto al concreto, a ciò che gli. interessa; fermare lì, in quell’osteria, Renzo per tutta la notte; poi penserà lui ad «acchiapparlo al momento giusto (Cap. XV). 211. son povero figliuolo: e più avanti dirà ancora: «a un figliolo pat mio...! », « mettere in carta un povero figliolo? », «gli osti dovrebbero tenere dalla parte de’ buoni figlioli», ecc. Ma un buon figliuolo, quando capita in mezzo ai cattivi e ai furbi, ci rimette le penne, e fa presto, come vedremo, a diventare un pezzo d’asino. 218-220. L’oste... verso Renzo: il quadro è pittoresco: non ne scorderemo più quella penna in aria e quel viso alzato. 225. nome e cognome...: come appunto
diceva una grida; ed era una grida fresca (26 ottobre 1627), di quelle che fanno più paura, commentetebbe il dottor Azzeccagarbugli (Cap. III). E il ricordo di quel dottor di legge viene subito anche alla mente del nostro Renzo: e grida e dot. tore lo fanno scattare ancora di più. 232. il muto compagno: è quello che parla meno, ma è quello che conta di più: e l’oste, che lo conosce bene, rivolge le parola a Renzo, ma rivolge lo sguardo lui. Il M. crea qui, come è stato ben det to, un avvincente «trio. da commedia » studiando mosse e parole, e divertendosi : ritrarre il comportamento di ognuno: l: loquacità sempre più effervescente ed in controllata del campagnolo, la preoccupa zione interessata dell’oste, il mutismo astu to. del. birro.
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un proprio esemplare della grida; e venne a spiegarlo davanti agli occhi di 235
Renzo.
« Ah! ecco! » esclamò questo, alzando con una mano il bicchiere riempito di nuovo, e rivotandolo subito, e stendendo poi l’altra mano, con un dito teso, verso la grida: « ecco quel bel foglio di messale. Me ne rallegro moltissimo. La conosco quell’arme; so cosa vuol dire quella faccia d’ariano, con
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la corda al collo. » (In cima alle gride si metteva allora l’arme del governatore; e in quella di don Gonzalo Fernandez de Cordova, spiccava un re moro incatenato per la gola.) « Vuol dire, quella faccia: comanda chi può, e ubbidisce chi vuole. Quando questa faccia avrà fatto andare in galera il signor don... basta, lo so io; come dice in un altro foglio di messale compagno a
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questo; quando avrà fatto in maniera che un giovine onesto possa sposare
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una giovine onesta che è contenta di sposarlo, allora le dirò il mio nome a questa faccia; le darò anche un bacio per di più. Posso aver delle buone ragioni per non dirlo, il mio nome. Oh bella! E se un furfantone, che avesse al suo comando una mano d'’altri furfanti: perché se fosse solo... » e qui finì la frase con un gesto: « se un furfantone volesse saper dov’io sono, per farmi qualche brutto tiro, domando io se questa faccia si moverebbe per aiutarmi.
Devo dire i fatti miei! Anche questa è nuova. Son venuto a Milano per confessarmi, supponiamo; ma voglio confessarmi da un padre cappuccino, per modo di dire, e non da un oste. » L’oste stava zitto, e seguitava a guardar la guida, la quale non faceva dimostrazione di sorte veruna. Renzo, ci dispiace il dirlo, tracannò un altro bicchiere, e proseguì: «ti porterò una ragione, il mio caro oste, che ti capaciterà. Se le gride che parlan bene, in favore de’ buoni cristiani, non contano; tanto meno devon contare quelle che parlan male. Dunque leva tutti que-
st'imbrogli, e porta in vece un altro fiasco; perché questo è fesso. » Così dicendo, lo percosse leggermente con le nocca, e soggiunse: « senti, senti, oste come crocchia ». Anche questa volta, Renzo aveva, a poco a poco, attirata l’attenzione di quelli che gli stavan d’intorno: e anche questa volta, fu applaudito dal: suo uditorio. «Cosa devo fare? » disse l’oste, guardando quello sconosciuto, che non era tale per lui. 239. quella faccia d’ariano: d’infedele, di eretico, e quindi anche di brutto ceffo. L’Angelini
dice
che
l’espressione
è
sem-
tinue battute, o buffe o realistiche o sentimentali, spesso accompagnate da una mi-
mica sempre più intensa. Ma, al di là delle
discorsi di Renzo,
al.
pre in uso fra il popolo lombardo a causa
note artistiche, nei
dell’intraprendenza
anche alcuni valori morali: come il _sentimento di rivolta contro l'ingiustizia e
che
al tempo. di San-
t'Ambrogio avevano dimostrato in Mila no gli Ariani (i seguaci, cioè, del vescovo
;
Ario).
meno
quelli più
i soprusi;
saggi, sono
da osservare
la coscienza che la legge è va-
tutti ril’attaccae della dunque,
243-244. in galera il signor don...: ormai il discorso di Renzo, sotto l’azione del vino, va avanti sempre più accalorato e sempre meno cauto, con sbalzi di rivelazioni a
lida solo se è per tutti, e se di conosce e salvaguarda i diritti; mento ai puri affetti dell'amore famiglia. In Renzo sborniato resta,
stento
so. Con abile regia l’autore presenta le varie tappe di questa ubriacatura — ca-
260. questo è fesso: nel gergo popolare vuol dire « vuoto »; e quindi, a batterlo con
cendo pronunziare dal suo personaggio con-
mimica.
controllate
e interrotte
all’improvvi-
denzate, almeno fino ad un certo punto, da sempre nuovi bicchieri di vino —, fa-
la natura
del buon figliuolo.
la nocca, crocchia come se fosse incrinato. Continua il parlare. scherzoso, continua la
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i promessi sposi
« Via, via, » gridaron molti di que’ compagnoni: « ha ragione quel giovine: son tutte angherie, trappole, impicci: legge nuova, oggi, legge NUOVA. »
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In mezzo a queste grida, lo sconosciuto, dando all’oste un'occhiata di rimprovero, pet quell’interrogazione troppo scoperta, disse: « lasciatelo un po’ fare a suo modo: non fate scene ». « Ho fatto il mio dovere, » disse l’oste, forte; e poi tra sé: — ora ho le spalle al muro. — E prese la carta, la penna, il calamaio, la grida, e il fiasco voto, per consegnarlo al garzone. « Porta del medesimo, » disse Renzo: « che lo trovo galantuomo; e lo metteremo a letto come l’altro, senza domandargli nome e cognome, e di che nazione sarà, e cosa viene a fare, e se ha a stare un pezzo in questa città. » « Del medesimo, » disse l’oste al garzone, dandogli il fiasco; e ritornò a sedere sotto la cappa del cammino. — Altro che lepre! — pensava, istoriando di nuovo la cenere: — e in che mani sei capitato! Pezzo d’asino! se vuoi affogare, affoga; ma l’oste della luna piena non deve andarne di mezzo, per le tue pazzie. —
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Renzo ringraziò la guida, e tutti quegli altri che avevan prese le sue parti. « Bravi amici!» disse: « ora vedo proprio che i galantuomini si danno la mano, e si sostengono. » Poi, spianando la destra per aria sopra la tavola, e mettendosi di nuovo in attitudine di predicatore, « gran cosa, » esclamò, « che tutti quelli che regolano il mondo, voglian fare entrar per tutto carta, penna e calamaio! Sempre la penna per aria! Grande smania che hanno que’ signori d’adoprar la penna! » « Ehi, quel galantuomo di campagna! volete saperne la ragione? » disse ridendo uno di que’ giocatori, che vinceva. « Sentiamo un poco, » rispose Renzo. « La ragione è questa, » disse colui: « che que’ signori son loro che mangian l’oche, e si trovan lì tante penne, tante penne, che qualcosa bisogna che ne facciano. » Tutti si misero a ridere, fuor che il compagno che perdeva. « To’, » disse Renzo: « è un poeta costui. Ce n’è anche qui de’ poeti: già ne nasce per tutto. N’ho una vena anch'io, e qualche volta ne dico delle curiose... ma quando le cose vanno bene. » Per capire questa baggianata del povero Renzo, bisogna sapete che, presso x
270. In mezzo a queste grida: il birro è sempre furbo: e sta zitto o, se deve parlare, parla in modo da non scoprirsi e che le sue parole le afferri soltanto l’oste. Il quale, d’altra parte, era stato un ‘po’ troppo incauto nei suoi riguardi, con quel guardarlo e riguardarlo. Ma l’oste vuole essere al sicuro, vuole avere /e spalle al muro: perciò grida forte che lui sa il suo dovere, perché tutti lo sentano e ne siano testimoni. 276. lo trovo galantuomo: sincero. Dunque anche il vino può essere galaziuorzo. Non stiamo a ricordare come il M. giuochi con questa parola, dandole sempre nuove sfumature di significato: questo stesso capitolo ce ne ha forniti già vari esempi; ed altri li troveremo fra breve. È una parola che varia a seconda di chi la dice;
ma varia anche sulle labbra della stessa persona, a seconda dell’occasione (Cfr. Cap. Bia 212); 292. che vinceva: non è un’aggiunta inutile: la vincita dà brio e mette in moto lo scilinguagnolo; questa ‘volta, anzi, fa diventare addirittura poeta. Ma alla battuta che fa ridere tutti, uno non riderà: il compagno che perdeva. 295. l’oche... tante penne: il « poeta» dice una cosa vera, che cioè ci si serviva delle penne d’oca per scrivere. Anche un’altra cosa è ingiustamente vera: che pure in tempo di carestia « que’ signori » possono
mangiare
le oche. Ma
il pensiero
amaro
si trasfipura nella battuta ridanciana. 301. Per capire questa baggianata...: stupendo momento di riflessione che, mentre apre accortamente una pausa nella vicen-
capitolo XIV
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il volgo di Milano, e del contado ancora più, poeta non significa già, come pet tutti i galantuomini, un sacro ingegno, un abitator di Pindo, un allievo
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delle Muse; vuol dire un cervello bizzarro e un po’ balzano, che, ne’ discorsi e ne’ fatti abbia più dell’arguto e del singolare che del ragionevole. Tanto + quel guastamestieri del volgo è ardito a manomettere le parole, e a far dir loro le cose più lontane dal loro legittimo significato! Perché, vi domando io,
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cosa ci ha che fare poeta con cervello balzano? « Ma la ragione giusta la dirò io, » soggiunse Renzo: « è perché la penna la tengon loro: e così, le parole che dicon loro, volan via, e spariscono; le parole che dice un povero figliuolo, stanno attenti bene, e presto presto le infilzan per aria, con quella penna, e te le inchiodano sulla carta, per servirsene, a tempo e luogo. Hanno poi anche un’altra malizia; che, quando vogliono imbrogliare un povero figliuolo, che non abbia studiato, ma che abbia un po’ di... so io quel che voglio dire... » e, per farsi intendere, andava picchiando, e come arietando la fronte con la punta dell’indice; « e s’accorgono che comincia a capir l’imbroglio, taffete, buttan dentro nel discorso qualche parola in latino, per fargli perdere il filo, per confondergli la testa. Basta; se ne deve smetter dell’usanze! Oggi, a buon conto, s’è fatto tutto in volgare, e senza carta, penna e calamaio; e domani, se la gente saprà regolarsi,
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se ne farà anche delle meglio: senza torcere un capello a nessuno, però; tutto per via di giustizia. » Intanto alcuni di que’ compagnoni s’eran rimessi a giocare, altri a mangiare, molti a gridare; alcuni se n’andavano; altra gente arrivava; l’oste badava agli uni e agli altri: tutte cose che non hanno che fare con la nostra
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storia. Anche la sconosciuta guida non vedeva l’ora d’andarsene; non aveva,
a quel che paresse, nessun affare in quel luogo; eppure non voleva partire prima d’aver chiacchierato un altro poco con Renzo in particolare. Si voltò a lui, riattaccò il discorso del pane; e dopo alcune di quelle frasi che, da qual330
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che tempo, correvano per tutte le bocche, venne a metter fuori un suo progetto. « Eh! se comandassi io, » disse, « lo troverei il verso di fare andar
le cose bene. » « Come vorreste fare? » domandò Renzo, guardandolo con due occhietti brillanti più del dovere, e storcendo un po’ la bocca, come per star più attento. da dell’osteria, mostra con quale insuperabile arguzia il M. si diverta a dare un
po’ del matto anche a se stesso e a quanti sono, o credono d’essere, dei sacri ingegni, degli abitatori di Pindo (il monte della
Grecia sacro alle Muse e ai poeti). Biso-
gna però ricordare che il M. ce l'aveva, in particolare, con certi poeti e rimatori del suo tempo, i quali, malamente imbevuti di ideali romantici, empivano le carte di fantasticherie e di enfasi; e che alla lettera tura di costoro egli ne contrapponeva un’altra seria e meditata, obiettiva e responsabile: una letteratura che, come afferma egli stesso in una lettera del 1832 a Marco Coen, «è l’arte di dire, cioè di pensare bene, di rinvenire col mezzo del linguaggio ciò che è di più vero, di più efficace,
di più aggradevole in ogni soggetto, che si prenda a considerare o a trattare ». 316. picchiando, e come arietando: cioè, picchiando con insistenza: perché ormai è sotto l’azione del vino. Insieme col gesto, ‘ nota più avanti l’umorismo di quel taffete: tutta opera dello stesso vino: più impacciate le parole, più presuntuosi i gesti!
319-320. s'è fatto tutto in volgare: cioè senza quel latino di cui certe persone (vedi don Abbondio) si servono per ingannare i buoni figliuoli. AI solito, la lingua batte dove il dente duole. 333-334. con due occhietti brillanti...: bellissimo
tocco,
che
mostra
come
ormai
Renzo sia in là nell’ubriacatura, e quindi facile preda della trappola che sta per scattare.
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i promessi Sposi
« Come vorrei fare? » disse colui: « vorrei che ci fosse pane per tutti; tanto per i poveri, come per iricchi. » « Ah! così va bene, » disse Renzo. È « Ecco come farei. Una meta onesta, che tutti ci potessero campare. E pol,
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distribuire il pane in ragione delle bocche: perché c’è degl’ingordi indiscreti,. che vorrebbero tutto per loro, e fanno a ruffa raffa, pigliano a buon conto; e poi manca il pane alla povera gente. Dunque dividere il pane. E come si fa? Ecco: dare un bel biglietto a ogni famiglia, in proporzion delle bocche,
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per andare a prendere il pane dal fornaio. A me, per esempio, dovrebbero rilasciare un biglietto in questa forma: Ambrogio Fusella, di professione spadaio, con moglie e quattro figliuoli, tutti in età da mangiar pane (notate bene): gli si dia pane tanto, e paghi soldi tanti. Ma far le cose giuste, sempre in ragion delle bocche. A voi, per esempio, dovrebbero fare un biglietto per... il vostro nome? » « Lorenzo Tramaglino, » disse il giovine; il quale, invaghito del progetto, non fece attenzione ch’era tutto fondato su carta, penna e calamaio; e che,
per metterlo in opera, la prima cosa doveva essere di raccogliere i nomi delle 355
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persone. « Benissimo, » disse lo sconosciuto: « ma avete moglie e figliuoli? » « Dovrei bene... figliuoli no... troppo presto... ma la moglie... se il mondo andasse come dovrebbe andare... » « Ah siete solo! Dunque abbiate pazienza, ma una porzione più piccola. » « È giusto; ma se presto, come spero... e con l’aiuto di Dio... Basta; quando avessi moglie anch’io? » « Allora si cambia il biglietto, e si cresce la porzione. Come v’ho detto; sempre in ragion delle bocche, » disse lo sconosciuto, alzandosi. « Così va bene, » gridò Renzo; e continuò, gridando e battendo il pugno sulla tavola: «e perché non la fanno una legge così? » « Cosa volete che vi dica? Intanto vi do la buona notte, e me ne vo; perché penso che la moglie e i figliuoli m’aspetteranno da un pezzo. » «Un altro gocciolino, un altro gocciolino, » gridava Renzo, riempiendo in fretta il bicchiere di colui; e subito alzatosi, e acchiappatolo per una falda del farsetto, tirava forte, per farlo seder di nuovo. « Un altro gocciolino: non mi fate quest’affronto. » Ma l’amico, con una stratta, si liberò, e lasciando Renzo fare un guazza-
buglio d’istanze e di rimproveri, disse di nuovo: « buona notte », e se n’andò. Renzo seguitava ancora a predicargli, che quello era già in istrada; e poi ripiombò sulla panca. Fissò gli occhi su quel bicchiere che aveva riempito; e, 339. una meta onesta: un prezzo giusto. 341. a ruffa raffa: a chi più arraffa, porta via. 343. biglietto: tessera; si usa in tempi di restrizione dei generi alimentari, specie durante la guerra. 345-346. Ambrogio Fusella... spadaio: è facile capire che il birro si inventa nome e professione; ma lo sa fare con tanta destrezza, che il nostro Renzo abbocchertà subito, aiutato anche dall’abile sospensione del discorso: « un biglietto per... il vostro nome? ». }
350. Lorenzo Tramaglino: l’astuzia della guida, la vaghezza del progetto, gli. effetti del vino hanno fatto cascare il povero Renzo. E le confessioni continueranno, ormai, finché il falso spadaio avrà interesse a continuare nella finzione. 372-373. e poi ripiombò sulla panca: senti il tonfo di quel corpo pesante che cade giù. Da qui incomincia la rappresentazione di Renzo ubriaco, verissima in ogni particolare, che scandisce il progressivo ottenebrarsi della coscienza. Bene scrive il Petronio: « È in Renzo, in queste pagine ma-
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vedendo passar davanti alla tavola il garzone, gli accennò di fermarsi, se avesse qualche affare da comunicargli; poi gli accennò il bicchiere, una pronunzia lenta e solenne, spiccando le parole in un certo modo colare, disse: « ecco, l’avevo preparato per quel galantuomo: vedete;
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raso, proprio da amico; ma non l’ha voluto. Alle volte, la gente ha dell’idee
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curiose. Io non ci ho colpa: il mio buon cuore l’ho fatto vedere. Ora, giacché la cosa è fatta, non bisogna lasciarlo andare a male. » Così detto, lo prese e lo votò in un sorso. i i « Ho inteso, » disse il garzone, andandosene. « Ah! avete inteso anche voi, » riprese Renzo: « dunque è vero. Quando le ragioni son giuste...! » Qui è necessario tutto l’amore, che portiamo alla verità, per farci proseguire fedelmente un racconto di così poco onore a un personaggio tanto prin-
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cipale, si potrebbe quasi dire al primo uomo della nostra storia. Per questa stessa ragione d’imparzialità, dobbiamo però anche avvertire ch’era la prima volta, che a Renzo avvenisse un caso simile: e appunto questo suo non esser uso a stravizi fu cagione in gran parte che il primo gli riuscisse così fatale. Que’ pochi bicchieri che aveva buttati giù da principio, l’uno dietro l’altro, contro il suo solito, parte per quell’arsione che si sentiva, parte per una certa alterazione d’animo, che non gli lasciava far nulla con misura, gli diedero subito alla testa: a un bevitore un po’ esercitato non avrebbero fatto altro che
levargli la sete. Su questo il nostro anonimo fa una osservazione, che noi ripeteremo: e conti quel che può contare. Le abitudini temperate e oneste, dice, recano anche questo vantaggio, che, quanto più sono inveterate e radicate in un uomo, tanto più facilmente, appena appena se n’allontani, se ne risente subito; dimodoché se ne ricorda poi per un pezzo; e anche uno spro-
posito gli serve di scola.
gnifiche di intuizione e di vivacità, la difficoltà di formare un ragionamento e nello stesso tempo la voglia continua di farne, la difficoltà di parola, l’ostinazione cocciuta su di un numero di idee sempre più ristretto: e quanto più cresce l’ubriachezza, tanto più il suo pensiero si restringe e si aggira sull’ultima impressione più forte — l’affare del nome e del cognome — e sui pensieri più caramente accarezzati: la
to del genere, e perché l’eccitazione e l’arsione lo hanno portato spontaneamente a bere senza freno —, ma si serve dell’accaduto. per. trarne una conclusione pedagogica e dimostrare il valore delle abitudini temperate e oneste. Giunti alla fine del romanzo vedremo che lo scrittore totnerà su questa scola, sui vantaggi che anche l’errore di una volta può recare nella coscienza di una persona retta; incontreremo appunto Renzo che, riandando col risua sventura, l’ingiustizia subita, le gride, cordo alle vicende del passato insieme con Lucia. Ed anche poi lo stile vivace, rotLucia, otmai sua sposa, dirà: « Ho impato, intricato, è la naturale espressione di rato a non mettermi ne’ tumulti: ho imRenzo contadino appassionato, a mezzo 0 È parato a non predicare in piazza: ho imdel tutto ubriaco ». parato a guardare con chi parlo: ho im383. Ah! avete inteso anche voi... ma parato a non alzar ttoppo il gomito...» che cosa? È un grosso equivoco quello (Cap. XXXVIII). — Qui, ora, dobbiamo in cui ora è caduto Renzo. Egli ha inteso guardare la maniera con cui il M. fa che il garzone sia rimasto persuaso del suo discorso sulla giustizia, mentre costui ha la difesa del personaggio e presenta le osservazioni morali. Sempre il suo tono facapito soltanto che il cliente ha tracannamiliare e scherzoso, aperto e comprensivo, andare lasciarlo «non per to il bicchiere ben lontano da ogni sfoggio predicatotio: e a male». per raggiungere questa armonia artistica gli 399-400. .uno sproposito gli serve di scoserve perfettamente, ancora una volta, l’inla: il M., dunque, non solo non condanna troduzione dell’Anonimo. Disse bene, a quequella perché — Renzo per l’ubriacatura era la prima volta che gli accadeva un fat- sto proposito, un contemporaneo e amico
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Comunque sia, quando que’ primi fumi furono saliti alla testa di Renzo, vino e parole continuarono a andare, l'uno in giù e l’altre in su, senza misura né regola: e, al punto a cui l’abbiam lasciato, stava già come poteva. Si sentiva una gran voglia di parlare: ascoltatori, o almeno uomini presenti che potesse prender per tali, non ne mancava; e, per qualche tempo, anche le parole eran venute via senza farsi pregare, e s’eran lasciate collocare in un certo qual ordine. Ma a poco a poco, quella faccenda di finir le frasi cominciò a divenirgli fieramente difficile. Il pensiero, che s’era presentato vivo e risoluto alla sua mente, s'annebbiava e svaniva tutt’a un tratto; e la parola, dopo essersi fatta aspettate un pezzo, non era quella che fosse al caso. In queste angustie, per uno di que’ falsi istinti che, in tante cose, rovinan gli uomini, ricorreva a quel benedetto fiasco. Ma di che aiuto gli potesse essere il fiasco, in una tale circostanza, chi ha fior di senno lo dica. Noi riferiremo soltanto alcune delle moltissime parole che mandò fuori, in quella sciagurata sera: le molte più che tralasciamo, disdirebbero troppo; perché, non solo non hanno senso, ma non fanno vista d’averlo: condizione necessaria in un libro stampato. « Ah oste, oste! » ricominciò, accompagnandolo con l’occhio intorno alla tavola, o sotto la cappa del cammino; talvolta fissandolo dove non era, e parlando sempre in mezzo al chiasso della brigata: « oste che tu sei! Non posso mandarla giù... quel tiro del nome, cognome e negozio. A un figliuolo pat mio...! Non ti sei portato bene. Che soddisfazione, che sugo, che gusto... di mettere in carta un povero figliuolo? Parlo bene, signori? Gli osti dovrebbero tenere dalla parte de’ buoni figliuoli... Senti, senti, oste; ti voglio fare un paragone... per la ragione... Ridono eh? Ho un po’ di brio, sì... ma le ragioni le dico giuste. Dimmi un poco; chi è che ti manda avanti la bottega? I poveri figliuoli, n'è vero? dico bene? Guarda un po’ se que’ signori delle gride vengono mai da te a bere un bicchierino. » « Tutta gente che beve acqua, » disse un vicino di Renzo. « Vogliono stare in sé, » soggiunse un altro, « per poter dir le bugie a dovere. » « Ah! » gridò Renzo: «ora è il poeta che ha parlato. Dunque intendete anche voi altri le mie ragioni. Rispondi dunque, oste: e Ferrer, che è il meglio di tutti, è mai venuto qui a fare un brindisi, e a spendere un becco
d’un quattrino? E quel cane assassino di don...? Sto zitto, perché sono in cervello anche troppo. Ferrer e il padre Crrr... so io, son due galantuomini; dello scrittore, Gino Capponi: « Fu molto felice ‘il M. quando pose tra sé e il lettore quel certo Anonimo, che ravvicinava lui stesso ai tempi e agli uomini e alle cose da lui raccontate, che nascondeva il sommo dell’arte, e gli dava un’aria più famigliare e così più vera ». 413. chi ha fior di senno: chi ha appena un briciolo di senno. Dante aveva detto: mentre che la speranza ha fior del verde (Purg. III, 135). 416-417. condizione necessaria... quindi, secondo il M., esistono dei libri stampati che non hanno senso: o, forse, solo un po’ in apparenza. Il giudizio è grave) ma
corrisponde, purtroppo, ad una verità facilmente constatabile. Il M. sa dirlo col suo solito malizioso sorriso. 418. Ah oste, oste!: Renzo incomincia ora un lungo discorso all’oste (il quale, naturalmente, gli concede l’attenzione che si merita!), in cui tornano tutti i motivi dei precedenti discorsi, ma in forma arruffata, vaneggiante, smorzata, la sola che l’ebbrezza può concedere. Resta tuttavia la capacità, in Renzo, di non proferire i nomi e i fatti che vuol tener segreti, resta la saggezza del galantuomo vero, resta soprattutto l’interna puntura delle offese ricevute.
capitolo XIV
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ma ce n'è pochi de’ galantuomini. I vecchi peggio de’ giovani; e i giovani...
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peggio ancora de’ vecchi. Però, son contento che non si sia fatto sangue: cibò; barbarie, da lasciarle fare al boia. Pane; oh questo sì. Ne ho ricevuti degli urtoni; ma... ne ho anche dati. Largo! abbondanza! viva!... Eppure, an-
che Ferrer... qualche parolina in latino... siés baraòs trapolorum... Maledetto vizio! Viva! giustizia! pane! ah, ecco le parole giuste!... Là ci volevano que’ galantuomini... quando scappò fuori quel maledetto ton ton ton, e poi ancora ton ton ton. Non si sarebbe fuggiti, ve’, allora. Tenerlo lì quel signor curato... So io a chi penso! » sani questa parola, abbassò la testa, e stette qualche tempo, come assorto in un pensiero: poi mise un gran sospiro, e alzò il viso, con due occhi inu-
‘ miditi e lustri, con un certo accoramento 450
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così svenevole, così sguaiato, che
guai se chi n’era l’oggetto avesse potuto vederlo un momento. Ma quegli omacci che già avevan cominciato a prendersi spasso dell’eloquenza appassionata e imbrogliata di Renzo, tanto più se ne presero della sua aria compunta; i più vicini dicevano agli altri: guardate; e tutti si voltavano a lui; tanto che divenne lo zimbello della brigata. Non già che tutti fossero nel loro buon senno, o nel loro qual si fosse senno ordinario; ma, per dire il vero, nessuno n'era tanto uscito, quanto il povero Renzo: e per di più era contadino. Si misero, ot l’uno or l’altro, a stuzzicarlo con domande sciocche e grossolane, con cerimonie canzonatorie. Renzo, ora dava segno d’averselo per male, ora prendeva la cosa in ischerzo, ora, senza badare a tutte quelle voci, parlava di tutt'altro, ora rispondeva, ora interrogava; sempre a salti, e fuor di proposito. Per buona sorte, in quel vaneggiamento, gli era però rimasta come un’attenzione istintiva a scansare i nomi delle persone; dimodoché anche quello che doveva esser più altamente fitto nella sua memoria, non fu proferito: ché troppo ci dispiacerebbe se quel nome, per il quale anche noi sentiamo un po’ d’affetto e di riverenza, fosse stato strascinato per quelle boccacce, fosse divenuto trastullo di quelle lingue sciagurate.
441. siés baraòs trapolorum: queste per Renzo sono le paroline in latino. Ma sono parole senza senso (che qualcuno ha acco-
stato al dantesco Pape Satàn, pape Satàn, aleppe, in Inf. VII, 1), in cui una certa cadenza spagnolesca — siés baraòs — scherzosamente si mescola con l’eco del ben noto latinorum. È probabile, poi, che nella mente del nostro giovane quel latineggiante. #rapolorum voglia dire tutte trappole: e, in verità, di trappole se m’erano sentite, quel giorno, dallo spagnolo Ferrer! 445. So io a chi penso!: a Lucia, come è facile capire anche da alcuni cenni successivi: il gran sospiro, gli occhi inumi-
diti, un certo accoramento svenevole; e soprattutto dall’affermazione: « guai se chi n’era oggetto avesse potuto vederlo un momento ». — È certamene fuori strada chi, come il Rigutini, ha creduto che si tratti di don Rodrigo. 463-465. troppo ci dispiacerebbe... sciagurate: abbiamo visto altre volte che il M., fra tutti i suoi personaggi, ama in modo speciale Lucia; e Lucia è certamente tale che ogni persona sensibile non può non amarla. Con questo pensiero il capitolo, tanto. ricco di momenti drammatici. e. comici, si chiude quasi in sordina, con quel tono conversevole e medio, così tipico della narrativa manzoniana.
Capitolo XV
L’oste, vedendo
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che il gioco andava in lungo, s'era accostato
a Renzo;
e pregando, con buona grazia, quegli altri che lo lasciassero stare, l’andava scotendo per un braccio, e cercava di fargli intendere e di persuaderlo che andasse a dormire. Ma Renzo tornava sempre da capo col nome e cognome, e con le gride, e co’ buoni figliuoli. Però quelle parole: letto e dormire, ripetute al suo orecchio, gli entraron finalmente in testa; gli fecero sentire un po’ più distintamente il bisogno di ciò che significavano, e produssero un momento di lucido intervallo. Quel po’ di senno che gli tornò, gli fece in certo modo capire che il più se n’era andato: a un di presso come l’ultimo moccolo rimasto acceso d’un’illuminazione, fa vedere gli altri spenti. Si fece coraggio; stese le mani, e le appuntellò sulla tavola; tentò, una e due volte, d’alzarsi; sospirò, barcollò; alla terza, sorretto dall’oste, si rizzò. Quello, reggendolo tuttavia, lo fece uscire di tra la tavola e la panca; e, preso con una mano un lume, con l’altra, parte lo condusse, parte lo tirò, alla meglio, verso
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l’uscio di scala. Lì Renzo, al chiasso de’ saluti che coloro gli urlavan dietro, si voltò in fretta; e se il suo sostenitore non fosse stato ben lesto a tenerlo per un braccio, la voltata con l’altro braccio che gli l’aria certi saluti, a guisa « Andiamo a letto, a
sarebbe stata un capitombolo; si voltò dunque, e, rimaneva libero, andava trinciando e iscrivendo neld’un nodo di Salomone. letto, » disse l’oste, strascicandolo; gli fece imboc-
car l’uscio; e con più fatica ancora, lo tirò in cima di quella scaletta, e poi nella camera che gli aveva destinata. Renzo, visto il letto che l’aspettava, si rallegrò; guardò amorevolmente l’oste, con due occhietti che ora scintillavan 9-10. come l’ultimo moccolo... spenti: l’immagine giunge originale ed improvvisa: proprio in questo sta gran parte della sua efficacia pittorica e del sorriso che riesce a suscitare. 10-12. Si fece coraggio;... si rizzò: la descrizione delle difficoltà, che il povero Renzo deve superare per rizzarsi e per restare in equilibrio, è scandita mirabilmente dai vari verbi. Ognuno di essi fissa un certo movimento, e tutti rendono lo sforzo e la pena dell’ubriaco. Altre volte abbiamo notato quest’abilità del M. nel disporre serie di verbi: spesso, come qui, al passato remoto, con forme tronche, e scelti con intenzione caricaturale; ricordiamo don Abbondio con l’involtino delle berlinghe di Tonio: «l’aprì, cavò le berlinghe, le con-
tò, le voltò, le rivoltò, le trovò senza fetto » (Cap. VIII).
18-19. trinciando... nodo di Salomone:
di-
il
nodo di Salomone, come si sa, è molto com-
plicato e tale che non si riesce a distinguerne i capi. Ora la complessità di quell'intreccio e la solennità del nome del suo autore danno non poca comicità ai saluti di Renzo ubriaco: del quale sempre meno, ormai, si sentono le parole, e sempre più si vedono i gesti insulsi e gli sforzi vani. 20. strascicandolo: dice bene la gran fatica che ci vuole per fare andare avanti quel peso morto. 23-24. due occhietti... due lucciole: l’ubriaco fa gli occhi piccoli e vispi: preciso è quindi il paragone delle lucciole, che accentua con ilare garbo lo scintillare e
capitolo XV 25
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più che mai, ora s’eclissavano, come due lucciole; cercò d’equilibrarsi sulle
gambe; e stese la mano al viso dell’oste, per prendergli il ganascino, in segno
d’amicizia e di riconoscenza; ; ma non gli riuscì. « Bravo oste! » gli riuscì però di dire: « ora vedo che sei un galantuomo: questa è un’opera buona, dare
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un letto a un buon figliuolo; ma quella figura che m'hai fatta, sul nome è cognome, quella non era da galantuomo. Per buona sorte che anch’io son furbo la mia parte... » L’oste, il quale non pensava che colui potesse ancor tanto connettere: l’oste che, per lunga esperienza, sapeva quanto gli uomini, in quello stato, sian più soggetti del solito a cambiar di parere, volle approfittare di quel
lucido intervallo, per fare un altro tentativo. « Figliuolo caro, » disse, con una voce e con un fare tutto gentile: «non l’ho fatto per seccarvi, né per sapere i fatti vostri. Cosa volete? è legge: anche noi bisogna ubbidire; altrimenti siamo i primi a portarne la pena. È meglio contentarli, e... Di che si l’eclissarsi
degli occhietti, e diffonde una nota di grazia, che non stona affatto, in mezzo all’umorismo e alla melanconia. della scena. 25. prendergli il ganascino: il gesto — che consiste nello stringere la guancia tra l'indice e il medio con la mano rovesciata — indica confidenza e amorevolezza: anche questa è, spesso, una manifestazione dell’ebbrezza. Ma dell’ebbrezza degli uomini buoni, dei cuori teneri. 29-30. son furbo la mia parte...: nel discorsino all’oste tornano i motivi della lunga chiacchierata di Renzo durante tutto il tempo passato nell’osteria: il galantuorzo, il buon figliuolo, il nome e cognome... Ma in più c’è questo ultimo della furbizia, che, affermato con tanta vanteria dal nostro giovane, poco dopo che si è lasciato imbrogliare dal falso spadaio, fa sorridere davvero: « anch'io son furbo la mia parte... ». — A questo punto è opportuno fare un’osservazione sui furbi come sono visti dal M., per tutto il romanzo in generale e in questo capitolo in particolare: ci servirà a penetrare meglio le pagine che stiamo per leggere, e che vedremo concentrate sulle azioni e sui pensieri di tre furbi: l’oste, il notaio, Renzo. Se riandiamo alla condotta di Renzo nelle situazioni più varie in cui l’abbiamo incontrato fin qui, vediamo che egli ha agito sempre da giovane onesto, ma tutt’altro che sciocco: ricordiamo, per esempio, come si era comportato con Tonio per indurlo a fargli da testimone e come, anche nel calore dei discorsi in pubblico e poi all’osteria, avesse saputo non pronunziare mai i nomi di certe. persone. « Renzo dunque — continuiamo il di-
parlavano nel Seicento), e che fa tutt'uno con la virtù. E il M. si inchina a questa saggezza del suo personaggio, che è soltanto prudenza e capacità di trarsi d’impaccio; egli è però inclemente contro quell’altra volgare furberia, di cui il mondo .mena gran vanto. E allora dà la baia a Renzo, non perché sia stato troppo poco furbo, ma appunto perché ha voluto essere furbo. Nessuno può essere abbastanza furbo in questo mondo, perché, alla fine, chi decide non è mai il singolo, ma la fortuna delle cose, o meglio la provvidenza stessa che regola tutte le cose. Il presente capitolo e il precedente sono, in modo particolare, la satira, la sconfitta clamorosa dei furbi. I ritrovati. maestri, le belle malizie. sono tutti i piccoli ordigni di quell’arte della politica, che il M., sappiamo aborre cordialmente. Renzo, quando fa il furbo; l’oste, che pensa di mettersi al sicuro con quel negozio del nome e cognome; € infine il notaio criminale, e i suoi satelliti, che sono i furbi professionalizzati, sono irrisi sottilmente, cordialmente, e clamorosamente. E, alla conclusione degli avvenimenti, il più vittorioso è Renzo, soltanto perché il galantuomo in lui è più forte del furbo. Dove appunto si finisce con lo scorgere la moralità manzoniana:. gli uomini si illudono di poter vincere con i loro piccoli tranelli, con i loro ritrovati maestri, ma a tutti i pensieri loro e alle loro intenzioni presiede la provvidenza che, per salvare i buoni, fa servire ai suoi disegni la malizia stessa dei perversi. Per questa presenza di un’idea, la commedia o la satira della furbizia nel romanzo, non è qualcosa di avventizio o di incidentale, non è un mero spasso estetiscorso facendo nostra una notevole considerazione del Russo — davvero è furbo la co momentaneo, ma è sistema, ed è, innansua parte, ma è la furbizia onesta (la si- zi tutto, giudizio etico della coscienza dell’artista ». mulazione o dissimulazione onesta, di cui
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i promessi sposi
tratta finalmente? Gran cosa! dir due parole. Non per loro, ma per fare un
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piacere a me: via; qui tra noi, a quattr’occhi, facciam le nostre cose; ditemi i il vostro nome, e... e poi andate a letto col cuor quieto. » Ah birbone! » esclamò Renzo: « mariolo! tu mi torni ancora in campo con quell’infamità del nome, cognome e negozio! » « Sta zitto, buffone; va a. letto, » diceva l’oste. Ma Renzo continuava più forte: «ho inteso: sei della lega anche tu. Aspetta, aspetta, che t’accomodo io ». E voltando la testa verso la scaletta, cominciava a urlare più forte ancora: « amici! l’oste è della... » « Ho detto per celia, » gridò questo sul viso di Renzo, spingendolo verso il letto: « per celia; non hai inteso che ho detto per celia? » « Ah! per celia: ora parli bene. Quando hai detto per celia... Son proprio celie. » E cadde bocconi sul letto. « Animo; spogliatevi; presto, » disse l’oste, e al consiglio aggiunse l’aiuto; che ce n’era bisogno. Quando Renzo si fu levato il farsetto (e ce ne volle), l’oste l’agguantò subito, e corse con le mani alle tasche, per vedere se c’era il morto. Lo trovò: e pensando che, il giorno dopo, il suo ospite avrebbe avuto a fare i conti con tutt’altri che con lui, e che quel morto sarebbe probabilmente caduto in mani di dove un oste non avrebbe potuto farlo uscire; volle provarsi se almeno gli riusciva di concluder quest'altro affare. « Voi siete un buon figliuolo, un galantuomo; n’è vero? » disse. « Buon figliuolo, galantuomo, » rispose Renzo, facendo tuttavia litigar le dita co’ bottoni de’ panni che non s’era ancor potuto levare. « Bene, » replicò l’oste: « saldate ora dunque quel poco conticino, perché domani io devo uscite per certi miei affari... » « Quest’è giusto, » disse Renzo. « Son furbo, ma galantuomo... Ma i danari? Andare a cercare i danari ora! »
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« Eccoli qui, » disse l’oste: e, mettendo in opera tutta la sua pratica, tutta la sua pazienza, tutta la sua destrezza, gli riuscì di fare il conto con Renzo, e di pagarsi. « Dammi una mano, ch’io possa finir di spogliarmi, oste, » disse Renzo.
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« Lo vedo anch'io, ve’, che ho addosso un gran sonno. » L’oste gli diede l’aiuto richiesto; gli stese per di più la coperta addosso, e gli disse sgarbatamente « buona notte », che già quello russava. Poi, per
43. Sta zitto, buffone: come fa presto l’oste a cambiare il tono del discorso dopo la melliflua gentilezza di poco prima — dal tenero figliuolo caro al rispettosissimo vostro nome —; è un cambiamento che rivela la stizza. Qualcosa di simile c’era stato nel comportamento del capitano di giustizia con certi buoni figliuoli tramutati, in un attimo, in canaglia (Cap. XII). 44. sei della lega: quella, nella mente offuscata di Renzo, dei prepotenti contro la buona o povera gente. 50. E cadde bocconi sul letto: quanta pena — nel lettore e nel narratore — a vedere Renzo ridotto così; e quale effetto scultoreo ha la semplice registrazione del fatto! 54. il morto: espressione vivissimà del
gergo ad indicare il borsellino, il denaro. Ma dalla frase traspare tutta l’ansia dell’oste: non si sa mai, con questi forestieri! E poi,
domani, non ci sarebbe stato più tempo né modo per farsi pagare. 59. Buon figliuolo, galantuomo: sempre, davvero, così, anche da ubriaco. Ma ota le parole sono pronunciate comé da un automa sotto l’influsso di quanto dice l'oste; e questa progressiva perdita del dominio sulla parola, il poeta l’accompagna con uno sguardo magistrale a quelle povere dita che stanno a litigar co’ bottoni. 64. Andare a cercare i danari ora!: quanta melanconia in Renzo, che dice queste parole perché si sente già tanto diverso dal solito: ma tutto è tenuto sempre su un piano di spassoso umorismo.
capitolo XV
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quella specie d’attrattiva, che alle volte ci tiene a considerare un oggetto di stizza, al pari che un oggetto d’amore, e che forse non è altro che il desiderio di conoscere ciò che opera fortemente sull’animo nostro, si fermò un 75 momento a contemplare l’ospite così noioso per lui, alzandogli il lume sul viso, e facendovi, con la mano stesa, ribatter sopra la luce; in quell’atto a un di presso che vien dipinta Psiche, quando sta a spiare furtivamente le forme del consorte sconosciuto. « Pezzo d’asino! » disse nella sua mente al povero addormentato: « sei andato proprio a cetcartela. Domani poi, mi sa80 prai dire che bel gusto ci avrai. Tangheri, che volete girare il mondo, senza saper da che parte si levi il sole; per imbrogliar voi e il prossimo. » Così detto o pensato, ritirò il lume, si mosse, uscì dalla camera. e chiuse l’uscio a chiave. Sul pianerottolo della scala, chiamò l’ostessa; alla quale disse
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che lasciasse i figliuoli in guardia a una loro servetta, e scendesse in cucina, a far le sue veci. « Bisogna ch’io vada fuori, in grazia d’un forestiero capitato qui, non so come diavolo, per mia disgrazia, » soggiunse; e le raccontò in compendio il noioso accidente. Poi soggiunse ancora: « occhio a tutto; e sopra tutto prudenza, in questa maledetta giornata. Abbiamo laggiù una mano
di scapestrati che, tra il bere, e tra che di natura sono sboccati, ne’ dicon di tutti i colori. Basta, se qualche temerario... » « Oh! non sono una bambina, e so anch’io quel che va fatto. Finora, mi pare che non si possa dire... » « Bene, bene; e badar che paghino; e tutti que’ discorsi che fanno, sul vicario di provvisione e il governatore e Ferrer e i decurioni e i cavalieri e
Spagna e Francia e altre simili corbellerie, far vista di non sentire; perché,
77-78. Psiche... consorte conosciuto: la mitologia classica — specie in uno dei passi più belli dell’Asizo d’oro di Apuleio —
rodistica: ma quasi non te ne accorgi, tanto
classicisti, ed è evidente qui l’intenzione pa-
ha in corpo, e che trasuda dal predicozzo.
abilmente è insinuata sotto la maschera di quest’altra. convenienza fra i due termini narra che la giovinetta Psiche (anima) dallo della similitudine: il particolare, comune alsposo, che era giunto a lei misteriosamente l’uno e all’altro termine, della lucerna sollenel buio della notte, aveva avuto l’ingiunvata sull’oggetto contemplato ‘facendovi, zione di non cercar mai di volerlo vedere. con la mano tesa, ribattere sopra la luce? ». Ella però, per istigazione delle sorelle ge82-83. chiuse l’uscio a chiave: guai, infatlose, una volta si accinge a disubbidire; e ti, se gli fosse scappato, ora che era stato segnato dal birro. anzi, credendo di avere per marito un orribile mostro, si arma di un rasoio. Ma la 91-92. Finora,... che non si possa dire...: lampada notturna, che tiene con una mano, l’interruzione pronta e puntigliosa dell’ostessa, mentre ravviva con una pennellata umole rivela dormente non già un mostro, ma ristica la scena, ci richiama alla mente certe lo stesso Dio dell'amore. « La convenienza dell'immagine — scrive il Nardi — pende affermazioni di Perpetua a don Abbondio: « Lei sa bene che, ogni volta che m'ha dettutta, si può dire, da un filo: ‘al pari che un oggetto d'amore’, ha detto dianzi il M., + to qualcosa sinceramente, in confidenza, io non ho mai...» (Cap. I). E l’oste, come il introducendo la sua acuta osservazione psicurato, taglia corto. cologica: ed è un oggetto d’amore quello 93. badar che paghino: questa è l’unica che Psiche contempla; quello contemplato cosa importante .pet l’oste; anzi, per tutti dall’oste, è invece ‘un oggetto di stizza’. gli osti. Ricorderete chi sono i galantuomini Il rapporto dipende quindi anche da un per l’oste del paesetto di Renzo: «... quelli gioco di contrasti: e se pensi al più forte contrasto tra Psiche e l'oste della luna pie- che pagano il conto senza tirare,... » (Cap. na, fra il montanaro ubriaco e Cupido, ti VII). E per quello di città, costretto a fai una ragione di tutta la comicità della si- sentire chiacchiere da mattina alla sera, tutte militudine. Il M. aveva, da romantico, in quelle cose che si dicono fra un bicchiere e uggia la mitologia classica, vero emporio di l’altro non possono essere che corbellerie: i similitudini cui attingevano a piene mani i soldi contano! Tanto più col veleno che, ora,
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i promessi sposi
se si contraddice, la può andar male subito; e se si dà ragione, la può andar
male in avvenire: e già sai anche tu che qualche volta quelli che le dicon più grosse... Basta; quando si senton certe proposizioni, girar la testa, €
dire: vengo; come se qualcheduno chiamasse da un’altra parte. Io cercherò di
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tornare più presto che posso. » Ciò detto, scese con lei in cucina, diede un’occhiata in giro, per veder se c’era novità di rilievo; staccò da un cavicchio il cappello e la cappa, prese un randello da un cantuccio, ricapitolò, con un’altra occhiata alla moglie, l’istruzioni che le aveva date; e uscì. Ma, già nel far quelle operazioni, aveva rl-
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preso, dentro di sé, il filo dell’apostrofe cominciata al letto del povero Renzo; e la proseguiva, camminando in istrada. — Testardo d’un montanaro! — Ché, per quanto Renzo avesse voluto tener nascosto l’esser suo, questa qualità si manifestava da sé, nelle parole, nella pronunzia, nell'aspetto e negli atti. — Una giornata come questa, a forza di politica, a forza d’aver giudizio, io n’uscivo netto; e dovevi venir
tu sulla fine, a guastarmi l’uova nel paniere. Manca osterie in Milano, che tu dovessi proprio capitare alla mia? Fossi almeno capitato solo; che avrei chiuso un occhio, per questa sera; e domattina t’avrei fatto intender la ragione.
Ma no signore; in compagnia ci vieni; e in compagnia d’un bargello, per far meglio! — A ogni passo, l’oste incontrava o passeggieri scompagnati, o coppie, o brigate di gente, che giravano susurrando. A questo punto della sua muta allocuzione, vide venire una pattuglia di soldati; e tirandosi da parte, per lasciarli passare, li guardò con la coda dell’occhio, e continuò tra sé: — eccoli i gastigamatti. E tu, pezzo d’asino, per aver visto un po’ di gente in giro a
far baccano, ti sei cacciato in testa che il mondo abbia a mutarsi. E su questo bel fondamento, ti sei rovinato te, e volevi anche rovinar me; che non 125
è giusto. Io facevo di tutto per salvarti; e tu, bestia, in contraccambio, c’è mancato poco che non m'hai messo sottosopra l’osteria. Ora toccherà a te a levarti d’impiccio: per me ci penso io. Come se io volessi sapere il tuo nome
per una mia curiosità! Cosa m'importa a me che tu ti chiami Taddeo o Bartolommeo? Ci ho un bel gusto anch’io a prender la penna in mano! ma non siete voi altri soli a voler le cose a modo vostro. Lo so anch’io che ci son
delle gride che non contan nulla: bella novità, da venircela a dire un mon130
tanaro! Ma tu non sai che le gride contro gli osti contano. E pretendi girare il mondo, e parlare; e non sai che, a voler fare a modo suo, e impiparsi delle 107. Testardo d’un montanaro!: da qui incomincia una pagina piena di umorismo e di profonda intuizione psicologica. Tutto il monologo dell’oste è una sdegnata lezione di vita che costui (e fin dove non il M. stesso?) vuol dare a quella «testa di montanaro » (e perché solo a Renzo?); ma è anche una soddisfatta apologia della propria condotta e una ribadita. affermazione delle proprie capacità: «ora tocca a te a levarti d’impiccio: per me ci penso io ». 121. che il mondo abbia a mutarsi: in questa battuta l’umorismo sembra dar luogo a profondo scetticismo: è lo scetticismo del M. sulla vanità delle rivoluzioni po-
polari, per la constatazione che sempre, come disse un giorno Adelchi morente, « una feroce Forza il mondo possiede, e fa nomarsi Dritto » (Adelchi, atto V). 131-132. impiparsi delle gride... riguardo: il machiavellismo dell’oste è assoluto e si basa sull’astuto calcolo di ciò che conta e di ciò che non conta. Quell’impiparsi, poi, è un gioiello dialettale che nessun sinonimo corrente — come « trascurare », « infischiarsene », ecc. — potrebbe degnamente sostituire. Press’a poco come, poco sotto, per quell’improvviso «cecino » (diminutivo. di cece, e che vuol dire un bel mascalzone), appioppato al birro delatore.
capitolo XV
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gride, la prima cosa è di parlarne con gran riguardo. E per un povero oste che fosse del tuo parere, e non domandasse il nome di chi capita a favorirlo, sat tu, bestia, cosa c’è di bello? Sotto pena a qual si voglia dei detti osti, tavernai ed altri, come sopra, di trecento scudi:
sì, son lì che covano trecento scudi;
e per ispenderli così bene; da esser applicati, per i due terzi alla regia Camera, e l’altro all’accusatore o delatore: quel bel cecino! Ed in caso di inabilità, cinque anni di galera, e maggior pena, pecuniaria o corporale, all’arbi140
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trio di sua eccellenza. Obbligatissimo alle sue grazie. —
A queste parole, l’oste toccava la soglia del palazzo di giustizia.
Lì, come atutti gli altri ufizi, c'era un gran da fare: per tutto s’attendeva a dar gli ordini che parevan più atti a preoccupare il giorno seguente, a levare i pretesti e l’ardire agli animi vogliosi di nuovi tumulti, ad assicurare la forza nelle mani solite a adoprarla. S’accrebbe la soldatesca alla casa del vicario; gli sbocchi della strada furono sbarrati di travi, trincerati di carri. S’ordinò a tutti i fornai che facessero pane senza intermissione; si spedirono staffette a’ paesi circonvicini, con ordini di mandar grano alla città; a ogni forno furono deputati nobili, che vi si portassero di buon mattino, a invigilare sulla distribuzione e a tenere a freno gl’inquieti, con l’autorità della presenza, e con le buone parole. Ma per dar, come si dice, un colpo al cerchio e uno alla botte, e render più efficaci i consigli con un po’ di spavento, si pensò anche a trovar la maniera di metter le mani addosso a qualche sedizioso: e questa era principalmente la parte del capitano di giustizia; il quale, ognuno può pensare che sentimenti avesse per le sollevazioni e per i sollevati, con una pezzetta d’acqua vulneraria sur uno degli organi della profondità metafisica. I suoi bracchi erano in campo fino dal principio del tumulto: e quel sedicente
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Ambrogio Fusella era, come ha detto l’oste, un bargello travestito, mandato in giro appunto per cogliere sul fatto qualcheduno da potersi riconoscere, e tenerlo in petto, e appostarlo, e acchiapparlo poi, a notte affatto quieta, o il giorno dopo. Sentite quattro parole di quella predica di Renzo, colui gli
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portare a casa la notizia sicura del nome,
aveva fatto subito assegnamento sopra; parendogli quello un reo buon uomo, proprio quel che ci voleva. Trovandolo poi nuovo affatte del paese, aveva tentato il colpo maestro di condurlo caldo caldo alle carceri, come alla locanda più sicura della città; ma gli andò fallito, come avete visto. Poté però belle notizie congetturali; sapeva intorno Renzo, ne e fece la sua deposizione: che non aveva mai voluto
cognome
e patria, oltre cent’altre
dimodoché, quando l’oste capitò lì, a dir ciò che sapevan già più di lui. Entrò nella solita stanza. come era giunto ad alloggiar da lui un forestiero, manifestare il suo nome.
‘ forno delle grucce (Cap. XII). Vulneraria è 136-137. alla regia Camera: al fisco. l’acqua vegetominerale, usata per guarire le una grazie: sue alle 139. Obbligatissimo ferite (da vulnus, ferita). mimica attentissima accompagna e conclude 156. bracchi: cani da caccia; qui, evidennostro il vederlo, il soliloquio. Ci sembra temente, i poliziotti: come quel « sedicente » oste, nel suo immaginario e beffardo inchi(che, cioè, si diceva ma non era) Ambrogio no di fronte a sua eccellenza. Fusella. prov: seguente giorno il pare preoccu 142. 161. un reo buon uomo: dunque al barvedere al giorno seguente, prevenirne i bigello era interessato che la sua vittima non sogni. tanto fosse un «reo», un colpevole, quanbasta 155. acqua vulneraria... metafisica: to un «buon uomo »: cioè un disgraziato gustafarci per ta pennella ima questa rapidiss re l'umorismo dell’atteggiamento di ora e. incapace di difendersi. E, così, giustizia eta quello del fattaccio accaduto poco prima al fatta lo stesso; anzi.
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i promessi sposi
« Avete fatto il vostro dovere a informar la giustizia; » disse un notaio criminale, mettendo giù la penna, « ma già lo sapevamo. » — Bel segreto! — pensò l’oste: — ci vuole un gran talento! — « E sap-
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piamo anche, » continuò il notaio, « quel riverito nome. » — Diavolo! il nome poi, com’hanno fatto? — pensò l’oste questa volta. « Ma voi, » riprese l’altro, con volto serio, « voi non dite tutto sincera-
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mente. » « Cosa devo dire di più? » i « Ah! ah! sappiamo benissimo che colui ha portato nella vostra osteria una quantità di pane rubato, e rubato con violenza, per via di saccheggio e di sedizione. » « Vien uno con un pane in tasca; so assai dov’è andato a prenderlo. Perché, a parlar come in punto di morte, posso dire di non avergli visto che. un pane solo. » « Già; sempre scusare, difendere: chi sente voi altri, son tutti galantuomini. Come potete provare che quel pane fosse di buon acquisto? » « Cosa ho da provare io? io non c'entro: io fo l’oste. » « Non potrete però negare che codesto vostro avventore non abbia avuta la temerità di proferir parole ingiuriose contro le gride, e di fare atti mali e
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indecenti contro l’arme di sua eccellenza. » « Mi faccia grazia, vossignoria: come può mai essere mio avventore, se lo vedo per la prima volta? È il diavolo, con rispetto parlando, che l’ha mandato a casa mia: e se lo conoscessi, vossignoria vede bene che non avrei avuto bisogno di domandargli il suo nome. » « Però, nella vostra osteria, alla vostra presenza, si son dette cose di fuo-
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co: parole temerarie, proposizioni sediziose, mormorazioni, strida, clamori. »
« Come vuole vossignoria ch’io badi agli spropositi che posson dire tanti urloni che parlan tutti insieme? Io devo attendere a’ miei interessi, che sono
un pover’uomo. E poi vossignoria sa bene che chi è di lingua sciolta, per il solito è anche lesto di mano, tanto più quando sono una brigata, e... »
« Sì, sì; lasciateli fare e dire: domani, domani, vedrete se gli sarà passato
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il ruzzo. Cosa credete? » « Io non credo nulla. »
170-171. notaio criminale: notaio addetto alle cause penali. 179. una quantità di pane rubato: secondo un vecchio metodo d’inquisizione, il notaio gonfia le cose (naturalmente dopo che a lui le deve aver gonfiate il bargello!) per ‘vedere se in tal modo gli riesce di venire a sapere anche di più di quanto non sa. Ma l’oste non si lascia imbrogliare, non cade in trappola né qui né altrove: non è Renzo, lui! — potremmo pensare. Inoltre, onestamente, si deve riconoscere che nel duello che lo impegna contro il magistrato, l’oste difende se stesso, ma più d’una volta anche Renzo, e mai dice qualcosa che possa compromettere ulteriormente la situazione del giovane; anche se, com’è naturale, la cosa che più gli sta a cuore è quella di non compromettere se stesso e i suoi affati.
181. so assai: espressione tipicamente popolare per dire: « Come posso io sapere... ». Di simili espressioni ne sentiremo ben presto altre sulla bocca dell’oste: ironiche, pungenti, sdegnate; e tutte sbrigative e sicure, tutte botta e risposta, nella puntigliosa volontà di precisare qualunque fatto, qualunque allusione. 186. io fo l’oste: e in questa affermazione c'è tutto l’uomo. Ma noi potremmo aggiungere che lui non è un oste qualunque: per esempio, non è l’oste del villaggio. Lui è un diplomatico consumato; quell’altro, solo un furbacchione che si sa barcamenare alla meno peggio. La diplomazia dell’oste della luna piena deriva proprio dalla sua condizione di oste di città, e di che città: lì egli si è formato: in quel « porto di ma-
re» che è la sua taverna,
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« Che la canaglia sia diventata padrona di Milano? » « Oh giusto! » « Vedrete, vedrete. » « Intendo benissimo: il re sarà sempre il re; ma chi avrà riscosso, avrà
riscosso: e naturalmente un povero padre di famiglia non ha voglia di risco210
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tere. Lor signori hanno la forza: a lor signori tocca. » « Avete ancora molta gente in casa? » « Un visibilio. » « E quel vostro avventore cosa fa? Continua a schiamazzare, a metter su la gente, a preparar tumulti per domani? » « Quel forestiero, vuol dire vossignoria: è andato a letto. » « Dunque avete molta gente... Basta; badate a non lasciarlo scappare. » — Che devo fare il birro io? — pensò l’oste; ma non disse né sì né no. « Tornate pure a casa; e abbiate giudizio, » riprese il notaio. «Io ho sempre avuto giudizio. Vossignoria può dire se ho mai dato da fare alla giustizia. » « E non crediate che la giustizia abbia perduta la sua forza. » « Io? pet carità! io non credo nulla: abbado a far l’oste. » « La solita canzone: non avete mai altro da dire. » « Che ho da dire altro? La verità è una sola. » « Basta; per ora riteniamo ciò che avete deposto; se verrà poi il caso, informerete più minutamente la giustizia, intorno a ciò che vi potrà venir domandato. »
« Cosa ho da informare? io non so nulla; appena appena ho la testa da attendere ai fatti miei. » 230
« Badate a non lasciarlo partire. « Spero che l’illustrissimo signor fare il mio dovere. Bacio le mani a Allo spuntar del giorno, Renzo
»
206. il re sarà sempre il re: e — ci pare che l’oste rimugini ancora — quel « pezzo d’asino », per aver visto un po’ di gente in giro a far baccano, si è «cacciato in testa che il mondo abbia a mutarsi! ». 210. Un visibilio: un numero a non finire. La parola, così iperbolica, non solo è molto bella in sé, perché dà subito la sensazione e della quantità degli avventori e della confusione che fanno nella taverna, ma anche perché, pur buttata lì spontaneamente dall'oste « risponde — come osserva il Ghisalberti — al piano prudente concertato con la moglie, avendo capito che il notaio vorrebbe catturar subito Renzo, e chi sa che cosa sarebbe accaduto nell’osteria con quegli urloni già eccitati » (in Annali Manzoniani).
219. che la giustizia... forza: la vedremo
domani, la forza che ha le masse sono scatenate. in azione questo stesso luteremo quanto i fatti parole.
capitano saprà che son venuto subito a
vossignoria. » russava da circa sett’ore, ed era ancora,
la giustizia quando E domani vedremo notaio: e allora vacorrispondano alle
220. abbado a far l’oste: il solito ritornello, ma sempre sicuro e deciso; deve riconoscerlo anche il notaio: « la solita canzone ». Comunque è questa la frase che ribadisce e racchiude tutta la politica dell’oste, una politica che nasce, sì, dal carattere dell’uomo, ma anche dalle necessità dei tempi: cercare di difendersi da sé, con la propria astuzia, perché a difesa dei deboli non c’è nessuna giustizia. 230. Bacio le mani a vossignoria: e anche qui ci pare di vederlo piegarsi in un inchino, come quando era arrivato a fare la deposizione. — Così, mentre abbiamo ancora
nelle orecchie quest’ultima battuta, spagnolesca nella forma e caricaturale nella sostanza, l'oste della luna piena esce per sempre dalla scena, lasciandoci il ricordo di una delle macchiette più vivaci e più rifinite di tutto il romanzo. 231. Allo spuntar del giorno...: la scena è cambiata; siamo di nuovo all’osteria, nel momento
che più tardi Renzo
chiamerà
la
bella svegliata. Si osservi l’effetto, fra dram-
i promessi sposi
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poveretto! sul più bello, quando due forti scosse alle braccia, e una voce che dappiè del letto gridava: « Lorenzo Tramaglino! », lo fecero riscotere. Si risentì, ritirò le braccia, aprì gli occhi a stento; e vide ritto appiè del letto un uomo vestito di nero, e due armati, uno di qua, uno di là del capezzale. E, tra la sorpresa, e il non esser desto bene, e la spranghetta di quel vino che sapete, rimase un momento come incantato; e credendo di sognare, e non piacendogli quel sogno, si dimenava, come per isvegliarsi affatto. « Ah! avete sentito una volta, Lorenzo Tramaglino? » disse l’uomo dalla cappa nera, quel notaio medesimo della sera avanti. « Animo dunque; levatevi, e venite con noi. »
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« Lorenzo Tramaglino! » disse Renzo Tramaglino: « cosa vuol dir questo? Cosa volete da me? Chi v’ha detto il mio nome? » « Meno ciarle, e fate presto, » disse uno de’ birri che gli stavano a fianco, prendendogli di nuovo il braccio. « Ohe! che prepotenza è questa? » gridò Renzo, ritirando il braccio. « Oste! o l’oste! »
« Lo portiam via in camicia? » disse ancora quel birro, voltandosi al no250
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taio.
« Avete inteso? » disse questo a Renzo: «si farà così se non vi levate subito subito, per venir con noi. » « E perché? » domandò Renzo. « Il perché lo sentirete dal signor capitano di giustizia. » «Io? Io sono un galantuomo: non ho fatto nulla; e mi maraviglio... » « Meglio per voi, meglio per voi; così, in due parole sarete spicciato, e potrete andarvene per i fatti vostri. » « Mi lascino andare ora, » disse Renzo: « io non ho che far nulla con la giustizia. » « Orsù, finiamola! » disse un birro. « Lo portiamo via davvero? » disse l’altro. « Lorenzo Tramaglino! » disse il notaio. « Come sa il mio nome, vossignoria? » « Fate il vostro dovere, » disse il notaio a’ bitri; i quali misero subito le mani addosso a Renzo, per tirarlo fuori del letto. « Eh! non toccate la carne d’un galantuomo, che...! Mi so vestir da me. » « Dunque vestitevi subito, » disse il notaio.
« Mi vesto, » rispose Renzo; e andava di fatti raccogliendo qua e lài
panni sparsi sul letto, come gli avanzi d’un naufragio sul lido. E cominmatico e comico, di quel « Lorenzo Tramaglino », ripetuto più volte da una voce dappiè del letto e poi pronunziato anche da Renzo Tramaglino (che stupore nell’identificarsi con se stesso!); si osservino le immagini cupe e minacciose di quell’uomo ritto e vestito di nero in fondo al letto e dei due armati intorno al capezzale...: e il tutto intravisto tra la spranghetta del vino, e brutto come un brutto sogno. Una scena tutta cose e tutta sensazioni. 265. Eh! non toccate... un galantuomo, che...!: Renzo sta tornando... Renzo; l’erîer-
gia della voce, il tono di braveria, specie di quel « che...! » — il quale vuol essere, forse, di vaga minaccia oltre che di risentimento —, ci ricordano il Renzo delle furie improvvise e risentite, e ci fanno capire come
i fumi del vino vadano ormai svanendo del tutto dopo il primo frastuono del brusco risveglio. 268. come gli avanzi d’un naufragio: l’immagine pittorica richiama alla mente la scena della sera precedente, quando Renzo si era spogliato nel modo che sappiamo. Ma ora — e questo è ciò che più conta — il
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ciando a metterseli, proseguiva tuttavia dicendo:
« ma io non ci voglio an-
dare dal capitano di giustizia. Non ho che far nulla con lui. Giacché mi si fa quest’affronto ingiustamente, voglio esser condotto da Ferrer. Quello lo
conosco, so che è un galantuomo;
e m'ha dell’obbligazioni. »
« Sì, sì, figliuolo, sarete condotto da Ferrer, » rispose il notaio.
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In al-
tre circostanze, avrebbe riso, proprio di gusto, d’una richiesta simile; ma non era momento da ridere. Già nel venire, aveva visto per le strade un certo movimento, da non potersi ben definire se fossero rimasugli d’una sollevazione non del tutto sedata, o princìpi d’una nuova: uno sbucar di persone, un accozzarsi, un andare a brigate, un far crocchi. E ora, senza
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farne sembiante, o cercando almeno di non farlo, stava in orecchi, e gli pareva che il ronzìo andasse crescendo. Desiderava dunque di spicciarsi; ma avrebbe anche voluto condur via Renzo d’amore e d’accordo; giacché, se si fosse venuti a guerra aperta con lui, non poteva esser certo, quando fossero in istrada, di trovarsi tre contr’uno. Perciò dava d’occhio a’ birti, che avessero pazienza, e non inasprissero il giovine; e dalla parte sua, cercava di persuaderlo con buone parole. Il giovine intanto, mentre si vestiva adagino adagino, richiamandosi, come poteva, alla memoria gli avvenimenti del giorno avanti, indovinava bene, a un di presso, che le gride e il nome e il cognome dovevano esser la causa di tutto; ma come diamine colui lo sapeva quel nome? E che diamine era accaduto in quella notte, perché la giustizia avesse preso tant'animo, da venire a colpo sicuro, a metter le mani addosso a uno de’ buoni figliuoli che, il giorno avanti, avevan tanta voce in capitolo? e che non dovevano esser tutti addormentati, poiché Renzo s’accorgeva anche lui d’un ronzìo crescente nella strada. Guardando poi in viso il notaio, vi scorgeva in pelle in pelle la titubazione che costui si sforzava invano di tener nascosta. Onde, così per venire in chiaro delle sue congetture, e scoprir paese, come per tirare in lungo, e anche per tentare un colpo, disse: « vedo bene cos’è l’origine di tutto questo: gli è per amor del nome e del cognome. Ier sera veramente ero un po’ allegro: questi osti alle volte hanno certi vini traditori; e alle volte, come dico, si sa, quando il vino è giù, è lui che parla. Ma, se non si tratta d’altro, ora son pronto a darle ogni soddisfazione. E poi, già lei lo sa il mio nome. Chi diamine gliel'ha detto? »
naufrago, insieme coi panni, sta raccogliendo anche le idee: e presto vedremo come saprà orientarsi nella nuova situazione. 273. Sì, sì, figliuolo...: queste parole così gentili e premurose son dette dal notaio per furbizia (e per paura!). Ma ottengonol’effetto contrario a quello desiderato, perché troppo scopertamente rivelano lo stato d’animo di chi le ha pronunciate. Siccome il notaio, aumentandogli la paura di momento in momento, continuerà per la strada della gentilezza forzata, Renzo, veramente furbo anche questa volta, prenderà sempre più coraggio e padronanza di sé. 285-286. si vestiva adagino adagino: è cominciata ormai una lotta coperta tra il notaio che, sentendo sempre più minaccioso il ronzio crescente nella strada, vuol far pre-
sto a condurre via il prigioniero ma senza compiere mosse imprudenti, e, dall’altra parte, Renzo che, mentre si sforza di taccapacitarsi su che cosa sia avvenuto e stia avvenendo, notando in faccia a quell’uomo ve-
stito di nero una fitubazione sempre più in pelle in pelle, non ha per niente furia di ubbidire. Quel vestirsi « adagino adagino » è eloquente pittura dell’interno lavorio della mente. Facendo l’ostruzionismo incomincia già a rimuginare un piano. 291-292. tanta voce in capitolo: il sorriso del M. non manca mai sull’ingenuità di Renzo. Ricordate anche la precedente uscita riguatdo a Ferrer: « Quello lo conosco, so che è un galantuomo; e m’ha dell’obbligazioni ». Così poco Renzo conosce ancora il mondo degli imbrogli politici!
i promessi sposi
274 « Bravo,
figliuolo, bravo! ». rispose il notaio,
tutto manieroso:
« Ah! lei non può: intendo; » disse Renzo; e continuava a vestirsi, rispingendo con de?’ cenni i cenni che i birri facevano di mettergli le mani addosso, per farlo spicciare. i « Passeremo dalla piazza del duomo? » domandò poi al notaio. « Di dove volete; per la più corta, affine di lasciarvi più presto in libertà, » disse quello, rodendosi dentro di sé, di dover lasciar cadere in terra quella domanda misteriosa di Renzo, che poteva divenire un tema di cento interrogazioni. — Quando uno nasce disgraziato! — pensava. — Ecco; mi viene alle mani uno che, si vede, non vorrebbe altro che cantare; e, un po’ di respiro che s’avesse, così extra forzzam, accademicamente, in via di discorso
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amichevole, gli si farebbe confessar, senza corda, quel che uno volesse; un uomo da condurlo in prigione già bell’e esaminato, senza che se ne fosse accorto: e un uomo di questa sorte mi deve per l’appunto capitare in un momento
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così angustiato. Eh! non c’è scampo, —
continuava
a pensare, ten-
dendo gli orecchi, e piegando la testa all’indietro: — non c’è rimedio; e’ risica d’essere una giornata peggio di ieri. — Ciò che lo fece pensar così, fu un rumore straordinario che si sentì nella strada: e non poté tenersi di non aprir l’impannata, per dare un’occhiatina. Vide ch’era un crocchio di cittadini, i quali, all’intimazione di sbandarsi, fatta loro da una pattuglia, avevan da principio risposto con cattive parole, e finalmente si separavan continuando ‘a brontolare; e quel che al notaio parve un segno mortale, i soldati eran pieni di civiltà. Chiuse l’impannata, e stette un momento in forse, se dovesse condur l'impresa a termine, o lasciar Renzo in guardia de’ due birri, e correr dal capitano di giustizia, a render conto di ciò che accadeva. — Ma, — pensò subito, — mi si dirà che sono un buon a nulla, un pusillanime, e che 302. notaio, tutto manietoso: si ricordi che il notaio è la stessa persona che poche ore prima aveva redarguito l’oste con tanta prosopopea: ma là era al sicuro, dietro il suo banco, nel palazzo di giustizia. 312. Passeremo dalla piazza del duomo?: perché a Renzo interesserebbe passare per la piazza del Duomo? Perché sa che là si erano dati appuntamento i crocchi della gente, e perché da lì conosce la strada per porta orientale. Ma la domanda rientra anche nella tattica ritardatrice del giovane, che ha tutto l’interesse a mandare il discorso per le lunghe il più possibile. 316. Quando uno nasce disgraziato!: come viene spontaneo questo sfogo interiore, e come è rivelatore della personalità del notaio! Il quale da quella « domanda misteriosa » è portato a fantasticare, come vuole la sua professione, su chi sa quali segreti e complotti: si rode, perciò, contro la cattiva
sorte che, una volta tanto che gli ha offerto un merlotto pronto a spiattellargli ogni cosa, glielo fa trovare nell’occasione meno propizia. La bella figura che avrebbe potuto fare coi superiori sfuma nel nulla: anzi, al rammarico di un interrogatorio che va a monte, si aggiunge la paura di nuovi guai. 318. extra formam: alla buona, al di fuori
di tutte le formalità giudiziarie; e quindi con maggior lustro per la sua furbizia e vantaggio per la sua cartiera. Questo vale anche per il «senza corda », cioè senza tortura. 329. un segno mortale,.... lo sapeva per esperienza personale che quella civiltà non era altro che confessione di debolezza, e prodotto della paura. — Dice un commentatore che si potrebbe scrivere un bel libro sugli eroi della paura nei Promessi Sposi, tanti essi sono e tante sono le forme in cui manifestano le loro pene. La ricerca di questi eroi non sarebbe davvero difficile.
capitolo: XV 333
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dovevo eseguir gli ordini. Siamo in ballo: bisogna ballare. Malannaggia la
furia! Maledetto il mestiere! Renzo era levato; i due satelliti gli stavano a’ fianchi. Il notaio accennò
a costoro che non lo sforzasser troppo, e disse a lui: « da bravo, figliuolo; a
noi, spicciatevi ». 340
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Anche Renzo sentiva, vedeva e pensava. Era ormai tutto vestito, salvo il
farsetto, che teneva con una mano, frugando con l’altra nelle tasche. « Ohe! » disse, guardando il notaio, con un viso molto significante: « qui c’era de’ soldi e una lettera. Signor mio! » È « Vi sarà dato ogni cosa puntualmente, » disse il notaio, « dopo adempite quelle poche formalità. Andiamo, andiamo. » « No, no, no, » disse Renzo, tentennando
il capo:
« questa non mi va:
voglio la roba mia, signor mio. Renderò conto delle mie azioni; ma voglio la roba mia. » « Voglio farvi vedere che mi fido di voi: tenete, e fate presto; » disse il notaio, levandosi di seno, e consegnando, con un sospiro, a Renzo le cose se350. questrate. Questo, riponendole al loro posto, mormorava. tra’ denti: « alla larga! bazzicate tanto co’ ladri, che avete un poco imparato il mestiere ». I birri non potevan più stare alle mosse; ma il notaio li teneva a freno con gli occhi, e diceva intanto tra sé: — se tu arrivi a metter piede dentro quella soglia, l’hai da pagar con usura, l'hai da pagare. — 355 Mentre Renzo si metteva il farsetto, e prendeva il cappello, il notaio fece cenno a un de’ birri, che s’avviasse per la scala; gli mandò dietro il prigioniero, poi l’altro amico; poi si mosse anche lui. In cucina che furono, mentre Renzo dice: «e quest’oste benedetto dove s’è cacciato? » il notaio fa un altro cenno a’ birri; i quali afferrano, l’uno la destra, l’altro la sinistra 360 del giovine, e in fretta in fretta gli legano i polsi con certi ordigni, per quel-
l’ipocrita figura d’eufemismo, chiamati manichini. Consistevano questi (ci dispiace di dover discendere a particolari indegni della gravità storica; ma la chiarezza lo richiede), consistevano in una cordicella lunga un po’ più che il 365
giro d’un polso ordinario, la quale aveva nelle cime due pezzetti di legno, come due piccole stanghette. La cordicella circondava il polso del paziente;
i legnetti, passati tra il medio e l’anulare del prenditore, gli rimanevano chiusi in pugno, di modo che, girandoli, ristringeva la legatura, a volontà; e con
ciò aveva mezzo, non solo d’assicurare la presa, ma anche di martirizzare un
ricalcitrante: e a questo fine, la cordicella era sparsa di nodi. 334, Malannaggia...: maledetta... L’esclamazione, col suo sapore meridionale e con tutta la sua stizza, conclude bene la serie delle sconsolate riflessioni. Letteralmente 74lannaggia vale malanno abbia (aggia per abbia).
339. Renzo sentiva, vedeva e pensava: ormai tutte le parole, gli atteggiamenti, i pensieri di Renzo manifestano una padronanza di sé sempre più sicura e baldanzosa: il guasto dell’ubriacatura è cancellato. Vedi, per esempio, poco dopo l’energica ripetizione di quel « Signor mio! » in faccia al notaio. 352. I birri non... alle mosse: le arti della politica costoro non le conoscono; perciò
saranno proprio essi, fra poco, a far precipitare la situazione. 361. ipocrita figura d’eufemismo: l’eufemismo è figura retorica, che con termini piacevoli esprime qualcosa di spiacevole. È proprio il caso di « manichini» per « manette»: da qui l’appellativo d’ipocrita. — Quanto alla digressione sui manichini è vero che, come si suol notare, è un po’ lunga; ma essa, mentre permette un attimo di riposo nel racconto, serve a farci meglio capire quello che fra poco avverrà. È il solito sistema delle digressioni manzoniane, grandi o piccole che siano: tutte strutturalmente opportune
e tutte
esteticamente
valide,
î promessi
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Renzo si divincola, grida:
«che tradimento è questo?
sposi
A un galantuo-
mo...! » Ma il notaio, che per ogni tristo fatto aveva le sue buone parole,
« abbiate pazienza, » diceva: «fanno il loro dovere. Cosa volete? son tutte
formalità; e anche noi non possiamo trattar la gente a seconda del nostro
cuore. Se non si facesse quello che ci vien comandato, staremmo: freschi noi 375),
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altri, peggio di voi. Abbiate pazienza. » . Mentre parlava, i due a cui toccava a fare, diedero una girata a’ legnetti. Renzo s’acquietò, come un cavallo bizzarro che si sente il labbro stretto tra le morse, e esclamò: « pazienza! » ; d’uscirne maniera vera la è questa « notaio: il « Bravo figliuolo! » disse a bene. Cosa volete? è una seccatura; lo vedo anch’ioj ma, portandovi bene, in un momento ne siete fuori. E giacché vedo che siete ben disposto, e io mi sento inclinato a aiutarvi, voglio darvi anche un altro parere, per vostro bene. Credete a me, che son pratico di queste cose: andate via diritto diritto, senza guardare in qua e in là, senza farvi scorgere: così nessuno bada a voi, nessuno s’avvede di quel che è; e voi conservate il vostro onore. Di qui a un’ora voi siete in libertà: c'è tanto da fare, che avranno fretta anche loro di sbrigatvi: e poi parlerò io... Ve n’andate per i fatti vostri; e nessuno saprà che siete stato nelle mani della giustizia. E voi altri, » continuò poi, voltan-
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dosi a’ birri, con un viso severo: « guardate bene di non fargli male, perché lo proteggo io: il vostro dovere bisogna che lo facciate; ma ricordatevi che è un galantuomo, un giovine civile, il quale, di qui a poco, sarà in libertà; e che gli deve premere il suo onore. Andate in maniera che nessuno s’avveda di nulla: come se foste tre galantuomini che vanno a spasso.» E, con tono imperativo, e con sopracciglio minaccioso, concluse: « m’avete inteso ». Vol tatosi poi a Renzo, col sopracciglio spianato, e col viso divenuto a un tratto ridente, che pareva volesse dire: oh noi sì che siamo amici!, gli bisbigliò di nuovo: « giudizio; fate a mio modo: andate raccolto e quieto; fidatevi di chi vi vuol bene: andiamo ».*E la comitiva s’avviò. Però, di tante belle parole Renzo, non ne credette una: né che il notaio volesse più bene a lui che a’ birri, né che prendesse tanto a cuore la sua ri-
putazione, né che avesse intenzion d’aiutarlo: capì benissimo che il galan-
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tuomo, temendo scappargli dalle starci attento e virono ad altro
che si presentasse per la strada qualche buona occasione di mani, metteva innanzi que’ bei motivi, per istornart lui dallo da approfittarne. Dimodoché tutte quelle esortazioni non setche a confermarlo nel disegno che già aveva in testa, di far
tutto il contrario. Nessuno concluda da ciò che il notaio fosse un furbo inesperto e novizio; perché s’ingannerebbe. Era un furbo matricolato, dice il nostro storico, il
372-373. son tutte formalità: così sentimmo dire più volte dal principe-padre per piegare Gertrude alla sua volontà: la stessa ipocrisia e la stessa perfidia, ma in due uomini ben diversi e con risultati tutti all’opposto. 379-398. Bravo figliuolo!... andiamo: il discorso del notaio, che trasuda ipocrisia da ogni parola, può ricordare ancora certi atteggiamenti e certe parole del principe; ma solo esteriormente, anche perché tutt’altra è la consapevolezza della propria forza nei due personaggi. °
408-409. dice il mostro storico... amici: l’addurre l’Anonimo a testimoniare sulla furbizia del notaio è proprio un atto di furbi: zia del M., dopo che ci ha fatto assistere alle belle prodezze del personaggio. L’insinuazione poi che l’Anonimo fosse nel numero degli amici di quell’esemplare d’intelligenza, è un’altra nota satirica nei confronti del « nostro storico ». — Dobbiamo però dire che la frase ha dato da fare ai commentatori e che la sua spiegazione non
è semplice né sicura. Solo al Barbi parve
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QAL
quale pare che fosse nel numero de’ suoi amici: ma, in quel momento, si trovava con l’animo agitato. A sangue freddo, vi so dir io come si sarebbe fatto beffe di chi, per indurre un altro a fare una cosa per sé sospetta, fosse andato suggerendogliela e inculcandogliela caldamente, con quella miserabile finta di dargli un parere disinteressato, da amico..Ma è una tendenza gene: rale degli uomini, quando sono agitati e angustiati, e vedono ciò che un al.
tro potrebbe fare per levarli d’impiccio, di chiederglielo con istanza e ripetutamente e con ogni sorte di pretesti; e i furbi, quando sono angustiati e agitati, cadono anche loro sotto questa legge comune. Quindi è che, in simili circostanze, fanno per lo più una così meschina figura. Que’ ritrovati maestri, quelle belle malizie, con.le quali sono avvezzi a vincere, che son diventate
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per loro quasi una seconda natura, e che, messe
in opera a tempo, e con-
dotte con la pacatezza d’animo, con la serenità di mente necessarie, fanno il colpo così bene e così nascostamente, e conosciute anche, dopo la riuscita, riscotono l’applauso universale; i poverini quando sono alle strette, le adoprano in fretta, all'impazzata, senza garbo né grazia. Di maniera che a uno 425° che li veda ingegnarsi e arrabattarsi a quel modo, fanno pietà e movon le ri-
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sa, e l’uomo che pretendono allora di mettere in mezzo, quantunque meno accorto di loro, scopre benissimo tutto il loro gioco, e da quegli artifizi ricava lume per sé, contro di loro. Perciò non si può mai abbastanza raccomandare a’ furbi di professione di conservar sempre il loro sangue freddo, o d’esser sempre i più forti, che è la più sicura. Renzo adunque, appena furono in istrada, cominciò a girar gli occhi in qua e in là, a sporgersi con la persona, a destra e a sinistra, a tender gli orecchi. Non c’era però concorso straordinario; e benché sul viso di più d’un passeggiero si potesse legger facilmente un certo non so che di sedizioso, pure ognuno andava diritto per la sua strada; e sedizione propriamente detta, non c’era.
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« Giudizio, giudizio! » gli susurrava il notaio dietro le spalle: « il vostro onore; l’onore, figliuolo. » Ma quando Renzo, badando attentamente a tre che venivano con visi accesi, sentì che parlavan d’un forno, di farina nascosta, di
giustizia, cominciò anche a far loro de’ cenni col viso, e a tossire in quel mo-
do che indica tutt'altro che un raffreddore. Quelli guardarono più attentamente la comitiva, e si fermarono; con loro si fermarono altri che arrivavano; al-
tale, e scrisse: « La spiegazione è semplice: è il solito scrupolo storico del M. Come poteva asserire l’Anonimo che il notaio era un
furbo matricolato, se non fosse stato suo familiare, tanto da conoscerlo ‘intus et in cute’? ». Più giusta e acuta ci pare la spiegazione di un altro vecchio commentatore, il Guerri: « È un’introduzione giocosa a un discorso semiserio, mezzo ironico e mezzo
psicologico, sulla furberia che si scopre e dà la mano alla ingenuità, ma col più e il peggio di riuscir goffa. — Che il nostro storico conoscesse il notaio, è finzione burlesca ma necessaria, chi rifletta che il notaio non c’è stata occasione di rappresentarlo come un furbo matricolato, e che perciò bisognava affermarlo ». 430. che è la più sicura: riguardo a que-
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sta conclusione si potrebbe ricordare il classico motto ir cauda venenum, il veleno alla fine. Infatti essa, in sostanza, vuol dire, dopo tante acute disquisizioni e con tutta la forza ironica di cui è capace il M., che l’unica furberia vera sta nell’essere forti 0, almeno, nel saper conservare il sangue freddo. È una conclusione triste, ma degna del pessimismo manzoniano, quando il M. guarda agli imbrogli di questo mondo. 437-438. il vostro onore; l’onore, figliuolo: nella sostanza e nel tono di queste parole e di quelle che il notaio pronuncerà ancora per un po’, hai un esempio concreto di quei poverini, di cui parlava sopra il M., che quando sono alle strette, agiscono e parlano in modo che fanno pietà e movon le risa. Dopo la sapiente saggezza, ecco la poesia.
Î promessi sposi
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tri, che gli eran passati davanti, voltatisi al bisbiglìo, tornavano
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indietro, e
1 facevan coda. « Badate a voi; giudizio, figliuolo; peggio per voi vedete; non guastate i
fatti vostri; l’onore, la riputazione, » continuava a susurrare il notaio. Renzo
faceva peggio. I birri, dopo essersi consultati con l’occhio, pensando di far bene (ognuno è soggetto a sbagliare), gli diedero una stretta di manichini.
« Ahi! ahi! ahi! » grida il tormentato: al grido, la gente s’affolla intorno;
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n’accorre da ogni parte della strada: la comitiva si trova incagliata. « È un malvivente, » bisbigliava il notaio a quelli che gli erano a ridosso: «è un ladro colto sul fatto. Si ritirino, lascin passare la giustizia. » Ma Renzo, visto il bel momento, visti i birri diventar bianchi, o almeno pallidi, — se non m’aiuto ora, pensò, mio danno. — E subito alzò la voce: « figliuoli! mi menano in prigione, perché ieri ho gridato: pane e giustizia. Non ho fatto nulla; son galantuomo: aiutatemi, non m’abbandonate, figliuoli! » Un mormorìo favorevole, voci più chiare di protezione s’alzano in risposta: i birri sul principio comandano, poi chiedono, poi pregano i più vicini d’andarsene, e di far largo: la folla in vece incalza e pigia sempre più. Quelli, vista la mala parata, lascian andare i manichini, e non si curan più d’altro che di perdersi nella folla, per uscirne inosservati. Il notaio desiderava ardentemente di far lo stesso; ma c’era de’ guai, per amor della cappa nera. Il pover’uomo pallido e sbigottito, cercava di farsi piccino piccino, s’andava storcendo, per isgusciar fuor della folla; ma non poteva alzar gli occhi, che non se ne vedesse venti addosso. Studiava tutte le maniere di comparire un estraneo che, passando di lì a caso, si fosse trovato stretto nella calca, come una
pagliucola nel ghiaccio; e riscontrandosi a viso a viso con uno che lo guardava fisso, con un cipiglio peggio degli altri, lui, composta la bocca al sorriso,
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con un suo fate sciocco, gli domandò: « cos’è stato? » « Uh corvaccio! » rispose colui. « Corvaccio! corvaccio! » risonò all’intorno. Alle grida s’aggiunsero gli urtoni; di maniera che, in poco tempo, parte
con le gambe proprie, parte con le gomita altrui, ottenne ciò che più gli premeva in. quel momento, d’esser fuori di quel serra serra. 448. ognuno è soggetto a sbagliare: in altra occasione una frase come questa avrebbe un valore moraleggiante, press’a poco co-
me quella che sentiremo fra non molto: « tutti si può mancare » (Cap. XIX). Ma qui, più che « un invito a comprenderci meglio », come ha scritto qualcuno, ci pare di scorgere esclusivamente uno spunto scherzoso, e alquanto beffardo, alle spalle di quegli sciocconi di birri. 458. comandano... chiedono... pregano: attraverso la gradazione vedi il crescere minaccioso della folla e il diminuire del coraggio dei birri. 462. per amor della cappa nera: in difesa della dignità e del posto. 466-467. come una pagliucola nel ghiaccio: è l’estremo rimedio che il furbo- riesce a scoprire, questo farsi piccino piccino. Una volta tanto anche lui, il presuntuoso e ipo-
crita notaio, ci fa compassione: ver’'uomo, come tutti.
è un
po-
470. Uh corvaccio!: definizione perfetta, perché non solo ci vedi il nero della cappa, ma la voracità ripugnante che si confonde con un che di malaugutio. Nel grido « Corvaccio! corvaccio!» che dalla bocca di uno rimbalza sulle bocche di tanti, mentre il notaio cerca di farsi « piccino, piccino », senti il sorriso sarcastico del M. sulla sconfitta completa del furbo, che fra i tre del capitolo — oste, Renzo, notaio — avrebbe dovuto riuscite vincitore in virtù della carica e dell’esperienza (cfr. n. 29-30). Ma questo
sorriso ha in sé anche lo sconforto dell’onesto, che vede a che cosa è ridotta la giustizia degli uomini, e non può non partecipare alla beffa del popolo contro coloro che, al servizio del privilegio, si fanno strumento di
oppressione degli umili,
capitolo XV
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Scheda critica ai capp. XIV e XV La funzione preminente di Renzo — di questo « personaggio tanto principale », il «primo uomo della nostra storia» — funzione preannunziata e ben preparata nelle pagine che precedono, prosegue e cresce in questi due capitoli, mettendo a poco a poco in ombra lo sfondo degli avvenimenti storici pubblici e lasciando meglio campeggiare in primo piano la figura e la vicenda privata del protagonista. L'invenzione fantastica del Manzoni non è mai stata, forse, come in questa sequenza di episodi, così ilare e mossa; né mai tanto sapiente la tecnica del dialogo e tanto cordiale e pronto
e naturalmente colorito il linguaggio.
1
E ancor meglio risulta qui in evidenza il complesso rapporto (cui accennavamo al termine della precedente scheda cri‘tica) fra lo scrittore e il personaggio, e il senso vero dell’ironia che accompagna i successivi momenti del racconto; un'ironia anch'essa alquanto più complessa e persino ambigua di quanto non
appaia
a uno
sguardo
superficiale,
perché
non
investe
tanto e soltanto l'ingenuità di Renzo, i suoi trascorsi e le sue debolezze, quanto piuttosto insinua senza parere la sensazione di un disordine e di un'ingiustizia connaturati agli istituti e ai ragionamenti del mondo, e per questa parte finisce coll'assimilare e mettere in risalto proprio il fondo serio insito negli ingenui discorsi del contadino. Il Manzoni è più che mai lontano, certo, dall'idealizzare qui il suo personaggio; sottolinea quel che c'è di sprovveduto nel suo muoversi in un ambiente di cui non conosce le regole e sottovaluta la scaltrezza; lo fa incappare in tutta una serie di tranelli appropriati alla circostanza
e tali da mettere
maggiormente
in rilievo
la sua
na-
tura semplice, bonaria e inizialmente aliena dalla più elementare diffidenza (il bargello travestito, l'oste tutto intento a salvaguardare la sua tranquillità e i suoi interessi, e poi la piccola boria per cui si illude d'aver avuto una parte grande nei fatti di una cronaca eccezionale, e il gusto della parlantina anche troppo sciolta e incontrollata, e infine il piacere del vino). Si direbbe addirittura che lo scrittore si diverta a caricare lievemente i tratti e complicare le avventure del personaggio, imprimendo al racconto un'intonazione realistica fino ai limiti della comicità. Non per nulla questa giornata, iniziata in un clima di abbandonata partecipazione allo spirito della rivolta e culminata in una solenne ubbriacatura, resterà come una delle più memorabili, forse la più memorabile, nella storia dell'educazione e del maturarsi della sua esperienza, quale sarà rievocata da Renzo stesso in un famoso discorso di compiaciuta ricapitolazione nell’epilogo del romanzo (« ho imparato a non mettermi ne' tumulti,.. a non predicare in piazza,... a guardar con chi parlo,... a non alzar troppo il gomito »). E tuttavia anche qui Renzo è ben iontano dal poter. essere ridotto alla misura di una sia pur garbata e affettuosa comicità; troppe sono invero le implicazioni che egli mantiene con le più profonde radici
i promessi sposi
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ideali dell'invenzione. Perchè, nonostante l’ostentato distacco intellettuale ed artistico, o meglio tanto più attraverso lo schermo che quel distacco gli permette, il Manzoni aderisce in fondo con simpatia ai sentimenti del suo umile protagonista: l'innato senso della giustizia, lo sdegno contro i birboni e i prepotenti, lo spirito egualitario, il desiderio « che il mondo vada un po' più da cristiani ». Egli vede, bensì, tutta la complessità (che invece sfugge al popolano) e la difficoltà di attuazione di quei concetti; ma, ben lungi dal farne materia di derisione e di celia, ne condivide appieno l'indirizzo e la sostanza. La medesima presenza di un apparente schermo comico permette poi al Manzoni di sottolineare un altro degli aspetti fondamentali della sua polemica: la lotta contro la retorica aulica ed umanistica, contro « carta, penna e calamaio », contro il latino adoperato per imbrogliare i poveri e gli ignoranti, e la difesa del linguaggio naturale: « oggi, a buon conto, s'è fatto tutto în volgare ». È, sia pure in forme coperte e apparentemente stravolte, uno dei punti più seri della polemica manzoniana, in cui il tema morale dell’egualitarismo evangelico va a braccetto con l'altro della poetica
romantica.
Capitolo XVI
Scappa, scappa, qui, di là, » si grida se aveva bisogno di mente una speranza
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galantuomo: lì c'è un convento, ecco là una chiesa; di a Renzo da ogni parte. In quanto allo scappare, pensate consigli. Fin dal primo momento che gli era balenato in d’uscir da quell’unghie, aveva cominciato a fare i suoi conti, e stabilito, se questo gli riusciva, d’andare senza fermarsi, fin che non fosse fuori, non solo della città, ma del ducato. — Perché, — aveva pensato, — il mio nome l’hanno su’ loro libracci, in qualunque maniera l’abbiano avuto; e col nome e cognome, mi vengono a prendere quando vogliono. — E in quanto a un asilo, non vi si sarebbe cacciato che quando avesse avuto i birri alle spalle. — Perché, se posso essere uccel di bosco, — aveva anche pensato, — non voglio diventare uccel di gabbia. —- Aveva dunque disegnato per suo rifugio quel paese nel territorio di Bergamo, dov’era accasato quel suo cugino Bortolo, se ve ne rammentate, che più volte l’aveva invitato a 1. Scappa, scappa...: queste parole, gridate ora dalla folla a Renzo — e poi, per tutta la giornata ed oltre, riecheggianti nell’animo del giovane —, costituiranno il motivo ideale di tutto questo capitolo e del successivo. Due capitoli — come vedremo — che sono fra i più intimamente legati del romanzo, in quanto sviluppati ambedue in linea compatta sull’unico tema della fuga di Renzo da Milano a Bergamo, dalla prigionia alla libertà. — galantuomo: questa volta l'appellativo ci risulta usato a proposito. Che poi anche agli occhi della folla il nostro giovane appaia un galantuomo è più che naturale, proprio perché è stato visto, in quel giorno, nelle mani dei birri. — un convento,... una chiesa: tutto questo ci ricorda cosa era successo a Lodovico non appena aveva ucciso il suo avversario (Cap. IV): è il solito concetto del diritto d’asilo, tanto diffuso nel Seicento, un secolo
violento e religioso insieme. Ma non solo le parole ricordano la vicenda di Lodovico; anche la situazione psicologica che agisce sulla folla è piuttosto simile: per Lodovico la folla partecipava in quanto odiava il prepotente che egli aveva ucciso, per Renzo in quanto prova gusto a dare addosso ai birri che vede al servizio dell’autorità e dei signori.
6. ducato: il ducato di Milano: così la gente continuava a denominare la regione anche dopo che col suo passaggio sotto la dominazione spagnola (avvenuto nel 1535 con la morte dell’ultimo duca, Francesco II Sforza) si chiamava Stato di Milano.
7. libracci: quelli della polizia. Ma noi conosciamo anche un altro libraccio: quello che Tonio aveva ricordato a don Abbondio: «Ma siccome il mio nome è sul libraccio, dalla parte del debito... » (Cap. VIII). 12. territorio di Bergamo: il quale era fuori del ducato perché apparteneva a Venezia, la Serenissima. Il breve ragionamento che Renzo ha fatto fra sé in fretta e furia, e sotto impressioni e preoccupazioni diverse, ci ripresenta l’immagine di un giovane intel‘ligente e svelto, quell'immagine che le vicende del giorno prima — l’illusione rivoluzionaria e l’ubriacatura all’osteria — avevano ridotto di molto. Anzi, potremmo dire che ora Renzo, ammaestrato dalla dura esperienza che l’ha fatto conoscitore degli uomini molto più di quanto non fosse al suo arrivo a Milano, è divenuto più pronto e più saggio di prima. Le vicende della lunga fuga (Capp. XVI e XVII) ne saranno continua e sempre nuova testimonianza. 13. se ve ne rammentate: Bortolo era stato presentato nel cap. VI, quando Renzo,
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î promessi sposi
andar là. Ma trovar la strada, lì stava il male. Lasciato in una parte sconosciuta d’una città si può dire sconosciuta, Renzo non sapeva neppure da che porta s’uscisse per andare a Bergamo; e quando l’avesse saputo, non sapeva poi andare alla porta. Fu lì lì per farsi insegnar la strada da qualcheduno de” suoi liberatori; ma siccome nel poco tempo che aveva avuto per meditare su’ casi
suoi, gli eran passate per la mente certe idee su quello spadaio così obbligan-
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te, padre di quattro figliuoli, così, a buon conto, non volle manifestare i suoi disegni a una gran brigata, dove ce ne poteva essere qualche altro. di quel conio; e risolvette subito d’allontanarsi in fretta di lì: che la strada se la farebbe poi insegnare, in luogo dove nessuno sapesse chi era, né il perché
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detti », e, uscendo per il largo che gli fu fatto immediatamente, prese la rincorsa, e via; dentro per un vicolo, giù per una stradetta, galoppò un pezzo, senza saper dove. Quando gli parve d’essersi allontanato abbastanza, rallentò il passo, per non dar sospetto; e cominciò a guardare in quae in là, per isceglier la persona a cui far la sua domanda, una faccia che ispirasse confidenza. Ma anche qui c’era dell’imbroglio. La domanda per sé era sospetta; il tempo stringeva; i birri, appena liberati da quel piccolo intoppo, dovevan senza dub-
la domandasse.
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Disse a’ suoi liberatori:
« grazie tante, figliuoli:
siate bene-
bio essersi rimessi in traccia del loro fuggitivo; la voce di quella fuga poteva essere arrivata fin là; e in tali strette, Renzo dovette fare forse dieci giudizi fisionomici, prima di trovar la figura che gli paresse a proposito. Quel grassotto, che stava ritto sulla soglia della sua bottega, a gambe larghe; con le mani di dietro, con la pancia in fuori, col mento in aria, dal quale pendeva una gran pappagorgia, e che, non avendo altro che fare, andava alternativamente sollevando sulla punta de’ piedi la sua massa tremolante, e lasciandola ricadere sui calcagni, aveva un viso di cicalone curioso, che, in vece di dar delle risposte, avrebbe fatto delle interrogazioni. Quell’altro che veniva in-
nanzi, con gli occhi fissi, e col labbro in fuori, non che insegnar presto e bene la strada a un altro, appena pareva conoscer la sua. Quel ragazzotto,
che, a dire il vero, mostrava d’esser molto sveglio, mostrava però d’essere anche più malizioso; e probabilmente avrebbe avuto un gusto matto a far an-
già fantasticando di poter andare a lavorare nel bergamasco, aveva detto alle donne: « Sapete quante volte Bortolo mio cugino mi ha fatto sollecitare d’andar là ». 19. spadaio così obbligante: tanto cortese; in tutto il ricordo, misto a sospetto, del finto spadaio c'è una nota d’ironia particolarmente viva per opera di quel « padre di quattro figliuoli »: la battuta che aveva reso al povero campagnolo più persuasiva la faccia della sua guida. Ormai anche le ultime ubbie si vanno diradando nella mente di Renzo. 25-26. prese la rincorsa: c'è chi trova che l’espressione non è precisa per il caso di Renzo, in quanto prendere la rincorsa significa « andare indietro e poi slanciarsi »; perciò alcuni vorrebbero che il M. avesse detto partì di corsa, e altri rimpiangono l’alzò le calcagna dell’edizione del ’27. A noi sembra che anche così sia reso bene, e con un
certo sorriso, l’impetuoso inizio della maratona che porterà Renzo, tutto difilato, da Milano all’Adda. 33-34. giudizi fisionomici: cioè, giudizi sul carattere di un uomo, ricavati dall’osservazione della sua fisionomia. — Saranno quattro, e tutti molto belli. 34-35. Quel grassotto...: osserva quale stupenda macchietta crei il M. sbozzandola con pochi particolari, fra cui domina quello così realistico e vivo del sollevare alternativamen-
te sulla punta de’ piedi la sua massà tremo-
lante. - 40. Quell’altro...: due pennellate — « occhi fissi» e «labbro in fuori» — fissano alla perfezione i caratteri somatici del mezzo ebete. 42. Quel ragazzotto...: ‘questo terzo tipo è meno caratterizzato da note fisiche: ma basta lo stesso a far pensare ad una vivacità maliziosa.
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dare un povero contadino dalla parte opposta a quella che desiderava. Tant'è vero che all’uomo impicciato, quasi ogni cosa è un nuovo impiccio! Visto finalm
ente uno che veniva in fretta, pensò che questo, avendo probabilment e qualche affare pressante, gli risponderebbe subito, senz’altre chiacch iere; e
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sentendolo parlar da sé, giudicò che dovesse essere un uomo sincero. Gli s’accostò, e disse: « di grazia, quel signore, da che parte si va per andare a Bergamo? » « Per andare a Bergamo? Da porta orientale. » « Grazie tante; e per andare a porta orientale? » _« Prendete questa strada a mancina; vi troverete sulla piazza del duomo;
poi... » « Basta, signore; il resto lo so. Dio gliene renda merito. » E diviato s’incamminò dalla parte che gli era stata indicata. L'altro gli guardò dietro un momento, e, accozzando nel suo pensiero quella maniera di camminare con
la domanda, disse tra sé: —
o n’ha fatta una, o qualcheduno la vuol fare
afui:a; i Renzo arriva sulla piazza del duomo; l’attraversa, passa accanto a un mucchio di cenere e di carboni spenti, e riconosce gli avanzi del falò di cui era stato spettatore il giorno avanti; costeggia gli scalini del duomo, rivede il
forno delle grucce, mezzo smantellato, e guardato da soldati; e tira diritto per la strada da cui era venuto insieme con la folla; arriva al convento de’ cappuccini; dà un'occhiata a quella piazza e alla porta della chiesa, e dice tra sé, sospirando: — m’aveva però dato un buon parere quel frate di ieri:
che stessi in chiesa a aspettare, e a fare un po’ di bene —. Qui, essendosi fermato un momento a guardare attentamente alla porta per cui doveva passare, vedendovi, così da lontano, molta gente a guardia, e avendo la fantasia un po’ riscaldata (bisogna compatirlo; aveva i suoi mo-
tivi), provò una certa ripugnanza ad affrontare quel passo. Si trovava così a mano un luogo d’asilo, e dove, con quella lettera, sarebbe ben raccomandato;
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fu tentato fortemente d’entrarvi. Ma, subito ripreso animo, pensò: — uccel di bosco, fin che si può. Chi mi conosce? Di ragione, i birri non si saran fatti in pezzi, per andarmi ad aspettare a tutte le porte —. Si voltò, per vedere se mai venissero da quella parte: non vide né quellî, né altri che pares-
sero occuparsi di lui. Va innanzi; rallenta quelle gambe benedette, che vole-
47. uno che veniva in fretta...: in quest’'ultima macchietta, forse più che nelle altre, c'è da sentire la bonaria arguzia manzoniana che non perdona nemmeno a chi per natura è schietto e abbordabile, ma lo è troppo. — Questo discorso suggerisce una considerazione più generale su tutte e quattro le figure: che cioè Renzo non aveva certamente né tempo né capacità di fare tante riflessioni sulle varie persone che incontrava; a lui bastava un’occhiata per provare subito una certa reazione negativa o positiva. È il M. che, come tante altre volte, subentra ai suoi personaggi e non si lascia sfuggire l’occasione per introdurre un giudizio o sbozzare una figura. 57-60. L’altro gli guardò... a lui: c'è un
certo mutamento in quest'uomo, che alla fine appare tutt'altro da quel semplicione che era sembrato all’inizio. È un mutamento che rende la macchietta più viva e reale. 67-68. sospirando... un po’ di bene: è il primo atto di pentimento e di dispiacere per aver trascorso a quel modo il giorno pri-. ma. Vedremo altri atti simili, e tutti, come quello di ora, improntati ad una profonda ‘nota di religiosità e di onestà. 75. Di ragione: ragionevolmente, a pensarci bene. 78. rallenta quelle gambe benedette: è uno dei momenti di più intenso autocontrollo che Renzo sa compiere su se stesso, dominando il turbamento interiore e assumendo un contegno.
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van sempre correre, mentre conveniva soltanto camminare;
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e adagio adagio,
fischiando in semitono, arriva alla porta. anche C'era, proprio sul passo, un mucchio di gabellini, e, per rinforzo, non per fuori, di il verso de’ micheletti spagnoli; ma stavan tutti attenti come rrono, v’acco lasciare entrar di quelli che, alla notizia d’una sommossa, i corvi al campo dove è stata data battaglia; di maniera che Renzo, con un'aria indifferente, con gli occhi bassi, e con un andare così tra il viandante e uno che vada a spasso, uscì, senza che nessuno gli dicesse nulla; ma il cuore di dentro faceva un gran battere. Vedendo a diritta una viottola, entrò in quella, per evitare la strada maestra; e camminò un pezzo prima di voltarsi neppure indietro. Cammina, cammina; trova cascine, trova villaggi, tira innanzi senza domandarne il nome; è certo d’allontanarsi da Milano, spera d’andar verso Berga-
mo; questo gli basta per ora. Ogni tanto, si voltava indietro; ogni tanto, andava anche guardando e strofinando or l’uno or l’altro polso, ancora un po’ indolenziti, e segnati in giro d’una striscia rosseggiante, vestigio della cordicella. I suoi pensieri erano, come ognuno può immaginarsi, un guazzabuglio di pentimenti, d’inquietudini, di rabbie, di tenerezze; era uno studio faticoso di raccapezzare le cose dette e fatte la sera avanti, di scoprir la parte segreta della sua dolorosa storia, e sopra tutto come avean potuto risapere il suo nome. I suoi sospetti cadevan naturalmente sullo spadaio, al quale si rammentava bene d’averlo spiattellato. E ripensando alla maniera con cui gliel aveva cavato di bocca, e a tutto il fare di colui, e a tutte quell’esibizioni che riuscivan sempre a voler saper qualcosa, il sospetto diveniva quasi certezza.
Se non che si rammentava poi anche, in confuso, d’aver, dopo la partenza dello spadaio, continuato a cicalare; con chi, indovinala grillo; di cosa, la memoria, per quanto venisse esaminata, non lo sapeva dire: non sapeva dir altro che d’essersi in quel tempo trovata fuor di casa. Il poverino si smarriva in quella ricerca: era come un uomo che ha sottoscritti molti fogli bianchi, e gli ha affidati a uno che credeva il fior de’ galantuomini; e sco-
84-87. di maniera... battere: il contrasto, fra il battito accelerato del cuore e l’andatura sorniona dei passi, costituisce l'elemento più poetico della scena. 89. voltarsi neppure indietro: il « neppure » va letto strettamente unito con « indietro ». Così lo spiega il Barbi: «tanta è la preoccupazione di Renzo di allontanarsi da Milano che non pensa a voltarsi, come sarebbe istintivo, neppure indietro per vedere se fosse inseguito ». — Questo l’abbiamo notato perché alcuni grammatici hanno criticato la frase come costruzione inusitata ed hanno pensato di proporre come più corrente: «senza neppur voltarsi indietro ». 90. Cammina, cammina...: il racconto della lunga fuga si colorisce, da qui, di un tono epico e favoloso, un tono che andrà sempre crescendo fino al vagare notturno nella sodaglia dell'Adda. Ora l’uso del presente storico scandisce più intensamente il passo di Renzo per le cascine ei villaggi, e insieme il flusso di tanti e diversi pensieri
che vengono a riempire la solitudine della campagna. 95-99. I suoi pensieri... il suo nome: nell’affannoso e tumultuoso sopravvenire di tanti ripensamenti, il M. benissimo ritrae i postumi dell’ubriachezza, quel lento e sofferto ricomparire della memoria su cose e su fatti passati. — Riguardo alla parola guazzabuglio, ricordiamo che nel cap. X essa ha la collocazione divenuta proverbiale (« questo
guazzabuglio
del cuore
umano »)
e che l’abbiamo trovata anche nel cap. XIV (« un guazzabuglio di istanze e di rimproveri »); da qui in avanti non la troveremo più. Riguardo, infine, alle tererezze, c'è chi crede che si debbano riferire a Lucia (e così pensiamo anche noi) e chi crede che siano da attribuirsi ai momenti di esitazione trascorsi il giorno prima nel tumulto. 107-108. fogli bianchi: cambiali in bianco, o valori simili. Sembra che il M. pensi ad una esperienza personale, per essere stato costretto a vendere certi suoi beni proprio
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prendolo poi un imbroglione, vorrebbe conoscere lo stato de’ suoi affari: che conoscere? è un caos. Un altro studio penoso era quello di far sull’avvenire
un disegno che gli potesse piacere: quelli che non erano in aria, eran tutti malinconici. Ma ben presto, lo studio più penoso fu quello di trovar la strada. Dopo aver camminato un pezzo, si può dire, alla ventura, vide che da sé non ne poteva uscire. Provava bensì una certa ripugnanza a metter fuori quella parola Bergamo, come se avesse un non so che di sospetto, di sfacciato; ma non si poteva far di meno. Risolvette dunque di rivolgersi, come aveva fatto in Milano, al primo viandante la cui fisonomia gli andasse a genio; e così fece. « Siete fuor di strada, » gli rispose questo; e, pensatoci un poco, parte con parole, parte co’ cenni, gl’indicò il giro che doveva fare, per rimettersi sulla strada maestra. Renzo lo ringraziò, fece le viste di far come gli era stato detto, prese in fatti da quella parte, con intenzione però d’avvicinarsi bensì a quella benedetta strada maestra, di non perderla di vista, di costeggiarla più che fosse possibile; ma senza mettervi piede. Il disegno era più facile da concepirsi che da eseguirsi. La conclusione fu che, andando così da destra a sinistra, e, come si dice, a zig zag, parte seguendo l’altre indicazioni che si faceva coraggio a pescar qua e là, parte correggendole secondo i suoi lumi, e adattandole al suo intento, parte lasciandosi guidar dalle strade in cui si trovava incamminato, il nostro fuggitivo aveva fatte forse dodici miglia, che non era distante da Milano più di sei; e in quanto a Bergamo, era molto se non se n’era allontanato. Cominciò a persuadersi che, anche in quella maniera, non se n’usciva a bene; e pensò a trovar qualche altro ripiego. Quello che gli venne in mente, fu di scovar, con qualche astuzia, il nome di qualche paese vicino al confine, e al quale si potesse andare per istrade comunali: e domandando di quello, si farebbe insegnar la strada, senza seminar qua e là quella domanda di Bergamo, che gli pareva puzzar tanto di fuga, di sfratto,
di criminale.
Mentre cerca la maniera di pescar tutte quelle notizie, senza dar sospetto,
vede pendere una frasca da una casuccia solitaria, fuori d’un paesello. Da in seguito alla truffa di un amministratore ‘da lui creduto «il fior de’ galantuomini ». Ad ogni modo, il paragone oltrepassa il caso di Renzo e diviene una melanconica riflessione morale di carattere generale. 116. di sospetto, di sfacciato: perché indicava che doveva fuggire all’estero, che doveva mettersi in salvo per qualche motivo; più sotto dirà che la « domanda di Bergamo » gli sembrava che puzzasse tanto «di fuga, di sfratto, di criminale ». 132-133. Quello che gli venne in mente... prima lo scrittore si è diffuso sulle riflessioni di Renzo nel richiamare alla memoria le vicende e le persone del giorno precedente; poi sui suoi calcoli per trovare la strada giusta e per avere le informazioni che gli servono. Tutto un lavorio, quindi, della mente che il M. ha ricreato con grande precisione di particolari e che benissimo riempie la lunga marcia di quel « Cammina, cammi-
na; trova cascine, trova villaggi... ». C'è dunque in queste pagine, com’è stato ben definito, un « vivente camminare », un mirabile movimento all’unisono delle membra e del pensiero. 139-142. una frasca... una casuccia... una vecchia: la frasca è l’insegna dell’osteria, ma di un’osteria di campagna, in una casuccia solitaria: tocco paesistico e poetico, ben intonato alla solitudine e alla tristezza del « nostro fuggitivo ». Poi la scena si completa
con l’immagine della vecchietta che fila, dando all’insieme una nota idillica, che richiama, per contrasto, il ricordo dell’ambiente tumultuoso dell’osteria della luna piena. Così tutto il quadro ubbidisce ad un’intima ispirazione poetica: quell’ispirazione che un vecchio commentatore, il Petrocchi, mostrava
di non capire affatto quando, ricordando che il tumulto di San Martino era avvenuto di sabato, si scandalizzava che il
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qualche tempo, sentiva anche crescere il bisogno di ristorar le sue forze; pensò che lì sarebbe il luogo di fare i due servizi in una volta; entrò. Non c'era che una vecchia, con la rocca al fianco, e col fuso in mano. Chiese un
fu offerto un po’ di stracchino e del vin buono: accettò lo stracboccone; gli chino, del vino la ringraziò (gli era venuto in odio, per quello scherzo che gli
aveva fatto la sera avanti); e si mise a sedere, pregando la donna che facesse
presto. Questa, in un momento, ebbe messo in tavola; e subito dopo cominciò a tempestare il suo ospite di domande, e sul suo essere, e sui gran fatti di Milano: ché la voce n’era arrivata fin là. Renzo, non solo seppe schermirsi dalle domande, con molta disinvoltura; ma, approfittandosi della difficoltà medesima, fece servire al suo intento la curiosità della vecchia, che gli domandava dove fosse incamminato.
«Devo andare in molti luoghi, » rispose: «e, se trovo un ritaglio di tempo, vorrei anche passare un momento da quel paese, piuttosto grosso, sulla strada di Bergamo, vicino al confine, però nello stato di Milano... Come
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si chiama? » — Qualcheduno ce ne sarà, — pensava intanto tra sé. « Gorgonzola, volete dire, » rispose la vecchia.
« Gorgonzola! » ripeté Renzo, quasi per mettersi meglio in mente la parola. « È molto lontano di qui? » riprese poi. « Non lo so precisamente: saranno dieci, saranno dodici miglia. Se ci fosse qualcheduno de’ miei figliuoli ve lo saprebbe dire. » « E credete che ci si possa andare per queste belle viottole, senza prender la strada maestra? dove c’è una polvere, una polvere! Tanto tempo che non piove! »
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«A me mi par di sì: potete domandare nel primo paese che troverete andando a diritta. » E glielo nominò. « Va bene; » disse Renzo; s’alzò, prese un pezzo di pane che gli era avanzato della magra colazione, un pane ben diverso da quello che aveva trovato, il giorno avanti, appiè della croce di san Dionigi; pagò il conto, uscì, e prese a diritta. E, per non ve l’allungar più del bisogno, col nome di Gorgonzola in bocca, di paese in paese, ci arrivò, un’ora circa prima di sera. Già cammin facendo, aveva disegnato di far lì un’altra fermatina, per fare un pasto un po’ più sostanzioso. Il corpo avrebbe anche gradito un po’ di letto; ma prima che contentarlo in questo, Renzo l’avrebbe lasciato cader rifinito sulla strada. Il suo proposito era d’informarsi all’osteria, della distanza dell’Adda, di cavar destramente notizia di qualche traversa che M. presentasse una donna intenta al lavoro in un giorno festivo: « Una vecchia con la rocca al fianco? Non s’è accorto l'Autore che è domenica; e che una donna che filasse la domenica, specialmente in quei tempi, non era possibile? ». Allora lo stesso scandalo ci sarebbe voluto per quel grassotto milanese che abbiamo visto « ritto sulla soglia della sua bottega, a gambe larghe ». Ma la poesia vera non sottostà a preoccupazioni cronologiche o cronachistiche, nemmeno in un artista così attento alla precisione storica, com'è il M. 149-150. approfittandosi della difficoltà medesima: traendo profitto proprio dalla difficoltà in cui lo metteva la vecchia con le
sue insistenti domande. L’espressione, caso raro, non è davvero esemplare per chiarezza.
161-162. belle viottole... una polvere!: come la sa lunga Renzo, questa volta! Sembra che abbia imparato da quel certo Ambrogio Fusella l’astuzia per cavar fuori dalla bocca della gente le notizie che gli occorrono! Del resto, tutto il suo comportamento in questa osteria di campagna è l’opposto di quello del giorno prima nell’osteria di città: quanto lì aveva parlato e predicato, altrettanto qui ascolta, sfugge alle interrogazioni, pone le sue domande, e... non tocca vino! 175. distanza dell'Adda: l’Adda, siccome Renzo sa che questo fiume « faceva confine
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mettesse là, e di rincamminarsi da quella parte, subito dopo essersi rin-
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frescato. Nato e cresciuto alla seconda sorgente, per dir così, di quel fiume, aveva sentito dir più volte, che, a un certo punto, e per un certo tratto, esso faceva confine tra lo stato milanese e il veneto: del punto e del tratto non aveva un’idea precisa; ma, allora come allora, l’affar più urgente era di passarlo, dovunque si fosse. Se non gli riusciva in quel giorno,
era risoluto di camminare fin che l’ora e la lena glielo permettessero: e d’aspettar poi l’alba, in un campo, in un deserto; dove piacesse a Dio; pur che non fosse un'osteria. Fatti alcuni passi in Gorgonzola, vide un’insegna, entrò; e all’oste, che gli venne incontro, chiese un boccone, e una mezzetta di vino: le miglia di più, e il tempo gli avevan fatto passare quell’odio così estremo e fanatico. « Vi prego di far presto, » soggiunse: « perché ho bisogno di rimettermi subito in istrada. » E questo lo disse, non solo perché era vero, ma anche per paura che l’oste, immaginandosi che volesse dormir lì, non gli uscisse fuori a domandar del nome e del cognome, e donde veniva, e per che negozio... Alla larga! L’oste rispose‘a Renzo, che sarebbe servito; e questo si mise a sedere in
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fondo della tavola, vicino all’uscio: il posto de’ vergognosi. C'erano in quella stanza alcuni sfaccendati del paese, i quali, dopo aver discusse e commentate le gran notizie di Milano del giorno avanti, si struggevano di sapere un poco come fosse andata anche in quel giorno; tanto più che quelle prime eran più atte a stuzzicar la curiosità, che a soddisfarla: una sollevazione, né soggiogata né vittoriosa, sospesa più che terminata dalla notte; una cosa tronca, la fine d’un atto piuttosto che d’un dramma. Un di coloro si staccò dalla brigata, s’accostò al soprarrivato, e gli domandò se veniva
da Milano. 205
« Io? » disse Renzo sorpreso, per prender tempo a rispondere. È « Voi, se la domanda è lecita. » Renzo, tentennando il capo, stringendo le labbra, e facendone uscire un suono inarticolato, disse: « Milano, da quel che ho sentito dire... non dev’es-
fra lo stato milanese e il veneto », incomincia a diventare la sua idea fissa, il puntoa
cui deve giungere per sentirsi finalmente in salvo: prima di essere arrivato là non può fermarsi. 177. alla seconda sorgente: cioè là dove l’Adda esce dal lago di Como, non lontano da Lecco, e il ponte pare che « segni il punto in cui il lago cessa, e l’Adda ricomincia » 5 (Cap. XVI). 186. una mezzetta: mezzo boccale; circa mezzo litro. + 187. quell’odio: pet il vino, che Renzo considera la causa di tutti i suoi mali. Ma è stato osservato, in realtà, che nella trappola del birro Renzo c’era cascato già prima della sbornia, e questa, in ultima analisi, gli era stata più utile che dannosa: perché, se non si fosse ubriacato a quel modo, il notaio e i birri non avrebbero aspettato la mattina per catturarlo.
194. posto de’ vergognosi: perché, timidi o poveri, non se la sentono di attraversare il locale sotto lo sguardo di tutti; e poi, così vicino alla porta, fanno presto anche
ad uscire inosservati. Si ricordi, per capire appieno la nuova situazione psicologica di Renzo, come la sera prima egli era entrato nell’osteria della luna piena: « — Prima di
tutto, «7 buon fiasco di vino sincero — disse Renzo: — e poi un boccone. — Così dicendo, si buttò a sedere sur una' panca, verso la cima della tavola, e mandò un — ab! —
sonoro... ». (Cfr. Cap. XIV, n. 173-
174). 203. per prender tempo...: anche se quell’« Io? » non è l’ideale per allontanare domande e sospetti, ci mostra un Renzo che, tutto concentrato sulla difensiva, dice appena lo stretto. necessario, pensa più che parlare. La lezione di Milano è servita, e il giovane se ne ricorderà per tutta la vita.
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sere un luogo da andarci in questi momenti, meno che per una gran necesi ts sità. »
« Continua dunque anche oggi il fracasso? » domandò, con più istanza, il
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curioso.
« Bisognerebbe esser là, per saperlo, » disse Renzo.
« Ma voi, non venite da Milano? » « Vengo da Liscate, » rispose lesto il giovine, che intanto aveva pensata la sua risposta. Ne veniva in fatti, a rigor di termini, perché c’era passato; €
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il nome l’aveva saputo, a un certo punto della strada, da un viandante che gli aveva indicato quel paese come il primo che doveva attraversare, per arrivare a Gorgonzola. « OA! » disse l’amico; come se volesse dire: faresti meglio a venir da Milano, ma pazienza. « E a Liscate, » soggiunse, « non si sapeva niente di Milano? » « Potrebb’essere benissimo che qualcheduno là sapesse qualche cosa, » ri-
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spose il montanaro: « ma io non ho sentito dir nulla. » E queste parole le proferì in quella maniera particolare che par che voglia dire: ho finito. Il curioso ritornò al suo posto; e, un momento dopo, l'oste venne a mettere in tavola. « Quanto c’è di qui all’Adda? » gli disse Renzo, mezzo tra’ denti, con un fare da addormentato, che gli abbiam visto qualche altra volta. « All’Adda, per passare? » disse l’oste.
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« Volete passare dal ponte di Cassano, o sulla chiatta di Canonica? »
« Cioè... sì... all’Adda. »
« « mini, « 235
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Dove si sia... Domando così per curiosità. » Eh, volevo dire, perché quelli sono i luoghi dove passano i galantuola gente ‘che può dar conto di sé. » Va bene: e quanto c’è? »
« Fate conto che, tanto a un luogo, come all’altro, poco più, poco meno, ci sarà sei miglia. » « Sei miglia! non credevo tanto, » disse Renzo. « E già, » riprese poi, con un’aria d’indifferenza, portata fino all’affettazione: «e già, chi avesse bisogno di prendere una scorciatoia, ci saranno altri luoghi da poter passare? » « Ce n'è sicuro, » rispose l’oste, ficcandogli in viso due occhi pieni d’una curiosità maliziosa. Bastò questo per far morir tra’ denti al giovine l’altre domande che aveva preparate. Si tirò davanti il piatto; e guardando la mezzetta
209. con più istanza: con maggiore insistenza. Questa figura del curioso di Gorgonzola, tipica macchietta del seccatore irriducibile, è tutta pervasa dall’umorismo dello scrittore, che sembra divertirsi a farle dare inutilmente di cozzo contro il nostro «montanaro»: finché non dovrà dichiararsi vinta. 227. che gli abbiam visto qualche altra volta: come quando con un cert’atto trascurato si era rivolto a Perpetua (Cap. II) e come quando, la mattina di questo stesso giorno, era uscito con un'aria indifferente da porta orientale. 232. galantuomini...: la definizione di ga-
lantuomini, che ne dà quest’oste di Gorgonzola — « la gente che può dar conto di sé » — è certamente migliore, nella sostanza, di quella famosa che aveva dato l’oste del paesello (Cap. VII, n. 428), ma non meno maliziosa e pungente. È naturale che costui abbia già capito le intenzioni di Renzo: è troppo avvezzo, come tutti gli osti, a conoscere i clienti appena incominciano a parlare; e, per di più, egli abita in località di confine, dove capita spesso chi ha bisogno di passare il fiume senza farsi vedere: specialmente in giorni di confusione, come
questo.
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che l’oste aveva posata, insieme con quello, sulla tavola, disse: «il vino è sincero? » « Come l’oro, » disse l’oste: « domandatene pure a tutta la gente del pae-
se e del contorno, che se n’intende: e poi, lo sentirete. » E così dicendo, tornò verso la brigata. i e Maledetti gli osti! — esclamò Renzo tra sé: — più ne conosco, peggio li trovo. — Non ostante, si mise a mangiare con grand’appetito, stando, 250 nello stesso tempo, in orecchi, senza che paresse suo fatto, per veder di scoprir paese, di rilevare come si pensasse colà sul grand’avvenimento nel quale egli aveva avuta non piccola parte, e d’osservare specialmente se, tra que’ parlatori, ci fosse qualche galantuomo, a cui un povero figliuolo potesse fidarsi di domandar la strada, senza timore d’esser messo alle strette, e forzato a ciar235
lare de’ fatti suoi.
« Ma! » diceva uno: « questa volta par proprio che i milanesi abbian voluto far davvero. Basta; domani al più tardi, si saprà qualcosa. « Mi pento di non esser andato a Milano stamattina, » diceva un altro. 260
« Se vai domani, vengo anch’io, » disse un terzo; poi. un altro, poi un altro. « Quel che vorrei sapere, » riprese il primo, « è se que’ signori di Milano penseranno anche alla povera gente di campagna, o se faranno far la legge
buona solamente per loro. Sapete come sono eh? Cittadini superbi, tutto per i loro: gli altri, come se non ci fossero. » 265
« La bocca l’abbiamo anche noi, sia per mangiare, sia per dir la nostra
ragione, » disse un altro, con voce tanto più modesta, quanto più la proposizione era avanzata:
« e quando la cosa sia incamminata... » Ma credette me-
glio di non finir la frase. « Del grano nascosto, non ce n’è solamente in Milano, » cominciava un
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altro, con un’aria cupa e maliziosa; quando sentono avvicinarsi un cavallo. Corron tutti all’uscio; e, riconosciuto colui che arrivava, gli vanno inconsto con pieno diritto accanto agli altri osti 248. Maledetti gli osti!: possiamo ben cacome membro di una stessa famiglia, sì da pire e giustificare questo sfogo di Renzo: permettere la riflessione del giovane montaanche noi, con lui, abbiamo conosciuti tre naro ‘ Maledetti gli osti! [...] più ne conoosti: nel villaggio, a Milano, a Gorgonzola; sco, peggio li trovo ? ». e tutti e tre... uno peggiore dell’altro. — 256. « Ma! » diceva uno...: incomincia una Sui tre osti ecco una sintesi del Getto: delle scene più vivaci di tutto il romanzo. «L’oste del villaggio di Renzo con il suo È formata dal vacuo chiacchierare di sfacviavai tra il tavolo e i fornelli, con i suoi cendati del paese, tutti curiosi di conoscere gesti e le sue parole, apriva tutta un’animata quello che sta avvenendo nella città lontana, piena, luna della l’oste volta sua A scena. tutti pieni di propositi baldanzosi; ma poi, con il suo volto e i suoi movimenti, i suoi molteplici dialoghi e il suo prolungato mo- appena saputo qualcosa dei tumulti e dei nologo, e insomma con la varietà delle si- pericoli, saranno subito pronti, i furbi, a mutare parere e a godersela di lontano, la rituazioni in cui si viene a trovare, è parte voluzione. È naturale che su questo piccolo anMa capitoli. due di vicenda della viva mondo di sfaccendati e d’imbelli l’umorismo dela abbozzat che questa figurina appena del M. si sparga a piene mani: un umorismo rispondi invece che la, Gorgonzo di l’oste scherzoso, sì, ma non privo di una certa limita e dere incomincia con l’interrogare mestizia, di fronte alle vuote presunzioni e solo chiarire da modo in risposte poi le sue ‘i luoghi dove passano i galantuomini, la alle meschine paure degli uomini. 271. Corron tutti all’uscio...: che voglia gente che può dar conto di sé’, restando hanno tutti di sapere, di domandare; e quenel vago per gli altri luoghi e sostituendo sta volta, lo vedremo subito, hanno fortualle spiegazioni quel ficcare in viso a Renzo ‘ due occhi pieni d’una curiosità maliziosa ?, na, perché il nuovo cliente avrà non minor voglia di parlare e raccontare. E che sturesta indimenticabile, e viene a prender po-
i promessi sposi
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tro. Era un mercante di Milano, che, andando più volte l’anno a Bergamo, per i suoi traffichi, era solito passar la notte in quell’osteria; e siccome ci
trovava quasi sempre la stessa compagnia, li conosceva tutti. Gli s’affollano
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intorno; uno prende la briglia, un altro la staffa. « Ben arrivato, ben atrivato! » « Ben trovati. »
« Avete fatto buon viaggio? » « Bonissimo; e voi altri, come state? » « Bene, bene. Che nuove ci portate di Milano? »
« Ah! ecco quelli delle novità, » disse il mercante, smontando, e lasciando il cavallo in mano d’un garzone. « E poi, e poi, » continuò, entrando con la compagnia, « a quest'ora le saprete forse meglio di me. »
« Non sappiamo nulla, davvero, » disse più d’uno, mettendosi la mano al petto. « Possibile? » disse il mercante. « Dunque ne sentirete delle belle... o delle brutte. Ehi, oste, il mio letto solito è in libertà? Bene: un bicchier di vino, e il mio solito boccone, subito; perché voglio andare a letto presto, per partir presto domattina, e arrivare a Bergamo per l’ora del desinare. E voi altri, » continuò, mettendosi a sedere, dalla parte opposta a quella dove stava
Renzo, zitto e attento, « voi altri non sapete di tutte quelle diavolerie di ; ieri? » « Di ieri sì. »
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« Vedete dunque, » riprese il mercante, « se le sapete le novità. Lo dicevo io che, stando qui sempre di guardia, per frugar quelli che passano... » « Ma oggi, com’è andata oggi? » « Ah oggi. Non sapete niente d’oggi? » « Niente affatto: non è passato nessuno. »
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« Dunque lasciatemi bagnar le labbra; e poi vi dirò le cose d’oggi. Sentirete. » Empì il bicchiere, lo prese con una mano, poi con le prime due dita dell’altra sollevò i baffi, poi si lisciò la barba, bevette, e riprese: « oggi, amici cari, ci mancò poco, che non fosse una giornata brusca come ieri, o peggio. E non mi par quasi vero d’esser qui a chiacchierar con voi altri; perché avevo già messo da parte ogni pensiero di viaggio, per restare a guardar la mia povera bottega. »
pendo parlatore sarà! Intanto osserviamo l’arte del M. nel dipingere la cordialità e l’effusione dell'incontro, che a qualcuno ha richiamato alla mente i versi di Dante: « E come a messagger che porta olivo Tragge la sente per udir novelle E nessun di calcar si mostra schivo » (Purg. II, 70). 273. era solito passar la notte...: ecco la prima caratteristica di quest'uomo: la me-
todicità. Uomo d’affari, che ha il tempo contato e tanti pensieri per la testa, egli ha regolato ogni cosa con ordine: quindi il suo
solito letto, il suo solito boccone, e poi l’andare a letto presto, per partire presto al mattino...
299. lasciatemi bagnar le labbra: giàsun’altra dote di questo mercante è apparsa nelle
prime battute da lui scambiate con gli amici dell’osteria: l’abilità del parlatore che, prima di entrare nel vivo della narrazione, sa magistralmente temporeggiare per acuire la curiosità e l’attenzione degli ascoltatori. Osserva quanto tempo prende prima di incominciare il racconto: « a quest’ora le sapete forse meglio di me... Dunque ne sentirete delle belle... Voi altri non sapete di tutte quelle diavolerie di ieri?... Se le sapete le novità... Dunque lasciatemi bagnar le labbra... Sentirete... »; e poi osserva la lentezza condiscendente e soddisfatta di tutti i suoi atti: « Empì il bicchiere... lo prese con una mano... sollevò i baffi... si lisciò la barba... bevette...». Il desiderio di ascoltare non è inferiore del piacere di raccontare.
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« Che diavolo c'era? » disse uno degli ascoltanti. « Proprio il diavolo: sentirete. » E trinciando la pietanza che gli era stata
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niro davanti, e poi mangiando, continuò il suo racconto. I compagni, ritti 4 qua e di là della tavola, lo stavano a sentire, con la bocca aperta; Renzo,
al suo posto, senza che paresse suo fatto, stava attento, forse più di tutti masticando adagio adagio gli ultimi suoi bocconi. « Stamattina dunque que’ birboni che ieri avevano fatto quel chiasso orrendo, si trovarono a’ posti convenuti (già c’era un’intelligenza: tutte cose
preparate); si riunirono, e ricominciarono quella bella storia di girare di stra-
da in strada, gridando per tirar altra gente. Sapete che è come quando si spazza, con riverenza parlando, la casa; il mucchio di sudiciume ingrossa quanto più va avanti. Quando patve loro d’esser gente abbastanza, s’avviarono verso la casa del signor vicario di provvisione; come se non bastassero le tirannie che gli hanno fatte ieri: a un signore di quella sorte! oh che birboni! E la roba che dicevan contro di lui! Tutte invenzioni: un signor dabbene, puntuale; e io lo posso dire, che son tutto di casa, e lo servo di panno per le livree ‘della servitù. S'incamminaron dunque verso quella casa: bisognava veder che canaglia, che facce: figuratevi che son passati davanti alla mia bottega: facce che... i giudei della Via Crucis non ci son per nulla. E le cose che uscivan da quelle bocche! da turarsene gli orecchi, se non fosse stato che non tornava conto di farsi scorgere. Andavan dunque con la buona intenzione di dare il sacco; ma... » E qui, alzata in aria, e stesa la mano sinistra, si mise
la punta del pollice alla punta del naso. « Ma? » dissero forte tutti gli ascoltatori. 330
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« Ma, » continuò il mercante, « trovaron la strada chiusa con travi e con
carri, e, dietro quella barricata, una bella fila di micheletti, con gli archibusi spianati, per riceverli come si meritavano. Quando videro questo bell’apparato... Cosa avreste fatto voi altri? » « Tornare indietro. » « Sicuro; e così fecero. Ma vedete un poco se non era il demonio che li 313 un’intelligenza: un’intesa; Renzo di- del M. nel creare tipi che sono individui netti ed inconfondibili nei loro caratteri perrebbe una lega. sonali, mia insieme anche espressione di dare di e intenzion 326-327. con la buona aspetti tanto comuni nella società di ogni il sacco: tutto il racconto del mercante — tempo e di ogni paese. quello che abbiamo ascoltato fin qui e 333. Cosa avreste fatto voi altri?: l’interquello che ascolteremo anche più avanti — rogazione improvvisa, che interrompe sul più è perfettamente rivelatore delle idee sue e della sua classe, e serve al M. per fare la bello il racconto, suscita ancora più desta partecipazione da parte degli incantati ascolstoria del tumulto di S. Martino, guardandotatori e si rivela elemento caratteristico delche dopo borghesia della parte lo ora dalla l’ha seguito dalla parte del popolo. Da que- ‘ l’abilità oratoria del mercante. Ma su un piasto agiato mercante, tutto consuetudine e no ideale la domanda che l’interessato conservatore rivolge agli sfaccendati, i quali primeticolosità, non si poteva attendere che ma sentivano un certo prurito di muoversi, dirboni ai ostile ore, uno spirito conservat che fanno chiasso, tanto disprezzatore di vale a conquistare. anche costoro alla causa dell'ordine, della prudenza, del quieto viquel sudiciume che ingrossa quanto più va avanti, quanto glorificatore dei signori dab- vere. 335-339. era il demonio... avevano il diabene, che sono quelli che pagano puntuali. dunque, peggio di così non potevano volo: dunque, è, mercante del vista di Il punto i. Ed ecco l’enumerazione di tutcomportars è l’ordine quello dell’uomo d’ordine, perché quegli indemoniati buttano sottoche ciò to botsua della garanzia o, per lui, soprattutt fornai, avventori, pani... ». cavalieri, « sopra: tega e dei suoi affari. — A noi non resta nuova rappresentazione una abbiamo Così capacità la volta, una ancora che ammirare,
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portava. Son lì sul Cordusio, vedon lì quel forno che, fin da ieri, avevan VO-
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luto saccheggiare; e cosa si faceva in quella bottega? si distribuiva il pane agli avventori; c’era de’ cavalieri, e fior di cavalieri, a invigilare che tutto andasse bene; e costoro (avevano il diavolo addosso vi dico, e poi c'era chi gli aizzava), costoro, dentro come disperati; piglia tu, che piglio anch'io: in un batter d'occhio, cavalieri, fornai, avventori, pani, banco, panche, madie, casse, sacchi, frulloni, crusca, farina, pasta, tutto sottosopra. » « E i micheletti? »
«I micheletti avevan la casa del vicario da guardare: non si può cantare, e portar la croce. Fu in un batter d’occhio, vi dico: piglia piglia; tutto ciò che c’era buono a qualcosa, fu preso. E poi torna in campo quel bel ritrovato di ieri, di portare il resto sulla piazza, e di farne una fiammata. E già cominciavano, i manigoldi, a tirar fuori roba; quando uno più manigoldo degli altri, indovinate un po’ con che bella proposta venne fuori. » « Con che cosa? » « Di fare un mucchio di tutto nella bottega, e di dar fuoco al mucchio e alla casa insieme. Detto fatto... » « Ci han dato fuoco? »
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« Aspettate. Un galantuomo del vicinato ebbe un'ispirazione dal cielo. Corse su nelle stanze, cercò d’un Crocifisso, lo trovò, l’attaccò all’archetto
d’una finestra, prese da capo d’un letto due candele benedette, le accese, e le
mise sul davanzale, a destra e a sinistra del Crocifisso. La gente guarda in su. In un Milano, bisogna dirla, c'è ancora del timor di Dio; tutti tornarono in sé. La più parte, voglio dire; c’era bensì de’ diavoli che, per rubare, avreb-
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bero dato fuoco anche al paradiso; ma visto che la gente non era del loro parere, dovettero smettere, e star cheti. Indovinate ‘ora chi arrivò all’improvviso. Tutti i monsignori del duomo, in processione, a croce alzata, in abito corale; e monsignor Mazenta, arciprete, cominciò a predicare da una parte, e
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monsignor Settala, penitenziere, da un’altra, e gli altri anche loro: ma brava gente! ma cosa volete fare? ma è questo l’esempio che date a’ vostri figlioli? ma tornate a casa; ma non sapete che il pane è a buon mercato, più di prima? ma andate a vedere, che c’è l’avviso sulle cantonate. » « Era vero? »
« Diavolo! Volete che i monsignori del duomo venissero in cappa magna a dir delle fandonie? » « E la gente cosa fece? »
dell’assalto al forno, ma senza ripetizione, perché il tema è svolto da un altro personaggio e con altro metodo. 344. I micheletti... da guardare: l’occhio del M. è sempre pronto e pungente quando si appunta su questi sparuti soldati, i quali o arrivano a cose fatte o stanno a presidiare palazzi di cui nessuno più si cura, men-
tre altrove si assaltano allegramente i forni. 354-367. Un galantuomo... cantonate: il fatto è storico, ed è narrato dal Ripamonti. Ma la ricostruzione, che lo scrittore ne fa per bocca del mercante, è piuttosto buffa nella sua solennità barocca e spagnolesca. Specialmente tutti quei monsignori del duo-
mo, che arrivano
«in processione, a croce alzata, in abito corale », e che poi si danno a predicare chi di qua e chi di là, non sfuggono, né per l’atteggiamento né per le parole che dicono, al sorriso di un M. divertito e disteso. 363-364. Mazenta... Settala: personaggi storici, anch’essi ricordati dal Ripamonti e morti nella peste del 1630. 369-370. in cappa magna a dir delle fandonie: facendo risaltare l’ironia della frase, il Pistelli commenta: «Non le avrebbero dette, giova sperare, neppure in abito da passeggio, tanto meno in abito e funzioni sacerdotali ».
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«A poco a poco se n’andarono; corsero alle cantonate; e, chi sapeva leggere, la c’era proprio la meta. Indovinate un poco: un pane d’ott’once, per 375
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un soldo. » « Che bazza! » « La vigna è bella; pur che la duri. Sapete quanta farina hanno mandata a male, tra ieri e stamattina? Da mantenerne il ducato per due mesi. » «E per fuori di Milano, non s’è fatta nessuna legge buona? » _ «Quel che s'è fatto per Milano, è tutto a spese della città. Non so che vi dire: per voi altri sarà quel che Dio vorrà. A buon conto, i fracassi son finiti. Non v’ho detto tutto; ora viene il buono. » « Cosa c’è ancora? » « C'è che, ier sera o stamattina che sia, ne sono stati agguantati molti; e
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subito s'è saputo che i capi saranno impiccati. Appena cominciò a spargersi questa voce, ognuno andava a casa per la più corta, per non arrischiare d’esser nel numero. Milano, quand’io ne sono uscito, pareva un convento di frati. » « Gl’impiccheranno poi davvero? » « Eccome! e presto, » rispose il mercante. « E la gente cosa farà? » domandò ancora colui che aveva fatta l’altra domanda. « La gente? anderà a vedere, » disse il mercante. « Avevan tanta voglia di veder morire un cristiano all’aria aperta, che volevano, birboni! far la festa al signor vicario di provvisione. In vece sua, avranno quattro tristi, serviti con tutte le formalità, accompagnati da’ cappuccini, e da’ confratelli della buona morte; e gente che se l’è meritato. È una provvidenza, vedete; era , una cosa necessaria. Cominciavan già a prender il vizio d’entrar nelle botteghe, e di servirsi, senza metter mano alla borsa; se li lasciavan fare, dopo il
pane sarebbero venuti al vino, e così di mano in mano... Pensate se coloro
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volevano smettere, di loro spontanea volontà, una usanza così comoda. E vi
so dir io che, per un galantuomo che ha bottega aperta, era un pensier poco allegro. »
« Davvero, » disse uno degli ascoltatori. « Davvero, » ripeteron gli altri,
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a una voce. « E, » continuò il mercante, asciugandosi la barba col tovagliolo, « l’era ordita da un pezzo: c’era una lega, sapete? » « C'era una lega? »
«C'era una lega. Tutte cabale ordite da’ navarrini, da quel cardinale là
373. la meta: la tariffa. 381. Non v'ho detto tutto...: un’altra accorta interruzione del discorso, per tenere sempre accesa la curiosità degli uditori. 401. per un galantuomo che ha bottega aperta: qui si ribadisce la ragione profonda del conservatorismo del mercante e del suo odio contro il popolo in tumulto: la bottega, l'interesse privato. Quindi a lui vanno bene gli arresti e le impiccagioni per rimettere le cose a posto (un po’ il discorso, ricordate?, del conte Attilio: « Impiccarli, senza misericordia », Cap. V): ma siccome è un uomo ordinato e metodico, quei quattro
tristi li vuole serviti con tutte le formalità. 406. c’era una lega: anche il buon Renzo, quando era ormai tutto preso dai fumi del vino, aveva gridato di una certa lega, quella naturalmente dei birboni contro i buoni (Cap. XV). Ma qui si tratta di una lega ben più grande: e più canzonatorio è lo sguardo del M. sulla facilità con cui le supposizioni-prendono corpo e le chiacchiere interessate si gonfiano e si deformano. 408. navarrini: i francesi, spesso detti così da Enrico IV che prima di diventare re di Francia era stato re di Navarra.
i promessi sposi
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di Francia, sapete chi voglio dire, che ha un certo nome mezzo turco, è che ogni giorno ne pensa una, per far qualche dispetto alla corona di Spagna. Ma
sopra tutto, tende a far qualche tiro a Milano; perché vede bene, il furbo,
che qui sta la forza del re. » « Già. »
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b
« Ne volete una prova? Chi ha fatto il più gran chiasso, eran forestieri; andavano in giro facce, che in Milano non s’eran mai vedute. Anzi mi dimenticavo di dirvene una che m'è stata data per certa. La giustizia aveva acchiap-
dipato uno in un'osteria... » Renzo, il quale non perdeva un ette di quel
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scorso, al tocco di questa corda, si sentì venir freddo, e diede un guizzo, prima che potesse pensare a contenersi. Nessuno però se n’avvide; e il dicitore, senza interrompere il filo del racconto, seguitò: « uno che non si sa bene ancora da che parte fosse venuto, da chi fosse mandato, né che razza d'uomo si fosse; ima certo era uno de’ capi. Già ieri, nel forte del baccano, aveva fatto il diavolo; e poi, non contento di questo, s'era messo a predicare, e a proporre, così una galanteria, che s’ammazzassero tutti i signori. Birbante! Chi farebbe viver la povera gente, quando i signori fossero ammazzati? La giustizia, che l'aveva appostato, gli mise l’unghie addosso; gli trovarono un fascio di lettere; e lo menavano in gabbia; ma che? i suoi compagni, che facevan la ronda intorno all’osteria, vennero in gran numero, e lo liberarono, il manigoldo. » « E cosa n'è stato? » « Non si sa; sarà scappato, o sarà nascosto in Milano: sono gente che non ha né casa né tetto, e trovan per tutto da alloggiare e da rintanarsi: però finché il diavolo può, e vuole aiutarli: ci dan poi dentro quando meno se lo pensano; perché, quando la pera è matura, convien che caschi. Per ora si sa di sicuro che le lettere son rimaste in mano della giustizia, e che c’è descritta tutta la cabala; e si dice che n’anderà di mezzo molta gente. Peggio per loro;
che hanno messo a soqquadro mezzo Milano, e volevano anche far peggio.
