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DANIELE GIANOTTI I Padri della Chiesa al concilio Vaticano II
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collana BIBLIOTECA DI TEOLOGIA DELL’EVANGELIZZAZIONE diretta da Maurizio Marcheselli La collana pubblica studi e ricerche maturate nell’ambito della Facoltà teologica dell’Emilia-Romagna. Essa ospita indagini di taglio teologico e culturale, biblico e storico, filosofico e sistematico in riferimento alla teologia dell’evangelizzazione. Tale orientamento è caratteristico della Facoltà teologica emiliano-romagnola, in cui a percorsi di teologia dell’evangelizzazione se ne affiancano altri interessati al momento speculativo e sistematico e altri ancora alla storia della teologia. BTE s’interessa agli aspetti «fondativi» dell’annuncio del vangelo: il concetto di evangelizzazione, i destinatari-interlocutori, il contenuto e i metodi. Al tempo stesso, e proprio per la fedeltà al binomio vangelo e cultura che determina l’ambito di una teologia dell’evangelizzazione, la collana mantiene aperto l’orizzonte sui diversi fronti in cui il fare teologia è oggi impegnato. Dire il vangelo nell’attuale contesto culturale implica un’attenzione rigorosa a cerchi concentrici, sui versanti ecclesiale, culturale, missionario, ecumenico e interreligioso.
1. E. MANICARDI, Gesù, la cristologia, le Scritture. Saggi esegetici e teologici 2. M. MARCHESELLI, «Avete qualcosa da mangiare?» Un pasto, il Risorto, la comunità 3. G. BENZI, Ci è stato dato un figlio. Il libro dell’Emmanuele (Is 6,1–9,6): struttura retorica e interpretazione teologica 4. Il Vaticano II in Emilia-Romagna. Apporti e ricezione, a cura di M. TAGLIAFERRI 5. E. CASTELLUCCI, Annunciare Cristo alle genti. La missione dei cristiani nell’orizzonte del dialogo tra le religioni 6. D. GIANOTTI, I Padri della Chiesa al concilio Vaticano II. La teologia patristica nella Lumen gentium In preparazione G. ZIVIANI, La parrocchia nel Vaticano II P. BOSCHINI, Cristianesimo e pensiero borghese all’inizio del ’900
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Daniele Gianotti
I Padri della Chiesa al concilio Vaticano II L A T E O L O G I A PAT R I S T I C A N E L L A LU M E N G E N T I U M
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Realizzazione editoriale: Prohemio editoriale srl, Firenze
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2010 Centro editoriale dehoniano via Nosadella, 6 – 40123 Bologna www.dehoniane.it EDB®
ISBN 978-88-10-45006-2 Giammarioli, Frascati (RM) 2010 Stampa: Tipografia 2010
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Alla memoria del padre conciliare mons. Gilberto Baroni (1913-1999) pastore della Chiesa di Reggio Emilia dal 1965 al 1989 e della Chiesa guastallese dal 1970 al 1989
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Ogni volta che la Chiesa indaga sulla sua fede e sul suo pensiero, sulla sua teologia, essa istintivamente torna a rivolgersi ai Padri. Li chiama «Padri» non solo perché sono scrittori antichi, ma perché trova in essi una specie di paternità e, conseguentemente, un elemento che possiamo chiamare permanente, eterno. Tuttavia, ciò non ci dovrebbe portare a credere che negli anni appena trascorsi, specialmente nel lavoro compiuto prima del concilio e da esso, vi sia stata una notevole scoperta dello studio del passato, insieme con un’eliminazione di quanto si è svolto negli ultimi pochi secoli […]. V’è una specie di risurrezione perenne, di eterna riscoperta dei Padri. Ma forse è divenuta più appariscente oggi dopo il Vaticano II. I teologi di qualsiasi secolo che ora maggiormente vengono alla ribalta – un Möhler, un Newman, per esempio – furono essenzialmente patristici. E la loro dottrina fu basata interamente sui Padri. E le grandi edizioni dei Padri, la lettura di essi, furono estremamente popolari nella nostra Francia del XVII secolo. Alla fine del XV secolo si ebbe una grande rinascita dei Padri, se si fa il paragone col XIV e l’inizio del XV, quando avevano subìto un lieve declino. S. Tommaso d’Aquino stesso nel XIII secolo disse che avrebbe dato l’intera città di Parigi per avere un manoscritto migliore di s. Giovanni Crisostomo. H. DE LUBAC1 1 «Every time the Church inquires about her own faith, and about her thought, about her theology, she instinctively turns back to the Fathers. She calls them “Fathers”, not only because they are ancient writers, but because she finds in them a kind of paternity and, consequently, an element that we can call permanent, eternal. However, this should not lead us to believe that in the years that have just passed, especially in the work done before the Council et by the Council, there has been a remarkable discovery of the study of the past along with a discarding of what happened in the last few centuries […]. There is a kind of perpetual resurrection, perpetual rediscovery of the Fathers. But perhaps it has become more apparent now after Vatican II. The theologians of any century who now come to the fore the most – a Möhler, a Newman, for instance – were essentially patristic. And their entire doctrine was based on the Fathers. And the great editions of the Fathers, the reading of the Fathers, in our great seventeenth-century France, were extremely popular. At the end of the fifteenth century there was a great renaissance of the Fathers, as compared with the fourteenth and the beginning of the fifteenth century when they suffered a slight decline. St. Thomas himself in the thirteenth century said that he would give the whole city of Paris to have a better manuscripts of St. John Chrysostom» (H. DE LUBAC, in J.H. MILLER [ed.], Vatican II. An Interfaith Appraisal, International Theological Conference, University of Notre Dame: March 2026, 1966, Notre Dame - London, University of Notre Dame Press, 1966, 183s; tr. it.: La teologia dopo il Vaticano II. Apporti dottrinali e prospettive per il futuro in una interpretazione ecumenica, Morcelliana, Brescia 1967, 227s).
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Introduzione
«I riferimenti del Vaticano II ai Padri non sono soltanto ornamentali», scriveva nel 1980 Y. Congar, che annotava subito al riguardo: «È auspicabile uno studio in merito».1 Ho incontrato questa osservazione del teologo domenicano – figura, come si sa, di primo piano nella teologia cattolica del Novecento e dello stesso Vaticano II – solo verso la fine della ricerca che qui presento. Le parole di Congar, se non sono state il motore immediato di questo saggio, confermano retrospettivamente ciò che mi sembrava di notare con un certo stupore, nel momento in cui mettevo mano a questo lavoro: il fatto, cioè, che a più di quarant’anni dalla conclusione del concilio, nessuno avesse ancora elaborato una ricerca sistematica sull’utilizzazione dei Padri della Chiesa nei lavori conciliari. O piuttosto: vi erano, sì, alcuni studi significativi, opera per lo più di periti conciliari, che avevano partecipato direttamente alla elaborazione dei documenti; questi studi già permettevano di cogliere la ricchezza del riferimento ai Padri nei documenti promulgati dal Vaticano II: come non pensare, ad es., ai commenti di H. de Lubac alla Lumen gentium e alla Dei Verbum, o a certi studi di Y. Congar, o al commento di G. Philips alla stessa costituzione dogmatica sulla Chiesa, o ancora alla monumentale miscellanea promossa e curata, prima ancora che il concilio fosse terminato, da G. Baraúna? A questi e ad altri saggi usciti anche negli anni successivi, faremo abbondante riferimento nelle pagine che seguono. 1 Y. CONGAR, «Regard sur le Concile Vatican II», in ID., Le Concile de Vatican II. Son Eglise, peuple de Dieu et Corps du Christ, Beauchesne, Paris 1984, 49-72, qui 58 e nota 28 (ed. or.: Unterwegs zur Einheit. Festschrift H. Stirnimann, Freiburg 1980, 774-790).
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Introduzione
La lettura di questi e di altri autori confermava senza dubbio una convinzione abbastanza pacificamente accettata, nelle acque di tanto in tanto agitate dell’ermeneutica conciliare: e cioè che nel Vaticano II, e segnatamente nell’elaborazione del de Ecclesia, trovasse compimento buona parte di quel dinamismo teologico, e insieme ecclesiale, che aveva caratterizzato il cattolicesimo del Novecento, soprattutto a partire dal primo dopoguerra, e che si conviene di porre sotto l’etichetta di «ritorno alle fonti» o, con un termine non a caso preso dalla Francia, di ressourcement. Tuttavia, rimaneva aperto per me un interrogativo, che riguardava i principali protagonisti del concilio: i vescovi, o più generalmente i «padri conciliari»,2 che cosa sapevano di «ritorno alle fonti»? I più di duemila prelati che ogni giorno salivano sugli scranni predisposti nella basilica vaticana e si sottoponevano alla fatica di estenuanti, e spesso ripetitivi, dibattiti; che annotavano pagine e pagine di schemi; che riempivano le schede per le votazioni; che inviavano alla segreteria e alle commissioni migliaia di emendamenti; che partecipavano a conferenze, si consultavano (o non si consultavano) con i periti; che, magari, nei momenti di maggior stanchezza, scendevano al bar mentre gli oratori si susseguivano al microfono… ecco, che cosa sapevano di ressourcement? Tutti loro, chi più, chi meno, avevano certo studiato almeno qualcosa dei Padri della Chiesa; qualcuno, probabilmente, li aveva anche insegnati in qualche corso seminaristico – di certo lo aveva fatto, da giovane, proprio il vescovo di Roma che li aveva sorprendentemente convocati in concilio;3 un certo numero di loro veniva dalle Chiese orientali, e li si poteva pensare molto più attaccati, rispetto alla maggior parte dei confratelli «latini», a quella tradizione patristica che la teologia occidentale usava soprattutto come arsenale di prove ex traditione; altri, magari anche solo per ragioni di prossimità geografica e linguistica, avevano potuto seguire più da vicino alcune iniziative di ressourcement specificamente patristico, che erano state causa di discussioni arrivate sino al vertice della gerarchia ecclesiastica… Era possibile, alla luce della documentazione disponibile, farsi un’idea meno approssimativa di questa coscienza? Parte da questa domanda l’esame del sovrabbondante materiale documentario ormai disponibile alla ricerca storico-teologica, o almeno di una sua parte consistente; esame che punta a ricostruire la coscienza dei padri conciliari intorno alla rilevanza del «ritorno alle fonti» – soprattutto delle fonti patristiche, particolarmente presenti nella Lumen gentium – in rapporto tanto all’evento di cui erano protagonisti, quanto ai compiti affidati da Giovanni XXIII al concilio e alla situazione di Chiesa che la vicenda conciliare doveva contrassegnare in modo tanto profondo.
2 Per chiarezza, indicheremo come «Padri» (con la maiuscola) i Padri della Chiesa, usando la minuscola negli altri casi, in particolare quando si tratta dei padri conciliari. 3 Cf. più avanti, c. 3, sez. II, § 1a.
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Introduzione
Posto nei termini qui accennati, l’interrogativo doveva guidare me nell’esplorazione delle fonti e di una parte della vastissima storiografia conciliare, e dovrebbe aiutare il lettore a cogliere più facilmente l’obiettivo della ricerca. Per ragioni intuibili, e che comunque risulteranno sempre più chiare andando avanti, essa si sofferma in modo particolare sull’elaborazione del de Ecclesia. La finalità principale della ricerca, tuttavia, non è quella di ricostruire la genesi del documento, fosse pure sotto il profilo parziale dei riferimenti patristici; neppure si dovrà cercare qui soltanto uno studio sulle citazioni patristiche della Lumen gentium – sotto questo aspetto, anzi, esistevano già ricerche pregevoli e autorevoli ma anche, va aggiunto, valutazioni superficiali e approssimative. La mia attenzione si è fermata soprattutto sul dibattito conciliare, con l’intento di cogliere, se possibile, le linee di sensibilità e di attenzione dell’assemblea conciliare a quel ritorno alle fonti al quale avevano lavorato, in un clima a tratti molto difficile, alcune delle figure più significative della teologia europea dei decenni precedenti, che proprio in questo modo avevano contribuito a preparare il terreno all’evento conciliare. Va dunque precisata una scelta, che ha senza dubbio i suoi limiti. È chiaro che non potremo seguire i dibattiti dei primi tre periodi conciliari intorno al de Ecclesia senza tener conto del lavoro delle commissioni, dell’apporto dei periti, delle iniziative la cui eco arrivava solo indirettamente nell’aula conciliare: anche di questi aspetti si parlerà nella seconda parte della ricerca. Lo studio del lavoro di elaborazione del documento, svolto in gran parte nella Commissione dottrinale e nelle sue sottocommissioni, permette infatti di cogliere meglio le modalità e le finalità del rinvio ai Padri della Chiesa: tanto più che il materiale patristico, utilizzato in grande abbondanza in alcune fasi della redazione, sarà poi ridimensionato nella stesura definitiva del de Ecclesia; di qui il riferimento indispensabile alla storia della redazione del testo. Per questo aspetto della ricerca, però, abbiamo rinunciato, salvo pochissime eccezioni (Tromp), all’esplorazione del materiale d’archivio della Commissione dottrinale e delle sue sottocommissioni. È un materiale che senza dubbio getta molta luce sul lavoro soprattutto dei periti: ma in tutte le fasi del lavoro è la parola, orale o scritta, dei padri conciliari che costituisce per la nostra ricerca il punto di interesse dominante: proprio perché a partire da questa parola, nella misura in cui fa riferimento alla testimonianza patristica (secondo modalità peraltro assai differenziate), è possibile cogliere un’assemblea sinodale che recepisce poco alla volta, e non senza resistenze, le dinamiche di un accesso alla tradizione che doveva rivelarsi strumento privilegiato di rinnovamento della Chiesa. Il nucleo centrale della ricerca è esposto, quindi, nella seconda parte del lavoro, che è quella più ampia. L’elaborazione del de Ecclesia, considerata sotto l’aspetto precipuo delle sue fonti patristiche, vi è presentata in quattro capitoli (i cc. 4-7), che si muovono secondo una scansione cronologica: il c. 4 riguarda lo schema preparatorio, con il dibattito che lo prese in esame nella Commissione centrale preparatoria, antici-
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Introduzione
pando rilievi e orientamenti che poi emergeranno anche nel concilio; i cc. 5-7 seguono le vicende del de Ecclesia (inclusi i suoi alterni rapporti con il de Beata Virgine) nei primi tre periodi conciliari e nelle rispettive intersessioni. Nella presentazione dei lavori del primo periodo (ottobredicembre 1962, c. 5) si troverà anche un’esposizione sommaria delle discussioni sui primi schemi esaminati dal concilio (in particolare lo schema liturgico e il de fontibus revelationis), perché le questioni lì trattate a proposito delle fonti patristiche condizionano anche i successivi dibattiti sul de Ecclesia. Allo studio di carattere storico-dottrinale, riguardante l’elaborazione della costituzione sulla Chiesa, è sembrato utile premettere un inquadramento generale intorno alla ricerca patristica, in special modo ecclesiologica, e intorno al significato del ressourcement per la teologia e la vita della Chiesa: è l’oggetto della prima parte della ricerca, che si muove in tre direzioni. Il panorama complessivo sugli studi patristici nella prima metà del Novecento (più precisamente nel periodo 1920-1960), con attenzione speciale alle questioni ecclesiologiche, è presentato nel primo capitolo. Il ressourcement come risorsa per la teologia, ma anche come problema e dunque come oggetto di dibattito, sta al centro del c. 2, che verte soprattutto sulle vicende della teologia francese negli anni ’40-’50. Il c. 3 sposta l’attenzione verso il concilio, attraverso la presentazione della consapevolezza che emerge, a proposito di «ritorno alle fonti» e di riferimento ai Padri della Chiesa, nei vota presentati dai futuri padri conciliari, dalle università ecclesiastiche e dagli organismi di curia, durante la fase detta «antepreparatoria» del concilio; per chiudersi con uno sguardo sintetico intorno alla presenza e alla rilevanza dei Padri nei due papi del concilio, Giovanni XXIII e Paolo VI. La terza e ultima parte della ricerca ha una funzione più sintetica e «sincronica». In primo luogo, nel c. 8, prende in considerazione il risultato finale del lavoro conciliare sul de Ecclesia, ossia la costituzione Lumen gentium, nel suo complesso. Lo studio del testo, condotto secondo un allargamento progressivo di orizzonti, si propone di cogliere in uno sguardo d’insieme la portata della testimonianza patristica, per rilevare anche le diverse modalità del ricorso ai Padri, presenti nella costituzione; in questo modo ci si propone anche di «pesare» con maggior discernimento il posto che il concilio ha inteso assegnare alla testimonianza dei Padri. L’ultimo capitolo, dopo aver richiamato sinteticamente i risultati più importanti della ricerca, proporrà alcune riflessioni d’insieme sulla presenza e la valorizzazione dei Padri della Chiesa al Vaticano II. C’è, infatti, un ruolo dei Padri nel concilio che non si esaurisce in quello, pur importante (almeno nel de Ecclesia), delle citazioni e delle tematiche di matrice patristica: e alcuni aspetti di questa presenza, che occorre leggere in qualche modo tra le righe, sono significativi almeno quanto i riferimenti più espliciti. Mettere in luce queste prospettive, e indicare insieme anche qualche limite del ricorso ai Padri da parte del Vaticano II, sarà l’impegno delle ultime pagine di questa ricerca.
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Introduzione
Ringraziamenti. Questa ricerca è stata presentata per il conseguimento del dottorato in Teologia presso la Facoltà teologica dell’Emilia Romagna. Desidero ringraziare il prof. d. Mario Fini, che sin dall’inizio ha accettato di guidare la ricerca con la sua competenza e con la forte consapevolezza dell’importanza permanente della memoria del concilio Vaticano II per la vita della Chiesa e per la sua missione nel mondo. Ringrazio i proff. d. Davide Righi e d. Giuseppe Scimè, per i preziosi consigli e le numerose correzioni, che mi hanno grandemente facilitato nella revisione del testo (delle cui inesattezze ed errori eventuali resto, naturalmente, il solo responsabile) e il prof. fr. Guido Bendinelli op, attuale Preside della Facoltà, per le osservazioni che mi ha suggerito, soprattutto a proposito del capitolo conclusivo. Sono grato al suo predecessore, prof. d. Erio Castellucci, e ai colleghi docenti della FTER, come pure ai professori dello Studio teologico interdiocesano di Reggio Emilia, nonché agli studenti di entrambe le istituzioni, che hanno accettato pazientemente alcune inadempienze o ritardi negli altri miei impegni accademici, lasciandomi così più tempo per la stesura del lavoro. La ricca «Biblioteca G. Dossetti» della Fondazione per le scienze religiose Giovanni XXIII di Bologna è stata la sede principale delle mie ricerche: ne ringrazio il direttore, prof. Alberto Melloni – al quale sono debitore anche di preziose indicazioni, che mi hanno orientato sin dai primi passi del lavoro –, il responsabile dell’Archivio, dr. Fabio Nardelli, e tutto il personale; così come ringrazio il personale delle altre biblioteche dove ho potuto lavorare o trovare materiale di studio. Un grazie a p. Cesare Antonelli osm, provinciale della Provincia di Piemonte e Romagna dei Servi di Maria, per l’amicizia e la disponibilità nel prestarmi vario suo materiale di studio; al dr. Jörg Ernesti, dell’arcidiocesi di Paderborn, per la documentazione su mons. L. Jaeger, che mi ha cortesemente trasmesso; e all’amico carissimo, prof. Enrico Mazza, docente all’Università Cattolica di Milano e collega allo Studio teologico di Reggio Emilia: i suoi consigli e il suo incoraggiamento mi sono stati sempre di grande sostegno. E poi un grazie ai miei familiari e a tutti gli altri, qui non nominati, che mi hanno aiutato e sopportato in tanti modi. Lascio da ultimi – secondo la logica delle processioni liturgiche – il vescovo di Reggio Emilia-Guastalla, mons. Adriano Caprioli, con il suo ausiliare, mons. Lorenzo Ghizzoni. All’uno e all’altro sono debitore dell’incoraggiamento, della fiducia, della disponibilità di tempo che mi hanno accordato per completare il lavoro, senza chiedermi troppo conto dei miei impegni per la diocesi. Devo aggiungere che la biblioteca di mons. Caprioli – ma ancora più la sua memoria personale e affettuosa nei confronti dell’allora arcivescovo Montini, che lo ordinò presbitero – mi è stata preziosa per ciò che riguarda Paolo VI. Se vorranno sfogliare queste pagine, spero che i «miei» vescovi vi potranno trovare qualcosa della passione che animò i loro confratelli di mezzo secolo fa nel cuore di quella «rinnovata Pentecoste», che il beato Giovanni XXIII invocò per la Chiesa, convocando il concilio Vaticano II.
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Abbreviazioni
I. D O C UM E NT I AD I
AD II
AS
CCo CCP CD C. G. TE
Acta et Documenta Concilio Œcumenico Vaticano II apparando, Series I (antepraeparatoria), Typis Polyglottis Vaticanis, Città del Vaticano 1960-1961. Acta et Documenta Concilio Œcumenico Vaticano II apparando, Series II (praeparatoria), Typis Polyglottis Vaticanis, Città del Vaticano 1964-1968. Acta Synodalia Sacrosancti Concilii Œcumenici Vaticani II, 6 voll., Appendix e Appendix II, Typis Polyglottis Vaticanis, Città del Vaticano 1970-1999. Commissio de Concilii laboribus coordinandis, Commissione di coordinamento. Commissio praeparatoria centralis, Commissione centrale preparatoria. Commissio de doctrina et moribus, Commissione dottrinale. Congregatio generalis, Congregazione generale. Commissio theologica praeparatoria, Commissione teologica preparatoria.
II. A LT R E ACERBI
E O R G A N I S MI CO N C I L I A R I
ABBREVIAZIONI
A. ACERBI, Due ecclesiologie. Ecclesiologia giuridica ed ecclesiologia di comunione nella «Lumen gentium», EDB, Bologna 1975 (CNST 4).
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Abbreviazioni
BARAÚNA
G. BARAÚNA (cur.), La Chiesa del Vaticano II. Studi e commenti intorno alla Costituzione dommatica «Lumen Gentium», Vallecchi, Firenze 1965. CAPRILE G. CAPRILE (ed.), Il Concilio Vaticano II. Cronache del Concilio Vaticano II edite da “La Civiltà Cattolica”, 4 voll., «La Civiltà Cattolica», Roma 1966-1969. D-Edelby N. EDELBY, Il Vaticano II nel diario di un vescovo arabo, a cura di R. CANNELLI, S. Paolo, Cinisello Balsamo 1996. D-Tromp S. TROMP, Konzilstagebuch mit Erläuterungen und Akten aus der Arbeit der Theologischen Kommission II. Vatikanisches Konzil, hrsg. v. A. von Teuffenbach, Band I (19601962), Pontificia università gregoriana, Roma 2006. DH H. DENZINGER, Enchiridion symbolorum, definitionum et declarationum de rebus fidei et morum, ed. bilingue a cura di P. HÜNERMANN, EDB, Bologna 1995. DMC Discorsi Messaggi Colloqui del santo Padre Giovanni XXIII, 5 voll., TPV, Città del Vaticano 1963-1965. DSM G.B. MONTINI, Discorsi e scritti milanesi. 1954-1963, Prefazione di C.M. MARTINI, Introd. di G. COLOMBO, Ediz. coordinata da X. TOSCANI, testo critico a cura di G.E. MANZONI, 4 voll., Istituto Paolo VI, Brescia 1997-1998. EB Enchiridion Biblicum. Documenti della Chiesa sulla Sacra Scrittura, edizione bilingue, EDB, Bologna 1993. EPatr Enchiridion patristicum loci ss. patrum, doctorum, scriptorum ecclesiasticorum quos in usum scholarum collegit M.J. ROUËT DE JOURNEL, Freiburg 1911, 111956. EV Enchiridion Vaticanum, 1: Documenti del Concilio Vaticano II (1962-1965), testo ufficiale e versione italiana, EDB, Bologna 161997. FSCIRE-FFl Fondazione per le Scienze religiose Giovanni XXIII, Bologna, Fondo Florit. J-Congar Y. CONGAR, Mon Journal du Concile I-II, Cerf, Paris 2002. J-de Lubac H. DE LUBAC, Carnets du Concile, introduit et annoté par L. FIGOUREUX, Avant propos de F.-X. DUMORTIER et J. DE LAROSIÈRE, Préface de J. PRÉVOTAT, Cerf, Paris 2007. Rel. Tromp Relatio Secretarii Commissionis Conciliaris “de doctrina fidei et morum”, 16 dicembre 1963: FSCIRE-FFl B 150. SCh Sources chrétiennes, Cerf, Paris 1942ss. SCVII Storia del concilio Vaticano II diretta da G. ALBERIGO, ed. italiana a cura di A. MELLONI, 5 voll., Il Mulino, Bologna 19952001. Synopsis F. GIL HELLÍN, Concilii Vaticani II Synopsis. Constitutio dogmatica de Ecclesia Lumen Gentium, LEV, Città del Vaticano 1995.
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Avvertenze
1. Nel testo e nelle note, un’indicazione di anno preceduta da * rinvia alla «Bibliografia storica» (pp. 465-476), dove le opere di riferimento sono elencate in base all’anno di pubblicazione e poi, sotto ciascun anno, per ordine alfabetico di autore. Tutte le altre citazioni bibliografiche, date normalmente per autore e titolo completo o parziale, rimandano alla «Bibliografia generale» (pp. 476-498), dove si troverà la citazione bibliografica completa. 2. Nella maggior parte dei casi, si è preferito tradurre in italiano le citazioni in latino o in altre lingue, riportate nel testo. Quando non siano indicate in nota versioni italiane già pubblicate, la traduzione è dell’autore. 3. Nelle edizioni della Lumen gentium sono stati utilizzati due modi diversi di numerare le note: capitolo per capitolo, ovvero con numerazione continua dall’inizio sino alla fine del documento;4 dal momento che dovremo citare spesso le note di LG, si tratta di una differenza fastidiosa. Abbiamo scelto di attenerci alla modalità usata nelle edizioni «ufficiali» (AS, AAS ma anche SACROSANCTUM OECUMENICUM CONCILIUM VATICANUM II, Constitutiones Decreta Declarationes, cura et studio Secretariae Generalis Concilii OEcumenici Vaticani II, TPV, Città del Vaticano 1966), dove
4 Quest’ultima modalità è usata, ad es., nell’edizione dell’EV, nel testo disponibile sul sito web della Santa Sede (www.vatican.va/archive/hist_councils/ii_vatican_council /documents/vat-ii_const_196 41121_ lumen-gentium_lt.html [7 maggio 2009]) ma anche nel grande commentario curato da G. Baraúna o, più recentemente, nell’Herders Theologischer Kommentar diretto da P. HÜNERMANN e B.J. HILBERAT.
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Avvertenze
la numerazione delle note riprende da capo per ogni capitolo; lo stesso criterio è seguito da Conciliorum Oecumenicorum Decreta (EDB, Bologna 1991) e dalla Synopsis curata da F. Gil Hellín. Nell’Appendice III (pp. 463-464) si troverà una tavola di concordanza tra i due sistemi di numerazione.
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Parte I DALL’APOLOGETICA AL RINNOVAMENTO TEOLOGICO: LO STUDIO DEI PADRI NELLA PRIMA METÀ DEL NOVECENTO
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Lo si è detto in vari modi: il concilio Vaticano II rappresenta, sotto diversi aspetti, il punto d’arrivo e di maturazione di una serie di dinamismi, preoccupazioni, ricerche e speranze, che hanno attraversato la vita della Chiesa cattolica per tutta la prima metà del Novecento. Le cose non stanno diversamente per ciò che riguarda il peso, che si può considerare senz’altro privilegiato, della testimonianza dei Padri della Chiesa nei dibattiti conciliari e poi nei documenti che ne sono stati l’esito. L’interesse per i Padri della Chiesa nei decenni che precedono il concilio è stato qualificato, a volte, come «movimento patristico»:1 ma lo si è fatto, per lo più, per un’imprecisa analogia con altri «movimenti» – ecumenico, liturgico, biblico… – i cui percorsi pure hanno segnato le peripezie teologiche ed ecclesiali della prima metà del XX secolo, preparando il terreno alla vicenda conciliare. In realtà, guardando ora questo panorama da una certa distanza storica, sembra difficile poter parlare, a proposito della ricerca patristica, di un «movimento» vero e proprio. Di un «progetto teologico», imperniato sulla lettura e lo studio dei Padri della Chiesa, si può parlare solo (e non senza riserve e precisazioni, di cui diremo) a proposito delle iniziative dei gesuiti francesi a partire dagli anni ’40; si deve riconoscere, piuttosto, un insieme di convergenze, una consapevolezza sempre più diffusa dell’importanza di ciò che si è convenuto di chiamare il ressourcement. Del resto, anche gli altri «movimenti», di cui si è fatto cenno, spingevano in questa direzione: si pensi solo alla convergenza tra la ricerca intorno alle fonti liturgiche e la patristica, oppure all’importanza ecumenica (soprattutto nel rapporto con l’oriente cristiano) del riferimento ai Padri.2
1 Così, in particolare, L. BOUYER, «Le Renouveau des études patristiques», in La vie intellectuelle 2(1947), 6-25 ; ma cf. al riguardo le precisazioni di E. FOUILLOUX, «Autour de l’histoire des “Sources chrétiennes”», in Fe i teologia en la història. Estudis en honor del Prof. Dr. Evangelista Vilanova, a cura de J. BUSQUETS i M. MARTINELL, Publicacions de l’Abadia de Montserrat, Barcelona 1997, 519-535, qui 524. 2 Cf. ad es. E. ISERLOH, «Movimenti interni alla Chiesa e loro spiritualità», in La Chiesa nel ventesimo secolo (1914-1975), Jaca Book, Milano 1972, 236-273, qui 237; cf. anche G. COFFELE, «Storia della teologia», in G. CANOBBIO – P. CODA (edd.), La teologia del XX secolo. Un bilancio, Città Nuova, Roma 2003, 270-272.
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A favore di questa rinnovata attenzione ai grandi testimoni della Chiesa antica giocava anche la crescente disponibilità di strumenti di lavoro sempre più raffinati e calibrati sul piano scientifico, come vedremo subito; e, senza dubbio, in molti spiriti lo studio dei Padri veniva visto come una via privilegiata per uscire dalle secche di una scolastica di cui si avvertivano sempre più i limiti e l’incapacità di confrontarsi con i problemi nuovi che la fede cristiana, e la stessa teologia, dovevano affrontare. L’insieme di questi orientamenti è l’oggetto di questa prima parte della ricerca, di cui vanno però dichiarati subito i limiti. Non si tratta, infatti, di presentare qui un inventario completo degli studi patristici nella prima metà del Novecento: un richiamo panoramico ad alcune prospettive più importanti di questo campo di studi sarà il punto d’avvio del primo capitolo. Poi, però, l’attenzione sarà focalizzata su alcuni aspetti peculiari: si tratterà – dal momento che seguiremo poi il tema del «ritorno ai Padri» nel dibattito conciliare sul de Ecclesia – di presentare una sintesi dell’apporto che la ricerca patristica del Novecento ha dato all’ecclesiologia. È noto peraltro che il dibattito conciliare sulla Chiesa è stato – insieme con la tribolata elaborazione del de revelatione – il luogo in cui più si sono confrontate, e a tratti anche scontrate, prospettive teologiche diverse; nella loro dialettica, esse riproponevano tensioni e conflitti che avevano segnato il cattolicesimo europeo intorno alla metà del secolo. Dedicheremo quindi il secondo capitolo a illustrare la questione del ressourcement come quaestio disputata, raccogliendo almeno simbolicamente il senso della disputa intorno alla cosiddetta «nouvelle théologie» e alla presa di posizione dell’enciclica Humani generis. Nel terzo capitolo, ci sposteremo decisamente verso il concilio: anzitutto con una ricognizione dei vota dei vescovi e delle istituzioni teologiche ed ecclesiastiche consultate nella fase antepreparatoria, per cogliere i segni di una eventuale consapevolezza del ressourcement soprattutto patristico e della sua rilevanza in ordine al dibattito conciliare; finalmente, presenteremo sotto il profilo dell’interesse per i Padri i due papi del concilio, Giovanni XXIII e Paolo VI. Un’ultima precisazione riguarda i termini cronologici della ricerca proposta nel primo capitolo. Il terminus ad quem non pone particolari problemi: ci interessa arrivare intorno ai primi anni ’60 del Novecento, quando inizia il concilio. È meno facile stabilire il punto di partenza: tanto per fare un esempio importante, la questione di una «ecclesiologia nello spirito dei Padri» è un punto centrale dell’opera di J.A. Möhler. Impossibile, evidentemente, trascurare del tutto questo e altri importanti precursori: per non dilatare oltre misura il lavoro, si è scelto però di limitarsi al mezzo secolo, all’incirca, che precede il Vaticano II, per due ragioni principali. Anzitutto, il dibattito sulla Chiesa si fa particolarmente vivace, anzi conosce una vera e propria rinascita, a partire dagli anni
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’20;3 inoltre, ritengo che si possa assumere come punto di svolta importante, per la questione che qui interessa, il placarsi della tempesta suscitata dal modernismo, con la fine del pontificato di Pio X. Il fantasma del «pericolo modernista» assillerà ancora per molto tempo la vita della Chiesa (avremo occasione di ritornarvi seguendo i dibattiti conciliari sul de Ecclesia),4 pregiudicando anche i tentativi di ressourcement; tuttavia, dopo la grande crisi di inizio secolo e l’altra drammatica cesura, determinata dal conflitto mondiale 1914-1918, si apre una pagina nuova.
3 «…depuis cette date [= il Vaticano I, 1870] jusqu’à la Première Guerre mondiale, l’histoire de l’ecclésiologie n’offre pratiquement plus aucun intérêt»: questo giudizio drastico – che poi l’autore stesso almeno in parte ridimensiona (come pure fa A. ANTÓN, El misterio de la Iglesia. Evolución histórica de las ideas eclesiológicas, Biblioteca de autores cristianos – Estudio Teológico de S. Ildefonso, Madrid-Toledo 1986-1987, II, 415) – è di J. FRISQUE, «L’ecclésiologie au XXe siècle», in Bilan de la théologie du XXe siècle, sous la direction de R. VANDER GUCHT et H. VORGRIMLER, Casterman, Tournai-Paris 1969-1970, II, 412-456, qui 414. 4 Sulla questione «modernismo» al Vaticano II, cf. A. MELLONI, «Vaticano II, modernismo e modernità», in Il modernismo tra cristianità e secolarizzazione. Atti del Convegno Internazionale di Urbino, 1-4 ottobre 1997, a cura di A. BOTTI e R. CERRATO, Quattroventi, Urbino 2000; cf. anche i rilievi di E. POULAT in Paolo VI e i problemi ecclesiologici al concilio. Colloquio Internazionale di studio (Brescia 19-21 settembre 1986), Studium, Roma 1989, 389.
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1. Gli studi patristici e l’ecclesiologia nella prima metà del Novecento 1. S G U A R D O
D’INSIEME: GLI STUDI PAT R I S T I C I F I N O A G L I A N N I ’40
A)
I PA D R I
DA L LA T E O L O G I A A LLA R IC E R C A S C I E N T I F I C A
Strano destino, quello che riguarda i Padri, nel cristianesimo, e in particolare nel cattolicesimo, tra fine Ottocento e primi decenni del Novecento. Strano, perché la lezione promettente dei grandi teologi dell’Ottocento che, per primi, avevano cercato nei Padri le vie di un possibile rinnovamento della teologia – si pensi alla triade «classica», costituita dai nomi di Möhler, Newman e Scheeben, ai quali si dovrebbero però aggiungere anche quelli di alcuni teologi «romani», quali Passaglia, Schrader e Franzelin, per non parlare di Antonio Rosmini – sembra presto dimenticata. I teologi continueranno a citare i Padri, ma lo faranno soprattutto in una prospettiva apologetica, poco disponibile a lasciarsi ispirare più in profondità dalla lezione patristica e, più in generale, dalla dimensione storica della teologia.5
5
Cf. J. LECLERCQ, «Un demi-siècle de synthèse entre histoire et théologie», in ISTITUAUGUSTINIANUM, Lo studio dei Padri della Chiesa oggi, Augustinianum, Roma 1977, 22s, che a sua volta cita Y. CONGAR, Situation et taches présentes de la théologie, Cerf, Paris 1967, 28, nota 2. La mancata attenzione alla dimensione storica, e in particolare patristica, della teologia è sottolineata da Lanzoni, nella sua rievocazione degli studi romani degli anni 1880-1890 (cf. F. LANZONI, Le memorie, F. Lega, Faenza 1929, 40 e 42). TO PATRISTICO
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Ma questa stessa epoca, che «dimentica» i Padri nella loro fecondità teologica e spirituale, paradossalmente li scopre come oggetto di conoscenza «scientifica».6 Ecco dunque che, mentre da una parte s’intensificano gli studi specialistici, dall’altra si stempera e quasi si dissolve la conoscenza esplicita dei Padri nelle aree di cultura non specialistica; l’editoria, pertanto, e lo studio dei Padri diventano sempre più marcatamente circoscritti nei circuiti delle élites di studio, secondo moduli che differiscono profondamente da quelli della religiosità collettiva più larga.7
Com’è noto, all’inizio non sono i centri di studi ecclesiastici a promuovere le grandi collezioni «scientifiche» dei testi che prendono il via a fine Ottocento, che si tratti del Corpus scriptorum ecclesiasticorum latinorum dell’Accademia delle scienze di Vienna (dal 1866), o dei Griechische christlichen Schriftsteller der ersten drei Jahrhunderten dell’Accademia di Berlino (dal 1897), come pure dei Texte und Untersuchungen, ugualmente pubblicati dall’Accademia di Berlino, per iniziativa di A. von Harnack e O. von Gebhardt, dal 1882. In ogni caso, del crescente patrimonio dei testi editati secondo i criteri della moderna ricerca filologica – allargato presto ai testi orientali della Patrologia syriaca (Parigi 1894-1926), della Patrologia orientalis (Parigi 1903ss), del Corpus scriptorum christianorum orientalium (Lovanio, 1903ss) – potranno beneficiare anche le ricerche condotte in ambito cattolico che, del resto, non tardano a farsi onore: anche se si estende a molti altri ambiti, e non solo alla patristica, merita senz’altro di essere ricordata in 6 Cf. É. POULAT, «Le renouveau des études patristiques en France et la crise moderniste», in Patristique et antiquité tardive en Allemagne et en France de 1870 à 1930: influence et echanges. Actes du Colloque franco-allemand de Chantilly, 25-27 octobre 1991, edités par J. FONTAINE, R. HERZOG, K. POLLMANN, Institut d’études augustiniennes, Paris 1993, 24. La panoramica migliore recente, per la prospettiva che qui interessa, ci sembra quella di M. SIMONETTI, «La teologia dei Padri», in CANOBBIO – CODA (edd.), La teologia del XX secolo, I, 359-389; molto utile (ed estesa all’intera storia cristiana), anche se più concentrata sulla dimensione filologica, la sintesi di G.M. VIAN, Bibliotheca Divina. Filologia e storia dei testi cristiani, Carocci, Roma 2001: a questi studi rinviamo anche per la bibliografia precedente. Segnaliamo inoltre: R. AUBERT, «La théologie catholique. A. Durant la première moitié du XXe siècle», in Bilan de la théologie du XXe siècle, sous la direction de R. VANDER GUCHT et H. VORGRIMLER, Casterman, Tournai-Paris 1969-1970; J. VIVES, «Patrología y teología, 1945-1969», in Seminarium 21(1969), 313-330; L. SCHEFFCZYK, «Lineamenti fondamentali dello sviluppo della teologia tra la prima guerra mondiale e il concilio Vaticano II», in La Chiesa nel ventesimo secolo (1914-1975), Jaca Book, Milano 1972, 198-235. Per un inquadramento complessivo del periodo che ci interessa, cf. G. ANGELINI, «La vicenda della teologia cattolica nel secolo XX. Breve rassegna critica», in Dizionario Teologico Interdisciplinare, Marietti, Torino 1977, III, 585-648, ed E. FOUILLOUX, «Correnti di pensiero, pietà, apostolato. II. Il cattolicesimo», in Storia del cristianesimo, 12: Guerre mondiali e totalitarismi, a cura di J.-M. MAYEUR, Borla-Città Nuova, Roma 1997, 105-227. 7 P. STELLA, «Editoria e lettura dei Padri», in Complementi interdisciplinari di patrologia, a cura di A. QUACQUARELLI, Città Nuova, Roma 1989, 828s.
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questa sede la collezione «Studi e testi» della Biblioteca vaticana, pubblicata a partire dal 1900.8 Queste che abbiamo rapidamente elencato sono tutte pubblicazioni che situano la letteratura patristica nell’ambito della ricerca «accademica», aperta ai soli savants, non fosse altro per ragioni linguistiche. Fino alla seconda guerra mondiale, le traduzioni restano complessivamente scarse, con due sole eccezioni significative: la Bibliothek der Kirchenväter pubblicata tra il 1911 e il 1930 da O. Bardenhewer, T. Schermann e C. Weyman, e i Textes et documents pour l’étude historique du christianisme, curati da H. Hemmer e P. Lejay (18 voll., Parigi 1904-1914).9 Il panorama italiano, se si esclude il gruppo gravitante intorno alla Biblioteca vaticana, offre poche pubblicazioni veramente significative, sia sul piano delle edizioni critiche che su quello delle traduzioni;10 non andrebbe trascurato, in ogni caso, il contributo di studiosi italiani alle grandi collezioni d’oltralpe, ad es. quella di G. Pasquali per la nuova edizione delle opere di Gregorio di Nissa o l’apporto di G. Furlani alla Patrologia orientalis. Alcuni tentativi di dare vita a qualche collezione consistente sia di testi che di traduzioni ebbero per lo più vita breve: così per i Testi cristiani dell’ed. Fiorentina (1930-32) o per gli Scrittori cristiani antichi avviati da E. Buonaiuti, di cui uscirono dodici volumi tra il 1921 e il 1924. Altre collezioni di traduzioni, come i «Classici cristiani» dell’editore Cantagalli di Siena, pubblicati a partire dal 1925, ebbero ben altra ampiezza (oltre 300 titoli) e durata, ma includendo diverse opere successive all’età patristica. Il tentativo più significativo e relativamente duraturo, nel panorama italiano precedente la seconda guerra mondiale, di creare una collezione di testi patristici solida sul piano culturale e insieme relativamente accessibile, rimane la «Corona Patrum salesiana», avviata nel 1934: arriverà a editare 29 volumi tra la serie greca e quella latina, con testi originali e versione a fronte. Si trattava, a giudizio di F. Bolgiani, di un’iniziativa pionieristica, complessivamente di buon livello, e che aveva all’origine un progetto concepito negli anni 1879-80 dallo stesso don Bosco.11 Purtrop8 Già M. PELLEGRINO, «Un cinquantennio di studi patristici in Italia», in ScC 80(1952), 425-427, elencava nel 1952 i volumi della collezione di qualche rilevanza per la patristica. Sulla collezione – e sull’attività di ricerca della Biblioteca vaticana nella prima metà del Novecento – si veda VIAN, Bibliotheca Divina, 250-253. 9 Per questa collezione, che anticipa alcuni aspetti delle future SCh, cf. E. FOUILLOUX, La collection «Sources chrétiennes»: éditer les Pères de l’église au XXe siècle, Cerf, Paris 1995, 46s. Nel mondo di lingua inglese, alcune gloriose serie di traduzioni, quali la Library of Fathers o gli Ante-Nicen Christian Fathers, risalgono al XIX secolo. Per la situazione spagnola, cf. E. VILANOVA, Storia della teologia cristiana, 3: Secoli XVIII, XIX e XX, Borla, Roma 1995, 600. 10 Cf. PELLEGRINO, «Un cinquantennio di studi patristici», 427-432; per la ricerca in ambito universitario, cf. L. PERRONE, «Die italienische Patristik zwischen Altertumswissenschaft und Theologie», in Zwischen Altertumswissenschaft und Theologie. Zur Relevanz der Patristik in Geschichte und Gegenwart, hrsg. von C. MARKSCHIES u. J. VAN OORT, Peeters, Leuven 2002, 103-109. 11 Cf. F. BOLGIANI, «La “Corona Patrum” nel progresso della ricerca patristica», in Per una cultura dell’Europa unita. Lo studio dei Padri della Chiesa oggi, SEI, Torino 1992, 42.
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po, nonostante l’auspicio espresso nel 1952 da M. Pellegrino di una più rapida pubblicazione dei volumi e di una maggiore omogeneità della «utilissima collana», questa avrebbe chiuso i battenti di lì a poco.12
B)
I
G R A NDI STRUM E N T I DE LL’ E R U DIZIO NE PATR I S TI C A
Già questi primi elementi giustificano la cesura che sembra decisamente da collocare intorno agli anni ’40 del XX secolo: è a partire da quel momento, e in modo sempre più marcato con il secondo dopoguerra, che l’accesso ai Padri, da questione prevalentemente filologica ed erudita, si trasformerà sempre più in problema di ordine propriamente teologico, spirituale e culturale. I primi decenni del Novecento sono, piuttosto, quelli nei quali si preparano i grandi strumenti di lavoro: non solo le edizioni critiche o le pubblicazioni di testi di nuova scoperta grazie alle indagini nelle biblioteche,13 ma anche le grandi «storie letterarie» e teologiche e le numerose ricerche di ordine storico-critico, di cui siamo debitori in primo luogo agli storici e teologi protestanti attivi a cavallo tra Otto e Novecento – e sono, per non citare che i maggiori, i grandi nomi di un A. von Harnack (1851-1930) e di un T. Zahn (1838-1933), di K. Holl (18661926), F. Loofs (1858-1928), E. Schwartz (1858-1940), R. Seeberg (18591935), H. Lietzmann (1875-1942)… I teologi cattolici hanno potuto non senza ragione recriminare per il modo in cui certe pregiudiziali di matrice protestante arrivavano a inficiare il lavoro filologico e critico di questi studiosi, «ma la loro opera continua a essere magistrale, e non se ne può prescindere»,14 così come resta rilevante il contributo di alcuni studiosi anglicani, quali H.B. Swete (1835-1917), G.H. Turner (1860-1930) o G.L. Prestige (1889-1955).15 In ogni caso, anche la ricerca cattolica incomincia presto a produrre strumenti di lavoro importanti: basti qui citare, tra gli altri,16 il Dictionnaire de théologie catholique (1903), il Dictionnaire d’archéologie chrétienne et de liturgie (1907), il Dictionnaire d’histoire et géographie ecclésiastique
12 Cf. PELLEGRINO, «Un cinquantennio di studi patristici», 430. Salvo errore, la collezione si interrompe nel 1958 con alcune ristampe di volumi già pubblicati. La nuova «Corona Patrum», intrapresa con grande rigore scientifico nel 1975, chiuderà a sua volta nel 2000, dopo aver pubblicato una ventina di titoli. Per la situazione spagnola, simile a quella italiana, cf. VILANOVA, Storia della teologia cristiana, III, 598, nota 25. 13 Cf. SIMONETTI, «La teologia dei Padri», 365. 14 VILANOVA, Storia della teologia cristiana, III, 601. Per la bibliografia su questi studiosi, cf. SIMONETTI, «La teologia dei Padri», 368, nota 38 e M. SIMONETTI – G.M. VIAN, «Uno sguardo su centotrent’anni di studi patristici», in La tradizione patristica. Alle fonti della cultura europea, a cura di M. NALDINI, Nardini, Fiesole 1995, 65-68. 15 L’anglicanesimo vantava un’importante tradizione di studi patristici, con un forte significato ecumenico: lo ricorderà, parlando a New York il 17 giugno 1960, il card. Bea, evocando gli studi promossi soprattutto dal «Movimento di Oxford» (cf. CAPRILE I/1, 199). 16 Cf. AUBERT, «La théologie catholique. A. Durant la première moitié du XXe siècle», 423s.
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(1912); e ancora la fondazione a Lovanio, nel 1900, della Revue d’histoire ecclésiastique; mentre nel 1909 sarà la volta della Revue de sciences philosophiques et théologiques, e nel 1910 delle Recherches de sciences religieuses… Per quanto riguarda più specificamente la patristica, risalgono agli inizi del Novecento la Patrologie di O. Bardenhewer (*1901), cui farà seguito la più ampia Geschichte der altkirchlichen Literatur (*1902); arriveranno poi i Précis de patrologie di J. Tixeront (*1918), preceduti dai tre volumi dell’Histoire des dogmes dello stesso autore (*1905-1912), uno dei primi tentativi organici, da parte cattolica, in questa direzione;17 nel *1927, sarà la volta dei Précis de patrologie dell’agostiniano F. Cayré, opera più compilatoria, ma destinata ad avere una certa fortuna.18 Per ragioni di tutt’altro genere, merita di essere ricordata, in questo quadro, anche la pubblicazione dell’Enchiridion patristicum curato dal gesuita M.J. Roüet de Journel, che conoscerà diverse edizioni, dopo la prima del 1911.19 L’Enchiridion è abbastanza sintomatico della diversità di approcci che ancora si intersecano in questi primi decenni del Novecento: mentre infatti fiorisce la ricerca filologica e più generalmente storico-critica dei testi, e incominciano a prendere forma studi sempre più dediti a cogliere il profilo propriamente storico-teologico dei problemi dottrinali, la teologia di scuola continua a usare i Padri sostanzialmente come una «riserva di argomenti» a cui attingere. L’Enchiridion patristicum – che esplicitamente si ispira al più illustre e duraturo precedente dell’Enchiridion symbolorum et definitionum di H. Denzinger20 – intende rispondere precisamente a questo tipo di uso: il compilatore dichiara espressamente di non volere sostituire, con quest’opera, la lettura diretta dei Padri, sola fonte appropriata del senso pieno e genuino della tradizione cattolica; tuttavia il docente e lo studente di teologia sperimentano la difficoltà di riassumere in breve l’argumentum traditionis, quando le fonti sono disperse in tante pubblicazioni diverse. Ecco dunque una compilazione dei «principali documenti della tradizione patristica», raccolti affinché soprattutto gli studenti, mentre ascoltano le lezioni o studiano, ne dispongano «come in una piccola summa».21 In un articolo rimasto celebre, e dedicato al «bon usage du “Denzinger”»,22 p. Congar dedicava una critica piuttosto dura anche all’Enchiri17 Cf. SCHEFFCZYK, «Lineamenti fondamentali», 204: Scheffczyk nota però che fino agli anni ’30 non si può dire che vi sia una vera storia dei dogmi in ambito cattolico. 18 L’opera fu tradotta in inglese, italiano e fiammingo e avrà l’onore di una prefazione del futuro Giovanni XXIII (cf. sotto, c. 3, Sez. II, § 1). Per le patrologie pubblicate in Italia, cf. PELLEGRINO, «Un cinquantennio di studi patristici», 432-434. 19 Citeremo qui l’undicesima edizione, del 1951; una editio XXIV fu pubblicata nel 1969; non abbiamo trovato traccia di edizioni successive. Abbastanza spesso, nel dibattito conciliare, si fa riferimento all’uno o all’altro testo patristico rinviando semplicemente all’Enchiridion. 20 Cf. la prefazione all’opera, datata 29 giugno 1911 (cf. EPatr [111956], V). Per la storia del «Denzinger», si veda l’introduzione di Hünermann a DH, XLV-XLVIII. 21 Abbiamo sintetizzato e citato EPatr, V. 22 Pubblicato in L’Ami du Clergé del 23.5.1963, 321-329, l’articolo è ora in CONGAR, Situation et taches présentes, 111-133; Hünermann ne riprende alcuni spunti in DH (LIX-LX).
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dion patristicum, soprattutto per le false idee di sistematicità che in particolare gli indici di questi Enchiridia possono dare: … gli indici di Denzinger, e ancor più quelli dell’Enchiridion Patristicum del P. Rouët de Journel, sono la negazione stessa del carattere storico dei testi: essi, infatti, riportano alle categorie dei manuali, nei quali tanti spiriti hanno trovato o ritenuto di trovare sicurezza e chiarezza, testi che non si possono capire veramente se non nel loro contesto storico, e a volte filologico, che è loro proprio.23
In nota, e proprio a proposito dell’Enchiridion patristicum, Congar osserva ancora che il rilievo da lui fatto è tanto più significativo se si tiene conto che i testi patristici hanno un carattere spesso più personale e più impegnato nella concretezza storica che non quelli del magistero: i testi dei Padri «patiscono una vera e propria violenza per il fatto di essere ricondotti nei quadri scolastici di un manuale di inizio secolo».24 In definitiva, proprio la differenza tra un approccio ai testi patristici (ma la cosa vale, in definitiva, per ogni espressione della tradizione) che ne fa una pura «riserva di prove» e un accostamento capace di storicizzare testi e autori e di coglierne l’orientamento di fondo nell’insieme della tradizione cristiana, costituirà ancora all’epoca del Vaticano II uno spartiacque fondamentale.
C)
LA
PAT RO LOG I A I N A MB I TO C AT TO L I C O
Nonostante il lungo perdurare di tendenze come quella appena richiamata, un più rigoroso impegno di studio, sul piano non solo filologico e letterario, ma anche dottrinale, dei Padri della Chiesa e dell’antichità cristiana in genere, incomincia a dare ben presto risultati significativi anche in ambito cattolico, pur in mezzo a mille difficoltà:25 anche qui, basti il riferimento ad alcuni nomi più importanti, a partire da quello di L.
23
CONGAR, Situation et taches présentes, 125. CONGAR, Situation et taches présentes, 125, nota 17. È un modo di usare i Padri presente nello schema de Ecclesia del Vaticano I: cf. C. PIETRI, «L’ecclésiologie patristique et Lumen gentium», in Le deuxième Concile du Vatican (1959-1965). Actes du colloque organisé par l’École française de Rome... (Rome 28-30 mai 1986), École Française de Rome, Rome 1989, 512. 25 Il rilievo non deve far dimenticare il valore interconfessionale della ricerca patristica, ora confermato dalla pubblicazione di una prima parte degli indici della copiosa corrispondenza del card. G. Mercati (cf. Carteggi del card. Giovanni Mercati, 1: 1889-1936. Introduzione, inventario e indici a cura di P. VIAN, Biblioteca Apostolica Vaticana, Città del Vaticano 2003): essi permettono di verificare la vastità di rapporti che lo studioso intratteneva con alcuni tra i massimi esponenti della ricerca protestante: nel periodo 1889-1936 si segnalano diversi scambi di corrispondenza con von Harnack (a partire da una lettera di Mercati a von Harnack, dalla Biblioteca ambrosiana il 22 febbraio 1898, la cui minuta è riprodotta a p. 42 del volume citato), con H. Lietzmann (più di cinquanta documenti) e ancora K. Holl, E. Schwartz… Nessun contatto risulta, invece, con i patrologi cattolici, quali Bardenhewer, Altaner, Cayré ecc. 24
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Duchesne, che alle ricerche di carattere più erudito (le edizioni del Liber Pontificalis e del Martyrologium Hieronymianum, apparse a fine Ottocento), fa seguire l’Histoire ancienne de l’Église, pubblicata non senza problemi tra il *1906 e il 1910; sempre in Francia, si distinguono le ricerche sulla formazione del cattolicesimo di P. Batiffol, allievo di Duchesne: per quanto ancora debitrici di un certo tratto apologetico, mostrano nondimeno la serietà con la quale viene ormai trattato il dato storico; uguale serietà negli studi portati avanti in Belgio da studiosi come J.-M. Lebon e dal gesuita J. de Ghellinck.26 Non è un caso, del resto, che le critiche, le condanne e le ritrattazioni imposte dalla crisi modernista coinvolgano diversi di questi studiosi: a parte il caso specifico di J. Turmel, che nasconde la sua attività di storico sotto vari pseudonimi finché viene smascherato e scomunicato nel 1930,27 incorreranno in censure non solo un Duchesne o un Battifol28 (nonostante l’esplicita e ribadita ostilità al modernismo e ai modernisti), ma anche un G. Bardy, un J. Tixeront, un J. Lebreton o un A. d’Alès…29 Tutto ciò determina anche un certo blocco degli studi cattolici, del resto già in ritardo rispetto a quelli degli studiosi protestanti: basti citare, a titolo di esempio, il caso di Joseph Deconinck, sacerdote della diocesi di Lille, già allievo dell’École Biblique di Gerusalemme nel 1909-1910, autore di un importante Essai sur la chaîne de l’Octateuque (1912), che, a seguito della repressione antimodernistica, decise di lasciar cadere gli studi e di bruciare la tesi sulla quale stava lavorando.30 26 Per l’ambiente belga degli anni ’30, cf. R. GUELLUY, «Les antécédents de l’encyclique “Humani generis” dans les sanctions romaines de 1942: Chenu, Charlier, Draguet», in RHE 81(1986), 426-430. In ambito francese, sarebbero da ricordare ancora Monceaux († 1941), A. Puech († 1940), de Labriolle († 1940)… 27 Cf. J.M. DE BUJANDA, Index librorum prohibitorum 1600-1966, Médiaspaul-Libr. Droz, Montréal-Genève 2002, 896-898, dove si troveranno anche i vari pseudonimi usati da Turmel e l’elenco dei libri condannati con decreto del Santo Uffizio del 6 novembre 1930. 28 L’Histoire ancienne de l’Église di Duchesne fu messa all’Indice con decreto del 22 gennaio 1912; L’Eucharistie di Batiffol, messa all’Indice con decreto del 25 luglio 1907, fu poi autorizzata, previa rifusione e correzione, per la seconda edizione del 1913 (cf. DE BUJANDA, Index, sotto i nomi rispettivi); cf. anche SIMONETTI – VIAN, «Uno sguardo su centotrent’anni di studi patristici», 73s. 29 Per Bardy, cf. AUBERT, «La théologie catholique. A. Durant la première moitié du XXe siècle», 431; C. MONDÉSERT, «Sources Chrétiennes: une aventure de quarante-cinq années», in Alle sorgenti della cultura cristiana. Omaggio a Sources chrétiennes, M. D’Auria, Napoli 1987, 26s; FOUILLOUX, La collection «Sources chrétiennes», 48s; per Tixeront, cf. R. LAURENTIN, La Madonna. Questioni di teologia, Morcelliana, Brescia 1964, 17. Per Lebreton e d’Alès, si veda B. MONTAGNES, «L’historiographie récente du modernisme savant dans le domaine francophone», in Il modernismo tra cristianità e secolarizzazione. Atti del Convegno Internazionale di Urbino, 1-4 ottobre 1997, a cura di A. BOTTI e R. CERRATO, Quattroventi, Urbino 2000, 223, con rinvio a F. LAPLANCHE (dir.), Les sciences religieuses. Le XIXe siècle, 1800-1914, Paris 1996; cf. anche SIMONETTI, «La teologia dei Padri», 371 (cf. ivi, p. 368, nota 40 e p. 371, nota 48 per indicazioni bibliografiche su Duchesne e Battifol), e VIAN, Bibliotheca Divina, 252, che menziona anche la censura di cui fu vittima A. Ehrhard. 30 Cf. MONTAGNES, «L’historiographie récente du modernisme», 227. L’esplorazione delle «catene» esegetiche è un capitolo importante della ricerca patristica del Novecento: cf. VIAN, Bibliotheca Divina, 248s; SIMONETTI, «La teologia dei Padri», 365.
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In una misura difficile da valutare, dipende sicuramente anche da questo stato di cose – oltre che, naturalmente, da propensioni personali – se alcuni studiosi illustri, anche in ambiente italiano, ripiegarono su territori di ricerca di carattere più storico-erudito, evitando di compromettersi nelle più rischiose aree di carattere biblico e storico-teologico. Fu la scelta del faentino F. Lanzoni, che, dopo alcune traversie legate a questioni di critica biblica, decise di abbandonare definitivamente questo campo e di dedicarsi solo all’agiografia e alla storia ecclesiastica; ma il suo non fu l’unico caso, e tra coloro che fecero scelte simili va annoverato lo stesso E. Buonaiuti.31 In questo quadro, il nome più importante, sotto il profilo degli studi patristici in Italia, è però certamente quello di Giovanni Mercati (18661957), la cui quasi sessantennale permanenza alla Biblioteca vaticana, alla quale era arrivato nel 1898, dopo alcuni anni di lavoro all’Ambrosiana di Milano (dal 1893), segna uno dei momenti più importanti e fecondi della vita di quell’istituzione, una «stagione d’oro» che, proprio per le ripercussioni della crisi modernista, coincide con uno dei momenti più difficili e duri per la ricerca cattolica. Ben cosciente di questo contesto drammatico, Mercati vi reagì continuando il suo rigoroso cammino di studioso… Affrontò in pratica ogni aspetto e periodo della storia dei testi cristiani, dalla filologia biblica e patristica a quella bizantina, medievale e umanistica, dalla storia della liturgia e della teologia a quella delle letterature, delle biblioteche e della cultura, in contatto per decenni con i maggiori studiosi del suo tempo nei confronti dei quali (ma anche di giovani ricercatori) fu prodigo di tempo e d’aiuto disinteressato.32
Se l’opera di Mercati si presenta come «pura e asettica ricerca filologica»,33 ciò non fa però, del futuro cardinale, un uomo che vive isolato tra le sue carte, estraniato rispetto alle battaglie spesso dolorose che si combattono per un rinnovamento della cultura e della teologia cattolica nella
31 Cf. R. CERRATO, «Critica storica ed esegesi biblica nel modernismo italiano», in Il modernismo tra cristianità e secolarizzazione, 577. Per la vicenda Lanzoni, cf. LANZONI, Le memorie, 102-106. Aubert osserva che gli studi di carattere erudito in campo patristico e di storia dei dogmi ebbero meno da soffrire, rispetto all’esegesi, della mentalità di «stato d’assedio» conseguente al modernismo (cf. AUBERT, «La théologie catholique. A. Durant la première moitié du XXe siècle», 429 e 431); l’enciclica Pascendi non toccava gli studi patristici, ma individuava i pericoli principalmente nell’esegesi e nelle nuove concezioni filosofiche (cf. POULAT, «Le renouveau des études patristiques», 27). 32 VIAN, Bibliotheca Divina, 252s. Per un profilo di Mercati, cf. G.M. VIAN, «“Non tam ferro quam calamo, non tam sanguine quam atramento”. Un ricordo del card. Giovanni Mercati», in Miscellanea Bibliothecae Apostolicae Vaticanae, VII, Città del Vaticano 2000 (StT 396), 394-459. La pubblicazione degli indici della corrispondenza di Mercati per il periodo 1898-1936 (cf. Carteggi del Card. Giovanni Mercati) documenta la straordinaria rete di relazioni tra Mercati e gli studiosi del suo tempo (cf. sopra, nota 25). 33 Così SIMONETTI, «La teologia dei Padri», 371; lo stesso Simonetti, peraltro, osserva che senza un solido fondamento filologico – che caratterizza tutti i grandi studiosi attivi tra fine del XIX e primi decenni del XX secolo – ogni studio dei contenuti «diventa precario, praticabile soltanto a livello dilettantistico» (ivi, 361).
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prima metà del Novecento, e che sovente lasciano sul campo, vittime delle censure e delle condanne, studiosi non capiti e forse neppure letti con attenzione: avremo modo di accennare più avanti a un intervento di Mercati a favore di uno di questi studiosi.34
D)
NOMI
SIGN IFIC AT I V I
Non ripercorreremo, qui, le panoramiche relative agli studi patristici di interesse propriamente dottrinale, che caratterizzano i primi decenni del Novecento: a parte quelli relativi alle questioni ecclesiologiche, che presenteremo più avanti, essi non toccano immediatamente gli scopi della nostra ricerca.35 Vorremmo chiudere questa prima parte del nostro panorama con un accenno agli studi su singoli autori, per segnalare almeno due orientamenti caratteristici anche per quanto qui ci interessa: da un lato, il numero sempre consistente di studi relativi ad Agostino, un autore che, per diverse ragioni, viene continuamente studiato tanto dai protestanti che dai cattolici e che, lo vedremo, ha un suo ruolo privilegiato anche nelle ricerche ecclesiologiche dell’epoca.36 Colpisce, all’opposto, la scarsità di studi sui Padri greci37 e, in particolare, su due figure la cui rilevanza andrà crescendo a partire dagli anni ’40: Ireneo e Origene. È possibile, nel primo caso, che vi fosse ancora da aspettare il rinnovato slancio di studi sulla gnosi e lo gnosticismo (lo si avrà soltanto dopo il secondo conflitto mondiale),38 ma anche l’aprirsi della teologia alla questione «teologia della storia». Del tutto diversa la situazione di Origene, che sembra conoscere un vero e proprio ostracismo, o almeno uno scarso interesse, nella prima metà del Novecento. La questione è da collegare, da un lato, al forte influsso delle tesi di von Harnack intorno alla «ellenizzazione del cristianesimo», vista come irrimediabile deformazione dell’autentico messag-
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Si tratta di R. Draguet: cf. più sotto, c. 2 § 1c. Si veda soprattutto, al riguardo, SIMONETTI, «La teologia dei Padri», 367-372. 36 Cf. SIMONETTI, «La teologia dei Padri», 368 e 372, con alcune opere precedenti gli anni ’40 (Peterson, Scheel, Alfaric, Schmaus, Gilson, Marrou) segnalate alla nota 41; ma la fortuna di Agostino non conosce battute d’arresto, e da questo punto di vista egli oltrepassa la distinzione cronologica che usiamo nel capitolo. I centenari della morte (1930) e della nascita (1954) sono occasione di molte iniziative, tra le quali ricordiamo l’enciclica di Pio XI Ad salutem (AAS 22[1930], 201-234) e, per l’appuntamento del 1954, il grande congresso dedicato ad Augustinus Magister (*1954). Per uno sguardo complessivo sulle ricerche intorno all’ecclesiologia di Agostino fino al Vaticano II, cf. E. LAMIRANDE, «Un siècle et demi d’études sur l’ecclésiologie de Saint Augustin» (*1962). 37 La lacuna è constatata nello sguardo d’insieme sugli studi patristici proposto da J. DE GHELLINCK, «Les études patristiques depuis 1869», in NRTh 61(1929), 840-862, qui 859. 38 Nei primi anni del Novecento, sono soprattutto esponenti della cosiddetta «Scuola di storia delle religioni» di Gottinga (W. Bousset, R. Reitzenstein) a pubblicare qualche saggio significativo sulla gnosi, ma poi la ricerca conoscerà un certo stallo: cf. SIMONETTI, «La teologia dei Padri», 384, nota 95. Su Ireneo, lo studio più importante è quello di F. LOOFS (*1930) sulle fonti di Ireneo. 35
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gio cristiano; dall’altro, a un’impostazione di pensiero che colloca Origene agli antipodi del predestinazionismo agostiniano accolto nel protestantesimo; di conseguenza, venne comodo, da parte protestante, sbarazzarsi di questo eccezionale, ma già in antico contestato protagonista, considerandolo pensatore più ellenista che cristiano, mentre da parte cattolica non si riteneva opportuno difenderlo più di tanto a causa delle svariate condanne in cui era incorso tra IV e VI secolo.39
Si aggiunga, a tutto ciò, l’ancora scarsa attenzione per l’esegesi patristica e la sua storia, dal momento che, in quest’epoca, il problema è se mai quello della legittimità dei nuovi metodi storico-critici, che rischiano di naufragare nella tempesta modernistica; solo dopo gli anni ’40 un rinnovato studio dell’approccio patristico alla Scrittura e un più positivo giudizio intorno all’«ellenismo cristiano», riporteranno alla ribalta la figura del grande alessandrino.40
2. U N
NUOVO SLANCIO: D A G L I A N N I ’40 A L VAT I C A N O
A)
II
P R O SPE TT IV E
NUOVE: IL RESSOURCEMENT
La seconda metà del Novecento conosce indubbiamente grandi novità sul piano del lavoro basilare intorno ai testi patristici, le loro edizioni, le traduzioni, gli strumenti di lavoro ecc. Il progetto di un «nuovo Migne», che prende forma nella collezione del Corpus christianorum avviato in Belgio, nel 1954, presso l’abbazia di Steenbrugge e per iniziativa di dom E. Dekkers, si rivela forse inizialmente troppo presuntuoso;41 tuttavia, dopo gli aggiustamenti necessari, l’impresa si qualifica per l’alto livello e per una crescente e impressionante ampiezza di testi pubblicati. In qualche modo, la vicenda del Corpus christianorum e delle sue diverse serie sembra, almeno agli inizi, speculare rispetto all’altra, avviata nella Fran39 SIMONETTI, «La teologia dei Padri», 370; cf. anche H. CROUZEL, «Les influences allemandes sur l’étude d’Origène», in Patristique et antiquité tardive en Allemagne et en France, 102-110. Per i primi decenni del ’900, Simonetti indica, come opere significative su Origene, solo quelle di F. PRAT (*1907), E. DE FAYE (*1923-1928) e R. CADIOU (*1935). Non va peraltro dimenticato che nei GCS dell’Accademia di Prussia la pubblicazione delle opere di Origene in edizione critica è intrapresa già dal 1899. 40 Per gli sviluppi della ricerca su Origene nel ’900, cf. M. ALEXANDRE, «La redécouverte d’Origène», in Les Pères de l’Église dans le monde d’aujourd’hui. Actes du colloque international organisé par le New Europe College en collaboration avec la Ludwig Boltzmann Gesellschaft (Bucarest, 7-8 octobre 2004), éd. par C. BADILITA et C. KANNENGIESSER, Beauchesn-Curtea Veche, Paris-Bucarest 2006, 51-93. 41 Cf. SIMONETTI, «La teologia dei Padri», 364s; VIVES, «Patrología y teología, 19451969», 317. Il progetto è accompagnato dall’importante Clavis Patrum Latinorum, pubblicata da E. Dekkers nel *1951, terza ed. 1995; il corrispettivo strumento per gli autori greci, la Clavis Patrum Graecorum, sarà pubblicata a partire dal 1974.
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cia occupata degli anni ’40 col titolo di «Sources chrétiennes»: editorialmente povera, senza neppure i testi originali nei primi volumi, eppure destinata a diventare, oltre che un simbolo, una collezione scientifica di alta qualità: ne dovremo riparlare.42 Tra le novità di questa seconda fase degli studi sono certo da segnalare anche le scoperte di nuovi testi (le cui edizioni, peraltro, si faranno aspettare fino a dopo gli anni ’60): i papiri ritrovati a Tura, a sud de Il Cairo, nel 1941, mettono nelle mani degli studiosi opere fino ad allora sconosciute di Origene e di Didimo di Alessandria; sempre in Egitto, a Nag Hammadi, viene alla luce nel 1945 un’intera biblioteca di testi gnostici, scritti in copto tra IV e V secolo. Meno «celebri» di quelle fatte nel 1947-60 a Qumran, sono scoperte che, nondimeno, costituiscono un capitolo importante per gli studi della patristica e dell’antichità cristiana. Lo stesso vale per i testi restituiti dai manoscritti delle catenae esegetiche, il cui studio continua con importanti risultati;43 e si potrebbero citare diversi altri contributi significativi, sul piano filologico e storico-letterario, che hanno arricchito la ricerca patristica del secondo dopoguerra.44 Il punto di cesura che situiamo intorno ai primi anni ’40 riguarda, però, un altro aspetto. Fin ad allora, le ricerche di ordine patristico e storico-teologico lottano per affermare il significato e la rilevanza di una ricerca nella quale i cattolici non siano più condizionati dalla problematica apologetica, non vivano più, d’altra parte, semplicemente «a rimorchio» della ricerca protestante e si vedano riconosciute, nella loro stessa Chiesa, la dignità teologica delle proprie ricerche, la loro probità scientifica e la personale ortodossia dottrinale. Intorno alla drammatica cesura del secondo conflitto mondiale matura qualcosa di nuovo: solo a questo punto si può parlare, ritengo, di una vera e propria questione di ressourcement – e non solo perché il termine stesso di source assumerà un valore emblematico, con la pubblicazione dei primi volumi delle «Sources chrétiennes», a partire dal 1942. Fino ad allora, le remore legate alle controversie sul modernismo, e forse anche l’ambizione di non sfigurare davanti alla rigorosa ricerca storico-critica di matrice protestante, nonché la non sopita preoccupazione apologetica, avevano determinato il volto di una ricerca troppo preoccupata del rigore obiettivo dei dati, per riuscire a cogliere la portata profonda delle opere dei Padri.45 42
Cf. più avanti, c. 2 § 2. Indicazioni sintetiche e bibliografia in VIAN, Bibliotheca Divina, 254s. Per le catene, cf. C. CURTI – M.A. BARBARA, «Catene esegetiche greche», in Patrologia V, a cura di A. DI BERARDINO, Marietti, Genova 2000, 611-655; SIMONETTI – VIAN, «Uno sguardo su centotrent’anni di studi patristici», 71-73. 44 Va richiamata qui anche l’importante edizione critica di Gregorio di Nissa (Gregorii Nysseni Opera), avviata sotto la direzione di W. Jaeger a partire dal 1952. 45 Cf. AUBERT («La théologie catholique. A. Durant la première moitié du XXe siècle», 454), che rileva anche il rischio di un approccio troppo «attualizzante», che fa cadere in controsensi storici e incappa nella derisione degli specialisti (cf. anche E. BELLINI, «Gli studi patristici in Italia negli ultimi vent’anni (1951-1970)», in ScC 101[1973], 109): non sembra, in ogni caso, un rimprovero che si possa rivolgere agli studiosi dei decenni immediatamente precedenti il Vaticano II. 43
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Ora si fa strada un nuovo approccio: si incomincia a superare il limite apologetico o polemico,46 o il solo interesse per lo sviluppo dogmatico «omogeneo», per interessarsi anche, se non addirittura in modo esclusivo, a quanto c’è di originale negli scritti dei Padri, e cioè un senso eccezionale della sintesi cristiana, del nesso dei misteri nell’insieme del disegno divino, come pure a una percezione molto viva del carattere storico di questo disegno, ossia al fatto che la rivelazione non ci fa conoscere in primo luogo una teoria intorno a Dio, ma una «storia santa», la storia della salvezza dell’umanità.47
Accade così per gli studi patristici, osserva ancora Aubert – che scrive alla fine degli anni ’60 –, qualcosa di simile a quanto si può rilevare per gli studi biblici dei venticinque anni precedenti: ci si interessa meno ai lavori di pura erudizione – questioni di autenticità, di cronologia, o analisi tecnica del vocabolario teologico – e si cerca, piuttosto, di far rivivere il messaggio dei Padri nella sua ricchezza dottrinale e spirituale come pure, se possibile, di ritrovare l’esperienza religiosa della comunità cristiana, che si esprime attraverso queste testimonianze personali.48
Anche J. Leclercq sottolinea questo nuovo orientamento, facendo leva in particolare sull’immagine della source, la fonte che scaturisce dalle testimonianze della tradizione, investigate da questa nuova generazione di studiosi per se stesse, per metterne in luce l’originalità propria e cogliervi l’apparire, il crescere, la vita della dottrina sacra nella quale la rivelazione, sin dalle sue origini e in modo costante, era stata interpretata, formulata, proposta alla fede, alla preghiera, all’esperienza spirituale delle generazioni cristiane. I misteri divini si sono espressi e, per così dire, concretizzati in realtà di carattere storico: attraverso tutte le fonti che ci dicono come è possibile risalire alla «Fonte», a Dio stesso che, mediante il suo Spirito, non ha cessato di far vivere, nella Chiesa, la Parola rivolta un tempo all’umanità attraverso i Patriarchi e, da ultimo, mediante il suo Figlio e, attraverso di lui, agli Apostoli.49
È in questo nuovo approccio – che ovviamente, come si vedrà, non nasce dall’oggi al domani – che si può cogliere una sorta di «progettualità», teologica ed ecclesiale insieme. Vi è sicuramente un elemento importante di rifiuto, o almeno di volontà di ridimensionamento, di un tomismo costruito «ad uso delle scuole, una specie di razionalismo piatto che soddisfa il genere di deismo che, in fondo, molti desiderano insegnare».50 Del resto, se si oppone alla scolastica «barocca», e ancor più 46 J. Leclercq cita al riguardo la battuta di C. Péguy a proposito di «ces desséchés qui parlent toujours de sources…»: cf. LECLERCQ, «Un demi-siècle de synthèse», 26. 47 AUBERT, «La théologie catholique. A. Durant la première moitié du XXe siècle», 454. 48 AUBERT, «La théologie catholique. A. Durant la première moitié du XXe siècle», 454. 49 LECLERCQ, «Un demi-siècle de synthèse», 26. 50 Così E. Gilson, in una lettera a H. de Lubac dell’8 luglio 1956 (E. GILSON, Un dialogo fecondo. Lettere di Etienne Gilson à Henri de Lubac. Prefazione e commento di H. DE LUBAC, Marietti, Genova 1990, 17; cf. anche H.U. VON BALTHASAR, Il padre Henri de Lubac.
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alla neoscolastica dei manuali, questo rinnovato accesso ai Padri sa bene quanto la stessa grande scolastica medievale sia debitrice alla lezione dei Padri; e sa bene, peraltro, quanto il ritorno ai Padri sia solo una parte di un più ampio «ritorno alle fonti», che comprende anche una rinnovata lettura degli stessi Scolastici, e di Tommaso in particolare.51 In ogni caso, il confronto con gli ambienti più rigidi della neoscolastica è senz’altro presente e determinerà una dimensione polemica della rinnovata lettura dei Padri, che dovremo riprendere più in dettaglio (cf. c. 2).
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C O NV E R GE N ZE
M ULT I D I S C I P LI N A R I
Un secondo tratto caratteristico, in questo nuovo orientamento, riguarda la crescente convergenza di diversi «ritorni alle fonti»,52 che coinvolgono le ricerche in ambito biblico, liturgico, medievistico, e i progressi del confronto ecumenico, tutte espressioni di una medesima esigenza: riunire ciò che era separato, cogliere i nessi di tutte queste «fonti», per vedere profilarsi l’insieme della cultura cristiana che esse hanno concorso a determinare, e contribuire così anche al rinnovamento della teologia.53 C’erano stati, naturalmente, degli avvicinamenti anche in precedenza: come non ricordare gli studi convergenti su liturgia e Padri da parte di un dom L. Beauduin, o le opere di A. Vonier, di A. Stolz, di I. Herwegen, di O. Casel? Questa volta, i Padri non erano soltanto citati ma, da un lato, non erano più separati dalla liturgia e, dall’altro, venivano studiati per se stessi, come rappresentanti di una delle fonti principali della teologia; non senza fare ricorso, per la loro comprensione, alla filologia e alla storia delle religioni.54
La tradizione fonte di rinnovamento, Jaca Book, Milano 1978, 16). «Antiscolastico» era anche l’insegnamento della patristica alla Facoltà di teologia di Lovanio da parte di J.-M. Lebon, negli anni ’30 (cf. GUELLUY, «Les antécédents de l’encyclique “Humani generis”», 428). 51 Cf. FOUILLOUX, «Correnti di pensiero, pietà, apostolato», 160; si vedano anche le osservazioni di Coffele a proposito dell’opera di M. Grabmann (cf. G. COFFELE, «Storia della teologia», in CANOBBIO – CODA [edd.], La teologia del XX secolo, I, 263). Su s. Tommaso nel Novecento, cf. Saint Thomas au XXe siècle. Colloque du centenaire de la “Revue thomiste”, 1893-1992, Toulouse, 25-28 mars 1993, Paris 1994. 52 Il rilievo è piuttosto comune nella storiografia teologica: cf. ad es. AUBERT, «La théologie catholique. A. Durant la première moitié du XXe siècle», 449; FOUILLOUX, «Correnti di pensiero, pietà, apostolato», 159; ID., Une Église en quête de liberté. La pensée catholique française entre modernisme et Vatican II (1914-1962), Desclée, Paris 1998, 220-227; COFFELE, «Storia della teologia», 270-272. 53 Cf. LECLERCQ, «Un demi-siècle de synthèse», 26. 54 LECLERCQ, «Un demi-siècle de synthèse», 24. Per gli autori citati (tutti benedettini), si veda la «Bibliografia storica», *1925, *1935, *1937 (VONIER), *1936 (STOLZ), *1922, *1928 (HERWEGEN); per O. Casel, la bibliografia pubblicata in Vom christlichen Mysterium. Gesammelte Arbeiten zum Gedächnis von Odo Casel, hrsg. von A. MAYER, J. QUASTEN, B. NEUNHEUSER, Düsseldorf 1951, 363-375.
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Un punto delicato, quest’ultimo, ma indispensabile per affrontare nuove piste di ricerca. Faticosamente si apriva la strada della convergenza tra studi patristici e teologia sistematica: pionieristico, in questa direzione, il Mysterium fidei di M. de la Taille (*1921), la cui riflessione dogmatica attinge abbondantemente alla dottrina dei Padri in una prospettiva teologica certo ancora dominata da altre categorie ma che, per lo meno, prende sul serio i Padri e troverà imitatori sempre più attenti al dato storico-teologico in K. Adam, B. Capelle e altri ancora.55 Già più matura appare, in questa linea, la Katholische Dogmatik di M. Schmaus (*1938), «il migliore manuale d’insieme della prima metà del secolo»,56 un’opera nella quale il dato biblico e quello patristico sono studiati con attenzione nelle loro linee proprie, e non solo come arsenale di dicta probantia. Lo sforzo di Schmaus di cogliere la peculiarità del dogma cristiano, di uscire dalla rigidità della terminologia scolastica, di entrare in dialogo con alcune delle prospettive di pensiero che sempre più si impongono alla cultura del tempo, è senz’altro notevole: anche se poi l’autore «di rado mette in atto un’analisi filosofica dei concetti in vista di una penetrazione delle questioni difficili e ancor più raramente tenta di riprenderle alla base – ciò che, peraltro, non era il suo scopo».57 Ma nello stesso anno 1938 in cui inizia la pubblicazione della Dogmatik di Schmaus, esce anche Catholicisme, di H. de Lubac. Le due opere hanno finalità e impianto completamente diversi, ma il fatto è che il saggio del gesuita francese (che raccoglie studi già pubblicati in precedenza) batte una via del tutto nuova, per l’epoca. Esplicitamente, l’autore sceglie di pubblicare un’opera che sembra compilatoria, piuttosto che tecnica: «Se le citazioni s’accumulano – a rischio di affaticare il lettore – è perché abbiamo desiderato procedere nel modo più impersonale, attingendo soprattutto nel tesoro troppo poco utilizzato dei Padri della Chiesa»;58 il risultato è che si respira un’aria diversa, rispetto alla maggior parte delle pubblicazioni teologiche del tempo, un respiro che farà dire a P. Claudel, nel 1942: «Leggo in questo momento il libro del P. de Lubac che introduce nel mondo prodigioso e pieno di meraviglie dei padri greci».59 Nello stesso spirito saranno concepiti i vari saggi di ispirazione patristica che vedono la luce a partire da quegli anni, ad opera dello stesso de Lubac (in particolare Histoire et esprit, del *1950) e di 55 Cf. LECLERCQ, «Un demi-siècle de synthèse», 24; cf. SCHEFFCZYK, «Lineamenti fondamentali», 199, nota 7 e AUBERT, «La théologie catholique. A. Durant la première moitié du XXe siècle», 436. 56 La valutazione è di AUBERT, «La théologie catholique. A. Durant la première moitié du XXe siècle», 435, che teniamo presente (insieme a SCHEFFCZYK, «Lineamenti fondamentali», 203) per quanto segue. 57 AUBERT, «La théologie catholique. A. Durant la première moitié du XXe siècle», 435. 58 H. DE LUBAC, Cattolicesimo. Aspetti sociali del dogma, Jaca Book, Milano 1978, XXVI. 59 Cit. in DE LUBAC, Cattolicesimo, XIX. Si vedano anche le reazioni che, dieci anni più tardi, proverà Ratzinger: cf. J. RATZINGER, La mia vita. Ricordi (1927-1977), S. Paolo, Cinisello Balsamo 1997, 62.
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altri: Présence et pensée di H.U. von Balthasar (*1942), le diverse opere di J. Daniélou, di Y. Congar, di L. Bouyer…60 Nella teologia di lingua tedesca, danno voce a questo nuovo approccio i fratelli gesuiti Hugo e Karl Rahner. Il primo,61 patrologo raffinato e scrittore di qualità, si situa nella linea degli studi sul rapporto tra cristianesimo e antichità di F.J. Dölger, suo maestro nei primi anni ’30, e rilegge i Padri (ma anche le fonti liturgiche e gli autori medievali) con competenza filologica, sensibilità letteraria e interesse insieme teologico e spirituale, attento a cogliere un pensiero simbolico che ha profondi legami con la cultura e il mito del mondo ellenistico, legami da non rinnegare ma dei quali, anzi, si può rilevare una insospettata ricchezza. È forse mancato a H. Rahner il coraggio di credere che l’antica teologia dei Padri, da lui così ammirevolmente compresa e presentata, potesse contribuire a rinnovare la teologia accademica del suo tempo. Egli pensò, piuttosto, che si dovesse articolare un’altra teologia, in qualche modo parallela a quella «di scuola»: è il progetto della «teologia kerygmatica», che H. Rahner condivise e promosse insieme con altri teologi di Innsbruck (J.A. Jungmann, F. Dander, F. Lakner e altri) intorno alla metà del Novecento. Richiamiamo qui questo progetto, che non ebbe molto successo, solo per sottolineare che, nella prospettiva di H. Rahner, esso era strettamente connesso con il richiamo ai Padri e presupponeva anche da parte del suo primo destinatario, il sacerdote, l’impegno del «ritorno alle fonti»: la rielaborazione in senso kerygmatico della teologia poteva funzionare solo a patto che la predicazione venisse «alimentata da una familiarità, sempre rinnovantesi, con la tradizione scritturistica, patristica, liturgica e con la letteratura religiosa di tutti i secoli. Conoscenza scritturistica e teologia patristica: ecco le condizioni indispensabili per la ricostruzione cherigmatica»,62 scriveva il gesuita già nel 1938. È forse meno ovvio, in questa sede, il richiamo al nome del più giovane e più noto dei fratelli Rahner, Karl. Nella sua vasta produzione teologica vi sono però anche importanti ricerche di carattere storico-teologico, che lo inseriscono a pieno titolo, anche se con saggi più occasionali, nel rinnovamento degli studi patristici che fiorisce intorno alla metà del
60 Il clima che questa fioritura di studi suscitava in Francia, e non solo negli ambienti ecclesiastici – dove crescono anche le preoccupazioni –, è stato rievocato da M.-J. RONDEAU, «Jean Daniélou, Henri-Irénée Marrou et le renouveau des études patristiques», in Les Pères de l’Église au XXe siècle. Histoire - Littérature - Théologie. «L’aventure des Sources chrétiennes», Cerf, Paris 1997, 352s. Per le figure principali qui ricordate, in particolare de Lubac e Daniélou, cf. più avanti, c. 2 §§ 2-3. 61 Cf. A. ROSENBERG, «Hugo Rahner», in Lessico dei teologi del secolo XX, Queriniana, Brescia 1978, 465-472. Sui fratelli Rahner: K.H. NEUFELD, Hugo e Karl Rahner, S. Paolo, Cinisello Balsamo 1995; su Hugo, si veda J. HOLDT, Hugo Rahner. Sein geschichtsund symboltheologisches Denken, Paderborn 1997. 62 H. RAHNER, Teologia e kerygma, Morcelliana, Brescia 1958, 15. Per un giudizio sulla «teologia kerygmatica», cf. AUBERT, «La théologie catholique. A. Durant la première moitié du XXe siècle», 438s; SCHEFFCZYK, «Lineamenti fondamentali», 203.
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Novecento.63 Proprio in uno di questi saggi, inserito non a caso nella Festschrift per K. Adam del 1952, Rahner indica bene in che modo oggi la teologia dovrebbe accostarsi ai Padri: il problema non è più quello di dimostrare che «anche» i Padri hanno detto e vissuto quanto la Chiesa oggi insegna e vive. Ma [lo storico del dogma] dovrà con più agio e amoroso approfondimento della dottrina patristica, investigare cosa i Padri hanno da dirci sulla penitenza oltre alle verità, che sono chiaramente ed esattamente presenti alla coscienza teologica di oggi. Lo storico dei dogmi tenterà di rendere la dottrina patristica fermento per il proprio progresso dogmatico e stimolo per scorgere con maggiore chiarezza qualcosa di nuovo, che già gli antichi videro e conobbero.64
Rahner è consapevole del rischio di cadere in un «arcaismo romantico» della dogmatica (una critica ricorrente, che sarà rivolta al ressourcement anche durante il concilio); eppure, ritiene che il compito, anche se da svolgere con molta pazienza, sia irrinunciabile, perché la fede cosciente della Chiesa e le stesse scuole teologiche non hanno presente con la stessa chiarezza ed esplicitazione tutte le verità. Perciò la investigazione dei tempi primitivi non solo è necessaria per la giustificazione dello stato attuale, ma anche per il progresso della dogmatica: questa, ritornando al passato, progredisce verso il futuro.65
C)
I N TE R NA Z ION A L I T À E SLA N C IO E C U ME N I C O
Proprio perché «trasversale» rispetto ad aree di ricerca diversificate – e, di fatto, continuate con rigore ciascuna nel proprio ambito e con le proprie metodologie – il ressourcement che prende forza intorno alla metà del secolo si rivela anche un dinamismo capace di superare molte frontiere: anzitutto quelle nazionali, tanto che una delle caratteristiche più evidenti della ricerca patristica dopo il secondo conflitto mondiale è proprio la sua crescente internazionalizzazione. Finita o ridimensionata la prevalenza degli studiosi tedeschi (dove del resto si segnalano ancora nomi importanti, quali H. von Campenhausen, A. Grillmeier, i già citati H. e K. Rahner e gli autori di due tra le più diffuse Patrologie, B. Altaner e J. Qua-
63 Si vedano, in particolare, i saggi storici raccolti in K. RAHNER, La penitenza della Chiesa. Saggi teologici e storici, Paoline, Roma 1964, 237-868: si tratta di sette studi di carattere patristico, scritti tra gli anni 1936-1955. Alcuni quaderni risalenti agli anni della formazione teologica di Rahner a Valkenburg (1929-1933) permettono di vedere l’ampiezza delle letture patristiche fatte in quegli anni (cf. NEUFELD, Hugo e Karl Rahner, 126s). Il suo saggio sulla dottrina dei sensi spirituali in Origene era stato pubblicato nella Revue d’Ascétique et de Mystique nel 1932, un anno prima che egli concludesse gli studi a Valkenburg (cf. ivi, 130). 64 K. RAHNER, «La teologia della penitenza in Tertulliano», in ID., La penitenza della Chiesa, 474. 65 RAHNER, «La teologia della penitenza in Tertulliano», 474s. Si veda anche COFFELE, «Storia della teologia», 297s.
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sten),66 si nota una crescente rilevanza di studiosi inglesi (J.N.D. Kelly, O. Chadwick, C. Stead, W.H.C. Frend), olandesi (C. Mohrmann, J.H. Waszink), italiani (A. Pincherle, M. Pellegrino,67 G. Lazzati,68 F. Bolgiani, M. Simonetti…), belgi (M. Richard, R. Draguet); soprattutto, è la grande fioritura della ricerca francese, con i nomi di H. de Lubac, H.-I. Marrou, J. Daniélou, C. Mondésert, R. Devreesse, P. Courcelle, P. Nautin, H. Crouzel, J. Fontaine… Né vanno dimenticati, anche se più isolati dal punto di vista geografico, lo svizzero H.U. von Balthasar e lo spagnolo A. Orbe.69 Ma questa internazionalizzazione, che attraversa le frontiere politiche e linguistiche,70 sarebbe in definitiva meno rilevante, se non corrispondesse a una sempre maggiore apertura confessionale. La dilatazione delle iniziative ecumeniche è strettamente collegata con il nuovo sviluppo degli studi patristici. Influiscono anche circostanze storiche particolari, quali i crescenti contatti con esponenti della teologia ortodossa, anche a seguito dell’emigrazione dalla Russia verso l’Europa occidentale dopo la rivoluzione del 1917, che contribuiscono ad accendere l’interesse verso la patristica greca.71 È evidente, in ogni caso, che «la spiritualità e la teologia dei Padri, soprattutto greci, così come l’antica liturgia e la Scrittura, costituiscono un terreno di comune incontro, antecedente le divisioni tra cristiani».72 Non fa meraviglia, dunque, che tra le iniziative editoriali più significative per il rinnovamento degli studi patristici sia da annoverare anche la collezione di studi ecclesiologici «Unam sanctam», avviata da Y. Congar nel 1937, e aperta con il suo saggio Chrétiens désunis – che sostituisce il «classico» di Möhler, L’unità nella Chiesa, previsto in un primo tempo come volume inaugurale della serie, ma provvisoriamente accantonato per difficoltà con l’autorità ecclesiastica, che vede nel teologo tedesco un antesignano del modernismo.73 66 Ciò nonostante, Balthasar, scrivendo nel 1976 e confrontandosi con la ricerca francese (SCh) e belga (CC), parla di un «umiliante decadimento degli studi di patrologia in lingua tedesca»: BALTHASAR, Il padre Henri de Lubac, 23. 67 «Bibliografia», a cura di M. BELLIS, in M. PELLEGRINO, Ricerche patristiche (19381980), Bottega d’Erasmo, Torino 1982, I, XIX-XXXIII (da integrare con quella pubblicata in Forma futuri. Studi in onore del cardinale Michele Pellegrino, Torino 1975, XV-XLIV). 68 Su Lazzati come studioso della letteratura cristiana antica, cf. M. MALPENSA – A. PAROLA, Lazzati. Una sentinella nella notte (1909-1986), Bologna 2005 (TRSR n.s. 34), 275346 e 609-626; bibliografia patristica di Lazzati in Paradoxos politeia. Studi patristici in onore di Giuseppe Lazzati, a cura di R. CANTALAMESSA e L.F. PIZZOLATO, Milano 1979 (Studia Patristica Mediolanensia), XXVII-XXXIV. Sulle vicende della letteratura cristiana antica nell’Università italiana, si veda M. CICCARESE (ed.), La letteratura cristiana antica nell’Università italiana. Il dibattito e l’insegnamento, Nardini, Fiesole 1998. 69 Cf. SIMONETTI, «La teologia dei Padri», 373s. 70 Ciò non significa di per sé condizioni di sviluppo degli studi allo stesso livello, come attestano, tra altre cose, le difficoltà incontrate da Pellegrino per avviare una collezione patristica in Italia negli anni ’50 (cf. BOLGIANI, «La “Corona Patrum”», 43). 71 Cf. FOUILLOUX, «Correnti di pensiero, pietà, apostolato», 160. 72 COFFELE, «Storia della teologia», 278. 73 Sulle difficoltà della pubblicazione di Möhler in «Unam sanctam», cf. FOUILLOUX, Une Église en quête de liberté, 88.
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Una brochure programmatica della collezione, redatta da Congar, illustra bene lo spirito che anima questa nuova impresa editoriale. Tra le altre cose vi si legge: Unam sanctam mira a fare conoscere meglio la natura o, se vogliamo, il mistero della Chiesa; lavori storici possono figurare in essa ed anche delle considerazioni di natura liturgica e missionologica oppure degli studi riguardanti i cristiani separati ed il problema della loro riunione, nella misura in cui tali ricerche interessano una conoscenza più profonda e più ricca della Chiesa nella sua natura intima e nel mistero della sua vita. In particolare, poiché la teologia, secondo la sua legge propria, vive grazie ad un contatto intimo ed organico con il suo oggetto, ci sforziamo di dare un posto molto grande allo studio delle fonti a cui si deve attingere una conoscenza autentica della Chiesa una, santa, cattolica ed apostolica: Scrittura, Padri, liturgia, vita delle istituzione ecclesiastiche, ecc.74
Così, la cura per l’unità dei cristiani e l’accesso alle fonti per una più autentica conoscenza del mistero della Chiesa – ma si potrebbe dire, in riferimento ad altri testi di Congar, per una complessiva riconsiderazione della «economia» cristiana75 – si congiungono e determinano un contesto favorevole a uno scambio sempre più fecondo, tanto per gli studi patristici e teologici, quanto per la vita stessa delle confessioni cristiane.
D)
N UOV I
OR IZZO NT I D I R I C ER C A
Per quanto riguarda i contenuti di studio che si fanno strada nella nuova fase di ricerca, ci limitiamo a indicare alcune novità significative rispetto al momento delineato nella prima parte di questo paragrafo. Cresce, senza dubbio, l’attenzione nei confronti dei Padri greci, ciò che implica anche la focalizzazione su un retroterra filosofico diverso rispetto a quello, prevalentemente aristotelico, cui si richiama il tomismo di scuola. Le «Sources chrétiennes», inaugurate con la Vita di Mosè di Gregorio di Nissa, si aprono presto alla pubblicazione di Origene, mentre incominciano a moltiplicarsi gli studi sulla tradizione alessandrina, sul suo platonismo soggiacente, sulla sua ramificata Wirkungsgeschichte (i Cappadoci, e il Nisseno in particolare, ne sono un esempio), arrivando a modificare così in profondità la situazione di sostanziale disinteresse, di cui si è detto.76 74 Il testo è citato in J.-P. JOSSUA, Yves Congar. Profilo di una teologia, Queriniana, Brescia 1970, 118. 75 Cf. CONGAR, Situation et taches présentes, 28, dove nota, a proposito della teologia negli anni 1945-65: «Toute la théologie vivante du dernier quart de siècle a été marquée par le ressourcement. Or, que celui-ci fût biblique ou patristique, il conduisait à l’Economie du salut comme source et comme axe de toute théologie chrétienne». 76 Cf. SIMONETTI, «La teologia dei Padri», 374s. A qualcuno venne il sospetto che i sostenitori moderni dell’«ellenismo cristiano» (in particolare il gruppo gravitante intorno alle SCh) volessero infiltrare nella teologia una sorta di «neoplatonismo belga-francese» (cf. FOUILLOUX, «Correnti di pensiero, pietà, apostolato», 160s).
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Lo studio di Origene, indagato ora più come esegeta e maestro di vita spirituale che non come teologo, apriva le porte al campo dell’esegesi patristica, per lo più disertato sin qui, ma che doveva diventare uno dei più fecondi, e in certi momenti anche dei più polemici, della ricerca sui Padri nella seconda metà del Novecento. La pubblicazione di testi e traduzioni delle omelie origeniane nelle SCh avrebbe aperto la strada; le introduzioni a questi testi, preparate da de Lubac e poi riprese nell’importante volume Histoire et esprit (*1950), costituiscono una tappa fondamentale per restituire diritto di cittadinanza a un approccio alla Scrittura per troppo tempo squalificato come banale allegorismo.77 In alcuni esponenti di primo piano di questo ambito di studi, negli anni ’40-’60, è senz’altro presente qui un intento polemico nei confronti dell’esegesi storico-critica o, quanto meno, di alcune sue espressioni: ne riparleremo. Per il momento, basterà registrare la consapevolezza fondamentale che queste ricerche fanno emergere: il fatto, cioè, che l’intera opera dei Padri si caratterizza per il costante riferimento alla Scrittura. Lo aveva già rilevato lo studio del futuro segretario (e pilastro) delle SCh, C. Mondésert, a proposito di Clemente Alessandrino, Clément d’Alexandrie. Introduction à l’étude de sa pensée religieuse à partir de l’Écriture (*1944); ma gli studi crescenti sui Padri più importanti, sia greci che latini, confermeranno l’assoluta rilevanza del dato scritturistico nel loro insegnamento, anche quando non hanno lasciato commenti scritturistici o omelie bibliche.78 Prima di passare alla presentazione degli studi patristici sul terreno ecclesiologico, restano da richiamare due ambiti di studi che hanno conosciuto una grande effervescenza dopo gli anni ’50. Il quindicesimo centenario del concilio di Calcedonia (1951) è stato l’occasione per la pubblicazione di un’importante raccolta di saggi di studiosi tedeschi e francesi, curata da A. Grillmeier e H. Bacht,79 che può essere considerata l’avvio di tutta una serie di indagini che hanno fatto il punto sugli sviluppi delle dottrine cristologiche; la stessa ampia ricerca di Grillmeier sulla «preistoria» della formula calcedonese è il germe della sua grande opera cristologica, che vedrà la luce, in successive edizioni sempre più ampie, a partire dagli anni ’60.80 L’opera monumentale di Grillmeier è una sorta di emblema dei molti studi che si sono susseguiti intorno alla dottrina trinitaria e alla cri77 Com’è noto, de Lubac ha poi approfondito e ampliato la ricerca avviata con Histoire et esprit attraverso la grande Exégèse médiévale (4 voll., *1959-1964). Per una sintesi della ricerca su Origene dopo la metà del Novecento, cf. SIMONETTI, «La teologia dei Padri», 377s; ALEXANDRE, «La redécouverte d’Origène»; sul nuovo status di Origene nella ricerca patristica dopo gli anni ’40, cf. anche COFFELE, «Storia della teologia», 277. 78 Cf. SIMONETTI, «La teologia dei Padri», 375. 79 Cf. Das Konzil von Chalkedon (*1951); cf. SIMONETTI – VIAN, «Uno sguardo su centotrent’anni di studi patristici», 89-91. 80 Lo studio pubblicato nel 1951 è «Die theologische und sprachliche Vorbereitung der christologischen Formel von Chalkedon», I, 3-202; nel 1965 apparirà in inglese come Christ in Christian tradition. From the Apostolic Age to Chalcedon (451); tra il 1979 e il 2002 saranno poi i cinque volumi di Jesus der Christus im Glauben der Kirche.
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stologia dei Padri,81 soprattutto dopo il rallentamento della «spinta ecclesiologica», giunta al suo culmine all’epoca del Vaticano II. Va segnalata, infine, la ripresa degli studi sullo gnosticismo, certamente stimolata anche dalla scoperta dei testi di Nag Hammadi; scoperta che ha suscitato, forse, speranze eccessive, tanto che molte ipotesi o piste di lettura si sono rivelate poi impraticabili e «non poca parte della vastissima produzione scientifica recente, relativa allo gnosticismo, è di poco o di nessun valore».82 Rimangono esemplari, viceversa, gli studi che A. Orbe ha condotto sulla gnosi a partire dalla metà degli anni ’50:83 hanno segnato una tappa fondamentale nella comprensione del fenomeno gnostico e, soprattutto, dello stretto legame con esso degli autori «ortodossi», i quali non possono dunque essere letti semplicemente in termini di contrapposizione alla gnosi. «Ortodossi» ed «eretici» appartengono alla medesima unità culturale, e vanno capiti su questo sfondo comune, «sì che solo una comprensione unitaria degli uni e degli altri è in grado di mettere a fuoco correttamente il significato delle loro elaborazioni dottrinali, sia nelle convergenze sia nelle specificazioni di parte».84
3. V E R S O L’ E C C L E S I O L O G I A D E L «C O R P O M I S T I C O » 85 A)
I
PR E C U RSOR I D E L
XIX
SE COLO
Nel pieno del periodo qui preso in considerazione – dal primo dopoguerra alla vigilia del Vaticano II – si celebrò il centenario della morte di J.A. 81
Cf. la panoramica offerta da SIMONETTI, «La teologia dei Padri», 380-383. Così SIMONETTI, «La teologia dei Padri», 385; una sintesi sulla ricerca dopo Nag Hammadi in A. CAMPLANI, «Cinquant’anni da Nag Hammadi», in Adamantius 4(1998), 76-90. 83 È del *1955 il primo (per data di pubblicazione) degli Estudios Valentinianos di A. ORBE, En los albores de la exegésis iohannea. 84 SIMONETTI, «La teologia dei Padri», 386. 85 Sintesi generali utilizzate per questa parte: J. FRISQUE, «L’ecclésiologie au XXe siècle», in Bilan de la théologie du XXe siècle, II, 412-456; A. ANTÓN, El misterio de la Iglesia. Evolución histórica de las ideas eclesiológicas, Biblioteca de autores cristianos – Estudio Teológico de S. Ildefonso, Madrid-Toledo 1986-1987, II, 319-831; ID., «Lo sviluppo della dottrina sulla Chiesa nella teologia dal Vaticano I al Vaticano II», in L’ecclesiologia dal Vaticano I al Vaticano II, La Scuola, Milano 1973, 27-86; A. ACERBI, Due ecclesiologie. Ecclesiologia giuridica ed ecclesiologia di comunione nella «Lumen gentium», EDB, Bologna 1975, 13-105; Y. CONGAR, L’Église de saint Augustin à l’époque moderne, Cerf, Paris 51996; G. ZIVIANI – V. MARALDI, «Ecclesiologia», in CANOBBIO – CODA (edd.), La teologia del XX secolo, II, 287-410; P. HÜNERMANN, «Theologischer Kommentar zur dogmatischen Konstitution über die Kirche Lumen Gentium», in Herders Theologischer Kommentar zum Zweiten Vatikanischen Konzil, hrsg. v. P. HÜNERMANN u. B.J. HILBERAT, Herder, Freiburg 2004-2006, II, 271-288. Anche se più datati, risultano ancora molto utili i resoconti pubblicati da Y. CONGAR nella RSPhTh e nel Bulletin thomiste, raccolti poi sotto il titolo «Chronique de trente ans d’études ecclésiologiques» in Sainte Église. Études et approches ecclésiologiques, Cerf, Paris 1964, 445-696; e lo studio di S. JÁKI, Les tendances nouvelles de l’Ecclésiologie, Herder, Roma 1957. 82
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Möhler (1796-1838).86 «Celebrare» è verbo in realtà eccessivo, se si pensa che negli ambienti romani Möhler era letto ancora con diffidenza ed era indicato come fautore di concezioni riprese poi nel modernismo.87 La ricorrenza non mancò, in ogni caso, di suscitare attenzione: in Francia, ad es., vedeva la luce una nuova versione di quella che, allora come oggi, era considerata l’opera decisiva di Möhler, Die Einheit in der Kirche (1825), pubblicata come secondo volume di quella collezione «Unam sanctam», alla quale già si è accennato, e che avrebbe svolto un ruolo determinante per il rinnovamento ecclesiologico intorno alla metà del Novecento.88 Nei progetti di Congar, anzi, l’opera del teologo di Tubinga doveva essere il primo volume della serie, quasi a conferirle l’impronta caratteristica e a segnare, dopo un secolo, la fecondità di linee di pensiero per troppo tempo dimenticate. Presentando la pubblicazione, lo stesso Congar prende alcune precauzioni, riconoscendo che vi sono senz’altro, nel pensiero di Möhler, punti da integrare, soprattutto per quanto riguarda la dimensione istituzionale della Chiesa: riconoscere questo, però, è ben altra cosa che fare di Möhler il padre di un modernismo nello stile di Tyrrell.89 Sarebbe un peccato, in definitiva, nota Congar, rinunciare al guadagno che deriva dalla rilettura dell’opera del teologo di Tubinga col pretesto di alcuni suoi limiti innegabili: tanto più che sempre Möhler ha voluto pensare nella Chiesa, in sinu Ecclesiae. Non sarebbe più equo completarlo, valorizzando la ricchissima intuizione, attinta alla scuola dei Padri, che anima tutto il suo libro e gli conferisce quell’aura di giovinezza in virtù della quale lo si può ripubblicare e tradurre dopo più di cento anni?90
86 Ampia bibliografia su Möhler e il suo influsso in P. COLOMBO, «La scuola di Tubinga», in Storia della Teologia, 4: Età moderna, dir. da G. ANGELINI – G. COLOMBO – M. VERGOTTINI, Piemme, Casale Monferrato 2001, 332s; vi si possono aggiungere M.J. HIMES, Ongoing incarnation. Johann Adam Möhler and the beginnings of modern ecclesiology, New York 1997; H. WAGNER, «Zum Stand der Möhler-Forschung», in Unterwegs zum einen Glauben. Festschrift für Lothar Ullrich zum 65. Geburtstag, hrsg. v. W. BEINERT – K. FEIEREIS – J. RÖHRIG, Benno Verlag, Leipzig 1997, 511-523; M. DENEKEN, Johann Adam Möhler, Paris 2007 (Initiations aux théologiens, 1). 87 Si veda l’intervento di P. Parente in occasione della condanna dei libri di Chenu e Charlier nel 1942 (cf. sotto, c. 2, nota 33 e testo relativo). 88 Cf. J.A. MÖHLER, L’unité dans l’Église ou le principe du Catholicisme d’après l’esprit des Pères des trois premiers siècles de l’Église, Paris 1938; l’opera di Möhler era già stata tradotta in francese un secolo prima (De l’unité de l’Église: ou, Du principe du catholicisme d’après l’esprit des Pères des trois premiers siècles de l’Église, Bruxelles 1839). Sempre nel 1938 il gesuita Chaillet curava la pubblicazione della miscellanea L’Église est une. Hommage à Moehler (*1939). Il risveglio dell’interesse per Möhler e per la scuola di Tubinga nel periodo che ci interessa è attestato anche dalla ricerca di J.R. GEISELMANN, Lebendiger Glaube aus geheiligter Überlieferung. Der Grundgedanke der Theologie Johann Adam Möhlers und der katholischen Tübinger Schule, Mainz 1942 (cf. AUBERT, «La théologie catholique. A. Durant la première moitié du XXe siècle», 444). 89 Cf. CONGAR, Sainte Église, 509s. 90 CONGAR, Sainte Église, 520. Secondo Congar, i Padri ai quali Möhler più fa riferimento sono Clemente Alessandrino e Origene (per la «gnosi cristiana») e Cipriano (per la teologia dell’unità della Chiesa e dell’episcopato); «Les Pères, et non Schelling ou Schleiermacher, ont été les vrais inspirateurs de Möhler» (ivi).
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Lo stesso Möhler, del resto, nella Symbolik del 1832 aveva sfumato alcune sue posizioni presenti nell’opera sull’unità nella Chiesa e aveva riconosciuto la maggiore importanza dei tratti istituzionali della Chiesa, che sembravano troppo trascurati nel saggio giovanile. Certo, rimettersi alla scuola di un Möhler un secolo dopo la sua morte significava anche rendersi conto del tempo e delle opportunità perdute dalla teologia cattolica. In effetti, il ricorso ai Padri della Chiesa come fonte (o una delle fonti) di un rinnovamento dell’ecclesiologia non era stato un’esclusiva di Möhler, che pure ne fu, nell’Ottocento, la figura più rappresentativa: ma bisognerebbe ricordare qui anche il card. J.H. Newman, la sua affermazione: «I Padri hanno fatto di me un cattolico»,91 la sua ricerca storica che gli permette di attingere a una visione di Chiesa profondamente innestata nel pensiero di un Atanasio, un Basilio, degli altri Cappadoci, per poi cercare di reinfonderla nell’anglicanesimo e nel cattolicesimo del suo tempo.92 Anche l’interesse di Antonio Rosmini per la patristica è netto, e fa di lui un altro dei grandi precursori ottocenteschi del ritorno ai Padri, non soltanto in chiave teologica, ma anche di rinnovamento della Chiesa.93 L’itinerario delle sue letture patristiche è conosciuto in modo frammentario ed è certo che Rosmini sovente ricorre ai Padri attraverso interposto autore: è chiaro, in ogni caso, che Rosmini deve molto ai Padri per l’elaborazione del suo progetto educativo (cf. già il primo abbozzo Dell’educazione cristiana libri tre, scritto nel 1820 e pubblicato nel 1823), come pure per le sue tesi teologiche principali sull’uomo e su Dio (la Antropologia soprannaturale, la Teosofia) e per la sua concezione della Teologia (cf. Il linguaggio teologico). Anche sul piano ecclesiologico, in particolare nelle Cinque piaghe (scritto nel 1832, pubblicato nel 1948), l’influsso dei Padri – mediato almeno in parte attraverso l’Histoire de l’Église del Fleury – è evidente, e proprio su alcuni punti che più stanno a cuore a Rosmini: l’unità del culto tra pastori e fedeli, che sottintende la visione patristica (tra gli altri, Origene, Ambrogio) del sacerdozio battesimale; in modo ancora più chiaro nella questione della formazione del clero, che Rosmini prende in considerazione nel secondo capitolo dell’opera, dove 91 La frase si legge nella Letter addressed to the rev. E. B. Pusey, D.D., on accasion of his Eirenicon (1865/66), in Certain Difficulties felt by Anglicans in Catholic Teaching Considered, II, New Impression, London 1920, 24 (cf. J.H. NEWMAN, La Chiesa dei Padri. Profili storici. Trad. e note di S.M. MALASPINA. Introd. di I. BIFFI, Jaca Book, Milano 2005, XIII); cf. anche L. OLIVE, «Modeste hommage d’un newmanien aux Pères de l’Église et à leurs éditeurs», in Migne et le renouveau des études patristiques. Actes du Colloque de SaintFlour, 7-8 juillet 1975, édités par A. MANDOUZE et J. FOUILHERON, Beauchesne, Paris 1985, 321-338. 92 Cf. JÁKI, Les tendances, 39, che cita L. BOUYER, Newman. Sa vie. Sa spiritualité, Paris 1952, 210. 93 Breve sguardo sui Padri in Rosmini in E. BELLINI, I Padri nella tradizione cristiana, Jaca Book, Milano 1982, 134-136; più ampi, ma disorganici, i contributi di A. QUACQUARELLI, soprattutto La lezione patristica di Antonio Rosmini (i presupposti del suo pensiero), Centro Internazionale di Studi Rosminiani-Città Nuova, Stresa-Roma 1980 e «La filosofia neopatristica al tempo di Rosmini», in VetChr 24(1987), 237-252.
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contrappone alla situazione presente l’ideale formativo della Chiesa dei Padri, nella quale il contatto quotidiano con il vescovo, teologo e pastore insieme, è la scuola per eccellenza dei futuri chierici.94 A integrazione di questo breve richiamo alla fioritura di una ecclesiologia di ispirazione patristica nel XIX secolo, bisognerebbe menzionare ancora il contributo dei teologi del Collegio romano prima della Aeterni Patris.95 Quattro nomi sono qui da citare, quelli di G. Perrone (1794-1876) e soprattutto di C. Passaglia (1812-1887), J.B. Franzelin (1816-1886) e C. Schrader (1820-1875): si sa il ruolo importante che gli ultimi due ebbero nella preparazione dello schema de Ecclesia Christi per il Vaticano I. In questi autori si vede la preoccupazione di ricorrere ai Padri (per lo più attraverso la mediazione degli studi di D. Petau e L. Thomassin) non semplicemente per trovarvi un arsenale di argomenti, ma per penetrarne con maggiore profondità lo spirito e gli orientamenti più significativi,96 in linea con la visione complessiva della tradizione, che è uno dei tratti notevoli dei teologi del Collegio romano. Proprio la maggiore attenzione ai Padri permise loro – in particolare a Passaglia e a Schrader – di presentare la Chiesa secondo linee meno rigidamente istituzionali rispetto a quelle di molti contemporanei,97 senza che, del resto, la loro impostazione riuscisse ancora a prevalere: l’accantonamento del de Ecclesia Christi al Vaticano I, e le conseguenze delle definizioni dogmatiche formulate dal concilio del 1870 avrebbero fatto segnare il passo ancora per qualche decennio ai tentativi di rinnovamento ecclesiologico. Non possiamo però chiudere questo richiamo sintetico ai precursori della ricerca ecclesiologico-patristica nel XIX secolo senza menzionare il nome di M.J. Scheeben (1835-1888):98 dalla lettura di Möhler, ma anche dalla lezione di Passaglia e di Schrader, che furono suoi maestri al Collegio romano, attinse l’interesse per i Padri, in particolare per Cirillo di Alessandria – dal quale soprattutto prese l’idea dell’unità delle Persone divine quale fondamento e modello ecclesiologico dell’umanità redenta nel corpo mistico di Cristo –, Gregorio di Nissa, Giovanni Crisostomo e Atanasio.99 Mettendosi in ascolto della voce dei Padri greci, Scheeben conserva, intorno al «corpo di Cristo», un orizzonte di vedute più ampio di quello prevalso in occidente soprattutto dopo Agostino (al quale pure Scheeben, peraltro, si interessa). Nella sua «teologia dei misteri», l’elaborazione delle immagini e metafore tratte dalla rivelazione e dai Padri – sulla scorta di Passaglia – gioca un ruolo determinante e prepara modalità di riflessione teologica che saranno poi riprese nel secolo successivo. 94 Cf. A. ROSMINI, Delle cinque piaghe della Santa Chiesa, a cura di C. RIVA, Morcelliana, Brescia 71985, 81-83. 95 Cf. F.G. BRAMBILLA, «Il neotomismo fra restaurazione e rinnovamento», in Storia della Teologia, IV, 426-436 (bibliogr.). 96 Cf. FRISQUE, «L’ecclésiologie au XXe siècle», 420; JÁKI, Les tendances, 172. 97 Cf. ACERBI, 21s; Y. CONGAR, Le Concile de Vatican II. Son Église, peuple de Dieu et Corps du Christ, Beauchesne, Paris 149s (bibliogr.). 98 Cf. BRAMBILLA, «Il neotomismo», 432-436 (bibliogr.). 99 Sono i Padri più citati da Scheeben: cf. ANTÓN, El misterio de la Iglesia, II, 429.
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Per più di trent’anni, poi, l’ecclesiologia cattolica sembra dimenticare il contributo dei Padri, a meno che questo non venga cercato semplicemente nel quadro di una teologia «dimostrativa», o utilizzato in funzione polemico/apologetica, in uno sforzo tutto o quasi assorbito dalla preoccupazione di rispondere alle tesi di von Harnack e della sua scuola. Il risultato di questo sforzo non è certo tutto da buttar via, basti pensare alla sintesi elaborata dagli studi di P. Batiffol (1861-1929): se l’orientamento apologetico senza dubbio prevale ancora rispetto all’impegno dogmatico, è già possibile vedere nell’opera dello studioso francese le anticipazioni promettenti di nuovi orientamenti.100 La crisi modernista interverrà poi a gravare di una nuova ipoteca gli studi storico-teologici. Un’eccezione merita di essere ricordata: quella di A. Gréa (1828-1917) e del suo saggio De l’Église et de sa divine constitution che, pubblicato nel 1885 e poi ristampato nel *1907, si distingue nell’insieme del panorama teologico del suo tempo per l’accento posto sulla Chiesa locale, sul fondamento di un’ecclesiologia eucaristica, ispirata al pensiero di Ignazio di Antiochia, che ottant’anni più tardi i cattolici ritroveranno nelle pagine della Lumen gentium.101
B)
R ITOR N O
ALLE F O N T I E D EC C L ES IO L O G I A
A partire dal primo dopoguerra, la riflessione ecclesiologica in ambito cattolico conosce un nuovo slancio, e appare chiaramente dominata dall’interesse per la Chiesa come «Corpo mistico»: interesse che raggiungerà il suo punto culminante con la pubblicazione dell’enciclica Mystici corporis nel 1943. La citatissima frase di R. Guardini sul «risveglio della Chiesa nelle anime» è, per così dire, la bandiera di questa nuova fioritura, che si presenta, per ciò stesso, non solo come una questione di teologia «intellettuale», ma anche come trasformazione della vita stessa della Chiesa.102 Così, negli stessi anni nei quali K. Barth, commentando L’epistola ai Romani (1919, 21922), leva la sua voce «profetica» contro l’appiattimento di Dio sui valori mondani, nel mondo cattolico si incomincia a reagire a un’ecclesiologia «orizzontale», rigidamente determinata dalle categorie filosofico-sociali della societas perfecta e quasi esclusivamente interessata a custodire il principio gerarchico-primaziale della sua esistenza. 100 Cf. JÁKI, Les tendances, 172; ZIVIANI – MARALDI, «Ecclesiologia», 289. Per le opere di Batiffol, cf. la «Bibliografia storica», anni *1909, *1914, *1920, *1924, *1938. A proposito di Cathedra Petri, volume che raccoglie diversi scritti di Batiffol, pubblicato postumo nel 1938 e inserito in Unam sanctam, va notato che Congar lo presenta sottolineandone la perfetta congruenza con le intenzioni della collezione da lui diretta (cf. Sainte Église, 524). 101 Cf. JÁKI, Les tendances, 65; ANTÓN, El misterio de la Iglesia, II, 458-463. 102 HÜNERMANN, «Theologischer Kommentar», 279, ha attirato l’attenzione sul fatto che questo orientamento appare anche in alcuni contributi letterari, quali gli Inni alla Chiesa di Gertrud von Le Fort (1924) o i romanzi di G. Bernanos. Per la frase di Guardini, cf. ID., Von Sinn der Kirche, Mainz 1922, 1.
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In questo movimento di rinnovamento ecclesiologico, il ritorno alle fonti gioca un ruolo importante, come hanno notato gli storici della teologia: Al seguito di Möhler e dei teologi della scuola romana, i teologi della Chiesa tra le due guerre si rivolgono volontieri verso i Padri greci, senza peraltro escludere i grandi nomi della patrologia latina. Lo fanno per le medesime ragioni dei loro predecessori, e anche per una preoccupazione ecumenica che, lungi dall’essere assente in Möhler, era all’epoca largamente favorita dalla presenza, in Occidente, di una significativa emigrazione russa. La generazione del dopoguerra sente il bisogno fondamentale di restaurare il cristianesimo al livello delle sue energie essenziali, di restituirlo alla sua piena verità spirituale: è questa, ci sembra, la spiegazione per l’interesse nei confronti dell’ecclesiologia dei Padri greci. Nessuno, meglio dei Padri, ha mai espresso l’essenza profonda della Chiesa come vita in Cristo e comunione nello Spirito! La loro visione della Chiesa corrisponde perfettamente a ciò che questa generazione cerca; ai Padri si chiede questa visione, questa loro «Idea» sulla Chiesa, molto più che il modo concreto in cui si è edificata in quest’epoca la coscienza ecclesiale dei credenti; si cerca di raggiungere il contenuto della loro contemplazione della Chiesa nel suo mistero.103
Tornando ai Padri, alla liturgia e – in un secondo tempo – alla Scrittura,104 la teologia cattolica tra le due guerre mondiali cerca di recuperare alcuni elementi rimasti troppo nell’ombra: una maggiore centralità cristologica, il riconoscimento di un primato della grazia rispetto al peso unilaterale dato all’istituzione, una visione insomma più sensibile al «mistero» della Chiesa, che non si esaurisce solo nel trattato apologetico/razionale, ma aspira a un’intelligenza dogmaticamente più completa, capace di fare spazio anche alla «simbolica» biblica e tradizionale: «Ora, innegabilmente, e senza abbandonare nulla della verità cattolica, i teologi moderni si orientano verso una nuova valorizzazione dell’anima più profonda, più mistica, più divina della Chiesa», scrive Congar nel 1932.105 Certo il teologo domenicano, di formazione tomista, ma attento recensore di tutto ciò che va emergendo di più significativo nella riflessione ecclesiologica, vede il «ritorno alle fonti» in una prospettiva molto ampia. Le fonti non sono soltanto la Scrittura, la liturgia, i Padri, il magistero: si tratta, invece, di tutte le grandi opere del pensiero cristiano, suscettibili
103 FRISQUE, «L’ecclésiologie au XXe siècle», 417; cf. anche, nella stessa linea, JÁKI, Les tendances, 155; CONGAR, Sainte Église, 552s; ACERBI, 20; ZIVIANI – MARALDI, «Ecclesiologia», 294s. 104 Il ressourcement biblico influisce sull’ecclesiologia in un momento successivo, rispetto a quello liturgico e patristico: conseguenza delle difficoltà degli studi biblici, nella crisi provocata dal modernismo, e del fatto che gli autori del XIX sec., che abbiamo citato più sopra, offrivano già modelli importanti di una teologia rinnovata dal contatto con i Padri: cf. FRISQUE, «L’ecclésiologie au XXe siècle», 420: giustamente indica negli studi di L. Cerfaux su Paolo il punto di svolta; ma siamo già negli anni ’40. 105 CONGAR, Sainte Église, 452; cf. ANTÓN, El misterio de la Iglesia, II, 541.
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di fecondare la riflessione teologica e, dunque, teologi e filosofi, ivi compresi i pensatori religiosi non cattolici: Queste fonti coprono dunque tutto l’ambito che ho già avuto modo di definire come appartenente alla «teologia positiva», ossia all’auditus fidei, a una informazione sulla fede il più possibile completa e ricca, mediante lo studio scientifico e religioso delle testimonianze lasciate nel corso dei secoli e delle culture da tutto il pensiero cristiano in atto di intellectus fidei.106
In una visione così ampia, la riflessione sulla Chiesa può beneficiare di aperture di orizzonti davvero impensate, o quasi, nei decenni precedenti.107 Si incomincia a situare la Chiesa nell’orizzonte della historia salutis, incentrata in Cristo e orientata escatologicamente; si possono valorizzare le immagini, presenti nei testi biblici, riprese dai Padri (ma anche dall’iconografia cristiana) e dalla liturgia; si incomincia a considerare meglio l’opera cultuale e apostolica di tutto il corpo ecclesiale, contro le riduzioni «gerarcologiche»… Anche il senso della relazione della Chiesa con il mondo viene ripensato, perché il ressourcement suggerisce una visione del mondo nella prospettiva del suo significato escatologico, aiuta a uscire dalle secche di una visione imperniata sul potere e permette di arrivare a un miglior apprezzamento dell’uomo e delle sue possibilità: «Il soggetto religioso con la sua vocazione, i suoi doni e anche le sue lotte spirituali (G. Bernanos), ritrovava il suo posto nell’ecclesiologia, che poteva di nuovo incominciare a incorporare un’antropologia, come nei Padri».108 Gli anni del secondo dopoguerra conoscono anche un rinnovato interesse per la questione dell’unità tra i cristiani,109 che ha i suoi riflessi negli studi di ecclesiologia patristica. Si avverte soprattutto, in alcuni autori, un’attrazione per il cristianesimo orientale, non sempre equilibrata sul piano teologico, ma che esprime il bisogno di uscire dal razionalismo della teologia occidentale. Un esempio è offerto da J. Tyciak e dal suo forte apprezzamento per la teologia ortodossa, con il suo radicamento nella teologia dei Padri, e per una ecclesiologia «spiritualista», che non era certo fatta per trovare facile accoglienza negli orientamenti cattolici dell’epoca.110 Occorre dire che Tyciak sembra anche ammirare un po’ ingenuamente l’ortodossia: lo suggeriscono le voci che negli stessi anni, all’interno dell’ortodossia, domandano un «ritorno ai Padri», 106
CONGAR, Sainte Église, 553 (testo del 1946). Per quanto segue, cf. CONGAR, L’Église de saint Augustin à l’époque moderne, 462s. 108 CONGAR, L’Église de saint Augustin à l’époque moderne, 463. L’ecclesiologia intesa – alla luce dei Padri – come «antropologia della salvezza» è tema caro a Congar, anche durante il concilio: cf. ad es. ID., Vatican II. Le Concile au jour le jour, tr. it., 17; J-Congar, I, 482s (17 ottobre 1963). 109 Per uno sguardo d’insieme sul rinnovamento ecclesiologico degli anni 1920-1940 e il movimento ecumenico, cf. ANTÓN, El misterio de la Iglesia, II, 518s. 110 Cf. Östliches Christentum (*1934); Christus und die Kirche (*1936); Der christliche Osten. Geist und Gestalt (*1939). Tyciak fu oggetto di critiche severe anche da parte di K. Adam (cf. JÁKI, Les tendances, 121). 107
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la cui mentalità sarebbe stata dimenticata dall’ecclesiologia dell’ortodossia ufficiale.111 Il ritorno alle fonti, lo si intuisce, ha i suoi rischi: non è difficile cadere in una sorta di storicismo romantico, di fascinazione per la Chiesa «primitiva»112 – si pensi al giovane Möhler; e non è sempre agevole determinare ciò che nella tradizione va riconosciuto come realtà vivente e operante nell’oggi della Chiesa e ciò che invece appartiene all’una o all’altra epoca. Come vedremo ancora, il confronto con il tomismo imperante poneva la questione del senso e della legittimità di un «ritorno alle fonti» che sembra in qualche modo «scavalcare» all’indietro ciò che pure appartiene alla storia e alla tradizione della Chiesa. Non tutti erano capaci di attenersi alla saggezza di Newman, secondo il quale ciò che la Chiesa cattolica ha avuto un tempo, non lo ha mai perduto. Essa non ha mai rimpianto o detestato il tempo passato. Anziché passare da un’età della vita a un’altra, ha portato con sé la propria giovinezza ed età di mezzo, fino ai suoi tempi ultimi. Non ha cambiato i suoi possessi, ma li ha accumulati, e ha tirato fuori dal proprio tesoro di famiglia, a seconda delle occasioni, cose nuove e antiche. Non ha perso Benedetto, trovando Domenico; e nella sua casa ha ancora sia Benedetto che Domenico, pur essendo diventata la madre di Ignazio. Immaginazione, scienza, prudenza sono tutti beni, e la Chiesa li conserva tutti. Realtà incompatibili in natura, in essa coesistono; la sua prosa da un lato è poetica, e dall’altro filosofica.113
È anche vero che, per lo meno negli anni ’20-’40 del Novecento, il ritorno alle fonti, e segnatamente a quelle patristiche, in ecclesiologia è condizionato dal travolgente entusiasmo per la scoperta della Chiesa «Corpo mistico»: il rischio, ovviamente, è quello di voler imporre ai Padri un punto di vista che non è necessariamente quello che essi vorrebbero privilegiare. Dovremo segnalare, per qualche autore, una lettura dei Padri mediata da una lente più o meno deformante; nell’insieme, tuttavia, si dovrà senza dubbio riconoscere il beneficio che la riflessione teologica sulla Chiesa, tra le due guerre, ha tratto dallo studio della testimonianza patristica.
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«Entusiasmo», abbiamo detto, a proposito della Chiesa «Corpo mistico di Cristo». Il termine non sembra esagerato, anche alla luce di un dato quantitativo: nel quinquennio 1920-1925 escono, sul tema, più studi che nei primi vent’anni del XX secolo; nei cinque anni successivi questo 111 Cf. i resoconti del Congresso teologico ortodosso di Atene (1936), in JÁKI, Les tendances, 112. Sull’interesse per l’ortodossia soprattutto in Francia (Congar), cf. B. PETRÀ, «La teologia cattolica e la scoperta dell’ortodossia nel secolo XX: dal ‘contatto rinfrescante’ alla ‘santa alleanza’», in Vivens Homo 19(2008), 143-162. 112 Cf. JÁKI, Les tendances, 155, anche per quanto segue. 113 J.H. NEWMAN, Historical Sketches, II, London 1873, 368s; questo testo è ripreso in parte anche da CONGAR, Sainte Église, 559.
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numero raddoppia, per quintuplicarsi nel decennio 1930-40.114 Naturalmente, in questa pletora di pubblicazioni, non tutto è alla stessa altezza; ancora di più, la sigla «Corpo mistico», se indubbiamente racchiude un indirizzo generale di pensiero e di ricerca, è però ben lungi dall’indicare un orientamento teologico coerente, unitario. Nella teologia fra le due guerre mondiali si riconoscono almeno tre modi diversi di intendere la nozione di Corpo mistico, ciascuno con qualche radice patristica. Ricordiamo, anzitutto, la tendenza «organologica», o «organicista»: visione sicuramente debitrice delle concezioni di Möhler, dei teologi del Collegio romano e di Scheeben.115 La teologia paolina e il pensiero dei Padri greci vi sono riletti in modo da presentare l’unione con Cristo nei termini di un vero e proprio organismo, nel quale passano relazioni vitali tra i membri e con il Capo. Qui, in definitiva, si dimentica il carattere analogico della nozione di Corpo mistico e si scavalcano tutte le mediazioni sociali e istituzionali, fino al punto di parlare di «incarnazione continuata» e di una sorta di identificazione tra Cristo e il cristiano. Il caso estremo di questa tendenza – qualificata da E. Przywara come biologica, antiintellettualistica, mistica, «femminile»116 – è il saggio di K. Pelz, Der Christ als Christus (*1939; l’opera fu posta all’Indice il 22 luglio 1940). Pelz cercò di sostenere le sue tesi richiamandosi alla soteriologia di Cirillo di Alessandria, che conobbe però soltanto attraverso gli studi poco obiettivi di E. Weigl e K. von Schäzler.117 La circostanza è sintomatica del problema al quale si accennava: il rischio, cioè, di leggere i Padri con la guida o di un’insufficiente penetrazione dei loro testi, o di precomprensioni teologiche. Pur insistendo sul realismo della nozione di Corpo mistico, si sottrae tuttavia ai rischi menzionati l’opera senza dubbio più rilevante di quest’epoca, per quanto riguarda la ricerca storico-teologica, e segnatamente patristica, intorno al Corpo mistico, ossia il grande saggio storico di É. Mersch, Le Corps Mystique du Christ. Études de théologie historique.118 L’opera raccoglie 114 Il dato è riferito da CONGAR, L’Église de saint Augustin à l’époque moderne, 464 (cf. anche Sainte Église, 477); cf. anche gli esempi di «entusiasmo incontenibile» per la nozione di «Corpo mistico» in ANTÓN, El misterio de la Iglesia, II, 564. Per un quadro d’insieme nella prima metà del Novecento, cf. J.J. BULLETT, «Current Theology. The mystical body of Christ: 1890-1940», in TS 3(1942), 261-289; utile anche la sintesi retrospettiva di Y. CONGAR, «“Lumen Gentium” n° 7, L’Église, corps mystique du Christ vu au terme de huit siècles d’histoire de la théologie du Corps Mystique», in ID., Le Concile de Vatican II, 137-161. 115 Cf. ACERBI, 40; ANTÓN, El misterio de la Iglesia, II, 544 e 616s. 116 Cf. E. PRZYWARA, «Corpus Christi Mysticum. Eine Bilanz», in ZKTh 15(1940), 197-215. 117 Rispettivamente Die Heilslehre des hl. Cyrill (Mainz 1905) e Die Lehre von der Wirksamkeit der Sakramente ex opere operato in ihrer Entwicklung innerhalb der Scholastik und ihrer Bedeutung für die christliche Heilslehre (München 1860); cf. JÁKI, Les tendances, 74; ANTÓN, El misterio de la Iglesia, II, 617. 118 Sul gesuita belga É. Mersch, nato nel 1890, morto presumibilmente sotto un bombardamento il 23 aprile 1940, si veda G.E. MALANOWSKI, «Émile Mersch, S. J. (1890-1940). Un christocentrisme unifié», in NRTh 112(1990), 44-66; J. LEVIE, «Le père Émile Mersch (1890-1940)», in É. MERSCH, La théologie du Corps mystique, Desclée, Bruges 41954, VIIXXX, con informazioni sulla redazione di Corps Mystique.
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una serie di ricerche bibliche e storiche sulla teologia del Corpo mistico; Mersch vi lavorò per diversi anni, mentre insegnava a Namur: terminata una prima stesura nel 1929, fu invitato a riprendere soprattutto la parte patristica e poté farlo con l’aiuto dal confratello p. J. de Ghellinck, figura eminente degli studi patristici in Belgio. L’opera così revisionata apparve in due volumi nel 1933 e conobbe due altre edizioni (1936 e 1951) e una versione in inglese.119 Si può dire che Mersch ha fatto, del Corpo mistico, l’oggetto di tutta la sua attenzione di cristiano e di teologo, fino a suggerire che questa dottrina potesse diventare il centro di tutta la teologia:120 è una delle espressioni teologicamente più compiute (anche se discutibile) dell’entusiasmo di cui si è detto. La rigorosità dei suoi studi storici è comunque riconosciuta. Mersch non pretende di studiare l’insieme dell’ecclesiologia degli autori ai quali si riferisce (in particolare Ignazio, Ireneo, gli Alessandrini, Atanasio, i Cappadoci, Giovanni Cristostomo, Cirillo di Alessandria; tra i latini, soprattutto Ilario e Agostino), perché restringe il suo campo d’attenzione alla questione del Corpo mistico, a rischio forse di «imporla» agli autori presi in considerazione;121 in ogni caso, posta la voluta limitazione del proprio punto di vista, l’apporto di ricerca è senza dubbio rilevante. Mersch ha messo particolarmente in luce la portata del tema dell’unione «fisica», nella linea dei Padri greci e, in particolare, di Cirillo di Alessandria (ma, ancor prima, di Atanasio):122 il Verbo incarnato è il fondamento dell’unità di ogni cosa in Cristo, perché, nel momento in cui il Verbo si unisce, in Gesù, alla natura umana, il Corpo mistico ne deriva di conseguenza. Si può definitivamente scartare, così, l’interpretazione «morale» dell’unione tra Cristo e il suo corpo, più tipica della tradizione latina, e che Mersch tende a contrapporre a quella dei greci, in modo da poter sottolineare il forte realismo dell’idea del Corpo mistico.123 Congar ritiene che la contrapposizione non vada esasperata: da un punto di vista storico-teologico si potrebbero citare, ad es. in Agostino,
119 É. MERSCH, The whole Christ. The historical development of the doctrine of the mystical body in Scripture and tradition, The Bruce Publishing Company, Milwaukee 1938. 120 Cf. É. MERSCH, «Le Christ mystique, centre de la théologie comme science», in NRTh 61(1934), 449-475, e la valutazione garbatamente critica di CONGAR, Sainte Église, 477s. 121 Secondo Jáki, Mersch riporta troppo rapidamente alla propria visione del Corpo mistico il tema della ricapitolazione di Ireneo (cf. Les tendances, 173). H. de Lubac recensisce in modo complessivamente positivo l’opera di Mersch, di cui apprezza soprattutto la sezione su Agostino (cf. H. DE LUBAC, Memoria intorno alle mie opere, Jaca Book, Milano 1992, 38s). 122 Cf. É. MERSCH, Le Corps Mystique du Christ. Études de théologie historique, ParisBruxelles 1933, 21936, 31951, I, 374-409 (Atanasio) e 487-524 (Cirillo), con i rilievi di JÁKI, Les tendances, 176s e di CONGAR, Sainte Église, 545. Una decina d’anni dopo Mersch, l’ecclesiologia di Atanasio nel suo rapporto con la dottrina dell’incarnazione sarà studiata da L. BOUYER, L’incarnation et l’Eglise - corps du Christ dans la théologie de saint Athanase (*1943), che critica la tesi del protestantesimo liberale di un’ellenizzazione del cristianesimo in Atanasio; sull’ecclesiologia di Cirillo, sono da segnalare ancora gli studi di H. DU MANOIR (cf. *1938, *1944). 123 Cf. JÁKI, Les tendances, 209.
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testi che sono nella linea della visione «orientale»;124 per quanto riguarda Tommaso, Congar aveva già affermato in altra occasione che, a suo giudizio, «tutta la sostanza della tradizione greca è passata in s. Tommaso», anche se con l’uso di strumenti filosofici diversi rispetto a quelli dei Padri;125 da un punto di vista più sistematico, poi, si possono richiamare tentativi di superare la contrapposizione, come quello di Journet.126 Non tutti, peraltro, erano disponibili ad accogliere la prospettiva fondata sul realismo dei Padri greci, così apprezzato da Mersch. La tradizione latina, e segnatamente agostiniana, aveva senz’altro accenti diversi. La visione del Christus totus di Agostino insiste in modo particolare sul dominio della grazia, la cui essenza sfugge alla caratteristica della visibilità;127 emerge così, negli studi di questi anni, una certa attenzione a temi patristici quali quello della ecclesia ab Abel, ossia la maggiore estensione della Chiesa rispetto ai suoi confini visibili e istituzionali, secondo una linea che si ritroverà sino alle soglie dell’epoca moderna. Non sorprende che sulla questione nascessero discussioni, e che l’enciclica Mystici corporis intervenisse per affermare la coincidenza tra Corpo mistico e Chiesa visibile: ciò che sarà causa di disagio per alcuni, proprio perché sensibilmente diversa rispetto all’impostazione agostiniana e tomista. Per capire come si arriva alla presa di posizione del documento di Pio XII, occorre menzionare un’ultima linea interpretativa della nozione del Corpo mistico. Le linee sin qui citate convergevano nel dare rilievo alla dimensione invisibile della Chiesa, a rischio di trascurare, se non proprio squalificare, quella visibile e istituzionale; del resto, l’interesse per l’ecclesiologia del Corpo mistico dipendeva in buona misura proprio dal desiderio di uscire dalla visione unilateralmente istituzionale della Chiesa, dominante dalla seconda metà dell’Ottocento in poi. Su un fronte opposto, alcuni autori difendono una visione del Corpo mistico meno legata ai testi patristici e più dipendente dal pensiero medievale, soprattutto canonistico: è l’interpretazione chiamata «corporativista», che vede la Chiesa, in definitiva, come un corpo sociale. L’esponente principale di questa interpretazione, nel periodo che ci interessa, fu il p. S. Tromp, gesuita olandese, professore all’Università gregoriana, futuro segretario della Commissione teologica preparatoria 124 Congar, che scrive nel 1953 segnalando la terza edizione di Le Corps Mystique, rinvia a Conf. IV, 12, 19, e ricorda anche le ricerche che evidenziano la conoscenza di Ireneo da parte di Agostino (B. ALTANER, «Augustinus und Irenäus», in ThQ 129[1949], 162172); cf. CONGAR, Sainte Église, 647. 125 Cf. CONGAR, Sainte Église, 470, con rinvio anche a I. BACKES, Die Christologie des hl. Thomas von Aquin und die griechischen Kirchenväter (*1931). Un articolo di L. MALEVEZ, «L’Église dans le Christ. Étude de théologie historique et théorique», in RSR 25(1935), 257-291; 418-440 aveva sollevato la questione del platonismo soggiacente alla concezione dei Padri greci e si era chiesto se fosse integrabile nella prospettiva tomista: la risposta che dava era positiva, e come tale veniva accolta anche da CONGAR, Sainte Église, 491. 126 Cf. CONGAR, Sainte Église, 646s, con rinvio a C. JOURNET, L’Église du Verbe incarné; essai de théologie speculative, 2 voll., Bruges 1941-1951, 21955. 127 Su questa prospettiva, cf. ACERBI, 43; ANTÓN, El misterio de la Iglesia, II, 546 e 620s; ZIVIANI – MARALDI, «Ecclesiologia», 298.
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del Vaticano II (si vedrà più avanti il ruolo che svolse nella redazione dello schema preparatorio de Ecclesia) e poi segretario della Commissione dottrinale del concilio stesso. Già dalla fine degli anni ’30, la notorietà di Tromp si lega alle ricerche ecclesiologiche, che trovano un’espressione singolare nell’opera Corpus Christi quod est Ecclesia (*1937): opera che non è né storia né teologia speculativa propriamente detta ma, alla luce delle idee di un trattato generale de Ecclesia, una sorta di arsenale di testi, di riferimenti e di idee, la cui materia è tratta soprattutto dai Padri e dagli atti del Magistero. Più che una costruzione speculativa, abbiamo in quest’opera un apporto estremamente ricco del «dato» teologizzabile; l’ecclesiologo vi troverà risorse molto abbondanti, e non solo di citazioni, ma di idee e di prospettive.128
Partendo precisamente dal rilievo che si dà una notevole varietà di prospettive, nella testimonianza patristica, intorno al Corpo di Cristo, Tromp assegnava alla teologia il compito di accordare queste diverse visioni, nella linea seguita dai teologi del Collegio romano con la loro insistenza sul carattere teandrico della Chiesa e, quindi, sulla sua analogia con il Verbo incarnato.129 Su questo sfondo si colloca la tesi centrale dell’impostazione di Tromp, secondo cui vi è piena coincidenza tra la Chiesa, realtà spirituale che esiste in virtù dello Spirito di Cristo, e la Chiesa gerarchica visibile. In questa duplice dimensione, l’integrazione tra lo spirituale e l’istituzionale si compie a partire dall’istituzionale: la Chiesa cattolica romana, fondata da Cristo e guidata dal suo vicario visibile, il successore di Pietro, è il Corpo mistico, vivificato dallo Spirito. È appunto questa l’impostazione assunta pressoché integralmente dall’enciclica Mystici corporis (29 giugno 1943), della quale il p. Tromp fu non solo ispiratore, ma estensore privilegiato.130 Il papa vi afferma sin dalle prime pagine che per definire e descrivere questa vera Chiesa di Cristo – che è la Chiesa santa, cattolica, apostolica e Romana*131 – non si trova nulla di più nobile, di più adatto e, in definitiva, di più divino di quell’espressione con la quale è denominata «Corpo mistico di Gesù Cristo»; affermazione, questa, che scaturisce e per così dire germoglia da ciò che viene ripetutamente insegnato nelle Sacre Scritture e nelle opere dei santi Padri.132
128
CONGAR, Sainte Église, 502. Cf. ANTÓN, El misterio de la Iglesia, II, 623 (cf. anche 547s); S. ALBERTO, “Corpus Suum mystice constituit” (LG 7). Storia del Testo dalla “Mystici corporis” al Vaticano II con riferimenti alla attività conciliare del P. Sebastian Tromp S.J., Pustet, Regensburg 1996, 49-54. Su Tromp, cf. sotto, c. 4, nota 7. 130 Testo in AAS 35(1943), 200-243. Per una presentazione dell’enciclica, cf. ANTÓN, El misterio de la Iglesia, II, 612-653; come pure CONGAR, Le Concile de Vatican II, 153-155; V. MARALDI, Lo Spirito e la Sposa. Il ruolo ecclesiale dello Spirito Santo dal Vaticano I alla Lumen Gentium del Vaticano II, Piemme, Casale Monferrato 1997, 111-180. 131 * Cf. CONCILIO VATICANO II, Const. de fid. cath., c. 1. 132 Enc. Mystici corporis (AAS 35[1943],199); cf. su questo passo HÜNERMANN, «Theologischer Kommentar», 279s. 129
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Non era difficile ritrovare tra questo e altri passi analoghi, da un lato, e le tesi di Tromp, dall’altro, punti di somiglianza tale da condurre anche ad alcune critiche, perché si giudicava inopportuno che un documento magisteriale di portata universale assumesse a tal punto la prospettiva di un singolo teologo.133 Qui possiamo notare che all’epoca della pubblicazione dell’enciclica alcune voci avevano già posto in dubbio la centralità della nozione di Corpo mistico nell’ecclesiologia del NT e dei Padri. Per la Scrittura, e segnatamente per Paolo, occorre ricordare lo studio di L. Cerfaux sulla Chiesa nella teologia di Paolo, uscito nel *1942 come decimo volume della collezione Unam sanctam; ma già un paio d’anni prima M.D. Koster, nella sua Ekklesiologie im Werden (*1940), aveva criticato con una certa forza la centralità assegnata alla nozione di Corpo mistico, rilevandone il relativamente scarso fondamento biblico, liturgico e patristico; nella stessa linea si era espresso L. Deimel in Leib Christi (*1940); c’è anzi chi ritiene che il passaggio della Mystici corporis nel quale il papa rivendica la legittimità dell’uso di questa nozione, in particolare dell’aggettivo «mistico», sia diretto contro le critiche di Koster e Deimel.134 Per quanto riguarda la stretta identificazione tra la Chiesa visibile e socialmente strutturata da un lato, e il Corpo mistico dall’altro, va poi detto che essa non corrispondeva veramente all’insegnamento patristico, o comunque a quello di Agostino, né a quello di Tommaso. In tono prudente, ma netto, Y. Congar dà voce a questo disagio recensendo lo studio di A. Mitterer, che confronta la dottrina di Tommaso con quella dell’enciclica:135 in base al confronto si deve dire che l’identificazione tra Corpo mistico e Chiesa romana visibile, posta nell’enciclica, implica quanto meno una dottrina diversa rispetto a quella di Tommaso e di Agostino. Congar osserva ancora: Mitterer pone un problema grave e vero, e chiunque sia stato formato sui testi e i principi di s. Tommaso, come pure ogni lettore di s. Agostino e dei testi della tradizione teologica fino all’epoca della Riforma, ne ha fatto l’esperienza. È impossibile non imbattersi nella questione ogni volta che si torna alla IIIª, q. 8. Noi stessi l’abbiamo incontrata seguendo, attraverso quindici secoli di teo-
133
Cf. ANTÓN, El misterio de la Iglesia, II, 629s, con rinvio a U. VALESKE, Votum (*1962). Cf. enciclica Mystici corporis (ed. AAS), 221 (cf. DH 3809); sulla questione, si veda ANTÓN, El misterio de la Iglesia, II, 628; CONGAR, Le Concile de Vatican II, 123-127. Sono da segnalare, tra i contributi critici, anche F. ZIMARA, «Rufe nach “wissenschaftlicher Ekklesiologie”», in DT 21(1943), 98-112; L. BOUYER, «Où est la théologie du Corps mystique?», in RevSR 22(1948), 313-333 (cf. ZIVIANI – MARALDI, «Ecclesiologia», 298s). Su Koster, si veda ora la dissertazione di P. NAPIWODZKI, Eine Ekklesiologie im Werden. Mannes Dominikus Koster und sein Beitrag zum theologischen Verständnis der Kirche, Freiburg 2005. 135 Cf. A. MITTERER, Geheimnisvoller Leib Christi nach St. Thomas von Aquin und nach Papst Pius XII, Wien 1950; la recensione di Congar è del 1953, e si legge in Sainte Église, 650-653. Per la posizione di Congar rispetto a Mystici corporis, cf. anche C. FREY, Mysterium der Kirche, Öffnung zur Welt. Zwei Aspekte der Erneuerung französischer katholischer Theologie, Vandenhoeck u. Ruprecht, Göttingen 1969, 136-141. 134
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1. Gli studi patristici e l’ecclesiologia nella prima metà del Novecento logia cattolica, l’idea di una preesistenza della Chiesa all’Incarnazione, idea che, a partire da s. Agostino, si è tradotta, in Occidente, nel tema della Ecclesia ab Abel justo.136
Congar riconduce la diversità dottrinale a una differenza nell’impostazione di fondo della questione ecclesiologica: Tommaso, e i Padri prima di lui, riflettono sulla Chiesa nell’orizzonte della cristologia e della complessiva economia di salvezza, senza evadere con questo da un’economia concreta e determinata, che è quella della Chiesa nella sua sacramentalità. In epoca antica e medievale, quando si parla di Corpo mistico e di Chiesa, li si considera nell’ordine della grazia, che poi si determina in una economia positiva e sacramentale: è per questo che non si trova, prima dell’epoca moderna, un vero e proprio trattato ecclesiologico. L’insorgere di certe eresie condurrà, soprattutto a partire dal medioevo, a una nuova prospettiva, che domanderà di introdurre nella definizione della Chiesa la determinazione concreta della sua condizione terrestre secondo la volontà di Cristo. È chiaro allora, conclude Congar, che si hanno qui due visioni diverse: tra l’insegnamento moderno, fatto proprio dall’enciclica, «e quello di un s. Tommaso (ma, ugualmente, dei Padri e degli altri grandi scolastici) c’è, al tempo stesso, continuità e differenza. Non opposizione, ma differenza».137 Con l’enciclica del 1943 il dinamismo di ripensamento dell’ecclesiologia posto all’insegna del Corpo mistico raggiunge il suo culmine e, al tempo stesso, entra in fase di stallo: vuoi perché si ritiene che l’autocoscienza di Chiesa così raggiunta sia pressoché insuperabile, vuoi perché, al contrario, se ne riconoscono, insieme con gli indubbi vantaggi, anche i limiti insormontabili, e si avverte così l’esigenza di estendere l’indagine in direzioni rimaste sin qui troppo in ombra. Va detto, per altro verso, che Mystici corporis segna una tappa importante nel recupero di alcuni aspetti importanti della visione di Chiesa dei Padri: al di là delle citazioni patristiche esplicite, contenute nel documento,138 l’apparato di documentazione pubblicato da Tromp mostra quanto il testo pontificio abbia potuto beneficiare della ricerca sulle fonti patristiche, alla quale lo stesso Tromp aveva dato il suo contributo.139
136 CONGAR, Sainte Église, 651; cf. già 614s e 621. La ricerca sulla «Ecclesia ab Abel» era stata preparata da Congar per la Festschrift in onore di K. Adam (*1952). 137 CONGAR, Sainte Église, 653; cf. ID., Jalons pur une théologie du laïcat, Cerf, Paris 1954, 31964, 57s, 64s; MARALDI, Lo Spirito e la Sposa, 154-161; ALBERTO, “Corpus Suum mystice constituit”, 68s. 138 Vi si contano 32 citazioni patristiche, 13 delle quali sono di Agostino; seguono, per numero decrescente di citazioni, Ambrogio (6), Leone Magno (4), Cirillo Alessandrino, Gregorio Magno (2), la Didachè, Clemente Alessandrino, Ireneo, Gregorio Nisseno, Massimo di Torino (1). 139 Cf. PIUS PAPA XII, De Mystico Iesu Christi Corpore deque nostra in eo cum Christo coniunctione. «Mystici corporis Christi» 29 iun. 1943… edidit uberrimisque documentis illustravit S. TROMP, P. Un. Gregoriana, Romae 1958 (Textus et documenta. Series Theologica, 26).
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4. N U O V E
PROSPETTIVE DI RICERCA: DAL SECONDO DOPOGUERRA AL CONCILIO
A)
LE
R IC C HE ZZE I N ES P LO R ATE D EI
P ADRI
Per il periodo che va dalla pubblicazione della Mystici corporis alla vigilia del Vaticano II, è meno agevole indicare un’idea guida della ricerca ecclesiologica; probabilmente, anzi, proprio la varietà di prospettive che si riscontrano costituisce la vera ricchezza di questo periodo, rispetto al tratto più monocorde del ventennio dominato dalla nozione di Corpo mistico. Il ressourcement patristico, in ogni caso, continua ad agire vigorosamente: proprio adesso, anzi, incomincia a dare frutti veramente significativi, perché i testi patristici – ma, ormai, anche la Scrittura, i testi liturgici, la teologia monastica, la scolastica del XII e XIII sec. – sono sempre più ascoltati e studiati per se stessi, e per le prospettive che essi possono suggerire, e non perché si impone loro una chiave di lettura specifica. La ricerca precedente, poi, si era fermata soprattutto su di una categoria teologica: ora, invece, l’attenzione si volge sempre più anche alla concreta determinazione storica della Chiesa nella sua vita, nelle sue istituzioni, nella sua tradizione… Trattando di Chiesa, si riconosce sempre meglio che la sua storia ha una precisa rilevanza teologica, come Congar non si stanca di ricordare.140 Le suddivisioni cronologiche, come sempre, vanno prese cum grano salis. Aspetti e orientamenti di questa nuova impostazione si vedevano già prima della Mystici corporis. Il già citato Catholicisme di de Lubac, pubblicato nel *1938 come secondo volume di «Unam sanctam», è emblematico: non è un libro specifico di ecclesiologia, meno ancora un trattato, eppure pochi libri hanno influenzato il rinnovamento ecclesiologico della prima metà del Novecento quanto questa raccolta di studi che si presenta come una sorta di grande tessitura di testi patristici e della tradizione cristiana intorno alle «dimensioni sociali del dogma». Secondo Congar, si delinea in queste pagine il profilo di un’ecclesiologia essenzialmente cristologica e antropologica, che vuole capire il mistero della Chiesa principalmente come mistero dell’umanità in Cristo nei diversi momenti della sua storia: un’ecclesiologia «pienamente tradizionale e solidamente fondata sul pensiero più autentico dei Padri».141 Vorremmo richiamare in questo contesto anche le ricerche di H. Rahner intorno ai «simboli della Chiesa»: anch’esse iniziano nella stessa epoca («Mysterium lunae» è del *1939) e sviluppano con la più grande 140 Cf. CONGAR, Sainte Église, 592 (testo del 1946) e 666s (testo del 1952, recensione dell’opera di Journet); si veda inoltre Y. CONGAR, «La storia della Chiesa, “luogo teologico”», in Conc(I) 6(1970), 1277-1289; cf. anche FRISQUE, «L’ecclésiologie au XXe siècle», 434. 141 CONGAR, Sainte Église, 512; cf. anche 521-523; cf. pure AUBERT, «La théologie catholique. A. Durant la première moitié du XXe siècle», 476.
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ricchezza desiderabile, in ambito patristico, quella ricerca intorno alle «immagini della Chiesa» che avrà una grande importanza nel rinnovamento ecclesiologico e permetterà di comprendere più a fondo alcuni aspetti della Chiesa che rientrano a fatica in una prospettiva solo concettuale: si pensi, ad es., al tema della maternità/sponsalità/verginità della Chiesa142 o a quello, assai scabroso, della santità della Chiesa e della presenza in essa dei peccatori. Proprio quest’ultimo aspetto è particolarmente significativo. È possibile e necessario, naturalmente, riflettere sulla questione in modo sistematico, e un C. Journet vi si sofferma a lungo, nel suo monumentale trattato sulla Chiesa L’Église du Verbe incarné (*1941-1951), valorizzando la formula, ancora oggi spesso richiamata, secondo cui la Chiesa non è senza peccatori, ma essa stessa è senza peccato.143 La sistematicità, però, non sembra dar conto nel modo più auspicabile di una realtà più complessa e articolata; i Padri preferiscono esprimerla con immagini, proprio perché è assai difficile ricondurre a «sistema» la relazione tra santità della Chiesa e presenza in essa dei peccatori. L’immagine della luna studiata da H. Rahner; le riflessioni patristiche su Rahab, alle quali Daniélou dedica un saggio nel *1949; le ricerche di von Balthasar intorno alla casta meretrix (1948)144 aprono prospettive diverse, più sfumate, che permettono di delineare un approccio più dinamico alla santità della Chiesa, una santità che ha come contrassegno, presso i Padri, precisamente la purificazione alla quale la Chiesa tende incessantemente.145 Si deve, per questo, mettere in conflitto una teologia di tipo sistematico rispetto a una teologia di tipo «simbolico»? Una cosa è certa: all’epoca – nella seconda metà degli anni ’40 – la valorizzazione della portata teologica e contemplativa delle immagini e metafore, in breve del «pensiero simbolico» caratteristico dei Padri (ma ripreso e mantenuto nella tradizione alto-medievale), fu avvertita in certi ambienti come un attentato al rigore scientifico della teologia, incarnato nel tomismo della «scuola», e come un cedimento verso concezioni relativistiche, «modernistiche». Ne nacque una controversia piuttosto accesa, sulla quale dovremo tornare nel prossimo capitolo; basterà qui osservare che, nonostante queste polemiche, gli studi sulla «teologia simbolica» dei Padri hanno portato all’ecclesiologia un beneficio considerevole, il cui influsso si farà sentire sino al Vaticano II e oltre.146
142
Cf. CONGAR, Sainte Église, 560s, a proposito di «Mysterium lunae». Cf. in particolare C. JOURNET, L’Église du Verbe incarné, II, Bruges 1951, 904s. 144 Cf. H.U. VON BALTHASAR, «Casta meretrix», in ID., Sponsa Verbi. Saggi teologici, Morcelliana, Brescia 21972, II, 189-283. Il saggio è basato su una serie di conferenze tenute a Vienna nel 1948. 145 Cf. JÁKI, Les tendances, 186. Per alcuni rilievi critici sull’impostazione di Journet, cf. CONGAR, Sainte Église, 622 e 667; sulla prospettiva patristica, cf. anche ID., Vera e falsa riforma nella Chiesa, Jaca Book, Milano 21994, 67-73. 146 Cf. ACERBI, 52; per una ripresa recente, cf. J. WERBICK, Kirche. Ein ekklesiologischer Entwurf für Studium und Praxis, Herder, Freiburg 1994. 143
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B)
L A C HIE S A
E LE S U E I S T I TUZ I O NI
L’ecclesiologia del Corpo mistico, come abbiamo accennato, si scontra con la difficoltà di rendere conto in modo adeguato della dimensione istituzionale della Chiesa; l’identificazione pura e semplice tra Corpo mistico e Chiesa romana visibile sarà la «soluzione» al problema indicata da Tromp e ripresa dalla Mystici corporis, ma a prezzo di un allontanamento dalla prospettiva patristica e medievale. La difficoltà è sintomo di un insufficiente lavoro di ricerca, anche sul piano delle fonti, intorno alle dimensioni istituzionali della Chiesa. Fino ai primi anni ’40, di fatto, le indagini in questo ambito sono assai scarse, soprattutto se si fa un confronto con lo sviluppo vertiginoso che avranno in seguito. Come espressione di un nuovo interesse in questa direzione, possiamo citare qui anzitutto gli studi di G. Bardy sull’ecclesiologia della Chiesa antica, che Congar pubblica in «Unam sanctam».147 Il punto rilevante di questa ricerca, secondo la presentazione che ne fa lo stesso Congar, sta precisamente nell’evidenziare che la strutturazione anche istituzionale della Chiesa non è una sorta di «regressione» di una realtà che sarebbe stata originariamente solo pneumatica, mistica, come vorrebbero soprattutto linee di pensiero protestanti. Si tratta di posizioni che, per altro verso, si vanno già modificando, come indicano gli studi di O. Cullmann: Storicamente, il cristianesimo si è posto nella forma di una Chiesa e mediante la Chiesa […]. Nella profusione di diverse correnti, si doveva liberare un cristianesimo puro che, in qualche modo, doveva essere concepito, generato e messo al mondo. E questa è stata l’opera della Chiesa, la Chiesa con il suo episcopato e la successione apostolica. I due volumi del canonico Bardy lo mostrano chiaramente.148
Dopo il secondo conflitto mondiale, gli studi su questi temi incominciano a moltiplicarsi. Mancano ancora diversi anni al primo annuncio di un nuovo concilio, quando uno studio dell’olandese M. Goemans rilegge con criteri storico-teologici le origini del concilio ecumenico,149 ricavandone una serie di indicazioni sensibilmente divergenti, rispetto alla vigente codificazione canonica del concilio, e che invitano i teologi odierni a una maggiore sensibilità ai dati della storia, prima di formulare le proprie conclusioni e proporre le proprie dottrine. Naturalmente, con l’annuncio del nuovo concilio si assisterà a una rinnovata ricerca su significato e rilevanza storica e teologica dei concili: l’opera collettiva Il Con-
147 G. BARDY, La Théologie de l’Église de St. Clément à St. Irénée (*1945); La théologie de l’Église de St. Irénée au concile de Nicée (*1947); Unam sanctam 13-14. 148 CONGAR, Sainte Église, 562; per la ricerca protestante sugli aspetti istituzionali della Chiesa in epoca patristica, cf. A. DI BERARDINO, «Lo sviluppo degli studi patristici», in CANOBBIO – CODA (edd.), La teologia del XX secolo. Un bilancio, I, 330-332, con le indicazioni bibliografiche ivi riportate. 149 Cf. M. GOEMANS, Het algemeen concilie in de vierde eeuw, Nijmegen-Utrecht 1945 (al riguardo, cf. CONGAR, Sainte Église, 584-586).
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cilio e i concili, pubblicata nel 1960 e nata nel contesto dell’impegno ecumenico dell’abbazia di Chevetogne, fa il punto della situazione, dedicando metà dei contributi all’epoca patristica.150 Un altro terreno che viene sondato con frutto è quello del rapporto tra Chiesa e potere civile. Lo studio di H. Rahner, Abenländische Kirchenfreiheit (*1943), esplora con erudizione congiunta a sensibilità teologica e spirituale le vie attraverso le quali si è affermata la libertà ecclesiastica soprattutto in occidente, secondo un itinerario sensibilmente diverso rispetto a quello del cesaro-papismo bizantino. A risultati simili arriva la ricerca dell’anglicano T.G. Jalland, The Church and the Papacy (*1944), dedicata in misura sostanziosa all’epoca precostantiniana. Congar rimprovera a Jalland di rafforzare indebitamente, mediante una certa selezione nelle testimonianze, la tesi che esclude un significato propriamente giuridico del primato nei primi tre secoli; si tratta comunque, secondo il recensore, di uno studio considerevole.151 L’interesse storico intorno al primato romano, cui H. Rahner dedica nel 1947 uno dei suoi studi di «teologia simbolica» basati sui testi dei Padri,152 è al centro anche dello studio intorno al titolo di vicarius Christi, pubblicato nel 1952 da M. Maccarrone.153 La ricerca documenta gli slittamenti di significato di un’espressione che non conosce ancora, nei primi tre secoli cristiani, il valore propriamente giuridico che assumerà in seguito. Tra le altre cose, Maccarrone mette in evidenza che a Roma, a partire dal V sec., il titolo principale usato per il papa è quello di vicarius Petri, senza che, del resto, tale titolo sia riservato al vescovo di Roma (lo si è attribuito agli altri vescovi e, persino, all’imperatore). Come ha rilevato ancora una volta Congar, la ricerca di Maccarrone, polarizzata sull’uso del titolo di vicarius Christi quale titolo papale, mette in ombra il fatto che questo titolo aveva in origine un suo significato proprio, indipendente dalla questione del primato.154 Se questo è il limite di uno studio accurato, non si fatica a capire lo stupore che susciterà, nei padri conciliari, il riferimento del titolo anche ai singoli vescovi. Come si vedrà più avanti, del resto, è netta l’impressione che la maggior parte dei vescovi, all’inizio del concilio, non fosse molto al corrente della fervente ricerca storica intorno all’episcopato, sviluppata soprattutto negli anni ’50: è una ricerca che si colloca entro il quadro di un più ampio interesse per la questione del «sacerdozio cristiano» – inclusa la questione del sacerdozio universale dei battezzati – e per la dimensione 150 Le Concile et les Conciles. Contributions à l’histoire de la vie conciliaire de l’Église, Chevetogne-Paris 1960 (ed. it.: Il Concilio e i concili, Roma 1961). Per l’epoca patristica, vi sono studi di B. Botte, H. Marot, P.-T. Camelot, Y. Congar, A.S. Alivisatos. 151 Cf. CONGAR, Sainte Église, 578-583, in particolare 582s. 152 Cf. H. RAHNER, «Navicula Petri. Zur Symbolgeschichte des römischen Primats», in ZKTh 69(1947), 1-35, poi incluso in Symbole der Kirche (cf. tr. it.: L’ecclesiologia dei Padri. Simboli della Chiesa, Paoline, Roma 1971, 809-863). 153 M. MACCARRONE, Vicarius Christi. Storia del titolo papale, Roma 1952. 154 Cf. CONGAR, Sainte Église, 675; Congar nota che questa polarizzazione conduce a esagerare la portata papale di certi testi patristici (Cipriano) o del concilio di Calcedonia.
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sacramentale della Chiesa, ma che va segnalata per la fecondità degli studi specifici e per l’influsso che avrà nel dibattito conciliare.155 Sul finire degli anni ’40 alcune importanti raccolte di studi sono pubblicate tra Germania e Inghilterra;156 subito dopo, però, la maggiore vivacità di ricerca si riscontra in area francofona. In Francia, Y. Congar, J. Colson, J. Lécuyer sono certamente tra gli autori più produttivi, su questo fronte, nel decennio che precede il concilio;157 il contributo belga, altrettanto ricco, è stato studiato più da vicino e va segnalato non solo per l’influsso che l’episcopato e i teologi belgi avranno al Vaticano II, ma anche perché mostra bene l’intreccio tra il movimento liturgico, riassunto qui nei nomi di B. Botte e di A.G. Martimort,158 quello ecumenico, stimolato dalla ricorrenza del nono centenario dello scisma tra oriente e occidente (1054-1954), che darà lo spunto per importanti pubblicazioni,159 e la ricerca biblica e storico-teologica, con i lavori di L. Cerfaux, G. Philips, R. Aubert, G. Thils a Lovanio e quelli dei gesuiti nelle rispettive facoltà di lingua francese (G. Dejaifve) e fiamminga (P. Fransen).160 In occasione del centenario del ristabilimento della gerarchia cattolica nei Paesi Bassi (1953), si pensò a un’opera collettiva ed ecumenica sull’episcopato dal punto di vista esegetico, patristico, storico ed ecclesiologico: il progetto non andò in porto, ma i contributi raccolti furono pubblicati successivamente in altre sedi.161 Una decina d’anni più tardi, pochi mesi prima dell’apertura del Vaticano II, vedrà la luce, invece, la pubblicazione collettiva curata da Y. Congar e B.-D. Dupuy, L’Episcopat et l’Église universelle (*1962), composta con il contributo di alcuni tra i principali storici e teologi che già si erano distinti nelle ricerche in questo ambito: le oltre ottocento pagine dell’opera possono essere considerate a buon diritto una sorta di summa della ricerca precedente e un fondamentale strumento di lavoro teologico per il concilio. Un ruolo analogo svolge, per un altro aspetto del ministero ecclesiale, l’opera collettiva Diaconia in Christo (*1962), pubblicata anch’essa alla 155
Cf. HÜNERMANN, «Theologischer Kommentar», 281s. Segnaliamo The Apostolic ministry. Essays on the history and doctrine of episcopacy, by K.E. KIRK [and others], London 1947, 21957 (cf. in particolare il saggio di G. DIX, «The ministry in the Early Church»); inoltre, Episcopus. Studien über das Bischofsamt. Seiner Em. M. Kard. v. Faulhaber zun 80. Geburtstag dargebracht…, Regensburg 1949. 157 Per i numerosi contributi di questi autori, rinviamo alla «Bibliografia storica», in particolare per la prima metà degli anni ’50. 158 Cf. B. BOTTE, Hippolyte de Rome. La Tradition apostolique, Paris 1946 (SCh 11); ID., «“Presbyterium” et “Ordo episcoporum”», in Irén. 29(1956), 5-27; A.G. MARTIMORT, De l’Évêque, Paris 1946. Per il contributo della ricerca in Belgio, riprendiamo gli elementi indicati da J. GROOTAERS, Actes et acteurs à Vatican II, Leuven University Press, Leuven 1998, 340-354. 159 In particolare la miscellanea offerta a dom Beauduin, L’Église et les Églises, 10541954. Neuf siècles de douloureuse séparation entre l’Orient et l’Occident. Études et travaux sur l’Unité chrétienne offerts à Dom Lambert Beauduin, Gembloux 1954-1955. 160 Cf. GROOTAERS, Actes et Acteurs à Vatican II, 348s. 161 Cf. GROOTAERS, Actes et Acteurs à Vatican II, 354 e 355-357 (su J. Groot). 156
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vigilia del concilio per le cure di K. Rahner e di H. Vorgrimler. Anche qui, per quanto riguarda l’aspetto storico-teologico, si raccolgono frutti di ricerche sviluppate soprattutto a partire dagli anni ’50, sia che riguardino l’insieme del ministero ecclesiastico, sia che si dedichino più specificamente al diaconato: ricordiamo, tra queste ultime, quelle di J. Lécuyer, J. Hornef, J. Colson, A. Kerkvoorde,162 autori che parteciperanno tutti anche alla pubblicazione collettiva del 1962, destinata a giocare un ruolo importante nella sofferta riflessione conciliare sul ripristino del diaconato nella Chiesa cattolica.163 Segnaliamo infine, in questo contesto, alcuni studi che hanno affrontato anche sul piano storico-teologico la problematica del sacerdozio universale. La questione è evidentemente collegata con il crescente interesse teologico e pratico per il laicato e la sua missione nella Chiesa.164 La ricerca patristica offre qualche contributo già a partire dagli anni ’30, ad esempio nel saggio di E. Niebecker, Das allgemein Priestertum der Gläubigen (*1936), che dedica una parte rilevante allo studio del dato biblico, patristico e tradizionale, anche se poi, sul piano della riflessione sistematica, il sacerdozio battesimale vi appare legato in modo troppo univoco al motivo – del resto patristico – dell’offerta dell’eucaristia.165 Il secondo dopoguerra segna l’inizio di una ricerca rinnovata, che mette in gioco il dato liturgico (se ne occupa nel *1946 una Settimana liturgica a Lovanio), quello linguistico (cf. gli studi di I. de la Potterie e B. Bauer, rispettivamente nel *1958 e *1959) e quello storico-teologico intorno al sacerdozio universale, ripensato a partire dalle fonti attraverso studi come quelli di I. Backes e J.E. Rea (*1947), P. Dabin (*1950),166 Y. Congar e J. Lécuyer (*1951), mentre A.V. Seumois (*1952) e G. Huntston Williams (*1958) studiano in particolare l’apostolato dei laici secondo la testimonianza patristica. La pubblicazione, nel 1954, dei Jalons pur une théologie du laïcat di Y. Congar, raccoglie numerosi aspetti della ricerca precedente dell’autore e di altri studiosi: data la struttura dell’opera, questi aspetti sono sparsi in diversi punti del testo o riportati in note, non di rado piuttosto ampie, che richiedono al lettore interessato al contributo patristico uno sforzo supplementare di ricerca. Nondimeno, il contributo emerge con grande ricchez-
162 J. LÉCUYER, «Diaconat», in DSp 3(1954), 799-803; J. HORNEF, Kommt der Diakon der frühen Kirche wieder?, Wien 1959 (ed. it.: Il Diaconato: prospettive per un rinnovamento, Brescia 1961); J. COLSON, La fonction diaconale aux origines de l’Église, Paris 1960; A. KERKVOORDE, Où en est le problème du diaconat?, Bruges 1961. Per alcuni studi della prima metà del Novecento, cf. la «Bibliografia storica», *1935 (JANSSENS) e *1945 (OTTERBEIN). 163 Cf. H. VORGRIMLER, Comprendere Karl Rahner. Introduzione alla sua vita e al suo pensiero, Morcelliana, Brescia 1987, 183s, 189, 197, 213-215. 164 Per una rassegna sul dibattito nel periodo che precede il Vaticano II, cf. G. CANOBBIO, Laici o cristiani? Elementi storico-sistematici per una descrizione del cristiano laico, Morcelliana, Brescia 1992, 21997, 184-211. 165 Cf. CONGAR, Sainte Église, 500s. 166 Sulle opere di J.E. Rea e di P. Dabin (una semplice raccolta di testi), cf. CONGAR, Sainte Église, 592 e 606.
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za, sia intorno ai diversi aspetti della trattazione,167 sia a proposito dell’impianto complessivo di una «ecclesiologia integrale», che possa fare spazio a un’intelligenza teologica del cristiano laico: si pensi, ad es., alla stretta unità tra la dimensione visibile e invisibile, gerarchica e misterica della Chiesa, comunità dei fedeli e realtà gerarchicamente ordinata, o all’orizzonte di un’intelligenza teologica della Chiesa situata entro la complessiva «economia» divina e nel quadro di una teologia della storia.168
C)
L’ A M PLI A ME NT O D E L L E CAT EGO RI E E C C LE SIO LOGI C H E
Con maggiore o minore approfondimento, nei 15-20 anni che precedono il Vaticano II si vanno delineando altre prospettive di riflessione ecclesiologica, che poi influiranno sui lavori conciliari. Gli studi sull’episcopato, la ricerca intorno al sacerdozio universale e al suo rapporto con il sacerdozio dei ministri, l’interesse per la liturgia e il suo significato ecclesiologico si intrecciano con la questione della «sacramentalità», pensata come chiave di lettura complessiva dell’economia cristiana e della stessa realtà della Chiesa.169 Gli studi patristici, a questo riguardo, vertono soprattutto sul vocabolario: intorno alla coppia mysterion/sacramentum, in effetti, si registra una serie nutrita di studi, avviati nella prima metà del Novecento e continuati con rinnovata lena dopo il 1945.170 Sul piano dell’elaborazione storico-teologica, i percorsi sono più cauti, e si dovrà riconoscere che la nozione di «Chiesa-sacramento», per quanto riconducibile agli orizzonti patristici, appare però piuttosto raramente, in modo esplicito, nelle opere dei Padri.171 Più importante appare, al riguardo, la ripresa di un orientamento di fondo, che Congar, riferendosi soprattutto a studi apparsi in ambito tedesco prima della seconda guerra mondiale, indica come riscoperta dell’ordine sacramentale e della sacramentalità stessa […], una concezione cristologica ed ecclesiologica della vita cristiana e del mondo, a sfondo sacramentale; si ritrova così un elemento essenziale del grande filone
167 Cf. ad es., sul sacerdozio dei fedeli, CONGAR, Jalons, 176-184, ma moltissimi sono i riferimenti patristici in tutto il c. IV; sulla regalità del cristiano (cf. 315-318); o ancora si veda la nota sul sensus fidelium nei Padri (450-453), ecc. 168 Cf. CONGAR, Jalons, rispettivamente 55s e 140s (e tutto il c. III, 84-158). 169 Cf. ACERBI, 67. 170 Si vedano gli studi citati nella «Bibliografia storica»: per il periodo anteguerra, E. DE BACKER su Tertulliano (*1911), J. DE GHELLINCK sugli autori preniceni (*1924), C. SPALLANZANI e H.M. FERET su s. Agostino (*1927, *1940); dopo il 1945, cf. A. KOLPING su Tertulliano e F. VAN DER MEER su Agostino (*1948), J. FRUYITIER su Cirillo di Gerusalemme (*1950); L. BOUYER, nell’articolo «Mysterion», del *1952, riprende il materiale elaborato per il Patristic Greek Lexikon; C. COUTURIER (*1953) e T. CAMELOT (*1954) tornano su s. Agostino, C. MOHRMANN (*1954) studia di nuovo il vocabolario cristiano più antico… 171 Cf. P. SMULDERS, «La Chiesa sacramento della salvezza» (= BARAÚNA, 363-386), 364.
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1. Gli studi patristici e l’ecclesiologia nella prima metà del Novecento patristico così ignorato dalle Riforme continentali e dimenticato, in buona misura, dalla teologia controriformistica.172
Un po’ più articolata è la questione che riguarda un’altra importante categoria ecclesiologica conciliare, quella di «popolo di Dio». Nel dibattito teologico precedente il concilio, essa incomincia ad acquistare un certo peso a partire dalla fine degli anni ’30, soprattutto in rapporto con la valorizzazione della dimensione storica delle realtà salvifiche e anche, almeno in parte, in reazione all’uso predominante dell’idea di «Corpo mistico».173 Sul versante del riferimento patristico, il ruolo di apripista è affidato, ancora una volta, a Catholicisme:174 l’attenzione del saggio di de Lubac agli aspetti sociali del dogma cristiano e il suo approccio attento alla historia salutis, nella quale si inserisce un popolo di convocati – come evidenzia l’uso dell’espressione «congregatio generis humani» per indicare la Chiesa, con un’espressione vicina all’agostiniana «congregatio populorum atque gentium»175 –, orientano verso una visione attenta alla prospettiva biblica e al gioco complesso del rapporto tra le due alleanze. Non era detto, con questo, che parlare di «popolo di Dio» risolvesse d’incanto tutti i problemi ecclesiologici, o che l’espressione fosse più fondata nella Scrittura e nella tradizione che non «corpo di Cristo»: così pretendeva polemicamente il saggio di M.D. Koster, Ekklesiologie im Werden (*1940), tra i più articolati critici della nozione di «Corpo mistico» e della sua occupazione unilaterale del campo ecclesiologico; ma la soluzione non poteva essere semplicemente la sostituzione di un concetto ritenuto unilaterale con un altro, pure usato unilateralmente.176 Dal punto di vista patristico, si segnalano soprattutto due ricerche. Anzitutto, la dissertazione di J. Eger su Ambrogio,177 interessante per il fatto che l’ecclesiologia, come tutta la teologia, del vescovo di Milano è fortemente dipendente dalla tradizione greca. Ora, secondo Eger, si tratta precisamente di un’ecclesiologia basata sulla nozione di popolo di Dio / di Cristo e, proprio perché radicata nella tradizione precedente, la si può ritenere a buon diritto un’ecclesiologia non solo ambrosiana o milanese, ma semplicemente cristiana, come del resto documentano testimonianze attinte ad altri autori contemporanei ad Ambrogio.178 172 CONGAR, Sainte Église, 505. ANTÓN, El misterio de la Iglesia, II, 789, rinvia in particolare, per gli studi sui Padri, a J. RANFT, Die Stellung der Lehre von der Kirche im dogmatischen System, Aschaffenburg 1927; J.R. GEISELMANN, Die Abendmahlslehre an der Wende der christlichen Spätantike zum Frühmittelalter, München 1933, e agli studi dell’anglicano T.A. Lacey su Cipriano (cf. M. BERNARDS, «Zur Lehre von der Kirche als Sakrament», in MThZ 20[1969], 29-54); per una prospettiva più esplicita, anche se poco elaborata, si veda RAHNER, Teologia e kerygma, 163-173. 173 Cf. ANTÓN, El misterio de la Iglesia, II, 703, che indica precisamente, come periodo dell’affermazione della categoria di «popolo di Dio», gli anni 1937-1943. 174 Cf. ANTÓN, El misterio de la Iglesia, II, 689; ACERBI, 60. 175 Cf. DE LUBAC, Cattolicesimo, 39. 176 Cf. ANTÓN, El misterio de la Iglesia, II, 704s; cf. anche sopra, nota 134 e testo relativo. 177 J. EGER, Salus gentium (*1947). 178 Cf. ANTÓN, El misterio de la Iglesia, II, 721.
