I portici della poesia. Dino Campana a Bologna (1912-1914)

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Istituto per 1 Beni Artistici Culturali e Naturali della Regione Emilia-Romagna Soprintendenza per i beni librari e documentari EMILIA ROMAGNA BIBLIOTECHE ARCHIVI N. 46

IPORTICI DELLA POESIA: DINO CAMPANA A BOLOGNA (1912-1914) a cura di Marco Antonio Bazzocchi

Gabriel Cacho Millet

PÀTRON LORI: BOLOGNA

2002

Biblioteca Comunale dell’Archiginnasio [N

Il volume è pubblicato in occasione della mostra / portici della poesia: Dino Campana a Bologna (1912-1914) promossa dalla Biblioteca Comunale dell’ Archiginnasio di Bologna in collaborazione con l’ Associazione Premio Letterario Dino Campana e con la Soprintendenza per i beni librari e documentari della Regione Emilia-Romagna. L’esposizione si è tenuta nell’ambulacro dei Legisti del Palazzo dell’ Archiginnasio dal 25 maggio al 29 giugno 2002. Comitato scientifico e organizzativo: Marco A. Bazzocchi, Pierangelo Bellettini, Gabriel Cacho

Millet, Rosaria Campioni, Giuseppe Matulli.

Si ringrazia: l’ Archivio Storico dell’ Università di Bologna (Marco Bortolotti, Giampaolo Brizzi, Daniela Negrini); la Biblioteca dell’ Archiginnasio (Floriano Boschi, Carla Calzolari, Roberto Faccioli, Annalisa Fontana, Giovanni Franco Nicosia, Valeria Roncuzzi Roversi-Monaco, Claudio Veronesi); la Biblioteca Malatestiana di Cesena (Paola Errani, Daniela Savoia); la Cineteca Comunale di Bologna (Sandro Toni, Angela Tromellini); le Collezioni d’ Arte e di Storia della Cassa di Risparmio in Bologna; Franco Contorbia; la Fondazione Primo Conti; il Museo Civico

Archeologico (Cristiana Morigi Govi); il Museo Morandi di Bologna (Lorenza Selleri, Peter Weiermaier); Claudio Pesci.

Un ringraziamento particolare a Fiorella Campana e Anna Ravagli.

Copertina di Sergio Vezzali Copyright © 2002 by Istituto per i beni artistici culturali e naturali della Regione Emilia-Romagna e Pàtron editore. i I diritti di traduzione, di riproduzione e di adattamento, totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i micro-films e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi. Prima edizione, maggio 2002 Ristampa SAS

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2005

2004

Stampato nello Stabilimento Editoriale Pàtron Via Badini 12 40050 Quarto Inferiore - Bologna

2003

2002

Indice

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Gabriel Cacho MILLET, «Parole rotte» di Dino Campana a Bologna

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Marilena PASQUALI, «I vostri occhi forti di luce». L'incontro fra (norsioMorandie Dino Campania”. SIBIIII SIINEORÌ,

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Greta BiLancIONI, Dino Campana e Otto Weininger..........................

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Gloria MANGHETTI, Appunti per una biografia: Bino Binazzi ............

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125

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199

Bino Binazzi, Gli ultimi bohémiens d’Italia: Dino Campana ...........

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149

Giuseppe Ramonpi, Foglietti letterari (Dino Campana) ..................

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Giuseppe Rarmonpi, Dino Campana a Bologna .................

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Riccardo BACcCcHELLI, Artisti d'avanguardia: Giorgio Morandi .........

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Riccardo BACCHELLI, Dino Campana triste a morte ..........................

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167

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Documenti Bino Binazzi, Un poeta romagnolo (Dino Campana)

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Premessa Ezio Raimondi

Ricomporre i momenti, o le tracce, di quello che, sull’esempio di quan-

to ha coralmente proposto la critica francese per Rimbaud, potremmo chiamare il “mito Campana”, è oggi impresa tanto complessa quanto necessaria. Le ipotesi critiche e biografiche sul poeta dei Canti Orfici si sono così moltiplicate da mettere in difficoltà chi si accinga con mente libera da formule o pregiudizi a leggere dall’interno una vita e un’opera che appaiono costituzionalmente inseparabili. E il presupposto dell’esposizione bolognese e del volume che ne raccoglie i documenti, integrandoli con nuovi saggi e testimonianze ormai difficili da reperire, sta proprio nel proposito di far ordine e lume su un momento particolare dell’esistenza tumultuosa dello scrittore, nell’abito ancora di “studente”. Tra l’autunno del 1912 e la primavera successiva Campana ritorna a Bologna per concludere gli studi universitari nella Facoltà di Chimica, e qui lo aspetta un ambiente culturale segnato dalla scomparsa del nume carducciano e dai primi dibattiti sulla nuova avanguardia futurista, insieme con un mondo goliardico festoso e vitale, a cui egli si associa d’istinto per dar sfogo al ‘“malaise” che già lo aveva spinto a viaggiare facendogli conoscere anche la realtà squallida e tempestosa del manicomio. Ma Campana non è uno studente ordinario, lo sottolinea Marco A. Bazzocchi nel suo

saggio: è soprattutto un poeta oramai consapevole e orgoglioso, che cerca

l'occasione buona per entrare alla sua maniera nel mondo della letteratura. Ed ecco che quello che gli viene negato a Firenze gli viene invece riconosciuto dai goliardi bolognesi, i quali ospitano nei loro giornali alcuni testi di singolare altezza, gli stessi che di lì a poco passeranno con rinnovata forza espressiva nel libro degli Orfici. Come scrive Gabriel Cacho Millet, il Campana di Bologna è a un tempo poeta e “pazzo”, viandante della notte e del caos. Così alla legittimazione artistica si aggiunge un palcoscenico da cui esibire, fra strazio e furore, il proprio quotidiano tormento. Allorché più tardi, nel 1924, Giuseppe Raimondi parla per la prima volta di Campana, egli rammenta soprattutto il tono particolarissimo della sua voce, tentando poi di inserire lo scrittore de “La Chimera” in una regione culturale tra classicismo e modernità, tra Michelangelo e Rimbaud. Ancora agli inizi di una lunga storia critica il “mito Campana” sta prenden-

8

do forma e ragione nell’officina di un di lui, sempre sotto i portici, c’era già cui non per nulla il fiorentino Papini maudit” senza fondamento, quasi una

Premessa

memorialista bolognese. Ma prima stato l’intervento di Bino Binazzi, a rimproverava di aver inventato “un copia nostrana di Hòlderlin. In un

modo o in un altro, insomma, al pari di Faenza, Firenze e Genova, Bologna

è una città iscritta nel destino di Campana, così come vive nella pagina intatta dei Canti Orfici. E la città universitaria, vista in un cupo inverno dostoevskiano, nella Giornata di un nevrastenico, ed è insieme lo spazio

che si trasfigura al passaggio del vento, quando uno scirocco natalizio lambisce i muri di pietra come l’annuncio di non so quale liberazione. E come dimenticare, del resto, certe atmosfere acri e raccolte, nel taglio di

una luce bloccata che sembra sospendere il tempo tra la nebbia del sogno? La Bologna grigia e luminosa di Campana ha forse qualcosa della città di Morandi, con la stessa aria ferma e sospesa in un travagliato, misterioso stupore, e lo avrebbero poi intuito, nel tramando delle generazioni, Riccardo Bacchelli e Francesco Arcangeli. Ma un poeta, anche quando è un viandante avventuroso e creaturalmente disperato, sa cogliere sempre il vero di un luogo, la natura profonda di una condizione umana che, nel flusso del tempo, condivide il destino secolare di una terra faticosa ma amica. Per questo bisogna poi dargli ascolto.

«Parole rotte» di Dino Campana a Bologna Gabriel Cacho Millet

«O bellezza o tu sola: andare, andare!». E su un binario della vecchia stazione ferroviaria di Bologna tutto cominciò per Dino Campana poeta errabondo. Era l’estate

1906. Lo studente di Chimica, matricola il 24 novembre

1903, trovandosi in quella stazione, vede un treno in partenza per Milano. «Sentii — raccontò a Mario Bejor (SP, p. 287) * — che in quel treno fuggiva * Sigle delle opere principali citate in questo scritto:

CO CO/B CO/C

Dino Campana, Dino Campana, Neuro Bonifazi, Dino Campana,

Canti Orfici, Marradi, Tip. Ravagli, 1914. Canti Orfici e altre poesie. Introduzione e note a cura di Milano, Garzanti, 1977. Canti Orfici, con il commento di Fiorenza Ceragioli, Firen-

ze, Vallecchi, 1985.

DCF OC

Inediti

LML

Pariani

PLG

7 SP

SPM

Un viaggio

Gabriel Cacho Millet, Dino Campana fuorilegge, Palermo, Novecento, 1985. Dino Campana, Opera e contributi, a cura di Enrico Falqui, prefazione di Mario Luzi, note di Domenico De Robertis e Silvio Ramat, Carteggio con Sibilla Aleramo, a cura di Niccolò Gallo, 2 voll, Firenze, Vallecchi, 1973. Dino Campana, Inediti, a cura di Enrico Falqui, Firenze, Vallecchi, 1942.

Dino Campana, Le mie lettere sono fatte per essere bruciate, a cura di Gabriel Cacho Millet, Quaderni della Fondazione Primo Conti - Fiesole-Milano, All’ Insegna del Pesce d’Oro, 1978. Carlo Pariani, Vite non romanzate di Dino Campana scrittore e di Evaristo Boncinelli scultore, Firenze, Vallecchi, 1938 (rist. come C.P.,Vita non romanzata di D.C., a cura di Cosimo Ortesta, Milano, Guanda, 1978, poi a cura di Tiziano Gianotti, Firenze, Ponte alle Grazie, 1994). Dino Campana, // più lungo giorno, 2 voll., Vol. I. Riproduzione anastatica del manoscritto ritrovato dei Canti Orfici. Vol. II. Testo critico a cura di Domenico De Robertis, prefazione di Enrico Falqui, Archivi - Roma-Firenze Vallecchi, 1973. Dino Campana, Souvenir d’un pendu. Carteggio 1910-1931] con documenti inediti e rari a cura di Gabriel Cacho Millet, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1985. Dino Campana, Sperso per il mondo. Autografi sparsi 1906-1918, a cura di Gabriel Cacho Millet, Provincia di Firenze-Cultura e memoria, 16, Firenze, Olschki, 2000. Sibilla Aleramo-Dino Campana, Un viaggio chiamato amore. Lettere 19161918, a cura di Bruna Conti, Roma, Editori Riuniti, 1987, ristampato, Milano,

Feltrinelli, 2000.

«Parole rotte» di Dino Campana a Bologna

10

la mia vita! Vi balzai su, e non avendo che due soldi in tasca, mi nascosi

nel gabinetto e mi vi chiusi fino a Milano. Passai poi in Isvizzera a piedi, e di là a Parigi ...». Ne La notte Campana conferma tra le righe quanto l’amico ricordava di quella fuga in cui varcò le Alpi: ... ero giovane, la mano non mai quieta poggiata a sostenere il viso indeciso, gentile di ansia e di stanchezza

[...]. Ero bello di tormento, inquieto,

pallido, assetato errante dietro le larve del mistero. Poi fuggìi. Mi persi per il tumulto delle città colossali, vidi le bianche cattedrali levarsi congerie enorme di fede e di sogno colle mille punte nel cielo, vidi le Alpi levarsi ancora come più grandi cattedrali, e piene delle grandi ombre verdi degli abeti,

e piene della melodia dei torrenti di cui audivo il canto nascente

dall’infinito del sogno.

È la sua prima grande fuga. Quando la polizia di frontiera lo ferma a Bardonecchia, proveniente dalla Francia, alla domanda su quale sia la sua attuale professione, egli non risponde più studente, ma «scrivano» (DCF, p. 40), cioè, uno che scrive per

conto di altri. Il fermo coincide con il tempo in cui avrebbe cominciato a comporre i primi versi. «Viaggiando avevo delle impressioni d’arte; le scrissi. [...] Avrò avuto venti anni ...» (Pariani, pp. 56-57).

È saputo che il giovane vagabondo pagò un alto prezzo per quella fuga. Sindaco in testa, i notabili del suo paese, il medico condotto, un possidente e un rispettabile pensionato attestarono che Campana Dino, di anni 21 «da qualche tempo ha dato segni di demenza precoce e quindi è necessario sottoporlo ad una cura e toglierlo dai pericoli del suo stato impulsivamente irritabile e per la sua vita errabonda che lo potrebbe esporre a gravi pericoli» (DCF, p. 41). Letta la domanda del sindaco, il pretore del Mandamento

di Marradi ordina l’internamento dell’alienato mentale nel Provinciale di Bologna, con sede in Imola. Se il padre non si a «ritirare» il figliolo dopo due mesi di degenza, nonostante giudicassero uno «psicopatico grave», il poeta Campana non

Manicomio fosse deciso i medici lo sarebbe mai

esistito.

E Dino Campana poeta «da leggere» cominciò a esistere a Bologna, non nella Bologna «dotta e sacerdotale», ma in quella burlona e spensierata della scapigliatura goliardica. Infatti, Campana vide pubblicati i suoi versi e prose da «poeta dei due mondi» per la prima volta su due fogli goliardici, fatta eccezione per i Vecchi versi (PLG, p. 32; SPM, pp. 13940) le «parole rotte» che nello scirocco serale a Piazza San Petronio «il vicendevole vento/diceva per un’ansia solitaria». Nei numeri unici de «Il Papiro» e «Il goliardo», vennero infatti editi, nel 1912 e 1913, ad opera

Gabriel Cacho Millet

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di Federico Ravagli, alcuni scritti dello studente di Chimica Dino Campana: sul primo apparvero Montagna - La Chimera, Le cafard (Nostalgia del viaggio) e Dualismo - Ricordi di un vagabondo. Lettera aperta a Manuelita Tchegarray, a firma rispettivamente di «Campanone», «Campanula», e «Din-don»; sul secondo invece uno scorcio de La notte, preludio dei Canti Orfici, col titolo Torre rossa, e a firma «Dino Campana».

In questa città dove «non succede mai nulla», «città di beghine e di ruffiani, mai un omicidio, mai un fatto di sangue» (SP, p. 299), il poeta appena edito ebbe un «accesso mentale». Poeta e pazzo a Bologna dunque. Campana Dino di Giovanni di anni 23, nativo di Marradi, alunno presso la

locale università, entra nella «cronaca nera» del «Giornale del Mattino» del 27 dicembre 1912 per aver dato in escandescenze nella pubblica via (SP, pp. 289-90): . verso le 16 il Campana accompagnato da due colleghi, certi Quirico Dall’Oca dimorante in via Mazzini al n. 42 e Bucci Paolo, dimorante in via

Cartoleria al n. 36, si era diretto alla sua abitazione situata nella casa n. 52 di via Zamboni. Nel salire le scale egli si era incontrato con un giovane cameriere

del prof. Gorrieri, dimorante

al n. 4 della stessa via, il quale

scendeva seguito da un piccolo cane. Il Campana, forse colto da un accesso mentale aveva afferrato la bestia lanciandola contro una ragazza che si accingeva a salire le stesse scale./ Il cameriere del Gorrieri aveva naturalmente protestato contro il giovanotto, ma essendoglisi questi lanciato contro con minaccie egli era fuggito ricoverandosi nel caffè sottostante. Quivi il Campana lo aveva inseguito per percuoterlo, ma trattenuto dai presenti era stato infine messo fuori dal caffè proprio nel momento in cui sopraggiungeva il comandante delle guardie municipali Dalmonte-Casoni. Il Campana, il quale pare abbia già altra volta dato segni di squilibrio mentale, è tuttora trattenuto all’ospedale maggiore ...

Le versioni dell’episodio sono tante quanti furono «i narratori» dello stesso: Federico Ravagli, Mario Bejor, Riccardo Bacchelli, Giuseppe Raimondi e altri, ma il primo a manipolarlo fu proprio Campana che in O poesia poesia poesia (Quaderno, OC, I, p. 333), collocando i fatti in uno scenario diverso, scrisse: Stride la troia perversa al quadrivio Poichè l’elegantone le rubò il cagnolino Saltella una cocotte cavalletta Da un marciapiede ad un altro tutta verde E scortica le mie midolla il raschio ferrigno del tram.

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RAR spit 1 (ber Mint) Fig. 1. Autografo della poesia Vecchi versi / S. Petronio. Bologna. inviata a Giovanni Boine da Dino Campana nel dicembre del 1915 (cfr. fig. 27).

Gabriel Cacho Millet

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Fig. 2. Via Zamboni. Veduta del Teatro Comunale. Collezioni d’arte e di storia della Cassa di Risparmio (Fondo Giovanni Mengoli).

Fra i testimoni della disavventura bolognese di Campana spunta anche Giorgio Morandi. Egli vide appunto per la prima volta «il povero Dino alle prese coi birri per avere accoppato un brutto cagnolo da signora». È Raimondi che lo racconta, in un introvabile articolo dedicato al pittore bolognese sul «Giornale Nuovo» del 12 aprile 1923 (SPM, p. 187). Stando alle notizie su «Il Giornale del Mattino», chi «ruba» il cane è lo stesso Campana e non ad una «troia», ma al cameriere di un professore di

Via Zamboni. Bejor aggiunge che, dopo due o tre giorni, Campana fu invitato dalla polizia a lasciare Bologna, ma fino ad oggi nessun documento della Questura o della Pubblica Sicurezza conferma tale misura, anzi egli si trattenne forse fino al 20 febbraio 1913 nella città, dove Ravagli ha appena stampato sul «Goliardo», Torre rossa. Da una lettera del segretario della Facoltà di Lettere e Filosofia di Bologna, Nicola Spano, al padre del poeta sembrerebbe che Campana abbia cambiato università non prima del marzo 1913 e che si sia trasferito a Genova. A Bologna era certamente presente il 19 febbraio 1913, perchè pagò a quella data L. 62,50 per la prima rata del quarto anno.

«Parole rotte» di Dino Campana a Bologna

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A Emilio Cecchi scrisse, nel 1916, una lettera in cui narra le sua vita da

universitario perseguitato ed errante fino al 1914: Tre anni fa ero tornato all’ Università di Bologna a fare il quarto anno di Chimica pura. Quelli del mio paese che mi avevano sempre perseguitato con una infamia e una ferocia tutte lazzaronescamente italiane e clericali risultando che io non ero altro che un avanzo di galera perché varie volte ero stato rimpatriato pidocchioso e stracciato (sfuggivo le loro infamie) mi fecero fare dalla polizia una persecuzione che mi impedì di continuare. Dicevano che ero anarchico pericoloso, che volevo ùccidere il re, i profes-

sori, ecc. Provai a cambiare università. Ma a Genova fu peggio. Allora fugii sui miei monti, sempre bestialmente perseguitato e insultato e scrissi in qualche mese i Canti Orfici includendo cose già fatte. Dovevano essere la giustificazione della mia vita perchè io ero fuori dalla legge [...] Quegli sbirri fecero così perché mi sapevano strettamente sorvegliato e contro me tutto era lecito ... Infatti, doveva aver trovato rifugio nei suoi monti nell’inverno del ‘14

perché nessuno sapeva dove fosse finito. A Bologna in quell’anno scomparve, come spesso gli succedeva, per riapparire all’improvviso, annunciando di aver trovato a Marradi un tipografo disposto a pubblicare un suo libro intitolato Canti Orfici. «Orfici? Perchè?» — si interrogava con gli amici Ravagli, suo editore di due anni prima. «Il punto chiave della cultura nietzschiana di Campana, per l’interpretazione dei Canti Orfici, come ha scritto Neuro Bonifazi, è l’orfismo di Nietszche quale si mostra soprattutto nella Nascita della tragedia, il ritorno al mito antichissimo, al binomio Dioniso-Apollo, e tutto l’estetismo della filosofia nietzschiana dell’arte» (CO/B, p. XXIII). Ma

Campana non parlò del suo debito con Nietzsche, quando gli venne chiesto di spiegare la scelta di quel titolo. Egli evocò, ricorda Ravagli, uno strano testo misteriosofico divulgativo scritto da Edouard Schuré, intitolato / gran-

di iniziati. Ravagli non ricorda se fu lo stesso Campana a suggerirgli la lettura del terzo

capitolo

del volumetto

di Schuré,

dove

parla delle

sacerdotesse, dei riti, dei sacrifici, delle apparizioni. Nel capoluogo emiliano Campana conobbe il giornalista e poeta toscano Bino Binazzi, poi diventato suo amico fraterno. Binazzi era l’autore di una poesia dal titolo inquietante: Canto Orfico. Campana, mentre riscriveva il suo unico libro e parlava con gli amici bolognesi di Schuré e dei miti solari e di orfismo, aveva presente anche la poesia giovanile del nuovo amico? Nessuno ha approfondito l’argomento, ma indicativa è l’epigrafe tratta da Les grands initiés: «...et la lumière est aussi la parole de vie».

Gabriel Cacho Millet

15

Sul «Giornale del Mattino» del 24 dicembre 1914, Binazzi pubblicò anche la prima favorevole recensione ai Canti Orfici, Un poeta romagnolo (Dino Campana), suscitando l’acida reazione del fiorentino per antonomasia, Giovanni Papini, che accusò il recensore di esaltare «una poesia di

second’ordine».

La risposta di Binazzi non si fece attendere: Bologna, 10 gennaio 1915 Caro Papini, To non sono il padrone del giornale. Per varar Campana dovetti ricorrere allo stratagemma del titolo — Un poeta romagnolo —. Dunque rebus sic stantibus, credo di aver ragione e ti prego di credere che, se anche per combinazione avessi esagerato per entusiasmo, non me ne pento affatto perchè rimane ferma la convinzione che questo bel tipo di Campana è destinato a scriver grandi cose. La stoffa c’è. La sua vita randagia è per me un fatto che incontra tutta la mia simpatia. Poi Campana è povero e se io ho potuto contribuire a fargli vendere qualche volume ciò mi sembra meglio della ... letteratura e della critica, ecc. Bada bene però che io sostengo sempre che i Canti Orfici sono un ottimo libro dove si sente l’alito di una creatura viva e anelante fin della prima pagina. Se anche vi siano — come tu dici — 30 pagine di buona poesia nel volume ciò è per me più che abbastanza trattandosi più o meno d’un cento pagine in tutto. Quanto alla distinzione che fai di poesia di primo e di secondo ordine, io penso che non esiste altro che poesia e non poesia. Tuo Bino Binazzi

Papini non riuscì mai a voler bene a Campana né a stimarne l’arte. C'era, da parte sua, scrisse, «più amor dello strano che amicizia per l’uomo». Questo atteggiamento si profila già nella lettera che scrive in risposta a Binazzi, per dire ancora sulla «statura» di Campana poeta: Firenze, 15 gennaio 1915 Caro Binazzi,

tu mi dici che non ci sono poeti di primo e di second’ordine. Ma si è poeti e non poeti. Ebbene non mi pare che Campana sia di una statura quale vorresti fare apparire. Quando lo incontrai la prima volta al Caffè Chinese alla stazione vecchia [di Firenze] ebbi l’impressione, parlando con lui, di un malato di spirito preso dal fuoco della poesia ma senza l’equilibrio necessario per essere un buon poeta. Mi dette qualche scritto in cui ho trovato lo stesso senso dei Canti Orfici.

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Gabriel Cacho Millet

17

MI ha scritto che traduce bene in tedesco e io, per farlo lavorare, gli ho dato qualcosa per la Cultura dell'Anima ma non ha concluso nulla, anzi ti

dirò che mi ha abbrucciacchiato la cartella obbligandomi a rifarla. Tu cerchi un poète maudit (L'Italia non ne ha) e forse l’hai trovato molto simile a Hoelderlin ... Tuo

Giovanni Papini Intanto, dopo il primo riconoscimento

di Binazzi, sul «Giornale

del

Mattino», Campana, perchè «povero», vende personalmente il suo libro nei bar. Per avere maggiore presa tra gli eventuali acquirenti, giunse in alcuni casi a sostituire in copertina il nome del suo primo stampatore definito a volte «un brute de mon village» (SP, p. 132) ed altre «il coscien-

zioso coraggioso e paziente stampatore sig. Bruno Ravagli» (CO, p. 173). Tale è il caso dell’esemplare toccato (venduto?) a Giorgio Morandi; Campana ha cassato le parole: «Marradi tipografia F. Ravagli/1914» e al suo posto ha scritto «Libreria Gonnelli / Via Cavour-Firenze». E da dire che il prestigioso libraio fiorentino aveva in effetti reclamizzato i Canti nel suo proprio catalogo di novembre-dicembre e sulla rivista «Lacerba» del 15

novembre 1914. Probabilmente Morandi acquistò il libro da Campana nell’autunno del 1914, nei giorni in cui il poeta «smerciava» i suoi Canti, a lire 2,50 con o senza dedica, al bar San Pietro di Bologna, così come era solito fare alle

Giubbe Rosse e al Paszkowski di Firenze, prima del suo misterioso viaggio in Sardegna. Raimondi racconta nel suo primo scritto su Morandi già citato, che il poeta e il pittore furono «quasi» amici: Certo, questo è bene un interno bolognese, pieno di silenzioso riposo estivo, in una di queste logore case della via Fondazza, di San Petronio

vecchio, di via del Piombo, nelle quali il poeta Dino Campana ha indugiato a scoprire un poco di oro crepuscolare sulla pietra rossa delle mura, di vagabondaggio in vagabondaggio, un giorno lontano. Essendosi fiutati erano quasi amici, Morandi e Campana.