Dicono che i fornai son birboni. Lo so anch’io; ma bisogna impiccarli per via di giustizia. C'è del grano nascosto. Chi non lo sa? Ma tocca a chi co409. nome mezzo turco: Richelieu; il suo nome storpiato in Ricilià l’abbiamo già trovato sulla bocca del podestà (Cap. V). 417. un ette: un nonnulla; da ef (pronunziato alla toscana) simbolo di parola o di cosa trascurabile. 422. uno de’ capi: il nostro Renzo, dunque. Il quale, acchiappato in un'osteria, ora in quest’altra osteria deve ascoltare, col sangue diventato freddo, la metamorfosi che, di lui galantuomo, ha compiuta la mente della gente, facendone il più pericoloso malfattore, il più feroce dei fomentatori di sedizioni e di stragi. — È facile notare ancora una volta il fascino dell’eloquio colorito e fantasioso del mercante, la spontaneità della tormentosa reazione di Renzo, a cui quel poco mangiare va subito in tanto veleno, l'ironia penetrante e melanconica dello scrittore sulla giustizia di questo mondo e sulle
fantasticherie della gente, e tante altre cose
ancora in questa stupenda pagina. Ci limitiamo ad osservare come il M. abbia saputo magistralmente preparare quest’ultimo discorso del mercante, con Renzo lì a due passi, sicché tutto si sviluppa con naturalezza e verosimiglianza assolute, senza che vi possiamo scorgere niente di artificioso o sforzato. 427. un fascio di lettere: la lettera scritta da padre Cristoforo per padre Bonaventura. Di quella /efterz e di quel fascio sentiremo fra poco cosa dirà Renzo. 434-435. si sa di sicuro: ecco dov'è la sicutezza del sapere umano: e di quello della « giustizia » in particolare. 438. i fornai son birboni: non c'è nemmeno spirito di corpo, diremmo oggi, in questo mercante che non salva dalla condanna i compagni di mestiere: di tutte le botteghe di Milano, è la sua l’unica che egli vuole difendere davvero.
capitolo
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XVI
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manda a tener buone spie, e andarlo a disotterrare, e mandare anche gl’incettatori a dar calci all’aria, in compagnia de’ fornai. E se chi comanda non fa nulla, tocca alla città a ricorrere; e se non danno retta alla prima, ricorrere ancora; ché a forza di ricorrere s’ottiene; e non metter su un’usanza così
scellerata d’entrar nelle botteghe e ne’ fondachi, a prender la roba a man
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salva. » 1 ARenzo quel poco mangiare era andato in tanto veleno. Gli pareva mill’anni d’esser fuori e lontano da quell’osteria, da quel paese; e più di dieci volte aveva detto a sé stesso: andiamo, andiamo. Ma quella paura di dar so-
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tenuto sempre inchiodato sulla panca. In quella perplessità, pensò che il ciarlone doveva poi finire di parlar di lui; e concluse tra sé, di moversi, appena sentisse attaccare qualche altro discorso. « E per questo, » disse uno della brigata, « io che so come vanno queste faccende, e che ne’ tumulti i galantuomini non ci stanno bene, non mi son lasciato vincere dalla curiosità, e son rimasto a casa mia. »
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spetto, cresciuta allora oltremodo, e fatta tiranna di tutti i suoi pensieri, l’aveva
« E io, mi son mosso? » disse un altro.
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«Io? » soggiunse un terzo: «se per caso mi fossi trovato in Milano, avrei lasciato imperfetto qualunque affare, e sarei tornato subito a casa mia. Ho moglie e figliuoli; e poi, dico la verità, i baccani non mi piacciono. » A questo punto, l’oste, ch’era stato anche lui a sentire, andò verso l’altra cima della tavola, per veder cosa faceva quel forestiero. Renzo colse l’occasione, chiamò l’oste con un cenno, gli chiese il conto, lo saldò senza tirare,
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ritto all’uscio, passò la soglia, e, a guida della Provvidenza, s’incamminò dalla * parte opposta a quella per cui era venuto.
quantunque l’acque fossero molto basse; e, senza far altri discorsi, andò di-
456-457. E io...? ...Io?: ora tutti hanno cambiato parere, e, col mercante, si son fatti esemplari d’ordine e di prudenza. Quanta verità in questa facile volubilità degli uomini! 464-465. s’incamminò... era venuto: bene
scrive il Goffis su questa finale del capitolo: « Il capitolo ha conclusione perfetta. Gl’interlocutori del mercante hanno tutti mutato parere, e si sono lasciati trascinare dalla ragione del vincitore, che pare sia il governo.
Scheda
Renzo ad un capo del tavolo è nella penombra, come appare dalla decisione dell’oste di andare a vedere che stia facendo; salda il proprio conto, e se ne va senza esitazione ‘a guida della Provvidenza”. Finale in calando, ma che getta un importante seme: Renzo non ha più alcuna guida, nessuna speranza umana, nessuna lettera di presentazione, solo la sua onestà, la sua capacità di operaio e la fiducia in Dio ».
critica al cap. XVI Si conclude in questo capitolo il tema della sommossa milanese nei modi indiretti, decrescenti e smorzati che già s'accennavano nell'ultima parte del capitolo precedente, dove il dramma tende a poco a poco a tramutarsi in commedia e poi in farsa. Il tono comico investe, come è naturale, soprattutto il mondo di coloro che per un momento sono stati
i promessi sposi
296 sopraffatti
dall'ira popolare
e ora, mentre
volta dalla loro paura e riprendono in mano
emergono
poco
per
le leve del potere
di e dell'ordine, ovvero si riassestano nelle loro posizioni ale relativo privilegio, ancora si sentono non troppo sicuri ternano propositi di feroce repressione a forzati atteggiamenti di blandizie. Ne scaturiscono situazioni e ritratti assai felici, come quello del notaio criminale manieroso, in cui il divertimento del Manzoni alle spalle dell'autorità politica e poliziesca, momentaneamente esautorata e ridotta a implorare e a fare il doppio gioco, tocca il suo apice nella celebre frase: « andate in maniera che nessuno s'avveda di nulla: come se foste tre galantuomini che vanno a spasso »; 0 quelli qui degli sfaccendati all'osteria di Gorgonzola; o infine l'altro del mercante di panni, uomo d'ordine, attaccato ai suoi guadagni, nemico d'ogni tumulto, pieno di disprezzo per la povera gente e d'ossequio per i signori: proprio attraverso le sue parole prende voce il sentimento che in ogni tempo accompagna il risorgere delle forze repressive, con tanta maggior ferocia quanto più s'eran sentite per un momento deboli e pericolanti, così che l'impiccagione a titolo d'esempio e di intimidazione di quattro innocenti diventa sulla bocca di questi uomini d’ordine una « cosa necessaria », anzi addirittura « una provvidenza», con un tipico stravolgimento del linguaggio religioso. Anche, nei discorsi del mercante, si assiste al processo di deformazione dei fatti attraverso le chiacchiere della gente e i rapporti dei funzionari, che è poi il modo in cui si costituisce la storia ufficiale e si indirizza l'opinione pubblica nei suoi giudizi sulle cose e sulle persone (uno dei tanti aspetti della insistente polemica manzoniana contro le forme più conven. zionali e mistificanti della storiografia corrente). In contrapposto, e sullo sfondo, di questa varia commedia, cresce e s'impone a poco a poco l'altro tema, tutto serio, della fuga di Renzo, con i suoi due aspetti paralleli di apertura av-
venturosa e di ripiegamento pensoso, da cui nascerà un Renzo non propriamente nuovo e diverso, ma certo più cauto e ri-
flessivo, maturato dall'esperienza e dalla sventura. E' il tema che troverà il suo svolgimento soprattutto nel capitolo successivo.
Capitolo XVII
Basta spesso una voglia, per non lasciar ben avere un uomo; pensate poi due alla volta, l’una in guerra coll’altra. Il povero Renzo n’aveva, da molte ore, due tali in corpo, come sapete: la voglia di correre, e quella di star na-
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scosto: e le sciagurate parole del mercante gli avevano accresciuta oltremodo l’una e l’altra a un colpo. Dunque la sua avventura aveva fatto chiasso; dunque lo volevano a qualunque patto; chi sa quanti birri erano in campo per dargli la caccia! quali ordini erano stati spediti di frugar ne’ paesi, nell’osterie, per le strade! Pensava bensì che finalmente i birri che lo conoscevano, eran due soli, e che il nome non lo portava scritto in fronte; ma gli tornavano in mente certe storie che aveva sentite raccontare, di fuggitivi colti e scoperti per istrane combinazioni, riconosciuti all’andare, all’aria sospettosa, ad altri segnali impensati: tutto gli faceva ombra. Quantunque, nel momento che usciva di Gorgonzola, scoccassero le ventiquattro, e le tenebre che venivano innanzi, diminuissero sempre più que’ pericoli, ciò non ostante prese contro voglia la strada maestra, e si propose d’entrar nella prima viottola che gli paresse condur dalla parte dove gli premeva di riuscire. Sul principio, incontrava qualche viandante; ma, pieno la fantasia di quelle brutte apprensioni, 1.\Basta spesso...: si apre il grande capi-
tolo di Renzo. È il capitolo della redenzio-
ne, che il giovane raggiungerà totale e completa non appena avrà preso netta coscien-
za dell’esperienza che ha sofferta e dei doveri che lo ‘obbligano alle creature e a Dio. Un capitolo certamente dei più belli, e tutto sul piano di un lirismo insieme raccolto ed intenso. — pensate: questo rivolgersi ai lettori, ripetuto subito dopo col «come sapete », è un invito a guardare le cose con serenità, anche se talvolta le vicende avranno le note della tragedia e dell’incubo; perché in ogni situazione l’uomo deve aver fiducia nella Provvidenza. Potremmo dire, del resto, che questo capitolo, oltre che il grande capitolo di Renzo, è anche il grande canto della Provvidenza. 5. Dunque la sua avventura...: da qui si inizia uno dei più bei soliloqui manzoniani, tutto pervaso da affanno concitato e sdegnoso, che ricorda, anche nei gesti, altre solitarie camminate di- Renzo,
13. le ventiquattro: l’ultima ora del gior-
no, l’Avemaria: l’ora della melanconiae della tristezza, quando l’animo non è sereno. Questo andare di Renzo, stanco pellegrino,
mentre il campanile di Gorgonzola batte i suoi rintocchi nel crepuscolo del tramonto, non può non ricordare certi versi tanto celebri: « Era già l’ora che volge il disio Ai navicanti... E che lo novo peregrin d’amore Punge, se ode squilla di lontano Che paia ‘il giorno pianger che si more...» (Dante, Purg. VIII); o altri, ugualmente soffusi di melanconica religiosità: « Ave Maria! Quando su l’aure corre L’umil saluto, i piccioli mortali Scovrono il capo...» (Carducci, La Chiesa di Polenta). 17. pieno la fantasia...: costruzione alla greca o di accusativo di relazione (di cui il più classico esempio manzoniano è nel primo verso del coro di Ermengarda nell’Adelchi: « Sparsa
le trecce
morbide... »), che con-
tribuisce a dare a tutto il periodo una certa nota, sia pure fuggevole, di poesia,
Î promessi spost
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non ebbe cuore d’abbordarne nessuno, per informarsi della strada. — Ha detto sei miglia, colui, — pensava: — se andando fuor di strada, dovessero anche diventar otto o dieci, le gambe che hanno fatte l’altre, faranno anche queste. Verso Milano non vo di certo; dunque vo verso l’Adda. Cammina,
cammina, o presto o tardi ci arriverò. L’Adda ha buona voce; e, quando le
sarò vicino, non ho più bisogno di chi me l’insegni. Se qualche barca c’è, da
poter passare, passo subito, altrimenti mi fermerò fino alla mattina, in un
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campo, sur una pianta, come le passere:
meglio sur una pianta, che in pri-
gione. —
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Ben presto vide aprirsi una straducola a mancina; e v’entrò. À quell’ora, se si fosse abbattuto in qualcheduno, non avrebbe più fatte tante cerimonie per farsi insegnar la strada; ma non sentiva anima vivente. Andava dunque dove la strada lo conduceva; e pensava. — Io fare il diavolo! Io ammazzare tutti i signori! Un fascio di lettere, io! I miei compagni che mi stavano a far la guardia! Pagherei qualche cosa a trovarmi a viso a viso con quel mercante, di là dall’Adda (ah quando l’avrò passata quest'Adda benedetta!), e fermarlo, e domandargli con comodo dov’abbia pescate tutte quelle belle notizie. Sappiate ora, mio caro signore, che la cosa è andata così e così, e che il diavolo ch’io ho fatto, è stato d’aiutar Ferrer, come se fosse stato un mio fratello; sappiate che que’ birboni che, a sentir voi, erano i miei amici, perché, in un certo momento,
io dissi una
parola da buon cristiano, mi vollero fare un brutto scherzo; sappiate che, in-
40 tanto che voi stavate a guardar la vostra bottega, io mi faceva schiacciar le costole, per salvare il vostro signor vicario di provvisione, che non l’ho mai né visto né conosciuto. Aspetta che mi mova un’altra volta, per aiutar si-
gnori... È vero che bisogna farlo per l’anima: son prossimo anche loro. E quel gran fascio di lettere, dove c’era tutta la cabala, e che adesso è in mano della 45
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giustizia, come voi sapete senza l’aiuto del diavolo? qui... Una lettera sola?... volete sapere, l’ha scritta
di certo; scommettiamo che ve lo fo comparir qui, Avreste curiosità di vederlo quel fascio? Eccolo Sì signore, una lettera sola; e questa lettera, se lo un religioso che vi può insegnar la dottrina, quan-
do si sia; un religioso che, senza farvi torto, val più un pelo della sua barba che tutta la vostra; e è scritta, questa lettera, come vedete, a un altro religioso, un uomo anche lui... Vedete ora quali sono i furfanti miei amici.
E imparate a parlare un’altra volta; principalmente quando si tratta del prossimo. —
22. L’Adda ha buona voce: solo un uomo nato sulle sue rive può avere un’espressione così affettuosa e sicura per il bel fiume. E questo sentimento è confermato da quanto Renzo continua a dire: « quando le sarò vicino, non ho bisogno di chi me l’insegni ». 25-26. meglio sur una pianta, che in prigione: all’inizio della fuga aveva detto, ancora a Milano: «se posso essere uccel di bosco, non voglio diventare uccel di gabbia ». Così al motivo della libertà. si unisce quello della natura ampia ed amica. Accanto all’umile montanaro, senti apparire il M. poeta del paesaggio. 31. Io fare il diavolo! Io...: questo soliloquio che èx un’autodifesa contro deforma-
zioni e falsità, costituisce una pagina vivissima fra tutte quelle che il M. ha composto su Renzo. Dalle espressioni sdegnate emerge netta la personalità del giovane, con quanto di vecchio e di nuovo c’è in lui: l'animo onesto e il cuore deluso. Le esclamazioni improvvise, le domande convulse, messe lì senza sintassi, e accompagnate dal gestire, sviluppano un contrasto ideale col mercante e sono di una verità perfetta; mentre l’insorgere continuo di pensieri buoni, di sentimenti cristiani, di riconoscenza e d’ammirazione per i protettori, e tanti altri motivi ancora, riabilitano definitivamente il protagonista e ne fissano per sempre l’immagine sana e vigorosa.
capitolo XVII
Ma dopo qualche tempo, questi pensieri ed altri simili cessarono affatto:
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le circostanze paura d’essere pieno giorno, questo molto
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presenti occupavan tutte le facoltà del povero pellegrino. La inseguito o scoperto, che aveva tanto amareggiato il viaggio in non gli dava ormai più fastidio; ma quante cose rendevan più noioso! Le tenebre, la solitudine, la stanchezza cresciuta, e
ormai dolorosa; tirava una brezzolina sorda, uguale, sottile, che doveva far
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poco servizio a chi si trovava ancora indosso quegli stessi vestiti che s'era messi per andare a nozze in quattro salti, e tornare subito trionfante a casa sua; e, ciò che rendeva ogni cosa più grave, quell’andare alla ventura, e, per. dir così, al tasto, cercando un luogo di riposo e di sicurezza. Quando s’abbatteva a passare per qualche paese, andava adagio adagio, guardando però se ci fosse ancora qualche uscio aperto; ma non vide mai altro segno di gente desta, che qualche lumicino trasparente da qualche impannata. Nella strada fuor dell’abitato, si soffermava ogni tanto; stava in orecchi, per vedere se sentiva quella benedetta voce dell'Adda; ma invano. Altre voci non sentiva, che un mugolìo di cani, che veniva da qualche cascina isolata, vagando per l’aria, lamentevole insieme e minaccioso. Al suo avvici- . narsi a qualcheduna di quelle, il mugolìo si cambiava in un abbaiar frettoloso e rabbioso: nel passar davanti alla porta, sentiva, vedeva, quasi, il bestione, col muso al fessolino della porta, raddoppiar gli urli: cosa che gli faceva andar via la tentazione di picchiare, e di chieder ricovero. E forse, anche senza i cani, non ci si sarebbe risolto. — Chi è là? — pensava: — cosa volete a quest'ora? Come siete venuto qui? Fatevi conoscere. Non c’è osterie
da alloggiare? Ecco, andandomi bene, quel che mi diranno, se picchio: quand’anche non ci dorma qualche pauroso che, a buon conto, si metta a gridare:
54. questi pensieri... cessarono: dopo i momenti dell’eccitazione risentita, a poco a poco l’animo del pellegrino si trasforma, e sembra che una specie d’inerzia mentale s'impadronisca di lui. È l’effetto naturalissimo della lunga fatica, della depressione fisica e psicologica che produce sempre più i suoi effetti, dopo giorni interi di sconvolgimenti sempre nuovi e dolorosi. 59. una brezzolina sorda...: la senti davvero, questa brezzolina « sorda, uguale, sottile » penetrare nelle membra ed intaccare lo spirito. Il passaggio della sera novembrina è creato dal M. con tante di queste notazioni che, accanto all'immagine visiva dei luoghi e dell’ora, danno la sensazione della pena interiore che si fa sempre più logorante. 61. trionfante: questa parola, anche se qualcuno la critica, a noi sembra bene appropriata, pensando a chi e a quale momento si riferisce. Essa, fra l’altro, richiama perfettamente quella prima immagine che ci aveva colpito in Renzo, quando l’avevamo visto con la sua « lieta furia d’un uomo di vent'anni, che deve in quel giorno sposare quella che ama» (Cap. II). 68. benedetta voce dell'Adda: prima aveva detto: «l’Adda ha una buona voce »,
Questa voce s’insinua per tutto il capitolo, che proprio col ritrovamento dell'Adda segnerà la catarsi del travaglio di Renzo. 68-69. Altre voci non sentiva...: un senso di mistero incomincia a diffondersi nella vasta campagna e fra gli sparsi casolari, in una sinfonia notturna di silenzi e di rumori, che sempre più gravano sull’anima stanca del pellegrino. Il M. è mirabile nel creare tali effetti musicali e spirituali: qualcuno, per questo, lo ha paragonato al Pascoli. 70. lamentevole insieme e minaccioso: la prima edizione diceva: « querulo a un tempo e minaccioso ». È questo uno dei tanti esempi che si potrebbero citare per mostrare come le numerosissime modifiche apportate dal M. in queste pagine alla prima edizione dipesero non tanto dalla ricerca di una
maggiore
aderenza
alla lingua toscana,
quanto dall'impegno artistico di rendere la scena più morbida e melodica. Così dove, subito dopo, era scritto « l’uggiolare si cangiava in un latrar concitato, iracondo » il M. sostituì con « il mugolìo si cambiava in un abbaiar frettoloso e rabbioso »: in tal modo il lamento di quel bestione nel gran silenzio notturno riecheagia con una stupenda cadenza, che ha davvero qualcosa di
umano,
Leggi l’« Appendice
seconda ».
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e cosa aiuto! al ladro! Bisogna aver subito qualcosa di chiaro da rispondere: altro testa in viene gli non notte, da rispondere io? Chi sente un rumore la
ho
galantuomo possa che ladri, malviventi, trappole: non si pensa mai che un — Allora serza. trovarsi in istrada di notte, se non è un cavaliere in carroz speranza di bava quel partito all’estrema necessità, e tirava innanzi, con la dover anscoprire almeno l’Adda, se non passarla, in quella notte; e di non darne alla cerca, di giorno chiaro. soCammina, cammina; arrivò dove la campagna coltivata moriva in unacerto un daglia sparsa di felci e di scope. Gli parve, se non indizio, almeno sentiero qual argomento di fiume vicino, e s’inoltrò per quella, seguendo un
. che l’attraversava. Fatti pochi passi, si fermò ad ascoltare; ma ancora invano
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La noia del viaggio veniva accresciuta dalla salvatichezza del luogo, da quel che non veder più né un gelso, né una vite, né altri segni di coltura umana, prima pareva quasi che gli facessero una mezza compagnia. Ciò non ostante immaandò avanti; e siccome nella sua mente cominciavano a suscitarsi certe
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gini, certe apparizioni, lasciatevi in serbo dalle novelle sentite raccontar da bambino, così, per discacciarle, o per acquietarle, recitava, camminando, delì l’orazioni per i morti. di , quercioli di pruni, di alte, più A poco a poco, si trovò tra macchie marrtuche. Seguitando a andare avanti, e allungando il passo, con più impazienza che voglia, cominciò a veder tra le macchie qualche albero sparso; e andando ancora, sempre per lo stesso sentiero, s’accorse d’entrare in un bosco. Provava un certo ribrezzo a inoltrarvisi; ma lo vinse, e contro voglia an-
dò avanti; ma più che s’inoltrava, più il ribrezzo cresceva, più ogni cosa gli dava fastidio. Gli alberi che vedeva in lontananza, gli rappresentavan figure strane, deformi, mostruose; l’annoiava l’ombra delle cime leggermente agitate, che tremolava sul sentiero illuminato qua e là dalla luna; lo stesso scrosciar delle foglie secche che calpestava o moveva camminando, aveva per il suo orecchio un non so che d’odioso. Le gambe provavano come una smania, un impulso di corsa, e nello stesso tempo pareva che durassero fatica
a regger la persona. Sentiva la brezza notturna batter più rigida e maligna
81-82. un galantuomo... in carrozza: il M., checché ne dicano certi improvvisati commentatori moderni, più offuscati da ideologie male adattabili al romanzo che guidati da onesto intuito critico, è sempre umanamente e cristianamente accanto ai poveri, ai tribolati, alle vittime, e spiritualmente lontano dai cavalieri che vanno în carrozza e dai loro simili, potenti e sopraffattori. 86. Cammina, cammina...: così era incominciato il racconto del lungo vagare di Renzo per le viottole e per le strade; così ancora si ritma la sua fuga dopo ore ed ore, dal primo mattino allo scender della sera e poi all’avanzar della notte. La cadenza ha veramente qualcosa di epico e di fiabesco, e prepara il riaffacciarsi di ricordi lontani, d’incubi infantili, di fantasie tristi e superstiziose, e quindi il bisogno della preghiera confortatrice. — sodaglia: terreno non dissodato, quindi brullo, con alberatu-
ra stentata. Il termine e l’immagine contribuiscono ad accrescere il senso di abbandono e di tristezza che grava sul fuggitivo. 101. Provava un certo ribrezzo...: con verità assoluta sempre l’ambiente si ripercuote in Renzo, il cui stato d’animo muta col cambiare del paesaggio. La sofferenza del fuggitivo è l’angoscia dell’uomo solo, il terrore di ritrovarsi sperduti in mezzo ad una natura ignota, deserta, ostile. — Ciò che stiamo leggendo ora è una pagina di altissima poesia. Per rimanere nel mondo artistico del M., potremmo accostarla al brano del diacono Martino, che narra il suo passaggio per le Alpi (Adelchi, atto Il). 109. Sentiva la brezza notturna...: prima era stata una « brezzolina sorda, uguale, sottile »: ora è una « brezza rigida e maligna ». E anche qui abbiamo la sensazione del suo scorrer fra i panni e le carni, e raggrin-
zarle.
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sulla fronte e sulle gote; se la sentiva scorrer tra i panni e le carni, e rag-
grinzarle, e penetrar più acuta nelle ossa rotte dalla stanchezza, e spegnervi quell’ultimo rimasuglio di vigore. A un certo punto, quell’uggia, quell’orrore indefinito con cui l’animo combatteva da qualche tempo, parve che a un tratto lo soverchiasse. Era per perdersi affatto; ma atterrito, più che d’ogni altra cosa, del suo terrore, richiamò al cuore gli antichi spiriti, e gli comandò che reggesse. Così rinfrancato un momento, si fermò su due piedi a delibe-
rare; e risolveva d’uscir subito di lì per la strada già fatta, d’andar diritto all’ultimo paese per cui era passato, di tornar tra gli uomini, e di cercare un
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ricovero, anche all’osteria. E stando così fermo, sospeso il fruscìo de’ piedi nel fogliame, tutto tacendo d’intorno a lui, cominciò a sentire un rumore, un mormorìo d’acqua corrente. Sta in orecchi; n’è certo; esclama: «è l’Adda! » Fu il ritrovamento d’un amico, d’un fratello, d’un salvatore. La stanchezza quasi scomparve, gli tornò il polso, sentì il sangue scorrer libero e tepido per tutte le vene, sentì crescer la fiducia de’ pensieri, e svanire in gran parte quell’incertezza e gravità delle cose; e non esitò a internarsi sem-
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pre più nel bosco, dietro all'amico rumore. Arrivò in pochi momenti all'estremità del piano, sull’orlo d’una riva profonda; e guardando in giù tra le macchie che tutta la rivestivano, vide l’acqua luccicare e correre. Alzando poi lo sguardo, vide il vasto piano dell’altra riva, sparso di paesi, e al di là i colli, e sur uno di quelli una gran macchia bian-
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castra, che gli parve dover essere una città. Bergamo sicuramente. Scese un po’ sul pendìo, e, separando e diramando, con le mani e con le braccia, il
prunaio, guardò giù, se qualche barchetta si movesse nel fiume, ascoltò se sentisse batter de’ remi; ma non vide né sentì nulla. Se fosse stato qualcosa
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di meno dell'Adda, Renzo scendeva subito, per tentarne il guado; ma sapeva bene che Adda non era fiume da trattarsi così in confidenza. Perciò si mise a consultar tra sé, molto a sangue freddo, sul partito da prendere. Arrampicarsi sur una pianta, e star lì a aspettar l’aurora, per forse sei ore che poteva ancora indugiare, con quella brezza, con quella brina, ve114-115. atterrito... del suo terrore: notazione psicologica giustissima. Dal terrore coscientemente percepito nascono la forza e la volontà di resistere. 115-116. richiamò... che reggesse: l’espressione sembrò al Tommaseo «troppo sublime per un Tramaglino ». Ma così dicendo il Tommaseo non sentì come il M. abbia condotto il suo personaggio per gradi naturalissimi ad una situazione tragica ed eccezionale. 119-122. E stando... «è l’Adda! »: è il punto più sublime di tutta la lunga fuga, il momento che il M. ha preparato con arte somma attraverso un crescendo di scene, di sensazioni, di musiche sempre più intense. Anche qui viene alla mente il racconto del diacono Martino nella sua parte conclusiva: « ... l'orecchio Mi percosse un ronzio che di lontano Parea venir, cupo, incessante; io stetti, Ed immoto ascoltai... ». E, perché no?, alla mente potrebbe tornare anche, fra
i tanti ricordi lontani e vicini, quel famoso
grido dei compagni di Senofonte in ritirata: Il mare! il mare! (shalatta, thalatta). Ma nel grido di Renzo « è l’Adda », con la fine di una lunga peripezia, senti l’apparire sempre più deciso di una Provvidenza celeste che non abbandona mai l’uomo e, pur lasciandolo libero nel pensiero e nell’azione, sempre lo sorregge e lo guida. 122-126. La stanchezza... amico rumore: il ritmo è cambiato di nuovo, e giustamente; :l’esultanza si fa gioiosa e composta insieme, mentre il passo torna più franco e più celere dietro all'amico rumore. 135-136. sapeva bene che l’Adda...: tante cose Renzo sa dell’Adda! Quante lo scrittore, che a quel fiume della sua infanzia era particolarmente affezionato. Ricordiamo che una composizione giovanile del M. fu proprio l’idillio Adda, che egli inviò al Monti per invitarlo nella sua villa a Pescarenico: e quel mondo di dolci e sereni ricordi è passato nel romanzo come delicato motivo poetico.
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stito così, c'era più che non bisognasse per intirizzir davvero. Passeggiare innanzi e indietro, tutto quel tempo, oltre che sarebbe stato poco efficace aiuto contro il rigore del sereno, era un richieder troppo da quelle povere gambe,
.che già avevano fatto più del loro dovere. Gli venne in mente d’aver veduto, 145
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in uno de’ campi più vicini alla sodaglia, una di quelle capanne coperte di paglia, costrutte di tronchi e di rami, intonacati poi con la mota, dove i contadini del milanese usan, l’estate, depositar la raccolta, e ripararsi la notte a guardarla: nell’altre stagioni, rimangono abbandonate. La disegnò subito per suo albergo; si rimise sul sentiero, ripassò il bosco; le macchie, la sodaglia; e andò verso la capanna. Un usciaccio intarlato e sconnesso, era rabbattuto, senza chiave né catenaccio; Renzo l’aprì, entrò; vide sospeso per aria, e sostenuto da ritorte di rami, un graticcio, a foggia d’hamzac; ma non si curò
di salirvi. Vide in terra un po’ di paglia; e pensò che, anche sarebbe ben saporita. Prima però di sdraiarsi su quel letto che la Provvidenza rato, vi s’inginocchiò, a ringraziarla di quel benefizio, e di che aveva avuta da essa, in quella terribile giornata. Disse divozioni; e per di più, chiese perdono a Domeneddio di
lì, una dormitina
gli aveva prepatutta l’assistenza poi le sue solite non averle dette
la sera avanti; anzi, per dir le sue parole, d’essere andato a dormire come un 160
cane, e peggio. — E per questo, — soggiunse poi tra sé; appoggiando le mani sulla paglia, e d’inginocchioni mettendosi a giacere: — per questo, m'è toccata, la mattina, quella bella svegliata. — Raccolse poi tutta la paglia che rimaneva all’intorno, e se l’accomodò addosso, facendosene, alla meglio, una
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specie di coperta, per temperare il freddo, che anche là dentro si faceva sentir molto bene; e vi si rannicchiò sotto, con l’intenzione di dormire un bel sonno, parendogli d’averlo comprato anche più caro del dovere. Ma appena ebbe chiusi gli occhi, cominciò nella sua memoria o nella sua fantasia (il luogo preciso non ve lo saprei dire), cominciò, dico, un andare e venire di gente, così affollato, così incessante, che addio sonno. Il mercante, il notaio, i birri, lo spadaio, l’oste, Ferrer, il vicario, la brigata dell’osteria, tutta quella turba delle strade, poi don Abbondio, poi don Rodrigo: tutta gente con cui Renzo aveva che dire. 144. una di quelle capanne...: i così detti cascinotti, che incontreremo in un’altra camminata di Renzo (Cap. XXXIII). Ma con quanta domestica cura è descritto questo rifugio, che oscilla fra il rusticano e l’idillico, e che a Renzo ed a noi si presenta tanto più accogliente di tutte le osterie finora incontrate! Forse perché in quelle ci sono
gli uomini con le loro passioni e la loro cattiveria, e qui c'è la natura soltanto. 151. hamac: amaca; una specie ‘di letto pensile formato con una stuoia ricoperta di foglie o di paglia, e legato a due piante vicine. L’oggetto e la parola sono venuti dall'America. 155. vi s’inginocchiò...: tutta la scena che si apre ora ha, sì, un profondo significato religioso; ma, lungi da voler essere un momento apologetico della fede, è la naturale conclusione della lunga fuga di Renzo cri-
stiano. La Provvidenza vi assume. dimensioni di vita umile e quotidiana. 156-157. le sue solite divozioni: « la preghiera di Renzo ha e il profumo della povera gente (Disse poi le sue solite devozioni) e la grandezza spirituale ed artistica delle cose semplici (chiese perdono a Domeneddio di non averle dette la sera avanti). Ma a nessuno sfugga come, a un certo punto, il M. da grande poeta eviti di appesantire l’immagine, con insistenze puramente religiose, e ricorra a quell’arguta variazione di tono che è nella realistica similitudine del dormire come
un cane»
(Mazzamuto).
168. addio sonno: la notte della redenzione non può essere fatta per dormire; essa deve essere, ed è, totalmente opposta alla notte precedente, quella dell’osteria, passata in un sonno che aveva più della bestia che dell’uomo.
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Tre sole immagini gli si presentavano non accompagnate da alcuna memoria amara, nette d’ogni sospetto, amabili in tutto; e due principalmente, molto
differenti al certo, ma strettamente legate nel cuore del giovine: una treccia nera e una barba bianca. Ma anche la consolazione che provava nel fermare
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sopra di esse il pensiero, era tutt’altro che pretta e tranquilla. Pensando al buon frate, sentiva più vivamente la vergogna delle proprie scappate; della turpe intemperanza, del bel caso che aveva fatto de’ paterni consigli di lui; e
contemplando l’immagine di Lucia! non ci proveremo a dire ciò che sentisse: il lettore conosce le circostanze; se lo figuri. E quella povera Agnese, come
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l'avrebbe potuta dimenticare? Quell’Agnese, che l’aveva scelto, che l’aveva già considerato come una cosa sola con la sua unica figlia, e prima di ricever
da lui il titolo di madre, n’aveva preso il linguaggio e il cuore, e dimostrata co’ fatti la premura. Ma era un dolore di più, e non il meno pungente, quel 185
pensiero, che, in grazia appunto di così amorevoli intenzioni, di tanto bene
.
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che voleva a lui, la povera donna si trovava ora snidata, quasi raminga, incerta dell'avvenire, e raccoglieva guai e travagli da quelle cose appunto da cui aveva sperato il riposo e la giocondità degli ultimi suoi anni. Che notte, povero Renzo! Quella che doveva essere la quinta delle sue nozze! Che stanza! Che letto matrimoniale! E dopo qual giornata! E per arrivare a qual domani, a qual serie di giorni! — Quel che Dio vuole, — rispondeva ai pensieri che gli davan più noia: — quel che Dio vuole. Lui sa quel che fa: c’è anche per noi. Vada tutto in isconto de’ miei peccati. Lucia è tanto buona! non vorrà poi farla patire un pezzo, un pezzo, un pezzo! — Tra questi pensieri, e disperando ormai d’attaccar sonno, e facendosegli il freddo sentir sempre più, a segno ch’eta costretto ogni tanto a tremare e a battere i denti, sospirava la venuta del giorno, e misurava con impazienza il lento scorrer
dell’ore.
Dico
misurava,
perché, ogni mezz’ora,
sentiva in
quel vasto silenzio, rimbombare i tocchi d’un orologio: m’immagino che do200
vesse esser quello di Trezzo. E la prima volta che gli ferì gli orecchi quello scocco, così inaspettato, senza che potesse avere alcuna idea del luogo donde venisse, gli fece un senso misterioso e solenne, come d’un avvertimento che venisse da persona non vista, con una voce sconosciuta.
Quando finalmente quel martello ebbe battuto undici tocchi, ch’era l’ora 205
disegnata da Renzo per levarsi, s’alzò mezzo intirizzito, si mise inginocchioni, ‘174-175. una treccia nera ed una barba bianca: Lucia e padre Cristoforo, accostati con una delicatezza di immagini tanto sobria e pur tanto affettuosa e viva. 181-188. Quell’Agnese... ultimi suoi anni: che il ricordo di Agnese sia molto più diffuso di quello di Lucia (e di padre Cristoforo) può sembrare strano, ma è invece suggerito da una sagace intuizione del M.; proprio attraverso questi pensieri per Agnese si rivela la profonda umanità di Renzo, la chiara coscienza della sua sventura e della sua colpa. 193. Lucia è tanto buona!: sono fra le parole più belle e appassionate di Renzo. In esse c’è, oltre il riconoscimento dei propri errori, la pienezza dell’affetto e dell’am-
mirazione per la donna amata, sentita an-
che intercessora fra lui e Dio, e, insieme, la pienezza della fiducia cristiana.
200. Trezzo: un paesino sull’Adda, ad una diecina di chilometri da Cassano. Ma osserva come il M., introducendosi nel vivo di un passo tanto lirico ed intenso, con una espressione indefinita e suggestiva si accordi perfettamente con tutta l'atmosfera poetica: « m'immagino che dovesse esser quello di Trezzo ». — Di questo paese si ricorda che ha un celebre castello dei Visconti, da cui prese il titolo un romanzo storico che G.B. Bazzoni pubblicò proprio nel 1827: Il castello di Trezzo. 204. undici tocchi: fra le cinque e le sei del mattino. Come abbiamo detto altre volte, le ore si incominciavano a contare dal tramonto,
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disse, e con più fervore del solito, le divozioni della mattina, si rizzò, si
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stirò in lungo e in largo, scosse la vita e le spalle, come per mettere insieme tutte le membra, che ognuno pareva che facesse da sé, soffiò in una mano, poi nell’altra, se le stropicciò, aprì l’uscio della capanna; e, per la prima cosa, diede un’occhiata in qua e in là, per veder se c’era nessuno.E non vedendo nessuno; cercò con l’occhio il sentiero della sera avanti: lo riconobbe subito, i e prese per quello. un canto, pallida e in luna, la giornata: Il cielo prometteva una bella che, giù giù ceruleo, bigio d’un senza raggio, pure spiccava nel campo immenso Più giù, alroseo. verso l’oriente, s’andava sfumando leggermente in un giallo l'orizzonte, si stendevano, a lunghe falde ineguali, poche nuvole, tra l’azzurro e il bruno, le più basse orlate al di sotto d’una striscia quasi di fuoco, che di mano in mano si faceva più viva e tagliente: da mezzogiorno, altre nuvole ravvolte insieme, leggieri e soffici, per dir così, s'andavan lumeggiando di mille colori senza nome: quel cielo di Lombardia, così bello quand'è bello, così splendido, così in pace. Se Renzo si fosse trovato lì andando a spasso, certo avrebbe guardato in su, e ammirato quell’albeggiare così diverso da quello ch’era solito vedere ne’ suoi monti; ma badava alla sua strada, e camminava a passi lunghi, per riscaldarsi, e per arrivar presto. Passa i campi, passa la sodaglia, passa le macchie, attraversa il bosco, guardando in qua e in lì, e ridendo e vergognandosi nello stesso tempo, del ribrezzo che vi aveva provato poche ore prima; è sul ciglio della riva, guarda giù; e, di tra i rami,
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vede una barchetta di pescatore, che veniva adagio, contr’acqua, radendo quella sponda. Scende subito per la più corta, tra i pruni; è sulla riva; dà una voce leggiera leggiera al pescatore; e, con l’intenzione di far come se chiedesse un servizio di poca importanza, ma, senza avvedersene, in una maniera mezzo
supplichevole, gli accenna che approdi. Il pescatore gira uno sguardo lungo
la riva, guarda attentamente lungo l’acqua che viene, si volta a guardare indietro, lungo l’acqua che va, e poi dirizza la prora verso Renzo, e approda. 235)
Renzo che stava sull’orlo della riva, quasi con un piede nell’acqua, afferra la punta del battello, ci salta dentro, e dice: « mi fareste il servizio, col pagare, di tragittarmi di là? » Il pescatore l’aveva indovinato, e già voltava da quella parte. Renzo, vedendo sul fondo della barca un altro remo, si china, e l’afferra. 213. Il cielo prometteva...: si apre una delle descrizioni paesistiche più stupende e più famose del M. Una descrizione vasta e placida nelle sue armoniose cadenze, una descrizione che interessa, sì, per la dolcezza di quel cielo di Lombardia, così bello quand'è bello, così splendido, così in pace, ma che, soprattutto, avvince perché nella sua serenità sentiamo spontaneamente rispecchiarsi l’animo del fuggitivo, ormai purificato dal dolore. È, dunque, un cielo soffuso di mistica rasserenante promessa, il paesaggio dell’anima rigenerata e illuminata da una lontana ma sicura certezza di pace. Viene alla memoria la finale del secondo coro dell’Adelchi, con quel sole cadente che « imporpora Il trepido occidente: Al pio colono augurio Di più sereno dì ». Ma il M. ...è sempre il M.: dopo il volo della fantasia e della poe-
sia, ecco che ci riporta alla realtà quotidiana e mediocre, col suo Renzo che tutte quelle cose belle neppure le vede, ma bada, lui, alla sua strada e cammina « passi lunghi, per riscaldarsi, e per arrivar presto.
224-225. Passa..., passa..., passa...: c'è l’alacrità del cammino sospinto dalla vivace speranza. Torna al ricordo l’affannosa cadenza dei « cammina, cammina » del giorno precedente. 233-234. l’acqua che viene... l’acqua che. va: quest’acqua intravista fra i rami, solcata silenziosamente da una barca sul fare dell’alba, corrente fra rive deserte, ci resta fissa nella mente come una nota paesistica di purissima poesia. E con lei, anche la figura prudente ed arguta del pescatore: un uomo, a cui l’esperienza della ‘vita ha reso più grande l’innata saggezza.
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. < Adagio, adagio, » disse il padrone; ma nel vedere poi con che garbo il giovine aveva preso lo strumento, e si disponeva a maneggiarlo, « ah, ah, » riprese: « siete del mestiere. » < Un pochino, » rispose Renzo, e ci si mise con.un vigore e con una maestria, più che da dilettante. E senza mai rallentare, dava ogni tanto un’occhiata ombrosa alla riva da cui s’allontanavano, e poi una impaziente a quella dov’eran rivolti, e si coceva di non poterci andar per la più corta; ché la corrente era, in quel luogo, troppo rapida, per tagliarla direttamente; e la barca, parte rompendo, parte secondando il filo dell’acqua, doveva fare un tragitto
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diagonale. Come accade in tutti gli affari un po’ imbrogliati, che le difficoltà alla prima si presentino all’ingrosso, e nell’eseguire poi, vengan fuori per mi-
nuto, Renzo, ora che l’Adda era, si può dir, passata, gli dava fastidio il non saper di certo se lì essa fosse confine, o se, superato quell’ostacolo, gliene rimanesse un altro da superare. Onde, chiamato il pescatore, e accennando col capo quella macchia biancastra che aveva veduta la notte avanti, e che allora gli appariva ben più distinta, disse « è Bergamo, quel paese? » « La città di Bergamo, » rispose il pescatore.
« E quella riva lì, è bergamasca? » « Terra di san Marco. » « Viva san Marco! » esclamò Renzo. Il pescatore non disse nulla. Toccano finalmente quella riva; Renzo vi si slancia; ringrazia Dio tra sè, e poi con la bocca il barcaiolo; mette le mani in tasca, tira fuori una berlinga, che, attese le circostanze, non fu un piccolo sproprio, e la porge al galantuomo; il quale, data ancora una occhiata alla riva milanese, e al fiume di sopra e di sotto, stese la mano, prese Ia mancia, la ripose, poi strinse le
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labbra, e per di più ci mise il dito un’occhiata espressiva; e disse poi: Perché la così pronta e discreta non faccia troppo maravigliare il l’uomo, pregato spesso d’un simile era avvezzo a farlo; non tanto per
in croce, accompagnando quel gesto con « buon viaggio», e tornò indietro. cortesia di costui verso uno sconosciuto lettore, dobbiamo informarlo che quelservizio da contrabbandieri e da banditi, amore del poco e incerto guadagno che
gliene poteva venire, quanto per non farsi de’ nemici in quelle classi. Lo faceva, dico, ogni volta che potesse esser sicuro che ‘non lo vedessero né gabellieri, né birri, né esploratori. Così, senza voler più bene ai primi che ai secondi, cercava di soddisfarli tutti, con quell’imparzialità, che è la dote ordi-
251. Renzo... gli dava fastidio: anacoluto pieno di grazia maliziosa.
Pensa
come
sa-
rebbe più freddo il regolare « a Renzo... dava fastidio ». è 256. La città di Bergamo: simpatico questo orgoglio campanilistico del pescatore bergamasco, che dà una lezione di galateo geografico a Renzo, che aveva chiamato paese Bergamo. 258. Terra di san Marco: cioè, della Repubblica di Venezia, sotto il cui dominio Bergamo stette dal 1428 al 1797. 259. Il pescatore non disse nulla: silenzio molto eloquente, e fa un bel contrasto con l’effusione del giovane. Il pescatore, che ha capito da un pezzo che Renzo è un fug-
giasco, e che di servigi simili ne ha resi molti, si comporta con una prudenza divenutagli ormai abituale. Prudenza nel parlare e, come vedremo subito dopo, nell’agire; e non, come è stato da altri affermato, esclusiva « freddezza morale ». 267-276. Perché la così... a cert’altri: il ritratto morale di questo galaniuomo e le considerazioni che il M. fa su di lui si allargano, come in altre situazioni simili, ad una critica più vasta della società del Secolo. Ma sull’uomo del popolo che, in fondo, ora ha soccorso un poveretto ingiustamente perseguitato, lo sguardo dello scrittore si posa con benevola comprensione e discreto sorriso.
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naria di chi è obbligato a trattar con cert’uni, e soggetto a render conto a , cert’altri. Renzo si fermò un momentino sulla riva a contemplar la riva opposta, quella terra che poco prima scottava tanto sotto i suoi piedi. — Ah! ne son
proprio fuori! — fu il suo primo pensiero. — Sta lì, il secondo, l’addio alla patria. Ma il terzo corse a chi Allora incrociò le braccia sul petto, mise un sospiro, l’acqua che gli scorreva a’ piedi, e pensò — è passata
maledetto paese, — fu lasciava in quel paese. abbassò gli occhi sulsotto il ponte! — Così,
all’uso del suo paese, chiamava, per antonomasia, quello di Lecco. — Ah mondo birbone! Basta; quel che Dio vuole. — Voltò le spalle a que’ tristi oggetti, e s’incamminò, prendendo per punto di mira la macchia biancastra sul pendìo del monte, finché trovasse qualcheduno da farsi insegnar la strada giusta. E bisognava vedere con che disinvoltura s’accostava a’ viandanti, e, senza tanti rigiri, nominava il paese dove abitava quel suo cugino. Dal primo a cui si rivolse, seppe che gli rimanevano ancor nove miglia da fare. Quel viaggio non fu lieto. Senza parlare de’ guai che Renzo portava con sé, il suo occhio veniva ogni momento rattristato da oggetti dolorosi, da’ quali dovette accorgersi che troverebbe nel paese in cui s’inoltrava, la penuria che aveva lasciata nel suo. Per tutta la strada, e più ancora nelle terre e ne’ borghi, incontrava ad ogni passo poveri, che non eran poveri di mestiere, e mostravan la miseria più nel viso che nel vestiario: contadini, montanari, artigiani, famiglie intere; e un misto ronzìo di preghiere, di lamenti e di vagiti. Quella vista, oltre la compassione e la malinconia, lo metteva anche in pensiero de’ casi suoi. — Chi sa, — andava meditando, — se trovo da far bene? se c’è lavoro, come negli anni passati? Basta; Bortolo mi voleva bene, è un buon figlinolo,
ha fatto danari, m’ha invitato tante volte; non m’abbandonerà.
E poi, la
Provvidenza m’ha aiutato finora; m’aiuterà anche per l’avvenire. — 279. Sta lì, maledetto paese: questo « addio alla patria» è un’esplosione spontanea e naturalissima, reazione ben comprensi-
bile di Renzo a tutte le sofferenze che la sua terra — rappresentata dalla classe dirigente dei don Rodrigo e dei notai criminali, degli Azzeccagarbugli e dei podestà — da un pezzo a questa parte gli ha procurato. In più il M. vi ha aggiunto, di suo, l’arguta definizione addio alla patria, nella quale potremmo trovare, anche, una seria verità da meditare: che la patria non è tale, quando non è giusta verso i suoi figli. — Questo grido di Renzo ha dato molto da fare ai critici, a cominciare da quel Paride Zaiotti (1793-1843), il quale, imbevuto di un romanticismo molto parolaio, avrebbe voluto che Renzo, appena messo piede sulla riva straniera, tendendo le braccia alla « terra della sua sposa », avesse gridato a Lucia: — Io vivo ancora, e vivo per te! — Al che il Pistelli (per citare uno degli obiettori più acuti e concisi): « Difficile immaginare gesto e parole più goffamente antimanzoniane;
senza dire [...] che la gioia della sicurezza e della libertà, dopo tanto patire, doveva naturalmente prorompere ‘improvvisa ?’, irresistibile, sopra ogni altro affetto ». 282. è passata sotto il ponte!: il ponte di Lecco, vicino al suo paese, al paese dei suoi cari... Quindi una certa tenerezza ha preso anche Renzo: era inevitabile. Ma poi la reazione decisa — « Ah mondo birbone! Basta...» — distrugge ogni effusione patetica e ci ridà il Renzo più vero. 295. incontrava ad ogni passo poveri: il motivo della carestia, dopo essere stato all’origine delle scene tumultuose di Milano, torna ora con le stesse visioni desolate: della campagna che avevamo incontrate in un altro mattino: quando all’animo già triste di padre Cristoforo recava nuova mestizia lo spettacolo dei mendichi « laceri e macilenti » e dei lavoratori che gettavano disillusi le rade semente (Cap. IV). 302-303. la Provvidenza...; m’aiuterà...: e più avanti sentiremo esclamare dallo stesso Renzo: «La c’è la Provvidenza » e, poco
capitolo XVII
307
. Intanto l’appetito, risvegliato già da qualche tempo, andava crescendo di
305 miglio in miglio; e quantunque Renzo, quando cominciò a dargli retta, sen-
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tisse di poter reggere, senza grand’incomodo, per quelle due o tre che gli potevan rimanere; pensò, da un’altra parte, che non sarebbe una bella cosa di presentarsi al cugino, come un pitocco, e dirgli, per primo complimento: dammi da mangiare. Si levò di tasca tutte le sue ricchezze, le fece scorrere sur una mano, tirò la somma.
Non era un conto che richiedesse una grande
aritmetica; ma però c’era abbondantemente da fare una mangiatina. Entrò in
b15
un'osteria a ristorarsi lo stomaco; e in fatti, pagato che ebbe, gli rimase ancorqualche soldo. i Nell’uscire, vide, accanto alla porta, che quasi v’inciampava, sdraiate in terra, più che sedute, due donne, una attempata, un’altra più giovine, con un bambino, che, dopo aver succhiata invano l’una e l’altra mammella, piangeva, piangeva; tutti del color della morte: e ritto, vicino a loro, un uomo, nel viso del quale e nelle membra, si potevano ancora vedere i segni d’un’an-
tica robustezza, domata e quasi spenta dal lungo disagio. Tutt’e tre stesero la nessuno parlò; che poteva dir di più una preghiera?
320 - mano verso colui che usciva con passo franco, e con l’aspetto rianimato:
«La 325
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c’è la Provvidenza! » disse Renzo;
sentimento
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e, cacciata subito la mano
in
tasca, la votò di que’ pochi soldi; li mise nella mano che si trovò più vicina, e riprese la sua strada. La refezione e l’opera buona (giacché siam composti d’anima e di corpo) avevano riconfortati e rallegrati tutti i suoi pensieri. Certo, dall’essersi così spogliato degli ultimi denari, gli era venuto più di confidenza per l’avvenire, che non gliene avrebbe dato il trovarne dieci volte tanti. Perché, se a sostenere in quel giorno que’ poverini che mancavano sulla strada, la Provvidenza aveva tenuti in serbo proprio gli ultimi quattrini d’un estraneo, fuggitivo, incerto anche lui del come vivrebbe; chi poteva credere che volesse poi lasciare in secco colui del quale s’era servita a ciò, e a cui aveva dato un così vivo di sé stessa, così efficace, così risoluto?
Questo
era,
a un di presso, il pensiero del giovine; però men chiaro ancora di quello ch’io l’abbia saputo esprimere. Nel rimanente della strada, ripensando a’ casi suoi, dopo: « L'ho detto io della Provvidenza ». La Provvidenza, motivo costante di tutto il romanzo, proprio con Renzo è affermata nelle forme e nei toni più decisi, e in diretta corrispondenza con tutta la visione cristiana della vita propria del M. 307-309. non sarebbe... da mangiare: questi atteggiamenti onesti e dignitosi sono connaturati in Renzo. Ne puoi trovare più d’un esempio riandando a passate vicende. 315-319. due donne... lungo disagio: mai avevamo incontrato un quadro così straziante di creature livide e disfatte. Ma, andando avanti, questi quadri diverranno tristemente frequenti, nel grande tema della fame: e tutti il M. ritrarrà, insieme con l’efficacia pittorica del linguaggio, con la sofferta presenza del suo animo. 333-334. Questo... il pensiero del giovane: che è il pensiero del M., il quale si fa interprete, ora, dell'animo commosso di Ren-
zo, come un’altra volta si era fatto interprete dell'animo commosso di Lucia: « Di tal genete, se non tali appunto, erano i pensieri di Lucia» (Cap. VIII). « Gli umili personaggi del romanzo — ben dice lo Steiner — sono uomini anch'essi, e capaci quindi, come tutti gli altri, di ragionare e di sentire; ma non sono, come tanti altri, avvezzi a ripiegarsi su se stessi; a scrutarsi, e, mol-
to meno, ad esprimere tutto quello che passa entro di loro; l’interiore ricchezza del loro spirito è così in essi quasi sepolta; ed ecco sopravviene il poeta, che porta la luce in quella realtà; scioglie, dipana, ordina quei pensieri, quei sentimenti, e li fa vivere così nella espressione, come vivevano un po’ confusamente negli spiriti che li avevano accolti ». E ancora una volta, concludiamo, sono pensieri che nascono da quella benefica fede che, conforto unico della vita, è l’il-
luminatrice di tutto il romanzo.
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i promessi sposi
anni si miete: intutto gli si spianava. La carestia doveva poi finire: tutti gli per di più, a casa tanto aveva il cugino Bortolo e la propria abilità: aveva, alla peggio, camun po’ di danaro, che si farebbe mandar subito. Con quello Ecco poi tot— perebbe, giorno per giorno, finché tornasse l'abbondanza. fantasia: — rinata finalmente l’abbondanza, — proseguiva Renzo nella sua operai milanesi, nasce la furia de’ lavori: i padroni fanno a gara per aver degli alzan la cresta; si milane operai che son quelli che sanno bene il mestiere; gli vivere per più da chi vuol gente abile, bisogna che la paghi; si guadagna
vend’uno, e da metter qualcosa da parte e si fa scrivere alle donne che che ab-
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gano... E poi, perché aspettar tanto? Non è vero che, con:quel poco
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e far vedere alle donne il luogo dove mi sono imbarcato, il prunaio da cui sono sceso, quel posto dove sono stato a guardare se c’era un battello. — Arriva al paese del cugino; nell’entrare, anzi prima di mettervi piede, distingue una casa alta, a più ordini di finestre lunghe lunghe; riconosce un filatoio, entra, domanda ad alta voce, tra il rumore dell’acqua cadente e delle rote, se stia lì un certo Bortolo Castagneri. « Il signor Bortolo! eccolo là. » — Signore? buon segno, — pensa Renzo; vede il cugino, gli corre incontro. Quello si volta, riconosce il giovine, che gli dice: « son qui ». Un oh! di sorpresa, un alzar di braccia, un gettarsele al collo scambievolmente. Dopo quelle prime accoglienze, Bortolo tira il nostro giovine lontano dallo strepito degli ordigni, e dagli occhi de’ curiosi, in un’altra stanza, e gli dice: «ti vedo volentieri; ma sei un benedetto figliuolo. T’avevo invitato tante volte;
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remo biamo in serbo, si sarebbe campati là, anche quest’inverno? Così campe su mette si : donne qui. De’ curati ce n’è per tutto. Vengono quelle due care e! casa. Che piacere, andar passeggiando su questa stessa strada tutti insiem andar fino all’Adda in batoccio, e far merenda sulla riva, proprio sulla riva,
non sei mai voluto venire: ora arrivi in un momento un po’ critico ». « Se te lo devo dire, non sono venuto via di mia volontà, » disse Renzo; e, con la più gran brevità, non però senza molta commozione, gli raccontò la
dolorosa storia. « È un altro paio di maniche, » disse Bortolo. « Oh povero Renzo! Ma tu hai fatto capitale di me; e io non t’abbandonerò. Veramente, ora non c’è ricerca d’operai; anzi appena appena ognuno tiene i suoi, per non perderli e disviare il negozio; ma il padrone mi vuol bene, e ha della roba. E, a dirtela, in gran parte la deve a me, senza vantarmi: lui il capitale, e io quella poca abilità. Sono il primo lavorante, sai? e poi, a dirtela, sono il factotumz. Povera Lucia Mondella!
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Me ne ricordo, come se fosse ieri: una buona ragazza! sempre la più composta in chiesa; e quando si passava da quella sua casuccia... Mi par di vederla, quella casuccia, appena fuor del paese, con un bel fico che passava il muro... » 351. a guardare se c’era un battello: in perfetta sintonia con l’età e col carattere di Renzo, come tutto l’avvenire si è colorito di una ridente speranza! Il M. ha lasciato la briglia sciolta alla fantasia del suo giovane, a cui la libertà, la buona azione, la sicurezza nella Provvidenza hanno apetto l'animo all’ottimismo e ai castelli in aria. Situazione psicologica tanto vera, quanto
grande è l’abilità descrittiva,
367. È un altro par di maniche: espressione popolare molto comune, già indica la comprensione riflessiva e affettuosa di Bortolo: il quale, per molti aspetti, a noi qui pare tutt'altro che « una scialba figura », come un critico moderno l’ha definito. 371. senza vantarmi: veramente la vanteria non gli manca; ma ognuno ha i suoi difetti. E Bortolo ha anche dei pregi: accortezza, onestà, generosità...
capitolo XVII
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« No, no; non ne parliamo. » < Volevo dire che, quando si passava da quella casuccia, sempre si sen-
tiva quell’aspo, che girava, girava, girava. E quel don Rodrigo! già, anche al 380
mio tempo, era per quella strada; ma ora fa il diavolo affatto, a quel che
vedo: fin che Dio gli lascia la briglia sut collo. Dunque, come ti dicevo, anche qui si patisce un po’ la fame... A proposito, come stai d’appetito? » « Ho mangiato poco fa, per viaggio. » « E a danari, come stiamo? » Renzo stese una mano, l’avvicinò alla bocca, e vi fece scorrer sopra un
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piccol soffio. « Non importa, » disse Bortolo: « n’ho io: e non ci pensare. che, presto presto, cambiandosi le cose, se Dio vorrà, me li renderai, e te n’avanzerà an-
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che per te. » « Ho qualcosina a casa; e me li farò mandare. » « Va bene; e intanto fa conto di me. Dio m'ha dato del bene, perché faccia del bene; e se non ne fo a’ parenti e agli amici, a chi ne farò? » « L’ho detto io della Provvidenza! » esclamò Renzo, stringendo affettuosamente la mano al buon cugino. « Dunque, » riprese questo, « in Milano hanno fatto tutto quel chiasso. Mi paiono un po’ matti coloro. Già, n’era corsa la voce anche'qui; ma voglio che tu mi racconti poi la cosa più minutamente. Eh! n’abbiamo delle cose da discorrere. Qui però, vedi, la va più quietamente, e si fanno le cose con un po’ più di giudizio. La città ha comprate duemila some di grano da un mer-
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cante che sta a Venezia: grano che vien di Turchia; ma, quando si tratta di mangiare, la non si guarda tanto per il sottile. Ora senti un po’ cosa nasce: nasce che i rettori di Verona e di Brescia chiudono i passi, e dicono: di qui non passa grano. Che ti fanno i bergamaschi? Spediscono a Venezia Lorenzo Torre, un dottore, ma di quelli! È partito in fretta, s'è presentato al doge, e ha detto: che idea è venuta a que’ signori rettori? Ma un discorso! ‘un discorso, dicono, da dare alle stampe. Cosa vuol dire avere un uomo che sappia parlare! Subito un ordine che si lasci passare il grano; e i rettori, non solo
lasciarlo passare, ma bisogna che lo facciano scortare; ed è in viaggio. E s'è pensato anche al contado. Giovanbatista Biava, nunzio di Bergamo in Venezia (un uomo anche quello!) ha fatto intendere al senato che, anche in campa-
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gna, si pativa la fame; e il senato ha concesso quattromila staia di miglio.
Anche questo aiuta a far pane. E poi, lo vuoi sapere? se non ci sarà pane,
mangeremo del companatico. Il Signore m’ha dato del bene, come ti dico. Ora ti condurrò dal mio padrone: gli ho parlato di te tante volte, e ti farà
buona accoglienza. Un buon bergamascone all’antica, un uomo di cuor largo. 415
Veramente,
ora
non
t’aspettava;
ma
390. Dio m’ha dato del bene...: in questo lungo discorso di Bortolo ci sono alche hanno un grande vacune na lore sociale e religioso, anche perché risalgono a più di un secolo fa. Ci limitiamo a fare osservare,
accanto
alla concezione
cri-
stiana della ricchezza ché è contenuta in
questa frase, l’altra concezione, non meno cristiana, di un armonico incontro del ca-
pitale e del lavoro, espressa poco prima da
quando
sentirà la storia...
E poi gli
Bortolo quando aveva detto: « lui il capitale, e io quella poca abilità ».
398-410. La città... staia di miglio: tutte queste notizie, che Bortolo ci sa raccontare con tanta vivezza (altro che « insipido », co-
m'è
stato
definito!),
sono
storiche,
come
sappiamo da un libro di Lorenzo Ghirardelli (1600-1641) Il memorando contagio seguito in Bergamo l’anno 1630, del quale il M. parlerà più avanti (Cap. XXIII).
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i promessi spost
operai sa tenerli di conto, perché la carestia passa, e il negozio dura. Ma prima di tutto, bisogna che t’avverta d’una cosa. Sai come ci chiamano in questo
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paese, noi altri dello stato di Milano? » « Come ci chiamano? » « Ci chiaman baggiani. » « Non è un bel nome. » « Tant'è: chi è nato nel milanese, e vuol vivere nel bergamasco, bisogna prenderselo in santa pace. Per questa gente, dar del baggiano a un milanese, è come dar dell’illustrissimo a un cavaliere. » « Lo diranno, m’immagino, a chi se lo vorrà lasciar dire. » « Figliuolo mio, se tu non sei disposto a succiarti del baggiano a tutto pasto, non far conto di poter viver qui. Bisognerebbe essere sempre col coltello in mano: e quando, supponiamo, tu n’avessi ammazzati due, tre, quattro, verrebbe poi quello che ammazzerebbe te: e allora, che bel gusto di comparire al tribunal di Dio, con tre o quattro omicidi sull’anima! » « E un milanese che abbia un po’ di... » e qui picchiò la fronte col dito, come aveva fatto nell’osteria della luna piena. « Voglio dire, uno che sappia bene il suo mestiere? » « Tutt'uno: qui è un baggiano anche lui. Sai come dice il mio padrone, quando parla di me co’ suoi amici? — Quel baggiano è stato la man di Dio, per il mio negozio; se non avessi quel baggiano, sarei ben impicciato. — L'è usanza così. » « L’è un’usanza sciocca. E vedendo quello che sappiam fare (ché finalmente chi ha portata qui quest’arte, e chi la fa andare, siamo noi), possibile che non si sian corretti? » « Finora no: col tempo può essere; i ragazzi che vengon su; ma gli uomini fatti, non c'è rimedio: hanno preso quel vizio; non lo smetton più. Cos'è poi finalmente? Era ben un’altra cosa quelle galanterie che t’hanno fatte, e il di più che ti volevan fare i nostri cari compatrioti. » « Già, è vero: se non c’è altro di male... »
« Ora che sei persuaso di questo, tutto anderà bene. Vieni dal padrone, e
i coraggio. » Tutto in fatti andò bene, e tanto a seconda delle promesse di Bortolo,
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che crediamo inutile di farne particolar relazione. E fu veramente provvidenza; perché la roba e i quattrini che Renzo aveva lasciati in casa, vedremo or ora quanto fosse da farci assegnamento.
419. Come ci chiamano?: Il discorso fra alla proporzione consueta dell’esistenza quotidiana. Sotto questa prospettiva il duetto Renzo e Bortolo sembra andare troppo pet le lunghe. Ma queste ultime pagine del ca- , sul nome «baggiano » porta una nota di arguzia e di buon umore nello smotzarsi pitolo hanno la funzione di smorzare i toni piano e divagante del grande capitolo. alti e drammatici delle pagine precedenti, se443. Era ben un’altra cosa...: Bortolo ha condo quella costante aspirazione manzoniatrovato finalmente l’argomento che può metna di ricondurre sempre il racconto al nortere il cuore in pace a Renzo, e l’ha trovamale andamento della vita. Così ora la figuto con un'uscita conforme alla sua intellira di Renzo, dopo esserci apparsa per più genza pratica. Ma intanto il M. ha detto giorni sotto le luci di un complesso susseguirsi di tensioni diversissime, proprio at- un’altra dura legge della vita: di fronte al traverso il colloquio col cugino è ricondotta bisogno non c’è orgoglio che tenga.
capitolo XVII
Scheda
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critica al cap. XVII Siamo al momento culminante della storia di Renzo: è l'ora in cui si conclude felicemente la sua fuga avventurosa, al termine di una lunga serie di peripezie, pericoli, minacce oscure e paure
fantastiche;
ma
è insieme
l'ora del
suo
ravvedimen-
to, o addirittura, se si vuole, della sua conversione, maturata anch'essa su un terreno di faticata esperienza. La grande forza poetica di questo capitolo, certamente fra i più belli e compatti del libro, sta appunto nella sapienza con cui il Manzoni svolge parallelamente i due fili della sua invenzione — quello del paesaggio e dell'avventura e quello dei pensieri di Renzo — ricavando da ciascuno di essi le note più intense e insieme intrecciandoli ad ogni passo, così che la riflessione prende impulso e luce dai mutevoli colori del paese e dalle occasioni del cammino e per converso le vicende della fuga e i vari aspetti dello sfondo naturale si caricano di un senso arcano e di una profonda religiosità. Sarebbe assai difficile definire in maniera precisa e analizzare i modi di questa sapienza artistica, senza distruggere quello che in essa vi è di spontaneo e naturale e immediatamente suscitato dalla forza della situazione e dell'ispirazione morale. Si potrà tutt'al più suggerire qualche spunto d'osservazione e di particolare attenzione: sull'importanza, per esempio, che assumono, nella rappresentazione delle vicende esterne, le sensazioni uditive isolate e acuite dall'atmosfera di tenebra e dei cani di fattoria, lo « scrosciar delle foglie secche », i rintocchi di campana dell'orologio con il loro « senso misterioso e solenne », come di un arcano « avvertimento », di una « voce sconosciuta », il rumore infine dell'Adda, quel « mormorio d'acqua corrente », che giunge come «il ritrovamento di un amico, cqua corrente », che giunge come «il ritrovamento di un amico, d'un fratello, d'un salvatore » — ; in quel che di indeterminato esse derivano dalla loro particolare natura, queste sensaziori tendono appunto a stabilire un'atmosfera di sospensione, che ha in sé qualcosa di sacro, e l'ultima di esse poi assume un esplicito valore liberatorio e catartico. Sul piano del crescere e maturare dell'esperienza interiore, sarà da sottolineare come dall'una all'altra delle varie pause riflessive — la prima tutta eccitata e polemica a proposito dei discorsi del mercante, poi quella affollata di immagini vicine e confuse, a cui si sovrappongono quelle lontane ma più forti delle persone care ‘(ed è il punto propriamente della conversione), infine l'ultima vivacissima dei sogni sul futuro con l'incalzante giovanile allegria che ii pervade — cresce e diventa sempre più nuova e raffinata la tecnica del monologo interiore,
che, proprio suoi arte
nell'ultimo
dei tre esempi
citati, tocca
uno
dei
vertici paradimmatici. E un altro segno poi della grande manzoniana è il modo in cui, raggiunto il momento di
maggior forza e profondità morale della situazione, il tono del
312
î promessi sposi racconto si viene lentamente pacificando e smorzando nelle varie scene del traghetto, dei primi incontri in terra di San Marco, del colloquio con Bortolo, delle divagazioni intorno ai ‘lombardi baggiani', quasi riflettendo l'analogo distendersi nell'operare quotidiano della coscienza di Renzo, oltre il grado assai alto di tensione verso il sublime che esso aveva per un istante raggiunto.
Capitolo XVII
.
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Quello stesso giorno, 13 di novembre, arriva un espresso al signor podestà di Lecco, e gli presenta un dispaccio del signor capitano di giustizia, contenente un ordine di fare ogni possibile e più opportuna inquisizione, per iscoprire se un certo giovine nominato Lorenzo Tramaglino, filatore di seta, scappato dalle forze praedicti egregii domini capitanei, sia tornato, palam vel clam, al suo paese, ignotum quale per l'appunto, veruzz in territorio Leuci: quod si compertum fuerit sic esse, cerchi il detto signor podestà, quanta maxima diligentia fieri poterit, d’averlo nelle mani; e, legato a dovere, videlizet con buone manette, attesa l’esperimentata insufficienza de’ manichini per il nominato soggetto, lo faccia condurre nelle carceri, e lo ritenga lì, sotto buona custodia, per farne consegna a chi sarà spedito a prenderlo; e tanto nel caso del sì, come nel caso del no, accedatis ad domum praedicti Laurentii Tramaliini; et, facta debita diligentia, quidquid ad rem repertum fuerit auferatis; et informationes de illius prava qualitate, vita, et complicibus sumatis; e di tutto il detto e il fatto, il trovato e il non trovato, il preso eil lasciato, 1. Quello stesso giorno, 13 di novembre...: neppure una settimana, dunque, è trascorsa da quella sera del 7 novembre, quando don Abbondio fece l’amaro incontro coi bravi; ma le cose raccontate sono state tante che
il tempo passato sembrerebbe molto di più. Da quel 7 novembre tutti gli eventi sono stati registrati giorno per giorno. D'ora in avanti la dimensione cronologica cambierà, e spesso troveremo capitoli, come questo, in cui si accumulano i fatti di varie settimane. Contemporaneamente assisteremo anche ad una differenziazione dell’orizzonte spaziale, con uno svostamento continuo dell’azione fra più centri diversi — Lecco, il paese di Renzo, Monza, Milano — e col profilarsi di località lontane: Rimini e Madrid. Un nuovo impegno, dunque, ora da parte del M,, assolto anch’esso, come vedremo, sempre con attenzione e precisione. — un espresso: un messo inviato appositamente. Incomincia subito, e durerà per tutto il lungo periodo, la caricatura di questa polizia (osserva, per esempio, il tono canzonatorio della ripetizione «un espresso al signor podestà.. un dispaccio del signor capitano ») entrata immediatamente in azione contro
Renzo. Riecheggiano con mestizia alla memoria certe parole di Agnese: « Contro i poveri c'è sempre giustizia »; e anche di Perpetua: « Mala cosa nascer povero ». 3-16. un ordine... referatis: l’ordine del capitano di giustizia, redatto nel latino cancelleresco, con le sue formule stereotipate e perentorie, il M. lo inserisce nel racconto traducendolo in parte in italiano: ne nasce una mezza pagina vivacissima, pungente e polemica, in un misto di sostenutezza e di comicità; mentre sullo sfondo di tanto tramenio delle autorità ci spunta il volto buono ed onesto della vittima ricercata. — predicti... capitanei: del sopraddetto egregio signor capitano; palam vel clam: apertamente o di nascosto; igr0tum... sic esse: sconosciuto... però del territorio di Lecco: che se risulterà che è così; quanta... poterit: con la maggior diligenza possibile; videlizet (per videlicet): cioè, vale a dire; accedatis... sumatis... referatis: andate a casa del predetto Lorenzo Tramaglino, e, fatta la debita diligenza, sequestrate tutto ciò che faccia al caso, e assumete informazioni delle sue malvagie qualità, della sua vita, e dei suoi complici, e... diligentemente riferite.
i promessi sposi
A
diligenter referatis. Il signor podestà, dopo essersi umanamente cerziorato che
il soggetto non era tornato in paese, fa chiamare il console del villaggio, e si fa condur da lui alla casa indicata, con gran treno di notaio e di birri. La casa è chiusa; chi ha le chiavi non c’è, o non si lascia trovare. Si sfonda
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l’uscio; si fa la debita diligenza, vale a dire che si fa come in una città presa d’assalto. La voce di quella spedizione si sparge immediatamente per tutto il contorno; viene agli orecchi del padre Cristoforo; il quale, attonito non meno che afflitto, domanda al terzo e al quarto, per aver qualche lume
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intorno alla cagione d’un fatto così inaspettato; ma non raccoglie altro che congetture in aria, e scrive subito al padre Bonaventura, dal quale spera di poter ricevere qualche notizia più precisa. Intanto i parenti e gli amici di Renzo vengono citati a deporre ciò che posson sapere della sua prava qualità:
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di grosso;
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aver
nome Tramaglino è una disgrazia, una vergogna, un delitto: il paese è sottosopra. A poco a poco, si viene a sapere che Renzo è scappato dalla giustizia, nel bel mezzo di Milano, e poi scomparso; corre voce che abbia fatto qualcosa ma la cosa poi non si sa dire, o si racconta
in cento maniere.
Quanto più è grossa, tanto meno vien creduta nel paese, dove Renzo è conosciuto per un bravo giovine: i più presumono, e vanno susurrandosi agli orecchi l’uno con l’altro, che è una macchina mossa da quel prepotente di don Rodrigo, per rovinare il suo povero rivale. Tant'è vero che, a giudicar per induzione, e senza la necessaria cognizione de’ fatti, si fa alle volte gran torto anche ai birbanti. Ma noi, co’ fatti alla mano, come si suol dire, possiamo affermare che, se colui non aveva avuto parte nella sciagura di Renzo, se ne compiacque però, come se fosse opera sua, e ne trionfò co’ suoi fidati, e principalmente col conte Attilio. Questo, secondo i suoi primi disegni, avrebbe dovuto a quell’ora trovarsi già in Milano; ma, alle prime notizie del tumulto, e della canaglia che girava per le strade, in tutt’altra attitudine che di ricever bastonate, aveva creduto bene di trattenersi in campagna, fino a cose quiete. Tanto
45 più che, avendo offeso molti, aveva qualche ragion di temere che alcuno de’ tanti, che solo per impotenza stavano cheti, non prendesse animo dalle cir-
16. umanamente cerziorato: informato con
tutti i mezzi possibili. Cerziorato, riecheggiando lo stile latino, fa proseguire la nota satirica: la quale, come vedrai, continua per tutta la descrizione del comportamento di questi egregi funzionari, tanto zelanti nella spedizione punitiva contro Renzo. 18. gran treno di notaio e di birri: tutti contro la casetta vuota di Renzo; come alcuni giorni prima altri masnadieri erano andati contro la casetta vuota di Lucia. Le violenze degli uomini si ripetono di continuo, camuffate sotto i più vari pretesti: fortuna, potremmo dire ricordandoci di padre Cristoforo, che la Provvidenza, come è più forte di quattro sgherri, lo è altrettanto di un treno di notaio e di birri. 28-29. il paese è sottosopra: per esperienza di vita di villaggio, possiamo facilmente immaginare un po’ delle chiacchiere che vi saranno state fatte. »
35-37. a giudicar... ai birbanti: una bella lezione di morale data con garbo e con ironia. In tal modo il M. introduce con naturalezza anche il discorso su don Rodrigo; mentre il successivo inciso «come si suol dire » accentuerà la nota umoristica del discorso, perché tutti quei fatti li ha inventati lui, lo storico-narratore. 40. come se fosse opera sua: dunque, bisogna ancor più giustificare il popolino se pensava che si trattasse di « una macchina mossa da quel prepotente »! 42-44. alle prime notizie... cose quiete: ecco dove sono andate a finire le smargiassate del conte, che durante il banchetto (Cap. V),
e in altre occasioni, sembrava capace di dar bastonate a mezzo mondo. È facile esser forti e prepotenti quando si è al sicuro; ma poi, quanta viltà dietro la facciata della boria! Questo ed altro vuol dirci il M. attraverso il comportamento di Attilio.
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costanze, e giudicasse il momento buono da far le vendette di tutti. Questa sospen sione non fu di lunga durata: l’ordine venuto da Milano dell'esecuzion e
da farsi contro Renzo era già un indizio che le cose avevan ripreso il corso
50 ordinario; e, quasi nello stesso tempo, se n’ebbe la certezza positiva. Il conte
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Attilio partì immediatamente, animando il cugino a persister nell’impresa, a spuntar l’impegno, e promettendogli che, dal canto suo, metterebbe subito mano a sbrigarlo dal frate; al qual affare, il fortunato accidente dell’abietto rivale doveva fare un gioco mirabile. Appena partito Attilio, arrivò il Griso da Monza sano e salvo, e riferì al suo padrone ciò che aveva potuto racco-
gliere: che Lucia era ricoverata nel tal monastero, sotto la protezione della tal signora; e stava sempre nascosta, come se fosse una monaca anche lei, 60
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non mettendo mai piede fuor della porta, e assistendo alle funzioni di chiesa da una finestrina con la grata: cosa che dispiaceva a molti, i quali avendo sentito motivar non so che di sue avventure, e dir gran cose del suo viso, avrebbero voluto un poco vedere come fosse fatto. Questa relazione mise il diavolo addosso a don Rodrigo, o, per dir me‘glio, rendé più cattivo quello che già ci stava di casa. Tante circostanze favorevoli al suo disegno infiammavano sempre più la sua passione, cioè quel misto di puntiglio, di rabbia e d’infame capriccio, di cui la sua passione era composta. Renzo assente, sfrattato, bandito, di maniera che ogni cosa diven-
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tava lecita contro di lui, e anche la sua sposa poteva esser considerata, in certo modo, come roba di rubello: il solo uomo al mondo che volesse e potesse prender le sue parti, e fare un rumore da esser sentito anche lontano e da persone alte, l’arrabbiato frate, tra poco sarebbe probabilmente anche lui fuor del caso di nuocere. Ed ecco che un nuovo impedimento, non che contrappesare tutti que’ vantaggi, li rendeva, si può dire, inutili. Un monastero
Wi
di Monza, quand’anche non ci fosse stata una principessa, era un osso troppo duro per i denti di don Rodrigo; e per quanto egli ronzasse con la fantasia
intorno a quel ricovero, non sapeva immaginar né via né verso d’espugnarlo,
né con la forza, né per insidie. Fu quasi quasi per abbandonar l'impresa; fu
53. il fortunato accidente: i guai impreRenzo: il quale è un abietto rivale di Rodrigo solo perché avrebbe osato difendersi contro le prepotenze del signorotto. Nel pensiero sprezzante del conte scopri la ribellione interiore dello scrittore. 54. doveva fare un gioco mirabile: potremmo dire che un gioco altrettanto mirabile lo fa anche al narratore, nel collegargli le vicende. Si osservi, appunto, quanta naturalezza di conseguenze c’è nel fatto che la conclusione della disavventura milanese di Renzo favorisce i propositi del conte Attilio e spinge don Rodrigo ad agire in una nuova direzione. 59-61. cosa che... come fosse fatto: sarà . proprio vero che il Griso ha sentito dire anche questo a Monza, o non sarà piuttosto tutta una sua invenzione per farsi più bello col padrone (di fronte al quale aveva da riscattarsi per la paura dimostrata all’ordine di andare per Monza, Cap. XI) e per eccivedibili capitati al povero
tare ancor più la passione del padrone? Son cose che il M. non dice, ma ci sembra che lasci a noi di pensarle, continuando la sua
indagine dell’animo umano. 62-63. mise il diavolo... di casa: l’immagine dà una sensazione plastica della perfidia di don Rodrigo e ci fa vedere, diremmo, l’agitarsi della carne e dello spirito sotto il fuoco della passione e del dispetto. 68. roba di rubello: roba di chi è stato bandito; e perciò se ne può fare ciò che si vuole. 70. l’arrabbiato frate: quel fra Cristoforo dell’ultimo incontro. E fra Cristoforo sarà, sì, non molto dopo « fuori del caso di nuocere »; ma tornerà poi con altra voce e col altra forza. 76. Fu... per abbandonar l’impresa: in questa e nelle successive riflessioni ricompare quell’animo gretto, cattivo e pauroso insieme, che abbiamo sempre notato nella mediocrità della condotta di don Rodrigo. Ma in lui si rispecchia, anche, tanta parte
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i promessi sposi
passar per risolversi d’andare a Milano, allungando anche la strada; per non , imenti divert ai e neppure da Monza; e a Milano, gettarsi in mezzo agli amici tutto per discacciar, con pensieri affatto allegri, quel pensiero divenuto ormai In vece tormentoso. Ma, ma, ma, gli amici; piano un poco con questi amici. nuovi nia, compag loro nella d’una distrazione, poteva aspettarsi di trovar messo e , tromba la dispiaceri: perché Attilio certamente avrebbe già preso tutti in aspettativa. Da ogni parte gli verrebbero domandate notizie della montanara: bisognava render ragione. S’era voluto, s’era tentato; cosa s'era ottenuto? S’era preso un impegno: un impegno un po’ ignobile, a dire il vero: ma, via, uno non può alle volte regolare i suoi capricci; il punto è di soddisfarli; e come s’usciva da quest'impegno? Dandola vinta a un villano e
a un frate! Uh! E quando una buona sorte inaspettata, senza fatica del buon
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a nulla, aveva tolto di mezzo l’uno, e un abile amico l’altro, il buon a nulla non aveva saputo valersi della congiuntura, e si ritirava vilmente dall’impresa. Ce n’era più del bisogno, per non alzar mai più il viso tra i galantuomini, o avere ogni momento la spada alle mani. E poi, come tornare o come rimanere in quella villa, in quel paese, dove, lasciando da parte i ricordi incessanti e pungenti della passione, si porterebbe lo sfregio d’un colpo fallito? dove, nello stesso tempo, sarebbe cresciuto l’odio pubblico, e scemata la riputazion del potere? dove sul viso d’ogni mascalzone, anche in mezzo agl’inchini, si potrebbe leggere un amaro: l’hai ingoiata, ci ho gusto? La strada dell’iniquità, dice qui il manoscritto, è larga; ma questo non vuol dire che sia comoda: ha i suoi buoni intoppi, i suoi passi scabrosi; è noiosa la sua parte, e faticosa, benché vada all’ingiù. A don Rodrigo, il quale non voleva uscirne, né dare addietro, né fermarsi, e non poteva andare avanti da sé, veniva bensì in mente un mezzo con
cui potrebbe: ‘ed era di chieder l’aiuto d’un tale, le cui mani arrivavano spes-
so dove non arrivava la vista degli altri: un uomo o un diavolo, per cui la
della nobiltà spagnolesca del Seicento, legata ai puntigli e ai capricci, come l’abbiamo conosciuta nei primi capitoli del romanzo e come la conosceremo ancora meglio nelle prossime pagine: puntigli e capricci che ne costituiscono insieme l’orgoglio e il tormento. 80. Ma, ma, ma...: si apre una bellissima pagina in cui il M., penetrando, per così dire, nell’animo del suo personaggio, lo fa parlare con la logica del discorso indiretto e la vivacità del discorso diretto. In tal modo tutto l’orizzonte di don Rodrigo ci compare dinanzi nella prospettiva in cui il signorotto lo vede, e per cui Lucia è solo una montanara, Renzo un villano, padre Cristoforo un frate, e galantuomini sono soltanto i signori suoi pati. 82. Attilio... la tromba: l’immagine si addice a pennello al carattere scanzonato del conte, mentre don Rodrigo si sente già schiacciato dagli amici milanesi come un giorno dai ritratti degli avi. 88-89. buon a nulla: ecco il giudizio che due volte di seguito dà di sé e che sùppone
sia il titolo che gli amici gli appiopperanno se recederà dall’impegno. Il colpevole è divenuto vittima della sua passione e del suo puntiglio. 97-100. La strada... all’ingiù: la sentenza ha un tono di predica nella prima parte, e lì il M. l’attribuisce accortamente all’Anonimo; poi si fa commento arguto e bonario, e, coi particolari realistici dei buoni intoppi, dei passi scabrosi e dell’andare all’ingiù, si inserisce bene nel racconto. 103. un tale...: è il primo accenno ad uno che, sempre in un alone di mistero fra l’uomo e il diavolo, resta e rimarrà « inno-
minato ». Ma questa figuta, la più potente del romanzo, ora è soltanto intravista di scorcio, e per molte pagine di lei non si parlerà più. Troveremo invece, fra poco, altri piccoli uomini indaffarati nei loro intrighi meschini: sicché quando quel « tale» comparirà sulla scena, lo vedremo tanto più alto di loro e conosceremo la validità dell’immagine vaga e minacciosa di quelle 7724ni che «arrivavano spesso dove non atrivava la vista degli altri ».
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difficoltà dell’imprese era spesso uno stimolo a prenderle sopra di sé. Ma questo partito aveva anche i suoi inconvenienti e i suoi rischi, tanto più gravi quanto meno si potevano calcolar prima; giacché nessuno avrebbe saputo preveder fin dove anderebbe, una volta che si fosse imbarcato con quel-
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condottiere. Tali pensieri tennero per più giorni don Rodrigo tra un sì e un no, l’uno e l’altro più che noiosi. Venne intanto una lettera del cugino, la quale di-
l’uomo, potente
ausiliario certamente,
ma
non
meno
assoluto e pericoloso
ceva che la trama era ben avviata. Poco dopo il baleno, scoppiò il tuono; vale 115
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a dire che, una bella mattina, si sentì che il padre Cristoforo era partito dal convento di Pescarenico: Questo buon successo così pronto, la lettera d’Attilio che faceva un gran coraggio, e minacciava di gran canzonature, fecero inclinar sempre più don Rodrigo al partito rischioso: ciò che gli diede l’ultima spinta, fu la notizia inaspettata che Agnese era tornata a casa sua: un impedimento di meno vicino a Lucia. Rendiam conto di questi due avvenimenti,
cominciando dall’ultimo. Le due povere donne s’erano appena accomodate nel loro ricovero, che si sparse per Monza, e per conseguenza anche nel monastero, la nuova di quel gran fracasso di Milano; e dietro alla nuova grande, una serie infinita di particolari, che andavano crescendo e variandosi ogni momento. La fattoressa, che, dalla sua casa, poteva tenere un orecchio alla strada, e uno al mona-
stero, raccoglieva notizie di qui, notizie di lì, e ne faceva parte all’ospiti. « Due, sei, otto, quattro, sette ne hanno messi in prigione; gl’impiccheranno, parte davanti al forno delle grucce, parte in cima alla strada dove c’è la casa del vicario di provvisione... Ehi, ehi, sentite questa! n’è scappato uno; che è di Lecco, o di quelle parti. Il nome non lo so; ma verrà qualcheduno che me lo saprà dire; per veder se lo conoscete. » 1 Quest’annunzio, con la circostanza d’esser Renzo appunto arrivato in Milano nel giorno fatale, diede qualche inquietudine alle donne, e principalmente a Lucia; ma pensate cosa fu quando la fattoressa venne a dir loro « è proprio del vostro paese quello che se l’è battuta, per non essere impiccato; un filatore di seta, che si chiama Tramaglino: lo conoscete? » A Lucia, ch’era a sedere, orlando non so che cosa, cadde il lavoro di mano; impallidì, si cambiò tutta, di maniera che la fattoressa se ne sarebbe avvista certamente,
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se le fosse stata più vicina. Ma era ritta sulla soglia con
Agnese; la quale, conturbata anche lei, però non tanto, poté star forte; e, pet risponder qualcosa, disse che, in un piccolo paese, tutti si conoscono, e che lo conosceva; ma che non sapeva pensare come mai gli fosse potuta seguire una cosa simile; perché era un giovane posato. Domandò poi se era scappato di certo, e dove. 117. al partito rischioso:
quello di chie-
dere l’aiuto di quel « tale », uomzo 0 diavolo. 127. due... sette: come sale e scende, questo numero, e come bene esprime, così, la volubilità delle chiacchiere e delle supposizioni della gente, e insieme il compiacimento
soddisfatto di questa fattoressa, tanto pettegola quanto cattivuccia. 138. impallidì, si cambiò tutta: questo profondo e totale turbamento di Lucia è un
segno più che manifesto del suo amore, quell’amore che alla fanciulla, estremamente pudica, resta difficile perfino nominare. Il M., per i motivi morali e religiosi a cui si è ispirato, accenna al tema dell’amore soltanto il minimo indispensabile: ma ciò non impedisce che i suoi promessi sposi posseggano ed esprimano un sentimento d’amore intensissimo. Avremo più volte occasione di osservarlo.
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î promessi Sposi
« Scappato, lo dicon tutti; dove, non si sa; può essere che l’acchiappino ancora, può essere che sia in salvo; ma se gli torna sotto l’unghie, il vostro i È giovine posato... »
Qui, per buona sorte, la fattoressa fu chiamata, e se n’andò: figuratevi come rimanessero la madre e la figlia. Più d’un giorno, dovettero la povera donna e la desolata fanciulla stare in una tale incertezza, a mulinare sul come,
sul perché, sulle conseguenze di quel fatto doloroso, a commentare, ognuna tra sé, o sottovoce tra loro, quando potevano, quelle terribili parole. Un giovedì finalmente, capitò al monastero un uomo a cercar d’Agnese. Era un pesciaiolo di Pescarenico, che andava a Milano, secondo l’ordinario, a spacciar la sua mercanzia; e il buon frate Cristoforo l’aveva pregato che, pas-
sando per Monza, facesse una scappata al monastero, salutasse le donne da parte sua, raccontasse loro quel che si sapeva del tristo caso di Renzo, raccomandasse loro d’aver pazienza, e confidare in Dio; e che lui povero frate non si dimenticherebbe certamente di loro, e spierebbe l’occasione di poterle aiutare; e intanto non mancherebbe, ogni settimana, di far loro saper le sue nuove, per quel mezzo, o altrimenti. Intorno a Renzo, il messo non seppe dir altro di nuovo e di certo, se non la visita fattagli in casa, e le ricerche per averlo nelle mani; ma insieme ch’erano andate tutte a voto, e si sapeva di certo che s’era messo in salvo sul bergamasco. Una tale certezza, e non
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fa bisogno di dirlo, fu un gran balsamo per Lucia: d’allora in poi le sue lacrime scorsero più facili e più dolci; provò maggior conforto negli sfoghi segreti con la madre; e in tutte le sue preghiere, c’era mescolato un ringraziamento.
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Gertrude la faceva venire spesso in un suo parlatorio privato, e la tratteneva talvolta lungamente, compiacendosi dell’ingenuità e della dolcezza della poverina, e nel ‘sentirsi ringraziare e benedire ogni momento. Le raccontava anche, in confidenza, una parte (la parte netta) della sua storia, di ciò che aveva patito, per andar lì a patire; e quella prima maraviglia sospettosa di Lucia s’'andava cambiando in compassione. Trovava in quella storia ragioni più che sufficienti a spiegar ciò che c’era d’un po’ strano nelle maniere della
sua benefattrice; tanto più con l’aiuto di quella dottrina d’Agnese su’ cervelli de’ signori. Per quanto però si sentisse portata a contraccambiare la:confidenza
146-147. il vostro giovine posato...: nelle parole della fattoressa si scopre qualcosa dell’animo del mercante incontrato nell’osteria di Gorgonzola (Cap. XVI): ambedue sono persone che ce l’hanno coi rivoltosi, perché il loro interesse è dall’altra parte. In più, nella fattoressa c'è un’innata malignità che le procura un certo godimento per le disavventure altrui, come si svela in quell’agrodolce ripresa il vostro giovine posato. Ma il valore umano ed artistico di tutto ‘questo dialogo sta essenzialmente nella drammatica reazione che le sue parole determinano nell’intimo di Lucia e di Agnese. 165-168. le sue lacrime... ringraziamento: bellissimo periodo, in cui senti il dolore e l’amore quasi dissolversi e placatsi nel conforto della fede e nella successione di note intensamente elegiache e musicali. Si realizza
così in Lucia, ancora una volta (e non sarà l’ultima), quella tipica vicenda spirituale e poetica dei personaggi manzoniani, seguiti
nel loro passare dalla felicità all’infelicità e da questa all’approdo del conforto religioso: si ricorderà, tanto per fare due esempi ben noti, FErmengarda nell’Adelchi e Napoleone nel Cinque maggio. 169. Gertrude la faceva venire...: si apre una pagina di profonda analisi psicologica e di commovente poesia. La delicatezza e il pudore di Lucia s’intrecciano col bisogno di espansione e di conforto che agita Gertrude. L’adultera assassina ha: bisogno della fanciulla innocente. 176. quella dottrina d’Agnese...: «I signori, chi più chi meno, chi per un verso, chi per un altro verso, han tutti un po’ del matto »: la trovammo al cap. X.
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che Gertrude le dimostrava, non le passò neppur per la testa di parlarle delle sue nuove inquietudini, della sua nuova disgrazia, di dirle chi fosse quel fila-
tore scappato; per non rischiare di spargere una voce così piena di dolore e di scandolo. Si schermiva anche, quanto poteva, dal rispondere alle domande curiose di quella, sulla storia antecedente
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alla promessa;
ma qui non eran
ragioni di prudenza. Era perché alla povera innocente quella storia pareva. più spinosa, più difficile da raccontarsi, di tutte quelle che aveva sentite, e che credesse di poter sentire dalla signora. In queste c’era tirannia, insidie, patimenti; cose brutte e dolorose, ma che pur si potevan nominare: nella sua c'era mescolato per tutto un sentimento, una parola, che non le pareva possibile di proferire, parlando di sé; e alla quale non avrebbe mai trovato da sostituire una perifrasi che non le paresse sfacciata: l’amore! Qualche volta, Gertrude quasi s’indispettiva di quello star così sulle difese; ma vi traspariva tanta amorevolezza, tanto rispetto, tanta riconoscenza. e anche tanta fiducia! Qualche volta forse, quel pudore così delicato, così ombroso, le dispiaceva ancor più per un altro verso; ma tutto si perdeva nella
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soavità d’un pensiero che le tornava ogni momento, guardando Lucia: — a questa fo del bené —. Ed era vero; perché, oltre il ricovero, que’ discorsi, quelle carezze famigliari erano di non poco conforto a Lucia. Un altro ne trovava nel lavorar di continuo; e pregava sempre che le dessero qualcosa da fare: anche nel parlatorio, portava sempre qualche lavoro da tener le mani in esercizio: ma, come i pensieri dolorosi si caccian per tutto! cucendo, cucendo, ch’era un mestiere quasi nuovo per lei, le veniva ogni poco in mente
il suo aspo; e dietro all’aspo, quante cose! Il secondo giovedì, tornò quel pesciaiolo o un altro messo, co’ saluti del padre Cristoforo, e con la conferma della fuga felice di Renzo. Notizie più positive intorno a’ suoi guai, nessuna; perché, come abbiam detto al lettore,
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il cappuccino aveva sperato d’averle dal suo confratello di Milano, a cui l’ave-
va raccomandato; e questo rispose di non aver veduto né la persona, né la lettera; che uno di campagna era bensì venuto al convento, a cercar di lui; ma che, non avendocelo trovato, era andato via, e non era più comparso. Il terzo giovedì, non si vide nessuno; e, per le povere donne, fu non solo una privazione d’un conforto desiderato e sperato, ma, come accade per ogni piccola cosa a chi è afflitto e impicciato, una cagione d’inquietudine, di
187-189. una parola... l’amore!: qui c’è tutto il segreto dell'animo di Lucia, il perché di un contegno che talvolta può sembrare troppo controllato e severo. Il suo pudore è tanto grande proprio perché tanto grande, e diremmo perfetto, è il suo amore. 194. soavità d’un pensiero: dunque la delicatezza dell'animo di Lucia agisce come conforto anche nel cuore tenebroso di Gertrude e lo avvia, sia pur vagamente, verso il rimorso e un’indistinta ansia di purificazione. Già altre volte abbiamo osservato l’opera rasserenatrice che Lucia, questa ‘ Beatrice? manzoniana, compie intorno a sé: ma il caso più esemplare abbiamo ancora da incontrarlo.
197. lavorar... pregava...: ecco il binomio
della vita di Lucia: lavoro e preghiera. È un binomio ben noto — ora et labora! — ma nell’umile fanciulla, raccolta e pensierosa dietro il suo aspo, è pervaso da tutto un mondo di lievi pensieri virginei, rivelatori di un’intima ricchissima vita del cuore. 201. il suo aspo... quante cose!: quell’aspo, aveva detto Bortolo, che ‘girava, girava, girava.... E dietro quell’aspo ora, dice un critico, come Lucia «ci si perde un po’ tutti ». 209. Il terzo giovedì: con questo terzo giovedì siamo giunti precisamente al 30 novembre del 1628. Tutta la vicenda, lo ricordiamo ancora, era incominciata la sera del 7 novembre.
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i promessi sposi
cento sospetti molesti. Già prima d’allora, Agnese aveva pensato a fare una scappata a casa; questa novità di non vedere l'ambasciatore promesso; la fece risolvere. Per Lucia era una faccenda seria il rimanere distaccata dalla gonnella della madre; ma la smania di saper qualche cosa, e la sicurezza che trovava in quell’asilo così guardato e sacro, vinsero le sue ripugnanze. E fu deciso tra loro che Agnese anderebbe il giorno seguente ad aspettar sulla strada il pesciaiolo che doveva passar di lì, tornando da Milano; e gli chiederebbe in cortesia un posto sul baroccio, per farsi condurre a’ suoi monti. Lo trovò in fatti, gli domandò se il padre Cristoforo non gli aveva data qualche commissione per lei: il pesciaiolo, tutto il giorno avanti la sua partenza era
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stato a pescare, e non aveva saputo niente del padre. La donna non ebbe bisogno di pregare, per ottenere il piacere che desiderava: prese congedo dalla signora e dalla figlia, non senza lacrime, promettendo di mandar subito le sue nuove, e di tornar presto; e partì. Nel viaggio, non accadde nulla di particolare. Riposarono parte della notte in un’osteria, secondo il solito; ripartirono innanzi giorno; e arrivaron di
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buon’ora a Pescarenico. Agnese smontò sulla piazzetta del convento, lasciò andare il suo conduttore con molti: Dio ve ne renda merito; e giacché era lì, volle, prima d’andare a casa, vedere il suo buon frate benefattore. Sonò il campanello; chi venne a aprire, fu fra Galdino, quel delle noci. « Oh! la mia donna, che vento v’ha portata? »
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« « « « testa
Vengo a cercare il padre Cristoforo. » Il padre Cristoforo? Non c’è ». Oh! starà molto a tornare? » Ma...? » disse il frate, alzando le spalle, e ritirando nel cappuccio la rasa. i
« Dov'è andato? » «A Rimini. » «A? » i 215. smania: nella prima ediz. c’eraa « struggimento ». Concordiamo con quanti non giudicano felice la correzione, perché «smania » dà l’impressione di moti impazienti, ben lontani dall'immagine che abbiamo di Lucia. 219. condurre a’ suoi monti: la nostalgia dà a tutti un cetto afflato lirico, anche ad Agnese. Più avanti sentiremo dire da Lucia con maggior commozione ancora: « ho veduto i miei monti! ». Ma già sappiamo da un pezzo che per Renzo, Agnese e Lucia quei monti sono tanta parte di loro stessi. 231. fra Galdino, quel delle noci: certi commentatori, detrattori irriducibili di fra Galdino, anche nella definizione che qui il M. dà dell’umile laico, « quel delle noci », vedono un motivo di più per dare addosso al povero cercatore. Così il Petrocchi, dopo aver ricordato quelle che a suo parere sono le gravi colpe di fra Galdino, dice: « Il M., come se l’avessimo dimenticato, o l’avessimo dovuto dimenticare, ci rammenta con
finezza
ironica
che il frate
noci ». Evidentemente capito questa finezza
è quel delle
il Petrocchi non ha manzoniana, perché
sembra tanto logico spiegare « quel delle noci » come inciso familiare ed efficacissimo per dire press’'a poco: — Ve lo ricordate? Quello che andava alla cerca delle noci? —, 236-237. alzando le spalle... testa rasa:
sono moti colti dal vivo, naturalissimi in un uomo semplice e del popolo com'era fra Galdino; e così, poco più avanti, lo vedrai rispondere « trinciando verticalmente l’aria con la mano distesa », per indicare una gran distanza. Si tratta sempre, dunque, di felici pennellate di uno scrittore che in ogni situazione è attento a cogliere lo spontaneo sincronismo delle parole e dei gesti. Appare perciò sforzato il vedere ora, come fa un altro anti-fra Galdino, un nuovo particolare dell’« insensibilità del fraticello », che in tal modo si rifugerebbe e si chiuderebbe « nella celluzza del suo lontanissimo cielo »,
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«A Rimini. » « Dov'è questo paese? » « Eh eh eh! » rispose il frate, trinciando verticalmente l’aria con la mano distesa, per significare una gran distanza. « Oh povera me! Ma perché è andato via così all'improvviso? » « Perché ha voluto così il padre provinciale. » «E perché mandarlo via? che faceva tanto bene qui? Oh Signore! »
« Se i superiori dovessero render conto degli ordini che danno, dove sa-
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rebbe l’ubbidienza, la mia donna? » « Sì; ma questa è la mia rovina. » « Sapete cosa sarà? Sarà che a Rimini avranno avuto bisogno d’un buon predicatore (ce n’abbiamo per tutto; ma alle volte ci vuol quell’uomo fatto apposta); il padre provinciale di là avrà scritto al padre provinciale di qui, se aveva un soggetto così e così; e il padre provinciale avrà detto: qui ci vuole il padre Cristoforo. Dev'’essere proprio così, vedete. » « Oh poveri noi! Quand'è partito? »
« Ierlaltro. »
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« Ecco! s’io davo retta alla mia ispirazione di venir via qualche giorno prima! E non si sa quando possa tornare? così a un di presso? » « Eh la mia donna! lo sa il padre provinciale; se lo sa anche lui. Quando un nostro padre predicatore ha preso il volo, non si può prevedere su che ramo potrà andarsi a posare. Li cercan di qua, li cercan di là: e abbiamo conventi in tutte le quattro parti del mondo. Supponete che, a Rimini, il padre Cristoforo faccia un gran fracasso col suo quaresimale: perché non predica sempre a braccio, come faceva qui, per i pescatori e ‘i contadini: per i pulpiti delle città, ha le sue belle prediche scritte; e fior di roba. Si sparge la voce, da quelle parti, di questo gran predicatore; e lo possono! èercare ‘da... da-che so io? E allora, bisogna mandarlo; perché noi viviamo della catità di tutto il mondo, ed è giusto che serviamo tutto il mondo. » i «Oh Signore! Signore!» esclamò di nuovo Agnese, quasi piangendo: «come devo fare, senza quell'uomo? Era quello che ci faceva da padre! Per noi è una rovina. »
« Sentite, buona donna; il padre Cristoforo era veramente un uomo; ma 247. faceva tanto bene qui?: certamente zione per l’ordine, il suo ordine francea tutti, ma specialmente a lei e alla sua scano, sicché ne parla con tanta effusione famiglia. Il motivo dell’interesse c’è seme senza pensare abbastanza al travaglio di pre in una donna pratica come Agnese. Agnese, che egli, certamente, non riesce a 248-249. Se i superiori... l’ubbidienza: capire. Per questo il dialogo è fra due che « fra Galdino non è un’aquila e la cerchia sembrano avere un linguaggio diverso, perdella sua mente non è davvero molto am- ‘ ché tanto diverso è tutto il loro mondo. pia: però ha certe sue idee fondamentali 263: le quattro parti del mondo: è vero di inaspettata profondità e vastità. Questo che sono cinque, ma nel 1628 la quinta concetto della ubbidienza, ad esempio, è ancora non era stata scoperta. 273-274. Sentite... sapete?: fra Galdino, semplice ed eroico: non si discute, si obbenon sapendo nulla dei casi e dei bisogni disce » (Rizzi). di Agnese (come sappiamo noi lettori e 253. il padre provinciale: è il superiore come sanno i critici che trovano ad ogni di tutte le comunità religiose, di un detersua parola qualcosa da rinfacciargli) offre minato ordine, nell’intera provincia. Fra alla buona donna — con una loquacità un poco questo padre provinciale lo conoscerepo’ pettegola, a dire il vero, — l’aiuto e mo in azione. le soluzioni che può. Ma, chi ben guardi, 262. Li cercan di qua... di là: fra Gal si tratta di consigli pieni di buon senso, dino è tutto preso da traboccante ammira-
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ce n’abbiamo degli altri, sapete? pieni di carità e di talento, e che sanno trattare ugualmente co’ signori e co’ poveri. Volete il padre Atanasio? volete
il padre Girolamo? volete il padre Zaccaria? È un uomo di vaglia, vedete, il
padre Zaccaria. E non istate a badare, come fanno certi ignoranti, che sia così mingherlino, con una vocina fessa, e una barbetta misera misera: non dico per predicare, perché ognuno ha i suoi doni; ma per dar pareri, è un uomo,
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sapete? »
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Sani
n
« Oh per carità! » esclamò Agnese, con quel misto di gratitudine e d impazienza, che si prova a un’esibizione in cui si trovi più la buona volontà altrui, che la propria convenienza: « cosa m’importa a me che uomo sia o non sia un altro, quando quel pover’uomo che non c’è più, era quello che sapeva
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le nostre cose, e aveva preparato tutto per aiutarci? » « Allora, bisogna aver pazienza.»
« Questo lo so, » rispose Agnese: « scusate dell’incomodo. » « Di che cosa, la mia donna? mi dispiace per voi. E se vi risolvete di cercar qualcheduno de’ nostri padri, il convento è qui che non si move. Ehi, mi lascerò poi veder presto, per la cerca dell’olio. » « State bene, » disse Agnese; e s’incamminò verso il suo paesetto, desolata, confusa, sconcertata, come il povero cieco che avesse perduto il suo bastone. Un po’ meglio informati che fra Galdino, noi possiamo dire come andò veramente la cosa. Attilio, appena arrivato a Milano, andò, come aveva pro-
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messo a don Rodrigo, a far visita al loro comune zio del Consiglio segreto. (Era una consulta, composta allora di tredici personaggi di toga e di spada, da cui il governatore prendeva parere, e che, morendo uno di questi, o venendo mutato, assumeva temporaneamente il governo.) Il conte zio, togato, e uno degli anziani del consiglio, vi godeva un certo credito; ma nel farlo valere, e nel farlo rendere con gli altri, non c’era il suo compagno. Un parlare e non di chiacchiere da semplicione e da indifferente. Per non trattare, per esempio, dell’incisività con cui, in due parole, riesce a fissare il ritratto di padre Zaccaria. 281. Oh per carità...: quanta, angoscia in questa esclamazione e nei gesti che ci sembra di veder fare ad Agnese! Il M. sa cogliere a. perfezione ogni moto dell’animo umano: e qui, nell’edizione definitiva, molto meglio che nel Ferzzo e Lucia, in cui Agnese diceva: «Oh Santa Maria! ».
289-290. Ehi... per la cerca dell’olio: così finisce il lungo parlare di fra Galdino, che ricompare in quella caratteristica in cui lo avevamo incontrato la prima volta: quella del cercatore, la cui preoccupazione è assolvere bene il suo compito, perché sa che così fa del bene a tutti quelli che hanno bisogno del convento: il quale, come il mare «riceve acqua da tutte le parti, e la torna a distribuire a tutti i fiumi» (Cap. III). — Se la figura di fra Galdino la vediamo sotto questa luce, che è quella con cui ha voluto presentarcela l’autore, e non pretendiamo di trovare in lui ciò che, povero laico analfabeta, non può avere, scuseremo le sue deficienze, e riconosceremo
che il M. ha saputo creare, con lui, un tipo indimenticabile di umile frate cercatore. i 291-292. s’incamminò... il suo bastone: un’Agnese così disfatta — lei, sempre pronta a trovare una via d’uscita ad ogni difficoltà! — non l’avevamo mai vista. Fortuna, non c’è vicino Lucia! Il M. segue questa buona creatura con tenerezza e porta anche noi a fissare col suo stesso animo quel volto invecchiato e desolato, quei passi incerti e stanchi. 296. di toga e di spada: cioè, magistrati e militari; il conte zio era di «toga ». 300. Un parlare ambiguo...: siamo alla prima presentazione diretta di questo che è uno fra i più interessanti personaggi minori del romanzo. Già, però, dalle parole che una volta il conte Attilio aveva detto di lui — «il signor conte zio del Consiglio segreto è lui che mi deve fare il servizio... Quanto mi diverto ogni volta che lo posso far lavorare per me, un politicone di quel calibro! » (Cap. XI) — si intuiva qualcosa di quest'uomo tanto vanaglorioso quanto limitato. Qui ora abbiamo le linee essenziali del ritratto: quando poi il signor
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ambiguo, un tacere significativo, un restare a mezzo, uno stringer d’occhi che esprimeva: non posso parlare; un lusingare senza promettere, un minacciare
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In cerimonia; tutto era diretto a quel fine; e tutto, o più o meno, tornava in pro. A segno che fino a un: io non posso niente in questo affare: detto talvolta per la pura verità, ma detto in modo che non gli era creduto, serviva ad accrescere il concetto, e quindi la realtà del suo potere: come quelle scatole che si vedono ancora in qualche bottega di speziale, con su certe parole
arabe, e dentro non c’è nulla; ma servono a mantenere il credito alla bottega. Quello del conte zio, che, da gran tempo, era sempre andato crescendo a lentissimi gradi, ultimamente aveva fatto in una volta un passo, come si dice, di gigante, per un’occasione straordinaria, un viaggio a Madrid, con una missione alla corte; dove, che accoglienza gli fosse fatta, bisognava sentirlo raccontar da lui. Per non dir altro, il conte duca l’aveva trattato con una degnazione particolare, e ammesso alla sua confidenza, a segno d’avergli una volta domandato, in presenza, si può dire, di mezza la corte, come gli piacesse Madrid, e d’avergli un’altra volta detto a quattr’occhi, nel vano d’una finestra, che il duomo di Milano era il tempio più grande che fosse negli stati del re. Fatti i suoi complimenti al conte zio, e presentatigli quelli del cugino, Attilio, con un suo contegno serio, che sapeva prendere a tempo, disse: « credo di fare il mio dovere, senza mancare alla confidenza di Rodrigo, avvertendo il signore zio d’un affare che, se lei non ci mette una mano, può diventar serio, e portar delle conseguenze... » « Qualcheduna delle sue, m’immagino. »
« Per giustizia, devo dire che il torto non è dalla parte di mio cugino. Ma è riscaldato; e, come dico, non c’è che il signore zio, che possa... »
zio entrerà in azione vedremo una perfetta 316-317. Madrid... il duomo di Milano...: conferma dell’idea che in astratto ce n’eraecco i grandi affari su cui il conte duca aveva intrattenuto il conte zio. E questi è tanvamo prima formati. to sciocco, che non solo non si è accorto 306-307. come quelle scatole...: « il conte della bella stima in cui lo tenevano a corte, zio — ha scritto il Donadoni in Personagma proprio di quei: colloqui madrileni ha gi di autorità nei " Pr. Sp.” — ha la forfatto il suo cavallo di battaglia. Non è za della sua stessa nullità. Accoppiata alla difficile sentire il ridicolo dei misteriosi sua qualità di conte, alla dignità di membro del Consiglio Segreto, quella nullità si conversari a quattrocchi, e per di più rel vano d'una finestra. trasforma in una risultante tutta presti319-323. Fatti i suoi complimenti... congiosa, che si chiama credito: in una virtù seguenze...: l’inizio del discorso di Attilio fatta d’illusione, di prospettiva ottica che è di una sagacità straordinaria, e ci fa susvanisce in niente, ogni volta che le si va vicino. .Il conte zio sa che la sua forza è bito capire come il vecchio politicone è dein questo credito: egli non ha mai niente : stinato a cadere vittima dello scaltro nipote. Si osservi il valore ironico e maligno da dire, niente da proporre; ma nel far di quei «complimenti» ricordando l’opivalere quel niente, nel lasciare intravedere chi sa che in quel niente, è maestro. E il nione che Attilio ha del conte; poi, si badi alla serietà con cui il nipote imposta il Manzoni ce lo ritrae in questa funzione esdiscorso («credo di fare il mio dovere... senziale della sua vita, in questo atteggiaavvertendo il signor zio... »); e, infine, alla mento fondamentale del suo spirito, con un forza lusingatrice di quel «se lei non ci umorismo, anzi con un buon umore, con mette una mano ». una ricchezza e individualità di particolari, 326. il signore zio: l’espressione ossequioche c'è da credere che egli abbia desunto sa è ripetuta di continuo: è uno dei mezquel tipo dal vivo di quella vecchia nobiltà zi più validi di cui Attilio si serve per donde egli proveniva, e che, più che pariconquistare lo zio. nianamente, dispregiava ».
i promessi sposi
324 « Vediamo, vediamo. »
« C'è da quelle parti un frate cappuccino che l’ha con Rodrigo; e la cosa O. è arrivata a un punto che... »
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« Quante volte v’ho detto, all’uno e all’altro, che i frati bisogna lasciarli cuocere nel loro brodo? Basta il da fare che danno a chi deve... a chi tocca... » 4 E qui soffiò. « Ma voi altri che potete scansatli... » l’avrebbe Rodrigo che dirle di dovere « Signore zio, in questo, è mio a provopreso ha scansato, se avesse potuto. È il frate che l’ha con lui, che carlo in tutte le maniere... » « Che diavolo ha codesto frate con mio nipote? » « Prima di tutto, è una testa inquieta, conosciuto per tale, e che fa professione di prendersela coi cavalieri. Costui protegge, dirige, che so io? una contadinotta di là; e ha per questa creatura una carità, una carità... non dico pelosa, ma una catità molto gelosa, sospettosa, permalosa. »
« Intendo, » disse il conte zio; e sur un certo fondo di goffaggine, dipintogli in viso ‘dalla natura, velato poi e ricoperto, a più mani, di politica,
balenò un raggio di malizia, che vi faceva un bellissimo vedere. « Ora, da qualche tempo, » continuò Attilio, « s'è cacciato in testa questo frate, che Rodrigo avesse non so che disegni sopra questa... » « S'è cacciato in testa, s'è cacciato in testa: lo conosco anch’io il signor don Rodrigo; e ci vuol altro avvocato che vossignoria, per giustificarlo in queste materie. »
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« Signore zio, che Rodrigo possa aver fatto qualche scherzo a quella creatura, incontrandola per la strada, non sarei lontano dal crederlo: è giovine, e finalmente non è cappuccino; ma queste son bazzecole da non trattenerne il signore zio: il serio è che il frate s'è messo a parlar di Rodrigo come si farebbe d’un mascalzone, cerca d’aizzargli contro tutto il paese... » «E gli altri frati? » « Non se ne impicciano, perché lo conoscono per una testa calda, e hanno tutto il rispetto per Rodrigo; ma, dall’altra parte, questo frate ha un gran credito presso i villani, perché fa poi anche il santo, e... »
327. Vediamo, vediamo: il tranello d’Attilio sta già rivelandosi efficace. 331. il da fare che danno: già sappiamo che in quei tempi le contese fra il clero e le autorità ‘laiche erano « ffequentissime » (Cap. I): il conte zio coi suoi soffi sembra accrescerle ancora di più. 337. Prima di tutto...: il discorso di Attilio si sviluppa con un’accortezza diabolica, tutta in funzione dello scopo da raggiungere: legare lo zio all'impegno contro fra Cristoforo. Petciò Attilio unisce ad una continua esaltazione della boria dello zio ogni elemento che possa suscitarne il risentimento di naturale difensore dell’onore di tutta la famiglia. Guarda però la cattiveria
con ‘cui presenta padre Cristoforo e i suoi rappotti con Lucia: un che di grossolanità e di malizia, a cui lo zio abbocca con una goffaggine che rivela un misto di sensua-
lità giovanile e di turpitudine senile: « Intendo »... 349-351. Rodrigo... non è un cappuccino: il non ‘prendere la difesa al cento per cento del proprio protetto, è astuzia sopraffina del bravo avvocato: e tale è davvero il conte Attilio. 352-353. il serio è... mascalzone: la sfilza delle calunnie procede con un crescendo sempre più deciso e spavaldo. La stupidaggine dello zio sta nel non dubitare neppure che ci sia la benché minima esagerazione. 354. E gli altri frati?: la domanda rientra nei calcoli del politicone: prima di muoci vuol sapere con quanti avrebbe a che are. 357. fa poi anche il santo: anche questo fa il buon padre Cristoforo: tanto sarebbe ipocrita! A noi non mancherà l’occasione di costatare che santo lo è davvero.
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capitolo XVIII
« M’immagino che non sappia che Rodrigo è mio nipote. » « Se lo sa! Anzi questo è quel che gli mette più il diavolo addosso. » « Come? come? » « Perché, e lo va dicendo lui, ci trova più gusto a farla vedere a Rodrigo, appunto perché questo ha un protettor naturale, di tanta autorità come vossignoria: e che lui se la ride de’ grandi e de’ politici, e che il cordone di san Francesco tien legate anche le spade, e che... » « Oh frate temerario! Come si chiama costui? »
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« Fra Cristoforo da *** » disse Attilio; e il conte zio, preso da una cassetta del suo tavolino, un libriccino di memorie, vi scrisse, soffiando, soffiando, quel povero nome. Intanto Attilio seguitava: «è sempre stato di quel-
l'umore, costui: si sa la sua vita. Era un plebeo che, trovandosi aver quattro soldi, voleva competere coi cavalieri del suo paese; e, per rabbia di non poterla
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vincer con tutti, ne ammazzò uno; onde, per iscansar la forca, si fece frate. » « Ma bravo! ma bene! La vedremo, la vedremo, » diceva il conte zio, se.
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guitando a soffiare. « Ora poi, » continuava Attilio, « è più arrabbiato che mai, perché gli è andato a monte un disegno che gli premeva molto molto: e da questo il signore zio capirà che uomo sia. Voleva costui maritare quella sua creatura: fosse per levarla dai pericoli del mondo, lei m’intende, o per che altro si fosse, la voleva maritare assolutamente; e aveva trovato il... l’uomo: un’altra sua creatura, un soggetto, che, forse e senza forse, anche il signore zio lo conoscerà di nome; perché tengo per certo che il Consiglio segreto avrà dovuto occuparsi di quel degno soggetto. » « Chi è costui? » « Un filatore di seta, Lorenzo Tramaglino, quello che... »
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« Lorenzo Tramaglino! » esclamò il conte zio. « Ma bene! ma bravo, padre! Sicuro... in fatti..., aveva una lettera per un... Peccato che... Ma non importa; va bene. E perché il signor don Rodrigo non mi dice nulla di tutto questo? perché lascia andar le cose tant’avanti, e non si rivolge a chi lo può e vuole dirigere e sostenere? » « Dirò il vero anche in questo, » proseguiva Attilio. « Da una parte, sa-
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pendo quante brighe, quante cose ha per la testa il signor zio... » (questo, soffiando, vi mise la mano, come per significare la gran fatica ch’era a farcele star tutte) « s'è fatto scrupolo di darle una briga di più. E poi, dirò tutto: 358. Rodrigo è mio nipote: il nepotismo
e l’orgoglio del casato sono fra le molle più eccitanti dell’aristocrazia secentesca. Anche questo diviene una leva potente nelle mani di Attilio. 367-368. vi scrisse... quel povero nome: quanta tristezza ci dà questa condanna, che è una delle tante forme di ingiustizia e di sopraffazione che il M. ci ha introdotti a conoscere di quel secolo; ma non sono state di quel secolo solo. 368. Attilio seguitava: non gli è bastato di aver già vinto; vuole stravincere, portando lo zio a fare tutto quello, e solo quello, che a lui sembra meglio. Ci riuscirà completamente.
i secondoi 383. Lorenzo Tramaglino: ecco il povero nome, anche lui coperto di calunnie e di sozzure. Purtroppo, nel caso di Renzo, Attilio ha, a suo vantaggio, i fatti di Milano. 384. Ma bene! ma bravo: poco prima aveva esclamato « Ma bravo, ma bene! ». Il vuoto dell’anima si rivela anche nel vuoto della mente. Ora, però, l’esclamazione è generata dal piacere di aver già, con Renzo, un’accusa decisiva contro il frate. 387-388. chi lo può e vuole... sostenere: ormai il conte zio si è gettato a capofitto nell’impresa: è un impegno di famiglia, è un punto d’onore a cui non si può recedere. Di faccende simili siamo già esperti.
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da quello che ho potuto capire, è così irritato, così fuor de’ gangheri, così 395
stucco delle villanie di quel frate, che ha più voglia di farsi giustizia da sé, in qualche maniera sommaria, che d’ottenerla in una maniera regolare, dalla prudenza e dal braccio del signore zio. Io ho cercato di smorzare;
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« È vero; ma io andavo sperando che la cosa svanirebbe
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ma ve-
dendo che la cosa andava per le brutte, ho creduto che fosse mio dovere d’avvertir di tutto il signore zio, che alla fine è il capo e la colonna della Casa... » « Avresti fatto meglio a parlare un poco prima. » da sé, o che
il frate tornerebbe finalmente in cervello, o che se n’anderebbe da quel convento, come accade di questi frati, che ora sono qua, ora sono là; e allora tutto sarebbe finito. Ma... » « Ora toccherà a me a raccomodarla. » « Così ho pensato anch’io. Ho detto tra me: il signore zio, con la sua avvedutezza, con la sua autorità, saprà lui prevenire uno scandolo, e insieme salvar l’onore di Rodrigo, che è poi anche il suo. Questo frate, dicevo io, l’ha sempre col cordone di san Francesco; ma per adoprarlo a proposito, il cordone di san Francesco, non è necessario d’averlo intorno alla pancia. Il si-
gnore zio ha cento mezzi ch’io non conosco: so che il padre provinciale ha, com’è giusto, una gran deferenza per lui; e se il signore zio crede che in questo caso il miglior ripiego sia di far cambiar aria al frate, lui con due parole... » « Lasci il pensiero a chi tocca, vossignoria, » disse un po’ ruvidamente il conte zio. « Ah è vero! » esclamò Attilio, con una tentennatina di testa, e con un
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sogghigno di compassione per sé stesso. « Son io l’uomo da dar pareri al signore zio! Ma è la passione che ho della riputazione del casato che mi fa parlare. E ho anche paura d’aver fatto un altro male, » soggiunse con un’aria pensierosa: « ho paura d’aver fatto torto a Rodrigo nel concetto del signore zio. Non mi darei pace, se fossi cagione di farle pensare che Rodrigo non abbia tutta quella fede in lei, tutta quella sommissione che deve avere. Creda, signore zio, che in questo caso è proprio... »
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« Via, via; che torto, che torto tra voi altri due? che sarete sempre amici,
finché l’uno non metta giudizio. Scapestrati, scapestrati, che sempre ne fate
400. Avresti... prima: c’è un intreccio, quasi una gara, d’ipocrisia e di malvagità in questa finale del colloquio fra zio e nipote. Ma mentre il furbo continua a colpire lo stupido ove è più sensibile, tante accuse, calunnie, violenze ci fanno riflettere su aspetti di vita che non sono scompatsi insieme col secolo XVII. 403. ora sono qua, ora sono là: sembrerebbe un’osservazione innocente; è invece una prima maliziosa insinuazione per liqui-
dare Cristoforo facendolo allontanare da Pescarenico. Poi, per far cambiar aria al frate, gli dirà anche come comportarsi: « due parole » al « padre provinciale ». E il giuoco sarà fatto! 415. Lasci... vossignoria: l’interruziohe del
conte zio è brusca e risentita: èx tipica del presuntuoso che si sente menomato nelle sue prerogative. Naturalmente il comico di
tutto questo discorso sta nel fatto che poi lo zio « politicone » eseguirà alla lettera i suggerimenti del nipote « scapestrato ». 417. Ah è vero!...: Attilio, mostrando di aver commesso una gaffe, è stupendo anche nel sapere incassare il rimprovero: o, meglio, nel fingere di incassarlo. Si osservi, inoltre, come questo finissimo commediante all’inganno sappia aggiungere la beffa: « Creda, signore zio... ». 426. Scapestrati, scapestrati...: quanta soddisfazione nel vecchio conte, a cui non basta il tempo per badare agli affari di stato e ai guai dei nipoti! La chiusa del collo-
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una; e a me tocca di rattopparle: che... mi fareste dire uno sproposito, mi date più da pensare voi altri due, che », e qui immaginatevi che soffio mise,
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« tutti questi benedetti affari di stato. » Attilio fece ancora qualche scusa, qualche promessa, qualche complimento; poi si licenziò, e se n’andò, accompagnato da un « e abbiamo giudizio », ch’era la formola di commiato del conte zio per i suoi nipoti. quio un critico l’ha definita « un’epopea ». E lo è davvero, ché in essa tutto Al mondo del conte — presunzione, vacuità, sen-
sualità.. — si riepiloga in una battuta e in un gesto che hanno la vivacità e la forza dell’epigramma.
‘Scheda critica al cap. XVIII E' un altro capitolo di raccordo, come l'XI, ricapitolazione e rifinitura di situazioni precedenti lasciate in sospeso e preparazione prossima o remota di altre che avranno in seguito il loro svolgimento. Il grande sommovimento del tumulto milanese per la carestia, con particolare riguardo alla commedia, anzi alla farsa, dei pubblici poteri e dei loro provvedimenti, ha qui i suoi ultimi divertenti strascichi nel paragrafo iniziale. Le pagine dedicate ai maneggi di don Rodrigo e del conte Attilio, nonchè alle vicende che ne conseguono per gli altri principali personaggi, Lucia, Gertrude, Agnese, fra Cristoforo, pongono le basi di un altro importante nodo narrativo, quello che avrà il suo centro nella figura dell'Innominato. E intanto ne esce meglio precisata la natura della passione di Rodrigo — un « misto di puntiglio, di rabbia e d'infame capriccio »; e si aggiungono note preziose alla definizione dei caratteri di Attilio, della buona Agnese, del pettegolo fra Galdino. Particolare attenzione è da prestare agli accenni su Lucia e la sua vita nel convento, che sono, come sempre quando si ha che fare con questo personaggio, estremamente parchi e delicati. Lucia si esprime tutta per via di gesti minimi e involontari (il lavoro che le cade di mano e l'improvviso pallore all'annuncio dei fatti di Renzo) e per via di reticenze e di silenzi. La sua vita è tutta interiore, fatta di sentimenti e riflessioni che non sono meno profondi per il fatto che riluttano ad ogni espressione e si avvolgono in un velo di ombroso pudore. Chi le si accosta (in questo caso, Gertrude con la sua terribile curiosità),
ne
subisce,
quasi
flusso difficile a definirsi
senza
e assai
rendersene
più intenso
conto,
un
in-
e sconvolgente
di quanto si potrebbe a tutta prima supporre, capace di insinuarsi in un groviglio di passioni inveterate e. di viziose consuetudini e di romperne e turbarne il precario equilibrio. Nelle ultime pagine, infine, campeggia il ritratto del conte-zio,
che sarà svolto appieno nel capitolo seguente:
uno di quei per-
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i promessi sposi sonaggi d'autorità, che la grande vena polemica dello scrittore, la sua irridente e copertamente feroce considerazione della grande storia, trasforma in figure ed esemplari della vanità delle istituzioni che si illudono di regolare le sorti del mondo: qui è la satira addirittura della forma assolutamente vuota della autorevolezza in sè e del suo falso credito che si alimenta del fumo dei gesti rituali e delle parole intralciate e misteriose.
Capitolo XIX
Chi, vedendo in un campo mal coltivato, un’erbaccia, per esempio un bel lapazio, volesse proprio sapere se sia venuto da un seme maturato nel campo stesso, o portatovi dal vento, o lasciatovi cader da un uccello, per quanto ci pensasse, non ne verrebbe mai a una conclusione. Così anche noi non sapremmo dire se dal fondo naturale del suo cervello, o dall’insinuazione d’At-
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tilio, venisse al conte zio la risoluzione di servirsi del padre provinciale per troncare nella miglior maniera quel nodo imbrogliato. Certo è che Attilio non aveva detta a caso quella parola; e quantunque dovesse aspettarsi che, a un suggerimento così scoperto, la boria ombrosa del conte zio avrebbe ricalcitrato, a ogni modo volle fargli balenar dinanzi l’idea di quel ripiego, e metterlo sulla strada, dove desiderava che andasse. Dall'altra parte, il ripiego era talmente adattato all’umore del conte zio, ‘talmente indicato dalle circostanze, che, senza suggerimento di chi si sia, si può scommettere che l’avrebbe trovato da sé. Si trattava che, in una guerra pur troppo aperta, uno del suo nome, un suo nipote, non rimanesse al di sotto: punto essenzialissimo alla riputazione del potere che gli stava tanto a cuore. La soddisfazione che il nipote poteva prendersi da sé, sarebbe stata un rimedio peggior del male, una sementa di guai; e bisognava impedirla, in qualunque maniera, e senza perder tempo. Comandargli che partisse in quel momento dalla sua villa; già non avrebbe ubbidito; e quand’anche avesse, era un cedere il campo, una ritirata
della casa dinanzi a un convento. Ordini, forza legale, spauracchi di tal ge-
nere, non valevano contro un avversario di quella condizione: il clero rego-
lare e secolare era affatto immune da ogni giurisdizione laicale; non solo le
1-4. Chi, vedendo... conclusione: il tono piano e disteso del discorso accentua l’ar-
guzia del confronto. C'è chi ha trovato da ridire sull’accostamento di erbaccia con bel lapazio, il quale è proprio un’erbaccia che non serve a niente, ma è bello per le sue grandi foglie a forma di lancia o di cuore e per i suoi fiori a spiga verdastri. Ma forse è proprio in tale accostamento uno dei motivi più pungenti del confronto e dell’ironia: l’idea del conte Attilio, e poi del conte zio, di servirsi del padre provinciale per allontanare fra Cristoforo è in sé cattiva e maligna: è un’erbaccia; d’altra parte, però, bisogna riconoscere che è stata un’idea geniale, di sicuro effetto: un bel lapazio!
| 7. troncare... quel nodo imbrogliato: ve. dremo che tutto il metodo politico del conte zio si può sintetizzare in due parole che lui stesso ‘ripeterà: « sopire, troncare; troncare, sopire ». È il metodo della prudenza, ma di una prudenza che è insieme rinunzia e intrigo, viltà e inganno; non la prudenza che è saggezza e virtù. 14-15. uno del suo nome... di sotto: il solito orgoglio e il solito puntiglio. Per questo non si ascoltano le ragioni degli altri: e quindi fra Cristoforo dovrà andarsene senza che si compia la benché minima indagine sull’origine dei fatti, sulla posizione del torto e del diritto. È prepotenza tipica del Seicento: ma non scomparsa.
î promessi sposi
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persone, ma i luoghi ancora
abitati da esso:
come
deve sapere anche chi
non avesse letta altra storia che la presente; che starebbe fresco. Tutto quel che si poteva contro un tale avversario era cercar d’allontanarlo, e il mezzo
a ciò era il padre provinciale, in arbitrio del quale era l’andare e lo stare di
sat i quello. Ora, tra il padre provinciale e il conte zio passava un'antica conoscenza: 30 s’eran veduti di rado, ma sempre con gran dimostrazioni d’amicizia, e con esi-
bizioni sperticate di servizi. E alle volte, è meglio aver che fare con uno che sia sopra a molti individui, che con un solo di questi, il quale non vede che 35
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la sua causa, non sente che la sua passione, non cura che il suo punto; mentre l’altro vede in un tratto cento relazioni, cento conseguenze, cento interessi, cento cose da scansare, cento cose da salvare; e si può quindi prendere da cento parti. | Tutto ben ponderato, il conte zio invitò un giorno a pranzo il padre provinciale, e gli fece trovare una corona di commensali assortiti con un inten-
dimento sopraffino. Qualche parente de’ più titolati, di quelli il cui solo casato era un gran titolo; e che, col solo contegno, con una certa sicurezza nativa, con una sprezzatura signorile, parlando di cose grandi con termini famigliari, riuscivano, anche senza farlo apposta, a imprimere e rinfrescare, ogni momento, l’idea della superiorità e della potenza; e alcuni clienti legati alla casa per una dipendenza ereditaria, e al personaggio per una servitù di tutta
la vita; i quali, cominciando dalla minestra a dir di sì, con la bocca, con gli occhi, con gli orecchi, con tutta la testa, con tutto il corpo, con tutta l’anima, alle frutte v’avevan ridotto un uomo a non ricordarsi più come si facesse a dir di no. A tavola, il conte padrone fece cader ben presto il discorso sul tema di
24. come deve sapere...: più volte abbiamo trovato, per esempio, riferimenti al diritto d’asilo, di cui nel Seicento godevano chiese e conventi. Si ricordi quanto era capitato a Lodovico dopo l’uccisione dell’avversario (Cap. IV), e ciò che la folla aveva gridato a Renzo appena liberato dai birri: « Scappa, scappa, galantuomo: lì c’è un convento, ecco là una chiesa » (Cap. XVI). 25. che starebbe fresco: battuta scherzosa su un tasto che non è nuovo: la limitata importanza che il M. attribuisce al suo libro. Viene a mente la famosa frase: « pensino ora i miei venticinque lettori » (Cap. I). Qui il M. giustamente riconosce che le pagine veramente storiche del romanzo non sono sufficienti a fornire una conoscenza vasta e scrupolosa del Seicento. Di questo secolo egli ci presenta soprattutto le sue valutazioni, le sue impressioni: ben poco e degli avvenimenti e dei personaggi reali. 30-31. esibizioni sperticate di servizi: qualcosa del genere avremo occasione di vedere lungo tutto il capitolo. La frase è un primo annuncio dello sguardo caricaturale con cui il M. seguirà tutta la scena fra il conte zio e il padre provinciale. 34-36. cento...
cento...
cento...:
sembra
che questi « cento » non debbano finire più. Tutto è umorismo, ma la nota più pungente è nella conclusione: un uomo che vuol badare a tutte quelle relazioni, conseguenze, ecc. «si può prendere da cento parti ». Come accadrà al padre guardiano. 38-39. con un intendimento sopraffino: anche questa considerazione è carica d’ironia. Comunque l'impegno del conte zio nel mettere insieme così sopraffino apparato è giustificato dalla difficoltà dell’impresa, che non starà tanto nel fare allontanare padre Cristoforo dal convento. di Pescarenico, quanto nel farlo allontanare senza che i suoi superiori compiano alcuna indagine, e stiano alle sole asserzioni del conte. Asserzioni che, secondo il pensiero del padrone di casa, sarebbero riuscite tanto più persuasive, quanto più numerosa e più scelta fosse stata la corona dei parenti e la schiera dei clienti. Ragionamenti e apparati simili già abbiamo incontrati nella celebre scena del perdono (Cap. IV). 45-48. cominciando... dir di no: come, press’a poco, i due «convitati oscuri» al pranzo di don Rodrigo (Cap. V): il solito colore del secolo; la solita attenta, maliziosa pennellata.
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Madrid. A Roma si va per più strade; a Madrid egli andava per tutte. Parlò
della corte, del conte duca, de’ ministri, della famiglia del governatore, delle cacce del toro, che lui poteva descriver benissimo, perché le aveva godute da da un posto distinto, dell’Escuriale di cui poteva render conto a un puntino, perché un creato del conte duca l’aveva condotto per tutti i buchi. Per qualche tempo, tutta la compagnia stette, come un uditorio, attenta a lui solo, poi si divise in colloqui particolari; e lui allora continuò a raccontare altre di quelle belle cose, come in confidenza, al padre provinciale che gli era accanto, e che lo lasciò dire, dire e dire. Ma a un certo punto, diede una giratina al discorso, lo staccò da Madrid, e di corte in corte, di dignità
in dignità, lo tirò sul cardinal Barberini, ch'era cappuccino, e fratello del papa allora sedente, Urbano VIII: niente meno. Il conte zio dovette anche lui lasciar parlare un poco, e stare a sentire, e ricordarsi che finalmente, in questo mondo, non c’era soltanto i personaggi che facevan per lui. Poco dopo alzati da tavola, pregò il padre provinciale di passar con lui in un’altra stanza.
Due potestà, due canizie, due esperienze consumate si trovavano a fronte. 50. a Madrid... per tutte: il servilismo del conte zio verso i dominatori spagnoli non è cosa nuova: ricordiamo il famoso brindisi al conte duca (Cap. V). Anche in questo insistere nel mettere in evidenza lo scarso senso di italianità della nobiltà del Seicento, è una nota del patriottismo del M,, che, almeno in patte, potremmo ricollegare a quello del Foscolo nella famosa rampogna verso «il dotto e il ricco ed il patrizio vulgo » che « nelle adulate reggie ha sepoltura già vivo» (Dei Sepolcri). Bisogna, tuttavia, tener presente che nel Seicento non esisteva ancora un’idea di nazione italiana, quale si venne sviluppando nei secoli XVIII e XIX. 52. cacce del toro: le famose corride. 53. Escuriale: celebre complesso dei grandiosi ‘edifici (chiostri, biblioteche, pinacoteche, parchi, tombe dei reali di Spagna) fatti erigere da Filippo JI sulla Sierra Guadarrama in ricordo della battaglia di San Quintino (10 agosto 1557), vinta dagli
Spagnoli sui Francesi. 54. un creato: un favorito. — per tutti i buchi: se è vero che l’espressione, come sostengono alcuni commentatori, è appropriata per l’Escuriale, in quanto in quel complesso di edifici non ci‘’sono soltanto zone monumentali ma anche parti anguste e squallide, non è men vero che l’espressione ha un che d’ironico, e serve anch’essa ad indicare la vanità e la boria del conte zio. 54-63. Per qualche tempo... per lui: siamo alle prime avvisaglie del duello fra le due potestà. L’una, il conte zio, con una tecnica piuttosto grossolana, spara subito tutte le sue cartucce, mettendo in mostra glorie e relazioni; l’altra, il padre provin-
viale, con un’astuzia più esperta, dopo aver lasciato « dire, dire, dire », coglie il mo-
mento
opportuno
e con un vigoroso con-
traccolpo sposta il colloquio in tutt’altro mondo. Dell’intero capoverso stupenda è, in particolare, l'immagine di quella « gira-
tina al discorso », che, piena di malizia e di garbo, introduce nel vivo la lotta tra il casato e il convento. Si tratta, dunque, di due diplomatici che si assaggiano e che, prima di passare all’attacco: aperto — se ce ne fosse bisogno —, vogliono far sentire, ciascuno al proprio avversario, di quante e quali forze dispongono. 64-65. passar... in un’altra stanza: perfetta è la corrispondenza dei fatti esterni col colloquio di don Rodrigo e padre Cristoforo: profondamente diversa, invece, la disposizione psicologica e, poi, la condotta dei due personaggi. 66. Due potestà, due canizie...: l’inizio di questo capoverso ha davvero, come è stato notato, qualcosa di epico, e concentra bene tutta la nostra attenzione sui due contendenti. Ma senti subito, specie da quel « due esperienze consumate », e poi da quell’ossequioso e compunto «fece sedere », che la contesa, anche se avrà punte penetranti e non risparmierà colpi sottili, finirà, attraverso un giuoco di scherma abilissimo, in un compromesso totale. Si ricordi, tanto per fare un ultimo ma illuminante confron: to, che don Rodrigo aveva rivolto a padre Cristoforo il suo arrogante e sarcastico Ir che posso ubbidirla? « piantandosi in piedi nel mezzo della sala». Il M., che fu stupendo drammaturgo in quel colloquio di avversari che fin dalle prime battute precipitavano verso lo scontro e la catastrofe,
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Il magnifico signore fece sedere il padre molto reverendo, sedette anche lui, e cominciò: « stante l’amicizia che passa tra di noi, ho creduto di far parola a vostra paternità d’un affare di comune interesse, da concluder tra di noi, senz’andar per altre strade, che potrebbero... E perciò, alla buona, col cuore in mano, le dirò di che si tratta; e in due parole son certo che anderemo d’accordo. Mi dica: nel loro convento di Pescarenico c’è anche un padre Cristoforo da ***? » Il provinciale fece cenno di sì. « Mi dica un poco vostra paternità, schiettamente, da buon amico... questo soggetto... questo padre... Di persona io non lo conosco; e sì che de padri cappuccini ne conosco parecchi: uomini d’oro, zelanti, prudenti, umili:
sono stato amico dell’ordine fin da ragazzo... Ma in tutte le famiglie un po’ numerose... c'è sempre qualche individuo, qualche testa... E questo padre Cristoforo, so da certi ragguagli che è un uomo... un po’ amico de’ contrasti... che non ha tutta quella prudenza, tutti que’ riguardi... Scommetterei che ha dovuto dar più d’una volta da pensare a vostra paternità. » — Ho inteso: è un impegno, — pensava intanto il provinciale: — colpa mia; lo sapevo che quel benedetto Cristoforo era un soggetto da farlo girare di pulpito in pulpito, e non lasciarlo fermare sei mesi in un luogo, specialmente in conventi di campagna. — « Oh! » disse poi: « mi dispiace davvero di sentire che vostra magnificenza abbia in un tal concetto il padre Cristoforo; mentre, per quanto ne so io, è un religioso... esemplare in convento, e tenuto in molta stima anche di
fuori. »
« Intendo benissimo; vostra paternità deve... Però, però, da amico sincero, voglio avvertirla d’una cosa che le sarà utile di sapere; e se anche ne
fosse già informata, posso, senza mancare ai miei doveri, metterle sott'occhio certe conseguenze... possibili: non dico di più. Questo padre Cristoforo, sapnon lo sarà meno ora in un colloquio di politicanti che sempre si studieranno di evitare motivi d’attrito, e di vincere (o non perdere) con mano vellutata. 67. Il magnifico signore... il padre molto reverendo: «già in questi due titoli che continuano le due potestà, le due esperienze, il M. ci dà il proprio delle loro persone, lontane da ogni violenza, morbidis. sime anzi, e acute, e amene. E con che compiacenza i due interlocutori si palleggiano i titoli rotondi: ‘vostra paternità’ ‘ vostra magnificenza ’ [...]. Tra i due personaggi corre, sì, confidenza (« stante l’amicizia che passa
tra noi...») ma
si trattano
coi titoli che, al momento buono, possono intimidire le parole, trattenerne altre... E il ritorno, frequente, delle espressioni solenni, aiuta il discorso aulico delle duc potestà » (Angelini). 76-81. questo padre... que’ riguardi...: il modo impacciato, il dire e non dire nei riguardi di fra Cristoforo, non solo è proprio del carattere e dei metodi del conte zio, come già sappiamo, ma è tipico anche
dell’uomo che sa di offendere ma vuole essere cauto. 83-86. Ho inteso:..., di campagna —: i critici incominciano da qui a sottolineare le colpe del provinciale. Uno, ad esempio, dice che egli «immediatamente toglie la sua protezione a quel poveretto Cristoforo » e che d’ora in avanti non penserà che «a far cascare la cosa dall’alto », difendendo formalmente il povero frate e procurando che la capitolazione avvenga con onore. Tuttavia dobbiamo osservare che ora il provinciale fa un rimprovero anche a se stesso, per non aver saputo impiegare Cristoforo nel modo e nei luoghi che meglio si addicono alle sue doti e ‘al suo carattere. È un ripensamento, questo, che più tardi potrà giustificare il provinciale, sia pure in parte limitata, per la decisione che egli prenderà nei riguardi di padre Cristoforo. 89. è un religioso... esemplare: la sospensione non nasce da riserve sul conto di Cristoforo, ma dall’intento di fare accettare, senza tono polemico, la smentita.