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Più sfumate le conclusioni cui perviene la ricerca che J. Ratzinger dedica, nel 1954, all’ecclesiologia di Agostino, in base alle due immagini centrali del «popolo» e della «casa» di Dio.179 La ricerca di Ratzinger prende in considerazione anche i grandi teologi africani, predecessori di Agostino: Tertulliano, Cipriano, Ottato di Milevi. Il vescovo di Ippona incorpora almeno in parte gli usi del termine «popolo di Dio» che trova prima di lui: in Tertulliano, che lo riferisce al solo popolo di Israele; in Cipriano, che fa riferimento alla comunità eucaristica locale; soprattutto in Ottato di Milevi che, di fronte ai problemi posti dal donatismo, sottolinea l’orientamento universale della nozione di Chiesa. In Agostino, la concezione della Chiesa quale «popolo di Dio» si intreccia con il duplice livello di una Chiesa considerata nella sua verità kata pneuma (il che fa sì che parlare di «popolo di Dio» resti pur sempre un linguaggio analogico180), ma anche nella considerazione concreta della Chiesa quale corpus permixtum. Per altro verso, il carattere analogico e metaforico dell’immagine di «popolo di Dio» e la natura eucaristica della Chiesa spingono a precisare la nozione di «popolo» con quella di corpo di Cristo: «Il popolo ha la sua vera e propria qualità nell’essere comunità sacramentale del corpo di Cristo, cioè corpus Christi»; e ancora: «La Chiesa è appunto il popolo di Dio esistente come Corpo di Cristo»,181 costituito come tale dall’assemblea liturgica: solo così, tra l’altro, la si può qualificare come popolo di Dio senza confonderla con Israele. Come ha notato lo stesso Ratzinger, è stato possibile così integrare la visione della Chiesa come «Corpo mistico» attraverso il legame con l’ecclesiologia eucaristica, raccogliendo anche le suggestioni che venivano dagli studi di de Lubac. Il risultato centrale della ricerca di Ratzinger è, dunque, che «la rilettura cristologica dell’Antico Testamento e la vita sacramentale centrata nell’Eucaristia sono i due elementi portanti nella visione agostiniana della chiesa»,182 in accordo con la teologia patristica e con gli stessi fondamenti ecclesiologici del Nuovo Testamento. Come si vedrà, abbiamo qui alcuni orientamenti che, sia attraverso in particolare
179 J. RATZINGER, Volk und Haus Gottes in Augustinus Lehre von der Kirche, K. Zink, München 1954; tr. it. Popolo e casa di Dio in s. Agostino, Jaca Book, Milano 1971, 21978 (da notare la Presentazione all’edizione italiana del 1978, nella quale l’autore colloca il suo studio nel contesto delle discussioni degli anni ’40-’50 sul «Corpo mistico»); cf. ANTÓN, El misterio de la Iglesia, II, 716-719; A. NICHOLS, Joseph Ratzinger, S. Paolo, Cinisello Balsamo 1996, 35-58. Agostino ha sempre attirato l’interesse degli studiosi: per una presentazione sintetica delle indagini ecclesiologiche su Agostino intorno agli anni ’40, soprattutto in area tedesca, cf. JÁKI, Les tendances, 180-184; LAMIRANDE, «Un siècle et demi d’études sur l’ecclésiologie de Saint Augustin» (*1962). 180 Cf. RATZINGER, Popolo e casa di Dio in s. Agostino, 176; nella citata Presentazione all’ed. it., Ratzinger sintetizza: «“popolo di Dio” è un asserto metaforico sulla chiesa desunto dal Vecchio Testamento. Ha un valore esclusivamente “allegorico” e la sua applicazione alla chiesa dipende dalla possibilità di riportare alla chiesa “allegoricamente” l’Antico Testamento» (XIIs). 181 Cf. RATZINGER, Popolo e casa di Dio in s. Agostino, 331s. 182 Cf. RATZINGER, Popolo e casa di Dio in s. Agostino, XIII, anche per quanto segue.
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gli interventi influenti del card. Frings, sia mediante il lavoro diretto di Ratzinger alla sottocommissione de Ecclesia, avranno poi un peso consistente nell’elaborazione dello schema ecclesiologico del Vaticano II.183
D)
L A C HIE S A
E
M A RIA
Chiudiamo questa panoramica, necessariamente rapida e tutt’altro che esaustiva, intorno all’influsso delle ricerche patristiche sul rinnovamento ecclesiologico del XX secolo, con un riferimento alla mariologia, e più precisamente al rapporto Chiesa-Maria.184 Solo questa delimitazione permette di far fronte all’ondata mariana che attraversa i primi sessant’anni del Novecento,185 a proposito della quale è stato notato – ma la cosa non desta sorpresa – che «nella letteratura mariana, il tenore intellettuale delle pubblicazioni è inversamente proporzionale al numero delle opere date alle stampe».186 Se è normale aspettarsi che il movimento di ressourcement patristico abbia influenzato anche la teologia mariana, più importante è situare questo influsso entro il quadro complessivo degli studi mariologici del Novecento. A giudizio di Köster, si possono distinguere due momenti, il primo dei quali va dall’inizio del secolo ai primi anni ’20, ed è caratterizzato dalla celebrazione del cinquantenario della definizione dogmatica dell’Immacolata concezione (1904) e dai Congressi mariologici internazionali del 1902 e del 1912. Un secondo momento, che copre i quarant’anni dal 1921 al 1961, ha come suo elemento distintivo il grande dibattito intorno alla questione di Maria corredentrice e mediatrice.187 Il contributo della ricerca patristica alla teologia mariana si colloca in questa seconda fase e anzi, se si ferma l’attenzione al rapporto tipologico Maria-Chiesa, vi prende forma piuttosto tardi: i primi studi significativi che possiamo richiamare qui sono pubblicati solo nel 1950, anno di pubblicazione del contributo di H. Rahner su Maria e la Chiesa, e di quel-
183 Ratzinger sottolinea la convergenza tra gli orientamenti della sua ricerca e le idee guida dei cc. I-II della LG: lamenta però, nella pubblicistica postconciliare, l’abbandono quasi totale dell’aspetto cristologico nella comprensione della Chiesa, con il prevalere di una «banalizzazione del concetto di popolo di Dio, opporsi alla quale può sembrare oggi pressoché impossibile» (J. RATZINGER, Popolo e casa di Dio in s. Agostino, XV; cf. anche ID., Il nuovo popolo di Dio. Questioni ecclesiologiche, Queriniana, Brescia 1971, 104). 184 Rinviamo in particolare a: H. KÖSTER, «Mariologie», in Bilan de la théologie du XXe siècle, II, 351-370; S. DE FIORES, Maria nella teologia contemporanea, Centro di cultura mariana-Edizioni Monfortane, Roma 21987, 38-107; ID., «Mariologia», in CANOBBIO – CODA (edd.), La teologia del XX secolo. Un bilancio, II, 561-622. 185 Anche se il periodo è in parte differente (e include la «crisi mariologica» postconciliare), può essere indicativo ricordare che la Bibliografia mariana edita dall’Istituto «Marianum» di Roma in 9 volumi (1950-1998) elenca, per il periodo 1948-1993, 57.310 titoli, per una media di 1.273 titoli all’anno (cf. DE FIORES, «Mariologia», 561, nota 1). 186 KÖSTER, «Mariologie», 353. 187 Cf. KÖSTER, «Mariologie», 353.
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lo di O. Semmelroth su Maria «prototipo della Chiesa».188 L’approccio del primo è di ordine più «contemplativo», dal momento che l’autore si propone, presentando i testi patristici, di aiutare il lettore a «reimparare ciò che era così familiare e caro alla Chiesa primitiva: vedere la Chiesa in Maria e Maria nella Chiesa»;189 Semmelroth, invece, vuole valorizzare la tipologia mariana in sede sistematica, facendone non solo un aspetto della riflessione mariologica, ma il suo cardine, previo alla stessa maternità divina – ciò che sarà anche contestato.190 Nella stessa prospettiva tipologica si colloca un ampio capitolo della Méditation sur l’Église di H. de Lubac, pubblicata nel 1953, dove il gesuita francese dà fondo alla sua straordinaria conoscenza della tradizione patristica e medievale per mettere ancora una volta in rilievo il nesso strettissimo, che fa pensare persino a una sovrapposizione, tra la Chiesa e Maria, di modo che si può dire, quanto meno, che i due misteri della Chiesa e della Vergine Maria «sono tra loro in un tale rapporto che si avvantaggiano sempre ad essere chiariti l’uno con l’altro; anzi, che all’intelligenza dell’uno è indispensabile la contemplazione dell’altro».191 Le tre ricerche citate sono emblematiche di un orientamento che conosce subito diverse linee di approfondimento: lo attestano in quello stesso periodo, tra gli altri, lo studio di A. Müller Ecclesia-Maria (*1951), la raccolta di saggi della Societé Française d’Études Mariales Marie et l’Église (*1951-52), il saggio di Y. Congar su Maria e la Chiesa nel periodo patristico (*1954), come pure la pubblicazione della tesi di H. Coathalem, Le parallélisme entre la Sainte Vierge et l’Église (*1954), risalente al 1939: pubblicazione salutata con favore da Congar, il quale rileva che l’autore è stato uno dei primi ad affrontare un punto così rilevante della mariologia con un metodo veramente storico, mentre per lo più la mariologia rimaneva dominata da deduzioni speculative poco attente al significato storico dei testi.192 Certo, negli anni in cui veniva promulgato il dogma dell’Assunzione di Maria in cielo (1950) e si celebrava il centenario della definizione dell’Immacolata concezione (1954), la mariologia patristica poteva sembrare incompleta:
188 H. RAHNER, Marie und die Kirche, Innsbruck 1950 (tr. it.: Maria e la Chiesa. Indicazioni per contemplare il mistero di Maria nella Chiesa e il mistero della Chiesa in Maria, Jaca Book, Milano 1974); O. SEMMELROTH, Urbild der Kirche. Organischer Aufbau des Mariengeheimnisses, Würzburg 1950; cf. DE FIORES, Maria nella teologia contemporanea, 50-52. Anche se non è immediatamente di ordine mariologico, segnaliamo in questo contesto, per le affinità di alcune tematiche, anche lo studio di J.C. PLUMPE, Mater Ecclesia. An Inquiry into the Concept of the Church as Mother in the Early Christianity, Washington 1943 (cf. CONGAR, Sainte Église, 561). 189 RAHNER, Maria e la Chiesa, 11. 190 Cf. DE FIORES, Maria nella teologia contemporanea, 52, nota 12, con riferimento a prese di posizione critiche da parte di G. Philips e C. Dillenschneider. 191 Cf. H. DE LUBAC, Meditazione sulla Chiesa, Jaca Book, Milano 1993, 221-265, qui 223. 192 Cf. CONGAR, Sainte Église, 683, che ricorda al riguardo anche la ricerca di F. DREWNIAK, Die mariologische Deutung von Gen. 3, 15 in der Vaterzeit, Breslau 1934.
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1. Gli studi patristici e l’ecclesiologia nella prima metà del Novecento [i]l ricorso ai Padri indubbiamente è stato positivo per la mariologia, e motivo del recupero della tipologia ecclesiale, che inserisce Maria nella Chiesa arricchendo e correggendo una unilaterale tipologia cristologica. Esso tuttavia ha portato un certo disappunto di fronte alle numerose esitazioni di alcuni Padri circa la santità di Maria e la sua verginità perpetua e alla loro ignoranza riguardo all’Assunzione e all’Immacolata Concezione: difficoltà superate progressivamente nel IV-V secolo e oltre. Anche la maternità divina è vista da alcuni Padri, come Ambrogio e Agostino, in subordinazione ai legami spirituali contratti con Cristo attraverso la fede e l’adesione alla volontà del Padre.193
Occorre aggiungere, però, che la (ri)scoperta della relativa «sobrietà» della mariologia dei Padri avrebbe aiutato la teologia mariana ad arginare un certo deduttivismo sregolato, poco rispettoso dell’oggettività del dato rivelato.194 La cosa, peraltro, sarebbe andata a vantaggio anche del confronto ecumenico, non soltanto rispetto alle chiusure protestanti, ma nei confronti della stessa tradizione orientale, così profonda nella venerazione per la Madre di Dio e, insieme, così perplessa di fronte ai metodi speculativi di una certa teologia occidentale.195 E va senz’altro ascritto a beneficio di una mariologia rinnovata la constatazione che, nel pensiero dei Padri, il nexus mysteriorum (e dunque il riferimento di Maria e della sua posizione singolare all’insieme della economia salvifica) è sentito con particolare evidenza, ciò che aiuta a considerare la Vergine non separatamente dal disegno divino nella sua concentrazione cristologica ed ecclesiologica.
193 DE FIORES, Maria nella teologia contemporanea, 56 (abbiamo omesso i riferimenti patristici indicati nelle note). 194 Cf. KÖSTER, «Mariologie», 354. 195 Va notato, peraltro, che le ricerche in concomitanza con le ricorrenze dogmatiche del 1904, 1950 e 1954 furono occasione per uno studio più accurato della tradizione soprattutto orientale al riguardo (cf. KÖSTER, «Mariologie», 355-357); per altri aspetti del dibattito ecumenico, cf. ivi, 358s, e DE FIORES, «Mariologia», 571-573.
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2. Il ritorno alle fonti: un tema controverso
Abbandonata in qualche modo una prospettiva dominata dall’apologetica, a partire dal primo dopoguerra la ricerca sui Padri e sulla Chiesa antica incominciava a dare un suo contributo specifico ai tentativi dell’ecclesiologia di aprire nuove vie di riflessione. In alcuni ambienti, però, approccio ai Padri e «ritorno alle fonti» del lavoro teologico erano parte determinante di un progetto ampio e originale, non limitato a un rilancio, per quanto sempre meglio attrezzato, della teologia «positiva». Riprendere in mano le fonti significava esplorare strade nuove per la teologia: ne abbiamo già accennato a proposito del «nuovo corso» che il riferimento ai Padri assume – in stretta connessione con il ressourcement biblico e liturgico – soprattutto dopo gli anni ’40 (cf. c. 1 § 2). I fatti, però, avrebbero presto mostrato che una prospettiva del genere era destinata a scontrarsi con una visione del lavoro teologico (e anzi della stessa «verità cristiana», del suo statuto epistemologico e dei modi del suo comunicarsi) profondamente diversa e che non si lasciava mettere in questione facilmente; tanto più che l’eco delle controversie passate sotto l’etichetta di «modernismo» era tutt’altro che sopita1 e, anzi, continuò a risuonare sotto le volte della basilica di S. Pietro durante lo stesso concilio. Nell’arco di una dozzina d’anni o poco più, la querelle conoscerà tre punti principali di contesa: il progetto teologico elaborato nella scuola domenicana del Saulchoir e presentato da uno scritto – rapidamente tolto di mezzo, e poi messo all’Indice – del domenicano M.-D. Chenu; l’avvio della pubblicazione delle «Sources chrétiennes»; in stretto legame con
1 Cf. gli esempi citati da E. FOUILLOUX, Une Église en quête de liberté. La pensée catholique française entre modernisme et Vatican II (1914-1962), Desclée, Paris 1998, 32-35.
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queste, infine, la controversia sulla cosiddetta «nouvelle théologie», fino al culmine dell’enciclica Humani generis. A queste vicende è dedicato il presente capitolo.
1. I L « R I T O R N O A L L E F O N T I »: C H E N U E L E S AULCHOIR A)
IL
PR OG ET TO T E O L O G I C O DE L S AULCHOIR
Non è il caso di riprendere qui per filo e per segno la vicenda legata al progetto teologico che M.-D. Chenu presentava nell’opuscolo Le Saulchoir: une école de théologie (1937): dopo la ripubblicazione del testo a opera di G. Alberigo,2 le peripezie ecclesiastiche e le questioni teologiche correlative sono state ampiamente ricostruite e sono ormai accessibili in diverse sintesi recenti.3 È importante, nel nostro contesto, fermare l’attenzione soprattutto su ciò che il testo di Chenu diceva intorno al «ritorno alle fonti» e alle corrispettive implicazioni teologiche, e sulle conseguenti preoccupazioni degli ambienti romani, fino alla condanna del 1942. È lo stesso Chenu a indicare, come prima «linea architettonica», oggi (1981) pienamente accreditata, del saggio scritto più di quarant’anni prima, il carattere storico della teologia: questa, intelligenza della fede, si sviluppa nella storia, poiché la fede stessa ha per oggetto la Parola di Dio nella storia, e non un’ideologia astratta, in un insegnamento atemporale, disceso dal cielo e conservato sotto vetro… Il divenire 2 Si veda M.-D. CHENU, Une école de théologie. Le Saulchoir, Kain-Lez-Tournai-Etiolles 1937; edd. del 1982 (italiana) e del 1985 (francese). 3 Oltre ai saggi di G. Alberigo, E. Fouilloux, J. Ladrière e J.-P. Jossua raccolti nell’ed. del Saulchoir del 1985 (Cerf, Paris), rinviamo in particolare a: T. TSHIBANGU, Théologie positive et théologie spéculative. Position traditionelle et nouvelle problématique, Université de Louvain-Nauwelaerts, Paris 1965, 268-283; C. FREY, Mysterium der Kirche, Öffnung zur Welt. Zwei Aspekte der Erneuerung französischer katholischer Theologie, Vandenhoeck u. Ruprecht, Göttingen 1969, 37-40; R. GUELLUY, «Les antécédents de l’encyclique “Humani generis” dans les sanctions romaines de 1942: Chenu, Charlier, Draguet», in RHE 81(1986), 421-497; J.-C. PETIT, «La compréhension de la théologie dans la théologie française au XXe siècle. Vers une nouvelle conscience historique: G. Rabeau, M.-D. Chenu, L. Charlier», in LTP 47(1991), 215-229; FOUILLOUX, Une Église en quête de liberté, 126-148; B. DALEY, «The Nouvelle Théologie and the Patristic Revival: Sources, Symbols, and the Science of Theology», in International Journal of Systematic Theology 7(2005), 362-382 (2007); F.G. BRAMBILLA, «“Teologia del magistero” e fermenti di rinnovamento nella teologia cattolica», in G. ANGELINI – S. MACCHI (edd.), La teologia del Novecento. Momenti maggiori e questioni aperte, Glossa, Milano 2008, 198-208 (qui 201, nota 13, riferimenti alla bibliografia di M.-D. Chenu); si veda anche: Marie-Dominique Chenu. Moyen-Age et modernité. Colloque organisé par le Département de la recherche de l’Institut catholique de Paris et le Centre d’études du Saulchoir à Paris, les 28 et 29 octobre 1995, Paris 1997. Il saggio di H. DONNEAUD, «Le Saulchoir: une école, des théologies?», in Gr. 83(2002), 433-449, permette, per altro verso, di non ridurre la realtà del Saulchoir alle sole vicende dei suoi teologi più celebri, Chenu e Congar.
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2. Il ritorno alle fonti: un tema controverso storico è consostanziale al «mistero», alla Chiesa che ne è il soggetto portante, alla teologia che, in pensiero e azione, ne è l’espressione… Il metodo di Le Saulchoir introduceva la storia nella teologia, come quarant’anni prima e contro le stesse opposizioni padre Lagrange aveva introdotto il «metodo storico» nell’intelligenza della Scrittura (XXXIV).4
E il concilio, osserva ancora Chenu, avrebbe convalidato entrambe le imprese (cf. ivi). Nel 1937, data anche l’origine occasionale del saggio (l’annuale celebrazione della festa di S. Tommaso), Chenu aveva articolato questa dimensione storica della teologia ripercorrendo in breve le vicende dell’insegnamento teologico all’interno dell’ordine domenicano (cf. 3-23), non senza rilevare quegli «appesantimenti» – del resto non esclusivi della teologia domenicana! – che avvengono quando nuovi complessi culturali, letterari, estetici, ideologici, religiosi trasformano il clima e le tecniche di un ambiente, [e] la teologia non è sempre capace di assicurare quella «presenza» umana e cristiana che, alla luce della fede, procura al suo faticoso lavoro razionale la freschezza di una creazione continua (16).
Passando poi a presentare «spirito e metodi» della proposta teologica elaborata a Le Saulchoir, Chenu si sofferma sulla situazione culturale e intellettuale di inizio Novecento, quando lo studium domenicano, ricostituito in Belgio, presso Tournai, a seguito delle espulsioni francesi del 1903, iniziava la sua opera. È una situazione dominata dalle problematiche sollevate dalla crisi modernista,5 che pone in maniera decisiva il problema della critica storica applicata all’oggetto del sapere teologico, e anzi allo stesso dato rivelato: questione complessivamente benefica, per Chenu, nonostante i soprassalti che provocava in una fede «la cui integra semplicità si erge prontamente contro ogni relativismo» (26). Rifiutare l’impatto di questa critica, o cercare di sterilizzarla con «vani virtuosismi apologetici o concordismi perennemente in ritardo», sarebbe, in definitiva, «un errore teologico, se è vero che per la stessa legge dell’economia della rivelazione Dio si manifesta attraverso e nella storia, che l’eterno si incarna nel tempo in cui soltanto lo può raggiungere lo spirito dell’uomo» (ivi). Resta il fatto che, nel contesto del modernismo, la legittima questione della critica storica fu pregiudicata da precomprensioni e confusioni metodologiche, che ebbero esito negativo: tuttavia, la crisi di inizio Novecento va letta, secondo Chenu, come «crisi di crescita», come «il rovescio di una operazione spirituale di grande respiro e di magnifica fecondità: la fede, e in essa la scienza teologica, nell’atto di prendere possesso di strumenti razionali nuovi» (27), come già aveva avuto occasione di fare – e proprio la scolastica del XII-XIII sec. ne è esempio straordinario – in altre circostanze storiche. 4 5
Indichiamo nel testo le pagine di CHENU, Une école de théologie, ed. it. 1982. Chenu non usa questo termine, ma allude alle opere di Loisy e Tyrrell (cf. 25).
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In ogni caso – e raccogliendo anche la lezione dei «maestri» del Saulchoir, Gardeil e Lemonnyer, che non entrarono nel vivo della crisi modernista, perché, «aperti alla realtà e alla complessità dei problemi posti, provavano avversione per risposte unilaterali e soluzioni sempliciste, cioè per una certa sufficienza tomista» (28) –, il metodo di studio proposto al Saulchoir sa di dover tenere conto della pluralità dei metodi di acquisizione della verità: per questo rifiuta la «fretta di trovare subito spiegazioni totalitarie» e si vuole particolarmente attento alla storia, perché «rifiutare alla storia la sua consistenza umana – dal momento che essa è stata il tessuto della rivelazione – vuol dire per il teologo rischiare di misconoscere le strade effettive che Dio ha precisamente scelto per rivelarsi» (30). Di qui viene anche una scelta di insegnamento e studio della teologia che fa poco affidamento sui manuali e si volge invece alle fonti, in base alla convinzione che «il vero lavoro non si fa su succedanei, per quanto chiari e pratici siano, ma su documenti freschi, la cui ricchezza inesauribile fa davvero meritare loro il nome di fonti» (34);6 e con la cura di collocare queste fonti nell’ambiente loro proprio, dato che «l’intelligenza di un testo e di una dottrina è strettamente legata con la conoscenza dell’ambiente che li ha visti nascere, perché l’intenzione che li ha prodotti viene raggiunta nel contesto – letterario, culturale, filosofico, teologico, spirituale – in cui sono nati e hanno preso forma» (35). In definitiva, nota ancora Chenu, tutto questo si riduce a una stima intransigente dei testi e del loro valore permanente. Il ritorno alle fonti è per la storia ciò che il ricorso ai principi è per la speculazione: la stessa potenza spirituale, lo stesso ringiovanimento, la stessa fecondità; e l’uno diviene garante dell’altro (37).
L’attenzione alle fonti si situa, ancora, nella linea dell’affermazione del «primato del dato rivelato» – secondo l’approccio indicato da A. Gardeil – sulla speculazione: Ce n’è abbastanza per considerare disciplina-guida, in un’organizzazione del lavoro teologico, lo studio delle fonti della fede. […] Il teologo […] non ha alcun oggetto al di fuori dell’auditus fidei, di cui lo storico, alla luce della fede, gli fornisce l’inventario – e non soltanto un catalogo di proposizioni registrate in un Denzinger qualunque, ma una materia viva, copiosa, sempre in atto nella Chiesa che ne è depositaria, pregnante di intelligibilità divina (42).
È proprio per questo che Scrittura e tradizione non possono essere guardate in prima istanza come repertori di argomenti ad uso della Scuola e delle sue conclusioni disputate; sono primariamente il dato, da scrutare, da conoscere, da amare per se stes-
6 Nel caso del Saulchoir, ciò si applica soprattutto ai testi di s. Tommaso (cf. CHENU, Une école de théologie, ed. it., 34s).
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2. Il ritorno alle fonti: un tema controverso so, e tutte le ulteriori speculazioni sarebbero vane se non mirassero a conoscere meglio questo dato in tutte le sue risorse di intelligibilità religiosa (ivi).
Ma si obietta che la teologia positiva, da sola, non permette di costituire un sapere teologico organico (cf. 43s). L’obiezione, replica Chenu, mostra che la teologia positiva è pensata indipendentemente dalla fede. Viceversa, la fede è il luogo in cui, psicologicamente e scientificamente, possono annodarsi, nell’unità di un sapere, documentazione e speculazione,7 «autorità» e «ragioni»; questo perché solo la fede è insieme percezione realista in cerca della contemplazione divina e assenso a proposizioni autoritative. […] [A]l di fuori della fede, nel senso più soprannaturale della parola, la teologia non ha più consistenza: cade letteralmente in pezzi. Ma nella fede nasce e cresce nel credente un desiderio esigente, intellectus fidei, che, con una permanente curiosità per il dato rivelato, provoca una stima religiosa e scientifica per le discipline che lo elaborano: materia di nutrimento immensa, in effetti, che sarebbe un peccato ridurre a un lotto di proposizioni e a una lista di venerabili testi, poiché i «luoghi» del credente e del teologo sono l’intera vita positiva della Chiesa, i suoi comportamenti e i suoi pensieri, le sue devozioni e i suoi sacramenti, le sue spiritualità, le sue istituzioni, le sue filosofie, secondo l’ampia cattolicità della fede, nel suo spessore di storia e sull’intera area delle civiltà (44).
B)
ATTOR NO A L S AULCHOIR : R A BE A U , C H ARLIE R , D R AGU ET
Per meglio cogliere la portata delle affermazioni di Chenu sul rapporto tra storia e teologia, è utile un breve raffronto con un’opera apparsa una decina d’anni prima del Saulchoir e salutata, negli ambienti stessi della scuola domenicana, come un’importante novità: si tratta dell’Introduction à l’étude de la théologie di G. Rabeau, pubblicata nel 1926 e favorevolmente recensita da A. Gardeil.8 Per Rabeau, la storia è connaturale alla fede cristiana – che è anzitutto conoscenza di Gesù Cristo, la quale non si dà senza riferimento alla storia – prima ancora che alla teologia, e a questa nella sua pretesa di argomentare in modo scientifico. Nonostante questa assunzione fondamentale, però, la teologia, quale la presenta Rabeau, non si lascia deter7 Chenu peraltro distingue l’apporto delle discipline propriamente storiche (esegesi storica, storia dei dogmi) da quello della teologia positiva, inclusa la teologia patristica: la teologia positiva si svilupperà «alla luce della fede e secondo i suoi criteri, essendo propriamente una teologia. […] Se il discernimento di queste due strade sembra del tutto astratto e la loro intersezione delicata, il motivo è che l’intersezione del divino e dell’umano nella rivelazione […] è essa stessa delicata da concepire ed esprimere» (CHENU, Une école de théologie, ed. it., 49). 8 G. RABEAU, Introduction à l’étude de la théologie, Bloud & Gay, Paris 1926; recensione di Gardeil in RSPhTh 15(1926), 595-604. Su Rabeau, cf. PETIT, «La compréhension de la théologie… Vers une nouvelle conscience historique», 216-219, con una buona sintesi per la questione storia-teologia; più brevemente in BRAMBILLA, «“Teologia del magistero”», 203s.
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minare in modo veramente significativo dalla storia: questa, rispetto al lavoro propriamente teologico, assume un ruolo solo preparatorio («sgombrare il terreno, eliminare gli errori, i pregiudizi, le ipotesi rovinose, presentare documenti e fatti osservati con esattezza»);9 per Rabeau, l’evento storico come tale rimane «incommensurabile» rispetto al giudizio dogmatico; solo mediante un’interpretazione teologica l’evento assume un rilievo dogmatico. Anche il confronto della teologia con le scienze contemporanee – scienze storiche incluse – viene impostato sul presupposto di una teologia già completamente definita a partire dal suo «oggetto» (Dio nella sua vita e nella sua autocomunicazione all’uomo) e dalle condizioni di conoscenza che ne possiamo avere, condizioni che sono determinate dalla rivelazione.10 Così, se la teologia ha bisogno delle «scienze ausiliarie» (la filologia, la storia…) per conoscere i dati rivelati ed essere aiutata a interpretarli, essa però «non dipende dai materiali che utilizza, non è soggetta ai disegni di un architetto venuto dall’esterno: la verità rivelata non può dipendere da giudizi umani. Al contrario, è la teologia che mette alla prova i suoi materiali, che valuta i progetti che trova già formati, che giudica in ultima istanza i giudizi umani».11 Si vede dunque che, in Chenu, la questione della storia e del suo ruolo nella teologia assume un rilievo ben più significativo che in Rabeau e nel «maestro» riconosciuto del Saulchoir, il p. Gardeil. Il punto decisivo di differenza, infatti, è propriamente teologico e sta nel riconoscimento di quella «legge dell’economia della rivelazione», per la quale Dio si manifesta attraverso e nella storia.12 È l’orientamento che Chenu confermerà anche in seguito, scrivendo che «la storia della teologia è interna alla teologia»,13 è, insomma, essa stessa teologia. La teologia, dunque, non può prescindere dalla storia perché la stessa economia, nella quale Dio si manifesta all’uomo, è situata storicamente e tale è, di conseguenza, la stessa fede, inseparabile nella sua storicità dal lavoro teologico: Prendendo sul serio la storicità della fede e, di conseguenza, della teologia, [Chenu] porta ad una forte relatività della teologia alla fede, che non si esprime solo in una vasta ricerca storica dei documenti della fede e delle figure della teologia, ma anche e soprattutto in un’ermeneutica del tempo presente, in una presenza al mondo e all’epoca attuale.14 9
RABEAU, Introduction à l’étude de la théologie, 153, anche per quanto segue. Cf. PETIT, «La compréhension de la théologie… Vers une nouvelle conscience historique», 218s. 11 RABEAU, Introduction à l’étude de la théologie, 140; cf. PETIT, «La compréhension de la théologie… Vers une nouvelle conscience historique», 218s. 12 Cf. PETIT, «La compréhension de la théologie… Vers une nouvelle conscience historique», 220. 13 M.-D. CHENU, La théologie au XIIe siècle, Vrin, Paris 1957, 14; cf. FOUILLOUX, Une Église en quête de liberté, 131. 14 BRAMBILLA, «“Teologia del magistero”», 206; cf. anche PETIT, «La compréhension de la théologie… Vers une nouvelle conscience historique», 222. 10
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Sotto questo profilo, è assai meno netto anche l’orientamento di L. Charlier, il domenicano che venne accomunato a Chenu nelle condanne romane del 1942 per il suo Saggio sul problema teologico, pubblicato appena un anno dopo il Saulchoir.15 Anche Charlier, certo, ritiene l’importanza della storia per la teologia: il «dato rivelato», infatti, arriva per lui a identificarsi con Dio stesso nell’economia del suo beneplacito salvifico, che ha come centro il Cristo; da questa centralità cristologica Charlier fa derivare anche la centralità ecclesiologica: la Chiesa appartiene al dato rivelato, perché in essa vive il Cristo e, in lui, è implicato tutto il mistero del Dio trino (cf. 68s). Di qui, appunto, deriva l’importanza della storia per la teologia: L’incarnazione avviene in un momento preciso del tempo. Il Corpo Mistico di Cristo – pur realizzando un’unità che trascende il tempo – si forma in epoche successive in un contesto storico. La rivelazione ha avuto un inizio e una data finale. A sua volta, lo sviluppo del dogma inizia a partire da una data e continua seguendo tappe cronologiche. Come, dunque, potrebbe non avere una storia? Il comportamento umano include tempo e spazio, successione e progresso, comporta varietà e gradi diversi di realizzazione. Tutto ciò si ritrova nettamente implicato nello sviluppo, a tal segno che questo sarebbe impossibile, al di fuori delle condizioni offertegli da una natura soggetta al movimento (72).
A questo punto, però, Charlier sembra staccarsi da Chenu e manifestare una più netta dipendenza da alcune delle tesi di R. Draguet, i cui corsi egli aveva seguito a Lovanio.16 L’approccio di Charlier resta simile a quello di Gardeil e di Rabeau, con una visione della ricerca storica di tipo «ancillare», rispetto alla teologia. L’attenzione alla storia, che pure è fortemente raccomandata (cf. 75), nulla toglie al fatto che essa «per la natura stessa del suo oggetto formale quo e del suo metodo proprio, è assolutamente al di fuori dell’ambito teologico. L’unico ruolo che legittimamente esercita rispetto alla teologia è di tipo ausiliare» (50). Con Draguet – ma partendo da presupposti diversi, nonostante l’utilizzazione di alcuni suoi testi –,17 Charlier assegna un forte ruolo al magistero, dal momento che intende la teologia come funzione della fede non individuale ma collettiva, qual è espressa appunto dal magistero (cf. 75); per altro verso, sottopone a critica severa la pretesa della scolastica corrente di porsi come «scienza deduttiva» in grado di giungere a conclusioni teologiche certe e a essa contrappone, come finalità specifica della ragione nell’ambito del lavoro teologico, un compito piuttosto di difesa, spiegazione e interpretazione del dato rivelato.18 15 L. CHARLIER, Essai sur le problème théologique, Thuillies 1938 (Bibliothèque Orientations, section scientifique, 1). Citiamo nel testo i riferimenti all’opera. 16 Per il complesso rapporto tra le tesi di Charlier e quelle di Draguet, cf. GUELLUY, «Les antécédents de l’encyclique “Humani generis”». J.-C. Petit, nel suo documentato studio su Chenu e Charlier («La compréhension de la théologie… Vers une nouvelle conscience historique»), sembra trascurare il nesso Charlier-Draguet. 17 Cf. GUELLUY, «Les antécédents de l’encyclique “Humani generis”», 435-452. 18 L’insistenza sulla dimensione «ermeneutica» della teologia, nella visione di Charlier, è particolarmente sottolineata da PETIT, «La compréhension de la théologie… Vers une nouvelle conscience historique», 227.
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D A LL E
DIS CUS S I O N I A LLE C ON DAN N E R O MA N E La vicinanza cronologica della pubblicazione dei testi di Chenu e di Charlier, l’affinità di alcune tesi, l’appartenenza di entrambi gli autori all’ordine domenicano, la prossimità geografica e gli scambi intercorrenti tra Le Saulchoir e Lovanio19 hanno potuto facilitare, anche agli occhi dei censori romani, la convinzione che vi fosse un importante movimento di opinione all’opera. Sta di fatto che le reazioni allarmate non tardano a farsi sentire.20 Si manifestano, in un primo tempo, all’interno dell’ordine domenicano: Chenu, convocato a Roma nel febbraio 1938, sottoscrive dieci proposizioni che dovrebbero puntualizzare aspetti discussi della sua opera; cinque altre proposizioni gli saranno sottoposte dal p. Gillet, maestro generale dell’ordine, nel gennaio 1939. L’Angelicum, nel frattempo (ottobre 1938), aveva respinto il testo di Charlier, presentato per il conseguimento del grado di magister in teologia. Una recensione a questo testo, pubblicata da R. Draguet,21 dava ancora più risalto alla questione; nel marzo 1940, all’Angelicum, una conferenza del maestro del Sacro Palazzo, p. Cordovani – che riceve il plauso di Garrigou-Lagrange – prende chiaramente di mira l’opera di Chenu e per la prima volta fa uscire in pubblico una questione che, forse, i domenicani avevano sperato di risolvere all’interno dell’ordine; di qui, con ogni probabilità, l’avvio della procedura che condurrà alle condanne del 1942. Le proposizioni che Chenu deve sottoscrivere nel 193822 vertono principalmente sul carattere assoluto della verità e manifestano una forte diffidenza nei confronti dell’idea di «sviluppo del dogma», anticipando così quell’accusa di «relativismo» che si leggerà poi nella Humani generis;23 toccano poi la questione della fedeltà a s. Tommaso e ai suoi commentatori, articolando una serie di affermazioni la cui negazione si può attribuire a Chenu solo a prezzo di una forte distorsione del suo scritto. In ogni caso, le critiche implicite in questi testi ritorneranno nell’intervento di p. Cordovani del 1940,24 che, senza nominarli, ha di mira certamente 19
Cf. GUELLUY, «Les antécédents de l’encyclique “Humani generis”», 426-430. Riprendiamo brevemente i molti dati di GUELLUY, «Les antécédents de l’encyclique “Humani generis”», 460-478; vi si troveranno anche i rinvii alla documentazione presentata da E. FOUILLOUX nell’introduzione a CHENU, Une école de théologie, Cerf, Paris 1985. 21 In EThL 16(1939), 143-145; cf. GUELLUY, «Les antécédents de l’encyclique “Humani generis”», 452-455. 22 Testo in GUELLUY, «Les antécédents de l’encyclique “Humani generis”», 461s, nota 2, che riproduce il fac-simile pubblicato da G. Alberigo in CHENU, Une école de théologie (1985), 35. Sull’atteggiamento di Chenu, cf. GUELLUY, «Les antécédents de l’encyclique “Humani generis”», 461, nota 1. 23 Le prime tre proposizioni dicono: «1) Formulæ dogmaticæ enunciant veritatem absolutam et immutabilem. 2) Propositiones veræ et certæ, sive in philosophia sive in theologia, firmæ sunt et nullo modo fragiles. 3) Sacra Traditio novas veritates non creat, sed firmiter tenendum est depositum revelationis, seu complexum veritatum divinitus revelatarum, clausum fuisse morte ultimi apostoli». 24 M. CORDOVANI, «Per la vitalità della teologia cattolica», in L’Osservatore Romano, 22 marzo 1940; poi, con lo stesso titolo, in Ang. 17(1940), 133-146. 20
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Chenu, ma anche Charlier. Si noti, peraltro, che una prima parte di questo articolo presenta spunti sui quali lo stesso Chenu avrebbe potuto concordare, ad es. proprio riguardo a un lavoro teologico basato sulle fonti della Scrittura e della tradizione. Ciò nonostante, l’intervento di Cordovani si rivela assai critico nei confronti di «certe tendenze moderne», che vengono criticate in termini molto simili alle proposizioni fatte sottoscrivere a Chenu due anni prima.25 Per quanto riguarda il saggio di Charlier,26 menzioniamo qui soltanto la pubblicazione di un articolo del gesuita C. Boyer su Gregorianum del 1940,27 sia perché vi accosta le tesi di Charlier a quelle di Draguet, facendo di quest’ultimo il perno di un movimento di pensiero, sia perché a più riprese presenta queste concezioni sottolineandone il carattere «nuovo», ciò che anticipa quel linguaggio della «nuova teologia» che verrà ben presto usato per caratterizzare queste e altre tendenze.28 Le diverse misure, incluse quelle che si andavano preparando nei confronti di R. Draguet,29 culminarono nella messa all’Indice dei saggi di Chenu e di Charlier nel 1942. Nessuno dei due viene informato preventivamente; entrambi si sottomettono immediatamente30 e dovranno poi 25
Cf. GUELLUY, «Les antécédents de l’encyclique “Humani generis”», 464; G. ALBERI«Cristianesimo come storia e teologia confessante», nota introduttiva a CHENU, Une école de théologie, ed. it. 1982, XX. La mistificazione delle tesi di Chenu da parte dei suoi confratelli domenicani era segnalata da Chenu in una lettera a Charlier del 27 marzo 1938. Chenu ringrazia il confratello per gli apprezzamenti che questi aveva formulato su Le Saulchoir, e poi nota: «J’y ai été d’autant plus sensible [= agli apprezzamenti] que certains à Rome (quelques professeurs de l’Angelico) ont fait – vous l’avez su – une vive critique de mon opuscule. Les invraisemblables contresens qui alimentèrent cette critique en réduisent la portée à un procès de tendance dont vous devinez les éléments. Ainsi on me fait dire: S. Thomas n’est pas orthodoxe, là où je dis: Le thomisme, le système thomiste, n’est pas une “orthodoxie”. Là où je critique, p. 56, les modes d’argumentation d’une certaine théologie moderne, et sa construction de preuves par l’Écriture, Tradition etc…, on me fait dire que je nie que les articles de foi se prouvent par l’Écriture et la Tradition. Sic!! Mais j’ai été peiné de voir jusqu’où pouvait aller – avec la meilleure bonne foi – l’incompréhension» (testo citato da GUELLUY, «Les antécédents de l’encyclique “Humani generis”», 465, nota 1, con l’indicazione: Papiers du P. Van Wynsberghe). 26 Cf. GUELLUY, «Les antécédents de l’encyclique “Humani generis”», 465-472. 27 C. BOYER, «Qu’est-ce que la théologie? Réflexions sur une controverse», in Gr. 21(1940), 255-266. Sull’evoluzione di atteggiamento di p. Boyer, cf. R. GUELLUY, «Les antécédents de l’encyclique “Humani generis”», 471, nota 1. 28 Cf. PETIT, «La compréhension de la théologie… Vers une nouvelle conscience historique», 229. 29 Cf. GUELLUY, «Les antécédents de l’encyclique “Humani generis”», 472-478. 30 Il decreto di messa all’Indice del S. Uffizio è del 4 febbraio 1942 (AAS 34[1942], 37; cf. J.M. DE BUJANDA, Index librorum prohibitorum 1600-1966, Médiaspaul - Libr. Droz, Montréal-Genève 2002, alle voci Charlier e Chenu); la notifica di sottomissione è del 26 marzo e sarà pubblicata sull’Osservatore del 27 marzo. Commenterà poi Chenu: «Se sopportai senza complessi, con libera obbedienza, il biasimo pronunciato allora dal S. Ufficio, è perché l’arcivescovo di Parigi, il cardinale Suhard, mio ordinario, per temperamento poco progressista ma di sottile discernimento, mi fece convocare per dirmi: “Non si inquieti, petit père (mi chiamava così), tra vent’anni parleranno tutti come lei”. Vent’anni dopo, appunto, venne il concilio» (CHENU, «Introduzione alla traduzione italiana», in Une école de théologie, ed. it. 1982, XXXIV). GO,
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lasciare i rispettivi incarichi di insegnamento. Nel caso di Draguet, la situazione è un po’ diversa: nessun suo scritto viene posto all’Indice, ma nel luglio del 1942 il rettore dell’Università cattolica di Lovanio, van Wayenbergh, gli comunica l’interdizione all’insegnamento da parte di Roma, senza che peraltro vi siano capi di accusa espliciti nei suoi confronti.31 Nel novembre dello stesso anno, Draguet verrà autorizzato a insegnare lingue orientali nella Facoltà di filosofia e lettere; a partire dal 1946 incomincia a interessare diverse personalità per essere reintegrato alla Facoltà di teologia, dalla quale si ritiene allontanato in base a sospetti e accuse immotivati. L’intervento spontaneo e determinato, a suo favore, da parte del card. G. Mercati presso Pio XII sarà decisivo e porterà alla reintegrazione di Draguet nei primi mesi del 1948, anche se solo nel 1964, alla vigilia della pensione, vi sarà la riabilitazione completa.32 Sull’Osservatore Romano del 9-10 febbraio 1942 uscì un articolo di commento alla messa all’Indice, ad opera di mons. P. Parente.33 Il breve intervento è l’espressione di un vero e proprio horror novitatum: termini come novus, novitas, innovare, in senso quasi sempre negativo, ricorrono tre o quattro volte in ogni pagina: la nova theologia (187) propugnata dai due autori tenta di mandare in rovina l’antiquæ doctrinæ patrimonium senza offrire, peraltro, nessun fondamento stabile a una dottrina nuova (cf. ivi). Lo sfondo direttamente richiamato è quello del modernismo; questo essendo già stato chiaramente condannato dall’enciclica Pascendi, i recenti promotori delle novæ viæ, secondo l’estensore, si sono preoccupati di escogitare nuove ragioni di critica, senza rendersi conto degli errori a cui tutto ciò può condurre (cf. 184s). L’evidente nesso tra i due autori, ritiene Parente, si mostra nello spregio con cui trattano la scolastica e i suoi metodi, nella svalutazione della portata permanente delle formule teologiche e, più in generale, nel modo in cui essi sviliscono il ruolo della ragione, così da indurre a rifugiarsi nel «sentimento religioso» introdotto in teologia da Möhler e fatto proprio dai modernisti (cf. 186). Parente critica ancora la dottrina Chenu-Charlier circa il progresso della rivelazione, vista come mutevole e in perpetua crescita, ciò che viene a negare la chiusura della rivelazione con la morte dell’ultimo degli apostoli34 e il compito del magistero di trasmettere e custodire fedelmente il sacro deposito; anche qui si riprende l’errore modernista, che vede il progresso non solo nella comprensione umana, ma nella stessa dottrina rivelata (cf. 187). A giudizio del consultore del S. Uffizio, i due domenicani sminuiscono poi la portata delle prove teologiche tratte da Scrittura
31 Cf. GUELLUY, «Les antécédents de l’encyclique “Humani generis”», 487s (Chenu e Charlier); 472-478 e 488-491 (Draguet). 32 Cf. GUELLUY, «Les antécédents de l’encyclique “Humani generis”», 489s, in particolare per gli interventi di Mercati. 33 L’articolo verrà poi ripubblicato, col titolo «Annotationes», in PRMCL 31(1942), 184188; le citazioni nel testo si riferiscono a quest’ultima pubblicazione. 34 Cf. la terza proposizione fatta sottoscrivere a Chenu nel 1938 (sopra, nota 23).
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e tradizione e sembrano confondere quest’ultima, come fonte della rivelazione, con il magistero della Chiesa quale unico custode e interprete della rivelazione stessa (cf. ivi). È opportuno sottolineare qualche aspetto dell’intervento di Parente, a partire dal fatto che i due autori vengono accostati e accomunati senza minimamente tentare di contestualizzare e differenziare;35 i censori del S. Uffizio non si propongono di fare opera storica, la loro analisi verte unicamente sulle idee e sui loro concatenamenti, sul «sistema» che si ritiene di riconoscere nelle opere: «Il modo in cui Parente fa qui teologia è, in definitiva, la messa in opera del rifiuto della sensibilità storica predicata dal p. Chenu».36 Di fronte agli errori criticati, la difesa resta l’assunzione del tomismo, visto come unico baluardo alle novità che cercano di farsi strada. Questa visione sarà ancora al centro delle preoccupazioni romane vent’anni più tardi, alla vigilia del Vaticano II.37
2. L A C O L L E Z I O N E «S O U R C E S C H R É T I E N N E S » Alcuni mesi dopo la messa all’Indice dei testi di Chenu e di Charlier, tra la fine del 1942 e gli inizi del 1943, nella Parigi occupata dalle truppe tedesche, esce un libretto di 176 pagine, di formato piuttosto piccolo (13 × 20 cm) e di scadente qualità tipografica38 – è tempo di guerra –, che porta il titolo di Contemplation de la vie de Moïse ou Traité de la perfection en matière de vertu: è la traduzione dal greco di un’opera di Gregorio di Nissa, che appare per le cure di «J. Daniélou, S.J., Agrégé de l’Université» e viene pubblicata congiuntamente dalle Éditions du Cerf (Parigi) e dalle Éditions de l’Abeille (Lione).39 Il volumetto è il primo di una nuova collezione alla quale, all’ultimo momento,40 è stato dato il titolo di «Sources chrétiennes». Si inaugurava così, in circostanze storiche ed ecclesiali piuttosto difficili, un’impresa insieme teologica, scientifica ed editoriale che è troppo rilevante, in sé e nell’economia della nostra riflessione, perché non le si dedichi qualche pagina; tanto più che, ormai, è possibile farsi un’idea
35 È sintomatico il fatto che, secondo Parente (185), sia Chenu che Charlier appartengono al Saulchoir, il che non è esatto, Charlier venendo piuttosto dall’ambiente di Lovanio. 36 GUELLUY, «Les antécédents de l’encyclique “Humani generis”», 481; si vedano anche le pp. seguenti per un’articolata presentazione delle diverse sfumature delle dottrine e dei punti di vista, che l’articolo di Parente riassume in modo assai semplificato. 37 Cf. sotto, c. 3, Sez. I, § 1a. 38 «… Pauvres éditions sur du papier terne, et sans le texte original…», ricorda H. DE LUBAC, «Messaggio per la mostra», in Alle sorgenti della cultura cristiana. Omaggio a Sources chrétiennes, M. D’Auria, Napoli 1987, 12. 39 Le Éditions l’Abeille erano il partner lionese delle Éditions du Cerf, poi editore unico della collezione; entrambe dipendevano dai domenicani francesi. 40 Sulla questione del titolo della collezione torneremo più avanti.
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abbastanza precisa e documentata delle sue vicende iniziali e degli intenti che i suoi ispiratori annettevano a quest’impresa.41 Nei limiti della nostra esposizione, vorremmo richiamare brevemente le peripezie della collezione, soprattutto nei suoi inizi e fino alla fine degli anni ’40; cercheremo, inoltre, di metterne a fuoco gli intenti programmatici, quali emergono soprattutto dai testi «ufficiali», ma anche dalle prese di posizione più private, che la documentazione attualmente disponibile permette di raggiungere.
A)
A L LE OR IG INI D E L V. F ONT OYNO NT
P RO GET TO :
Il decennio della «reggenza» di Chenu al Saulchoir (1932-1942)42 segna lo stesso arco di tempo che vede la maturazione delle future «Sources chrétiennes». La lunga gestazione segnala il fatto che le SCh – ritenute anzitutto, e giustamente, l’opera congiunta di H. de Lubac e J. Daniélou – hanno una preistoria che è opportuno ricordare almeno nei tratti principali, perché è una componente importante del progetto che vedrà finalmente la luce nel 1942-1943.43 Ne è primo attore il gesuita Victor Fontoynont, chiamato come prefetto degli studi allo scolasticato dei gesuiti di Fourvière, a Lione, dove resterà appunto dal 1932 al 1942. Fontoynont arrivava a Fourvière dopo dodici anni trascorsi come insegnante di filosofia al collegio di Mongré (Villefranche-sur-Saône, 35 km a nord di Lione), importante centro educativo delle «buone famiglie» lionesi; ellenista di grande valore, vi aveva pubblicato un Vocabulaire grec, la cui prima edizione risale al 1930,44 e che costituiva «una vera iniziazione alla Grecia antica».45 A Mongré, 41
Lo studio più completo sulla vicenda delle Sources chrétiennes è quello di E. FOUILLa collection «Sources chrétiennes»: éditer les Pères de l’église au XXe siècle, Cerf, Paris 1995, al quale soprattutto faremo riferimento in questa sezione; cf. anche, sempre di FOUILLOUX, «Autour de l’histoire des “Sources chrétiennes”», in Fe i teologia en la história. Estudis en honor del Prof. Dr. Evangelista Vilanova, a cura de J. BUSQUETS i M. MARTINELL, Publicacions de l’Abadia de Montserrat, Barcelona 1997, 519-535, e Une Église en quête de liberté, 182-187. Teniamo presenti anche i saggi raccolti in Alle sorgenti della cultura cristiana, in particolare C. MONDÉSERT, «Sources Chrétiennes: une aventure de quarante-cinq années», e i riferimenti alle SCh in H. DE LUBAC, Mémoire sur l’occasion de mes écrits, Culture et Vérité, Namur 1989 (tr. it.: Memoria intorno alle mie opere, Jaca Book, Milano 1992). Non si trovano invece ricordi particolari, a proposito di SCh, nelle memorie dell’altro fondatore, J. DANIÉLOU, Et qui est mon prochain? Mémoires, Stock, Paris 1974, per il quale più rilevante, a titolo di documentazione, è la corrispondenza, soprattutto con de Lubac, pubblicata nel Bulletin des amis du cardinal Daniélou (Neuilly sur Seine, 1975ss) e utilizzata ampiamente da Fouilloux. 42 Cf. FOUILLOUX, La collection «Sources chrétiennes», 57, nota 1. 43 La «genesi» delle SCh è presentata nel c. II dello studio di FOUILLOUX, La collection «Sources chrétiennes», 43-77; ne riassumiamo qui gli aspetti principali. 44 Il catalogo della Bibliothèque Nationale de France ne segnala nove edizioni: la più recente, del 1974, è stata ristampata anche in seguito; una ristampa del 1995 è tuttora in commercio. 45 FOUILLOUX, La collection «Sources chrétiennes», 55. LOUX,
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Fontoynont conosce e collabora da vicino, tra gli altri, con il professore di lettere Mondésert, che porta nel collegio il figlio Claude: entrato nella Compagnia di Gesù al termine delle scuole superiori (1923), questi compirà studi di letteratura greca, con un dottorato su Clemente di Alessandria,46 e sarà uno dei più determinati sostenitori del progetto patristico di Fontoynont, prima di diventare il segretario e poi il direttore delle SCh, impresa alla quale dedicherà più di quarant’anni di vita. Arrivando a Fourvière, Fontoynont trovava una situazione difficile: nel 1930 il preposito generale della Compagnia di Gesù, p. Ledóchowski, era intervenuto con mano pesante per sedare i fermenti che un gruppo di «scolastici» (tra i quali Fessard, de Lubac, d’Ouince, de Montcheuil…) vi aveva portato già negli anni precedenti; nel 1932, la nomina a prefetto degli studi di Fontoynont – scelto verosimilmente perché abbastanza vicino alla sensibilità degli studenti più «innovatori» –, non basterà a placare gli spiriti.47 In questo contesto, Fontoynont incomincia a elaborare il progetto di una collezione di testi patristici, che intende rispondere soprattutto a due esigenze. La prima, e più immediata, è «interna»: indirizzando gli studenti verso lavori di carattere positivo e più tradizionale, Fontoynont spera di contribuire a risanare il clima rimasto teso dopo le vicende del ’30; al tempo stesso, l’impresa vorrebbe rispondere a un’obiettiva lacuna nell’ambito della cultura francese.48 Non è ben chiaro se Fontoynont contasse, per il suo progetto, solo sulle forze «interne» dello scolasticato; un certo numero di padri ruota intorno a lui, ma solo alcuni di loro – Daniélou, Mondésert, Doutreleau – si dedicheranno alla patristica; c’è anche H.U. von Balthasar, che manterrà l’orientamento verso gli studi patristici, ma scegliendo una strada più personale. Diversa, per età e per situazione personale, la posizione di H. de Lubac, che non insegna a Fourvière, ma vi risiede dal 1935; la pubblicazione di Catholicisme nel 1938 contribuisce senza dubbio a farne un consigliere cercato e ascoltato, data la notevole vicinanza del suo studio al progetto patristico che si va elaborando.49 Negli anni 1937-1938 il progetto Fontoynont riceve una definizione più formale, anche perché va sottoposto alle autorità della Compagnia di
46 Bibliografia di C. Mondésert in Alexandrina. Hellénisme, judaïsme et christianisme à Alexandrie. Mélanges offerts au P. Claude Mondésert, Cerf, Paris 1987, XV-XVIII; il suo ricordo di Fontoynont in MONDÉSERT, «Sources Chrétiennes», 30s. 47 Cf. FOUILLOUX, La collection «Sources chrétiennes», 58-60, e in particolare la lettera di Ledóchowski citata a p. 60; cf. anche, dello stesso autore, Une Église en quête de liberté, 180s e «Une “école de Fourvière”?», in Gr. 83(2002), 454-456. 48 Cf. FOUILLOUX, La collection «Sources chrétiennes», 60-62; i testi di Fontoynont qui citati sono del 1937-1938, ma alcuni accenni indicano che le prime idee risalgono agli inizi del mandato di Fontoynont a Fourvière. Torneremo più avanti sulle «dichiarazioni di intenti» che Fontoynont elabora nel 1937 per presentare il progetto ai superiori. 49 Cf. FOUILLOUX, La collection «Sources chrétiennes», 63s; per Catholicisme, cf. sopra, c. 1 § 2b. Il gruppo costituito intorno a Fontoynont comprende P. Chaillet, che si orienterà presto su altri interessi, e S. Lyonnet, che si dedicherà agli studi biblici.
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Gesù e deve trovare un appoggio editoriale: e fallirà su entrambi i fronti. Le edizioni Desclée de Brouwer, coinvolte e in un primo tempo interessate grazie a contatti stabiliti da Daniélou, finiranno per tirarsi indietro nella primavera del 1938; i tentativi – caldeggiati soprattutto da Mondésert – di cercare editori più «laici» non avranno esito migliore.50 La Compagnia, dopo vari tentennamenti, finirà col bocciare il progetto, ritenuto impari rispetto alle forze, umane ed economiche, che si possono mettere in campo: una lettera di Ledóchowski,51 nell’ottobre del 1938, per quanto non del tutto negativa, suona come ricusazione definitiva di un tentativo di cui, poi, lo scoppio della guerra e la parziale dispersione del gruppo di Fourvière decretano la fine prematura.
B)
LA
R IPR E SA DE L P R O GE TTO : DE L UB A C – D AN IÉL OU
Le prime tracce di una ripresa del progetto lasciato cadere tra la fine del 1938 e l’inizio del conflitto mondiale si incontrano nei primi mesi del 1941, soprattutto nella corrispondenza tra J. Daniélou (a Mongré, e poi a Parigi) e H. de Lubac (a Lione).52 Un documento dell’11 luglio definisce le linee generali del progetto, secondo una formulazione concordata, a quanto sembra, tra de Lubac e i suoi superiori di Fourvière: in esplicita continuità con il progetto Fontoynont,53 la collezione – «Sources» è il titolo assegnatole in questa fase – è destinata a pubblicare traduzioni integrali di opere dei Padri greci e orientali; non si tratterà di editare testi critici, ma semplici traduzioni con introduzioni e note. L’editore avrà tutta la responsabilità della gestione materiale della cosa, la Compagnia di Gesù limitandosi a garantire la responsabilità dottrinale, attraverso la mediazione dei direttori della collana. La direzione «è assicurata insieme da un rappresentante del corpo docente di Fourvière e dal p. Jean Daniélou»;54 il riferimento istituzionale rimane lo scolasticato di Fourvière. Non è dato di conoscere le circostanze nelle quali de Lubac fu incaricato formalmente di assumere la direzione in rappresentanza di Fourvière; la documentazione sulle origini della collezione resta piuttosto scarsa, probabilmente per le circostanze difficili (la guerra, la divisione della Francia tra zona occupata e non occupata…) nelle quali il progetto poté 50 Dettagli in FOUILLOUX, La collection «Sources chrétiennes», 70-72. Le difficoltà a trovare un editore sono rievocate anche da MONDÉSERT, «Sources Chrétiennes», 22s. 51 Testo della lettera in FOUILLOUX, La collection «Sources chrétiennes», 75s. 52 Per gli esordi della collezione negli anni 1941-1943, cf. FOUILLOUX, La collection «Sources chrétiennes», 11-42; vi si troveranno anche le indicazioni relative alle fonti. 53 Fontoynont, che resta a Fourvière fino al 1942, verrà consultato per la ripresa del progetto, vi svolgerà un ruolo di «consigliere» e in certi casi di «mediatore» di corrispondenza, messaggi ecc., ma senza più una posizione di primo piano (cf. FOUILLOUX, La collection «Sources chrétiennes», 12s, 81, 92s, ecc.; MONDÉSERT, «Sources Chrétiennes», 34). 54 Così l’art. 3 del documento, per il quale cf. FOUILLOUX, La collection «Sources chrétiennes», 17-19.
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ripartire.55 Punto determinante è il venir meno dell’opposizione dei superiori della Compagnia di Gesù, oltre al fatto che si parla già di «collezione» e di un’impresa che sarà aperta anche a studiosi non appartenenti alla Compagnia stessa.56 Mentre definiscono le grandi linee del progetto, de Lubac e Daniélou incominciano a predisporre liste di opere da tradurre e di persone a cui chiedere collaborazioni per traduzioni e commenti. Per ciò che riguarda le persone, anche se si fa affidamento per lo meno su alcuni dei gesuiti già raccolti intorno a Fontoynont, subito la rete si allarga al di fuori della Compagnia, sia in altri ordini religiosi (fra i primi, l’assunzionista Salaville, i domenicani Pruche e Camelot), sia presso studiosi laici, grazie soprattutto alle relazioni di Daniélou con gli ambienti universitari parigini.57 La disponibilità delle persone determina, almeno in parte, la scelta degli autori da proporre, che però è condizionata anche dalle inclinazioni dei direttori, in particolare di Daniélou: è lui, infatti, a dare la preferenza agli autori greci, e a testi spirituali. Gli alessandrini (Clemente, Origene) e quanti ne dipendono (Gregorio di Nissa) sono tra i primi della lista; ma Daniélou punta anche allo Ps. Dionigi, a Massimo il Confessore. Da parte sua, de Lubac percepisce il problema potenziale di una scelta di questo genere, nel contesto ecclesiastico dell’epoca,58 e avverte il confratello più giovane: «Non sarebbe neppure male, forse, annunciare senza troppe attese pubblicazioni su opere che non sono “spirituali” in un senso troppo ristretto, per favorire il progresso futuro della collezione».59 La prospettiva di pubblicare testi di Ireneo, Eusebio di Cesarea, Giovanni Crisostomo verrà così a equilibrare l’orientamento fortemente «mistico» della «linea Daniélou».60 Se il dinamismo e la competenza dei due direttori sono decisivi per la rinascita del progetto – che, tra l’altro, deve fare i conti anche con iniziative «concorrenti»61 – non c’è dubbio che le SCh sono diventate la grande collezione che ora conosciamo anche grazie alla struttura editoriale che le ha fatte sue: le Éditions du Cerf dei domenicani francesi. I direttori della nascente collana vi arrivano pressoché all’ultimo minuto: i primi 55
Cf. FOUILLOUX, La collection «Sources chrétiennes», 19s. Questi due punti avevano creato difficoltà nel progetto Fontoynont: le autorità della Compagnia preferivano parlare di «serie» (lasciando a una valutazione successiva l’eventuale passaggio alla «collezione»), e chiedevano che fosse un’impresa tutta «interna» alla Compagnia stessa (cf. FOUILLOUX, La collection «Sources chrétiennes», 73s). 57 Cf. FOUILLOUX, La collection «Sources chrétiennes», 21s. 58 Come abbiamo già visto, negli ambienti romani, in questi stessi anni, Chenu e Charlier sono presi di mira per il loro rifiuto della razionalità a favore di un vago «senso religioso» e di un’indebita sottolineatura dell’esperienza spirituale «à la Möhler». 59 Lettera di de Lubac a Daniélou, fine aprile 1941 (cit. in FOUILLOUX, La collection «Sources chrétiennes», 23). 60 Così FOUILLOUX, La collection «Sources chrétiennes», 23. Sebbene si parli soprattutto di Padri greci, la prospettiva dei latini non è lontana, perché già in questi anni si cerca la collaborazione di J.-R. Palanque, esperto di s. Ambrogio (cf. ivi, 21s). 61 Cf. FOUILLOUX, La collection «Sources chrétiennes», 24s. 56
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manoscritti (la Supplica di Atenagora e la Vita di Mosè del Nisseno, curate rispettivamente da Bardy e Daniélou) sono pronti per l’autunno del 1941 e le Éditions du Livre français, fondate a Lione da Stanislas Fumet – già interessato al progetto Fontoynont quando era alla Desclée – dovrebbero passare alla pubblicazione. L’impresa si rivela però superiore alle forze, anche per la difficoltà di trovare la carta per la stampa; così, a fine dicembre, Fumet si ritira e suggerisce il passaggio a Cerf, che, tra l’altro, ha appena aperto una succursale – le Éditions de l’Abeille – a Lione.62 Le trattative con Cerf vanno a buon fine nei primi mesi del 1942 e la casa editrice dei domenicani, che già allora è uno dei maggiori centri editoriali cattolici in Francia, diventa l’editore della nuova collezione, assicurandole un sostegno editoriale di qualità: ciò che, peraltro, non riesce a risolvere subito tutte le difficoltà del tempo di guerra (penuria di carta, problemi con la censura…), di modo che solo agli inizi del 1943, e non senza complesse peripezie,63 il primo sospirato volume arriva nelle librerie – con un rovesciamento dell’ordine programmato, perché Atenagora dovrà cedere il passo a Gregorio di Nissa, che è riuscito a superare per primo il vaglio della censura militare.64 A conclusione di questa sintesi dei primi passi della collezione, si deve poi richiamare la vicenda relativa al suo titolo: che, ironia della sorte, viene deciso in fretta e furia, mentre si sta per andare in stampa.65 Alla ripresa del progetto Fontoynont, nel 1941, la collezione avrebbe dovuto chiamarsi semplicemente «Sources»; se non che, mentre si sta per procedere alla pubblicazione del primo volume, si viene a sapere – tramite dom Jean Leclercq, che lavora all’epoca alla sezione manoscritti della Bibliothèque Nationale – che quest’ultima sta per lanciare una rivista che porterà lo stesso titolo. In una lettera a de Lubac, il 2 novembre 1942, Daniélou lo informa della faccenda e della scelta che nell’urgenza ha fatto, d’accordo con p. Chifflot di Cerf, di prendere come titolo «Sources chrétiennes», in modo da evitare confusioni. Nulla è dato di sapere della reazione di de Lubac, messo davanti al fatto compiuto: resta il fatto che questo nuovo titolo, che corrisponde meglio all’intento, oggi è conosciuto dappertutto, dopo essersi guadagnato sul campo la stima degli ambienti specialistici e di un pubblico cristiano relativamente ampio. Salutare lezione di metodo a chi vorrebbe continuare a pensare, contro l’evidenza, che l’evento, per non dire, in questo caso, l’accidente, non ha molto rilievo nella storia: le «Sources chrétiennes» hanno costruito la loro reputazione su un titolo fortuito dell’ultimo minuto.66
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Cf. FOUILLOUX, La collection «Sources chrétiennes», 26s. Su tutto questo cf. FOUILLOUX, La collection «Sources chrétiennes», 28-30. 64 L’Atenagora curato da Bardy sarà «sorpassato» anche dal Protrettico di Clemente Alessandrino, preparato da C. Mondésert (SCh 2, stampato alla fine del 1942), e uscirà come terzo volume della collezione, nel 1943. 65 Cf. FOUILLOUX, La collection «Sources chrétiennes», 31s. 66 FOUILLOUX, La collection «Sources chrétiennes», 32. 63
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C)
LE
DIC HI AR A Z I O N I D I I NTE NTI
Il nesso tra il progetto di Fontoynont e le SCh di de Lubac-Daniélou si coglie anche sul piano degli intenti dichiarati, che vogliono presentare l’impresa tanto all’interno (i superiori della Compagnia di Gesù) quanto all’esterno (il pubblico dei lettori). Nel 1937, con l’aiuto di Chaillet e di de Lubac, Fontoynont aveva elaborato alcune pagine di descrizione del progetto,67 che prevedeva all’epoca la pubblicazione di opere di Padri greci, con traduzione ed eventualmente testo originale, e commento; il testo fa riferimento alla nota collezione «G. Budé», che dal 1920 pubblica testi e traduzioni di autori classici, greci e latini, e prospetta il progetto di Fourvière come una sorta di suo complemento per gli autori cristiani, colmando così una lacuna che viene avvertita in modo particolarmente acuto per la Francia. Si fa valere, così, anche una più ampia connotazione culturale dell’impresa, le cui finalità sono però ricondotte soprattutto all’ambito ecclesiale. La pubblicazione delle opere dei Padri greci vuole offrire l’esempio notevole di cristiani che si sono adoperati per conquistare alla fede un mondo pagano: un’operazione, questa, che potrebbe ripetersi anche nel mondo di oggi. I Padri greci, insomma, sono presentati come fattori di un possibile rinnovamento del pensiero cristiano di fronte al mondo nuovo. Si evidenzia anche la rilevanza ecumenica del progetto: far conoscere in occidente i Padri greci significa giocare una carta importante per l’unione delle Chiese, dato il rilievo che essi hanno nel cristianesimo orientale. Inoltre, lo studio della patristica è considerato come un fattore positivo in vista della riorganizzazione dell’insegnamento ecclesiastico, soprattutto della teologia (e se ne sente il bisogno), e come aiuto al rinnovamento della vita spirituale: i Padri, infatti, hanno un senso della pietà profondamente nutrito del dogma e sanno unire in modo profondo e vivo teologia, esegesi e spiritualità. Per queste ragioni, la futura collezione potrà rivolgersi principalmente a tre ambiti di destinatari: i teologi, che potranno così accedere ai testi integrali; gli ambienti universitari, con l’integrazione dei classici con i «grandi classici cristiani»; e poi un pubblico intelligente e acculturato, che cerca nutrimento spirituale, ma che è stanco della letteratura devota. A questo insieme di ragioni si collegano anche i testi che, nel periodo 1941-1943, presentano le «Sources chrétiennes» al pubblico.68 Sono tre documenti di ampiezza e finalità diverse. Il primo è una sorta di pieghevole, che riporta ancora il titolo previsto in origine: «Sources. Textes théologiques et spirituels de l’Antiquité Grecque Chrétienne»,69 e che specifica in primo luogo le categorie di lettori ai quali ci si vuole rivolgere: in 67
Cf. per quanto segue FOUILLOUX, La collection «Sources chrétiennes», 66-68. Riprendiamo ancora FOUILLOUX, La collection «Sources chrétiennes», 33-37. 69 Elaborato nel 1941, quando ancora è prevista l’edizione delle Éditions du Livre français, verrà ripreso integralmente da Cerf nel 1942, con l’aggiunta dei primi titoli programmati. 68
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prima istanza i cristiani, laici o chierici, desiderosi di conoscere una spiritualità radicata in una solida teologia e integrata in una visione «cattolica» del mondo – è il modello offerto da Catholicisme, e condiviso anche da altri studiosi del cristianesimo antico, come A.-J. Festugière70 o J. Lebreton. In questo contesto cristiano, la collezione si propone poi un’ambizione ecumenica: il richiamo all’epoca dell’unità cristiana ancora sussistente vorrebbe andare incontro a quanti sentono con sofferenza l’attuale stato di divisione del mondo cristiano. Due altre cerchie di destinatari escono dal mondo propriamente ecclesiale: si guarda anzitutto al contesto accademico, a quell’ambiente universitario nel quale l’opera di studiosi cristiani della levatura di un A. Puech o di un H.-I. Marrou71 riusciva, nonostante le molte resistenze, ad accendere l’interesse religioso e culturale per la letteratura cristiana antica; e poi anche all’ambiente di poeti e artisti, interessati – si ritiene – a confrontare una visione simbolica del mondo con l’interpretazione del mondo e della Scrittura «dei Padri dell’Arte e della Fede».72 La nuova collezione vuole far conoscere soprattutto i Padri greci, meno noti dei latini e, in particolare, di Agostino; privilegia gli autori del III-IV secolo, ma senza preclusioni (già si annuncia l’opera di Nicola Cabasilas, del XIV secolo) e senza timori di diffondere il pensiero di autori apparsi sospetti in passato (Origene!), dato che l’orientamento vuol essere prevalentemente positivo e spirituale, non apologetico; verrà sottolineato il filone delle opere spirituali, ma, anche qui, senza preclusioni verso testi dogmatici, anche perché, si sottolinea, una delle peculiarità del pensiero patristico sta proprio nell’aver unito il dogmatico, lo spirituale, il liturgico.73 Il secondo documento è la premessa al primo volume della collezione. Fouilloux osserva, al riguardo, che gli accenti sono un po’ diversi: il tono è meno ottimista, più sulla difensiva; si nota che i Padri sono ritenuti poco leggibili, ciò che porta a leggere solo i testi meno stranianti, ma anche meno significativi. È un approccio che la collezione vuole rovesciare, sottolineando la lontananza culturale che ci separa dai Padri, ma con l’intento voluto di mettere a contatto con un universo culturale sconosciuto:
70
Si veda ad es. A.-J. FESTUGIÈRE, L’idéal religieux des grecs et l’Evangile, Paris 1932. Marrou, che prepara per le SCh l’Ad Diognetum (uscirà nel 1951 come vol. 33), scrive nel 1943 un importante articolo sulla collezione, per il quale cf. più avanti, d. 72 FOUILLOUX, La collection «Sources chrétiennes», 34. 73 Una «Note à propos de la collection patristique “Sources”», redatta a suo tempo da de Lubac e riprodotta in Alexandrina, 12s, specifica: «… aucun auteur de la patristique n’en est exclu. C’est dire qu’aucune préférence tendancieuse ne préside à cette entreprise». Per quanto concerne i «generi letterari», subito dopo si rileva: «Parmi ces ouvrages des Pères, il y en aura de dogmatique, d’exégèse, d’apologétique, de liturgie, d’histoire ou de controverse…, aussi bien que d’ascèse proprement dite ou de mystique» (ivi). Si avverte ancora una volta (anche perché de Lubac vi si sofferma esplicitamente, per una buona metà di questa «Note») il sospetto con cui viene guardato ogni riferimento alla «dottrina spirituale» che non sia subordinato, o almeno coordinato, con la dogmatica (cf. FOUILLOUX, La collection «Sources chrétiennes», 36). 71
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«Non ci siamo rivolti anzitutto a ciò che è più facile, ma a quanto è più caratteristico», fornendo gli elementi necessari per una migliore intelligenza dei testi proposti.74 La premessa sottolinea poi che solo le difficili contingenze presenti hanno costretto a rinunciare alla stampa del testo originale, limite cui si spera di rimediare in seguito. Viene quindi affermata l’originalità propedeutica delle Introduzioni, non puramente scientifiche, ma di carattere culturale in senso ampio, che si propongono di collocare il testo nel suo mondo intellettuale e spirituale.75 Il terzo documento è l’Introduction di Daniélou all’opera di Gregorio di Nissa. A giudizio di Fouilloux, questo testo, che non esce dal suo proposito d’introdurre alla lettura del testo di Gregorio, permetterebbe di cogliere intenti «programmatici» soltanto in una sorta di «seconda lettura», da farsi necessariamente con cautela.76 Qualche lettore dell’epoca, senza dubbio condizionato da altri elementi, la pensava diversamente: si tratta del domenicano M.-M. Labourdette, protagonista dello scontro che coinvolse anche le SCh, e di cui diremo più avanti (cf. § 3). Quest’introduzione, scriveva nel 1947, mi sembrò fatta così evidentemente per piacere, così preoccupata di collegarsi alle «categorie contemporanee» e, con questo e in primo luogo, di orientare lo spirito del lettore verso qualcosa d’altro, rispetto al contatto sostanzioso con un testo ammirabile, che mi sono rammaricato di questa inflessione troppo «apologetica»: mi sembrò un pericolo per la collezione.77
Una cosa è certa: quando, nel 1955, la Vita di Mosè verrà ripubblicata in seconda edizione, con il testo greco, l’introduzione vi apparirà significativamente rielaborata, molto più nello stile di un’introduzione accademica e certamente «ripulita» di tutte, o quasi, le «attualizzazioni» presenti nella prima edizione e che avevano così infastidito Labourdette. Vale la pena di seguire più da vicino un confronto tra i due testi, che arriva a confermare i rilievi proposti da Fouilloux nella sua sintesi.78 La prima sezione dell’Introduzione79 è dedicata alla cultura profana di Gregorio; vi si incontra un passaggio (12s) dedicato all’allegorismo, dove
74 Il testo si legge nelle pp. 7-8 di SCh 1 (qui p. 8); cf. FOUILLOUX, La collection «Sources chrétiennes», 37s. 75 Cf. FOUILLOUX, La collection «Sources chrétiennes», 38. 76 Cf. FOUILLOUX, La collection «Sources chrétiennes», 38. 77 Dialogue théologique. Pièces du débat entre “La Revue Thomiste” d’une part et les R.R. P.P. de Lubac, Daniélou, Bouillard, Fessard, von Balthasar, S.J., d’autre part, Les Arcades, Saint-Maximin 1947, 120. 78 Cf. FOUILLOUX, La collection «Sources chrétiennes», 38-42. Indichiamo con le sigle SCh 1 e SCh 1bis le edizioni del 1942 e del 1955 (la terza ed., del 1968 [= SCh 1ter], riprende l’introduzione del 1955 con alcune integrazioni sul metodo esegetico di Gregorio: cf. SCh 1ter, 8). Le indicazioni di pagina nel testo si riferiscono a SCh 1. 79 Nelle edizioni successive questa sezione diventerà il quarto paragrafo; come primo paragrafo Daniélou introdurrà invece alcune pagine su «Le milieu historique», assenti in SCh 1.
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Daniélou sottolinea il «tesoro di simboli» individuato dal Nisseno nel racconto storico e mette in evidenza il largo orizzonte culturale entro il quale va colto questo procedimento, basato su un’idea di partecipazione che avrà molti riflessi così in campo filosofico (ma anche nelle pratiche magiche e teurgiche) come in letteratura – e il simbolismo di Baudelaire viene qui accostato alla filosofia di Swedenborg, così come, poco oltre, si troveranno accostati il simbolismo di Mallarmé e quello di Paul Claudel. Pensata o no come «strizzata d’occhio» all’attualità, questa pagina scompare nelle versioni successive dell’introduzione: né troverà più spazio la conclusione di questo primo paragrafo, dove Daniélou collegava l’apofatismo di Gregorio alla teologia negativa di Dionigi, Giovanni della Croce e Karl Barth (cf. 17s). Di maggior rilievo, tuttavia, sono i cambiamenti della seconda sezione, dedicata a «L’interpretazione spirituale dell’Esodo» – titolo che diventerà, nella versione del 1955, «L’esegesi dell’Esodo». Una ragione editoriale motiva, almeno in parte, i cambiamenti di titolo e di struttura: la Vita di Mosè, infatti, comprende due libri, il primo dei quali, molto più breve del secondo (meno di un quinto dell’intera opera), è un’esposizione «letterale» della vita di Mosè sulla base dei testi biblici. Ora, SCh 1 riportava la sola traduzione del secondo libro, dedicato all’interpretazione spirituale (theoria); a partire dall’edizione del 1955 (= SCh 1bis), la collezione pubblicherà la traduzione completa, corredata del testo greco. Nell’Introduzione del 1942, dunque, Daniélou poteva fermare l’attenzione soltanto sull’interpretazione spirituale e dedicarle una decina di pagine (cf. 18-27), delle quali quasi metà saranno tralasciate nella seconda edizione, anche per fare spazio a una presentazione del metodo di interpretazione «letterale» (historia). Il confronto tra i due testi conferma senza ombra di dubbio il rilievo di Fouilloux, secondo il quale, sottolineando il tema dell’interpretazione spirituale della Scrittura, Daniélou fa un’operazione che va oltre la ricostruzione storica del pensiero di Gregorio e si inserisce in una polemica aperta al suo tempo.80 Dopo aver ampiamente documentato il metodo esegetico di Gregorio, Daniélou (che, tra l’altro, si richiama qui esplicitamente a un passo di Catholicisme), conclude che l’interpretazione che vede nell’Esodo i «tipi» degli eventi cristologici si oppone al letteralismo ebraico e fonda il diritto di vedere nell’Antico Testamento, e nell’Esodo in particolare, delle figure, dei tipi di Cristo. E ciò non è solo un diritto, ma la sola interpretazione corretta, che rende completamente ragione della realtà di un testo. Gregorio di Nissa aveva ragione, dunque, a dire che l’esegesi puramente letterale lo travisava (23).81
Non sembra sbagliato attribuire questa accentuazione, almeno in parte, al divampare di discussioni sull’interpretazione della Scrittura,
80 81
Cf. FOUILLOUX, La collection «Sources chrétiennes», 40. Corsivo nostro; il passo (inclusa la referenza a de Lubac) è omesso in SCh 1bis.
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nelle quali Daniélou si inserisce attivamente: è lui stesso a rievocare la polemica nata con la pubblicazione, su La vie intellectuelle del maggio 1949, di un articolo di J. Steinman che – secondo quanto ne riferisce il gesuita – «attaccava violentemente l’esegesi dei Padri della Chiesa, opponendola a giusto titolo a un’esegesi di tipo scientifico».82 L’articolo suscitò le ire di P. Claudel, che inviò una risposta al direttore de La vie intellectuelle, p. Maydieu, il quale rifiutò di pubblicarla; L. Massignon, che l’aveva saputo, ne parlò a Daniélou e i tre fecero uscire insieme, su Dieu Vivant della fine del 1949, una grande pubblicazione d’insieme «Sull’esegesi biblica», che costituiva una difesa e una spiegazione dell’esegesi dei Padri della Chiesa. […] Per Claudel, Massignon e me […] la vera esegesi permette di penetrare nel significato profondo della Scrittura; e come giungervi, se non si spiega la Scrittura con la Scrittura, se non si ammette che sono i testi stessi a chiarirsi gli uni gli altri, e se non si cercano le corrispondenze esistenti tra i diversi aspetti della Scrittura? È quanto facevano i Padri della Chiesa, ed è ciò che ancora oggi resta essenziale.83
L’episodio è di qualche anno successivo all’inizio delle SCh, ma è utile ricordarlo qui, a illustrazione di un clima che non sembra estraneo a quanto Daniélou scrive introducendo il primo volume della collezione.84 Nella parte dell’Introduzione dedicata alla «teoria della perfezione» del Nisseno (cf. 27-34), Daniélou si sofferma sulla novità del tema della «perfezione» in rapporto alla tradizione filosofica precedente: in questo contesto, può sottolineare la questione della libertà e del progresso (epéktasis) spirituale, mettendo in evidenza la sua corrispondenza con alcune visioni attuali («Questa visione dell’uomo lanciato verso l’ignoto, che si oltrepassa continuamente, così vicina a certe concezioni moderne, è una creazione originale»: 28),85 quasi a evidenziare su un piano non solo religioso, ma più ampiamente culturale, la rilevanza della lettura di questo e di altri testi che la collezione proporrà. Completamente tralasciate, nelle nuove edizioni del testo, sono le pagine dell’Introduzione del 1942 dedicate alla dottrina spirituale di Gregorio (cf. 34-44). Anche in questo caso, la ragione è, almeno in parte, editoriale: per tutto questo aspetto, infatti, Daniélou rinvia i lettori alla seconda edizione, da poco pubblicata (1954), del suo studio Platonisme et théologie mystique.86 I lettori più avvertiti degli anni ’40 avrebbero 82 DANIÉLOU, Et qui est mon prochain? Mémoires, 134, anche per quanto segue; cf. FOUILLOUX, Une Église en quête de liberté, 224. 83 DANIÉLOU, Et qui est mon prochain? Mémoires, 134s. 84 Si veda anche l’estratto della lettera di Daniélou a de Lubac (4 genn. 1944) citato in FOUILLOUX, La collection «Sources chrétiennes», 101. 85 Il passo rimane anche nelle versioni successive dell’Introduzione. Si potrebbe peraltro eccepire sull’originalità gregoriana del tema: in Origene, il Nisseno poteva trovare ben più che solo alcuni «elementi» (cf. SCh 1, 28) di questa visione: cf. M. Simonetti in GREGORIO DI NISSA, La vita di Mosè, a cura di M. SIMONETTI, Fondazione L. Valla – Mondadori, Milano 1984 (Scrittori greci e latini), XXXIIs. 86 Cf. SCh 1bis, pp. II e XXIV, n. 5. Cf. «Bibliografia storica», *1944.
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potuto sottolineare senza difficoltà, anche in queste pagine destinate poi a cadere, i riferimenti a dibattiti contemporanei: così, ad es., quando il gesuita sottolinea il nesso tra teologia apofatica ed esperienza mistica (cf. 40s), osservando che «Gregorio ha sperimentato che l’unione con Dio non si compiva mediante l’intelligenza, ma al di là di ogni intelligenza, in un contatto reale da persona a persona, che in qualche luogo chiama “sentimento di presenza”» (41). Per chi avvertiva la diffusione di tendenze anti-intellettualistiche, critiche verso il razionalismo della neoscolastica (era un problema sollevato anche da Chenu), affermazioni di questo tipo non potevano non destare perplessità e sollevare interrogativi sugli scopi della collezione.87
D)
P R I MI
SUCCE S S I , RE AZION I , P ROBLE MI
In ogni caso, all’indomani della sospirata pubblicazione dei primi volumi, la nuova collezione conosce un notevole successo:88 diversi intellettuali cattolici – da Claudel a Marrou, da Bréhier a Gilson – scrivono la loro soddisfazione e il compiacimento per questa iniziativa; i benedettini di Chevetogne89 sono tra i primi a recensire favorevolmente l’iniziativa, per poi collaborarvi nella persona del loro priore, dom O. Rousseau;90 grazie alle relazioni di Daniélou, appaiono presto altre recensioni, provenienti sia dall’ambiente accademico che da quello della ricerca cattolica. Tra le varie reazioni, la più significativa e sviluppata è quella di H.I. Marrou sulla Vie spirituelle dell’aprile 1943.91 Marrou, che ha già davanti a sé il Gregorio di Nissa di Daniélou e il Clemente Alessandrino di Mondésert, rileva il rigore scientifico dei due lavori (cf. 346), che fa onore non solo ai curatori, ma anche al pubblico dei lettori, al quale non è corretto rivolgersi solo in termini di «volgarizzazione» da parte di una scienza che si vorrebbe elitaria. Per Marrou, il tesoro dei Padri greci è stato troppo trascurato, anzitutto da parte della filologia moderna; sotto questo profilo, lo studioso lamenta la mancanza del testo originale92 e auspica 87
Cf. FOUILLOUX, La collection «Sources chrétiennes», 41s. Cf. per quanto segue FOUILLOUX, La collection «Sources chrétiennes», 80-89. 89 A Chevetogne era stato elaborato un progetto di pubblicazione di commenti patristici alle Scritture che poi, anche in conseguenza dell’uscita delle SCh, verrà lasciato cadere: cf. FOUILLOUX, La collection «Sources chrétiennes», 25 e 81s. 90 Pubblicherà le Omelie di Origene sul Cantico nel 1953 (SCh 37). 91 H.I. MARROU, «Pour un retour à l’étude des Pères, Sources chrétiennes», in VS 275(1943), 383-392; citiamo nel testo le pagine della ristampa fatta in VS 765(2006), 345356, in occasione della pubblicazione del vol. 500 delle SCh; cf. anche FOUILLOUX, La collection «Sources chrétiennes», 85-88. 92 Il problema, nota Marrou, era particolarmente acuto per Gregorio di Nissa, dato che il solo testo greco all’epoca disponibile, quello riprodotto in PG 44, era di scarsa qualità e in vari punti del tutto inutilizzabile. La richiesta del testo originale venne anche, tra gli altri, da M.M. Labourdette, sulla Revue Thomiste del 1946 (riprodotto in Dialogue théologique, 21-64; cf. qui 23; per questo intervento, vedi sotto, § 3c). 88
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che questa lacuna sia presto colmata, sottolineando soprattutto l’interesse del vocabolario patristico (cf. 347s). Ma l’attenzione di Marrou si concentra poi sul valore propriamente spirituale della nuova collezione, differente, in questo, dall’interesse prevalentemente storico della collezione Hemmer-Lejay (cf. 348);93 il punto qualificante delle SCh, secondo Marrou, è invece la ricchezza spirituale dei Padri, inaccessibile ai più ma ben nota a chi se ne è occupato, e il rinnovamento della vita spirituale che ne può conseguire. Il ritorno ai Padri potrà favorire una vita spirituale radicata nella Tradizione, secondo una linea che si è ormai imposta alla cristianità post-illuminista, a partire dalla rivisitazione delle grandi costruzioni intellettuali del medioevo, ma che necessariamente doveva andare oltre, e arrivare fino ai Padri (cf. 349). Questi, peraltro, nutrono lo spirito degli autori successivi perché, nota Marrou, nell’ambito delle scienze dello spirito94 non si danno «stadi successivi», che renderebbero obsoleto quanto è venuto prima. In questa linea si può elaborare l’immagine della «fonte»: la potenza e la maestà attinte dal fiume non possono mai abolire la grazia e la freschezza che è la peculiarità dell’umile fonte. I Padri, dal momento che si collocano all’origine della nostra tradizione cristiana, conservano ai nostri occhi un titolo di merito di cui non possono essere privati dai progressi compiuti in seguito dai nostri teologi (350).95
Il ritorno ai Padri, secondo Marrou, è anche un modo per fecondare e arricchire la Tradizione, soprattutto in virtù di quella capacità sintetica, di quella dimensione di «condensazione» della verità cristiana, che è caratteristica dei Padri e che offre spazio a ulteriori approfondimenti e sviluppi (cf. 351). La ricchezza di questo approccio è esemplificata, per Marrou, da Catholicisme, libro «così nuovo, e insieme così antico», nel quale è dato d’incontrare una teologia «più aperta, più viva, più attuale, che l’autore attingeva alla sua lunga frequentazione dei Padri» (352). Ancora una volta, poi, è soprattutto il modo di accostare la Scrittura che può trarre arricchimento dalla lettura dei testi dei Padri; da loro si può imparare a riconoscere nella Scrittura non semplicemente un repertorio di argomenti teologici, ma un vero nutrimento spirituale (cf. 352s): e proprio l’opera esegetica compiuta da Gregorio nella sua Vita di Mosè ne costituisce, a giudizio di Marrou, un esempio illuminante (cf. 353s), al quale ci si può accostare non «nonostante» l’estraneità che si offre a un
93 Cf. sopra, c. 1, nota 9 e testo relativo; il nesso tra le SCh e la collezione HemmerLejay è comunque richiamato da MONDÉSERT, «Sources Chrétiennes», 25 e, come vedremo, da Daniélou. 94 Da notare, di passaggio, che Marrou quasi insensibilmente allarga l’orizzonte dalla spiritualità alla teologia, osservando che «la théologie, la spiritualité relèvent formellement du domaine de la culture, des choses de l’esprit…» (350). 95 Cf. i rilievi simili di H. DE LUBAC, nella nota «Un’illusione della storia della teologia» (non datata, ma già nell’ed. fr. del 1949), in Corpus Mysticum. L’Eucaristia e la Chiesa nel Medioevo, Jaca Book, Milano 1982, 411-414).
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primo sguardo, alla lettura di questi testi, ma precisamente in virtù di tale estraneità. Sotto questo profilo, Marrou (come altri recensori) elogia senza riserve la scelta della nuova collana di proporre non le opere più «facili» o familiari dei Padri, ma i testi più rappresentativi, ciò che rende la collezione assai più feconda: prima di essere un alimento della pietà quotidiana, lo studio dei Padri è, in effetti, uno strumento di cultura religiosa; e chi dice cultura dice sforzo, difficile e prolungato, e tanto più fruttuoso quanto più sembrava all’inizio più austero, meno asservito all’utilizzazione immediata (355).96
C’è entusiasmo, dunque, nei recensori e, a giudicare dalle vendite, anche nei lettori: in un anno vanno vendute 2500 delle 3500 copie stampate della Vita di Mosè; e anche se i volumi successivi non arriveranno così rapidamente agli stessi livelli, il risultato editoriale – tanto più se si tiene conto dell’epoca – si può definire più che lusinghiero, dato che si arrivano a vendere quasi 2000 copie su 3000 (sarà la tiratura normale) del Protrettico di Clemente Alessandrino e che in sei mesi si vendono metà della tiratura della Spiegazione della divina liturgia di Nicola Cabasilas e due terzi di quella della Supplica di Atenagora: «Nel clima dell’epoca, e tenuto conto dell’austerità dell’impresa, per riprendere il linguaggio di diversi recensori, il successo è incontestabile».97 Dei passi successivi delle SCh negli anni ’40, fino alla crisi e alla svolta di fine decennio, ricorderemo qui solo alcuni punti salienti. Nei primi anni, la collezione non conosce particolari difficoltà, se non quelle di ordine tecnico dovute alle contingenze storiche, e che la fine della guerra non risolverà tanto presto.98 È questa la ragione principale per la quale la pubblicazione del testo originale, auspicata da molti, si farà aspettare: ciò che non impedisce ai direttori della collezione (e al p. Chifflot di Cerf) di elaborare piani di pubblicazione persino arditi, che sembrano voler fare delle SCh un vero e proprio corpus di «classici cristiani», che va dalla Bibbia fino agli autori moderni.99 Più concretamente, si andranno definendo poco alla volta le diverse serie: oltre a quella greca (prevista in due versioni, con e senza testo greco), si precisa quella latina e si parla di fonti non cristiane del cristianesimo antico; dopo il 1945, si prospetta anche una serie di autori medievali. Intanto, però, a causa di vari problemi, mentre si attende la stampa di diversi volumi, agli inizi del 1946 il catalogo comprende solo una decina di titoli – in pratica, una media di tre all’anno –, tutti di autori greci, ivi
96
Per le recensioni che appaiono, più numerose, con la fine della guerra, cf. FOUILLa collection «Sources chrétiennes», 109-111. 97 FOUILLOUX, La collection «Sources chrétiennes», 89, da dove abbiamo preso anche i dati su tirature e vendite dei primi volumi. 98 Cf. FOUILLOUX, La collection «Sources chrétiennes», 79 e 93ss; per le difficoltà tecniche (censura, mancanza di carta ecc.) cf. in particolare 102-105. 99 Cf. FOUILLOUX, La collection «Sources chrétiennes», 97s, e DE LUBAC, Mémoire, 95 (tr. it. 267, nota 20). LOUX,
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compresi alcuni bizantini.100 Più di metà sono stati editi da gesuiti (tra di essi, importante, il primo volume dedicato a Origene, con l’introduzione di de Lubac),101 ma uno degli sforzi dei direttori, in questi anni «eroici», è quello di allargare sempre più il numero dei collaboratori, a rischio di sperimentare anche qualche delusione.102 Crescendo nel numero degli autori pubblicati e allargandosi il ventaglio di orientamenti dottrinali, spirituali, esegetici da essi rappresentati, la collezione, comprensibilmente, esigerà una sempre più forte attenzione al lavoro di revisione (delle traduzioni, delle introduzioni e dei commenti…),103 di omogeneizzazione a livello tipografico, di coordinamento editoriale complessivo. Anche la pubblicazione del testo originale, che diventa la norma a partire dal 1947, con l’uscita del primo volume della serie latina,104 fa crescere le esigenze redazionali ed editoriali, tanto più che, nei primi anni, la stampa è affidata a diverse tipografie, con tutte le conseguenze che ciò comporta. Una serie di problemi (ivi compreso quello economico, date le crescenti esigenze di budget e l’assestarsi delle vendite105), insomma, stringe la collezione in un nodo sempre più stretto sul finire degli anni ’40. La cosa dipende in parte dalle discussioni teologiche, che ricorderemo tra poco; ma il problema decisivo, che si profila, è quello della direzione. Per diverse ragioni (salute, impegni di altro genere, situazione delicata per le controversie in cui è coinvolto…), de Lubac si defila; sul versante edito100 Sono i dieci volumi che fanno da sfondo dell’intervento di Labourdette sulla Revue Thomiste del 1946, di cui diremo più sotto. Ne riportiamo l’elenco con (in parentesi) curatori e anno di edizione: 1. GRÉGOIRE DE NYSSE, Contemplation sur la vie de Moïse (J. Daniélou s.j., 1942); 2. CLÉMENT D’ALEXANDRIE, Protreptique (C. Mondésert s.j., 1943); 3. ATHÉNAGORE, Supplique (G. Bardy, 1943); 4. N. CABASILAS, Explication de la divine liturgie, I (S. Salaville a.a., 1943); 5. DIADOQUE DE PHOTICÉ, Cent chapitres sur la perfection spirituelle (E. Des Places s.j., 1943); 6. GRÉGOIRE DE NYSSE, La création de l’homme (J. Laplace s.j e J. Daniélou s.j., 1944); 7. ORIGÈNE, Homélies sur la Genèse (L. Doutreleau s.j. e H. de Lubac s.j., 1944); 8. NICÉTAS STÉTHATOS, Le Paradis spirituel (M. Chalendard, 1945); 9. MAXIME LE CONFESSEUR, Centuries sur la charité, I (J. Pégon s.j., 1945); 10. IGNACE D’ANTIOCHE, Lettres (T. Camelot, o.p., 1945). 101 Cf. FOUILLOUX, La collection «Sources chrétiennes», 107-109; cf. anche M. ALEXANDRE, «La redécouverte d’Origène», in Les Pères de l’Église dans le monde d’aujourd’hui. Actes du colloque international organisé par le New Europe College en collaboration avec la Ludwig Boltzmann Gesellschaft (Bucarest, 7-8 octobre 2004), éd. par C. BADILITA et C. KANNENGIESSER, Beauchesne-Curtea Veche, Paris-Bucarest 2006, 68-72. 102 Si vedano ad es. le riserve sul lavoro del domenicano B. Pruche, incaricato dell’edizione del de Spiritu sancto di Basilio, da parte di Daniélou (cf. FOUILLOUX, La collection «Sources chrétiennes», 101s). Sulla cerchia dei collaboratori delle SCh, da notare i rilievi di FOUILLOUX, «Autour de l’histoire des “Sources chrétiennes”», 523. 103 Così, ad es., per i lavori affidati a G. Bardy e ai suoi collaboratori (cf. FOUILLOUX, La collection «Sources chrétiennes», 137s) o per il Diario di Eteria affidato da Daniélou a Hélène Pétré (SCh 21, 1948) e duramente criticato da Jouassard (cf. ivi, 138s). 104 È il Traité des mystères di Ilario di Poitiers (SCh 19), curato da J.-P. Brisson. 105 Cf. FOUILLOUX, La collection «Sources chrétiennes», 143-146; MONDÉSERT, «Sources Chrétiennes», 35-37. Fouilloux rileva, a proposito della diffusione delle SCh, che «leur réputation est très supérieure à leur diffusion réelle qui n’en fait pas un succès de librairie»: FOUILLOUX, «Autour de l’histoire des “Sources chrétiennes”», 520.
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riale, anche p. Chifflot è costretto per ragioni di salute a lasciare il suo incarico a Cerf agli inizi del 1948; tutto ricade su Daniélou, che, oberato a sua volta da mille impegni, non sembra più in grado di assicurare una direzione efficace. Il punto di svolta si ha con l’arrivo di p. C. Mondésert,106 collaboratore della prima ora e anzi già coinvolto nel progetto Fontoynont. Entrato, o piuttosto rientrato alle SCh in forma pressoché ufficiosa, ma sostanziale, a partire dall’ottobre del 1947, «direttore» senza titolo a partire dal 1950, direttore a pieno titolo dal 1960, protagonista di scontri vivaci con Daniélou, fino al culmine del 1951, Mondésert è senz’altro la figura principale del passaggio dalla fase «eroica» delle SCh al consolidamento di un’impresa che, senza nulla perdere dell’intento originario (e facilitato, certo, anche dal progressivo mutamento del contesto ecclesiale e teologico degli anni ’50), assumerà il rilievo di una grande opera «scientifica» e insieme di un «monumento» alla tradizione cristiana, che non ha confronti nella seconda metà del Novecento. Su questa svolta, peraltro, chiudiamo queste pagine dedicate alla collezione, salvo richiamarne qui di seguito il coinvolgimento nell’ultima bufera che la teologia cattolica in Francia doveva conoscere prima del Vaticano II.
3. I L
D I B AT T I T O SULLA «NOUVELLE THÉOLOGIE»
A)
L’ A FFIOR ARE
D E L D I S A GI O
Nell’ottobre del 1946, in una delle sue cronache di ecclesiologia, p. Congar accenna a un disagio, che nasce dalla critica nei confronti della teologia scolastica, contrapposta a una «teologia simbolica al modo dei Padri», critica che emerge da «un certo numero di pubblicazioni recenti».107 106 Sul contributo di Mondésert alle SCh, cf. FOUILLOUX, La collection «Sources chrétiennes», 140-200. 107 Y. CONGAR, Sainte Église. Études et approches ecclésiologiques, Cerf, Paris 1964, 558, che riporta il Bulletin d’Écclésiologie pubblicato su RSPhTh 31(1947), 78-96 e 272-296. La data di redazione (ottobre 1946) è indicata dall’autore in Sainte Église, 549. Le vicende relative alla «nouvelle théologie» sono state ricostruite in varie sintesi; citiamo quelle che abbiamo più utilizzato (in ordine cronologico): C. COLOMBO, «Il significato teologico dell’enciclica “Humani generis”», in ScC 78(1950), 397-428; TSHIBANGU, Théologie positive et théologie spéculative, 283-298; Y. CONGAR, Situation et taches présentes de la théologie, Cerf, Paris 1967, 12-16; R. AUBERT, «La théologie catholique. A. Durant la première moitié du XXe siècle», in Bilan de la théologie du XXe siècle, sous la direction de R. VANDER GUCHT et H. VORGRIMLER, Casterman, Tournai-Paris, 1969-1970, I, 457-459; FREY, Mysterium der Kirche, 55-106; A. RUSSO, Henri de Lubac: teologia e dogma nella storia. L’influsso di Blondel, Studium, Roma 1990, 319-387; J.-C. PETIT, «La compréhension de la théologie dans la théologie française au XXe siècle. Pour une théologie qui réponde à nos nécessités: la nouvelle théologie», in LTP 48(1992), 415-431; F. BERTOLDI, De Lubac: cristianesimo e modernità, Edizioni Studio domenicano, Bologna 1994, 30-51; E. FOUILLOUX, «Dialogue
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Congar non è uno scolastico chiuso rigidamente dentro al proprio sistema, incapace di vedere il valore teologico di qualsiasi altro autore che non sia s. Tommaso o uno dei suoi interpreti. Nei «Bollettini di ecclesiologia», che fa uscire regolarmente sulla Revue de sciences philosophiques et théologiques o in altre pubblicazioni,108 è molto attento a presentare le opere che contribuiscono al rinnovamento ecclesiologico attraverso lo studio accurato delle fonti. Le righe citate, tra l’altro, fanno parte di una recensione elogiativa del Corpus mysticum del p. de Lubac, edito un paio d’anni prima (*1944); nel 1938, del resto, era stato proprio Congar a chiedere al gesuita di Lione di raccogliere alcuni suoi scritti precedenti, che dovevano portare alla pubblicazione di Catholicisme, terzo volume della collana «Unam sanctam», diretta dallo stesso Congar…109 Insomma, Congar è tutto fuorché una voce prevenuta, il che dà ancora più peso alla preoccupazione che manifesta dalle pagine della rivista del Saulchoir. Congar parla di «un certo numero di pubblicazioni recenti», senza dare elementi più precisi; nel momento in cui la rivista arrivava in mano ai lettori, tuttavia, questi erano probabilmente già a conoscenza di un intervento più ampio ed esplicito, sempre di provenienza domenicana, che elencava puntigliosamente autori e titoli delle «pubblicazioni recenti»: si tratta dello «studio critico» che M.-M. Labourdette, professore allo Studio domenicano di Saint-Maximin, aveva elaborato per il secondo fascicolo della Revue thomiste del 1946, col titolo «La théologie et ses sources».110 In questo articolo, Labourdette cita una serie di pubblicazioni che sono oggetto di una presa di posizione critica complessiva: si trattava principalmente dei volumi, apparsi fino a quel momento, delle SCh e della collezione Théologie – quest’ultima pubblicata sotto l’egida dello théologique? (1946-1948)», in Saint Thomas au XXe siècle. Colloque du centenaire de la “Revue thomiste”, 1893-1992, Toulouse, 25-28 mars 1993, Editions Saint-Paul, Paris 1994, 153-195 (saggio particolarmente importante per la documentazione inedita, soprattutto di corrispondenza tra i vari protagonisti delle vicende, che vi è utilizzata); ID., Une Église en quête de liberté, 193-300 (utile anche per la contestualizzazione ecclesiale e culturale, non solamente teologica); S.K. WOOD, Spiritual Exegesis and the Church in the Theology of Henri de Lubac, Grand Rapids (Mich.) 1998, 5-16; G. CANOBBIO, «Uno sguardo complessivo sulla teologia del ’900», in ASSOCIAZIONE TEOLOGICA ITALIANA, Teologia e storia: l’eredità del ‘900, a cura di G. CANOBBIO, San Paolo, Cinisello Balsamo 2002, 15-18; G. COFFELE, «Storia della teologia», in G. CANOBBIO – P. CODA (edd.), La teologia del XX secolo. Un bilancio, Città Nuova, Roma 2003, I, 291-294; DALEY, «The Nouvelle Théologie and the Patristic Revival»; BRAMBILLA, «“Teologia del magistero”», 216-236; J. METTEPENNINGEN – K. SCHELKENS, «“Quod immutabile est, nemo turbet et moveat”. Les rapports entre H. de Lubac et le P. Général J.-B. Janssens dans les années 1946-48, à propos de documents inédits», in CrSt 29(2008), 139-172. Per il coinvolgimento delle «Sources chrétiennes», cf. FOUILLOUX, La collection «Sources chrétiennes», 115-132. 108 Sono raccolti in CONGAR, Sainte Église, 445-696 (cf. sopra, c. 1, nota 85). 109 Per le circostanze della pubblicazione, cf. DE LUBAC, Memoria intorno alle mie opere, 236. Catholicisme era stato presentato dallo stesso Congar sulla RSPhTh del 1938 (cf. Sainte Église, 510-512) e su La vie intellectuelle del 10 gennaio 1939 (cf. Sainte Église, 521-523). 110 RThom 46(1946), 353-371; lo citeremo nella riproduzione di Dialogue théologique, 23-64.
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scolasticato di Fourvière:111 una ventina di titoli, usciti nell’arco di quattro anni (in tempo di guerra!), opera in buona parte di gesuiti gravitanti intorno a Fourvière (de Lubac, Bouillard, Daniélou, Mondésert, Doutreleau, von Balthasar…). Il ricorrere di alcuni soggetti di studio «prediletti» (gli autori alessandrini come Clemente e Origene, pubblicati nelle SCh e studiati in Théologie; Gregorio di Nissa112 e altri Padri greci «spirituali»; la «rivisitazione» di s. Tommaso negli studi di Bouillard e de Lubac…); alcune sottolineature programmatiche, come quelle già viste a proposito delle SCh; l’insistenza, teorica e pratica, sul «ritorno alle fonti»113 come via di rinnovamento spirituale e teologico; le espressioni critiche, più o meno velate, nei confronti della teologia scolastica… tutti questi elementi non potevano non suscitare qualche interrogativo: era difficile sottrarsi all’impressione che, nel fervore di questa attività, vi fossero un progetto, un’intenzione precisa, un’«arrière-pensée»,114 che accomunavano questi testi e i loro autori e mettevano a disagio soprattutto gli ambienti tomisti, non esclusi quelli più attenti e aperti, com’era il caso di Congar.
B)
L’ OF FE NSIVA
DI
D AN IÉ LOU
Per far venire alla luce in forme più esplicite e ferme questo disagio, occorreva un elemento detonatore: ruolo adempiuto da un articolo di J. Daniélou, «Les oriéntations présentes de la pensée religieuse», apparso sugli Études dell’aprile 1946.115 Con ogni probabilità, l’aspetto più urtante di questo articolo (soprattutto per chi lo leggeva avendo in mente la
111 Per i volumi di SCh, si veda sopra, nota 100. Théologie aveva pubblicato (per i tipi di Aubier, a Parigi) otto volumi: H. BOUILLARD, Conversion et grâce chez saint Thomas d’Aquin. Étude historique (1944); J. DANIÉLOU, Platonisme et théologie mystique. Essai sur la doctrine spirituelle de saint Grégoire de Nysse (1944); H. DE LUBAC, Corpus mysticum. L’Eucharistie et l’Église au Moyen-Âge (1944); C. MONDÉSERT, Clément d’Alexandrie. Introduction à sa pensée religieuse à partir de l’Écriture (1944); G. FESSARD, Autorité et bien commun (1944); J. MOUROUX, Sens chrétien de l’homme (1945); M. PONTET, L’exégèse de saint Augustin, prédicateur (1946); H. DE LUBAC, Surnaturel. Études historiques (1946). Sulla collezione Théologie, si veda DE LUBAC, Memoria intorno alle mie opere, 4145. Va incluso nel gruppo di pubblicazioni prese in considerazione anche H.U. VON BALTHASAR, Présence et pensée. Essai sur la philosophie religieuse de Grégoire de Nysse, Beauchesne, Paris 1942 (cf. Dialogue théologique, 42, 62s). Sulla collezione, si veda FOUILLOUX, Une Église en quête de liberté, 187-191. 112 Clemente (SCh 2) è indagato da Mondésert anche nel quarto vol. di Théologie; Origene (SCh 7) vedrà poi apparire – ma solo nel 1950 – Histoire et esprit, di de Lubac, vol. 16 di Théologie; Gregorio di Nissa (SCh 1 e 6) è studiato da Daniélou e von Balthasar… 113 H. Bouillard, primo segretario della collezione Théologie, ne richiamò lo spirito, in occasione della pubblicazione del 50° volume (1962), sottolineando «la duplice aspirazione che era stata all’origine dell’iniziativa: “attingere la dottrina cristiana alle sue fonti, trovare in essa la verità della nostra vita”» (DE LUBAC, Memoria intorno alle mie opere, 45). 114 Così Labourdette (cf. Dialogue théologique, 25, nota 1; cf. anche la nota aggiunta nel 1947, dopo la Réponse dei gesuiti: ivi, 66): l’intento principale del suo intervento è precisamente quello di mettere in luce questo «disegno» e di valutarlo criticamente. 115 Études, t. 249 (avril 1946), 5-21. Citiamo direttamente nel testo le pagine.
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doppia «offensiva» SCh – Théologie, espressamente richiamata, peraltro, dall’articolista), più che dalle proposte positive che suggeriva, doveva emergere da alcuni giudizi piuttosto tranchants e, a onor del vero, non troppo argomentati, che riguardavano la teologia scolastica:116 una teologia «assente» dal mondo del pensiero, una teologia che dà l’impressione «d’absence et d’irréel» (5, dove Daniélou cita Y. de Montcheuil); una teologia, quella del neotomismo, usata come baluardo («garde-fou») contro gli errori del modernismo, salvo che baluardi di questo genere non sono risposte ai problemi veri che sono stati sollevati (cf. 6s); una teologia razionalista, che ha «oggettivizzato» Dio ed è rimasta lontana dagli sviluppi della cultura attuale (cf. 6), ferma a un piano teorico, separata dalla vita (cf. 7); priva di contatto con la Scrittura (cf. 8) e alla quale è estranea la nozione di storia (cf. 10 e 14) e che «ignora il mondo drammatico delle persone», preferendo concentrarsi sulle essenze immutabili (cf. 14); una teologia che ha indebitamente dissociato teologia e spiritualità (cf. 17)… L’atto d’accusa era indubbiamente pesante: veniva a proclamare, in buona sostanza, l’incapacità della teologia scolastica di far fronte ai problemi posti dalla situazione attuale del cristianesimo, appena uscito dal dramma della guerra e confrontato con l’esigenza di un più solido nutrimento dottrinale e spirituale da parte dei cristiani e, insieme, sfidato da un ateismo virulento, che metteva in questione l’intera visione cristiana del mondo (cf. 5). I problemi, del resto, non erano del tutto nuovi, secondo Daniélou: li si incontrava già nel modernismo, che diede risposte sbagliate, anche se poi, secondo il gesuita, la reazione antimodernista bloccò l’approfondimento della ricerca, senza andare al cuore dei problemi stessi (cf. 6s). Di fronte alle esigenze di una teologia rispettosa di Dio come «Soggetto per eccellenza», sovranamente libero nella sua rivelazione e da incontrare anzitutto in un atteggiamento «religioso»; una teologia attenta alle esperienze dell’anima moderna e alle dimensioni culturali contemporanee (storia e scienza, ma anche letteratura e filosofia); una teologia che assuma un atteggiamento concreto davanti all’esistenza e offra all’uomo intero una risposta unificante (cf. 7), Daniélou prospetta tre orientamenti, presenti a suo giudizio in alcune espressioni del pensiero teologico attuale e capaci di aprire ricchi orizzonti nel futuro: il ritorno alle fonti, l’attenzione agli influssi filosofici e il contatto con la vita. È il primo punto, naturalmente, quello che più interessa qui. Daniélou lo raccoglie intorno ai tre snodi classici della Bibbia, dei Padri e della liturgia (cf. 7-13). C’è un dinamismo comune nella ricerca sulla Bibbia e sulla liturgia: da una fase più «archeologica», nella quale si è potuto far fruttare tutte le risorse delle discipline propriamente storiche e letterarie, si tratta di passare ora alla ripresa di tutto questo materiale su un piano più propriamente teologico (cf. 8, 12). Nel caso della Scrittura, il punto
116 Si veda ciò che ne scrive LABOURDETTE, in Dialogue théologique, 59s; cf. anche FOUILLOUX, «Dialogue théologique? (1946-1948)», 160-162.
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più delicato – secondo una prospettiva cara a Daniélou, come si è visto – riguarda l’interpretazione cristiana dell’Antico Testamento, se non lo si vuole rinchiudere in un interesse puramente antiquario; sotto questo profilo, l’esempio dell’interpretazione liturgica e patristica («exégèse figurative») resta fondamentale e domanda un confronto attento tra esegeti «scientifici» e «teologici» (cf. 8s). Già questo aspetto conferma dunque, agli occhi di Daniélou, l’interesse per il ritorno ai Padri, che trova una sua espressione privilegiata negli studi patristici (Daniélou cita espressamente, al riguardo, Théologie) e nella pubblicazione dei testi dei Padri, ossia nelle «Sources chrétiennes» (cf. 10). Il teologo gesuita richiama qualche antecedente del rinnovamento patristico, in particolare la collezione Hemmer-Lejay, preoccupandosi però di rilevare la novità dell’approccio attuale, che non legge i Padri solo come testimonianze storiche della fede antica.117 La nuova collezione ritiene che si possa chiedere di più ai Padri. Essi non sono soltanto i testimoni autentici di uno stato di cose ormai passato; ma sono ancora l’alimento più attuale per gli uomini di oggi, perché vi ritroviamo per l’appunto un certo numero di categorie che sono quelle del pensiero contemporaneo, e che la teologia scolastica aveva perduto (10).
Di quali categorie si tratta? Daniélou ne evidenzia due: anzitutto quella storica, che, «estranea al tomismo» (10), è invece centrale nei grandi sistemi patristici; per i Padri, il cristianesimo non è solo dottrina, ma la storia della «economia» mediante la quale Dio porta l’umanità alla pienezza del suo disegno salvifico (cf. ivi); la modalità patristica di leggere le Scritture manifesta qui tutto il suo significato, perché permette precisamente una lettura credente della storia (cf. 11). La seconda categoria riguarda una visione più comunitaria della salvezza; il superamento, dunque, dell’individualismo salvifico che ha segnato soprattutto l’approccio occidentale del cristianesimo. I Padri greci, invece, vedono la salvezza anzitutto come salvezza dell’umanità intesa come realtà globale, penetrata dalla vita divina di Cristo che vi è stata introdotta una volta per tutte; una visione ottimistica, dunque, che andrà contemperata con la dimensione tragica del destino personale e non dovrà portare a svalutare la vita interiore, ma che costituisce, in ogni caso, un arricchimento considerevole, e può spingere il cristiano verso un più disinteressato dono di sé (cf. 11). Daniélou non manca di contrapporre le ricchezze del pensiero patristico alla debolezza della scolastica a proposito del confronto tra teologia e orientamenti filosofici attuali. Per l’articolista, questi sono soprattutto il marxismo e l’esistenzialismo (cf. 13-17), ossia gli «abissi» della storicità e della soggettività, con i quali è inevitabile confrontarsi. Ma la teologia scolastica rimane «estranea a queste categorie» (14), mentre un approc-
117 Si noterà la somiglianza, nel confronto tra le SCh e la collezione Hemmer-Lejay, con quanto aveva scritto Marrou nel suo articolo del 1943 (cf. sopra, § 2d).
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cio come quello di Teilhard de Chardin, pur con gli innegabili suoi limiti, si sforza di pensare il cristianesimo in rapporto alla storia e all’evoluzione e al loro compimento cristologico: ciò che, appunto, si avvicina alla prospettiva patristica (cf. 15); mentre l’esistenzialismo, da parte sua, aiuta a non sfuggire la questione del male e della peccaminosità (cf. 15s). In definitiva, nel mistero cristiano, secondo Daniélou, trova espressione suprema il conflitto del pensiero moderno; così, «perché la teologia sia presente al nostro tempo, le basta di andare fino in fondo alle proprie esigenze e di attenersi insieme a s. Ireneo e a s. Agostino, al p. Teilhard e a Kierkegaard» (16). La conclusione è certamente troppo rapida, e Labourdette potrà squalificarla facilmente come espressione di superficiale concordismo;118 in ogni caso, ciò che viene scavalcato d’un solo balzo è evidente: Tommaso e tutta la scolastica, appunto. Finalmente, il pensiero dei Padri è maestro anche sulla questione di una teologia che si voglia più in contatto con la vita: l’esigenza attuale è quella di un approccio che non separi più indebitamente la teologia (che resterebbe su un piano speculativo e atemporale) da una spiritualità ridotta a consigli pratici, separati da una visione globale dell’uomo e della sua relazione con Dio. Lo sforzo attuale di ricongiungere teologia e spiritualità è molto vicino alla situazione dei Padri, dove teologia e ascesi erano fortemente raccordate e si integravano reciprocamente; il «successo» che raccoglie oggi un Gregorio di Nissa, osserva Daniélou, si spiega precisamente in questa linea (cf. 17).
C)
R E A ZI ONI
DE GL I A MB I E N T I T O MIS TI
L’articolo degli Études aveva tutti i tratti del «manifesto» di un orientamento teologico complessivo, facilmente riconducibile ai teologi di Fourvière.119 Lettura semplificatrice, senza dubbio: l’articolo non era frutto di concertazione, anche se Daniélou ne inviò una redazione provvisoria a de Lubac, chiedendo consigli.120 Incontrando J. Maritain, qualche tempo dopo la pubblicazione dell’articolo, de Lubac assunse una posizione per certi aspetti minimizzante: prese le distanze da alcune espressioni più pungenti, spiegò che Daniélou intendeva criticare non il tomi-
118
Cf. LABOURDETTE, Dialogue théologique, 59. Il P. Garrigou-Lagrange scrive in questi termini a Labourdette: «L’article du P. Daniélou dans les Études d’Avril dernier paraît être le manifeste de cette théologie nouvelle…», lettera del 17 luglio 1946, cit. da FOUILLOUX, «Dialogue théologique? (1946-1948)», 170. Labourdette non aveva usato, nel suo studio, l’espressione «théologie nouvelle»; la si trova, però, in una nota aggiuntiva del 1947, con particolare riferimento al saggio di Bouillard pubblicato come primo volume di Théologie (cf. LABOURDETTE, Dialogue théologique, 69). 120 Per la genesi dell’articolo, cf. FOUILLOUX, «Dialogue théologique? (1946-1948)», 162-164: il tema dell’articolo era stato trattato da Daniélou in una conferenza a Chevetogne (23 agosto 1945); il 7 febbraio 1946, Daniélou scrive a de Lubac chiedendo suggerimenti per la stesura dell’articolo sugli Études (diretti allora da p. R. d’Ouince, vicino a de Lubac); non si ha traccia della risposta da parte di de Lubac, che pure fu inviata. 119
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smo come tale, ma solo certe sue forme meccaniche e ripetitive, proprie dell’insegnamento scolastico; ma non giudicò negativamente, nell’insieme, lo scritto del più giovane confratello di Parigi.121 Ce n’era comunque a sufficienza perché i difensori del tomismo, già in allerta per una serie di segnali che si andavano rafforzando da tempo,122 facessero sentire la propria voce. L’articolo di Labourdette, già menzionato, si presenta come uno «studio critico» che, partendo dall’insieme delle pubblicazioni gravitanti intorno a Fourvière123 e con vari richiami all’articolo di Daniélou, espone – su un tono complessivamente propositivo, ma non senza punte polemiche – una serie di riflessioni e interrogativi. È chiaro, per Labourdette, che la teologia scolastica, «e per la precisione nella forma che le è stata data da s. Tommaso […] rappresenta lo stato veramente scientifico del pensiero cristiano» (35). Ciò non toglie il valore di quanto viene prima di Tommaso; né si dovrebbe semplicemente ripetere alla lettera l’insegnamento del Doctor angelicus, come se dopo di lui nessun progresso fosse avvenuto (cf. ivi);124 ma è inammissibile, per il domenicano, «che la sapienza teologica sia portata qua e là dall’onda della transitorietà e che le sue acquisizioni non possano essere ritenute definitive» (38). Il problema è dunque, per Labourdette, quello della stabilità e della non relatività non soltanto delle verità della fede in quanto tali, ma dello stesso sapere teologico, per quanto esso sia sempre da capo da riprendere e perfezionare (cf. ivi; la sottolineatura è dell’autore). Per il teologo domenicano, giudicare un sistema intellettuale sulla base del contesto storico che lo produce e, in definitiva, fondandosi più sulla sua qualità di testimonianza che non sul suo valore logico e concettuale, è una «tentazione permanente per l’intelligenza contemporanea» (38); qui è all’opera, egli ritiene, una prospettiva anti-concettuale, che vorrebbe sostituire al concetto il valore testimoniale dell’esperienza spirituale (cf. 39). 121 Maritain riferisce del suo incontro con de Lubac e dei suoi rilievi sull’articolo in una lettera a C. Journet del 6 ottobre 1946 (cit. in FOUILLOUX, «Dialogue théologique? [1946-1948]», 164); nel suo Mémoire, de Lubac commenta così l’articolo di Daniélou: «Questo articolo, molto intelligente (e molto innocente), sebbene di carattere un po’ troppo giornalistico (secondo il parere stesso dell’autore), nella conclusione, indicando i compiti che s’imponevano alla teologia davanti a un ateismo dilagante, faceva appello a “uomini che uniscono ad un senso profondo della tradizione cristiana, ad una vita di contemplazione che dona loro l’intelligenza del mistero di Cristo, un senso acuto dei bisogni del loro tempo ed un amore ardente per le anime dei loro fratelli”» (tr. it., 139s). 122 Cf. FOUILLOUX, «Dialogue théologique? (1946-1948)», 157-160. 123 L’unica opera che Labourdette menziona quasi senza critiche non era di un gesuita, ma di J. MOUROUX, Sens chrétien de l’homme (Théologie, 6): cf LABOURDETTE, Dialogue théologique, 30-35. 124 Una lunga nota (pp. 35-37), che cita ampiamente l’articolo degli Études, sviluppa la problematica del progresso teologico, in netta differenza rispetto a Daniélou: in particolare, Labourdette contesta la pretesa estraneità della scolastica al senso storico (cf. anche 40s, nota 1) e, pur riconoscendo la legittimità e necessità di essere attenti alle istanze del pensiero contemporaneo, ribadisce che la preoccupazione principale della teologia è quella di restare «l’expression scientifique rigoureuse de la pensée chrétienne en travail sur les vérités de la foi» (37).
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In questo atteggiamento Labourdette riconosce l’influsso della moderna sensibilità per la storia che, da parte sua, egli approva e sottoscrive senza riserve (cf. 40-42). Le riserve vertono, se mai, su alcuni presupposti filosofici di questa sensibilità, che riconducono al relativismo (cf. 42s), a quell’atteggiamento che, al posto della nozione metafisica di verità speculativa e atemporale, valida per sempre, sostituisce una verità storica (cf. 43). Così, però, ci si preclude ogni possibilità di un insegnamento universalmente valido (e si impedisce al Magistero di svolgere la sua funzione: cf. 43); e si chiude la porta a un vero progresso teologico, perché si cade in un deprezzamento nominalistico dell’intelligenza, la quale non potrebbe mai veramente attingere la Verità in quanto tale. In un orizzonte relativistico, la stessa nozione di ortodossia – di cui Labourdette concede che si faccia a volte un uso spregiudicato – perderebbe evidentemente di significato (cf. 43-45). Ancora una volta, il punto cruciale è che la storia, con tutti i benefici che la ricerca intorno ad essa può portare, non è giudice della verità: diversamente, si cade nel relativismo (cf. 46s). Il punto della questione, secondo Labourdette, risalta in modo particolare nello studio di H. Bouillard pubblicato come primo volume di Théologie:125 il teologo di SaintMaximin recensisce ampiamente questo saggio (cf. 47-54), perché ritiene che lo sforzo di Bouillard di valorizzare il metodo storico senza cadere nel relativismo sia interessante, ma non raggiunga lo scopo. Senza seguire tutta l’argomentazione di Labourdette, rileviamo il rimprovero che egli rivolge a Bouillard di utilizzare una concezione di tipo hegeliano della verità (cf. 50): un sospetto di hegelismo che sarà ricorrente nelle polemiche con i teologi di Fourvière.126 Oltre al relativismo, la prospettiva teologica proposta dai teologi di Fourvière sembra fare spazio, a giudizio di Labourdette, al soggettivismo (cf. 54); si torna qui, ancora una volta, al contrasto tra la verità nella sua dimensione oggettiva e il valore «testimoniale» dell’esperienza soggettiva: questa sarebbe, secondo la visione contestata da Labourdette, il metro di giudizio della verità di un sistema filosofico (cf. 55s). In questo modo si svuota, di nuovo, l’idea di verità speculativa: mentre, scrive il domenicano, «noi intendiamo per verità la conformità dell’intelligenza conoscente con una realtà che, per essa, è un dato e assolutamente non un “costrutto”» (cf. 58).
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Cf. sopra, nota 111. Cf. FOUILLOUX, «Dialogue théologique? (1946-1948)», 158 (lettera di Journet a Maritain, 27 dicembre 1945, e riferimento a una lettera di Maritain che si esprime nella stessa linea); sulla necessità di un confronto con l’hegelismo, cf. DE LUBAC, Memoria intorno alle mie opere, 178 (testo del 1947). Ha fatto molto discutere la frase con la quale Bouillard concludeva il suo studio: «Une théologie qui ne serait pas actuelle, serait une théologie fausse» (Conversion et grâce, 219; cf. Dialogue théologique, 50); per un apprezzamento più equilibrato, cf. COLOMBO, «Il significato teologico dell’enciclica “Humani generis”», 408. Sull’elaborazione di Conversion et grâce e le discussioni che sollevò, cf. FOUILLOUX, «Henri Bouillard et Saint Thomas d’Aquin (1941-1951)». 126
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La parte finale dell’articolo di Labourdette è una liquidazione piuttosto sprezzante di una filosofia ridotta a letteratura e di una teologia che sembra preferire le categorie dell’estetica a quelle della verità e della sua permanenza, ciò che permette al teologo domenicano di citare una pagina della Premessa a Présence et pensée (*1942), primo degli studi patristici progettati da H.U. von Balthasar, qualificandola come «brillante e superficiale» (62).127 Ancora una volta – e su questo va a chiudersi lo «studio critico» – il problema è, per Labourdette, la questione della verità definitiva e universale della conoscenza teologica; se c’è una ragione per apprezzare s. Tommaso, essa va appunto in questa direzione, dato che il Doctor angelicus, tra le varie illusioni e regressioni che la storia del pensiero ha portato con sé, resta colui «che ci introduce al meglio, con la più grande modestia e insieme il maggior ardimento, in questa “assai fruttuosa intelligenza dei misteri” che, secondo il concilio Vaticano, costituisce la teologia» (64).128
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DIA LO GO D I F F I C I L E
Alla ricezione dell’intervento di Labourdette non giovò il fatto di venir reso pubblico in un momento piuttosto agitato per i gesuiti; tanto più che le modalità della sua diffusione furono viste, a torto o a ragione, come provocatorie.129 De Lubac, informato dal confratello Fessard dell’attacco di Labourdette, risponde verso la fine di luglio, non senza una certa sufficienza, di non avere né voglia né tempo di entrare in polemica;130 tuttavia, il diffondersi delle discussioni e le loro ripercussioni soprattutto negli ambienti romani condurranno a una scelta diversa. Nel settembre del 1946, de Lubac è a Roma per la Congregazione generale della Compagnia di Gesù, che deve eleggere il nuovo preposito generale, a seguito della morte di p. Ledóchowski; l’eletto sarà p. J. Janssens – preposito della Compagnia ancora all’epoca del Vaticano II. Il 17 settembre, due giorni dopo l’elezione di Janssens, i gesuiti sono rice-
127 Al di là degli spunti della Premessa, il testo di von Balthasar offriva obiettivi elementi di contatto con gli orientamenti esplicitati da Daniélou nell’articolo sugli Études: cf. al riguardo PETIT, «La compréhension de la théologie… Pour une théologie qui réponde à nos nécessités», 421s. 128 Nello stesso anno 1946, Labourdette pubblica un articolo che riprende le stesse questioni: «La Théologie, intelligence de la foi», in RThom 46(1946), 5-44. 129 L’articolo di Labourdette fu diffuso come estratto nell’estate del 1946, mesi prima che fosse stampato il corrispettivo fascicolo della Revue thomiste (cf. Dialogue théologique, 65); a Roma ne circolarono delle copie assai presto: p. Garrigou-Lagrange, in una lettera a p. Nicolas del 3 giugno, riferisce di aver letto il testo e di averne parlato a Pio XII: cf. FOUILLOUX, «Dialogue théologique? (1946-1948)», 169 (si veda ivi, 166-170, sul contesto della diffusione del testo di Labourdette e della reazione dei gesuiti). 130 Cf. la lettera di Fessard a de Lubac, del 28 luglio 1946, citata in FOUILLOUX, «Dialogue théologique? (1946-1948)», 166.
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vuti in udienza da Pio XII. L’allocuzione del papa131 contiene, nella parte finale, il richiamo a seguire fedelmente, secondo le costituzioni della Compagnia di Gesù, la dottrina di S. Tommaso e ad aderire «indeflexa constantia» al Magistero della Chiesa, in perfetta obbedienza. Il papa richiama poi ai gesuiti l’importanza di favorire, con il proprio studio accurato, il progresso dottrinale «a maggior gloria di Dio e per l’edificazione della Chiesa», restando al contempo attenti a esprimersi in un modo che sia intelligibile e adattato agli uomini del nostro tempo. Tuttavia, nessuno turbi o modifichi ciò che è immutabile. Molto è stato detto, ma non sempre con ragione meditata, di una «nuova teologia», che si evolverebbe insieme con il perenne mutamento di tutte le cose, sempre in cammino e senza mai raggiungere la meta. Ma se si ritenesse di abbracciare questa opinione, che avverrebbe degli immutabili dogmi cattolici, che ne sarebbe dell’unità e stabilità della fede?132
Il papa continua chiedendo ai gesuiti di affrontare i problemi che il presente pone senza mai smettere di venerare l’intramontabile Verità e venendo in aiuto alla fede dei cristiani; ricorda che, mentre si agitano le novae vel liberae… quaestiones, si dovranno avere sempre a mente anzitutto i principi della dottrina cattolica; si consideri con vigile cautela ciò che suona del tutto nuovo in teologia; si sappia discernere ciò che è certo e immutabile da ciò che è frutto di congettura o insicuro; «si porga agli erranti una mano amica, ma senza indulgere in alcun modo agli errori delle opinioni».133 Subito dopo il discorso, il papa salutò a uno a uno i membri della Congregazione generale, de Lubac compreso. Così questi rievoca l’incontro: [il papa] mi aveva detto, in tono gentile: «Ah! Conosco bene la sua dottrina». La frase, vagamente percepita dai più vicini, ripetuta, deformata, amplificata, fu commentata in tutti i modi. […] Per alcuni era, senza alcun dubbio, un elogio, per altri era un rimprovero o almeno un avvertimento; per alcuni poi era perfino la designazione del capro espiatorio…134
Resta il fatto che la faccenda si amplificò: il discorso del papa, pronunciato senza altri testimoni che i gesuiti della Congregazione generale,135 fu poi, a sorpresa di tutti, pubblicato sull’Osservatore Romano. Sembra, inoltre, che il riferimento alla theologia nova non fosse presente
131 Testo in AAS 38(1946), 381-385. La parte del discorso che ci interessa inizia a p. 384 (il testo latino è riportato anche in DE LUBAC, Memoria intorno alle mie opere, 146). Per tutta la vicenda, si veda la ricostruzione di METTEPENNINGEN – SCHELKENS, «“Quod immutabile est, nemo turbet et moveat”», 149-154. 132 AAS 38(1946), 384s. 133 AAS 38(1946), 385. 134 DE LUBAC, Memoria intorno alle mie opere, 148. 135 De Lubac ricorda che «Pio XII aveva congedato anche i suoi due accompagnatori e aveva fatto accuratamente chiudere le porte» prima di pronunciare il discorso: cf. Memoria intorno alle mie opere, 145s, anche per quanto segue.
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nella bozza di discorso che il p. de Boynes136 aveva preparato per il papa; secondo quanto riferisce de Lubac, vi aveva incluso un discreto accenno di biasimo verso alcune nuove tendenze, «ma non si aspettava, né lui né il nuovo generale, le parole più severe e di portata più dottrinale che furono pronunciate in quell’occasione e che furono attribuite subito ad altre influenze, in particolare a quella di padre Garrigou-Lagrange, dell’Angelicum».137 Comunque sia, pochi giorni dopo, il 22 settembre, ricevendo in udienza i delegati del Capitolo generale dei Predicatori, Pio XII sarebbe tornato ancora sulla questione.138 Richiamando il posto eminente di s. Tommaso negli studi filosofici e teologici, infatti, Pio XII, dopo aver citato la prescrizione canonica relativa allo studio del Doctor angelicus (cf. CJC 1917, can. 1366 § 2), ne sottolineava l’urgenza particolare nel momento presente, che vedeva messo in discussione il fondamento della stessa filosofia e teologia perenne; si tratta del rapporto tra scienza e fede, e del fondamento stesso della fede; si tratta della verità divina e della possibilità, per la mente umana, di averne una conoscenza. Di fronte a questi interrogativi, la Chiesa ribadisce il valore permanente dell’insegnamento di s. Tommaso, come presidio efficace del depositum fidei e principio «moderatore» rispetto ai «nuovi progressi della teologia e della filosofia».139 Ai segnali romani, la cui decifrazione non appare univoca a de Lubac e ad altri,140 si aggiungono voci e corrispondenza che arrivano dalla Francia, dall’Inghilterra e dalla Germania, e che parlano di critiche nei confronti di gesuiti gravitanti intorno a Fourvière; fra questa corrispondenza c’è anche l’articolo di Labourdette, che de Lubac riceve a Roma un paio di giorni dopo l’udienza di Pio XII,141 insieme con la notizia di una denuncia formale nei confronti di de Montcheuil, Fessard e Daniélou. Gli arrivano anche lettere di H. Bouillard, il più direttamente preso di mira nell’articolo della Revue thomiste, che chiede con insistenza che si risponda a Labourdette; lo stesso chiedono i superiori francesi della Compagnia.142
136 P. N. de Boynes, già assistente di Francia, era stato vicario generale della Compagnia di Gesù nel periodo tra la morte di Ledóchowski e l’elezione di Janssens. 137 Cf. DE LUBAC, Memoria intorno alle mie opere, 145. 138 Testo dell’allocuzione in AAS 38(1946), 385-389. 139 Cf. AAS 38(1946)387. 140 Se i toni dell’Angelicum (e del p. Boyer della Gregoriana) sono inequivocabilmente minacciosi, l’incontro di de Lubac con Ottaviani al S. Uffizio (1 ottobre) è di tono cordiale; così quello con Maritain (3 ottobre), che consiglia a de Lubac di parlare con Montini; i superiori della Compagnia hanno un atteggiamento complessivamente benevolo; ma dalla Francia arrivano a de Lubac lettere preoccupate, che parlano di condanne imminenti nei confronti di Fourvière… (cf. DE LUBAC, Memoria intorno alle mie opere, 148-156, con molti dettagli). 141 Cf. DE LUBAC, Memoria intorno alle mie opere, 149, nota di diario del 19 settembre (a p. 40 indica la data del 29, ma il 19 sembra più verosimile). 142 Cf. FOUILLOUX, «Dialogue théologique? (1946-1948)», 171 (riferimenti alle lettere di Bouillard a de Lubac del 24 sett., 2 e 7 ottobre 1946) e 172.
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In questo clima teso e incerto prende forma la Réponse dei gesuiti a Labourdette.143 Il contesto va tenuto presente, perché nello scritto dei gesuiti si avverte come una «sindrome da accerchiamento», che aiuta a capire il tono piuttosto acre del testo e il sostanziale rifiuto di accedere al confronto proposto dal domenicano.144 Per di più, i gesuiti, che avevano percepito come provocatoria la diffusione dell’intervento di Labourdette sotto forma di estratto, prima ancora che apparisse sulla rivista, ripagano i domenicani della stessa moneta e diffondono abbondantemente la loro Réponse, prima che questa, con la data del 20 novembre, venga poi stampata sul quarto fascicolo delle Recherches de science religieuse del 1946. La risposta si presenta come collettiva e si giustifica sulla base di «conseils très autorisés» (75), ossia, si deve supporre, ha l’avallo dei superiori della Compagnia:145 due dettagli che non mancheranno di infastidire i domenicani, ma creeranno malumori all’interno della stessa Compagnia. Nonostante il carattere collettivo della risposta, il suo estensore principale fu de Lubac, che ebbe comunque qualche scambio di vedute almeno con Daniélou e Fessard – quest’ultimo era, all’epoca, segretario delle Recherches.146 Quanto alla copertura dei «conseils très autorisés», il problema emergerà più tardi, quando l’inasprirsi delle polemiche contro Fourvière porterà a un cambiamento di posi143 Cf. RSR 33(1946), 385-401; il testo è riprodotto in Dialogue théologique, 72-97: citeremo questa edizione, indicando le pagine direttamente nel testo. 144 Labourdette sembra non percepire (o non voler percepire) il contesto complessivo, quando replicherà alla Réponse dei gesuiti respingendo ogni accusa di «complotto» nei loro confronti (cf. Dialogue théologique, 102-105); tutto fa pensare, del resto, che i domenicani di Saint-Maximin (consigliati su questo da J. Maritain, che, peraltro, non risparmiava i giudizi drastici sui «nuovi teologi»: cf. la sua lettera del 14 giugno 1946 a Labourdette, edita sulla Revue Thomiste del 1992, n. 1, 31) non condividessero i propositi molto più battaglieri di altri loro confratelli, come il p. Bochenski di Friburgo e, soprattutto, i professori dell’Angelicum: la Revue thomiste rifiutò, di fatto, di pubblicare il violento articolo di p. Garrigou-Lagrange che uscì poi su Angelicum: cf. FOUILLOUX, «Dialogue théologique? (1946-1948)», 176s, 183s; per Bochenski, cf. anche DE LUBAC, Memoria intorno alle mie opere, 147. Resta il fatto che anche dopo la pubblicazione dell’Humani generis e i provvedimenti contro Fourvière, Labourdette avrà qualche problema a discolparsi dall’accusa – che gli fu rivolta dal confratello Congar – di essere in qualche modo corresponsabile della vicenda (cf. FOUILLOUX, «Dialogue théologique? (1946-1948)», 193 e Une Église en quête de liberté, 148). 145 Cf. anche quanto si legge verso la fine del testo, ove gli scriventi evocano «nos supérieurs, sans lesquels nous ne publions pas une ligne» (95). 146 Cf. FOUILLOUX, «Dialogue théologique? (1946-1948)», 174s, che rinvia a una lettera di de Lubac ad A. Russo (cf. RUSSO, Henri de Lubac: teologia e dogma nella storia, 379). De Lubac accenna alla Réponse in una lettera del 2 gennaio 1947 all’assistente di Francia, p. B. de Gorostarzu, indicandola come scritto collettivo («nostra risposta»: DE LUBAC, Memoria intorno alle mie opere, 183). Fouilloux documenta anche uno scambio epistolare, di tono irenico, tra Labourdette e Daniélou: questi sembra prendere le distanze rispetto alla Réponse, suscitando qualche rimostranza di de Lubac (cf. FOUILLOUX, «Dialogue théologique? (1946-1948)», 171 e 181; si veda anche l’annotazione di LABOURDETTE in Dialogue théologique, 136); un’altra lettera di Daniélou, indirizzata a B. de Solages il 2 lug. 1947, mostra però anche l’irriducibilità dei punti di vista del gesuita e del domenicano (cf. FOUILLOUX, Une Église en quête de liberté, 186).
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zione dei superiori della Compagnia, culminante nei provvedimenti del 1950. Per quanto riguarda la sostanza della Réponse, va detto che essa suona complessivamente come un rifiuto di entrare nel merito delle questioni sollevate dalla Revue thomiste – così, almeno, apparve ai domenicani. Le critiche di Labourdette sono riprese in toni un po’ forzati (e l’interessato se ne lamenterà147), e la sua prospettiva è giudicata erronea sulla base di un duplice errore di metodo (cf. 77); anzitutto Labourdette sembra voler prendere di mira «un monstre d’hérésie», salvo poi affermare che esso non si ritrova tale e quale in nessuno degli autori considerati (cf. 77s); in secondo luogo, la Réponse contesta al domenicano la legittimità di trarre conclusioni complessive sulla base delle due collezioni incriminate, che comprendono in realtà testi di natura e finalità diverse: pur riconoscendosi in una certa affinità di spirito e di orientamenti, i gesuiti non accettano di essere trattati come solidali in un «disegno generale», che si potrebbe smascherare nelle collezioni prese in esame (cf. 78s). Nel difendersi dall’accusa di relativismo, la Réponse procede secondo uno schema analogo: secondo i gesuiti, Labourdette può accusarli di relativismo solo a prezzo di un continuo «dépassement» (cf. 82), un’estrapolazione di ciò che i testi propriamente affermano; peraltro, occorre distinguere, osservano, tra il relativismo storico e quello dottrinale, ma ciò comporta anche il rischio di un’illusione storica e dottrinale. Illusione storica: perché l’apprezzamento per ciò che viene prima di s. Tommaso pare limitato, di fatto, a quanto Tommaso stesso ha raccolto della tradizione precedente e, per quanto lo segue, ristretto a ciò che è coerente col suo sistema (cf. 84s). È un punto di vista che gli autori della Réponse, in nome di una visione più ricca e complessa della tradizione (cf. 87), non si sentono di condividere. Essi ritengono, peraltro, che ciò non implichi disprezzo nei confronti di s. Tommaso ma che si possa, tuttavia, rileggere anche ciò che viene prima – come si fa, in primo luogo, per la Scrittura (cf. 88) – senza necessariamente cercarvi solo conferme di quanto già si sa. I Padri, è chiaro, non hanno la stessa autorità della Scrittura: fonti secondarie, derivate, in nessun modo sufficienti, ma che svolgono un ruolo non meno capitale; ruolo che non hanno svolto solo nel passato, ma che continuano a svolgere nel presente. Fonti, ma non nel senso limitato proprio della storia letteraria, ma fonti sempre zampillanti (89).148
La Réponse respinge poi congiuntamente l’accusa di anti-intellettualismo e di relativismo dottrinale: il cristianesimo, rileva, non è prima di
147
Cf. Dialogue théologique, 65-71. L’ultima frase riecheggia la conclusione della presentazione delle SCh nel primo volume della collezione (cf. SCh 1, 8). 148
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tutto una dottrina, né una verità intellettuale, ma la Persona vivente di Cristo, ciò che si opporrà sempre alla pretesa di rinchiudere la verità cattolica in un sistema organizzato (cf. 90s);149 qui sta anche la ragione della libertà di prospettive teologiche che la Chiesa riconosce, senza che la verità debba essere identificata con un sistema (cf. 92).
E)
V E R SO L’H UMANI
GENERIS
Tono e merito della Réponse dei gesuiti mostrano fino a che punto le possibilità di un confronto fossero compromesse da punti di vista irrigiditi e complicate da fattori di altro genere, non esclusi quelli psicologici, sui quali ha richiamato l’attenzione E. Fouilloux.150 Suona paradossale, quindi, che la tappa successiva della controversia – la pubblicazione in dossier dei documenti del dibattito, realizzata dai domenicani di Saint-Maximin ancora una volta in modo piuttosto rapido, per non dover attendere i tempi editoriali della Revue thomiste – assuma il titolo di Dialogue théologique: le possibilità di dialogo appaiono, ormai, alquanto remote, come dovranno verificare quanti proporranno tentativi di mediazione. I domenicani preparano la pubblicazione nel febbraio del 1947: essa comprende un’introduzione del p. R.-L. Bruckberger (9-18), l’articolo di Labourdette (23-64) integrato da alcune note aggiunte per l’occasione (65-71), la Réponse dei gesuiti (75-97), un’ulteriore replica di Labourdette, intitolata «De la critique en théologie» (99-138) e una conclusione («Le progrès de la théologie et la fidélité à saint Thomas», 141-151), firmata dal p. Nicolas. Non vi si trovano argomenti nuovi; i gesuiti, del resto, erano al corrente della pubblicazione che si andava preparando a Saint-Maximin, anche perché era stata chiesta alle Recherches de science religieuse l’autorizzazione a pubblicare la Réponse.151 Il clima, tuttavia, si è andato ulteriormente deteriorando: il violento attacco di Garrigou-Lagrange esaspera i toni (e crea malumori nello stesso fronte tomista, piuttosto variegato152), con la sua accusa che la «nouvelle théologie» – il cui «padre»
149 Secondo Brambilla, sta proprio qui, in definitiva nel concetto di rivelazione (e, rispettivamente, in quello di fede), il punto decisivo del progetto della «nouvelle théologie» e della sua mancata comprensione negli anni ’40 (cf. BRAMBILLA, «“Teologia del magistero”», 226s). 150 Cf. FOUILLOUX, «Dialogue théologique? (1946-1948)», 164s, 175, 194; è in gioco anche una sorta di doppio complesso, di inferiorità (dei domenicani) e di superiorità (dei gesuiti), che Fouilloux documenta nella corrispondenza d’epoca (cf. ad es. 164s, scambio di lettere tra Maritain e Journet; cf. anche 188s). 151 Secondo de Lubac, invece, la pubblicazione di Dialogue théologique avvenne «senza che ne fossimo stati preavvisati» (Memoria intorno alle mie opere, 41); sulle circostanze della pubblicazione, cf. FOUILLOUX, «Dialogue théologique? (1946-1948)», 182186. 152 Cf. al riguardo G.A. MCCOOL, From Unity to Pluralism. The Internal Evolution of Thomism, Fordam University Press, New York 1992, 210-216.
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viene indicato in Blondel – rinnovi gli errori del modernismo;153 i tentativi di mediazione, che alcuni mettono in atto, si scontrano con una crescente diffidenza. È il caso, ad es., di mons. B. de Solages, figura di grande prestigio anche per il suo comportamento durante la resistenza, rettore dell’Institut Catholique di Tolosa, amico sia di de Lubac che del p. Nicolas, il domenicano collega di Labourdette a Saint-Maximin e partecipe con lui della discussione con i gesuiti. Lo scambio di lettere concordato tra de Solages e Nicolas e ospitato dal Bulletin de littérature ecclésiastique dell’Institut Catholique di Tolosa, senza peraltro poter tenere conto della Réponse dei gesuiti, non sortirà l’effetto di rappacificazione sperato;154 né avranno miglior fortuna i tentativi successivi, sia da parte dello stesso de Solages, sia da parte di L. Bouyer e P. Henry dell’Institut Catholique di Parigi.155 Dopo i primi mesi del 1947, peraltro, le cose stavano cambiando soprattutto all’interno della Compagnia di Gesù.156 Sempre più criticati a Roma, nell’ambito della stessa Gregoriana, questa volta i gesuiti francesi non hanno il permesso di rispondere, se non passando per una censura che sanno prevenuta;157 alcune lettere dei superiori (generale e assistente per la Francia), conservate nelle carte di de Lubac, mostrano un atteggiamento che si irrigidisce e rivolge alcune critiche ad aspetti importanti della «risposta» a Labourdette.158 Nell’occhio del ciclone si trova sempre più il nuovo libro di de Lubac, Surnaturel, pubblicato nel 1946 come ottavo volume di Théologie,159 mentre l’attività di direzione delle Recherches de science religieuse, passata nelle mani di de Lubac dalla fine del 1946, incontra le critiche di p. Janssens… L’esito di tutta la vicenda, com’è noto, furono anzitutto gli interventi che nel giugno del 153 R. GARRIGOU-LAGRANGE, «La nouvelle théologie où va-t-elle?», in Ang. 23(1946), 126-145, qui 143; per le reazioni domenicane, ma anche di Maritain, cf. FOUILLOUX, «Dialogue théologique? (1946-1948)», 184s, e Une Église en quête de liberté, 116. B. DE SOLAGES reagirà poi con il suo articolo «Pour l’honneur de la théologie. Les contre-sens du Rv. P. Garrigou-Lagrange», in BLE 48(1947), 65-84; risposta di Garrigou-Lagrange: «Vérité et immutabilité du dogme», in Ang. 24(1947), 124-139; Garrigou-Lagrange continuò a scrivere diversi articoli, che possono essere considerati una preparazione all’Humani generis (cf. BRAMBILLA, «“Teologia del magistero”», 225, nota 59). 154 Le due lettere sono pubblicate nel febbraio 1947 col titolo «Autour d’une controverse», in BLE 48(1947), 3-17: cf. FOUILLOUX, «Dialogue théologique? (1946-1948)», 177-179. 155 Sono tentativi successivi alla pubblicazione di Dialogue théologique: cf. FOUILLOUX, «Dialogue théologique? (1946-1948)», 190-193. De Lubac segnala la visita di p. Nicolas a Fourvière, il 16 settembre 1947, «per ratificare la pace. Tutto si svolse molto bene» (Memoria intorno alle mie opere, 41). 156 Cf. le note di diario di DE LUBAC, Memoria intorno alle mie opere, 155s. 157 Cf. lo scambio di lettere tra de Lubac e i suoi superiori (primavera 1948), in Memoria intorno alle mie opere, 179-183. Per una ricostruzione degli avvenimenti del periodo 1946-1948, e in particolare per i rapporti tra de Lubac e il preposito generale dei gesuiti, si veda METTEPENNINGEN – SCHELKENS, «“Quod immutabile est, nemo turbet et moveat”». 158 Cf. FOUILLOUX, «Dialogue théologique? (1946-1948)», 177. 159 Per le reazioni al libro, cf. DE LUBAC, Memoria intorno alle mie opere, 156-183; FOUILLOUX, Une Église en quête de liberté, 190s.
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1950 colpirono lo scolasticato di Fourvière, con l’estromissione dall’insegnamento di cinque professori: E. Dalaye, H. Bouillard, A. Durand, P. Ganne e de Lubac – che allo scolasticato non aveva praticamente mai insegnato, salvo qualche ora di storia delle religioni!160 – con la conseguenza di avallare sempre più l’idea (costantemente respinta da de Lubac) di una «scuola di Fourvière».161 Pochi mesi dopo, Pio XII pubblicava l’enciclica Humani generis (12 agosto 1950),162 salutata quasi universalmente (ma, anche qui, contro la valutazione del più diretto interessato)163 come una condanna della nouvelle théologie professata a Fourvière e incarnata in particolare in de Lubac. Nell’economia della nostra ricerca non abbiamo bisogno di riprendere tutti i contenuti dell’enciclica, che raccoglie – ma senza tentare di erigerli in «sistema», come era accaduto con la Pascendi164 – vari problemi e tendenze ritenute pericolose: ci basterà richiamare i riferimenti al «ritorno alle fonti» che, dopotutto, era stato il problema di partenza della querelle all’indomani del secondo conflitto mondiale. Il papa se ne occupa expressis verbis verso la metà del documento, ma tocca la questione anche prima. Già poco oltre l’inizio, dopo il richiamo all’evoluzionismo e agli errori che vi si collegano, Pio XII nota con un certo sollievo che quanti erano stati educati nei principi del razionalismo «non di rado oggi desiderano tornare ad attingere alla verità divinamente rivelata, e conoscere e professare la parola di Dio conservata nella Sacra Scrittura quale fondamento della sacra disciplina» (563), anche se a volte lo fanno con un inaccettabile disprezzo per la ragione. Per altro verso, riprovando l’errore dell’irenismo (cf. 564), Pio XII stigmatizza un atteggiamento riduzionista nei confronti del significato dei dogmi, presente in quanti intendono «svincolare il dogma stesso dal modo di parlare ormai recepito nella Chiesa e dalle nozioni filosofiche vigenti presso i dottori cattolici, così da tornare, nell’esposizione della dottrina cattolica, al modo di esprimersi della sacra Scrittura e dei santi Padri» (565; DH 3881). In questo contesto, Pio XII richiama (in termini molto simili a quel160 Per un richiamo alle vicende da parte di DE LUBAC, cf. Memoria intorno alle mie opere, 204-219. 161 Cf. FOUILLOUX, «Autour de l’histoire des “Sources chrétiennes”», 521; ID., Une Église en quête de liberté, 173; ID., «Une “école de Fourvière”?». Fouilloux, e in modo ancor più deciso (ma meno argomentato) P. CHENAUX, «L’influence des écoles théologiques dans la rédaction de la constitution pastorale Gaudium et spes (1962-1965)», in J. GROHE – J. LEAL – V. REALE (edd.), I Padri e le scuole teologiche nei concili. Atti del VII Simposio Internazionale della Facoltà di Teologia (P. Università della S. Croce), LEV, Città del Vaticano 2006, ritengono che, nonostante i dinieghi di de Lubac, si debba parlare di un «progetto teologico» di Fourvière. 162 Testo in AAS 42(1950), 561-578; citiamo nel testo le pagine e, ove possibile, i riferimenti a DH. Per un’analisi particolareggiata dell’enciclica in rapporto con il dibattito teologico dell’epoca, cf. FREY, Mysterium der Kirche, 90-104. 163 Cf. DE LUBAC, Memoria intorno alle mie opere, 219-230. 164 Cf. FOUILLOUX, Une Église en quête de liberté, 245, e BRAMBILLA, «“Teologia del magistero”», 227; si vedano anche, di quest’ultimo contributo, le pp. 228s per una sintesi del documento, che però lascia fuori la parte che più interessa qui.
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li usati da Labourdette o da Garrigou-Lagrange) il rischio del relativismo dogmatico, associato al disprezzo per la teologia scolastica, se non per lo stesso Magistero che l’ha approvata (cf. 566s). L’enciclica afferma ancora: «Alcuni deliberatamente sono soliti trascurare ciò che viene presentato nelle lettere Encicliche dei romani Pontefici a proposito dell’indole e della costituzione della Chiesa, perché ritengono che dovrebbe prevalere una certa vaga nozione, che si ritiene attinta dai Padri antichi, soprattutto greci» (567s);165 una scelta che, osserva Pio XII, viene giustificata col fatto che qui non sono in gioco verità definite, di modo che sarebbe necessario ritornare alle fonti primitive («ad pristinos fontes») e spiegare con i testi degli antichi i documenti più recenti del Magistero (cf. 568). È da notare che a questo proposito Pio XII, oltre a ricordare che molte questioni lasciate un tempo alla libera discussione in seguito non potevano più essere discusse, richiama – per la prima volta – la necessità di un assenso anche al magistero delle encicliche (cf. 567s).166 Si arriva poi alla trattazione più esplicita circa il «ritorno alle fonti» e al suo significato teologico. Riportiamo qui il testo in una nostra versione italiana: È pure vero che i teologi devono sempre tornare alle fonti della divina rivelazione: è loro compito, infatti, indicare le ragioni per cui ciò che viene insegnato dal Magistero vivente «si trovi» nelle Sacre Lettere e nella divina «tradizione», «sia esplicitamente, sia implicitamente». Inoltre, entrambe le fonti della dottrina divinamente rivelata contengono tali e tanti tesori di verità, che non si potranno mai realmente esaurire. Per questa ragione, attraverso lo studio delle sacre fonti le discipline sacre ringiovaniscono sempre; mentre, al contrario, come sappiamo, la speculazione che trascura l’approfondimento del sacro deposito rimane sterile. Per questa ragione, però, anche la teologia cosiddetta positiva non può essere equiparata semplicemente a una scienza storica. Insieme con queste sacre fonti, infatti, Dio ha dato alla sua Chiesa il vivo Magistero, allo scopo anche di illustrare ed enucleare quelle cose che nel deposito della fede sono contenute solo in modo oscuro e come implicitamente. Il compito di interpretare autenticamente il deposito, poi, il divino Redentore non lo ha affidato ai singoli fedeli, né ai teologi, ma solo al Magistero della Chiesa. Se poi la Chiesa esercita questo suo ufficio, come tante volte si è fatto nel corso dei secoli, attraverso l’esercizio sia ordinario che straordinario di questo stesso ufficio, è evidente che il metodo, che vorrebbe spiegare ciò che è chiaro a partire da ciò che è oscuro, è del tutto falso; mentre è necessario che tutti seguano l’ordine inverso. Per questa ragione il nostro predecessore di imperitura memoria Pio IX, mentre insegna che il compito nobilissimo della teologia è quello di mostrare in che modo la dottrina definita dalla Chiesa sia contenuta nelle fonti, non senza grave motivo aggiunse: «in quello stesso senso, in cui è stata definita»*167 (568s; cf. DH 3886).
165 Questo passaggio non aveva mancato di suscitare disappunto in qualche esponente dell’ortodossia: cf. O. ROUSSEAU, «La patristique grecque dans la vie de l’Église», in Seminarium 21(1969), 287s. 166 Cf. BRAMBILLA, «“Teologia del magistero”», 229. 167 * PIUS IX, Inter gravissimas, 26 oct. 1870, Acta, Pars I, V, 260.
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2. Il ritorno alle fonti: un tema controverso
Nell’enciclica, il riferimento all’accesso ai Padri torna, almeno implicitamente, a proposito dell’interpretazione della Scrittura, lì dove Pio XII stigmatizza quanti pretendono di sostituire, al senso letterale e alla sua spiegazione, elaborata sotto la guida della Chiesa, una «nuova esegesi, chiamata simbolica e spirituale», che aprirebbe a tutti i libri dell’Antico Testamento, fonte ancora «chiusa e nascosta» (570; cf. DH 3887). Limitando il nostro punto d’osservazione alla questione del ressourcement, e di quello patristico in particolare, si può tentare di tirare un breve bilancio della dozzina di anni «caldi», che si concludono con l’Humani generis. Va notato anzitutto il fatto che il ritorno ai Padri ha costituito il punto di cristallizzazione di una problematica più ampia, che toccava la questione complessiva della teologia, del suo significato, dei suoi metodi e, al di là ancora della funzione teologica in senso stretto, della stessa verità cristiana e delle forme del suo manifestarsi. In questo, indubbiamente, Labourdette aveva visto giusto,168 comunque si voglia valutare il suo punto di vista e quello dei «tomisti», ancorati a un concetto di rivelazione di «figura veritativa, intesa in termini di verità concettuale», laddove, per i gesuiti, «la verità della rivelazione si dà storicamente, personalmente in Gesù Cristo» e, di conseguenza, «risulta irriducibile alla sua formulazione concettuale».169 Certo, l’alternativa, posta in questi termini, non ha in sé gli strumenti per una soluzione: solo l’approfondimento della teologia tanto della rivelazione quanto della fede permetterà di affrontare le questioni rimaste irrisolte, anche se bisognerà arrivare a concilio quasi concluso, con la promulgazione della Dei Verbum, per poter dire di aver compiuto un sostanziale passo in avanti.170 Lo scadimento in polemica del tentativo di «dialogo teologico» che la questione del ressourcement aveva sollevato e poi il blocco provocato dall’intervento di Pio XII e dalle sanzioni prese contro i gesuiti di Fourvière – i quali, peraltro, non furono i soli a pagare il prezzo di questi anni difficili, che avevano già visto la condanna di Chenu e di Charlier, e vedranno ancora, tra le altre cose, il ricorrente sospetto sull’opera di altri teologi (Congar, K. Rahner…) – ebbero, come spesso accade, il risultato di rallentare la discussione e la ricerca; peraltro, non era intenzione del papa chiuderla completamente171 e, in ogni caso, i problemi posti sul terreno restavano aperti.
168 Cf. LABOURDETTE, Dialogue théologique, 29: «… tout le problème de la théologie et de sa prétention à se constituer en savoir proprement dit se trouve ici posé». Va notato, peraltro, che Labourdette riconosce ampiamente il valore propriamente patristico dell’impresa avviata con le SCh: cf. ivi, 23-26. 169 BRAMBILLA, «“Teologia del magistero”», 226; cf. già CONGAR, Situation et taches présentes de la théologie, 15s. 170 Cf. BRAMBILLA, «“Teologia del magistero”», 230-236. 171 Cf. E. FOUILLOUX, «Correnti di pensiero, pietà, apostolato. II. Il cattolicesimo», in Storia del cristianesimo, 12: Guerre mondiali e totalitarismi, a cura di J.-M. MAYEUR, Borla-Città Nuova, Roma 1997, 170s.
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Per quanto concerne la nostra questione, rileviamo poi che la ricerca sui Padri non ebbe particolarmente a soffrire di questa situazione. Qua e là, è vero, le «Sources chrétiennes» continuano a essere oggetto di critiche,172 ciò che spinge p. Mondésert, ormai di fatto direttore della collezione, ad accentuarne sempre più la dimensione scientifica e ad allargare lo spettro degli autori pubblicati.173 È ancora grazie alla sua intraprendenza che la collezione potrà trovare un favore sempre più generalizzato, consacrato, per così dire, da una recensione positiva pubblicata sull’Osservatore Romano del 6 gennaio 1952 a un volume che ha avuto il sostegno, anche economico, del card. Tisserant;174 sì che lo stesso Mondésert potrà scrivere di ritenere ormai definitivamente passati i giorni «nei quali si riteneva di dover esprimere diffidenza nei confronti di un’impresa che, per quanto soggetta alle legittime esigenze scientifiche, non ha mai nascosto il suo intento di fedeltà alla Chiesa, ai suoi dogmi, alla sua tradizione e al suo magistero».175 Del resto, basta scorrere qualche elenco bibliografico per rendersi conto che la ricerca sui Padri non solo non conosce nessun arresto nel corso degli anni ’50, ma vede anzi uno sviluppo sempre più accentuato:176 con molta fatica, e nonostante il perdurare di resistenze e incomprensioni che vedremo arrivare fino al concilio, la via era ormai definitivamente aperta.
172 A parte il caso della bibliografia sulla nouvelle théologie raccolta da A. ESTEBAN ROMERO, «Nota bibliográfica sobre la llamada “Teología Nueva», in Revista española de teología 9(1949), 303-318; 527-546, che include nella lista tutti i titoli delle SCh (cf. FOUILLOUX, «Autour de l’histoire des “Sources chrétiennes”», 529), si possono ancora menzionare le critiche apparse sulla Revue de l’université de Ottawa del 1950 a opera del p. Marcotte (197-200) e del domenicano T. Deman (129-167; cf. FOUILLOUX, La collection «Sources chrétiennes», 166s), già autore di un’ampia recensione, fortemente critica, nei confronti di Bouillard (cf. Bulletin thomiste 7[1943-1946], 46-58). 173 Cf. FOUILLOUX, La collection «Sources chrétiennes», 165s. 174 Cf. FOUILLOUX, La collection «Sources chrétiennes», 169; si tratta di SCh 30(1951), che pubblica il primo libro degli Stromati, curati da C. Mondésert e M. Caster. 175 C. MONDÉSERT, «La collection “Sources chrétiennes” au service de la culture chrétienne», in La Croix, 4 marzo 1952 (cit. da FOUILLOUX, La collection «Sources chrétiennes», 169). 176 Si veda, tenendo conto del suo carattere selettivo, la nostra «Bibliografia storica» a partire dal 1951.
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3. I Padri nel cammino verso il concilio
Il numero crescente delle pubblicazioni di carattere patristico e di storia della Chiesa, l’interesse sempre più forte per le questioni ecclesiologiche (e mariologiche, mettendo nel conto il movimento di idee intorno alla definizione dell’Assunzione di Maria nel 1950), i dibattiti suscitati dai tentativi di ripensamento della teologia, delle sue fonti e del suo metodo, con le relative prese di posizione magisteriali… Ne esce un panorama articolato e complesso, che fa sorgere subito la domanda: quale coscienza ne aveva l’insieme del corpo ecclesiale, nel momento in cui Giovanni XXIII, il 25 gennaio 1959, esprimeva l’intenzione di convocare un concilio ecumenico? La risposta che tenteremo di dare verterà soprattutto sull’esame dei vota, ossia delle proposte, richieste, auspici ecc., che tutti i futuri membri dell’assemblea conciliare (con le Congregazioni romane e le Università ecclesiastiche) furono chiamati a inviare nella fase detta «antepreparatoria» del concilio. Sarà così possibile avere un’idea, senza dubbio limitata, di come l’apporto dei Padri fosse presente alla mente dell’episcopato cattolico, invitato a fornire indicazioni in vista delle future assise conciliari. Riserveremo la parte conclusiva del capitolo a una breve presentazione del pensiero patristico dei due papi, Giovanni XXIII e Paolo VI, sotto il pontificato dei quali il concilio fu convocato, preparato e portato a compimento. Uno studio a sé meriterebbe, naturalmente, l’apporto di almeno alcuni dei periti, che collaborarono a vario titolo alla preparazione dei documenti conciliari e soprattutto del de Ecclesia. In parte esso è già stato presentato nel capitolo precedente; per non allungare a dismisura la ricerca, altri elementi saranno messi in evidenza a mano a mano che si presenterà, nei capitoli seguenti, il cammino di elaborazione della futura Lumen gentium.
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Parte I - Lo studio dei Padri nella prima metà del Novecento
I. I P A D R I
N E I VOTA D E L L A FA S E A N T E P R E PA R AT O R I A
Nel mettere mano al vasto materiale,1 raccolto durante la fase antepreparatoria del concilio, sembra utile qualche considerazione preliminare intorno al suo significato e alla sua portata.2 È stato notato, anzitutto, che la risposta all’invito spedito dal card. Tardini il 18 giugno 1959 è stata massiccia: il 77% degli interpellati (1.988 su 2.594) ha risposto; un dato consistente, per quanto annoveri senza distinzioni risposte articolate e «accuse di ricevuta» non accompagnate, poi, da proposte.3 Se i numeri possono dare qualche indicazione, possiamo aggiungere che, in questa massa di risposte, meno di un centinaio presentano accenni, più o meno ampi, ai Padri della Chiesa e all’apporto che la loro opera può offrire al futuro concilio. Gli interventi più numerosi, per quel che ci riguarda, vengono da futuri padri conciliari di provenienza europea occidentale: vescovi o superiori religiosi di Spagna, Italia, Germania,4 Francia e Belgio offrono da soli quasi i due terzi dei testi che abbiamo potuto individuare. Gli interventi si raccolgono in particolare intorno a due nuclei principali: da un lato, le questioni ecclesiologiche; dall’altro, la querelle intorno a «quale teologia», insomma i problemi che per molti prelati si ricollegavano alla presa di posizione dell’Humani generis: è normale aspettarsi che fossero esponenti delle Chiese in Europa a sentire più vicine queste problematiche. Resta peraltro difficile, su un campionario in definitiva piuttosto ristretto, mettere in luce tratti di pensiero o di proposte generali: passeremo dunque senz’altro a una presentazione più articolata dei testi, che raccogliamo intorno a quattro tematiche: – lo statuto della verità cristiana5 nella Chiesa oggi; – il linguaggio da adottare nel concilio; – le questioni ecclesiologiche; – la formazione del clero.
1. L O
STATU TO D E L L A V E R I T À C R I S T I A N A NE LLA C HIE SA O GG I
Quale atteggiamento prevale, anche sullo sfondo delle discussioni culminate con l’Humani generis, circa l’eventualità che un «ritorno alle fonti»
1 Il materiale è raccolto negli Acta et Documenta Concilio Œcumenico Vaticano II apparando, Series I, voll. 2 (8 tomi), 3 e 4 (2 tomi), Città del Vaticano, 1960-1961 (= AD I). 2 Rinviamo soprattutto alle osservazioni di E. FOUILLOUX in SCVII, I, 111-144, con la bibliografia ivi indicata, in particolare A. MELLONI, «Per un approccio storico-critico ai consilia et vota della fase antepreparatoria del Vaticano II», in RSLR 26(1990), 556-576. 3 Cf. FOUILLOUX, in SCVII, I, 113. 4 Come si vedrà, uno degli interventi più significativi è stato inviato a nome della Conferenza episcopale tedesca. 5 Per questa espressione, cf. G. LAFONT, Imaginer l’Église catholique, Paris 1995, 87ss.
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3. I Padri nel cammino verso il concilio
– bibliche, liturgiche, patristiche… – possa contribuire efficacemente alle contingenze attuali della vita della Chiesa, nonché al rinnovamento della teologia e del suo insegnamento? Nell’insieme, dai Vota episcopali, il tono risulta piuttosto negativo. Si ascoltano, sembra, soprattutto voci preoccupate. Si denuncia la «tendenza nuova di basare la teologia più sulla psicologia che sulla metafisica, più sulla storia che sulla teoria, più sul concreto che sull’astratto, più sul vitalismo che sullo schematismo, più sulla contemplazione che sulla speculazione»;6 preoccupa l’uso eccessivo del metodo positivo a detrimento di quello speculativo, con il rischio di cadere nel relativismo dottrinale;7 si ventila il «falso storicismo di certuni»;8 si richiamano gli errori metodologici della «Nova Theologia», con la richiesta di ribadire e precisare i punti stabiliti al riguardo nell’Humani generis…9 Le proposte battono in modo quasi esclusivo sulla necessità della teologia speculativa;10 sottolineano che «lo sforzo del pensiero umano, sorretto dalla Chiesa, non è quello di porre, di manipolare, di ridimensionare la verità, ma quello di chiarire filosoficamente, storicamente, culturalmente, il dogma immutabile»;11 soprattutto, richiamano con insistenza l’importanza irrinunciabile del tomismo: «Si devono sempre più raccomandare, contro le novità invadenti, la dottrina di S. Tommaso e il metodo scolastico»;12 «Sulla promozione della dottrina di S. Tommaso, affinché non sia dismessa né sminuita, così in teologia come in filosofia»;13 un superiore religioso, mentre ribadisce la necessità di insegnare – contro quanti si «convertono» vuoi a Bergson o Blondel, vuoi, oggi, a Sartre o Teilhard – la «filosofia perenne» e la teologia di Tommaso, cita il caso di uno studente che, avendo seguito il corso de Trinitate in un’Università cattolica, afferma di non aver mai sentito parlare di Tommaso e della sua dottrina trinitaria, «perché abbiamo affrontato soltanto i documenti storici circa lo sviluppo di questa dottrina trinitaria!».14 Sul fronte delle università ecclesiastiche regna un’analoga fermezza: insistono sulla necessità di attenersi al tomismo i professori di filosofia della Lateranense;15 i Salmanticenses, da parte loro, scrivono contro i 6
A. Jannucci, di Pescara-Penne (AD I, II/3, 522; il votum è in italiano); corsivo mio. C. Heiligers, superiore generale dei Monfortani (AD I, II/8, 154). 8 G.P. Dweyer, vescovo di Leeds (AD I, II/1, 20). 9 J. Argaya Goicoechea, vescovo di Mondoñedo-Ferrol (AD I, II/2, 234); termini pressoché identici nel votum dei professori dell’Università Comillas (cf. sotto, nota 17). 10 C. Heiligers (AD I, II/8, 154). 11 A. Jannucci (AD I, II/3, 522). 12 R. Calabria, vescovo di Otranto (AD I, II/3, 486). 13 T.A. Connolly, arcivescovo di Seattle (AD I, II/6, 444). 14 L. Houdiard, superiore generale dei Religiosi di S. Vincenzo de’ Paoli (AD I, II/8, 208s). 15 Votum della Facoltà di filosofia della Lateranense (AD I, IV/1.1, 416-427); anche singoli docenti si esprimono in termini analoghi: cf. ad es. F. Lambruschini, il quale lamenta la diffidenza nei confronti del tomismo, presente nel clero giovane, nonostante i vari interventi pontifici, con conseguenze perniciose (cf. AD I, IV/1.1, 211); anche C. Fabro scrive un votum «De doctrina S. Thomae in scholis catholicis promovenda»; mentre il rettore Piolanti preannuncia la preparazione di un numero di Aquinas sul tema: «de reditu ad S. Thomam», che si intende offrire ai Padri conciliari (cf. AD I, IV/1.1, 171). 7
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rischi del relativismo e dello storicismo e domandano esplicitamente un decreto di condanna della dottrina e degli approcci di quanti, indulgendo troppo alla filosofia odierna, negano la forza e il valore, o sminuiscono i concetti sui quali spesso si appoggia non solo la sacra Teologia, ma la stessa Chiesa, nel magistero pubblico attraverso decreti e definizioni; quasi che tali concetti non fossero stabili e sicuri e che non si potesse, per loro mezzo, esprimere in modo proprio le realtà soprannaturali ma fossero, a motivo della «storicità» dell’uomo e della Chiesa, non immutabili ma continuamente mutevoli, variabili e inconsistenti. 16
Non molto diversamente si esprimono i docenti della Università Comillas;17 e il coro si completa con le voci delle Congregazioni romane: quella del S. Uffizio, che indica, tra gli altri punti suggeriti per i lavori conciliari, anche il seguente: «De S. Theologia relate ad Magisterium. Revindicatio Theologiae Scholasticae contra insidias Theologiae novae (Enc. Humani Generis)»;18 e quella dei Seminari, che alla questione «De doctrina S. Thomae servanda» dedica venticinque pagine, uno dei suoi vota più ampi ed elaborati.19 La preoccupazione doveva essere forte, se persino figure di estrazione non tomista si esprimono negli stessi termini: è il caso di L. Rubio, priore generale degli Eremitani di S. Agostino, secondo il quale occorre mettere al sicuro la capacità dell’intelletto di cogliere i principi supremi della filosofia perenne, contro gli aberranti errori moderni; salvo poi, da agostiniano, aggiungere: «al tempo stesso, tuttavia, sembra da affermare il compito, così sottolineato dai Padri, della volontà e degli affetti dell’anima nella conoscenza della verità stessa».20 Con maggiore ampiezza di argomentazione, Cipriano Vagaggini, redattore di un votum presentato dall’Ateneo benedettino S. Anselmo,21 suggerisce che il concilio riaffermi la possibilità della conoscenza concettuale e razionale contro le tendenze irrazionaliste che vanno per la maggiore. Anche per Vagaggini, queste tendenze sono correlate a una preoccupazione «unilaterale», sebbene derivante dalla necessità «vera» di mettere meglio in evidenza, nel presentare la rivelazione, il contributo della teologia biblica e storica e gli aspetti più concreti e utilizzabili nella vita pastorale e spirituale. La «lodevole e assolutamente necessaria cura» di un maggiore studio della Scrittura e dei Padri va dunque sorvegliata, perché non sia distorta in un senso
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Votum della Pontificia università di Salamanca (AD I, IV/2, 544). Cf. AD I, IV/2, 58. 18 Votum del S. Uffizio in AD I, III, 1-17; la citazione è da p. 9. 19 Cf. AD I, III, 333-357. Il card. F. Cento, nel discorso celebrativo del 50° anniversario di fondazione dell’Angelicum, prospetta il tomismo come via particolarmente adatta a rispondere alla «linea programmatica di Giovanni XXIII» e a situarsi «nella prospettiva delle finalità del Concilio Ecumenico annunziato dal Papa» (cf. CAPRILE I/1, 323). 20 AD I, II/8, 85. 21 Cf. AD I, IV/1.2, 37-41. 17
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antiintellettualistico e antispeculativo. E nota, a proposito dei Padri, che essi vengono facilmente interpretati (ma in contraddizione con una storia corretta) nel senso irrazionalistico della filosofia più recente; e la necessità di un «ritorno ai Padri» sembra essere intesa, di tanto in tanto, come se il teologo, nell’affrontare una questione, basandosi sui Padri potesse trascurare ciò che dopo di loro hanno detto altri teologi, in particolare scolastici, sulla stessa materia. 22
Se i Padri della Chiesa non vanno bene – o vanno bene, ma con molte riserve e al prezzo di molte precisazioni, come vedremo – per chi vorrebbe dalla Chiesa, e dall’annunciato concilio, un’azione decisa in difesa della verità cattolica contro i pericoli di novità che la minacciano dall’esterno e dall’interno, c’è invece un ambito nel quale l’appello ai Padri è accolto con grande favore: ed è quello dell’esegesi. Qui, infatti, non spaventa più il relativismo storico, ma quello esegetico, indotto ad esempio dall’abuso dei «generi letterari»: donde l’esigenza di richiamare le norme consolidate dell’interpretazione della Scrittura, che fanno appello alla tradizione vivente nella Chiesa, quale si manifesta nel consenso dei Padri e nel giudizio autorevole del magistero.23 I toni non sono sempre così negativi, la questione può essere accennata solo con richiami stringati,24 ma il problema è posto – e, del resto, al di là di questi spunti, è noto che si arrivò al concilio in un clima piuttosto teso, per ciò che riguarda la questione della Scrittura e della sua interpretazione. Nell’ambito delle stesse istituzioni cattoliche di ricerca, anche senza rievocare lo scontro frontale tra l’Università lateranense e l’Istituto Biblico prima e durante il concilio,25 basterebbe confrontare tra loro i vota dell’Università cattolica di Lovanio («In conformità con la Divino Afflante Spiritu si stabilisca solennemente, con l’autorità del concilio, il primato del senso letterale delle Sacre Scritture») e della Facoltà teologica S. Bonaventura (domanda che sia chiarita la «esistenza e valore del senso 22 AD I, IV/1.2, 40. Sull’atteggiamento delle università romane nella preparazione del concilio, cf. FOUILLOUX, in SCVII, I, 147-152; per la Lateranense, cf. P. CHENAUX (ed.), L’Università del Laterano e la preparazione del concilio Vaticano II. Atti del Convegno Internazionale di Studi. Città del Vaticano, 27 gennaio 2000, Roma 2001. 23 Così il votum di Argaya Goicoechea (AD I, II/2, 234) e quello identico dell’Università Comillas (cf. AD I, IV/2, 58), nonché i rilievi di mons. Pérez Platero (AD I, II/2, 157), di Martínez Gonzáles (ivi, 379) e altri ancora. Dall’Italia, arriva un giudizio analogo nel votum del card. Fossati (redatto da A. Vaudagnotti; cf. AD I, II/3, 659). 24 Cf. ad es. i vota di Tabera Araoz (AD I, II/2, 115) e di Barbieri (AD I, III, 171). 25 Cf. in particolare la polemica scoppiata tra fine del 1960 e inizi del 1961, a seguito della pubblicazione su Divinitas di un duro articolo di A. Romeo contro l’Istituto Biblico (sull’episodio, cf. J.A. KOMONCHAK in SCVII, I, 297s; R. BURIGANA, «Tradizioni inconciliabili? La “querelle” tra l’Università Lateranense e l’Istituto Biblico nella preparazione del Vaticano II», in CHENAUX (ed.), L’Università del Laterano e la preparazione del concilio Vaticano II, 51-66; si vedano anche le annotazioni di J-de Lubac, I, 26-30 e, ora, la ricostruzione delle vicende in M. GILBERT, Il Pontificio Istituto Biblico. Cento anni di storia (1909-2009), Potificio Istituto Biblico, Roma 2009, 155-158.