La «quasi amicizia» tra i due trova conferma nella dedica del poeta al pittore, scritta sulla copia dei Canti Orfici, «acquistata» da Morandi e scoperta recentemente da Marilena Pasquali tra le carte e i libri dell’artista conservati presso il Museo Morandi di Bologna: All’eccellente pittore Giorgio Morandi con cordialità. Dino Campana.

18

Fig. 4. La copertina di BIF$ZF+1/8. Simultaneità e Chimismi lirici, la raccolta di Ardengo Soffici uscita a Firenze nel 1915.

Gabriel Cacho Millet

19

La data, inesistente, può essere fissata intorno all’ultimo trimestre del 1914. Ma qualche parola va spesa ancora sul significato della dedica, in cui Morandi è qualificato «eccellente pittore». Non è, a mio parere, un giudizio di valore per cui si possa lecitamente sostenere che Campana sia stato uno stimatore di Morandi. Il poeta considerava «eccellenti» tutti quegli artisti o scrittori che avevano letto il suo libro, soprattutto se acquistato direttamente da lui. Se veniva richiesta espressamente la dedica poi, un «eccellente» o altro elogio non veniva negato a nessuno, si chiamasse Antonio Salvetti, Giovanni Costetti, Mario Moschi, Francesco Meriano o

Giorgio Morandi. E dunque fondato il sospetto che le parole che figurano nell’esemplare acquistato da Morandi rappresentino una dedica «di comodo», simile a tante

altre. D'altra parte è da considerare

che i giudizi

campaniani sull’arte non sono mai superficiali. Quanti l’hanno conosciuto dicono che era tutt'altro che un approssimativo nel parlare sull’arte, quando si trovava davanti a un quadro. Dice Emilio Cecchi a Giovanni Boine nel 1916: Campana fa una bella impressione, di lirico fuggiasco: una testa che pare un ritratto di Van Gogh, o meglio, l’interpretazione di una testa classica di Giuliano l’apostata, con i capelli e la «barbiche» rossa, per mano di un Van Gogh. Intelligentissimo, pieno di viste fine sull'arte.

Ardengo Soffici ne rievoca i modi bizzarri, ma non solo, mentre percorre le sale della Mostra Futurista, aperta il 12 dicembre 1913 a Firenze, in via Cavour (Ricordi di vita artistica e letteraria, Opere, VI, Firenze, Vallecchi, 1965, p. 83): ... Sì aggirava disinvolto per il locale, tra la folla cittadinesca, sbalordita di

tutto quello che vedeva, e di lui; si fermava ogni tanto a osservare con attenzione qualche dipinto, del quale diceva poi cose stranamente acute e che rivelavano in lui tutt'altro che un incompetente anche in quell’arte non sua. Su uno di quei quadri improvvisò persino, lì per lì, una poesia che più tardi stampò dedicandomela.

Quel dipinto, distrutto dall’autore dopo essere esposto a Londra nel 1917, si intitolava Dinamismo plastico, più noto come Danza dei pederasti. Campana improvvisò, guardando quel quadro scandaloso, una sor-

ta di tango, forte dei suoni e del ritmo orecchiati nei bordelli del bajo Buenos Aires, dove si era guadagnato da vivere, suonando il pianoforte.

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Fig. 5. Lorenzo Costa, La Vergine in trono coi SS. Agostino, Posidonio, Giovanni e Francesco. Bologna, S. Giovanni in Monte (Soprintendenza per i Beni Artistici di Bologna. Archivio fotografico).

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DI

Fig. 6. Particolare della pala del Costa. Alla figura di uno degli angeli Campana dedica la seguente poesia, scritta probabilmente negli anni universitari: S. Giovanni in Monte. Bologna: L'anima della primavera triste / Lo ricerca nel quadro dove sogna / Lunghi e funerei sogni nella luce / turchina che piove dai vetri / Istoriati delle eterne istorie / Vertiginose nel silenzio / Egli è sorto pel sogno che non muta / Cogli occhi bassi e colle labbra aperte / Su dai suoni infantili di viola, / Su dolce, verde paesaggio, in sogno / È risorto a sognare il divin sogno. / Invano invano o umana primavera / Tu te ne sali in accecanti luci / I gradini del tempio tormentosa / Soffiando ai morti soffii inquieti / E in strane e tronche voci per il tempio / Invano ti dibatti; non saluta / L’ali di fiamma tue /

Essere umano e turbolento / O dolore insaziabile e fecondo. / Rabbrividisce la sua carne assorta / Rabbrividisce il pube dolcemente.

La poesia si intitola: Fantasia su un quadro d’Ardengo Soffici, e il «tango» gli permette di solfeggiare i segni pittorici e mettere in musica il soggetto dell’opera di Soffici: Faccia, zig zag anatomico che oscura

La passione torva di una vecchia luna Che guarda sospesa al soffitto In una taverna café chantant D'America: la rossa velocità Di luci funambola che tanga Spagnola cinerina Isterica in tango di luci si disfà: Che guarda nel café chantant D’ America: Sul piano martellato tre Fiammelle rosse si sono accese da sè.

E Campana ironizza sull’arte e gli artisti che non gli garbano. Basti ad esempio il giudizio sprezzante su Soffici pittore nella lettera a Emilio Cecchi del 1916 (SP, p. 143), a proposito della copertina di BIF$ZF + 18 — Simultaneità

e Chimismi lirici — Firenze, ed. della «Voce», 1915:

22,

«Parole rotte» di Dino Campana a Bologna

Ho visto Bizzoffe di Soffici (che monumento. Eppure l’origine di Soffici è chiara. Da giovane era commesso di profumeria). Così ora si vede nei suoi colori falsi, le boccette sfaccettate (il suo cubismo) ecc. ecc. che non

è stato altro che un volgarissimo commesso di profumeria.

Nella stessa lettera afferma che Segantini, con Dante e Leopardi, rappresenta il tipo morale superiore, «la purezza del germano: ideale non reale», la stessa che, a suo dire, egli ha conservato nei Canti Orfici. Quel «dolce e severo» Segantini ( di cui ha letto in tedesco il saggio psicoanalitico di Karl Abraham), ha espresso divinamente «la religione della maternità del lavoro e dell’amore», che già si trova in Millet (SP, p. 83). In tedesco ha letto, tra i primi in Italia, anche il saggio di Freud su Leonardo. Bejor evoca il poeta marradese nel citato libricino, Campana a Bologna/1911-1916, contemplando i due angeli del Costa nella chiesa di San Giovanni in Monte oppure parlando della Santa Cecilia di Raffaello. «Considera, gli diceva, come il pittore-poeta ha scelto il momento. La Santa rapita dal Coro Celeste ha sospesa la musica. Innalzata da questa a quello ora si tace e vede, e la melodia del cielo — fa congiungere gli occhi dell’anima della santa alla schiera degli angioli cantori» (SP, pp. 293-94). Campana era «pieno di vista fine sull’arte», ma al momento in cui parlò di «eccellente pittore» non ha voluto, credo, scoprire, innalzare o elogiare la

pittura di Morandi. Forse ha ragione Raimondi, quando parla della «quasi amicizia» tra Morandi e Campana, perchè forse più che di amicizia si dovrebbe parlare di un’intesa d’arte tra il poeta e il pittore che va cercata sopratutto nella comune folgorazione davanti alle cose, davanti al mistero delle cose. Mario Luzi scrisse una volta che Campana canta «la presenza umile della vita». E la singolarità di Morandi risiede nel «conferire una dimensione infinita, un senso arcano allo spettacolo quotidiano degli oggetti più umili. Capacità che negli spogli e scalcinati paesaggi diventa misura di rasserenata contemplazione» (Floriano de Santi, Morandi, il mistero delle cose umili, «Il Messaggero», 18 agosto, 2000). Nella sua poesia fissa un orizzonte che è dell’anima, non spaziale, malgrado sia stato quello straordinario «grassatore di strada» come lo chiamava Sbarbaro. Riflettendo con Primo Conti, mentre scrivevamo insieme le sue memorie, concludemmo che

«un po’ del fascino che Campana esercitava, ad esempio su Raimondi, sia da collegare con questo orizzonte dell’anima che ne «La Raccolta» anticipatrice dei «Valori Plastici», si riflette nella presenza di quegli artisti metafisici che Raimondi chiama nel suo giornale: De Chirico, Carrà, Morandi, de Pisis». Per raggiungere questo orizzonte dell’anima Morandi non ha bisogno di allontanarsi da Bologna e dal suo studio. Campana invece viaggia per il

Gabriel Cacho Millet

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mondo, ma il suo traguardo è sempre lo stesso: conferire una dimensione infinita, orfica, alla realtà. L'intesa con Morandi va cercata quindi in quel

comune tormento, per cui le cose stesse dovevano essere partecipi d’eternità, e per far luce sull’argomento saranno utili alcuni segni di Morandi lasciati nel suo esemplare dei Canti Orfici. A Bologna Campana seguita a frequentare saltuariamente i suoi amici di sempre, Ravagli, Binazzi, e ora un giovanissimo Giuseppe Raimondi, che così ricorda il primo incontro

(I tetti sulla città, Milano, Arnoldo

Mondadori, 1977, pp. 82-85): ... Si stava, una volta, con Bino Binazzi nella stanza d’albergo dove egli alloggiava. Un patetico e miserabile alloggio l'albergo Giardinetto. Una casupola rugginosa allora, e adesso scomparsa, presso la stazione ferroviaria [...] quando, nel silenzio della notte, s’audì nella tromba delle scale

rimbombare una voce, un grido che infuriava invocando: «Il poeta Binazzi! Binazzi! Binazzi!». L'amico, già in ciabatte, si affacciò sulle scale deserte.

Così fu l’ingresso fra di noi di Campana. [...] La voce di Campana, a volte, si spegneva in una sorta di litania, di ripetizioni lamentose miste a contumelie. Le parole dovevano esprimere il sentimento di dolore e quasi l’insistito compianto per l’ avvenuta distruzione dell’esistenza. La sua vita umana, di cui ritrovava nella memoria i lembi strappati a furia, i brandelli concentrati in pochi ricordi dispersi ma rintoccanti col suono di una cupa campana di spavento. La sua memoria era ossessionata da una triste e orribile armonia di suoni che vibravano su di un fondo violento di colore. [...] Io e Campana lasciammo l’ Albergo Giardinetto attraversando il breve

cortile di ghiaia. Fummo nella via dell’Indipendenza. [...] Eravamo giunti alla piazza del Nettuno. [...] Fu allora che egli, alzando gli occhi alla torre del palazzo del Comune, si avvide dell’orologio grande e rotondo infisso sul fianco della torre. L'orologio spandeva una quieta luce giallina. Campana lo indicò col dito e disse sottovoce: «Ecco il sole di mezzanotte»... ... Finita l’osservazione dell’orologio della torre si rivolse verso di me. Durante il nostro viaggio notturno, nessuno di noi due aveva parlato. Ed egli mi chiese: «Voi siete poeta?». Scossi il capo in segno di diniego. Egli allora aggiunse solo queste parole: «Si è fatto tardi», disse, «dovete andare a casa Vostra»...

Raimondi ha sempre affermato che Campana segnò la sua formazione umana così intensamente da lasciargli «una cicatrice magari rimarginata con gli anni, ma che ancora è visibile» nel suo corpo. In un articolo su Campana visionario egli si era schierato a favore di Binazzi, colpevole,

secondo Papini, di aver visto in Campana il poeta «maudit» che in Italia non c’era. Lo scrittore bolognese aveva intitolato il suo scritto, pubblicato sul «Giorno» del 29 agosto 1977, L'ultimo «maledetto» d’Italia e in esso

«Parole rotte» di Dino Campana a Bologna

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tornava al periodo dell’amicizia con Binazzi, prima dell’internamento definitivo di Campana in manicomio, affermando: Un solo amico egli [Campana] ebbe negli anni prima del cancello, prima del muretto d’ospedale, Bino Binazzi, errabondo scrittore del nostro primo Novecento, anche lui fuori dalle regole della società borghese.

Binazzi si era compromesso molto di più di quanto non pensi Raimondi quando, insieme a Francesco Meriano, annunciò che a Bologna avrebbe fondato una rivista che poi chiamò «La Brigata» nella quale Campana sarebbe stato proclamato «il più grande poeta di questa generazione Italiana...» (SP, p. 149).

Ironia della sorte, proprio in quel periodo Campana prende le distanze da Binazzi, giudicando che non si sia dato da fare abbastanza per trovargli un letto all'ospedale di Bologna, dove cercava di farsi ricoverare, e rifiuta «per ora» le parole di ammirazione dell’amico: «È vero che dice che sono il primo poeta d’Italia ma io preferisco essere l’ultimo poeta della Papuasia piuttosto che avere tali colleghi» (SP, p. 175). Soltanto a «Brigata» fondata, il giovane esperto di Rinascimento, Raffaello Franchi, che ignora quanto Campana sparli di Binazzi, nel precisare la ragion d’essere della rivista, approfondirà il senso che Binazzi intendeva dare alle sue parole sul poeta Campana («Humanitas»,VI, 36, 27 agosto 19. ope /9*SEtpebib.r A Bologna Binazzi, per quanto confusamente e benchè quel che ci offre non ci contenti in quel senso dice di voler fondare una rivista in cui la poesia sia intesa in senso orfico. I Canti di Campana stanno agglutinando e fortificando la nostra atmosfera. Una pienezza inespressa ma sentita c’è di già. Un saggiare, ed un avvolgersi, un circoscriversi e un girar intorno a se stessi con la paurosa coscienza che di là c’è ancora il vuoto, il ghiaccio e in un piccolo centro la voluttà s’oda.

Giuseppe Ravegnani ha scritto che Binazzi stimava Campana «perché in fatto di stramberia, batteva di parecchie lunghezze anche quella

proverbiale di Dino». Strambo o meno, Binazzi offrì anche Campana lo spazio per recensire il libro di chi lo giudicava soltanto un matto, senza l'equilibrio necessario per essere un poeta («La Brigata», II, 17, febbraiomarzo 1917, 159), con la precisazione della direzione della «Brigata» che la lettera è «piena di idee abbozzate, ma originalissime. È un documento di prim’ordine di uno dei piu forti poeti nostri, la cui vita non è meno interessante dell’opera, quindi anche questa lettera ha un significato lirico».

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Poca brigata,

lire 2,50

Vita beata.

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BOLOGNA

- Via EmiLiA, Num. 643

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Oriani, Bino Binazzi guerra, Francesco Meriano -.Il SA di Vea Alberto Savinio- o e Andromache(disegno), Giorgio Dé Chirico - Le nostre Pasque, Bino Binazzi- Liriche, Diego Valeri - pata; musicali, Giovanni Nascimbeni - Lettera, Dino Campana - Sagresti a - Spezzatino. È

ORIANI Imperatore di popoli e dettatore di leggi Così non ti conoscono 4 volghi politicanti

. Che non

OSTERIA la percossa

schiavi

della tua mano

sulle spalle di

n

. Nè la stretta delle tue dita nelle chiome femmin ee :

Ma io so qual trono imperiale sia la solitudine Che valga elegger la rinunzia per tutto avere

e tutto sapere

Tu fosti degno che dal gran Sinai ideale tra fuochi di vulcani

e schianti di fulmini

La divinità Italia ti chiamasse

verità

Ma tu nascondesti

| faccende.

e ti eleggesse banditore di sue

i la tua

persona

:

fra mezzo

alla e

di

Solo qualche giovinetto ebbe stupore della luce dei tuoi occhi ‘e ti seguì

Fig.

7. Frontespizio della rivista “La Brigata”, diretta a Bologna da Bino Binazzi e Francesco Meriano, tra il 1916 e il 1919. s

«Parole rotte» di Dino Campana a Bologna

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Forse nonostante quanto dice Binazzi la lettera ha un significato critico e non lirico: Campana «stronca» il suo troppo letterato «detrattore», per concludere che è meglio dimenticare i suoi versi che sono «offese alla poesia»: Marradi, 3 ottobre 1917 Caro Bino,

rileggo, cosa che mi fa male, le 100 pagine di p.[oesia] del p.[apini] Giovanni e noto queste impressioni. Troppa materia, i rospi, i serponi, il domatore

(2 colpettini all’effetto francescano,

delicatezze

di sbirro) —

(ascelle di maestrine in sudore, zitelle mature di buona famiglia che lasciano l’ombra distesa al passo domenicale). Manuale del pellirossa. Tecnica cerebrale. Industria del cadavere. Imperialismo borghese frasaiolo, modernità dell’Italia giolittiana (di fronte all’Italia sotto l’arco d’oltre mare in Ostia morta volta al limo del Tevere in faccia con un fregio di putti del Sartorio, stanca di essere eternamente giovane come lo è di passeggiare tra ortaggi mitologici con passo di belva Niciana). La luna non vuol staccarsi leggera dal monte. La abbaglia l’acetilene nell’ Arno, secolare rigovernatura della letteratura italiana. Questa borghe-

se Louis XIV. Queste cattiverie fanno male a chi le dice (il gran segreto di Giovanni di avvilire i suoi detrattori). Meglio dimenticare queste offese alla poesia. Meglio Soffici aigre e maigre nella polvere stemperata di tutti i topazi e gli orienti di D’ Annunzio e di Rimbaud. Stenterello en poète qui se tord confit dans le bleu du jour. (Bleu Watteau).

I commessi, la chérie, il genio

solare, la gioventù latina (che pure sono partiti per il fronte). Dunque Bino, sono triste a morte e presto muoio, il che non mi impedirà d’andare soldato il 19. Ciao, un lungo bacio per tutto il bene che non ci siamo voluti. Tuo Dino

Merita un paragrafo a parte l’altro animatore de «La Brigata»: il ventenne Francesco Meriano, torinese, «poète et étudiant», sul quale molto aveva puntato Campana. Scrivendo a Emilio Cecchi, confessa all’inizio del 1916, che gli unici amici suoi in Italia sono: «Lei, quelli della Riviera Ligure [Mario Novaro, Giovanni Boine e anche Camillo Sbarbaro] e Meriano, uno studente di Bologna, bravo ragazzo, che le garantisco sarà un poeta».

L'atteggiamento quasi paterno di Campana verso questo promettente poeta, è un dato biografico sorprendente per lo spirito inquieto del marradese. Campana ascolta il giovane, quando costui gli parla di problemi delicati riguardanti anche la sfera intima: «Per... quell’ affare sessuale ho seguito i tuoi consigli e mi trovo bene», lo rassicura. (SP, p. 66).

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«Parole rotte» di Dino Campana a Bologna

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Meriano, partito per Napoli dove ora risiede la sua famiglia, gli scrive che, per mantenersi vicino al suo spirito, rilegge i Canti Orfici, assicurando che in quel libro «si capiscono molte cose». Nonostante la stima, come sempre accade al poeta di Marradi fra i due arriverà il tempo della frizione. Campana infatti accuserà Meriano di plagio, affermando che la poesia di quest’ultimo, intitolata: Ala-AlbaAlbaspina, è «Ja traduzione di [Arabesco] Olimpia». (SP, p. 190). L’accusato venne anche insultato pubblicamente al Caffè S. Pietro (SP, p. 65), ma

già sul «Giornale del Mattino» del 18 settembre 1917 il vento è cambiato e Campana si congratula con l’amico per una nota abbastanza misogina di Francesco su Le solitarie di Ada Negri, lodando « il coraggio senza ostentazione» dell’amico, che ha del miracoloso alla sua età.

Nelle ultime lettere prima dell’internamento in manicomio Campana cita ripetutamente versi di Apollinaire (Un viaggio, p. 121, SP, p. 232, SPM, p. 201), pur senza nominarne l’autore. Forse ad introdurlo alla sua

poesia fu proprio il giovane torinese che con quest’ultimo intrattenne un singolare rapporto epistolare e, quando Meriano ebbe l’incarico di professore di lettere a Savignano, Campana lo rimpiange apertamente, scrivendogli: «se tu fossi rimasto a Bologna avrei avuto un amico». Gli confida poi le sue tristezze e la fatica di Binazzi per trovargli un lavoro e un posto dove dormire: «Sembra che trattino la questione di salvarmi, dandomi un alloggio nel sottoscala del Mattino come correttore di bozze» (Lettera del 22 ottobrest9.17=SPSps225): Francesco Meriano, «camorrista» ma di «solide qualità» (SP, p. 33), —

come lo definì Boine nei suoi ironici giudizi — abbandonò la letteratura per la diplomazia. La sua vita si spense presto, a 37 anni, quando si recò a Kabul

quale Ministro Plenipotenziario nel 1936. Montale lo ha ricordato nel suo saggio Sulla poesia di Campana, scritto nel 1942, al tempo in cui furono commilitoni alla Caserma della Pilotta a Parma. Là Montale dice di aver conosciuto «un gruppo di allievi ufficiali convinti ‘campaniani’: capogruppo riconosciuto era Francesco Meriano, già direttore della «Brigata...». E del «convinto campaniano» che faceva leggere i Canti Orfici in caserma, non c’è da dubitare. Prova della sua fede nell’Orfico sia «l’avvertimento» che pubblicò («Humanitas», 8, 1° agosto 1916, p. 62), dopo aver incontrato Campana di passaggio a Bologna, all’inizio del 1916: [S

... E stato qui a Bologna Campana, l’autore dei Canti Orfici. Sono, dopo l’Incendiario di Palazzeschi, il libro di poesia più importante di questi anni. Nonla sensibilità-analisi di Govoni, che è lo stesso nei libroni e nelle K/eksografite — non lo sdipanato «può continuare» di Soffici, ma la frammen-tarietà d’un gigante che ci dà abbozzi più complessi dell’opera più completa ...

Gabriel Cacho Millet

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Non si può evocare Campana a Bologna, senza aggiungere nella lista degli amici o «quasi amici» il nome dello scrittore Riccardo Bacchelli. Nell’ormai lontano 1977, Bacchelli mi disse al telefono di aver perso durante la Grande Guerra tutte le missive che Campana gli aveva scritto e che s’era portato nella sua bisaccia di soldato, fino al Carso. In quella conversazione

telefonica,

che ricordo

non

senza

una vena

di malinconia,

Bacchelli mi segnalò una sua rievocazione di Campana (Dino Campana triste a morte, «La Stampa», 17 aprile 1957) nella quale fra l’altro, si legge: ... A me, benché ci fossimo incontrati pochissime volte, aveva dato il suo maggiore attestato di simpatia: il libro in esemplare integro e non depennato, e l'appellativo di «vivente», «Caro vivente», come intestava le sue rare missive, di solito chiuse con l’amara sottoscrizione: «Triste a morte»...

Bacchelli ricordava anche che mentre aspettava di partire per il fronte, Campana era andato a trovarlo, per chiedergli un consiglio «avendo sentito parlare di nomine a ufficiali per titolo di studio». Per un «desiderio di regolarità» voleva andare in guerra con la nomina di ufficiale, «perchè da soldato semplice non se la sentiva». Quest'uomo, «il meno uniformato» che Bacchelli avesse conosciuto, desiderava «indossare una uniforme». Un tale desiderio «molto umano», come scrive Bacchelli, era stato esternato

da Campana, quattro anni prima, nel 1911. Nel mese di novembre di quell’anno presentò domanda alla Prefettura di Firenze, per participare al concorso di vice-commissario, indetto in quei giorni. Voleva forse rovesciare la sua condizione? Voleva l’uniforme per dominare e non essere più dominato, per ottenere una volta per tutte il rispetto dei suoi concittadini? Campana a Marradi, con uniforme, non sarebbe stato più «il mat» del paese, evocato come una minaccia dalle madri marradesi per mandare a letto i bambini. Il Ministero dell'Interno però non giudicò il candidato in possesso «di tutti i requisiti richiesti dall’avviso di concorso», e a nulla servì che

il richiedente dichiarasse che già nel 1908, in Argentina, era stato «pompiere» e che «i pompieri là hanno qualche incarico di mantenere l’ordine». Ma Riccardo Bacchelli non potè far nulla per accontentarlo: il marradese era stato già riformato «per vizio di mente». Per essere preso ora sotto l’armi avrebbe dovuto sottoporsi ancora ad accertamenti medici. Dino, a detta di Bacchelli, non si sarebbe sentito in grado d’affrontare, «quel gene-

re d’osservazione e d’esperimento», perchè era uno che «ne sapeva già qualcosa, uno, come di fatto accadde poi, che aveva nel sangue il più orribile fra tutti i morbi». Tra le lettere e cartoline che Bacchelli dice di aver ricevuto da Campana, dieci anni dopo la mia conversazione telefonica con l’autore de // mulino del Po venne alla luce un’unica splendida lettera, poi pubblicata da

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«Parole rotte» di Dino Campana a Bologna

Elisabetta Graziosi (Campana, Cardarelli e Bacchelli: Lettere e documenti

inediti, in «Filologia e Critica», An. XIII, I, gen.-apr. 1988, p. 84, ora in SM, p. 195). La missiva era rimasta fra le carte del Fondo Bacchelli con-

servate presso la bolognese Biblioteca Comunale dell’ Archiginnasio. In essa Campana smentisce almeno in parte quanto lo stesso Bacchelli scrisse su quell’incontro a Bologna, nella «primavera del 1915»(?). Benchè avesse «il più orribile fra tutti imorbi», Campana si sottopose alle visite mediche. «Esco adesso dall’Ospedale Militare, in che stato», scrive proprio a Bacchelli, il 26 ottobre 1917. AIl’ Ospedale militare era veramente rimasto in osservazione una settimana, dal 19 al 26 ottobre, a conclusione della

quale venne riformato definitivamente. A Binazzi aveva indicato il giorno dell’ingresso: «Dunque Bino, sono triste a morte e presto muoio, il che non mi impedirà d’andare soldato il 19 [ottobre]». A Bacchelli riferì invece la data dell’uscita dall’ospedale, cioè, il 26 ottobre.