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piamo che proteggeva un uomo di quelle parti, un uomo... vostra paternità
n’avrà sentito parlare; quello che, con tanto scandolo, scappò dalle mani della giustizia, dopo aver fatto, in quella terribile giornata di san Martino, cose...
cose... Lorenzo Tramaglino! » — 100
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Ahi! —
pensò il provinciale; e disse:
«questa circostanza mi riesce
nuova; ma vostra magnificenza sa bene che una parte del nostro ufizio è appunto d’andare in cerca de’ traviati, per ridurli... » « Va bene; ma la protezione de’ traviati d’una certa specie...! Son cose spinose, affari delicati... » E qui, in vece di gonfiar le gote e di soffiare, strinse le labbra, e tirò dentro tant’aria quanta ne soleva mandar fuori, soffiando. E riprese: « ho creduto bene di darle un cenno su questa circostanza, perché se mai sua eccellenza... Potrebbe esser fatto qualche passo a Roma... non so niente... e da Roma venirle... » « Son ben tenuto a vostra magnificenza di codesto avviso; però son certo che, se si prenderanno informazioni su questo proposito, si troverà che il padre Cristoforo non avrà avuto che fare con l’uomo che lei dice, se non a fine di mettergli il cervello a partito. Il padre Cristoforo, lo conosco. » « Già lei sa rneglio di me che soggetto fosse al secolo, le cosette che ha fatte in gioventù. » « È la gloria dell’abito questa, signor conte, che un uomo, il quale al secolo ha potuto far dir di sé, con questo indosso, diventi un altro. E da che il padre Cristoforo porta quest’abito... » 7 « Vorrei crederlo: lo dico di cuore: vorrei crederlo; ma alle volte, come dice il proverbio... l'abito non fa il monaco. » Il proverbio non veniva in taglio esattamente; ma il conte l’aveva sostituito in fretta a un altro che gli era venuto sulla punta della lingua: il lupo cambia il pelo, ma non il vizio. « Ho de’ riscontri, » continuava, « ho de’ contrassegni... » « Se lei sa positivamente, » disse il provinciale, « che questo
religioso
abbia commesso qualche errore (tutti si può mancare), avrò per un vero fa-
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vore l’esserne informato. Son superiore: indegnamente; ma lo sono appunto per correggere, per rimediare. » «Le dirò: insieme con questa circostanza dispiacevole della protezione cioè, dice fra sé il prosi mette su un piano poco bene. Ma la riflessione non traspare, e il provinciale giustifica la condotta di fra Cristoforo anche se la giustificazione è, in sostanza, un elo99. —
vinciale, politico,
Ahi! —:
se la cosa può finire
gio più dell'ordine che dell’individuo ingiustamente incolpato. 106. sua eccellenza: è il governatore, che potrebbe fare qualche passo a Roma, cioè chiedere direttamente alla S. Sede di prendere dei provvedimenti nei riguardi non solo di padre Cristoforo, ma anche del padre provinciale per non essere intervenuto
a tempo e luogo. La minaccia del conte zio è espressa in modo vago, reticente, indefinito: già dalla prima presentazione sa-
pevamo di un cerimonia ».
certo
suo
« minacciare
in
111. Il padre Cristoforo,
lo conosco:
è
la parte più netta della difesa che il provinciale fa dell’accusato. Ma il fatto che
egli conosce padre Cristoforo gli imporrebbe, in seguito, un tutt'altro comportai i mento.
115-116. E da che il padre Cristoforo...: anche qui la difesa è tanto sostenuta da mettere nei pasticci anche l’interlocutore, che ribatte annaspando come meglio può: ed ora, in un certo senso, costretto alla diÈ fensiva è Lijit 127-131. Le dirò... don Rodrigo: final i precedenti tenmente, andati male tutti
tativi, il conte zio si decide a sparare l’ultima cartuccia. Sarà l’argomento decisivo, perché fa balenare latragicità di un caso molto comune in quet tempi: l'urto di due
grandi gruppi, la famiglia nobiliare e l’or-
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aperta di questo padre per chi le ho detto, c’è un’altra cosa disgustosa, e che potrebbe... Ma, tra di noi, accomoderemo tutto in una volta. C'è, dico, che lo stesso padre Cristoforo ha preso a cozzare con mio nipote, don Rodrigo ***. » « Oh! questo mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace davvero. » « Mio nipote è giovine, vivo, si sente quello che è, non è avvezzo a es-
ser provocato... » « Sarà mio dovere di prender buone informazioni d’un fatto simile. Come ho già detto a vostra magnificenza, e parlo con un signore che non ha meno
giustizia che pratica di mondo, tutti siamo di carne, soggetti a sbagliare... tanto da una parte, quanto dall’altra: e se il padre Cristoforo avrà man-
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cato... »
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« Veda vostra paternità; son cose, come io le dicevo da finirsi tra di noi, da seppellirsi qui, cose che a rimestarle troppo... si fa peggio. Lei sa cosa segue: quest’urti, queste picche, principiano talvolta da una bagattella, e vanno avanti, vanno avanti... A voler trovarne il fondo, o non se ne viene
a capo, o vengon fuori cent’altri imbrogli. Sopire, troncare, padre molto reverendo: troncare, sopire. Mio nipote è giovine; il religioso, da quel che sento, ha ancora tutto lo spirito, le... inclinazioni d’un giovine: e tocca a noi, che abbiamo i nostri anni... pur troppo eh, padre molto reverendo?... » Chi fosse stato lì a vedere, in quel punto, fu come quando, nel mezzo d’un’opera seria, s'alza, per isbaglio. uno scenario, prima del tempo, e si vede un cantante che, non pensando, in quel momento, che ci sia un pubblico al mondo, discorre alla buona con un suo compagno. Il viso, l’atto, la voce del conte zio, nel dir quel pur troppo!, tutto fu naturale: lì non c’era politica: era proprio vero che gli dava noia d’avere i suoi anni. Non già che piangesse i passatempi, il brio, l’avvenenza della gioventù: frivolezze, sciocchezze, miserie! La cagion del suo dispiacere era ben più soda e importante: era
che sperava un certo posto più alto, quando fosse vacato; e temeva di non arrivare a tempo. Ottenuto che l’avesse, si poteva esser certi che non si sarebbe più curato degli anni, non avrebbe desiderato altro, e sarebbe motto contento, come tutti quelli che desideran molto una cosa, assicurano di voler fare, quando siano arrivati a ottenerla. Ma per lasciarlo parlar lui, « tocca a noi », continuò, « a aver giudizio per i giovani, e a rassettar le loro malefatte. Per buona sorte, siamo ancora
a tempo; la cosa non ha fatto chiasso; è ancora il caso d’un buon principiis
dine religioso. Questa uscita è stata paragonata a quel lampo che durante un temporale notturno « illumina momentaneamente e in confuso gli oggetti e accresce il terrore»: come il nome di don Rodrigo alle orecchie di don Abbondio (Cap. I). Da qui il «mi dispiace » che il provinciale ripete melanconicamente ben tre volte, intravedendo una lunga catena di urti e di picche. 133. Mio nipote è giovine: ma il conte zio non fa parola di Lucia; è furbo abbastanza per capite che l’accenno sarebbe stato controproducente, perché allora il provinciale non avrebbe potuto sottrarsi ad un’indagine dei fatti, e si sarebbe scoperto
da che parte era la colpa.
4
148-160. Chi fosse stato lì... ottenerla: tutto questo capoverso manca nell’edizione del ’27, nella quale il conte procede nel suo discorso per un lunghissimo tratto. La aggiunta ‘del capoverso smorza opportunamente il troppo lungo assolo ed introduce. sapientemente una pausa riflessiva: ed è vivacissima, sia per la similitudine così felice che introduce, sia per le considerazioni così ironiche ed umane nei riguardi del conte. Un pover’'uomo ridotto, qui più che altrove, al nudo, e con sagace umorismo visto dentro, al di là della boria esteriore, 163-164. principiis obsta: opponiti agli inizi, cioè al male quando è al suo principio. La massima latina non è che una so-
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obsta. Allontanare il fuoco dalla paglia. Alle volte un soggetto che, in un luogo, non fa bene, o che può esser causa di qualche inconveniente, riesce a maraviglia in un altro. Vostra paternità saprà ben trovare la nicchia conveniente a questo religioso. C’è giusto anche l’altra circostanza, che possa esser caduto in sospetto di chi... potrebbe desiderare che fosse rimosso: e, collocandolo in qualche posto un po’ lontanetto, facciamo un viaggio e due 170 servizi; tutto s'accomoda da sé, o per dir meglio, non c'è nulla di guasto. » Questa conclusione, il padre provinciale se l’aspettava fino dal principio del discorso. — Eh già! — pensava tra sé: — vedo dove vuoi andar a parare: delle solite; quando un povero frate è preso a noia da voi altri, o da uno di voi altri, o vi dà ombra, subito, senza cercar se abbia torto o ragione, 175 il superiore deve farlo sgomberare. — E quando il conte ebbe finito, e messo un lungo soffio, che equivaleva a un punto fermo, « intendo benissimo », disse il provinciale, « quel che il signor conte vuol dire; ma prima di fare un passo... » « È un passo e non è un passo, padre molto reverendo: è una cosa na180 . turale, una cosa ordinaria; e se non si prende questo ripiego, e subito, pre-
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vedo un monte di: disordini, un’iliade di guai. Uno sproposito... mio nipote non crederei... ci sono io, per questo... Ma, al punto a cui la cosa è arrivata, se non la tronchiamo noi, senza perder tempo, con un colpo netto, non è 185
possibile che si fermi, che resti segreta... e allora non è più solamente mio nipote... Si stuzzica un vespaio, padre molto reverendo. Lei vede; siamo una casa, abbiamo attinenze... » « Cospicue. » « Lei m’intende: tutta gente che ha sangue nelle vene, e che, a questo mondo... è qualche cosa. C’entra il puntiglio; diviene un affare comune; e
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allora... anche chi è amico della pace... Sarebbe un vero crepacuore per me, di dovere... di trovarmi... io che ho sempre avuta tanta propensione per i padri cappuccini...! Loro padri, per far del bene, come fanno con tanta edificazione del pubblico, hanno bisogno di pace, di non aver contese, di stare in buona armonia con chi... E poi, hanno de’ parenti al secolo... e questi lenne traduzione del motto preferito dal conte zio »: « sopire, troncare; troncare, sopire ». E questo, come concetto, ricompare nella successiva immagine: « Allontanare il
fuoco dalla paglia ». Tutta la politica del pezzo grosso del Consiglio segreto sta dunque nel cercare di soffocare gli scandali, di aggirare le difficoltà. 169. collocandolo... un po’ lontanetto: finalmente, il conte zio vuota il sacco; e non
si può dire che non lo faccia con una certa
grazia, ora che si sente vincitore.
169-170. un viaggio e due servizi: inviando fra Cristoforo lontanetto si evitano sia contrasti con don Rodrigo sia l’intervento di autorità superiori. 173-175. quando un povero frate... sgomberare: anche questa realistica considerazione su un certo stato di necessità va tenuta presente, quando si condanna il padre proÉ vinciale per la sua remissione finale.
179. È un passo e non è un passo:
il
colloquio, che sembrava stesse per concludersi, si rianima al piccolo cenno di resistenza del provinciale: « ma prima di fare un passo... ». Allora l’eloquenza del conte zio versa un nuovo fiume di parole, che
sono però le stesse di prima nei motivi e nelle forme. Ma il tono è più colorito, più vivace, più sicuro: ecco il « monte di disordine », ecco l’« iliade di guai », e quindi la necessità di un «colpo netto » perchè non si stuzzichi un «vespaio » per il solito « puntiglio »; che «crepacuore » sarebbe per lui che, fra l’altro, si trova in quella « benedetta carica »! È il tono di chi si sente già in pugno la vittoria e ha davanti un avversario che pensa soltanto a compiere una ritirata il meno disonorevole possibile. 187. Cospicue: condividiamo il parere dell’Ulivi, che anche questa battuta « non vuol essere gratuita lusinga, ma constatazione. Il provinciale sta tirando le somme ».
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affaracci di puntiglio, per poco che vadano in lungo, s’estendono, si ramificano, tiran dentro... mezzo mondo. Io mi trovo in questa benedetta carica, che m’obbliga a sostenere un'certo decoro... Sua eccellenza... i miei signori colleghi... tutto diviene affar di corpo... tanto più con quell’altra circostanza... Lei sa come vanno queste cose. » \ « Veramente, » disse il padre provinciale, « il padre Cristoforo è predicatore; e avevo già qualche pensiero... Mi si richiede appunto... Ma in questo momento, in tali circostanze, potrebbe parere una punizione; e una punizione prima d’aver ben messo in chiaro... » nt i « No punizione, no: un provvedimento prudenziale, un ripiego di comune convenienza, per impedire i sinistri che potrebbero... mi sono spiegato. »
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« Tra il signor conte e me, la cosa rimane in questi termini; intendo. Ma, stando il fatto come fu riferito a vostra magnificenza, è impossibile, mi pare, che nel paese non sia traspirato qualcosa. Per tutto c’è degli aizzatori, de’ mettimale, o almeno de’ curiosi maligni che, se posson vedere alle prese signori e religiosi, ci hanno un gusto matto; e fiutano, interpretano, ciarlano... Ognuno ha il suo decoro da conservare; e io poi, come superiore (indegno), ho un dovere espresso... L’onor dell’abito... non è cosa mia... è un deposito del quale... Il suo signor nipote, giacché è così alterato, come dice vostra magnificenza, potrebbe prender la cosa come una soddisfazione data a lui, e... non dico vantarsene, trionfarne, ma... » « Le pare, padre molto reverendo? Mio nipote è un cavaliere che nel mondo è considerato... secondo il suo grado e il dovere: ma davanti a me è un ragazzo; e non farà né più né meno di quello che gli prescriverò io. Le dirò di più: mio nipote non ne saprà nulla. Che bisogno abbiamo noi di render conto? Son cose che facciamo tra di noi, da buoni amici; e tra di noi hanno da rimanere. Non si dia pensiero di ciò. Devo essere avvezzo a non parlare. » E soffiò. « In quanto ai cicaloni, » riprese, « che vuol che dicano? Un religioso che vada a predicare in un altro paese, è cosa così ordinaria!
E poi, noi che vediamo... noi che prevediamo... noi che ci tocca... non dobbiamo poi curarci delle ciarle. »
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« Però, affine di prevenirle, sarebbe bene che, in quest'occasione, il suo signor nipote facesse qualche dimostrazione, desse qualche segno palese d’amicizia, di riguardo... non per noi, ma per l’abito... » « Sicuro, sicuro; quest’è giusto... Però non c’è bisogno: so che i cappuccini son sempre accolti come si deve da mio nipote. Lo fa per inclinazione: è un genio in famiglia: e poi sa di far cosa grata a me. Del resto, in questo caso... qualcosa di straordinario... è troppo giusto. Lasci fare a me, padre
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con prudenza, affinché non s’avveda di quel che è passato tra di noi. Per-
molto reverendo; che comanderò a mio nipote... Cioè bisognerà insinuargli 200-203. Veramente... in chiaro...: il pa-
dre provinciale in questa parte finale del colloquio, che è la meno onorevole per lui, mette in atto, anche nello stile reticente e
sospeso, lo conte zio; di « decoro di ricavarè o, anzi, il
stesso impegno diplomatico del e, accampando identiche ragioni » e di « onor dell’abito », cerca dalla sconfitta il minor danno, maggior vantaggio. a
220. mio nipote non ne saprà nulla: è,
forse, la battuta più sciocca del conte zio. Chi potrebbe credere che don Rodrigo non saprà nulla di tutto questo retroscena, quando vedrà partire fra Cristoforo dal convento di Pescarenico? 225-226. noi che vediamo... ciarle: com'è suadente la lusinga, e com’è soddisfatta la vanità!
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ché non vorrei alle volte che mettessimo un impiastro dove non c’è ferita. lp
.
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E per quel che abbiamo concluso, quanto più presto sarà, meglio. E se si trovasse qualche nicchia un po’ lontana... per levar proprio ogni occasione... » «Mi vien chiesto per l'appunto un predicatore da Rimini; e fors’anche, senz'altro motivo, avrei potuto metter gli occhi... » « Molto a proposito, molto a proposito. E quando...? » « Giacché la cosa si deve fare, si farà presto. » « Presto, presto, padre molto reverendo: meglio oggi che domani. E », continuava poi, alzandosi da sedere, « se posso qualche cosa, tanto io, come la mia famiglia, per i nostri buoni padri cappuccini... » « Conosciamo per prova la bontà della casa, » disse il padre provinciale, alzatosi anche lui, e avviandosi verso l’uscio, dietro al suo vincitore.
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« Abbiamo 250 .
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spento una favilla, » disse questo, soffermandosi,
« una fa-
villa, padre molto reverendo, che poteva destare un grand’incendio. Tra buoni amici, con due parole s’accomodano di gran cose. » Arrivato all’uscio, lo spalancò, e volle assolutamente che il padre provinciale andasse avanti: entrarono nell’altra stanza, e si riunirono al resto della compagnia. Un grande studio, una grand’arte, di gran parole, metteva quel signore nel maneggio d’un affare; ma produceva poi anche effetti corrispondenti. Infatti, col colloquio che abbiam riferito, riuscì a far andar fra Cristoforo a piedi da Pescarenico a Rimini, che è una bella passeggiata. Una sera, arriva a Pescarenico un cappuccino di Milano, con un plico 238. qualche nicchia un po’ lontana: dopo la lusinga, dopo le promesse, il conte torna alle richieste. È petulante, opprimente fino in fondo: non ha pace finché non sa anche il luogo della nuova destinazione. Il provinciale non tarderà a soddisfarlo. 239. e fors’anche...: c’è, in queste parole, una specie di giustificazione con se stesso per la resa a discrezione, ed insieme un ultimo sforzo di salvare la dignità dell'ordine di fronte al nobile. Ma la sospensione non potrà indicare anche rimorso? 242. Giacché... si deve fare, si farà presto: è il sigillo della sconfitta. — A difesa della condotta del padre provinciale si possono addurre vari elementi: l’opinione personale che egli ha su padre Cristoforo, la sua limitata conoscenza del conte zio, nessuna idea delle vicende dei promessi sposi e della condotta di fra Cristoforo, la situazione dei tempi, ecc. Tuttavia dobbiamo riconoscere che il provinciale, dapprima rinunciando alla difesa dell’accusato, e poi cedendo alle richieste dell’accusatore, si è posto in un atteggiamento di convenienza, di opportunismo, di rinuncia alla lotta: si è assuefatto al mondo del conte, badando a difendere più gli interessi dell'ordine che quelli di un individuo, che pure sapeva degnissimo di ogni rispetto. Il M,, nel creare questa figura, ha ben lumeggiato tutti gli elementi che giuocano in sua
difesa, presentando anch’essa, in fondo, come una vittima di quella società prepotente e corrotta; ma ugualmente bene ha
fatto sentire che nel suo intimo è contrario al comportamento di un’autotità religiosa, la quale, per salvaguardare soltanto interessi umani, sacrifica la vera giustizia e il più genuino spirito cristiano. 250. con due parole s’accomodano di gran cose: è il sigillo della vittoria. Cruda conferma della validità di un certo metodo diplomatico, che è insieme metodo di vita: cautela e minaccia, ipocrisia e prepotenza. È il metodo del conte zio: un uomo che con l’abile uso della parola che dice e non dice, con lo sfarzo sfacciato dell’autorità e del potere, riesce a nascondere bene, a chi non lo conosce, la nullità della mente e del cuore. 254-257. Un grande studio... una bella passeggiata: quanto studio, quanta arte e quante parole si erano messe in campo per raggiungere un risultato che fin dal primo momento dell’invito a pranzo era già scon-
tato! Sui deboli, sugli indifesi è facile usar
violenza e ottener vittoria; ma poi tutto quel tramestio sarebbe andato a finire in... una bella passeggiata! Però, aggiungiamo noi, una passeggiata tanto dolorosa, e non solo per il nostro padre Cristoforo. È un umorismo pieno dell’amarezza di cui è colma l’anima del M..
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per il padre guardiano. C'è dentro l’obbedienza per fra Cristoforo, di portarsi a Rimini, dove predicherà la quaresima. La lettera alguardiano porta l’istruzione d’insinuare al detto frate che deponga ogni pensiero d'affari che potesse aver avviati nel paese da cui deve partire, e che non vi mantenga corri. spondenze: il frate latore dev'essere il compagno di viaggio. Il guardiano non dice nulla la sera; la mattina, fa chiamar fra Cristoforo, gli fa vedere l’obbedienza, gli dice che vada a prender la sporta, il bastone, il sudario e la cintura, e con quel padre compagno che gli presenta, si metta poi subito in viaggio.
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Se fu un colpo per il nostro frate, lo lascio pensare a voi. Renzo, Lucia, Agnese, gli vennero subito in mente; e esclamò, per dir così, dentro di sé: 270
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— oh Dio! cosa faranno que’ meschini, quando io non sarò più qui! — Ma alzò gli occhi al cielo, e s’accusò d’avet. mancato di fiducia, d’essersi creduto necessario a qualche cosa. Mise le mani in croce sul petto, in segno d’ubbidienza, e chinò la testa davanti al padre guardiano; il quale lo tirò poi in disparte, e gli diede quell’altro avviso, con parole di consiglio, e con significazione di precetto. Fra Cristoforo andò alla sua cella, prese la sporta, vi ripose il breviario, il suo quaresimale, e il pane del perdono, s’allacciò la tonaca con la sua cintura di pelle, si licenziò da’ suoi confratelli che si trovavano in convento, andò da ultimo a prender la benedizione del guardiano, e col compagno, prese la strada che gli era stata prescritta. Abbiamo detto che don Rodrigo, intestato più che mai di venire a fine della sua bella impresa, s’era risoluto di cercare il soccorso d’un terribile uomo. Di costui non possiam dare né il nome, né il cognome, né un titolo, e 259. obbedienza: il termine tecnico. per ordine scritto di trasferimento. 263-264. Il guardiano non dice nulla la sera: le ragioni di questo silenzio sono state variamente interpretate. C’è chi, come il Pistelli e il Russo, vede nell’atteggiamento del guardiano «un pensiero. gentile », perché padre Cristoforo trascorra in pace quell’ultima notte a Pescarenico; c’è chi, come il Provenzal, pensa che il guardiano rimanga dolorosamente colpito dall’ordine, sicché «lì per lì, non gli basta l’animo di parlare »; c'è poi chi, come il Petrocchi e vari altri che lo hanno seguito, pensa che il guardiano taccia fino al mattino perché Cristoforo non abbia il tempo di predisporre quella corrispondenza. Probabilmente, a parte la nota anticlericale che qualcuno ha trovato nella valutazione del Petrocchi (il quale scriveva — come dice un critico — in un tempo di acceso anticlericalismo, « in cui tutti i frati e i preti, salvo Cristoforo, dovevano essere rozzi, inumani e vili»), il M. in questo punto tende a rendere evidente la sua condanna nei riguardi di ogni forma di abuso di autorità, che qui si manifesta chiaramente nella lettera del provinciale. Il guardiano, a sua volta, non è ‘che un preciso esecutore di quella lettera, e nel contenuto e nello spirito. Il
silenzio. della notte, la»repentinità della comunicazione, l’immediatezza dell’esecuzione, tutto insomma, è in conseguenza dell’avviso che padre Cristoforo non deve avere più contatti col paese che lascia. 265. sudario: un ampio fazzoletto da collo per il sudore. L’elenco rapidissimo degli umili oggetti — sporta, bastone, sudario, cintura (cose che si fa tanto presto a prendere con sé) — ben rivela la povertà di vita del cappuccino. 271. s’accusò. d’aver mancato di fiducia: è uno degli attimi di più convinto e commovente sentimento cristiano, come prima era stato spontaneo ed umanissimo quello del pensiero a «que’ meschini». Tutto, nella vita di padre Cristoforo, è santo ed eroico. Ora per lui c’è il dovere dell’obbedienza; l’accetta, come sempre: e può partire addolorato, sì, ma fiducioso in Dio, e sereno.
282. Di costui... né il nome,
né il co-
gnome: ma noi sappiamo l’uno e l’altro, per testimonianza dello stesso M. in una let-
tera del 1832 a Cesare Cantù: Francesco Bernardino Visconti, feudatario di Brignano Ghiaradadda. In Fermo e Lucia il personaggio era designato col titolo di ‘ Conte del Sagrato’ per aver ucciso con un colpo di archibugio, sul sagrato di una chiesa, un
capitolo XIX
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nemmeno una congettura sopra nulla di tutto ciò: cosa tanto più strana, che del personaggio troviamo memoria in più d’un libro (libri stampati, dico) 285 i quel tempo. Che il personaggio sia quel medesimo, l’identità de’ fatti non lascia luogo a dubitarne; ma per tutto un grande studio a scansarne il nome, quasi avesse dovuto bruciar la penna, la mano dello scrittore. Francesco Ri-
vola, nella vita del cardinal Federigo Borromeo, dovendo parlar di quell’uo-
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mo, lo chiama «un signore altrettanto potente per ricchezze, quanto nobile per nascita », e fermi lì. Giuseppe Ripamonti, che, nel quinto libro della quinta decade della sua Storia Patria, ne fa più distesa menzione, lo nomina uno, costui, colui, quest'uomo, quel: personaggio. « Riferirò », dice, nel suo
bel latino, da cui traduciamo come ci riesce, « il caso d’un tale che, essendo de primi tra i grandi della città, aveva stabilita la sua dimora in una campagna, situata sul confine; e lì, assicurandosi a forza di delitti, teneva per niente igiudizi, i giudici, ogni magistratura, la sovranità; menava una vita affatto in-
dipendente; ricettatore di forusciti, foruscito un tempo ‘anche lui; poi tornato, come se niente fosse...» Da questo scrittore prenderemo qualche altro ‘ passo, che ci venga in taglio per confermare e per dilucidare il racconto del 300 nostro anonimo; col quale tiriamo avanti. Fare ciò ch’era vietato dalle leggi, o impedito da una forza qualunque; esser arbitro, padrone negli affari altrui, senz’altro interesse che il gusto di 305
comandare; esser temuto da tutti, aver la mano da coloro ch’eran soliti averla dagli altri; tali erano state in ogni tempo le passioni principali di costui.
Fino dall’adolescenza, allo spettacolo e al rumore di tante prepotenze, di tante gare, alla vista di tanti tiranni, provava un misto sentimento di sdegno e d’invidia impaziente. Giovine, e vivendo in città, non tralasciava occasione, anzi tale che aveva osato contrastarlo. La descrizione di questo episodio occupava alcune delle pagine più vigorose della prima stesura, e, presentando subito il personaggio nella drammaticità dell’azione, gli infondeva un aspetto ancor più terribile. Ma l’episodio aveva un colorito troppo romanzesco, e il nome dava una testimonianza troppo precisa. L’eliminazione dell’uno e dell’altro ubbidiscono, quindi, ad una nuova visione estetica: all’intento, cioè, di creare fin dall’inizio intorno all’Innominato un alone di mistero, per cui il terrore assumesse un orizzonte più vasto e la redenzione un fascino più suggestivo. Inoltre la fantasia, partendo solo da alcuni dati essenziali forniti dalla ‘storia, ma libera da riferimenti precisi e vincolanti, avrebbe potuto più facilmente sollevarsi nel regno della poesia. Vedi « Appendice Prima », n. 6. 287. Francesco Rivola: autore di una Vita di Federico Borromeo, pubblicata nel 1666, fu frate laico di grande erudizione e direttore della Biblioteca Ambrosiana. 290. Giuseppe Ripamonti: è lo storico che abbiamo già incontrato a proposito di Gertrude (Cap. IX). Uomo d’ingegno e di cultura ha scritto veramente in « bel latino » i suoi libri Historiae Patriae.
293. traduciamo come ci riesce: il M. conosceva bene il latino; ma non si vuol lasciar fuggire l’occasione di una scherzosa battuta di modestia. 301. Fare ciò ch’era vietato... incominciano da qui alcune pagine analitiche, il cui valore e la cui funzione artistica stanno nel suggerire fin d’ora la sensazione di una fi-
gura eccezionale e misteriosa. Vi contribuiscono vari elementi: dall’indeterminatezza dei luoghi alla rievocazione di un comportamento in cui si mescolano le azioni più disparate, da cetti puntuali riferimenti storici a quel fascino da leggenda che l’uomo emana ormai da tempo intorno a sé. Naturalmente qui abbiamo soltanto un ritratto in prospettiva dell’Innominato: come è avvenuto per altri personaggi, esso serve a prepararne l’ingresso nel centro del racconto. 307-310. Giovine... sua amicizia: è facile sentire uno stretto rapporto con l’espe-
rienza giovanile e col carattere di Lodovico. In ambedue c’è una sdegnosa insofferenza della società che li circonda ed una brama sfrenata di affermare la propria volontà e il proprio potere. Anche le conseguenze saranno comuni per ambedue: rimanere attanagliati in una successione di violenze, pur
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n’andava in cerca, d’aver che dire co’ più famosi di quella professione, d’attraversarli, per provarsi con loro, e farli stare a dovere, o tirarli a cercare la sua amicizia. Superiore di ricchezze e di seguito alla più parte, e forse a tutti d’ardire e di costanza, ne ridusse molti a ritirarsi da ogni rivalità, molti ne conciò male, molti n’ebbe amici; non già amici del pari, ma, come soltanto potevan piacere a lui, amici subordinati, che si riconoscessero suoi inferiori, che gli stessero alla sinistra. Nel fatto però, veniva anche lui a essere il faccendiere, lo strumento di tutti coloro: essi non mancavano di richiedere ne’ loro impegni l’opera d’un tanto ausiliario; per lui, tirarsene indietro sarebbe stato decadere dalla sua riputazione, mancare al suo assunto. Di maniera che, per conto suo, e per conto d’altri, tante ne fece che, non bastando né il nome, né il parentado, né gli amici, né la sua audacia a sostenerlo contro
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bandi pubblici, e contro tante animosità potenti, dovette dar luogo, e uscir dallo stato. Credo che a questa circostanza si riferisca un tratto notabile raccontato dal Ripamonti. « Una volta che costui ebbe a sgomberare il paese, la segretezza che usò, il rispetto, la timidezza, furon tali: attraversò la città a cavallo, con un seguito di cani, a suon di tromba; e passando davanti al palazzo di corte, lasciò alla guardia un’imbasciata d’impertinenze pet il governatore. » Nell’assenza, non ruppe le pratiche, né tralasciò le corrispondenze con que’ suoi tali amici, i quali rimasero uniti con lui, per tradurre letteralmente dal Ripamonti, « in lega occulta di consigli atroci, e di cose funeste ». Pare anzi che allora contraesse con più alte persone, certe nuove terribili pratiche, delle quali lo storico summentovato parla con una brevità misteriosa. « Anche alcuni principi esteri, » dice, « si valsero più volte dell’opera sua, per qualche importante omicidio, e spesso gli ebbero a mandar da lontano rinforzi di gente che servisse sotto i suoi ordini. » Finalmente (non si sa dopo quanto tempo), o fosse levato il bando, per
qualche potente intercessione, o l’audacia di quell'uomo gli tenesse luogo
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d’immunità, si risolvette di tornare a casa, e vi tornò difatti; non però in Milano, ma in un castello confinante col territorio bergamasco, che allora era, come ognun sa, stato veneto. « Quella casa, » cito ancora il Ripamonti,
« era come un’officina di mandati sanguinosi:
servitori, la cui testa era messa
a taglia, e che avevano per mestiere di troncar teste:
né cuoco, né sguat-
tero dispensati dall’omicidio: le mani de’ ragazzi insanguinate. » Oltre queconservando
entro
l’anima
certe forze del
bene, latenti per ora ma destinate ad essere, un giorno, la sorgente segreta della redenzione. 330. terribili pratiche: il M. insiste molto nel presentarci un'immagine veramente « ter-
ribile » dell’uomo. Questo non solo perché ai fini poetici della complessiva
e la potenza. Questo, raccogliendo tutta la
feccia dell’iniquità, che per purgarsi cacciavano fuoti gli stati confinanti, aveva al suo comando squadre di sgherri e di tagliacantoni, che pascevansi colle stragi e col sangue, svenando vittime umane all’altrui odio.
gli serve
A quel castello, come al tribunale di Eaco e di Radamante, ricorrevano tutti gli avidi
perché così le storie parlavano di quell’uomo. Per esempio, nella Vita di Federico Borromeo (ms. nell’Ambrosiana) si legge: «Tra li confini del dominio milanese, veneto, e de’ Grigioni, godeva stato securo
vansi tradimenti e spacciavansi sentenze di morte, che venivano eseguite in molte guise da ‘palliati carnefici». Di fronte a descrizioni come questa compare ancora più grande l’arte del M. che, frenando eccessi e mo-
autorevole e temuto la nobiltà del:sangue
reali e persuasive.
rappresentazione dell’Innominato, ma anche
un mostro di fierezza, cui per altro rendeva
di crudeli
vendette;
in quello macchina-
tivando situazioni, crea immagini ben più
capitolo XIX
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sta bella famiglia domestica, n’aveva, come afferma lo stesso storico, un’altra
di soggetti simili, dispersi e posti come a quartiere in vari luoghi de’ due stati sul lembo de’ quali viveva, e pronti sempre a’ suoi ordini. Tutti i tiranni, per un bel tratto di paese all’intorno, avevan dovuto, chi in un'occasione e chi in un’altra, scegliere tra l’amicizia e l’inimicizia di quel tiranno straordinario. Ma ai primi che avevano voluto provar di resistergli,
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la gli era andata così male, che nessuno si sentiva più di mettersi a quella prova. E neppur col badare a’ fatti suoi, con lo stare a sé, uno non poteva rimanere indipendente da lui. Capitava un suo messo a intimargli che abbandonasse la tale impresa, che cessasse di molestare il tal debitore, 0 cose simili: bisognava rispondere sì o no. Quando una parte, con un omaggio vassallesco, era andata a rimettere in lui un affare qualunque, l’altra parte si trovava a quella dura scelta, o di stare alla sua sentenza, o di dichiararsi suo nemico; il che equivaleva a esser, come si diceva altre volte, tisico in terzo
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grado. Molti, avendo il torto, ricorrevano a lui per aver ragione in effetto;
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molti anche, avendo ragione, per preoccupare un così gran patrocinio, e chiuderne l’adito all’avversario: gli uni e gli altri divenivano più specialmente suoi dipendenti. Accadde qualche volta che un debole oppresso, vessato da un prepotente, si rivolse a lui; e lui, prendendo le parti del debole, forzò il prepotente a finirla, a riparare il mal fatto, a chiedere scusa; 0, se stava duro, gli mosse tal guerra, da costringerlo a sfrattar dai luoghi che aveva tiranneggiati, o gli fece anche pagare un più pronto e più terribile fio. E in quei casi, quel nome tanto temuto e abborrito ‘era stato benedetto un momento: perché, non dirò quella giustizia, ma quel rimedio, quel compenso qualunque, non si sarebbe potuto, in que’ tempi, aspettarlo da nessun’altra forza né privata, né pubblica. Più spesso, anzi per l’ordinario, la sua era stata ed era ministra di voleri iniqui, di soddisfazioni atroci, di capricci superbi. Ma gli usi così diversi di quella forza producevan sempre l’effetto medesimo, d’im-
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primere negli animi una grand’idea di quanto egli potesse volere e eseguire in onta dell’equità e dell’iniquità, quelle due cose che metton tanti ostacoli alla volontà degli uomini, e li fanno così spesso tornare indietro. La fama de’ tiranni ordinari rimaneva per lo più ristretta in quel piccolo tratto di paese dov'erano i più ricchi e i più forti: ogni distretto aveva i suoi; e si rassomi-
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352. cessasse di molestare il tal debitore:
da un fatto del genere in Ferzzo e Lucia era seguito l’assassinio che aveva procurato il soprannome ‘Conte del Sagrato ’. 356-357. tisico in terzo grado: ormai spacciato, quindi. 361. prendendo le parti del debole: c’è, dunque, una sete di giustizia nel fondo dell’Innominato: e non poche delle sue azioni prepotenti nascono da nobili ragioni morali, pur sempre manifestando l’onnipotenza dell'uomo. Contemporaneamente il ritratto del « terribile uomo» si delinea sempre più come tipica espressione di quel determinato ambiente storico, a cui si rivolgono la critica e la condanna dell’autore. 372-373. in onta... tornare indietro: possiamo spiegare col Guerri così: « Al di sopra del bene e del male, d’ogni legge mo-
rale e civile che impongono agli uomini tutti, volenti o nolenti, tanti limiti ». Ma nei suoi dettagli il discorso — e ci pare un caso davvero eccezionale non è molto chiaro; così il Momigliano pensa che possa significare che «l’equità spesso stotna gli uomini dai loro disegni e l’iniquità spesso li svia dal bene che pure avevano chiaro davanti agli occhi »; mentre lo Steiner, interpretando che « l’equità ci vieta di far cosa che le sia contraria; e di obbedirla ci è spesso vietato. dalla iniquità altrui », pensa che tutta la frase voglia significare che all’Innominato né i suoi scrupoli gli vietano di ‘fare cosa iniqua né la eventuale violenza altrui di fare cosa equa. x 374. tiranni ordinari: fra costoro èè da mettere don Rodrigo; l’Innominato è un ‘ tiranno straordinario ?.
î promessi sposi
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gliavan tanto, che non c’era ragione che la gente s’occupasse di quelli che
non aveva a ridosso. Ma la fama di questo nostro era già da gran tempo dif-
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fusa in ogni parte del milanese: per tutto, la sua vita era un soggetto di racconti popolari; e il suo nome significava qualcosa d’irresistibile, di strano, di favoloso. Il sospetto che per tutto s’aveva de’ suoi collegati e de’ suoi sicari, contribuiva anch’esso a tener viva per tutto la memoria di lui. Non eran più che sospetti; giacché chi avrebbe confessata apertamente una tale dipendenza? ma ogni tiranno poteva essere un suo collegato, ogni malandrino, uno de’ suoi; e l’incertezza stessa rendeva più vasta l’opinione, e più cupo il terrore della cosa. E ogni volta che in qualche parte si vedessero comparire figure di bravi sconosciute e più brutte dell’ordinario, a ogni fatto enorme di cui non si sapesse alla prima indicare o indovinar l’autore, si proferiva, si mormorava il nome di colui che noi, grazie a quella benedetta, per non dir altro, circospezione minato.
de’ nostri autori, saremo
Dal castellaccio di costui al palazzotto di sette miglia: e quest’ultimo, appena divenuto vuto vedere che, a così poca distanza da un bile far quel mestiere senza venire alle prese,
costretti
a chiamare
l’inno-
don Rodrigo, non c’era più di padrone e tiranno, aveva dotal personaggio, non era possio andar d’accordo con lui. Gli
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s'era perciò offerto e gli era divenuto amico, al modo di tutti gli altri, s’intende; gli aveva reso più d’un servizio (il manoscritto non dice di più); e n’aveva riportate ogni volta promesse di contraccambio e d’aiuto, in qualunque occasione. Metteva però molta cura a nascondere una tale amicizia, o almeno a non lasciar scorgere quanto stretta, e di che natura fosse. Don Ro-
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drigo voleva bensì fare il tiranno, ma non il tiranno salvatico: la professione era per lui un mezzo, non uno scopo: voleva dimorar liberamente in città, godere i comodi, gli spassi, gli onori della vita civile; e perciò bisognava che usasse certi riguardi, tenesse di conto parenti, coltivasse l’amicizia di persone alte, avesse una mano sulle bilance della giustizia, per farle a un bisogno traboccare dalla sua parte, o per farle sparire, o per darle anche, in qualche occasione, sulla testa di qualcheduno che in quel modo si potesse servir più facilmente che con l’armi della violenza privata. Ora, l’intrinsichezza, diciam meglio, una lega con un uomo di quella sorte, con un aperto nemico della forza pubblica, non gli avrebbe certamente fatto buon gioco a ciò, specialmente presso il conte zio. Però quel tanto d’una tale amicizia che non era possibile di nascondere, poteva passare per una relazione indispensabile con un uomo la cui inimicizia era troppo pericolosa; e così ricevere scusa dalla necessità: giacché chi ha l’assunto di provvedere, e non n’ha la volontà, o non ne trova il verso, alla lunga acconsente che altri provveda da sé, fino a
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un certo segno, a’ casi suoi; e se non acconsente espressamente, chiude un
occhio.
391. castellaccio... palazzotto: i due termini esprimono già la diversità di potenza e di valore che passa fra l’Innominato e don Rodrigo. 399-407. Don Rodrigo... violenza privata: condotta tipica dell’uomo dal doppio giuoco. Ma questo tenere il piede in due staffe, questo calcolare attento tutti i risthi e i
vantaggi, è proprio ciò che a noi, come al M., rende più odioso don Rodrigo di fronte alla linearità della condotta dell’Innominato. 413-416. chi ha l’assunto... chiude un occhio: sentenza dolorosamente vera, e di attuazione, purtroppo, non molto rara: e con tutte le gravi conseguenze che non è difficile immaginare e che l’esperienza insegna.
capitolo XIX
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. Una mattina, don Rodrigo uscì a cavallo, in treno da caccia, con una piccola scorta di bravi a piedi; il Griso alla staffa; e quattro altri in coda; e s’avviò al castello dell’innominato.
417. Una mattina...: il passaggio dalla riflessione alla ripresa della narrazione è improvviso, anzi, un po’ brusco: ma bene ci riporta, col suo forte rilievo, al centro delle vicende, inducendoci, anche, ad un’amara meditazione. Mentre don Rodrigo, con i segni della ricchezza (equipaggiamento e « treno » da caccia) e della forza (i bravi), è
in cammino per chiedere l’intervento del più potente signore a danno della povera Lucia, il buon Cristoforo, che fino ad ora è stato per lei l’unico umano sostegno, è in cam-
mino per un’altra strada che lo porterà tanto lontano: due strade divergenti ed una vittima indifesa. Indifesa dagli uomini, ma non abbandonata da Dio.
Scheda critica al cap. XIX Il dialogo fra il conte zio e il padre provinciale rappresenta uno dei grandi momenti dell'ispirazione polemica che presiede all'invenzione storica del romanzo: polemica rivolta a sottolineare la profonda ingiustizia di una società regolata, in ultima analisi, dalla ragion di stato e portata a distorcere e annullare i più alti valori morali, piegandoli alle esigenze della potenza mondana, del privilegio, del prestigio e del puntiglio. E', in sostanza, il rovesciamento del criterio della storiografia corrente: una storia considerata dal punto di vista delle vittime, anziché da quello dei potenti, in nome di un ideale di giustizia che non tollera compromessi con le ragioni mondane. Non intende appieno il significato di queste pagine, perciò, chi non va oltre la cornice della rappresentazione comica: certamente superba anche di per sè, nella coloritura dei caratteri, nell'arguzia della mimica, nelle straordinarie risorse di un dialogato aderente alla tipologia dei personaggi, fitto di sospensioni, di accenni, di allusioni, di reticenze. Ma occorre cogliere.il sentimento profondo di risentita moralità, il movimento propriamente satirico che sottostà al comico e rende ragione della sua intensità (qui come nel caso di don Abbondio). Vero è che la satira si. esplica con diverse gradazioni: più blanda, a proposito del conte zio, -dove si esercita anzitutto a demolire le apparenze di una vanità ridicola e di un'autorità quasi inconsistente, ma anche la prepotenza aristocratica e la crudeltà del privilegio ostinato nella tutela del punto d'onore; più aspra e mordente nei riguardi del padre provinciale, per la maggior responsabilità che a costui compete come rappresentante, « indegno » veramente, di un principio etico e di un istituto religioso, che egli invece è così pronto a sottomettere a motivi di opportunità e di cautela mondana. Ne risulta una situazione assai più ricca e complessa di quanto non possa apparire a prima vista, dove il divertimento e l'arguzia della fan-
tasia prendono tutto il loro risalto solo in quanto s'intrecciano
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i promessi sposi con la vena polemica dello scrittore. Dietro lo scontro fra due personaggi meschini si dibatte in fondo il contrasto perenne fra la « crudele giustizia» del mondo e quella assoluta della concezione evangelica. E la sconfitta, sia pura temporanea, di quest'ultima nella persona del padre provinciale, è sentita dal Manzoni in tutta la sua serietà, e da ultimo riscattata nella umiltà, nell'obbedienza, nel pronto abbandono a Dio di fra Cristoforo. Perciò, dei due personaggi d'autorità, quello che l'arte dello scrittore scolpisce più intensamente è proprio il padre provinciale, come il più consapevole, quello che vede più a fondo nella realtà del contrasto, e perciò il più colpevole: vede chiaramente la giustizia e acconsente a rendersi complice del torto, sa che dovrebbe controbattere la prepotenza e si presta per ragioni di falsa prudenza a sacrificare l’innocente. Il sentimento storico del Manzoni può accontentarsi dell'ironia illuministica dove si tratta di demolire gli idoli di cartapesta dell'autorità mondana; ma si vena d'amarezza e di trepida angoscia dove tocca il tema dell'avvilimento dell'autorità religiosa che rinunzia all’assolutezza del suo patrimonio morale e del suo compito di giustizia anche in seno alla società civile.
Capitolo XX
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Il castello dell’innominato era a cavaliere a una valle angusta e uggiosa, sulla cima d’un poggio che sporge in fuori da un’aspra giogaia di monti, ed è, non si saprebbe dir bene, se congiunto ad essa o separatone, da un mucchio di massi e di dirupi, e da un andirivieni di tane e di precipizi, che si prolungano anche dalle due parti. Quella che guarda la valle è la sola praticabile; un pendìo piuttosto erto, ma uguale e continuato; a prati in alto; nelle falde a campi, sparsi qua e là di casucce. Il fondo è un letto di ciottoloni, dove scorre un rigagnolo o torrentaccio, secondo la stagione: allora serviva di confine ai due stati. I gioghi opposti, che formano, per dir così, l’altra parete della valle, hanno anch’essi un po’ di falda coltivata; il resto è schegge e macigni, erte ripide, senza strada e nude, meno qualche cespuglio ne’ fessi e sui ciglioni. Dall’alto del castellaccio, come l’aquila dal suo nido insanguinato, il selvaggio signore dominava all’intorno tutto lo spazio dove piede d’uomo potesse posarsi, e non vedeva mai nessuno al di sopra di sé, né più in alto. Dando un’occhiata in giro, scorreva tutto quel recinto, i pendìi, il fondo, le strade praticate là dentro. Quella che, a gomiti e a giravolte, saliva al terribile domicilio, si spiegava davanti a chi guardasse di lassù, come un nastro serpeggiante: dalle finestre, dalle feritoie, poteva il signore contare a suo 1-12. Il castello... ciglioni: il paesaggio delineato per tutto il capoverso è scabro e selvaggio. Le frequenti parole dall’immagine dura e dall’accento aspro (angusta, preci pizi, erto, torrentaccio, gioghi, schegge, ciglioni...) e la musica tetra di ogni periodo creano un senso di solitudine e di forza, e fanno già presagire qualcosa del « castellaccio » e del suo « selvaggio signore ». 9. ai due stati: quello di Milano e quello di Venezia. Ma il luogo resta innominato, come il suo padrone. 13: Dall’alto del castellaccio.... dopo la descrizione paesistica d’insieme, la pagina s’innalza con un battito di potente lirismo, specie per la stupenda similitudine dell’aquila, che balza improvvisa e minacciosa « dal suo nido insanguinato », e costituisce un simbolo vigoroso e terribile del « selvaggio signore ».
15. non vedeva... in alto: la solitudine del paesaggio, accentuata da ogni elemento della
frase, è tutt'uno con la solitudine del personaggio. Ma a proposito di « sopra di sé » e di « più in-alto » alcuni commentatori hanno parlato di superfluità di particolari, di ripetizione inutile. Ci sembra giusta, invece, la precisazione del Barbi, secondo il quale « detto ‘di sopra’, non era detto. tutto: poteva esserci qualcuno che non gli stesse materialmente di sopra e stesse invece * più in alto ?, nell’altro fianco della valle. No, l’Innominato né dall’una né dall’altra parte scorgeva nessuno che offrisse questo material segno di star più su di lui ». Né sappiamo dare torto a quanti, in questa espressione, pensano che possa trovarsi anche un accenno solenne, per quanto velato, a Dio; perché questo paesaggio, con le sue grandi note di asprezza, di altezza, e di solitudine, vive già interamente nell’anima superba e travagliata dell’Innominato: è, come tutti i grandi paesaggi manzoniani, un paesaggio umano.
î promessi Sposi
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bell’agio i passi di chi veniva, e spianargli l’arme contro, cento volte. E anche d’una grossa compagnia, avrebbe potuto, con quella guarnigione di bravi che teneva lassù, stenderne sul sentiero, o farne ruzzolare al fondo parecchi, prima che uno arrivasse a toccar la cima. Del resto, non che lassù, ma nep-
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pure nella valle, e neppur di passaggio, non ardiva metter piede nessuno che non fosse ben visto dal padrone del castello. Il birro poi che vi si fosse lasciato vedere, sarebbe stato trattato come una spia nemica che venga colta in un accampamento. Si raccontavano le storie tragiche degli ultimi che avevano voluto tentar l'impresa; ma eran già storie antiche; e nessuno de’ giovani si rammentava d’aver veduto nella valle uno di quella razza, né vivo, né morto. Tale è la descrizione che l’anonimo fa del luogo: del nome, nulla; anzi, per non metterci sulla strada di scoprirlo, non dice niente del viaggio
di don Rodrigo, e lo porta addirittura nel mezzo della valle, appiè del poggio, all'imboccatura dell’erto e tortuoso sentiero. Lì c’era una taverna, che si sa95
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rebbe anche potuta chiamare un corpo di guardia. pendeva sopra l’uscio, era dipinto da tutt'e due ma la voce pubblica, che talvolta ripete i nomi talvolta li rifà a modo suo, non chiamava quella Malanotte.
Sur una vecchia insegna che le parti un sole raggiante; come le vengono insegnati, taverna che col nome della
Al rumore d’una cavalcatura che s’avvicinava, comparve sulla soglia un
ragazzaccio, armato
come
un saracino;
e data un’occhiata,
entrò ad infor-
mare tre sgherri, che stavan giocando, con certe carte sudicie e piegate in forma di tegoli. Colui che pareva il capo s’alzò, s’affacciò all’uscio, e, rico-
28. eran già storie antiche: la precisione dei particolari, con cui è condotta la descrizione di quanto si vede e si domina dall'osservatorio dell’Innominato, toglie alla pagina ogni accento romantico ed enfatico, ma non un tono di leggenda: il quale, anzi, va sempre più salendo d’immagine in immagine. 31. del nome, nulla...: l'atmosfera di mistero e di terrore, che pervade il paesaggio, è ribadita da questo « nulla » e subito dopo dal « niente del viaggio di don Rodrigo ». — Osserviamo che in Fermo e Lucia (II, VIII), invece, si dicono vatie cose del viaggio di don Rodrigo; fra l’altro si descrive il passaggio della brigata davanti al convento di Pescarenico. Riportiamo il passo, perché utile a capire quanto il M. sia stato inflessibile nel togliere dalla prima stesura tutto ciò che gli parve eccessivo sul piano umano e su quello artistico « Giunto dinanzi al convento che si trovava su la strada, don Rodrigo rallentò ancor più il passo, e si rivolse tutto a sinistra, guardando fieramente se mai il Padre Cristoforo girasse fuori del nido: ma non v’era nessuno: la porta della chiesa era aperta, e si sentivano i frati cantare l’ufficio in coro. In mezzo alla sua ira Don Rodrigo si risovvenne delle promesse del Conte Attilio, e dei disegni che questi
gli aveva comunicati sul modo di liberarlo
da quel frate: pensò che in quel momento forse la trappola era già tesa; e passando dalla collera alla compiacenza, fece un sogghigno accompagnato da un ‘ah! ah!’ il cui senso non fu chiaramente compreso che dal fidato Griso; il quale per mostrare -la sua sagacità, e per far vedere ai compagni ch’egli era molto internato nei segreti del padrone, si volse a questo pur sogghignando, e facendo col volto un cenno che voleva dire — a quest'ora il frate sarà servito — ». 36-39. sole raggiante... Malanotte: la bella insegna sembra accentuare ancor più il contrasto con la paura che emana dal nome pieno di malaugurio e di cupa leggenda. 40-42. un ragazzaccio... tre sgherri: dopo i luoghi, ecco i personaggi. La serie dei peggiorativi, che era stata aperta da « torrentaccio » e da « castellaccio », prosegue ora con « ragazzaccio » e presto si accentuerà con « caporalaccio » e « bravaccio; così, anche nei suoni, tutto quello che c’era ‘di fosco nell'ambiente naturale passa nell’ambiente umano. E l’uno e l’altro, come vedremo, sono in preparazione ed in funzione del personaggio che presto si staglierà dominatore su tutti, l’Innominato.
42-43. piegate in forma di tegoli: il realismo manzoniano è sempre attento a cogliere ogni particolare pittoresco; e gli basta un rapido cenno per fermarlo con sicurezza.
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nosciuto un amico del suo padrone, lo salutò rispettosamente. Don Rodrigo, 4 AI resogli con molto garbo il saluto, domandò se il signore si trovasse al castello; e rispostogli da quel caporalaccio, che credeva di sì, smontò da cavallo, e buttò la briglia al Tiradritto, uno del suo seguito. Si levò lo schioppo, e lo consegnò al Montanarolo, come per isgravarsi d’un peso inutile, e salir più lesto; ma, in realtà, perché sapeva bene, che su quell’erta non era perD o messo d’andar con lo schioppo. Si cavò poi di tasca alcune berlinghe, e le diede al Tanabuso, dicendogli: « voi altri state ad aspettarmi; e intanto starete un po’ allegri.con questa brava gente ». Cavò finalmente alcuni scudi d’oro, e li mise in mano al caporalaccio, assegnandone metà a lui, e metà da dividersi tra i suoi uomini. Finalmente, col Griso, che aveva anche lui posato 5 An lo schioppo, cominciò a piedi la salita. Intanto i tre bravi sopraddetti, e lo Squinternotto ch’era il quarto (oh! vedete che bei nomi, da serbarceli con tanta cura), rimasero coi tre dell’innominato, e con quel ragazzo allevato alle forche, a giocare, a trincare, e a raccontarsi a vicenda le loro prodezze. Un altro bravaccio dell’innominato, che saliva, raggiunse poco dopo don 6 o “Rodrigo; lo guardò, lo riconobbe, e s’accompagnò con lui; e gli risparmiò così la noia di dire il suo nome, e di rendere altro conto di sé a quant’altri avrebbe incontrati, che non lo conoscessero. Arrivato al castello, e introdotto (lasciando però il Griso alla porta), fu fatto passare per un andirivieni di corridoi bui, e per varie sale tappezzate di moschetti, di sciabole e di parti65 giane, e in ognuna delle quali c’era di guardia qualche bravo; e, dopo avere alquanto aspettato, fu ammesso in quella dove si trovava l’innominato. Questo gli andò incontro, rendendogli il saluto, e insieme guardandogli le mani e il viso, come faceva per abitudine, e ormai quasi involontariamente, a chiunque venisse da lui, per quanto fosse de’ più vecchi e provati amici. 70 Era grande, bruno, calvo; bianchi i pochi capelli che gli rimanevano; ru44. lo salutò rispettosamente: nel Fermzo e Lucia don Rodrigo viene sottoposto ad un interrogatorio proprio da questo bravaccio, che con tono deciso gli fa lasciare armi e cavalcatura: «... sappia che su per quell’erta non camminano altri armati che quelli del signor Conte [cioè, del Conte del Sagrato, l’Innominato]; e s’ella vuole riverirlo, potrà venir solo a fare una passeggiata con me ». Qui, invece, la scena non ha queste note esagerate, e don Rodrigo non è umiliato troppo, anche se lo vediamo rendere al bravo il saluto «con molto garbo »: ecco, potremmo concludere, a che cosa è costretto il superbo signorotto. 56-57. che bei nomi... tanta cura: l’inciso viene a momento giusto per farci gustare meglio quei nomi e per farci sentire il sorriso e l’ironia del M. alle spalle dell’Anonimo, che, mentre ha taciuto il nome dell’Innominato, ci ha conservato «con tanta cura » quelli di alcuni filibustieri da strapazzo. Già abbiamo accennato all'impegno del M. nello scoprire per i bravi i soprannomi più significativi ed attraenti (a proposito del Grignapoco, il bravo bergamasco; v. cap. VIII, n. 219). Due nomi di ora, Tanabuso e Squin-
ternotto, il M. li trovò in altrettante guide storiche: gli altri li inventò da sé. Alla ricerca degli uni e degli altri fu spinto non tanto dal gusto di un certo « romanticismo brigantesco », come qualcuno crede, quanto dall'amore verso il particolare realistico e dal gusto per la trovata maliziosa. Né è da escludere che il M., nel pensare ai nomi dei bravi, sia stato influenzato da quelli dei diavoli danteschi di Malebolge. 64-65. corridoi bui... qualche bravo: sono le ultime immagini che accrescono l’atmosfera paurosa dell’ambiente. 70. Era grande, bruno, calvo...: il ritratto è fisico, ma già contiene gli elementi di un ritratto morale ed interiore. Dice, per esempio, grande e non alto: perché questo sarebbe un cenno soltanto fisico, quello è anche spirituale; e così, durezza risentita dei lineamenti rispecchia la fierezza della volontà. La sintassi marcata contribuisce all’incisività della scultura. Si sente che con questo ritratto, in cui ogni particolare suscita riverenza e paura, mai avversione, sta per aprirsi una grande storia: la storia di un’anima che ha colpe terribili, ma per la quale è aperta la strada della resurrezione.
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che gosa la faccia: a prima vista, gli si sarebbe dato più de” sessant'anni
lamaveva; ma il contegno, le mosse, la durezza risentita de lineamenti, il
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peggiar sinistro, ma vivo degli occhi, indicavano una forza di corpo e d’animo, i che sarebbe straordinaria in un giovine. si trovando che, aiuto; per e o Don Rodrigo disse che veniva per consigli in un impegno difficile, dal quale il suo onore non gli permetteva di ritirarsi, s'era ricordato delle promesse di quell'uomo che non prometteva mal troppo, né invano; e si fece ad esporre il suo scellerato imbroglio. L’innominato che ne sapeva già qualcosa, ma in confuso, stette a sentire con attenzione, e come
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curioso di simili storie, e per essere in questa mischiato un nome a lui noto e odiosissimo, quello di fra Cristoforo, nemico aperto de’ tiranni, e in parole e, dove poteva, in opere. Don Rodrigo sapendo con chi parlava, si mise poi a esagerare le difficoltà dell'impresa; la distanza del luogo, un monastero, la signora!... A questo, l’innomiriato, come se un demonio nascosto nel suo cuore gliel avesse comandato, interruppe subitamente, dicendo che prendeva l'impresa sopra di sé. Prese l'appunto del nome della nostra povera Lucia, e licenziò don Rodrigo, dicendo: « tra poco avrete da me l’avviso di quel che dovrete fare ». Se il lettore si ricorda di quello sciagurato Egidio che abitava accanto al monastero dove la povera Lucia stava ricoverata, sappia ora che costui era
uno de’ più stretti ed intimi colleghi di scelleratezze che avesse l’innominato: perciò questo aveva lasciata correre così prontamente e risolutamente la sua parola. Ma appena rimase solo, si trovò, non dirò pentito, ma indiDS
spettito d’averla data. Già da qualche tempo cominciava a provare, se non un rimorso, una cert’uggia delle sue scelleratezze. Quelle tante ch’erano ammontate, se non sulla sua coscienza, almeno nella sua memoria, si risveglia76. il suo onore:
che secondo il concetto che
più volte abbiamo riscontrato nella nobiltà spagnolesca del Seicento.
80-81. un nome... Cristoforo: l’accostamento Innominato-fra Cristoforo ci appare inevitabile: due uomini che militano in fronti opposti, ma che sono tanto vicini d’età e di temperamento: grandi, l’uno e l’altro, soprattutto nel condurre le loro battaglie a viso aperto. 84. un demonio nascosto: è l’orgoglio sempre all’erta; è la volontà che, non sentendosi (come sapremo fra poco) più sicura di sé, prende, senza neppure riflettere, una decisione subitanea, perché vuol dimostrare a sé stessa che è ancora quella di un tempo e che nessuna forza può arrestarla. 86. Prese... Lucia: torna alla mente l’atto del conte zio che sul « libriccino di memorie » scrisse il « povero nome » di fra Cristoforo (Cap. XVIII). Conte zio e Innominato, dunque: due uomini diametralmente opposti per temperamento e pet metodo, visti ora in un identico atto che prepata una violenza. Ma come diverso è il loro fondo di uomini, tanto diversa — lo intuiamo fin d'ora — sarà l’attuazione del misfatto. Di comune, al di là dell’evidenza artistica
delle due scene, c’è la cupa foschia dei tempi. 87-88. quel che dovrete fare: a don Rodrigo non resta che ubbidire! . 89. sciagurato Egidio: poco fa « scellerato imbroglio », poi « scelleratezze », « delitti » e quindi tante altre parole terribili, che accentuano l’atmosfera cupa che circonda l’Innominato. i 93-94. Ma appena... data: questo affermare, e poi subito negare, sarà tipico di tutta l’analisi del tormento interiore dell’Innominato. 94. Già da qualche tempo...: si iniziano da qui alcune delle pagine di più potente analisi psicologica e di più alta poesia che siano mai state scritte, accostate da qualcuno a certi scorci delle Confessioni di Sant'Agostino. «La voce insopprimibile del
bene —
osserva il Momigliano,
che sulla
figura dell’Innominato ha lasciato pagine bellissime — che si fa sentire in tanti personaggi del romanzo, questo tema che serpeggia per tutto il libro e lo regge, diventa qui il motivo d’una lotta interiore circuita da una fantasia serrata e sublime, attenta a legare il presente col più lontano passato e con l’incalzante avvenire: sicché la storia
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vano ogni volta che ne commettesse una di nuovo, e si presentavano all’animo brutte e troppe: era come il crescere e crescere d’un peso già inco-
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modo. Una certa ripugnanza provata ne’ primi delitti, e vinta poi, e scomparsa quasi affatto tornava ora a farsi sentire. Ma in que’ primi tempi, l’im-
magine d’un avvenire lungo, indeterminato, il sentimento d’una vitalità vigorosa, riempivano l’animo d’una fiducia spensierata: ora all’opposto, i pensieri dell'avvenire eran quelli che rendevano più noioso il passato. — Invecchiare! morire! e poi? — E, cosa notabile! l’immagine della morte, che, in un pericolo vicino, a fronte d’un nemico, soleva raddoppiar gli spiriti di quell’uomo, e infondergli un’ira piena di coraggio, quella stessa immagine, appa: rendogli nel silenzio della notte, nella sicurezza del suo castello, gli metteva addosso una costernazione repentina. Non era la morte minacciata da un avversario mortale anche lui; non si poteva respingerla con armi migliori, e con un braccio più pronto; veniva sola, nasceva di dentro; era forse ancor lontana, ma faceva un passo ogni momento; e, intanto che la mente combatteva dolorosamente per allontanarne il pensiero, quella s’avvicinava. Ne” primi tempi, gli esempi così frequenti, lo spettacolo, per dir così, continuo della violenza, della vendetta, dell’omicidio, ispirandogli un’emulazione feroce, gli avevano anche servito come d’una specie d’autorità contro la coscienza: ora, gli rinasceva ogni tanto nell’animo l’idea confusa, ma terribile, d’un giudizio individuale, d’una ragione indipendente dall’esempio; ora, l’essere uscito dalla turba volgare de’ malvagi, l’essere innanzi a tutti, gli dava talvolta il sentimento d’una solitudine tremenda. Quel Dio di cui aveva sentito parlare, ma che, da gran tempo, non si curava di negare né di riconoscere,
occupato soltanto a vivere come se non ci fosse, ora, in certi momenti d’abbattimento senza motivo, di terrore senza pericolo, gli pareva sentirlo gridar
dentro di sé: Io sono però. Nel primo bollor delle passioni, la legge che 125
aveva, se non altro, sentita annunziare in nome di Lui, non gli era parsa che odiosa: ora, quando gli tornava d’improvviso alla mente, la mente, suo
malgrado, la concepiva come una cosa che ha il suo adempimento. Ma, non che aprirsi con nessuno su questa sua nuova inquietudine, la copriva anzi profondamente, e la mascherava con l’apparenze d’una più cupa ferocia; e con questo mezzo cercava anche di nasconderla a sé stesso, o di softogarla. dell’Innominato, dai primi delitti a quest’ultima impresa, si riduce tutta alla storia delle vicende del sentimento del bene, che è per il M. il significato della vita ». 104. l’immagine della morte... ecco, accanto a quello del bene, l’altro grande sentimento, che viene a premere nell’anima dell’Innominato: la motte. E viene, questa morte, con tanta più forza perché non compare dall’esterno, sicché l’uomo la possa combattere, ma avanza «sola», nasce « di dentro ». Ogni espressione contribuisce a creare una rappresentazione straordinaria mente vera del fantasma sempre più opprimente. 119. solitudine tremenda: un altro immenso sentimento; un sentimento però, che già avevamo intuito in quel « non vedeva mai nessuno al di sopra di sé, né più in alto ». Ma questa solitudine tremenda an-
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drà sempre più riempiendosi di una realtà grandiosa, anche se per il momento vaga e indistinta: Dio. 123. Io sono però: che forza veramente tremenda c’è in queste tre brevi parole! Esse vengono a battere insistenti, ossessionanti in un’anima che per tanti anni aveva ascoltato tutt’altre voci. Lo dice bene il però: Dio viene e c’è, nonostante la trascuratezza, l’oblio, la presunzione dell’uomo. Dio dice soltanto che c’è: ma basta, perché da questo essere deriva una conseguenza: un giudizio e una giustizia. — La frase, è stato notato, ha in sé una « misteriosa perentorietà biblica »: ma tutta scabra, per niente oratoria; mentre la visione di questo Dio, che batte sempre più insistente alla coscienza ribelle dell’uomo, richiama naturalmente il Dio « che atterra e suscita, Che affanna e che consola » del Cingue Maggio.
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Invidiando (giacché non poteva annientarli né dimenticarli) que’ tempi in cui
era solito commettere l’iniquità senza rimorso, senz'altro pensiero che della riuscita, faceva ogni sforzo per farli tornare, per ritenere o per riafferrare quell’antica volontà, pronta, superba, imperturbata, per convincer sé stesso ch’era ancor quello. Così in quest'occasione, aveva subito impegnata la sua parola a don Rodrigo, per chiudersi l’adito a ogni esitazione. Ma appena partito costui, sentendo scemare quella fermezza che s'era comandata per promettere, sentendo a poco a poco venirsi innanzi nella mente pensieri che lo tentavano di mancare a quella parola, e l'avrebbero condotto a scomparire in faccia a un amico, a un complice secondario; per troncare a un tratto quel contrasto penoso, chiamò il Nibbio, uno de’ più destri e arditi ministri delle sue enormità, e quello di cui era solito servirsi per la corrispondenza con Egidio. E, con aria risoluta, gli comandò che montasse subito a cavallo, andasse diritto a Monza, informasse Egidio dell’impegno contratto, e richiedesse il suo aiuto per adempirlo. Il messo ribaldo tornò più presto che il suo padrone non se l’aspettasse, con la risposta d’Egidio: che l’impresa era facile e sicura; gli si mandasse subito una carrozza, con due o tre bravi ben travisati; e lui prendeva la cura di tutto il resto, e guiderebbe la cosa. A quest’innunzio, l’innominato, comunque stesse di dentro, diede ordine in fretta al Nibbio stesso, che dispo-
nesse tutto secondo aveva detto Egidio, e andasse con due altri che gli nominò, alla spedizione. Se per rendere l’orribile servizio che gli era stato chiesto, Egidio avesse
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dovuto far conto de’ soli suoi mezzi ordinari, non avrebbe certamente data così subito una promessa così decisa. Ma, in quell’asilo stesso dove pareva che tutto dovesse essere ostacolo, l’attoce giovine aveva un mezzo noto a lui solo; e ciò che per gli altri sarebbe stata la maggior difficoltà, era strumento per lui. Noi abbiamo riferito come la sciagurata signora desse una volta retta alle sue parole; e il lettore può avere inteso che quella volta non fu l’ultima, non fu che un primo passo in una strada d’abbominazione e di sangue. Quella stessa voce, che aveva acquistato forza e, direi quasi, autorità dal delitto, le impose ora il sagrifizio dell’innocente che aveva in custodia. 133-134. per convincer... ch’era ancor quello: la grande pagina d’introspezione psicologica si chiude qui. ÎNoi, ora, sappiamo che cosa c'è dentro l’Innominato; quando, più tardi, lo vedremo agire sotto l’impulso di sentimenti contrastanti, comprenderemo bene il perché di una lotta tanto continua, tanto esasperata fra iniquità e resipiscenza, fino alla disperazione. Questo metodo di presentare prima il ritratto del personaggio e poi il suo agire, è consueto in M.: si pensi, per esempio, a don Abbondio. Mai però lo scrittore, nell’analisi dell'animo di un personaggio, ci era apparso tanto penetrante come qui. 140. complice secondario: così è don Rodrigo; perché in questo affare di Lucia tutta la responsabilità, d’ora in avanti, cadrà su di lui, l’Innominato.
142-145. con aria... adempirlo: a determinare la concisione dell’ordine confluiscono due fattori: l'orgasmo derivante, questa volta, dalla volontà di «troncare a un tratto quel contrasto penoso », e l'abitudine ormai innata al comando netto, deciso, inequivocabile. Se vogliamo pensare ad un confronto chiarificatore, ricordiamo il confabulare di don Rodrigo col suo Griso per il ratto di Lucia: « il Griso a proporre, don Rodrigo a discutere, finché d’accordo ebbero concertata la maniera di condurre a fine l’impresa » (Cap. VII). 161-162. autorità dal delitto: perché, come dirà subito dopo, «il delitto è un padrone rigido e inflessibile ». Nella visione pessimistica del M., il male è generatore di altro male. Qualcosa di simile troviamo nel lamento di Adelchi morente: « la man degli
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La proposta riuscì spaventosa a Gertrude. Perder: Lucia per un caso impreveduto, senza colpa, le sarebbe parsa una sventura, una punizione amara: e le veniva comandato di privarsene con una scellerata perfidia, di cambiare in un nuovo rimorso un mezzo d’espiazione. La sventurata tentò tutte le strade per esimersi dall’orribile comando; tutte, fuorché la sola ch’era
sicura, e che le stava pur sempre aperta davanti. Il delitto è un padrone ri-
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gido e inflessibile, contro cui non divien forte se non chi se ne ribella interamente. A questo Gertrude non voleva risolversi; e ubbidì. Era il giorno stabilito; l’ora convenuta s’avvicinava; Gertrude, ritirata con Lucia nel suo parlatorio privato, le faceva più carezze dell’ordinario, e Lucia le riceveva e le contraccambiava con tenerezza crescente: come la pecora, tremolando senza timore sotto la mano del pastore che la palpa e la strascina mollemente, si volta a leccar quella mano; e non sa che, fuori della stalla, l’aspetta il macellaio, a cui il pastore l’ha venduta un momento prima. « Ho bisogno d’un gran servizio; e voi sola potete farmelo. Ho. tanta gente a’ miei comandi; ma di cui mi fidi, nessuno. Per un affare di grand’importanza, che vi dirò poi; ho bisogno di parlar subito subito con quel padre guardiano de’ cappuccini che v’ha condotta qui da me, la mia povera Lucia; ma è anche necessario che nessuno sappia che l’ho mandato a chiamare io. Non ho che voi per far segretamente quest’imbasciata. » il Lucia fu atterrita d’una tale richiesta; e con quella sua suggezione, ma senza nascondere una gran maraviglia, addusse subito, per disimpegnarsene,
le ragioni che la signora doveva intendere, che avrebbe dovute prevedere: senza la madre, senza nessuno, per una strada solitaria, in un paese sconosciuto. Ma Gertrude, ammaestrata a una scola infernale, mostrò tanta maraviglia anche lei, e tanto dispiacere di trovare una tal ritrosia nella persona di | cui credeva poter far più conto, figurò di trovar così vane quelle scuse! di
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giorno chiaro, quattro passi, una strada che Lucia aveva fatta pochi giorni
prima, e che, quand’anche non l’avesse mai veduta, a insegnargliela, non la poteva sbagliare!... Tanto
disse, che la poverina, commossa
e punta
tempo, si lasciò sfuggir di bocca: «e bene; cosa devo fare? »
a un
e la serie delle sventure, da lei la via della avi insanguinata Seminò l’ingiustizia; i padri l'hanno Coltivata col sangue; e omai la redenzione e della salvezza per i personaggi più diversi. terra Altra messe non dà » (Adelchi, V). 173-176. come la pecora... l’aspetta il ma163-170. La proposta...; e ubbidì: in un cellaio: la similitudine realistica non solo rapido capoverso si rivive per intero tutto smorza quel che di troppo patetico si poteva il dramma di Gertrude, soggiogata ancora una volta da una volontà che viene dal di notare nelle « carezze » fatte e contraccamfuori, e alla quale ella invano ripugna, fin- . biate, ma fa sentire la partecipazione angosciata e sdegnata dell’autore. ché, come sempre, cede. Ma ora sentiamo 180. la mia povera Lucia: è l’espressione che, se la conclusione è la stessa di tutta più commovente del discorso, quella. più la vita passata — un altro sì come anello sincera perché tutta dolore e rimorso, ed di una ininterrotta catena di cedimenti —, anche affetto. E, inoltre, è quella che rivela qualcosa di nuovo, sia pur sommessamente, più di ogni altra il tormento di lotta intesi sta determinando in lei: la Grazia ha iniriore, ed insieme la tragica sensazione di non ziato anche con Gertrude, e proprio pet poter niente contro la tirannica volontà demezzo di Lucia, una lenta opera che porterà gli altri. ad un risveglio, per ora fioco e indistinto, 187. una scola infernale: quella dello del senso morale. Potremmo dire, a questo « sciagurato Egidio ». proposito, che Lucia si rivela ancora una 192. commossa e punta: corzzzossa pet volta come il vero, l’unico protagonista del la fiducia che Gertrude aveva riposto in romanzo: da lei la passione di don Rodrigo
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« Andate al convento de’ cappuccini: > « fate chiamare il padre guardiano, ditegli, subito subito; ma che non dica a nessuno mare. » « Ma cosa dirò alla fattoressa, che non manderà dove vo? »
e le descrisse la strada di nuovo: da solo a solo, che venga da me che son io che lo mando a chiam’ha mai vista uscire, e mi do-
« Cercate di passare senz’esser vista; e se non vi riesce, ditele che andate
alla chiesa tale, dove avete promesso di fare orazione. » a si Nuova difficoltà per la povera giovine: dire una bugia; ma la signor l’ancosa brutta così parer mostrò di nuovo così afflitta delle ripulse, le fece conche più ita teporre un vano scrupolo alla riconoscenza, che Lucia, sbalord vinta, e soprattutto commossa più che mai, rispose: «e bene; anderò. Dio m’aiuti! » E si mosse. Quando Gertrude, che dalla grata la seguiva con l'occhio fisso e torbido, la vide metter piede sulla soglia, come sopraffatta da un sentimento irresistibile, aprì la bocca, e disse: « sentite, Lucia! » Questa si voltò, e tornò verso la grata. Ma già un altro pensiero, un pensiero avvezzo a predominare, aveva vinto di nuovo nella mente sciagurata
di Gertrude. Facendo le viste di non essere contenta dell’istruzioni già date, spiegò di nuovo a Lucia la strada che doveva tenere, e la licenziò dicendo: « fate ogni cosa come v’ho detto, e tornate presto ». Lucia partì. Passò inosservata la porta del chiostro, prese la strada, con gli occhi bassi, rasente al muro; trovò, con l’indicazioni avute e con le proprie rimembranze, la porta del borgo, n’uscì, andò tutta raccolta e un po’ tremante, per la
strada maestra, arrivò in pochi momenti a quella che conduceva al convento; e la riconobbe. Quella strada era, ed è tutt'ora, affondata, a guisa d’un letto di fiume, tra due alte rive orlate di macchie, che vi forman sopra una specie di
volta. Lucia, entrandovi, e vedendola affatto solitaria, sentì crescere la paura,
lei, per l’affettuosità che le dimostrava; punta perché sente che, insistendo nel rifiuto, compirebbe un atto di ingratitudine. 200. ditele che...: le bugie tanto vengono facili sulle labbra di Gertrude, quanto per Lucia è difficile e amaro doverle ridire. L’autore, partecipe, in un certo senso, della sua pena, non la costringerà a dirle. 209. sentite, Lucia!: è il momento dell’insorgere più forte della coscienza, sotto la spinta del rimorso, e del fascino segreto dell’innocente Lucia. Ma ancora una volta quel « padrone rigido e inflessibile » che conosciamo reprime l'impulso del pentimento e della ribellione. Questa lotta interiore così drammatica è magistralmente collegata con quella precedente dell’Innominato, e si sviluppa entro la stessa visione provvidenziale in cui Lucia, come abbiamo già osservato, è per tutti fonte di irradiazione di Grazia. Ma per Gertrude la Grazia è ancora una lontana conquista; intanto della povera monaca ci rimane indimenticabile quell’occhio « fisso e torbido », da cui si svela una coscienza atterrita e come ipnotizzata dalla sua stessa condotta.
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presto:
questa espressione
è giudicata da qualche commentatore una « perfidia » fin troppo scoperta, da altri uno « scherno » che con satanica ironia concluderebbe tutto il malvagio disegno di Gertrude. È meglio sentirci l’ultimo tragico segno di una coscienza sconvolta e di quel « guazzabuglio » che è il cuore umano. Per questo non si potrebbe escludere, in quelle parole, anche una suprema indefinibile illusione in un intervento miracoloso, capace di correggere, lui, le colpe degli uomini. Queste parole, infine, costituiscono l’ultima azione di Gertrude nel romanzo; nel capitolo XXXVII sapremo, quasi di sfuggita, che si sarebbe pentita e riconciliata con Dio. — Lucia partì: la rapidità della frase, mentre ricorda altre simili espressioni manzoniane, isola drammaticamente l’immagine. 221. Lucia, entrandovi...: dapprima una pacata presentazione dei personaggi, dell’ambiente, delle prime parole: tutto si svolge con naturalezza, e a Lucia pare di conforto. Poi il momento
vero
e proprio del ratto,
rapido, evidentissimo. Certe cose di questa
scena possono ricordarne altre della notte
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e allungava il passo; ma poco dopo si rincorò alquanto, nel vedere una carrozza da viaggio ferma, e accanto a quella, davanti allo sportello aperto, due viaggiatori che guardavano in qua e in lì, come incerti della strada. An225 dando avanti, sentì uno di que’ due, che diceva: « ecco una buona giovine che c'insegnerà la strada ». Infatti, quando fu arrivata alla carrozza, quel medesimo, con un fare più gentile che non fosse l’aspetto, si voltò, e disse: « quella giovine, ci sapreste insegnar la strada di Monza? » < Andando di lì, vanno a rovescio, » rispondeva la poverina: « Monza è 230 di qua... » e si voltava, per accennar col dito; quando l’altro compagno (era ilNibbio), afferrandola d’improvviso per la vita, l’alzò da terra. Lucia girò la testa indietro atterrita, e cacciò un urlo; il malandrino la mise per forza nella carrozza: uno che stava a sedere davanti, la prese e la cacciò, per quanto lei si divincolasse e stridesse, a sedere dirimpetto a sé: un altro, met235 tendole un fazzoletto alla bocca, le chiuse il grido in gola. In tanto il Nibbio entrò presto presto anche lui* nella carrozza: lo sportello si chiuse, e la carrozza partì di gran carriera. L’altro che le aveva fatta quella domanda traditoria, rimasto nella strada, diede un’occhiata in qua e in là, per veder se
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fosse accorso qualcheduno agli urli di Lucia: non c’era nessuno: saltò sur una riva, attaccandosi a un albero della macchia, e disparve. Era costui uno sgherro d’Egidio; era stato, facendo l’indiano, sulla porta del suo padrone, per veder quando Lucia usciva dal monastero; l’aveva osservata bene, per poterla riconoscere; ed era corso per una scorciatoia, ad aspettarla al posto convenuto. Chi potrà ora descrivere il terrore, l’angoscia di costei, esprimere ciò che passava nel suo animo? Spalancava gli occhi spaventati, per ansietà di conoscere la sua orribile situazione, e li richiudeva subito, per il ribrezzo e per
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il terrore di que’ visacci: si storceva, ma era tenuta da tutte le parti: raccoglieva tutte le sue forze, e dava delle stratte, per buttarsi verso lo sportello; ma due braccia nerborute la tenevano come conficcata nel fondo della carrozza; quattro altre manacce ve l’appuntellavano. Ogni volta che aprisse la bocca per cacciare un urlo, il fazzoletto veniva a soffogarglielo in gola. Intanto tre bocche d’inferno, con la voce più umana che sapessero formare, andavan ripetendo: « zitta, zitta, non abbiate paura non vogliamo farvi male ». Dopo qualche momento d’una lotta così angosciosa, parve che s’acquietasse; allentò le braccia, lasciò cader la testa all’indietro, alzò a stento le palpebre, tenendo l’occhio immobile; e quegli orridi visacci che le stavan davanti le
del tentativo di matrimonio in casa di idon Abbondio, tanto è rapida e nitida; ma ora l’atto proditorio è compiuto con ben altra sicurezza di mosse. 231. il Nibbio, afferrandola: proprio come fa il nibbio, un rapace che piomba sulla preda dall’alto. 241. facendo l’indiano: cioè, l’indifferente; come se fosse lì per caso. Ricordiamo che il palazzo di Egidio era attiguo al monasterto. 245. Chi potrà ora descrivere...: è un’interrogazione retorica; ma, potremmo dire, retorica più nella forma che nella sostanza,
° in quanto niente c’è in essa di artificioso e
di convenzionale, mentre bene è espresso il profondo turbamento dello scrittore di fronte alla tragicità della scena. 246-259. Spalancava... svenne: con l’esattezza di un narratore realista, il M. ci presenta una precisa gradazione dei vari momenti dell’angoscia pet cui passa la prigioniera: dallo spavento al ribrezzo, dal terrore al tentativo di reazione, dalla rinunzia all’abbandono fisico e morale, con la vertigine in
cui gli «orridi visacci » si confondono e in un « miscuglio mostruoso »: e; da ultimo, il deliquio. ondeggiano
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oso: le parvero confondersi e ondeggiare insieme in un mescuglio mostrue svenne. fuggì il colore dal viso; un sudor freddo glielo coprì; s’abbandonò, van « Su, su, coraggio, » diceva il Nibbio. « Coraggio coraggio, » ripete mogli altri due birboni; ma lo smarrimento d’ogni senso preservava in quel mento Lucia dal sentire i conforti di quelle orribili voci. « Diavolo! par morta, » disse uno di coloro: « se fosse morta davvero? » «Oh! morta! » disse l’altro: « è uno di quegli svenimenti che vengono alle donne. Io so che, quando ho voluto mandare all’altro mondo qualche duno, uomo o donna che fosse, c'è voluto altro. » « Via! » disse il Nibbio: « attenti al vostro dovere, e non andate a cercar altro. Tirate fuori dalla cassetta i tromboni, e teneteli pronti; chè in questo
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bosco dove s’entra ora, c'è sempre de’ birboni annidati. Non così in mano, diavolo! riponeteli dietro le spalle, lì stesi: non vedete che costei è un pulcin bagnato che basisce per nulla? Se vede armi, è capace di morir davvero. E
quando sarà rinvenuta, badate bene di non farle paura; non la toccate, se non vi fo segno; a tenerla basto io. E zitti: lasciate parlare a me. » Intanto la carrozza, andando sempre di corsa, s’era inoltrata nel bosco. Dopo qualche tempo, la povera Lucia cominciò a risentirsi, come da un sonno profondo e affannoso, e aprì gli occhi. Penò alquanto a distinguere gli spaventosi oggetti che la circondavano, a raccogliere i suoi pensieri: alfine comprese di nuovo la sua terribile situazione. Il primo uso che fece
delle poche forze ritornatele, fu di buttarsi ancora verso lo sportello, per slanciarsi fuori; ma fu ritenuta, e non poté che vedere un momento la solitudine selvaggia del luogo per cui passava. Cacciò di nuovo un urlo; ma il Nibbio, alzando la manaccia col fazzoletto, « via, » le disse, più dolcemente che poté; « state zitta, che sarà meglio per voi: non vogliamo farvi male; ma
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se non istate zitta, vi faremo star noi ». « Lasciatemi andare! Chi siete voi? Dove mi conducete? Perché m’avete presa? Lasciatemi andare, lasciatemi andare! » «Vi dico che non abbiate paura:
non siete una bambina, e dovete ca-
pire che noi non vogliamo farvi del male. Non vedete che avremmo potuto 290
ammazzarvi cento volte se avessimo cattive intenzioni? Dunque state quieta. » « No, no, lasciatemi andare per la mia strada: io non vi conosco. »
262. i conforti di quelle orribili voci: c'è ironia in questa battuta; ma un’ironia che, lungi da attenuare, accresce il senso di ter-
rore e di ribrezzo che circonda Lucia. 265-266. Io so... c'è voluto altro: c'è un bel cinismo in questi bravacci; e nel ricordo delle loro prodezze non manca l’umorismo dell’autore. 268. tromboni: schioppi corti e con canna grossa, a tromba. 269. c’è sempre de’ birboni annidati: queste patole, sulle labbra del Nibbio, possono farci sorridere. Ma pensiamo alla realtà secentesca: i bravi in livrea erano una specie di milizia legalizzata; perciò, per costoro, i veri e soli birboni degni di disprezzo erano i briganti senza un padrone, i ladroni di macchia. 271. basisce: sviene, tramortisce. Nelle ul-
time parole del Nibbio traspare, anche se debolmente, un vago sentimento di pietà. Le lagrime e la disperazione dell’innocente hanno turbato anche lui; ma siamo appena all’inizio. E al Nibbio nessuno aveva comandato, come al Griso, di aver riguardi. 281-283. il Nibbio... più dolcemente che poté: il Nibbio fa davvero del suo meglio, ed è leale e rispettoso. Ad un certo punto quasi si scusa di tutto quel terrore che lui e i suoi compagni fanno soffrire a Lucia: « c'è stato comandato ». Ma il Nibbio è un pover’uomo che sa ben poco della psicologia di una ragazza nello stato di Lucia, e perciò altre sue parole, buttate fuoti senza tanto controllo, sono meno tranquillizzanti per la prigioniera: e per noi un po’ umoristiche; come quell’« avremmo potuto ammazzarvi cento volte ».
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« Vi conosciamo noi. » rt Oh santissima Vergine! come mi conoscete? Lasciatemi andare, per carità. Chi siete voi? Perché m’avete presa? » « Perché c’è stato comandato. » « Chi? chi? chi ve lo può aver comandato? »
« Zitta! » disse con un visaccio severo il Nibbio: « a noi non si fa di codeste domande. » Lucia tentò un’altra volta di buttarsi d’improvviso allo sportello; ma vedendo ch’era inutile, ricorse di nuovo alle preghiere; e con la testa bassa, 300
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con le gote irrigate di lacrime, con la voce interrotta dal pianto, con le mani giunte dinanzi alle labbra, « oh » diceva « per l’amor di Dio, e della Vergine santissima, lasciatemi andare! Cosa v’ho fatto di male io? Sono una povera creatura che non v’ha fatto niente. Quello che m’avete fatto voi, ve lo perdono di cuore: e pregherò Dio per voi. Se avete anche voi una figlia, una moglie, una madre, pensate quello che patirebbero, se fossero in questo stato. Ricordatevi che dobbiamo morir tutti, e che un giorno desidererete che Dio vi usi misericordia: Lasciatemi andare, lasciatemi qui: il Signore mi farà trovar la mia strada. » «Non possiamo. » « Non potete? Oh Signore! perché non potete? Dove volete condurmi? Perché...? » i
« Non possiamo: è inutile: non abbiate paura, che non vogliamo farvi male: state quieta, e nessuno vi toccherà. » Accorata, affannata, atterrita sempre più nel vedere che le sue parole non facevano nessun colpo, Lucia si rivolse a Colui che tiene in mano il cuore degli uomini, e può, quando voglia, intenerire i più duri. Si strinse il più che poté, nel canto della carrozza, mise le braccia in croce sul petto, e pregò qualche tempo con la mente; poi, tirata fuori la corona, cominciò a dire il ro-
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sario, con più fede e con più affetto che non avesse ancor fatto in vita sua. Ogni tanto, sperando d’avere impetrata la misericordia che implorava, si vol tava a ripregar coloro; ma sempre inutilmente. Poi ricadeva ancora senza sentimenti, poi si riaveva di nuovo, per rivivere a nuove angosce. Ma ormai
non ci regge il cuore a descriverle più a lungo: una pietà troppo dolorosa ci af-
301-308. per l’amor di Dio... la mia strada: «la perorazione di Lucia è stupenda per sobrietà e opportunità di note. Si presenta prima disarmata (sono una povera creatura), che è sempre la maniera migliore per ammansire i violenti. Concede poi il suo perdono e promette di pregare Dio per loro. Ma poiché Dio può esser lontano da quegli animi bruti, scende agli affetti umani (se avete anche voi una figlia, una moglie...). Toccati da quei ricordi familiari, e ammolliti nell'animo, forse ora possono intendere meglio che cosa sia Dio e il bisogno della sua misericordia. E la preghiera, che si è aperta genericamente nel nome di Dio e della Vergine, si chiude ancora nel nome del Signore, che comincia a essere non più un semplice nome. Tanto che i bravi rispondono ‘Non possiamo ?. Il Nibbio, al capitolo XXI, confesserà di fatti non solo la sua
compassione, ma anche il suo timore religioso: * piangere, pregare, e far cert’occhi, e diventar bianca bianca come morta, e poi singhiozzare, e pregare di nuovo, e certe parole...?. Quel certe parole è un accenno reticente al Dio vi usi misericordia di Lucia » (Russo). 314. Accorata, affannata, atterrita...: siamo al punto estremo del dramma di Lucia, che il M. ritrae con poche linee che, pur nella sobrietà straordinaria degli accenti, rivelano un pathos intensissimo. L’atteggiamento di Lucia che, sola e indifesa, si restringe in sé e si rivolge « a Colui che tiene in mano il cuore degli uomini », è uno dei più belli e tipici del personaggio; e, insieme, poetica nota di verginale pudore, espressa con spontaneità e con grazia delicatissime. Fra non molto vedremo quest’atto ripetersi in un’altra terribile situazione.
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fretta al termine di quel viaggio, che durò più di quattr’ore; e dopo ilquale avremo altre ore angosciose da passare. Trasportiamoci al castello dove l’infe7 ; lice era aspettata. Ri Era aspettata dall’innominato, con un’inquietudine, con una sospension d’animo insolita. Cosa strana! quell’uomo, che aveva disposto a sangue freddo
di tante vite, che in tanti suoi fatti non aveva contato per nulla i dolori da
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lui cagionati, se non qualche volta per assaporare in essi una selvaggia voluttà di vendetta, ora, nel metter le mani addossoa questa sconosciuta, a questa povera contadina, sentiva come un ribrezzo, direi quasi un terrore. Da un’alta finestra del suo castellaccio, guardava da qualche tempo verso uno sbocco della valle; ed ecco spuntar la carrozza, e venire innanzi lentamente: perché quel primo andar di carriera aveva consumata la foga, e domate le forze de’ cavalli. E benché, dal punto dove stava a guardare, la non paresse più che una di quelle carrozzine che si danno per balocco ai fanciulli, la riconobbe subito, e si sentì il cuore batter più forte. — Ci sarà? — pensò subito; e continuava tra sé: — che noia mi dà cosei! Liberiamocene. — E voleva chiamare uno de’ suoi sgherri, e spedirlo subito incontro alla carrozza, a ordinare al Nibbio che voltasse, e conducesse colei al palazzo di don Rodrigo. Ma un zo imperioso che risonò nella sua mente, fece svanire quel disegno. Tormentato però dal bisogno di dar qualche ordine, riuscendogli intollerabile lo stare aspettando oziosamente quella cartozza che veniva avanti passo passo, come un tradimento, che so io? come un gastigo, fece chiamare
una
sua
vecchia
donna.
Era costei nata in quello stesso castello, da un antico custode di esso, e
aveva passata lì tutta la sua vita. Ciò che aveva veduto e sentito fin dalle
327. Era aspettata dall’innominato...: il trapasso improvviso alla nuova scena ci dice subito il turbamento dell’Innominato e crea nel lettore un momento di sospensione e di attesa. 332. un ribrezzo... un terrore: perché, co-
339. che noia mi dà costei!: attribuisce la colpa del suo travaglio a Lucia. Ma quel travaglio ha origini ben più lontane e profonde: il rapimento di Lucia non è stato che l’ultimo anello di una catena ininterrotta di violenze e di delitti. Da qui la voce che
me sappiamo, il suo animo non è più quello di una volta, e perché quest’ultima violenza la sta compiendo senza una ragione. R:brezzo, in particolare, perché con tanta facilità, e senza alcun rischio, mette le mani addosso ad una creatura innocente ed inerme; terrore, per il confuso sentimento di una punizione divina. Riprende dunque in queste pagine lo studio della conversione dell’Innominato, seguita passo per passo nello sviluppo dei suoi elementi psicologici e religiosi. 334. la carrozza... lentamente: la carrozza, nella mente già turbata, si trasfigura in una torza oscura che avanza minacciosa. Il sentirsi « il cuore batter più fotte » di fronte a quell’oggetto lontano e ancora piccolo come un « balocco » per bambini, è segno del progredire verso la completa condanna del proprio operato, e quindi verso il traguardo, ormai prossimo, della conversione.
opprime e attanaglia l’Innominato.
343. un no impetioso:
stupenda conclu-
sione dell’interna lotta che dura da ore, da giorni, da anni. È la prima chiara affermazione del dominio dell’uomo nuovo sull’uomo vecchio, pur nella permanenza di tutti i
caratteri più distintivi dell’antico signore: la forza, la decisione, l’imperio. Per questo l’Innominato, dopo il comando segreto a se stesso, si rivolge a dare ordini a qualchedun altro: e sono ancora ordini netti, autoritari come sempre. 348. Era costei... incomincia un vasto profilo biografico del nuovo personaggio, sbozzato ad immagine e somiglianza dell’ambiente fosco in cui questa donna è sempre vissuta, educata fin « dalle fasce » non al timore di Dio — come è stato ben detto —, ma al timore del padrone: a lui ubbidisce in tutto e per tutto, perché in lui vede realizzarsi una « specie di giustizia fatale ».
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fasce, le aveva impresso nella mente un concetto magnifico e terribile del po-
tere de’ suoi padroni; e la massima principale che aveva’ attinta dall’istru-
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zioni e dagli esempi, era che bisognava ubbidirli in ogni cosa, perché potevano far del gran male e del gran bene. L’idea del dovere, deposta come un germe nel cuore di tutti gli uomini, svolgendosi nel suo, insieme co’ sentimenti d’un rispetto, d’un ‘terrore, d’una cupidigia servile, s'era associata e adattata a quelli. Quando l’innominato, divenuto padrone, cominciò a far quell’uso spaventevole della sua forza, costei ne provò da principio un certo ribrezzo insieme e un sentimento più profondo di sommissione. Col tempo, s'era avvezzata a ciò che aveva tutto il giorno davanti agli occhi e negli orecchi: la volontà potnte e sfrenata d’un così gran signore, era per lei come una specie di giustizia fatale. Ragazza già fatta, aveva sposato un servitor di casa, il quale, poco dopo, essendo andato a una spedizione rischiosa, lasciò l’ossa sur una strada, e lei vedova nel castello. La vendetta che il signore ne fece subito, le diede una consolazione feroce, e le accrebbe l’orgoglio di trovarsi sotto una tal protezione. D’allora in poi, non mise piede fuor del castello, che molto di rado; e a poco a poco non le rimase del vivere umano quasi altre idee salvo quelle che ne riceveva in quel luogo. Non era addetta ad alcun servizio particolare, ma, in quella masnada di sgherri, ora l’uno ora l’altro, le davan da fare ogni poco; ch’era il suo rodimento. Ora aveva cenci da rattoppare, ora da preparare in fretta da mangiare a chi tornasse da una spedizione, ora feriti da medicare. I comandi poi di coloro, i rimproveri, i ringraziamenti, eran conditi di beffe e d’improperi: vecchia, era il suo appellativo usuale; gli aggiunti, che qualcheduno sempre ci se n’attaccava, variavano secondo le circostanze e l’umore dell’amico. E colei, disturbata nella
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pigrizia, e provocata nella stizza, ch’erano due delle sue passioni predominanti, contraccambiava alle volte que’ complimenti con parole, in cui Satana avrebbe riconosciuto più del suo ingegno, che in quelle de’ provocatori. « Tu vedi laggiù quella carrozza! » le disse il signore. « La vedo, » rispose la vecchia, cacciando avanti il mento appuntato, e
aguzzando gli occhi infossati, come se cercasse di spingerli su gli orli dell’occhiaie. « Fa allestir subito una bussola, entraci, e fatti portare alla Malanotte. Subito subito; che tu ci arrivi prima di quella carrozza: già la viene avanti
col passo della morte. In quella carrozza c’è... ci dev'essere... una giovine. Se
363-364. La vendetta... subito: neità di questa vendetta
portamento
del Conte
rammenta
la fulmiil com-
del Sagrato nei ri-
379-380. cacciando... aguzzando...: la forza di queste pennellate realistiche è tale che
la vecchia, d’ora in avanti, ci parrà sempre
guardi dell'avversario fulminato al suo uscire di chiesa (In Fermo e Lucia, II, vin).
tutta « mento appuntato » ed « occhi infossati »; sicché, poi, giudicheremo più che na-
tura perfettamente individuata, con un suo mondo interiore e fisico, che è fosco e comico insieme.
magine c'è il riflesso di una sensazione opprimente, che trasparirà ancora più netta nel resto del discorso.
375. pigrizia... stizza: si tengano presenti queste due passioni della vecchia, e si ricordi il precedente accenno alla sua « cupidigia servile », per aver ben chiari i limiti di questa figura e per non vedere in lei né « il riflesso dell’Innominato in un’anima servile » (Momigliano), né « la figura più ripugnante del romanzo » (Pistelli): ma una crea-
turali certe spontanee reazioni di Lucia di fronte a lei. — Qualche particolare simile c’era nel « vecchio mal vissuto » del tumulto di Milano (Cap. XIII) ; ma qui c'è più una vivace nota caricaturale, che un’espressione di bruttezza ripugnante. 384. col. passo della morte: ecco come l’Innominato vede questa carrozza. Nell’im-
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c'è, dì al Nibbio, in mio nome, che la metta nella bussola, e lui venga su subito da me. Tu starai nella bussola, con ‘quella... giovine; e ‘quando sarete quassù, la condurrai nella tua camera. Se ti domanda dove la meni, di chi è il castello, guarda di non... » « Oh! » disse la vecchia. « Ma, » continuò l’innominato, « falle coraggio. » « Cosa le devo dire? »
« Cosa le devi dire? Falle coraggio, ti dico. Tu sei venuta a codesta età, senza sapere come si fa coraggio a una creatura, quando si vuole! Hai tu mai sentito affanno di cuore? Hai tu mai avuto paura? Non sai le parole che fanno piacere in que’ momenti? Dille di quelle parole: trovale, alla malora. Va. »
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E partita che fu, si fermò alquanto alla finestra, con gli occhi fissi a quella carrozza, che già appariva più grande di molto; poi gli alzò al sole, che in quel momento si nascondeva dietro la montagna; poi guardò le nuvole sparse al di sopra, che di brune si fecero, quasi a un tratto, di fuoco. Si ritirò, chiuse la finestra, e si mise a camminare innanzi e indietro per la stanza, con un passo di viaggiatore frettoloso.
si finali del coro di Ermengarda viene spon395-396. trovale.... Va: il breve colloquio taneo: «... dalle squarciate nuvole Si volge dell’Innominato con la vecchia è uno degli il sol cadente. E, dietro il monte, imporscorci più artisticamente compiuti del capitolo. In esso esplode, inconsapevolmente, tut- ‘pora Il trepido occidente: Al pio colono augurio Di più sereno dì» (Adelchi, IV). to il tormento interiore dell’uomo, che negli Identico è l’afflato religioso del paesaggio, accenti iracondi vorrebbe ancora nascondere identico il senso dell’intervento divino nelagli occhi degli altri quella realtà che non osa svelare a se stesso. Quell’« affanno di la risoluzione delle vicende umane, anche se l’accenno del romanzo è meno esplicito: cuore », quella « paura » che l’Innominato ma, proprio per questo, più suggestivo. attribuisce ora alla giovine — che è, che 401-402. Si ritirò... viaggiatore frettoloso: deve essere nella carrozza —, è lui che li è fra le più belle finali di capitolo. Il tono sente incalzanti in se stesso; e quelle « padella narrazione, lungi dal tornare, come alrole che fanno piacere » nei momenti deltre volte, alla medietà della vita quotidiana, l’angoscia, è lui che ora vorrebbe sentirle,. qui resta alto e suggestivo. L’immagine del e sentirle per sé. In questa trasposizione dei « viaggiatore frettoloso » fa presentire che propri bisogni c'è la rivelazione affannosa qualcosa di grande deve accadere fra poco: dell’ansia verso una pace sempre più dramnon potrà estinguersi nel nulla un così granmaticamente cercata, 398-400. al sole... di fuoco: il ricordo dei verde « affanno di cuore ».
Capitolo XXI
La vecchia era corsa a ubbidite e a comandare, con l’autorità di quel nome che, da chiunque fosse pronunziato in quel luogo, li faceva spicciar tutti; perché a nessuno veniva in testa che ci fosse uno tanto ardito da ser-
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virsene falsamente. Si trovò infatti alla Malanotte un po’ prima che la carrozza ci arrivasse;. e vistala venire, uscì di bussola, fece segno al cocchiere che fermasse, s’avvicinò allo sportello; e al Nibbio, che mise il capo fuori, riferì sottovoce gli ordini del padrone. Lucia, al fermarsi della carrozza, si scosse, e rinvenne da una specie di letargo. Si sentì da capo rimescolare il sangue, spalancò la bocca e gli occhi, e guardò. Il Nibbio s’era tirato indietro; e la vecchia, col mento sullo sportello, guardando Lucia, diceva: « venite, la mia giovine; venite, poverina; venite con me, che ho ordine di trattarvi bene e di farvi coraggio ». AI suono d’una voce di donna, la poverina provò un conforto, un coraggio momentaneo; ma ricadde subito in uno spavento più cupo. « Chi siete? » disse con voce tremante, fissando lo sguardo attonito in viso alla vecchia. « Venite, venite, poverina, » andava questa ripetendo. Il Nibbio e gli altri due, argomentando dalle parole e dalla voce così straordinariamente raddolcita di colei, quali fossero l’intenzioni del signore, cercavano di persuader con le buone l’oppressa a ubbidire. Ma lei seguitava a guardar fuori; e benché
il luogo selvaggio e sconosciuto, e la sicurezza de’ suoi guardiani non le la1. La vecchia: la parola, mentre apre il capitolo con un tono deciso, fissa per sempre il nome del personaggio, lasciandogli un che di spregiativo e di volgare: quasi una « piccola innominata », come è stata definita, nel regno del grande Innominato. — a ubbidire e a comandare...: tutto il discorso
ha la funzione, all’inizio di quest’altro grande capitolo dell’Innominato, di scolpire ancora una volta la superiorità del selvaggio posignore, e gli effetti del suo indiscusso. tere. 10-11. col mento sullo sportello: già conosciamo questo mento appuntito, come ricordiamo quegli occhi infossati. Nell’atteggiamento realistico e vivo si riflette una certa curiosità maligna, che, se è propria di vecchie dure e volgari, è ancor più comprensibile e giustificabile nella nuova situazione in cui « la vecchia » si trova. Ma nell’atteggiamento di quel mento magro e aguzzo c’è anche
una nota caricaturale: nota che accompagnerà per tutto il capitolo, ed oltre, il personaggio, concepito e disegnato dal M. anche
come mezzo per scaricare la tensione patetica di Lucia, Però, come vedremo, si tratterà sempre di un umorismo che non dà sorriso, perché il sorriso non lo permettono né lo svolgimento dei fatti né il tipo del personaggio. i 12. ho ordine... farvi coraggio: sarà que-
sto il motivo ispiratore di tutto il comportamento della vecchia. In lei non ‘c’è ombra di bontà o di compassione, ma solo la preoccupazione di eseguire l’« ordine ». Tuttavia non pare del tutto appropriata la definizione che qualcuno ha dato della vecchia: «un fantoccio della bontà »; essa è, invece, una
figura singolare, che l’esistenza ha inaridita nel cuore e nello spirito, e che agisce sempre sotto il dominio e la sug-
gestione del padrone.
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i promessi spost
sciassero concepire speranza di soccorso, apriva non ostante la bocca per gridare; ma vedendo il Nibbio far gli occhiacci del fazzoletto, ritenne ilgrido, 25
tremò, si storse, fu presa e messa Nibbio disse ai due altri manigoldi la salita, per accorrere ai comandi « Chi siete? » domandava con
nella bussola. Dopo, c’entrò la vecchia; il che andassero dietro, e prese speditamente del padrone. ansietà Lucia al ceffo sconosciuto e defor-
me;
« perché son con voi? dove sono? dove mi conducete? » « Da chi vuol farvi del bene, » rispondeva la vecchia, « da un gran... Fortunati quelli a cui vuol far del bene! Buon per voi, buon per voi. Non ab-
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biate paura, state allegra, ché m’ha comandato di farvi coraggio. Glielo direte eh? che v’ho fatto coraggio? » « Chi è? perché? che vuol da.me? Io non son sua. Ditemi dove sono; lasciatemi andare; dite a costoro che mi lascino andare, che mi portino in qualche chiesa. Oh! voi che siete una donna, in nome di Maria Vergine...! »
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Quel nome santo e soave, già ripetuto con venerazione ne’ primi anni, e
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poi non più invocato per tanto tempo, né forse sentito proferire, faceva nella mente della sciagurata che lo sentiva in quel momento, un’impressione confusa, strana, lenta, come la rimembranza della luce, in un vecchione accecato da bambino. Intanto l’innominato, ritto sulla porta del castello, guardava in giù; e vedeva la bussola venir passo passo, come prima la carrozza, e avanti, a una distanza che cresceva ogni momento, salir di corsa il Nibbio. Quando questo
22. gli occhiacci del fazzoletto: ellissi molto bella e audace; vuol dire che il Nibbio
con gli occhi minacciava Lucia di ricorrere ancora al fazzoletto per tapparle la bocca, se avesse osato fare un grido. In questa minaccia del Nibbio, ridotta al solo « far gli occhiacci », come si farebbe con un bambino, si può vedere, oltre che un altro segno della nuova « compassione », l'impegno, anche da parte sua, di « trattare bene » la poverina, dopo che il tono delle parole della vecchia gli hanno fatto capire l’intenzione del padrone. Ma Lucia, di tutte queste cose che possono frullare per la testa del suo carceriere, non sa nulla: e quindi la sua angoscia è ben lontana dal diminuire. 26. ceffo sconosciuto e deforme: sono parole pesanti; ma in esse, più che un’altra pennellata realistica, occorre vedere il riflesso dell’impressione di Lucia, sconvolta da tutta la vicenda e spaventata dal nuovo incontro. 30-31. Glielo direte, eh? che v’ho fatto coraggio?: ecco quanto importa alla vecchia: che l’Innominato lo sappia che lei ha ubbidito, e che ce l’ha messa tutta per « far coraggio ». Con quale sentimento, poi, si sia impegnata e quali risultati abbia ottenuto, queste son cose che a lei non interessano, perché è troppo ottusa, e perché le parole del conforto e dell'amore non le conosce. 37-39. un’impressione confusa... bambino: dunque anche con la vecchia, che finora ab-
biamo vista così chiusa ad ogni sentimento elevato, Lucia ha trovato l’atteggiamento e le parole che riescono a commuovere. Anche con costei — dopo che con Gertrude, e prima che con l’Innominato, — Lucia si manifesta strumento della Grazia: qualcosa che ci ricorda, ancora una volta, le sante donne dantesche. E se è vero che, con la vecchia del castello, tutto finirà con un incerto barlume di bene, resta il fatto, essenziale nella visione cristiana del M., che Iddio ha offerto a costei, come offre a tutti, un richiamo verso una vita migliore. — Mirabile è, poi, la similitudine del vecchione, che coi suoi tre bellissimi aggettivi — confusa, strana, lenta — ci fa sentire la fatica con cui quell’impressione si svolge e si fissa nella mente, e nello stesso tempo ci prepara a seguire quanto accadrà nell'animo dell’Innominato. 40. ritto sulla porta del castello: lo avevamo visto poco fa guardare giù nella valle «da un’alta finestra del suo castellaccio »; poi, dato l’ordine alla vecchia, lo avevamo lasciato che camminava « innanzi e indietro per la stanza, con un passo di viaggiatore frettoloso ». Ora lo ritroviamo qui, disceso alla porta, sotto la spinta di un’irrequietezza che sempre più lo ‘attanaglia, e sembra farlo prigioniero, lui, di quella fragile e misteriosa creatura che là, nella bussola, è la sua prigioniera.
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fu in cima, il signore gli accennò che lo seguisse; e andò con lui in una stanza del castello. « Ebbene? » disse, fermandosi lì. «Tutto a un puntino,» rispose, inchinandosi, il Nibbio: «l'avviso a tempo, la donna a tempo, nessuno sul luogo, un urlo solo, nessuno comparso, il cocchiere pronto, i cavalli bravi, nessun incontro: ma... » « Ma che? »
« Ma... dico il vero, che avrei avuto più piacere che l’ordine fosse stato di darle una schioppettata nella schiena, senza sentirla parlare, senza vederla in viso. » « Cosa? cosa? che vuoi tu dire? » « Voglio dire che tutto quel tempo, tutto quel tempo... M’ha fatto troppa 55 compassione. » « Compassione! Che sai tu di compassione? Cos'è la compassione? » « Non l’ho mai capito così bene come questa volta: è una storia la compassione un poco come la paura: se uno la lascia prender possesso, non è più uomo. » i 60
« Sentiamo un poco come ha fatto costei per moverti a compassione. » « O signore illustrissimo! tanto tempo...! piangere, pregare, e far cert’occhi, e diventar bianca bianca come morta, e poi singhiozzare, e pregar di nuovo, e certe parole... »
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stato una bestia a impegnarmi; ma ho promesso, ho lontana... — E alzando la testa, in atto di comando, gli disse, « metti da parte la compassione: monta a pagno, due se vuoi; e va di corsa a casa di quel don
—
Non la voglio in casa costei, — pensava intanto l’innominato. —
Sono
promesso. Quando sarà verso il Nibbio, « ora, » cavallo, prendi un comRodrigo che tu sai. Di-
gli che mandi... ma subito subito, perché altrimenti... »
45. Ebbene?: siamo ad uno dei colloqui più drammatici del romanzo. Colloquio fra due, ma nel quale ben presto sentiremo inserirsi
ed intrecciarsi un soliloquio ancota più drammatico: quello dell’Innominato con sé stesso: il vecchio e il nuovo Innominato in un altro atto del loro lungo confronto. 46-48. Tutto a un puntino...: ma...: bellissima, nelle espressioni asciutte e martellate, la relazione del Nibbio, degno del suo padrone, oltre che per la perfezione dell’impresa, anche per la concisione del rapporto. Ma proprio quando il rapporto pare finito, ecco quel « ma » improvviso e inaspettato. Un 4 che per il Nibbio esprime l’ansia di levarsi un gran peso dal cuore, e per l’Innominato segna un nuovo elemento della sua lotta interiore. 54. tutto quel tempo, tutto quel tempo...: le parole semplici e ripetute — quasi il Nibbio non sapesse trovarne altre, agitato com'è, — ben dicono la pena nuova che l’uo-
mo ha sentito: lui, il più fiero e deciso dei bravi di quel castellaccio, 56. Compassione! Che sai tu di compassione? Cos'è la compassione?: bene il Pelliz-
zati ha capito e distinto questa convulsa ripetizione di corzpassione, con la quale spunta un pensiero interiore, che viene a sovrappotsi al dialogo esterno: « Sentite, nelle tre frasi spezzate, tutto un vasto tumulto di nuove angosce: prima la negazione tra
rabbiosa e ironica; poi la brusca dimanda al Nibbio; poi, senza attender risposta, una interrogazione, ben più ansiosa, rivolta, otmai, non più al Nibbio, ma a se medesimo » (Studi manzoniani). 60. Sentiamo un poco...: esternamente le parole vorrebbero indicare l’incredulità dell’uomo forte, che vuole quasi prendersi giuoco delle ubbie dell’uomo debole; ma al di dentro vi sentiamo tutta la trepidazione che avvince sempre più l’animo dell’Innominato, e che di momento in momento ne demolisce la resistenza. 64. Non la voglio in casa costei...: il Nibbio continua a parlare, ma ormai l’Innominato, più che le parole di costui, ascolta ciò che dice e ridice il suo cuore: fino a quel no, il secondo, e « più imperioso del pri-
mo », che fra breve segnerà un ulteriore
e deciso passo dell’uomo nuovo vecchio.
su l’uomo
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i promessi sposti
Ma un altro 0 interno più imperioso del primo gli proibì di finire. « No, » disse con voce risoluta, quasi per esprimere a sé stesso il comando di quella voce segreta, « no: va a riposarti; e domattina... farai quello che ti dirò! » — Un qualche demonio ha costei dalla sua, — pensava poi, rimasto solo, ritto, con le braccia incrociate sul petto, e con lo sguardo immobile sur una parte del pavimento, dove il raggio della luna, entrando da una finestra alta, disegnava un quadrato di luce pallida, tagliata a scacchi dalle grosse inferriate, e intagliata più minutamente dai piccoli compartimenti delle vetriate. Un qualche demonio, o... un qualche angelo che la protegge... Compassione al Nibbio!... Domattina, domattina di buon’ora, fuor di qui costei; al suo destino, e non se ne parli più, e, — proseguiva tra sé, con quell’animo con cui si comanda a un ragazzo indocile, sapendo che non ubbidirà, — e non ci si pensi più. Quell’animale di don Rodrigo non mi venga a romper la testa con ringraziamenti; che... non voglio più sentir parlar di costei. L’ho servito perché... perché ho promesso: e ho promesso perché... è il mio destino. Ma voglio che me lo paghi bene questo servizio, colui. Vediamo un poco... — E voleva almanaccare cosa avrebbe potuto richiedergli di scabroso, per compenso, e quasi per pena; ma gli si attraversaron di nuovo alla mente quelle parole: compassione al Nibbio! — Come può aver fatto costei? — continuava, strascinato da quel pensiero. — Voglio vederla... Eh! no... Sì, voglio vederla. —
75-77. il raggio della luna... vetriate: questo scorcio di paesaggio può sembrare troppo minutamente descritto, specie per i particolari delle « grosse inferriate » e dei « piccoli compartimenti delle vetriate ». Ma in quell’attenzione, che si è posata immobile sulle cose minute, è da sentire l’anima dell’Innominato assorta in una fissità silenziosa, e su cui il sopraggiungere della notte
diffonde un misterioso senso di Dio. Del resto si tratta di un fenomeno psicologico che il Rigutini e il Mestica bene posero in evidenza: « Quando l’uomo è preoccupato di un pensiero profondo, gli avviene talvolta, durante la meditazione, di fissare lo sguardo sopra un oggetto qualunque e rivelarne minutamente le varie particolarità, come se quell’oggetto gl’interessasse. Ma la sua osservazione è macchinale: è l’occhio del corpo che fissa e si concentra in un solo oggetto, quasi per allontanare ogni altra causa di distrazione, e aiutare così quello della mente nella sua meditazione ». 78. Un qualche demonio, o... un qualche angelo: all’inizio della riflessione era solo un qualche « demonio »; dopo la pausa estatica, e sotto l’influsso misterioso della natura, può essere anche un « angelo ». È uno dei tanti segni del cambiamento che si va facendo inarrestabile. 82. Quell’animale di don Rodrigo...: anche nell’accentuarsi della disistima e del disprezzo nei riguardi di don Rodrigo c'è un
chiaro segno del cambiamento dell’Innominato. Poco fa col Nibbio aveva detto « quel don Rodrigo », mostrando già noia e stizza; ora lo chiama « animale »; fra poco, nel silenzio della notte, quando avrà davanti l’immagine di Lucia, si chiederà con l’accento sdegnoso d’un tempo: «e don Rodrigo?... Chi è don Rodrigo? ». Quell’avventura mezza galante e mezza prepotente, in cui don Rodrigo si è buttato a capofitto a danno d’una povera contadinella, senza avere da solo la capacità di riuscire in nulla, è destinata ad apparire all’Innominato sempre più meschina e disonorevole, man mano che l’innata onestà del suo animo selvaggio si libera dalla nebbia di cui le scellerataggini del passato l’avevano offuscata. 89-90. Eh! no... Sì, voglio vederla: dopo tanti z0, ecco il sì risolutivo. Con questo sì l’Innominato va incontro al primo strumento della sua redenzione, Lucia; con un altro sì, dopo una notte di tempesta, andrà incontro al secondo, il Cardinale. Ma questo di ora è il passo più difficile, più incerto, quello che pesa di più, che richiede una maggiore umiliazione, perché ancora la via del pentimento non è stata percorsa che in minima parte: e quel successivo andare d’una stanza in un’altra, e poi per una scaletta e su a tastone, paiono l’immagine di un camminar contro voglia, quasi che ad ogni passo ci sia una resistenza da vincere. Per queste correzioni (« no », « sì ») cfr. Cap. XX, n. 93-94,
capitolo XXI
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E d’una stanza in un’altra, trovò una scaletta, e su a tastone, andò alla camera della vecchia, e picchiò all’uscio con un calcio. « Chi è? » « Apri. » 95
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A quella voce, la vecchia fece tre salti; e subito si sentì scorrere il pa-
letto negli anelli, e l’uscio si spalancò. L’innominato, dalla soglia, diede un’occhiata in giro; e, al lume d’una lucerna che ardeva sur un tavolino, vide Lucia rannicchiata in terra, nel canto il più lontano dall’uscio. « Chi t'ha detto che tu la buttassi là come un sacco di cenci, sciagurata? » disse alla vecchia, con un cipiglio iracondo. « S'è messa dove le è piaciuto, » rispose umilmente colei: «io ho fatto per farle coraggio: lo può dire anche lei; ma non c’è stato verso. » tutto di « Alzatevi, » disse l’innominato a Lucia, andandole vicino. Ma Lucia, a cui il picchiare, l’aprire, il comparir di quell'uomo, le sue parole, avevan messo un nuovo spavento nell’animo spaventato, stava più che mai raggomitolata nel cantuccio, col viso nascosto tra le mani, e non movendosi, se non che tremava tutta.
« Alzatevi, ché non voglio farvi del male... e posso farvi del bene, » ripeté il signore... « Alzatevi! » tonò poi quella voce, sdegnata d’aver due volte
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comandato
invano.
Come rinvigorita dallo spavento, l’infelicissima si rizzò subito inginocchioni; e giungendo le mani, come avrebbe fatto davanti a un'immagine, alzò gli occhi in viso all’innominato, e riabbassandoli subito, disse: « son qui: m’am-
mazzi ».
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« V’ho detto che non voglio farvi del male, » rispose, con voce mitigata, l’innominato, fissando quel viso turbato dall’accoramento e dal terrore. « Coraggio, coraggio, » diceva la vecchia: «se ve lo dice lui, che non vuol farvi del male... » « E perché, » riprese Lucia con una voce, in cui, col tremito della paura,
92. con un calcio: non si creda un atto di prepotenza; come più sotto « con un cipiglio iracondo », è una maschera esteriore che vorrebbe coprire quella perdita della padronanza di sé, di cui l’Innominato ha sempre più chiara coscienza. Per questo egli fa il violento ed il burbero, anche più del necessario. 95. fece tre salti: abbiamo già detto che la vecchia costituisce il contrappunto comico in queste scene drammatiche: il saltellare di ora è una delle tante mosse buffe che creano questo comico. 105-106. raggomitolata: poco prima rannicchiata, poi accucciata, rincantucciata, tutta in un gomitolo...: l’occhio affettuoso del M. non cessa un momento di guardare l’umile creatura, affranta dal terrore. 113-114. son qui: m’ammazzi: queste parole di Lucia possono apparire esagerate, specie dopo quanto le aveva detto l’Innominato: « ... non voglio farvi del male... e posso farvi del bene ». Sono, invece, la spontanea effusione di uno stato d’incubo e d’in-
certezza, di cui Lucia non sa né può. rendersi conto. L’Innominato e la vecchia, burbero l’uno e orrida l’altra, le dicono di non
aver paura, che nessuno le farà del male: ma con tutto ciò la tengono prigioniera. E lei non sa né di chi né perché, né dov'è. Dall’assurdità di questo stato, nel suo animo di fanciulla sola e indifesa, quel « m’ammazzi » è proprio il grido più naturale. 115. V’ho detto... male: l’Innominato non ha raccolto il grido di Lucia, e svia il di‘ scorso. Subito dopo svia anche le domande che Lucia gli rivolge con l’indignazione disperata di una deduzione logica ed umana:
« Perché mi fa patire...? Cosa le ho fatto io? ». Così mentre in Lucia, pur nel terro-
re, ricompare quella logicità di ragionamento che abbiamo scoperto in lei in altre situazioni (si pensi, per esempio, alle sue obiezioni al tentativo del matrimonio clandestino: Cap. VI), nell’Innominato troviamo un’altra manifestazione del nuovo disagio interiore. L'atteggiamento, lo sguardo, le parole di Lucia già agiscono entro di lui.
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i promessi sposi
si sentiva una certa sicurezza dell’indegnazione disperata,« perché mi fa pa-
tire le pene dell’inferno? Cosa le ho fatto io?... » « V’hanno forse maltrattata? Parlate. » ) e « Oh maltrattata! M’hanno presa a tradimento, per forza! perché? perché m'hanno presa? perché son qui? dove sono? Sono una povera creatura: cosa le ho fatto? In nome di Dio... » « Dio, Dio, » interruppe l’inhominato: « sempre Dio: coloro che non possono difendersi da sé, che non hanno la forza, sempre han questo Dio da mettere in campo, come se gli avessero parlato. Cosa pretendete con codesta vostra parola? Di farmi...? » e lasciò cadere la frase a mezzo. « Oh Signore! pretendere! Cosa posso pretendere io meschina, se non che lei mi usi misericordia? Dio perdona tante cose, per un’opera di misericordia! Mi lasci andare; per carità mi lasci andare! Non torna conto a uno che un giorno deve morire di far patir tanto una povera creatura. Oh! lei che può comandare, dica che mi lascino andare! M’hanno portata qui per forza. Mi mandi con questa donna a ***, dov’è mia madre. Oh Vergine santissima! mia madre! mia madre, per carità, mia madre!
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Forse non è lontana
di qui... ho veduto i miei monti! Perché lei mi fa patire? Mi faccia condurre in una chiesa. Pregherò per lei, tutta la mia vita. Cosa le costa dire una parola? Oh ecco! vedo che si nìiove a compassione: dica una parola, la dica.
Dio perdona tante cose, per un’opera di misericordia! »
— Oh perché non è figlia d’uno di que’ cani che m'hanno bandito! —
pensava l’innominato: — d’uno di que’ vili che mi vorrebbero morto! che ora godrei di questo suo strillare; e in vece... — 120. sicurezza dell’indegnazione disperata: « indignazione disperatamente consapevole della violenza patita, del torto subito » (Caretti). E 126. Dio, Dio,... sempre Dio.,.: questa interruzione dell’Innominato si comprende meglio se ricordiamo che « quel Dio di cui aveva sentito parlare, ma che da gran tempo, non si curava di negare né di riconoscere [...] ora, in certi momenti d’abbattimento [...] gli pareva sentirlo gridar dentro di sé: Io sono però » (Cap. XX). Per questo le parole dell’Innominato non sono rivolte tanto
a Lucia quanto a quella voce interiore, che ora la fanciulla ha improvvisamente ridestata; ed è a questa voce, più che alla povera prigioniera, che in particolare vuol dire: « Cosa pretendete con codesta parola? Di farmi... paura? ». 130-140. Oh Signore!... un’opera di misericordia: questa supplica di Lucia all’Innominato costituisce un momento fra i più belli dell’incontro. In essa domina, al principio e alla fine, quella frase che, pronunziata ora da Lucia fra l’angoscia e la speranza, tra poco sentiremo risuonare, sempre più vigorosa e persuasiva, nell’animo dell’Innominato: «Dio perdona tante cose per un’opera di misericordia »: una frase « vaga — la definisce il De Sanctis — come un suono musicale, ma terribilmente concre-
ta per quell’uomo che si vede sbucare avanti tutta la serie dei suoi delitti ». Ma tutto in questa supplica è stupendo per la spontaneità, la semplicità, la forza con cui è detto: si guardi, in particolare, il ricordo di quei « monti» così naturalmente accostati al pensiero della « madre » e quindi della « chiesa »: tre immagini che, mentre danno a tutto il discorso una nota d’intensa e nostalgica poesia — viene alla mente l’elegiaco «Addio, monti sorgenti dall’acque... » (Cap. VIII) — costituiscono tanta parte della personalità di Lucia. Ci appare perciò del tutto incomprensibile quanto affermava il Tommaseo, a proposito di certe espressioni di questa preghiera: « Così non parla una villana ». Tutta naturale e opportuna è, invece, questa supplica: la quale, a ben guardare, ripete, com’era giusto, motivi e parole dell’implorazione di poche ore prima al Nibbio e ai bravi. 141. Oh perché non èfiglia...: quanto più la compassione, e con la compassione la forza della Grazia, agiscono sull’Innominato, tanto menò egli ci appare capace, di rispondere e di giustificare agli altri il suo comportamento. Perciò si perde, per così dire, in un soliloquio in cui le note dell’odio, pur fra l'accento superbo di un tempo, risuonano ormai smussate e inoffensive, miste a commozione e pietà.
capitolo XXI
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« Non iscacci una buona ispirazione! » proseguiva fervidamente 145
Lucia.
rianimata dal vedere una cert’aria d’esitazione nel viso e nel contegno del
suo tiranno. « Se lei non mi fa questa carità, me la farà il Signore: mi farà morire, e per me sarà finita; ma lei!... Forse un giorno anche lei... Ma no, no;
pregherò sempre io il Signore che la preservi da ogni male. Cosa le costa dire una parola? Se provasse lei a patir queste pene...! » « Via, fatevi coraggio, » interruppe l’innominato, con una dolcezza che fece strasecolar la vecchia. « V’ho fatto nessun male? V’ho minacciata? » « Oh no! Vedo che lei ha buon cuore, e che sente pietà di questa povera creatura. Se lei volesse, potrebbe farmi paura più di tutti gli altri, potrebbe farmi morire; e in vece mi ha... un po’ allargato il cuore. Dio gliene renderà merito. Compisca l’opera di misericordia: mi liberi, mi liberi. »
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« Domattina...
»
« Oh mi liberi ora, subito... » « Domattina ci rivedremo, vi dico. Via, intanto fatevi coraggio. Riposate. 160
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Dovete aver bisogno di mangiare. Ora ve ne porteranno. » ì « No, no; io moio se alcuno entra qui: io moio. Mi conduca lei in chie-
sa... que’ passi Dio glieli conterà. » « Verrà una donna a portarvi da mangiare, » disse l’innominato; e det165
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tolo, rimase stupito anche lui che gli fosse venuto in mente "un tal ripiego. e che gli fosse nato il bisogno di cercarne uno, per rassicurare una donnicciola. « E tu, » riprese poi subito, voltandosi alla vecchia, « falle coraggio che mangi; mettila a dormire in questo letto: e se ti vuole in compagnia, bene; altrimenti, tu puoi ben dormire una notte in terra. Falle coraggio, ti dico; tienla allegra. E che non abbia a lamentarsi di te! »
Così detto, si mosse rapidamente verso l’uscio. Lucia s’alzò e corse per trattenerlo, e rinnovare la sua preghiera; ma era sparito.
« Oh povera me! Chiudete, chiudete subito. » E sentito ch’ebbe accostare 147-149. Forse un giorno... queste pene...!: con elevato senso psicologico ha notato il Russo: «Si osservi la delicatezza di Lucia; le è scappata una frase terribile: forse un giorno anche lei... e subito si corregge, ma non per un’astratta obbedienza ad un insegnamento evangelico (ciò che ci raffredderebbe), ma per un rispetto alla sua stessa sofferenza. Quando si soffre profonda-
mente, non c'è da provare nessun alleggerimento ad augurare il male ai nostri nemici; in quei momenti lì, non c’è che accomunare gli altri al nostro dolore: se provasse
lei a patir queste pene... In questa possibile fraternità di un loro destino — fraternità che poi esiste di fatto, perché l’Innominato soffre pene analoghe — si suggella la pace fra la vittima e il suo carnefice ». 150-151. con una dolcezza... V'ho minacciata?: ormai l’Innominato è incapace di dominare la commozione. Due conseguenze naturalissime: quelle domande di ripiego, che hanno tutto il senso e il valore di una pro-
messa futura, e il « trasecolar » della vecchia, colpita dalla rapidità con cui la voce del padrone è passata dal tonare sdegnata all’esprimersi wmzifigata e, ora, al parlar con dolcezza. 152. lei ha buon cuore... sente pietà: parole di dolcezza ineffabile, a cui l’Innominato non era certamente avvezzo, e che pure nascondono tanto di vero. È per questo che servono, anch'esse, ad avvicinare ancora l’animo del fiero signore alla redenzione finale. Ed ecco quel suo « domattina », che è già impegno e vaga promessa; e poi quelle parole premurose: « Via, intanto fatevi coraggio. Riposate »; e infine il frettoloso «ripiego » della donna che verrà a portare da mangiare.
166. E tu...: le parole alla vecchia riprendono la durezza consueta del comando; ma è una durezza più ostentata che spontanea; è un tono soldatesco che serve al padrone per sbrigarsi ed uscire, ora che ha capito di non essere capace di resistere alle insistenze di Lucia.
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i battenti e scorrere il paletto, tornò a rannicchiarsi nel suo cantuccio. « Oh povera me! » esclamò di nuovo singhiozzando: « chi pregherò ora? Dove sono? Ditemi voi, ditemi per carità, chi è quel signore... quello che m'ha parlato? » o « Chi è, eh? chi è? Volete ch'io ve lo dica. Aspetta ch’io te lo dica. Perché vi protegge, avete messo su superbia; e volete esser soddisfatta voi, e farne andar di mezzo me. Domandatene a lui. S’io vi contentassi ‘anche in questo, non mi toccherebbe di quelle buone parole che avete sentite voi.» — Io son vecchia, son vecchia, — continuò, mormorando tra i denti. — Maledette le giovani, che fanno bel vedere a piangere e a ridere, e hanno sempre ragione. — Ma sentendo Lucia singhiozzare, e tornandole minaccioso alla mente il comando del padrone, si chinò verso la povera rincantucciata, e, con
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voce raddolcita, riprese: « via, non v’ho detto niente di male: state allegra. Non mi domandate di quelle cose che non vi posso dire; e del resto, state di buon animo. Oh se sapeste quanta gente sarebbe contenta di sentirlo parlare come ha parlato a voi! State allegra, che or ora verrà da mangiare; e io che capisco... nella maniera che v’ha parlato, ci sarà della roba buona. E poi anderete a letto, e... mi lascerete un cantuccino anche a me, spero, » soggiunse, con una voce, suo malgrado, stizzosa. « Non voglio mangiare, non voglio dormire. Lasciatemi stare; non v’accostate; non partite di qui! »
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« No, no, via, » disse la vecchia, ritirandosi, e mettendosi a sedere sur una seggiolaccia, donde dava alla poverina certe occhiate di terrore e d’astio insieme; e poi guardava il suo covo, rodendosi d’esserne forse esclusa per tutta la notte, e brontolando contro il freddo. Ma si rallegrava col pensiero
della cena, e con la speranza che ce ne sarebbe anche per lei. Lucia non s’avvedeva del freddo, non sentiva la fame, e come sbalordita, non aveva de’ suoi dolori, de’ suoi terrori stessi, che un sentimento confuso, simile al-
l’immagini sognate da un febbricitante. Si riscosse quando sentì picchiare; e, alzando la faccia atterrita, gridò: « chi è? chi è? Non venga nessuno! » 177. Chi è, eh? chi è?: finito il dramma,
viene la commedia, con quell’accorto alternarsi di motivi e di toni che è caratteristica del senso del reale e dell’umano che pervade tutto il romanzo. Il M., dopo averci portato al colmo della tensione, vuole darci ora, per così dire, qualche momento di reléche, pri
ma di nuove e più forti tensioni drammatiche. In questo sta dunque, sul piano attistico, la funzione della vecchia, il cui ribollimento di stizza e di pigrizia emerge ed esplode ora in un contrasto vivacemente umoristico con tutta la scena precedente. — Qualche critico nel « tono scherzoso di creditrice » della vecchia nei riguardi di Lucia, per la quale deve sacrificare tranquillità e comodi, vede un po’ del don Abbondio brontolone e creditore anche lui, a suo giudizio, nei riguardi, per esempio, di Renzo (si ricordi il Come eh? come? ecc., del
cap. II).
192-193. non v’accostate; non partite di
qui!: sembrano parole incoerenti. Sono, invece, di una naturalezza assoluta, se pensiamo alla disperazione di Lucia; e rivelano, come tante altre, quanto il Manzoni conosca le contraddizioni dell'animo umano. Qui, due sentimenti opposti e pure spontanei: ripugnanza per la vecchia, terrore della solitudine. 195. occhiate di terrore e d’astio: di ferrore, pensando alle parole minacciose con cui il padrone le aveva affidato Lucia; di astio, rimuginando sulla « dolcezza » con cui l’Innominato aveva parlato alla ragazza e sui riguardi che le dimostrava. Ma l’astio ha anche un’origine più lontana: Lucia è giovane e «le giovani,... fanno bel vedere a piangere e a ridere... ». La vecchia è tanto ottusa e insensibile, che da tutto il colloquio, a cui è stata presente, ha dedotto soltanto. che il padrone sarebbe rimasto conquistato dall’avvenenza della prigioniera!
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« Nulla, nulla; buone nuove, » disse la vecchia: «è Marta che porta da mangiare. » « Chiudete, chiudete! » gridava Lucia. « Ih! subito, subito, » rispondeva la vecchia; e presa una paniera dalle mani di quella Marta, la mandò via, richiuse, e venne a posar la paniera sur una tavola nel mezzo della camera. Invitò poi più volte Lucia che venisse a goder di quella buona roba. Adoprava le parole più efficaci, secondo lei, a mettere appetito alla poverina, prorompeva in esclamazioni sulla squisitezza de’ cibi: « di que’ bocconi che, quando le persone come noi possono arrivare a assaggiarne, se ne ricordan per un pezzo! Del vino che beve il padrone co’ suoi amici... quando capita qualcheduno di quelli...! e vogliono stare allegri!
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Ehm! » Ma vedendo non volete », disse. « raggio. Mangerò io; metterete giudizio, e
che tutti gl’incanti riuscivano inutili, « siete voi che Non istate poi a dirgli domani ch’io non v’ho fatto coe ne resterà più che abbastanza per voi, per quando vorrete ubbidire. » Così detto, si mise a mangiare avi-
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Lucia, l’invitò di nuovo a mangiare, per andar poi a letto. « No, no, non voglio nulla, » rispose questa, con voce fiacca e come sonnolenta. Poi, con più risolutezza, riprese: «è serrato l’uscio? è serrato bene? » E dopo aver guardato in giro per la camera, s’alzò, e, con le mani avanti, con passo sospettoso, andava verso quella parte. La vecchia ci corse prima di lei, stese la mano al paletto, lo scosse, e dis-
damente. Saziata che fu, s’alzò, andò verso il cantuccio, e, chinandosi sopra
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se: « sentite? vedete? è serrato bene? siete contenta ora? »
« Oh contenta! contenta io qui! » disse Lucia, rimettendosi di nuovo nel suo cantuccio. « Ma il Signore lo sa che ci sono! » « Venite a letto: cosa volete far lì, accucciata come un cane? S'è mai vi230
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si possono avere? » » Ecco, io vi lascio il posto buono: mi metto per voi. Se volete venire a letto, sapete come v’ho pregata più volte. » Così dicendo, si cacciò sotto vestita; e tutto tacque.
sto rifiutare i comodi, quando « No, no; lasciatemi stare. « Siete voi che lo volete. sulla sponda; starò incomoda avete a fare. Ricordatevi che
Lucia stava immobile in quel cantuccio, tutta in un gomitolo, con le gi-
204. è Marta: conoscendo ormai la cura del M. nello scegliere i nomi dei personaggi, anche minori, non si può dare torto a quanti, ricordando la Marta evangelica che preparava il desinare a Gesù, vedono in questa fugace figura femminile una specie di testimonianza che anche nel castellaccio dell’Innominato c'erano altre donne meno ottuse e meno insensibili della vecchia. Un po’ di luce spirituale, dunque, fra tante tenebre: come, ad un di presso, con l'anziano servitore nel palazzotto di don Rodrigo (Capitoli V e VI). 218-219. si mise a mangiare avidamente: è la conclusione realistica e grottesca di tutte le cose dette o pensate dalla vecchia, che nell’esaltazione della squisitezza dei cibi dimentica ogni affanno, e perde la stizza. È il colmo della comicità.
228. Ma il Signore lo sa che ci sono!: queste parole, mentre esprimono la pienezza
della fiducia in Dio, segnano definitivamente la distanza morale fra la vecchia e Lucia: l’una non vive che agognando i comodi della terra, e per essi si tormenta e si ‘strugge; l’altra, anche nei momenti più angosciosi, sente di poter contare su di un bene più grande, su di una forza che viene dal cielo e che non delude. 235. e tutto tacque: la pausa bene sottolinea l’assoluto silenzio e prepara la nuova scena. 236. Lucia stava immobile...: si apre una pagina sublime. La sicura conoscenza dell’animo umano, e la commossa partecipazione alle vicende della protagonista prediletta suggeriscono all’arte del M. una descrizione precisa e poetica del vario e com-
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î promessi sposi
nocchia alzate, con le mani appoggiate sulle ginocchia, e col viso nascosto nelle mani. Non era il suo né sonno né veglia, ma una rapida successione, una
torbida vicenda di pensieri, d’immaginazioni, di spaventi. Ora, più presente 240
a sé stessa, e rammentandosi più distintamente gli orrori veduti e sofferti in quella giornata, s’applicava dolorosamente
alle circostanze dell’oscura € for-
midabile realtà in cui si trovava avviluppata; ora la mente, trasportata in una regione ancor più oscura, si dibatteva contro i fantasmi nati dall’incertezza e dal terrore. Stette un pezzo in quest’angoscia; alfine, più che mai stanca e 245
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abbattuta, stese le membra intormentite, si sdraiò, o cadde sdraiata, e rimase
alquanto in uno stato più somigliante a un sonno vero. Ma tutt’a un tratto si risentì, come a una chiamata interna, e provò il bisogno di risentirsi interamente, di riaver tutto il suo pensiero, di conoscere dove fosse, come, perché. Tese l’orecchio a un suono: era il russare lento, arrantolato della vec chia; spalancò gli occhi, e vide un chiarore fioco apparire e sparire a vicenda: era il lucignolo della lucerna, che, vicino a spegnersi, scoccava una luce tremola, e subito la ritirava, per dir così, indietro, come è il venire e l’andare dell’onda sulla riva: e quella luce, fuggendo dagli oggetti, prima che prendessero da essa rilievo e colore distinto, non rappresentava allo sguardo che una successione di guazzabugli. Ma ben presto le recenti impressioni, ricomparendo nella mente, l’aiutarono a distinguere: ciò che appariva confuso al senso. L’infelice risvegliata riconobbe la sua prigione: tutte le memorie del-
l’orribil giornata trascorsa, 260
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tutti i terrori dell’avvenire, l’assalirono
in una
volta: quella nuova quiete stessa dopo tante agitazioni, quella specie di riposo, quell’abbandono in cui era lasciata, le facevano un nuovo spavento: e fu vinta da un tale affanno, che desiderò di morire. Ma in quel momento, si rammentò che poteva almen pregare, e insieme con quel pensiero, le spuntò in cuore come un’improvvisa speranza. Prese di nuovo la sua corona, e ricominciò a dire il rosario; e, di mano in mano che la preghiera usciva dal suo labbro tremante, il cuore sentiva crescere una fiducia indeterminata. Tutt’a un tratto, le passò per la mente un altro pensiero; che la sua orazione sarebbe stata più accetta e più certamente esaudita, quando, nella sua desolazione, facesse anche qualche offerta. Si ricordò di quello che aveva di più caro, o che di più caro aveva avuto; giacché, in quel momento, l’animo suo
plesso svolgersi dello stato di Lucia: la quale — nella penombra della camera e al mo-notono russare della vecchia — passerà da un tormentoso dormiveglia ad un improvviso risveglio, dalla presa di coscienza alla decisione del voto, per abbandonarsi, infine, ad un «sonno perfetto e continuo ». 251-255. era il lucignolo... guazzabugli: questa descrizione di luce morente non ha solo valore in se stessa, come mirabile ricostruzione di un fenomeno colto con perfezione di termini, ma anche come profonda interpretazione dell’animo di Lucia. Si guardi, in particolare, come l’immagine del « venire » e dell’« andare » dell’onda sulla riva s’accordi con la « successione » e la « vicenda » dei pensieri e dei fantasmi notturni nel cuore della giovane. — Questo lucigholo
che « scoccava una luce tremola » può richiamare alla mente quell’altro che, dopo il fallito tentativo del matrimonio in casa di don Abbondio, morendo per terra, « mandava una luce languida e saltellante » (Capitolo VIII). C'è, qua come là, una certa nota romantica: ma di un romanticismo molto misurato e pacato. 261. desiderò di morire: anche l’Innominato, fra non molto, vorrà « farla finita ». Ma dal fondo della disperazione verrà, per l’uno e per l’altra, « valida una man dal Cielo », e trasporterà ambedue «in più spirabil aere» (Cinque maggio). Il fondamentale motivo manzoniano della fede, che soccorre e dà nuova fiducia e nuova vita, trova in queste pagine una delle sue più poetiche e appassionate espressioni.