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letterale “plenior” nella S. Scrittura» e afferma la subordinazione del senso letterale rispetto all’interpretazione della Scrittura «ad Ecclesiae sensum»).26 C’è anche qualche voce di segno diverso: mons. Jacquemin, vescovo di Bayeux e Lisieux, loda senz’altro il rinnovamento degli studi biblici ed esprime la sua approvazione anche a riguardo dell’«assidua opera intrapresa dai teologi per dischiudere e attingere il pensiero dei Padri della Chiesa» – l’allusione alle «Sources chrétiennes» sembra trasparente;27 salvo poi manifestare a sua volta il timore che non si segua abbastanza il magistero della Chiesa. Per quanto riguarda il problema «quale teologia?», una voce fuori del coro viene da quella stessa Università lateranense che si presenta come baluardo del tomismo: è quella di Enrico Nicoletti, docente di filosofia, che pone il problema dell’insufficienza dei metodi di insegnamento di filosofia e teologia e critica senza mezzi termini il modo in cui la teologia speculativa utilizza i testi scritturistici, patristici o conciliari come «dicta probantia», ma trascurando del tutto il contesto storico, ignorando la teologia biblica o patristica e magari aggiungendo qualche testo più o meno integro di Tommaso, prescindendo poi dal significato storico dello stesso tomismo. Per questo propone una maggiore unificazione dell’insegnamento e un uso del riferimento alla Scrittura e ai Padri più rispettoso dell’insieme della loro dottrina; inoltre, si chiede se, a rimedio della situazione difficile in cui versa l’insegnamento della filosofia e della teologia, non si debba prendere in considerazione un «ripensamento» (la parola è introdotta anche in italiano nel testo) del tomismo, una «recogitatio traditionis», che gli appare l’unica via per riconoscere e mostrare con verità la vitalità perenne dell’insegnamento del Dottore Angelico.28 Tra i vota inviati dai vescovi, solo uno pone in modo esplicito la questione di un ritorno ai Padri della Chiesa (e alla Scrittura) come fondazione e integrazione – non come alternativa – al tomismo: è quello di mons. A. Charue, vescovo di Namur: Si propongano di più la Sacra Scrittura e l’argomento patristico come fondamento delle realtà definite. Sebbene l’argomentazione del Dottore Angeli-
26 I testi di Lovanio e della Facoltà S. Bonaventura in AD I, IV, rispettivamente pp. 2, 228 e pp. 1/2, 240s. Un monito del S. Uffizio, dato d’intesa con la Commissione Biblica, in data 20 giugno 1961, ammonisce tutti quelli che si occupano, per iscritto o a voce, dei libri sacri, affinché trattino la questione della storicità di AT e NT, soprattutto per quanto riguarda detti e fatti di Cristo, con la debita reverenza e prudenza, tenendo sempre presente la dottrina dei Padri della Chiesa, nonché il senso e il magistero della Chiesa stessa (cf. AAS 53[1961], 507; EB 634; cf. al riguardo anche E. FOUILLOUX, «“Mouvements” théologico-spirituels et Concile [1959-1962]», in M. LAMBERIGTS – C. SOETENS [éds.], À la Veille du Concile Vatican II. Vota et Réactions en Europe et dans le Catholicisme oriental, Bibliotheek van de Facuteit der Godgeleerdheid, Leuven 1992, 191). 27 AD I, II/1, 207. 28 Il votum è in AD I, IV/1.1, 431-432.
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3. I Padri nel cammino verso il concilio co e degli scolastici in genere non sia da respingere, tuttavia si espongano e si illustrino la dottrina e i principi cristiani sempre più sulla base delle Sacre Scritture.29
È da notare, peraltro, che questa proposta è inclusa da mons. Charue nella sezione VII del suo votum, che ha per titolo: «De unione Ecclesiarum». Di fatto, si può osservare che in alcuni vescovi, più attenti alla preoccupazione «unionista» del futuro concilio, affiora la percezione del possibile valore ecumenico del ricorso ai Padri. Si colgono, in particolare, due aspetti, che avranno poi la loro importanza nel concilio: anzitutto, l’esigenza di una certa «essenzialità» dottrinale – problema che alcuni pongono anche indipendentemente dalla questione ecumenica. Molti vota propongono l’elaborazione di un nuovo catechismo, o il rifacimento del «Catechismo romano» voluto dal Tridentino; in qualche caso, si chiede esplicitamente che esso contenga un’antologia di testi biblici, patristici e magisteriali.30 Altri suggeriscono che il futuro concilio proclami le verità essenziali della fede usando il linguaggio dei Padri a preferenza delle formule scolastiche o dei ragionamenti dei teologi latini i quali, «per quanto illustri, non debbono essere considerati necessariamente come norme da imporre a tutti».31 Chi è attento alla questione ecumenica, comunque, chiede essenzialità: così, ad es. – senza riferirsi specificamente ai Padri, e però citando Agostino! – il vescovo di Araçuaí (Brasile) J.M. Pires: l’ideale lodevole dell’unione tra i cristiani richiede che chierici e fedeli, scrive, «rifuggano dalle discussioni inutili che sono più di danno che di giovamento alla fede, e nelle quali non sempre vale il principio di s. Agostino: “Amate gli uomini, uccidete l’errore”»;32 più espliciti, nella loro stringatezza, i vescovi tedeschi suggeriscono: «… conviene che il Concilio ecumenico attinga la dottrina da proporre dalle fonti della Scrittura e della Tradizione»;33 e l’arcivescovo di Paderborn, mons. L. Jaeger – delegato della Conferenza episcopale per l’ecumenismo – chiede: Metodo dottrinale. Tutta la dottrina, per quanto possibile, sia esposta con un linguaggio chiaro, a tutti comprensibile, e – secondo l’uso della Chiesa con29
AD I, II/1, 115. Così il vescovo missionario J. Fady dal Nyasaland, oggi Malawi (AD I, II/5, 365), e, con esplicito riferimento alla causa ecumenica, il domenicano D. Caloyeras, amministratore apostolico di Istanbul (AD I, II/2, 789). Per un indice delle richieste relative al catechismo, cf. Analyticus conspectus (= AD I, App. II/2, 480-486). 31 P.E. Déage, superiore generale dei Missionari di S. Francesco di Sales d’Annecy: AD I, II/8, 173s. L’ausiliare di Santander (Spagna), Fernández y Fernández, chiede che si lasci cadere il peso insopportabile delle discussioni tra le varie «scuole», per far posto alla Scrittura, ai Padri e al magistero (cf. AD I, II/2, 404). 32 AD I, II/7, 132. È curioso che dal medesimo Brasile, e da uno dei vescovi più rigidi e tenaci nel difendere la causa «conservatrice», mons. G. de Proença Sigaud, venga invece un invito esplicito alla polemica, certo «curandum… ut forma sit caritatis plena. Sed discussio est necessaria, et quidem viva, ut nascatur amor veritatis…» (AD I, II/7, 190; cf. anche un altro battagliero vescovo brasiliano, A. de Castro Meyer: cf. ivi, 161). 33 AD I, II/1, 739. 30
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Parte I - Lo studio dei Padri nella prima metà del Novecento fermato dai decreti di quasi tutti i concili – sia impregnata dello spirito della s. Scrittura e dei Padri, in particolare di s. Agostino e dei Padri orientali, a giusto titolo lodati da papa Giovanni XXIII. I padri del concilio di Trento respinsero il primo schema del decreto sulla giustificazione perché era troppo difficile e scritto in un linguaggio scolastico rigido (cf. Concilium Tridentinum, t. V, 404).
L’esposizione dottrinale patristica potrebbe confermare e sostenere la propensione verso la dottrina e le istituzioni cattoliche, e verso la Sede Apostolica, soprattutto degli Orientali separati, e l’esposizione biblica quella dei dissidenti Anglicani e Protestanti.34 L’accenno esplicito ai Padri orientali ci porta a un secondo aspetto: alcuni prelati sottolineano il potenziale «unitivo» del ricorso alla tradizione patristica soprattutto nei confronti dell’oriente cristiano. Lo sottolinea mons. Blanchet, rettore dell’Institut Catholique di Parigi, con un riferimento generale al tema della tradizione e alla riverenza degli orientali nei suoi confronti;35 ancora più specificamente, mons. de Bazelaire osserva che la causa ecumenica sarà favorita da una definizione genuina della «tradizione cattolica», che tenga in conto non solo quella latina-occidentale, ma anche quella orientale, «ciò che senza dubbio non viene negato ma, in pratica, di tanto in tanto è dimenticato»;36 l’appello, condiviso da altri in toni meno severi,37 non avrà peraltro molto riscontro, come mostreranno alcuni interventi polemici nel corso dei dibattiti conciliari.
2. I L
LING UA GG I O D A A DOTTAR E NE L C ON CILI O
a) I Padri: quale autorità? A un primo sguardo, dunque, si ha l’impressione che prevalga, nei vota antepreparatori, un clima severo, o almeno poco propenso ad accogliere le nuove istanze teologiche che avevano cercato di farsi strada soprattutto a partire dagli anni ’40. L’Humani generis, interpretata in senso piuttosto restrittivo, ritorna con una certa insistenza;38 «Coronare quattro secoli d’intransigenza»,39 ancorché in modi più o meno rigidi, costituisce per molti un programma che il concilio dovrebbe mettere in primo piano. 34 AD I, II/1, 639. Ritorneremo più avanti al contributo importante di mons. Jaeger. Per l’allusione a Giovanni XXIII, si veda più sotto, sez. II § 1 di questo capitolo. 35 Cf. AD I, II/1, 500s. 36 AD I, II/1, 269; la questione tornerà nei dibattiti conciliari. 37 Si vedano ad es. i vota di Dal Prà (AD I, II/3, 638) o dell’indiano Butler (AD I, II/4, 182). Il monfortano P. Heiligers ricorda la questione e invita a un «reditus ad fontes in Scriptura vel apud Patres praesertim graecos», che sarebbe motivo di riconciliazione, in riferimento specifico alla dottrina dei «Novissimi»: cf. AD I, II/8, 155. 38 Cf., oltre ai vota già citati, anche quelli di Modrego Y Casaús (AD I, II/2, 149) e di Margiotta (AD I, II/3, 127); cf. anche FOUILLOUX, in SCVII, I, 151. 39 Così FOUILLOUX, in SCVII, I, 124.
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Se non altro, lasciano capire alcuni, si dovrebbe fare chiarezza: si dovrebbe, ad es., «chiarire bene quale sia l’autorità dei Ss. Padri nelle questioni attinenti la fede e quando il loro insegnamento sia da seguirsi»; lo domanda il card. Ruffini.40 In modo appena più argomentato, la richiesta si trova anche nel votum dello spagnolo Fernández y Fernández, ausiliare di Santander, anche perché – osserva – si danno interpretazioni divergenti dell’Humani generis; chiarificazioni intorno al concetto di «progresso dogmatico», di come vada inteso in rapporto al magistero ordinario e al consenso dei Padri e dei teologi, sono richieste dallo statunitense Connolly.41 C’è chi, in definitiva, ha risolto il problema alla radice: il magistero recente basta a tutto;42 altri, invece, come lo spagnolo Tabera Araoz, problematizzano e domandano di chiarire il valore e le condizioni che la tradizione patristica deve rivestire per discernere quando essa, ossia il consenso dei Padri, quali testimoni della fede e Dottori autorevoli, sia nell’esposizione dottrinale che nell’interpretazione della S. Scrittura, è vera tradizione dottrinale, criterio di fede e di rivelazione.43
Altri, poi – e proprio argomentando anche a partire dalla tradizione patristica – oltre a chiedere di esplicitare meglio il concetto stesso di «tradizione»,44 vorrebbero che si riflettesse sulla questione del sensus fidei o, in altri termini, si affermasse che «l’unanime consenso di tutto l’insieme dei fedeli in materia di fede e di morale è argomento e criterio della divina tradizione».45 Non stupisce, allora, incontrare tra i vota delle Facoltà anche la bozza di un testo sul magistero ecclesiastico, che tra l’altro presenta i documenti su cui tale magistero si basa e li dispone secondo un ordine di valore, che assegna il primo posto alla Scrittura, il secondo ai documenti del magistero universale straordinario e ordinario, il terzo alla liturgia universale, il quarto al consenso unanime (o almeno moralmente unanime) dei Padri, ecc.46 40
AD I, II/3, 503. AD I, II/6, 445. 42 Cf. il votum di Argaya Goicoechea, che suggerisce dettagliatamente, per una ventina almeno di questioni dottrinali, le fonti tra gli schemi preparatori del Vaticano I e le encicliche dei papi da Pio IX in poi (AD I, II/2, 231-234; il votum è ripreso alla lettera – se non è errore di stampa – da J. Eguino Trecu: cf. ivi, 290-298; si noti però che a 298-308 segue un altro testo, in parte in latino, in parte in spagnolo, di tono piuttosto diverso); un’impostazione analoga nel votum del cappuccino M.A. Niedhammer, dal Nicaragua (cf. AD I, II/6, 627-633). 43 AD I, II/2, 116. 44 Ad es. l’arcivescovo di Strasburgo, Weber (AD I, II/1, 417); ma le richieste su questo tema furono diverse (cf. l’Analyticus conspectus: AD I, App. II/1, 32-34). 45 Così si esprime il votum della Facoltà teologica di Treviri, che allega alcuni testi patristici a sostegno della tesi (AD I, IV/2, 745). Si veda anche l’intervento di Weber citato alla nota precedente. 46 Cf. AD I, IV/1.2, 433-435. Si può notare, per inciso, che il sensus fidelium è collocato al 16° posto in una lista di 19 elementi. 41
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Si può dire, forse, che alla domanda di chiarificazione circa il posto dei Padri – e, prima ancora, della Scrittura – il concilio risponderà coi fatti, più che con una dichiarazione formale: ma su questo, evidentemente, dovremo tornare in sede di ricapitolazione conclusiva. Più importante, per il momento, è cogliere un altro spunto offerto da alcuni dei vota antepreparatori. Se, infatti, gli interrogativi che abbiamo raccolto qui sopra ruotano intorno al problema della «autorità teologica» dei Padri – un problema, in definitiva, intra-teologico – alcuni presuli coglievano invece, nel ricorso ai Padri, una potenzialità più largamente comunicativa: in un certo senso, se ci si passa la semplificazione, erano interessati più al come dire le cose, che non al che cosa dire; salvo che, poi, la questione del come si sarebbe rivelata gravida di conseguenze anche a proposito del che cosa, e in misura molto più ampia di quanto ci si potesse immaginare.
b) I Padri, fonte di un nuovo linguaggio per la Chiesa Da due aree geografiche specifiche – Germania e Canada – non a caso particolarmente interessate alla questione ecumenica, arriva una medesima preoccupazione: quale linguaggio usare nel concilio, e più in generale nella parola della Chiesa? I vescovi tedeschi, richiamandosi a esempi del Tridentino e del Vaticano I, ricordano che i documenti conciliari dovranno essere accessibili a tutti, evitando o comunque spiegando bene la terminologia scolastica «e, per quanto possibile, utilizzando il modo di esprimersi della Sacra Scrittura e dei Padri, come fece il concilio di Trento soprattutto nel decreto sulla giustificazione (sessione VI)».47 Negli stessi termini, ma in modo più argomentato, si esprime l’arcivescovo di Paderborn, mons. L. Jaeger,48 di cui abbiamo già citato alcune 47
AD I, II.I, 739. Vi sono molte somiglianze tra i vota inviati a due riprese (3 agosto e 15 dicembre 1959: AD I, II.I, 638ss) da mons. Jaeger e quelli della Conferenza episcopale tedesca, inviati dal card. Frings il 24 aprile 1960. Sulla base della successione temporale, sembra ragionevole pensare che la Conferenza episcopale abbia utilizzato, abbreviandolo, il materiale di Jaeger, che costituisce, a nostro avviso, uno dei vota più significativi di tutto il materiale antepreparatorio. Nato nel 1892, arcivescovo di Paderborn dal 1941 al 1973, cardinale dal 1965, morto nel 1975, mons. Jaeger fu particolarmente impegnato nel campo ecumenico (il padre, del resto, era protestante); un impegno che si tradusse istituzionalmente nella fondazione, nel 1957, dello Johann-Adam-Möhler-Instituts für Konfessions- und Diasporakunde di Paderborn e anche nella responsabilità per l’ecumenismo, affidata a Jaeger nell’ambito della Conferenza episcopale tedesca, nonché nella sua collaborazione alla costituzione del Segretariato per l’Unità dei cristiani (cf. K. WITTSTADT, «Die Verdienste des Paderborner Erzbischofs Lorenz Jaeger um die Errichtung des Einheitssekretaritas», in Communio Sanctorum. Einheit der Christen, Einheit der Kirche, hrsg. v. K. WITTSTADT, Echter, Würzburg 1988, 181-203). Il suo libro in preparazione al concilio, Das ökumenische Konzil, die Kirche und die Christenheit. Erbe und Auftrag, Paderborn 1961, ebbe larga risonanza e fu tradotto in varie lingue (ed. it.: Il Concilio, la Chiesa, le Chiese, Brescia 1962): vi si ritrovano pure alcuni dei temi presenti nei suoi vota antepreparatori; si vedano anche gli inter48
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righe da un primo votum, trasmesso nell’estate del 1959.49 La questione doveva stare a cuore all’arcivescovo, se vi torna più dettagliatamente in un secondo testo, inviato a Roma alla fine dello stesso anno. Jaeger vi affronta anzitutto alcune «questioni previe metodologiche» circa l’esposizione dottrinale da farsi in concilio; vi nota che, nel confronto con gli orientali, come si vide già al concilio di Firenze, il modo sillogistico di ragionare dei latini non favorì, anzi fu di ostacolo alla causa dell’unità; cita Isidoro di Kiev, secondo il quale si deve dire «con dolore che i teologi latini, in questo modo, rendevano più profondo lo scisma e allargando e irrigidendo la discordia».50 Jaeger continuava poi così: Viceversa, il ritorno ai Padri e alla tradizione comune, cercata con grande pazienza, salvava il concilio e apriva la strada all’unione degli Orientali con la Chiesa romana. Se ne ha un esempio magnifico nelle deliberazioni e conclusioni sul Filioque, ma per questa via venivano tolte di mezzo anche altre discordie. Le due parti, sostenute dal tesoro comune della Tradizione Apostolica e dalle testimonianze dei Padri, ripetutamente avevano superato le opposizioni e trovato l’unità. Anche nei nostri tempi si deve preparare la via per l’unità attraverso le fonti della rivelazione.51
Poco più avanti, Jaeger chiede ancora che la dottrina del prossimo concilio «sia attinta e presentata in base a queste fonti [= Scrittura e Tradizione]. Si utilizzino le testimonianze della Sacra Scrittura e dei Padri, di quelli Orientali in particolare, che sono venerati anche dai fratelli separati “ortodossi”».52 Si capisce che per il vescovo di Paderborn la questione non è solo linguistica;53 o, piuttosto, si capisce dalle sue parole che la «forma» qui è sostanza, che lo «stile» determina una modalità specifica secondo la quale la Chiesa intende il suo rapporto con la verità di fede, con le esigenze del suo annuncio e della sua difesa in un contesto di ricerca dell’unità. La richiesta di mons. Jaeger, che non avrà molta rispondenza
venti raccolti in L. JAEGER, Einheit und Gemeinschaft. Stellungnahmen zu Fragen der christlichen Einheit, Bonifacius-Druckerei, Paderborn 1972. Sull’apporto di mons. Jaeger al concilio, cf. E. STACKEMEIER, «Lorenz Kardinal Jaeger im zweiten Vatikanischen Konzil», in ThGl 56(1966), 278-303. [Ringrazio il Dr. Jörg Ernesti, dell’Arcidiocesi di Paderborn, per la documentazione su mons. Jaeger che mi ha cortesemente trasmesso]. 49 Cf. sopra, testo relativo alla nota 34. 50 Cf. AD I, II/1, 640-642; la citazione di Isidoro di Kiev è tratta da J. GILL, The Council of Florence, Cambridge 1959, 227, che Jaeger cita a p. 641 (cf. anche JAEGER, Il Concilio, la Chiesa, le Chiese, 61s). 51 AD I, II/1, 641s. 52 AD I, II/1, 642; si vedano anche le osservazioni sui primi schemi, inviate da Jaeger il 13 settembre 1962 (cf. AS App., 222). Un’argomentazione pressoché identica, ma in forma assai stringata, si legge nel votum della Facoltà teologica di Treviri (cf. AD I, IV/2, 739s). 53 Anche i vota (identici) di Hengsbach (Essen) e del suo ausiliare Angerhausen sottolineano soprattutto questo aspetto: «Totus modus dicendi in decretis et instructionibus Concilii ita respiciat dictionem Sacrae Scripturae et Patrum ut facilius moveat etiam fratres separatos et in ecclesiis orientalibus et protestantes» (AD I, II/1, 601 e 721).
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nella fase preparatoria, preannuncia alcune scelte che saranno poi qualificanti del Vaticano II. Un gruppo di interventi di tono simile si incontra nei testi di alcuni vescovi canadesi. Il card. P.E. Léger, arcivescovo di Montréal, pone la questione in termini esplicitamente ecumenici, a partire dall’osservazione che il protestantesimo pretende – peraltro a torto, secondo il cardinale – di fondarsi sulla sola Scriptura, mentre da parte anglicana c’è anche un’apertura alla tradizione conciliare e patristica della «Chiesa indivisa»; gli uni e gli altri, tuttavia, hanno in comune il rifiuto del linguaggio e del ragionamento sillogistico della scolastica e di s. Tommaso. Il cardinale rileva così una sostanziale estraneità di linguaggio tra cattolici e protestanti, alla quale propone di rimediare istituendo nei seminari corsi di teologia protestante, ma chiedendo anche, da parte cattolica, lo sforzo di esprimere la propria dottrina in linguaggio non scolastico.54 Questo sforzo, secondo due altri vescovi canadesi, mons. MacEachern (Charlottetown) e mons. Gagnon (Edmundston), compete anzitutto al concilio, il cui impegno teologico dovrà incentrarsi sulla dottrina riguardante la Chiesa, presentata prevalentemente nel linguaggio della Scrittura, dei Padri, dei teologi (MacEachern cita esplicitamente Agostino e Tommaso); uno sforzo linguistico che sarà ripagato, dicono i due vescovi, da una maggiore comprensione e da una maggiore riverenza nei confronti della Madre Chiesa anche da parte dei rudes.55 Entrando meno nei dettagli, esprimono analoghe preoccupazioni di linguaggio anche Baudoux (Saint Boniface) e l’arcivescovo di Québec Maurice Roy.56 Non si raccolgono molti altri segnali di questo tipo, nei vota antepreparatori: possiamo però registrare almeno la voce di mons. Weber, che risuona da Strasburgo,57 e quella che, dall’antica Smirne in Turchia, fa sentire l’arcivescovo Descuffi, preoccupato di favorire il ritorno alla Scrittura, alla tradizione dei Padri greci, ai libri liturgici dell’oriente, mentre chiede pressantemente: «Si evitino accuratamente le discussioni di filosofia scolastica…».58
54 Cf. AD I, II/6, 46s. Sulla «conversione ecumenica» del card. Léger, cf. R. BURIGANA – G. ROUTHIER, «La conversion œcuménique d’un évêque et d’une Église. Le parcours œcuménique du cardinal Léger et de l’Église de Montréal au moment de Vatican II», in ScEs 52(2000), 171-191, 293-319. 55 I vota di MacEachern (AD I, II/6, 12-13) e Gagnon (ivi, 20) si ricalcano quasi alla lettera. Verosimilmente Gagnon – il cui votum non è datato – dipende da MacEachern, che scrive il 28 agosto 1959: lo suggerisce il fatto che entrambi propongono di istituire una festa di Dio Padre; ma mentre MacEachern allega delle motivazioni, Gagnon si limita a ripetere la proposta pura e semplice. 56 Cf. AD I, II/6, rispettivamente 79 e 73. Per uno sguardo complessivo sulle proposte dell’episcopato canadese per il concilio, cf. G. ROUTHIER (dir.), L’Église canadienne et Vatican II, Montréal 1997 (Héritage et projet 58), in particolare i contributi raccolti nella prima parte dell’opera, 25-144. 57 Cf. AD I, II/1, 412. 58 Cf. AD I, IV, 624.
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3. L E
QUE S TION I E C C L E S I O LOGI C H E
a) Per una nuova impostazione dell’ecclesiologia La percezione che lo studio dei Padri possa favorire quello che molti ritengono essere il compito fondamentale del concilio, ossia la riflessione ecclesiologica, emerge da un discreto numero di considerazioni e proposte, in alcuni casi documentate in modo puntuale, in altri limitate a richiami piuttosto generici. Per quanto riguarda l’impostazione generale del discorso ecclesiologico, si ritiene che la testimonianza patristica possa confermare e illustrare la linea di riflessione data pressoché per scontata: l’ecclesiologia del «Corpo mistico», autorevolmente indicata in tempi ancora relativamente recenti da Pio XII.59 Esemplari e documentati, anche in questo caso, i vota di mons. Jaeger: è tempo, egli nota, di elaborare quella dottrina ecclesiologica che il Vaticano I non poté approntare; una circostanza, questa, da ritenersi quasi provvidenziale, perché ora si può valorizzare una larga messe di studi biblici, patristici e di tipo speculativo, di cui non si disponeva un secolo addietro;60 ed esemplifica subito, suggerendo di basare l’ecclesiologia conciliare sulla nozione di «corpo mistico», alla luce dell’insegnamento di Paolo, Agostino e Tommaso; per Agostino, in particolare, rimanda a uno studio recente.61 Anche in questo caso, la Conferenza episcopale tedesca sembra riprendere in toto la proposta di Jaeger,62 incluso il suo suggerimento di affermare il dominio regale di Cristo sulla Chiesa, alla luce dell’insegnamento di Padri come Cirillo di Alessandria e Giovanni Damasceno, già implicito del resto nella concezione del vescovo presente in Ignazio, Cipriano, Tertulliano.63 Altre proposte, che pure vanno nella stessa linea, sono meno documentate: anche Garcia Lahiguera, ausiliare di Madrid, vede la necessità di approfondire quella dottrina sulla Chiesa che il Vaticano I non ha potuto elaborare e ritiene che lo si debba fare sviluppando la dottrina del Corpo mistico, approfondita in base a Paolo e ad Agostino; l’olandese 59 Per la questione del «Corpo mistico» nei vota antepreparatori, cf. S. ALBERTO, “Corpus Suum mystice constituit” (LG 7). Storia del Testo dalla “Mystici corporis” al Vaticano II con riferimenti alla attività conciliare del P. Sebastian Tromp S.J., Pustet, Regensburg 1996, 89-102. 60 Il tema è ripreso anche in JAEGER, Il Concilio, la Chiesa, le Chiese, 144. 61 Cf. AD I, II/1, 638; cf. anche il votum inviato il 15 dicembre 1959, ivi, 643s. Lo studio indicato è quello di S.J. GRABOWSKI, The Church. An Introduction to the Theology of St. Augustin, St. Louis 1957 (cf. «Bibliografia storica», *1957). 62 Cf. AD I, II/1, 745: anche qui si richiama esplicitamente la ricchezza di studi biblici, patristici e sistematici usciti dopo il Vaticano I: il lavoro del prossimo concilio dovrebbe in qualche modo raccogliere il frutto di tutta questa ricerca. 63 Jaeger: AD I, II/1, 643-645; vescovi tedeschi: ivi, 748s, con l’aggiunta del rinvio allo studio di F. HOFMANN, Der Kirchenbegriff des hl. Augustinus in seinen Grundlagen und in seiner Entwicklung, München 1933 (cf. «Bibliografia storica», *1933). L’insistenza su Agostino è motivata dai vescovi anche con ragioni ecumeniche, considerato che i Riformatori si richiamarono alla sua ecclesiologia, sia pure in modo distorto (cf. AD I, II/1, 743s).
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Nierman accenna pure alle recenti ricerche bibliche e patristiche sulla tematica; gli italiani Lanzo e Zuccarino chiedono che questa dottrina, esplicitamente attestata dalla Scrittura, dai Padri e dal Magistero, sia definita dogmaticamente:64 ma nessuno aggiunge elementi significativi, rispetto alle proposte tedesche. Solo il votum della Facoltà teologica di Treviri anticipa, nella linea della valorizzazione delle fonti scritturistiche e tradizionali, il tema della Chiesa come popolo di Dio della nuova alleanza, peregrinante in questo mondo verso la patria celeste.65 Evidentemente, il peso dei quarant’anni di ricerche largamente condizionate dalla considerazione della Chiesa quale «Corpo mistico» si faceva ancora sentire; e nella mens dei vescovi non bastava ancora, a smuoverla o almeno a integrarla, la recente pubblicazione di opere che esploravano prospettive diverse.66 È ancora la connessione Jaeger-Conferenza episcopale tedesca a suggerire ulteriori approfondimenti, che potrebbero beneficiare delle recenti ricerche bibliche e patristiche: è un discorso che vale per il nesso Chiesa-sacramenti, a proposito del quale suggeriscono – spinti da una recentissima pubblicazione – una maggior valorizzazione dell’apporto di Agostino;67 vale per la «nota» della santità della Chiesa, che pone il problema dell’appartenenza dei peccatori alla Chiesa e del significato della dottrina agostiniana circa la preghiera ecclesiale per la remissione dei peccati;68 vale per la cattolicità, che implica l’apertura della Chiesa a tutti gli elementi di verità e bontà presenti in tutti i popoli, e si collega al dominio universale di Cristo, secondo l’insegnamento di Ignazio di Antiochia; e tocca la questione dell’apostolicità, che implica certo la questione della legittima successione apostolica, ma anche la custodia della pura dottrina evangelica attraverso il ministero dei successori degli apostoli, secondo l’insegnamento di Ireneo.69
b) Le questioni istituzionali I temi che occuperanno la parte più consistente dei dibattiti conciliari sul de Ecclesia – rapporto tra primato ed episcopato, sacramentalità del-
64 Cf. AD I, II/2, 474 (Garcia Lahiguera); 485 (Nierman); III, 580 (Lanzo); 108s (Zuccarino); ma cf. anche Castro Becerra (AD I, II/7, 421) e Calcara (ivi, III, 232); l’Analyticus conspectus indicizza quasi 200 proposte che vanno in questa direzione, ma non tutte si riferiscono alla dottrina patristica (cf. AD I, App. II/1, 68-70). 65 Cf. AD I, IV/2, 740-742. 66 Cf. sopra, c. 1 § 4. 67 Cf. AD I, II/1, 646 (Jaeger), 754 (Conferenza episcopale tedesca); il volume citato è l’opera di L. VILLETTE, Foi et sacrement du Nouveau Testament à S. Augustin. Pour un dialogue entre les églises, Paris 1959 (cf. «Bibliografia storica», *1959). 68 Così Jaeger, AD I, II/1, 648. 69 È ancora, per entrambi gli aspetti, mons. Jaeger, AD I, II/1, 648 (nonché JAEGER, Il Concilio, la Chiesa, le Chiese, 180s), ma cf. anche la sua più ampia riflessione sui vari aspetti della successione apostolica alle pp. 645s.
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l’episcopato, collegialità… – sono richiamati da un discreto numero di interventi che suggeriscono di rifarsi alla tradizione patristica. Intorno al primato del papa, non si tratta, evidentemente, di mettere in discussione il Vaticano I: chi ha avuto esperienza di contatto con gli orientali, come il vescovo cappuccino T.G. Raymundus – che, tra l’altro, pur avendo il proprio recapito a Parigi, scrive il 27 agosto 1959 dalla Grecia, dove si trova «per promuovere e favorire le relazioni tra la Chiesa cattolica e le comunità ortodosse» –, sa però che è difficile proporre loro il dogma nelle categorie attuali della teologia latina; chiede, quindi, che si utilizzi un linguaggio più corrispondente a quello della Scrittura e dei Padri, di modo che il papa non appaia «quasi altro rispetto alla Chiesa, ma come membro gerarchico dell’unica Chiesa»;70 lo stesso suggerimento danno mons. Weber71 e l’arcivescovo di Smirne Descuffi, che argomenta e documenta: argomenta che primato e infallibilità non possono essere considerati novità dagli orientali, dato che la Chiesa orientale nel V secolo mostra di riconoscerli e di onorare quei papi che furono i primi difensori dei diritti del vescovo di Roma; e documenta (o almeno elenca dei nomi) l’esistenza di una «nube di testimoni» orientali del primato, tanto nella liturgia quanto nei Padri.72 Ma è soprattutto la questione dell’episcopato ad attirare l’attenzione. Si parte dalla richiesta generale che la dottrina del Vaticano I sia integrata con un capitolo riguardante l’episcopato, anche perché su questo Scrittura e tradizione offrono un materiale abbondante e recentemente studiato,73 di cui alcuni (anche in questo caso, soprattutto Jaeger e i vescovi tedeschi) offrono qualche saggio: ricorre con relativa frequenza il suggerimento di ispirarsi all’antica teologia dell’episcopato di Ignazio, Ireneo, Cipriano; se ne sottolinea la portata ecumenica, sia nei confronti degli orientali, sia in rapporto al mondo protestante, giacché, alla luce di Ireneo, si potrebbe mostrare l’intimo nesso esistente tra legittima successione apostolica, pura predicazione del vangelo, retta amministrazione dei sacramenti.74 L’apporto di Padri come Ignazio e Cipriano a una rinnovata teologia dell’episcopato è ricordato da Durrieu (Alto Volta): allo sviluppo di una vera e propria «spiritualità del papato», constata, non ha corrisposto una spiritualità dell’episcopato.75 Agostino Saba, vescovo di Nicotera e Tropea, che ha alle spalle un curriculum significativo di studioso della storia della Chiesa, chiede al futuro concilio di riaffermare che i vescovi sono successori degli apostoli e posti a capo delle rispettive Chiese per divina istituzione e cita anche lui la teologia dell’episcopato di Ignazio;76 lo stes70
AD I, II/1, 488s. AD I, II/1, 416. 72 Cf. AD I, II/4, 627s. Mons. Descuffi esprime le stesse idee in un’omelia tenuta nella solennità di S. Policarpo, il 26 gennaio 1960 (cf. CAPRILE I/1, 159). 73 Così A. Colette, vicario generale degli Agostiniani dell’Assunzione (AD I, II, 188). 74 Jaeger (AD I, II/1, 646s) e più stringatamente i vescovi tedeschi (cf. ivi, 750). 75 Cf. AD I, II/5, 66. 76 Cf. AD I, II/3, 431. Mons. Saba, trasferito poi alla sede di Sassari, morirà prima dell’inizio del concilio, il 19 gennaio 1962. 71
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so fa il portoghese Da Silva Campos Neves, quando propone che il concilio si richiami alla dottrina ignaziana sul rapporto tra vescovo e presbiterio.77 Profondamente ispirato alla teologia ignaziana dell’episcopato è pure il votum che arriva dall’Università cattolica «Lovanium» di Leopoldville, la futura Kinshasa: si tratta, anzi, della proposta di un testo già elaborato, che propone una succinta teologia dell’episcopato tutta imbevuta di riferimenti alle lettere del vescovo di Antiochia.78 Altri richiamano più genericamente la dottrina della Chiesa antica sull’episcopato, ma è abbastanza evidente che siamo nello stesso ordine di pensiero.79 Sui fondamenti patristici della sacramentalità dell’episcopato scrive da Cambrai mons. E. Guerry, secondo il quale gli studi recenti di Lécuyer, Boularand, Boüessé hanno fatto giustizia della tesi contraria di Girolamo, «ripresa acriticamente da molti Padri, quindi da s. Tommaso nei suoi primi scritti»;80 Guerry chiede anche che il concilio evidenzi l’appartenenza del vescovo al collegio episcopale sparso nel mondo, rilevando tra le conseguenze l’esistenza e l’azione del magistero ordinario e universale, nella linea di Ireneo.81 Sono però soprattutto i vota delle facoltà a offrire qualche elemento più organico a sostegno delle questioni dibattute poi in concilio: dal Laterano, il prof. G. D’Ercole invia un vero e proprio dossier biblico e patristico, intitolato: «Deduzioni, da testimonianze bibliche e patristiche, sulla successione apostolica, i poteri episcopali e presbiterali»,82 mentre M. Maccarrone include tra i vota dell’Università un proprio studio che sintetizza i risultati della sua ricerca sul rapporto tra episcopato e primato.83 Più sobriamente, ma con precisione, il votum della Facoltà teologica di Milano, redatto sotto l’influsso prevalente di Carlo Colombo,84 sostiene la richiesta di affermare la sacramentalità dell’episcopato rinviando alle fonti liturgiche e alla testimonianza unanime dei Padri orientali, nonché a quella prevalente degli occidentali, nonostante il parere contrario dell’Ambrosiaster e di Girolamo.85 77
Cf. AD I, II/2, 598. Cf. AD I, IV/2, 167. 79 Cf., in AD I, i vota di Schoiswohl (II/1, 67) e di Jaramillo Tobón (II/7, 408). 80 AD I, II/1, 248. Per gli studi citati, cf. la «Bibliografia storica», in particolare per gli anni *1938 (BOÜESSÉ), *1953 (BOULARAND), *1954 e *1957 (LÉCUYER, BOÜESSÉ). 81 AD I, II/1, 246s. Si veda, nella stessa linea e con riferimento esplicito a Cipriano, il votum dell’Institut Catholique di Parigi: AD I, IV/2, 498. 82 AD I, IV/1.1, 352-373. 83 AD I, IV/1.1, 231-237; lo studio in questione viene indicato con questa referenza: La dottrina del Primato Papale dal IV all’VIII secolo nelle relazioni con le chiese occidentali, Spoleto 1960. 84 Cf. A. RIMOLDI, «La preparazione del Concilio», in Giovanni Battista Montini Arcivescovo di Milano e il Concilio Ecumenico Vaticano II. Preparazione e primo periodo. Colloquio internazionale di studio. Milano, 23-24-25 settembre 1983, Istituto Paolo VI-Studium, Brescia-Roma 1985, 202-241, qui 214. 85 Il testo rinvia agli studi di B. Botte per la liturgia, e all’«eruditissimum scriptum» di J. LÉCUYER «Aux origines de la théologie thomiste de l’épiscopat» (*1954): cf. AD I, IV/2, 686, nota 4. Poco oltre (ivi, 688) i teologi milanesi richiamano anche la dottrina ignaziana dell’episcopato. 78
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Su altre questioni, le idee appaiono meno chiare: così, se l’Università cattolica di Angers chiede di mostrare e valorizzare il sacerdozio dei fedeli, la cui indole è stata spesso illustrata dai Padri,86 un vescovo, preoccupato della corretta teologia del sacerdozio, enumera le «imprecisioni di teologi e autori», includendovi coloro i quali «chiamano “sacerdoti” i battezzati», e incomincia l’elenco con Agostino, Leone Magno e Giovanni Crisostomo!87 E c’è chi non vede di buon occhio ricerche patrologiche recentissime, come quella di A. Rétif su «La dottrina missionaria dei Padri della Chiesa», del 1960, perché vi si sostiene la tesi, erronea e rovinosa per il senso missionario della Chiesa, secondo cui «Gli infedeli in “buona fede” sono invisibilmente uniti alla Chiesa».88 Parlando di missioni, meritano un accenno due suggerimenti che vengono da R. Masi, docente sia all’Urbaniana che al Laterano, e che quindi firma i suoi vota tra quelli dell’una e dell’altra istituzione: entrambi, in ogni caso, riguardano l’atteggiamento della Chiesa nei confronti della cultura. Il docente richiama l’esempio dei Padri e il loro impegno per favorire l’incontro critico della rivelazione cristiana con la cultura greca e romana; e cita gli esempi di Giustino, Ireneo, Cipriano, Clemente Alessandrino, Origene e in particolare Agostino, «che espose un’altissima teologia cattolica mediante la filosofia neoplatonica».89 Colpisce la scarsità di riferimenti patristici quando si tratta della questione mariologica: per un tema che, com’è noto, fu richiamato da oltre 600 proposte, non si arriva a raccogliere una decina di richiami ai Padri, e non tutti ugualmente pertinenti, almeno alla luce del dibattito successivo. Non è difficile, infatti, ricordare il sottofondo patristico del tema di Maria typus Ecclesiae, come fanno – del resto senza entrare nei particolari – il vescovo di Volterra Bergonzini o quello del Lussemburgo Lommel.90 Così pure non vi è difficoltà a evocare il tema patristico di Maria «nuova Eva», anche se poi i presuli mostrano una certa tendenza a espandere la portata della testimonianza patristica.91 Il votum «De spirituali B. V. Mariae maternitatis definibilitate», presentato dall’Antonianum (con l’apporto di Balic´?), è più attrezzato sul piano dei riferimenti patristici, sebbene possa poi citare, come testimonianze dirette, solo Padri successivi al IV secolo.92 86 AD I, IV/2, 36s; nelle note, vengono dati riferimenti a Leone Magno, Giovanni Crisostomo e Clemente di Alessandria. 87 Così mons. L. Rastouil, vescovo di Limoges (AD I, II/2, 306-309; l’elenco, a p. 309, continua con Bossuet, Bourdaloue, Giraud, Hugon, Mersch, Marmion, Glorieux, Plus…). 88 La critica è di mons. M. Lefebvre, all’epoca arcivescovo di Dakar (AD I, II/5, 48; corsivo di Lefebvre); per l’articolo di Rétif, cf. «Bibliografia storica», *1960. 89 AD I, IV/1.1, 481-487, 483 (il votum è incluso tra quelli dell’Università urbaniana; per quelli della Lateranense, cf. ivi, 237-244, in particolare 240). 90 Cf. rispettivamente AD I, II/3, 749 e II/2, 566. 91 Cf. E. Déage: AD I, II/8, 176s. 92 Cf. AD I, IV/1.2, 59s, e il votum del messicano Cortés Pérez (AD I, II/6, 171).
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Quando però si arriva alla questione della «mediazione universale» di Maria, il terreno si fa più arduo e la pretesa di trovare una fondazione patristica a una verità di fede che si vorrebbe definita dogmaticamente rivela la propria debolezza, come mostrano i vota dei due soli vescovi che alludono a questa fondazione, l’argentino M. Marengo (Azul) e l’italiano B. Socche (Reggio Emilia).93
4. I P A D R I
E LA FO R M A Z I O NE D EL C LE R O
Concludiamo questa indagine sulle prospettive di un ressourcement patristico alla luce dei vota antepreparatori, con alcuni accenni ai desiderata dei vescovi intorno alla formazione del clero. Più di venti vescovi, un quarto di quanti hanno scritto a Roma includendo in un modo o nell’altro riferimenti patristici nei propri vota, hanno toccato questo tema. I vota in questione vengono per la quasi totalità dal mondo «latino» (Spagna, Italia, America Latina), ma, al di là di questa comunanza geografica, emergono tendenze piuttosto divergenti. Da una parte, ci sono quelli che vorrebbero una formazione teologica più nettamente incentrata sulle «fonti». Il più esplicito – anche perché è la prima cosa che scrive in tutto il suo votum – è lo spagnolo Castelltort Subeyre, che sollecita una maggiore formazione biblica e patristica per i seminaristi e, per quanto concerne i Padri, specifica: Né basta la conoscenza dei santi Padri che si può ricavare dai testi addotti in teologia dogmatica o morale. È necessario che quanti desiderano dedicarsi ai ministeri ecclesiastici abbiano in mano le opere stesse dei sullodati Padri. A questo fine, sarà quanto mai opportuna la divulgazione delle loro opere;94
sarebbe un rimedio, nota il vescovo, contro la dimenticanza delle fonti della fede e della morale cattoliche, che porta a prediligere una lettura superficiale e pedissequa dei soli autori moderni. Resta difficile capire chi siano questi «autori moderni»: per alcuni, certamente, sono gli autori della manualistica scolastica. Dalla lontana Cina, il gesuita Z. Aramburu esprime il desiderio che la formazione teologica dei sacerdoti «sia più dogmatica e positiva, tale appunto da far conoscere e assimilare la rivelazione e la tradizione, tanto patristica che ecclesiastica», e si astenga dalle dispute scolastiche, che poco giovano ai futuri sacerdoti e alla loro solidità dottrinale; pressoché identici, nel contenuto e nel tenore letterario, altri vota di vescovi spagnoli.95
93
Cf. AD I, rispettivamente II/7, 49s; II/3, 563s. Cf. AD I, II/2, 131. Castelltort Subeyre morì prima dell’inizio del concilio. 95 Il votum di mons. Aramburo in AD I, II/4, 574; si vedano inoltre i vota di Eguino Trecu (cf. ivi, II/2, 309s), di Bereciartua Balerdi (cf. ivi, 330) e dell’arcivescovo di Saragozza, C. Morcillo Gonzalez (ivi, 383). Per la questione dei vota identici, o quasi, cf. MELLONI, «Per un approccio storico-critico ai consilia et vota», 562. 94
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La scarsa conoscenza delle fonti, in sacerdoti e laici, è lamentata dal prelato di Ciudad Real, mons. Hervás y Benet, che propone per i sacerdoti uno studio diretto molto più intenso di Scrittura e Padri; il primate di Spagna, card. E. Pla y Deniel, chiede a sua volta una teologia più fondata sulle fonti (ma senza rinunciare alla teologia scolastica); l’ausiliare di Malaga, Benavent Escuín, sollecita il contatto diretto degli studenti di teologia con i testi biblici, i Padri, la Summa e i commenti biblici di Tommaso, i documenti pontifici…96 Tra gli italiani, fanno eco a queste suggestioni il delegato apostolico in Turchia Lardone, nell’ambito di una proposta di riorganizzazione complessiva degli studi,97 e soprattutto il vescovo di Lanciano-Ortona, Migliorini, che critica la teologia prevalentemente controversista e polemica dei trattati correnti e la tendenza del tomismo rigido a porre una quasi identità tra la rivelazione e il tomismo stesso; chiede quindi un approccio meno astratto e polemico e lancia questo appello: «Chiediamo inoltre che nella Chiesa di Dio, nella quale spira lo Spirito di verità e libertà, incontri un favore sempre maggiore la libertà di ricerca nelle fonti della rivelazione».98 Abbiamo già citato l’osservazione del vescovo di Chambéry, de Bazelaire, secondo il quale si parla in teoria di «tradizione» riferendosi anche a un oriente cristiano che poi, nella pratica, viene dimenticato: per questo domanda che si realizzi ciò che i papi hanno chiesto già da tempo, ossia una più ampia presentazione della tradizione teologica, liturgica, spirituale e disciplinare dell’oriente nei seminari e nelle università.99 Non stupisce che la stessa cosa stia a cuore anche al patriarca Maximos IV Saïgh, quando chiede, a nome dell’episcopato melchita: «L’insegnamento della filosofia e della teologia nei nostri Seminari maggiori e nelle Facoltà clericali dovrebbe riservare uno spazio più ampio alla dottrina dei Padri della Chiesa e alle teorie filosofiche moderne».100 Alcune voci lasciano trasparire preoccupazioni di segno diverso, se non proprio opposto. Vi sono quelli per i quali la Summa di Tommaso dovrebbe essere l’unico testo di insegnamento della teologia, a preferenza della manualistica corrente o dei testi preparati dai docenti;101 c’è chi non dissimula il proprio fastidio per l’attardarsi su questioni storiche, o disquisizioni scolastiche, magari senza poi saper trattare gli errori del
96
Cf. AD I, II/2, 391-393 (Hervás y Benet), 355 (Pla y Deniel), 412 (Benavent Escuín). Cf. AD I, II/2, 797. 98 AD I, II/3, 329s. 99 Cf. AD I, II/1, 269. 100 Cf. AD I, II/4, 457; quasi identica, ma da tutt’altra provenienza, la proposta dell’Università cattolica di Leopoldville/Kinshasa (cf. AD I, IV/2, 171). La questione si intreccia inevitabilmente con il problema linguistico: qualche intervento a favore del mantenimento del latino fa leva sulla necessità e opportunità di conoscere il latino dei Padri (Schulte: AD I, II/6, 343; Freundorfer, ivi, II/1, 570); solo l’italiano Palatucci menziona i Padri greci, che possono essere di valido aiuto anche nello studio di quella lingua (cf. ivi, II/3, 161s; una riflessione analoga da parte di Dal Prà, cf. ivi, 641). 101 Così M. Lefebvre (cf. AD I, II/5, 52) e J.J. Field (ivi, II/6, 548). 97
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tempo presente.102 Non tutti sanno vedere, come il patrologo C. Vona della Lateranense, ciò che si può imparare dai Padri proprio sul terreno del confronto sempre attuale con la cultura.103 E, per chiudere, il problema pratico posto dal vescovo di Fidenza, Rota, circa il costo delle edizioni patristiche, non accessibile a sacerdoti e seminaristi: «Sarebbe cosa eccellente che S. Congregazione curasse, ad opera di qualche tipografia, la pubblicazione delle opere degli stessi Padri a un prezzo modico, accessibile a sacerdoti e seminaristi».104 Volendo indicare sinteticamente alcuni elementi di valutazione di questo materiale, si possono raccogliere questi punti: – dal punto di vista quantitativo, il materiale non è molto; i vota danno l’impressione che pochissimi vescovi siano al corrente delle recenti ricerche di carattere patristico,105 e coloro che ne intravedono le virtualità per il lavoro che sta davanti al concilio, soprattutto per la riflessione ecclesiologica, si contano sulle dita di una mano (a parte il caso eccezionale della Conferenza episcopale tedesca); – le controversie intorno alla «nouvelle théologie», accusata da alcuni di rinverdire gli errori del temuto modernismo, gettano ancora una pesante ombra di sospetto sulle ricerche di tipo storico-teologico, che si teme potrebbero fomentare il relativismo e compromettere l’immutabilità del dogma; – è indicativo che, per altro verso, si faccia volentieri appello ai Padri quando entra in questione il problema biblico: si può azzardare l’ipotesi che l’insegnamento dei Padri sia complessivamente percepito come arma di difesa e di sana conservazione, piuttosto che come via di rinnovamento del pensiero teologico; – detto questo, occorre aggiungere che si notano i sintomi di ciò che emergerà poi sempre meglio nel concilio: la fecondità di un «ritorno alle fonti» che associa volentieri Scrittura, liturgia e Padri (senza escludere Tommaso, ossia la grande scolastica); la convinzione che decenni di ricerche storico-teologiche possano finalmente portare un buon frutto e ripercuotersi anche sulle speranze ecumeniche associate al concilio; la percezione, ancora confusa, che si possano e si debbano esplorare strade
102 Cf. P. Moretti, da Thungchow (Cina): AD I, II/4, 603s; H. Gelain, brasiliano (ivi, II/7, 207). P.J. Rivera Mejía, colombiano, vorrebbe lasciar cadere le questioni che hanno un mero interesse storico, per favorire la teologia pastorale, la psicologia, la pedagogia e la sociologia (cf. ivi, 438). 103 Cf. AD I, IV/1.1, 271-273. 104 AD I, II/3, 264. Non abbiamo incluso in questa rassegna un gruppo di proposte relative alla riforma della lettura patristica nella Liturgia delle Ore: sei vescovi avanzarono suggerimenti, per lo più abbastanza generali, in questa direzione. 105 Il discorso è un po’ diverso, evidentemente, per le università; almeno in quelle romane, tuttavia, prevale – con le debite eccezioni – un atteggiamento piuttosto chiuso nei confronti dei nuovi indirizzi di ricerca. È vero che i contenuti dei vota antepreparatori non corrispondono necessariamente al sentire complessivo dei rispettivi corpi docenti: H. de Lubac poté raccogliere, alla Gregoriana, voci critiche su come era stata condotta la redazione dei vota nell’università dei gesuiti: cf. J-de Lubac, I, 21 note 7 e 35.
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nuove – ma ancorate nella tradizione più ampia – del modo in cui la Chiesa custodisce la dottrina, o piuttosto la verità del Vangelo, e la propone a se stessa e al mondo.
II. S U G L I O R I E N TA M E N T I PAT R I S T I C I D I G I O VA N N I XXIII E P A O L O VI 1. G IOVA NNI XXIII:
UN PAT ROL OGO SU LLA C ATTE D R A D I P IET RO ?
a) L’antico docente di patrologia …[A]ttraverso quelle pagine, come attraverso ad una galleria di quadri e ad una biblioteca nuovamente ordinata e messa in conformità col movimento attuale degli studi [ritrovavo] tante figure e idee e cose che mi furono familiari negli anni più giovani del mio sacerdozio, quando anch’io insegnavo la Patrologia nel grande seminario di Bergamo e poi al Seminario Romano l’anno stesso in cui venni inviato in Bulgaria.
L’autore di queste parole, scritte dalla capitale della Bulgaria, Sofia – l’antica Serdica, sede nel 343 di un concilio – è Angelo Giuseppe Roncalli. Destinatario è l’assunzionista francese Fulbert Cayré, autore di quei Précis de Patrologie il cui primo volume l’editrice Desclée aveva pubblicato a Parigi nel 1927, completandolo poi nel 1930 con un secondo volume.106 Ed è appunto dopo aver ricevuto questo volume che Roncalli, il 14 agosto del 1930, scrive al Cayré la sua lettera, inserita poi nelle edizioni successive dell’opera, inclusa la versione italiana.107 Senza essere uno studioso di patrologia nel senso più tecnico del termine, il futuro papa Giovanni XXIII poteva vantare, dunque, una competenza patristica specifica. Le occasioni di insegnamento della patrologia che egli ebbe furono, nell’insieme, piuttosto ridotte: tre anni accademici nel corso del periodo bergamasco, e un semestre a Roma, interrotto dalla nomina a Delegato apostolico in Bulgaria.108 Giovanni XXIII ne conservò, tuttavia, un ricordo profondo, tanto da poter affermare, a distanza di oltre trent’anni dall’ultimo corso tenuto al Laterano – e non 106
F. CAYRÉ, Précis de patrologie, 2 voll., Desclée et C.ie, Paris 1927-1930. F. CAYRÉ, Patrologia e storia della teologia, 2 voll., Desclée e Ci. Editori Pontifici, Roma 1936-38. La lettera di Roncalli è pubblicata alle pp. III-IV dell’ed. italiana; il passo che abbiamo citato in apertura del paragrafo si legge a p. III. L’ultima edizione francese del manuale del Cayré di cui abbiamo notizia fu pubblicata nel 1953-55. 108 Il futuro papa insegnò patrologia a Bergamo nel 1908-09, 1910-11 e 1913-14; a Roma, dal novembre 1924 al febbraio 1925: cf. A. MELLONI, Papa Giovanni. Un cristiano e il suo concilio, Einaudi, Torino 2009, 85, nota 26; M. MANZO, «Papa Roncalli e il Laterano», in CHENAUX (ed.), L’Università del Laterano e la preparazione del concilio Vaticano II, 32s, con rinvio ad A. GALUZZI, «Le scuole del Seminario romano durante la breve docenza di Angelo Giuseppe Roncalli», in Lat. 1(1983), 102-116. 107
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senza un pizzico di orgoglio – che quelle lezioni furono «un successo», che si dovette imprimere con forza nell’attenzione degli studenti109 e, in ogni caso, nella memoria del docente. Lo stesso antico professore, da poche settimane diventato vescovo di Roma, rievocava così le lezioni di quell’ultimo suo corso, risalente al lontano 1924-25: Chi ora vi parla, fu un giorno invitato dall’E.mo Cardinale Vicario di Sua Santità, Basilio Pompili […] a tenere, qui al Laterano, il posto del professore di patrologia, in quei giorni defunto. Quelle Nostre lezioni furono quindici di numero,110 poiché sopravvenne quasi subito l’obbedienza di lasciare il Movimento di cooperazione missionaria e di partire da Roma per il Prossimo Oriente. Quelle quindici lezioni, dai Padri Apostolici a S. Cipriano, Ci interessarono così vivamente, da rappresentare, a distanza di trentatre anni, motivo di umile ma sincera esaltazione. Non sappiamo a che cosa il Nostro successo fosse dovuto: ma rammentiamo bene la festa e gli applausi con cui i Nostri cari alunni di quel tempo accompagnarono e sottolinearono ogni lezione, e la sorpresa al chiudersi inatteso di quell’insegnamento per Noi allora così spontaneo, ordinato e facile.111
È significativo che in quella medesima occasione, che vede il nuovo papa rivolgersi ai docenti e studenti della scuola da lui stesso frequentata decenni prima come studente e poi come docente, le uniche fonti citate nell’allocuzione siano di tenore patristico. La prima è di Girolamo112 e serve al papa per sottolineare la centralità dello studio del «Libro» delle Scritture, tanto per la teologia quanto per la pastorale; le altre sono di Gregorio Magno, i cui Moralia il papa raccomanda agli studenti, prima di citare e spiegare il passo nel quale Gregorio paragona i «dottori» della Chiesa alle stelle benefiche.113 Sempre da Gregorio, Giovanni XXIII 109
Cf. MANZO, «Papa Roncalli e il Laterano», 33. Secondo Manzo, «[l]e lezioni… della durata di due ore settimanali, non possono essere più di una dozzina, terminando il semestre alla fine di febbraio. Gli alunni sono circa 55, tutti quelli del I e del II anno insieme» (MANZO, «Papa Roncalli e il Laterano», 32); mons. Capitani, titolare della cattedra prima di Roncalli, dovette essere sostituito non già per la morte, ma per ragioni di salute, che lo portarono alle dimissioni; la nomina di Roncalli da parte dal card. vicario Pompili avviene nel novembre 1924 (cf. ivi). 111 GIOVANNI XXIII, Allocuzione per l’apertura dell’anno accademico all’Università Lateranense, 27 novembre 1958: DMC, I, 52-57, qui 57 (= AAS 50[1958], 1006-1010, 1009s). Il papa rievoca l’insegnamento qualche mese dopo, in tutt’altra occasione: il saluto ai sovrani di Grecia in visita ufficiale (22 maggio 1959): «[C’est] en grec qu’ont parlé et écrit à leur tour les génies de l’âge patristique dont Nos années d’étude et d’enseignement Nous ont rendu le contact si familier: un Saint Grégoire de Nazianze, un Saint Basile, un Saint Jean Chrysostome, ces géants sur lesquels s’est construit l’édifice postérieur de la théologie, en Orient comme en Occident»: DMC, I, 345. 112 Ep. 52 ad Nepotianum: PL 22,528s: cf. DMC, I, 54. 113 Cf. DMC, I, 54; Giovanni XXIII poi cita e commenta un passo di Mor. IX, c. 6 (sic; nell’ed. ADRIAEN [CCL 143] corrisponde a IX,11,15). Nell’omelia per l’ingresso in S. Giovanni in Laterano, Giovanni XXIII aveva sviluppato il binomio «libro-calice», che aveva incominciato a svolgere già dagli anni di Istanbul (cf. G. ALBERIGO, Papa Giovanni [18811963], EDB, Bologna 2000, 121ss). 110
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riprende la 25ª omelia sui vangeli, dove si parla dei «sancti Patres qui Ecclesiae statum custodiunt».114 L’ex docente del Laterano non cita i Padri semplicemente perché si ritrova nelle aule di un tempo. I Padri sono costantemente presenti al nuovo papa: che aveva evocato i suoi predecessori, Leone e Gregorio, dottori della Chiesa, anche nel giorno della «presa di possesso» della cattedrale romana di S. Giovanni in Laterano, il 23 novembre 1958; e al loro ricordo aveva associato Girolamo e Agostino, per indicare nei quattro la figura sintetica dei «Padri della Chiesa primitiva», qualificati come «precipuamente lettori e interpreti, in faccia a tutto il mondo, della Sacra Scrittura». Rievocando poi Giovanni Crisostomo, il papa aveva richiamato, sempre alla luce dei Padri, il compito e la responsabilità fondamentale del vescovo di annunciare a tutti la «celeste dottrina».115 Con tutti i limiti del caso, un confronto anche solo quantitativo può aiutare a capire che qualcosa cambiava, nel modo di esprimersi e nelle fonti di riferimento di un papa. Nell’ultimo anno completo di pontificato di Pio XII (marzo 1957-marzo 1958), le quasi ottocento pagine dei suoi discorsi e radiomessaggi permettono di raccogliere non più di una decina di riferimenti patristici: e si tratta, in parte, di richiami occasionali o «obbligati» (Ambrogio per Milano, i Padri iberici per la Spagna…), o limitati quasi soltanto alla menzione dei nomi.116 Negli interventi dei primi dodici mesi del suo pontificato, che occupano all’incirca lo stesso numero di pagine dei discorsi del predecessore per un periodo equivalente, Giovanni XXIII si riferisce ai Padri più di settanta volte – e la cifra è certamente difettosa.117 Neppure in questo caso, 114
Cf. DMC, I, 54s; il passo citato è GREGORIO MAGNO, Hom. in Ev. 25,2 (CCL 141,206). Cf. DMC, I, 40. Lo stesso Giovanni XXIII tornerà sui Padri come interpreti della Scrittura, richiamando le parole del suo intervento del 23 novembre 1959, rivolgendosi il 21 settembre 1960 ai partecipanti alla XVI Settimana biblica in Italia (cf. DMC, v. 2, 482). 116 L’eccezione più notevole è il discorso ai seminaristi del «Mouvement Jeunes Séminaristes», il 4 settembre 1957, dove Pio XII parla della «joie pour un chrétien d’entrer en contact immédiat avec ces textes [= i testi dei Padri] et d’entendre résonner aujourd’hui la voix puissante des Pères de l’Eglise, d’un Chrysostome ou d’un Augustin!» (Discorsi e radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, v. 19, TPV, Città del Vaticano 1958, 363). Nella stessa occasione il papa cita Cipriano (cf. 361), come farà anche parlando ai professori e studenti dell’Angelicum il 14 gen. successivo (cf. 722); parlando ai gesuiti il 10 settembre 1957, aveva citato Ireneo (cf. 383): sia Cipriano che Ireneo erano menzionati a proposito della cathedra Petri o del posto peculiare della Chiesa romana. I Padri «spagnoli» (Leandro, Ildefonso, Braulio e Isidoro) sono rievocati nel radiomessaggio per il IV Congresso eucaristico nazionale della Spagna, 19 maggio 1957 (cf. 204). Il papa cita Agostino e Ambrogio nel radiomessaggio per la conclusione della Missione di Milano, il 24 novembre 1957 (cf. 625 e 627), e due volte Agostino nel radiomessaggio natalizio del 22 dicembre 1957 (cf. 672 e 674); Agostino è menzionato in un’altra occasione, col Crisostomo e altre «auctoritates», cristiane o no (cf. 745). 117 Un esempio: nell’agenda, al 15 settembre 1959, Giovanni XXIII annota l’incontro, a Galloro, con 56 parroci romani in vista del sinodo diocesano, e scrive: «Conchiusi indicando un auspicio nella Vergine e Madre Addolorata di cui oggi ricorre la festa. Assai opportune le parole della IX Lectio di S. Ambrogio»; M. Velati osserva che il discorso non è pubblicato e che l’Osservatore Romano «ne dà un resoconto piuttosto generico che non permette di capire i riferimenti qui citati» (A.G. RONCALLI – GIOVANNI XXIII, Pater amabilis. Agende del pontefice, 1958-1963. Ed. critica e annotazione a cura di M. VELATI, Istituto per le scienze 115
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naturalmente, mancano i riferimenti «obbligati» o i richiami estemporanei; e anzi, i 20 anni passati dal nuovo papa in oriente offrono in più occasioni spunti «autobiografici»,118 che sono poi collegati al nome di qualche Padre. In ogni caso, la diversità di proporzioni resta evidente: e si capisce, scorrendo le pagine dei pronunciamenti di papa Roncalli, che il riferimento ai Padri affiora alle sue labbra spontaneamente, come qualcosa che è frutto di una consuetudine di lunga data.119
b) I Padri nell’itinerario teologico e spirituale di Roncalli L’attenzione del successore di Pio XII per i Padri, di fatto, viene da lontano e attraversa tutto il suo percorso sacerdotale ed episcopale: la cosa è stata ormai documentata dagli studi accurati sulle fonti della spiritualità di papa Giovanni,120 studi di cui riassumiamo qui gli elementi più rilevanti per la nostra questione. L’interesse di Roncalli per i Padri non sembra legato, in primo luogo, all’attività accademica, nonostante l’insegnamento e anche un certo impegno di divulgazione della letteratura patristica;121 il primo retroterra della cultura e spiritualità patristica del futuro papa è piuttosto la frequentazione quotidiana delle letture patristiche del Breviario: un tratto, questo, che si riscontrerà ancora in Giovanni XXIII, che in diverse occasioni prende spunto dalla lettura patristica del giorno per un suo intervento122 e raccomanda esplicitamente al clero, anche in vista della predicazione, «di volersi rendere familiare alla religiose, Bologna 2007, 52 e nota 123); ma Giovanni XXIII è sufficientemente chiaro nel riferimento, che è al Breviario, dove l’ultima lettura del III Notturno del 15 settembre è tratta da AMBROGIO, Ep. 63,109. 118 Cf. la menzione di Sofia/Serdica (DMC, I, 212) o del concilio di Efeso (ivi, 760s). 119 Dal momento che l’edizione dei DMC è sprovvista di indici, indichiamo qui di seguito i Padri citati o menzionati da Giovanni XXIII nei discorsi del primo anno di pontificato (i numeri di pagina si riferiscono a DMC, I): Agostino (9, 40, 131, 141, 227, 235, 305, 348, 399, 439s, 463, 475, 554, 648, 768 [2], 794s); Ambrogio (193s, 216s, 592, 606, 624, 789); Basilio (345, 685); Giovanni Crisostomo (40, 109s, 345, 403, 429s, 434, 435, 569, 579s, 713); Girolamo (54, 632); Gregorio Magno (54s, 138, 185, 561, 592, 613, 635); Gregorio Nazianzeno (54, 345, 403, 685); Ireneo (408); Isidoro (140); Lattanzio (491); Leone Magno (40, 93, 133, 182, 215, 218, 403, 447, 458, 459, 469, 561, 604, 616, 713s, 737). 120 Cf. in particolare gli studi di A. MELLONI: «Formazione e sviluppo della cultura di Roncalli», in G. ALBERIGO (ed.), Papa Giovanni, Laterza, Roma-Bari 1987, 3-34; «Le fonti di A.G. Roncalli: il “Giornale dell’anima”», in CrSt 4(1983), 103-172; «Introduzione» a A.G. RONCALLI (GIOVANNI XXIII), La predicazione a Istanbul. Omelie, discorsi e note pastorali (1935-1944), Firenze 1993, 16-18; «Una cultura delle fonti», in ID., Papa Giovanni, 49-79. Per le fonti di Roncalli/Giovanni XXIII è ora indispensabile l’Edizione nazionale dei diari di A.G. Roncalli - Giovanni XXIII, Bologna 2003ss. 121 Su La vita diocesana (rivista della diocesi di Bergamo), II(1910), 161-163, Roncalli recensisce la recente edizione critica della Didachè (cf. MELLONI, Papa Giovanni, 61, anche per quanto segue). 122 Cf. quanto riportato sopra, nota 118; ma gli esempi si potrebbero moltiplicare (cf. DMC, II, 298, 427, 470, 632, 712; III, 43s, 46s; IV, 162, 288s, 394, 895 ecc.).
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lettura e al gusto dei Padri della Chiesa [nel Breviario]. Fu un suggerimento, che conferma e suggella quanto abbiamo spesso ripetuto, in diverse occasioni di paterni colloqui sacerdotali».123 Mentre i testi liturgici del Messale e, appunto, del Breviario, hanno un ruolo per così dire «fondativo», e che rimane determinante per tutta la sua vita, si assiste però, in Roncalli, alla progressiva apertura a un contatto più diretto con le fonti, in particolare con la Scrittura e con, appunto, i Padri. Per questi ultimi, entra in gioco un fattore che accompagnerà poi sempre Roncalli nelle diverse tappe della sua biografia spirituale ed ecclesiastica: l’attenzione per i santi locali e per la tradizione più antica delle Chiese con le quali viene a contatto.124 Ciò significa che, negli anni trascorsi a Bergamo, l’approfondimento si volge piuttosto alla figura di Carlo Borromeo e i riferimenti patristici risultano mediati soprattutto dal Breviario.125 Nel soggiorno romano degli anni 1921-25, l’attenzione di Roncalli si ferma su una figura destinata a rimanere centrale per gli anni a venire: Gregorio Magno, di cui Roncalli legge a fondo la Regula pastoralis e quei Moralia in Job che poi, da papa, raccomanderà agli studenti della Lateranense.126 Con il trasferimento in oriente (Bulgaria: 1925-34; Istanbul: 1934-44), si aprono al Delegato apostolico nuovi orizzonti, che coinvolgono anche il rapporto con i Padri. Una maggiore disponibilità di tempo e, soprattutto, il desiderio di accostarsi più direttamente ai santi delle Chiese in mezzo alle quali vive e alla tradizione che essi rappresentano, sono la molla che spinge Roncalli a una frequentazione più articolata e diretta con le fonti: lo attesta, tra l’altro, il crescere dei riferimenti agli autori orientali – in particolare il Crisostomo e Gregorio Nazianzeno – nelle note personali e nella predicazione del Delegato apostolico.127 Una testimonianza singolare 123 Esortazione ai Parroci e ai Quaresimalisti di Roma (13 febbraio 1961): DMC, III, 151s. Giovanni XXIII fa riferimento al «Motu proprio» Rubricarum instructum del 25 luglio 1960, relativo alle nuove Rubriche del Breviario. Sul rapporto tra la predicazione e i Padri in Giovanni XXIII, cf. M. GUASCO, «La predicazione di Roncalli», in ALBERIGO (ed.), Papa Giovanni, 113-134. 124 Il papa stesso lo ricorderà nell’udienza per la diocesi di Albano, il 26 agosto 1962: «Rammentiamo sempre i nomi dei titolari delle chiese che Ci furono familiari lungo il corso della vita… I Santi Cirillo e Metodio in Bulgaria, S. Giovanni Crisostomo a Istanbul, Notre-Dame a Parigi…, S. Marco a Venezia» (DMC, IV, 488). 125 Cf. A. MELLONI, «Il modello di Carlo Borromeo», in ID., Papa Giovanni, 80-117. A quegli stessi anni sembra risalire, tuttavia, una lettura prolungata di Ambrogio: cf. DMC, IV, 41. 126 MELLONI, Papa Giovanni, 62, nota 58, sottolinea la crescita delle citazioni di Gregorio negli scritti di Roncalli, che nei cinque anni di pontificato citerà spesso l’antico predecessore. Parlando al clero romano, il 27 gennaio 1960, il papa dice: «Questo piccolo libro [la Regula pastoralis]… Ci tiene buona compagnia da quasi mezzo secolo, e Ci procura gioie ineffabili a rileggerlo in tutte le circostanze della vita» (DMC, II, 165). 127 Cf. MELLONI, Papa Giovanni, 63, e ID., «Introduzione» a RONCALLI (GIOVANNI XXIII), La predicazione a Istanbul, 16s; negli indici di questa pubblicazione si troveranno i rinvii ai Padri più citati nel periodo di Istanbul: Agostino, Ambrogio, il Crisostomo, Gregorio Nazianzeno, Gregorio Magno, Leone Magno. Per le note personali, si vedano le edizioni delle agende del papa, in particolare A.G. RONCALLI, La mia vita in Oriente. Agende del delegato apostolico, a cura di V. MARTANO, 2 voll., Bologna 2006.
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degli anni di Istanbul conferma la rilevanza che aveva per Roncalli la frequentazione dei Padri: il Delegato apostolico aveva la consuetudine di radunare periodicamente i rappresentanti diplomatici delle nazioni cattoliche, ai quali leggeva e traduceva brani patristici tratti dal Migne!128 Se il periodo francese (1945-53) comporta un lieve spostamento di interessi – ancora una volta determinato dall’attenzione ai santi locali, e alla «scoperta» di Bossuet – l’episcopato veneziano del futuro papa conferma la rilevanza dei Padri nel suo pensiero e nel suo insegnamento:129 ad essi il patriarca accosta anche figure più recenti, in particolare quella del predecessore s. Lorenzo Giustiniani, celebrato nella lettera pastorale del 1956, imperniata sul rapporto con la Scrittura. Non stupisce, dunque, che i Padri ritornino con tanta frequenza nelle parole e nelle note personali del nuovo papa,130 che conferma anche nella nuova condizione la rilevanza spirituale, prima ancora che strettamente teologica, di un ritorno alle fonti che ha accompagnato tutta la sua vita.131
c) Verso il concilio Negli interventi che il papa dedica, in tutto o in parte, al concilio ecumenico annunciato ai cardinali convenuti in S. Paolo Fuori le Mura il 25 gennaio 1959, i richiami ai Padri hanno caratteristiche simili a quelle che si incontrano negli altri pronunciamenti di Giovanni XXIII. A volte, essi rientrano nell’attenzione ai santi «locali», proprio anche nel senso più fisico del termine, come quando il papa afferma, nel discorso conclusivo del Sinodo romano, di aver posto il futuro concilio sotto la protezione dei santi sepolti nella basilica vaticana, «cioè due Patriarchi di Oriente e uno dei Papi più grandi della storia: i Patriarchi di Costantinopoli S. Gregorio Nazianzeno, S. Giovanni Crisostomo; e S. Gregorio Magno, romano di nascita, di pensiero e di cuore».132 128 La testimonianza viene dal barone P. Poswick, rappresentante del Belgio in Turchia negli stessi anni di Roncalli, ed è stata raccolta da A. Melloni attraverso il figlio di Poswick, R.-F. Poswick (cf. MELLONI, Papa Giovanni, 63, nota 64). Il barone Poswick fu poi ambasciatore del Belgio presso la S. Sede negli anni del concilio e ha lasciato un diario conciliare: P. POSWICK – R.-F. POSWICK – Y. JUSTE, Un journal du concile: Vatican II vu par un diplomate belge. Notes personnelles de l’ambassadeur de Belgique près le SaintSiège, 1957-1968, et rapports au ministère des affaires étrangères, Paris 2005. 129 Cf. MELLONI, Papa Giovanni, 64, con la nota 66 per i rinvii agli interventi veneziani di Roncalli, nei quali il patriarca si richiama al pensiero dei «Padri e dottori» antichi. 130 Per le note personali, cf. gli indici di RONCALLI, Pater amabilis, 525-567: i nomi più ricorrenti sono gli stessi che abbiamo rilevato sopra (cf. nota 119) per gli interventi del primo anno di pontificato. 131 Nelle agende, Giovanni XXIII annota in alcuni casi le letture patristiche che va facendo (che, naturalmente, non sono le uniche letture del papa): così per il De doctrina christiana di Agostino (17 e 18 settembre 1959, a Castel Gandolfo), o per le Omelie di Leone Magno (15-24 ottobre 1961), alle quali si ispira per i discorsi di anniversario del pontificato (cf. RONCALLI, Pater amabilis, 53, 270-272). 132 DMC, II, 197 (31 gen. 1960); cf. anche ivi, III, 208 (16 aprile 1961).
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In termini simili si esprime nella Pentecoste del 1960, inaugurando la fase preparatoria del concilio;133 e ribadisce idee analoghe in occasione della memoria liturgica di s. Giovanni Crisostomo, dopo la liturgia in rito bizantino-slavo (13 novembre 1960). Il papa ricorda la necessità della comune santificazione in vista della buona riuscita del concilio, e prosegue: Quattro grandi figure della storia, maestri della Chiesa, illustrazione dei vari riti, stanno qui innanzi a noi, in rappresentanza dell’Oriente e dell’Occidente, in atto di sorreggere la Cattedra apostolica, come ad affermare in faccia al mondo, ed al cospetto dei secoli, ciò che veramente è grande nella Chiesa, diciamo nella Santa Chiesa, e cioè la santità dei suoi dottori, dei suoi vescovi, dei suoi pontefici. Eccoli qui i nomi gloriosi di questi giganti della santità e dell’ecclesiastico magistero: Atanasio e Giovanni Crisostomo, Ambrogio e Agostino. Intorno alle loro immagini fanno magnifica corona quelle di altri pontefici e dottori di tutte le epoche […].134
Alcune occasioni offrono a Giovanni XXIII la possibilità di un riferimento più specifico all’apporto dei Padri in vista del concilio. Nel quindicesimo centenario della morte di Leone Magno esce l’enciclica Aeterni Dei sapientia (11 novembre 1961):135 pubblicazione «dovuta», da valutare però anche in base ai numerosi richiami a Leone Magno che ricorrono nelle parole di papa Roncalli, nonché alla luce delle letture personali che egli dedica al suo predecessore136 e che attestano da parte sua un’assidua frequentazione dei sermoni e delle lettere di Leone. L’enciclica, nella sua prima parte, presenta la personalità e l’opera di Leone sotto il triplice aspetto della sua opera per la Sede romana, di pastore della Chiesa universale e di dottore della Chiesa; nella seconda parte, Giovanni XXIII mette in rapporto l’opera e l’insegnamento di papa Leone con l’imminente concilio ecumenico, imperniando la questione soprattutto sulla concezione leonina dell’unità della Chiesa: unità che papa Roncalli, in base ai testi di Leone, individua anzitutto nella relazione – fondata nell’incarnazione – con Cristo, sposo e capo della Chiesa; unità che comporta gli elementi visibili del battesimo e della professione 133
Cf. DMC, II, 401 (5 giugno 1960). DMC, III, 7 (cf. CAPRILE I, 283). Sulla prossimità anche locale dei santi, è interessante un’annotazione del 27 gennaio 1962: «Ho creduto bene di fare a porte chiuse una visita a S. Gio. Grisostomo [sic] in S. Pietro nella capella [sic] del Coro dove è venerato il suo Corpo: ma dove non credo buoni canonici abbiano dato qualche segno di sensibilità alla odierna festa sua»: RONCALLI, Pater amabilis, 339. 135 Testo in AAS 53(1961), 785-803; DMC, IV, 945-964 (citiamo nel testo le pagine di quest’ultima edizione). 136 Negli interventi del primo anno di pontificato (cf. sopra, nota 119), Leone è il Padre più citato, dopo Agostino; per le letture personali, cf. sopra, nota 131; si vedano anche le annotazioni del papa al 2 dicembre 1961 e all’11 aprile 1962 (cf. RONCALLI, Pater amabilis, 288 e 371) e l’omelia per il terzo anniversario dell’incoronazione (4 novembre 1961) in DMC, IV, 18; ma i riferimenti a Leone, in questi mesi di fine 1961 – inizio 1962, si moltiplicano (cf. ivi, 44s, 64, 102s, 108, 135ss, 631 ecc.). Gli editori delle SCh avevano fatto omaggio al papa dei primi tre volumi dei sermoni di Leone, curati da J. Dolle con l’introduzione di J. Leclercq (= SCh 22, 49, 74): un appunto per una lettera di ringraziamento, datato 24 novembre 1961, è pubblicato in GIOVANNI XXIII, Lettere 1958-1963, Roma 1978, 520s. 134
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della fede; che ha nel vescovo di Roma il suo centro visibile; che trova nel suo magistero un vincolo essenziale; che assegna alla Chiesa romana, in ragione della memoria degli apostoli Pietro e Paolo, il suo ruolo preminente ed esemplare. La stessa personale opera di Leone fu, secondo Giovanni XXIII, servizio di unità riconosciuto e celebrato in tutta la Chiesa: in continuità con questa opera, papa Roncalli guarda ora al prossimo concilio ecumenico come a un momento peculiare di rinnovamento della missione universale della Chiesa, nell’orizzonte di una rinnovata unità di tutti i credenti in Cristo. L’allocuzione che Giovanni XXIII pronuncia il 23 gennaio 1962, aprendo i lavori della terza sessione della Commissione centrale preparatoria, gli permette di dilungarsi su un’omelia del Crisostomo,137 che esprime la propria gioia di poter ritrovare la sua comunità cristiana. Dalle frasi del Crisostomo il papa ricava soprattutto le parole gaudium e servitium, condensando in esse il proprio atteggiamento in vista del concilio, la propria condizione di «servus caritatis vestrae», e la gratitudine nei confronti della «moles laboris» compiuta dalla Commissione.138 In questa stessa occasione, il papa annuncia l’imminente pubblicazione della costituzione apostolica sullo studio del latino Veterum sapientia, del 22 febbraio 1962.139 Prescindendo da altre considerazioni, il testo di quest’ultimo documento è piuttosto deludente, dal punto di vista che ci interessa: l’imminente concilio non vi è menzionato;140 che il latino sia anche la lingua di una parte consistente della tradizione patristica è presupposto, piuttosto che esplicitato.141 L’attenzione cade, invece, sull’uso presente del latino, a motivo della sua universalità e immutabilità, che lo rende particolarmente idoneo quale lingua della Chiesa e strumento di comunicazione delle «verità eterne». Non si tratta, quindi, della conoscenza del latino nell’orizzonte di un ressourcement ma, piuttosto, della preoccupazione prevalente di conservare un impianto ecclesiale che si avverte come sempre più a rischio. Un tono parzialmente diverso – e più rispondente, ci sembra, alle abitudini e sensibilità personali del papa – si avverte nelle parole con le quali lo stesso Giovanni XXIII, nel corso dell’udienza che si tiene in S. Pietro il 22 febbraio, annuncia la pubblicazione della Veterum sapientia:
137 L’omelia era stata pubblicata da A. WENGER, «L’homelie de Saint Jean Chrysostome “A son retour d’Asie”», in Mélanges Raymond Janin (= REByz 19[1961]), 110-123; cf. CPG 4394). Per l’allocuzione di Giovanni XXIII, si veda DMC, IV, 143-148. 138 Cf. DMC, IV, 144s. 139 Cf. DMC, IV, 147; per il testo della Veterum sapientia, cf. ivi, 965-973 e AAS 54(1962), 129-135. Per la storia e il contesto del documento, cf. A. STICKLER, «A 25 anni dalla costituzione apostolica “Veterum Sapientia” di Giovanni XXIII. Rievocazione storica e prospettive», in Salesianum 2(1988), 367-377; MELLONI, Papa Giovanni, 226-257. 140 Parlando alla CCP il 20 giugno 1961, il papa aveva affermato l’opportunità che il latino fosse la lingua ufficiale del concilio, pur lasciando aperta la possibilità di un uso parziale delle lingue vive (cf. DMC, III, 328). 141 Più esplicito è, invece, il richiamo allo studio del greco per la comprensione dei testi biblici, liturgici e della Patristica greca (cf. DMC, IV, 972).
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3. I Padri nel cammino verso il concilio Amiamo pensare che la pubblicazione del Documento sia di suadente invito a coltivare lo studio della lingua latina, a penetrare a fondo nella sobrietà sostanziosa dei sacri testi della Liturgia, del Divino Ufficio e delle opere dei Padri della Chiesa, affinché i nostri sacerdoti, anche in questo, possano essere lampade ardenti e luminose, che diano luce e calore alle menti e al cuore degli uomini.142
A mano a mano che i giorni e le settimane passano, l’attenzione e le parole del papa si volgono sempre più chiaramente verso il concilio. I riferimenti ai Padri, che si riscontrano con una certa frequenza in questi interventi, non permettono di individuare un disegno preciso: confermano, piuttosto, la familiarità di Giovanni XXIII con la tradizione patristica, che gli viene pressoché spontaneo di rievocare con diversi interlocutori e in situazioni differenziate,143 quale riferimento del tutto «ovvio» e quotidiano, precisamente perché radicato nella pratica liturgica (il Breviario) e in una consuetudine pluridecennale di lectio patristica. La grande allocuzione di apertura dei lavori conciliari Gaudet Mater Ecclesia144 non presenterà elementi di peculiare raccordo tra il concilio come si delinea nelle parole del papa e la tradizione dei Padri della Chiesa. Vi sono citati due passi patristici, rispettivamente di Cipriano e di Agostino, correlati ad affermazioni puntuali della parte conclusiva del testo.145 Più utile, forse, per raccogliere sinteticamente l’orizzonte patristico che animava Giovanni XXIII, il rilievo del card. G. Lercaro a propo-
142 DMC, IV, 171. Per un inquadramento della Veterum sapientia nel «progetto giovanneo di rinnovazione degli studi ecclesiastici», si veda C. RIGGI, «“Studia humanitatis” e “sapientia Patrum” nel progetto di Papa Giovanni XXIII. A 25 anni dalla Costituzione apostolica “Veterum Sapientia”», in Cultura e lingue classiche 2. 2° Convegno di aggiornamento e di didattica. Roma, 31 ottobre-1 novembre 1987, a cura di B. AMATA, Roma 1988, 9-23, in particolare 21-23. 143 In occasione dell’imposizione della berretta cardinalizia a otto nuovi cardinali, il 21 marzo, Giovanni XXIII collega la cerimonia al concilio rievocando le parole di Gregorio Magno, secondo il quale «in ogni Concilio è la solida struttura della fede che si innalza: in his velut in quadrato lapide sanctae fidei structura consurgit (Ep. 25 Ioanni Constant. et ceteris patriarchis PL 77,478)» (DMC, IV, 197); rivolgendosi ai fedeli di Roma (8 aprile), e invitandoli alla preghiera per il concilio, propone loro anche un itinerario di vita spirituale, che desume dalla lettura di Gregorio Magno tratta dal Breviario del giorno (cf. «Paterno appello ai fedeli di Roma»: DMC, IV, 888-900, in particolare 895-899, dove cita e commenta GREGORIO MAGNO, Hom. in Ev. 17: PL 76,1149s); nella lettera indirizzata a tutti i vescovi (15 aprile) per la preparazione al concilio richiama il legame tra comunità cristiana e vescovo, citando IGNAZIO ANT., Smyrn. 8,1 (cf. DMC, IV, 904); nell’udienza ai pellegrini della diocesi di Torino, l’8 maggio, ricorda s. Massimo (cf. DMC, IV, 252); l’enciclica Paenitentiam agere dell’1 luglio utilizza testi agostiniani sulla penitenza (cf. ivi, 923)… 144 Per la genesi del testo e la sua edizione critica, cf. A. MELLONI, «L’allocuzione “Gaudet Mater Ecclesia” (11 ottobre 1962). Sinossi critica dell’allocuzione», in Fede Tradizione Profezia. Studi su Giovanni XXIII e sul Vaticano II, Paideia, Brescia 1984, 223283; ID., Papa Giovanni, 258-335. 145 Giovanni XXIII menziona la parte conclusiva di CIPRIANO, Cath. Eccl. unit. 5 a proposito dell’unità e maternità della Chiesa (cf. EV 1,61*); e, poco prima della conclusione, cita AGOSTINO, Ep. 138,3, [17], dove il vescovo di Ippona qualifica la civitas Dei come quella «cuius rex veritas, cuius lex caritas, cuius modus aeternitas» (EV 1,62*).
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sito della «cultura delle fonti» del papa che aveva voluto il concilio; una cultura già presente, del resto, in Angelo Roncalli, una cultura formata attraverso la lunga, fedele, insistente macinazione (viene in mente un verbo tipico della Scrittura «hagah» […] [cf. Sal 36,30]) delle supreme fonti della tradizione cristiana: la Scrittura, la liturgia, i Padri e gli scritti e le opere di qualche grande pastore o fondatore assunto a modello. Questa macinazione che egli ha continuato per decenni fino agli ultimi mesi della sua vita, come rivelano certi suoi discorsi dominati dalle letture mattutine di brani patristici, si è sposata mirabilmente colle sue doti naturali ed educate di realismo, di concretezza, di ottimismo profondo, e con un’osservazione serena, spassionata, aperta e amorosa dei diversi ambienti e dei diversi momenti storici che la provvidenza gli ha fatto conoscere.146
2. G IOVA NNI B ATTIS TA M ONT IN I , I P A DR I E IL MYSTERIUM E CCLESIAE a) Montini fra Agostino e Ambrogio Membro della CCP, il card. Montini sarà tra i presuli più attenti a rilevare le insufficienze dei documenti preparatori, per quanto riguarda il loro radicamento nelle fonti, con riferimento specifico alla tradizione patristica, inclusa quella orientale.147 L’arcivescovo di Milano, di fatto, mostra un interesse per i Padri che è senza dubbio paragonabile a quello di Giovanni XXIII, sebbene di matrice e con orientamenti parzialmente diversi.148 Tenendo come riferimento il corpus degli insegnamenti milanesi di Montini (1954-1963),149 due cose saltano subito agli occhi: la base degli autori di riferimento si allarga a Padri che in Roncalli sono meno presenti (Ignazio, Origene, Cipriano, Tertulliano, fra i maggiori; ma anche «minori» come Gaudenzio, Filastrio, Cesario e altri: sebbene in vari casi non si vada oltre la menzione del nome). Per altro verso, tutti questi autori sono «schiacciati» dalla soverchiante presenza di Ambrogio e Agostino, che risultano di gran lunga i Padri ai quali Montini fa più costante riferimento. 146 G. LERCARO, «Linee per una ricerca su Giovanni XXIII» [1965], in ID., Per la forza dello Spirito. Discorsi conciliari del card. Giacomo Lercaro, EDB, Bologna 1984, 287-310, qui 301. 147 Per la discussione sul de Ecclesia nella CCP, cf. sotto, c. 4 § 3. 148 Ci riferiamo per quanto segue soprattutto agli studi raccolti in Montini e Ambrogio. Il discepolo e il maestro, a cura di F. CITTERIO e L. VACCARO, Morcelliana, Brescia 1998, con la bibliografia ivi indicata. 149 G.B. MONTINI, Discorsi e scritti milanesi. 1954-1963. Prefazione di C.M. MARTINI. Introd. di G. COLOMBO. Ediz. coordinata da X. TOSCANI; testo critico a cura di G.E. MANZONI, Istituto Paolo VI, Brescia 1997-98 (= DSM); alcune delle indicazioni che diamo di seguito dipendono dal volume degli indici di questa raccolta (per le citazioni patristiche, in particolare, 57-66); per quanto riguarda Ambrogio, tuttavia, sono da tenere presenti le avvertenze metodologiche di C. PASINI, «La presenza di s. Ambrogio negli insegnamenti dell’arcivescovo Montini», in Montini e Ambrogio, 40-42.
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Come ulteriore approssimazione, dobbiamo poi notare che la forte presenza di Ambrogio negli interventi «milanesi» dipende senza dubbio, e in misura rilevante, dal fatto che Montini siede appunto sulla cattedra che fu di Ambrogio: ma il riferimento ad Ambrogio non risulta così naturale – quasi istintivo – come quello ad Agostino: con il vescovo di Ippona infatti Montini si trova in più congeniale consonanza, grazie a una conoscenza più precoce e più articolata; ad Ambrogio invece egli sembra essersi accostato con specifica attenzione solo a partire dall’episcopato milanese: e tuttavia anche l’incontro con lui fu intenso e straordinariamente fecondo.150
Agostino, dunque, è il primo e più rilevante nome di riferimento;151 un nome al quale il futuro papa arriva in primo luogo attraverso l’esempio e la guida di padre G. Bevilacqua, che trova nell’Agostino dell’itinerario di conversione – dunque l’Agostino delle Confessiones e dei Dialogi di Cassiciaco – una figura di riferimento che ha un forte valore pedagogico e che offre un itinerario di risposta alla crisi intellettuale e spirituale dell’uomo di oggi: «Prevale… nella lezione agostiniana raccolta dal padre Bevilacqua il primato conoscitivo della fede sulla ragione: la “fides quaerens intellectum”. È come dire che la ragione è recuperata dall’uomo che crede e si converte al vangelo».152 In occasione del centenario della morte del vescovo di Ippona (1930), mentre da parte sua Pio XI dedica un’enciclica153 a commemorare il santo e a indicare le ragioni di una sua viva presenza nella Chiesa di quegli anni, Montini scrive sulla rivista della FUCI un breve saggio, «L’eredità di Agostino»,154 dove guarda ad Agostino come maestro di vita interiore e ispiratore di una regola di vita; non a caso, in quegli stessi anni Montini propone le opere di Agostino come parte integrante e necessaria della bibliografia per i corsi di cultura religiosa che scrive per gli universitari e si riferisce al vescovo di Ippona soprattutto per l’impostazione di quello morale, La via di Cristo.155 150 PASINI, «La presenza di s. Ambrogio», 40. Il rilievo è senz’altro confermato da un confronto con gli interventi raccolti in PAOLO VI, Discorsi e documenti sul Concilio (19631965). A cura di A. RIMOLDI. Presentazione di R. AUBERT, Istituto Paolo VI-Studium, Brescia-Roma 1986: l’indice dei nomi (379ss) mostra subito che mentre Agostino rimane il Padre più menzionato, i riferimenti ad Ambrogio si riducono considerevolmente. 151 Per quanto segue, cf. A. CAPRIOLI, «Montini alla scuola dei Padri. I “perché” di un ritorno», in Montini e Ambrogio, 16-36, con l’altro saggio ivi indicato di ID., «Il maestro e il discepolo: origini, vie e significato di un ritorno ad Agostino in Montini giovane», in ScC 115(1987), 267-295. 152 CAPRIOLI, «Montini alla scuola dei Padri», 5; per un’esposizione più ampia, cf. ID., «Il maestro e il discepolo», 269-273. 153 PIO XI, Ad salutem: AAS 22(1930), 201-234. 154 G.B. MONTINI, «L’eredità di Agostino», in Studium 26(1930), 716-722. 155 Per questi corsi e la bibliografia relativa, cf. G. ROMANATO – F. MOLINARI, «Le letture del giovane Montini», in ScC 111(1983), 37-78. Tra i Padri, oltre ad Agostino – che è il più citato –, Montini menziona Cipriano, i Patres apostolici nell’ed. del Funk, il Crisostomo, Ambrogio, Arnobio, Eusebio di Cesarea, Girolamo, Giustino, Ignazio d’Antiochia, Lattanzio, Melitone, Minucio Felice, Tertulliano, Dionigi Areopagita, Ireneo, Leone Magno, Origene, Clemente Alessandrino, Gregorio Magno.
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Nell’interesse di Montini per Agostino influisce anche un insieme di letture filosofiche (Maritain e Blondel, anzitutto; ma poi Olgiati, Boyer, Gilson); come pure l’ampio saggio di E. Portalié pubblicato sul Dictionnaire de Théologie catholique.156 In diversi modi, tutti questi stimoli riconducono la lettura di Agostino all’attenzione per l’unità originaria di filosofia e teologia, di riflessione ed esperienza, di intellettualismo e misticismo: è alla figura di Agostino come «genio unificatore, intellettuale e spirituale, [che] sembra rifarsi lo stesso Montini nel suo invito a ritornare ad Agostino» negli anni ’30;157 è all’Agostino «cattolico» (il riferimento è all’opera di P. Batiffol, pubblicata nel *1920), suscettibile di aprire una via specifica, e non sospetta, a un’esperienza di Chiesa che si riconosce nel primato della grazia e dell’azione soprannaturale di Dio nella storia degli uomini.158 Se Agostino «appartiene» al patrimonio spirituale e intellettuale di Montini sin dagli anni della giovinezza, l’impatto con Ambrogio è invece necessariamente legato all’episcopato milanese159 e soprattutto alla sua figura di vescovo. Montini ama presentarsi come «l’ultimo successore» di Ambrogio, dichiarando così di inserirsi in una lunga tradizione ecclesiale, che l’arcivescovo richiama con frequenza;160 altrettanto frequente, del resto, è l’invito a rinnovarsi, in continuità con quella medesima tradizione, attraverso un risveglio dell’identità cristiana161 e un rinnovamento della vita. Montini cita abbondantemente il suo antico predecessore,162 a volte con espressioni che assumono il valore di un motto, sul quale l’arcivescovo torna spesso; segnaliamo, in particolare, il ricorrere della frase «Maria typus Ecclesiae», che caratterizza un pensiero che lo stesso Montini va elaborando negli anni dell’episcopato milanese, e che sarà poi particolarmente valorizzato nei mesi che precedono il concilio.163 Montini, tuttavia, non si propone come interprete del pensiero di Ambrogio, mentre ne utilizza ampiamente i riferimenti all’interno dei propri discorsi. L’eccezione più significativa è data dall’«Omnia nobis est Christus»
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Cf. per la documentazione CAPRIOLI, «Il maestro e il discepolo», 277-282. CAPRIOLI, «Il maestro e il discepolo», 282; cf. anche 285s per quanto segue. 158 L’interesse permanente di Montini per Agostino risulta anche dalla riproduzione e trascrizione degli appunti – per lo più manoscritti – nei quali Montini/Paolo VI ha annotato citazioni o riprodotto frasi di Agostino: Montini e Agostino. Prefazione di G. ANDREOTTI. Trascrizione dei testi, traduzione e indici analitici di L. BIANCHI, Padova 2008. Vi sono annotate circa 500 citazioni di Agostino; la mancanza di un ordinamento cronologico rende purtroppo difficilmente utilizzabile la raccolta. 159 Seguiamo in particolare PASINI, «La presenza di s. Ambrogio»; cf. anche E. MANFREDINI, «Le scelte pastorali dell’Arcivescovo Montini», in Giovanni Battista Montini Arcivescovo di Milano e il Concilio Ecumenico Vaticano II, 46-155, in particolare 48-64. 160 Cf. PASINI, «La presenza di s. Ambrogio», 42-44. Per la figura di Ambrogio come pastore in Montini, cf. anche L.F. PIZZOLATO, «I discorsi di Montini per la festa di S. Ambrogio», in Montini e Ambrogio, 84-86. 161 Cf. PASINI, «La presenza di s. Ambrogio», 44; è un insegnamento che Montini riassume volentieri con l’«Agnosce, Christiane, dignitatem tuam» di Leone Magno (ivi, nota 14). 162 Per una rassegna delle citazioni e tematiche ambrosiane in Montini, cf. PASINI, «La presenza di s. Ambrogio», 50-62. 163 Cf. PASINI, «La presenza di s. Ambrogio», 51s e nota 23. 157
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(de Virg. 16,99), scelto come titolo della prima lettera pastorale (15 febbraio 1954), che riporta all’interno la citazione integrale del passo ambrosiano.164 Anche in questo caso, tuttavia, la citazione si presenta più come conferma di un pensiero in qualche modo già determinato (e che Montini ha prima illustrato sulla base di testi paolini), piuttosto che come fonte della tematica scelta dall’arcivescovo.165 Il cristocentrismo ambrosiano è comunque ricorrente nell’insegnamento di Montini; e lo si può leggere, riteniamo, anche come sfondo del richiamo cristologico con cui, da papa, aprirà i lavori del secondo periodo conciliare.166 Nell’utilizzazione montiniana di Ambrogio si incontrano altri temi teologici che ricorrono con maggiore frequenza: in particolare quelli della verginità consacrata, dell’attenzione ai poveri, dei sacramenti, della Chiesa e di Maria.167 A giudizio di C. Pasini, si deve riconoscere, comunque, che Ambrogio è entrato a confermare ciò che Montini riceveva da varie provenienze; e nei suoi studi, attenti a cogliere ogni stimolo per quel rinnovamento cristiano che continuamente riproponeva ai fedeli, non mancavano certamente, mediati da autori moderni, riferimenti agli elementi originari provenienti dai Padri. Non era difficile ritrovarli in Ambrogio e, per quel che era possibile, lasciarsene ulteriormente stimolare. Per questo Ambrogio non è a fondamento specifico della riflessione di Montini arcivescovo, ma ha certamente ravvivato e in qualche modo influenzato la sua riflessione e predicazione.168
b) Nel contesto del concilio Montini è senz’altro sensibile alle istanze del ressourcement, come si ricava da diversi segnali,169 incluse alcune delle sue letture preferite.170 A poco più di un anno di distanza dal primo annuncio del concilio da 164
Cf. DSM, I, 146. Cf. PASINI, «La presenza di s. Ambrogio», 53s, anche per quanto segue. 166 «… Christum, Christum dicimus, principium nostrum esse, Christum ducem et viam esse nostram, Christum esse spem nostram nostrumque finem»: EV 1,144*. 167 Cf. PASINI, «La presenza di s. Ambrogio», 57s, con le esemplificazioni offerte nelle pagine seguenti; per le prospettive di ordine più «sociale», cf. PIZZOLATO, «I discorsi di Montini»; per la liturgia, si veda I. BIFFI, «Giovanni Battista Montini, il rito ambrosiano e la sua riforma», in Montini e Ambrogio, 103-113. 168 PASINI, «La presenza di s. Ambrogio», 62. 169 Per l’attenzione al movimento liturgico, cf. CAPRIOLI, «Montini alla scuola dei Padri», 30-33. 170 Sulla scorta dell’interesse per la cultura cattolica francese, che resta costante soprattutto dopo il viaggio in Francia del 1924 (cf. G. ADORNATO, Paolo VI. Il coraggio della modernità, San Paolo, Cinisello Balsamo 2008, 23), Montini accosta alcuni dei teologi più rappresentativi di questa linea. Nell’arcivescovo di Milano è evidente, ad es., la lettura attenta e probabilmente ripetuta della Méditation sur l’Église di DE LUBAC (*1953), citata diverse volte già dal 1955 (cf. DSM, I, 372, 375, 669); la traduzione italiana dell’opera – per le Paoline di Milano, nel 1955 – fu propiziata, del resto, dallo stesso Montini, anche perché il Vicariato di Roma aveva rifiutato l’imprimatur (cf. H. DE LUBAC, Memoria intorno alle mie opere, Jaca Book, Milano 1992, 235, con le pp. 236s per altri aspetti del rapporto di de Lubac con Paolo VI). 165
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parte di Giovanni XXIII (e Montini fu tra i primi, in Italia, a rilanciarlo, con un messaggio alla diocesi del 26 gennaio 1959),171 l’arcivescovo di Milano apre i lavori della prima «giornata biblica per il clero» mettendoli sotto l’esigenza di «ritornare alla Bibbia», per un insieme di ragioni, tra le quali menziona anche l’imminente concilio con i suoi intenti ecumenici, nei confronti dei quali un serio studio della Scrittura costituisce un contributo determinante.172 Ciò nonostante, nell’insieme degli interventi del cardinale che preparano la diocesi milanese al concilio, o che trattano comunque della questione anche al di fuori del contesto diocesano, occasionalmente o ex professo,173 non si incontrano quasi mai richiami espliciti a un «ritorno alle fonti», visto come elemento peculiare del processo teologico ed ecclesiale messo in atto dalla convocazione conciliare;174 neppure il votum per l’indagine antepreparatoria, trasmesso da Montini con un certo ritardo, offre elementi significativi al riguardo.175 È a concilio già avviato che la questione emerge con maggiore chiarezza. Va segnalata, in ogni caso, l’omelia tenuta il 29 giugno 1960 nella basilica milanese dei ss. Apostoli e s. Nazaro. Il cardinale – che, guardando al prossimo concilio, si sofferma su alcuni aspetti più rilevanti circa la dottrina della Chiesa – dedica la parte finale dell’omelia alla tradizione, che esplicitamente dichiara di voler intendere qui in un senso più ampio rispetto alla consuetudine teologica di «fonte orale» distinta dalla Scrittura: «Intendiamo qui per tradizione il patrimonio immenso di verità, di costume, di storia, di arte, di educazione, di civiltà, che abbiamo ereditato da venti secoli di cristianesimo», sottolinea l’arcivescovo che poi insiste sulla necessità di acquisire «un più largo e approfondito senso storico, che non è punto difficile ad ottenere per chi è veramente devoto e professante della nostra religione».176 Montini, che aveva giudicato insufficiente il fondamento tradizionale, e specialmente patristico, del de Ecclesia in sede di Commissione centrale preparatoria, rimarrà invece piuttosto defilato nel dibattito del primo periodo conciliare, anche su questa problematica, che sarà oggetto di molti interventi (l’arcivescovo di Milano non interviene, ad es., nel dibattito sul de fontibus).177 Di ritorno in diocesi, con un giorno di antici171 Cf. DSM, II, 2549. Per un inquadramento dell’attività di Montini in preparazione al concilio, cf. F.G. BRAMBILLA, «Carlo Colombo e G. B. Montini alle sorgenti del Concilio», in SC 130(2002), 221-260, e il più sintetico «Il card. Montini e l’inizio del Concilio Vaticano II. Una ricostruzione storico-teologica», in Riv. del clero italiano 83(2002), 504-519; 600-614. 172 Cf. DSM, II, 3417. 173 Si vedano i testi raccolti in PAOLO VI [G. B. MONTINI], Discorsi e scritti sul Concilio (1959-1963). A cura di A. RIMOLDI. Presentazione di G. COTTIER, Istituto Paolo VI-Studium, Brescia-Roma 1983, ovvero i testi indicizzati sotto la voce «Concilio Ecumenico Vaticano II» (più di 150 rinvii) in DSM. 174 Cf. DSM, II, 3644-3650. 175 Testo del votum in AD I, II/3, 374-381 (= DSM, II, 3582-3588). 176 DSM, II, 3649s. 177 Cf. sotto, c. 5. Alla vigilia del conclave del 1963, parlando ai seminaristi di Venegono, Montini riconosce questo suo silenzio, che gli venne anche un po’ rimproverato (cf. DSM, III, 5871).
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po rispetto alla conclusione dei lavori del primo periodo, per poter celebrare la festa di s. Ambrogio,178 affiderà all’omelia del giorno un insieme di riflessioni che guardano direttamente al concilio, e che riteniamo utile riassumere qui. Centro dell’omelia è il «mistero della Chiesa»: meditato e contemplato nel concilio, esso trova in Ambrogio il maestro che permette di approfondirlo, comprenderlo e viverlo. Per Montini, ciò che il concilio ha incominciato a fare è «un momento di riflessione della Chiesa su se stessa» (27), che le permette di comprendersi sempre meglio nel suo rapporto con Cristo. Ciò, osserva l’arcivescovo, è facilitato ora (rispetto al programma interrotto del Vaticano I) dai progressi del pensiero teologico, del magistero (Montini cita Mystici corporis), dalla crescita delle esperienze di Chiesa, dall’espansione missionaria, dalle problematiche poste dalle divisioni tra i cristiani e dalla sfida dell’irreligiosità; sono stimoli che hanno sollecitato la Chiesa a confrontarsi con le sue origini, a documentare la sua genuinità, ad affermare i suoi diritti, ad approfondire la sua essenza, a rispondere, in una parola, alla duplice domanda che gli uomini le pongono e la sua coscienza presenta: la Chiesa che cosa è? la Chiesa, che cosa fa? Cioè qual è la natura, e qual è la missione della Chiesa? (49-53).179
La risposta a queste domande, rileva ancora il cardinale, comporta oggi un’estensione delle questioni, che manifestano una natura della Chiesa più ricca e profonda, «così che viene spontaneo di pensare alla Chiesa come ad un mistero» (65s), come un sacramento (cf. 69), nell’unione di visibile e invisibile, di realtà umana e soprannaturale. Ora tutto questo, dice Montini, determina uno sguardo sulla Chiesa che è già dato di trovare in Ambrogio; ed è sorprendente notare come Ambrogio, oltre ad avere già idee chiare sul rapporto reciproco tra Chiesa e istituzione civile,180 ha potuto penetrare il mistero della Chiesa e, attraverso diverse immagini, contemplarla pressoché in ogni realtà.181 In definitiva, secondo Montini, il riferimento alla Chiesa ritorna continuamente nelle parole di Ambrogio: «si direbbe che il pensiero di lei, non 178 Testo in DSM, III, 5434-5441; indichiamo nel testo la numerazione delle righe nell’ed. citata. Su questa omelia, cf. PIZZOLATO, «I discorsi di Montini», 101s. 179 Queste considerazioni anticipano l’enciclica programmatica Ecclesiam suam (6 agosto 1964; AAS 56[1964], 609-659): Paolo VI elogia «quegli uomini studiosi, che, specialmente in questi ultimi anni, hanno dedicato, con perfetta docilità al magistero cattolico e con geniale capacità di ricerca e di espressione, allo studio ecclesiologico laboriose, copiose e fruttuose fatiche, e che tanto nelle scuole teologiche, quanto nella discussione scientifica e letteraria, quanto ancora nell’apologia e nella divulgazione dottrinale, come pure nell’assistenza spirituale alle anime dei fedeli e nella conversazione con i fratelli separati, hanno offerto molteplici illustrazioni della dottrina sulla Chiesa, alcune delle quali di alto valore e di grande utilità» (n. 32). 180 Già in altre occasioni Montini aveva ricordato Ambrogio come maestro di «diritto pubblico»: cf. PIZZOLATO, «I discorsi di Montini», 96-100. 181 Qui Montini, come aveva già fatto in un’omelia del 1958 (cf. DSM, II, 2457-2466), riprende elementi della ricerca di B. CITTERIO, «Lineamenti sulla concezione teologica della Chiesa in S. Ambrogio» (*1940).
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ancora organico e sistematico, ma chiaro e fecondo è il centro luminoso della sua spiritualità» (138-141). Di qui deriva la necessità di «ripensare, ricapire la Chiesa» (143), anche per sottrarsi alla tentazione di considerarla soltanto, come vorrebbe il pensiero moderno, sotto la sua figura umana e terrestre e per giungere, così, a un rinnovato amore per la Chiesa. In definitiva, è proprio guardando ad Ambrogio, in questa sua ultima omelia «ambrosiana»,182 che l’arcivescovo di Milano sembra già orientare lo sguardo ai futuri lavori conciliari e al loro incentrarsi – dopo le incertezze del primo periodo – precisamente sul grande atto di autocoscienza credente della Chiesa di fronte a Cristo: proprio come lo stesso Montini aveva chiesto in una sua lettera «programmatica» al Segretario di Stato Cicognani, all’inizio dei lavori conciliari,183 e come indicherà poi autorevolmente, poco meno di dieci mesi più tardi, inaugurando i lavori del secondo periodo conciliare. Qualche settimana dopo la festa di s. Ambrogio del 1962, la posa della prima pietra di una nuova chiesa, dedicata a s. Leone Magno, e parte del progetto delle «chiese conciliari»,184 permette all’arcivescovo di sottolineare, da un lato, la rilevanza della figura di Leone e, dall’altro, di collegare questo «Santo conciliare» al concilio in atto: stando all’interno di questa secolare tradizione patristica e conciliare, rileva Montini, possiamo aver fiducia nella «capacità di rinascenza» della Chiesa.185 Finalmente, nella lettera che l’arcivescovo indirizza ai sacerdoti per la Settimana santa del 1963, ritornano alcune sottolineature del discorso per s. Ambrogio del dicembre precedente: l’invito ad «amare la Chiesa» si collega, infatti, con la considerazione sulla sua natura sacramentale, «riscoperta» dalla teologia attuale sulla scorta della tradizione patristica e particolarmente di Ambrogio.186 Tanto Giovanni XXIII che Paolo VI, attraverso itinerari spirituali e intellettuali piuttosto diversi, mostrano dunque un’attenzione alle problematiche e agli apporti del «ritorno alle fonti», specialmente patristiche, superiore alla media dell’episcopato dell’epoca (almeno per quel che se ne può ricavare dall’esame dei vota antepreparatori). La presenza
182 Paolo VI prolungherà, per così dire, gli appuntamenti milanesi del 7 dicembre, con due interventi in occasione del XVI centenario dell’elevazione di Ambrogio a vescovo di Milano (1973-74): cf. PIZZOLATO, «I discorsi di Montini», 102. 183 Cf. DSM, III, 5366-5370. 184 Si trattava del progetto di costruzione di 22 nuove chiese, una per ciascun concilio ecumenico, dedicate ai santi che ne furono più rappresentativi: il progetto, lanciato da Montini in un messaggio del 12 agosto 1961 (cf. DSM, III, 4532s e note 1s) e riproposto il 27 settembre successivo (cf. ivi, 4621), è documentato in C. GNECH, Ventidue Chiese per ventidue Concili, Comitato per le Nuove Chiese di Milano, Milano 1969. Per il discorso di Montini, tenuto il 27 gennaio 1963, cf. DSM, III, 5540-5543. 185 Cf. DSM, III, 5543. Si noti che Leone è il Padre più citato da Montini, dopo Agostino e Ambrogio. 186 Cf. DSM, III, 5710.
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dei Padri, nel loro insegnamento, denota una familiarità che li colloca su un piano più profondo, rispetto a quello di mere auctoritates. Né Roncalli né Montini, peraltro, indicano esplicitamente nel ressourcement patristico un aspetto peculiare del concilio che si va aprendo: né l’uno né l’altro offrono elementi di riflessione paragonabili, ad es., a quelli di un Lorenz Jaeger.187 In papa Giovanni, senza sottovalutare i suoi antichi trascorsi di docente di storia e patrologia, il richiamo alle fonti sembra essere un tratto «naturale» del suo modo di essere cristiano, sacerdote e vescovo: ciò che, peraltro, ben corrisponde al carattere di «ispirazione», che Roncalli attribuisce sempre all’idea della convocazione di un concilio ecumenico, ma che non domanda di essere particolarmente esplicitato. Per quanto riguarda Paolo VI, si deve parlare senza dubbio di un tratto più «culturale», nella sua consapevolezza dell’importanza del «ritorno alle fonti»: senza dire che la partecipazione ai lavori preparatori in seno alla CCP e le discussioni conciliari del 1962, hanno potuto favorire la crescita di una consapevolezza al riguardo, che gli permetterà di mantenere aperta, anche da papa, quella sensibilità all’insegnamento dei Padri che lo accompagnava sin dagli anni giovanili.
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Cf. sopra, sez. I § 2b.
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È pressoché impossibile ignorare la linea di demarcazione che distingue le due fasi preparatorie del concilio Vaticano II – aggiungendovi i primi movimenti del concilio stesso nell’autunno del 1962 – rispetto alla discussione e poi alla promulgazione dei documenti conciliari. Se c’è continuità, questa è, se mai, tra i documenti conciliari e un largo insieme di orientamenti, ricerche, tentativi che attraversano tutta la prima metà del XX secolo e che abbiamo cercato di documentare, almeno per il problema che qui ci riguarda, nella prima parte di questa ricerca. Si tratta di orientamenti che, sino alla vigilia del concilio, sembrano tenuti fermamente a bada da uno sbarramento che appare infrangibile, incurante di quanto si accumula da decenni: e, se non mancano quelli che vorrebbero sbarazzarsi di tutto questo movimento attraverso lo strumento collaudato della condanna, l’atteggiamento prevalente sembra essere piuttosto quello di ignorare il più possibile tutto ciò che sembra mettere in pericolo la solidità del bastione «romano». Due piccoli esempi, che prendiamo dai Carnets conciliari di H. de Lubac, possono illustrare la cosa, del resto già ampiamente documentata nella storiografia conciliare. Abbiamo accennato alle ricerche di M. Maccarrone su Vicarius Christi, titolo che già l’autore studia – lo notava Congar – in una linea troppo esclusivamente «papalista».1 Si valuta, nella Commissione teologica preparatoria, la possibilità di applicare il titolo al papa e anche ai vescovi, secondo una tradizione ben documentata: ma la proposta è respinta, nonostante un escamotage tentato da p. Tromp.2 Evidentemente, il peso della tradizione non conta, rispetto a un uso più recente, ma ritenuto pressoché intoccabile. O ancora: si discute, nella stessa commissione che sta esaminando il de deposito fidei, intorno al tema della «soddisfazione».3 Il testo, annota de Lubac, diceva qualcosa del tipo: «Come sempre ritennero i Padri…». Qualcuno (Salaverri?) allora fa notare che la teoria della soddisfazione è posteriore ai Padri.
1 2 3
Cf. sopra, c. 1 § 4b. Cf. J-de Lubac, I, 55 (30 settembre 1961). Cf. AD II, II/2, 412-415 (= ivi, III/1, 86-89).
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Parte II - I Padri della Chiesa nel dibattito conciliare sul de Ecclesia Soluzione: si sopprime la menzione dei Padri. P. Ciappi accetta. Non si oppone alla critica storica, né alla sana esegesi: i Padri e la Scrittura entrano nei testi solo «ad illustrationem»; quando è troppo evidente che l’illustrazione non è ad rem, la si può sacrificare. Ma la res non cambia.4
In questa prospettiva, per chi si occupa del concilio e della sua storia, una delle ricerche più interessanti verterà sempre sulle linee del cambiamento, per certi versi improvviso e sorprendente, che si osserva nel giro dei pochi anni che vanno dalla fase preparatoria al pieno svolgimento del concilio, soprattutto a partire dalla sua seconda sessione. Anche la seconda parte della nostra ricerca vorrebbe indagare questo cambiamento, sotto il profilo, per così dire, della «coscienza patristica» della Chiesa convocata in concilio. La via principale che seguiremo sarà quella del dibattito conciliare (inclusa la sua fase preparatoria) intorno al de Ecclesia. Non c’è bisogno, riteniamo, di giustificare a lungo questa scelta, data l’importanza oggettiva della questione ecclesiologica al Vaticano II, l’ampiezza del dibattito che ha suscitato e anche la relativa abbondanza della documentazione patristica inserita nella Lumen gentium. Ripercorriamo questa storia facendo attenzione, soprattutto, alla consapevolezza – che prende forma progressivamente, all’interno dell’assemblea conciliare – della rilevanza del ricorso ai Padri nella riflessione ecclesiologica e, più ampiamente, nel compito che il concilio sta affrontando. Si delimita così su due fronti la portata di questa seconda parte della ricerca. Da un lato, seguiremo principalmente il dibattito sul de Ecclesia: non senza accennare già qui al fatto che il riferimento ai Padri ha giocato un ruolo di primo piano anche nell’elaborazione dell’altro documento teologicamente più rilevante del concilio, la costituzione dogmatica sulla rivelazione Dei Verbum; la vicenda redazionale di questo testo, particolarmente travagliata, ha svolto, come si sa, un ruolo determinante nella presa di coscienza dell’assemblea conciliare. Non intendiamo qui, d’altro lato, ricostruire in tutti i suoi aspetti l’iter di elaborazione del de Ecclesia: il nostro punto di vista rimane quello del ricorso ai Padri e della consapevolezza che emerge, al riguardo, negli interventi, orali o scritti, dei padri conciliari. Le linee di forza (e anche di conflitto) che si vedranno emergere durante il dibattito conciliare erano già state anticipate nel corso della preparazione del testo, soprattutto nel dibattito all’interno della Commissione centrale preparatoria. Il capitolo 4 sarà dedicato, pertanto, alla ricostruzione di questa fase del dibattito, per documentare in che modo si arrivò al testo sottoposto poi all’esame dei padri conciliari. I punti salienti del lavoro sul de Ecclesia nel corso del primo periodo conciliare e l’at-
4 J-de Lubac, I, 49 (28 settembre 1961); de Lubac riferì l’episodio anche a Chenu, che ne fa menzione nel suo diario (cf. M.-D. CHENU, Diario del Vaticano II. Note quotidiane al Concilio 1962-1963, a cura di A. MELLONI, Il Mulino, Bologna 1996, 71). Per un altro esempio di questo procedimento, cf. J-de Lubac, I, 63 (5 marzo 1962).
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tività della Commissione teologica per la rielaborazione del testo durante l’intersessione 1962-63, fino alla redazione del nuovo schema, in vista del dibattito del secondo periodo, saranno studiati nel capitolo 5. La fase più importante della discussione conciliare, quella che si tenne durante il secondo periodo, sarà esposta nel capitolo 6; finalmente, il capitolo 7 raccoglierà gli elementi della revisione del testo nell’intersessione 1963-64 e dei dibattiti del terzo periodo conciliare, fino alla promulgazione definitiva della Lumen gentium.
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4. I l de E c c le s ia : l o schema preparatorio e il dibattito nella Commissione centrale preparatoria 1. G L I
O R I E N TA M E N T I DELLA COMMISSIONE TEOLOGICA P R E PA R AT O R I A
Lo schema de Ecclesia, che i padri conciliari si videro consegnare il 23 novembre 1962 e sul quale incominciarono le discussioni l’1 dicembre successivo, era il risultato di un quadruplice passaggio, che comprendeva: – l’elaborazione del testo in seno alla Commissione teologica preparatoria (= TE) (giugno 1960-giugno 1962); – la discussione all’interno della Commissione centrale preparatoria (= CCP) (8-9 maggio e 19-20 giugno 1962); – la successiva revisione, in base alle indicazioni di quest’ultima, ad opera di un gruppo di lavoro nell’ambito della TE (giugno-luglio 1962); – il vaglio della sottocommissione della CCP per gli emendamenti (17 luglio 1962).5 Dal momento che la TE ebbe il ruolo principale nell’elaborazione del testo, è opportuno richiamare alcuni aspetti della sua composizione e del suo metodo di lavoro e menzionare qualche problema, sollevato nel corso dell’elaborazione dei vari documenti e collegato con la nostra questione.6
5 Alle vicende del de Ecclesia va collegato anche lo schema de Beata Virgine, previsto in un primo tempo come capitolo dello schema de deposito fidei: per diversi passaggi dell’elaborazione, cf. più avanti, § 3c. 6 Utilizziamo qui soprattutto alcuni saggi del volume Verso il Concilio Vaticano II (196062). Passaggi e problemi della preparazione conciliare, a cura di G. ALBERIGO e A. MELLONI,
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A)
LA
C OM POSI ZI O N E D E LLA
TE
La Commissione teologica preparatoria arrivò a comprendere 35 membri (inclusi il presidente, card. A. Ottaviani, e il segretario, p. S. Tromp)7 e 36 consultori, gli uni e gli altri in gran parte europei per nascita e sede di lavoro;8 in maniera molto significativa, e secondo dati quantitativi superiori alle percentuali già alte dell’insieme degli organismi preparatori, la TE risulta composta in modo determinante da membri e consultori «romani», che costituiscono quasi la metà dell’insieme. Si tratta, in buona parte, di rappresentanti degli organismi di curia (un quarto dei componenti) e delle università romane, soprattutto la Gregoriana, l’Antonianum, il Laterano e l’Angelicum: vi si aggiunge la Pontificia accademia teologica romana:9 «In tal modo il criterio della competenza sembra accompagnarsi con quello dell’ortodossia “romana”, incarnata nelle figure di S. Tromp, segretario della Commissione, L. Ciappi, R. Gagnebet, A. Piolanti, M. Labourdette, U. Lattanzi»,10 mentre nomi come quelli di C. Colombo, P. Pavan, L. Cerfaux, G. Philips, M. Schmaus, B. Häring rappresentano orientamenti più sensibili alle istanze di rinnovamento teologico, alle quali si rifanno senz’altro anche le figure di Y. Congar e H. de Lubac, voluti dal papa stesso, che sono però solo consultori. Si può rilevare che la TE comprendeva, originariamente, un solo patrologo «professionista», l’agostiniano A. Trapè, incluso tra i membri della prima serie di nomine (18 luglio 1960);11 gli si aggiunse, qualche mese più tardi (12 settembre), il francescano D. van den Eynde. Tra i consultori, si può considerare patrologo solo G. Jouassard; ma la relativa
Marietti, Genova 1993, in particolare: A. INDELICATO, «Formazione e composizione delle commissioni preparatorie», 43-69; R. BURIGANA, «Progetto dogmatico del Vaticano II: la commissione teologica preparatoria (1960-1962)», 141-206; cf. inoltre J. KOMONCHAK, in SCVII, I, 242-321. Diversi documenti sull’attività della TE sono ora pubblicati in appendice a D-Tromp. 7 Sembra che la scelta di Tromp non corrispondesse ai desideri iniziali di Ottaviani, che avrebbe preferito il rettore di un’università romana (il Laterano?): sulla questione, e sui rapporti tra presidente e segretario della TE, cf. BURIGANA, «Progetto dogmatico del Vaticano II», 198-200. Su S. Tromp, cf. S. ALBERTO, “Corpus Suum mystice constituit” (LG 7). Storia del Testo dalla “Mystici corporis” al Vaticano II con riferimenti alla attività conciliare del P. Sebastian Tromp S.J., Pustet, Regensburg 1996, 49, nota 101; J.N. BAKHUIZEN VAN DEN BRINK, in Gr. 75(1976), 365-372 e soprattutto, ora, A. VON TEUFFENBACH, in D-Tromp, I/1, 11-40. 8 In base alla sede di lavoro, sono europei 26 membri (su 39) e 31 consultori (su 40); le cifre sono simili quando si guarda al luogo di nascita (sono europei 28 membri e 30 consultori): cf. INDELICATO, «Formazione e composizione», 67s. 9 Cf. INDELICATO, «Formazione e composizione», 50, 55 e tabelle alle pp. 67s. Decisamente minoritari i rappresentanti di altre università, quali Lovanio o Lione. 10 INDELICATO, «Formazione e composizione», 55. Per l’elenco dei membri della TE, oltre a CAPRILE I/1, 210s, 230, 289, cf. BURIGANA, «Progetto dogmatico del Vaticano II», 151-154, che riprendiamo anche per quanto segue. 11 Si osservi, tuttavia, che Trapè insegnava teologia sistematica; anzi, come nota p. Tromp, che lo visitò per discutere con lui gli schemi preparatori, Trapè «[d]ocet totam Theologiam: eius thema speciale est gratia cum problematibus annexis. Habet 52 annos. Est valde versatus in operibus S. Augustini» (D-Tromp, I/1, 89: 8 ottobre 1960).
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scarsità di «tecnici» della patrologia non costituiva, probabilmente, l’aspetto più problematico della composizione della TE: la sensibilità all’insegnamento dei Padri, mostrata da uomini quali de Lubac, Congar, Philips, Lécuyer e altri, poteva bastare, in linea di principio, a richiamare la TE all’attenzione su questo aspetto della tradizione cristiana. Spiccavano piuttosto altre assenze: quella dei teologi milanesi, ad es., compensata solo in un secondo momento con la nomina di C. Colombo (agosto 1960); o quella degli esegeti, o degli esperti di dottrina sociale della Chiesa. Un nome, fra tutti, brillava per la sua assenza: quello di K. Rahner, escluso dalla TE per un parere negativo del S. Uffizio (novembre 1960),12 e nominato poi, nel marzo del 1961, nella Commissione per i sacramenti. Con quali criteri furono scelti i membri e i consultori della TE? In base alla documentazione disponibile, si può rispondere solo in parte alla domanda.13 In linea generale, i nominativi di persone da inserire negli organismi preparatori del concilio furono raccolti attraverso canali «ufficiali» (ad es. le nunziature, ma anche i dicasteri di curia e le università) e «ufficiosi» (come le richieste giunte al papa per altra via); senza contare, naturalmente, che lo stesso Giovanni XXIII fece valere i propri desideri personali: nel caso nostro, ad es., ciò accadde per la nomina di tre consultori della TE, Y. Congar, H. de Lubac ed E. Vogt.14 Le scelte privilegiano senza dubbio, in prima istanza, persone legate alla curia, anche perché le nomine dipendono in misura sostanziale dalla Segreteria di Stato e in particolare dal card. Tardini, responsabile di tutta la fase preparatoria del concilio; il fatto che le commissioni preparatorie corrispondessero alle congregazioni romane facilitava ancora di più il «travaso» di personale dall’uno all’altro organismo. Sicuramente si è tenuto presente anche il criterio della rappresentanza geografica, che però ha privilegiato in modo massiccio la Chiesa in Europa e ha fatto leva in misura determinante sulla residenza a Roma delle persone coinvolte (quasi il 38% dei componenti degli organismi preparatori). Nel caso della TE, sappiamo che la questione della nomina di membri e componenti fu sollevata all’interno del S. Uffizio, in un gruppo di lavoro che Tromp aveva radunato già nel giugno 1960 e che comprendeva alcuni membri del S. Uffizio (Parente, Staffa, Philippe, Tromp, Balic´, Ciappi, Piolanti, cui si sarebbero aggiunti Gagnebet, Hürth e Verardo). 12 Il 20 novembre 1960, de Lubac annota nel diario: «Dernier jour de Roma. J’ai dit hier à notre secrétaire le P. Leclercq, que plusieurs s’étonnaient de l’absence du P. Karl Rahner à la commission; il m’a répondu qu’il y avait eu un barrage»: J-de Lubac, I, 23s. 13 Cf. INDELICATO, «Formazione e composizione», 62-66. 14 Per i primi due, cf. J-Congar, I, 25 (ma Congar era stato proposto da M. Browne, generale dei domenicani: cf. ivi, 14) e H. DE LUBAC, Memoria intorno alle mie opere, Jaca Book, Milano 1992, 319s. Per p. Vogt, gesuita, rettore dell’Istituto Biblico – e per le implicazioni di questa nomina –, cf. BURIGANA, «Progetto dogmatico del Vaticano II», 153, e ID., «Tradizioni inconciliabili? La “querelle” tra l’Università Lateranense e l’Istituto Biblico nella preparazione del Vaticano II», in P. CHENAUX (ed.), L’Università del Laterano e la preparazione del concilio Vaticano II. Atti del Convegno Internazionale di Studi, Città del Vaticano, 27 gennaio 2000, Roma 2001, 61.
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Questo gruppo doveva discutere appunto i criteri di nomina dei membri della TE e incominciare anche a organizzare i lavori. In due riunioni (13 e 24 giugno), il gruppo formulò un elenco di nomi, tra i quali poi i componenti del gruppo furono invitati, con una lettera di Tromp del 28 giugno, a fare una scelta ulteriore.15 Non sembra irragionevole pensare, allo stato attuale della documentazione, che i criteri di scelta fossero abbastanza in linea con quelli che p. A. Vaccari, consultore della CCP, avrebbe espresso un anno più tardi, a proposito della scelta dei periti conciliari. Restringendo l’attenzione alla questione dei biblisti e dei teologi, Vaccari suggerisce di attenersi ai criteri della Humani generis, che ha già condannato errori e pretese eccessive di libertà di opinione, e continua: Il criterio generale potrebbe essere quello di ammettere solo autori o professori che non hanno mai sostenuto le opinioni perverse condannate da Pio XII o che, dopo la suddetta enciclica, le hanno abbandonate. Per gli studiosi della s. Scrittura è da notare in particolare che, in epoca recente, hanno cominciato a serpeggiare tra i cattolici alcuni criteri meno rigorosi nell’interpretazione dei libri sacri, soprattutto per quanto riguarda la verità dei fatti storici: ne derivano diversi dubbi sui fatti e detti dello stesso Cristo Signore. Si dovranno escludere, pertanto, coloro che diffondono a voce o per iscritto opinioni di questo genere, salvo forse ammettere l’uno o l’altri di essi, perché «si ascolti anche l’altra parte».16
Nel contesto della sessione della CCP che discute il problema dei periti (12 giugno 1961), al parere di Vaccari aderiscono voci importanti, tra cui Ottaviani; ma altri – ad es. Döpfner e Léger – si esprimono secondo un orientamento meno intransigente.17 Léger, in particolare, chiede che il criterio della sicurezza dottrinale non escluda la possibilità di un arco ampio di opinioni, attraverso il ricorso a uomini esperti nella tradizione della Chiesa e tale che «nello spirito della tradizione hanno fatto attenzione con lucidità ai problemi moderni».18 Se insomma la posizione di Vaccari registra ampi consensi, emergono però anche punti di vista diversi: sono i primi chiari segni «di un’opposizione che per quanto ancora embrionale riesce già ad esprimere alcune figure di grande rilievo capaci di diventare, col passare del tempo, sicuri punti di riferimento».19 Per tornare alla questione dei componenti della TE, resta in ogni caso sorprendente la somiglianza tra la conclusione del parere di Vaccari 15 Si veda, per tutto questo, BURIGANA, «Progetto dogmatico del Vaticano II», 157s: Burigana si basa in particolare sul Diario di F. Hürth, di cui riporta (alla nota 54) alcuni brevi estratti, con valutazioni su persone proposte per la TE. 16 AD II, II/1, 102s; cf. anche A. INDELICATO, Difendere la dottrina o annunciare l’Evangelo. Il dibattito nella Commissione centrale preparatoria del Vaticano II, Marietti, Genova 1992, 28s; ID., «Formazione e composizione», 65. 17 Per il parere di Ottaviani, cf. AD II, II/1, 277; nella stessa linea si esprimono chiaramente il card. J. Garibi y Rivera (cf. ivi, 256s) e mons. Alter (cf. ivi, 319). Per le altre prese di posizione e l’insieme degli orientamenti, cf. INDELICATO, Difendere la dottrina, 28-33. 18 AD II, II/1, 264 (Döpfner), 368 (Léger); cf. INDELICATO, Difendere la dottrina, 32s. 19 INDELICATO, Difendere la dottrina, 33.
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(«perché “si ascolti anche l’altra parte”») e i rilievi di Hürth alla proposta di nomina di Congar e de Lubac: sul primo, Hürth osserva che «non seguiva del tutto la scienza teologica tradizionale», mentre di de Lubac ricorda che «se ne parlò più volte nel corso della preparazione dell’Humani generis»; e conclude sull’opportunità della nomina di entrambi in quanto «avrebbe chiuso la bocca a molti oppositori» – che era poi anche l’impressione dei diretti interessati.20 Di fatto, di fronte alle critiche di unilateralità mosse alla TE tanto in sede di CCP quanto durante il dibattito conciliare, presidente e segretario si difesero anche invocando il carattere «pluralistico» della Commissione stessa.
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L A TE
D I FRONTE A L L A Q UES T I O N E DE LL E FON T I
R. Burigana suggerisce di raccogliere il lavoro della TE intorno a tre periodi, che si differenziano in base allo sviluppo dei diversi schemi affidati alla Commissione e alle modifiche del ruolo svolto dai membri e dai consultori.21 Si avrebbe così un primo periodo (giugno 1960-aprile 1961), caratterizzato dalla totale prevalenza del gruppo «romano» nell’elaborazione degli schemi, pensati in linea di principio come definitivi e rispetto ai quali la plenaria della TE e la stessa CCP avrebbero dovuto semplicemente sottoscrivere i testi già preparati. Il lavoro doveva rivelarsi più complesso e lungo del previsto, non da ultimo per i contrasti nati all’interno della TE e della sua stessa componente «romana»: è una consapevolezza maturata nei mesi centrali del 1961 e confermata nella plenaria del 20-30 settembre, in cui si poterono approvare solo due schemi, mentre un terzo veniva sospeso in attesa di un compromesso, e si facevano aspettare schemi importanti, tra cui il de Ecclesia. Così, il periodo ottobre 1961-giugno 1962 si caratterizzò per l’ampliamento del dibattito, ormai
20 Lettera di Hürth a Tromp (30 giugno 1960), cit. da BURIGANA, «Progetto dogmatico del Vaticano II», 158 nota 54. L’atteggiamento di Congar nel ricevere la nomina a consultore esplicita un profondo pessimismo: «Cette Commission théologique m’apparaissait trop nettement orientée dans le sens conservateur. Il y avait deux choses bien différentes: les membres composant la commission, et les Consulteurs. Les premiers feraient le travail. Les seconds n’auraient quelque chose à dire que s’ils étaient consultés. Le seraient-ils? […] Il y avait Lubac et moi. Incontestablement, cela nous dédouanait dans l’opinion publique, au moins dans les sphères officielles […]. Ce point est réel, et je ne veux pas en diminuer la portée. Mais après? Nous sommes des hapax dans un texte dont le contexte me semble si orienté dans le sens conservateur […]. Lubac et moi n’avons-nous pas été mis là pour la montre?» (J-Congar, I, 15s, 18: note di luglio 1960; cf. anche le note del 19 ottobre 1962, ivi, 124 ed E. FOUILLOUX, «Comment devient-on expert à Vatican II?», 316s). Anche Philips registrò la sensazione di essere stato in qualche modo «ostaggio» della corrente maggioritaria all’interno della TE: cf. G. PHILIPS, Carnets conciliaires de Mgr. Gérard Philips secrétaire adjoint de la Commission Doctrinale. Texte néerlandais avec traduction française et commentaire par K. SCHELKENS. Avec une Introduction par L. DECLERCK, Maurits Sabbebibliotheek Faculteit Godgeleerdheid-Uitgeverij Peeters, Leuven 2006, 9, 87 (9 aprile 1963). 21 Cf. BURIGANA, «Progetto dogmatico del Vaticano II», 154-156.
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partecipato indistintamente da membri e consultori delle più diverse provenienze, senza che, su alcuni punti, si arrivasse a un accordo. Un tratto accomuna costantemente il lavoro della TE: il rifiuto netto di collaborare con altre commissioni e organismi (in particolare il Segretariato per l’unità), e la rivendicazione di autonomia assoluta e di «supremazia» su tutte le questioni dottrinali, ciò che non mancò di suscitare tensioni con la CCP, soprattutto al momento di recepire gli emendamenti proposti dalla stessa CCP.22 Rinviando al § 2 la presentazione dei primi passi dell’elaborazione del de Ecclesia, vogliamo accennare qui ad alcune discussioni che si svolsero nella plenaria del febbraio 1961,23 dove si toccò la questione delle fonti da citare nei documenti conciliari e del linguaggio dei documenti stessi. Il verbale della sessione pomeridiana del 13 febbraio riferisce di un intervento di Schröffer, il quale chiese che nei documenti si utilizzasse un linguaggio semplice e intelligibile, di tono pastorale e possibilmente usando le parole della Scrittura. Gli rispose Tromp, osservando che su questa materia occorreva prudenza; la Chiesa avrebbe dovuto parlare con chiarezza e mantenendo «il principio secondo cui è la Chiesa a interpretare anche la s. Scrittura».24 La questione si ripropose un paio di giorni dopo, in termini pressoché identici, ma su un punto specifico del de Ecclesia. Ancora una volta fu Schröffer (appoggiato da Gagnebet) a criticare un passaggio dello schema relativo all’unità della Chiesa, dove la questione veniva trattata solo in rapporto al primato e senza riferimenti alla Scrittura. Lattanzi, redattore del testo, spiegò di non aver inserito citazioni perché al riguardo aveva già ampiamente provveduto il Vaticano I. Alla replica di Schröffer, secondo il quale in una questione così importante era necessario citare la Scrittura, rispose anche in questo caso Tromp: occorreva moderazione, a suo giudizio, nell’utilizzazione della Scrittura: «[Qui] parla la Chiesa stessa, che deve addurre testi soltanto quando sono assolutamente chiari. La Chiesa è stata data da Dio anche per spiegare il senso della Scrittura».25 È uno scambio che ci sembra indicativo di come, nonostante i dibattiti che perdurano almeno dalla fine degli anni ’30, la questione dell’accesso alle fonti e del loro ruolo per la verità cristiana e, in questo caso, la sua espressione magisteriale, fosse ancora oggetto di discussioni e resistenze di vario genere. 22 Cf. più sotto, § 4b. Una sottocommissione del Segretariato aveva elaborato, sotto la guida di mons. Jaeger, un documento che si presentava come un profilo completo di ecclesiologia, sotto forma di dodici vota con 47 pagine di commenti giustificatori. Komonchak lo confronta con lo schema elaborato dalla TE e osserva: «C’è una notevole differenza anche nel linguaggio dei due testi, quello della commissione teologica è più scolastico e fortemente dipendente dalla Mystici corporis, mentre quello del segretariato per l’unità dei cristiani è biblico e patristico nell’ispirazione»: SCVII, I, 310. 23 Non vi partecipò Congar che, a quanto risulta, non ricevette la convocazione (cf. JCongar, I, 46s: 21 gennaio 1961); de Lubac, che invece partecipò, non ha lasciato note. 24 Verbale della TE, 13 febbraio 1961, in D-Tromp, I/2, 591s. 25 Verbale della TE, 15 febbraio 1961 (D-Tromp, I/2, 623).
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È ciò che si ricava anche da un altro punto lungamente discusso: era opportuno citare le encicliche papali – espressione del magistero ordinario dei singoli papi – nei testi conciliari? La questione fu sollevata da Ciappi nell’ambito della discussione sul de fontibus, nella sessione pomeridiana del 13 febbraio: ne seguì un dibattito piuttosto confuso,26 che arrivò nondimeno alla conclusione, tratta da Tromp, per cui «nessuno può impedire ai padri conciliari, se lo desiderano, di citare aggiungendo il nome del romano Pontefice. Ma in generale non è opportuno che lo facciamo noi».27 Ciò nonostante, nella sessione del mattino dopo, alla quale presenziò anche Giovanni XXIII, il problema risultava ancora posto nel vago, perché lo stesso Tromp, richiesto di presentare la questione al papa, afferma che «non si era ancora presa una decisione chiara» e prospetta poi le varie possibilità di citazione (esplicita, implicita…); e se Ottaviani ritiene che sia opportuno citare un testo del magistero ordinario di un papa anche recente in modo esplicito, il relatore del de fontibus, Garofalo, chiede che si faccia prima una consultazione nei documenti dell’Archivio segreto.28 È lecito domandarsi, alla luce di queste esitazioni, che cosa indurrà poi la TE a far entrare, nel solo schema de Ecclesia, non meno di 309 citazioni da documenti pontifici!29 Nessun testo di papi dell’età moderna, è vero, viene citato in modo esplicito nel corpo stesso del documento: e il criterio verrà mantenuto sino alla redazione definitiva della Lumen gentium. Ma la sovrabbondanza di rinvii al recente magistero pontificio non sarà l’ultimo dei problemi che lo schema della TE dovrà affrontare in sede di CCP e nell’aula conciliare. Nella stessa sessione fu sollevato un terzo problema, relativo, questa volta, all’eventuale discordanza della tradizione, soprattutto patristica. Il caso concreto, proposto da Cerfaux e Kerrigan durante il dibattito sul de fontibus, riguardava l’autenticità di alcuni scritti dell’AT sui quali, appunto, non si ha consenso unanime dei Padri.30 Si prospettano due formulazioni: parlare di «traditio», ma senza assegnare al termine un valore propriamente dogmatico, ovvero usare un’altra formula, proposta da Garofalo (e appoggiata da Philips): «vulgata Patrum et Doctorum Ecclesiae sententia».31 Nello stesso contesto, Fenton pone il problema generale di come valutare il consenso (o dissenso, come nel caso dell’ispirazione dei Settanta) dei Padri su una materia dottrinale; alla fine, la maggio-
26 È il redattore del verbale a notarlo: «Sententiae erant divisae et potius confusae, quia quaestio introducta fuit ex improviso et hac de causa status quaestionis non bene praeparatus»: Verbale della TE, 13 febbraio 1961 (D-Tromp, I/2, 595). 27 D-Tromp, I/2, 595. 28 Cf. Verbale della TE, 14 febbraio 1961 (D-Tromp, I/2, 601s). 29 Cf. ACERBI, 148; la sola Mystici corporis di Pio XII vi era citata 20 volte, la Satis cognitum di Leone XIII 15 volte. 30 Cf. Verbale della TE, 13 febbraio 1961, in: D-Tromp, I/2, 597-599. 31 Cf. D-Tromp, I/2, 598; altri propongono «communis sententia» (Tromp) o semplicemente «sententia» (Balic´).
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ranza (21 contro 6) deciderà di adottare la formula «vulgata sententia», nei casi in cui non si riscontri il consenso unanime della tradizione.32 Queste discussioni sembrano sintomatiche di un’impostazione ancora piuttosto refrattaria alle prospettive del ressourcement sviluppate nei decenni precedenti. Il riferimento alla Scrittura, alla Tradizione e al Magistero è visto qui, per lo più, nella linea della «prova», secondo la prassi abituale dei manuali dell’epoca e non come via per un ripensamento complessivo della dottrina da esporre e del modo in cui va esposta. Il principio, del resto, fu esposto chiaramente da Browne durante il dibattito sul de Ecclesia in seno alla CCP.33 A un’osservazione del card. Bea, che aveva chiesto di riprendere la questione della gerarchia, e in particolare dell’episcopato, con un più ampio riferimento ai testi biblici, Browne replicò così: … è assolutamente certo che tutto si fonda nella dottrina biblica (ma anche nella tradizione); ma per non procedere quasi all’infinito, ritengo che in ogni Concilio Ecumenico si debba partire dai documenti del magistero, ossia da ciò che è chiaro e certo, in modo che sia tenuto nella debita considerazione; e poi si apportino i riferimenti biblici, tradizionali, storici, per sostenere e spiegare ciò che si trova nel magistero, e così si fa un passo avanti nel magistero. È questo il compito del Concilio.34
Il riferimento alla Scrittura e alla tradizione è funzionale ai clara et certa che si possono trovare nel magistero: questo è, sotto il profilo del ressourcement, l’approccio che guidò il lavoro di gran parte degli estensori dello schema preparatorio de Ecclesia,35 al quale ora rivolgiamo più direttamente l’attenzione.
32
Cf. D-Tromp, I/2, 599. Cf. sotto, § 3. 34 AD II, II/3, 1059; per l’intervento di Bea, cf. ivi, 1058. 35 De Lubac aveva sintetizzato così il suo punto di vista sugli orientamenti generali dei teologi soprattutto «romani» della TE: «Tout l’essentiel, dans cette commission théologique, est fait par un petit groupe de théologiens romains. Ils se disputent quelquefois entre eux, mais sur la base d’une mentalité commune, de réflexes communs. Ils savent leur métier, mais peu de choses en plus. On sent chez eux une certaine indifférence à l’égard de l’Écriture, des Pères, de l’Église orientale; un manque d’intérêt et d’inquiétude à l’égard des doctrines et des courants spirituels actuels contraires à la foi chrétienne. Ils sont, semble-t-il, trop sûrs de leur supériorité; leur habitude de juger ne les incite pas au travail. C’est le milieu du Saint-Office. Les observations, les travaux, les vota des théologiens venus d’ailleurs (excepté ceux de quelques amis et porte-parole) ne retiennent guère leur attention, – même s’il s’agit d’évêques»: J-de Lubac, I, 34 (19-20 settembre 1961). 33
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2. I L
DE E CCLESIA D E L L A TE E LE SUE FONTI DI RIFERIMENTO
A)
L’ E LA B OR A Z IO N E
D E L DE
E CCLESIA
Le tappe dell’elaborazione del de Ecclesia da parte della TE sono ormai ricostruite in varie pubblicazioni, alle quali possiamo rinviare,36 limitandoci a ricordare qui soltanto gli snodi più significativi e aggiungendo alcuni elementi che emergono dai diari di alcuni protagonisti delle vicende.37 Il punto di partenza fu uno Schema compendiosum De ecclesia. Era basato su un elenco di punti che Tromp aveva stilato poco tempo dopo la costituzione delle commissioni e la sua designazione a segretario, un buon mese prima della nomina di un primo gruppo di membri della TE;38 a quanto sembra, anzi, ancor prima di ricevere l’elenco delle Quaestiones che, per volontà del papa, dovevano essere sottoposte alle diverse commissioni;39 tali Quaestiones, verosimilmente, si basavano sulla Sintesi finale sui consigli e suggerimenti degli ecc.mi vescovi e prelati di tutto il mondo per il futuro concilio ecumenico, elaborata a cura della Commissione antepreparatoria come estrema sintesi del lavoro di spoglio compiuto sul materiale giunto a Roma in risposta alla consultazione dell’episcopato.40 Lo stesso Tromp presentò lo schema in una riunione ristretta al S. Uffizio il 21 luglio, presenti, oltre a Ottaviani, anche Staffa, Philippe,
36 Si vedano in particolare: J. KOMONCHAK, in SCVII, I, 242-252, 274-278, 305-321; ACERBI, 107-149; BURIGANA, «Progetto dogmatico del Vaticano II»; A. MELLONI, «Ecclesiologie al Vaticano II (autunno 1962 - estate 1963)», in M. LAMBERIGTS – C. SOETENS – J. GROOTAERS (éds.), Les Commissions conciliaires au Vatican II, Bibliotheek van de Faculteit Godgeleerdheid, Leuven 1996, 91-179. Su alcuni capitoli esistono studi speciali, in particolare per il futuro c. III U. BETTI, La dottrina dell’episcopato nel Concilio Vaticano II. Il capitolo III della Costituzione dommatica Lumen gentium, Roma 1984, e per il de Beata Virgine C. ANTONELLI, Il dibattito su Maria nel concilio Vaticano II. Percorso redazionale sulla base di nuovi documenti di archivio, Messaggero, Padova 2009. 37 In particolare J-Congar (2002, ed. it. 2006); D-Tromp I (2006); PHILIPS, Carnets conciliaires; J-de Lubac (2007); questo materiale diaristico era già conosciuto, almeno in parte, prima delle recenti pubblicazioni. 38 Tromp annota, sotto la data 1-7 luglio 1960: «Compono tria schemata compendiosa quae continent materiam futurarum Constitutionum Dogmaticarum. 1. De Ecclesia. 2. De Deposito pure custodendo. 3. De re morali» (D-Tromp, I/1, 69). Le commissioni erano state istituite con il «motu proprio» Superno Dei nutu del 5 giugno 1960; i primi membri della TE furono nominati il 18 luglio successivo. La nomina di Tromp a segretario della TE fu pubblicata sull’Osservatore Romano del 20-21 giugno 1960 (cf. CAPRILE I/1, 198). Per i punti proposti dall’elenco di Tromp, cf. KOMONCHAK, in SCVII, I, 305, nota 434. 39 Le Quaestiones, datate 2 luglio 1960, furono trasmesse ai presidenti delle commissioni il 9 luglio. Per quanto riguarda la Chiesa, davano queste indicazioni: «De Ecclesia Catholica. Constitutio de Ecclesia Catholica, a Concilio Vaticano I edita, compleatur et perficiatur, praesertim quoad: a) Corpus Christi Mysticum; b) Episcopatum; 3) Laicatum» (AD II, II/1, 408). 40 Su questo documento, non pubblicato negli AD, cf. FOUILLOUX, in SCVII, I, 157-160 e, per il tema ecclesiologico, KOMONCHAK, ivi, 244.
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Piolanti, Garofalo, Gagnebet e Hürt; fu poi proposto e approvato, in una forma leggermente ampliata, alla prima riunione plenaria della TE, tenuta il 27 ottobre.41 La sottocommissione che doveva elaborare il de Ecclesia comprendeva M. Dubois, J. Griffiths, P. Kornyaljak, J. Fenton, G. Philips, C. Colombo, C. Journet, R. Gagnebet, C. Balic´, U. Lattanzi, H. Schauf, J. Witte e J. Lécuyer;42 Gagnebet ne fu nominato presidente, dopo che p. Balic´ aveva rifiutato l’incarico. È significativo che la sottocommissione tagliasse fuori Tromp che, quale principale estensore della Mystici corporis, era ritenuto da molti il candidato più titolato per seguire l’elaborazione dello schema ecclesiologico. Viceversa, il segretario della TE non fu neppure consultato circa la scelta dei membri della sottocommissione; inoltre, Ottaviani non aderì al parere di Tromp, contrario alla nomina di Lattanzi nella sottocommissione.43 Queste vicende segnalano le tensioni presenti all’interno della TE, soprattutto in rapporto al gruppo della Lateranense, che rallentarono notevolmente il lavoro della sottocommissione.44 Prima di entrare nel merito dell’elaborazione dello schema, è utile richiamare qui le Normae generales pro subcommissionibus, che Tromp aveva elaborato entro il novembre 1960, con l’approvazione di Ottaviani, e che dovevano guidare il lavoro di redazione degli schemi.45 Alle sottocommissioni era chiesto di concentrarsi sui problemi attuali e di non scrivere trattati scientifici, evitando di soffermarsi su questioni obsolete o pacificamente accettate, su errori singoli non pericolosi per la fede della Chiesa, su questioni ancora aperte alla discussione; la condanna di errori doveva essere fatta senza citare nomi. Le sottocommissioni dovevano limitarsi a trattare la materia dottrinale, lasciando alle altre commissioni l’ambito disciplinare. 41 Per la riunione del 21 luglio, cf. il diario di Tromp alla stessa data (D-Tromp I/1, 71). Sulla sessione di ottobre della TE – tenuta ancor prima dell’inaugurazione ufficiale della fase preparatoria, ciò che non mancò di suscitare malumori a Roma e nel papa stesso – cf. KOMONCHAK in SCVII, I, 245-250, che presenta anche una serie di rilievi sui primi passi della TE e sulle tensioni che la caratterizzarono fin dall’inizio del suo lavoro. Lo schema approvato dalla TE è riprodotto in ACERBI, 108, nota 5; per una valutazione, cf. BURIGANA, «Progetto dogmatico del Vaticano II», 167s. 42 Cf. KOMONCHAK in SCVII, I, 306 (elenco dei nomi alla nota 436), anche per quanto segue. 43 L’8 novembre, nel diario, Tromp annota: «Dixit Emus Praeses se velle nominare in Commissione de Ecclesia Mgr. Lattanzi, prof. Lateranensem. Me opposui, quia nimis verbosus et difficulter intelligens a se dissentientes. In subcommissione de Ecclesia iam adest nimis divergentia»: D-Tromp, I/1, 107 (una versione leggermente diversa di questa annotazione – riportata da KOMONCHAK in SCVII, I, 306, nota 436 – si conserva nell’estratto del diario Tromp conservato negli archivi dell’Università gregoriana). Sull’esclusione di Tromp dalla sottocommissione de Ecclesia, cf. anche KOMONCHAK, ivi, 251s. 44 Cf. anche KOMONCHAK in SCVII, I, 248. Per le posizioni ecclesiologiche in seno al Laterano, cf. F. ÁLVAREZ ALONSO, «La posizione del Laterano sui problemi ecclesiologici nella fase preparatoria del Concilio», in CHENAUX (ed.), L’Università del Laterano, 67-80, nonché gli atti del Symposium theologicum de Ecclesia Christi, in Divinitas del 1962. 45 Seguiamo KOMONCHAK, in SCVII, I, 250s. Il testo delle Normae porta la data del 20 novembre 1960.
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In definitiva, veniva esclusa l’elaborazione organica o sintetica della dottrina: prevaleva, invece, l’attenzione ai problemi dottrinali contemporanei, da presentare soprattutto in modo da respingere gli errori che minacciavano il deposito della fede. Tromp non escludeva una presentazione positiva della verità, ma ricordava ai componenti delle sottocommissioni il consiglio dato ai membri della commissione dottrinale del Vaticano I: essere solleciti anzitutto di raccogliere gli errori del tempo presente. I riferimenti fondamentali, indicati ai redattori dei testi, dovevano essere le proposte fatte nella consultazione antepreparatoria e i pareri già espressi da membri e consultori della TE; per le questioni più complesse, si dovevano tenere presenti in particolare le recenti decisioni della S. Sede, e in modo speciale gli atti del Vaticano I. «Non venne fatto nessun riferimento al bisogno di nuovi studi sulla Scrittura e sulle tradizioni più antiche. Potevano chiedere l’aiuto di esperti al di fuori della commissione teologica, solo dopo aver consultato Ottaviani».46 La redazione del de Ecclesia si rivelò alquanto laboriosa, vuoi per la complessità della materia, vuoi per la diversità dei punti di vista dei redattori e degli altri membri della TE, vuoi per la difficoltà di alcuni membri della sottocommissione a redigere un testo così peculiare: è il caso, specificamente, del primo capitolo dello schema, che doveva trattare la natura della Chiesa. Affidato, contro il parere di Tromp e di Gagnebet, a Lattanzi, il capitolo era solo abbozzato al momento della seconda sessione plenaria della TE (febbraio 1961) e andò incontro a diverse critiche tanto che, a un certo punto – ma nel frattempo erano trascorsi mesi –, si rese necessario il suo totale rifacimento, a cui pose mano Tromp. L’iniziativa suscitò una violenta reazione da parte di Lattanzi, che arrivò a ricorrere allo stesso papa:47 se, agli occhi di un «esterno» come Congar, la vicenda assume i contorni di una bega di bottega, egli è però anche consapevole del danno che episodi di questo genere hanno portato all’andamento dei lavori preparatori,48 tanto più che, sul piano strettamente dottrinale, i problemi restavano aperti. 46
KOMONCHAK, in SCVII, I, 251. Tromp lavorò al testo nella prima metà di dicembre 1961 (cf. D-Tromp, I/1, 337-339); il 14 lo inviò a Lattanzi. Alcuni giorni più tardi scrive: «Mons. Lattanzi mihi et Rev.mo Patri Gagnebet epistolas misit sat acerbas, novam redactionem primi capitis de Ecclesia non fuisse sibi concreditum Secretario (qui illam redactionem non fecit nisi post mandatum acceptum per Patrem Gagnebet ab Eno Praeside[)]» (20 dicembre: ivi, 343). Il 31 dicembre Tromp incontrò Lattanzi, che accettò di rielaborare il capitolo, utilizzando il testo scritto da Tromp (cf. ivi, 347). Sulla vicenda, cf. anche ACERBI, 111; KOMONCHAK, in SCVII, I, 307s; ALBERTO, “Corpus Suum mystice constituit”, 151-153. 48 «Ce texte [il De Ecclesiae natura di Lattanzi] a toute une histoire. Dès le début (novembre 60) Lattanzi s’est montré impossible, verbeux, confus. Le P. Gagnebet eût voulu l’éliminer de ce rôle de rédacteur de ce chapitre, mais Lattanzi est allé voir le pape, il a fait valoir que l’honneur du Latran était en jeu. Cela a été une question de boutique. Il fallait que le Latran fasse un texte dogmatique… Mais, me dit le P. Gagnebet, on a perdu ainsi trois mois. Finalement, le P. Tromp a fait un texte dont Lattanzi a gardé le schéma et les idées, mais en rendant le tout dans son latin et son pathos»: J-Congar, I, 93s (8 marzo 1962); cf. anche ivi, 86 (28 febbraio 1962). 47
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Il capitolo in questione, di fatto, era imperniato sull’identificazione tra il Corpo mistico e la Chiesa cattolica romana, secondo la prospettiva già presente nella Mystici corporis e che il concilio, stando a un’esplicita affermazione di Gagnebet,49 avrebbe dovuto consacrare. Si è già visto il problema che questa identificazione, non ulteriormente sfumata, poneva sul piano storico-teologico;50 anche la recente ricerca biblica intorno al tema paolino del «corpo» sembra del tutto ignorata dagli estensori del testo, come nota ancora Congar, appuntando la faticosa discussione del primo capitolo nella plenaria della TE del marzo 1962: «… ripropongo invano il problema del senso di sw`ma, corpus. P. Tromp ritiene di risolvere tutto con il significato sociologico e soprattutto biologico. Non conosce gli studi esegetici recenti. Così metto sull’avviso gli esegeti, mons. Cerfaux e p. Kerrigan».51 Ma queste difficoltà non furono prese in considerazione; né lo furono le diverse obiezioni teologiche sollevate sia da altri membri e consultori della TE sia, in seguito, dai membri della CCP.52
B)
L’ U TILIZ ZA ZIO N E
DEL LE FO N TI
Abbiamo richiamato le vicende relative al primo capitolo del de Ecclesia, perché, come indicano le note di Congar, sono sintomatiche di un problema più generale, che la TE ha avuto nell’elaborazione dello schema. Il problema riguarda in modo particolare il rapporto con le fonti; questione che, come si vedrà, venne spesso richiamata, tanto in sede di discussione nella CCP, quanto nel dibattito conciliare. Per cogliere meglio la portata di queste discussioni, conviene ricordare brevemente lo status delle fonti nel testo elaborato dalla TE. Acerbi lo riassume così: Chi legge lo schema preparatorio non può non avvertire tutto il tenore dei manuali di ecclesiologia fioriti tra il Vaticano I e il Vaticano II: lo stile è scolastico e giuridico, più che biblico e cherigmatico […] e mira soprattutto alla esattezza delle definizioni in termini scolastici. Ma lo stile è solo l’indice di una impostazione teologica, che si rivela soprattutto nel ricorso alle fonti. La struttura portante dello schema è, infatti, costituita dal magistero, soprattutto quello papale degli ultimi cento anni. Si tratta del ricorso ad encicliche, ma anche a documenti secondari (allocuzioni a gruppi particolari, lettere pontificie ecc.) e ai documenti delle congregazioni romane, oltre che ai canoni del CJC, senza talvolta discriminare in questi ultimi la loro portata canonica e teologica, così ampio e sistematico che pone in secondo piano il testo della scrittura e dei padri.53
49
Cf. ACERBI, 112, nota 19. Cf. sopra, c. 1 § 3c; si vedano anche le osservazioni di Congar sullo schema della TE pubblicate da ALBERTO, “Corpus Suum mystice constituit”, 145-147. 51 J-Congar, I, 94 (8 marzo 1962); ALBERTO, “Corpus Suum mystice constituit”, 161s. 52 Cf. al riguardo ACERBI, 112-117. 53 ACERBI, 147. 50
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Si noti che i rilievi qui riportati si riferiscono allo schema nella sua versione finale, presentata ai padri conciliari nel novembre 1962. Lo schema sottoposto all’esame della CCP, nel maggio-giugno dello stesso anno, presentava una situazione ancora peggiore. Nello schema definitivo si contano 43 citazioni patristiche (che si riducono, di fatto, a 41);54 di queste, però, una dozzina è stata aggiunta dopo il passaggio dello schema attraverso il vaglio della CCP e la successiva revisione, che ha portato a una (lieve) integrazione dei riferimenti patristici e a una (lieve) riduzione dei rinvii al magistero soprattutto pontificio.55 Ciò significa che, nel testo elaborato dalla TE, 35 citazioni patristiche fronteggiavano oltre 500 citazioni del magistero; nello schema definitivo, presentato in concilio, le proporzioni sono cambiate, ma di poco: 43 (o 41) riferimenti ai Padri si devono confrontare con 460 citazioni del magistero, quasi due terzi delle quali (309) tratte da documenti pontifici. Il solo Pio XII è citato almeno 85 volte: il doppio, dunque, di tutta la tradizione patristica. Se poi si considera che alcune citazioni patristiche sono di seconda mano (ossia riprese attraverso i documenti magisteriali: cinque riferimenti nello schema definitivo), la sproporzione diventa ancora più forte. Dopo aver riportato qualche altro elemento quantitativo, inclusi i riferimenti scritturistici, è ancora Acerbi a osservare: il solo confronto numerico non rende giustizia al rapporto reale tra le diverse fonti. I testi biblici e patristici sono subordinati ai testi magisteriali; infatti, o riguardano affermazioni marginali rispetto alla intenzione del capitolo o riportano testi già contenuti in altri testi del magistero assunti come guida del discorso teologico […], oppure sono citati a mo’ di conferma di tesi, che son ricavate non dall’esame complessivo del pensiero della Scrittura o dei padri sull’argomento, ma dai testi del magistero ecclesiastico.56 54 Cf. l’elenco riportato nella Tavola 1 (pp. 172-174). ACERBI, 148, nota 27, segnala 36 citazioni patristiche; non indica però i criteri utilizzati per il calcolo. Per redigere il nostro elenco, abbiamo scelto di considerare ogni singolo passo patristico (quando non si tratti della stessa opera e dello stesso contesto) come una citazione a sé, e di includere anche i testi pontifici di epoca patristica. Almeno due citazioni sono ripetute: cf. nell’elenco della Tav. 1 i nn. 19/28 e 21/29. 55 La cosa ha riguardato soprattutto la seconda parte del c. IX, con le relative sei pagine di note, che includevano più di 60 riferimenti al magistero pontificio, senza contare le decine di riferimenti al Sillabo (cf. AD II, III/1, 185-191). 56 ACERBI, 147, nota 148. Acerbi rileva 168 citazioni scritturistiche (86 nel corpo dei capitoli e 82 in nota), 76 delle quali concentrate nel primo capitolo; segnala le citazioni di cinque documenti liturgici e nove di autori scolastici (cinque di Tommaso). Sulle fonti del de Ecclesia preparatorio, cf. anche P. HÜNERMANN, «Theologischer Kommentar zur dogmatischen Konstitution über die Kirche Lumen Gentium», in Herders Theologischer Kommentar zum Zweiten Vatikanischen Konzil, hrsg. v. P. HÜNERMANN u. B.J. HILBERAT, Herder, Freiburg 2004-2006, rist. 2009, II, 315; BURIGANA, «Progetto dogmatico del Vaticano II», 173-177. Osservazioni analoghe, circa le fonti, si possono fare per altri testi elaborati dalla TE, ad es. per la formula di professione di fede, redatta da Tromp e inviata alla CCP il 4 ottobre 1961 (cf. KOMONCHAK, in SCVII, I, 254; INDELICATO, Difendere la dottrina, 70s; 327s); per il de fontibus revelationis, cf. più avanti, c. 5 § 1. Qualche problema può derivare anche dall’approssimazione con la quale alcuni estensori hanno trattato le fonti e i loro riferimenti, come segnala de Lubac riferendo di un colloquio p. M. Leclercq, che era stato segretario di Tromp nella TE (cf. J-de Lubac, I, 151 [23 ottobre 1962]).
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Notiamo ancora, sempre per capire meglio alcuni interventi fatti all’interno della CCP, che delle 35 citazioni patristiche presenti nel testo elaborato originariamente dalla TE, la schiacciante maggioranza viene da Padri latini: 27 riferimenti, contro solo otto tratti dalla patristica greca; Agostino, come c’è da aspettarsi, fa la parte del leone, avendo di suo 14 citazioni. Dopo la revisione del testo, rimarranno 27 riferimenti alla patristica latina (12 di Agostino),57 mentre saliranno a 14 i rinvii alla tradizione greca. Si noterà ancora che, se si prescinde dai riferimenti indiretti – mutuati, cioè, attraverso qualche altro documento –, nel testo originale della TE venivano citati, tra i Padri greci, solo Ignazio di Antiochia (2x), Gregorio Nazianzeno (1x) e Giovanni Crisostomo (3x); nello schema riveduto, oltre a un’altra citazione del Crisostomo, si aggiungeranno due passi di Eusebio di Cesarea, uno dello Ps. Basilio, uno dalla Lettera a Diogneto. Può essere significativo osservare, poi, che delle 35 citazioni patristiche presenti nello schema elaborato dalla TE, solo tre (cui si aggiungeranno altre tre citazioni, fra quelle introdotte nel testo rivisto) saranno conservate nella costituzione dogmatica approvata dal concilio, che pure annovera 159 citazioni patristiche.58 È un segno del fatto che la profonda revisione del testo del de Ecclesia, elaborata nel corso del concilio, ha coinvolto radicalmente – né poteva andare in modo diverso – anche il ricorso alle fonti. Tav. 1 - Citazioni patristiche dello schema preparatorio de Ecclesia59 1. 2. 3.
*[Clem. Alex., Strom. 7,2] (I,6) *Euseb., Hist. eccl. I,3: PG 20,68,73 (I,11) *Euseb., Demonstr. Evang. IV,15: PG 22,290-291 (I,11)
57 Ma due passi, di Leone Magno e Gregorio Magno, saranno citati due volte: cf. Tav. 1, nn. 19/28 e 21/29. 58 Le citazioni conservate sono, nell’elenco della Tav. 1, i nn. 16, 17, 18 (schema originale della TE) e 30, 31 e 42 (schema presentato in concilio). Un caso a sé è dato dalla citazione di Leone Magno indicata al n. 19: LG 22 mantiene il riferimento al Serm. 4, ma rinvia a un passo del sermone (n. 3 = PL 54,151A) diverso da quello citato nello schema della TE (corrispondente a PL 54,149). Il calcolo delle circa 159 citazioni presenti in LG tiene conto anche del c. VIII, mentre sin qui abbiamo considerato lo schema de Ecclesia preparatorio prescindendo dal de Beata Virgine. In ogni caso, i soli cc. I-VII di LG contengono circa 145 citazioni patristiche: cf. l’indice delle citazioni nell’Appendice I. 59 Seguiamo l’ordine del testo presentato ai padri conciliari; in parentesi il capitolo e il numero di nota. Le citazioni precedute da * sono state inserite dopo il passaggio dello schema alla CCP; quelle inserite in parentesi quadre sono citate «di seconda mano», all’interno cioè di un altro documento cui si rinvia. Il grassetto nel numero d’ordine indica le citazioni di cui è riportata qualche parola in nota; per le citazioni riportate nel corpo stesso dello schema, cf. le note specifiche. Per i testi dei due schemi, seguiamo: AD II, III/1, 135-204 (schema TE prima dell’esame in CCP), e Schemata Constitutionum et decretorum… Series II. De Ecclesia et de B. Maria Virgine (Sub secreto), TPV 1962, 11-90 (schema presentato in concilio); non riprendiamo le citazioni del de B. Maria Virgine.
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4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15. 16. 17. 18. 19. 20. 21. 22. 23. 24. 25. 26. 27. 28. 29. 30. 31. 32. 33. 34.
*Io. Chrys., in 2 Cor., hom. 3,5: PG 61,41 (I,11) *Fastidio Britt., De vita christ., 1: PL 50,384 (I,11) Io. Chrys., ep. ad Eph. 6, hom. 22,4: PG 61,161 (I,40) August., Serm. 349, 2: PL 39,1530 (I,40) August., De abstin. 11: PL 40,366 (I,40) Ambros., De obitu Val. 51: PL 16,1374 (II,12)60 August., De Bapt. IV,21,28: PL 43,172 (II,12) August., In Ps. 85, 15: PL 37,1092 (II,17) Gregor. Naz., Orat. 18,33: PG 35,1027-1030 (III,4) Io. Chrys., De Beato Philogonio, hom. 6,1: PG 48,751 (III,4) August., Epist. 209: PL 33,953s (III,4) Innoc. I, Epist. ad Decent.: PL 20,554s (III,7) [Cypr., Epist. 69] (IV,1) [Iren., Adv. haer. IV,26,43] (IV,1) [Ignat. Ant., ad Magn., 6] (IV,1)61 *Leo M., Serm. 4 de natali ipsius: PL 54,149 (IV,8)62 *Leo M., cf. Epist. 10: PL 54,629 (IV,8) Gregor. M., ep. ad Eulogium, l. 8, c. 30: PL 77,933 (IV,11)63 Ignat. Ant., ep. ad Philad., 3,2; 8,1: PG 5,700,704 (IV,12) Ignat. Ant., ep. ad Smyrn., 8,1: PG 5,713 (IV,12) Cypr., Epist. 69: PL 4,406 (IV,12) Cypr., Epist. 27: PL 4,298 (IV,12) Cypr., Epist. 76: PL 3,1140 (IV,12) Cypr., de Cath. Eccl. unit., 4-6: PL 4,498-501 (IV,12) Leo M., Serm. 4: PL 54,149s (IV,12)64 *Gregor. M., ep. ad Eulogium, l. 8, c. 30: PL 77,933 (IV,14) *Basil. [ps.], In Isaiam 15, 296: PG 30,637 (IV,15) *Gregor. M., Moral. IV,7,12: PL 75,643 (IV,15)65 *Vinc. Lirin., Commonit. 23:66 PL 50,668 (VII,9) Regula Benedicti, cap. 64 (VIII,6) August., Regula ad servos Dei, 11: PL 32,1384 (VIII,6)
60 La nota 1 del c. II, in riferimento alla necessità della Chiesa per la salvezza, dice: «Doctrina Patrum: Ignatii Antioch., Origenis, Cypriani, Hieronymi, Augustini, Fulgentii vide apud Tromp, De Spiritu Christi Anima, pp. 210-213». 61 Questo passo, e i due precedenti, sono citati attraverso il rinvio al concilio provinciale di Colonia del 1860; subito dopo, viene citato il III concilio provinciale del Quebec del 1863: «Episcopos enim esse principes Ecclesiae, Apostolorum successores, ipsiusmet Christi legatos, passim et aperte docent [Sancti Patres Doctoresque]» (AD II, III/1, 146). 62 Alcune righe di questa citazione sono inserite nel testo del c. IV, n. 14 dello schema presentato in concilio; nella formulazione originale della TE, vi era solo il rinvio al passo di Leone Magno, tra altri rinvii della nota 12. Per la riformulazione del n. 14, cf. sotto, § 4c. 63 Il testo di Gregorio Magno è riportato nel corpo dello schema, alla fine del n. 14. In forma più breve, e in nota, è riportato anche più avanti (cf. n. 29 del nostro elenco). 64 Per questa citazione, cf. sopra, n. 19 del nostro elenco e nota 62. Tutte le citazioni della nota 12 (qui, nn. 22-27), tranne quest’ultima, sono desunte da EPatr. 65 Ai due passi di [ps.] Basilio e Gregorio Magno si aggiunge: «Similia apud Clem. Alex. Cyrill. Alex. Io. Damasc., alios». 66 Sic, ma si legga 28.
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35. 36. 37. 38. 39. 40. 41. 42. 43. 44. 45. 46.
[August., De morib. Eccl., I,30: PL 32,1336] (IX,8) August., Epist. ad Marcell., 138,15: PL 33,532 (IX,9) Gregor. M., Epist. 65, ad Mauricium: PL 77,663 (IX,17)67 [August., Epist. 93 et 185,8: PL 33,321-347 e 795s] (IX,22) [August., in Io. 26, 2: PL 35,1607] (IX,22) [August., Epist. 105, II, 9: PL 33,399] (IX,23) August., Epist. 199, 12: PL 33,922-924 (X,5) *Epist. ad Diogn., 6: PG 2,1176 (X,7) Caelest., Epist. ad Syn. Ephesinum: Mansi 4,1283 (X,11-12)68 Io. Chrys., Ep. 123: PG 52,676-678 (X,15)69 August., Serm. Morin: Misc. August. I, p. 575 (XI,8) August., Serm. ad Caesar. Eccl. plebem, 5: PL 43,694 (XI,8)
3. I L
DIBATTITO NELLA C OMMISSIONE C E N T R A L E P R E PA R AT O R I A
A)
L A DIS C US SION E SU I PR IM I DU E C A P I T O L I
Il de Ecclesia fu sottoposto all’esame della Commissione centrale preparatoria in due riprese, l’8-9 maggio e il 19-20 giugno 1962; in quest’ultima tornata la CCP esaminò anche il de Beata Virgine. È stato notato che la CCP è l’organismo che più si distacca dagli altri organismi preparatori, in particolare perché è l’unico che è stato costituito con un criterio di rappresentatività veramente universale della Chiesa,70 una sorta di «concilio in miniatura»: caratteristica, questa, che si ricava non soltanto dalla composizione, ma anche e forse ancor più dal fatto che nei dibattiti sugli schemi preparatori, per quanto relativamente rapidi, si preannunciano le tensioni e gli orientamenti che ritorneranno durante lo svolgimento del concilio, soprattutto nel corso del primo periodo. Sono significative, al riguardo, alcune reazioni di p. Tromp, ammesso a presenziare (ma senza diritto di intervento), in quanto segretario della TE, alle sessioni della CCP riguardanti gli schemi dottrinali. In occasione della discussione sul de Ordine Morali, il 15 gennaio 1962, Tromp annota con fastidio l’ampia libertà di critica che si prendono i membri della CCP, senza che sia data agli estensori del testo la possibilità di replica67 Nel testo presentato alla CCP, questo passo corrisponde alla nota 21. Dalla nota 14 in poi, tutto l’apparato di annotazioni è stato radicalmente abbreviato (un terzo della versione originale) nella versione definitiva dello schema, in corrispondenza con il rifacimento della seconda parte del capitolo, secondo i desideri della CCP (cf. ACERBI, 143146); sono così cadute le citazioni di Agostino (qui, nn. 38-40), del resto tutte ricavate da rinvii a documenti pontifici recenti. 68 Nel testo presentato alla CCP: nota 9. 69 Nel testo presentato alla CCP: nota 13. 70 Cf. INDELICATO, «Formazione e composizione», 55. Per una presentazione complessiva del lavoro della CCP, si veda ID., Difendere la dottrina.
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re;71 un paio di giorni dopo scrive: «Nella Commissione Teologica sentiamo un’opposizione più o meno latente, da parte di alcuni porporati, contro il S. Uffizio. Le nostre Costituzioni sono viste come imbevute dello spirito inquisitorio del S. Uffizio, ciò che è assolutamente falso».72 Questa tensione segnerà, com’era del tutto prevedibile, anche il dibattito sul de Ecclesia: lo si capisce dal tono piuttosto aspro, da qualcuno ritenuto anzi offensivo, con cui il segretario della TE replicherà per iscritto, indirizzandosi alla Sottocommissione per gli emendamenti,73 alle osservazioni fatte allo schema soprattutto nella sessione della CCP dell’89 maggio 1962. Anche questa tensione è sintomo dei problemi che accompagnano tutta la fase preparatoria: è lecito chiedersi se una più attenta adesione agli orientamenti espressi nella CCP non avrebbe potuto facilitare considerevolmente il lavoro successivo. Il dibattito dell’8-9 maggio74 prese in considerazione il materiale sino a quel momento disponibile, ossia i primi sei capitoli dello schema, che furono esaminati e votati a gruppi. Il problema del riferimento alle fonti, e in particolare a quelle patristiche, ritorna diverse volte nei non pochi interventi più critici, peraltro mitigati dal voto placet iuxta modum, computato come voto positivo.75 In qualche caso, la critica tocca punti specifici: König e Döpfner, ad es., sollevano la questione del carattere tradizionale della tripartizione dei tria munera, sacerdotale, regale e profetico. Secondo König, la tripartizione sembra piuttosto di matrice protestante, è stata accolta solo recentemente nella teologia cattolica e potrebbe entrare in conflitto con la più chiara distinzione tra potestà d’ordine e di giurisdizione; la tripartizione può illuminare l’organizzazione complessiva della Chiesa visibile, ma non il suo nesso con Cristo e la sua costituzione divino-umana.76 Döpfner, oltre a riprendere il problema sollevato da König, osserva che lo schema presenta il disegno divino in un modo troppo unilateralmente sbilanciato sulla prospettiva «redentrice», e chiede che la si integri con il tema paolino (Ef e Col) e patristico della ricapitolazione di ogni cosa in Cristo.77 Altri interventi toccano in modo piuttosto generico il richiamo alla tradizione patristica: sia con qualche approssimazione, come fa Ottaviani
71
Cf. D-Tromp, I/1, 353 (e cf. già ivi, 323). D-Tromp, I/1, 355. Secondo INDELICATO, Difendere la dottrina, 103s, è già dalla sessione del novembre 1961 che emergono, nella CCP, prese di posizione e orientamenti critici nei confronti dei lavori delle commissioni preparatorie. 73 Cf. sotto, § 4b. 74 Verbale delle sessioni ed elenco dei partecipanti in AD II, II/3, 633-635; testi degli interventi ivi, 986-1115. Presentazione sintetica in INDELICATO, Difendere la dottrina, 242254; cf. anche KOMONCHAK, in SCVII, I, 321-325. 75 Così, i cc. 1-2 ricevono 6 placet, 7 non placet (in tre casi limitato al c. 2) e 56 placet iuxta modum. 76 Cf. AD II, II/3, 1005. Il problema del fondamento tradizionale della tripartizione sarà recepito dalla TE, e lo schema emendato offrirà qualche elemento di appoggio: cf. sotto. 77 Cf. AD II, II/3, 1007s; anche in questo caso, la TE raccoglierà la proposta introducendo qualche modifica nel testo. 72
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nella relazione introduttiva sullo schema, quando, a proposito dell’identità reale tra la Chiesa cattolica romana visibile e il corpo mistico di Cristo, richiama l’enciclica Vehementer nos di Pio X per affermare il fondamento scritturistico e patristico di questa identificazione;78 sia su un aspetto specifico, quale la richiesta di indicare Maria come primo e principale membro del Corpo mistico, secondo una dottrina che da Ireneo arriverebbe a noi attraverso i Padri e dottori della Chiesa.79 Altri interventi pongono problemi più radicali. È Montini a sollevare per primo la questione di una più articolata fondazione dello schema nella tradizione soprattutto patristica: in una questione di così grande importanza, nota l’arcivescovo di Milano, «è scarsa, anzi scarsissima, la documentazione tratta dai Padri della Chiesa e dalla tradizione cattolica»;80 gli fa eco, evidentemente anche a motivo del proprio interesse per il cristianesimo d’oriente, il card. Coussa: che non vuole certo venir meno alla necessità di affermare la verità con chiarezza, per non cadere nell’indifferentismo, e però ritiene che si possa proporre la verità cristiana «anche con le parole dei Padri e Dottori della Chiesa Orientale. E, se non erro, non dovrebbe essere un lavoro difficile, dato che anche nei primi tempi della Chiesa Dio ha permesso che vi fossero gli scandali di eresie e scismi, e i Padri se ne sono occupati».81
B)
LE
QUE S T IONI R E L AT IV E A LL’ E PIS COPATO
Il dibattito era destinato ad accendersi soprattutto intorno ai capitoli III e IV, dedicati all’episcopato. L’intervento più significativo, sotto il profilo del riferimento alle fonti, venne da Maximos IV. Il patriarca82 contesta duramente lo schema proposto: esso, dice, sembra introdurre surrettiziamente un nuovo dogma, quando pretende di affermare che nessuno è costituito nell’episcopato se non con l’intervento «diretto o indiretto» del papa.83 Secondo il patriarca, ciò è contraddetto dalla Scrittura; quanto alla tradizione, è vero che vi sono alcuni testi (specialmente di papi) in questa linea, ma non si può dire che questo sia l’insegnamento della 78 AD II, II/3, 994s. Come abbiamo visto (cf. c. 1 § 3c), questa tesi, entrata anche nella Mystici corporis, si accorda difficilmente con la visione agostiniana e tomista. 79 Così chiede il card. Ruffini: cf. AD II, II/3, 1002. 80 AD II, II/3, 1028. 81 AD II, II/3, 1032. 82 Maximos IV non partecipò di persona alla sessione della CCP, ma delegò a rappresentarlo mons. Edelby, che lesse il testo scritto in francese (cf. AD II, II/3, 1059-1066). 83 Il testo diceva così: «Episcopi iurisdictionem suam actualem non ipsa ordinatione sacra, sed, directe vel indirecte, missione iuridica, et non ab Ecclesia […] neque a potestate civili, sed a regimine Ecclesiae, et quidem ab ipso successore Petri accipiunt…» (cf. AD II, III/1, 145). Per il dibattito in sede di TE sul problema, cf. H. SCHAUF, Das Leitungsamt der Bischöfe. Zur Textgeschichte der Konstitution «Lumen Gentium» des II. Vatikanischen Konzils, F. Schöning, München-Paderborn-Wien 1975, 13-56; per il dibattito in CCP, ivi, 56-69.