A Bacchelli però rivelò qualcosa di se stesso, che essendo in procinto di varcare definitivamente le porte del Manicomio, risulta incomprensibile, a

meno che la diagnosi che lo diceva «affetto di alienazione mentale» non fosse sbagliata: ... Mi domando ora perchè più spesso non ho pensato a te. Credo perché qualche cosa di semplice di integro di molto forte in te mi dava il pudore di me stesso e quindi l’orgoglio della mia diciamo non integrità.

La notizia del quarto e definitivo internamento in manicomio, il 12 gennaio 1918, arrivò in ritardo a Bacchelli, Binazzi e Raimondi. Quest’ ultimo scrisse al pittore fiorentino Primo Conti, allora collaboratore de «La

Raccolta», per chiedere informazioni più precise sul male di Campana. Le missive tra i due con notizie sulla fine della vita civile del poeta marradese fanno parte di una raccolta pubblicata recentemente (Primo Conti/Giuseppe Raimondi, Carteggio 1918-1980, a cura di Patrizia Mania, Roma, Ed. di Storia e Letteratura, 2001, pp. 42-46). Nella cartolina del 5 aprile 1918, Raimondi scrive a Conti :

Io devo chiederti un favore: di recarti in via Jacopo Nardi 15, dalla signora di E. Cecchi per chiederle notizie di Dino Campana, il quale fu internato un mese o due fa al Manicomio di San Salvi: vorremmo sapere se ne è uscito e dove si trova presentemente. Vacci a nome mio e di Riccardo Bacchelli.

Cinque giorni dopo, il 10 aprile, il pittore fiorentino gli risponde: Ma venendo alla cosa che ti interessa ti dirò che tanto la Signora Cecchi quanto Agnoletti e gli altri amici del povero grande Campana sono affatto privi di qualsiasi notizia da un bel pezzo. Scrisse [Campana] molto tempo fa

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Fig. 9. La busta e la lettera spedita da Campana a Riccardo Bacchelli il 27 ottobre 1917. Bacchelli si trovava militare a Marmirolo (Mantova). (BCA, Fondo Riccardo Bacchelli).

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«Parole rotte» di Dino Campana a Bologna

34

una cartolina alla Signora [di] E. Cecchi dicendo di essere sempre costretto al manicomio di S. Salvi, e da quel giorno nessuno più l’ha visto nè sentito. In ogni modo ho intanto incaricato un amico mio che ha un parente medico a quel manicomio, e non dispero di farti presto sapere migliori notizie.

Raimondi non s’accontenta delle vaghe informazioni fornite da Conti e con una cartolina dell’ 11 aprile ringrazia e chiede ancora: Ti ringrazio molto di esserti interessato per Campana ma ti sarò ancor più grato se potrai mandarmi altre notizie; consiglia a quel tuo conoscente di assicurarsi se l’amico si trova ancora a San Salvi, se è stato trasferito in

un altro ospedale o se è stato messo in libertà. Conti, che sta per andare soldato a Mantova, promette di cercare di tutto

per fargli sapere «notizie esatte» su Campana. Ma prima di chiudere la lettera, scritta in data 12 aprile, viene a trovarlo Mario Pieri, un suo amico

che lavora alle Ferrovie del Regno e che è anche il «postino» dei futuristi fiorentini. Pieri, nipote del medico che ha in cura Campana, è portatore delle ultime notizie sul poeta malato. Le parole di Conti a Raimondi, scritte a matita, di corsa, contengono il primo annuncio dal Manicomio di S. Salvi sul male di Campana: Ore tre pomeridiane - In questo momento è venuto da me un carissimo amico, nipote del Dottor Arnolfo Taddei, che cura tuttora il nostro Campana all'Ospedale di San Salvi. Nonostante le ottime condizioni fisiche del poeta, il suo stato sembra inguaribile; e spesso viene in preda a uno stato di eccitazione mentale che lo porta alla mania di persecuzione.

Qualche giorno dopo, Raimondi ringraziò Conti con una laconica cartolina, nella quale parlava anche a nome degli altri amici bolognesi che insieme a lui non dimenticavano Campana: Binazzi e Bacchelli: Caro amico, grazie della premura che hai per me, e grazie per le notizie di Campana che purtroppo non sono troppo buone: era da prevedere ...! Un giorno scriverò a M. Pieri pregandolo di riferire gli auguri miei, di Binazzi, di Bacchelli per Campana.

Primo Conti a sua volta, 1°8 settembre

1988 (morì un mese e mezzo

dopo), volle inserire le parole scritte a Raimondi settant’anni prima in una sua rievocazione di Dino Campana a San Salvi, per dire «quanto di Campana gli piacesse la sua capacità di scansare il mondo». Campana venne trasferito definitivamente dal manicomio di San Salvi a quello di Castel Pulci presso Badia a Settimo, negli stessi giorni in cui Raimondi, a nome suo, di Binazzi e di Bacchelli, aveva chiesto le sue notizie.

Gabriel Cacho Millet

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Dopo quattordici anni di degenza, Campana morì a Castel Pulci per «setticemia acuta».Venne sepolto nel vicino cimitero di San Colombano. Tre o quattro amici

(Franchi, Michele

Campana,

Berto Ricci, Adriano

Tilgher) scrissero sui giornali della sua scomparsa. Poi più nulla, finchè Piero Bargellini, il sindaco dell’alluvione di Firenze, com'e stato chiamato, non lanciò da «Il Frontespizio» l’idea di una sottoscrizione per dare ai resti del poeta una degna sepoltura. Fu così che il corpo dell’errante autore dei Canti Orfici trovò pace in una restaurata cappella del Mille, ai piedi dello splendido campanile della chiesa di Badia a Settimo, grazie a quella sottoscrizione. C'era, tra i sottoscrittori, ultimo nella lista, il «quasi amico»

di Bologna e «eccellente pittore» Giorgio Morandi, come si legge sul «Frontespizio», X, 7, luglio 1938, p. 441 (ora in Dino Campana da Castel Pulci a Badia a Settimo, a cura di Lorenzo Bertolani e Marco Moretti, Comune di Scandicci 1999, p. 64). Poi, nel 1944, un sergente tedesco con

sette guastatori assicurarono alla base del campanile della chiesa di Badia a Settimo «quattro enormi bombe di aeroplano». Piero Bargellini racconta che «la cappellina scomparve» e che «tra le macerie s’intravedeva la lapide di Dino Campana spezzata in quattro». Ed è perciò che i nomi degli amici e del «quasi amico» di Bologna, che «pensarono» a un marmo per Campana, sono rimasti nel segreto di una lista inconsultabile ...

Fig. 10. Campana negli anni di Castel Pulci (1927).

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Faust all’Università Marco Antonio Bazzocchi

1. Bologna 1912

Il 1912 è l’anno di Dino Campana a Bologna. Non che manchino dei contatti precedenti col mondo universitario (1° Appennino è facile da percorrere, sia su un versante che sull’altro, soprattutto per un camminatore irrequieto come Campana). Il 14 novembre 1903 Dino si iscrive alla Facoltà di Scienze, corso di laurea in chimica. Nell’a.a. 1903-1904 si trasferisce

a Firenze con il progetto di continuare là, ospite dello zio Francesco, gli studi,

però

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farmaceutica.

Nel

1905,

dopo

un

nuovo

ripensamento, decide di recuperare il tempo perduto e prepara quattro esami (mineralogia, botanica, fisica, chimica inorganica) per sostenerli a Bologna a partire dal febbraio del 1906. Viene bocciato al quarto esame, quello di fisica, e, scoraggiato per l'insuccesso, decide di prendere un treno che va a Milano, e poi verso il Nord, iniziando una fuga che avrà termine dopo qualche mese. Nel 1907 viene rinnovata l’iscrizione a Bologna, al quarto anno di chimica pura. A questo punto c’è un lungo intervallo. Solo nel novembre del 1912 Campana ritorna a Bologna e supera, con un voto alto (27/30), l'esame di fisica. Inizia ora il suo vero rapporto con la città e col mondo universitario bolognese, che si chiude quando, nel febbraio del

713, Campana chiede congedo al Rettore di Bologna e passa a Genova! . «In quest’ ambiente romantico e tumultuoso, scapigliato e beffardo, capitò un giorno un individuo strano, accigliato, male in arnese. Al primo apparire al bar Nazionale non ispirò gran simpatia: ma era con Olindo Fabbri, uno dei nostri, e questo bastò per introdurlo gaiamente, per farlo conoscere a tutti. Aveva nome Campana, era studente di chimica, poeta e giramondo. Dimostrava alcuni anni più di noi. Tarchiato, biondastro, di mezza statura, si sarebbe detto un mercante, a giudicarlo dall’apparenza, un eccentrico mercante con magri affari. Le commesse del bar, i camerieri,

gli estranei lo guardavano con circospetta ilarità. Aveva una capigliatura ! Per le notizie su Campana e il mondo universitario e culturale bolognese un utile contributo è quello di Elisabetta Graziosi, Campana, Cardarelli e Bacchelli: lettere e documenti inediti, in «Filologia e critica», a. XII, genn.-apr. 1988, pp. 83-101.

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Fig. 11. Il documento che riporta la licenza di Scuola media superiore di Campana, conseguita nel Liceo di Carmagnola nel 1903 (Archivio storico dell’ Università di Bologna).

Marco Antonio Bazzocchi

39

Fig. 12. Campana negli anni del liceo Torricelli a Faenza (1903).

biondorame, folta e ricciuta, che gl’incorniciava un viso di salute: due baffetti

che s’arrestavano all’angolo delle labbra, e una barbetta economica che non s’allontanava troppo dal mento»? (51). Ecco il Campana che nel 1912 piomba nell’ambiente degli studenti bolognesi. A rievocare l’episodio è uno dei

principali testimoni della vita universitaria di questi anni, Federico Ravagli, che nel 1942 (il poeta è morto ormai da dieci anni) decide di passare in rassegna tutti i ricordi e idocumenti in suo possesso e scrive Dino Campana e i goliardi del suo tempo, un libretto pubblicato dalla casa editrice il Marzocco di Firenze che costituisce la fonte principale per ricostruire la storia che ci interessa. Ravagli rievoca a distanza di trent'anni,

e compone, un po’ come

Antonio Ranieri con Leopardi, un suo «tre — non sette — anni di sodalizio». E soprattutto scrive quando ormai si è già consolidato un «mito Campana»

2 Le citazioni dal volume di Federico Ravagli provengono dalla prima edizione del 1942. Dopo la citazione viene indicato il numero di pagina.

Faust all’ Università

40

(lui la chiama una «leggenda») che lo spinge proprio a rivedere quei fatti, a smorzare in molti casi i toni di esagerazione drammatica che circolano intorno al nome del poeta, a ritrovare un giusto equilibrio tra la cornice della bohème bolognese e il ritratto dello studente anomalo. Sono appunto passati trent'anni, e Campana è diventato un caso prima ancora umano che letterario. Ciò nondimeno Ravagli può rivolgersi a lui come se fosse lì davanti, seduto sui divanetti del bar Nazionale: «Eppure, Campana, in tanto clamore e fervore io mi sono un po” disorientato. Son restato lì perplesso, attonito, stordito.

T°ho appena intravisto nelle accese fantasie dei letterati e nelle esercitazioni erudite dei dispensieri di celebrità: non t'ho riconosciuto nelle tormentose indagini di chi ha scrutato, per amor della scienza, la tua tragedia spirituale. E già stavo per smarrire le tue traccie senza rimedio, per opera di quelli che intorno al tuo nome hanno creato un’atmosfera di leggenda ... quando ho pensato di venirti a cercare ne’ miei ricordi» (9). Tutto il libro di Ravagli, un importante documento sulla vita culturale bolognese legata al mondo universitario, ruota intorno a quest’apparizione di Campana. È naturale che, a distanza di trent'anni, anche Ravagli non sia

immune dalle deformazioni della memoria. Ma in realtà la sua ricostruzione funziona da correttivo rispetto all’immagine di Campana che si è andata diffondendo a cominciare dalla ristampa dei Canti Orfici del 1928, ristampa che porta una prefazione firmata da Bino Binazzi, poeta e giornalista vicino a Campana tra il 1915 e il 1916. Binazzi, redattore a Bologna del «Giornale del Mattino», vi pubblicò prontamente, nel dicembre del 1914, il primo articolo dedicato agli Orfici, inaugurando una lunga bibliografia critica: Un poeta romagnolo (Dino Campana): Nel 1922, passato al «Carlino», fece uscire Gli ultimi bohémiens d’Italia: Dino Campana, che, con qualche aggiustamento, diventa poi la prefazione alla raccolta di Vallecchi del ‘28. La sostanza del ritratto di -Binazzi sta proprio in un’accentuazione del maledettismo del poeta, come se Campana fosse l’ultimo romantico (viene fatto esplicitamente il nome di Shelley), incapace di realizzare negli stretti confini della realtà un suo sogno tragico di infinito: «Non ci fu mai città o paese o regione che paresse bastante al respiro gigantesco dei suoi polmoni. A Marradi, sua città natale, lo conoscono per il figlio strambo del signor direttore delle Scuole. A Bologna qualcuno lo ricorda studente universitario di chimica, bisbetico e irascibile, sognante come un alchimista e niente affatto freddo

e positivo come

uno

scienziato.

Sovversivo,

anarcoide,

imperialista, violento e tenero al tempo stesso; di una mobilità sentimentale che percorreva rapida come il fulmine tutta la gamma del sentimento umano: dalla mitezza più francescana alla violenza rasentante, a volte, la ferocia, egli

non aveva in sé alcuna possibilità di giungere a buon termine nello studio accademico intrapreso. Difatti, dopo aver lasciato dietro di sé una scia di

Marco Antonio Bazzocchi

41

stramberie memorabili, un bel giorno disertò le aule universitarie e il gabinetto delle soluzioni, delle miscele e delle reazioni per studiare una chimica più vasta, che avesse per materia d’esperienza il mondo intero e per gabinetto l'universo». Binazzi ha avuto senza dubbio il merito di avviare una fortuna critica, di rilanciare la figura di Campana nel dibattito del dopoguerra. Ma ci sono almeno due cose che non vanno nel suo discorso, e Ravagli se n’era

accorto subito. Innanzitutto Campana non è mai stato il «sovversivo, anarcoide» che Binazzi evoca, e tantomeno lo è stato durante il suo soggiorno a Bologna, quando si era deciso con fatica a portare avanti una carriera di studi per lui impegnativa e probabilmente scelta su pressioni famigliari. E soprattutto (e questo è un fatto fondamentale) quando ritorna a Bologna nel 712, dopo un primo tentativo di studi fallito, Campana ha già vissuto tutti gli episodi romanzeschi che costruiranno intorno a lui il mito del viaggiatore vagabondo, del ribelle all’ordine, del genialoide colpito dagli eccessi della follia. Il primo a sconfessare Binazzi è proprio Campana, che si trova nel manicomio di Castel Pulci e legge, più attentamente di quanto si potrebbe pensare, il discorso dell’amico bolognese, correggendolo in più punti. La testimonianza viene dal medico Carlo Pariani che intervistò a più riprese Campana componendo una «vita» dove, al di là di tutte le possibili riserve, noi troviamo registrati con scrupolo gli ultimi discorsi del poeta. Così dunque reagisce il diretto interessato alle ipotesi di Binazzi sulla scelta dei suoi studi: «Questo non va. Io studiavo chimica per errore e non ci capivo nulla. Non la capivo affatto. La presi per errore, per consiglio di un mio parente. Io dovevo studiare lettere. Se studiavo lettere potevo vivere. Le lettere erano una cosa più equilibrata, il soggetto mi piaceva, potevo guadagnare da vivere e mettermi a posto. La chimica non la capivo assolutamente, quindi mi abbandonai al nulla»3. E quando Binazzi compone l’elenco fantasmagorico dei mestieri svolti da Campana nei suoi instabili viaggi («... questa sua vita di gaucho, di carbonaio, di minatore, di poliziotto, di zingaro al seguito di una tribù di bossiaki russi, di saltimbanco, di tenitore di un tiro a bersaglio,

di suonator d’organetto e di mille altre diavolerie ...»), il poeta vuole puntualizzare e commenta: «Ho fatto il carbonaio nei bastimenti mercantili, il fuochista. Ho fatto il poliziotto in Argentina, ossia il pompiere. Sono stato a Odessa. Mi imbarcai come fuochista, poi mi fermai a Odessa. Vendevo le stelle filanti nelle fiere. I Bossiaki sono come zingari. Nei dintorni vendevamo calendari, stelle filanti. Sono compagnie vagabonde di cinque sei persone. Il tiro a bersaglio fu in Svizzera»4. Adesso non ci interessa che la 3 C. Pariani, Vita non romanzata di Dino Campana, a cura di Tiziano Giannotti, Firenze, Ponte alle Grazie, 1994, p. 44. 4 Ibid., p. 45.

Faust all’ Università

42

ricostruzione di Campana sia veritiera (per esempio ci sono forti dubbi sul suo soggiorno a Odessa). È importante comunque che venga ridimensionato quanto Binazzi, preso da fantasie più letterarie di quelle che avevano trascinato Campana, aveva cominciato a divulgare. «Sono cose giornalistiche», dice Campana a Pariani, «Sono cose naturalmente per réclame». E

strana la pazzia di quest'uomo: sembra che lui sia molto lucido a vedere

dentro al suo stesso mito. Ed è giusta la sua nota: le parole di Binazzi, con i loro esagerati esotismi, funzionano da réclame. Richiamano verso l’opera creando curiosità intorno all’autore.

2. Con i goliardi Allora conviene ritornare a Ravagli. E riprendere un filo del discorso rimasto sospeso. Chi è veramente lo studente di chimica Dino Campana che, ritornato a Bologna nel ’12, comincia a frequentare gli ambienti goliar-

dici, discute di letteratura e arte coi giovani iscritti alle facoltà letterarie e decide di pubblicare le sue prime cose — fatto unico nella nostra cultura — proprio sulle riviste della goliardia? Nel 1912, a ventisette anni, Campana ha vissuto esperienze che di sicuro

nessuno dei suoi compagni universitari conosce. Certo, è malvestito e forse buffo negli atteggiamenti, come nota Ravagli, ma la sua stranezza non si

riduce solo a questioni di immagine. Campana ha già provato la prigione (forse a Parma nel 1902, o forse nel 1904, in seguito ad un atto di ribellione durante il tirocinio presso 1° Accademia militare di Modena); ha passato molti mesi in solitudine, per contrasti con i famigliari, sui monti dell’ Appennino intorno a Marradi; è fuggito per un viaggio al Nord (Milano, la Svizzera, forse Parigi) all’inizio del 1906, in seguito alle delusioni

universitarie; ha provato nel suo stesso paese l’infamia di essere additato come anormale, e soprattutto, sulla base di una decisione presa nel suo paese, è stato ricoverato per quasi due mesi (dal 3 settembre al 31 ottobre 1906) nel manicomio di Imola. Tra le cause della sua pazzia, la scheda compilata a Imola dichiara «Dedito al caffè del quale è avidissimo e ne fa un abuso eccezionalissimo», le manifestazioni del male vengono indicate come «Esaltazione psichica. Impulsività e vita errabonda», la diagnosi è «Demenza precoce» (seguita da un punto interrogativo). Dino ha appena compiuto ventun anni. E maggiorenne. Non sappiamo se ha già scritto qualcosa, o ha ° Per questo e altri documenti fondamentali delle peripezie di Campana lo studio più lucido rimane il Dino Campana fuorilegge (Palermo, Novecento, 1985) di Gabriel Cacho Millet.

43

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Fig. 18. Le cafard, uscito sul “Papiro” con la firma “Campanula”.

Marco Antonio Bazzocchi

55

un’ansia d’infinito prorompe. Già il poeta s’avvolge di plenitudine azzurra sulla prora oceanica anelante verso la città marinara affacciata alle sue fortune navali. E Genova egli invoca: per trovar pace, un giorno lontano, sotto le arcate della cattedrale, biancazzurra nelle liste alterne dei marmi,

dove palpita una pallida fiamma votiva verso i confini del mistero» (101). Qui il motivo del viaggio in mare, che avrà ulteriori versioni nella raccolta definitiva, diventa desiderio di evasione e di infinito, anche se il punto

forte del componimento non è tanto nell’evocazione di Genova e della sua cattedrale («E che un lontano / Giorno l’ultimo sonno in te laggiù / dorma / Genova [...]»), quanto nell’inizio interamente giocato sul motivo sonoro

della vela che frusta il vento e a sua volta sembra instaurare un dialogo doloroso con le onde, sottoposte a una forza inquietante. Il viaggio dovrebbe portare liberazione, ma c’è invece un elemento drammatico e irrisolto nelle vele della barca che, ferma a riva, non può ancora partire: «Le vele le vele le vele! / Che schioccano, frustano il vento / Gonfiate di

vane sequele / Le vele le vele le vele... / E tesson e tesson lamento / Con l’onda che sorda dismorza / La sua volubile forza / Ne l’ultimo schianto crudele! / Le vele le vele le vele». Il titolo francese (cafard, cioè scoraggiamento) indica proprio lo scrupolo del poeta per aver ceduto di fronte all’impulso religioso che si rivela come mèta del viaggio («S’avvede d’aver ceduto a un impulso, come dire?, di religiosità romantica: e se ne duole», dice Ravagli), e che infatti scomparirà definitivamente negli Orfici,

mentre Genova diventa il luogo finale del lungo viaggio mistico e del sacrificio connesso ad una presenza femminile. Ricordi di un vagabondo è il sottotitolo del terzo pezzo, in prosa, che si presenta come una lettera inviata ad una donna dal nome esotico, Manuelita Tchegarray. In questa lettera il tema del viaggio e il tema amoroso si fondono. L’imprendibile chimera ha assunto forme concrete e chi le parla evoca ancora un amore lontano, nel tempo e nello spazio. Dopo aver accennato al desiderio del viaggio, Campana si presenta definitivamente come il «vagabondo» che ha soggiornato in mondi lontani dove si è realizzato un sogno di elevazione. Manuelita è la nuova, sensuale chimera della

prateria argentina: «Voi adorabile creola dagli occhi neri e scintillanti come metallo in fusione, voi figlia generosa della prateria nutrita di aria vergine, voi tornate ad apparirmi col ricordo lontano, anima dell’oasi dove la mia vita ritrovò un istante il contatto colle forze meravigliose del cosmo. [...] La

prateria si alzava come un mare argentato agli sfondi, e rigetti di quel mare, miseri, uomini

feroci, uomini ignoti chiusi nel loro cupo volere, storie

sanguinose subito dimenticate che rivivevano improvvisamente nella notte, tessevano intorno a me la storia della città giovane e feroce, conquistatrice implacabile, ardente di un’acre febbre di denaro e di gioie immediate».

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uscivo a se

ricordivo

sulle pauelime della pinzza deserta, e nubi i corsa. Sole per lei il sogno

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mi sì stringeva con violenza Îl esore Allora io vntravo nella biblioteca, io che nen pote vo; io che nen volevo ponsare a voi Le latupado elettriche escillavano lentamente. St da lv pagine risoscitava un altro mondo, sorge

il

magneti:

chinaste il capo, voi fiore

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mi attira contro le correnti

eroica.

del tempo, al di

là dei mari, verso di vol. Pace, grande anima: perdonatemi e amsfnni ancora: io fui e sarò fedele al mio destino? do uon peasavo a voi, ia non ho ui pen satoca voi. Di noîte, nella piuzza ileserta,

Europa ©

vano imagini antiche che ondeggiavano con Pembra del paralume, è sovra il mie capo

gravina un clela nisterioso. gravidedi runne vaglic,

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(Secolo XVI: Epistoli in vario cla lozusia, fiarlta. con

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ui a raccogliere in secreto il frat-

o della sostra benignitade. Non di meg, situome molto opera Ja Pr dentia bel governa delle azioni Lu mare, o vert nello vito entro if voe-

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Fig. 19. Dualismo — Ricordi di vagabondaggio, uscito sul “Papiro” con la firma “Din — Don”.