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non poteva sentire altra affezione che di spavento, né concepire altro desiderio che della liberazione; se ne ricordò, e risolvette subito di farne un sacrifizio. S'alzò, e si mise in ginocchio, e tenendo giunte al petto le mani,
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dalle quali pendeva la corona, alzò il viso e le pupille al cielo, e disse: «o Vergine santissima! Voi, a cui mi sono raccomandata tante volte, e che tante volte m’avete consolata! Voi che avete patito tanti dolori, e siete ora tanto gloriosa, e avete fatti tanti miracoli per i poveri tribolati; aiutatemi! fatemi uscire da questo pericolo, fatemi tornar salva con mia madre, Madre del Signore; e fo voto a voi di rimaner vergine; rinunzio per sempre a quel mio poveretto, per non esser mai d’altri che vostra. » Proferite queste parole, abbassò la testa, e si mise la corona intorno al collo, quasi come un segno di consacrazione, e una salvaguardia a un tempo, come un’armatura della nuova milizia a cui s’era ascritta. Rimessasi a sedere in terra, sentì.entrar nell'animo una certa tranquillità, una più larga fiducia. Le venne in mente quel domattina ripetuto dallo sconosciuto potente, e le parve di sentire in quella parola una promessa di salvazione. I sensi affaticati da tanta guerra s’assopirono a poco a poco in quell’acquietamento di pensieri: e finalmente, già vicino a giorno, col nome della sua protettrice tronco tra le labbra, Lucia s’addormentò d’un sonno perfetto e continuo. Ma c’era qualchedun altro in quello stesso castello, che avrebbe voluto fare altrettanto, e non poté mai. Partito, o quasi scappato da Lucia, dato l’ordine per la cena di lei, fatta una consueta visita a certi posti del castello, sempre con quell'immagine viva nella mente, e con quelle parole risonanti all’orecchio, il signore s’era andato a cacciare in camera, s'era chiuso dentro in
278. e fo voto a voi...: al voto si arriva attraverso una preghiera che è un costante crescendo di fiducia, di dedizione, di rasserenamento. Così il momento decisivo dell’offerta giunge naturale, perché è naturale che Lucia, per l’intensità del suo senso reli-
gioso della vita e per la gravità della situazione in cui si trova, senta doveroso per sé
ricambiare l’aiuto divino con l’offerta di quanto ha di più caro. Due espressioni, su tutte, sono particolarmente delicate in questa preghiera alla Vergine: quell’accostamento spontaneo in cui il divino pare piegarsi sull’umano, « mia madre, Madre del Signore », e il ricordo di « quel mio poveretto », ove ogni parola dice quanto vivo sia l’affetto e sofferta sia la rinuncia. 288. un sonno perfetto e continuo: in questo sonno, che viene dopo la preghiera ed il voto, qualcuno vede un «premio e dono » che scende dal Cielo come preannunzio di un avvenire migliore. A questa interpretazione sembrano contribuire i famosi versi della Pentecoste: « Ne’ languidi Pensier dell’infelice Scendi piacevol alito, Aura consolatrice ». Tuttavia ci sembra molto giusto anche il pensiero di quanti in quel sonno vedono « l’effetto consolante » della fede: una fede nell’aiuto di Dio, che Lucia ha talmente assoluta, che l’offerta di ciò che
ha di più caro e la consacrazione di tutta se stessa costituiscono per lei già un pegno dell’assistenza celeste. 289. Ma c’era qualchedun altro...: dopo la notte di Lucia, ecco la notte dell’Innominato. Come per Lucia tornavano alla mente alcuni versi della Pentecoste, così ora vengono alla mente gli altri, che ad essi sono strettamente uniti, e che invocano la discesa dello Spirito Santo sul cuore dell’uomo prepotente: « Scendi bufera ai tumidi Pensier del violento, Vi spira uno sgomento Che insegni la pietà ». E la Grazia scenderà definitivamente, fra breve, anche sull’Innominato, proprio attraverso la più sconvolgente bufera del cuore. — In tal modo questo capitolo rappresenta, in un certo sen‘so, il culmine del romanzo: perché proprio là, dove la protagonista avrebbe dovuto per sempre soccombere, essa si innalza a strumento ultimo della salvezza del suo oppressore; e il racconto, pur fra tante nuove peripezie, tenderà ormai, da qui in avanti, verso una conclusione serena. 291-292. sempre con quell’immagine: Lucia durante tutta la notte resterà per l’Innominato il punto fisso di riferimento, il richiamo costante della sua coscienza: totmento, insieme, e speranza. Non deus ex ma- . china, ma stimolo e conforto alla conversione.
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fretta e in furia, come se avesse avuto a trincerarsi contro una squadra di nemici; e spogliatosi, pure in furia, era andato a letto. Ma quell’immagine, più che mai presente, parve che in quel momento gli dicesse: tu non dormirai. — Che sciocca curiosità da donnicciola, — pensava, — m'è venuta di vederla? Ha ragione quel bestione del Nibbio; uno non è più uomo; è vero, non è più uomo!... Io?... io non son più uomo, io? Cos'è stato? che diavolo m’è venuto addosso? che c’è di nuovo? Non lo sapevo io prima d’ora, che le donne strillano? Strillano anche gli uomini alle volte, quando non si possono rivoltare. Che diavolo! non ho mai sentito belar donne? —_ E qui, senza che s’affaticasse molto a rintracciare nella memoria, la memoria da sé gli rappresentò più d’un caso in cui né preghi né lamenti non
l'avevano punto smosso del compire le sue risoluzioni. Ma la rimembranza di tali imprese, non che gli ridonasse la fermezza, che già mancava, di compir questa; non che spegnesse nell’animo quella molesta pietà; vi destava in vece una specie di terrore, una non so qual rabbia di pentimento. Di maniera che gli parve un sollievo il tornare a quella prima immagine di Lucia, contro la
quale aveva cercato di rinfrancare il suo coraggio. — È viva costei, — pen: sava, — è qui; sono a tempo; le posso dire: andate, rallegratevi; posso ve
der quel viso cambiarsi, le posso anche dire: perdonatemi... Perdonatemi? io domandar perdono? a una donna? io...! Ah, eppure! se una parola, una parola tale mi potesse far bene, levarmi d’addosso un po’ di questa diavoleria, la direi; eh! sento che la direi. A che cosa son ridotto! Non son più uomo, non son più uomo!... Via! — disse poi, rivoltandosi arrabbiatamente nel letto divenuto duro duro, sotto le coperte divenute pesanti pesanti: — via! son sciocchezze che mi son passate per la testa altre volte. Passerà anche questa. — E per farla passare, andò cercando col pensiero qualche cosa importante, qualcheduna di quelle che solevano occuparlo fortemente, onde applicarvelo tutto; ma non ne trovò nessuna. Tutto gli appariva cambiato: ciò che altre 299. non son più uomo, io?: no, non è più l’uomo sanguinario e violento di tutta la vita passata: il vecchio uomo sta ormai crollando in lui, e il nuovo avanza, sia pur faticosamente, di momento in ‘momento. È arte grande del M. questo farci percepire la drammatica naturalezza del duplice processo. 305-308. Ma la rimembranza... pentimento: il dramma dell’Innominato ha due poli: il presente e il passato. La stizza e la paura del presente lo spingono a cercare rifugio nel passato: ma il passato, con le sue memorie e i suoi rimorsi, lo atterrisce. Allora egli torna al presente e vede che c’è una strada, una sola, per trovare la pace: quella di umiliare se stesso liberando la prigioniera. Ma qui il superbo signore si arresta: « io domandar perdono? a una donna? ». L’uomo vecchio è duro a morire, 318-319. son sciocchezze... anche questa: lo sappiamo che l’Innominato già da tempo aveva cominciato «a provare, se non un rimorso, una cert’uggia delle sue scelleratez-
ze » (Cap. XX). Tornando ad insistere su questo motivo, il M. vuol render chiaro che la conversione dell’Innominato è il frutto di un lento travaglio interiore, e che quindi la presenza di Lucia viene a costituire solo l’ultima spinta in un processo ormai avviato da tempo. 320. andò cercando col pensiero...: risultato tutto vano ed ostile il ritorno al passato, l’Innominato cerca rifugio nel futuro. Ma l’esito è lo stesso, anzi più opprimente e angoscioso: e anche questa volta, se votrà trovare un conforto sicuro, dovrà tornare al presente, a Lucia, all'idea di liberarla. 322. non ne trovò nessuna: qui alcuni critici vedono il motivo della solitudine e del nulla, e lo ricollegano a tanta parte della spiritualità e dell’arte del Romanticismo del primo Ottocento. Ma, mentre potremmo aggiungere che nel senso del nulla e dell’angoscia c'è anche tanta parte dell’uomo moderno, assillato dalla noia e dal vuoto, si deve osservare che il M. non si ferma ad un’amara constatazione di nichilismo: egli
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volte stimolava più fortemente i suoi desidèri, ora non aveva più nulla di desiderabile: la passione, come un cavallo divenuto tutta un tratto restìo per un’ombra, non voleva più andare avanti. Pensando all’imprese avviate e non finite, in vece d’animarsi al compimento, in vece d’irritarsi degli ostacoli (ché l’ira in quel momento gli sarebbe parsa soave), sentiva una tristezza, quasi uno spavento de’ passi già fatti. Il tempo gli s’affacciò davanti voto d’ogni intento, d’ogni occupazione, d’ogni volere, pieno soltanto di memorie intollerabili; tutte l’ore somiglianti a quella che gli passava così lenta, così pesante
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comandare a nessuno di loro una cosa che gl’importasse; anzi l’idea di rivederli, di trovarsi tra loro, era un nuovo peso, un’idea di schifo e d’impiccio. E se volle trovare un’occupazione per l'indomani, un’opera fattibile, dovette pensare che all'indomani poteva lasciare in libertà quella poverina.
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andate, andate. ,Rodrigo?... Chi A guisa di d’un superiore,
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sul capo. Si schierava nella fantasia tutti i suoi malandrini, e non trovava da
—
La libererò, sì; appena
spunta il giorno, correrò da lei, e le dirò:
La farò accompagnare... E la promessa? e l’impegno? e don è don Rodrigo? — chi è colto da una interrogazione inaspettata e imbarazzante l’innominato pensò subito a rispondere a questa che s’era
fatta lui stesso, o piuttosto quel nuovo /ui, che cresciuto terribilmente a un
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tratto, sorgeva come a giudicare l’antico. Andava dunque cercando le ragioni per cui, prima quasi d’esser pregato, s’era potuto risolvere a prender l’impegno di far tanto patire, senz’odio, senza timore, un’infelice sconosciuta, per servire colui; ma, non che riuscisse a trovar ragioni che in quel momento gli paressero buone a scusare il fatto, non sapeva quasi spiegare a sé stesso come ci si fosse indotto. Quel volere, piuttosto che una deliberazione, era stato un movimento istantaneo dell'animo ubbidiente a sentimenti antichi, abituali,
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una conseguenza di mille fatti antecedenti; e il tormentato esaminator di sé stesso, per rendersi ragione d’un sol fatto, si trovò ingolfato nell’esame di tutta la sua vita. Indietro, indietro, d’anno in anno, d’impegno in impegno,
di sangue in sangue, di scelleratezza in scelleratezza: ognuna ricompariva al-
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l’animo consapevole e nuovo, separata da’ sentimenti che l’avevan fatta volere e commettere; ricompariva con una mostruosità che que’ sentimenti non avevano allora lasciato scorgere in essa. Eran tutte sue, eran lui: l’otrore di quevuole anche dirci che basterà che l’uomo cessi di rifiutare Dio, perché la sua vita si riempia di un significato consolante ed eterno. Sarà la vicenda prossima dell’Innominato. 336. La libererò... correrò da lei...: quanta alacrità in queste parole interiori, quanta speranza in un domani sereno! 337-338. e don Rodrigo?... Chi è don Rodrigo?: nelle due domande — la prima esitante e sospettosa, decisa e sprezzante la seconda — è la sintesi dell’estrema lotta fra l’uomo antico, ancora legato a tutto un mondo di intrighi e di colpe, e l’uomo nuovo, che vede la salvezza solo nella capacità di sapet spezzare d’un colpo tutto quel mondo. 351. Indietro, indietro...: siamo al momento più drammatico e più commovente di questa notte. Il periodo procede cadenzato
e lento, rimarcando sempre più l’atmosfera di incubo che si forma intorno al personaggio, con tutto il peso di colpe che non hanno fine e che, ciascuna con la sua « mostruosità », si schierano dinanzi ad un animo « consapevole e nuovo ». 355-358. Eran... la staccò, e...: raggiunta la percezione più lucida ed esasperata delle colpe di tutta l’esistenza, la mente atterrita si volge di scatto alla decisione che sembra dare l’unica risoluzione possibile: il suicidio. Così anche il M. arriva al motivo tanto caro alla letteratura romantica, quello della disperazione e del suicidio. Ma ciò che dà a questa pagina manzoniana valore di poesia è soprattutto il realismo drammatico della sospensione che frena la mano dell’Innominato. In tal modo si riprende magistralmente quell’ondeggiamento che da ore ed
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sto pensiero, rinascente a ognuna di quell’immagini, attaccatoa tutte, crebbe
fino alla disperazione. S’alzo in furia a sedere, gettò in furia le mani alla
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parete accanto al letto, afferrò una pistola, la staccò, e... al momento di finire una vita divenuta insopportabile, il suo pensiero sorpreso da un terrore, da un’inquietudine, per dir così, superstite, si slanciò nel tempo che pure conti-
nuerebbe a scorrere dopo la sua fine. S'immaginava con raccapriccio il suo
cadavere sformato, immobile, in balìa del più vile sopravvissuto; la sorpresa, la confusione nel castello, il giorno dopo: ogni cosa sottosopra; lui, senza forza, senza voce, buttato chi sa dove. Immaginava i discorsi che se ne sarebber fatti lì, d’intorno, lontano; la gioia de’ suoi nemici. Anche le tenebre, anche il silenzio, gli facevan veder nella morte qualcosa di più tristo, di spaventevole; gli pareva che non avrebbe esitato, se fosse stato di giorno, all’aperto, in faccia alla gente: buttarsi in un fiume e sparire. E assorto in queste contemplazioni tormentose, andava alzando e riabbassando, con una forza convulsiva del pollice, il cane della pistola; quando gli balenò in mente un altro pensiero. — Se quell’altra vita di cui m’hanno parlato quand’ero ragazzo, di cui parlano sempre, come se fosse cosa sicura; se quella vita non c’è, se è un’invenzione de’ preti; che fo io? perché morire? cos’importa quello che ho fatto? cos’importa? è una pazzia la mia... E se c’è quest'altra vita...! — A un tal dubbio, a un tal rischio, gli venne addosso una disperazione più nera, più grave, dalla quale‘ non si poteva fuggire, neppur con la morte. La-
sciò cader l’arme, e stava con le mani ne’ capelli, battendo i denti, tremando.
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Tutt’a un tratto, gli tornarono in mente parole che aveva sentite e risentite, poche ore prima: — Dio perdona tante cose, per un’opera di misericordia! —
E non gli tornavan già con quell’accento d’umile preghiera, con cui erano
ore assillava il personaggio, e la lotta fra l’uomo antico e l’uomo nuovo potrà giungere all’ultimo sbocco: « E se c’è quest’altra vita...! ». 361-365. S’immaginava... nemici: in questo vedere se stesso, nella prospettiva dell’eternità, abbandonato in balia degli altri, e contemporaneamente
nel sentire una
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pulsa a quella visione, ricompare il carattere orgoglioso e fiero dell'uomo che non è stato mai soggetto a nessuno. 373-374. cos'importa quello che ho fatto?: per un attimo ancora l’uomo antico rialza la testa e vorrebbe affermare i suoi diritti. Ma subito dopo ben più salda è la voce del nuovo, che, pur nell’ipotesi, afferma già una realtà misteriosa: «E se c'è quest'altra vita! ». 377-378. Lasciò cader l’arme... tremando: la disperazione ha raggiunto il culmine e insieme la perfezione, sotto il tormento del dubbio dell’eternità e di un giudizio divino. Si rifletta chi è l’uomo che ora sta «con le mani ne’ capelli, battendo i denti, tremando ». 379-386. Tutt’a un tratto... grazie e consolazioni: in questo momento di sollievo c'è la vera e definita svolta dell’animo dell’Inno-
minato, che, in seguito all’intenerimento del cuore, viene distolto dall’estrema catastrofe. Qui Lucia, ora povera prigioniera rannicchiata in un angolo di camera buia, grandeggia in tutta la luce di ministra della Grazia, e le sue parole assumono un valore trascen-
dente. Ma ancor più che all’effetto di quelle sue parole « Dio perdona tante cose per una opera di misericordia », occorre badare, secondo la concezione cattolica, al valore dell’atto di offerta compiuto da Lucia: il sacri-
ficio che ella ha fatto di tutta la sua vita,
attraverso il misterioso legame della comunione dei Santi — che unisce i fedeli nella chiesa universale, nel mistico corpo di Cristo (cfr. Cap. XXIII, n. 159-164) —, è valorizzato da Dio come mezzo per la redenzione del tiranno. Ma di tutto questo, costui non sa niente; e da grande artista il M. non l’ha espressamente accennato: gli è bastato attribuire la visione di Lucia «in atto di chi dispensa grazie e consolazioni » alla fantasia accesa dell’Innominato. Davvero le virtù del rispetto e della discrezione, così tipiche del M. uomo e del M. poeta (si pensi a certe scene dell'Adelchi), s'incontrano in questo episodio in una delle forme più delicate.
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state proferite; ma con un suono pieno d’autorità e che insieme induceva una lontana speranza. Fu quello un momento di sollievo: levò le mani dalle tempie, e, in un'attitudine più composta, fissò gli occhi della mente in colei da cui aveva sentite quelle parole; e la vedeva, non come la sua prigioniera, non come una supplichevole, ma in atto di chi dispensa grazie e consolazioni. Aspettava ansiosamente il giorno, per correre a liberarla, a sentire dalla bocca di lei altre parole di refrigerio e di vita; s’immaginava di condurla lui stesso alla madre. — E poi? che farò domani, il resto della giornata? che farò doman l’altro? che farò dopo doman l’altro? E la notte? la notte, che tornerà tra dodici ore! Oh la notte! no, no, la notte! — E ricaduto nel vòto penoso dell’avvenire, cercava indarno un impiego del tempo, una maniera di passare i giorni, le notti. Ora si proponeva d’abbandonare il castello, e d’andarsene in paesi lontani, dove nessun lo conoscesse, neppur di nome; ma sentiva che lui, lui sarebbe sempre con sé: ora gli rinasceva una fosca speranza di ripigliar l’animo antico, le antiche voglie; e che quello fosse come un delirio passeggiero; ora temeva il giorno, che doveva farlo vedere a’ suoi così miserabilmente mutato; ora lo sospirava, come se dovesse portar la luce anche ne’ suoi pensieri. Ed ecco, appunto sull’albeggiare, pochi momenti dopo
che Lucia s'era addormentata, ecco che, stando così immoto a sedere, sentì
arrivarsi all'orecchio come un’onda di suono non bene espresso, ma che purè aveva 405
non
so che d’allegro. Stette attento, e riconobbe uno
scampanare
a
festa lontano; e dopo qualche momento, sentì anche l’eco del monte, che ogni tanto ripeteva languidamente il concento, e si confondeva con esso. Di lì a poco, sente un altro scampanìo più vicino, anche quello a festa; poi un altro. — Che allegria c'è? cos’hanno di bello tutti costoro? — Saltò fuori da quel covile di pruni; e vestitosi a mezzo, corse a aprire una finestra, e
guardò. Le montagne eran mezze velate di nebbia; il cielo, piuttosto che
389. E poi?: questo andare subito al pensiero del domani, di tutta la vita ancora dinanzi, è di una verità psicologica grandissima. D’altra parte la conversione non sarebbe completa se, rinnegato il passato, non costruisse un nuovo avvenire.
399. Ed ecco, appunto sull’albeggiare...: « senti — nota un delicato manzonista — che è non solo alba sui monti, ma alba sull’anima, sui pensieri. Un po’ d’aurora nell’orrore delle tenebre. Un giorno che rispunta, un’anima che rinasce ». Ma, anche qui, com’è discreto il M.: lascia a noi di pensare e sentire tutto questo. Da parte sua nessun colore ricercato, nessuna nota suggestiva: anche se l’atmosfera assume un senso allegorico, tutto resta nel reale. 399-400. pochi momenti dopo che Lucia s'era addormentata: in questo inciso — anch’esso, del resto, così discreto e quasi inavvertibile — qualcuno vede un segno di costruzione artificiosa nella conversione dell’Innominato: cioè, un troppo studiato parallelismo tra il rasserenamento di Lucia, dopo il voto, e la pacificazione dell’anima sconvolta dell’Innominato: e quindi trop-
po scoperta apparitebbe l’opera della Prov-
videnza. È logico, invece, che tutte queste
impressioni crollino se ripensiamo, come abbiamo accennato poco fa, alla concezione cattolica della comunione dei Santi, a quel flusso di bene e di Grazia che misteriosamente, ma sicuramente, scorre fra uomo e uomo. Vedi n. 379-386. 400-401. sentì arrivarsi... un’onda di suono...: il nuovo ritmo della prosa, fattosi d’un tratto, da martellato e ossessivo, aperto e disteso, bene accompagna l’« onda del «suono » e rende efficacemente il motivo del-
la serenità nuova, che è diffusa nell’aria e
che sta per penetrare nel cuore del peccatore. 408. Le montagne...:
i
è uno dei momenti
più sublimi di tutto il romanzo e costituisce la terza nota paesistica dell’episodio: la più tenera e densa di umanità. Al tramonto l’Innominato aveva sollevato gli occhi verso un cielo le cui nubi ‘divenivano di fuoco; nella notte un raggio di luna, entrando da un'alta’ finestra, aveva disegnato un momento di estatica fissità, un quadrato di luce pallida; ora si scorgono, in un’alba
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nuvoloso, era tutto una nuvola cenerognola; ma, al chiarore che pure andava a poco a poco crescendo, si distingueva, nella strada in fondo alla valle, gente che passava, altra che usciva dalle case, e s’avviava, tutti dalla stessa parte, verso lo sbocco, a destra del castello, tutti col vestito delle feste, e con un alacrità straordinaria. — Che diavolo hanno:costoro? che c’è d’allegro in questo maledetto
paese? dove va tutta quella canaglia? — E data una voce a un bravo fidato che dormiva in una stanza accanto, gli domandò qual fosse la cagione di quel movimento. Quello, che ne sapeva quanto lui, rispose che anderebbe subito a informarsene. Il signore rimase appoggiato alla finestra, tutto intento al mobile spettacolo. Erano uomini, donne, fanciulli, a brigate, a coppie, soli; uno, raggiungendo chi gli era avanti, s'accompagnava con lui; un altro, uscendo di casa, s'univa col primo che rintoppasse; e andavano insieme, come amici a un viaggio convenuto. Gli atti indicavano manifestamente una fretta e una gioia comune; e quel rimbombo non accordato ma consentaneo delle varie campane, quali più, quali meno vicine, pareva, per dir così, la voce di que’ gesti, e il supplimento delle parole che non potevano arrivar lassù. Guardava,
guardava; e gli cresceva in cuore una più che curiosità di saper cosa mai potesse comunicare un trasporto uguale a tanta gente diversa. cinerognola,
le montagne
mezze
velate di
nebbia. Così, mentre, riflessa nelle luci del cielo, viene segnata la vicenda di una notte dal tramonto all’aurora, viene anche cadenzata la vicenda di un’anima verso la salvezza, lungo un cammino sofferto, ma or-
mai arriso da una luce lontana. 414-415. Che diavolo... quella canaglia?: ci sembra udire e vedere la grinta dell’uomo vecchio; è, invece, l’estrema lacerazione che
Scheda
un’anima disfatta patisce quando ha di fronte i degli altri. 425-426. Guardava, guardava: nell’estatica fissità s'incontrano misteriosamente il tormento di tutta una vita e l’ansia di un nuovo mattino. Stupenda pennellata, che chiude con. una pausa di attesa, vibrante insieme e raccolta, alcune delle pagine più altamente drammatiche e poetiche di qualunque letteratura.
critica ai capp. XX e XXI Nei testi degli storici lombardi del secolo XVII il Manzoni trovava il racconto delle gesta brigantesche e della successiva conversione di Francesco Bernardino Visconti, così come in precedenza vi aveva trovato quello della forzata monacazione e della carriera delittuosa di Marianna de Leyva. È probabile. anche che proprio l'incontro con queste e altrettali proposte di personaggi e situazioni narrative, insieme con la lettura degli stolti e vani decreti dei magistrati :annonari per fronteggiare la carestia e delle gride contro le prepotenze dei signorotti e contro i bravi, avessero gran parte nel sollecitare la fantasia dello scrittore e suggerire la linea direttiva e l'intelaiatura del romanzo. | due più importanti personaggi « storici» del libro — l'Innominato e la monaca di Monza — nascono dunque
capitolo XXI
375 strettamente legati alle radici dell'invenzione poetica (non per nulla, nella prima stesura, le loro storie occupano uno spazio di gran lunga maggiore e sono svolte in ogni loro parte con minuzia di particolari, a differenza di quanto avverrà nella redazione definitiva). Ma per rendersi conto della qualità e del tono che il Manzoni conferisce a questi personaggi « storici » (che è diverso, da quello con cui delinea i personaggi di pura invenzione), occorre tener presenti certi presupposti della sua poetica del vero storico e, in particolare, della natura e dei limiti imposti al genere storico-romanzesco. Nel novembre del '21 l'autore scriveva al Fauriel di concepire il romanzo storico come « una rappresentazione di una condizione determinata della società per mezzo di fatti e caratteri così simili al vero che si possa riputarli come una vera storia or ora scoperta » (ed è questo infatti l'atteggiamento che presiede all'ideazione della trama nel suo complesso); ma aggiungeva anche che, « quando eventi e personaggi storici vi si trovano mescolati, occorre rappresentarli in maniera rigorosamente storica ». Per questa parte egli teneva ferme le conclusioni esposte nella Lettera a M. Chauvet sulla necessità che il poeta si serbi fedele alla verità dei fatti e la rispetti scrulimitando il suo intervento a un lavoro, non di rielaborazione, ma di riflessione e d'interpretazione delle vicende, capace di sviscerarne e ricavarne tutta la sostanza morale, che è poi il compito più difficile e il più serio, anzi il solo veramente specifico, della poesia. Per questi personaggi, dunque, il problema tecnico si imposta in un modo tutto particolare: i dati della storia sono forniti all'autore per così dire dall'esterno, e il suo compito consiste nel ricostruire la complessa realtà psicologica che è sottesa ai fatti e li illumina. Se per un verso il suo modo di accostamento al personaggio è più vincolato e consente un margine più stretto all'ilare gioco della fantasia (quale si avverte, ad esempio, in Renzo o in don Abbondio), per un altro verso l'impegno dello scrittore si intensifica e si approfondisce, al poeta s'affianca lo storico e lo psicologo; l'analisi dell'anima si fa più insistente concentrata e sottile, attenta a cogliere tutte le sfumature di una realtà individuale e il religioso segreto di un destino e al tempo stesso pronta a non lasciarsi sfuggire i rapporti che avvincono la psicologia del singolo a una situazione storica e a una condizione sociale. Il lettore del romanzo avverte più o meno chiaramente questo mutamento di tono e questa diversità di tecniche narrative; può avere, anzi, l'impressione che i due episodi si isolino moralmente polosamente,
e artisticamente nel contesto, !fino a costituire due vere e proprie
« digressioni ». Impressione che era assai più forte e più giustificata nelle pagine corrispondenti del Fermo e Lucia; infatti ora lo scrittore è molto più attento a tener fermi e sottolineare i rapporti dei due personaggi
storici con l'invenzione generale e
a sfumare abilmente, e quasi a mascherare, i punti di diversità e di raccordo fra i due piani del racconto. Si avverta appunto con quanta finezza il Manzoni si serva proprio di Gertrude e dell’Innominato, non solo per far progredire esteriormente la trama romanzesca, ma per illuminare meglio e rifinire i caratteri di alcuni personaggi, da Agnese a don Rodrigo, e soprattutto
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quello di Lucia. Questa figura, la cui sottile tessitura è fatta di silenzi, di reticenze, di pudori, di gesti appena delineati e di parole che adombrano più che non esprimano una ricca vita sentimentale, riceve la maggior luce, si può dire, tutta di riflesso, ma non perciò meno penetrante per chi legga con attenzione, proprio attraverso il suo rapporto con anime torbide e turbate, come quelle di Gertrude e dell'Innominato: è anzi a proposito di quest'ultimo che essa si rivela in tutta la sua forza spirituale. Nell'ambito di queste affinità di atteggiamenti, e di funzioni narrative, che caratterizzano i due principali personaggi storici del romanzo, è poi da rilevare la diversità dei procedimenti di cui il Manzoni si serve nell'esplicare la sua. profonda vena psicologica; diversità che, a proposito di. questi due episodi, rasenta quasi l'opposizione. Mentre la storia di Gertrude è esposta nella sua genesi, analiticamente, con un movimento lento e sinuoso, che si spezza e si contrae
nel punto culminante
a gettare un ra-
pido fascio di luce su un baratro di corruzione e di miseria morale; la storia dell'Innominato invece si svolge in modo del tutto opposto, e più propriamente drammatico, raccogliendosi tutta nella rappresentazione del momento estremo della catastrofe finale del personaggio, Il ritratto esterno, i precedenti della vicenda sono trattati in maniera rapida, quasi sommaria, così che ne pren-
de un risalto maggiore l'ora in cui « il sentimento di una solitudine tremenda » esplode in tutta la sua forza e suscita il dramma e la sua catarsi: « si arriva d'un tratto al colmo dell'episodio, e quel che precede ci rimane nella memoria come uno sfondo d'ombre intorno ad una vigorosa figura. Il sentimento del bene, che in altri personaggi del romanzo è rimpianto, nostalgia fuggitiva, umiliazione d'un istante, qui diventa assalto: il suo sorgere é adombrato in uno scorcio fecondo di suggestioni; quando siamo a fronte a fronte con l'Innominato, esso s'è già fatto gigante e ha già ridotto lo scellerato signore nel più disperato rifugio. Il tedio lento della vita malvagia ora è l'assediante di ogni minuto, non è più l'ora grigia che passa e ritorna, ma la minaccia irremovibile che chiude il futuro e accenna all'abisso... La rocca dell'iniquità è minata; l'impresa che la dovrebbe rafforzare... la rovescia quasi d'un colpo » (Momigliano). È proprio in forza di questo procedimento di concentrazione e di sintesi drammatica che questa storia di conversione possiede un così alto grado di verisimiglianza psicologica e di verità poetica.
Capitolo XXII
Poco dopo, il bravo venne a riferire che, il giorno avanti, il cardinal Federigo Borromeo, arcivescovo di Milano, era arrivato a ***, e ci starebbe tutto quel giorno; e che la nuova sparsa la sera di quest’arrivo ne’ paesi d’in-
torno aveva invogliati tutti d’andare a veder quell'uomo; e si scampanava più per allegria, che per avvertir la gente. Il signore, rimasto solo, continuò a guardar nella valle, ancor più pensieroso. — Per un uomo! Tutti premurosi, tutti allegri, per vedere un uomo! E però ognuno di costoro avrà il suo 10
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diavolo che lo tormenti. Ma nessuno, nessuno n’avtà uno come il mio; nessuno avrà passata una notte come la mia! Cos’ha quell’uomo, per render tanta gente allegra? Qualche soldo che distribuirà così alla ventura... Ma costoro
non vanno tutti per l’elemosina. Ebbene, qualche segno nell’aria, qualche parola... Oh se le avesse per me le parole che possono consolare! se...! Perché non vado anch’io? Perché no?... Anderò, anderò; e gli voglio parlare: a quattrocchi gli voglio parlare. Cosa gli dirò? Ebbene, quello che, quello che... Sentirò cosa sa dir lui, quest'uomo! — Fatta così in confuso questa risoluzione, finì in fretta di vestirsi, mettendosi una sua casacca d’un taglio che aveva qualche cosa del militare; prese la terzetta rimasta sul letto, e l’attaccò alla cintura da una parte; dall’altra,
un’altra che staccò da un chiodo della parete; mise in quella stessa cintura il 1. Federigo Borromeo: nato a Milano nel 1564, divenuto arcivescovo nel 1595, a Milano morì nel 1631. Al tempo dei fatti ora riferiti aveva, dunque, 64 anni. La sua vita verrà fra poco narrata dal M. in questo capitolo, quasi interamente dedicato a lui. 2. a***: sembra si tratti di Chiuso,
com’è esplicitamente detto nel Fermo e Lucia (III, 11), un villaggio poco distante da Lecco, dove l'Arcivescovo si era recato, come sapremo fra breve, in visita diocesana. 6-7. Per un uomo!... per vedere un uomo!: c’è sorpresa, c'è gelosia, c’è orgoglio in questa esclamazione stupita. Ma c'è anche dolore, nell’Innominato: di lui tutti hanno paura e lui ha passato quella notte e ha davanti a sé quella vita...; intorno a quell’altro uomo, invece, quanta allegrezza! 11. qualche segno nell’aria: soltanto questo sono ancora, per l’Innominato, le be-
nedizioni. Nello spregio c’è l’incredulità di
colui che ancora si sente, o vorrebbe sentirsi, superiore alle superstizioni del popolo.
12. le parole che possono consolare!: è tanto che cerca di queste parole; tutta la sua conversione è, in un certo senso, una angosciosa ricerca di parole veramente consolatrici. 15. cosa sa dir lui, quest'uomo!: c’è come un atteggiamento di sfida, ma confuso con una segreta speranza. Osserva che tutto il soliloquio si è aperto, si è svolto e si è concluso, su una parola: un «uomo ». 16. Fatta così in confuso... ora che la decisione è presa, i movimenti si fanno rapidi e risoluti; anche la prosa scorre svelta e precisa. 17. qualche cosa del militare: tutta la toeletta dell’Innominato è militaresca; l’attenta elencazione dà un senso di fierezza e di aggressività: il selvaggio signore conserva ancora le prerogative esteriori dell’uomo antico,
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suo pugnale; e staccata pur dalla parete una carabina famosa quasi al par di
lui, se la mise ad armacollo; prese il cappello, uscì di camera; e andò prima di tutto a quella dove aveva lasciata Lucia. Posò fuori la carabina in un cantuccio vicino all’uscio, e picchiò, facendo insieme sentir la sua voce. La vecchia scese il letto in un salto, e corse ad aprire. Il signore entrò, e data un’occhiata per la camera, vide Lucia rannicchiata nel suo cantuccio e quieta. « Dorme? » domandò sotto voce alla vecchia: « là, dorme? eran questi i miei ordini, sciagurata? » « Io ho fatto di tutto, » rispose quella: « ma non ha mai voluto mangiare, non è mai voluta venire... » « Lasciala dormire in pace; guarda di non la disturbare; e quando si sveglierà... Marta verrà qui nella stanza vicina; e tu manderai a prendere qualunque cosa che costei possa chiederti. Quando si sveglierà... dille che io... che il padrone è partito per poco tempo, che tornerà, e che... farà tutto quello che lei vorrà. » La vecchia rimase tutta stupefatta pensando tra sé: — che sia qualche principessa costei? —
Il signore uscì, riprese la sua carabina, mandò Marta a far anticamera, mandò il primo bravo che incontrò a far la guardia, perché nessun altro che 40
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quella donna mettesse piede nella camera; e poi uscì dal castello, e prese la scesa, di corsa.
Il manoscritto non dice quanto ci fosse dal castello al paese dov'era il cardinale; ma dai fatti che siam per raccontare, risulta che non doveva esser più che una lunga passeggiata. Dal solo accorrere de’ valligiani, e anche di gente più lontana, a quel paese, questo non si potrebbe argomentare; giacché nelle memorie di quel tempo troviamo che da venti e più miglia veniva gente in folla; per veder Federigo. I bravi che s’abbattevano sulla salita, si fermavano rispettosamente al passar del signore, aspettando se mai avesse ordini da dar loro, o se volesse
20. una carabina famosa...: tornano alla 35-36. che sia qualche principessa costei?: mente: certe espressioni del Ferzzo e Lucia, per la vecchia, che non sa nulla del travalà dove si descrive come il Conte del Saglio del padrone e che di lui ha sempre avucrato aveva ucciso un suo avversario: « ...il to «un concetto magnifico e terribile », Conte al vederlo gli spianò lo schioppo adnon ci può essere che questa soluzione da dosso [...]: Lo sventurato [...] si pose a favola: ché solo una principessa avrebbe pofuggire [...] ma l’archibugio del Conte lo tuto piegare e conquistare quel cuore! C'è seguiva, cercando di coglierlo separato [...]. sempre un che di comico intorno alla vecIl Conte lo prese di mira in questo spazio, chia. i lo colse, e lo stese a terra » (II, vii). 37..a far anticamera: ad aspettare che dal22. Posò fuori la carabina...: è un atto di la camera dove era Lucia venisse qualche delicatezza. Ma. tutti i particolari di querichiesta. sta visita a Lucia mostrano che una sensi41. Il manoscritto non dice...: qualcuno bilità muova si è formata nell’Innominato. però ha cercato di dirlo, come G. Bindoni, Non mancano, è vero, certi toni duri; queLa topografia del romanzo I Promessi Sposi, sti, però, sono per la vecchia, perché non si Milano 1895. Ma abbiamo osservato altre è comportata a dovere. volte come il silenzio sui nomi dei luoghi 33-34. farà tutto quello che lei vorrà: sono giovi alla poesia del romanzo. parole impottanti. Esse indicano che la con47-55. I bravi... la folla s’apriva: è un versione è ormai avvenuta nel cuore delquadro di sospensione e di meraviglia, creal’Innominato.. L'incontro. col Cardinale ne to con rapidi cenni concreti e che ha qualcostituirà la sanzione esteriore, l’approdo cosa di epico. Il selvaggio signore vi s’innalconsapevole alla serenità dello spirito. za solitario e pensoso,
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prenderli seco, per qualche spedizione; e non sapevan che si pensare della sua aria, e dell’occhiate che dava in risposta a’ loro inchini. Quando fu nella strada pubblica, quello che faceva maravigliare i passeggieri, era di vederlo senza seguito. Del resto, ognuno gli faceva luogo, pren-
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dendola larga, quanto sarebbe bastato anche per il seguito, e levandosi rispettosamente il cappello. Arrivato al paese, trovò una gran folla; ma il suo
nome passò subito di bocca in bocca; e la folla s’apriva. S'accostò a uno, è gli domandò dove fosse il cardinale. « In casa del curato, » rispose quello, inchinandosi, e gl’indicò dov'era. Il signore andò là, entrò in un cortiletto
dove c’eran molti preti, che tutti lo guardarono con un'attenzione maravigliata e sospettosa. Vide dirimpetto un uscio spalancato, che metteva in un salottino, dove molti altri preti eran congregati. Si levò la carabina, e l’ap-
poggiò in un canto del cortile; poi entrò nel salottino: e anche lì, occhiate, bisbigli, un nome ripetuto, e silenzio. Lui, voltatosi a uno di quelli, gli domandò dove fosse il cardinale; e che voleva parlargli. «Io son forestiero, » rispose l’interrogato, e data un’occhiata intorno, 655, chiamò il cappellano crocifero, che in un canto del salottino, stava appunto dicendo sotto voce a un suo compagno: « colui? quel famoso? che ha a far qui colui? alla larga! » Però, a quella chiamata che risonò nel silenzio generale, dovette venire; inchinò l’innominato, stette a sentir quel che voleva, e alzando con una curiosità inquieta gli occhi su quel viso, e riabbassandoli 70 subito, rimase lì un poco, poi disse o balbettò: « non saprei se monsignore illustrissimo... in questo momento... si trovi... sia... possa... Basta, vado, a vedere ». E andò a malincorpo a far l’imbasciata nella stanza vicina, dove si trovava il cardinale. A questo punto della nostra storia, noi non possiam far a meno di non 75 fermarci qualche poco, come il viandante, stracco e tristo da un lungo cam58. molti preti: preti, dunque, da tutte le parti: tanti, dirà più tardi la moglie del sarto, da mettere insieme quattro « uffizi generali ». E par di vederle tutte quelle tonache nere, raccolte in capannelli, e sussurranti l’una verso l’altra all’apparire dell’Innominato. 64. Io son forestiero: furbo questo prete che non vuole compromettersi. Lo sapeva bene dov’era il Cardinale, anche se forestiero: ma, evidentemente, di don Abbondi ce n’è più d’uno. 65. il cappellano crocifero: tra i preti del seguito del Cardinale era quello che nelle processioni solenni portava la croce; ora ha anche le funzioni di segretario. Il M., come apparirà subito, ne fa una macchietta indimenticabile, piena di sospetti e di paure, che mentre cerca di guadagnar tempo, non sapendo a che santo rivolgersi, alza e abbassa gli occhi, balbetta, non dice né sì né no: e alla fine va a fare l'ambasciata «a malincorpo ». (È facile notare quanto di più dica questo 4 rzalincorpo dell’usuale 4 wmalincuore). Nel mondo i grandi sono pochi, e tanti sono i meschini: così dunque è nel romanzo, perché così è nella vita.
74. A questo punto della nostra storia...: si apre ora un’ampia digressione sulla vita del cardinal Federigo, che si stenderà per tutto il resto del capitolo. Biografie altret-
tanto diffuse sono state quelle di Lodovico
e di Gertrude; ma nei loro riguardi la biografia del Cardinale ha un elemento essenziale di differenza: quelli erano personaggi creati quasi completamente dalla fantasia dello scrittore, questo è un personaggio storico, le cui vicende sono tutte ampiamente documentate. Siamo quindi di fronte ad una storia vera, ma, come vedremo, idealizzata per il raggiungimento di un determinato fine artistico. 75-77. come il viandante... d’acqua viva: è probabile che il M. abbia preso questa bella immagine dal Monti, che nella quinta lezione di eloquenza, tenuta nel 1802 all’Università di Pavia, l'aveva applicata a Socrate. Riportiamo le parole del Monti, perché si veda quanto più semplice e più vivo è il periodo manzoniano: « Coloro che d’estate viaggiano per discoperte e arse campagne, se incontrano lungo la via un qualche bell’albero pieno d’ombra, ringraziano la fortuna e, stesi sull’erba, si ristorano del loro
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minare per un terreno arido e salvatico, si trattiene e perde un po” di tempo all’ombra d’un bell’albero, sull'erba, vicino a una fonte d’acqua viva. Ci siamo abbattuti in un personaggio, il nome e la memoria del quale, affacciandosi, in qualunque tempo, alla mente, la ricreano con una placida commozione di riverenza, e con un senso giocondo di simpatia: ora, quanto più dopo tante immagini di dolore, dopo la contemplazione d’una moltiplice e fastidiosa perversità! Intorno a questo personaggio bisogna assolutamente che noi spendiamo quattro parole: chi non si curasse di sentirle, e avesse però voglia d’andare avanti nella storia, salti addirittura al capitolo seguente. Federigo Borromeo, nato nel 1564, fu degli uomini rari in qualunque tempo, che abbiano impiegato un ingegno egregio, tutti i mezzi d’una grand’opulenza, tutti i vantaggi d’una condizione privilegiata, un intento continuo, nella ricerca e nell’esercizio del meglio. La sua vita è come un ruscello che, scaturito limpido dalla roccia, senza ristagnare né intorbidarsi mai, in
un lungo corso per diversi terreni, va limpido a gettarsi nel fiume. Tra gli agi e le pompe, badò fin dalla puerizia a quelle parole d’annegazione e d’umiltà, a quelle massime intorno alla vanità de’ piaceri, all’ingiustizia dell’orgoglio, alla vera dignità e a’ veri beni, che, sentite o non sentite ne’ cuori, vengono
trasmesse da una generazione all’altra, nel più elementare insegnamento della
penoso cammino, per riprenderlo quindi più rinfrancati e allegri. E noi pure viaggiamo per campi arenosi e stetili; e poiché oggi la sorte ci presenta una bella pianta e un bel fonte a cui rinfrescarci — la compagnia di un grandissimo personaggio — io credo che faremmo cosa da stolti se non ci arrestassimo a godere di questa gioconda ventura » {Monti, Opere, Milano, 1841, V). Osserviamo, infine, come la similitudine manzoniana, lungi dall’essere soltanto, come un critico l’ha definita, «una pia effusione dell’anima », giova ad avviare con naturalezza il passaggio dal mondo della fantasia a quello della storia. 82. bisogna assolutamente: perché questa necessità assoluta di spendere « quattro parole » sulla storia di un personaggio, quando subito dopo si aggiunge che chi non si curasse di sentirle può saltare senz’altro al capitolo successivo? Si tratta, in primo luogo, di una necessità tutta personale, originata dalla passione per la storia intesa come illustrazione di documenti, indagine sui vizi e sulle virtù, ricostruzione di un mondo ideale: una passione, che il M. ha sempre sentita predominante nella sua formazione culturale ed umana. D’altra parte l’invito a saltare al capitolo seguente, se può derivare dalla consapevolezza dello scrittore che il gusto dei lettori del suo tempo era quasi unicamente rivolto alle storie romanzate, e che quindi una biografia di tal genere non avrebbe potuto interessare che una cerchia molto ristretta, è soprattutto un arguto toc. co ironico. Ma la necessità più verà delle
« quattro parole » è, come diremo nella nota successiva, di ordine poetico.
84. salti addirittura al capitolo seguente: seguire questo consiglio significherebbe non solo non capire lo spirito della battuta, ma anche trascurare alcune pagine che non sono soltanto storia ma anche creazione poetica. La digressione storica — questa, come le altre che abbiamo già incontrate o incontreremo — ha essenzialmente una funzione artistica, di cui non è difficile percepire i molteplici aspetti. Essa diffonde l’illusione di una verità che arricchisce la forza persuasiva del romanzo, crea un clima di più vivo interesse nella varietà dei motivi, riposa l’attenzione del lettore e la prepara a meglio penetrare l’azione futura dei personaggi e lo svolgimento dei fatti. In modo speciale le pagine storiche, che leggeremo ora, servono a delineare quella figura ideale di personaggio — un uomo dotato di altissime doti di mente e di cuore — che occorre al M. per un’appropriata condotta dei temi che deve ancora trattare: in particolare, quello della completa conversione dell’Innominato. Non storia, dunque, come arida documentazione di dati e di aspetti esteriori, ma idealizzazione della storia. 88. è come un ruscello... continua l’immagine poetica e armonica della « fonte d’acqua viva»: e continua, non perché il M. voglia fare dell’agiografia o della retorica, ma perché dopo tanti Rodrighi, Egidi, Gertrudi... sente veramente la gioia e la dolcezza dell’incontto con un’anima grande e pura.
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DD religione. Badò, dico, a quelle parole, a quelle massime, le prese sul serio, le
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gustò, le trovò vere; vide che non potevan dunque esser vere altre parole e altre massime opposte, che pure si trasmettono di generazione in generazione, con la stessa sicurezza, e talora dalle stesse labbra; e propose di prender per norma dell’azioni e de’ pensieri quelle che erano il vero. Persuaso che la vita
non è già destinata ad essere un peso per molti, e una festa per alcuni, ma
per tutti un impiego, del quale ognuno renderà conto, cominciò da fanciullo a pensare come potesse render la sua utile e santa. Nel 1580, manifestò la risoluzione di dedicarsi al ministero ecclesiastico,
e ne prese l’abito dalle mani di quel suo cugino Carlo, che una fama, già fin d allora antica e universale, predicava santo. Entrò poco dopo nel collegio fondato da questo in Pavia, e che porta ancora il nome del loro casato; e lì, applicandosi assiduamente alle occupazioni che trovò prescritte, due altre ne assunse di sua volontà; e furono d’insegnar la dottrina cristiana ai più rozzi e derelitti del popolo, e di visitare, servire, consolare e soccorrere gl’in110 fermi. Si valse dell’autorità che tutto gli conciliava in quel luogo, per attirare i suoi compagni a secondarlo in tali opere; e in ogni cosa onesta e profittevole esercitò come un primato d’esempio, un primato che le sue doti personali sarebbero forse bastate a procacciargli, se fosse anche stato l’infimo per condizione. I vantaggi d’un altro genere, che la sua gli avrebbe potuto pro115 curare, non solo non li ricercò, ma mise ogni studio a schivarli. Volle una tavola piuttosto povera che frugale, usò un vestiario piuttosto povero che semplice; a conformità di questo, tutto il tenore della vita e il contegno. Né credette mai di doverlo mutare, per quanto alcuni congiunti gridassero e si lamentassero che avvilisse così la dignità della casa. Un’altra guerra ebbe a 120 sostenere con gl’istitutori, i quali, furtivamente e come per sorpresa, cerca105
vano di mettergli davanti, addosso, intorno, qualche suppellettile più signo-
95. Badò, dico, a quelle parole...: nella presentazione della prima parte della vita — Federigo fanciullo, adolescente, giovane — il M. sottolinea il valore che il personaggio attribuisce alle « parole »: le parole che esprimono tutte le virtù cristiane, ma soprattutto quella dell’umiltà, per lui che era nato «tra gli agi e le pompe». Nella seconda parte — Federigo arcivescovo — vedremo quelle parole divenire norma e condotta di vita. 99-100. la vita non è già destinata...: la massima è fra le più nobili che si possano immaginare. Naturalmente essa, anche se nella sostanza di fondo fu petcepita da Federigo, nell’assolutezza della validità e nella limpidezza della formulazione è tutta del M., pervasa com’è da quella sua pensosa religiosità, in cui i sentimenti equalitari del Vangelo balzano concretizzati dall'influenza dell'Illuminismo francese. Tuttavia nell’immagine finale del fanciullo, che pensa come potesse rendere la sua vita « utile e santa » c'è un’insistenza agiografica troppo manifesta. 104. suo cugino Carlo: è san Carlo Bor-
romeo, vissuto dal 1538 al 1584 e canonizzato nel 1610. 106. il nome del loro casato: il Collegio Borromeo, fondato nel 1561. Federigo vi
stette quattro anni come alunno, e tre come amministratore. 113. forse: compare, con questo « forse »,
una nota polemica appena percettibile verso il Seicento, il secolo delle apparenze e delle esteriorità: quando le virtù difficilmente avrebbero procurato «un primato d’esempio », se non erano accompagnate dall’« autorità » del casato. Vedremo che il motivo ‘polemico nei confronti del Seicento si svilupperà fra breve con elementi ben più chiaramente accentuati. 119. Un’altta guerra...: si delinea sempre. più netta l’antitesi fra il personaggio e il suo tempo: antitesi reale, ed insieme riflesso dell’atteggiamento critico del M. di fronte a tutto il Seicento. Le successive acutissime osservazioni sui raggiri e le accortezze degli uomini meschini sono un altro indice della costante presenza della personalità del-
lo scrittore nella presentazione della vita di Federigo.
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rile, qualcosa che lo facesse distinguer dagli altri, e figurare come il principe del luogo: o credessero di farsi alla lunga ben volere con ciò; o fossero mossi da quella svisceratezza servile che s’invanisce e si ricrea nello splendore al vizi, trui; o fossero di que’ prudenti che s’adombrano delle virtù come de’ predicano sempre che la perfezione sta nel mezzo; e il mezzo lo fissan giusto in quel punto dov’essi sono arrivati, e ci stanno comodi. Federigo, non che lasciarsi vincere da que’ tentativi, riprese coloro che li facevano; e ciò tra la pubertà e la giovinezza. Che, vivente il cardinal Carlo, maggior di lui di ventisei anni, davanti a quella presenza grave, solenne, ch’esprimeva così al vivo la santità, e ne rammentava le opere, e alla quale, se ce ne fosse stato bisogno, avrebbe aggiunto
autorità ogni momento l’ossequio manifesto e spontaneo de’ circostanti, quali e quanti si fossero, Federigo fanciullo e giovinetto cercasse di conformarsi al contegno e al pensare d’un tal superiore, non è certamente da farsene maraviglia; ma è bensì cosa molto notabile che, dopo la morte di lui, nessuno si sia potuto accorgere che a Federigo, allor di vent’anni, fosse mancata una guida e un censore. La fama crescente del suo ingegno, della sua dottrina e della sua pietà, la parentela e gl’'impegni di più d’un cardinale potente, il credito della sua famiglia, il nome stesso, a cui Carlo aveva quasi annessa nelle menti un’idea di santità e di preminenza, tutto ciò che deve, e tutto ciò che può condurre gli uomini alle dignità ecclesiastiche, concorreva a pronosticargliele. Ma egli, persuaso in cuore di ciò che nessuno il quale professi cristianesimo può negar con la bocca, non ci esser giusta superiorità d’uomo sopra gli uomini, se non in loro servizio, temeva le dignità, e cercava di scansarle; non certamente perché sfuggisse di servire altrui; ché poche vite furono spese in questo come la sua; ma perché non si stimava abbastanza degno né capace
di così alto e pericoloso servizio. Perciò, venendogli, nel 1595, proposto da Clemente VIII l’arcivescovado di Milano, apparve fortemente turbato, e ri-
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cusò senza esitare. Cedette poi al comando espresso del papa. Tali dimostrazioni, e chi non lo sa? non sono né difficili né rare; e l’ipocrisia non ha bisogno d’un più grande sforzo d’ingegno per farle, che la buftoneria per deriderle a buon conto, in ogni caso. Ma cessan forse per questo
d’esser l’espressione naturale d’un sentimento virtuoso e sapiente? La vita è il paragone delle parole: e le parole ch’esprimono quel sentimento, fossero
anche passate sulle labbra di tutti gl’impostori e di tutti i beffardi del mondo, 131-132. ne rammentava le opere: la sola presenza di san Carlo faceva ricordare quali sono le opere con cui si raggiunge la santità. 141-142. ciò che deve,... ciò che può: da una parte le virtù e i meriti, dall’altra la parentela e i mezzi. Nell’espressione che indica la pienezza dei requisiti di Federigo, è nascosta una cruda verità; che spesso sale, non chi dovrebbe, ma chi può. 144-145. giusta superiorità... in loro servizio: la cadenza del periodo rivela un forte entusiasmo agiografico; ma quello che più vale è il pensiero nella sua essenzialità. Ha ragione lo Steiner quando scrive: « questa è democrazia sacrosanta. Chi pensa e» sente
così sa che, come più sale, più crescono
i doveri; che le cariche più alte sono le più gravi per il grande numero di persone a cui si deve servire, e le teme quelle cariche: e se ne stima indegno; e non le accetta che per dovere ». 149. Clemente VIII: Aldobrandini, papa dal 1592 al 1605. 154-155. La vita è il paragone delle parole: la biografia di Federigo offre al M. la possibilità di esprimere con più decisione che altrove la sua visione cristiana della vita: di un cristianesimo che si estrinseca nei fatti e che è, prima di tutto, umiltà ed amore, sotretti e guidati da saggezza e sapienza.
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saranno sempre belle, quando siano precedute e seguite da una vita di disinteresse e di sacrifizio. In Federigo arcivescovo apparve uno studio singolare e continuo di non prender per sé, delle ricchezze, del tempo, delle cure, di tutto sé stesso in somma, se non quanto fosse strettamente necessario. Diceva, come tutti dicono; che le rendite ecclesiastiche sono patrimonio de’ poveri:
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come poi in-
tendesse infatti una tal massima, si veda da questo. Volle che si stimasse a quanto poteva ascendere il suo mantenimento e quello della sua servitù; e dettogli che seicento scudi (scudo si chiamava allora quella moneta d’oro che, rimanendo sempre dello stesso peso e titolo, fu poi detta zecchino), diede ordine che tanti se ne contasse ogni anno dalla sua cassa particolare a quella della mensa; non credendo che a lui ricchissimo fosse lecito vivere di quel patrimonio. Del suo poi era così scarso e sottile misuratore a sé stesso, che badava di non ismettere un vestito, prima che fosse logoro affatto: unendo però, come fu notato da scrittori contemporanei, al genio della semplicità quello d’una squisita pulizia: due abitudini notabili infatti, in quell’età sudicia e sfarzosa. Similmente, affinché nulla si disperdesse degli avanzi della
sua mensa frugale, gli assegnò a un ospizio di poveri: e uno di questi, per suo ordine, entrava ogni giorno nella sala del pranzo a raccoglier ciò che fosse rimasto. Cure, che potrebbero forse indur concetto d’una virtù gretta, misera, angustiosa, d’una mente impaniata nelle minuzie, e incapace di disegni elevati; se non fosse in piedi questa biblioteca ambrosiana, che Federigo ideò con sì animosa lautezza, ed eresse, con tanto dispendio, da’ fondamenti; per:
fornir la quale di libri e di manoscritti, oltre il dono de’ già raccolti con grande studio e spesa da lui, spedì otto uomini, de’ più colti ed esperti che
poté avere, a farne incetta, per l’Italia, per la Francia, per la Spagna, per la Germania, per le Fiandre, nella Grecia, al Libano, a Gerusalemme; Così riuscì a radunarvi circa trentamila volumi stampati, e quattordicimila manoscritti. Alla biblioteca unì un collegio di dottori (furon nove, e pensionati da lui fin che visse; dopo, non bastando a quella spesa l’entrate ordinarie, furon ristretti a due); e il loro ufizio era di coltivare vari studi, teologia, sto-
ria, lettere, antichità ecclesiastiche, lingue orientali, con l’obbligo ad ognuno
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di pubblicar qualche lavoro sulla materia assegnatagli; v’unì un collegio da
lui detto trilingue, per lo studio delle lingue greca, latina e italiana; un col161-162. come tutti dicono: lo spirito polemico è sempre in agguato nel M.: e non solo verso gli uomini del Seicento! 172-173 quell’età sudicia e sfarzosa: l’antitesi fra Federigo, che ha un innato amore, « il genio », per la semplicità e la pulizia, e la società spagnolesca del Seicento « sudicia e sfarzosa » ha qui l’accento più marcato. Antitesi si può scorgere anche nei due aggettivi: ché sfarzosa vale per le apparenze esterne. e sudicia per la realtà concreta. 178. questa biblioteca ambrosiana: senti subito l'ammirazione e l’orgoglio dello scrittore. Il M., cattolico e milanese, aveva bene di che compiacersi parlando di quest'opera che il grande Cardinale lombardo « ideò ed eresse ». Questo sentimento dello scrittore si manifesta in tutta la descrizione che se-
gue, ove, con
la citazione
precisa di cifre
così elevate, di ricerche così lunghe e lontane, di iniziative grandiose, si configura la straordinarietà di un’impresa tanto monumentale, proprio in un’età tutt’altro che «rivolta
alla diffusione
della cultura.
L’am-
mirazione del M. per quest'opera di Federigo deriva anche dal suo tipico sentimento cristiano, che ben conosce il valore della cultura nell’opera di elevazione dell’umanità, imbevuto com’è degli ideali dell’1lluminismo settecentesco; da qui l’insistenza sulla modernità del funzionamento della biblioteca. La quale, fondata nel 1609, ed anche oggi una delle più ricche d’Italia, fu frequentata assiduamente dal M., che proprio lì trovò molte delle opere da cui trasse ispirazione ed alimento per il romanzo.
i promessi sposi
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legio d’alunni, che venissero istruiti in quelle facoltà e lingue, per insegnarle un giorno; v'unì una stamperia di lingue orientali, dell’ebraica cioè, della caldea, dell’arabica, della persiana, dell’armena; una galleria di quadri, una di statue, e una scuola delle tre principali arti del disegno. Per queste, poté trovar professori già formati; per il rimanente, abbiam visto che da fare gli avesse dato ‘la raccolta de’ libri e de’ manoscritti; certo più difficili a trovarsi dovevano essere i tipi di quelle ‘lingue, allora molto men coltivate in Europa che al presente; più ancora de’ tipi, gli uomini. Basterà il dire che, di nove dottori, otto ne prese tra i giovani alunni del seminario; e da questo si può argomentare che giudizio facesse degli studi consumati e delle riputazioni fatte di quel tempo: giudizio conforme a quello che par che n’abbia portato la posterità, col mettere gli uni e le altre in dimenticanza. Nelle regole che stabilì per l’uso e per il governo della biblioteca, si vede un intento d’utilità perpetua, non solamente bello in sé, ma in molte parti sapiente e gentile molto al di là dell’idee e dell’abitudini comuni di quel tempo. Prescrisse al bibliotecario che mantenesse commercio con gli uomini più dotti d’Europa, per aver da loro notizie dello stato delle scienze, e avviso de’ libri migliori che venissero fuori in ogni genere, e farne acquisto; gli prescrisse d’indicare agli studiosi i libri che non conoscessero, e potesser loro esser utili; ordinò che a tutti, fossero cittadini o forestieri, si desse comodità e tempo di setvirsene, secondo il bisogno. Una tale intenzione deve ora parere ad ognuno troppo naturale, e immedesimata con la fondazione d’una biblioteca: allora non era così. E in una storia dell'’ambrosiana,
scritta (col costrutto e con
l’eleganze comuni del secolo) da un Pierpaolo Bosca, che vi fu bibliotecario
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dopo la morte di Federigo, vien notato espressamente, come cosa singolare, che in questa libreria, eretta da un privato, quasi tutta a sue spese, i libri fossero esposti ‘alla vista del pubblico, dati a chiunque li chiedesse, e datogli anche da sedere, e carta, penne e calamaio, per prender gli appunti che gli potessero bisognare; mentre in qualche altra insigne biblioteca pubblica d’Italia, i libri non eran nemmen visibili, ma chiusi in armadi, donde non si levavano se non per gentilezza de’ bibliotecari, quando si sentivano di farli vedere un momento; di dare ai concorrenti il comodo di studiare, non se n’aveva neppur l’idea. Dimodoché arricchir tali biblioteche era un sottrar libri all'uso comune: una di quelle coltivazioni, come ce n’era e ce n'è tuttavia molte, che isteriliscono il campo. Non domandate quali siano stati gli effetti di questa fondazione del Borromeo sulla coltura pubblica: sarebbe facile dimostrare in due frasi, al modo
che si dimostra, che furon miracolosi, o che non furon niente; cercare e spiegare, fino a un certo segno, quali siano stati veramente,
194. tre... arti del disegno: fondate, cioè, pittura, scultura, architettura: si chiamano anche arti figurative. 197. tipi: i caratteri tipografici. 200. studi consumati: studi dotti, in cui si consuma la vita e si arriva al fondo dello scibile. Ma qui, come altrove, non manca la sfumatura ironica. ; 205. Prescrisse...: altro grande merito del Cardinale è dunque quello di avere aperto la biblioteca a tutti con spirito veramente sul disegno:
sarebbe cosa di
democratico e precorritore dei tempi. « Allora non era così », dirà fra breve il M. lasciando ad ognuno di riflettere sulle note distintive di Federigo che, nato da famiglia aristocratica, si rivelò sempre più lontano dall’ autoritarismo e dall’ egoismo del suo tempo. 224. come ce n’era e ce n’è: come altre volte, l’occhio osservatore e polemico del M. non si limita al Seicento, e vede vizi ed errori in ogni età.
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molta fatica, di poco costrutto, e fuor di tempo. Ma pensate che generoso, che
giudizioso, che benevolo, che perseverante amatore del miglioramento umano. dovess essere colui che volle una tal cosa, la volle in quella maniera, e l’eseguì, in mezzo a quell’ignorantaggine, a quell’inerzia, a quell’antipatia gene-
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rale per ogni applicazione
studiosa, e per conseguenza
in mezzo
ai cos’i72-
porta? e c’era altro da pensare? e che bell’invenzione! e mancava anche questa, e simili; che saranno certissimamente stati più che gli scudi spesi da lui
in quell’impresa; i quali furon centocinquemila, la più parte de’ suoi.
Per chiamare un tal uomo sommamente benefico e liberale, può parer che
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non ci sia bisogno di sapere se n’abbia spesi molt’altri in soccorso immediato
de’ bisognosi; e ci son forse ancora di quelli che pensano che le spese di quel genere, e sto per dire tutte le spese, siano la migliore e la più utile elemosina. Ma Federigo teneva l'elemosina propriamente detta per un dovere principalissimo; e qui, come nel resto, i suoi fatti furon consentanei all’opinione. La sua vita fu un continuo profondere ai poveri; e a proposito di questa stessa carestia di cui ha già parlato la nostra storia, avremo tra poco occasione di riferire alcuni tratti, dai quali si vedrà che sapienza e che gentilezza abbia saputo mettere anche in questa liberalità. De’ molti esempi singolari che d’una tale sua virtù hanno notati i suoi biografi, ne citeremo qui un solo. Avendo risaputo che un nobile usava artifizi e angherie per far monaca una sua figlia, la quale desiderava piuttosto di maritarsi, fece venire il padre; e cavatogli di bocca che il vero motivo di quella vessazione era il non avere
quattromila scudi che, secondo lui, sarebbero stati necessari a maritar la figlia
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convenevolmente, Federigo la dotò di quattromila scudi. Forse a taluno parrà questa una larghezza eccessiva, non ben ponderata, troppo condiscendente agli stolti capricci d’un superbo; e che quattromila scudi potevano esser meglio
impiegati in cent’altre maniere. A questo non abbiamo nulla da rispondere,
se non che sarebbe da desiderarsi che si vedessero spesso eccessi d’una virtù 233. ignorantaggine... inerzia... antipatia generale: parole molto forti in questa condanna del Seicento che, fra l’altro, fu anche il secolo di Galileo. Ma se a noi ora possono apparire eccessive, al M. dovevano sembrare più che giuste, in base alle cognizioni e alle idee che su quel secolo si avevano ai suoi tempi, e sotto la spinta dell’avversione
con cui sempre egli guardò al periodo della dominazione spagnola in Italia. 238. Per chiamare un tal uomo...: dopo la munificenza, il M. viene a lumeggiare lo spirito di carità che animò sempre Federigo. Anche qui si manifesta tutta la sim-
patia dello scrittore verso l’uomo che, realizzando quotidianamente i principi cristiani nella pratica della vita, stimò l’elemosina in soccorso dei bisognosi come un suo « dovere principalissimo » e condusse una vita che fu «un continuo profondere ai poveri ». 240. ci son forse ancora di quelli...: sono gli economisti del Settecento, secondo i quali l'elemosina è antisociale e il progresso si realizza attraverso le spese, tutte le spese, e quindi anche quelle della cultura
e del lusso. Il M., come in casi simili, non entra nel merito delle teorie, ma si sente in dovere di esaltare l’elemosina, sia come manifestazione di spitito evangelico sia come mezzo per sovvenire ai più urgenti bisogni. 246. sapienza e... gentilezza: tanto nello stabilire le regole per la Biblioteca, quanto nel comportarsi coi bisognosi, Federigo, in un armonioso incontro di eccezionali virtù, è sapiente e gentile. 253-254. Forse a taluno... eccessiva: specialmente pensando che le monacazioni for‘zate, come ben sappiamo dal caso di Gertrude, erano un’usanza molto diffusa. Ma si osservi subito dopo l’atteggiamento del M. di fronte al parere di quel « taluno »: non entra in discussione — « non abbiamo nulla da rispondere » —, ma approva decisamente gli « eccessi d’una virtù » che per il bene di una creatura osa porsi contro le « opinioni dominanti ». Il caldo tono oratorio del periodo sottolinea l’audacia della
affermazione e colloca il M. stesso, per il coraggio e la chiarezza dell’idea, in posizione di aperta sfida di fronte al mondo.
i promessi sposi
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così libera dall’opinioni dominanti (ogni tempo ha le sue), così indipendente
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dalla tendenza generale, come, in questo caso, fu quella che mosse un uomo, i a dar quattromila scudi, perché una giovine non fosse fatta monaca. in spiccava dare, nel che meno non o, quest'uom di La carità inesausta tutto il suo contegno. Di facile abbordo con tutti, credeva di dovere specialmente a quelli che si chiamano di bassa condizione, un viso gioviale, una cortesia affettuosa; tanto più, quanto ne trovan meno nel mondo. E qui pure
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ebbe a combattere co’ galantuomini del ne quid nimis, i quali, in ogni cosa,
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a que’ ragazzi, perché eran troppo sudici e stomacosi:
avrebbero voluto farlo star ne’ limiti, cioè ne’ loro limiti. Uno di costoro, una volta che, nella visita d’un paese alpestre e salvatico, Federigo istruiva certi poveri fanciulli, e, tra l’interrogare e l’insegnare, gli andava amorevolmente accarezzando, l’avvertì che usasse più riguardo nel far tante carezze
come se supponesse, il
buon uomo, che Federigo non avesse senso abbastanza per fare una tale scoperta, o non abbastanza perspicacia, per trovar da sé quel ripiego così fino. Tale è, in certe condizioni di tempi e di cose, la sventura degli uomini costi-
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tuiti in certe dignità: che mentre così di rado si trova chi gli avvisi de’ loro mancamenti, non manca poi gente coraggiosa a riprenderli del loro far bene. Ma il buon vescovo,
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non senza un certo risentimento,
ripose:
« sono mie
anime, e forse non vedranno mai più la mia faccia; e non volete che gli abbracci? ». Ben raro però era il risentimento in lui, ammirato per la soavità de’ suoi modi, per una pacatezza imperturbabile, che si sarebbe attribuita a una felicità straordinaria di temperamento; ed era l’effetto d’una disciplina costante sopra un’indole viva e risentita. Se qualche volta si mostrò severo, anzi brusco, fu co’ pastori suoi subordinati che scoprisse rei d’avarizia o di negligenza o d’altre tacce specialmente opposte allo spirito del loro nobile ministero. Per tutto ciò che potesse toccare o il suo interesse, o la sua gloria tem-
porale, non dava mai segno di gioia, né di rammarico, né d’ardore, né d’agitazione:
mirabile se questi moti non si destavano nell’animo suo, più mira-
bile se vi si destavano. Non solo da’ molti conclavi ai quali assistette, riportò il concetto di non aver mai aspirato a quel posto così desiderabile all’ambi262. Di facile abbordo con tutti: alla mano con tutti, affabile con tutti; ma «è un brutto francesismo, di quelli che divennero comuni anche a Firenze nella prima metà del secolo XIX » (Bianchi).
265. galantuomini del ne quid nimiîs: i galantuomini del giusto mezzo (ne quid nimis: niente di troppo): sono quanti credono di nascondere il loro egoismo professandosi nemici di ogni esagerazione. Di questa gente non mancano esempi anche nel romanzo. 266-272. Uno di costoro... così fino: con questo nuovo esempio, che continua la polemica contro gli uomini meschini ed egoisti, il ritratto del Cardinale perde qualcosa delle grandi pennellate delle pagine precedenti, andando a diluirsi in un’aneddotica piuttosto piccina.
276-278. sono mie anime... abbracci?: la
dolcezza del ricordo evangelico — sinite parvulos venire ad me: lasciate che i fanciulli vengano a me — non modifica il giudizio che abbiamo dato sull’intero esempio. 281-282. disciplina... risentita: è una delle affermazioni più vigorose di tutto il ritratto, e fa ricordare qualcosa della grandezza di padre Cristoforo. 282-283. severo... co’ pastori: così è preparato di lontano l’incontro del Cardinale con don Abbondio. 288. conclavi: le segrete riunioni dei cardinali per l’elezione del papa. 289-290. desiderabile all’ambizione... terribile alla pietà: il papato; la definizione è bellissima, ma può comprendere vari significati. Il più semplice ci sembra questo: il papato, comportando onoti ed autorità, è desiderato per l'ambizione che è innata nell’uomo; ma, a causa delle gravissime re-
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zione, e così terribile alla pietà; ma una volta che un collega, il quale contava molto, venne a offrirgli il suo voto e quelli della sua fazione (brutta parola, ma era quella che usavano), Federigo rifiutò una tal proposta in modo, che quello depose il pensiero, e si rivolse altrove. Questa stessa modestia, quest'avversione al predominare apparivano ugualmente nell’occasioni più comuni
della vita. Attento e infaticabile a disporre e a governare, dove riteneva che fosse suo dovere il farlo, sfuggì sempre d’impicciarsi negli affari altrui; anzi si scusava a tutto potere dall’ingerirvisi ricercato: discrezione e ritegno non comune, come ognuno sa, negli uomini zelatori del bene, qual era Federigo. Se volessimo lasciarci andare al piacere di raccogliere i tratti notabili del suo carattere, ne risulterebbe certamente un complesso singolare di meriti in apparenza opposti, e certo difficili a trovarsi insieme. Però non ometteremo di notare un’altra singolarità di quella bella vita: che, piena come fu d'’attività, di governo, di funzioni, d’insegnamento, d’udienze, di visite diocesane, di viaggi, di contrasti, non solo lo studio c’ebbe una parte, ma ce n’ebbe
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tanta, che per un letterato di professione sarebbe bastato. E infatti, con tant’altri e diversi titoli di lode, Federigo ebbe anche, presso i suoi contemporanei, quello d’uomo dotto. Non dobbiamo però dissimulare che tenne con ferma persuasione, e sostenne in pratica, con lunga costanza, opinioni, che al giorno d’oggi parrebbero a ognuno piuttosto strane che mal fondate; dico anche a coloro che avrebbero una gran voglia di trovarle giuste. Chi lo volesse difendere in questo, ci sarebbe quella scusa così corrente e ricevuta, ch’erano errori del suo tempo, piuttosto che suoi: scusa che, per certe cose, e quando risulti dall’esame particolare de’ fatti, può aver qualche valore, o anche molto; ma che
applicata così nuda e alla cieca, come si fa d’ordinario, non significa proprio nulla. E perciò, non volendo risolvere con formole semplici questioni com-
plicate, né allungar troppo un episodio, tralasceremo anche d’esporle; bastandoci d’avere accennato così alla sfuggita che, d’un uomo così ammirabile 320
in complesso, noi non pretendiamo che ogni cosa lo fosse ugualmente; perché non paia che abbiam voluto scrivere un’orazione funebre. Non è certamente fare ingiuria ai nostri lettori il supporre che qualchene e mal fondate ». Eppure sapeva bene, sponsabilità che implica, sgomenta i più, per esempio, che il Cardinale credette nelle che si sentono impari al peso. streghe e, come vedremo più avanti, negli 297-298. discrezione... zelatori del bene: untori. Ma lo scrittore tace su tutto questo incontrando più avanti nel romanzo una zeperché qui gli interessa — e, ai fini dell’ar. latrice del bene, donna Prassede, ci rende remo conto di quanto in tali persone val: te, gli occorre — non tanto la precisazione gano, o varrebbero, le virtù della discrezione “di un ritratto reale, quanto la bellezza di una figura ideale. e del ritegno. 311. Chi lo volesse difendere...: il ricorso 302. quella bella vita: torna alla mente alla giustificazione che erano «errori del la mossa iniziale: « La sua vita è come un suo tempo, piuttosto che suoi», anche se ruscello... ». Più che agiografia, qui c'è amha una sua validità, in ultima analisi per mirazione commossa. il M. «non significa proprio nulla ». Per303. visite diocesane: le ispezioni del veché in lui c’è la ricerca di un cristianesimo scovo alle varie parrocchie. assoluto, che supera i tempi e si fonda e 308. Non dobbiamo però dissimulare: si esprime nella coscienza individuale di riil one, ammirazi dopo tante lodi e tanta tratto accenna ad una limitazione. Ma il ognuno. 320. un’orazione funebre: cioè, un’esaltaM. non scende ad alcun particolare, e non zione delle sole buone qualità del morto. dice quali fossero le « opinioni » di FedeConclusione scherzosa ed evasiva. rigo che oggi sembrerebbero « piuttosto stra
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DAD
duno di loro domandi se di tanto ingegno e di tanto studio quest'uomo abbia lasciato qualche monumento. Se n’ha lasciati! Circa cento son l’opere che rimangon di lui, tra grandi e piccole, tra latine e italiane, tra stampate e manoscritte, che si serbano nella biblioteca da lui fondata: trattati di morale, orazioni, dissertazioni di storia, d’antichità sacra e profana, di letteratura, d’arti e d’altro. — E come mai, dirà codesto lettore, tante opere son dimenticate, o almeno così poco conosciute, così poco ricercate? Come mai, con tanto ingegno,
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con tanto studio, con tanta pratica degli uomini e delle cose, con tanto meditare, con tanta passione per il buono e per il bello, con tanto candor d’animo, con tant’altre di ‘quelle qualità che fanno il grande scrittore, questo, in cento opere, non ne ha lasciata neppur una di quelle che son riputate insigni anche da chi non le approva in tutto, e conosciute di titolo anche da chi non le legge? Come mai, tutte insieme, non sono bastate a procurare, almeno col numero, al suo nome una fama letteraria presso noi posteri? — La domanda è ragionevole senza dubbio, e la questione, molto interessante; perché le ragioni di questo fenomeno si troverebbero con l’osservar molti fatti generali: e trovate, condurrebbero alla spiegazione di più altri fenomeni simili. Ma sarebbero molte e prolisse: e poi se non v’andassero a
genio? se vi facessero arricciare il naso? Sicché sarà meglio che riprendiamo
il filo della storia, e che, in vece di cicalar più a lungo intorno a quest'uomo, andiamo a vederlo in azione, con la guida del nostro autore.
328. E come mai...: il tono di questi ultimi periodi va sempre più verso lo scioglimento pacato del discorso, mentre nella evasività del M. a rispondere ai tre quesiti che egli stesso si pone, ricompare quella propensione, che gli abbiamo vista altre volte, ad eludere le questioni generali di critica, sia storica che letteraria. Ed allora ecco ricomparire la sua solita arguzia, nel chiudere la lunga digressione con un sorriso da amico.
341. sarà meglio che riprendiamo...: ma quando, fra breve, questo « filo della sto-
Scheda
ria » riprenderà, capiremo meglio quanto sia stato utile l’aver così a lungo delineato la biografia del Cardinale. La sua «azione » ci risulterà perfettamente comprensibile in ogni particolare, e potremo valutarla con più precisa aderenza al personaggio e ai tempi; e dall’altra parte avremo la sensazione che durante quella vasta pausa al racconto l’evoluzione spirituale dell’Innominato abbia continuato il suo processo, accostando ancora di più il personaggio alla soluzione, ormai imminente, di tutta la crisi.
critica al cap. XXII Il Cardinale è un personaggio « storico » come l'Innominato e Gertrude, ma, a differenza di quelli, è direttamente legato ai grandi eventi della storia e in posizione di autorità: quanto più la sua figura è circostanziata, tanto minore è in essa il margine x di indeterminatezza e di mistero. Federico è, inoltre, un personaggio « ideale » come fra Cristoforo, ma con una psicologia più uniforme, senza punte drammatiche, e assai più condizionato e limitato dall'atteggiamento di riverenza dell'autore, E, nell’una
capitolo XXII
389 e nell'altra direzione, le possibilità di rielaborazione poetica dei dati storici e dei motivi morali da parte del Manzoni sono. di gran lunga minori. In tanto la presenza del Cardinale potrà inserirsi efficacemente nella trama narrativa, e quindi anche raggiungere un suo valore artistico abbastanza
autonomo,
in quanto
opererà ad approfondire indirettamente la psicologia dell’Innominato e di don Abbondio nel capitolo seguente e nel XXV e XXVI. In questo, il ritratto del personaggio è di spettanza, assai
più che del romanziere, dello storico; e in quanto tale non è privo certo di significato e ha un suo posto nel generale giudizio polemico del Manzoni sulla società del Seicento; artisticamente è veramente una pausa e una divagazione nel contesto, del resto esplicitamente dichiarata dall'autore. Se la digressione non diventa frattura, e il mutamento di tono vera e propria stonatura, il merito è tutto dell'arte dello scrittore, che riesce a salvare il tono medio dello stile con un abilissimo gioco di pause riflessive, di interventi personali e conversevoli e di sapienti attenuazioni.
Capitolo XXI
Il cardinal Federigo, intanto che aspettava l’ora brar gli ufizi divini, stava studiando, com'era solito di tempo; quando entrò il cappellano crocifero, con « Una strana visita, strana davvero, monsignore « Chi è? » domandò
d’andar in chiesa a celedi fare in tutti i ritagli un viso alterato. illustrissimo! »
il cardinale.
« Niente meno che il signor... » riprese il cappellano; e spiccando le sillabe con una gran significazione, proferì quel nome che noi non possiamo scrivere ai nostri lettori. Poi soggiunse: 10
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«è qui fuori in persona;
e chiede
nient’altro che d’esser introdotto da vossignoria illustrissima. » « Lui! » disse il cardinale, con un viso animato, chiudendo il libro, e alzandosi da sedere: « venga! venga subito! » ‘« Ma... » replicò il cappellano; senza moversi: « vossignoria illustrissima deve sapere chi è costui: quel bandito, quel famoso... » « E non è una fortuna per un vescovo, che a un tal uomo sia nata la volontà di venirlo a trovare? » « Ma... » insistette il cappellano: « noi non possiamo mai parlare di certe
cose, perché monsignore dice che le son ciance: però, quando viene il caso,
mi pare che sia un dovere... Lo zelo fa de’ nemici, monsignore; e noi sap-
1-3. Il cardinal Federigo... ritagli di tempo: questo lo raccontano i suoi biografi. Ma noi lo troviamo ora più che naturale, perché, attraverso la digressione storica del precedente capitolo, abbiamo conosciuto, fra l’altro, la passione del Cardinale per la cultura. Così, fino dalla prima ripresa del racconto, si afferra l’oppottunità artistica delle pagine precedenti che avevano tratteggiato il ritratto di Federigo. Su questo concetto non torneremo più: sarà facile trovarne una continua conferma in questo e in altri successivi capitoli. 3. con un viso alterato: per la meraviglia e la paura. È la prima nota, fra il tragico e il comico, che fissa la figura del cappellano crocifero; poi basterà che costui apra la bocca per dire le prime parole, perché subito ci appaia tutto il suo... cuor di leone. 6. Niente meno che...: il suo terrore, il cappellano lo vuol trasmettere al Cardinale; e quindi vorrebbe distoglierlo subito dal
ricevere l’inopportuno e pericoloso visitatore. Ma non si tratta tanto di vigliaccheria, quanto di zelo verso il superiore. 7. quel nome: lo ricordiamo: Bernardino Visconti. 10. con un viso animato: da carità e da speranza. Il confronto col «viso alterato » del cappellano è naturale e segna l’abisso spirituale che separa i due uomini. Un abisso, che ogni successivo atteggiamento (il Cardinale subito si alza da sedere, il cappellano replica senza muoversi), come ogni successiva parola (il verga, venga subito dell’uno, e i Ma... Ma... dell’altro) scavano sempre più. 17. monsignore: quando il titolo di Emzinenza non si usava ancora, si dava del Monsignore anche ai cardinali. Nell’ultimo capitolo assisteremo ad una gustosissima conversazione sui titoli ecclesiastici: ne saranno protagonisti don Abbondio e Agnese (cfr. Cap. XXXVIII, n. 153).
capitolo XXIII 20
SII
piamo positivamente che più d’un ribaldo ha osato vantarsi che, un giorno o l’altro... » « E che hanno fatto? » interruppe il cardinale.
« Dico che costui è un appaltatore di delitti, un disperato, che tiene
corrispondenza co’ disperati più furiosi, e che può esser mandato... » 25
« Oh, che disciplina è codesta, » interruppe ancora sorridendo Federigo, « che i soldati esortino il generale ad aver paura? » Poi, divenuto serio e pensieroso, riprese: « san Carlo non si sarebbe trovato nel caso di dibattere
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se dovesse ricevere un tal uomo: sarebbe andato a cercarlo. Fatelo entrar subito: ha già aspettato troppo. » Il cappellano si mosse, dicendo tra sé: — non c’è rimedio: tutti questi
santi sono ostinati. —
Aperto l’uscio, e affacciatosi alla stanza dov'era il signore e la brigata, vide questa ristretta in una parte, a bisbigliare e a guardar di sott'occhio quello, lasciato solo in un canto. S’avviò verso di lui; e intanto squadrandolo, come poteva, con la coda dell’occhio, andava pensando che diavolo d’armeria DI poteva esser nascosta sotto quella casacca; e che, veramente, prima d’introdurlo, avrebbe dovuto proporgli almeno... ma non si seppe risolvere. Gli s’accostò, e disse: « monsignore aspetta vossignoria. Si contenti di venir con me.» E precedendolo in quella piccola folla, che subito fece ala, dava a destra e a sinistra occhiate, le quali significavano: cosa volete? non lo sa40 pete anche voi altri, che fa sempre a modo suo? Appena introdotto l’innominato, Federigo gli andò incontro, con un volto premuroso e sereno, e con le braccia aperte, come a una persona desiderata, e fece subito cenno al cappellano che uscisse: il quale ubbidì. I due rimasti stettero alquanto senza parlare, e diversamente sospesi.
27-28. Fatelo entrar subito... osserva come ha parlato e come parla Federigo. È stato dolce nel rimprovero al suo cappellano, gli ha dato una pacata lezione di vita con l'esempio di san Carlo: poi, tronca e dà un ordine netto che non ammette replica. 29. Il cappellano si mosse...: con quanto sconforto! e senza aver capito nulla: soltanto che i santi sono tutti « ostinati ». Non molto diversa sarà la conclusione a cui più di una volta arriverà don Abbondio sul conto del Cardinale. Ma fra i due paurosi, che spesso vengono accostati, vi è una notevole differenza: don Abbondio pensa soltanto per sé, il cappellano nel suo timore è anche altruista. Certo il suo è un altruismo limitato, da uomo limitato com’è lui. Ma in questo sta proprio la sua funzione artistica, che è quella di contribuire a porre ancor più in evidenza le virtù del Cardinale: il personaggio che ora occorre al M. avere nella luce più viva. 32. a bisbigliare... di sott’occhio...: la scena tratteggiata nelle linee essenziali è perfetta. Da una parte vedi tutto quel gruppo di pavidi, chiusi nel loro piccolo mondo di pettegolezzi e di paure, dall’altra parte,
solo, il grande peccatore; che la solitudine rende più eroico, nella sua muta tragedia. 35. sotto quella casacca: sappiamo che c'erano due pistole e un pugnale. Il povero cappellano ha riguardo di proporre all’Innominato di depositare tutta quella roba. Non gli resta che dare occhiate espressive « a destra e a sinistra »: la sua vita poetica è ora tutta lì. 43. il quale ubbidì: non è un’aggiunta superflua, perché il cappellano non poteva fare altrimenti. Le parole fissano lo scomparire dell’ultimo diaframma fra i due protagonisti, l’Innominato e il Cardinale. ° 44. I due rimasti...: è una delle scene culminanti
e determinanti
del romanzo,
e il
suo inizio si può giudicare uno dei momenti più felici di tutto l’incontro di questi che sono i più alti personaggi della « storia », ora l’uno di fronte all’altro. Per ciascuno di essi basta al M. qualche rapida espressione per scolpirne tutta l’essenza spirituale: l’agitazione opprimente dell’Innominato, combattuto da passioni diversissime;
la pace interiore del Cardinale, sublimata da una trepidazione profonda, Ma il M., che è tanto grande maestro nel saper condur-
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L’innominato, ch'era stato come portato lì per forza da una smania inesplico-
anche cabile, piuttosto che condotto da un determinato disegno, ci stava spequella me per forza, straziato da due passioni opposte, quel desiderio e
ranza confusa di trovare un refrigerio al tormento interno, e dall’altra parte so, una stizza, una vergogna di venir lì come un pentito, come un sottomes tronon e come un miserabile, a confessarsi in colpa, a implorare un uomo: vava parole, né quasi ne cercava. Però, alzando gli occhi in viso a quell’uo-
mo, si sentiva sempre più penetrare da un sentimento di venerazione imperioso insieme e soave, che, aumentando la fiducia, mitigava il dispetto, e senza prender l’orgoglio di fronte, l’abbatteva, e, dirò così, gl’imponeva silenzio.
La presenza di Federigo era infatti di quelle che annunziano una supe-
riorità, e la fanno amare. Il portamento era naturalmente composto, e quasi
involontariamente maestoso, non incurvato né impigrito punto dagli anni; l'occhio grave e vivace, la fronte serena e pensierosa; con la canizie, nel
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pallore, tra i segni dell’astinenza, della meditazione, della fatica, una specie di floridezza verginale: tutte le forme del volto indicavano che, in altre età, c'era stata quella che più propriamente si chiama bellezza; l’abitudine de’
pensieri solenni e benevoli, la pace interna d’una lunga vita, l’amore degli
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uomini, la gioia continua d’una speranza ineffabile, vi avevano sostituita una, direi quasi, bellezza senile, che spiccava ancor più in quella magnifica semplicità della porpora. Tenne anche lui, qualche momento, fisso nell’aspetto dell’innominato il suo sguardo penetrante, ed esercitato da lungo tempo a ritrarre dai sembianti i pensieri; e, sotto a quel fosco e a quel turbato, parendogli di scoprire sempre più qualcosa di conforme alla speranza da lui concepita al primo annunzio d’una tal visita, tutt'animato, « oh! » disse: « che preziosa visita è que,
re i dialoghi, qui si rivela grandissimo soprattutto nel ritrarre un lungo silenzio e le variazioni
che, in esso,
si. attuano
dei
sentimenti dei due protagonisti. 49. una stizza, una vergogna: il ritratto dell’Innominato, muto di fronte al Cardinale, è centrato su quel ribollimento interiore, che indica l’ultima apparizione dell’uomo antico, e cede di momento in momento al « refrigerio » misterioso della presenza del Cardinale. 56. La presenza di Federigo...: anche questo ritratto fisico è, come tanti altri del M., un ritratto essenzialmente spirituale, in quanto nei suoi lineamenti esteriori porta il riflesso delle qualità interiori. In particolare le note della bellezza fisica si trasfigurano, qui, in altrettanti elementi di bellezza spirituale. A ciò contribuisce non poco il linguaggio, sia coi sapienti accoppiamenti di aggettivi, in cui le doti diverse si integrano in un’armonica trasparenza — l’occhio grave e vivace, la fronte serena e pensierosa, i pensieri solenni e benevoli... —, sia con tutto l'andamento del periodo, il quale ha una vibrazione solenne, che si addice alla nobiltà della figura. Ò
65-66. magnifica semplicità della porpora: stupendo tocco finale. Mentre mostra un altro contemperamento di doti, così tipico di tutto il ritratto del Cardinale — magnifica semplicità — contribuisce, ancor più delle note precedenti, a richiamare alla mente, per ragione di contrasto, i motivi fondamentali del ritratto dell’Innominato, scolpito nel cap. XX: la durezza dei lineamenti, il travaglio dell’anima, il vestito militaresco. Ora che la porpora è vicina alla casacca, i due ritratti si danno rilievo a vicenda. Vediamo uomini che rappresentano due vite e due mondi completamente diversi, ma che possiedono, ambedue, una virtù che crea la possibilità dell’incontto e del colloquio: la lealtà che sempre ha governato, o nel bene o nel male, la condotta dell’uno o dell’altro. 71. «oh!» disse: «che preziosa. visita... »: se è vero, come è stato detto da un critico, che il momento più alto del colloquio fra il Cardinale e l’Innominato è il silenzio, è altrettanto vero che il momento più difficile, data la complessità della situazione, era l’inizio del discorso. Occorrevano parole capaci non solo di avviare un dialogo rompendo il ghiaccio, ma anche
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sta! e quanto vi devo esser grato d’una sì buona risoluzione; quantunque per me ‘abbia un po’ del rimprovero! »
« Rimprovero! » esclamò il signore maravigliato, ma raddolcito da quelle
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patole e da quel fare, e contento che il cardinale avesse rotto il ghiaccio, e
avviato un discorso qualunque. « Certo, m’è un rimprovero, » riprese questo, « ch’io mi sia lasciato pre-
venir da voi; quando, da tanto tempo, tante volte, avrei dovuto venir da
voi io. » « Da me, voi! Sapete chi sono? V’hanno detto bene il mio nome? »
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« E questa consolazione ch’io sento, e che, certo, vi si manifesta nel mio aspetto, vi par egli ch'io dovessi provarla all’annunzio, alla vista d’uno sconosciuto? Siete voi che me la fate provare; voi, dico, che avrei dovuto cercare; voi che almeno ho tanto amato e pianto, per cui ho tanto pregato; voi, de’ miei figli, che pure amo tutti e di cuore, quello che avrei più desiderato d’accogliere e d’abbracciare, se avessi creduto di poterlo sperare. Ma Dio sa fare Egli solo le maraviglie, e supplisce alla debolezza, alla lentezza de’ suoi poveri servi. » L’innominato stava attonito a quel dire così infiammato, a quelle parole, che rispondevano tanto risolutamente a ciò che non aveva ancor detto, né era ben determinato di dire; e commosso ma sbalordito, stava in silenzio. « E che? » riprese, ancor più affettuosamente, Federigo: « voi avete una buona nuova da darmi, e me la fate tanto sospirare? » « Una buona nuova, io? Ho l’inferno nel cuore; e vi darò una buona nuova? Ditemi voi, se lo sapete, qual è questa buona nuova che aspettate da un par mio. » « Che Dio v’ha toccato il cuore, e vuol farvi suo, » rispose pacatamente il cardinale. di esprimere, allo stesso tempo, la diversa personalità e la diversa commozione degli interlocutori. Il M. le ha trovate: quello
che il Cardinale dice per primo è « discorso qualunque » solo nel senso che dà al. l’Innominato la possibilità di superare il disagio: ma è un discorso che, mentre rende completamente il calore della tensione di Federigo, suona tutto familiarità e delicatezza
alle orecchie
del nuovo
venuto,
e
gli apre il cuore all’effusione e alla speranza. 78-79. venir da voi io: secondo l’insegnamento evangelico del pastore che va in cerca della pecorella smarrita. L’accusa che Federigo fa a se stesso nasce da zelo pastorale; ma è anche un modo cortese d’incominciare il colloquio; e questa cortesia durerà per tutto l’incontro, ma specialmente nella prima parte, quando il Cardinale, più che catechizzare l’animo di un peccatore, vuol conquistare il cuore di un amico. E per conquistarlo ha un tatto finissimo, alimentato da consumata esperienza nel percepire turbamenti e desideri nascosti. 87. Egli: è un pleonasmo enfatico. E un po’ enfatico è tutto il periodo, specie per
la ripetizione di voi e il calore che lo pervade sempre più che procede. A proposito di questo e di successivi discorsi del Cardinale, alcuni critici, il Russo in particolare, parlano di « allocuzione sacra », di « colloquio lirico » in cui il personaggio a un certo punto « pare dimentichi chi gli sta dinanzi, per sentir risonare la sua parola, come se
parlasse ad una folla di fedeli ». Ora, pur non mancando un tono oratorio, un accento sacro e una certa enfasi nel Cardinale, qui non si tratta tanto d’insensibilità della situazione o, peggio, di un cantare a sé stes-
so « in dolce angoscia » il proprio lamento religioso, quanto di un modo di esprimersi che si è ormai connaturato con l’uomo di chiesa (press’'a poco come avviene più d’una volta con padre Cristoforo), ma nel quale la passione dell'anima e la nobilità del sentimento vibrano con assoluta verità. 94. Ho l'inferno nel cuore: il grido spontaneo, irruento dice il tormento interiore ed è invocazione disperata d’aiuto. 97-98. rispose pacatamente il cardinale: proprio nella risposta pacata, umanissima, sta l'invito più accettabile ad aprite il cuore alla confidenza.
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« Dio! Dio! Dio! Se lo vedessi! Se lo sentissi! Dov'è questo Dio? » « Voi me lo domandate? voi? E chi più di voi l’ha-vicino? Non ve lo sentite in cuore, che v’opprime, che v’agita, che non vilascia stare, e nello stesso tempo v’attira, vi fa presentire una speranza di quiete, di consolazione, d’una consolazione che sarà piena, immensa, subito che voi lo riconosciate, I i lo confessiate, l’imploriate? » Dio! Ma rode! mi che « Oh, certo! ho qui qualche cosa che m’opprime, Se c’è questo Dio, se è quello che dicono, cosa volete che faccia di me? » Queste parole furon dette con un accento disperato; ma Federigo, con un tono solenne, come di placida ispirazione, rispose: -« cosa può far Dio di voi? cosa vuol farne? Un segno della sua potenza e della sua bontà: vuol cavar da voi una gloria che nessun altro gli potrebbe dare. Che il mondo gridi da tanto tempo contro di voi, che mille e mille voci detestino le vostre opere... » (l’innominato si scosse, e rimase stupefatto un momento nel sentir quel linguaggio così insolito, più stupefatto ancora di non provarne sdegno, anzi quasi un sollievo); « che gloria, » proseguiva Federigo, « ne vien a Dio? Son voci di terrore, son voci d’interesse; voci forse anche di giustizia, ma d’una
giustizia così facile, così naturale! alcune forse, pur troppo, d’invidia di codesta vostra sciagurata potenza, di codesta, fino ad oggi, deplorabile sicurezza d’animo. Ma quando voi stesso sorgerete a condannare la vostra vita, ad accusar voi stesso, allora! allora Dio sarà glorificato! E voi domandate cosa 120
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Dio possa far di voi? Chi son io pover’uomo, che sappia dirvi fin d’ora che profitto possa ricavar da voi un tal Signore? cosa possa fare di codesta volontà impetuosa, di codesta imperturbata costanza, quando l’abbia animata; infiammata d’amore, di speranza, di pentimento? Chi siete voi, pover’uomo,
che vi pensiate d’aver saputo da voi immaginare e fare cose più grandi nel male, che Dio, non possa farvene volere e operare nel bene? Cosa può Dio far di voi? E perdonarvi? e farvi salvo? e compire in voi l’opera della redenzione? Non son cose magnifiche e degne di Lui? Oh pensate! se io omi99. Dio! Dio! Dio!: « È l’espressione più drammatica di tutto il colloquio, dove la parola Dio, come un lampo, illumina all’improvviso e lascia intravedere tutto un mondo rotto e misterioso di travagliati sentimenti, quel travaglio che è già intanto speranza confusa di un refrigerio ». Così il Russo. Aggiungiamo che questo è il punto a cui tutto il romanzo sembra convergere: punto d’arrivo nella ricerca affannosa di un approdo di pace, punto di partenza per il compimento sereno di ogni umana vicenda. 101. che v'opprime, che v’agita: è il Dio « Che atterra e suscita, Che affanna e che consola » (Cinque maggio): quel Dio che da gran tempo l’Innominato « non si curava di negare né di riconoscere », ma che «in certi momenti [...] gli pareva sentirlo gridar dentro di sé: Io sono però» (Cap. XX). Non occorre insistere sull’elemento autobiografico di questo passo: è evidente che tanto il tormento interiore dell’Innominato, quanto la passione e l’anelito eloquente del Cardinale, nascono da un'esperienza ‘perso-
nalmente vissuta dal M. attraverso la propria conversione. 109. Un segno della sua potenza e della sua bontà: perché solo Dio, con la sua potenza e la sua misericordia, poteva fare di un malvagio un santo, di un tiranno un soccorritore. 116-117. codesta vostra sciagurata potenza: le parole del Cardinale hanno un crescendo grandioso; paiono la voce di un antico profeta. flagellatore delle colpe degli uomini. Ma questa è proprio la voce che occorreva per l’Innominato, perché è. quella che meglio lo aiuta a condannare, una volta per sempre, il passato. 125-126. Cosa può Dio far di voi?: ecco, dopo la demolizione dell’uomo vecchio, la costruzione dell’uomo nuovo. Forgiato dalla mano di Dio, egli diverrà strumento di Dio stesso nella sua opera di amore e di redenzione: e in quest'opera Dio userà proprio quanto l’uomo vecchio già possedeva di più grande e di più nobile: la franchezza, il coraggio, la generosità...
capitolo XXIII
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ciattolo, io miserabile, e pur così pieno di me stesso, io qual mi sono, mi
struggo ora tanto della vostra salute, che per essa darei con gaudio (Egli m'è
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testimonio) questi pochi giorni che mi rimangono; oh pensate! quanta, quale
debba essere la carità di Colui che m’infonde questa così imperfetta, ma
così viva; come vi ami, come vi voglia Quello che mi comanda e m’ispira un amore per voi che mi divora! » A misura che queste parole uscivan dal suo labbro, il volto, lo sguardo,
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ogni moto ne spirava il senso. La faccia del suo ascoltatore, di stravolta e
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convulsa, si fece da principio attonita e intenta; poi si compose a una commozione più profonda e meno angosciosa; i suoi occhi, che dall’infanzia più non conoscevan le lacrime, si gonfiarono; quando le parole furon cessate, si coprì il viso con le mani, e diede in un dirotto pianto, che fu come l’ultima e più chiara risposta. « Dio grande e buono! » esclamò Federigo, alzando gli occhi e le mani al cielo: « che ho mai fatto io, servo inutile, pastore sonnolento, perché Voi mi chiamaste a questo convito di grazia, perché mi faceste degno d’assistere a un sì giocondo prodigio! » Così dicendo, stese la mano a prender quella dell’innominato.
« No! » gridò questo, « no! lontano, lontano da me voi: non lordate quella mano innocente e benefica. Non sapete tutto ciò che ha fatto questa che volete stringere. » 150
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« Lasciate, » disse Federigo, prendendola con amorevole violenza, « lasciate ch'io stringa codesta mano che riparerà tanti torti, che spargerà tante beneficenze, che solleverà tanti afflitti, che si stenderà disarmata, pacifica, umile a tanti nemici. »
« È troppo!» disse, singhiozzando, l’innominato. « Lasciatemi, monsignore; buon Federigo, lasciatemi. Un popolo affollato v’aspetta; tant’anime buone, tant’innocenti, tanti venuti da lontano, per vedervi una volta, per sentirvi:
e voi vi trattenete...
« Lasciamo
le novantanove
con
chi! »
pecorelle, » rispose il cardinale:
132-133. un amore per voi che mi di. vora: è un’espressione biblica: «Lo zelo per la tua casa mi divora » canta il Salmo 82. Rientra quindi nel tono ecclesiale, spontaneo nell’arcivescovo. Questo aspetto della personalità di Federigo, come abbiamo già detto, occorre tenerlo sempre presente: ma specialmente ora, se non si vuole accusare tutto il suo discorso — così armonico nelle parti, così caldo di passione, così assolutamente aderente alla personalità e alle esi genze dell’interlocutore — di essere un susseguirsi di interrogazioni retoriche, di amplificazioni e ripetizioni oratorie; e se non si vuole accusare il Cardinale — che è, sì, figura « ideale » — di essere addirittura un « impersonale banditore » della bella Immortal benefica Fede ai trionfi avvezza. 134-140. A misura... chiara risposta: il periodo, semplicissimo e tutto essenziale nel suo svolgersi, crea un magnifico ritratto in movimento dell’Innominato, il quale ha sem-
pre una reazione adeguata al senso e al vi-
«sono
in
gore delle frasi del Cardinale. Si pensi alla conclusione ultima: quel pianto dirotto non può essere che risposta a parole d’amore: e quell’« amor per voi che mi divora» era stata l’estrema espressione di Federigo. 154. buon Federigo, lasciatemi: sono le parole più dolci dell’Innominato in tutto il colloquio. La sua commozione è arrivata al colmo; e così la sua gratitudine. Un nodo d’affetto fraterno si è stabilito fra il santo e il peccatore redento, ancor prima che l’abbraccio lo sanzioni per sempre. 154-156. tant’'anime buone... con chi!: c’è qui uno dei segni più grandi della conversione; l’uomo superbo, orgoglioso, quello che non aveva mai avuto alcuno sopra di sé, ora si sente l’ultimo, il più indegno di tutti; e proprio lui ha una parola d’amore per gli umili «venuti da lontano»: quelli stessi che poco prima aveva chiamato canaglia. 157. Lasciamo le novantanove pecorelle...: il ricordo evangelico viene spontaneo sulle
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sicuro sul monte: io voglio ora stare con quella ch'era smarrita. Quell’anime son forse ora ben più contente, che di vedere questo povero vescovo. Forse Dio, che ha operato in voi il ‘prodigio della misericordia, diffonde in esse una gioia di cui non sentono ancora la cagione. Quel popolo è forse unito a noi senza saperlo: forse lo Spirito mette ne’ loro cuori un ardore indistinto di carità, una preghiera ch’esaudisce per voi, un rendimento di grazie di cui
voi siete l'oggetto non ancor conosciuto. » Così dicendo, stese le braccia al collo dell’innominato; il quale, dopo aver tentato di sottrarsi, e resistito un momento, cedette, come vinto da quell’impeto di carità, abbracciò anche lui il cardinale, e abbandonò sull’omero di lui il suo volto tremante e mutato. Le sue lacrime ardenti cadevano sulla porpora incontaminata di Federigo; e le mani incolpevoli di questo stringevano affettuosamente quelle membra, premevano quella casacca, avvezza a portar l’armi della violenza e del tradi-
mento. L’innominato, sciogliendosi da quell’abbraccio, si coprì di nuovo gli occhi con una mano, e, alzando insieme la faccia, esclamò:
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« Dio veramente gran-
de! Dio veramente buono! io mi conosco ora, comprendo chi sono; le mie iniquità mi stanno davanti; ho ribrezzo di me stesso; eppure...! eppure provo un refrigerio, una gioia, sì una gioia, quale non ho provata mai in tutta que4 sta mia orribile vita! » « È un saggio, » disse Federigo, « che Dio vi dà per cattivarvi al suo servizio, per animarvi ad entrar risolutamente nella nuova vita in cui avrete tanto da disfare, tanto da riparare, tanto da piangere! » « Me sventurato! » esclamò il signore, « quante, quante... cose, le quali non potrò se non piangere! Ma almeno ne ho d’intraprese, d’appena avviate, che posso, se non altro, rompere a mezzo: una ne ho, che posso romper subito, disfare, riparare. » Federigo si mise in attenzione; e l’innominato raccontò brevemente, ma con parole d’esecrazione anche più forti di quelle che abbiamo adoprato noi, la prepotenza fatta a Lucia, i terrori, i patimenti della poverina, e come aveva labbra del Cardinale. Non è una frase di circostanza, ma una confortante offerta al cuore dell’Innominato: « io voglio stare con quella ch’era smarrita ». 159-164. Forse Dio... conosciuto: il consolante mistero della comunione dei Santi, quel divino potere che lega le anime di tutti i credenti in un mistico corpo ove i me-
riti degli uni vanno a vantaggio degli altri, è espresso dal Cardinale con parole dolcissime. Esse costituiscono per l’Innominato la sua riconsacrazione nel cerchio dei buoni; e la folla che aspetta e prega nella chiesetta gremita sembra spiritualmente assistere al miracolo della Grazia redentrice. (Cfr. Cap. XXI,
n.
379-386).
167. volto tremante e mutato: di tutta la scena dell’abbraccio, felice conclusione del colloquio, questa è la nota più commovente e poetica. Tremzante per l’incontro convulso di dolore e di gioia; mutato per la serenità nuova della pace sicura.
173-174. Dio veramente
grande!...» buo-
no!: il Cardinale poco prima aveva esclamato « Dio grande e buono! » L’Innominato sembra non saper dire niente di diverso; ma quell’aggiunta « veramente » è conferma del riconoscimento totale di quel Dio fino ad ora sconosciuto e trascurato. 174-175. le mie iniquità mi stanno davanti: questo è, press’a poco, un versetto del salmo Miserere: « peccatum meum contra me est semper ». Ma la reminiscenza biblica, naturale sulla bocca del Cardinale, sarebbe una grossa stonatura su quella dell’Innominato. Per questo l’origine della frase è da ricercarsi nel ricordo degli incubi della notte, quando, su l’orlo della disperazione, l'animo «consapevole e nuovo » si era viste schierate davanti le scelleratezze compiute nella lunga vita: ed «eran tutte sue, eran lui» (Cap. XXI). 183. una ne ho: Lucia. Con Lucia si era conclusa l’esistenza dell’uomo vecchio, con Lucia s’inizia quella dell’uomo nuovo. Cfr. Cap. XX, n. 163-170,
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implorato, iej la smania che quell’implorare aveva messa addosso a lui, e come essa era ancor nel castello... «Ah, non perdiam tempo!»
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esclamò Federigo, ansante di pietà e di sollecitudine. « Beato voi! Questo è pegno del perdono di Dio! far che possiate diventare strumento di salvezza a chi volevate esser di rovina. Dio vi
benedica! Dio v’ha benedetto! Sapete di dove sia questa povera nostra tra-
vagliata » Il signore nominò il paese di Lucia. « Non è lontano di qui, » disse il cardinale: « lodato sia Dio; e probabilmente... » Così dicendo, corse a un tavolino, e scosse un campanello. E subito entrò con ansietà il cappellano crocifero, e pet la prima cosa, guardò l’innominato; e vista quella faccia mutata, e quegli occhi rossi di pianto,
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guardò il cardinale; e sotto quell’inalterabile compostezza, scorgendogli in volto come un grave contento, e una premura quasi impaziente, era per ri-
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manere estatico con la bocca aperta, se il cardinale non l’avesse subito svegliato da quella contemplazione, domandandogli se, tra i parrochi radunati lì, si trovasse quello di *** « C'è, monsignore illustrissimo, » rispose il cappellano. « Fatelo venir subito. » disse Federigo, « e con lui il parroco qui della chiesa. » Il cappellano uscì, e andò nella stanza dov’eran que’ preti riuniti: tutti gli occhi si rivolsero a lui. Lui, con la bocca tuttavia aperta, col viso ancor tutto dipinto di quell’estasi, alzando le mani, e movendole
per aria, disse:
« signori! signori! baec mutatio dexterae Excelsi ». E stette un momento senza dir altro. Poi, ripreso il tono e la voce della carica, soggiunse: « sua signoria illustrissima e reverendissima vuole il signor curato della parrocchia, e il signor curato di ***. » 215
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Il primo chiamato venne subito avanti, e nello stesso tempo uscì di
mezzo alla folla un: « io? » strascicato, con un’intonazione di maraviglia. « Non è lei il signor curato di ***? » riprese il cappellano. « Per l’appunto; ma... » « Sua Signoria illustrissima e reverendissima vuol lei. » « Me? » disse ancora quella voce, significando chiaramente in quel monosillabo: come ci posso entrar io? Ma questa volta, insieme con la voce, venne 202. estatico con la bocca aperta: com'è umano e com’è candido questo povero cap-
pellano, che pure è tanto affezionato al suo superiore e che il cuore, in fondo, non l’ha insensibile. Qualcuno, a questo punto, crede di poter accostare la sua figura a quella di Sancho Pancia, altri a quella del fra Diodat del Porta...: ma, forse, nel cappellano, ora, c'è da vedere soltanto una macchietta sbozzata dal M. per creare un intermezzo poetico opportuno fra la tragedia e la commedia: cioè, tra il gruppo statuario Cardinale-Innominato e l’assolo don Abbondio. 209-212. Lui,... senza dir altro: l’estasi si completa in questo nuovo indimenticabile ritratto dell’uomo, che non può far altro
che gridare al miracolo:
« Questo
muta:
x
mento è opera della mano dell’Altissimo ». Spontaneo e naturalissimo anche qui il salmo biblico, come poi quel riprendere, solenne e compassato, «il tono e la voce
della carica ». 216. io?: ecco che cosa compare, dapprima, di don Abbondio: non la persona, che resta nascosta e anonima fra la folla, ma una voce strascicata: una parola sola, la più corta possibile, ma che già rivela tutta l’uggia di dover uscire dal cantuccio lontano e sicuro. E i monosillabi che verranno dopo (« ma », « me? ») sembreranno anch'essi, dice acutamente un critico, « rannicchiati come a difesa di quel pavido corpo
nascosto ».
221-222. venne
fuori
l’uomo,
don
Ab-
bondio...: e con la sua comparsa tutto il rac-
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fuori l’uomo, don Abbondio in persona, con un passo forzato, e con un viso
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tra l’attonito e il disgustato. Il cappellano gli fece un cenno con la mano, che voleva dite: a noi; andiamo; ci vuol tanto? E precedendo i due curati, andò all’uscio, l’aprì, e gl’introdusse. Il cardinale lasciò andar la mano dell’innominato, col quale intanto aveva concertato quello che dovevan fare; si discostò un poco, e chiamò con un cenno
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il curato della chiesa. Gli disse in succinto
di che si trattava;
e se saprebbe trovar subito una buona donna che volesse andare in una lettiga al castello, a prender Lucia: una donna di cuore e di testa, da sapersi ben governare in una spedizione così nuova, e usar le maniere più a proposito, trovar le parole più adatte, a rincorare, a tranquillizzare quella poverina, a cui dopo tante angosce, e in tanto turbamento, la liberazione stessa poteva metter nell’animo una nuova confusione. Pensato un momento, il curato disse che aveva la persona a proposito, e uscì. Il cardinale chiamò con un altro cenno il cappellano, al quale ordinò che facesse preparare subito la lettiga e i lettighieri, e sellare due mule. Uscito anche il cappellano si voltò a don Abbondio. Questo, che già gli era vicino, per tenersi lontano da quell’altro signore, intanto dava un’occhiatina di sotto in su ora all’uno ora all’altro, seguiche e tando a almanaccar tra sé che cosa mai potesse essere tutto quel rigirìo, s’accostò di più, fece una riverenza, e disse: « m'hanno significato che vossignoria illustrissima mi voleva me; ma io credo che abbiano sbagliato ». « Non hanno sbagliato, » rispose Federigo: «ho una buona nuova da darvi, e un consolante, un soavissimo incarico. Una vostra parrocchiana, che avrete pianta per ismarrita, Lucia Mondella, è ritrovata, è qui vicino, in casa di questo mio caro amico; e voi anderete ora con lui e con una donna che il signor curato di qui è andato a cercare, anderete, dico, a prendere quella
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vostra creatura, e l’accompagnerete qui. » Don Abbondio fece di tutto per nascondere la noia, che dico? l’affanno e l’amaritudine che gli dava una tale proposta, o comando che fosse; e non essendo più a tempo a sciogliere e a scomporre un versaccio già formato sulla conto cambia definitivamente tono. Al motivo drammatico della conversione del peccatore subentra, e durerà a lungo, quello eroicomico del povero prete, sulla cui testa è capitata — anche questa volta quando meno se l’aspettava — la tegola di una impresa più grande di lui. 241. rigiro: è la parola più giusta. Che altro poteva passare per la testa agitata del povero don Abbondio di ‘fronte a tutti quei cenni e quegli ordini, a tutto quell’andare e venire? 242-243. m'hanno significato... sbagliato: com’è contorto e confuso il discorso di don Abbondio: almeno quanto la sua testa, in questo momento. É come, poveretto, vorrebbe illudersi: «io credo che abbiano sbagliato ». Ma Ila comicità maggiore sta in quel « mi voleva me »: non si sa in qual modo impaccio e paura avrebbero potuto esser resi meglio di così. 244-245. una buona nuova... un soavissi-
mo incarico: ci ricorderemo fra poco di queste parole. Di fronte a tutto il successivo comportamento di don Abbondio, il discorso che ora il Cardinale gli rivolge, potrebbe addirittura sembrarci nato da un gusto malizioso del M. ai danni del povero prete. Ci pare, invece, sagace intuizione psicologica e poetica l’aver creato due figure di uomini di chiesa tanto diametralmente opposti, che fra loro non esiste punto alcuno d’incontro. Per questo il Cardinale fraintenderà don Abbondio, e don Abbondio non capirà il Cardinale: mai. 247. questo mio caro amico: è un’espressione di gentilezza cordiale con l’Innominato, è un’esortazione intelligente a don Abbondio perché non tema: ma la parola ha effetto col primo, non l’ha certamente col secondo, 250-251. la noia... l’amaritudine: ecco dove sono andati a finire la « buona novella » e il « consolante... soavissimo incarico »!
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sua faccia, lo nascose, chinando profondamente la testa, in segno d’ubbi-
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dienza. E non l’alzò che per fare un altro profondo inchino all’innominato,
con un’occhiata pietosa che diceva: sono nelle vostre mani: abbiate misericordia: parcere subjectis. Gli domandò poi il cardinale, che parenti avesse Lucia. « Di stretti, e con cui viva, o vivesse, non ha che la madre, » rispose don Abbondio. « E questa si trova al suo paese? » « Monsignor, sì. » « Giacché », riprese Federigo, « quella povera giovine non potrà esser così presto restituita a casa sua, le sarà una gran consolazione di veder subito la madre: quindi, se il signor curato di qui non torna prima ch'io vada in chiesa, fatemi voi il piacere di dirgli che trovi un baroccio o una cavalcatura; e spedisca un uomo di giudizio a cercar quella donna, per condurla qui. »
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« E se andassi io? » disse don Abbondio. « No, no, voi: v’ho già pregato d’altro, » rispose il cardinale. « Dicevo, » replicò don Abbondio, « per disporre quella povera madre. È una donna molto sensitiva; e ci vuole uno che la conosca, e la sappia prendere per il suo verso per non farle male in vece di bene. » « E per questo, vi prego d’avvertire il signor curato che scelga un uomo di proposito: voi siete molto più necessario altrove, » rispose il cardinale. E avrebbe voluto dire: quella povera giovine ha molto più bisogno di veder subito una faccia conosciuta, una persona sicura, in quel castello, dopo tante ore di spasimo, e in una terribile oscurità dell'avvenire. Ma questa non era ragione da dirsi così chiaramente davanti a quel terzo. Parve però strano al cardinale che don Abbondio non l’avesse intesa per aria, anzi pensata da sé; e così fuor di luogo gli parve la proposta e l’insistenza, che pensò doverci esser sotto qualche cosa. Lo guardò in viso, e vi scoprì facilmente la paura di viaggiare con quell’uomo tremendo, d’andare in quella casa, anche per pochi momenti. Volendo quindi dissipare affatto quell’'ombre codarde, e non piacendogli di tirare in disparte il curato e di bisbigliar con lui in segreto, mentre il suo nuovo amico era lì in terzo, pensò che il mezzo più opportuno era di far ciò che avrebbe fatto anche senza questo motivo, parlare all’innominato medesimo; e dalle sue risposte don Abbondio intenderebbe finalmente
256. parcere subjectis: aver pietà dei sottomessi (e debellare i superbi, continua il famoso verso virgiliano, Ereide, VI). Ma a quel latino epico ora non pensa certamente don Abbondio; ci pensa maliziosamente il M. per rivestirne il terrore di nuovo umorismo.
268. E se andassi io?: don Abbondio è come il naufrago che, sentendosi l’acqua alla gola, si afferra al primo appiglio che trova e non pensa se sia adatto o no a salvarlo: così egli non pensa a quanto sia fuor di luogo questa sua domanda. Anzi, subito dopo, farà di tutto per mostrare che è proprio lui che dovrebbe andare da Agnese: «È una donna molto sensitiva », e per disporla « ci
vuole uno che la conosca, ecc., ecc.... ». An-
che a faccia tosta sta bene il nostro curato!
Ma del suo egoismo conosciamo effetti peggiori che non questa maschera di altruismo! 283. quell’ombre codarde: il Cardinale, che evidentemente non conosce don Abbondio, pensa che si tratti di una paura passeggera — ombre codarde — più che naturale
in un uomo semplice e dabbene, che tutt’a
un tratto si trova a doversi avventurare in un viaggio insieme con un tipo come l’Innominato. Ma noi che sappiamo bene di che natura sia la paura del curato, e quanto profonda e congenita, abbiamo qui un altro
motivo di sorriso. Di questi motivi, si può dire che al M.. non ne sfugga uno.
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i promessi sposi
che quello non era più un uomo da averne paura. S’avvicinò dunque all’innominato, e con quell’aria di spontanea confidenza, che si trova in una nuova e potente affezione, come in un’antica intrinsichezza, « non crediate, » gli disse, « ch'io mi contenti di questa visita per oggi. Voi tornerete, n’è vero? in compagnia di questo ecclesiastico dabbene? » « S'io tornerò? » rispose l’innominato: «quando voi mi rifiutaste, rimarrei ostinato alla vostra porta, come il povero. Ho bisogno di parlarvi! ho
bisogno di sentirvi! di vedervi! ho bisogno di voi! » Federigo gli prese la mano, gliela strinse, e disse: « favorirete dunque
di restare a desinare con noi. V’aspetto. Intanto, io vo a pregare, e a ren300
der grazie col popolo; e voi a cogliere i primi frutti della misericordia. » Don Abbondio, a quelle dimostrazioni, stava come un ragazzo pauroso che veda uno accarezzar con sicurezza un suo cagnaccio grosso, rabbuffato, con gli occhi rossi, con un nomaccio famoso per morsi e per ispaventi, e senta dire al padrone che il suo cane è un buon bestione, quieto, quieto: guarda il padrone, e non contraddice né approva; guarda il cane, e non ar-
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disce accostarglisi, per timore che il buon bestione non gli mostri i denti, fosse anche per fargli le feste; non ardisce allontanarsi, per non farsi scorgere; e dice in cuor suo: oh se fossi a casa mia! AI cardinale, che s’era mosso per uscire, tenendo sempre per la mano e conducendo seco l’innominato, diede di nuovo nell’occhio il pover’'uomo, che rimaneva indietro, mortificato, malcontento, facendo il muso senza volerlo. E pensando che forse quel dispiacere gli potesse anche venire dal parergli
d’esser trascurato, e come lasciato in un canto, tanto più in paragone d’un facinoroso così ben accolto, così accarezzato, se gli voltò nel passare, si fermò un momento, e con un sorriso amorevole, gli disse: « signor curato, voi siete sempre con me nella casa del nostro buon Padre; ma. questo... questo 315
perierat, et inventus est ».
« Oh quanto me ne rallegro! » disse don Abbondio facendo una gran riverenza a tutt'e due in comune. L’arcivescovo andò avanti, spinse l’uscio, che fu subito spalancato di fuori da due servitori, che stavano uno di qua e uno di là: e la mirabile 299. come un ragazzo pauroso...: la similitudine, bellissima nell’evidenza di tutti i particolari, è forse un po’ troppo minuta ed insistente. È anche piena di umorismo, ma il suo effetto più grande è nel lamento finale, quando, scomparsi... il cane e il ragazzo, viene sulla scena solo lui, don Abbondio: «oh se fossi a casa mia! ». 308-309. il pover’uomo... facendo il muso...: uno dei ritratti più significativi di don Abbondio, il cui destino è, e sarà sempre, quello di rimzanere indietro, malcontento di tutto e di tutti. 315. perierat, et inventus est: era perduto e si è ritrovato. È, com’è noto, la conclusione della grande parabola del figliol prodigo che torna alla casa del padre. Le parole di Federigo a don Abbondio sono state suggerite da tanta nobiltà e generosità; ma anche qui scorgiamo la punta dell'umorismo manzoniano. Basti dire che il
Cardinale ha pensato che il suo « ecclesiastico dabbene » si dolesse d’essere trascurato e come lasciato in un canto: lui, che niente di meglio avrebbe desiderato che d’essere lasciato in disparte, anonimo, fra la folla degli altri preti! ‘ 316. Oh quanto me ne rallegro!: niente di più goffo e più convenzionale di questa esclamazione, se non la «gran riverenza a tutt'e due ». La risposta banale ti dice che don Abbondio non ha capito nulla neppure della cordialità segreta con cui l’arcivescovo ha cercato di parlargli riportando, in latino, l’espressione evangelica. 319-328. la mirabile coppia... Dietro veniva don Abbondio: è un quadro da ritrattista consumato: la coppia mirabile coi volti commossi, il clero raccolto con gli sguardi bramosi, e in fondo lui, « a cui nessuno badò ». Nessuno, potremmo aggiungere, meno
il M., che ha stabilito per il suo eroe il po-
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coppia apparve agli sguardi bramosi del clero raccolto nella stanza. Si videro que’ due volti sui quali era dipinta una commozione diversa, ma ugualmente
riconoscente, un’umile gioia nell’aspetto venerabile di Federigo; in quello dell’innominato, una confusione temperata di conforto, un nuovo pudore, 325
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una compunzione, dalla quale però traspariva tuttavia il vigore di quella selvaggia e risentita natura. E si seppe poi, che a più d’uno de’ riguardanti era allora venuto in mente quel detto d’Isaia: il lupo e l’agnello andranno ad un pascolo; il leone e il bue mangeranno insieme lo strame. Dietro veniva don Abbondio, a cui nessuno badò. Quando furono nel mezzo della stanza, entrò dall’altra parte l’aiutante di camera del cardinale, e gli s’accostò, per dirgli che aveva eseguiti gli ordini comunicatigli dal cappellano; che la lettiga e le due mule eran preparate, e s’aspettava soltanto la donna che il curato avrebbe condotta. Il cardinale gli disse che, appena arrivato questo, lo facesse parlar subito con don
Abbondio: e tutto poi fosse agli ordini di questo e dell’innominato; al quale strinse di nuovo la mano, in atto di commiato, dicendo: « v’aspetto ». Si «voltò a salutar don Abbondio, e s’avviò dalla parte che conduceva alla chiesa. Il clero gli andò dietro, tra in folla e in processione: i due compagni di viaggio rimasero soli nella stanza. Stava l’innominato tutto raccolto in sé, pensieroso, impaziente che venisse 340 il momento d’andare a levar di pene e di carcere la sua Lucia: sua ora in un senso così diverso da quello che lo fosse il giorno avanti: e il suo viso esprimeva un’agitazione concentrata, che all'occhio ombroso di don Abbondio poteva facilmente parere qualcosa di peggio. Lo sogguardava, avrebbe voluto attaccare un discorso amichevole; ma, — cosa devo dirgli? — pen345 sava: — devo dirgli ancora: mi rallegro? Mi rallegro di che? che essendo stato finora un demonio, vi siate finalmente risoluto di diventare un galantuomo come gli altri? Bel complimento! Eh eh eh! in qualunque maniera io le rigiri, le congratulazioni non vorrebbero dir altro che questo. E se sarà
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poi vero che sia diventato galantuomo: così ad un tratto! Delle dimostrazioni se ne fanno tante a questo mondo, e per tante cagioni! Che so io, alle volte? E intanto mi tocca a andar con lui! in quel castello! Oh che storia! che storia! che storia! Chi me l’avesse detto stamattina! Ah, se posso uscirne a salvamento, m’ha da sentire la signora Perpetua, d’avermi cacciato qui per
sto che meglio gli confà, e lì va sempre a scovarlo, suscitando i contrasti più vivi fra l’uomo tutto solo e il mondo che gli è d’intorno. 338. rimasero soli nella stanza: la pausa ci induce a pensare a quello che rimuginerà nella sua testa don Abbondio, rimasto solo con quel compagno di viaggio. Ma il monologo che segue supera certamente le virtù comiche della nostra fantasia, restando pur sempre entro la coerenza del personaggio. Il quale, come sappiamo, non è solo paura, ma anche grettezza, furbizia, egoismo... e tante altre cose ancora, che tutte, nelle pagine seguenti, troveranno una gioiosa manifestazione poetica.
340. la sua Lucia: la grande carica affettiva del possessivo deriva dai diversi signifi-
cati che in quel sua si raccolgono: Lucia è la sua prigioniera, è la sua salvezza, è la sua protetta... 348-349. sarà poi vero...: dove tutti erano stati aperti e pronti alla « buona novella », lui, l’uomo dei se e dei 774, non può che arrovellarsi meschinamente l’animo col dubbio e col sospetto. 353. m'ha da sentire la signora Perpetua: sapendo tutto quel che sappiamo dei litigi fra don Abbondio e Perpetua, ci godiamo già un battibecco a non finire. Ma, per giustizia, ancora una volta dobbiamo concludere che la serva ha più testa del suo padrone: sollecitandolo quella mattina ad esser presente alla visita diocesana, l’aveva. sollecitato a fare né più né meno che il suo dovere,
î promessi sposi
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forza, quando non c’era necessità, fuor della mia pieve: e che tutti i parrochi
39D4I d’intorno accotrevano, anche più. da lontano; e che non bisognava stare in-
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dietro; e che questo, e che quest'altro; e imbarcarmi in un affare di questa sorte! Oh povero me! Eppure qualcosa bisognerà dirgli a costui. — E pensa e ripensa, aveva trovato che gli avrebbe potuto dire: non mi sarei mai aspettato questa fortuna d’incontrarmi in una così rispettabile compagnia; e stava per aprir bocca, quando entrò l’aiutante di camera, col curato del paese, il quale annunziò che la donna era pronta nella lettiga; e poi si voltò a don Abbondio, per ricevere da lui l’altra commissione del cardinale. Don Abbondio se ne sbrigò come poté, in quella confusione di mente; e accostatosi poi all’aiutante, gli disse: « mi dia almeno una bestia quieta; perché, dico la verità, sono un povero cavalcatore ». « Si figuri, » rispose l’aiutante, con un mezzo sogghigno: « è la mula del segretario, che è un letterato. » « Basta... » replicò don Abbondio, e continuò pensando: — il cielo me la mandi buona —.. Il signore s’era incamminato di corsa, al primo avviso: arrivato all’uscio, s’accorse di don Abbondio, ch’era rimasto indietro. Si fermò ad aspettarlo; e quando questo artivò frettoloso, in aria di chiedere perdono, l’inchinò, e lo fece passare avanti, con un atto cortese e umile: cosa che raccomodò alquanto lo stomaco al povero tribolato. Ma appena messo piede nel cortiletto, vide un’altra novità che gli guastò quella poca consolazione; vide l’innominato andar verso un canto, prender per la canna, con una mano, la sua carabina,
poi per la cigna con l’altra, e, con un movimento spedito, come se facesse l’esercizio, mettersela ad armacollo.
— Ohi! ohi! ohi! — pensò don Abbondio: — cosa vuol farne di quel380
l’ordigno, costui?
Bel cilizio, bella disciplina da convertito!
qualche grillo? Oh che spedizione! oh che spedizione! —
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E se gli salta
Se quel signore avesse potuto appena sospettare che razza di pensieri savano per la testa al suo compagno, non si può dire cosa avrebbe fatto rassicurarlo; ma era lontano le mille miglia da un tal sospetto; e don bondio stava attento a non far nessun atto che significasse chiaramente: 356. e che questo, e che quest'altro: quante deve averne dette Perpetua per smuovere il padrone! E come a costui ora ribolle tutta la stizza d’essersi lasciato persuadere: dalla « signora Perpetua »! 362. lPaltra commissione: quella di mandare a prendere Agnese. 364. almeno una bestia quieta: quante cose dietro quell’alzzeno! 366-367. è la mula... letterato: il divertimento del M. non èalle spalle di un uomo solo, ma di tanti, e di se stesso, un /etterato. Anche per questo l’ironia su don Abbondio è sempre senza actedine, pur se condita, di tanto in tanto, con « un mezzo sogghigno », come quello che fa l’aiutante. Il quale, lo diciamo di sfuggita, è una comparsa di appena un momento, eppure già tutta scolpita con quella risposta e con quella
smorfia.
È
paspet Abnon
373-375. raccomodò... guastò...: per un bel pezzo il comportamento interno ed esterno di don Abbondio sarà in stretto rapporto col variare del contegno dell’Innominato. In questo rapporto ora abbiamo osservato una piccola consolazione e un grande spavento; fra breve incontreremo una commozione lacrimosa, passando davanti alla chiesa, ed infine un lungo sconsolato dialogare con se stesso. Gustiamo, intanto, come i due montano, sulla rispettiva cavalcatura: uno vi salta, l’altro ci si arrampica! 380. Bel cilizio, bella disciplina: cioè: che bei metodi per far penitenza! Il cilizio, una cordicella che si stringeva sulla carne nuda intorno ai fianchi; la disciplina, un mazzo di funicelle con cui ci si batteva sulle spalle: due strumenti di penitenze tormentose diffusi nel Medioevo. Si ricordino le compagnie dei Flagellanti o dei Disciplinati.
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mi fido di vossignoria. Arrivati all’uscio di strada, trovarono le due cavalcature in ordine: l’innominato saltò su quella che gli fu presentata da un pala-
freniere.
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« Vizi non ne ha? » disse all’aiutante di camera don Abbondio, tendo in terra il piede, che aveva già alzato verso la staffa.
rimet-
« Vada pur su di buon animo: è un agnello. » Don Abbondio, arrampicandosi alla sella, sorretto dall’aiutante, su, su, su, è a cavallo.
La lettiga, ch’era innanzi qualche passo, portata da due mule, si mosse, a
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una voce del lettighiero; e la comitiva partì. Si doveva passar davanti alla chiesa piena zeppa di popolo, per una piazzetta piena anch’essa d’altro popolo del paese e forestieri, che non avevan potuto entrare in quella. Già la gran nuova era corsa; e all’apparir della comitiva, all’apparir di quell’uomo, oggetto ancor poche ore prima di terrore e ’esecrazione, ora di lieta maraviglia, s’alzò nella folla un mormorìo quasi d’applauso; e facendo largo, si faceva insieme alle spinte, per vederlo da vicino. La lettiga passò, l’innominato. passò; e davanti alla porta spalancata ‘della chiesa, si levò il cappello, e chinò quella fronte tanto temuta, fin sulla criniera della mula, tra il susurro di cento voci che dicevano:
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Dio la bene-
dica! Don Abbondio si levò anche lui il cappello, si chinò. si raccomandò al cielo; ma sentendo il concerto solenne de’ suoi confratelli che cantavano a distesa, provò un’invidia, una mesta tenerezza, un accoramento tale, che durò fatica a tener le lacrime. Fuori poi dell’abitato, nell’aperta campagna, negli andirivieni talvolta affatto deserti della strada, un velo più nero si stese sui suoi pensieri. Altro oggetto non aveva su cui riposar con fiducia lo sguardo, che il lettighiero, il quale, essendo al servizio del cardinale, doveva essere certamente un uomo dabbene, e insieme non aveva aria d’imbelle. Ogni tanto, comparivano viandanti, anche a comitive, che accorrevano per vedere il cardinale; ed era un ristoro per don Abbondio; ma passeggiero, ma s’andava verso quella valle tremenda, dove non s’incontrerebbe che sudditi dell’amico: e che sudditi! Con l’amico avrebbe desiderato ora più che mai d’entrare in discorso, tanto per tastarlo sempre più, come per tenerlo in buona; ma vedendolo così soprappensiero, gliene passava la voglia. Dovette dunque parlar con sé stesso; 402. si levò il cappello: questo fa l’Innominato, e questo fa don Abbondio: ma quanta differenza fra i due uomini! Al centro del nitidissimo quadro c’è il primo: su quella fronte tanto temuta, che ora si china fin sulla criniera della mula, convergono ammirati gli sguardi di tutti; don Abbondio anche qui vien dietro, e, al solito, a lui nessuno bada. Ma ci bada, come sempre, il M. e questa volta non solo col sorriso di prima, ma anche con un senso di compassionevole umanità per quel poverino, condannato all’incerta avventura senza la capacità di comprendere il prodigio di cui la Provvidenza lo fa partecipe. Sicché quando, udendo «il concerto solenne » che si effonde dalla chiesa, si commuove fino alle lacrime, tocca il patetico dell’egoismo e commuove anche noi.
415-416. dell’amico... Con l’amico: due volte di seguito don Abbondio chiama così, entro di sé, l’Innominato. Il sarcasmo è evidente, e investe, nella mente del curato, sia il nuovo convertito sia il Cardinale che aveva chiamato costui « questo mio caro amico ». Ma, per don Abbondio, un amico da cui stare più che alla larga! 418. parlar con sé stesso: questo soliloquio di don Abbondio — abilmente pre-
parato da quel vedersi « l’amico » tutto soprappensiero — sarà una delle celebrazioni più altamente poetiche della paura, dell’egoismo, della grettezza del personaggio. Il M. ne seguirà e narrerà i vari momenti, abbandonandosi disinteressato e sorridendo alla comicità della situazione, con un’arte e un’arguzia che continuamente crea-
no e rinnovano le battute più straordinarie.
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ed ecco una parte di ciò che il pover’uomo si disse in quel tragitto: ché, a
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riniti dn scriver tutto, ci sarebbe da farne un libro. gli abbiano a aver birboni i come santi i tanto ‘che — È un gran dire l’argento vivo addosso, e non si contentino d’essere sempre in moto loro, ma
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voglian tirare in ballo, se potessero, tutto il genere umano; e che i più faccendoni mi devan proprio venire a cercar me, che non cerco nessuno, € tirarmi per i capelli ne’ loro affari: io che non chiedo altro che d’esser lasciato vivere! Quel matto birbone di don Rodrigo! Cosa gli mancherebbe per esser l’uomo il più felice di questo mondo, se avesse appena un pochino di giudizio? Lui ricco, lui giovine, lui rispettato, lui corteggiato: gli dà noia il bene stare: e bisogna che vada accattando guai per sé e per glialtri. Potrebbe far l’arte di Michelaccio; no signore: vuol fare il mestiere di molestar le femmine: il più pazzo, il più ladro, il più arrabbiato mestiere di questo mondo; potrebbe andare in paradiso in carrozza, e vuol andare a casa
del diavolo a piè zoppo. E costui!.. —
E qui lo guardava, come se avesse
sospetto che quel costui sentisse i suoi pensieri, —
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costui, dopo aver messo
sottosopra il mondo con le scelleratezze, ora lo mette sottosopra con la conversione... se sarà vero. Intanto tocca a me a farne l’esperienza!... È finita: quando son nati con quella smania in corpo, bisogna che faccian sempre fracasso. Ci vuol tanto a fare il galantuomo tutta la vita, com’ho fatt’io? No signore: si deve squartare, ammazzare, fare il diavolo... oh povero mel... e poi uno scompiglio, anche per far penitenza. La penitenza, quando s'ha
buona volontà, si può farla a casa sua, quietamente, senza tant’apparato,: senza dar tant’incomodo al prossimo. E sua signoria illustrissima, subito subito, a braccia aperte, caro amico, amico caro; stare a tutto quel che gli dice costui come se l’avesse visto far miracoli; e prendere addirittura una risolu-
zione, mettercisi dentro con le mani e co’ piedi, presto di qua, presto di là: a casa mia si chiama precipitazione. E senza avere una minima capatra, dargli in mano un povero curato! questo si chiama giocare un uomo a pari e caffo.
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Un vescovo santo, com’è lui, de’ curati dovrebbe esserne geloso, come della pupilla degli occhi suoi. Un pochino di flemma, un pochino di prudenza, un pochino di carità, mi pare che possa stare anche con la santità... E se fosse 421. tanto i santi come i birboni: santi e birboni fanno tutt'uno per don Abbondio, perché gli uni e gli altri non sono che dei faccendoni, che turbano tutto il suo mondo: il mondo di lui, che non chiede altro «che d’esser lasciato vivere ». È questo il motivo della prima parte del soliloquio, stizzosa rassegna di quanti, buoni o cattivi, hanno sconvolto la sua esistenza, distruggendone il sistema di quieto vivere. Ecco quindi, sotto questa luce, i tre maggiori responsabili: don Rodrigo, l’Innominato, il Cardinale: un birbone, uno che da birbone dovrebbe divenire santo, un santo. É tutti e
tre con la stessa colpa: la mania di agitarsi e di strafare, irriflessivi con sé stessi, irriguardosi con gli altri...: cioè a dire, con lui. Tutti e tre, quindi, don Abbondio li vede esclusivamente in relazione con la sua
persona e con la sua esistenza: e pèr tutti
e tre pone sé stesso — un galantuomo per tutta la vita — come modello e come esempio!
430. l’arte di Michelaccio: il quale, secondo il detto popolare, mangia, beve, dorme e va a spasso. 450-451. E se fosse tutto un’apparenza?: con questo dubbio atroce, nato dal crescere di preoccupazioni concrete per l’avvicinarsi al castello, incomincia la seconda patte del soliloquio. Il motivo sembra diverso, ma l’origine e la conclusione sono le stesse: la paura e l’egoismo; e ancora da una parte c'è lui, la vittima, dall’altra gli altri, tutti quelli che sono la sua rovina. Questa volta nella nuova rassegna entra anche Lucia: per fortuna c'entra con una nota di pietà — « quella povera Lucia... sa il cielo cos'ha patito...» —, ma non del tutto illesa dal soli-
to egoismo: «è nata per la mia rovina... ».
capitolo XXIII
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tutto un’apparenza? Chi può conoscer tutti i fini degli uomini? e dico degli
uomini come costui? A pensare che mi tocca a andar con lui, a casa sua! Ci
può esser sotto qualche diavolo: oh povero me! è meglio non ci pensare. Che
imbroglio è questo di Lucia? Che ci fosse un’intesa con don Rodrigo? che
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gente! ma almeno la cosa sarebbe chiara. Ma come l’ha avuta nell’unghie costui? Chi lo sa? È tutto un segreto con monsignore: e a me che mi fanno trottare in questa maniera, non si dice nulla. Io non mi curo di sapere i fatti degli altri; ma quando uno ci ha a metter la pelle, ha anche ragione di sapere. Se fosse proprio per andare a prendere quella poveta creatura, pazienza! 460 Benché, poteva ben condurla con sé addirittura. E poi, se è così convertito, se è diventato un santo padre, che bisogno c’era di me? Oh che caos! Basta; voglia il cielo che la sia così: sarà stato un incomodo grosso, ma pazienza! Sarò contento anche per quella povera Lucia: anche lei deve averla scampata grossa; sa il cielo cos'ha patito: la compatisco; ma è nata per la mia ro-
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vina... Almeno potessi vedergli proprio in cuore a costui, come la pensa. Chi lo può conoscere? Ecco lì, ora pare sant'Antonio nel deserto; ora pare Olo-
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ferne in persona. Oh povero me! povero me! Basta: il cielo è in obbligo
d’aiutarmi, perché non mi ci son messo io di mio capriccio. — Infatti, sul volto dell’innominato si vedevano, per dir così, passare i pensieri, come, in un’ora burrascosa, le nuvole trascorrono dinanzi alla faccia del sole, alternando ogni momento una luce arrabbiata e un freddo buio. L’animo, ancor tutto inebriato dalle soavi parole di Federigo, e come rifatto e ringiovanito nella nuova vita, s’elevava a quell’idee di misericordia, di perdono e d’amore; poi ricadeva sotto il peso del terribile passato. Correva con ansietà a cercare quali fossero le iniquità riparabili, cosa si potesse troncare a mezzo, quali i rimedi più espedienti e più sicuri, come scioglier tanti nodi, che fare di tanti complici: era uno sbalordimento a pensarci. A quella stessa
spedizione, ch’era la più facile e così vicina al termine, andava con un’im-
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pazienza mista d’angoscia, pensando che intanto quella creatura pativa, Dio sa quanto, e che lui, il quale pure si struggeva di liberarla, era lui che la teneva intanto a patire. Dove c’eran due strade, il lettighiero si voltava, per saper quale dovesse prendere: l’innominato gliel’indicava con la mano, e insieme accennava di far presto. Entrano nella valle. Come stava allora il povero don Abbondio! Quella valle famosa, della quale aveva sentito raccontar tante storie orribili, esserci dentro: que’ famosi uomini, il fiore della braveria d’Italia, quegli uomini senza paura e senza misericordia, vederli in carne e in ossa; incontrarne uno o due o tre a ogni voltata di strada. Si chinavano sommessamente al signore; ma certi visi abbronzati! certi baffi irti! certi occhiacci, che a don Abbondio 467-468. il cielo è in obbligo d’aiutarmi...: dunque non solo gli uomini, ma anche il cielo è in debito con lui. La conclusione del soliloquio di don Abbondio è veramente straordinaria, ed è il culmine a cui la commedia poteva arrivare: una perorazione della sua giusta causa di fronte a santi e birboni: e di fronte a Dio! 470-471 in un’ora burrascosa... buio: la similitudine con le immagini grandiose di luci e di tenebre, ricrea perfettamente lo
stato d’animo dell’Innominato.
Il perdono
celeste è passato rasserenatore su quel cuore in tempesta, ma il rimorso dei mali compiuti rinnova l’angoscia e la contrizione. 474-475. Correva con ansietà...: in questa ansia d’azione è già tutto l’Innominato futuro. Nella notte prima della conversione il domani gli era apparso vuoto e insopportabile; ora l’anima completamente redenta si strugge dall’impazienza di fare quanto più è possibile di bene: un bene che, se non
può cancellare, possa almeno riparare il passato,
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pareva che volessero dire: fargli la festa a quel prete? A segno che, in un punto di somma costernazione, gli venne detto tra sé: — gli avessi maritati! non mi poteva accader di peggio. — Intanto s’andava avanti per un sen-
tiero sassoso, lungo il torrente: al di là quel prospetto di balze aspre, scure, disabitate; al di qua quella popolazione da far parer desiderabile ogni deserto: Dante non istava peggio nel mezzo di Malebolge. Passan davanti la Malanotte; bravacci sull’uscio, inchini al signore, 0cchiate al suo compagno e alla lettiga. Coloro non sapevan cosa si pensare: già la partenza dell’innominato solo, la mattina, aveva dello straordinario» il ritorno non lo era meno. Era una preda che conduceva? E come l’aveva fatta da sé? E come una lettiga forestiera? E di chi poteva esser quella livrea? Guardavano, guardavano, ma nessuno si moveva, perché questo era l’ordine i che il padrone dava loro con dell’occhiate. e sulla spianata sulla Fanno la salita, sono in cima. I bravi che si trovan porta, si ritirano di qua e di là, per lasciare il passo libero: l’innominato fa segno che non si movan di più; sprona, e passa davanti alla lettiga; accenna al lettighiero e a don Abbondio che lo seguano; entra in un primo cortile, da quello in un secondo; va verso un usciolino, fa stare indietro con un gesto
un bravo che accorreva per tenergli la staffa, e gli dice: « tu sta costì, e non venga nessuno ». Smonta, lega in fretta la mula a un’inferriata, va alla lettiga, 510
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s'accosta alla donna, che aveva tirata la tendina, e le dice sottovoce: « consolatela subito; fatele subito capire che è libera, in mano d’amici. Dio ve ne renderà merito ». Poi fa cenno al lettighiero, che apra; poi s’avvicina a don Abbondio, e, con un sembiante così sereno come questo non gliel aveva ancor visto, né credeva che lo potesse avere, con dipintavi la gioia dell’opera buona che finalmente stava per compire, gli dice, ancora sottovoce: « signor curato, non le chiedo scusa dell’incomodo che ha per cagion mia: lei lo fa per Uno che paga bene, e per questa sua poverina ». Ciò detto, prende con una mano il morso, con l’altra la staffa, per aiutar don Abbondio a scendere.