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maggior parte dei Padri: «Al contrario, vi sono parecchi testi, antichi e imparziali, che affermano il contrario. Vi sono Padri della Chiesa che si sono addirittura opposti a questa corrente di ipertrofia del potere papale. Si può anzi dire che la maggioranza dei Padri, soprattutto d’Oriente, è di parere contrario»;84 anche riconoscendo il primato del papa, ciò non significa che egli sia la fonte di ogni giurisdizione nella Chiesa: la tradizione nel suo insieme, secondo il patriarca, è contraria all’idea espressa nello schema. Più in generale, poi, Maximos IV aggiungeva: Sia lecito fare qui un’osservazione, che vale per molte altre tendenze eccessive della teologia moderna: l’Occidente non presenta testi falsi, ma presenta solo i testi che gli piacciono, e fa tacere, consciamente o inconsciamente, i testi che non corrispondono alle sue teorie, anche se sono più numerosi. Uno studio obiettivo della Tradizione deve tener conto di tutte le correnti e di tutti i testi. Di fronte a qualche testo favorevole al «Pontefice Romano fonte unica e ultima di ogni potere» vi sono molti altri testi che ignorano questa teoria o affermano il contrario. Dove sta la vera Tradizione?85
Verso la conclusione della sua lunga esposizione critica, il patriarca dei melchiti – che mette in rilievo come la tesi presentata nello schema conduca ad allargare ancora di più la distanza tra oriente e occidente – non lascia spazio a dubbi: Lo schema che ci viene presentato è nettamente tendenzioso. A parte le esagerazioni di forma che abbiamo rilevato, propone una teoria per nulla certa della costituzione divina della Chiesa. Da parte nostra, la riteniamo persino errata. Questo schema deve essere ristudiato da teologi più obiettivi e più nutriti della tradizione patristica. A nostro avviso lo Schema, così come si presenta, non può essere proposto al Concilio.86
Le parole dure di Maximos IV incontreranno il consenso di diversi membri influenti della CCP: vi si riferiranno, per chiedere di emendare lo schema, Liénart, König, Döpfner, Rugambwa, Suenens, Bea, Antezana y Rojas, Cooray, Hurley, Perrin, Seper, Bazin, Yago, Rakotomalala, Verwimp, Suhr, Sépinski.87 Per lo più, i membri della CCP sottoscrivono in modo generico i rilievi presentati dall’intervento di Maximos IV. Alcuni, però, tornano sul merito della questione. Così Liénart, il quale ritiene che lo schema non ricavi sufficientemente dalla Scrittura e dalla tradizione l’ufficio e la potestà episcopale, presentati sotto un punto di vista unilateralmente giuridico; a suo giudizio, poi, lo schema mette in questione – anche qui in disaccordo con la tradizione – l’origine divina dell’episcopato. L’arcivescovo di Lille sottolinea che la veritas theologica, e
84
AD II, II/3, 1061; si veda ivi, 1060s, per la questione delle citazioni bibliche. AD II, II/3, 1061. Maximos IV riprenderà la critica nel corso del dibattito conciliare (cf. AS II/2, 246, testo scritto allegato all’intervento del 7 ottobre 1963, 42ª C. G.). 86 AD II, II/3, 1065-1066. 87 Si vedano gli interventi e le dichiarazioni di voto, AD II, II/3, 1066-1083. 85
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non soltanto la caritas erga Episcopos Orientales, domanda «che il Concilio presenti una dottrina dell’episcopato più obiettiva e ampia, che le riserve legittimamente fatte dai sommi pontefici nel corso del tempo non possono, né intendono annullare».88 Confalonieri, che approva senza riserve il c. III, torna sulla scarsa coerenza del c. IV con la tradizione, per ciò che riguarda la giurisdizione episcopale: a suo giudizio, sebbene si debba senz’altro riferire l’esercizio concreto della giurisdizione episcopale alla «missio iuridica», non si vede perché si dovrebbe aver paura di dire che la potestas in quanto tale deriva dall’ordinazione; invita a rifarsi alle parole del rito stesso (che richiama sinteticamente) e conclude: «Che si vuole di più? La Tradizione (aderendo alla Scrittura) è dunque chiarissima e antichissima».89 Confalonieri ricordava poi che anche i papi recenti – cita in particolare Pio XI e il suo frequente ricorso ai testi di s. Cipriano – avevano sovente richiamato la sollecitudine dei vescovi per il bene di tutta la Chiesa; e concludeva invitando a tenere più in considerazione e a cercare di capire il punto di vista orientale e il modo più abitualmente collegiale con cui gli orientali hanno affrontato le questioni.90 Anche Montini (richiamando Maximos IV e Confalonieri) domanda che si riveda il testo del c. IV alla luce degli interventi critici emersi nel dibattito e chiede che si tratti della questione dell’episcopato come risposta alle attese della Chiesa cattolica e anche dei fratrum dissidentium. Né la CCP, né il futuro concilio, osserva l’arcivescovo di Milano, devono avere paura di affrontare la dottrina dell’episcopato per integrare e coronare quella del primato e dell’infallibilità, già definite dal Vaticano I: e fa riferimento ai celeberrima… verba di Gregorio Magno a Eulogio di Alessandria, citati dallo stesso schema,91 oltre a richiamare il principio statuito da s. Ambrogio, «ubi Petrus, ibi Ecclesia».92 88
AD II, II/3, 1066. AD II, II/3, 1072. 90 Cf. AD II, II/3, 1072-1073. L’intervento di Confalonieri verrà citato e appoggiato con particolare vigore da Montini e fatto proprio anche da Godfrey, Bea (cf. ivi, 1078), Silva Santiago, Antezana y Rojas, Cooray, McKeefry, Hurley, Perrin, Bazin, Bernard, Suhr, Sépinski (cf. ivi, 1070-1083). Per una più specifica proposta di emendamento, si veda sotto, § 4c. 91 «Meus honor est honor universalis Ecclesiae. Meus honor est fratrum meorum solidus vigor. Tum ego vere honoratus sum, cum singulis quibusque honor debitus non negatur»: Ep. ad Eulogium episc. Alexandrinum, l. 8, c. 30: PL 77,933. Le parole erano citate alla fine del c. IV § 2, che le introduceva così: «Absit tamen ut per hoc iura Episcoporum minuantur, cum e contra e supremo et universali pastore asserantur, roborentur et vindicentur, secundum illud sancti Gregorii Magni…» (AD II, II/3, 1040). Maximos IV aveva notato a proposito di queste parole: «C’est presque de l’ironie. Par ces exagérations, les droits des Evêques sont bel et bien diminués. Plus d’un Evêque catholique a pensé dans son for intérieur qu’il était réduit pratiquement au rôle de “préfet” exécutant les consignes des bureaux romains» (ivi, 1064). Il rilievo fu appoggiato anche da Sépinski (cf. ivi, 1083). 92 Cf. AD II, II/3, 1070. È da notare che l’arcivescovo di Milano prenderà invece le distanze da Ambrogio, un passo del quale («omnes filii ecclesiae sacerdotes sunt»: in Lucam V,33) poteva offrire il destro per un’affermazione del duplice sacerdozio, universale e ministeriale, effettivamente sviluppato dallo schema al § 2; Montini, d’accordo con Siri, ritiene preferibile evitare questa affermazione (cf. AD II, II/3, 1108). 89
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Netto, anche se non entra troppo nei dettagli, il giudizio sull’insufficienza del c. IV dello schema, in particolare sotto il profilo del suo fondamento nella tradizione patristica, da parte di Bea; insieme con il suo non placet, il cardinale avanza anche la richiesta di un rifacimento del capitolo da parte di una commissione mista, che unisca il lavoro della TE a quello della Commissione per le Chiese orientali e del Segretariato per l’ecumenismo e tenga conto delle critiche presentate dai membri della CCP (esplicitamente menzionati Confalonieri e Maximos IV, insieme con Liénart, Richaud, König e Alfrink per critiche su altri aspetti): «La questione affrontata dallo Schema è troppo rilevante, perché non la si debba affrontare con uno studio quanto più possibile approfondito e fondato, con l’utilizzazione della documentazione biblica, patristica e della tradizione storica».93 Non molto diverse, anche se non bocciano il testo in toto, le dichiarazioni di voto di Antezana y Rojas, Perrin e Bernard, che chiedono una seria revisione del testo, più attenta all’insegnamento della Scrittura, dei Padri e della tradizione.94 Il card. Coussa, che aveva già lamentato il troppo scarso ricorso alla tradizione orientale per i primi due capitoli, non lascia spazio ad ambiguità: A fatica è dato di trovare nello schema qualche traccia dei Padri e dei Dottori. Mi sono rallegrato nel leggere il nome di s. Ignazio vescovo e martire; ma i Concili Ecumenici sono soliti appoggiarsi sulle affermazioni dei Padri e dei Dottori, oltre che su quelle della Scrittura. Lo Schema sembra presentarsi più come una lezione scolastica, che come magistero di un Concilio Ecumenico.95
Solo una voce valuta criticamente l’orientamento di Maximos IV, quella del card. Gracias: vota per il testo con un placet iuxta modum, rinviando alle osservazioni di Richaud, König e Döpfner, ma poi rileva: Chi ha parlato ieri alla fine (dalla Chiesa orientale [= mons. Edelby, che aveva letto l’intervento di Maximos IV]) ha proposto alcune opinioni che mi sembrano «progressiste». A suo giudizio le considerazioni presentate sarebbero fondate su fatti storici certi. Ma dobbiamo vedere quanto siano veramente fondate nella storia.96
La restante discussione intorno al de Ecclesia da parte della CCP offre pochi altri elementi significativi per la problematica che qui interessa. Nella sessione del maggio 1962 furono esaminati ancora i cc. V-VI, dedicati rispettivamente agli stati per l’acquisizione della perfezione evangelica e ai laici. I richiami alla tradizione patristica erano qui pressoché assenti: il Commentarius annesso al capitolo sui laici parlava, a proposito del § 4 «De iuribus et officiis laicorum», della partecipazione al tripli-
93 94 95 96
AD II, II/3, 1078. Cf. le rispettive dichiarazioni di voto, AD II, II/3, 1079-1082. AD II, II/3, 1076; il rilievo riguarda in particolare il c. IV. AD II, II/3, 1069s.
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ce munus di Cristo «secondo la dottrina dei santi Padri»:97 il testo stesso, però, non aveva alcun riferimento patristico. Nulla, in ogni caso, fu rilevato al riguardo nel dibattito, che pure, come si è detto, aveva già registrato qualche voce dubbiosa circa il fondamento tradizionale della distinzione dei tre munera.
C)
L’ ELABORAZIONE
DEL DE
B EATA V IRGINE
Prima di riferire del passaggio in seno alla CCP del de Beata Virgine, è opportuno richiamare brevemente alcuni aspetti della redazione di questo schema.98 La prima bozza del testo, redatta dal francescano C. Balic´, fu presentata alla sottocommissione de beata della TE il 26 maggio 1961.99 La dottrina mariana che ne emerge, fortemente imperniata su una considerazione dei «privilegi» mariani, sembra non aver beneficiato del rinnovamento biblico, patristico, liturgico ed ecumenico… i riferimenti biblici sono scarsi e marginali… I riferimenti patristici sono quelli che normalmente vengono citati in appoggio alla dottrina mariana tradizionale. Non troviamo accenno ai testi di S. Agostino o di S. Ambrogio relativi al rapporto tra Maria e la Chiesa o al concetto di esemplarità.100
Le redazioni successive del testo e delle note non miglioreranno molto la situazione. Balic´ rielaborò il testo dopo che era stato presentato alla sottocommissione (seconda redazione). Al termine della sessione di lavoro della sottocommissione de Ecclesia, che si tenne ad Ariccia dal 6 al 14 luglio 1961, si arrivò a una terza elaborazione, nella quale l’apparato dei riferimenti raggiunge una stesura già molto simile a quello dello schema definitivo.101 Questa redazione sarà inviata anche ai periti extra Urbem, che non avevano partecipato all’elaborazione dello schema: tra questi, solo Salaverri rileva – per quanto riguarda i testi del magistero pontificio – la mescolanza, troppo indifferenziata, di fonti dottrinali di peso diverso.102 Nel corso della plenaria della TE del settembre 1961, dove il testo 97
AD II, II/3, 1093 (cf. AD II, III/1, 160). Per la storia del de Beata Virgine ci riferiamo alla recente ricerca di ANTONELLI, Il dibattito su Maria: per la fase preparatoria e la discussione nel primo periodo, cf. 69-204. Si veda anche E. TONIOLO, La Beata Maria Vergine nel Concilio Vaticano II. Cronistoria del capitolo VIII della Costituzione dogmatica «Lumen gentium» e sinossi di tutte le redazioni, Centro di cultura mariana «Madre della Chiesa», Roma 2004, utile per le sinossi dei vari schemi, e la recente sintesi di S. DE FIORES, «Concilio Vaticano II», in ID., Maria. Nuovissimo Dizionario, EDB, Bologna 2006, I, 323-358. 99 Testo (ma senza note) in ANTONELLI, Il dibattito su Maria, 75-80: alla nota 208 vengono dati i riferimenti archivistici. 100 ANTONELLI, Il dibattito su Maria, 80s. 101 Per il lavoro fatto ad Ariccia, cf. ANTONELLI, Il dibattito su Maria, 93-103; testo della terza redazione, 103-108; cf. anche TONIOLO, La Beata Maria Vergine, 67. 102 «In notis, in quibus fontes doctrinae citantur, adnotare oportet, Romanorum Pontificum Allocutiones, exhortationes vel instructiones paraeneticas non esse de se aequiparandas cum eorum doctrinalibus Encyclicis» (cf. ANTONELLI, Il dibattito su Maria, 116). 98
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viene preso in esame, la questione di un più puntuale radicamento dello schema nella Scrittura e nella tradizione emerge con maggiore chiarezza, grazie in particolare agli interventi di Congar, Laurentin, dello stesso Salaverri.103 Si arriverà così a una quarta redazione, presentata da Balic´ alla sottocommissione il 20 novembre 1961 e discussa alla fine della plenaria della TE, il 22-23 novembre.104 Questa redazione riporta nel testo i riferimenti biblici, «ma tralascia i riferimenti ai Padri e al Magistero; si suppone pertanto che l’autore voglia rinviare alla documentazione precedente»,105 che resta pertanto pressoché immutata. È da rilevare, in questa redazione, la modifica del titolo, che diventa De Maria, Matre corporis Christi mystici: a questo titolo si collega un riferimento ad Agostino, esplicitamente citato (e nominato nel testo), che fonda la simultanea condizione di Maria, «membro eminente» del Corpo mistico e sua «Madre».106 Tanto il titolo quanto il senso preciso delle espressioni di Agostino suscitarono alcune difficoltà e, nella quinta redazione (20 gennaio 1962) il titolo è di nuovo modificato e dal testo del primo paragrafo scompare la frase di Agostino.107 La sesta redazione è da notare, perché comporta un passaggio che mostra quanto fosse difficile, per alcuni, integrare correttamente il contributo patristico. Nella riunione della TE di marzo 1962 maturò la decisione di scorporare dal de Ecclesia il de Beata, per farne uno schema autonomo, assecondando così la tesi di Balic´.108 Si pose allora il problema di integrare lo schema, che sembrava un po’ troppo breve per un documento autonomo: si decise di farlo sviluppando ulteriormente il terzo paragrafo, relativo alla mediazione mariana. Ottenuta l’autorizzazione da Ottaviani a muoversi in questo senso, Balic´ organizzò una riunione di mariologi per l’8 e 9 marzo. Laurentin, che partecipò alla prima tornata solo alla fine, ha lasciato invece una cro-
103 Cf. J-Congar, I, 64s (21 settembre 1961), dove Congar ricorda anche lo scontro ad alto volume tra Salaverri e Balic´; cf. anche ANTONELLI, Il dibattito su Maria, 120-123. 104 Testo in ANTONELLI, Il dibattito su Maria, 124-129; 130-132 (cambiamenti principali rispetto allo schema precedente); 132-139 (sintesi della discussione in plenaria). 105 ANTONELLI, Il dibattito su Maria, 130. 106 Il testo citato è: «Et mater quidem spiritu non capitis nostri, quod est ipse Salvator, ex quo magis illa spiritaliter nata est, quia omnes qui in eum crediderint, in quibus et ipsa est, recte filii sponsi appellantur; sed plane mater membrorum eius, quod nos sumus, quia cooperata est caritate, ut fideles in Ecclesia nascerentur, quae illius capitis membra sunt, corpore vero ipsius capitis mater», de sancta virg. 6, 6. Nella terza redazione il titolo era: De Maria Matre Iesu et Matre Ecclesiae. 107 Per le discussioni in sottocommissione, cf. ANTONELLI, Il dibattito su Maria, 132s; JCongar, I, 83 (22 novembre 1961). La questione si legava anche al problema, non ancora ben risolto, se mantenere il de Beata indipendente o meno dal de Ecclesia; il riferimento ad Agostino (anche attraverso il rimando a un testo pseudo-agostiniano, Serm. 25 = PL 46,938) puntava piuttosto nella seconda direzione, come sarà poi notato durante il dibattito successivo (cf. Cambourg in AS II/1, 499). 108 Seguiamo la cronistoria delle vicende soprattutto attraverso i testi di Laurentin riportati da ANTONELLI, Il dibattito su Maria, 163-169.
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naca abbastanza dettagliata della riunione del 9 marzo.109 Balic´ vi presentò un paio di pagine, elaborate a quanto pare nella notte, su suggerimento dell’assessore del S. Uffizio Parente: era un piccolo dossier patristico, che a Laurentin sembrò una semplice copia «dei testi raccolti da Bover più di vent’anni fa, con traduzioni, attribuzioni e interpretazioni discutibili»;110 solo a seguito di osservazioni di Laurentin, Balic´ deciderà di lasciar cadere queste pagine, aprendosi a una serie di «concessioni» che, prolungate anche in sede di TE, renderanno possibile l’approvazione del testo.111 Alla stesura definitiva dello schema si arrivò, però, dopo un’altra redazione del terzo paragrafo, perché p. Tromp non accettò il testo proposto da Balic´ e questi, a sua volta, rifiutò la nuova stesura fatta dal segretario della TE. Solo dopo un incontro chiarificatore, nel quale si decise di combinare insieme i due testi, lo schema arrivò in porto in quella che era ormai la sua settima stesura.112 Con il testo, arrivava alla sua redazione definitiva anche l’imponente apparato di note. Si tratta di 46 note, per un totale di oltre 20 pagine a stampa, rispetto a un testo di sei pagine. Nei vari rifacimenti dello schema, «i riferimenti biblici inseriti nel testo sono diventati più numerosi (56 citazioni) […]; anche quelli patristici sono più abbondanti (33 citazioni); se ne trovano di nuovi allorché si parla del rapporto tra Maria e la Chiesa, con riferimenti a S. Agostino e S. Ambrogio».113 La parte del leone, tuttavia, è riservata anche in questo caso alle citazioni tratte dal Magistero, soprattutto dei papi degli ultimi secoli: si tratta di un centinaio di citazioni, più di ottanta delle quali tratte dai papi da Leone XIII a Giovanni XXIII, riprese da documenti disparati, giacché si va dalle bolle dogmatiche (Ineffabilis Deus e Munificentissimus Deus) alle encicliche, ai discorsi radiofonici, alle allocuzioni, alle lettere destinate a singole persone. Sono citati testi di cardinali e di autori moderni, tra cui lo stesso estensore principale dello schema, Balic´: «Si comprendono allora le critiche rivolte da alcune parti sulla mancanza di discernimento circa l’autorevolezza delle fonti di cui si dovrebbe far uso in una Costituzione conciliare».114 Nei Praenotanda, che introducevano l’abbondante documentazione annessa allo schema, erano citate alcune delle più recenti antologie di insegnamenti pontifici in ambito mariano, per poi rilevare che le discussioni interne alla teologia cattolica circa l’origine, l’autorità e il senso 109
Di questa riunione riferisce anche de Lubac: cf. J-de Lubac, I, 75-77. Testo pubblicato da ANTONELLI, Il dibattito su Maria, 166. Il testo di Bover aveva in realtà più di trent’anni: J.M. BOVER Y OLIVER, Maria mediatrix: patrum veterumque scriptorum testimonia in quibus «mediatricis» titulus adhibetur, Bruges 1929. 111 Cf. ANTONELLI, Il dibattito su Maria, 167-170 e 170-172 per il nuovo testo del terzo paragrafo. 112 Cf. ANTONELLI, Il dibattito su Maria, 174-180. 113 ANTONELLI, Il dibattito su Maria, 180. 114 ANTONELLI, Il dibattito su Maria, 181, ove si troveranno anche le cifre più precise riguardanti le citazioni magisteriali. 110
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delle fonti avevano consigliato di non fare riferimento ai singoli testi dei Padri o dei teologi, ma di appoggiarsi direttamente al magistero ecclesiale, «la certezza della cui dottrina deriva da un’assistenza speciale dello Spirito Santo, sicché anche la Scrittura e i Padri si devono interpretare alla luce di questo Magistero».115 In tema di riferimento alle fonti, i Praenotanda rilevano ancora che il richiamo, da parte dell’enciclica Ad Caeli Reginam di Pio XII (1954), agli Inni e alle Preghiere attribuite a Efrem, ma di autenticità discussa, non intendeva presentarsi come garanzia di autenticità; in questa linea – sembra di capire – lo schema non dovrebbe essere giudicato in base alle singole note, indicate in via provvisoria, ma in base alla «solida e sana dottrina del Magistero della Chiesa», che è quanto lo schema si propone di offrire.116 Queste precisazioni erano un modo per cautelarsi di fronte al rischio di critiche analoghe a quelle già sollevate in sede di CCP per altri capitoli del de Ecclesia? Anche il card. Ottaviani, introducendo il dibattito sullo schema – che si svolse il 20 giugno 1962 e durò poco più di un’ora117 –, ci tenne a rilevare che «nella Costituzione si procede a partire dalla s. Scrittura, dai Padri e dalla dottrina del s. Magistero, e non si afferma nulla che, in base alla dottrina dei sommi pontefici, non sia indubitabile».118 Ad alcuni membri della CCP, tuttavia, il riferimento alla tradizione, specialmente patristica, parve troppo esiguo e unilaterale. Ancora una volta, toccò a Maximos IV, anche in questo caso rappresentato da Edelby, di lamentare l’eccesso di riferimenti al magistero pontificio, soprattutto in confronto con la tradizione patristica orientale: Vorremmo far notare, dal punto di vista della redazione delle note, che non ci si deve accontentare di citare i Papi, soprattutto in una materia nella quale i Padri della Chiesa hanno parlato così tanto e bene. Bisogna evitare di dare l’impressione che, agli occhi dei teologi del Concilio, solo i Papi formano il magistero della Chiesa. In una finalità unionista, sarebbe opportuno anche citare in modo speciale i Padri della Chiesa d’Oriente.119
Il desiderio di una documentazione patristica più ampia e meglio scelta emerge anche da altri interventi: da quello di Liénart, che sottolinea il carattere troppo «intraecclesiale» dello schema, a quello di Silva Henriquez, a giudizio del quale un più ampio richiamo alla tradizione patristica potrebbe meglio evidenziare la coerenza della devozione mariana della Chiesa con l’insegnamento di Cristo e dei Padri stessi. Da parte sua, Hurley motivò il suo placet iuxta modum facendo riferimento
115
AD II, II/4, 752; il corsivo è nell’originale. Cf. AD II, II/4, 752. 117 ANTONELLI (Il dibattito su Maria, 183), forse per un’incongruenza di date in AD II, II/4, relativo alla IX sessione della CCP, parla del 19 giugno, ma la data corretta è il 20. Per la durata del dibattito, cf. il verbale, in AD II, II/4, 22. 118 Cf. AD II, II/4, 773. 119 AD II, II/4, 776. 116
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agli interventi di Maximos IV e di Liénart per chiedere una più ampia trattazione patristica;120 di diversa opinione Sépinski, che tra le motivazioni del suo placet osserva: «I Padri tanto greci che latini sono citati in abbondanza».121 König, sotto il profilo ecumenico, domandò un chiarimento sull’affermazione dello schema, relativa all’opera dello Spirito, che guida la Chiesa verso una «più chiara intelligenza… di ciò che nelle Fonti sacre è nascosto “oscuramente e come implicitamente”»: chiarimento necessario proprio per il fatto che la difficoltà nasce, nei non cattolici, per il mancato riferimento alla tradizione apostolica.122 Osservazioni particolari vengono anche da Cheikho, che chiede di allegare testi di s. Efrem, e da Coussa, critico nei confronti dell’uso del titolo mariano di socia Christi nella dispensazione della grazia, titolo al quale contrappone il linguaggio della liturgia bizantina, che attribuisce piuttosto a Maria la qualifica di dispensatrix: a giudizio di Coussa, dunque, «l’affermazione secondo cui Maria, Madre di Dio, è socia nel conferire la grazia dovrebbe essere provata sulla base della tradizione della Chiesa anche orientale, o sorretta da argomenti irrefutabili».123
4. L’ U LT I M A
DISCUSSIONE D E L L A FA S E P R E PA R AT O R I A
A)
LA
SO TTOCO MM I S SI O N E PE R G LI EM E N D A M E N T I
Con la sessione del giugno 1962, la CCP concludeva il suo lavoro. Prima di arrivare nelle mani dei padri conciliari, i testi dovevano affrontare un’ultima revisione, che però non sarebbe stata sottoposta di nuovo alla CCP nel suo insieme: questo organismo, al quale in linea di principio era affidato il compito di maggiore importanza, nella preparazione del concilio, non avrebbe dunque licenziato direttamente i testi nella loro ultima versione. L’ultimo passo fu affidato, invece, a una «Sottocommissione degli Emendamenti» (Subcommissio de schematibus emendandis), incaricata di trasmettere alle rispettive commissioni preparatorie le richieste di emendamento emerse nel dibattito della CCP e di vagliare
120
Cf. AD II, II/4, 774 (Liénart), 780 (Silva Henriquez) e 783 (Hurley). AD II, II/4, 783. 122 Nello stesso passo si parla della Chiesa come «sposa» in riferimento allo Spirito, ciò che solleva un’obiezione di Léger sul carattere tradizionale di questa qualifica: cf. AD II, II/4, 775. La TE, in sede di revisione del testo, ribadirà il carattere biblicamente fondato e tradizionale del termine sponsa (cf. AD II, IV/3.2, 229), ma la critica di Léger non riguardava il termine in quanto tale, bensì il suo uso in rapporto allo Spirito, anziché a Cristo. In ogni caso, il testo poi sottoposto all’assemblea conciliare sarà modificato e l’espressione criticata non vi apparirà più. 123 AD II, II/4, 781; per l’intervento di Cheikho, cf. ivi, 782. 121
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poi i testi rivisti, prima che questi fossero sottoposti al papa per averne l’autorizzazione di invio ai padri conciliari.124 Sul versante delle commissioni che avevano elaborato i testi, il lavoro di ricezione degli emendamenti e di revisione degli schemi era affidato a un gruppo ristretto di tre persone.125 Si arrivava così al momento finale della fase preparatoria in una sorta di strettoia, che vedeva tagliato fuori l’insieme degli organismi preparatori (CCP e TE, nel nostro caso) a favore del lavoro di un gruppo assai limitato di persone; il tutto, per giunta, in un lasso di tempo a sua volta molto ristretto, soprattutto per il de Ecclesia, che era stato uno degli ultimi documenti a essere licenziati dalla TE ed esaminati dalla CCP.126 La sottocommissione per gli emendamenti trasmise alla TE il materiale relativo al de Ecclesia in tre momenti (28 maggio, 2 e 7 luglio 1962), e si riunì per esaminare le risposte il 17 luglio; già l’11 luglio, tuttavia, ossia poco meno di una settimana prima della riunione, Confalonieri era in grado di inviare ai membri della sottocommissione la relazione avuta dalla TE.127 Il diario di p. Tromp permette di seguire le tappe del lavoro da parte della TE: il segretario annota la ricezione della prima parte degli emendamenti il 29 maggio; il 6 giugno parla con Schauf delle correzioni apportate e, il giorno dopo, si incontra con gli altri due membri del gruppo ristretto, ossia lo stesso Schauf e Gagnebet;128 i primi due capitoli furono rivisti dallo stesso Tromp, mentre Schauf si occupò dei cc. III e IV.129 Le annotazioni successive non lasciano capire se anche i restanti capitoli della prima parte fossero stati suddivisi fra i tre membri del gruppo, o almeno fra Tromp e Schauf:130 è comunque chiaro che la relazione complessiva fu stesa da Tromp, che vi lavorò dal 16 al 26 giugno, e ne ricevette l’approvazione da Ottaviani il 3 luglio.131 Tra il 6 e il 14 luglio (ma
124 Istituita da Giovanni XXIII il 30 ottobre 1961, la sottocommissione era composta dal card. Confalonieri, presidente, e dai cardinali Micara, Copello, Siri e Léger, e aveva mons. Fagiolo come segretario (cf. AD II, IV/3.1, 17). Il 17 maggio 1962 il papa vi aggiunse come membri i cardd. Frings e Browne (cf. ivi, 20). 125 Scrivendo a Ottaviani, Confalonieri chiede che le proposte di emendamento siano esaminate dal segretario della TE, dal redattore dello schema e da un esperto di fiducia del presidente (cf. anche la annotatio ex officio di Fagiolo, datata 30 novembre 1961, in AD II, IV/3.1, 26s). È prevista anche la possibilità di un incontro tra la sottocommissione e i tre che devono lavorare sugli emendamenti (testo della lettera di Confalonieri, datata 4 dicembre 1961, ivi, 29) ma, almeno per il de Ecclesia, non risulta che vi sia mai stato. 126 Sulle lungaggini dell’elaborazione del de Ecclesia e le conseguenze negative che ciò ebbe per l’insieme dei lavori conciliari, cf. KOMONCHAK, in SCVII, I, 306s. 127 Per la documentazione, cf. la corrispondenza riprodotta in AD II, IV/3.2, 180-185. 128 Anche Schauf, nel suo diario, al 9 giugno, accenna al colloquio e annota: «N. B. die subcommissio de revisione besteht aus Tromp, Gagnebet und mir»: testo riportato in D-Tromp, I/1, 571, nota 860; cf. anche SCHAUF, Das Leitungsamt der Bischöfe, 67s. 129 Cf. D-Tromp, I/1, 449. 130 Nulla risulta affidato specificamente a Gagnebet, anche se Tromp annota un colloquio avuto con lui il 21 giugno (cf. D-Tromp, I/1, 467). 131 Cf. D-Tromp, I/1, 455, 467, 469, 471.
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entro il 10-11, se in quest’ultima data Confalonieri poteva già inviare il materiale ai membri della sottocommissione in vista del dibattito)132 Tromp completò il lavoro relativo ai restanti capitoli del de Ecclesia e al de Beata Virgine. Ristrettezza dei tempi, dunque, ed esiguità delle persone coinvolte, soprattutto nella TE: si tratta di fattori che, uniti anche a qualche tratto più personale – un certo atteggiamento di superiorità, a tratti sprezzante, nei confronti della CCP da parte della TE e in particolare del suo segretario; la conseguente irritazione del card. Confalonieri e di qualche altro membro della sottocommissione nei confronti di Tromp – non giovarono a questa fase di revisione dei testi, destinati ad arrivare in mano ai padri conciliari con il segno di molte imperfezioni e, soprattutto, senza che si potessero dire recepiti, nella sostanza, molti dei rilievi espressi nella CCP: di modo che tutto il dibattito dovette ricominciare, poi, nel corso del primo periodo conciliare.133
B)
L A R IV E NDI CA Z I O N E D I C O MPET EN Z A DE LL A TE
Come si è accennato, la sottocommissione della TE incaricata per la revisione («Commissione teologica ristretta», come viene chiamata nei documenti), per mano del segretario, preparò una relazione complessiva (la positio), che prendeva in considerazione distintamente sia le osservazioni generali fatte ai vari capitoli, sia le singole proposte di emendamento.134 Prima di vedere come furono vagliati gli emendamenti, vale la pena di notare alcuni tratti generali della relazione, perché sono indicativi della tensione, di cui si è detto, tra CCP e TE (o, piuttosto, il suo segretario), e spiegano qualche reazione all’interno della sottocommissione per gli emendamenti. La positio si apre con la rivendicazione della competenza assoluta ed esclusiva della TE in materia dogmatica: in virtù di questa competenza, la TE è chiamata a rivedere anche le eventuali questioni teologiche implicate in schemi redatti da altre commissioni mentre, d’altra parte, non accetta di costituire commissioni miste e, tanto meno, con un segretariato (è evidente il riferimento al segretariato per l’unità); non ci si rifiuta peraltro di ricevere da commissioni, o segretariati che siano, proposte o suggerimenti, che la TE si riserva però di approvare o di rifiutare.135 132
Cf. ancora D-Tromp, I/1, 471 e 473-475. Nonostante i tempi ristretti, tuttavia, la procedura relativa agli emendamenti si svolse secondo la prassi normale, diversamente da quanto segnala MELLONI, «Ecclesiologie al Vaticano II», 100: non si capirebbero, altrimenti, le reazioni di Confalonieri, di cui diremo subito. 134 La relazione consta di due parti, corrispondenti alle due sessioni (maggio e giugno 1962) nelle quali la CCP esaminò il de Ecclesia e il de Beata Virgine: testo in AD II, IV/3.2, 187-231. 135 Cf. AD II, IV/3.2, 188. 133
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Un secondo rilievo riguarda la composizione della TE: se ne rivendicano la diversità geografica, ecclesiale e di scuole teologiche, la presenza in essa di tendenze conservatrici e progressiste, la varietà di competenze (teologia positiva e speculativa, morale, giuridica, mistica, ecumenica); ne segue che «è difficile che nella Commissione Centrale si dica qualcosa di ordine dottrinale, che non sia stato discusso molto più ampiamente nella Commissione Teologica»,136 in particolare a proposito dei primi quattro capitoli del de Ecclesia, rispetto ai quali solo dopo lunghe e complesse discussioni la TE è arrivata a un testo approvato con moralis concordia. È abbastanza evidente che l’estensore, o gli estensori, della relazione ricevono in modo piuttosto polemico i rilievi emersi dal dibattito nella CCP e ritengono che la superiorità e indipendenza della TE rispetto alle altre commissioni valga anche nei confronti della stessa Commissione centrale. Se ne avvede con chiarezza, e irritazione, Confalonieri, in sintonia, peraltro, con gli altri membri della sottocommissione per gli emendamenti. Citiamo il verbale della riunione del 17 luglio 1962: Il Card. Presidente, dopo la preghiera di rito, saluta gli Em.mi Porporati e quindi inizia l’esame dell’emendamento dello schema dicendo: «Leggendo le risposte, date dalla Commissione Teologica alle osservazioni dei Padri della Centrale, si nota subito lo spirito polemico, con il quale la detta Commissione prende posizione e difende le proprie posizioni, e l’autosufficienza nel voler trattare la materia, escludendo qualsiasi forma di collaborazione da parte di altre Commissioni».137
Il verbale segnala l’assenso di Copello e di Browne al rilievo di Confalonieri, che rincara la dose, sottolineando lo spirito polemico che anima in particolare le osservazioni generali della relazione, «fino a far velo alle menti di coloro o di chi le ha scritte». Confalonieri osserva che la varietà di composizione, tendenze e orientamenti rivendicata dalla TE vale anche per la Commissione centrale; e nota preoccupato il fatto che nella relazione si giunge a tacciare di incompetenza la Commissione Centrale, dicendo: «Nella Commissione Centrale non possono essere risolti [il riferimento è ai punti dogmaticamente discussi], perché essa manca di competenza sia giuridica che pratica. Non ha, infatti nessuna autorità dottrinale; inoltre, in essa vi è massima libertà di critica, senza che però sia possibile una replica seria alle obiezioni»:138 è il colmo a cui è giunto senza alcun senso di moderazione il
136 AD II, IV/3.2, 189, anche per quanto segue. De Lubac, che ha avuto in mano il testo di questi rilievi a novembre, osserva: «Le premier de ces deux textes est assez arrogant; le deuxième n’expose qu’une vérité “officielle”»: J-de Lubac, I, 320 (17 novembre 1962). 137 AD II, IV/3.2, 234, anche per quanto segue. Alla riunione mancavano Léger, Siri e Frings. 138 Cf. AD II, IV/3.2, 192 (la frase è riportata in latino da Confalonieri); come si è visto (cf. sopra, § 3a), il rilievo circa l’ampia libertà di critica senza possibilità di replica era stato annotato da p. Tromp anche nel suo diario.
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Parte II - I Padri della Chiesa nel dibattito conciliare sul de Ecclesia redattore di queste risposte (che da tutto l’insieme appare essere il Segretario della Commissione), permettendosi di tacciare di incompetenza la Commissione Centrale.139
C)
L’ E S A ME
DE G LI EME ND A MEN T I
Le osservazioni generali, che avevano così irritato Confalonieri, riguardano alcuni punti di «grave dissenso»,140 che la positio della TE ristretta elenca con la massima chiarezza, ma sui quali ritiene di non poter recedere in alcun modo: si tratta dell’identità tra Chiesa cattolica romana e Corpo mistico terreno; della questione dei membri della Chiesa; del rapporto tra dimensione mistica e giuridica; del possibile ostacolo posto agli effetti del battesimo, in particolare da parte dell’eretico o scismatico che persevera nella sua condizione: la questione ha a che fare con il problema ecumenico, così come il punto seguente, relativo agli eretici o scismatici in buona o cattiva fede; finalmente, è richiamato il problema del rapporto fra primato e collegialità, per la precisione il problema del soggetto supremo di potestà nella Chiesa (che la TE risolve a favore del papa). Viene poi segnalata una questione terminologica, relativa anch’essa al rapporto con i cristiani di altre confessioni.141 Per quanto riguarda gli emendamenti specifici, richiameremo qui di seguito – a partire da alcune questioni più significative, per venire poi ad aspetti di dettaglio – i punti più rilevanti per il nostro tema, ossia il ricorso alle fonti e in particolare l’argomentazione patristica. Nel dibattito in seno alla CCP, Döpfner e König avevano sollevato dubbi sul fondamento tradizionale dell’articolazione del triplice munus di Cristo e della Chiesa. La positio osserva che non si tratta di un’invenzione protestante, essendo presente in Eusebio, nel Crisostomo, in Fastidio, e poi in Tommaso e nel Catechismo tridentino.142 I titoli di sacerdote, re e profeta, inoltre, sono utilizzati nella Scrittura in relazione sia a Cristo 139 AD II, IV/3.2, 235. Gli altri membri della sottocommissione sembrano approvare le osservazioni di Confalonieri, anche se la frase del verbale pubblicato è piuttosto sibillina, forse per un errore di stampa: «Il Card. Micara e con lui gli altri lamentano ugualmente l’ordine della Commissione Teologica ristretta» (ivi). 140 Agli occhi di Confalonieri, peraltro, proprio il dissenso dovrebbe spingere la TE a un atteggiamento più cauto: a chiusura del verbale, infatti, si legge ancora: «Prima di chiudere la discussione il Card. Presidente desidera però fare una dichiarazione personale: “Chiedo che sia messo a verbale che non si può approvare, anzi che va riprovato il tono polemico con cui la Commissione Teologica ristretta ha risposto alle osservazioni fatte dai Padri della Commissione Centrale allo schema, specialmente ai primi capitoli: tono polemico, spesso accompagnato da intolleranza e da autosufficienza in materia che va ancora approfondita e sviluppata e che perciò richiede collaborazione e discussione serena ed oggettiva. Tale dichiarazione la faccio a titolo personale e non chiedo che gli Eminentissimi Membri di questa Sottocommissione si associno”. Il Card. Micara approva, mentre i Cardd. Copello e Browne non dicono nulla» (AD II, IV/3.2, 239). Cf. anche la Annotatio ex officio riportata ivi, 243. 141 Cf. AD II, IV/3.2, 189-192. 142 Cf. AD II, IV/3.2, 193. I riferimenti indicati (EUSEBIO, Hist. Eccles. I,3 e Dem. Evang. 4,15; IOH. CHRYS., In 2 Cor., Hom. 3, 5; FASTID. BRITT., De vita christiana 1; S. Thom., ad Rom.
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che alla Chiesa: si tratta, dunque, di res de fide divina credenda, e anche variamente ricordata in documenti ecclesiastici;143 è vero che resta aperto il problema del nesso e della precisa distinzione tra munus docendi e munus regendi, ma la TE ritiene che non ci sia bisogno di entrare nel merito. Chiude la questione una domanda retorica, non priva di pungente ironia: «Nondimeno, sia lecito domandare se è proibito affermare qualcosa, per la ragione che sarebbe accolta volentieri dai fratelli separati».144 Non vi saranno osservazioni, da parte della sottocommissione per gli emendamenti, su questo punto. La positio prende in considerazione anche i rilievi fatti da Montini e Coussa circa la scarsa presenza di riferimenti ai Padri (in particolare greci, per Coussa) nello schema, specialmente per i primi due capitoli. Anche qui, la risposta è piuttosto polemica, soprattutto quando fa rilevare: «Che se poi citassimo documenti patristici ed ecclesiastici sui membri della Chiesa e sulla necessità di questa per la salvezza, un gran numero di membri della Commissione, probabilmente, ne sarebbe assai scandalizzato. Non piace infatti alle orecchie moderne, che già inorridiscono, l’utilizzazione nelle Costituzioni del termine “condannare”»; l’estensore della positio ritiene che sulla base di testi patristici e della tradizione si potrebbe dimostrare senza fatica, se ciò fosse richiesto, che la dottrina proposta dallo schema è «troppo aperta, piuttosto che troppo severa».145 Anche su questo punto non vi saranno osservazioni da parte della sottocommissione per gli emendamenti. Alle obiezioni sollevate da Maximos IV, e riprese da altri membri della CCP, intorno al rapporto tra episcopato e primato e al sospetto di «tendenziosità» da parte della TE, i revisori del testo rispondono così: Si deve notare che nei documenti della Chiesa alcune cose sono insegnate esplicitamente, altre in modo più implicito. Che i Vescovi ricevano la loro potestà in modo immediato dal Sommo Pontefice, lo insegnò due volte Pio XII: nell’enciclica Mystici corporis, e il 18 febbraio 1942 in un’allocuzione ai parroci; in materia è possibile rinviare a Tertulliano (Scorp. 10), Ottato di Milevi (De Schismate Donat. 8,3), s. Ambrogio (Epist. 11,4), s. Leone Magno (Epist. 42), Inno1, lect. 1 e STh III, q. 31, a. 2; Catech. Trid. I,3,7) saranno poi inseriti nello schema emendato, tra le note del c. I, n. 2, alla nota 11 (cf. Synopsis, 14). 143 Cf. AD II, IV/3.2, 193; la positio rinvia a Leone XIII (Satis cognitum), Pio X (Vehementer Nos) e Pio XII (Mystici corporis); nelle note dello schema emendato verrà inserito solo un richiamo più generico ai tre papi. 144 AD II, IV/3.2, 193. 145 AD II, IV/3.2, 193, anche per quanto segue. Un’annotazione di Schauf (cit. in DTromp, I/1, 571, nota 860) mostra che qui Tromp ha voluto modificare il testo in modo da far risaltare il carattere tradizionale della posizione sostenuta dalla TE. Lo schema definitivo porterà la frase: «…tamen ii soli ex antiquissima traditione vero et proprio sensu Ecclesiae membra vocantur, ex quibus ipsa Ecclesia, ut est una et indivisibilis, indefectibilis et infallibilis, in unitate fidei, sacramentorum et regiminis, coalescit» (per la proposta di emendamento della TE ristretta, cf. AD II, IV/3.2, 198; la sottocommissione accetterà la proposta, con una lieve modifica: cf. ivi, 236). Il carattere tradizionale della dottrina qui affermata, però, era stato contestato anche all’interno della TE: cf. la lettera di Salaverri a Tromp del 22 maggio 1961 (cf. D-Tromp, I/2, 862).
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Parte II - I Padri della Chiesa nel dibattito conciliare sul de Ecclesia cenzo I (Epist. 29,1), Benedetto XIV (De Synodo, I, cap. 4, n. 2) che già a suo tempo parlò di «sentenza più conforme alla ragione e all’autorità».146
Possiamo notare che, rispetto alle critiche sollevate dal patriarca, non viene qui risolta la questione del riferimento alla tradizione orientale, che resta completamente ignorata. Il modo di procedere della TE rispetto alle fonti, peraltro, era già stato chiarito all’inizio della sezione dedicata alle osservazioni sui cc. III e IV: l’oscurità del dato scritturistico, quando si tratta dei vescovi, oscurità che permane anche «nell’antica tradizione patristica», ha spinto la TE a privilegiare l’aspetto giuridico della potestà episcopale o, piuttosto, a muoversi partendo «dalla costituzione divina della Chiesa, che oggi si mostra con maggior chiarezza che in passato».147 La TE ristretta si limitò quindi a proporre una nuova redazione del testo del c. IV § 2, riguardante l’origine della potestà episcopale; la sottocommissione degli emendamenti, però, preferì riformulare ulteriormente le prime righe del testo, accettando una proposta di Confalonieri.148 La TE ristretta modificò anche, per venire incontro alla critica di Maximos IV, l’introduzione alla citazione – posta alla fine del paragrafo – della lettera di Gregorio Magno a Eulogio di Alessandria, in modo da rendere meno stridente il contrasto fra la dottrina espressa nel testo e l’onore che, secondo Gregorio, va riconosciuto a ogni vescovo.149 Per quanto riguarda lo scarso riferimento ai Padri all’interno del de Beata Virgine, rilevato da alcuni membri della CCP, la TE ristretta replica: È stato osservato che prevalgono i documenti pontifici e non si onorano a sufficienza i Padri. Va notato che si citano i Papi dov’è questione di un progresso dottrinale. Poi si cita spesso s. Agostino, almeno tre volte Epifanio, il Damasceno, Ambrogio, Leone Magno. Vi sono inoltre Giustino, Germano, Andrea di Creta, Niceforo di Costantinopoli, i Concili di Efeso e Nicea e molti
146 AD II, IV/3.2, 206; vengono citati ancora s. Tommaso (STh II-II, q. 39, a. 3 e in Mat. c. 16, n. 2 in fine) e il Bellarmino (De Romano Pontifice IV,24). 147 AD II, IV/3.2, 200. 148 Cf. AD II, IV/3.2, 206 (testo proposto dalla TE ristretta) e 237 (testo formulato dalla sottocommissione). Cf. anche la Annotatio ex officio, ivi, 242. Per questa modifica, che rappresenta il punto in cui più la sottocommissione per gli emendamenti si discosta dalle proposte provenienti dalla TE ristretta, e anzi dall’impostazione complessiva dello schema, cf. SCHAUF, Das Leitungsamt der Bischöfe, 72s; ACERBI, 130s; KOMONCHAK in SCVII, I, 334s. Il testo, peraltro, fu ancora modificato prima di arrivare in mano ai padri conciliari (cf. sotto, c. 5 § 4a). Nel suo diario, al 20 luglio 1962, Tromp annota: «Accipimus notitiam nondum officialem de Constitutione de Ecclesia revisa in Comm. Cardlem Revisorum. Magnae erant discussiones, maxime de Epis. Residentialibus, sed praevaluit sententia Comm. Theol. fortiter defensa ab Emo. Cardli Browne. Quaedam emendationes factae sunt, sed ad mentem Commissionis Theologicae» (D-Tromp, I/1, 477). Da chi era stato informato Tromp? Forse dallo stesso Browne che, tuttavia, alla luce dei verbali non appare particolarmente combattivo. Resta vero che, un paio di eccezioni a parte, la sottocommissione per gli emendamenti accetta quasi tutte le proposte della TE ristretta. 149 AD II, IV/3.2, 206. Per la critica di Maximos IV, cf. sopra, nota 85. Il riferimento alla lettera di Gregorio a Eulogio finirà per scomparire dal de Ecclesia.
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4. Il de Ecclesia: lo schema preparatorio e il dibattito nella Commissione centrale preparatoria santi Dottori della Chiesa. Per quanto riguarda s. Efrem, non è colpa della Commissione Teologica il fatto che oggi si sollevi l’interrogativo circa l’autenticità delle opere attribuite al santo diacono.150
Un certo numero di emendamenti, proposti dalla TE ristretta e per lo più accettati senza particolari discussioni dalla sottocommissione, riguardava aspetti del testo che coinvolgono il riferimento ai Padri. Così, il primo paragrafo viene ampliato e modificato, per venire incontro a varie richieste della CCP; in particolare, al termine del paragrafo si aggiunge la frase secondo cui i redenti in Cristo «sotto il Cristo, unico Capo, in virtù del quale sono tutti insieme non solo redenti ma redentori nella perpetuazione dell’opera salvifica di Cristo» (c. I,1); in nota si cita Clemente Alessandrino, Strom. 7,2, ma rinviando anche alla Mystici corporis, dalla quale è presa anche la citazione di Clemente.151 Ai Padri, ma senza citare testi specifici, la TE ristretta fa appello anche a proposito del § 4, per giustificare il posto privilegiato che il testo assegna all’immagine della Chiesa corpo di Cristo e insieme per venire incontro ad alcune osservazioni fatte in sede di CCP: i redattori, pur ribadendo l’importanza dell’immagine del Corpo mistico, concedono che non è facile dire nei dettagli quale significato Paolo attribuisse a questa nozione: è certo però che volesse riferirsi a un organismo ecclesiale eterogeneo; inoltre: «Che poi i Padri, in armonia coi quali si deve spiegare la Scrittura, pensassero a clero e laici, a membri sani e malati ecc., è fuori dubbio».152 La legittimità del linguaggio che parla di «membra malate» nel corpo della Chiesa – in replica a una critica di Ruffini, secondo il quale «le membra corrotte da peccato mortale non sono semplicemente malate, come si sostiene qui, ma morte»153 – viene giustificata attraverso il riferimento ai Padri: Sebbene le membra affette da peccato mortale spesso siano dette morte, perché incapaci di merito, tuttavia non sono affatto semplicemente morte. Come insegna il Tridentino, infatti, godono delle virtù infuse della fede e della speranza soprannaturali. Per questo nei santi Padri è ricorrente l’espressione «membra malate». Si trova in s. Agostino l’adagio: «La grazia, nel corpo di Cristo, corrisponde a ciò che nel corpo umano è la salute».154
P. Sépinski aveva criticato l’espressione «la natura umana quale strumento vivente della sua natura divina», usata nel c. I § 6, ritenendola discussa dai teologi. Secondo la TE ristretta, la critica è infondata: la dottrina in questione «si trova in s. Giovanni Damasceno e in altri Padri, in s. Tommaso e nell’enciclica Mystici corporis. I teologi discutono, e posso150
AD II, IV/3.2, 228. Cf. AD II, IV/3.2, 194. 152 AD II, IV/3.2, 195. 153 AD II, II/3, 1001; Ruffini si riferisce al § 5 dello schema; lo stesso rilievo critico da parte di Jelmini (cf. ivi, 1037). 154 AD II, IV/3.2, 196. 151
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no continuare a farlo, sulla spiegazione dell’adagio del Damasceno: “L’umanità strumento [organon] della divinità”, ma ciò non riguarda il Concilio».155 In sede di CCP, Confalonieri aveva suggerito una modifica al c. IV § 3, per arrivare a evidenziare il fatto che i singoli vescovi, pur non avendo giurisdizione sulla Chiesa nel suo insieme, pure cooperano al suo bene complessivo; richiamandosi, come abbiamo visto, alle frequenti citazioni di s. Cipriano da parte di Pio XI, suggeriva la frase: «… tuttavia sono tenuti a quella sollecitudine per la Chiesa universale, che pur non essendo potestà di giurisdizione, è forza di compattezza, e in massimo grado giova al bene della Chiesa universale».156 La TE ristretta apprezza il suggerimento, ma ritiene che la frase proposta da Confalonieri, e il riferimento a Cipriano, possano creare ambiguità; propone quindi una diversa modifica al testo, integrata col rinvio a due passi, di Basilio (in realtà lo Ps. Basilio dell’In Isaiam) e Gregorio Magno, e più genericamente ad altri Padri.157 Confalonieri ripropose il proprio emendamento in sede di sottocommissione, notando che «[sono] S. Gregorio Magno, il Concilio Vaticano I e Pio XII a parlare di “soliditatis robur”. Acconsentono i Cardd. Micara, Copello e Browne, il quale raccomanda precisione e chiarezza».158 Nel testo definitivo entrarono dunque sia la variante proposta da Confalonieri che la nuova finale del paragrafo, proposta dalla TE ristretta. Registriamo, infine, due risposte della TE relative allo schema de Beata Virgine: una per legittimare l’antichità e il carattere tradizionale del discusso titolo di mediatrix («Certo non si potrebbe parlare di Mediazione della B. V. M., si trattasse di un titolo inventato di recente. Ma già in epoca patristica [cf. nota 16] si trova il titolo di “Mediatrice”, e con parole esplicite, e non in luoghi isolati, ma usato da molti. Nel medioevo la mediazione della Vergine è difesa da s. Bonaventura, s. Alberto Magno, s. Tommaso…»159). L’altra per sostituire l’espressione equivoca presente nel secondo paragrafo dello schema: «Poiché… il Verbo dell’eterno Padre volle assumere da una donna la natura umana, così che come attraverso una donna venne la morte, anche la vita sorgesse attraverso
155
AD II, IV/3.2, 196. Per la critica di Sépinski, cf. AD II, II/3, 1022. AD II, II/3, 1073. 157 Il testo proposto dalla TE ristretta suonava così: «… attamen non sine quadam responsabilitate, in communione fraterna summopere confert ad Ecclesiae universalis emolumentum…» (AD II, IV/3.2, 207): in corsivo la modifica proposta. La parte finale del testo, con i rinvii allo Ps. Basilio e a Gregorio Magno, resterà, con qualche modifica, fino alla redazione finale (cf. LG 23). 158 AD II, IV/3.2, 237. Nella redazione definitiva presentata in concilio, il testo modificato su proposta di Confalonieri sarà accompagnato da una nuova versione della nota 14: i rinvii a Pio IX (Quanta cura) e a Pio XI (Rerum Ecclesiae) sono integrati col rimando alla lettera di Gregorio Magno a Eulogio (rimasto peraltro anche alla nota 11) e con un riferimento alla Fidei donum di Pio XII. 159 AD II, IV/3.2, 228: si noti che i riferimenti raccolti nella nota 16 dello schema rinviano, per il titolo di mesites/mediatrix, a testi successivi al concilio di Efeso. 156
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una donna, e la redenzione avvenisse mediante l’uno e l’altro sesso (in utroque sexu)…»: si rileva che l’espressione in utroque sexu è equivoca, perché potrebbe essere intesa in riferimento sia alla redenzione attiva, che passiva, la TE ristretta propone di scrivere, seguendo s. Agostino, «ope utriusque sexus», notando che questo è anche il pensiero di Giustino, Ireneo e Tertulliano.160 Questi, e tutti gli altri emendamenti proposti per il de Beata Virgine, saranno accettati dalla sottocommissione per gli emendamenti senza discussioni. Nell’insieme, considerando il lavoro svolto sul de Ecclesia e sul de Beata Virgine, sembra da condividere la valutazione sintetica proposta da A. Indelicato sull’operato della sottocommissione degli emendamenti: la sua azione fu, complessivamente, più incisiva in rapporto agli schemi di tipo disciplinare, mentre, per gli schemi a carattere dottrinale, che avrebbero condizionato l’orientamento generale stesso del concilio, la sua incidenza sembra essere stata molto meno significativa, limitandosi all’accoglimento magari di molti piccoli aggiustamenti, ma non riuscendo (o non potendo riuscire) ad intaccare le prospettive sostanziali, così come spesso era stato chiesto in CC.161
5. B I L A N C I O Una valutazione del de Ecclesia elaborato dalla TE, con riferimento particolare alla questione delle fonti e dell’uso che ne è stato fatto, si può affidare ad alcune osservazioni di Congar e de Lubac: due teologi che, chiamati a seguire come consultori i lavori della TE, erano al tempo stesso tra i protagonisti del ressourcement teologico. Anche se i rilievi che citeremo si riferiscono per lo più a testi non ancora arrivati alla redazione (preparatoria) finale, colgono però bene alcuni aspetti che i due confermeranno anche più tardi e riassumono osservazioni che abbiamo già avuto modo di fare nel corso di questo capitolo. Riprendiamo anzitutto alcune note di Congar, dell’estate 1961. Il teologo domenicano vi rileva il carattere molto scolastico, nel duplice senso di intriso di teologia scolastica (scolastique) e di testo ad uso della scuola (scolaire), dei documenti preparati dalla TE, «una serie di capitoli di un buon manuale», con un taglio in certi casi (ad es. il de ordine sociali) esclusivamente filosofico.162 Poi osserva ancora: È un riassunto dei documenti pontifici da un secolo a questa parte: una specie di syllabus di questi documenti, inclusi i discorsi di Pio XII. La cosa ha 160 Cf. AD II, IV/3.2, 229. Per il de Beata alla sottocommissione degli emendamenti, cf. anche ANTONELLI, Il dibattito su Maria, 185-187. 161 INDELICATO, Difendere la dottrina, 321. 162 J-Congar, I, 57 (24 agosto 1961). In termini analoghi Congar si esprime in un appunto di diario del 5 marzo 1962, dove si riferisce alle prime critiche fatte in sede di CCP alle costituzioni dottrinali (cf. ivi, 88).
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Parte II - I Padri della Chiesa nel dibattito conciliare sul de Ecclesia l’inconveniente di accentuare la denuncia degli errori via via enunciati da questi documenti. A volte si tratta di errori antichi. Si uccide una volta di più un modernismo morto […]. Soprattutto, però, la fonte non è la Parola di Dio: è la Chiesa stessa, anzi la Chiesa ridotta al papa, ciò che è molto grave.163
Congar rileva ancora l’inesistente, o almeno assai scarsa prospettiva ecumenica dei documenti: un problema, questo, che deriva anche dalla compartimentazione del lavoro e dunque dipende dalla «autonomia» della TE, limite che lo stesso Congar segnala come particolarmente penalizzante per tutto il lavoro di preparazione del concilio.164 Torna poi a ribadire, a proposito di tutti i documenti dottrinali (cui riconosce, peraltro, una serietà di lavoro165), i limiti dell’uso delle fonti: È assai poco biblico (salvo di De laicis166 e alcune parti del De ordine Morali). La Scrittura entra solo o quasi per qualche citazione ornamentale, per conferire una certa solennità stilistica e in conformità a un genere letterario. Non sono state cercate le sue determinazioni come fonte di ogni determinazione che si voglia normativa. Le determinazioni sono acquisite, e lo sono nelle encicliche, discorsi ed effata vari dei papi, da Pio IX a Pio XII. 167 La fonte è la Chiesa. Vedo in tutto questo il tragico punto d’arrivo di quel movimento la cui storia ho tracciato nella mia Tradizione.168 In questo momento c’è una vera dualità nel comportamento romano. Da una parte, i papi proclamano che la fonte e la norma di tutto è la Scrittura e la Tradizione; d’altra parte, però, si comportano, e vogliono che ci si comporti – e fanno tutto il possibile, con potenza implacabile, perché ci si comporti – come se la fonte fossero loro stessi. P. Colombo mi ha detto: per p. Tromp, un’enciclica è al di sopra di un testo chiaro della Scrittura. Tutto il lavoro è stato condotto come se le encicliche fossero la fonte necessaria e sufficiente. È una novitas, nel senso tecnico che questa parola ha in teologia.169 163 J-Congar, I, 57. Cf. quanto lo stesso Congar annota il 10 marzo 1962, mentre la TE sta rivedendo il capitolo iniziale del de Ecclesia: «Il s’avère une fois de plus que le P. Tromp n’admet aucun intérêt pour une autre exégèse que la sienne, quant aux textes de S. Paul concernant le Corps du Christ. De plus, il reproche au texte Lattanzi de ne guère se référer qu’à la Sainte Écriture: il faut, dit-il, mettre dans les notes des références aux textes du Magistère. D’un bout à l’autre, cette exigence a pesé sur le travail et les rédactions de la Commission. C’est très grave. La source de la connaissance, pour eux, n’est pas la Sainte Écriture et la Tradition sous la direction du Magistère: elle est le Magistère lui-même» (ivi, 96); si vedano anche le osservazioni analoghe che de Lubac annota nella stessa occasione: cf. J-de Lubac, I, 78. 164 Cf. J-Congar, I, 57s. 165 Cf. J-Congar, I, 58. 166 Redatto da G. Philips. 167 Cf., nella stessa linea, un’altra nota di Congar (J-Congar, I, 71: 24 settembre 1961). 168 Dal XVI secolo (ma non nel concilio di Trento), secondo Congar, «ci si è incamminati verso la posizione caratteristica dell’epoca moderna nella questione del rapporto tra le decisioni normative emanate in un dato momento, e la tradizione, cioè ciò che si era ereditato dal passato. Questa posizione può essere formulata così: queste decisioni hanno il valore assoluto di verità che bisogna credere per essere salvi, perché la Chiesa (= il magistero), che così le definisce, è assistita e infallibile» (Y. CONGAR, La tradizione e le tradizioni, Paoline, Roma 1964-1965, 324; cf. tutto il c. VI del saggio, 317-398). 169 J-Congar, I, 59.
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4. Il de Ecclesia: lo schema preparatorio e il dibattito nella Commissione centrale preparatoria
Da parte sua, all’incirca nello stesso periodo e riferendosi anche lui ai lavori della TE, de Lubac osservava: Si può dire, da un certo punto di vista, che ci sono due tipi di teologi; alcuni dicono: rileggiamo la Scrittura, s. Paolo, ecc.; scrutiamo la Tradizione; ascoltiamo i grandi teologi classici; non dimentichiamo di fare attenzione ai Greci; non trascuriamo la storia; collochiamo in questo grande contesto e comprendiamo alla sua luce i testi ecclesiastici; e cerchiamo anche di informarci dei problemi, delle necessità, delle difficoltà di oggi, ecc. – Gli altri dicono: Rileggiamo tutti i testi ecclesiastici di questi ultimi cento anni, encicliche, lettere, discorsi di circostanza, decisioni prese contro l’uno o l’altro, monita del S. Uffizio ecc.; di tutto questo, senza lasciar cadere nulla né correggere una sola parola, facciamo un intarsio, spingiamo il pensiero un po’ più in là, diamo ad ogni affermazione un valore più forte; soprattutto, non guardiamo nulla al di fuori; non perdiamoci in nuove ricerche sulla Scrittura o sulla Tradizione, né, a maggior ragione, su riflessioni recenti, che rischierebbero di farci relativizzare il nostro assoluto. – Solo il teologo del secondo tipo è considerato «sicuro» in un certo ambiente.170
Ricevendo tramite mons. Weber, arcivescovo di Strasburgo, gli schemi inviati ai padri conciliari nel corso dell’estate 1962 (schemi che non comprendevano, però, il de Ecclesia), Congar nota qualche piccolo miglioramento e una certa diminuzione del tono aggressivo delle prime redazioni: l’impianto complessivo, però, resta immutato. Rileva una sola eccezione: «Il testo sulla liturgia è buono; è molto più al livello dell’attuale ressourcement».171 Su quest’ultimo rilievo – che trova corrispondenza anche nei giudizi di alcuni padri conciliari alla vigilia dell’avvio dei lavori172 – possiamo chiudere la nostra presentazione dell’elaborazione del de Ecclesia durante la fase preparatoria. Perché è ben vero che qui Congar parla dello schema sulla liturgia: ma esso fa da cartina al tornasole per gli altri schemi, o quanto meno per quelli dottrinali, la cui elaborazione Congar aveva potuto seguire più da vicino,173 e suggerisce che non tutti gli organismi
170 J-de Lubac, I, 53 (29 settembre 1961). La mancanza di senso storico dei principali redattori degli schemi dottrinali preparatori è sottolineata anche da Philips: cf. PHILIPS, Carnets conciliaires, 11 e 89 (9 aprile 1963). 171 J-Congar, I, 99 (5-6 agosto 1962). KOMONCHAK, in SCVII, I, 190, nota che la commissione liturgica preparatoria non accettò la contrapposizione tra l’ambito dottrinale (che la TE aveva riservato a sé) e quello della technica pastoralis: in questo modo, essa «promosse un efficace ressourcement per avere una base per le sue specifiche proposte per la riforma liturgica»; sulle peculiarità del metodo di lavoro della commissione liturgica, cf. anche P. LEVILLAIN, La mécanique politique de Vatican II. La majorité et l’unanimité dans un Concile, Beauchesne, Paris 1975, 73-75; P. HÜNERMANN, «Il concilio Vaticano II come evento», in M.T. FATTORI – A. MELLONI (edd.), L’evento e le decisioni. Studi sulle dinamiche del concilio Vaticano II, Il Mulino, Bologna 1997, 76. 172 Così, ad es., il card. Frings, mons. Baudoux (cf. AS App., 74s, 102). 173 Ci si è chiesti come mai Congar avesse finito per approvare i testi elaborati dalla TE: egli stesso segnala l’impossibilità pratica d’intervenire sull’elaborazione di schemi che, a suo giudizio, erano da rifare da cima a fondo, assumendo una prospettiva tutta diversa da quella voluta dalla maggioranza della TE: per questo si limitò a proporre, dove
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preparatori del concilio erano refrattari alla prospettiva di ressourcement che una parte significativa della teologia cattolica aveva abbracciato, pur in mezzo a tante difficoltà, già da qualche decennio. La Commissione teologica era composta da teologi che, per diverse ragioni, erano rimasti estranei, o avevano addirittura avversato, quel ritorno alle fonti la cui mancanza, già notata in sede di Commissione centrale preparatoria, sarà uno dei motivi del sostanziale rigetto dello schema durante il primo periodo conciliare.
possibile, solo cambiamenti su singoli punti (cf. J-Congar, I, 88s, 5 marzo 1962). Anche a concilio avviato, Congar non condivise l’approccio tedesco, favorevole all’accantonamento puro e semplice degli schemi preparatori: cf. sotto, c. 5 § 1c. La difficoltà, per non dire impossibilità, di periti come Congar e de Lubac a intervenire in TE è attestata anche da Schröffer: ne riferisce A.-M. CHARUE, Carnets conciliaires de l’évêque de Namur A.-M. Charue, par L. DECLERCK et C. SOETENS (éds.), Publications de la Faculté de Théologie Louvain-la-Neuve, Louvain-la-Neuve 2000, 45 (6 novembre 1962).
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5. I l de E c c le s ia al concilio: il dibattito nel primo periodo Con questo capitolo, entriamo nel vivo delle discussioni conciliari intorno al de Ecclesia. Le seguiremo, ancora una volta, con l’attenzione orientata alla questione specifica del ricorso alle fonti patristiche nell’elaborazione dello schema. Cerchiamo soprattutto di renderci conto di come l’assemblea conciliare fu condotta poco alla volta a una più attenta considerazione di questo problema, complessivamente sottovalutato nella redazione dello schema preparatorio, sebbene la sua importanza non sfuggisse ad alcuni componenti della TE e della stessa CCP. Nel presente capitolo rileggeremo il dibattito del primo periodo conciliare, non solo per il de Ecclesia, che occupò l’ultima settimana dei lavori, ma anche (nel § 1) per gli schemi discussi nelle prime settimane, a partire dal testo sulla liturgia. Il dibattito sul de fontibus revelationis richiederà qualche accenno in più: le vicende di questo schema, com’è noto, costituiscono una svolta importante nell’orientamento complessivo dell’assemblea e delle sue diverse componenti e mettono in gioco problemi centrali per la nostra prospettiva, avviando dibattiti che ritroveremo poi, puntualmente – ma già in qualche modo stemperati – anche a proposito del de Ecclesia. Accenneremo anche a qualche aspetto del dibattito sull’ecumenismo nei confronti dell’oriente cristiano. Passando agli interventi orali e scritti dei padri conciliari sul de Ecclesia elaborato in fase preparatoria, l’attenzione si fermerà in un primo tempo sulle problematiche generali di riferimento alle fonti, sollevate negli interventi dei padri (§ 2), per indicare poi le questioni specifiche, nelle quali il riferimento alle fonti patristiche assume un significato di rilievo (§ 3). L’ultimo paragrafo richiamerà sinteticamente i passaggi attraverso i quali, nell’intersessione del 1963, si arrivò alla sostanziale rielaborazione dello schema, sul quale si sarebbe poi aperto il grande confronto del secondo periodo.
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1. P R E L I M I N A R E : I D I B AT T I T I D I O T T O B R E - N O V E M B R E 1962 A)
U NA « M U SICA NU OVA »? L O S C HE M A L I T U R GI CO
Il concilio, com’è noto, ha iniziato l’esame degli schemi1 con il testo sulla liturgia, che avrebbe occupato l’assemblea a partire dalla quarta congregazione generale, tenuta il 22 ottobre.2 Dopo l’introduzione del card. Larraona, presidente della commissione per la liturgia, e la presentazione dello schema da parte di F. Antonelli, il primo padre conciliare a prendere la parola fu l’arcivescovo di Colonia, card. Frings. Egli elogiò lo schema sottoposto al giudizio dell’assemblea conciliare, che in primo luogo si raccomandava, a suo giudizio, «per il linguaggio utilizzato, davvero pieno dello spirito della s. Scrittura e dei s. Padri, linguaggio sobrio e veramente pastorale».3 Assume un valore simbolico, nella nostra prospettiva, il fatto che quello che può essere considerato il primo intervento di un vescovo riguardante la materia stessa da esaminare in concilio mettesse in evidenza una questione «stilistica», e lo facesse con un richiamo alla Scrittura e ai Padri. Se, come osserverà lo stesso Frings qualche settimana più tardi, intervenendo sul de fontibus, «l’intonazione (tonus) fa la musica»,4 allora si può dire che l’arcivescovo di Colonia «dava il la», mettendo l’accento su di un aspetto che poteva sembrare marginale e che, invece, fu oggetto di dibattito appassionato e anzi, secondo alcuni storici, costituisce una chiave di volta fondamentale per una corretta ermeneutica del Vaticano II: la questione dello «stile» di questo concilio e dei suoi documenti, questione che, a sua volta, si collega direttamente con la problematica del ressourcement e, in particolare, del suo aspetto patristico.5 Non stupisce che, a farlo, fosse il card. Frings: come abbiamo documentato nel c. 3, infatti, era stato lui stesso, in qualità di presidente della Conferenza episcopale tedesca, a inviare a Roma i vota della stessa Conferenza episcopale, nei quali si chiedeva di fare attenzione, tra le altre 1
Per l’apertura e le prime vicende del concilio, cf. A. RICCARDI, in SCVII, II, 46-86. Per una presentazione del dibattito sullo schema liturgico nel primo periodo conciliare, cf. M. LAMBERIGTS, in SCVII, II, 130-192. 3 AS I/1, 309; cf. anche l’intervento di Döpfner (nel testo scritto: ivi, 321); Hurley, dopo aver rilevato il tenore fortemente scritturistico dello schema, auspica: «Fortiter optandum est ut et cetera schemata eodem spiritu vivificentur» (ivi, 327). Per l’attenzione di Frings ai «movimenti» (quello liturgico in primo luogo; ma anche, al suo seguito e con altro, la riscoperta della Scrittura e dei Padri) che animavano la Chiesa alla vigilia del Vaticano II, cf. E. FOUILLOUX, «“Mouvements” théologico-spirituels et Concile (1959-1962)», in M. LAMBERIGTS – C. SOETENS (éds.), À la Veille du Concile Vatican II. Vota et Réactions en Europe et dans le Catholicisme oriental, Bibliotheek van de Facuteit der Godgeleerdheid, Leuven 1992, 185. 4 Cf. sotto, b. 5 È una prospettiva evidenziata in particolare da J.W. O’MALLEY, «Vatican II: Did Anything Happen?», in TS 67(2006), 3-33, e sulla quale torneremo più in dettaglio nell’ultima parte del nostro lavoro (cf. c. 9 § 3). 2
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cose, al linguaggio dei documenti conciliari, perché si evitasse il linguaggio scolastico e si adottasse invece, per quanto possibile, il modo di parlare della Scrittura e dei Padri, avendo come modello il decreto sulla giustificazione del Concilio di Trento.6 Lo schema sulla liturgia, evidentemente, soddisfaceva a questo criterio: lo aveva notato anche Congar (cf. sopra, c. 4 § 5), a giudizio del quale lo schema liturgico era molto più all’altezza delle prospettive del ressourcement rispetto ai documenti dottrinali. L’insieme del dibattito sullo schema liturgico, in ogni caso, sembra confermare il giudizio di Frings, paradossalmente anche nei (rari) interventi più critici a proposito dello stile del documento:7 perché anche questi interventi sono, in negativo, il riflesso di uno sforzo di cambiamento di tono nel linguaggio di un documento conciliare, cambiamento che non era facile accordare con la tradizione consolidata del modo di esprimersi di un concilio.8 6 Cf. AD I, II/1, 739; per una presentazione più ampia della questione, e anche per l’influsso del punto di vista di mons. L. Jaeger sulla problematica, cf. sopra, c. 3, Sez. I, § 2b. Poche settimane prima dell’inizio del concilio, Frings era già intervenuto sulla questione, nelle osservazioni inviate a Roma, in data 17 settembre 1962, sugli schemi ricevuti nel corso dell’estate (tra i quali il de fontibus). Ancora una volta, Frings chiedeva di evitare il linguaggio scolastico e di favorire lo stile biblico e patristico (cf. AS App., 75); solo il de sacra Liturgia e il de Ecclesiae unitate, secondo Frings, si distinguevano dagli altri schemi tanto dal punto di vista stilistico che di contenuto (cf. ivi, 74). Più o meno negli stessi giorni (21 settembre), una critica simile arrivava dal card. Silva Henriquez, sempre a proposito del primo blocco di schemi inviati ai padri (cf. ivi, 82). 7 Così, ad es., Vagnozzi: «Sermo theologicus saepe vagus quandoquidem inexactus apparet»: AS I/1, 326; una certa ambiguità di linguaggio fu rilevata anche da Ottaviani (cf. ivi, 349s). 8 Cf. O’MALLEY, «Vatican II: Did Anything Happen?», 68-72. Il commento di Siri ai primi interventi sullo schema liturgico è: «Frings, Lercaro, Montini (collegamento) ne hanno fatto lodi retoriche»: G. SIRI, Diario (22 ottobre 1962), in B. LAI, Il Papa non eletto. Giuseppe Siri cardinale di Santa Romana Chiesa, Laterza, Roma-Bari 1993, 367. Il punto di vista di Siri (che si può assumere qui come rappresentativo di una buona parte della teologia «romana») è illustrato bene dalla sua cronaca dell’incontro, promosso dal card. Frings il 25 ottobre, nel corso del quale poté ascoltare la proposta «tedesca» per il Concilio, formulata da un «professore di Bonn [si tratta di J. Ratzinger]». Così l’arcivescovo di Genova commenta: «È una sintesi di piano divino, non certo priva di valore, ma neppure straordinaria, nella quale tutte le verità sono in scorcio, con citazioni scritturali e con assenza completa di sistemazione teologica o definizioni di termini e di concetti. È pienamente ed evidentemente kerigmatica. Potrebbe essere […] una specie di buona epistula ad Diognetum, cosa da scrittori e predicatori, non da Concilio. Non si accende tanto fuoco per fare quello che un buon alunno del teologia non speculativa potrebbe fare. Finita la lettura io rimango a lungo zitto e pensoso. Intanto scoppia l’elogio di Liénart, il quale scopre la batteria perché poggia l’elogio – tra l’altro – sul fatto che non “è razionale” o “scolastico”, come commenta Alfrink. Il fatto è vero, ma non lodevole. Allora io chiedo se le parole del messaggio divino debbano avere un significato. Stupiti, mi rispondono: “Ma, certo!”. “Allora – sussumo – questo significato può essere dato da noi ad arbitrio, instaurando il libero esame?”. Inorriditi: “No”. “Allora – incalzo – un termine della parola di Dio non potrà essere inteso bianco o nero!”. “Ma no” (dicono). “Allora per stabilire un significato dobbiamo dare un giudizio: fare deduzioni, cioè introdurre la razionalità. Questa non si può escludere, anche se si farà bene a non esagerarci sopra”. Non sanno che cosa dire e capisco che, colla grazia di Dio, ho colpito il segno di un recondito pensiero. Ma, almeno le carte sono chiare in tavola» (ivi, 370; corsivi miei, tranne l’ultimo). Per il ricordo
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In ogni caso, i padri conciliari assegnarono un giudizio sostanzialmente positivo allo schema sulla liturgia: le divergenze di opinione non furono molto marcate, proprio perché si riteneva che, nell’insieme, lo schema rispondesse alle esigenze di un rinnovamento della liturgia attento alle necessità attuali, e tuttavia rispettoso della tradizione liturgica. Non altrettanto agevole doveva rivelarsi il percorso dello schema de fontibus revelationis, che approdava in concilio contestualmente all’approvazione, a larghissima maggioranza, del progetto di riforma liturgica discusso dal concilio nel suo primo mese di attività.
B)
R ITOR N O AL PA S S AT O ? I L DE FONTIBUS REVELATIONIS
Il 14 novembre 1962, nel corso della 19ª C. G., che avrebbe visto il voto preliminare sull’insieme dello schema liturgico, veniva presentato all’assemblea conciliare il primo testo dogmatico: testo che avrebbe dato esca a un dibattito assai vivace (la «battaglia serrata e triste», come la chiamò Siri9), che doveva alla fine imprimere al concilio l’orientamento determinante per quanto riguarda le sue intenzioni di fondo, ma anche far emergere per la prima volta in modo consistente le principali polarizzazioni che avrebbero poi attraversato tutto il lavoro degli anni successivi. Lo schema de fontibus revelationis10 era già stato inviato ai padri conciliari nel corso dell’estate del 1962, e le reazioni critiche nei suoi confronti non si erano fatte attendere, tanto più che lo schema toccava questioni teologiche ancora molto discusse nella teologia cattolica, e affrontava problemi – in particolare quelli legati all’esegesi – sui quali la polemica restava assai vivace nel momento in cui il Vaticano II muoveva i
dell’episodio da parte di Ratzinger (che non accenna alla reazione di Siri), cf. J. RATZINGER, La mia vita. Ricordi (1927-1977), S. Paolo, Cinisello Balsamo 1997, 92. Sull’episodio, cf. anche G. FOGARTY, in SCVII, II, 105. Su Siri e il Vaticano II, cf. N. BUONASORTE, Siri. Tradizione e Novecento, Il Mulino, Bologna 2006, 261-323 e, per l’episodio qui menzionato, 280. 9 Cf. SIRI, Diario, in LAI, Il Papa non eletto, 380 (14 novembre 1962); il cardinale, da parte sua, vive questa «battaglia» come lotta contro il modernismo redivivo: cf. anche l’annotazione non datata, ma pubblicata nel diario alla data del 19 novembre, alla vigilia del voto sullo schema: «Etenim serpit modernismus et hic fulcitur cum criticismo historico…» (ivi, 382); in un’intervista al Nuovo Cittadino di Genova, il 12 gennaio 1963, Siri ribadisce il suo giudizio sulla reviviscenza del modernismo, «espressione di due componenti che s’iscrivono nel quadro culturale moderno, il soggettivismo e il criticismo storico» (cf. CAPRILE II, 293). 10 Per la storia della redazione del de fontibus, diventato poi la Costituzione dogmatica sulla rivelazione, cf. R. BURIGANA, La Bibbia nel Concilio. La redazione della costituzione “Dei Verbum” del Vaticano II, Il Mulino, Bologna 1998. Sul dibattito durante la prima sessione del concilio, si veda anche G. RUGGIERI, «La discussione sullo Schema constitutionis dogmaticae de fontibus revelationis durante la I sessione del concilio Vaticano II», in E. FOUILLOUX (éd.), Vatican II commence...: approches francophones, Bibliotheek van de Faculteit der Godgeleerdheid, Leuven 1993, 315-328, e ID., in SCVII, II, 259-293. Per la rilevanza del riferimento ai Padri in quella che sarà poi la Dei Verbum, cf. D. GIANOTTI, «La Dei Verbum e i Padri della Chiesa», in PSV 58(2008), 167-184.
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5. Il de Ecclesia al concilio: il dibattito nel primo periodo
primi passi.11 I padri conciliari arrivavano al dibattito già sollecitati non solo dalla lettura dello schema preparatorio, ma anche dalle diverse critiche che vari teologi avevano elaborato e diffuso, per iscritto – anche con la proposta di schemi alternativi – o attraverso conferenze e incontri di vario tipo.12 Non stupisce, allora, che il card. Ottaviani, introducendo il dibattito in aula il 14 novembre, mettesse le mani avanti. Il prefetto del S. Uffizio non ignorava che vi sarebbero state diverse critiche sullo schema, e che molte avrebbero riguardato la carenza di «tono pastorale». Ritenne quindi necessario precisare: «il primo e fondamentale compito pastorale è la dottrina: “Insegnate”. Questo è il più importante comando del Signore: “Insegnate a tutti i popoli”»; altri poi, notava ancora il cardinale, si sarebbero occupati di curare la forma stilistica per darle un tono più «pastorale», e tuttavia segnalava ancora: Ma va notato che compete al Concilio di parlare in modo stringato, chiaro, essenziale, e non al modo della predicazione, non nel modo di una lettera pastorale di qualche vescovo e neppure delle encicliche del Sommo Pontefice. Lo stile conciliare è già determinato da una prassi secolare.13
Dal suo punto di vista, Ottaviani non aveva torto: quello era lo «stile conciliare», secondo una prassi antichissima; era pensabile che un concilio cambiasse stile? E quali implicazioni avrebbe comportato, un cambiamento a questo livello? Diversi padri conciliari, tuttavia, ritenevano che il cambiamento, a questo riguardo, fosse possibile e anzi necessario. Il primo a esprimersi in questa direzione, nella stessa C. G. del 14 novembre, fu di nuovo il card. Frings: il quale esordì esprimendo con la massima chiarezza il proprio non placet e motivandolo, come prima ragione, proprio a partire dallo stile: senza negare la validità del principio espres-
11 Si pensi agli attacchi dell’Università lateranense nei confronti dell’Istituto Biblico: cf. J. KOMONCHAK in SCVII, I, 297s; più in dettaglio R. BURIGANA, «Tradizioni inconciliabili?» e M. GILBERT, Il Pontificio Istituto Biblico, 165-168. Non a caso, la vasta partecipazione di cardinali e vescovi alla difesa pubblica della tesi di dottorato di N. Lohfink al Biblico, il 22 novembre 1962, viene vista come una sorta di «rivincita» del card. Bea: cf. G. RUGGIERI, in SCVII, II, 373, che rinvia a J-Congar, I, 254 (22 novembre 1962). Per altro verso, due giorni dopo 19 cardinali indirizzano al papa una lettera preoccupata per gli indirizzi ritenuti pericolosi della ricerca biblica; anche il Biblico – e il suo ex rettore, card. Bea – è preso di mira. Siamo negli stessi giorni in cui escono, sul Corriere della Sera, gli articoli di I. Montanelli (molto vicini alle linee di Siri), che, di nuovo, indicano in Bea e nell’Istituto Biblico alcuni dei principali responsabili della linea pericolosa verso la quale il concilio stava portando la Chiesa: cf. J. GROOTAERS, in SCVII, II, 373-376; per Siri, cf. LAI, Il Papa non eletto, 195s e le annotazioni del diario dello stesso Siri, ivi, 375 (4 novembre 1962, su Bea), 380s (14 novembre 1962). 12 Cf. RUGGIERI, in SCVII, II, 262-271, per le critiche di E. Schillebeeckx e K. Rahner. Su richiesta dei vescovi tedeschi, K. Rahner e J. Ratzinger avevano elaborato uno schema alternativo (cf. G. FOGARTY, ivi, 98s, 107); all’inizio del dibattito sul de fontibus, Ottaviani denunciò genericamente la circolazione di schemi alternativi (cf. AS I/3, 27). 13 AS I/3, 27; cf. al riguardo J.W. O’MALLEY, «Trent and Vatican II: Two Styles of Church», in R.F. BULMAN – F.J. PARRELLA (eds.), From Trent to Vatican II. Historical and Theological Investigations, Oxford University Press, New York 2006, 309s.
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so da Ottaviani – annunciare la verità è il primo compito del pastore – l’arcivescovo di Colonia sottolineò che il modo dell’annuncio non è irrilevante: «Ma è importante anche il modo in cui si annuncia. Vale anche per l’annuncio il proverbio: “È l’intonazione che fa la musica”»; e dopo aver rievocato la situazione analoga che si presentò al Vaticano I (il rifacimento, ad opera di Kleutgen, dello schema preparato da Franzelin e rifiutato per il suo tono troppo «professorale»), Frings affermava senza mezzi termini: Ora, nello schema che ci viene proposto oggi, non mi sembra che sia presente e si ascolti la voce dalla Madre e Maestra, la voce del buon Pastore, che chiama le pecore per nome, ed esse ascoltano la sua voce ma, piuttosto, la lingua della scuola, professorale, che non edifica né vivifica.14
La critica di Frings trovò diversi sostenitori, in quei giorni di dibattito culminati poi, il 20 novembre, con la votazione che vide la maggior parte dei padri conciliari esprimersi per il ritiro dello schema. Va ricordato in particolare, tra gli altri, l’intervento di mons. E. De Smedt, vescovo di Bruges: parlando a nome del Segretariato per l’unità (22ª C. G., 19 novembre 1962), egli ripropose la questione dello stile di un documento conciliare, indicando alcuni «requisiti di ecumenicità» – di cui, a suo giudizio, il de fontibus era carente – che non si potevano considerare esauriti con l’affermazione dottrinalmente vera. Secondo De Smedt, è necessario esaminare se nel nostro schema si diano modalità di linguaggio o formulazioni difficilmente intelligibili da parte di un non cattolico. Qui va detto che il modo scolastico, o il metodo quasi di scuola, costituisce per i non cattolici una grande difficoltà ed è spesso fonte di errori e di pregiudizi.15
De Smedt rilevava ancora la difficoltà, soprattutto per gli orientali, di accettare un modo di parlare astratto e puramente nozionale, e aggiungeva: «Per contro, il modo di parlare biblico e patristico evita e previene in se stesso molte difficoltà, confusioni e pregiudizi».16 Il dibattito, naturalmente, vide anche interventi di segno contrario, che appoggiarono il punto di vista espresso da Ottaviani:17 com’è normale, le sfumature di pensiero espresse furono diverse, ma rimane il fatto che la questione stilistica costituì una parte cospicua del dibattito, e si
14 AS I/3, 34; Frings richiamava poi, al riguardo, il desiderio di Giovanni XXIII di vedere sottolineata dal concilio la nota pastoralis. 15 AS I/3, 34, 185, con le integrazioni scritte di p. 187. 16 AS I/3, 34, 185; sull’attenzione con cui fu seguito questo intervento, cf. J-Congar, I, 238; D-Edelby, 112s; Siri, da parte sua, annota: «Parla in modo stonato De Smedt di Bruges» (Diario, in LAI, Il Papa non eletto, 382). Il punto di vista di Frings fu appoggiato ad es. da (cf. per tutti AS I/3) Maximos IV (53s), J. Lefèbvre (75), il card. Silva Henriquez (81), A. Bengsch (87), E. Guerry (99), A. Charue (143s)… 17 Cf. ad es. (in AS I/3), gli interventi di C. Morcillo Gonzalez (60s), J. McIntyre (70), il card. Santos (77), G. Battaglia (98), F. Franic´ (246)…
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può ragionevolmente pensare che anche lo stile del de fontibus ebbe il suo peso nell’indurre la maggioranza dei padri conciliari a respingere lo schema.
C)
T E OLOG IE
DIV E R S E A C O NF R O N TO
Oltre a quelle che abbiamo chiamato qui «stilistiche», nel corso del dibattito sul de fontibus emersero altre questioni, che è utile richiamare brevemente, perché preparano il terreno anche alla discussione sul de Ecclesia. Anche lo schema sulle fonti della rivelazione, come il de Ecclesia, si caratterizzava per un uso unilaterale del magistero recente: è una delle ragioni che porterà il card. König a un giudizio negativo.18 Si riproponeva, ancora una volta, una linea di pensiero che tendeva a subordinare tutto al magistero, senza porre la questione di come il magistero stesso dovesse sottomettersi alla Scrittura e alla tradizione: come notava l’olandese G. Manek (vescovo in Indonesia, parlò a nome dell’episcopato indonesiano), il de fontibus sottolinea almeno sette volte che la Scrittura deve essere letta sotto la guida del magistero. In merito, il presule osserva: «Ora, già la continua ripetizione di queste parole stupisce. Per contro, nulla è detto esplicitamente della relazione inversa, in virtù della quale il Magistero credente si sottomette alla Scrittura e alla Tradizione, che sono parola di Dio per lo stesso Magistero».19 Punti di vista come questo erano sintomo di un problema più ampio, messo in luce il 16 novembre dall’arcivescovo di Firenze, Florit. Il punto decisivo, a suo giudizio, era dato dal fatto che qui si stavano confrontando due approcci diversi sul piano del metodo teologico: il metodo «scolastico» da un lato (del resto «mitigato» nello schema, secondo il presule) o il metodo detto storico-positivo, «che negli ultimi anni è progredito in connessione con la cultura biblico-liturgico-patristica, e che sembra prevalere nel confronto delle tesi teologiche con i protestanti».20 Per Florit, il problema è di arrivare a una «più alta sintesi», capace di integrare le due tendenze. Si potrebbe eccepire sulle ragioni che vorrebbero spiegare il rifiuto corrente del metodo scolastico (sembrano tornare gli argomenti opposti al modernismo e alle sue pretese continuazioni negli anni ’40 e ’50), ma Florit coglie un problema vero, di cui i padri conciliari incominciavano a rendersi conto. In confronto, o in conflitto, non erano semplicemente 18
Cf. AS I/3, 42. AS I/3, 55. Manek corroborava la sua osservazione citando le parole di s. Agostino circa il «maestro interiore» (con rinvio a Serm. 179,1 e 7), rispetto al quale «omnes auditores sumus». De Lubac riferisce che l’intervento era stato fatto circolare per iscritto, e sarebbe opera di P. Smulders (cf. J-de Lubac, I, 284). 20 AS I/3, 101. Su questo intervento, cf. anche BURIGANA, La Bibbia nel concilio, 142, nota 83; ID., «Il magistero episcopale tra Roma e Firenze. La partecipazione di Ermenegildo Florit al concilio Vaticano II», in Vivens Homo 11(2000), 271s (e tutto il saggio per la partecipazione di Florit al Vaticano II). 19
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punti di vista diversi, all’interno di un sistema – quello della teologia scolastica – generalmente condiviso; qui si trattava, invece, di riconoscere una diversa impostazione di fondo nell’impianto teologico da dare ai documenti conciliari. Del resto, era questa la ragione per la quale i vescovi soprattutto di area tedesca, con i loro periti, ritenevano insufficiente un semplice aggiustamento degli schemi dottrinali proposti dalla TE, che proponevano invece di rigettare, elaborando schemi alternativi.21 In ogni caso, la sintesi auspicata da Florit sembrava, al momento, difficilmente realizzabile.22 La diversità di metodo rilevata da Florit, del resto, spiega almeno in parte perché, sui fronti opposti del dibattito sul de fontibus, ci si potesse rinviare la critica di essere poco fedeli alla tradizione: per i critici dello schema, le tesi proposte erano caratteristiche della teologia recente, posttridentina; per i fautori del testo, gli avversari erano dei novatores, che si allontanavano da ciò che era stato sempre insegnato nella tradizione.23 In ogni caso, anche nel de fontibus si notava lo scarso riferimento alla tradizione orientale già rilevato, in sede di CCP, per il de Ecclesia. Qual21 Il punto di vista dei periti francofoni (ad es. Congar) o belgi (in particolare Philips) era meno intransigente, anche per ragioni strategiche (cf. ad es. J-Congar, I, 123s [19 ottobre 1962]; E. FOUILLOUX, «Comment devient-on expert à Vatican II? Le cas du père Yves Congar», in Le deuxième Concile du Vatican [1959-1965]. Actes du colloque organisé par l’École française de Rome... [Rome 28-30 mai 1986], École Française de Rome, Rome 1989, 321s; W. HENN, «Yves Congar and Lumen Gentium», in Gr. 86[2005], 570s; J. FAMERÉE – G. ROUTHIER, Yves Congar, Cerf, Paris 2008, 44). Philips presentò la sua lettura della divergenza teologica emersa nel primo periodo conciliare nell’articolo «Deux tendances dans la théologie contemporaine», che avrebbe causato molto dispiacere a Tromp (cf. G. PHILIPS, Carnets conciliaires de Mgr. Gérard Philips secrétaire adjoint de la Commission Doctrinale. Texte néerlandais avec traduction française et commentaire par K. SCHELKENS. Avec une Introduction par L. DECLERCK, Maurits Sabbebibliotheek Faculteit Godgeleerdheid-Uitgeverij Peeters, Leuven 2006, 13, 91; L. DECLERCK – W. VERSCHOOTEN, Inventaire des papiers conciliaires de monseigneur Gérard Philips, secrétaire adjoint de la Commission Doctrinale. Avec une Introduction par J. GROOTAERS, Peeters, Leuven 2001, nn. 473-493; A.-M. CHARUE, Carnets conciliaires de l’évêque de Namur A.M. Charue, par L. DECLERCK et C. SOETENS [éds.], Publications de la Faculté de Théologie Louvain-la-Neuve, Louvain-la-Neuve 2000, 118); cf. anche Y. CONGAR, Le Concile de Vatican II. Son Église, peuple de Dieu et Corps du Christ, Beauchesne, Paris 1984, 62s. 22 La differenza rilevata da Florit è, per Siri, un vero e proprio contrasto, che introduce nella teologia elementi «patologici»; l’arcivescovo di Genova annota: «Necesse est magnum momentum tribuere studiis de “Propedeutica historica” non tamen solummodo sicut invenitur e. g. in Benigni, sed additis considerationibus de pathologia in studiis theologicis inserta ope variarum methodologiarum ex idealismo, historicismo, rationalismo» (SIRI, Diario, in LAI, Il Papa non eletto, 382; il testo è riportato sotto la data del 19 novembre, ma in nota si segnala: «Testo senza data»). 23 Nella prima prospettiva, cf. ad es. gli interventi di König, Zoa, Hakim, Martin; sull’altro fronte, cf. McIntyre (che esplicitamente parla di alcuni periti «qui hodie contendunt novam nobis quandam theologiam offerre»: AS I/3, 224), Gilroy, Barbetta, Franic´, che parlò di una theologia nova che gli schemi alternativi vorrebbero introdurre nel Vaticano II (cf. ivi, 246); Siri usa l’espressione nel suo diario, al 7 dicembre: cf. LAI, Il Papa non eletto, 383. Al termine della C. G. del 17 novembre, Congar da parte sua annota: «Vraiement, il y a l’Église ressourcé et l’Église non ressourcée. Celle-ci, retrouvant la théologie des manuels qu’elle a apprise, en est satisfaite…»: J-Congar, I, 232.
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che riserva al riguardo era emersa già alla vigilia del concilio;24 nel dibattito di metà novembre 1962, si fece carico di sollevare questo punto il vescovo melchita Hakim. Dopo aver appoggiato gli interventi critici nei confronti del de fontibus, il presule continuava dicendo: Desidero… far ascoltare una voce dell’Oriente e della sua tradizione patristica, e dire che gli schemi dottrinali attualmente allo studio sono estranei a questa tradizione venerabile e autentica, nella loro redazione, nella struttura, nella prospettiva e nella concettualizzazione. Gli schemi contengono senza dubbio ricchezze e valori della teologia latina, e siamo lieti di rendere un omaggio fervente allo straordinario «intellectus fidei» che questa teologia ha procurato alla Chiesa; ma ci dispiace che, ignorando completamente la catechesi e la teologia orientali, di un Cirillo di Gerusalemme, di un Gregorio Nazianzeno e di un Gregorio Nisseno, di Massimo, Giovanni Damasceno e di tanti altri Padri orientali, i redattori, nel loro progetto, abbiano a quanto sembra monopolizzato la fede universale a favore della loro teologia particolare, che è un’espressione valida, ma locale e parziale, della Rivelazione divina. Nella teologia orientale – dove la liturgia è il luogo efficace della trasmissione della fede, e dove l’iniziazione si compie all’interno del mistero sacramentale, e non in un’istruzione astratta, priva di legame simbolico – il mistero di Cristo è proposto direttamente come «oeconomia» che si sviluppa nella storia, preparata nell’Antica Alleanza, compiuta in Cristo, realizzata nel tempo della Chiesa. Le spiegazioni teoriche, per quanto legittime e necessarie siano, non sono mai staccate dalla trama scritturistica e dalla testimonianza dei Padri.25
L’intervento continuava criticando la disgiunzione tra Scrittura e tradizione, operata nel de fontibus, e profondamente contraria alla tradizione orientale, sottolineando ancora una volta il carattere parziale (ossia solo occidentale) della teologia soggiacente allo schema. Dopo un paio di esemplificazioni più specifiche, concludeva: Nutrito di questa tradizione autentica, mi sento pertanto estraneo alla redazione degli schemi proposti; e capisco ancor meglio, associandomi formalmente ad esse, le critiche già fatte, in prospettiva evangelica e pastorale.26
24 Cf. i rilievi del vescovo vietnamita Nguyen-van Hien, inviati il 12 settembre 1962 (AS App., 217): vi chiede esplicitamente un uso più ampio dei Padri greci nel de fontibus. 25 AS I/3, 152. 26 AS I/3, 153. L’intervento di Hakim era stato preparato con l’aiuto di Chenu: cf. M.D. CHENU, Diario del Vaticano II. Note quotidiane al Concilio 1962-1963, a cura di A. MELLONI, Il Mulino, Bologna 1996, 109 (16 novembre 1962); Chenu aveva già criticato, in alcune sue Observations sugli schemi, l’accento unilateralmente occidentale della loro teologia (cf. ivi, 62, nota 10). Congar commenta così l’intervento di Hakim: «Très remarquable. Mais a dû échapper à un bon nombre»: J-Congar, I, 231 (17 novembre 1962); cf. anche D-Edelby, 111. Hakim interverrà poi, nello stesso senso, a proposito del de Ecclesia: cf. sotto, § 2b. Sul contributo dei melchiti al concilio, si veda la bibliografia indicata in D-Edelby, 32, nota 2, aggiungendovi S. SHOFANI, The Melkites at the Vatican Council II. Contribution of the Melkite Prelates to Vatican Council II on the Renewal of Moral Theology, ed. by A.P.A. CHRIST, Authorhouse, Bomington (IN) 2005.
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Le parole di mons. Hakim dovevano suscitare qualche reazione negli interventi successivi, ad es. da parte del polacco Klepacz, secondo il quale la Chiesa latina tiene in massimo onore le Chiese d’oriente e fa ampio spazio ai Padri greci e orientali nel progresso della tradizione; anche mons. Franic´ giudicò inopportuna la contrapposizione tra la prospettiva del de fontibus e la tradizione orientale, rilevando tra l’altro che i teologi serbi ortodossi, nei loro manuali, parlano tranquillamente di Scrittura e Tradizione come di due fonti.27 Di fronte al prolungarsi del dibattito, diventato ormai ripetitivo e incapace di modificare sensibilmente le posizioni che si andavano confrontando, il Consiglio di presidenza decise di sottoporre a voto la continuazione del dibattito. Nonostante la poca chiarezza nella formulazione del quesito votato,28 la maggioranza dei padri conciliari si espresse – senza però raggiungere il quorum richiesto dei due terzi – per l’interruzione del dibattito, ossia per lasciar cadere lo schema. L’esito non risolutivo della votazione rischiava di far cadere il concilio in un’impasse, da cui lo trasse fuori la decisione di Giovanni XXIII di rinviare lo schema a una commissione mista, formata da membri della commissione teologica e del Segretariato per l’unità. L. Vischer, osservatore al concilio per conto del Consiglio ecumenico delle Chiese, scrivendo il 22 novembre al segretario generale del CEC W.A. Visser’t Hooft, sottolineò che la risoluzione presa da Giovanni XXIII apriva nuovi scenari ed era stata uno shock per coloro che consideravano il magistero «regula non regulata». R. Burigana, che riferisce l’informazione, osserva: Lo scontro era tra la fedeltà ai manuali e il ritorno alla Scrittura e alla patristica. Su questo punto Vischer tornò pochi giorni dopo, in una nota per Visser’t Hooft, domandandosi quali potevano essere le conseguenze di una riflessione conciliare sulla Scrittura per la chiesa cattolica e per il dialogo ecumenico.29
In ogni caso, solo tenendo presenti le vicende del de fontibus si può capire perché gli orientamenti, che volevano un ripensamento complessivo dell’impostazione degli schemi, poterono riproporsi con nuovo vigore, anche se in un contesto meno acceso, all’aprirsi del dibattito sul de Ecclesia.
D)
I P A DR I ,
PATRI MON IO D I TUTTA LA C HIE SA
Prima di arrivare al sospirato de Ecclesia, l’assemblea conciliare affrontò ancora lo schema, redatto dalla commissione per le Chiese orientali, De ecclesiae unitate «Ut omnes unum sint». Preparato senza con27
Cf. AS I/3, 217s (Klepacz) e 246 (Franic´). Per le vicende della votazione e i suoi esiti, cf. RUGGIERI, in SCVII, II, 289-293; BURIGANA, La Bibbia nel concilio, 155-169. 29 BURIGANA, La Bibbia nel concilio, 164, nota 134 (con indicazione delle fonti). La rilevanza della questione è ben attestata anche dalle annotazioni del card. Siri alla vigilia del voto: cf. RUGGIERI, in SCVII, II, 283. 28
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fronti con la TE o con il Segretariato per l’unità, lo schema affrontava una questione la cui rilevanza sfuggiva alla maggior parte dei padri conciliari, che conoscevano in modo assai limitato le problematiche dell’oriente cristiano.30 Il dibattito fu l’occasione per richiamare, ancora una volta, il significato e l’importanza dei Padri della Chiesa nell’insieme della tradizione cristiana. Paradossalmente, la cosa avvenne nel quadro di una discussione in buona parte interna alla cristianità orientale. Il confronto sullo schema vide, infatti, una forte accentuazione della posizione dei melchiti, che si organizzarono per distribuirsi i temi da trattare e li presentarono in successione negli interventi del 27 novembre, durante la 28ª C. G. – in quella che Edelby chiamò la «giornata melchita» al concilio.31 Le loro posizioni furono però contestate da altri rappresentanti delle Chiese orientali, al punto che i melchiti finirono per trovarsi isolati. In questione era principalmente la concezione stessa del rapporto tra oriente e occidente: in breve, si può dire che i melchiti lo intendevano in termini di «Chiese parallele», un approccio che venne respinto dagli altri orientali. È significativo, al riguardo, il modo in cui Maximos IV – che aprì la serie degli interventi dei melchiti sullo schema – presenta l’origine della Chiesa orientale e il ruolo che in essa hanno i Padri. Secondo il patriarca, quella orientale è una Chiesa pienamente apostolica nei suoi elementi costitutivi, e nettamente distinta dalla latinità. È una Chiesa primogenita di Cristo e degli Apostoli. Il suo sviluppo e la sua organizzazione storica sono opera esclusiva dei Padri, dei nostri Padri greci e orientali. Essa deve ciò che è al Collegio apostolico, tuttora vivente nell’episcopato collegiale, con Pietro al centro, con le sue responsabilità e i suoi diritti distintivi.
Questa Chiesa non deve nulla, storicamente, alla Sede Romana, né l’origine, né i riti, né la sua organizzazione, nulla di ciò che la costituisce concretamente. In breve, nessuno l’ha generata nella fede, al di fuori degli apostoli; nessuno, tranne i Padri, l’ha costituita in tutto il suo patrimonio di preghiera, di organizzazione e di attività. Si può dire che i santi Basilio, Gregorio, Cirillo, Crisostomo e gli altri sono cattolici di secondo rango, perché non romani in tutto ciò che hanno ricevuto e in tutto ciò che hanno trasmesso?32 30
Cf. per questo dibattito RUGGIERI, in SCVII, II, 345-354. Sulla questione, cf. RUGGIERI, in SCVII, II, 347s e 350-352; D-Edelby, 125. 32 AS I/3, 617. A partire di qui, Maximos IV osserva che se lo schema vuole rivolgersi alle Chiese orientali, deve farlo partendo da ciò che è loro proprio, ossia il carattere collegiale del ministero pastorale. L’intervento del patriarca era stato messo a punto con l’aiuto di dom O. Rousseau (cf. J-de Lubac, I, 395; D-Edelby, 121). Il punto di vista di Maximos IV fu ampiamente ripreso da Zoghby, durante la stessa C. G. (cf. AS I/3, 640-642); Zoghby sottolineò in particolare l’adesione senza mutamenti della Chiesa orientale alla dottrina trinitaria e cristologica dei Padri greci, con le conseguenze derivanti per la liturgia (cf. ivi, 641s), per arrivare a sostenere le «Chiese parallele» («deux Églises qui, Dieu aidant, peuvent s’unir mais jamais se fusionner, qui peuvent coexister dans l’unité mais jamais 31
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Si è visto che i melchiti, già in sede di preparazione del concilio, avevano criticato gli schemi dottrinali perché carenti sul piano del riferimento alla tradizione orientale.33 Ma questa tesi delle «Chiese parallele» non finiva per giustificare, paradossalmente, lo scarso rilievo dato ai Padri greci nei documenti preparatori? I loro estensori avrebbero potuto argomentare, fondandosi sulle affermazioni dei melchiti, che i Padri greci rappresentavano un patrimonio peculiare della Chiesa orientale, anziché appartenente a tutta la Chiesa. In ogni caso, come si è accennato, la tesi delle «Chiese parallele» venne respinta anche dai prelati di altre Chiese orientali. Per quanto riguarda i Padri, toccò al maronita Khoury ricordare che essi sono patrimonio comune a tutta la Chiesa. È ciò che fece nel corso della 29ª C. G. (28 novembre 1962), con un intervento che merita a sua volta di essere citato per esteso perché, al di là della presa di distanza rispetto alla posizione melchita (Khoury, del resto, si espresse in tono critico anche nei confronti dello schema in discussione), introdusse ancora una volta nel dibattito conciliare l’esigenza di un più attento richiamo alla tradizione patristica orientale: Non si devono presentare i Padri orientali come patrimonio privato di qualche Chiesa particolare, come avviene spesso, e come appare anche dal contesto del nostro schema. Sono, infatti, i Padri di tutte le Chiese orientali, che esse esaltano con unanime approvazione; sono anzi [i Padri] di tutta la Chiesa cattolica, che al loro tempo sussisteva felicemente come l’unica cattolica. Più precisamente, e a modo di esempio: Atanasio e Cirillo erano alessandrini, eppure hanno preso posizione, con l’aiuto dell’antica, contro la nuova Roma; il Crisostomo e il Nazianzeno erano antiocheni e, se sedettero sulla sede di Costantinopoli, fu per un tempo molto breve e non con l’esito migliore, e si appellarono anche alla sede romana; Basilio e il Nisseno non ebbero nulla in comune con la città imperiale, e altrove hanno trattato dello scisma antiocheno. Questi Padri, pertanto, e altri, in nessun modo devono essere collegati alla sola tradizione bizantina, o al resto dell’Oriente, o essere considerati estranei all’Occidente.34
Non si tratta quindi, per mons. Khoury, di contrapporre l’oriente, e il suo patrimonio cristiano specifico, all’occidente; non si tratta di pensare a Chiese «parallele»; proprio dai Padri orientali si impara che la «Chiesa di Cristo… è una, e unica la sede di Pietro»;35 la storia gloriosa delle antiche sedi apostoliche non deve prestarsi alla costruzione di un mito, di una Chiesa che oggi non è più, storicamente, come quella dei secoli passati. È tuttavia possibile, secondo Khoury, edificare oggi l’unica Chiesa dans l’uniformité») e, dopo aver fatto riferimento al «modello trinitario», ribadire: «C’est de la même manière que le Christ veut voir réalisée l’unité chrétienne: des Églises demeurant distinctes mais unies dans l’Église» (ivi, 642). 33 Cf. sopra, c. 4 § 3b. 34 AS I/3, 669. I Padri come «patrimonio comune» di oriente e occidente saranno richiamati nella stessa C. G. anche dall’intervento di G.P. Dwyer (cf. ivi, 684). 35 AS I/3, 669; cf. anche il seguito (670) per quanto segue. Congar ha notato qui la punta antimelchita: cf. J-Congar, I, 270.
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senza unilateralismi: tanto più che, osserva ancora, ciò che si chiede dagli o per gli orientali in vista dell’unità, vale per tutti: Così, ad es.: il profondo rinnovamento liturgico, l’amore crescente per la Scrittura e per i Padri, il ritorno sempre rinnovato allo Spirito del Vangelo, l’affermazione dell’apostolicità dell’episcopato e della collegialità della Chiesa con e sotto Pietro, una certa decentralizzazione del regime e un legame positivo e reciproco delle Chiese, l’applicazione in occidente di quei valori che la tradizione orientale ha felicemente conservato e agli orientali di quel progresso che i latini hanno mirabilmente conseguito…36
L’elenco continua, e si chiude con l’invito a unificare gli schemi sull’ecumenismo proposti dalla TE e dal Segretariato per l’unità e a includerli nel de Ecclesia. L’estratto ci sembra esemplificativo non solo di ciò che auspicava Khoury, ma anche di quanto il concilio stesso incominciava, non senza difficoltà, a realizzare.
2. I L
DE E CCLESIA : G L I O R I E N TA M E N T I F O N D A M E N TA L I D E L P R I M O D I B AT T I T O
A)
IL
DE
E CCLESIA
AR RIVA I N A UL A
Se si tiene conto di ciò che era successo in aula soprattutto nella seconda metà di novembre – ma anche di quanto stava avvenendo, in vista del dibattito sul de Ecclesia, «fuori», nella molteplicità di incontri, conferenze, elaborazione di progetti di intervento e di possibili schemi alternativi37 – non stupisce che il card. Ottaviani, introducendo il dibattito sullo schema, l’1 dicembre, cercasse di difendere in anticipo l’opera della TE, di cui era stato presidente. Egli si preoccupò di sottolineare, infatti, la cura posta dai redattori affinché lo schema «fosse il più possibile pastorale, biblico e anche accessibile alla comprensione di molti, non scolastico ma, piuttosto, in una forma effettivamente comprensibile da tutti»; e aggiungeva, non senza un pizzico di amara ironia: «Dico questo perché mi aspetto di sentire le solite litanie dei Padri conciliari: non è ecumenico, è scolastico, non è pastorale, è negativo e così via».38 Ottaviani condannò anche la circola-
36 AS I/3, 670; l’intervento fu accolto da un applauso (cf. ivi, 671). Per le reazioni antimelchite, cf. anche le note di Edelby (assente alla C. G.): D-Edelby, 127s. 37 Cf. al riguardo A. MELLONI, «Ecclesiologie al Vaticano II (autunno 1962 - estate 1963)», in M. LAMBERIGTS – C. SOETENS – J. GROOTAERS (éds.), Les Commissions conciliaires au Vatican II, Bibliotheek van de Faculteit Godgeleerdheid, Leuven 1996; J.A. KOMONCHAK, «The Initial Debate about the Church», in E. FOUILLOUX (éd.), Vatican II commence...: approches francophones, Bibliotheek van de Faculteit der Godgeleerdheid, Leuven 1993, 329-352; RUGGIERI, in SCVII, II, 309-354. 38 AS I/4, 121 (31ª C. G., 1 dicembre 1962), anche per quanto segue.
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zione di schemi alternativi che, a suo giudizio, pregiudicava il dibattito che si stava aprendo: Coloro infatti che sono soliti dire: via, via! sostituiscilo!, sono già pronti a fare questa battaglia. Vi rivelo una cosa: ancor prima che questo schema fosse distribuito, udite! udite!, ancor prima della distribuzione, già si redigeva uno schema sostitutivo. La causa, quindi, è stata giudicata «ante praevisa merita»!
Nonostante i timori di Ottaviani, tuttavia, il dibattito doveva rivelarsi meno combattivo, rispetto alle concitate discussioni sul de fontibus. Si era, del resto, alla fine della prima tornata del concilio e non vi era il tempo, e forse neppure le energie, per articolare un dibattito veramente approfondito;39 senza contare che, verosimilmente, non pochi padri dovettero trovare lo schema effettivamente rispondente alla propria prospettiva ecclesiologica. Nell’insieme degli interventi dei padri conciliari, i riferimenti alle fonti patristiche sono relativamente frequenti e toccano una gamma di questioni piuttosto ampia. Li riassumiamo nelle pagine che seguono, soffermandoci in un primo tempo su quelli che si riferiscono all’impostazione generale dello schema, per passare poi a osservazioni e proposte riguardanti problematiche più puntuali. Nel complesso, la rilettura del dibattito conciliare attraverso la nostra prospettiva specifica arriva a cogliere le dinamiche complessive della discussione: ma per una sintesi più completa del dibattito non possiamo che rinviare ad altre ricerche.40
B)
IL
D IB ATT ITO : L’ USO DEL LE F O NTI N E L DE E CCLESIA
Le discussioni di novembre avevano già posto al centro dell’attenzione la questione delle «fonti», sotto il profilo teologico (cf. la discussione sul de fontibus revelationis) e anche quanto al modo di utilizzare, nei documenti in discussione, i riferimenti alla Scrittura e alla tradizione. Il problema, ovviamente, si pose anche a proposito del de Ecclesia: stupisce, però, il fatto che la questione non venisse sollevata sin dall’inizio del dibattito. Per quanto riguarda l’uso della Scrittura, il problema fu sollevato per la prima volta dal card. Döpfner, ventesimo oratore a intervenire dall’inizio della discussione sul de Ecclesia, che si espresse criticamente sull’uso della Scrittura;41 del resto, l’oratore che parlò subito dopo di lui – il polacco Kominek – esordì elogiando lo schema che, a suo giudizio, espo39 Anche per questa ragione, è necessario tener conto non solo degli interventi in aula (cf. AS I/4, 126-391), ma anche di quelli scritti (ivi, 397-639, e AS II/1, 467-801). 40 Cf. in particolare ACERBI, 154-170; RUGGIERI, in SCVII, II, 357-372. 41 «Dictio et argumentatio saepius profundiore usu Sacrae Scripturae carent. Dico profundiore, quia Sacra Scriptura saepe citatur et interrogatur pro tota quaestione»: AS I/4, 184; si vedano anche i rilievi presentati nel testo scritto, ivi, 187s.
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neva e spiegava bene la struttura della Chiesa, basandosi sulle fonti non solo evangeliche, ma anche della tradizione sia antica che moderna, in particolare dell’enciclica Mystici corporis!42 Ma bisogna arrivare fino all’intervento del card. Frings, che aprì il terzo giorno delle discussioni (33ª C. G., 4 dicembre), perché si ponga in modo articolato la questione dell’insufficienza dello schema rispetto all’insieme della tradizione. Quasi tutto l’intervento dell’arcivescovo di Colonia riguarda questo punto e dobbiamo qui riportarlo pressoché per intero: A quanto già è stato detto dai padri sullo schema, vorrei aggiungere una cosa sola, ossia che nell’elaborazione della dottrina sulla Chiesa non è stata considerata tutta la tradizione cattolica, ma solo una piccola parte, ovvero la tradizione degli ultimi cento anni. Quasi nulla è detto della tradizione greca, e poco della più antica tradizione latina, sebbene l’una e l’altra siano ricchissime. Lo si vede bene dalle note e dalle loro fonti, ad es. nel cap. IV, dove si trovano sei pagine di note. In queste sei pagine solo due volte si menziona un Padre greco con una piccola citazione. E le menzioni dei Padri latini e del Medioevo non sono molto più estese, di modo che queste sei pagine sono quasi completamente riempite di citazioni degli ultimi cento anni. Lo stesso vale per le note dei capp. VI-VIII. Tutti i riferimenti sono tratti da questo secolo, fatta eccezione per una citazione del papa Innocenzo III, una di s. Tommaso, una del concilio di Trento. E lo stesso per le note di tutti i capitoli di questa costituzione. Domando: è un modo di procedere corretto, universale, scientifico, ecumenico e cattolico – in greco «Katholon», ossia ciò che comprende la totalità e guarda alla totalità? In questo senso ci si può chiedere se questo modo di procedere sia veramente cattolico. È un difetto che non riguarda solo gli aspetti esteriori, ma la dottrina stessa, che ne viene sminuita; ad es. nel c. I, sulla natura della Chiesa militante, si cita giustamente la frase di s. Paolo: «siamo un solo pane, un solo corpo»; ma la spiegazione di questo passo della s. Scrittura è più giuridica e sociologica che teologica. A fatica si trova qualche traccia dell’ecclesiologia eucaristica greca, così cara ai Padri greci in passato, e ancora oggi molto cara ai nostri fratelli orientali. I
42 Cf. AS I/4, 189. Il succedersi non articolato degli interventi fu, com’è noto, uno dei problemi principali dello svolgimento delle congregazioni generali al Vaticano II. Nella stessa C. G. del 3 dicembre, anche Barbetta espresse un giudizio favorevole sull’uso della Scrittura nello schema (cf. ivi, 199s). Viceversa, in un intervento scritto, l’ausiliare di Fulda, Schick, insiste vigorosamente sulla debolezza biblica dello schema; esemplifica, riferendosi solo a Ef, la ricchezza di un’elaborazione più ancorata alla Scrittura; e conclude affermando che la commissione che deve elaborare il testo non può esimersi dal presentare una dottrina biblica della Chiesa il più possibile completa (cf. ivi, 557-559). In una sua Nota sullo schema preparatorio de Ecclesia, redatta dopo il dibattito della prima settimana di dicembre 1962, anche G. Dossetti segnala l’inadeguatezza biblica dello schema e, più in generale, l’uso che vi si fa delle fonti: lo schema esprime «il concetto di una teologia ridotta quasi esclusivamente ad apologetica e di una esegesi biblica impiegata non per proporre il Mistero nella sua pienezza, ma per comprovare gli atti del magistero», teologia che corrisponde a «quel concetto enunciato in astratto nello Schema De Fontibus, [e che] trova nello Schema De Ecclesia la sua più significativa applicazione pratica»: cf. MELLONI, «Ecclesiologie al Vaticano II», che riproduce la Nota alle pp. 146-179 (qui 148); si veda anche G. ALBERIGO, «Giuseppe Dossetti al Concilio Vaticano II», in ID., Transizione epocale. Studi sul Concilio Vaticano II, Il Mulino, Bologna 2009, 405-411 (con tutto il lungo saggio, pp. 393-502, sulla partecipazione di Dossetti al Vaticano II).
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Parte II - I Padri della Chiesa nel dibattito conciliare sul de Ecclesia Greci, infatti, vedono nella santa Eucaristia, che ci ha dato il nostro Signore Gesù Cristo, e nell’intercomunione delle Chiese tra di loro e con il Sommo Pontefice il primo e più forte vincolo di pace e di unità.43
Come si è accennato, siamo al terzo giorno di dibattito: nei primi due giorni si erano succeduti trenta oratori, nessuno dei quali aveva sollevato i problemi posti da Frings, in ogni caso non in modo così ampio ed esplicito;44 negli interventi successivi, viceversa, il problema fu posto anche da altri, vuoi aderendo esplicitamente al punto di vista di Frings, vuoi ripetendolo sinteticamente con parole proprie: intervennero in questo senso Bea, Florit, Hakim,45 ma il punto emerge anche negli interventi scritti presentati sul finire della sessione conciliare o nei mesi successivi.46 Due giorni dopo l’intervento di Frings, mons. Hakim doveva mettere in luce, ancora una volta, l’insoddisfazione degli orientali per il modo di procedere troppo unilaterale della teologia soggiacente allo schema. Richiamandosi esplicitamente a Frings – e ringraziandolo per aver già espresso «con la ferma chiarezza che gli è propria e con forza ineguagliata» il punto di vista critico su cui ora egli stesso torna –, Hakim osserva che come il de fontibus, il de Ecclesia non tiene conto del pensiero orientale: è concepito unicamente in categorie giuridiche, e lo stesso Corpo Mistico è ridotto alle sole realtà visibili. Un semplice dettaglio indicativo: nelle circa 300 note e rinvii di questo schema, che occupano quasi la metà delle pagine, solo cinque rimandi menzionano qualche Padre greco. Ma la Chiesa cattolica non avrebbe interesse ad arricchirsi con questo pensiero, che fa parte del suo patrimonio, a essere veramente cattolica e dunque più aperta al dialogo ecumenico? Ora, cosa constatiamo qui? Il realismo della teologia greca è atrofizzato dal giuridismo dello schema.47 43 AS I/4, 218s. Su questo intervento, «per il quale è legittimo supporre il contributo del suo teologo Ratzinger», cf. RUGGIERI, in SCVII, II, 361. Anche de Lubac segnala Ratzinger come probabile ispiratore di Frings: cf. J-de Lubac, I, 461 (4 dicembre 1962). Su Ratzinger quale perito al Vaticano II, cf. P. BLANCO SARTO, «Joseph Ratzinger, perito del Concilio Vaticano II (1962-65)», in Anuario de Historia de la Iglesia 25(2006), 43-67. 44 L’arcivescovo di Durban, Hurley, intervenendo il giorno prima di Frings, aveva però rilevato l’inadeguatezza dello schema, anche alla luce del movimento di rinnovata ricerca biblica, patristica e di storia ecclesiastica, nonché a fronte della sollecitudine per la crescente indigenza degli uomini del nostro tempo (cf. AS I/4, 198); Hurley aveva notato l’insufficienza della base patristica dello schema anche in sede di CCP, dove la questione, come si ricorderà, era stata sollevata anche da Maximos IV, da Montini e da altri (cf. sopra, c. 4 § 3). 45 Cf. AS I/4, 229 (Bea), 299 (Florit), 359s (Hakim). 46 Cf. in particolare i testi presentati da de Provenchères, a nome di altri 16 vescovi francesi (AS I/4, 470; ma de Provenchères si era espresso in questa linea anche prima dell’inizio del concilio: cf. AS App., 160), dall’indonesiano Soegijapranata (cf. AS II/1, 567), dal card. Gerlier, con altri 13 vescovi (ivi, 583), dall’australiano Mannix (ivi, 545). 47 AS I/4, 359; l’intervento è evidenziato anche da Congar («beau texte, bien donné [très écouté]»: J-Congar, I, 307; cf. anche J-de Lubac, I, 502s) e fu preparato con l’aiuto di Chenu (cf. CHENU, Diario del Vaticano II, 132; sulla rilevanza dell’intervento, cf. anche P. HÜNERMANN, «Der Text: Werden - Gestalt - Bedeutung. Eine hermeutische Reflexion», in Herders Theologischer Kommentar zum Zweiten Vatikanischen Konzil, hrsg. v. P. HÜNERMANN u. B.J. HILBERAT, Herder, Freiburg 2004-2006, rist. 2009, V, 45. Chenu metterà
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Sono da notare anche le parole con le quali il vescovo melchita concludeva il suo intervento: «Per finire, mi sia permesso di dire, per tranquillizzare l’uno o l’altro padre qui presente, che se facciamo appello ai Padri orientali, non è per fanatismo locale, ma piuttosto per tornare alle fonti apostoliche», senza che sia messo in dubbio, nota ancora, l’attaccamento a Pietro e al suo successore;48 evidentemente, nell’ambito dell’assemblea conciliare l’interventismo critico degli orientali doveva aver suscitato qualche apprensione.49 Attenzioni di carattere ecumenico, esigenza di tener conto delle prospettive orientali, apertura a una tradizione veramente «cattolica», sono quindi alcune delle principali preoccupazioni espresse da quanti giudicavano insoddisfacente il modo in cui lo schema rinviava alle fonti della tradizione, in particolare patristica. Ma emergono anche altre critiche, nelle quali traspare l’attesa di una presentazione ecclesiologica più completa rispetto a quella del Vaticano I e della stessa Mystici corporis.50 È da sottolineare poi, nella linea di quanto abbiamo già rilevato riassumendo i dibattiti sul de fontibus, l’attenzione che alcuni interventi riservano allo «stile» del de Ecclesia e al suo nesso con la valorizzazione del modo di esprimersi dei Padri. Lo si è già accennato: la questione dello «stile» è, per lo più,51 un altro modo per esprimere la preoccupazione
poi in rilievo l’importanza degli interventi che hanno messo in discussione l’uso delle fonti nello schema preparatorio: cf. Diario del Vaticano II, 136s [5 dicembre]). Hakim continua con alcune esemplificazioni, che riprenderemo più avanti; si ricordi anche, in questo contesto, l’intervento dello stesso presule durante il dibattito sul de fontibus (cf. sopra, § 1c). Anche Dossetti si è riferito a questo intervento, nella sua Nota già citata, per osservare poi: «In realtà per quanto ci si possa compiacere della chiarezza di linee e della solidità della ecclesiologia occidentale, non si può continuare ad ignorare che questa ecclesiologia da sola non è completa e ha certo rischiato per un tempo non breve di trascurare gli aspetti più intimi e sovrannaturalmente più fecondi del Mistero della Chiesa, quegli aspetti che erano un tempo i più avvertiti dalla coscienza cristiana dei primi secoli, così sembrano essere oggi i più idonei a ristabilire una simpatia cordiale della coscienza contemporanea verso la Chiesa» (in MELLONI, «Ecclesiologie al Vaticano II», 151-152). 48 AS I/4, 360. 49 Un esempio esplicito di questa apprensione è offerto dall’intervento (scritto) di Rousseau: il presule teme che, in nome di un ritorno alla teologia dei Padri greci, non si sottolinei abbastanza la dimensione redentiva del mistero di Cristo e dell’azione della Chiesa (cf. AS II/1, 560; esattamente nel senso contrario, su questo tema, si era espresso Florit, con un rinvio generico alle «Patrum explanationes: cf. AS I/4, 299). Va anche detto che l’appartenenza a una Chiesa orientale non significava automaticamente l’adesione a una teologia orientale: si vedano, ad es., le osservazioni allo schema del patriarca di Babilonia dei Caldei, Cheikho (cf. AS I/4, 439s). 50 Cf. C. de Provèncheres (e altri 16 vescovi): AS I/4, 462; viene chiesto, qui, che si tenga conto, oltre che della tradizione orientale, anche di quella latina più antica. 51 In qualche caso, la questione è stilistico-letteraria: il brasiliano Bampi vorrebbe uno stile più semplice; indica come esempio Leone Magno e Girolamo, e continua con osservazioni più generali sullo stile a volte complicato del latino dei documenti ecclesiastici (cf. AS II/1, 473). Uno stile più semplice è chiesto anche da Baudoux, ma senza riferimenti ai Padri (cf. ivi, 478; ma si veda anche il testo inviato da Baudoux alla vigilia del concilio: «Ut magis appareat doctrinam Concilii esse Evangelii veram genuinamque doctrinam, valde optandum nobis videtur ut Sacri Libri et Patres saepius adhibeantur»: AS App., 100).
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circa il carattere pastorale dei testi che il concilio dovrà promulgare: così, chiaramente, l’intende Florit.52 Più volte, la questione dello stile è legata alla critica per il tono e l’impianto troppo giuridico dello schema. Il problema, già emerso per il de fontibus, è richiamato anche per il de Ecclesia: l’abbiamo visto con l’intervento di Hakim, ma prima di lui altri ne avevano già parlato. Per De Smedt – che sin dal primo giorno del dibattito ecclesiologico ripropose, in termini più succinti e forse meno efficaci, critiche già presenti nel suo apprezzato intervento sul de fontibus53 – lo schema peccava di trionfalismo, clericalismo e giuridismo: caratteristica, quest’ultima, alla quale il vescovo di Bruges contrappone l’idea centrale (ricavata dalla ricerca storico-teologica) della Chiesa-madre come orizzonte ecclesiologico complessivamente più adeguato, sia sul piano teologico che su quello pastorale.54 Altri interventi ripresero la critica di De Smedt a proposito del giuridismo55 e, in qualche caso, suggerirono di superarlo attraverso un più ampio riferimento alla tradizione patristica. Così Baudoux rileva che lo schema si basa su un concetto di Chiesa puramente giuridico, trascurando la nozione biblica e patristica del mysterium Ecclesiae, a partire dalla quale si dovrebbero poi elaborare gli altri temi; in termini analoghi si esprime un contributo di tredici vescovi della regione di Lione, presentato dal card. Gerlier.56 Il problema del linguaggio dello schema, in rapporto con le sue fonti, fu sollevato anche da Mannix (Melbourne): l’ispirazione neo-scolastica del testo conduce, a suo giudizio, a un modo di esprimersi astratto, molto lontano dalla sensibilità di varie espressioni culturali ma, in primo luogo,
52 Cf. AS I/4, 299; sintesi di tutto l’intervento in BURIGANA, «Il magistero episcopale tra Roma e Firenze», 273s. Congar ha appuntato le parole di Florit, e scrive: «Approuve le schéma. Quelques remarques: qu’on ajoute quelques citations de Pères grecs (pour lui ce sont de purs ornements)»: J-Congar, I, 301. 53 Cf. sopra, § 1b; per l’intervento di De Smedt sul de Ecclesia, nel corso della C. G. dell’1 dicembre, cf. AS I/4, 142-144. È Congar ad annotare qualche sua riserva sull’intervento di De Smedt: cf. J-Congar, I, 285. 54 De Smedt aveva criticato, tra l’altro, l’eccessiva rigidità con cui lo schema, proprio per il suo giuridismo, parlava dei membri della Chiesa (nella stessa linea anche Rabban: cf. AS I/4, 236). L’italiano Stella replicò qualche giorno più tardi a De Smedt sulla questione del «trionfalismo», contrapponendogli, e citando per intero, il saluto iniziale – qualificato dall’oratore come «triumphalis inscriptio» – della lettera di Ignazio ai Romani (cf. AS I/4, 356); testo che Maximos IV, da parte sua, menziona invitando a non esagerare nell’esaltazione del papato, col rischio di scandalizzare: il primato del papa, aveva notato, è «primauté de ministère, de mission universelle, que celle de l’Évêque de cette Église de Rome qui n’est la première entre toutes que parce que, suivant le mot de Saint Ignace d’Antioche, “elle préside à la charité”, car Dieu est Charité» (ivi, 297). 55 Cf. ad es., in AS I/4, gli interventi di Elchinger (148), Cauwelaert (157), Döpfner (184), Huyghe (196), Hurley (198), Frings (219), Gonzalez Moralejo (242), Hengsbach (254), Montini (292), Maximos IV (296), Hakim (359). 56 Per Baudoux, cf. AS II/1, 476; per il contributo di Gerlier, ivi, 583.
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lontano dalla Scrittura.57 La discussione di questo primo periodo registrò anche qualche tentativo generoso di mettere insieme l’approccio giuridico-scolastico con il dato biblico: ma proprio la dimenticanza pressoché completa del riferimento alla tradizione nella sua accezione più ampia mostrava la debolezza di tentativi di questo genere.58 Alcuni padri erano consapevoli che il carattere selettivo dello schema, rispetto alle fonti bibliche e patristiche, dipendeva anche da una sostanziale dimenticanza delle ricerche ecclesiologiche rinnovate a partire dal primo dopoguerra. Il grande fermento di studi, riguardanti la Scrittura, i Padri, la storia ecclesiastica, induce – afferma Hurley – a una certa prudenza (e dunque sconsiglia ogni intento definitorio da parte del concilio); per altro verso, mette in luce i limiti di una preparazione del concilio troppo settoriale, poco coordinata.59 Ritter chiede che si tenga più conto delle ricerche teologiche recenti, per allargare l’orizzonte ristretto dell’ecclesiologia del Tridentino o del Vaticano I; nel corso dell’intersessione, i vescovi tedeschi e austriaci torneranno a ribadire l’insufficiente attenzione prestata dallo schema preparatorio alle ricerche recenti sulla Chiesa, che toccano le sue diverse immagini, la sacramentalità, il rapporto Chiesa-regno, il carattere escatologico della Chiesa ecc., e arriveranno a proporre uno schema alternativo.60 Vi fu anche chi giocò la questione con una punta, neanche troppo nascosta, di ironia. Mons. Holland, coadiutore di Portsmouth, già allievo della Gregoriana, volle rievocare in aula le lezioni ascoltate in quella sede, più di trent’anni prima, da un «esimio teologo», la cui mano traspare nello schema, sul «grande e glorioso corpo di Cristo, che è la Chiesa». L’oratore sottolinea che in quegli anni, quanti ebbero l’opportunità di seguire quei corsi (ad es. sul tema del corpo di Cristo nei Padri greci) poterono ricavare intorno a questo tema una visione «pura et praeclara», unitaria e provocatoria anche per la prassi; in questa linea l’oratore approva la parte corrispondente dello schema, mentre si era espresso in modo piuttosto severo sulla parte relativa all’episcopato. Era abbastanza evidente il riferimento a p. Tromp, come notò Congar nel suo diario: quasi a dire – come lascia capire il resto dell’intervento – che ci si poteva aspettare di più da autori che avevano già dato buona prova di sé.61 57 «Schematis “data” magis videntur esse dicta pontificalia recentiora quam verbum Dei in Sacris Scripturis, et scripta Patrum; methodus procedendi magis hauriri videtur ex logica formali quam theologia biblica; magis scatet conceptibus neo-scholasticis quam imaginibus biblicis; abstractiones pariter scatet, tam conceptuum quam verborum, quae valde alienae sunt menti Anglo-Saxoniae, Africanae et Asiaticae, immo et ipsi Sacrae Scripturae» (AS II/1, 545). 58 Si veda la proposta di G. Sensi in AS I/4, 561-568. 59 Cf. AS I/4, 197s. 60 Per Ritter, cf. AS I/4, 138; per il documento dei vescovi tedeschi, ivi, 601-639 (cf. in particolare 603); sullo «schema tedesco», cf. ACERBI, 177-182; MELLONI, «Ecclesiologie al Vaticano II», 117-121; KOMONCHAK, «The Initial Debate», 335-343. 61 Per l’intervento di Holland (che superò i limiti di tempo e fu troncato dal presidente di turno, il card. Caggiano), cf. AS I/4, 247; l’annotazione di Congar in J-Congar, I, 297. Tromp, da parte sua, ebbe modo di prendere posizione sulla questione dell’uso delle fonti
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S U PE R A RE I LI MIT I DE LLA M YSTICI CORPORIS
Dire Tromp voleva dire, naturalmente, Mystici corporis, ossia una dottrina ecclesiologica caratterizzata sia per la preminenza assoluta data al tema della Chiesa «corpo di Cristo» sia – e questo era il punto più discusso – per l’identificazione, senza altre sfumature, tra il Corpo mistico e la Chiesa «romana».62 La questione fu oggetto di alcuni interventi che posero anche il problema del riferimento alle fonti patristiche. Così, senza entrare troppo nei dettagli, mons. Šeper chiedeva di attenuare l’affermazione secondo cui l’immagine del corpo è preminente rispetto a tutte le altre: e nota che essa, così com’è nello schema, è vera per la teologia di oggi, ma si può dubitare che lo fosse per la teologia dei Padri.63 Le osservazioni scritte del francese Boillon entrano più nel merito. Il vescovo nota che il concetto di «corpo di Cristo» viene inteso nello schema prevalentemente secondo la logica controversista del Bellarmino: ma i Padri e lo stesso s. Tommaso ne parlano in modo diverso, mettendo in evidenza soprattutto la relazione di tutti i membri con Cristo, per evidenziare l’unità di tutti in Cristo; insistono sulla «res», più che sul «sacramentum» e in questa linea possono annoverare nel corpo di Cristo anche i patriarchi dell’AT. Sinteticamente, si può dire che nei Padri l’illustrazione del corpo di Cristo appare piuttosto cristologica e soteriologica, mentre nel Bellarmino è piuttosto ecclesiastica e sociologica; quanto a Paolo stesso, pur non ignorando la dimensione sociologica, è più nella linea cristologica-soteriologica.64 Per altri, viceversa, proprio il riferimento patristico dovrebbe spingere a sottolineare ancora di più la centralità della dottrina del corpo di Cristo, fino a farne il centro della fede e della vita dei credenti: è la proposta (già sostenuta da Mersch) di Vairo, collegata a riferimenti patristici che, peraltro, non sembrano del tutto ad rem.65 Prevalgono, tuttavia, gli interventi che, proprio riferendosi all’ecclesiologia dei Padri, invitano ad allargare gli orizzonti, a non ridurre la pro(con riferimento particolare alle parole di Frings riportate sopra, pp. 211-212) in una sua nota del 10 febbraio 1963, dove scriveva: «Commissio illa [= TE] documenta recentiora ex officio adiit: nullibi enim clarius apparet evolutio et praecisio in exponenda doctrina. Theologi studiis incumbunt et fructus studiorum communicant; magisterium autem ecclesiasticum… gradatim ex doctorum inquisitionibus, illud retinent, quod solidum et verum profectum doctrinae agnoscit. Minime vero Commissio theologica ignorat Patres Graecos, et non difficile esset ex illorum doctrina, maxime Clementis Alex., Origenis, Greg. Nysseni, Ioannis Chrysostomi, illustrare caput primum Schematis: considerant enim Corpus Christi mysticum, ut corpus sociale heterogeneum…»: testo pubblicato in S. ALBERTO, “Corpus Suum mystice constituit” (LG 7). Storia del Testo dalla “Mystici corporis” al Vaticano II con riferimenti alla attività conciliare del P. Sebastian Tromp S.J., Pustet, Regensburg 1996, 250, nota 161. 62 Per il dibattito sulla questione del «Corpo mistico» nel primo periodo, cf. ALBERTO, “Corpus Suum mystice constituit”, 221-237. 63 Cf. AS I/4, 576. Lo schema asseriva: «Ex omnibus… figuris, ob elementum sociale una cum mystico clarius in eo expressum, principem locum figura corporis tenet» (c. I, 4). 64 Cf. AS I/4, 426-428, in particolare 427. 65 Cf. AS I/4, 253.
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spettiva dello schema alla sola teologia del Corpo mistico, per di più vista nella prospettiva ristretta della Mystici corporis.66 Si sottolinea che la dimensione «viatrice» della Chiesa – tema caro ad Agostino, si fa notare67 – non è adeguatamente evidenziata. Il card. Bea sottolinea i limiti di una trattazione riferita in modo esclusivo alla «Chiesa militante» (termine ritenuto poco adatto), che trascura le tante cose belle e profonde che si leggono nella Scrittura e nei Padri circa la Chiesa «consummanda et glorificanda»; aspetto, questo della consummatio futura, che appartiene essenzialmente alla Chiesa e ne precisa anche il senso della condizione terrena.68 Al contributo dei Padri, osservano ancora altri, si potrebbe e dovrebbe ricorrere per superare il già menzionato giuridismo dello schema e mettere meglio a fuoco temi quali il mistero della Chiesa,69 la sua maternità,70 il nesso tra Corpo mistico e mistero trinitario,71 il mistero della sua origine…72 Si tratta, come si vede, di proposte in qualche caso sporadiche che, peraltro, verranno tutte recepite – non necessariamente solo a 66 Si veda al riguardo anche il rilievo di G. Dossetti, il quale faceva notare come il c. II dello schema dipendesse quasi esclusivamente dall’enciclica di Pio XII (ciò che, del resto, era affermato anche nella Praesentatio schematis fatta da Gagnebet ai vescovi francesi il 28 novembre 1962), osservando ancora, a proposito delle note: «Mentre sette si riferiscono all’enciclica e le altre a documenti utilizzati già dall’enciclica, una nota soltanto, l’ultima, richiama passi della Scrittura. Tutti gli altri testi, alcuni anche del Magistero solenne che potrebbero far pensare il contrario, sono ignorati» (in MELLONI, «Ecclesiologie al Vaticano II», 167). 67 Cf. Gracias (AS I/4, 178s: cita alcune frasi di tenore agostiniano, ma senza dare riferimenti); Vairo (ivi, 252) rinvia invece a due testi, Brev. coll. cum Don. III,10, 20 e In Ioann. Ev. tr. 124,5: da notare che entrambi sono riportati nell’EPatr. 68 Cf. AS I/4, 228. 69 Così in particolare Hakim, che sottolinea qui l’apporto specifico della patristica orientale: «D’abord, l’Église, selon les Pères Orientaux, est le “mystirion” du Christ continué. Cette réalité mystique, en laquelle on entre par une “initiation”, et qui se nourrit des mystères liturgiques, prend sa consistance et son authenticité dans une société visible, avec ses pouvoirs et son magistère. Mais cette visibilité essentielle n’absorbe pas la substance mystérieuse du Corps ecclésial. Jamais Chrysostome, Basile, les deux Grégoire, dans leur catéchèse, ou Jean de Damas que nous venons de fêter et qui est le premier auteur d’une somme théologique que l’on aurait tant avantage à consulter, jamais ces Pères n’ont réduit la doctrine de Saint Paul sur le Corps Mystique à un système où l’autorité d’une part, l’obéissance d’autre part, suffiraient à définir l’attitude du fidèle» (AS I/4, 359). 70 Cf. De Smedt (AS I/4, 143) e Šeper, che rinvia ad Agostino, Enarr. in Ps. 127,12 (ivi, 572). 71 Così Vairo, che rinvia a Cipriano, de Or. Dom. 23 (AS I/4, 252); salvo errore, nel dibattito conciliare il testo di Cipriano, che sarà poi citato alla fine di LG 4, è menzionato per la prima volta in questo intervento; riapparirà poi nella proposta di Elchinger (cf. AS II/1, 508). Il passo era già stato valorizzato da G. PHILIPS, Le rôle du laïcat dans l’Église, Tournai 1954 (cf. tr. it.: I laici nella Chiesa, Milano 1956, 28) e in altri scritti di quegli stessi anni: cf. P. DRILLING, «The Genesis of Trinitarian Ecclesiology of Vatican II», in ScEs 45(1993), 68-75. 72 Melendro chiede che si parli della «sorgente» da cui scaturisce la Chiesa, e osserva che, secondo la dottrina degli evangelisti e dei Padri, la Chiesa è nata dal costato di Cristo addormentato sulla croce (cf. AS I/4, 532). Si veda anche, per vari dei temi qui accennati, De Provenchères ecc., ivi, 458-489.
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partire da questi interventi specifici – nelle redazioni successive dello schema. Il coadiutore di Strasburgo, Elchinger, proponendo da parte sua una sorta di «schema alternativo», che vorrebbe limitarsi «a precisare la missione della Chiesa e a risolvere i problemi dottrinali più attuali», offre qualche richiamo patristico più organico: nel riferimento al disegno di Dio, entro il quale cogliere l’opera di Cristo e la missione della Chiesa, cita la frase di Cipriano sul nesso Chiesa-Trinità; inserisce il tema della «cooperazione» tra Chiesa e Cristo nell’orizzonte della Chiesa quale Sponsa et Mater e propone che lo si sviluppi ricorrendo a testi di Agostino; suggerisce che nel capitolo sull’episcopato si affronti il tema della relazione tra Chiese particolari e Chiesa universale73 e che il vescovo sia presentato – alla luce dell’insegnamento di Cipriano – come garante della Tradizione nella sua Chiesa; e nel parlare dei membri della Chiesa sottolinea che il legame con la Chiesa si esprime attraverso i sacramenti, a proposito dei quali nota: «Ogni sacramento, anche quello degli scismatici o eretici, appartiene alla Chiesa (“Non sunt sacramenta eorum”. St Augustin)».74
3. A L C U N E A)
QUESTIONI SPECIFICHE
A P PA RTE N ENZ A
ALLA
C HIESA
Anche se incentrato, in linea di principio, sullo schema de Ecclesia «in genere», il dibattito che si svolse alla fine del primo periodo conciliare toccò diversi punti specifici, anticipando così le discussioni di dettaglio che avrebbero lungamente impegnato il concilio (e la commissione dottrinale) nei due periodi successivi. Anche in questo caso, i richiami ai Padri furono diversi e riguardarono tutti i punti più caldi del confronto. Tra questi, particolarmente rilevante, anche per le implicazioni ecumeniche, era quello dei membri della Chiesa, risolto dallo schema preparatorio secondo una prospettiva alquanto rigida, strettamente collegata con l’identificazione tra il Corpo mistico e la Chiesa cattolica. È un punto sul quale, peraltro, la testimonianza patristica si prestava a diverse accentuazioni, come attestano anzitutto i vari interventi che richiamano l’assioma extra Ecclesiam nulla salus: li troviamo su fronti apparentemente diversi, perché il principio viene richiamato sia ripetendo la dottrina tradizionale, che contempera la rigidità del principio con la
73 Da rilevare, al riguardo, l’intervento del melchita Toutoungy, che ricorda l’uso di ekklesia tanto al singolare che al plurale in Paolo, nei Padri e nella liturgia: duplice uso che può arricchire l’ecclesiologia (cf. AS I/4, 589). 74 Cf. AS II/1, 512-514. È giustificato vedere in queste proposte la mano, o almeno l’influsso, di Congar? Non abbiamo elementi per provarlo, se non i contatti relativamente frequenti tra il domenicano ed Elchinger, durante l’intersessione del 1962-63: cf. J-Congar, I, 319 (24 gennaio 1963), 323-325 (9 febbraio), 328 (23 febbraio), 360 (30 marzo)…
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possibilità del votum Ecclesiae,75 sia nella disamina dei vescovi tedeschi e austriaci, secondo i quali l’assioma, per quanto non sia più interpretato nel senso di s. Cipriano, si oppone all’affermazione dello schema, che parla di un’azione dello Spirito Santo anche al di fuori del Corpo mistico.76 In un interessante intervento presentato dal card. Tatsuo Doi, a nome anche di altri vescovi giapponesi, l’assioma viene richiamato nel contesto di una riflessione che vuole collegare la necessità della Chiesa per la salvezza alla natura stessa della Chiesa, e suggerisce di illustrarla sulla base di passi biblici relativi alla necessità del battesimo (Mc 16,16; Gv 3,5 e At 2,41); in questa luce si potrà riflettere sul necessario riferimento di tutti alla Chiesa, riferimento che potrà essere poi illustrato secondo diversi gradi. Si intravede già la prospettiva fatta propria, poi, da LG 14-16.77 Gli interventi qui richiamati sembrano dare ragione alle parole un po’ sarcastiche, con le quali p. Tromp aveva replicato ad alcune osservazioni della CCP facendo notare che la prospettiva adottata dalla commissione teologica preparatoria era, in definitiva, meno rigida di quella presente nei Padri.78 D’altra parte, non si potrebbe ricondurre la prospettiva patristica al solo assioma extra Ecclesiam nulla salus: alcuni padri conciliari ricordarono ad es. qualche posizione per lo meno dubitativa di Agostino, nel momento in cui confronta la situazione degli eretici con quella dei cattolici peccatori.79 Rabban giudicò inopportuno il richiamo alla anti75 Così, ad es., Olano y Urteaga, secondo cui la dottrina «certissima» (nessuna salvezza fuori della Chiesa cattolica, il cui capo visibile è il successore di Pietro), è abbondantemente dimostrata dall’insegnamento di Cristo e dagli scritti dei Padri apostolici e insegnata nelle professioni di fede come il Simbolo Atanasiano o nei concili Fiorentino e Tridentino: di tutte queste referenze, peraltro, vengono dati rimandi precisi solo ai concili, con rinvio a Denz. 714 [= DH 1351] e 1000 [= DH 1869s]: cf. AS I/4, 537s. 76 Cf. AS I/4, 605; l’affermazione criticata era al c. I, n. 10 dello schema, che alla nota 17 richiamava la distinzione agostiniana tra ducere in via e ducere ad viam, ducere in Christo e ad Christum, rinviando a Enarr. in Ps. 85,15. Anche Garcia Y Garcia de Castro ritiene che lo schema (ma si riferisce al n. 8) non rispecchi sufficientemente la portata dell’assioma patristico (che fa correttamente risalire a Origene e Cipriano), quando parla di «ordinamento», anziché «appartenenza», in voto: il presule sa che l’uso di ordinari deriva da Mystici corporis, ma ritiene che su questo punto il linguaggio debba essere meglio precisato (cf. AS I/4, 497). Lo stesso problema è sollevato dal contributo di de Provenchères ecc., che fanno notare la più ampia prospettiva di Agostino, il quale parla della Chiesa come corpo vivente, composto di corpo (professione esterna della fede e comunione dei sacramenti) e anima (che sono i doni dello Spirito, la fede la speranza la carità), mentre lo schema non parla per niente dell’«anima»: cf. ivi, 466. 77 Cf. AS I/4, 398. 78 Cf. sopra, c. 4 § 4c, in particolare nota 145 e il testo relativo. 79 Così Šeper, che cita Bapt. c. Don. IV,20,27 (cf. AS I/4, 573; in modo simile Martin, ivi, 531s): va detto, peraltro, che il punto di vista di Agostino (che qui si richiama a Cipriano e all’assioma extra Ecclesiam…) è abbastanza chiaro nell’escludere la salvezza per l’eretico; semplicemente, egli vuole chiarire che il cattolico non deve ritenersi al sicuro per il solo fatto di essere cattolico. L’insufficienza dello schema su questo punto, in confronto con la dottrina dell’Agostino maturo, era comunque stata rilevata anche nelle Animadversiones de schemate «de Ecclesia» di Rahner, diffuse in concilio a fine novembre (cf. RUGGIERI, in SCVII, II, 340).
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quissima traditio in base alla quale lo schema (cf. c. II, n. 9) identifica quanti sono chiamati membri della Chiesa «in senso vero e proprio», dal momento che, notava il presule, giustamente ancora si discute sul senso da dare alle espressioni dei Padri in materia.80 Nell’insieme, tuttavia, quanti intervennero su questo punto non sembrarono in grado di offrire, in base ai riferimenti patristici, una prospettiva diversa rispetto a quella dello schema. Sembrano più fondati gli interventi che posero la questione dei peccatori e della loro appartenenza alla Chiesa. Vi sono due aspetti della questione: il primo riguarda lo smantellamento della falsa sicurezza di quanti, sulla base di una piena appartenenza al «corpo» della Chiesa, dovessero invece separarsene nel «cuore», secondo una distinzione agostiniana che viene ricordata dall’ausiliare di Bourges, de Cambourg.81 L’altro aspetto riguarda le conseguenze dei peccati per la Chiesa stessa. Il problema veniva ricordato a grandi linee in un documento dei vescovi olandesi, a proposito del c. I, n. 5: Il poco che si dice intorno al peccato nella Chiesa non risolve la questione in modo sufficientemente adeguato. In base alle parole dei Padri si potrebbero portare molti testi che parlano della Chiesa peccatrice in modo più umile. Sotto il profilo ecumenico la questione è di massima importanza. Si passa sotto silenzio, in questo capitolo, l’aspetto esperienziale della stessa vera e santa Chiesa.82
I vescovi tedeschi e austriaci, nel loro contributo del febbraio 1963, sono più precisi: anche per loro lo schema tratta in modo insoddisfacente la questione della presenza dei peccatori nella Chiesa; non si evidenzia abbastanza come il peccato dei membri della Chiesa tocchi realmente la Chiesa, come indicano del resto i testi del Crisostomo e di Agostino citati dallo schema stesso alla n. 40.83 È probabile che molti padri conciliari si sentissero, su questo tema, nell’incertezza di cui dà testimonianza Šeper: da un lato, egli afferma che le colpe commesse dai peccatori non macchiano la Chiesa, e cita Agostino (Contra epist. Parmeniani II,12,26). Nella stessa linea, poco più avanti, critica l’espressione usata dallo schema, «I loro peccati, tuttavia, certamente intaccano (offendunt) la Chiesa», e propone piuttosto «I loro peccati tuttavia addolorano (o: rattristano) la Chiesa». Tuttavia, nota, la Chiesa in quanto realtà peregrinante, terrena, non è senza macchia, e 80
Cf. AS I/4, 237. Cf. AS II/1, 490; il presule propone un testo alternativo, che modifica quello redatto su richiesta dell’episcopato francese (cf. ivi, 489). Nel rifacimento dello schema, queste parole verranno incorporate, con qualche modifica (in particolare sarà tralasciata la frase «neque “in Domino moritur”», con le relative citazioni bibliche) e con il rinvio, in nota, ad AGOSTINO, Bapt. c. Don. V,28,39 e ad altri testi agostiniani; per la redazione finale, cf. LG 14, nota 12. 82 AS II/1, 592. 83 Cf. AS II/1, 607; si allude a GIOVANNI CRISOST. in ep. ad Eph., c. 6, hom. 22,4: PG 62,161; AGOSTINO, Serm. 349,2: PL 39,1530 e De abstinentia 11: PL 40,366. 81
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per questo deve sempre pregare dicendo «rimetti a noi i nostri debiti», come dice s. Agostino (cf. Contra epist. Parmeniani, II,10,20).84
B)
G E R A R C HIA
ED EP I S C O PATO
Il dibattito di inizio dicembre 1962 lasciava già chiaramente presagire che la discussione ecclesiologica avrebbe toccato, come suo punto nevralgico, la questione dell’episcopato e del suo rapporto con il ministero del papa. Tra gli interventi orali o scritti che, in tutto o in parte, si fermano su questo punto, un buon numero si richiama alla testimonianza patristica; anche in questo caso, richiami più generici si alternano a riferimenti puntuali. Emerge senza dubbio la percezione che una trattazione complessiva della dottrina dell’episcopato potrà trarre vantaggio dal riferimento alla tradizione patristica;85 più in particolare, si potranno attingere dalla testimonianza dei Padri elementi chiarificatori circa «il valore sacramentale e gli effetti propri della consacrazione episcopale», come suggeriscono i vescovi lombardi nell’intersessione.86 Il riferimento a Ignazio di Antiochia, teste della tradizione patristica più antica – già citato nello schema preparatorio, ma la cui presenza, anche solo a livello di citazioni, andrà crescendo notevolmente nell’ulteriore elaborazione dello schema,87 – induce Guerry a chiedere di sviluppare la presentazione della figura del vescovo come padre, in quanto segno e centro dell’unità della Chiesa particolare;88 altri, come il card. Tatsuo Doi e altri vescovi giapponesi, si riferiscono al vescovo di Antiochia perché sia ricordato che i presbiteri «secondo l’antica tradizione della Chiesa (cf. Ignazio di Antiochia, ad Trall.) costituiscono come il senato del vescovo e che, in questo modo, sono uniti da un intimo vincolo con il vescovo e tra di loro per il bene della Chiesa».89
84 Cf. AS I/4, 573s. Sulla questione del peccato nella Chiesa, cf. quanto già detto sulla tensione tra una prospettiva più «sistematica» (Journet) e una più «simbolica», derivante proprio dallo studio dei Padri (H. Rahner, H.U. von Balthasar): cf. sopra, c. 1 § 4a. 85 Cf. l’intervento in aula di Blanchet (AS I/4, 235). 86 Cf. AS II/1, 589. 87 Dalle tre citazioni dello schema preparatorio si passa alle diciassette di LG. 88 Guerry cita le frasi «episcopus, imago Patris» e «non ad ipsum, episcopum, sed ad Patrem Iesu Christi eorum (fidelium) dirigitur submissio» (AS I/4, 241) senza dare i riferimenti, che sono Trall. 3,1 e Magn. 3,1. Il primo documento cristiano che attribuisce esplicitamente il titolo di «padre» al vescovo è Martyrium Polycarpi 12,2 (dove è «la folla dei gentili e dei giudei» a indicare Policarpo come oJ path;r tw`n cristianw`n). 89 AS I/4, 400. In Trall. (3,1), in realtà, Ignazio parla dei presbiteri come sunevdrion qeou`; l’espressione sunevdrion tou` ejpiskovpou si legge invece in Smyrn. 8,1 che, però, non menziona esplicitamente i presbiteri; si aggiunga Magn. 6,1, dove si parla dei presbiteri come sunevdrion tw`n ajpostovlwn. Nessuna di queste espressioni verrà ripresa in LG; Presbyterorum ordinis, invece, userà l’espressione senatus sacerdotum (PO 7; alla nota 42 si rinvia ai passi citati di Trall. e Magn.) per designare, però, non tutto il presbiterio in rapporto al vescovo, bensì un organismo di rappresentanza dei presbiteri.
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Ma la questione più scottante, come si vide già in questo primo scorcio di dibattito, era quella del rapporto tra episcopato e ministero petrino. I diversi approcci alla questione si riflettono anche nel modo diverso di «pesare» il contributo della tradizione patristica al riguardo. Nella linea di quanti diffidano degli orientamenti «collegiali» e vogliono che il primato del papa sia non solo confermato, ma anche ribadito con maggior insistenza, il polacco Bernacki – uno dei primi oratori a prendere la parola – domanda che venga inserito nello schema un capitolo speciale sul primato; chiede che si fondi questa verità sugli scritti dei Padri e sui fatti storici, anche per facilitare il ritorno dei fratelli separati. Di più, l’oratore propone di integrare (anche nel Credo) le quattro tradizionali «note» ecclesiologiche con una quinta nota, quella della «petrinità», che – ritiene – si può dimostrare sull’esplicita convinzione dei Padri dei primi secoli.90 Carli, che giudica inadeguata la trattazione del rapporto papacollegio data nello schema, propone di inserire l’idea, «non aliena dalla primitiva letteratura patristica», secondo cui l’episcopato va considerato sotto il capo non solo come collegio, ma anche come corpo.91 Altri interventi ricorrono invece alla testimonianza patristica per proporre un’impostazione diversa della questione. Per lo più, i riferimenti ai Padri restano ancora generici. Così Tinivella che, riferendosi in particolare al n. 14 dello schema, dedicato appunto al rapporto tra primato ed episcopato, osserva nel suo intervento scritto: Certamente l’aspettativa che è nella Chiesa di veder approfondita la dottrina del rapporto tra Primato ed Episcopato non potrà essere soddisfatta da quanto è espresso in questo n. 14. L’aspetto sotto il quale è trattato il rapporto è prevalentemente giuridico ed è espresso con una dottrina ormai divenuta comune (missione, trasferimento, giurisdizione, ecc.). La terminologia e lo spirito di S. Leone Magno e di S. Gregorio Magno (citati nel testo) danno un saggio del modo come la questione dovrebbe essere diversamente trattata e presentata.92
Anche le critiche di Elchinger si limitano a richiamare genericamente aspetti della tradizione che non sono rispettati nello schema, ad es. a proposito del «deprezzamento» del collegio episcopale rispetto al primato, come pure riguardo al linguaggio «sacerdozio/presbiterato».93 Più preciso il card. Feltin, che, a nome anche di altri vescovi della regione parigina, invia un testo piuttosto ampio sul collegio episcopale e sul suo rapporto con il papa e lo propone come alternativo al n. 16 dello schema, citandovi un paio di passi di Cipriano (Ep. 66,8 e 55,24), il secondo dei
90
Cf. AS I/4, 139 e 141. Cf. AS I/4, 160s. 92 AS II/1, 570. Il presule rinvia anche a una sua osservazione precedente (cf. ivi, 569), che proponeva di precisare in senso biblico termini come servizio, ministero, apostolato ecc., in modo da far meglio risaltare il carattere di servizio dell’autorità. 93 Cf. AS II/1, 504s; alcuni accenni in merito anche da parte di de Provenchères ecc.: AS I/4, 470. 91
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quali verrà poi effettivamente incorporato nelle note dello schema rivisto, rimanendovi sino alla fine dell’iter (cf. LG 23, n. 12).94 Particolarmente accurato è l’esame che Franic´ dedica alle testimonianze patristiche sul rapporto tra primato ed episcopato (c. IV, n. 14). La critica generale è che lo schema dà per risolta la questione dell’origine della giurisdizione del vescovo, ritenendo che essa derivi dal papa, ma ci si chiede se possa essere proposta dal Concilio come risolta. È certo che molti Padri, forse la maggior parte di essi, non conoscono la dottrina qui esposta. Ad essa, del resto, si oppongono non poche difficoltà che rinviano vuoi alla prassi duratura della Chiesa primitiva, vuoi ad alcune espressioni dei Padri e Scrittori ecclesiastici.95
La conclusione che Franic´ trae da questo esame – dove considera anche la posizione contraria, peraltro tardiva – suona dunque come invito a non innovare la dottrina precedente.96 Franic´ riserva eguale attenzione alla testimonianza patristica relativamente a un secondo punto: l’esercizio della giurisdizione del papa sui vescovi e sulle singole Chiese. Il vescovo di Spalato nota che nello schema non si parla mai dei limiti di questo esercizio, soprattutto per quanto riguarda eventuali restrizioni poste all’esercizio della potestà del vescovo sulla sua Chiesa; questi limiti, però, si debbono porre, per varie ragioni: «a) perché i vescovi sono i successori degli apostoli, e certamente tra gli apostoli e s. Pietro c’era sicuramente qualche limite; b) perché vi sono espressioni dei Padri, ad es. di s. Ignazio d’Antiochia, s. Cipriano e s. Gregorio Magno, che non possono essere spiegate se non come descrizione 94
Cf. AS I/4, 406. AS II/1, 518. Franic´ nota ancora che «per plura saecula de doctrina exposita [scil. in schemate] omnimodum silentium habetur: episcopi nempe independenter ab ullo interventu S. Sedis singulis ecclesiis praeponuntur» (ivi, 519s); poi richiama e commenta 1 Clem. 44, dove si attesta un passaggio del ministero dagli apostoli ai successori, senza intervento di Pietro; IGNAZIO ANT., Ad Philad.1,1, secondo il quale il vescovo ha ricevuto il ministero per servire la comunità «non a seipso neque per homines neque ob inanem gloriam sed caritate Patris et Domini Iesu Christi» (ivi, 519; corsivi in AS); IRENEO, Adv. haer. III,3,1, dove si parla degli «Episcopi, quibus apostoli [non il solo Pietro, quindi] tradiderunt ecclesias» (ivi); Franic´ ricorda poi ancora la situazione della Chiesa di Alessandria, alla luce degli annali di Eutichio (cf. PG 982AB [sic, ma si legga: PG 111,982CD]), per confermare che, in ogni caso, anche per l’elezione del patriarca «Nullum […] verbum de principe apostolorum vel de S. Sede fit» (ivi). 96 Cf. AS II/1, 520. La tesi dell’origine della giurisdizione dal papa è supportata nello schema con la citazione di Leone Magno, Sermo 4 de natali ipsius: PL 54,149, che fu inserita nel testo dopo il passaggio alla Sottocommissione per gli emendamenti (cf. sotto, § 4a). La nota rinvia anche a un altro passo di Leone Magno, Epist. 10: PL 54,629, ma Franic´ fa notare che anche tra i testi di Leone si possono trovare testimonianze che vanno in un’altra direzione: così nella corrispondenza con Anatolio di Costantinopoli, che scrive a Leone per notificargli l’avvenuta nomina e consacrazione (cf. Ep. 53: PL 54,853B-855A). Secondo Franic´, l’unica obiezione di Leone al neo vescovo è che questi non gli ha ancora trasmesso la professione di fede, la quale mostri che Anatolio non condivide l’errore di Eutiche (cf. Ep. 69: PL 54, 890B ed Ep. 70: PL 893B) (cf. ivi). Con meno dettagli, il problema storico-teologico sollevato da Franic´ è richiamato anche nel testo di de Provenchères ecc. (cf. AS I/4, 472). 95
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di qualche limite»,97 con il suggerimento di inserire nella costituzione qualcosa che tratti, almeno sul piano teorico, della relazione tra diritti primaziali ed episcopali, desumendoli dalle relazioni reciproche tra Pietro e gli apostoli, tra papa e vescovi nella Chiesa antica e dalla dichiarazione dei vescovi tedeschi successiva al Vaticano I e approvata da Pio IX.98 Anche a proposito del magistero della Chiesa, presentato nel c. VII, Franic´ propone alcune osservazioni che si possono considerare ardite – e che, non a caso, vengono introdotte con molte e ripetute cautele.99 Lo schema tace, infatti, a proposito del ruolo dei vescovi rispetto al magistero del papa: quasi che, osserva il presule, da questo punto di vista i vescovi non si distinguessero dagli altri fedeli. In base a elementi dottrinali e a fatti storici, i vescovi, collettivamente presi, secondo Franic´ debbono essere considerati quali «veri giudici e maestri autentici nelle questioni di fede e di morale»; di modo che, anche quando il papa si esprime in merito, i vescovi, in caso di dubbio, avrebbero diritto di chiedere ragione delle decisioni prese – sospendendo anche, se è il caso e per breve tempo, l’assenso – pur non potendo dissentire in modo definitivo, in base al principio della irreformabilità ex sese delle decisioni dottrinali del papa.100 È un punto di vista indubbiamente singolare, per un vescovo che apparirà poi sempre più schierato con le tesi della «minoranza»,101 ma si fonda su riferimenti puntuali alla tradizione patristica e alla Chiesa antica: la prassi dei concili antichi rispetto alle decisioni anche dottrinali della S. Sede, con particolare riferimento al concilio di Calcedonia;102 il modo di comportarsi dei papi della Chiesa antica rispetto ai vescovi, sia singoli sia radunati in concilio; la richiesta, fatta dai papi agli stessi vescovi, di esaminare le proprie lettere dottrinali e l’effettivo esame di questi testi da parte dei vescovi in concilio e fuori concilio. Tirando poi le conseguenze della propria proposta, Franic´ dirà ancora: «L’unità nella Chiesa non soffrirebbe danno, anzi ne verrebbe sempre più accresciuta, 97 Franic´ qui cita in extenso IGNAZIO ANT., ep. ad Smyrn. 8; CIPRIANO, ep. 69: PL 4,406AB; GREGORIO MAGNO, ep. 68: PL 77, 1005A, nonché 1150A e 589A; cf. AS II/1, 520. 98 Cf. AS II/1, 520s. 99 Cf. AS II/1, 522. 100 Cf. AS II/1, 522. Anche il testo alternativo inviato dal card. Feltin (cf. sopra, nota 94 e testo relativo) si richiama alla testimonianza patristica per dar maggiore rilievo al collegio episcopale quale soggetto di autorità dottrinale e cita esplicitamente Ireneo (Adv. haer. I,10,2): cf. AS I/4, 407. 101 Franic´, già membro della TE, aveva tenuto la relatio introduttiva al dibattito sul de Ecclesia, affermando tra l’altro, proprio a proposito del c. IV: «Omnia quae in hoc capite vobis proposita sunt ad discutiendum nobis videbantur esse certa» (AS I/4, 123). ACERBI, 166s, ha richiamato l’attenzione sul fatto che, in questa fase del dibattito, i punti di vista non appaiono ancora rigidamente schierati: e cita al riguardo, oltre a questo intervento di Franic´, il testo di un altro «conservatore», il benedettino J. Prou; cf. anche U. BETTI, La dottrina dell’episcopato nel Concilio Vaticano II. Il capitolo III della Costituzione dommatica Lumen gentium, Roma 1984, 62, nota 11. 102 Franic´ ricorda di aver inviato alla TE un votum a questo proposito. Richiamandosi all’enciclica Aeterna Dei sapientia per il XV centenario della morte di Leone Magno (cf. AAS 53[1961], 785-803: cf. sopra, c. 3, Sez. II, § 1c), il presule sottolinea come tale prassi venga ancora oggi ribadita e raccomandata da Giovanni XXIII (cf. AS II/1, 522).
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perché il Pontefice ricorrerebbe con maggior frequenza al lume dei vescovi, sicché il suo giudizio ne risulterebbe sempre “più pieno”»; e, dopo aver richiamato ancora una volta l’esempio di Leone Magno nel contesto della condanna di Eutiche, sottolinea come tutto ciò sarebbe di grande aiuto per l’unione con gli ortodossi.103 Rileviamo in questo contesto anche il suggerimento di Descuffi, teso a mettere in luce la progressione storica entro la quale si precisano primato romano e infallibilità del magistero pontificio e a richiamare il modo in cui gli orientali hanno riconosciuto, poco alla volta, l’autorità dottrinale dei papi: egli sottolinea che la liturgia orientale iscrive nel canone dei santi strenui difensori del primato, quali Clemente, Silvestro, Leone Magno, Gregorio Magno e Martino, ed enumera tra i Padri greci che pure l’hanno difeso Ignazio, Ireneo, Basilio, il Nisseno, Giovanni Crisostomo, Cirillo, Metodio e Teodoro Studita.104
C)
G E R M I PATR IST I CI P E R LA F UTU R A R EV I S I O N E
Dall’insieme dei vari interventi, orali e scritti, sul de Ecclesia elaborato nella fase preparatoria, è possibile ricavare ancora un certo numero di rinvii al pensiero dei Padri, che in un modo o nell’altro troveranno accoglienza nella revisione dello schema. Alcuni riguardano gli altri gradi del ministero ordinato, e in particolare il rapporto tra il presbiterio e il vescovo: si chiede che il concilio parli in modo più ampio e caloroso dei presbiteri e si suggerisce di attingere dall’abbondante materiale che, al riguardo, offrono i testi patristici e i documenti pontifici;105 soprattutto, ci si richiama – non senza imprecisioni e cedimenti all’archeologismo o al romanticismo106 – al linguaggio di Ignazio di Antiochia perché il concilio esprima in modo più adeguato lo statuto del sacerdozio presbiterale, la sua natura «collegiale» che ne fa il «senato» o la «corona» del vescovo.107 Più sbilanciato sul profilo spirituale, il cistercense Sortais invita a presentare il ministero ordinato tenendo conto anche della sua dimensione contemplativa, dimensione che si può chiamare «sponsale»: richiamarla vorrebbe dire avvicinarsi di più alla tradizione comune ai cattolici e agli ortodossi.108 Qualche richiesta anticipa un tema che sarà poi effettivamente raccolto nella successiva rielaborazione dello schema – non sempre, peral103
AS II/1, 522. Cf. AS II/1, 500. 105 Così Emanuel: AS I/4, 491. 106 Rilievo di Elchinger, che riconosce, però: «il y a effectivement un “collège de presbytres” dans la mesure où les prêtres sont appelés à coopérer à la mission de l’évêque…» (AS II/1, 505); cf. il contributo dei vescovi giapponesi (sopra, nota 89 e testo relativo). 107 Così de Provenchères ecc.: AS I/4, 475. 108 Cf. AS I/4, 580-582: in nota richiama il parallelo Eva-Maria; l’esegesi del Cantico; la dottrina agostiniana della Chiesa nata dal costato di Cristo, come Eva da Adamo… 104
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tro, accogliendo anche i riferimenti alle fonti. È il caso del rapporto Chiesa-famiglia. Due rimandi classici, al Crisostomo e ad Agostino, sostengono l’invito a considerare la Chiesa includendovi anche la famiglia quale sua espressione particolare: è soprattutto Fiordelli a rilevare che la parrocchia si divide in tante cellule sante, che sono le famiglie cristiane, che possiamo chiamare, seguendo l’esempio dei santi Padri, come piccole Chiese, alle quali presiedono per mandato del Signore lo sposo e la sposa, il padre e la madre. S. Giovanni Crisostomo diceva: «Fa’ della tua casa una chiesa» (In Gen. cap. 6, par. 2: P.G. 54, 607). E S. Agostino scriveva: «Consideriamo la vostra casa una non piccola chiesa di Cristo». (Ep. 188, 3: P.L. 33,849). E altrove «con tutta la vostra chiesa domestica» (P.L. 40,450).109
Le future redazioni dello schema accoglieranno l’espressione domestica ecclesia (appena attenuata con un velut), ma lasceranno cadere i riferimenti patristici proposti (cf. LG 11). Alcuni padri intervennero sulla questione complessiva del laicato, richiamandosi alla tradizione patristica per proporre correzioni e integrazioni. Barrachina Esteban osserva che il termine «laici» indica originariamente il popolo eletto, il popolo di Dio, la comunità costituita in virtù della fede e dell’amore di Cristo, comunità che partecipava alla vita e all’azione della Chiesa, tanto che s. Leone Magno poteva dire, parlando dell’elezione dei ministri: «chi dovrà essere proposto a tutti, viene scelto da tutti»; solo in seguito interverrà un processo di clericalizzazione, che il concilio dovrà contribuire a rimediare, riconoscendo il pieno statuto ecclesiale ai laici.110 In una linea simile, riferendosi al c. I n. 2 dello schema, Šeper suggerisce di sostituire il termine «re», applicato ai vescovi, con «pastori»: sia per evitare il clericalismo, sia perché i Padri applicano sempre il termine «re» a tutti i cristiani, non solo alla gerarchia, parlando di «sacerdozio regale».111 Con riferimento alla tradizione patristica, Franic´ affronta anche la questione della «pubblica denuncia dei mali presenti nella Chiesa», che lo schema (al c. VIII n. 38) ammette con molte cautele, salva la riverenza dovuta all’autorità ecclesiastica, in vista della edificazione «ed evitando per quanto possibile lo scandalo». Il vescovo di Spalato si richiama a Gregorio Magno, secondo il quale «è meglio permettere che nasca uno scan109 AS I/4, 311 (testo scritto); gli faranno eco Nguyen-van Hien (cf. ivi, 514) e Bergonzini (cf. ivi, 423), che critica lo schema perché ignora alcuni aspetti della Chiesa importanti in sé e che contengono i germi di altri schemi: tra questi, il tema della famiglia (rinvia al Crisostomo, PG 55,158 [= Expos. Ps. 41,2], per la denominazione «ecclesia domestica»). 110 Cf. AS I/4, 353. Senza citare una fonte precisa, l’oratore attribuisce a Leone Magno la frase: «qui praefecturus est omnibus, ab omnibus eligitur». Il riferimento potrebbe essere Ep. 14,5: PL 54,673, dove Leone dice: «Cum ergo de summi sacerdotis electione tractabitur, ille omnibus praeponatur quem cleri plebisque consensus concorditer postularit». 111 Cf. AS I/4, 575s. Gúrpide Beope, in un intervento scritto che riguarda lo stesso paragrafo, ripropone la critica – già avanzata in CCP, e che aveva portato a un’integrazione del testo, con il rinvio ad alcuni passi patristici – circa la pertinenza della tripartizione dei munera Christi (cf. AS II/1, 528; si veda sopra, c. 4, nota 142 e testo relativo).
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dalo, piuttosto che trascurare la verità» (In Exech. hom. 7: PL 77,324), e cita ancora s. Tommaso, il quale, a sua volta, si riferisce all’interpretazione agostiniana del dissidio tra Pietro e Paolo ad Antiochia (cf. Gal 2,14) per giustificare i casi nei quali anche una denuncia pubblica dell’autorità ecclesiastica, anche da parte di un «inferiore», può essere necessaria. E Franic´ conclude osservando ancora: «Si tenga poi in mente che nel Medioevo la pubblica denuncia era di uso frequente».112 Un paio d’interventi si richiamano alla testimonianza patristica anche a proposito del nono capitolo dello schema, dedicato ai rapporti tra Chiesa e Stato. Così López Ortiz, che suggerisce di evitare un linguaggio ormai desueto («società perfetta», «triplice potestà legislativa, giudiziale ed esecutiva» ecc.) e propone di usare invece, per quanto possibile, il linguaggio della Scrittura e dei Padri.113 I quali Padri, e in particolare Agostino – lo notano i vescovi polacchi nel quadro di un rapidissimo excursus storico sulla questione –, attestano come fosse ben riconosciuta l’indipendenza delle rispettive potestà tra Chiesa e Stato: S. Agostino, ad es. (secc. IV e V), chiedeva che si aiutassero reciprocamente e fraternamente, ferma restando la loro indipendenza. Per questo condannava la conversione sostenuta con l’aiuto delle armi, donde il celebre detto: «La Chiesa è contraria al sangue». «Curate – scriveva s. Agostino – di distruggere gli idoli anzitutto nei cuori dei pagani, ed essi saranno i primi a distruggere le immagini degli idoli a casa propria». I beni e le persone degli infedeli devono essere inviolabili. Ancora nel IX sec. la dottrina di papa Nicolò I era di questo tipo…114
D)
LA
QUE S TIO NE M A R I A N A
Accenniamo, da ultimo, allo schema mariologico, che in questo primo periodo del concilio fu presentato ai padri come schema distinto, sebbene stampato nello stesso fascicolo che conteneva anche il de Ecclesia e quindi distribuito congiuntamente a quest’ultimo.115 Alcuni dei problemi già sollevati all’interno della CCP trapelano anche nelle relativamente poche battute dedicate negli ultimi giorni del primo periodo conciliare al de Beata e negli interventi scritti sullo schema preparatorio.116 Affiora ancora una volta il problema delle fonti: Guiller ne sottolinea il carattere disparato, con fonti che vanno dalla tradizione apo112 AS II/1, 523; cf. TOMMASO, STh II-II, q. 33, a. 4, ad 2; Tommaso cita la Glossa ordin. VI,81B che, a sua volta, si basa su AGOSTINO, ep. 82 ad Hieron. 2,22. 113 Cf. AS I/IV, 526. 114 AS II/1, 602; per le fonti agostiniane (non indicate), si veda Serm. 62,11,17. 115 Per i riferimenti al de Beata in questa fase del dibattito, cf. C. ANTONELLI, Il dibattito su Maria nel concilio Vaticano II. Percorso redazionale sulla base di nuovi documenti di archivio, Messaggero, Padova 2009, 195-204. 116 Il card. Ottaviani propose di dedicare l’ultima settimana dei lavori allo schema mariano, lasciando cadere il de Ecclesia, ma il Consiglio di presidenza non accettò: cf. RUGGIERI, in SCVII, II, 354s; ANTONELLI, Il dibattito su Maria, 193-195, documenta le preoccupazioni che l’iniziativa di Ottaviani suscitò in alcuni degli osservatori non cattolici.