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Marco Antonio Bazzocchi

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Ma in realtà la lettera non è un documento d’amore. Per capirlo bisogna trovare una spiegazione al titolo, Dualismo. Nei colloqui col medico Pariani, Campana spiega: «Questa a cui fingo di scrivere era una mia vicina di Bahia Blanca, figlia di un notaio che stava a Bahia Blanca. Manuelita è il nome che gli davo io; non sapevo il nome». Nel corso della lettera, dopo aver evocato «il magnetismo» che lo attirava verso la bella creola, Campana rovescia la situazione, e aggiunge che una forza altrettanto invincibile lo spingeva a pensare alla vecchia Europa, al suo mondo d’origine: «Il silenzio era scandito dal trotto monotono di una pattuglia, e il mio anelito infrenabile andava lontano da voi, verso le calme oasi della sentimentalità della vecchia Europa e mi si stringeva con violenza il cuore». A questo punto avviene qualcosa che può aiutarci a spiegare il «dualismo» del titolo. Il poeta entra in una biblioteca, rivede le immagini del vecchio mondo, rivede Parigi e ritrova una figura femminile oggetto di un amore passato. È una seconda donna che si oppone all’amore per Manuelita, ma è una donna indistinta, un fantasma onirico e impalpabile: «Allora io entravo nella biblioteca, io che non potevo, io che non volevo pensare a voi. Le lampade elettriche oscillavano lentamente. Su da le pagine risuscitava un altro mondo, sorgevano immagini antiche che ondeggiavano con l’ombra del paralume, e sovra il mio capo gravava un cielo misterioso, gravido di forme vaghe, rotto a tratti da gemiti di melodramma: larve che si scioglievano mute per rinascere a vita inestinguibile, divina, nel silenzio pieno delle profondità misteriose del destino!». Così passiamo dall’evocazione del mondo esotico, violento e primitivo, ad un mondo completamente incorporeo, fatto di «larve», cioè fantasmi, ricordi. E Parigi diventa il luogo metafisico degli zingari, di un circo che sembra illustrare perfettamente il Picasso del periodo blu, già amato da Rainer Maria Rilke: «E ricordavo: Parigi, la sera a ‘Place d’Italie’ le baracche, i carrozzoni, i magri cavalieri dell’irreale dal viso

essiccato, dagli occhi perforanti di nostalgie feroci, tutta la grande piazza rotonda sonante di un concerto infernale, stridente e irritante: attorno allo stagno nel centro, le bambine dei bohémiens, i capelli sciolti, gli occhi arditi e profondi congelati in languore ambiguo, amaro sopra lo stagno liscio e deserto». «Dualismo» significa allora la compresenza di due mondi opposti, Europa e America del Sud, o meglio la doppia natura del personaggio che li evoca, la duplicità della sua anima, che è anche poi duplicità di una passione tra spirito e corpo, passione che ora, come in un romanzo borghese, può prendere le forme della gelosia: «Io so Manuelita che voi cercavate la rivale, la grande rivale che mi faceva dimenticare il vostro fascino violento e immediato come i vostri profumi. Seguivate i miei occhi stanchi, ma essi non vi appresero mai nulla. Però non avete

Faust all’ Università

58

mai baciato i miei occhi. Ebbene, sappiatelo, essa era un’anima, un’ani-

ma inquieta come me, quella della quale mi ricordavo sempre quando uscivo a sedermi sulle panchine della piazza deserta, sotto le nubi in corsa. Solo per lei il Sogno mi era dolce e per quel sogno non pensavo alla forma felina del vostro piccolo corpo agile e nudo che a quell’ora si tendeva convulso nella stretta del guanciale, al vostro piccolo corpo pericoloso, adorabile di snellezza e di forza». Dualismo come doppio amore: possiamo aggiungere un altro elemento a questo, per ora solo come ipotesi. Se Campana ha letto a Bologna, o prima di Bologna, il libro di Otto Weininger su Sesso e carattere (è una notizia attestata sia da Bejor che da Ravagli) può aver trovato nel capitolo su «Talento e genialità» che il genio è l’individuo «che comprende molti più esseri che l’uomo mediocre»!! e che l’uomo complesso riesce a capire ogni altro meglio di quanto costui comprenda se stesso: «La dualità è sempre condizione per saper osservare e comprendere». Il dualismo è allora una caratteristica del genio: potrebbe essere il primo segnale di una lettura che spiega molti elementi simbolici degli Orfici, a cominciare proprio dal mito della riscrittura a memoria. Weinigner sostiene infatti che il genio è l’uomo capace di ricordare ogni istante della sua vita: «Un poeta che senza volerlo, senza pensarvi, senza procurarsi artificialmente la disposizione per scrivere, ha dovuto farlo; un musico assalito dalla necessità di com-

porre senza potersene difendere [...]; tali individui rammenteranno per tutta la loro vita ciò che hanno composto durante simili momenti anche nei minimi particolari». E nel trattato viene poi analizzata la specifica dualità dell’erotismo che sembra calzare perfettamente alla confessione

della «lettera aperta» di Campana:

«L'amore

e il desiderio — scrive

Weininger nel capitolo «Erotica ed estetica» — sono due momenti tanto diversi, tanto escludentesi e opposti, che nei momenti in cui un uomo ama veramente il pensiero d’un congiungimento corporale coll’essere amato gli è completamente impossibile. [...] l’amore è più forte che mai quando

la persona amata è assente, esso ha bisogno della separazione d’una certa distanza per continuare a sussistere. [...] E per l’uomo maggiormente differenziato, per lo spirito superiore la ragazza che egli desidera e quella ch'egli ama ma non potrebbe mai desiderare, hanno certo una figura ben diversa, andatura differente, caratteri dissimili: sono due esseri completa-

mente diversi». Che Weininger circolasse negli ambienti bolognesi lo dimostra anche una testimonianza d’eccezione che sfiora quella di Cam-

!! Le citazioni di Weininger vengono dall’edizione Feltrinelli del 1978, che riprende quella di Bocca del 1912.

Marco Antonio Bazzocchi

59

pana. Umberto Saba nel maggio del 1912 viene a vivere a Bologna, dove resta fino alla fine del ’13. Un amico bolognese, Aldo Fortuna, annota sul

proprio diario, il 4 dicembre 1912: «[Saba] ha letto ora un volumone del

formato di due mattoni per ritto, Sesso e carattere del Weininger: tratta di

questioni sul genio, sulla maschilità, sulla donna e fu scritto a ventidue anni, prima che l’autore si uccidesse. Ha fatto su Saba un grande effetto, un effetto decisivo ed ha quasi dichiarato che, se l'avesse letto dieci anni addietro, sarebbe giunto al suicidio anche lui»!2.

4. Sesso e carattere

Uno spirito weiningeriano si muove del resto anche fra le pagine dei giornali goliardici. Quello del 1913 («Il goliardo») contiene (oltre a nuovi sonetti di Ravagli, sempre pronto a giocare con un sentimento di erotismo mistico) una serie di epigrammi firmati da Nicola Spano e indirizzati contro la figura della studentessa. Spano è un segretario della Facoltà di Lettere che viene in contatto con Campana e che in alcune occasioni manda notizie a Marradi sull’irrequieto studente di chimica. Qui un’ostentata misoginia lo fa scrivere aspramente: «Le studentesse sono le beghine dell’Università. La beghina, infatti, ama dio senza intenderlo e la studentessa

impara la scienza senza comprenderla e l’arte senza sentirla», oppure «I professori, per farsi intendere dalle studentesse, hanno abbassato il livello intellettuale delle università», e anche «La studentessa: una mostruosità del nostro secolo. Se non fosse giovane e donna nessuno la potrebbe sopportare».

C’è un piccolo elemento che potrebbe subito portarci verso Campana, lo vedremo. Per ora va notato che in occasione della sua seconda uscita a stampa il poeta dà ai goliardi un testo d’eccezione, La notte, il pezzo in prosa che poi aprirà gli Orfici. Ravagli ricorda che Campana gli aveva consegnato un grosso malloppo di fogli e che, per esigenze di spazio, vi fu una decurtazione, per cui il titolo diventò Torre rossa - Scorcio, in quanto «il passo non

era riprodotto per intero, ma

era incompleto,

accorciato,

scorciato». Se nei fogli del «Papiro» Campana aveva depositato tre flash del suo mondo poetico prendendoli a caso e forse solo seguendo una coerenza data dal motivo del viaggio e dell’amore, ora viene invece alla !? Ricavo il dato dalla cronologia di U. Saba, Tutte le poesie, a cura di Arrigo Stara, Milano, Mondadori, 1988, p. LKXVIII. Va aggiunto che nel novembre del 1912 Saba fa uscire presso la Libreria della «Voce» Coi miei occhi. Il mio secondo libro di versi, fortemente influenzato dalle teorie di Weininger.

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Febbraio 1913"

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seggia lentamente iluero liquido aromaulico, bene ite 2uecherato. per prender pot subito la discussione interrotta su mento Giuseppe Raimondi nel suo primo articolo su Giorgio Morandi, poi espunto dalla bibliografia dell’artista, comparso il 12 aprile 1923 su «Il Nuovo Paese». Soffermandosi su una Natura morta con la fruttiera del 1919, Raimondi scrive:

«Qui degli aranci mettono col loro giallo solare una nota di colore, vasta, inondante sulla povera tovaglia, [che] si spinge a illuminare la fronte di un vecchio cassettone, di quelli con la toppa della serratura a cuore! [...] Certo, questo è bene un interno bolognese, pieno di silenzioso riposo estivo, in una di queste logore case della via Fondazza, di S. Petronio Vecchio, di via del Piombo, nelle quali il poeta Dino Campana ha indugiato a scoprire un poco di oro crepuscolare sulla pietra rossa delle mura, di vagabondaggio in vagabondaggio, un giorno lontano. Essendosi ! Dino Campana, Sul più illustre paesaggio, in Dino Campana. Sperso per il mondo. Autografi sparsi 1906-1918, a cura di Gabriel Cacho Millet, Firenze, Olschki, 2000, p. 1015315; 2 Cfr. Gabriel Cacho Millet, «Parole rotte» di Dino Campana a Bologna, in questo volume. 3 AI momento della sua scomparsa, avvenuta nel 1985, Giuseppe Raimondi lega al Museo Morandi tutti i suoi articoli e la sua corrispondenza con l’artista, amico di una vita: i due si conoscono infatti agli inizi del 1918, per restare amici intimi fino agli anni Cinquanta. Fra idocumenti dell’album figura anche il suo, fino al 1985 sconosciuto, articolo del 1923.

88

L’incontro fra Giorgio Morandi e Dino Campana

Fig. 31. Giorgio Morandi, Natura morta con fruttiera, 1919 (SNAM, Milano).

fiutati, erano quasi amici, Morandi e Campana. È lui che racconta di aver visto la prima volta ‘Il povero Dino” alle prese coi birri per avere accoppato un brutto cagnolo da signora». «La prima volta», dice Raimondi, e quindi il primo, se pur occasionale e distratto incontro fra i due, che iniziano ora a «fiutarsi», cadrebbe negli

ultimi giorni del 1912. Ma questo è solo l’incipit della quasi amicizia che si instaura fra loro, perché il pittore e il poeta si incontrano forse ancora nei primi mesi del 1913, quando Campana pubblica Torre rossa su «Il Goliardo»

Marilena Pasquali

89

di Federico Ravagli, e poi ancora nell’autunno dell’anno successivo, quando il poeta tenta di vendere i suoi Canti agli habitués del Caffè San Pietro. Morandi ne acquista una copia per 2 lire e 50 centesimi — non è probabile che si tratti di un dono — e Campana, con la sua grafia un po’ stralunata, gliela dedica vergando poche parole nell’occhietto de La notte:

«All’eccellente pittore Giorgio Morandi con cordialità Dino Campana» Penso con Cacho Millet che questa dedica non comporti affatto una reale conoscenza dell’opera morandiana da parte del poeta e che valga soltanto come atto di riconoscimento nei confronti di uno spirito fratello (quell’«essendosi fiutati» così acutamente suggerito da Raimondi...). Certo è che il clima, la temperie dell’incontro sono tra i più fervidi e fecondi e che non a caso il giovane pittore — intimo del Licini dei «futuristi» Racconti di Bruto 1913; uscito dall’ Accademia di Belle Arti con un anno di ritardo per contrasti con i professori sul suo «far cézanniano»; frequentatore abbastanza assiduo delle serate futuriste e della casa di Balilla Pratella a Lugo — guarda con interesse vero a quel protagonista della nuova cultura che è il Campana del 1914, portatore di un pensiero poetante che si riallaccia a Baudelaire e a Nietzsche, ai maudits francesi e a Schuré, al simbolismo

e alla nuova psicoanalisi. Poi Morandi

prenderà strade del tutto differenti, tutte interne al suo

studio, al suo mondo, ma qualcosa di quegli anni resterà in lui insieme alla stima piena per il poeta giramondo, come fiamma viva che illumina dall’interno lo splendore apparentemente algido delle sue immagini e che lo nutre con quelle «gocce di luce sanguigna», con quelle «girandole di fuoco», con quel «tepore di luce rossa, dentro le chiuse aule dove la luce

affonda uguale dentro gli specchi all’infinito»4. E non è da sottovalutare l’ambiente in cui l’incontro ha luogo, la cerchia

di giovani intellettuali irrequieti che è la stessa per entrambi, fertile terreno di coltura per sogni e ardimenti, per prime prove, per assaggi di vita. Si è 4 CO, La notte, p. 14-15; p. 16; p. 25. Si consideri inoltre, come rivela Cacho Millet a chiusura del suo saggio, che anche Morandi risponde alla sottoscrizione lanciata sul «Frontespizio» del luglio 1938 da Piero Bargellini per la tomba di Campana. L'artista invia cinque lire, in memoria del compagno di gioventù.

L'incontro fra Giorgio Morandi e Dino Campana

90

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Tipografia \F. Ravagli

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Fig. 32. La dedica di Campana nel frontespizio dei Canti Orfici di Giorgio Morandi.

detto di Raimondi, ma non va dimenticato Riccardo Bacchelli — amico di Morandi con il fratello pittore Mario fin dal 1913 — che nel marzo 1918 dedica all’artista il suo primo articolo monografico$S, ricco di spunti folgoranti (la «giustezza» e «spregiudicatezza» nell’«accomodarsi» gli oggetti, le forme «necessarie e sole», la «certezza stilistica») e che, parlando di un

suo Paesaggio, cita Campana.

° Riccardo Bacchelli, Artisti d'avanguardia. Giorgio Morandi, in «Il Tempo», Roma, 30 marzo 1918.

Marilena Pasquali

9

Vediamo il brano: «Un paesaggio, dipinto al tempo del ritratto [è il Ritratto della sorella Dina col cappello nero del 1912-13] presenta gli stessi caratteri del ritratto. È un folto di verde faticoso, come dice Dino Campana, con due linee di colline scendenti, con rami sospesi. È fortissimo il senso della natura pomeridiana di grand’estate ma sottinteso. Il quadro concorre ad un albero centrale ed alla sua architettura». Ecco gli elementi di collegamento: da una lato, Bacchelli si riferisce al Paesaggio verde dipinto da Morandi a Grizzana nell’estate del 1913, poi passato nell’importante raccolta milanese di Riccardo e Magda Jucker ed ora conservato al Civico Museo di Arte Contemporanea di Milano; dall’altro, le

parole di Campana sono tratte dai versi che aprono il secondo paragrafo de La Verna, Ritorno, laddove il poeta dice della «casetta di sasso sul faticoso verde». E questa, per chi frequenta anche soltanto marginalmente l’immaginario morandiano, è visione familiare che sembra proprio appartenere al suo mondo, a quelle pendici asciugate dalla luce che egli abita durante i soggiorni estivi. Giuseppe Raimondi e Riccardo Bacchelli sono dunque i tramiti fra l’artista e il poeta, ma non sono gli unici né i primi. Insieme a loro riappaiono altri amici comuni, come Francesco Meriano — sodale di Raimondi e Morandi ed estimatore entusiasta di Campana — che incontra a Bologna nel 1916; come Raffaello Franchi, letterato fiorentino poi vicino alla «Raccolta» e alla «Ronda», che in una veloce visita a Bologna nello stesso 1916

conosce Morandi”, proprio nei mesi in cui esalta la «pienezza inespressa» dei Canti Orfici8. Sono indizi, suggerimenti, spigolature che per frammenti minimi ricreano davanti ai nostri occhi un mondo ricchissimo. Ma ritorniamo ancora a Riccardo Bacchelli per sottolineare altri due aspetti non secondari: in primo luogo l’articolo su Morandi è del marzo 1918, prima che gli giunga notizia del definitivo internamento in manicomio di Campana (gli amici bolognesi lo apprenderanno di lì a pochi giorni, ai primi di aprile); Bacchelli avvicina dunque l’amico pittore a quello che egli a pieno titolo considera come una delle promesse, anzi una delle punte

6 CO, La Verna. II. Ritorno, v. 13.

? Cfr. dattiloscritto inedito di Raffaello Franchi, La firma di Morandi, inviato dal letterato all’artista il 21 marzo 1941 e ora conservato presso il Centro Studi Giorgio Morandi di Bologna: «La prima volta ch’io vidi Morandi fu nel 1916. Tornavo da Milano, pieno di nostalgia, alla mia Firenze. [...] E la mia città era la mia unica realtà desiderabile, il mio solo rifugio necessario. Tuttavia volli fermarmi a Bologna, dove sapevo di avere degli amici: Francesco Meriano, Giuseppe Raimondi, Riccardo Bacchelli e pochi altri». Non c’è che dire: il cerchio, le figure sono sempre gli stessi. 8 Cfr. Gabriel Cacho Millet, cit.

92

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Marilena Pasquali

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emergenti della nuova poesia italiana. E non è un paragone da poco quello che propone, un raffronto che la dice lunga sulla stima che egli nutre nei confronti di entrambi. In secondo luogo, che dire di uno dei caratteri distin-

tivi che Bacchelli riconosce alla pittura morandiana, «una primitiva fedeltà ai suoi oggetti e paesi»? Questo non vale forse anche per Campana, con la sua smania di mondo, la sua indole vagabonda fedele comunque alle radici? Non si può forse rovesciare il confronto e trovare nell’arte del bolognese uno spunto nuovo per leggere in profondità la parola poetica del romagnolo?

Si è detto che la dedica all’«eccellente pittore» non deve indurre a ipotizzare un rapporto stretto fra i due «quasi amici». E più che probabile che Campana non conosca l’opera di Morandi, pur nel suo più che evidente interesse per l’arte visiva?. Ma certamente Morandi legge con attenzione i Canti Orfici e impara ad apprezzarli insieme e attraverso Giuseppe Raimondi, che nel citato articolo morandiano del 1923 dimostra di conoscere molto bene i versi campaniani. Scrive infatti il giovane letterato bolognese: «...in una di queste logore case [...] nelle quali il poeta Dino Campana ha indugiato a scoprire un poco di oro crepuscolare sulla pietra rossa delle mura», come a riprendere consapevolmente il ritmo cromatico di tanti passi del poeta, primo fra tutti l'incipit del rapinoso Arabesco — Olimpia: «Oro, farfalla dorata polverosa perché sono spuntati i fiori del cardo? In un tramonto di torricelle rosse...»!0. Ricevuto il volumetto nella sua prima edizione stampata da F. Ravagli a Marradi (e emoziona vedere come Campana cancelli con un tratto di matita quest’indicazione in copertina, per correggerla in «Libreria Gonnelli /via Cavour — Firenze», quasi a voler conferire maggiore dignità e presentabilità alla sua prima, e unica, creatura); ricevuti i Canti Orfici, dicevo, Morandi se li legge anche da solo e con seria, testarda attenzione

9 Innumerevoli sono i passi dei Canti Orfici in cui il poeta si riferisce esplicitamente o implicitamente a artisti e opere, a cominciare da Leonardo e Michelangelo per giungere a suoi contemporanei come Cézanne, i futuristi e il faentino Domenico Baccarini: «Il museo. Ribera e Baccarini [...] Ragazzine alla marinara, le lisce gambe lattee che passano a scatti strisciando spinte da un vago prurito bianco» (CO, Faenza, p. 92-93). E importanti sono i saggi che riservano uno spazio particolare al rapporto tra visione e visionarietà in Campana, da quelli fondamentali di Eugenio Montale del 1942 (La poesia di Dino Campana) e di Alessandro Parronchi su «Paragone» (dicembre 1953) al recente studio di Giorgio Zanetti, La favola delle immagini, inserito nel più ampio volume // Novecento come visione, edito dall'Istituto Gramsci Emilia-Romagna nel 1999. Si deve allo studioso

bolognese la sintetica considerazione secondo cui «per Campana la pittura si intrecciava indissolubilmente all'esperienza della poesia» (ibidem, p. 135). 10 Arabesco — Olimpia, ora in Dino Campana. Sparso per il mondo, cit., p. 138.

94

L’incontro fra Giorgio Morandi e Dino Campana

— come per tutte le cose che ritiene importanti —, tanto che in un momento che non è dato riconoscere evidenzia i brani a lui più congeniali con segni longitudinali tracciati lungo il lato esterno del foglio. Molte pagine dei Canti vengono in tal modo evidenziate dall’artista con la sua matita blu da insegnante — a volte compare anche qualche ulteriore indicazione in rosso —, ma non è certo Se tali sottolineature debbano per lui avere anche

una funzione pratica. Due sono le ipotesi che a tutt'oggi si possono avanzare: può sembrare — e questa è la lettura «di basso profilo» — che le. pagine segnate debbano far parte di una selezione da proporre ad altri, magari proprio agli studenti (ancor oggi si fa così per scegliere gli stralci, ad esempio, per un’antologia critica). Né va sottolineato, a questo proposito, che nella copia di Morandi si trova anche un brano prima da lui evidenziato e poi lasciato perdere, riportato alla sua condizione iniziale con un frego ad onda che annulla la ‘ sottolineatura (sono, per l’esattezza, il terzo e quarto paragrafo de La giornata di un nevrastenico!!).

Oppure, e con più ardimento, ci si potrebbe domandare se queste non siano le sottolineature molto più partecipi di un Morandi giovane che legge e chiosa il poemetto in tempo reale, in quel 1914 anche per lui luminoso per entusiasmi e pacati ardimenti, prima dell’amara caduta delle illusioni provocata dal primo conflitto mondiale. Sarebbe, questo di allora, un Morandi

per noi quasi sconosciuto, un giovane che «va a casino» insieme all’amico Osvaldo — il «Bruto» dei racconti liciniani dell’anno precedente —, che corteggia e inganna le signorine di buona famiglia, che vive di notte insieme ad altri giovani come lui amanti della bellezza e dell’avventura. Un Morandi molto più legato o, come minimo, molto più interessato alle poetiche nicciane e faustiane che il poeta di Marradi incarna così compiutamente. Allo stato attuale degli studi non è possibile scegliere fra le due ipotesi — e, magari, la verità è ancora un’altra. Quel che è certo è che, se si

eccettuano Viaggio a Montevideo e Firenze (Uffizi), l’ artista evidenzia soltanto brani in prosa e, tra questi, le descrizioni di luoghi e paesaggi, i brani relativi ad opere d’arte, musei e artisti, le pagine che si riferiscono a Bologna!2. Un’unica frase è sottolineata per esteso e puntualizzata da un picco-

I° CO; pp. 110-111, !? Ecco i brani che Morandi evidenzia: La notte: pp. 7, 12-16, 18-21. La Verna (Diario): tutto, da p. 47 a p. 52, e ancora pp. 53-54, 60-61, 62-65. Viaggio a Montevideo: pp. 75-77. Firenze (Uffizi). Firenze: pp. 85-86. Faenza: pp. 91-93. Sogno di prigione. La giornata di un nevrastenico (Bologna): pp. 109-110 e p. 113. /7 russo: pp. 130-133. L'incontro di Regolo: pp. 143-146. Scirocco (Bologna): pp. 149-152. Crepuscolo mediterraneo: pp. 155-157. Piazza Sarzano: pp. 161-163.

Marilena Pasquali

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lo asterisco a margine. Si trova in Faenza, a pagina 92 della prima edizione dei Canti: «Felicità di vivere in un paese senza filosofia». Nella sua apparente semplicità, come di aforisma sussurrato a fior di labbra, questa considerazione degna del Candide la dice lunga sull’indole morandiana aliena da ogni intellettualismo e avvicina ancor più la affilata sensibilità dell’artista a quella scorticata, insofferente, indomita del poeta che solo nella natura e nell’arte sa ritrovare se stesso. Ma è poi tanto lontano Morandi? A ben guardare e pur nella evidente, indiscutibile diversità di intenzioni e di approdi, i punti di contatto artistico fra i due non mancano e conviene spingere un poco più a fondo la riflessione per comprendere meglio che cosa di Dino Campana può interessare Morandi. Nell'ottica del pittore, tre mi sembrano gli aspetti, i caratteri della poesia campaniana da prendere in considerazione. In primo luogo — e non può che essere così — la «visibilità» della parola poetica di Campana, quel suo saper rendere un luogo, un momento, un incontro in immagine. Gli esempi sono molteplici, anzi direi continui, nei Canti. Tra i tanti ne scelgo uno che mi piace definire particolarmente morandiano: è la «piazzetta deserta, casupole schiacciate, finestre mute»!3 che apre le visio-

ni de La notte e che tanto ricorda nella sua solitudine vuota di uomini i luoghi altrettanto deserti dell’artista. Ma si può spaziare ben altrimenti perché il poema dei Canti è ricchissimo di suggestioni visive, in una sorta di ebbra, cantante sinestesia ove il suono dell’acqua, l’eco lontana di un passo, la «luce bizzarra al vento»!4 si

trasformano in colore puro. Basta ricordare l'incipit di Sogno di prigione, peraltro accuratamente sottolineato da Morandi: «Nel viola della notte odo canzoni bronzee. La cella è bianca, il giaciglio è bianco [...] Silenzio: Il viola della notte: in rabeschi dalle sbarre bianche il blu del sonno»!5. Come può Morandi non restare colpito, abbacinato da questa distesa silenziosa, viola, bianca, blu, solo percorsa da fremiti bronzei?

Certo, Campana è prevalentemente notturno, crepuscolare, luciferino (quella «forma nera cornuta immobile» che lo guarda «immobile con occhi d’oro» durante il ritorno dalla Verna, presso Campigno...!9), mentre Morandi

ama

le solarità

metafisiche

del mezzogiorno,

ama

— come

13 CO, p. 9. È la «piazzetta» che Faust «giovine e bello» (p. 18) trova a lato della «torre barbara» nella sua Faenza, «vecchia città, rossa di mura» (p. 7). * COTpa23. 15 Ibidem, p. 105. 16 Ibidem, p. 64-65.