Quel volto, quelle parole, quell’atto, gli avevan dato la vita. Mise un sospiro, che da un’ora gli s’aggirava dentro, senza mai trovar l’uscita; si chinò
491-492. gli avessi maritati!... peggio: nella paura di don Abbondio, lo sappiamo, appare sempre l’uomo del calcolo, che fra due mali sceglie quello che sembra minore. Ma, forse, nessun calcolo suo ci appare grottesco come quest’amaro rimpianto. 495. Dante... di Malebolge: eppure Dante in Malebolge (il cerchio infernale in cui sono puniti i fraudolenti sotto lo sguardo di demoni sempre armati di raffi per afferrarli), ci stava male davvero, mentre verso di lui
i diavoli « chinavan li raffi, e — Vuo’ tu che il tocchi — diceva l’un con l’altro — in sul groppone? » (Inf. XXI, 100 sgg.). Il richiamo dantesco non ci pare sproporzionato, perché non fa parte delle meditazioni di don Abbondio, ma del sorriso distaccato e sereno del M. 502. dava loro con dell’occhiate: espressione notevole, il cui valore ci apparirà meglio più avanti. Ci dice che l’Innomirato è,
sì, convertito, ma è rimasto quell’uomo fiero ed autoritario di sempre: le sue occhiate, come nel passato, inchiodano e ammutoliscono i bravi. La scena degli uomini, rude e drammatica, fa tutt'uno con lo sfondo del paesaggio, aspro e sassoso. 510-512. consolatela subito... Dio ve ne renderà merito: e più sotto: « Lei lo fa per Uno che paga bene »: due frasi tanto intensamente cristiane, che sembrano piuttosto strane sulla bocca d’uno tornato appena ora alla Grazia. — «Che proprio conosca già
questo linguaggio? » si chiede l’Angelini; e
prosegue:
« A ogni modo l’Innominato ora è veramente strumento della Provvidenza che, nella sua logica sovrumana, comprende e supera il peccato, e ne fa strumento di edificazione spirituale. L’Innominato non ha rinunciato alla forza — ne ha trovata una nuova — ha rinunciato alla violenza ». Ce ne accorgeremo meglio più avanti,
capitolo XXIII verso
407
I 3 l’innominato,
a rispose
a voce
bassa bassa:
«le pare?
Ma, ma,
ma,
. ma...! » e sdrucciolò alla meglio dalla sua cavalcatura. L’innominato legò anche quella, e detto al lettighiero che stesse lì a aspettare, si levò una chiave di tasca, aprì l’uscio, entrò, fece entrare il curato e la donna, s’avviò davanti 525 a loro alla scaletta; e tutt'e tre salirono in silenzio. 521:522. « Ma, ma, ma, ma...!» e sdrucciolò...: che discesa atruffata — nei gesti e nella mente — questa di don Abbondio dalla sua cavalcatura. Press’a poco com'era stata faticosa la salita, cui i monosillabi ci riconducono: «su, su, su, è a cavallo ». Questi quattro 724 possono ricordare i tre di don Rodrigo (« ma, ma, ma, gli amici»; Cap.
XVIII); ma, evidentemente, sono tutt’altra cosa. 525. tutt'e tre salirono in silenzio: dopo tanti tumulti di fatti e di cuori, la chiusa «in silenzio» crea una grande pausa d’attesa. Non è nuova questa sensibilità del M. nel chiudere i capitoli. Ripensa, per esempio, alla fine del VII.
Scheda critica al cap. XXIII La figura del Cardinale « non si disegna libera dagli impacci discorsivi, finché non entra ad agire direttamente nel romanzo, infondendo nell'Innominato l'umiltà fiduciosa e riverente che deve aiutare la sua conversione... La meditazione delicata sullo spirito degli uomini, la vita lontana dalle: pompe e continuamente fissa sul nostro mondo interiore, l'esperienza di tutte le debolezze e le infelicità umane, che egli ha cercato instancabilmente di correggere e di lenire, hanno dato a Federigo una singolare capacità di comprendere ogni passione, ogni condizione, ogni miseria, spontanea attitudine ad affrontare qualunque traviato con soavità conquistatrice e con forza di persuasione... Qui è tutta la grandezza artistica di questo personaggio, nella penetrazione psicologica e nella potenza di dominio e di conforto che gli sono state conferite dalla trascuranza del fasto, dalla ‘gioia continua d'una speranza ineffabile ', dall'abitudine ‘de’ pensieri solenni e benevoli '. Federico è il personaggio dei Promessi Sposi in cui si vede meglio la serenità imperturbabile a cui conduce l'attuazione costante della concezione evangelica della vita ». Sono parole del Momigliano, che illuminano assai bene la natura del personaggio e la sua funzione nella struttura del romanzo e al tempo stesso ne caratterizzano la qualità tutta « ideale »: meglio che figura poetica dotata di una sua autonomia, il Cardinale è l'esemplificazione al limite di un concetto morale e religioso che si contrappone polemicamente agli idoli di una società corrotta e di un cristianesimo tutto esteriore e adulterato. Solo in
questa prospettiva si spiega, e si giustifica, anche il suo lin-. guaggio tutto esemplato sui modi dei grandi predicatori francesi del secolo XVII. Quel che di ideale è nella psicologia e di solenne nel discorso di Federico si riflette anche sulla figura dell'Innominato, attenuando le punte più drammatiche della sua personalità; sì che tutto il dialogo deve essere sentito e valutato come una
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grande scena di edificazione, che comporta anche qui, come in altre scene analoghe, l'intervento di una retorica commossa, che ha i suoi precedenti negli /nni Sacri e nella Morale cattolica. Del resto, a far da contrappeso a questo eccesso di idealità, sta tutta la seconda parte del capitolo, dove il narratore sembra riscattarsi e riprendere il filo della sua vena più autentica, nella rappresentazione colorita dell'ambiente, nella sobria intonazione comica del personaggio del cappellano, e soprattutto nel grande comico dello stupendo soliloquio di don Abbondio, che è l'espressione appunto del rovescio di quell'idealità, di un realismo gretto e miope, che idoleggia un mondo dove, a turbare il quieto vivere dei vili e dei mediocri, non intervengano il dinamismo e l'intraprendenza dei santi e dei birboni, e Dio stesso sia chiamato in causa a sostegno, non già della giustizia in assoluto, ma degli interessi privati di chi per tutta la vita si è attenuto alla norma di non andare in cerca di guai. Anche sul piano tecnico e formale, il vivacissimo « parlato » di questo monologo interiore di don Abbondio (e di quello parallelo nel capitolo seguente) si contrappone con la sua naturalezza e irregolarità tutta moderna alla grande ma un po' invecchiata retorica del dialogo fra il pastore
di anime
e il peccatore
convertito.
Capitolo XXIV
.
Lucia s’era risentita da poco tempo; e di quel tempo una parte aveva penato a svegliarsi affatto, a separar le torbide visioni del sonno dalle memorie e dall’immagini di quella realtà troppo somigliante a una funesta visione d’infermo. La vecchia le si era subito avvicinata, e, con quella voce forzatamente umile, le aveva detto: « ah! avete dormito? Avreste potuto dormire in letto: ve l'ho pur detto tante volte ier sera ». E non ricevendo risposta, aveva continuato, sempre con un tono di supplicazione stizzosa:
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« mangiate
una volta: abbiate giudizio. Uh come siete brutta! Avete bisogno di mangiare. E poi se, quando torna, la piglia con me? » pra No, no; voglio andar via, voglio andar da mia madre. Il padrone me l’ha promesso, ha detto: domattina. Dov'è il padrone? » «È uscito; m’ha detto che tornerà presto, e che farà tutto quel che volete. »
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« Ha detto così? ha detto così? Ebbene; io voglio andar da mia madre; subito, subito. »
Ed ecco si sente un calpestìo nella stanza vicina; poi un picchio all’uscio. La vecchia accorre, domanda: « chi è? »
« Apri, » risponde sommessamente la nota voce. La vecchia tira il pa20
letto; l’innominato, spingendo leggermente i battenti, fa un po’ di spiraglio: ordina alla vecchia di venir fuori, fa entrar subito don Abbondio con la buona donna. Socchiude poi di nuovo l’uscio, si ferma dietro a quello, 1. Lucia s’era risentita...: il capitolo si apre col risveglio di Lucia, e si chiuderà con l’addormentarsi dell’Innominato. Fra l’uno e l’altro limite, un’intera giornata complessa e varia di eventi e di figure, ma tutta, pur nei momenti del dolore, soffusa di speranza, nella constatazione della presenza di Dio in mezzo alle vicende degli uomini. 8. Uh come siete brutta!: la battuta, se anche va vista come mezzo della nuova stizzosa insistenza della vecchia per indurre Lucia a mangiare, non nasconde un certo maligno piacere. Si ricordi tutto quel mugugnare della sera precedente: « Maledette le giovani, che fanno bel vedere... » (Cap. XXI). 9. E poi... la piglia con me?: alla vecchia, sempre coerente con se stessa, preme una cosa sola: che il padrone non se la prenda
con lei. Per cui un commentatore nota argutamente che quel poi, in realtà, vale un pri-
ma di tutto.
18-19. sommessamente... leggermente: tut-
to ora è delicato e gentile nei gesti e nelle parole dell’Innominato. Si osservi che poi fa uscire e manda lontano la vecchia (già troppo a lungo custode incapace) e fa entrare don Abbondio e la buona donna: ma lui rimane fuori dell’uscio. 21. la buona donna: non si sa il suo nome. Questa donna « di cuore e di testa », come l’aveva tichiesta il Cardinale e che è la moglie del sarto del villaggio, rimarrà sempre nel romanzo, e nella nostra mente, con questa definizione di bontà: è il suo distintivo e il suo premio. Chi l’ha contate, dice che nel presente capitolo compare con questo nome ben diciassette volte.
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e manda la vecchia in una parte lontana del castellaccio;
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aveva già
or mandata via anche l’altra donna che stava fuori, di guardia. di perapparire primo il , d'aspetto punto quel Tutto questo movimento, se lo quale, alla Lucia, a one d’agitazi to sone nuove, cagionarono un soprassal sodi stato presente era intollerabile, ogni cambiamento però era motivo spetto e di nuovo spavento. Guardò, vide un prete, una donna; si rincorò alquanto: guarda più attenta: è lui, o non è lui? Riconosce don Abbondio, e rimane con gli occhi fissi, come
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come
incantata.
La donna, andatale vicino, si
chinò sopra di lei, e, guardandola pietosamente, prendendole le mani, come
per accarezzarla e alzarla a un tempo, le disse: « oh poverina! venite, venite
con noi ».
« Chi siete? » le domandò Lucia; ma, senza aspettar la risposta, si voltò
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ancora a don Abbondio, che s’era trattenuto discosto due passi, con un viso, anche lui, tutto compassionevole; lo fissò di nuovo, e esclamò: «lei! è lei?
il signor curato? Dove siamo?... Oh povera me! son fuori di sentimento! » « No, no, » rispose don Abbondio: « son io davvero: fatevi coraggio. Vedete? siam qui per condurvi via. Son proprio il vostro curato, venuto qui apposta, a cavallo... » Lucia, come riacquistate in un tratto tutte le sue forze, si rizzò precipitosamente; poi fissò ancora lo sguardo su que’ due visi, e disse: « è dunque la Madonna che vi ha mandati ». « Io credo di sì, » disse la buona donna. « Ma possiamo andar via, possiamo andar via davvero? » riprese Lucia, abbassando la voce, e con uno sguardo timido e sospettoso. « E tutta quella gente...? » continuò, con le labbra contratte e tremanti di spavento e d’orrore: « e quel signore...! quell’uomo...! Già, me l’aveva promesso:.. »
« È qui anche lui in persona, venuto apposta con noi,» disse don Abbondio: «è qui fuori che aspetta. Andiamo presto; non lo facciamo aspet50
tar, un
par SUO. »
Allora, quello di cui si parlava, spinse l’uscio, e si fece vedere; Lucia, 24. quel punto d’aspetto: il momento d’intervallo fra l’uscita della vecchia e l’entrata di don Abbondio con la buona donna. La
espressione è piuttosto dura, e forse derivata dalla necessità di evitare la rima di m20rzento con movimento; si può collegare, come significato, agli spartiti musicali, nei quali un punto indica una pausa. 29-32. La donna... venite con noi: atteggiamenti e parole, sempre premurosi e affettuosi, suggeriti come sono dal cuore e dalla festa, fanno di questa donna l’antitesi della vecchia. 34-35. con un viso... tutto compassionevole: dunque; « anche lui » ha certi momenti di pietà anche per gli altri. Ma il suo è un altruismo di breve durata; basterà che apra la bocca per dir qualcosa, e non parlerà che di sé: della voglia matta di andar via al più presto («siam qui per condurvi via»), e dell’eroico sacrificio. che ha compiuto (« venuto qui apposta, a cavallo... »). 41-43, è dunque la Madonna... — Io cre-
do di sì: la stessa certezza in chi la sofferenza ha subita e in chi l’ha compresa: perché identiche sono la fede e la bontà. Sono queste virtù comuni che affiatano subito le due donne, e fanno di loro un gruppo femminile, la cui delicata sensibilità spicca di fronte a due uomini isolati e diversissimi: don Abbondio prima, l’Innominato poi. 50. un par suo: le parole, per chi non conoscesse don Abbondio, significherebbero rispetto; a noi svelano, come sempre, una gran paura e quindi una gran fretta. Tuttavia sembra ‘in errore chi crede che nell'opinione del curato un par suo voglia addirittura significare uz demonio,
un delin-
quente. 51-61. spinse l’uscio... perdonatemi!: « Lucia, a vederlo, è assalito da un * ribrezzo’, che non può reprimere. L’Innominato sente che è giusto e prega ‘ perdonatemi ?! La breve scena, quasi senza parole, che riassume e risolve la tragedia delle due anime, è mirabilmente condotta. Se l’Innominato aves-
capitolo XXIV
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che poco prima lo desiderava, anzi, non avendo speranza in altra cosa del mondo, non
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desiderava che lui, ora, dopo aver veduti visi, e sentite voci
amiche, non poté reprimere un subitaneo ribrezzo; si riscosse, ritenne il respiro, si strinse alla buona donna, e le nascose il viso in seno. L’innominato, alla vista di quell’aspetto sul quale già la sera avanti non aveva potuto tener fermo lo sguardo, di quell’aspetto reso ora più squallido, sbattuto, affannato dal patire prolungato e dal digiuno, era rimasto lì fermo, quasi sull’uscio; nel veder poi quell’atto di terrore, abbassò gli occhi, stette ancora un momento immobile e muto; indi rispondendo a ciò che la poverina non aveva detto, «è vero, » esclamò: « perdonatemi! » « Viene a liberarvi; non è più quello; è diventato buono: sentite che vi chiede perdono? » diceva la buona donna all'orecchio di Lucia. « Si può dir di più? Via, su quella testa; non fate la bambina; che possiamo andar presto, » le diceva don Abbondio. Lucia alzò la testa, guardò l’innominato, e, vedendo bassa quella fronte, atterrato e confuso quello sguardo, presa da un misto sentimento di conforto, di riconoscenza e di pietà, disse: « oh, il mio signore! Dio le renda merito della sua misericordia! » « E a voi, cento volte, il bene che mi fanno codeste vostre parole. » Così detto, si voltò, andò verso l’uscio, e uscì il primo. Lucia, tutta rianimata, con la donna che le dava braccio, gli andò dietro; don Abbondio in coda. Scesero la scala, arrivarono all’uscio che metteva nel cortile. L’innomi-
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nato lo spalancò, andò alla lettiga, aprì lo sportello, e, con una certa gentilezza quasi timida (due cose muove in lui) sorreggendo il braccio di Lucia, l’aiutò ad entrarvi, poi la buona donna. Slegò quindi la mula di don Abbondio, e l’aiutò anche lui a montate.
« Oh che degnazione! » disse questo; e montò molto più lesto che non
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avesse fatto la prima volta. La comitiva si mosse quando l’innominato fu anche lui a cavallo. La sua fronte s’era rialzata; lo sguardo aveva ripreso la se trovata Lucia già rianimata e tranquilla, il suo ‘ perdonatemi’ non ci commoverebbe così » (Pistelli). 64. non fate ia bambina: più di una volta è capitato a don Abbondio di dirle grosse: ma questa è una delle sue uscite più madornali. Chi lo fa sbagliare, o che parli o che taccia, è sempre la paura. Nella scena, tutta squisita sensibilità, in cui tre anime misteriosamente s’incontrano — l’Innominato e la donna pensando alle sofferenze di Lucia, e Lucia passando dal ribrezzo alla gratitudine per l’Innominato — don Abbondio, per la sua freddezza di egoista soggiogato dalla paura, è l’unico che si stacca da quel cerchio di carità. 68-69. oh, il mio signore!... misericordia!: quanta dolcezza in queste brevi parole che si posano ristorattici sul cuore dell’Innominato. Si osservi, in particolare, quel « 7250 signore »: poco prima l’Innominato era tutto impaziente di liberare la « suz Lucia »; e poi si veda come quel « Dio le renda merito della sua misericordia » giunga quasi continua-
zione di quel « Dio perdona tante cose per un’opera di misericordia », risuonato così a
lungo nella mente
dell’Innominato.
Fra le
due creature, la vittima e l’oppressore, ogni diaframma è crollato nell’effusione religiosa dei cuori.
72-73. don Abbondio in coda: abbiamo già visto che lui sta sempre lì, e lì lo vedremo altre volte. Come c'è «il posto de’ vergognosi » nell’osteria (Cap. XVI), così c'è il posto dei paurosi nella vita: in coda a tutti, il più lontano da tutti; quasi a togliere dalla vista altrui il proprio corpo impacciato ed inutile. 78. Oh che degnazione!: quando il signore lo aveva aiutato a scendere era stato buono di dire soltanto: «le pare? Ma, ma, ma, ma,...! ». Ora c’è un progresso: ma sempre restando nei luoghi comuni. Maggior sveltezza c'è invece, ora che si va via, nel montart sulla sella. 80. La sua fronte s’era rialzata...: nell’uomo nuovo compare l’antico. Sarà questo il motivo di tutta la personalità dell’Innomi-
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sul suo viso solita espressione d’impero. I bravi che incontrava, vedevan bene capii segni d’un forte pensiero, d’una preoccupazione straordinaria; ma non nulla della vano, né potevan capire più in là. AI castello, non si sapeva ancor coloro vi di nessun certo, gran mutazione di quell’uomo; e per congettura, sarebbe arrivato. a: prese poi La buona donna aveva subito tirato le tendine della lettig con parole di affettuosamente le mani di Lucia, s'era messa a confortarla, di pietà, di congratulazione e di tenerezza. E vedendo come, oltre la fatica iimped i iment avven tanto travaglio sofferto, la confusione e l'oscurità degli sua liberazione, vano alla poverina di sentir pienamente la contentezza della re, per dir le disse quanto poteva trovar di più atto a distrigare, a ravvia così, i suoi poveri pensieri. Le nominò il paese dove andavano. « Ah Ma« Sì? » disse Lucia, la qual sapeva ch’era poco discosto dal suo. donna santissima, vi ringrazio! Mia madre! mia madre! » la quale non «La manderemo a cercar subito, » disse la buona donna, sapeva che la cosa era già fatta.
Come siete « Sì, sì; che Dio ve ne renda merito... E voi, chi siete? venuta... » que« M’ha mandata il nostro curato, » disse la buona donna: « perché al nosto signore, Dio gli ha toccato il cuore (sia benedetto!), ed è venuto
stro paese, per parlare al signor cardinale arcivescovo (che l’abbiamo là in vivita; sita, quel sant'uomo), e s'è pentito de’ suoi peccatacci, e vuol mutar che te, e ha detto al cardinale che aveva fatta rubare una povera innocen siete voi, d’intesa con un altro senza timor di Dio, che il curato non m'ha detto chi possa essere. » Lucia alzò gli occhi al cielo. « Lo saprete forse voi, » continuò la buona donna: «basta; dunque il signor cardinale ha pensato che, trattandosi d’una giovine, ci voleva una donna per venire in compagnia, e ha detto al curato che ne cercasse una; e il curato, per sua bontà, è venuto da me... » « Oh! il Signore vi ricompensi della vostra carità! »
« Che dite mai, la mia povera giovine? E m'ha detto il signor curato, che vi facessi coraggio, e cercassi di sollevarvi subito, e farvi intendere come il
Signore v'ha salvata miracolosamente...
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« Ah sì! proprio miracolosamente;
nato ogni volta che tornerà nel romanzo: «uno di quei santi — così lo vedranno i suoi bravi — che si dipingono con la testa alta e con la spada in pugno ». 86-87. La buona donna... Lucia...: nell’interno della lettiga gesti affettuosi, parole di
tenerezza sincera, riconducono a poco a poco Lucia alla vita. 99. M’ha mandata il nostro curato...: tutto il discorso della buona donna è fatto di espressioni vive, spontanee, che sono il diretto riflesso della semplicità della sua cultura e della premurosità del suo animo. Perciò questa sintassi inelegante non è un difetto, ma un pregio artistico. Come è arte del M. l’aver fatto di questa donna del popolo non un ideale di perfezione assoluta,
»
per intercession della Madonna. » ma una creatura umanissima;
da qui quella sua temperata curiosità che ce la rende più cara e gradita: « ...il curato non m'ha detto... Lo saprete forse voi... ». Più avanti lo scrittore stesso commenterà quella sua « molta curiosità di conoscere » col merito non piccolo di non aver pensato neppure di rivolgere a Lucia « una domanda indiscreta; né oziosa ». 112-113. m’ha detto... che vi facessi coraggio: anche alla « vecchia » era stata detta la stessa cosa. Ma l’ordine non basta, quando il cuore non risponde. 115. per intercession della Madonna: ricordiamo che la preghiera del voto (Capitolo XXI) Lucia l’aveva rivolta alla Madonna: Colei che intercede presso Dio per
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«Dunque, che stiate di buon animo, e perdonare a chi v'ha fatto del male, e esser contenta che Dio gli abbia usata misericordia, anzi pregare per lui; ché, oltre all’acquistarne merito, vi sentirete anche allargare il cuore. » Lucia rispose con uno sguardo che diceva di sì, tanto chiaro come avrebbero potuto far le parole, e con una dolcezza che le parole non avrebbero sa-
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puta esprimere. « Brava giovine! » riprese la donna: « e trovandosi al nostro paese anche
il vostro curato (che ce n’è tanti tanti, di tutto il contorno, da mettere insieme quattro ufizi generali), ha pensato il signor cardinale di mandarlo anche
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lui in compagnia; ma è stato di poco aiuto. Già l’avevo sentito dire ch'era un uomo da poco; ma in quest'occasione, ho dovuto proprio vedere che è più impicciato che un pulcin nella stoppa. » « E questo... » domandò Lucia, « questo che è diventato buono... chi è? » « Come! non lo sapete? » disse la buona donna, e lo nominò. « Oh misericordia! » esclamò Lucia. Quel nome, quante volte l’aveva sen-
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tito ripetere con orrore in più d’una storia, in cui figurava sempre come in
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altre storie quello dell’orco! E ora, al pensiero d’essere stata nel suo terribil potere, e d’essere sotto la sua guardia pietosa; al pensiero d’una così orrenda sciagura, e d’una così improvvisa redenzione; a considerare di chi era quel viso che aveva veduto burbero, poi commosso, poi umiliato, rimaneva come estatica, dicendo solo, ogni poco: « oh misericordia! » « È una gran misericordia davvero! » diceva la buona donna: « dev’essere un gran sollievo per mezzo mondo. A pensare quanta gente teneva sottosopra; e ora, come m’ha detto il nostro curato... e poi, solo a guardarlo in viso, è diventato un santo! E poi si vedon subito le opere. » Dire che questa buona donna non provasse molta curiosità di conoscere un po’ più distintamente la grand’avventura nella quale si trovava a fare una parte, non sarebbe la verità. Ma bisogna dire a sua gloria che, compresa d’una pietà rispettosa per Lucia, sentendo in certo modo la gravità e la dignità dell’incarico che le era stato affidato, non pensò neppure a farle una domanda indiscreta, né oziosa: tutte le sue parole, in quel tragitto, furono di conforto e di premura per la povera giovine. « Dio sa quant'è che non avete mangiato! » « Non me ne ricordo più... Da un pezzo. » « Poverina! avrete bisogno di ristorarvi. »
« Sì, » rispose Lucia con voce fioca.
« A casa mia, grazie a Dio, troveremo subito qualcosa. Fatevi coraggio, che ormai c’è poco. » i bisogni degli uomini. Tornano alla mente i versi dell'inno I/ nome di Maria: «La femminetta nel tuo sen regale La sua spregiata lagrima depone E a Te beata, della sua immortale Alma gli affanni espone; a Te che i preghi ascolti e le querele... ». Il M. ha cantato Maria anche in altri Inni S4cri e l’ha celebrata nelle Osservazioni sulla morale cattolica. 124. ufizi generali: solenni funzioni, con messa cantata, alle quali di solito partecipano tutti i parroci delle chiese viciniori. 128. E questo... chi è?: bontà e delica-
tezza di Lucia nel deviare il discorso senza aggiungere né sì né no al resoconto della buona donna su don Abbondio. Ma come aveva dato nel segno costei, e come, da schietta popolana, era stata esplicita ed inesorabile: « più impacciato che un pulcino nella stoppa»! Espressione comaresca che ravviva d’umorismo e di sorriso la scena. 130-137. Oh misericordia!.. — È una gran misericordia...: l’esclamazione stupita di Lucia esprime la certezza del miracolo; la ripresa della buona donna ne accresce il senso religioso.
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assoLucia si lasciava poi cader languida sul fondo della lettiga, come pita; e allora la buona donna la lasciava in riposo. come Per don Abbondio questo ritorno non era certo così angoscioso cesAl . piacere di o viaggi un l’andata di poco prima; ma non fu neppur esso preben ma sar di quella pauraccia, s'era da principio sentito tutto scarico, è sto cominciarono a spuntargli in cuore cent’altri dispiaceri; come, quand’ stato sbarbato un grand’albero, il terreno rimane sgombro per qualche temil repo, ma poi si copre tutto d’erbacce. Era diventato più sensibile a tutto a mancav gli sto; e tanto nel presente, quanto ne’ pensieri dell’avvenire, non pur troppo materia di tormentarsi. Sentiva ora, molto più che nell’andare, l’incomodo di quel modo di viaggiare, al quale non era molto avvezzo; e specialmente sul principio, nella scesa dal castello al fondo della valle. Il lettighiero, stimolato da’ cenni dell’innominato, faceva andar di buon passo le sue bestie; le due cavalcature andavan dietro dietro, con lo stesso passo; onde seguiva che, a certi luoghi più ripidi, il povero don Abbondio, come se fosse messo a leva per di dietro, tracollava sul davanti, e, per reggersi, doveva appuntellarsi con la mano all’arcione; e non osava però pregare che s'andasse più adagio, e dall’altra parte avrebbe voluto esser fuori di quel paese più presto che fosse possibile. Oltre di ciò, dove la strada era sur un rialto, sur un ciglione, la mula, secondo l’uso de’ pari suoi, pareva che facesse per dispetto a tener sempre dalla parte di fuori, e a metter proprio le zampe sull’orlo; e don Abbondio vedeva sotto di sé, quasi a perpendicolo, un salto, o come pensava lui, un precipizio. — Anche tu, — diceva tra sé alla bestia, — hai quel maledetto gusto d’andare a cercare i pericoli, quando c’è tanto sentiero! — E tirava la briglia dall’altra parte; ma inutilmente. Sicché, al solito, rodendosi di stizza e di paura, si lasciava condurre a piacere altrui. I bravi non gli facevan più tanto spavento, ora che sapeva più di certo come la pensava il padrone. — Ma, — rifletteva però, — se la notizia di questa gran conversione si sparge qua dentro, intanto che ci siamo ancora, chi sa come l’intenderanno costoro! Chi sa cosa nasce! Che s’andassero a immaginare che sia venuto io a fare il missionario! Povero me! mi martirizzano! —
Il cipiglio dell’innominato non gli dava fastidio. — Per tenere a segno quelle facce lì, — pensava, — non ci vuol meno di questa qui; lo capisco anch'io; ma perché deve toccare a me a trovarmi tra tutti costoro! — Basta; s'arrivò in fondo alla scesa, e s’uscì finalmente anche dalla valle. 156-161. Per don Abbondio... d’erbacce: ora sentiamo che entra sulla scena quello che sarà il grande protagonista del ritorno, come lo era stato dell’andata; e che il M. ha in serbo, per il suo eroe, altre angosce ed altre riflessioni per creare un nuovo intetmezzo comico. Intanto ci prepara con l’immagine originalissima del terreno che, sbarbato l’albero, si ricopre presto d’erbacce: così nella povera testa del curato, scomparsa la grande paura della salita al castellaccio, spuntano mille diversi fantasmi con nuovi crucci e nuove pene. 176. Anche tu...: come i santi e i birboni di prima, anche la mula fa parte della lega dei nemici del quieto vivere, tutti incaponiti ad andare per sentieri a pretipizio,
quando, accanto, avrebbero una strada larga e piana! Con questa allocuzione, che è uno dei momenti più carichi d’umorismo di tutto il romanzo, la mula per prima, lungo la strada del ritorno, fa le spese dei terrori e della stizza del curato. Il quale, se continua a farci sorridere, continua anche a farci compassione, perché è lui stesso a rendersi la vita un inferno; ma proprio in questo stanno la nemesi che colpisce l’uomo e la poesia che illumina il personaggio. 184. io a fare il missionario!: che colpa grave sarebbe questa pet lui! A tanto lo riduce la paura — già si vede martirizzato! — che perde completamente il senso, non diciamo del dovere sacerdotale, ma quello più elementare del vivere comune.
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La fronte dell’innominato s’andò spianando. Anche don Abbondio prese una
faccia più naturale, sprigionò alquanto la testa di tra le spalle, sgranchì le
braccia e le gambe, si mise a stare un po’ più sulla vita, che faceva un tutt'altro vedere, mandò più larghi respiri, e, con animo più riposato, si mise a considerare altri lontani pericoli. — Cosa dirà quel bestione di don Rodrigo? Rimaner con tanto di naso a questo modo, col danno e con le beffe, figuriamoci se la gli deve parere amara. Ora è quando fa il diavolo davvero. Sta a vedere che se la piglia anche con me, perché mi son trovato dentro in
questa cerimonia. Se ha avuto cuore fin d’allora di mandare que’ due demòni a farmi una figura di quella sorte sulla strada, ora poi, chi sa cosa farà! Con sua signoria illustrissima non la può prendere, che è un pezzo molto 200 più grosso di lui; lì bisognerà rodere il freno. Intanto il veleno l’avrà in corpo, e sopra qualcheduno lo vorrà sfogare. Come finiscono queste faccende? I colpi cascano sempre all’ingiù; i cenci vanno all’aria. Lucia, di ragione, sua signoria illustrissima penserà a metterla in salvo: quell’altro poveraccio mal capitato è fuor del tiro, e ha già avuto la sua: ecco che il cencio son diventato 205 “io. La sarebbe barbara, dopo tant’incomodi, dopo tante agitazioni, e senza acquistarne merito; che ne dovessi portar la pena io. Cosa farà ora sua signoria illustrissima per difendermi, dopo avermi messo in ballo? Mi può star mallevadore lui che quel dannato non mi faccia un’azione peggio della prima? E poi, ha tanti affari per la testa! mette mano a tante cose! Come 210 si può badare a tutto? Lascian poi alle volte le cose più imbrogliate di prima. Quelli che fanno il bene, lo fanno all’ingrosso: quand’hanno provata quella soddisfazione, n’hanno abbastanza, e non si voglion seccare a star dietro a tutte le conseguenze; ma coloro che hanno quel gusto di fare il. male, ci 215
mettono più diligenza, ci stanno dietro fino alla fine, non prendon mai re-
quie, perché hanno quel canchero che li rode. Devo andar io a dire che son
venuto qui per comando espresso di sua signoria illustrissima, e non di mia volontà? Parrebbe che volessi tenere dalla parte dell’iniquità. Oh santo cielo! Dalla parte dell’iniquità io! Per gli spassi che la mi dà! Basta; il meglio sarà 191-192. che faceva un tutt’altro vedere: come sorride aperto e disteso il M. alle spalle del suo povero prete. E non gli dà requie un momento. Ecco che subito lo sorprende ingolfato nel pensiero di « altri lontani pericoli ». Nasce così un nuovo soliloquio in cui, una dopo l’altra, si succedono paure che all’estraneo possono apparire assurde, ma per don Abbondio, che le soffre, sono tutte rigorosamente logiche. Il contrasto genera l’amenità di queste pagine. 193-194. quel bestione di don Rodrigo?: a qualche miglio di distanza e così dentro di sé, anche don Abbondio può dare della bestia, anzi del bestione, a don Rodrigo. Certo il « complimento » del curato ci suona ben diverso da quello dell’Innominato nei riguardi del signorotto — « Quell’animale di don Rodrigo...» (Cap. XXI) —; ma come sfogo, una volta tanto, ripaga anche lui di tanti bocconi amari. 197. questa cerimonia: tutte le cose grandi avvenute in quella mattina, dalla conver-
sione dell’Innominato alla liberazione di Lusono che una cerizzonia, fatta di tanti « rigirii ». E anch’essa destinata a ricadere su di lui! 202. I colpi...; i cenci... non si può dire che il ragionamento manchi di una deduzione logica: ora, per di più, anche la sapienza antica dei proverbi lo convalida, e, naturalmente, accresce l’amarezza della conclusione: « ecco che il cencio son diventacia, per lui non
to io ».
205. La sarebbe barbara...: par di vedere una smorfia della bocca accompagnare l’angoscia del cuore. 206-207. Cosa farà ora sua signoria: dopo quello che fa il male, don Rodrigo, ora tocca a quello che fa il bene, il Cardinale, a passare sotto la stizza corrosiva del pusillanime: ai cui occhi le virtù dell’uomo grande non sono niente altro che fonte di molestia per sé. 218. Per gli spassi che la mi dà!: davvero qui don Abbondio, mentre si scusa, si ac-
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la raccontare a Perpetua la cosa com'è; e lascia poi fare a Perpetua a mandar
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ità, in giro. Purché a monsignore non venga il grillo di far qualche pubblic appena conto, buon A me. qualche scena inutile, e mettermici dentro anche ; se siamo arrivati, se è uscito di chiesa, vado a riverirlo in fretta in fretta no, lascio le mie scuse, e me ne vo diritto diritto a casa mia. Lucia è bene appoggiata; di me non ce n'è più bisogno; e dopo tant’incomodi, posso pretendere anch'io d’andarmi a riposare. E poi... che non venisse anche curiosità a monsignore di saper tutta la storia, e mi toccasse a render conto dell’affare del matrimonio! Non ci mancherebbe altro. E se viene in visita anche alla mia parrocchia!... Oh! sarà quel che sarà; non vo” confondermi prima del tempo: n’ho abbastanza de’ guai. Per ora vo a chiudermi in casa. Fin che monsignore si trova da queste parti, don Rodrigo non avrà faccia di far pazzie. E poi... E poi? Ah! vedo che i miei ultimi anni ho da passarli male! — La comitiva arrivò che le funzioni di chiesa non erano ancor terminate;
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passò per mezzo alla folla medesima non meno commossa della prima volta; e poi si divise. I due a cavallo voltarono sur una piazzetta di fianco, in fondo a cui era la casa del parroco; la lettiga andò avanti verso quella della buona i i donna. fece i smontato, appena pensato: aveva Don Abbondio fece quello che con scusat volerlo più sviscerati complimenti all’innominato, e lo pregò di monsignore; ché lui doveva tornare alla parrocchia addirittura, per affari urgenti. Andò a cercare quel che chiamava il suo cavallo, cioè il bastone che aveva lasciato in un cantuccio del salotto, e s’incamminò. L’innominato stet-
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te a aspettare che il cardinale tornasse di chiesa. La buona donna, fatta seder Lucia nel miglior luogo della sua cucina, s’affaccendava a preparar qualcosa da ristorarla, ricusando, con una certa rustichezza cordiale, i ringraziamenti e le scuse che questa rinnovava ogni tanto. Presto presto, rimettendo stipa sotto un calderotto, dove notava un buon cappone, fece alzare il bollore al brodo, e riempitane una scodella già guarnita di fette di pane, poté finalmente presentarla a Lucia. E nel vedere la poverina a riaversi a ogni cucchiaiata, si congratulava ad alta voce con sé
cusa. Confessando che egli non sta dalla parte dell’iniquità, se non perché anch’essa ha i suoi incomodi e le sue noie, ci svela quanto poco di cristiano c’è in lui. Ma noi sappiamo anche che il curato, dalla parte del. l’iniquità, ci s'era proprio messo allorquando aveva accondisceso in tutto e per tutto alla volontà di don Rodrigo: « Disposto... disposto sempre all’ubbidienza » (Cap. I). 218-231. Basta... passarli male!: ancora una volta gli scorrono davanti alla mente i personaggi del suo dramma, ognuno con quanto di pena gli ha dato o può ancora dargli (Cardinale, Lucia, don Rodrigo) o col vantaggio che può procurargli (Perpetua). E su ognuno don Abbondio posa il suo solito occhio calcolatore, ma con un egoismo così meschino che rasenta l’irriverenza e l’offesa (col Cardinale: che non gli venga «il grillo di far qualche pubblicità »), o la sfrontatezza (con Lucia: che non ha « più
bisogno » di lui; come se finora l’avesse protetta chi sa quanto). Comunque la conclusione sconsolata di tutto il soliloquio — «Ah! vedo che i miei ultimi anni ho da passarli male. » — non può che indurci ancora a pietà per questo vecchio tremante ad ogni stormire di fronda. 239-240. addirittura, per affari urgenti: è, per questa volta, l’ultima pennellata mordace che il M. dà al suo don Abbondio: una bella bugia all’Innominato, unita ad una grossa scortesia verso il Cardinale. Ma poi lo segue con lo sguardo più grave e bonario: e anche costui diviene un pover’uomo in balia delle forze cattive del mondo, traballante sotto il peso di una dura odissea. 244-245. ricusando... i ringraziamenti: come il barcaiolo e il barrocciaio (Cap. IX), anche la buona donna aspetta altrove la ricompensa del bene che fa. 246. stipa: ramoscelli secchi.
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stessa che la cosa fosse accaduta in un giorno in cui, com’essa diceva, non c'era il gatto nel fuoco. « Tutti s’ingegnano oggi a far qualcosina, » aggiungeva:
« meno que’ poveri poveri che stentano a aver pane di vecce e po-
lenta di saggina; però oggi da un signore così caritatevole sperano di buscar tutti qualcosa. Noi, grazie al cielo, non siamo in questo caso: tra il mestiere di mio marito, e qualcosa che abbiamo al sole, si campa. Sicché mangiate
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senza pensieri intanto; ché presto il cappone sarà a tiro, e potrete ristoratvi
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un po’ meglio. » Così detto, ritornò ad accudire al desinare, e ad apparecchiare. Lucia, tornatele alquanto le forze, e acquietandosele sempre più l’animo, andava intanto assettandosi, per un’abitudine, per un istinto di pulizia e di verecondia; rimetteva e fermava le trecce allentate e arruffate, raccomodava il fazzoletto sul seno, e intorno al collo. In far questo, le sue dita s’intralciarono nella corona che ci aveva messa, la notte avanti; lo sguardo vi corse; si fece nella mente un tumulto istantaneo; la memoria del voto, oppressa fino allora e soffogata da tante sensazioni presenti, vi si suscitò d'improvviso, e vi comparve chiara e distinta. Allora tutte le potenze del suo animo, appena riavute, furon sopraffatte di nuovo, a un tratto: e se quell’animo non fosse stato così preparato da una vita d’innocenza, di rassegnazione e di fiducia, la costernazione che provò in quel momento, sarebbe stata disperazione. Dopo un ribollimento di que’ pensieri che non vengono con parole, le prime che si formarono nella sua mente furono: — oh povera me, cos’ho fatto! — Ma non appena l’ebbe pensate, ne risentì come uno spavento. Le tornarono in mente tutte le circostanze del voto, l’angoscia intollerabile, il non avere una speranza di soccorso, il fervore della preghiera, la pienezza del sentimento con cui la promessa era stata fatta. E dopo avere ottenuta la grazia, pentirsi della promessa, le parve un’ingratitudine sacrilega, una perfidia verso Dio.e la Madonna; le parve che una tale infedeltà le attirerebbe nuove e più terribili sventure, in mezzo alle quali non potrebbe più sperare
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neppur nella preghiera; e s’affrettò di rinnegare quel pentimento momentaneo. Si levò con divozione la corona dal collo, e tenendola nella mano tremante, confermò, rinnovò il voto, chiedendo nello stesso tempo, con una supplica151. non c’era il gatto nel fuoco: l’espressione popolare vuol dire che era giorno di festa, e quindi il focolare era acceso per un pranzo un po’ più lauto del solito. Non ci stava perciò, sopra, il gatto accovacciato. Tutta questa parlata della buona donna è colorita d’immagini e di frasi familiari e cordiali, che possiedono, anch’esse, qualcosa di rasserenante per Lucia; così, « sperano di buscar », per sperano ricevere; « qualcosa... al sole », per certi campicelli, come sapremo più tardi. ' 271. oh povera me, cos’ho fatto!: è la prima conclusione del « tumulto istantaneo »: il pentimento istintivo del voto. Ma fra breve, richiamata dal sentimento religioso, Lucia proverà spavento del pentimento e rinnoverà il voto e si appellerà all'aiuto della Provvidenza; ma poi, e per sempre, come in Ermengarda, l’amore sopito tornerà ad assa-
lirle l'anima, e le immagini del sogno spezzato si confonderanno con le più ardenti preghiere. Questo momento di Lucia, il più doloroso forse della sua vita, va tenuto ben presente per capire, contro quanti continuano a giudicare Lucia scialba e fredda, la forza del suo amore per Renzo. Quell’amore, che ella mai confessa né alla madre né al promesso sposo, e su cui mai indulge il M., è così intenso ed esclusivo che avrebbe potuto portarla alla disperazione, se le fosse mancata la possibilità di rifugiarsi nella fede in Dio. Nel lacerante, ma composto equilibrio fra religione e amore, risiede ‘la grande poesia di questa pagina. 280. nella mano tremante: questa 7470 che trema nel rinnovamento del voto esprime un pathos ancor più acuto di quello delle mani giunte al petto durante la prima offerta nella notte al castello.
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rizione accorata, che le fosse concessa la forza d’adempirlo, che le fossero ismovere non se potuto, avrebbero sparmiati i pensieri e l’occasioni le quali
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il suo animo, agitarlo troppo. La lontananza di Renzo, senza nessuna probabilità di ritorno, quella lontananza che fin allora le era stata così amara, le parve ora una disposizione della Provvidenza, che avesse fatti andare insie-
me i due avvenimenti per un fine solo; e si studiava di trovar nell’uno la ragione d’esser contenta dell’altro. E dietro a quel pensiero, s’andava figurando
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ugualmente che quella Provvidenza medesima, per compir l’opera, saprebbe trovar la maniera di far che Renzo si rassegnasse anche lui, non pensasse più... Ma una tale idea, appena trovata, mise sottosopra la mente ch’era andata a cercarla. La povera Lucia, sentendo che il cuore era lì lì per pentirsi, se ci ritornò alla preghiera, alle conferme, al combattimento, dal quale s’alzò, si passa quest’espressione, come il vincitore stanco e ferito, di sopra il ne-
mico abbattuto: non dico ucciso.
Tutt’a un tratto, si sente uno scalpiccìo, e un chiasso di voci allegre. Era la famigliola che tornava di chiesa. Due bambinette e un fanciullo entran saltando; si fermano un momento a dare un’occhiata curiosa a Lucia, poi corrono alla mamma, e le s’aggruppano intorno: chi domanda il nome dell’ospite sconosciuta, e il come e il perché; chi vuol raccontare le maraviglie vedute: la buona donna risponde a tutto e a tutti con un «zitti, zitti ». Entra poi, con un passo più quieto, ma con una premura cordiale dipinta in viso, il padrone di casa. Era, se non l’abbiamo ancor detto, il sarto del villaggio, e de’ contorni; un uomo che sapeva leggere, che aveva letto in fatti più d’una volta il Leggendario de’ Santi, il Guerrin meschino e i Reali di Francia, e passava, in quelle parti, per un uomo di talento e di scienza: lode però che rifiutava modestamente, dicendo soltanto che aveva sbagliato la vocazione; e che se fosse andato agli studi, in vece di tant’altri...! Con questo, la mi-
glior pasta del mondo. Essendosi trovato presente quando sua moglie era
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stata pregata dal curato d’intraprendere quel viaggio caritatevole, non solo ci aveva data la sua approvazione, ma le avrebbe fatto coraggio, se ce ne fosse stato bisogno. E ora che la funzione, la pompa, il concorso, e soprattutto la
predica del cardinale avevano, come si dice, esaltati tutti i suoi buoni senti291. Ma una tale idea...: la donna amante
si ritrae atterrita al pensiero della rinuncia e della dimenticanza, e la sua volontà vacilla sotto l’impeto del sentimento; solo la pre-
ghiera torna a darle la forza di vivere. E sarà lunga questa vicenda di pianto e preghiera. 296. Tutt'a un tratto...: con uno stacco tempestivo il M. cambia il ritmo del racconto, e dal dramma dell’anima sofferente ci porta. alla vita quotidiana degli umili. Ne nasce un quadro vivissimo di poesia familiare, nell’interno di una casa ospitale e serena. 303. il sarto del villaggio: tra le figure minori del romanzo resterà una delle più caratteristiche e simpatiche. Intanto osserviamo quel suo « passo più quieto » dopo i salti festosi dei figli, e poi quella « premura cordiale » dipinta sul volto: sarà, sempre, la sua nota più bella.
305-306. Leggendario... scienza: leggendario (da legenda, cose da leggersi: non le nostre « leggende », racconti favolosi) significa raccolta di vite di santi. Quale avesse letto il sarto non si può dire, perché di /eggendari ce ne sono molti. Il Guerrin meschino è un antico romanzo cavalleresco di ‘origine francese, tradotto e rifatto in italiano nel secolo XIV; i Reali di Francia una compila-
zione di leggende cavalleresche,
anch’esse
di origine francese, fatta da Andrea da Barberino (1370-1431). Su questi tre libri si era edificata :la cultura del sarto, che, da quelle parti, passava « per un uomo di talento e di scienza »! In lui dunque il M. satireggia il sapete popolare, così limitato e pure, talvolta, non privo di qualche presunzione. Ma a redimere, nel sarto, l’infatuazione letteratia ci saranno un cuore generoso e una condotta esemplare di padre.
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menti, tornava a casa con un’aspettativa, con un desiderio ansioso di sapere come la cosa fosse riuscita, e di trovare la povera innocente salvata. « Guardate un poco, » gli disse, al suo entrare, la buona donna, accen-
nando Lucia; la quale fece il viso rosso, s’alzò, e cominciava a balbettar qualche scusa. Ma lui, avvicinatosele, l’interruppe facendole una gran festa, e esclamando: «ben venuta, ben venuta! Siete la benedizione del cielo in
questa casa. Come son contento di vedervi qui! Già ero sicuro che sareste
arrivata a buon porto; perché non ho mai trovato che il Signore abbia cominciato un miracolo senza finirlo bene; ma son contento di vedervi qui. Povera giovine! Ma è però una gran cosa d’aver ricevuto un miracolo! » Né si creda che fosse lui il solo a qualificar così quell’avvenimento, perché aveva letto il Leggendario: per tutto il paese e per tutt’i contorni non se ne parlò con altri termini, fin che ce ne rimase la memoria. E, a dir la verità, con le frange che vi s’attaccarono, non gli poteva convenire altro nome.
Accostatosi poi passo passo alla moglie, che staccava il calderotto dalla 33 o ‘catena, le disse sottovoce: «è andato bene ogni cosa? » « Benone: ti racconterò poi tutto. » « Sì, sì; con comodo. » Messo poi subito in tavola, la padrona andò a prender Lucia, ve l’accompagnò, la fece sedere; e staccata un’ala di quel cappone, gliela mise davanti;
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si mise a sedere anche lei e il marito, facendo tutt'e due coraggio all’ospite abbattuta e vergognosa, perché mangiasse. Il sarto cominciò, ai primi bocconi,
a discorrere con grand’enfasi, in mezzo all’interruzioni de’ ragazzi, che man: giavano ritti intorno alla tavola, e che in verità avevano viste troppe cose straordinarie, per fare alla lunga la sola parte d’ascoltatori. Descriveva le cerimonie solenni, poi saltava a parlare della conversione miracolosa. Ma ciò che gli aveva fatto più impressione, e su cui tornava più spesso, era la predica del cardinale. «A vederlo lì davanti all’altare, » diceva, «un signore di quella sorte, come
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»
« E quella cosa d’oro che aveva in testa... » diceva una bambinetta.
« Sta zitta. A pensare, dico, che un signore di quella sorte, e un uomo tanto sapiente, che, a quel che dicono, ha letto tutti i libri che ci sono, cosa 321. non ho mai trovato...: nei libri, che lui ha letti. Fede e cultura si mescolano subito nel primo discorso del sarto. È una cosa più forte di lui il bisogno di far sapere che ha letto e che sa tante cose. È il suo difettuccio congenito: quello che offrirà al M. spunti di bonario umorismo in ogni occasione in cui il personaggio comparirà. 326-327. E, a dir la verità... nome: se 77racolo poteva essere per il sarto, e, con tutte le frange successive, per il popolo, non lo è per il M., il quale, come osserva giustamente il Rizzi, « sa di avere del tutto umanamente preparato il clamoroso avvenimento e che non è miracolo nel senso proprio della parola, per quanto la Grazia divina vi sia palesemente intervenuta; ma sarto e popolo tutte quese cose non possono saperle e giu-
dicano naturalmente senza badar tanto per il sottile ».
337-338. mangiavano ritti: non sfugga quel riti, cioè in piedi, intorno alla tavola; in quei bambini c’è tanta eccitazione, oggi, che non possono stare fermi: figuriamoci se possono stare seduti e composti. Torna alla mente il pascoliano « santo desco fiorito d’occhi di bambini » (Romagna). 345. E quella cosa d’oro...: la mitra. Le interruzioni della prima « bimbetta » e poi dell’altra « chiacchierina » e infine del « fanciullo », tutte rimbeccate da « sta zitta... sta zitta!... sta zitto», infondono una vivacità simpaticissima a questa pagina. Se la relazione del sarto, tutta ossessionata dall’impegno letterario, fosse continua, il discorso risulterebbe pesante e di maniera.
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a cui non è mai arrivato nessun altro, né anche in Milano; a pensare che sap-
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pia adattarsi a dir quelle cose in maniera che tutti intendano... » «Ho inteso anch’io, » disse l’altra chiacchierina. « Sta zitta! cosa vuoi avere inteso, tu? »
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« Ho inteso che spiegava il Vangelo in vece del signor curato. » « Sta zitta. Non dico chi sa qualche cosa; ché allora uno è obbligato a intendere; ma anche i più duri di testa, i più ignoranti, andavan dietro al filo del discorso. Andate ora a domandar loro se saprebbero ripeter le parole che diceva: sì; non ne ripescherebbero una; ma il sentimento lo hanno qui. E senza mai nominare quel signore, come si capiva che voleva parlar di lui! E poi, per capire, sarebbe bastato osservare quando aveva le lacrime agli occhi. E allora tutta la gente a piangere... » « È proprio vero, » scappò fuori il fanciullo: « ma perché piangevan tutti a quel modo, come bambini? » « Sta zitto. E sì che c’è de’ cuori duri in questo paese. E ha fatto proprio vedere che, benché ci sia la carestia, bisogna ringraziare il Signore, ed esser contenti:
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far quel che si può, industriarsi, aiutarsi, e poi esser con-
tenti. Perché la disgrazia non è il patire, e l’esser poveri; la disgrazia è il far del male. E non son belle parole; perché si sa che anche lui vive da pover’uomo, e si leva il pane di bocca per darlo agli affamati; quando potrebbe far vita scelta, meglio di chi si sia. Ah! allora un uomo dà soddisfazione a sentirlo discorrere; non come tant’altri, fate quello che dico, e non fate quel che fo. E poi ha fatto proprio vedere che anche coloro che non son signori, se hanno più del necessario, sono obbligati di farne parte a chi patisce. » Qui interruppe il discorso da. sé, come sorpreso da un pensiero. Stette un momento; poi mise insieme un piatto delle vivande ch’eran sulla tavola, e aggiuntovi un pane, mise il piatto in un tovagliolo, e preso questo per le quattro cocche, disse alla sua bambinetta maggiore: « piglia qui ». Le diede nell’altra mano un fiaschetto di vino, e soggiunse: « va qui da Maria vedova; lasciale questa roba, e dille che è per stare un po’ allegra co’ suoi bambini. Ma con buona maniera, ve’; che non paia che tu le faccia l'elemosina. E non dir niente, se incontri qualcheduno; e guarda di non rompere. » Lucia fece gli occhi rossi, e sentì in cuore una tenerezza ricreatrice; come già da’ discorsi di prima aveva ricevuto un sollievo che un discorso fatto apposta non le avrebbe potuto dare. L’animo attirato da quelle descrizioni, da 348-349. sappia adattarsi... intendano: potremmo dire che questa è una definizione dell’arte del M.: ed è, d’altra parte, la sua novità più importante nell’Olimpo della letteratura italiana. 353. Non dico chi sa qualche cosa: e questo, modestamente, è lui. Ma a parte la piccola presunzione e quel certo sussiego che scorte per tutto il resoconto della predica, il sarto ha capito, e sa far capire, il senso delle parole del Cardinale, e bene ne ha centrato il succo: «la disgrazia non è il patire, e l’esser poveri; la disgrazia è il far del male ». Che è il succo di tutto il messaggio evangelico e del pensiero del M. 372-379. Qui interruppe... non rompere: come la predica ha toccato i cuorî degli
umili paesani, perché non è un insieme di « belle parole » ma il riflesso della vita vissuta del Cardinale, che «si leva il pane di. bocca per darlo agli affamati», così le riflessioni del sarto conquistano noi, perché si traducono immediatamente in concretezza di azione. Nelle parole, poi, che egli rivolge alla bambina, scomparsa ogni ombra di sussiego, senti soltanto l’uomo buono e accorto. Questa sintesi di religiosità e di familiarità ha, naturalmente, il suo esito umano e poetico nel conforto che ne prova Lucia: un sostegno inatteso, una «tenerezza ricreatrice ». E ancora riandiamo ai versi della Pentecoste: « Cui fu donato in copia, Doni con volto amico, Con quel tacer pudico, che ac-
cetto il don ti fa».
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quelle fantasie di pompa, da quelle commozioni di pietà e di maraviglia, preso dall’entusiasmo medesimo del narratore, si staccava da’ pensieri dolorosi di sé; e anche ritornandoci sopra, si trovava più forte contro di essi. Il pensiero stesso del gran sacrifizio, non già che avesse perduto il suo amaro, ma insiem con esso aveva un non so che d’una gioia austera e solenne.
Poco dopo, entrò il curato del paese, e disse d’esser mandato dal cardinale a informarsi di Lucia, ad avvertirla che monsignore voleva vederla in quel giorno, e a ringraziare in suo nome il sarto e la moglie. E questi e quella, commossi e confusi, non trovavan parole per corrispondere a tali dimostrazioni d’un tal personaggio. « E vostra madre non è ancora arrivata? » disse il curato a Lucia. « Mia madre! » esclamò questa. Dicendole poi il curato, che l’aveva mandata a prendere, d’ordine dell’arcivescovo, si mise il grembiule agli occhi, e diede in un diretto pianto, che durò un pezzo dopo che fu andato via il curato. Quando poi gli affetti tumultuosi che le si erano suscitati a quell’annunzio, cominciarono a dar luogo a pensieri più posati, la poverina si ricordò «che quella consolazione allora così vicina, di riveder la madre, una consolazione così inaspettata poche ore prima, era stata da lei espressamente implorata in quell’ore terribili, e messa quasi come una condizione al voto. Fatemi tornar salva con mia madre, aveva detto; e queste parole le ricomparvero ora distinte nella memoria. Si confermò più che mai nel proposito di mantener la promessa, e si fece di nuovo, e più amaramente, scrupolo di quel povera me! che le era scappato detto tra sé, nel primo momento. Agnese infatti, quando si parlava di lei, era già poco lontana. È facile pensare come la povera donna fosse rimasta, a quell’invito così inaspettato, e a quella notizia, necessariamente tronca e confusa, d’un pericolo, si poteva dir, cessato, ma spaventoso; d’un caso terribile, che il messo non sapeva né circostanziare né spiegare; e lei non aveva a che attaccarsi per ispiegarlo da sé. Dopo essersi cacciate le mani ne’ capelli, dopo aver gridato più volte: « ah
Signore! ah Madonna! », dopo aver fatte al messo varie domande, alle quali 415
questo non sapeva che rispondere, era entrata in fretta e in furia nel baroccio, continuando per la strada a esclamare e interrogare, senza profitto. Ma, a un certo punto, aveva incontrato don Abbondio che veniva adagio adagio, mettendo avanti, a ogni passo, il suo bastone. Dopo un « oh! » di tutt'e due le parti, lui s'era fermato, lei aveva fatto fermare, ed era smontata; e s’eran tirati in disparte in un castagneto che costeggiava la strada. Don Abbondio
l’aveva ragguagliata di ciò che aveva potuto sapere e dovuto vedere. La cosa 420
non era chiara; ma almeno Agnese fu assicurata che Lucia era affatto in salvo; e respirò.
395-396. si mise il grembiule... pianto dirotto: è un pianto naturalissimo e che dice tanto del cuore di Lucia. Ugualmente naturale e spontaneo, per questa ragazza che è di campagna ma ha una sensibilità così fine, è quel mettersi il grembiule agli occhi: pudore delle proprie lacrime, bisogno di sfogo segreto. 421. e respirò: tutto il capoverso è soffuso da una leggera dosatura caricaturale che pacatamente riporta il racconto dalla tensio-
ne di prima al ritmo modesto della vita borghigiana. La caricatura ha le sue note più vive dapprima nei gesti e nelle parole di Agnese, che si caccia « le mani ne? capelli » e non sa gridare che « oh Signore! oh Madonna! »; poi in quel ritratto sconsolato di don Abbondio, che cammina « adagio adagio » (altro che affari urgenti i suoi!) e « mettendo avanti, a ogni passo, il suo bastone »; infine nell’appartarsi di tutti e due «in un castagneto» dove il povero prete
i promessi sposi
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Dopo, don Abbondio era voluto entrare in un altro discorso, e darle una
lunga istruzione sulla maniera di regolarsi con l'arcivescovo, se questo, com’era probabile, avesse desiderato di parlar con lei e con la figliuola; e so-
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prattutto che non conveniva far parola del matrimonio... Ma Agnese, ACcOr-
gendosi che il brav’uomo non parlava che per il suo proprio interesse, l’aveva piantato, senza promettergli, anzi senza risolver nulla; ché aveva tutt'altro da pensare. E s’era rimessa in istrada.
Finalmente il baroccio arriva, e si ferma alla casa del sarto. Lucia s’alza precipitosamente; Agnese scende, e dentro di corsa: sono nelle braccia l’una dell’altra. La moglie del sarto, ch’era la sola che si trovava lì presente, fa coraggio a tutt’e due, le acquieta, si rallegra con loro, e poi, sempre discreta, le lascia sole, dicendo che andava a preparare un letto per loro; che aveva il modo, senza incomodarsi; ma che, in ogni caso, tanto lei, come suo marito, avrebbero piuttosto voluto dormire in terra, che lasciarle andare a cercare un ricovero altrove. Passato quel primo sfogo d’abbracciamenti e di singhiozzi, Agnese volle sapere i casi di Lucia, e questa si mise affannosamente a raccontarglieli. Ma, come il lettore sa, era una storia che nessuno la conosceva tutta; e per Lucia stessa c’eran delle parti oscure, inesplicabili affatto. E principalmente quella fatale combinazione d’essersi la terribile carrozza trovata lì sulla strada, per l’appunto quando Lucia vi passava per un caso straordinario: su di che la madre e la figlia facevan cento congetture, senza mai dar nel segno, anzi senza neppure andarci vicino. In quanto all’autor principale della trama, tanto l’una che l’altra non potevano fare a meno di non pensare che fosse don Rodrigo. « Ah anima nera! ah tizzone d’inferno! » esclamava Agnese: « ma verrà
la sua ora anche per lui. Domeneddio lo pagherà secondo il merito; e allora
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proverà anche lui... » « No, no, mamma; no! » interruppe Lucia: « non gli augurate di patire, non l’augurate a nessuno! Se sapeste cosa sia patire! Se aveste provato! No, no! preghiamo piuttosto Dio e la Madonna per lui: che Dio gli tocchi il
cuore, come ha fatto a quest’altro povero signore, ch’era peggio di lui; e ora è un santo. »
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Il ribrezzo che Lucia provava nel tornare sopra memorie così recenti e così crudeli, la fece più d’una volta restare a mezzo; più d’una volta disse che non le bastava l’animo di continuare, e dopo molte lacrime, riprese la parola a stento. Ma un sentimento diverso la tenne sospesa, a un certo punto
del racconto: quando fu al voto. Il timore che la madre le desse dell’impru-
avrebbe le sue istruzioni da dare, e dove poco dopo rimatrà « piantato » senza alcuna
promessa. 443-444, senza
neppure
andarci
vicino: potevano indovinare: i rappotti fra don Rodrigo e l’Innominato, l’intervento di Egidio, il tradimento di Gertrude... 451. Se sapeste cosa sia patire: bene il Bezzola: « Espressione tra le più commoventi del romanzo, di quelle che da sole chiariscono ed illuminano un personaggio. Il patimento reale di Lucia si elèva; nella
c'erano troppe cose che le donne non
trasfigurazione che ne opera il M., a legge morale assoluta, di cui troppo sovente ci scordiamo ». Ma Lucia, oltre che soffrire, prega per chi la fa soffrire: « preghiamo...
Dio e la Madonna per lui: che Dio gli tocchi il cuore». Ci ricorderemo del valore di quelle preghiere dinanzi al corpo di don Rodrigo agonizzante nel lazzeretto. — C'è di nuovo, espresso dalla fede purissima di una povera perseguitata, il motivo della comunione dei Santi: le preghiere e le sofferenze dei buoni meritano per la redenzione dei cattivi.
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dente e della precipitosa; e che, come aveva fatto nell’affare del matrimonio,
mettesse in campo qualche sua regola larga di coscienza, e volesse fargliela
trovar giusta per forza; o che, povera donna, dicesse la cosa a qualcheduno in confidenza, se non altro per aver lume e consiglio, e la facesse così divenir
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pubblica, cosa che Lucia, solamente a pensarci, si sentiva venire il viso rosso; anche una certa vergogna della madre stessa, una ripugnanza inesplicabile a entrare in quella materia; tutte queste cose insieme fecero che nascose quella circostanza importante, proponendosi di farne prima la confidenza al padre Cristoforo. Ma come rimase allorché, domandando di lui, si sentì rispondere che non c’era più, ch’era stato mandato in un paese lontano lontano, in un paese che aveva un certo nome! « E Renzo? » disse Agnese. « È in salvo, n’è vero? » disse ansiosamente Lucia. «Questo è sicuro, perché tutti lo dicono; si tien per certo che si sia ricoverato sul bergamasco; ma il luogo proprio nessuno lo sa dire: e lui finora non ha mai fatto saper nulla. Che non abbia ancora trovata la ma-
‘niera. » « Ah, se è in salvo, sia ringraziato il Signore! » disse Lucia; e cercava di 480
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cambiar discorso; quando il discorso fu interrotto da una novità inaspettata: la comparsa del cardinale arcivescovo. Questo, tornato di chiesa, dove l’abbiam lasciato, sentito dall’innominato che Lucia era arrivata, sana e salva, era andato a tavola con lui, facendoselo sedere a destra, in mezzo a una corona di preti, che non potevano saziarsi di dare occhiate a quell’aspetto così ammansato senza debolezza, così umiliato senza abbassamento, e di paragonarlo con l’idea che da lungo tempo s’eran fatta del personaggio. Finito di desinare, loro due s’eran ritirati di nuovo, insieme. Dopo un colloquio che durò molto più del primo, l’innominato era partito per il suo castello, su quella stessa mula della mattina; e il cardinale, fatto chiamare il
curato, gli aveva detto che desiderava d’esser condotto alla casa dov'era rico-
verata Lucia.
« Oh! monsignore, » aveva risposto il curato, « non s’incomodi: manderò io subito ad avvertire che venga qui la giovine, la madre, se è arrivata, anche gli ospiti, se monsignore li vuole, tutti quelli che desidera vossignoria illustrissima. »
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« Desidero d’andar io a trovarli, » aveva replicato Federigo. « Vossignoria illustrissima non deve incomodarsi: manderò io subito a
chiamarli:
è cosa d’un momento, » aveva
467-468. prima la confidenza al padre Cristoforo: come alle prime avvisaglie della persecuzione di don Rodrigo. Pudore, delicatezza, religione si fondono sempre nella determinazione del comportamento di Lucia. 472. ansiosamente: quante cose ci sono in quest’ansia! Soprattutto, amore e dolore. 475-476. Che non abbia... la maniera: la frase è del linguaggio popolare. Bisogna sottintendere un «è probabile », «è da pensare », o simili. 496. Vossignoria... incomodarsi: il curato, che si era mostrato intelligente nella scelta
insistito il curato
guastamestieri
della «buona donna », ora non capisce il valore che ha, in una situazione come questa, la visita del Cardinale in persona nella casa del sarto. Le insistenze del nuovo « guastamestieri» — «buon uomo del resto », precisa scherzosamente il M. — ricordano le preoccupazioni del’ cappellano crocifero. Aggiungiamo, per pura curiosità, che in Ferzzo e Lucia questo curato appare come un contrappeso di don Abbondio, tanto è buono e zelante. Aveva anche un nome, Serafino Mo-
razzone; anche il sarto aveva un nome: Tommaso Dalceppo.
i promessi sposi
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(buon uomo del resto), non intendendo che il cardinale voleva con quella vi.
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sita rendere onore alla sventura, all’innocenza, all’ospitalità e al suo proprio ministero in un tempo. Ma, avendo il superiore espresso di nuovo il medesimo desiderio, l’inferiore s’inchinò e si mosse.
-Quando i due personaggi furon veduti spuntar nella strada, tutta la gente che c’era andò verso di loro; e in pochi momenti n’accorse da ogni parte,
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slo
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IZ
camminando loro ai fianchi chi poteva, e gli altri dietro, alla rinfusa. Il curato badava a dire: « via, indietro, ritiratevi; ma! ma! » Federigo gli diceva: « lasciateli fare », e andava avanti, ora alzando la mano a benedir la gente,
ora abbassandola ad accarezzare i ragazzi che gli venivan tra’ piedi. Così arrivarono alla casa, e c’entrarono: la folla rimase ammontata al di fuori. -Ma nella folla si trovava anche il sarto. il quale era andato dietro come gli altri, con gli occhi fissi e con la bocca aperta, non sapendo dove si riuscirebbe. Quando vide quel dove inaspettato, si fece far largo, pensate con che strepito, gridando e rigridando: « lasciate passare chi ha da passare »; e entrò.
Agnese e Lucia sentirono un ronzìo crescente nella strada; mentre pensavano cosa potesse essere, videro l’uscio spalancarsi, e comparire il porporato col ‘parroco. « È quella? » domandò il primo al secondo; e, a un cenno affermativo, andò verso Lucia, ch’era rimasta lì con la madre, tutt'e due immobili e mute dalla sorpresa e dalla vergogna. Ma il tono di quella voce, l’aspetto, il contegno, e soprattutto le parole di Federigo l’ebbero subito rianimate. « Povera giovine, » cominciò: « Dio ha permesso che foste messa a una gran prova; ma v'ha anche fatto vedere che non aveva levato l’occhio da voi, che non v’aveva dimenticata. V’ha rimessa in salvo; e s’è servito di voi per una gran-
d’opera, per fare una gran misericordia a uno, e per sollevar molti nello stesso tempo. Qui compatve nella stanza la padrona, la quale, al rumore, s’era affacciata anch’essa alla finestra, e avendo veduto chi le entrava in casa, aveva sceso le scale, di corsa, dopo essersi raccomodata alla meglio; e quasi nello stesso
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tempo, entrò il sarto da un altr’uscio. Vedendo avviato il discorso, andarono a riunirsi in un canto, dove rimasero con gran rispetto. Il cardinale, salutatili cortesemente, continuò a parlar con le donne, mescolando ai conforti qualche domanda, per veder se nelle risposte potesse trovar qualche congiuntura di far del bene a chi aveva tanto patito. « Bisognerebbe che tutti i preti fossero come vossignoria, che tenessero un po’ dalla parte de’ poveri, e non aiutassero a metterli in imbroglio, per 504. camminando... questa.
scena
alla rinfusa: la vedi
autentica
di villaggio.
Una
simile, ma molto più movimentata, incontre-
remo quando il Cardinale andrà in visita nel
la parrocchia di don Abbondio: e con ben diverso comportamento dei due curati! 510. con gli occhi fissi e con la bocca aperta: osserva quegli occhi e quella bocca: gusterai meglio tutto il comportamento succes-
sivo del buon uomo in questa sua gran giornata. 514-515. il porporato col parroco: il M. è maestro in questi accostamenti; ricordiamo l’incontro della porpora con la casatca. E
dire che un uomo d’ingegno come il Tommaseo
a proposito di questo « porporato » nota: « porporato è ridicolo qui ». Ma, pur-
troppo, non è questa la sola nota... ridicola
di quel grand’uomo. i 522. s'è servito di voi...: ripensiamo al-
l’idea del miracolo, di cui erano convinti il sarto e il popolino. Qui però non si parla di miracolo, ma dell’intervento della‘ Provvi-
denza, che si è servita di una creatura per la redenzione di un’altra: un intervento nello svolgimento naturale delle cose, secondo la visione cristiana della vita, e il Jeit motiv di tutti I Promessi Sposi.
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cavarsene loro, » disse Agnese, animata dal contegno così famigliare e amorevole di Federigo, e stizzita dal pensare che il signor don Abbondio, dopo aver sempre sacrificati gli altri, pretendesse poi anche d’impedir loro un piccolo sfogo, un lamento con chi era al di sopra di lui, quando, per un caso raro, n’era venuta l’occasione. « Dite pure tutto quel che pensate, » disse il cardinale: « parlate libe-
ramente. »
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« Voglio dire che, se il nostro signor curato avesse fatto il suo dovere, la cosa non sarebbe andata così. » Ma facendole il cardinale nuove istanze perché si spiegasse meglio, quella cominciò a trovarsi impicciata a dover raccontare una storia nella quale aveva anch’essa una parte che non si curava di far sapere, specialmente a un tal personaggio. Trovò però il verso d’accomodarla con un piccolo stralcio: raccontò del matrimonio concertato, del rifiuto di don Abbondio, non lasciò fuori il pretesto de’ superiori che lui aveva messo in campo (ah, Agnese!);
e saltò all’attentato di don Rodrigo, e come, essendo stati avvertiti, avevano «potuto scappare. « Ma sì, » soggiunse e concluse: « scappare per inciamparci di muovo. Se in vece il signor curato ci avesse detto sinceramente la cosa, e avesse subito maritati i miei poveri giovani, noi ce n’andavamo via subito, tutti insieme, di nascosto, lontano, in luogo che né anche l’aria non lo avrebbe saputo. Così s'è perduto tempo; ed è nato quel che è nato. » « Il signor curato mi renderà conto di questo fatto, » disse il cardinale. « No, signore, no, signore, » disse subito Agnese: « non ho parlato per questo: non lo gridi, perché già quel che è stato è stato; e poi non serve a nulla: è un uomo fatto così: tornando il caso, farebbe lo stesso. » Ma Lucia, non contenta di quella maniera di raccontar la storia, sog-
giunse: « anche noi abbiamo fatto del male: si vede che non era la volontà
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del Signore che la cosa dovesse riuscire ». « Che male avete potuto far voi, povera giovine? » disse Federigo. Lucia, malgrado gli occhiacci che la madre cercava di farle alla sfuggita, raccontò la storia del tentativo fatto in casa di don Abbondio; e concluse di-
cendo: « abbiam fatto male; e Dio ci ha gastigati ».
« Prendete dalla sua mano i patimenti che avete sofferti, e state di buon animo, » disse Federigo: « perché, chi avrà ragione di rallegrarsi e di sperare, se non chi ha patito, e pensa ad accusar sé medesimo? » 536. il signor don Abbondio: la stizza a lungo repressa, e alimentata di fresco dalle « istruzioni » nel castagneto, qui rompe gli argini. Si ha un bel dire che Agnese è indiscreta e imprudente: bisognerebbe essere nei panni suoi, e possedere quel suo caratterino, per vedere chi si lascerebbe sfuggire un’« occasione » come quella. 546. una parte... sapere: il matrimonio di sorpresa. 559. farebbe lo stesso: poco prima Agnese era stata molto furba, e quasi feroce nel toccare il tasto del « pretesto de’ superiori », col quale aveva portato in causa la presenza stessa del Cardinale. Ora è ancor più risoluta nel giudizio conclusivo su don Ab-
bondio: « tornando il caso, farebbe lo stesso ». Ma tant’è: il suo sacco lo vuol vuotare fino in fondo. E noi non possiamo dire che non sia nel giusto con la frecciata alle spalle del curato. Un giorno se ne renderà conto anche l’arcivescovo. 561. anche noi abbiamo fatto del male: queste parole di Lucia dicono tutta la sua superiorità spirituale nei confronti della madre. La sua moralità non ammette i sotterfugi di Agnese: il suo cristianesimo è assoluto, com’è assoluto il suo senso della giustizia: « abbiam fatto male; e Dio ci ha gastigati ». 568-569. chi avrà ragione... medesimo?: potremmo commentare coi versi di Dante,
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Domandò allora dove fosse il promesso sposo, e sentendo da Agnese (Lucia stava zitta, con la testa e gli occhi bassi) ch’era scappato dal suo paese, ne | provò e ne mostrò maraviglia è dispiacere; e volle sapere il perché. di storia della sapeva che poco quel tutto meglio alla Agnese raccontò Renzo. 3 « Ho sentito parlare di questo giovine, » disse il cardinale: « ma come mai uno che si trovò involto in affari di quella sorte, poteva essere in trat-
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tato di matrimonio con una ragazza così? » « Era un giovine dabbene, » disse Lucia, facendo il viso rosso, ma con voce sicura. : « Era un giovine quieto, fin troppo, » soggiunse Agnese: «e questo lo
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ch’esprimeva molto più di quell’asciutta risposta, strozzata dalla vergogna.
può domandare a chi si sia, anche al signor curato. Chi sa che imbroglio avranno fatto laggiù, che cabale? I poveri, ci vuol poco a farli comparir birboni. » « È vero pur troppo, » disse il cardinale: « m’informerò di lui senza dub585 bio »: e fattosi dire nome e cognome del giovine, ne prese l’appunto sur un libriccin di memorie. Aggiunse poi che contava di portarsi al loro paese tra pochi giorni, che allora Lucia potrebbe venir là senza timore, e che intanto penserebbe lui a provvederla d’un luogo dove potesse esser al sicuro, fin che ogni cosa fosse accomodata per il meglio. 590 Si voltò quindi ai padroni di casa, che vennero subito avanti. Rinnovò i ringraziamenti che aveva fatti fare dal curato, e domandò se sarebbero stati contenti di ricoverare, per que’ pochi giorni, le ospiti che Dio aveva loro mandate. i « Oh! sì signore, » rispose la donna, con un tono di voce e con un viso
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Ma il marito, messo in orgasmo dalla presenza d’un tale interrogatore, dal desiderio di farsi onore in un’occasione di tanta importanza, studiava ansiosamente qualche bella risposta. Raggrinzò la fronte, torse gli occhi in traverso, strinse le labbra, tese a tutta forza l’arco dell’intelletto, cercò, frugò,
sentì di dentro un cozzo d’idee monche e di mezze parole: ma il momento stringeva; il cardinale accennava già d’aver interpretato il silenzio: il pover’uomo aprì la bocca, e disse: « si figuri! » Altro non gli volle venite. Cosa,
che la speranza è davvero « un attender cetto De la gloria futura, il qual produce Grazia divina e precedente metto » (Parad. XXV, 67-69). 578. Era un giovine dabbene: Lucia, che fin qui era stata zitta e con la testa e gli occhi bassi e aveva lasciato parlare la madre, ora non ha esitazione a difendere Renzo. Lo fa per giustizia e per amore, e manifestando ancora una volta quella forza di carattere per cui supera, nei momenti del ‘bisogno, l’innata timidezza verginale. Da qui il «viso rosso », ma la «voce
sicura ». 582-583. I poveri... birboni: la massima è, sì, tipica di Agnese, ma nasce dall’amaro pessimismo del M. Non per nulla anche il Cardinale ci acconsente. . 598-602. Raggrinzò la fronte... «si figu-
ri! »: questa pittura del poveto sartò, con-
centrato fino allo spasimo nel cercare la parola che non trova sotto l’incalzarte del tempo che passa, è una delle cose più spassose e indimenticabili del libro. Mentre col suo svolgimento comico serve a placare il tono sostenuto dei precedenti discorsi, dà il tocco finale al ritratto polemico del personaggio. Oppottunamente il Goffis osserva anche che l’episodio « non resta isolato ed esaurito in sé stesso: ha echi ulteriori nel capitolo XXIX, espressione di un rammarico a lungo alimentato (‘ Quanto sarei contento di potergli parlare un’altra volta, un po’ più con comodo! ’). È consueto ciò nei Prozzessi Sposi, dove nessun elemento ‘narrativo va
perduto, ma resta sotteso al racconto e riaf-
fiora al momento
opportuno,
intrecciando
una rete fitta di riferimenti che alle parole danno risonanza ».
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di cui non solo rimase avvilito sul momento; ma sempre poi quella rimembranza importuna gli guastava la compiacenza del grand’onore ricevuto. E quante volte, tornandoci sopra, e rimettendosi ‘col pensiero in quella circostanza,
gli venivano in mente, quasi per dispetto, parole che tutte sarebbero state meglio di quell’insulso si figuri! Ma, come dice un antico proverbio, del senno i poi ne son piene le fosse. 610
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Il cardinale partì, dicendo: « la benedizione del Signore sia sopra questa casa ». Domandò poi la sera al curato come si sarebbe potuto in modo conve: nevole ricompensare quell’uomo, che non doveva esser ricco, dell’ospitalità costosa, specialmente in que’ tempi. Il curato rispose che, per verità, né i guadagni della professione, né le rendite di certi campicelli, che il buon sarto
aveva del suo, non sarebbero bastate, in quell’annata, a metterlo in istato d’esser liberale con gli altri; ma che, avendo fatto degli avanzi negli anni addietro, si trovava de’ più agiati del contorno, e poteva far qualche spesa di più, senza dissesto, come certo faceva questa volentieri; e che, del rimanente.
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‘non ci sarebbe stato verso di fargli accettare nessuna ricompensa. « Avrà probabilmente, » disse il cardinale, « crediti con gente che non può pagare. » « Pensi, monsignore illustrissimo: questa povera gente paga con quel che le avanza della raccolta: l’anno scorso, non avanzò nulla; in questo, tutti ri-
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mangono indietro del necessario. » « Ebbene, » disse Federigo: « prendo io sopra di me tutti que’ debiti; e voi mi farete il piacere d’aver da lui la nota delle partite, e di saldarle! » « Sarà una somma ragionevole. » « Tanto meglio: e avrete pur troppo di quelli ancor più bisognosi, che non hanno debiti perché non trovan credenza. » « Eh, pur troppo! Si fa quel che si può; ma come arrivare a tutto, in tempi di questa sorte? » « Fate che lui li vesta a mio conto, e pagatelo bene. Veramente, in quest'anno, mi par rubato tutto ciò che non va in pane; ma questo è un caso particolare. »
Non vogliam però chiudere la storia di quella giornata, senza raccontar
brevemente come la terminasse l’innominato. Questa volta, la nuova della sua conversione l’aveva preceduto nella valle; vi s'era subito sparsa, e aveva messo per tutto uno sbalordimento, un’ansietà, un cruccio, un susurro. Ai primi bravi, o servitori (era tutt'uno) che vide, 640
accennò che lo seguissero; e così di mano in mano. Tutti venivan dietro, con 619. nessuna ricompensa: anche lui, come abbiamo detto per sua moglie, è della stoffa del barcaiolo e del barrocciaio: gente che non attende ricompense terrene. 627. una somma ragionevole: considerevole, molto alta. 632. Fate che lui li vesta a mio conto...: noi lo sappiamo bene che Federigo fu un uomo « sommamente benefico e liberale » e che «la sua vita fu un continuo profondere ai poveri» (Cap. XXII). ) 635-636. Non vogliam... l’innominato: siamo giunti all’ultimo momento di questa « ce-
lebre » giornata: il momento grande in cui il convertito torna a contatto con la sua
gente e poi trova finalmente il riposo nella serenità della pace riconquistata. 638-639. uno sbalordimento, un’ansietà, un cruccio, un susurro: nella gradazione c’è il segno, ancora una volta, dell’attenzione psicologica e delle doti linguistiche del M. Sbalordimento per la notizia incredibile; 47sietà per l’incerto avvenire; cruccio per un moto di reazione; susurro per la presenza dell’uomo che diffonde una « sospensione
nuova» ma anche la « suggezione solita ».
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una sospensione nuova, e con la suggezione solita; finché, con un seguito
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sempre crescente, arrivò al castello. Accennò a quelli che si trovavan sulla porta, che gli venissero dietro con gli altri; entrò nel primo cortile, andò verso il mezzo, e lì, essendo ancora a cavallo, mise un suo grido tonante: era il segno usato, al quale accorrevano tutti que’ suoi che l’avessero sentito. In
un momento, quelli ch’erano sparsi per il castello, vennero dietro alla voce, e s'univano ai già radunati, guardando tutti il padrone. « Andate ad aspettarmi nella sala grande, » disse loro; e dall’alto della sua cavalcatura, gli stava a veder partire. Ne scese poi, la menò lui stesso alla 650 stalla, e andò dov'era aspettato. Al suo apparire, cessò subito un gran bisbiglìo che c’era; tutti si ristrinsero da una parte, lasciando voto per lui un grande spazio della sala: potevano essere una trentina. i 655
L’innominato alzò la mano, come per mantener quel silenzio improvviso; alzò la testa, che passava tutte quelle della brigata, e disse: « ascoltate tutti, e nessuno parli, se non è interrogato. Figliuoli! la strada per la quale siamo andati finora, conduce nel fondo dell’inferno. Non è un rimprovero ch’io vo-
glia farvi, io che sono avanti a tutti, il peggiore di tutti; ma sentite ciò che
v’ho da dire. Dio misericordioso m’ha chiamato a mutar vita; e io la muterò,
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l’ho già mutata: così faccia con tutti voi., Sappiate dunque, e tenete per fermo che son risoluto di prima morire che far più nulla contro la sua santa legge. Levo a ognun di voi gli ordini scellerati che avete da me; voi m’intendete; anzi vi comando di non far nulla di ciò che v'era comandato. E tenete
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per fermo ugualmente, che nessuno, da qui avanti, potrà far del male con la mia protezione, al mio servizio. Chi vuol restare a questi patti, sarà per me come un figliuolo: e mi troverei contento alla fine di quel giorno, in cui non avessi mangiato per satollar l’ultimo di voi, con l’ultimo pane che mi rimanesse in casa. Chi non vuole, gli sarà dato quello che gli è dovuto di salario, e un regalo di più: potrà andarsene: ma non metta più piede qui: quando non fosse per mutar vita; che per questo sarà sempre ricevuto a braccia
aperte. Pensatevi questa notte: domattina vi chiamerò, a uno a uno, a darmi
la risposta; e allora vi darò nuovi ordini. Per ora, ritiratevi, ognuno al suo: posto. E Dio che ha usato con me tanta misericordia, vi mandi il buon
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pensiero ». I Qui finì, e tutto rimase in silenzio. Per quanto vari e tumultuosi fossero
i pensieri che ribollivano in que’ cervellacci, non ne apparve di fuori nessun segno. Erano avvezzi a prender la voce del loro signore come la manifes tazione d’una volontà con la quale non c’era da ripetere: e quella voce, annunziando che la volontà era mutata, non dava punto indizio che fosse in644. un suo grido tonante: anche la voce è rimasta la stessa: niente si è infiacchito nel « selvaggio signore ». 653-654. alzò la mano... alzò la testa: c'è qualcosa di sacerdotale nei gesti nuovi dell’Innominato, in mezzo al silenzio dei bravi col cuor sospeso. Ciò che ora il vecchio signore si accinge a compiere ha davvero il significato di un rito: rito di purificazione e di consacrazione. ù 654-673. ascoltate... il buon pensiero: è
un discorso semplice e schietto, il quale ri-
vela più l’accento di un condottiero, che in un momento grave parla da pari a pari ai suoi uomini, che quello di un corìvertito, che voglia portare a conversione anche. «gli altri. La conversione potrà venire, lo sa bene l’Innominato, non .tanto da ciò che lui riesce a dire, ma da quella Grazia che egli stesso ha esperimentato sopra di sé. 678-679. volontà... mutata, non... indebolita: il nuovo motivo, umano e poetico, dell’Innominato convertito; quello per cui subi-
to si dirà che i bravi « vedevano in lui un
capitolo XXIV 680
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debolita. A nessuno di loro passò neppur per la mente che, per esser lui convertito, si potesse prendergli il sopravvento, rispondergli come a un altr'uomo. Vedevano in lui un santo, ma un di que’ santi che si dipingono con latesta alta, e con la spada in pugno. Oltre il timore, avevano anche per lui (principalmente quelli ch’eran nati sul suo, ed erano una gran parte) un’affe-
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zione come d’uomini ligi; avevan poi tutti una benevolenza d’ammirazione;
e alla sua presenza sentivano una specie di quella, dirò pur così, verecondia,
che anche gli animi più zotici e più petulanti provano davanti a una superiorità che hanno già riconosciuta. Le cose poi che allora avevan sentite da quella bocca, erano bensì odiose a’ loro orecchi, ma non false né affatto estranee
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ai loro intelletti: se mille volte se n’eran fatti beffe, non era già perché non
le credessero, ma per prevenir con le beffe la paura che gliene sarebbe venuta, a pensarci sul serio. E ora, a veder l’effetto di quella paura in un animo come quello del loro padrone, chi più, chi meno, non ce ne fu uno che non gli se n’attaccasse, almeno per qualche tempo. S’aggiunga a tutto ciò, che quelli tra loro che, trovandosi la mattina fuor della valle, avevan risaputa per i primi 695 ‘ la gran nuova, avevano insieme veduto, e avevano anche riferito la gioia, la baldanza della popolazione, l’amore e la venerazione per l’innominato, ch’erano entrati in luogo dell’antico odio e dell’antico terrore. Di maniera che, nell’uomo che avevan sempre riguardato, per dir così, di basso in alto, anche quando loro medesimi erano in gran parte la sua forza, vedevano ora la ma700
raviglia, l'idolo d’una moltitudine; lo vedevano al di sopra degli altri, ben diversamente di prima, ma non meno; sempre fuori della schiera comune, sem-
pre capo. 705
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Stavano adunque sbalorditi, incerti l’uno dell’altro, e ognun di sé. Chi si rodeva, chi faceva disegni del dove sarebbe andato a cercar ricovero e impiego; chi s’esaminava se avrebbe potuto adattarsi a diventar galantuomo; chi anche, tocco da quelle parole, se ne sentiva una certa inclinazione; chi, senza risolver nulla, proponeva di prometter tutto a buon conto, di rimanere intanto a mangiare quel pane offerto così di buon cuore, e allora così scarso, e d’acquistar tempo: nessuno fiatò. E quando l’innominato, alla fine delle sue parole, alzò di nuovo quella mano imperiosa per accennar che se n’andassero, quatti quatti, come un branco di pecore, tutti insieme se la batterono. Uscì anche lui, dietro a loro, e, piantatosi prima nel mezzo del cortile, stette a vedere al barlume come si sbrancassero, e ognuno s’avviasse al suo posto. Salito poi a prendere una sua lanterna, girò di nuovo i cortili, i corridoi, le sale, visitò tutte l’entrature, e, quando vide ch’era tutto quieto, andò finalmente a dormire. Sì, a dormire; perché aveva sonno. Affari intralciati, e insieme urgenti, per quanto ne fosse sempre andato in cerca, non se n’era mai trovati addosso tanti, in nessuna congiuntura, come santo, ma un di que’ santi che si dipingono .con la testa alta e con la spada in pugno »; ‘e più avanti, che lo vedevano sempre « al di sopra degli altri », « sempre fuori della schie-
ra comune, sempre capo ». In questa coerenza del personaggio si manifesta l’accortezza dell’arte manzoniana,
che con la con-
versione non ha fatto dell’Innominato un penitente tarpato della sua grandezza antica, ma un santo nuovo, potenziato da quanto
nell'uomo vecchio c’era di più personale e generoso. 709-716. E quando l’innominato... a dormire: il contrasto fra il « branco di pecore » che se la battono, e lui che solo sta a vederle «come si sbrancassero » e poi, sempre solo con « una sua lanterna », fa l’ispezione del castello nel buio della notte, ha qualcosa di epico, che magistralmente avvia al termine
della grande giornata.
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i promessi sposi
allora; eppure aveva sonno. I rimorsi che gliel avevan levato la notte avanti, non che essere acquietati, mandavano anzi grida più alte, più ‘severe, più assolute; eppure aveva sonno. L’ordine, la specie di governo stabilito là den-
tro.da lui in tant’anni; con tante cure, con un tanto singolare accoppiamento d’audacia e di perseveranza,
ora l’aveva lui medesimo
messo
in forse, con
poche. parole; la dipendenza illimitata di que’ suoi, quel loro ‘esser disposti
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a tutto, quella fedeltà da masnadieri, sulla quale era avvezzo da tanto tempo
a riposare, l'aveva ora smossa lui medesimo; i suoi mezzi, gli aveva fatti diventare un monte d’imbrogli, s'era messa la confusione e l’incertezza in casa;
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eppure aveva sonno, i Andò dunque in camera, s’accostò a quel letto in cui la notte avanti
aveva trovate tante spine; e vi s’inginocchiò accanto, con l’intenzione di pregare. Trovò in fatti in un cantuccio riposto e profondo della mente; le preghiere ch’era stato ammaestrato a recitar da bambino; cominciò a recitarle; e quelle parole, rimaste lì tanto tempo ravvolte insieme, venivano l’una dopo l’altra come sgomitolandosi. Provava in questo un misto di sentimenti indefinibile; una certa dolcezza in quel ritorno materiale all’abitudini dell’innocenza; un inasprimento di dolore al pensiero dell’abisso che aveva messo tra quel tempo e questo; un ardore d’arrivare, con opere di espiazione, a una coscienza nuova, a uno stato il più vicino all’innocenza, a cui non poteva tornare; una riconoscenza, una fiducia in quella misericordia che lo poteva condurre a quello stato, e che gli aveva già dati tanti segni di volerlo. Rizzatosi poi, andò a letto, e s’addormentò immediatamente. Così terminò quella giornata, tanto celebre ancora quando scriveva il nostro anonimo; e ora, se non era lui, non se ne saprebbe nulla, almeno de’ particolari; giacché il Ripamonti e il Rivola, citati di sopra, non dicono se
non che quel sì segnalato tiranno, dopo un abboccamento con Federigo, mutò
mirabilmente vita, e per sempre. E quanti son quelli che hanno letto i libri
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di que’ due? Meno ancora di quelli che leggeranno il nostro. E chi sa se, nella valle stessa, chi avesse voglia di cercarla, e l’abilità di trovarla, rimasta qualche stracca e confusa tradizione del fatto? Son nate tante sarà cose da quel tempo in poi!
719. eppure aveva sonno: è evidente l’accento oratorio nella ripetizione di questa
frase alla fine di quattro periodi e in tutta la cadenza del capoverso. Ma la figura dell’Innominato, non che uscirne svilita, ci appare trasportata in un’atmosfera in cui spirito e materia s’incontrano, in stretta rispondenza all’eccezionalità del momento. i 730. vi s’inginocchiò: lui, che non aveva visto « mai nessuno al di sopra di sé né più in alto ». Non è fuori luogo il ricordo napoleonico: « più superba altezza Al disonor del Golgota Giammai non si piegò » (Cinque maggio). 732. cominciò a recitarle: motivo « umanissimo e indovinatissimo » è stato detto
questo delle preghiere dell'infanzia. E vera“
mente naturale e commovente è quel ricercare «in un cantuccio riposto e profondo della mente » parole che sembravano perdute per sempre, e che invece tornano orta « sgomitolandosi » l’una dopo l’altra soavi e ristoratrici, pur nel tumulto di sentimenti diversi e indefinibili. 747. E chi sa se...: la chiusa sorridente, con quel mettere in ballo Anonimo e storici, mentre riporta, come al solito, sul piano quotidiano e scherzoso il grande tema della conversione, vuol dare un bonario e arguto avvertimento di. poetica. Il romanzo è una contaminazione di storia e di fantasia: la conversione dell’Innominato fu un evento storico, reale; ma i particolari dei fatti e dei luoghi sono tutta invenzione della fantasia.
capitolo XXIV
Scheda
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critica al cap. XXIV Il movimento comico, con cui si concludeva il capitolo precedente — che così spesso coincide con i momenti più felici e spontanei della poesia manzoniana, o per lo meno ci avverte, con la sua allegria inventiva, di tenerci pronti ad accoglierne il dono — ha il suo proseguimento e il suo sviluppo anche in varie parti di questo capitolo, in un continuo alternarsi, tuttavia, con altri temi drammatici o patetici o solenni, con un'orchestrazione di motivi e di toni che è tra le più sapienti e indovinate di tutto il romanzo. C'è, anzitutto, il comico grande di don Abbondio con la sua logica del quieto vivere, della mediocre assennatezza e della moralità antieroica: un comico che scava in profondità in tutte le pieghe di un'anima e mette allo scoperto il nocciolo di viltà di un sistema, e ne sottolifiea spietatamente la sconfitta anche in quello che dovrebbe essere il terreno suo, dei rapporti umani e quotidiani. Poi c'è l'altro comico, discreto e affettuoso, che accompagna la rappresentazione di un mondo umile — quello della casa del sarto o dei discorsi di Agnese, rappresentazione tutta avvolta dalla simpatia dello scrittore, sempre pronto a mettere in bocca proprio a quegli umili, appena deformate, le conclusioni morali più alte («la disgrazia non è il patire, e l'esser poveri; la disgrazia è il far del male ») o le più amare (« bisognerebbe che tutti i preti... tenessero un po' dalla parte dei poveri e non aiutassero a metterli in imbroglio »; « i poveri, ci vuol poco a farli comparir birboni ») della sua esperienza. AI limite opposto c'è il tema edificante e solenne della visita del Cardinale, e l’altro fortemente drammatico dell’Innominato, in cui la natura
potente
e imperiosa
si rivela,
pur
nel
mutato
senti-
mento, sempre dominatrice non solo delle circostanze esteriori ma dello stesso tumulto interno determinato dalla conversione. Su tutti gli altri domina però il tema di Lucia, che ha le sue radici in alcune pagine del cap. XXI e si svolgerà ulteriormente nei capp. XXV-XXVII, in modi sempre sommessi, ma con un'insistenza e una tenerezza che rivelano la simpatia dello scrittore per questo suo personaggio così spesso frainteso o, per lo meno, poco inteso. Sono pagine, qui e in seguito, di grande finezza psicologica: esplorazione di una vita che rimane, come sempre, tutta interiore, e appena affiora con imprevedibili scatti in gesti e in parole. | contrasti degli affetti, che pur s'indovinano vivaci, non emergono alla superficie, si placano in quel silenzio di interna riflessione. Eppure non mai come in queste pagine forse Lucia rivela tutta la sua umanità: creatura fragile e smarrita, che le violenze esterne o le passioni intime, il terrore e l'amore, tur-
bano, senza abbatterla, e sconvolgono senza romperne la scorza
di verecondia; creatura dolente, non insensibile ma rassegnata, per quella fede che è la forma della sua semplice saggezza e
fa tutt'uno con la sua dolcezza e il suo candore.
Capitolo XXV
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Il giorno seguente, nel paesetto di Lucia e in tutto ilterritorio di Lecco, non si parlava che di lei, dell’innominato, dell’arcivescovo e d’un altro tale, che, quantunque gli piacesse molto d’andar per le bocche degli uomini, n’avrebbe, in quella congiuntura, fatto volentieri di meno: vogliam dire il signor don Rodrigo. al a } i Non già che prima d’allora non si parlasse de’ fatti suoi; ma eran discorsi rotti, segreti: bisognava che due si conoscessero bene bene tra di loro, per aprirsi sur un tale argomento. E anche, non ci mettevano tutto il sentimento di che sarebbero stati capaci: perché gli uomini, generalmente parlando, quando l’indegnazione non si possa sfogare senza grave pericolo, non solo dimostran meno, o. tengono affatto in sé quella che sentono, ma ne senton meno in effetto. Ma ora, chi si sarebbe tenuto d’informartsi, e di ragionare d’un fatto così strepitoso, in cui s’era vista la mano del cielo, e dove facevan buona figura due personaggi tali? uno, in cui un amore della giustizia tanto animoso andava unito a tanta autorità; ‘l’altro, con cui pareva che la prepotenza in persona si fosse umiliata, che la braverìa fosse venuta, per dir così, a render l’armi, e a chiedere il riposo. A tali paragoni, il signor don Rodrigo diveniva un po’ piccino. Allora si capiva da tutti cosa fosse tormentar l’innocenza per poterla disonorare, perseguitarla con un’insistenza così sfacciata, con sì atroce violenza, con sì abbominevoli insidie. Si faceva, in quell’occa2-5. un altro tale... il signor don Rodrigo:
tutta la presentazione, con perifrasi e gira-
volte, è ironica. Ma in quel sigror senti già il sarcasmo del popolino che prova gusto per l’ultima «prodezza » finita così nel ridicolo. 9-12. gli uomini... meno in effetto: questo pensiero rivela, ancora una volta, l’amarezza del pessimismo del M. sul carattere e sul comportamento degli uomini. In sostanza vuol dire questo: si è leoni quando non c'è pericolo ad esserlo, altrimenti si diventa lepri. E se il M. pensava alla condizione degli Italiani dei suoi tempi sotto la dominazione
austriaca, noi possiamo trovare conferma a questa realtà allargando lo sguardo agli uomini di tutto il mondo e osservando come reagiscono ai diversi regimi che reggono i loro paesi. — Riguardo poi al « generalmente parlando », che è inteso in modi diversi, accogliamo il parere del Barbi, secondo il
quale il M.
vuol
far notate,
«col
solito
scrupolo di precisione, che non proprio in tutti gli uomini, né sempre, la paura riesce a
impedire di manifestare liberamente la propria indignazione, com’era avvenuto fra i compaesani di Lucia » (Arzali Manzoniani). 16-17. la braverìa... a render l’armi: la violenza ad arrendersi. 17-18. don Rodrigo... piccino: in verità, per don Rodrigo si può parlare di un prestigio sempre più in crisi da quando aveva avuto lo scontro con padre Cristoforo. Bollato dal frate, beffato dal cugino, scornato per il fallimento della spedizione del Griso, si era dovuto umiliare a chiedere l’aiuto dell’Innominato. Abbandonato da costui, fra poco vedrà avvicinarsi alle sue terre l’arcivescovo, un’autorità a cui non avrebbe potuto che rendere omaggio; e intanto, tutt'intorno, vede il sogghigno soddisfatto dei villani. Da qui la sua partenza senza ritorno.
capitolo XXV
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sione, una rivista di tant’altre prodezze di quel signore: e su tutto la dicevan come la sentivano, incoraggiti ognuno dal trovarsi d’accordo con tutti. Era un susurro, un fremito generale; alla larga però, per ragione di tutti que’ bravi che colui aveva d’intorno.
Una buona parte di quest’odio pubblico cadeva ancora sui suoi amici e cortigiani. Si rosolava bene il signor podestà, sempre sordo e cieco e muto sui fatti di quel tiranno; ma alla lontana, anche lui, perché, se non aveva i bravi,
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aveva i birri. Col dottor Azzecca-garbugli, che non aveva se non chiacchiere e cabale, e con altri cortigianelli suoi pari, non s’usava tanti riguardi: eran mostrati a dito, e guardati con occhi torti; di maniera che, per qualche tempo,
stimaron bene di non farsi veder per le strade.
Don Rodrigo, fulminato da quella notizia così impensata, così diversa dall’avviso che aspettava di giorno in giorno, di momento in momento, stette tintanato nel suo palazzotto, solo co’ suoi bravi, a rodersi, per due giorni; il terzo, partì per Milano. Se non fosse stato altro che quel mormoracchiare della gente, forse, poiché le cose erano andate tant’avanti, sarebbe rimasto ‘apposta per affrontarlo, anzi per cercar l’occasione di dare un esempio a tutti sopra qualcheduno' de’ più arditi; ma chi lo cacciò, fu l’essersi saputo per certo, che il cardinale veniva anche da quelle parti. Il conte zio, il quale di 40 tutta quella storia non sapeva se non quel che gli aveva detto Attilio, avrebbe certamente preteso che, in una congiuntura simile, don Rodrigo facesse una gran figura, e avesse in pubblico dal cardinale le più distinte accoglienze: ora, ognun vede come ci fosse incamminato. L’avrebbe preteso, e se ne sarebbe fatto render conto minutamente; perché era un’occasione importante 45 di far vedere in che stima fosse tenuta la famiglia da una primaria autorità. Per levarsi da un impiccio così noioso, don Rodrigo, alzatosi una mattina prima del sole, si mise in una carrozza, col Griso e con altri bravi, di fuori,
davanti e di dietro; e, lasciato l’ordine che il resto della servitù venisse poi
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in seguito, partì come un fuggitivo, come (ci sia un po? lecito di sollevare i nostri personaggi con qualche illustre paragone), come Catilina da Roma, sbuffando, e giurando di tornar ben presto, in altra comparsa, a far le sue vendette. 26. Si rosolava bene: rosolare vuol dire ‘ far cuocere ” fino al punto giusto; e quindi la frase, fuori metafora, significa che la gente del villaggio trattava a dovere il signor podestà per il suo comportamento. L’espressione popolaresca ben s’addice all’ironia che ha sempre investito il personaggio. 29. altri cortigianelli: come quei due « convitati oscuri» che alla tavola di don Rodrigo non facevano altro che mangiare, chinare il capo, sorridere e approvare ogni cosa...» (Cap. V). 33. avviso che aspettava: che Lucia era stata rapita. 34. rintanato: la parola dice icasticamente a che cosa è ridotto il tirannello; per sentirla ancor meglio, ricollegala col fulminante e poi col secco partì. La parabola del prepotente sta per concludersi: quando lo ritroveremo a Milano, la sua vita insulsa sarà sul punto di finire per sempre.
35. mormoracchiare: frequentativo intensivo: bene fa sentire, da una parte il rz0rzz0rare del popolino, dall’altra la stizza e il disprezzo del tirannello. 41. congiuntura simile: occasione tanto propizia per dar lustro al casato. Dietro il sussiego tutto secentesco del nobile illustre
e vacuo, spunta il sorriso dello scrittore. ° 47-48. di fuori, davanti e di dietro...: a difesa e a minaccia: perché la gente ricordi chi è quello che va via, ma che può sempre ritornare... proprio come Catilina! In tal modo il paragone classico aggiunge una nuova nota di sarcasmo, chiarendo i riposti sentimenti, e serve a conservare il personaggio in quella posizione di dignità tragica quale si addice ad un tiranno: anche ad un tiranno fallito. — Com'è noto, Catilina fuggì da Roma nel 63 a.C., dopo che Cicerone ebbe svelato la congiura, che egli tramava per impadronirsi del potere.
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î promessi sposi
Intanto, il cardinale veniva visitando, a una per giorno, le parrocchie del territorio di Lecco. Il giorno in cui doveva arrivare a quella di Lucia, già una gran parte degli abitanti erano andati sulla strada a incontrarlo. All'entrata del paese, proprio accanto alla casetta delle nostre due donne, c’era un ur trionfale, costrutto di stili per il ritto, e di pali per il traverso, spira pi paglia e di borraccina, e ornato di rami verdi di pugnitopo e dagrifog io, distinti di bacche scarlatte; la facciata della chiesa era parata di tappezzerie; al davanzale d’ogni finestra pendevano coperte e lenzoli distesi, fasce di bambini disposte a guisa di pendoni; tutto quel poco necessario chefosse atto a fare, o bene o male, figura di superfluo. Verso le ventidue, .ch’era l’ora in cui
s’aspettava il cardinale, quelli ch’eran rimasti in casa, vecchi, donne e fanciulli la più parte, s’avviarono anche loro a incontrarlo, parte in fila, parte in truppa, preceduti da don Abbondio, uggioso in mezzo a tanta festa, e per il
fracasso che lo sbalordiva, e per il brulicar della gente innanzi e indietro, che, come andava ripetendo, gli faceva girar la testa, e per il rodìo segreto che le donne avesser potuto cicalare, e dovesse toccatgli a render conto del ma-
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trimonio. Quand’ecco si vede spuntare il cardinale, o per dir meglio, la turba in
mezzo a cui si trovava nella sua lettiga, col suo seguito d’intorno; perché di tutto questo non si vedeva altro che un indizio in aria, al di sopra di tutte le teste, un pezzo della croce portata dal cappellano che cavalcava una mula. La gente che andava con don Abbondio, s’affrettò alla rinfusa, a raggiunger quell’altra: e lui, dopo aver detto, tre e quattro volte: « adagio; in fila; cosa fate? » si voltò indispettito; e seguitando a borbottare: «è una babilonia, è una babilonia », entrò in chiesa, intanto ch’era vota; e stette lì ad aspettare.
Il cardinale veniva avanti, dando benedizioni con la mano, e ricevendone
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dalle bocche della gente, che quelli del seguito avevano un bel da fare a te-
nere un po’ indietro. Per esser del paese di Lucia, avrebbe voluto quella
gente fare all’arcivescovo dimostrazioni straordinarie; ma la cosa non era fa-
cile, perché era uso che, per tutto dove arrivava, tutti facevano più che po55-56. All’entrata del paese...: dopo i foschi rancori del tirannello, un quadro di vita paesana, ove tutto è sereno: un’atmosfera di festa religiosa, cui i cenni realistici, come le « fasce di bambini » disposte a guisa di pendoni, danno sapore di cosa vissuta. 57. stili: antenne lunghe e diritte; servono generalmente per innalzarvi intorno i pagliai. 58-59. paglia... borraccina... pugnitopo... agrifoglio.. bacche scarlatte...: non sappiamo se qui spunta di più la passione del botanico o la voce del poeta delle piccole cose della natura: quella, a un di presso, di tanti versi pascoliani, come, per esempio, là dove si parla di «fior di trifoglio », di siepi « di pruno in rigoglio », di pioppi che stendono «un penero verde lunghesso la via che si perde lontano...» (Le rane). ‘ 62. le ventidue: due ore prima della fine del giorno (le ventiquattro, che già abbiamo incontrato); quindi, poiché siamo intor-
no alla metà di dicembre, quattro pomeridiane,
fra le tre e le
65. uggioso in mezzo a tanta festa: tutto ciò che turba il suo quieto vivere, anche se si tratta di festa, dà noia a don Abbondio: il solito uomo in una situazione nuova. Qualcuno, a proposito di questo punto, parla addirittura di oclofobia, cioè di quel terrore della folla che il M. stesso ha provato; e da tale autobiografismo fa derivare la particolare simpatia dell’autore per il suo personaggio. 77. e stette lì ad aspettare: e non, semmai, a pregare. La chiesa diventa per lui soltanto un luogo di rifugio, lontano dal suo vescovo e dal suo popolo. Con questa, che è una delle situazioni più comiche del romanzo, si incominciano a delineare gli elementi di un rapporto di opposizione fra don Abbondio e il Cardinale, rapporto che costituirà il motivo essenziale di questo e del seguente capitolo.
capitolo XXV 8A
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tevano. Già sul principio stesso del suo pontificato, nel primo solenne ingresso in duomo, la calca e l’impeto della gente addosso a lui era stato tale, da far temere della sua vita; e alcuni gentiluomini'che gli eran più vicini, avevano sfoderate le spade, per atterrire e respinger la folla. Tanto c’era in que’ costumi di scomposto e di violento, che, anche nel far dimostrazioni di benevolenza a un vescovo in chiesa, e nel moderarle, si dovesse andar vicino
all'’ammazzare. E quella difesa non sarebbe forse bastata, se il maestro e il sottomaestro delle cerimonie, un Clerici e un Picozzi, giovani preti che stavan bene di corpo e d’animo, non l’avessero alzato sulle braccia, e portato di peso, dalla porta fino all’altar maggiore. D’allora in poi, in tante visite episcopali ch’ebbe a fare,, il primo entrar nella chiesa si può senza scherzo contarlo tra le sue pastorali fatiche, e qualche volta, tra i pericoli passati da lui. Entrò anche in questa come poté; andò all’altare e, dopo essere stato alquanto in orazione, fece, secondo il suo solito, un piccol discorso al popolo, sul suo amore per loro, sul suo desiderio della loro salvezza, e come doves‘sero disporsi alle funzioni del giorno dopo. Ritiratosi poi nella casa del parroco, tra gli altri discorsi, gli domandò informazione di Renzo. Don Abbondio disse ch'era un giovine un po’ vivo, un po’ testardo, un po” collerico. Ma, a più particolari e precise domande, dovette rispondere ch’era un galantuomo, e che anche lui non sapeva capire come, in Milano, avesse potuto fare tutte quelle diavolerie che avevan detto. «In quanto alla giovine, » riprese il cardinale, « pare anche a voi che possa ora venir sicuramente a dimorare in casa sua? » « Per ora, » rispose don Abbondio, « può venire e stare, come vuole: dico, per ora; ma », soggiunse poi con un sospiro, « bisognerebbe che vossignoria illustrissima fosse sempre qui, o almeno vicino. » I « Il Signore è sempre vicino, » disse il cardinale: « del resto, penserò io a metterla al sicuro. » E diede subito ordine che, il giorno dopo, si spedisse di buon’ora la lettiga, con una scorta, a prender le due donne. Don Abbondio uscì di lì tutto contento che il cardinale gli avesse parlato 83. pontificato: qui vale per episcopato. Il termine pontificato si usa, di solito, per il papa. 86-87. in que’ costumi: del secolo XVII, contro il quale il M. ha qualche frecciata sempre pronta. Poi, per dare più forza alla sua affermazione, cita personaggi storici: un « Clerici » e un « Picozzi ». Così, sembra dire, non verrà in mente a nessuno di supporre che lo scrittore esageri. 101. un po’ vivo, un po’ testardo, un po’ collerico: non sapremmo dar torto a don Abbondio in questo ritratto di Renzo, specialmente pensando a come il curato se l’era visto davanti la mattina del giorno stabilito per le nozze. Ma don Abbondio si guarda bene dal dire, per esempio, le cause di tutta quella collera o in che cosa si manifestasse quella testardaggine: avrebbe sempre dovuto parlare del matrimonio, che lui aveva rifiutato di celebrare. Anche qui, dunque,
don Abbondio rimane il solito egoista, che vede tutto e tutti sotto l’esclusiva prospettiva del suo interesse, cioè del suo amore per il quieto vivere. 110. Il Signore è sempre vicino: la risposta, bellissima, è una lezione di fede e di umiltà. In questo precorre il colloquio più importante del Cardinale e del curato. ° 113. tutto contento: sembra vederlo stropicciarsi le mani dalla contentezza. Non sa, il poveretto, che la tegola vera sta per cadergli sulla testa, fra poco, proprio — come sempre — quando meno se l’aspetterà. Ma intanto, come vedremo, lo scrittore inserisce fra i due colloqui il racconto di altre vicende. C'è come un tempo di pausa, che, fa osservare opportunamente
il Getto, « giova
a conferire all’agire di Federigo un tono di più autorevole pondetatezza, di più dignitosa cautela, e insieme contribuisce a dare al pa-
tire di don Abbondio un carattere di urto
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î promessi spost
de’ due giovani, senza chiedergli conto del suo rifiuto di maritarli. n ot 115
que non sa niente, —
diceva tra sé: —
Agnese è stata zitta: miracolo!
È vero che s’hanno a tornare a vedere; ma le daremo un’altra istruzione, le daremo. — E non sapeva, il pover’'uomo, che Federigo non era entrato in quell’argomento, appunto perché intendeva di parlargliene a lungo, in nad più libero; e, prima di dargli ciò che gli era dovuto, voleva sentire anche le 120
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sue ragioni.
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Ma i pensieri del buon prelato per metter Lucia al sicuro inutili: dopo che l’aveva lasciata, eran nate delle cose, che contare. Le due donne, in que’ pochi giorni ch’ebbero a passare ospitale del sarto, avevan ripreso, per quanto avevan potuto,
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eran divenuti dobbiamo rac| nella casuccia ognuna il suo
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antico tenor di vita. Lucia aveva subito chiesto da lavorare; e, come aveva fatto nel monastero, cuciva, cuciva, ritirata in una stanzina, lontano dagli 130
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occhi della gente. Agnese andava un po’ fuori, un po’ lavorava in compagnia della figlia. I loro discorsi eran tanto più tristi, quanto più affettuosi: tutt’e due eran preparate a una separazione; giacché la pecora non poteva tornare a star così vicino alla tana del lupo: e quando, quale, sarebbe il termine di questa separazione? L’avvenire era oscuro, imbrogliato: per una di loro principalmente. Agnese tanto ci andava facendo dentro le sue congetture allegre: che Renzo finalmente, se non gli era accaduto nulla di sinistro, dovrebbe
presto dar le sue nuove; e se aveva trovato da lavorare e da stabilirsi, se (e
come dubitarne?) stava fermo nelle sue promesse, perché non si potrebbe andare a star con lui? E di tali speranze, ne parlava e ne riparlava alla figlia,
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per la quale non saprei dire se fosse maggior dolore il sentire, o pena il rispondere. Il suo gran segreto l’aveva sempre tenuto in sé; e, inquietata bensì
dal dispiacere di fare a una madre così buona un sotterfugio, che non era
il primo; ma trattenuta, come invincibilmente, dalla vergogna e da’ vari timori che abbiam detto di sopra, andava d’oggi in domani, senza dir nulla. I suoi disegni eran ben diversi da quelli della madre, 0, per dir meglio, non n’aveva; s'era abbandonata alla Provvidenza. Cercava dunque di lasciar cadere, o di stornare quel discorso; o diceva, in termini generali, di non aver
più speranza, né desiderio di cosa di questo mondo, fuorché di poter presto
riunirsi con sua madre; le più volte, il pianto veniva opportunamente a troncar le parole. « Sai perché ti par così? » diceva Agnese: « perché hai tanto patito, e più inatteso, di tempesta che sopravviene improvvisa, quando ormai tutto faceva prevedere cessato il pericolo ». 127-128. cuciva, cuciva... gente: conosciamo da sempre questo contegno raccolto di Lucia, il suo lavorare continuo nell’intimità domestica. « Quando si passava da quella casuccia — aveva detto Bortolo — sempre si sentiva quell’aspo che girava, girava, girava...» (Cap. XVII). Ora l’occupazione del lavoro serve a Lucia anche per tener lontano il pensiero del voto, come farà in casa di donna Prassede, e favorire così l’azione invocata della Provvidenza.
130. pecora... lupo: Lucia... don Rodrigo.
133. Agnese tanto...: Agnese almeno...: queste « congetture allegre » di Agnese sono per lei di conforto, e corrispondono al carattere piuttosto facilone della buona donna; ma non fanno che accrescere l’interna pena della figlia. 138. dolore... pena: « dolore perché quelle prospettive d’un avvenire giocondo le facevano sentire tanto più, quanto erano fondate e ragionevoli, l’amarezza della rinuncia; pena che qui è impaccio doloroso, giacché, non volendo confidare il suo segreto alla madre, e non volendola d’altra parte troppo lusingare in que’ suoi sogni, le riu-
sciva difficile rispondere » (Steiner).
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non ti par vero che la possa voltarsi in bene. Ma lascia fare al Signore; e se...
Lascia che si veda un barlume, appena un barlume di speranza; e allora mi saprai dire:se non pensi più a nulla. » Lucia baciava la madre, e piangeva. Del resto, tra loro e i loro ospiti era nata subito una grand’amicizia: e dove nascerebbe, se non tra beneficati e benefattori, quando gli uni e gli altri son buona gente? Agnese specialmente faceva di gran chiacchiere con la padrona. Il sarto poi dava loro. un po’ di svago con delle storie, e con de’ discorsi morali: e, a desinare soprattutto, aveva sempre qualche bella cosa da raccontare, di Bovo d’Antona o de’ Padri del deserto. Poco distante da quel paesetto, villeggiava una coppia d’alto affare; don Ferrante e donna Prassede: il casato, al solito, nella penna dell’anonimo. Era donna Prassede una vecchia gentildonna molto inclinata a far del bene: mestiere certamente il più degno che l’uomo possa esercitare; ma che pur troppo può anche guastare, come tutti gli altri. Per fare il bene, bisogna conoscerlo; e, al pari d’ogni altra cosa, non possiamo conoscerlo che in mezzo alle nostre passioni, per mezzo de’ nostri giudizi, con le nostre idee; le quali bene spesso stanno come possono. Con i’idee donna Prassede si regolava come dicono che
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si deve far con gli amici; n’aveva poche; ma a quelle poche era molto affezionata. Tra le poche, ce n’era per disgrazia molte delle storte; e non erano quelle che le fossero men care. Le accadeva quindi, o di proporsi per bene ciò che non lo fosse, o di prender per mezzi, cose che potessero piuttosto far riuscire dalla parte opposta, o di crederne leciti di quelli che non lo fossero punto, per una certa supposizione in confuso, che chi fa più del suo dovere possa far più di quel che avrebbe diritto; le accadeva di non vedere nel
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fatto ciò che c’era di reale, o di vederci ciò che non c’era; e molte altre cose simili, che possono accadere, e che accadono a tutti, senza eccettuarne i migliori; ma a donna Prassede, troppo spesso e, non di rado, tutte in una
volta. AI sentire il gran caso di Lucia, e tutto ciò che, in quell’occasione, si diceva della giovine, le venne la curiosità di vederla; e mandò una carrozza,
152. Lucia baciava la madre, e piangeva: questo gruppo della madre e della figlia, accomunate nell’affetto e nel dolore, ma non nella speranza, è fra le immagini più elegiache del romanzo. In esso domina soprattutto la potenza dell’amore di Lucia, sempre espresso dal M. con grande delicatezza: un amore che la madre sa bene che cosa significhi per la figlia: « allora mi saprai dire se non pensi più a nulla »; e per questo tanto più lacerante nel cuore della fanciulla. 158. Bovo... Padri del deserto: di Bovo d’Antona il sarto trovava notizie nei Reali di Francia, e dei Padri del deserto nel suo Leggendario. Ma che aria di vita casalinga, raccolta e serena, danno questi racconti del sarto fatti « a desinare, soprattutto »! 159. una coppia d’alto affare: all’ambiente umile, ma dove la carità era schietta e discreta, si sostituisce ora un ambiente signorile, dove la carità continua, ma si fa professione invadente. La contrapposizione
non è esplicita, ma ci risulterà più che manifesta; e.ogni volta che leggeremo qualcosa della condotta di questi due nobili, non potremo non ritornare con la mente al sarto e a sua moglie: e il confronto morale sarà sempre in vantaggio dei due popolani. Gli umili, salvo poche eccezioni, sono i veri grandi. 160-161. Era donna Prassede...: l’apettura del ritratto ha un tono solenne, quale si addice ad una «vecchia gentildonna ». Il suo carattere è fra quelli definiti con le note più caustiche; e rappresentando, costei, in un certo senso, il pedagogismo autoritario e il filantropismo di mestiere, ci apparirà fra i personaggi più intimamente deplorati da un M. illuminista e cristiano. 172-173. chi fa più... diritto: la morale e l’ironia del M. qui non sono soltanto per donna Prassede, ma per tutti quelli che, facendo del bene, pretendono poi, in un mo-
do o in un altro, di premiarsi da sé,
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i promessi sposi
con un vecchio bracciere, a prender la madre e la figlia. Questa si ristringeva
nelle spalle, e pregava il sarto, il quale aveva fatta loro l’imbasciata, che trovasse maniera di scusarla. Finché s'era trattato di gente alla buona che cercava di conoscer la giovine del miracolo, il sarto le aveva reso volentieri un tal servizio; ma in questo caso, il rifiuto gli pareva una specie di ribellione.
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Fece tanti versi, tant’esclamazioni, disse tante cose: e che non si faceva così, e ch'era una casa grande, e che ai signori non si dice di no, e che poteva esser la loro fortuna, e che la signora donna Prassede, oltre il resto, era anche una santa; tante cose insomma, che Lucia si dovette arrendere: molto più che Agnese confermava tutte quelle ragioni con altrettanti « sicuro, siCUrO ». Arrivate davanti alla signora, essa fece loro grand’accoglienza, e molte congratulazioni; interrogò, consigliò: il tutto con una certa superiorità quasi innata, ma corretta da tante espressioni umili, temperata da tanta premura, condita di tanta spiritualità, che, Agnese quasi subito, Lucia poco dopo, cominciarono a sentirsi sollevate dal rispetto opprimente che da principio aveva loro incusso quella signorile presenza; anzi ci trovarono una certa attrattiva. E per venire alle corte, donna Prassede, sentendo che il cardinale s’era incaricato di trovare a Lucia un ricovero, punta dal desiderio di secondare e di prevenire a un tratto quella buona intenzione, s’esibì di prender la giovine in casa, dove, senz’essere addetta ad alcun servizio particolare, potrebbe, a piacer suo, aiutar l’altre donne ne’ loro lavori. E soggiunse che penserebbe lei a darne parte a monsignore. Oltre il bene chiaro e immediato che c’era in un ’opera tale, donna Prassede ce ne vedeva, e se ne proponeva un altro, forse più considerabile, secondo lei; di raddirizzare un cervello, di metter sulla buona strada chi n’aveva gran bisogno. Perché, fin da quando aveva sentito la prima volta parlat di Lucia, s’era subito persuasa che una giovine la quale aveva potuto promettersi a un poco di buono, a un sedizioso, a uno scampaforca in somma, qualche magagna, qualche pecca nascosta la doveva avere. Dimmi chi pratichi, e ti dirò chi sei. La vista di Lucia aveva confermata quella persuasione. Non che, in fondo, come si dice, non le paresse una buona giovine; ma c’era molto da ridire. Quella testina bassa, col mento inchiodato sulla fontanella della
180. bracciere: servo addetto a dare il braccio alle signore per aiutarle a salire in carrozza 0 a discendere. 183. la giovine del miracolo: la conversione dell’Innominato era considerata un mitacolo: e « a dir la verità, con le frange che vi s’attaccarono, non gli poteva convenire altro nome » (Cap. XXIV). 186. ai signori non si dice di no: Lucia, che non aveva letto i libri del sarto ma aveva avuto una ben triste esperienza dei signori, vede più a fondo di lui. Il sarto vede come Agnese, come il popolino in generale, che coi signori si comportava secondo una tradizione secolare di servilismo. Eppoi donna Prassede, per di più, agli occhi del popolo. appariva « anche » una santa. Ma il
M., che sa in che cosa consistesse tutta quel-
la santità, è sempre pronto con le sue punture maliziose. 192. interrogò, consigliò: la donna curiosa e la donna saccente; i due verbi definiscono tutta donna Prassede. Si pensi, invece, al comportamento della moglie del sarto. 198-199. secondare e... prevenire: e, così,
per non essere seconda a nessuno nel fare il bene. 209. qualche pecca... la deveva avere: donna Prassede, quando accoglie Lucia, è già © prevenuta nei suoi riguardi. E siccome alle sue idee è « molto affezionata » e le manca lo spirito di carità e il senso dell’umiltà, la vista diretta della ragazza non fa che confermarle ciò che pensa. 212-216. Quella testina... Due occhioni... un volto, quello di Lucia, in cui donna Pras-
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gola, quel non rispondere, o risponder secco secco, come per forza, potevano indicar verecondia; ma denotavano sicuramente molta caparbietà: non ci voleva molto a indovinare che quella testina aveva le sue idee. E quell’arrossire ogni momento, e quel rattenere i sospiri... Due occhioni poi, che a donna Prassede non piacevan punto. Teneva essa per certo, come se lo sapesse di buon luogo, che tutte le sciagure di Lucia erano una punizione del cielo per la sua amicizia con quel poco di buono, e un avviso per far che se ne staccasse affatto; e stante questo, si proponeva di cooperare a un così buon fine. Giacché, come diceva spesso agli altri e a sé stessa, tutto il suo studio era di secondare i voleri del cielo: ma faceva spesso uno sbaglio grosso, ch’era di prender per cielo il suo cervello. Però, della seconda intenzione che abbiam detto, si guardò bene di darne il minimo indizio. Era una delle sue massime questa, che, per riuscire a far del bene alla gente, la prima cosa, nella maggior parte de’ casi, è di non metterli a parte del disegno. La madre e la figlia si guardarono in viso. Nella dolorosa necessità di dividersi, l’esibizione parve a tutt'e due da accettarsi, se non altro per esser quella villa così vicina al loro paesetto: per cui, alla peggio de’ peggi, si ravvicinerebbero e potrebbero trovarsi insieme, alla prossima villeggiatura. Visto, l’una negli occhi dell’altra, il consenso, si voltaron tutt'e due a donna Prassede con quel ringraziare che accetta. Essa rinnovò le gentilezze e le
promesse, e disse che manderebbe subito una lettera da presentare a mon-
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signore. Partite le donne, la lettera se la fece distendere da don Ferrante, di cui, per esser letterato, come diremo più in particolare, si serviva per segretario, nell’occasioni d'importanza. Trattandosi d’una di questa sorte, don Ferrante ci mise tutto il suo sapere, e, consegnando la minuta da copiare alla consorte, le raccomandò caldamente l’ortografia; ch'era una delle molte cose che
aveva studiate, e delle poche sulle quali avesse lui il comando in casa. Donna sede non può non leggere i segni di una volontà che non è facile piegare. « Quella testina aveva le sue idee »: e la gentildonna di idee non giudica buone che le sue. Ma ciò che più dispiace a costei sono quegli occhioni. « Non piacevano a donna Prassede — commenta argutamente il Pistelli — perché erano belli e grandi ed espressivi. Così il M. trova modo di farli vedere un momento anche a noi. Il Settembrini quando scrisse: ‘ come sono gli occhi di Lucia? non si sa: essa li teneva sempre chinati a terra per pudore ’, mostrò d’esser meno acuto osservatore di donna Prassede. E con lui molti altri, i quali non si sono accorti, per dare un altro esempio, che di tante ragazze che tornavano dalla filanda don Rodrigo fissò questa sola. Eppure tutti han letto (o almeno tutti ne parlano) que’ versi d’Omero dove la bellezza sovrana d’Elena ci è fatta vedere indirettamente dall’esclamazione di que’ vecchioni ». 219. quel poco di buono: il nostro povero Renzo. Del resto, sul suo conto, donna Prassede non fa altro che seguire l’opinione cor-
rente dopo i. fatti di Milano;
ricordane il
concetto del conte zio (Cap. XVIII).
223. per cielo il suo cervello: in questo accostamento del piccolo cervello di donna Prassede col cielo, è il colmo dell’ironia alle spese di colei che si è autonominata, pet così dire, ministra di Dio. Ma il M. sembra ammonire che storture del genere non le compie soltanto la vecchia nobildonna. 224-225. Era una delle sue massime...: questa massima, che dà l’ultima rifinitura al ritratto, ricopre di ridicolo la presunzione di donna Prassede: essa persevera in un atteggiamento che è il più contrario all’amore del prossimo e al compimento del bene. 228. l’esibizione: l’offerta. 235-240. don Ferrante... in casa: il rapido periodo disegna l’essenziale di don Ferrante. Più avanti (Cap. XXVII) il M. si diffonderà ampiamente sulla cultura di quest'uomo; ma già la prima presentazione, nelle funzioni di segretario della moglie, è una satira vivace dell’erudito barocco e vuoto, che crede di contare molto nel mondo, e intanto non conta nulla in casa sua,
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Î promessi sposi
Prassede copiò diligentissimamente, e spedì la lettera alla casa del sarto. Questo fu due o tre giorni prima che il cardinale mandasse la lettiga per
ricondur le donne al loro paese. 3 " Arrivate, smontarono alla casa parrocchiale, dove si trovava il cardinale.
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C'era ordine d’introdurle subito: l’eseguì, trattenendole
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il cappellano, che fu il primo a vederle,
solo quant’era necessario
per dar loro, in fretta in
fretta, un po’ d’istruzione sul cerimoniale da usarsi con monsignore, e sui titoli da dargli; cosa che soleva fare, ogni volta che lo potesse di nascosto 4 lui. Era per il pover’uomo un tormento continuo il vedere il poco ordine che regnava intorno al cardinale, su quel particolare: « tutto», diceva con gli altri della famiglia, « per la troppa bontà di quel benedett’'uomo; per quella gran famigliarità ». E raccontava d’aver perfino sentito più d’una volta co suoi orecchi, rispondergli: messer sì, e messer no. Stava in quel momento il cardinale discorrendo con don Abbondio, sugli affari della parrocchia: dimodoché questo non ebbe campo di dare anche lui, come avrebbe desiderato, le sue istruzioni alle donne. Solo, nel passar loro accanto, mentre usciva, e quelle venivano avanti poté dar loro d’occhio, per accennare ch’era contento di loro, e che continuassero, da brave, a non dir nulla. Dopo le prime accoglienze da una parte, e i primi inchini dall’altra, Agnese si cavò di seno la lettera, e la presentò al cardinale, dicendo: « è della signora donna Prassede, la quale dice che conosce molto vossignoria illustrissima, monsignore; come naturalmente, tra loro signori grandi, si devon conoscer tutti. Quand’avrà letto, vedrà. » « Bene, » disse Federigo, letto che ebbe, e ricavato il sugo del senso da’ fiori di don Ferrante. Conosceva quella casa quanto bastasse per esser certo che Lucia c’era invitata con buona intenzione, e che lì sarebbe sicura dall’insidie e dalla violenza del suo persecutore. Che concetto avesse della testa di
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donna Prassede, non n’abbiam notizia positiva. Probabilmente, non era quella la persona che avrebbe scelta a un tal intento; ma, come abbiam detto o fatto intendere altrove, non era suo costume di disfar le cose che non toccavano a lui, per rifarle meglio. « Prendete in pace anche questa separazione, e l’incertezza in cui vi tro-
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vate, » soggiunse poi: « confidate che sia per finir presto, e che il Signore
voglia guidar le cose a quel termine a cui pare che le avesse indirizzate; ma 249-253. per il pover’uomo... messer no: l’accoramento del buon cappellano, per il modo come la gente tratta il suo Cardinale, completa questa figura minore di una nuova nota di umanità meschina; e insieme, per virtù di contrasto, sublima ancora l’immagine di Federigo, che certamente non si sentiva
svilito se qualcuno gli dava di essere. Lo stesso titolo che una sera dettero i bravi, ma con una tonalità ben diversa, al nostro curato di campagna (Cap. I). 258-259. da brave, a non dir nulla: poveretto, sapesse quant’è inutile quell’occhiata, e quel complimento che gli viene proprio dal cuore: « da brave »! 261-264. si cavò di seno... vedrà: gesti e parole di Agnese sono tipici della sua na-
tura popolana e loquace. I titoli che il cappellano le ha insegnati li dirà tutti insieme « vossignoria illustrissima, monsignore »: non si sa mai, più tardi potrebbe anche averli dimenticati! Poi non può mancare neppure il suo commento di donna esperta del mondo: «naturalmente... si devon conoscer tutti ». 265-266. da’ fiori: della rettorica secentesca; come nello stile dell’Introduzione. 270-271. detto o fatto intendere altrove: per esempio, quando aveva scritto che Federigo rifuggiva « dall’impacciarsi negli affari altrui; anzi si scusava a tutto potere dall’ingeritvisi ricercato » (Cap. XXII). Avendo fiducia nella Provvidenza, si guardava dall’attraversarne i disegni.
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tenete per certo che quello che vorrà Lui, sarà il meglio per voi. » Diede a Lucia in particolare qualche altro ricordo amorevole; qualche altro conforto a tutt’e due; le benedisse, e le lasciò andare. Appena fuori, si trovarono addosso uno sciame d’amici e d’amiche, tutto il comune, si può dire, che le aspettava, e le condusse a casa, come in trionfo. Era tra tutte quelle donne una gara di congratularsi, di compiangere, di domandare; e tutte esclamavano dal dispiacere, sentendo che Lucia se n’anderebbe il giorno dopo. Gli uomini gareggiavano nell’offrir servizi; ognuno voleva star quella notte a far la guardia alla casetta. Sul qual fatto, il nostro anonimo credé bene di formare un proverbio: volete aver molti in aiuto? cercate di non averne bisogno. Tante accoglienze confondevano e sbalordivano Lucia: Agnese non s’imbrogliava così per poco. Ma in sostanza fecero bene anche a Lucia, distraendola alquanto da’ pensieri e dalle rimembranze che, pur troppo, anche in mezzo al frastono, le si risvegliavano, su quell’uscio, in quelle stanzucce, alla vista d’ogni oggetto.
AI tocco della campana che annunziava vicino .il cominciar delle funzioni, tutti si mossero verso la chiesa, e fu per le nostre donne un’altra passeggiata trionfale. Terminate le funzioni, don Abbondio, ch’era corso a vedere se Perpetua aveva ben disposto ogni cosa per il desinare, fu chiamato dal cardinale. Andò subito dal grand’ospite, il quale, lasciatolo venir vicino, « signor curato, » cominciò; e quelle parole furon dette in maniera, da dover capire, ch’erano il principio d’un discorso lungo e. serio: « signor curato; perché non avete voi unita in matrimonio quella povera Lucia col suo promesso sposo? » — Hanno votato il sacco stamattina coloro, — pensò don Abbondio; e rispose borbottando: « monsignore illustrissimo avrà ben sentito parlare degli scompigli che son nati in quell’affare: è stata una confusione tale, da non poter, neppure al giorno d’oggi, vederci chiaro: come anche vossignoria illustrissima può argomentare da questo, che la giovine è qui, dopo tanti accidenti, come per miracolo; e il giovine, dopo altri accidenti, non si sa dove sia. » « Domando », riprese il cardinale, « se è vero che, prima di tutti codesti 276. quello che vorrà Lui, sarà il meglio per voi: quanta fiducia nella mano di Dio, che guida le cose per il bene degli uomini! È un concetto basilare del cristianesimo, e I Promessi Sposi vogliono darne concreta testimonianza. 284-285. Sul qual fatto... bisogno: la verità tanto comune, presentata come scoperta dall’Anonimo, perde un po’ della sua amarezza e diffonde un po’ di sorriso su quell’indaffararsi di tutti nell’« offrir servizi » proprio quando non ce n’è punto bisogno. 294. era corso: il desinare sembra l’unica cosa in cui ci tenga a far bella figura. 296-299. signor curato... promesso sposo?: la domanda, tempestiva, netta, tagliente introduce ad un discorso di tutt'altro tono dal precedente e segna l’avvio ad un’altra grandissima pagina del romanzo. Nella forma e nel contenuto ricorda le parole dei bravi: « Signor curato... lei ha intenzione di maritar domani...» (Cap. I). Ambedue le apo-
strofi giungono di sorpresa: e l’una per impedire il compimento di un dovere, l’altra per chieder conto di quella inadempienza. 300-305. — Hanno votato... dove sia: dopo il primo moto interiore di stizza, che ingiustamente investe tanto Agnese quanto Lucia (« coloro »), don Abbondio, che non ha un piano di difesa bell’ preparato, pare ‘impiegato a confondere le cose in modo che vada via la voglia di parlarne. C'è, dunque, una confusione di fatto e una confusione d’intenzione, ‘già intuibili, del resto, in quel « borbottando ». Ai bravi, che potevano lasciar andare una schioppettata da un momento all’altro, non aveva risposto così; ma il Cardinale non fa di quelle paure, e perciò parole e atti di don Abbondio ben potranno, con lui, essere meno riguardosi e talvolta anche irriverenti. 306-308. Domando... e il perché: la domanda perentoria non ammette altri tentativi di eluderla. Ma non basta a smuovere
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Lai ; casi, abbiate rifiutato di celebrare il matrimonio, quando n’eravate richiesto, IR a nel giorno fissato; e il perché. » « Veramente... se vossignoria illustrissima sapesse... che intimazioni... che comandi terribili ho avuti di non parlare... » E restò lì senza concludere, in un cert’atto, da far rispettosamente intendere che sarebbe indiscrezione il voler saperne di più. i « Ma! sdetixsa il cardinale, con voce e con aria grave fuor delconsueto: «è il vostro vescovo che, per suo dovere e per vostra giustificazione, vuol saper da voi il perché non abbiate fatto ciò che, nella via regolare, era ob-
A sal ipa + bligo vostro di fare. » « Monsignore, » disse don Abbondio, facendosi piccino piccino, « non ho già voluto dire... Ma m’è parso che, essendo cose intralciate, cose vecchie e senza rimedio; fosse inutile di rimestare... Però, però, dico... so che vossignoria illustrissima non vuol tradire un suo povero parroco. Perché vede bene, monsignore; vossignoria illustrissima non può esser pet tutto; e io resto qui
esposto... Però, quando Lei me lo comanda, dirò, dirò tutto. » « Dite: io non vorrei altro che trovarvi senza colpa. »
Allora don Abbondio si mise a raccontare la dolorosa storia; ma tacque
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il nome principale, e vi sostituì: un gran signore; dando così alla prudenza tutto quel poco che si poteva, in una tale stretta. « E non avete avuto altro motivo? » domandò il cardinale, quando don Abbondio ebbe finito. « Ma forse non mi sono spiegato abbastanza, » rispose questo: « sotto pena della vita, m’hanno intimato di non far quel matrimonio. » « E vi par codesta una ragion bastante, per lasciar d’adempire un dovere preciso? »
«To ho sempre cercato di farlo, il mio dovere, anche con mio grave incomodo, ma quando si tratta della vita... » 335
« E quando vi siete presentato alla Chiesa, » disse, con accento ancor più
grave, Federigo, « per addossarvi codesto ministero, v’ha essa fatto sicurtà don Abbondio: occorreranno altre richieste, e « con voce e con aria grave fuor del consueto »; alla fine, dopo una specie d’impegno a serbare il segreto, ci vorrà addirittura un comando: « quando Lei me lo comanda, dirò, dirò tutto ». 334. ma quando si tratta della vita..: qui sta il diaframma che separa i due uomini e rende vicendevolmente incomprensibili i loro discorsi. Don Abbondio è tanto chiuso nella logica del suo egoismo, che limita il compimento del dovere alla salvaguardia della vita. « Non m’ha da premere la vita? » aveva chiesto un giorno affannosamente a Renzo (Cap. II). La stessa preoccupazione c'è ora, perché è la sua preoccupazione di sempre. Il pensiero del Cardinale è invece rivolto all’ideale eroico della missione sacerdotale, e il suo discorso ribatte sul concetto che la conservazione della vita non può giustificare l’inadempienza del dovere. La paura, che condiziona tutto il comportamento del vecchio parroco, è per il’ ve-
scovo un sentimento ignoto, e inconciliabile con l’ufficio apostolico. 335-355. E quando... codeste dottrine?: molte frasi della prima parte di questo discorso del Cardinale hanno la loro fonte dottrinale nei testi sacri (« Vi mandava come agnello fra i lupi »: ego ritto vos sicut agnos inter lupos, ‘ vi mando come agnelli tra i lupi’, dice Gesù agli apostoli, Luca, 10; «ci nominiamo pastori »: ego sum pastor bonus, ‘ io sono il buon pastore’, dice ancora Gesù, Giovanni, 10, ecc. ecc.): ma tutte sono così perfettamente fuse con la personalità di Federigo e aderenti alla situazione, che si presentano come spontanea effusione del suo cuore nell’attualità del momento. Poi viene il ricordo ugualmente appassionato di un altro. vazgelo, quello del mondo, col suo punto d’onore che può richiedere .anch’esso il sacrificio della vita. Ma, all’orecchio dell’interlocutore meschino ed ottuso, tanto il vangelo di Cristo come il vangelo del mondo, quando parlano di
capitolo XXV
della vita? V’ha detto che i doveri annessi al ministero fossero liberi da ogni ostacolo, immuni da ogni pericolo? O v'ha detto forse che dove cominciasse il pericolo, ivi cesserebbe il dovere? O non v'ha espressamente detto il contrario? Non v’ha avvertito che vi mandava come un agnello tra i lupi? Non sapevate voi che c’eran de’ violenti, a cui potrebbe dispiacere ciò che a voi
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sarebbe comandato?
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Quello da Cui abbiam la dottrina e l’esempio, ad imi-
tazione di Cui ci lasciam nominare e ci nominiamo pastori, venendo in terra a esercitarne l’ufizio, mise forse per condizione d’aver salva la vita? E per salvarla, per conservarla, dico, qualche giorno di più sulla terra, a spese della carità e del dovere, c’era bisogno dell’unzione santa, dell’imposizion delle mani, della grazia del sacerdozio? Basta il mondo a dar questa virtù, a insegnar questa dottrina. Che dico? oh vergogna! il mondo stesso la rifiuta: il mondo fa anch’esso le sue leggi, che prescrivono il male come il bene; ha il suo vangelo anch’esso, un vangelo di superbia e d’odio; e non vuol che si dica che l’amore della vita sia una ragione per trasgredirne i comandamenti. Non lo vuole; ed è ubbidito. E noi! noi figli e annunziatori della promessa! Che sarebbe la Chiesa, se codesto vostro linguaggio fosse quello di tutti i vostri confratelli» Dove sarebbe, se fosse comparsa nel mondo con codeste dottrine? »
Don Abbondio stava a capo basso: il suo spirito si trovava tra quegli argomenti, come un pulcino negli artigli del falco, che lo tengono sollevato in una regione sconosciuta, in un’aria che non ha mai respirata. Vedendo 360
che qualcosa bisognava rispondere, disse, con una certa sommissione forzata:
« monsignore illustrissimo, avrò torto. Quando la vita non si deve contare, non so cosa mi dire. Ma quando s’ha che fare con certa gente, con gente che ha la forza, e che non vuol sentir ragioni, anche a voler fare il bravo, non saprei cosa ci si potesse guadagnare. È un signore quello, con cui non si può né vincerla né impattarla. »
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« E non sapete voi che il soffrire per la giustizia è il nostro vincere? E se non sapete questo, che cosa predicate? di che siete maestro? qual è la buona
nuova che annunziate a’ poveri? Chi pretende da voi che vinciate la forza con la forza? Certo non vi sarà domandato, un giorno, se abbiate saputo 370
fare stare a dovere i potenti; che a questo non vi fu dato né missione, né modo. Ma vi sarà ben domandato se avrete adoprati i mezzi ch’erano in vo-
compimento di un dovere che possa esigere l’offerta della vita, suonano sempre inefficaci. 357. un pulcino negli artigli del falco: l’immagine veramente stupenda — e rimasta nella mente di tutti come quell’altra di «un vaso di terra cotta, costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro » — ha avuto, anch'essa, i suoi critici pedanti che hanno trovato da riderci sopra: perché, se è vero che don Abbondio sia un pulcino, non è giusto, dicono, paragonare il Cardinale ad un falco! Ma la similitudine va sentita nel suo vigore poetico e nella totalità. della frase: v'è tutto lo smarrimento di un’anima tapina, trasportata nel cielo di dottrine troppo sublimi; v'è la distanza
dei due interlocutori, accresciuta dà un senso di vertigine: «in un’aria... mai respirata». 363. È un signore quello...: un giorno aveva detto a Renzo: « Non si scherza. Non si tratta di torto o di ragione; si tratta di forza ». E al discorso della forza, e quindi della paura, è rimasto don Abbondio; a nulla ha servito, fino ad ora, il discorso del dovere. In questa persistenza sta la meschinità dell’uomo, ma anche la bellezza della creazione artistica. 365. il soffrire... nostro vincere: beati qui persecutionem
patiuntur
propter
iustitiam,
‘beati coloro che soffrono persecuzione a causa della giustizia” (Matteo, 5). Ancora un richiamo evangelico, ma con lo stesso risultato degli altri.
i promessi sposi
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stra mano per far ciò che c’era prescritto, anche quando avessero la temei
rità di proibirvelo. »
— Anche questi santi son curiosi, — pensava intanto don Abbondio: — in sostanza, a spremerne il sugo, gli stanno più a cuore gli amori di due
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giovani, che la vita d’un povero sacerdote. — E, in quant’a lui, si sarebbe volentieri contentato che il discorso finisse lì; ma vedeva il cardinale, a ogni pausa, restare in atto di chi aspetti una risposta: una confessione, o un’apologia, qualcosa in somma. «Torno a dire, monsignore, » rispose dunque, « che avrò torto io.. Il coraggio, uno non se lo può dare. » « E perché dunque, potrei dirvi, vi siete voi impegnato in un ministero che v'impone di stare in guerra con le passioni del secolo? Ma come, vi dirò piuttosto, come non pensate che, se in codesto ministero, comunque vi ci siate messo, v'è necessario il coraggio, per adempir le vostre obbligazioni, c’è Chi ve lo darà infallibilmente, quando glielo chiediate? Credete voi che tutti que’ milioni di martiri avessero naturalmente coraggio? che non facessero naturalmente nessun conto della vita? tanti giovinetti che cominciavano a gustarla, tanti vecchi avvezzi a rammaricarsi che fosse già vicina a finire, tante donzelle, tante spose, tante madri? Tutti hanno avuto coraggio; perché il coraggio era necessario, ed essi confidavano. Conoscendo la vostra debolezza e i vostri doveri, avete voi pensato a prepararvi ai passi difficili a cui potevate trovarvi, a cui vi siete trovato in effetto? Ah! se per tant’anni d’ufizio pastorale, avete (e come
non
avreste?)
amato
il vostro
gregge,
se
avete riposto in esso il vostro cuore, le vostre cure, le vostre delizie, il co374-375. a spremerne il sugo... sacerdote: a parte la grettezza della riflessione, che conferma l’assoluta sordità di don Abbondio ad ogni richiamo superiore, pensiamo che in quegli azori di due giovani il Cardinale vede la realizzazione di un sacramento e il curato solo grilli dell’età. 379-380. Il coraggio, uno non se lo può dare: è l’estrema difesa di don Abbondio, ed è fatta in modo così rassegnato e convinto, che è divenuta una battuta proverbiale. Ma, vista nella sua sostanza, anche questa difesa è fragilissima, e crolla immediatamente sotto l’incalzare delle parole del Cardinale: è vero che il coraggio uno non se lo può dare da sé, ma un sacerdote sa a Chi chiederlo e da Chi può riceverlo. Basta volerlo; e, per volerlo, basta amare. — Continua il dialogo di due logiche che sono agli antipodi: una è quella dell’egoismo, l’altra è quella della carità. Da tale contrasto nasce la tragedia-commedia di queste pagine. 384-385. c'è Chi ve lo darà... chiediate?: nella Morale cattolica troviamo: «Chi poteva esigere dall’uomo la forza di superare tutte le tendenze contrarie, se non chi glielo poteva promettere dicendo: * Chiedete e vi sarà dato ’? ». A proposito dei, rapporti fra la Morale cattolica e I Promessi
Sposi, G. De Robertis, che ne ha illustrati gli intimi legami, scrive: « Dire che nella Morale cattolica preesiste il mondo morale dei Promessi Sposi, in tutta la sua lenta formazione, è così semplicemente chiaro che par quasi ingenuo l’affermarlo. Ma la dipendenza tra l’una e l’altra opera s’avviva e quasi moltiplica solo per mezzo d’un personaggio, del suo linguaggio, della sua voce; e quel personaggio è Federigo Borromeo. [...] Nella Morale cattolica, opera tutta d’alta oratoria, put con le necessarie vatietà e differenziazioni, o noi sentiamo in anticipo una parte dell’eloquenza di Federigo, e delle sue ragioni; o, per un inganno del tempo, ci par di sentirne la prosecuzione, mossa allo stesso fine, se pur diversa d’accenti » (Prizzi studi manzoniani).