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stolica a espressioni di pietà mariale che sono riflesso di un’epoca, di un luogo e di un ambiente, con inserimento di vari testi di carattere più devozionale che teologico.117 Kervéadou, a nome di altri 15 vescovi francofoni, nota che lo schema, così com’è, offende non solo i protestanti ma anche gli ortodossi, per il suo carattere giuridico, razionale, latino e occidentale, e invita a riscrivere il testo – che vorrebbe inserito nel de Ecclesia – con un linguaggio più aderente a quello della Scrittura e dei Padri greci.118 Un esempio concreto dell’apporto della teologia mariana d’oriente fu suggerito da Ghattas che, all’intervento orale, aggiunse un testo scritto dedicato a «Maria nella Chiesa d’Alessandria». Qui, trattando in primo luogo della maternità della Vergine Maria, mette in rilievo in modo particolare il contributo di Cirillo di Alessandria, ma osservando che egli non faceva altro che trasmettere ciò che aveva ricevuto dalla tradizione locale precedente: e si richiama in particolare a Origene, che forse è stato il primo a usare il titolo di theotokos per la Vergine Maria; per non dire poi della tradizione liturgica, attestata dall’antifona Sub tuum praesidium, ritrovata in un papiro egiziano del III-IV secolo.119 A confronto, l’intervento scritto di Perantoni mostra quanto potesse essere lacunosa la competenza patristico-mariana di un vescovo occidentale: mentre argomenta per respingere l’ipotesi di una incorporazione del de Beata nello schema sulla Chiesa, richiama la distinzione tra mariologia «cristotipica» ed «ecclesiotipica», di cui si era lungamente discusso anche in fase preparatoria, e afferma come cosa «nota» che l’impostazione «ecclesiotipica» è recentissima, mentre classica e tradizionale sarebbe l’impostazione «cristotipica» (cita al riguardo s. Bernardo, secondo il quale Maria non starebbe tanto «in mezzo alla Chiesa» quanto, piuttosto, «tra Cristo e la Chiesa»).120
4. L A
RIELABORAZIONE D E L L O S C H E M A DE E CCLESIA
A)
L A C OM M ISS IONE
D I C O O R D I NA M ENT O
Mentre nella basilica di S. Pietro si discutevano gli schemi, prendevano forma le commissioni e si avviava il lavoro della revisione dei documenti. Le votazioni del 13 ottobre portarono alla Commissione de doctri117
Cf. AS I/4, 508; il presule rilevò anche la mancanza di rigore dottrinale dello schema. Cf. AS I/4, 519. 119 Cf. AS I/4, 377-379, in particolare 378. 120 AS I/4, 539. Perantoni era in buona compagnia: H. de Lubac menziona un articolo di p. Balic´, apparso sull’Osservatore Romano del 7 febbraio 1964 (siamo nel pieno della querelle Philips-Balic´ per la redazione del nuovo testo del c. VIII: cf. più avanti, c. 7 § 2.2a): il francescano vi parlava di «via tradizionale cristologica [e] più recente via ecclesiotipica» della mariologia; de Lubac commenta garbatamente: «L’opposizione posta tra “tradizionale” e “più recente” ci pare poco esatta»: H. DE LUBAC, Paradosso e mistero della Chiesa, Jaca Book, Milano 1979, 60, nota 111. 118
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na et moribus (= CD), presieduta dal card. Ottaviani, i cardinali König e Léger e i vescovi Schröffer, Garrone, van Dodewaard, Scherer, Florit, Dearden, Charue, Wright, McGrath, Griffiths, Roy, Santos, Seper e Peruzzo. Le nomine di Giovanni XXIII vi aggiunsero poi il card. Browne (nominato vicepresidente) e i vescovi Parente, Barbado y Viejo, Pelletier, Franic´, Doumith, Spanedda, il benedettino Gut e il domenicano Fernández.121 La designazione del card. Ottaviani come presidente e del p. Tromp come segretario voleva sottolineare la continuità con la Commissione teologica preparatoria, dalla quale peraltro venivano sei degli eletti (Schröffer, Scherer, Wright, Griffiths, Roy e Peruzzo) e Franic´, nominato dal papa.122 Nell’insieme della Commissione, le figure che non avevano partecipato alla fase preparatoria erano solo sette (van Dodenwaard, Dearden, Charue, McGrath, Barbado y Viejo, Spanedda e Fernandez): tutti gli altri, in un modo o nell’altro, avevano fatto parte di qualche organismo preparatorio (CCP o commissioni). Era questo l’organismo conciliare chiamato a riprendere in mano lo schema de Ecclesia e a rivederlo secondo le indicazioni dei padri conciliari. Dal momento che il dibattito sullo schema ecclesiologico si tenne solo alla fine del primo periodo conciliare, tuttavia, la CD (che si era riunita la prima volta il 13 novembre 1962, dunque prima del dibattito conciliare sul de Ecclesia) non ebbe occasione di tornare sul de Ecclesia sino alla plenaria del febbraio 1963: un periodo di tempo relativamente lungo, soprattutto se si considera che il testo sulla Chiesa era considerato determinante per l’orientamento complessivo del concilio. Resta vero, per altro verso, che il dibattito sul de Ecclesia non si era concluso con indicazioni precise sulla revisione dello schema preparatorio – meno ancora si era parlato di una sua eventuale sostituzione. In questo contesto, due questioni vanno considerate: il ruolo della nuova Commissione di coordinamento (Commissio de Concilii laboribus coordinandis: annunciata il 6 dicembre, fu ufficialmente istituita un mese dopo), nel proseguimento dei lavori; e i passi fatti da presidente e segretario della CD prima che questa si mettesse al lavoro per la revisione del de Ecclesia. La Commissione di coordinamento (= CCo)123 aprì i suoi lavori il 21 gennaio 1963. Già prima di quella data, tuttavia, il presidente Cicognani 121 Cf. CAPRILE II, 57; per la formazione delle commissioni conciliari, cf. RICCARDI, in SCVII, II, 52-66. 122 Tromp nota che al vantaggio di una valutazione «sine praeiudiciis» degli schemi della TE, da parte della nuova commissione dottrinale, si univa uno svantaggio: la nuova commissione in gran parte ignorava le discussioni già svolte nella stessa TE, nella CCP e nella sottocommissione per gli emendamenti; cf. Rel. Tromp, 150,3 (16 dicembre 1962). 123 Presieduta dal card. A. Cicognani, comprendeva i cardd. Liénart, Agagianian, Spellman, Lercaro, Urbani, Confalonieri, Döpfner, Suenens, Roberti; ne era segretario mons. Felici, e alle riunioni partecipavano anche i sottosegretari. Verbali e documenti dei lavori del 1963 sono pubblicati in AS V/1, 31-739; sull’attività della CCo nell’intersessione 1962-63, cf. GROOTAERS in SCVII, II, 391-415. Per la nascita e i primi atti della CCo, utili anche le osservazioni di ID., «Sinergie e conflitti nel Vaticano II. Due versanti d’azione degli “avversari” del rinnovamento (ottobre 1962 - ottobre 1964)», in M.T. FATTORI – A. MELLONI (edd.), L’evento e le decisioni. Studi sulle dinamiche del concilio Vaticano II, Il Mulino, Bologna 1997, 378s e 382s.
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aveva inviato ai membri l’elenco degli schemi da rielaborare in vista della ripresa dei lavori conciliari, assegnando ad alcuni membri della commissione un gruppo di schemi di cui curare la revisione e il coordinamento, in collegamento con le rispettive commissioni. Il de Ecclesia e il de Beata Virgine furono assegnati a Suenens.124 In vista della prima sessione della CCo, il patriarca di Venezia Urbani aveva inviato a Cicognani una lettera in cui sollevava diversi problemi, un paio dei quali interessano la nostra questione. C’era, anzitutto, un problema di procedura, che riguardava l’elaborazione degli schemi e l’«autorità» su di essi della stessa CCo: «Ha essa – chiede Urbani – il diritto di metterli da parte? di sostituirli con altri? di farli correggere e da chi?». La domanda non è peregrina, perché nelle Assemblee Conciliari più volte e non senza sorpresa dei Padri fu detto che non si sapeva come mai gli schemi presentati erano diversi da quelli esaminati sia dalle Commissioni preparatorie, sia dalla Commissione Centrale. Si disse anche, nei corridoi, che nelle stesse Commissioni preparatorie schemi, già approvati da commissari, vennero o ignorati del tutto, o radicalmente modificati.125
Durante i lavori della CCo, il 21 gennaio, il problema fu chiarito solo in parte: più precisamente, per la parte relativa alla Sottocommissione degli emendamenti, di cui riferì Confalonieri, che ne era stato presidente. Prendendo atto con tutti gli altri membri della CCo di queste spiegazioni, Urbani però «tiene a spiegare che l’insinuazione da lui sentita e riferita nella sua lettera non era diretta alla Sottocommissione degli emendamenti e si riferiva al lavoro preparatorio delle Commissioni».126 Effettivamente, il lavoro della Sottocommissione degli emendamenti non spiega tutti i mutamenti introdotti nei testi degli schemi dopo il loro passaggio alla CCP e prima di arrivare all’aula conciliare. Nel caso del de Ecclesia, lo si vede bene a proposito di un passaggio importante del c. IV § 14, che coinvolge una delle pochissime citazioni patristiche incorporate nel testo. Il punto è delicato e fu contestato, perché vi si sosteneva che la giurisdizione episcopale deriva «dal governo supremo della Chiesa». Ora, nel testo consegnato ai padri il 23 novembre, all’affermazione di questo principio faceva seguito una citazione di Leone Magno: «Nam, sicut ait S. Leo Magnus, beatissimus Petrus apostolus ab ipso omnium charismatum fonte tam copiosis est irrigationibus inundatus, ut cum multa solus acceperit, nihil in quemquam sine ipsius participatione transierit» (Serm. 4 de natali ipsius: PL 54,149 = CCL 138,17).
124 Cf. lettera di Cicognani a Suenens, 17 dicembre 1963, in AS V/1, 40; a Suenens sono assegnati anche il de ordine morali e il de ordine sociali (cf. ivi, 42). 125 AS V/1, 49. Un esempio di queste lamentele è riferito da de Lubac, che riporta alcune valutazioni del generale dei gesuiti Janssens, già membro della CCP: «il a pu remarquer que les changements demandés par celle-ci [= CCP] n’ont guère été faits, que le contrôle des corrections a été insuffisant, etc.»: J-de Lubac, I, 130 (19 ottobre 1962). 126 AS V/1, 56.
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Il testo, già oggetto di discussioni in sede di CCP, era stato poi rimaneggiato dalla TE «ristretta», e ulteriormente rivisto dalla Sottocommissione per gli emendamenti: in tutti questi rifacimenti, tuttavia, si rinviava in nota al testo di Leone Magno, senza riportarne le parole né, tanto meno, inserirle nel corpo stesso dello schema. Quando, e da parte di chi, fu introdotta la modifica? Allo stato attuale, non è possibile saperlo:127 si può capire, tuttavia, anche da un episodio come questo, lo sconcerto di cui si fece eco il card. Urbani nella sua lettera e poi in sede di CCo. Nello stesso contesto, la CCo esaminò un altro problema, sollevato da Urbani nella sua lettera: la posizione dei periti. A questi non era permesso intervenire nelle Congregazioni generali, diversamente dalla prassi seguita in altri concili. Per altro verso, proseguiva il patriarca, «non pochi esperti si sono rifatti, preparando interventi che sono stati letti ad litteram dai Padri dell’Assemblea. Altri esperti, attraverso giornali ed interviste, hanno esposto il loro pensiero e non di rado in forma polemica». Urbani nota che il problema non può essere accantonato e suggerisce (nel quadro di una sua proposta circa l’organizzazione dei dibattiti) che si possano far parlare gli esperti come relatori sui diversi punti di vista nella discussione di uno schema; così, nota, «[s]i eviterebbe, fra l’altro, il dover ascoltare Vescovi, buoni e santi, ma in subiecta materia non competenti o non aggiornati».128 La proposta, tuttavia, non fu accolta dalla CCo e il problema degli interventi, più o meno camuffati, dei periti tornò ad affiorare nel seguito della vicenda conciliare, anche con qualche episodio increscioso.129
B)
LE
OPZ ION I : S CHE M A RI VI S TO O S C HE M A NU O V O ?
Prima che la Commissione dottrinale si riunisse per incominciare la revisione de Ecclesia, presidente e segretario non erano rimasti con le 127 Per la revisione del testo dopo il passaggio alla CCP, cf. sopra, c. 4 § 4c. Nella già citata Relatio sull’attività della CD, datata 16 dicembre 1962, Tromp annota che lo schema è stato ritrasmesso al Segretario della TE, dopo la revisione linguistica, tardi (il 26 ottobre), con pochi cambiamenti linguistici – mentre molti ne ha avuti il de Beata – ma non segnala cambiamenti sostanziosi nel testo: cf. Rel. Tromp, 150,2. Schauf, che era stato il principale redattore del testo, rileva con sorpresa il cambiamento, ma senza chiarire molto da dove venisse – anche perché riporta un’annotazione del suo diario con la data, evidentemente sbagliata, dell’11.1.1962 (forse per 11.11?): cf. H. SCHAUF, Das Leitungsamt der Bischöfe. Zur Textgeschichte der Konstitution «Lumen Gentium» des II. Vatikanischen Konzils, F. Schöning, München-Paderborn-Wien 1975, 72. Sui cambiamenti misteriosamente introdotti nel testo degli schemi, cf. anche, dal diario di Congar, i rilievi suoi e di Gagnebet (J-Congar, I, 281: 1 dicembre 1962). 128 AS V/1, 51; per la discussione della questione in CCo, cf. ivi, 58. 129 Un esempio: il ciclostilato, a firma Martelet, Rahner e Ratzinger, sulla questione della collegialità, distribuito in aula nell’ottobre 1963: cf. BETTI, La dottrina dell’episcopato, 148, nota 184 (testo del documento ivi, 464-466).
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mani in mano. Il 7 gennaio, Ottaviani aveva inviato a Cicognani, quale presidente della CCo, una lettera per chiedere indicazioni sui criteri da seguire per la rielaborazione degli schemi. Alla lettera era allegato un Adnexum, contenente un «Elenco dei Voti più importanti formulati dai Padri Conciliari in merito alla Costituzione “De Ecclesia”».130 Il documento, verosimilmente opera di Tromp,131 è significativo in quel che dice e, per il nostro punto di vista, anche in quel che tace: a cominciare dal fatto che nessun rilievo vi è annotato a proposito dell’uso delle fonti, tanto bibliche che patristiche che di altro genere. Il problema, sollevato come si è visto da alcuni interventi importanti e variamente richiamato da altri, qui è completamente trascurato. Viceversa, i responsabili della TE si giustificano di fronte ad alcuni rilievi fatti in aula, in particolare quello di aver dato una visione limitata, restrittiva della Chiesa e ribadiscono che solo la Chiesa terrestre visibile può essere detta per eccellenza «Corpo di Cristo».132 L’Adnexum mette ancora in luce la varietà di orientamenti emersi nel dibattito e nei suggerimenti pervenuti: varietà che rende assai difficile dar seguito alla proposta di dare allo schema un filo conduttore più preciso, un leitmotiv unificante, come richiesto dalle varie voci che avevano criticato la scarsa unità dello schema. Si rileva, pertanto, che la TE non poté, né doveva, redigere un trattato completo sulla Chiesa, ma trattare solo le cose strettamente necessarie; quanto alla ricerca di un’idea direttrice, le proposte in merito erano molte e spesso divergenti; dopo di che, segue l’«elenchus “leitmotivorum”».133 Non è chiaro, in base alla documentazione pubblicata, se questo testo sia arrivato nelle mani degli altri membri della CCo. Sottolineando il carattere inappropriato, o la varietà inconciliabile delle opinioni espresse nel dibattito conciliare sullo schema preparatorio, esso va nella linea di un suo mantenimento, o di una revisione minimalista. È certo che p. Tromp difese a lungo lo schema: in un’intervista di dicembre aveva parlato favorevolmente di tutto il materiale preparatorio che, a suo giudizio, metteva in luce la varietà delle scuole teologiche che avevano cooperato
130
Cf. AS V/1, 43 (lettera di Ottaviani); per l’Adnexum, ivi, 44-47. Il testo presenta notevoli punti di contatto con la citata Relatio di Tromp del 16 dicembre 1962 (cf. Rel. Tromp, 150,9s); cf. anche KOMONCHAK, «The Initial Debate», 346, nota 52. 132 «Intentio Commissionis praeparatoriae theologicae minime erat agere de Ecclesia illa triplici, quae militantis, purgantis, triumphantis nominibus indicatur, sed unice de Ecclesia visibili terrestri illa, quam Christus fundavit super Petrum (Mt. 16, 18), et cuius oves et pastores eidem Petro commisit (Io. 21, 15-17). Illam Ecclesiam terrestrem visibilem Christus vocavit Ecclesiam suam, et solummodo illa Ecclesia terrestris, utpote organismus vivificatus a Spiritu Sancto, est per excellentiam Corpus Christi quod est Ecclesia (Col. 1, 24), et Regnum quod in finem mundi tradet Patri (1 Cor. 15, 24-28). Errat Em.mus Card. Bea putans Commissionem triplicem conspectum tractare voluisse, quippe quo nullo modo erat necessarium»: AS V/1, 44. 133 Cf. AS V/1, 44s; osservazioni analoghe saranno ripetute anche in seguito da Tromp (cf. ad es. J-Congar, I, 343: 6 marzo 1963). 131
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all’interno della TE;134 e ancora nel luglio 1963, quando il nuovo schema è già stato spedito ai padri conciliari, il gesuita stende una sua relazione, che sintetizza le osservazioni raccolte intorno al testo preparatorio, ormai accantonato. La linea della sostanziale conservazione degli schemi preparatori piaceva anche al presidente della CCo, Cicognani, che la indicò espressamente all’inizio della prima sessione di lavoro: «Una sostituzione quindi di nuovi Schemi o Decreti a quelli così preparati dovrebbe escludersi, salva sempre l’introduzione delle modifiche proposte».135 Nella sua presentazione dello status quaestionis relativo al de Ecclesia in sede di CCo, il 23 gennaio, il card. Suenens optò tuttavia per un approccio quasi totalmente negativo nei confronti del testo preparatorio. Riprendendo varie critiche emerse nel corso del dibattito, il relatore mise in luce il carattere caotico di tutto lo schema: «Così com’è, non è altro che una serie di documenti priva di unità, né nel genere letterario, né nell’ordinamento della materia»;136 è un documento che ha più la forma di un trattato teologico dedicato a presentare le discussioni teologiche, che non quella di una «presentazione ampia e serena della dottrina comune della Chiesa».137 Con un chiaro riferimento agli argomenti di Frings, Suenens sottolinea ancora: Manca allo schema quel carattere ampio e «universale» che ci si aspetta in un documento del concilio ecumenico. La carenza non riguarda solo lo stile, ma la stessa materia proposta e l’argomentazione: si citano i documenti dell’ultimo secolo e le encicliche recenti anziché, secondo l’uso, dopo la s. Scrittura, i Padri principali e i documenti più importanti dei concili antichi;
vengono rilevate la carenza di intento ecumenico e la parzialità della dottrina presentata; il cardinale nota che vi si parla troppo delle questioni giuridiche e gerarchiche, troppo poco di altri elementi costitutivi della Chiesa quali, da un lato, i fedeli e, dall’altro, lo Spirito Santo, sicché «l’immagine della Chiesa mostrata dallo schema non rappresenta il volto vero di tutto il mistero della Chiesa». Una critica pressoché senza appello, dunque: il cui carattere negativo non sfuggì a Cicognani che, nella successiva discussione, tornò a ribadire la richiesta di utilizzare il più possibile il materiale predisposto dalla TE. Suenens replicò che nel suo progetto di revisione si sarebbe conservato il 60% del documento, il che non impedì a Cicognani di tornare a 134 Cf. GROOTAERS, «Sinergie e conflitti», 374; ID., in SCVII, II, 389 (dove segnala l’intervista a De Gelderlander [18 dicembre 1962] ripresa poi in Katholiek Archief 18, n. 5 [1 febbraio 1963], 108-115). Nella Relatio sull’attività della CD relativa al de Ecclesia per il periodo 1 ottobre 1963-1 aprile 1964, Tromp annota di aver steso la relazione, che non fu però distribuita ai padri, «etiamsi hoc valde utile fuisset» (Rel. Tromp 154,1). 135 AS V/1, 54s. 136 AS V/1, 91. Si veda anche, per tutta la discussione sul de Ecclesia nella CCo, ACERBI, 167-169. La relazione di Suenens era stata preparata con l’aiuto di G. Thils: cf. L. DECLERCK, «Le rôle joué par les évêques et periti belges au concile Vatican II», in EThL 76(2000), 452. 137 AS V/1, 92, anche per le citazioni che seguono.
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rilevare il tono eccessivamente negativo della relazione di Suenens sullo schema preparatorio.138 In ogni caso, la CCo elaborò un testo che riassumeva sinteticamente gli orientamenti che la CD doveva seguire per rielaborare il de Ecclesia:139 essi toccano gli aspetti contenutistici (in particolare il modo di trattare la relazione tra primato e collegialità; il nesso tra episcopato e presbiterato; i laici) e indicano una struttura del documento, che comporta la soppressione dei capitoli IX e XI (rapporti Chiesa-Stato; ecumenismo) e l’incorporazione delle tematiche dei cc. VII (magistero), VIII (autorità e obbedienza) e X (necessità di annunciare il vangelo) in altre parti dello schema. Poiché l’orientamento della CCo era di lasciare il de Beata Virgine come schema a parte,140 ne sarebbe risultato un testo diviso in quattro capitoli: I. De Ecclesiae mysterio; II. De institutione hierarchica Ecclesiae et in specie: de episcopis; III. De laicis; IV. De statibus evangelicae acquirendae perfectionis. Nonostante i problemi richiamati da Suenens nella sua relazione, la CCo non diede alcuna indicazione specifica circa l’utilizzazione delle fonti: problema che, del resto, non sembra più toccato nel corso dei dibattiti in sede di CCo. Lì dove chiede che il de Ecclesia metta in luce il nesso intimo tra la dottrina del Vaticano I e il presente concilio, la commissione domanda che si sottolineino «carattere e utilità pastorale ed ecumenica» della dottrina del primato e che essa sia presentata in modo che «i fratelli separati possano capire meglio e più facilmente il senso e l’ambito del dogma cattolico»;141 sono attenzioni che non vengono però legate a un diverso approccio alle fonti dottrinali.
C)
L’ A DO Z IONE
D ELL O
« SCHEM A P HI LIP S »
Nel corso della plenaria della CD del 21 febbraio, fu designata la sottocommissione che doveva mettere mano al de Ecclesia:142 comprendeva Browne, Léger, König, Schröffer, Charue, Garrone e Parente (poi sostituito da Spanedda), ciascuno dei quali indicò un perito, rispettivamente
138 Cf. AS V/1, 98s; il resto della discussione in CCo si concentrerà su come equilibrare primato e collegialità. 139 Cf. AS V/1, 185-188; GROOTAERS, in SCVII, II, 426s. 140 Solo Döpfner si espresse per la congiunzione dei due schemi, osservando che «sia dai Padri della Chiesa, come nella Teologia moderna la Vergine SS.ma viene sempre presentata in intima connessione con la Chiesa»: AS V/1, 106 (cf. anche p. 188). Congar ricevette da Prignon, rettore del Collegio belga, un’informazione diversa, secondo cui Döpfner avrebbe chiesto la separazione dei due schemi: «Celui-ci [Döpfner] craignait, si on le mettait dans le De Ecclesia, que les protestants n’aient l’impression qu’on n’avait parlé de l’Église que pour introduire le ch. de la Sainte Vierge»: J-Congar, I, 345 (8 marzo 1963). 141 AS V/1, 185s. 142 Per quanto segue, riprendiamo soprattutto: ACERBI, 170-194 (gran parte delle quali dedicate a presentare i vari «schemi alternativi» che circolavano per il de Ecclesia); MELLONI, «Ecclesiologie al Vaticano II»; GROOTAERS, in SCVII, II, 427-435.
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Gagnebet, Naud (poi sostituito da Lafortune), Rahner, Thils, Philips, Daniélou (poi Congar), Balic´ (poi Schauf). Il primo contributo importante dato dalla sottocommissione fu l’adozione dello «schema Philips» come base della nuova redazione del de Ecclesia. Basterà ricordare, qui, solo alcuni tratti essenziali della vicenda, che ha come suo sottofondo più remoto l’impegno profuso dal card. Suenens per una migliore organizzazione di tutto il lavoro del concilio. È nella prospettiva di elaborare un «piano d’insieme» per il concilio143 – nel quale un de Ecclesiae mysterio doveva servire da «preludio dottrinale» – che il cardinale, già in ottobre, chiede a mons. Philips di elaborare un progetto alternativo allo schema preparatorio. Una settimana dopo l’apertura del concilio, il teologo di Lovanio fa circolare la sua proposta fra alcuni periti (Rahner, Congar),144 finché si arriva, verso fine mese, a un incontro allargato, a cui partecipano Congar, Rahner, Semmelroth, Ratzinger, Lécuyer, Colombo, Philips, McGrath, per la discussione del capitolo de episcopis, rielaborato dallo stesso Philips nel contesto del suo progetto più ampio.145 Lo schema Philips incomincia a circolare più ampiamente a partire dal 22 novembre. Il testo, in questa fase, è preceduto da un Intentum – poi tralasciato nella redazione del gennaio 1963 –, dove si dichiara, come primo punto, che l’esposizione vuole essere non una mera ripetizione della dottrina comune e per così dire classica, ma tale da esporre brevemente, alla luce dei più recenti contributi dello studio esegetico e patristico e della riflessione speculativa, i principi più rilevanti per una più intensa vita della Chiesa cattolica, presentati in modo da toccare nell’intimo ogni anima ben disposta.146
Da notare, dunque, una modalità linguistica che dichiaratamente si pone sul piano pastorale (come poi è affermato anche più avanti) e la preoccupazione di recepire i risultati migliori della ricerca biblica, patristica e teologica sulla Chiesa.
143 Per i vari passi intrapresi da Suenens al riguardo (fino all’intervento in aula del 4 dicembre 1962: cf. AS I/4, 222-225), cf. L.J. SUENENS, «Aux origines du Concile Vatican II», in NRTh 107(1985), 3-21; ID., testimonianza in Giovanni Battista Montini Arcivescovo di Milano e il Concilio Ecumenico Vaticano II. Preparazione e primo periodo. Colloquio internazionale di studio. Milano, 23-24-25 settembre 1983, Istituto Paolo VI-Studium, Brescia-Roma 1985, 178-187. Per la ricostruzione delle vicende in rapporto con il de Ecclesia, cf. KOMONCHAK, «The Initial Debate», 335-346; DECLERCK, «Le rôle joué par les évêques et periti belges», 449-457. 144 Cf. J-Congar, I, 120s (18 ottobre 1962), dove Congar riporta la struttura generale dello schema secondo la proposta Philips e annota di aver suggerito il coinvolgimento di Lécuyer e de Lubac. Per le vicende dello schema, cf. anche GROOTAERS, in SCVII, II, 431, nota 83; il testo, nelle due versioni di novembre 1962 e gennaio 1963, in Synopsis, rispettivamente 706-715 e 694-705. 145 Congar annota l’incontro, ma senza dettagli: cf. J-Congar, I, 152 (25 ottobre 1962). 146 Synopsis, 706. Philips fa circolare anche una redazione francese della sua proposta: cf. al riguardo RUGGIERI, in SCVII, II, 330-332.
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Il desiderio di Suenens di portare in concilio lo schema alternativo non rimane nascosto: interpellato da Congar, il cardinale manifesta l’intenzione di proporre il testo di Philips all’attenzione del Segretariato de Concilii negotiis extra ordinem, perché sia sottoposto ai padri conciliari. La proposta fu fatta e, a quanto risulta, rifiutata;147 si è visto, del resto, che Ottaviani, aprendo in aula i lavori sul de Ecclesia, criticò la circolazione di schemi alternativi: e il dibattito si svolse sul solo schema «ufficiale». Ma il ruolo di Suenens tornò a essere decisivo con la sua nomina alla CCo, nella quale gli furono affidati il de Ecclesia e il de Beata Virgine. Nel corso di una riunione tenuta a Lovanio il 12-13 gennaio, alla quale partecipò anche Congar, lo schema Philips fu ripreso e integrato, per fare da base alla proposta che poi il cardinale presentò alla CCo il 23 gennaio e che, con qualche piccolo cambiamento, fu inviata alla Commissione dottrinale in vista della rielaborazione del documento.148 Non stupisce, dunque, che la sottocommissione de Ecclesia, riunita il 26 febbraio, arrivi abbastanza rapidamente a decidere l’adozione dello schema Philips. Stupisce, se mai, che la scelta sia fatta disattendendo sostanzialmente l’indicazione di Cicognani: ne quid novi fieret, salvo dare, eventualmente, un ordine diverso alla materia contenuta nello schema.149 Comunque sia, dei sette componenti la sottocommissione, cinque votano per la proposta sviluppata dal teologo belga, mentre gli altri due optano per lo schema Parente, fatto preparare dal card. Ottaviani agli inizi del 1963 per mettere sulla bilancia, al momento della scelta, uno schema che accogliesse le indicazioni della CCo pur restando nella linea del testo preparatorio.150 Il rapido successo dello schema «belga» – frutto, in realtà, di una collaborazione internazionale, sebbene patrocinato dall’episcopato del Belgio – si spiega in misura considerevole in base al fatto che era l’unico, tra i vari schemi proposti, che nasceva da dinamiche avviate addirittura prima dell’inizio del concilio e non soltanto in seguito al dibattito conciliare del 147 J-Congar, I, 188s (6 novembre 1962) riferisce del colloquio tra Congar e Suenens; le informazioni sul Segretariato extra ordinem si ricavano per via indiretta (cf. KOMONCHAK, «The Initial Debate», 336, e GROOTAERS, in SCVII, II, 429, nota 78), perché i lavori del Segretariato non sono mai stati verbalizzati (cf. AS V/1, 21 e 30). Per le reazioni di alcuni membri e consultori della TE alla circolazione dello schema Philips, cf. le note del diario di Schauf in ALBERTO, “Corpus Suum mystice constituit”, 240s, nota 130. 148 La successione di quattro capitoli suggeriti in un primo tempo da Suenens alla CCo (cf. AS V/1, 95) è riportata da Congar nel suo diario dell’incontro di Lovanio: cf. J-Congar, I, 318. Sulla somiglianza dello schema adottato dalla CCo e lo schema Suenens-Philips, cf. anche KOMONCHAK, «The Initial Debate», 344s. 149 La scelta era già stata anticipata in una riunione tenuta presso König il 22 febbraio, presenti Garrone, Schröffer, Šeper, Charue e i periti Moeller, Daniélou e Rahner (cf. CHARUE, Carnets conciliaires, 88). Per la scelta fatta in sottocommissione, cf. la Relatio di Tromp (Rel. Tromp 151, 13s); CHARUE, Carnets conciliaires, 90s; PHILIPS, Carnets conciliaires, 15s, 93s. Nella stessa occasione furono designati i periti, con Philips (su proposta di Charue) quale «relator, seu Praeses Peritorum». 150 Cf. Synopsis, 681-693 e la nota di p. 681. Per gli altri schemi in lizza (francese, tedesco e cileno) e per l’insieme delle proposte alternative, cf. ivi, 428-432; una rassegna di schemi posti all’attenzione della CD è presente anche nella Relatio di Tromp relativa alla plenaria della CD del 21 febbraio-13 marzo 1963 (cf. Rel. Tromp 151, 2s).
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dicembre 1962;151 decisiva, poi, fu la capacità di mediazione di cui dava prova. Tutte le proposte che si confrontano in questi primi mesi del 1963 hanno, di fatto, punti in comune e non di rado prendono l’una dall’altra: «Tutti hanno in una certa misura la preoccupazione di rinnovare l’immagine globale della chiesa (Kirchenbild) tramite un ritorno alle fonti bibliche, liturgiche e patristiche della fede cristiana».152 Con il suo lavoro, e anche con le sue personali capacità di mediazione, Philips ha saputo tuttavia trovare una singolare via di equilibrio – sin troppo accomodante nei confronti del testo preparatorio, almeno a giudizio di alcuni153 – tra la teologia «romana» e i movimenti di rinnovamento della teologia della prima metà del Novecento e ha offerto all’ancora giovane maggioranza conciliare uno strumento intorno al quale concentrarsi senza dispersioni.154
D)
LA
R E DA Z IONE D EL N U OV O TE S TO
L’adozione di un testo-base sul quale concordava la maggior parte della sottocommissione ebbe l’indubbio merito di accelerare la revisione dello schema: al punto che nella plenaria della CD, il 5 marzo, era già possibile discutere il rifacimento dei primi due capitoli. La discussione si aprì, a dire il vero, su un tempestoso tentativo di Ottaviani di rimettere in discussione la scelta dello schema fatta in sottocommissione, che fu accusata di aver oltrepassato il mandato ricevuto. Toccò al vicepresidente Browne, appoggiato da Charue, ricordare che la sottocommissione si era mossa secondo il mandato ricevuto dalla CCo: alla fine, Ottaviani fu costretto a cedere in quello che apparve un estremo, strenuo tentativo di salvare lo schema preparatorio.155 151
Cf. KOMONCHAK, «The Initial Debate», 347. GROOTAERS, in SCVII, II, 432. Nella stessa linea, a proposito dello schema «tedesco», i rilievi di P. HÜNERMANN, «Theologischer Kommentar zur dogmatischen Konstitution über die Kirche Lumen Gentium», in Herders Theologischer Kommentar zum Zweiten Vatikanischen Konzil, hrsg. v. P. HÜNERMANN u. B.J. HILBERAT, Herder, Freiburg 20042006, rist. 2009, II, 337. 153 La scelta dello schema Philips lasciò delusi quegli ambienti che avrebbero preferito un più radicale rifacimento del de Ecclesia: si veda la nota di G. Dossetti pubblicata in G. LERCARO, Per la forza dello Spirito. Discorsi conciliari del card. Giacomo Lercaro, EDB, Bologna 1984, 184, nota 3; cf. inoltre ALBERIGO, «Giuseppe Dossetti al concilio Vaticano II», 425-428. Dossetti criticò la scelta anche parlando con Congar a Bologna: cf. JCongar, I, 361s (14 maggio 1963). 154 Che la scelta dello «schema Philips» e del suo autore come principale redattore del nuovo de Ecclesia fosse una sorta di compromesso, che scontentava molti su opposti fronti, non sfuggiva all’interessato: cf. PHILIPS, Carnets conciliaires, 17, 95 (10 aprile 1963). 155 «Il est battu. Son tentative d’ajournement a geschietert», nota Congar, che ha lasciato il resoconto della seduta (cf. J-Congar, I, 339s: 5 marzo 1963). Anche Charue riferisce della riunione («séance pénible»), richiamando un duro intervento di Tromp contro la scelta della sottocommissione e riportando la sintesi degli interventi difensivi suo e di Browne (cf. CHARUE, Carnets conciliaires, 98-101). Per il resoconto di PHILIPS, cf. i suoi Carnets conciliaires, 20s, 97s. Il teologo belga riferisce che Ottaviani qualificò il suo schema come «troppo pomposo, non pastorale e pure non teologico» (ivi, 21, 98). 152
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Da quel momento in poi, le cose procedettero più speditamente, nonostante le difficoltà del dibattito, soprattutto quando si affrontò il tema della collegialità.156 Il 13 marzo la CD licenziò i primi due capitoli dello schema rivisto, e la CCo li esaminò due settimane più tardi, il 28 marzo. Suenens ne raccomandò l’approvazione157 e il testo fu sostanzialmente accettato dalla CCo che, nella breve discussione, si fermò in particolare sull’opportunità di proporre l’istituzione del diaconato permanente, avversata da Spellman. Un intervento del sottosegretario Morcillo sollevò una questione più ampia, e più connessa con il nostro tema: «Sullo schema si fanno affermazioni solenni e importanti senza argomentazioni valide, desunte dalla S. Scrittura e dalla Tradizione, che le convalidino; così p. es. circa la collegialità dei Vescovi, sul loro ufficio di maestri e di governo; e sul diaconato stabile».158 Subito dopo questo intervento, Giovanni XXIII visitò la CCo e annunciò la costituzione della Commissione per la revisione del codice di diritto canonico. Quando fece ricominciare i lavori, si passò direttamente all’esame del de Oecumenismo e la critica di Morcillo cadde nel vuoto.159 È vero che i due capitoli, probabilmente per la ristrettezza del tempo di lavoro lasciato alla commissione dottrinale, arrivarono alla CCo con un apparato di note molto ridotto. In entrambi i capitoli i riferimenti biblici sono introdotti direttamente nel testo; nel c. I si contavano solo cinque note, che consistono semplicemente in rinvii a testi di Gregorio Magno, Ireneo, Cipriano e Agostino (due volte). L’annotazione del c. II era di poco più ampia (ma più lungo era anche il testo) e comprendeva 18 note: cinque di queste rimandavano a testi patristici, per la precisione a 1 Clem., allo Ps. Basilio, a Gregorio Magno e a Ignazio di Antiochia (due volte, con tre testi citati); le altre note rinviavano ad altri concili, a papi recenti e al codice di diritto canonico; un rimando citava la Traditio apostolica.160 Si può rilevare che le citazioni patristiche del primo capitolo sono tutte nuove rispetto a quelle del testo preparatorio, mentre parte di quelle del c. II erano già presenti nello schema precedente; si nota già, in questa annotazione molto scarna, la crescente attenzione alla testimonianza di Ignazio di Antiochia. Quando, alla fine di aprile o ai primi di maggio,161 la segreteria del concilio inviò ai padri conciliari il testo dei primi due capitoli, la situazione era radicalmente cambiata e lo schema disponeva di un imponente apparato 156
Si vedano le annotazioni di PHILIPS, Carnets conciliaires, 24s, 101s. Cf. AS V/1, 463. Suenens noterà però, a proposito del c. II, la preoccupazione eccessiva di nominare sempre il papa (24 volte, secondo il suo conteggio) ogni volta che si menziona il collegio dei vescovi. La CCo accetterà la proposta di Suenens di chiarire la questione una volta per tutte con una dichiarazione iniziale (cf. ivi, 479). 158 AS V/1, 479. 159 Cf. AS V/1, 479s. 160 Cf. AS V/1, 456 e 462. 161 La data ufficiale dello schema è il 22 aprile 1963 (cf. AS II/1, 215), ma sembra che la spedizione sia stata fatta qualche settimana più tardi. Nella stessa occasione fu spedito anche il de Beata Virgine, che non era stato oggetto di revisioni particolari, salvo il cambiamento del titolo: cf. ANTONELLI, Il dibattito su Maria, 250. 157
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di note: 39 note su 7 pagine per il c. I, 64 note su 13 pagine per il c. II.162 Più che di note al testo, anzi, si tratta qui di un vero e proprio dossier di documentazione, tanto che in testa allo schema si precisa che le note non fanno parte dello schema stesso, ma sono state elaborate come sussidio per l’esame del testo da parte dei padri conciliari.163 Sappiamo che questo apparato di note fu redatto a Lovanio durante il mese di aprile, a opera di un gruppo di periti, che comprendeva Philips, Thils, Moeller e Cerfaux.164 I capitoli III (sui laici) e IV (sulla vocazione alla santità nella Chiesa) hanno avuto storie redazionali diverse. Relativamente agevole quella del capitolo sui laici, che recupera quasi integralmente il testo dello schema preparatorio – già all’epoca redatto da Philips – e lo rivede nel maggio del 1963, per poi discuterlo nella commissione mista con la commissione per l’apostolato dei laici il 25 maggio.165 L’apparato delle note, anche in questo caso, è molto più consistente rispetto a quello dello schema preparatorio, che comprendeva esclusivamente riferimenti al magistero pontificio recente (tranne Innocenzo III), al Vaticano I e al codice: ora, invece, i padri conciliari hanno a disposizione anche un consistente dossier patristico, soprattutto sulla questione del sacerdozio universale, radicato nei sacramenti dell’iniziazione cristiana. L’iter del c. IV fu più tormentato: ne è un indice la costante fluttuazione del titolo, che nello schema della TE (c. V) era De statibus perfectionis evangelicae adquirendae; diventerà De iis qui consilia evangelica profitentur nella revisione fatta da una sottocommissione mista dottrinale-religiosi il 6-7 marzo 1963; sarà poi (su proposta di Suenens) De vocatione ad sanctitatem in ecclesia nello schema inviato ai padri. Non dobbiamo entrare ora nelle diverse ragioni, e più precisamente nei diversi orientamenti di fondo, che resero ardua l’elaborazione del testo e suscitarono vivaci discussioni anche in seguito.166 Ci basti per il momento notare che, quanto all’insieme delle fonti utilizzate nelle note, ancora una volta la trasformazione è radicale rispetto allo schema preparatorio: qui si contavano solo due rinvii ai grandi scolastici, Tommaso e Bonaventura, sette ai papi dell’ultimo secolo, due al Vaticano I.167 Ora, invece, le 23 note fanno ampio spazio anche ai Padri sia greci che latini, alla tradizione agiografica e a qualche autore spirituale dell’epoca moderna.168
162 Cf. AS II/1, rispettivamente 222-228 e 240-252. Gli AS riportano anche la paginazione del testo inviato ai padri, paginazione cui si fa riferimento nelle proposte di emendamento e che anche noi terremo presente in seguito (la si ritrova in Synopsis): le note ai primi due cc. corrispondono alle pp. 13-20 e 32-44. 163 Cf. AS II/1, 215. 164 Cf. GROOTAERS, in SCVII, II, 438, nota 95. Per la preoccupazione di Philips riguardo alla redazione delle note, cf. più sotto, c. 6 § 1a. 165 Cf. GROOTAERS, in SCVII, II, 438-440. 166 Si veda la presentazione sintetica di GROOTAERS, in SCVII, II, 440-443. 167 Sono rinvii allo schema de Ecclesia Christi, che il concilio del 1870 non promulgò. 168 Testo e note dei cc. III e IV in AS II/1, rispettivamente 256-268 (pp. orig.: 5-17) e 269-281 (18-30). Per una presentazione del dossier completo delle note al de Ecclesia rivisto, cf. più avanti, c. 6 § 1.
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Diversamente dai primi due capitoli, il III e il IV arrivarono in mano alla CCo con l’annotazione già completa. Suenens ne poté raccomandare l’approvazione nella sessione del 4 luglio 1963,169 osservando anche in questo caso che il testo proponeva una dottrina vera e sicura, lasciando da parte le questioni discusse e muovendosi in un tono positivo e sereno, ben adatto alle esigenze pastorali del tempo; esprimeva solo il desiderio che nel capitolo sulla vocazione alla santità fosse meglio evidenziato il carattere «pasquale» della vita e della santità cristiane.170 La CCo approvò il testo dei due capitoli senza discussioni. Terminava così la revisione dello schema de Ecclesia nel corso dell’intersessione 1962-1963: inviato ai padri conciliari in due riprese, tra maggio e luglio,171 il nuovo testo incominciava il suo iter di valutazione, che avrebbe avuto il suo momento culminante nel primo mese di dibattiti del secondo periodo conciliare.
169 Prevista per il 4 giugno, la III sessione della CCo fu posticipata di un mese a seguito della morte di Giovanni XXIII e dell’elezione di Paolo VI (cf. AS V/1, 523). 170 Cf. AS V/1, 594. Nello stesso contesto, Suenens propose per la prima volta il nuovo ordinamento dei capitoli dello schema, con l’introduzione di un c. II «De populo Dei in genere», seguito dai capitoli sulla gerarchia, sui laici e sulla vocazione alla santità: la CCo deciderà di sottoporre la proposta ai padri conciliari (cf. ivi, 635). 171 Paolo VI autorizzò l’invio dei cc. III e IV il 19 luglio: cf. AS II/1, 256.
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6. «Chiesa, che dici di te stessa?». L’elaborazione d e l de E c c le s ia nel secondo periodo Con l’invio ai padri conciliari dello schema de Ecclesia rivisto, erano poste le basi per la fase di lavoro più ampia e complessa, che avrebbe avuto come suo risultato la Lumen gentium. Il primo periodo conciliare, come si è visto, era stato soprattutto un periodo di rodaggio, nel quale prendere atto di molte cose fino a quel momento non sperimentate: la vastità dell’assemblea conciliare e la pluralità dei suoi orientamenti (nei quali, pure, si delineavano linee già ben marcate); la complessità delle procedure; l’incertezza riguardante il programma conciliare, contropartita della libertà che Giovanni XXIII volle lasciare ai padri… Si scorgevano nettamente, ormai, anche i problemi suscitati dalla fase preparatoria: il numero eccessivo di schemi reciprocamente poco coordinati, la loro eterogeneità, l’orizzonte teologico – soprattutto per quelli dottrinali – ancora troppo dominato dalle preoccupazioni della teologia «romana», rispetto alla quale le poche voci di tono diverso non avevano avuto molte possibilità di farsi sentire. In questo contesto, in particolare, il concilio era stato condotto alla consapevolezza che gli schemi dottrinali – e, nel corso del primo periodo, ne erano stati affrontati due di primaria rilevanza, il de fontibus revelationis e il de Ecclesia – proposti dagli organismi preparatori non avevano beneficiato a sufficienza del ressourcement che aveva caratterizzato il lavoro della teologia nei decenni precedenti. Si può ben dire che il primo periodo conciliare fu, anche a questo riguardo, un’esperienza di «apertura degli occhi». Alcuni dei problemi che un H. de Lubac aveva registrato durante la fase preparatoria, in riferimento al nucleo centrale dei teologi estensori degli schemi dottrinali – in particolare il loro scarso interesse o la loro indifferenza nei confronti
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della Scrittura, dei Padri, della Chiesa orientale1 – vengono alla luce durante il dibattito e sono posti all’attenzione dell’assemblea conciliare grazie a interventi autorevoli, propiziati dal lavoro dietro le quinte dei loro periti, che erano stati tra i protagonisti del ressourcement. Per quanto riguarda la riscoperta del filone patristico greco come patrimonio di tutta la Chiesa e portatore di un orizzonte teologico non riducibile al livellamento della tarda scolastica, che aveva dominato i lavori preparatori, un peso rilevante lo ebbero anche alcuni interventi incisivi degli esponenti delle Chiese orientali.2 La revisione dello schema, anzi la sua almeno parziale sostituzione con un altro schema, nel corso dell’intersessione, tenne conto del problema: lo mostra la preoccupazione di fornire al testo stesso un cospicuo dossier di appoggio sulle fonti, individuate e proposte con criteri sensibilmente differenti rispetto a quelli dominanti negli schemi preparatori. È dunque a questo dossier che faremo attenzione nel primo paragrafo di questo capitolo, soprattutto per cercare di capire quali aspetti dell’insegnamento del testo i redattori hanno ritenuto importante fondare sulla testimonianza dei Padri. Il capitolo, poi, seguirà le fasi principali del dibattito: a partire dagli interventi scritti, inviati prima della ripresa dei lavori, per poi fermarsi sulla discussione che occupò il primo mese del secondo periodo conciliare, caratterizzando il momento più decisivo della riflessione ecclesiologica del Vaticano II.
1. I L
N U O V O S C H E M A DE E CCLESIA E LE SUE FONTI DI RIFERIMENTO
A)
L’ A N NOTAZION E
D E L N UO V O S C H E MA
Nella Settimana santa del 1963, nel corso di un ritiro che fa a Kiewit, nei pressi di Hasselt, mons. Philips incomincia ad annotare le sue prime impressioni sul concilio, dall’apertura fino alle vicende di cui è stato protagonista nelle settimane immediatamente precedenti. Il Venerdì santo, 13 aprile, scrive le ultime righe riguardanti l’attività per il concilio svolta fino a metà marzo e annota: Devo aggiungere un commento breve ed esplicativo al testo, e completare sensibilmente le note. Ciò richiede ricerche importanti e precise. Moeller e
1 Cf. J-de Lubac, I, 34 (19-20 settembre 1961): abbiamo riportato il passo per esteso sopra, c. 4, nota 35. 2 Cf. R. LAURENTIN, L’enjeu du Concile, Seuil, Paris 1962-1966, II, 62s. Anche un giornalista «laico» come Fesquet poteva enumerare, tra i risultati importanti del primo periodo (salvo indicarli come adesione alle «grandi richieste del protestantesimo»), la «rivalutazione della Sacra Scrittura, [il] primato della coscienza e della libertà religiosa, [il] ritorno alle fonti della Chiesa primitiva, [il] sacerdozio universale dei credenti ecc. La teologia ufficiale perdeva il suo carattere difensivo e polemico»: H. FESQUET, Diario del Concilio. Tutto il Concilio giorno per giorno, a cura di E. MASINA, Mursia, Milano 1967, 156.
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6. «Chiesa, che dici di te stessa?». L’elaborazione del de Ecclesia nel secondo periodo Thils mi sono di grande aiuto a questo proposito. Ho riletto ancora una volta accuratamente lo schema con Cerfaux, soprattutto per quanto riguarda le citazioni scritturistiche. Dopo questo lavoro, Cerfaux si è mostrato molto soddisfatto. Siamo a questo punto. Le note non sono ancora pronte e la questione si fa urgente,3
perché – annota poche righe dopo – a Roma c’è molta fretta di inviare il testo ai vescovi. Oltre a informarci su circostanze e autori del commento4 e dell’annotazione che accompagnano i primi due capitoli del de Ecclesia rielaborato nell’intersessione, le frasi di Philips attestano che la redazione delle note costituiva, per lui, un aspetto importante e impegnativo del lavoro: è come dire che le note, almeno nelle intenzioni dei redattori, non furono redatte a caso, o in modo approssimativo. Di qui l’interesse offerto da questa parte dei materiali di lavoro, che i padri conciliari ricevettero in vista del secondo periodo conciliare; ne riassumiamo qui gli aspetti più significativi, rinviando ad altri studi per la presentazione complessiva dello schema rivisto.5
B)
LE
FONT I DEL C A P I T O L O
I
Nel c. I, de Ecclesiae Mysterio, la testimonianza patristica è richiamata soprattutto a proposito della «Chiesa universale» e dell’influsso universale di Cristo, attraverso il tema della Ecclesia ab Abel (n. 2: 7,22-24),6 che implica anche la questione – tanto presente nei Padri – del perché Cristo sia venuto così tardi.7 Si sottolinea in questo modo, accogliendo una pro3 G. PHILIPS, Carnets conciliaires de Mgr. Gérard Philips secrétaire adjoint de la Commission Doctrinale. Texte néerlandais avec traduction française et commentaire par K. SCHELKENS. Avec une Introduction par L. DECLERCK, Maurits Sabbebibliotheek Faculteit Godgeleerdheid-Uitgeverij Peeters, Leuven 2006, 27, 104. 4 Per questo Commentarius, cf. AS II/1, 229-231 (= 20-22 nel fascicolo inviato ai padri; c. I) e 253-255 (= 44-46; c. II). Per i cc. III e IV, cf. ivi, rispettivamente 268 (= 16s; c. III) e 280s (= 29s; c. IV). 5 Cf. in particolare ACERBI, 194-224; per il c. I, S. ALBERTO, “Corpus Suum mystice constituit” (LG 7). Storia del Testo dalla “Mystici corporis” al Vaticano II con riferimenti alla attività conciliare del P. Sebastian Tromp S.J., Pustet, Regensburg 1996, 291-357; per il c. III, U. BETTI, La dottrina dell’episcopato nel Concilio Vaticano II. Il capitolo III della Costituzione dommatica Lumen gentium, Roma 1984, 81-99. 6 Citeremo lo schema indicando il numero del paragrafo, seguito dalla pagina e dalle righe dell’edizione «ufficiale», alla quale i padri conciliari fanno riferimento anche per le proposte di emendamento: la si trova riprodotta in AS II/1, 215ss, come pure in Synopsis (testo II). Tranne quando non sia richiesto per chiarezza, citeremo le note con la sola numerazione, senza rinviare alle pagine. Sull’ecclesia ab Abel, i redattori inseriscono nel testo una frase di GREGORIO MAGNO, Hom. in Evang. 19: PL 76,1154: è la prima citazione patristica introdotta nel testo stesso del de Ecclesia. 7 Questi i testi citati (per brevità si tralasciano i riferimenti alle edizioni, a meno che non siano necessari per precisare il passo: i redattori usano soprattutto PG, PL e CSEL): IRENEO, Adv. haer. IV,11; IV,38; V,36; ORIGENE, In Cant. II: PG 13,134 = GCS 33,157 (per l’uso di questo passo, cf. anche sotto, c. 7, nota 11); Comm. Ser. in Mt. n. 51; AGOSTINO, Serm.
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spettiva che Congar aveva tentato di introdurre nello schema preparatorio,8 che per i Padri il legame con la Chiesa (concepita in primo luogo come communio salutis et gratiae e poi, con l’Incarnazione, determinata come societas hierarchica e communitas mediorum salutis) è dato principalmente dall’accoglienza della salvezza che viene da Cristo, unico mediatore.9 Oltre a richiamare – accogliendo spunti del testo tedesco – l’opera del Figlio nella prospettiva ireneana della «ricapitolazione»,10 lo schema rivisto giustifica con riferimento ai Padri la qualificazione della Chiesa quale sacramentum visibile della comunione salvifica (n. 3: 8,21s). Per l’uso di sacramentum in senso lato (equivalente al mysterion greco) la nota 5 rinvia alla tradizione patristica: da Agostino, che lo applica a Cristo, al linguaggio più generale, che usa questa categoria per parlare dell’economia salvifica, inclusiva della Chiesa.11 Rilevante, in chiusura della sezione «trinitaria» (nn. 2-4),12 l’inserzione del passo di Cipriano, che presenta la Chiesa quale «de unitate Patris et Filii et Spiritus Sancti plebs adunata» (n. 4: 8,38s), citazione – già valorizzata da Philips in passato – che funge da conclusione di tutto il paragrafo e di tutta la prima sezione del capitolo.13 La testimonianza patristica è meno significativa nel momento in cui lo schema rivisto passa a una seconda sezione del capitolo, imperniata sulle
341,9,11; Enarr. in Ps. 118,29, n. 9; Enarr. in Ps. 142,3; LEONE MAGNO, Serm. 30,7; 52,1; GIOVANNI DAM., Adv. Iconocl. 11. La nota osserva che con questa dottrina concorda TOMMASO, STh III, q. 8, a. 3 ad 3. 8 Non a caso, la nota si chiude con il rinvio a Y. CONGAR, «Ecclesia ab Abel» (*1952); cf. anche V. MARALDI, Lo Spirito e la Sposa. Il ruolo ecclesiale dello Spirito Santo dal Vaticano I alla Lumen Gentium del Vaticano II, Piemme, Casale Monferrato 1997, 235-240; W. HENN, «Yves Congar and Lumen Gentium», in Gr. 86(2005), 579s. Per le rimostranze di Congar sulla concezione limitata del «Corpo di Cristo» nello schema preparatorio, cf. ad es. J-Congar, I, 94. 9 Nello stesso contesto si riprende il tema «classico nei Padri» (cf. la nota 2 dello schema) della praeparatio evangelica, rinviando a CIPRIANO, Epist. 64,4,3; ILARIO, In Mt. 23,6; ORIGENE, In Num. 9,4; CIRILLO AL., Glaph. in Gen. 2,10; si rileva poi che il tema è ricorrente in Agostino. 10 La nota 3 rinvia a Adv. haer. III,16,6 (di cui si riportano alcune righe) e 22,2. 11 Dopo il rinvio ad AGOSTINO, Epist. 187,11,34 («Non est enim aliud Dei mysterium [sacramentum] nisi Christus») e ai passi di Leone Magno già elencati nella nota 1, si citano IRENEO, Adv. haer. III,24,1 e soprattutto CIPRIANO, Ep. 69,6, che parla esplicitamente della Chiesa come sacramentum unitatis; e ancora Ep. 55,21 e, di AGOSTINO, Bapt. c. Don. V,28,39. La nota precisa che sacramentum in senso stretto si riferisce solo ai sette sacramenti. 12 Il testo parlava, al n. 4, dell’opera dello Spirito che rinnova la Chiesa, rinviando a IRENEO, Adv. haer. III,24,1; era prevista una citazione più ampia, inclusiva della frase «Ubi Ecclesia, ibi et Spiritus Dei; et ubi Spiritus Dei, illic Ecclesia et omnis gratia»: ma questa fu poi omessa, verosimilmente perché sentita in disaccordo con quanto affermato al n. 7 (poi n. 8), circa la presenza di elementi di santificazione anche al di fuori della compagine visibile della Chiesa: cf. ALBERTO, “Corpus Suum mystice constituit”, 328. 13 Cf. il Commentarius, 21. Oltre a indicare la fonte di Cipriano (Or. dom. 23), si citano AGOSTINO, Serm. 71,20,33; GIOVANNI DAM., Adv. Iconocl. 12; e si rinvia a FULGENZIO, Ad Monim. 2,11 e CIRILLO GER., Catech. 5 append.: PG 33,535-536. Per Philips, cf. P. DRILLING, «The Genesis of Trinitarian Ecclesiology of Vatican II», in ScEs 45(1993), 68-75. Il testo di Cipriano era stato segnalato in aula anche da mons. Vairo il 4 dicembre 1962.
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immagini della Chiesa, e integrano con qualche riferimento patristico la documentazione – prima ridotta a qualche passo del magistero recente e a un testo di Tommaso – circa la dottrina dello Spirito come «anima» della Chiesa.14 Sorprende, del resto, che le immagini della Chiesa – salvo quella del tempio-edificio – non siano documentate con riferimento ai Padri: per dirla con le parole dei vescovi di lingua tedesca, che esaminarono lo schema in una riunione a Fulda nell’agosto 1963, «tutte… le immagini della Chiesa sono ricordate o citate dai Padri».15 Col n. 7 si riprendono alcune questioni centrali del testo preparatorio: anzitutto l’identità, in una sola realtà «complessa» di Corpo mistico e Chiesa visibile;16 e qui lo schema inserisce nel testo la citazione agostiniana «inter persecutiones mundi et consolationes Dei peregrinando procurrit [Ecclesia]» (Civ. Dei XVIII,51,2), destinata a rimanere fino alla redazione definitiva.17 C’è poi la questione difficile dei «membri della Chiesa», dove il nuovo testo non modifica in modo sostanziale i limiti dello schema preparatorio, né cambia significativamente le fonti, con l’eccezione di un rinvio ad Agostino, che qualifica il peccatore come appartenente alla Chiesa con il «corpo», ma non con il «cuore».18 Nell’ultimo paragrafo del capitolo – ripreso in misura più consistente dal progetto Philips – si affronta il rapporto della Chiesa con i non cristiani e la missione della Chiesa vi appare in una prospettiva meno giuridica rispetto allo schema preparatorio. Significativo, tra l’altro, il riconoscimento degli elementi di «preparazione evangelica», che la Chiesa dichiara di riconoscere come provenienti da Dio (cf. n. 10: 13,13-16). La lunga nota 38 presenta la tematica più in dettaglio, anzitutto attraverso il richiamo alla Praeparatio evangelica di Eusebio di Cesarea, per notare poi che, secondo i Padri, vi sono elementi di «vera religione» che preesistono alla rivelazione evangelica. Il tema, spiega ancora la nota, si articola in varie linee: quella dei «semi di verità» (cf. Giustino, Tertulliano, Origene); quella della suggeneia/affinitas tra Creatore e creatura, presente in Lattanzio e Agostino; e quella della pedagogia divina, già menzionata in Ireneo e ripresa poi da altri.19 14 La nota 10 riprende le citazioni patristiche dello schema preparatorio, nota 11 (cf. sopra, c. 4, § 4c e nota 142) sul triplice ministero di Cristo; mentre, alla nota 11, integra la dottrina dello Spirito come anima della Chiesa con i rinvii ad Agostino, al Crisostomo e a Didimo. 15 AS II/1, 776. I testi patristici sulla Chiesa tempio-edificio, ai quali rinvia la nota 15, sono di IGNAZIO ANT. (Ad Eph. 9,1), ORIGENE (In Mt. 16,21-22), TERTULLIANO (Adv. Marc. 3,7) e CIRILLO AL. (In Io. 1,14); sono indicati anche alcuni testi liturgici. 16 Cf. più in dettaglio ACERBI, 199s; l’analogia Cristo-Chiesa viene sfumata con il riconoscimento della presenza dei peccatori nella Chiesa. 17 N. 7 (11,26s) e nota 24. 18 Cf n. 8 (12,10s); la nota 27 rinvia ad AGOSTINO, Bapt. c. Don. V,28,39 (di cui cita qualche riga), e III,19,26; V,18,24; In Io. tr. 61,2 «et alibi saepe». Il tema era stato indicato in un intervento scritto sullo schema preparatorio di de Cambourg (cf. AS II/1, 490 e, sopra, c. 5, nota 81 e testo relativo) ed era già presente anche nella prima redazione dello «schema Philips» (cf. Synopsis, 709). 19 Sono indicati Giustino, Tertulliano e Origene per i semina veritatis; Lattanzio e Agostino a proposito della suggeneia; Ireneo e Gregorio Nazianzeno sulla pedagogia divina.
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C)
IL
RIC HIAM O A I P AD RI N EL CA PI T O LO SU LL’ E PISCO PATO
Nel c. II – ora intitolato De constitutione hierarchica Ecclesiae et in specie de Episcopis – la testimonianza patristica è rilevante anzitutto per la questione della successione apostolica: come sottolinea il Commentarius, la dottrina sui vescovi quali successori degli apostoli è presentata al n. 13 con le parole (parafrasate in modo riassuntivo) di Clemente Romano, ad Cor. 42,2-4. Il passo di Clemente è citato in latino alla nota 8, che aggiunge anche ad Cor. 44,1-2, e precisa poi che Clemente non distingue tra «episcopi» e «presbiteri»; chiaramente, tuttavia «si parla dei successori degli Apostoli, ai quali viene attribuito il compito della predicazione, 42,3-4, della liturgia e dell’offerta dei sacrifici, 44,3-4, e in generale la potestà di governo 57,1-2» (nota 8: 33s).20 I nn. 14-15 trattano rispettivamente della sacramentalità dell’episcopato e del presbiterato e diaconato. Sul primo punto – dove, peraltro, lo schema sembra arretrare rispetto al testo preparatorio, nella misura in cui non collega più con chiarezza sacramentalità e collegialità21 –, le note al nuovo schema precisano la testimonianza liturgica: richiamata in modo sommario nello schema preparatorio, qui è documentata con estratti della liturgia latina, copta, siriaca e antiochena.22 Verso la fine del paragrafo, lo schema rivisto (riprendendo dal testo Philips) delinea rapidamente i tratti del ministero episcopale, richiamando anche la «paternità» del vescovo. La nota 15 documenta questa dimensione con testi di concili provinciali recenti, ai quali aggiunge la testimonianza di Ignazio di Antiochia.23 Per quanto riguarda il ministero presbiterale (n. 15), la testimonianza dei Padri evidenzia nel nuovo schema anzitutto il legame tra presbiteri e vescovo24 e poi il munus sacerdotale del presbitero, precisato anche in rapporto al fatto che, anticamente, la qualifica di sacerdos era riservata al vescovo.25 20
In appoggio al testo di Clemente, la nota 8 rinvia a IRENEO, Adv. haer. III,1,1; 3,1; TERPraescr. haer. 20,2-4; EUSEBIO CES., Hist. Eccl. I,1,1; AGOSTINO, Civ. Dei XVIII,50. Né Clemente Romano né gli altri testi erano menzionati nello schema preparatorio. Il progetto di Philips richiamava Clemente già nella sua prima redazione (cf. Synopsis, 711). 21 Cf. le osservazioni di ACERBI, 206. 22 Cf. n. 14, nota 10 (34s). 23 Sono citati: Trall. 3,1; Magn. 3,1.2; 6,1. La nota rinvia anche a T. STROTMANN, «L’Evêque dans la tradition orientale», nell’allora recentissima pubblicazione L’Épiscopat et l’Église universelle, Paris 1962. 24 I testi patristici sono indicati alla nota 21: IGNAZIO ANT., Philad. 4; Canones Apostol. 39; Didascalia (ed. FUNK, 576); CORNELIO, ad Cypr. (in CIPRIANO, Ep. 48,2); CIPRIANO, Ep. 61,3; 14,4; Statuta Ecclesiae antiqua: PL 56,880). Sul «primato» del vescovo rispetto al presbiterio, la nota cita ancora LEONE MAGNO, Ep. 9,2 e TERTULLIANO, Bapt. 17,1. 25 Cf. la nota 22, che rinvia a P.-M. GY, «Vocabulaire antique du sacerdoce», in Études sur le Sacrement de l’Ordre, Paris 1957, 125-147. La nota riporta ancora testi di GREGORIO NAZ., Apol. II,22, e PS. DIONIGI, Eccl. Hier. 1,2. La nota 23 rafforza con una citazione del Crisostomo (In 2 Tim. 2,4) il nesso tra ordinazione e vita del presbitero, richiamato nel testo con un rinvio alla preghiera di ordinazione («imitando quod tractant…»). TULLIANO,
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Alcuni testi patristici illustrano il ministero diaconale, di cui non si parlava nel testo preparatorio.26 Il tema della collegialità è al centro della terza sezione del capitolo (nn. 16-17). La preoccupazione di collegare il collegio episcopale con il suo capo, il papa, è evidente sin dal titolo del n. 16 (De Collegio Episcopali eiusque Capite) che, per il resto, sviluppa il tema secondo una linea cara a Philips,27 cioè il parallelismo del rapporto Pietro-Dodici da un lato e papa-vescovi dall’altro. Qui l’apporto dei Padri consiste soprattutto nell’attestazione di alcune pratiche di collegialità e del linguaggio collegiale (n. 16: 27,9).28 Lo schema rivisto lascia cadere la discussa affermazione dello schema preparatorio, che riconduceva alla sola autorità del papa l’origine della giurisdizione episcopale: cade così anche la citazione di Leone Magno misteriosamente introdotta nel testo presentato alla discussione conciliare.29 Si fa poi ricorso soprattutto a Cipriano (Ep. 66,8) per indicare nel vescovo il «principio e centro di unità nella propria Chiesa particolare» (n. 17: 28,5s) e per fondare il rapporto – già indicato nel testo preparatorio – tra Chiesa universale e Chiese particolari (cf. ivi, 28,6s).30 Restano immutati, in nota, i testi che documentano il principio della rappresentanza della Chiesa «in vinculo pacis et amoris» dei vescovi uniti al papa.31 Ancora in continuità con il testo preparatorio, si afferma che il ministero del vescovo nella propria Chiesa contribuisce al bene della Chiesa universale, che è il «corpus ecclesiarum» (n. 17: 28,27), espressione tratta da un’opera pseudo-basiliana e integrata con altri riferimenti patristici.32
26 Sono citati, alla nota 26: CLEMENTE ROM., Ad Cor. 15,1; IGNAZIO ANT., Ad Trall. 2,3; Cost. Apost. VIII,28,4. Rinviando a Diaconia in Christo (*1962), la nota sottolinea il legame che, nella Chiesa antica, univa il diacono al vescovo. 27 Si veda l’abbozzo di schema comunicato a Congar e registrato nel diario di quest’ultimo: J-Congar, I, 120 (18 ottobre 1962). 28 Sono indicati in particolare TERTULLIANO, Adv. Marc. 4,5 (ordo episcoporum); CIPRIANO, Ep. 68,3-4 (corpus, collegium); OTTATO, Contra Parm. Donat. 1,4; 7,6; 3,12 (episcopale collegium; cf. 37, nota 28 dello schema). Le precisazioni erano importanti, perché, come si vedrà ancora, gli avversari della collegialità contestavano l’antichità della nozione di «collegio» o ne mettevano in discussione l’interpretazione. 29 Cf. sopra, c. 5 § 4a; per un confronto con lo schema rivisto, cf. Synopsis, 204-206. 30 Il testo è leggermente modificato rispetto allo schema preparatorio; la nota 37 integra la documentazione con la citazione di CIPRIANO, Ep. 55,24,2 e 36,4,1. 31 La nota 38 dello schema riveduto riprende integralmente la nota 12 del testo preparatorio, con i testi patristici e recenti ivi indicati. 32 Oltre a PS. BASILIO, In Is. 15,296, il testo preparatorio rinviava a GREGORIO MAGNO, Moral. 4,7,12 e aggiungeva: «Similia apud Clem. Alex., Cyrill. Alex., Io. Damasc., alios»; la nota 40 dello schema rivisto mantiene i riferimenti a Basilio e Gregorio Magno, e aggiunge ILARIO, In Ps. 14,3, lasciando cadere i riferimenti generici. Per la genesi di questo passo (= futuro n. 23) e le sue fonti, cf. SEMERARO, «Le Chiese particolari». Viene poi aggiunta la nuova nota 41, che spiega brevemente la complementarità tra la dottrina della Chiesa quale «comunione di Chiese» rappresentate dai rispettivi vescovi e quale «Chiesa unica e universale», il cui capo e centro è il papa, con rinvio al can. 5 del concilio di Nicea e a LEONE MAGNO, Ep. 14,11.
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Nei nn. successivi, tralasciando altri rinvii patristici meno significativi, rileviamo i tratti di ecclesiologia eucaristica presenti nel n. 20, dedicato al munus sanctificandi. Vi si rinvia (nella nota 57) a due passi di Ignazio di Antiochia (Smyrn. 8,1; Philad. 4), per illustrare poi la reciprocità dei principi: la Chiesa fa l’eucaristia, l’eucaristia fa la Chiesa. L’intento è di sottolineare soprattutto il secondo versante della reciprocità, come si ricava dai testi citati di Agostino, Girolamo, Leone, nonché dalla tradizione liturgica e anche da autori recenti.33 Sono poi integrate, nel n. 21 dedicato alla funzione di governo, le fonti menzionate nello schema preparatorio, con rinvii a Cipriano e ad altri autori tardo-patristici e medievali circa l’uso di Vicarius Christi riferito al vescovo.34 In definitiva, come ha notato Acerbi, il secondo capitolo rivisto continua ad appoggiarsi in modo consistente sul magistero recente, ma fa più spazio alla documentazione patristica e liturgica.35 In alcuni casi, questa sembra persino eccessiva rispetto al carattere apparentemente marginale delle affermazioni del testo: così, però, lo schema può introdurre prospettive che si riveleranno importanti nell’elaborazione successiva: è il caso, ad es., del tema della communio Ecclesiarum (cf. n. 17) e della ecclesiologia eucaristica (cf. n. 20). Possiamo rilevare anche la crescente importanza attribuita a Ignazio di Antiochia e a Cipriano. Se per il primo, in generale, non vi erano difficoltà, non è fuori luogo ricordare qui che la testimonianza di Cipriano non era accolta altrettanto pacificamente. Lo attesta una reazione significativa di Tromp che, di fronte a un dossier di testi di Cipriano sull’episcopato – raccolti con acribia, ma non senza qualche preoccupazione, da Schauf – aveva liquidato la questione osservando: «Non c’è ragione di discuterne, perché s. Cipriano in questa materia non gode di alcuna autorità».36
D)
IL
C A P ITOLO S U I L A I C I
Il terzo capitolo dello schema arrivò in mano ai padri conciliari nel pieno dell’estate 1963, accompagnato da un’annotazione che già presen33 Queste le citazioni: AGOSTINO, C. Faust. 12,20; Civ. Dei 22,17; Serm. 57,7; GIROLAMO, ad Jovin. 2,29; LEONE MAGNO, Serm. 63,7. La nota cita ancora il sacramentario gregoriano e la liturgia mozarabica; richiama ancora TOMMASO (STh III, q. 73, a. 3) e FRANZELIN, Theses de Ecclesia Christi, 317, per rinviare infine a N. AFANASIEFF, «L’Église qui préside dans l’amour», in La primauté de Pierre dans l’Église Orthodoxe, Neuchâtel 1960, 8-14. Per la storia di questa parte del testo, destinata a diventare il n. 26 della LG, cf. A. TOURNEAUX, «L’évêque, l’eucharistie et l’Église locale dans Lumen gentium, 26», in EThL 64(1988), 106-141, che rileva, a proposito della nota 57 (elaborata da Moeller e Thils), la sua stretta dipendenza dalla Méditations sur l’Église di de Lubac (cf. ivi, 123; a 121-123, testo francese della nota, più ampio e documentato rispetto a quello che fu poi inserito nelle annotazioni dello schema). 34 Sono citati, nella nota 59: CIPRIANO, Ep. 59,5; 63,14; 65,4; 68,5; 75,16; ORMISDA, che usa il titolo in una lettera ai vescovi spagnoli del 514; BRAULIONE DI SARAGOZZA, Ep. 2,13. La nota rinvia poi ad alcuni autori carolingi e a TOMMASO, STh III, q. 64, a. 2, ad 3. 35 ACERBI, 215. 36 D-Tromp, I/1, 81 (22 settembre 1960).
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tava l’eventualità di scindere il testo in due parti: una (corrispondente ai nn. 23-24) avrebbe trattato, come secondo capitolo, il de populo Dei in genere; l’altra (nn. 25-27), come quarto capitolo, doveva invece fermare l’attenzione sui laici.37 A parte la citazione agostiniana introdotta nel testo del n. 22 («vobis… sum episcopus, vobiscum sum christianus»),38 lo schema fa appello alla testimonianza patristica soprattutto sulla questione del sacerdozio universale: testimonianza «abbondante», esemplificata con testi di Origene, Giovanni Crisostomo e Agostino.39 L’esercizio del sacerdozio universale nella vita coniugale è appoggiato su una scelta relativamente ampia di testimonianze patristiche: con Agostino (parafrasato direttamente nel testo) e altri si riprende il tema della famiglia «Ecclesia domestica»;40 ma il testo – accogliendo richieste venute dal dibattito del primo periodo – richiama anche la condizione dei coniugi come genere di vita o professio, nell’insieme dei vari ordines in cui si articola la Chiesa, e il matrimonio come dono di Dio.41 Le note attingono ancora ai Padri (Origene e poi soprattutto autori latini) a sostegno della partecipazione dei fedeli al sacerdozio regale di Cristo.42 Arrivando a parlare del sensus fidei di tutto il popolo cristiano, il testo per la seconda volta menziona esplicitamente Agostino, estrapolando l’espressione «dai vescovi agli ultimi fedeli laici» (n. 24: 8,18s) – riferita nell’originale al riconoscimento del valore canonico del libro della Sapienza – per applicarla al consenso universale in materia di fede e morale.43
37
Cf. AS II/1, 256. Per le vicende relative alla revisione del c. III, cf. ACERBI, 216s. AGOSTINO, Serm. 340,1. Il Sermo 340 presenta questioni di autenticità: il testo completo fa parte della collezione dei sermoni di Cesario di Arles e la parte finale del discorso è di Cesario; sembra, peraltro, che la parte iniziale – da cui viene anche il testo citato dal concilio – derivi da un sermone agostiniano perduto: cf. CPL 31995, 121; per il testo di Cesario, CCL 104,918-921. 39 «Testimonia Patrum… abundant», rileva la nota 6, che rinvia a ORIGENE, Hom. Lev. 9,9; GIOVANNI CRISOST., In 2 Cor. Hom. 3,7; AGOSTINO, Quaest. Evang. II,40,3; Civ. Dei X,6; XVII,5. La nota 7 ricorda che il sacerdozio universale si radica nei sacramenti dell’iniziazione cristiana e menziona Tommaso, Nicola Cabasilas e, unico fra i Padri, CIRILLO GER., Cat. 17: PG 33,1009-1012. 40 La nota 8 cita al riguardo: AGOSTINO, Serm. 94; in Io. tr. 51,13; GIOVANNI CRISOST., in Gen. Hom. 2,4; in Gen. serm. 6,2; 7,1; sul tema dell’educazione cristiana, GREGORIO DI NISSA, Vita S. Macrinae: PG 46,961-964; GIOVANNI CRISOST., in Eph. Hom. 21,2; GIROLAMO, Ep. 107 ad Laetam: PL 22,867s. 41 Per il genus vitae o professio dei coniugati, la nota 7 rinvia ad AGOSTINO, Enarr. in Ps. 36,I,2; 132,4; con altre espressioni, Serm. 96,7,9; 267,4 (officium); 192,2 (gradus); il rinvio a GREGORIO MAGNO, Mor. I,14,20 e In Ezech. I,8,10, documenta il tema dei diversi ordines; sono richiamati anche Fulgenzio, Beda, Teodoreto e Giovanni Crisostomo. Sul matrimonio come dono di Dio, la nota cita, dopo 1Cor 7,7, TEODORETO, Haeret. fabul. compend. V,25; in 1 Cor. 7,7; GIROLAMO, Epist. 48,4; AGOSTINO, Dono persev. 14,37; Serm. 354,4. 42 Cf. la nota 9, che cita ORIGENE, In Mt. hom. 14,7; ILARIO, In Ps. 67,30; 135,6; 2,42; 137,12; AMBROGIO, In Ps. 118, serm. 14,30; GIROLAMO, In Is. 60,1; LEONE MAGNO, Serm. 4,1. 43 Il testo di Agostino (cf. la nota 12 dello schema) è tratto da Praed. sanct. 14,27. La nota allega comunque diversi altri testi patristici, tratti da testi di Tertulliano, Basilio, Gregorio Nazianzeno, Agostino, Vincenzo di Lérins, Cassiano. 38
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Scarsa, per riferimenti patristici, è la parte dello schema dedicata specificamente al laicato (nn. 25-27). Vi si richiama, al n. 25, il munus dottrinale dei laici, attestato dall’esistenza di non pochi laici teologi documentati già in epoca patristica: Giustino, Aristide, Lattanzio, Boezio, Cassiodoro e altri, per non parlare dei cristiani di più modesta condizione menzionati da Celso, secondo la testimonianza di Origene.44 Riferendosi a un noto passo dell’ad Diognetum e all’interpretazione crisostomiana della parabola evangelica del lievito, lo schema sottolinea poi l’altro versante dell’opera dei laici, che è quello dell’animazione cristiana delle realtà temporali.45
E)
I N TE G R AZ ION E PAT R I S TI C A DE L IV C A PITO LO
Anche il IV capitolo dello schema, come il precedente, era destinato a sdoppiarsi in due capitoli distinti. A questa scelta, tuttavia, si arrivò solo in seguito, sebbene le discussioni che accompagnarono la rielaborazione del testo durante l’intersessione lo facessero già presagire. Mentre in un primo tempo si pensava a una trattazione degli «stati di perfezione», per richiesta del card. Suenens e poi su pressione in particolare degli episcopati di Olanda, Belgio e Germania, si arrivò alla scelta di aprire il capitolo con una riflessione sulla chiamata universale alla santità nella Chiesa (cf. nn. 29-31), per trattare solo in un secondo momento della vocazione religiosa come via specifica alla santità (cf. nn. 32-36):46 di qui anche il nuovo titolo sotto il quale lo schema fu inviato ai padri: De vocatione ad sanctitatem in ecclesia. Il capitolo, aperto con il breve proemio del n. 28, risulta così naturalmente diviso in due parti distinte. La testimonianza patristica (del tutto assente nel corrispettivo c. V dello schema preparatorio) è richiamata dapprima in modo piuttosto generico in rapporto ad alcune affermazioni centrali, relative in particolare alla «perfezione» alla quale Cristo chiama i credenti (cf. n. 29).47 Quando passa alle diverse forme in cui si articola 44 Cf. la nota 20 dello schema rivisto (per Celso, il rinvio è a ORIGENE, c. Cels. III,55), che rimanda anche a TOMMASO, STh III, q. 71, a. 4, ad 3. 45 Cf. nota 20, che cita ad Diogn. 6 (lo schema preparatorio, al c. X, menzionava il passo in rapporto alla necessità dell’annuncio del vangelo) e GIOVANNI CRISOST., in Mt. Hom. 46 (47),2. 46 Cf. ACERBI, 221s, e il Commentarius annesso al capitolo, 29 (= AS II/1, 280); presentando i contenuti fondamentali del capitolo, Acerbi (cf. 222-224) mette in luce i debiti dello schema rivisto nei confronti del testo «tedesco». 47 La nota cita Gc 1,4 e 3,2; Didachè 1,4 e 6,2; IGNAZIO ANT., Eph. 15,2 per sottolineare l’idea della perfezione come integrità morale, di cui Dio costituisce la realizzazione piena; da ORIGENE, Comm. Rom. 7,7, trae l’idea della perfezione come somiglianza piena con Cristo; dallo PS. MACARIO, de Or. 11: PG 34,861 la dimensione della purezza da ogni male in virtù della partecipazione allo Spirito; finalmente, rinviando a STh II-II, q. 184, a. 3, ricorda che per Tommaso la perfezione, per sé ed essenzialmente, consiste nella carità. Il tema dell’amore come pienezza della legge e della vita cristiana è documentato anche nella nota 2, che richiama una serie di testi biblici, cui si aggiunge CLEMENTE ROM., Ad Cor. 49.
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l’esercizio dell’unica santità, lo schema tratta dei presbiteri – ai vescovi si fa riferimento solo un po’ per transennam48 – con un’allusione esplicita all’insegnamento dei «santi Padri» per richiamare il tema della «carità pastorale» (cf. n. 30: 19,2-10); ma questo insegnamento non è poi documentato. Un passo del Crisostomo permette di sottolineare, invece, la vocazione alla santità di coniugi e genitori cristiani.49 Sulla varietà dei mezzi per raggiungere la perfezione e seguire i consigli evangelici (cf. n. 31), la documentazione è più abbondante e riguarda anzitutto il primato della carità;50 ai Padri viene fatta risalire la distinzione tra «consigli» e «precetti»;51 altri testi sono richiamati a proposito di povertà, verginità consacrata e obbedienza.52 La parte finale di questo numero ricorda che non tutti i cristiani sono chiamati a vivere seguendo nella pratica i consigli evangelici – come già è chiaro nella tradizione cristiana;53 ad essi, nondimeno, possono e debbono ispirarsi per vivere in questo mondo senza esserne prigionieri, secondo l’insegnamento di Paolo (cf. 1Cor 7,31). Nelle ultime righe di questa sezione il testo richiama il carattere tradizionale dei «consigli» sottolineando la presenza, già nella Chiesa antica, di varie forme di vita ascetica o eremitica, delle vergini o vedove:54 si prepara così il passaggio alla sezione successiva, dedicata alle forme di vita votate ufficialmente alla pratica di questi stessi consigli. Qui, prevedibilmente, è soprattutto il richiamo alla vita monastica a sollecitare il ricorso alla testimonianza patristica. Le note al n. 34 dello schema, di fatto, offrono un insieme relativamente abbondante di riferimenti. I redattori dello schema hanno messo in evidenza il legame affermato dagli autori monastici tra la vita monastica e la comunità cristiana delle 48 Cf. la nota 4: il vescovo è chiamato alla perfezione in virtù della consacrazione che ha ricevuto, e la consegue nell’esercizio della «carità pastorale», come suggeriscono le citazioni di TOMMASO, STh II-II, q. 184, a. 5, e di ORIGENE, In Is. Hom. 6: PG 13,239. 49 Cf. la nota 7, che rinvia a GIOVANNI CRISOST., In Eph. Hom. 20 (e poi alla Casti connubii di Pio XI). 50 La nota 8 integra i testi biblici con AGOSTINO, Ench. 32 e TOMMASO, STh II-II, q. 44, a. 3; q. 184, a. 1. 51 La nota 9 rinvia a ORIGENE, Comm. in Mt. X,14; AGOSTINO, de S. Virginitate 15,15; TOMMASO, STh I-II, q. 100, a. 2; II-II, q. 44, a. 4, ad 3 e le qq. 184-189. 52 «In laudem paupertatis abundant Patres», afferma la nota 10 che, dopo aver citato i testi biblici, rimanda a passi di Clemente Alessandrino, Origene, Cipriano, Atanasio, Girolamo, Basilio Magno, Nilo. I testi sulla verginità, raccolti alla nota 11, sono tratti da Tertulliano, Origene, Cipriano e Basilio di Ancira; sono menzionati i trattati sulla verginità di Atanasio e del Cristostomo. Per l’obbedienza, infine, la nota 12 cita il c. 5 della Regula di s. Benedetto e rimanda ancora a Cassiano e a Gregorio Magno. 53 La nota 13 cita al riguardo alcune righe del CRISOSTOMO (in Mt. Hom. 7,7), di AMBROGIO (De viduis 4,23), nonché di FRANCESCO DI SALES (Traité de l’Amour de Dieu, VIII,6) e rimanda a TOMMASO, STh II-II, q. 184, a. 7, ad 1; q. 44, a. 4, ad 3. 54 La nota 14 raccoglie un piccolo dossier storico: si fa particolare riferimento alle esperienze di anacoretismo, citando le Vitae Patrum edite dal bollandista Rosweyde nel 1628, gli Apophtegmata Patrum, l’Historia Lausiaca di Palladio, integrate con testimonianze più antiche (Clemente Alessandrino, Origene e Cipriano). La nota 15 richiama alcuni orientamenti centrali dell’ascetismo antico, citando Gregorio Magno, Basilio e Giovanni Climaco.
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origini, affermazione che viene recepita non secondo una continuità storica, ma come «filiazione spirituale».55 Lo schema rivisto nell’intersessione del 1963 rappresenta il punto più alto della preoccupazione di fondare sul richiamo ai Padri molte affermazioni rilevanti del testo. Le redazioni successive preciseranno meglio l’apporto dei Padri, ma ridimensionandolo. Del resto, si è visto sin dall’inizio che l’apparato delle annotazioni, in questo stadio di elaborazione, è pensato più come strumento di studio e di documentazione, affiancato al testo, che non come redazione più o meno definitiva delle note in calce al testo: prova ne sia, tra l’altro, il fatto che le note continuano a citare anche studi di autori recenti. Bisogna poi dire che le circa 230 citazioni patristiche che accompagnano lo schema rivisto (contro le 43 del testo preparatorio, che era più lungo) sono almeno in parte indebolite dal fatto che il testo è pesantemente condizionato dall’esigenza di tener conto dei diversi orientamenti espressi nel primo periodo conciliare presenti in CD. Valgono per l’insieme del testo i rilievi di Acerbi sui primi due capitoli: la preoccupazione di salvaguardare, per quanto possibile, il materiale del testo preparatorio conferiva allo schema riveduto un carattere fortemente ambiguo, «tale da rendere il nuovo schema “spiacente a Dio e a’ nemici sui”: le critiche, perciò, non tardarono a fioccare da entrambi i lati».56
2. L E
REAZIONI ALLO SCHEMA ALLA VIGILIA DEL SECONDO PERIODO CONCILIARE
A)
L UC I
E OM B RE N E L L E PR I ME R EA Z I O NI
Nel corso dell’estate 1963 incominciarono ad arrivare a Roma le prime reazioni dei padri conciliari al de Ecclesia riveduto.57 Dai testi pervenuti (80 di singoli padri, 13 di conferenze episcopali o gruppi di vescovi) si raccolgono circa cinquanta osservazioni o proposte di emendamento che riguardano l’uno o l’altro aspetto dei riferimenti patristici del testo: la quasi totalità concerne i primi due capitoli, sui quali i padri avevano avuto più tempo a disposizione per l’esame. Si tratta di osservazioni che, almeno per quanto concerne i riferimenti patristici, entrano per lo più nel merito di singoli punti del testo. Solo il 55 Così la nota 18, in riferimento a un passo di EUSEBIO CES., Eccl. Hist. II,17. La nota menziona le regole monastiche di Pacomio, Basilio, Agostino e Benedetto e alcuni testi elogiativi della vita monastica, rinviando a Gregorio Nazianzeno, Giovanni Crisostomo, Nilo, Girolamo, Teodoreto e Cassiano. 56 ACERBI, 203. 57 Gli interventi sono pubblicati in AS II/1, 605-801. Gli emendamenti proposti in questi testi furono raccolti in un fascicolo (cf. ivi, 282-336) e distribuiti ai padri conciliari il 29 settembre. Per uno sguardo d’insieme, cf. ACERBI, 224-237.
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canadese Baudoux critica nel suo insieme lo schema riveduto, perché ancora non valorizza adeguatamente la testimonianza dei Padri orientali, che potrebbe qualificare in modo decisivo il tema del mysterium Ecclesiae e favorire un avvicinamento sia con gli ortodossi che con i protestanti.58 Proprio su questo punto, peraltro, un padre orientale dava un giudizio molto più lusinghiero: è il patriarca maronita Meouchi, che, nel quadro di un giudizio positivo sull’insieme del c. I, scrive che lo schema insiste sul mistero del Cristo vivente nel suo Corpo mistico; parla della Chiesa in relazione con la missione del Figlio di Dio, compie un ritorno al realismo spirituale della tradizione greca, che subordina l’appartenenza giuridica alla Chiesa all’appartenenza sacramentale e mistica.59
La questione che suscita più apprensioni, nel primo capitolo, è il tema della Ecclesia ab Abel, introdotta al n. 2. Nessun padre appare particolarmente entusiasta al riguardo, diversi mostrano di non capirlo o semplicemente lo rifiutano, nonostante l’innegabile fondamento tradizionale. Un primo aspetto del problema, notato da alcuni, è il fatto che, rigorosamente parlando, il mistero della Chiesa incomincia non con Abele, ma con Adamo: lo rilevano Siri, Carli e Janssens,60 che, evidentemente, non tengono conto dello specifico accento sulla dimensione del giusto Abele, che caratterizza l’approccio agostiniano (ripreso poi da Gregorio Magno e dagli autori medievali) alla questione. Al di là del problema se si debba parlare di Ecclesia ab Adam piuttosto che di Ecclesia ab Abel, per altri semplicemente si dovrebbe lasciar cadere tutta la questione. Il più deciso, in questo senso, è il vescovo gesuita McEleney, che giudica tutto il tema, per quanto antico, insicuro (quindi in contrasto con il principio, ribadito dal Commentarius allo schema, di non trattare le dottrine discusse) e frutto di una «costruzione teologica che non merita di essere introdotta in una costituzione dogmatica»;61 tanto più che lo schema può esprimere i principi soggiacenti al tema in altro modo, meno ambiguo; si eviterebbe così, tra l’altro, d’introdurre il termine Ecclesia pressoché all’inizio della schema con un significato atemporale e asociale. Le difficoltà più forti vertono sulla frase «questa assemblea dei giusti (congregatio iustorum) viene chiamata dai santi Padri Chiesa universale»: i vescovi tedeschi notano che il testo non aveva ancora parlato di una congregatio iustorum, che appare quindi introdotta ex abrupto; un po’ sprezzantemente, il francescano Capozi, vescovo in Cina, chiede: «Dunque la Chiesa universale è l’assemblea dei giusti? Io, dunque, vescovo, non appartengo alla Chiesa, in quanto peccatore? Occorre dunque defi-
58 59 60 61
Cf. AS Cf. AS
AS II/1, 619. II/1, 694. AS II/1, rispettivamente 609, 630, 676. II/1, 689, anche per quanto segue.
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nire con chiarezza, distinguendo tra la Chiesa nella Patria e la Chiesa in esilio, ecc. ecc.».62 Anche Conway mette in rilievo una certa illogicità del passo, che sembra mettere sullo stesso piano la congregatio iustorum, l’Ecclesia, il populus Dei, senza differenziare e non chiarendo bene il rapporto con Israele.63 Una confusione analoga è rilevata dall’intervento di De la Chanonie e altri:64 essi criticano la frase perché sembra dire che questa congregatio è composta da tutti i discendenti di Adamo, da Abele in poi, ma non tutti possono essere detti «giusti».65 Così com’è, l’espressione sembra contraddittoria: al tempo stesso comprende ed esclude i peccatori; solleva inoltre la questione se nella Chiesa si debbano includere anche i padri dell’AT e di cosa si debba intendere per «membri» della Chiesa. Secondo i vescovi della regione di Bordeaux, un più articolato riferimento alla prospettiva escatologica – che potrebbe basarsi su uno dei testi di Agostino citati nelle note – permetterebbe di chiarire meglio la portata del testo.66 La revisione dello schema, come vedremo, si muoverà precisamente in questa direzione. L’insieme delle osservazioni qui riportate si ricollega ai rilievi che verranno sollevati sul n. 7, dove si mettono in rapporto il «mistero» e la Chiesa in quanto realtà visibile. Qui non è in discussione esplicitamente una dottrina patristica,67 ma il testo fu oggetto di molte critiche per la mancata armonizzazione delle dimensioni comunionale/mistica e istituzionale della Chiesa.68 Il problema emerge anche da altri interventi sul primo capitolo. Carli, ad es., critica la «definizione» di Chiesa data al n. 3,69 perché non tiene conto degli elementi istituzionali (il regimen unitatis, secondo le parole di Carli), che pure è essenziale perché si abbia la vera Chiesa di Cristo: e richiama al riguardo il passo di Cipriano (Ep. 69,6) citato alla nota 5 facendo notare che, secondo il vescovo di Cartagine, il riconoscimento della Chiesa comporta necessariamente il riconoscimen62 AS II/1, 643; nello stesso testo, Capozi dà un giudizio piuttosto severo anche sul tono d’insieme del capitolo: «…compositio facta animo non pacato, facta videtur nimia excitatione nervorum. Stylus asper, nimis scholasticus, sermo durus, expositio confusa potius et ambigua…». Un rilievo stilistico analogo si legge nell’intervento dei vescovi della regione apostolica di Bordeaux (cf. ivi, 756); per i vescovi tedeschi, che propongono anche una redazione alternativa, cf. ivi, 775. 63 Cf. AS II/1, 644. 64 L’intervento è firmato anche da M. Lefebvre, A. Grimault, X. Morilleau e J. Prou: cf. AS II/1, 647s. 65 In una linea analoga, Welykyj propone che si scriva «congregatio redemptorum», anziché «iustorum»: cf. AS II/1, 747. 66 Cf. AS II/1, 756s; il testo al quale si fa riferimento è AGOSTINO, Serm. 341,9,11, di cui la nota 1 riporta alcune righe. Il rinvio rimarrà nel testo definitivo, ma solo come citazione di appoggio, senza testo. 67 Mons. Nguyen Van Binh ha rilevato, però, il valore tradizionale, patristico, del parallelo tra Chiesa e Verbo incarnato; ma giudica poco felice l’analogia (qui, del resto, non ancora ben sfumata) tra unione ipostatica e natura della Chiesa: cf. AS II/1, 699. 68 Cf. ACERBI, 226. 69 «Congregatio eorum, qui in Iesu salutis auctorem et pacis ac unitatis principium credunt, est Ecclesia ab Eo convocata et legitime constituta, ut sit pro universis et singulis sacramentum visibile huius salutiferae unitatis»: p. 8, 18-21.
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to del vescovo legittimamente costituito – il che rappresenta un elementum regiminis.70 Su un altro versante, McEleney prenderà spunto da un uso «vago e impreciso» del termine communio al n. 9 per criticare l’insufficienza della prospettiva comunionale: communio, lamenta il presule, benché sia assolutamente tradizionale, non compare quasi mai nel testo.71 Sembra troppo poco presente, però (solo tre volte, conta Carli) anche la voce societas, che pure, «applicata alla Chiesa, è classica anche nei Padri»: il vescovo di Segni sottolinea che questo termine richiama l’elemento visibile, primario nell’ordine conoscitivo, ed è più comprensibile per gli uomini di oggi – oltre che meglio rispondente alla «legge dell’Incarnazione» – rispetto a mysterium o congregatio.72 Il fuoco incrociato dei pareri diversi tocca altri aspetti delle scelte linguistiche fatte dai redattori dello schema. Già in sede di CD, l’abbiamo accennato, l’utilizzazione di sacramentum in un senso lato aveva suscitato difficoltà, nonostante il fondamento patristico. Ora Tabera Araoz, esplicitamente, chiede che non si tenga conto dell’uso patristico, per evitare confusioni con l’accezione più consueta del termine; così anche Krol, pur riconoscendo la portata dei testi patristici citati alla nota 5; l’uno e l’altro suggeriscono di usare eventualmente mysterium.73 Di segno opposto Seitz, che esprime apprezzamento per il termine e per il concetto – ritenuti «tradizionali» –, e che invita quindi a un uso più coraggioso di sacramentum.74 Un ultimo esempio di insoddisfazione per la nuova redazione del c. I riguarda la questione dei membri della Chiesa. Come si è visto, i redattori hanno preferito lasciar cadere questo termine: non vi sono riusciti del tutto, però, e un lettore attento come Carli ha rilevato tre occorrenze del termine.75 Dal momento che, secondo il Commentarius del c. I, lo schema non intende prendere posizione sulla quaestio disputata del valore ed estensione del termine «membro»,76 Carli ha gioco facile nel chiedere 70
Cf. AS II/1, 630. Cf. AS II/1, 690; si veda anche il testo dell’ausiliare di Napoli, Savino, 705s. McEleney è ancora tranchant nel suo rifiuto dell’ontologia platonico/agostiniana che soggiace alla presentazione della condizione dei peccatori nella Chiesa, nel n. 8 (cf. ivi, 689). 72 Cf. AS II/1, 627. Per l’utilizzazione del concetto di «società» in chiave ecclesiologica al concilio, cf. B.-D. DE LA SOUJEOLE, «L’Église comme société et l’Église comme communion à Vatican II», in RThom 91(1991), 236-243. 73 Cf. AS II/1, 729 (Tabera Araoz) e 682 (Krol). 74 Cf. AS II/1, 708. Negli interventi di mons. Seitz si osserva un’attenzione notevole alla tradizione patristica. Francese, vescovo missionario in Vietnam, mons. P.-L. Seitz (1906-1984) era in contatto con de Lubac e lo consultò alcune volte per la preparazione dei suoi interventi in concilio; de Lubac esprime apprezzamento anche per il teologo personale di Seitz e di altri vescovi vietnamiti, il p. J. Dournes, probabile autore di molti interventi del vescovo (cf. J-de Lubac, I, 236s, 329, 371s, 384; II, 145, 367, 427) e di una proposta di testo per il nuovo c. II «de populo Dei» (cf. Y. CONGAR, Le Concile de Vatican II. Son Eglise, peuple de Dieu et Corps du Christ, Beauchesne, Paris 1984, 132). Seitz e Dournes appartenevano all’Istituto per le missioni straniere di Parigi. 75 Cf. AS II/1, 628: Carli indica pp. 9, 9; 25, 30; 28, 20, ossia i nn. 5, 14 e 17. Solo nell’ultimo caso il testo riprende, con minime variazioni, lo schema preparatorio. 76 Cf. Commentarius, 22 (= AS II/1, 230s). 71
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che valore si debba dare ai passi in questione. Per Carli, il termine va usato senza timori, in quanto espressione biblica e patristica; piuttosto che eliminarlo, il concilio dovrebbe spiegarlo rettamente. E aggiunge, con una punta di malizia: Si è detto tante volte, nella prima sessione, che dobbiamo lasciar cadere la terminologia scolastica e teologica, e tornare invece a quella biblica e patristica. Su, dunque! Parliamo di «membri» della Chiesa come ne hanno parlato i Padri! Il silenzio del Concilio a questo riguardo è un regresso, più che un progresso!77
Al di là della questione terminologica, il giudizio di un Elchinger è che il nuovo schema sia troppo debole, e anche in parte contraddittorio, su questo problema: al n. 11, il testo sembra affermare l’appartenenza alla Chiesa solamente di quanti vivono in comunione visibile con il papa; ma in altri passi esso presuppone un’estensione della Chiesa che va oltre i suoi confini visibili, come indica tra l’altro la citazione di Ireneo (Adv. haer. III,24,1) introdotta al n. 4 e riportata in extenso alla nota 6, dove si corrispondono in parallelo le frasi «Ubi Ecclesia, ibi et Spiritus Dei / ubi Spiritus Dei, ibi Ecclesia»: ora precisamente, sottolinea il presule, «lo Spirito e la grazia sono dati anche ai cristiani in buona fede, giuridicamente separati da Roma», secondo quanto affermato al n. 9.78 Nella stessa linea, Elchinger trasmette altre critiche allo schema, che tengono conto della tradizione patristica. Giudica debole, sotto il profilo teologico, il paragrafo sulla relazione della Chiesa con i non cristiani (n. 10), perché il punto di vista esposto è individualista ed estrinseco e «non menziona né la solidarietà di tutta l’umanità col Figlio di Dio, così fortemente affermata dalla tradizione greca, né il ruolo preparatorio positivo delle religioni cosmiche»;79 anche sul piano pastorale, poi, il testo non fonda a sufficienza l’azione missionaria e non orienta abbastanza il dialogo dei cristiani con i pagani. Il tema biblico e patristico della solidarietà universale nel Figlio di Dio incarnato, morto e risorto per tutti, dovrebbe essere un principio ispiratore del testo. Sarebbe poi da valorizzare il tema – anche in questo caso, nota Elchinger, biblico e patristico – dell’alleanza «cosmica» (Adamo e Noè), nella quale Dio si manifesta a tutti attraverso le mediazioni religiose della creazione e della coscienza.80 77
AS II/1, 628. Cf. AS II/1, 656s. 79 AS II/1, 657, anche per quanto segue. In realtà, come si è visto, il tema della praeparatio evangelii è sviluppato in modo relativamente ampio nella nota 38; ma si tratta, appunto della nota: per questo anche Seitz – vescovo missionario – critica il testo e suggerisce di integrarlo con gli elementi presenti nella nota, che possono contribuire a un ripensamento complessivo della missione e del documento che dovrebbe trattarne: cf. ivi, 710. 80 AS II/1, 657s. Elchinger aveva partecipato – ritornandone però piuttosto deluso, secondo Congar – alla sessione di studio sul nuovo schema organizzata dai vescovi tedeschi a Fulda il 26-27 agosto 1963 (cf. J-Congar, I, 391: 31 agosto 1963). Non è chiaro, dalle fonti pubblicate, se il testo inviato a Roma sia stato redatto prima o dopo questo incontro; vi sono comunque assonanze tra le osservazioni di Elchinger e quelle dei vescovi tedeschi, per i quali cf. AS II/1, 772-783. 78
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B)
C ON FLIT TI
INT E R P R E TATI V I I N TO R NO A LLA QUE STI O N E D E L L A CO LL EG I A LI T À
I rilievi riguardanti le testimonianze patristiche del c. II dello schema rivisto riflettono il problema centrale sul quale si confrontano quasi tutte le osservazioni inviate a Roma prima della ripresa dei lavori conciliari: il modo diverso di intendere il rapporto tra episcopato e papa nella struttura gerarchica della Chiesa.81 È interessante osservare come due padri, evidentemente rappresentativi delle due tendenze, fanno riferimento a un medesimo celebre (e discusso) testo patristico – non citato, peraltro, nello schema. Il primo è Carli, che prende in considerazione l’affermazione del n. 11 (testo di nuova redazione), secondo cui «il Signore Gesù ha fondato la sua Chiesa, dotandola di vari doni spirituali, su Pietro roccia e sugli Apostoli» (p. 23, 9s).82 Il vescovo di Segni oppone seccamente questa considerazione: Non c’è alcun dubbio che Cristo ha fondato la sua Chiesa su Pietro singolarmente preso (Mt 16,18), quale pietra di fondazione. «Edifica su uno le sue pecore» (S. Cipr., De un. Eccl. 2). La ragione di ciò è indicata dal Con. Vat. I (DB 1821): perché sia salvaguardato l’episcopato e l’unità dei credenti. Già solo per questo sembra da escludere che anche gli apostoli siano stati costituiti quali fondamenta della Chiesa (almeno nel senso di Mt 16,18 e Gv 21,16).83
Il passo di Cipriano, menzionato da Carli, è notoriamente oggetto di una querelle secolare, a tutt’oggi non risolta in modo sicuro: il testo è stato trasmesso in due redazioni diverse (chiamate Textus receptus e Primatus textus), e se molti studiosi propendono per ritenerle entrambe risalenti a Cipriano, l’unanimità al riguardo è tutt’altro che realizzata. Carli, sia pure con qualche approssimazione, richiama la redazione «primaziale».84 Allo stesso passo allude Seitz, occupandosi però del n. 16, dove è in questione il rapporto tra il collegio episcopale e il suo capo. Qui lo sche81
Sguardo d’insieme in ACERBI, 229-236; BETTI, La dottrina dell’episcopato, 99-116. In sede di CD vi era stata in merito un’estenuante discussione: di fronte ai tentativi dei «romani» di svuotare di ogni significato giuridico la dimensione fondativa degli apostoli, per ricondurla al solo Pietro, un Congar esasperato annotava: «“Ils” ne pensent qu’à une chose: mettre du pape partout, le mettre au-dessus de tout, ne voir que lui, faire consister en lui toute l’Église!»: J-Congar, I, 345 (9 marzo 1963); cf. anche ACERBI, 204s. 83 AS II/1, 628s. 84 Il paragrafo citato è il 4 (e non il 2), e la citazione corretta e completa, secondo il testo della PL presumibilmente familiare alla maggior parte dei padri conciliari, è: «Super illum [unum] aedificat Ecclesiam suam, et illi pascendas mandat oves suas», de un. Eccl. 4: PL 4,499A; EPatr 555 riporta il passo con le varianti. Si noti che unum non è attestato dai manoscritti, ma si legge nell’edizione di É. Baluze del 1726, ripresa in PL: cf. l’apparato critico in CIPRIANO DI CARTAGINE, L’unità della Chiesa (De Ecclesiae catholicae unitate), S. Clemente-ESD, Roma-Bologna 2006 (SCh - Ed. it., 1), 178; all’Introduzione di P. Siniscalco, in questa stessa edizione del de unitate Ecclesiae, 91-119, rinviamo per il complicato status quaestionis della duplice redazione. 82
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ma – più dipendente, in questo caso, dal testo preparatorio – richiamava ancora Mt 16,18 (sul potere di «legare e sciogliere»), accostandovi però anche 18,18, per affermare: «[Cristo] ha conferito la potestà di legare e di sciogliere sia a Pietro, sia ai Dodici Apostoli insieme» (p. 27, 20-22). Al testo qui citato era apposta la nota 30: vi si richiamavano alcune righe dello schema del de Ecclesia Christi del Vaticano I, che ribadiva la supremazia del papa, sottolineando che il potere di legare e sciogliere è dato al solo Pietro («Petro soli datum est»), sebbene poi fosse dato anche al collegio dei vescovi in unione col papa. Ora, secondo Seitz, tutto il passo dello schema riveduto riflette chiaramente l’impostazione del Vaticano I: l’espressione «Petro soli datum est» è una espressione maldestra. Cristo dà i poteri anzitutto a Pietro per mostrare che ciò che poi dà a tutti, lo dà come a uno solo, secondo la parola di s. Cipriano: «per manifestare l’unità dispose con la propria autorità che l’origine della stessa iniziasse da uno solo… l’esordio è dall’unità, per mostrare che la Chiesa di Cristo è una sola» (cf. Épiscopat et Église universelle, pag. 334).85
Al di là del fatto che i due vescovi si richiamano alle due diverse recensioni del testo di Cipriano – e non abbiamo bisogno, qui, di prendere posizione per l’una piuttosto che per l’altra – è abbastanza evidente l’approccio diametralmente opposto con il quale entrambi si richiamano all’autorità dello stesso Padre e anzi al medesimo passo per sostenere punti di vista difficilmente conciliabili; ed è anche chiaro che lo schema si presenta come poco coerente, troppo facilmente attaccabile dall’una come dall’altra parte. Per quanto riguarda Cipriano, la divergenza testuale del de unitate Ecclesiae e le difficoltà interpretative che ne nascevano senza dubbio non avrebbero permesso a questo testo di trovare posto nei documenti conciliari.86 La difficoltà di una valutazione condivisa dell’apporto dei Padri emerge anche a proposito della nozione di collegium e del conseguente approccio alla collegialità. Dei quattro interventi che si occupano anche dell’attestazione patristica di questa nozione, due la respingono e due la accettano. Healy, priore generale dei Carmelitani, è decisamente contrario: la nozione di «collegio» è estranea alla Scrittura e conduce inevitabilmente al conciliarismo e all’episcopalismo; «è un’idea che non viene dalla Scrittura o dalla tradizione antica, ma che si è piuttosto formata lungo i secoli sotto l’influsso di dottrine non certo eminenti per fedeltà
85 AS II/1, 715. Seitz rinvia allo studio di B. BAZATOLE, «L’Évêque et la vie chrétienne au sein de l’Église locale», in L’Episcopat et l’Église universelle (*1962), 329-360: a p. 334, nota 2 il passo di Cipriano vi è citato secondo il textus receptus. 86 Non fu accettata neppure la proposta di Carli, trasmessa in questo stesso contesto, di aprire il de Ecclesia con un’altra citazione del de unitate Ecclesiae: «Lux gentibus cum venerit Christus et sospitandis hominibus salutare lumen effulserit» (AS II/1, 627; anche in questo caso, la citazione è lievemente ritoccata, probabilmente per adattarla al testo dello schema, e il paragrafo indicato da Carli – il n. 1 – è scorretto: si tratta del n. 3, che legge: «…lux gentibus venit et sospitandis hominibus salutare lumen effulsit»).
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all’ortodossia».87 Healy deve riconoscere, naturalmente, che di collegium parlano alcune testimonianze antiche, in particolare Cipriano e Ottato di Milevi (erano citati con Tertulliano, come si è visto, nella nota 28): tuttavia, a suo giudizio, il senso che essi davano al termine era del tutto diverso e si limitava a indicare la necessaria unità dell’episcopato, senza conferirgli la portata dottrinale e giuridica che lo schema sembra attribuirgli. Sul versante opposto incontriamo ancora Seitz che, però, ritiene insufficiente la fondazione tradizionale della collegialità presentata dallo schema, perché la nota 6, osserva, sfiora soltanto la questione e cita esclusivamente documenti recenti, corrispondenti a un’epoca di individualismo; la nota 28 fornisce invece preziose basi patristiche; il n. 17 contiene gli elementi della questione, ma non sufficientemente strutturati.88 La stessa attenzione a fondare adeguatamente, sul piano patristico (e liturgico), la questione della collegialità emerge dalla proposta di un testo alternativo al n. 14, inviato dai vescovi della regione apostolica sudoccidentale della Francia: vi si avverte la preoccupazione di collegare più strettamente la sacramentalità dell’episcopato e la collegialità. Il testo proposto sottolinea (richiamando un passo dell’Ep. 67 di Cipriano), che i vescovi radunati per l’ordinazione di un nuovo vescovo agiscono «in persona totius episcopatus» e che con «l’ordinazione sacramentale conferiscono al nuovo eletto la pienezza del compito apostolico conferito dal Signore al collegio apostolico e trasmesso a tutti i successori».89 In una linea simile si muove un documento dei vescovi della regione apostolica di Parigi «De collegio episcoporum cum Petri successore unito», annesso alle osservazioni sullo schema;90 mentre un altro invito a sviluppare meglio la teologia della collegialità partendo dalle sue basi patristiche giunge dal peruviano Dammert Bellido nelle osservazioni sul n. 16: oltre a richiamare alcune righe dell’Ep. 66,8 di Cipriano (cui si rifanno anche i vescovi della regione parigina), sottolinea come questa teologia sia già ben delineata da Pio XII, nell’enciclica Fidei donum.91 87 AS II/1, 671, anche per quanto segue. L’argomentazione di Healy è ripresa, in termini più succinti, da Tabera Araoz: cf. ivi, 732s. 88 Cf. AS II/1, 712. 89 Cf. AS II/1, 771. Richiamandosi allo studio di B. BOTTE, «L’Ordre d’après les prières d’ordination», in Études sur le sacrement de l’Ordre (*1957), il testo proposto affermava: «Sacramentum episcopatus est corporis episcoporum actio collegialis novum electum ordini episcoporum aggregans atque faciens eum participem collegii» (AS II/1, 770). 90 Cf. AS II/1, 754-756. Secondo questo testo, il collegio dei vescovi succede per diritto divino al collegio apostolico (cf. 754); al collegio episcopale si è aggregati in virtù dell’ordinazione, che conferisce i munera di santificazione, magistero e governo per il bene di tutta la Chiesa (cf. 755), e si aggiunge: «Ecclesiam enim, secundum verba S. Cypriani, Sacrosancta Synodus fatetur connexam esse et cohaerentium sibi invicem sacerdotum glutino copulatam (cf. Epist. LXVI,8,3; cf. Denz. 1821), “cum sit a Christo una Ecclesia per totum mundum in multa membra divisa” (Epist. LV,24,2) itemque “episcopatus unus episcoporum multorum concordi numerositate diffusus” (ibid.)» (755). 91 Cf. AS II/1, 646; Dammert Bellido rinvia ad AAS 49(1957), 237s, ma sembrano più ad rem le pp. 235-237; il rinvio allo stesso passo di Fidei donum, nello stesso contesto, si legge anche nelle osservazioni del vescovo missionario Kramer (cf. AS II/1, 681).
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Si può rilevare che il riconoscimento di un legame più forte tra sacramentalità dell’episcopato e collegialità avrebbe aiutato lo schema a uscire dalle ristrettezze dell’approccio occidentale alla questione. Mons. Jacq pronostica, nel testo da lui inviato, che il c. II sarà causa di difficoltà sul piano ecumenico, proprio perché imposta le cose trascurando l’orientamento teologico dell’oriente cristiano.92 Le questioni della collegialità e del rapporto papa-vescovi hanno assorbito la maggior parte dell’attenzione dei padri; sul resto del c. II le osservazioni inviate diminuiscono per numero e approfondimento.93 Per quanto concerne l’episcopato, possiamo raccogliere solo un paio di osservazioni di tenore patristico, che vertono rispettivamente sul munus sanctificandi e sul munus docendi dei vescovi.94 Un po’ più articolato è l’intervento di Seitz a proposito della parte dello schema dedicata ai presbiteri: il presule chiede che ne sia evidenziata soprattutto la dimensione collegiale, affermata chiaramente dalla Tradizione, e cita al riguardo Ignazio di Antiochia (Fil. 4) e il rito di ordinazione della Tradizione apostolica, in aggiunta ai testi di Cipriano e Leone Magno già indicati alla nota 21 dello schema. Seitz riprenderà la proposta (e le fonti indicate) anche durante il dibattito del secondo periodo.95
C)
I N C E RTE ZZE SU I C A PITOLI
E D E L US I O N I
III-IV
Ancor più limitato è il materiale inviato dai padri conciliari sui cc. III e IV, del resto spediti solo un paio di mesi prima della ripresa dei lavori a Roma.96 Sul c. III è da segnalare in particolare un’osservazione di Carli, legata alla richiesta di salvaguardare la distinzione tra sacerdozio dei fedeli e sacerdozio ministeriale e mantenere l’essenziale diseguaglianza tra i membri della Chiesa. Riferendosi al titolo del capitolo, Carli chiede quindi che per evitare ambiguità, si dica chiaramente sin dall’inizio che cosa significa l’espressione «popolo di Dio», e in quale senso è usata nello schema. Si noti: presso i Padri (ad es. Cipriano) e nella Liturgia (ad es. «Unde et memores…» nella Messa) «plebs sancta Dei» o «populus Dei» sono distinti rispetto alla gerarchia.97
92 Cf. AS II/1, 674. Non a caso Meouchi invia suggerimenti per ripensare la questione della sacramentalità in una linea più coerente con la tradizione orientale: cf. ivi, 697. 93 Lo nota ACERBI, 234. 94 Llopis Ivorra, richiamandosi ad AGOSTINO, Enarr. in Ps. 63,2, sottolinea l’importanza dell’esempio della vita del vescovo, come parte del suo munus sanctificandi (cf. AS II/1, 683s). Il già citato documento dei vescovi della regione parigina (cf. nota 90) vuole evidenziare, alla luce di IRENEO, Adv. haer. I,20,2, l’impegno di tutta la Chiesa – e, su questa base, di tutto il collegio episcopale – nel custodire e annunciare tutto ciò che appartiene alla fede cattolica (cf. AS II/1, 755). 95 Cf. AS II/1, 717; II/3, 541s. 96 Sguardo d’insieme in ACERBI, 236s. 97 AS II/1, 639. L’osservazione di Carli è generica e non molto precisa: i testi liturgici, ad es., come si rilevava in studi fatti già negli anni ’40, si rivolgono spesso a Dio con
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Più favorevole di Carli all’affermazione del sacerdozio universale, Russo ritiene che il n. 24 lo provi «benissimo, ed efficacemente, con l’apporto dei sacri testi e delle autorità dei Padri dei primi secoli»; è inadeguata, invece, a suo giudizio, la documentazione nel magistero recente, al fine di «dimostrare l’attenzione continua (anche se non con l’accento e quasi con l’urgenza di oggi) della S. Chiesa a questo singolare dono, ed impegno, del popolo cristiano».98 Registriamo infine, per chiudere questa rassegna delle prime reazioni dei padri conciliari al de Ecclesia rivisto nell’intersessione 1962-63, il secco giudizio negativo di Seitz sul c. IV: è l’unico, tra i testi inviati a Roma nell’estate del 1963, ad accennare qualcosa intorno alla documentazione allegata a questo capitolo. Se il testo del capitolo è «assolutamente insufficiente, deludente, ambiguo», se il proemio «afferma senza fondare; è inutile», la prima nota non viene trattata meglio: essa sembra una presa in giro: non è secondo Origene soltanto che la perfezione significa somiglianza con Cristo! non è solo per s. Tommaso che la perfezione consiste nella carità, che è di precetto! Quando c’è la testimonianza di tutta la Scrittura, è quanto meno strano volersi appoggiare su qualche teologo celebre per le loro opinioni. Non è scientifico, né ecumenico.99
Ancora una volta, il riferimento ai Padri conferma le grandi linee degli orientamenti che, emersi in modo ancora confuso nel dibattito del primo periodo, si andranno delineando sempre meglio nelle discussioni dell’ottobre 1963. I testi inviati nei mesi immediatamente precedenti mostrano che l’attenzione alla testimonianza patristica si fa più precisa, sebbene si avverta ancora – salvo eccezioni – una scarsa familiarità con aspetti della ricerca più recente: si pensi alla questione, che incontreremo ancora, della Ecclesia ab Abel. Per altro verso, le prime osservazioni allo schema riveduto sembrano indicare che neppure l’abbondante documentazione patristica allegata al testo risolveva i problemi del suo carattere di «compromesso»; e che, forse, proprio questo carattere del testo finiva per indebolire la portata dell’argomento patristico. Non stupisce allora constatare che nel grande dibattito ecclesiologico del secondo periodo anche i Padri della Chiesa avrebbero giocato un ruolo di primo piano.
l’espressione «populus tuus», a indicare la Chiesa in quanto tale: cf. Y. CONGAR, «L’Église comme peuple de Dieu», in Conc(F) 1(1965), 22s. Come notava l’allora card. Ratzinger, presentando nel 1978 l’edizione italiana di Volk und Haus Gottes, «la liturgia della chiesa… conosce a malapena l’espressione “corpo di Cristo”, mentre definisce correntemente come suo soggetto il “popolo di Dio”» (J. RATZINGER, Popolo e casa di Dio in s. Agostino, Jaca Book, Milano 1971, 21978, XIIs); Carli sarà più preciso, intervenendo sullo schema del 1964: cf. AS III/1, 670. Sempre per il c. III, Carli proponeva una modifica al n. 24, ove si accenna alla Ecclesia domestica, in modo da rispettare più fedelmente il testo di Agostino cui si rinvia nella nota 8 (cf. AS II/1, 641). 98 AS II/1, 704. 99 AS II/1, 720.
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3. I L
D I B AT T I T O E C C L E S I O L O G I C O DEL SECONDO PERIODO: IL MISTERO DELLA CHIESA
Circa 170, tra i padri conciliari intervenuti nel dibattito ecclesiologico del secondo periodo conciliare, hanno toccato questioni di carattere patristico: rappresentano un quarto, o poco meno,100 di tutti gli interventi sul de Ecclesia fatti nel primo mese dei lavori conciliari,101 riaperti il 29 settembre 1963 con la celebrazione d’apertura e l’allocuzione di Paolo VI. Il materiale raccolto permette di recensire un totale di quasi 300 proposte, osservazioni ed emendamenti a carattere patristico.102 Non è semplice dar conto in modo sintetico di tutto questo materiale, data anche la grande eterogeneità formale e contenutistica degli interventi; nella quasi totalità dei casi, tuttavia, essi si riferiscono ai singoli capitoli, ciò che ne rende più agevole il raggruppamento. Aprendo il secondo periodo conciliare, Paolo VI103 assegna chiaramente al concilio, come asse centrale dei lavori, la questione ecclesiologica – ma comprendendola all’interno di un deciso orientamento cristocentrico – e individua nella questione dell’episcopato la prima delle tematiche incluse nella riflessione sulla Chiesa. Paolo VI ricorda poi le altre finalità principali del concilio: il rinnovamento della Chiesa cattolica, la questione ecumenica, il colloquio della Chiesa con il mondo contemporaneo. I saluti finali sono in greco (con un’aggiunta in russo) e si indirizzano in particolare ai cristiani d’oriente: il papa sceglie di salutarli con quella lingua greca che fu la lingua dei primi concili ecumenici e dei grandi padri e dottori della fede: Basilio Magno, Gregorio Nisseno, Gregorio il Teologo, Giovanni Crisostomo, Cirillo d’Alessandria, Giovanni Damasceno e tanti altri che illuminarono tutta quanta l’ecumene e sono rimasti una gloria per il pensiero cristiano.
3.1. I L DIBATTITO SULLO SCHEMA IN GENERE Tra i padri che, nei primi giorni del dibattito, approvano in linea di principio lo schema riveduto, alcuni sottolineano esplicitamente le sue
100 Gli interventi sul de Ecclesia (escludendo il de Beata Virgine) raccolti in AS II/1-4, se il nostro calcolo è esatto, sono circa 850; ma il numero di padri intervenuti è inferiore, perché alcuni intervennero a più riprese. 101 Per il dibattito ecclesiologico del II periodo, cf. A. MELLONI, «L’inizio del secondo periodo e il grande dibattito ecclesiologico», in SCVII, III, 19-131; ACERBI, 261-314. 102 Bisogna poi aggiungervi un’altra ventina di proposte incluse negli interventi scritti sui cc. I-IV, inviati durante l’intersessione del 1964, ma prima della diffusione della terza redazione dello schema (cf. AS III/1, 547-628): includeremo nella nostra sintesi del dibattito anche questi interventi. 103 Testo dell’allocuzione in AS II/1, 183-200: EV 1/133*-201* da cui riprendiamo la versione italiana della parte finale dell’allocuzione, che citiamo più sotto.
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qualità sotto il profilo patristico. Il 30 settembre, ancora una volta, apre la discussione Frings: parla a nome di 66 padri di lingua tedesca e scandinava e, motivando le ragioni del suo e loro placet, osserva che nello schema si sente «lo spirito della rivelazione divina, derivante dal tesoro della s. Scrittura e della Tradizione di tutti i luoghi e tempi» (1,343):104 sembra superato, dunque, il limite della poca «cattolicità» dello schema preparatorio, che l’arcivescovo di Colonia aveva lamentato meno di un anno prima. Si associano a questo giudizio, rilevando in particolare il miglioramento dell’apporto patristico, gli interventi di Gasbarri, Hermaniuk e Rugambwa del giorno successivo.105 L’approvazione dello schema «in genere» non esclude però riserve ed emendamenti sui particolari. Di fatto, a mano a mano che si procede nel dibattito emergono anche le voci critiche. È particolarmente rilevante, in questo senso, l’intervento del card. Bea durante la 40ª C. G. (3 ottobre), che accompagna l’intervento orale (cf. 2,20-23) con un dettagliato documento scritto (cf. ivi, 23-32). A suo giudizio, lo schema risponde solo in parte all’esigenza espressa da Giovanni XXIII che il concilio illustri la sostanza della vita cristiana a partire dalle fonti della Scrittura e della Tradizione. I testi biblici sono da rivedere accuratamente: lo aveva già sottolineato Ruffini, e Bea lo richiama esplicitamente. Per quanto riguarda la tradizione, lo schema dovrebbe privilegiare le fonti antecedenti le divisioni tra i cristiani, e in particolare quelle della antiquissima traditio Ecclesiae. Ora, tutto ciò nello schema è inadeguato: e Bea lo esemplifica già nell’intervento orale – ad es. notando l’insufficiente argomentazione tradizionale dove si tratta della sacramentalità dell’episcopato o del ministero dei presbiteri, o del Concilio ecumenico… (cf. ivi, 21s). Le Animadversiones scritte danno altri esempi, che riprenderemo nei luoghi opportuni. Altri padri appoggiano i rilievi di Bea, anche se con sfumature: concorda, per ciò che riguarda la Scrittura, il cardinale di Bombay Gracias; per la tradizione, invece, ritiene che lo schema debba fare appello a tutta la Tradizione, perché la finalità ecumenica è subordinata a quella del rinnovamento della Chiesa, che deve scaturire dall’«immagine integra e universale della Chiesa»; e cita l’Essay on the development of Christian doctrine di Newman come esempio classico di questo modo di integrare l’insieme della tradizione e lo sviluppo dogmatico (cf. 2,311). Tra le voci critiche si leva – a dibattito avviato già da diversi giorni – anche quella di Zoghby: nello schema riveduto permane, a suo giudizio, un approccio unilateralmente occidentale, che trascura il contributo ecclesiologico della tradizione orientale, che potrebbe completare ed equilibrare l’ecclesiologia latina (cf. 2,615). 104 Quando non vi siano altri elementi da annotare, inseriamo direttamente nel testo i rinvii ad AS II, indicando numero di tomo e pagina. 105 Cf. AS II/1, 376 (Gasbarri), 368 (Rugambwa, a nome di vari vescovi d’Africa e Madagascar) e 370 (Hermaniuk, che sottolinea la presenza di Padri greci, come Giovanni Damasceno, Cirillo Alessandrino, il Crisostomo, Origene, Ignazio, Ireneo, Basilio). Elogiativo delle qualità bibliche e patristiche del nuovo schema è anche l’intervento di Gúrpide Beope, ivi, 403.
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Un certo numero di interventi ha rilevato alcune carenze dello schema, o ha espresso il desiderio di integrare alcuni temi particolarmente significativi alla luce della tradizione patristica. Gargitter sottolinea la necessità di’includere nello schema la questione della Ecclesia Crucis, alla quale rinviano la Scrittura e i Padri (cf. 1,360s); Grotti vorrebbe una trattazione più completa del consilium Dei, qual è espresso nelle anafore soprattutto orientali, ma anche nel testo di Gregorio Magno al quale allude solo frammentariamente la nota 1;106 Bonomini chiede un’esplicitazione dei testi biblici fondativi del primato alla luce della tradizione patristica (cf. 1,400). Più sostanziale la richiesta di Garrone, a nome di altri otto vescovi francesi: vorrebbero inclusa nel de Ecclesia la riflessione sulla Tradizione; se questa, infatti, fosse considerata indipendentemente dalla Chiesa, ne potrebbero nascere difficoltà insuperabili. L’immagine della Tradizione come realtà viva, secondo questi vescovi, è quella della comunità apostolica raccolta intorno all’insegnamento degli apostoli, nell’unione fraterna, nella frazione del pane e nella preghiera (cf. At 2,42): «Qui c’è la tradizione vera e piena. Qui, infatti, c’è la Chiesa».107 In una linea simile, ma con un’altra preoccupazione, Vuccino, a nome di sette altri presuli missionari, chiede che il de Revelatione sia incorporato nel de Ecclesia, dati i vincoli strettissimi che ci sono tra le due cose, e dato il fatto che la Scrittura ci giunge in virtù di un discernimento ecclesiale.108 Il nunzio apostolico in Spagna, Riberi, ha presentato un’articolata riflessione per suggerire che lo schema tratti dell’apporto positivo che la Chiesa può e deve dare al progresso delle scienze e delle arti, e ha richiamato al riguardo l’esempio dei Padri alessandrini, di cui sottolinea la grande apertura culturale, motivata dal desiderio di raccogliere tutti i semi di verità sparsi da Dio nel mondo.109
3.2. I L
PR IMO CAP I T OL O
a) Ecclesiologia misterico-eucaristica La maggior parte degli interventi sul c. I, che chiamano in causa la testimonianza patristica, verte su singoli aspetti del testo e ricalca in buona misura le osservazioni e le difficoltà già trapelate nei testi inviati a Roma durante l’estate del 1963. Un vescovo orientale, mons. Malanczuk, esarca apostolico degli ucraini di rito bizantino in Francia, ha consegnato per iscritto un testo che si dilunga – con parole quasi identiche a
106 Cf. AS II/1, 348s. In un intervento scritto, Grotti ha poi proposto un testo alternativo per il proemio del documento: cf. AS II/2, 165. 107 AS II/1, 375. L’intervento sarà ripreso e appoggiato anche da Elchinger: cf. AS II/1, 379. 108 Cf. AS II/2, 96; Vuccino cita al riguardo la frase agostiniana «Credo Evangelio quia credo Ecclesiae»; la fonte (non indicata) è c. ep. Man. 5,6 (cf. anche c. Faust. 28,2). 109 Cf. AS II/2, 191s; Riberi cita in particolare CLEMENTE ALESS., Stromata I,7,13.
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quelle già inviate da Meouchi110 – nell’esprimere apprezzamento per il nuovo approccio ecclesiologico, delineato dal capitolo. Si avverte nel capitolo, secondo il presule, una maggiore vicinanza alla tradizione orientale, si sente la preoccupazione di evitare categorie latine e scolastiche; si nota l’attenzione posta alla prospettiva orientale della divinizzazione, radicata nella costituzione umana e divina di Cristo. Resta da migliorare, tuttavia, la determinazione dei testi scritturistici e tradizionali «secondo i criteri di un’esegesi rigorosa e un più ampio uso della tradizione precedente la separazione delle Chiese» (2,178). Nel corso del dibattito, durante la 40ª C. G. del 3 ottobre, due interventi, uno di Volk a nome di altri vescovi di lingua tedesca, uno del francese Martin, chiedono che il capitolo includa una riflessione più ampia sull’ecclesiologia eucaristica. I vescovi tedeschi insistono in particolare sulla tradizione scritturistica e patristica (ad es. Cirillo di Gerusalemme, Agostino), ma ripresa anche da Tommaso e dal Tridentino, dell’eucaristia come sacramentum unitatis (cf. 2,45s). Martin nota che la prospettiva eucaristica permetterebbe una migliore connessione con la costituzione liturgica111 e il suo riconoscimento dell’eucaristia come culmen et fons valorizzerebbe il duplice rapporto: la Chiesa fa l’eucaristia, l’eucaristia fa la Chiesa, e accentuerebbe la connessione con la tradizione orientale (cf. 2,62).
b) L’orizzonte della oikonomia trinitaria Nell’ambito del c. I, i nn. 2-4 costituiscono una prima sezione, che vuole cogliere il mistero della Chiesa nell’orizzonte del disegno salvifico del Dio Trino. Il n. 2 è quello che più ha sollecitato le osservazioni dei padri conciliari, in particolare a proposito della Ecclesia ab Abel, già oggetto di incomprensioni e riserve dal momento in cui lo schema riveduto fu messo nelle mani dei padri. In qualche caso si ripropongono gli stessi argomenti, da parte degli stessi padri: non è difficile, ad es., riconoscere nella proposta della Conferenza episcopale italiana, di parlare di Adam anziché di Abel (cf. 2,211s), le osservazioni già inviate in precedenza da Siri e Carli. Diversi altri padri, tuttavia, riprendono la questione e chiedono, soprattutto, come si debba intendere l’espressione congregatio iustorum, avvertita da alcuni112 come una sorta di «definizione» – però imprecisa e ambigua – della Chiesa. 110
Cf. sopra, nota 59 e testo relativo. Sul contributo che l’approvazione della costituzione liturgica ha dato al dibattito ecclesiologico del concilio, cf. le osservazioni di ACERBI, 240s. 112 Enrique y Tarancón e Jubany Arnau (cf. AS II/2, 155) vi vedono una definizione ambigua, perché l’insieme del capitolo non valorizza a sufficienza la dimensione sociale della Chiesa; Marchetti Zioni (cf. ivi, 179) propone di eliminare questa «locutio descriptiva» e di conservare solo quella del n. 3, che lega la nozione di Chiesa alla fede esplicita in Cristo; anche Catani (cf. ivi, 145), priore dei Camaldolesi, nota l’incongruenza tra la «quasi definizione» del n. 2 e quelle del n. 3 e del n. 7… Per l’insieme delle critiche sul n. 2, cf. ALBERTO, “Corpus Suum mystice constituit”, 445s. 111
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Le difficoltà di fondo sono soprattutto due: la questione dell’universalità (perché la locuzione Ecclesia ab Abel appare restrittiva) e il rapporto tra dimensione invisibile-mistica e dimensione visibile-sociale della Chiesa. Tra gli interventi che toccano questi punti, non tutti si soffermano sull’aspetto patristico. Circa il primo aspetto, solo Morcillo Gonzalez propone l’abolizione dell’espressione «ab Abel iusto», o la sua eventuale sostituzione con «inde ab Adam», chiedendo anche esplicitamente che si elimini la citazione di Gregorio Magno, appunto perché appare restrittiva (cf. 2,182); gli altri si limitano a proporre testi alternativi, senza preoccuparsi del senso e della portata della tematica patristica.113 Circa il rapporto tra dimensione invisibile e visibile della Chiesa, una precisazione viene dall’intervento scritto del camaldolese Catani. Commentando il contrasto che si rileva tra l’immagine di una Chiesa «invisibile», quale appare dal n. 2, e quella molto più connotata dai tratti visibili e storici, di cui al n. 7, osserva: È forse vero che i Padri non hanno indicato una relazione alla futura Chiesa visibile, quando hanno parlato dei giusti dell’antico Testamento che costituiscono la «Ecclesia ab Abel». Ma lo hanno fatto a sufficienza altrove (quando, ad es., hanno parlato della dottrina «fuori della Chiesa non c’è salvezza», l’hanno sempre intesa riguardo alla Chiesa anche visibile) (2,145).
Oggi, secondo Catani, c’è il rischio di svalutare gli elementi di visibilità della Chiesa, col pretesto di evidenziare quelli invisibili: ed è un pericolo da evitare. È la stessa preoccupazione avvertita da un gruppo di vescovi spagnoli, che, per bocca dell’oratore A. del Campo y de la Bárcena, propongono l’artificio grafico di usare ecclesia (minuscolo) per indicare l’insieme di quanti sono chiamati alla salvezza in Cristo, ma Ecclesia (maiuscolo) per indicare la Chiesa fondata da Cristo come realtà storica e concreta: la mancata distinzione porta a usare espressioni imprecise, se non inesatte, qual è appunto «congregatio iustorum» (cf. 2,39). Tra le osservazioni al n. 2, dobbiamo ancora menzionare la critica di Bea circa la questione della prefigurazione della Chiesa nell’AT, tema che il cardinale non ritiene trattato in modo soddisfacente (cf. 2,23) – sebbene, come abbiamo visto in precedenza, esso fosse richiamato dalla nota 2, che lo presentava come «classico» presso i Padri. Nella stessa linea, Bea ritiene non sufficientemente provato, sul piano biblico, il tema di Cristo come principio di unità del genere umano (cf. ivi): è un rilievo che viene anche da Socche, in un intervento di taglio insieme scritturistico e patristico, che tende appunto a dare maggior rilievo al tema della ricapitolazione di tutto in Cristo e alla sua regalità universale.114
113 Cf. le osservazioni di Bea (AS II/2, 23) e le proposte di Ngo-dinh-Thuc (ivi, 1,358), Ruffini (ivi, 392), Sépinski (II/2, 196) e dei vescovi venezuelani (ivi, 216). 114 Cf. AS II/2, 197-199; Socche richiama GIROLAMO, Comm. Eph. 1,10, a proposito del senso di anakephalaioo/recapitulare.
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Mentre non vi sono osservazioni importanti, nella nostra prospettiva, sul terzo paragrafo dello schema,115 per il n. 4 va segnalata una proposta di Lercaro, tesa a illustrare meglio il rapporto Cristo-Chiesa, in virtù dello Spirito, non solo rispetto al passato, ma anche come realtà presente: ciò, tra l’altro, favorirebbe una migliore connessione tra il de Ecclesia e la costituzione liturgica. In questa linea, l’arcivescovo di Bologna suggerisce un emendamento al testo, che sottolinea l’agire attuale di Cristo, nello Spirito, per mezzo dei sacramenti e in particolare nell’eucaristia; e vi include una citazione di Ambrogio (De Spiritu Sancto I,7,89). Il principio qui affermato («nessuna benedizione piena si può dare, se non per l’effusione dello Spirito Santo») è di grande importanza, nota Lercaro, anche per riconoscere il ruolo che la tradizione orientale assegna all’opera dello Spirito nell’eucaristia: Pertanto, l’affermazione di questo principio, davvero tradizionale e teologicamente certo, fatta qui dal Concilio, segnerebbe un grande progresso verso la desiderata unione con gli orientali separati in una questione discussa di non poca importanza. Sarebbe motivo di grande tristezza, se il Concilio dovesse perdere questa occasione datagli da Dio.116
Il n. 4 si concludeva con una citazione di Cipriano che, negli intenti dei redattori dello schema, doveva suggellare tutta la prima sezione del capitolo. Al riguardo vi furono alcuni interventi critici, a partire da quello di Bea, che tocca tre aspetti: da un lato, la citazione non gli sembra ad rem con il n. 4, che tratta solo dell’opera dello Spirito; la frase in sé, poi, non appare chiara e il suo senso sembra essere che la adunatio plebis ha la sua origine nell’unità del Padre e del Figlio e dello Spirito; finalmente, se si intende la frase come conclusione dei nn. 2-4, di nuovo le cose non quadrano, perché in tutto l’insieme nulla è detto circa il modo in cui questa adunatio deriverebbe dall’unità trinitaria (cf. 2,24). Morcillo Gonzalez considera opportuna, in linea di principio, la citazione e la intende nel senso dell’unità delle Persone divine quale exemplar dell’unità sociale della Chiesa;117 teme, però, che si possa considerare la Chiesa quale effetto di tre azioni proprie del Padre, del Figlio e dello Spirito: il concilio non dovrebbe, a suo giudizio, favorire una teolo-
115 Segnaliamo solo la richiesta di Wolff e di una trentina di vescovi malgasci e africani di evidenziare meglio il nesso tra missione del Figlio e incarnazione, alla luce del principio agostiniano «Missus ideoque incarnatus» (AS II/2, 203; allusione forse a In Io. tr. 42, 8: «Christi ergo missio, est incarnatio»). 116 AS III/3, 520: la proposta, di fatto, non ebbe seguito; non sembra neppure protocollata tra gli emendamenti, almeno in base alla Synopsis. Neppure risultano segnalate le proposte di Lercaro, sempre orientate a una maggiore coerenza tra costituzione liturgica e de Ecclesia, riportate in AS III/1, 548s, col rinvio a testi di Ignazio di Antiochia, Queste proposte corrispondevano, però, ad altre dello stesso Lercaro e di altri padri e trovarono una risposta nel rifacimento del n. 20 (diventato poi n. 26): cf. più avanti, c. 7 § 1.3d. 117 Il presule rinvia a Gv 21,22.26 (ma si tratta di un errore, forse di stampa: la citazione corretta è probabilmente 17,21-22.26) e alla liturgia battesimale, con la quale si diventa membri della Chiesa essendo battezzati nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito.
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gia delle azioni proprie ad extra, contro la teologia tradizionale delle appropriazioni; in questa stessa linea, sarebbero da cambiare anche i titoli dei nn. 2-4.118 L’ultimo rilievo che segnaliamo è frutto, probabilmente, di una confusione: secondo Jenny – che parlò in aula il 4 ottobre – il testo di Cipriano dovrebbe essere citato in forma completa, e cioè così: «De unitate Patris et Filii et Spiritus Sancti plebs adunata sacerdoti», dove per sacerdos si dovrebbe intendere Cristo, ma anche il vescovo, immagine del Cristo mediatore, dispensatore e ministro dei misteri di Dio (cf. 2,74). Ma Jenny confonde il passo citato dallo schema (Or. dom. 23) con l’Ep. 66,8, menzionata alla nota 36 del n. 17: è qui che Cipriano usa l’espressione «ecclesia, plebs sacerdoti unita».
c) La Chiesa «corpo di Cristo» e le altre immagini Nei nn. 5-6, i redattori dello schema hanno voluto concentrare la dottrina della Chiesa ricavata dalle immagini bibliche e in particolare, nel n. 5, da quella del «corpo di Cristo». Ad alcuni padri, la sezione è apparsa troppo complessa, poco chiara, troppo infarcita di citazioni bibliche e patristiche, che ne complicano la lettura. È il rilievo di Hervás y Benet (cf. 2,172s): in questo modo, il testo – che, a suo giudizio, si limita a riproporre la dottrina della Mystici corporis – non risponde alle finalità pastorali del concilio, indicate da Giovanni XXIII. Per questo, il presule propone un «ordo idearum» per una nuova articolazione di questa sezione: essa dovrebbe partire dalla citazione di Cipriano posta a conclusione del n. 4 e andrebbe poi articolata in varie tematiche, diverse delle quali (ad es.: la Chiesa come familia Dei, come domus Dei, come Regnum Dei in terra) documentabili con riferimenti biblici e patristici – che, però, non sono indicati (cf. ivi, 174). Anche Temiño Saiz valuta negativamente il n. 5 per la sua complessità e per la poca accuratezza delle citazioni scritturistiche; e propone una nuova stesura che, tra le altre cose, espunge completamente il riferimento al triplice munus, con i relativi riferimenti patristici della nota 10 (cf. 2,200s). Altri interventi, meno critici, chiedono però correzioni o integrazioni del n. 5: qualcuno perché ritiene troppo debole la ripresa della Mystici corporis e vorrebbe maggiore aderenza all’enciclica di Pio XII: così Barbero, che richiama tra le altre cose l’opportunità di uno sviluppo più adeguato dell’ecclesiologia eucaristica di tradizione patristica (cf. 2,141s). Catani sembra aver visto meglio di altri il nodo del problema, quando sottolinea che la concezione di Corpo mistico implicata nel n. 5, che corrisponde all’uso linguistico di Paolo, è diversa rispetto a quella usata dai 118 Cf. AS II/2, 183. Il problema della portata (propria o appropriata) delle affermazioni relative alle Persone divine fu sollevato anche da altri, ad es. D’Almeida Trindade (cf. ivi, 151) e Silva Henriquez (cf. AS II/1, 367). Per la questione interpretativa, cf. MARALDI, Lo Spirito e la Sposa, 217-227 (il testo conciliare si riferirebbe ad azioni proprie delle tre Persone), e DRILLING, «The Genesis of the Trinitarian Ecclesiology», 64.
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Padri e alla quale fa riferimento il n. 2: nel primo caso, infatti, solo i cristiani attualmente viventi nella Chiesa sono il corpo di Cristo, mentre nella visione patristica, e segnatamente agostiniana, la nozione si estende anche ai giusti dell’Antico Testamento.119 Ruffini e Bea hanno criticato poi un’espressione che si legge alla fine del n. 5, dove lo schema, riferendosi alla visione di Ef e Col, e in particolare a Ef 1, 23, scriveva: «Come Cristo è “pleroma”, ossia pienezza di Dio, così la Chiesa è “pleroma”, ossia pienezza del Cristo che inabita in essa»: espressione assolutamente «stonata», secondo Ruffini, perché la Chiesa è parte della pienezza di Cristo Capo e corpo, è il «complemento del Capo», secondo l’interpretazione di Giovanni Crisostomo (cf. 1,394). Più pacatamente, Bea osserva che il testo di Efesini è spiegato in vari modi nell’esegesi cattolica; anch’egli riferisce l’interpretazione del Crisostomo, ma nota che altri intendono il passo nel senso che la Chiesa è «piena di Cristo» – ma certo non nel senso che essa contenga tutta la pienezza di Cristo; lo schema, in ogni caso, dovrebbe fare in modo di astenersi dalla querelle interpretativa (cf. 2,27).120 Per quanto riguarda il n. 6, relativo alle altre immagini della Chiesa, basterà notare qui che alcuni ne misero in luce una certa insufficienza. Šeper, durante l’intervento fatto nella 40ª C. G. del 3 ottobre, apprezza l’uso di diverse immagini per la Chiesa; pur riconoscendo l’impossibilità di coordinarle in modo logico e consequenziale, ritiene che possano dare elementi proficui di riflessione teologica, a patto che i teologi se ne servano in modo equilibrato. Alcune immagini, però, non sono abbastanza approfondite, secondo Šeper, in particolare quella del tempio, che nella tradizione antica aveva un’importanza assai maggiore e che permetterebbe d’integrare la nozione di sacrificio nella descrizione della natura della Chiesa (cf. 2,33). Nelle osservazioni che consegna per iscritto, Bea è molto più specifico: propone di sviluppare meglio il tema della Chiesa Sposa di Cristo, e suggerisce un testo ricco di riferimenti biblici e patristici; dall’immagine della Chiesa Sposa evolve il parallelo Adamo/Eva, Cristo/Chiesa, citando testi di Origene, di Epifanio e della tradizione successiva e rinviando al dossier raccolto sul tema da Tromp.121 Più succintamente, ma nella stessa linea, intorno al tema della Chiesa «mater vere viventium», suggerisce di richiamare testimonianze della tradizione più antica, in particolare di Giustino e Ireneo.122 119 Cf. AS II/2, 146; si veda anche quanto abbiamo annotato sopra, nota 9 e testo relativo. Catani propone, di conseguenza, un’abbreviazione del n. 5, che rileva genericamente il valore paolino e patristico della nozione di «corpo di Cristo» per esprimere la relazione tra Cristo e la Chiesa. 120 Per una rassegna delle interpretazioni di Ef 1,23, cf. Lettera agli Efesini, a cura di U. NERI, Bologna 1994 (Biblia, NT 9), 40-43. 121 Cf. AS II/2, 28s; lo studio di TROMP è «De Nativitate Ecclesiae e Corde Iesu in Cruce», in Gr. 13(1932), 489-527. 122 Cf. AS II/2, 29: suggerisce GIUSTINO, Dial. 100; IRENEO, Adv. haer. c. 24,4 [sic; si legga III,24,1]; e ricorda altri testi citati alla nota 16 dello schema de Beata Virgine.
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d) La Chiesa e i suoi membri Per il resto del capitolo, la discussione ha messo in luce solo pochi aspetti che toccano l’utilizzazione dei Padri. Il conflitto tra orizzonti ecclesiologici diversi rispunta a proposito del n. 7, dove si tratta il tema delicato del nesso tra dimensione sociale e dimensione misterica della Chiesa. Bea lamentò l’insufficienza della documentazione richiamata alla nota 20, che rinviava alla Mystici corporis e alla Humani generis, e aggiungeva che «Pio XII segue le tracce di molti predecessori». Ma, dice Bea, «le testimonianze non dovrebbero partire da Pio XII; chi sono quei “molti predecessori”?»; il problema è tanto più delicato, in quanto l’identità tra Chiesa società e Corpo mistico è recisamente negata da molti non cattolici (cf. 2,29).123 Su tutt’altro fronte, Ruffini intervenne in aula criticando le espressioni usate dallo schema – e che egli stesso riferisce, peraltro, con qualche approssimazione124 – perché non combaciano con la dottrina di Pio XII il quale, seguendo Paolo e i Padri, specialmente Agostino, aveva lucidamente insegnato l’identità tra Corpo mistico e Chiesa; di modo che occorre dire che la Chiesa, «quale Cristo l’ha costituita, è lo stesso Corpo mistico, dal quale non è in alcun modo distinta». Non c’è bisogno di insistere sui dubbi circa la pretesa conformità tra l’insegnamento dell’enciclica e la dottrina patristica, sollevati sin dal momento della pubblicazione della Mystici corporis.125 Tra i vari interventi sul n. 8, tre questioni richiamano, sia pure in modo periferico, la testimonianza patristica: la necessità della Chiesa per la salvezza, la condizione dei catecumeni, la posizione dei peccatori. Sul primo punto, le osservazioni sono arrivate da Seitz e da un contributo dei vescovi venezuelani. Il primo parte da una proposta di emendamento linguistico – suggerisce di togliere il termine «institutum» nell’espressione «… Ecclesiam esse institutum necessarium ad salutem» (n. 8: p. 11,34) – notando che, secondo la tradizione, la Chiesa è necessaria alla salvezza, ma non la Chiesa in quanto «istituzione» (cf. 2,195). I vescovi venezuelani suggeriscono di stabilire tale necessità della Chiesa ad salutem non, come fa lo schema, in base alla necessità del battesimo, ma in rapporto alla necessità di Cristo; suggeriscono quindi una nuova stesura del testo, che ingloba la celebre espressione di Cipriano «non può avere Dio per Padre, chi non ha la Chiesa per madre».126
123 Neppure la consultazione di un’edizione annotata della Mystici corporis, come quella predisposta da Tromp, avrebbe offerto molti elementi aggiuntivi: cf. PIUS PAPA XII, De Mystico Iesu Christi Corpore deque nostra in eo cum Christo coniunctione. “Mystici corporis Christi” 29 iun. 1943… edidit uberrimisque documentis illustravit S. Tromp, Pont. Univers. Gregoriana, Romae 1958 (Textus ed documenta. Series Theologica, 26), 132-136. 124 «Societas visibilis in Ecclesia et mysticum Christi Corpus habentur quasi duo elementa, humanum et divinum, quibus Ecclesia coalescit»: AS II/1, 394. 125 Cf. sopra, c. 1 § 3c. 126 Cf. AS II/2, 217; la citazione è dal De unitate Ecclesiae, 6.
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Seitz e Rugambwa propongono di modificare la parte del paragrafo dedicata ai catecumeni, in modo da evidenziarne meglio l’incipiente inserimento nella Chiesa; l’uno e l’altro ricordano che Agostino qualifica i catecumeni come cristiani, «concepti, nondum nati».127 Per concludere, rileviamo l’insoddisfazione di Pawlowski, che, nonostante i riferimenti magisteriali, patristici e biblici apportati dalle note, giudica troppo severa, persino rigoristica, la parte del n. 8 che tratta della condizione dei peccatori nella Chiesa (cf. 1,408s). Sui nn. 9-10, con i quali si concludeva il primo capitolo, dobbiamo registrare per i nostri scopi un solo intervento, ma significativo, di Baldassarri. Parlando in aula il 4 ottobre, l’arcivescovo di Ravenna chiedeva che al n. 9, dove lo schema tratta dei legami della Chiesa con i cristiani non cattolici, si specificasse anche la comune fede trinitaria e si aggiungessero queste parole: «stimano e venerano al più alto grado la s. Scrittura; accolgono e custodiscono le tradizioni venerande degli antichi Padri». Il presule insiste su queste note, perché, osserva, nel dialogo con i fratelli separati, «la Scrittura e la tradizione veneranda degli antichi Padri costituiscono un argomento abbastanza utile e forse necessario» (2,76).
4. L A
STRUTTURA GERARCHICA D E L L A C H I E S A (II C A P I T O L O )
4.1. S U C C E SSI ONE
APOSTOLICA
a) Chiesa fondata sugli apostoli Era del tutto prevedibile che la maggior parte degli interventi sul secondo capitolo dello schema si concentrasse sulle questioni dell’episcopato, della collegialità e del rapporto papa-vescovi.128 I riferimenti ai Padri e alle testimonianze della Chiesa antica confermano questo stato di cose: almeno una metà degli interventi per noi significativi riguarda la questione della collegialità.129 Seguendo la scansione del capitolo sugge-
127 Seitz (cf. AS II/2, 195; II/3, 541) indica qui In Ioan. 44, sermo 46, ma la citazione non ha senso: forse allude a serm. 44,2, dove Agostino parla dei catecumeni; sarebbero più ad rem, tuttavia, in Io., serm. 12,3 («… proferat Ecclesia quos parturit. Concepti sunt, edantur in lucem») e soprattutto Serm. Dolbeau 14,3 («nondum nati, sed iam concepti»); l’espressione è comunque ricorrente in Agostino. Rugambwa (cf. AS II/2, 136) non dà citazioni. 128 Per uno sguardo d’insieme: ACERBI, 267-298; BETTI, La dottrina dell’episcopato, 119-182; MELLONI, in SCVII, III, 80-96. 129 Sono almeno 65 i padri che intervenendo su questo capitolo toccano questioni attinenti la patristica; poiché diversi affrontano più problemi, il totale delle proposte e osservazioni è quasi il doppio; una buona metà di esse verte sulla collegialità. Acerbi nota che la polarizzazione della discussione su questo punto «non aiutò ad allargare la considerazione a tutti gli aspetti della dottrina sulla costituzione gerarchica della chiesa, ed anzi finì per determinare la intenzione fondamentale del capitolo»: ACERBI, 268.
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rita dal Commentarius, diamo conto anzitutto, però, delle poche osservazioni sui nn. 12-13, dedicati alla presentazione della vocazione dei Dodici, la cui missione permane nel collegio episcopale. Dal punto di vista della tradizione patristica, gli interventi vertono su due questioni. La prima concerne il fondamento della Chiesa sugli apostoli, insieme con Pietro, secondo l’affermazione del n. 12. L’ausiliare di Liegi, Heuschen, si assunse il compito di presentare all’assemblea conciliare, nella C. G. dell’8 ottobre, una vera e propria dissertazione patristica sulla questione (cf. 2,331-335): è uno degli interventi a carattere patristico più consistenti del dibattito, e merita di essere sottolineato. Secondo Heuschen, nella tradizione antica è evidente che si pensa alla Chiesa in quanto fondata sui Dodici, che costituiscono il dodecastylum fundamentum di cui parla Ireneo.130 Lo stesso uso dell’aggettivo «apostolica», nei simboli della fede, va in questa direzione; e la concatenazione «la Chiesa dagli apostoli, gli apostoli da Cristo, Cristo da Dio», che si legge in Tertulliano, si ritrova con parole pressoché identiche in Clemente Romano, Ireneo, Serapione di Antiochia, Origene.131 L’argomento antieretico usato dai Padri, che fanno risalire le serie dei vescovi agli apostoli quali fondatori delle Chiese particolari, è un’altra componente della dimostrazione di Heuschen, che cita al riguardo non solo il classico de praescriptione di Tertulliano, ma anche i cataloghi di vescovi redatti da Egesippo e Ireneo. L’ausiliare di Liegi affronta una possibile obiezione, secondo la quale gli apostoli, in questi passi, sarebbero considerati come «fondamento» soltanto in quanto annunziatori di una dottrina, senza però esercitare una vera e propria potestas. All’obiezione Heuschen risponde che quando Ireneo parla dei vescovi come predicatori del vangelo, li considera come soggetti di una vera potestà, ricevuta da Cristo, sui credenti. La tradizione è comunque ricca di attestazioni, che arrivano fino al medioevo: Heuschen cita ancora Pascasio Radberto, assai vicino alla linea agostiniana,132 e poi Tommaso d’Aquino, prima di concludere l’intervento – attentamente ascoltato dall’assemblea, secondo Congar133 130 Heuschen rinvia a Adv. haer. IV,21,3. Il testo scritto – che ha varianti secondarie rispetto all’intervento orale – è integrato con un florilegio di testi, che raccoglie i passi ai quali l’oratore accenna sommariamente parlando in aula: vi sono citati, oltre all’Ascensio Isaiae e al passo appena menzionato di Ireneo, TERTULLIANO (Praescr. haer. 21,4; 37,1), CLEMENTE ROM. (Ad Cor. 42,1-4), AGOSTINO (Enarr. in Ps. 35; 64; 81,5; 86,3; 75; 103; 124), GIROLAMO (In Ep. ad Gal. II,4; In Ep. ad Eph. 2,20), GREGORIO MAGNO (Mor. XXVIII,5), PRIMASIO (Comm. Apoc.: PL 86,924): cf. AS II/2, 354s. 131 Per Tertulliano e Ireneo, cf. i testi citati alla nota precedente; Heuschen rinvia poi a IGNAZIO ANT., ad Magn. 6 «et passim»; EUSEBIO CES., Hist. eccl. VI,12 (per Serapione); ORIGENE, de Princ. IV,2,1. Il testo di Clemente è ad Cor. 42,1-2: a questo testo, e al principio in esso enunciato, farà appello il giorno dopo anche Martínez Gonzáles, per illustrare l’importanza della missione affidata alla gerarchia e la vera natura di questa (compresa la «inaequalitas essentialis» tra pastori e fedeli): cf. AS II/2, 356. 132 Cf. Expos. in Ev. Matth., VIII: PL 120,561; cf. AS II/1, 333. 133 «[G]rande attention de l’auditoire»: J-Congar, I, 443 (8 ottobre 1963). Heuschen cita la STh I, q. 43, a. 7, ad 6. Un’altra pezza di appoggio, sempre ricavata da Tommaso, è indicata il giorno dopo nell’intervento di Jaeger, che rinvia al commento al Simbolo apostolico, art. 9: cf. AS II/2, 402.
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– con l’affermazione: «Non c’è dubbio che per i Padri i testi del Nuovo Testamento sulla fondazione della Chiesa si riferiscono in modo non esclusivo, sebbene principale, a Pietro, ma anche, a suo modo ma realmente, al fondamento degli apostoli».134 Durante l’intersessione 1963-64 i vescovi polacchi, attraverso K. Wojtyla, trasmettono proposte di emendamento che si muovono in una linea analoga. Per il n. 12, in particolare, essi fanno notare il parallelismo tra Mt 16,18 e 18,18 per quanto riguarda il potere di legare e sciogliere, e lo confermano rinviando all’interpretazione data a questi testi da Leone Magno, Serm. 4,3.135 Nella proposta di un testo alternativo, si richiamano anche alla testimonianza di Ottato di Milevi,136 la cui frase «… Pietro capo di tutti gli apostoli…» viene così interpretata: «Se Pietro è capo degli apostoli, allora gli apostoli costituiscono un solo corpo, ossia un solo collegio».137
b) I vescovi, successori degli apostoli L’altra questione, per la quale fu discusso l’apporto dei Padri, riguarda i vescovi quali successori degli apostoli (cf. n. 13). Il problema fondamentale, in realtà, non concerne tanto la testimonianza patristica in quanto tale – lo schema si appoggiava sulle testimonianze classiche di Clemente Romano e, in subordine, di Ireneo, Tertulliano, Eusebio e Agostino138 –, ma piuttosto l’insieme dell’argomentazione, che sembrava mal costruita: si fondava, infatti, soprattutto su un argomento di convenienza, anziché prendere le mosse dal fatto stesso della successione apostolica, fondato sulla potestas che gli apostoli hanno ricevuto da Cristo.139 L’argomentazione storica, per altro verso, presentava le sue difficoltà. Come fece notare van den Hurk, intervenendo in aula a nome di 30 vescovi indonesiani, non si può ricavare immediatamente, dalle fonti indicate e in particolare da 1 Clem., che gli apostoli intendessero fare dei responsabili delle Chiese, da loro istituiti, i propri successori in senso stretto: se, sul piano teologico, non si può dubitare che i vescovi siano successori degli apostoli, l’argomentazione storica rimane più ardua da maneggiare (cf. 2,432). Per questa ragione, probabilmente, alcuni vesco134 AS II/2, 333. Nella votazione del 28 novembre 1963 mons. Heuschen fu eletto con 1160 voti alla Commissione Dottrinale (cf. CAPRILE III, 318). 135 Il testo di Wojtyla segnala anche GIROLAMO, Adv. Iovinianum I,26, e il c. 4 del de unitate di CIPRIANO (cf. AS III/1, 615). I passi di Leone Magno e di Girolamo saranno poi inclusi nelle note della LG, rispettivamente ai nn. 22 e 19; per Cipriano, cf. sopra, § 2b. 136 Il rinvio a De schismate Donat. 2,II; 7 è impreciso: si legga II,2; VII,3. 137 AS III/1, 616, nota 4. 138 Cf. sopra, nota 26 e testo relativo. Enrique y Tarancón ha giudicato troppo ristretta la base tradizionale indicata dallo schema (in pratica, 1 Clem. 42-44) e propone di tener conto anche delle «lettere pastorali»: cf. AS II/2, 735s. 139 Cf. in questo senso (in AS II/2) le osservazioni di Enciso Viana (593), Sauvage (511513), Rougé (865s) e dei vescovi di Cile e Uruguay (904).
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vi proposero di eliminare, o altrimenti di riscrivere radicalmente, la parte del testo dedicata a questo problema.140 Vedremo a suo tempo in che modo il testo fu rimaneggiato in sede di CD con l’apporto speciale di una sottocommissione biblica. Dobbiamo poi segnalare una proposta presentata in aula dal patriarca melchita, Maximos IV, ma sottoscritta da una trentina di padri, orientali ma non solo. Il patriarca chiedeva di inserire, dopo il secondo capoverso del n. 13, un testo sulle Chiese locali e sul vincolo di comunione che le unisce nell’unica Chiesa. Il testo suggerisce di valorizzare anche la prassi delle sedi metropolitane e delle Chiese patriarcali, da intendere precisamente come incremento alla comunione anche con la sede romana, nella linea delle Chiese matrices fidei, le ecclesiae praestantiores attestate dalla tradizione antica.141 Anche per il n. 13, i vescovi polacchi, per mezzo di Wojtyla, proporranno una riscrittura del testo, che vuole mettere in luce, tra l’altro, la coscienza che i vescovi manifestano della loro responsabilità per la Chiesa universale: e citano al riguardo un passo del Crisostomo in laudationem S. Eustachii, oltre che rifarsi all’insegnamento di Cipriano, del resto spesso richiamato nel loro intervento.142
4.2. S A C R A M E NTA L I T À
DELL’ E PISCO PATO
a) La sacramentalità dell’episcopato e le sue conseguenze Lo schema passava poi alla sacramentalità dell’episcopato (n. 14) e trattava, nello stesso contesto, del presbiterato e del diaconato (n. 15). Come mostrerà anche la votazione orientativa del 30 ottobre,143 già in questo momento la quasi totalità dei padri conciliari era favorevole alla sacramentalità dell’episcopato. Tra i pochi interventi contrari, si distingue per quanto ci riguarda quello di mons. Adam, secondo il quale la tradizione non dà fondamenti solidi a favore della sacramentalità: gli argomenti liturgici, patristici o di ordine magisteriale non possono stabilire una certezza al riguardo, perché vi sono troppi fatti che sollevano dubbi (ri-ordinazioni, corepiscopi, la prassi della Chiesa di Alessandria, ecc.: cf. 2,656). 140
Cf. l’emendamento di Carli (AS II/1, 303, n. 202), appoggiato da Liénart (AS II/2, 345). Cf. AS II/2, 243: Maximos IV rinvia, per la nozione delle Chiese matrices fidei, a TERTULLIANO, Praescr. haer. 21,4; CIPRIANO, Ep. 48,3,1; per le ecclesiae praestantiores (ivi compresa quella romana, e il suo posto privilegiato), a IRENEO, Adv. haer. III,3,1-4. 142 Cf. AS III/1, 616s. 143 Per una sintesi delle vicende, cf. A. MELLONI, «Procedure e coscienza conciliare al Vaticano II. I 5 voti del 30 ottobre 1963», in Cristianesimo nella storia. Saggi in onore di Giuseppe Alberigo, a cura di A. MELLONI – D. MENOZZI – G. RUGGIERI – M. TOSCHI, Il Mulino, Bologna 1996, 313-396; ID., in SCVII, III, 87-121. L’affermazione dell’episcopato come grado supremo del sacramento dell’ordine sarà votata da 2123 padri su 2157 (98,4%). 141
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Ma si tratta di voci complessivamente isolate e certamente minoritarie rispetto a quelle che ricordano la ricchezza di dati tradizionali che depongono a favore della sacramentalità. I vescovi conoscono, naturalmente, le argomentazioni della teologia medievale e moderna, fondate in particolare sull’interpretazione della prassi della Chiesa di Alessandria divulgata da Girolamo e dall’Ambrosiaster e da loro, attraverso Isidoro, giunta sino a Tommaso.144 Alcuni interventi le richiamano, ma per far notare che numerosi teologi, anche moderni – il Bellarmino, tra gli altri – hanno sostenuto la sacramentalità ritenendola attestata nella tradizione più antica, in particolare in quella patristica, specialmente in oriente, per non dire della costante attestazione offerta dai documenti liturgici.145 In definitiva, sembra più rilevante la questione delle conseguenze – in particolare quelle relative alla collegialità – della sacramentalità dell’episcopato, che non la res in se stessa, pressoché unanimemente riconosciuta. Tuttavia, alcuni interventi, sulla scorta della tradizione patristica, hanno voluto sottolineare qualche altro aspetto. Urtasun ha chiesto di evidenziare il rapporto di comunione sacramentale, e non solo giuridica, tra i presbiteri e il vescovo, nella linea di Ignazio di Antiochia.146 Rougé propone – insieme a una cinquantina di altri padri – un testo emendato per il n. 14, che presenta il dato liturgico tradizionale della consacrazione episcopale come atto propriamente sacramentale, sicché «nel popolo che Dio ha adottato, la cui totalità è sacerdotale e regale, i vescovi rappresentano in modo eminente e visibile Cristo e agiscono nella persona di lui» (2,867); da notare che l’espressione «totalità sacerdotale e regale» è tratta da un discorso di Leone Magno.147
b) Presbiteri e diaconi Tra i diversi interventi relativi al n. 15, dove lo schema parlava dei presbiteri e diaconi, alcuni chiedono anzitutto che si allarghi la trattazione, 144 Rinviamo per la questione alle ricerche classiche di J. LÉCUYER, indicate nella «Bibliografia storica»: «Aux origines de la théologie thomiste de l’épiscopat» (*1954); «Le Sacrement de l’Episcopat» (*1957); «Le problème des consécrations épiscopales dans l’Église d’Alexandrie» (*1964); cf. inoltre ID., Le sacrement de l’ordination. Recherche historique et théologique, Beauchesne, Paris 1983. 145 Lo sottolinea Boudon, che mette in luce l’ampia attestazione della sacramentalità nella tradizione patristica, scolastica, canonistica e liturgica: cf. AS II/2, 678; nella stessa linea si vedano gli interventi di Builes (cf. ivi, 688), Saboia Bandeira de Mello (118), Urtasun (430) e Klepacz (cf. ivi, 790s) che, sulla base di un testo del Crisostomo (In ep. ad Phil., hom. 1,1), sottolinea che i presbiteri non hanno mai ordinato dei vescovi. 146 Cf. AS II/2, 430. In una linea simile, richiamandosi tra l’altro (ma genericamente) a Cipriano, Gonzalez Martin, con tre altri vescovi spagnoli, chiede che il n. 14 valorizzi meglio il munus sanctificandi dei vescovi, i quali, ordinando altri vescovi e presbiteri, assicurano la perpetuità del culto nella vita della Chiesa (cf. ivi, 757). 147 La citazione indicata in AS II/2, 867, però, è sbagliata: non si tratta di Serm. 5,3: PL 54,153, ma di Serm. 3,1: PL 54,145B = CCL 141,11. Serm. 5,3 verrà citato – ma per un riferimento diverso – nella revisione del n. 14 (poi n. 21): cf. sotto, c. 7 § 1.3d.
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giudicata insufficiente, facendo riferimento tra l’altro alla ricca tradizione patristica in merito. Intervenendo a nome di oltre 60 padri di lingua tedesca e scandinava nel corso della 45ª C. G., il 10 ottobre, l’ausiliare di Fulda, Schick, osserva che lo spazio dedicato dallo schema ai presbiteri è oltremodo ridotto; tanto più che molte delle cose che i Padri dicono del vescovo, i fedeli le sperimentano, oggi, piuttosto nel loro rapporto con i presbiteri: sono questi che annunciano il vangelo, amministrano i sacramenti e hanno la cura pastorale del popolo cristiano; il rispetto di un’autentica ecclesiologia eucaristica richiede che si riconosca meglio il carattere teologico della parrocchia e del ministero presbiterale in essa.148 A proposito dei presbiteri, poi, alcuni interventi si sono soffermati sulla forma collegiale del loro ministero, attestata nella tradizione patristica (Ignazio di Antiochia!) e da raccomandare ancora oggi.149 Altri hanno ripreso la questione, ma per evidenziare soprattutto il rapporto tra presbiterio e vescovi: Renard richiama con qualche dettaglio in più il linguaggio di Cipriano e Agostino sull’appartenenza dei presbiteri all’unico presbiterio, e sottolinea che il presbiterio, alla luce della dottrina di Ignazio e Ippolito Romano, costituisce il consilium del vescovo; lo schema non mette in luce a sufficienza, secondo il presule, l’unità del corpo o collegio sacerdotale cum episcopo et sub ipso, quale appare dalle lettere di Ignazio di Antiochia. Alla testimonianza del vescovo-martire si richiama anche Ruffini, per chiedere che lo schema tratti esplicitamente dell’obbedienza dei presbiteri nei confronti del vescovo.150 Più discussa, per diverse ragioni, la questione del diaconato.151 È nell’ordine delle cose che il ripristino di un grado della gerarchia ampiamente attestato nella Chiesa antica, ma poi caduto in disuso, fosse raccomandato dai suoi fautori attraverso il richiamo alla tradizione ecclesiastica dei primi secoli: e non mancarono interventi in questo senso,152 preoccupati anche di replicare a coloro che vedevano, in questo appello alla tradizione antica, una forma di archeologismo. Lo sottolinea in parti-
148 Cf. AS II/2, 396s (cf. TOURNEAUX, «L’évêque, l’eucharistie et l’Église locale», 125s). Anche Conway chiede un ampliamento del testo, e anzi la redazione di un capitolo apposito, e suggerisce di attingere alla tradizione patristica (cf. AS II/2, 354s). Per il diaconato, cf. Jubany Arnau (con altri dodici vescovi spagnoli), che lamenta la povertà teologica dello schema, il prevalere di un approccio giuridico, la mancanza di riferimenti alla Scrittura, alla tradizione patristica ed ecclesiastica antica, alla liturgia (cf. ivi, 580). 149 Così McCann, che ha riproposto due volte l’intervento per iscritto (cf. AS II/1, 405407 e II/2, 810-812: qui ha aggiunto qualcosa sul diaconato). Cf. nella stessa linea anche Guyot, che, sempre richiamandosi a Ignazio, propone un parallelo tra la collegialità episcopale sub Petro e quella del venerabile presbyterium in unione col vescovo (cf. ivi, 773), e Añoveros Ataún (con dodici altri vescovi spagnoli: cf. ivi, 349s). 150 Cf. AS II/2, 419, per l’intervento di Renard; 86 per quello di Ruffini. 151 Sul ripristino del diaconato, cf. la recente messa a punto di A. BORRAS, Le diaconat au risque de sa nouveauté, Lessius, Bruxelles 2007; tr. it.: Il diaconato, vittima della sua novità?, Bologna 2008, soprattutto 24-27, con la bibliografia ivi indicata. 152 In particolare, in questa fase del dibattito: Suenens, nel corso della 43ª C. G. (8 ottobre): cf. AS II/2, 317-319; Maurer, due giorni dopo, a nome dei vescovi della Bolivia e di una ventina di altri padri (cf. ivi, 410-412); Peiris, per iscritto (cf. ivi, 836s).
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colare il boliviano Maurer, che esprime a questo proposito la meraviglia sua e dei vescovi a nome dei quali interviene e fa notare tra l’altro che il diaconato è tuttora conservato nelle Chiese orientali. Si chiede pertanto: «Il rinnovamento della tradizione e della prassi apostolica non dovrebbe essere preferito ai mezzi del tutto nuovi e moderni, se quella tradizione prospetta un aiuto validissimo per necessità molto gravi?» (2,412). Ai dati della tradizione attingono pure quanti vogliono presentare i diversi compiti del diacono (Jubany Arnau: 2,582s) e mettere in luce – anche per evitare che si pensi al diacono come a una sorta di «parroco di secondo grado» – il rapporto speciale che egli aveva con il vescovo e il suo esercizio del ministero della carità.153 Il punto più dibattuto riguarda, però, la questione del celibato. L’appello alla tradizione patristica è andato, qui, quasi soltanto nella direzione contraria al diaconato uxorato. Si capisce che un certo numero di padri, contrari al ripristino del diaconato o comunque favorevoli solo a un diaconato celibatario, si siano preoccupati di recuperare nella tradizione gli elementi favorevoli al loro approccio. Nell’aula conciliare lo fecero soprattutto Carraro il 14 ottobre e, il giorno dopo, Jubany Arnau. Se per quest’ultimo la ragione del celibato si collega in modo particolare alla dimensione liturgica del ministero – i diaconi essendo ministri dei misteri di Dio, «ministri Ecclesiae» secondo la parola di Ignazio, «diaconos Dei» secondo Policarpo154 –, Carraro sviluppa la questione con respiro più ampio, allegando all’intervento orale un testo scritto dove raccoglie una serie di Documenta traditionis circa caelibatum diaconorum.155 Alcuni interventi scritti che riprendono la questione non aggiungono nulla di sostanziale, quanto a documentazione patristica ed ecclesiastica, rispetto agli elementi apportati da questo testo.156
4.3. C O LLE G IA LITÀ
E P R I M AT O
a) Il ricorso alla tradizione: un problema di metodo Veniamo ora ai contributi di carattere patristico introdotti nel dibattito sulla collegialità. Li presenteremo in tre passi, a partire dai criteri 153 Così Massimiliani, che richiama al riguardo la testimonianza di Ignazio, della Didascalia e degli Atti del martirio di s. Lorenzo (cf. AS II/2, 808). 154 Cf. AS II/2, 584, col rinvio a IGNAZIO ANT., ad Trall. 2,3 e a POLICARPO, ad Fil. 5. 155 AS II/2, 528-530. Congar commenta così l’intervento di Carraro: «Discours qui fera impression. Pourtant tout ce qu’il dit est pris d’abstraction: il n’a aucune référence à la vie et aux besoins actuels de l’Église»: J-Congar, I, 471 (14 ottobre 1963). Difenderà il celibato, con riferimento a testimonianze patristiche, anche l’intervento scritto del brasiliano Schmidt (cf. AS III/1, 603). 156 Cf., in AS II/2, Chaves, a nome di più di 30 padri, per lo più latino-americani (702), ripreso pressoché alla lettera da Schmidt (877); Hervás y Benet, contrario alla restaurazione del diaconato (785); Massimiliani (809).
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metodologici proposti in un paio di interventi, per passare poi alle ragioni portate a favore della collegialità e arrivare, infine, agli argomenti addotti in contrario. Numero e ampiezza degli interventi che trattano della collegialità, a pro o a favore, appellandosi alla tradizione della Chiesa antica, mostrano che molti padri giudicavano insoddisfacente la trattazione proposta dallo schema e, al tempo stesso, annettevano grande importanza alla tradizione antica. Già intervenendo sull’insieme dello schema, Hermaniuk osserva che si tratta di una questione cardine, presentata dallo schema in modo poco chiaro, e non sufficientemente fondato su Scrittura e tradizione (cf. 1,373). Preliminarmente, però, si poneva una questione di metodo. Se ne mostrano consapevoli (anche se a partire da orientamenti diversi) Frings e Siri, che intervengono in aula rispettivamente il 14 e il 15 ottobre. Frings concede senz’altro che nella patristica più antica non si trova il concetto di collegialità inteso in senso giuridico e strettamente determinato:157 dal che, però, non si può concludere che la collegialità non esistesse per nulla nei primi secoli. Ragionare così, infatti, significa seguire un metodo sbagliato nella ricerca della verità a partire dalla tradizione; nella stessa linea si potrebbe sostenere anche la non esistenza dello stesso primato del papa, visto che si manifestava in modi diversi. Nei due casi, occorre seguire lo stesso metodo (cf. 2,493): secondo l’arcivescovo di Colonia, una ricerca onesta nella storia della Chiesa mostra che collegialità e primato sono sempre esistiti, come elementi entrambi pertinenti alla vita della Chiesa. Alla fine del suo intervento, Frings osserva ancora che non sempre le verità di fede appaiono subito in piena chiarezza: lo mostrano l’Assunzione di Maria, ma anche le definizioni di infallibilità e di primato del papa fatte al Vaticano I. Si deve ribadire che, tuttavia, il principio della collegialità appare nella Chiesa antica, non meno della verità del primato pontificio. Su questa base, nulla impedisce oggi al concilio di mettere in piena luce questo principio, che appartiene essenzialmente alla struttura della Chiesa (cf. 2,495).158 Intervenendo in aula il giorno dopo, anche Siri pone la questione metodologica, ma in una prospettiva un po’ diversa. Si tratta, certo, di affermare solo ciò che si può ricavare dalle fonti teologiche; ma queste non sono riconducibili soltanto alla Scrittura o ai Padri dei primi secoli: «La Chiesa vive oggi come visse nei primi secoli e nel suo consenso e nel magistero odierno attesta così come ha sempre attestato in qualsiasi secolo» (2,572). Il cardinale ricorda poi le regole «logiche» del ragionamento teologico, per arrivare a dire che è molto difficile, ragionando
157 È un punto che viene ripetutamente osservato soprattutto dagli avversari della collegialità: cf. ad es. gli interventi di Carli (AS II/2, 452), Mansilla Reoyo (408s), Enciso Viana (592), Prou (850s), Rubio (871). 158 L’argomento è ripreso anche da McGrath: cf. AS II/2, 813.