96

L’incontro fra Giorgio Morandi e Dino Campana

Cardarelli — «i tempi fermi e le superfici chiare» di una distesa estate dai «giorni più eguali»!?, ma entrambi considerano come età dell’oro, sorgente inesauribile a cui attingere, proprio quel Rinascimento che l’altrettanto giovane Roberto Longhi invoca e riafferma contro le provocazioni futuriste: Leonardo, Raffaello, Michelangelo per Campana; Piero, Giovanni Bellini

e lo stesso Leonardo per Morandi, più aulico comunque, sempre più classico, apollineo nella sua sostanza quanto il poeta è dionisiaco e faustiano. Secondo carattere che certamente interessa Morandi e lo avvicina a Campanaè la dimensione della lontananza in cui si situa ogni sua irruzione nel sogno e nella visione. È il senso della distanza («il lontano refrigerio di colline verdi»!8) che crea la prospettiva, la profondità sia del racconto che dell’immagine e ne sottolinea l’alterità, il distacco, rispetto al soggetto, poeta o pittore che sia. Alla distanza si accompagnano poi, come ancelle fedeli, tanto nell’uno

quanto nell’altro, la sospensione e l'assenza. Sospensione infatti in Campana: «e del tempo fu sospeso il corso»!9; e in Morandi: basta pensare ai suoi altissimi Paesaggi del 1943, attoniti, fermi, come in attesa della vita che ritorni. Assenza ancora, in Campana: «noi soli tre vivi nel silenzio meridiano»?0, la luce piena sentita come vuoto, silenzio, privazione; assenza anche in Morandi, quei suoi interni

intessuti di luce ed abitati solo dalle tracce dell’uomo e mai dall’uomo. Infine, il terzo elemento comune ai due «quasi amici», incontratisi solo qualche volta in gioventù, «fiutatisi» subito e poi allontanatisi l’uno dall’altro, senza mai perdere — questo vale certamente per Morandi — la stima e l’interesse per l’altro. Entrambi aspirano alla semplicità, all'unità. Per Morandi questa tensione sarà la molla che reggerà tutta la sua vita d’artista — che poi significa la sua vita, tout court. A Campana la semplicità apparirà sempre come desiderio struggente, persino utopia, sogno edenico di una sempre più insperata redenzione. La sua invocazione — confessione in una lettera del 14 dicembre 1917 a Carlo Carrà è toccante: «Ora tutto potesse per un momento almeno ritornar divinamente semplice e uno»?!. Semplice, cioè «intrecciato, sistemato una

!? Vincenzo Cardarelli, Saluto di stagione, in Poesie, Milano, Mondadori, 1987, p. 53. I COTpel: 19. Ivi, 20 Ibidem, p. 11. 2! Lettera di Dino Campana a Carlo Carrà da Lastra a Signa, il 14 dicembre 1917, pubblicata in Dino Campana. Le mie lettere sono fatte per essere bruciate, a cura di Gabriel Cacho Millet, Fiesole - Milano, 1978, p. 132.

Marilena Pasquali

DI

volta per tutte» (la radice «sem» è la stessa di semel/ o semper ??). Uno, in

quanto «originale», «singolo», termine che con uguale significato è proprio alle aree celtica, baltica, germanica e greca da una comune origine sumerica. A riprova del fatto che il concetto di «unità» è antichissimo e affratella tutti i popoli come qualcosa di primo, archetipico, divino?3. Anche Morandi ricerca la solidità, la purezza, e vent'anni dopo, quasi in

controcanto, confesserà all’amico Bargellini del «Frontespizio» — quello stesso cui invia le cinque lire per la tomba di Campana —: «Prima di morire vorrei condurre a fine due quadri. Quello che importa è toccare il fondo, l’essenza delle cose»?4. Dice «essenza»

e si sente che intende l’essere,

quella stessa entità umana e divina verso cui, come Dino Campana e insieme a lui, non può che tendere con tutto se stesso.

22 Giacomo Devoto, Avviamento alla etimologia italiana, Milano, Mondadori, 1979,

p. 386. Ma anche Giovanni Semerano, Le radici della cultura europea, vol. II, Firenze, Olschki, 1994, p. 566. i 1 23 Giovanni Semerano, ivi, p. 86.

24 Piero Bargellini, Artisti italiani: Giorgio Morandi, in «Frontespizio», Firenze, settembre 1937.

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Madonna Laldomine da Giosue Carducci a Dino Campana Pantaleo Palmieri

Carducci, si sa, ebbe abito fiero, fu facile alla «collera» sia contro gli

avversari politici sia contro i «lettori maligni» dei suoi versi. Tra il 27 febbraio e il 27 aprile 1883 compose i dodici sonetti del Ca ira, i cosiddetti «sonetti settembrini» ispirati al settembre 1792, che fu — com’egli si esprimeva nella prima nota al testo dei sonetti — «il momento più epico della storia moderna», e intitolati a uno dei tre canti rivoluzionari, il

Ca ira appunto (gli altri sono la Carmagnola e la Marsigliese), assunto come «motto storico di un momento storico»). Aveva acceso la sua fantasia la lettura di The French Revolution di Thomas Carlyle?, ma la stesura dei sonetti è debitrice soprattutto alle Storie della Rivoluzione francese di Luis Blanc e Jules Michelet, lungamente frequentate, specie quella del Michelet, e rilette per l’occasione. I sonetti videro la luce il 10 maggio dello stesso 1883 in un raffinato volumetto sommarughiano, e quattro anni più tardi andavano a formare il VII libro delle Rime Nuove. I «lettori maligni» scambiarono la rievocazione storica? per un pronunciamento ideologico. E sebbene all’epoca il Carducci si fosse am! Così nella prosa apologetica del Ca ira in Confessioni e battaglie. Serie terza (1884). Poi nel IV volume delle Opere nella ne varietur zanichelliana (Bologna, 1890), quindi nel XXIV dell’Edizione Nazionale. Si legge ora in Confessioni e battaglie, a cura di Mario Saccenti (Modena, 2001), nuova Edizione Nazionale delle Opere diretta dallo stesso Saccenti e stampata dall’editore Mucchi. La cit. è a p. 321. Da qui anche le citazioni successive. 2 «Come io non cerco la poesia, ma lascio che la poesia venga a cercar me, così avvenne che nel passato inverno, leggendo la Rivoluzione francese di Carlyle, a un certo punto da una o due espressioni mi balzasse in mente il Ca ira. Ma dal Carlyle ebbi l’ispirazione, nel più umile significato, soltanto» (p. 320). E aggiunge, a giustificazione delle proprie scelte formali: «Elessi, per la forma della verseggiatura, il sonetto, come quello che più mi si prestava, o parevami, agli atteggiamenti risoluti e quasi in alto rilievo a tratti rapidi risentiti corti, come quello che mi avrebbe impedito di allargarmi nella descrizione o stemperarmi nel lirismo, da poi che è proibito di far bruttura dinanzi alle muraglie di bronzo della storia. E sentivo quasi un solletico di vanità in quella prova di ravvivare, dopo le odi barbare, a rappresentazione intentata il vecchio sonetto» (ibid.).

3 A quanti avevano parlato per i sonetti di «epopea storica, o, meglio, d’una epopea nuova a cui dovesse essere elemento o fondamento la verità storica pura», Carducci

Madonna Laldomine da Giosue Carducci a Dino Campana

100

piamente riconciliato, in nome dell’unità nazionale, con la monarchia sabauda, e sebbene egli si fosse studiato di dire «in versi quello che fu in

fatti il settembre ’92», rappresentando sì l’eroismo francese nella difesa della patria minacciata dal nemico, ma anche gli orrori del fanatismo, ugualmente moderati e conservatori scesero in campo numerosi ad accusarlo di essersi fatto ancora una volta banditore dei principi repubblicani e giacobini. Per l’esattezza mossero all’attacco Ruggero Borghi, all’epoca deputato, sulla «Domenica Letteraria», Licurgo Cappelletti sulla «Provincia di Brescia», Domenico Cancogni sulla «Libertà» e un senatore che sulla «Rassegna Italiana» si sottoscriveva con le sole iniziali M.T.4 Di costoro la figura di maggior prestigio era naturalmente il Borghi, una delle voci più ascoltate del mondo politico della Destra, letterato di vasti interessi e manzoniano convinto. Il Carducci, com'era nel suo temperamento, non lasciò correre, e tra il

luglio e il novembre di quello stesso 1883 compose una «prosa apologetica» che, col medesimo titolo dei sonetti, pubblicava l’anno dopo in chiusa al volume Confessioni e battaglie. Serie terza. Non mette conto qui seguirlo nell’arringa autodifensiva (intesa a mostrare che «in Italia la critica della poesia è male intesa e peggio esercitata anche dai migliori, e come torto e ombroso e meschino sia il senso politico anche nelle persone d’autorità e di giudizio che sono dette e si credono temperate», p. 315); importa invece notare che, come tante altre sue prose, anche questa pei «sonetti settembrini» contiene rapidi trapassi dalla polemica al ricordo autobiografico, alla descrizione paesistica. E di questi trapassi è meritatamente celebre quello del IV capitolo. Carducci si dice abituato tutte le mattine a prendere un suo «bagno freddo spirituale», cioè a leggere testi di lingua, e racconta di come la lettura del secondo volume delle Lettere del marchese Gino Capponi gli suscitasse il ricordo del suo paese di Toscana «là dove è più bello, più sereno, più consolato e consolante, in Valdarno»

(p. 324). Il ricordo infine diviene visione, mentre la

polemica si sposta, en passant, su due altri personaggi: Yorick, cioè Pietro obietta che epopea e storia «sono due termini che l’uno ammazza l’altro» (p. 316); è disposto ad accettare invece la definizione di «rappresentazione epica», proposta dallo Scarfoglio sul «Capitan Fracassa» del 13 maggio, «interpretando — spiega — per un offerire alla fantasia e al sentimento altrui in brevi tratti come attuale e senza mistura di elementi personali un avvenimento o una leggenda storica» (p. 320). * Con una lettera alla «Gazzetta dell’ Emilia» del 16 novembre 1889, Carducci dissipa il sospetto che sotto le iniziali M. T. potesse celarsi il «gran patriota e letterato» Terenzio Mamiani, che sempre lo aveva onorato «della sua benevolenza e degli amorevoli consigli suoi», 0 il senatore Marco Tabarrini. Si trattava infatti dell’oscuro giornalista Mansueto Tarchioni.

Pantaleo Palmieri

101

Ferrigni (1863-95), giornalista, critico teatrale e scrittore di buona impronta toscana, felice soprattutto nelle sue impressioni di viaggio, moderato in politica, altrove motteggiato dal Carducci per la sua «pancia istrionica», e Augusto Conti (1822-1905), il letterato e filosofo che intese contribuire alla restaurazione del tomismo, manifestando però piuttosto doti di elegan-

za che profondità di pensiero. Leggiamo. Veggio la fattoria, là a mezzo la collina, di costa tra gli oleandri rosacei e i melograni dal verde metallico, con gli olivi sopra e d’intorno; la grossa fattoria con le persiane verdi e le bòzze agli angoli della facciata, co ‘l terrazzino e la balaustrata di piastrini tondi e panciuti da tutte le parti come, sal’ mi sia, Yorick, con le ferriate medicee inginocchiate e tronfie come la prosa di Augusto Conti [...]. Veggo e saluto su la cima del colle, tra boschetti di lauri, la villa con le belle logge cinquecentistiche, che sorge splendente nel rosso tramonto. Dietro ha il monte ripido; e su ‘1 monte una

fila di cipressi gracili e austeri dentellano del loro verde cupo l’orizzonte settentrionale tinto in colore di perla. Anche più in dietro è una torre e un castello. Non me ne importa. Voglio vedere il sole calante che dà nelle vetrate al pian superiore della villa, e quelle paiono incendiarsi come al riflesso d’uno scudo incantato. Voglio vedere il sole che passa per le finestre del primo piano e si sfoga nella gran sala per le finestre del fondo. Tutto il sole e tutto il cielo, co ‘1 nuvolo dei pulviscoli d’oro che lo splendor del tramonto raccoglie dalla terra, inebriata di luce, circola con voluttuosa letizia per la villa serena. O madonna Laldomine, fatevi al verone tutta

vestita d’argento a udire l’ultima ballata d'amore della poesia italiana che fu. Uscite, uscite, madonna, prima che l’umida sera cali e ci avvolga. Ma.... leggevo le lettere di Gino Capponi.

Il ricordo s’interrompe bruscamente sull’immagine di madonna Laldomine tutta vestita d’argento, generica figura femminile designata con un nome

fiorentino

antico, da un etimologico Lauda

Domine,

quale si

addice a chi è degna dell’ultima ballata della poesia del tempo che fu. Un nome che il Carducci poteva prendere da memorie dell’infanzia maremmana come da fonti letterarie; per esempio dal Fiorenzuola (un personaggio con questo nome compare infatti nel III dei Ragionamenti d’amore), scrittore che per raffinata sobrietà e per evidenza pittorica non doveva dispiacergli, e che piaceva senz'altro a Severino Ferrari, al quale si deve un’antologia delle Prose (1895).

5 Pp. 324-325.

Madonna Laldomine da Giosue Carducci a Dino Campana

102

Veniamo ora a Dino Campana. Egli è, anche questo si sa, autore unius libri6, i Canti orfici, che videro la luce nel 1914, l’anno del finis Europae.

Risultano perciò preziosi anche i suoi appunti, le stesure provvisorie, e tutto quanto ci rimane del suo lungo minuzioso cosciente — ripeto: lungo minuzioso cosciente?; e aperto a esperienze letterarie e culturali anche nuove e arditissime — lavoro di poeta. Senza dire che non è mancato chi — è il caso di Leporini e di Fortini — ha sostenuto che il miglior Campana stia fuori degli Orfici, nell’espressionismo delle sue prove più spontanee, non ancora o non più sottoposte a rielaborazione. E certamente prezioso è il cosiddetto Taccuino Matacotta, dal nome del possessore (lo aveva ricevuto

in dono da Sibilla Aleramo) e primo editore nel 1949. E tale è l’importanza che si annette a questi scartafacci campaniani, che di recente è stata pubblicata un’edizione critica e fotografica sia del Taccuino Matacotta sia del cosiddetto Taccuinetto faentino, sotto l'insegna della Scuola

Normale

Superiore

di Pisa. Curatrice

una

studiosa

eccellente,

Fiorenza Ceragioli8. E alla Ceragioli spetta il merito di aver restituito al Taccuino la sua esatta consistenza di testo, distinguendolo da altre carte che non gli appartengono, e che invece Matacotta aveva pubblicato tutt’assieme; di averne

stabilito la data esatta di composizione; e di averne individuato quella che è la sua “identità culturale”. Il Taccuino dunque — la dimostrazione della Ceragioli è ineccepibile — è stato composto nel 1915, con qualche possibile sconfinamento alla fine del 1914 e all’inizio del 1916 (Matacotta lo aveva

datato al tempo della relazione con |’ Aleramo, alla quale poi il poeta ebbe a donarlo, che è invece dell’agosto 1916), e la sua identità è la polemica:

contro Papini e Soffici, pour cause bersagli privilegiati, avendogli costoro smarrito il manoscritto de // più lungo giorno; contro il dannunzianesimo e il crepuscolarismo di maniera di Civinini, e contro il Carducci.

6 Il tenero ricordo di Camillo Sbarbaro: se li «portava addosso come un certificato di nascita» (Sproloquio d’estate) ci dice la dolorosa consapevolezza dell’autore che si sarebbe trattato di un unicum. ? E merito del commento agli Orfici di Fiorenza Ceragioli (Firenze, Vallecchi, 1985) aver fatto definitivamente giustizia, con gli strumenti della filologia e dell’analisi linguistico-stilistica, di uno dei più ostinati luoghi comuni della critica, quello di caratterizzare la poesia di Campana come primitiva e istintiva, se non caotica; perfettamente coerente con la sua vita di irregolare e infine di folle: la ‘leggenda’ Campana da ultimo rinverdita dal romanzo di Sebastiano Vassalli. 8 D. Campana, Taccuini, edizione critica e commento di Fiorenza Ceragioli, Pisa, Scuola Normale Superiore di Pisa, 1990. Ho suggerito alcuni, lievi, ritocchi testuali nella

mia rec. sul «Giornale Storico della Letteratura italiana», vol. CLXVIII, fasc. 544, 1991, pp. 607-610.

Pantaleo Palmieri

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Un feroce strale anticarducciano è l’appunto di pagina 205 dell’edizione Ceragioli: Vigile dai tugurii risponde la forza dei cani — Splendida definizione della usuale poesia carducciana. Campana cita, presumibilmente a memoria, ma — si badi — correttamen-

te, il verso di un’ode barbara (All’Aurora, v. 11), per dileggiare come usuale, cioè consunta, la poesia del Carducci.

E in polemica col Carducci è uno dei testi più compatti del Taccuino, quello che reca il titolo Tintoretto e Carducci (p. 203 dell’edizione Ceragioli) e che val la pena rileggere: Nel portamento della testa Carducci ha indubitabilmente del germanico (che vuol sfondare la prigione): la testa non è inclinata da un lato di Madonna Laldomine che si fa alla finestra tutta vestita d’argento. È vista per trasparenza: è l’ultima ballata della poesia italiana che fu. Tutto è preparazione pittorica. I fiori rosacei non rosa, i balconi gonfii e inginocchiati la ruggine della ringhiera e l’oro dell’arenaria e il barocco della prosa di Augusto Conti che culmina nella figura trasparente di Madonna Laldomine tutta vestita d’argento regina di carte da gioco. Già Leopardi vide «quelle dipinte mura e il sol che nasce da romita campagna — Quella loggia colà volta agli estremi ecc.» ma Carducci rozzo toscano non arriva alla purità della vita campestre e ai figurati armenti sulla loggia colà volta agli estremi raggi del dì. L’orientazione di Laldomine chi interessa? Nata morta, e pure della sua bianchezza che si veste. Troppo a lungo durò la commedia della poesia italiana. È tempo che Madonna affacci gli occhi consunti a la ballata del tempo che fu e che non fu

Carducci «rozzo toscano» è contrapposto a Leopardi? (del quale si citano a memoria, ma questa volta non correttamente, i vv. 61 e ss. delle Ricordanze): questi sa cogliere «la purità della vita campestre», quello riduce tutto a semplice rappresentazione pittorica. E come la pittura di Tintoretto appartiene a un Rinascimento maturo e non ha più la forza che fu di Michelangelo, ma s'impone solamente per esibizione di bravura e grandiosità di rappresentazione, così la poesia di Carducci si colloca al-

l’epilogo di una tradizione, «è l’ultima ballata della poesia italiana che fu», e s'impone solo per evidenza pittorica: i fiori rosacei, i balconi gonfi e inginocchiati,

l’oro dell’arenaria,

il barocco

della prosa

? Leopardi è, con Dante e Segantini, uno dei tre ‘idoli’ campaniani.

(l’accusa di

Madonna Laldomine da Giosue Carducci a Dino Campana

104 Carducci

a Conti

gli si ritorce

contro),

la trasparenza

di Madonna

Laldomine tutta vestita d’argento. Non so se altri si sia accorto che questo appunto campaniano non è un generico attacco a Carducci e alla sua disposizione pittorica, bensì una sorta di variazione polemica sul brano del Ca ira trascritto di sopra, come risulta evidente a leggere di seguito i due testi. Né mette conto inoltrarsi nell’intricata bibliografia campaniana per verificarlo!°; intricata, dico, perché Campana ha cultori devoti e spesso assai meritevoli anche fuori dal circolo degli addetti ai lavori, i quali talora pubblicano in sedi periferiche e di non facili circolazione e reperimento. Forse se ne era accorto Silvio Ramat nel suo commento

all’edizione Vallecchi del 1966, ma si espresse

in modo da depistare il lettore. Ed è probabile che altri se ne siano accorti, perché quello delle ascendenze carducciane, e dannunziane, della poesia campaniana è tema tutt'altro che insondato: vi si sono esercitati anzi studiosi di vaglia, da Giuseppe De Robertis a Ferruccio Ulivi, Angelo Romanò,

Mario Costanzo,

Giovanni

Bonalumi,

i quali tutti variamente

individuano proprio nei residui carducciani, e dannunziani, un limite e un freno alle nuove modulazioni linguistico-stilistiche cui tende, con empito,

la voce di Campana. Non se ne è però accorta la Ceragioli, alla quale pure

non era sfuggito l’altro rimando carducciano; e considerando che la sua edizione dei Taccuini (come già la sua edizione commentata degli Orfici, più volte ristampata e riedita anche in veste economica) costituirà d’ora innanzi il punto di partenza obbligato per ogni nuovo discorso critico, ritengo opportuna questa segnalazione (tanto più in sede bolognese). E stato detto da un maestro dei nostri studi e impareggiabile conoscitore della lingua letteraria, Giovanni Nencioni, che scoprire un rapporto insospettato tra due testi comporta un’agnizione, qualcosa di simile a quel che accade nel teatro classico quando dietro un volto apparentemente familiare di un personaggio si rivela una nuova e segreta identità... E di fatti l’appunto campaniano, letto nei rapporti intertestuali, trascende l’occasionale polemica anticarducciana, per interessare a pieno il discorso critico del rapporto Campana-Carducci. E nota

la dichiarazione

raccolta

dal dott. Pariani

a Castel

Pulci,

«Carducci mi piaceva molto», e l’appunto in esame ci dice che la frequentazione dei testi carducciani da parte del Marradese si estendeva fino alla prosa, e a una prosa apologetica. Com'era inevitabile, essendosi

!0 Con l’avallo di un Prezzolini, che già nell'Arte di persuadere del 1906 metteva in guardia da un’erudizione che «non consiste in un sapere diretto, quanto in uno indiretto, non già nel sapere fatti e notizie eccetera, ma dove si possono trovare...»

Pantaleo Palmieri

105

Campana formato in ambiente carducciano e vivo il Carducci (Carducci

muore nel 1907; gli Orfici escono dalla modesta tipografia marradese del Ravagli nel 1914); e se anche a Bologna Campana è stato studente di Chimica e dunque non ha frequentato le lezioni del Carducci, è pur vero che la fama di Carducci travalicava ampiamente l’ambito universitario e coinvolgeva l’intera vita cittadina, e non è pensabile che un giovane che proveniva da studi classici e recava in petto un destino di poeta non respirasse l’aura carducciana. Le tracce di questa formazione, più numerose nei testi più arretrati, sono facilmente reperibili fin negli Orfici. Non è difficile ravvisare, ad esempio, nella seconda parte de La Verna:

Su la costa lontana traluce la linea vittoriosa di giovani abeti, l’avanguardia dei giganti giovinetti serrati in battaglia, felici al sole lungo la lunga costa torrenziale

trasfigurati in giovani abeti i cipressi di Davanti a San Guido. E si rilegga a riguardo la testimonianza di Giuseppe Pontiggia sul «Corriere della Sera»

Fig. 34. Bologna. Via dell’Indipendenza con veduta della palazzina Majani e del Caffè San Pietro sulla destra. Collezioni d’arte e di storia della Cassa di Risparmio (fondo Giovanni Mengoli).

106

Madonna Laldomine da Giosue Carducci a Dino Campana

Fig. 35. Giovanni Masotti, Bozzetto per la decorazione del Caffè San Pietro. Acquerello policromo, 290 x 251, firmato e datato 1907. Collezioni d’arte e di storia della Cassa di Risparmio.

del 27 luglio 1985 (illuminante come sono sempre le osservazioni dei lettori non per mestiere): Ho sempre associato i tramonti estatici di Campana a quelli distesi di Carducci, dissoluzioni di mondi, trapassi di esistenze e di epoche. Sono di Campana versi come questi: «Le torri altissime ed accese / dentro dell’azzurrino tramonto commosso di vento / Vegliavano dietro degli alti

Pantaleo Palmieri

107

palazzi le imprese / gentili del serale animamento». L’epigrafe di questi Vecchi versi è «San Petronio, Bologna» e si avverte con quelli carducciani di Nella piazza di San Petronio una consonanza enigmatica, un respiro lirico che attraverso la decadenza risale a una mitica origine mediterranea!!.

Né è un caso che un critico come De Robertis, leggendo freschi di stampa gli Orfici, annotasse sulla «Voce»: «Siamo qui a un’ispirazione diversa e più sana, e più pacata: a Carducci»; o che Contini, polemizzando su «Letteratura» del 1937 coi propugnatori di un Campana-veggente, affermasse: «Non è colpa di nessuno se questo presunto poeta messianico è ultimo della tradizione carducciana, cioè di una tradizione sommaria e nei momenti migliori barbaricamente sontuosa». Mentre a Piero Bigongiari è occorso di parlare di una congiuntura Campana-Carducci!?, con riferimento agli aspetti formali: il metro barbaro, che dissolve i metri della tradizio-

ne, è sicuramente come l’arcata di un ponte verso la poesia moderna, così come il poema in prosa di Campana è un’altra arcata verso la poesia nuova, novecentesca; due arcate che poggiano sul pilastro comune della prosasticità, ma l’una, quella carducciana, è ancora tutta nell’Ottocento, l’altra, quella campaniana, è già tutta nel Novecento. Ma ciò che di nuovo questo brano, letto, ripeto, nella sua intertestualità,

ci viene a dire è la consapevolezza del disconoscimento di un modello inadeguato, una sorta di amore tradito!3: Carducci che ha del germanico e vuol sfondare la prigione, ha per Campana, che definiva se stesso poeta germanicus e finalizzò alla creazione di un’arte nuova tutto il suo fare poesia, qualità e intenzioni positive; ma pur provvisto di sapienza letteraria, non è riuscito a sfondare la prigione, a risalire alle fonti primigenie della poesia: a creare una nuova arte; la sua poesia si identifica con Madon-

na Laldomine, appartiene alla tradizione, al passato, è l’ultima ballata della poesia italiana che fu. !l Ma si veda anche la puntuale precisazione di Ferruccio Ulivi: «Quando il Carducci canta una piazza bolognese sotto la neve o l’albero autunnale dove trepida l’ultima foglia, noi sentiamo che ha una idea naturalistica delle cose, e che il paesaggio esterno è appena sfumato, decolorato dall’intimo sentire. Quando Campana, e prendiamo pure l’autore dei primordi, ci dice in frenetici appunti, nel Taccuino faentino, di una piazza italiana (“entrando in Faenza non vidi alcun passo di danza...’), sentiamo che gli oggetti partecipano di un sortilegio dovuto alla stessa incongruità degli accostamenti (la torre, la ringhiera, la lampada accesa...) e che le presenze taciute sono importanti quanto le altre» (Campana nei Contemporanei della Marzorati, I, p. 677). 1? Cfr. P. Bigongiari, La congiuntura Carducci-Campana, in Poesia italiana del Novecento, Firenze, Vallecchi, 1965. 13 L’annotazione di Storie I: «Non vi sembra che un cafonismo molto carducciano possa essere una base solida per i miei giuochi di equilibrio?», suona conferma indiretta di un imprescindibile apprendistato in area carducciana.