392-394. Ah! se... delizie...: c'è rimprovero ma anche amore e comprensione nelle parole di Federigo: e c’è ancora la fiducia che il parroco dica non un’altra parola di scusa qualunque, ma una parola che sveli il suo cuore di sacerdote e di pastore. In questa umanità, che rende più grande e poetica la figura del Cardinale, si riflette anche un altro aspetto del cristianesimo del M.: la comprensione e l’indulgenza per l’uomo che « la debolezza della carne » ha fatto tremare e cadere.
capitolo XXV 395
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raggio non doveva mancarvi al bisogno: l’amore è intrepido. Ebbene, se voi gli amavate, quelli che sono affidati alle vostre cure spirituali, quelli che voi
chiamate figliuoli; quando vedeste due di loro minacciati insieme con voi, ah
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certo! come la debolezza della carne v’ha fatto tremar per voi, così la carità v’avrà fatto tremar per loro. Vi sarete umiliato di quel primo timore, perché era un effetto della vostra miseria; avrete implorato la forza per vincerlo, per discacciarlo, perché era una tentazione: ma il timor santo e nobile per gli altri, per i vostri figlioli, quello l’avrete ascoltato, quello non v’avrà dato pace, quello v’avrà eccitato, costretto, a pensare, a fare ciò che si potesse, per riparare al pericolo che lor sovrastava... Cosa v’ha ispirato il timore, l’amore? Cosa avete fatto per loro? Cosa avete pensato? » E tacque in atto di chi aspetta.
406. E tacque in atto di chi aspetta: ma don Abbondio potrà rispondere a quelle domande? Il discorso del Cardinale si è ‘sollevato ancora in una «regione sconosciuta » per il povero prete, in un’« aria che. non ha mai respirata ». Da qui l’interru-.
Scheda
zione sapiente: essa ci lascia pensosi non solo sul dramma di don Abbondio, ma anche su quelle verità di « timore» e di « amore ». Le quali, anche se sono rivolte ad un sacerdote, toccano ugualmente la coscienza di ogni uomo.
critica al cap. XXV Il tema di Lucia, di cui s'è detto nella postilla precedente, occupa anche tutta la parte centrale di questo capitolo, inserendosi fra le pagine introduttive che ci riconducono al paese dei protagonisti — pagine di tono minore, descrittivo e informativo — e quelle finali in cui si apre il grande colloquio fra il Cardinale e don Abbondio .(sul quale sarà più opportuno tuttavia fermare il discorso al termine del capitolo prossimo). Ritornano quei motivi di affetti contenuti nel segreto dell'animo, di contrasti interiori esacerbati e repressi, di pene accettate in silenzio e alleviate dalla fiducia, che sono propri di questo personaggio: ma ritornano, qui, sentiti soprattutto in rapporto con gli urti e le sollecitazioni dell'ambiente esterno; non più tanto esplorati nell'intimo, quanto esaminati nelle loro esteriori manifestazioni. E di Lucia viene ad esser così sottolineato, specialmente, il distacco e la solitudine, una certa impossibilità (nonostante tutto il suo buon volere) di istituire una relazione e un colloquio facile e normale con le persone. che le stanno intorno, con la bonaria e mondanamente saggia Agnese come con la bigotta e maniaca Prassede, tutte di troppo inferiori e incapaci di respirare in quel-
l'aria, in cui ella vive, di naturale ma piena e coerente religiosità. Attraverso le parole di Prassede vien fuori addirittura un. ritratto di Lucia, che è sostanzialmente vero: l'espressione. visibile della‘sua ritrosia e solitudine interiore: « Quella testina bassa, col mento inchiodato sulla fontanella della gola, quel non rispondere, ò risponder secco secco, come per forza, potevano indicar verecondia; ma denotavano sicuramente molta caparbietà: non ci voleva molto a indovinare che quella testina aveva le sue idee ».
Capitolo XXVI
A una siffatta domanda, don ‘Abbondio, che pur s’era ingegnato di risponder qualcosa a delle meno precise, restò lì senza articolar parola. E, per dir la verità, anche noi, con questo manoscritto davanti, con una penna in mano, non avendo da contrastare che con le frasi, né altro da temere che le critiche de’ nostri lettori; anche noi, dico, sentiamo una certa ripugnanza a proseguire: troviamo un non so che di strano in questo mettere in campo, con così poca fatica, tanti bei precetti di fortezza e di carità, di premura
operosa per gli altri, di sacrifizio illimitato di sé. Ma pensando che quelle 10
cose erano dette da uno che poi le faceva, tiriamo avanti con coraggio. « Voi non rispondete? » riprese il cardinale. « Ah, se aveste fatto, dalla parte vostra, ciò che la carità, ciò che il dovere richiedeva; in qualunque maniera poi le cose fossero andate, non vi mancherebbe ora una risposta. Ve-
dete dunque voi stesso cosa avete fatto. Avete ubbidito all’iniquità, non curando ciò che il dovere vi prescriveva. L’avete ubbidita puntualmente: s’era 15
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fatta vedere a voi, per intimarvi il suo desiderio; ma voleva rimanere occulta a chi avrebbe potuto ripararsi da essa, e mettersi in guardia; non voleva che si facesse rumore, voleva il segreto, per maturare a suo bell’agio i suoi di-
segni d’insidie o di forza; vi comandò la trasgressione e il silenzio: voi avete trasgredito, e non parlavate. Domando ora a voi se non avete fatto di più; voi mi direte se è vero che abbiate mendicati de’ pretesti al vostro rifiuto, per non rivelarne il motivo. » E stette lì alquanto, aspettando di nuovo una risposta. 1. A una siffatta domanda: « Cosa v’'ha ispirato il timore, l’amore...? », quesito inatteso per colui che non chiede altro che
« d’esser lasciato vivere ». 2-9. E, per dir la verità... con coraggio: questo diretto intervento dello scrittore è molto accorto. Esso previene un’obiezione più che legittima: i « bei precetti » è molto facile darli a parole o ricopiarli da un altro. Ma questa volta si trattava di cose dette «da uno che poi le faceva »! L’interruzione ha anche valore artistico, in quanto umanizza, in un certo senso, il parlare del Cardinale, trasportandolo dalle splendide cime del soliloquio alla modesta realtà dell’interlocutore, e insieme argutamente inserisce il natratore stesso nella logica del discorso. 14. L’avete ubbidita puntualmente: l’atto d’accusa del Cardinale è, ora, preciso e par-
ticolare. Nella prima parte del discorso Federigo si era mantenuto su un piano piuttosto teorico, svolgendo, per così dire, vari temi: la logica del dovere, l’ideale della giustizia, la necessità del coraggio, la forza dell’amore.... Così aveva mostrato quale deve essere la «regione» di un ministro di Dio; ora stringe il curato con accuse precise, con domande incalzanti. Per questo il linguaggio assume un tono più penetrante e
il colloquio si fa più drammatico. Ma il Cardinale, pur nella severità del momento, è sempre caritatevole verso il suo parroco, e spera ancora che costui possa trovare una parola che lo scusi o ne attenui la colpa: «voi mi direte se è vero... ». 21. E stette lì alquanto...: ma per la terza volta la risposta non viene. Viene, al solito, il mugugnare interiore dell’egoista che
capitolo XXVI
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— Anche questa gli hanno rapportata le chiacchierone, — pensava don Abbondio; ma non dava segno d’aver nulla da dire; onde il cardinale riprese: « se è vero, che abbiate detto a que’ poverini ciò che non era, per tenerlî nell’ignoranza, nell’oscurità, in cui l’iniquità li voleva... Dunque lo
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devo credere; dunque non mi resta che d’arrossirne con voi, e di sperare che voi ne piangerete con me. Vedete a che v’ha condotto (Dio buono! e pur ora
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‘
voi la adducevate per iscusa) quella premura per la vita che deve finire. V'ha condotto... ribattete liberamente queste parole, se vi paiono ingiuste, prendetele in umiliazione salutare, se non lo sono... vha condotto a ingannare i deboli, a mentire ai vostri figliuoli. » — Ecco come vanno le cose, — diceva ancora tra sé don Abbondio: — a quel satanasso, — e pensava all’innominato, — le braccia al collo; e con me, per una mezza bugia detta a solo fine di salvar la pelle, tanto chiasso. Ma sono superiori; hanno sempre ragione. È il mio pianeta, che tutti m’abbiano a dare addosso; anche i santi. — E ad alta voce, disse: «ho mancato; capisco che ho mancato ma cosa dovevo fare, in un frangente di quella sorte? » «E ancor lo domandate? E non ve l’ho detto? E dovevo dirvelo? Amare,
figliuolo; amare e ‘pregare. Allora avreste sentito che l’iniquità può aver bensì delle minacce da fare, de’ colpi da dare, ma non de’ comandi; avreste unito, secondo la legge di Dio, ciò che l’uomo voleva separare; avreste prestato a quegl’innocenti infelici il ministero che avevan ragione di richieder da voi: delle conseguenze sarebbe restato mallevadore Iddio, perché si sarebbe andati per la sua strada: avendone presa un’altra, ne restate mallevadore voi; e di quali conseguenze! Ma forse che tutti i ripari umani vi mancavano? forse che non era aperta alcuna via di scampo, quand’aveste voluto guardarvi d’intorno, pensarci, cercare? Ora voi potete sapere che que’ vostri
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poverini,
quando
fossero
stati maritati,
avrebbero
pensato
da sé al loro
scampo, eran disposti a fuggire dalla faccia del potente, s’eran già disegnato il luogo di rifugio. Ma anche senza questo, non vi venne in mente che alla tutto il male lo vede negli altri: «...le chiacchierone »! Ma il suo silenzio è confessione della colpa supposta: che a quei poverini, cioè, ha inventato anche dei pretesti, i pretesti dei superiori. 32. mentire ai vostri figliuoli: anche questa accusa, ora, è formulata in maniera netta. Ma per don Abbondio, parafrasandolo, « ci
vuol altro »! Quella menzogna l’ha escogitata lui, è stata il parto di una notte insonne, e l’ha applicata con tutta l’autorità che possedeva, vantandosi anche, fra sé, di essere il « più accorto » nei riguardi di un «giovinetto ignorante ». Figuriamoci se ora si sente di grrossire e di piangerci sopra. 33-38. Ecco come... quella sorte?: le parole pensate si intrecciano continuamente con quelle pronunziate, in una vicenda artistica perfetta. Naturalmente i pensieri non detti sono quelli più veri, quelli che vengono proprio dal cuore: ecco, quindi, che per don Abbondio l’Innominato, anche se convertito, è sempre un satfarasso; il Car-x dinale, anche se ha ragione, l’ha perché è
un superiore; e il destino suo è d’aver tutti addosso, « anche i santi ». Ma questa volta anche le parole pronunziate confermano: la tenacia dell’egoismo e dell’insensibilità: « ma cosa dovevo fare in un frangente di quella sorte? »,
39. E ancor lo domandate?: quanto sconforto di fronte all’ottusità del colpevole che ancora non sa, ancora non vede! E poi quanta umiltà nel tornare di nuovo a indicare la strada che avrebbe dovuto esser seguita: « amare e pregare ». È l’esortazione già data poco prima, ora accompagnata da più caldo commento. 51-52. alla fine avevate un superiore?: si osservi come l’aiuto del « superiore » è messo per ultimo. Sarebbe stato facile al Cardinale dir subito che c’era lui, il vescovo, e che lui avrebbe potuto intervenire. Federigo, invece, si mette in fondo, « alla fine ». Non è esteriore umiltà, ma riconoscimento del valore preminente dell’intervento misterioso di Dio: e, insieme, è un tratto generoso perché il rimprovero non
î promessi sposi
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fine avevate un. superiore? Il quale, come mai avrebbe quest’autorità di ri-
prendervi d’aver mancato al vostro ufizio, se non avesse anche l’obbligo d’aiu-
SI
tarvi ad adempirlo? Perché non avete pensato a informare il vostro vescovo dell’impedimento che un’infame violenza metteva all’esercizio del vostro mi-
î nistero? » cui, a Abbondio, don nte stizzosame — I pareri di Perpetual — pensava in mezzo a’ quei discorsi ciò che stava più vivamente davanti, era l’immagine di que’ bravi, e il pensiero che don Rodrigo era vivo e sano, e, un giorno 0
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l’altro, tornerebbe glorioso e trionfante, e arrabbiato. E benché quella dignità presente, quell’aspetto e quel linguaggio, lo facessero star confuso, e gl’incutessero un certo timore, era però un timore che non lo soggiogava affatto né impediva al pensiero di ricalcitrare: perché c’era in quel pensiero, che, alla fin delle fini, il cardinale non adoprava né schioppo, né spada, né bravi. « Come non avete pensato, » proseguiva questo, « che, se a quegli inno-
centi insidiati non fosse stato aperto altro rifugio, c'ero io, per accoglierli, per metterli in salvo, quando voi me gli aveste indirizzati, indirizzati dei derelitti a un vescovo, come cosa sua, come parte preziosa, non dico del suo carico, ma delle sue ricchezze? E in quanto a voi, io sarei divenuto inquieto per voi; io, avrei dovuto non dormire, fin che non fossi sicuro che non vi sarebbe torto un capello. Ch’io non avessi come, dove, mettere in sicuro la vostra
vita? Ma quell’uomo che fu tanto ardito, credete voi che non gli si sarebbe scemato punto l’ardire, quando avesse saputo che le sue trame eran note fuor di qui, note a me, ch’io vegliavo, ed ero risoluto d’usare in vostra difesa tutti i mezzi che fossero in mia mano? Non sapevate che, se l’uomo promette troppo spesso più che non sia per mantenere, minaccia anche non di rado, più che non s’attenti poi di commettere? Non sapevate che l’iniquità non si fonda soltanto sulle sue forze, ma anche sulla credulità e sullo spavento altrui? »
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— Proprio le ragioni di Perpetua, — pensò anche qui don Abbondio, senza riflettere che quel trovarsi d’accordo la sua serva e Federigo Borromeo su ciò che si sarebbe potuto e dovuto fare, voleva dir molto contro di lui. appaia ostentazione. Ma anche così l’offerta di sé suona a condanna pesante del sacerdote: egli ha dimenticato non solo i suoi doveri, ma anche gli strumenti della sua missione. 57. I pareri di Perpetua!: P’espressione è diventata proverbiale. Nel pensarla don Abbondio si stizzisce di più: come se ora avesse due persone a dargli addosso. Ricordiamo che Perpetua aveva suggerito subito al suo padrone, dopo l’incontro coi bravi, di scrivere all’arcivescovo «una bella lettera per informarlo come qualmente... ». Al che lui aveva reagito dicendo: « Quando mi fosse toccata una schioppettata... l’arcivescovo me la leverebbe? ». Sono avvenute tante cose da quella sera del 7 novembre, ma don Abbondio è rimasto lo stesso; e anche l’eloquenza e la passione del Cardinale paiono sprecate, perché ciò che continua a stargli « più vivamente davanti» è l’immagine di quei bravi. >
66-70. c’ero io... io... io..: questa apparizione così decisa di un fo protagonista sulle labbra di Federigo fa effetto, dopo tanto nascondimento di sé. Ma non è affatto accento di presunzione o di orgoglio: è il segno di una nuova offerta, dell’impegno di tutte le prerogative pet la salvezza di due « derelitti » e per la « vita » di un parroco. 76-77 minaccia anche... commettere: e Perpetua aveva detto: « Eh! le schioppettate non si danno via come confetti: e guai se questi cani dovessero mordere tutte le volte che abbaiano! » (Cap. I). 82. voleva dir molto contro di lui: che c’era una via abbastanza chiara da prendere; e se non l’ha presa vuol dire o che è proprio accecato dalla paura o che deliberatamente
si è rifiutato:
« voi non
avete visto,
non avete voluto vedere...» incalzerà appunto il Cardinale. Ma a tutto questo don Abbondio non riflette; per lui l’accordo di
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« Ma voi, » proseguì e concluse il cardinale, « non avete visto, non avete 85
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voluto veder altro che il vostro pericolo temporale; qual maraviglia che vi sia parso tale, da trascurar per esso ogni altra cosa? » « Gli è perché le ho viste io quelle facce, » scappò detto a don Abbondio; «le ho sentite io quelle parole. Vossignoria illustrissima parla bene; ma bisognerebbe essere ne’ panni d’un povero prete, e essersi trovato al punto. » Appena ebbe proferite queste parole, si morse la' lingua; s’accorse d’essersi lasciato troppo vincere dalla stizza, e disse tra sé: — ora vien la grandine —. Ma alzando dubbiosamente lo sguardo, fu tutto maravigliato, nel veder l’aspetto di quell'uomo, che non gli riusciva mai d’indovinare né di capire, nel vederlo, dico, passare, da quella gravità autorevole e correttrice, a una gravità compunta e pensierosa. « Pur troppo!» disse Federigo, «tale è la misera e terribile nostra condizione. Dobbiamo esigere rigorosamente dagli altri quello che Dio sa se noi saremmo pronti a dare: dobbiamo giudicare, correggere, riprendere; e Dio sa quel che faremmo noi nel caso stesso, quel che abbiam fatto in casi somiglianti. Ma guai s’io dovessi prender la mia debolezza per misura del dovere altrui, per norma del mio insegnamento! Eppure è certo che, insieme con le dottrine, io devo dare agli altri l'esempio, non rendermi simile al dottor della legge, che carica gli altri di pesi che non posson portare, e che lui non toccherebbe con un dito. Ebbene, figliuolo e fratello; poiché gli errori di quelli che presiedono, sono spesso più noti agli altri che a loro; se voi sapete ch’io abbia, per pusillanimità, per qualunque rispetto, trascurato qualche mio obbligo, ditemelo francamente, fatemi ravvedere; affinché, dov’è mancato l’esem-
pio, supplisca almeno la confessione. Rimprovertatemi liberamente le mie de-
bolezze; e allora le parole acquisteranno più valore nella mia bocca, perché sentirete più vivamente, che non son mie, ma di Chi può dare a voi e a me 110
la forza necessaria per far ciò che prescrivono. » — Oh che sant'uomo! ma che tormento! — pensava don Abbondio: un grand’uomo, come il Cardinale, con la serva significa soltanto conferma che il suo « pianeta» è che tutti, santi e birboni, gli abbiano a dare addosso. 86-87. io quelle facce, io quelle parole: all’io del Cardinale anche don Abbondio ha il suo io da opporre: il solito i0 della paura e dell’egoismo. Ma l’umanità del vescovo è sensibile a quest’uscita tanto franca, che se è di stizza è anche di sgomento: « bisognerebbe esser ne’ panni d’un povero prete...». Da qui il colloquio segna una svolta decisiva: ma che è tutta il contrario di quella che si aspetterebbe don Abbondio. 89-91. si morse la lingua... dubbiosamente... pennellate umoristiche vivissime; ma specie nella seconda mossa, in quel guardare di sott’occhi, torna la mimica nota del prete pauroso e sospettoso. 94, compunta e pensierosa: «uomo del suo secolo, Federigo è altresì conscio delle zone oscure dello spirito umano. Egli sa che l’imperativo etico deve essere compren-
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1 do non sivo i di tutte le situazioni, quando si voglia peccare d’astrattezza. E. il' discorso prende un’altra piega, in pensosa intimità » (Ulivi). 101-102. dottor della legge: quei dottori, scribi e farisei, di cui Gesù diceva che « legano pesi gravi e insopportabili e li caricano sulle spalle degli uomini; ma essi non vogliono muoverli
nemmeno
con un dito »
(Matteo, 24). . 103. figliuolo e fratello: è il momento più
sublime della discesa progressiva che il Cardinale sta compiendo, in questo discorso, dalla sua posizione di vescovo, che deve insegnare e riprendere, a quella di uomo, anche lui peccatore e penitente. Ciò che conta, e fa grande il personaggio, è la sincerità che sentiamo nel suo umiliarsi. 111-115. Oh che sant'uomo... anche troppo: l’interruzione pensata attiva al punto opportuno perché le parole del Cardinale non insistano eccessivamente sul sublime; l'interruzione parlata può apparire, invece, un’adulazione grossolana e irriverente. Ma
i promessi
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sposi
di anche sopra di sé: purché frughi, rimesti, critichi. inquisisca; ‘anche sopra conon Chi celia? fa mi che sé. — Disse poi ad alta voce: « oh, monsignore! tra nosce il petto forte, lo zelo imperterrito di vossignoria illustrissima? » E
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sé soggiunse: — anche troppo —. « Io non vi chiedevo una lode, che mi fa tremare, » disse Federigo, « perché Dio conosce i miei mancamenti, e quello che ne conosco anch’io. basta a confondermi. Ma avrei voluto, vorrei che ci confondessimo insieme davanti a Lui, per confidare insieme. Vorrei, per amor vostro, che intendeste quanto la vostra condotta sia stata opposta, quanto sia opposto il vostro linguaggio alla legge che pur predicate, e secondo la quale sarete giudicato. » « Tutto casca addosso a me, » disse. don Abbondio: « ma queste persone che son venute a rapportare, non le hanno poi detto d’essersi introdotte in casa mia, a tradimento, per sorprendermi, e per fare un matrimonio
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contro
le regole. » « Me l’hanno detto, figliuolo: ma questo m’accora, questo m’atterra, che voi desideriate ancora di scusarvi; che pensiate di scusarvi, accusando; che prendiate materia d’accusa da ciò che dovrebb’essere parte della vostra confessione. Chi gli ha messi, non dico nella necessità, ma nella tentazione di far ciò che hanno fatto? Avrebbero essi cercata quella via irregolare, se la legittima non fosse loro stata chiusa? pensato a insidiare il pastore, se fossero stati accolti nelle sue braccia, aiutati, consigliati da lui? a sorprenderlo, se
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non si fosse nascosto? E a questi voi date carico? e vi sdegnate perché, dopo tante sventure, che dico? nel mezzo della sventura, abbian detto una parola di sfogo al loro, al vostro pastore? Che il ricorso dell’oppresso, la querela dell’afflitto siano odiosi al mondo, il mondo è tale; ma noi! E che pro sarebbe stato
per voi, se avessero taciuto? Vi tornava conto che la loro causa andasse intera al giudizio di Dio? Non è per voi una nuova ragione d’amar queste persone (e già tante ragioni n’avete), che v’abbian dato occasione di sentir la voce sin-
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cera del vostro vescovo, che v’abbian dato un mezzo di conoscer meglio, e di scontare in parte il gran debito che avete con loro? Ah! se v’avessero provocato, offeso, tormentato, vi direi (e dovrei io dirvelo?) d’amarli, appunto per questo. Amateli perché hanno patito, perché patiscono, perché son vo-
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stri, perché son deboli, perché avete bisogno d’un perdono, a ottenervi il quale, pensate di qual forza possa essere la loro preghiera. » Don Abbondio stava zitto; ma non era più quel silenzio forzato e impa-
ziente:
stava zitto come chi ha più cose da pensare che da dire. Le parole
non diremmo che sia insincera, e non abbia
anch'essa la virtù di portare la scena in quel piano mediano e umoristico che si addice alla figura di don Abbondio. 122-125. ma queste persone... le regole: quando veramente ci saremmo aspettati che don Abbondio capisse che era il tempo del mea culpa, egli insiste ancora, e con accento sprezzante, in una scusa che è atto di accusa proprio contro quei poveretti che soffrono per la sua condotta. Siamo all’estremo della meschinità e della protervia: quell’estremo che rende il Cardinale interdetto e compassionevole ad un tempo.
136. il mondo è tale; ma noi!: la morale
del mondo
è tutt’altra che la morale
del
cristianesimo:
manzo.
è motivo
costante
del
ro-
141. scontare... il gran debito: lui, don Abbondio, che tutti ha sempre creduti debitori verso di sé! 143-145. Amateli perché hanno patito... preghiera: sempre lo stesso invito: « amare e pregare »; e ora con un accoramento maggiore, che sale non sai se più dall’immagine dei poverini, che sono «deboli» e che « hanno patito » e « patiscono », o da quella del sacerdote colpevole che ha « bisogno d’un perdono ». È da questo accoramento di Federigo che germoglia, finalmente, la commozione, se non la conversione, di don
Abbondio.
capitolo XXVI
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che sentiva, eran conseguenze inaspettate, applicazioni nuove, ma d’una dottrina antica però nella sua mente, e non contrastata. Il male degli altri, dalla 150 considerazion del quale l’aveva sempre distratto la paura del proprio, gli faceva ora un'impressione nuova. E se non sentiva tutto il rimorso che la predica voleva produrre (ché quella stessa paura era sempre lì a far l’ufizio di difensore), ne sentiva però; sentiva un certo dispiacere di sé, una compas-
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.
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sione per gli altri, un misto di tenerezza e di confusione. Era, se ci si lascia passare questo paragone, come lo stoppino umido e ammaccato d’una candela, che presentato alla fiamma d’una gran torcia, da principio fuma, schizza, scoppietta, non ne vuol saper nulla; ma alla fine s’accende e, bene o male, brucia. Si sarebbe apertamente accusato, avrebbe pianto, se. non fosse stato il pensiero di don Rodrigo; ma'tuttavia si mostrava abbastanza commosso, perché il cardinale dovesse accorgersi che le sue parole non erano state senza effetto. « Ora, » proseguì questo, « uno fuggitivo da casa sua, l’altra in procinto d’abbandonarla, tutt'e due con troppo forti motivi di starne lontani, senza probabilità di riunirsi mai qui, e contenti di sperare che Dio li riunisca altrove; ora, pur troppo, non hanno bisogno di voi; pur troppo, voi non avete occasione di far loro del bene; né il corto nostro prevedere può scoprirne alcuna nell’avvenire. Ma chi sa se Dio misericordioso non ve ne prepara? Ah non le lasciate sfuggire! cercatele, state alle velette, pregatelo che le faccia nascere. » « Non mancherò, monsignore, non mancherò, davvero, » rispose don Abbondio, con una voce che, in quel momento, veniva proprio dal cuore. « Ah sì, figliuolo, sì! » esclamò Federigo; e con una dignità piena d’affetto, concluse: « lo sa il cielo se avrei desiderato di tener con voi tutt’altri discorsi. Tutte due abbiamo già vissuto molto: lo sa il cielo se m’è stato
duro di dover contristar con rimproveri codesta vostra canizie, e quanto sarei stato più contento di consolarci insieme delle nostre cure comuni, de’ nostri 155-158. come lo stoppino... brucia: comparazione stupenda e tutta pervasa di un malizioso sorriso. Che fatica per don Abbondio arrivare a quel « misto di' tenerezza e di confusione »! Alla fine, però, c'è arrivato. Ma lui non sarà mai luce che splende: sarà soltanto uno... stoppino che, acceso a gran pena, «bene o male» si è messo a bruciare: nient'altro. Anche da « convertito » don Abbondio rimane la vittima più illustre e costante dell’umorismo manzoniano. 159. abbastanza commosso: non è la conversione che si sarebbe potuta attendere dopo tanti rimproveri e tante esortazioni del Cardinale; tuttavia è quanto può dare don Abbondio, soggiogato ormai per sempre dal « pensiero di don Rodrigo ». Anche in lui, alla fine, la Grazia ha ottenuto un barlume di corrispondenza; e in questo senso anche la sua vicenda si inserisce nella confortante visione cristiana per cui a nessun uomo è negato di vedere la luce, e tutti hanno momenti di bontà e di pentimento:
si pensi alla corzpassione del Nibbio dinanzi al pianto di Lucia o all’impressione confusa della vecchia al nome di Maria (Cap. XXI). Il M. sa trovare la forma più confacente alla commozione nuova di don Abbondio: non parole, ché di adatte costui non saprebbe dirne, ma il silenzio. Solo più tardi, ad un’ultima precisa esortazione di nori lasciarsi sfuggire le occasioni di fare il bene, don Abbondio riuscirà a rispondere un « non mancherò... non mancherò, davvero ». ‘ 168. state alle velette: state in vedetta, state attenti, vigilate. « L’espressione proviene dal linguaggio marinaresco: le * velette’ sarebbero piccole vele poste sull’albero maestro, proprio sopra la gabbia in cui stava il marinaio pet esplorare il mare dall’alto durante i turni di guardia. Forse più persuasiva la proposta derivazione di ‘ veletta? dal portoghese velata, diminutivo dello spagnolo vela o sentinella (da velar: vigilare). Dall’incrocio di ‘ veletta ? con * vedere’ sarebbero poi derivati * vedetta” e ‘ stare alla vedetta?» (Caretti).
Î promessi sposti
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guai, parlando della beata speranza, alla quale siamo arrivati così vicino. Piaccia a Dio che le parole le quali ho pur dovuto usar con voi, servano a voi e a me. Non fate che m’abbia a chieder conto, in quel giorno, d’avervi mantenuto in un ufizio al quale avete così infelicemente mancato. Ricompriamo il tempo: la mezzanotte è vicina; lo Sposo non può tardare; teniamo accese le nostre lampade. Presentiamo
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a Dio i nostri cuori miseri, vòti, perché Gli
piaccia riempirli di quella carità, che ripara al passato, che assicura l’avvenite, che teme e confida, piange e si rallegra, con sapienza; che diventa in ogni caso la virtù di cui abbiamo bisogno. » Così detto, si mosse: e don Abbondio gli andò dietro. Qui l'anonimo ci avvisa che non fu questo il solo abboccamento di que’ due personaggi, né Lucia il solo argomento de’ loro abboccamenti; ma che. lui s'è ristretto a questo, per non' andar lontano dal soggetto principale del racconto. E che, per lo stesso motivo, non farà menzione d’altre cose notabili, dette da Federigo in tutto il corso della visita, né delle sue liberalità né delle discordie sedate, degli odi antichi tra persone, famiglie, terre intere, spenti o (cosa ch’era pur troppo più frequente) sopiti, né di qualche bravaccio o tirannello ammansato, o per tutta la vita, o per qualche tempo; cose tutte delle quali ce n’era sempre più o meno, in ogni luogo della diocesi dove quell’uomo eccellente facesse qualche soggiorno. Dice poi, che, la mattina seguente, venne donna Prassede, secondo il fissato, a prender Lucia, e a complimentare il cardinale, il quale gliela lodò, e raccomandò caldamente. Lucia si staccò dalla madre, potete pensar con che pianti; e uscì dalla sua casetta: disse per la seconda volta addio al paese, con quel .senso di doppia amarezza, che si prova lasciando un luogo che fu unicamente caro, e che non può esserlo più. Ma i congedi con la madre non
eran gli ultimi; perché donna Prassede aveva detto che si starebbe ancor
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qualche giorno in quella sua villa, la quale non era molto lontana, e Agnese promise alla figlia d’andar là a trovarla, a dare e a ricevere un più doloroso
addio. 180-181. Ricompriamo zanotte
è vicina:
il tempo:
espressione
la mez-
intensamente
elegiaca, la più umana e religiosa del colloquio. È scomparso il superiore che scru: ta, inquisisce, rimprovera; è scomparso l’inferiore che recalcitta, mugugna, si scusa: sono rimasti due uomini, due vecchi accomunati nella vicinanza della morte e nella fede dell’eternità. Questo il senso delle due reminiscenze bibliche, che, in un'atmosfera di abbraccio spirituale, chiudono in maniera originalissima l’incontro, che si era sempre svolto in un clima di aperto o latente contrasto. La prima espressione « ricompriamo il tempo », recupetiamo il tempo perduto, è una frase di San Paolo, redimentes tempus, nella lettera agli Efesini; la seconda, «la mezzanotte è vicina », è tratta dalla parabola delle vergini prudenti e delle vergini stolte: le cinque stolte presero le lampade ma non presero l’olio; le prudenti insieme con le lampade presero l’olio nei loro vasi; quando a mezzanotte giunse lo Sposo, sol-
tanto le prudenti « entrarono nozze » (Matteo, 25).
con lui alle
186. andò dietro: come sempre, è vero: ma questa volta quello è il suo posto. Per di più ora don Abbondio ha il cuore commosso e contrito. Ma tutto ciò non vieta al lettore un leggero sorriso. 187. Qui l’anonimo ci avvisa...: l’Anonimo serve a puntino per riportarci alla tempetatura media del racconto; e sembra volerci ricordare, sorridendo, che, se questa è un po’ di storia, tutto il resto è fantasia. 200. disse... addio al paese: questo secondo addio è accennato solo di sfuggita; ma sentiamo che per Lucia non è meno doloroso del primo. Basta pensare che l’altra volta, là sulla barca in mezzo al lago, aveva vicini la madre e il promesso sposo, e non poteva mancarle quella speranza, che ora è invece distrutta. Non è, quindi, completamente giustificata questa distinzione ottimistica di un commentatore: « allora partiva esule, ora ospite desiderata ».
capitolo XXVI
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Il cardinale era anche lui sulle mosse per continuar la sua visita, quando arrivò, e chiese di parlargli il curato della parrocchia, in cui era il castello dell’innominato. Introdotto, gli presentò un gruppo e una lettera di quel signore, la quale lo pregava di far accettare alla madre di Lucia cento scudi d’oro ch’eran nel gruppo, per servir di dote alla giovine, o per quell’uso che ad esse sarebbe parso migliore; lo pregava insieme di dir loro, che, se mai, in qualunque tempo, avessero creduto che potesse render loro qualche servizio, la povera giovine sapeva pur troppo dove stesse; e per lui, quella sarebbe una delle fortune più desiderate. Il cardinale fece subito chiamare Agnese, le riferì la commissione, che fu sentita con altrettanta soddisfazione che maraviglia; e le presentò il rotolo, ch’essa prese, senza far gran complimenti. « Dio
gliene renda merito, a quel signore, » disse: «e vossignoria illusttissima lo tingrazi tanto tanto. E non dica nulla a nessuno, perché questo è un certo 220
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paese... Mi scusi, veda; so bene che un par suo non va a chiacchierare di queste cose; ma... lei m’intende. » Andò a casa, zitta, zitta; si chiuse in camera, svoltò il rotolo, e quantunque preparata, vide con ammirazione, tutti in un mucchietto e suoi, tanti di que’ ruspi, de’ quali non aveva forse mai visto più d’uno per volta, e anche di rado; li contò, penò alquanto a metterli di nuovo per taglio, e a tenerli lì tutti, ché ogni momento facevan pancia, e sgusciavano dalle sue dita inesperte; ricomposto finalmente un rotolo alla meglio, lo mise in un cencio, ne fece un involto, un batuffoletto, e legatolo bene in giro con della cordellina, l’andò a ficcare in un cantuccio del suo saccone. Il resto di quel giorno, non fece altro che mulinare, far disegni sull’avvenire, e, sospirar l'indomani. Andata a letto, stette desta un pezzo, col pensiero in compagnia di que’ cento che aveva sotto: addormentata, li vide in sogno. All’alba, s’alzò e s’incam-
minò subito verso la villa dov’era Lucia. Questa, dal canto suo, quantunque non le fosse diminuita quella ripugnanza a parlar del voto, pure era risoluta di farsi forza, e d’aprirsene con la madre in quell’abboccamento, che per lungo tempo doveva chiamarsi l’ultimo. Appena poterono esser sole, Agnese, con una faccia tutta animata, e insieme a voce bassa, come se ci fosse stato presente qualcheduno a cui non volesse farsi sentire, cominciò. « ho da dirti una gran cosa »; e le raccontò
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l’inaspettata fortuna. « Iddio lo benedica, quel signore, » disse Lucia:
«così avrete da star » altro. qualchedun a bene del far anche potrete e bene voi, fare, con possiamo cose quante vedi non « Agnese: « Come? » rispose
209. un gruppo: un involto: un pacchetto di monete; « gruppo » è dialettale. Poi è usato « rotolo » perché le monete erano unite insieme formando un cilindro. 217. senza far gran complimenti...: c’è tutta Agnese: qui nella sua franchezza, poi, patlando al Cardinale — « non dica nulla a nessuno... » — nella. sua prudenza ingenua e popolana. 222-233. Andò a casa... dov'era Lucia: tutto il capoverso è di uno splendore gustosissimo. Da ogni immagine, da ogni parola sprizzano meraviglia e felicità. C'è qualcosa di fanciullesco negli sguardi e nei gesti di Agnese, sotto il tumulto del cuore che batte
fino alla gola, e quello della testa che frulla mulinando disegni per l'avvenire. Il tocco finale « addormentata, li vide in. sogno» completa, con un nuovo sorriso, l’ossessione gioiosa. Nella quale non vediamo segno alcuno di avarizia, ma solo gioia di mamma amorosa. Una gioia, però, destinata a crollare ben. presto. 224. ruspi: zecchini; in particolare indica monete coniate di fresco; da r4spo, che significa ruvido. Un motivo di più per la meraviglia di Agnese. 243-244. Come?... tanti danari?: Agnese, tutta infervorata e felice, non ha ancora intuito niente, e continua a parlare, e a dire
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; 3 tanti danari? Senti; io non ho altro che te, che voi due, posso dire; perché Renzo, da che cominciò a discorrerti, l'ho sempre riguardato come un mio figliuolo. Tutto sta che non gli sia accaduta ‘qualche disgrazia, a vedere che non ha mai fatto saper nulla: ma eh! deve andar tutto male? Speriamo di no, speriamo. Per me, avrei avuto caro di lasciar l’ossa nel mio paese; ma ora che tu non ci puoi stare, in grazia di quel birbone, e anche solamente a pensare d’averlo vicino colui, m’è venuto in odio il mio paese; e con voi “altri io sto per tutto. Ero disposta, fin d’allora, a venir con voi altri. anche in capo al mondo; e son sempre stata di quel parere; ma senza danari come si fa? Intendi ora? Que’ quattro, che quel poverino aveva messi da parte, con tanto stento e con tanto risparmio, è venuta la giustizia, e ha spazzato ogni cosa;
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ma, per ricompensa, il Signore ha mandato la fortuna a noi. Dunque, quando
avrà trovato il bandolo di far sapere se è vivo, e dov'è, e che intenzioni ha, ti
vengo a prender io a Milano; io ti vengo a prendere. Altre volte mi sarebbe parso un gran che; ma le disgrazie fanno diventar disinvolti; fino a Monza ci sono andata, e so cos’è viaggiare. Prendo con me un uomo di proposito, un 260
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parente, come sarebbe a dire Alessio di Maggianico: chè, avoler dir proprio in paese, un uomo di proposito non c’è: vengo con lui: già la spesa la facciamo noi, e... intendi? » Ma vedendo che, in vece d’animarsi, Lucia s'andava accorando, e non dimostrava che una tenerezza senz’allegria, lasciò il discorso a mezzo, e disse: « ma cos'hai? non ti pare? »
« Povera mamma! » esclamò Lucia, gettandole un braccio al collo, e nascondendo il viso nel seno di lei. « Cosa c’è? » domandò di nuovo ansiosamente la madre. « Avrei dovuto dirvelo prima, » rispose Lucia, alzando il viso, e asciugandosi le lacrime; « ma non ho mai avuto cuore: compatitemi. » « Ma dì su, dunque. » « Io non posso più esser moglie di quel poverino! » « Come? come? » Lucia col capo basso, col petto ansante, lacrimando senza piangere, come
di chi racconta una cosa che, quand’anche dispiacesse, non si può cambiare,
rivelò il voto; e insieme, giungendo le mani, chiese di nuovo perdono alla madre, di non aver parlato fin allora; la pregò di non ridir la cosa ad anima vivente, e d’aiutarla ad adempire ciò che aveva promesso.
i suoi disegni, e a sognare il domani. Lucia tace a lungo, tace più che può: è un altro gran dispiacere per lei distruggere la gioia della mamma. 254. è venuta la giustizia: cioè; quei birti che, con podestà e notaio, perquisirono la casa di Renzo. Osserva l’accostamento tutto manzoniano: «la giustizia ha spazzato ognî cosa »: questo fa la giustizia degli uomini. Ma sopra c’è il Signore che vigila e ripara. 257-258. io a Milano, io... disinvolti: fa sorridere questa battuta d’Agnese, perché sappiamo bene che lei non avrebbe avuto bisogno di disgrazie per essere disinvolta. Ma
ci senti il cuore della mamma,
pronta a
tutto per la figlia: tanto più ora che ci sono quei bei ducati. 260. Alessio di Maggianico: Maggianico è
un villaggio a pochi chilometri da Lecco. Fra poco sapremo anche da Lucia che questo Alessio è davvero un uomo « di proposito »,
cioè prudente, fidato. 266. Povera mamma!: anche noi ci sentiamo di dire Povera Agnese!: che delusione, che crollo! 274. lacrimando senza piangere: la volontà di dire soffoca il pianto; ma l’angoscia preme sulla lacrima. Le lacrime mute sono le più amare: sono anche quelle di una decisione irreversibile.
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Agnese era rimasta stupefatta e costernata. Voleva sdegnarsi del silenzio tenuto con lei; ma i gravi pensieri del caso soffogavano quel dispiacere suo
proprio; voleva dirle: cos’hai fatto? ma le pareva che sarebbe un prendersela
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col cielo: tanto più che Lucia tornava a dipinger co’ più vivi colori quella notte, la desolazione così nera, e la liberazione così impreveduta, tra le quali la promessa era stata fatta, così espressa, così solenne. E intanto, ad Agnese veniva anche in mente questo e quell’esempio, che aveva sentito raccontat più volte, che lei stessa aveva raccontato alla figlia, di gastighi strani e terribili, venuti per la violazione di qualche voto. Dopo esser rimasta un poco come incantata, disse: «e ora cosa farai? » « Ora, » rispose Lucia, « tocca al Signore a pensarci;
al Signore e alla Madonna. Mi son messa nelle lor mani: non m'hanno abbandonata finora; non m’abbandoneranno ora che... La grazia che chiedo per me al Signore, la
sola grazia, dopo la salvazion dell'anima, è che mi faccia tornar con voi: e me la concederà, sì, me la concederà. Quel giorno... in quella carrozza... ah Vergine santissima!... quegli uomini!... chi m’avrebbe detto che mi menaoO. vano da colui che mi doveva menare a trovarmi con voi, il giorno dopo? »
« Ma non parlarne subito a tua madre! » disse Agnese con una certa stizzetta temperata d’amorevolezza e di pietà. « Compatitemi;
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non
avevo
cuore...
e che sarebbe
giovato d’affliggervi
qualche tempo prima? » « E Renzo? » disse Agnese, tentennando il capo. « Ah! » esclamò Lucia, riscotendosi, « io non ci devo pensar più a quel poverino. Già si vede che non era destinato .. Vedete come pare che il Signore ci abbia voluti proprio tener separati. E chi sa...? ma no, no: l’avrà preservato Lui da pericoli, e lo farà esser fortunato anche di più, senza di me. » « Ma intanto, » riprese la madre, « se non fosse che tu ti sei legata per sempre, a tutto il resto, quando a Renzo non gli sia accaduta qualche disgrazia, con que’ danari io ci avevo trovato rimedio. » « Ma que’ danari, » replicò Lucia, « ci sarebbero venuti, s'io non avessi
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passata quella notte? È il Signore che ha voluto che tutto andasse così: sia fatta la sua volontà. » E la parola morì nel pianto. A quell’argomento inaspettato, Agnese rimase lì pensierosa. Dopo qualche momento, Lucia, rattenendo i singhiozzi, riprese: « ora che la cosa è fatta,
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prima, pregando il Signore per la vostra povera figlia, e poi... bisogna bene che quel poverino lo sappia. Pensateci voi, fatemi anche questa carità; ché
bisogna adattarsi di buon animo; e voi, povera mamma, voi mi potete aiutare,
279. stupefatta e costernata: tanto che questa volta — ed è l’unica volta — la vedremo incapace di una risoluzione, di una via di uscita; e sarà lei, sgomenta, a chiedere alla figlia: «e ora cosa farai? ». Per capire meglio questa costernazione si ripensi alla loquacità di un attimo prima. 289. Ora... tocca al Signore...: forse non ci aspetteremmo una risposta tanto pronta e sicura. Ma è tipica della fede e dello stile di Lucia. Come proprio del suo cuore sarà il tremito delle parole che ricordano Renzo.
296. Ma non parlarne subito a tua madre!: povera Agnese, mai informata subito delle cose più gravi! Come per le molestie di don Rodrigo riferite prima a padre Cristoforo: « ... perché non raccontar tutto anche a tua madre? » (Cap. III). Le ragioni del segreto sono, press’a poco,. sempre le stesse. 309-310. Ma que’ danari... quella notte?: anche questa logicità nel ragionamento ci è ben nota in Lucia. Ripensiamo alle sue obiezioni sul matrimonio a sorpresa (Capitolo VI).
i promessi spost
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trovate un uovoi ci potete pensare. Quando saprete dov'è, fategli scrivere, e caritatevole, te pruden mo... appunto vostro cugino Alessio, che è un uomo lui la cosa da scriver e ci ha sempre voluto bene, e non ciarlerà: fategli 320
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ha voluto così, com'è andata, dove mi son trovata, come ho patito, e che Dio o.
di nessun e che metta il cuore in pace, e ch'io non posso mai mai esser so, che ho promes ho che rgli spiega a, E fargli capir la cosa con buona grazi a... ha semproprio fatto voto. Quando saprà che ho promesso alla Madonn nuove, fasue le pre avuto il timor di Dio. E voi, la prima volta che avrete nulla. » saper più temi scrivere, fatemi saper che è sano; e poi... non mi fate e farebb come Agnese, tutta intenerita, assicurò la figlia che ogni cosa si desiderava.
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no, se non «Vorrei dirvi un’altra cosa, » riprese questa: « quel poveri to ciò che avesse avuto la disgrazia di pensare a me, non gli sarebbe accadu , gli gli è accaduto. È per il mondo; gli hanno troncato il suo avviamentosapete hanno portato via la sua roba, que’ risp armi che aveva fatti, poverino, ha perché... E noi abbiamo tanti danari! Oh mamma! giacché il Signore ci coavate mandato tanto bene, e quel poverino, è proprio vero che lo riguard Id. me vostro... sì, come un figliuolo, oh! fate mezzo per uno; ché, sicuro, sa il dio non ci mancherà. Cercate un’occasione fidata, e mandateglieli, ché cielo come n’ha bisogno! » «Ebbene, cosa credi? » rispose Agnese: « glieli manderò davvero. Povero giovine! Perché pensi tu ch’io fossi così contenta di que’ danari? Ma...! io era proprio venuta qui tutta contenta. Basta, io glieli manderò, povero Renzo! ma anche lui... so quel che dico; certo che i danari fanno piacere a chi n’ha bisogno; ma questi non saranno quelli che lo faranno ingrassare. » Lucia ringraziò la madre di quella pronta e liberale condiscendenza, con una gratitudine, con un affetto, da far capire a chi l’avesse ‘osservata, che il suo cuore faceva ancora a mezzo con Renzo, forse più che lei medesima non lo credesse.
« E senza di te, che farò io povera donna? » disse Agnese, piangendo an-
ch’essa. 350
«E io senza di voi, povera mamma? e in casa di forestieri? e laggiù in quel Milano...! Ma il Signore sarà con tutt'e due; e poi ci farà tornare insieme. Tra otto o nove mesi ci rivedremo; e di qui allora, e anche prima, 325. e poi... non mi fate più saper nulla: di fronte alle parole ora pronunziate da Lucia, grondanti, per così dire, di tenerezza, di passione e di disperazione, bisogna essere ben ostinati, se, come certa critica, si conti-
nua a parlare di una ragazza fredda e sbiadita, di una donna che non sente l’amore; di una figura che, come sosteneva il De Sanctis, ha sempre troppo di « elevato » e assai poco di « femminile ». Si meditino anche le parole successive. 328-334. quel poverino... come vostro: è forse l’espressione più innamorata di Lucia. Quel « poverino » è veramente dentro di lei: le labbra dicono di allontanarlo, di dimenticarlo, ma il cuore torna sempre a lui. Una volta a quel possessivo pronunziato da Agnese — «Sentite, figliuoli..., se vi fidate di
vostra madre...» — Lucia si era riscossa (Cap. VI) come a qualcosa di troppo atdito: ora è lei che riafferma quel legame di affetto: «come vostro... sì, come un figliuolo ». 341. quelli che lo faranno ingrassare: che lo conforteranno. Ma quanto di più dice l’espressione realistica e popolare! 343-344. il suo cuore... a mezzo con -Renzo: « ancora » e, aggiungiamo, pet sempre. Quei danari fatti a mezzo sono divenuti il simbolo di un eterno legame. Un legame mai tanto eloquente, quanto ora che all’amore si guarda come a un passato che non deve più ritornare.
— 348-439. laggiù in quel Milano...!:
immenso, lontano, pauroso:
sempre sola.
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e dove lei sarà
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spero, avrà accomodate le cose Lui, per riunirci. Lasciamo fare a Lui. La chiederò sempre sempre alla Madonna questa grazia. Se avessi qualche altra cosa da offrirle, lo farei; ma è tanto misericordiosa, che me l’otterrà per niente. »
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Con queste ed altre simili, e più volte ripetute parole di lamento e di conforto, di rammarico e di rassegnazione, con molte raccomandazioni e promesse di non dir nulla, con molte lacrime, dopo lunghi e rinnovati abbracciamenti, le donne si separarono, promettendosi a vicenda di rivedersi il prossimo autunno, al più tardi; come se il mantenere dipendesse da loro, e come però si fa sempre in casi simili. Intanto cominciò a passar molto tempo senza che Agnese potesse saper nulla di Renzo. Né lettere né imbasciate da parte di lui, non ne veniva: di tutti quelli del paese, o del contorno, a cui poté domandare, nessuno ne sapeva più di lei. E non era la sola che facesse invano una tal ricerca: il cardinal Federigo, che non aveva detto per cerimonia alle povere donne, di voler prendere informazioni del povero giovine, aveva infatti scritto subito per averne. Tornato poi dalla visita a Milano, aveva ricevuto la risposta in cui gli si diceva che non s’era potuto trovar recapito dell’indicato soggetto; che veramente era stato qualche tempo in casa d’un suo parente, nel tal paese, dove non aveva fatto dir di sé; ma, una mattina, era scomparso all’improvviso, e quel suo parente stesso non sapeva cosa ne fosse stato, e non poteva che ripetere certe voci in aria e contraddittorie che correvano, essersi il giovine arrolato per il Levante, esser passato in Germania, perito nel guadare un fiume: che non si mancherebbe di stare alle velette, se mai si potesse saper qualcosa di più positivo, per farne subito parte. a sua signoria illustrissima e reverendissima. Più tardi, quelle ed altre voci si sparsero anche nel territorio di Lecco, e vennero per conseguenza agli orecchi d’Agnese. La povera donna faceva di tutto per venire in chiaro qual fosse la vera, per arrivare alla fonte di questa e di quella, ma non riusciva mai a trovar di più di quel dicono, che, anche al giorno d’oggi, basta da sé ad attestar tante cose. Talora, appena glien’era stata raccontata una, veniva uno e le diceva che non era vero nulla; ma per dargliene in cambio un’altra, ugualmente strana o sinistra. Tutte ciarle: ecco
il fatto.
Il governatore di Milano e capitano generale in Italia, don Gonzalo Fer-
352-353. Se avessi... lo farei: dopo tutto ciò che «l’empia virtù d’amor» dettava a Lucia, questa affermazione di offerta a Dio eleva l’umile fanciulla alle sfere più alte della santità e dell’eroismo; ma niente toglie alla sua umanità dolorante: «è tanto misericordiosa... ». 359. come se il mantenere...: già altre volte abbiamo trovato simili riflessioni sull’illusione dell’uomo di poter determinare o prevedere il futuro. Ricordiamo quella suggerita dall’addio di padre Cristoforo: « Il cuor mi dice che ci rivedremo presto. E certo, il cuore, — commentava lo scrittore — chi gli dà retta, ha sempre qualche cosa da dire su
quello che sarà. Ma che sa il cuore? Appena un poco di quello che è già accaduto » (Capitolo VIII). 369-377. dell’indicato soggetto... reverendissima: un po’ di scherzo, a spese dello stile dei burocrati compilatori della lettera, serve a tener su la narrazione. A questo giova anche l’accenno alle fantastiche « voci » che correvano su Renzo. 381-382. quel dicono... tante cose: l’ossetvazione sembra buttata lì di passaggio. Avremo occasione altra volta di vedere a che cosa si può arrivare di diceria in diceria. Per ora ce n'è già abbastanza per sentir pena della
povera Agnese.
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{ promessi sposi
nandez di Cordova, aveva fatto un gran fracasso col signor residente di Ve. nezia in Milano, perché un malandrino, un ladrone pubblico, un promotore di saccheggio e d’omicidio, il famoso Lorenzo Tramaglino, che, nelle mani stesse della giustizia, aveva eccitato sommossa per farsi liberare, fosse accolto e ricettato nel territorio bergamasco. Il residente avea risposto che la cosa gli
riusciva nuova, e che scriverebbe a Venezia, per poter dare a sua eccellenza
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quella spiegazione che il caso ‘avesse portato. li A Venezia avevan per massima di secondare e di coltivare l'inclinazione degli operai di seta milanesi a trasportarsi nel territorio bergamasco, e quindi
di far che ci trovassero molti vantaggi e, soprattutto quello senza di cui ogni altro è nulla, la sicurezza. Siccome però, tra due grossi litiganti, qualche cosa, per poco che sia, bisogna sempre che il terzo goda; così Bortolo fu avvisato in confidenza, non si sa da chi, che Renzo non istava bene in quel paese, e che farebbe meglio a entrare in qualche altra fabbrica, cambiando anche nome per qualche tempo. Bortolo intese per aria, non domandò altro, corse a dir la cosa al cugino, lo prese con sé in un calessino, lo condusse a un altro filatoio, discosto da quello forse quindici miglia, e lo presentò, sotto il nome
d’Antonio Rivolta, al padrone, ch’era nativo anche lui dello stato di Milano, e suo antico conoscente. Questo, quantunque l’annata fosse scarsa, non si fece pregare a ricevere un operaio che gli era raccomandato come onesto e abile, da un galantuomo che se n’intendeva. Alla prova poi, non ebbe che a lodarsi dell’acquisto; meno che, sul principio, gli era parso che il giovine dovesse essere un po’ stordito, perché, quando si chiamava: Antonio! le più 410: volte non rispondeva. Poco dopo, venne un ordine da Venezia, in istile pacato, al capitano di Bergamo, che prendesse e desse informazione, se nella sua giurisdizione, e segnatamente nel tal paese, si trovasse il tal soggetto. Il capitano, fatte le sue diligenze, come aveva capito che si volevano, trasmise la risposta negativa, 415 la quale fu trasmessa al residente in Milano, che la trasmette sse al gran cancelliere che potrebbe trasmetterla a don Gonzalo Fernandez di Cordova. Non mancavan poi curiosi, che volessero saper da Bortolo il perché quel giovine non c’era più, e dove fosse andato. Alla prima domanda Bortolo rispondeva: « ma! è scomparso ». Per mandar poi in pace i più insistenti, senza 420 dar loro sospetto di quel che n’era davvero, aveva creduto bene di regalar loro, a chi l’una, a chi l’altra delle notizie da noi riferite di sopra: però, 405
387. aveva fatto un gran fracasso...: molte rimostranze le fece davvero perché i sudditi di Spagna erano stati accolti e ricettati nel territorio della repubblica di Venezia; ma il « gran fracasso » per « il famoso Lorenzo Tramaglino » è, non occorrerebbe dirlo, tutta invenzione del M. — signor residente: residente, rappresentante. Il signor, come in tante altre occasioni, è tutto faceto. 399. non si sa da chi: il M. è in vena di scherzare: vuol fare lo storico serio e quindi... non inventa ciò che non sa! 401. intese per aria: capì a volo. 409-410. un po’ stordito... non rispondeva: si comprende bene la ragione. Ma perché Bortolo dà al cugino quel cognome « Ri-
volta »? Voleva ironicamente alludere alle rivolte di cui Renzo era giudicato il promotore? Si è cercata più di una spiegazione; ma ci si ritrova sempre nelle braccia di quel sorriso manzoniano, pronto a spuntar fuori da dove meno si aspetta. 411. in istile pacato: lo stile è l’uomo; qui è l'ordine. Un ordine dato per ragioni puramente diplomatiche, ma che, in sostanza, manifesta l’interesse che la risposta sia negativa. Il capitano, diligente com'è, trasmette quella risposta: la quale poi, di #r4smissione in trasmissione, arriverà a don Gonzalo, quando costui, tutto preso dalle faccende della guerra, avrà per la testa ben altro che la cura dei « fatti di Renzo ».
capitolo XXVI
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come cose incerte, che aveva sentite dire anche lui, senza averne un riscon425
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tro positivo. Ma quando la domanda gli venne fatta per commission del cardinale, senza nominarlo, e con un certo apparato d’importanza e di mistero, lasciando capire ch’era in nome d’un gran personaggio, tanto più Bortolo s’insospettì, e credé necessario di risponder secondo il solito; anzi, trattandosi d’un gran personaggio, diede in una volta tutte le notizie che aveva stampate a una a una, in quelle diverse occorrenze. Non si creda però che don Gonzalo, un signore di; quella sorte, l’avesse proprio davvero col povero filatore di montagna; che informato forse del poco rispetto usato, e delle cattive parole dette da colui al suo re moro incatenato per la gola, volesse fargliela pagare; o che lo credesse un soggetto tanto pericoloso, da perseguitarlo anche fuggitivo, da non lasciarlo vivere anche lontano, come il senato romano con Annibale. Don Gonzalo aveva
troppe e troppo gran cose in testa, per darsi tanto pensiero de’ fatti di Renzo; e se parve che se ne desse, nacque da un concorso singolare di circostanze, per cui il poveraccio, senza volerlo, e senza saperlo né allora né mai, si trovò, con un sottilissimo e invisibile filo, attaccato a quelle troppe e troppo gran cose, 428. in una volta tutte le notizie...: bravo Bortolo! Ma non avendogli detto .nessuno che dietro quel « gran personaggio » c'era l'arcivescovo di Milano, poteva ben pensare a qualche tranello della polizia. 432-433. re moro incatenato per la gola: nell’insegna « di don Gonzalo Fernandez de Cordova spiccava un re moro incatenato per
la gola » (Cap. XIV). È l’armze riconosciuta da Renzo nella grida della luna piena. 435. il senato romano con Annibale: il nostro Renzo, divenuto un pericolo pubblico da paragonarsi ad Annibale! L’ironia è evidente e divertita, e ricorda il don Rodrigo
Scheda
paragonato a Catilina (Cap. XXV, n. 47). Ma alcuni non hanno capito che tutto il discorso vuol mettere nel grottesco il compottamento dei governi autoritari nell’ordire i loro intrighi. Il Tommaseo è fra costoro, quando definisce il paragone « goffo e mal detto ». i 438-440. il poveraccio... gran cose: così lo scrittore, con un tono tutto scherzoso e fingendo un’estrema naturalezza, ci ha portati alla soglia del racconto di queste « troppe e troppo grandi cose » alle quali troveremo legato il caso del nostro Renzo « con un sottilissimo e invisibile filo »!
critica al cap. XXVI Il colloquio del Cardinale con don Abbondio costituisce una specie di pendant a quello dello stesso Cardinale con l’Innominato; ma, nel mutare dell'interlocutore, muta anche il tono e il linguaggio. Là il dialogo avveniva fra due persone diversissime per qualità e ambito di esperienze, ma pari di statura morale, entrambi « fuori della schiera comune », entrambi per indole e
vocazione « capi », e subito si creava la possibilità di un discorso,
di un incontro su temi fondamentali comuni. Qui il dialogo è tra vescovo e parroco, fra un'anima superiore e un'anima volgare; donde una condizione di reciproca incomprensione; e il tono pa-
î promessi spost
460 renetico e predicatorio di che l'autore stesso sente sarsene:
« sentiamo
Federigo, caso mai, si accentua, tanto il bisogno ad un certo punto di scu-
una certa ripugnanza a proseguire:
troviamo
un non so che di strano in questo mettere in campo, con così poca fatica, tanti bei precetti di fortezza e di carità, di premura operosa per gli altri, di sacrificio illuminato di sé. Ma pensando che quelle cose erano dette da uno che poi le faceva, tiriamo avanti con coraggio ». D'altronde anche qui la presenza del Cardinale è piuttosto funzionale, in rapporto alla vicenda narrativa e alla struttura del romanzo, che non propriamente poetica: l'attenzione dello scrittore si concentra tutta sulla figura di don Abbondio, della cui storia queste pagine rappresentano il momento culminante e la crisi. L'analisi in proposito più illuminante resta sempre quella proposta cinquant'anni or sono dal Momigliano e che qui sentiamo il dovere di riprodurre: « L'anima di don Abbondio non ha storia, come non ne hanno tutti coloro nei quali dorme il sentimento... Alla fine del romanzo l'esistenza di don Abbondio non ha fatto un passo: non ha mai varcato i cancelli
dell'egoismo... Quest'incapacità d'oltrepassare i limiti dell'io ha la sua più evidente espressione nel colloquio con Federigo, il punto vitale di tutta la creazione. Il colloquio col Cardinale è la sua grande prova, la sua crisi d'animo, il suo esame di coscienza, che lui, avvezzo ad esaminarne tante, non aveva mai fatto. II motivo poetico del dialogo è la lotta fra gli avvolgimenti impacciati dello spirito di don Abbondio e l’impavida semplicità del Cardinale. Don Abbondio non capisce quasi mai Federigo: per quanto abbia anche lui una certa coscienza di quel che è bene e male, la voce di quel santo è per lui così nuova, che lo sbalordisce... La difesa di don Abbondio in tutto questo contrasto si può riassumere nelle parole: ‘Quando la vita non si deve contare...'; e la vittoria più grande consentita all'eloquenza appassionata e sapiente del Cardinale, è quella di render cosciente almeno per qualche istante l'egoismo di don Abbondio... Il colloquio svela interamente la fonte della meschinità spirituale e mentale del pavido curato: il suo egoismo diventato inconsapevole per l'abitudine di lunghi anni. ‘La parola indagatrice del Cardinale fa intravvedere per un attimo al misero curato l’umiliante verità della sua vita. Noi stessi non l'avevamo ancora capita del tutto... Prima la sua figura ci aveva
quasi soltanto divertito:
non
avevamo guardato in lui il fondo serio, che pure c'è in ogni uomo. Ora lo vediamo bene, anche attraverso il velo luminoso della comicità, che quasi sempre ci ha nascosto il suo vero essere. Don Abbondio è un pover'uomo, non solo per l'assenza del sentimento, ma anche per la povertà della mente: difetti nati dall'incallita abitudine di secondare gli istinti pusilli ed isolare dallo stagno immobile della propria quiete i marosi della vita. Perciò, arrivato a questo punto, la convinzione di don Abbondio ‘Il coraggio, uno non se lo può dare’ è perfettamente sincera: gli si è stratificata nell'anima giorno per giorno, nella consuetudine quotidiana della neutralità e della vigliaccheria, togliendogli quasi la forza di osare, cancellandogli quasi dal cuore la coscienza innata in tutti dell'imprescindibile dovere di trovare il coraggio per fare il bene. ‘ Avrò torto io... ': riconosce che ci possono essere uomini superiori a lui, ma confessa che non può superare se stesso. La sua‘confessione è onesta: in questo momento don
capitolo XXVI
461 Abbondio è un'anima candida; il Cardinale è almeno riuscito a fargli sentire per la prima volta la sua piccineria. Ma nello spirito di don Abbondio non s'è risvegliata ancora la voce morale della vita, che egli ha spenta nell'aria grigia dell’egoismo: solo il cuore imperterrito del Cardinale può farglielo riecheggiare all'orecchio, suscitandogli dinanzi la visione eroica della vita — quella che don Abbondio aveva saputo soltanto mascherare grottescamente nei vaneggiamenti delle paure quando s'era immaginato costretto dall'ingiusto destino a vestir le spoglie del missionario e del martire —; 'L'amore è intrepido '. L'aforismo distillato dalla pratica di quarant'anni di vita è confutato: la rappresentazione artistica di don Abbondio è circoscritta da queste due affermazioni: la prima che trae il poeta alla contemplazione simpatica del suo personaggio e fa parer questo un bizzarro oggetto di spasso, la seconda che lacera questo tessuto scintillante e svela una seria concezione morale, una pensosa condanna dell’egoismo umano comunque travestito ». A queste parole del Momigliano non v'è proprio nulla da aggiungere, se non forse per sottolineare come
questa
concezione
morale
faccia
tutt'uno
con
la visione
rigorosamente polemica del cristianesimo del Manzoni e profondi le sue radici in tutto il complesso della sua ideologia e della sua cultura; per lui questo episodio rappresenta, nell'ideazione e nella struttura del romanzo, uno dei punti d'arrivo, forse il più importante.
Alcune parole di Federigo sulla sorte dei due promessi sposi (e dette per farne ricadere la responsabilità sulle spalle del pauroso curato) — « Uno fuggitivo da casa sua, l'altra in procinto di abbandonarla, tutt'e due con troppo forti motivi di starne lontani, senza probabilità. di riunirsi mai qui, e contenti di sperare che Dio li riunisca altrove » — introducono alla seconda parte, assai bella, di questo densissimo capitolo, tutta intonata all'elegia del distacco, della dispersione e lacerazione familiare, dei cari sentimenti delusi e distrutti forse per sempre, e culminante nella scena del nuovo « doloroso addio » fra Lucia e Agnese. Il senso, e il tono, di questa elegia si riassumono, per così dire, nelle parole religiosamente rassegnate di Lucia: « ora che la cosa è fatta, bisogna adattarsi di buon animo; e voi, povera mamma, voi mi potete aiutare, prima, pregando il Signore per la vostra povera figlia e poi... bisogna bene che quel poverino lo sappia ». In questo aggettivo. — povero —, « che Lucia ripete per tutti e tre i protagonisti del dramma, si traduce la sua compassione sul dolore evidentissimo della madre, sul dolore creduto e quasi sperato di Renzo, sul proprio inconfessato, appassionato dolore. E l'elegia culmina, con una sottintesa disperazione, in quelle parole: ‘fatemi saper che è sano; e poi... non mi fate più saper
nulla’» (Getto).
Capitolo XXVII
Già più d’una volta c’è occorso di far menzione della guerra che allora bolliva, per la successione agli stati del duca Vincenzo Gonzaga, secondo di quel nome; ma c’è occorso sempre in momenti di gran fretta: sicché non abbiam mai potuto darne più che un cenno alla sfuggita. Ora però, all’intelligenza del nostro racconto si richiede proprio d’averne qualche notizia più particolare. Son cose che chi conosce la storia le deve sapere; ma siccome, per un giusto sentimento di noi medesimi, dobbiam supporre che quest’opera non possa esser letta se non da ignoranti, così non sarà male che ne diciamo qui quanto basti per infarinarne chi n’avesse bisogno. 10
Abbiam detto che, alla morte di quel duca, il primo chiamato in linea di successione, Carlo Gonzaga, capo d’un ramo
15
cadetto trapiantato in Francia,
dove possedeva i ducati di Nevers e di Rhétel, era entrato al possesso di Mantova; e ora aggiungiamo, del Monferrato: che la fretta appunto ce l’aveva fatto lasciar. nella penna. La corte di Madrid, che voleva a ogni patto (abbiam detto anche questo) escludere da que’ due feudi il nuovo principe, e per escluderlo aveva bisogno d’una ragione (perché le guerre fatte senza una
ragione sarebbero
ingiuste),
s'era dichiarata
sostenitrice
di quella che
pretendevano avere, su Mantova un altro Gonzaga, Ferrante, principe di Gua1. Già più d’una volta... guerra: è la guerra per la successione del ducato di Mantova, della quale è stato già parlato durante la conversazione al pranzo di don Rodrigo (Capitolo V) e in alcuni cenni «alla sfuggita »
nei Capp. XII e XIII. 6-9. ma siccome... bisogno: giustificazione scherzosa della digressione storica che sta per incominciare. Nell’espressione usata dal M. alcuni vedono «un’ironia complessa e forcuta » verso sé stesso, i letterati e i lettori; altri soltanto «un modo dolce e leggero » per dare le informazioni ritenute utili. È più giusto vedervi l’una e l’altra cosa. Il tono ironico investirà tutto il successivo racconto, cioè la guerra nelle sue cause e nei suoi sviluppi.
10. Abbiam detto...: cfr. Cap. V, n. 317. 16-17. le guerre... sarebbero ingiuste: dal sarcasmo affiora l'ideale di cristiana fratellanza che il M. vorrebbe alla base dei rapporti fra individui e popoli, mentre nella
guerra vede soltanto l’esplosione delle passioni più folli e criminali. Ricordiamo il lamento di Adelchi: « Ancor ruine Sopra ruine ammucchierem: l’antica Nostr’arte è questa: ne’ palagi il foco Porremo e ne’ tuguri: uccisi i primi, I signori del suolo, e quanti a caso Nell’asce nostre ad inciampar verranno, fia servo il resto, e tra di noi diviso; e ai più sleali e più temuti, il meglio Toccherà della preda» (Adelchi, III, 6674). In teoria il M. giustifica solo una guerra di legittima difesa, ma in sostanza condanna tutte le guerre, perché, come scrisse in uno dei suoi Pensieri, «una guerra difensiva di chi ha ragione è buona, ma non può esistere se non alla condizione di una guerra ingiusta ». Con tutto ciò il M. plaudì alla lotta degli Italiani per il raggiungimento della libertà: ne è testimonianza l’ode Marzo 1821 {cfr. Cap. XII, n. 8). 18. Ferrante: fu principe di Guastalla dal 1575 al 1630.
capitolo XXVII 20
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stalla; sul Monferrato Carlo Emanuele I, duca di Savoia, e Margherita Gonzaga, duchessa vedova di Lorena. Don Gonzalo, ch’era della casa del gran capitano, e ne portava il nome, e che aveva già fatto la guerra in Fiandra,
voglioso oltremodo di condurne una in Italia, era forse quello che faceva 25
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più fuoco, perché questa si dichiarasse; e intanto, interpretando l’intenzioni e precorrendo gli ordini della corte suddetta, aveva concluso col duca di Savoia un trattato d’invasione e di divisione del Monferrato; e n’aveva poi ottenuta facilmente la ratificazione dal conte duca, facendogli creder molto agevole l’acquisto di Casale, ch’era il punto più difeso della parte pattuita al re di Spagna. Protestava però, in nome di questo, di non volere occupar paese, se non a titolo di deposito, fino alla sentenza dell’imperatore; il quale, in parte per gli ufizi altrui, in parte per suoi propri motivi, aveva intanto negata l’investitura al nuovo duca, e intimatogli che rilasciasse a lui in sequestro gli stati controversi: lui poi, sentite le parti, li rimetterebbe a chi fosse di dovere. Cosa alla quale il Nevers non s’era voluto piegare. Aveva anche lui amici d’importanza: il cardinale di Richelieu, i signori veneziani, e il papa, ch’era, come abbiam detto, Urbano VIII. Ma il primo,
impegnato allora nell'assedio della Roccella e in una guerra con l’Inghilterra, attraversato dal partito della regina madre, Maria de’ Medici, contraria, per certi suoi motivi, alla casa di Nevers; non poteva dare che delle speranze. I veneziani non volevan moversi, e nemmeno 19. Carlo Emanuele I: figlio di Emanuele Filiberto; nato nel 1562, regnò per cinquant'anni e morì nel 1630. 19-20. Margherita Gonzaga: figlia di Carlo Emanuele I. 20. Don Gonzalo: il rostro don Gonzalo Fernandez de Cordoba (594-1635), figlio di Antonio de Cordoba e di Giovanna de Aragon. Generale spagnolo, governatore dello Stato di Milano dal 1627. Recenti studi hanno dimostrato che fu un uomo capace e colto, integro e pio. Fu contrario alla guerra del Monferrato e, in particolare, all’assedio di Casale. Il ritratto del tutto negativo, che di lui compare attraverso i Promessi Sposi, deriva sia dal fatto che lo scrittore trasse le notizie da fonti antispagnole, sia dal sentimento di condanna della domina‘zione spagnola, e del Seicento in generale, diffuso per tutto il romanzo, sia, infine, dall’innata opposizione del M. ai maneggi politici e diplomatici, specie quando portano alla guerra. 20-21. del gran capitano: Gonzalo Fernandez de Cordoba, detto il « Gran Capitano », e anche il « Gran Consalvo» (1452-1515). Combatté contro i Mori, a cui nel 1492 tolse Granada. Venuto in Italia, combatté contro i Francesi e dopo alterne vicende conquistò alla Spagna il regno di Napoli (1503). — Un episodio di questa guerra fu la sfida avvenuta a Barletta fra francesi e italiani, resa celebre dal romanzo di Massimo D'Azeglio, La disfida di Barletta.
dichiararsi, se prima un eser-
21. la guerra in Fiandra: la lunga guerra combattuta nella seconda metà del secolo XVI e ripresa nella prima metà del successivo. Fu lotta di religione, originata dalla rivolta delle province protestanti dei Paesi Bassi. Gonzalo vi partecipò dal 1620 al 1626, distinguendosi nella battaglia di Fleurus (1622), celebrata poi da un dramma di Lope de Vega. 26. conte duca: l’Olivares, primo ministro di Spagna. Vedi Cap. V, n. 317. 34. cardinale di Richelieu: Armando Giovanni Duplessis, primo ministro di Francia dal 1624 al 1642. Vedi Cap. V, n. 317.
35. Urbano VIII: il famoso Barberini, papa dal 1623 al 1644, già ricordato nei capitoli V e XIX. 36. assedio della Roccella: La Rochelle, alle foci della Charente, fu la città protestante roccaforte degli Ugonotti. Messasi dalla parte degli Inglesi nella guerra scoppiata nel 1627 tra Francia e Inghilterra, fu espugnata dopo un lungo assedio nel 1628 dalle truppe del Richelieu. 37. attraversato: ostacolato. — Maria de’ Medici: Maria de’ Medici (1573-1642) figlia di Francesco, granduca di Toscana, aveva sposato Enrico IV di Francia. Morto il marito, fu reggente per il figlio minorenne Luigi XIII. Dopo essere stata favorevole al Richelieu, per gelosia di potenza, ne divenne acerrima avversaria. Questi sono i «certi suoi motivi» per cui era contraria al duca di Nevers.
i promessi sposi
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cito francese non fosse calato in Italia; e, aiutando il duca sotto mano, come potevano, con la corte di Madrid e col governatore di Milano stavano sulle proteste, sulle proposte, sull’esortazioni, placide o minacciose, secondo i momenti. Il papa raccomandava il Nevers agli amici, intercedeva in suo favore presso gli avversari, faceva progetti d’accomodamento; di metter gente in I campo non ne voleva saper nulla. cominciar te, sicuramen più tanto Così i due alleati alle offese poterono, l'impresa concertata. Il duca di Savoia era entrato, dalla sua parte, nel Monferrato; don Gonzalo aveva messo, con gran voglia, l’assedio a Casale; ma non ci trovava tutta quella soddisfazione che s'era immaginato: che non credeste che nella guerra sia tutto rose. La corte non l’aiutava a.seconda de’ suoi desidèri, anzi gli lasciava mancare i mezzi più necessari; l’alleato l’aiutava troppo: voglio dire che, dopo aver presa la sua porzione, andava spilluzzicando quella assegnata al re di Spagna. Don Gonzalo se ne rodeva quanto mai si possa dire; ma temendo, se faceva appena un po’ di rumore, che quel Carlo Emanuele, così attivo ne’ maneggi e mobile ne’ trattati, come prode nell’armi, si voltasse alla Francia, doveva chiudere un occhio, mandarla giù, e stare zitto. L’assedio poi andava male, in lungo, ogni tanto all’indietro, e per il contegno saldo, vigilante, risoluto degli assediati, e per aver lui poca gente, e, al dire di qualche storico, per i molti spropositi che faceva. Su questo noi lasciamo la verità a suo luogo, disposti anche, quando la cosa fosse realmente così, a trovarla bellissima, se fu cagione che in quell’impresa sia restato morto, smozzicato, storpiato qualche uomo di meno, e, ceteris paribus, anche soltanto un po’ meno danneggiati i tegoli di Casale. In questi frangenti ricevette la nuova della sedizione di Milano, e ci accorse in persona. Qui, nel ragguaglio che gli si diede, fu fatta anche menzione della fuga ribelle e clamorosa di Renzo, de’ fatti veri e supposti ch’erano stati cagione del suo arresto; e gli si seppe anche dire che questo tale s’era rifugiato sul territorio di Bergamo. Questa circostanza fermò l’attenzione di don Gonzalo. 45. saper nulla: dunque, mentre in sostegno di Ferrante Gonzaga la Spagna e il duca di Savoia pensano ad entrare subito in azione, in sostegno di Carlo Gonzaga la Francia e Venezia non offrono che aiuti a parole. Fra i due schieramenti, il papa e l’imperatore ostentano una certa neutralità; ma il primo è favorevole alla Francia, il secondo alla Spagna. Nel mezzo, l’Italia imbelle, pomo di contesa e campo di battaglia di eserciti stranieri. 50. nella guerra sia tutto rose: l’ironia si riferisce in generale alla guerra, in particolare a quel don Gonzalo che prima aveva fatto « più fuoco » perché venisse dichiarata. Tutta la pagina tende a mettere in ridicolo il comportamento di questo condottiero con un crescendo sempre più corrosivo. 55. attivo... mobile...: non solo Carlo Emanuele, ma di solito anche gli altri duchi di Savoia furono abili nel sapersi destreggiare fra le grandi potenze con cui confi-
nava il loro piccolo stato:
Fra»cia e, Spa-
gna prima, Francia e Austria poi.
56. mandarla giù, e stare zitto: altra botta ironica
e realistica. 59. qualche storico: probabilmente il genovese Pietro Giovanni Capriata, che scrisse, con sentimenti fortemente antispagnoleschi, una storia d’Italia dal 1613 al 1644. 59-63. Su questo... i tegoli di Casale: per il M. gli spropositi di don Gonzalo furono anche una cosa bellissima se procurarono meno danni agli uomini e, a parità di condizioni in tutto il resto — ceteris paribus —, ai tegoli di Casale. I quali, dunque, in fin dei conti, premono allo scrittore più della gloria militare dello sfortunato condottiero. L’ironia su don Gonzalo cresce quanto più si allarga la polemica contro i bellicisti per professione o per ambizione. 68. Questa circostanza... don Gonzalo: ecco così spiegato, nel modo più piano e sarcastico, come la vicenda dell’uomo « di piccol affare» si è intrecciata e confusa coi « Labirinti de' Politici maneggi, et il rimbombo de’ bellici Oricalchi» (Introduzione).
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Era informato da tutt'altra parte, che a Venezia avevano alzata la cresta, per
la sommossa di Milano; che da principio avevan creduto che sarebbe costretto a levar l’assedio da Casale, e pensavan tuttavia che ne fosse ancora sbalordito, e in gran pensiero: tanto più che, subito dopo quell’avvenimento, era arrivata la notizia, sospirata da que’ signori e temuta da lui, della resa
della Roccella. E scottandogli molto, e come uomo e come politico, che que’ signori avessero un tal concetto de’ fatti suoi, spiava ogni occasione di. persuaderli, per via d’induzione, che non aveva perso nulla dell’antica sicurezza; giacché il dire espressamente: non ho paura, è come non dir nulla. Un buon mezzo è di fare il disgustato, di querelarsi, di reclamare: e perciò essendo venuto il residente di Venezia a fargli un complimento, e ad ‘esplorare insieme, nella sua faccia e nel suo contegno, come stesse dentro di sé (notate tutto; ché questa è politica di quella vecchia fine), don Gonzalo, dopo aver parlato del tumulto, leggermente e da uomo che ha già messo riparo a tutto; fece quel fracasso che sapete a proposito di Renzo; come sapete anche quel che ne venne in conseguenza. Dopo, non s’occupò più d’un affare così minuto . e, in quanto a lui, terminato; e quando poi, che fu un pezzo dopo, gli atrivò la risposta, al campo sopra Casale, dov'era tornato, e dove aveva tutt’altri pensieri, alzò e dimenò la testa, come un baco da seta che cerchi la foglia; stette lì un momento, per farsi tornar vivo nella memoria quel fatto, di cui non ci rimaneva più che un’ombra; si rammentò della cosa, ebbe un’idea »fugace e confusa del personaggio; passò ad altro, e non ci pensò più. Ma Renzo, il quale, da quel poco che gli s’era fatto veder per aria, doveva supporre tutt’altro che una così benigna noncuranza, stette un pezzo senz'altro pensiero o, per dir meglio, senz’altro studio, che di viver nascosto. Pensate se si struggeva di mandar le sue nuove alle donne, e d’aver le loro; ma c’eran due gran difficoltà. Una, che avrebbe dovuto anche lui confidarsi a un segretario, perché il poverino non sapeva scriver, e neppur leggere, nel senso esteso della parola; e se, interrogato di ciò, come forse vi ricorderete, dal dottor Azzecca-garbugli, aveva risposto di sì, non fu un vanto, una sparata, come si dice; ma era la verità che lo stampato lo sapeva leggere, mettendoci il suo tempo: lo scritto è un altro par di maniche. Era dunque costretto a mettere un terzo a parte de’ suoi interessi, d’un segreto così geloso: e un uomo che sapesse tener la penna in mano, e di cui uno si potesse fidare, a que’ tempi non si trovava così facilmente; tanto più in un paese dove non s’avesse nessuna antica conoscenza. L’altra difficoltà era d’avere anche un corriere; un uomo
che andasse appunto da quelle parti, che volesse
incaricarsi della lettera, e darsi davvero il pensiero di recapitarla; tutte cose, anche queste, difficili a trovarsi in un uomo solo.
73. sospirata da que’ signori: i Veneziani, che stavano dalla parte della Francia del Richelieu. 79-83. venuto il residente... Renzo: la visita realmente avvenne, e ne esiste la relazione inviata dallo stesso residente veneto, il Marioni, a Venezia (F. Niccolini, Arte e storia nei Promessi Sposi, Milano, 1958). Naturalmente del « gran fracasso » su Renzo in quella relazione non c'è segno alcuno. 87. come un baco da seta: l’immagine vale di per sé, per la capacità con cui rende
la mossa del baco (il M. coltivava proprio i bachi da seta), ma anche per il tono canzonatorio di quell’alzare e dimenare la testa in cerca di un ricordo, come un baco in cerca di una foglia. Poi continuerà l’ironia: « passò ad altro, e non ci pensò più ». Così quel gran fracasso, fatto soltanto per. picca di prestigio, finisce, com’era naturale, nel nulla: come. il divincolio di un baco, che cerca e non raggiunge la foglia. 91. veder per aria: intravedere per cenni. 93. studio: preoccupazione,
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Finalmente, cerca e ricerca, trovò chi scrivesse per lui. Ma, non sapendo se le donne fossero ancora a Monza, o dove, credé bene di fare accluder la lettera per Agnese in un’altra diretta al padre Cristoforo. Lo scrivano prese anche l’incarico di far recapitare il plico; lo consegnò a uno che doveva ‘passare non lontano da Pescarenico; costui lo lasciò, con molte raccomandazioni, in
un’osteria sulla strada, al punto più vicino; trattandosi che il plico era indirizzato a un convento, ci arrivò; ma cosa n’avvenisse dopo, non s'è mai sa115
puto. Renzo, non vedendo comparir risposta, fece stendere un’altra lettera, a un di presso come la prima, e accluderla in un’altra a un suo amico di Lecco,
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o parente che fosse. Si cercò un altro latore, si trovò; questa volta la lettera arrivò a chi era diretta. Agnese trottò a Maggianico, se la fece leggere e spiegare da quell’Alessio suo cugino: concertò con lui una risposta, che questo mise in carta; si trovò il mezzo di mandarla ad Antonio Rivolta nel luogo del suo domicilio: tutto questo però non così presto come noi lo raccontiamo. Renzo ebbe la risposta, e fece riscrivere. In somma, s’avviò tra le due parti un carteggio, né rapido né regolare, ma pure, a balzi e ad intervalli, continuato.
Ma per avere un’idea di quel carteggio, bisogna sapere un poco come andassero allora tali cose, anzi come vadano; perché, in questo particolare, credo che ci sia poco o nulla di cambiato. . Il contadino che non sa scrivere, e che avrebbe bisogno di scrivere, si rivolge a uno che conosca quell’arte, scegliendolo, per quanto può, tra quelli della sua condizione, perché degli altri si perita, o si fida poco; l’informa, con più o meno ordine e chiarezza, degli antecedenti: e gli espone, nella stessa maniera, la cosa da mettere in carta. Il letterato, parte intende, parte frantende, dà qualche consiglio, propone qualche cambiamento, dice: lasciate fare a me; piglia la penna, mette come può in forma letteraria i pensieri dell’altro, li corregge, li migliora, carica la mano, oppure smorza, lascia anche fuori, secondo gli pare che torni meglio alla cosa: perché, non c’è rimedio, chi ne sa più degli altri non vuol essere strumento materiale nelle loro mani; e quando entra negli affari altrui, vuol anche fargli andare un po’ a modo suo. Con tutto ciò, al letterato suddetto non gli riesce sempre di dire tutto quel 110-115. Lo scrivano... saputo: incomincia la vicenda del carteggio di Renzo, una delle più briose di queste pagine. Narrata in uno stile vivace e pittoresco, essa fa rivivere un mondo umile e lontano, col suo incanto di semplicità, di fiducia e di cortesia. Tanto che, possiamo congetturare, se non ci fosse stato il padre guardiano a bloccare quella lettera secondo gli ordini ricevuti, la lettera ‘arrivava anche a Rimini. 119. quell’Alessio: Alessio di Maggianico, che, aveva detto Lucia, «è un uomo prudente e caritatevole,... e non ciarlerà » (cfr. Cap. XXVI, n: 260). 128-156. Il contadino... scappellotto: « serena e riposata pagina di arguzia e di bonomia sorridente, come son tutte le pagine del romanzo in cui lo scrittore si trova a contatto con passioni e con affetti medii,
tali cioè che né impegnano il suo senso morale, né perturbano e commuovono il suo spirito. Ed allora [...] il M. si abbandona ad una narrazione arguta e sorridente, che ci rivela il pacato e sereno equilibrio del suo spirito in quegli anni felici» (Petro nio). Osserviamo, in particolare, come tutta la pagina è ironica, ma di un’ironia che sale a poco a poco verso coloro che ne sanno « più degli altri» e arriva ai letterati di fama — «anche a noi altri, che scriviamo per la stampa» — per finire, ancor più maliziosamente, ai filosofi tutti ingolfati in disquisizioni e polemiche. In tal modo armoniosamente prepara la grande satira delle ultime pagine del capitolo, che colpiranno la tipica figura del letterato, e in modo speciale il letterato del Seicento, quello della cultura inutile e boriosa. Un capitolo, dunque, tutto lettere e letterati!
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che vorrebbe; qualche volta gli accade di dire tutt’altro: accade anche a noi
altri, che scriviamo per la stampa. Quando la lettera così composta arriva alle
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mani del corrispondente, che anche lui non abbia pratica dell’abbiccì, la porta a un altro dotto di quel calibro, il quale gliela legge e gliela spiega. Nascono delle questioni sul modo d’intendere; perché l'interessato, fondandosi sulla cognizione de’ fatti antecedenti, pretende che certe parole voglian dire una cosa; il lettore, stando alla pratica che ha della composizione, pretende che ne vogliano dire un’altra. Finalmente bisogna che chi non sa si metta nelle mani di chi sa, e dia a lui l’incarico della risposta: la quale, fatta sul gusto della proposta, va poi soggetta a un’interpretazione simile. Che se, per di più, il soggetto della corrispondenza è un po’ geloso; se c'entrano affari segreti, che non si vorrebbero lasciar capire a un terzo, caso mai che la lettera andasse persa; se, per questo riguardo, c’è stata anche l’intenzione positiva di
non dir le cose affatto chiare; allora, per poco che la corrispondenza duri, le parti finiscono a intendersi tra di loro come altre volte due scolastici che da 155
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quattr’ore disputassero sull’entelechia: per non prendere una similitudine da ‘cose vive; che ci avesse poi a toccare qualche scappellotto. Ora, il caso de” nostri due corrispondenti era appunto quello che abbiam detto. La prima lettera scritta in nome di Renzo conteneva molte materie. Da principio, oltre un racconto della fuga, molto più conciso, ma anche più arruffato di quello che avete letto, un ragguaglio delle sue circostanze attuali; dal quale, tanto Agnese quanto il suo turcimanno furono ben lontani di ricavare un costrutto chiaro e intero:
avviso segreto, cambiamento di nome, es-
ser sicuro, ma dovere star nascosto; cose per sé non troppo famigliari a’ loro intelletti, e nella lettera dette anche un po’ in cifra. C’era poi delle domande 165
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affannose, appassionate, su’ casi di Lucia, con de’ cenni oscuri e dolenti, in-
torno alle voci che n’erano arrivate fino a Renzo. C'erano finalmente speranze incerte, e lontane, disegni lanciati nell’avvenire, e intanto promesse e preghiere di mantener la fede data, di non perder la pazienza né il coraggio, d’aspettar migliori circostanze. Dopo un po’ di tempo, Agnese trovò un mezzo fidato di far pervenire nelle mani di Renzo una risposta, co’ cinquanta scudi assegnatigli da Lucia. Al veder tant’oro, Renzo non sapeva cosa si pensare; e con l’animo agitato da una maraviglia e da una sospensione che non davan luogo a contentezza, corse in cerca del segretario, per farsi interpretar la lettera, e aver la chiave d’un così strano mistero. Nella lettera, il segretario d’Agnese, dopo qualche lamento sulla poca chiarezza della proposta, passava a descrivere, con chiarezza a un di presso 154-155. due scolastici... sull’entelechia: scolastici, seguaci della filosofia di Aristotele; entelechia, termine filosofico che signica l’essere in atto. Per dimostrare che il M. ha scelto bene l'esempio di una disputa senza fine {avrebbe potuto servirsi anche di quella, a lui più vicina, fra i classici e i romantici!) si potrebbero ricordare i vari modi con cui anche oggi si spiega il termine « entelechia ». Ma sarebbe troppo lungo; ammiriamo, invece, il brio della pagina: incomincia coi contadini e finisce coi filo-
sofi: gli uni e gli altri alle prese coi problemi della cultura. 161. turcimanno: o dragomzanno, significa interprete. Deriva dall'arabo targuman; e quindi di nome e di fatto è... arabo, come quella lettera per la povera Agnese. Il M., quando è in vena di scherzare, non perde un’occasione. 172. AI veder tant’oro...: nessuna contentezza per Renzo, come invece dapprima per Agnese. Lui non s’inebria, perché intuisce subito che c'è sotto qualcosa che non va.
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uguale, la tremenda storia di quella persona (così diceva); e qui rendeva ragione de’ cinquanta scudi; poi veniva a parlar del voto, ma per via di perifrasi, aggiungendo, con parole più dirette e aperte, il consiglio di mettere il cuore in pace, e di non pensarci più. Renzo, poco mancò che non se la prendesse col lettore interprete: tremava, inorridiva, s’infuriava, di quel che aveva capito, e di quel che non aveva potuto capire. Tre o quattro volte si fece rileggere il terribile scritto, ora parendogli d’intender meglio, ora divenendogli buio ciò che prima gli era parso chiaro. E in quella febbre di passioni, volle che il segretario mettesse subito mano alla penna, e rispondesse. Dopo l’espressioni più forti che si possano immaginare di pietà e di terrore per i casi di Lucia, « scrivete, » proseguiva dettando, « che io il cuore in pace non lo voglio mettere, e non lo metterò mai; e che non son pareri da darsi a un figliuolo par mio; e che i danari non li toccherò; che li ripongo, e li tengo in deposito, per la dote della giovine; che già la giovine dev’esser mia; che io non so di promessa; e che ho ben sempre sentito dire che la Madonna c’entra per aiutare i tribolati, e per ottener delle grazie, ma per far dispetto e per mancar di parola, non l’ho sentito mai; e che codesto non può stare; e che, con questi danari, abbiamo a metter su casa qui; e che, se ora sono un po’ imbrogliato, l’è una burrasca che passerà presto »; e cose simili. Agnese ricevé poi quella lettera, e fece riscrivere; e il carteggio continuò, nella maniera che abbiam detto. Lucia, quando la madre ebbe potuto, non so per qual mezzo, farle sapere che quel tale era vivo e in salvo e ‘avvertito, sentì un gran sollievo, e non desiderava più altro, se non che si dimenticasse di lei; 0, per dir la cosa proprio a un puntino, che pensasse a dimenticarla. Dal canto suo, faceva cento volte al giorno una risoluzione simile riguardo a lui; e adoprava anche ogni
mezzo, per mandarla ad effetto. Stava assidua al lavoro, cercava d’occuparsi tutta in quello: quando l’immagine di Renzo le si presentava, e lei a dire o a cantare orazioni a mente. Ma quell’immagine, proprio come se avesse avuto
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malizia, non veniva per lo più, così alla scoperta; s’introduceva di soppiatto dietro all’altre, in modo che la mente non s’accorgesse d’averla ricevuta, se non dopo qualche tempo che la c’era. Il pensiero di Lucia stava spesso con la madre: come non ci sarebbe stato? e il Renzo ideale veniva pian piano a 178. di quella persona: Lucia. Non pare giustificata l’interpretazione del Petrocchi, secondo il quale si tratterebbe dell’Innominato. 182. Renzo...: qui la storia del carteggio, finora brillante ma pacata, si agita improvvisamente in virtù di Renzo che va su tutte le furie. La sua reazione è tipica del carattere impulsivo del giovane, quale si è visto fino dalla prima apparizione nel romanzo; ma ora è rivestita di una nota umoristica nuova, che dura per tutta la scena, attenua il dramma interiore del personaggio e svela il sorriso paterno dell’autore. 193-194. la Madonna... per mancar di parola: questa Madonna, che non può essere dalla parte degli innamorati ‘che mancano di parola, fa un po’ sorridere; ‘ma è
tipica, anch'essa, della fede semplice e pur viva di Renzo. Tutto il discorso è rivelatore di un amore altrettanto profondo di quello di Lucia, anche se nella forma ben lontano dalla sua tormentata sensibilità. 202-203. dimenticasse... pensasse a dimenticarla: c’è conoscenza profonda del travaglio di un cuore innamorato, reso con una sfumatura di affettuoso umorismo; Bellis simo poi l’intero capoverso, pittura precisa e delicata dei sentimenti di Lucia, che il M.
osserva e ritrae in una realistica successione
di stati d’animo. I quali sono tutti non soltanto adeguati al personaggio, ma insieme affatto convergenti nel rendere la intensità dell'amore della fanciulla per colui che le «si veniva a ficcare» in tutti i luoghi e in tutte le memotie.
capitolo XXVII
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mettersi in terzo, come il reale aveva fatto tante volte. Così con tutte le persone, in tutti i luoghi, in tutte le memorie del passato, colui si veniva a ficcare. E se la poverina si lasciava andar qualche volta a fantasticar sul suo avvenire, anche lì compariva colui, per dire, se non altro: io a buon conto non ci sarò. Però, se il non pensare a lui era impresa disperata, a pensarci meno,
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e meno
intensamente
che il cuore
avrebbe voluto, Lucia ci riusciva
fino a un certo segno: ci sarebbe anche riuscita meglio, se fosse stata sola a volerlo. Ma c’era donna Prassede, la quale, tutta impegnata dal canto suo a levarle dall’animo colui, non aveva trovato miglior espediente che di parlargliene spesso. « Ebbene? » le diceva: « non ci pensiam più a colui? » «Io non penso a nessuno, » rispondeva Lucia.
Donna Prassede non s’appagava d’una risposta simile; replicava che ci volevan fatti e non parole; si diffondeva a parlare sul costume delle giovani, le quali, diceva, « quando hanno nel cuore uno scapestrato (ed è lì che inclinano sempre), non se lo staccan più. Un partito onesto, ragionevole, d’un galantuomo, d’un uomo assestato, che, per qualche accidente, vada a monte, son subito “rassegnate; ma un rompicollo, è piaga incurabile. » E allora principiava il panegirico del povero assente, del birbante venuto a Milano, per rubare e 230 scannare; e voleva far confessar a Lucia le bricconate che colui doveva aver
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fatte sicuramente, anche al suo paese. Lucia, con la voce tremante di vergogna, di dolore, e di quello sdegno che poteva aver luogo nel suo animo dolce e nella sua umile fortuna, assicu235
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rava e attestava, che, al suo paese, quel poveretto non aveva mai fatto parlar di sé, altro che in bene; avrebbe voluto, diceva, che fosse presente qualcheduno di là, per fargli far testimonianza. Anche sull’avventure di Milano, delle quali non era ben informata, lo difendeva, appunto con la cognizione che aveva di lui e de’ suoi portamenti fino dalla fanciullezza. Lo difendeva o si proponeva di difenderlo, per puro dovere di carità, per amore del vero, e, a dir proprio la parola con la quale spiegava a sé stessa il suo sentimento, come prossimo. Ma da queste apologie donna Prassede ricavava nuovi argomenti per convincer Lucia, che il suo cuore era ancora perso dietro a colui. E per verità, in que’ momenti, non saprei ben dire come la cosa stesse. L’indegno ritratto che la vecchia faceva del poverino, risvegliava, per opposizio223. Donna Prassede non s’appagava...: col ritorno di donna Prassede l’ironia si fa più pungente, e rivela tutt’altro atteggiamento del M. che non nei riguardi di Renzo e Lucia. Questo perché ora la satira non vuol colpire soltanto un personaggio qualunque nato dalla fantasia del poeta, ma una categoria di persone un tempo piuttosto diffusa: i bacchettoni stolti e arroganti, che presumono di essere interpreti e ministri di Dio, mentre mancano dei requisiti essenziali dell'amore cristiano. Bene un commentatore ha definito donna Prassede: « rigida senza pietà, esigente senza carità ». 226-228. Un partito onesto... un rompicollo... donna Prassede non dice una sciocchezza in assoluto: tutt'altro, e l’esperienza quotidiana lo insegna. Quello che muove il riso è l’applicazione che essa fa, ad una
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ragazza della solidità morale e intellettuale di Lucia, di un modo di agire proprio di giovani leggere e superficiali. 229. panegirico: ironico, naturalmente; co-
me poi, in particolare, quell'immagine di Renzo che va a Milano per « rubare e scannare ».
233. nella sua umile fortuna: trovandosi a vivere dell'ospitalità di donna Prassede. 238-241. Lo difendeva... come prossimo: ma con quel calore che solo può esserci in una persona che ama. Anche l’ottusa Prassede se ne ‘accorge: e anche, sorridendo, l’autore: «non saprei ben dire come la cosa stesse ».
244. la vecchia...: la figura di donna Prassede è caricata, in queste ultime considerazioni, di tinte sempre più pesanti e, in un certo senso, ostili. La definizione di « vec-
i promessi sposi
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vi ne, più viva e più distinta che mai, nella mente della giovine l’idea che
s'era formata in una così lunga consuetudine; le rimembranze compresse a fotza, si svolgevano in folla; l’avversione evil disprezzo richiamavano
tanti
antichi motivi di stima; l’odio cieco e violento faceva sorget più forte la pie-
tà: e con questi affetti, chi sa quanto ci potesse essere o non essere di quel-
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l’altro che dietro ad essi s’introduce così facilmente negli animi; figuriamoci
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qualche odio inveterato contro di lei, forse quelle lacrime l'avrebbero tocca, e fatta smettere; ma parlando a fin di bene, tirava avanti, senza lasciarsi smo-
cosa farà in quelli, donde si tratti di scacciarlo per forza. Sia come si sia, il discorso, per la parte di Lucia, non sarebbe mai andato molto in lungo; ché le parole finivan presto in pianto. Se donna Prassede fosse stata spinta a trattarla in quella maniera da vere: come i gemiti, i gridi supplichevoli, potranno ben trattenere l’arme d’un nemico, ma non il ferro d’un chirurgo. Fatto però bene il suo dovere
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per quella volta, dalle stoccate e da’ rabbuffi veniva all’esortazioni, ai consigli, conditi anche di qualche lode, per temperar così l’agro col dolce, e ottener meglio l’effetto, operando sull’animo in tutti i versi. Certo, di quelle baruffe (che avevan sempre a un di presso lo stesso principio, mezzo e fine),
non rimaneva alla buona Lucia propriamente astio contro l’acerba predicatrice, la quale poi nel resto la trattava con gran dolcezza; e anche in questo,
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si vedeva una buona intenzione. Le rimaneva bensì un ribollimento, una sol-
levazione di pensieri e d’affetti tale, che ci voleva molto tempo e molta fatica per tornare a quella qualunque calma di prima. Buon per lei, che non era la sola a cui donna Prassede avesse a far del bene; sicché le baruffe non potevano esser così frequenti. Oltre il resto della servitù, tutti cervelli che avevan bisogno, più o meno, d’esser raddrizzati e guidati; oltre tutte l’altre occasioni di prestar lo stesso ufizio, per buon cuore, a molti con cui non era obbligata a niente:
occasioni che cercava, se non
s’offrivan da sé; aveva anche cinque figlie; nessuna in casa; ma che le davan più da pensare, che se ci fossero state. Tre eran monache, due maritate; e
chia » richiama tristemente il ricordo della odiosa donna del castellaccio, mentre tutto il suo comportamento porta alla giusta conclusione del Pistelli: che davanti a Lucia, si commuovono per la sua bontà e la sua dolcezza e la sua sventura, il Nibbio, l’Innominato, e anche Gertrude, tutti: fuorché questa vecchia pinzochera e la vecchiaccia del castello. Con tutto ciò donna Prassede rimane fra le figure minori del romanzo più ricche di arte e di poesia: perché l’arte e la poesia non sono esclusivo retaggio delle giovani, che, a dirla col M. e con la vecchia dell’Innominato, « fanno sempre un bel vedere a piangere e a ridere ». 255-256. l’avrebbero, tocca e fatta smettere: la virgola sembra in una posizione strana. Il Ghisalberti la spiega così: il M. « mette questa virgola dopo avrebbero, perché la pausa fa comprendere che esso deve reggere due. participi, ed evita bene altri piccoli inconvenienti, come sarebbe il porre
la virgola dopo « tocca », che verrebbe a distaccare l’ausiliare da « fatta », o il dire addirittura «l’avrebbero tocca e fatta smettere », guastando affatto la delicatezza di quel « tocca » (Opere di A. Manzoni, voluMelita 265-266. una sollevazione di pensieri e di affetti: l’espressione; bellissima per intensità e per vaghezza di sentimenti, mostra ancora una volta l’elevatezza di Lucia, e la capacità
del M. nello scoprire ed esprimere le pieghe più intime dell’animo. 269. Oltre il resto...: il quadro dell’attività di donna Prassede si allarga, col racconto delle « occasioni » infinite che esigono la sua presenza e il suo « bene ». Qui umorismo e comicità pervadono senza ombra di amarezza tutta la pagina, finché toccano il culmine in quelle cinque guerre che la nobil. donna ha da combattere, e nello spettacolo dei protetti che fanno di tutto per scansare la protettrice.
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donna Prassede si trovava naturalmente aver tre monasteri e due case a cui soprintendere: impresa vasta e complicata, e tanto più faticosa, che due mariti, spalleggiati da padri, da madri, da fratelli, e tre badesse, fiancheggiate da altre dignità e da molte monache, non volevano accettare la sua soprintendenza. Era una guerra, anzi cinque guerre, coperte, gentili, fino a un certo 280 segno, ma vive e senza tregua: era in tutti que’ luoghi un’attenzione continua a scansare la sua premura, a chiuder l’adito a’ suoi pareri, a eludere le sue richieste, a far che fosse al buio, più che si poteva, d’ogni affare. Non parlo de’ contrasti, delle difficoltà che incontrava nel maneggio d’altri affari anche più estranei: si sa che agli uomini il bene bisogna, le più volte, farlo 285 per forza. Dove il suo zelo poteva esercitarsi liberamente, era in casa: lì ogni persona era soggetta, in tutto e per tutto, alla sua autorità, fuorché don Ferrante, col quale le cose andavano in un modo affatto particolare. Uomo di studio, non gli piaceva né di comandare né d’ubbidire. Che, in tutte le cose di casa, la signora moglie fosse la padrona, alla buon’ora; ma lui 290 . servo, no. E se, pregato, le prestava a un’occorrenza l’ufizio della penna, era perché ci aveva il.suo genio; del rimanente; anche in questo sapeva dir di no, quando non fosse persuaso di ciò che lei voleva fargli scrivere. « La s’ingegni, » diceva in que’ casi; « faccia da sé, giacché la cosa le par tanto chiara. » Donna Prassede, dopo aver tentato per qualche tempo, e inutilmente, di ti295 rarlo dal lasciar fare al fare, s’era ristretta a brontolare spesso contro di lui, a nominarlo uno schivafatiche, un uomo fisso nelle sue idee, un letterato; titolo nel quale, insieme con la stizza, c'entrava anche un po’ di compiacenza.
Don Ferrante passava di grand’ore nel suo studio, dove aveva una rac-
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colta di libri considerabile, poco meno di trecento volumi:
tutta roba scelta,
tutte opere delle più riputate, in varie materie; in ognuna delle quali era più o meno versato. Nell’astrologia, era tenuto, e con ragione, per più che un dilettante; perché non ne possedeva soltanto quelle nozioni genetiche, e quel vocabolario
comune,
d’influssi, d’aspetti, di congiunzioni;
285-287. Dove il suo» zelo... particolare: passaggio felicissimo, dal quale aspetti altre pagine sorridenti. È il passaggio da una vita tutta attività e tempeste, ad una vita di studio e di ritiro. Così si completerà, in una specie di concordia discors, il ritratto della « coppia d’alto affare ». 288. né di comandare né d’ubbidire: perché l’una e l’altra cosa limitano la libertà, e don Ferrante vuole essere, prima di tutto, libero: libero di vivere nel suo mondo fatto di libri e di studio, lontano da ogni impegno pratico, sepolto nella sua biblioteca. È la prima informazione;
ma già caratterizza tutto l’uomo. 298. passava di grand’ore nel suo studio: parole. magistralmente scelte e collocate: danno una visione plastica di quel luogo, insistente restar chiuso e solo, davanti ad una montagna di libri. In don Ferrante, come si è già detto, il M. ha voluto satireggiare l’erudito del Seicento, ma insieme ha fatto la caricatura d’un tipo che esiste in ogni secolo: l’erudito per l’erudizione, il letterato
ma
sapeva
che adora il passato e disprezza il presente, il dotto che non ragiona e non distingue, e tutto legge e tutto impara dai libri, sordo alle voci che vengono dal mondo e dalla vita. 299. trecento volumi: il libro per don Ferrante è tutto, è la ragione stessa dell’esistenza. La discussione che ora l’autore fa di questa raccolta di opere è un elenco umoristicamente ragionato, perché, nella stessa presentazione dei singoli libri o dei gruppi di libri, si riflette l’immagine intellettuale e culturale nel suo possessore: cioè una mente limitata ed insieme presuntuosa, una cultura enciclopedica ed insieme angusta. E. siccome don Ferrante è l’uomo dotto del Seicento; la sua biblioteca ne contiene tutto il sapere. 303. influssi... aspetti... congiunzioni: irflussi, le azioni staccate esercitate dai corpi celesti sulla vita degli uomini; aspetti, le posizioni in cui l’astro si presenta all’osservatore; congiunzioni, gli apparenti incontri delle stelle fra loro.
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parlare a proposito, e come dalla cattedra, delle dodici case del cielo, de’ circoli. massimi, de’ gradi lucidi e tenebrosi, d’esaltazione e di deiezione, di
transiti e di rivoluzioni, de’ princìpi in somma più certi e più reconditi della
scienza. Ed eran forse vent'anni che, in dispute frequenti e lunghe, sosteneva la domificazione del Cardano contro un altro dotto attaccato ferocemente a quella dell’Alcabizio, per mera ostinazione, diceva don Ferrante; il quale, ri conoscendo volentieri la superiorità degli antichi, non poteva però soffrire quel non voler dar ragione a’ moderni, anche dove l'hanno chiara che la vedrebbe ognuno. Conosceva anche, più che mediocremente, la storia della scienza; sapeva a un bisogno citare le più celebri predizioni avverate, e ragionar sottilmente ed eruditamente sopra altre celebri predizioni andate a vòto, per dimostrar che la colpa non era della scienza, ma di chi non l’aveva saputa adoprar bene. Della filosofia antica aveva imparato quanto poteva bastare, e n’andava di continuo imparando di più, dalla lettura di Diogene Laerzio. Siccome però que’ sistemi, per quanto sian belli, non si può adottarli tutti; e, a voler esser filosofo, bisogna scegliere un autore, così don Ferrante aveva scelto Aristotile, il quale, come diceva lui, non è né antico né moderno; è il filosofo. Aveva anche varie opere de’ più savi e sottili seguaci di lui, tra i moderni: quelle de’ suoi impugnatori non aveva mai voluto leggerle, per non buttar 304. dodici case del cielo: le dodici parti,
o case, in cui gli astrologi dividevano il cielo. 305. circoli massimi: equatore, orizzonte,
meridiano, coluro equinoziale. — gradi lucidi e tenebrosi:. suddivisione delle otbite
del sole (gradi lucidi) e di quelle dei pianeti (gradi tenebrosi). 305-306. esaltazione... rivoluzioni: esalta zione, altezza massima di un astro; deiezione, altezza minima; transiti, passaggi degli astri; rivoluzioni, loro moti rotatori. 308. la domificazione del Cardano: la suddivisione del cielo in case secondo la teoria del pavese Gerolamo Cardano (1501-1576). Il Cardano, uomo geniale ma stravagante, ebbe una grandissima fama ai suoi tempi anche fuori d’Italia. Insegnò discipline diverse e scrisse varie opere, quasi tutte in latino, trattando di filosofia, astronomia, astrologia, magia, matematica, fisica, medicina, ecc., e mescolando il frutto di studi e di ricerche con credenze e teorie superstiziose. Don Ferrante, criticandone le posizioni antiaristoteliche ed esaltandone due opere di astrologia, viene a dirne male proprio dove avrebbe dovuto lodatlo, e viceversa. 309. Alcabizio: astrologo arabo (sec. X), autore di un’opera astronomica tradotta più tardi in latino e diffusa in Europa: Opus ad servanda stellarum magisteria’ isagogicum (Opera introduttiva allo studio degli influssi delle stelle). 309-312. riconoscendo... ognuno: la frecciata ‘scherzosa e polemica spunta di tanto in tanto, interrompendo felicemente le relazio-
ni scientifiche e arricchendo sempre di nuovi.elementi il ritratto del personaggio. Riguardo alla posizione di don Ferrante fra antichi e moderni, bene ha scritto il Donadoni: « Don Ferrante è il passato, e per il passato. Il decimosettimo è il secolo di Kepleto e di Ticho Brahe: il secolo che vide nascere l’astronomia: e don Ferrante è competentissimo in... astrologia: il secolo del Galilei e del Viviani e della fisica: e don Ferrante è un furioso cultore della magia e delle scienze occulte. È il secolo in cui la Historia naturalis di Bacone tracciava il metodo per giungere alle leggi della vita organica e inorganica: e don Ferrante è un lettore dei lapidari, degli erbarî e bestiarî del Medioevo. Il secolo decimosettimo rise di un riso europec alla lunga, gioconda beffa del Cervantes contro la cavalleria: e lo studio principale di don Ferrante, quello che dava una parvente ragione di essere alla sua vita, e che solo poteva trarlo dalla sua biblioteca fra gli uomini, era la scienza cavalleresca. Il secolo decimosettimo è il secolo di lord Bacone e di Cartesio, cioè dell’insurrezione universale contro l’Aristotele delle scuole: e don Ferrante sceglie come proptio modello il suo bravo Aristotele. ‘ Non è né vecchio né nuovo, dice: è il filosofo ? e pe martire del metodo scolastico » (op. cit.). 318. Diogene Laerzio: del sec. III d.C., autore di una farraginosa opera in dieci libri, Vite e sentenze di filosofi. 323-324. quelle de’ suoi impugnatori... i danari: in questa cieca testardaggine don
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via il tempo, diceva; né comprarle, per non buttar via i danari. Per eccezione però, dava luogo nella sua libreria a que’ celebri ventidue libri De subtili tate, e a qualche altr’opera antiperipatetica del Cardano, in grazia del suo valore in astrologia; dicendo che chi aveva potuto scrivere il trattato De restitutione temporum et motuum coelestium, e il libro Duodecim geniturarum, merita va d’esser ascoltato, anche quando spropositava; e che il gran difetto di quel330 l’uomo era stato d’aver troppo ingegno; e che nessuno si può immaginare dove sarebbe arrivato, anche in filosofia, se fosse stato sempre nella strada retta. Del rimanente, quantunque, nel giudizio de’ dotti, don Ferrante passass e per un peripatetico consumato, non ostante a lui non pareva di saperne abbastanza; e più d’una voltà disse, con gran modestia, che l’essenza, gli univer335 sali, l’anima del mondo, e la natura delle cose eran cose tanto chiare, quanto si potrebbe credere. Della filosofia naturale. s’era fatto più un passatempo che uno studio; l’opere stesse d’Aristotile su questa materia, e quelle di Plinio le aveva piuttosto lette che studiate: non di meno, con questa lettura, con 340° colte incidentemente da’ trattati di filosofia generale, con qualchele notizie racscorsa data alla Magia naturale del Porta, alle tre storie lapidum, animalium, plantarura, del Cardano, al Trattato dell’erbe, delle piante, degli animali, d’Alberto Magno, a qualche altr’opera di minor conto, sapeva a tempo trattenere una con525
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versazione ragionando delle virtù più mirabili e delle curiosità più singolari
di molti semplici; descrivendo esattamente le forme e l’abitudini delle sirene
e dell'unica fenice; spiegando come la salamandra stia nel fuoco senza bru. ciare: come la remora, quel pesciolino, abbia la forza e l’abilità di fermare
Ferrante non era solo. Si ricorda quel Cesare Cremonino, collega di Galileo nell’insegnamento a Padova, il quale era tanto rispettoso dell’ipse dixit, che non volle accostare l’occhio al telescopio: perché, diceva, non era possibile che si vedessero altre stelle oltre quelle viste fino allora, avendo Aristotele sentenziato che il cielo è incorrutti> bile: e perciò il numero dei corpi celesti non può né aumentare né diminuire. 325. De subtilitate: l’opera principale del Cardano; ampia enciclopedia del sapere del tempo, pubblicata intorno alla metà del secolo XVI. 326. antiperipatetica: antiaristotelica. Peripatetica fu detta la scuola di Aristotele dal
Peripato, il portico del Liceo di Atene dove
il maestro insegnava passeggiando. 327-328. De restitutione... Duodecim...: due opere di astrologia; la prima sulla rettifica del calcolo delle stagioni e dei moti celesti; la seconda sulla nascita di dodici personaggi. 334-335. essenza,... universali,... anima del mondo: essenza, insieme delle qualità per cui una cosa è quello che è; uriversali, concetti generali che qualificano ogni singola classe. di cose; anima del mondo, principio unico che fa del tutto un solo organismo. Su questi concetti si disputò a lungo nel pas-
sato, perché « non eran cose tanto chiare »; fa sorridere don Ferrante affermandolo « con gran modestia ». Dn filosofia naturale: oggi, stotia naturale. 338. Plinio: il Vecchio
(23-79 a. C.). Uo-
mo politico e scrittore latino, autore di una
Storia naturale in 37 volumi. Morì mentre studiava l’eruzione del Vesuvio. 341. Porta: Giambattista (1535-1615), napoletano, autore di varie opere scientifiche e letterarie. La più famosa è quella in 20 libri, qui indicata, che espone un gran numero di credute meraviglie della natura, come dice il titolo: Magiae naturalis sive de miraculis rerum naturalium libri XX. — lapidum, animalium, plantarum: delle pietre, degli animali, delle piante. 342-343. Alberto Magno: Sant'Alberto di Bollstadt (1193-1280), filosofo e teologo do-
menicano, fu maestro di S. Tommaso d’Aquino. Fu detto Magno per la vastità del sapere. 345-351. descrivendo... natura: descrizioni gustosissime, in cui non sai se più ammirare l'incanto del vecchio studioso felice di raccontare tante meraviglie, o l’arte sorridente del M., che ovunque coglie colori e sfumature per il grande quadro che viene dipingendo.
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della di punto in bianco, in alto mare, qualunque gran nave; come le gocciole
rugiada diventin perle in seno delle conchiglie; come il cameleonte si cibi
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d’aria; come dal ghiaccio lentamente indurato, con l’andar de’ secoli, si formi
il cristallo; e altri de’ più maravigliosi segreti della natura. In quelli della magia e della stregoneria s'era internato di più, trattandosi, dice il nostro anonimo, di scienza molto più in voga e più necessatia,
e nella quale i fatti sono di molto maggiore importanza, e più a mano, da po355
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terli verificare. Non c'è bisogno di dire che, in un tale studio, non aveva
mai avuta altra mira che d’istruirsi e di conoscere a fondo le pessime arti de’ maliardi, per potersene guardare, e difendere. E, con la scorta principalmente del gran Martino Delrio (l’uomo della scienza), eta in grado di discorrere ex professo del maleficio amatorio, del maleficio sonnifero, del maleficio ostile, e dell’infinite specie che, pur troppo, dice ancora l’anonimo, si vedono in pratica alla giornata, di questi tre generi capitali di malìe, con effetti così dolorosi. Ugualmente vaste e fondate eran le cognizioni di don Ferrante in fatto di storia, specialmente universale: nella quale i suoi autori erano il Tarcagnota, il Dolce, il Bugatti, il Campana,
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il Guazzo,
i più riputati in
somma.
Ma cos'è mai la storia, diceva spesso don Ferrante, senza la politica? Una
guida che cammina, cammina, con nessuno dietro che impari la strada, e per
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conseguenza butta via i suoi passi; come la politica senza la storia è uno che cammina senza guida. C’era dunque ne’ suoi scaffali un palchetto assegnato agli statisti; dove, tra molti di piccola mole, e di fama secondaria, spicca-
vano il Bodino, il Cavalcanti, il Sansovino, il Paruta, il Boccalini. Due però
353. più necessaria: la scienza della magia e della stregoneria! 358. Martino Delrio: nato ad Anversa nel 1551, morì a Lovanio nel 1599. Stregone, e in contatto con altri stregoni, fu autore dell’opera che faceva testo in materia di magia, Disquisitionum magicarum libri VI. Vedremo più avanti (Cap. XXXII) i mali che la sua scienza determinò: e allora non ci sarà più il sorriso ironico di ora, concentrato soprattutto in quel « gran » e nella definizione (fra parentesi!) « l’uomo della scienza»; ma ci sarà un pesante «quel funesto Delrio ». 359. ex professo: di proposito. ‘ 364-365. Tarcagnota... i più reputati insomma: tanto reputati che oggi non ne resta ricordo alcuno, se non questo del M. Furono tutti autori di farraginose storie universali, messe su senza alcuna ricerca scientifica e senza alcun discernimento critico, e con la presunzione di narrare, come il Tarcagnota, « quanto dal principio del mondo ai tempi nostri è successo »! — Giovanni Tarcagnota di Gaeta, morto ad Ancona nel 1566 scrisse Delle istorie del mondo; Ludovico Dolce, veneziano (1508-1568), poligrafo e traduttore; Gaspare Bugatti, milanese (se-
conda metà del sec. XVI) autore di una Historia universale dal principio del mondo al
1569; Cesare Campana, aquilano (m. 1606) scrisse una Historia del mondo dal 1576 al 1596; Marco Guazzo, padovano (m. 1556), autore, fra l’altro, di una Historia di tutte le cose degne di memoria dal 1524 al presente (1540). 366. cos'è mai la storia... senza la politi. ca?: l’idea che la storia è, o deve essere, maestra di vita, dal più al meno c’è sempre stata, finché nel Cinquecento ebbe vastissima diffusione. L’ironia della battuta di don Ferrante sta, dunque, nella solennità con cui egli presentava come scoperta della sua testa un’idea vecchia quanto l’uomo.
370-371. spiccavano il Bodino... il Boccalini: Giovanni Bodin, francese (1530-1596), autore di Sei libri della Repubblica, pubblicati nel 1577; Bartolomeo Cavalcanti, autore Degli ottimi reggimenti delle repubbliche antiche e moderne; Francesco Sansovino, autore Del governo dei regni e delle repubbliche antiche e moderne; Paolo Paruta, di Venezia (1540-1598), storico, teorico di politica e antimachiavellico, scrisse Discorsi politici e Della perfezione della vita politica libri tre; Traiano Boccalini, di Loreto (15561613), letterato e critico noto per i Ragguagli di Parnaso, ma, per Ferrante, perché autore della Pietra del paragone politico. — Può sembrare strana la presenza di alcuni
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erano i libri che don Ferrante anteponeva a tutti, e di gran lunga, in questa materia; due che, fino a un certo tempo, fu solito di chiamare i primi, senza mai potersi risolvere a qual de’ due convenisse unicamente quel grado: l’uno, il Principe e i Discorsi del celebre segretario fiorentino; mariolo sì, diceva don Ferrante, ma profondo: l’altro, la Ragion di Stato del non men celebre Giovanni Botero; galantuomo sì, diceva pure, ma acuto. Ma, poco prima del tempo nel quale è circoscritta la nostra storia; era venuto fuori il libro che terminò la questione del primato, passando avanti anche all’opere di que’ due matadori, diceva don Ferrante; il libro in cui si ttovan racchiuse e come stillate tutte le malizie, per poterle conoscere, e tutte le virtù, per poterle praticare; quel libro piccino, ma tutto d’oro; in una parola, lo Statista Regnante di don Valeriano Castiglione, di quell’uomo celeberrimo, di cui si può dire, che i più gran letterati lo esaltavano a gara, e i più gran personaggi facevano a rubarselo; di quell’uomo, che il papa Urbano VIII onorò, come è noto, di magnifiche lodi; che il cardinal Borghese e il viceré di Napoli, don Pietro di Toledo, sollecitarono a descrivere, il primo i fatti di papa Paolo V, l’altro le guerre del re cattolico in Italia, l'uno e l’altro invano; di quell’uomo, che Luigi XIII, re di Francia, per suggerimento del cardinal di Richelieu, nominò
suo istoriografo; a cui il duca Carlo Emanuele di Savoia conferì la stessa carica; in lode di cui, per tralasciare altre gloriose testimonianze, la duchessa
Cristina, figlia del cristianissimo re Enrico IV, poté in un diploma, con molti
altri titoli, annoverare «la certezza della fama ch'egli ottiene in Italia, di primo scrittore de’ nostri tempi ».
di questi autori nella biblioteca di don Ferrante: in particolare quella del Boccalini che ebbe idee liberali e criticò aspramente la dominazione spagnola. Si può pensare, come qualcuno pensa, che Ferrante tenesse quelle opere per. averne capito il valore in un «istante di lucido intervallo », 0, come pensano altri, perché non lo capisse affatto. 375. segretario fiorentino: Niccolò Machiavelli (1469-1527) così detto, com’è noto, per antonomasia. Le sue opere politiche più importanti sono il Principe e i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio. « Mariolo sì, ma profondo» lo definiva don Ferrante, in questo non discordando molto dall’opinione del M. stesso, che altra volta scrisse di lui: < osservatore vigilante e profondo, quando però non prende per regola suprema de’ suoi. giudizi e de’ suoi consigli l’utilità »: e questa utilità «la voleva, o con la giustizia, o con l’ingiustizia, secondo gli pareva richie dessero i diversi casi » (Del sistema che fonda la morale sull’utilità); e così diveniva il « mariolo » di don Ferrante. 377. Giovanni Botero: piemontese (15401617), autore di varie opere storiche e politiche. Il suo scritto più famoso è la Ragion di Stato in dieci libri, in cui combatte le teorie del Machiavelli, e sostiene che la scienza politica deve. basarsi sui principi cristiani. Nella definizione che ne dava don
Ferrante,
« galantuomo sì, ma acuto», il sorriso del M. è più che evidente, perché nell’affermazione che il Botero ebbe quelle due qualità, è implicito il riconoscimento che i galantuomini, di regola, in fatto di acutezza si lasciano vincere dai rzarioli. Così l’intreccio dei due autori, Machiavelli Botero, si completa in un circolo di vivacissima arguzia. 380. matadori: w4atador (dal latino mactare, uccidere) è il torero, l’uccisore dei tori; qui vale duellante, combattente nel sostenere una certa idea. Lo spagnolismo si adatta al colore del tempo e all’animo di don Ferrante. 382. Statista Regnante: «è uno smilzo libriccino nel quale, in cinquanta capitoletti, sono svolte cinquanta massime, secondo le quali deve regolatsi il principe cristiano. Opera di nessun valore, ma celebratissima ai suoi tempi, di Valeriano Castiglione, milanese e monaco benedettino. Ma qui la satira ‘manzoniana, senza dimenticare don Ferrante, che però qui passa in seconda linea, è volta «a mettere in chiaro la fallacia dei giudizi dei contemporanei sui libri e scrittori. Comincia da quella serie maliziosa di grandi elogi che precede l’annuncio del libro, che riesce nuovo anche ad un lettore di discreta cultura; e continua poi enumerando gli onori resigli da Papi, da prin-
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Ma se, in tutte le scienze suddette, don Ferrante poteva dirsi addottrinato, una ce n’era in cui meritava e godeva il titolo di professore: la scienza tecavalleresca. Non solo ne ragionava con vero possesso, ma pregato frequen mente d’intervenite in affari d'onore, dava sempre qualche decisione. Aveva nella sua libreria, e si può dire in testa, le opere degli scrittori più riputati in tal materia:
Paride dal Pozzo, Fausto da Longiano, l’Urrea, il Muzio, il
di Romei, l’Albergato, il Forno primo e il Forno secondo di Torquato Tasso, pascui aveva anche in pronto, e a un bisogno sapeva citare a memoria tutti i far si così della Gerusalemme Liberata, come della Conquistata, che possono era o, concett suo nel autori, testo in materia di cavalleria. L'autore però degli il nostro celebre Francesco Birago, con cui si trovò anche, più d’una volta, a dar giudizio sopra casi d’onore; e il quale, dal canto suo, parlava di don Ferrante in termini di stima particolare. E fin da quando venner fuori i Discorsi Cavallereschi di quell’insigne scrittore, don Ferrante pronosticò, senza esitazione, che quest'opera avrebbe rovinata l’autorità dell’Olevano, e sarebbe rimasta, insieme con l’altre sue nobili sorelle, come codice di primaria autorità presso ai posteri: profezia, dice l’anonimo, che ognun può vedere come si sia avverata.
Da questo passa poi alle lettere amene; ma noi cominciamo a dubitare se veramente il lettore abbia una gran voglia d’andar avanti con lui in questa
cipi e da re, per concludere col diploma di Cristina di Francia che lo dichiara: ‘ primo scrittore de’ suoi tempi? mettendo così in evidenza la vanità degli onori tributati dagli uomini e mostrando come sia diverso il giudizio delle diverse età!» (Steiner). 400-401. Paride dal Pozzo... Tasso: tutti autori di opere cavalleresche, vissuti nei secoli XV e XVI. Paride dal Pozzo, di Castellamare, scrisse il Duello, libro de’ re, imperatori, principi, signori, ecc. contenente sfide, concordie, paci; Sebastiano Fausto, da Longiano, romagnolo, fu autore di vari trattati, fra cui un Duello con tutti i cartelli missivi e responsivi; Girolamo de Urrea, spagnolo, compose il Dialogo de la verdadera honra militar (« Dialogo del vero onore militare »), tradotto in italiano; Gi rolamo Muzio, padovano, scrisse varie opere di cavalleria, come I/ duello e le risposte cavalleresche; Annibale Romei, ferrarese, trattò di questioni cavalleresche nei Discorsi divisi in cinque giornate, ecc.; Fabio Albergati, bolognese, fu autore di un Trattato del modo di ridurre a pace l’inimicizie private; Forno primo e Forno secondo sono due dialoghi del Tasso sulla nobiltà e derivano il titolo dal gentiluomo modenese Antonio Forno, che vi figura fra gli interlocutori. Di Torquato Tasso (1544-1595), uno dei maggiori poeti italiani, ricordiamo soltanto che con la Gerusalemme Conquista ta intese comporre un poema epico che potesse essere immune dalle critiche con cui i dotti del tempo attaccarono il suo *capolavoro, la Gerusalemme Liberata. Per l’au-
torità del Tasso in fatto di cavalleria, rammenta la discussione alla tavola di don Rodrigo (Cap. V).
405. Francesco Birago: milanese, autore di un trattato dal titolo Consigli cavallereschi
(non Discorsi). L’ironia riguardo al Birago non si trova soltanto in quell’« autore... degli autori», in quel «nostro celebre », in quell’« insigne scrittore » o nella « profezia... che ognun può vedere come si sia avverata »; ma anche nell’averlo unito così strettamente a don Ferrante nel « dare giudizio sopra casi d’onore » e nella reciproca « stima ». Quasi fantasmi evanescenti ambedue, il personaggio storico, che veramente scrisse di cavalleria, e quello inventato, che di cavalleria trattò in maniera altrettanto saccente. 409. Olevano: Giovan Battista, autore di un Trattato sul modo di ridurre a pace ogni privata inimicizia nata per cagion d'onore. 411-412. profezia... avverata: in realtà il Birago, a cui abbiamo accennato a proposito di fatti e dispute cavalleresche (cfr. note ai capp. IV e V), raggiunse una fama eccezionale. 413. lettere amene: in Fermo e Lucia si trova un elenco anche di queste lettere, fra le quali, accanto al Pastor fido di G. B. Guarini, alle opere del Marino, del Testi e di altri poeti del Cinquecento e del Seicento, un posto tutto particolare aveva il « libretto che conteneva le rime di Claudio Achillini; libretto nel quale, diceva don Ferrante, tutto, tutto [...] era pensiero pellegrino ed arguto ». E dell’Achillini aveva poi « un te-
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rassegna, anzi a temere di non aver già buscato il titolo di copiator servile per noi, e quello di seccatore da dividersi con l’anonimo sullodato, per averlo nariamente seguito fin qui, in cosa estranea al racconto principale, e nella quale probabilmente non s’è tanto disteso, che per isfoggiar dottrina, e far vedere che non era indietro del suo secolo. Però, lasciando scritto quel che è scritto, per non perder la nostra fatica, ometteremo il rimanente, per rimetterci in istrada: tanto più che ne abbiamo un bel pezzo da percorrere, senza incontrare alcun de’ nostri personaggi, e uno più lungo ancora, prima di trovar quelli ai fatti de’ quali certamente il lettore s’interessa di più, se a qualche cosa s’interessa in tutto questo. Fino all’autunno del seguente anno 1629, rimasero tutti, chi per volontà,
chi per forza, nello stato a un di presso in cui gli abbiam lasciati, senza che ad alcuno accadesse, né che alcun altro potesse far cosa degna d’esser riferita. 430
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Venne l’autunno, in cui Agnese e Lucia avevan fatto conto di ritrovarsi insieme: ma un grande avvenimento pubblico mandò quel conto all’aria: e fu questo certamente uno de’ suoi più piccoli effetti. Seguiron poi altri grandi
avvenimenti, che. però non portarono nessun cambiamento notabile nella sorte de’ nostri personaggi. Finalmente nuovi casi, più generali, più forti, più estremi, arrivarono anche fino a loro, fino agli infimi di loro, secondo la scala del mondo: come un turbine vasto, incalzante, vagabondo, scoscendendo e sbarbando alberi, arruftando tetti, scoprendo campanili, abbattendo muraglie, e sbattendone qua e là i rottami, solleva anche i fuscelli nascosti tra l’erba, va a cercare negli angoli le foglie passe e leggieri, che un minor vento vi aveva confinate, e le porta in giro involte nella sua rapina.
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Ora, perché i fatti privati che ci rimangon da raccontare, riescan chiari, dobbiamo assolutamente premettere un racconto alla meglio di quei pubblici, prendendola anche un po’ da lontano. soretto », una raccolta manoscritta di lettere,
sulle quali « si studiava di modellare quelle che gli occorrevano di scrivere per qualche negozio ». Avremo più avanti occasione di dire qualcosa dell’Achillini (Cap. XXVIII). Per il momento dovremmo spiegare perché nei Promessi Sposi il M. abbia eliminato l’indicazione delle « lettere amene ». Le opinioni dei critici sono diverse: agnosticismo del M. su questo tipo d’opere, disinteresse di don Ferrante verso quelle letture, ragioni di equilibrio e di economia, ecc. ecc. Tutte cause che possono esser giuste; noi prendiamo per valida, soprattutto, quella del M.: l’amore della brevità che lo spinge ad omettere il rimanente e a rimettersi in istrada. 419-424. Però, lasciando... questo: così lo scrittore torna alle vicende dei suoi personaggi; ma intanto l’ampia digressione sulla biblioteca di don Ferrante ci ha aperto un altro interessantissimo quadro di vita secentesca. Tutti quei volumi citati, tutti quegli autori nominati, hanno fissato l’immagine
particolare e realistica della cultura più dif-
fusa — e non certo la migliore — di quel secolo; mentre sul piano della poesia hanno creato il senso di un ambiente silenzioso e raccolto, in cui studio e lettura ritmano di uguale cadenza la vita d’ogni giorno. 429. un grande avvenimento pubblico: ia guerra. i; 433-434. secondo la scala del mondo: non secondo quella di Dio, che giudica in base a tutt’altri valori di quelli umani. 434-438. come un turbine... rapina: l’im«magine, con cui il M. allude al terribile evento della peste, è veramente grandiosa, ed ha qualcosa di epico e di pauroso che ricorda certi scorci danteschi: « La bufera infernale, che mai non resta, Mena gli spirti nella sua rapina; Voltando e percotendo li molesta... » (I7f., V). Ma l’immagine è stupenda anche per la concretezza e l’adeguatezza dei particolari; i quali, tutti intimamente sofferti, nelle ultime parole spirano ancor più intima partecipazione alle sofferenze degli umili.
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Scheda
critica al cap. XXVII La rappresentazione, sullo sfondo, di una situazione storica era uno degli ingredienti necessari del genere letterario romanzesco, quale ebbe a concepirlo in quegli anni la cultura romantica europea, sulla scia della fortuna di Walter Scott, ed era soprattutto un elemento importantissimo della poetica manzoniana della tragedia e del romanzo e della lirica modernamente intesi, fonte primaria e imprescindibile della sua ispirazione fantastica in tutto il breve arco del suo più intenso vigore creativo. L'apertura di questo capitolo è come un primo breve sfogo concesso a questo bisogno di ripiegamento riflessivo e di ampliamento dell'orizzonte oltre i termini costretti dell'invenzione narrativa, e prelude ai ben più ampi e approfonditi svolgimenti, in questo senso, dei capitoli XXVIH, XXXI e XXXII. Senonché mentre in quei capitoli, illustrando vasti fenomeni di natura collettiva — la carestia, le invasioni e i saccheggi soldateschi, la peste —, la storia sarà intesa nel suo significato più profondo, quale il Manzoni la concepisce in accordo con lo spirito liberale del secolo, in quanto tocca lo stato delle masse, le agita, le fa soffrire, reca un improvviso sconquasso nelle loro abitudini e nelle loro coscienze; qui si tratta, invece, della storia concepita nel suo senso più tradizionale, e risibile agli occhi dello scrittore, come resoconto dei grandi eventi politici e militari in funzione della ragion di stato e degli interessi dei potenti. E perciò queste pagine si risolvono in un saggio di finissima ironia illuministica, che investe in ugual misura le operazioni dei guerrieri, i calcoli dei governanti, e le ragioni di prestigio dei diplomatici. Del resto esse corrispondono a un momento di sospensione del racconto, pervenuto, con la diaspora dei principali personaggi, anche a un ristagno della vicenda, di cui non si riesce a intravvedere, per lo meno alla stregua degli umani consigli, nessuna probabile soluzione. La svolta nell'ordine dei fatti, potrà essere determinata soltanto da un intervento della ‘Provvidenza con i suoi mezzi imprevedibili e talora terribili. Per intanto il Manzoni si sofferma a considerare la sorte dei suoi umili personaggi dispersi e sballottati in ambienti estranei e per lo più ostili, in balia di forze superiori e ad essi incomprensibili, pur nella loro varia natura, che include sia le intenzioni dei grandi interpreti della politica come gli assurdi capricci dei minori potenti. E questa rappresentazione si svolge anch'essa in chiave di ironia, ma bonaria e affettuosa, dove tocca del vano arrabattarsi dei poveri (nella divertita storia del carteggio faticoso e fallimentare fra Renzo e Agnese; nella descrizione dei rapporti di Lucia con donna Prassede); in chiave più decisamente satirica, dove interviene lo spirito polemico dello scrittore contro le istituzioni, le norme sociali e la cultura invecchiata e vacua, come nelle pagine
su don Gonzalo e in quelle, spassosissime, della biblioteca barocca di don Ferrante, “
Capitolo XXVII
è
Dopo quella sedizione del che l’abbondanza fosse tornata tità da tutti i fornai; il prezzo, zione. Coloro che, in que’ due
giorno di san Martino e del seguente, parve in Milano, come per miracolo. Pane in quancome nell’annate migliori; le farine a proporgiorni, s'erano addati a urlare o a far anche
qualcosa di più, avevano ora (meno alcuni pochi stati presi) di che lodarsi: e
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non crediate che se ne stessero, appena cessato quel primo spavento delle catture. Sulle piazze, sulle cantonate, nelle bettole, era un tripudio palese, un congratularsi e un vantarsi tra’ denti d’aver trovata la maniera di far rinviliare il pane. In mezzo però alla festa e alla baldanza, c'era (e come non ci sarebbe stata?) un’inquietudine, un presentimento che la cosa non avesse a
durare. Assediavano i fornai e i farinaioli, come già avevan fatto in quell’altra fattizia e passeggiera abbondanza prodotta dalla prima tariffa d’Antonio Ferrer; tutti consumavano senza risparmio; chi aveva qualche quattrinio da parte, l’investiva in pane e in farine; facevan magazzino delle casse, delle botticine, delle caldaie. Così, facendo a gara a goder del buon mercato presente, ne rendevano, non dico impossibile la lunga durata, che già lo era per sé, ma sempre più difficile anche la continuazione momentanea. Ed ecco che, il 15 di novembre, Antonio Ferrer, De orden de Su Excelencia, pubblicò una
1. sedizione... di San Martino: la sommossa dell’11 novembre 1628, raccontata nei capitoli XII-XVI. 1-2. parve che l’abbondanza...: « parve »: senti subito l’atteggiamento critico verso un modo di agire avventato e imprevidente. 4. addati: dati. Nella prima edizione c’è « adoperati », e stava meglio. Ma non si vede perché, anche per questa sostituzione, si debba accusare sempre la « mania fiorentineggiante » del M., dato che addarsi, nel senso di darsi, non ha un bel niente di fiorentino. Forse ha ragione chi suppone, invece, che il M. premettesse quell’a4- per intensificare l’idea, come pet dire: s'erano dati corpo e anima. 1 6. se ne stessero: stessero tranquilli, inattivi. Altri pensa che significhi ‘ si astenessero dal lodarsi ?. 12. fattizia: fittizia, artificiosa. 17. la continuazione momentanea: nel mettere in risalto la vanità del tripudio del popolo e l’imprevidenza dei governanti, tor-
na nel M., oltre che l’osservatore acuto delle azioni umane, lo studioso di questioni economiche, che già abbiamo incontrato in vari momenti della descrizione del tumulto di San Martino. E questo studioso non è affatto di « mentalità conservatrice » né di « atteggiamento inconsapevolmente retrivo », come qualcuno l'accusa; perché non è vero che qui il M. condanni l’accaparramento dei consumatori e giustifichi l’accapartamento dei fornai. C'è ben altro, qui e altrove, che quella « riduzione di umanità » che un critico, in queste pagine, scopre « nell’umanissimo Manzoni ». 18. De orden de Su Excelencia: d’ordine di Sua Eccellenza (don Gonzalo, il governatore). La frase spagnola, ripetuta poi altre tre volte — «all’arbitrio di Sua Eccellenza» —, e le successive minacce di punizione fanno risaltare la prosopopea di chi comanda e l’ironia di chi racconta. Qualcosa di simile si è trovato nelle gride contro i bravi (Cap. I).
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grida, con la quale, a chiunque avesse granaglie o farine in casa, veniva proi-
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bito di comprarne né punto né poco, e ad ognuno di comprar pane, per più
che il bisogno di due giorni, sotto pene pecuniarie e corporali, all’arbitrio di
Sua Eccellenza; intimazione a chi toccava per ufizio, e a ogni persona, di denunziare i trasgressori; ordine a’ giudici, di far ricerche nelle case che potes25
sero venir loro indicate; insieme però, nuovo comando a’ fornai di tener le botteghe ben fornite di pane, sotto pena, in caso di mancamento, di cinque anni di galera, et maggiore, all’arbitrio di S. E. Chi sa immaginarsi una grida tale eseguita, deve avere una bella immaginazione;
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che si pubblicavano in quel tempo erano eseguite, il ducato di Milano doveva avere almeno tanta gente in mare, quanta ne possa avere ora la gran Bretagna. Sia com’esser si voglia, ordinando ai fornai di far tanto pane, bisognava anche fare in modo che la materia del pane non mancasse loro. S’era immaginato (come sempre in tempo di carestia rinasce uno studio di ridurre in pane de’ prodotti che d’ordinario si consumano
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e certo, se tutte quelle
sott’altra forma), s’era, dico,
immaginato di far entrare il riso nel composto del pane detto di mzistura. Il 23 di novembre, grida che sequestra, agli ordini del vicario e de’ dodici di provvisione, la metà del riso vestito (risoze lo dicevano qui, e lo dicon tuttora) che ognuno possegga; pena a chiunque ne disponga senza il permesso di que’ signori, la perdita della derrata, e una multa di tre scudi per moggio. , come ognun vede, la più onesta. Ma questo riso bisognava pagarlo, e un prezzo troppo sproporzionato da quello del pane. Il carico di supplire all'enorme differenza era stato imposto alla città; ma il Consiglio de’ decurioni, che l’aveva assunto per essa, deliberò, lo stesso giorno 23 di novembre, di rappresentare al governatore l’impossibilità di sostenerlo più a lungo. E il governatore, con grida del 7 di dicembre, fissò il prezzo del riso suddetto a lire dodici il moggio: a chi ne chiedesse di più, come a chi ricusasse di vendere, intimò la perdita della derrata e una multa d’altrettanto valore, ef maggior pena pecuniaria et ancora corporale sino alla galera, all’arbitrio di S. E., secondo la qualità de’ casi et
delle persone. AI riso brillato era già stato fissato il prezzo prima della sommossa; come
probabilmente la tariffa o, per usare quella denominazione celebettima negli
annali moderni, il maximum del grano e dell’altre granaglie più ordinarie sarà stato fissato con altre gride, che non c’è avvenuto di vedere.