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correttamente sulle fonti, «provare che i vescovi costituiscono un collegio» (ivi).159 È abbastanza evidente che per valutare il modo in cui, da una parte e dall’altra, si fece ricorso all’argomento tradizionale, occorre anche tenere presente questa diversità di prospettiva metodologica circa il ricorso alle fonti, differenza già emersa, del resto, in altre occasioni.
b) I Padri a sostegno della collegialità L’argomentazione più articolata, sul piano patristico, a favore della collegialità, è quella di Frings. Di fatto, mentre altri interventi si sono preoccupati soprattutto di raccogliere le modalità concrete, in base alle quali si può ricavare la descrizione di una prassi della collegialità nella Chiesa antica, l’arcivescovo di Colonia argomenta principalmente a partire dalla struttura della Chiesa, qual è attestata nella testimonianza dei Padri. Essi mostrano, infatti, una Chiesa che, nella sua totalità, «era edificata a partire dalle molte Chiese locali, che erano in comunione nella parola e nel corpo del Signore». Dalla reciproca comunicazione tra le Chiese si ricava la comunicazione dei vescovi, secondo la testimonianza dei Padri: Come l’una e unica Chiesa di Cristo si edificava a partire dalle molte Chiese in reciproca comunione sotto il Romano Pontefice, così anche «ciascun vescovo era unito alla molteplicità dei vescovi uniti tra di loro», per usare le parole di Cipriano (Ep. 55,24,2). E ancora dice Cipriano: «L’episcopato è uno, e i singoli vescovi nella propria parte lo possiedono in solido» (De cath. eccl. un. 5,2). E s. Ignazio, che visse poco dopo l’età apostolica, dice che «Cristo è il pensiero del Padre, i vescovi costituiti fino ai confini della terra sono nel pensiero di Cristo» (Ef. 3,2). Del resto, il fatto stesso delle lettere di s. Ignazio esprime il vincolo collegiale, che legava i singoli vescovi in un solo episcopato. Lo stesso si deve dire delle lettere di s. Policarpo, s. Dionigi e di altre del II sec. Dal che risulta che la comunione dei molti vescovi fu garanzia di salvaguardia della verità e dell’unità. E proprio questo è l’elemento principale della collegialità, e in esso si fondano gli elementi giuridici. In questo senso si legge esplicitamente nei testi dei Padri anche il termine stesso di “collegio”, ad es. nelle opere di s. Ottato di Milevi, illustre oppositore dello scisma donatista, che dice: «Poiché non vogliono essere parte del collegio episcopale con noi, non sono colleghi, se non vogliono; ma, come dicemmo, sono fratelli» (Contra Parmen. Donat. 1,4; cf. 7,6 etc.).160
159 Va notato, peraltro, che l’esistenza del collegio, secondo Siri, è mostrata dalla prassi dei concili: una verità, questa, che va però composta con il primato del papa, e in questa linea egli suggerisce alcune modifiche allo schema (cf. AS II/2, 572s); sull’intervento, cf. N. BUONASORTE, Siri. Tradizione e Novecento, Il Mulino, Bologna 2006, 302-304. 160 AS II/2, 495: abbiamo tradotto il testo scritto, più sintetico di quello pronunciato in aula, e arricchito con i rinvii ai passi citati. L’argomentazione si ritrova in J. RATZINGER, «Le implicazioni pastorali della dottrina della collegialità dei vescovi», in ID., Il nuovo popolo di Dio. Questioni ecclesiologiche, Queriniana, Brescia 1971, 221-245, in particolare 225-227.
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Si tratta di una collegialità che poi veniva esercitata anche giuridicamente con diversi strumenti, in particolare le già menzionate litterae communicatoriae, che costituivano il mezzo ordinario di collegamento tra i vescovi, e poi i sinodi, dai quali derivano anche i concili ecumenici.161 Altri padri aggiungono elementi ulteriori. Sul piano liturgico, già lo schema ricordava la prassi che vuole normalmente la presenza di almeno tre vescovi per l’ordinazione di un nuovo vescovo: vi insiste in modo particolare Gouyon, il quale fa notare che anche il papa, per secoli, vi si attiene; se, d’altra parte, accade che egli consacri da solo un nuovo vescovo, lo fa «perché nella sua persona rappresenta autorevolmente tutto il corpo episcopale».162 Nel dibattito vengono portati argomenti che prendono spunto anche dal linguaggio attestato nella tradizione. Così Rupp fa leva sull’uso dei Padri orientali – cita in particolare Cirillo di Gerusalemme, lo Ps. Dionigi e il Crisostomo – di qualificare Pietro come coryphaeus degli apostoli, il che suppone che gli apostoli e i loro successori costituiscano un chorus che rimane definitivamente.163 Anche Ignazio di Antiochia fornisce spunti linguistici di rilievo: Hage richiama espressioni quali synedrion ton apostolon o «concilium apostolorum», e si rifà al paragone ignaziano tra gli apostoli e il presbiterio della Chiesa,164 nonché alla testimonianza di Cipriano già citata da Frings nel suo intervento in aula (cf. 2,775). Al vescovo di Cartagine si richiama pure McGrath, che mette in evidenza la varietà di linguaggio usata nella Ep. 68, indirizzata a papa Stefano: vi si leggono espressioni quali corpus sacerdotum (riferita ai vescovi), colle-
161 Cf AS II/2, 495. Altri padri hanno richiamato l’uso di questi strumenti della collegialità: cf. in particolare Gouyon, che ne aveva già trattato intervenendo l’11 ottobre (ivi, 461s); Congar (cf. J-Congar, I, 461: 11 ottobre 1963) rileva che gli argomenti corrispondono a quelli presentati dagli studi di J. COLSON, di cui la collezione Unam sanctam aveva appena pubblicato – con prefazione dello stesso Congar – il saggio L’Épiscopat catholique. Collégialité et primauté dans les trois premiers siècles de l’Église, Cerf, Paris 1963. La sinodalità come espressione della collegialità è stata sottolineata anche da Rougé, che giudica insufficiente lo schema a questo proposito (cf. AS II/2, 861-865), e da Rusch, intervenuto anche lui l’11 ottobre a nome di 69 padri di lingua tedesca, tra cui Frings, König, Jaeger, Volk… (cf. 478). Alle espressioni pratiche della collegialità nella Chiesa antica rinviano ancora, più o meno dettagliatamente, Zazinovic (266-268), Jacono (502), Zoghby (617) e Zak (898s); particolarmente sviluppata è l’esposizione di McGrath (814s); cf. poi l’intervento inviato nell’intersessione da Zanini (AS III/1, 617). 162 AS II/2, 463; il presule nota ancora che nell’uso moderno si è tornati al rito antico e che, come determinato da Pio XII, i vescovi che partecipano alla consacrazione non sono «adsistentes» ma «con-consecrantes». L’argomento liturgico è richiamato anche da Hage (775); Calabria pure lo cita (691), ma per ricordare che la sua portata non va esagerata. 163 Cf. AS II/2, 329. Rupp nota che, peraltro, il papa va considerato anche supra collegium, e non solo in collegio; dopo l’ascensione del Signore, il corifeo è anche il vicario di Cristo: e rinvia in proposito al commento del Crisostomo su Gv 21. 164 Cf. IGNAZIO ANT., Philad. 5,1; Trall. 2,2; per le altre espressioni richiamate da Hage, cf. Magn. 6,1 (sunevdrion tw`n ajpostovlwn); Trall. 3,1 (suvndesmoß ajpostovlwn); cf. J. LÉCUYER, «Il presbyterium», in Y. CONGAR – J. FRISQUE (edd.), I preti. Formazione, ministero e vita, AVE, Roma 1970, 213s.
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gium, subvenire, «pastores multi… unum tamen gregem pascimus»; e il presule commenta: Era questa la collegialità di cui godevano nella vita ecclesiastica i vescovi dei primi secoli, consapevoli dei privilegi propri della Chiesa romana. Portavano i pesi dei propri fratelli, perché non fosse spezzato il vincolo di amore e di pace; tutti in solido tenevano questa sollecitudine.165
Questo tipo di linguaggio, peraltro, a qualcuno sembrava troppo generico: di fatto, come vedremo, la fluidità del linguaggio tradizionale è uno degli argomenti usati dagli anti-collegialisti. Un intervento si è proposto di precisare tecnicamente il concetto di collegium, per affermare che esso è già conosciuto e usato anche dai Padri: è quanto ha sostenuto García Martinez che, dopo aver indicato tre elementi costitutivi del collegio (una nota distintiva che permetta di capire chi ne fa parte e chi no; il fine comune; i mezzi comuni), ritiene che lo si ritrovi usato nei Padri, nei teologi e nei papi (cf. 2,103). Un certo numero di padri ha fatto leva, per sostenere la fondatezza della collegialità, soprattutto sulla dimensione magisteriale del ministero episcopale, in particolare nel suo esercizio comunitario e straordinario, ossia quello del concilio. Se alcuni, come abbiamo visto, riconoscono qui uno sviluppo particolare della prassi sinodale, altri invece fanno del concilio il luogo specifico, se non unico, che permette di parlare di collegialità: è il caso, ad es., di Enciso Viana, che ne richiama sinteticamente l’origine a partire dai sinodi locali dei primi secoli e cita Cipriano, Ep. 30,5, come attestazione dell’autorità che i concili avevano assunto, specialmente in virtù del numero dei vescovi che radunavano. In questa prospettiva, ritiene che si dia un collegio episcopale sotto il romano pontefice, e che questo sia nato in un certo momento storico a partire dalla natura dalla Chiesa e, pertanto, da Cristo stesso: in questo senso si può parlare di collegio episcopale che succede al collegio apostolico – salva poi la necessità di determinarne bene limiti e facoltà.166 Qualcosa di simile suggerisce Catani, che ricorda la convinzione, attestata già nella Chiesa antica, dell’infallibilità del corpo episcopale (ma non dei singoli vescovi) unito al papa.167 Dal dibattito emergono ancora punti di vista particolari, o come parte di argomentazioni più ampie, o come espressione di attenzioni proprie all’uno o all’altro dei padri conciliari. Hage sottolinea che, per i Padri, la dottrina autentica e ogni autorità, nella Chiesa, derivano dal collegio
165 AS II/2, 815; il testo di Cipriano è Ep. 68,3-4. Baldassarri porta alcuni esempi patristici di questa sollicitudo, richiamandosi a Ignazio di Antiochia e a Ireneo (cf. 666); il maestro generale dei Domenicani Fernandez, da parte sua, non vede in questi e altri esempi di sollicitudo (richiama Cipriano, Agostino e Cirillo di Alessandria) una realtà collegiale in senso giuridico (cf. 423). 166 Cf. AS II/2, 589s; cf. anche Siri (572s). 167 Cf. AS II/2, 700 (con rinvii generici a Ireneo, Tertulliano e Origene); l’argomento è ripreso, ma senza riferimenti patristici, da González Moralejo: cf. ivi, 758-760.
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apostolico, secondo la testimonianza di Ireneo e Clemente: se ne deve concludere che la pienezza di dottrina e autorità non risiede solo in Pietro, ma anche nel collegio.168 Il cistercense Braunstorfer ritiene che si possa parlare di «collegio» dei vescovi in senso solo analogico, non strettamente giuridico, e propone un confronto con la prassi delle comunità monastiche (Benedetto) o presbiterali (Agostino), poi evolute nelle comunità canonicali, dove vi sono certe procedure «collegiali» – che però non si addicono alla situazione del papa (che gode di un’assistenza speciale dello Spirito) e alla sua relazione con i vescovi (cf. 2,682). Si scivola, evidentemente, dalla questione propriamente teologica e giuridica a un problema che possiamo chiamare di «spiritualità collegiale»: interviene esplicitamente in questo senso l’ausiliare di Algeri Jacquier che, parlando a nome dei vescovi del Nord Africa, suggerisce una serie di prospettive ricavate dalla tradizione patristica: la consanguinitas doctrinae di cui parla Tertulliano; l’unione di carità raccomandata da Ignazio a Policarpo; la fraternità che si estende anche agli scismatici, secondo la testimonianza di Ottato di Milevi… Fondamento del tutto è la comune partecipazione al sacerdozio di Cristo; il suo segno efficace è l’eucaristia.169 Sulla questione del rapporto tra collegialità e primato, i sostenitori della collegialità hanno tratto dalla testimonianza patristica quasi solo elementi esortativi piuttosto generici. Parlando in S. Pietro il 10 ottobre, Jaeger ha sottolineato che si tratta qui di un problema che non può essere risolto con categorie politiche, dato il carattere unico e singolare della Chiesa, la cui natura misterica fa sì che anche la sua struttura sia opera dello Spirito.170 Più articolata era stata la riflessione proposta qualche giorno prima da Zazinovic, che aveva voluto illustrare il rapporto primato-collegialità nella prospettiva degli atti del concilio di Calcedonia e delle lettere di papa Leone. Alla luce di questa dottrina, i vescovi, sia singolarmente presi, sia radunati in concilio, sono veri maestri e giudici in materia di fede e di morale e possono quindi esaminare le decisioni dottrinali del papa e chiederne ragione – ma senza dissentire.171 A sostegno della tesi ricorda: il Tomus ad Flavianum, riconosciuto unanimemente (anche dagli anti-infallibilisti al Vaticano I) come egregio esempio di insegnamento «ex cathedra»; la richiesta di Leone, nondimeno, che i padri sinodali a Efeso arrivassero a una determinazione; il fatto che a Calcedonia la let168
Cf. AS II/2, 776; Hage richiama IRENEO, Adv. haer. III e CLEMENTE ROM., ad Cor. 44,1ss. Cf. AS II/2, 619s. I testi richiamati sono: TERTULLIANO, Praescr. haer. 32; IGNAZIO ANT., ad Polyc. 1,2; OTTATO MIL., de schismate Donat. I,4. Anche Vuccino propone di individuare nel sacerdozio di Cristo la radice ontologica della collegialità, nella prospettiva di una ecclesiologia che fa leva, alla luce di Agostino, sull’eucaristia quale segno di unità e vincolo di carità (cf. AS II/2, 99). 170 Cf. AS II/2, 400; Jaeger individua nell’espressione ignaziana sulla Chiesa romana «praesidentem in caritatem» qualcosa che non si può esprimere in termini solo giuridici; cf. nella stessa linea, e con analogo richiamo a Ignazio, Flores Martin (cf. ivi, 468). 171 Cf. AS II/2, 266. Zazinovic riprende da vicino alcune considerazioni avanzate da Franic´ a proposito dello schema preparatorio: cf. c. 5, nota 102 e testo relativo. 169
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tera di Leone venne discussa, prima di arrivare a proclamare che «Petrus per Leonem locutus est». In questa linea, il presule chiede che, alla luce della dottrina che emerge dalla prassi illustrata, si chiarisca nello schema l’autorità propria dei vescovi (cf. 2,267). Vari interventi scorgono nello schema un eccesso di preoccupazione nell’affermare l’autorità del papa sul collegio episcopale, una sorta di «ansietà», come la chiama Frings – che invita a non avere paure al riguardo e a rifarsi all’atteggiamento di Gregorio Magno nei confronti di Eulogio di Alessandria.172 Zoghby osserva in merito: se volessimo essere coerenti con questa logica, non dovremmo richiamarci continuamente al Cristo Sommo Pastore, dal quale come da una fonte, sia il Romano Pontefice che gli altri vescovi ricevono la potestà e il sacerdozio? Secondo le parole di s. Agostino, che cita Paolo: «Nessuno può porre un altro fondamento, se non quello che è già stato posto, Gesù Cristo» (1 Cor 3,11), fondamento sul quale è edificato anche Pietro (In Io. tract. 124,5);
l’autorità del papa, nota Zoghby, come quella di Pietro, non si comprende né si spiega se non in riferimento al collegio che egli presiede.173
c) Le obiezioni contro l’argomento patristico Veniamo ora al punto di vista di quanti si opponevano alla collegialità. L’argomento principale, per quanto concerne la testimonianza della Chiesa antica al riguardo, consiste nel ricondurre i testi e le pratiche di carattere «collegiale» a una dimensione più generale (e generica) di comunione del corpo episcopale, escludendo in ogni caso che le testimonianze antiche possano fondare un valore propriamente giuridico della collegialità. Si fa rilevare, in questo senso, il carattere ambiguo del termine, di cui si possono dare diverse accezioni: Mansilla Reoyo, che interviene in aula il 10 ottobre specificamente sulla questione dell’attestazione tradizionale della collegialità, sottolinea la varietà del linguaggio patristico. Nota che il termine «a volte equivale a fraternità, concordia, cooperazione nell’attività comune»; Atanasio parla di eirene e synphonia; Cipriano si rivolge ai vescovi come a collegas; Tertulliano parla dello «scambio della pace, l’appellativo di “fratello”, le tessere della mutua ospitalità».174
172 Frings ricorda che il testo della lettera di Gregorio a Eulogio fu richiamato anche nel Vaticano I (cf. DH 3061): AS II/1, 344. 173 Cf. AS II/2, 616; Zoghby, che aveva chiesto di parlare da molti giorni, lo poté fare il 16 ottobre. «Il suo testo è stato fatto in collaborazione con il p. Kéramé, dom Olivier Rousseau, l’abate Hoeck, il p. Daniélou e il p. Schmemann (ortodosso)»: D-Edelby, 178. 174 Cf. AS II/2, 408s, anche per quanto segue. Il presule dà riferimenti precisi solo per il passo di Tertulliano (Praescr. haer. 20). Tutte le citazioni patristiche indicate nel resto dell’intervento, a parte quelle di Tertulliano, sono tratte dall’EPatr.
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Ciò nonostante, secondo l’oratore, è impossibile fondare con sicurezza sulla tradizione patristica la collegialità intesa in senso stretto: nessuna delle figure più rilevanti della Chiesa tra II e III sec. (menziona Clemente, Ireneo, Egesippo, Tertulliano, Cipriano e Ignazio) presenta un richiamo esplicito o implicito al collegio dei vescovi; viceversa, incontriamo sempre il legame con una Chiesa apostolica fondatrice,175 sicché si può dire che ciascuna Chiesa è consapevole della propria solidarietà con una Chiesa apostolica, ma non si vede una simile consapevolezza di solidarietà con un «collegio episcopale». In definitiva, la dottrina della collegialità intesa in senso stretto si presenta come qualcosa di nuovo176 e non è attestata dalle fonti dei primi tre secoli, in base alle quali si può accettare tutt’al più una aliqua collegialitas, a patto che se ne precisino bene senso e limiti in rapporto al primato e si chiuda la porta alle Chiese nazionali.177 Neppure l’esistenza dei concili ecumenici può essere invocata a sostegno della collegialità, secondo i fautori di questa prospettiva. Così Canzonieri ritiene che i Padri riuniti in concilio non pensavano la propria autorità dottrinale nella modalità di un collegio istituito da Cristo: essi riconoscevano, in comunione con il papa, la dottrina delle altre Chiese intorno alla rivelazione, ma sulla base del pensiero patristico non si può ricavare dal fatto del concilio l’esistenza di un’istituzione come il collegio episcopale: il concilio è solo l’esercizio più evidente della potestà di cui godono i vescovi dispersi, in comunione col papa (cf. 2,698). Anche secondo Rubio, la prassi dei concili, come gli altri esempi di pratiche di collegialità, non bastano a giustificare la dottrina stessa della collegialità. I concili particolari non eccedono il livello di un’istituzione ecclesiastica, rispetto alla quale i singoli vescovi hanno rivendicato varie volte la propria autonomia.178 175 Si veda in questa linea anche l’intervento del superiore degli agostiniani Rubio, che rinvia ad AGOSTINO, Contra Faustum XI,2; Ep. 232,3 (cf. AS II/2, 871s). 176 Nel testo scritto, l’oratore ha aggiunto: «De collegialitate nunc noviter inter theologos et peritos exorta, posset dici cum Irenaeo: “Si recondita mysteria scissent apostoli, quae seorsim et latenter a reliquis perfectos docebant, his vel maxime traderent ea, quibus etiam ipsas Ecclesias committebant” (RJ 209)» (AS II/2, 410). L’11 ottobre, l’intervento di Bettazzi mostrerà come la dottrina della collegialità fosse coerente con la Scrittura e la tradizione più antica, anche alla luce della tradizione teologica e canonistica romana: «novatores» erano, se mai, quanti la contestavano (cf. ivi, 484-487). 177 Per il rifiuto della collegialità in senso stretto, ritenuta non dimostrata dalle fonti, o ambigua nel suo tenore, cf. anche gli interventi di Carli (AS II/2, 542), Prou (850s), Enciso Viana (592), Rubio (871), Souto Vizoso (885). Nella stessa linea si esprimerà Siri, in un testo inviato nel corso dell’intersessione 1963-64 (cf. AS III/1, 551). 178 Cf. AS II/2, 872. Qui Rubio si richiama a un passo di Agostino, che era stato citato nello stesso senso anche da Saboia Bandeira de Mello nell’intervento in aula del 4 ottobre. Nel passo in questione, Agostino annuncia alcune scelte che riguardano il clero della sua Chiesa e rispetto alle quali non ammette appelli: «Interpellet contra me mille concilia, naviget contra me quo voluerit, sit certe ubi potuerit: adiuvabit me Dominus, ut ubi ego episcopus sum, ille clericus esse non possit» (Serm. 356,14). Il passo viene citato per la frase «interpellet contra me mille concilia», che sottolinea l’autonomia del vescovo rispetto ai concili; ma ci si potrebbe chiedere che cosa significa anche quanto segue, «naviget contra me quo voluerit»: autonomia rispetto a un possibile appello a Roma?
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No alla collegialità giuridicamente costituita, dunque, perché – tra le altre ragioni – non la si ritiene sufficientemente fondata nella tradizione della Chiesa antica: tra i più strenui fautori di questa posizione, Carli sottolinea più volte, tuttavia, il principio della comunione dei vescovi e interpreta in questa linea anche alcune attestazioni patristiche, in particolare quelle di Cipriano (cf. 2,539s); non si parlerà, dunque, di collegialità, ma di comunione o «unità sacerdotale» (cioè episcopale), che deriva dalla ecclesia principalis (Roma) e che permane anche nell’episcopato disperso, in virtù della comunione col papa (cf. 2,544). Muovendosi per questa via, secondo Carli, si possono lasciar cadere gli elementi negativi e discutibili della nozione di collegialità, per mantenere, invece, quelli positivi, in particolare: l’analogia tra «corpus episcopale» e «corpus Christi mysticum», che emerge dal linguaggio dei Padri del IV e V secolo e che permette di parlare della reciprocità fra corpo e capo (ossia vescovi e papa, secondo una prospettiva che Carli ascrive a Leone Magno179); il linguaggio del «corpo» o «comunione» episcopale si presenta spontaneamente per indicare l’unione dei vescovi voluta da Cristo (e affermata ad es. dalle parole di Cipriano) e consistente anzitutto nella partecipazione all’unico sacerdozio e all’unica missione ricevuta da Cristo.180
4.4. I L
R E STO DEL C A P I T O L O
Il dibattito sul resto del capitolo secondo registra pochissimi rilievi di carattere patristico. Due interventi riguardano il n. 17: Gúrpide Beope critica la frase dello schema che presenta il papa quale «principio e fondamento visibile di unità sia dei vescovi che della moltitudine dei fedeli» (p. 28,3s); lo schema rinvia in nota al Vaticano I, ma il presule fa notare che l’espressione della Pastor Aeternus era più felice, perché considerava l’unità dei credenti realizzata «mediante i vescovi vicendevolmente uniti» (DH 3051): in questo modo, il Vaticano I rinviava a una dottrina già ripetutamente affermata da Leone XIII che riprendeva, del resto, l’insegnamento di Cipriano – ancora una volta si tratta dell’Ep. 66,8 – ribadito varie volte dai papi; lo schema in esame, suggerisce il presule, dovrebbe conservare questa prospettiva.181
179 Carli si riferisce ai «pulcherrimos textus S. Leonis Papae quos, prae temporis angustia, citare nequeo: Petrus caput episcopatus, Petrus initium episcopatus» (AS II/2, 543); ma queste espressioni come tali non si trovano in Leone. L’espressione «Petrus initium episcopatus» era stata studiata da Batiffol in un articolo del *1924 ristampato poi in Cathedra Petri (*1938). 180 Cf. AS II/2, 543: l’allusione è a Cipriano, Ep. 66,8, che Carli aveva già richiamato in precedenza. 181 Cf. AS II/2, 770. Lo schema citava il testo di Cipriano alla nota 36; nelle redazioni successive non vi saranno modifiche significative, il testo di Cipriano sarà indicato nella nota 31 di LG 23. Gúrpide Beope proponeva un testo alternativo (cf. AS II/2, 772).
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Neppure Rougé, nel testo sottoscritto da una cinquantina di vescovi francesi, è soddisfatto per la prima parte del n. 17 e ne propone una redazione alternativa, che intende valorizzare meglio il ministero dei vescovi nelle rispettive Chiese al servizio insieme della varietà e dell’unità della Chiesa: rinviando al contra Cresconium di Agostino,182 il testo proposto parla della Chiesa (universale) costituita da membra che sono le Chiese generate e rafforzate dall’opera degli apostoli. Un paio di interventi, a proposito del n. 19 dedicato al munus docendi, hanno sottolineato il radicamento dell’infallibilità nella tradizione patristica, chiedendo alcune precisazioni: secondo Saboia Bandeira de Mello, si deve chiarire che il papa, quando definisce infallibilmente una dottrina, lo fa «ex sensu Ecclesiae – non ex consensu»,183 ossia nella comunione con il corpo ecclesiale e per la sua edificazione, secondo una prassi che si può far risalire a Clemente Romano e che appare confermata dai papi successivi e dall’atteggiamento dei Padri d’oriente e d’occidente (cf. 2,115). García Martinez ha invece rinviato in modo generico alla tradizione patristica e teologica per la distinzione tra il duplice soggetto dell’infallibilità, la Ecclesia docens e la Ecclesia discens seu credens (cf. 2,104). Finalmente, riferendosi al n. 21, che accennava alla disponibilità dei vescovi ad ascoltare i propri sudditi, Pearce osserva che nel momento stesso in cui i vescovi sono chiamati a una maggiore partecipazione per il governo della Chiesa universale, debbono favorire una maggiore partecipazione di preti, religiosi e laici alla guida della diocesi: e cita al riguardo alcune espressioni di Ignazio di Antiochia e di Leone Magno.184
5. I L
D I B AT T I T O S U L C A P I T O L O POPOLO DI DIO E LAICI
A)
V E R SO UN DI D IO »
CA P I T O LO S U L
III:
« P OP OL O
La discussione sul terzo capitolo185 tiene già conto del fatto che il materiale presentato nello schema sarà suddiviso in un modo nuovo, con
182 In AS II/2, 868, l’opera è indicata erroneamente come di Cipriano: il rinvio al paragrafo (III,35,39) e a PL 43,517, invece, è corretto. 183 Sull’opportunità o meno di mantenere l’espressione non ex consensu Ecclesiae, usata dal Vaticano I (cf. DH 3074), vi erano state discussioni: si veda la Relatio della CD, con le spiegazioni che motivano la scelta di mantenere l’espressione fino alla redazione finale di LG 26 (AS III/1, 252 = Synopsis, 262-264). 184 Cf. AS II/2, 834s; il presule non dà i riferimenti, tuttavia i passi che cita sono: IGNAZIO ANT., Trall. 2-3; LEONE MAGNO, Serm. 4,1; cf., con riferimento allo stesso passo di Ignazio, anche l’intervento inviato da Buckley durante l’intersessione: cf. AS III/1, 564. 185 Per uno sguardo d’insieme sui punti principali del dibattito, cf. ACERBI, 298-309.
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la creazione di un capitolo (destinato a diventare il secondo nella redazione definitiva) sul popolo di Dio «in genere», mentre alla questione specifica dei laici si riserverà un capitolo distinto (che sarà poi il quarto). Diversi interventi relativi al c. III si riferiscono, pertanto, al futuro capitolo sul popolo di Dio. In questo contesto trova spazio una serie di suggerimenti e proposte alquanto variegate, che attingono anche alla tradizione patristica, anzitutto in vista di un chiarimento linguistico, dal momento che l’espressione «popolo di Dio» è piuttosto varia nei suoi usi biblici, liturgici e anche patristici, il che esige che si unifichi per quanto possibile il linguaggio.186 La maggior parte degli interventi non individua, nella tradizione patristica, un orientamento complessivo per la trattazione, ma suggerisce approfondimenti o dimensioni particolari. Per ciò che riguarda i tratti caratterizzanti la Chiesa in quanto popolo di Dio, si chiede dunque che ne venga evidenziato il carattere di popolo messianico, di «segno di speranza» levato in mezzo ai popoli, secondo una dottrina che dalla Scrittura, passando per i Padri, arriva sino alla Pacem in terris;187 in questo contesto si chiede di affermare esplicitamente il carattere essenzialmente missionario del popolo di Dio, essendo la missione una nota essenziale della Chiesa.188 Altri interventi propongono di radicare la tematica del popolo di Dio nella dottrina del Corpo mistico, alla luce dell’insegnamento di Agostino;189 o lamentano il fatto che il capitolo non sviluppi adeguatamente il tema della Chiesa come Mater fidelium, che permetterebbe di esplicitare i temi della figliolanza divina, della Chiesa come famiglia e della fraternità ecclesiale: l’adagio di Cipriano, «nessuno può avere Dio per Padre se non ha la Chiesa per madre», offre un principio di partenza, che andrebbe sviluppato.190 Dal punto di vista degli Orientali, espresso in aula dal maronita Ziadé, si domanda una trattazione che faccia più spazio allo Spirito Santo, pressoché dimenticato dopo ciò che si diceva nel n. 4: viceversa, non si dà una teologia della Chiesa che non sia pneumatologica, al punto che i Padri
186 Cf. Weber (AS II/3, 560), che nota comunque il carattere tradizionale, attestato anche dai Padri, del linguaggio sul popolo di Dio; e Guano, che richiama anche la citazione di Agostino introdotta dal n. 23 («vobis… episcopus, vobiscum… christianus»), ma per sottolineare che non chiarisce molto la diversità del linguaggio tradizionale (cf. ivi, 473). Sulla citazione agostiniana interviene anche l’arcivescovo di Malta, Gonzi, preoccupato per il fatto che il n. 23 non esprime adeguatamente la inaequalitas tra fedeli e gerarchia, per sottolineare che Agostino dice appunto: «“vobis sum episcopus”, id est inspector, qui praeest et ducit etiam cum servit»: ivi, 468. 187 In questa linea cf. gli interventi «gemelli» di Barthe (AS II/3, 107) e Marty (508). 188 Così Schütte, superiore generale dei Verbiti, che cita AGOSTINO, Tract. in Jo. 8: «[Christus] per Ecclesiam suam venit ad gentes et per Ecclesiam loquitur gentibus»: AS II/3, 197. 189 Cf. D’Agostino (AS II/3, 232) e Muldoon (ivi, 287), che intervengono in aula rispettivamente il 23 e il 24 ottobre. 190 Cf. Fougerat (AS II/3, 461). Su tutta la questione della «Chiesa madre» al Vaticano II, cf. G.P. ZIVIANI, La Chiesa madre nel Concilio Vaticano II, PUG, Roma 2001.
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qualificano l’età della Chiesa come «economia dello Spirito»; il richiamo allo Spirito potrebbe favorire un vero rinnovamento della Chiesa.191 Sulla questione, del resto, era già intervenuto anche Jaeger (che richiamò anche in altri interventi l’esigenza di una pneumatologia meglio approfondita): il suo punto di vista, in questo caso, sottolineava l’esigenza di radicare nell’eucaristia l’unità del popolo di Dio; richiamandosi ad Agostino, metteva in luce che è appunto l’eucaristia a realizzare, precisamente in virtù dello Spirito, l’unità della Chiesa nel vincolo della carità; quanti lacerano l’unità della Chiesa sono privi dello Spirito, secondo s. Agostino.192 In una direzione simile va la proposta presentata dal card. Silva Henriquez, a nome di più di trenta vescovi latino-americani: impostare sul tema della communio – di credenti, ma anche di Chiese – la questione dell’unità del popolo di Dio. Ancora una volta, è l’ecclesiologia eucaristica ispirata a Ignazio di Antiochia a fornire un primo riferimento determinante, integrato poi con altri rinvii a prospettive patristiche.193 Granados García chiede invece che si sottolinei di più la realtà del popolo di Dio in quanto popolo redento da Cristo in virtù del dono della sua vita, che ha creato un’unità inscindibile tra Cristo e il suo popolo; esso diventa quindi non solo destinatario, ma anche partecipe e attore della redenzione, secondo un’indicazione che risale a Clemente Alessandrino.194 Per altri, il testo dovrebbe esplicitare l’applicazione al popolo di Dio dei munera ecclesiali: sia in generale, come suggerisce Seitz, che propone un testo dove, sulla scorta del Crisostomo, sottolinea il fatto che il cristiano, col battesimo, è costituito sacerdote, re e profeta;195 sia mettendo in rilievo l’uno o l’altro dei munera: quello regale che, secondo un testo di Ilario, consiste per l’uomo nel regnare sulla realtà alla quale era stato un tempo asservito, il peccato;196 quello sacerdotale, particolarmente sottolineato da vescovi latino-americani, che si richiamano a Ignazio, Agostino, Leone Magno;197 e quello profetico, che il cileno Larraín Errázuriz raccoglie soprattutto nella testimonianza cristiana della «evan191
Cf. AS II/3, 211; l’intervento sembra ispirato da Daniélou (cf. D-Edelby, 184). Cf. AS II/3, 94; Jaeger (che rinvia ad AGOSTINO, Serm. 7,11-13) si richiama anche all’intervento di Volk nella C. G. del 3 ottobre (cf. sopra, § 3.2a). 193 Cf. AS II/3, 400, 406 e 411. Si fa riferimento a: IGNAZIO ANT., Magn. 6,1; Smyrn. 8,1; CIPRIANO, Ep. 66,9; PS. DIONIGI, eccl. hier. III,14; GIOVANNI CRISOST., de proph. obscur. 2,10; hom. 46 in Ioann.; GIOVANNI DAM., de fide, 4,13. Si tratta, in buona parte, della ripresa di alcuni elementi dello «schema cileno»: cf. Synopsis, 784-786. 194 È esplicita qui la dipendenza da Mystici corporis: cf. AAS 35(1943), 221, dove si rinvia a CLEMENTE ALESS., Strom. VII,2: si tratta di un ritorno allo schema preparatorio, che citava gli stessi passi (cf. la conclusione del n. 1). 195 Cf. AS II/3, 538; il testo citato è In 2 Cor. hom. 3,7, del resto già menzionato nello schema; cf. anche gli interventi in aula di Rastouil (10s) e van Zuylen (241). 196 Il suggerimento è di Seitz (cf. AS II/3, 537), che cita ILARIO, in Ps. 67: PL 9,465; cf. anche Darmancier (AS II/3, 359). 197 Cf. la proposta di Silva Henriquez (AS II/3, 407 e 412), che cita AGOSTINO, Civ. Dei X,6; IGNAZIO ANT., Rom.; Mart. Polyc. 14,1; e quella di Uribe Jaramillo (213s), che richiama LEONE MAGNO, Serm. 4,1; entrambi dipendono dallo «schema cileno»: cf. Synopsis, 808s. 192
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gelica vivendi forma», secondo il detto di Cipriano: «noi cristiani “non parliamo di cose grandi, ma le viviamo”».198 L’austriaco László, forse non tenendo conto di quanto sviluppato nel c. IV, ha insistito poi perché nella parte dello schema dedicata al popolo di Dio si parlasse anche del peccato nella Chiesa; ha richiamato in questo contesto soprattutto la riflessione agostiniana, che evidenzia il carattere escatologico della piena santità della Chiesa; il riferimento alla Chiesa «senza macchia né ruga» dovrebbe tener conto del fatto che questa condizione caratterizza la Chiesa nel suo stato finale; secondo una linea costante nel vescovo di Ippona, la Chiesa nel tempo presente è quella che continua a ripetere: «Rimetti a noi i nostri debiti».199
B)
«L A IC I »
O
« CRIS TIANI »?
Per quanto riguarda i laici, permane una certa ambiguità, almeno in quella parte degli interventi che sembra riferire ai laici ciò che, più correttamente, dovrebbe essere detto del cristiano in quanto tale: in altre parole, non sempre si riesce a distinguere la nota propria della laicità, né sembra che i testi patristici richiamati offrano qui un grande aiuto. Solo l’italiano Barbero si addentra in una proposta di distinzione, basata su ciò che Gregorio Magno dice degli angeli: questi sono «spiriti», ma qualificati come «angeli» in rapporto alla missione loro affidata;200 analogamente, argomenta Barbero, si potrebbe dire che i christifideles sono come gli «spiriti», ossia uomini spirituali per la dignità cristiana; e sono «angeli/laici» in virtù della loro missione di aiuto alla gerarchia: «Il vocabolo “laico”, quindi, indica l’ufficio e non la natura». L’analogia può sembrare ingenua, ma segnala quanto meno la consapevolezza di un problema che non tutti avvertivano. Alcuni padri ritengono che la tradizione patristica possa offrire qualche elemento in più per una descrizione positiva dell’indole dei laici: così ad es. Castellano, che però non fornisce elementi più precisi (cf. 3,37s). Rugambwa è più specifico – rinvia alle note espressioni di Leone Magno sulla dignità del cristiano e alle affermazioni del Crisostomo, che collegava alla consacrazione battesimale la missione del cristiano in favore del mondo intero201 – ma ci si può chiedere se tutto ciò non sia piuttosto da riferire al cristiano in quanto tale. Non diversamente Morcillo Gonzalez, proponendo una definizione del laico che si vuole «theologica, non canonica, non negativa», insiste sul fatto che il laico «conduce una vita comune a quella degli uomini dedicandola a Dio», e richiama a questo 198
AS II/3, 225. La fonte (non indicata) della citazione è de bono patientiae, 3. Cf. AS II/3, 499s; László cita qui AGOSTINO, Retr. II,18, e rinvia a TOMMASO, STh III, q. 8, a. 3, ad 2; aveva citato in precedenza, di AGOSTINO, anche In Io. tract. 81,4, e il concilio di Cartagine del 418 contro i pelagiani (cf. DH 228-230). 200 Cf. Hom. 34 in Evang.; l’intervento di Barbero è in AS II/3, 425. 201 Cf. AS II/3, 62. La citazione di LEONE è, notoriamente, Serm. 21,3; per GIOVANNI CRISOST., Rugambwa rinvia, citandone alcune linee, a Hom. 15 in Matth., 10. 199
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proposito ad Diogn. 5, 5-14, applicando così al laico ciò che l’epistola dice dei cristiani.202 Le cose non stanno diversamente per il suggerimento di Gufflet, secondo il quale il testo sui laici parla della loro condizione filiale quasi solo per transennam, mentre essa costituisce, secondo la testimonianza biblica (Paolo) e patristica (Atanasio), «la qualità e quasi la forma costitutiva del laicato» (3,475). Inevitabile chiedersi, anche qui: del laicato, o dei cristiani? Il discorso si fa necessariamente più specifico quando si arriva a parlare della famiglia e del matrimonio. Sulla questione si è particolarmente impegnato Fiordelli, che ha insistito, richiamandosi alla tradizione patristica, perché lo schema fosse arricchito. Vi è anzitutto la richiesta di parlare della famiglia come parva Ecclesia, nella linea dei Padri così orientali come occidentali e ampliando la documentazione già apportata nella nota 8 del capitolo. Il vescovo di Prato si sofferma sulla questione,203 insistendo perché si consideri la famiglia come l’«ultima comunità sacra nella Chiesa, per volontà di Cristo» (3,22); non gli basta che lo schema riconosca il dono proprio degli sposi, alla luce di 1Cor 7,7: vuole che si qualifichi la famiglia come un vero e proprio «stato» nella Chiesa, «anche secondo il pensiero dei Padri, che chiamarono il matrimonio grado, ordine, ufficio, genere di vita, professione», come documenta la nota 8; uno status «certamente inferiore a quello sacerdotale e verginale, ma altissimo tra gli stati laicali» (ivi). Parlando della famiglia come Ecclesia domestica,204 lo schema citava ad sensum un passo di Agostino per osservare che i genitori «spesso sono i primi annunciatori della fede, esercitano un compito quasi episcopale, come dice Agostino e, con l’aiuto di Dio, favoriscono anche le sacre vocazioni».205 Il passo ha sollevato un certo numero di critiche, perché faceva dire ad Agostino più di quanto le sue parole implicassero: come fece 202 Cf. AS II/3, 184 e 186. All’ad Diogn., nel noto passo di 6,1 – del resto già citato nello schema –, ricorrono anche alcuni vescovi francesi che domandano di esprimere meglio la partecipazione del laico alla missione salvifica della Chiesa (cf. ivi, 452). Anche Cambiaghi applica lo stesso testo ai laici, e in particolare alla loro professione, da vivere come ambito di cammino verso la santità (cf. AS II/4, 122s). La difficoltà di arrivare a una caratterizzazione positiva del laico è confermata e contrario dal chiarimento linguistico indicato da D’Almeida Trindade, che ricorda come il primo uso del termine laikos come aggettivo di «uomo» appare nella lettera di Clemente Romano ai Corinzi per designare «homines ad statum clericalem non pertinentes» (ivi, 435). L’ambiguità laico/cristiano nell’uso dei testi patristici è rilevata anche da H. DE LUBAC, Paradosso e mistero della Chiesa, Jaca Book, Milano 1979, 50. 203 Confondendo i testi citati nello schema, Fiordelli attribuisce ad Agostino un passo del Crisostomo (In Gen. serm. 7,1), e come tale correttamente indicato nella nota: cf. AS II/3, 22. 204 Secondo Fiordelli, l’espressione parva Ecclesia, corrispondente al pensiero patristico, è da preferire a quella di Ecclesia domestica, che ha un suo significato storico peculiare, non riferito al matrimonio (cf. AS II/3, 22s). 205 P. 8,1-3; il passo di Agostino cui si fa riferimento era tratto dal Serm. 94: «Agite vicem nostram in domibus vestris. Episcopus inde appellatus est, quia superintendit, quia intendendo curat»; per gli altri passi citati, cf. sopra, nota 40.
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notare Bea, Agostino non dice che i genitori svolgono un ufficio «quasi episcopale», ma che nella propria famiglia svolgono le veci dell’episcopos nel senso etimologico del termine («sovrintendente»); si esprimono in modo critico, con osservazioni analoghe, anche Ruffini, Carli, Sépinski e lo stesso Fiordelli.206 Da segnalare, infine, che nel contesto della discussione su questa parte dello schema si accese in concilio la disputa intorno ai carismi e alla loro permanenza o meno nella vita della Chiesa di oggi. Il card. Ruffini, che nell’intervento in aula del 16 ottobre fu uno dei principali negatori della permanenza dei carismi, si appoggiò, tra gli altri argomenti, anche a un passo del Crisostomo, secondo il quale i carismi erano necessari all’inizio della Chiesa, per meglio sostenere una realtà giovane qual era; nella stessa linea citò Gregorio Magno, per concludere che i carismi – contro l’opinione dei fratelli separati – non sono oggi se non una realtà rarissima «e del tutto singolare».207
6. I L
C A P I T O L O IV: L A C H I A M ATA ALLA SANTITÀ NELLA CHIESA
A)
R INN OVA M E NT O D ELL A O A R C A ISM O ?
C HIE SA
Anche a proposito del IV capitolo dello schema si registrano, nel dibattito conciliare, posizioni diversificate nelle linee ecclesiologiche di fondo e nell’utilizzazione della tradizione patristica.208 Proprio in questo contesto, anzi, s’incontra una delle prese di posizione di più esplicita diffidenza nei confronti del ressourcement – così indicato come equivalente del latino archaismus. L’autore dell’intervento è Vuccino, vescovo emerito di Corfù-Zante-Cefalonia, che parlò in aula il 29 ottobre; è però nell’allegato scritto che il presule manifesta le sue perplessità di fronte a un duplice rischio dell’intellectus fidei: quello di isolare qualche verità dalle altre e, appunto, la «tentazione dell’arcaismo (in francese ressourcement)» (3,621). Richiamandosi al discorso di Paolo VI in apertura del II periodo, il vescovo ricorda che l’autocoscienza della Chiesa cresce, sotto 206 Cf. AS II/3, rispettivamente 395 (Bea), 23 (Fiordelli), 546 (Sépinski); per Carli, cf. AS II/1, 641; per Ruffini, AS II/2, 632. Al testo di Agostino si richiama anche, ma nel quadro della discussione sul IV capitolo, Almarcha Hernández (cf. AS II/3, 418). 207 AS II/2, 629s; i passi citati sono: GIOVANNI CRISOST., In Inscript. Actorum Ap. 2,2; GREGORIO MAGNO, In Evang. Homil. 29,4. Sui restanti paragrafi del capitolo, i pochissimi interventi che si richiamano ai Padri sono generici e di scarsa rilevanza: un richiamo al sacramento della confermazione come fondamento dell’apostolato, secondo l’insegnamento di «plures Patres et Ecclesiae Doctores» (Civardi, AS II/3, 35: ma indica solo un testo di Tommaso); un paio di richiami sul dovere che i vescovi hanno di ascoltare i propri sudditi, con appello alla Regula Benedicti (Padin, ivi, 28s) e ad Agostino (Trevor Picachy, ivi, 67). 208 Per una sintesi del dibattito, cf. ACERBI, 310-314.
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la guida dello Spirito, ed è sottoposta a una legge di progresso, come ogni vivente: per questa ragione, «il rinnovamento della Chiesa non implica una tendenza arcaistica, che tenta di spogliare la Sposa di Cristo della splendida veste che ella stessa ha intessuto nel corso del tempo» (ivi); tutt’al più, il concilio dovrà curare di togliere un po’ di polvere da questa veste. In questa linea, il vescovo – che nel corso dell’intervento orale aveva lamentato una certa povertà biblica e tradizionale del capitolo209 – suggerisce di collegare meglio questa parte dello schema con il capitolo introduttivo dedicato al mistero della Chiesa; e propone un testo alternativo, che si vuole attento alla Scrittura e insieme rispettoso delle tradizioni latina e orientale, per le quali si richiama rispettivamente a Tommaso e a Cabasilas.210 Il melchita Tawil, da parte sua, oltre a tornare sulla scarsa fondazione biblica del capitolo, solleva il problema del carattere troppo unilateralmente «latino» del testo, ne lamenta l’eccessiva dipendenza dalla tradizione degli ultimi quattro secoli, l’ignoranza della tradizione orientale e persino della stessa tradizione latina più antica, caratterizzata da una vicinanza alla fonte viva della tradizione biblica, in virtù della quale i Padri dovrebbero esserci ancor oggi maestri. Positivamente, il presule richiama poi gli elementi fondamentali di una visione della santità nella Chiesa secondo lo spirito dei Padri, di cui sottolinea questi elementi: la vocazione alla santità appartiene al mistero del popolo di Dio;211 i Padri hanno descritto il mistero della Chiesa a immagine della vita della SS.ma Trinità nella comunione della carità; la dottrina della deificazione è molto cara ai Padri per esprimere il movimento del disegno divino nel quale viviamo per virtù dello Spirito; è preferibile usare il termine christifideles al posto di laici.212 Tra gli altri interventi di carattere generale sul c. IV, si registrano alcuni riferimenti più specifici ai Padri: vuoi per chiedere una più decisa impronta cristologica di tutto il tema della santità cristiana, sulla scorta di un testo di Cipriano, scelto come esempio tra le «chiarissime testimonianze dei Padri»;213 vuoi per richiamare il principio della vita inte209 Bea, intervenendo in aula il 30 ottobre, sviluppa la stessa critica: un solido fondamento biblico e tradizionale della dottrina della santità – carente nello schema – permetterà anche di migliorare il dialogo con i non cattolici: cf. AS II/3, 640. 210 Cf. AS II/3, 623; il testo proposto (ivi, 623-627), peraltro, non cita esplicitamente nessun autore al di fuori della Scrittura, salvo un riferimento di passaggio (ma esplicito) a Leone Magno, «Agnosce, christiane, dignitatem tuam». 211 Da parte sua, già nella discussione sul c. III Tabera Araoz aveva sottolineato che l’affermazione di una comune vocazione alla santità è altamente tradizionale, e aveva citato in particolare, come esempio, AGOSTINO, Serm. 96,3 (cf. AS II/3, 75 e 77). 212 Cf. AS II/4, 326s e Discorsi di Massimo IV al Concilio, EDB, Bologna 1968, 91-93. Alla tradizione orientale si richiama anche Charue, che vi ritrova un approccio più equilibrato, rispetto a quella latina influenzata dal giuridismo medievale, dal rapporto tra vita spirituale di ogni credente e forme di vita consacrata; il concilio dovrebbe tornare, sulla questione, ai fondamenti della dottrina di Cristo, degli apostoli e dei Padri (cf. AS II/3, 384). 213 L’intervento è di Hervás y Benet (AS II/4, 221), che cita poi la frase conclusiva del de idol. van. di CIPRIANO: «Christum comitamur, Christum sequimur…».
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riore, quale fondamento di ogni apostolato, rinviando a Gregorio Magno;214 vuoi, infine, per domandare che la caritas sia posta più al centro della prospettiva di santificazione che il capitolo suggerisce. Lo propone, in prospettiva più teologica, il vescovo di Lusaka, Kozlowiecki, che insiste sull’amore come comunicazione della vita trinitaria partecipata all’umanità in Cristo, secondo una linea che dalla Scrittura, attraverso i Padri, arriva alle sintesi medievali e ai grandi dottori di vita spirituale: si prospetta qui un orizzonte teologico-pratico di grande portata per il capitolo e per l’intero schema, che ne appare piuttosto carente (cf. 3,162s). Senza andare così lontano, lo jugoslavo Nežic´ propone di aggiungere al termine del capitolo un paragrafo intitolato De Ecclesia ut communione caritatis, in quanto la carità appartiene all’essenza della Chiesa; tra le altre ragioni, richiama l’affermazione agostiniana sulla carità come compimento della giustizia; e indica, in questa proclamazione della Chiesa quale comunione di carità, fatta dal concilio, il compimento di ciò che Ignazio preannunciava salutando la Chiesa romana come quella «quae praesidet caritati».215
B)
LE
DIVERSE FORME DELL’ UNICA SANTITÀ
Nella discussione sul n. 30, dedicato alle diverse forme in cui si attua l’unica santità, alcuni interventi fanno appello ai Padri soprattutto in rapporto alla vocazione alla santità di vescovi e presbiteri: un’accentuazione che risponde forse al principio enunciato dallo schema, che si riferiva all’insegnamento dei «santi Padri», senza però citare nessun testo concreto e anzi rinviando solo – come osserva criticamente Bea (cf. 3,642) – al magistero recente. Si fa notare, soprattutto, il distacco tra quanto è stato detto in precedenza sul triplice munus del vescovo e ciò che si dice qui a proposito della sua santificazione; Gúrpide Beope propone un testo alternativo non tanto per questo capitolo, ma per il n. 20 del c. II, che tratta del munus sanctificandi: l’intento della proposta è di mettere meglio in evidenza il nesso tra il ministero di santificazione e quello di insegnamento, valorizzando in particolare il concetto agostiniano e tomista dei sacramenti come «sacramenta fidei».216 Franic´ sottolinea l’affermazione dello schema secondo la quale il vescovo è modello della vocazione alla santità, da vivere nell’esercizio della carità pastorale, anche per il clero: è una dottrina, a giudizio del presule, del tutto tradizionale, e la si ritrova in Tommaso, nello Ps. Dionigi, nel Crisostomo; il testo, anzi, dovrebbe mettere ancora meglio in luce, come richiesto da altri, la figura del vescovo quale santificatore di tutto il
214
Così il vescovo missionario Mazzieri: AS II/4, 259. Cf. AS II/4, 279, 281; viene citato AGOSTINO, de nat. et gratia 70,84. 216 Cf. AS II/4, 198-200; nella stessa linea si veda anche Gonzalez Martin: AS II/3, 377s. 215
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popolo di Dio.217 Anche Gonçalves Cerejeira, patriarca di Lisbona, sottolinea la questione, richiamando i testi ignaziani che collegano il vescovo, «imago Patris», a tutta la sua Chiesa locale e al presbiterio accordato con lui come le corde della cetra, in modo che i presbiteri siano con lui anche cooperatori della santificazione di tutto il popolo cristiano (cf. 3,591s). Dedica un’attenzione particolare alla santificazione dei parroci, sempre in stretto rapporto con il vescovo, il colombiano González Arbeláez: il ministero del parroco è visto come attualizzazione del comandamento supremo dell’amore, come attestano ragioni scritturistiche, liturgiche e patristiche, dalla cui «immensa ricchezza» attinge due testimonianze a titolo di esempio: quella dello Ps. Dionigi e quella di Agostino – il primo, in effetti, riferito al ministero ecclesiastico, mentre il testo di Agostino sembra riferirsi piuttosto alla condizione di ogni cristiano.218 Appaiono piuttosto occasionali i richiami ai Padri negli interventi sul n. 31, dedicato ai mezzi per acquisire la santità.219 Vi si nota una certa insistenza sulla castità: già lo schema accennava all’idea della castità come principio di fecondità spirituale nel mondo; un tema importante, secondo Bea, che suggerisce di confermarlo rinviando almeno a Cipriano.220 Nella stessa linea, Šeper ricorda l’interpretazione agostiniana della parabola del seminatore, secondo la quale il frutto del cento, del sessanta e del trenta, dato dal seme caduto sul terreno buono, si riferisce rispettivamente ai martiri, alle vergini e agli altri santi nella Chiesa.221 Sebbene lo stesso Agostino sia prudente quanto alla portata di questa applicazione, osserva l’arcivescovo di Zagabria, il testo è quanto meno indice dell’altissima stima riservata alla verginità nella Chiesa antica. La consacrazione nel celibato, secondo un altro vescovo jugoslavo, Bäuerlein, è del resto la nota specifica che fa anche della condizione del presbitero uno «stato di perfezione» e lo colloca, secondo la parola del Crisostomo, al di sopra degli stessi angeli.222
217 Cf. AS II/3, 658. Nel suo intervento Franic´ rileva anche che la via della «carità pastorale» sembra aver prodotto meno frutti di santità, dal medioevo in poi, rispetto a quella dei consigli evangelici; quindi anche i vescovi devono guardare l’esempio di questa via, in particolare per ciò che attiene alla povertà. 218 Cf. AS II/4, 34s; il presule rinvia allo Ps. Dionigi e ad AGOSTINO, In Jo. tract. 87,1. Per quanto riguarda l’Areopagita, cita l’espressione «Omnium divinorum divinissimum est cooperari Deo in salutem animarum», ma senza dare riferimenti: l’assioma – attribuito anche a Gregorio Magno e spesso citato nella letteratura spirituale – come tale non ha riscontri nel corpus Ps. dionisiano: probabilmente, però, si basa su Cœl. hier. 3,2. 219 Si chiede di indicare, col resto: la Sacra Scrittura (secondo l’assioma di GIROLAMO, «ignoratio Scripturarum ignoratio Christi est», In Is. Prol.: cf. Kovács in AS II/4, 235s); l’eucaristia e la penitenza, con rinvio a ILARIO («Eucharistia est sanctitatis sacramentum», con riferimento forse a comm. Matth.: PL 9,963B): cf. Rodriguez Diez, AS II/4, 308. 220 Il rimando è a CIPRIANO, hab. virg. 3; intervento di Bea in AS II/3, 643. 221 Cf. AGOSTINO, De sancta virg. 46s; per l’intervento di Šeper, cf. AS II/4, 317s. 222 Cf. AS II/3, 389; il testo del CRISOSTOMO a cui si allude (citando EPatr 1116) è dal de Virg. 10: PG 48,540; stesso testo citato da Hage, cf. AS II/4, 202.
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C)
«S TATO
DI PE RF E Z I O N E »?
È stato rilevato che il punto di maggior interesse ecclesiologico, e anche di più vasta risonanza, nella discussione del IV capitolo, è quello che riguarda la natura dello «stato di perfezione»223 che, in questa stessa espressione, sembra difficilmente conciliabile con la prospettiva di una vocazione alla perfezione della santità, richiesta a tutti i battezzati. Se il card. Léger (già sulpiziano) sollecita una revisione d’insieme della parte del capitolo che riguarda la vita religiosa, perché non lo ritiene all’altezza del ressourcement teologico,224 una delle preoccupazioni ricorrenti è che la chiamata di tutti alla santità offuschi la peculiarità dello «stato di perfezione». Di qui l’attenzione, in alcuni, a mostrare che le due cose non sono in concorrenza. Si fa notare che anche s. Agostino, «esimio seguace e promotore della perfezione», propone tuttavia la perfezione cristiana a tutti.225 Secondo lo stesso intervento, peraltro, la «sentenza unanime dei Padri», di tutti i teologi e del magistero, dagli inizi della Chiesa a oggi o quasi, va nella direzione della superiorità oggettiva della perfezione cristiana perseguita attraverso i consigli evangelici, e sarebbe impensabile cambiare principio, fosse pure per ragioni pastorali o ecumeniche.226 È interessante osservare che all’interno dello stesso fronte dei religiosi – abbondantemente rappresentati in concilio non solo dai superiori generali, ma anche e soprattutto dai moltissimi vescovi (oltre un migliaio) provenienti da congregazioni religiose – non tutti erano d’accordo sull’opportunità di parlare della vita religiosa come «stato di perfezione»: il benedettino Reetz, superiore della Congregazione benedettina di Beuron, ricordò in aula, il 30 ottobre, che la distinzione tra «perfetti» e semplici fedeli era storicamente piuttosto un retaggio di orientamenti eretici (soprattutto gnostici), unanimemente rigettati dai Padri; sarebbe preferibile, concludeva, lasciar cadere l’espressione «stato di perfezione», per quanto proveniente da s. Tommaso (cf. 3,666s). Nel contesto di una disputa che raggiunse toni piuttosto acuti, anche perché si intrecciava con il problema dell’esenzione e con le difficoltà che un certo numero di vescovi sperimentava al riguardo,227 diversi interventi leggono, nella testimonianza della Chiesa dei Padri, piuttosto una conferma della natura propria dello stato religioso: per il domenicano Philippe (segretario della Congregazione per i religiosi) ciò richiederebbe la redazione di un capitolo specifico sulla vita religiosa. Già nella Chiesa antica, 223
Cf. ACERBI, 312. Cf. AS II/3, 634. Elementi di documentazione biblico-patristica sono suggeriti dall’agostiniano Rubio, che domanda di richiamare due testi biblici rilevanti nella nascita e sviluppo della vita religiosa: Mt 19,16-22, per il quale rinvia ad ATANASIO, Vita Antonii, e ad AGOSTINO, Ep. 107,39; e i passi degli Atti sulla comunità primitiva, per i quali rinvia a Reg. Augustini 1; POSSIDIO, Vita Aug. 5; AGOSTINO, Serm. 356,1-2: cf. AS II/4, 309s. 225 Cf. Serrano Pastor, con altri quattro padri: AS II/4, 318; il riferimento è ad AGOSTINO, Serm. 96,3 (cf. anche sopra, nota 211). 226 Cf. AS II/4, 320. 227 Su questo aspetto del dibattito, cf. MELLONI, in SCVII, III, 107-109. 224
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osserva, la verginità consacrata costituisce una condizione specifica, distinta rispetto a quella del clero e dei laici e salutata da Cipriano e da altri come «porzione più illustre del gregge di Cristo»;228 lo schema ne dovrebbe affermare più chiaramente la superiorità rispetto al matrimonio.229 Sulla discussa questione del rapporto vescovi-religiosi, la tradizione patristica non poteva fornire, evidentemente, molti elementi. Il dibattito conciliare aveva comunque già fatto passi significativi verso un ripensamento del ministero del vescovo nel contesto di una visione teologica della Chiesa locale; ed è precisamente questo il profilo che assumono i due interventi nei quali si affronta il problema del rapporto vescovi-religiosi, facendo riferimento anche alla Chiesa dei Padri. L’uno e l’altro, ossia il card. Bea e l’ausiliare di Barcellona Jubany Arnau, si richiamano alla visione ignaziana del vescovo e della Chiesa locale. Per Bea, il problema è di fondare meglio, e ricorrendo alla tradizione più antica,230 ciò che lo schema dice sull’obbedienza che i religiosi sono tenuti a prestare al vescovo. Jubany Arnau argomenta un po’ di più, proprio insistendo sulla presenza concreta della Chiesa universale nella Chiesa locale: e in questa linea richiama, citando Ignazio, la necessaria unità della Chiesa intorno al vescovo e all’eucaristia da lui presieduta, per concludere che i religiosi, proprio perché vivono il mistero della Chiesa universale, devono penetrare con la stessa perfezione il mistero della Chiesa.231
7. L A A)
QUESTIONE MARIANA
IL
PR IM O S CH E MA M A R I O LOGI C O E LE S UE FON T I
Il de Beata Virgine della Commissione teologica preparatoria, non discusso nel primo periodo, era stato mandato ai padri conciliari nell’aprile del 1963. Nei mesi successivi, prima della riapertura dei lavori, un certo numero di padri e di conferenze episcopali avevano inviato osservazioni sullo schema: si tratta di poco più di un centinaio d’interventi, una quindicina dei quali toccano, tra le altre cose, anche il problema delle fonti di riferimento dello schema. Fermiamo l’attenzione solo su questo aspetto della discussione, rinviando alla sintesi di Antonelli per uno sguardo complessivo sulle osservazioni dei padri conciliari in questa fase del lavoro.232 228 Cf. AS II/4, 298, che rinvia a CIPRIANO, hab. virg. 3, citato alla nota 11 dello schema. Sulla verginità come nota specifica della vita consacrata, alla luce della tradizione patristica, insiste anche de Provenchères (cf. AS II/4, 157s). 229 Così Hage, con cinque altri padri orientali (AS II/4, 201s). 230 Bea (cf. AS II/3, 645) si riferisce a un passo del n. 34 (p. 22, 14-17) e alla nota 20, che citava in merito due testi di Pio XII. 231 Cf. AS II/4, 230; il presule cita subito prima alcune righe di IGNAZIO, Philad. 4,1. 232 Cf. C. ANTONELLI, Il dibattito su Maria nel concilio Vaticano II. Percorso redazionale sulla base di nuovi documenti di archivio, Messaggero, Padova 2009, 250-273; per gli interventi, cf. AS II/3, 677-857 (citeremo di seguito, e anche nel testo, solo la pagina); su questi interventi si basa il fascicolo di emendamenti distribuito ai padri il 29 ottobre 1963 (cf. ivi, 300-338).
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I giudizi sull’uso delle fonti furono abbastanza disparati, come osserva la relatio premessa alle Emendationes distribuite ai padri il 29 ottobre: poco biblico per alcuni;233 insufficiente, per altri, quanto a testimonianza patristica, soprattutto dei padri orientali;234 alcuni elogiano l’ampio uso del magistero pontificio,235 che altri ritengono esagerato; e qualcuno pone il problema della sua qualificazione teologica…236 Le valutazioni, soprattutto come sintetizzate nella Relatio, sembrano equilibrarsi; ma la lettura dei singoli interventi mostra che i giudizi sull’uso delle fonti sono soprattutto negativi.237 La preponderanza di testi del magistero pontificio recente, a scapito della tradizione più antica, è oggetto di diverse critiche: Bea, ad es., insiste ripetutamente sulla necessità di ricorrere alla antiqu(issim)a traditio; rileva che la profusione di testi papali, tra l’altro staccati dal loro contesto, rende il discorso meno chiaro ed emargina testi fondamentali dei Padri.238 Battú Wichrowski lamenta un uso della Scrittura che pare solo ornamentale; nota che il ricorso scarso ai testi dei Padri mette ai margini l’orientamento «ecclesiotipico», che è loro caratteristico, rispetto a quello «cristotipico» prevalente nel magistero pontificio; sottolinea che la ricchezza della patristica orientale è quasi del tutto trascurata (cf. 693s). La questione delle fonti si collega, evidentemente, con la portata ecumenica dello schema mariologico, anche solo in prospettiva «intra-cattolica»; il carattere troppo «latino» del testo è criticato da Maximos IV (che, del resto, non ritiene neppure strettamente necessario lo schema in quanto tale): lo schema, afferma, ignora quasi del tutto la letteratura mariana della Chiesa greca e non procede con adeguata consapevolezza
233 Era l’opinione di Bea (677s), Battú Wichrowski (693), Lémenager (745), Maximos IV (787); soddisfatto dell’uso della Scrittura era invece Krol (742). 234 Per la carenza di riferimenti alla patristica orientale, cf. Battú Wichrowski (694), Maximos IV (787) e, in parte, Pawlowksi, a nome dei vescovi polacchi (762s); più genericamente, lamentano lo scarso fondamento dello schema nella tradizione antica Bea (677) e Leménager (745); di segno opposto le valutazioni di Gawlina (716) e Krol (742). 235 Per questa osservazione, cf. Fukahori (714). 236 311. Questi ultimi giudizi sono rispettivamente di Krol (742), Lefèvre (744) e Battú Wichrowski (694). L’uso delle fonti che intervengono nel discorso teologico in genere e mariologico in specie è discusso nel lungo testo di Tabera Araoz, che tratta del fondamento scritturistico, del riferimento alla tradizione e al sensus Ecclesiae, del ruolo del magistero ordinario della Chiesa, in particolare di quello dei papi, dal quale non si può assolutamente prescindere nell’esposizione della dottrina mariologica (cf. 801-805); la testimonianza patristica, tuttavia, non è particolarmente rilevata. 237 Fanno eccezione i rilievi elogiativi, molto generici, di Gawlina (716) e Krol (742). L’intervento del vescovo francescano missionario Quint, che polemizza con quanti esaltano «les documents anciens de la tradition» e invece tengono in poco conto il «magistère ordinaire de l’Église, qui de nos jours aussi bien que dans l’antiquité est guidée par l’Esprit Saint» (776), è inserito tra quelli inviati prima del secondo periodo, ma dev’essere posteriore, perché allude alla votazione del 29 ottobre. 238 Cf. AS II/3, 677s; l’espressione antiqu(issim)a traditio ricorre cinque volte a p. 677; si vedano anche le osservazioni di Leménager (745). Critiche analoghe si leggono nelle Animadversiones criticae del Segretariato per l’unità, inviate alla vigilia del secondo periodo: testo in ANTONELLI, Il dibattito su Maria, 276s.
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del metodo ecumenico (cf. 787). Anche i vescovi polacchi si mostrano preoccupati della carenza di senso ecumenico e del tono eccessivamente «latino» dello schema, ancora troppo ignaro delle prospettive della patristica e della liturgia orientali (cf. 762). Ma è ancora il patriarca dei melchiti a segnalare la debolezza di una teologia che, di fatto, annulla la Scrittura e la Tradizione sotto il peso del magistero, del resto senza nascondere il principio scelto, nel momento in cui afferma – nei Praenotanda allo schema – che Scrittura e Padri vanno interpretati «ad sensum magisterii»: Questa nota tradisce bene la mentalità davvero speciale degli autori dello schema. Per loro, dunque, la Scrittura e la Tradizione non sono veramente necessari, dato che abbiamo il Magistero della Chiesa. E per Magistero della Chiesa intendono naturalmente il solo insegnamento dei Romani Pontefici. Questo accaparramento della Scrittura, della Tradizione e del Magistero a profitto dei Romani Pontefici è caratteristico di una mentalità molto particolare, che è corrente in certi ambienti teologici. Lo schema «De Beata Maria Virgine» ne risente.239
B)
M ARIA E LA C HIESA : L’ UNIFICAZIONE DEI DUE
SCHEMI
Nel corso del II periodo, il concilio affrontò la questione mariana, almeno in aula, soltanto in rapporto alla scelta d’incorporare lo schema nel de Ecclesia. È noto che la questione fu oggetto di un dibattito appassionato: non abbiamo bisogno, peraltro, di ricostruirlo qui in tutti i dettagli.240 Di fronte al contrapporsi dei punti di vista – sebbene in CD prevalesse l’opzione dell’inserimento –, fu deciso che due vescovi avrebbero parlato in aula a favore dell’una e dell’altra scelta, per sottomettere poi la questione al voto dell’assemblea conciliare. Nella riunione della CD del 15 ottobre, le due relazioni furono affidate al card. Santos (a favore di uno schema separato) e al card. König (a favore dell’inserimento); la presentazione in aula dei due punti di vista avvenne il 24 ottobre. Né l’uno né l’altro degli oratori utilizzano argomentazioni di carattere patristico a sostegno dei rispettivi punti di vista. König mette in luce, tuttavia, come ultima ratio della sua presentazione, i lati più favorevoli all’approccio ecumenico della scelta di un inserimento del de Beata nel de Ecclesia: in questo modo, gli orientali «possono facilmente riconoscere la venerabile Theotokos, e i cristiani non cattolici avranno meno difficoltà a riconoscere il fondamento del culto della Beata Maria nella testimonianza della s. Scrittura e dell’antica tradizione».241 239 AS II/3, 787; l’osservazione ritorna anche più sotto (788) nell’ambito di alcuni rilievi sul n. 2 dello schema. Sulla presa di posizione di Maximos IV, cf. anche D-Edelby, 190. 240 Cf. ANTONELLI, Il dibattito su Maria, 304-330; inoltre, MELLONI, in SCVII, III, 111114; ACERBI, 315-324. 241 AS II/3, 344 (per il testo completo delle due relazioni, cf. ivi, 338-345).
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Si arrivò alla votazione in un clima arroventato, dentro e fuori l’aula conciliare:242 soprattutto i fautori dello schema separato si diedero molto da fare, con interventi presso i vescovi e volantinaggi alle porte della basilica vaticana; molti vescovi erano indecisi, mentre anche tra i periti cresceva la tensione, come attesta la polemica Balic´-Congar registrata nel diario di quest’ultimo.243 Finalmente, il 29 ottobre si votò: a favore dell’inserimento si espressero 1114 padri, contro 1074, su un totale di 2193 presenti votanti. Dal momento che si richiedeva la maggioranza semplice, il concilio decise così per l’inserimento con uno scarto di soli 40 voti:244 ciò che, naturalmente, non mancò di suscitare amarezze, discussioni e contestazioni, con il timore di trovarsi ormai di fronte un’assemblea di vescovi irrimediabilmente divisa. Le votazioni del giorno successivo, relative al c. II, con il loro esito di tutt’altro segno, aiutarono a rasserenare un po’ gli animi e a dare alla maggior parte dei vescovi e dei periti la sensazione che il concilio avesse superato un nuovo punto di svolta, nonostante il permanere di un’irriducibile opposizione di minoranza, che continuò per diverso tempo a contestare la legittimità della votazione e a metterne in dubbio il significato. La CD, che sin dagli inizi di ottobre si era messa al lavoro, affrontava ora la montagna di interventi ed emendamenti proposti dai padri in vista della revisione del testo e della sua approvazione: di questa ultima fase del lavoro, che si svolse tra l’autunno 1963 e i primi mesi del 1964, del dibattito e delle votazioni finali dello schema tratteremo nel capitolo seguente.
242
Cf. ANTONELLI, Il dibattito su Maria, 315-320. In una conferenza ai vescovi croati, Balic´ avrebbe accusato Congar di essere un minimalista e di avere sostenuto che Maria pecca come noi; Congar replicò inviando a Balic´ un biglietto di tono piuttosto risentito: cf. J-Congar, I, 486 (20 ottobre 1963); ANTONELLI, Il dibattito su Maria, 318s. 244 Nel suo diario, Congar annota che, a suo giudizio, dal 52 al 55% dei padri avrebbero votato a favore dell’inserimento (cf. J-Congar, I, 506: 29 ottobre 1963): si superò di poco, invece, il 50% (per la precisione, 50,79%). 243
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7. V e r s o l a L u me n g e n t i u m: l’elaborazione definitiva d e l de E c c le s ia Durante i lavori conciliari del 1962, l’abbiamo visto, la CD rimase praticamente inerte, per quanto riguarda il de Ecclesia. Del tutto diversa fu la situazione del II periodo, che vide la CD mettersi al lavoro già il 2 ottobre per incominciare a esaminare e catalogare le diverse richieste e proposte di emendamento che venivano dall’assemblea conciliare.1 Decisivo, in questa fase dei lavori, fu il ruolo svolto da Philips: oltre ad assumere materialmente, e in un secondo tempo anche ufficialmente,2 un compito direttivo nei lavori, egli stabilì un metodo di classificazione del copioso materiale trasmesso dai padri conciliari, che si sarebbe rivelato determinante (anche nei suoi limiti)3 per il lavoro successivo; chiese, inoltre, di costituire piccoli gruppi di lavoro per l’esame delle proposte di emendamento suddivise a seconda dei capitoli di riferimento. Tali pro-
1 Per una presentazione dei lavori della CD sul de Ecclesia nell’intersessione 1963-64, cf. ACERBI, 329-435; A. MELLONI, in SCVII, III, 124-131: a p. 126 si trova una tavola riepilogativa delle sottocommissioni della CD che lavorarono al de Ecclesia, con i nomi dei rispettivi membri e periti. 2 Il 2 dicembre 1963 la CD – integrata nel frattempo con la nomina di cinque nuovi membri (A. Ancel, J. Heuschen, C. Butler, L. Henriquez Jimenez, eletti dall’assemblea; A. Poma, di nomina pontificia) – fu autorizzata a eleggere un nuovo vicepresidente (Charue) e un segretario aggiunto (Philips). Sul ruolo di quest’ultimo al Vaticano II, si veda in particolare J. GROOTAERS, Actes et acteurs à Vatican II, Leuven University Press, Leuven 1998, 382-419. 3 Per il sistema utilizzato da Philips per la classificazione degli interventi dei padri conciliari, cf. L. DECLERCK – W. VERSCHOOTEN, Inventaire des papiers conciliaires de monseigneur Gérard Philips, secrétaire adjoint de la Commission Doctrinale. Avec une Introduction par J. GROOTAERS, Peeters, Leuven 2001, 6s.
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poste dovevano essere poi portate al vaglio della sottocommissione per la revisione del de Ecclesia, di lì passare alla plenaria della CD, poi ancora alla Commissione di coordinamento, che doveva decidere l’invio ai padri dello schema rivisto. È passata quasi inosservata, sembra, tanto all’interno della CD che nelle ricerche degli storici, l’eventualità, suggerita da Philips, di costituire una sottocommissione «de re patristica»; «gemella» della sottocommissione biblica, che venne di fatto costituita, essa avrebbe dovuto sottoporre a esame critico tutte le citazioni patristiche e proporre eventualmente citazioni più adatte.4 A quanto pare, il controllo della documentazione patristica dello schema si svolse all’interno di ciascuno dei gruppi di revisione che lavorarono sullo schema. I criteri seguiti in questo lungo lavoro (da novembre 1963 a marzo 1964, con integrazioni e complementi protratti fino a giugno) sono stati riassunti nelle relazioni che accompagnarono la revisione dello schema, unificate poi in una relazione annessa a ciascuno dei capitoli dello schema, inviato ai padri il 3 luglio 1964.5 La parte più consistente del presente capitolo sarà dedicata precisamente a presentare il risultato di questo lavoro, naturalmente con l’attenzione rivolta in modo specifico all’utilizzazione della documentazione patristica; le altre sezioni verteranno sui lavori del III periodo conciliare, fino alla promulgazione definitiva del de Ecclesia.
4 La notizia viene da una comunicazione di Philips «De Labore Peritorum in ordinandis Emendationibus» del 22 ottobre 1963: «Commendatur institutio Subcommissionis de Re Biblica, vel forsan etiam de re patristica, quae omnes citationes adductas critico examini subiiceret, et ubi casus ferat, meliores citationes proponat»: è riportata (con la data 23 ottobre) da H. SCHAUF, Das Leitungsamt der Bischöfe. Zur Textgeschichte der Konstitution «Lumen Gentium» des II. Vatikanischen Konzils, F. Schöning, München-Paderborn-Wien 1975, 104. Per ulteriori dettagli sul lavoro di redazione del testo in questa fase, e in particolare per il ruolo di Philips, cf. DECLERCK – VERSCHOOTEN, Inventaire des papiers conciliaires, 115s e i documenti ivi inventariati dal n. 915 in avanti. Per i criteri generali di revisione indicati da Philips e fatti propri dalla CD, cf. ACERBI, 329-331. 5 Tutto il materiale (sinossi del testo nella duplice versione, textus prior e textus emendatus, note, relazioni di accompagnamento), raccolto in un volume di 218 pagine, è ora in AS III/1, 158-374; cf. anche Synopsis, testi II e III; citeremo d’ora in poi la relazione come Relatio CD, nella paginazione di AS III/1. A questo stadio, lo schema consta già degli otto capitoli definitivi: ai quattro capitoli (cinque col de Beata Virgine) dello schema precedente sono stati aggiunti il de populo Dei (c. II), il de religiosis (c. VI) distinto dal capitolo sulla vocazione alla santità nella Chiesa (la CD tuttavia non decide definitivamente in merito e lascia al concilio la scelta se tenere un capitolo distinto – come poi avverrà – o se dividere in due sezioni il c. V), e il nuovo c. VII De indole eschatologica vocationis nostrae ac de nostra unione cum Ecclesia coelesti. In AS App. altera, 9-70, è pubblicato il de Ecclesia nella versione provvisoria, licenziata dalla CD dopo l’esame del marzo 1964.
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7. Verso la Lumen gentium: l’elaborazione definitiva del de Ecclesia
1. L A IN
1.1. I L
REVISIONE DELLO SCHEMA
CD
PR IM O CAP I T O L O
a) Mysterium/sacramentum La CD fu in grado di presentare lo schema rivisto del c. I già alla fine di ottobre 1963. L’Introductio dello schema6 ricevette poche modifiche, per lo più di carattere letterario. Nella Relatio la CD spiega il senso corretto del termine mysterium, usato nel titolo del capitolo, riconducendolo al suo significato biblico – e, potremmo aggiungere, patristico – di «realtà divina trascendente e salvifica che si è rivelata e manifestata in un certo modo visibile».7 La CD ha mantenuto anche l’espressione Lumen gentium come inizio del testo, nonostante l’obiezione avanzata da un paio di padri conciliari: questi avevano rilevato che, normalmente, nel linguaggio biblico gentes è riferito ai non ebrei in contrapposizione a Israele.8 Secondo la commissione, il contesto mostra con sufficiente chiarezza che qui gentes equivale a tutti i popoli della terra; viene richiamato al riguardo un passo di Cipriano (cf. de unitate Eccl. 3), che Carli aveva menzionato in una sua proposta di modifica del testo.9 La proposta non fu accolta e il passo di Cipriano non è stato citato nelle note al testo, ma alla luce di questa spiegazione va tenuto presente come sfondo delle parole che sono diventate l’incipit del de Ecclesia. La CD conserva e difende poi l’uso di sacramentum, accogliendo l’opinione prevalente dei padri rispetto ai tre soli che ne propongono la cancellazione, perché temono la confusione con i sacramenti in senso stretto: l’uso del termine in senso lato, osserva la CD, è giustificato perché tradizionale ed esprime una dottrina «aptam et abundantem». Viene lasciata cadere, invece, la proposta di sviluppare il concetto alla luce della dottrina della «res et sacramentum», perché condurrebbe a spiegazioni intricate.10
6 Nello schema del 1963 il c. I inizia col n. 2, e il n. 1 è chiaramente distinto. Nello schema del 1964 la distinzione sparisce e il n. 1 viene incluso nel capitolo, come Introductio; ma AS III/1, 158s, è ambiguo, perché riporta il titolo del capitolo prima sia del n. 1 che del n. 2! In ogni caso, nella redazione definitiva del de Ecclesia, il n. 1 sarà incluso nel capitolo (cf. l’edizione di AAS 57[1965], 5). 7 Cf. Relatio, 170. La versione italiana è in ACERBI, 333, che menziona al riguardo una relazione di G. Castellino. Alla revisione lavorarono Charue, van Dodewaard e Pelletier; come periti, Castellino, Rigaux, Kerrigan e Daniélou. 8 Cf. Abasolo Y Lecue: AS II/1, 430; nello stesso senso anche Romoli, in AS II/2, 193. 9 Cf. sopra, c. 6, nota 86. La Relatio qui non cita espressamente l’emendamento di Carli, anche se riporta le parole di Cipriano allo stesso modo (lievemente impreciso) del vescovo di Segni. 10 Cf. Relatio, 170s, e ACERBI, 333; S. ALBERTO, “Corpus Suum mystice constituit” (LG 7). Storia del Testo dalla “Mystici corporis” al Vaticano II con riferimenti alla attività conciliare del P. Sebastian Tromp S.J., Pustet, Regensburg 1996, 464-466, menziona le osservazioni
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b) Revisione dei nn. 2-4 Confermando la linea già adottata nel rifacimento dello schema durante l’intersessione 1962-63, la CD mantiene nei nn. 2-4 la presentazione di un’ecclesiologia a impianto trinitario, sebbene alcuni padri avessero suggerito una prospettiva più cristocentrica. Il n. 2 conteneva l’espressione Ecclesia ab Abel: come abbiamo visto, essa aveva suscitato diverse difficoltà. La CD – che ha mantenuto qui, pur con qualche modifica grammaticale, la menzione esplicita della testimonianza dei sancti Patres – ha affrontato il problema trasferendo il passo in discussione alla fine del n. 2 e assegnando al tema patristico della ecclesia ab Abel una connotazione chiaramente escatologica, nonché una prospettiva più espressamente universalistica.11 Come ha rilevato Acerbi, con questa soluzione si eliminava la difficoltà di quei padri che ritenevano di individuare nella congregatio iustorum una definizione della chiesa troppo indulgente alla concezione protestante della «ecclesia invisibilis iustorum», ma insieme si oscurò anche l’intenzione originaria del testo, che era stata di introdurre l’idea di «res et sacramentum» come principio ordinatore della presentazione della chiesa.12
Il testo rivisto ha conservato anche il tema patristico della praeparatio evangelica, anche se ha lievemente modificato i riferimenti patristici, sopprimendo una citazione di Origene (in Num. 9,4) e aggiungendone due, rispettivamente di Agostino e di Giovanni Damasceno.13 La Relatio non spiega le ragioni dei cambiamenti introdotti, in particolare l’omissione di Origene; i riferimenti non saranno comunque più modificati. Il n. 3, dedicato alla missione del Figlio, venne riscritto in modo radicale, soprattutto per presentare in modo più chiaro la missione e l’ufficio di Cristo, secondo il desiderio di Paolo VI, ripreso da diversi padri, e per mettere meglio in luce la dimensione sacramentale, e in particolare eucaristica, della Chiesa. La rielaborazione ha portato alla scomparsa di tutti i riferimenti patristici presenti nella versione precedente: scomparsa parbibliche e patristiche con le quali Castellino, in sottocommissione, giustificò l’uso ecclesiologico di sacramentum, in particolare contro le osservazioni di Fenton che (in termini simili a quelli usati dal card. Ruffini) riconduceva questo «nuovo» uso alla dottrina modernistica di Tyrrell. 11 «Tunc autem, sicut apud sanctos Patres legitur, omnes iusti inde ab Adam, “ab Abel iusto usque ad ultimum electum” in Ecclesia universali apud Patrem congregabuntur»: il testo non verrà più modificato e si ritrova così anche in LG, incluse le note patristiche di riferimento, riprese dello schema 1963. Si noti un altro cambiamento, che coinvolge i riferimenti patristici (rimasti ormai impliciti): nello schema 1963 si parlava della Chiesa «ab origine humani generis praefigurata», ora invece si dice: «iam ab origine mundi praefigurata»; l’una e l’altra espressione hanno un antecedente in Origene (cf. sopra, c. 6, nota 7). Per la scelta della CD, cf. Relatio CD, 171s. 12 ACERBI, 334: il «principio ordinatore» a cui allude Acerbi era stato ripreso nella rielaborazione dello schema a partire dal progetto francese: cf. ivi, 185s, 195s. 13 Viene omesso ORIGENE, In Num. 9,4; sono aggiunti AGOSTINO, Serm. 341,9,11 e GIOVANNI DAM., Adv. Iconocl. 11.
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ziale, peraltro, perché qualche elemento è stato spostato in altri punti dello schema. Il tema della ricapitulatio (per il quale si citava Ireneo), così, è stato trasferito al c. II, n. 13. Altri riferimenti sono invece scomparsi del tutto: l’idea della Chiesa quale sacramentum unitatis si ritroverà sì al c. II, n. 9, ma sacrificando alcuni richiami patristici.14 Il paragrafo cristologico di questa sintetica ecclesiologia trinitaria, pertanto, è l’unico che non utilizza la testimonianza dei Padri. Il testo del n. 4 non ha subìto modifiche sostanziali; vi si ritrovano i due testi patristici già presenti nello schema del 1963, ossia il testo dell’Adversus haereses di Ireneo sul rapporto tra lo Spirito Santo e la Chiesa e, soprattutto, la frase del de oratione di Cipriano usata come coronamento di tutta la sezione trinitaria del capitolo.15 Vi erano state diverse richieste d’integrazione e modifiche a questo numero, ma non furono accolte: tra le altre, «non trovò posto alcun accenno alla funzione dello Spirito nell’azione sacramentale della chiesa»,16 che era stato chiesto in particolare da Lercaro.
c) Revisione dei nn. 5-8 Il n. 5, di nuova redazione, presenta il tema del regno di Dio e della sua relazione con la Chiesa, usando esclusivamente riferimenti scritturistici. Nulla è cambiato, quanto a documentazione patristica, per il n. 6, dedicato alle immagini bibliche della Chiesa e ora anteposto alla parte del testo dedicata al Corpo mistico; resta pertanto – nonostante l’esplicita menzione dei sancti Patres nel testo – il limite dell’uso di riferimenti patristici solo per la sola immagine dell’edificio/tempio.17 Il tema della Chiesa come Corpo mistico di Cristo è sintetizzato nel n. 7, che riprende, con un nuovo ordinamento, il materiale precedente; la Commissione ha esplicitamente rinunciato a prendere in considerazione 14 Rimarrà soltanto CIPRIANO, Ep. 69,6 (cf. c. II, n. 9, nota 1); scompaiono AGOSTINO, Ep. 187,11,34 e IRENEO, Adv. haer. III,24,1 (ripreso, ma per un testo diverso, al n. 4). 15 Cf. LG 4, nota 3. Rispetto allo schema del 1963, le note – che resteranno intatte sino alla fine – sono state però «prosciugate»: i riferimenti ai rispettivi passi restano, ma senza il testo, presente nella versione precedente; così sarà, del resto, per quasi tutte le altre note dello schema. Inoltre, i riferimenti di ecclesiologia trinitaria indicati nello schema del 1963 sono stati ridotti: oltre a Cipriano, il nuovo schema (nota 4) mantiene solo i rinvii ad AGOSTINO, Serm. 71,20,33 e GIOVANNI DAM., Adv. Iconocl. 12; scompaiono i riferimenti a Fulgenzio di Ruspe e a Cirillo di Gerusalemme. 16 ACERBI, 335; per la richiesta di Lercaro, che si richiamava tra l’altro a un passo di Ambrogio, cf. sopra, c. 6, nota 116 e testo relativo. Il n. 7 rimedierà almeno in parte al problema di una «lacuna pneumatologica» piuttosto accentuata anche nella costituzione de sacra Liturgia: cf. V. MARALDI, Lo Spirito e la Sposa. Il ruolo ecclesiale dello Spirito Santo dal Vaticano I alla Lumen Gentium del Vaticano II, Piemme, Casale Monferrato 1997, 356, nota 157. 17 Per le critiche al riguardo, cf. sopra, c. 6, nota 15 e testo relativo, nonché il § 3.2c. Viene mantenuta la documentazione della precedente nota 15, con l’omissione di CIRILLO AL., In Io. 1,14; la nota rimarrà poi inalterata sino alla fine dell’iter.
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le proposte di testi alternativi, che avrebbero richiesto un esame laborioso dei diversi asserti.18 Una prima parte del testo sviluppa il tema del corpo e delle membra nella loro diversità (alinea 2-3); l’altra si sofferma sulla realtà del Cristo Capo (alinea 4-8). È qui che si concentrano anche i riferimenti di interesse patristico, a cominciare da quelli che sono stati omessi, e cioè il gruppo di citazioni che intendeva documentare il triplice munus di Cristo, di cui non si parla più nel nuovo testo.19 La Relatio CD non dà motivi per la soppressione di questo tema e dei relativi (e deboli) riferimenti biblici e tradizionali; rileva, invece, che la presentazione dell’opera dello Spirito, che unisce le membra del Corpo al Capo, è stata riformulata in modo da corrispondere meglio alle fonti patristiche indicate in nota. In questo caso, anzi, lo schema introduce una menzione dei «santi Padri» (la terza, dall’inizio del testo), che non si trovava nel testo precedente, e modifica il testo per sfumare l’analogia antropologica anima/corpo, Spirito/Chiesa. In nota lo schema mantiene gli stessi riferimenti – patristici, a Tommaso d’Aquino e al magistero recente – del testo del 1963; testo e nota arriveranno senza modifiche all’approvazione finale. Anche se la Relatio non dà spiegazioni particolari, si possono capire le ragioni del mutamento alla luce del commento di Philips: la CD ha voluto evitare di trasformare secondo una logica deduttivistica ciò che nei Padri rimane nell’ordine del paragone e, di solito, viene espresso più con un linguaggio perifrastico che con affermazioni apodittiche del tipo «lo Spirito è l’anima della Chiesa».20 La CD, infine, ha accolto i rilievi presentati da alcuni padri – Janssens, Krol, Ruffini, Bea – circa la citazione di Ef 1,22s, presente già nel testo del 1963, ma con un significato che si presentava discutibile, anche alla luce della diversità delle interpretazioni patristiche del passo. La commissione ha deciso di togliere il termine pleroma, mantenendo il riferimento con un significato più ad sensum che secondo un’esegesi letterale, senza dirimere la questione interpretativa.21 La rielaborazione del n. 8 (già n. 7) si orientò soprattutto a rendere più perspicuo l’intento fondamentale del testo: mostrare che il mistero della Chiesa, sin qui descritto, si trova concretamente nella Chiesa cattolica e che questa Chiesa rivela empiricamente il mistero, sia pure con delle ombre, fino alla piena manifestazione escatologica. Non vi sono stati cambiamenti per le fonti patristiche di riferimento: prima come dopo la
18 Cf. Relatio CD, 174s, anche per quanto segue; inoltre, si veda ALBERTO, “Corpus Suum mystice constituit”, 479-490. 19 I testi erano citati alla nota 10 del n. 5 e dipendevano dallo schema preparatorio: cf. sopra, c. 6, nota 14. Il triplice munus di Cristo verrà richiamato al n. 13, ma senza riferimenti biblici o della tradizione. 20 Cf. G. PHILIPS, La Chiesa e il suo mistero nel Concilio Vaticano II. Storia, testo e commento della Costituzione Lumen Gentium, Jaca Book, Milano 1969, I, 104s. 21 Cf. Relatio CD, 175. Per i problemi sollevati sull’uso del testo di Ef, cf. sopra, c. 6, nota 120 e testo relativo.
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revisione, l’unico passo patristico che lo schema utilizza è la citazione di Agostino (Civ. Dei XVIII,51,2), inclusa nella parte finale del testo, che viene peraltro lievemente semplificato, anche in ragione di tutto lo sviluppo precedente sulla presenza dei peccatori nella Chiesa.
1.2. I L
NUOV O CAP I T O L O IL POPO LO D I D IO
II:
La CD, nella riunione del 14 ottobre 1963, discusse le diverse ipotesi relative alla redazione di un capitolo distinto «de populo Dei» e approvò la proposta; chiese inoltre che si giustificasse la collocazione di questo capitolo subito dopo quello sul mistero della Chiesa e prima del capitolo dedicato alla gerarchia, ciò che fu fatto con una nota redatta da Philips.22 Alla redazione del testo, in parte desunto da alcuni passi dello schema precedente, in parte di nuova composizione, lavorò la sottocommissione composta da R. Santos, G. Garrone, J. Dearden e J. Griffiths, con l’aiuto dei periti Reuter, Naud, Kerrigan, Congar, Sauras e Witte; gli ultimi tre scrissero anche le relazioni sui vari numeri.23
a) Il popolo di Dio nel disegno salvifico Il n. 9, sotto il titolo Novum foedus novusque populus, apre e inquadra la prima parte del nuovo capitolo, a partire dallo statuto del popolo di Dio nella storia salvifica, presentato sullo sfondo del disegno salvifico universale di Dio e come compimento e perfezionamento dell’alleanza con Israele, in virtù del dono dello Spirito. Il nuovo testo recupera elementi dei nn. 22 (già introduzione al capitolo sui laici) e 2-3 dello schema precedente. Proprio sulla base del n. 3 mantiene la qualificazione della Chiesa quale «pro universis et singulis sacramentum visibile… salutiferae unitatis». Nella nota 1, i redattori hanno mantenuto solo il riferimento a Cipriano, Ep. 69,6, riportando anche l’espressione ciprianea «inseparabile unitatis sacramentum». La Relatio ribadisce – rinviando alla documentazione già raccolta nello schema precedente – che il termine sacramentum va qui inteso in senso lato e ricorda che i Patres antiqui hanno usato sacramentum/mysterium in riferimento sia a Cristo che alla Chiesa.24 La parte finale del paragrafo riprende poi, su richiesta di alcuni padri, il tema dei peccatori nella Chiesa, che si rinnova per l’azione dello Spirito Santo. Il testo non ha riferimenti, ma i relatori hanno menzionato l’allusione a Ireneo, Adv. haer. III,24,1, già 22 Cf. Relatio CD, 208-210 (nota di Philips: 209s = Synopsis, 71s; sulla nota, cf. anche ACERBI, 345-347). 23 Cf. Relatio CD, 208. Acerbi, 345, nota 49, menziona tra i periti anche Lafortune, che però non è indicato nella Relatio. 24 Cf. Relatio CD, 194.
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citato al n. 4, nota 3. Non vi saranno modifiche sostanziali del testo nella redazione definitiva. Il n. 10 è dedicato al sacerdozio comune e al suo rapporto con il sacerdozio ministeriale. Il testo rielabora il n. 24 § 1 dello schema precedente, mantenendo anzitutto – nonostante richieste in senso contrario – l’affermazione dell’esistenza del sacerdozio universale, precisandone meglio il radicamento nel sacerdozio di Cristo e sottolineando che si tratta di un sacerdozio comune a tutti i battezzati. Rinviando alle note della precedente versione dello schema, la Relatio menziona le molte testimonianze patristiche sul sacerdozio dei fedeli:25 di fatto, però, nessuna delle testimonianze richiamate nello schema del 1963 viene mantenuta, e il nuovo testo conserva solo riferimenti ad atti magisteriali di Pio XI e Pio XII. Le affermazioni sull’esistenza e la natura del sacerdozio comune vengono prolungate nel n. 11 (ricavato dal precedente n. 24 § 2), che presenta l’esercizio di questo sacerdozio nella vita sacramentale, estesa a tutti i sacramenti e meglio evidenziata nei suoi tratti comunitari. Il cambiamento più significativo delle fonti riguarda i testi patristici relativi al matrimonio e alla famiglia quale «piccola chiesa»: la Relatio rinvia alla documentazione prodotta nello schema del 1963, ma il nuovo testo conserva solo un rimando ad Agostino, per sottolineare, alla luce di 1Cor 7,7, che anche il matrimonio, e non solo la continenza, è dono di Dio.26 Nel n. 12, dedicato al munus profetico del popolo di Dio, sono trattate due questioni: quella del sensus fidei e la presenza dei carismi nel popolo cristiano. Sulla prima questione, la CD rigettò una posizione «minimalista», per la quale il sensus fidelium è sì importante, ma solo in quanto manifestazione della dottrina trasmessa senza errori dal magistero lungo i secoli; non volle però entrare nel merito di un’altra posizione, che chiedeva di esplicitare il ruolo attivo del sensus fidelium riguardo alla proposta autorevole della verità da parte del magistero, come pure riguardo alla comprensione e approfondimento della dottrina rivelata.27 Senza dirimere la questione del rapporto tra fedeli e gerarchia a questo proposito, il testo riprende con poche variazioni il precedente n. 24 §§ 5-8 e mantiene, a proposito del sensus fidei, la citazione nel testo dell’espressione agostiniana «ab Episcopis usque ad extremos laicos fideles» – anche se lascia cadere il precedente «ut dicit S. Augustinus». La Relatio rimanda ancora una volta alla documentazione patristica dello schema del 1963, per l’insegnamento patristico circa il rapporto tra la gerarchia e il resto dei fedeli, a proposito della dottrina della fede.28 La parte del n. 12 dedicata ai doni dello Spirito non conteneva riferimenti patristici, e così resterà sino alla redazione finale. 25
Cf. Relatio CD, 196. Per lo schema del 1963, cf. sopra, c. 6 § 1d. Cf. Relatio CD, 197; il passo di Agostino (de dono persev. 14,37), citato alla nota 7, resterà poi nella redazione finale, alla quale il testo arriverà con minimi cambiamenti. Per la documentazione riportata nello schema precedente, cf. sopra, c. 6 § 1d. 27 Cf. Relatio CD, 198s. 28 Cf. Relatio CD, 199 e sopra, c. 6 § 1d, in particolare nota 51. 26
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b) Cattolicità del popolo di Dio Con il n. 13 inizia una seconda sezione del capitolo II, dominata dal tema dell’universalità o cattolicità del popolo di Dio.29 Il testo, che tiene conto delle proposte di molti padri, presenta la cattolicità del popolo di Dio in una prospettiva che evita l’approccio apologetico e fa riferimento invece, in primo luogo, al disegno salvifico universale del Dio Trino, dal quale scaturisce l’universalità del popolo di Dio. I redattori hanno voluto poi sottolineare il carattere insieme immanente e trascendente di questa universalità, così da affermare che il popolo di Dio si inserisce in tutti i popoli; nello Spirito, peraltro, tutti i fedeli sono in comunione, sicché – secondo le parole di Giovanni Crisostomo, qui introdotte nel testo – «qui Romae sedet, Indos scit membrum suum esse».30 Recuperando dal n. 4 dello schema precedente il tema ireneano della «ricapitolazione» (col rinvio in nota a Adv. haer. III,16,6 e 22,1-3), il nuovo testo presenta la cattolicità come dono di Dio e ricapitolazione, appunto, di tutti i beni dei popoli sotto il Cristo capo, nell’unità dello Spirito. Il testo, poi, mette in luce la positiva varietà che esiste all’interno del popolo di Dio, dove vi sono funzioni e generi di vita differenti, ma anche nelle diverse Chiese particolari con le rispettive tradizioni, fermo restando il primato della Cattedra di Pietro che «presiede alla/nella carità»: il riferimento è qui, naturalmente, al saluto della lettera di Ignazio ai Romani.31 Tutta la restante parte del capitolo, costituita dai nn. 14-17, è piuttosto parca nei riferimenti patristici. È vero, per altro verso, che il n. 14 – dedicato a presentare l’incorporazione dei fedeli cattolici nella Chiesa – si apre con l’affermazione solenne («Docet [Sancta Synodus]…) della necessità della Chiesa per la salvezza, affermazione che il concilio dichiara di fare «Sacra Scriptura et Traditione innixa». I redattori hanno ripreso con una variazione32 il testo dello schema del 1963 che, a sua volta, rielaborava il c. II n. 8 dello schema preparatorio. Qui, sia pure in modo sommario, si faceva allusione alla dottrina patristica circa la necessità della Chiesa per la salvezza, a proposito della quale si citavano poi soprattutto documenti del magistero pontificio. I redattori del nuovo
29 Cf. ACERBI, 354; si veda ivi, nota 79, anche per la storia redazionale del n. 13, che non ha riscontri nello schema del 1963. 30 La nota 9 rinvia a GIOVANNI CRISOST., In Io. hom. 65,1. 31 Cf. Relatio CD, 201, che menziona il testo in latino e in greco. 32 Anziché «Docet Sancta Synodus cum Sacra Scriptura et Traditione» (testo 1963), abbiamo nel nuovo testo: «Docet [Sancta Synodus]… Sacra Scriptura et Traditione innixa…»: la riformulazione, spiega la Relatio (202), è introdotta «ne Magisterium cum S. Scriptura et Traditione in uno atque eodem ordine ponatur» (cf. gli emendamenti proposti da Seper e Sepinski: AS II/2, 32, 196). I redattori, inoltre, sempre per rispettare la Tradizione, hanno parlato di necessità per la salvezza della Ecclesia peregrinans, anziché della Chiesa come institutum: si ricordi, al riguardo, l’osservazione di Seitz (cf. c. 6 § 3.2d).
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schema, verosimilmente consapevoli che la dottrina patristica avrebbe richiesto molte spiegazioni, hanno preferito lasciar cadere i rinvii dello schema precedente,33 rimandando genericamente alla Scrittura e alla Tradizione. Dopo aver valutato i diversi interventi dei padri conciliari relativi al fondamento di questa necessità della Chiesa per la salvezza, la sottocommissione ha scelto di fondarla anzitutto sull’unicità della mediazione di Cristo; è stato mantenuto, però, anche il richiamo tradizionale, già presente negli schemi precedenti, alla necessità del battesimo. Il riferimento agostiniano all’insufficienza di un’incorporazione nella Chiesa (corpore), alla quale non faccia riscontro anche un’appartenenza col «cuore» (corde) è ripreso senza modifiche dallo schema precedente; in quest’ultimo si parlava di colui che «non vive nella fede, speranza e carità, ma peccando…»; i redattori hanno preferito parlare di colui che «non perseverando nella carità…». Molti padri avevano chiesto che restasse la menzione della fede e della speranza, ma ciò avrebbe richiesto spiegazioni sulla fede e speranza «informi», che la Commissione ha preferito evitare.34 Rispetto allo schema del 1963, la parte finale del n. 14, riguardante i catecumeni, è stata considerevolmente abbreviata nella rielaborazione. La Relatio rinvia ad alcuni dei testi patristici citati nello schema precedente, ma di fatto nulla di essi è rimasto nel testo riveduto. Non vi sono molti elementi da segnalare nei due numeri dedicati ai legami della Chiesa cattolica con i cristiani non cattolici (n. 15) e con i non cristiani (n. 16). Baldassarri aveva proposto che, tra le caratteristiche dei cristiani non cattolici, che costituiscono un vincolo di comunione con la Chiesa cattolica, si menzionassero anche le tradizioni patristiche, ma la richiesta non ha avuto esito.35 Per quanto riguarda le relazioni con i non cristiani, alcuni padri avevano chiesto che il testo parlasse della praeparatio evangelica, i cui elementi si trovano nelle culture non cristiane.36 Il tema, già presente nello schema del 1963, è mantenuto nel nuovo testo, ma la documentazione è drasticamente ridimensionata: sopravvive soltanto il rinvio al titolo dell’opera di Eusebio. La CD, in ogni caso, rimanda nella sua relazione ai temi e testi patristici indicati nella versione precedente.37
33
Ai quali – soprattutto ai testi magisteriali – rinvia la Relatio CD (cf. 202). Cf. Relatio CD, 203. Il testo modificato resterà così sino alla fine dell’iter. Per il riferimento ad Agostino, cf. sopra, c. 6, nota 18 e testo relativo. 35 Cf. Relatio CD, 204; per l’intervento di Baldassarri, cf. sopra, c. 6 § 3.2d. La richiesta non è neppure menzionata tra le altre proposte di emendamento riguardanti l’unione tra cattolici e acattolici. Il tema sarà incluso nel decreto sull’ecumenismo (cf. UR 15). 36 La Relatio menziona le richieste di Carli, Elchinger, Seitz, Scalais, Flores Martin, Malanczuc e dei vescovi del sud della Francia. 37 Cf. Relatio CD, 206s; per lo schema 1963, cf. sopra, c. 6, nota 19 e testo relativo. Anche in questo caso, il testo arriverà al termine dell’iter senza modifiche. Si noti che il tema era già accennato (con riferimenti patristici) al n. 2. 34
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Il n. 17, con il quale si conclude il capitolo, è di nuova composizione, e vuole rispondere alle richieste di quanti desideravano una presentazione più chiara, e teologicamente meglio fondata, dell’indole missionaria della Chiesa. Il testo, tra l’altro, intende sottolineare che il compito di diffondere la fede compete ad ogni cristiano, non solo come possibilità, ma anche come dovere: in questo contesto, ricorda che mentre il battesimo può essere amministrato ai credenti da chiunque, spetta al sacerdos l’edificazione del Corpo mediante il sacrificio eucaristico – qui collegato con il testo di Malachia sul sacrificio (cf. Ml 1,11) e con alcuni passi patristici, ai quali si rimanda nelle note, che spiegano in prospettiva eucaristica il passo di Malachia.38
1.3. I L
C A PI TOLO III: G E R A R C HIA E D E P I S C OPATO
a) Il proemio del capitolo Il capitolo sulla struttura gerarchica della Chiesa, diventato terzo capitolo per l’inserimento del testo sul popolo di Dio, era quello su cui si era concentrata la maggior parte degli interventi e dove più si riflettevano i diversi orientamenti ecclesiologici che attraversavano l’assemblea conciliare. La sua revisione fu, pertanto, assai laboriosa, anche per il numero delle persone coinvolte (vi lavorarono tre sottocommissioni, con i rispettivi periti), per il tempo richiesto e, da ultimo, per l’intervento di Paolo VI, che propose alcune modifiche al testo già approvato dalla CD.39 Come vedremo, su molti punti delicati il ricorso ai Padri della Chiesa ha giocato un ruolo determinante. Nella revisione del Proemio al capitolo (n. 18, già n. 11), la sottocommissione40 non modificò sostanzialmente il testo dello schema precedente; tra le poche variazioni introdotte rispetto alla redazione del 1963, si segnala il passo che riguarda la posizione del papa nella Chiesa: egli è indicato come «perpetuum ac visibile unitatis fidei et communionis principium et fundamentum», mentre nel testo precedente il visibile era riferito solo a fundamentum. Si chiariva, così, che il Capo vero e proprio
38 Sono citati, alla nota 22: Didachè 14; GIUSTINO, Dial. 41; IRENEO, Adv. haer. IV,17,5, nonché Conc. Trid. Sess. 22, c.1 (cf. DH 1742); sono tutte citazioni introdotte qui per la prima volta. Testo e nota rimarranno invariati sino all’approvazione finale. 39 Cf. ACERBI, 361, nota 101; U. BETTI, La dottrina dell’Episcopato nel Concilio Vaticano II. Il capitolo III della Costituzione dommatica Lumen gentium, Roma 1984, 190-210; E. VILANOVA, in SCVII, III, 384-388. 40 Ai primi quattro paragrafi del capitolo lavorò la terza sottocommissione, composta da König, Barbado e Doumith, assistiti dai periti Ciappi, D’Ercole, Lécuyer, Turrado e Xiberta; Lécuyer preparò le relazioni per i nn. 18 e 21. Nella revisione dei nn. 19-20, la sottocommissione fu aiutata dalla prima sottocommissione, che doveva anche rivedere i testi biblici; per questi numeri, relatori furono D’Ercole e Rigaux (cf. Relatio CD, 269).
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della Chiesa è Cristo, si riconoscevano i principi invisibili di unità della Chiesa, in particolare l’assistenza di Cristo e la presenza e azione dello Spirito;41 per questo, anche, nella parte finale del testo a capite (riferito al papa) si è aggiunto visibili. È stato eliminato, invece, il termine coryphaeus: titolo desunto dalla liturgia bizantina e attestato nella tradizione patristica, che lo applica per lo più a Pietro in relazione agli altri apostoli; occasionalmente fu riferito anche a Pietro e Paolo, a Giovanni e ad altri apostoli.42 In ogni caso, non ne sembra documentato l’uso in riferimento al papa nel suo rapporto con i vescovi, e si preferì evitare una novità forse inopportuna. La Relatio torna anche sull’uso del titolo di Vicarius Christi, rinviando alle annotazioni dello schema precedente, che sintetizza; osserva poi che in commissione si decise a maggioranza di usare qui il titolo in riferimento al papa – mentre più avanti, al n. 27, lo si usa per i vescovi.43
b) I Dodici e i loro successori Nella revisione del n. 19 (già n. 12), dedicato all’istituzione dei Dodici, il lavoro della sottocommissione, ripreso e allargato poi dalla CD nel suo insieme, portò ad accentuare il carattere collegiale del gruppo apostolico, che fu costituito da Cristo «ad modum collegii».44 Per quanto interessa a noi, va notata soprattutto la conclusione del testo, che riprende la questione del fondamento della Chiesa sugli apostoli e su Pietro, assai discussa nei dibattiti conciliari.45 La sottocommissione per i testi biblici decise di utilizzare l’espressione «in Apostolis condidit, et super beatum Petrum, eorum principem, aedificavit»; la formula è l’adattamento del testo di un Prefazio desunto dal Sacramentario gregoriano, che la Relatio riporta quasi per intero,46 rinviando poi anche alle testimonianze patristiche riportate nella nota, ricavate in gran parte dai testi menzionati da 41
Cf. Relatio CD, 234; ACERBI, 363. Cf. al riguardo lo schema 1963, n. 11, nota 3, alla quale rinvia la Relatio CD, 234. La nota non dava indicazioni specifiche: alcune furono suggerite da Rupp (cf. sopra, c. 6, nota 163 e testo relativo); vi si potrebbero aggiungere EPIFANIO, Anc. 9,4; GIOVANNI CRISOST., in Rom. hom. 1, 1. Altri testi patristici usano il termine per Pietro, Giacomo e Giovanni (GIOVANNI CRISOST., Comm. in Gal. 1,1) o per i Dodici (TEODORETO, Eran. 2). 43 Cf. Relatio CD, 234; per le osservazioni dello schema 1963 sull’uso antico e medievale del titolo, cf. sopra, c. 6 § 1c. p. 248. 44 Il testo del 1963 leggeva: «ad instar collegii», e così era stato mantenuto in sottocommissione; il cambiamento fu introdotto nella CD (cf. Relatio CD, 234s; ACERBI, 364). 45 Cf. sopra, c. 6 § 4.1a. p. 271ss. 46 «Vere dignum… Te laudare in Sanctis tuis, in quibus glorificatus es vehementer, per quos Unigeniti tui sacrum corpus exornas et in quibus Ecclesiae tuae fundamenta constituisti; – quam in Patriarchis mundasti, in Prophetis praeparasti, et in Apostolis condidisti; – ex quibus beatum Petrum, Apostolorum Principem, ob confessionem Unigeniti Filii tui, per os eiusdem Verbi tui confirmatum in fundamento domus tuae mutato nomine coelestium claustrorum praesulem custodemque fecisti»: cf. Relatio CD, 235s, dove sono citati altri passi analoghi dello stesso Sacramentario. 42
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Heuschen nel suo intervento in aula dell’8 ottobre 1963.47 Testo e nota arriveranno poi senza mutamenti all’approvazione finale. Sul n. 13 dello schema del 1963, dedicato ai vescovi quali successori degli apostoli, maggioranza e minoranza avevano espresso una netta diversità di approccio.48 La revisione del testo (diventato il n. 20) fu quindi più radicale e comportò in primo luogo una drastica abbreviazione o anche eliminazione delle prime frasi del testo. La rielaborazione si è poi proposta, soprattutto, di stare il più possibile all’oggettività dei testi biblici e tradizionali richiamati:49 per quanto concerne i testi scritturistici, si nota che la preoccupazione fondamentale degli apostoli è stata non tanto quella della «successione», ma dell’istituzione di collaboratori, ai quali affidare poi il compito di completare l’ordinamento della Chiesa. Solo con Clemente Romano si parla di successione, per quanto in senso «ministeriale», più che apostolica. La Relatio osserva espressamente che gli esperti non si accordavano sull’interpretazione di ad Cor. 44,2 (che rimane citato alla nota 5): appare chiaro, tuttavia, che gli apostoli stabilirono una certa norma di successione, riguardante i loro collaboratori.50 Tra questi vari ministeri, «teste traditione», appare in posizione eminente quello dei vescovi, che la testimonianza patristica fa risalire fino agli apostoli. La Commissione ha citato (in nota, e in modo sommario) i testi di Tertulliano e Ignazio già indicati al riguardo nello schema precedente, ma ha voluto anche nominare esplicitamente nel testo, quale testimone della tradizione, Ireneo di Lione.51 Così, se l’onore della prima citazione patristica all’interno del testo del de Ecclesia tocca a Gregorio Magno,52 Ireneo è invece il primo Padre a essere menzionato per nome nel documento e anzi il primo Padre nominato dal concilio nei propri documenti, secondo l’ordine cronologico di promulgazione; e sarà menzionato nel
47 Oltre che al Liber Sacramentorum S. Gregorii, la nota 3 rinvia a: ILARIO, In Ps. 67,10; GIROLAMO, Adv. Iovin. 1,26; AGOSTINO, In Ps. 86,4; GREGORIO MAGNO, Mor. in Iob XXVIII, 5; PRIMASIO, Comm. in Apoc. 5; PASCASIO RADBERTO, In Mt. VIII,16; rimanda anche a LEONE XIII, Epist. Et sane del 17 dicembre 1888. Agostino, Gregorio Magno, Primasio e Pascasio vengono dal dossier di Heuschen (cf. sopra, c. 6, note 130s), che aveva citato anche altri testi. Il riferimento all’Adv. Iovin. di Girolamo è suggerito nell’intervento scritto di Wojtyla a nome dei vescovi polacchi (cf. sopra, c. 6, nota 135). 48 Cf. ACERBI, 364-366; per la storia della redazione di questo numero, cf. anche SCHAUF, Das Leitungsamt der Bischöfe, 128-132. 49 Cf. Relatio CD, 236s, anche per quanto segue. 50 Cf. Relatio CD, 237. Sull’interpretazione del testo di Clemente, Betti rileva come nel passo sia chiaramente enunziato il principio della successione, ma non altrettanto chiaramente il termine: «Il Concilio non ha voluto fare una scelta tra queste due alternative, appunto perché sono ipotesi. L’importante era dare fondamento storico alla continuazione del ministero apostolico» (BETTI, La dottrina dell’Episcopato, 359s). 51 Cf. Relatio CD, 237. Le note 9-10 rinviano a Adv. haer. III,2,2; IV,26,2; 33,8. Alcuni padri – Sauvage (AS II/2, 511), Rougé ecc. (861s), Schneider (509), Enrique y Tarancón (735), Béjot (672), Enciso (593) – avevano chiesto la menzione di Ireneo: cf. BETTI, La dottrina dell’Episcopato, 80, 131; S. TROMP, Relatio Secretarii (FSCIRE - FFl B 154, 13). 52 Cf. LG 2, nota 2.
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testo ancora una volta, nell’ultimo capitolo del documento (cf. LG 56), unico Padre nominato due volte nel testo stesso della Lumen gentium. Subito dopo, il testo ricorre alla testimonianza di Ignazio di Antiochia, ma anche a quella di Clemente, di Giustino e di Cipriano, nella presentazione del munus del vescovo «monarchico»; la Commissione fa notare, a proposito di questa modalità di episcopato, attestata da Ignazio, che «non è certo che esso sia esistito sin dall’inizio per volontà di Cristo in tutte le singole Chiese. È per questo che la testimonianza di s. Ignazio non è riportata all’inizio del paragrafo, ma solo a questo punto».53 Il testo rivisto mantiene poi il parallelismo tra la successione del ministero di Pietro nel papa e quella del ministero apostolico nei vescovi, con una formulazione autorevole: «Proinde docet Sacra Synodus Episcopos ex divina institutione in locum Apostolorum successisse, tamquam Ecclesiae pastores…»; la Relatio sottolinea che si tratta di una formulazione tradizionale; oltre a rinviare ai testi citati nella nota 15 (il concilio di Trento, il Vaticano I, Mystici corporis e il can. 329 del Codice), invita a tenere in considerazione le attestazioni segnalate nella nota 6 dello schema precedente (nota caduta con l’abbreviazione radicale della prima parte del testo di questo n. 20), dove, all’interno di documenti del magistero recente, venivano citati anche alcuni riferimenti patristici.54 Anche nella revisione del n. 21 (prima n. 14), relativo alla sacramentalità dell’episcopato, il rimaneggiamento del testo è stato considerevole, così come è significativo il ricorso ai Padri. In primo luogo, recependo diverse richieste, la questione viene impostata a partire dal sacerdozio di Cristo, di cui il testo precedente parlava più avanti: la formulazione è affidata a un passaggio ripreso quasi alla lettera da Leone Magno.55 La Commissione ha poi corroborato il testo di Leone Magno con altri riferimenti patristici, non presenti nella redazione del 1963: si tratta di passi di Eusebio e del Crisostomo, che non saranno inclusi, però, nelle note dello schema.56 Si noti che in un modus della sesta votazione, relativa a questa parte del capitolo III, un padre proporrà di sostituire «adest» con «operatur», per evitare un’identificazione dei vescovi con Cristo; la Commissione, tuttavia, confermerà il testo, precisamente in quanto riflesso fedele dell’insegnamento di Leone Magno.57 Nel seguito, i redattori, accogliendo le richieste che volevano una presentazione più positiva della sacramentalità, hanno scritto il testo in
53 Relatio CD, 237. I testi di Ignazio, Clemente, Giustino e Cipriano sono citati alle note 11, 12 e 13 e non saranno più modificati – come, peraltro, il testo relativo – sino all’approvazione finale. 54 Le citazioni erano già presenti nello schema preparatorio: cf. sopra, c. 4, nota 61. 55 Si tratta di Serm. 5,3 (CCL 141,23, linn. 49-55), dove Leone afferma: «Adest… in medio credentium Dominus Iesus Christus, et quamvis ad dexteram Dei Patris sedeat… non deest tamen Pontifex summus a suorum congregatione pontificum…». 56 Per la precisione, la Relatio (238) rinvia a EUSEBIO, Dem. Evang. V,3; Hist. Eccl. X,68s; GIOVANNI CRISOST., In Mt. hom. 50 (51), 3; de prod. Iudae, hom. 1,6. 57 Cf. sotto, nota 261 e testo relativo.
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modo che si partisse dal dono dello Spirito, concesso agli apostoli da Cristo, per richiamare poi l’imposizione delle mani, considerata già a partire dalle Lettere pastorali come gesto che conferisce lo Spirito. Secondo la tradizione costante della Chiesa, nota ancora la Relatio, l’ordinazione episcopale è continuazione di questa imposizione: e lo si documenta con una serie di citazioni – nessuna delle quali, peraltro, verrà incorporata nel de Ecclesia – che partono da Atanasio e arrivano sino a Tommaso d’Aquino.58 Queste e altre testimonianze confluiscono – insieme con le attestazioni liturgiche già menzionate nello schema del 1963 – nella dichiarazione solenne («Docet autem sancta Synodus…»), secondo la quale la consacrazione episcopale conferisce la plenitudo sacramenti Ordinis, che la consuetudine liturgica della Chiesa, nonché la vox Sanctorum Patrum, chiamano «summum sacerdotium, sacri ministerii summa». Il richiamo ai Sancti Patres, ai quali i redattori degli schemi avevano già fatto ricorso tre volte (cf. i nn. 2, 6 e 7), qui è particolarmente sottolineato, anche a motivo del carattere autorevole dato a questa proclamazione conciliare. Dispiace, peraltro, che i redattori non abbiano introdotto nel documento stesso qualche esempio della vox Patrum, che pure hanno citato nella Relatio.59 Si è rinunciato a mantenere nell’annotazione anche la documentazione liturgica, presentata nello schema del 1963, che attesta come la consacrazione episcopale conferisca al vescovo non soltanto la potestas sanctificandi, ma anche tutti gli altri munera propri del vescovo. La Relatio rinvia ai testi liturgici già menzionati nello schema precedente e richiama altra documentazione, attinta a ricerche recentissime, in particolare all’opera L’Épiscopat et l’Église universelle: il tutto, evidentemente, va tenuto presente come sfondo del testo conciliare.60 Finalmente, la CD ha arricchito con la testimonianza patristica anche la parte finale di questo testo importante del de Ecclesia, lì dove si riprende dalla versione precedente, ma rielaborandola, la dottrina del carattere sacramentale, che viene più chiaramente connesso con il dono dello Spirito, conferito con l’ordinazione secondo la testimonianza della Tradi-
58 Cf. Relatio CD, 238s. I testi citati sono: ATANASIO, Apol. ad Const. Imp. 26; Epist. ad Drac. 4; GIOVANNI CRISOST., In 1 Tim. hom. 13,1; In 2 Tim. hom. 1,2; TEODORETO, In 1 Tim. 4,14; PELAGIO, In 1 Tim. 4,14. Seguono citazioni di Sedulio Scoto, Rabano Mauro, Aimo Altissimo, Lanfranco, Bruno, Hervé di Bordeaux e Tommaso. 59 Oltre a Trad. Apost., menzionata alla nota 19, si faceva riferimento a PS. CIPRIANO, De Aleator. 4, e ai testi del Crisostomo riportati nella nota precedente. I redattori rinviano pure alla prassi antica, menzionata anche nello schema del 1963, di conferire l’ordinazione episcopale a soggetti non ancora ordinati sacerdoti (cf. Relatio CD, 239). 60 Si veda la Relatio CD, 240s, che rinvia a L’Épiscopat et l’Église universelle, 770-780, dove sono raccolte alcune preghiere di ordinazione episcopale di varie tradizioni liturgiche: la Tradizione apostolica, i Canoni di Ippolito, l’Eucologio di Serapione, due preghiere del rito bizantino, le preghiere della liturgia copta, del rito siriaco occidentale (Antiochia), dei sacramentari Leoniano e Gregoriano, e la preghiera detta «gallicana»; la Relatio menziona alcune espressioni tratte da alcuni di questi testi.
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tio apostolica 2, richiamata alla nota 20; a questo si collega l’affermazione – documentata col rinvio a diversi testi patristici – che vuole il vescovo agire in modo specifico «in persona Christi».61
c) Il testo sulla collegialità Alla revisione della parte centrale del capitolo III (nn. 22-27 secondo la nuova numerazione), relativa al collegio episcopale e al suo rapporto con il papa, lavorò la V sottocommissione, chiamata de collegialitate: ne erano membri Parente, Florit, Schroeffer, Volk, cui si aggiunsero poi Henriquez e Heuschen. Vi cooperò un numero insolitamente alto (lo nota la stessa Relatio) di periti, ciò che «dice da solo la difficoltà e il puntiglio con cui si procedette al lavoro»,62 in particolare per i nn. 22-23, che costituiscono il cuore del capitolo. La testimonianza patristica ha giocato un ruolo particolarmente importante nel n. 22 (rielaborazione del n. 16 dello schema precedente), anche a motivo dei limiti dell’argomento biblico. Nel testo del 1963, il n. 22 si apriva con la frase: «Sicut, in Evangelio, statuente Domino, sanctus Petrus et alii Apostoli unum collegium apostolicum constituunt, eadem ratione63 successor Petri, Romanus Pontifex, et Episcopi, successores Apostolorum, inter se coniunguntur». Nel testo di nuova redazione, l’espressione «in Evangelio» cade, per non appesantire il testo e anche perché la probatio biblica propriamente detta si ritiene presentata nel n. 19. Su richiesta di Paolo VI, fu chiesto alla Pontificia commissione biblica un parere circa la possibilità di usare all’inizio di questo n. 22 l’espressione «statuente Domino» come fondamento dell’affermazione secondo cui Pietro e gli altri apostoli costituiscono un solo collegio.64 Il responso fu positivo; inoltre, secondo la Commissione Biblica, anche la frase successiva (papa e vescovi costituiscono a loro volta un solo collegio) ha il suo fondamento nella Scrittura, perché vi si manifesta la volontà del Signore 61 Alla nota 22, lo schema cita CIPRIANO, Ep. 63,14; GIOVANNI CRISOST., In 2 Tim. hom. 2,4; AMBROGIO, In Ps. 38,25-26; AMBROSIASTER, In 1 Tim. 5,19; In Eph. 4,11-12; TEODORO DI MOPSUESTIA, Hom. Catech. XV,21 e 24; ESICHIO DI GERUSALEMME, In Lev. L,2,9,23: a parte Cipriano e il Crisostomo, sono tutti passi di nuova introduzione, rispetto alla redazione precedente. Testo e note non saranno più modificati fino all’approvazione finale. 62 ACERBI, 373. I periti furono 14, per la precisione: Betti, con ruolo di relatore generale; Colombo, Dhanis, D’Ercole, Gagnebet, Lambruschini, Maccarrone, Moeller, Rahner, Ratzinger, Salaverri, Schauf, Smulders, Thils: cf. Relatio CD, 269. 63 L’espressione, ancora presente nel textus emendatus, diventerà poi pari ratione. 64 La richiesta di Paolo VI è legata alle 13 proposte di modifica al testo, che il papa fece trasmettere alla CD il 19 maggio 1964: per il dossier relativo a queste proposte e al modo in cui furono discusse in CD, cf. Primauté et Collégialité. Le dossier de Gérard Philips sur la Nota Explicativa Prævia (Lumen Gentium, Chap. III), présenté avec introduction historique, annotations et annexes par J. GROOTAERS. Préface de G. THILS, Peeters, Leuven 1986, 125-145; C. TROISFONTAINES, «À propos de quelques interventions de Paul VI», in Paolo VI e i problemi ecclesiastici al Concilio, 104-114; VILANOVA, in SCVII, III, 441-446. Testo delle proposizioni in AS V/2, 508s.
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che il collegio apostolico, da lui fondato, rimanga «sino alla fine del mondo», secondo un modo di realizzazione, che, però, non si può ricavare dalla sola Scrittura. Lo schema, però, non afferma questo, ma ricava le proprie ragioni dalla dottrina e dalla vita della Chiesa; lo fa notare la sottocommissione,65 che anzi ha elaborato un testo nuovo, rispetto allo schema precedente: carattere e peculiarità della collegialità episcopale vi sono fondate sulle testimonianze antiche della comunione interecclesiale e sulla prassi dei concili. Ecco la traduzione del nuovo testo, che arriverà all’approvazione definitiva senza cambiamenti: Già per antichissima disciplina i vescovi di tutto il mondo comunicavano tra di loro e col vescovo di Roma nel vincolo dell’unità, della carità e della pace [23]; e si riunivano concili [24] per prendere decisioni di comune accordo su tutti gli argomenti di maggior importanza [25] dopo aver maturato la decisione con l’apporto del parere di molti [26]: questi fatti stanno a significare il carattere e la natura collegiale dell’ordine episcopale, natura comprovata in modo evidente dai concili ecumenici che sono stati celebrati lungo i secoli. La stessa natura collegiale viene suggerita anche dall’uso, già presente nell’antichità, di convocare e far partecipare più vescovi quando un nuovo eletto viene elevato al ministero del sommo sacerdozio.
Il richiamo alla perantiqua disciplina della communio, attestata in modo particolare in epoca patristica, assume quindi un rilievo tutto nuovo, rispetto alla redazione precedente del testo, dove era appena accennata.66 La nota 23 allude a due soli esempi (desunti dalla Storia ecclesiastica di Eusebio), ma molto significativi. Il primo fa riferimento alla controversia pasquale del II secolo, riferendo della quale Eusebio menziona, tra l’altro, le «lettere abbastanza aspre» con le quali i vescovi, scrivendo a papa Vittore, che aveva minacciato la scomunica alle Chiese dell’Asia Minore, lo esortavano appunto ad aver cura «della 65 Cf. Relatio CD, 241s (la relatio speciale per questo numero fu stesa da Dhanis e Thils: cf. ivi, 269); per il votum della Commissione Biblica, cf. AS III/1, 13s (= AS V/2, 538). Ottaviani tentò di affossare la collegialità in base alla carenza di fondamento biblico, nella plenaria della CD del 6 marzo 1964. Charue interviene per ricordare che «l’Écriture sainte ne suffit pas, qu’il faut la replacer et la comprendre dans la Tradition. J’ai eu sur le bout des lèvres l’expression “sufficientia Scripturae”! La remarque a eu succès dans l’assemblée»; alla fine, il testo sulla collegialità sarà votato all’unanimità (incluso il voto di Ottaviani; Charue annota ancora: «À la sortie, on dit que le 6 mars sera dorénavant “Festum conversionis Cardinalis Ottaviani”»): A.-M. CHARUE, Carnets conciliaires de l’évêque de Namur A.-M. Charue, par L. DECLERCK et C. SOETENS (éds.), Publications de la Faculté de Thèologie Louvain-la-Neuve, Louvain-la-Neuve 2000, 162; cf. anche JCongar, II, 37s (6 marzo 1964). Per gli echi di queste discussioni, si veda anche il dibattito che si svolse in sede di CCo il 16 aprile (cf. AS V/2, 290s). 66 Per il dibattito del II periodo al riguardo, cf. sopra, c. 6 § 4.3b. I quattro periti che approfondirono la questione della collegialità (Salaverri e Maccarrone da un lato; Rahner e Ratzinger dall’altro, designati perché i diversi punti di vista teologici fossero equamente rappresentati) furono concordi circa l’importanza di spiegare «più ampiamente quella dottrina antichissima e veneranda della “comunione interecclesiale”, la cui più profonda esposizione può conferire molto alla genuina descrizione e spiegazione della nozione di collegio episcopale» (Rel. Salaverri, 14: cit. in ACERBI, 380, nota 166).
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pace, dell’unione e della carità verso il prossimo».67 La nota allude poi all’estratto di una lettera di Dionigi di Alessandria (metà del III sec.) a papa Stefano: il vescovo alessandrino vi menziona l’aiuto prestato dalla comunità romana alle Chiese della Siria e dell’Arabia e la loro ritrovata unità nella concordia e carità fraterna (th`/ oJmonoiva/ kai; filadelfiva/) dopo la persecuzione. Il secondo argomento richiamato per la collegialità è la prassi dei concili. Su questo secondo aspetto, la Relatio ha speso qualche parola in più, allargando anche la base delle testimonianze patristiche: oltre al riferimento a Eusebio di Cesarea, riportato alla nota 24, sono richiamati diversi altri testi patristici, che attestano l’importanza della prassi conciliare nella Chiesa antica, anche prima dei concili ecumenici.68 La CD, infatti, ha accolto con qualche riserva la proposta di Paolo VI di sottolineare soprattutto l’importanza dei concili ecumenici: volendo far riferimento alla prassi più antica, e quindi prenicena, era necessario richiamare l’uso dei concili anche nella loro dimensione locale; la celebrazione dei concili ecumenici viene presentata, quindi, come conferma e approvazione di una prassi conciliare più antica.69 Finalmente, il testo ha mantenuto l’accenno, già presente nella versione del 1963, alla prassi liturgica, attestata già in epoca patristica, che vuole ordinariamente la presenza di almeno tre vescovi in occasione della consacrazione di un nuovo eletto all’episcopato; ne modifica in parte la portata, insistendo più sulla presenza di questi vescovi, che non sul loro ruolo nell’ordinazione di un nuovo confratello, ciò che non è sempre confermato sul piano storico.70 Dopo aver ricordato i due requisiti in base ai quali si viene costituiti membri del «corpo episcopale» – ossia la consacrazione episcopale e la comunione col capo e con le membra del collegio, coerentemente con il parere dato a larghissima maggioranza dai padri conciliari al secondo dei quesiti sottoposti a votazione il 30 ottobre 196371 – lo schema affronta le caratteristiche dell’azione collegiale. La relazione giustifica ampiamente il linguaggio di collegium, ordo e corpus dei vescovi, usato nel testo: i redattori richiamano le testimonianze patristiche, già menzionate nel testo del 1963, circa l’antichità del linguaggio usato; e integrano la documentazio-
67 Cf. EUSEBIO CES., Historia Eccl. V,24,10; per la lettera di Dionigi di Alessandria a Stefano, cf. ivi, VII,5,2. 68 Il testo di Eusebio è Hist. Eccl. V,23-24, dov’è ancora questione della controversia pasquale e dei diversi sinodi che essa suscitò; la nota aggiunge comunque anche un passim, e menziona poi il can. 5 del concilio di Nicea. Nella Relatio sono indicati: EUSEBIO, Hist. Eccl. VI,33,2;37; 43,2s e 21; VII,38-30; TERTULLIANO, Pudic. 10; CIPRIANO, Ep. 1,2; 55,6s; 56,2-3; 57,1; 67,6. Questa documentazione è utilizzata in parte nelle altre note: la nota 25 rinvia a TERTULLIANO, De ieiunio 13; la nota 26 a CIPRIANO, Ep. 56, 3. 69 Cf. Relatio CD, 242; cf. J-de Lubac, II, 88s (6 giugno 1964). 70 Cf. Relatio CD, 242; si rinvia a Traditio apostolica 2 e al can. 4 del concilio di Nicea: i due testi, già menzionati nello schema del 1963, non sono però mantenuti nelle note del testo riveduto. 71 Cf. Relatio CD, 242s.
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ne rilevando – alla luce di una recentissima ricerca di Lécuyer – l’uso frequente della locuzione collegium episcoporum in papa Celestino I.72 È abbastanza noto che il resto del numero fu aggiustato con la preoccupazione dominante di presentare l’esercizio della collegialità in modo da salvaguardare il primato del papa.73 La tradizione patristica che, come si è visto, ha giocato un ruolo determinante nell’affermazione dell’esistenza del collegio episcopale all’inizio di questo testo capitale, non viene più invocata nel resto del numero, né i redattori vi fanno riferimento quando danno conto delle modifiche introdotte nel testo. Viceversa, i Padri giocano di nuovo un ruolo di primo piano quando si passa a trattare delle relazioni reciproche dei vescovi all’interno del collegio (n. 23, già n. 17); non vi sono, però, elementi nuovi rispetto allo schema preparatorio e anzi la documentazione è ridotta. L’affermazione per cui i singoli vescovi sono «principio e centro di unità nelle proprie Chiese particolari» rinvia in nota all’assioma di Cipriano, «Episcopus in Ecclesia et Ecclesia in Episcopo», già indicato (con citazione più ampia) nello schema del 1963;74 lo stesso vale per la questione del rapporto tra Chiesa universale e Chiese particolari, dove pure sono menzionati i passi di Cipriano già citati in precedenza;75 mentre è caduta la nota che documentava già dallo schema preparatorio, e poi in quello rivisto nel 1963, l’affermazione secondo cui tutti i vescovi, insieme con il papa, rappresentano tutta la Chiesa nel vincolo della pace e dell’amore.76 Al termine del secondo alinea, la nuova redazione ha soppresso nel testo il nome di Basilio, invocato nello schema preparatorio e nel rifacimento del 1963 come teste dell’espressione corpus ecclesiarum: l’In Isaiam da cui è tratta fu riconosciuto come opera pseudo-basiliana già dai tempi di Garnier (1612-81).77 72 Cf. Relatio CD, 243; per i testi indicati già nello schema del 1963, cf. sopra, c. 6, nota 28 e testo relativo. Per Celestino I, la Relatio rinvia a J. LÉCUYER, «Le Collège des Évêques selon le pape Célestin I», in NRTh 86(1964), 250-259. La Relatio menziona anche altri papi di epoca patristica: LEONE MAGNO, Epist. 5,2 ad Episc. Illyr. 6,1; ad Anast. 12,2; ad Epp. Afr.; FELICE II, Epist. 11,3 (CSEL 35/1, 157). Alcuni accenni alle discussioni in sottocommissione nella relazione pubblicata in BETTI, La dottrina dell’Episcopato, 469. 73 Cf. ACERBI, 383-389; BETTI, La dottrina dell’Episcopato, 251-256. 74 La nota 31 dello schema rivisto (senza cambiamenti poi in LG 23) menziona, citando le parole sopra riportate, CIPRIANO, Ep. 66,8: cf. nello schema del 1963 la nota 36 del n. 17. 75 Si tratta di Ep. 55,24, menzionato (con la citazione «Una Ecclesia per totum mundum in multa membra divisa»), insieme con Ep. 36,4, alla nota 32 del nuovo schema, rimasta inalterata in LG 23 (cf. anche sopra, c. 6, note 30s e testo relativo). 76 Cf. Relatio CD, 248, che riprende nel suo testo la documentazione in questione; i testi patristici e del magistero recente erano raccolti nello schema precedente alla nota 38 del n. 17, che a sua volta riprendeva integralmente lo schema preparatorio, c. IV, nota 12. 77 Cf. Relatio CD, 249; si veda anche BETTI, La dottrina dell’Episcopato, 166, nota 4 e 258. Tabera Araoz aveva chiesto (cf. AS II/1, 735) la soppressione del nome di Basilio, sostenendo che non si usa menzionare nomi di Padri in un testo conciliare. La nota 34 ha mantenuto i testi già citati nelle versioni precedenti dello schema, ma in un nuovo ordine, che vede in primo luogo ILARIO, In Ps. 14,3; poi GREGORIO MAGNO, Moral. IV,7,12 e infine lo PS.-BASILIO, In Is. 15,296. Per la paternità di quest’opera, cf. CPG II, n. 2911.
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L’ultimo alinea del numero è quasi totalmente di nuova composizione, e risponde alle richieste, venute soprattutto dagli orientali, di mettere in luce il ruolo storico ed ecclesiologico dei patriarcati (con un’integrazione finale che riguarda le conferenze episcopali), quale espressione della comunione tra le Chiese e della collegialità episcopale.78 In questo contesto, la Relatio ha ricordato le affermazioni di Gregorio Magno sui diritti dei patriarchi, menzionando in particolare le note lettere del papa a Eulogio di Alessandria e ad Anastasio di Antiochia: testi già richiamati nello schema del 1963, che non troveranno posto, però, nella redazione definitiva dello schema.79
d) I munera dei vescovi e il loro esercizio La revisione del n. 25 (già 19), dedicato al munus docendi dei vescovi, e dove è questione anche del magistero infallibile – considerato, però, prevalentemente sotto l’aspetto del rapporto tra i rispettivi organi, ossia il papa e il collegio episcopale80 –, ha sacrificato l’unica citazione patristica presente nel testo secondo la revisione del 1963, ossia il testo di Ignazio di Antiochia, Ef. 3,2–4,1 che, in questo contesto, aveva suscitato le critiche di un certo numero di padri. Diversi vescovi francesi avevano rilevato, in particolare, che non tutte le affermazioni dei vescovi hanno lo stesso peso: c’era il rischio di un’interpretazione rigida, e scorretta, del testo ignaziano.81 Del resto, la citazione non era del tutto ad rem, perché Ignazio usava l’immagine delle corde della cetra per riferirsi, di per sé, al rapporto tra vescovo e presbiteri, sebbene estendesse poi tutta la metafora all’insieme della Chiesa locale. I redattori hanno preferito lasciar cadere l’allusione ignaziana e scrivere «verba clariora et magis concreta».82
78 Cf. ACERBI, 393s, che rinvia anche alle richieste di Maximos IV e di Zoghby: il testo dello schema, però, fu costruito sulla base di una formulazione preparata per lo schema sulle Chiese orientali da J. Hoeck, più debole rispetto ai testi dei melchiti. 79 Cf. Relatio CD, 249: si rinvia allo schema del 1963, c. II, n. 18, nota 45. Congar riferisce di un intervento di Doumith, preoccupato che lo schema accentui troppo la differenza tra le Chiese: ci si dovrebbe limitare a osservare che esse hanno abitudini e tradizioni proprie. Lo stesso Congar suggerisce di inserire qui l’espressione di Cipriano, salvo jure communionis, diversum sentire, ma la sua proposta non ha esito (cf. J-Congar, II, 39 [7 marzo 1964]; Congar non cita la fonte del passo di Cipriano, che deriva dalle Sententiae Episcoporum numero LXXXVII de haereticis baptizandis; il teologo domenicano l’aveva usata nei suoi Jalons pur une théologie du laïcat, Cerf, Paris 1954, 482). 80 Cf. ACERBI, 396-401. 81 Cf. AS II/1, 765; cf. anche un altro gruppo di vescovi francesi (AS II/2, 910) e l’intervento di Alvim Pereira a nome di quasi tutti i vescovi portoghesi (ivi, 502). 82 Relatio CD, 250. Il testo fa riferimento indirettamente ai Padri verso la fine del penultimo alinea, dove si menziona l’assistenza dello Spirito Santo agli atti straordinari di magistero collegiale: richiamando alla nota 44 la relazione di Gasser al Vaticano I, si allude a un passo di Leonzio di Bisanzio (in realtà di Gerusalemme), Contra Monophysitas: PG 86,1878CD, ivi menzionato, «in quo manifestatur certitudo Patrum de praesenti assistentia Spiritus Sancti in Conciliis» (Relatio CD, 253).
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Nel n. 26 (già n. 20), dove è questione del munus sanctificandi del vescovo, trova posto ora una sorta di mini-teologia della Chiesa locale, che vari padri avevano chiesto.83 Il passo è importante, anche se resta un po’ isolato nell’economia di un capitolo in cui appare dominante una visione universalistica dell’episcopato.84 La documentazione patristica qui è rilevante, ma non nuova: è ripresa, fondamentalmente, dal testo del 1963, che già conteneva una ricca nota di ecclesiologia eucaristica su base prevalentemente patristica. Non tutti i testi menzionati in quella nota sono ripresi, però: alcuni sono rimasti soltanto nella Relatio.85 La riduzione della documentazione si riscontra anche nella revisione del n. 27 (già 21), dedicato al munus regendi dei vescovi. Vi rimane l’espressione del vescovo quale vicarius Christi per la propria Chiesa particolare, ma le attestazioni patristiche del titolo, già menzionate nello schema del 1963, e richiamate anche nella Relatio, non trovano posto in nota al testo stesso.86 Accogliendo una sollecitazione di alcuni vescovi francesi, i redattori hanno poi inserito all’inizio del terzo alinea un’allusione a un passo di Ignazio di Antiochia: «Episcopus, missus a Patrefamilias ad gubernandam familiam suam, ante oculos teneat exemplum Boni Pastoris…»: sullo sfondo stanno le parole di Ignazio sulla familia Dei, come osserva la Relatio, che però non dà il riferimento (si tratta di Ef. 6,1), ma si limita a notare che queste parole sono introdotte per indicare il nesso tra il governo episcopale e la provvidenza divina, in virtù della quale davanti a Dio siamo figli; anche i vescovi, dunque, devono considerare i propri sudditi come figli.87 I redattori non hanno menzionato nelle note al testo l’allusione a Ignazio: si tratta quasi certamente di una svista, che ha comportato qualche anomalia nell’annotazione, come risulta anche dall’incongruenza della citazione di Ignazio all’inizio del n. 28.88
83 Cf. ad es. McEleney (AS II/1, 688), Djajasepoetra, a nome dei vescovi indonesiani (ivi, 382s), Seitz (ivi, 716), Tabera Araoz (ivi, 737), Lercaro (ivi, 2, 11), ecc. 84 Cf. ACERBI, 402, che ricorda anche (alla nota 233) la storia redazionale del testo, nato da una proposta di E. Schick (in AS II/2, 398s), integrato da Rahner e «rifinito» da Philips; cf. anche A. TOURNEAUX, «L’évêque, l’eucharistie et l’Église locale dans Lumen gentium, 26», in EThL 64(1988), 129-133. 85 Si trattava della nota 57 al c. II (cf. sopra, c. 6, nota 33 e testo relativo). La Relatio menziona il testo di GIROLAMO, Ad Iovin. 2,29, che la nuova annotazione ha lasciato cadere; ma è stato tralasciato anche AGOSTINO, Civ. Dei XXII,17. 86 Cf. Relatio CD, 254, che rinvia allo schema 1963 (cf. sopra, c. 6, nota 34 e testo relativo). Vale la pena di notare che, in questo modo, la redazione definitiva dello schema torna alla situazione dello schema preparatorio (si trattava là del c. IV, n. 13, nota 3: cf. Synopsis, 196), che citava in merito solo espressioni del magistero di epoca moderna. 87 Cf. Relatio CD, 254s. Un gruppo di vescovi francesi aveva chiesto che si mettesse meglio in luce la paternità del vescovo (cf. AS II/2, 910). Secondo la relazione pubblicata in BETTI, La dottrina dell’Episcopato, 482, la proposta d’inserimento del testo ignaziano fu suggerita in sottocommissione da Heuschen. 88 Nel testo di AS III/1, la nota 61 del n. 27 (stampata a p. 232) riporta: «Cf. S. IGNATIUS M., Ad Ephes. 6, 1: ed. FUNK, I, p. 218; necnon Martyrium Polycarpi, 12,2: ibid., p. 328». È chiaro, tuttavia, che il passo di Ignazio a cui si allude qui è, in realtà, Ephes. 5,1, ed. FUNK
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e) Presbiteri e diaconi I due numeri del c. III dedicati ai presbiteri e ai diaconi sono stati portati, nel corso della revisione,89 a fine capitolo, diventando rispettivamente i nn. 28 e 29: si accoglieva così la richiesta di diversi padri, che avevano chiesto un’articolazione più logica del capitolo, mettendo la trattazione dei presbiteri e dei diaconi dopo ciò che riguardava i vescovi, e avevano chiesto pure una riflessione più ampia e articolata sui presbiteri: il n. 28, di fatto, è lungo quasi il doppio del corrispettivo n. 15A dello schema del 1963.90 Il testo è stato redatto, in questa fase, a partire da una linea prevalentemente cultuale, secondo un orientamento teologico sostenuto in modo particolare dai tedeschi.91 La Relatio chiarisce il senso dell’uso del linguaggio «sacerdotale» applicato ai presbiteri, a proposito dei quali si precisa – la cosa viene già dallo schema preparatorio – che, pur non avendo l’apice del sacerdozio (pontificatus apicem), «sono però veri sacerdoti del Nuovo Testamento». La limitazione è illustrata col ricorso a un passo della lettera di Innocenzo I a Decenzio di Gubbio (cf. DH 215); in positivo, i redattori richiamano la documentazione dello schema del 1963 per illustrare la concezione orientale del sacerdozio quale cooperazione all’opera della «deificazione».92 È soprattutto la dimensione eucaristica del ministero presbiterale a fondare, però, la prospettiva «sacerdotale»: nella Relatio viene richiamato il nesso ministero-eucaristia/sacrificio-sacerdozio alla luce di Didachè 14s e Clemente Romano,
p. 216, già citato nello schema del 1963 alla nota 64 (dove non c’era ancora Mart. Polyc.): così, del resto, la si ritrova correttamente in LG (cf. AS III/8, 808; Synopsis, 285, riprende invece l’indicazione erronea di AS III/1). Sempre secondo AS III/1, l. cit., la nota 62 – indicata come ultima del n. 27, mentre in realtà è la prima del n. 28 – menziona IGNAZIO, Ephes. 5,1 (FUNK, p. 216); ma la cosa non dà molto senso e in LG si troverà indicato qui Ephes. 6,1 che però, ugualmente, ha poco rapporto con il testo. L’errore, a nostro parere, dipende appunto dal fatto che si è dimenticato il rinvio a Ephes. 6,1 all’inizio del terzo alinea del n. 27, dove avrebbe trovato la sua collocazione perfetta dopo le parole «ad gubernandam familiam suam» – in corrispondenza, del resto, con quanto indicato dai redattori nella Relatio. 89 La rielaborazione del testo fu affidata alla quinta sottocommissione, composta da Roy, Scherer e Franic´, con i periti Grillmeier (relatore per il de presbyteris), Kloppenburg, Lambert, Rodhain, Smulders e Trapè: Kloppenburg e Smulders furono relatori per il numero sui diaconi (cf. Relatio CD, 270, anche per quanto segue). 90 Per la genesi e il significato del n. 28, rinviamo alla bibliografia indicata da E. CASTELLUCCI, Il ministero ordinato, Brescia 2002, 227, nota 36, e all’esposizione dello stesso autore, ivi, 229-245; si veda anche S. NOCETI, «Iam ab antiquo. La strutturazione tripartita del ministero ordinato nella Lumen Gentium», in Vivens Homo 11(2000), 69-82. 91 Cf. ACERBI, 404s; A. GRILLMEIER, in Das Zweite Vatikanische Konzil. Konstitutionen, Dekrete und Erklärungen lateinisch und deutsch. Kommentare, Herder, Freiburg-BaselWien 1966, 250. 92 Cf. Relatio CD, 257. Lo schema del 1963, n. 15, nota 22, aveva richiamato (riportando il testo) GREGORIO NAZ., Apol. II [= Or. 2],22 e PS. DIONIGI, Eccl. Hier. 1,1. I rinvii si ritrovano ora, ma senza il testo, alla nota 66, dove sembrano rafforzare l’espressione «veri sacerdotes Novi Testamenti», il che non corrisponde, però, al contenuto dei testi.
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Ad Cor. 40,1-5 e 44,4; si precisa pure, così, che il sacerdozio ministeriale del NT riceve la sua dignità dall’istituzione da parte di Cristo.93 La sottocommissione ha poi utilizzato con abbondanza la documentazione patristica relativa al rapporto tra i presbiteri e il vescovo. Ancora una volta, è soprattutto la testimonianza di Ignazio di Antiochia a fare da sfondo alla redazione del terzo alinea del testo, sebbene i riferimenti introdotti nelle note si riducano, in pratica, alle due citazioni della nota 73, che rinvia a Ignazio, Philad. 4, e a Cornelio (= Cipriano, Ep. 48,2), per appoggiare l’espressione unum presbyterium:94 espressione che, tra l’altro, costituisce l’unico caso in cui il concilio usa il termine presbyterium includendovi anche il vescovo.95 Per quanto riguarda il numero 29, dedicato ai diaconi, i redattori lo hanno articolato in due capoversi: il primo descrive i munera propri del diacono, mentre il secondo verte sulla dibattuta questione della restaurazione del diaconato permanente.96 È soprattutto per la prima parte che i redattori hanno fatto ricorso alla testimonianza patristica, introducendo in primo luogo, pressoché all’inizio del testo, l’espressione «non ad sacerdotium, sed ad ministerium», per la quale si rinvia in nota alle Constitutiones Ecclesiae aegyptiacae III,2 e agli Statuta Ecclesiae Antiqua 37-41: è noto, peraltro, che la loro prima fonte è la Traditio apostolica.97 Nella relazione si richiama anche Ignazio di Antiochia, Trall. 2,3, dove i diaconi sono qualificati come «ministri dei misteri di Gesù Cristo», ministri [diavkonoi] «non di cibi e bevande, ma servitori [uJphrevtai] della Chiesa di Dio». Il passo – già menzionato anche nello schema del 1963 – sarà poi richiamato nella nota posta al termine del primo capoverso, che si chiude citando alcune parole della lettera ai Filippesi di Policarpo (esplicitamente nominato nel testo), che vuole i diaconi «misericordes, seduli, incedentes iuxta veritatem Domini, qui omnium minister factus est».98
93 Cf. Relatio CD, 256s; i testi qui richiamati non saranno però menzionati nello schema. La Relatio precisa che sacerdos anticamente era titolo riservato al vescovo, ma poteva essere riferito anche al presbitero, soprattutto nell’esercizio del culto: si rinvia alla documentazione citata nello schema del 1963 (cf. sopra, c. 6, nota 25 e testo relativo). 94 La Relatio, 258, indica questi altri riferimenti per l’unità del presbiterio intorno al vescovo: IGNAZIO, Trall. 3,1; Didascalia II,28,4; CIPRIANO, Ep. 61,3; 14,4; Statuta Ecclesiae Antiqua 33 (35): PL 56,880. Sul «primato» del vescovo nel presbiterio, si cita anche TERTULLIANO, Bapt. 17,1; per l’obbedienza dei presbiteri nei confronti del vescovo, IGNAZIO, Magn. 3,1; Trall. 12,2 (si vedano alcune delle richieste su questi punti, emerse nel dibattito dell’ottobre 1963, sopra, c. 6 § 4.2b). 95 Cf. J. LÉCUYER, «Il presbyterium», in Y. CONGAR – J. FRISQUE (edd.), I preti. Formazione, ministero e vita, AVE, Roma 1970, 217. Sulla portata della nozione ignaziana di presbyterium, cf. ivi, 211-214 e, per il passo di Cornelio, 214. 96 Cf. Relatio CD, 259. 97 Per la storia della formula, cf. A. KERKVOORDE, in BARAÚNA, 918s. 98 POLICARPO, Ad Phil. 5,2. La nota 75 menziona anche CLEMENTE ROM., Ad Cor. 15,1; IGNAZIO, Trall. 2,3 (che sarà ancora richiamato al c. V, n. 41, nota 9); Constitutiones Apostolorum VIII,28. La Relatio (cf. 260) riprende in parte le annotazioni dello schema del 1963 e rinvia, di nuovo, a K. RAHNER – H. VORGRIMLER (hrsg.), Diaconia in Christo. Über die Erneuerung des Diakonates, Freiburg 1962.
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1.4. I
C A PITOLI
IV
E
V
a) La revisione del capitolo sui laici Al termine della sua revisione,99 il capitolo IV sui laici risultò uno dei più poveri del de Ecclesia, per quanto riguarda il riferimento ai Padri della Chiesa. Ciò dipende, in buona misura, dal fatto che gran parte della documentazione patristica utilizzata nello schema del 1963 non riguardava tanto i laici, ma i christifideles in quanto tali e trovò posto, sia pure con le riduzioni che abbiamo già visto, nel nuovo capitolo II.100 Anche gli interventi durante il dibattito dell’ottobre 1963, nella misura in cui si richiamavano ai Padri, spesso toccavano piuttosto aspetti riguardanti i cristiani in quanto tali e non i laici.101 Come hanno notato i redattori del capitolo, affrontare qui specificamente e con maggior chiarezza il proprium dei laici «facilius erat dictu quam factu».102 In pratica, i redattori hanno mantenuto i riferimenti già esistenti nel testo del 1963: il primo è la celebre frase di s. Agostino, con la quale si chiude l’importante n. 32, il cui titolo è stato significativamente trasformato, diventando «De dignitate laicorum prout sunt membra Populi Dei».103 Già nella versione precedente dello schema Agostino qui era menzionato per nome, e questo resta l’unico passo del de Ecclesia che nomina il vescovo di Ippona. La frase che chiude il numero è ripresa alla lettera dal Sermo 340: «Ubi me terret quod vobis sum, ibi me consolatur quod vobiscum sum. Vobis enim sum episcopus, vobiscum sum christianus. Illud est nomen officii, hoc gratiae; illud periculi est, hoc salutis».104 I redattori si sono impegnati in una nuova redazione dei nn. 34-36, dove si tratta del ruolo apostolico dei laici. La sottocommissione ha voluto impostare in un modo nuovo la questione, modificando la prospettiva originaria di Philips105 per tornare all’articolazione dei tria munera, di cui anche i laici sono partecipi. 99 Vi lavorò in un primo tempo la sesta sottocommissione, integrata poi, nel novembre 1963, con alcuni membri della commissione per l’apostolato dei laici: la commissione mista così composta comprendeva Wright (presidente), Ancel, Schroeffer, McGrath per la CD; Guano, Blomjous, Hengsbach, Ménager per la commissione sull’apostolato dei laici. Periti furono Delhaye, Haering, Hirschmann, Klostermann, Lafortune, Medina, Moeller, Riedmatten, Tucci, e tre laici: de Habicht, Sugranyes de Franch e Vasquez (cf. Relatio CD, 291). 100 Per lo schema del 1963, cf. sopra, c. 6 § 1e; per la sua rielaborazione nel nuovo c. II e il trattamento della documentazione patristica, cf. in questo capitolo il § 1.2. 101 Cf. sopra, c. 6 § 5. 102 Relatio CD, 291. 103 Il corrispondente n. 23 dello schema 1963 si intitolava: «De membrorum in Ecclesia Christi aequalitate et inaequalitate»; la sottocommissione ha accolto la proposta di cambiamento venuta da un gruppo di vescovi francesi (cf. AS II/1, 767; Relatio CD, 283). 104 Per la questione di autenticità posta dal sermone agostiniano, cf. c. 6, nota 38. 105 Per Philips, «la considerazione del ruolo dei laici doveva avere come punto di partenza una teologia delle realtà terrene e strutturarsi secondo una triplice distinzione dell’oggetto dell’apostolato (i valori religiosi, i valori morali e i valori profani)» (ACERBI, 409, secondo il quale abbiamo qui «la variazione forse di maggior rilievo nella redazione del capitolo»). Per la nuova impostazione, cf. Relatio CD, 285.
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Il n. 35 verte sulla partecipazione dei laici al munus profetico di Cristo e sulla testimonianza cristiana; in questo contesto si recupera la tematica del matrimonio cristiano e del ruolo apostolico della famiglia. I redattori hanno tenuto presente il materiale patristico raccolto per lo schema del 1963 e lo hanno citato abbondantemente nella Relatio stessa:106 nulla di esplicito, però, è rimasto nel testo e nelle note dello schema. Analogamente, la Relatio ricorda, per la parte finale del n. 35, l’esercizio del munus dottrinale da parte dei laici, attestato dai non pochi teologi laici dell’età patristica:107 ma non se ne dà conto esplicitamente né nel testo, né nelle note. Anche per il n. 36, dedicato alla partecipazione dei laici al munus regale di Cristo, i riferimenti patristici restano solo sottintesi e non portano elementi nuovi rispetto a quelli già indicati nella versione precedente dello schema. Le testimonianze dei Padri sul sacerdozio regale dei fedeli, menzionate nelle note dello schema del 1963, sono riprese senza mutamenti dalla Relatio a proposito del primo alinea del numero.108 Il testo del secondo alinea, che riproduce in buona parte lo schema precedente, lascia però cadere i rinvii all’epistola a Diogneto e al Crisostomo, che si leggevano là in nota, in riferimento all’animazione cristiana delle realtà temporali:109 i redattori, infatti, hanno preferito utilizzare questi testi per l’esortazione conclusiva di tutto il capitolo (n. 38). Si spiega così, come avverte la Relatio, perché le parole dell’ad Diognetum, che sono citate nel testo a chiusura di tutto il capitolo, assumano la forma ottativa: «quod anima est in corpore, hoc sint in mundo christiani».110 Si riconferma, in questo modo, la scelta – per certi versi discutibile – di riferire queste parole ai laici, anziché ai cristiani simpliciter; per altro verso, la citazione esplicita del testo e la posizione, conclusiva del capitolo, hanno senz’altro valorizzato questa frase dell’ad Diognetum, che diversi padri avevano ricordato nel dibattito conciliare.111
b) Vocazione universale alla santità e «stati di perfezione» La revisione del capitolo V (IV nella precedente redazione) poneva il doppio problema della sistemazione del capitolo stesso all’interno dello schema e dell’eventuale riorganizzazione del materiale in due capitoli, 106 Cf. Relatio CD, 286s: vi si trova, ripreso alla lettera, tutto il materiale indicato nello schema del 1963, c. III, nota 8 (cf. sopra, c. 6 § 1d). 107 Cf. Relatio CD, 287: riprende lo schema del 1963, c. III, nota 18. 108 Cf. Relatio CD, 287; nello schema del 1963, cf. c. III, nota 9. 109 Cf. sopra, c. 6, nota 45 e testo relativo. 110 Oltre a dare il riferimento all’Epist. ad Diogn. 6, la nota 9 menziona anche il passo di GIOVANNI CRISOST., In Mt. Hom. 46 (47),2 «de fermento in massa». 111 Cf. ad es. gli interventi e le proposte di Suenens (AS II/1, 329), Morcillo Gonzalez (che riporta tutto il c. 5 e l’inizio del c. 6 dell’Epistola: AS II/3, 186); Ménager (ivi, 208), Donze (ivi, 452, a nome di altri 25 vescovi) e Cambiaghi (AS II/4, 123); Meouchi esprimerà il suo apprezzamento per la citazione di questo passo: cf. AS III/1, 735.
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uno relativo alla comune vocazione alla santità nella Chiesa, l’altro riguardante i religiosi. I redattori112 scelsero di mantenere la collocazione del testo dopo il capitolo sui laici, anche se alcuni elementi iniziali sulla vocazione universale alla santità dovevano essere indicati già nel II capitolo. Si arrivò anche, nei vari passaggi tra sottocommissione mista e CD plenaria, alla decisione di distinguere chiaramente due sezioni del testo, una relativa alla vocazione universale alla santità, l’altra riguardante i religiosi. La scelta se trasformarle in due capitoli distinti fu via via rinviata e demandata, infine, all’assemblea conciliare.113 Nell’insieme, la prima sezione del capitolo (destinata a diventare poi il c. V) venne rivista senza mutamenti di rilievo nella documentazione patristica del testo precedente, salvo il suo alleggerimento, come si vede già nel n. 40 (parziale rielaborazione del precedente n. 29), che presenta la dimensione ontologica e teologica della santità della Chiesa in quanto tale. In rapporto alla «perfezione» cristiana, il nuovo testo ha rinviato in nota alle «definizioni» della perfezione di tre autori, Origene, lo Ps. Macario e s. Tommaso, confermando un approccio che era stato oggetto di qualche critica prima ancora che iniziasse il dibattito del 1963.114 Tutta la seconda parte del primo alinea è di nuova stesura: i redattori hanno voluto precisare qui le dimensioni della santità dei cristiani quale realtà ontologicamente fondata nella vocazione divina, nella giustificazione, nel battesimo. Questa santità, che è dono, diventa poi impegno e compito per i cristiani, ma resta come fondamento di santità nonostante i peccati, a ragione dei quali – nota il testo citando s. Agostino –, dobbiamo quotidianamente chiedere a Dio di rimettere i nostri debiti. I redattori rinviano qui alle Retractationes; così, però, riconducono le parole di Agostino a una prospettiva individualistica, mentre il vescovo di Ippona aveva usato più di una volta questa espressione a indicare una preghiera della Chiesa in quanto tale, nella consapevolezza che, finché rimane in questa condizione terrena, non può chiamarsi ancora «senza macchia né ruga».115 In questo senso, la citazione agostiniana avrebbe trovato una 112 Dopo una fase iniziale di lavoro da parte della VII sottocommissione della CD, si arrivò anche in questo caso, a partire dalla fine di gennaio 1964, a una commissione mista: ne fecero parte, per la CD, Browne (presidente), Charue, Šeper, Gut, Butler e Fernandez; per la commissione de religiosis, Compagnone, Sipovic, Stein, Kleiner e Sépinski. Vi collaborarono dodici periti: Abellan, Beniamino della Ss. Trinità, Boyer, Gambari, Gagnebet, Labourdette, Lio (segretario e relatore), Philipon, Rahner, Tascon, Thils e Verardo. La sottocommissione tenne undici riunioni per arrivare a elaborare il testo (cf. Relatio CD, 322s). 113 Cf. Relatio CD, 324s e, più ampiamente, 329-335; VILANOVA, in SCVII, III, 386s. 114 Gli autori menzionati sono citati alla nota 2, che rimarrà inalterata sino alla fine. Per le critiche sull’uso delle fonti, cf. sopra, c. 6, nota 99 e testo relativo. 115 Agostino sta parlando dei sette libri del De Baptismo, opera antidonatista, e nota: «Ubicumque autem in his libris commemoravi Ecclesiam non habentem maculam aut rugam, non sic accipiendum est quasi iam sit, sed quae praeparatur ut sit, quando apparebit etiam gloriosa. Nunc enim propter quasdam ignorantias et infirmitates membrorum suorum habet unde quotidie tota dicat: Dimitte nobis debita nostra» (Retract. II,18). Oltre a questo passo, menzionato alla nota 3, nelle Retractationes il tema ritorna ancora, con parole
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collocazione più adatta al termine del penultimo alinea del n. 8, dove il testo parla della Chiesa che, «sancta simul et semper purificanda, poenitentiam et renovationem continuo prosequitur». Al termine del numero il testo riprende, abbreviando, il precedente n. 29 circa la chiamata di tutti i cristiani alla perfezione della santità; la Relatio richiama al riguardo anche la documentazione della tradizione patristica e recente, che lo schema del 1963 aveva indicato alle note 1 e 3 del IV capitolo:116 alcuni dei riferimenti patristici là indicati sono stati utilizzati per la prima nota della nuova redazione, mentre la nota 4 ha conservato soltanto i rinvii al magistero recente. Il n. 41 ha rimaneggiato in modo consistente il precedente n. 30, per esporre diffusamente le diverse modalità di esercizio dell’unica santità cristiana, mentre ha ridimensionato l’affermazione del textus prior circa l’esistenza di una sola santità per tutti i fedeli.117 Dopo un alinea che serve da proemio, si parla dell’esercizio della santità per i vescovi, i presbiteri, i diaconi e gli altri ministri, i laici, gli sposi e genitori cristiani, i lavoratori, i sofferenti; l’ultimo alinea conclude tutto il numero. Nell’alinea dedicato ai sacerdoti, oltre a lasciar cadere il riferimento generico «ut Sancti Patres docent» (al quale non corrispondeva alcun rinvio preciso a testi patristici), è stato volutamente sottolineato, con l’immagine ignaziana della «corona spirituale», il legame dei presbiteri con i vescovi.118 L’unico altro riferimento patristico, in questo numero, riguarda gli sposi cristiani: è il rinvio alla ventesima omelia del Crisostomo sulla Lettera agli Efesini, già menzionata nello schema del 1963: qui il nuovo testo riprende quello precedente (al n. 30) con pochissime variazioni e mantiene alla nota 11 il rimando al testo del Crisostomo. Per quanto riguarda il n. 42, dedicato alla via (la carità) e ai mezzi in ordine alla santità (cf. il n. 31 del textus prior), possiamo dire sinteticamente che tutta la documentazione patristica, indicata con abbondanza nel testo del 1963, è presupposta anche dalla nuova redazione dello schema, che però ha ridotto drasticamente l’annotazione, lasciando la maggior parte delle citazioni soltanto nella Relatio.119 Nel primo alinea, la
pressoché identiche e nella stessa prospettiva, a I,7,5 e 19,9. È in questa linea che il testo di Agostino era stato richiamato da László (cf. AS 2/3, 499s; cf. anche sopra, c. 6, nota 199 e testo relativo); il presule riprenderà la questione, riproponendo il suo contributo precedente, anche a proposito del c. VII del nuovo schema (cf. AS 3/1, 484). 116 Cf. sopra, c. 6 § 1e e Relatio CD, 303s. 117 Cf. ACERBI, 416s. 118 L’immagine si legge in IGNAZIO, Magn. 13,1, a cui rinvia la nota 6; si veda la Relatio CD, 305. Anche per i diaconi, più sotto, il testo fa uso di un rimando ignaziano: per l’espressione «ministri dei misteri di Dio e della Chiesa», la nota 9 rinvia a Trall. 2,3. 119 Nella nota 15, a proposito della povertà e dell’obbedienza, si arriva anzi a rinviare semplicemente ai «testimonia praecipua S. Scripturae et Patrum» raccolti nella Relatio. Nella redazione definitiva, la nota verrà poi modificata con l’inserimento di alcune citazioni neotestamentarie e dell’indicazione generica «Patres et ordinum fundatores abundant».
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nuova stesura del testo ha voluto chiarire meglio, tuttavia, che la carità, in quanto vincolo della perfezione, informa e conduce a pienezza tutti i mezzi di santificazione: qui i redattori hanno sottolineato esplicitamente il riferimento all’Enchiridion di Agostino, riportato nelle note del textus prior, e che viene indicato anche nella nota 12 del nuovo testo.120 Nella revisione della seconda sezione del capitolo (destinata a diventare il c. VI della Lumen gentium), ha giocato un ruolo determinante la tendenza a considerare i «consigli», di cui già si parlava nel n. 42 – e quindi nel contesto della santità complessiva della Chiesa – come dimensione specifica e caratteristica di uno stato di vita particolare, quello dei «religiosi».121 In tutta questa sezione, o futuro capitolo che dir si voglia, i redattori hanno fatto ampio uso della documentazione raccolta nello schema del 1963. Di questo ricco materiale, tuttavia, quasi nulla è passato nelle note: in pratica, solo qualche riferimento alla letteratura degli anacoreti nella nota 1 del n. 43. Tutto il resto è rimasto nella relazione ai vari numeri,122 di modo che il futuro c. VI della LG si presenta pressoché privo di riferimenti patristici espliciti.
2. L’ I N S E R I M E N T O D E I C A P I T O L I VII 2.1. I L
C A PITOLO
E
VIII
VII
I testi destinati a diventare gli ultimi due capitoli del de Ecclesia hanno avuto una vicenda parzialmente distinta, rispetto al blocco dei quattro capitoli dello schema del 1963, diventati poi cinque/sei nella revisione dell’intersessione 1964: ne trattiamo, quindi, in modo separato. L’inserzione del capitolo sulla «Chiesa dei santi»123 risale, come primo passo, a un testo redatto dal card. Larraona, con l’aiuto del gesuita P. Molinari, per incarico di Giovanni XXIII, che desiderava un testo sul culto dei santi. Tenendo conto di alcune richieste, affinché si trattasse del fine escatologico della Chiesa,124 Paolo VI confermò l’orientamento del predecessore e dispose l’invio del testo alla CD, che ritenne di non poter integrare il testo proposto in quanto tale e, nella seduta del 2 marzo 1964, ne affidò la revi120 Si tratta di Enchir. 121,32 (cf. Relatio CD, 306). Tanto nel vecchio come nel nuovo testo, si rinvia anche a S. TOMMASO, STh II-II, q. 184, a. 1; PIO XII, Menti nostrae: AAS 42(1950), 660. 121 Cf. ACERBI, 418s. 122 Cf. Relatio CD, 316-321; per la documentazione richiamata, cf. sopra, c. 6 § 1e. 123 Cf. ACERBI, 421-425; VILANOVA, in SCVII, III, 386-388; Relatio CD, 351s. Per una storia del capitolo, si vedano J.-H. DUFORT, «Histoire et théologie du VIIe chapitre de la constitution Lumen Gentium», in ScEs 20(1968), 77-94, e P. MOLINARI, «La storia del Capitolo VII della Costituzione dogmatica “Lumen gentium”: Indole escatologica della Chiesa pellegrinante e sua unione con la Chiesa celeste», in Miscellanea in occasione del IV Centenario della Congregazione per le Cause dei Santi (1588-1988), Città del Vaticano 1988, 113-158. 124 Cf. ad es. Volk (AS II/2, 45-47); Elchinger, ivi, II/1, 379.
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sione a una sottocommissione.125 Il testo così rivisto fu inviato ai padri; tenendo conto anche delle osservazioni ricevute, venne rielaborato nel mese di giugno e rinviato poi ai padri in vista del dibattito conciliare. Anche per questo testo, dunque, i padri disponevano di un textus prior, che era quello inviato nella primavera del 1964, e di un textus emendatus, sul quale si svolse un breve dibattito in aula, il 15-16 settembre 1964.126 I redattori hanno tenuto conto della testimonianza patristica anzitutto a proposito della dottrina dell’intercessione dei santi, presentata alla fine del n. 49. La Relatio indica testi di Agostino, cominciando col citare Enarr. in Ps. 85,24 «et passim»; menziona Origene, Peri euches 11, e cita un ampio estratto di Girolamo, Liber contra Vigilantium 6: si tratta, in tutti e tre i testi, dell’intercessione dei martiri; in nota al testo (nota 4) rimarranno i rinvii ad Agostino e a Girolamo, insieme con quelli a Tommaso e a Bonaventura.127 Per quanto riguarda i Padri della Chiesa, i redattori hanno potuto utilizzare anche alcune ricerche relativamente recenti, e rinviare ad esse per una più ampia documentazione.128 Durante l’elaborazione del testo in sottocommissione, fu chiesto esplicitamente di presentare la dottrina sul rapporto tra la Chiesa peregrinans e la Chiesa celeste in connessione con la storia della Chiesa, soprattutto dei primi secoli.129 A questa domanda risponde il primo alinea del n. 50, che amplifica considerevolmente la prima redazione del testo. Vi si ricorda, rinviando alle iscrizioni delle catacombe romane, che sin dalle origini del cristianesimo è stata coltivata la memoria dei defunti, mentre prendeva corpo la convinzione della comunione con gli apostoli, la Vergine Maria, i martiri e i santi. La Relatio ha potuto presentare qui una vasta bibliografia, che raccoglie decine di titoli di ricerche liturgiche e storicoteologiche, dagli inizi del Novecento sino al 1960 circa, a documentare quanto il campo fosse stato esplorato anche in epoca recente e in svariate direzioni.130 Si può dire che dal punto di vista della tradizione patristica questo numero è tra i più documentati dello schema, anche se alla stesura finale arriva, in pratica, un solo riferimento patristico esplicito, ossia la citazione di Metodio di Olimpo sul culto delle sante vergini.131 Notiamo, infine, che nell’ultimo numero del capitolo (n. 51), dove il concilio dà alcune indicazioni direttive circa il culto dei santi, viene richiamato e ribadito tra l’altro anche quanto disposto dal concilio Nice125 Era composta da Santos, König e Garrone, assistiti dai periti Molinari, Labourdette e Stano. P. MOLINARI aveva pubblicato I Santi e il loro culto, Roma 1962, esposizione sistematica del tema, fondata su uno studio della questione nella tradizione e nell’età moderna. 126 Testo e note in AS III/1, 336-342; Relatio, 342-352. 127 In particolare: TOMMASO, In 4m Sent., d. 45, q. 3, a. 2; BONAVENTURA, In 4m Sent., d. 45, a. 3 q. 2; cf. Relatio CD, 344, che menziona anche testimonianze moderne e liturgiche. 128 La Relatio CD, 344, menziona A. PIOLANTI, La Comunione dei Santi e la vita eterna, Firenze 1957, 111-164; G. JOUASSARD, «Le rôle des chrétiens comme intercesseurs auprès de Dieu dans la chrétienté lyonnaise au second siècle», in RevSR 30(1956), 217-229; G. ZULLI, S. Ambrogio e il culto dei santi. Culto dei Martiri e delle loro reliquie, Roma 1945. 129 Cf. Relatio CD, 345. 130 Cf. Relatio CD, 345s. 131 Cf. la nota 8, che rinvia a METODIO, Symp. 7,3.
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no II (cf. DH 600). La Relatio ha riportato un ampio estratto del testo, dove esplicitamente si richiama il «divinitus inspiratum sanctorum Patrum nostrorum magisterium», sul quale il concilio fonda la propria difesa delle immagini sacre; ma anche il Tridentino, pure menzionato nelle note e citato nella Relatio, aveva confermato il culto dei santi seguendo tra l’altro la «sanctorum Patrum consensionem» (cf. DH 1821).132
2.2. I L
DE
B EATA V IRGINE
a) L’elaborazione di un nuovo testo de Beata Virgine All’indomani della votazione che aveva sancito, a strettissima maggioranza, l’inclusione del de Beata nello schema sulla Chiesa, la CD si trovò ad affrontare la questione del testo da utilizzare.133 Nell’incrocio delle varie e contrastanti proposte, alla fine la spuntò Philips, che elaborò una bozza il 9-10 novembre 1963 e, attraverso la mediazione del card. König, la fece arrivare a p. Balic´, principale responsabile del testo precedente, perché la sua approvazione era essenziale per un consenso di massima di tutta la CD e per i futuri passaggi di revisione. Questo abbozzo, che rappresenta il contributo più personale del teologo di Lovanio all’elaborazione dei documenti conciliari,134 non avrebbe avuto, però, vita facile, soprattutto per la resistenza di p. Balic´: solo a fine novembre, dopo vari incontri e consultazioni, e non senza aver inviato a Philips una propria revisione dello schema, il francescano si decise a capitolare.135 132 Il Niceno II è menzionato alla nota 18, il concilio di Trento, Sess. XXV, alla nota 20; per le citazioni, cf. anche la Relatio CD, 349s. 133 Tutte le vicende della rielaborazione del testo sono ben documentate in C. ANTONELLI, Il dibattito su Maria nel concilio Vaticano II. Percorso redazionale sulla base di nuovi documenti di archivio, Messaggero, Padova 2009, 330-502, di cui sintetizziamo i passaggi principali. 134 Cf. G. PHILIPS, Carnets conciliaires de Mgr. Gérard Philips secrétaire adjoint de la Commission Doctrinale. Texte néerlandais avec traduction française et commentaire par K. SCHELKENS. Avec une Introduction par L. DECLERCK, Maurits Sabbebibliotheek Faculteit Godgeleerdheid-Uitgeverij Peeters, Leuven 2006, 38, 115. Il testo dell’abbozzo è pubblicato da ANTONELLI, Il dibattito su Maria, 334-340; alle pp. 341-351, Antonelli ricorda le competenze di Philips in questo ambito e mostra come il teologo belga abbia utilizzato, oltre a elementi dello schema Balic´ e abbozzi di Laurentin, soprattutto alcuni saggi mariologici che lo stesso Philips aveva pubblicato in precedenza, su Marianum e nelle EThL. 135 Il testo è pubblicato in ANTONELLI, Il dibattito su Maria, 372-381. Si può notare che Balic´ vi introduce, con un certo numero di citazioni patristiche (Ireneo, Cirillo di Gerusalemme, Epifanio, Agostino), il confronto tipologico Eva/Maria: cf. ivi, 374 e 381. I testi patristici sono molto noti: Philips sembra averli omessi intenzionalmente, in linea con una sua riflessione sui limiti dell’analogia, limiti dovuti al fatto che il parallelismo Adamo/Eva non può essere riportato sic et simpliciter su Cristo/Maria, data la più grande dissimilitudine che esiste tra Creatore e creatura: cf. ivi, 382, con il rinvio a G. PHILIPS, «La mariologie de l’année jubilaire. Essai bibliographique 1953-1955», in Marianum 56(1956), 25. Pur accettando in seguito di includere nel testo la tematica patristica del parallelo Eva/Maria, Philips manterrà le proprie riserve e ridurrà le citazioni addotte.
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Anche le settimane successive, tuttavia, lo videro molto attivo per affermare i propri punti di vista, mentre Philips – nominato il 2 dicembre segretario aggiunto della CD –, assai preso dagli altri lavori di revisione del de Ecclesia, non riuscì a far progredire il de Beata. Solo al ritorno in Belgio, durante il periodo natalizio, Philips poté rielaborare il testo, che terminò il 9 gennaio 1964 e accompagnò con una Iustificatio, nella quale dava conto di come aveva recepito o no le correzioni di Balic´.136 Questi replicò, a fine gennaio, con una propria ristesura del testo, a sua volta accompagnata da una Iustificatio emendationum:137 come confermò un colloquio tra Philips e Balic´, che si svolse a Roma il 2 febbraio e si concluse con un nulla di fatto, era evidentemente difficile arrivare a un accordo sulle questioni più discusse.138 Le schermaglie continueranno ancora, ma alla fine Balic´, per incarico di Philips che aveva lasciato Roma il giorno stesso del colloquio, trasmetterà il 20 febbraio alla sottocommissione la quinta redazione del testo, ossia un testo rivisto secondo alcune annotazioni che lo stesso Philips gli aveva lasciato prima della partenza. Questo testo arrivò all’esame della CD il 14 marzo, in una sessione che ebbe un avvio difficile, perché, assente il card. König, fu presentato dal solo card. Santos, che attaccò come minimalista e insufficiente lo stesso schema da lui presentato!139 Alla fine, tuttavia, lo schema fu accettato come base; una serie di interventi, inviati da periti e vescovi della CD nella primavera del 1964, permetterà di sondare alcune reazioni al nuovo schema e di ritoccarlo, prima dell’ultimo esame in CD, ai primi di giugno.140 In questa occasione si svolse un’accesa discussione sulla questione della mediazione mariana, per la soluzione della quale fu costituita una sottocommissione,141 il cui lavoro, peraltro, non fu completamente risolutivo. Dopo l’ennesima ristesura del testo del n. 50, fatta da Philips, lo schema finalmente poté essere inviato alla Commissione di coordinamento il 26 giugno e, il 3 luglio successivo, ottenne da Paolo VI il placet per l’invio ai padri.