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Dino Campana e Otto Weininger Greta Bilancioni

Mère des souvenirs, maîtresse des maîtresses C. Baudelaire

1. Un momento della ricezione di Otto Weininger in Italia Nel periodo compreso tra la fine dell'Ottocento e l’inizio del Novecento, entro cioè quell’arco di tempo che la critica identifica per convenzione con il modernismo europeo, il “problema della donna” e la connessa questione sessuale diventano argomenti d’interesse collettivo, tanto da porsi al

centro dei più importanti dibattiti internazionali. In questo clima di discussione e di definizione del ruolo della donna nella civiltà è opportuno rinunciare all'idea di un’articolazione coerente del discorso, che genera invece una congerie di teorie e altrettanto caotiche pubblicazioni antropologiche, criminalistiche, mediche e psicologiche. E a Vienna che il giovane filosofo Otto Weininger, uno dei massimi teorici della misoginia, affronta la questione femminile con un radicalismo e una rigorosità senza precedenti. Non a caso il recensore e giornalista Max

Nordau,

riflettendo sull’effetto suscitato dal trattato di Weininger,

definisce Sesso e carattere un vero e proprio «sparo nella nebbia»!, uno «sparo» cioè nella «selva delle teorie». Geschlecht und Charakter (Sesso e carattere) è appunto il titolo dell’opera scritta nel 1903 dal filosofo e psichiatra austriaco, opera nella quale egli annuncia sin dalle prime pagine di voler «trattare della relazione dei sessi sotto una luce nuova e definitiva»?. In realtà il proposito di fissare dei «punti fermi» nella nebulosa e generica letteratura sessuologica internazionale resta un’aspirazione mancata. Sebbene Weininger tenti, attraverso la sintesi di scienze umanistico-

! Citato da N. Wagner in Spirito e sesso. La donna e l’erotismo nella Vienna fin de siècle, traduz. di M. Torre, Torino, Einaudi, 1990, p. 61. 2 O. Weininger, Prefazione alla prima edizione, in Sesso e carattere, Torino, Fratelli Bocca Editori, 1922, p. V.

Dino Campana e Otto Weininger

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naturali e letteratura sessuale, di dare una parvenza di scientificità alle sue tesi, le contraddizioni che le sorreggono non tarderanno a svelarsi. In Italia, dove Sesso e carattere viene tradotto a partire dalla primavera del 1912 diventando un testo chiave nella formazione degli intellettuali di inizio secolo, si dovrà attendere il 1913, l’anno della diffusione dell’articolo

Otto Weininger di Gian Pietro Lucini, per poter parlare della prima effettiva «vera stroncatura apparsa in lingua italiana»3 dell’uomo-«simbolo dell’eticità vociana». L’«idealismo agressivo», la «passione metafisica» e il «trascendentalismo» propri di Weininger si sono, a parere di Lucini, riversati nel trattato, tramutandosi in suoi limiti e fragilità. Non per nulla gli pare che Sesso e carattere si basi su nozioni approssimate attorno alle «scienze sperimentali ed esatte» e sia tutto sorretto da «agitate idee platoniche, simboli che si concretizzano: qui il Maschio,

là la Femina,

[...]}>4.

In effetti Sesso e carattere è incentrato su un «dualismo filosofico» che «si acutizza fino a diventare» vero e proprio «antagonismo»?. Nella prima parte del libro intitolata Le varietà sessuali Weininger ipotizza che la disposizione dell’orientamento sessuale dell’individuo sia fondamentalmente doppia, per poi però approdare a un drastico capovolgimento di questa tesi. Pertanto nella seconda parte del trattato — / tipi sessuali — annota: «Ad onta di tutte le forme intermedie, l’individuo è infine l’uno dei due: uomo o donna, una dualità [...]»9. Il filosofo austriaco individua due astrazioni

tipologiche quali l’uomo e la donna, ridotti rispettivamente a una M e a una

F, e poi li concepisce come polarità antitetiche e contrapposti sessuali. Tenacemente convinto che «la dualità è sempre condizione per osservare e comprendere», valuta le tipologie sopracitate come antinomiche sotto ogni aspetto. L'uomo viene riconosciuto geniale e capace di riprodurre attivamente il passato attraverso la memoria; alla donna è conferito esclusivamente il talento, che è ben altra cosa rispetto alla genialità. Quest'ultima ignora la dimensione della memoria, tutto ciò di cui è capace è semmai il riconoscimento

passivo del tempo trascorso. Ancora: l’uomo è logico e etico, la donna vive nell’errore e nella menzogna. Il primo è spirito e forma, la seconda si esaurisce tutta nella sua sessualità e non è altro che materia da plasmare. È chiaro che in una tale prospettiva Sesso e carattere venga a delinearsi come il manifesto di un’ideologia virilmente connotata. Nell’opera, Weininger «enuncia un canone della virilità che riproduce in massima 3 A. Cavaglion, Otto Weininger in Italia, Roma, Carucci Editore, 1982, p. 98. 4 G. P. Lucini, Otto Weininger, in Filosofi ultimi, Roma, Libreria politica moderna, 1913, pp. 57-65. 5 N. Wagner, Spirito e sesso, cit., p. 143. 6 O. Weininger, Sesso e carattere, cit., p. 70.

Greta Bilancioni

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Fig. 36. Bologna. Via Rizzoli angolo Canton de’ Fiori, 1906 (Fondo Trebbi, BCA).

parte gli stereotipi della

«Weltanschauung eroica»? e vi prospetta, al fine di

risolvere la questione femminile,

la mascolinizzazione

della donna.

Se

infatti attraverso un processo di erotizzazione del femminile la donna viene interpretata come «sessualità universale», l’uomo, la cui forma più pura è invece la spiritualità, diventa il modello di perfezione verso cui la donna deve tendere. Nel trattato Weininger teorizza quindi una «metafisica dell’amore» alimentata da rigorose opinioni antisessuali. L’erotismo diventa un principio spirituale, nettamente distinto da quello della sessualità, dal mero «istinto sessuale». Il «vero uomo», l’uomo di genio, è un «uomo erotico», il cui amore viene giustificato soltanto come idea trascendentale. Mentre la «sessualità sensuale» ha come fine la «procreazione fisica», la

«continuazione della specie», lo scopo dell’«erotica superiore» è unicamente «spirituale», pertiene alla sfera dell’arte e della bellezza®. Per questa ragione nel capitolo Maternità e prostituzione, dopo aver isolato tra le varie tipologie femminili quella della «madre assoluta» che si preoccupa unicamente del figlio, della specie, dell’eternità, e quella della «prostituta ? N. Wagner, Spirito e sesso, cit., pp. 139-140. 8 O. Weininger, Erotica ed estetica, in Sesso e carattere, cit., p. 221 e p. 331.

Dino Campana e Otto Weininger

Ji2:

assoluta» che tende a se stessa, al piacere, all’autodistruzione, il filosofo

austriaco arriva a sostenere che l’uomo superiore sia portato a prediligere la prostituta. Quest'ultima si diversifica dalla madre per un’infinità di ragioni, prima fra tutte la sterilità che la costringe a vivere «al di fuori dello

scopo della specie». La sterilità eleva eticamente la prostituta al di sopra

della madre, la donna feconda, che è invece esclusa dalla sfera della «pro-

duttività spirituale». In questi punti del trattato il giovane filosofo manifesta tutto il suo disprezzo per la donna sessuale ma anche per l’uomo ses-

suale, che non ha nulla in comune con quello di genio. L'artista infatti è in grado di emanciparsi dalla sfera sessuale mediante la sublimazione della sua «paternità materiale»!9, diventando cioè «padre di un’opera». Questa coloritura platonica e anti-sessuale, unita alla liturgia del genio (la genialità «come dovere dell’uomo», «come ideale stesso della compiuta umanità»!!) e al concetto di «biografia teorica»!? elaborate da Weininger, hanno consentito a Sesso e carattere di conquistare in Italia il favore di ammiratori ‘fanatici’, disposti a recensirlo sulle più autorevoli riviste del tempo, da «Leonardo» alla «Voce», da «Lacerba» alla «Ronda»!3. In Italia

dunque i primi anni del Novecento si configurano all’insegna di quell’ ‘effetto Weininger°, dal quale neppure Sibilla Aleramo, attiva assertrice della redenzione della donna, è riuscita a tutelarsi. Non è un caso che la sua copia di Sesso e carattere (è la scrittrice stessa a confidarlo) venga da lei «tutta» «postillata furiosamente»!4. Le ragioni del culto indiscriminato dell’opera di Weininger sono da ricercare, come suggerisce Cavaglion recuperando un'ipotesi di M. David, ° Maternità e prostituzione, in Ibidem, p. 207. LON/Vi !! G. A. Levi, Dall’Alfieri a noi, Firenze, La Nuova Italia, 1935, pp. 253-266.

1° La facoltà di trattenere gli eventi passati rappresenta per Weininger la condizione ideale della genialità. Non si dà genialità senza memoria. Il tratto distintivo «del genio più sicuro, generale, e più facile a provarsi è la memoria universale» (O. Weininger, Sesso e carattere, cit., p. 102). Mentre «la memoria dei più è appunto solo saltuaria», «l’uomo superiore non rammenta i singoli momenti della sua vita come [...] momenti individuali»

ma i fatti «confluiscono tutti in un’unica corrente, in cui non si riscontra discontinuità di sorta» (Ibidem, pp. 109-110). In questa prospettiva, soltanto un simile individuo può ergersi al di sopra della media e scrivere «le proprie memorie». 13 A. Cavaglion, Otto Weininger in Italia, cit., p. 12. Cfr. G. Prezzolini, Un nemico della femmina, in «Leonardo» 1906-7, riletto da M. Quaranta e L. Schram Pighi, Anno IV, ottobre dicembre 1906, pp. 357-361; G. Papini, Miele e pietra, in «La Voce», Anno II, n. 35, 11 agosto 1910; A. Soffici, Anna Gerebzova, raccolto in Opere, prefazione di G. Prezzolini, vol. I, Firenze, Vallecchi, 1959, pp. 274-282. Si veda anche G. Papini, // massacro delle donne, in «Lacerba», Anno II, n. 7, 1 aprile 1914, pp. 97-99. 14 S. Aleramo,

Un amore

insolito. Diario 1940-44,

a cura di A. Morino

e con una

lettura di L. Melandri, Milano, Feltrinelli, 1979, p. 348. Sull’accoglienza dilemmatica,

Greta Bilancioni

113

nel fatto che Sesso e carattere ha rappresentato per molti lettori «una sorta di “surrogato” della psicanalisi», di «Freud dei poveri»!5. Non va poi dimenticato che il filosofo austriaco ha costituito un modello umano di ascetismo ma anche di lacerazione e conflittualità che aspirano alla «salute» e «all’armonica completezza». La sua esasperata ricerca di totalità ha trovato un esito definitivo nel «suicidio metafisico» o «morale» di cui fu vittima e che suggestionò profondamente gli animi di alcuni suoi contemporanei!. Se a questo si aggiunge l’«odio di sé ebraico»!7, rielaborazione in chiave latina dell’oscuro «fenomeno germanico dello jiidische Selbsthass»!3, tema a cui Weininger — ebreo convertito al cattolicesimo — dedica in Sesso e carattere uno sconcertante capitolo!?, si possono anche intuire le ragioni che hanno fatto la fortuna del libro durante il ventennio fascista. Nella sua indagine sulla stagione della ricezione italiana dell’opera di Weininger, Cavaglion esclude Campana. Lo citano invece, in relazione a Weininger, M. A. Bazzocchi in Mitobiografia?2° e David ne La psicoanalisi nella cultura italiana. Quest'ultimo sostiene che il «tema nietzschiano

ma rovesciato del nordico latinizzato» possa essere in qualche modo derivato

a Campana

dall’incontro

con

un

«ideale

autoritario,

virile, e

antifemminile» presente nelle riflessioni di Nietzsche e di Schopenhauer. Lasciando poi la questione aperta, si domanda quale ruolo, in questa direzione, abbia svolto Weininger?!. In una tale prospettiva, se da un lato

diviene impensabile non menzionare Nietzsche?? e la sua posizione rispet-

mista di attrattiva e ripulsa, di Sesso e Carattere da parte della scrittrice, si vedano le pagine di A. Cavaglion, Otto Weininger in Italia, cit., pp. 94-98 e quelle di Svelamento. Sibilla Aleramo: una biografia intellettuale, a cura di A. Buttafuoco e M. Zancan, Milano, Feltrinelli, 1988, pp. 120-133. 15 A. Cavaglion, Otto Weininger in Italia, cit., p. 13 e p. 16. 16 Cfr. I. Tavolato, L'anima di Weininger, in «Lacerba», Anno I, n. 1, 1 gennaio 1913, p. 6: «Anche Weininger finisce nel nulla. Lo amo. Per un attimo si lancia alla conquista dell’impossibile; poi precipita a strapiombo nel vuoto. Troppo ha amato dio, il suo dio; e non può più vivere. A ventitré anni si ammazza con un colpo di rivoltella al petto. Quasi null’altro aveva in sé che negazioni [...]».

17 A. Cavaglion, Otto Weininger in Italia, cit., p. 18. \8.Ivi, p.19: !9 Cfr. O. Weininger, Gli Ebrei, in Sesso e carattere, cit., pp. 286-316. 20 M. A. Bazzocchi, Mitobiografia?, in Dino Campana alla fine del secolo, a cura di A. R. Gentilini, Bologna, Il Mulino, 1999, pp. 81-107. 21 M. David, D. Campana, in La psicoanalisi nella cultura italiana, prefazione di C. L. Musatti, Torino, Boringhieri, 1974, pp. 345-348. 22 Secondo la critica campaniana le teorie nietzschiane hanno rappresentato per Campana molto più che delle semplici suggestioni culturali. Basti pensare all'opera di N. Bonifazi,

Dino Campana e Otto Weininger

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to al femminismo da lui associato all’idea di svirilizzazione della società, non è possibile neppure trascurare le suggestioni che proverrebbero a Campana da Weininger?}. M. Bejor, che conosce Campana a Bologna, in parte conferma quanto detto sinora. Nello scritto Dino Campana a Bologna (1911-1916) istituisce un nesso tra la componente misogina riscontrata nel poeta e le teorie di Weininger che la sorreggerebbero: Gli era argomento favorito, per dimostrare la menzogna dei sentimenti spirituali esibiti dalle donne e per stroncare ogni accenno di amore etereo — allora di moda — delle stesse, portare il tragico caso di Lassalle. E le risate sarcastiche, ch’egli vi accompagnava, le amare conclusioni, che ne traeva per tutto il sesso, toglievano ogni valore ai suoi giudizî, torbidamente soggettivi; e richiamavano come del caso, le teorie di Weininger: quanto dell’animo e della sensibilità femminile erano in lui — suo malgrado — per averne tanta repulsione!?*

Se poi si attinge all’epistolario campaniano, un'ulteriore allusione a Weininger è rintracciabile in una lettera indirizzata all'autore da Cecchi. Quest'ultimo, cedendo a una considerazione di natura weiningeriana sulla memoria, annota:

Un tempo io ripigliavo e ristudiavo il mio passato, per uno scrupolo di tono weiningeriano; e in modo che spesso anche ne rimanevo prigioniero più o meno a lungo?5.

Sebbene Campana non citi mat esplicitamente Weininger, ad un’analisi attenta dei Canti Orfici le teorie dello psichiatra austriaco sembrano non Dino Campana, Roma, Ediz. dell’ Ateneo & Bizzarri, 19782, e più precisamente al capitolo intitolato Campana e Nietzsche (pp. 21-71), capitolo incentrato sulla ricezione campaniana di alcuni temi nietzschiani. Sempre su Campana e Nietzsche s’interrogano C. Galimberti in Dino Campana, Milano, Mursia, 1967 e S. Gentili in Trionfo e crisi del modello dannunziano. “Il Marzocco” — Angelo Conti - Dino Campana, Firenze, Vallecchi, 1981. 23 Sebbene il sentimento di avversione che il poeta talvolta esibisce nei riguardi della donna venga di norma motivato dai suoi biografi quale lascito esclusivamente nietzschiano,

come segnala giustamente Bonifazi, se Nietzsche si ostina a rimarcare l'inganno dell’essenza femminile e «ne svela la debolezza intrinseca, la corruzione, l’ostilità e l'egoismo» e «parla» per lei «adirittura di bastone...;», «a chi guardi bene (e Campana guardava bene, e intuiva)», egli «scusa le donne e le capisce e mostra indulgenza nei loro confronti» (N. Bonifazi, Dino Campana, cit., p. 35). 24 Testimonianza raccolta in Dino Campana, Souvenir d’un pendu. Carteggio 1910-31 con documenti

inediti e rari,

a cura di G. Cacho

Millet, Napoli, Edizioni Scientifiche

Italiane, 1985, p. 291. 25 Lettera di Cecchi a Campana del 27 febbraio 1916, ivi, p. 138.

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IS

aver lasciato del tutto indifferente il poeta. Si può infatti ipotizzare che soprattutto il capitolo Maternità e prostituzione di Sesso e carattere abbia influito sulla definizione di due tipologie femminili degli Orfici, nella fattispecie quella della matrona/madre e quella dell’ancella/giovane prostituta. Si tratta di due figure che intrattengono, sia in Sesso e carattere che nel poème en prose La Notte, una relazione antitetica che non esclude l’idea di una complementarità.

2. Campana e Weininger: il mito della maternità

I Canti Orfici si aprono nel nome della notte, «la lunga notte piena degli inganni delle varie immagini»?9,

la notte delle viscere, simbolo di quel

luogo materno in cui tutto ha origine. La Notte è appunto il titolo del poème en prose con cui Dino Campana dà avvio al ‘libro’ «sempre ripreso e dolorosamente interrotto», vergato per riscattare e ‘giustificare’ una vita di sofferenza?/. Un dialogo con la poesia campaniana non può che muovere dall’esplorazione di questo versante notturno, di quella notte che «in quanto femmina» rinvia alla donna e che nel «suo simbolismo più profondo» rimanda alla madre, «madre essenziale, madre del giorno, che “esce

dalla notte”, madre unica di tutti gli dei, “madre universale”»?8, Nel poemetto La Notte, la “discesa” di Campana nel profondo, fino al regno delle Madri, discesa che si compie mediante il recupero del modulo archetipico della Katàbasis, è scandita dall’incontro del poeta con donne

partecipi della primitività propria delle forze cosmiche che governano l’esistenza umana. Passeggiatrici, sacerdotesse, matrone, ancelle e cortigiane, tutta la serie di figure femminili che l’autore passa in rassegna, provengono da un’età remota — «barbara» e primordiale — restituita al ‘più lungo giorno’ del presente sotto forma di «ombra d’eternità»?. In questa costellazio-

26 D. Campana, La Notte, in Canti Orfici, con il commento di F. Ceragioli, Firenze, Vallecchi, 19873, p. 30. 27 In una lettera inviata a Cecchi nel 1916 Campana scrive: «Allora fuggii sui miei monti, sempre bestialmente perseguitato e insultato e scrissi in qualche mese i canti Orfici includendo cose già fatte. Dovevano essere la giustificazione della mia vita perché io ero fuori dalla legge, prima che finissi di morire assassinato colla complicità del governo, in barba lo Statuto» (cfr. Dino Campana, Souvenir d’un pendu, cit., p. 139). 28 G. Genette, // giorno, la notte, in Figure II. La parola letteraria, trad. it. di F. Madonia, Torino, Einaudi, 1972, p. 90.

29 «Antiche» sono le «passeggiatrici» «che avevano tratto le lunghe vesti mollemente verso lo splendore vago della porta». Sempre «antica» è la mezzana della prima avventura, l’«opulente matrona, dal profilo di montone», che racconta al poeta «la lunga teoria dei

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Dino Campana e Otto Weininger

ne del femminile è possibile isolare una diade formata da due figure che operano insieme: la matura mezzana connessa al «mistero della voluttà» e l’ancella giovane prostituta che ignora la dimensione del piacere e simboleggia uno stato di purezza incontaminato. Proprio intorno alle vegliarde matrone de La Notte ruota nei Canti Orfici quel mito della maternità che, stando a una lettera del maggio 1915 inviata da Campana a Soffici, costituirebbe il Leitmotiv di due testi di psicanalisi dell’arte non casualmente incentrati sul trauma dell’abbandono materno. Si tratta del saggio di Freud su Leonardo e di quello di Abraham su Segantini, saggi apparsi in tedesco rispettivamente negli anni 1910 e 19115° e con tutta probabilità letti in lingua da Campana a ridosso della pubblicazione degli Orfici?!. Sempre sulla figura materna, messa però in relazione con quella della prostituta, s’interroga Weininger nel già menzionato capitolo Maternità e prostituzione di Sesso e carattere. Nel capitolo in questione, lo schema che

oppone il tipo madre al tipo prostituta si delinea soltanto in apparenza come rigorosamente dicotomico. In realtà è sorretto da ricorrenti commutazioni delle polarità, da incessanti trapassi dalla tipologia della madre a quella diametralmente opposta, fino ad arrivare a veri e propri casi di sovrapposizione delle due figure che diventano per così dire reversibili32. Sebbene madre e prostituta vengano rappresentate come tipi che intrattengono una «relazione» esclusiva l’una con la «prole» l’altra con il «coito», di fatto nel procedere del discorso la prima acquisisce sempre più esplicitamente i tratti della seconda, fino a svelare la sua doppia natura di madre-amante33. suoi amori». Una «testa di sacerdotessa.orientale» esibisce la «Ruffiana» del paragrafo ottavo e «regina barbara» viene definita la «matrona suadente» del paragrafo successivo. «Antichissime» sono le «fanciulle della prima illusione», che il poeta vede «profilarsi a mezzo i ponti». «Antica» è infine l’ «immagine» della «matrona selvaggia», «aggrappata all’ancella come un ragno», che viola il poeta versandone il sangue. 30 I testi in questione sono Un ricordo d’infanzia di Leonardo da Vinci di S. Freud e Giovanni Segantini: un saggio psicoanalitico di Karl Abraham. Il primo è incluso in S. Freud, Saggi sull’arte la letteratura e il linguaggio, traduz. di S. Daniele, E. Luserna, C. L. Musatti e altri, Torino, Bollati Boringhieri, 1991, pp. 75-158. Il secondo rientra in K. Abraham, Opere, vol. II, Torino, Boringhieri, 1975, pp. 629-683. 3! Nella lettera inviata a Soffici il 12 maggio 1915 Campana annota: «Ho trovato alcuni studi, purtroppo tedeschi, di psicanalisi sessuale di Segantini, Leonardo ed altri, che contengono cose in Italia inaudite e potrei fargliene un riassunto per Lacerba» (Lettera raccolta in Dino Campana, Souvenir d’un pendu, cit., p. 83). 32 Lo confermano le riflessioni dello stesso Weininger presenti nell’opera: «Forse nella maggior parte delle donne si trovano ambe le possibilità: la prostituta e la madre»; «La realtà si trova tra queste due: non esiste una donna priva affatto dell’istinto della prostituzione [...). Ma d’altro canto non esiste neppure una donna priva di qualunque sentimento materno» (O. Weininger, Sesso e carattere, cit., p. 198 e pp. 199-200) 33 Nel rapporto madre-figlio Weininger vede costantemente trasfigurato quello della donna con l’uomo. Nella «disposizione alla maternità» coglie tutta una serie di somiglian-

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Anche nel poème en prose La Notte la matrona assume questo duplice volto di madre-maîtresse, che assimila fagocitandola la propria controparte (l’ancella-giovane prostituta). La neutralizzazione dell’opposizione entro l’indifferenziato determina l’indecidibilità fisionomica delle mezzane, che

mostrano ora i tratti della donna matura o della vecchia, ora quelli della fanciulla. Non a caso, nella prima avventura — quella che si svolge nella casa di piacere di Faenza —, la matrona viene descritta al tempo stesso

come «agitata da grazie infantili» e nell’atto di concedere al poeta «un grazioso sorriso aggrinzito»34. Nel paragrafo 13, il particolare reiterato degli «occhi giovani» attribuiti alla «matrona pensierosa» del postribolo di Bologna sembra rafforzare quest’ipotesi. La «figura ancipite della matrona — ancella»3° viene poi rievocata, nel testo La Chimera, dall’immagine duplice e bifronte della «[...] Regina Regina [...] adolescente» nella quale,

vecchia e giovane ad un tempo, si fondono i tratti della vegliarda ruffiana e dell’ancella del poemetto La Notte. La stessa figura femminile ambigua e senza tempo viene riproposta ne La Verna e in Immagini del viaggio e della montagna, attraverso le descrizioni della «signora dai capelli bianchi e dal viso di bambina»?9 e della «donna che siede pallida giovine ancora» denominata in seguito «gentile canuta»7. La matrona e l’ancella non s'incontrano soltanto nel segno della complementarità e integrazione reciproca. Spesso la giovane fanciulla viene assoggettata dalla donna matura, che non soltanto la inizia alla lussuria ma ne «regola anche la [...] prostituzione». La disposizione canonica che Campana riserva loro nel poème en prose La Notte avvalora questa tesi. La postura sedentaria della veneranda ruffiana, che come la Grande Madre, la divinità

ctonia creatrice della natura e immagine della totalità della vita, aderisce alla terra che possiede, allude al predominio da lei esercitato sull’ancella:

Una antica e opulente matrona, dal profilo di montone, coi neri capelli agilmente attorti sulla testa sculturale barbaramente decorata dall’occhio liquido come da una gemma nera dagli sfaccettamenti bizzarri sedeva, agitata da grazie infantili [...]}88.

ze con l’inclinazione alla sessualità, tanto che le donne «con sentimenti materni» sono madri persino «rispetto all’uomo che amano», che «è in certo modo già il loro figlio» (Ibidem, p. 203).