L 27-30. se tutte... gran Bretagna: se tutti i contravventori fossero stati condannati, secondo la punizione del tempo, a remare nelle galere, il ducato di Milano avrebbe dovuto avere una flotta pari a quella che ora ha la Gran Bretagna. In sostanza, vuol dire che nessuno eseguiva quegli ordini impossibili. L’umorismo è forte, ma meno spontaneo di altre volte. 40. È... la più onesta: forse, una volta tanto, il M. non scherza, perché veramente questa pena; in confronto alle precedenti, era molto piccola. 43. Consiglio de’ decurioni: era formato da sessanta nobili, scelti dal governatore, e
che
stavano in carica a vita. Durò fino alla venuta dei Francesi, nel 1796 {vedi
Cap. XII). 45-50. il governatore... persone: don Gonzalo continua a fare una brutta figura, e con lui quanti sono al governo della cosa pubblica. Il M. ha una convinzione radicata sull’incapacità delle autorità spagnole del Seicento, e la porta fino alle estreme conseguenze. Su come quella convinzione non sia
interamente suffragata dalla realtà storica, abbiamo accennato (cfr. Cap. XXVII, n. 20)
e avremo ancora occasione di parlarne. 53. maximum: il prezzo massimo; questa denominazione è detta ironicamente « cele-
capitolo XXVIIT 55
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. Mantenuto così il pane e la farina a buon mercato in Milano, ne veniva di conseguenza che dalla campagna accorresse gente a processione a comprarne. Don Gonzalo, per riparare a questo, come dice lui, inconveniente, proibì, con un’altra grida del 15 di dicembre, di portar fuori della città pane, per più del valore di venti soldi; pena la perdita del pane medesimo, e venticinque scudi, ef in caso di inhabilità, di due tratti di corda in publico, et maggior pena ancora, secondo il solito, all’arbitrio di S. E. Il 22 dello stesso
mese (e non si vede perché così tardi), pubblicò un ordine somigliante per le farine e per i grani. La moltitudine aveva voluto far nascere l'abbondanza col saccheggio e con l’incendio; il governò voleva mantenerla con la galera e con la corda. I mezzi erano convenienti tra loro; ma cosa avessero a fare col fine, il Jet-
tore lo vede: come valessero in fatto ad ottenerlo, lo vedrà a momenti. È poi facile anche vedere, e non inutile l’osservare come tra quegli strani provvedimenti ci sia però una connessione necessaria: ognuno era una conseguenza 70 , inewtabile dell’antecedente, e tutti del primo, che fissava al pane un prezzo
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così lontano dal prezzo reale, da quello cioè che sarebbe risultato natural mente dalla proporzione tra il bisogno e la quantità. Alla moltitudine un tale espediente è sempre parso, e ha sempre dovuto parere, quanto conforme all’equità, altrettanto semplice e agevole a mettersi in esecuzione: è quindi cosa naturale che, nell’angustie e ne’ patimenti della carestia, essa lo desideri, l’implori e, se può, l’imponga. Di mano in mano poi che le conseguenze si fanno sentire, conviene che coloro a cui tocca, vadano al riparo di ciascheduna, con una legge la quale proibisca agli uomini di far quello a che eran portati dall’antecedente. Ci si permetta d’osservar qui di passaggio una combinazione singolare. In un paese e in un’epoca vicina, nell’epoca la più clamorosa e la più notabile della storia moderna, si ricorse, in circostanze simili, a simili espedienti (i medesimi, si potrebbe quasi dire, nella sostanza, con la sola differenza di proporzione, e a un di presso nel medesimo ordine) ad
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onta de’ tempi tanto cambiati, e delle cognizioni cresciute in Europa, e in quel paese forse più che altrove; e ciò principalmente perché la gran massa popolare, alla quale quelle cognizioni non erano arrivate, poté far prevalere a lungo il suo giudizio, e forzare, come colà si dice, la mano a quelli che facevan la legge. berrima », perché adoperata di continuo nelle discussioni e negli scritti di economia, e particolarmente diffusa in Francia al tempo della Rivoluzione. 55. così: con sistemi tanto assurdi, « fittizi ».
57. inconveniente: così lo diceva lui: in realtà, vuol dire umoristicamente il M., non era che una naturale conseguenza dei suoi provvedimenti sbagliati. 60. inhabilità: insolvibilità, impossibilità a pagare. 64-65. La moltitudine...; il governo...: ecco ciò che il M. condanna, colpendo con polemica asciutta e sdegnosa pregiudizi ed errori: da parte del popolo, lo sperperio incosciente del poco pane e delle poche farine; da parte dei governanti, l’incapacità di prov-
vedere al nutrimento dei sudditi. Poi la pagina che segue addossa la colpevolezza maggiore ai magistrati, per il loro comportamento demagogico e imprevidente. . 80. In un paese e in un’epoca: la Francia al tempo della Rivoluzione. Il giudizio del M. sulla Rivoluzione francese qui è più di biasimo che di lode; diffusamente polemico sarà nel saggio storico, composto più tardi, La rivoluzione francese del 1789 e la rivoluzione italiana del 1859. 83-84. ad onta... delle cognizioni... «quando le passioni tumultuano e la sofferenza si acuisce, non soltanto la massa popolare, ma gli individui di qualsiasi ceto dimenticano le cognizioni, la logica e tant'altte bellissime cose » (Provenzal). È una verità confermata di continuo.
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Così, tornando a noi, due erano stati, alla fin de’ conti, i frutti princi90
pali della sommossa; guasto e perdita effettiva di viveri, nella sommossa medesima; consumo, fin che durò la tariffa, largo, spensierato, senza misura, a
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spese di quel poco grano, che pur doveva bastare fino alla nuova raccolta. A questi effetti generali s’aggiunga quattro disgraziati, impiccati come capi del tumulto: due davanti al forno delle grucce, due in cima della strada dov’era la casa del vicario di provvisione.
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non ci si trova neppur la notizia del come e del quando cessasse quella tariffa violenta. Se, in mancanza di notizie positive, è lecito propor congetture, noi incliniamo a credere che sia stata abolita poco prima 0 poco dopo il 24 di dicembre, che fu il giorno di quell’esecuzione. E in quanto alle gride, dopo
Del resto, le relazioni storiche di que’ tempi son fatte così a caso, che
l’ultima che abbiam citata del 22 dello stesso mese, non ne troviamo altre in materia di grasce; sian esse perite, o siano sfuggite alle nostre ricerche, o sia
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finalmente che il governo, disanimato, se non ammaestrato dall’inefficacia di que’ suoi rimedi, e sopraffatto dalle cose, le abbia abbandonate al loro corso. Troviamo bensì nelle relazioni di più d’uno storico (inclinati, com'erano, più a descriver grand’avvenimenti, che a notarne le cagioni e il progresso) il ritratto del paese, e della città principalmente, nell’inverno avanzato e nella primavera, quando la cagion del male, la sproporzione cioè tra i viveri e il bisogno, non distrutta, anzi accresciuta da’ rimedi che ne sospesero temporariamente gli effetti, e neppure da un’introduzione sufficiente di granaglie estere, alla quale ostavano l'insufficienza de’ mezzi pubblici e privati, la penuria de’ paesi circonvicini, la scarsezza, la lentezza e i vincoli del commercio,
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e le leggi stesse tendenti a produrre e mantenere il prezzo basso, quando, dico, la cagion vera della carestia, o per dir meglio, la carestia stessa operava senza ritegno, e con tutta la sua forza. Ed ecco la copia di quel ritratto doloroso. A ogni passo, botteghe chiuse; le fabbriche in gran parte deserte; le 93. quattro disgraziati: forse innocenti come Renzo, anche lui accusato di essere uno
dei « capi del tumulto ». Da qui il senso di pietà per quei disgraziati, vittime di un governo che, dopo essere stato responsabile primo dell’agitazione popolare, poi, per rimediare agli errori commessi, non sa escogitare di meglio che l’impiccagione di quattro capri espiatori, come
ammonimento a tutti i tumultuanti. 97-98. tariffa violenta: il calmiere; violento perché imposto con la forza e contro giustizia. 102. grasce: le derrate, il complesso dei generi alimentari. 106. descriver grand’avvenimenti...: ‘è il concetto della Introduzione. 117. A ogni passo...: incomincia « il doloroso ritratto » della carestia. Dopo avere illustrato da storico e da economista il bilancio della sommossa, con le sue conseguenze sociali ed umane, il M. torna narratore e artista, e traccia un grandioso affresco della fame. Così il tema della carestia, che di tanto
in tanto era comparso sullo sfondo del romanzo, raggiunge il suo culmine in questo capitolo, prima di sfociare in quelli della pestilenza e della guerra. Alcuni hanno considerato troppo lunga questa descrizione di Milano affamata; ma non lo è, né in sé stessa né in rapporto agli altri temi del romanzo. Bene vide il De Sanctis: « La carestia e la peste di Milano possono sembrare avvenimenti troppo sviluppati a quelli che concepiscono un romanzo come una logica artificiale con equilibrio di proporzioni. Questi ed altri avvenimenti, rimanendo nel loro senso generale uniti col tutto, vi stanno come parti organiche, dotate di attività propria, vere e compiute persone poetiche, che in quella armonia universale hanno fini e interessi propri ». E il Croce ha scritto: « Le parti storiche, qui come in ogni altra opera di vera poesia, non sono storiche, altro che in apparenza, e si risolvono e fondono nei due elementi
costitutivi
del romanzo,
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trando alcune di esse, come i racconti della carestia e della peste e del passaggio dei lan-
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strade, un indicibile spettacolo, un corso incessante di miserie, un soggiorno perpetuo di patimenti. Gli accattoni di mestiere, diventati ora il minor numero, confusi e perduti in una nuova moltitudine, ridotti a litigar l’elemosina con quelli talvolta da cui in altri giorni l’avevan ricevuta. Garzoni e giovani
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licenziati da padroni di bottega, che, scemato o mancato affatto il guadagno giornaliero, vivevano stentatamente degli avanzi e del capitale; de’ padroni stessi, per cui il cessar delle faccende era stato fallimento e rovina; operai, e anche maestri d’ogni manifattura e d’ogn’arte, delle più comuni come delle più raffinate, delle più necessarie come di quelle di lusso, vaganti di porta in porta, di strada in istrada, appoggiati alle cantonate, accovacciati sulle lastre, lungo le case e le chiese, chiedendo pietosamente l’elemosina, o esitanti tra il bisogno e una vergogna non ancor domata, smunti, spossati, rabbrividiti dal freddo e dalla fame ne’ panni logori e scarsi, ma che in molti serbavano ancora i segni d’un’antica agiatezza; come nell’inerzia e nell’avvilimento, compariva non so quale indizio d’abitudini operose e franche. Mescolati tra la deplorabile turba, e non piccola parte di essa, servitori licenziati da padroni caduti allora dalla mediocrità nella strettezza, o che quantunque facoltosissimi si trovavano inabili, in una tale annata, a mantenere quella solita pompa di seguito. E a tutti questi diversi indigenti s’aggiunga un numero d’altri, avvezzi in parte a vivere del guadagno di essi: bambini, donne, vecchi, aggruppati co’ loro antichi sostenitori, o dispersi in altre parti all’accatto. C’eran pure, e si distinguevano ai ciuffi arruffati, ai cenci sfarzosi, o anche a un certo non so che nel portamento e nel gesto, a quel marchio che le consuetudini stampano su’ visi, tanto più rilevato e chiaro, quanto più sono strane, molti di quella genìa de’ bravi che, perduto, per la condizion comune, quel loro pane scellerato, ne andavan chiedendo per carità. Domati dalla fame, non gareggiando con gli altri che di preghiere, spauriti, incantati, si strascicavan per le strade che avevano per tanto tempo passeggiate a testa alta, con isguardo sospettoso e feroce, vestiti di livree ricche e bizzarre, con gran penne, guarniti di ricche armi, attillati, profumati; e paravano umil mente la mano, che tante volte avevano alzata insolente a minacciare, o tradittice a ferire. Ma forse il più brutto e insieme il più compassionevole spettacolo erano zichenecchi, nelle parti serie e tristi e affannose, e le altre, di carattere satirico e ironico, nella vasta satira delle umane follie ».
117-139. botteghe chiuse... all’accatto: tutto l'ampio capoverso è costruito con participi assoluti, con frasi ellittiche, con periodi concisi e assiepati per asindeto gli uni sugli altri. Questa secchezza essenziale del linguaggio, mentre evidenzia di luce propria il realismo di ogni singolo particolare, conferisce a tutta la pagina una cadenza desolata e una forte tragicità. 143. genìa de’ bravi: dopo il primo quadro che ha presentato le varie categorie di cittadini costretti a mendicare, il secondo coi bravi dai «ciuffi arruffati » e dai « cenci sfarzosi » è più ricco di note pittoriche e psicologiche, e introduce un nuovo elemento
di riflessione e di pietà: il contrasto fra l'umiliazione del presente e l’albagia del passato. Osserva, in particolare, la suggestione che viene dall'immagine delle strade .« per tanto tempo passeggiate a testa alta » e da quella mano ora tesa urzilzzente all’elemosina, e prima «alzata insolente a minacciare, o fraditrice a ferire ». 151. più brutto e... compassionevole spettacolo: sono i contadini, i più sofferenti, perché i più colpiti dall’avversità della natura e dalla malvagità degli uomini; formano il terzo quadro del grande trittico della fame. La presentazione di questi sventurati sarà più dettagliata fino a scendere ad indicare le varie caratteristiche psicologiche secondo il tempo di arrivo in città, e quelle somatiche secondo i luoghi di provenienza.
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i contadini, scompagnati, a coppie, a famiglie intere; mariti, mogli, con bambini in collo, o attaccati dietro le spalle, con ragazzi per la mano, con vecchi dietro. Alcuni che, invase e spogliate le loro case dalla soldatesca, alloggiata lì o di passaggio, n’eran fuggiti disperatamente; e tra questi ce n'era di quelli che, per far più compassione, e come per distinzione di miseria, facevan vedere i lividi e le margini de’ colpi ricevuti nel difendere quelle loro poche ultime provvisioni, o scappando da una sfrenatezza cieca e brutale. Altri, andati esenti da quel flagello particolare, ma spinti da que’ due da cui nessun angolo era stato immune, la sterilità e le gravezze, più esorbitanti che mai per soddisfare a ciò che si chiamava i bisogni della guerra, eran venuti,
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venivano alla città, come a sede antica e ad ultimo asilo di ricchezza e di pia munificenza. Si potevan distinguere gli arrivati di fresco, più ancora che all’andare incerto e all’aria nuova, a un fare maravigliato e indispettito di trovare una tal piena, una tale rivalità di miseria, al termine dove avevan creduto di comparire oggetti singolari di compassione, e d’attirare a sé gli sguardi e i soccorsi. Gli altri che da più o men tempo giravano e abitavano le strade della città, tenendosi ritti co’ sussidi ottenuti o toccati come in sorte, in una tanta sproporzione tra i mezzi e il bisogno, avevan dipinta ne’ volti e negli atti una più cupa e stanca costernazione. Vestiti diversamente, quelli che ancora si potevano dir vestiti; e diversi anche nell’aspetto: facce dilavate del basso paese, abbronzate del pian di mezzo e delle colline, sanguigne di montanari; ma tutte affilate e stravolte, tutte con occhi incavati, con isguardi
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fissi, tra il torvo e l’insensato; arruffati i capelli, lunghe e irsute le barbe: corpi cresciuti e indurati alla fatica, esausti ora dal disagio; raggrinzata la pelle sulle braccia aduste e sugli stinchi e sui petti scarniti, che si vedevan di mezzo ai cenci scomposti. E diversamente, ma non meno doloroso di questo aspetto di vigore abbattuto, l'aspetto d’una natura più presto vinta, d’un languore e d’uno sfinimento più abbandonato, nel sesso e nell’età più deboli. Qua e là per le strade, rasente ai muri delle case, qualche po” di paglia pesta, trita e mista d’immondo ciarpume. E una tal porcheria era però un dono e uno studio della carità; eran covili apprestati a qualcheduno di que’ meschini, per posarci il capo la notte. Ogni tanto, ci si vedeva, anche di giorno, giacere o sdraiarsi taluno a cui la stanchezza o il digiuno aveva levate le forze e tronche le gambe: qualche volta quel tristo letto portava un Anche il ritmo asseconda la tragicità della pagina: ascendente ed incalzante, finché si tratta del numero sempre in aumento dei disgraziati sopravvenienti ad ondate nella città; discendente e languido, quando si parla dell’affievolirsi dell’estreme energie. 170-179. Vestiti... più deboli: è la parte più commovente del ritratto dei contadini. C'è un crescendo di pena, di sbalordimento, di disfacimento, che dalle membra passa nell'intelligenza, suggerendo all’artista note altamente umane e poetiche: «... sguardi fissi, tra il torvo
e l’insensato... ». Ma bene osserva il Momigliano che « tutta questa descrizione è infusa d’un religioso raccogli mento: di qui le deriva l’aspetto pacato e, pur nell’evidenza dei tratti, quel carattere spirituale e interiore che avvicina questo, co-
me altri passi dolorosi del romanzo, al ritratto della madre di Cecilia. A° proposito dell’arte del M. in pagine come queste si può ripetere quello che egli dice di quella pittura famosa: ‘ c’era in quel dolore un non so che di pacato e di profondo, che attestava un’anima tutta consapevole e presente a sentirlo? », 180-187. Qua e là... sul selciato: ora non più, dunque, mendicanti che chiedono, strascicandosi per le strade, ma creature sfinite su covili di paglia e cadaveri su quel « tristo letto » o sul « selciato ». Man mano che la descrizione progredisce, aumenta la drammaticità: nel bisogno sproporzionato, anche quel poco che la carità può offrire accresce il senso di squallore e di morte. Un senso,
che ogni immagine. ribadisce.
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cadavere: qualche volta si vedeva uno cader come un cencio all’improvviso, e rimaner cadavere sul selciato. Accanto a qualcheduno di que’ covili, si vedeva pure chinato qualche passeggiero o vicino, attirato da una compassion subitanea. In qualche luogo appariva un soccorso ordinato con più lontana previdenza, mosso
da una
mano ricca di mezzi, e avvezza a beneficare in grande; ed era la mano del buon Federigo. Aveva scelto sei preti ne’ quali una carità viva e perseverante fosse accompagnata e servita da una complession robusta; gli aveva divisi in 195
coppie, e ad ognuna assegnata una terza parte della città da percorrere, con
dietro facchini carichi di vari cibi, d’altri più sottili e più pronti ristorativi, e di vesti. Ogni mattina; le tre coppie si mettevano in istrada da diverse
parti, s’avvicinavano a quelli che vedevano abbandonati per terra, e davano
a ciascheduno aiuto secondo il bisogno. Taluno già agonizzante e non più in caso di ricevere alimento, riceveva gli ultimi soccorsi e le consolazioni della religione. Agli affamati dispensavano minestra, ova, pane, vino; ad altri, este, nuati da più antico digiuno, porgevano consumati, stillati, vino più generoso, riavendoli prima, se faceva di bisogno, con cose spiritose. Insieme, distribuivano vesti alle nudità più sconce è più dolorose. Né qui finiva la loro assistenza: il buon pastore aveva voluto che, almeno 205 dov’essa poteva arrivare, recasse un sollievo efficace e non momentaneo. Ai poverini a cui quel primo ristoro avesse rese forze bastanti per reggersi e per camminare, davano un po’ di danaro, affinché il bisogno rinascente e la mancanza d’altro soccorso non li rimettesse ben presto nello stato di prima;
agli altri cercavano ricovero e mantenimento, in qualche casa delle più vi-
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cine. In quelle de’ benestanti, erano per lo più ricevuti per carità, e come raccomandati dal cardinale; in altre, dove alla buona volontà mancassero i mezzi, chiedevan que’ preti che il poverino fosse ricevuto a dozzina, fissavano il prezzo, e ne sborsavan subito una parte a conto. Davano poi, di questi ricoverati, la nota ai parrochi, acciocché li visitassero; e tornavano essi medesimi
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a visitarli. Non c’è bisogno di dire che Federigo non ristringeva le sue cure a questa estremità di patimenti, né l’aveva aspettata per commoversi. Quella carità ardente e versatile dovevà tutto sentire, in tutto adoprarsi, accorrere dove non aveva potuto prevenire, prender, per dir così, tante forme, in quante variava
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il bisogno. Infatti, radunando tutti i suoi mezzi, rendendo più rigoroso il risparmio, mettendo mano a risparmi destinati ad altre liberalità, divenute ora 191-192. la mano del buon Federigo: alla « compassion subitanea » del passante, succede la « lontana previdenza » del Cardinale. La narrazione del M., volta ora a far vedere come l’opera soccorritrice di Federigo fosse illuminata ed ordinata, semplice nella forma,
ma efficace nella sostanza, si stende ampia e armoniosa; agiografica anche, ma conforme alla storia, e insieme perfettamente aderente all’idealizzazione artistica del personaggio. Si ‘ aggiunga che l’ammirata esaltazione che il M. fa dell'Arcivescovo suona anche nuova condanna dei governanti spagnoli; quelli avevano pensato a far la guerra o si erano trastullati con le gride, quando i patimenti
della popolazione erano già più che evidenti; Federigo si era impegnato da tempo per alleviare il più possibile fame e sofferenze. La carità che precorre i bisogni è ben più efficace di quella che sorge soltanto quando la miseria è già inguaribile. È un richiamo per tutti,-e per tutti i tempi. 201. consumati, stillati: brodi ristretti e bevande distillate. i i 216. Non c’è bisogno di dire...: l’opera di Federigo appare sempre più vasta e complessa, e la sua figura si eleva sempre più nella carità e nella saggezza. Il linguaggio, pur procedendo pacato, rivela la commossa ammirazione dello scrittore.
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d’un’importanza troppo secondaria, aveva cercato ogni maniera di far danari, per impiegarli tutti in soccorso degli affamati. Aveva fatte gran compre di granaglie, e speditane una buona parte ai luoghi della diocesi, che n’eran più scarsi; ed essendo il soccorso troppo inferiore al bisogno, mandò anche del sale, « con cui », dice, raccontando la cosa, il Ripamonti *, « l’erbe del prato e le cortecce degli alberi si convertono in cibo ». Granaglie pure e danari aveva distribuiti ai parrochi della città; lui stesso la visitava, quartiere per quartiere, dispensando elemosine; soccorreva in segreto molte famiglie povere; nel palazzo arcivescovile, come attesta uno scrittore contempota-
neo, il medico Alessandro Tadino, in un suo Ragguaglio che avremo spesso occasion di citare andando avanti, si distribuivano ogni mattina due mila scodelle di minestra di riso **. Ma questi effetti di carità, che possiamo certamente chiamar grandiosi, quando si consideri che venivano da un sol uomo e dai soli suoi mezzi (giacché Federigo ricusava, per sistema, di farsi dispensatore delle liberalità altrui); questi, insieme con le liberalità d’altre mani private, se non così feconde, pur numerose; insieme con le sovvenzioni che il Consiglio de’ decurioni aveva decretate, dando al tribunal di provvisione l’incombenza di distribuirle; erano ancor poca cosa in paragone del bisogno. Mentre ad alcuni montanari vicini a morir di fame, veniva, per la carità del ‘cardinale, prolungata la vita, altri arrivavano a quell’estremo; i primi, finito quel misurato soccorso, ci ricadevano; in altre parti, non dimenticate, ma posposte, come meno
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angustiate, da una carità costretta a scegliere, l’angustie divenivan mortali; per tutto si periva, da ogni parte s’accorreva alla città. Qui, due migliaia, mettiamo, d’affamati più robusti ed esperti a superar la concorrenza e_a farsi largo, avevano acquistata una minestra, tanto da non morire in quel giorno; ma più altre migliaia rimanevano indietro, invidiando quei, diremo noi, più fortunati, quando, tra i rimasti indietro, c'erano spesso le mogli, i figli, i padri loro? E mentre in alcune parti della città, alcuni di quei più abbandonati e ridotti all'estremo venivan levati di terra, rianimati, ricoverati e provveduti per qualche tempo; in cent’altre parti, altri cadevano, languivano o anche spiravano, senza aiuto, senza refrigerio.
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Tutto il giorno, si sentiva per le strade un ronzìo confuso di voci supplichevoli; la notte, un susurro di gemiti, rotto di quando in quando da alti * Historiae Patriae, Decadis V, Lib. VI, pag. 386. i ** Ragguaglio dell’origine et giornali successi della gran peste contagiosa venefica et malefica, seguita nella città di Milano etc. Milano, 1648, pag. 10.
231. Alessandro Tadino: medico milanese (1580-1661) fece parte del Tribunale di Sanità nella peste del 1630, di cui lasciò una relazione o Ragguaglio. Lo incontreremo più avanti. 244. una carità costretta a scegliere: fra i tanti bisognosi; e per questo « per tutto si periva ». Il quadro delle sofferenze e della
morte riprende vasto e terribile, dopo la parentesi caritativa del Cardinale. 248-250. invidiando quei... padri lorg?: il periodo interrogativo è piuttosto oscuro, ma
più nella forma che nella sostanza: ‘ diremo noi più fortunati quegli affamati, che riuscivano a conquistarsi una minestra, se fra i rimasti senza cibo c’erano spesso le loro mogli, i figli, i padri? ?. 254-257. un ronzìo... istrida acute: una musica lugubre, sempre più disperata, s’innalza sullo scenario di dolore e di morte. È come il secondo tempo del dramma: dopo le immagini visive, quelle uditive. Il M., però, ha un senso finissimo della misura; e non vi insiste: dopo quanto sappiamo, il bre-
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lamenti scoppiati all’improvviso, da urli, da accenti profondi d’invocazione,
e terminavano in istrida acute.
È cosa notabile che, in un tanto eccesso di stenti, in una tanta varietà di
querele, non si vedesse mai un tentativo, non iscappasse mai un grido di 260 sommossa: almeno non se ne trova il minimo cenno. Eppure, tra coloro che vivevano e morivano in quella maniera, c'era un buon numero d’uomini educati a tutt'altro che a tollerare; c'erano a centinaia, di que’ medesimi che, il giorno di san Martino, s'erano tanto fatti sentire. Né si può pensare che 265
l'esempio de’ quattro disgraziati che n’avevan portata la pena per tutti, fosse quello che ora li tenesse tutti a freno: qual forza poteva avere, non la presenza, ma la memoria de’ supplizi sugli animi d’una moltitudine vagabonda e riunita, che si vedeva come condannata a un lento supplizio, che già lo pa-
tiva? Ma noi uomini siam in generale fatti così: ci rivoltiamo sdegnati e fu-
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riosi contro i mali mezzani, e ci curviamo in silenzio sotto gli estremi; sop-
portiamo, non rassegnati ma stupidi, il colmo di ciò che da principio avevamo chiamato insopportabile. Il vòto che la mortalità faceva ogni giorno in quella deplorabile moltitu-
dine, veniva ogni giorno più che riempito: era un concorso continuo, prima da’ paesi circonvicini, poi da tutto il contado, poi dalle città dello stato, alla
fine anche da altre. E intanto, anche da questa partivano ogni giorno antichi abitatori; alcuni per sottrarsi alla vista di tante piaghe; altri, vedendosi, per dir così, preso il posto da’ nuovi concorrenti d’accatto, uscivano a un’ultima disperata prova di chieder soccorso altrove, dove si fosse, dove almeno non
fosse così fitta e così incalzante la folla e la rivalità del chiedere. S’incontra280
vano nell’opposto viaggio questi e que’ pellegrini, spettacolo di ribrezzo gli uni agli altri, e saggio doloroso, augurio sinistro del termine a cui gli uni e gli altri erano incamminati.
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Ma
seguitavano ognuno
la sua strada, se non
più per la speranza di mutar sorte, almeno per non tornare sotto un cielo divenuto odioso, per non riveder i luoghi dove avevan disperato. Se non che taluno, mancandogli affatto le forze, cadeva per la strada, e rimaneva lì morto: spettacolo ancor più funesto ai suoi compagni di miseria, oggetto d’orrore, forse di rimprovero agli altri passeggieri. « Vidi io, » scrive il Ripamonti, « nella strada che gira le mura, il cadavere d’una donna... Le usciva
ve capoverso, da solo, è sufficiente a darci la percezione dell’angoscia di quei lamenti, di quelle grida. 268-271. Ma noi uomini... insopportabile: un’altra sapiente riflessione sulla psicologia degli individui e delle masse. I mali « mezzani » ci paiono superabili, e quindi ci si rivolta contro di loro per vincerli; i mali « estremi » ci tolgono la forza e la volontà di reagire. L’amarezza della sentenza — degna, per alcuni critici, del Machiavelli — richiama alla mente quella che abbiamo incontrato all’inizio del Cap. XXV: «...gli uomini, generalmente parlando, quando l’indi-
gnazione non si possa sfogare senza grave
pericolo, non solo dimostran meno, o tengono affatto in sé quella che sentono, ma ne senton meno in effetto ».
275. anche da questa: da Milano. 279-282. S’incontravano,.. incamminati: la descrizione di queste due schiere opposte di derelitti affamati e disperati, ha veramente qualcosa di così incisivo e così sinistro, che richiama alla mente certe processioni dell’inferno dantesco. 287. forse di rimprovero: naturalmente per coloro che, potendolo, non avevano dato tutto l’aiuto necessario per soccorrere quegli sventurati prima che cadessero sfiniti per sempre. Ma « forse» — c’è dubbio e sconforto nel M. — l’egoismo eliminava il rimorso. 287-288. « Vidi io», scrive il Ripamonti...: la testimonianza dello storico accresce il senso « d’orrore e di rimprovero » di tutta la pagina.
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î promessi
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di bocca dell’erba mezzo rosicchiata, e le labbra facevano ancora quasi un atto di sforzo rabbioso... Aveva un fagottino in ispalla, e attaccato con le fasce al petto un bambino, che piangendo chiedeva la poppa... Ed erano sopraggiunte persone compassionevoli, le quali, raccolto il meschinello di terra,
lo portavan via, adempiendo così intanto il primo ufizio materno. » 295
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Quel contrapposto di gale e di cenci, di superfluità e di miseria, spettacolo ordinario de’ tempi ordinari, era allora affatto cessato. I cenci e la miseria eran quasi per tutto; e ciò che se ne distingueva, era appena un’apparenza di parca mediocrità. Si vedevano i nobili camminare in abito semplice e dimesso, o anche logoro e gretto; alcuni, perché le cagioni comuni della miseria avevan mutata a quel segno anche la loro fortuna, o dato il tracollo a patrimoni già sconcertati: gli altri, o che temessero di provocare col fasto la pubblica disperazione, o che si vergognassero d’insultare alla pubblica calamità. Que’ prepotenti odiati e rispettati, soliti a andare in giro con uno strascico di bravi, andavano ora quasi soli, a capo basso, con visi che parevano offrire e chieder pace. Altri che, anche nella prosperità, erano stati di pensieri più umani, e di portamenti più modesti, parevano anch’essi confusi, costernati, e come sopraffatti dalla vista continua d’una miseria che sorpassava, non solo la possibilità del soccorso, ma direi quasi, le forze della compassione. Chi aveva il modo di far qualche elemosina, doveva però fare una trista scelta tra fame e fame, tra urgenze e urgenze. E appena si vedeva una mano pietosa avvicinarsi alla mano d’un infelice, nasceva all’intorno una gara d’altri infelici; coloro a cui rimaneva più vigore, si facevano avanti a chieder con più istanza; gli estenuati, i vecchi, i fanciulli, alzavano le mani scarne; le madri alzavano e facevan veder da lontano i bambini piangenti, mal rinvoltati nelle fasce cenciose, e ripiegati per languore nelle loro mani. Così passò l’inverno e la primavera: e già da qualche tempo il tribunale della sanità andava rappresentando a quello della provvisione il pericolo del contagio, che sovrastava alla città, per tanta miseria ammontata in ogni parte di essa; e proponeva che gli accattoni venissero raccolti in diversi ospizi. Mentre si discute questa proposta, mentre s’approva, mentre si pensa ai mezzi, ai modi, ai luoghi, per mandarla ad effetto, i cadaveri crescono nelle strade ogni giorno più; a proporzion di questo, cresce tutto l’altro ammasso di miserie. Nel tribunale di provvisione vien proposto, come più facile e più speditivo,
un altro ripiego, di radunar tutti gli accattoni, sani e infermi, in un sol luogo, nel lazzeretto, dove fosser mantenuti e curati a spese del pubblico; e così
vien risoluto, contro il parere della Sanità, la quale opponeva
che, in una
così gran riunione, sarebbe cresciuto il pericolo a cui si voleva metter riparo.
312-314. gli estenuati... loro mani: dopo la descrizione di come la lunga fame avesse eliminato il « contrapposto di gale e di cenci », quasi facendo una sola di tutte le classi sociali — una descrizione più riflessiva che drammatica —, in quest’ultimo periodo il discorso riprende gli accenti tragici, e sul comune sfondo di angosce crea, con quei derelitti protendenti vanamente le mani, gruppi statuati d’impressionante squallore. 315. Così passò... la primavera: la primavera del 1629. Il M. nomina pochissime vol-
te la primavera e mai la descrive. L'autunno è la sua stagione. 316-317. il pericolo del contagio: dopo il tema della fame, ora quello della peste, in fine quello della guerra. Un grande capitolo di desolazione, un grande « ammasso di miserie », che ricorda la preghiera all’Altissimo di liberare l’umanità dalla peste, dalla fame e dalla guerra. 318-319. Mentre si discute... mentre... mentre...: l’ironia è evidente e suona come rimprovero sempre valido.
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Il lazzeretto di Milano (se, per caso, questa storia capitasse nelle mani di
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qualcheduno che non lo conoscesse, né di vista né per descrizione) è un recinto quadrilatero e quasi quadrato, fuori della città, a sinistra della porta detta orientale, distante dalle mura lo spazio della fossa, d’una strada di circonvallazione, e d’una gora che gira il recinto medesimo. I due lati maggiori son lunghi a un di presso cinquecento passi; gli altri due, forse quindici meno; tutti, dalla parte
esterna, son divisi in piccole stanze d’un piano solo; di dentro gira intorno a tre
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di essi un portico continuo a volta, sostenuto da piccole e magre colonne. Le stanzine eran dugent’ottantotto, o giù di lì: a’ nostri giorni, una grande apertura fatta nel mezzo, e una piccola, in un canto della facciata del lato che costeggia la strada maestra, ne hanno portate via non so quante. Al tempo della nostra storia, non c’eran che due entrature; una nel mezzo del lato che guarda le mura della città, l’altra di rimpetto, nell’opposto. Nel centro dello spazio interno, c’era, e c’è tutt'ora, una piccola chiesa ottangolare. La prima destinazione di tutto l’edifizio, cominciato nell’anno 1489, co’ danari d’un lascito privato, continuato poi con quelli del pubblico e d’altri testatori e donatori, fu, come l’accenna il nome stesso, di ricoverarvi, all’occorrenza, gli ammalati di peste; la quale, già molto prima di quell’epoca, era solita, e lo fu per molto tempo dopo, a comparire quelle due, quattro, sei, otto volte per secolo, ora in questo, ora in quel paese d'Europa, prendendone talvolta una gran parte, o anche scorrendola tutta, per il lungo e per il largo. Nel momento di cui parliamo, il lazzeretto non serviva che per deposito delle mercanzie soggette a contumacia.
Ora, per metterlo in libertà, non. si stette al rigor delle leggi sanitarie, e fatte in fretta in fretta le purghe e gli esperimenti prescritti, si rilasciaron tutte le mercanzie a un tratto. Si fece stender della paglia in tutte le stanze, si fecero provvisioni di viveri, della qualità e nella quantità che si poté; e s’invitarono, con pubblico editto, tutti gli accattoni a ricoverarsi lì. Molti vi concorsero volontariamente; tutti quelli che giacevano infermi per le strade e per le piazze, ci vennero trasportati; in pochi giorni, ce ne fu, tra gli uni e gli altri, più di tre mila. Ma molti più furon quelli che restaron fuori. O che ognun di loro aspettasse di veder gli altri andarsene, e di rimanere in pochi a goder l’elemosine della città, o fosse quella natural ripugnanza alla clausura, o quella diffidenza de’ poveri per tutto ciò che vien loro proposto da chi possiede le ricchezze e il potere (diffidenza sempre proporzionata all’ignoranza comune di chi la sente e di chi l’ispira, al numero de’ poveri, e al poco giudizio delle leggi), o il saper di fatto quale fosse in realtà il benefizio offerto, o fosse tutto questo insieme, o che altro, il fatto sta che la più parte, non facendo conto dell’invito, continuavano a strascicarsi stentando per le strade. Visto ciò, si credé. bene di passar dall’invito alla forza. 327. Il lazzeretto di Milano: costruito nel 1498, fu demolito verso la fine dell’Ottocento e assorbito in altre costruzioni. Ne resta soltanto la cappella. 329-330. porta... orientale: ora Porta Venezia. Da lì Renzo era entrato ed uscito nei giorni del tumulto (Capp. XI e XVI). 343. il nome stesso: da San Lazzaro, protettore degli appestati, oppure da Lazzaro, il lebbroso della parabola evangelica. Da lui si dissero /azzari o lazzeri i lebbrosi.
349. soggette a contumacia: soggette a sequestro, perché sospettate di contagio. 350. non... leggi sanitarie: poco prima aveva detto che si era agito « contro il parere della Sanità ». Il M. insiste sulle responsa-
bilità degli uomini. 365.-366. strascicarsi stentando per le strade: lo strascico sibilato delle parole fissa l’occhio su quel lento sofferto morire. « La morte Si sconta Vivendo », ha cantato Ungaretti (Sono una creatura).
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Î promessi sposi
Si mandarono in ronda birri che cacciassero gli accattoni al lazzeretto, e vi menassero legati quelli che resistevano; per ognun de’ quali fu assegnato a coloro il premio di dieci soldi: ecco se, anche nelle maggiori strettezze, i danari del
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pubblico si trovan sempre, per impiegarli a sproposito. E quantunque, com’era stata congettura, anzi intento espresso della Provvisione, un certo numero d’accattoni sfrattasse dalla città, per andare a vivere o a morire altrove,
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in libertà almeno; pure la caccia fu tale che, in poco tempo, il numero de’ ricoverati, tra ospiti e prigionieri, s’accostò a dieci mila. Le donne e i bambini, si vuol supporre che saranno stati messi in quartieri separati, benché le memorie del tempo non ne dican nulla. Regole poi e provvedimenti per il buon ordine, non ne saranno certamente mancati; ma si figuri ognuno qual ordine potesse essere stabilito e mantenuto, in que’ tempi specialmente e in quelle circostanze, in una così vasta e varia riunione, dove coi volontari si trovavano‘i forzati; con quelli per cui l’accatto era una necessità, un dolore, una vergogna, coloro di cui era il mestiere; con cresciuti nell’onesta attività de’ campi e dell’officine, molti altri educati piazze, nelle taverne, ne’ palazzi de’ prepotenti, all’ozio, alla truffa, allo no, alla violenza. Come stessero poi tutti insieme d’alloggio e di vitto, si potrebbe
molti nelle scher-
tristamente congetturarlo, quando non n’avessimo notizie positive; ma le abbiamo. Dormivano ammontati a venti a trenta per ognuna di quelle cellette, o accovacciati sotto i portici, sur un po’ di paglia putrida e fetente, o sulla nuda terra: perché, s'era bensì ordinato che la paglia fosse fresca e a sufficienza,
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e cambiata spesso; ma in effetto era stata cattiva, scarsa, e non si cambiava. S’era ugualmente ordinato che il pane fosse di buona qualità: giacché, quale
amministratore ha mai detto che si faccia e si dispensi roba cattiva? ma ciò che non si sarebbe ottenuto nelle circostanze solite, anche per un più ristretto servizio, come ottenerlo in quel caso, e per quella moltitudine? Si disse allora, come troviamo nelle memorie, che il pane del lazzeretto fosse alterato con sostanze pesanti e non nutrienti: ed è pur troppo credibile che non fosse uno di que’ lamenti in aria. D’acqua perfino c’era scarsità; d’acqua, voglio dire, viva e salubre: il pozzo comune, doveva esser la gora che gira le mura del recinto, bassa, lenta, dove anche motosa, e divenuta poi quale poteva
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renderla l’uso e la vicinanza d’una tanta e tal moltitudine. A tutte queste cagioni di mortalità, tanto più attive, che operavano sopra corpi ammalati o ammalazzati, s’aggiunga una gran perversità della stagione: piogge ostinate, seguite da una siccità ancor più ostinata, e con essa un caldo anticipato e violento. Ai mali s’aggiunga il sentimento de’ mali, la
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noia e la smania della prigionia, la rimembranza dell’antiche abitudini, il dolore di cari perduti, la memoria inquieta di cari assenti, il tormento e il ri369-370. i danari del pubblico... a sproposito: bene ha fatto il M. a calcare quel sezz-
pre per mezzo dell’accorto inserimento delle virgole. È una comica e tragica verità di cui facciamo esperienza, si può dire, ogni giorno. 379-384. riunione... alla violenza: il danno morale che da tale «vasta e varia riunione » doveva nascere, il M. non lo descrive, ma è facile indovinarlo: come indoviniamo la sua riprovazione.
391-392. quale amministratore... roba cattiva?: c'è un po’ di sorriso, ma quanto amaro! Del resto, nella descrizione di tante sofferenze, ogni accento troppo ironico o polemico o scherzoso sarebbe fuori luogo. 404. il sentimento de’ mali: il quale li fa apparire -più gravi e insopportabili. È cosa che ognuno sa, o può provare, anche senza conoscere niente di psicanalisi: della quale, a causa di questo pensiero, c’è chi vede nel M. un precursore;
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brezzo vicendevole, tant’altre passioni d’abbattimento o di rabbia, portate o nate là dentro; l’apprensione poi e lo spettacolo continuo della motte resa 410
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frequente da tante cagioni, e divenuta essa medesima una nuova e potente
cagione. E non farà stupore che la mortalità crescesse e regnasse in quel recinto a segno di prendere aspetto e, presso molti, nome di pestilenza: sia che la riunione e l’aumento di tutte quelle cause non facesse che aumentare l’attività d’un’influenza puramente epidemica; sia (come par che avvenga nelle carestie anche men gravi e men prolungate di quella) che vi avesse luogo un certo contagio, il quale ne’ corpi affetti e preparati dal disagio e dalla cattiva qualità degli alimenti, dall’intemperie, dal sudiciume, dal travaglio e dall’avvilimento trovi la tempera, per dir così, e la stagione sua propria, le condizioni necessarie in somma per nascere, nutrirsi e moltiplicare (se a un igno-
rante è lecito buttar là queste parole, dietro l'ipotesi proposta da alcuni fisici e riproposta da ultimo, con molte ragioni e con molta riserva, da uno, diligente quanto ingegnoso*): sia poi che il contagio scoppiasse da principio nel , lazzeretto medesimo, come, da un’oscura e inesatta relazione, par che pensassero i medici della Sanità; sia che vivesse e andasse covando prima d’allora (ciò che par forse più verisimile, chi pensi come il disagio era già an425 tico e generale, e la mortalità già frequente), e che portato in quella folla permanente, vi si propagasse con nuova e terribile rapidità. Qualunque di queste congetture sia la vera, il numero giornaliero de’ morti nel lazzeretto oltrepassò in poco tempo il centinaio. Mentre in quel luogo tutto il resto era languore, angoscia, spavento, ram430 marichìo, fremito, nella Provvisione era vergogna, stordimento, incertezza. Si discusse, si sentì il parere della Sanità; non si trovò altro che di disfare ciò
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che s’era fatto con tanto apparato, con tanta spesa; con tante vessazioni. S’aprì 435
il lazzeretto, si licenziaron tutti i poveri non che scapparon fuori con una gioia furibonda. l’antico lamento, ma più debole e interrotto; più compassionevole, dice il Ripamonti, per
ammalati che ci rimanevano, e La città tornò a risonare delrivide quella turba più rada e il pensiero del come fosse di
tanto scemata. Gl’infermi furon trasportati a Santa Maria della Stella, allora
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ospizio di poveri; dove la più parte perirono. Intanto però cominciavano que’ benedetti campi a imbiondire. Gli accattoni venuti dal contado se n’andarono, ognuno dalla sua parte, a quella tanto sospirata segatura. Il buon Federigo gli accomiatò con un ultimo sforzo, e con un nuovo ritrovato di carità: a ogni contadino che si presentasse all’arcivescovado, fece dare un giulio, e una falce da mietere. i * Del morbo petecchiale... e degli altri contagi in generale, opera del dott. F. Enrico Acerbi, Cap. III, $1e2. S
418-421. ignorante... ingegnoso: l’« ignorante » è lui, il M.: ma tale non pare davvero in questa analisi, così minuziosa ed acuta, delle cause del contagio. L'uomo « diligente quanto ingegnoso » è Enrico Acerbi, suo medico, e dal quale ebbe informazioni pet la descrizione della peste. 429-430. Mentre... incertezza: ritmo e simmetria fanno risaltare un paesaggio di squallore ed una condizione di incapacità.
434. scapparon... furibonda: la sinistra esplosione di gioia è rappresentata con tale icastica potenza che ha fatto pensare a certe figure della Cappella Sistina. La tragicità della contentezza si smorza, poi, in quella di un nuovo disfatto patire. 439. que’ benedetti campi: benedetti rende la lunga sospirata attesa della raccolta. 443. giulio: moneta d’argento, che valeva 56 centesimi.
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Con la messe finalmente cessò la carestia: la mortalità, epidemica o contagiosa, scemando di giorno in giorno, si prolungò però fin nell’autunno. Era sul finire, quand’ecco un nuovo flagello. Molte cose importanti, di quelle a cui più specialmente si dà titolo di storiche, erano accadute in questo frattempo. Il cardinal di Richelieu, presa, come s'è detto, la Roccella, ;abborracciata alla meglio una pace col re d’Inghilterra, aveva proposto e persuaso con la sua potente parola, nel Consiglio di quello di Francia, che si soccorresse efficacemente il duca di Nevers; e aveva insieme determinato il re medesimo a condurre in persona la spedizione. Mentre si facevan gli apparecchi, il conte di Nassau, commissario imperiale, intimava in Mantova al nuovo duca, che desse gli stati in mano a Ferdinando, o questo manderebbe, un esercito ad occuparli. Il duca che, in più disperate circostanze, s’era schermito d’accettare una condizione così dura e così sospetta, incoraggito ora dal vicino soccorso di Francia, tanto più se ne schermiva; però con termini in cui il no fosse rigirato e allungato, quanto si poteva, e con proposte di sommissione, anche più apparente, ma meno costosa. Il commissario se n’era andato, protestandogli che si verrebbe alla forza. In marzo, il cardinal di Richelieu era poi calato infatti col re, alla testa d’un esercito: aveva chiesto il passo al duca di Savoia; s’era trattato; non s’era concluso; dopo uno scontro, col vantaggio de’ Francesi, s’era trattato di nuovo, e concluso un accordo, nel quale il duca, tra l’altre cose, aveva stipulato che il Cordova leverebbe l’assedio da Casale; obbligandosi, se questo ricusasse, a unirsi co’ Francesi, per invadere il ducato di Milano. Don Gonzalo, parendogli anche d’uscirne con poco, aveva levato l’assedio da Casale, dov’era subito entrato un corpo di Francesi, a .rinforzar la guarnigione. Fu in questa occasione che l’Achillini scrisse al re Luigi quel suo famoso
sonetto: Sudate, o fochi, a preparar metalli: 444-445. epidemica o contagiosa: la distin-
‘— il duca di Nevers: che fino dal gennaio del 1628 aveva preso possesso di Mantova, ma era attaccato dalle truppe di Carlo (o morte) che si diffonde con grande rapiEmanuele di Savoia e da quelle del goverdità, e a cui non si ripara neppure con l’isonatore di Milano, don Gonzalo. lamento dei colpiti; contagiosa di una ma453. conte di Nassau: Giovanni di Nassau lattia che si propaga per contatto delle perfece la prima intimazione il 2 maggio 1628; sone o tramite cose infette. successivamente altre due, in giugno e in :446. un nuovo flagello: breve è stata la agosto. Più tardi il duca di Nevers inviò a schiarita dopo tanti mali. Ora ecco la guerra, Vienna il figlio Carlo per trattare personalcol « flagello » del passaggio delle truppe alemente con l’Imperatore. manne tra popolazioni già tanto provate. 461. In marzo: del 1629. I quindicimila 447-448. si dà titolo di storiche: sono le francesi condotti dal re e dal Richelieu calaazioni dei grandi della terra. Già sappiamo Di per il Monginevro puntando su Cadall’Introduzione che gli storici « rapiscono sale. solo che le sole spoglie più sfarzose e bril464. concluso un accordo: la pace di Sulanti,... le Imprese de -Prencipi e Potentati, sa. Sappiamo già che il Savoia era abile nel e qualificati Personaggi». Per loro, intere bilanciarsi fra i due contendenti (Capitopopolazioni, che soffrono e muoiono, non lo XXVII). fanno storia. Inutile avvertire un sarcasmo 469. Achillini: Claudio, bolognese (1574ben noto. 1640); uno dei più rinomati lirici del Sei449-450. re d’Inghilterra: Carlo I Stuart; cento: v. Cap. XXVII, n. 413. L’Achillini regnò dal 1625 al 1649. rappresenta la tipica figura del poeta del suo 451. di quello di Francia: Luigi XIII. tempo, sia per l’esasperata ricerca delle acuzione che il M. fa tra i due termini è press’a poco questa: epidemica è detto di malattia
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eun altro, con cui l’esortava a portarsi subito alla liberazione di Terra santa. Ma è un destino che i pareri de’ poeti non siano ascoltati: e se nella storia trovate de’ fatti conformi a qualche loro suggerimento, dite pur francamente ch’eran cose risolute prima. Il cardinal di Richelieu aveva in vece stabilito di ritornare in Francia, per affari che a lui parevano più urgenti. Girolamo Soranzo, inviato de’ Veneziani, poté bene addurre ragioni per combattere quella risoluzione; che il re e il cardinale, dando retta alla sua prosa come ai versi dell’Achillini, se ne ritornarono col grosso dell’esercito, lasciando soltanto sei
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mila uomini Mentre s’avvicinava disponeva a
in Susa, per mantenere il passo, e per caparra del trattato. quell’esercito se n’andava da una parte, quello di Ferdinando dall’altra; aveva invaso il paese de’ Grigioni e la Valtellina; si calar nel milanese. Oltre tutti i danni che si potevan temere da
un tal passaggio, eran venuti espressi avvisi al tribunale della sanità, che in quell’esercito covasse la peste, della quale allora nelle truppe alemanne c’era sempre qualche sprazzo, come dice il Varchi, parlando di quella che, un secolo avanti, avevan portata in Firenze. Alessandro Tadino, uno de’ conservatori della sanità (eran sei, oltre il presidente: quattro magistrati e due medici), fu incaricato dal tribunale, come racconta: lui stesso, in quel suo
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ragguaglio già citato *, di rappresentare al governatore lo spaventoso pericolo che sovrastava al paese, se quella gente ci passava, per andare all’assedio di Mantova, come s’era sparsa la voce. Da tutti i portamenti di don Gonzalo, pare che avesse una gran smania d’acquistarsi un. posto nella storia, la quale infatti non poté non occuparsi di lui; ma (come spesso le accade) non conobbe, o non si curò di registrare l’atto di lui più degno di memoria, la risposta che diede al Tadino in quella circostanza. Rispose che non sapeva cosa farci: che i motivi d’interesse e di riputazione, per i quali s'era mosso quell’esercito, pesavan più che il pericolo rappresentato; che con tutto ciò si cercasse di riparare alla meglio, e si sperasse nella Provvidenza. > Pagri06.
tezze più paradossali, proprie del Marinismo, sia per l’ossequio servile ai dominatori stranieri. Il sonetto citato dal M., e divenuto famosissimo, esprime perfettamente questi due aspetti dell’Achillini; ne riportiamo la prima quartina e l’ultima terzina: « Sudate, o Fochi a preparar metalli; — E voi, Ferri vitali,
(1503-1565). Nella Storia di Firenze narra il famoso assedio della città nel 1530 da par-
te delle truppe imperiali, a cui si attribuì l'origine della peste scoppiata nel 1531. 487. Alessandro Tadino: vedi n. 231. 492-499. Da tutti i portamenti... Provvidenza: abbiamo già osservato che nei riguardi di don Gonzalo il M. seguì fonti non atmonsviscerare a Paro di itene pronti, — Ite tendibili. Oggi noi sappiamo non solo che ti — Per inalzar colossi al re de’ Galli [....] don Gonzalo si oppose con tutti i mezzi a — Ceda le Palme pur Roma a Parìgi; — ‘sua disposizione alla discesa dei Lanzi, ma Che, se Cesare venne, e vide, e vinse, — anche che, quando questi mossero verso il Venne, vinse e non vide il gran Luigi ». milanese (settembre 1629), già da alcune set472. un altro... santa: questo sonetto incotimane egli aveva lasciato il governo del dumincia: «I tuoi colpi devoti, alfin, troncacato di Milano. Stando così le cose, la risporo... »; e l’esortazione conclude: « Vola in sta al Tadino, qui riferita, e sulla quale si di che Soria de la Pietà sull’ale; — E fa’, basa il nuovo negativo giudizio del M. nei Regno del Sia — Cristo di tua man l’Urna confronti del governatore, non fu certamente ottoman Tomba fatale ». da don Gonzalo. Forse potrà essere stadata l’iroprima: . destino.. un 473-475. Ma è dal suo successore, Ambrogio Spidata ta nia del M. investe tanto la retorica vana anche di lui sappiamo che si adoma nola: di ione presunz fatua dell’Achillini quanto la | però per procrastinare la venuta delle truppe molti poeti di essere i vati della patria. imperiali. o fiorentin 486. Varchi: Benedetto, storico
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510
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Î promessi sposi
Per riparar dunque alla meglio, i due medici della Sanità (il Tadino suddetto e Senatore Settala, figlio del celebre Lodovico) proposero in quel tribunale che si proibisse sotto severissime pene di comprar roba di nessuna sorte da’ soldati ch’eran per passare; ma non fu possibile far intendere la necessità d’un tal ordine al presidente, « uomo », dice il Tadino, « di molta bontà, che non poteva credere dovesse succedere incontri di morte di tante migliaia di persone, per il comercio di questa gente, et loro robbe ». Citiamo questo tratto per uno de’ singolari di quel tempo: ché di certo; da che ci son tribunali di sanità, non accadde mai a un altro presidente d’un tal corpo, di fare un ragionamerito simile; se ragionamento si può chiamare. In quanto a don Gonzalo, poco dopo quella risposta, se n’andò da Milano; e la partenza fu trista per lui, come lo era la cagione. Veniva rimosso per i cattivi successi della guerra, ‘della quale era stato il promotore e il capitano; e il popolo lo incolpava della fame sofferta sotto il suo governo.
(Quello che aveva fatto per la peste, o non si sapeva, o certo nessuno se n’inquietava, come vedremo più avanti, fuorché il tribunale della sanità, e i due medici specialmente.) All’uscir dunque, in carrozza da viaggio, dal palazzo di corte, in mezzo a una guardia d’alabardieri, con due trombetti a ca-
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vallo davanti, e con altre carrozze di nobili che gli facevan seguito, fu accolto con gran fischiate da ragazzi ch’eran radunati sulla piazza del duomo, e che gli andaron dietro alla rinfusa. Entrata la comitiva nella strada che conduce a porta ticinese, di dove si doveva uscire, cominciò a trovarsi in mezzo a una
folla di gente che, parte era lì ad aspettare, parte accorreva; tanto più che i trombetti, uomini di formalità, non cessaron di sonare, dal palazzo di corte,
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fino alla porta. E nel processo che si fece poi su quel tumulto, uno di costoro, ripreso che, con quel suo trombettare, fosse stato cagione di farlo crescere, risponde: « caro signore, questa è la nostra professione: et se $. E. non haues-
se hauuto a caro che noi hauessimo sonato, doveva comandarne che tacessimo. » Ma don Gonzalo, o per ripugnanza a far cosa che mostrasse timore, o per timore di render con questo più ardita la moltitudine, o perché fosse in effetto un po’ sbalordito, non dava nessun ordine. La moltitudine, che le guardie avevan tentato in vano di respingere, precedeva, circondava, seguiva le carrozze, gridando: «la va via la carestia, va via il sangue de’ poveri », e
peggio. Quando furon vicini alla porta, cominciarono anche a tirar sassi, mat-
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toni, torsoli, bucce d’ogni sorte, la munizione solita in somma di quelle spe-
dizioni; una parte corse sulle mura, e di là fecero un’ultima scarica sulle carrozze che uscivano. Subito dopo si sbandarono. 504. presidente: in quell’anno il conte G. B. Arconati: il M. ironizza a ragione sul suo ragionamento, « se ragionamento si può chiamare ». 516-536. All’uscir... sbandarono: pagina fra le più gustose del M. Ogni elemento della scena vi è ritratto con straordinaria evidenza: al centro il povero don Gon-
zalo in carrozza, silenzioso e sbalordito: tutt'intorno, oltre la siepe degli alabardieri e i trombettieri a cavallo e le carrozze dei nobili, una folla in atteggiamento di crescente ostilità: dalle « gran fischiate » dei ragazzi, all’« ultima scarica » di sassi e mattoni: Se
il M., con questa pagina, ha voluto creare una specie di epopea grottesca di don Gonzalo — il governatore ambizioso che scatena guerre, assedia città, e poi, intontito e spaurito alla cagnara del popolino, attraversa Milano rintanato in carrozza... (un po’ come lo sventurato vicario di provvisione: Capitolo XIII) — c'è riuscito alla perfezione. — Si osservi anche l'umorismo di quel processo ai trombettieri e la soddisfatta conclùsione della baraonda popolare: « subito dopo si sbandarono ». Storicamente la manifestazione contro don Gonzalo ci fu; la causa fu, in particolare, il rincaro del pane.
capitolo XXVIII
540
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In luogo di don Gonzalo, fu mandato il marchese Ambrogio Spinola, il cui nome aveva già acquistata, nelle guerre di Fiandra, quella celebrità militare che ancor gli rimane. Intanto l’esercito alemanno, sotto il comando supremo del conte Rambaldo di Collalto, altro condottiere italiano, di minore, ma non d’ultima fama,
aveva ricevuto l’ordine definitivo di portarsi all'impresa di Mantova; e nel mese di settembre, entrò nel ducato di Milano.
La milizia, a que’ tempi, era ancor composta in gran parte di soldati di ventura arrolati da condottieri di mestiere, per commissione di questo o di quel principe, qualche volta anche per loro proprio conto, e per vendersi poi insieme con essi. Più che dalle paghe, erano gli uomini attirati a quel mestiere dalle speranze del saccheggio e da tutti gli allettamenti della licenza. Disciplina stabile e generale non ce n’era; né avrebbe potuto accordarsi così 550 facilmente con l’autorità in parte indipendente de’ vari condottieri. Questi poi in particolare, né erano molto raffinatori in fatto di disciplina, né, anche volendo, si vede come avrebbero potuto riuscire a stabilirla e a mantenerla; ‘ché soldati di quella razza, o si sarebbero rivoltati contro un condottiere novatore che si fosse messo in testa d’abolire il saccheggio; o per lo meno, 555 l’avrebbero lasciato solo a guardar le bandiere. Oltre di ciò, siccome i principi, nel prendere, per dir così, ad affitto quelle bande, guardavan più ad aver gente in quantità, per assicurar l’imprese, che a proporzionare il numero alla joro facoltà di pagare, per il solito molto scarsa; così le paghe venivano per lo più tarde, a conto, a spizzico; e le spoglie de” paesi a cui la toccava, ne di560 venivano come un supplimento tacitamente convenuto. È celebre, poco meno del nome di Wallenstein, quella sua sentenza: esser più facile mante: nere un esercito di cento mila uomini, che uno di dodici mila. E questo di cui parliamo era in gran parte composto della gente che, sotto il suo comando, aveva desolata la Germania, in quella guerra celebre tra le guerre. 565 e per sé e per i suoi effetti, che ricevette poi il nome da’ trent'anni della sua durata: e allora ne correva l’undecimo. C’era anzi, condotto da un suo luogotenente, il suo proprio reggimento; degli altri condottieri, la più parte avevan comandato sotto di lui, e ci si trovava più d’uno di quelli che, quattr’anni dopo, dovevano aiutare a fargli far quella cattiva fine che ognun sa 570 Eran vent’otto mila fanti, e sette mila cavalli; e, scendendo dalla Valtel545
537. Ambrogio Spinola: genovese (15711630). Nella guerra in Fiandra, al servizio del re di Spagna Filippo III, aveva preso Ostenda; nel 1621 fu nominato comandante generale delle truppe spagnole. 540-541. Rambaldo di Collalto: altro italiano (1575-1630) al servizio di sovrani e interessi stranieri. 544-545. soldati di ventura: di queste bande, che per secoli sono state il flagello d’Italia (si pensi alla Canzone all'Italia del Petrarca e a certi capitoli del Principe del Machiavelli), il M. ha parlato nell’introduzione al Conte di Carmagnola. Ora c'è un’amara sintesi delle prodezze di quegli eroi. poi insieme con essi: 546-547. vendersi «e venduto ad un duce venduto, Con lui pugna, e non chiede il perché »: così nel coro del Conte di Carmagnola.
561. Wallenstein: già ne abbiamo sentito parlare: cfr. Cap. V, n. 343-344. 564-566. guerra... durata: la guerra dei Trent'anni (1618-1648), scoppiata in Germania per motivi religiosi, ma anche economici e politici, e che terminò con la pace di Wetsfalia, segnando l’affermazione dei principi calvinisti sopra l’imperatore e i principi cattolici. 569. quella cattiva fine: fu assassinato ad Egra, in Boemia, da coloro che, per ordine dell’imperatore Ferdinando, avrebbero dovuto arrestarlo. Sulle vicende del Wallenstein scrisse una trilogia drammatica lo Schiller. 570. vent’otto mila... sette mila...: in realtà, pare che le cifre fossero un po’ inferiori: ventimila e cinquemila. 570-574. scendendo... Milano: sembra di tenere una carta topografica sotto gli occhi.
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DID
Î promessi sposi
lina per portarsi nel mantovano, dovevan seguire tutto il corso che fa l’Adda per due rami di lago, e poi di nuovo come fiume fino al suo sbocco in Po, e dopo avevano un buon tratto di questo da costeggiare: in tutto otto giornate nel ducato di Milano.
Una gran parte degli abitanti si rifugiavano su per i monti, portandovi quel che avevan di meglio, e cacciandosi innanzi le bestie; altri rimanevano,
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o per non abbandonar qualche ammalato, o per preservar la casa dall’incendio, o per tener d’occhio cose preziose nascoste, sotterrate; altri perché non avevan nulla da perdere, o anche facevan conto d’acquistare. Quando la prima squadra arrivava al paese della fermata, si spandeva subito per quello e per i circonvicini, e li metteva a sacco addirittura: ciò che c’era da godere o da portar via, spariva; il rimanente, lo distruggevano o lo rovinavano; i mobili diventavan legna, le case, stalle: senza parlar delle busse, delle ferite, degli stupri. Tutti i ritrovati, tutte l’astuzie per salvar la roba, riuscivano per lo più inutili, qualche volta portavano danni maggiori. I soldati, gente ben più pratica degli stratagemmi anche di questa guerra, frugavano per tutti i buchi delle case, smuravano,
diroccavano;
conoscevan
fa-
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cilmente negli orti la terra smossa di fresco; andarono fino su per i monti a rubare il bestiame; andarono nelle grotte, guidati da qualche birbante del paese, in cerca di qualche ricco che vi si fosse rimpiattato; lo strascinavano alla sua casa, e con tortura di minacce e di percosse, lo costringevano a indicare il tesoro nascosto.
595
il suono de’ tamburi o delle trombe; succedevano alcune ore d’una quiete spaventata; e poi un nuovo maledetto batter di cassa, un nuovo maledetto
Finalmente
se n’andavano;
suon di trombe, annunziava
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erano
andati;
si sentiva da lontano
morire
un’altra squadra. Questi, non trovando più da
far preda, con tanto più furore facevano sperpero del resto, bruciavan le botti votate da quelli, gli usci delle stanze dove non c’era più nulla, davan fuoco anche alle case; e con tanta più rabbia, s'intende, maltrattavan le persone; e così di peggio in peggio, per venti giorni: ché in tante squadre era diviso l’esercito. Colico fu la prima terra del ducato, che invasero que’ demòni; si gettarono poi sopra Bellano; di là entrarono e si sparsero nella Valsassina, da dove sboccarono nel territorio di Lecco.
575-601. Una gran parte... l’esercito: il capitolo delle sofferenze ha un degno finale: un’epopea della devastazione. Un tono desolato accompagna quell’alluvione selvaggia che ad ondate successive, e che sembrano non dover finire mai, arriva, uccide e distrugge, e poi si allontana. Tutto è stupendamente scandito in questa grande pagina, in cui il poeta, che più ha detestato le guerre, meglio di ogni altro, forse; ne fa rivivere e
soffrire gli orrori: dalla fuga affannosa degli abitanti su pei monti, alle gesta sataniche delle soldatesche abbandonate al saccheggio. Ma la rappresentazione tocca il suo cul-
mine tragicamente sublime nell’immagine di
quella « quiete spaventata » che intercorre fra un vortice e l’altro: hai davanti un periodo in cui anche le accortezze sintattiche — come il cambiamento delle forme verbali (se n’andavano, erano andati) e il lugubre succedersi di imperfetti (se n'andavano..., si sentiva..., succedevano...) — contribuiscono a diffondere il senso della più angosciosa
sospensione. 602-603. Colico... Bellano: Colico è all’inizio del lago di Como, proprio all’estremità nord, ove confluiscono le strade dalle Alpi; Bellano è all’inizio del ramo di Lecco.
capitolo XXVIII
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Scheda critica al cap. XXVIII S'è già detto, a proposito
del capitolo
precedente,
in che
modo e con quale misura la riflessione sui fatti storici si inseri-
sce nella trama del racconto: non come grande storia dei « Prencipi e Potentati e qualificati Personaggi », che, come tale, è solo oggetto di ironia o di satira; bensì in quanto si manifesta in « casi generali... forti... estremi », che toccano, loro malgrado, anche le umili « gente meccaniche e di piccolo affare », gli « infimi... secondo la scala del mondo ». Per i poveri la storia appare come una sequela di cataclismi, la cui genesi, e fino a un certo punto la soluzione, resta per gran parte nelle mani dei signori, ma che su di loro si abbattono a guisa di un turbine che li sconvolge, sollevando nella sua rapina anche «i fuscelli nascosti tra l'erba ». Mettendosi in questa prospettiva, che è appunto quella degli « infimi », il Manzoni riduce emblematicamente la sua considerazione dei « fatti pubblici » nello schema dei tre grandi flagelli tradizionali, contro i quali la religiosità popolare invoca a tenerli lontani e ad eliminarne la furia distruttrice la mano misericordiosa di Dio: la fame, la guerra, la peste: « a peste, fame et bello libera nos, Domine ». In questa considerazione egli trasporta naturalmente la sua visione severa e solenne delle umane vicende, il suo fermo giudizio morale, la sua pietà senz'ombra di sentimentalismo, soprattutto il suo sentimento profondo e sempre presente dell’arcano operare della Provvidenza. Di qui nasce l'intensità e la forza delle grandi pagine storiche del romanzo, e in primo luogo di quelle che, in questo capitolo, son dedicate a descrivere le miserie della carestia e gli orrori della guerra. A ragione afferma Guglielmo Alberti che « in tutto e per tutto l'ispirazione deilo storico è la stessa di quella del romanziere »; più esattamente forse si dovrà dire che la prima si adegua alla seconda, accettandone l’impostazione e assolvendo la funzione che le viene assegnata in rapporto alla struttura generale del libro; e inoltre (ma il dirlo è quasi superfluo) che non muta, dalle pagine più propriamente romanzesche a quelle storiche, il sentimento morale dell'autore, la sua forza di penetrazione psicologica, la sua vena riflessiva e polemica. Mutano invece, con tutta evidenza, i modi del discorso, la compagine sintattica, lo stile e il linguaggio; che qui sono propriamente esemplati su un modulo più solenne, meno nuovo anche, se pur felicemente rinnovato e, nel suo genere, superbo. Vien meno quella scioltezza e libertà e modernità che caratterizzava tutti i diversi momenti dello stile narrativo — dialogo, monologo interiore, discorso indiretto, narrazione
vera
e propria,
e persino
i rari interventi,
in
persona prima dello scrittore, ironici e riflessivi —; e sottentra un discorso meditato, composto, lucido e stringente, quasi, si direbbe, scientifico, meno popolare ad ogni modo, con qualche residuo di aulicità. Anche l'esposizione è tutta contesta di fatti, di cose viste; ma la materia dei fatti non si svolge più, come altrove, secondo il ritmo estroso e imprevedibile dell’invenzione; è invece preventivamente ordinata in quadri distinti secondo le
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i promessi sposi situazioni, i ceti, le condizioni; obbedisce a una struttura assai più logica che fantastica. E si capisce che, con queste osservazioni che qui si propongono un po' sommariamente (e dovrebbero essere approfondite e integrate da una minuta analisi dei procedimenti stilistici), si vuole sottolineare soltanto una diversità, non una minor qualità dei modi espressivi. Ad assicurare l'intensità e la forza suggestiva di questo stile « storico » sta anche qui la grande umanità del Manzoni, di volta in volta pietosa o sdegnosa, dolorosa o solenne, e la ricchezza, la vastità, la concretezza e la capacità comprensiva della sua riflessione etica.
Capitolo XXIX
Qui, tra i poveri spaventati troviamo persone di nostta conoscenza.
Chi non ha visto don Abbondio, il giorno che si sparsero tutte in una volta le notizie della calata dell’esercito, del suo avvicinarsi, e de’ suoi por,tamenti, non sa bene cosa sia impiccio e spavento. Vengono; son trenta, >
son quaranta,
hanno
son cinquanta
mila; son diavoli, sono
saccheggiato Cortenuova;
ariani, sono
han dato fuoco a Primaluna:
anticristi;
devastano
Introbbio, Pasturo, Barsio; sono arrivati a Balabbio; domani son qui: tali eran le voci che passavan di bocca in bocca; e insieme un correre, un fer1o
marsi a vicenda, un consultare tumultuoso, un’esitazione tra il fuggire e il restare, un radunarsi di donne, un metter le mani ne’ capelli. Don Abbondio, risoluto di fuggire, risoluto prima di tutti e più di tutti, vedeva però, in ogni strada da prendere, in ogni luogo da ricoverarsi, ostacoli insuperabili e pericoli spaventosi. « Come fare? » esclamava: « dove andare? » I monti, lasciando da parte la difficoltà del cammino, non eran sicuri; già s'era sa2. don Abbondio...: sentiamo subito, con l'apparire di don Abbondio in primo piano, che il capitolo avrà un tono ben diverso dai precedenti. Giustamente il. Petronio: «La carestia è stata descritta nei suoi effetti dolorosi su tutta una folla affamata e morente. Insistere anche per la guerra sul medesimo tono sarebbe stato eccessivo ed esteticamente
sconveniente; è perciò accorgimento d’artista farci sentire qui e là, in qualche sobrio commosso periodo, le tristi conseguenze della calata dei Lanzichenecchi, ma rappresentarla essenzialmenze attraverso l’anima piccola di don. Abbondio, nel cui specchio quella tragedia si sfuma naturalmente di comico. I motivi perciò e i toni delle pagine seguenti sono due: tono grave e accorato quando oggetto della rappresentazione è la folla dolorante; tono lieve e scherzoso quando l’eroe ne è don Abbondio sbigottito e tremante, agitato al suo solito da una paura e da un egoismo che giungono sino al paradossale e quindi al comico ». 4-7. Vengono... domani son qui: bene il ritmo affannoso rende il fantastico crescendo delle voci, il terrore che si diffonde nella
folla, gli spettri — «diavoli... ariani... anticristi...» — che alimentano il panico collettivo. C'è chi pensa che il M., nello scrivere queste pagine, ricordasse un’esperienza giovanile: la ritirata delle truppe francesi sotto l’incalzare di quelle della coalizione nell’aprile del 1799, osservata da lui, alunno nel Collegio di Longone. 6-7. Cortenuova... Balabbio: . « tutte località della Valsassina, da Bellano procedendo verso Lecco; il M. trascrive foneticamente, dal dialetto, alcuni toponimi, la cui grafia ufficiale è oggi un’altra. Oggi infatti scriviamo: ‘Introbio’, ‘Barzio’, ‘Ballabio ? » (Bezzola). 10-11. Don Abbondio, risoluto: una volta tanto anche lui è risoluto: ma «di fuggire, e risoluto prima di tutti e più di tutti». Quindi è il solito don Abbondio, che anche nel terrore comune si isola dagli altri e rimane chiuso nel suo stordimento e nel suo egoismo. Per questo è ancora tanto comico. L’arte del M. si manifesterà, ora, nel creare sempre nuove e avvincenti situazioni, in cui il comportamento del curato susciterà inattesi e convinti motivi di riso. E ne avremo per due capitoli interi.
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î promessi sposi
puto che i lanzichenecchi vi s’arrampicavano come gatti, dove appena avessero indizio o speranza di far preda. Il lago era grosso; tirava un gran vento: oltre di questo, la più parte de’ barcaioli, temendo d'esser forzati a tragittar soldati o bagagli, s’eran rifugiati, con le loro barche, all’altra riva: alcune poche rimaste, eran poi partite stracariche di gente; e, travagliate dal peso e. dalla burrasca, si diceva che pericolassero ogni momento. Per portarsi lontano e fuori della strada che l’esercito aveva a percorrere, non era possibile trovar né un calesse, né un cavallo, né alcun altro mezzo: a piedi, don Abbondio non avrebbe potuto far troppo cammino, e temeva d’esser raggiunto per istrada. Il territorio bergamasco non era tanto distante, che le sue gambe non ce lo potessero portare in una tirata; ma si sapeva ch’era stato spedito in fretta da Bergamo uno squadrone di cappelletti, il qual doveva costeggiare il confine, per tenere in suggezione i lanzichenecchi; e quelli eran diavoli in carne, né più né meno di questi, e facevan dalla parte loro il peggio che potevano. Il pover’'uomo correva, stralunato e mezzo fuor di sé, per la casa; andava dietro a Perpetua, per concertare una risoluzione con lei; ma Perpetua, affaccendata a raccogliere il meglio di casa, e a nasconderlo in soffitta, o per i bugigattoli, passava di corsa, affannata, preoccupata, con le mani o con le braccia piene, e rispondeva: «or ora finisco di metter questa roba al sicuro, e poi faremo anche noi come fanno gli altri ». Don Abbondio voleva trattenerla, e discuter con lei i vari partiti; ma lei, tra il da fare, e la fretta, e lo spa-
vento che aveva anch’essa in corpo, e la rabbia che le faceva quello del padrone, era, in tal congiuntura, meno trattabile di quel che fosse stata mai. « S'ingegnano
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gli altri; c’ingegneremo
anche
noi. Mi
scusi, ma
non
è capace che d’impedire. Crede lei che anche gli altri non abbiano una pelle da salvare? Che vengono per far la guerra a lei i soldati? Potrebbe anche
15. lanzichenecchi: i soldati mercenari tedeschi. Derivavano il nome da Landsknecht, che letteralmente significa « servo (Krecht) del paese (Land) », cioè « soldato territoriale ». Poi, dalla vicinanza di pronunzia di Lands con Lanz (lancia), significò « soldato armato di lancia ». In questo senso erano generalmente intesi in Italia, ove si chiamarono, di solito, Lanzi; in particolare gli alabardieri tedeschi al servizio del granduca di Toscana, dai quali prese nome la splen-
dida Loggia dei Lanzi, loro corpo di guardia, nella piazza della Signoria a Firenze. — s’arrampicavano come gatti: li vede, don Abbondio! 24. Il territorio bergamasco...: è la terza strada all’angosciosa domanda: « dove andare? ». Sui 70nti no, perché i Lanzichenecchi vi salgono come gatti; al lago no, perché è grosso e non ha barche; nel terri torio bergamasco, allora? Neppure qui, perché si possono incontrare i « cappelletti » che sono « diavoli in carne », proprio come i Lanzichenecchi! Nessuna soluzione, dunque, per don Abbondio, mentre l’orgasmo ‘si fa sempre più drammatico. “n
26-27. cappelletti: soldati a cavallo, che Venezia arruolava in Albania. Il nome derivava dal loro elmo senza cresta né visiera. 29. Il pover’uomo correva...: è comico e fa pietà, ridotto com'è, peggio d’un bambino. 31-33. ma Perpetua... di corsa...: corre, dunque, anche lei, l’accorta Perpetua; ma il suo è un tutt'altro correre. Perpetua ricompare sulla scena nell’atteggiamento che le conosciamo di protettrice affettuosa e stizzosa di don Abbondio; e lui, fra poco, la chiamerà la sua « governante »! Da tale atteggiamento deriva, questa volta come sempre, anche la sua funzione artistica, che è quella di porre in risalto, con l’affermazione di un’energia popolana e sbrigativa, tutta la dappocaggine del padrone. Complemento indispensabile alla vita reale e a quella poetica di don Abbondio, Petpetua alimenta così la comicità del racconto con sempre nuove vivacissime note. 41. per far la guerra a lei i soldati?: anche con lo «spavento... in corpo », le battute del buon senso Perpetua sa dirle sempre. Questa di ora ci ricorda l’altra pronun-
capitolo XXIX dare una mano, 45
201 in questi momenti,
in vece di venit tra’ piedi a piangere
e a impicciare. » Con queste e simili risposte si sbrigava da lui, avendo già stabilito, finita che fosse alla meglio quella tumultuaria operazione, di prenderlo per un braccio, come un ragazzo, e di strascinarlo su per una montagna. Lasciato così solo, s’affacciava alla finestra, guardava, tendeva gli orecchi; e vedendo passar qualcheduno, gridava con una voce mezza di pianto
e mezza di rimprovero:
« fate questa carità al vostro povero curato di cer-
cargli qualche cavallo, qualche mulo, qualche asino. Possibile che nessuno 50
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mi voglia aiutare! Oh che gente! Aspettatemi almeno, che possa venire anch’io con voi; aspettate d’esser quindici o venti, da condurmi via insieme, ch'io non sia abbandonato. Volete lasciarmi in man de’ cani? Non sapete che sono luterani la più parte, che ammazzare un sacerdote l’hanno per opera meritoria? Volete lasciarmi qui a ricevere il martirio? Oh che gente! Oh che gente! » Ma a chi diceva queste cose? Ad uomini che passavano curvi sotto il peso della loro povera roba, pensando a quella che lasciavano in casa, spingendo le loro vaccherelle, conducendosi dietro i figli, carichi anch'essi quanto potevano, e le donne con in collo quelli che non potevan camminare. Alcuni tiravan. di lungo, senza rispondere né guardare in su; qualcheduno diceva: «eh messere! faccia anche lei come può; fortunato lei che non ha da pensare alla famiglia; s’aiuti, s’ingegni ». « Oh povero me! » esclamava don Abbondio: «oh che gente! che cuori! Non c’è carità: ognun pensa a sè; e a me nessuno vuol pensare ». E tornava in cerca di Perpetua. « Oh appunto! » gli disse questa: «e i danari? » « Come faremo? » « Li dia a me, che anderò a sotterrarli qui nell’orto di casa, insieme con le posate. » « Ma...
»
ziata sulle minacce dei bravi: pettate
non
si danno
via come
«le schiopconfetti »
(Cap. I); mentre ciò che dice subito dopo: « Potrebbe anche dare una mano... », ci ricorda che, secondo l’occasione, « sapeva ubbidire e comandare ». E ora è più opportuno che sia lei a comandare, visto lo stato in cui è ridotto il padrone: un «ragazzo » da prendere per un braccio e strascinar via. 48-55. fate questa carità... Oh che gente!: nel tanto di comico che il M. ha scritto con don Abbondio, sapremmo trovare ben poco che superi la comicità di questo lamento ed insieme esprima più perfettamente il vuoto, la dappocaggine e, soprattutto, l'egoismo del curato. Ogni parola, qui, può suggerire anche una riflessione e un sorriso; ci limitiamo a segnalare l'umorismo di quella degradazione « cavallo... mulo... asino », e la comicità di quel « martirio » sulla bocca di don Abbondio: quanta vocazione egli abbia al martirio lo sappiamo già, da quando, tornando dal castello dell’Innominato,
temeva che qualcuno lo prendesse pet missionario e potesse martirizzarlo (Cap. XXIV). Questa volta, in verità, il povero curato avrebbe più motivi — con quei luterani! — a temere il martirio o comunque la morte: ma il grottesco è nell’insieme dell’espressione e nella figura dell’uomo che la pronunzia. 64. Non
c’è carità: ognun pensa a sé...: chi lo dice! L’uomo, che l’egoismo ha reso così insensibile e meschino, da non scorgere nella tragedia di tutti, che la sua parte di pena. Osserviamo un contrasto significativo: l’egoismo ha spinto fino ad ora don Abbondio ad allontanare tutti gli altri da sé, a tenerli fuori della sua casa, e lì chiudersi lui: ora lo stesso egoismo, sotto l’incalzare del terrore, lo spinge a cercare gli altri, a mettersi in mezzo a loro (poco prima aveva supplicato: «... aspettate d’esser quindici o venti, da condurmi via insieme, ch’io non sia abbandonato »), ad uscire quindi dalla sua casa, il rifugio sicuro di tutta la vita!
2502
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i promessi sposi
« Ma, ma; dia qui; tenga qualche soldo, per quel che può occorrere; e poi lasci fare a me. » Don Abbondio ubbidì, andò allo scrigno, cavò il suo tesoretto, e lo consegnò a Perpetua; la quale disse: «vo a sotterrali nell’orto, appiè del fico »; e andò. Ricomparve poco dopo, con un paniere dove c’era della munizione da bocca, e con una piccola gerla vota; e si mise in fretta a col-
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locarvi nel fondo un po’ di biancheria sua e del padrone, dicendo intanto: « il breviario almeno lo porterà lei ». « Ma dove andiamo?» « Dove vanno tutti gli altri? Prima di tutto, anderemo in istrada; e là sentiremo, e vedremo cosa convenga di fare. » In quel momento entrò Agnese con una gerletta sulle spalle, e in aria di chi viene a fare una proposta importante. Agnese, risoluta anche lei di non aspettare ospiti di quella sorte, sola in casa com'era, e con ancora un po’ di quell’oro dell’innominato, era stata qualche tempo in forse del luogo dove ritirarsi. Il residuo appunto di quegli scudi, che ne’ mesi della fame le avevan fatto tanto pro, era la cagion principale della sua angustia e della irresoluzione, per aver essa sentito che, ne’ paesi già invasi, quelli che avevan danari, s’eran trovati a più terribil condizione, esposti insieme alla violenza degli stranieri, e all’insidie de’ paesani. Era vero che, del bene piovutole, come si dice, dal cielo, non aveva fatta la confidenza a nessuno, fuorchè a don Abbondio; dal quale andava, volta per volta, a farsi spicciolare uno scudo, lasciandogli sempre
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qualcosa da dare a qualcheduno più povero di lei. Ma i danari nascosti, specialmente chi non è avvezzo a maneggiarne molti, tengono il possessore in un sospetto continuo del sospetto altrui. Ora, mentre andava anch’essa rimpiattando qua e là alla meglio ciò che non poteva portar con sé, e pensava
agli scudi, che teneva cuciti nel busto, si rammentò che, insieme con essi, l’innominato, le aveva mandate le più larghe offerte di servizi; si rammentò le cose che aveva sentito raccontare di quel suo castello posto in luogo così sicuro, e dove, a dispetto del padrone, non potevano arrivar se non gli
uccelli; e si risolvette d’andare a chiedere un asilo lassù. Pensò come po-
73-74. Don Abbondio... a Perpetua: atto più irriflessivo don Abbondio non avrebbe potuto compiere. Ma ora in lui non c’è più circospezione, mentre tutta l’autorevolezza è passata a Perpetua. Per valutare questo crollo dell’uomo, si ricordi con quanto sospetto e quanta cura lo abbiamo visto maneggiare e custodire i suoi danari la sera della visita di Tonio (Cap. VIII). 74-75. nell’orto, appiè del fico: la fa grossa, questa volta, Perpetua (la quale, diciamo fra parentesi, nonostante tutta la sua furbizia è stata condannata dal M. a farle grosse piuttosto spesso: come quando fu « infinocchiata » da Agnese). Perpetua, a sua scusante, non sapeva però quello che noi già sappiamo: che cioè i lanzichenecchi, non solo frugavano per tutti i buchi delle case, smuravano e ditoccavano, ma anche « conoscevano facilmente negli orti la terra smossa di fresco ». Ma questa papera della
buona donna servirà poi al M. per creare una delle scene più deliziose al rientro di don Abbondio in canonica. 76. munizione da bocca: qualcosa da mangiare; la scherzosa imitazione è suggerita dallo stato di guerra. 85. un po’ di quell’oro: il modo escogitato da Agnese per salvare quest’oro, segna, ancora una volta, un punto in suo favore nei confronti con Perpetua. 87. le avevan fatto tanto pro: le avevano tanto giovato. Espressione popolare, che sta bene riferita ad Agnese. 91-94. Era vero... povero di lei: intravedi un angolo di vita di villaggio, coi suoi abitanti umili ed economi. In don Abbondio rivedi la vecchia avarizia, in Agnese l’innata bontà. 98. teneva cuciti nel busto: altro partico lare di semplici ma avvedute costumanze paesane.
capitolo
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trebbe farsi conoscere da quel signore, e le venne subito in mente don
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Abbondio; il quale, dopo quel colloquio così fatto con l'arcivescovo, le aveva sempre fatto festa, e tanto più di cuore, che lo poteva senza compromettersi con nessuno, e che, essendo lontani i due giovani, era anche lontano il caso che a lui venisse fatta una richiesta, la quale avrebbe messa
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quella benevolenza a un gran cimento. Suppose che, in tal parapiglia, il pover’uomo doveva esser ancor più impicciato e più sbigottito di lei, e che il partito potrebbe parere molto buono anche a lui; e glielo veniva a proporre. Trovatolo con Perpetua, fece la proposta a tutt’e due. « Che ne dite, Perpetua? » domandò don Abbondio. « Dico che è un'ispirazione del cielo, -e che non bisogna perder tempo, e mettersi la strada tra le gambe. » « E poi... »
« E poi, e poi, quando saremo là, ci troveremo ben contenti. Quel signore, ora si sa che non vorrebbe altro che far servizi al prossimo; e sarà ben .contento anche lui di ricoverarci. Là, sul confine, e così per aria, soldati non ne verrà certamente. È poi e poi, ci troveremo anche da mangiare; ché, su per i monti, finita questa poca grazia di Dio », e così dicendo, l’accomodava nella gerla, sopra la biancheria, « ci saremmo trovati a mal partito. » « Convertito, è convertito davvero, eh? »
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« Che c’è da dubitarne ancora, dopo tutto quello che si sa, dopo quello che anche lei ha veduto? » « E se andassimo a metterci in gabbia? « Che gabbia? Con tutti codesti suoi casi, mi scusi, non si verrebbe mai a una conclusione. Brava Agnese! v'è proprio venuto un buon pensiero. » E messa la gerla sur un tavolino, passò le braccia nelle cigne, e la prese sulle spalle. « Non si potrebbe », disse don Abbondio, « trovar qualche uomo che
venisse con noi, per far scorta al suo curato?
Se incontrassimo qualche
birbone, che pur troppo ce n’è in giro parecchi, che aiuto m’avete a dar 135
voi altre? » « Un’altra, per perder tempo! » esclamò Perpetua. « Andarlo a cercar ora l’uomo, che ognuno ha da pensare a’ fatti suoi. Animo! vada a prendere il breviario e il cappello; e andiamo. »
108. benevolenza a un gran cimento: dunque le parole del Cardinale avevano fatto effetto su don Abbondio; ma a patto che non si parlasse di quella tal richiesta di matrimonio, perché allora ritornava l’ombra di don Rodrigo! Come Agnese, del resto, ben sapeva: «è un uomo fatto ‘così: tornando il caso farebbe lo stesso » (Cap. XXIV). 108-109. Suppose... il pover’'uomo...: era una supposizione molto facile, per Agnese specialmente. 112. Che ne dite, Perpetua?: una volta tanto lo cerca il « parere » di Perpetua. A che cosa è ridotto il poveretto! Il parere richiesto viene pronto e deciso; e pittoresco, anche, con quel mettersi la strada fra le gambe.
118. così per aria: immagine estrosa. Anche Agnese aveva pensato qualcosa di simile: lassù non potevano atrivare «se non gli uccelli ». Torna la poesia del castellaccio in cima all’« aspra giogaia di monti »; ma è tutt’altra poesia, che quella cupa e terribile del primo incontro. 130. Non si potrebbe...: in queste pagine, ha detto un critico, ci sono «tutte le risorse dello stile dubitativo »: condizionali, congiuntivi ipotetici, futuri esitanti, congiunzioni avversative e interrogative, interiezioni esplorative... cioè c'è tutto don Abbondio nella gamma infinita degli atteggiamenti, delle frasi, dei pensieri — e, in particolare, nel suo egoismo — che dipingono il più coerente ritratto di un’esistenza meschina e paurosa.
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Don Abbondio andò, tornò, di lì a un momento, col breviario sotto il braccio, col cappello in capo, e col suo bordone in mano; e uscirono tutt€ tre per un usciolino che metteva sulla piazzetta. Perpetua richiuse, più per non trascurare una formalità, che per fede che avesse in quella toppa e in que’ battenti, e mise la chiave in tasca. Don Abbondio diede, nel passare, un'occhiata alla chiesa, e disse tra i denti: «al popolo tocca a custodirla, che serve a lui. Se hanno un po’ di cuore per la loro chiesa, ci penseranno; se poi non hanno cuore, tal sia di loro. » Presero per i campi, zitti zitti, pensando
ognuno
a’ casi sui, e guar-
dandosi intorno, specialmente don Abbondio, se apparisse qualche figura sospetta, qualcosa di straordinario. Non s’incontrava nessuno: la gente era, o nelle case a guardarle, a far fagotto, a nascondere, o per le strade che conducevan direttamente all’alture. Dopo aver sospirato e risospirato, e poi lasciato scappar qualche interiezione, don Abbondio cominciò a brontolare più di seguito. Se la prendeva col duca di Nevets, che avrebbe potuto stare in Francia a godersela, a fare il principe, e voleva esser duca di Mantova a dispetto del mondo; con l’imperatore, che avrebbe dovuto aver giudizio per gli altri, lasciar correr l’acqua all’ingiù, non istar su tutti i puntigli: ché finalmente, lui sarebbe sempre stato l’imperatore, fosse duca di Mantova Tizio o Sempronio. L’aveva principalmente col governatore, a cui sarebbe toccato a far di tutto, per tener lontani i flagelli dal paese, ed era lui che ce gli attirava: tutto per il gusto di far la guerra. « Bisognerebbe » diceva, « che fossero qui que’ signori a vedere, a provare, che gusto è. Hanno da rendere un bel conto! Ma intanto, ne va di mezzo chi non ci ha colpa. » i « Lasci un po’ star codesta gente; che già non son quelli che ci verranno a aiutare, » diceva Perpetua. « Codeste, mi scusi, sono di quelle sue solite chiacchiere che non concludon nulla. Piuttosto, quel che mi dà noia... » « Cosa c’è? »
Perpetua, la quale, in quel pezzo di strada, aveva pensato con comodo al nascondimento fatto in furia, cominciò a lamentarsi d’aver dimenticata la tal cosa,
d’aver mal riposta la tal altra; qui, d’aver lasciata una
che poteva guidare i ladroni, là...
138. col suo bordone: e niente altro. La gerla l’ha Perpetua; non c’è particolare che non indichi preoccupazione per sé e insensibilità per gli altri. Per bordore, come bastone tipico dei pellegrini, cfr. Cap. VIII, n. 194; ma qui vale bastone comune per appoggiarsi nel camminare. 142-143. al popolo tocca... a lui: « don Abbondio ne ha dette di cose balorde (se ne può fare un’abbondante antologia), e ancora ne dirà («la patria è dove si sta bene »); ma questa è la più balorda. C'è assenza d’ogni senso morale, oltre che assenza di coscienza sacerdotale e parrocchiale. Non sente la responsabilità che, come curato, ha di fronte alla sua chiesa, di fronte al suo popolo. Don Abbondio qui è proprio un cattivo servitore, Dopo l’incontro
traccia
coi bravi, non ne ha azzeccata più una. (E prima?) » (Angelini). 152-157. duca di Nevers... imperatore... governatore: tutta gente a cui, come a don Rodrigo (e anche, potremmo aggiungere, co-
me al Cardinale e come all’Innominato, perché il brontolio che ora fa don Abbondio è simile a quello del ritorno dal castello: cap. XXIII) non mancherebbe nulla per essere la « più felice di questo. mondo »; e invece pare che lo facciano apposta per tormentare lui, il buon prete, che « non ci ha colpa ». Proprio da questo nuovo accostamento dei grandi della storia con l’umile realtà del più pusillanime personaggio, si sprigiona la comicità del nuovo soliloquio. 163. mi scusi: il terzo mi scusi, e, co-
me i precedenti, risentito e imperativo.
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« Brava! » disse don Abbondio, ormai sicuro della vita, quanto bastava per poter angustiarsi della roba: «brava! così avete fatto? Dove avevate la testa? »
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« Come! » esclamò Perpetua, fermandosi un momento su due piedi, e mettendo i pugni su’ fianchi, in quella maniera che la gerla glielo permetteva:
«come! verrà ora a farmi codesti rimproveri, quand’era lei che me la faceva andar via, la testa, in vece d’aiutarmi e farmi coraggio! Ho pensato forse
più alla roba di casa che alla mia; non ho avuto chi mi desse una mano; ho dovuto far da Marta e Maddalena; se qualcosa anderà a male, non so
cosa mi dire: ho fatto anche più del mio dovere. » Agnese interrompeva questi contrasti, entrando anche lei a parlare de’ suoi guai: e non si rammaricava tanto dell’incomodo e del danno, quanto di vedere svanita la speranza di riabbracciar presto la sua Lucia; chè, se vi rammentate, era appunto quell’autunno sul quale avevan fatto assegnamento: né era da supporre che donna Prassede volesse venire a villeggiare 185 da quelle parti, in tali circostanze: piuttosto ne sarebbe partita, se ci si fosse . trovata, come facevan tutti gli altri villeggianti. La vista de’ luoghi rendeva ancor più vivi que’ pensieri d’Agnese, e più pungente il suo dispiacere. Usciti da’ sentieri, avevan presa la strada pubblica, quella medesima per cui la povera donna era venuta riconducendo, per 190 così poco tempo, a casa la figlia, dopo aver soggiornato con lei, in casa del sarto. E già si vedeva il paese. « Anderemo bene a salutar quella brava gente, » disse Agnese. « E anche a riposare un pochino: ché di questa gerla io comincio ad averne abbastanza; e poi per mangiare un boccone, » disse Perpetua. 195 « Con patto di non perder tempo; ché non siamo in viaggio per divertimento, » concluse don Abbondio. 180
Furono ricevuti a braccia aperte, e veduti con gran piacere:
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rammenta-
vano una buona azione. Fate del bene a quanti più potete, dice qui il nostro autore; e vi seguirà tanto più spesso d’incontrar de’ visi che vi mettano allegria.
Agnese, nell’abbracciar la buona donna, diede in un dirotto pianto, che le fu d’un gran sollievo; e rispondeva con singhiozzi alle domande che quella e il marito le facevan di Lucia. 170-172. Brava!... la testa?: anche questa è fenomenale sulle labbra di colui che la sua testa l’aveva persa tanto prima e tanto più di Perpetua. Ma Perpetua è lingua da non incassare questi soprusi. È un « contrasto » che meriterebbe davvero il palcoscenico, per la mimica e per le parole. 178. far da Marta e da Maddalena: fare tutto da sola. Deriva dal racconto evangelico, in cui Marta tappresenta la vita attiva e Maddalena, sua sorella, la vita contemplativa (Luca, X). 181-182. non si rammaricava... Lucia: in don Abbondio solo le preoccupazioni dell’egoista; in Agnese quelle della madre affettuosa. 197-198. rammentavano una buona azione: Agnese e don Abbondio rammentano
alla «brava gente» del sarto la buona azione compiuta ospitando Lucia: e la buona azione procuta piacere nei benefattori che l’hanno compiuta. Da qui viene l’esortazione a far del bene: ma esposta come idea dell’Anonimo, sia per attenuare il tono scopertamente edificatorio, sia per parare scherzosamente qualche facile obiezione. 201. un dirotto pianto: quante cose dice questo pianto, tanto più umano di quell’affrettato e non richiesto intervento di don Abbondio: « Sta meglio di noi»! Che sa lui, poi, di come stia Lucia? Certo, l’egoista vede solo, come sempre, se stesso; ma nell’interruzione del curato non c’è solo egoismo: c’è anche la voglia di cambiar discorso, perché, dei guai di Lucia, lui è fra i primi responsabili,
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« Sta meglio di noi, » disse don Abbondio: «è a Milano, fuor de’ pericoli, lontana da queste diavolerie. » « Scappano, eh? il signor curato e la compagnia, » disse il sarto. « Sicuro, » risposero a una voce il padrone e la serva. « Li compatisco. » « Siamo incamminati », disse don' Abbondio; « al castello di ***. » « L'hanno pensata bene: ‘sicuri come in chiesa. » «E qui, non hanno paura? » disse don Abbondio. « Dirò, signor curato: propriamente in ospitazione, come lei sa che si dice, a parlar bene, qui non dovrebbero venire coloro: siam troppo fuori della loro strada, grazie al cielo. Al più al più, qualche scappata, che Dio non voglia:ma in ogni caso c'è tempo; s’hanno a sentir prima altre notizie da’ poveri paesi dove anderanno a fermarsi. » Si concluse di star lì un poco a prender fiato; e, siccome era l’ora del de-
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sinare, « signori, » disse il sarto: « devono onorare la mia povera tavola: alla buona: ci sarà un piatto di buon viso ». Perpetua disse d’aver con sé qualcosa da rompere il digiuno. Dopo un po’ di cerimonie da una parte e dall’altra, si venne a patti d’accozzar, come si dice, il pentolino, e di desinare in compagnia. I ragazzi s'eran messi con gran festa intorno ad Agnese loro amica vecchia. Presto, presto; il sarto ordinò a una bambina (quella che aveva portato quel boccone a Maria vedova: chi sa se ve ne rammentate più!), che andasse a diricciar quattro castagne primaticce, ch’eran riposte in un cantuccio: e le mettesse a arrostire. « E tu, » disse a un ragazzo, « va nell’orto, a dare una scossa al pesco, da farne cader quattro, e portale qui: tutte, ve’. E tu,» disse a un altro, « va sul fico, a coglierne quattro de’ più maturi. Gia lo conoscete anche troppo quel mestiere. » Lui andò a spillare una sua botticina; la donna a prendere
211. E qui, non hanno paura?: don Abbondio va al sodo: se non avranno paura loro, sarà tanto di guadagnato per lui. 212-213. in ospitazione... a parlar bene: conosciamo per esperienza il debole del sarto: quel voler « parlar bene », lui che sa di lettere. Sulla sua bocca la parola aulica fa un bell’effetto: ma un effetto che al M. va poco, e quindi lo mette in corsivo. Il vocabolo significa « alloggio », e deriva da ospitare, dare ospitalità, alloggio; particolarmente in uso nel linguaggio militare. La ricercatezza del sarto non si limita, però, a questa sola parola dotta: la senti in tutto il giro sostenuto del discorso. 219. un piatto di buon viso: e poi « qualcosa da rompere il digiuno » e « accozzar il pentolino »: sono tutte espressioni popolari, che indicano .intimità e che stanno a meraviglia in questo colloquio di umile e buona gente. Certo non ne mancano i critici, come il solito Tommaseo che, a proposito di « piatto
di buon
viso»,
esclama:
« Mise-
ria! »: non sentendo come il M. trasformi in poesia il garbo del sarto. x
223. I ragazzi...: quando abbiamo visto per la prima volta i figliuoli del sarto (Cap. XXIV) erano due bambinette e un fanciullino. Ora sono due ragazzi e una bambina. È una svista, o una «curiosità manzoniana », a dirla con Manara Valgimigli; e non c'è da badarci molto. Ma sarà proprio casuale questa svista, in un M. sempre attento a tutto? Pensiamo, ad ogni modo, che è un’inversione che gli serve bene, perché qui aveva bisogno più di due maschietti che di due bambine, per fargli fare quello che loro padre fra poco gli dirà: dare una scossa al pesco (... e portarle lì tutte le pesche che
cascano,
«tutte.
ve’ »!) e andar
sul
fico...: un mestiere che tutti e due i ragazzini conoscono « anche troppo bene ». Ci stanno dunque tanto bene qui — concluderemo con le definizioni del D’Ovidio, uno dei tanti che sono entrati nella disputa sul-
la composizione della famiglia del sarto — «i due piccoli ginnasti cacciatori di pesche e di fichi », quanto stavano bene intorno alla tavola nel gran giorno di festa « le due chiacchierine ».
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un po’ di biancheria da tavola. Perpetua cavò fuori le provvisioni; s’apparecchiò: un tovagliolo e un piatto di maiolica al posto d’onore; per don Abbondio, con una posata che Perpetua aveva nella gerla. Si misero a tavola, e desinarono, se non con grand’allegria, almeno con molta più che nessuno de’ commensali si fosse aspettato d’averne in quella giornata. «Cosa ne dice, signor curato, d’uno scombussolamento di questa sorte? » disse il sarto: « mi par di leggere la storia de’ mori in Francia. » « Cosa devo dire? Mi doveva cascare addosso anche questa! »
« Però, hanno scelto un buon ricovero, » riprese quello: « chi diavolo ha a andar lassù per forza? E troveranno compagnia: ché già s’è sentito che ci sia rifugiata molta gente, e che ce n’arrivi tuttora. » « Voglio sperare, » disse don Abbondio, « che saremo ben accolti. Lo conosco quel bravo signore; e quando ho avuto un’altra volta l’onore di trovarmi con lui, fu così compito! » « E a me,» disse Agnese, « m'ha fatto dire dal signor monsignor illustrissimo, che, quando avessi bisogno di qualcosa, bastava che andassi da lui. »
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« Gran né vero?
bella ‘conversione! » riprese don Abbondio:
«e
si mantiene,
si mantiene. »
Il sarto si mise a parlare alla distesa della santa vita dell’innominato, e
come, dall’essere il flagello de’ contorni, n’era divenuto l’esempio e il be-
nefattore.
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«E quella gente che teneva con sé?... tutta quella servitù?... » riprese don Abbondio, il quale n’aveva più d’una volta sentito dir qualcosa, ma non era mai quieto abbastanza. « Sfrattati la più parte, » rispose il sarto: «e quelli che son rimasti, han mutato sistema, ma come! In somma è diventato quel castello una Tebaide: lei le sa queste cose. » Entrò poi a parlar con Agnese della visita del cardinale. « Grand’uo-
mo! » diceva; « grand’uomo! Peccato che sia passato di qui così in furia, che non ho né anche potuto fargli un po’ d’onore. Quanto sarei contento di potergli parlare un’altra volta, un po’ più con comodo. » Alzati poi da tavola, le fece osservare una stampa rappresentante il car-
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dinale, che teneva attaccata a un battente d’uscio, in venerazione del perso233. al posto
d’onore...
don Abbondio:
c'è ironia, ma soltanto nella mente del M. che muove le fila di tutto, non nel com-
portamento rispettoso del sarto e di sua moglie, che in don Abbondio vedono esclusivamente il sacerdote. 239. Cosa devo dire?... addosso anche questa!: altro che storie « de’ mori in Francia» per lui! Non si poteva accostare con maggior effetto l’idealismo letterario e cavalleresco del sarto con l’egoismo concreto e ingeneroso del curato. A chi trova eccessivo tanto accanimento del M. verso don Abbondio, qualcuno ha risposto che ci si accanisce di più contro chi si ama di più. 244-245. quel bravo signore... così compito!: furbo don Abbondio: la strada del complimento potrebbe aprire al sarto quella della confessione sull’Innominato, qualora
ci fosse qualcosa che non va. E don Abbondio continuerà a lungo su questa tecnica eufemistica e sorniona. 246. signor monsignor illustrissimo: come quando al Cardinale aveva dato direttamente del « vossignoria illustrissima, monsignore», Agnese si ricorda bene dell’insegnamento del cappellano: se ne ricorda da quella popolana che è. 258-259. una Tebaide: se don Abbondio è costante nella paura, il sarto non lo è meno nella mania culturale: da qui lo spuntare di citazioni e di richiami, .e dai Regli di Francia e dal Leggendario dei Santi. Nella Tebaide, in Egitto, si ritirarono a vivere molti santi eremiti. 262-263. Quando... più con comodo: e dirgli ben altro, che quello sciagurato «si figuri »!
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naggio, e anche per poter dire a chiunque capitasse, gliante; giacché lui aveva potuto esaminar da vicino e dinale in persona, in quella medesima stanza. «L'hanno voluto far lui, con questa cosa qui? » vestito gli somiglia; ma... »
che non era somicon comodo il cardisse Agnese. « Nel i x
« N'è vero che non somiglia? » disse il sarto: «lo dico sempre anch'io:
noi, non c’ingannano, eh? ma, se non altro, c’è sotto il suo nome: è una I memoria. » Don Abbondio faceva fretta; il sarto s’impegnò di trovare un baroccio che li conducesse appiè della salita; n’andò subito in cerca, e poco dopo, tornò a dire che arrivava. Si voltò poi a don Abbondio, e gli disse: « signor curato, se mai desiderasse di portar lassù qualche libro, per passare il tempo, da pover’uomo posso servirla:’ ché anch'io mi diverto un po’ a leggere. Cose non da par suo, libri in volgare; ma però... » « Grazie, grazie, » rispose don Abbondio: «son circostanze, che si ha appena testa d’occuparsi di quel che è di precetto. » Mentre si fanno e si ricusano ringraziamenti, e si barattano saluti e
buoni augùri, inviti e promesse d’un’altra fermata al ritorno, il baroccio è 235
arrivato davanti all’uscio di strada. Ci metton le gerle, salgon su, e princi piano, con un po’ più d’agio e di tranquillità d’animo, la seconda metà del viaggio.
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Questo, dal giorno che l’abbiam lasciato, aveva sempre continuato a far ciò che allora s’era proposto, compensar danni, chieder pace, soccorrer poveri, sempre del bene in somma, secondo l’occasione. Quel coraggio che altre volte aveva mostrato nell’offendere e nel difendersi, ora lo mostrava nel
Il sarto aveva detto la verità a don Abbondio,
intorno
all’innominato.
non fare né l’una cosa né l’altra. Andava sempre solo e senz’armi, disposto a tutto quello che gli potesse accadere dopo tante violenze commesse, e
persuaso che sarebbe commetterne una nuova l’usar la forza in difesa di chi 267-268. giacché lui... stanza: questa vanteria del sarto può richiamare alla mente quella del conte zio, che era stato a corte a Madrid, e che aveva parlato «a quattr’occhi » col conte duca (Cap. XVII). Ma quale distanza fra i due uomini, e i due mondi! 280-281. Grazie, grazie... di precetto: la lettuta del Breviario, precetto ecclesiastico, è già troppo per lui, in queste « circostanze ». Ammiriamo ancora, giunti alle ultime battute della conversazione, l’arte del M. nell’avvicinare due personaggi diversi: sarto e curato sono due figure così comiche e così poetiche anche perché, dal contatto delle loro differenti manie, lo scrittore ha trovato il modo di far scoppiare tante scintille. 288. Questo, dal giorno..: da qui al termine del capitolo un’ampia digressione analizza, coll’acume psicologico di sempre, la vita dell’Innominato dopo la conversione. Queste pagine, per così dire storiche, sono inserite al momento più opportuno: mentre i nostri profughi sono ancora in cammino,
si delinea il ritratto del nuovo signore e si in occasione del passaggio delle truppe straniere. Ne nasce un’altra figura, insieme ideale e concreta, con cui anche l’odissea dei nostri tre amici riprenderà, più spedita, il cammino. 290-328. Quel coraggio... più o meno: il nuovo Innominato ci è presentato subito in armonia con l’antico. I sentimenti nuovi di umiltà e di penitenza si sono inseriti sulla vigoria di un tempo senza ombra di pietismo. Proprio l’assenza di un qualunque contegno molle e compunto rende il nuovo signore affascinante quanto l’antico, anche agli occhi di coloro che l’osservano ogni giorno e da vicino. Così la pagina passa ad uno scorcio di psicologia collettiva, scrutando a fondo certe misteriose reazioni del cuore umano di fronte ai grandi eventi della vita. E si passa scorrendo sempre grave e serena, in un ragionamento lineare, che rifugge da qualunque vibrazione che suoni minimamente retorica o agiografica, illustra il suo comportamento
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era debitore di tanto e a tanti; persuaso che ogni male che gli venisse fatto, sarebbe un’ingiuria riguardo a Dio, ma riguardo a lui una giusta retribuzione; e che dell’ingiuria, lui meno d’ogni altro, aveva diritto di farsi punitore. Con tutto ciò, era rimasto non meno inviolato di quando teneva armate, per la sua sicurezza, tante braccia e il suo. La rimembranza dell’antica
ferocia, e la vista della mansuetudine presente, una, che doveva aver lasciati tanti desidèri di vendetta, l’altra, che la rendeva tanto agevole, cospiravano in vece a procacciargli e a mantenergli un’ammirazione, che gli serviva principalmente di salvaguardia. Era quell'uomo che nessuno aveva potuto umiliare, e che s’era umiliato da sé. I rancori, irritati altre volte dal suo disprezzo e dalla paura degli altri, si dileguavano ora davanti a quella nuova umiltà: gli offesi avevano ottenuta, contro ogni aspettativa, e senza pericolo,
una soddisfazione che non avrebbero potuta promettersi dalla più fortunata
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vendetta, la soddisfazione di vedere un tal uomo pentito de’ suoi torti, e partecipe, per dir così, della loro indegnazione. Molti, il cui dispiacere più amaro e più intenso era stato per molt’anni, di non veder probabilità di
‘trovarsi in nessun caso più forti di colui, per ricattarsi di qualche gran torto; incontrandolo poi solo, disarmato, e in atto di chi non farebbe resistenza, non s’eran sentiti altro impulso che di fargli dimostrazioni d’onore. In quell’abbassamento volontario, la sua presenza e il suo contegno avevano acquistato, senza che lui lo sapesse, un non so che di più alto e di più nobile; perché ci si vedeva, ancor meglio di prima, la noncuranza d’ogni pericolo. Gli odi, anche i più rozzi e rabbiosi, si sentivano come legati e tenuti in rispetto dalla venerazione pubblica per l’uomo penitente e benefico. Questa era tale, che spesso quell'uomo si trovava impicciato a schermirsi dalle dimostrazioni che gliene venivan fatte, e doveva star attento a non lasciar troppo trasparire nel volto e negli atti il sentimento interno di compunzione, a non abbassarsi troppo, per non esser troppo esaltato. S’era scelto nella chiesa l’ultimo luogo; e non c’era pericolo che nessuno glielo prendesse: sarebbe stato come usurpare un posto d’onore. Offender poi guell’uomo, o anche trattarlo con poco riguardo, poteva parere non tanto un’insolenza, e una viltà, quanto un sacrilegio: e quelli stessi a cui questo sentimento degli altri poteva servir di ritegno, ne partecipavano anche loro, più o meno. Queste medesime ed altre cagioni, allontanavano pure da lui le vendette della forza pubblica, e gli procuravano, anche da questa parte, la sicurezza della quale non si dava pensiero. Il grado e le parentele, che in ogni tempo gli erano state di qualche difesa, tanto più valevano per lui, ora che a quel nome già illustre e infame, andava aggiunta la lode d’una condotta esemplare, la gloria della conversione. I magistrati e i grandi s’eran rallegrati di questa, pubblicamente come il popolo; e sarebbe parso strano l’infierire contro chi era stato soggetto di tante congratulazioni. Oltre di ciò, un potere occupato in una guerra perpetua, e spesso infelice, contro ribellioni vive e rinascenti, poteva trovarsi abbastanza contento d’esser liberato dalla più indomabile e molesta, per non andare a cercar altro: tanto più, che quella conversione produceva riparazioni che non era avvezzo ad ottenere, e nemmeno 340-341. non era avvezzo... a richiedere: la nota polemica, contro il governo del tempo, trasporta l’esaltazione del nuovo Innomina-
to ad una concretezza reale. Tutto il capoverso ha un notevole interesse sociale, ma un afflato poetico inferiore al precedente.
Î promessi sposi
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a richiedere. Tormentare un santo, vergogna di non aver saputo fare che si fosse dato col punirlo, non stornare i suoi simili dal divenire
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non pareva un buon mezzo di cancellar la stare a dovere un facinoroso: e l'esempio avrebbe potuto aver altro effetto, che di inoffensivi. Probabilmente anche la parte
che il cardinal Federigo aveva avuta nella conversione, e il suo nome
asso-
ciato .a quello del convertito, servivano a questo come d’uno scudo sacro. E in quello stato di cose e d’idee, in quelle singolari relazioni dell’autorità
spirituale e del poter civile, ch’eran così spesso alle prese tra loro, senza mirar mai a distruggersi, anzi mischiando sempre alle ostilità atti di riconosci350 mento e proteste di deferenza, e che, spesso pure, andavan di conserva a un fine comune, senza far mai pace, poté parere, in certa maniera, che la riconciliazione della prima portasse con sé l’oblivione, se non l’assoluzione del secondo, quando quella s'era sola ‘adoprata a produrre un effetto voluto da tutt'e due, D9> Così quell’uomo sul quale, se fosse caduto, sarebbero corsi a gara grandi ‘e piccoli a calpestarlo; messosi volontariamente a terra, veniva risparmiato da tutti, e inchinato da molti. 360
È vero ch’eran anche molti a cui quella strepitosa mutazione dovette far tutt'altro che piacere: tanti esecutori stipendiati di delitti, tanti compagni nel delitto, che perdevano una così gran forza sulla quale erano avvezzi a fare assegnamento, che anche si trovavano a un tratto rotti i fili di trame ordite da un pezzo, nel momento forse che aspettavano la nuova dell’esecuzione. Ma già abbiam veduto quali diversi sentimenti quella conversione facesse nascere negli sgherri che si trovavano allora con lui, e che la sentirono annunziare
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dalla sua bocca:
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ché disprezzo né odio. Lo stesso accadde agli altri che teneva sparsi in diversi posti, lo stesso a’ complici di più alto affare, quando riseppero la terribile nuova, e a tutti per le cagioni medesime. Molt’odio, come trovo nel luogo, altrove citato, del Ripamonti, ne venne piuttosto al cardinal Federigo. Riguardavan questo come uno che s’era mischiato ne’ loro affari, per guastarli; l’in-
stupore, dolore, abbattimento, stizza; un po’ di tutto, fuor-
nominato aveva voluto salvar l’anima sua: nessuno aveva ragion di lagnarsene.
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Di mano in mano poi, la più parte degli sgherri di casa, non potendo accomodarsi alla nuova disciplina, né vedendo probabilità che s’avesse a mutare, se n'erano andati. Chi avrà cercato altro padrone, e fors’anche tra gli antichi amici di quello che lasciava; chi si sarà arrolato in qualche terzo, come allora dicevano, di Spagna o di Mantova, o di qualche altra parte belligerante; chi si sarà messo alla strada, per far la guerra a minuto, e per conto suo; chi si sarà anche contentato d’andar birboneggiando in libertà. Eil simile avranno fatto quegli altri che stavano prima a’ suoi ordini, in diversi 352. oblivione:
dimenticanza.
È un
ter-.
mine aulico, ma non stona affatto in pagine tanto solenni. Ricordiamo che oblio è parola cara al M.: « sempre un oblio di chie-
dere... », « dal tenue oblio torna immortale... », canta il coro di Ermengarda (Adelchi, IV). 362. che aspettavano la nuova dell’esecuzione; come don Rodrigo. 376. in qualche terzo: in qualche reggimento;
terzo
da
zercio
(tertius),
termine
spagnolo, con cui si denominava
un corpo
di soldati che costituiva la terza patte di un’« unità » maggiore. 379. andar birboneggiando: vagabondare facendo il briccone: espressione molto rara. Lo spirito indagatore del M. anche riguardo ai bravi dell’Innominato ha da ragionare e fantasticare
come
si saranno
comportati,
come saranno andati a finire. E così torna a presentarci altri scorci di vita di quel detestato-amato Seicento,
capitolo XXIX
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paesi. Di quelli poi che s’eran potuti avvezzare al nuovo tenor di vita, o che lo avevano
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abbracciato volentieri, i più, nativi della valle, eran tornati ai
campi, o ai mestieri imparati nella prima età, e poi abbandonati; i forestieri eran rimasti nel castello, come servitori: gli uni e gli altri, quasi ribenedetti nello stesso tempo che il loro padrone, se la passavano, al par di lui, senza fare né ricever torti, inermi e rispettati. Ma quando, al calar delle bande alemanne, alcuni fuggiaschi di paesi invasi o minacciati capitarono su al castello a chieder ricovero, l’innominato,
tutto contento che quelle sue mura fossero cercate come asilo da’ deboli, che per tanto tempo le avevan guardate da lontano come un enorme spauracchio, accolse quegli sbandati, con espressioni piuttosto di riconoscenza che di cortesia; fece sparger la voce, che la sua casa sarebbe aperta a chiunque ci si volesse rifugiare, e pensò subito a mettere, non solo questa, ma anche la valle, in istato di difesa, se mai lanzichenecchi o cappelletti volessero pro395 varsi di venirci a far delle loro. Radunò i servitori che gli eran rimasti, pochi e valenti, come i versi di Torti; fece loro una parlata sulla buona occasione che ‘Dio dava loro e a lui, d’impiegarsi una volta in aiuto del prossimo, che avevan tanto oppresso e spaventato; e, con quel tono naturale di comando, ch’esprimeva la certezza dell’ubbidienza, annunziò loto in generale ciò che 400 intendeva che facessero, e soprattutto prescrisse come dovessero contenersi,
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perché la gente che veniva a ricoverarsi lassù, non vedesse in loro che amici e difensori. Fece poi portar giù da una stanza a tetto l’armi da fuoco, da taglio, in asta, che da un pezzo stavan lì ammucchiate, e gliele distribuì; fece 405
dire a’ suoi contadini e affittuari della valle, che chiunque si sentiva, venisse con armi al castello; a chi non n’aveva, ne diede; scelse alcuni, che fossero
come ufiziali, e avessero altri sotto il loro comando; assegnò i posti all’entrature e in altri luoghi della valle, sulla salita, alle porte del castello; stabilì l’ore.e i modi di dar la muta, come in un campo, o come già s’era costumato 410
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in quel castello medesimo, ne’ tempi della sua vita disperata. In un canto di quella stanza a tetto, c'erano in disparte l’armi che solo aveva portate; quella sua famosa carabina, moschetti, spade, spadoni, stole, coltellacci, pugnali, per terra, o appoggiati al muro. Nessuno de’ vitori le toccò; ma concertarono di domandare al padrone quali voleva gli fossero portate. « Nessuna, » rispose; e, fosse voto, fosse proposito, stò sempre disarmato, alla testa di quella specie di guarnigione. 387. Ma quando, al calar...: la pagina si ravviva; il fragor delle armi risveglia lo spirito guerriero dell’Innominato, ne accende la fantasia e il cuore. Ma, questa volta, ad opere di bene, in uno stato di difesa attiva e pronta alla lotta: in sostegno delle vite di tanti inermi, sione.
vittime
innocenti
dell’inva-
395. a far delle loro: le loro prodezze, ribalderie. 396. come i versi di Torti: Giovanni Torti (1774-1852), milanese, poeta romantico, che deve ormai la sua fama più a questa citazione dell’amico Manzoni, che non alle sue composizioni, scarse più di valore che di numero. Di lui si ricordano, in particolare, un’Epistola sui Sepolcri di U. Foscolo
lui piserche re-
e di I. Pindemonte del 1809, quattro sermoni Sulla poesia e l’inno Le cinque giornate, scritto nel 1848 e che gli procurò l’esilio a Genova. Questa citazione del Torti, passata ormai in provetbio, richiama quella di un altro amico, il Grossi (Cap. XI), ma appare più improvvisa e meno giustificata. 414. Nessuna: dopo alcuni periodi tutti animazione, risonanti di ordini e di armi, e in cui l’Innominato tornava a dominare come capo e condottiero di uomini, la nuda tagliente risposta « nessuna» produce un effetto mirabile, quasi trasferendo d’un colpo il personaggio dall’atmosfera degli eroi del mondo terreno ad una più alta: quella dei santi del Cielo.
Dil?
i promessi spost
Nello stesso tempo, aveva messo in moto altr’uomini e donne di servizio, o suoi dipendenti, a preparar nel castello alloggio a quante più persone fosse possibile, a rizzar letti, a disporre sacconi e strapunti nelle stanze, nelle sale, che diventavan dormitòri. E aveva dato ordine di far venire provvisioni ab420
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bondanti, per ispesare gli ospiti che Dio gli manderebbe, e i quali infatti andavan crescendo di giorno in giorno. Lui intanto non istava mai fermo; den-
tro e fuori del castello, su e giù per la salita, in giro per la valle, a stabilire, a rinforzare, a visitar posti, a vedere, a farsi vedere, a mettere e a tenere in regola, con le parole, con gli occhi, con la presenza. In casa, per la strada, faceva accoglienza a quelli che arrivavano; e tutti, o lo avessero già visto, o lo vedessero per la prima volta, lo guardavano estatici, dimenticando un momento i guai e i timori che gli avevano spinti lassù; e si voltavano ancora a guardarlo, quando, staccatosi da loro, seguitava la sua strada.
Capitolo XXX
Quantunque il concorso maggiore non fosse dalla parte per cui i nostri tre fuggitivi s’avvicinavano alla valle, ma all’imboccatura opposta, con tutto ciò, cominciarono a trovar compagni di viaggio e di sventura, che da traverse e 5
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viottole erano sboccati o sboccavano nella strada. In circostanze simili, tutti quelli che s'incontrano, è come se si conoscessero. Ogni volta che il baroccio aveva raggiunto qualche pedone, si barattavan domande e risposte. Chi era scappato, come i nostri, senza aspettar l’arrivo de’ soldati; chi aveva sentiti
i tamburi o le trombe; chi gli aveva visti coloro, e li dipingeva come gli spaventati soglion dipingere. « Siamo ancora fortunati, » dicevan le due donne: «ringraziamo il cielo. Vada la roba; ma almeno siamo in salvo. »
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Ma don Abbondio non trovava che ci fosse tanto da rallegrarsi; anzi quel concorso, e più ancora il maggiore che sentiva esserci dall’altra parte, cominciava a dargli ombra. « Oh che storia! » borbottava alle donne, in un momento che non c’era nessuno d’intorno: « oh che storia! Non capite, che radunarsi tanta gente in un luogo è lo stesso che volerci tirare i soldati per forza? Tutti nascondono, tutti portan via; nelle case non resta nulla; crederanno che lassù ci siano tesori. Ci vengono sicuro: sicuro ci vengono. Oh povero me! dove mi sono imbarcato! » « Oh! voglion far altro che venir lassù, » diceva Perpetua: « anche loro devono andar per la loro strada. E poi, io ho sempre sentito dire che, ne’ pericoli, è meglio essere in molti. » « In molti? in molti? » replicava don Abbondio: « povera donna! Non sa11. Vada la roba:... salvo: solo chi ha esperienze vissute dei tempi di guerra comprende il valore di queste parole. 12. Ma don Abbondio...: certamente don Abbondio ha da brontolare ancora, da criticare, da rammaricarsi di tutto e di tutti. Ma il don Abbondio di queste pagine è un po’ diverso da quello delle precedenti. Rin-
francato
dalle assicurazioni
del sarto, sul
barroccio invece che a piedi, ora si sente libero dalla suggezione di Perpetua: è tornato, di fronte alle due donnette del popolo, l’uomo superiore per sapere e per esperienza. Da qui un tono sicuro nel sentenziare, un piglio autoritario nel dare consigli ed ordini, uno scilinguagnolo pronto e spedito.
18. Ci vengono sicuro: sicuro ci vengono: chiasmo pittoresco, che non ha niente di ricercatezza letteraria, ma è spontaneo, vivissimo modo del parlare popolare e appassionato. 18-19. Oh povero me!... imbarcato!: sempre lui, non c’è altro che lui. Il solito egoista, che sempre e da tutto non deduce che motivi di preoccupazione per la sua persona. È un aspetto che non faremo più notare, tanto è persistente ed evidente .in ogni attimo della giornata del curato. 23. In molti?... povera donna: ritornano i battibecchi fra serva e padrone. Ma guarda ora con quanta commiserazone don Abbondio si rivolga a Perpetua e poi anche ad Agnese: e con battute che rasentano la
i promessi sposi
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pete che ogni lanzichenecco ne mangia cento di costoro? E poi, se volessero far delle pazzie, sarebbe un bel gusto, eh? di trovarsi in una battaglia. Oh povero me! Era meno male andar su per i monti. Che abbian tutti a voler cacciarsi in un luogo!... Seccatori! » borbottava poi, a voce più bassa: « tutti qui: e via, e via, e via; l’uno dietro l’altro, come pecore senza ragione. » « A questo modo, » disse Agnese, « anche loro potrebbero dir lo stesso di noi. »
« Chetatevi un po’, » disse don Abbondio: « ché già le chiacchiere non servono a nulla. Quel ch'è fatto è fatto: ci siamo, bisogna starci. Sarà quel che vorrà la Provvidenza: il cielo ce la mandi buona. » Ma fu ben peggio quando, all’entrata della valle, vide un buon posto d’armati, parte sull’uscio d’una casa, e parte nelle stanze terrene: pareva una caserma. Li guardò con la coda dell’occhio: non eran quelle facce che gli era toccato a vedere nell’altra dolorosa sua gita, o se ce n’era di quelle, erano ben cambiate; ma con tutto ciò, non si può dire che noia gli desse quella vista. — Oh povero me! — pensava: — ecco se le fanno le pazzie. Già non poteva essere altrimenti: me lo sarei dovuto aspettare da un uomo di quella qualità. Ma cosa vuol fare? vuol far la guerra? vuol fare il re, lui? Oh povero me! In circostanze che si vorrebbe potersi nasconder sotto terra, e costui cerca ogni maniera di farsi scorgere, di dar nell’occhio; par che li voglia i invitare! — « Vede ora, signor padrone, » gli disse Perpetua, « se c’è della brava gente
qui, che ci saprà difendere. Vengano ora i soldati: qui non sono come que’ nostri spauriti, che non son buoni che a menar le gambe. » « Zitta! » rispose, con voce bassa ma iraconda, don Abbondio: « zitta! che non sapete quel che vi dite. Pregate il cielo che abbian fretta i soldati, o che non vengano a sapere le cose che si fanno qui, e che si mette all’ordine questo luogo come una fortezza. Non sapete che i soldati è il loro mestiere
malia e gli spaventi delle favole per bambini: «ogni lanzichenecco ne mangia cento di costoro »! 27-28. tutti qui... come pecore...: e lui?
il breviario « per spiare le mosse » "dei due bravi quella sera del 7 novembre? (Cap. I).
Anche bondio
per tutto trascorrerà
il periodo che don Abal castello,
il suo
oc-
Ora si sente leone, lui, dopo che ha fatto la chio, e non solo la voce e i gesti e la pecora belante dietro le sottane di Percondotta, sarà sempre controllato e guardingo. petua. Ma l’egoismo del povero prete in pericolo è un po’ l'egoismo di tutti i pau41. vuol fare il re, lui?: lavora a briglia rosi. Perciò don Abbondio, qualunque cosa sciolta la fantasia di don Abbondio, sotto la dica o faccia, è difficile che dia fastidio al spinta costante della paura e della stizza. lettore onesto: perché questi riconosce in Per capire meglio come il pover’'uomo le lui tanta parte dell’umanità, tanto dell’uomo dica grosse, si pensi che sta parlando male comune. proprio di colui da cui ora va a cercare 31. Chetatevi un po’: è la risposta di chi rifugio e protezione. Ma non è la prima non sa rispondere a chi ha ragione. E Agnevolta che il terrore fa di questi schetzi a se aveva ragione. © don Abbondio: il quale, per voler essere 32-33. Sarà quel che vorrà la Provviden- , sempre calcolatore e critico su tutto e. su za: come stona sulla bocca dell’egoista una tutti, s'ingolfa nella più ottusa cecità. verità così grande! Pare una dissacrazione 51. i soldati è il loro mestiere...: bellisdella fede di una Lucia o di un padre simo anacoluto, determinato dalla fretta di Cristoforo. dire e dire, a «voce bassa ma irtaconda ». 36. con la coda dell’occhio: atteggiamento Ricorda l’altro, ugualmente bello, sulla boctipico di chi è prudente o ha paura. Rica di Gertrude: «... noi altre monache ci cordate il suo sguardo spinto in su, sopra piace di sentir le storie... » (Cap. IX).
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di prender le fortezze? Non cercan altro; per loro, dare un assalto è come andare a nozze; perché tutto quel che trovano è per loro, e passano la gente a fil di spada. Oh povero me! Basta, vedrò se ci sarà maniera di mettersi in salvo su per queste balze. In una battaglia non mi ci colgono: oh! in una battaglia non mi ci colgono. » « Se ha poi paura anche d’esser difeso e aiutato... » ricominciava Perpetua; ma don Abbondio l’interruppe aspramente, sempre però a voce bassa: « zitta! E badate bene di non riportare questi discorsi. Ricordatevi che qui bisogna far sempre viso ridente, e approvare tutto quello che si vede. » Alla Malanotte, trovarono un altro picchetto d’armati, ai quali don Abbondio fece una scappellata, dicendo intanto tra sé: — ohimé, ohimé: son
proprio venuto in un accampamento! — Qui il baroccio si fermò; ne scesero; don Abbondio pagò in fretta, e licenziò il condottiere; e s'incamminò con le due compagne per la salita, senza far parola. La vista di que’ luoghi gli andava risvegliando nella fantasia, e mescolando all’angosce presenti, la rimembranza di quelle che vi aveva sofferte l’altra volta. E Agnese, la quale non gli aveva mai visti. que’ luoghi, e se n’era fatta in mente una pittura fantastica che le si rappresentava ogni volta che pensava al viaggio spaventoso di Lucia, vedendoli ora quali eran davvero, provava come un nuovo e più vivo sentimento di quelle crudeli memorie. « Oh signor curato! » esclamò: «a pensare che la mia povera Lucia è passata per questa strada! » « Volete stare zitta? donna senza giudizio! » le gridò in un orecchio don Abbondio: « son discorsi codesti da farsi qui? Non sapete che siamo in casa sua? Fortuna che ora nessun vi sente; ma se parlate in questa maniera... » « Oh! » disse Agnese: « ora che è santo...! » « State zitta, » le replicò don Abbondio: « credete voi che ai santi si possa dire, senza riguardo, tutto ciò che passa per la mente? Pensate piuttosto a ringraziarlo del bene che v’ha fatto. » « Oh! per questo, ci avevo già pensato: che crede che non le sappia un pochino le creanze? » « La creanza è di non dire le cose che posson dispiacere, specialmente a chi non è avvezzo a sentirne. E intendetela bene tutt’e due, che qui non è
luogo da far pettegolezzi, e da dir tutto quello che vi può venire in testa. È casa d’un gran signore, già lo sapete: vedete che compagnia c’è d’intorno:
55. In una battaglia non mi ci colgono: di questo possiamo esser più che sicuri. Ma
che
spasso
(e che arte!)
trova
il M.
nel far così farneticare il suo più caro « burattino ». — Merita ricordare che cosa diceva, a questo punto, don Abbondio in Fermo e Lucia: «Basta; vedremo: se fanno pazzie per tirarsi addosso la burrasca, dei monti ce n’è, e i precipizi non mi fanno paura: quando si tratta di salvare la pelle, ho coraggio anch'io quanto chi sia, andrei in mezzo al fuoco » (IV, I). 60. far sempre viso ridente...: è stata la
sua politica di sempre, di fronte ai poten-
ti e ai prepotenti. Sarà sua norma diplomatica d’ora in avanti nel castello: e, insieme
al «viso
ridente»,
grandi
« scappellate »!
64. condottiere: per conducente. Il tercondottiere, in questo caso, è ancor meno felice di conduttore, usato al principio del cap. IX. 73. donna senza giudizio!: ad Agnese, detto da don Abbondio! Le pene materne don Abbondio non solo non le. capisce, ma teme che possano danneggiarlo, suonando offesa al padrone del castello. Tant'è vero che fra poco lo vedremo impacciato e titubante perfino nel pronunziare il nome di Lucia. 80-81. che crede... le creanze?: Agnese sta per perdere le staffe: ne ha ben donde. Ma don Abbondio, anziché disarmare, prenderà un tono ancot più autoritario: « E intendetela bene tutt’e due... ». mine
i promessi sposi
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ci vien gente di tutte le sorte; sicché, giudizio, se potete: pesar le parole, e soprattutto dirne poche, e solo quando c’è necessità: ché a stare zitti non si sbaglia mai. » « Fa peggio lei con tutte codeste sue... » riprendeva Perpetua.. 90
Ma: «zitta! » gridò sottovoce don Abbondio, e insieme si levò il cappello
in fretta, e fece un profondo inchino: ché, guardando in su, aveva visto l’in-
nominato scender verso di loro. Anche questo aveva visto e riconosciuto don 1 Abbondio; e affrettava il passo per andargli incontro. « Signor curato, » disse, quando gli fu vicino, « avrei voluto offrirle la
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mia casa in miglior occasione; ma, a ogni modo, son ben contento di poterle
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esser utile in qualche cosa. » « Confidato nella gran bontà di vossignoria illustrissima, » rispose .don Abbondio, « mi son preso l’ardire di venire, in queste triste circostanze, a incomodarla: e, come vede vossignoria illustrissima, mi son preso anche la libertà di menar compagnia. Questa è la mia governante... » « Benvenuta, » disse l’innominato. « E questa, » continuò don Abbondio, « è una donna a cui vossignoria ha già fatto del bene: la madre di quella... di quella... » « Di Lucia, » disse Agnese.
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« Di Lucia!»
esclamò l’innominato,
voltandosi, con la testa bassa, ad
Agnese. « Del bene, io! Dio immortale! Voi, mi fate del bene, a venir qui... da me... in questa casa. Siate la benvenuta. Voi ci portate la benedizione. » « Oh giusto! » disse Agnese: « vengo a incomodarla. Anzi, » continuò, avvicinandosegli all’orecchio, «'ho anche a ringraziarla... » L’innominato troncò quelle parole, domandando premurosamente le nuove di Lucia; e sapute che l’ebbe, si voltò per accompagnare al castello i nuovi ospiti, come fece, malgrado la loro resistenza cerimoniosa.
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Agnese diede al
curato un’occhiata che voleva dire: veda un poco se c’è bisogno che lei entri di mezzo tra noi due a dar pareri. « Son arrivati alla sua parrocchia? » gli domandò l’innominato. « No, signore, che non gli ho voluti aspettare que’ diavoli, » rispose don Abbondio. « Sa il cielo se avrei potuto uscir vivo dalle loro mani, e venire a incomodare vossignoria illustrissima. »
97-100. Confidato... governante...: dopo il « profondo inchino » da marionetta (che ci ricorda il «grande inchino» fatto ai bravi nel sentire il nome di don Rodrigo; Cap. I), ecco il discorsetto rimuginato chi sa quanto nella mente, e bene impresso nella memoria. A proposito di tale discorsetto non è da parlare, come fa qualcuno, di un don Abbondio « convenzionale e smaccato »; un petiodare in quel modo, con quella costruzione assoluta (tanto latina quanto fuori posto) si adatta bene alla sua personalità. Potremmo forse immaginare sulla sua bocca, in un’occasione come questa, la spontaneità di un’Agnese? 103. di quella... di quella...: « la reticenza a nominare Lucia deriva dal riguardo, su cui istruì le donne, di non ferire la suscet-
tibilità dell’ospite; ma nasce dall’irriguardoso vedere nell’episodio di Lucia una birbonata del malfattore, non la svolta decisiva del convertito. La franca scenetta fra l’Innominato e Agnese, con l’occhiata trionfale di lei che la suggella, è felicissima a muovere il diverso animo dei personaggi a proposito di quel fatto; facendo chiaroscuro di ciascuno agli altri. Quel che c’è di troppo esemplare nella compunzione del convertito, si scioglie anch’esso nell’effetto d’insieme » (De. Michelis). 109. ho anche a ringraziarla...: dei cento scudi; ma.l’Innominato non la fa finire.
112-114. Agnese... a dar pareri: finalmen-
te la sua soddisfazione, nei riguardi di quel petulante di don Abbondio, Agnese se la prende: e con quale gusto!
capitolo XXX
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« Bene, si faccia coraggio, » riprese l’innominato: « ché ora è in sicuro. Quassù non verranno; e se si volessero provare, siam pronti a riceverli. »
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< Speriamo che non vengano, » disse don Abbondio.
giunse,
accennando
col dito i monti
che chiudevano
« E sento, » sog-
la valle di rimpetto,
«sento che, anche da quella parte, giri un’altra masnada di gente, ma... ma...
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« È vero, » rispose l’innominato: « ma non dubiti, che siam pronti anche per loro. » e Tra due fuochi, — diceva tra sé don Abbondio: — proprio tra due fuochi. Dove mi son lasciato tirare! e da due pettegole! E costui par proprio che ci sguazzi dentro! Oh che gente c’è a questo mondo! — Entrati nel castello, il signore fece condurre Agnese e Perpetua in una stanza del quartiere assegnato alle donne, che occupava tre lati del secondo cortile, nella parte posteriore dell’edifizio situata sur un masso sporgente e isolato, a cavaliere a un precipizio. Gli uomini alloggiavano ne’ lati dell’altro cortile a destra e a sinistra, e in quello. che rispondeva sulla spianata. Il corpo di mezzo, che separava i due cortili, e dava passaggio dall'uno all’altro, per un vasto andito di rimpetto alla porta principale, era in parte occupato dalle provvisioni, e in parte doveva servir di deposito per la roba che i rifugiati volessero mettere in salvo lassù. Nel quartiere degli uomini, c’erano alcune camere destinate agli ecclesiastici che potessero capitare. L’innominato v’accompagnò in persona don Abbondio, che fu il primo a prenderne il possesso. Ventitré o ventiquattro giorni stettero i nostri fuggitivi nel castello, in mezzo
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a un movimento
continuo, in una gran compagnia, e che ne? primi
tempi, andò sempre crescendo; ma senza che accadesse nulla di straordinario. Non passò forse giorno, che non si desse all’armi. Vengon lanzichenecchi di qua; si son veduti cappelletti di là. A ogni avviso, l’innominato mandava uomini a esplorare; e, se faceva bisogno, prendeva con sé della gente che teneva sempre pronta a ciò, e andava con essa fuor della valle, dalla patte dov'era indicato il pericolo. Ed era cosa singolare, vedere una schiera d’uomini atmati da capo a piedi, e schierati come una truppa, condotti da un uomo senz’armi. Le più volte non erano che foraggieri e saccheggiatori sbandati, che 119. si faccia coraggio: l’Innominato ha capito subito il debole di don Abbondio e cerca di fargli « coraggio ». Ma i suoi argomenti — « siam pronti a riceverli... siam pronti anche per loro » — non servono che a disfare più che mai il poveretto. Sicché a costui non resterà che rimproverare se stesso per aver dato retta a «due pettegole ». — Nel Fermo e Lucia la situazione è più esasperata, perché il Conte del Sagrato arriva a chiedere a don Abbondio di fare, se ci sarà battaglia, una specie di cappellano militare. Ecco la richiesta del Conte con la reazione del curato, come sempre degna di lui: «... non verranno; ma se volessero tentar la prova, siamo pronti a riceverli. In ogni caso la sua presenza è preziosa, Signor curato: ella potrà animare questa brava gente alla difesa della vita
di tanti donne
deboli,
della
che confidano
pudicizia in noi. —
di tante
Un corno, — disse fra sé Don Abbondio. ‘ Ella potrà’, proseguì il Conte, ‘assistere quelli che fra noi lasciassero la vita in questa impresa di misericordia’, ‘Signor Conte’, disse Don Abbondio, ‘sarà quel che Dio vorrà’. E così dicendo girava la testa a guardare qual fosse la più vicina delle alte cime che dominavano il promontorio su cui era posto il castello, per fissarsi uno scampo dove in quel caso poter benedire i combattenti » (IV, 11). 140. fu il primo...: sembra una semplice notizia di cronaca ed è invece la bollatura più feroce, ma anche più meritata, pet don Abbondio: il primo ad abbandonare chiesa e parrocchiani. Poi sarà l’ultimo a partire dal castello: coerente fino in fondo.