136
Testi in ANTONELLI, Il dibattito su Maria, 388-396 (testo) e 396-400 (iustificatio). Testi in ANTONELLI, Il dibattito su Maria, rispettivamente 407-416 e 416-427. 138 Congar, che riferisce di questo colloquio secondo il resoconto di Philips, sintetizza così i punti cari a Balic´, ma rifiutati da Philips: la questione della mediazione mariana, a proposito della quale vi è anche la contrarietà di Paolo VI; il titolo alma socia Redemptoris, che farebbe di Cristo e di Maria un unico principio di redenzione; la tendenza a pensare in Maria la presenza della visione beatifica (ciò che escluderebbe la fede); il titolo di Mater Ecclesiae (Philips aveva proposto Mater fidelium); l’idea dell’incarnazione propter nostram salutem (cf. J-Congar, II, 14s: 2 febbraio 1964). 139 Per il resoconto della sessione, cf. ANTONELLI, Il dibattito su Maria, 436-444. 140 Per questo dibattito, cf. ANTONELLI, Il dibattito su Maria, 455-470. 141 Ne facevano parte Charue, Ancel, Parente, Garrone, Henriquez e Fernandez e si appoggiava a un nutrito gruppo di periti: Tromp, Philips, Balic´, Gagnebet, Rahner, Salaverri, Laurentin, Moeller, Rigaux, Congar e Philipon; sul suo lavoro e sulle vicende successive intorno alla questione della mediazione, cf. ANTONELLI, Il dibattito su Maria, 470488. 137
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b) I rimandi ai Padri nel nuovo testo Nel testo messo a disposizione dei padri, sono state stampate sia la redazione del de Beata presentata alla CD nel marzo del 1964 (textus prior), sia la stesura definitiva del mese di giugno (textus emendatus); la Relatio, che anche in questo caso accompagna i singoli numeri e dà uno sguardo d’insieme sullo schema e sulla sua storia redazionale, è opera di Philips.142 Il testo prende l’avvio dalla prospettiva cristologica: il riferimento è all’unico mysterium di Cristo e della Chiesa, nell’orizzonte del quale si contempla la Vergine Maria. Per questo, il n. 52, che funge da proemio a tutto il capitolo, richiama anzitutto, con le parole dei Simboli della fede, la missione del Figlio «propter nos homines et propter nostram salutem» e ricorda che questo mysterium salutis continua nella Chiesa, corpo di Cristo strettamente congiunto a lui; in questa Chiesa si fa memoria – secondo le parole del Canone romano – «anzitutto della gloriosa sempre Vergine Maria, madre del nostro Dio e Signore Gesù Cristo».143 I primi riferimenti patristici del testo s’incontrano nella seconda parte del n. 52 (poi n. 53), che tratta del rapporto della Vergine Maria con la Chiesa. Richiamando l’episodio dell’annunciazione, il testo afferma che Maria «Verbum Dei corde et corpore suscepit et Vitam mundo protulit». Come nota la Relatio, si tratta di espressioni patristiche, per le quali, però, non viene dato nessun riferimento; è vero, come ha notato Philips, che il tema è ricorrente nei Padri.144 Poco oltre, dopo aver menzionato la strettissima unione di Maria con il Figlio, dal quale è stata «redenta in modo più sublime», e la sua eccellenza sulle altre creature, il testo ricorda che però la Vergine resta congiunta con la discendenza di Adamo bisognosa di redenzione, e anzi «ha cooperato con la carità alla nascita nella Chiesa dei fedeli, che sono membra di quel Capo». Questa frase è tratta dal de Virginitate 6 di Agostino: e alla teologia agostiniana si ispira tutto il contesto, che evidenzia come Maria, membrum supereminens della Chiesa, ne resta pur sempre membro, nella modalità del typus e exemplar.145 Con il n. 53 (poi 55) si apre la sezione del capitolo dedicata a presentare il ruolo di Maria nell’economia salvifica. Il primo alinea si riferisce
142 I due testi in AS III/1, 353-366; la Relatio ivi, 366-374; per il lavoro di Philips a questo proposito, cf. ANTONELLI, Il dibattito su Maria, 486s. 143 Le citazioni dei Simboli di fede e del Canone romano, riportate nel testo, sono documentate alle note 1 e 2. 144 Cf. Relatio, 366 e PHILIPS, La Chiesa e il suo mistero, II, 197: qui rinvia ad AGOSTINO, Virg. 6 (ma si deve leggere correttamente Virg. 3) e Serm. 215,4: «Illa fide plena, et Christum prius mente quam ventre concipiens». 145 Cf. Relatio, 366; vi si ricorda pure che l’espressione typus Ecclesiae, riferita a Maria, è «velut classica» da Ambrogio in poi. Come si vedrà più avanti, la citazione agostiniana verrà poi ampliata.
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soltanto all’AT: è da rilevare però, come si dice nel testo stesso, che solo un’interpretazione del testo biblico nell’orizzonte della rivelazione successiva e secondo la lettura ecclesiale – e dunque anche, possiamo specificare, nella linea dell’interpretazione patristica – permette di scorgere l’anticipazione della donna, madre del Redentore. Seguendo la linea della narrazione biblica, il testo passa a trattare di Maria nel mistero dell’annunciazione.146 Una lunga nota della Relatio riassume i diversi aspetti del sottofondo patristico di questo numero. C’è, anzitutto, il tema della preparazione di Maria, da parte di Dio, in vista della sua missione: è un tema presente nei Padri orientali, che così affermano concretamente la dottrina dell’Immacolata. La Relatio riporta a questo proposito alcuni estratti di testi patristici, lasciando in nota soltanto i rinvii alle opere citate;147 ma il testo stesso menziona esplicitamente, qui, i sancti Patres e la loro prassi di chiamare la Madre di Dio totam sanctam e di considerarla immune da ogni macchia di peccato, creatura nuova plasmata dallo Spirito. Il testo faceva anche riferimento a un principio corrente in mariologia, e che si voleva ricavato da Ambrogio:148 Maria non poteva essere meno di quanto era conveniente che fosse la Madre di Cristo. In questa linea la Relatio spiegava come il privilegio della «piena di grazia» fosse da intendere nel suo stretto rapporto con l’adesione di fede e obbedienza di Maria alla vocazione divina. Su questa base i «SS. Patres» – così richiamati nel testo stesso dello schema – hanno giustamente dato rilievo alla libera obbedienza mediante la quale Maria ha cooperato alla salvezza dell’uomo. Qui, come osserva ancora la Relatio, sta la radice della dottrina patristica della «nuova Eva», che trova il suo esponente di spicco in Ireneo (esplicitamente nominato), di cui il testo riporta alcune parole tratte da Adv. haer. III,22,4; la Relatio stessa raccoglie poi un consistente dossier di altri riferimenti patristici, riportando anche gli estratti dei passi menzionati.149 Nel resto del numero, che presenta il legame di Maria col Figlio nei vari momenti della sua vita, le testimonianze patristiche sono richiamate 146
Questa sezione del n. 53 diventerà poi un numero distinto, il 56. Si tratta dei passi menzionati alla nota 6 (in LG sarà la nota 5): GERMANO DI COSTANTINOPOLI, In Annunt. SS. Deiparae: PG 98,328AB; In Dorm. 2: PG 98,357; ANASTASIO DI ANTIOCHIA, In Annunt.: PG 89,1376C; ANDREA DI CRETA, Can. in B. Mariae nativit. 4: PG 97,1321B; Hom. in nat. B. M. 1: PG 97,812A; SOFRONIO, Orat. 2 in SS. Deiparae Annunt. 18: PG 87/3,3237CD. 148 La Relatio riporta questa frase, tratta da AMBROGIO, Epist. 63 ad Vercell. Eccl. 110: «Nec Maria minor quam matrem Christi decebat. Fugientibus Apostolis, ante crucem stabat et piis spectabat oculis Filii vulnera, quia expectabat non pignoris mortem sed mundi salutem»; il testo di Ambrogio, menzionato nella nota 5, è usato come giustificazione dell’assioma teologico «Beatissima Virgo haud minor poterat esse quam Dei Matrem decebat». Il testo sarà poi modificato, e la citazione di Ambrogio cassata: cf. sotto, § 3.2d. 149 La Relatio, 368s, rinvia a testi di Giustino, Tertulliano, Cirillo di Gerusalemme, Epifanio, Girolamo, Agostino, Giovanni Crisostomo e il Damasceno. Nelle note 7 e 8 (poi 6 e 7) si rimanda ai soli passi di Ireneo citati nel corpo stesso dello schema. 147
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solo in riferimento alla verginità perpetua.150 Con la menzione dell’Assunzione di Maria – che lo schema richiama in stretto rapporto con il dogma dell’Immacolata concezione – e della sua costituzione quale «regina del cielo», si ritorna alla documentazione patristica, limitata peraltro ad alcuni Padri greci relativamente tardivi.151 Con il n. 54 (poi 62), che tratta della Vergine Maria nel suo rapporto con la Chiesa, si affronta la difficile questione della mediazione mariana. Il testo è stato costruito a partire dall’affermazione, biblicamente fondata, dell’unica mediazione di Cristo; si passa poi a descrivere la cooperazione di Maria con il Figlio in questa terra, per arrivare all’affermazione del permanere di questa cooperazione mariana, in quanto permane la carità di Maria. I redattori hanno voluto sostenere la legittimità del linguaggio della mediazione ricorrendo anche alla testimonianza di alcuni Padri greci piuttosto tardivi,152 così da poter fondare anche su questa base il titolo di «mediatrice», e senza nulla togliere o aggiungere alla dignità e al compito dell’unico Mediatore; il testo non vuole entrare nelle questioni discusse tra i teologi circa le modalità e la portata della mediazione mariana.153 Profondamente patristico è il tema di Maria come «tipo» della Chiesa, che il testo introduce subito dopo, richiamando la testimonianza di Ambrogio, primo Padre latino a usare esplicitamente questo linguaggio; il vescovo di Milano è nominato nel testo, che cita Expositio in Lucam II,7, ma sullo sfondo di una ricca tradizione. La tipologia, si nota nella Relatio, non va intesa in ordine all’istituzione gerarchica o ai segni sacramentali, ma – com’è indicato nel testo per espressa volontà della
150 Cf. la nota 12 (poi nota 10 del n. 57) che, con i concili di Calcedonia e del Laterano (a. 649), menziona LEONE MAGNO, Epist. ad Flav.; AMBROGIO, De instit. virg.: PL 16,320. Si può ricordare qui che in CD vi erano state discussioni sull’opportunità o meno di citare l’episodio del ritrovamento di Gesù nel tempio e l’incomprensione, da parte di Maria e Giuseppe, delle parole di Gesù: Balic´, in particolare, avrebbe voluto evitare la menzione dell’episodio (richiesta invece da Rahner), o che fosse accompagnata con le spiegazioni dei Padri e del magistero; prevalse alla fine la richiesta di Rahner (cf. J-Congar, II, 85 [1 giugno 1964]; ANTONELLI, Il dibattito su Maria, 458). 151 Si tratta di GIOVANNI DAM., Enc. in dorm. Dei genitricis, hom. 2 et 3: PG 96,722-762, spec. 728B; GERMANO DI COSTANTINOPOLI, In S. Dei gen. dorm. Serm. 1; Serm. 3; MODESTO DI GERUSALEMME, In dorm. SS. Deiparae: PG 86/2,3277-3311, per l’Assunzione; e di ANDREA DI CRETA, Hom. 3 in dorm. SS. Deiparae: PG 97,1090-1109; GIOVANNI DAM., De fide orth. IV,14, per la regalità celeste di Maria (cf. rispettivamente le note 15-16, che diventeranno poi, senza varianti, le note 13-14 del n. 59). 152 La nota 17 (poi nota 15 del n. 62) menziona ANDREA DI CRETA, In nat. Mariae, sermo 4: PG 97,865A; GERMANO DI COSTANTINOPOLI, In ann. Deiparae: PG 98,322BC; In dorm. Deiparae III: PG 98,362D; GIOVANNI DAM., In dorm. B. V. Mariae, hom. 1: PG 96,712BC713A. Nella Relatio (cf. 371), oltre a riportare alcuni estratti dei testi citati, si fa menzione anche di due altri passi, rispettivamente di AMBROGIO, Epist. 63: PL 16,1218 e del CRISOSTOMO, In Ps. 44 7: PG 55,193, che sottolineano come Cristo non avesse propriamente bisogno di alcun aiuto per la sua opera redentrice. Il testo di Ambrogio, come vedremo, sarà poi richiamato nella redazione finale dello schema. 153 Cf. Relatio, 371.
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CD – «in ordine fidei, caritatis et perfectae cum Christo unionis» (n. 54, poi 63).154 La tradizione credente, dai Padri al medioevo, ha elaborato la tipologia soprattutto nel doppio risvolto della verginità e della maternità. La Relatio, anche in questo caso, documenta lo sfondo cui rinviano più sinteticamente le note poste in calce al testo;155 questo, peraltro, attinge direttamente al linguaggio patristico, soprattutto di Ambrogio e Agostino, per presentare la duplice tipologia.156 La sintesi è proposta con la citazione agostiniana: «[Ecclesia] imitans Domini sui matrem, quoniam corpore non potuit, mente tamen et mater est et virgo»,157 che è l’ultimo testo patristico richiamato nel capitolo e anzi in tutto il de Ecclesia. Viceversa, l’ultima menzione dei «sancti Patres» si trova più avanti, al n. 55 (futuro n. 67), dove si chiede ai teologi e ai predicatori di astenersi «da ogni falsa esagerazione, come pure da ogni eccessiva ristrettezza mentale» nel considerare la dignità della Madre di Dio e, positivamente, si domanda loro di illustrare rettamente funzioni e privilegi della Vergine, nel loro riferimento a Cristo, dedicandosi allo studio della Scrittura, dei «santi Padri» e dottori della Chiesa, sotto la guida del Magistero.158
154 Questa precisazione non dipende direttamente dal testo di Ambrogio; la cosa non era però chiara dal tenore del testo (lo fece notare Bea: cf. AS App., 422), il che portò poi a una modifica di carattere grammaticale, non sufficiente, tuttavia, a chiarire del tutto i limiti del riferimento ad Ambrogio: la nota 18 dovrebbe andare nella posizione della nota 19, integrando eventualmente i testi di quest’ultima: cf. J. GALOT, in BARAÚNA, 1158s, nota 7. 155 Che Maria «preceda», nel mistero della Chiesa, sotto il doppio profilo della verginità e maternità, viene ricordato con riferimento ad alcuni autori medievali, citati alla nota 20 (poi, nel n. 63, nota 19): lo PS. PIER DAMIANI, Serm. 63: PL 144,861AB; GOFFREDO DI S. VITTORE, In nat. B. M. Virg. (Ms. Paris, Mazarine, 1002, fol. 109); GERHOH DI REICHESBERG, De gloria et honore Filii hominis 10: PL 194,1105AB. 156 Nella Relatio, 371, si annota: «Typologia illa in textu exprimitur verbis praesertim S. Ambrosii et S. Augustini» e si rinvia, citando alcuni estratti, a: AMBROGIO, Expos. Luc. II,7; 10,24-25; AGOSTINO, In Io. tr. 13,12; viene poi riportato un estratto di BEDA, In Lc expos. I, c. 2, come sintesi della tradizione patristica in merito. La Relatio rinvia ad alcuni studi sul tema, in particolare quelli di Tromp e di Coathalem (cf. la «Bibliografia storica», *1937, *1954); vi si sarebbero potuti aggiungere anche H. RAHNER, Marie und die Kirche (*1950) e il c. IX di H. DE LUBAC, Méditation sur l’église (*1953). 157 La nota 21 (poi nota 20 del n. 64) rinvia qui anzitutto ai testi di Ambrogio sopra menzionati – ma la citazione stessa è di AGOSTINO, Serm. 191,2,3 – e aggiunge ISACCO DELLA STELLA, Serm. 31: PL 194,1863A. 158 Nell’ultima revisione del testo, verrà inserito qui anche un riferimento alla tradizione liturgica e il testo finale reciterà: «studium Sacrae Scripturae, Sanctorum Patrum et Doctorum Ecclesiaeque liturgiarum sub ductu Magisterii».
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3. R E A Z I O N I
E DISCUSSIONI SUI NUOVI SCHEMI
3.1. G L I
INT E RVE NT I N E L L’ IN TE RSESSI O NE SU I C A PITOLI I E III
a) Osservazioni sul nuovo testo del capitolo I Nel corso del terzo periodo conciliare, aperto il 14 settembre 1964, il dibattito propriamente detto sul de Ecclesia, almeno per ciò che riguarda l’aula, fu assai ridotto, e riguardò soltanto i capitoli «nuovi», settimo e ottavo. Durante l’estate, tuttavia – dopo che, agli inizi di luglio, lo schema riveduto era stato inviato ai padri – la Segreteria del concilio ricevette un certo numero di interventi scritti.159 Alcuni di essi offrono ancora elementi di interesse per la nostra questione, e ne vogliamo dar conto sinteticamente qui; vertono quasi tutti sul primo e terzo capitolo. Per quanto concerne il primo capitolo, nessun intervento porterà a modifiche del testo, anche perché spesso si tratta di questioni di dettaglio – non per questo insignificanti, com’è ad es. la proposta di Sauvage di sostituire, nel n. 1, l’espressione «fidelibus suis» (dove il suis è riferito alla Chiesa) con «christifidelibus», alla luce del commento agostiniano a Gv 21, che sottolinea come le «pecore» sono «di Cristo»: «Oves meas, et sicut meas pasce, non sicut tuas».160 Lo stesso presule e, praticamente con le stesse parole, il confratello Cornelis, arcivescovo di Elizabethville (Congo), muovono una critica più rilevante al modo in cui è stata ridimensionata la nozione patristica della Ecclesia ab Abel, nella revisione del n. 2. I due vescovi fanno notare che il textus prior riportava qui un’espressione tradizionale, fondata tra l’altro su Eb 11,4, dove Abele viene citato come primo esempio di fede, e su Mt 23,35, dove Gesù stesso parla del sangue di «Abele il giusto». Adamo – di cui non si nega, osserva il presule, che abbia fatto penitenza e così sia stato salvato – non è chiamato «giusto», ma è piuttosto contrapposto a Cristo, il «nuovo Adamo». La proposta – che non avrà esito – è, dunque, di tornare al testo agostiniano: «Tutti i giusti, la primizia dei quali, il santo Abele, è stato immolato…».161 I due vescovi presentano osservazioni pressoché identiche anche sul n. 3. Il rilievo critico riguarda soprattutto il fatto che il tema della crescita della Chiesa è collegato con l’eucaristia – di cui il testo parlerà più diffusamente e meglio, secondo Sauvage, nel n. 7 – e non invece, anche e 159 Sono pubblicati in AS III/1, 629-796. Si noti, poi, che il testo rivisto del c. I era stato comunicato ai padri già nel corso del II periodo; sembrava, anzi, che lo si potesse votare nel 1963, come desiderava Paolo VI. La votazione, tuttavia, non ebbe luogo (cf. J. KOMONCHAK, in SCVII, IV, 64). Su questo capitolo (come pure sullo schema non ancora rivisto) vi sono, pertanto, interventi scritti che giungono alla Segreteria anche prima del luglio 1964: cf. AS III/1, 547-628. 160 Cf. AS III/1, 753; Sauvage rinvia ad AGOSTINO, In Io., tract. 123,5. 161 AS III/1, 570; per Sauvage, cf. ivi, 754; i presuli rinviano a Enarr. Ps. 118, serm. 29,9: PL 37,1589.
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prima di tutto, con il battesimo. I presuli osservano che il testo di Gv 19,34, a cui lo schema allude, nell’interpretazione patristica è stato riferito anche al battesimo e il testo conciliare dovrebbe essere più aderente a questo aspetto dell’esegesi tradizionale.162 Anche sul n. 4 i due vescovi procedono in coppia. La critica, in questo caso, riguarda il rilievo insufficiente che lo schema dà al ruolo dello Spirito Santo nella vita sacramentale della Chiesa, ruolo «sommo», alla luce della Scrittura e della tradizione sia patristica che liturgica. I due richiamano la testimonianza di Ambrogio, che vorrebbero citata nel testo: «Nulla… potest esse plena benedictio nisi per infusionem Spiritus Sancti».163 Si ricorderà che lo stesso rilievo, con riferimento allo stesso testo ambrosiano, era stato fatto anche da Lercaro.164 Tutti e tre i padri sottolineano l’importanza teologica, spirituale ed ecumenica della questione: anche in questo caso, tuttavia, la proposta cadrà nel vuoto. Un paio di interventi hanno criticato l’uso dell’immagine dell’ovile, nel contesto delle diverse immagini della Chiesa presentate al n. 6: si fa rilevare che il termine si è introdotto abusivamente a causa della versione di Gv 10,16 nella Vulgata, che ha reso con ovile sia aujlhv (16a), sia poivmnh (16c), che andrebbe invece tradotto con grex. L’immagine dell’ovile «non si trova mai nei Padri greci; nei latini incomincia ad apparire nel V sec., a causa dell’influsso della Vulgata».165 L’ultimo suggerimento rilevante,166 per il primo capitolo, riguarda la questione del peccato nella Chiesa, a cui fa riferimento il n. 8. Come per il n. 6, le proposte vengono anche qui, in termini simili, da Argaya Goicoechea e da Melendro. I due presuli suggeriscono di mutare l’espressione «Ecclesia… sancta simul et semper purificanda, poenitentiam et renovationem continuo prosequitur» nella seguente: «Ecclesia… sancta et ad homines semper purificandos [sanctificandos] disposita, poeniten162 Sia Sauvage che Cornelis richiamano, al riguardo, Agostino, Enarr. in Ps. 138,8; Sauvage, che propone una rielaborazione del testo, vi include anche la frase di Tertulliano, «nos pisciculi secundum iJcqu;n nostrum Iesum Christum in aqua nascimur nec aliter quam in aqua permanendo salvi sumus» (De baptismo 1,3): cf. AS III/1, 756; Cornelis menziona, invece, i testi liturgici: «…baptismum et Eucharistiam ut sacramenta quibus “Ecclesia (tua) mirabiliter nascitur et nutritur” (Sacramentarium Gelasianum)» (ivi, 570s). 163 Così Sauvage (cf. AS III/1, 756), che rinvia ad AMBROGIO, De Spiritu Sancto I,7,89; per Cornelis, che pure menziona il testo di Ambrogio, cf. ivi, 571. 164 Cf. sopra, c. 6, nota 116 e testo relativo. 165 Così Argaya Goicoechea, AS III/1, 644 e, con gli stessi argomenti, Melendro, ivi, 722. I due presuli ritengono che ovile, in Giovanni 10,1.16, designi la sinagoga (Melendro rinvia, in merito, al commento a Giovanni del Lagrange). L’affermazione secondo la quale ovile nel senso di Chiesa non si trova nei Padri greci non è comunque corretta: si veda GREGORIO NAZ., Or. 28,9; MASSIMO CONF., Opusc.: PG 91,88C. Si noti, peraltro, che nella prima revisione del de Ecclesia (intersessione 1963) si parlava solo del gregge, non dell’ovile: per un confronto dei testi, si veda la Synopsis, 40s. 166 Menzioniamo di passaggio l’osservazione di Sauvage sul n. 7: lo schema, nota, utilizza qui correttamente la nozione paolina di «Corpo di Cristo»; in altri passi (specificamente il c. VII, n. 50) lo schema usa una nozione di «Corpo di Cristo» «secundum traditionem posteriorem Patrum et Scholasticorum, multo latius quam in S. Paulo, sumitur»: il che è legittimo, nota Sauvage, ma andrebbe chiarito di volta in volta (cf. AS III/1, 758).
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tiam et renovationem [sanctificationem] eorum continuo prosequitur».167 Il cambiamento del testo è motivato dal fatto che, in questo modo, si eviterebbe una questione molto discussa tra i Padri e tra i teologi; osservano che Agostino in un primo tempo negò che si potesse qualificare la Chiesa «peccatrice», anche se poi in un secondo tempo accettò, con qualche sfumatura, questo linguaggio. A giudizio dei due proponenti, il testo che essi suggeriscono sarebbe più conforme alla Mystici corporis e corrisponderebbe al «più comune modo di sentire… dei Padri e dei teologi, che intendono l’assenza di ogni macchia e ruga (Ef 5,27) nella Chiesa non solo a riguardo della Chiesa celeste, ciò che è evidente, ma anche della Chiesa pellegrinante». A Sauvage si deve l’unica annotazione a carattere patristico che riguarda il c. II: la proposta di modifica del n. 13, all’inizio del secondo alinea («… unus populus Dei, cum ex omnibus mutuetur suos cives, regni quidem non terrestris, sed coelestis»). Sauvage sottolinea l’ambiguità dell’espressione «non terrestris, sed coelestis», giacché il regno è in questo mondo, pur non essendo di questo mondo; e propone di riformulare la frase alla luce della traduzione di politeuma (Fil 3,20) con municipatus, in questo modo: «… suos cives, quorum municipatus quidem non super terram, sed in caelis est (Phil. 3,20gr)».168 La traduzione non sarà accettata, ma il testo verrà leggermente modificato nella redazione finale, andando nella direzione chiesta da Sauvage: «… suos cives, regni quidem indolis non terrestris, sed coelesti».169
b) Contestazioni alla dottrina della collegialità Gli interventi circa i fondamenti patristici della dottrina del c. III su episcopato e collegialità vengono soprattutto da qualche agguerrito rappresentante della «minoranza» anticollegialista. Alcuni di loro, spesso con parole molto simili, notano in generale che è imprudente voler dirimere questioni ancora discusse e sulle quali non si può riscontrare l’accordo dei Padri e dei teologi successivi. Lo osservano, a proposito di tutto il capitolo III, Garcia y Garcia de Castro, Carli e Cavagna e, con specifico riferimento alla sacramentalità dell’episcopato, Fernandez e Staffa.170 167 AS III/1, 646 (Argaya Goicoechea, anche per quanto segue); i termini tra parentesi sono quelli proposti da Melendro (cf. ivi, 724). 168 AS III/1, 760; Sauvage menziona, per municipatus, TERTULLIANO, De corona milit. 13; C. Marc. III,24; De resurr. carnis 47, e CASSIANO, Collat. III,6-7 (cf. ivi, 761). 169 Cf. la Expensio modorum, n. 39, che fa esplicito riferimento alla proposta di Sauvage. 170 Per i primi tre, cf. AS III/1, rispettivamente 574s, 655 e 673; per gli ultimi due, ivi, 696s e 779. La critica relativa al mancato fondamento tradizionale è un punto rilevante dell’attacco che viene condotto in tanti modi alla dottrina della collegialità, già durante l’intersessione (cf. KOMONCHAK, in SCVII, IV, 87-89), alla vigilia della ripresa dei lavori: cf. la lettera che il card. Larraona trasmette a Paolo VI il 13 settembre 1964, con una quarantina di firme, tra cui quelle di venti cardinali e dieci superiori religiosi: cf. ivi, 90-93, e TROISFONTAINES, «À propos de quelques interventions de Paul VI», 106s. Caprile, da parte sua, riporta tra gli altri documenti
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A Carli si deve una puntuale disamina dei testi liturgici e patristici indicati al n. 19, preceduta da un’osservazione generale e da un suggerimento alternativo. L’osservazione è che oggi, dopo il Vaticano I, è pacifico che non si possano chiamare gli apostoli «fondamento» della Chiesa, se non in senso lato.171 Secondo il vescovo di Segni non è lecito, quindi, ricorrere in un testo a carattere dogmatico come il de Ecclesia, «a nozioni vaghe e oscure, usate in diverso contesto dai Padri o dalla stessa s. Scrittura (cf. l’ammonimento dell’Humani generis, A.A.S., 1950, pp. 565; 56768)». Il riferimento all’Humani generis è interessante, perché ci riporta alle discussioni intorno al senso del ricorso ai Padri nel contesto teologico e magisteriale degli anni ’40 e ’50:172 a conferma del fatto che anche nel Vaticano II tale ricorso non è stato un elemento di contorno, ma fu percepito – in positivo o in negativo – come parte costitutiva di una precisa scelta teologica. La proposta di Carli è di sopprimere, quindi, le parole «Ecclesiam… quam Dominus in Apostolis condidit», lasciando solo «Ecclesiam…, quam Dominus supra beatum Petrum aedificaverat»; il testo alternativo suggerito viene poi motivato con riferimenti liturgici e patristici.173 Ma, come abbiamo accennato, Carli si preoccupa anche di confutare la portata dei singoli testi richiamati nelle note dello schema,174 in base al principio generale di non estrapolare testi singoli dal contesto più ampio e dall’insieme del progresso dogmatico.175 Lo stesso Carli, però, sembra disattendere il principio da lui enunciato. A proposito del testo liturgico richiamato nella nota – il Prefazio della Messa in natali Matthiae et Thomae, tratto dal Sacramentario gregoriano, dove si legge l’espressione «in quibus [scil. sanctis = apostolis] Ecclesiae tuae fundamenta constituisti» – Carli afferma che la citazione non sarebbe ad rem, perché Gregorio Magno usa il linguaggio del «fondamento» anche a proposito dei profeti, o dei santi in generale.176 È chiaro che qui Carli identifica senz’altro gli usi linguistici dei testi liturgici raccolti sotto il nome di papa Gregorio con quelli delle opere del papa stesso; si sarebbe potuto verificare che il passo è attestato anche in raccolte liturgiche più antiche, in particolare nel anche un «Esposto inviato al Santo Padre (7 novembre 1964)», firmato da circa 120 padri e steso, sembra, da Carli (cf. G. CAPRILE, «Contributo alla storia della “Nota explicativa prævia”», in Paolo VI e i problemi ecclesiologici al Concilio. Colloquio Internazionale di studio [Brescia 19-21 settembre 1986], Studium, Roma 1989, 653-660; nomi dei firmatari, 658-660). Vi si accenna, tra l’altro, agli studi pubblicati durante l’intersessione, da parte di «Padri e Periti Conciliari e di Teologi, i quali hanno messo in dubbio la validità di certe argomentazioni scritturali, patristiche, liturgiche e storiche contenute nello stesso c. III…» (654). 171 Cf. AS III/1, 658, anche per quanto segue. 172 Cf. sopra, c. 3 § 3e. 173 «Nova lectio quam propono suggeritur a Liturgia: “Isti sunt qui viventes in carne plantaverunt Ecclesiam sanguine suo” (In Commun. Apost.), et a S. Ambrosio: “… elegit duodecim ex ipsis; quos ad propagandum auxilium salutis humanae per terrarum orbem satores fidei destinaret” (PL 15,1648B)»: AS III/1, 657. 174 Si tratta, in particolare, dei testi citati al n. 19, nota 3: cf. sopra, § 1.3b. 175 AS III/1, 658. 176 Carli (cf. AS III/1, 658) rinvia a GREGORIO MAGNO, Mor. in Job XXVIII, cc. 5 e 7: PL 76,455C; 475C; 458A.
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sacramentario detto «leoniano» o «veronense»,177 e non può essere spiegato, quindi, soltanto in parallelo con le espressioni di Gregorio. Per quanto riguarda il testo di Ilario, In Ps. 67,10, Carli non lo ritiene pertinente, perché si riferirebbe a Pietro e Paolo quali fondatori delle singole Chiese («ut et fundamenta ecclesiarum fierent et columnae»). L’interpretazione indicata da Carli appare, tuttavia, piuttosto restrittiva, almeno alla luce del parallelismo che Ilario istituisce più di una volta tra Pietro e gli altri apostoli: perché Ilario parla senza dubbio di Pietro quale fundamentum ecclesiae,178 eppure, per limitarci al solo Commento ai Salmi, vi si possono trovare espressioni abbastanza ardite, nelle quali, oltre a indicare negli apostoli il fondamento sul quale è costruita la domus Dei, Ilario non esita ad applicare loro – e come parola della Scrittura – la frase di Cristo detta a Pietro: «A voi darò le chiavi del regno dei cieli».179 Simile alla prospettiva di Ilario è quella dell’adversus Iovinianum di Girolamo, che però, secondo Carli, non può essere presa tale e quale, perché condizionata dalla preoccupazione particolare di Girolamo di contrapporre a Gioviniano la verginità di Giovanni; in questa chiave va letto l’accostamento, che si trova in Girolamo, con il passo di Ef 2,20; tuttavia, osserva ancora il vescovo di Segni, l’interpretazione del passo scritturistico è diversa, oggi, rispetto a quella di Girolamo.180 Del resto – e Carli lo rileva a proposito dei testi di Agostino e di Gregorio Magno, citati nella nota – il passo di Ef 2,20 e le rispettive utilizzazioni da parte dei Padri non possono essere utilizzati come prova, proprio perché vi si parla di una Chiesa fondata sugli «apostoli e profeti»: il «fondamento», quindi, non può essere inteso qui nel senso giuridico che gli si vuole dare. Secondo Carli, neppure il testo di Primasio può dare elementi utili per la questione, perché è orientato soprattutto a mostrare che gli apostoli, e 177 Nel Veronense il testo si presenta così: «Vere dignum… teque laudare mirabilem deum in sanctis tuis, in quibus magnificatus es vehementer, per ipsos unigeniti tui sacrum corpus exornans, et in ipsis ecclesiae tuae fundamenta constituens. Quorum beatissimum Petrum, gratiae tuae electionisque primitias, in apostolicae dignitatis culmen ascitum, ita ad confitendum te deum vivum et dominum nostrum Iesum Christum secreta tui revelatione docuisti…»: Sacramentarium Veronense. Cod. Bibl. Capit. Veron. 85., (80), in Verbindung mit L. EIZENHÖFER und P. SIFFRIN herausgegeben von L.C. MOHLBERG, Herder, Roma 1956, 38, n. 285. Per il testo nel Sacramentario gregoriano, si veda Le Sacramentaire grégorien. Ses principales formes d’après les plus anciens manuscrits (J. DESHUSSES), Éditions universitaires, Fribourg 1971, III, 298, n. 3451. Per la struttura di base, alla quale si ricollega anche questo prefazio, e il suo sviluppo, cf. E. MAZZA, «Una concezione del santo nelle prime fonti liturgiche romane e il suo abbandono nel medioevo: il caso del prefazio di Maria Vergine», in A. BENVENUTI – M. GARZANITI (edd.), Il tempo dei santi tra Oriente e Occidente. Liturgia e agiografia dal tardo antico al Concilio di Trento. Atti del IV Convegno di studio dell’Associazione italiana per lo studio della santità, dei culti e dell’agiografia. Firenze, 26-28 ottobre 2000, Roma 2005, 121-138. 178 Cf. ad es. Tract. in Ps. 131: PL 9,730B = CCL 61B, 114; sulla questione, cf. J. DOIGNON, «Pierre “fondement de l’Église” et foi de la confession de Pierre “base de l’Église” chez Hilaire de Poitiers», in RSPhTh 66(1982), 417-425. 179 Cf. ILARIO, Tract. in Ps. 121: PL 9,662B = CCL 61B, 27s; cf. anche Tract. in Ps. 118, XX,1 (SCh 347,266; CCL 61A, 187). 180 Cf. AS III/1, 659, anche per quanto segue.
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lo stesso Pietro, dipendono come fondamenta da Cristo, che è l’unica Pietra.181 Resta il fatto che Primasio è categorico nell’affermare che «[i]n Christo… Apostoli meruerunt esse Ecclesiae fundamenta», sebbene non venga specificato – come nota il presule – in che senso ciò si possa dire. Finalmente, Carli respinge anche l’utilizzazione di Pascasio Radberto, in quanto il testo citato parlerebbe in generale dei cristiani come «pietre» e come «luce» nella misura in cui aderiscono a Cristo,182 e non parlerebbe, dunque, in senso specifico degli apostoli come fondamento della Chiesa. In realtà, non sembra che Pascasio voglia qui indicare tutti i cristiani come fondamento della Chiesa; in ogni caso, egli esprime anche altrove, e con la massima chiarezza desiderabile, l’idea che anche gli apostoli, con Pietro e sotto la sua autorità, sono fundamentum della Chiesa.183 In definitiva, le controdeduzioni di Carli sembrano fragili in base allo stesso criterio metodologico da lui indicato: si fermano sui singoli passi, senza contestualizzarli e inserirli nell’insieme del pensiero dei rispettivi Padri, alla luce del quale debbono essere compresi e in rapporto al quale sono stati citati dai redattori dello schema. Sul versante dei fautori della collegialità, è invece il card. Suenens a portare alcuni elementi a sostegno della continuità e coerenza tra la nozione patristica di collegium e la prospettiva teologico-giuridica sulla collegialità, delineata nello schema. Suenens184 vuole rispondere all’obiezione di quanti vedono una discontinuità tra concezione patristica e nozione attuale di «collegio episcopale». Il cardinale concede che i Padri non hanno corredato la nozione di collegium con le precisazioni che, sotto l’azione dello Spirito Santo, riceve al momento presente della Chiesa. Ma a guardare la vita della Chiesa, la realtà di questo Collegio appare sin dalle origini con grande vigore. Era un dato vissuto, più che professato.185
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Cf. AS III/1, 659. Carli riporta il testo di Radberto, che suona così: «Et notandum quod tantum petra est unusquisque fidelium, quantum imitator est Christi, et tantum lux, quantum illuminatur a luce. Ac per hoc tantum ecclesia Christi super eos fundatur, quantum et ipsi firmantur a Christo. Unde non super uno Petro, verum super omnes apostolos apostolorumque successores ecclesia Dei edificatur» (CCM 56A,805; PL 120,561C): AS III/1, 659. 183 Si vedano ad es.: CCM 56A,567 (cf. PL 120,403CD); CCM 56A,565 (PL 120,401D402A). 184 Il testo del card. Suenens è stampato in AS III/1, 633-637, senza indicazione del nome e senza nessuna distinzione tipografica rispetto al testo che lo precede, che è del card. J. Lefèbvre (per questo testo, redatto in latino da Moeller, Martimort, Congar e Ancel e datato 16 settembre 1964, cf. Primauté et Collégialité, 150-153). Il testo di Suenens (in francese) porta la data 18 settembre 1964 e fu sottoposto all’attenzione di Paolo VI; secondo la testimonianza di Philips, fu redatto da J. Lécuyer, con l’aiuto di Dupuy e Moeller: cf. Primauté et Collégialité, 65; testo ivi, 153-158 (lo citeremo comunque secondo l’edizione degli AS). Come quello di Lefèbvre, e come altri pubblicati in questa parte degli AS, il testo presentato da Suenens è una delle espressioni dell’acceso dibattito extra aulam, e indirizzato soprattutto a Paolo VI, che accompagna l’ultima fase dell’elaborazione del c. III del de Ecclesia e che si era riaperto già prima dell’inizio del terzo periodo conciliare: cf. L.A.G. TAGLE, in SCVII, IV, 447-454 e Primauté et Collégialité, passim. 185 AS III/1, 635, anche per quanto segue. 182
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Per i Padri, argomenta Suenens, collegium episcopale indica «l’ordo nel quale il nuovo eletto entra in virtù della consacrazione, e di cui acquisisce i poteri, partecipando alla responsabilità e al servizio»; nel senso odierno, indica piuttosto l’unità di missione data da Cristo alla Chiesa e affidata agli apostoli. Nonostante queste differenze, continua il cardinale, chi vorrebbe pretendere che non ci sia omogeneità tra l’una e l’altra nozione di collegio e di gerarchia? Chi oserebbe sostenere che si possa trattare qui e là di due realtà diverse? Se è vero che la concezione attuale difetta ancora di precisione, questo dipende piuttosto da un insufficiente ritorno alle fonti [ressourcement] della dottrina più tradizionale. È lecito pensare che le Chiese orientali, per la provvidenza di Dio attivamente presenti al Concilio nel momento in cui si elabora la dottrina della collegialità episcopale, possono contribuire ancora molto alla maturazione ed elaborazione di questi dati, in quanto esse sono il ricordo vivente della dottrina della Chiesa dei Padri.
In definitiva, conclude Suenens, si può pensare che la dottrina della collegialità elaborata dal concilio, «lungi dall’opporsi a quella dei Padri, è in armonia con la dottrina più profonda e tradizionale della Chiesa cattolica».186 Tra gli interventi inviati prima della ripresa dei lavori conciliari non ve ne sono altri particolarmente significativi, per quanto ci interessa, sui capitoli dello schema «originario»; in riferimento ai nuovi capitoli, futuri VII e VIII, gli interventi di cui ci dobbiamo occupare furono pochi187 e li prenderemo in considerazione insieme con quelli presentati durante i lavori del terzo periodo conciliare.
3.2. I L
D IB AT TITO C O N CIL I A R E DE L S E TTEM B R E 1964
a) Il dibattito sul capitolo VII Le Congregazioni generali del 15 e 16 settembre 1964 furono dedicate alla discussione sul nuovo capitolo VII e all’inizio del dibattito sul capitolo VIII, dibattito che si concluse nell’83ª C. G., tenuta il 18 settembre. Più che dagli interventi fatti in aula, alcuni spunti interessanti per noi, per quanto concerne il c. VII, vengono da osservazioni e proposte consegnate dai padri per iscritto. Due questioni, soprattutto, attirano l’attenzione. La prima concerne il rapporto tra santità e peccato nella Chiesa. Era un problema che stava particolarmente a cuore all’austriaco László, che ripresentò praticamente senza cambiamenti l’intervento già conse-
186 AS III/1, 636. Il testo si richiama anche al modo in cui Tommaso spiega il permanere della potestas sacramentalis (in quanto distinta dalla potestas jurisdictionis) anche nello scismatico, alla luce di STh II-II, q. 39, a. 3 (in AS, l. cit., come pure in Primauté et Collégialité, 157, erroneamente si legge l’indicazione: Summa III q. 39, a. 4). 187 Per il c. VIII, si veda la sintesi complessiva di ANTONELLI, Il dibattito su Maria, 494-502.
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gnato nel corso del dibattito del II periodo, e che si muoveva nella direzione opposta rispetto a quella di Argaya Goicoechea e Melendro a proposito del n. 8, di cui abbiamo detto.188 Si noti che, tra i testi patristici richiamati per evidenziare la condizione di una Chiesa che, in questo mondo, è sempre segnata dal peccato, il presule menziona anche Agostino, Retract. II,18. Come abbiamo visto, il testo era stato introdotto nel capitolo, ma in una prospettiva piuttosto individualistica, e quindi non del tutto corrispondente alla concezione agostiniana,189 che László mostra di percepire in modo più corretto. La sua proposta, tuttavia, non trovò riscontro. L’altra questione significativa fu sollevata dal card. Bea, che ritenne poco fondata, dal punto di vista biblico e della tradizione antica, l’affermazione del n. 50 sul carattere cristologico del culto dei santi: il testo, a questo riguardo, rinviava solo alla Mystici corporis e alla Sessione XXV del Tridentino.190 Il cardinale, chiedeva che tutta la questione fosse meglio appoggiata sulla Scrittura e sulla tradizione antica, anche per ragioni ecumeniche: «Si deve fare in modo di esporre i fondamenti biblici o almeno patristici della dottrina. Lo esige la carità».191 La richiesta non ha avuto seguito, né furono accolte altre proposte di minor rilievo o più generiche.192
b) La discussione sul capitolo VIII: le fonti Il dibattito sul c. VIII fu più vivace, e in ogni caso raccolse un maggior numero d’interventi orali e scritti;193 molti di questi hanno fatto attenzione anche alla documentazione patristica e alcuni emendamenti proposti al riguardo sono stati incorporati nella revisione del testo. Una parte relativamente consistente degli interventi torna ancora sul problema delle fonti, a testimonianza che l’interesse per la questione non si è attenuato col passare del tempo. È comprensibile che si facciano sentire soprattut188 Per László, cf. AS III/1, 485, e sopra, c. 6, nota 199 e testo relativo per l’intervento precedente; per le proposte di Argaya Goicoechea e Melendro sul n. 8, cf. sopra, § 3.1a. 189 Cf. sopra, § 1.4b. 190 I rinvii corrispondono alle note 13 e 15 di LG 50. 191 AS III/1, 481. 192 Cousineau chiede di integrare il riferimento mariano, al primo alinea del n. 50, con la menzione di s. Giuseppe, e suggerisce di illustrare la «convenienza» del matrimonio di Maria con Giuseppe attingendo al commento a Matteo di Girolamo (cf. AS III/1, 675s). Frateggiani domanda di esplicitare meglio la fede nella risurrezione, «Sacrae Scripturae et Patribus intimius adhaerentes» (ivi, 711). In CD, il 5 ottobre, vi fu una «longior disputatio» sulle messe per i defunti nella Chiesa antica (cf. primo alinea del n. 50): Šeper, Charue e Rahner espressero dubbi sull’epoca più antica, mentre D’Ercole e Poma richiamarono testimonianze di Tertulliano e Cipriano; Trapé e Poma ricordarono anche le parole di s. Monica nelle Confessioni di Agostino. Si decise di lasciare un testo più generico e senza riferimenti patristici (cf. TROMP, Relatio Secretarii CD: FSCIRE - FFl B 156, 15s). 193 Sintesi complessiva del dibattito in ACERBI, 476-481; ANTONELLI, Il dibattito su Maria, 503-516.
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to alcune voci critiche, mentre il silenzio su questo punto può essere inteso, evidentemente, sia come mancata attenzione al problema, sia come approvazione del lavoro della CD. Almeno un padre, in ogni caso, ha ritenuto opportuno esprimere in aula il compiacimento per il modo in cui il capitolo, con pregnanza di contenuti e anche eleganza espositiva, «presenta… l’intera dottrina dei Padri e della stessa s. Scrittura, in particolare del Vangelo secondo Luca…».194 Più numerose le voci critiche, che, però, tendono a elidersi a vicenda. Si incrociano, infatti, due punti di vista: da una parte (quella anche più attenta ai risvolti ecumenici195) si vorrebbe che il capitolo fondasse meglio le proprie affermazioni soprattutto nella Scrittura e nella tradizione antica, con un uso più corretto tanto dei testi biblici che delle testimonianze patristiche, addotte in qualche caso in modo disinvolto.196 Bea esprime questa preoccupazione sin dal primo giorno del dibattito, soprattutto a proposito della difficile questione della mediazione mariana, dottrina alla quale egli aderisce senza riserve, notando però: «… altra questione è come si fondi o si debba fondare questa dottrina, in modo che il Concilio la possa proporre degnamente».197 Più in generale – commentando il richiamo fatto ai teologi, di astenersi da espressioni che possano indurre in errore (cf. futuro n. 67), – Bea chiede che si faccia attenzione a proporre la dottrina mariana sulla base di argomenti scritturistici e della tradizione più antica, in modo che i fratelli separati «ne percepiscano più facilmente il senso e i fondamenti biblici e teologici»; e rileva che lo schema, sotto questo aspetto, non è sempre coerente.198 Sul fronte opposto, alcuni ritengono invece che il nuovo testo esageri nell’uso dei riferimenti biblici – c’è chi parla addirittura di un abusus Scripturae199 –, perdendo in chiarezza letteraria e dottrinale e nella valorizzazione della tradizione e del magistero, soprattutto di quello recente. 194
Così Le Couëdic, che interviene in aula il 17 settembre (AS III/1, 540). Mons. Roy, nella relazione introduttiva al dibattito, aveva sottolineato che lo schema rivisto presentava la fede intorno a Maria procedendo «ex ipsa Scriptura et antiqua Traditione», in modo da prevenire le obiezioni (anche da parte dei fratelli separati) di chi teme che i titoli di venerazione di Maria siano di origine umana (cf. AS III/1, 437). 196 È il punto di vista dei vescovi olandesi (cf. AS III/2, 186) che, in questa linea, giudicano esagerata l’affermazione del n. 52 (poi 53), secondo cui la Chiesa ha sempre venerato con affetto filiale la Vergine Maria. I presuli notano al riguardo: «Durantibus primis saeculis hic affectus filialis explicite nullo modo habebatur in Ecclesia. Prout iacet, contentum textus historice non est verum et absque causa offendit sinceritatem christianorum non-catholicorum» (ivi). Il rilievo appare anche in altri interventi (cf. Silva Henriquez ecc.: AS App. 426; Zazpe ecc.: AS III/2, 179) e porterà alla modifica del testo in: «Ecclesia… filiali pietatis affectu tamquam matrem amantissimam prosequitur». 197 AS III/1, 455. 198 AS III/1, 456; il cardinale rileva che la testimonianza patristica è ben richiamata nel commento all’Annunciazione, ma non altrettanto, ad es., dove si parla della presenza di Maria sotto la croce. L’intervento di Bea ebbe l’appoggio di Rusch (cf. AS III/2, 158s) e Willebrands (cf. ivi, 177); cf., nella stessa linea, anche Tschudy (cf. ivi, 171). 199 Così Grotti, AS III/2, 120. Llopis Ivorra, che formula critiche analoghe, osserva che l’ampio uso della Scrittura nel capitolo ha poi tralasciato testi importanti, quali il Magnificat, il miracolo di Cana, le parole di Cristo ai genitori nel tempio (cf. ivi, 135). 195
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La critica più articolata, al riguardo, viene dal superiore dei Serviti, Montà, secondo un approccio che si mantiene integralmente nella linea del magistero come norma e criterio prossimo di Scrittura e tradizione. Si chiede dunque: «Come mai il Concilio Vaticano II, quanto meno qui, cioè nella formulazione attuale del capitolo, ricorre quasi esclusivamente, salvo miglior giudizio, ai Padri antichi, e non fa quasi mai riferimento al magistero ordinario e universale della santa Chiesa di Dio?».200 Facendo questa scelta, secondo Montà, i redattori del capitolo hanno sminuito il rilievo di questioni importanti (l’Immacolata concezione, la mediazione mariana, la maternità spirituale della Vergine…), tanto che si può dubitare della correttezza teologica del modo di procedere del concilio, che dovrebbe invece portare a livello di definizione, o almeno di professione di fede, quanto insegnato dal magistero mariano.201
c) La discussione sul capitolo VIII: i contenuti Per quanto riguarda i contenuti stessi del capitolo, le questioni patristiche che emergono dal dibattito si dispongono in buona misura intorno ai punti nevralgici della discussione mariologica in concilio, ossia la maternità di Maria in rapporto alla Chiesa e la mediazione mariana. Per la prima questione, le voci che si fanno sentire sono soprattutto quelle dei delusi, perché nel capitolo non si parla esplicitamente di Maria «madre della Chiesa», come essi vorrebbero, anche perché ritengono il titolo fondato nella tradizione patristica – che, peraltro, non lo utilizza espressamente.202 Se alcuni si appellano alla tradizione patristica in modo generico, i più si addentrano, in misura maggiore o minore, nello specifico, richiamandosi soprattutto alla dottrina di Maria «nuova Eva»,203 e al collegamento Capo-Corpo, di modo che, se Maria è madre del Capo, lo è anche del Corpo a lui strettamente unito.204 Di segno opposto l’intervento del benedettino Tschudy, abate nullius di Einsiedeln, per il quale il concilio dovrebbe evitare il titolo di Maria 200
AS III/1, 535. Cf. AS III/1, 535s. 202 Si veda in merito R. LAURENTIN, «La proclamation de Marie “Mater Ecclesiæ” par Paul VI. Extra Concilium mais in Concilio (21 novembre 1964). Histoire, motifs et sens», in Paolo VI e i problemi ecclesiologici al Concilio. Colloquio Internazionale di studio (Brescia 19-21 settembre 1986), Studium, Roma 1989, 315-318. 203 Cf. Castàn (AS III/2, 15s) e C ˇ ule (ivi, 108); generici, invece, i richiami ai Padri di – fra altri – Márquez Tóriz (AS III/1, 461s) e Anaya y Diez de Bonilla (AS III/2, 103). 204 Così de Castro Mayer, che richiama l’espressione di Leone Magno, già citata nello schema preparatorio, «natalis Capitis natalis est corporis» (cf. AS III/2, 110) e poi menziona alcuni testi sulla «nuova Eva»; così anche Perantoni, che aggiunge, richiamando Cirillo di Alessandria, la necessità, in base al disegno divino, che il disegno salvifico avvenisse per mezzo di un uomo nato da donna e comportasse l’unione di tutti in un solo mistico corpo: «Est igitur Maria, etiam ex hac consideratione, Mater Ecclesiae» (ivi, 147). Gasbarri, che interviene in aula il 17 settembre, arriva a menzionare anche l’immagine di Pascasio Radberto, secondo il quale Maria è il «collo» del Corpo mistico (cf. AS III/1, 528). 201
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«Mater Ecclesiae», non sufficientemente fondato nella Scrittura e nei Padri; in alternativa, si può utilizzare «Mater credentium». Il titolo di «Madre della Chiesa», infatti, entrerebbe in contraddizione con la qualifica di Maria quale «Filia Ecclesiae», che è fondata nella Scrittura e nei Padri, in quanto Maria è membro «nobilissimo» del popolo di Dio.205 L’ausiliare di Bressanone, Forer, ritiene che il concilio potrebbe non impegnarsi teologicamente sulla questione e limitarsi a introdurre il titolo semplicemente attraverso una citazione patristica: e per mostrare che la conflittualità paventata da Tschudy non ha riscontro nella tradizione, rinvia a un passo ascritto (erroneamente) ad Ambrogio, dove i due titoli, «Mater Ecclesiae» e «Filia Ecclesiae», sono usati simultaneamente.206 Gli interventi sulla mediazione mariana riportano al centro la questione del ressourcement, della sua portata «normativa», del suo valore ecumenico, dei suoi limiti in rapporto al progresso dottrinale. Il francescano Quint, prefetto apostolico di Weihaiwei (Cina), contesta esplicitamente la concezione secondo cui «solo i documenti antichi hanno forza di prova». Viceversa, sottolinea, noi «siamo nella Chiesa viva, dove le Encicliche dei sommi Pontefici ci trasmettono – e spesso con così grande prudenza… la dottrina della Chiesa nel suo attuale progresso»; in questa linea, ritiene che il capitolo VIII debba richiamare sin dal titolo la qualificazione di Maria «Mater Ecclesiae» e usare senza timori il linguaggio della mediazione.207 Anche il peruviano Olazar Muruaga invita a seguire il progresso teologico, evitando il duplice rischio di un pietismo che condurrebbe a conclusioni arbitrarie e di uno storicismo esagerato, che ritiene falso tutto ciò che non si trova nella tradizione più antica.208 Sulla base di una netta equiparazione tra Scrittura e Tradizione, tra Chiesa del passato e del presente, il presule richiama ancora la necessità di confermare il munus sociale di Maria, connesso con la mediazione di grazia e in nulla contraddetto dalla dottrina dei Padri.209 Più positivi verso la tradizione patristica, altri presuli hanno messo in luce soprattutto la corrispondenza sostanziale tra la dottrina della mediazione e le affermazioni che si incontrano nei Padri greci: se in un paio di 205
Cf. AS III/2, 170s. Forer rinvia a un passo dell’Expositio super septem visiones libri Apocalypsis, dove si legge, a proposito della mulier di Ap 12: «Possumus per mulierem in hoc loco et beatam Mariam intelligere, eo quod ipsa mater sit Ecclesiae; quia eum peperit, qui caput est Ecclesiae: et filia sit Ecclesiae, quia maximum membrum est Ecclesiae» (PL 17,876CD). L’opera, ascritta ad Ambrogio nel XVI sec., è attribuita da alcuni a Berengaud di Ferrières (IX sec.), da altri a un omonimo diacono di Angers del XII sec. (cf. M.-H. JULLIEN – F. PERELMAN [edd.], Clavis des auteurs latins du Moyen Âge. Territoire français, 735-987, Brepols, Turnhout 1994, I, 233s; sembra da escludere, invece, l’identificazione dell’autore con Berengario di Tours, a cui accenna O. SEMMELROTH, in Das Zweite Vatikanische Konzil, 339). 207 Cf. AS III/2, 155. Quint non era nuovo a questo tipo di critica: cf. c. 6, nota 237. 208 Cf. AS III/2, 143, anche per quanto segue. 209 Cf. AS III/2, 144. Si noterà che qui il presule usa un argomento ex silentio, che desume dall’antologia del p. Bover del 1929, di cui abbiamo già avuto occasione di parlare (cf. sopra, c. 4, nota 110 e testo relativo). 206
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interventi questo richiamo resta molto generico,210 Malanczuk è entrato più nel merito della questione, osservando che la tradizione orientale parla in modo affermativo del fatto della cooperazione di Maria alla nostra salvezza, anche se nulla di certo può essere detto circa il modo di tale cooperazione.211 Negativo, invece, sulla mediazione mariana, l’intervento di Rusch, che si richiama esplicitamente anche ai testi patristici che escludono la possibilità di una mediazione «secondaria».212 Da segnalare, anche perché esce dai binari dei temi più discussi, l’intervento di mons. Jaeger, che chiede un approfondimento del legame tra Maria e lo Spirito Santo. L’arcivescovo di Paderborn ricorda che Maria è typus Ecclesiae in quanto è «sacrarium Spiritus Sancti»; se lo Spirito dimora nel cuore dei credenti come in un tempio, argomenta, quanto più questa inabitazione dev’essere riconosciuta in Maria: e sottolinea che i Padri, soprattutto orientali, hanno insistito su questo aspetto, proclamando Maria nuova arca, sulla quale scende lo Spirito Santo e nella quale inabita [(Andreas de Creta, Oratio V in Deiparae Annuntiationem, MG 97,896)] ovvero dimora intima dello Spirito Santo [(Ioannes Damascenus, Oratio I in Nativitatem B. M. V., MG 96,676)] o suo altissimo e singolare tempio.213
Nella stessa linea, continuava Jaeger, si muove la liturgia: di modo che si deve dire che tanto la Chiesa quanto la Vergine Maria sono animate dallo Spirito e per questo l’una e l’altra ricevono l’appellativo di columba Dei.
d) Temi mariologici particolari Veniamo infine agli interventi più significativi, che riguardano singoli passi del capitolo VIII e della sua documentazione patristica. Diversi padri hanno chiesto che fosse meglio evidenziato il rapporto di Maria con la Chiesa, con o senza riferimento alla qualifica di Mater Ecclesiae, di cui abbiamo detto.214 Una proposta del superiore dei Serviti, Montà, ha portato la CD ad ampliare il riferimento agostiniano del n. 53 (già 52), con l’inclusione delle parole che qui riportiamo in corsivo: 210
Così Perantoni e altri padri francescani (cf. AS III/2, 149) e Weber (cf. AS III/1, 784). Cf. AS III/2, 139s. Come ha notato un infastidito Congar, il «mediocre» dibattito sul de Beata ha registrato il silenzio quasi totale degli orientali (cf. J-Congar, II, 143: 17 settembre 1964; KOMONCHAK, in SCVII, IV, 77; ANTONELLI, Il dibattito su Maria, 516). 212 Cf. AS III/2, 158s. 213 AS III/1, 517, anche per quanto segue. L’intervento fu tenuto in aula il 17 settembre, le citazioni patristiche furono inserite nel testo scritto. 214 Cf. ANTONELLI, Il dibattito su Maria, 494-496. Pronti chiede di sviluppare meglio le dimensioni della «tipologia» mariana nei confronti della Chiesa, per la quale «habentur… complura atque eximia sanctorum Patrum testimonia» (ma non indica testi specifici: cf. AS III/1, 749); Sapelak, citando invece passi di Efrem e Germano di Costantinopoli, domanda che si espliciti il tema del patrocinio di Maria nei confronti della Chiesa (cf. ivi, 509). 211
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Parte II - I Padri della Chiesa nel dibattito conciliare sul de Ecclesia Simul autem cum omnibus hominibus salvandis in stirpe Adam [Virgo Maria] invenitur coniuncta, immo «plane mater membrorum (Christi), … quia cooperata est caritate ut fideles in Ecclesia nascerentur, qui huius Capitis membra sunt».
Secondo la critica di Montà, ripresa anche da altri, l’omissione della frase indicata sminuiva la citazione di Agostino, quasi che si temesse di esplicitare il tema della maternità spirituale di Maria nei confronti dei credenti; la CD accettò la proposta e modificò il testo nel senso indicato.215 Nella stessa linea, a proposito di un altro punto dell’allora n. 52, Montà propose che il testo indicasse Maria «typus et exemplar» della Chiesa anche in quanto sua spiritualis mater, e non soltanto quale supereminens membrum, alla luce di un altro testo di Agostino, del resto richiamato in altra parte dello schema.216 In questo caso, tuttavia, la proposta non ebbe seguito, così come non lo ebbe, per il futuro n. 55, la richiesta di Cazzaro: insoddisfatto del termine adumbratur (prima c’era praevidetur), con il quale lo schema qualifica la rivelazione neotestamentaria rispetto al «protovangelo» di Gen 3,15, il presule chiede un verbo più forte (propone designatur), anche per coerenza con il principio generale, stabilito dal testo stesso, secondo cui i testi veterotestamentari debbono essere letti alla luce del progresso della rivelazione e della tradizione successiva.217 Il nuovo n. 56 (già 53) attirò critiche da varie e opposte direzioni su almeno tre punti, che coinvolgono la testimonianza patristica. Conviene, per capirle meglio, riportare anzitutto la parte iniziale del testo in discussione: Voluit autem misericordiarum Pater, ut acceptatio praedestinatae matris incarnationem praecederet, ut sic, quemadmodum femina contulit ad mortem, ita etiam conferret ad vitam. Quoniam autem Beatissima Virgo haud minor poterat esse quam Dei Matrem decebat, mirum non est apud Sanctos Patres usum invaluisse quo Deiparam appelarunt totam sanctam et ab omni peccato naevo seu labe immunem, quasi a Spiritu Sancto plasmatam novamque creaturam formatam.
215 Per l’intervento di Montà (nella C. G. del 17 settembre), cf. AS III/1, 531; lo riprese, nella stessa C. G., Garcia y Garcia de Castro, intervenendo a nome di più di 80 padri (cf. ivi, 536-537). Si noti, peraltro, che il cambiamento fu introdotto solo dopo la votazione sul capitolo, che si tenne il 29 ottobre. 216 Il testo in questione, Serm. 191,2,3, era citato nel testo del n. 54 (poi 64; cf. sopra, nota 161 e testo relativo); ma la citazione, come vedremo, sarà poi sostituita, anche se il rinvio rimarrà in nota. 217 Cf. AS III/2, 106: Cazzaro cita la Ineffabilis Deus di Pio IX, secondo la quale «Patres Ecclesiaeque scriptores caelestibus edocti eloquiis… docuere, divino hoc oraculo (Gen. 3,15) clare aperteque premonstratum fuisse… Redemptorem… ac designatam b.mam eius Matrem… ac simul ipsissimas utriusque contra diabolum inimicitias insigniter expressas». Di segno totalmente opposto il parere che alcuni professori del Biblico espressero su richiesta dei vescovi brasiliani: cf. ANTONELLI, Il dibattito su Maria, 497s.
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Come si è visto,218 l’adagio teologico «in nessun modo la Beata Vergine poteva essere meno di quanto fosse conveniente per la Madre di Dio» era giustificato con un testo di Ambrogio; nondimeno, alcuni padri fecero notare che l’assioma non poteva essere applicato meccanicamente, prescindendo da affermazioni esplicite della rivelazione;219 tanto più che nel passo di Ambrogio la frase aveva un significato diverso rispetto a quanto asserito nello schema. La CD decise quindi di lasciar cadere il riferimento ambrosiano e di modificare il testo, che diventerà: «… ad vitam. Quod praecellentissime valet de Matre Iesu, quae ipsam vitam, omnia renovantem, mundo effudit, et a Deo donis tanto munere praedita est».220 Il secondo punto discusso riguardava la menzione dei sancti Patres e della loro prassi di chiamare Maria la «tutta santa», dichiarandola immune da ogni macchia di peccato. Sembrò ad alcuni che il testo volesse evitare, così, l’affermazione diretta del dogma dell’Immacolata concezione. È la critica secca di Carli: Il testo non piace. L’Immacolata Concezione va affermata direttamente, come dogma di fede già definito, in quanto contenuto nella divina Rivelazione, e non indirettamente, come se fosse richiamata solo da un uso patristico. Inoltre, l’Immacolata Concezione va affermata integralmente, come risulta dalle parole della Definizione.221
Gli fa eco, più ironicamente, Grotti: «“Non è sorprendente che presso i Santi Padri…”. Ma è sorprendente che, dopo la Bolla Ineffabilis Deus, si parli come se non fosse una verità definita!».222 Su questo punto, tuttavia, la CD non ritenne di introdurre cambiamenti, neppure quando la questione fu riproposta nei modi che accompagnavano la votazione sul capitolo.223 A proposito delle citazioni patristiche utilizzate nella parte del testo dedicata al parallelo Eva/Maria, alcuni padri criticarono le affermazioni
218
Cf. sopra, nota 148. Così Silva Henriquez, con altri 23 padri: cf. AS App., 426; cf. anche Heuschen e Zazpe (AS III/2, rispettivamente 134 e 179). 220 Cf. la Relatio prima della votazione: AS III/6, 26. L’ultima frase («et a Deo donis…») fu inserita nell’ultima redazione del testo. A proposito della soppressione della frase, decisa in CD il 14 ottobre, Congar commenta: «C’est formidable! C’est une des mauvaises raisons des mariologues professionnels. Il [= Philips, che chiede e ottiene la soppressione] a seulement argué du fait qu’on avait pris le texte de S. Ambroise en un sens extensif qui n’est pas le sien»: J-Congar, II, 201 (14 ottobre 1964); cf. anche PHILIPS, La Chiesa e il suo mistero, II, 208. 221 AS III/1, 672. Il punto era stato discusso in CD: «Grand débat pour savoir si on doit parler de l’Immaculée Conception; où? dans quels termes? (ceux des Constitutions dogmatiques de Pie IX et Pie XII ou des termes patristiques)»: J-Congar, II, 86 (2 giugno 1964). 222 AS III/2, 128; Grotti propone un testo alternativo, nel quale i Padri non sono più nominati. Montà, più accomodante, suggerisce che il richiamo ai Padri sia integrato facendo riferimento anche ad autori posteriori (cf. AS III/1, 533). 223 Cf. la Expensio modorum, n. 29, dove si spiega che dell’Immacolata concezione si parla più avanti, al n. 59, citando Pio IX, le espressioni del quale non possono essere introdotte qui, in riferimento alla dottrina patristica. 219
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generiche «Patres antiqui in praedicatione sua asserere solebant…» e, sempre retto da quel «solebant», il «quasi in proverbium proferre: “mors per Hevam, vita per Mariam”». Questo «proverbio», notano i vescovi olandesi, si trova solo in Girolamo; quanto al «solebant», non lo si può riferire alla generalità dei Padri.224 La CD recepirà le osservazioni trasformando leggermente il testo in questo modo: «Unde non pauci Patres antiqui in praedicatione sua libenter asserunt…» e «[Patres] saepiusque affirmant: “Mors per Hevam…”».225 Un’ultima correzione di un certo rilievo riguarda il n. 64 (già 54): Silva Henriquez, con altri undici padri, aveva proposto l’abolizione della citazione di Agostino, tratta dal Serm. 191,2,3226 e ritenuta poco chiara. La richiesta fu accolta, ma senza rinunciare a un’allusione agostiniana – che diventa così l’ultima del capitolo e anzi di tutto il de Ecclesia – ispirata però ai tractatus sul Vangelo di Giovanni: la Chiesa, imitando la Madre del suo Signore, per la potenza dello Spirito conserva verginalmente «integram fidem, solidam spem, sinceram caritatem».227
4. L E
VOTAZIONI , GLI EMENDAMENTI E L’ A P P R O VA Z I O N E D E L DE E CCLESIA
A)
IL
P IA NO PE R L E V O TA Z I O N I
Il 15 settembre, i padri conciliari furono chiamati a pronunciarsi sul piano di votazioni del de Ecclesia, che la Segreteria aveva elaborato, d’intesa con i moderatori e con l’aiuto di Philips.228 Era previsto un solo voto per ciascuno dei capitoli I, IV, V, VI, mentre per i capitoli II e III, prima di arrivare ai voti sul capitolo intero, erano previste ben 43 votazioni particolari, 39 delle quali per il solo c. III. Le votazioni particolari, peraltro, ammettevano soltanto il voto placet o non placet; nel voto sul capitolo intero, invece, era previsto anche il voto placet iuxta modum,
224 Cf. AS III/2, 186s; nella stessa linea gli interventi di Silva Henriquez (cf. AS App., 426), de Provenchères (AS III/1, 682), Pourchet (cf. AS III/2, 150) e Heuschen (ivi, 134). 225 Cf. la Relatio, AS III/6, 27. Léger (cf. AS III/1, 448) e Silva Henriquez (cf. AS App., 426) chiesero che il testo fosse alleggerito eliminando qualche citazione: fu sacrificata la frase di Cirillo di Gerusalemme, «per virginem Hevam mortem, per Virginem vel de virgine Maria vitam apparuisse» (Catech. 12,15), pur rimanendo il riferimento in nota. 226 Cf. sopra, nota 161 e testo relativo. 227 Agostino, parlando della verginità della Chiesa tutta, nota che la verginità del corpo non è di tutti, mentre le altre membra conservano la virginitas mentis, che è appunto «integra fides, solida spes, sincera caritas» (In Io. tract. 13,12). Il rinvio al Serm. 191,2,3 è comunque lasciato nella nota. 228 Sull’elaborazione di questo piano di voti, cf. KOMONCHAK, in SCVII, IV, 59-62. I capitoli VII e VIII dovevano essere ancora rivisti dopo il dibattito in aula: si lasciò ai moderatori la facoltà di decidere poi in quale modo essi sarebbero stati votati.
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con la possibilità, quindi, di proporre emendamenti.229 Il giorno dopo, l’assemblea conciliare approvò il piano di voto con 2170 voti favorevoli, a fronte di 32 contrari e, mentre procedeva il dibattito sugli ultimi due capitoli dello schema, passò subito alle operazioni di voto sul primo capitolo, presentato con la relazione di Charue;230 nei giorni seguenti, in un clima piuttosto teso, soprattutto per le manovre in atto intorno alla questione della collegialità, si passò progressivamente ai voti sui capitoli successivi.231 Nell’economia della nostra ricerca, prenderemo in considerazione, per i lavori finali dell’elaborazione del de Ecclesia, quei modi sui quali la CD ha preso posizione e che riguardano i riferimenti patristici o aspetti dell’insegnamento del de Ecclesia particolarmente legati con l’ecclesiologia patristica. Come si vedrà – ma la questione era in qualche modo intrinseca ai criteri di discernimento e valutazione dei modi utilizzati dalla CD232 – gli emendamenti allegati alle votazioni dei singoli capitoli non hanno modificato in modo sostanziale ciò che riguarda l’impianto patristico dello schema. Terremo come guida, naturalmente, la Expensio modorum distribuita di volta in volta all’assemblea conciliare prima di essere messa ai voti. Dal momento che, com’è noto, la discussione sui modi al capitolo III s’intrecciò con le vicende particolarmente travagliate della conclusione del terzo periodo conciliare, prenderemo in esame prima tutti gli altri capitoli – anche perché i modi che ci riguardano non raggiungono la decina – e poi, a parte, il capitolo sulla struttura gerarchica della Chiesa.
229 Cf. AS III/1, 395-417. La proposta originale di Philips (per la quale cf. AS V/2, 670678) prevedeva voti più articolati anche sugli altri capitoli. Congar, avuta conoscenza del piano di voto proposto poi dalla Segreteria, notò che esso mostrava uno scarso interesse per i grandi problemi teologici dei primi due capitoli: «…ils [si riferisce a Felici e agli altri membri della Segreteria] veulent un vote sur le chap. I, ils en prévoyaient un aussi sur le chap. II, mais on en a mis trois, car certaines parties sont neuves: ces chapitres les intéressent peu. Mais ils en veulent 39 sur le chap. III: cela les intéresse. Voilà quinze ans que je sais que leur ecclésiologie se résume dans l’affirmation de leur pouvoir. C’est tout»: JCongar, II, 127s (11 settembre 1964); per il punto di vista di Felici, cf. AS V/2, 681s. Su tutta la questione, si veda KOMONCHAK, in SCVII, IV, 60. 230 Congar criticò il fatto che non si lasciasse almeno un giorno di tempo tra la lettura della relazione e il voto; tanto più che la votazione sull’intero capitolo prevedeva la possibilità di presentazione dei modi (cf. J-Congar, II, 140: 16 settembre 1964). 231 Cf. la cronistoria delle votazioni e delle vicende correlate, cf. KOMONCHAK, in SCVII, IV, 62-102. Riprendiamo di qui, ma con verifica sugli AS, i dati delle votazioni, omettendo i voti nulli. 232 Cf. al riguardo KOMONCHAK, in SCVII, IV, 102-108. I criteri fondamentali furono questi: dal momento che tutti i capitoli erano stati approvati con la maggioranza qualificata, la CD non tenne conto dei modi contrari al testo approvato; né vennero ammessi cambiamenti che non fossero di miglioramento al testo. In genere, si evitarono ampliamenti del testo o nuovi ordinamenti della materia non rispettosi della struttura definita dello schema (cf. la Expensio modorum sul c. I: AS III/6, 78-82, in particolare 78; si veda inoltre la Relatio Secretarii CD: FSCIRE - FFl B 156, 47). In quanto segue, indicheremo normalmente il numero assegnato a ciascun punto della Expensio modorum: tale numerazione è ripresa anche nella Synopsis, che non dà invece la paginazione.
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B)
V O TA Z ION I ED A L DE E CCLESIA
E ME N D A M ENTI
La votazione sul c. I, il 17 settembre 1964, aveva registrato 2144 voti a favore e 11 contrari; i placet iuxta modum erano stati 63; furono ridotti a 20, 7 dei quali accettati dalla CD: nessuno di essi tocca i riferimenti patristici presenti nel capitolo. Molti di più furono gli emendamenti presentati per il secondo capitolo: 553, a fronte di 1615 placet e 19 non placet, nella votazione sul capitolo intero, tenuta lo stesso 17 settembre dopo le quattro votazioni parziali.233 A seguito del vaglio della commissione tecnica, i modi furono ridotti a 70, 17 dei quali accettati dalla CD. Un emendamento al n. 13, alla fine del secondo alinea, aveva proposto di sostituire l’espressione «integro manente primatu Petri Cathedrae» con «integro manente primatu successoris Petri». La CD respinse la proposta, osservando che il termine cathedra evoca in modo preciso la successione apostolica ed è richiesto in rapporto all’allusione al testo della lettera di Ignazio ai Romani, «quae universo caritatis coetui praesidet», a cui rinvia la nota 11.234 Il quarto capitolo non suscitò particolari difficoltà: approvato con 2236 placet di contro a 8 non placet, ricevette solo 76 placet iuxta modum. Dei 40 modi proposti alla CD dopo il vaglio della sottocommissione tecnica, ne furono accettati solo 8, relativi ad aspetti piuttosto secondari.235 A proposito del n. 36, dedicato alla partecipazione dei laici al munus regale di Cristo, un certo numero di padri aveva rilevato che i fedeli (qui, evidentemente, il termine equivale a «laici») non possono partecipare al dominio di Cristo, ma questi lo esercita per far giungere i fedeli alla libertà. La CD replicò osservando che la libertà è una forma di regalità, e che l’affermazione dello schema era fondata su testi patristici – quelli indicati nella Relatio, perché testo e note sono privi di riferimenti.236 Il capitolo VII,237 approvato con 1921 voti a favore e 29 contrari, ricevette 233 proposte di emendamento: furono ridotte a 70, 15 delle quali recepite dalla CD. Tra quelle respinte, ve n’era una, riguardante la parte finale del n. 50, che proponeva di togliere il termine cultus (sostituendolo con adoratio o laus) nell’espressione «Eucharisticum… sacrificium celebrantes cultui Ecclesiae coelesti iungimur…», perché cultus sarebbe una parola evitata dalla Vulgata e dalla lingua cristiana del primo millennio, quando si tratta dell’adorazione cristiana. La CD rifiutò di modi233 La relazione sui modi è pubblicata in AS III/6, 92-104. Per una sintesi dell’esame dei modi, cf. anche ACERBI, 449-460. 234 Cf. Expensio modorum al c. II, 47. 235 La Expensio modorum dei capitoli III-VIII, distribuita in aula il 14 novembre, è pubblicata in AS III/8, 52-171. 236 L’Expensio modorum (c. IV, 29) rinvia alla Relatio CD, 287, che a sua volta riprende i testi indicati nello schema del 1963 al c. III, nota 9; cf. anche sopra, nota 112 e testo relativo. 237 Non abbiamo elementi da segnalare per i cc. V e VI: nel corso delle varie votazioni, il concilio sancì la divisione dei due capitoli, che furono approvati con rispettivamente 1856 e 1736 placet, contro 17 e 12 non placet.
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ficare il testo, argomentando in base all’uso frequente di «culto» in senso cristiano nei Padri latini, soprattutto in Agostino.238 All’indomani del breve dibattito sul de Beata Virgine del 16-18 settembre, le discussioni e iniziative riguardanti i punti più dibattuti – in particolare la questione della mediazione e il titolo di «Madre della Chiesa» – si trasferirono in CD, ma anche in altri ambienti, ufficiali o no, della «macchina» conciliare.239 Il capitolo rivisto fu distribuito il 27 ottobre e votato il giorno seguente: i voti a favore furono 1559, quelli contrari 10, i modi raggiunsero la considerevole cifra di 521;240 come ci si poteva aspettare, gran parte di essi tornava sulle discusse questioni della mediazione e della Mater Ecclesiae. La sottocommissione tecnica ridusse i modi a 95: alcuni di questi hanno a che fare con la dottrina patristica richiamata nello schema. La CD respinse la richiesta d’inserire nel capitolo qualche testo mariologico di Efrem, data la discussa autenticità dei testi in questione;241 accettò la proposta di ampliare leggermente la citazione di Agostino inserita nel n. 53;242 rigettò invece la richiesta di esplicitare la dottrina dell’Immacolata concezione al n. 56, rinviando al n. 59 per la presentazione della dottrina con il linguaggio di Pio IX, ma lasciando nel n. 56 il modo di esprimersi patristico, e in particolare la frase «a Spiritu plasmatam novamque creaturam formatam», che alcuni volevano spostare in un altro punto.243 Per il n. 62, dove entrava, tra gli altri, il titolo mariano di Mediatrix, un padre propose un testo leggermente emendato, che comportava l’aggiunta dell’affermazione di Ambrogio, secondo la quale «Iesus… non egebat adiutore ad redemptionem omnium, qui omnes sine adiutore servavit»: la CD non ritenne necessaria l’aggiunta,244 tanto più – osserviamo noi – che in nota già si rinviava al testo di Ambrogio. Nello schema rielaborato dopo il dibattito di settembre era stato inserito, nell’ultima parte del n. 65, un riferimento alla presenza di Maria nell’opera apostolica della Chiesa. Il testo, introdotto su suggerimento di Suenens,245 allude anche alla dottrina della nascita di Cristo nel cuore dei cre-
238
Cf. Expensio modorum, c. VII, 54. Per queste vicende, cf. KOMONCHAK, in SCVII, IV, 78-85, e la documentazione pubblicata da ANTONELLI, Il dibattito su Maria, 517-563. Abbiamo già segnalato sopra, § 3.2d, i principali cambiamenti che ci riguardano, introdotti nello schema dopo il dibattito in aula e l’esame degli interventi scritti. 240 Il voto, relativo a tutto il capitolo, suscitò il malcontento di quanti avrebbero desiderato un voto specifico sulla questione della mediatrix: cf. ANTONELLI, Il dibattito su Maria, 562s; si veda anche ivi, 563-567, per una presentazione d’insieme dell’esame dei modi al c. VIII. 241 Cf. Expensio modorum, c. VIII, 4d. La questione si trascinava da tempo: nei Praenotanda allo schema elaborato dalla TE si precisava che il rinvio a testi di Efrem non implicava un giudizio circa l’autenticità delle opere: cf. sopra, c. 4 § 3c. 242 Cf. Expensio modorum, c. VIII, 12 e, sopra, § 3.2d. 243 Cf. Expensio modorum, c. VIII, 29. 244 Cf. Expensio modorum, c. VIII, 66. 245 Suenens aveva parlato in aula il 17 settembre (cf. AS III/1, 504-506), accusando il nuovo capitolo mariano di minimalismo, il che aveva suscitato molte reazioni critiche, soprattutto negli ambienti conciliari belgi: cf. ANTONELLI, Il dibattito su Maria, 509-513. 239
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denti: come ricorda la Relatio presentata ai padri prima della votazione, si tratta di una dottrina patristica assai diffusa, da Origene in poi.246 Ciò nonostante, diversi padri, nei modi presentati dopo la votazione del capitolo, chiesero la soppressione o la correzione del testo, che sembrava poco chiaro. La CD però lo mantenne, ricordando che esso si fondava su un’idea patristica, e si limitò a introdurre qualche correzione chiarificatrice.247
C)
V O TA Z ION I
E MODI AL C A PI TO L O
III
La possibilità dei voti placet iuxta modum manifestava tutta la sua rilevanza nel momento in cui il loro numero avesse impedito il raggiungimento dei due terzi di placet puri e semplici: in questo caso, il capitolo sarebbe stato sì approvato,248 ma con riserva, fino all’esame degli emendamenti da parte della commissione. È comprensibile – soprattutto dopo che le votazioni parziali avevano mostrato come la grande maggioranza dei padri fosse a favore del capitolo III249 – che gli avversari della collegialità facessero leva su questa possibilità, quando si arrivò al voto sull’intero capitolo; e che i suoi fautori, da parte loro, si preoccupassero delle contromosse del caso.250 L’insieme del capitolo, peraltro, fu votato (il 30 settembre) non in una, ma in due soluzioni, rispettivamente per i nn. 1823 e 24-29,251 con questo esito: – nn. 18-23: 1624 placet, 42 non placet, 572 placet iuxta modum; – nn. 24-29: 1704 placet, 53 non placet, 481 placet iuxta modum.
246 Cf. Relatio, in AS III/6, 33. Il nuovo testo diceva: «Unde etiam in opere suo apostolico [Ecclesia] ad Eam merito respicit, quae genuit Christum, ideo de Spiritu Sancto conceptum et de Virgine natum, ut [per Ecclesiam] in cordibus quoque fidelium nascatur et crescat». Sulla dottrina in questione, si veda il classico studio di H. RAHNER, Die Gottesgeburt (*1935). 247 In pratica, vennero esplicitati i due riferimenti alla Ecclesia (nella nota precedente, i passi tra [ ]); cf. Expensio modorum, c. VIII, 79. 248 A patto, naturalmente, che la somma di placet e di placet iuxta modum raggiungesse i due terzi: cf. per questi meccanismi di voto KOMONCHAK, in SCVII, IV, 103s. 249 Nelle votazioni del 22 settembre, riguardanti le parti più discusse del capitolo, il numero più alto di voti contrari, per la questione della collegialità, fu di 328 voti contro l’origine sacramentale dei tre munera episcopali; risultati analoghi si ebbero nelle votazioni sul parallelismo tra collegio apostolico e collegio episcopale (322 contrari) e sulla parte del n. 22 che descrive la prassi della collegialità nella Chiesa antica (313 contrari): cf. KOMONCHAK, in SCVII, IV, 101, con i rinvii agli esiti delle votazioni indicati negli AS. Alcuni degli avversari della collegialità avevano sperato in un numero assai più alto di voti negativi, almeno sulle questioni più controverse. 250 Per questa «guerra dei modi», cf. KOMONCHAK, in SCVII, IV, 105-108. 251 Questa scelta partì da un’iniziativa di Tromp, approvata dalla CD e fatta propria dai moderatori, che proposero all’assemblea il voto in due parti. I numeri 24-29, infatti, includevano la sezione sul diaconato, rispetto alla quale le votazioni parziali avevano indicato una percentuale assai più alta di voti negativi. Il rischio era che un numero molto alto di modi su questo specifico problema comportasse il rigetto di tutto il capitolo. Carli contestò la decisione, che contrastava con la votazione sul piano di voto fatta il 16 settembre; i moderatori, allora, sottoposero la questione all’assemblea, che quasi all’unanimità si espresse a favore del voto in due parti (cf. KOMONCHAK, in SCVII, IV, 107s).
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In entrambi i casi, quindi, i placet raggiunsero i due terzi richiesti per l’approvazione definitiva. La massa degli oltre 1000 placet iuxta modum, provenienti per la maggior parte dai circa 300 padri dell’area della «minoranza», produsse un totale approssimativo di 5600 proposte di cambiamento:252 tutto questo materiale fu vagliato con una cura particolare, nonostante la ristrettezza dei tempi, e anche con maggiore elasticità rispetto ai criteri sin lì utilizzati dalla CD, così da venire incontro soprattutto ai desideri della minoranza, secondo una richiesta esplicita di Paolo VI.253 I modi furono così «ridotti» a 242; e, mentre il lavoro della CD volgeva al termine e alcuni esponenti della minoranza continuavano a fare pressioni sul papa perché le loro proposte di emendamento fossero accettate, si affacciava l’idea – proposta in un primo tempo alla CD da mons. C. Colombo, teologo di fiducia di Paolo VI e da alcuni mesi vescovo – di redigere una Nota che, quale premessa alla expensio modorum, aiutasse a dissipare certi dubbi e a placare le ansietà della minoranza. Non abbiamo bisogno di richiamare qui il contesto complicato e i diversi passaggi che condussero all’elaborazione della Nota explicativa praevia e alla sua presentazione ai padri conciliari.254 Nella nostra prospettiva (ma, vorremmo aggiungere, anche per un suo corretto inquadramento e per la valutazione della sua portata in relazione al testo conciliare), va però tenuto presente che la Nota voleva essere explicativa e praevia non tanto al testo stesso del c. III, quanto alla Expensio modorum della CD: così l’ha intesa sempre l’estensore principale di questo testo, ossia mons. Philips;255 così, del resto, la qualifica lo stesso Paolo VI nel momento in cui dà l’approvazione finale al testo del c. III, dichiarandosi lieto «di dare il nostro benestare alla redazione definitiva del testo di detto capitolo, come pure alla nota illustrativa della “expensio modorum”».256 Non a caso, del resto, tanto Philips che Tromp avevano chiesto 252 In ciascun modus era possibile, infatti, proporre più modifiche: cf. J. GROOTAERS, in Primauté et Collégialité, 37; per il rendiconto di G. Philips sull’esame dei modi e la stesura della Nota explicativa praevia, cf. ivi, 65-84. 253 Cf. CAPRILE IV, 489. Paolo VI avrebbe voluto l’inserimento di un rappresentante della minoranza nella sottocommissione tecnica per il primo vaglio dei modi: fu chiesto a Franic´, ma questi rifiutò (cf. G. PHILIPS, in Primauté et Collégialité, 66). Il lavoro sui modi in CD, dopo il primo vaglio nella sottocommissione, si svolse dal 22 al 30 ottobre. 254 Per la documentazione, rinviamo in particolare a Primauté et Collégialité (con le osservazioni critiche di G. ALBERIGO, «L’episcopato al Vaticano II. A proposito della Nota explicativa prævia e di mgr. Philips», in CrSt 8[1987], 147-163) e a CAPRILE, «Contributo alla storia della “Nota explicativa praevia”»; per l’inquadramento e sintesi delle vicende, e ulteriori indicazioni bibliografiche, si vedano ACERBI, 460-474; TAGLE, in SCVII, IV, 446-475. 255 Cf. Primauté et Collégialité, 25, 76, 202; TAGLE, in SCVII, IV, 465s. 256 Testo pubblicato in Primauté et Collégialité, 159 (corsivo mio). Precedentemente, il linguaggio era stato meno chiaro: in una lettera a Ottaviani del 10 novembre, il Segretario di Stato Cicognani vi esprime il desiderio di Paolo VI che il testo rivisto del c. III fosse preceduto da una «Nota esplicativa della Commissione dottrinale sul significato e sul valore delle emendazioni, apportate al testo» (cf. Primauté et Collégialité, 109). All’atto della lettura della Nota, il 16 novembre, Felici la presentò come nota explicativa praevia «ad Modos circa caput tertium schematis de Ecclesia, ad cuius notae mentem atque sententiam explicari et intelligi debet doctrina in eodem capite tertio exposita» (AS III/8, 10).
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che la Nota fosse pubblicata insieme con i modi ai quali si riferiva, o per lo meno ai più importanti, con la relativa Expensio da parte della CD: ma non se ne fece nulla.257 Ora, al di là delle conseguenze che tutto ciò comporta in relazione alla corretta interpretazione del testo conciliare, dobbiamo notare che nessuno dei modi a cui si riferisce, direttamente o indirettamente, la Nota ha a che fare con la documentazione patristica del c. III. Dei 242 modi presi in considerazione dalla CD sono pochissimi, del resto, quelli che toccano i numerosi testi patristici utilizzati in un modo o nell’altro nel capitolo. Alcuni di questi modi riguardano un aspetto che possiamo chiamare «stilistico»: il che non è irrilevante per la nostra questione, come dovremo vedere ancora in sede di conclusioni, ma non richiese alla CD interventi particolari sul testo.258 La richiesta più seria riguardò la soppressione di quasi tutto il primo alinea del n. 22: si tratta di quella sezione decisiva, nella quale il testo radica la collegialità episcopale nella prassi, attestata dalla perantiqua disciplina, della comunione interecclesiale e dei concili, prassi per la quale il documento fornisce diverse fonti patristiche; dal punto di vista dell’argomentazione patristica, l’abbiamo visto, è uno dei passi più rilevanti del capitolo.259 Nove padri ne chiesero la soppressione completa, altri tre domandarono l’omissione del riferimento alla prassi liturgica della presenza di almeno tre vescovi per l’ordinazione di un nuovo vescovo; quindici, infine, volevano la soppressione della frase «[Perantiqua disciplina etc.] … ordinis episcopalis indolem et rationem collegialem significant». La CD non accettò le richieste, osservando che esse avrebbero cambiato sostanzialmente un testo già approvato; fece anche notare che il tenore del testo indica come il richiamo alla tradizione antica non sia qui utilizzato per «dimostrare» in senso stretto la collegialità, ma solo per «suggerirla» («“innuit”, non “demonstrat”»).260 Anche in tutti gli altri casi, nei quali i modi proponevano l’abolizione o la sostituzione di una parola o di una frase connessa con testimonianze patristiche, perché ritenuta inadeguata o poco chiara, la CD ha respinto la proposta, motivando la scelta precisamente a ragione del fondamento patristico del testo approvato: così per il n. 21, a proposito della presenza di Cristo nel vescovo, secondo la testimonianza di Leone Magno; per l’espressione corpus Ecclesiarum al n. 23 e, allo stesso numero, per il richia257 Cf. GROOTAERS, in Primauté et Collégialité, 38; soprattutto, si veda nella Relatio di Tromp l’elenco dei modi che, secondo Philips e lo stesso Tromp, sarebbe stato necessario pubblicare in connessione con la Nota (cf. ivi, 177); cf. anche ACERBI, 471. 258 Si tratta di osservazioni sui n. 26 (sul munus sanctificandi dei vescovi) e 28 (sui presbiteri); alcuni lamentano il tono eccessivamente «meditativo» o «esortatorio» di questi testi – che fanno ricorso in modo significativo a espressioni patristiche –, tono non adatto a un documento dottrinale. In entrambi i casi, la CD mantiene il testo giustificandolo per la sua indole pastorale (cf. Expensio modorum, c. III, 180 e 195). 259 Il testo è citato sopra, § 1.3c. Torneremo sulla rilevanza dell’argomento patristico in questa parte del testo al c. 8 § 2.2d. 260 Cf. Expensio modorum, c. III, 60.
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mo alla lettera di papa Celestino ai vescovi del concilio di Efeso; e per la frase «non ad sacerdotium, sed ad ministerium», riguardante i diaconi.261 Finalmente, solo in un punto, pur mantenendo il testo già proposto nello schema, la CD accettò di aggiungere una citazione patristica: al n. 28, dove si dice che i presbiteri non hanno l’apex pontificatus e dipendono dal vescovo per l’esercizio della loro potestas, un padre propose di sostituire l’espressione apex pontificatus con plenitudo sacramentis ordinis; la proposta fu respinta, con la motivazione che l’espressione criticata veniva dalla lettera di Innocenzo I a Decenzio di Gubbio, citata in nota. La CD fece propria, però, la richiesta di tre altri padri, di inserire qui l’espressione di Cipriano, che vede i presbiteri «cum Episcopis sacerdotali honore coniuncti».262 Con la votazione dell’Expensio modorum sul c. III, il 17 novembre, e poi sui restanti capitoli tra il 17 e il 18 novembre, e la votazione finale sullo schema completo il giorno 19 (2134 voti a favore, 10 contrari, 1 nullo), l’iter del de Ecclesia era finalmente concluso. Nella V Sessione pubblica, il 21 novembre, la costituzione Lumen gentium veniva votata con 2151 placet contro 5 non placet, e promulgata per ordine di Paolo VI, «una cum Venerabilibus Patribus».263
261
Cf. Expensio modorum, c. III, rispettivamente 25, 137, 140, 220. Il passo di Cipriano (cf. Ep. 61,3), già utilizzato nello schema «cileno» (cf. Synopsis, 796), era stato incluso nella documentazione dello schema rivisto del 1963; la riduzione di questa documentazione nella revisione successiva aveva portato alla perdita del riferimento. 263 Cf. AS III/8, 836; per la storia di questa formula, cf. G. ALBERIGO, «Una cum patribus. La formula conclusiva delle decisioni del Vaticano II», in Ecclesia a Spiritu Sancto edocta (LG 53). Mélanges théologiques. Hommage à Mgr. Gérard Philips, J. Duculot, Gembloux 1970, 291-319. 262
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L’itinerario che abbiamo percorso nella II parte della ricerca voleva rispondere, in primo luogo, all’interrogativo storico intorno al ruolo che i Padri della Chiesa hanno avuto nel dibattito conciliare sul de Ecclesia e nella concreta elaborazione del documento. Si è trattato di un ruolo consistente, come ha mostrato la lunghezza stessa del percorso che si è tentato di ricostruire, muovendo dalla stesura del documento preparatorio, passando per la rielaborazione dello schema nell’intersessione 1962-63 e poi nelle fasi successive, sino alla promulgazione. La terza e ultima parte di questa ricerca si propone di tracciare ora una visione più sincronica, che vuole affrontare soprattutto due domande: come si presenta il contributo della dottrina patristica nella Lumen gentium considerata nella sua forma compiuta? Sarà questo il tema del capitolo 8: che non pretende di elaborare una sorta di «commentario patristico» alla LG, ma più semplicemente di raccogliere e integrare elementi già presentati, organizzandoli in uno sguardo d’insieme e cercando di illuminare soprattutto le diverse «strategie» di utilizzazione dei Padri nel de Ecclesia. Il nono e ultimo capitolo affronterà una domanda di ordine più generale: che cosa hanno significato, i Padri, per il Vaticano II? Alla luce soprattutto (ma non esclusivamente) dell’elaborazione del de Ecclesia, si tratta di capire meglio come e in che misura il concilio si è situato nella prospettiva del ressourcement patristico del Novecento; e tenteremo di delineare alcune prospettive aperte, forse anche alcuni limiti, e certamente alcune strade da esplorare, che il Vaticano II ha preparato, e che restano ancora davanti a noi.
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8. L a L u me n g e n t i u m come espressione di un’ecclesiologia patristica
1. I P A D R I D E L L A C H I E S A N E L L A L UMEN GENTIUM : CASO O PROGETTO? Quando si legge la Lumen gentium, si rimane senza dubbio colpiti dal fatto che i Padri della Chiesa vi siano abbondantemente citati nelle note; che alcune loro espressioni siano riportate ad litteram nel corpo stesso della costituzione conciliare; e persino dal fatto che alcuni Padri vengano nominati all’interno del testo – ciò che, si noti, non va da sé, vuoi perché il documento non lo fa per nessun altro autore, papi inclusi, successivo al V secolo, vuoi perché si ha qui una novità del Vaticano II anche rispetto ai concili precedenti.1 Questi aspetti, non irrilevanti, non bastano da sé a qualificare la Lumen gentium quale espressione di un’ecclesiologia patristica, o almeno fortemente ispirata al pensiero dei Padri sulla Chiesa: dopotutto, l’abbondanza delle citazioni non è ancora criterio di pertinenza.2 Si è ipotizzato, del resto, che l’uso delle citazioni patristiche, quanto meno in alcuni documenti conciliari – nel caso specifico, la costituzione liturgica – potrebbe essere del tutto casuale;3 questo giudizio, formulato da A. Triac-
1 Nei concili del II millennio, mentre accade sovente che i Padri siano richiamati collettivamente (ad es.: concilio di Firenze: DH 1301; 1309; concilio di Trento, cf. ad es. DH 1501; 1510; 1542; 1692; 1730 ecc.;), non è prassi che un singolo Padre sia nominato nel testo stesso, come aveva ricordato Tabera Araoz (cf. AS II/1, 735). 2 Cf. H. DE LUBAC, Paradosso e mistero della Chiesa, Jaca Book, Milano 1979, 34. 3 A.M. Triacca, al termine di una ricognizione delle citazioni patristiche della costituzione liturgica, osserva che la rassegna «ci obbliga a pensare ad una metodologia di citazioni che
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ca, è stato generalizzato, così da includere implicitamente anche il de Ecclesia: … pare proprio che tutti i documenti conciliari rivelino una mera casualità nel citare i Padri. Essi vengono usati a volte solo per accostamento di idee, a volte vengono citati in modo generico, a volte non si vuole nemmeno fare lo sforzo (o non se ne aveva il tempo?) di ricercare i testi da citare. Sapendo che il pensiero dei Padri era sulla stessa linea del testo conciliare, ci si riferisce a loro con rimandi generici.4
Superfluo sottolineare che riteniamo in gran parte ingiustificato il giudizio di Triacca, almeno per quanto riguarda la Lumen gentium. Alla base di questo giudizio c’è un difetto metodologico: Triacca ha preso in considerazione le citazioni patristiche in sé, ossia prescindendo dalla storia redazionale del testo5 e dal quadro dei dibattiti conciliari, all’interno dei quali – almeno per il de Ecclesia (ma anche per il de revelatione) – la «questione patristica» è stata posta esplicitamente: essa, certo, non ha suscitato tutte le discussioni germinate intorno ad altri temi «caldi», quali la collegialità, o le questioni mariane; neppure si può dire, però, che si sia trattato di un problema marginale. Il lettore che ha avuto la pazienza di seguirci sin qui, del resto, ha potuto vedere che nella maggior parte dei casi la scelta della documentazione patristica ha impegnato seriamente i redattori, almeno a partire dal momento in cui lo «schema Philips» fu adottato come base per la revisione del de Ecclesia; sarebbe sorprendente, del resto, che i redattori del testo, molti dei quali avevano alle spalle ricerche importanti e prolungate di teologia storica, si accontentassero di citazioni del tutto «casuali»,
denominiamo “casuale”, per non dire “a casaccio” o, se più piace, “per accostamento verbale-concettuale”, per non dire “fortuita”. In ogni evenienza, non razionalizzata né tanto meno pianificata»: A.M. TRIACCA, «L’uso dei “loci” patristici nei documenti del concilio Vaticano II: un caso emblematico e problematico», in E. DEL COVOLO – A.M. TRIACCA (edd.), Lo studio dei Padri della Chiesa oggi, LAS, Roma 1991, 149-183, spec. 152-160, qui 158. 4 TRIACCA, «L’uso dei “loci” patristici», 168 (corsivi miei). L’autore esemplifica indicando testi nei quali il riferimento patristico appare generico (ad es. col passim): LG 2 nota 2; 14 nota 12; 20 nota 7; 64 nota 20; GS 57 nota 5; AG 4 nota 21; 7 nota 45; PO 7 nota 37; 11 nota 68; per esempi nel corpo del testo, rinvia a LG 43; GS 69; DH 10; AG 3. Triacca continua così: «In altri termini, per quanto si debba sempre ricordare che i testi conciliari non sono né un trattato di teologia, né dissertazioni per riviste scientifiche, tuttavia la genericità e l’approssimazione nel ricorso ai Padri rimangono pur sempre un dato che ci fa comprendere come la stessa SC si muova nella scia di tutti gli altri documenti per cui non fa specie la presenza di soli 10 rimandi ai Padri, come sopra abbiamo riferito» (ivi). Al giudizio di Triacca si accoda anche L. LONGOBARDO, «I Padri della chiesa: le scelte del Concilio Vaticano II», in Asprenas 50(2003), 173. 5 Cf. anche la valutazione di L. PERRONE, «La via dei Padri. Indicazioni contemporanee per un ressourcement critico», in “Con tutte le tue forze”. I nodi della fede cristiana oggi. Omaggio a Giuseppe Dossetti, a cura di A. e G. ALBERIGO, Marietti, Genova 1993, 105, nota 49. Desta una certa sorpresa che nei giudizi citati alla nota precedente non si tenga conto, tra le altre cose, dei grandi commenti alla LG usciti all’indomani del concilio, in particolare l’opera collettiva diretta da G. BARAÚNA La Chiesa del Vaticano II, e il commento di G. Philips (cf. sotto, note 7 e ss), dove la portata della documentazione patristica del de Ecclesia è abbondantemente valorizzata.
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approssimative o generiche. Vedremo ancora che, almeno in alcuni casi più importanti, i redattori erano ben consapevoli della portata e anche dei limiti dei testi citati e furono attenti soprattutto a non esagerare il peso dei passi utilizzati. In ogni caso – e perché questo giudizio di genericità non ricada invece sulla nostra ricerca – occorre approfondire la questione. Per farlo si potrebbero seguire, sembra, due linee. La prima, strutturalmente più semplice, consisterebbe nel delineare una sorta di «commento patristico» alla LG. Non seguiremo questa via, però, e per diverse ragioni: anzitutto, perché un lavoro di questo genere esiste già, e in più di una versione. In parte, anzi, è materiale che abbiamo già utilizzato: si pensi qui soprattutto all’apparato di note e documentazione annesso allo schema del 1963 (cf. sopra il c. 6), ripreso e aggiornato poi nella Relatio con la quale la CD ha accompagnato lo schema rivisto nel 1964 (cf. sopra il c. 7). Ma anche alcuni commenti postconciliari alla LG assolvono egregiamente lo scopo: se il profilo tracciato da C. Pietri resta molto stringato, e qua e là troppo superficiale,6 il commento di Philips – che è, certo, un commento a tutto campo – offre abbondante materiale patristico e lo inserisce armoniosamente nello sguardo d’insieme che il principale responsabile della redazione del de Ecclesia getta sul testo, la sua storia, le sue implicazioni teologiche, spirituali e pastorali.7 Di particolare interesse, naturalmente, sono poi i commenti di periti che, oltre ad aver partecipato ai lavori conciliari, si sono distinti proprio per il grande contributo dato al ressourcement teologico: pensiamo in particolare, qui, alle opere di Y. Congar e di H. de Lubac;8 ma ricco materiale si trova pure tra i 60 studi raccolti nella grande opera coordinata da G. Baraúna, come pure nei commenti «tedeschi», passati o recenti.9 6 Cf. C. PIETRI, «L’ecclésiologie patristique et Lumen gentium», in Le deuxième Concile du Vatican (1959-1965). Actes du colloque organisé par l’École française de Rome... (Rome 28-30 mai 1986), École Française de Rome, Rome 1989, 511-537. 7 Cf. G. PHILIPS, L’Église et son mystère au deuxième Concile du Vatican. Histoire, texte et commentaire de la Constitution Lumen Gentium, Desclée, Paris 1967-68; tr. it.: La Chiesa e il suo mistero nel Concilio Vaticano II. Storia, testo e commento della Costituzione Lumen Gentium, Jaca Book, Milano, 1969. 8 Oltre ai contributi di Y. Congar menzionati in bibliografia, si veda H. DE LUBAC, «Lumen gentium and the Fathers», ripreso poi come terzo capitolo di Paradoxe et mystère de l’Église, Aubier-Montaigne, Paris 1967 (tr. it. cit., 33-70; manca però, in questa edizione, il testo della discussione seguita all’intervento di de Lubac e degli altri relatori, dove de Lubac fa alcune osservazioni molto interessanti: testo in J.H. MILLER [ed.], La teologia dopo il Vaticano II. Apporti dottrinali e prospettive per il futuro in una interpretazione ecumenica, Morcelliana, Brescia 1967, 220-228). 9 Cf. BARAÚNA. In ambito tedesco, resta fondamentale il commento (di vari autori) pubblicato con l’edizione dei testi conciliari annessa al LThK2: Das Zweite Vatikanische Konzil. Konstitutionen, Dekrete und Erklärungen lateinisch und deutsch. Kommentare, Herder, Freiburg-Basel-Wien 1966. Più recentemente (2004), si veda P. HÜNERMANN, «Theologischer Kommentar zur dogmatischen Konstitution über die Kirche Lumen Gentium», in Herders Theologischer Kommentar zum Zweiten Vatikanischen Konzil, hrsg. v. P. HÜNERMANN u. B.J. HILBERAT, Herder, Freiburg 2004-2006, rist. 2009, II, 263-582. Da segnalare poi, per il c. VIII, lo studio di D. FERNANDEZ, «Fundamentos patristicos del Capitulo VIII de la Constitución “Lumen Gentium”», in EphMar 16(1966), 33-77.
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Non sembra necessario ripresentare qui tutto questo materiale, in una sorta di collage di quanto è già ampiamente documentato e disponibile, tanto più che ciò comporterebbe inevitabili ripetizioni di aspetti già visti nel ripercorrere la storia redazionale del de Ecclesia. Più utile, forse – sebbene più rischiosa – è l’altra via che vorremmo seguire: che è quella di ripercorrere le diverse «strategie», attraverso le quali la LG valorizza il contributo dei Padri della Chiesa. Questo contributo, infatti, è introdotto in vari modi, che vanno dall’affermazione esplicita in contesti anche particolarmente «solenni» all’utilizzazione sottintesa e, in certi casi, del tutto priva di riferimenti percepibili al lettore comune. Un’indagine di questo tipo permette anche di «pesare» il contributo patristico alla LG, così da farne emergere gli elementi più significativi, gli snodi decisivi, gli apporti determinanti; ma anche, per altro verso, gli eventuali punti deboli, le inconsistenze e, se il caso, i momenti nei quali le vie dell’ecclesiologia patristica e del Vaticano II, forse inevitabilmente, divergono; fermo restando che, salvo qualche rara eccezione, parlare di un’utilizzazione «casuale» dei Padri, nel de Ecclesia, è largamente ingiustificato. Per inoltrarci in questa prospettiva, seguiremo un itinerario ad allargamento progressivo, che comprende tre passi principali: – il primo (§ 2) muoverà dagli indizi interni al testo stesso. Dal momento che, come si è visto, la testimonianza dei Padri della Chiesa in qualche caso è invocata esplicitamente nella costituzione, sembra ragionevole fare attenzione in primo luogo a questi casi: che andranno comunque vagliati criticamente, anche alla luce della storia redazionale del testo, perché l’appello ai sancti Patres per certi versi è un topos secolare dei documenti conciliari; come si vedrà, questo primo livello di indagine attira l’attenzione sul c. III, e in particolare sui nn. 20-22, che furono al cuore del dibattito conciliare; – un secondo passo (§ 3) porterà a considerare l’insegnamento del de Ecclesia, in quanto rinvia ad aspetti dell’ecclesiologia patristica, alla luce di temi e questioni della ricerca storico-teologica dei decenni che hanno preceduto il Vaticano II: si tratterà di vedere, insomma, quali temi dell’ecclesiologia patristica sono stati recepiti (o non recepiti) e anche come lo sono stati; lo faremo soprattutto in riferimento al c. I, che si presenta particolarmente ricco sotto questo aspetto; – alla luce di questa doppia pista di ricerca, tenteremo di individuare alcuni criteri generali per una lettura dell’apporto patristico di LG, per verificare poi, in modo piuttosto panoramico, se e come questi criteri sono confermati anche nelle restanti parti del documento; e sarà il terzo e ultimo passo (§ 4) del nostro itinerario.
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2. «V O X 2.1. U N
SANCTORUM
P AT R U M »
LIN GU AG GIO F L U I DO
I «santi Padri» sono richiamati nove volte, in sette numeri della LG. Riportiamo di seguito tutti i passi nel testo latino, nell’ordine in cui appaiono nella costituzione: Tunc autem [= in fine saeculorum]
sicut apud sanctos Patres legitur,
omnes iusti inde ab Adam, «ab Abel iusto…» (n. 2)
[Ecclesia est/dicitur] prae- a Sanctis Patribus laudasertim templum sanctum, tur quod in lapidei sanctuariis repraesentatum
et in liturgia non immerito assimilatur civitati sanctae… (n. 6)
… [Christus] dedit nobis a sanctis Patribus compade Spirito suo, qui unus et rari potuerit idem in capite et in membris exsistens, totum corpus ita vivificat, unificat et movet, ut eius officium
cum munere, quod principium vitae seu anima in corpore humano adimplet. (n. 7)
Docet autem Sancta Syno- et liturgica Ecclesiae condus episcopali consecrasuetudine tione plenitudinem confer- et voce Sanctorum Patrum ri sacramenti Ordinis, quae nimirum
summum sacerdotium, sacri ministerii summa nuncupatur. (n. 21)
Consilia evangelica castitatis Deo dicatae, paupertatis et obœdientiae, utpote in verbis et exemplis Domini fundata
et ab Apostolis et Patribus Ecclesiaeque doctoribus et pastoribus commendata
sunt donum divinum… (n. 43)
Unde nil mirum apud Sanctos Patres usum invaluisse
quo Deiparam appellarunt totam sanctam et ab omni peccati labe immunem… (n. 56)
Merito igitur SS. Patres
Mariam non mere passive a Deo adhibitam, sed libera fide et obœdientia humanae saluti cooperantem censent (n. 56)
Unde non pauci Patres antiqui in praedicatione sua
cum eo [= Irenaeo] libenter asserunt: «Hevae inobœdientiae nodum solutionem accepisse per obœdientiam Mariae»… (n. 56)
[Theologi… verbique divini praecones] studium Sacrae Scripturae, Sanctorum Patrum et Doctorum Ecclesiaeque liturgiarum sub ductu Magisterii excolentes, recte illustrent munera et privilegia Beatae Virginis… (n. 67)
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È subito evidente che l’ultimo testo si distacca da tutti gli altri, perché il rimando ai Padri ha qui una funzione diversa, rispetto all’uso normale di richiamarsi a essi per illustrare o documentare una determinata dottrina. Si può anche rilevare il dettaglio stilistico che, nella serie delle altre otto menzioni dei Padri sopra riportate, distingue le ultime tre, tutte concentrate, peraltro, nel n. 56 (dove è nominato anche Ireneo): come vedremo, abbiamo qui un effetto della diversità dei soggetti che hanno messo mano al testo.10 Più rilevante è un’altra questione: che valore attribuire alle diverse formulazioni? La risposta, riteniamo, non può essere stabilita semplicemente in base alla forma del testo stesso. Come mostra il confronto tra i testi, in particolare nella sezione centrale, non si dà un’espressione unica, con la quale i redattori hanno introdotto la menzione dei Padri. Si può forse notare che il quinto testo (n. 43), insieme con quello «fuori serie» (n. 67), inserisce il rinvio ai Padri in una serie di altre testimonianze della rivelazione o della vita di Chiesa (Sacra Scrittura, dottori della Chiesa, liturgia, pastori), il che, in qualche misura, lo relativizza; nell’insieme, tuttavia, non sembra che la differenza delle formule offra elementi apprezzabili di valutazione. Prima di procedere oltre, completiamo il quadro con due altre serie di testi, che hanno a che fare con la nostra questione. Vi sono anzitutto i sei passi nei quali il concilio menziona il nome di un Padre nel testo stesso del de Ecclesia. Come si è accennato, la cosa costituisce una novità, nella storia del linguaggio conciliare. Si tratta, per la precisione, dei nn. 20 (Ireneo), 23 (Celestino), 29 (Policarpo), 32 (Agostino), 56 (Ireneo) e 63 (Ambrogio). L’abbiamo accennato, e giova ripeterlo: nessun altro autore – a parte, s’intende, gli agiografi – è nominato nel testo stesso del de Ecclesia. È certo sorprendente che, fatta la scelta, non scontata, di nominare qualche Padre, non compaiano alcuni di quelli più citati (pensiamo ad es. a Ignazio di Antiochia, a Cipriano); stupisce pure che non sia nominato Tommaso d’Aquino, citato circa 15 volte nelle note. Si può capire come mai proprio quei cinque nomi hanno avuto l’onore di una menzione nel testo? L’unica risposta sicura, a quanto ci risulta, si può dare per la prima delle due menzioni di Ireneo (n. 20). Nel quadro dei passi più delicati e discussi del c. III, si tratta qui di assicurare, alla luce della tradizione primitiva, il compimento della legge della successione apostolica nei vescovi. I redattori hanno fatto ricorso alle due testimonianze antiche più chiare al riguardo: quelle di Tertulliano e di Ireneo. Una menzione esplicita 10 Cf. sotto, nota 15. Si osserva anche, volendo essere minuziosi, qualche incoerenza tipografica, ad es. nell’uso delle maiuscole. Nei testi qui sopra riportati abbiamo seguito in tutti i dettagli il testo pubblicato a cura della Segreteria generale del concilio: SACROSANCTUM ŒCUMENICUM CONCILIUM VATICANUM II, Constitutiones Decreta Declarationes, cura et studio Secretariae Generalis Concilii Œcumenici Vaticani II, Typis Pol. Vaticanis, 1966.
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di Tertulliano nel testo era difficilmente pensabile;11 accogliendo la richiesta di alcuni padri conciliari, invece, si scelse di nominare Ireneo,12 la cui testimonianza è anche più antica. Nella stessa linea si deve leggere, probabilmente, la menzione di Ireneo al n. 56, quale testimone peculiare, e particolarmente antico, della tradizione patristica complessiva che il testo richiama in vari modi. Non sembra sbagliato riconoscere anche, in quest’accentuazione della testimonianza di Ireneo, un effetto della fioritura degli studi sul grande vescovo di Lione, che si sviluppano a partire dal secondo dopoguerra; e non è fuori luogo ricordare che nello schema preparatorio Ireneo era menzionato solo una volta, e indirettamente, nelle note.13 Per completare il quadro dei segnali ricavati dal testo stesso della LG, circa l’eventuale rilevanza della testimonianza patristica, restano da ricordare quei passi nei quali si fa appello alla traditio (o a un concetto simile). Riportiamo, anche in questo caso, i testi in questione, aggiungendo i corsivi: n. 14: Docet autem [sancta synodus], Sacra Scriptura et Traditione innixa, Ecclesiam hanc peregrinantem necessariam esse ad salutem; n. 20: Inter varia illa ministeria quae inde a primis temporibus in Ecclesia exercentur, teste traditione, praecipuum locum tenet munus illorum qui, in episcopatum constituti, per successionem ab initio decurrentem, apostolici seminis traduces habent. Ita, ut testatur S. Irenaeus…; n. 21: Ex traditione enim, quae praesertim liturgicis ritibus et Ecclesiae tum Orientis tum Occidentis usu declaratur, perspicuum est manuum impositione et verbis consecrationis gratiam Spiritus Sancti ita conferri et sacrum characterem ita imprimi; n. 22: Iam perantiqua disciplina, qua Episcopi in universo orbe constituti ad invicem et cum Romano Episcopo communicabant in vinculo unitatis, caritatis et pacis, itemque concilia coadunata, per quae et altiora quaeque in commune statuerentur, sententia multorum consilio ponderata, ordinis episcopalis indolem et rationem collegialem significant; n. 23: Episcopi denique, in universali caritatis societate, fraternum adiutorium aliis Ecclesiis, praesertim finitimis et egentioribus, secundum venerandum antiquitatis exemplum, libenter praebeant; n. 28: Sic ministerium ecclesiasticum divinitus institutum diversis ordinibus exercetur ab illis qui iam ab antiquo Episcopi, Presbyteri, Diaconi vocantur; n. 55: Sacrae Litterae Veteris Novique Testamenti et veneranda Traditio munus Matris Salvatoris in salutis œconomia modo magis magisque dilucido ostendunt et veluti conspiciendum proponunt; 11 Come nota Betti, nonostante l’importanza della sua testimonianza, Tertulliano non ha avuto l’onore di essere nominato nel testo: «il passaggio al montanismo… non gli è stato ancora del tutto perdonato»: U. BETTI, La dottrina dell’Episcopato nel Concilio Vaticano II. Il capitolo III della Costituzione dommatica Lumen gentium, Roma 1984, 360; cf. anche PHILIPS, La Chiesa e il suo mistero, I, 214. 12 Cf. sopra, c. 7, nota 51. Su LG 20, cf. anche quanto diremo più sotto, § 2.2b. 13 Lo schema preparatorio menzionava al c. IV, n. 1, Adv. haer. IV,26,43 (tralasciato in LG), ma in quanto citato in un passo del concilio provinciale di Colonia del 1860.
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Parte III - Il Vaticano II e la Chiesa dei Padri: elementi per un bilancio n. 66: Et sane ab antiquissimis temporibus Beata Virgo sub titulo «Deiparae» colitur, sub cuius praesidium fideles in cunctis periculis et necessitatibus suis deprecantes confugiunt.
Si noterà che abbiamo qui due tipi di espressione: il rinvio alla traditio (nn. 14, 20, 21, 55), e le frasi che, in diversi modi, si richiamano all’antichità cristiana: perantiqua disciplina (n. 22), venerandum antiquitatis exemplum (n. 23), iam ab antiquo (n. 28), ab antiquissimis temporibus (n. 66). Per queste ultime espressioni è chiaro che il riferimento è alla Chiesa dei primi secoli. Ma anche il rinvio alla tradizione è, di fatto, sempre e anzitutto rinvio alla tradizione liturgica e/o patristica, per quanto naturalmente confermata poi anche nelle epoche successive – ciò che vale soprattutto per il n. 14, come mostra la documentazione utilizzata nei vari passaggi di questo testo, sin dallo schema preparatorio.14 Al n. 20, come si è già visto, il riferimento è chiaramente alla tradizione patristica, che viene poi documentata nelle note e «personificata» in Ireneo; al n. 21, ci si richiama soprattutto alla tradizione liturgica, in una delle sue testimonianze più antiche (la Traditio apostolica); ma il passo va letto in connessione con quanto si dice poco prima, dove un altro richiamo alla tradizione liturgica è associato alla vox sanctorum patrum; nel n. 55, infine, l’aggettivo veneranda, e il fatto che la traditio alla quale si accenna sia enumerata dopo le «sacrae litterae veteris novisque testamenti», mostra ancora una volta che qui si pensa alla testimonianza dei Padri e della Chiesa antica.
2.2. L A
VOX PATRUM N EL C A PI T O LO DE LLA L UMEN GENTIUM
III
a) Un punto di concentrazione: LG 20-22 La ricognizione di questi indizi intratestuali suggerisce che nessuno di essi, da solo, basta a qualificare il peso che si intende dare, nei punti implicati del documento, alla testimonianza patristica. Va tenuta presente, senza dubbio, anche la storia redazionale della costituzione e, com’è normale per l’interpretazione di qualsiasi testo, il contesto complessivo nel quale ci si colloca. In questa prospettiva, il peso maggiore sembra da assegnare ai riferimenti alla traditio e alla antiquitas (l’ultima serie di passi che abbiamo menzionato), piuttosto che alla menzione esplicita, ma isolata, dei «santi Padri»: all’inverso, lì dove gli indizi che abbiamo raccolto si assommano, è lecito pensare che la costituzione voglia dare un peso particolare al richiamo ai Padri, facendone una vera e propria argomentazione patristica. Se le cose stanno così, il punto più rilevante per il ricorso ai Padri nella LG si trova senz’altro nella parte iniziale del c. III, e in particolare 14
Si veda, per comodità, la Synopsis, ad loc.
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nei nn. 20, 21 e 22, che furono, non a caso, tra i punti più discussi di tutto il concilio. In questa sezione della LG troviamo riunite, di fatto, tutte e tre le espressioni chiave alle quali abbiamo fatto riferimento: il richiamo ai «santi Padri», alla tradizione antica e la menzione esplicita di un Padre (Ireneo). Ed è in questo contesto, per la precisione al n. 21 – dunque nel quadro di un passaggio nel quale il concilio, trattando della sacramentalità dell’episcopato, impegna in modo particolarmente forte la propria autorevolezza («Docet autem Sancta Synodus…»)15 –, che si legge un’espressione unica nella LG, ma che potrebbe ben sintetizzare la modalità con la quale il de Ecclesia ha inteso valorizzare la testimonianza patristica: vox sanctorum Patrum. Al di là del riferimento specifico (qui collegato alle espressioni summum sacerdotium, sacrum ministerium, che designano l’episcopato in quanto pienezza del sacramento dell’ordine) non sembra fuori luogo riconoscere, nell’ecclesiologia del Vaticano II, precisamente il frutto di un esercizio di ascolto della vox Patrum: non solo di questa, evidentemente, giacché l’ascolto conciliare si estende in diverse direzioni (quella della Scrittura, in primo luogo); ma, certo, a questa vox è dato un peso singolare, che non ha riscontri negli altri documenti conciliari ma neppure – almeno a livello così esplicito – nella tradizione conciliare precedente. Questo peso è evidente in tutto il c. III e, come si è già accennato, in particolare nei nn. 20-22: e lo si vede anche sulla base di indicatori di tipo puramente statistico. Più del 42% delle citazioni patristiche presenti nella LG, ossia 67 su 159, si trova nel III capitolo; di queste, una metà abbondante (37 citazioni) è concentrata nei nn. 20-22: da sole costituiscono il 23,2%, – quasi un quarto, dunque – di tutte le citazioni patristiche del de Ecclesia. Va notato che nessun capitolo intero presenta un numero di riferimenti ai Padri che eguagli questa cifra, che riguarda qui, va ribadito, tre soli numeri. Soltanto nel c. VIII troviamo un numero di citazioni quasi equivalente, ossia 35: ma si tratta di un testo lungo più del doppio, rispetto a quello dei nn. 20-22.16 15 Anche per questa ragione, non si può riconoscere al richiamo ai Padri di LG 56 (dove pure troviamo per tre volte un riferimento collettivo ai Padri, insieme con la menzione esplicita di Ireneo) lo stesso peso che assume nei nn. 20-22. I riferimenti ai Padri del n. 56 – anche stilisticamente anomali rispetto ad altri passaggi del testo, come abbiamo rilevato sopra – erano del tutto assenti, peraltro, nel primo abbozzo del capitolo redatto da Philips, e vennero introdotti nella ristesura di Balic´ (cf. i testi pubblicati in C. ANTONELLI, Il dibattito su Maria nel concilio Vaticano II. Percorso redazionale sulla base di nuovi documenti di archivio, Messaggero, Padova 2009, rispettivamente 336 e 374, nonché le osservazioni di Antonelli, ivi, 381s). Sono questi testi che susciteranno alcune reazioni dei padri conciliari, di cui abbiamo dato conto a suo luogo (cf. sopra, c. 7, nota 222 e testo relativo). 16 Nel rapporto tra lunghezza del testo e numero di citazioni patristiche, i cc. III e VIII quasi si equivalgono, dal momento che il c. VIII è lungo poco più di metà del c. III, e ha 35 citazioni patristiche a fronte delle 67 del c. III. La frequenza delle citazioni patristiche, nei nn. 20-22, è doppia rispetto alla media del c. III (che è la più alta di tutta la LG), ed è quadrupla rispetto alla frequenza media delle citazioni patristiche di LG. Si veda l’Appendice II per alcuni raffronti statistici.
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b) «Teste traditione»: successione apostolica (LG 20) La rilevanza della testimonianza patristica in questa sezione del c. III è stata ampiamente sottolineata anche dai commentatori della LG.17 Con il loro aiuto, cerchiamo di coglierne meglio la portata, mettendone in luce anche alcuni aspetti che non si possono ricavare soltanto dal tenore del testo o dai passi citati nelle note. Fermiamo l’attenzione sui criteri utilizzati dai redattori nella valorizzazione dei riferimenti patristici, più che sui contenuti stessi, in buona misura già presentati. Il primo elemento importante18 è dato, al n. 20, dalla questione della successione. Il testo richiama, nell’ordine, la testimonianza di Clemente Romano, Tertulliano e Ireneo. Il passo di Clemente, Cor. 44,2-3, ha un rilievo particolare, a motivo della sua antichità, in virtù della quale «è da considerarsi come l’anello di congiunzione tra l’età apostolica e quella post-apostolica»;19 ma è anche un passo discusso proprio a riguardo della portata effettiva della «successione» qui indicata.20 Proprio in considerazione delle difficoltà interpretative, i redattori sono stati cauti nell’utilizzazione del testo, invocandolo solo per testimoniare una successione di ordine ministeriale, e non una successio apostolica in senso pieno.21 L’attenzione a rispettare il dato storicamente accertabile della questione, per non stravolgerlo sotto il peso dell’istanza teologica, è confermata dall’utilizzazione successiva delle testimonianze di Tertulliano e Ireneo, mediante le quali si concretizza la testimonianza della tradizione («teste traditione»): a questo termine il concilio «dà… un significato prettamente storico: quello di documenti attendibili per autenticità e probanti per antichità».22 È in quest’ottica che il concilio documenta, attraverso i due Padri citati,23 il rilievo speciale dato ai vescovi nell’ambito della 17 Cf. PIETRI, «L’ecclésiologie patristique et Lumen gentium», 528; PHILIPS, La Chiesa e il suo mistero, I, 213-215; BETTI, La dottrina dell’Episcopato, 359-361. 18 Per la documentazione patristica invocata alla fine del n. 19 sul problema del «fondamento» della Chiesa su Pietro e sugli apostoli, rinviamo all’esame della contestazione che ne fece Carli alla vigilia del terzo periodo conciliare: cf. sopra, c. 7 § 3.1b. 19 BETTI, La dottrina dell’Episcopato, 359; Betti osserva che l’importanza di questo passo fu ben avvertita dai padri conciliari (cf. ivi e 131). 20 Oltre a BETTI, La dottrina dell’Episcopato, cf. anche PHILIPS, La Chiesa e il suo mistero, I, 213s; M. MIDALI, in La Costituzione dogmatica sulla Chiesa. Introduzione storicodottrinale. Testo latino e traduzione italiana. Commento, ElleDiCi, Torino-Leumann 1965, 575s. Sul passo in questione, cf. CLEMENTE ROM., Lettera ai Corinzi. Introduzione, versione e commento di E. PERETTO, EDB, Bologna 1999, 88-91 e 227-229. 21 Cf. K. RAHNER, in Das Zweite Vatikanische Konzil, 214s; HÜNERMANN, «Theologischer Kommentar», 411. 22 BETTI, La dottrina dell’Episcopato, 360. 23 In Tertulliano (cf. Praescr. haer. 32, citato alla note 7-8 di LG 20), si tratta della praescriptio, ossia la legittimità di un titolo di possesso più antico, che gli eretici non possono vantare, perché solo la Chiesa può mostrare, precisamente attraverso la successione, di riallacciarsi agli apostoli. Ireneo intende dimostrare, contro gli gnostici, che la vera dottrina non può essere se non quella apostolica e che essa si trova presso i vescovi; per questo, essi mantengono la nota dell’«antichità», «sono i “presbiteri”, gli anziani a causa della suc-
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«successione»; e menziona poi Ireneo – forse anche come figura-ponte fra la tradizione orientale e occidentale – quale testimone peculiare della Traditio apostolica universalmente manifestata e custodita dai vescovi. La precauzione storica nell’uso dei testi patristici è confermata dall’omissione, in questa parte del testo, della testimonianza di Ignazio. La pura e semplice scansione cronologica avrebbe dovuto fare spazio, fra Clemente e Ireneo, al vescovo di Antiochia; ma questi, che pure tratta abbondantemente dell’episcopato, da un lato non offre alcun elemento specifico circa la sua origine e la questione della successione apostolica;24 dall’altro lo stato delle ricerche non permetteva (né permette oggi) di stabilire con chiarezza se e in che misura l’organizzazione della Chiesa locale attestata dalle lettere di Ignazio per le comunità dell’Asia Minore fosse diffusa, alla stessa epoca, anche altrove.25 I diversi riferimenti a Ignazio, che si incontrano nel terzo alinea del n. 20, assumono, quindi, un valore leggermente diverso rispetto ai richiami a Clemente, Tertulliano e Ireneo nell’alinea precedente: senza escludere una loro rilevanza di ordine anche storico, sembrano richiamati nel testo piuttosto come espressione di una venerabile teologia dell’episcopato, che trova la sua espressione centrale nella «identificazione» (ignaziana) tra il vescovo e Cristo, sulla quale si chiude il n. 20 e si apre lo sviluppo successivo.
c) «Vox Patrum»: sacramentalità dell’episcopato (LG 21) L’inizio del n. 21 permette di esaminare una strategia parzialmente diversa, nell’utilizzazione della testimonianza patristica, rispetto a quella del n. 20. Là, come si è visto, l’appello ai Padri è esplicito, anche perché non sarebbe possibile fondare direttamente sulla Scrittura soltanto26 la questione della successione; qui, pur aprendosi con una frase che ricalca molto da vicino un passo di Leone Magno,27 il testo sottintende, piuttosto cessione “principale”, risalente cioè alle origini» (BETTI, La dottrina dell’Episcopato, 361; i testi di Ireneo sono citati alle note 9-10 di LG 20). 24 Cf. PHILIPS, La Chiesa e il suo mistero, I, 215; BETTI, La dottrina dell’Episcopato, 361; HÜNERMANN, «Theologischer Kommentar», 412. 25 Che l’episcopato sia stabilito dappertutto è convinzione dello stesso Ignazio (cf. Eph. 3,2); ma abbiamo qui più l’espressione di una «convinzione personale» che non un «fatto storicamente controllabile» (BETTI, La dottrina dell’Episcopato, 361): è noto che testi coevi – Erma, Policarpo – fanno pensare a un quadro più sfumato e complesso. 26 Si noti che, mentre nel dibattito sulla rivelazione alcuni rappresentanti della «minoranza» tendono a escludere la «sufficienza» della Scrittura, per affermare la necessità della Tradizione come «fonte» distinta della rivelazione, quando invece si tratta della collegialità episcopale la contestano in quanto non sarebbe sufficientemente fondata nella Scrittura: Charue, che in CD fu protagonista di uno scontro con Ottaviani su questo punto, ha notato bene il carattere paradossale di questa situazione (cf. sopra, c. 7, nota 65). 27 Cf. sopra, c. 7 § 1.3b; PHILIPS, La Chiesa e il suo mistero, I, 220. Hünermann ha messo in rilievo la novità (radicata nella tradizione patristica) della questione anche dal punto di vista cristologico, facendo notare che i trattati neoscolastici di cristologia non avevano alcun accenno alla presenza pneumatica del Cristo risorto nella Chiesa e nei suoi ministri (cf. HÜNERMANN, «Theologischer Kommentar», 415).
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che esplicitare, la dottrina patristica intorno alla presenza di Cristo nel vescovo, come pure il tema del munus paternum del vescovo. Possiamo partire, anzi, proprio da quest’ultimo punto, che era stato anticipato già nel n. 20 attraverso uno dei rimandi alla teologia ignaziana dell’episcopato. Là il testo parlava dei vescovi «loco Dei praesidentes gregi» e rinviava in nota 12 a Ignazio, Philad. 1,1 e Magn. 6,1; ma il tema è ricorrente nel vescovo di Antiochia e passa da lui a tutta la successiva tradizione orientale;28 è su questo sfondo che va compreso il munus paternum di cui parla ora il n. 21, riferendosi soprattutto alla vita sacramentale, mediante la quale, nel battesimo, il vescovo inserisce nuove membra nel corpo di Cristo.29 Qualcosa di simile va detto a proposito del tema della presenza di Cristo nel vescovo: anche in questo caso, la ricerca degli anni immediatamente precedenti il concilio aveva permesso di scandagliare questa tematica nelle fonti antiche; e anche se qui il de Ecclesia non menziona specificamente riferimenti patristici – che erano stati indicati, però, nella documentazione allegata agli schemi, o nelle relazioni della CD –, essi costituiscono l’orizzonte entro il quale si collocano le affermazioni conciliari.30 Si vede anche di qui che l’apporto patristico al de Ecclesia non si esaurisce nei soli passi che menzionano esplicitamente la testimonianza patristica. Nell’alinea successivo la vox sanctorum Patrum torna a risuonare a proposito della questione centrale della sacramentalità dell’episcopato. Per rintracciare i diversi armonici di questa vox, tuttavia, il riferimento al testo e alle sue note non è sufficiente. Non si leggono rinvii a testi dei Padri a proposito dell’effusione dello Spirito Santo sugli apostoli e del suo «prolungamento» nel gesto dell’imposizione delle mani sui loro adiutores, gesto arrivato sino a noi nella consacrazione episcopale, di cui parla la prima frase di questo alinea. I commentatori hanno rilevato, però, la consonanza di queste affermazioni con l’insegnamento dei Padri, anche se vi possono essere differenze nell’interpretazione dei passi biblici richiamati nel testo conciliare (in particolare Gv 20,22s; At 28 Secondo Ignazio, il vescovo è il tuvpoß di Dio Padre: cf. Trall. 3,1; 13,2; Magn. 3,1; Philad. 8,1; Eph. 5,3; cf. MIDALI, in La Costituzione dogmatica sulla Chiesa, 580, che rinvia a D.T. STROTMANN, «L’évêque dans la tradition oriental», in Irén. 34(1961), 147-164 (poi in L’Episcopat et l’Église universelle. Ouvrage publié sous la direction de Y. CONGAR et B.-D. DUPUY, Paris 1962, 310-315), per la persistenza del tema tra i Padri orientali; cf. anche PHILIPS, La Chiesa e il suo mistero, I, 222. 29 Cf. J. LÉCUYER, «L’Episcopato come Sacramento», in BARAÚNA, 715. 30 J. Lécuyer, che fu tra i protagonisti dell’esplorazione delle fonti antiche sul ministero e contribuì alla redazione di questo passo (e stese la Relatio della sottocommissione su questo numero), menziona a titolo di esempio: EUSEBIO, Demonstr. Evang. V,3; VI (GCS 23 p. 222, 8ss); Hist. eccl. X,68-69; GIOVANNI CRISOST., In Matt. hom. 50 (51),3; De proditione Iudae, hom. I,6; ISIDORO DI PELUSIO, Ep. I,122: PG 78,264c; MASSIMO CONF., Mystagogia, c. 8; e rileva che in occidente l’espressione più alta di questa convinzione è riassunta nell’assioma agostiniano: «Se Pietro battezza, è lui (Cristo) che battezza; se Paolo battezza, è lui che battezza; se Giuda battezza, è lui che battezza» (cf. In Ioan. Evang., Tract. 6,7): cf. LÉCUYER, in BARAÚNA, 714.
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1,8; 2,4) e delle loro divergenze.31 Nella stessa linea, i redattori del de Ecclesia hanno ben presente l’esegesi patristica e degli autori medievali sui passi scritturistici relativi all’imposizione delle mani (in particolare 1Tm 4,14 e 2Tm 1,6s), interpretati come fondamento della consacrazione episcopale.32 Non è azzardato dire che l’affermazione centrale di LG 21 sulla sacramentalità dell’episcopato rappresenta uno dei frutti teologicamente più importanti del ressourcement, nel caso presente anche liturgico. La testimonianza di C. Moeller, uno dei redattori del c. III e tra i più stretti collaboratori di Philips, lo conferma con la massima chiarezza desiderabile: Mons. Philips mi ha detto recentemente che era stata l’edizione della Traditio Hyppoliti (B. Botte, in «Sources chrétiennes», 11, Parigi 1946) a portarlo a riflettere ulteriormente sul senso della consacrazione episcopale. Mi sembra estremamente interessante vedere quanto il rinnovamento liturgico, sul piano pastorale e su quello degli studi teologici e storici, abbia contribuito anche in questo al ritorno alle fonti per l’ecclesiologia; nel nostro caso, è grazie al movimento liturgico che dei testi come quello di Ippolito di Roma hanno fatto colpo sui teologi (cfr. sulla stessa linea J. Lécuyer, Le sacrement de l’épiscopat, in «Divinitas» 2 [1952] 201-231). Lo stesso influsso si è rivelato al Vaticano II, che è cominciato proprio con la Costituzione sulla liturgia.33
La Traditio apostolica è il primo dei testi liturgici menzionati alla nota 19 per documentare la liturgica ecclesiae consuetudo che, insieme con la vox sanctorum Patrum, offre qui il fondamento tradizionale alla dottrina insegnata dal concilio. Il riferimento ai Padri non viene meglio specificato: Lécuyer ha segnalato in particolare due testi – il trattato pseudo-ciprianeo De Aleatoribus 3 e Basilio, Ep. 188,1 – che qualificano rispettivamente come «(grazia dell’Episcopato), cioè lo Spirito Santo» e «carisma spirituale» l’effetto dell’ordinazione episcopale; ma rinvia a diverse altre testimonianze, incluse alcune della tradizione siriaca,34 per arrivare a concludere: «… l’affermazione della Tradizione è di grande importanza: l’imposizione delle mani della consacrazione episcopale significa e opera la comunicazione di un dono dello Spirito Santo al nuovo vescovo».35 La tradizione patristica offriva qui un altro elemento di appoggio, che era stato indicato sin dallo schema preparatorio e che permane, almeno nell’intento dei redattori – che citano i rispettivi testi nelle note o nella 31 Cf. LÉCUYER, in BARAÚNA, 716s, con rinvio al dossier patristico raccolto dall’autore nel suo Le Sacerdoce dans le Mystère du Christ (*1957); MIDALI, in La Costituzione dogmatica sulla Chiesa, 606. 32 Così Philips, che cita al riguardo ATANASIO, Apol. ad Const. imp. 26; Epist. ad Drac. 4; GIOVANNI CRISOST., In 1 Tim. hom. 13,1; In 2 Tim. 1,2; TEODORO DI MOPSUESTIA, In 1 Tim. IV,14, ed. Swete II, 1882, 150; TEODORETO, In 1 Tim. 4,14; AMBROSIASTER, In 1 Tim. IV,13-14; e nota poi, apportando qualche testimonianza, che questa opinione fu condivisa anche dai medievali: cf. PHILIPS, La Chiesa e il suo mistero, I, 223s; LÉCUYER, in BARAÚNA, 718. 33 C. MOELLER, «Il fermento delle idee», in BARAÚNA, 169, nota 78. 34 Cf. LÉCUYER, in BARAÚNA, 718s. Il De Aleatoribus era stato menzionato anche nella Relatio della CD allo schema 1964 (cf. sopra, c. 7, nota 59). 35 LÉCUYER, in BARAÚNA, 719.
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relazione –, fino all’ultima redazione del de Ecclesia: si tratta del riferimento ai casi di consacrazione episcopale conferita a soggetti che non erano ancora sacerdoti. Non è dato di capire la ragione per la quale l’argomento, nella redazione definitiva di LG, non sia utilizzato esplicitamente: anche in questo caso, tuttavia, lo si deve includere tra gli elementi che determinano la mens dei redattori dello schema.36 Nell’ultima parte del n. 21 la testimonianza patristica è richiamata ancora una volta esplicitamente per esemplificare, attraverso la serie di riferimenti raccolti alla nota 22, la conseguenza del sacramento ricevuto, condensata qui nella «rappresentanza» («in Eius persona agant») di Cristo;37 ci si ricollega così a quanto affermato all’inizio del numero e si anticipa anche ciò che si dirà al n. 27 – dov’è questione del rapporto del vescovo con la Chiesa particolare a lui affidata – sul vescovo quale vicarius Christi. Merita un rilievo, sia pure di carattere marginale, la frase con la quale si chiude il n. 21, secondo cui è proprio dei vescovi «per Sacramentum Ordinis novos electos in corpus episcopale assumere»; frase che va letta in connessione con l’affermazione del n. 22, ove si menziona la prassi liturgica della compresenza di più vescovi per la consacrazione di un nuovo vescovo. C’è il rischio di intendere tutto questo nella linea di una sorta di «genealogia episcopale», ciò che rappresenta, però, un equivoco teologico,38 già risolto drasticamente da Agostino e dagli altri vescovi africani in occasione della Collatio con i donatisti nel 411: il vescovo, fosse pure il vescovo ordinante, è per l’altro vescovo un fratello nell’episcopato, e solo Dio è «padre» o «madre» così del vescovo come degli altri fedeli.39
d) «Perantiqua disciplina»: collegialità (LG 22) Non ci siamo ancora soffermati direttamente su un’altra affermazione rilevante (e che ha suscitato molte discussioni) di LG 21: quella che concerne l’origine sacramentale dei tre munera episcopali. La richiamiamo qui, perché si tratta di un asserto significativo anche per il passaggio alla questione della collegialità. Ritornare «alla concezione unitaria delle funzioni episcopali e della loro origine sacramentale, quale ci si rivela in numerosissime testimonianze patristiche e liturgiche»,40 superando la rigi36
Cf. LÉCUYER, in BARAÚNA, 729; PHILIPS, La Chiesa e il suo mistero, I, 225. Per i testi qui raccolti, cf. sopra, c. 7, nota 61; si veda inoltre PHILIPS, La Chiesa e il suo mistero, I, 230-231; LÉCUYER, in BARAÚNA, 730. 38 Cf. HÜNERMANN, «Theologischer Kommentar», 419. 39 Cf. Gesta Conlat. Carthagin. III,229,242: ed. S. LANCEL, SCh 224, 1168, 1180. Su tutta la questione, cf. Actes de la Conférence de Carthage en 411. T. I. Introduction générale par S. LANCEL, Cerf, Paris 1972 (SCh 194), I, 232s. 40 MIDALI, in La Costituzione dogmatica sulla Chiesa, 616; per alcuni esempi di attestazioni liturgiche, cf. ivi, 616-618. Nel suo commento a LG 22, K. Rahner aveva raccolto la bibliografia principale in tema di collegialità episcopale, in particolare quella basata sullo studio delle fonti: cf. Das Zweite Vatikanische Konzil, 214s. 37
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da distinzione tra potestas ordinis e potestas iurisdictionis, significava infatti ridimensionare un elemento che si era rivelato molto importante per lo sviluppo dei rapporti tra papa a vescovi, sviluppo nel quale rischiava «di soffocare l’idea stessa di collegialità, caratteristica del periodo dei Padri».41 È ancora J. Ratzinger a rilevare la novità, su questo punto, dell’approccio di LG rispetto allo schema preparatorio e a sottolineare che l’affermazione del n. 22 («Uno è costituito membro del Corpo episcopale in virtù della consacrazione sacramentale e mediante la comunione gerarchica col Capo del Collegio e con le membra») significa vedere sotto una nuova luce tanto il concetto di sacramento quanto quello di giurisdizione: «o piuttosto: ambedue riappaiono nella luce originaria della teologia patristica, che era stata temporaneamente oscurata dagli sviluppi moderni».42 Secondo Ratzinger, si possono riassumere nei quattro concetti chiave di communio, collegium, caput e membra, presenti nel passo di LG 22 che abbiamo citato, le articolazioni fondamentali della natura dell’unità della Chiesa, quale viene presentata dalla costituzione.43 I primi due concetti, soprattutto, sono presentati nel testo facendo riferimento alla testimonianza patristica o, più ampiamente, alla perantiqua disciplina attestata dai Padri.44 L’uso di disciplina indica che qui si fa riferimento, prima di tutto, alla prassi della communio: è in questo senso che va inteso il verbo communicabant, che non significa semplicemente «erano in comunicazione» ma, potremmo parafrasare, «vivevano e praticavano la communio», inclusi i suoi elementi di ordine giuridico.45 41 J. RATZINGER, Der neue Volk Gottes. Entwürfe zur Ekklesiologie, Patmos-Verlag, Düsseldorf 1969; tr. it.: Il nuovo popolo di Dio. Questioni ecclesiologiche, Queriniana, Brescia 1971, 192 (= BARAÚNA, 737); cf. anche ACERBI, 532s. 42 RATZINGER, Il nuovo popolo di Dio, 194 (= BARAÚNA, 739). Ratzinger rinvia a questo riguardo a un articolo di Parente, pubblicato su L’Avvenire d’Italia del 21 gennaio 1965: l’assessore del S. Uffizio osservava tra l’altro che la concezione conciliare, rispetto a una visione troppo giuridista, ritornava «alla concezione primitiva…» (cf. ivi). L’appoggio dato da Parente, membro influente della «minoranza», al punto di vista dei «collegialisti», ebbe un peso importante al momento delle votazioni: proprio Parente fu incaricato di presentare in aula, alla vigilia del voto, la relazione della CD sui nn. 22-27 del capitolo III (cf. J. KOMONCHAK, in SCVII, IV, 99). Nella relazione si legge: «Schema nostrum non novis innititur opinionibus, sed puris haustibus Ecclesiologiae Patrum, quae doctrinae paulinae de Corpore Mystico magis adhaeret ideoque menti Christi magis consonare videtur. Ad hanc Ecclesiologiam iam multi redeunt Theologi post Enc. Mystici corporis editam, in qua aspectus iuridicus ac hierarchicus Ecclesia aspectu supernaturalis vitalitatis bene completur» (AS III/2, 210; si veda al riguardo anche A. GRILLMEIER, «Spirito, impostazione generale e caratteristiche della Costituzione», in BARAÚNA, 230; ACERBI, 447-449). 43 Cf. RATZINGER, Il nuovo popolo di Dio, 196 (= BARAÚNA, 740). HÜNERMANN (cf. «Theologischer Kommentar», 423) fa notare, tuttavia, che LG 22 non menziona un elemento che pure era importante ed esplicitamente richiamato nella Chiesa di epoca patristica: il consenso del popolo di Dio, espressione della comunione nella fede che la Chiesa confessa. 44 Per la storia redazionale di LG 22, cf. sopra, c. 7 § 1.3c. 45 Cf. RAHNER, in Das Zweite Vatikanische Konzil, 229. Va richiamata qui l’importanza del testo di J. HAMER, L’Église est une communion, Paris 1962 (Unam Sanctam 40), che riassumeva e rendeva accessibili, proprio agli inizi del concilio, molti studi biblici e patristici sulla natura comunionale della Chiesa (cf. MOELLER, in BARAÚNA, 168, nota 76).
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Mediante il rinvio a questa prassi, e poi a quella dei concili particolari – la cui regolamentazione da parte del concilio di Nicea fa supporre che si trattasse di un elemento quanto mai rilevante per la vita della Chiesa e l’attuazione della sua unità46 – e a quella successiva dei concili ecumenici, la Lumen gentium ritorna qui alla struttura antica della Chiesa e indica nella conciliarità non semplicemente una pratica occasionale (benché i singoli concili restino senza dubbio occasionali), ma un principio essenziale della struttura ecclesiale.47 Qui è necessario segnalare però anche un limite, e non secondario, per quanto riguarda il rinvio conciliare alla prassi della Chiesa dei Padri: limite che non deriva tanto dall’insufficiente conoscenza o apprezzamento di questa prassi, ma dal modo in cui la questione della collegialità fu prevalentemente affrontata al Vaticano II. L’esperienza della conciliarità nella Chiesa dei primi secoli, infatti, come pure le altre forme in cui si attuava la prassi della communio, non riguardano quasi mai in modo diretto la dimensione universale della collegialità.48 I Padri conoscono e praticano soprattutto le forme della cosiddetta collegialità «minore»: a queste, del resto, si riferiscono in prima istanza i richiami alla perantiqua disciplina, che leggiamo all’inizio del n. 22; soprattutto, l’approccio patristico appare orientato a concepire la collegialità non tanto quale problema della potestas (e del suo soggetto supremo) sulla Chiesa universale, quanto piuttosto a partire dalla qualità teologica della Chiesa particolare, manifestata principalmente nell’eucaristia presieduta dal vescovo,49 e a partire dal modo in cui, di conseguenza, va inteso il ministero episcopale quale servizio della communio della Chiesa e fra le Chiese.50 Ratzinger ha fatto notare come già all’interno del gruppo che lavorò alla redazione del testo vi fossero, su questo punto, prospettive divergenti. Una è quella che vede «l’unità di tutti i vescovi in un collegio della chiesa universale, per cui l’episcopato si definisce addirittura l’ufficio di coloro che portano la responsabilità della chiesa universale, così che con 46 Cf. RATZINGER, Il nuovo popolo di Dio, 197 (= BARAÚNA, 741); qui Ratzinger osserva, tra l’altro: «Al di là delle questioni disciplinari, Nicea attribuisce a questi concili un’importanza spiccatamente spirituale, quando stabilisce che i Sinodi di primavera debbono essere tenuti alla vigilia della quaresima “affinché venga allontanata ogni discordia e offerto il dono col cuore puro” [can. 5; cf. Conciliorum Œcumenicorum Decreta, 8]. In connessione con la parola della riconciliazione col fratello come presupposto del servizio cristiano di Dio, il concilio appare qui come la preparazione pasquale della chiesa alla celebrazione del suo incontro col Signore risorto». 47 I singoli concili sono occasionali, ma alla luce della prassi antica «il principio conciliare in quanto tale è radicato nell’essenza stessa della chiesa e si protende sempre avanti in vista di una nuova realizzazione» (RATZINGER, Il nuovo popolo di Dio, 198 [= BARAÚNA, 742]). Per il richiamo alla prassi conciliare in LG, cf. anche PHILIPS, La Chiesa e il suo mistero, I, 254; BETTI, La dottrina dell’Episcopato, 378s. 48 Cf. RATZINGER, Il nuovo popolo di Dio, 203s (= BARAÚNA, 746s). 49 Si veda al riguardo LG 26 che, non a caso, rinvia a IGNAZIO ANT., Smyrn. 8, 1. 50 Cf. al riguardo J.M.-R. TILLARD, Église d’Églises. L’écclésiologie de communion, Cerf, Paris 1987 (Cogitatio Fidei 143), in particolare 236-268.
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ragione possano essere annoverati nel collegio che la dirige».51 Se si partisse, viceversa, dalla teologia dei Padri, lo sviluppo prenderebbe la via precisamente opposta: poiché ogni «chiesa particolare» non solo è parte, ma veramente chiesa – è questa la caratteristica della chiesa di Gesù Cristo, che è determinata dalla Parola e dall’eucaristia e non è paragonabile a nessuna realtà statale – colui che sta a capo di una chiesa, ha necessariamente un’importanza anche per tutta la chiesa in generale, la quale vive nelle chiese particolari. Così, il papa, accanto al compito che ha in rapporto alla chiesa universale, non è impropriamente anche vescovo di una comunità particolare, ma, al contrario, poiché è vescovo di una chiesa per questo può essere episcopus episcoporum, così che tutte le chiese debbano regolarsi secondo la chiesa di Roma.52
In linea di principio, è qui che si dovrebbe cogliere anche la portata maggiore del legame tra sacramentalità dell’episcopato e collegialità, per lo meno volendo restare nell’orizzonte del pensiero patristico.53 La LG, tuttavia, proprio per il fatto che considera la questione della collegialità in rapporto soprattutto alla Chiesa universale, non stabilisce in modo veramente significativo il nesso tra la concezione patristica del vescovo nel suo riferimento alla Chiesa particolare da lui presieduta e la questione della collegialità.54 Per chi volesse articolare una dottrina e una prassi della collegialità meglio improntate alla prospettiva patristica, si tratterebbe in primo luogo, sempre secondo Ratzinger, di ristabilire l’organismo delle chiese particolari nell’unità della chiesa universale, mentre la dottrina della collegialità che si orienta in senso speculativo moderno, avrà principalmente cura della plena et suprema potestas del 51 RATZINGER, Il nuovo popolo di Dio, 202 (= BARAÚNA, 746): è la posizione che viene ascritta in modo particolare a K. RAHNER (cf. ivi, e la nota 27). 52 RATZINGER, Il nuovo popolo di Dio, 203 (= BARAÚNA, 746; più recentemente e sinteticamente: J. RATZINGER, «L’ecclesiologia della “Lumen gentium”», in Il Concilio Vaticano II. Recezione e attualità alla luce del Giubileo, San Paolo, Cinisello Balsamo 2000, 76s). Vanno nella stessa linea i rilievi critici di G. DOSSETTI, Il Vaticano II. Frammenti di una riflessione, a cura di F. MARGIOTTA BROGLIO, Il Mulino, Bologna 1996, 47 e 212-214; ID., Per una «chiesa eucaristica»: rilettura della portata dottrinale della Costituzione liturgica del Vaticano II, a cura di G. ALBERIGO e G. RUGGIERI, Il Mulino, Bologna 2002, 104s. 53 Ratzinger ricorda a questo proposito il reciproco ordinamento di corpus verum (eucaristia) e corpus mysticum e osserva: «Così, il servizio per l’uno non deve essere separato dal servizio per l’altro, poiché l’uno e l’altro costituiscono piuttosto un unico servizio intorno all’unico corpo del Signore»: RATZINGER, Il nuovo popolo di Dio, 195 (= BARAÚNA, 740); cf. anche MIDALI, in La Costituzione dogmatica sulla Chiesa, 650. 54 Cf. ACERBI, 535s; si tratta di un aspetto che ha ricevuto più attenzione in altri documenti conciliari, quali il decreto Christus Dominus n. 3, o il decreto Orientalium Ecclesiarum, a motivo del regime specifico con il quale sono governate le Chiese orientali (cf. ivi, 536s). Va notato ancora che soltanto muovendosi nella linea del nesso tra teologia della Chiesa locale e communio della Chiesa universale sembra possibile affrontare la questione – che il concilio lascia impregiudicata, come esplicitamente afferma la Nota explicativa praevia, nel Nota bene conclusivo – della potestà esercitata dagli orientali separati: cf. RATZINGER, Il nuovo popolo di Dio, 216 (= BARAÚNA, 757).
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Parte III - Il Vaticano II e la Chiesa dei Padri: elementi per un bilancio collegio sulla chiesa universale e del suo accordo con la plena et suprema potestas del papa – un problema, questo, che il teologo di formazione patristica considererà già come sintomo di una mentalità che si allontana dalla sostanza della dottrina della collegialità e dalla cui discussione ben poco di fecondo egli può sperare.55
È comunque pensabile, secondo la prospettiva conciliare, una prassi della collegialità più in linea con quanto si riscontra nella Chiesa dei Padri, dove l’azione comune dei vescovi può, quanto meno, diventare la base di un atto collegiale in senso stretto? È una possibilità che il n. 22 della costituzione lascia aperta almeno nella parte finale del testo, dove è questione della posizione del papa in rapporto alle forme di collegialità «solenne» (il concilio ecumenico) e ordinaria.56 Qui, infatti, si prospetta l’eventualità che il papa approvi, o almeno recepisca liberamente «l’azione congiunta dei vescovi dispersi, così da renderla un vero atto collegiale»: il fatto che la semplice prassi del tempo dei padri, nella quale il papa, in certi casi, cooperava in modo essenziale alla costituzione delle decisioni interessanti la chiesa universale unicamente con l’accettazione delle decisioni esistenti, appare, assolutamente parlando, una possibilità tuttora reale nella chiesa, anche se, nella situazione attuale, è difficile immaginare come si potrebbe arrivare a questo. Non dovrebbe essere, tuttavia, difficile capire come queste affermazioni potrebbero avere ancora una volta una grande importanza storica.57
e) Elementi per un bilancio Volendo raccogliere i punti più rilevanti di interesse, per ciò che riguarda il richiamo ai Padri della Chiesa in LG 20-22, ossia nella sezione del testo proporzionalmente più ricca, quanto a documentazione patristica, di tutta la costituzione, possiamo annotarli provvisoriamente come segue: – le modalità con le quali i Padri sono richiamati nel testo sono diverse, così come diverso è il peso che, di volta in volta, la costituzione assegna alla loro testimonianza; è esclusa, in ogni caso, una utilizzazione puramente «ornamentale» dei testi patristici; – la selezione dei testi patristici si rivela accurata, e tutt’altro che casuale; del resto, essa non apporta elementi veramente nuovi rispetto a
55 RATZINGER, Il nuovo popolo di Dio, 204 (= BARAÚNA, 747). Ratzinger richiama, al riguardo, anche la critica che da parte ortodossa si è levata contro la formulazione conciliare della collegialità, rinviando a N.A. NISSIOTIS, «Die Ekklesiologie des zweiten Vatikanischen Konzils, in orthodoxer Sicht und ihre ökumenische Bedeutung», in KuD 10(1964), 157ss; si vedano anche le riflessioni di A. SCRIMA, in BARAÚNA, 1194-1198. 56 Il testo conciliare non usa la distinzione ordinario/straordinario, ma parla del concilio ecumenico come di un esercizio «solenne» del magistero collegiale: sul dibattito conciliare in merito, cf. RATZINGER, Il nuovo popolo di Dio, 208 (= BARAÚNA, 750). 57 RATZINGER, Il nuovo popolo di Dio, 208s (= BARAÚNA, 750s).
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ciò che la ricerca storico-teologica, soprattutto a partire dal secondo dopoguerra, aveva raccolto in abbondanza: ma questo significa anche che i redattori del testo, come pure i padri conciliari che dovevano votarlo, si potevano basare su di un lavoro ormai approfondito, di cui raccolgono i frutti; la sacramentalità dell’episcopato costituisce, al riguardo, l’esempio più evidente; – la testimonianza patristica è richiamata in modo da far risuonare, in primo luogo, la voce della storia, così da riconoscerla veramente come locus theologicus. La cosa sembra confermata, paradossalmente, proprio anche dai problemi relativi alla collegialità, di cui abbiamo appena trattato: perché il testo mostra di riconoscere il peso della prassi storica della communio nella Chiesa dei Padri, anche se poi non ne trae tutte le conseguenze teologiche o, piuttosto, vi sovrappone un orientamento teologico di matrice diversa, qual è la questione della potestas suprema nella Chiesa; – in nessun punto, tra quelli presi in esame, il richiamo ai Padri, o alla Chiesa antica, assume il valore esclusivo di un argomento teologico, perché resta sempre viva l’attenzione a raccordare la vox Patrum con la Scrittura, la liturgia, il magistero, insomma con l’insieme della tradizione. La cosa va rilevata soprattutto per quegli aspetti della dottrina che sembrano meno immediatamente riferibili all’esplicita volontà di Cristo per la Chiesa, attestata nella Scrittura, com’è il caso della successione apostolica e della collegialità. Neppure in questi casi si potrebbe parlare di un argomento ex Traditione, o ex Patribus, in quanto alternativo a una radice scritturistica. Successione apostolica e collegialità sono da ricondurre, in definitiva, alla volontà del Signore a riguardo del vangelo e al suo servizio permanente;58 – sebbene non sia particolarmente esplicitata nei testi, i redattori della costituzione hanno presente anche l’attenzione alla continuità tra la Scrittura e i Padri: in altri termini, l’esegesi patristica è uno dei criteri che concorrono a determinare l’utilizzazione dei testi scritturistici;59 – la vox Patrum, innegabilmente, fa riscoprire al concilio e alla Chiesa tutta filoni di grande ricchezza nella comprensione credente della Chiesa stessa e delle sue strutture, ma è senz’altro vero che, in qualche caso almeno, l’impianto teologico complessivo dell’argomentazione si muove in una direzione diversa, rispetto alla tradizione dei Padri alla quale pure ci si richiama; l’esempio della collegialità suggerisce che ciò può avvenire all’interno di quello stesso orientamento teologico maggioritario, che ha fatto del ressourcement un punto chiave del proprio modo di procedere. Proprio a partire da quest’ultimo rilievo, si impone un’altra considerazione. Il c. III del de Ecclesia, e in particolare i nn. 20-22, saltano agli occhi per l’uso particolarmente intensivo, e anche complessivamente accurato, dei riferimenti patristici: ma la questione della collegialità e il 58
Cf. RATZINGER, Il nuovo popolo di Dio, 199 (= BARAÚNA, 742s). Cf. ad es. i testi patristici indicati a LG 17, nota 22, in connessione con la citazione di Ml 1,11. 59
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suo rapporto con il primato non sono «imposti» al concilio dall’ecclesiologia patristica in quanto tale. Il moltiplicarsi degli studi sull’ecclesiologia antica nel Novecento ha avuto certamente un suo peso nella consapevolezza che il concilio voluto da Giovanni XXIII avrebbe dovuto completare, a questo riguardo, il lavoro lasciato interrotto dal Vaticano I. Per rifarci alla fase antepreparatoria del concilio, va ricordato però che, nell’insieme di quanti sollecitano una riflessione sull’episcopato e un’integrazione del concilio del 1870, i vota che si riferiscono esplicitamente al contributo patristico in merito non arrivano a una decina.60 Dobbiamo allargare l’indagine, dunque, in un’altra direzione. Fino a questo punto, lasciandoci guidare soprattutto dagli indizi interni al testo, abbiamo individuato nella parte iniziale del c. III un punto di cristallizzazione indubbiamente rilevante, per l’uso dei Padri della Chiesa al concilio. Ora dovremo tener conto anche di un dato «esterno», e chiederci: alla luce della ricerca sviluppata soprattutto nel Novecento, ma già anticipata nei grandi «precursori» del XIX secolo,61 quali sono i temi di ecclesiologia patristica che più influiscono nella costituzione ecclesiologica del Vaticano II? Quali sono i frutti di questa ricerca, che il concilio ha maggiormente recepito? E quali, eventualmente, ha trascurato? Continuando nell’impostazione utilizzata sin qui, cerchiamo di rispondere a queste domande con l’attenzione rivolta soprattutto ai motivi che hanno indotto a privilegiare (o, se il caso, a trascurare) l’uno o l’altro tema patristico, e alle modalità della sua ripresa: rinviando invece, per i contenuti stessi, al materiale disponibile in abbondanza nei commentari. Fermiamo l’attenzione soprattutto sul c. I, a motivo dell’ampiezza dei riferimenti patristici espliciti e impliciti che vi sono contenuti.
3. C O N T E N U T I
E S T R AT E G I E D E I T E M I PAT R I S T I C I N E L C A P I T O L O
I
3.1. M YSTERIUM E CCLESIAE a) Il mysterium come punto prospettico di LG Assume un valore in qualche modo simbolico il fatto che le prime citazioni che si trovano nel de Ecclesia (a parte quelle bibliche, incluse nel testo) siano tutte patristiche: solo al n. 7 si incontra per la prima volta una
60 Tra questi, però, va incluso quello collettivo dell’episcopato tedesco (nel quale è da rilevare, ancora una volta, la voce di mons. Jaeger: cf. L. JAEGER, Il Concilio, la Chiesa, le Chiese, Morcelliana, Brescia 1962, 144s; una maggiore consapevolezza si avverte poi in alcuni vota delle università. Per una sintesi di questi vota, cf. sopra, c. 3, sez. I, § 3b). 61 Rinviamo per questo alla sintesi che abbiamo abbozzato nel primo capitolo della nostra ricerca, in particolare nei §§ 3-4.
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citazione non patristica, con un rinvio a s. Tommaso.62 È un indice, se vogliamo solo esteriore, dell’assonanza fondamentale che si deve rilevare tra il primo capitolo della LG e l’ecclesiologia patristica: «Per la Lumen gentium, come per i padri, la Chiesa, anzitutto, è un mistero di fede: Ecclesiae sanctae mysterium (n. 5)».63 Non abbiamo bisogno di insistere sulla portata innovativa di questa scelta, e sul fatto che essa recupera, all’interno dell’ecclesiologia cattolica, una dimensione che per troppo tempo era rimasta in ombra, soprattutto da quando il crescente interesse giuridico aveva fissato l’attenzione quasi esclusivamente sugli aspetti istituzionali della Chiesa: tutti i commentatori di LG segnalano la cosa.64 Più importante, forse, è ricordare che il Vaticano II arrivava a questa scelta non all’improvviso, ma raccogliendo i frutti di una linea avviata dai grandi ecclesiologi cattolici del XIX secolo e maturata nella prima metà del Novecento soprattutto – ma non esclusivamente65 – attraverso la ricerca sulla Chiesa quale Corpo mistico, ricerca alla quale Pio XII avrebbe apposto il suo sigillo autorevole con l’enciclica Mystici corporis.66 Resta il fatto, però, che lo schema preparatorio non prevedeva questa tematica, e che solo dopo la discussione del primo periodo conciliare la prospettiva del mysterium Ecclesiae acquista un valore strutturante per la costituzione ecclesiologica del Vaticano II. Il cambiamento di approccio dipende anzitutto, a nostro avviso, dalle nuove finalità che il dibattito del 1962, anticipato già nella CCP, assegna allo schema sulla Chiesa. Per gli estensori dello schema preparatorio, il de Ecclesia doveva limitarsi a raccogliere alcuni punti nodali del dibattito ecclesiologico corrente, precisarli (eventualmente anche attraverso la riprovazione di posizioni erronee o pericolose), integrarli dove se ne avvertiva il bisogno (l’episcopato, il laicato) senza, in ogni caso, la pretesa di elaborare una trattazione completa sulla Chiesa.67
62 Al n. 6, nota 5, ai testi patristici di Origene e Tertulliano si aggiungono alcuni rinvii a testimonianze liturgiche. Su questa prevalenza iniziale dei rinvii alla Scrittura e ai Padri, cf. HÜNERMANN, «Theologischer Kommentar», 355; O. ROUSSEAU, in BARAÚNA, 113s. 63 DE LUBAC, Paradosso e mistero della Chiesa, Jaca Book, Milano 1979, 37. Per una presentazione del tema patristico in rapporto con LG, rinviamo a T. STROTMANN, «La Chiesa come mistero», in BARAÚNA, 314-328; PIETRI, «L’ecclésiologie patristique et Lumen gentium», 517s; si veda anche H. FRIES, «Mutamenti dell’immagine della Chiesa ed evoluzione storico-dogmatica», in L’evento salvifico nella comunità di Gesù Cristo (= Mysterium salutis, 7), Queriniana, Brescia 1972, 269-282. 64 Cf. ad es. i due commentari cronologicamente distanti di PHILIPS, La Chiesa e il suo mistero, I, 27s, e HÜNERMANN, «Theologischer Kommentar», 355s, 549. 65 Si ricordi che «L’Église est un mystère» è il titolo del primo capitolo della Méditation sur l’Église che H. de Lubac pubblica nel 1952. Per l’elaborazione del tema nella teologia francese prima del concilio, cf. C. FREY, Mysterium der Kirche, Öffnung zur Welt. Zwei Aspekte der Erneuerung französischer katholischer Theologie, Vandenhoeck u. Ruprecht, Göttingen 1969, 113-125. 66 Cf. sopra, c. 1 § 3. 67 Cf. sopra, c. 4 § 2a.
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È chiaro che neppure la Lumen gentium vuol essere un trattato completo di ecclesiologia; resta il fatto (e i padri conciliari ne furono sempre più consapevoli) che si tratta del primo documento che, nella storia dei concili, intende trattare ex professo e autorevolmente della Chiesa stessa.68 Che un documento del genere avesse bisogno di un respiro più ampio, rispetto alle prospettive limitate del testo preparatorio, si vede bene non solo da diversi interventi tenuti nel corso del primo periodo,69 ma anche dalla struttura dei vari schemi «alternativi», che circolarono negli stessi mesi e fino al momento dell’adozione dello «schema Philips» come base per la revisione: tutti comportavano un capitolo iniziale «de Ecclesiae Mysterio».70 Sarebbe limitato, quindi, intendere la riflessione sul mysterium Ecclesiae solo nei termini di alternativa o complemento a un’ecclesiologia per troppo tempo sbilanciata sulle categorie sociali-istituzionali. Il concilio, invece, ricorre alla prospettiva patristica del «mistero» per conferire alla LG un orizzonte unitario, un asse complessivo di intelligenza credente della Chiesa. Nella consapevolezza dell’impossibilità di «definire» la Chiesa,71 il concilio sceglie di situarsi nell’orizzonte contemplativo dei Padri; ed è noto che questi non elaborano un «trattato» sistematico de Ecclesia, perché la contemplano dappertutto: per i Padri, «la Chiesa era la condizione, l’ambiente e lo scopo di ogni vita cristiana; la vedevano in intima connessione con tutti i misteri, – diciamo meglio – con il Mistero della Fede nella sua totalità».72 Diventa evidente, in questa luce, che il concilio, ancora in linea con i Padri, presenta il mysterium soprattutto nel suo dispiegarsi nella storia, nella oikonomia, alla «narrazione» della quale dedica in particolare i nn. 2-4. Prima di arrivarci, è utile precisare ancora qualcosa sul termine parallelo a mysterium, ossia sacramentum, e sul significato dell’utilizzazione che ne fa il de Ecclesia.
b) Un termine-ponte: «sacramentum» 73 Con lo sguardo attento alle «strategie» conciliari riguardanti l’uso dei Padri della Chiesa, dobbiamo riconoscere senz’altro che la valorizzazio68 Si vedano al riguardo le osservazioni di H. DE LUBAC, in MILLER (ed.), La teologia dopo il Vaticano II, 228. 69 Cf. sopra, c. 5 § 2. 70 Cf. i testi dei vari schemi raccolti in Synopsis, 681-867: si noti che anche lo «schema Parente», voluto da Ottaviani come estremo tentativo di recuperare il lavoro della TE, ha come primo capitolo un «De Ecclesiae Mysterio» (cf. ivi, 683). Per le discussioni intorno ai vari schemi alternativi, cf. sopra, c. 5 § 4c, con la bibliografia ivi indicata. 71 Lo aveva ricordato autorevolmente, nel discorso di apertura del II periodo, Paolo VI (cf. EV 1,150*). 72 DE LUBAC, «Lumen gentium and the Fathers», tr. it. cit., 193s. 73 Consideriamo qui solo le implicazioni patristiche dell’uso conciliare di sacramentum in rapporto alla Chiesa; per un aggiornamento sullo status quaestionis di un tema molto discusso, si veda G. CANOBBIO, «La Chiesa sacramento di salvezza. Una categoria dimenticata», in RdT 46(2005), 663-694; S. MAZZOLINI, «La Chiesa sacramento del Regno», in Gr. 86(2005), 629-643.
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ne di sacramentum come termine (anche) patristico ha contribuito ad accreditare una prospettiva teologica che indubbiamente appariva nuova e difficilmente armonizzabile con il bagaglio teologico della maggior parte dei padri conciliari, almeno alla vigilia del concilio stesso. È in questo senso che parliamo di sacramentum, in accezione ecclesiologica, come termine-ponte, elemento di connessione tra l’antico e il nuovo,74 categoria che permetteva di integrare la visione istituzionale della Chiesa, da secoli dominante nella coscienza ecclesiale, con la prospettiva fondata sulla «più ampia economia salvifica sacramentale, basata sull’Incarnazione e avente le sue strutture più caratteristiche nei sette sacramenti».75 A rendere ancora più significativa la cosa è il fatto che, sotto un profilo puramente quantitativo, l’uso esplicitamente ecclesiologico di sacramentum non è molto frequente nei Padri;76 ma una ricca serie di studi, intorno alla metà del Novecento, aveva esplorato la tematica in profondità e in stretta connessione con il corrispondente greco mysterion, aprendo anche in questo caso la via a nuove prospettive teologiche.77 In questo uso «nuovo» di sacramentum si deve riconoscere senz’altro uno dei risultati più significativi del ressourcement patristico al concilio: aggiungendo subito, però, che il concilio non si è limitato a riprendere tale e quale la visione patristica. Già l’utilizzazione di sacramentum in LG 1, e la sua «spiegazione» in termini di «segno e strumento», comporta uno sviluppo rispetto al pensiero patristico. Questo, come ha notato Hünermann, non conosce ancora il senso di «efficacia strumentale», quale sarà sviluppato nel pensiero medievale;78 in questo modo, però, il concilio ha potuto presentare una comprensione storica della Chiesa quale soggetto peculiare di azione, in relazione determinante col mondo e con l’umanità. Così, se nel mondo patristico il concetto di «Chiesamistero» ha permesso alla Chiesa di situarsi teologicamente sia in rapporto all’AT sia in rapporto alla gnosi, l’uso di questo concetto permette alla Chiesa del Vaticano II di situarsi in rapporto al mondo odierno.
74
Cf. A. GRILLMEIER, in Das Zweite Vatikanische Konzil, 157. P. SMULDERS, «La Chiesa sacramento della salvezza», in BARAÚNA, 363-386, qui 364. 76 Per uno sguardo d’insieme sulle prospettive patristiche, cf. SMULDERS, in BARAÚNA, 368-377; sulla dimensione del «sacramentum unitatis», J.L. WITTE, «La Chiesa, “sacramentum unitatis” del cosmo e del genere umano», ivi, 491-521, in particolare 512-516; B. GHERARDINI, La Chiesa è sacramento. Saggio di teologia positiva, Roma 1976 (Teologia 2), 112-132. 77 Alcuni studi patristici più rilevanti sono indicati da SMULDERS, in BARAÚNA, 368, nota 17: si vedano, nella nostra «Bibliografia storica», i contributi di H.U. V. BALTHASAR (*1937, *1957), F. VAN DER MEER (*1948), J. FRUYTIER (*1950), L. BOUYER (*1952), C. COUTURIER (*1953), C. MOHRMANN (*1954), T. CAMELOT (*1957), M. DE SOOS (*1958); anche in questo caso, una prima sintesi di ecclesiologia tradizionale si poteva leggere in H. DE LUBAC, «Il sacramento di Gesù Cristo», c. 6 di Méditation sur l’Église (cf. sopra, nota 65; tr. it., 135159; cf. PHILIPS, La Chiesa e il suo mistero, I, 70s). 78 Cf. HÜNERMANN, «Theologischer Kommentar», 356, anche per quanto segue. 75
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3.2. L A C HIESA
NELL’ OIKONOMIA TRINITARIA
a) La Ecclesia universalis Il modo in cui il de Ecclesia accoglie (senza farne la categoria direttiva) il linguaggio teologico della Chiesa-sacramento, in quanto fondato nella tradizione patristica,79 conferma ancora una volta il fatto che il concilio ricorre ai Padri in un modo «strumentale». Non vorremmo dare a questo termine una connotazione negativa, ma soltanto ribadire che sarebbe sbagliato leggere la Lumen gentium come un’esposizione di ecclesiologia patristica tout court: la costituzione conciliare non doveva fare il lavoro che si cercherebbe in una sintesi storico-dottrinale dell’ecclesiologia – lavoro di cui, del resto, esistevano già esempi eccellenti. I padri conciliari potevano trovare nel pensiero patristico una prospettiva di fondo per un’esposizione, se non sistematica, almeno complessiva e unitaria della dottrina ecclesiologica (è il caso del «mistero della Chiesa»); dai Padri potevano ricavare elementi integrativi rispetto a concezioni ecclesiologiche non necessariamente sbagliate, ma parziali; il richiamo alla tradizione antica, poi, oltre che rispondere meglio all’attenzione ecumenica del concilio, rendeva più facilmente accettabili prospettive appunto tradizionali ma che, anche a ragione di una conoscenza inadeguata delle fonti, a molti sarebbero apparse semplicemente «nuove» e poco giustificate. L’elaborazione conciliare del mistero della Chiesa nell’orizzonte della oikonomia salvifica trinitaria (LG 2-4) ci sembra esemplare, al riguardo. È in questi numeri che appaiono le prime citazioni patristiche (e solo citazioni patristiche) ed è qui che, per la prima volta, nel testo stesso sono menzionati esplicitamente i sancti Patres (cf. LG 2). L’abbiamo già visto (sopra, al § 2.1): il rinvio così diretto ai Padri non significa, da sé, che il testo voglia assegnare un rilievo di particolare autorevolezza a quanto si dice. Qui, però, il testo conciliare sta prospettando una dimensione della Chiesa che, senza essere negata, restava normalmente fuori dalla visuale ecclesiologica: si tratta della Ecclesia praefigurata ab origine mundi, della Chiesa preparata nella prima Alleanza, della Chiesa costituita e manifestata nella pienezza dei tempi e destinata alla consummatio escatologica, della Ecclesia universalis che include tutti i giusti ab Abel… Insomma, della Chiesa in quanto non si esaurisce nella dimensione storicamente accertabile, nella societas di cui si possono indicare i criteri rigidamente definiti di appartenenza o di non appartenenza. Le difficoltà che fino all’ultimo alcuni padri conciliari opposero a questo testo, e che portarono la CD a modificarlo in una linea che si discosta-
79 Questo fondamento, peraltro, non è molto esplicitato nel testo stesso: solo al n. 9, nota 1, si rinvia a Cipriano, Ep. 69,6, per l’espressione inseparabile unitatis sacramentum; gli altri passi più rilevanti per l’uso ecclesiologico di sacramentum, ossia i nn. 1, 48 e 59, non sono accompagnati da riferimenti specifici.