34 D. Campana, Canti Orfici, cit., pp. 23-24. 35 G. Boccotti, La Chimera di Campana e la Vergine delle rocce di Leonardo, in «Studi Novecenteschi»,

1993, n. 45-46, p. 60.

36 D. Campana, La Verna, in Canti Orfici, cit., p. 121. 37 D. Campana, Immagini del viaggio e della montagna, ivi, pp. 158-159. 38 D. Campana, La Notte, ivi, pp. 22-23.

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A differenza delle ‘colossali’ e troneggianti mezzane, l’ancella viene sempre raffigurata in uno stato di subordinazione, o «addormentata» e «inginocchiata», oppure accoccolata: Distinsi nell'ombra l’ancella che dormiva [...]89. [...] accanto una fanciulla inginocchiata, ambrata e fine [...]f9.

Avanti alla tenda gualcita di trina la fanciulla posava ancora sulle ginocchia ambrate, piegate piegate con grazia di cinedo”!.

A partire da questi passaggi sembra farsi strada l’ipotesi di una nuova incidenza paradigmatica di Sesso e carattere sul poemetto La Notte. Nel capitolo L'essenza della donna e il suo senso nell’universo Weininger trasferisce la polarizzazione uomo-donna che sinora ha improntato la sua opera dentro l’universo femminile, contrapponendo alla «donna isterica» la «megera assoluta». Questi due personaggi solo apparentemente vengono descritti come antagonistici. Ad una lettura attenta emerge infatti che esse si trovano «sempre in una certa qual relazione di vicendevole completamento», essendo, come si è già avuto modo di preannunciare, due figure femminili con una vicendevole funzionalità. La prima è «colei che in obbedienza passiva ha accettato semplicemente gli apprezzamenti sociali e maschili invece di lasciare il più libero corso possibile alla propria natura sensuale»4, La seconda, la «megera assoluta», è la «la donna [...]

che non ha obbedito» e che quindi comanda: La donna isterica [...] è identica col tipo psicologico della serva; [...] La serva serve, la megera domina. [...] E serva e megera stanno sempre in una certa qual relazione di vicendevole completamento?3.

Oltre ad essere diventata isterica «in conseguenza del suo servilismo», la serva è anche fra le donne quella che con maggiore frequenza si avvicina «all’anestesia sessuale o frigidità»4*. Se non proprio l’insensibilità sessuale, la sterilità è una delle prerogative, oltre che della

39 Ivi, p. 24. SObIVIA passi 41 Ivi, p. 42. 4 O. Weininger, Sesso e carattere, cit., p. 258. *MIbioi SVI pAz60ì

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prostituta sterile di Maternità e prostituzione, anche della matrona e dell’ancella de La Notte*4S: E la sacerdotessa dei piaceri sterili, l’ancella ingenua ed avida e il poeta

sl guardavano, anime infeconde inconsciamente cercanti il problema della loro vita”. E l’ancella, l’ingenua Maddalena dai capelli ispidi e dagli occhi brillanti chiedeva in sussulti dal suo corpo sterile e dorato, crudo e selvaggio, dolcemente chiuso nell’umiltà del suo mistero”.

In questi passaggi l’infecondità dei tre personaggi (anche il ‘personaggio-poeta’ fa parte della cerchia delle «anime infeconde») non è esclusivamente fisica bensì anche connessa a una dimensione di ricerca del «problema della loro vita» che non trova soluzione. Il «problema» che il poeta si pone può quindi risultare di nuovo simbolicamente legato alla figura materna e al suo mistero. Egli, alla stregua di Faust quando discende al regno delle Madri, è pronto a «esplorare gli abissi», a scandagliare l'enigma del potere femminile,

di dee ignote «non

volentieri nominate»

dai comuni

mortali. Ma come per Faust anche per lui le Madri costituiscono l’«inesplorato / che non si può esplorare», il «non impetrato / che non si può impetrare»*5. Il processo conoscitivo è quindi destinato a rimanere senza frutti. 45 A partire dai testi biblici la sterilità viene prospettata come un flagello rovinoso in quanto costituisce la condizione opposta alla maternità, maternità che nelle pagine della Bibbia trova la sua più indiscussa celebrazione. (Nutrita è appunto la serie di donne bibliche sterili che tuttavia aspirano a diventare madri. Basti citare Sara, Sant’ Anna, Rebecca, Rachele). Nella letteratura fin de siècle sterilità e insensibilità sessuale rappresentano gli attributi dominanti di molte figure femminili. Si pensi ad esempio alle femmes fatales, ninfomani e prostitute in primis, e ad alcune descrizioni femminili dannunziane in cui la sterilità funge da «stimolo sadico». 46 D. Campana, Canti Orfici, cit., p. 26 47 Ivi, pp. 29-30. 48 J. W. Goethe, Faust, a cura di F. Fortini, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1976,

p. 551, vv. 6222-6224. Proprio con Faust Campana s’identifica in un passo de La Notte, in cui la fase giovanile della sua passione si delinea come ricerca della donna in quanto segreto e mistero: «Faust era giovane e bello [...] Oh! Ricordo!: ero giovine, la mano non mai quieta poggiata a sostenere il viso indeciso, gentile di ansia e di stanchezza. Prestavo allora il mio enigma alle sartine levigate e flessuose, consacrate dalla mia ansia del supremo amore, dall’ansia della mia fanciullezza tormentosa assetata. Tutto era mistero per la mia fede, la mia vita era tutta «un’ansia del segreto delle stelle, tutta un chinarsi sull’abisso». Ero bello di tormento, inquieto pallido assetato errante dietro le larve del mistero» (D. Campana, Canti Orfici, cit., pp. 44-45). Che si tratti di un’immedesimazione lo conferma l’autore quando nel cronicario di Castel Pulci confida al dottor Pariani:

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Le matrone della Notte, che nella loro ambivalenza rappresentativa da un lato appaiono come «personaggi di rango morale superiore»“? e dall’altro pertengono alla sfera del turpe commercio, compendiano i caratteri sacri della «sacerdotessa», quelli luminosi della madre buona e quelli not-

turni e funesti della madre terribile-divorante. Questo significa che la rappresentazione della maternità si compie negli Orfici mediante simboli di ambiguità e variabilità: la «madre-natura» e la «madre-destino» coesistono con quel «fantasma di madre-prostituta, o più profondamente di madre castratrice e infedele»50 nella quale la «componente di crudeltà» che essa incarna prende il sopravvento. In quest’ultima accezione la matrona non soltanto svela i suoi tratti mostruosi ma sembra non essere neppure esente da pratiche autolesioniste. Nel passaggio che segue, ad esempio, Campana la delinea come una figura dal carattere distruttivo: Rividi un’antica immagine, una forma scheletrica [...] nella tortura del

sogno scoprire il corpo vulcanizzato, due chiazze due fori di palle di moschetto sulle sue mammelle estinte?!.

Dal punto di vista fisico la matrona, possedendo una ricchezza e un’instabilità di forme sfocianti nell’ibridismo, ha spesso un carattere teriomorfo. Non per nulla, in un passo de La Notte, il suo profilo evoca quello del montone e sempre nel poemetto, per una sorta di dinamismo metamorfico che la connota, la donna mostra le sembianze del ragno: «A lato sul tesoro

fiorente di unafanciulla in sogno la vecchia stava ora aggrappata come un ragno [...]»°?. E poi per il tramite della suddetta matrona «selvaggia» che Campana sperimenta la strage o meglio la “tragedia” (vero e proprio Leitmotiv campaniano) nel segno della quale si aprono e si chiudono gli Orfici. La matrona infatti alla stregua di una feroce Baccante viola il poetaOrfeo versandone il sangue: «La matrona selvaggia mi aveva preso: il mio sangue tiepido era certo bevuto dalla terra: [...]»53. L'immagine del poeta

«Faust giovane e bello» è «una figura di fantasia, uno che non muore mai; sono io» (C. Pariani, Vita non romanzata di Dino Campana. Lettere scelte (1910-1931), a cura di

T. Gianotti, Firenze, Ponte alle Grazie, 1994, p. 49). 49 R. Mazza, La Forza, il Nulla, La Chimera. Saggio su Dino Campana, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani, 1986, p. 84. 50 W. Siti, D. Campana, Canti Orfici, in «Rivista di letteratura italiana», vol. IV, 1986,

paz: °1 D. Campana, La Notte, Canti Orfici, cit., p. 52. pRlVEprosi 93 Ivi, p. 54.

Greta Bilancioni

(2211

che «confonde il suo sangue con le linfe vitali della terra»54 preannuncia quella speculare del colophon in cui, adattando un passo di Whitman, Campana s’identifica con il fanciullo dilaniato, alter ego sacrificale dell’autore. Nelle fasi appena descritte la mezzana si rivela come moralmente incestuosa, ingannatrice, sacrilega, come una creatura dai caratteri punitivi e distruttivi, non diversamente dalla prostituta weiningeriana, personaggio centrale di Sesso e carattere. Nel capitolo Maternità e prostituzione il giovane filosofo, riflettendo sulle valenze distruttive della sessualità, definisce infatti la prostituta come colei che «vuol distruggere e venir distrutta», che «danneggia e annienta»?9. In questo contesto,

anche

la sfera del vissuto campaniano

può aver

contribuito a produrre l’immagine della matrona ostile. Proprio una «forma patologica che la psicanalisi chiamerebbe fissazione materna sembrerebbe aver suscitato in Campana quegli impulsi ‘brutali’, che com’è noto furono indirizzati per primi contro la madre»5°. Tuttavia tali moti, che negli Orfici hanno avuto tanta parte nell’influenzare la visione della donna, mal si conciliano con «l’ansia del supremo amore e con la pietà per le prostitute»°7 che sempre nei Canti fanno la loro comparsa. In effetti, in alcuni luoghi di quest'opera, la collera e I’ ‘avversione’ per il femminile sembrano dissolversi in una superiore visione d’armonia e dolcezza, quale emerge in maniera esemplificativa dall’epilogo de La Notte. Nella terza e ultima sezione del poemetto Campana rappresenta la matrona-madre-adescatrice che «governa» la casa di piacere come una «donna matura addolcita da una vita d'amore». L'esperienza dell’amore ha riscattato la sua natura voluttuosa e la lussuria è ormai solo un «ricordo» di «lacrime»?8 :

54 P. Cudini, Un’idea di Campana. Percorsi e forme de «La Notte», in Materiali per Dino Campana. Contributi vari, Lucca, Maria Pacini Fazzi Editore, 1986, p. 97. 55 O. Weininger, Sesso e carattere, cit., p. 217. 56 N. Bonifazi, Dino Campana, cit., p. 36. Sulla natura conflittuale del rapporto di Campana con la madre Fanny riflette S. Vassalli ne La notte della cometa, Torino, Einaudi, 19977, pp. 30-31. 57 N. Bonifazi, Dino Campana, cit., p. 36.

58 Nel manoscritto // più lungo giorno la «Ruffiana» ha, come sostiene Siti, «connotati esplicitamente materni»: «Ai cancelli d’argento de le prime avventure si affacciavano le antiche immagini addolcite da una vita d’amore come a proteggermi ancora di un // sorriso più che materno — di una misteriosa incantevole tenerezza» (D. Campana, /! più lungo giorno, 2 voll. Vol. I. Riproduzione anastatica del manoscritto ritrovato dei Canti Orfici. Vol. II. Testo critico a cura di D. De Robertis, prefazione di E. Falqui, Roma-Firenze, Archivi-Vallecchi, 1973, p. 11).

122

Dino Campana e Otto Weininger Nel tepore della luce rossa, dentro le chiuse aule dove la luce affonda uguale dentro gli specchi all’infinito fioriscono sfioriscono bianchezze di trine. La portiera nello sfarzo smesso di un giustacuore verde, le rughe del volto più dolci, gli occhi che nel chiarore velano il nero guarda la porta d’argento. Dell’amore si sente il fascino indefinito. Governa una donna matura addolcita da una vita d’amore con un sorriso con un vago bagliore che è negli occhi il ricordo delle lacrime della voluttà??.

Il poème en prose si chiude nel segno della donna, con l’immagine delle

fanciulle che tessono illusioni variopinte e che in quanto filatrici rinviano alla Grande Madre del mito, «signora del destino, della vita e della morte»60 «dalla quale partono e alla quale ritornano tutti i fili della vita», e con quella della «femmina» matura descritta come custode della ‘soglia’. La soglia va intesa sia come limen, come segnale di demarcazione tra le zone raggiungibili e quelle tabù, sia come veicolo d’accesso alle esperienze primordiali dell’umanità: Passano nella veglia opime di messi d’amore, leggere spole tessenti fantasie multicolori, errano, polvere luminosa che posa nell’enigma degli specchi. La portiera guarda la porta d’argento. Fuori è la notte chiomata di muti canti, pallido amor degli erranti??.

Nel passo citato Campana ferma lo sguardo sugli «erranti» con i quali probabilmente s’identifica, come quando confida di aver vagato «dietro le larve del mistero». Il fantasma, «l’abissalmente profondo» che egli inse-

gue, forse è la donna-madre che dipana la vita, la dispensa e ne recide il filo. Ma sul liminare del regno materno, «in quella lontananza eternamente / vuota», egli come Faust non «vedrà nulla» e non udrà «il passo che posi»: «Dove tu sosterai, / nulla di certo»93. Assisterà soltanto all’enigma che si

rinnova e avvertirà il potere dell’incomprensibile a cui sta per accostarsi: Le Madri! Madri!...Come

suona strano!64

59 D. Campana, Canti Orfici, cit., pp. 66-67. 90 E. Cantarella, La doppia immagine di Tanaquilla. Grande Madre, moglie fedele, in Le Grandi Madri, a cura di T. Giani Gallino, Milano, Feltrinelli, 1989, cit., p. 146.

0! Prefazione di F. Baumer a La Grande Madre. Scenari da un mondo mitico, traduz. di G. Quattrocchi, Genova, Ediz. Cultur. Internazionali, 1995, p. 12. 6 D. Campana, Canti Orfici, cit., p. 67. 6 W. Goethe, Faust, cit., p. 553, vv. 6246-6248. SVI, pd VI0247

Appunti per una biografia: Bino Binazzi Gloria Manghetti «Tu, Dino Campana, coll’alta autorità di poeta nomade

scrivi che in questo è perfetta letizia» (B. Binazzi, Umbria, 1916).

Sempre arduo è tracciare il ritratto di un autore che, rimasto isolato dal corso della letteratura italiana a lui contemporanea, troppo spesso è stato relegato al ruolo di «minore», eludendo così la possibilità di accostarsi al

segreto dell’uomo fino a farcene scoprire il riflesso vivido e inquieto nell’opera letteraria, ma non solo. Chi, comunque, di Bino Banazzi ha parlato,

e si tratta sempre di nomi importanti, non ha mai tralasciato di insistere sulle «umanissime» qualità di quel toscano che, si è detto, rassomigliava al Giovanni dalle Bande Nere dipinto dal Bronzino, una figura nobile con, per insegna, «la poesia e la bontà»!. Non è certo un caso che Giuseppe De Robertis nel recensire la raccolta postuma delle Poesie, uscita nel 1934 con

commossa e affettuosa introduzione di Ardengo Soffici?, stentando a riconoscere a Binazzi vere doti di poeta, tale, a suo parere, solo a tratti, conclu-

! A. Viviani, Giubbe Rosse (1913-1914-1915), Firenze, G. Barbèra, 1933, p. 174. Il ritratto di Binazzi tratteggiato da Viviani così prosegue: «La triste miseria che mai gli si staccò da dosso aveva di certo fatto più pensosi e fondi i suoi occhi e aveva corretto tra la bocca e il naso l’espressione dei suoi lineamenti» (p. 174). 2 B. Binazzi, Poesie, con Introduzione di A. Soffici, Firenze, Vallecchi, 1934. Il libro,

«edizione

completa»

della produzione

poetica di Binazzi, riproduceva le raccolte

Eptacordo, Turbini primaverili, La via della ricchezza insieme a traduzioni, frammenti e

testi sciolti. L’impresa, alla quale cooperarono il fratello del poeta, Mario, e alcuni amici, fu finanziata dal Comune di Prato. Soffici nell’ Introduzione (pp. V-XIX), oltre a riconoscere a Binazzi un ruolo di primo piano nella «rigenerazione» della poesia italiana, ricostruisce anche la storia della sua vita, fornendo utili dettagli nella speranza che possano «[...] nel futuro servire di traccia a coloro i quali, occupandosi della sua opera di poeta e di scrittore, varia, multiforme,

spesso eccellente geniale, sempre interessante, vorranno delineare un compiuto ritratto della persona nel quadro del suo ambiente familiare e storico» (p. IX). La stima e l’affetto che legarono Soffici a Binazzi sono testimoniati anche in altri interventi dell’artista dedicati all’amico: Elogio di Bino Binazzi, in Ricordi di vita artistica e letteraria (1930), ora

in Opere, vol. VI, Firenze, Vallecchi, 1965, pp. 101-108; Vent'anni di Bino Binazzi, ivi, pp. 372-375. Binazzi dedicò a Soffici una poesia (Soffici) dove, tra l’altro, si trova il seguente riferimento autobiografico: «Così ti pensa il notturno amico sotto il globo elettrico spettrale / Nell’orgia plumbea del giornale / O vagabondo per le strade usuali / mentre nei palazzi abituali pallidi arazzi d’oro sprimaccia il sole dei pomeriggi usuali» (in Poesie, cit., p. 195).

124

Appunti per una biografia: Bino Binazzi

Fig. 37. Bino Binazzi e Francesco Meriano, negli anni della “Brigata”.

desse: «L'uomo, però, e l'animo suo, valevano di più, assai più di quello che ci ha lasciato»3. Autore, tra il 1907 e il 1919, di versi, a torto o ragione, dimenticati, Binazzi, rimasto, tra alterne vicende, forse a causa anche di 3 G. De Robertis, Binazzi. Poesie, in Scrittori del Novecento, Firenze, Le Monnier, 1940, p. 129. Il testo del critico così iniziava: «Umanissime pagine ha premesso Ardengo

Gloria Manghetti

125

una sorte avversa, in margine alla poesia e, più in generale, alla storia letteraria di quegli anni, sembra quindi sopravvivere nella memoria di chi lo ha conosciuto piuttosto per una altruistica predisposizione nei confronti del mondo e della vita che non per la sua arte. Pochi e sparsi gli indizi oggi a nostra disposizione per tentare di svelare quel segreto riflesso anche, e soprattutto, in altre vite da Binazzi incrociate «col suo passo di frate cercatore»*. Tra questi sicuramente occupano un posto di primo piano le carte che la figlia dello scrittore, Giovanna, affidò nel 1980 a Primo Conti perché venissero custodite nella Fondazione fiesolana voluta dall'artista. I documenti raccolti sotto il titolo Fondo Bino Binazzi costituiscono, infat-

ti, un utile supporto per l’approfondimento a posteriori della vita e della personalità di chi errò «di vicenda in vicenda», solcò «mar procelloso», conobbe il «martirio divino». Senz’altro se ne può ricavare che Binazzi, di

patriarcale famiglia contadina del Valdarno superiore, essendo nato il 18 novembre

1878 a Figline in provincia di Firenze, aveva interrotto la sua

carriera di studente al fiorentino Istituto di Studi Superiori a causa del tracollo finanziario del padre, Olimpio, mercante di cotonine e tintore, poi trasferitosi a Prato. Era il 1900 e Binazzi, dopo un’infanzia agiata e sereSoffici alla raccolta di versi di Bino Binazzi: quanto criticamente vere non so. Prendiamole come ideale immagine di uno che, non proprio caro, ma devoto fu alla Musa. La poesia di Binazzi è tutt'altro che ricca di nuovo, ma ricca è, — se pur questa è ricchezza, — di atteggiamenti, di modi nuovi, o curiosi» (p. 124). *G. Raimondi, Bologna vista dalle mura e Binazzi

a Monte Paderno, in I divertimenti

letterari (1915-1925), Milano, Mondadori, 1966, p. 82. Sempre di Raimondi cfr. Un fantasma con le scarpe chiodate, in «Il Giorno», 9 luglio 1975, p. 3. 5 Per una descrizione del Fondo Bino Binazzi si rimanda alla Presentazione e all’ Inventario a cura di M.R. Gerini, in Futurismo e avanguardie. Documenti conservati dalla Fondazione

Primo

Conti di Fiesole.

Inventario,

a cura di P. Bagnoli, M.R.

Gerini, G.

Manghetti, Milano, Giunta regionale toscana & Editrice Bibliografica, 1992, pp. 17-56. Presso la Fondazione Conti è conservato anche un importante nucleo di corrispondenza (39 documenti) indirizzata da Binazzi all'amico e collega Francesco Meriano e presente

nell’archivio di quest’ultimo (cfr. Presentazione e Inventario del Fondo Francesco Meriano a cura di G. Manghetti, ivi, pp. 107-294). Cfr. anche le schede relative ai due fondi, a cura di A. Brogi, in Guida agli archivi delle personalità della cultura in Toscana tra ‘800 e ‘900. L’area fiorentina, a cura di E. Capannelli e E. Insabato, Firenze, Olschki, 1996, pp. 97-98 e 390-391. La pubblicazione di alcuni documenti inediti conservati nei fondi Binazzi e Meriano è stata possibile grazie alla cortese autorizzazione di Giovanna Binazzi, Carlo Ernesto Meriano, Caterina Soffici e del Comitato scientifico della Fondazione Primo Conti.

6 La lunga permanenza della famiglia Binazzi a Prato ha fatto sì che spesso allo scrittore siano stati attribuiti erroneamente natali pratesi. A tale proposito si riporta un passo significativo di una lettera di Bino a Giovanni Papini: «Un'altra volta quando tu voglia alludere a me per sbertucciarmi, sappi che non è esatto (oh debolezza degli uomini!) citar Prato. Io son nato in un paese assai più rustico e meno illustre: a Figline distante

126

Appunti per una biografia: Bino Binazzi

na, poco più che ventenne, improvvisamente precipitò in una condizione di disorientamento dalla quale, forse, non trovò mai il modo di riemergere. In

nome della licenza liceale presa ad Arezzo e della fede incondizionata nella cultura classica, non abbandonò, però, gli studi, portandoli avanti da autodidatta con ardore e scrupolo tali da farlo ricordare come «l’unico, fra i tanti, che avesse una solida cultura umanistica»?. Tuttavia l'entusiasmo innocente che lo animava, non accompagnato da una benché minima sere-

nità economica, fece sì che molto presto l’allegro studente di un tempo si trasformasse tout court in un «povero sapiente», uno «spostato sociale», una sorta di «umanista vagante»8. Per oltre dieci anni girovagò per tutta

Italia vendendo la sua dottrina come precettore presso collegi e convitti, da Prato a Terni, da Roma a Assisi, da Spoleto a Torino. Chi lo conobbe nel

periodo del suo pellegrinaggio in qualità di istitutore non ha mancato di sottolineare come Binazzi si sentisse insoddisfatto della propria condizione, dalla quale evadeva scrivendo poesie e intrattenendo, per quanto possibile, rapporti con intellettuali quali Jean Carrère, Adolfo De Bosis, Louis Le Cardonnel che il caso gli aveva fatto incontrare. «Mi par di vederlo nel grande refrettorio del convento — ricordava Vittorio Franchini — seduto fra i suoi alunni grandi, tutti studenti della Scuola normale o dell’Istituto tecnico, in alto in una specie di coro mentre io me ne stavo a una tavolata lontana nella squadra dei piccoli. [...] / Mi parlava, mi parlava tanto ma io notavo il suo rammarico

di trovarsi lì dentro prigioniero, come

me, fra

quelle vecchie mura di travertino gialliccio mentre col pensiero rincorreva chissà quali sogni. [...] / Infatti un giorno mi disse che doveva partire, doveva pensare al suo avvenire e che mi avrebbe scritto e seguìto negli studi». Così, tra la fine del 1912 e i primi mesi del ’13, questo «umanista

nove miglia dal Bombone ed ho alimentato la mia infanzia artistica con l'ammirazione di Penco di Leccio (quello che paga e difende, domandalo a Soffici) e di quel magnifico bombon di cioccolata e zucchero che è la Villa di San Mezzano» (Lettera di B. Binazzi a

G. Papini, da Bologna, 21 Febbraio 1915, in V. Franchini, Poeti di “Lacerba”. Bino Binazzi. Il poeta lo scrittore il giornalista nel Quarantesimo della morte in un carteggio inedito con Giovanni Papini, Firenze, Quaderni de «Lo Sprone», 1970, pp. 27-28). ? Candido [Curzio Malaparte], Testimonianza di Bino Binazzi, in «Corriere della Sera», 14 giugno 1935, p. 3. A cinque anni dalla scomparsa dello scrittore e in occasione dell'uscita della ricordata edizione completa delle sue liriche, Malaparte gli dedica un lungo articolo dove all’ammirazione si somma il ricordo affettuoso per il «maestro» che, a Prato,

lo aveva avviato allo studio e alla lettura dei classici. 8 A. Soffici, Introduzione, cit., pp. XII, XIV. ° V. Franchini, op. cit., pp. 7-8. Vittorio Franchini, anch’egli originario di Figline, conobbe Bino nel 1908 ad Assisi nel collegio Principe di Napoli. Di Franchini cfr. anche Bino Binazzi, in Profili di scrittori e artisti, Firenze, Lo Sprone, 1968, pp. 55-60.