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i promessi sposi
se n’andavano prima d’esser sorpresi. Ma una volta, cacciando alcuni di costoro, per insegnar loro a non venir più .da quelle parti, l’innominato ricevette avviso che un paesetto vicino era invaso e messo a sacco. Erano lanzichenecchi di vari corpi che, rimasti indietro per rubare, s'erano riuniti, e andavano a gettarsi all'improvviso sulle terre vicine a quelle dove alloggiava l’esercito; spogliavano gli abitanti, e gliene facevan di tutte le sorte. L’innominato fece un breve discorso a’ suoi uomini, e li condusse al paesetto. Arrivarono inaspettati. I ribaldi che avevan creduto di non andar che alla preda, vedendosi venire addosso gente schierata e pronta a combattere, lasciarono il saccheggio a mezzo, e se n’andarono in fretta, senz’aspettarsi l’uno con l’altro, dalla parte dond’eran venuti. L’innominato gl’inseguì per un pezzo di strada; poi, fatto far alto, stette qualche tempo aspettando, se vedesse qualche novità; e finalmente se ne ritornò. E ripassando nel paesetto salvato, non si potrebbe dire con quali applausi e benedizioni fosse accompagnato il drappello liberatore e il condottiero. Nel castello, tra quella moltitudine, formata a caso, di persone, varie di condizione, di costumi, di sesso e d’età, non nacque mai alcun disordine
d’importanza. L’innominato aveva messe guardie in diversi luoghi, le quali
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tutte invigilavano che non seguisse nessun inconveniente, con quella premura
che ognuno metteva nelle cose di cui s’avesse a rendergli conto. Aveva poi pregati gli ecclesiastici, e gli uomini più autorevoli che si tro-
IVO)
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vavan tra i ricoverati, d’andare in giro e d’invigilare anche loro. E più spesso che poteva, girava anche lui, e si faceva vedere per tutto; ma, anche in sua assenza, il ricordarsi di chi s’era in casa, serviva di freno a chi ne potesse aver bisogno. E, del resto, era tutta gente scappata, e quindi inclinata in generale alla quiete: i pensieri della casa e della roba, per.alcuni anche di congiunti o d’amici rimasti nel pericolo, le nuove che venivan di fuori, abbattendo gli animi, mantenevano e accrescevano sempre più quella disposizione. C’era però anche de’ capi scarichi, degli uomini d’una tempra più salda e d’un coraggio più verde, che cercavano di passar que’ giorni in allegria. Avevano abbandonate le loro case, per non esser forti abbastanza da difenderle; ma non trovavan gusto a piangere e a sospirare sur una cosa che non c’era rimedio, né a figurarsi e a contemplar con la fantasia il guasto che vedrebbero pur troppo co’ loro occhi. Famiglie amiche erano andate di conserva, o s’eran ritrovate lassù, s’eran fatte amicizie nuove; e la folla s’era divisa in
crocchi, secondo gli umori e l’abitudini. Chi aveva danari e discrezione, andava a desinare giù nella valle, dove in quella circostanza s’eran rizzate in 190
fretta osterie: in alcune, i bocconi erano alternati co’ sospiri, e non era lecito parlar d’altro che di sciagure: in altre, non si rammentavan le sciagure, se non per dire che non bisognava pensarci. A chi non poteva o non voleva farsi le
spese, si distribuiva nel castello pane, minestra e vino: oltre alcune tavole
152-166. Ma una volta,... il condottiero: del vecchio condottiero è descritta con uno stile così asciutto e preciso, che ricorda quello di certi grandi storici d’iml’azione
prese militari. 185. di conserva:
d’intesa,
per
accordi presi. " 187. danari e discrezione: darari per
tersi pagare ciò che mangiava; discrezione di non approfittare eccessivamente dell’ospitalità concessa. Anche nella rappresentazione di questa folla di profughi, il M. è attento
a distinguere e analizzare individui e gruppi. Come, per ‘esempio, abbiamo visto nel quadro della folla tumultuante a Milano (Capp. XII e sgg.).
capitolo XXX
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ch’eran servite ogni giorno, per quelli che il padrone vi aveva espressamente invitati; e i nostri eran di questo numero. Agnese e Perpetua, per non mangiare il pane a ufo, avevan voluto esser impiegate ne’ servizi che richiedeva una così grande ospitalità; e in questo
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spendevano una buona parte della giornata; il resto nel chiacchierare con certe amiche che s’eran fatte, o col povero don Abbondio. Questo non aveva nulla da fare, ma non s’annoiava però; la paura gli teneva compagnia. La paura proprio d’un assalto, credo che la gli fosse passata, o se pur gliene rimaneva, era quella che gli dava meno fastidio; perché, pensandoci appena appena, doveva capire quanto poco fosse fondata. Ma l’immagine del paese circonvicino inondato, da una parte e dall’altra, da soldatacci, le armi e gli armati che vedeva sempre in giro, un castello, quel castello, il pensiero di tante cose che potevan nascere ogni momento
in tali circostanze, tutto gli teneva
addosso uno spavento indistinto, generale, continuo; lasciando stare il rodìo che gli dava il pensare alla sua povera casa. In tutto il tempo che stette in
.quell’asilo, non se ne discostò mai quanto un tiro di schioppo, né mai mise piede sulla discesa: l’unica sua passeggiata era d’uscire sulla spianata, e d’an210 dare, quando da una parte e quando dall’altra del castello, a guardar giù per le balze e per i burroni, pet istudiare se ci fosse qualche passo un po’ praticabile, qualche po’ di sentiero, per dove andar cercando un nascondiglio in caso d’un serra serra. A tutti i suoi compagni di rifugio faceva gran riverenze o gran saluti, ma bazzicava con pochissimi: la sua conversazione più frequente 215
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era con le due donne, come abbiam detto; con loro andava a fare i suoi sfoghi, a rischio che talvolta gli fosse dato sulla voce da Perpetua, e che lo svergognasse anche Agnese. A tavola poi, dove stava poco e parlava pochissimo, sentiva le nuove del terribile passaggio, le quali arrivavano ogni giorno, o di paese in paese e di bocca in bocca, o portate lassù da qualcheduno, che da
principio aveva voluto restarsene a casa, e scappava in ultimo, senza aver potuto salvar nulla, e a un bisogno anche malconcio: e ogni giorno c’era qual-
che nuova storia di sciagura. Alcuni, novellisti di professione, raccoglievan di-
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ligentemente tutte le voci, abburattavan tutte le relazioni, e ne davan poi il fiore agli altri. Si disputava quali fossero i reggimenti più indiavolati, se fosse peggio la fanteria o la cavalleria; si ripetevano, il meglio che si poteva, certi nomi di condottieri; d’alcuni si raccontavan l’imprese passate, si specificavano le stazioni e le marce: quel giorno, il tale reggimento si spandeva ne’ 199. la paura
gli teneva
compagnia:
è
sempre stato così; ma ora come non mai: ci sono i lanzichenecchi, ci sono i cap-
pelletti, c'è l’Innominato coi suoi armati, ci sono i profughi con tutte le loro storie, e tante altre cose ancora.... Ecco perché, fra l’altro, non sente alcun bisogno dei libri del sarto! 212-213. in caso d’un serra serra: poveretto: che ossessione di trovarsi « tra due fuochi », là nel furore di « una battaglia »! Molto bene qui, come tante altre volte, scrive il Momigliano: « In questa pagina la figura di don Abbondio ha un’apparenza pensosa; e in realtà qui il tono del Manzoni è molto smorzato: l’autore, consapevole
della serietà della situazione, si frena. Ma sotto quest’'ombra c’è ancora una tentazione di sorriso: in queste insistenti passeggiate da esploratore c’è una rassegnazione triste alla malignità della sorte e una ostinata speranza di poterne scampare; ma quella figura affacciata ora da una parte ora dall’altra a studiare una fuga strategica, suggerisce ancora un’immagine guerriera e rasenta, appena, la suggestione eroicomica ». 222. novellisti di professione: gente che
ha la mania di raccogliere notizie da ogni
parte, le abburatta — le sceglie, cioè, a suo gusto, come il duratto distingue e separa la farina dalla crusca —, e poi le manda a
giro gonfiate dalla sua fantasia.
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î promessi sposi
tali paesi, domani anderebbe addosso ai tali altri, dove intanto il tal altro faceva il diavolo e peggio. Sopra tutto si cercava d’aver informazione, e si teneva il conto de’ reggimenti che passavan di mano in mano il ponte di Lecco, perché quelli si potevano considerar come andati, e fuori veramente
del paese. Passano i cavalli di Wallenstein, passano i fanti di Merode, passano i cavalli di Anhalt, passano i‘fanti di Brandeburgo, e poi i cavalli di Montecuccoli, e poi quelli di Ferrari; passa Altringer, passa Furstenberg, passa Colloredo; passano i Croati, passa Torquato Conti, passano altri e altri; quando piacque al cielo, passò anche Galasso, che fu l’ultimo. Lo squadron vo-
lante de’ veneziani finì d’allontanarsi anche lui; e tutto il paese, a destra e a sinistra, si trovò libero. Già quelli delle terre invase e sgombrate le prime, eran partiti dal castello; e ogni giorno ne partiva: come, dopo un tempo-
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rale d’autunno, si vede dai palchi fronzuti d’un grand’albero uscire da ogni parte gli uccelli che ci s'erano riparati. Credo che i nostri tre fossero gli ultimi ad andarsene; e ciò per volere di don Abbondio, il quale temeva, se si tornasse subito a casa, di ttovare ancora in giro lanzichenecchi rimasti indietro sbrancati, in coda all’esercito; Perpetua ebbe un bel dire che, quanto più s’indugiava, tanto più si dava agio ai birboni del paese d’entrare in casa a portar via il resto; quando si trattava d’assicurar la pelle, era sempre don Abbondio che la vinceva; meno che l’imminenza del pericolo non gli avesse fatto perdere affatto la testa. Il giorno fissato per la partenza, l’innominato fece trovar pronta alla Malanotte una carrozza, nella quale aveva già fatto mettere un corredo di biancheria per Agnese. E tiratala in disparte, le fece anche accettare un gruppetto di scudi, per riparare al guasto che troverebbe in casa; quantunque, battendo la mano sul petto, essa andasse ripetendo che ne aveva lì ancora de’ i vecchi. «Quando vedrete quella vostra buona, povera Lucia... » le disse in ultimo: « già son certo che prega per me, poiché le ho fatto tanto male: ditele adunque ch’io la ringrazio, e confido in Dio, che la sua preghiera tornerà anche in tanta benedizione per lei. » 232-236. Passano... passano... passa... passa... passò: il periodo ha cadenza epica. Ricorda, nel ritmo da canzone di gesta, alcuni magnifici versi del I coro dell’Adelchi: « volaron sul ponte che cupo sonò... A torme di terra passarono in terra...». Qui però la lunga enumerazione non solo fa sentire la potenza del terribile esercito, ma anche il rinnovarsi incessante dell’angoscia della povera gente, che assiste atterrita e insieme ammirata per i nomi favolosi dei condottieri. — Riguardo alla sfilata di questi eserciti il M. seguì la descrizione che Sigismondo Boldoni, professore di Pavia, ne fece nel settembre del 1629 nella lettera che inviò ad un amico. I cavalli di Wallenstein, condotti dal suo luogotenente; Merode, Giovanni, belga, morto poi combattendo contro gli svedesi; Anbalt e Brandeburgo, due ducati tedeschi; Montecuccoli, Ernesto, non il grande Raimondo di cui era zio, ortundo di Modena; Ferrari, Pietro, colonnello ita-
liano di scarsa fama; Altringer, Giovanni, austriaco, che si sarebbe distinto nel sacco di Mantova; Furstenberg, Egone, feldmaresciallo dell'Impero; Colloredo, Rodolfo, italiano, anche lui feldmaresciallo e poi governatore di Praga; Croati, gli squadroni di cavalleria al servizio della casa d’Austria; Torquato Conti, nobile romano al servizio della Chiesa, divenuto famoso nella guerra dei Trent'anni; Galasso, il conte Matthias Gallas di Trento, altro feldmaresciallo, e luogotenente del Collalto. Infine lo squader volante dei Veneziani, cioè i Cappeletti. ; 245-246. si dava... il resto: anche questa volta aveva ragione. Ma, come sappiamo, ben di rado don Abbondio è disposto ad accogliere i pareri. di Perpetua. 253. battendo la mano sul petto: gli scudi li «teneva cuciti nel busto» (Capitolo XXIX), e battendo la mano sul petto vuol dire, in modo molto espressivo, che
capitolo XXX
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Volle poi accompagnar tutti e tre gli ospiti, fino alla carrozza. I ringraziamenti umili e sviscerati di don Abbondio e i complimenti di Perpetua, se gl’immagini il lettore. Partirono; fecero, secondo il fissato, una fermatina, ma senza neppur mettersi a sedere, nella casa del sarto, dove sentirono raccontar cento cose del passaggio: la solita storia di ruberie, di percosse, di sperpero, di sporchizie: ma lì, per buona sorte, non s’eran visti lanzichenecchi. 265 « Ah signor curato! » disse il sarto, dandogli di braccio a rimontare in carrozza: « s'ha da far de’ libri in istampa, sopra un fracasso di questa sorte. » Dopo un’altra po’ di strada, cominciarono i nostri viaggiatori a veder co’ loro occhi qualche cosa di quello che avevan tanto sentito descrivere: vigne spogliate, non come dalla vendemmia, ma come dalla grandine e dalla bufera 270 che fossero venute in compagnia: tralci a terra, sfrondati e scompigliati; strappati i pali, calpestato il terreno, e sparso di schegge, di foglie, di sterpi; schiantati, scapezzati gli alberi; sforacchiate le siepi; i cancelli portati via. Ne’ paesi poi, usci sfondati, impannate lacere, paglia, cenci, rottami d’ogni sorte, a mucchi o seminati per le strade; un’aria pesante, zaffate di puzzo più 275 . forte che uscivan dalle case; la gente, chi a buttar fuori porcherie, chi a raccomodar le imposte alla meglio, chi in crocchio a lamentarsi insieme; e, al passar della carrozza, mani di qua e di là tese agli sportelli, per chieder l’elemosinà. Con queste immagini, ora davanti agli occhi, ora nella mente, e con l’aspet-
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tativa di trovare altrettanto a casa loro, ci arrivarono; quello che s’aspettavano.
e trovarono
Agnese fece posare i fagotti in un canto del cortiletto, ch’era rimasto il luogo più pulito della casa; si mise poi a spazzarla, a raccogliere e a rigovernare quella poca roba che le avevan lasciata; fece venire un legnaiolo e un fabbro, per riparare i guasti più grossi, e guardando poi, capo per capo, la biancheria regalata, e contando que’ nuovi ruspi, diceva tra sé: —
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infatti
son ca-
duta in piedi; sia ringraziato Iddio e la Madonna e quel buon signore: posso proprio dire d’esser caduta in piedi —. Don Abbondio e Perpetua entrano in casa, senza aiuto di chiavi; ogni passo che fanno nell’andito, senton crescere un tanfo, un veleno, una peste, che li respinge indietro; con la mano al naso, vanno all’uscio di cucina; en-
trano in punta di piedi, studiando dove metterli, per iscansar più che possono
di quei soldi ce n’ha ancora, e che quindi non ci sarebbe bisogno che l’Innominato gliene desse altri. Non condividiamo il parere di chi vede in quel gesto « un particolare che richiama abitudini religioso-popolari», o di chi ci trova una manifestazione di « bonarietà affettuosa e gratitudine ». 266. s'ha da far de’ libri in istampa: il sarto letterato esce, ora, definitivamente dal romanzo, ma vi lascia l’estrema conferma della sua gran passione per i libri, con un sottinteso rimpianto di non essere lui quello che li possa dare alle stampe. 268-271. vigne spogliate... strappati i pali... lo stile del periodo è lo stesso della descrizione di Milano affamata: « ... botteghe chiuse; le fabbriche in gran parte de-
serte... » (Cap. XXVIII). Un’uguale angoscia si diffonde da questa campagna, disfatta come sotto la bufera e la grandine, e poi dai paesi, dalle case devastate, e infine dalle creature umane ridotte alla miseria: un crescendo di disperazione. 286-288. son. caduta... caduta in piedi: nella disgrazia ho avuto fortuna. La buona Agnese sa esser grata alla Provvidenza e agli uomini. 289. senza aiuto di chiavi: aveva avuto ragione Perpetua, quando, nell’uscire di casa, aveva chiuso le porte « più per non trascurare una formalità che per fede che avesse in quella toppa e in que’ battenti ». È, ad ogni modo, il primo campanello d’allarme; poi verrà il finimondo.
i promessi sposi
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la porcheria che copre il pavimento; e danno un'occhiata in giro. Non c’era
nulla d’intero; ma avanzi e frammenti di quel che c’era stato, lì e altrove, se
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ne vedeva in ogni canto: piume e penne delle galline di Perpetua, pezzi di biancheria; fogli de’ calendari di don Abbondio, cocci di pentole e di piatti; tutto insieme o sparpagliato. Solo nel focolare si potevan vedere i segni d’un vasto saccheggio accozzati insieme, come molte idee sottintese, in un periodo steso da un uomo di garbo. C'era, dico, un rimasuglio di tizzi e tizzoni spenti, i quali mostravano d’esser stati, un bracciolo di seggiola, un piede di tavola, uno sportello d’armadio, una panca di letto, una doga della botticina dove ci stava il vino che rimetteva lo stomaco a don Abbondio. Il resto era cenere e carboni; e con que’ carboni stessi, i guastatori, per ristoro, avevano
scarabocchiati i muri di figuracce, ingegnandosi, con certe berrettine o con
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certe cheriche, è con certe larghe facciole, di farne de’ preti, e mettendo stu-
dio a farli orribili e ridicoli: intento che, per verità, non poteva andar fallito a tali artisti. « Ah porci! » esclamò Perpetua. « Ah baroni! » esclamò don Abbondio; e, come scappando, andaron fuori, per un altr’uscio che metteva nell’orto. Respirarono; andaron diviato al fico; ma già prima d’arrivarci, videro la terra smossa, e misero un grido tutt’e due insieme; arrivati, trovarono effettivamen-
te, in vece del morto, la buca aperta. Qui nacquero de’ guai: don Abbondio cominciò a prendersela con Perpetua, che non avesse nascosto bene: pensate se questa rimase zitta: dopo ch’ebbero ben gridato, tutt'e due col braccio teso, e con l’indice appuntato verso la buca, se ne tornarono insieme, brontolando. E fate conto che per tutto trovarono a un di presso la medesima cosa. Penarono non so quanto, a far ripulire e smorbare la casa, tanto più che, in que’ giorni, era difficile trovar aiuto; e non so quanto dovettero stare come accampati, accomodandosi alla meglio, o alla peggio, e rifacendo a poco a poco usci, mobili, utensili, con danari prestati da Agnese. Per giunta poi, quel disastro fu una semenza d’altre. questioni molto noiose; perché Perpetua, a forza di chiedere e domandare, di spiare e fiutare, venne a saper di certo che alcune masserizie del suo padrone, credute
preda o strazio de’ soldati, erano in vece sane e salve in casa di gente del
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paese; e tempestava il padrone che si facesse sentire, e richiedesse il suo. Tasto più odioso non si poteva toccare per don Abbondio; giacché la sua
roba era in mano di birboni, cioè di quella specie di persone con cui gli premeva più di stare in pace. 298. come
molte
idee sottintese...:
pen-
serà anche a sé stesso .il M., e si vorrà compiacere di certe sue pagine in cui, da « uomo di garbo », non ha detto tutto, ma ha lasciato al lettore la soddisfazione di. scoprire lui certe « idee sottintese »? Forse sì.
302. il vino che rimetteva lo stomaco a don Abbondio: come, una sera, gli aveva detto Perpetua: « Lei sa che questo le rimette sempre lo stomaco » (Cap. I). 305. facciole: sono quelle strisce di tela inamidata che gli ecclesiastici (e anche i magistrati in toga) portano, o pottavano, sul petto sotto il collo. Con quel « larghe » sembrano fatte apposta per la faccia pienotta di don Abbondio. è
308. baroni:
mascalzoni.
Differisce
più
nella forma che nella sostanza dal « porci » della serva. Perpetua e don Abbondio dapprima, dunque, concordano nella reazione di fronte alle devastazioni e al sudiciume. Sarà la terra smossa a pié del fico a dividerli e ad aprire un nuovo diverbio, magistralmente accompagnato da quel: tocco mimico: «tutt'e due col braccio teso e l'indice appuntato verso la buca ». Il contrasto, poi, durerà a lungo, alimentato da
nuova « semenza ». 312. in vece del morto: invece del zoletto dei soldi; è espressione popolare to in uso. Già l'abbiamo trovata nei sieri dell’oste della luna piena (Cap.
gruzmolpenXV).
capitolo XXX
523
« Ma se non ne voglio saper nulla di queste cose, » diceva. « Quante volte ve lo devo ripetere, che quel che è andato è andato? Ho da' esser messo anche in croce, perché m’è stata spogliata la casa? » « Se lo dico, » rispondeva Perpetua, « che lei si lascerebbe cavar gli occhi di testa. Rubare agli altri è peccato, ma a lei, è peccato non rubare. » « Ma vedete se codesti son spropositi da dirsi! » replicava don Abbon335 dio: « ma volete stare zitta? » Perpetua si chetava, ma non subito subito; e prendeva pretesto da tutto per riprincipiare. Tanto che il pover’uomo s’era ridotto a non lamentarsi più, quando trovava mancante qualche cosa, nel momento che ne avrebbe avuto bisogno; perché, più d’una volta, gli era toccato a sentirsi dire: « vada a chie340 derlo al tale che l’ha, e non l’avrebbe tenuto fino a quest'ora, se non avesse che fare con un buon uomo. » Un'altra e più viva inquietudine gli dava il sentire che giornalmente continuavano a passar soldati alla spicciolata, come aveva troppo bene congetturato; onde stava sempre in sospetto di vedersene capitar qualcheduno o an345. che una compagnia sull’uscio, che aveva fatto raccomodare in fretta per la prima cosa, e che'teneva chiuso con gran cura; ma, per grazta del cielo, ciò
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non avvenne mai. Né però questi terrori erano ancora cessati, che un nuovo ne sopraggiunse. 350
Ma qui lasceremo da parte il pover'uomo: si tratta ben d’altro che di sue apprensioni private, che de’ guai d’alcuni paesi, che d’un disastro passeggiero. 333. Rubare... non rubare: lo sapevamo che Perpetua ha pochi peli sulla lingua. Ma forse questa volta passa i limiti. 334-335. Ma vedete... stare zitta?: della roba, a don Abbondio non importa niente, in confronto della vita. Nel Fermzo e Lucia lo diceva senza idee sottintese: « — Oh che spropositi! oh che spropositi! — esclamava Don Abbondio. — Ma sapete pure... Col nome del cielo... volete la mia mortel »MIV; 1) .
Scheda
345-346. sull’uscio... chiuso con gran cura: è l’ultima pennellata di queste lunghe vicende sofferte dal « pover’'uomo »; pennellata che, rinnovando una delle tante note essenziali del carattere di don Abbondio, lo richiude, per così dire, nel suo guscio, e lo rifà solo nel mondo degli uomini. Mentre un’altra grande tragedia si abbatte sull'umanità, i lamenti d’un gretto egoista non possono che perdersi e sfumare dietro un uscio
« chiuso
con
gran cura ».
critica ai capp. XXIX e XXX I modi in cui il Manzoni attua i raccordi e le suture fra la grande materia storica e la vicenda romanzesca si rivelano più evidenti in questi capitoli. La descrizione in grande degli orrori
della guerra si frantuma qui in una serie di episodi di varia, ma sempre fortissima, evidenza, riflettendosi nelle sorti dei diversi personaggi,
ciascuno
con
la sua
precisa
fisionomia
morale
e il
suo modo di giudicare, di orientarsi e di reagire. Son queste tra le pagine più mosse e accidentate di tutto il romanzo, sebbene
i promessi sposi
524
regolate sempre da una regia espertissima che alterna scenari, situazioni, figure, e varia il tono, dal comico dei battibecchi tra don Abbondio e Perpetua, all’intimità sorridente della casa del sarto, al drammatico della roccaforte dell'Innominato, fino al pathos delle folle in fuga e al tragico dello spettacolo di desolazione dei villaggi e delle campagne, su cui si è abbattuta la furia devastatrice dei lanzichenecchi. La psicologia di ciascun personaggio, messa alla prova delle circostanze inconsuete, ne esce ulteriormente precisata e definita: Agnese con le sue trepide previdenze di madre affettuosa e accorata, Perpetua con un inasprimento del suo spirito polemico e della sua burbera disposizione protettiva verso il suo padrone, l’Innominato con l'energia del temperamento sempre tutta rivolta in azione. Ma, fra tutti i personaggi, particolar rilievo ha qui, ancora una volta, don Abbondio. La descrizione del suo egoismo, della sua grettezza, delle sue paure tocca in queste pagine una delle punte più alte, e in qualche modo ne condensa e ne riassume il senso e l'atmosfera. Questa parte preminente, concessa a un personaggio comico
in una
rappresentazione
essenzialmente
drammatica,
può derivare da una ragione stilistica, di variazione e alleggerimento della materia e del tono. Ma occorre tener conto, anche qui, della natura ambigua del comico di don Abbondio e del modo in cui lo scrittore l'osserva e lo ritrae, divertito ma al tempo stesso distaccato e quasi sgomento. C'è, in fondo a questo atteggiamento del Manzoni verso la sua creatura, nell'insistenza stessa con cui si diverte a colorirne i gesti e le parole, qualcosa di molto serio e persino di crudele. Non per nulla qui, alla fine, è proprio l'egoismo del povero curato — la sua insensibilità, la sua disumanità e la sua avarizia — ad essere più duramente e singolarmente
punito. E questa punizione acquista, a guardar be-
ne, un valore quasi simbolico: colpisce, non tanto una persona, quanto un tipo, un atteggiamento dell'uomo e della società.
Capitolo XXXI
La peste che il tribunale della sanità aveva temuto che potesse entrar con le bande alemanne nel milanese, c’era entrata davvero, come è noto; ed
è noto parimente che non si fermò qui, ma invase e spopolò una buona parte d’Italia. Condotti dal filo della nostra storia, noi passiamo a raccontar gli avvenimenti principali di quella calamità; nel milanese, s’intende, anzi in Milano quasi esclusivamente: ché della città quasi esclusivamente trattano le memorie del tempo, come a un di presso accade sempre e per tutto, per buone e per cattive ragioni. E in questo racconto, il nostro fine non è, per dir la verità, soltanto di rappresentar lo stato delle cose nel quale verranno 10
a trovarsi i nostri personaggi; ma di far conoscere insieme, per quanto si può in ristretto, e per quanto si può da noi, un tratto di storia patria più famoso che conosciuto.
Delle molte relazioni contemporanee, non ce n’è alcuna che basti da sé a darne un’idea un po’ distinta e ordinata; come non ce n’è alcuna che non 1. La peste...: la parola apre tragicamente il capitolo, e vi rimarrà continuo ed esclusivo argomento. Ma nelle prossime pagine non ci comparirà la peste descritta nei suoi aspetti fisici, con le .doloranti immagini degli ammalati, i corpi languenti e disfatti, i cadaveri ammucchiati l’uno sull’altro; ma piuttosto la peste studiata come malattia da diagnosticare e da curare, in un disteso ragionamento, attento e preciso, critico e pungente, su come questo male poté sorgere e diffondersi, su quello che le autorità fecero o non fecero per ripararvi, che cosa credettero gli uomini di scienza, come si comportò il popolo..; Un capitolo, dunque, di pura storia, nel quale non ritroveremo i noti personaggi — ad eccezione della figura del cardinale Federigo —, e il cui argomento proseguirà anche per tutto il successivo trentaduesimo. Ne è nata una grande trattazione che, basata su documenti del tempo, mentre dà solidità al romanzo, che è storico, avvia la conclusione delle vicende dei nostri protagonisti, senza che l’autore debba più ricorrere all’intrusione di notizie chiarificatrici: le quali ritarderebbero il racconto e ridurrebbero la commozione.
3-4. buona parte d’Italia: quasi tutta V'Italia settentrionale. 7-8. per buone e per cattive ragioni: ragioni buone: i cronisti, gli storici abitano nelle città; i fatti delle città sono più vari, gravi, complessi di quelli delle campagne...; ragioni cattive: la campagna è per consuetudine trascurata dai governanti; la povera gente che ci vive non è stimata degna di considerazione da parte degli scrittori... Torna la nota polemica dell’Introduzione. 8-12. il nostro fine... conosciuto: a chi votrà criticare l'ampiezza della trattazione storica — ben due capitoli consecutivi — l’autore stesso fa osservare che il fine che si è proposto non è solo quello di scrivere un romanzo, ma anche quello di far conoscere «un tratto di storia patria ». Ma, nonostante questo, il M. non è riuscito ad evitare le tante discussioni che sono sorte su « storia » e « fantasia » nel suo romanzo. Comunque, anche presi a sé, i due capitoli, come si vedrà, hanno un indiscutibile valore artistico e umano. 13. relazioni contemporanee: fra le relazioni stampate le più importanti furono quelle di A. Lampugnano, 1634; G. Ripamonti, 1640; A. Tadino, 1648; C. G. Cavatio del-
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In ognuna
di queste relazioni, senza eccettuarne
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possa aiutare a formarla.
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si posson riconoscere e rettificare con l’aiuto di qualche altra, o di que’ pochi atti della pubblica autorità, editi e inediti, che rimangono; spesso in una si vengono a trovar le cagioni di cui nell’altra s’eran visti, come in aria, gli
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quella del Ripamonti *, la quale le supera tutte, per la quantità e per la scelta de’ fatti, e ancor più per il modo d’osservarli, in ognuna sono omessi fatti essenziali, che son registrati in altre; in ognuna ci sono errori materiali, che
effetti. In tutte poi regna una strana confusione di tempi e di cose; è un continuo andare e venire, come alla ventura, senza disegno generale, senza disegno ne’ particolari: carattere, del resto, de’ più comuni e de’ più apparenti ne’ libri di quel tempo, principalmente in quelli scritti in lingua volgare,
almeno in Italia; se anche nel resto d’Europa, i dotti lo sapranno, noi lo so-
spettiamo. Nessuno scrittore d’epoca posteriore s’è proposto d’esaminare e di confrontare quelle memorie, per ritrarne una serie concatenata degli avvenimenti, una storia di quella peste; sicché l’idea che se ne ha generalmente,
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dev'essere, di necessità, molto incerta, e un po’ confusa: un’idea indeterminata di gran mali e di grand’errori (e per verità ci fu dell’uno e dell’altro, al di là di quel che si possa immaginare), un’idea composta più di giudizi che di fatti, alcuni fatti dispersi, non di rado scompagnati dalle circostanze più caratteristiche, senza distinzion di tempo, cioè senza intelligenza di causa e d’effetto, di corso, di progressione. Noi, esaminando e confrontando, con molta diligenza se non altro, tutte le relazioni stampate, più d’una inedita, molti (in ragione del poco che ne rimane) documenti, come dicono, ufiziali, abbiam cercato di farne non già quel che si vorrebbe, ma qualche cosa che non è
stato ancor fatto. Non intendiamo di riferire tutti gli atti pubblici, e nemmeno tutti gli avvenimenti degni, in qualche modo, di memoria. Molto meno pre-
tendiamo di rendere inutile a chi voglia farsi un’idea più compita della cosa, la lettura delle relazioni originali: sentiamo troppo che forza viva, propria e, per dir così, incomunicabile, ci sia sempre nell’opere di quel genere, comunque concepite e condotte. Solamente abbiam tentato di distinguere e di verificare i fatti più generali e più importanti, di disporli nell’ordine reale della loro successione, per quanto lo comporti la ragione e la natura d’essi, d’osservare la loro efficienza reciproca, e di dar così, per ora e finché qualchedun altro non faccia meglio, una notizia succinta, ma sincera e continuata, di
quel disastro. * Josephi Ripamontii, canonici scalensis, chronistae urbis Mediolani, De peste quae 1630, Libri V. Mediolani, 1640, apud Malatestas.
fuit anno
la Somaglia, 1653; F. Rivola, 1666; C. Torre, 1676; L. Ghirardelli, 1681; Pio La Croce, 1730. Tra le relazioni inedite, soprattutto l’opuscolo di Federigo Borromeo: De pestilentia quae Mediolani anno 1630 magnam stragem edidit. Per tutta la materia di questi capitoli si vedano le opere di F. Nicolini, Peste e untori nei Promessi Sposi e nella realtà storica, Bari, 1937, e Arte e storia nei Promessi Sposi, op. cit., e di M. Mazzitelli, I Promzessi Sposi visti da un medico, Roma, 1952, x
15-49. In ognuna... quel disastro: l’ampio capoverso è una limpida esposizione del metodo seguito dal M. ‘nello studio delle fonti e nella ricostruzione dei fatti. Un metodo scientifico, erudito, basato sull’esame e sul confronto: « esaminando e confrontando »; un metodo poco applicato dai precedenti scrittori e che ora l’autore propone agli storici futuri. Nei pensiero del M. c’è l'influsso del Vico e del Muratori, e, in generale, dello spirito illuministico, che fu tutto critico nei riguardi del Seicento.
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Per tutta adunque la striscia di territorio percorsa dall’esercito, s’era trovato-qualche cadavere nelle case, qualcheduno sulla strada. Poco dopo, in questo e in quel paese, cominciarono ad ammalarsi, a morire, persone, famiglie, di mali violenti, strani, con segni sconosciuti alla più parte de’ viventi. C'era soltanto alcuni a cui non riuscissero nuovi: que’ pochi che potessero ricordarsi della peste che, cinquantatré anni avanti, aveva desolata pure una buona parte d’Italia, e in ispecie il milanese, dove fu chiamata, ed è tuttora, la peste di san Carlo. Tanto è forte la carità! Tra le memorie così varie e così solenni d’un infortunio generale, può essa far primeggiare quella d’un uomo perché a quest'uomo ha ispirato sentimenti e azioni più memorabili ancora de’ mali; stamparlo nelle menti, come un sunto di tutti que’ guai, perché in tutti l’ha spinto e intromesso, guida, soccorso, esempio, vittima volontaria; d’una calamità per tutti, far per quest'uomo come un’impresa; nominarla da lui, come una conquista, o una scoperta. Il protofisico Lodovico Settala, che, non solo aveva veduta quella peste, ma n’era stato uno de’ più attivi e intrepidi, e, quantunque allora giovinis.simo, de’ più riputati curatori; e che ora, in gran sospetto di questa, stava all'erta e sull’informazioni, riferì, il 20 d’ottobre, nel tribunale della sanità, come, nella terra di Chiuso (l’ultima del territorio di Lecco, e confinante nel
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bergamasco), era scoppiato indubitabilmente il contagio. Non fu per questo presa veruna risoluzione, come si ha dal Ragguaglio del Tadino *. Ed ecco sopraggiungere avvisi somiglianti da Lecco e da Bellano. Il tribunale allora si risolvette e si contentò di spedire un commissario che, stra* Pag. 24.
55. cinquantatré anni avanti: la peste del 1576, detta « peste di San Carlo Borromeo » per la grande opera di assistenza e di amore del santo vescovo. La carità è dunque « tanto forte », che il disastro prese il nome dall’uomo che compì «azioni più memorabili ancora de’ mali». E siccome le cose andarono veramente in quel modo, il M. non tanto fa oratoria né agiografia, quanto rende alla storia una testimonianza onesta, an-
che se compiaciuta. 60. stamparlo: qualcuno ha proposto di correggere stamparlo in stamparla, riferendolo a memoria. Ma «il seguito del periodo dopo stamparlo mostra che chi è stampato è proprio San Carlo, perché a lui solo si riferiscono le parole l’ha spinto e intromesso, guida, soccorso, esempio, vittima vo-
lontaria » (Barbi:
Annali manzoniani, II). 64. protofisico Lodovico Settala: protofisico e protomedico, una specie del nostro primario, era il capo di tutti i medici del Ducato. Il Settala (1552-1633) fu professore a Pavia e a Milano, ed autore di sva-
riate ed importanti opere mediche, fra cui un De peste et pestiferis effectibus. Ora, quest'uomo di esperienza straordinaria e di cultura vastissima, quando dà l’allarme e sostiene che il contagio è scoppiato « in-
dubitabilmente », non viene neppure ascoltato: non fu presa « veruna risoluzione ». In questo accenno dell’intervento del Settala, senti già la prima decisa frecciata polemica nei riguardi del tribunale della sanità che, debitamente informato dal protofisico, tiene un contegno passivo e colpevole. Questa critica si farà sempre più circostanziata nei riguardi sia dello stesso tribunale della sanità, sia di tutte le altre autorità, cui competeva la cura dei cittadini, e in primo luogo del governatore. Poi l’attenzione dello storico si sposterà sul contegno della popolazione. 68. Chiuso: sarebbe il paese del sarto. 70. Ragguaglio del Tadino: abbiamo altre volte osservato che il M. ha avuto sottomano fonti storiche non sempre attendibili. È questo il caso dell’opera del Tadino. Si deve agli scritti del Nicolini, poco fa ricordati (n. 13), una puntuale documentazione della verità storica. Ma questa documentazione dei nostri tempi niente toglie all’acutezza dell’indagine del M. e alla passione con .cui egli guardò ai meriti e ai demeriti degli uomini del Seicento. 72-73. strada facendo: come se fosse in gita di piacere: senza furia e senza preoccupazioni.
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da facendo, prendesse un medico a Como, e si portasse con lui a visitare i luoghi indicati. Tutt'e due, « o per ignoranza o per altro, si lasciorno persuadere da un vecchio et ignorante barbiero di Bellano, che quella sorte de mali
non era Peste * »; ma, in alcuni luoghi, effetto consueto dell’emanazioni autunnali delle paludi, e negli altri, effetto de’ disagi e degli strapazzi sofferti, nel passaggio degli alemanni. Una tale assicurazione fu riportata al tribunale, il quale pare che ne mettesse il cuore in pace.
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Ma arrivando senza posa altre e altre notizie di morte da diverse parti, furono spediti due delegati a vedere e a provvedere: il Tadino suddetto, e un auditore del tribunale. Quando questi giunsero, il male s’era già tanto dilatato, che le prove si offrivano, senza che bisognasse andarne in cerca. Scor-
sero il territorio di Lecco, la Valsassina, le coste del lago di Como, i distretti denominati il Monte di Brianza, e la Gera d’Adda; e per tutto trovarono
paesi chiusi da cancelli all’entrature, altri quasi deserti, e gli abitanti scappati e attendati alla campagna, o dispersi; « et ci parevano », dice il Tadino, « tante creature seluatiche, portando in mano chi l’herba menta, chi la ruta, chi il rosmarino et chi una ampolla d’aceto ». S’informarono del riumero de’ morti: era spaventevole; visitarono infermi e cadaveri, e per tutto trovarono le brutte e terribili marche della pestilenza. Diedero subito, per lettere, quelle sinistre nuove al tribunale della sanità il quale, al riceverle, che fu il 30 d’ottobre, « si dispose », dice il medesimo Tadino, a prescriver le bullette, per
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chiuder fuori dalla Città le persone provenienti da’ paesi dove il contagio s'era manifestato; « et mentre si compilaua la grida », ne diede anticipatamente qualche ordine sommario a’ gabellieri. Intanto i delegati presero in fretta e in furia quelle misure che parver loro migliori; e se ne tornarono, con la trista persuasione che non sarebbero bastate a rimediare e a fermare un male già tanto avanzato e diffuso. Arrivati il 14 di novembre, dato ragguaglio, a voce e di nuovo in iscritto. al tribunale, ebbero da questo commissione di presentarsi al governatore, e d’esporgli lo stato delle cose.
V’andarono,
e riportarono:
aver
lui di tali
nuove provato molto dispiacere, mostratone un gran sentimento; ma i pensieri della guerra esser più pressanti: sed delli graviores esse curas. Così il * Tadino, ivi.
78. tale assicurazione: quindi il « vecchio et ignorante» barbiere di Bellano ha battuto il « protofisico» Lodovico Settala! Così va il mondo, potremmo dire anche noi, insieme col M.: e ‘aggiungere, anche noi: non soltanto nel Seicento. Anzi! 82. auditore: magistrato di grado inferiore; una specie di giudice istruttore. 88. seluatiche: selvatiche. 88-89. portando... aceto: anche il Boccaccio nell’« Introduzione » al Decazzeron racconta che durante la peste di Firenze del 1348 le persone «andavano attotno portando nelle mani chi fiori, chi erbe odorifere, e chi diverse maniere di spezierie, quelle al naso ponendosi spesso, estimando essere ottima cosa il cerebro con cotali odo-
ri confortare ». Le parole del Tadino, direttamente riportate dal M., danno alla pagina più colorito e validità storica. 93. bullette: certificati di sanità, di cui doveva essere fornito chi andava in un’altra città; una specie di lasciapassare. 100. 14 di novembre: del 1629. 104. sed belli graviores esse curas: il Nicolini mostra che a tale notizia, così com’è riportata dal Ripamonti, non si può dare molta credibilità. Sappiamo anche che su vari altri fatti storici ormai si è pervenuti a conclusioni diverse da quelle a cui poté giungere il M. Ma noi, in generale, non vi accenneremo
più. Ciò che ora interessa
è,
oltre alla partecipazione spirituale dello scrittore, il risultato estetico del racconto, e non
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Ripamonti, il quale aveva spogliati i registri della Sanità, e conferito col Tadino, incaricato specialmente della missione: era la seconda, se il lettore se ne ricorda, per quella causa, e con quell’esito. Due o tre giorni dopo, il 18 di novembre, emanò il governatore una grida, in cui ordinava pubbliche feste,
per la nascita del principe Carlo, primogenito del re Filippo IV, senza sospettare o senza curare il pericolo d’un gran concorso, in tali circostanze: tutto come in tempi ordinari, come se non gli fosse stato parlato di nulla. Era quest'uomo, come già s’è detto, il celebre Ambrogio Spinola, mandato per raddirizzar quella guerra e riparare agli errori di don Gonzalo, è incidentemente, a governare; e noi pure possiamo qui incidentemente rammentar che morì dopo pochi mesi, in quella stessa guerra che gli stava tanto a cuore;
e morì, non già di ferite sul campo, ma in letto, d’affanno e di
struggimento, per rimproveri, torti, disgusti d’ogni specie ricevuti da quelli a cui serviva. La storia ha deplorata la sua sorte, e biasimata l’altrui sconoscenza; ha descritte con molta diligenza le sue imprese militari e politiche, lodata la sua previdenza, l’attività, la costanza: poteva anche cercare cos’abbia fatto di tutte queste qualità, quando la peste minacciava, invadeva una popolazione datagli in cura, o piuttosto in balìa. Ma ciò che, lasciando intero il biasimo, scema la maraviglia di quella sua condotta, ciò che fa nascere un’altra € più forte maraviglia, è la condotta della popolazione medesima, di quella, voglio dire, che, non tocca ancora dal contagio, aveva tanta ragion di temerlo. All’arrivo di quelle nuove de’ paesi che n’erano così malamente imbrattati, di paesi che formano intorno alla città quasi un semicircolo, in alcuni punti distante da essa non più di diciotto o venti miglia; chi non crederebbe che vi si suscitasse un movimento generale, un desiderio di precauzioni bene o male intese, almeno una sterile inquietudine? Eppure, se in qualche cosa le memorie di quel tempo vanno d’accordo, è nell’attestare che non ne fu nulla. La penuria dell’anno antecedente, le angherie della soldatesca, le afflizioni d’animo, parvero più che bastanti a render ragione della mortalità: sulle piazze, nelle botteghe, nelle case, chi buttasse là una parola del pericolo, chi motivasse peste, veniva accolto con beffe incredule, con disprezzo iracondo. La medesima miscredenza, la medesima,
per dir meglio, cecità e fissazione prevaleva nel senato, nel
Consiglio de’ decurioni, in ogni magistrato. la sua piena validità storica. Riguardo alla quale, del resto, eventuali imprecisioni non
sono certamente da imputare a mancanza d'impegno da parte dell’autore. 106. era la seconda: la prima, quando fu mandato dal precedente governatore, don Gonzalo, a fargli presente il pericolo che le truppe alemanne portassero la peste (Cap. XXVIII). 109. la nascita del principe Carlo: non si tratta del futuro Carlo II, ma di un Baldassarre Carlo, nato il 17 ottobre 1629 e morto infante. 112. Ambrogio Spinola: cfr. Cap. XXVIII, 0493:/1 114. incidentemente: ironia evidente: la « guerra » e non la «cura della popolazione» era il suo impegno. E poi, se anche
si fosse impegnato
nel governare,
quanto
la gente gli avrebbe dato retta, sopraffatta ormai dal flagello della peste? Tutto il capoverso suona sarcasmo nei riguardi dello: Spinola; e anche qui non interessa tanto sapere se la «storia» del M. è esatta al
cento per cento, ma sentire lo sdegno amaro e sfiduciato del poeta di fronte all’insipienza degli individui
e, fra breve, di fronte alla follia delle masse. 132-136. La penuria... iracondo: perfetta conoscenza della psicologia collettiva. Il popolo è fatto così: quando ha subito tante
« angherie » e « afflizioni » non vuole ascol-
tare più le voci ammonitrici su altri mali. Va avanti con cinismo, « con disprezzo iracondo », finché non si ritrova, irrimediabilmente, nell’abisso.
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casì di mal Trovo che il cardinal Federigo, appena si riseppero i primi cose, che
tra lealtre contagioso, prescrisse, con lettera pastorale a’ parrochi,
e dell’obbligo stretto ammonissero più e più volte i popoli dell'importanza infette ° sospette *: e
di rivelare ogni simile accidente, e di consegnar le robe
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anche questa può essere contata tra le sue lodevoli singolarità. ne, ma otteneva Il tribunale della sanità chiedeva, implorava cooperazio lontana da uguaben poco o niente. E nel tribunale stesso, la premura era appare angliare l'urgenza: erano, come afferma più volte il Tadino, e come che, persuasi cor meglio da tutto il contesto della sua relazione, i due fisici corpo, il quale della gravità e dell’imminenza del pericolo, stimolavan quel aveva poi a stimolare gli altri. Abbiam già veduto come, al primo annunzio della peste, andasse freddo nell’operare, anzi nell’informarsi: ecco ora un altro fatto di lentezza non men portentosa, se però non era forzata, per ostacoli frapposti da magistrati superiori. Quella grida per le bullette, risoluta il 30 d’ottobre, non fu stesa che il dì 23 del mese seguente, non fu pubblicata che il 29. La peste era già entrata in Milano. Il Tadino e il Ripamonti vollero notare il nome di chi ce la portò il primo, e altre circostanze della persona e del caso: e infatti, nell’osservare i princìpi d’una vasta mortalità, in cui le vittime, non che esser distinte per nome, appena si potranno indicare all’incirca, per il numero delle migliaia, nasce una non so quale curiosità di conoscere que’ primi e pochi nomi che poterono essere notati e conservati: questa specie di distinzione, la. precedenza nell’esterminio, par che faccian trovare in essi, e nelle particolarità, per altro più indifferenti, qualche cosa di fatale e di memorabile. L’uno e l’altro storico dicono che fu un soldato italiano al servizio di Spagna; nel resto non sono ben d’accordo, neppur sul nome. Fu, secondo il
Tadino, un Pietro Antonio Lovato, di quartiere nel territorio di Lecco; secondo il Ripamonti, un Pier Paolo Locati, di quartiere a Chiavenna. Differiscono anche nel giorno della sua entrata in Milano: il primo la mette al 22 d’ottobre, il secondo ad altrettanti del mese seguente: e non si può stare né all’uno né all’altro. Tutt'e due l’epoche sono in contraddizione con altre ben più verificate. Eppure il Ripamonti, scrivendo per ordine del Consiglio
generale de’ decurioni, doveva avere al suo comando molti mezzi di prender l’informazioni necessarie; e il Tadino, per ragione del suo impiego, poteva,
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meglio d’ogn’altro, essere informato d’un fatto di questo genere. Del resto, dal riscontro d’altre date che ci paiono, come abbiam detto, più esatte, risulta che fu, prima della pubblicazione della grida sulle bullette; e, se ne mettesse * Vita di Federigo Borromeo, compilata da Francesco Rivola. Milano, 1666, pag. 582.
139. Trovo
che... Federigo...:
nella vita
del Borromeo, compilata da Francesco Rivola (1666). Nella comune insipienza e col-
pevolezza, solo poche figure nobili lo scrittore può isolare. Prima, il Cardinale, insieme con alcuni sacerdoti pronti ad assecondarne la carità e lo zelo; poi, due cappuccini ai quali le autorità, « non sapendo dove battere il capo», affideranno il lazzeretto.
154-155. La peste era già entrata in Milano:
la drammatica
concisione
della frase,
mette ancor più in risalto le lungaggini dei magistrati. 161-163. questa specie... memorabile: altra acuta osservazione psicologica, che, creando una breve pausa al racconto, ci rende ancor più meditativi sul vario misterioso agire degli uomini, e più partecipi dell’intimo affanno dello scrittore.
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conto, si potrebbe anche provare o quasi provare, che dovette essere ai primi di quel mese; ma certo, il lettore ce ne dispensa. 180
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Sia come si sia, entrò questo fante sventurato e pottator di sventura, con
un gran fagotto di vesti comprate o rubate a soldati alemanni; andò a fermarsi in una casa di suoi parenti, nel borgo di porta orientale, vicino ai ‘cappuccini; appena arrivato, s'ammalò; fu portato allo spedale; dove-un bubbone che'gli si scoprì sotto un’ascella, mise chi lo curava in sospetto di ciò ch’era infatti; il quarto giorno morì. Il tribunale della sanità fece segregare e sequestrare in casa la di lui famiglia; i suoi vestiti e il letto in cui era stato allo spedale, furon bruciati. Due serventi che l’avevano avuto in cura, e un buon frate che l’aveva assi-
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stito, caddero anch’essi ammalati in pochi giorni, tutt'e tre di peste. Il dubbio che in quel luogo s’era avuto, fin da principio, della natura del male, e le ,cautele usate in conseguenza, fecero sì che il contagio non vi si propagasse di più. Ma il soldato ne aveva lasciato di fuori un seminìo che non tardò a germogliare. Il primo a cui s’attaccò, fu il padrone della casa dove quello aveva alloggiato, un Carlo Colonna sonator di liuto. Allora tutti i pigionali di quella casa furono, d’ordine della Sanità, condotti al lazzeretto, dove la più parte s'ammalarono; alcuni morirono, dopo poco tempo, di manifesto contagio. Nella città, quello che già c’era stato disseminato da costoro, da’ loro panni, da’ loro mobili trafugati da parenti, da pigionali, da persone di servizio, alle ricerche e al fuoco prescritto dal tribunale, e di più quello che c'entrava di nuovo, per l’imperfezion degli editti, per la trascuranza nell’eseguirli, e per la destrezza nell’eluderli, andò covando e serpendo lentamente, tutto il restante dell’anno, e ne’ primi mesi del susseguente 1630. Di quando in quando, ora in questo, ora in quel quartiere, a qualcheduno s’attaccava, qualcheduno ne moriva: e la radezza stessa de’ casi allontanava il sospetto della verità, confermava sempre più il pubblico in quella stupida e micidiale fiducia che non ci fosse peste, né ci fosse stata neppure un momento. Molti medici ancora, facendo eco alla voce del popolo (era, anché in questo caso, voce di Dio?), deridevan gli augùri sinistri, gli avvertimenti minacciosi de’ pochi; e avevan pronti nomi di malattie comuni, per qualificare ogni caso
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di peste che fossero chiamati a curare; con qualunque sintomo, con qualunque segno fosse comparso. Gli avvisi di questi accidenti, quando pur pervenivano alla Sanità, ci per-
venivano tardi per lo più e incerti. Il terrore della contumacia e del lazzeretto aguzzava tutti gl’ingegni: non si denunziavan gli ammalati, si corrompe-
Bonaventura,
sarà fatta apposta per portare un tenue sorriso fra tanto « seminìo » di morti?
‘185-186. la di lui famiglia: nella prima edizione c'è «la famiglia di lui »: e, come si sa, andava molto meglio. Più fortunato è stato il M. nella sostituzione, sotto, di « seminìo » a « semenza ». 194. sonator di liuto: la determinazione
no, come si è visto anche in altri casi: ad esempio durante i tumulti di Milano. E allora, vuol dire il M., se sbaglia il popolo nel farsi interprete della voce di Dio, stiano bene attenti i governanti, loro che hanno autorità e responsabilità, a non sbagliare nel dar retta alla voce del popolo. Un proverbio, dunque — vox populi, vox Dei — che può implicare due errori. Non è poco.
181-182. cappuccini: il convento di padre a cui era indirizzato Renzo (Cap. XI). 182. bubbone: tumore prodotto da infiammazione, tipico segno della peste: detta, appunto, bubbonica.
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voce
di Dio:
certamente
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vano i becchini e i loro soprintendenti; da subalterni del tribunale stesso, deputati da esso a visitare i cadaveri, s’ebbero, con danari, falsi attestati. Siccome però, a ogni scoperta che gli riuscisse fare, il tribunale ordinava di bruciar robe, metteva in sequestro case, mandava famiglie al lazzeretto, così è facile argomentare quanta dovesse essere contro di esso l’ira e la mor-
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morazione del pubblico, « della Nobiltà, delli Mercanti et della plebe », dice il Tadino; persuasi, com’eran tutti, che fossero vessazioni senza motivo, e senza costrutto. L’odio principale cadeva sui due medici; il suddetto Tadino,
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e Senatore Settala, figlio del protofisico: a tal segno, che ormai non potevano attraversar le piazze senza essere assaliti da parolacce, quando non eran sassi. E certo fu singolare, e merita che ne sia fatta memoria, la condizione in cui, per qualche mese, si trovaron quegli uomini, di veder venire avanti un orribile flagello, d’affaticarsi in ogni maniera a stornarlo, d’incontrare ostacoli dove cercavano aiuti, volontà, e d’essere insieme bersaglio delle grida, avere il nome di nemici della patria: pro patriae hostibus, dice il Ripamonti. Di quell’odio ne toccava una patte anche agli altri medici che, convinti come loro, della realtà del contagio, suggerivano precauzioni, cercavano di comunicare a tutti la loro dolorosa certezza. I più discreti li tacciavano di credulità e d’ostinazione: per tutti gli altri, era manifesta impostura, cabala ordita per far bottega sul pubblico spavento. Il protofisico Lodovico Settala, allora poco men che ottuagenario, stato professore di medicina all’università di Pavia, poi di filosofia morale a Milano, autore di molte opere riputatissime allora, chiaro per inviti a cattedre d’altre università, Ingolstadt, Pisa, Bologna, Padova, e per il rifiuto di tutti questi inviti, era certamente uno degli uomini più autorevoli del suo tempo. Alla riputazione della scienza s’aggiungeva quella della vita, e all’ammirazio-
ne la benevolenza, per la sua gran carità nel curare e nel beneficare i poveri. E, una cosa che in noi turba e contrista il sentimento di stima ispirato da questi meriti; ma che allora doveva renderlo più generale e più forte, il pover'uomo partecipava de’ pregiudizi più comuni e più funesti de’ suoi con245
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temporanei: era più avanti di loro, ma senza allontanarsi dalla schiera, che è quello che attira i guai, e fa molte volte perdere l’autorità acquistata in altre maniere. Eppure quella grandissima che godeva, non solo non bastò a vincere, in questo caso, l’opinion di quello che i poeti chiamavan volgo profano, e i capocomici, rispettabile pubblico; ma non poté salvarlo dall’animosità e dagl’insulti di quella parte di esso che corre più facilmente da’ giudizi alle dimostrazioni e ai fatti. 232-233. credulità... ostinazione... impoingiusto col povero laico. Giudichino da sé stura... cabala: il crescendo delle parole i lettori: comunque sia, non ci troviamo esprime benissimo il crescendo della follia , nulla di clericale. popolare, che si manifesta in discorsi rab248-249. volgo... pubblico: ironia spassobiosi. Ma la folla, vedremo, farebbe presa, e diffusa un po’ su tutti: popolino, poesto a passare dalle parole ai fatti. ti, e «capocomici »: quelli, naturalmente, 238. Ingolstadt: in Baviera. che ... la dicono più grossa di tutti. Ci pia244. partecipava de’ pregiudizi... oltre ce questo M. che non s’inchina ai potenti che per le sue gran virtù, anche per questi e non adula le folle. Ma nell’eco dello sde« pregiudizi » il Settala è vicino al cardinal gnoso verso d’Orazio — Odi profanum vulFederigo, partecipe anch’egli degli « errori gus et arceo, ‘Ho in odio e respingo il del suo tempo» (Cap. XXII). A certi crivolgo dei profani’ (Odi, III, 1) — c'è tici, però, il discorso del M. non va giù: soltanto una battuta scherzosa, e niente del lo vedono rispettoso con l’uomo di chiesa, sussiego del poeta latino.
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Un giorno che andava in bussola a visitare i suoi ammalati principiò a radunarglisi intorno gente, gridando esser lui il capo di coloro che volevano per forza che ci fosse la peste; lui che metteva in ispavento la città, con quel suo cipiglio, con quella sua barbaccia: tutto per dar da fare ai medici. La folla e il furore andavan crescendo: i portantini, vedendo la mala parata, ricoverarono il padrone in una casa d’amici, che per sorte era vicina. Questo gli toccò per aver veduto chiaro; detto ciò che era, e voluto salvar dalla peste molte migliaia di persone: quando, con un suo deplorabile consulto, cooperò a far torturare, tanagliare e’ bruciare, come strega, una povera infelice sventurata, perché il suo padrone pativa dolori strani di stomaco, e un altro padrone di prima era stato fortemente innamorato di lei *, allora ne avrà avuta presso il pubblico nuova lode di sapiente e, ciò che è intollerabile a pensare, nuovo titolo di benemerito. Ma sul finire del mese di marzo, cominciarono, prima nel borgo di porta orientale, poi in ogni quartiere della città, a farsi frequenti le malattie, le morti, con accidenti strani di spasimi, di palpitazioni, di letargo, di delirio, con quelle insegne funeste di lividi e di bubboni; morti per lo più celeri, violente, non
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di rado repentine,
senza
alcun indizio antecedente
di malattia.
I medici opposti alla opinion del contagio, non volendo ora confessare ciò che avevan deriso, e dovendo pur dare un nome generico ‘alla nuova malattia, divenuta troppo comune e troppo palese per andarne senza, trovarono quello di febbri maligne, di febbri pestilenti: miserabile transazione, anzi trufferia di parole, e che pur faceva gran danno; perché, figurando di riconoscere la verità, riusciva ancora a non lasciar credere ciò che più importava di credere,
di vedere, che il male s’attaccava per mezzo del contatto. I magistrati, come chi si risente da un profondo sonno, principiarono a dare un po’ più orecchio agli avvisi, alle proposte della Sanità, a far eseguire i suoi editti, i sequestri ordinati, le quarantene prescritte da quel tribunale. Chiedeva. esso di continuo anche danari per supplire alle spese giornaliere, crescenti, del lazzeretto, di tanti altri servizi; e li chiedeva ai decurioni, intanto che fosse deciso (che non fu, credo, mai, se non col fatto) se tali spese toccassero alla città, o all’erario regio. Ai decurioni faceva pure istanza il gran cancelliere,
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per ordine anche del governatore, ch’era andato di nuovo a metter l’assedio a quel povero Casale; faceva istanza il senato, perché pensassero alla maniera di vettovagliar la città, prima che dilatandovisi per isventura il contagio, le * Storia di Milano del Conte Pietro Verri; Milano 1825, Tom. 4. pag. 155.
262. innamorato di lei (*): dall’opera del Verri, cui l’asterisco rimanda; si sa che una certa Caterinetta Medici, cameriera, incolpata di aver procurato malefìci amorosi pri-
ma ad un tal capitano Vacallo e poi al senatore Luigi Melzi, fu trascinata in processo, e, torturata, fece assurde confessioni. La disgraziata fu anche visitata da un gruppo di medici, fra cui il Settala; il quale, per aver riscontrate sulle spalle di Caterinetta certe macchie indubbiamente « segnate e marcate dal demonio », la confermò « strega famosa e professa ». Condannata
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al rogo, dopo essere stata dilaniata con una tenaglia infuocata, la poveretta fu giustiziata a Milano il 4 marzo 1617. 272. per andarne senza: pet restare senza un nome. i 273-274. trufferia di parole: definizione davvero calzante; sotto c’è la rivolta morale dello scrittore. Con pestilenti si riconosceva quello che fino allora si era negato; con febbri si continuava a nascondere ancora la realtà del contagio. Per non confessare apertamente l’errore, si sacrificava la salute e la vita della popolazione.
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venisse negato pratica dagli altri paesi; perché trovassero il mezzo di mante-
nere una gran parte della popolazione, a cui eran mancati i lavori. I decurioni cercavano di far danari per via d’imprestiti, d’imposte; e di quel che
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ne raccoglievano, ne davano un po’ alla Sanità, un po’ a’ poveri; un po di grano compravano: supplivaho a una parte del bisogno. E le grandi angosce non erano ancor venute. qa giorno, ogni decimata quantunque Nel lazzeretto, dove la popolazione, d’assicurare quella impresa andava ogni giorno crescendo, era un’altra ardua il servizio e la subordinazione, di conservar le separazioni prescritte, di mantenervi in somma o, per dir meglio, di stabilirvi il governo ordinato dal tribunale della sanità: ché, fin da’ primi momenti, c’era stata ogni cosa in confusione, per la sfrenatezza di molti rinchiusi, per la trascuratezza e per la connivenza de’ serventi. Il tribunale e i decurioni, non sapendo dove battere il capo, pensaron di rivolgersi ai cappuccini, e supplicarono il padre commissatio della provincia, il quale faceva le veci del provinciale, morto poco prima, acciò volesse dar loro de’ soggetti abili a governare quel regno desolato. Il commissario propose loro, per principale, un padre Felice Casati, uomo d’età matura, il quale godeva una gran fama di carità, d’attività, di mansuetudine insieme e di fortezza d’animo, a quel che il seguito fece vedere, ben meritata; e per compagno e come ministro di lui, un padre Michele Pozzobonelli, ancor giovine, ma grave e severo, di pensieri come d’aspetto. Furono accet-
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tati con gran piacere; e il 30 di marzo, entrarono nel lazzeretto. Il presidente della Sanità li condusse in giro, come per prenderne il possesso; e, convocati i serventi e gl’impiegati d’ogni grado, dichiarò, davanti a loro, presidente di quel luogo il padre Felice, con primaria e piena autorità. Di mano in mano poi che la miserabile radunanza andò crescendo, v’accorsero altri cappuccini; e furono in quel luogo soprintendenti, confessori, amministratori, infermieri, cucinieri, guardarobi, lavandai, tutto ciò che occorresse. Il padre Felice, sempre affaticato e sempre sollecito, girava di giorno, girava di notte, per i portici, per le stanze, per quel vasto spazio interno, talvolta portando un'asta, talvolta non armato che di cilizio; animava e regolava ogni cosa; sedava i tumulti, faceva ragione alle querele, minacciava, puniva, riprendeva, confottava, asciugava e spargeva lacrime. Prese, sul principio, la peste; ne guarì, e si rimise, con nuova lena, alle cure di prima. I suoi confratelli ci lasciarono la più parte la vita, e tutti con allegrezza. 287. negato pratica: interdetti i rapporti commerciali con le altre città; frase del linguaggio ufficiale. 301. provinciale, morto...: quello del famoso colloquio col conte zio (Cap. XIX). 303-306. padre Felice... padre Michele...: semplicissima la presentazione dei due cappuccini; ma più che sufficiente a far risplendere il sublime eroismo di loro e dei loro confratelli accorsi nel lazzeretto. Eroismo vero, di chi, coscientemente e, come ve-
dremo, « con allegrezza » offre la vita propria per la vita degli altri. — Da qui incomincia la grande epopea dei cappuccini nel lazzeretto di Milano. Un’epopea di cui troveremo più avanti la ricostruzione diretta
e drammatica, ma che già ci appare esaltata da quella manifesta confessione di impotenza dell’autorità civile, convalidata dalle dirette e molteplici testimonianze storiche. 317. non armato che di cilizio: l’interpretazione che di questa arzzatura dà il Russo ci sembra in contrasto con tutta la figura e l’opera di padre Felice: «un mazzo di funicelle, col quale batteva sulle spalle dei tumultuanti e dei contendenti ». In armonia con la mitezza del cappuccino, e ricordando che il cilizio è uno strumento di mortificazione che si porta sulla nuda pelle, accogliamo la più diffusa interpretazione: «armato soltanto della propria pazienza ».
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. Cetto, una tale dittatura era uno strano ripiego; strano come la calamità, come i tempi; e quando non ne sapessimo altro, basterebbe per argomento, anzi per saggio d’una società molto rozza e mal regolata, il veder che quelli a cui toccava un così importante governo, non sapesser più farne altro che cederlo, né trovassero a chi cederlo, che uomini, per istituto, il più alieni da ciò. Ma è insieme un saggio non ignobile della forza e. dell’abilità che la carità può dare in ogni tempo, e in qualunque ordin di cose, il veder quest’uomini sostenere un tal carico così bravamente. E fu bello lo stesso averlo accettato, senz’altra ragione che il non esserci chi lo volesse, senz'altro fine che di servite, senz’altra speranza in questo mondo, che d’una morte molto più invidiabile che invidiata; fu bello lo stesso esser loro offerto, solo perché era difficile e pericoloso, e si supponeva che il vigore e il sangue freddo, così necessario e raro in que’ momenti, essi lo dovevano avere. E perciò l’opera e il cuore di que’ frati meritano che se ne faccia memoria, con ammirazione, con tenerezza, con quella specie di gratitudine che è dovuta, come in solido, per i gran servizi resi da uomini a uomini, e più dovuta a quelli che non se la propongono per ricompensa. « Che se questi Padri iui non si ritrouauano, » dice il Tadino, « al sicuro tutta la Città annichilata si trouaua; puoiché fu cosa miracolosa l’hauer questi Padri fatto in così puoco spatio di tempo tante cose per benefitio publico, che non hauendo hauuto agiutto, o almeno puoco dalla Città, con la sua industria et prudenza haueuano mantenuto nel Lazeretto tante migliaia de poueri. » Le persone ricoverate in quel luogo, durante i sette mesi che il padre Felice n’ebbe il governo, furono circa cinquantamila, secondo il Ripamonti; il quale dice con ragione, che d’un uomo tale avrebbe dovuto ugualmente parlare, se in vece di descriver le miserie d’una città, avesse dovuto raccontar le cose che posson farle onore. Anche nel pubblico, quella caparbietà di negar la peste andava natural mente cedendo e perdendosi, di mano in mano che il morbo si diffondeva, e si diffondeva per via del contatto e della pratica; e tanto più quando, dopo esser qualche tempo rimasto solamente tra’ poveti, cominciò a toccar persone più conosciute. E tra queste, come allora fu il più notato} così merita anche adesso un’espressa menzione il protofisico Settala. Avranno almen confessato che il povero vecchio aveva ragione? Chi lo sa? Caddero infermi di peste, lui, la moglie, due figliuoli, sette persone di servizio. Lui e uno de? figliuoli n’usciron salvi; il resto morì. « Questi casi », dice il Tadino, « occorsi nella Città in case
Nobili, disposero la Nobiltà, et la plebe a pensare, et gli increduli Medici, et la plebe ignorante et temeraria cominciò stringere le labra, chiudere li denti,
et inarcare le ciglia. » 322-338. Certo... ricompensa: dopo l’aspra, diretta rampogna contro l’autorità dello stato, che diserta dai suoi doveri più gravi, l’esaltazione del sacrificio disinteressato dei cappuccini non è, davvero, pura e semplice glorificazione « della forza e dell’abilità » di una generica carità cristiana, ma giusto riconoscimento di «gran setvizi resi da uomini a uomini ». Cioè, di petsonali ed individuali virtù, tanto più eccelse quanto più la generalità degli uomini trascura obblighi morali e civili. 337. in solido: in blocco, tutti insieme.
338-339. se questi Padri... si trouaua: ‘se non si trovavano questi padri, certamente tutta la città si satebbe trovata distrutta’. Queste e le successive affermazioni del Tadino sono molto preziose, per
il fatto che, come è stato giustamente ossetvato, non vengono da un cappuccino né da
un apologista dell’ordine, ma da un membro di quel tribunale della sanità, che non aveva saputo far altro che cedere ai cappuccini « un così importante govetno ». 358-359. stringere le labbra... ciglia: il Tadino, di tanto in tanto, ma qui più che
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ta, Ma l’uscite, i ripieghi, le vendette, per dir così, della caparbietà convin alfino , invitta e ferma a rimast sono alle volte tali da far desiderare che fosse l’ultimo, contro la ragione e l’evidenza: e questa fu bene una di quelle volte. ci Coloro i quali avevano impugnato così risolutamente, e così a lungo, cheli, fosse vicino a loro, tra loro, un germe di male, che poteva, per mezzi natura
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di propagarsi e fare una strage; non potendo ormai negare il propagamento
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varci qualche altra causa, a menar buona qualunque ne venisse messa In campo. Per disgrazia, ce n’era una in pronto nelle idee e nelle tradizioni comuni allora, non qui soltanto, ma in ogni ‘parte d’Europa: atti venefiche, operazioni
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giunga che, fin dall’anno antecedente, era venuto un dispaccio, sottoscritto dal re Filippo IV, al governatore, per avvertirlo ch’erano scappati da Madrid quat-
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esso, e non volendo attribuirlo a que’ mezzi (che sarebbe stato confessare 2 un tempo un grand’inganno e una gran colpa), erano tanto più disposti a tro-
diaboliche, gente congiurata a sparger la peste, per mezzo di veleni contagiosi, di malìe. Già cose tali, o somiglianti, erano state supposte e credute in molte altre pestilenze, e qui segnatamente, in quella di mezzo secolo innanzi. S’ag-
tro francesi, ricercati come sospetti di spargere unguenti velenosi, pestiferi: stesse all’erta, se mai coloro fossero capitati a Milano. Il governatore aveva comunicato il dispaccio al senato e al tribunale della sanità; né, per allora, pare che ci badasse più che tanto. Però, scoppiata e riconosciuta la peste, il tornar nelle menti quell’avviso poté servir di conferma al sospetto indeterminato d’una frode scellerata; poté anche essere la prima occasione di farlo nascere. Ma due fatti, l’uno di cieca e indisciplinata paura, l’altro di non so quale cattività, furon quelli che convertirono quel sospetto indeterminato d’un attentato possibile, in sospetto, e per molti in certezza, d’un attentato positivo, e d’una trama reale. Alcuni, ai quali era parso di vedere, la sera del 17 di maggio, persone in duomo andare ungendo un assito che serviva a dividere gli spazi assegnati a’ due sessi, fecero, nella notte, portar fuori della chiesa l’assito e una quantità di panche rinchiuse in quello; quantunque il presidente della Sanità, accorso a far la visita, con quattro persone dell’ufizio, avendo visitato l’assito, le panche, le pile dell’acqua benedetta senza trovar nulla che potesse confermare l’ignorante sospetto d’un attentato venefico, avesse, per com-
piacere all’immaginazioni altrui, e più tosto per abbondare in cautela, che per
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bisogno, avesse, dico, deciso che bastava dar una lavata all’assito. Quel volume di roba accatastata produsse una grand’impressione di spavento nella moltitudine, per cui un oggetto diventa così facilmente un argomento. Si disse e si crealtrove, sa dare vita e colore al suo racconto. Il M. sempre sa prendere dai testi antichi le citazioni e le espressioni più capaci di far rivivere il passato. 360-381. Ma l’uscite... nascere: quando la gente si è finalmente ricreduta dell’errore di non ammettere la peste, eccola. cadere in uno più grave e fatale: quello di non riconoscere la diffusione della peste « per mezzi naturali », e intestardirsi a cercarla in cause diverse, dove si vuole a tutti i costi sorprendere la mano dell’uomo: di qualche uomo da sacrificare come ‘capro espiatorio del flagello comune. Queste pagine, mentre aprono l’indagine del « cele-
bre delirio » sull’esistenza degli unturi, testimoniano ancora lo sdegno del M. dinanzi alle più paradossali storture della verità. 373-374. S’aggiunga...: dopo aver affermato che la tragica superstizione ci fu non soltanto « qui » ma in ogni parte d’Europa, il M. reca un altro elemento a difesa dei Milanesi: un dispaccio sottoscritto addirittura dal re. Critica e condanna, dunque, il M.; ma non nasconde quanto possa costituire giustificazione. 383. cattività: cattiveria, sciagurataggine. 395. un oggetto diventa... un argomento: pet gli animi turbati un oggetto o un fatto anche di scarso valore diviene « argomento »,
capitolo XXXI
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dette generalmente che fossero state unte in duomo tutte le panche, le pareti,
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e fin le corde delle campane. Né si disse soltanto allora: tutte le memorie de’ contemporanei che parlano di quel fatto (alcune scritte molt’anni dopo), ne parlano con ugual sicurezza: e la storia sincera di esso, bisognerebbe indovi-
narla, se non si trovasse in una lettera del tribunale della sanità al governatore,
che si conserva nell’archivio detto di san Fedele; dalla quale l’abbiamo cavata, e della quale sono le parole che abbiam messe in corsivo. La mattina seguente, un nuovo e più strano, più significante spettacolo colpì gli occhi e le menti de’ cittadini. In ogni parte della città, si videro le porte delle case e le muraglie, per lunghissimi tratti, intrise di non so che sudicerìa, giallognola, biancastra, spatsavi come con delle spugne. O sia stato un gusto sciocco di far nascere uno spavento più rumoroso
e più ge-
nerale, o sia stato un più reo disegno d’accrescer la pubblica confusione, o non saprei che altro; la cosa è attestata di maniera, che ci parrebbe men ra410 gionevole l’attribuirla a un sogno di molti, che al fatto d’alcuni: fatto, del resto, che non sarebbe stato, né il primo né l’ultimo di tal genere. Il Ripamonti, che spesso, su questo particolare dell’unzioni, deride, e più spesso deplora la credulità popolare, qui afferma d’aver veduto quell’impiastramento, e lo descrive *. Nella lettera sopraccitata, i signori della Sanità raccontan la 415 cosa ne’ medesimi termini; parlan di visite, d’esperimenti fatti con quella materia sopra de’ cani, e senza cattivo effetto; aggiungono, esser loro opinio-
ne, che cotale temerità sia più tosto proceduta da insolenza, che da fine scelerato: pensiero che indica in loro, fino a quel tempo, pacatezza d’animo bastante per non vedere ciò che non ci fosse stato. L’altre memotie contemporanee, raccontando la cosa, accennano anche, essere stata, sulle prime, opinion di molti, che fosse fatta per burla, per bizzartia; nessuna parla di nessuno che la negasse; e n’avrebbero parlato certamente, se ce ne fosse stati; se 425
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non altro, per chiamarli stravaganti. Ho creduto che non fosse fuor di proposito il riferire e il mettere insieme questi particolari, in parte poco noti, in parte affatto ignorati, d’un celebre delirio; perché, negli errori e massime negli errori di molti, ciò che è più interessante e più utile a osservarsi, mi pare che sia appunto la strada che hanno fatta, l’apparenze, i modi con cui hanno potuto entrar nelle menti, e dominarle. La città già agitata ne fu sottosopra: i padroni delle case, con paglia accesa, abbruciacchiavano gli spazi unti; i passeggieri si fermavano, guarda* ... et nos quoque ivimus visere. Maculae erant sparsim inaequaliterque manantes, veluti si quis haustam spongia saniem adspersisset, impressissetve parieti: et ianuae passim, ostiaque aedium eadem adspergine contaminata cernebantur. Pag. 75.
cioè prova di una più grande cosa. Qui argomento è usato nel senso originatio (dal lat. argumentum, deriv. da arguere) di * dimostrazione *, ‘ prova’, come nella nota definizione dantesca: «Fede è sustanza di cose sperate E argomento delle non parventi » (Par. XXIV, 64-65); la quale, a sua volta, è traduzione letterale da San Paolo: « Fides... argumentum non apparentium ». 414. e lo descrive (*): traduciamo la citazione richiamata dall’asterisco: « E anche
noi andammo
a vedere. C'erano qua e là
delle macchie di diversa grandezza, come se qualcuno con una spugna imbevuta di marcio avesse asperso e imbrattato le pareti: e si vedevano qua e là’ contaminate dalla stessa aspersione le porte delle case e dei templi ». 425. celebre delirio: la definizione è di-. venuta giustamente « celebre »: condensa risolutamente sia la fine del racconto di tante follie, sia il giudizio sdegnoso del moralista, il quale nella diffusione del male
coglie le colpe degli uomini,
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e che vano, inorridivano, fremevano. I forestieri, sospetti per questo solo, dal allora si conoscevan facilmente al vestiario, venivano arrestati nelle strade tati, d’arres esami gatòri, interro popolo, e condotti alla giustizia. Si fecero ancor d’arrestatori, di testimoni; non si trovò reo nessuno: le menti erano cò pubbli sanità capaci di dubitare, d’esaminare, d’intendere. Il tribunale della una grida, con la quale prometteva premio e impunità a chi mettesse in chiato l’autore o gli autori del fatto. Ad ogni modo non parendoci conueniente, dicono que’ signori nella citata lettera, che porta la data del 21 di maggio, ma che fu evidentemente scritta il 19, giorno segnato nella grida stampata, che questo delitto in qualsiuoglia modo resti impunito, massime in tempo tanto pericoloso e sospettoso, per consolatione e quiete di questo Popolo, e per cauare indicio del fatto, habbiamo oggi pubblicata grida, etc. Nella grida stessa però, nessun cenno, almeno chiaro, di quella ragionevole e acquietante congettura, che partecipavano al governatore: silenzio che accusa a un tempo una preoccupazione furiosa nel popolo, e in loro una condiscendenza, tanto più biasimevole, quanto più poteva esser perniciosa. Mentre il tribunale cercava, molti nel pubblico, come accade, avevan già
trovato. Coloro che credevano esser quella un’unzione velenosa, chi voleva
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che la fosse una vendetta di don Gonzalo Fernandez de Cordova, per gl’insulti ricevuti nella sua partenza, chi un ritrovato del cardinal di Richelieu, per spopolar Milano, e impadronirsene senza fatica; altri, e non si sa per quali ragioni, ne volevano autore il conte di Collalto, Wallenstein, questo, quell’altro gentiluomo milanese. Non mancavan, come abbiamo detto, di quelli che
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non vedevano in quel fatto altro che uno sciocco scherzo, e l’attribuivano a scolari, a signori, a ufiziali che s’annoiassero all’assedio di Casale. Il non veder poi, come si sarà temuto, che ne seguisse addirittura un infettamento, un
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eccidio universale, fu probabilmente cagione che quel primo spavento s’andasse per allora acquietando, e la cosa fosse o paresse messa in oblìo. C'era, del resto, un certo numero di persone non ancora persuase che questa peste ci fosse. E perché, tanto nel lazzeretto, come per la città, alcuni pur ne guarivano,
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« si diceua » (gli ultimi argomenti
d’una
opinione
bat-
tuta dall’evidenza son sempre curiosi a sapersi), « si diceua dalla plebe, et ancora da molti medici partiali, non essere vera peste, perché tutti sarebbero morti * ». Per levare ogni dubbio, trovò il tribunale della sanità un espediente proporzionato al bisogno, un modo di parlare agli occhi, quale i tempi potevano richiederlo o suggerirlo. In una delle feste della Pentecoste, usavano i cittadini di concorrere al cimitero di san Gregorio, fuori di Porta Orientale, * Tadino, pag. 93.
445-446. una condiscendenza... perniciosa: in questo sono colpevoli gli estensori della grida: per accondiscendere alla « preoccupazione furiosa » del popolo, tacciono « sulla ragionevole e acquetante congettura », cioè sull’eventualità che si tratti di uno « sciocco scherzo ». In tal modo contribuiscono ad alimentare la psicosi dell’« unzione velenosa » e i folli propositi di’ vendetta.
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partiali:
i medici
del par-
tito (Renzo direbbe la /ega!) che continua-
va a negare l’esistenza della peste. 465. un modo di parlare agli occhi: ci riuscì, finalmente, il tribunale della sanità; ci riesce benissimo nel ricostruire la scena il M., creando un quadro in cui spaventosamente si mescolano la spensieratezza e la morte. Alla fine vi si aggiunge la dolente rifiessione dello scrittore: « e quella riunione medesima non dovè servire poco a propagarla »,
capitolo XXXI
1», DI
a pregar per i morti dell’altro contagio, ch’eran sepolti là; e, prendendo dalla 470
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divozione opportunità di divertimento e di spettacolo, ci andavano, ognuno più in gala che potesse. Era in quel giorno morta di peste, tra gli altri, un’intera famiglia. Nell’ora del maggior concorso, in mezzo alle carrozze, alla gente a cavallo, e a piedi, i cadaveri di quella famiglia furono, d’ordine della Sanità, condotti al cimitero suddetto, sur un carro, ignudi, affinché la folla potesse vedere in essi il marchio manifesto della pestilenza. Un grido di ribrezzo, di terrore, s’alzava per tutto dove passava il carro; un lungo mormorìo regnava dove era passato; un altro mormorìo lo precorreva. La peste fu più creduta: ma del resto andava acquistandosi fede da sé, ogni giorno più; e quella riunione medesima non dové servir poco a propagarla. In principio dunque, non peste, assolutamente no, per nessun conto: proi-
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bito anche di proferire il vocabolo. Poi, febbri pestilenziali: l’idea s'ammette per isbieco in un aggettivo. Poi, non vera peste; vale a dire peste sì, ma in un certo senso; non peste proprio, ma una cosa alla quale non si sa trovare un altro nome. Finalmente, peste senza dubbio, e senza contrasto: ma già ci s'è attaccata un’altra idea, l’idea del venefizio e del malefizio, la quale altera e confonde l’idea espressa dalla parola che non si può più mandare indietro. Non è, credo, necessario d’esser molto versato nella storia dell’idee e delle parole, per vedere che molte hanno fatto un simil corso. Per grazia del cielo, che non sono molte quelle d’una tal sorte, e d’una tale importanza, e che conquistino la loro evidenza a un tal prezzo, e alle quali si possano attaccare accessòri d’un tal genere. Si potrebbe però, tanto nelle cose piccole, come nelle grandi, evitare, in gran parte, quel corso così lungo e così storto, prendendo il metodo proposto da tanto tempo, d’osservare, ascoltare, paragonare, pensare, prima di parlare.
Ma parlare, questa cosa così sola, è talmente più facile di tutte quell’al-
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tre insieme, che anche noi, dico noi uomini in generale, siamo un po’ da compatire. 479-485. In principio... indietro: non sap-.
piamo come meglio, e con più sconsolata ironia, si potrebbe riassumere tutto il capitolo. 492-493. osservare, ascoltare, paragonare, pensare: potremmo prenderlo come un mes-
saggio lasciatoci dal M., accanto
a quello,
che troveremo alla fine, del « sugo » di tutta la storia. — Ma « parlare » è tanto più comodo e più facile: e il M., che lo sa,
sa anche compatire e sorridere, e sugli al-
tri e su se stesso.
Capitolo XXXII
Vi
Divenendo sempre più difficile il supplire all’esigenze dolorose della circostanza, era stato, il 4 di maggio, deciso nel consiglio de decurioni, di ricorret per aiuto al governatore. È, il 22, furono spediti al campo due di quel corpo, che gli rappresentassero i guai e le strettezze della città: le spese enormi, le casse vote, le rendite degli anni avvenire impegnate, le imposte correnti non pagate, per la miseria generale, prodotta da tante cause, e dal guasto militare in ispecie; gli mettessero in considerazione che, per leggi e consuetudini non interrotte, e per decreto speciale di Carlo V, le spese della peste dovevan essere a carico del fisco: in quella del 1576, avere il governatore, marchese
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d’Ayamonte, non solo sospese tutte le imposizioni camerali, ma data alla città una sovvenzione di quaranta mila scudi della stessa Camera; chiedessero finalmente, quattro cose: che l’imposizioni fossero sospese, come s’era fatto allora; la Camera desse danari; il governatore informasse il re, delle miserie della
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città e della provincia; dispensasse da nuovi alloggiamenti militari il paese già rovinato dai passati. Il governatore scrisse in risposta condoglianze, e nuove esortazioni: dispiacergli di non poter trovarsi nella città, per impiegare ogni sua cura in sollievo di quella; ma sperare che a tutto avrebbe supplito lo zelo di que’ signori: questo essere il tempo di spendere senza risparmio, d’ingegnarsi in ogni maniera. In quanto alle richieste espresse, proweeré en el mejor modo que el tiempo y necesidades presentes permitieren. E sotto, un girigo1. Divenendo...: il gerundio, l’unico ad aprire un capitolo dei Promessi Sposi, riprendendo con tono deciso la narrazione interrotta, contribuisce a collegare strettamente i due capitoli, che, come abbiamo già detto, costituiscono un vero e proprio trattatello sulla peste, e si presentano come quadro autonomo e completo del comportamento del popolo milanese. Questo capitolo XXXII porta avanti, dei grandi temi del precedente, soprattutto quello della difficoltà di realizzare gli urgenti provvedimenti, che il diffondersi sempre più letale del contagio richiederebbe. Si assisterà quindi all’esplosione, pet così dire, della situazione che il cap. XXXI aveva delineato nel
suo progressivo evolversi: l’infuriare del ma-
le, mentre una ventata di follia travolge in un comune disastro magistrati e popolo. 2. 4 di maggio: del 1630; la peste era
entrata in Milano ai primi del precedente novembre. 3-4. al campo... corpo: al campo sotto Casale due del consiglio dei decurioni. 10. camerali: fiscali; perché il Fisco si chiamava Camera. 16-18. dispiacergli..., sperare..., essere... le proposizioni infinitive, modellate sullo stile classico, rivelano la presenza dello scrittore, che ora è canzonatorio nei riguardi del governatore, come poco prima, attraverso la contorta costruzione indiretta, era stato pungente nei riguardi dell’azione dei decurioni: « mettessero... chiedessero... fossero... desse... informasse... dispensasse... ». 19-20. proueeré... permitieren: ‘avrebbe provveduto nel miglior modo che il tempo e le necessità presenti avessero concesso”. Nell’ediz. del ’27 le parole erano in italiano; il testo spagnolo accentua l’ironia su quelle
capitolo XXXII
Za
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golo, che voleva dire Ambrogio Spinola, chiaro come le sue promesse. Il gran cancelliere Ferrer gli scrisse che quella risposta era stata letta dai decurioni, con gran desconsuelo; ci furono altre andate e venute, domande e risposte; ma non trovo che se ne venisse a più strette conclusioni. Qualche tempo dopo, nel colmo della peste, il governatore trasferì, con lettere patenti, la sua autorità a Ferrer medesimo; avendo lui, come scrisse, da pensare alla guerra. La quale, sia detto qui incidentemente, dopo aver portato via, senza parlar de’ soldati, un milion di persone, a dir poco, per mezzo del contagio, tra la Lombardia, il Veneziano, il Piemonte, la Toscana, e una parte della Romagna; dopo aver desolati, come s’è visto di sopra, i luoghi pet cui passò, e figuratevi quelli
dove fu fatta; dopo la presa e il sacco atroce di Mantova; finì con riconoscerne tutti il nuovo duca, per escludere il quale la guerra era stata intrapresa. Bisogna però dire che fu obbligato a cedere al duca di Savoia un pezzo del Monferrato, della rendita di quindici mila scudi, e a Ferrante duca di Guastalla
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altre terre, della rendita di sei mila; e che ci fu un altro trattato a parte e segretissimo, col quale il duca di Savoia suddetto cedé Pinerolo alla Francia: trattato eseguito qualche tempo dopo, sott’altri pretesti, e a furia di furberie. Insieme con quella risoluzione, i decurioni ne ‘avevan presa un’altra: di chiedere al cardinale arcivescovo, che si facesse una processione solenne, pottando per la città il corpo di san Carlo. Il buon prelato rifiutò, per molte ragioni. Gli dispiaceva quella fiducia in un mezzo arbitrario, e temeva che, se l’effetto non avesse corrisposto, come pure temeva, la fiducia si cambiasse in iscandolo *. Temeva di più, che, se pur * Memoria delle cose notabili successe in Milano intorno al mal contagioso l’anno 1639, ec. raccolte da D. Pio la Croce, Milano, 1730. È tratta evidentemente da scritto x inedito d’autore vissuto al tempo della pestilenza: se pure non è una semplice edizione, piuttosto che una nuova compilazione. promesse. Ironia che poi il M. completa col « girigogolo » e con la considerazione che ci fa sopra. 23. con gran desconsuelo: con gran desolazione; ne avevano ben donde. Ma di che cosa erano dispiacenti i decurioni? Di avere ricevuto soltanto promesse, o del dispiacere del governatore? Il vago accresce la satira del «gran desconsuelo ». 25. lettere patenti: lettere ufficiali, decreti. 27. incidentemente: incidentalmente; ma cosa non comprende questo inciso! Oltre un milione di morti, tante località devastate, una città atrocemente saccheggiata... E tutto per una guerra, che, una volta terminata, lasciò a Mantova quel duca, per rimuovere il quale era stata intrapresa! Perciò non si tratta più di ironia, con questo incidentemente, ma di qualcosa di molto più amaro e tragico: della dolorosa constatazione di quanti mali derivano dallo scatenarsi dell’orgoglio e della prepotenza. 31. la presa... di Mantova: avvenne nella notte del 18 luglio 1630, in seguito al tradimento di una guardia svizzera. Il saccheggio, compiuto dalle soldataglie dell’Altringer,
durò tre giorni e fu d’inaudita ferocia. Ma le sofferenze dei Mantovani durarono ben più a lungo: tutto il periodo dell’occupazione alemanna, che fu di quattordici mesi. 32. nuovo duca: Carlo di Nevers. 37. pretesti, e... furberie: è la politica che il M. condanna, quella dei furbi e dei prepotenti. La quale, come si vede, spesso porta tutti a rimetterci! 41-42. fiducia in un mezzo arbitrario: fiducia in un mezzo scelto dall’arbitrio degli uomini per premere sull’intervento divino. Il concetto è meglio chiarito in Fermo e Lucia: «Allegava, l’uomo savio, che il popolo aspettava da quella supplicazione solenne la liberazione dalla peste, non con una speranza condizionata e rassegnata, ma con una certezza superstiziosa; e che a questa, quando fosse delusa, succederebbe una incredulità ugualmente superstiziosa, una indegnazione empia» (IV, Iv). È naturale che il Cardinale ‘attendesse e sperasse la cessazione del malanno da ben altri mezzi, e questi non arbitrari: l’operosità illuminata e la preghiera devota. 43-44, se pur c’era.... queste e le successive parole in corsivo sono la traduzione di
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c'era di questi untori, la processione fosse un’occasion troppo «comoda al delitto: se ron ce n'era, il radunarsi tanta gente non poteva che spander sempre più il contagio:
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pericolo ben più reale *. Ché il sospetto sopito dell’un-
| zioni s'era intanto ridestato, più generale e più furioso di prima. S’era visto di nuovo, o questa volta era parso di vedere, unte muraglie, porte d’edifizi pubblici, usci di case, martelli. Le nuove di tali scoperte volavan di bocca in bocca; e, come accade più che mai, quando gli animi son preoccupati, il sentire faceva l’effetto del vedere. Gli animi, sempre più amareggiati dalla presenza de’ mali, irritati dall’insistenza del pericolo, abbracciavano più volentieri quella credenza: ché la collera aspira a punire: e, come osservò acutamente, a questo stesso proposito, un uomo d’ingegno **, le piace più d’attribuire i mali a una perversità umana, contro cui possa far le sue vendette, che di riconoscerli da una causa, con la quale non ci sia altro da fare che rassegnarsi. Un veleno squisito, istantaneo, penetrantissimo, eran parolepiù che bastanti a spiegar la violenza, e tutti gli accidenti più oscuri e disordinati del morbo. Si diceva composto, quel veleno, di rospi, di serpenti, di bava e di materia d’appestati, di peggio, di tutto ciò che selvagge e stravolte fantasie sapessero trovar di sozzo e d’atroce. Vi s’aggiunsero poi le malìe, per le quali ogni effetto diveniva possibile, ogni obiezione perdeva la forza, si scioglieva ogni difficoltà. Se gli effetti non s’eran veduti subito dopo quella prima unzione, se ne capiva il perché; era stato un tentativo sbagliato di venefici ancor novizi: ora l’arte era perfezionata, e le volontà più accanite nell’infernale proposito. Ormai chi avesse sostenuto ancora ch’era stata una burla, chi avesse negata l’esistenza d’una trama, passava per cieco, per ostinato; se pur non cadeva in sospetto d’uomo interessato a stornar dal vero l’attenzion del pubblico, di complice, d’urtore: il vocabolo fu ben presto comune, solenne, tremendo. Con una tal persuasione che ci fossero untori, se ne doveva scoprire, quasi infallibilmente: tutti gli occhi stavano all’erta; ogni atto poteva dar gelosia. E la gelosia diveniva facilmente certezza, la certezza furore. * Si unguenta scelerata et unctores in urbe essent... Si non essent... Certiusque adeo Ripamonti, pag. 185. ** P. Verri, Osservazioni sulla tortura: Scrittori italiani d’economia politica; parte moderna, tom. 17, pag. 203. malum.
quelle latine del Ripamonti, poste in nota dal M. La presenza degli untori il Cardinale non la nega assolutamente, ma ne dubita; sappiamo già che anch'egli, in parte, non fu immune da certi pregiudizi del suo
tempo. 49. martelli: sono i battenti dei portoni, sostituiti ora dai campanelli. Uno di questi martelli giuocherà un brutto scherzo a Renzo (Cap. XXXIV): storia e fantasia s’incontreranno in una scena vivacissima. 51. il sentire... vedere: quando, come ora a Milano, non si ragiona più, la gente accetta per vera, come cosa veduta, qualunque diceria. . 54. un uomo d’ingegno (*): il milanese conte Pietro Verri (1718-1797). Uomo di vasta cultura, aperto alle nuove idee illu-
ministe, compose vari scritti, specie di economia e di storia. Fondò e diresse col fra-
tello Alessandro il Caffè, rivista letteraria, politica, economica di notevole valore. 57. squisito...: fatto con tutto l’impegno, e quindi efficacissimo. 59-61. Si diceva... Vi s’aggiunsero...: il capoverso è tutto efficace, ma specialmente qui — ove senti la fantasia del popolino, eccitata e sbrigliata, montar sempre più su, fantasticando e credendo le cose più folli —, e alla fine, quando il M. scolpisce un’altra delle sue lucidissime intuizioni psicologiche: «la gelosia diveniva facilmente certezza, la certezza furore »., 64. venefici: venèfici (e non venefici): fabbricatori di veleni. 71. gelosia: qui vale ‘ sospetto’
capitolo XXXII
Due fatti ne adduce in prova il Ripamonti, avvertendo d’averli scelti, non come i più atroci tra quelli che seguivano giornalmente, ma perché dell’uno e dell’altro era stato pur troppo testimonio. Nella chiesa di sant'Antonio, un giorno di non so quale solennità, un vècchio più che ottuagenario, dopo aver pregato alquanto inginocchioni, volle mettersi a sedere; e prima, con la cappa, spolverò la panca. « Quel vecchio unge le panche! » gridarono a una voce alcune donne che vider l’atto. La gente che si trovava in chiesa (in chiesa!), fu addosso al vecchio; lo prendon per i capelli, bianchi com'erano; lo carican di pugni e di calci; parte lo tirano, parte lo spingon fuori; se non lo finirono, fu per istrascinarlo, così semivivo, alla pri-
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gione, ai giudici, alle torture. « Io lo vidi mentre lo trascinavan così, » dice il Ripamonti: « e non ne seppi più altro: credo bene che non abbia potuto sopravvivere più di qualche momento. » L’altro caso ( e seguì il giorno dopo) fu ugualmente strano, ma non ugualmente funesto. Tre giovani compagni francesi, un letterato, un pittore, un meccanico, venuti per veder l’Italia, per istudiarvi le antichità, e per cercarvi occasion di guadagno, s’erano accostati a non so qual parte esterna del duomo, e stavan lì guardando attentamente. Uno che passava, li vede e si ferma; gli accenna a un altro, ad altri che arrivano: si formò un crocchio, a guardare, a tener d’occhio coloro, che il vestiario, la capigliatura, le bisacce, accusavano di stranieri e, quel ch’era peggio, di francesi. Come per accertarsi ch'era marmo, stesero essi la mano a toccare. Bastò. Furono circondati, afferrati, malmenati, spinti a furia di percosse, alle carceri. Per.buona sorte, il palazzo di giustizia, è poco lontano dal duomo; e, per una sorte ancor più felice, furon trovati innocenti, e rilasciati.
Né tali cose accadevari soltanto in città: la frenesia s'era propagata come il contagio. Il viandante che fosse incontrato da de’ contadini, fuor della strada maestra, o che in quella si dondolasse a guardar in qua e in là, o si buttasse giù per riposarsi; lo sconosciuto a cui si trovasse qualcosa di strano, di so-
spetto nel volto, nel vestito, erano untori: al primo avviso di chi fosse, al grido d’un ragazzo, si sonava a martello, s’accorreva; gl’infelici eran tempestati di pietre, o, presi, venivan menati, a furia di popolo, in prigione. Così il Ripamonti medesimo. E la prigione, fino a un certo tempo, era un porto di salvamento. Ma i decurioni, non disanimati dal rifiuto del savio prelato, andavan replicando le loro istanze, che il voto pubblico secondava rumorosamente. Federigo resistette ancor qualche tempo, cercò di convincerli; questo è quello che poté il senno d’un uomo, contro la forza de’ tempi, e l’insistenza di 73. Due fatti...: questo capitolo presenta, rispetto al precedente, una più frequente osservazione di avvenimenti particolari e di situazioni concrete della vita di Milano in preda alla peste. Ciò rende il racconto più vivace e drammatico. 80. in chiesa (in chiesa!): accanto a questa circostanza, ce n'è un’altra che fa chiaramente inorridire lo scrittore: la canizie. Pare di assistere alla scena: «lo prendon per i capelli, bianchi com'erano... ». L’affermazione del Ripamonti accentuerà la forza della rievocazione: « Io lo vidi... ».
87-97. Tre giovani... rilasciati: note meno atroci in questo secondo « caso », che di per sé del resto fu meno « funesto », ma uguale vivezza e movimento del precedente. L’essere francesi rende i tre forestieri più sospetti, sia perché nemici degli spagnoli, sia perché proprio in quei giorni era giunto al governatore il dispaccio del re « per avvertirlo ch’erano scappati da Madrid quattro francesi, ricercati come sospetti di spargere unguenti velenosi, pestiferi: stesse all’erta, se mai coloro fossero capitati a Milano » (Cap. XXXI).
i promessi sposi
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molti. In quello stato d’opinioni, con l’idea del pericolo, confusa com'era allora, contrastata, ben lontana dall’evidenza che ci si trova ora, non è difficile a capire come le sue buone ragioni potessero, anche nella sua mente, esser soggiogate dalle cattive degli altri. Se poi, nel ceder che fece, avesse o
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non avesse parte un po’ di debolezza della volontà, sono misteri del cuore umano. Certo, se in alcun caso par che si possa dare in tutto l’errore all’intel-
letto, e scusarne la coscienza, è quando si tratti di que’ pochi (e questo fu ben del numero), nella vita intera de’ quali apparisca un ubbidir risoluto alla coscienza, senza riguardo a interessi temporali di nessun genere. AI replicar
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dell’istanze, cedette egli dunque, acconsentì che si facesse la processione, acconsentì di più al desiderio, alla premura generale, che la cassa dov’eran rinchiuse le reliquie di san Carlo, rimanesse dopo esposta, per otto giorni, sulHier. l’altar maggiore del duomo. Non trovo che il tribunale della sanità, né altri, facessero rimostranza né opposizione di sorte alcuna. Soltanto, il tribunale suddetto ordinò alcune precauzioni che, senza riparare al pericolo, ne indicavano il timore. Prescrisse più strette regole, per l’entrata delle persone in città; e, per assicurarne l’esecuzione, fece star chiuse le porte: come pure, affine d’escludere, per quanto fosse possibile, dalla radunanza gli infetti e i sospetti, fece inchiodar gli usci delle case sequestrate: le quali, per quanto può valere, in.un fatto di questa sorte, la semplice affermazione d’uno scrittore, e d’uno scrittore di quel tempo, eran circa cinquecento *. Tre giorni furono spesi in preparativi: l’undici di giugno, ch’era il giorno
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stabilito, la processione uscì, sull’alba, dal duomo. Andava dinanzi una lunga schiera di popolo, donne la più parte, coperte il volto d’ampi zendali, molte scalze, e vestite di sacco. Venivan poi l’arti, precedute da’ loro gonfaloni, le confraternite, in abiti vari di forme e di colori; poi le fraterie, poi il clero secolare, ognuno con l’insegne del grado, e con una candela o un torcetto in mano. Nel mezzo, tra il chiarore di più fitti lumi, tra un rumor più alto di canti, sotto un ricco baldacchino, s’avanzava la cassa, portata da quattro canonici, parati in gran pompa, che si cambiavano ogni tanto. Dai cristalli traspariva il venerato cadavere, vestito di splendidi abiti pontificali, e mitrato il teschio; e nelle forme mutilate e scomposte, si poteva ancora distinguere qual* Alleggiamento
dello Stato di Milano etc. di C. G. Cavatio
della Somaglia. Mi-
lano, 1653, pag. 482.
115-116. misteri
del cuore
umano:
con
questa espressione saggia e riguardosa, il M. riconosce la « debolezza della volontà » del Cardinale, e quindi il suo errore, e con l’ertore la colpevolezza. Ma di fronte alla nobiltà intemerata di quel cuore, che tutto se stesso aveva dato e dava per il bene degli altri, il M. si piega commosso e lascia
agli altri un giudizio di responsabilità. Sono « misteri del cuore umano », egli dice: e noi, con lui, potremmo ricordare che il cuore è un gran « guazzabuglio ». è 124-125. Non trovo... alcuna: è un fatto che attenua la responsabilità del Cardinale.
136. arti: le corporazioni delle arti.
139-140. Nel mezzo... la cassa...: nel quadro grandioso della lunga processione, spicca, al centro, la cassa col corpo del Santo. Il M., che tende benissimo, per tutto l’ampio snodarsi del corteo, l’incontro grave e compunto di una pompa fastosa con una sofferta trepidazione, qui, con alcune pennellate macabre — « cadaveri... teschio... forme mutilate e scomposte...» —, accentua il senso della morte e del disfacimento. Alla folla sofferente quelle visioni dovevano essere un richiamo a meditare, al di là della « gelosia » e del «furore », sulla fugacità dell’esistenza terrena e sulla confortante speranza di un’altra vita, immortale e beata.
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capitolo XXXII
che vestigio dell’antico sembiante, quale lo rappresentano l’immagini, quale alcuni si ricordavan d’averlo visto e onorato in vita. Dietro la spoglia del morto pastore (dice il Ripamonti, da cui principalmente prendiamo questa
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descrizione), e vicino a lui, come di meriti e di sangue e di dignità, così ora anche di persona, veniva l’arcivescovo Federigo. Seguiva l’altra parte del cleto; poi i magistrati, con gli abiti di maggior cerimonia; poi i nobili, quali
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vestiti sfarzosamente, come a dimostrazione solenne di culto, quali, in segno di penitenza, abbrunati, o scalzi e incappati, con la buffa sul viso; tutti con
torcetti. Finalmente una coda d’altro popolo misto. Tutta la strada era parata a festa; i ricchi avevan cavate fuori le suppellettili più preziose; le facciate delle case povere erano state ornate da de’ vicini benestanti, o a pubbliche spese; dove in luogo di parati, dove sopra i parati, c'eran de’ rami fronzuti; da ogni parte pendevano quadri, iscrizioni,
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imprese; su’ davanzali delle finestre stavano in mostra vasi, anticaglie, rarità .
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diverse; per tutto lumi. A molte di quelle finestre, infermi sequestrati guardavan la processione, e l’accompagnavano con le loto preci. L’altre strade, mute, deserte; se non che alcuni, pur dalle finestre, tendevan l’orecchio al ronzio vagabondo; altri, e tra questi si videro fin delle monache, eran saliti sui tetti, se di lì potessero veder da lontano quella cassa, il corteggio, qualche
cosa. La processione passò per tutti i quartieri della città: a ognuno di que’ crocicchi, o piazzette, dove le strade principali sboccan ne’ borghi, e che allora serbavano l’antico nome di carrobi, ora rimasto a uno solo, si faceva una fermata, posando la cassa accanto alla croce che in ognuno era stata eretta da san Carlo, nella peste antecedente, e delle quali alcune sono tuttavia in piedi: di maniera che si tornò in duomo un pezzo dopo il mezzogiorno. Ed ecco che, il giorno seguente, mentre appunto regnava. quella presontuosa fiducia, anzi in molti una fanatica sicurezza che la processione dovesse aver troncata la peste, le morti crebbero, in ogni classe, in ogni parte della città, a un tal eccesso, con un salto così subitaneo, che non ci fu chi non ne vedesse la causa, o l'occasione, nella processione medesima. Ma, oh forze mirabili e dolorose d’un pregiudizio generale! non già al trovarsi insieme tante persone, e per tanto tempo, non all’infinita moltiplicazione de’ contatti fortuiti, attribuivano i più ‘quell’effetto; l’attribuivano alla facilità che gli untori ci avessero trovata d’eseguire in grande il loro empio disegno. Si disse che, mescolati nella folla, avessero infettati col loro unguento quanti più avevan potuto. Ma siccome questo non pareva un mezzo bastante, né appropriato a una mortalità così vasta, e così diffusa in ogni classe di persone; siccome, a quel che pare, non era stato possibile all'occhio così attento, e: pur così travedente, del sospetto, di scorgere untumi, macchie di nessuna sorte, su’ muri, né altrove; così si ricorse, per la spiegazion del fatto, a quell’altro ritrovato,
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già vecchio, e ricevuto allora nella scienza comune d’Europa, delle polveri 151: buffa: membri
specie
di certe
di cappuccio
confraternite
che
usano
i an-
cora, e si calzano sul viso durante le processioni; ha due fori in corrispondenza degli occhi. 159-160. L’altre strade, mute, deserte: tocco felicissimo. Il muto deserto di tutto il resto della città accresce la solennità
della processione. Il.I. M. ritrae, ora, più la fede che la superstizione. 166. carrobi: quadrivi; è voce lombarda derivata dal lat. quadrivium, carruvium: incrocio di quattro strade. 170-171. presontuosa fiducia... fanatica sicurezza...:. aveva visto bene il Cardinale (Cfr. n. 41).
i promessi spost
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venefiche e malefiche; si disse che polveri tali, sparse lungo lastrada, e specialmente ai luoghi delle fermate, si fossero attaccate agli strascichi de’ vestiti,
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e tanto più ai piedi, che in gran numero erano quel giorno andati in giro scalzi. « Vide pertanto », dice uno scrittor contemporaneo *, «l’istesso giorno della processione, la pietà cozzar con l’empietà, la perfidia con la sincerità, la perdita con l’acquisto. » Ed era in vece il povero senno umano che cozzava co fantasmi creati da sé. i Da quel giorno, la furia del contagio andò sempre crescendo: in poco tempo, non ci fu quasi più casa che non fosse toccata: in poco tempo la popolazione del lazzeretto, al dir del Somaglia citato di sopra, montò da duemila a dodici mila: più tardi, al dir di quasi tutti, arrivò fino a sedici mila. Il 4 di luglio, come trovo in un’altra lettera de’ conservatori della sanità al governatore, la mortalità giornaliera oltrepassava i cinquecento. Più innanzi, e nel colmo, arrivò, secondo il calcolo più comune, a mille dugento, mille cinquecento; e a più di tremila cinquecento, se vogliam credere al Tadino. Il quale anche afferma che, « per le diligenze fatte », dopo la peste, si trovò la popolazion di Milano ridotta a poco più di sessantaquattro mila anime, e che prima passava le dugento cinquanta mila. Secondo il Ripamonti, era di sole dugento mila: de’ morti, dice che ne risultava cento quaranta mila da’ registri civici, oltre quelli di cui non si poté tener conto. Altri dicon più o meno, ma ancor più a caso.
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quali era rimasto il peso di provvedere alle ciò che c’era di riparabile in un tal disastro. ogni giorno aumentare serventi pubblici di commissari. I primi erano addetti ai servizi
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Si pensi ora in che angustie dovessero
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trovarsi i decurioni, addosso
ai
pubbliche necessità, di riparare a Bisognava ogni giorno sostituire, varie specie: monatti, apparitori, più penosi e pericolosi della pe-
stilenza: levar dalle case, dalle strade, dal lazzaretto, i cadaveri; condurli sui carri alle fosse, e sotterrarli; portare o guidare al lazzeretto gl’infermi, e governarli; bruciare, purgare la roba infetta e sospetta. Il nome, vuole il Ripamonti che venga dal greco m0nos; Gaspare Bugatti (in una descrizion della peste antecedente), dal latino #orere; ma insieme dubita, con più ragione, che sia parola tedesca, per essere quegli uomini arrolati la più parte nella Svizzera e ne’ Grigioni. Né sarebbe infatti assurdo il crederlo una troncatura del vocabolo monathlich (mensuale); giacché, nell’incertezza di quanto potesse durare il bisogno, è probabile che gli accordi non fossero che di mese in mese. * Agostino 1634, pag. 44.
Lampugnano;
La pestilenza
190-191. la perdita con l’acquisto: l’espressione è poco chiara. Forse vi è un incrocio di significati materiali e spirituali: la processione, a chi vi partecipò con zelo sincero, fu un acquisto di grazie; ma sul piano dei risultati terreni causò la perdita di tante altre vite umane. 191. Ed era invece il povero senno...: « immagine potente, che riassume e conclude la mirabile analisi di così pazze aberrazioni. Fa’ attenzione parola per patola: un ‘senno’, che crea da sé de’ fantasmi irreali, e poi fa a’ cozzi con questi! ». Così, giustamente, il Pistelli. Ma fai attenzione
seguita
|
in Milano,
l’anno
1630. Milano,
anche a quel « povero »: non lo dice il M. perché si senta superiore agli altri, ma perché sa bene quanti limiti e debolezze siano congiunte con la natura umana. È, anche questa, una constatazione e una lezione che spunta dai capitoli della peste. 209. monatti: il M. accenna subito alla origine del nome. Ma le etimologie che propone non sono accettabili: moros ‘solo’, monere ‘ ammonire ’. Oggi si propende a credere che ‘monatto’
derivi da monat,
che in certi dialetti lombardi significa sudicio, sudicione e anche brutto soggetto, monellaccio.
capitolo XXXII 220
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L’impiego speciale degli apparitori era di precedere i catri, avvertendo, col suono d’un campanello, i passeggieri, che si ritirassero. I commissari regolavano gli uni e gli altri, sotto gli ordini immediati del tribunale della sanità. Bisognava tener fornito il lazzeretto di medici, di chirurghi, di medicine, di vitto, di tutti gli attrezzi d’infermeria; bisognava trovare e preparar nuovo alloggio per gli ammalati che sopraggiungevano ogni giorno. Si fecero a quest’effetto costruire in fretta capanne di legno e di paglia nello spazio interno del lazzeretto; se ne piantò un nuovo, tutto di capanne, cinto da un semplice assito, e capace di contener quattromila persone. E non bastando, ne furon decretati due altri; ci si mise anche mano; ma, per mancanza di mezzi d’ogni
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genere, rimasero in tronco. I mezzi, le persone; il coraggio, diminuivano di mano in mano che il bisogno cresceva. E non solo l’esecuzione rimaneva sempre addietro de’ progetti e degli ordini; non solo, a molte necessità, pur troppo riconosciute, si provvedeva scar-
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samente, anche in parole; s’arrivò a quest’eccesso d’impotenza e di disperazione, che a molte; e delle più pietose, come delle più urgenti, non si provvedeva in nessuna maniera. Moriva, per esempio, d’abbandono una gran quantità di bambini, ai quali eran morte le madri di peste: la Sanità propose che s’istituisse un ricovero per questi e per le partorienti bisognose, che qualcosa si facesse per loro; e non poté ottener nulla. « Si doueua non di meno », dice il Tadino, « compatire ancora alli Decurioni della Città, li quali si trouauano afflitti, mesti et lacerati dalla Soldatesca
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senza
regola et rispetto alcuno;
come molto meno nell’infelice Ducato, atteso che aggiutto alcuno, né prouisione si poteua hauere dal Gouernatore, se non che si trouaua tempo di guerra, et bisognaua trattar bene li Soldati * ». Tanto importava il prender Casale! Tanto par bella la lode del vincere, indipendentemente dalla cagione, dallo scopo per cui si combatta! i Così pure, trovandosi colma di cadaveri un’ampia, ma unica fossa, ch’era
stata scavata vicino al lazzeretto; e rimanendo, non solo in quello, ma in.
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ogni parte della città, insepolti i nuovi cadaveri, che ogni giorno eran di più, i magistrati, dopo aver invano cercato braccia per il tristo lavoro, s’eran ridotti a dire di non saper più che partito prendere. Né si vede come sarebbe andata a finire, se non veniva un soccorso straordinario. Il presidente della Sanità ricorse, per disperato, con le lacrime agli occhi, a que’ due bravi frati che soprintendevano al lazzeretto; e il padre Michele s’impegnò a dargli, in capo a quattro giorni, sgombra la città di cadaveri; in capo a otto, aperte fosse sufficienti, non solo al bisogno presente, ma a quello che si potesse preveder di peggio nell’avvenire. Con un frate compagno, e con persone del tribunale, dategli dal presidente, andò fuor della città, in cerca di contadini; e, parte con l’autorità del tribunale, parte con quella dell’abito e delle sue parole, ne raccolse circa dugento, ai quali fece scavar tre grandissime fosse; spedì *2Paplal:k/t
244-245. Tanto importava...! Tanto par bella...! conosciamo da tempo il senso della prima esclamazione, perché da tempo conosciamo la norma che regolava la condotta di quei reggitori di popoli: belli graviores
esse curas. concetto di disgiungere mini. Così, gloria?
La seconda ci fa meditare gloria vera, che non si dal reale vantaggio degli quella di Napoleone fu
sul può uovera
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i promessi spost
poi dal lazzeretto monatti a raccogliere i morti; tanto che, il giorno prefisso, la sua promessa si trovò adempita. i Una volta, il lazzerétto rimase senza medici; e, con offerte di grosse paghe e d’onori, a fatica e non subito, se ne poté avere; ma molto men del 265 bisogno. Fu spesso lì lì per mancare affatto di viveri, a segno di temere che ci s'avesse a morire anche di fame; e più d’una volta, mentre non si sapeva più dove batter la testa per trovare il bisognevole, vennero a tempo abbondanti sussidi, per inaspettato dono di misericordia privata: ché, in mezzo allo stordimento generale, all’indifferenza per gli altri, nata dal continuo temer per 270 sé, ci furono degli animi sempre desti alla carità, ce ne furono degli altri in cui la carità nacque al cessare d’ogni allegrezza terrena; come, nella strage e nella fuga di molti a cui toccava di soprintendere e di provvedere, ce ne furono alcuni, sani sempre di corpo, e saldi di coraggio al loro posto: ci furon pure altri che, spinti dalla pietà, assunsero e sostennero virtuosamente le cure 245 a cui non eran chiamati per impiego. Dove spiccò una più generale e più pronta e costante fedeltà ai doveri dif| ficili della circostanza, fu negli ecclesiastici. Ai lazzeretti, nella città, non mancò mai la loro assistenza: dove si pativa, ce n’era; sempre si videro me-
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scolati, confusi co’ languenti, co” moribondi, languenti e moribondi qualche vol-
ta loro medesimi; ai soccorsi spirituali aggiungevano, per quanto potessero, i temporali; prestavano ogni servizio che richiedessero le circostanze. Più di sessanta parrochi, della città solamente, moriron di contagio: gli otto noni, all’incirca. Federigo dava a tutti, com’era da aspettarsi da lui, incitamento ed esem-
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pio. Mortagli intorno quasi tutta la famiglia arcivescovile, e facendogli istanza parenti, alti magistrati, principi circonvicini, che s’allontanasse dal pericolo, ritirandosi in qualche villa, rigettò un tal consiglio, e resistette all’istanze, con quell’animo, con cui scriveva ai parrochi: « siate disposti ad abbandonar questa vita mortale, piuttosto che questa famiglia, questa figliolanza nostra: andate con amore incontro alla peste, come a un premio, come a una vita, quando ci sia da guadagnare un’anima a Cristo » *. Non trascurò quelle cautele *. Ripamonti, pag. 164.
268. dono di misericordia privata: « il quadro, descritto dal M., è di una terribile gravità; pur in tanto dolore, in tanto orrore, non viene mai meno la gentilezza umana, o nella carità dei frati o in quella della misericordia privata. Iddio, flagellatore, non abbandona mai del tutto le sue creature: questo il segreto sentimento manzoniano. Confronta questa descrizione con quella del Boccaccio, e sentirai in quella del trecentista l’assenza di questo idealismo cristiano, e, prevalente, invece un sentimento epicuraico dell’egoismo umano; di quell’egoismo che si educa più vastamente e prodigiosamente nei momenti del pericolo » (Russo). 276-282. Dove... all’incirca: il capoverso, breve e conciso, ma con le cifre alla mano, non ha soltanto una validità storica; ne ha una anche umana e polemica. Noi conosciamo don Abbondio e sappiamo bene
che di don Abbondi ce ne sono molti nel mondo; ora il M. vuol darci la confortante certezza che ci sono anche tanti altri ecclesiastici di ben diverso stampo: e sono i più. 284. la famiglia arcivescovile: sacerdoti e laici addetti al servizio dell’arcivescovo e alle attività dell’arcivescovado. 287-290. siate... Cristo *: il Ripamonti riferisce più ampiamente le parole del Cardinale ai parroci. Sono parole che ricordano certe espressioni dei mistici, per esempio di Santa Caterina, e che acquistano ancor più valore perché — come sappiamo, e come il M. documenta ancora — chi le: diceva le attuava. Le riportiamo dal Titta Rosa: « Assumete viscere di carità; osservate il gregge, osservate ridotti all’ultima necessità que’ figli, che vi partorì e v’assegnò la madre Chiesa, e siate pronti, com’io sono, a far getto di questa vita mortale,
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che non gl’impedissero di fare il suo dovere (sulla qual cosa diede anche istruzioni e regole al clero); e insieme non curò il pericolo, né parve che se n’avvedesse, quando, per far del bene, bisognava passar per quello. Senza parlare degli ecclesiastici, coi quali era sempre per lodare e regolare il loro zelo, per eccitare chiunque di loro andasse freddo nel lavoro, per mandarli ai posti dove altri eran morti, volle che fosse aperto l’adito a chiunque avesse bisogno di lui. Visitava i lazzeretti, per dar consolazione agl’infermi, e per
animare i serventi; scorreva la città, portando soccorsi ai poveri sequestrati nelle case, fermandosi agli usci, sotto le finestre, ad ascoltare i loro lamenti, a dare in cambio parole di consolazione e di coraggio. Si cacciò in somma e
visse nel mezzo della pestilenza, maravigliato anche lui alla fine, d’esserne uscito illeso. : Così, ne’ pubblici infortuni, e nelle lunghe perturbazioni di quel qual si sia ordine consueto, si vede sempre un aumento, una sublimazione di virtù; 505, ma pur troppo, non manca mai insieme un aumento, e d’ordinario ben più
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generale, di perversità. E questo pure fu segnalato. I birboni che la peste risparmiava e non atterriva, trovarono nella confusion comune, nel rilasciamento d’ogni forza pubblica, una nuova occasione d’attività, e una nuova sicurezza d’impunità a un tempo. Che anzi, l’uso della forza pubblica stessa venne a trovarsi in gran parte nelle mani de’ peggiori tra loro. All’impiego di monatti e d’apparitori non s’adattavano generalmente che uomini sui quali l’attrattiva delle rapine e della licenza potesse più che il terror del contagio, che ogni naturale ribrezzo. Erano a costoro prescritte strettissime regole, intimate severissime pene, assegnati posti, dati per superiori de’ commissari, come abbiam detto, sopra questi e quelli eran delegati in ogni quartiere, magistrati e nobili, con l’autorità di provveder sommariamente a ogni occorrenza di buon governo. Un tal ordin di cose camminò, e fece effetto, fino a un certo tempo; ma, crescendo, ogni giorno, il numero di quelli che morivano, di quelli che andavan via, di quelli che perdevan la testa, venner coloro a non aver quasi più nessuno che li tenesse a freno; si fecero, i monatti principalmente, arbitri d’ogni cosa. Entravano da padroni, da nemici nelle case, e, senza parlar de’ rubamenti, e come trattavano gl’infelici ridotti dalla peste a passar per tali mani, le mettevano, quelle mani infette e scellerate, sui sani, figliuoli, parenti, mogli, mariti, minacciando di strascinarli al lazzeretto, se non si riscattavano, o non venivano riscattati con danari. Altre volte, mettevano a prezzo i loro servizi, ricusando di portar via i cadaveri
anziché abbandonare questa famiglia e prole nostra.
Abbracciate,
come
vita
e con-
tento, la peste, perché possiate guadagnare un’anima sola a Cristo. Splendano come lucerne, la modestia, la sobrietà, la castità nostra e le altre virtù. Così lo sdegno celeste si placherà ». 300-302. Si cacciò... illeso: il periodo completa bene l’ultimo quadro del Cardinale, e mentre ce lo presenta soccorritore in tanta sventura, quasi sublimato da un’aureola di santità, ci informa che egli sopravvisse al terribile cataclisma. Accenneremo più avanti ad un opuscolo che egli scrisse su questa pestilenza del 1630.
306-307. I. birboni...
trovarono...:
segue
una pagina grandiosa, impressionante, in cui il M., rinnovando quella potenza d’indagine psicologica che tante altre volte abbiamo riscontrata nelle sue analisi delle folle, presenta il crollo di ogni ritegno morale nella
ferocia scatenata dagli sciacalli .della peste: sciacalli, sia detto di sfuggita, pronti a comparire in ogni pubblica calamità. Qui all’attenzione dello storico si accompagna, anche se frenata nelle espressioni, la commozione dell’uomo, specie nel passo più tragico che ricorda quelle « mani infette e scellerate» messe sui «sani, figliuoli, parenti. mogli, mariti ».
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già putrefatti, a meno di tanti scudi. Si disse (e tra la leggerezza degli uni e e il non credere), la malvagità degli altri, è ugualmente malsicuro il credere i lasciassero caapparitor e monatti che *, si disse, e l’afferma anche il Tadino dere apposta dai carri robe infette per propagare e mantenere la pestilenza, divenuta per essi un’entrata, un regno, una festa. Altri sciagurati, fingendosi monatti, portando un campanello attaccato a un piede, com'era prescritto a
quelli, per distintivo e per avviso del loro avvicinarsi, s’introducevano nelle case a farne di tutte le sorte. In alcune, aperte e vote d’abitanti, o abitate soltanto da qualche languente, da qualche moribondo, entravan ladri, a man
salva, a saccheggiare: altre venivan sorprese, invase da birri che facevan lo senza stesso, e anche cose peggiori. dominanti già errori gli tutti pazzia: Del pari con la perversità, crebbe la più o meno, presero dallo sbalordimento e dall’agitazione delle menti, una forza straordinaria, produssero effetti più rapidi e più vasti. E tutti servirono a rinforzare e a ingrandire quella paura speciale dell’unzioni, la quale, ne’ suoi effetti, ne’ suoi sfoghi, era spesso, come abbiam veduto, un’altra perversità. L'immagine di quel supposto pericolo assediava e martirizzava gli animi, molto più che il pericolo reale e presente. « E mentre », dice il Ripamonti,
«i cadaveri sparsi, o i mucchi di cadaveri, sempre davanti agli occhi, sempre tra’ piedi, facevano della città tutta come un solo mortorio, c’era qualcosa di più brutto, di più funesto, in quell’accanimento vicendevole, in quella sfrenatezza e mostruosità di sospetti... Non del vicino soltanto si prendeva ombra, dell'amico, dell'ospite; ma que’ nomi, que’ vincoli dell’umana carità, marito e moglie, padre e figlio, fratello e fratello, eran di terrore: e, cosa orribile e indegna a dirsi! la mensa domestica, il letto nuziale, si temevano come agguati, come nascondigli di venefizio. » La vastità immaginata, la stranezza della trama turbavan tutti i giudizi, alteravan tutte le ragioni della fiducia reciproca. Da principio, si credeva soltanto che quei supposti untori fosser mossi dall’ambizione e dalla cupidigia; andando avanti, si sognò, si credette che ci fosse una non so quale voluttà diabolica in quell’ungere, un’attrattiva che dominasse le volontà. I vaneg-
giamenti degl’infermi che accusavan sé stessi di ciò che avevan temuto dagli altri, parevano rivelazioni, e rendevano ogni cosa, per dir così, credibile * Pag. 102.
327-328. tra la leggerezza... non credere: è tipica del M. la preoccupazione a non ac-
cogliere quanto non sia documentato con precisione. Ma comprendiamo facilmente che egli, pur reso titubante dalla /eggerezza con cui gli scrittori di memorie fanno molte affermazioni, è propenso a non escludere quanto è attribuito alla malvagità dei monatti. 338. crebbe la pazzia: già nel capitolo precedente è stato parlato del « celebre delirio »; i terrori e i pregiudizi accendono le menti al limite estremo della follia e spingono non pochi infermi, nel delirio della malattia, ad accusarsi di essere untori e propagatori della peste.
354-370. Da principio... creda di farla: la rappresentazione del vaneggiamento, nelle parole e negli atti degli infermi, è accompagnata da un’acuta osservazione che tende a spiegare il fenomeno dell’autosuggestione e a dimostrare la fatalità con cui, in situazioni del genere, il povero senno umano è soggetto al più strano e fatale comportamento. Le conclusioni a cui arriva il M. ci sembrano, purtroppo, molto veritiere, convalidate, come sono, dall’esperienza; e nei suoi giudizi di fronte agli errori e alle follie della gente non vediamo quell’« eccessiva sottigliezza » e quell’« illuministica implacabilità » che altri dice di trovarci.
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d’ognuno. E più delle parole, dovevan far colpo le dimostrazioni, se accadeva
che appestati in delirio andasser facendo di quegli atti che s’erano figurati che dovessero fare gli untori: cosa insieme molto probabile, e atta a dar miglior ragione della persuasion generale e dell’affermazioni di molti scrittori. Così, nel lungo e tristo periodo de’ processi per stregoneria, le confessioni,
non sempre estorte, degl’imputati, non serviron poco a promovere e a man-
tener l’opinione che regnava intorno ad essa: ché, quando un’opinione regna per lungo tempo, e in una buona parte del mondo, finisce a esprimersi in tutte le maniere, a tentar tutte l’uscite, a scorrer per tutti i gradi della per-
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suasione; ed è difficile che tutti o moltissimi credano a lungo che%una cosa
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strana si faccia, senza che venga alcuno il quale creda di farla. Tra le storie che quel delirio dell’unzioni fece immaginare, una merita che se ne faccia menzione, per il credito che acquistò, e per il giro che fece. Si raccontava, non da tutti nell’istessa maniera (che sarebbe un troppo singolar privilegio delle favole), ma a un di presso, che un tale, in tal giorno, aveva visto arrivar sulla piazza del duomo un tiro a sei, e dentro, con altri,
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un gran personaggio, con una faccia fosca e infocata, con gli occhi accesi, coi capelli ritti, e il labbro atteggiato di minaccia. Mentre quel tale stava intento a guardare, la carrozza s’era fermata; e il cocchiere l’aveva invitato a salirvi; e lui non aveva saputo dir di no. Dopo diversi rigiri, erano smontati alla porta d’un tal palazzo, dove entrato anche lui, con la compagnia, aveva trovato amenità e orrori, deserti e giardini, caverne e sale; e in esse, fantasime sedute a consiglio. Finalmente, gli erano state fatte vedere gran casse di da-
naro, e detto che ne prendesse quanto gli fosse piaciuto, con questo però, che accettasse un vasetto d’unguento, e andasse con esso ungendo per la città. 385
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Ma non avendo voluto acconsentire, s’era trovato, in un batter d’occhio, nel
medesimo luogo dove era stato preso. Questa storia, creduta qui generalmente dal popolo, e, al dir del Ripamonti, non abbastanza derisa da qualche uomo di peso *, girò per tutta Italia e fuori. In Germania se ne fece una stampa: l’elettore arcivescovo di Magonza scrisse al cardinal Federigo, per domandargli cosa si dovesse credere de’ fatti maravigliosi che si raccontavan di Milano; e n’ebbe in risposta ch’eran sogni. * Apud prudentium
plerosque, non sicuti debuerat
373-374. che sarebbe... delle favole: quindi, non favole soltanto sono raccontate da tutti « nell’istessa materia », ma — fa capire sorridendo il M. — anche ifatti veri, anche la storia. (Della quale una volta ha scritto che è addirittura « costretta ad indovinare », e: « fortuna che c’è avvezza »! Cap. XIII). 388. In Germania se ne fece una stampa: cioè « un disegno a stampa », come è detto nella prima edizione. Questa diffusione della favola in Germania, tanto estesa da spingere l’arcivescovo di Magonza — un « elettore » addirittura, cioè uno di quei grandi dignitari tedeschi che eleggevano lo imperatore — a chiederne notizie al Cardinale Federigo, fa pensare a quella propensione verso il fantastico e il romanzesco,
irrisa. De peste etc., pag. 77.
tipica dello spirito germanico, di cui parla Giovanni Berchet, intimo amico del M,, ‘nella
sua
Lettera
semiseria
di Crisostomo
(1816) a proposito di due note ballate del poeta tedesco G. A. Biirger, Il cacciatore feroce e VEleonora. Ballate che, per certi
elementi, richiamano proprio le fantastiche avventure di questo « tale » di Milano. 391. ebbe in risposta ch’eran sogni: la risposta così asciutta e quasi risentita, fa onore al Cardinale. D'altra parte, messa in relazione con la richiesta dell’arcivescovo di Magonza, potrebbe prendersi anche come espressione di quel senso del reale di cui al Berchet (e quindi al M.), nell’opera sopra ricordata, gli Italiani apparivano ben più dotati dei Tedeschi. È, comunque, una risposta della ragione alla fantasia.
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D’ugual valore, se non in tutto d’ugual natura, erano i sogni de’dotti;
come disastrosi del pari n’eran gli effetti. Vedevano, la più parte di loro,
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l’annunzio e la ragione insieme de’ guai in una cometa apparsa l’anno 1628, e in una congiunzione di Saturno con Giove, « inclinando », scrive il Tadino, « la congiontione sodetta sopra questo anno
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1630, tanto chiara, che ciascun
la poteua intendere. Mortales parat morbos, miranda videntur ». Questa predizione, cavata, dicevano, da un libro intitolato Specchio degli almanacchi perfetti, stampato in Torino, nel 1623, correva per le bocche di tutti. Un’altra cometa, apparsa nel giugno dell’anno stesso della peste, si prese per un nuovo avviso; anzi per una prova manifesta dell’unzioni. Pescavan ne’ libri, e pur troppo ne trovavano in quantità, esempi di peste, come dicevano, manufatta: citavano Livio, Tacito, Dione, che dico? Omero e Ovidio, i molti altri antichi che hanno raccontati o accennati fatti somiglianti: di moderni ne avevano ancor più in abbondanza. Citavano cent’altri autori che hanno trattato dottrinalmente, o parlato incidentemente di veleni, di malìe, d’unti, di polveri: il Cesalpino, il Cardano, il Grevino, il Salio, il Pareo, lo Schenchio, lo Zachia e, per finirla, quel funesto Delrio, il quale, se la rinomanza degli autori fosse in ragione del bene e del male prodotto dalle loro opere, dovrebb’essere uno de’ più famosi; quel Delrio, le cui veglie costaron la vita a più uomini che l’imprese di qualche conquistatore: quel Delrio, le cui Di squisizioni Magiche (il ristretto di tutto ciò che gli uomini avevano, fino a’ suoi tempi, sognato in quella materia), divenute il testo più autorevole, più irrefragabile, furono, per più d’un secolo, norma e impulso potente di legali, orribili, non interrotte carnificine. Da’ trovati del volgo, la gente istruita prendeva ciò che si poteva accomodar con le sue idee; da’ trovati della gente istruita, il volgo prendeva ciò che ne poteva intendere, e come lo poteva; e di tutto si formava una massa enorme e confusa di pubblica follia. 392. i sogni de’ dotti: è palese la malizia dell’accostamento di queste due parole. Le fantasticherie scientifiche mettono i dotti sullo stesso piano del popolino superstizioso. E tutto questo proprio negli anni in cui Galileo compiva le sue scoperte rivoluzionarie nel mondo della scienza. — Fra i dotti che vedono l’origine di tutto il malanno nella « congiunzione di Saturno con Giove » ci sarà, naturalmente, anche il nostro don Ferrante (Cap. XXXVII). 397. Mortales... videntur: ‘ prepara malattie mottali; si vedono cose mirabili’. 403. Livio... Ovidio: citavano, dunque, di tutto e da tutti: storici grandi e poeti fantasiosi. Dione Cassio (155-235 d.C.), il meno noto, forse, fra quanti sono qui ricotdati, scrisse in greco una storia di Roma. 407-408. Cesalpino... Zachia: il Cesalpino, Andrea Cesalpino (1524-1603), d’Arezzo, insigne naturalista e medico; il Cardano, Girolamo Cardano, già ricordato nel cap. XXVII; il Grevino, Jacopo Grèvin (15381570), francese, medico e poeta scrisse un libto sui veleni; il Salto, Pietro Salio (sec.
XVI), di Faenza, autore di un trattato sul-
la peste; il Pareo, Ambrogio Paré (15171590), francese, medico e autore anch'egli di un’opera sulla peste; .lo Schenchio, Giovanni Giorgio Schenck (1531-1598), tedesco, autore di una vasta enciclopedia medica con particolari riferimenti alla peste; lo Zachia, Paolo Zachia (1548-1659), romano, medico pontificio, autore delle Discussiones medico-legales. 410. Delrio: questo Delrio lo abbiamo già trovato fra gli autori preferiti da don Ferrante: il «gran Martino Delrio (l’uomo della scienza) »; Cap. XXVII, vedi n. 358. Qui è detto fuzesto perché, come il M. stesso subito chiarisce, i suoi sei libri di Disquisizioni magiche, facendo testo nei processi contro gli accusati di stregoneria, determinarono il supplizio di molti sventurati. 416. trovati: supposizioni, fantasie. Tutto il periodo pone bene in risalto la gran confusione d’idee che passa dalla gente ignorante a quella istruita (ma come istruita!), e viceversa, in una continua e reciptoca storpiatura, e con l’unico risultato di accrescere la « pubblica follia ».
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Ma ciò che reca maggior maraviglia, è il vedere i medici, dico i medici che fin da principio avevan creduta la peste, dico in ispecie il Tadino, il quale l'aveva pronosticata, vista entrare, tenuta d’occhio, per dir così, nel suo progresso, il quale aveva detto e predicato che l’era peste, e s’attaccava col con-
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tatto, che non mettendovi riparo, ne sarebbe infettato tutto il paese, vederlo poi, da questi effetti medesimi cavare argomento certo dell’unzioni venefiche e malefiche; lui che in quel Carlo Colonna, il secondo che morì di peste in Milano, aveva notato il delirio come un accidente della malattia, vederlo poi
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addurre in prova dell’unzioni e della congiura diabolica, un fatto di questa sorte: che due testimoni deponevano d’aver sentito raccontare da un loro
amico infermo, come, una notte, gli eran venute
persone
in camera,
a esi-
birgli la guarigione e danari, se avesse voluto unger le case del contorno; e come, al suo rifiuto, quelli se n’erano andati, e in loro vece, era rimasto un lupo sotto il letto, e tre gattoni sopra, « che sino al far del giorno vi dimo-
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rorno » *.
Se fosse stato uno solo che connettesse così, si dovrebbe dire che aveva una testa curiosa; o piuttosto non ci sarebbe ragion di parlarne; ma siccome eran molti, anzi quasi tutti, così è storia dello spirito umano, e dà occasion d’osservare quanto una serie ordinata e ragionevole d’idee possa essere scompigliata da un’altra serie d’idee, che ci si getti a traverso. Del resto, quel Tadino era qui uno degli uomini più riputati del suo tempo. Due illustri e benemeriti scrittori hanno affermato che il cardinal Federigo dubitasse del fatto dell’unzioni **. Noi vorremmo poter dare a quell’inclita e amabile memoria una lode ancor più intera, e rappresentare il buon prelato, in questo, come in tant’altre cose, superiore alla più parte de’ suoi contemporanei; ma siamo in vece costretti di notar di nuovo in lui un esempio della forza d’un’opinione comune anche sulle menti più nobili. S'è visto, almeno da quel che ne dice il Ripamonti, come da principio, veramente stesse in dubbio: ritenne poi sempre che in quell’opinione avesse gran parte la credulità, l'ignoranza, la paura, il desiderio di scusarsi d’aver così tardi riconosciuto il contagio, e pensato a mettervi riparo; che molto ci fosse d’esagerato, ma insieme, che qualche cosa ci fosse di vero. Nella biblioteca ambrosiana si conserva un’operetta scritta di sua mano intorno a quella peste; e questo sentimento
c’è accennato
spesso,
anzi una
volta enunciato
espressamente.
« Era
* Pag. 123, 124. ** Muratori; Del governo della peste, Modena, 1714, pag. 117. - P. Verri; opuscolo citato, pag. 261. 421-434. il Tadino... dimororno: il comportamento del Tadino è una testimonianza di estremo valore per mostrare a qual punto fosse arrivata la « pubblica follia ». Qual-
cuno però pensa che il Tadino non potesse credere alla « prova » dell’unzione e della congiura diabolica che egli stesso riferiva: l’avrebbe riferita, si pensa, perché ormai il non assecondare le idee della massa sarebbe stato pericoloso. A parte la validità di questa supposizione, si osservi l’effetto cupamente romantico del «lupo» e dei tre «gattoni»: quello sotto il letto e quelli sopra!
440. qui: in Milano. 442. Noi vorremmo...: c’è rincrescimento, nello scrittore, nel dovere intaccare, sia
pure lievemente, la figura così nobile e grande del Cardinale. Ma a noi piace che l’idealizzazione del personaggio non abbia spinto il M. a tacere su certi suoi difetti: i quali, del resto, come abbiamo visto, si debbono imputare più che ad un uomo ad un’intera età. 452. un’operetta: «l'originale di questa operetta del cardinale Borromeo, composta in lingua latina nell’agosto del 1630, è tuttora conservato nella Biblioteca Am-
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opinion comune », dice a un di presso, « che di questi unguenti se ne com-
ponesse in vari luoghi, e che molte fossero l’arti di metterlo in opera: delle È quali alcune ci paion vere, altre inventate » *. che Ci furon però di quelli che pensarono fino alla fine, e fin che vissero, ‘|che tutto fosse immaginazione: e lo sappiamo, non da loro, ché nessuno fu abbastanza ardito per esporre al pubblico un sentimento così opposto a quello 460 del pubblico; lo sappiamo dagli scrittori che lo deridono o lo riprendono o
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.
.
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lo ribattono, come un ‘pregiudizio d’alcuni, un errore che non s’attentava di
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venire a disputa palese, ma che pur viveva; lo sappiamo aveva notizia per tradizione. « Ho trovato gente savia in buon Muratori, nel luogo sopraccitato, « che aveva buone maggiori, e non era molto persuasa che fosse vero il fatto lenosi. » Si vede ch’era uno sfogo segreto della verità, una stica:
il buon senso c’era; ma
anche da chi ne Milano, » dice il relazioni dai loro di quegli unti veconfidenza dome-
se ne stava nascosto, per paura del senso
comune. I magistrati, scemati ogni giorno, e sempre più smarriti e confusi, tutta, 470
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per dir così, quella poca risoluzione di cui eran capaci, l’impiegarono a cercar di questi untori. Tra le carte del tempo della peste, che si conservano nell’archivio nominato di sopra, c’è una lettera (senza alcun altro documento relativo) in cui il gran cancelliere informa, sul serio e con gran premura, il governatore d’aver ricevuto un avviso che, in una casa di campagna de’ fratelli Girolamo e Giulio Monti, gentiluomini milanesi, si componeva veleno in tanta quantità, che quaranta uomini erano occupati er este exercicio, con l’assistenza di quattro cavalieri bresciani, i quali facevano venir materiali dal ve-
neziano, para la fabrica del veneno. Soggiunge che lui aveva preso; in gran segreto, i concerti necessari per mandar là il podestà di Milano e l’auditore 480
della Sanità, con trenta soldati di cavalleria; che pur troppo uno de’ fratelli era stato avvertito a tempo per poter trafugare gl’indizi del delitto, e proba* Ecco le sue parole: Unguenta uero haec aiebant componi conficique multifariam, fraudisque uias fuisse complures; quarum sane fraudum, et artium aliis quidem assentimur, alias uero fictas fuisse comentitiasque arbitramur. De pestilentia quae Mediolani anno 1630 magnam stragem edidit. Cap. V.
brosiana di Milano
(segnatura F. 20 znf.). Testo latino e traduzione moderna italiana si possono adesso leggere in F. Borromeo, De Pestilentia, a c. di G. Mazzoli, Pavia, Almo Collegio Borromeo, 1964. Costituisce una importante fonte di alcune scene manzoniane della peste, per esempio dell’episodio di Cecilia oppure di quello del lazzaretto dove sono descritte balie e capre che allattano a gara gli innocenti privati della madre » (Caretti).
467-468. il buon senso... senso comune: la battuta è diventata proverbiale. Se ne può constatare la validità tutte le volte che vediamo le opinioni delle masse, il senso comune, cozzare contro le opinioni dei :saggi, il buon senso: che, di solito, è di pospi e, per di più, impossibilitati a parare.
473-485. il gran cancelliere... incolpati: il M. non si lascia sfuggire l’occasione di far fare a Ferrer, uno dei più elevati personaggi d’autorità del romanzo, un’altra ra gura. Questa caccia agli untori è quanto di meglio costui sappia mettere in moto in mezzo allo sfacelo generale del ducato, e subito ne informa, sul serio e con gran premura, il suo superiore. Ma tutto il daffare del gran cancelliere finisce nel nulla, e la perquisizione nella casa di campagna dei due galantuomini e nel loro arsenale si conclude, né più né meno,
come
l’« inquisizione » nella
casetta del povero Renzo (Cap. XVIII). Le parole spagnole sottolineano la venatura satirica, mentre il comportamento particolare dell’« auditore della sanità », una specie di ufficiale giudiziario, sottolinea la corruzione. generale e la generalità dei sospetti.
capitolo XXXII
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bilmente dall’auditor medesimo, suo amico; e che questo trovava delle scuse per non partire; ma che non ostante, il podestà co’ soldati era andato 4 reconocer la casa, y a ver si hallarà algunos vestigios, e prendere informazioni, e arrestar tutti quelli che fossero incolpati. La cosa dové finire in nulla, giacché gli scritti del tempo che parlano de’ sospetti che c’eran su que’ gentiluomini, non citano alcun fatto. Ma pur troppo, in un’altra occasione, si credé d’aver trovato. I processi che ne vennero
in conseguenza,
non eran certamente
i primi
d’un tal genere: e non si.può neppur considerarli come una rarità nella storia della giurisprudenza. Ché, per tacere dell’antichità, e accennar solo qualcosa de’ tempi più vicini a quello di cui trattiamo, in Palermo, del 1526; in Ginevra, del 1530, poi del 1545, poi ancora del 1574; in Casal Monferrato, del 1536; in Padova, del 1555; in Torino, del 1599, e di nuovo, in quel medesim’anno 1630, furon processati e condannati a supplizi, per lo più atrocis-
simi, dove qualcheduno, dove molti infelici, come rei d’aver propagata la
peste, con polveri, o con unguenti, o con malìe, o con tutto ciò insieme. Ma l’affare delle così dette unzioni di Milano, come fu il più celebre, così è fors’anche il più osservabile; 0, almeno, c'è più campo di farci sopra osser-
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vazione,
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E quantunque uno scrittore lodato poco sopra se ne sia occupato, pure, essendosi lui proposto, non tanto di farne propriamente la storia, quanto di cavarne sussidio di ragioni, per un assunto di maggiore, o certo di più immediata importanza, c’è parso che la storia potesse esser materia d’un nuovo lavoro. Ma- non è cosa da uscirne con poche parole; e non è qui il luogo di trattarla con l’estensione che merita. E oltre di ciò, dopo essersi fermato su que’ casi, il lettore non si curerebbe più certamente di conoscere ciò che rimane del nostro racconto. Serbando però a un altro scritto la storia e l’esame
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per esserne
di quelli, torneremo fino alla fine.
rimasti
documenti
finalmente
più circostanziati
a’ nostri personaggi,
501. uno scrittore...: Pietro Verri, che nel libro Osservazioni sulla tortura si occupò di quei processi per dimostrare il suo « assunto... di più immediata importanza », cioè la necessità dell’abolizione della tortura, con la quale tante volte si estorcevano confessioni anche di delitti assolutamente impossibili. 504-505. materia d’un nuovo lavoro: è il
preannunzio della Storia della colonna in-
fame, scritta dal M. nel 1829 e pubblicata nel 1842 come appendice all’edizione definitiva del romanzo. Questa nuova opera del M. fu accolta con freddezza, perché i lettori del tempo si aspettavano da lui un altro romanzo e non uno scritto di pura storia. Nella Colonna infame il M. esamina e critica
e più autentici.
per non
lasciarli più,
lo svolgimento di un processo ad alcuni presunti untori, un commissario del tribunale della sanità e un barbiere, tenuto in Milano
nel giugno 1630 e conclusosi coi più orribili supplizi di quei disgraziati e con l’erezione di una colonna a loro eterna ignominia. Con questo libro il M. volle dimostrare, come egli stesso scrisse, che « talvolta gli uomini commettono, senza esitazione e senza rimorso, azioni atrocissime, per la falsa presunzione d’un fatto, fondata sui ragionamenti più frivoli o sulla semplice affermazione altrui »: sarebbe bastato che quei giudici non avessero rifiutato l’evidenza dei fatti, e avessero ascoltato la loro coscienza, per assolvere i presunti untori.
î promessi sposi
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Scheda
critica ai capp. XXXI e XXXII La terza digressione
storica, dopo quelle dei capitoli XXVII
assai più ampio e circostanziato, non soltanto perché la peste, che ne costituisce l'oggetto, è chiamata, più della fame e della guerra, ad esercitare una funzione determinante, e addirittura risolutiva nella trama del libro; sì anche perché questo oggetto, con le riflessioni che esso comporta, aderisce in maniera più profonda al sentimento e al pensiero dello scrittore. Ne deriva, da un lato, un impegno storiografico più dichiaratamente autonomo (si tratta per il Manzoni di illustrare « un tratto di storia patria più famoso che conosciuto »), che, come tale, può dare al lettore l'impressione di un excursus più nettamente distraente e digressivo, appunto, in rapporto alla struttura narrativa. Ma, per un altro verso, ne deriva anche una più forte concentrazione di motivi riflessivi e di considerazioni morali, che nel quadro di quella struttura acquistano un rilievo specifico e ne costituiscono, in ultima analisi, il nucleo germinale e il significato profondo. È stato giustamente osservato che, mentre sembrano distaccarsene e collocarlo in ombra, in realtà queste pagine creano uno sfondo alla storia degli umili e forniscono alla vicenda un più vasto orizzonte temporale e spaziale. È così che esse serbano con la materia narrativa un rapporto più indiretto e difficile a definirsi che non le altre parti storiche, ma anche più profondo. E anche il tono della trattazione qui. si approfondisce, non soltanto rispetto a quello tutto in chiave ironica della prima digressione, sì ancora rispetto a quello ben al-
e XXVIII,
ha uno
svolgimento
trimenti accorato e pietoso, ma in sostanza esterno e descrittivo,
della seconda; perché qui lo scrittore si addentra nell'esplorazione di una complessa realtà psicologica, obbedisce a quell'istinto, che è la nota saliente della sua ispirazione, che lo porta ad affisarsi e a sforzarsi di interpretare quel terribile e affascinante « guazzabuglio » del cuore umano in tutta la sua grandezza e la sua miseria. Perciò vien fatto di sentire in queste pagine, assai più che non l'apparente affinità con le altre ricordate di considerazioni storiche, la reale consonanza con quelle, di shakespeariana intonazione, degli episodi di Gertrude e dell'Innominato. Anche in quelle ricorreva