Gloria Manghetti

2;

senza pesantezza e toscano senza sciatteria»!° approdò a Firenze. La scelta di recarsi nel capoluogo toscano solo in parte fu determinata dall’avervi trovato lavoro in qualità di redattore del «Fieramosca», foglio popolare ingloriosamente chiuso nel 1913, che comunque avviò il poeta, per «necessità pratica», all’esercizio della «bassa cucina giornalistica»!!. Alternando

la residenza fra Firenze

e Prato, Bino fu soprattutto attratto dal

vivace dibattito culturale che all’epoca animava la città gigliata, dibattito al quale prese parte attiva. Entrato in contatto con gli intellettuali che di lì a poco

avrebbero

dato vita a «Lacerba»,

si fece notare

come

accanito

conversatore nei luoghi di ritrovo canonici, soprattutto al caffè Giubbe rosse, dove, con il suo «eloquio arrotondato da brevi gesti della mano che aveva fine ed aristocratica»!?, volentieri si intratteneva insieme ad amici quali Soffici, Papini, Palazzeschi, Tavolato, Viviani. Lo spirito poetico che lo animava, unito all’entusiasmo dell’autodidatta e al desiderio di conqui-

starsi un proprio spazio nel dibattito nazionale, faceva sì che Binazzi non perdesse occasione di essere «a crocchio» ogni volta che poteva. Nell’ambiente era già noto per le sue prime raccolte di versi, Eptacordo, Canti sereni, Turbini primaverili, Oltre il dolore!3, tutte di matrice carducciana e

pascoliano-dannunziana, con suggestioni della laude trecentesca così come di un certo dialettalismo toscano. Ascrivibile nell’ambito di una poesia d’ispirazione classica, questa produzione giovanile era stata accusata di scarsa originalità tanto sembrava esclusivamente protesa a cercare la «grazia antica». Il contatto con il futurismo fiorentino, filtrato soprattutto attra-

verso l’esperienza paroliberista di Soffici e autoironica di Palazzeschi, condizionò però solo marginalmente il poeta di quegli anni. Binazzi, che peraltro fu tra i collaboratori di «Lacerba»,

limitandosi, «Son pagine vissute. / Ma chio ai poeti

non fece sua l’avanguardia,

semmai, a dirottare la propria attenzione dal sé alla storia: di storia / che voi imparaste a memoria / e che credete d’aver per la salute / della vostra oscillante ragione / porgete l’orec/ più lieti / nati al mondo dallo scoppio d’un cannone, / dai

10 F. Meriano, Autobiografie di scrittori e di artisti del tempo fascista. Francesco Meriano, in «L’ Assalto», settimanale della Federazione provinciale fascista a Bologna, 7 gennaio 1928, p. 3. !l Rispettivamente: A. Soffici, Introduzione, cit., p. XV; id., Elogio di Bino Binazzi, (©liz195 JMOPZ

12 A. Viviani, op. cit., p. 174. 13 Eptacordo, Assisi, Tipografia Metastasio, 1908; Canti sereni, Roma, Edizione de «La vita letteraria», 1909?; Turbini primaverili, Roma, Edizione de «La vita letteraria»,

1910; Oltre il dolore, Prato, Società Lito-Tipografica Pratese T. Grassi e C., 1911. Del

1913 è la raccolta Cose che paion novelle...

l’attività di Binazzi narratore.

(Firenze, L. Baldoni e C.), che documenta

Appunti per una biografia: Bino Binazzi

128

frammenti d’un obice fatato, / tra vapori di zolfo e di nitrato»!4. Più o meno

consapevolmente, infatti, lo scrittore perseguiva un ideale poetico di fatto estraneo ad ogni scuola o corrente artistica, rimanendo, nel complesso, al di qua dei nuovi esiti della poesia italiana primonovecentesca. E questo contribuisce in parte a spiegare la scarsa notorietà del suo nome e della sua opera. Inoltre, Binazzi credeva fermamente in una formazione culturale nel rispetto della tradizione classica, in tacito contrasto con quanti allora ne

predicavano la distruzione. A tale proposito Malaparte ha scritto: «[...] Bino Binazzi non voleva che io mi mescolassi al movimento futurista di “Lacerba”, giudicando che io fossi troppo giovane, e che dovessi prima formarmi una solida base classica, prima di tentare il nuovo. Aveva ragio-

ne, e sarò sempre grato alla sua memoria di aver impedito che mi distraessi, come molti giovanissimi di quel tempo, nella troppo facile palestra del futurismo»!. Intanto, ancora per necessità economiche, Binazzi fu costretto a trasferirsi, dal 1914, a Bologna dove, al «misero stipendio di 200 lire»!9, iniziò

a lavorare nella redazione del «Giornale del mattino». L'impegno quotidiano del giornalismo, al quale fu «condannato» per tutto il resto della sua pur breve vita, non costituì molto più che un semplice mezzo di sostentamento, che praticò comunque con la sua «umanistica e poetica»!7 personalità. D'altra parte, fin dagli esordi, Bino fu fedele ad un'etica dell’impegno e del lavoro che travalicava i ristretti confini di una realtà resa complessa

14 B. Binazzi, E non parliamo di guerra..., in «Lacerba», a. II, n. 24, 1 dicembre 1914, pp. 327-328. A proposito dell’influenza di Palazzeschi, si ricordano le parole di Binazzi nel recensire L’incendiario: «Veramente noi, che ci travagliamo con acre piacere in un’intensa vita interiore, alimentata da una sensibilità, che non conobbero i più vecchi di noi,

preferiamo qualcosa di diverso: una sorta di neronianismo raffinato e trasportato interamente dal piano della vita materiale a quello della vita spirituale. E anche in questo senso il nostro Aldo è il più baldanzoso e il più simpatico degli incendiari» (B. Binazzi, «L’incendiario», in Antichi moderni e altro. Saggi letterari, Firenze, Vallecchi, 1941, pp. 247248). !5 C. Malaparte, Brano da un’intervista, in Malaparte, a cura di E. Suckert Ronchi, vol. I (1905-1926), Città di Castello, Tibergraph, 1991, p. 22. Lo scrittore concludeva: «Binazzi ha una grande importanza nella mia vita». !6 Lettera di B. Binazzi a G. Papini, da Bologna, 5 Agosto 1914, in V. Franchini, op. cit., p. 21. In una lettera più tarda sempre a Papini, Binazzi fa un accenno al soggiorno bolognese: «La vita bestiale condotta a Bologna e i molteplici contatti con materialisti,

scettici, amorali, ecc. e le molte mie esperienze mi hanno forse precluso per sempre ogni possibilità di ritorno alla meravigliosa armonia interiore che fu l’alimento della mia adolescenza e puerizia» (Lettera di B. Binazzi a G. Papini, da Bologna, 11 Marzo 1921, in V. Franchini, op. cit., p. 39).

WA Viviani, op. citt paro:

Gloria Manghetti

129

dalle molte difficoltà in cui si dibatteva. «È segno di bassezza d’animo il pensare che il dovere sia legato al sacrifizio. Il dovere è necessità delle coscienze illuminate», scriveva attorno al 1900 ad Assisi, mentre si trovava

al collegio Principe di Napoli. E nello stesso Quaderno di pensieri e osser-

vazioni annotava: «Chi studia coll’unica idealit[à] di conquistarsi un im-

piego facile e lucroso è assai meno stimabile del facchino che per guadagnarsi un bicchiere d’acquavite piega la groppa sotto un peso schiacciante»!8. Le collaborazioni giornalistiche di Binazzi spaziavano dalla letteratura, alle arti figurative, alla cronaca bellica, alla quale dedicava intensi

articoli, spesso, per sua stessa ammissione, non firmati, che gli permettevano, da riformato, di servire comunque la patria!?. E fu proprio sulle colonne del «Giornale del mattino» che il giornalista-critico letterario intervenne, per primo, con una favorevole recensione ai Canti orfici di Dino Campana. Come è noto quell’intervento, datato 25 dicembre 1914, sottrasse il poeta di Marradi dall'anonimato in cui era praticamente caduto, suscitando peraltro accese polemiche da parte di chi non riconosceva a Campana autentiche qualità di poeta. «Caro Binazzi / Tu mi dici che non ci sono poeti di primo e second’ordine ma si è poeti e non poeti. Ebbene non mi pare che Campana sia di una statura quale vorresti fare apparire», gli scriveva Papini in risposta ad una accalorata lettera di Bino in difesa dell'articolo ricordato: «[...] credo di aver ragione e ti prego di credere che se anche per combinazione avessi esagerato per entusiasmo, non me ne pento affatto perché rimane ferma la convinzione che questo bel tipo di Campana è destinato a scriver grandi cose. La stoffa c’è. La sua vita randagia è per me un fatto che incontra tutta la mia simpatia. Poi Campana è povero e se io ho potuto contribuire a fargli vendere qualche volume ciò mi sembra meglio della... letteratura e della critica. / Bada bene, però, che io sostengo sempre che i Canti Orfici sono un ottimo libro dove si sente l’alito di una creatura viva e anelante fin dalla prima pagina. [...]/ Quanto alla distinzione che fai di poesia di primo e second’ordine, io penso che non esiste altro

18 Nel Fondo Bino Binazzi è conservato, nella sezione Manoscritti, un Quaderno di

pensieri e osservazioni (FC/BB II Ms. I.1) dove, su 42 facciate di pagine di un quaderno a righe, si trovano riflessioni, poesie, appunti autografi, senza data, ma sicuramente dei primi anni del 1900. Sulla copertina del quaderno, a stampa, «Collegio Convitto Principe di Napoli. Assisi». Le citazioni sono tratte dalle pp. [1] e [2]. Inedito.

19 «Sono rientrato fino agli occhi nella stampa quotidiana. Però in questo momento mi piace di avere a disposizione le colonne di un giornale democratico... Ho scritto articoli non firmati sulla Serbia, sulla Russia e sul Montenegro, ecc., ed ho augurato la revanche

alla Francia» (Lettera di B. Binazzi a G. Papini, da Bologna, Franchini, op. cit., p. 22).

12 Agosto

1914, in V.

Appunti per una biografia: Bino Binazzi

130

che poesia e non poesia»?0. E Binazzi, come ricorda Giuseppe «[...] era la causa delle fugaci comparse di Campana nei caffè dopo i soggiorni bolognesi di costui del tempo universitario»?!. apparizioni campaniane al caffè San Pietro, Bino, «altalenando suo ciuffo di capelli radi quasi di monaco»,

Raimondi, bolognesi, Durante le il capo, il

costituiva il solo, discreto

tramite tra il poeta, schivo e taciturno, e alcuni artisti e intellettuali che qui si ritrovavano,

come

Francesco

Meriano,

Giovanni

Cavacchioli

di

Mirandola, Mario Pozzati, lo stesso Raimondi, Filippo De Pisis. Quest’ ultimo, molti anni più tardi, nel complimentarsi per la raccolta, La via della ricchezza, richiamava con rimpianto «le nostre serate e ore Bolognesi»,

manifestando simpatia per il ricordo di Binazzi e del suo spirito generoSO24 Nel giugno 1916 lo scrittore fu poi protagonista, insieme al poeta Francesco Meriano, della fondazione a Bologna della rivista «La Brigata»?3. Nel nuovo mensile, a cui i due amici, diversi per età, provenienza, formazione, entrambi trascinati dalla sorte in Emilia, dettero vita, si respirava

ancora la spregiudicatezza eretica e stilistica dell’avanguardia insieme al rispetto per la tradizione, della quale Binazzi, in nome anche di una im-

20 Rispettivamente: lettera di G. Papini a B. Binazzi, da Firenze, 15 Gennaio 1915; lettera di B. Binazzi a G. Papini, da Bologna, 10 Gennaio 1915, ambedue in V. Franchini,

op. cit., pp. 26-27. A tale proposito cfr. anche D. Campana, Le mie lettere sono fatte per essere bruciate, a cura di G. Cacho Millet, Milano, All’insegna del pesce d’oro, 1978, pp. 137-145 (carteggio Campana-Binazzi). Su Campana lo scrittore torna, sempre nel «Giornale del mattino», il 14 luglio 1915. Si ricorda, infine, che la seconda stampa dei Canti orfici esce a cura e con Prefazione di Binazzi (Canti orfici ed altre liriche, Firenze, Vallecchi, 1928). Campana dedica a Binazzi Toscanità, pubblicata, col titolo Toscanità a Bino Binazzi, nella «Riviera ligure», 1 novembre 1915; l’anno successivo nella stessa rivista esce

Umbria

(1 gennaio

1916), una lirica di Binazzi

da cui sono

tratti i versi

riportati in epigrafe. Cfr. anche C. Pariani, Vite non romanzate, di Dino Campana scrittore e di Evaristo Boncinelli scultore, Firenze, Vallecchi, 1938, pp. 47-56; E. Falqui, Campana e il carteggio con Novaro, in Novecento letterario italiano, vol. V, Firenze, Vallecchi, 19737 pp. 123-155: 2! G. Raimondi, Incontri bolognesi con Dino Campana, in Dino Campana oggi, Atti del Convegno tenutosi a Firenze, Gabinetto G.P. Vieusseux, 18-19 marzo 1973, Firenze, Vallecchi, 1973, pp. 137-138. 2 Lettera di F. De Pisis a B. Binazzi, da Assisi, 1 luglio 1923. Inedita. (Fondo Bino Binazzi). L'ultima raccolta di poesie di Binazzi, La via della ricchezza, esce, con dedica

a Giovanni Papini, nel 1919 presso Vallecchi. 23 Per notizie sulla rivista «La Brigata» e su Francesco Meriano (Torino, 1896-Kabul, 1934) cfr. «La Brigata» [1916-1919], riproduzione anastatica a cura e con introduzione,

La «seria gaiezza» di una rivista postfuturista, di G. Tellini, Parma, Università di ParmaRegione Emilia Romagna, 1983; F. Meriano, Arte e vita, a cura di G. Manghetti, C.E. Meriano, V. Scheiwiller, con tre carteggi di U. Saba, E. Montale, G. D®Annunzio, Intro-

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Dino Campana triste a morte * Riccardo Bacchelli

Dino Campana in vita sua n’ha fatte tante, che gli c'entrava anche e perfino il proposito, ogni tanto, di far giudizio e di mettersi in regola con la società. Così, anni prima di pubblicare Canti Orfici, si iscrisse a Bologna studente in chimica nella illustre scuola del grande Ciàmician. Non so quanto ne imparasse, ma credo che la sua carriera di studente e il proponimento della saggezza finissero in una lite, ch’egli ebbe a attaccare non so con chi e non so perché; forse, come gli avveniva, senza perché. Fu nei pressi dell’ Università, in Via Zamboni.

Era un uomo calamitoso, Campana, quando entrava in uno di quei suoi furori d'anima persa e d’uomo allo sbaraglio. La lite prese subito un andamento tale da richiedere l’intervento della forza pubblica, di quegli agenti in palandrana azzurra scura e in chepì, chiamati allora «questurini». Il loro intervento non placò né intimidì Campana, nato refrattario ad ogni ordine costituito, ribelle di natura. La zuffa diventò grandiosa e disperata, con danno dei chepì dei custodi del buon ordine sociale, finché 1 questurini

pervennero a ficcare il poeta ben pesto e carico di botte in una vettura di piazza, per portarlo in guardina. Il fatto mi è stato raccontato dall’amico Morandi, l’eccellentissimo pittore, che vi fu testimone, se ben ricordo, o da testimoni n’ebbe notizia; ma in sé, il fatto che Campana leticasse, non aveva nulla di straordinario. La cosa straordinaria, e a suo modo bella, fu che nessuno sforzo della forza

pubblica pervenne a ridurre e a far piegare dentro il veicolo, che era una vettura chiusa, le gambe del catturato, tutt'e due. Una, almeno una, gli riuscì di tenerla, irriducibile, stesa e protesa, rigida, fuori dello sportello chiuso soltanto a mezzo; e la carrozza, se i questurini voller andare e metter fine a tanto disordine, dovette partire con quella gamba mezza fuori, a insegna d’inflessibile protesta e ribellione. Si sa che quando Campana infuriava, era da far paura veramente. L’occhio, allora, gli si caricava d’un sereno e d’un azzurro di cielo serenante e

* «La Stampa», 17 aprile 1954.

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Dino Campana triste a morte

azzurreggiante a tempesta, quell’occhio che nella simpatia esprimeva dolcezza e umanità profonde, acume intento e trasognato ad un tempo, tristezza, sempre, d’un irrimediabile e disperato sperimento e presagio di infelicità e di pena. Coraggiosa tristezza, per altro; se no, non avrebbe trovata, lui, una così severamente limpida sentenza: che «ogni fenomeno è di per sé sereno». Gli accadeva, quando l’ira gli schiariva lo sguardo e gli abbuiava l’animo, di levarsi dal luogo e dalla compagnia, come per fuggire sé e il proprio furore rovinoso. Ma sovente non gli riusciva, pur fuggendo, di allontanarsi dal luogo e dalle persone, e si metteva a girare nei paraggi e all’ingiro, tomo tomo, con un suo passo di mezza corsa, con un’andatura da uomo

lupesco, stralunato in viso e inselvaggito, brandendo il suo bastone. A volte, sfogato, tornava alla compagnia senza dir nulla; più spesso, si dileguava e spariva. Il bastone era quella rustica mazzetta leggiera e robusta, sul pomo della quale, nei suoi ozi di vagamondo di terra e di mare, non inesperto di carceri e di manicomi, aveva scolpita una faccia scarna e penosa, ch'egli chiamava faccia dell’umanità dolente. Ma straordinaria, ancor più che lira sua sfogata, era la capacità ch’egli aveva d’esprimere una qualità di disprezzo freddo, gelidamente. Così, quando aveva venduto a qualcuno un esemplare del libro, che vendeva personalmente, prima di consegnarlo all’acquirente, ne stracciava questa o quella pagina, dicendogli che non eran per lui. Poteva essere un attestato di considerazione intellettuale, ma molto più spesso era di disprezzo. Credo che l’aneddoto sia stato raccontato: al Marinetti, fastoso e clamoroso duce del futurismo, toccò questa: che Campana, posatamente, si mise a stracciar pagine una dopo l’altra; questa non era per lui, quest'altra nemmeno; finché le ebbe stracciate tutte, e gli consegnò la copertina nuda e vacante. Era la copertina che recava nel verso la famosa epigrafe in tedesco: La tragedia dell’ultimo germanico in Italia, mentre i Canti Orfici erano stati dedicati nientemeno che a Guglielmo Il re di Prussia e imperatore di Germania, per via di quell’umore refrattario e inconciliabile, fantasiante, che d'altra parte dettava al barbuto e biondoscuro toscoromagnolo di Marradi toscana, una risposta, quando gli dicevano che aveva faccia germanica: «Italiana di quelle buone d’una volta, invece: andate a vedere nei musei!». E veramente somigliava certe faccie donatelliane della scoltura toscana, o della pittura veneziana, sode e robuste.

Quei suoi umori e risentimenti razziali, simili d’altronde a quello dell’uom salvatico che s’attrista del bel tempo e del brutto s’allegra, si conformavano di fatto a una sua fiera melanconia, a una nostalgia d’ognidove e d’ogniquando, che opera nel suo immaginarsi qual «Faust a

Riccardo Bacchelli

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Bologna». E sono fra le pagine di lui più belle, riccamente cadenzate, più calde e colorite, esaltate ed accese, in profondo, dal colore e dalla sensuosità

bolognese, mentre la prosa sua più nitida e alata si spiccò dal monte della Verna, la più ariosa e chiara aleggiò nelle piazze luminose della vecchia Genova. Frattanto, la poesia di quel Figlio della Leggiera era stata scoperta dagli scrittori di «Lacerba», futuristeggianti e interventisti, come si sa. E l’inter-

ventismo prendeva quel sopravvento che anche si sa. Non credo che Cam-

pana annettesse intenti politici a quelle manifestazioni d’una germanofilia stravagante, né poi al provvedimento che prese di sopprimere la dedica e di occultare sotto una striscia di carta incollata l’epigrafe. Seguiva semmai la sua astuzia di fuoriregola, la sua malizia picaresca, ch’era poi la medesima, sardonica e sorniona e spregiosa, che balenava nei suoi detti di misantropo acre e disperato, e di intenditore di letteratura, a sprazzi, finissimo, sottile, esigente e impaziente. A me, benché ci fossimo incontrati pochissime volte, aveva dato il suo maggiore attestato di simpatia: il libro in esemplare integro e non depennato, e l’appellativo di «vivente», «Caro vivente», come intestava le sue rare missive, di solito chiuse con l’amara sottoscrizione: «Triste a morte». Fatto sta che una sera a Bologna, mentre aspettavo di giorno in giorno la partenza per il fronte, me lo vidi capitare a casa, perché voleva andar sotto le armi e alla guerra, e mi chiedeva aiuto e consiglio, avendo

sentito parlare di

nomine a ufficiale per titoli di studio. Ed egli voleva appunto esser nominato ufficiale, perché, diceva, da soldato semplice non se la sentiva. E poteva sembrare strano, con le vite che aveva fatto allo sbaraglio delle più nere miserie di giramondo senza arte né parte; ma di fatto, e quelle «vite», e il successo

del libro, e la considerazione

che esso gli cominciava

a

procurare, gliene davano il gusto e il desiderio, e, come succede, gli levavano la voglia e la lena di ributtarsi ai travagli. Ed era anche stanco, molto comprensibilmente. Me lo ricordo, alquanto imbarazzato e quasi vergognoso di quel desiderio di regolarità, di comodità, di rispettabilità, e d’indossare una uniforme, lui, l’uomo meno uniformabile che io abbia conosciuto. Insomma, era un desiderio molto umano. Siccome non sapevo come consigliarlo, lo condussi, a tarda notte, al «Resto del Carlino», per ricorrere alla competenza, in fatto di cose militari, di Aldo Valori, il quale fu cortese con me e con lui, e esaminò il caso.

L’esito fu penoso. Risultò infatti che Campana era stato riformato per vizio di mente, il che rendeva improbabile che fosse ripreso sotto le armi, probabilmente impossibile che gli fosse conferito un grado, a meno di non sottoporsi ad accertamenti medici, che nella fattispecie significavano entrare in osservazione in manicomio.

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Dino Campana triste a morte

Mi par di rivederlo, quella notte al giornale, come scosse un poco il capo, stancamente, scorato più che costernato o spaventato, benché fosse ben comprensibile che non si sentisse d’affrontare quel genere di osservazione e d’esperimento, uno che ne sapeva già qualcosa, uno, come di fatto accadde poi, che aveva nel sangue il più orribile fra tutti i morbi. Non disse altro, l’infelice, non disse più nulla, mentre lo accompagnavo, ch’era ormai l’alba, alla stazione: una triste alba, triste a morte, per dire come le cartoline ch’ebbi al fronte da lui. Poi, non ci siamo più incontrati,

dopo quell’alba per le strade di Bologna, nella primavera del 1915.

Studente a Bologna * Federico Ravagli

In un frammento lirico e in due prose dei Canti Orfici, fissa Campana sensazioni pensieri fantasie della sua vita bolognese. Ecco, in una cornice di cielo, lo spettacolo animato e gaio della folla

che va su e giù per le vie del centro, fra architetture solenni di storia: Le rosse torri altissime ed accese Dentro dell’azzurrino tramonto commosso

di vento,

Vegliavano dietro degli alti palazzi le imprese Gentili del serale animamento!.

Poi s’aprono gli scenari luminosi, e appaiono gli scorci, le figure, le prospettive iridescenti di Scirocco. È una Bologna d'eccezione, quella che, all’inizio di questa prosa, lo scrittore ci rappresenta in un dicembre inoltrato: una Bologna un po” fantastica e letteraria, iperbolica pittoresca ed esotica, con le «travature colossali nei palchi aperti dei suoi torrioni»: è una città, che in virtù delle calde folate di vento, suscita potenti nostalgie, impensati accostamenti, miracolose sovrapposizioni. Adorna di riflessi, di barbagli, di equoree lontananze, troppo cela il suo volto, per essere a noi valida e schietta, genuina e verace. Ma tanto è qui il magistero dell’arte, che non certo ci duole di questa visione incantata e composita. Così, ben presto appaiono gli aspetti che ci son familiari: portici e torri,

visi di donne e sepolcreti, chiarità diffuse e masse d’ombra. E si respira un’atmosfera d’ebbrezza, una commozione stupefatta di sogno?. * Dalla rivista «Portici» - n. 10, giugno 1951. Poi in Fascicolo marradese inedito del poeta dei “Canti Orfici”, Firenze, Giunti, 1952.

1! Questa quartina fu pubblicata la prima volta da Campana, insieme ad un’altra, nella Riviera ligure del marzo 1916, col titolo Vecchi versi («San Petronio, Bologna»). Ripubblicata come parte del già citato Notturno teppista, ne La Teda del novembredicembre 1922, fu edita una terza volta in appendice ai Canti Orfici, a cura di Binazzi; per apparire finalmente negli Inediti ad opera di Falqui. 2 Cosi il Pariani riferisce le informazioni date da Campana su Scirocco (Bologna): «Dino apre la finestra della camera e osserva Bologna sotto i soffi dell’afoso vento austrorientale. — Stavo all’ultimo piano: ero in alto, vedevo tutto, — Poi esce; descrive,

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