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va dall’originale prospettiva agostiniana,80 sono sintomatiche e si capiscono rievocando ancora una volta, per contrasto, il titolo del primo capitolo dello schema preparatorio: «De Ecclesiae militantis natura». Non è forse un caso, allora, che i redattori qui abbiano nominato esplicitamente i Padri e abbiano citato – in senso stretto: riportando il testo alla lettera – alcune parole di un Padre (Gregorio Magno, che dipende da Agostino): queste sono riferite direttamente alla Ecclesia universalis nella sua configurazione escatologica, ma la tematica della prefigurazione e della preparazione della Chiesa è così radicata nell’ecclesiologia patristica che tutta la seconda metà del n. 2 risulterebbe difficilmente comprensibile senza lo sfondo dei Padri: uno sfondo che, anche in questo caso, deborda senz’altro molto al di là dei testi esplicitamente menzionati.81 Per l’ecclesiologia del XX secolo, peraltro, sarebbe stato impossibile recuperare sic et simpliciter il pensiero dei Padri: questo suppone una visione talmente «diffusa» del mistero della Chiesa, da non potersi armonizzare in tutto e per tutto con un’ecclesiologia che da molti secoli, ormai, trattava la Chiesa come un «oggetto» particolare in mezzo ad altri.82 Anche per questa ragione, sembra rimanere aperto un altro tipo di problema: in che misura il linguaggio desunto così abbondantemente, qui, dall’ecclesiologia patristica, può tradursi in qualcosa di comprensibile al lettore di oggi? Prendere sul serio la prospettiva suggerita in LG 2 attraverso il richiamo ai sancti Patres vorrebbe dire, ad es., cercare nella storia concreta dell’umanità, e nelle sue espressioni culturali, le tracce di una «praeparatio evangelica» o di una «adumbratio Ecclesiae»; ma come e dove compiere questa ricerca?83 Il Vaticano II non offre, qui, una risposta precisa: ciò dipende anche, forse, dal fatto che il richiamo ai Padri risponde anzitutto all’esigenza intraecclesiale di recuperare e integrare dimensioni dell’intelligenza credente della Chiesa da troppo tempo trascurate; viceversa, l’intento dichiarato di illustrare meglio la natura e la missione universale della Chiesa nell’orizzonte delle «condizioni del nostro tempo» (LG 1) non trova altrettanta rispondenza nel ricorso abbondante al pensiero patristico. 80
Cf. sopra, c. 7 § 1.1b. Rinviamo alla documentazione indicata nei commentari, in particolare: HÜNERMANN, «Theologischer Kommentar», 358; PHILIPS, La Chiesa e il suo mistero, I, 78s; PIETRI, «L’ecclésiologie patristique et Lumen gentium», 518s (che fa riferimento, tra l’altro, a J. DANIÉLOU, Théologie du Judéo-christianisme [*1958], per il radicamento del tema della preesistenza della Chiesa nelle correnti influenzate dall’apocalittica); MIDALI, in La Costituzione dogmatica sulla Chiesa, 288; per i testi agostiniani, J. MORAN, «La presenza di Agostino nel Concilio Vaticano II», in Aug. 6(1966), 463s. 82 Secondo de Lubac, l’abbandono quasi completo «del vecchio tema della “Chiesa dei santi”, lungi dal costituire propriamente un’infedeltà, deriva da una preoccupazione di precisione e di unificazione del concetto. Tale sollecitudine s’imponeva da quando l’idea della Chiesa, invece di restare semplicemente diffusa dappertutto come un tempo, diveniva l’oggetto di una riflessione teologica un po’ sistematica»: DE LUBAC, Paradosso e mistero della Chiesa, 41; cf. anche le osservazioni, di tenore analogo, a proposito della prevalenza della categoria di «popolo di Dio» rispetto ad altre immagini biblico-patristiche della Chiesa, ivi, 46s. 83 Cf. HÜNERMANN, «Theologischer Kommentar», 358 e 557. 81
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b) «Ecclesia de Trinitate» Sarebbe sbagliato, dunque, attendersi di trovare, nel testo conciliare, un riferimento sistematico all’ecclesiologia dei Padri; tanto meno ci si deve aspettare un uso sempre coerente ed equilibrato delle citazioni o allusioni patristiche. Abbiamo parlato di un uso positivamente «strumentale»: il che vuol anche dire che, lì dove non se ne avverte il bisogno, si fa a meno di ricorrere ai Padri; e non perché questi non abbiano niente da dire su un determinato tema (ciò che, naturalmente, è possibile: lo si vede in particolare nel c. IV), ma, più semplicemente, perché quanto si viene dicendo crea meno problemi, o è più pacificamente acquisito. Interpretiamo in questo senso, oltre che come conseguenza del rimaneggiamento del testo, la totale assenza di riferimenti patristici espliciti nel n. 3, che pure avrebbe potuto arricchirsi di molti filoni preziosi della teologia patristica: si pensi, solo per dare qualche esempio, al tema del regno di Dio (che anche nel n. 5, dove sarà trattato ex professo, è sviluppato solo con riferimenti biblici); alla recapitulatio cristologica nella linea di Ireneo (ripresa però al n. 13); all’interpretazione ecclesiologica e sacramentale di Gv 19,34; all’eucaristia come sacramentum unitatis…84 Inversamente, lì dove i Padri sono citati, eventualmente con una relativa abbondanza, si può pensare in linea di principio che il testo voglia attirare l’attenzione su qualcosa che, almeno nel contesto storico e teologico del Vaticano II, non va da sé, o introduce un aspetto insolito. È quanto accade di nuovo al termine del n. 4, con la citazione letterale del noto testo di Cipriano «de unitate Patris et Filii et Spiritus Sancti plebs adunata», integrato poi con i rinvii a passi di Agostino e Giovanni Damasceno.85 La citazione trova il suo senso pieno qui in rapporto a tutto lo sviluppo dei nn. 2-4, a supporto non tanto di una sorta di «definizione» della Chiesa, quanto piuttosto della visione complessiva della Chiesa stessa nell’orizzonte di una oikonomia trinitaria che esprime «l’impegno di Dio stesso nel destino del mondo: del Dio trinitario, s’intende».86 Merita di essere notato che l’orientamento trinitario qui indicato trova riscontro anche in altri documenti conciliari, opera di redattori e commissioni diversi;87 al
84 Sulle modifiche del testo, che hanno portato alla perdita dei riferimenti patristici, cf. sopra, c. 7 § 1.1b. Per quanto riguarda in particolare la considerazione dell’eucaristia come forza intima di costruzione della Chiesa, si vedano le osservazioni di H. de Lubac, secondo il quale, se pure in modo un po’ sporadico, il Vaticano II ha recuperato qui una dottrina di matrice patristica, comune a oriente e a occidente, centrale nella fede, ma trascurata negli ultimi secoli: cf. DE LUBAC, Paradosso e mistero della Chiesa, 39. 85 Cf. la nota 4 di LG 4. Per il testo di Cipriano, cf. PHILIPS, La Chiesa e il suo mistero, I, 87s. 86 Y. CONGAR, «Situation ecclésiologique au moment de “Ecclesiam suam” et passage à une Église dans l’itinéraire des hommes», in «Ecclesiam suam» première lettre encyclique de Paul VI. Colloque international, Rome 24-26 octobre 1980, Brescia-Roma 1982, 88. 87 Nei documenti conciliari, «nove volte ricorre il concetto che è l’anima del pensiero dei padri e l’anima della liturgia: al Padre, per il Figlio, nello Spirito [LG 4; 28; 51; DV 2; SC 6;
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punto che si è potuto sostenere che la dottrina trinitaria del Vaticano II è «tanto compiuta e dispiegata che si può dire che, dopo i primi quattro Concili, non se ne può trovare un’altra pari».88 Possiamo dire, quindi, che il richiamo ai Padri funge anche da «segnale»: è un modo per sottolineare; attira l’attenzione su qualche aspetto dell’insegnamento conciliare che, per una ragione o per l’altra, deve essere evidenziato, vuoi perché offre un orientamento e determina una prospettiva, all’interno della quale raccogliere poi diversi aspetti particolari della dottrina;89 vuoi perché «insolito», il che non significa che sia dubbio o discutibile, ma soltanto che esce dagli schemi mentali prevalenti dell’ecclesiologia recepta e chiede un allargamento e approfondimento (e, qualche volta, una correzione) di orizzonti. In questo stesso n. 4, chiuso con la citazione trinitaria di Cipriano, si può dire che assolve una funzione analoga anche il passo di Ireneo, richiamato in rapporto all’azione dello Spirito Santo che continuamente ringiovanisce e rinnova tutta la Chiesa:90 dietro a questa singola citazione occorre vedere, infatti, il riferimento a una ricerca di pneumatologia patristica che aveva già qualche decennio di vita e che costituiva tra le altre cose un punto chiave nel dialogo con l’oriente cristiano.91
PO 6; OT 8; AG 7/3; UR 15/1]. Due volte la chiesa è indicata in modo trinitario come popolo di Dio, corpo di Cristo, tempio dello Spirito santo: LG 17; PO 1. Una volta almeno è detto espressamente che “il modello supremo e il principio di questo mistero [la chiesa] è l’unità nella Trinità delle persone di un solo Dio Padre e Figlio nello Spirito santo” (UR 2/6). Il senso di tutto ciò è chiaro: a una visione principalmente giuridica, e per ciò stesso a dominante puramente cristologica, si è sostituita una visione della chiesa come comunione di persone e comunione di chiese locali, in una prospettiva trinitaria»: Y. CONGAR, «Implicazioni cristologiche e pneumatologiche dell’ecclesiologia del Vaticano II», in CrSt 2(1981), 108s. 88 DOSSETTI, Il Vaticano II, 200; Dossetti indica in AG 2-4 lo sviluppo più approfondito e maturo di questa dottrina. 89 La cosa vale, ad es., anche per le dimensioni soteriologica e «operativa» (il richiamo alla Trinità come invito a «costruire» l’unità della Chiesa, comunicando al medesimo Pane) dell’ecclesiologia trinitaria evocata con la citazione di Cipriano: cf. rispettivamente SMULDERS, in BARAÚNA, 366s, e PHILIPS, La Chiesa e il suo mistero, II, 296. 90 La nota 3 rinvia a IRENEO, Adv. haer. III,24,1. Si noti che la citazione è collegata a un contesto «sponsale» («[Spiritus]… ad consummatam cum Sponso suo unionem [Ecclesiam] perducit»: nel testo originale di Ireneo, invece, appare piuttosto l’immagine della Chiesa madre: «Spiritus autem veritas. Quapropter qui non participant eum, neque a mammillis matris nutriuntur in vitam…» (SCh 211, 472); cf. G. ZIVIANI, La Chiesa madre nel Concilio Vaticano II, PUG, Roma 2001, 113. 91 Lo ha rilevato MOELLER, in BARAÚNA, 173, nota 92, alludendo rapidamente a un arco di autori che va da Thomassin a Petau a de Regnon, e più recentemente a Durrwell e a Congar; ma non si dovrebbe trascurare il contributo di ricerca di p. Tromp: cf. PIETRI, «L’ecclésiologie patristique et Lumen gentium», 520s, e M. PHILIPON, in BARAÚNA, 338. Per un commento articolato a LG 4, si veda V. MARALDI, Lo Spirito e la Sposa. Il ruolo ecclesiale dello Spirito Santo dal Vaticano I alla Lumen Gentium del Vaticano II, Piemme, Casale Monferrato 1997, 303-340 (in partic. 314-316 per il testo di Ireneo).
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3.3. I P A DR I :
DOTTRINE
« DIMENT ICATE »?
La seconda parte del c. I ci permette di osservare ancora due aspetti delle strategie patristiche presenti nel de Ecclesia che sono, in realtà, due risvolti diversi della stessa questione, e cioè: come valutare l’assenza di riferimenti patristici – s’intende, evidentemente, nei casi in cui ci si aspetterebbe legittimamente di trovarli; lì dove, insomma, il testo espone dottrine che nell’insegnamento patristico non sono marginali, o non sono del tutto ignorate. La questione delle immagini della Chiesa al n. 6, e il problema del peccato nella Chiesa al n. 8, possono offrire qualche indicazione.
a) I Padri «sottintesi» Per chi è familiare all’ecclesiologia patristica, è a prima vista sconcertante il fatto che il concilio utilizzi con larghezza un modo tipicamente patristico di esprimersi, dedicando un intero numero a presentare alcune importanti «immagini della Chiesa» (cf. LG 6), ma lo faccia senza quasi citare i Padri stessi.92 Quando si pensa ad alcuni nomi di teologi presenti nella CD – Tromp, Congar, de Lubac, Daniélou, Ratzinger… –, e al loro lavoro di esplorazione delle fonti patristiche precisamente su questi aspetti, si rimane stupiti di fronte al carattere quasi esclusivamente biblico di questa parte del testo. Si può leggere in questa scelta un indizio del fatto che il de Ecclesia qui fa qualcosa di più che «citare» i Padri: possiamo dire, in altre parole, che la costituzione si muove in questo testo come facevano i Padri, adotta il loro stesso modo di procedere e di investigare il mysterium attraverso la lectio delle Scritture. Da questo punto di vista, LG 6, assai povero quanto a citazioni o allusioni patristiche, è però uno dei passi più patristici di tutta la costituzione e introduce all’interno di un testo conciliare un modo di esprimersi «tipologico», quanto mai tradizionale nella sua origine, ma altrettanto innovativo rispetto al linguaggio abituale dei testi magisteriali.93 Sul piano metodologico, se ne deve ricavare un’attenzione forse ovvia, ma che conviene esplicitare: l’apporto patristico del de Ecclesia non si riduce solo ai passi dove i Padri sono esplicitamente richiamati, o dove le 92 Si è già visto sopra (cf. c. 6, nota 15 e testo relativo) che solo l’immagine del tempio-edificio è integrata con alcuni riferimenti a testi patristici. 93 Secondo C. Pietri, si avverte qui l’eco della patristica siriaca, la cui conoscenza si andava ampliando nei decenni precedenti il concilio; ma egli stesso avverte che la tradizione dei Padri greci e latini offriva elementi più che sufficienti per sviluppare le immagini usate nella costituzione (cf. PIETRI, «L’ecclésiologie patristique et Lumen gentium», 522s, anche per un breve commento patristico alle immagini usate in LG 6. Lo stesso Pietri osserva che un procedimento simile è all’opera sin dalla frase iniziale del de Ecclesia, che evoca il simbolismo della Chiesa-luna studiato da H. Rahner [cf. il saggio «Mysterium lunae», *1939]: cf. ivi, 516; al riguardo, cf. anche RATZINGER, «L’ecclesiologia della “Lumen gentium”», 75; H. DE LUBAC, «Quid significet Ecclesiam esse mysterium», in E. DHANIS – A. SCHÖNMETZER [edd.], Acta Congressus Internationalis de Theologia Concilii Vaticani II. Romæ diebus 26 septembris - 1 octobris 1966 celebratis, Typis Pol. Vaticanis, Romae 1968, 27s). Torneremo sulla «imitazione» dei Padri, da parte del Vaticano II, al c. 9 § 2.
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note allineano un numero più o meno ampio di rinvii a loci patristici. Abbiamo visto, del resto, che nel corso della redazione del de Ecclesia si è proceduto a una riduzione della documentazione patristica, che era stata indicata con abbondanza soprattutto nella revisione dello schema dell’intersessione 1962-63;94 in alcuni casi, i riferimenti espliciti sono scomparsi del tutto, e soltanto la storia redazionale del testo permette di ritrovare le tracce di allusioni e richiami non più visibili in superficie.
b) I Padri «dimenticati»? È pure sconcertante che nell’ultimo numero del c. I, lì dove il concilio affronta la questione del peccato nella Chiesa, la testimonianza patristica sia, di fatto, completamente assente. Il n. 8, è vero, cita esplicitamente un solo testo patristico: è il passo del de civitate Dei di Agostino, riportato nella parte conclusiva del testo stesso (ciò che ne evidenzia il valore «segnaletico» fondamentale), che sottolinea la natura peregrinante della Chiesa.95 Non si può dire, però, che l’insegnamento patristico manchi del tutto da questo numero così denso e che ha suscitato tante discussioni: è stato rilevato, ad es., che l’espressione organum salutis, applicata in LG 8 sul piano cristologico all’umanità del Verbo incarnato e su quello ecclesiologico alla Chiesa nella sua realtà concreta e nel suo rapporto con lo Spirito, ha una radice patristica: dal punto di vista cristologico, attraversa tutta la cristologia, anche se si espone a interpretazioni diverse, non sempre accettabili;96 si tratta in ogni caso di un’idea fruttuosa per la comprensione dell’incarnazione, benché venga usata qui solo come analogia per la condizione della Chiesa. Anche per la nozione della Chiesa quale «unam realitatem complexam» si è potuto rinviare al sottofondo patristico, soprattutto agostiniano.97 Quando si considera la sezione del testo che confronta la santità di Cristo con la presenza del peccato nella Chiesa, si ha invece la netta impressione di un marcato arretramento, rispetto alla teologia patristica relativa al peccato nella Chiesa, teologia che era già stata esplorata da alcuni decenni con ricerche approfondite.98 Il problema di questa parte 94 Cf. sopra i cc. 6 e 7. È abbastanza evidente che i commentatori della LG, quando presentano i risvolti patristici del testo, attingono spesso sia alla documentazione allegata allo schema del 1963 che alla Relatio della Commissione dottrinale del 1964. 95 Per il più ampio sfondo agostiniano del passo citato (Civ. Dei XVIII,51,2), cf. MORAN, «La presenza di Agostino nel Concilio Vaticano II», 465s. 96 Cf. GRILLMEIER, in Das Zweite Vatikanische Konzil, 173, con rinvio (alla nota 28) alla voce organon in Das Konzil von Chalkedon (*1951), III. 97 Cf. PIETRI, «L’ecclésiologie patristique et Lumen gentium», 524. 98 Sulla questione si veda in particolare K. RAHNER, «Il peccato nella Chiesa», in BARAÚNA, 419-435: vi si troveranno i rinvii alle ricerche patristiche precedenti, in particolare il saggio di H.U. VON BALTHASAR, «Casta meretrix» (in Sponsa Verbi [*1954]), ma anche J. DANIÉLOU, Sacramentum futuri (*1950) e, per Agostino, F. HOFMANN, Der Kirchenbegriff des hl. Augustinus (*1933); gli stessi studi sono citati anche da PHILIPS, La Chiesa e il suo mistero, I, 116s, che sembra però dare per acquisita, anche su questo punto, l’affinità di fondo tra la dottrina del de Ecclesia e quella patristica.
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del testo non riguarda solo, né forse principalmente, il rapporto con la dottrina patristica, perché si deve constatare, con K. Rahner, «non per muovere lamentele ma per additare un fatto, che la Costituzione De Ecclesia non affronta tale questione [= il peccato nella Chiesa] con tutta quella chiarezza, intensità e compiutezza, che ci si sarebbe potuto forse attendere»:99 non c’è una vera riflessione sistematica in merito, non emerge l’importanza ecumenica del tema, non sembra che la realtà del peccato sia veramente presa sul serio, nonostante proposte e suggerimenti giunti da diversi padri conciliari. Per quanto concerne il nostro punto, si può dire senz’altro che, come minimo, la dottrina patristica qui è lasciata da parte, forse anche a ragione della sua non univocità; ma l’abbandono dell’insegnamento patristico potrebbe spiegare il carattere non del tutto soddisfacente della dottrina conciliare a questo riguardo, dottrina che sembra muoversi nella direzione di una peccaminosità ricondotta, in definitiva, soltanto ai peccati personali;100 ma così il concilio non va al cuore del mistero storico della Chiesa nella tensione tra peccato storicamente esistente, santità indefettibile e compimento escatologico.101
4. L A LG
E I PA D R I D E L L A SGUARDO D’INSIEME
A)
CHIESA:
F U NZ IONI
DEL L’ INSE G NAM EN TO PATR I STIC O
Lo studio dei temi patristici presenti (anche implicitamente), o assenti, nel c. I della LG ha fatto emergere alcune modalità dell’utilizzazione conciliare dei Padri, che potremmo riassumere così: – l’insegnamento dei Padri è utilizzato anzitutto in funzione prospettica (H. de Lubac): opera, cioè, come chiave di lettura unificante per una dottrina che, senza voler essere sistematica, e dovendo raccogliere elementi anche eterogenei, cerca di collocarli però in una prospettiva unitaria e vuole offrire alcune direzioni fondamentali allo sguardo della fede che intende comprendere più a fondo la realtà della Chiesa; il mysterium Ecclesiae è certamente l’esempio più significativo di questa utilizzazione; – si può parlare, in secondo luogo, di una funzione integrativa, che la dottrina patristica svolge rispetto a impostazioni ecclesiologiche troppo limitate, o parziali; la testimonianza dei Padri permette di recuperare, 99
RAHNER, in BARAÚNA, 425, anche per quanto segue. Abbiamo visto (sopra, c. 7 § 1.4b) che anche il testo di Agostino, Retr. II,18, cui rinvia LG 40, viene riletto in una chiave individualistica, che non corrisponde bene al pensiero di Agostino ma neppure del tutto, forse, alla Mystici corporis, che già rinviava a questo testo (cf. AAS 35[1943], 225); cf. anche DE LUBAC, Paradosso e mistero della Chiesa, 43s. 101 Per un approccio più articolato – che però non considera esplicitamente la dottrina patristica – si veda ora COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE, Memoria e riconciliazione: la Chiesa e le colpe del passato (2000), in particolare il c. 3. 100
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cioè, aspetti trascurati della tradizione cristiana, svela panorami che erano rimasti per troppo tempo nell’ombra, anche se da qualche decennio un certo numero di ricerche li aveva riportati alla luce: esemplare, al riguardo, la questione della ecclesia ab Abel, decisamente «invisibile» agli occhi di un’ecclesiologia appiattita sui criteri solo estrinseci dell’appartenenza alla Chiesa; – il testo conciliare utilizza i Padri anche secondo una funzione che chiameremo persuasiva102 e che si estende in più di una direzione: vi è certamente quella ecumenica (e anche di raccordo intracattolico, fra «latini» e «orientali»), del resto raccomandata sin dalla fase antepreparatoria, ma non molto recepita nell’elaborazione dei primi schemi; ma c’è anche un’opera di persuasione, affidata alla teologia dei Padri, nei confronti di alcuni temi delicati e disputati; gli esempi più significativi li abbiamo visti a proposito di LG 20-22, ma si può includere in questa funzione anche l’uso ecclesiologico di sacramentum; – abbiamo incontrato, poi, una funzione segnaletica, che rappresenta, più che una specificazione di contenuto dottrinale, un modo per evidenziare elementi particolarmente rilevanti all’interno di un testo. Non è detto che tali elementi siano da ricondurre, necessariamente, solo all’insegnamento dei Padri; né che, d’altra parte, vi si incontri un punto particolarmente originale della dottrina patristica; richiamandolo attraverso un riferimento patristico si ottiene, però, un effetto di rinforzo, come accade per le immagini «edificatorie» della Chiesa, evocate in LG 6.103 Vorremmo utilizzare ora questo abbozzo di articolazione differenziata dell’uso dei Padri, per una ricognizione d’insieme di quella parte di testimonianza patristica usata nel de Ecclesia che non abbiamo ancora preso in considerazione. Va subito detto che la suddivisione nelle quattro funzioni indicate qui sopra non andrà presa in modo troppo rigido: in certi casi, le funzioni sono intrecciate e vi sono testi o aspetti dell’insegnamento patristico della LG non riconducibili a una funzionalità precisa. La suddivisione che proponiamo, in definitiva, vuole essere solo uno strumento orientativo, utile per organizzare meglio un materiale eterogeneo e cogliere meglio alcuni procedimenti più significativi. Come abbiamo visto, poi, vi sono testi della LG che suppongono l’uno o l’altro insegnamento patristico ma che, almeno nello stadio finale del testo, non lo esplicitano; è chiaro che è più difficile far rientrare questi testi nella criteriologia indicata, anche se la storia della redazione del testo offre qualche indicazione in merito; ma una parte almeno di questi testi va considerata a sé. Per quest’ultima ricognizione del materiale patristico del de Ecclesia muoveremo in modo molto più sintetico, rispetto a quanto fatto sin qui: si 102 Vedremo poi che qui entra in campo qualcosa di più, rispetto a una specifica funzione (cf. c. 9 § 3a); per il momento, utilizziamo l’espressione in un senso più delimitato. 103 Quanto abbiamo visto al § 2.2d, a proposito della collegialità, indica che questa funzione «segnaletica» può essere giustapposta a un orientamento teologico non perfettamente in armonia col pensiero dei Padri.
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troverà qui di seguito, in pratica, poco più che un’elencazione delle tematiche patristiche riprese dalla LG, in base alla distinzione di funzioni indicata. Confermiamo così il percorso che ci ha fatto passare da un’analisi più serrata di un testo relativamente breve (i nn. 20-22) allo sguardo già meno analitico sull’intero c. I, per arrivare ora a una sorta di panorama «dall’alto», che si accontenta di cogliere alcuni punti di riferimento più visibili, rinunciando inevitabilmente a un commento dettagliato.
B)
P R O SPE TT IVE
D O M I N ANT I
Alcuni orientamenti patristici, o molto affini alla dottrina patristica, segnano le coordinate di riflessione del c. I: si tratta, come abbiamo visto, del mysterium/sacramentum, della considerazione della Chiesa all’interno della oikonomia salvifica, come pure dell’impostazione trinitaria. Quest’ultimo aspetto si conferma determinante anche per la visione conciliare della missione della Chiesa: Le Guillou lo sottolinea a proposito di LG 17, notando che è del tutto coerente con la tradizione antica e medievale, almeno sino a Tommaso, impostare la visione della Chiesa missionaria «a partire dall’irruzione nella creazione del Verbo Creatore e Redentore che prepara l’avvento del Regno»;104 la cosa va ancor più evidenziata in rapporto con lo sguardo trinitario sulla Chiesa e la sua missione, che si ricava dal parallelo tra LG 2-4 e AG 2-4. È il caso di rilevare qui che la scelta conciliare di concentrare la riflessione sulla Chiesa quale «soggetto storico» intorno alla categoria di «popolo di Dio» si muove, invece, in una direzione non estranea al pensiero patristico, ma che non ne costituisce neppure un asse centrale.105 La nozione di «popolo di Dio» è sicuramente coerente con la visione patristica di una Chiesa radicata nella comune grazia battesimale, una Chiesa che esclude ogni divisione di casta, una Chiesa che «tutt’intera… crede, spera ed ama, ama il suo Signore e Salvatore, attende il suo ritorno»106 mentre va peregrinando verso il compimento escatologico. Secondo de Lubac, tuttavia, la qualificazione della Chiesa come «popolo di Dio», nel contesto patristico, ha a che fare soprattutto con l’autocomprensione della Chiesa stessa quale «Israele spirituale», con tutta la dialettica che si dischiude, a partire di qui, per il rapporto tra i due Testamenti: una problematica che, sempre a giudizio del teologo di Lione, non è sufficientemente elaborata all’interno della Lumen gentium, forse in conseguenza di «un movimento biblico felice, ma che non ha ancora esplorato in tutta la sua profondità la dialettica tradizionale dei due Testamenti».107
104
M.-J. LE GUILLOU, in BARAÚNA, 682. Cf. per quanto segue DE LUBAC, Paradosso e mistero della Chiesa, 43s. 106 DE LUBAC, Paradosso e mistero della Chiesa, 44. 107 DE LUBAC, Paradosso e mistero della Chiesa, 46; riprenderemo qualche aspetto della questione più avanti, al punto f. Per SEMMELROTH, la nozione di popolo di Dio «nella Chiesa antica… ha avuto fino al IV secolo una preminenza su tutte le altre concezioni della Chiesa» 105
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Più importante, anche perché ha ripercussioni che vanno oltre il de Ecclesia, è invece la ripresa, all’interno dello stesso c. II, e in posizione strategica, del tema della ricapitolazione. Questa dottrina trova spazio all’inizio della seconda parte del capitolo, dedicata all’universalità del popolo di Dio (LG 13-17), e viene richiamata con riferimento al suo più illustre rappresentante in epoca patristica, Ireneo di Lione, individuato come l’interprete più significativo dei testi paolini di Ef 1,10.24, capace di dischiudere la grande visione unitaria dell’insieme della creazione e della redenzione, derivante da Cristo e in via di tornare a lui come all’unico Capo.108 È in questo orizzonte cosmico ed escatologico, così presente ai Padri,109 che si colloca appropriatamente la visione dell’umanità, nei suoi diversi livelli di «appartenenza» e «ordinamento» al popolo di Dio; è in questa prospettiva che si deve cogliere la dimensione escatologica della missione della Chiesa;110 ed è in questo stesso orizzonte che si dovrà leggere poi, nella costituzione pastorale Gaudium et spes, il dispiegarsi di uno sguardo sulla Chiesa, sull’umanità e sulla creazione, pensate integralmente nell’ambito della ricapitolazione cristologica.111
C)
I N TE GR A Z I ON I
D OT T R I N A LI
La maggior parte delle tematiche patristiche, richiamate con maggiore o minore ampiezza, in certi casi solo per allusioni, all’interno della Lumen gentium, risponde a quella che abbiamo chiamato funzione di «integrazione». Sono davvero molti gli elementi dottrinali da evocare a questo riguardo, oltre a quelli già indicati soprattutto per il c. I; seguendo l’ordine dei capitoli, richiamiamo anzitutto i diversi aspetti della vita sacramentale menzionati a proposito del sacerdozio battesimale, e anzi questa stessa tematica del sacerdozio di tutti i battezzati e del suo rapporto con il sacerdozio ministeriale (cf. LG 10).112 Ricordiamo in partico-
(in BARAÚNA, 441), ma la cosa è discutibile: Semmelroth non documenta direttamente, ma rinvia agli studi di J. EGER su Ambrogio (*1947) e di J. RATZINGER su Agostino (*1954); per l’uno e l’altro, cf. il c. 1 § 4c, dove abbiamo rilevato che la ricerca di Ratzinger conduce a conclusioni molto più sfumate. 108 Cf. PHILIPS, La Chiesa e il suo mistero, I, 166; LG 13, nota 10, rinvia a Adv. haer. III,16,6; 22,1-3. 109 Cf. STROTMANN, in BARAÚNA, 325, e DE LUBAC, Paradosso e mistero della Chiesa, 53s. In questa prospettiva, sembra più limitato il valore della citazione del Crisostomo introdotta nel testo stesso del n. 13: «qui Romae sedet, Indos scit membrum suum esse» (In Io., hom. 65,1); cf. PIETRI, «L’ecclésiologie patristique et Lumen gentium», 527. 110 LE GUILLOU, in BARAÚNA, 688s, sottolinea che si tratta di una prospettiva biblica, alla quale i Padri restano fedeli, e cita a titolo di esempio l’espressione di Metodio di Olimpo, «La Chiesa è nei dolori del parto fino a quando tutti i popoli non saranno entrati nel suo seno» (Symp. 8,6). 111 Cf. per questi sviluppi G. MARTELET, Les idées maîtresses de Vatican II. Initiation à l’esprit du Concile, Desclée, Paris 1966 e 1969; nuova ed. Cerf, Paris 1985, 209-232. 112 Come diremo più sotto, al punto d, per questa tematica ci sembra prevalente, però, la dimensione «persuasiva», giocata dal richiamo all’insegnamento patristico.
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lare, in questa dimensione (cf. LG 11), gli accenni al sacramento della penitenza e all’implicazione della Chiesa nel processo di riconciliazione;113 il ritorno alla designazione di unctio infirmorum per il sacramento dei «malati», e non solo dei «moribondi»;114 e ancora tutto il sottofondo patristico della dottrina del matrimonio come dono spirituale e come stato di vita specifico nella Chiesa.115 È debitrice ai Padri l’applicazione all’insieme del popolo cristiano dei tria munera, sviluppata nella prima parte del c. II,116 e in particolare quanto si riferisce al carisma profetico del popolo cristiano (cf. LG 12), con l’affermazione del suo sensus fidei;117 e se le parole di Agostino introdotte nel testo hanno soprattutto un valore «segnaletico», non c’è dubbio che esse rimandino a una consapevolezza ben presente nei Padri e ben rilevata, com’è noto, da Newman.118 Il riconoscimento degli elementi positivi, presenti nelle religioni, e la dottrina della «praeparatio evangelica» in LG 16, è un altro apporto prezioso della tradizione patristica, sebbene anche qui, come in altri casi, i testi patristici menzionati nelle prime versioni della costituzione siano scomparsi nella redazione definitiva.119 Del c. III, e in particolare della collegialità episcopale, abbiamo già detto (sopra, § 2.2d): l’apporto patristico vi è molto presente, e gioca un ruolo fortemente «persuasivo». Si può dubitare, invece, di una sua eventuale funzione «prospettica»: in altre parole, la «costruzione di senso» della questione della collegialità è fondata su una problematica – quella della potestas sulla Chiesa universale – che non è direttamente patristi-
113 Cf. HÜNERMANN, «Theologischer Kommentar», 381 (con rinvio a P. ADNÈS, «Penitenza e riconciliazione nel Vaticano II», in R. LATOURELLE [ed.], Vaticano II: Bilancio e prospettive 25 anni dopo (1962-1987), Cittadella, Assisi 1987, I, 687-704); Philips, richiamando un giudizio di Rahner, su questo punto è un po’ più riservato e ritiene che il concilio non abbia sviluppato «un rapporto esplicito tra i due effetti della confessione sacramentale – il perdono di Dio e la riconciliazione con la Chiesa. I due aspetti sono semplicemente giustapposti. Il concilio non ha dunque ratificato una tesi teologica, molto attraente, ma non ancora abbastanza nota. Veramente, per dirla con K. Rahner, dovremmo parlare di una teoria “dimenticata”»: PHILIPS, La Chiesa e il suo mistero, I, 147. 114 Cf. HÜNERMANN, «Theologischer Kommentar», 381. 115 Cf. PHILIPS, La Chiesa e il suo mistero, I, 150s, con i testi ivi citati. 116 Si tratta di un aspetto presente sin dallo schema preparatorio; i testi patristici di riferimento furono però lasciati cadere: cf. B. VAN LEEUWEN, in BARAÚNA, 466s. 117 Su questo tema, cf. B. VAN LEEUWEN, in BARAÚNA, 478s. Il saggio di D. VITALI, «Universitas fidelium in credendo falli nequit (LG 12). Il sensus fidelium al concilio Vaticano II», in Gr. 86(2005), 607-628, mostra quanto la tematica fosse già da tempo familiare alla ricerca teologica e alla coscienza dei padri conciliari. 118 Cf. PIETRI, «L’ecclésiologie patristique et Lumen gentium», 526s; PHILIPS, La Chiesa e il suo mistero, I, 156s: entrambi rinviano ai testi raccolti da Y. CONGAR, Jalons pur une théologie du laïcat, Cerf, Paris 1954, 31964, 450ss. Per il testo di Agostino, cf. sopra, c. 6, nota 43 (col rinvio anche ad altri luoghi patristici) e testo relativo. 119 Cf. HÜNERMANN, «Theologischer Kommentar», 400; sulla questione, si vedano in particolare: DE LUBAC, Paradosso e mistero della Chiesa, 160 e 172; MARTELET, Les idées maîtresses de Vatican II, 42-50; G. THILS, in BARAÚNA, 674s; PHILIPS, La Chiesa e il suo mistero, I, 190-192.
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ca. Essa viene quanto meno integrata, se non proprio armonizzata, con i tratti di un’ecclesiologia eucaristica, che permette di situare meglio anche la dimensione locale della Chiesa rispetto a quella universale (cf. LG 23 e 26): e qui abbiamo un aspetto autenticamente patristico,120 e che rimane tale proprio evitando di contrapporre, a una pretesa visione patristica «localistica» della Chiesa, una visione universalistica che si vorrebbe non conosciuta dai Padri.121 Altri aspetti dell’insegnamento del c. III, pur venendo a integrare dimensioni significative dell’articolazione gerarchica della Chiesa, sembrano premere maggiormente nella direzione persuasiva, e li vedremo di seguito. Riteniamo da includere senz’altro, fra le integrazioni più rilevanti che l’insegnamento dei Padri offre alla visione della Chiesa proposta dal concilio, quella che riguarda la dimensione escatologica della Chiesa. È una dimensione anticipata già nella conclusione del c. I, strettamente connessa poi con la nozione di «popolo di Dio», soprattutto secondo la visione dei Padri latini,122 e ripresa al c. VII, quale sottofondo in particolare dei nn. 48-50.123 Anche le numerose citazioni patristiche del c. VIII124 rispondono, per quanto possiamo giudicare, principalmente a una funzione «persuasiva». Senza dubbio, però, il capitolo conclusivo della costituzione si distingue per il recupero e l’integrazione, sulla base anche del pensiero dei Padri, di temi rimasti troppo in ombra nel vertiginoso sviluppo della mariologia moderna. Il più evidente, e il più centrale, è dato precisamente dalla stessa relazione Chiesa-Maria, che determina alla radice la scelta di collocare il de Beata Virgine all’interno del de Ecclesia. Va ricordato, in merito, che in non pochi ambienti del concilio il tema veniva percepito come «nuovo», persino da parte di specialisti.125 Citando o alludendo ai Padri, il testo conciliare sulla Vergine Maria aiuta a meglio riscoprire o puntualizzare altri aspetti particolari: pensia120 Per uno sguardo d’insieme sulla prospettiva conciliare e il suo rapporto con la patristica, cf. B. NEUNHEUSER, «Chiesa universale e Chiesa locale», in BARAÚNA, 616-642, in particolare 625-630; MIDALI, in La Costituzione dogmatica sulla Chiesa, 700s; M. SEMERARO, «Le Chiese particolari formate a immagine della Chiesa universale (LG 23). Analisi e interpretazione di una formula», in N. CIOLA (ed.), Servire Ecclesiæ. Miscellanea in onore di Mons. Pino Scabini, EDB, Bologna 1998, 341-343. 121 Cf. DE LUBAC, Paradosso e mistero della Chiesa, 39-41; RATZINGER, «L’ecclesiologia della “Lumen gentium”», 72; SEMERARO, «Le Chiese particolari», 343; A. TOURNEAUX, «L’évêque, l’eucharistie et l’Église locale dans Lumen gentium, 26», in EThL 64(1988), 140. 122 Cf. DE LUBAC, Paradosso e mistero della Chiesa, 44, con il rinvio ad A. LUNEAU, L’histoire du salut chez les pères de l’Église, Beauchesne, Paris 1964. 123 Cf. PIETRI, «L’ecclésiologie patristique et Lumen gentium», 533, che segnala come H. de LUBAC, con il suo Catholicisme (*1938) avesse contribuito a riscoprire il radicamento tradizionale dell’escatologia collettiva; cf. anche FREY, Mysterium der Kirche, 164s. 124 Rispetto alla lunghezza del testo, la proporzione delle citazioni e allusioni patristiche è quasi uguale a quella del c. III. 125 Cf. sopra, c. 5, nota 120. Si vedano anche le osservazioni di PHILIPS, La Chiesa e il suo mistero, II, 237; sul carattere «tradizionale» e specificamente patristico della mariologia del Vaticano II, cf. PIETRI, «L’ecclésiologie patristique et Lumen gentium», 535-537; O. SEMMELROTH, in Das Zweite Vatikanische Konzil, 340.
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mo alla fede e all’adesione obbediente di Maria al mistero dell’incarnazione, che è il tratto forse più caratteristico della tipologia ChiesaMaria;126 alla maternità verginale di Maria, prototipo della maternità della Chiesa a riguardo dei cristiani, come pure della verginità della Chiesa – tema, questo, forse meno familiare della maternità, «perché abbiamo perso di vista che, per i Padri, la verginità significa una fedeltàobbedienza incondizionata alla pura dottrina rivelata, al punto che “virgo fidelis” equivale press’a poco a pleonasmo».127
D)
L A PORTATA PER S UA S I VA D E LLA DOTTR I N A PATR I S TI C A
Quella che abbiamo chiamato la funzione «persuasiva» del ricorso ai Padri della Chiesa deriva dal fatto, naturalmente, che alcuni aspetti dell’intelligenza credente della natura e della missione della Chiesa, per quanto rimessi in evidenza o precisati attraverso la ricerca storico-teologica degli ultimi decenni prima del concilio, suonavano innovativi, o poco sicuri, a un certo numero di padri conciliari. Non va poi trascurata l’attenzione al modo patristico di esprimersi, suscettibile di raccogliere una più ampia convergenza di consensi rispetto al linguaggio di matrice (neo-)scolastica, che aveva caratterizzato buona parte dei documenti preparatori del concilio, de Ecclesia compreso: linguaggio sicuramente più preciso e rigoroso, ma anche meno unificante e, in definitiva, meno convincente. È chiaro che si incontrerà il ricorso a questa modalità di utilizzazione dei Padri anzitutto in rapporto ad alcune tematiche più controverse: l’esempio più completo resta dunque, senza dubbio, la questione della collegialità (sopra, § 2.2). Si possono indicare, però, alcuni altri esempi. Procedendo, anche in questo caso, secondo l’ordine dei capitoli, indichiamo in primo luogo il tema del sacerdozio battesimale (LG 10). Secondo Philips, è un tema così presente nella tradizione patristica, che il concilio si ritiene dispensato dall’accumulare citazioni;128 resta il fatto che il recupero di questa nozione non andava senza difficoltà, e il ricorso ai Padri ha potuto contribuire a mostrare l’antichità e costanza della dottrina e a mettere in rilievo anche la dimensione pubblica e comunitaria di questo sacerdozio, essa pure già presente nei Padri;129 vale lo stesso per il rilievo dato, nel quadro del munus profetico, al sensus fidei di tutto il popolo cristiano: «integrazione» e «persuasione» qui, come in altri casi, vanno evidentemente insieme. 126
Cf. BARAÚNA, 1151. Così G. Philips, citato da J. Galot, che commenta: «Siamo portati a pensare che questo principio della dottrina patristica ha guidato la redazione del testo conciliare» (BARAÚNA, 1160, nota 14). Sulla maternità di Maria come modello della maternità della Chiesa, cf. DE LUBAC, Paradosso e mistero della Chiesa, 61. 128 Cf. PHILIPS, La Chiesa e il suo mistero, I, 135s, per alcuni esempi; si vedano anche i testi menzionati nello schema del 1963 (sopra, c. 6, nota 47) e quelli indicati da PIETRI, «L’ecclésiologie patristique et Lumen gentium», 526s. 129 Cf. PHILIPS, La Chiesa e il suo mistero, I, 141. 127
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Si può dire, poi, che il ricorso ai Padri ha permesso al concilio di accogliere più facilmente il richiamo al tema della condiscendenza divina e della sua «pedagogia», tema che trova tutto il suo rilievo nel collegamento con una visione della cattolicità capace di rispecchiare la diversità dei popoli e delle culture (LG 13 e 17) e di riconoscere il valore di «un atteggiamento religioso che si apre, con la grazia del Signore, sulla vita eterna», secondo un insegnamento che è anche dei Padri.130 È stata forse una sorpresa scoprire che i Padri della Chiesa, molto severi nei confronti degli eretici, si mostrano spesso più concilianti del previsto nei confronti dei «pagani»:131 il che non diminuisce in nulla l’impegno missionario della Chiesa, ma le fa incontrare un terreno predisposto favorevolmente da Dio stesso. Il c. III fa ricorso alla forza persuasiva dei Padri non solo a proposito della collegialità, ma anche per altre questioni. Due, in particolare, sembrano da sottolineare: l’uso abbondante del riferimento alla dottrina ignaziana sul vescovo, e la questione del diaconato. Gli interventi conciliari mostrano che l’insegnamento di Ignazio è familiare ai vescovi, certamente più di quello di altri Padri; se parliamo, in questo caso, di un uso persuasivo dei suoi testi, è soprattutto per l’appoggio che dà all’affermazione della sacramentalità dell’episcopato e, come conseguenza, alla preminenza anche e prima di tutto sacramentale del vescovo nella Chiesa locale e al carattere «originario» della sua presidenza eucaristica, soprattutto in riferimento ai presbiteri; in questa linea va richiamata anche la rilevanza dell’eucaristia quale sacramentum unitatis132 e va colta la portata del recupero della nozione di presbyterium, che il concilio interpreta precisamente nella linea del vescovo di Antiochia, «liberando il “sacerdozio” del presbitero dall’individualismo in cui era caduto»133 e ponendo così anche le basi di una spiritualità del ministero presbiterale più spiccatamente comunitaria.134 Anche la considerazione del vescovo quale vicarius Christi, e più in generale a tutta la concezione del vescovo quale rappresentante di Cristo, strettamente legato alla successione apostolica, con particolare riferimento a Cipriano (cf. LG 27),135 ha potuto farsi strada grazie al richiamo alla dottrina patristica; e questo vale anche per l’accentuazione sul munus docendi del vescovo, che rimanda al rilievo che ha nei Padri la
130 Cf. LE GUILLOU, in BARAÚNA, 691, con rinvio a GREGORIO NAZ., Or. 31,25; EUSEBIO CES., Demonstr. Evang. 1,1. 131 Cf. PHILIPS, La Chiesa e il suo mistero, I, 190, con i testi patristici indicati nelle pp. 191s. 132 Cf. LÉCUYER, in BARAÚNA, 859-865; PHILIPS, La Chiesa e il suo mistero, I, 297; 316322; GRILLMEIER, in Das Zweite Vatikanische Konzil, 249. 133 E. CASTELLUCCI, Il ministero ordinato, Queriniana, Brescia 2002, 237. Sulla nozione conciliare e ignaziana di presbyterium, si veda J. LÉCUYER, «Il presbyterium», in Y. CONGAR – J. FRISQUE (edd.), I preti. Formazione, ministero e vita, AVE, Roma 1970, 209-225. 134 Cf. LG 41, con il testo di Ignazio di Antiochia (Magn. 13,1) ivi indicato alla nota 6; al riguardo, si veda WULF, in Das Zweite Vatikanische Konzil, 297s. 135 PHILIPS, La Chiesa e il suo mistero, I, 304s; ma è rilevante, tra l’altro, anche l’affermazione che, basandosi su Leone Magno, apre il n. 21, e che la CD difese sino all’ultimo (cf. c. 7, nota 57 e testo relativo).
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predicazione come parte del ministero episcopale,136 o per il richiamo alla paternità del vescovo («immagine del Padre») in LG 27, attraverso il riferimento a Ignazio di Antiochia.137 Necessariamente di carattere «persuasivo», anche per le difficoltà a cui andò incontro tutta la problematica, è poi l’appello alla tradizione della Chiesa antica a proposito del diaconato (LG 29): solo dalla tradizione della Chiesa patristica, infatti, è possibile ricavare un quadro convincente del ministero diaconale nella sua pienezza e individuare le linee di una teologia e spiritualità del diaconato, alla quale ispirarsi per l’oggi.138 L’appello alla dottrina dei Padri e all’esperienza della Chiesa antica non poteva risolvere, da sé, tutti gli interrogativi e i dubbi che molti vescovi avevano circa l’opportunità della restaurazione del diaconato come grado permanente dell’ordine sacro; alcuni, anzi, interpretarono questo appello come una tentazione di archeologismo. Si può dire, nondimeno, che la testimonianza della Chiesa dei Padri, insieme con altri argomenti, è stata in grado di sostenere in modo convincente la posizione – alla fine scelta dal concilio – favorevole al ripristino del diaconato. Un certo numero di tematiche, presenti nel c. VII sull’indole escatologica della Chiesa, trova nel richiamo ai Padri elementi di appoggio e conferma. Si è già accennato alla riscoperta di una prospettiva di escatologia collettiva e all’orientamento cosmico dell’escatologia.139 Ma a proposito del culto dei santi e delle varie dimensioni che esso implica si può forse parlare persino di un uso apologetico del riferimento patristico:140 la cosa si capisce, naturalmente, anche a ragione della delicatezza ecumenica di alcune delle questioni affrontate nel capitolo. Finalmente, ci sembra che buona parte della dottrina patristica richiamata nel c. VIII assuma un valore «persuasivo». È un effetto delle forti tensioni che hanno accompagnato l’elaborazione della dottrina mariologica del Vaticano II e che nascevano dai diversi orientamenti dei padri conciliari e anche dalla differente sensibilità alla questione ecumenica. Il ricorso ai Padri, in questo contesto, assume il valore di un punto d’incontro intorno a una tradizione condivisa;141 ma la preoccupazione di persuadere può anche arrivare al punto di sovrastimare la dottrina patristica, assegnandole un peso che non sempre era in grado di reggere.142 136
Cf. HÜNERMANN, «Theologischer Kommentar», 434; LÉCUYER, in BARAÚNA, 853-859. PHILIPS, La Chiesa e il suo mistero, I, 309. Per il problema di un errore nel rinvio ai testi di Ignazio, si veda sopra, c. 7, nota 88. 138 Con rapporto specifico a LG 29, la trattazione più articolata resta A. KERKWOORDE, «Elementi per una teologia del diaconato», in BARAÚNA, 896-940; vi si trovano richiamate tutte le fonti patristiche più importanti circa il diaconato, le sue funzioni, ecc. 139 Cf. STROTMANN, in BARAÚNA, 325. 140 Si vedano al riguardo, in modo particolare, le considerazioni e i dati raccolti nella tradizione patristica da PIETRI, «L’ecclésiologie patristique et Lumen gentium», 533-535, e da PHILIPS, La Chiesa e il suo mistero, II, 164-174. 141 FERNANDEZ, «Fundamentos patristicos del Capitulo VIII», 34, sottolinea che il ricorso alla Scrittura e ai Padri, nel c. VIII, si comprende alla luce della preoccupazione di mostrare l’omogeneità della dottrina cattolica. 142 Cf. le discussioni intorno a LG 56, di cui si è detto sopra, c. 7 § 3.2d. 137
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Dentro a questa prospettiva generale – che poi, s’intende, fa spazio anche ad altre forme di utilizzazione dell’insegnamento dei Padri – si notano ancora alcune modalità più specifiche di un uso intenzionalmente persuasivo dei Padri: si pensi all’affermazione del n. 56 intorno alla santità di Maria, che in questa parte del documento si vuole sostenere ricorrendo unicamente al linguaggio patristico, anziché affermando in recto la dottrina dell’Immacolata concezione (ciò che non mancò di suscitare equivoci). Emerge qui un’evidente attenzione agli orientali, ma anche, va notato, il desiderio di tener conto del tempo di esitazione che la tradizione patristica conosce intorno a questa problematica; e tutto questo vale ancora di più, naturalmente, per tutta la sofferta questione della «mediazione mariana».143 Nel c. VIII, più che in altre parti del de Ecclesia, l’appello ai Padri opera a volte (e più frequentemente che in altri punti, sembra) anche in funzione di «freno», rispetto a esuberanze o elaborazioni eccessive sulla persona e il ruolo di Maria nell’economia salvifica e nella vita della Chiesa; può accadere, peraltro, che la dottrina patristica sia proposta per promuovere e sostenere punti di vista meno abitualmente considerati. In più di un caso rilevante, il testo del c. VIII volutamente si attiene con sobrietà all’insegnamento dei Padri, a costo di creare malumori, persino – è il caso più noto e rilevante – in Paolo VI a proposito del titolo di «Madre della Chiesa»; ma la cosa vale anche per la fine della vita terrena di Maria o per il richiamo alla fede di lei, in contrasto con le tendenze a parlare di una visione beatifica nella vita terrena di Maria.144 L’inverso accade a proposito del tema della nascita di Cristo nel cuore dei fedeli (cf. LG 65): Philips nota che certi padri conciliari erano esitanti di fronte a questo tema, vuoi perché del tutto all’oscuro di questa dottrina, vuoi perché temevano che favorisse una sorta di misticismo confuso, pur essendo un tema comune ai Padri e alla teologia dei primi medievali.145 L’ultimo capitolo della LG, paragonabile per frequenza di citazioni e allusioni ai Padri della Chiesa al c. III, mostra dunque una varietà di utilizzazioni dell’insegnamento patristico che invita a non generalizzare e a fare attenzione – non solo qui, ma in tutta la LG – alle diverse modalità di orchestrazione di un dato copiosamente presente, ma adoperato con una certa duttilità. 143 Per l’una e per l’altra questione, cf. PHILIPS, La Chiesa e il suo mistero, II, 208s; 234s; FERNANDEZ, «Fundamentos patristicos del Capitulo VIII», 52-55; 66s. 144 Per questi esempi, cf. PHILIPS, La Chiesa e il suo mistero, II, 219, 225s; DE LUBAC, Paradosso e mistero della Chiesa, 64s; sul titolo «Madre della Chiesa», cf. R. LAURENTIN, «La proclamation de Marie “Mater Ecclesiæ” par Paul VI. Extra Concilium mais in Concilio (21 novembre 1964). Histoire, motifs et sens», in Paolo VI e i problemi ecclesiologici al Concilio. Colloquio Internazionale di studio (Brescia 19-21 settembre 1986), Studium, Roma 1989, 310-375; SEMMELROTH, in Das Zweite Vatikanische Konzil, 338-340; sulla problematica in Agostino, cf. FERNANDEZ, «Fundamentos patristicos del Capitulo VIII», 41-46. Sulla questione fede/visione in Maria, cf. G. BARAÚNA, «La SS. Vergine al servizio dell’economia della salvezza», in BARAÚNA, 1151. 145 Cf. PHILIPS, La Chiesa e il suo mistero, II, 242.
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E)
U TILIZ Z A ZION I
O C C A SI O NA LI DE L R IFE RIM E N T O A I P ADRI
La panoramica delineata nelle pagine precedenti non include riferimenti all’insegnamento dei Padri presente nei cc. IV, V e VI. Va detto che anche da un punto di vista statistico, i cc. IV (i laici) e VI (i religiosi) si collocano all’ultimo posto per riferimenti espliciti ai Padri, in assoluto (tre rinvii nell’uno e nell’altro caso) e anche in rapporto alla lunghezza del testo. La cosa salta all’occhio soprattutto per il c. IV, praticamente eguale per lunghezza del testo ai cc. I e VIII, che però rinviano ai Padri rispettivamente 17 e 35 volte. Tanto per il c. IV che per il c. VI, non si può neppure fare appello in modo significativo a dottrine patristiche implicite nel testo, ma rispetto alle quali si è scelto di non indicare la documentazione. Nonostante qualche accenno a temi quali il fondamento battesimale della missione dei laici nella Chiesa in LG 33,146 o la dottrina sul matrimonio e sulla famiglia al n. 35,147 tanto la problematica dei laici quanto quella dei religiosi sono affrontate a partire da punti di vista che non trovano riscontro diretto nella Chiesa dei primi secoli.148 Per questo, i riferimenti ai Padri sono qui non solo scarsi, ma anche poco significativi; o, piuttosto, assumono un valore di «segnale», quasi di slogan, che si propone di riassumere con un’espressione incisiva e pregnante un punto di vista che però non viene propriamente argomentato. La frase di Agostino introdotta in LG 32 («Vobis… episcopus… vobiscum sum christianus») e il riferimento all’Epistula ad Diognetum alla conclusione del capitolo IV sono, al riguardo, lampanti. Non molto diverso ci sembra il ricorso occasionale ad altri rimandi, utilizzati senza che si possa riconoscere un disegno preciso di valorizzazione dell’insegnamento patristico: si vedano i rinvii a Cirillo di Gerusalemme in LG 11 (nota 5) a proposito della confermazione; o anche i testi sulle dimensioni della perfezione cristiana, di cui in LG 40 (nota 2). Più solido, ancorché isolato, il rinvio ad Agostino a proposito della carità come perfezione della vita spirituale al n. 42 (nota 12), tenendo conto del fatto che Agostino è stato qualificato, nella tradizione occidentale, «doctor caritatis».149 E, dal momento che questi ultimi testi riguardano il c. V, non possiamo trascurare il fatto che i redattori del de Ecclesia hanno potuto radunare invece una buona documentazione patristica sui «consigli evange-
146
Cf. HÜNERMANN, «Theologisches Kommentar», 469. Cf. sopra, c. 7 § 1.4a. 148 Donde anche, per i laici, l’incertezza su ciò che li riguarda specificamente e ciò che, invece, si dovrebbe dire del cristiano in quanto tale: cf. DE LUBAC, Paradoxe et mystère de l’Église, 50; PIETRI, «L’ecclésiologie patristique et Lumen gentium», 530; per i religiosi, HÜNERMANN, «Theologisches Kommentar», 496. 149 Cf. HÜNERMANN, «Theologisches Kommentar», 492, nota 438; per i testi patristici sulla perfezione di LG 40, cf. PHILIPS, La Chiesa e il suo mistero, II, 69s. 147
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lici»:150 a ulteriore conferma del fatto che la valorizzazione dei Padri, nella LG, soffre anche di elementi di discontinuità, che possiamo ricondurre, almeno in parte, alla diversità di approcci ecclesiologici non perfettamente armonizzati in un discorso coerente.151
F)
D O TTR INE
PAT R I S TI C H E T R A S C UR AT E
Giova ripetere che non era compito del concilio presentare un trattato sistematico sulla Chiesa, né, tanto meno, un’esposizione completa dell’ecclesiologia patristica; ed è sempre delicato tentare di interpretare i silenzi. Vi sono, tuttavia, alcuni punti maggiori di distanza tra l’insegnamento conciliare e la dottrina patristica, che occorre segnalare. Il nostro esame di LG 20-22 e del c. I ne ha già fatti emergere due, di un certo rilievo: l’impostazione di fondo della questione della collegialità e il problema del peccato nella Chiesa. Segnaliamo ancora, per la sua rilevanza, il tema della necessità della Chiesa per la salvezza, presentata nel c. II (LG 14). Il Vaticano II, qui, ha preferito lasciare nell’ombra il pensiero dei Padri. Due indizi lo suggeriscono: da un parte, sebbene la costituzione dichiari solennemente di fondare il proprio insegnamento sulla Scrittura e sulla Tradizione («Docet autem, Sacra Scriptura et Traditione innixa, Ecclesiam hanc peregrinantem necessariam esse ad salutem»), di fatto ci si riferisce esplicitamente solo a testi biblici;152 dall’altra, il testo conciliare cita poi Agostino, ma per sottolineare il punto di vista opposto, o piuttosto complementare, a quello della necessità della Chiesa per la salvezza, ossia la falsa sicurezza di chi resta nella Chiesa «“corpore” quidem, sed non “corde”».153 È difficile sottrarsi all’impressione che il concilio, qui, eviti appositamente di esplicitare una tradizione la cui comprensione corretta avrebbe richiesto spiegazioni lunghe e complesse, che evidentemente non potevano trovar posto in questo contesto.154
150 Cf. PHILIPS, La Chiesa e il suo mistero, II, 99-104; il rinvio generico ai Padri sul tema della povertà e dell’obbedienza sottintende la documentazione patristica più precisa, indicata nello schema del 1963 (cf. sopra, c. 6 § 1e). 151 Anche l’individuazione delle «due ecclesiologie» (secondo il titolo e la tesi di fondo del fondamentale saggio di A. Acerbi, al quale anche la nostra ricerca deve molto) che si sarebbero confrontate al Vaticano II va allargata in diverse direzioni: A. Dulles, ad es., ritiene che i cinque diversi «modelli di Chiesa» da lui descritti trovino tutti, nel Vaticano II, elementi su cui fondarsi (cf. A. DULLES, Models of the Church. Expanded Edition, Image Books-Doubleday, New York 1987, 30 e passim). 152 Cf. PHILIPS, La Chiesa e il suo mistero, I, 169, con le pp. 170-172 per una presentazione sintetica del dato patristico intorno all’assioma «fuori della Chiesa nessuna salvezza»; cf. anche GRILLMEIER, in Das Zweite Vatikanische Konzil, 194-198. 153 Alla nota 12, la citazione agostiniana di Bapt. c. Don. V,28,39, è accompagnata dal rinvio ad altri testi di Agostino, la cui menzione, alla luce delle difficoltà opposte a questo passo della LG nel corso del dibattito, assume un valore «persuasivo». 154 Per una recente messa a punto dell’insegnamento patristico in materia, si veda S. MAZZOLINI, Chiesa e salvezza. L’extra Ecclesiam nulla salus in epoca patristica, Urbaniana University Press, Roma 2008.
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Un conoscitore della tradizione quale H. de Lubac indica ancora un paio di questioni, che LG sembra affrontare in direzione almeno parzialmente diversa, rispetto all’insegnamento patristico. La prima riguarda la concezione del popolo di Dio, e il modo in cui essa si collega con l’interpretazione patristica di Israele, nella dialettica di continuità e discontinuità tra i due Testamenti. La LG, secondo de Lubac, non trascura la dottrina dell’Israele spirituale; rispetto ai Padri, però, sottolinea più la dimensione della continuità che non quella della trasformazione. È chiaro che anche l’aspetto della continuità è rilevato dai Padri, soprattutto in funzione antignostica; e, tuttavia, il parallelismo Israele-Chiesa non può essere capito se non si tiene conto della novità portata dalla venuta del Messia e dall’effusione dello Spirito. A giudizio di de Lubac, la cosa è meglio evidenziata in DV, mentre in LG sarebbe stato auspicabile un accento più forte sulla questione, in vista di un miglior equilibrio dottrinale.155 De Lubac nota poi non già l’assenza, ma la mancata rilevanza dei temi collegati della Chiesa-madre e della Chiesa-sposa.156 Nell’uno e nell’altro caso, la LG allude in più punti a queste immagini care alla tradizione patristica: solo di rado, tuttavia, e in modo non sistematico, si ricollega esplicitamente all’insegnamento dei Padri.157 Soprattutto, non si può dire che nella costituzione questi titoli abbiano la stessa consistenza e suscitino le stesse risonanze che si possono individuare nella dottrina patristica e si può capire che un certo numero di commentatori, all’indomani del concilio, si siano rammaricati di non vedere questi titoli giocare, nel de Ecclesia, un ruolo almeno paragonabile a quello che avevano nella Chiesa antica.158 Concludiamo qui il nostro sguardo panoramico sulla utilizzazione dei Padri nella Lumen gentium. Partendo da alcuni indizi offerti dal testo stesso, la visione d’insieme che abbiamo cercato di dare della costituzione sulla Chiesa si è progressivamente allargata: da un nucleo centrale, nel quale l’appello ai Padri si fa particolarmente denso e gioca un ruolo 155 Cf. DE LUBAC, Paradosso e mistero della Chiesa, 45s, che richiama anche, nella stessa linea, il giudizio di J.J. VON ALLMEN in Irén. 39(1966), 40. 156 Cf. DE LUBAC, Paradosso e mistero della Chiesa, 8s e 59; su tutta la questione cf. lo studio di ZIVIANI, La Chiesa madre: per LG, si vedano in particolare le pp. 99-139. 157 Alla fine del n. 14 si parla dell’atteggiamento della Mater Ecclesia nei confronti dei catecumeni; alcuni riferimenti patristici, già indicati al riguardo a partire dallo schema preparatorio (cf. Synopsis, 120), sono stati lasciati cadere; qualche rinvio in più si legge nel c. VIII, a proposito del parallelismo Chiesa/Maria: cf. i rinvii ad Agostino (LG 53, nota 3) e ad Ambrogio (LG 63, nota 18; 64, nota 20). Per la sponsalità della Chiesa: al n. 4, nota 3, l’azione di «ringiovanimento» dello Spirito nei confronti della Sposa di Cristo è accompagnata da un riferimento a Ireneo (ma per questo rinvio cf. anche sopra, nota 90); al n. 41, nota 11, l’allusione a Ef 5,25 è accompagnata dal rinvio al relativo commento del Crisostomo. 158 La critica è rilevata anche da PHILIPS, La Chiesa e il suo mistero, II, 267. Un saggio della ricchezza della tradizione patristica sulla Ecclesia Mater è costituito dal c. 7 di DE LUBAC, Méditation sur l’Église (tr. it., 161-192).
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di primo piano su alcuni dei temi che più hanno impegnato il lavoro conciliare, abbiamo ampliato via via l’orizzonte, sino a coprire l’insieme del de Ecclesia. Si voleva tratteggiare così un quadro più preciso del modo in cui il concilio ha recepito la ricchezza delle ricerche storico-teologiche della prima metà del XX secolo e proporre alcuni criteri per individuare e differenziare l’insieme delle modalità di utilizzazione della testimonianza patristica. Si tratta ora, a conclusione del nostro itinerario, di delineare un bilancio più completo della ricerca e di prospettare alcune dimensioni più generali del ruolo giocato dai Padri al concilio Vaticano II: un ruolo che non si esaurisce nell’evento dal quale ci separa ormai la distanza di quasi mezzo secolo, ma che può offrire suggerimenti utili alla teologia e alla stessa vita della Chiesa di oggi.
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9. I caratteri patristici del concilio Vaticano II: prospettive e limiti I Padri della Chiesa abitano con una presenza massiccia le biblioteche e le istituzioni di studio ecclesiastiche, come pure i centri di studio del mondo antico e delle discipline letterarie e «umanistiche». Le «Sources chrétiennes», iniziate fra tante difficoltà in pieno conflitto mondiale, allineano ormai più di 500 volumi; ma sono solo una delle tante iniziative editoriali di grande respiro nate prima o dopo la collezione francese che è come il simbolo del ressourcement patristico del Novecento; e sono accompagnate da diverse collane di traduzioni in lingue moderne, con o senza testo originale e apparati di introduzioni e commenti spesso di grande ricchezza; si sono moltiplicati gli strumenti di lavoro e le attività di ricerca; sono nati centri di studio e d’insegnamento dedicati specificamente ai Padri; nuovi spazi, poi, sono stati aperti con l’avanzare delle recenti tecnologie elettroniche e informatiche, entro le quali i Padri hanno trovato come una rinnovata giovinezza – tanto che ormai, per citare un solo esempio, è possibile consultare le gloriose Patrologiae del Migne con pochi comandi dal computer di casa propria o portarsele comodamente in tasca… Siamo nel pieno di una grande fioritura patristica, dunque: che nasce prima del Vaticano II (un «prima» che, a cerchi sempre più ampi, si può far risalire almeno fino alle ricerche pionieristiche di un L. Thomassin, di un D. Petau, per non parlare delle grandi edizioni erudite del XVII-XVIII secolo, senza le quali non avremmo mai avuto il Migne) e che si prolunga sino a oggi. È possibile identificare un contributo specifico del Vaticano II in questa vicenda? C’è un apporto peculiare del concilio, che permetta di precisare il ruolo dei Padri nella Chiesa, nel lavoro teologico, nell’orizzonte di una cultura cristiana? Se poniamo la questione anche solo nella prospettiva limitata, eppure già abbastanza vasta, che abbiamo delineato nei capitoli precedenti, ci rendiamo conto del numero e della complessità delle questioni che sarebbero
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da trattare ora sistematicamente: questioni che affiorano dal retroterra storico-dottrinale (cf. Parte I), in base al quale si capiscono molte delle problematiche emerse poi nel corso del concilio (cf. Parte II). Ne elenchiamo alcune, senza pretesa di completezza: il «ritorno della storia» e il suo significato per la Chiesa e per la teologia; l’apporto dei Padri all’interpretazione della Scrittura; la natura specifica della testimonianza patristica nell’insieme della tradizione; il rapporto tra teologia «positiva» e teologia sistematica; il significato del riferimento ai Padri nell’orizzonte della problematica ecumenica; la relazione tra studio filologico-letterario dei Padri e loro significato teologico; il posto della patristica nell’insieme delle discipline ecclesiastiche… Per non dire, naturalmente, delle questioni propriamente ecclesiologiche, più direttamente richiamate nel capitolo precedente. È evidente che non possiamo riprendere tutto questo insieme di problemi: ve ne sono del resto alcuni per i quali il Vaticano II non offre elementi diretti di riflessione, per non parlare di risposte esaustive. Per raccogliere alcuni risultati più significativi del lungo percorso che ci ha portato dalla primavera degli studi patristico-ecclesiologici del XIX secolo fino alla maturazione di metà Novecento e alla mietitura che ne ha fatto il Vaticano II, quest’ultimo capitolo presenta qualche elemento sintetico intorno a quattro tematiche principali: – il Vaticano II come «imitazione» di alcuni modi di procedere dei Padri; – la questione retorica: lo «stile» del Vaticano II e il suo rapporto con la retorica dei Padri; – il ressourcement e il suo significato per la Chiesa e la teologia; – alcune questioni riguardanti l’ermeneutica conciliare. Il tutto sarà preceduto da una ricapitolazione sintetica dei risultati principali ai quali ci conduce la ricerca qui presentata.
1. S G U A R D O A)
RETROSPETTIVO
L E E V IDE NZE T E S T U ALI A LL A L UC E DE LLA G E NE S I D EL DE E CCLESIA
A leggere la vicenda del de Ecclesia al Vaticano II in termini «polemici», ossia di confronto anche acceso, che vede confrontarsi punti di vista e opzioni diverse, non c’è dubbio, per quanto riguarda il nostro tema, che i Padri ne sono usciti vittoriosi. Se si ricordano le pressioni dominanti negli anni della preparazione del concilio, assai poco favorevoli al «rinnovamento patristico»;1 se si confronta lo spazio dato ai Padri
1 Cf. sopra il c. 3, sez. I, § 1. Merita una menzione l’episodio ricordato da de Lubac, in visita con dom Jean Leclercq e dom Olivier Rousseau ai Trappisti delle Tre Fontane, il 17 novembre 1960: «Atmosphère fervente, très sympathique. Comme nous venions à parler de l’étude des Pères de l’Église, un Américain, sans doute étudiant à l’Angélique, se lève et me dit: “Mais l’Église nous dit d’étudier la doctrine de saint Thomas!”. Mises au point de dom Leclercq, de dom Rousseau, de moi-même»: J-de Lubac, I, 19.
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nello schema ecclesiologico preparatorio con quello loro assegnato nella Lumen gentium e, ancor più, si prendono in considerazione le modalità dell’uso dei Padri stessi nei due documenti; se si tiene conto del ruolo che l’appello ai Padri ha giocato nel dibattito conciliare e nei lavori della CD e delle sue sottocommissioni; se si considera – lo faremo nel resto del capitolo – l’approccio complessivo del concilio per quanto riguarda prospettive di fondo come lo «stile» conciliare in rapporto alle sue finalità «pastorali», l’accresciuta attenzione alla dimensione storica della vita della Chiesa e del lavoro teologico, la consapevolezza ecumenica ecc., si deve dire senz’altro che il Vaticano II è stato un concilio eminentemente patristico e che il ricorso ai Padri determina in modo sostanziale il «cambiamento di paradigma»2 dovuto al concilio stesso. Il cambiamento è evidente, anzitutto, nel confronto tra i testi: perché una parte dei materiali dello schema della TE è stata sì conservata nel nuovo testo (persino troppo, a giudizio di alcuni, come G. Dossetti3), ma l’impianto complessivo dell’edificio, nel quale vengono riusati anche i materiali attinti al lavoro preparatorio, è notevolmente cambiato; e a questo cambiamento ha dato un apporto consistente il ricorso a un insieme di orientamenti che sono frutto, per una parte significativa, del ritorno alle fonti patristiche.4 Dobbiamo ancora sottolineare che, tra i materiali recuperati dal testo preparatorio, i rinvii ai Padri sono pochissimi: non più di sei riferimenti, e questo in un testo – quello di LG – che quadruplica il numero delle citazioni e allusioni patristiche, rispetto allo schema elaborato dalla TE.5 La cosa è indice di un mutamento che si colloca sul piano non solo quantitativo ma, ancor più, su quello del modo d’intendere e valorizzare la testimonianza patristica. Si deve riconoscere che, nell’insieme, il concilio supera la prospettiva limitata del ricorso ai Padri come «argomento di prova» al servizio di una dottrina pensata poi, in buona sostanza, a partire da altre coordinate teologiche. Al Vaticano II c’è stato uno sforzo innegabile di mettersi in ascolto della testimonianza patristica per il suo valore oggettivo, per le aperture a prospettive nuove (o piuttosto dimenticate) che tale testimonianza poteva offrire, per le sue virtualità ecumeniche. È altrettanto innegabile – e riteniamo di averlo documentato – che questo sforzo è discontinuo: senz’altro non si applica a tutti i documenti del concilio (né lo si potrebbe pretendere), ma la discontinuità si nota 2 Cf. W. BEINERT, «Ein Konzil in unserer Zeit», in Unterwegs zum einen Glauben. Festschrift für Lothar Ullrich zum 65. Geburtstag, hrsg. v. W. BEINERT – K. FEIEREIS – H.-J. RÖHRIG, Benno Verlag, Leipzig 1997, 117s. Sulla questione del «cambiamento», in rapporto con le discussioni sull’ermeneutica del concilio, cf. J.W. O’MALLEY, «Vatican II: Did Anything Happen?», che citiamo da D.G. SCHULTENOVER (ed.), Vatican II. Did Anything Happen?, Continuum, New York-London 2007, 52-91. 3 Per le critiche di Dossetti allo «schema Philips», perché non prendeva sufficientemente le distanze dallo schema preparatorio, cf. sopra, c. 5, nota 153. 4 Cf. sopra, c. 8 § 3 (in particolare per il c. I di LG) e § 4 per altre tematiche. 5 Cf. sopra, c. 4 § 2b.
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anche all’interno della stessa LG. Non è solo un problema di differente «densità» dei riferimenti patristici, frutto anche di cause accidentali, in primis il fatto che molte mani hanno contribuito alla redazione del testo. Si deve parlare, abbiamo visto, di differenti «funzioni» dell’uso dei Padri:6 identificarle, e distinguerne la varietà d’uso, permette di soppesare meglio, di volta in volta, il valore del richiamo patristico, di comprenderne le ragioni, di misurarne la portata. Il risultato di questa valutazione integra, e in parte ridimensiona, quanto si diceva prima circa l’atteggiamento conciliare di complessivo ascolto della testimonianza patristica, in particolare nell’elaborazione del de Ecclesia. Abbiamo parlato del prevalere di una finalità «persuasiva» del ricorso ai Padri nella LG;7 facendo riferimento alla novità stilistica del concilio, e alla sua radice patristica, proporremo più sotto una spiegazione più ampia di questa finalità (cf. § 3). Basti per ora notare che, utilizzando il richiamo ai Padri per facilitare l’accoglimento di prospettive dottrinali dimenticate o trascurate, i redattori della costituzione si sono mossi in una linea di continuità con il ressourcement patristico dei decenni precedenti, la cui finalità anche «strumentale» – per facilitare soprattutto il superamento delle rigidità neoscolastiche – è piuttosto evidente.8 Sul piano del testo e delle sue fonti patristiche di riferimento (una parte delle quali, giova ricordarlo, rimane nascosta) si deve dire, pertanto, che l’indubbia «vittoria» dei Padri non va generalizzata, né portata all’estremo. Il riferimento all’ecclesiologia patristica indica alcune prospettive di fondo, recepite nella costituzione;9 in qualche caso, però, LG accosta la testimonianza patristica a orientamenti teologici che non derivano dai Padri, ma da problematiche molto più recenti (ad es. la questione della potestas suprema in rapporto con la collegialità), di modo che, anche a proposito dell’ecclesiologia patristica, si deve dire che essa è una – certo non la meno rilevante – delle prospettive ecclesiologiche armonizzate o giustapposte nella LG. Vi sono, del resto, tematiche sulle quali i Padri sono ridotti completamente al silenzio, o quasi:10 vuoi perché non si è ritenuto di raccogliere e valorizzare posizioni complesse e non del tutto condivise del pensiero patristico (la questione del peccato nella Chiesa, la necessità della Chiesa per la salvezza), vuoi perché l’impostazione scelta dal concilio non permetteva di interrogare correttamente i Padri, che si muovevano su coordinate diverse; il che, peraltro, è anche indice di un modo rispettoso di utilizzare la testimonianza patristica. Il caso che ci sembra più eclatante, per quest’ultima situazione, è quello del capitolo sui laici, dove l’impossibilità di individuare nella patristica un riferimento significativo corrisponde, certo, all’incentrarsi dell’attenzione del concilio sulla pro6
Cf. sopra, c. 8 § 4a. Cf. sopra, c. 8 § 4d. 8 Torneremo più avanti sulla questione e su altri aspetti del ressourcement: cf. sotto, § 4. 9 Cf. sopra, c. 8 §§ 2.2, 3 e 4.1. 10 Cf. sopra, c. 8 §§ 3.3b e 4f. 7
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blematica attuale del laicato nella Chiesa;11 al tempo stesso, però, il silenzio patristico del c. IV è forse la spia di un’impostazione del problema troppo riduttiva sul piano ecclesiologico.12 Il bilancio relativo all’impatto della teologia dei Padri sul de Ecclesia del Vaticano II dev’essere sfumato, dunque, e non ridotto a una formula semplificatrice. La cautela necessaria non impedisce di riconoscere, tuttavia, l’impronta fortissima che il ritorno ai Padri e il rinnovamento del pensiero ecclesiologico, avviati già nell’Ottocento e ripresi con rinnovata lena dopo il primo conflitto mondiale,13 lasciano nella costituzione conciliare sulla Chiesa. Dire che il Vaticano II, con la Lumen gentium, consacra oltre un secolo di ricerche spesso tribolate, e in ogni caso di grande ricchezza, è ormai un’ovvietà: il che, naturalmente, non la rende meno vera.
B)
L A « C OS C IE NZA
PAT R I S T I C A » DE I PA DR I C O N C I L I A R I
Uno degli obiettivi principali di questa ricerca prevedeva anche l’accertamento della «coscienza conciliare» relativa al ressourcement e al suo significato per la comprensione credente della Chiesa e della sua missione nel mondo. Ci si potrebbe chiedere, infatti, se la costituzione conciliare non sia, in definitiva, una costruzione dei teologi, e/o eventualmente dei membri più competenti della Commissione dottrinale, le cui implicazioni, per ciò che riguarda l’orizzonte patristico, sarebbero però sfuggite alla maggior parte dei padri conciliari. La storia complessiva del Vaticano II e in particolare del dibattito sul de Ecclesia, con le sue vicende in aula, nella CD e nelle sue diverse sottocommissioni, le manovre di corridoio (o anche di piazza) che accompagnarono i momenti di più forte tensione, l’impegno di aggiornamento profuso da molti padri conciliari, spesso nelle conferenze episcopali o nei loro raggruppamenti, le ripercussioni sull’opinione pubblica… tutto ciò porta a escludere, naturalmente, che il de Ecclesia sia stato un documento discusso o votato alla leggera. Per la nostra questione, abbiamo potuto vedere che il riferimento all’insegnamento dei Padri è un punto costante nei dibattiti, sin dalla fase preparatoria. Le sessioni della Commissione centrale preparatoria14 furono brevi e – proprio nel caso del de Ecclesia – tenute ormai troppo a ridosso dell’inizio del concilio per poter incidere in modo significativo sull’elaborazione del testo; esse mostrano, in ogni caso, l’emergere di una
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«… ob specialia rerum adiuncta nostri temporis…»: LG 30. È noto ad es. che Y. Congar, la cui teologia del laicato è ritenuta comunemente una delle linee ispiratrici del Vaticano II, dopo il concilio ha sottoposto la sua prospettiva a una radicale retractatio: cf. Y. CONGAR, Ministères et communion ecclésiale, Paris 1971 (tr. it.: Ministeri e comunione ecclesiale, Bologna 1973). 13 Cf. sopra i cc. 1-2. 14 Cf. sopra, c. 4 § 3. 12
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«coscienza patristica» che già coglie alcuni punti nodali del dibattito successivo e si spinge ben oltre gli scarsi accenni raccolti, al riguardo, nei vota antepreparatori. I dibattiti del 1962 e 1963 riprenderanno quei punti, allargandoli e integrandoli e, soprattutto, li rilanceranno all’attenzione di tutta l’assemblea conciliare. Per quanto riguarda il primo periodo conciliare,15 abbiamo dovuto ampliare l’orizzonte a quasi tutte le fasi del dibattito precedenti la discussione sul de Ecclesia, di fatto ristretta all’ultima settimana dei lavori. L’esame dello schema liturgico, la «battaglia serrata e triste»16 sul de fontibus revelationis, i dibattiti sul de Ecclesiae unitate, preparano lo scenario e anzi pongono già al centro alcuni punti nodali: il problema del linguaggio da usare nei documenti conciliari, il rapporto tra dottrina e carattere «pastorale» del concilio, il superamento della scolastica, le esigenze dell’ecumenismo, l’emergere di orientamenti teologici diversi… sono tutte questioni che risuonano sotto le volte della basilica vaticana e vengono correlate con la testimonianza dei Padri, che s’invoca più ampia e organica. Gli interventi dei prelati delle Chiese orientali, spesso vigorosi e seguiti con particolare interesse dall’uditorio, contribuiscono ad attirare ancora di più l’attenzione su di un patrimonio teologico e spirituale di cui pochi, senz’altro, conoscono a fondo le ricchezze ma che, a partire da queste prime settimane di confronto, non potrà più essere ridotto a un insieme di excerpta confinati nell’Enchiridion patristicum. Il rifiuto del de fontibus segna un momento di svolta determinante nel primo periodo: e non è pensabile che questa frattura non abbia impresso, nella maggior parte dei padri conciliari, la consapevolezza che il concilio non poteva più permettersi il lusso di promulgare documenti dottrinali che non fossero espressione del ressourcement scritturistico, patristico e liturgico. Da questo punto di vista, il breve dibattito dell’ultima settimana sul de Ecclesia potrà ormai contare sulla maturazione di una coscienza conciliare che aveva già avuto modo di consolidarsi:17 i toni saranno, quindi, meno aspri che per il de fontibus, ma la linea emergente non verrà offuscata. L’importante intervento di Frings del 4 dicembre,18 verosimilmente steso da J. Ratzinger, costituisce il «manifesto» di un orientamento che, possiamo dirlo, sarà fatto proprio dalla grande maggioranza dell’assemblea conciliare. Negli interventi orali e scritti del secondo periodo conciliare,19 l’interesse per le questioni patristiche si sposta dai grandi orientamenti di fondo – che il nuovo schema recepisce in misura non paragonabile con lo schema preparatorio – alle singole tematiche ecclesiologiche. Nel 15 16 17 18 19
Cf. Cf. Cf. Cf. Cf.
sopra, c. 5. ivi, nota 9 e testo relativo. sopra, c. 5 §§ 2-3. sopra, c. 5, nota 43 e testo relativo. sopra, c. 6 §§ 2-7.
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momento in cui l’attenzione si ferma su aspetti concreti dell’insegnamento patristico, trapela però anche qualche difficoltà, e ci si rende conto che una vera familiarità con l’ecclesiologia dei Padri, qual era stata esplorata nelle ricerche dei decenni precedenti, restava appannaggio di pochi. Possiamo forse dire che nelle discussioni del primo periodo i Padri erano stati evocati in un modo più generico, e soprattutto in riferimento ad alcune scelte di fondo del concilio; ora invece (e anche nel terzo periodo) prevale l’approccio «strumentale», e la discussione verte più sui singoli punti di dottrina che sugli orientamenti complessivi. Un aspetto va comunque sottolineato: gli interventi che presentano seriamente il dato tradizionale catturano l’attenzione dell’assemblea conciliare, prescindendo dai riferimenti, in realtà spesso labili, ai diversi schieramenti: lo si è rilevato, nel secondo periodo, per l’argomentazione patristica a favore della collegialità, presentata da Heuschen, o per le parole di Carraro contro il diaconato uxorato;20 ma lo si era già visto nel primo periodo, basti pensare alle reazioni all’intervento di De Smedt sul de fontibus, o all’interesse con cui sono ascoltati, in genere, i melchiti;21 interventi come quelli di Frings, sempre attenti al riferimento patristico e spesso fatti a inizio del dibattito, o almeno in apertura di una C.G., hanno ricevuto senza dubbio un alto «indice di ascolto» da parte dell’aula. Se, pertanto, una competenza «tecnica» sulla tradizione patristica rimane prerogativa di pochi, non c’è dubbio che l’assemblea conciliare abbia avuto diverse occasioni e strumenti per allargare i propri orizzonti in materia22 e sembra averne approfittato con particolare attenzione; senza contare le diverse occasioni extra aulam che, soprattutto grazie alle conferenze o alle consulenze dei teologi, fanno delle sessioni conciliari anche un’occasione straordinaria di recyclage teologico, che mette a disposizione dei padri conciliari i frutti di un movimento di ricerca di cui solo pochi, negli anni precedenti, avevano potuto appropriarsi personalmente. Non è detto, con questo, che l’assemblea conciliare avesse sempre piena coscienza di tutte le implicazioni delle scelte che si andavano facendo. Per ciò che riguarda la valorizzazione dei Padri della Chiesa, vi sono anzi orientamenti e scelte la cui portata – com’è normale – può essere colta meglio a distanza di qualche decennio, che non nel vivo dello stesso evento conciliare. Nel resto di questo capitolo conclusivo vogliamo dedicare l’attenzione ad alcune di queste prospettive.
20
Cf. sopra, c. 6, note 133 (Heuschen) e 155 (Carraro). Cf. sopra, c. 5, note 16 (De Smedt), 26 (Hakim, de fontibus) e 47 (Hakim, de Ecclesia; su questo Congar notava: «très écouté»; mentre sull’intervento relativo al de fontibus: «a dû échapper à un bon nombre»). 22 Si pensi alla documentazione, in gran parte patristica, allegata allo schema riveduto nel 1963 e, poi, alla Relatio della CD per lo schema del 1964: cf. sopra, c. 6 § 1 e c. 7. 21
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2. «P AT R U M E X E M P L A »: L’ I M I TA Z I O N E C O N C I L I A R E D E I P A D R I 23 Lo studio della Lumen gentium, tanto nella sua genesi quanto nello sguardo complessivo che abbiamo prospettato nel c. 8, mostra al di là di ogni dubbio che i Padri della Chiesa vi hanno avuto un ruolo di primo piano. La cosa è legata senz’altro al tema stesso della costituzione e alla circostanza che la questione de Ecclesia fosse affrontata sullo sfondo di una serie imponente di ricerche storiche e teologiche, di cui si potevano raccogliere i frutti migliori. Il ruolo dei Padri al concilio sarebbe, dunque, limitato a quello che resta comunque il suo documento dogmatico più autorevole? Sotto l’aspetto dei contenuti, e anche della quantità dei riferimenti patristici, le cose stanno senza dubbio in questi termini, tenuto conto delle precisazioni che abbiamo presentato qui sopra e anche nel c. 8. In almeno due altri testi di grande rilevanza, e cioè la costituzione liturgica Sacrosanctum concilium e la costituzione dogmatica Dei Verbum, si deve riconoscere ugualmente l’apporto determinante del ressourcement patristico.24 La questione della rilevanza dei Padri per il Vaticano II va affrontata, però, anche da un punto di vista diverso, rispetto a quello del ricorso esplicito ai Padri o dell’affinità tra l’insegnamento conciliare e quello patristico. Nel capitolo precedente, parlando di LG 6, dove la costituzione presenta le diverse immagini bibliche della Chiesa, notavamo che il testo, sorprendentemente, prescinde quasi del tutto da testimonianze patristiche;25 si può giustificare, però, questo procedimento osservando che, anziché citare i Padri, in questo punto il testo sembra piuttosto imitarli, assumendo quindi non direttamente i contenuti, ma il loro stesso modo di fare. Il caso menzionato non è l’unico, e dischiude un approccio che merita attenzione: l’imitazione del modo di procedere dei Padri, infatti, sembra caratterizzare il Vaticano II non soltanto a proposito del de Ecclesia, ma
23 Prendiamo l’espressione «Patrum exempla» dal concilio di Trento, Sess. IV (8 aprile 1546), Decretum de libris sacris et de traditionibus recipiendis (DH 1501). 24 Per SC, oltre ai rilievi di A.M. TRIACCA, «L’uso dei “loci” patristici nei documenti del concilio Vaticano II: un caso emblematico e problematico», in E. DEL COVOLO – A.M. TRIACCA (edd.), Lo studio dei Padri della Chiesa oggi, LAS, Roma 1991, 149-183 (con le riserve di cui abbiamo detto sopra, c. 8 § 1), rinviamo in particolare alle osservazioni di G. LERCARO, «Liturgia e ecumenismo», conferenza tenuta a Beyrouth l’11 aprile 1964, in ID., Per la forza dello Spirito. Discorsi conciliari del card. Giacomo Lercaro, EDB, Bologna 1984, 85-102; G. DOSSETTI, Per una «chiesa eucaristica»: rilettura della portata dottrinale della Costituzione liturgica del Vaticano II, a cura di G. ALBERIGO e G. RUGGIERI, Il Mulino, Bologna 2002, 50s; per DV, rinviamo al nostro «La Dei Verbum e i Padri della Chiesa», in PSV 58(2008), 167-184, con la bibliografia ivi menzionata, in particolare H. DE LUBAC, La Révélation divine, Paris 31983 (tr. it.: La rivelazione divina e il senso dell’uomo, Milano 1985, 5-195). 25 Cf. sopra, c. 8 § 3.3a.
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in una dimensione più ampia, che è possibile articolare sotto diverse angolazioni.26
A)
A LLA
SC U OL A D E L L A E DE LLA LITU R G I A
S CRIT T URA
All’inizio del sesto capitolo del de Revelatione, il concilio proclama che la Chiesa «ha sempre venerato le divine Scritture come ha fatto per il corpo stesso del Signore, non mancando mai, soprattutto nella sacra liturgia, di nutrirsi del pane di vita dalla mensa sia della parola di Dio sia del corpo di Cristo, e di porgerlo ai fedeli» (DV 21). È stato notato che la portata di queste parole «è immensa, capace di generare ampie riflessioni teologiche, come pure di suscitare parecchi problemi», anche a ragione di quel semper, dato che «negli ultimi secoli i cattolici non hanno peccato per eccesso nel venerare la Scrittura, per molti essa era persino rimasta un libro protestante, mentre l’Eucarestia era specifica dei cattolici».27 Quando però ci si volge all’epoca patristica, questa frase trova tutta la sua giustificazione: tanto che, di fronte alle ripetute obiezioni di chi contestava il parallelo tra le Scritture e il Corpo eucaristico, la CD giustificò il testo osservando che, oltre a essere biblicamente fondato (alla luce di Gv 6) e utilizzato nella Imitazione di Cristo (IV,11,4), il parallelo non faceva che riprendere un’idea patristica, com’era stato abbondantemente documentato da H. de Lubac nella sua Exégèse mediévale.28 Sottolineando così la venerazione per la Scrittura, più che affermare come acquisita una problematica continuità storica, il concilio vuole forse dare rilievo a un atteggiamento che lo ha caratterizzato e che ha trovato un’espressione anche visibile nel gesto quotidiano (tradizionale, del resto, nella storia dei concili) con il quale, dopo la celebrazione eucaristica, si aprivano le Congregazioni generali: l’intronizzazione del libro dei vangeli, gesto di venerazione liturgica, sintomatico del modo in cui il concilio ha voluto porsi – «Patrum exemplum sequens», anche se non necessariamente in esplicita consapevolezza – in «religioso ascolto della Parola di Dio» (DV 1). Il Vaticano II è stato profondamente patristico anzitutto in questa volontà di radicarsi nelle Scritture, secondo una scelta che era stata auspicata da qualcuno già prima del concilio stesso, ma che si è andata poi precisando anche a seguito delle critiche, ripetutamente indirizzate agli schemi preparatori, di essere troppo poco biblici. Alcuni testi conciliari, forse, 26 Parte di quanto segue riprende e sviluppa riflessioni di G. MARTELET, Les idées maîtresses de Vatican II. Initiation à l’esprit du Concile, Desclée, Paris 1966 e 1969; nuova ed. Cerf, Paris 1985, 21-48, che rinvia a M. PELLEGRINO, «L’étude des Pères de l’Église dans la perspective conciliaire», in Irén. 38(1965), 453-461. 27 L. ALONSO SCHÖKEL, Il dinamismo della tradizione, Paideia, Brescia 1970, 229. 28 Cf. AS IV/5, 728s, che rinvia a DE LUBAC, Exégèse médiéval (*1959), 523. Sulla questione, cf. anche C. THEOBALD, in SCVII, V, 326.
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si troveranno alla fine sin troppo costruiti sulla base di un intreccio di riferimenti scritturistici, che ne complica la lettura;29 si tratta, come ipotizzava Pellegrino, di una modalità di scrittura ispirata ai redattori proprio anche dalla frequentazione dei Padri della Chiesa?30 È possibile, naturalmente: ma è forse più importante osservare la cosa da un’altra angolazione: la modalità secondo la quale sono articolati alcuni documenti, o almeno alcune parti dei testi conciliari, si avvicina al genere patristico del «commento» scritturistico,31 o anche dell’omelia: il che non mancò di dispiacere a più d’uno, anche su fronti diversi,32 e comunque di sorprendere chi era abituato a uno stile diverso per i documenti di un concilio. Non si trattò, in ogni modo, di una scelta casuale: l’accoglienza di un modo di procedere «patristico», nel quale il riferimento alla Scrittura gioca un ruolo determinante, doveva condurre il concilio stesso a una scelta stilistica nuova, non soltanto per la forma letteraria, ma per la stessa autocoscienza di Chiesa e di missione evangelica che essa presuppone.33 In stretta connessione con la Scrittura, è da ricordare qui anche la liturgia, alla quale il concilio ha riservato un indubbio primato, per diverse ragioni, anche contingenti, quali l’esigenza di avviare i lavori con una materia relativamente «sperimentata». Anche in questo caso, il primato si manifesta visibilmente nella celebrazione quotidiana della Messa secondo i diversi riti, oltre che nell’aver avviato con lo schema sulla liturgia i lavori conciliari, fino a fare della costituzione liturgica il primo documento approvato dall’assemblea conciliare. Entrando nel vivo del proprio programma attraverso la porta della liturgia, il concilio imboccava la strada eminentemente patristica di una intelligenza della Chiesa dominata dalle categorie sacramentali34 e suscettibile anche di superare il dilemma tra l’ecclesiologia del Corpo mistico e quella del popolo di Dio, dilemma già presente nel dibattito teologico del secondo dopoguerra e che avrà poi le sue ripercussioni al concilio. È un punto che era stato colto bene da J. Ratzinger, proprio nel momento in cui il concilio muoveva i primi passi tra la discussione dello schema liturgico e le questioni propriamente ecclesiologiche: Con corpus Christi la chiesa viene descritta come la comunità di coloro che celebrano insieme la cena del Signore; è un concetto che esprime senz’altro la visibilità della chiesa ed anche, indivisibilmente, il suo fondo nascosto. Viene perciò espresso qui con precisione quanto cerchiamo: l’indivisibilità di esterno 29
Cf. MARTELET, Les idées maîtresses de Vatican II, 23. Cf. PELLEGRINO, «L’étude des Pères de l’Église», 456; A. TRAPÈ, «Presenza dei Padri al Concilio», in Seminarium 21(1969), 147. 31 Cf. al riguardo G. LAFONT, Imaginer l’Église catholique, Cerf, Paris 1995, 106s. 32 Si ricordi, ad es., la reazione di Siri al «piano conciliare» esposto da J. Ratzinger su iniziativa di Frings (sopra, c. 5, nota 8): «Potrebbe essere […] una specie di buona epistula ad Diognetum, cosa da scrittori e predicatori, non da Concilio». 33 Cf. più sotto il § 3. 34 Cf. MARTELET, Les idées maîtresses de Vatican II, 23-27, con la citazione di Basilio, de Spir. sancto 10,26 [SCh 17bis, 336] (ivi, 26), che pone nella confessione di fede della Chiesa orante il criterio teologico più sicuro. 30
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9. I caratteri patristici del concilio Vaticano II: prospettive e limiti ed interno, l’essere della chiesa come sacramentum Dei in questo mondo. Anche l’idea dell’ordine, dell’ufficio come servizio per il corpo e la parola del Signore è presente in questo concetto, anzi, il senso dell’ufficio ecclesiastico, dal primo fino ai servizi più semplici, si può comprendere soltanto alla luce di questo centro. E infine: se la chiesa si presenta qui senz’altro come visibile, si scorge però anche il modo particolare di questa visibilità; è la visibilità della finestra, la cui essenza consiste nel rimandare al di là di se stessa.35
Volgendosi alla liturgia e facendone l’asse della propria intelligenza della Chiesa, il concilio si collocava, almeno intenzionalmente, nel luogo ideale nel quale il mysterium assume visibilità storica, senza mai risolversi in una pura considerazione sociologica. Occorre dire, però, che qui il concilio non è stato fedele fino in fondo all’ispirazione patristica nella quale lo situava l’orientamento liturgico. Come è stato mostrato convincentemente, tra altri, da G. Dossetti, non vi è piena sintonia tra l’ecclesiologia eucaristica delineata nella costituzione liturgica sulla scorta della visione biblico-patristica e l’articolazione proposta poi dal de Ecclesia.36 Difficilmente, del resto, si poteva pensare a un ritorno puro e semplice alla prospettiva patristica, così da saltare in blocco gli sviluppi ecclesiologici del secondo millennio. Per certi versi, anzi, il richiamo ad alcuni aspetti della visione patristica della Chiesa può suonare anacronistico: così il modello ignaziano della Chiesa, la sua visione delle relazioni tra vescovo, presbiterio e diaconi e l’insieme della comunità cristiana, per quanto suggestiva sul piano teologico e spirituale, precisamente per il suo ancorarsi nel dato sacramentale, difficilmente rispecchia la condizione odierna delle Chiese particolari, che hanno dimensioni e configurazione non paragonabili a quelle del tempo di Ignazio.37 Resta indubbio, in ogni caso, il guadagno di un concilio che ha voluto fare della liturgia una categoria determinante della propria comprensione credente della Chiesa, ispirandosi al pensiero patristico e, come i Padri, contemplando la Chiesa a partire dal suo attuarsi sacramentale.
B)
UNO
SFO R Z O D I I N T EG R A Z I O N E
Muovendosi nello spazio della Scrittura e della liturgia, il concilio si è posto «patristicamente» nella prospettiva di una integrazione di dimensioni e aspetti del mistero cristiano, che in precedenza tendevano a rima35 J. RATZINGER, Il nuovo popolo di Dio. Questioni ecclesiologiche, Queriniana, Brescia 1971, 107; il saggio originale, «Wesen und Grenzen der Kirche», era stato pubblicato in Das II. Vatikanische Konzil. Studien und Berichte der katholischen Akademie in Bayern, hrsg v. K. FORSTER, Würzburg 1963, 47-68 (cf. G. RUGGIERI, in DOSSETTI, Per una «chiesa eucaristica», 121, nota 21). 36 Cf. DOSSETTI, Per una «chiesa eucaristica», 59-64; cf. anche i rilievi che abbiamo fatto sopra, c. 8 § 2.2d. 37 Cf. S. DIANICH, «La teologia del ministero episcopale e la forma della diocesi moderna», in RCI 73(1993), 375-379. Abbiamo qui un esempio della «alterità» da rispettare, nel richiamo ai Padri: cf. quanto diremo nelle «Conclusioni».
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nere piuttosto separati. Si tratta di uno stato di cose che aveva avuto i suoi contraccolpi anche nella fase preparatoria del concilio: e la Commissione teologica preparatoria, che di questa separazione aveva fatto la propria bandiera, ne pagò il prezzo in modo particolarmente salato, vedendosi rifiutare, in tutto o in parte, i suoi schemi più qualificanti. Chi, nei decenni precedenti il concilio, aveva potuto approfondire la propria dimestichezza con le fonti – certo quelle patristiche ma, in definitiva, e precisamente nella direzione dell’integrazione di cui stiamo dicendo, di tutto l’insieme della tradizione ecclesiale – riscontrava, negli organismi e negli uomini che avevano presieduto alla preparazione, soprattutto una certa povertà,38 ammantata sotto le sembianze di una sicurezza dottrinale: ciò che indusse la TE a rifiutare ogni collaborazione con gli altri organismi preparatori e a presentarsi come l’unico giudice in materia dottrinale. Poco alla volta, come richiesto a più riprese in aula, il concilio è andato nella direzione non della separazione, ma dell’integrazione: direzione eminentemente patristica, che sottolinea lo sguardo propriamente «ecumenico» del concilio: l’inseparabilità di Scrittura e tradizione, sacramento e parola, cristologia e pneumatologia, gerarchia e fedeli, episcopato e primato, missione universale e chiesa particolare,39 conferisce ai documenti conciliari una nota che li caratterizza secondo un profilo aderente alla teologia dei Padri e al suo carattere più sintetico che analitico, più «sapienziale» che rigorosamente dimostrativo.40 La ricerca di una visione «sinfonica» della tradizione aveva caratterizzato alcune delle figure più significative del ressourcement preconciliare. È forse il caso di sottolineare, anzi, che per un H. de Lubac – che può essere visto qui come figura esemplare, per l’influsso esercitato forse più ancora che per il contributo dato direttamente, almeno per quanto concerne il de Ecclesia – non si trattava nemmeno in prima istanza dei Padri in quanto tali, bensì appunto della ricchezza della tradizione nel suo insieme. È stato notato, al riguardo, che de Lubac «leggeva la Tradizione come i Padri leggevano le Scritture, illuminando le cose più oscure mediante quelle più chiare e riconducendo le dissonanze nella sinfo-
38 Nei primi giorni del concilio, de Lubac annota: «Mettre et multiplier de barrières autour d’un vide: voilà comment l’on pourrait presque définir l’action de certains théologiens du Saint-Office et assimilés. Il ne tiennent, ils ne défendent avec vigueur que: a) des vérités diminuées… b) des théories humaines, le plus souvent assez récentes, puériles ou périmées, auxquelles ils tiennent autant et plus qu’au dogme…» (J-de Lubac, I, 115: 14 ottobre 1962). 39 Cf. le osservazioni di Y. CONGAR, Le Concile de Vatican II. Son Église, peuple de Dieu et Corps du Christ, Beauchesne, Paris 1984, 58s. 40 Si vedano al riguardo i rilievi di C. VAGAGGINI, «Teologia», in Nuovo dizionario di teologia, a cura di G. BARBAGLIO e S. DIANICH, Paoline, Roma 21979, 1615-1620; lo stesso Vagaggini mette in luce alcuni aspetti di somiglianza tra i procedimenti della teologia patristica e determinate scelte del Vaticano II (cf. ivi, 1642s); cf. anche C. DAGENS, «Une certaine manière de faire de la théologie. De l’intérêt des Pères de l’Église à l’aube du IIIe millénaire», in NRTh 117(1995), 82.
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nia dell’insieme»;41 e si potrebbe dire che un atteggiamento analogo guidò in buona misura l’elaborazione del de Ecclesia, quanto meno in alcuni dei suoi principali responsabili.42 Ciò solleva, peraltro, una questione non da poco: si potrebbe osservare, infatti, che gli esegeti non leggono più le Scritture come facevano i Padri, e che i patrologi e gli storici della tradizione, a loro volta, non seguono più un approccio come quello di de Lubac; il che spiega anche la difficoltà, da parte dello stesso de Lubac e di altri «padri» del Vaticano II (ad es. J. Daniélou, J. Ratzinger), nei confronti delle ricerche di studiosi più recenti o più recettivi nei confronti delle epistemologie moderne; più in generale, si deve anche rilevare qui l’odierna difficoltà della teologia a utilizzare le letture e argomentazioni scritturistiche dei Padri, o a costruire un argomento di tradizione.43 Sotto questo aspetto, il Vaticano II, se raccoglie e porta a compimento un orientamento e un’attitudine di approccio ai Padri che aveva trovato espressioni significative intorno alla metà del Novecento, segna però anche il punto terminale di questa stessa attitudine. Si può mettere il problema anche in questi termini: il «ritorno alle fonti» è stato senza dubbio una nota caratteristica del Vaticano II (cf. sotto, § 4); ma la formula «ritorno alle fonti» resta troppo generica, perché si può realizzare in modi diversi. Al concilio, e in modo particolare nell’elaborazione del de Ecclesia, il ritorno alle fonti si pone prevalentemente nella linea di un ascolto complessivo della testimonianza dei Padri e situa il concilio stesso nel loro «spirito», prima ancora che nella preoccupazione di una valutazione e valorizzazione storica e filologica della loro dottrina.
41 J. MOINGT, in Henri de Lubac et le mystère de l’Église. Actes du colloque du 12 octobre 1996 à l’Institut de France, Cerf, Paris 1999, 85s. 42 È il caso, in particolare, dell’opera di G. Philips. È utile citare, al riguardo, la testimonianza autobiografica del principale redattore della Lumen gentium: «Aussi bien la droite que la gauche ont fait appel à mon travail et à mon influence, surtout, je pense, parce que ce travail et cette influence étaient pratiquement anonymes. Mon intervention n’a pas été révolutionnaire et il y a très probablement des personnes qui le regrettent. J’ai visé la compréhension de la vérité – aussi large que possible – et l’accord – encore une fois aussi large que possible –, mais je n’ai pas réellement “lutté”: je veux dire: je n’ai jamais engagé le combat “contre” quelqu’un, je me suis même efforcé de mon mieux pour qu’on n’engage pas le combat “contre” quelqu’un. J’ai essayé de servir la Vérité qui est Notre Seigneur Jésus-Christ, y compris avec mes manquements. Certains de “gauche” ou de “droite” ont bien dit que j’étais trop indulgent. En tout cas j’ai essayé de conserver la paix. Mais non la paix à tout prix. En tout cas, je n’ai rien dit ou défendu que je ne considérais pas comme vrai. Bref, j’ai essayé d’être honnête»: G. PHILIPS, Carnets conciliaires de Mgr. Gérard Philips secrétaire adjoint de la Commission Doctrinale. Texte néerlandais avec traduction française et commentaire par K. SCHELKENS. Avec une Introduction par L. DECLERCK, Maurits Sabbebibliotheek Faculteit Godgeleerdheid-Uitgeverij Peeters, Leuven 2006, 124 (2 agosto 1964). 43 Cf. MOINGT, in Henri de Lubac et le mystère de l’Église, 86; nella stessa linea andavano già (nel 1969) le osservazioni di J. RATZINGER, «I Padri nella teologia contemporanea», in ID., Natura e compito della teologia. Il teologo nella disputa contemporanea. Storia e dogma, Jaca Book, Milano 1993, 147-149; cf. anche i rilievi della CONGREGAZIONE PER L’EDUCAZIONE CATTOLICA, «Istruzione sullo studio dei Padri della Chiesa», n. 8.
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«Prevalentemente» significa, però, in modo non esclusivo, perché nel Vaticano II si incontrano, senza dubbio, anche altre modalità di approccio ai Padri: lo abbiamo potuto documentare anche nel c. 8. Prima di tutto, gli estensori del de Ecclesia non hanno lasciato cadere del tutto l’attenzione al rigore storico-dottrinale, come mostrano le preoccupazioni per un uso equilibrato e rispettoso della portata dei testi invocati, specialmente nel terzo capitolo della costituzione;44 e le relazioni di accompagnamento ai testi hanno cercato di rendere consapevoli della questione anche i padri conciliari. Resta vero, per altro verso, che il ricorso ai Padri, in qualche caso (raro, a nostro giudizio), può sembrare piuttosto accidentale o superficiale, se non proprio «ornamentale». In definitiva, anche nel caso dell’utilizzazione dei Padri della Chiesa, come per altre questioni, il Vaticano II offre elementi per interpretazioni e scelte diverse: che, però, non stanno sullo stesso piano e non hanno la stessa rilevanza. Se, come riteniamo, ha senso parlare di «imitazione» dei Padri da parte del concilio, questa può essere vista come la cifra interpretativa più comprensiva, quella che permette di parlare anche di uno «spirito patristico» del Vaticano II (e quanto diremo nel § 3 lo confermerà dal punto di vista della «retorica» utilizzata dal concilio). In tal caso, però, gli sviluppi successivi al concilio hanno preso una direzione almeno parzialmente diversa: il che vale per gli stessi studi patristici, che paiono aver perso in termini di proposta per uno sguardo sintetico della fede quanto hanno guadagnato sul piano della «scientificità» e del rigore filologico, storico e dottrinale. Non sembra casuale, al riguardo, anche quello spostamento di sede, che vede gli studi patristici trasferirsi sempre più nell’ambito delle facoltà di lettere o negli spazi di studio e nell’ambito di metodi propri della Altertumswissenschaft, con un impegno di ricerca che non ha, forse, adeguato riscontro in ambito teologico.45 Per dirla sinteticamente ancora in un altro modo: il Vaticano II non aveva, tra i suoi esperti e neppure tra i suoi vescovi, molti patrologi «professionisti»; si può dire, anzi, che quasi non ve ne fossero;46 in un concilio che si svolgesse oggi, se ne potrebbero introdurre molti di più, e di solida competenza. Ma in questo inizio del XXI secolo, non c’è nulla – per fare un solo esempio – che assomigli a Catholicisme e che possa esercitare un influsso «patristico» paragonabile a quello svolto da opere come
44
Cf. sopra, c. 8 § 2.2. Cf. al riguardo M.P. CICCARESE (ed.), La letteratura cristiana antica nell’Università italiana. Il dibattito e l’insegnamento, Nardini, Fiesole 1998; Zwischen Altertumswissenschaft und Theologie. Zur Relevanz der Patristik in Geschichte und Gegenwart, hrsg. v. C. MARKSCHIES u. J. VAN OORT, Peeters, Leuven 2002; L. PERRONE, «L’étude des Pères dans l’Université: pour une approche européenne», in Les Pères de l’Église dans le monde d’aujourd’hui. Actes du colloque international organisé par le New Europe College en collaboration avec la Ludwig Boltzmann Gesellschaft (Bucarest, 7-8 octobre 2004), éd. par C. BADILITA et C. KANNENGIESSER, Beauchesne-Curtea Veche, Paris-Bucarest 2006, 19-35. 46 Cf. A. QUACQUARELLI, «Riscontro patristico della Dei Verbum», in ABI, Costituzione conciliare Dei Verbum. Atti della XX Settimana biblica, Paideia, Brescia 1970, 19-29. 45
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questa nella preparazione e nello svolgimento del Vaticano II.47 Sotto questo aspetto, il concilio ha segnato indubbiamente la fine di un momento specifico per la valorizzazione dei Padri; questi, oggi, sono più conosciuti, più editi, più tradotti e più studiati che non cinquanta o sessant’anni fa: ma il loro ruolo non è più lo stesso.
3. «M O D U S
PAT R I S T I C U S L O Q U E N D I »: R E T O R I C A PAT R I S T I C A E RETORICA CONCILIARE
A)
UN
C A M B IA M EN T O S T I L I S TI C O
In una serie d’interventi che si sono venuti sempre meglio precisando in questi ultimi anni, anche a seguito di discussioni recenti sull’ermeneutica del Vaticano II, J.W. O’Malley ha attirato l’attenzione su un aspetto del contributo del concilio che, se pure occasionalmente richiamato anche da altri autori, non è stato però preso in esame sistematicamente, soprattutto in rapporto alla sua radice patristica: si tratta dello stile dei documenti conciliari.48 Anche soltanto da un punto di vista esteriore, è incontestabile il fatto che i documenti del Vaticano II si distinguono dai decreti dei concili precedenti per la loro lunghezza: 315 pagine complessive di testo,49 contro le 14 del Vaticano I, le 139 del Tridentino, le 60 del Lateranense V… Ma la
47 Secondo J. Leclercq, i testi conciliari «ce ne sont pas seulement des déclarations de professeurs auxquelles, en bas des pages, on aurait ajouté, comme des ornements, quelques citations. Ce sont vraiment des documents élaborés dans une atmosphère liturgique, sur la base de l’Evangile […] et préparés par des experts imbus de la doctrine des Pères et des théologiens du moyen âge, et qui n’ignoraient d’ailleurs pas les courants de la pensée contemporaine»: J. LECLERCQ, «Un demi-siècle de synthèse entre histoire et théologie», in ISTITUTO PATRISTICO AUGUSTINIANUM, Lo studio dei Padri della Chiesa oggi, Augustinianum, Roma 1977, 29. 48 J.W. O’MALLEY aveva affrontato la questione in alcuni contributi, raccolti poi in ID., Tradition and Transition. Historical Perspectives on Vatican II, M. Glazier, Wilmington 1989; vi è tornato più diffusamente in «Vatican II: Did Anything Happen?» e «Trent and Vatican II: Two Styles of Church», in R.F. BULMAN – F.J. PARRELLA (eds.), From Trent to Vatican II. Historical and Theological Investigations, Oxford University Press, New York 2006, 301320, per riprenderla poi nelle pagine conclusive di ID., What Happened at Vatican II, Belknap Press, Cambridge (MA)-London 2008; da tenere in considerazione, inoltre, ID., Four Cultures of the West, Belknap Press, Cambridge (MA) - London 2004, di cui diremo poco più avanti, e lo sguardo sintetico di ID., «Che cosa è successo nel Vaticano II. Continuità e riforma nella Tradizione della Chiesa», in Riv. del clero italiano 91(2010), 187-201. 49 Ci riferiamo all’edizione Conciliorum Oecumenicorum Decreta. Per quanto segue, cf. O’MALLEY, «Vatican II: Did Anything Happen?», 68-72. Sulla «prolissità» dei testi conciliari, cf. anche CONGAR, Le concile de Vatican II, 66: secondo Congar, la tendenza a un linguaggio più ampio e abbondante, con intento più pedagogico, ha dei precedenti nei testi del magistero non conciliare.
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lunghezza dei testi del Vaticano II dipende strettamente dal loro «genere letterario», molto diverso rispetto a quello prevalente nei concili precedenti. Si tratta di un genere letterario, o di uno «stile», che si è voluto qualificare come «pastorale»: aggettivo interpretato in direzioni assai diverse e persino opposte, perché se ne è voluto trarre motivo per squalificare la portata dottrinale del concilio o, da un punto di vista contrario, lo si è evidenziato come l’istanza centrale – che viene fatta risalire agli intenti di Giovanni XXIII – di ripensamento e rinnovamento della Chiesa.50 O’Malley ha voluto spostare la questione sul piano propriamente letterario, e più precisamente retorico; inoltre, ha inteso inquadrarla in un orizzonte culturale più ampio, arrivando così a mettere meglio in luce le implicazioni teologiche del problema «stile». Per questa via, egli ha potuto poi individuare nel riferimento ai Padri della Chiesa la radice principale di un rinnovamento «stilistico» che è, al tempo stesso, rinnovamento teologico ed ecclesiale. I concili che precedono il Vaticano II si presentano, per lo più, come assemblee «legislative», i cui decreta determinano la vita della Chiesa negli ambiti fondamentali della fides et mores. Nei concili più antichi ciò avviene prevalentemente mediante testi che hanno rilevanza anche liturgica (le «confessioni» o «professioni di fede»), ma lo spostamento verso il linguaggio giuridico si fa sempre più sensibile: pur con notevoli eccezioni, la forma prevalente dell’insegnamento conciliare diventerà presto quella del «canone» (o dei suoi equivalenti), cui corrisponde un linguaggio adatto, che consiste in «parole di minaccia e intimidazione, di sorveglianza e punizione; parole di un superiore nei confronti di un inferiore o, spesso, di un nemico»;51 si tratta, insomma, di un linguaggio di potere. È ovvio che anche questo genere di testi andrà letto nell’orizzonte di un’ermeneutica attenta ai contesti storici, così da situare nel modo più corretto questo linguaggio e da misurarne la rispondenza alla situazione alla quale ciascun concilio doveva far fronte. Ma è fuor di dubbio che il «gioco linguistico» prevalente nelle prese di posizione dei concili – ciò che, del resto, si dovrebbe dire di buona parte degli interventi magisteriali più importanti, almeno fino agli inizi del XX secolo – si muove nelle linee che abbiamo accennato.52 50
Cf. G. ALBERIGO in SCVII, V, 585-589; cf. anche sotto, 3b. O’MALLEY, «Vatican II: Did Anything Happen?», 70; cf. anche Y. CONGAR, «Situation ecclésiologique au moment de “Ecclesiam suam” et passage à une Église dans l’itinéraire des hommes», in «Ecclesiam suam» première lettre encyclique de Paul VI. Colloque international, Rome 24-26 octobre 1980, Brescia-Roma 1982, 18s. Il cambiamento linguistico non era scontato: si vedano le osservazioni di G. Dossetti allo schema preparatorio, nelle sue Note sullo Schema «De Ecclesia», riprodotte in A. MELLONI, «Ecclesiologie al Vaticano II (autunno 1962 - estate 1963)», in M. LAMBERIGTS – C. SOETENS – J. GROOTAERS (éds.), Les Commissions conciliaires au Vatican II, Bibliotheek van de Faculteit Godgeleerdheid, Leuven 1996, 153. 52 Sulla diversità di approccio del Vaticano II rispetto alla precedente tradizione conciliare, si vedano anche le osservazioni di G. PHILIPS, «Les méthodes théologiques de Vatican II», in Théologie. Le service théologique dans l’Église (Mélanges Congar), Cerf, Paris 1974, 11s; BEINERT, «Ein Konzil in unserer Zeit», 114-118. 51
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I documenti del Vaticano II, invece, hanno adottato un «gioco linguistico» di diverso segno, che possiamo cercare di caratterizzare ancor meglio, utilizzando il contributo che lo stesso O’Malley ha dato per un’interpretazione complessiva degli orizzonti culturali attraverso i quali si è venuto costituendo l’occidente cristiano. La scelta del Vaticano II risponde, infatti, a una delle «quattro culture dell’Occidente», che O’Malley ha descritto in un suo saggio di alcuni anni fa,53 ma che riprende un interesse maturato dall’autore nei suoi studi sul contesto religioso del rinascimento. Le sue ricerche lo hanno portato a verificare fino a che punto, in quel contesto, il «come dire» fosse rilevante almeno quanto il «che cosa dire»; tenuto conto del fatto che, naturalmente, il come e il che cosa non sono mai perfettamente separabili.54 Sulla base di questa persuasione, O’Malley delinea il quadro d’insieme di alcune grandi dinamiche culturali che caratterizzano l’occidente, raccogliendole intorno a quattro orizzonti: la cultura «profetica», cultura del conflitto, dello scontro e della critica, cultura che contrappone «Atene» a «Gerusalemme», che rifiuta il compromesso e usa il linguaggio della profezia, della protesta, della riforma; poi la cultura dell’accademia, quella che ha le sue figure simboliche in Platone e in Aristotele – i grandi nomi con i quali il cristianesimo occidentale si confronta grazie ai Padri e a Tommaso, per giungere a una riconciliazione tra fede e ragione che sembra lontana dalla conflittualità della cultura «profetica»; lo «stile» di questa seconda cultura è quello del ragionamento, della riflessione rigorosa, della quaestio, dell’argomentazione critica; è lo stile che fonda l’universitas studiorum, la cultura dei filosofi e degli scienziati… Ora, senza arrivare ad assolutizzazioni rigide, va detto che questa fu solo in parte la cultura dei Padri della Chiesa, i quali sono rappresentativi, piuttosto, di una terza espressione culturale, che si può sintetizzare nel segno della retorica. Quasi sempre, infatti, la cultura dei Padri era basata sulla retorica, su ciò che si chiamerà poi la formazione «umanistica» – fondamento, a sua volta, di tutta una tradizione scolastica, entrata successivamente anche nell’università, ma a partire da una sua prospettiva propria rispetto all’approccio delle «scienze». Stile tipico di questa cultura non è tanto l’argomentazione logica quanto il «discorso persuasivo», necessario lì dove non è possibile «dimostrare» (né condannare, come farebbe la cultura profetica) e si tratta, invece, di persuadere nei confronti di una scelta. La quarta cultura, finalmente, viene messa sotto il titolo «Arte e spettacolo», ed entra nel cristianesimo soprattutto attraverso la liturgia.55 53 O’MALLEY, Four Cultures of the West; citeremo di seguito l’ed. italiana: Quattro culture dell’Occidente, Vita e Pensiero, Milano 2007; si vedano inoltre i riferimenti a quest’opera in ID., «Vatican II: Did Anything Happen?», 73-75. 54 Cf. O’MALLEY, Quattro culture dell’Occidente, 14 e 39s. 55 Per una presentazione articolata delle quattro culture, si veda O’MALLEY, Quattro culture dell’Occidente, rispettivamente 47-82, 83-126, 127-172, 173-221.
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Lo stile di discorso che contrassegna i documenti del Vaticano II, secondo O’Malley, è appunto quello della cultura che ha caratterizzato in modo prevalente l’età dei Padri della Chiesa; e si tratta di uno stile di discorso deliberatamente cercato dal concilio in contrasto con lo stile della cultura «dialettica», fatta propria dalla neoscolastica e irrigidita soprattutto nelle sue forme meno raffinate, che trovavano un’espressione tipica nella manualistica corrente ancora a metà del Novecento.56 Alla scelta di questo stile il concilio poté arrivare precisamente perché in Germania e in Belgio, ma soprattutto in Francia, i teologi si sforzavano ormai da decenni di trovare alternative alla rigidezza dello stile dominante, e diversi di loro si erano rivolti ai Padri con quello che chiamavano ressourcement, «ritorno alle fonti». Di fatto i documenti conciliari suonano spesso come un commento o un’omelia di uno dei Padri (o di Erasmo); sarebbe difficile trovare un contrasto più grande con lo stile di discorso del concilio di Trento. Il Vaticano II è stato, come Lutero, un «evento linguistico».57
Sin dalla fase antepreparatoria alcuni vescovi avevano colto le potenzialità offerte al concilio dal modus patristicus loquendi; della questione, inoltre, si era ampiamente discusso soprattutto durante il primo periodo conciliare.58 Dobbiamo notare, al riguardo, che è però improprio parlare genericamente di un «linguaggio patristico». Si può capire la generalizzazione soprattutto in rapporto all’opposizione al carattere neoscolastico che impregnava i documenti preparatori. Sotto il profilo di un più rigoroso apprezzamento del linguaggio dei Padri, tuttavia, la cosa dev’essere precisata meglio. I Padri, di fatto, conoscono e utilizzano un’ampia gamma di modalità di discorso, che vanno – per menzionare solo alcuni esempi più evidenti – da quello più «scolastico» dei commentari a quello più parenetico delle omelie, per non parlare dei tecnicismi filosofici o del linguaggio della «condanna», di cui offrono un esempio significativo gli Anatematismi di Cirillo di Alessandria (Ep. 17) contro Nestorio. Questa varietà stilistica è, del resto, un tratto riconosciuto sin dall’epoca patristica: 56 Cf. O’MALLEY, Quattro culture dell’Occidente, 170. Nella polemica divampata negli anni ’40 intorno alla «nouvelle théologie», il «fronte neoscolastico» si presentava di fatto abbastanza variegato: sarebbe una semplificazione storica appiattire posizioni come quelle di M. Labourdette, J. Maritain, C. Journet (per non parlare di E. Gilson) sulla linea inflessibile di un R. Garrigou-Lagrange o di un C. Boyer: cf. E. FOUILLOUX, «Dialogue théologique? (1946-1948)», in Saint Thomas au XXe siècle. Colloque du centenaire de la “Revue thomiste”, 1893-1992, Toulouse, 25-28 mars 1993, Saint-Paul, Paris 1994, 153-195; G.A. MCCOOL, From Unity to Pluralism. The Internal Evolution of Thomism, Fordam University Press, New York 1992. 57 O’MALLEY, Quattro culture dell’Occidente, 170. A proposito, in modo specifico, della costituzione liturgica, anche A.M. Triacca aveva rilevato che il contesto patristico è dato più dal tono complessivo del documento che non dalle citazioni dei Padri presenti nel testo: cf. TRIACCA, «L’uso dei “loci” patristici», 169. 58 Per la fase antepreparatoria, si vedano in particolare gli interventi di mons. Jaeger e della Conferenza episcopale tedesca documentati sopra, c. 3, sez. I, § 2; per il dibattito del primo periodo, sopra, c. 5, soprattutto il § 1.
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Girolamo, nel suo catalogo degli «uomini illustri», annota con relativa frequenza – ricorrendo al vocabolario tecnico della retorica antica – le peculiarità stilistiche dell’uno o dell’altro autore o, in certi casi, delle singole opere.59 Occorre specificare meglio, dunque, cosa si intende per «linguaggio patristico», in rapporto allo stile dei documenti del Vaticano II. O’Malley fa riferimento al genere epidittico, ben noto ai trattatisti della retorica sin dall’antichità, e che trova nel panegirico una delle sue espressioni più tipiche.60 Si tratta di un genere che non intende tanto chiarire dei concetti, quanto piuttosto sottolineare «l’apprezzamento per una persona, un evento, un’istituzione, e sollecitare l’emulazione di un ideale»;61 è un genere di discorso che favorisce la riconciliazione, nella misura in cui vuole persuadere e promuove quindi l’apprezzamento per ciò che viene accettato e condiviso, invece che evidenziare ciò che divide e separa (e non sorprende, quindi, che questo genere sia congeniale all’orizzonte di apertura ecumenica e dialogica del Vaticano II);62 è un modo di esprimersi che cerca di mettere colui che parla sullo stesso piano di chi ascolta, precisamente perché non comanda dall’alto, ma vuole evidenziare piuttosto il livello della condivisione.63 In questa luce, anche la funzione «persuasiva» del richiamo ai Padri, di cui si è detto,64 assume una nuova portata. Avevamo parlato di persuasione in rapporto a temi dottrinali che, per una ragione o per l’altra, non venivano facilmente recepiti dall’assemblea conciliare. Qui, però, siamo davanti a un’altra dimensione della persuasione, quella che è propria di un genere di discorso che, anziché far leva sull’evidenza «dimostrativa», o utilizzare il peso dell’autorità che impone e condanna, vuole condurre ad accogliere una scelta, suggerisce un percorso comune, invita a un’adesione. 59 Cf. GIROLAMO, Gli uomini illustri, a cura di A. CERESA-GASTALDO, Firenze 1988 (Biblioteca patristica 12). Alcuni esempi: il sermo simplex di Egesippo (c. 22), l’elegans et declamatorium ingenium di Melitone (criticato da Tertulliano: c. 23), il sermo declamatorius delle lettere pasquali di Dionigi di Alessandria (c. 69), il sermo nitidus et compositus di Metodio di Olimpo (c. 83), ecc. 60 Cf. O’MALLEY, «Vatican II: Did Anything Happen?», 74; per una presentazione tecnica sintetica, si veda H. LAUSBERG, Elemente der literarischen Rhetorik, München 1967, §§ 22-27 (tr. it. Elementi di retorica, Bologna 1969, 19-22). 61 O’MALLEY, «Vatican II: Did Anything Happen?», 76, anche per quanto segue. 62 Cf. O’MALLEY, «Vatican II: Did Anything Happen?», 79; ID., Quattro culture dell’Occidente, 171, e «Trent and Vatican II», 313. 63 In questo senso, l’espressione più alta di questo genere si ha, secondo O’Malley, nell’esordio di Gaudium et spes, che rappresenta un linguaggio del tutto inedito nella storia dei concili (cf. O’MALLEY, «Vatican II: Did Anything Happen?», 77; ID., Quattro culture dell’Occidente, 172); rilievi analoghi in H.-M. FERET, «La théologie concrete et historique et son importance pastorale presente», in Théologie. Le service théologique dans l’Église, 193-247, in particolare 242. Si vedano anche, al riguardo, le osservazioni di Ratzinger, all’indomani del concilio, a proposito della ricerca di un nuovo modello di linguaggio magisteriale in Gaudium et spes: J. RATZINGER, Problemi e risultati del Concilio Vaticano II, Queriniana, Brescia 1967, 119-121. 64 Cf. c. 8 § 4d.
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A questo genere di discorso si accompagna un vocabolario appropriato e che è significativo sia per il linguaggio che non usa – non troviamo, nel linguaggio conciliare, parole di alienazione, di esclusione, di inimicizia, di minaccia o intimidazione – sia per il vocabolario più positivamente caratteristico e che O’Malley riassume nelle grandi categorie delle «parole orizzontali» (parole di «fraternità», di reciprocità, di amicizia, espressioni come «dialogo» e «collegialità», la stessa espressione di «popolo di Dio»…), delle parole – certo usate con parsimonia – che fanno riferimento al mutamento storico (sviluppo, progresso, persino «evoluzione» e, naturalmente, «aggiornamento») e parole di interiorità, come quelle usate all’inizio di Gaudium et spes.65 Se accogliamo l’indicazione suggerita da O’Malley, dunque, dobbiamo prendere atto di un cambiamento di «registro linguistico», operato dal Vaticano II; come ogni vero cambiamento, esso non sta alla superficie delle cose, perché comportò tra l’altro, da parte dell’assemblea conciliare, il consapevole rifiuto di buona parte del materiale preparatorio, precisamente a causa anche del suo modo di esprimersi.66 Non si poneva semplicemente una questione «estetica», e neppure soltanto un problema di metodo teologico. O’Malley mette in luce che qui era in gioco qualcosa di più profondo: si trattava di modi di pensare, di sentire e di comportarsi dei quali lo stile era l’emblema e il motore. Era il rifiuto di un intero quadro mentale ed emozionale che si esprimeva in un genere letterario e in un vocabolario. Lo stile, in questo senso, non è un ornamento, un dettaglio superficiale, ma l’espressione della personalità più profonda.67
Il concilio ha cambiato uno stile di Chiesa, non attraverso un insegnamento esplicito su questo stile, ma nel suo modo stesso di porsi come evento e di elaborare i propri testi autorevoli; il che, tra l’altro, non è senza conseguenze per la quaestio disputata dell’ermeneutica conciliare, come vedremo ancora nella parte finale di questo capitolo.
B)
«S TI LE » PATRISTIC O E FI NA L I TÀ « PA STO RA LE » DE L C ONC ILI O
È importante notare che il cambiamento stilistico, di cui abbiamo parlato qui riprendendo la proposta interpretativa di O’Malley, non 65 Cf. su tutto questo O’MALLEY, «Vatican II: Did Anything Happen?», 78-80; inoltre ID., Quattro culture dell’Occidente, 171; «Trent and Vatican II», 314-316; BEINERT, «Ein Konzil in unserer Zeit», 114-118 e già PHILIPS, «Les méthodes théologiques», 32, nonché i rilievi di F. GEREMIA, I primi due capitoli della «Lumen Gentium»: genesi ed elaborazione del testo conciliare (Dissertazione), Marianum, Roma 1971, 152, a proposito delle differenze di vocabolario tra lo schema della TE e la LG. Sulla questione del dialogo, si vedano i contributi raccolti in Herders Theologischer Kommentar zum Zweiten Vatikanischen Konzil, hrsg. v. P. HÜNERMANN u. B.J. HILBERAT, Herder, Freiburg 2004-2006, rist. 2009, V, 311-379. 66 Abbiamo documentato la cosa sopra, c. 5 §§ 1-2. 67 O’MALLEY, «Vatican II: Did Anything Happen?», 82; cf. ID., Tradition and Transition, 176s.
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andava da sé e incontrò non poche resistenze all’interno del concilio.68 Abbastanza presto, tuttavia, la percezione complessiva dei padri conciliari si orientò verso questa nuova impostazione, nella quale la ricerca di un nuovo linguaggio si collegava con la prospettiva del ritorno alle fonti e con l’esigenza della «pastoralità». Le ormai celebri battute, espressione di ironia un po’ amara, con le quali il card. Ottaviani introdusse il dibattito sul de Ecclesia durante il primo periodo, esprimono (in negativo) un insieme di convinzioni che si andava sempre più radicando nell’assemblea conciliare: il concilio cercava la sua strada verso un atteggiamento più ecumenico e dialogico, meno scolastico, più biblico, più pastorale ecc.69 La qualifica di «pastorale», com’è noto, è stata tra le più richiamate, ma anche tra le più discusse, durante e dopo il concilio, ed è stata anche fonte di contrapposizioni ermeneutiche, che hanno condotto sino alla spaccatura all’interno della Chiesa cattolica postconciliare. In questa sede, vorremmo riprendere la questione da un punto di vista limitato all’oggetto della nostra ricerca. Si tratta di ricordare, in definitiva, che, appunto nell’orizzonte patristico, al quale il Vaticano II così ampiamente si ispira come spirito e stile complessivo, la separazione tra dogma e pastorale, tra fides quaerens intellectum e applicazioni o conclusioni «pratiche» è in pratica insostenibile. «Stile», «contenuti» e implicazioni «pratiche» non sono seriamente separabili, in un orizzonte di autentico ressourcement. Nel momento in cui Giovanni XXIII, inaugurando il concilio, assegna al concilio una finalità «pastorale»,70 fa una scelta di campo che orienta tutta la prospettiva del concilio (mentre non era riuscita a improntarne la fase preparatoria). Rinunciare alla prospettiva della «condanna», far prevalere il criterio della misericordia e di una proposta positiva della dottrina, voleva dire anche che una teologia concettuale e analitica, isolata rispetto alle dimensioni più ampie della vita della Chiesa, non era più sufficiente al momento storico, al kairos, che la Chiesa stessa stava attraversando. Anche per questo era necessario fare ricorso a un genere di discorso teologico capace di aprirsi a una sintesi più ampia. È significativo come
68 «Va riconosciuto che per qualcuno non fu immediatamente facile capire. L’invito reiterato a passare dal “giuridico” al “teologico” sconcertava. Un ritorno troppo determinato al linguaggio della Bibbia e dei Padri sembrava minacciare il rigore dogmatico. Si aveva paura di lasciare le stabili certezze per lanciarsi su un terreno troppo mobile. Si temeva il vago, la novità, forse anche gli impeti eccessivi»: H. DE LUBAC, in BARAÚNA , 4. 69 Cf. sopra, c. 5, nota 38 e testo relativo. 70 Per l’allocuzione Gaudet Mater Ecclesia rinviamo allo studio di A. MELLONI, «Gaudet e l’avvio del Vaticano II», in ID., Papa Giovanni. Un cristiano e il suo concilio, Einaudi, Torino 2009, 258-335, che riprende e rielabora il precedente «L’allocuzione “Gaudet Mater Ecclesia” (11 ottobre 1962). Sinossi critica dell’allocuzione», in Fede Tradizione Profezia. Studi su Giovanni XXIII e sul Vaticano II, Paideia, Brescia 1984, 223-283. Si vedano anche le osservazioni di C. THEOBALD, Il cristianesimo come stile. Un modo di fare teologia nella postmodernità, EDB, Bologna 2009, I, 134-140.
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diverse volte il concilio presenti la propria dottrina richiamandosi al disegno salvifico di Dio: e ciò costituisce, come rileva Congar, un modo caratteristico di articolare il pensiero e di proporre una dottrina in chiave pastorale.71 Ma si tratta, per l’appunto, di un approccio familiare al pensiero patristico. Per avvantaggiarsene, bisognava però uscire dalla modalità di utilizzazione dei Padri – ma anche, se per questo, dei grandi dottori scolastici – che era stata per molto tempo abituale e che era continuata sino alla fase preparatoria del concilio:72 quella che se ne serviva pressoché esclusivamente come arsenale di argomentazioni teologiche e, almeno per quanto concerne i Padri, lasciava cadere tutta la dimensione pastorale della loro teologia, nata in stretto rapporto con le contingenze storiche e sviluppata in prospettiva di fedeltà sia alla rivelazione, sia alla storia vissuta delle comunità cristiane nelle quali operavano.73 Questa, a sua volta, si comprende solo nell’orizzonte complessivo di una historia salutis, orientata escatologicamente; il senso escatologico significa concepire la realtà della creazione in quanto è inserita nel movimento che conduce verso la pienezza cristologica; proprio per questo, il movimento storico è teologicamente rilevante.74 Per J. Ratzinger, che si riferisce in modo specifico alla questione della collegialità, il nesso tra il «dogmatico» e il «pastorale» è iscritto nel carattere di veritas salutaris, proprio del vangelo. Il riferimento alla storia qui è forse meno evidenziato; ma anche per questa via si coglie il carattere inevitabilmente pastorale di un’autentica teologia. E anche per l’allora giovane teologo di Bonn il riferimento alla Scrittura e ai Padri rappresenta il punto di ancoraggio, che ha permesso al Vaticano II di superare quella separazione tra dogma e pastorale che aveva tanto impoverito la fase preparatoria del concilio: L’elemento pastorale non è soltanto una pia glossa aggiunta, ma lo stesso elemento dogmatico «implica» qui l’elemento pastorale. In altre parole: l’enunciato della costituzione collegiale dell’ufficio episcopale, e con esso della chiesa stessa, non è una pura teoria per specialisti, ma in quanto enunciato dogmatico è nello stesso tempo e direttamente un enunciato che si riferisce all’uomo, alle realtà della vita ecclesiale. D’ora innanzi per una feconda pastorale sarà molto importante superare lo sterile accostamento di semplici teorie e di ricette puramente pragmatiche e ritornare all’unità originaria quale ci si presenta nella Bibbia e nei padri, dove incontriamo una verità che in partenza e nella sua essenza più profonda è verità per l’uomo, verità salutare e salvifica, in cui pastorale e dogma si intrecciano in modo indissolubi-
71
Cf. Y. CONGAR, Situation et taches présentes de la théologie, Cerf, Paris 1967, 44. Cf. sopra, c. 4 § 1b. 73 Abbiamo ripreso qui alcuni spunti di FERET, «La théologie concrete et historique», 236-238; Feret fa notare che proprio la dimensione pastorale, del resto, determina il senso fondamentale e l’uso delle risorse culturali – di volta in volta più filosofiche o più retoriche o letterarie (cf. l’allegoria) – da parte dei Padri della Chiesa. 74 Cf. CONGAR, «Situation ecclésiologique au moment de “Ecclesiam suam”», 26s; DAGENS, «Une certaine manière de faire de la théologie», 68-70. 72
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9. I caratteri patristici del concilio Vaticano II: prospettive e limiti le: è la verità di colui che è ad un tempo «Logos» e «pastore», come ha profondamente compreso la primitiva arte cristiana, che raffigurava il Logos come pastore e nel pastore scorgeva il Verbo eterno, che indica all’uomo la vera via.75
4. «R E D I T U S
A D F O N T E S »: I L RESSOURCEMENT C O N C I L I A R E
A)
R ITOR N O A L LE F O N T I : « DE STR U E R E » E « AE DIFICAR E »
Il Vaticano II parla esplicitamente di un «reditus ad fontes», all’interno del decreto sul rinnovamento della vita religiosa Perfectae caritatis:76 un contesto apparentemente marginale, ma che ricorda come il ritorno alle fonti non sia, per il concilio, un’operazione di tipo erudito, o che riguarda esclusivamente la dimensione «positiva» del discorso teologico. Si tratta, invece, di un’attitudine «spirituale», che impegna non soltanto nella rielaborazione di un pensiero teologico,77 ma anche e più ancora nel cammino di quella renovatio78 che il concilio intende propiziare e alla quale vuole condurre l’intera Chiesa. Il ressourcement, infatti, è un dinamismo che deve essere riletto secondo vari livelli.79 Sullo sfondo del travaglio della teologia cattolica nella prima metà del Novecento, una prima componente del ricorso alle fonti bibliche, liturgiche, patristiche (e alto-scolastiche), si può qualificare come «demolitrice», destruens. Il ripensamento della teologia, basato sullo studio delle fonti, era la via per uscire dalla rigidità della neoscolastica, in particolare nelle sue versioni più difensive e intellettualmente anchilosate. L’operazione è stata condotta, in qualche caso, con una certa 75 RATZINGER, Il nuovo popolo di Dio, 233; per la valutazione sui limiti della fase preparatoria, cf. ID., Problemi e risultati del Concilio Vaticano II, 41s. 76 Cf. Perfectae caritatis 2: EV 1/706. 77 J.W. O’MALLEY sottolinea la differenza che corre tra l’idea di uno «sviluppo del dogma» e quella di un ressourcement che «look to the past for norms or practices or mind-sets that somehow are going to change or correct or at least qualify the direction of current developments» («Vatican II: Did Anything Happen?», 66; cf. ID., «Che cosa è successo nel Vaticano II», 192-195). 78 La renovatio sanctae Ecclesiae è indicata da Paolo VI come «l’altro principalissimo scopo» (dopo quello dell’accresciuta «coscienza di Chiesa») del concilio: cf. allocuzione di apertura del II periodo, in EV 1/160*. Sulle prospettive «spirituali» del ritorno alle fonti, secondo le indicazioni conciliari, si veda la riflessione di p. Arrupe presentata da S. MADRIGAL TERRAZAS, Memoria del Concilio. Diez evocaciones del Vaticano II, Universidad Pontificia Comillas-Desclée De Brouwer, Madrid 2005, 297-330, in particolare 324ss; inoltre, G. HOLOTIK, «Les sources de la spiritualité catholique selon Vatican II», in NRTh 109(1987), 66-77. 79 Cf. per quanto segue O’MALLEY, «Vatican II: Did Anything Happen?», 63-67; L. PERRONE, «La via dei Padri. Indicazioni contemporanee per un ressourcement critico», in “Con tutte le tue forze”. I nodi della fede cristiana oggi. Omaggio a Giuseppe Dossetti, a cura di A. e G. ALBERIGO, Marietti, Genova 1993, 81-122.
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ingenuità80 che corrispondeva, però, anche, alla freschezza e all’entusiasmo di una vera e propria riscoperta. Al momento della celebrazione del concilio l’ingenuità superficiale, ma anche il fervore della riscoperta di un linguaggio e di un mondo di pensiero «nuovi», che affascinavano un Claudel o facevano salutare con favore la pubblicazione dei primi volumi delle «Sources chrétiennes»,81 erano ormai relativamente lontani; la lotta per l’uscita dagli orizzonti ristretti della neoscolastica, come abbiamo visto, si prolunga invece sino all’interno del concilio stesso: come rileva O’Malley, gli avversari della nouvelle théologie videro il ritorno alle fonti come qualcosa di sovversivo, che avrebbe introdotto una discontinuità inaccettabile, anzi eterodossa, all’interno della tradizione;82 questa è la ragione per cui l’applicazione del principio del ressourcement incontrò spesso difficoltà al Vaticano II, come mostra la discussione sulla collegialità, presentata dai suoi sostenitori come tradizione venerabile, da riscoprire per equilibrare il principio del primato, mentre gli avversari la vedevano non come sviluppo del Vaticano I, ma come sua negazione.83 Ma al concilio si fa sempre più chiara anche la potenzialità «costruttiva» di un ritorno alle fonti patristiche. Merita di essere richiamata, in
80 Si è trattato forse anche di una (voluta?) superficialità: l’articolo di Daniélou sugli Études del 1946, come pure certe espressioni nell’introduzione al primo volume delle SCh (cf. sopra, c. 2, rispettivamente §§ 3b e 2c), costituiscono gli esempi più significativi. Il carattere «antiscolastico» del ressourcement patristico del Novecento è rilevato, tra gli altri, anche da C. FREY, Mysterium der Kirche, Öffnung zur Welt. Zwei Aspekte der Erneuerung französischer katholischer Theologie, Vandenhoeck u. Ruprecht, Göttingen 1969, 107s. 81 Cf. sopra, c. 1, nota 59 e testo relativo; c. 2 § 2d. 82 Non a caso il card. Siri, nel momento in cui cercava di costituire un gruppo di teologi italiani che avrebbe dovuto orientare l’episcopato italiano e contrapporsi alle derive pericolose cui il concilio si esponeva, secondo il cardinale, a causa soprattutto dei periti e vescovi d’oltralpe, indicava alcune proposizioni da confutare, tra le quali inseriva anche queste: «Si deve fare una teologia nuova nel senso che va praticamente eliminata la speculativa e deve ridursi a citazione di testi scritturali o di patristica antica […]. Si deve ricercare quello che è nel consenso della patristica antica ed attenerci a quella per trattare coi fratelli separati (Tale proposizione sembra affermare che la Chiesa non viva nei tempi moderni come viveva nei tempi antichi, il che è manifestamente falso; sembra anche affermare che non esiste lavoro sicuro di approfondimento del Dogma attraverso i tempi o deduzione ed esplicitazione di esso, il che è manifestamente falso)»: G. SIRI, Proposizioni pericolose od erronee secondo diverse censure teologiche sulle quali occorre concentrare tutta la attenzione, lo studio e per le quali occorre preparare mezzi di illustrazione e di difesa, testo dei primi mesi del 1963, cit. da N. BUONASORTE, Siri. Tradizione e Novecento, Il Mulino, Bologna 2006, 294. 83 Cf. O’MALLEY, «Vatican II: Did Anything Happen?», 66s. È interessante notare che nella pubblicazione che raccoglie articoli e interventi diversi di mons. Felici (P. FELICI, Il lungo cammino del concilio, Milano 1967), il segretario generale del concilio non lascia trasparire nulla di tutto il movimento di ritorno alle fonti bibliche, liturgiche e patristiche che ha animato il concilio – così come, del resto, vi sono assenti la prospettiva ecumenica o quella dell’apostolato dei laici: «Il en résulte curieusement qu’aux yeux de Mgr Felici les thèmes principaux de Vatican II sont l’unité de la foi, la primauté pontificale et la continuité avec le passé immédiat!» (J. GROOTAERS, Actes et acteurs à Vatican II, Leuven University Press, Leuven 1998, 312s).
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questo contesto, l’insistenza con la quale un certo numero di padri conciliari domandava che gli schemi (in particolare il de fontibus e il de Ecclesia) fossero arricchiti con un insieme più abbondante di riferimenti alla patristica, soprattutto greca. In qualche caso, non c’è dubbio, i testi patristici avevano, per gli stessi richiedenti, una funzione poco più che ornamentale; ma non si può dubitare che altri avessero percepito il potenziale di arricchimento, di sguardo nuovo sulle antiche questioni, che il ricorso ai Padri poteva offrire. Per altro verso, un uomo come Tromp, che pure già da decenni aveva esplorato le fonti patristiche dell’ecclesiologia, sembra infastidito dalla domanda di un maggiore ricorso alla testimonianza dei Padri,84 e si capisce abbastanza bene il perché. Nella sua prospettiva – non diversa, nell’insieme, rispetto a quella della maggior parte dei teologi che avevano lavorato all’elaborazione degli schemi preparatori –, le «fonti» erano ormai sussunte, chiarificate e, in qualche modo, «superate» dallo sviluppo dottrinale successivo: di modo che, disponendo ora di ciò che è chiaro e perspicuo, sembrava poco utile, e forse anche pericoloso, ripiegare di nuovo su fonti bisognose di complesse delucidazioni. Ritornava il fantasma della Humani generis che, a proposito della ricerca teologica intorno alle fonti, aveva criticato l’atteggiamento di quanti si proponevano di «spiegare ciò che è chiaro [= la dottrina ecclesiastica, in particolare nella sua formulazione magisteriale] a partire da ciò che è oscuro [= le fonti]»; atteggiamento e metodo «del tutto falso; mentre è necessario che tutti seguano l’ordine inverso», stabiliva Pio XII.85 Il Vaticano II, in certa misura, ha voluto scegliere un approccio diverso alla questione delle fonti, un approccio che rinviava piuttosto alla prospettiva di un Newman,86 a sua volta ripreso dai grandi protagonisti del ressourcement intorno alla metà del Novecento; un approccio che evita il rischio di cadere in quella «illusione della storia della teologia», così ben caratterizzata da H. de Lubac: Quando un modo di pensare arriva all’ultimo respiro, quando il suo periodo creativo è passato ormai da molto tempo e sopravvive unicamente grazie a un fenomeno di memoria, allora un altro lo sostituisce. Il nuovo arrivato segna evidentemente un progresso rispetto a quello che lo precedeva immediatamente. Ma considerando le cose alla distanza sufficiente per abbracciare con lo sguardo un periodo più ampio, ci si accorge che quello, sempre, è soltanto un progresso secundum quid. Sarebbe puerile spiegare tutto, per esempio, con un passaggio dal confuso al distinto; senza dubbio c’è sempre un punto di vista sotto il quale ciò può essere vero, ma è la scelta esclusiva di questo punto di vista che è arbitraria e mutilante: essa suppone che degli sforzi anteriori dell’intelligenza si conservi unicamente ciò che può esser considerato come la preparazione dei nuovi sistemi […].
84 85 86
Cf. sopra, c. 5, nota 61. Cf. DH 3886; per il contesto più ampio del passo, si veda sopra, c. 2 § 3e. Si veda il testo che abbiamo citato sopra, c. 1, nota 113 e testo relativo.
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Parte III - Il Vaticano II e la Chiesa dei Padri: elementi per un bilancio [P]rima dell’epoca scolastica, molto tempo prima di essa, c’è stata l’epoca positiva. […] Era, essa, l’epoca della teologia praticata dai Padri. Epoca creativa, epoca costruttiva, epoca nella quale si edifica positivamente la dottrina (prima che la si organizzasse in un corpo sistematico nelle scuole), mediante uno studio che non si limitava a leggere e a collazionare i testi, ma che cercava appassionatamente di comprenderli a fondo […]. Di Agostino e di Origene, come di Bernardo e di Tommaso d’Aquino, noi possiamo dire quel che scrisse un giorno Péguy contro alcuni moderni pieni di boria: «Non si supera Platone».87
Il Vaticano II, in definitiva, ha aiutato la Chiesa a riscoprire il valore permanente dei Padri della Chiesa (e, più in generale, di tutte le grandi «fonti» della dottrina e della vita ecclesiale) e, di conseguenza, il significato non puramente strumentale di un ricorso al loro insegnamento.88 La cosa non è avvenuta, forse, in modo completo: sotto molti aspetti, i Padri restano, per il Vaticano II, una «necessità», uno strumento di cui non si poteva fare a meno, perché il concilio potesse affermare la legittimità cattolica di orientamenti che, persino negli anni stessi del concilio, venivano guardati con sospetto. Ma al concilio si è quanto meno percepita in modo nuovo l’esistenza di una «grande tradizione», alla quale ci si poteva rivolgere al di là delle resistenze passate; e lo si poteva fare, ormai, senza voler determinare in anticipo, sulla base di una dottrina precostituita, ciò che questa tradizione avrebbe potuto suggerire.
B)
R ESSOURCEMENT
E A GG I O R N A MENT O
Non si tratta dunque, nel Vaticano II, di un «ritorno alle fonti» di taglio solamente o prevalentemente negativo, in funzione di grimaldello per aprire porte rimaste chiuse troppo a lungo. Il rischio di un ressourcement astorico era ben avvertito nel contesto del concilio – lo notava già Philips89 – e non si può negare, in qualche intervento conciliare, la deriva verso una’esaltazione «romantica» dell’antichità, che fa poi parlare altri di «archeologismo». Il ritorno alle fonti compiuto dal concilio Vaticano II, nell’insieme, ha evitato distorsioni di questo genere: e lo ha fatto, ci sembra, anche perché ha saputo tenere insieme l’esigenza del ressourcement con quella, apparentemente opposta, dell’«aggiornamento»; più precisamente, ha fatto di quello uno strumento in vista di questo. L’aggiornamento, giova ricordarlo, non significa tanto l’adeguamento, quanto piuttosto l’apertura radicale
87 H. DE LUBAC, «Un’illusione della storia della teologia», in ID., Corpus Mysticum. L’Eucaristia e la Chiesa nel Medioevo, Jaca Book, Milano 1982, 411-414, qui 413s. 88 Sull’importanza di superare un approccio solo «utilitaristico» ai Padri, cf. DAGENS, «Une certaine manière de faire de la théologie», 65s; PERRONE, «La via dei Padri», 91. 89 Cf. PHILIPS, «Les méthodes théologiques», 18s.
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9. I caratteri patristici del concilio Vaticano II: prospettive e limiti al tempo presente, ai profondi processi di cambiamento culturale, tecnico, economico e sociale che in esso si delineano. Quest’apertura deve scaturire nella chiesa dal rituffarsi nelle sue fonti primigenie e deve produrre nuove forme di vita ecclesiale ad esse corrispondenti. La chiesa deve diventare «di oggi» nel senso migliore del termine.90
Secondo G. Alberigo, parlare di aggiornamento significa [n]on una riforma istituzionale né una modifica dottrinale, ma una immersione totale nella tradizione, immersione finalizzata a un ringiovanimento della vita cristiana e della Chiesa. Una formula nella quale fedeltà alla Tradizione e rinnovamento profetico erano destinati a coniugarsi; la lettura dei «segni dei tempi» doveva entrare in sinergia reciproca con la testimonianza dell’annuncio evangelico.91
Anche a questo proposito, dobbiamo riconoscere il beneficio di una mentalità storica che ha pochi riscontri nei concili precedenti,92 ma che era già anticipata nei grandi precursori ottocenteschi del ritorno ai Padri, capaci di accostarsi a loro non nella linea di un ritorno nostalgico al passato, ma nella comprensione integrale della loro esperienza storica, letta in rapporto con la situazione presente.93 È precisamente sotto questo aspetto, del resto, che all’indomani del concilio J. Ratzinger poteva criticare la Nota explicativa praevia, in quanto espressione di un pensiero alieno alla storia e quindi fondato, in definitiva su una mancanza di tradizione, cioè di apertura per l’insieme della storia cristiana. È importante rendersene conto, perché ciò permette una visione della forma intrinseca del contrasto delle tendenze presenti in concilio, che falsamente è stato descritto come contrapposizione di progressisti e di conservatori. Più giustamente si potrebbe parlare di opposizione tra pensiero storico e pensiero sistematico-giuridico: per i «progressisti» (almeno per la parte prevalente tra essi) in realtà si trattava proprio della «tradizione», del ritorno all’ampiezza e ricchezza della tradizione cristiana, in cui essi trovavano nello stesso tempo le norme del rinnovamento, che permettevano loro di essere intrepidi e larghi, in base alla larghezza intrinseca propria della Chiesa.94
90 P. HÜNERMANN, «Il concilio Vaticano II come evento», in M.T. FATTORI – A. MELLONI (edd.), L’evento e le decisioni. Studi sulle dinamiche del concilio Vaticano II, Il Mulino, Bologna 1997, 71s. 91 G. ALBERIGO, Transizione epocale. Studi sul Concilio Vaticano II, Il Mulino, Bologna 2009, 562. 92 Cf. O’MALLEY, «Vatican II: Did Anything Happen?», 63; ID., Tradition and Transition, 14. 93 Riferendosi a Möhler e a Newman, Perrone osserva: «Le risposte di uomini come Möhler e Newman alle sfide della modernità si riallacciano appunto all’eredità dei Padri, riscoprendola come fonte di rinnovamento. Ciò che garantisce ancora una volta un simile risultato è la capacità di ricollegarsi ai Padri riflettendone appieno l’interezza dell’esperienza storica»: PERRONE, «La via dei Padri», 100. Poco più avanti, Perrone segnala in particolare questa attenzione a proposito di Möhler, nel quale più si avverte, a tratti, un ripiegarsi nostalgico e idealizzante, «romantico», verso il passato (cf. ivi, 101). 94 RATZINGER, Problemi e risultati del concilio Vaticano II, 66.
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Né si tratta solo di una questione dottrinale, perché il ressourcement recepito al Vaticano II è strettamente correlato con la missione della Chiesa oggi e con il modo in cui la Chiesa stessa prende coscienza della propria situazione davanti a Dio e davanti al mondo. Davanti a Dio, la cui Parola è la fonte continuamente zampillante; davanti al mondo, per assolvere nei suoi confronti il debito permanente dell’evangelo.95 Nel ritornare alle proprie fonti, la Chiesa convocata in concilio rimette se stessa nel flusso della comunicazione che Dio fa di sé per la salvezza del mondo e si comprende entro questa autocomunicazione divina e in ordine alla sua «attualità» nell’annuncio del vangelo. Non possiamo separare, in questa linea, il ressourcement dalla rinnovata comprensione della rivelazione, che ha costituito un altro punto essenziale del lavoro conciliare: questa dottrina è, a sua volta, debitrice del ritorno alle fonti,96 ma al tempo stesso rende possibile un approccio diverso della Chiesa nei confronti delle sue «fonti». Di fatto, se la Chiesa comprende sempre meglio se stessa e la propria missione come interna all’autocomunicazione salvifica, come totalmente orientata al Vangelo e al suo annuncio, allora il ritorno alle fonti «non è… solo un’opera da ricercatori, ma momento di autorealizzazione di una Chiesa che si comprende dentro e per la comunicazione divina».97 Ancora una volta, occorreva per tutto questo superare una visione puramente dottrinale della rivelazione divina e comprenderla sempre più nella sua dimensione storica e nel suo intreccio con il vissuto della comunità cristiana nella molteplicità delle sue situazioni storiche.98 Solo così, del resto, si può anche apprezzare il momento patristico, all’interno della tradizione ecclesiale, in quanto ha di più caratteristico. Il Vaticano II ha dato in qualche modo per scontata la nozione di «Padre», e non c’è motivo di pensare che la si intenda diversamente rispetto ai quattro criteri classici dell’ortodossia dottrinale, santità di vita, riconoscimento ecclesiale e antiquitas.99 Ora, se il ressourcement significa apertura alla tradizione in tutta la sua ampiezza e se, d’altro canto, si deve prendere sul serio la storia anche in ciò che essa comporta di specifico e singolare, si pone il problema di come qualificare la peculiarità del momento patristico. La nozione dell’antiquitas diventa qui determinante, ma ha bisogno di essere chiarita,100 perché non la si interpreti in un senso estraneo, in defi95 Cf. G. ZIVIANI – V. MARALDI, «Ecclesiologia», in G. CANOBBIO – P. CODA (edd.), La teologia del XX secolo. Un bilancio, Città Nuova, Roma 2003, II, 309s, anche per quanto segue. 96 Cf. H. HOPING, in Herders Theologischer Kommentar, III, 703-708; GIANOTTI, «La Dei Verbum e i Padri della Chiesa». 97 Cf. ZIVIANI – MARALDI, «Ecclesiologia», 310. 98 Cf. ZIVIANI – MARALDI, «Ecclesiologia», 310; Y. CONGAR, «La storia della Chiesa, “luogo teologico”», in Conc(I) 6(1970), 1287s. 99 Cf. ad es. H. DROBNER, Lehrbuch der Patrologie, Herder, Freiburg 1994 (tr. it.: Patrologia, Piemme, Casale Monferrato 22002, 48s). 100 Riprendiamo qui alcune riflessioni di RATZINGER, «I Padri nella teologia contemporanea», 153-156, che si confronta con A. BENOÎT, L’actualité des Pères de l’Église, Delachaux & Niestlé, Neuchâtel 1961.
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nitiva, alla prospettiva cristiana, ossia all’antichità come era «privilegiata», in quanto più prossima al divino: concezione già presente in Platone,101 ma che non può essere assunta acriticamente dal cristianesimo, dove l’evento normativo del passato non si definisce in modo naturale, come l’elemento primordiale nel mito, così che quanto più una cosa è antica, tanto più è autentica in sé. Esso si definisce storicamente, è la nuova azione di Dio, che sorpassa ed annulla il mito dell’antico […]. Pertanto è posta una distinzione fondamentale fra concezione mitica di tradizione e concezione cristiano-patristica.102
L’antichità in quanto tale, e lo stesso criterio di vicinanza cronologica all’evento cristologico fondante, non bastano a qualificare la singolarità dei Padri, se non si mostra che essi appartengono in un modo speciale all’evento originario, o che ad esso sono legati secondo una modalità teologicamente rilevante. Ora, secondo Ratzinger – in accordo, qui, con A. Benoît –, ciò si riscontra in modo particolare per il fatto che i Padri sono i maestri della Chiesa indivisa: possiamo dire che i Padri sono maestri di teologia della Chiesa non separata, e che la loro teologia è in senso originario «ecumenica», appartenente a tutti. Essi quindi sono «padri» non solo per una parte ma per tutta la Chiesa, indicabili realmente in senso distintivo e peculiare come «padri».103
I Padri, rilevava ancora Ratzinger, si pongono come un momento singolare per lo stretto rapporto con la Parola rivelata, davanti alla quale essi costituiscono la prima risposta: e poiché la parola non è veramente concepibile senza la sua risposta, così anche la Scrittura e i Padri, senza dubbio reciprocamente distinti, appartengono allo stesso ambito, tanto che «non possiamo leggere ed ascoltare la parola prescindendo dalla risposta che prima l’ha recepita ed è divenuta costitutiva della sua permanenza».104 Potremmo dire che l’evento storico – il fatto, cioè, che l’annuncio evangelico si sia incontrato con il mondo della cultura grecoromana, e che i Padri siano stati gli interpreti e protagonisti di questo incontro – diventa criterio teologico, nel riconoscimento della «irrevocabilità di quella prima risposta che ha dato alla parola la sua configurazione storica».105 101
Cf. Philebo 16c. RATZINGER, «I Padri nella teologia contemporanea», 154. 103 Cf. RATZINGER, «I Padri nella teologia contemporanea», 156; Ratzinger delimita il periodo ponendo l’VIII secolo come termine ultimo: in questo si differenzia da Benoît, che indica il 1054 e ritiene troppo bassa la data del 451, indicata da B. Studer (cf. ivi, 155s). 104 RATZINGER, «I Padri nella teologia contemporanea», 157. Partendo da problematiche diverse, si muove nella stessa linea A. ORBE, «La Patristica y el progreso de la teología», in Gr. 50(1969), 543-570, che riconduce il contributo teologico determinante dei Padri soprattutto allo studio attento di come essi hanno affrontato le varie questioni in costante riferimento alla Scrittura. 105 RATZINGER, «I Padri nella teologia contemporanea», 157. 102
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Privilegiando i Padri nell’ambito complessivo della tradizione, il concilio ha riconosciuto il valore di questa singolarità storica e ha saputo iscriverla nell’apertura complessiva alla storicità quale situazione ineludibile di una Chiesa che si voglia attenta alla missione che Dio le affida. Il concilio non ha molto elaborato il momento patristico in quanto espressione di un processo concreto di inculturazione, che, per le ragioni accennate, assume un suo posto unico nella storia della Chiesa; il fatto stesso che abbia utilizzato in modo così significativo i Padri costituisce però un’indicazione preziosa in vista di quell’opera, sempre di nuovo da riprendere, di incontro tra la fede e la ragione, le consuetudini, le concezioni di vita e le strutture sociali dei diversi popoli (cf. AG 22).106
C)
SUI
L IM IT I DE L RESSOURCEMENT C ONC IL IA RE
La dialettica tra pars destruens e pars construens del ritorno ai Padri non è stata integrata in modo completo nel concilio: è comprensibile, pertanto, che il ressourcement rimanga incompiuto, come indica, ad es., il permanere di un certo uso «ornamentale», o estrinseco, dei rinvii ai Padri; più in profondità, è abbastanza chiaro che l’edificio dell’insegnamento conciliare, anche limitando la cosa al de Ecclesia, è stato costruito con materiali disparati, senza che ci fosse la preoccupazione, o piuttosto la possibilità, di una vera armonizzazione. Un aspetto di questi limiti, quello che riguarda il risvolto ecumenico, merita una sottolineatura. L’importanza del ricorso ai Padri in chiave ecumenica era stata sottolineata sin dalla fase antepreparatoria e continuamente richiamata nel corso dei dibattiti conciliari; questo richiamo, anche grazie al dinamismo dei rappresentanti degli episcopati orientali, ebbe un ruolo determinante nell’allargare lo spettro delle fonti soprattutto liturgiche e patristiche di riferimento – mentre l’attenzione ai protestanti spingeva a un uso ampio e attento dei riferimenti scritturistici. Ne ha beneficiato, in particolare, la patristica greca: pressoché assente nello schema preparatorio, essa appare proporzionalmente con assai maggiore frequenza nella redazione definitiva del de Ecclesia. Proprio a questo proposito, però, vi sono alcuni limiti da segnalare. Se si eccettuano i riferimenti di carattere mariologico (che però menzionano diversi Padri di epoca tardiva), i grandi Padri della Chiesa greca non occupano un posto veramente significativo nella Lumen gentium, né per il nu-
106 Si vedano al riguardo le osservazioni di J. Gribomont, che già più di trent’anni or sono metteva in luce l’interesse degli studenti africani per la patristica, soprattutto orientale, espressione di un cristianesimo «qui n’est aucunement marqué du caractère colonialiste nécessairement lié à la théologie européenne moderne à laquelle ils ont été initiés; ils découvrent qu’elle n’était pas la forme même, la forme unique, de la foi de l’Église»: J. GRIBOMONT, «La familiarité des saints», in ISTITUTO PATRISTICO AUGUSTINIANUM, Lo studio dei Padri della Chiesa oggi, 236.
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mero di riferimenti, né per la rilevanza che viene data ai pochi testi citati. Non si incontra Atanasio,107 i Cappadoci sono praticamente assenti,108 Cirillo di Alessandria compare una sola volta…109 Data la maggior consuetudine con la sua opera, e l’ampiezza di questa, le cose vanno un po’ meglio per Giovanni Crisostomo, il più citato fra i Padri greci postniceni; verso i confini dell’epoca patristica, Giovanni Damasceno riceve un’attenzione pure relativamente alta;110 è completamente assente Massimo il Confessore… Nell’insieme, dunque, i Padri greci non hanno un ruolo veramente significativo nel de Ecclesia: ciò si nota, in particolare, per i grandi Padri del periodo che va da Nicea a Calcedonia, che sono poi i Padri la cui dottrina rappresenta il fulcro della tradizione delle Chiese orientali. Il limite va ricondotto, sembra, a diverse ragioni. La prima è che gli estensori del testo hanno ritenuto di privilegiare la tradizione più antica: di qui la valorizzazione preferenziale dei Padri preniceni (tra i greci spiccano in particolare Ignazio e Ireneo), rappresentanti di un contesto nel quale l’unità spirituale e dottrinale della Chiesa è particolarmente visibile. Una seconda ragione può essere individuata nel fatto che la problematica ecclesiologica appare meno immediatamente al centro dell’interesse dei teologi del IV-V secolo, più impegnati sul fronte delle controversie trinitarie e cristologiche. Ma è una ragione che appare convincente solo in rapporto all’approccio più spiccatamente «occidentale», che determina la questione ecclesiologica al Vaticano II. In altre parole, se i Padri greci risultano meno significativi, non è tanto a motivo dell’eventuale loro scarso interesse per la riflessione teologica sulla Chiesa,111 ma in quanto meno interessati a quelle problematiche istituzionali che in buona misura condizionano i lavori conciliari. È, insomma, l’impianto della riflessione scelto dal concilio a far preferire un approccio tipicamente «occidentale» (o, piuttosto, un impianto post-patristico), che evidentemente non permette di fare spazio in modo veramente significativo all’approccio orientale. E questo ci porta alla terza, e probabilmente più decisiva, ragione dell’insufficienza patristica del concilio, sotto il profilo ecumenico.112 107 L’unica citazione «atanasiana» è una menzione del de Virg. (cf. LG 42, nota 14), opera di dubbia autenticità. 108 È menzionato una volta il solo Gregorio Naz. (cf. LG 28, nota 66). 109 Cf. LG 2, nota 1. 110 Cf. nell’Appendice I l’indice delle rispettive citazioni. 111 Per uno sguardo d’insieme sull’ecclesiologia patristica fra IV e V sec., cf. P.T. CAMELOT, Die Lehre von der Kirche: Väterzeit bis auschliesslich Augustinus, Herder, Freiburg 1970; sulla questione, cf. anche i rilievi di A. SCRIMA, «Riflessioni di un ortodosso», in BARAÚNA, 1196s. C. Moeller (in BARAÚNA, 187) osserva che LG si esprime in categorie «piuttosto latine – lo dimostra il gran numero di citazioni di S. Agostino, – ma si è iniziata l’apertura alle tradizioni dell’Oriente cristiano: questa porta dovrà essere allargata, per esempio nella messa in luce della “ecclesiologia eucaristica”, e ciò implicherà una teologia più sviluppata della Chiesa locale, dell’escatologia e della pneumatologia». 112 Cf. G. FEIGE, «Die Väter der Kirche - Eine ökumenische Herausforderung?», in Unterwegs zum einen Glauben. Festschrift für Lothar Ullrich zum 65. Geburtstag, hrsg. v. W. BEINERT – K. FEIEREIS – H.-J. RÖHRIG, Benno Verlag, Leipzig 1997, 444.
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L’appello del concilio ai Padri, infatti, avviene in un contesto che non definisce con chiarezza il posto che essi occupano nella tradizione; più precisamente, il concilio richiama sì i Padri e conferisce loro un ruolo privilegiato, ma lo fa senza elaborare una teoria completa della tradizione che chiarisca il ruolo specifico, al suo interno, della testimonianza patristica. Come si è visto, peraltro, è abbastanza chiaro che su alcune questioni rilevanti i Padri non hanno un peso veramente determinante, così che l’appello alla loro dottrina, per quanto allarghi gli orizzonti teologici, specialmente rispetto all’ecclesiologia latina di epoca moderna, non è in grado di soddisfare fino in fondo le attese della tradizione orientale. Con questo non si vuol affermare, naturalmente, l’inconsistenza dell’attenzione ecumenica, nel contesto della quale è stato elaborato il de Ecclesia al concilio, e tanto meno si vuol misconoscere il rilievo che ha al riguardo l’ampiezza della testimonianza patristica, documentata nella LG o anche soltanto presupposta dal testo. In definitiva, è senz’altro corretto, sotto vari aspetti, qualificare come «patristica» l’ecclesiologia conciliare, ma resta non meno vero che, per molti altri aspetti, l’orizzonte patristico soprattutto di matrice orientale rimane estraneo alla costituzione ecclesiologica del Vaticano II.113 Il problema, tra l’altro, non concerne solo i Padri in quanto tali, perché entra in gioco anche il loro rapporto con la Scrittura. Anche sotto questo aspetto, il concilio ha fatto alcune scelte che si muovono secondo una sensibilità diversa rispetto alla tradizione orientale. Si trattava di scelte in qualche modo obbligate, per un concilio che avvertiva la necessità di recuperare il significato positivo di un approccio al testo scritturistico – quello che chiameremo, con formula forse troppo sintetica, «storico-critico» – che per troppo tempo era stato oggetto di diffidenze, se non di aperte polemiche, persino nel contesto dello stesso concilio.114 Di qui la percezione – esplicitata ad es. da un Giuseppe Dossetti, o da un Joseph Ratzinger, all’indomani del concilio115 – che il Vaticano II, mentre riconosceva il valore e l’importanza dell’esegesi moderna, non avesse valorizzato adeguatamente l’apporto patristico, e più generalmente tradizionale, all’interpretazione della Scrittura.
113
Cf. ancora SCRIMA, in BARAÚNA, 1188-1202. Si ricordi, tra l’altro, che il de revelatione era ancora oggetto di vivaci discussioni, nel momento in cui la costituzione sulla Chiesa arrivava al suo approdo definitivo. Per il dibattito sul de revelatione nel III periodo, cf. R. BURIGANA, La Bibbia nel Concilio. La redazione della costituzione “Dei Verbum” del Vaticano II, Il Mulino, Bologna 1998, 307339; H. SAUER, in SCVII, IV, 221-258. 115 Cf. G. DOSSETTI, Il Vaticano II. Frammenti di una riflessione, a cura di F. MARGIOTTA BROGLIO, Il Mulino, Bologna 1996, 32s (testo del 1966); meno critica, al riguardo, la riflessione sviluppata nel 1994 (cf. ivi, 204s); cf. anche quanto abbiamo rilevato sopra, nota 44 e testo relativo; RATZINGER, «I Padri nella teologia contemporanea», 144-146. 114
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5. I P A D R I
A L VAT I C A N O II E LA QUESTIONE ERMENEUTICA
A)
UN
PR OB LE M A D I B AT TUT O
Il dibattito, mai completamente sopito, intorno all’ermeneutica del concilio Vaticano II ha conosciuto, in questi ultimi anni, una nuova ondata di interesse. Due elementi, di portata diversa ma tra di loro connessi, hanno particolarmente determinato la discussione più recente: da un lato, il completamento di quell’opus magnum che è la Storia del Concilio Vaticano II elaborata, con anni di ricerche, sotto l’egida dell’Istituto per le scienze religiose di Bologna e con la direzione di Giuseppe Alberigo;116 dall’altro, l’affermarsi di linee interpretative che non solo divergono dai risultati principali indicati dalla cosiddetta «scuola bolognese», ma si pongono in esplicita contrapposizione ad essi;117 linee che, secondo alcune interpretazioni, avrebbero trovato un appoggio di grande autorevolezza nell’allocuzione del papa Benedetto XVI alla Curia romana del 22 dicembre 2005.118 In questa occasione, il papa ha esplicitamente criticato la «ermeneutica della discontinuità e della rottura», che «non di rado si è potuta avvalere della simpatia dei mass-media, e anche di una parte della teologia moderna», contrapponendovi «l’“ermeneutica della riforma”, del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa, che il Signore ci ha donato; è un soggetto che cresce nel tempo e si sviluppa, rimanendo però sempre lo stesso, unico soggetto del Popolo di Dio in cammino».119 Le due linee ermeneutiche, secondo l’intervento del papa, si caratterizzano anche per la contrapposizione tra il riferimento a uno «spirito del concilio» e quello ai documenti stessi. L’ermeneutica della «discontinuità», dice Benedetto XVI, afferma che i testi del Concilio come tali non sarebbero ancora la vera espressione dello spirito del Concilio. Sarebbero il risultato di compromessi nei quali, per raggiungere l’unanimità, si è dovuto ancora trascinarsi dietro e riconfermare
116 Abbiamo costantemente citato l’opera con la sigla SCVII. Frutto di un lavoro di équipe internazionale, è già stata pubblicata in diverse lingue. 117 Una delle espressioni più combattive di questa contrapposizione si ha negli scritti di A. MARCHETTO, ora raccolti nel volume Il Concilio Ecumenico Vaticano II. Contrappunto per la sua storia, LEV, Città del Vaticano 2005; il volume ha goduto di un’autorevole presentazione pubblica da parte del card. C. Ruini, nella sede del Museo Capitolino a Roma, il 17 giugno 2005 (resoconto nell’articolo di S. MAGISTER, «Vaticano II: la vera storia che nessuno ha ancora raccontato», nel sito: http://chiesa. espresso.repubblica.it/articolo/ 34283, visitato il 18 maggio 2010; cf. anche G. RUGGIERI, «Recezione e interpretazioni del Vaticano II. Le ragioni di un dibattito», in A. MELLONI – G. RUGGIERI [edd.], Chi ha paura del Vaticano II?, Carocci, Roma 2009, 17-44, in particolare 19-21). 118 Testo dell’allocuzione in AAS 98(2006), 40-53 (= Insegnamenti di Benedetto XVI, LEV, Città del Vaticano 2006, I, 1018-1032), in particolare 50-53 (1023-1031) (citeremo di seguito l’edizione degli Insegnamenti). 119 Insegnamenti, 1024s.
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Parte III - Il Vaticano II e la Chiesa dei Padri: elementi per un bilancio molte cose vecchie ormai inutili. Non in questi compromessi, però, si rivelerebbe il vero spirito del Concilio, ma invece negli slanci verso il nuovo che sono sottesi ai testi: solo essi rappresenterebbero il vero spirito del Concilio, e partendo da essi e in conformità con essi bisognerebbe andare avanti. Proprio perché i testi rispecchierebbero solo in modo imperfetto il vero spirito del Concilio e la sua novità, sarebbe necessario andare coraggiosamente al di là dei testi, facendo spazio alla novità nella quale si esprimerebbe l’intenzione più profonda, sebbene ancora indistinta, del Concilio. In una parola: occorrerebbe seguire non i testi del Concilio, ma il suo spirito.120
Benedetto XVI non ha nominato la «scuola bolognese» e la sua opera storiografica, ma da molte parti si è ritenuto di identificare in essa l’espressione più significativa di quella «ermeneutica della discontinuità», che il papa ha criticato. Tra gli interventi che hanno alimentato il confronto in questi ultimi anni,121 ci sembra ancora una volta apprezzabile la prospettiva delineata da J.W. O’Malley,122 anzitutto per gli elementi equilibrati di valutazione che offre a proposito della Storia della «scuola bolognese»: a suo giudizio, opera storica di primo piano, paragonabile, pur con i suoi limiti, non già alla Storia del Concilio di Trento di Paolo Sarpi, quanto piuttosto alla «classica» opera sul concilio di Trento di H. Jedin.123 Più specificamente, O’Malley esclude che l’opera diretta da Alberigo possa essere considerata come espressione di un’ermeneutica della rottura, che il Vaticano II avrebbe operato con la fede della Chiesa e la sua tradizione dottrinale – ciò che, viceversa, è precisamente quanto si afferma nel rifiuto del Vaticano II da parte di M. Lefebvre e dei suoi seguaci.124
120 Insegnamenti, 1024s. C’è un altro aspetto della critica di Benedetto XVI, che tocca un’altra opera importante sul concilio, apparsa in questi ultimi anni: si tratta dell’interpretazione del Vaticano II come «una specie di Costituente, che elimina una costituzione vecchia e ne crea una nuova» (ivi, 1025): il riferimento è qui, verosimilmente, all’Herders Theologischer Kommentar (2004) e in particolare al saggio di HÜNERMANN, «Der Text: Werden - Gestalt - Bedeutung. Eine hermeutische Reflexion» (ivi, V, 5-101); in proposito, cf. anche l’esposizione più sintetica di ID., «Der “Text”. Eine Ergänzung zur Hermeneutik des II. Vatikanischen Konzils», in CrSt 28(2007), 339-358, e le prospettive critiche di C. THEOBALD, «Enjeux herméneutiques des débats sur l’histoire du concile Vatican II», in CrSt 28(2007), 359-380 (tr. it. in MELLONI – RUGGIERI [edd.], Chi ha paura del Vaticano II?, 45-68). 121 Per le prese di posizione di alcuni dei collaboratori della SCVII, cf. MELLONI – RUGGIERI (edd.), Chi ha paura del Vaticano II? (quasi tutti i saggi qui raccolti si trovano, in lingua originale, in CrSt 28[2007], 323-406). Per una panoramica della discussione, cf. M. FAGGIOLI, «Council Vatican II. Bibliographical overview 2005-2007», in CrSt 29(2008), 567-610. 122 Cf. O’MALLEY, «Vatican II: Did Anything Happen?». 123 Cf. O’MALLEY, «Vatican II: Did Anything Happen?», 55. L’accostamento tra la Storia diretta da Alberigo e l’opera del Sarpi era stato suggerito dal card. Ruini nel corso della presentazione del volume di Marchetto, cui si è accennato (cf. sopra, nota 117). 124 Cf. O’MALLEY, «Vatican II: Did Anything Happen?», 55. O’Malley, che non cita l’allocuzione natalizia di Benedetto XVI, rinvia ad alcune valutazioni sul concilio espresse dall’allora card. J. Ratzinger nel Rapporto sulla fede (a cura di V. MESSORI, Cinisello Balsamo 1985, 33-40) e ricorda che già Giovanni Paolo II aveva parlato di ermeneutica della continuità nel suo intervento al convegno giubilare sul Vaticano II (cf. Insegnamenti di Giovanni Paolo II, LEV, Città del Vaticano 2002, XXIII/1, 272-278, in particolare 275).
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Al di là del dibattito specifico, resta aperto il problema di una corretta ermeneutica conciliare, che O’Malley pone in questo modo: è possibile interpretare il Vaticano II attenendosi esclusivamente a regole ermeneutiche «di continuità»125 e non includendo, invece, anche una dimensione interpretativa che tenga conto della discontinuità, e dunque del cambiamento? Perché, viceversa, «senza cambiamento, nulla è accaduto. Il Vaticano II è stata la celebrazione della fede perenne della Chiesa cattolica».126 Ma è seriamente possibile pensare che semplicemente nulla sia cambiato col Vaticano II?
B)
IL
R I CO R SO AI P ADR I C OM E POS SIBI L E O R I E N TA MENT O
La risposta alle domande sopra menzionate (e ad altre che si potrebbero sollevare, intorno all’ermeneutica del concilio) va oltre la prospettiva della nostra ricerca. Vorremmo, però, aggiungere al dibattito qualche breve considerazione, che deriva dall’itinerario che abbiamo cercato di ricostruire, perché il modo, o piuttosto i modi, nei quali il concilio si è rapportato all’insegnamento patristico possono indicare alcune prospettive, applicabili anche all’ermeneutica conciliare. Così, ad es., per l’alternativa tra «spirito del concilio» e documenti conciliari. Se si guarda a come il concilio ha utilizzato l’insegnamento patristico, si deve dire senz’altro che entrambe le prospettive sono necessarie. Il concilio ha citato i Padri della Chiesa, e abbiamo visto con quale abbondanza l’ha fatto nel de Ecclesia; e li ha citati, nella maggior parte dei casi, facendo attenzione alla pertinenza dei passi utilizzati, con la preoccupazione generale di non far dire ai testi più di quanto essi volessero dire, e assegnando ai riferimenti patristici un ruolo specifico nello sviluppo dell’insegnamento proposto dal concilio. È necessario, quindi, rifarsi ai testi – del concilio e dei Padri – e seguirne attentamente lo sviluppo e la portata: è ciò che abbiamo cercato di fare soprattutto nei cc. 6, 7 e 8 della nostra ricerca. Tuttavia, si deve certamente parlare anche di uno «spirito patristico» del concilio, se si vuole raccogliere in pienezza il significato dei Padri per la Chiesa conciliare:127
125 Cf. i criteri indicati nella Relatio finalis del Sinodo straordinario del 1985: Enchiridion del Sinodo dei Vescovi, I, Bologna 2005, 2724. 126 «If there is no change, nothing happened. Vatican II was a celebration of the perennial faith of the Catholic Church»: O’MALLEY, «Vatican II: Did Anything Happen?», 56. 127 Si noti, tra l’altro, che il riferimento allo «spirito del concilio» è del tutto naturale nei protagonisti del Vaticano II. Nell’allocuzione ai padri conciliari del 18 novembre 1965, Paolo VI, riprendendo il linguaggio dell’«aggiornamento», lo spiega in questo modo: «Aggiornamento vorrà dire d’ora innanzi per noi penetrazione sapiente dello spirito del celebrato Concilio e applicazione fedele delle sue norme, felicemente e santamente emanate» («In posterum igitur eo verbo accommodationis ad novas necessitates hac significatione utemur, ut scilicet mens Concilii celebrati perspiciatur, et normae, ab eo feliciter sancteque editae, fideliter ad usum deducantur»): AS IV/6, 694 (corsivo mio). J.
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secondo qualcuno, anzi, questo «spirito patristico» è ancora più importante delle stesse citazioni e allusioni ai testi dei Padri,128 il che potrebbe essere eccessivo. Resta il fatto che entrambi i punti di vista sono indispensabili, se si vuole cogliere tutta la ricchezza della dimensione patristica del concilio: l’utilizzazione concreta dei Padri va capita nell’orizzonte dello «spirito patristico» che anima buona parte del concilio stesso e di cui – è importante sottolinearlo – si possono cogliere alcuni tratti distintivi (abbiamo cercato di indicarli soprattutto nei §§ 2 e 3 di questo capitolo); e questo «spirito» si concretizza nell’uso della tradizione patristica all’interno dei documenti, secondo modalità differenziate e che devono essere di volta in volta precisate, ma che non si riducono certo a un uso di tipo ornamentale. Qualcosa di simile va detto, ci sembra, a proposito della questione continuità-discontinuità. Se si tiene presente il significato in parte «polemico» che il ressourcement patristico ha assunto intorno alla metà del Novecento, significato che costituisce uno degli elementi di sfondo del dibattito conciliare; se si considera che per alcuni influenti padri conciliari il richiamo alla tradizione patristica era una delle caratteristiche Ratzinger, dopo il terzo periodo conciliare, scriveva: «Chi ha vissuto le tre sessioni del concilio tenutesi finora e le confronta tra loro, dovrà confessare che di anno in anno l’episcopato ha rivelato una maggiore apertura. Quale progresso c’è infatti tra la lotta inizialmente ancora un po’ timida, in cui pochi oratori dovevano trascinare una schiera di gente stupita, e la grande apertura del 1964, in cui non si scansava più alcuna questione, in cui nella lotta comune per la verità si osavano enunciati che cinque anni prima sarebbero ancora stati quasi impensabili. Ora l’episcopato mondiale in tutta la sua ampiezza era afferrato da questo movimento con una unanimità che dall’America meridionale giungeva fino all’Indonesia e dall’Europa fino all’Africa centrale. Questa apertura spirituale che l’episcopato ha attuato pubblicamente dinanzi a tutta la Chiesa, o meglio, come consesso pubblico della Chiesa, è l’evento grande ed irreversibile dell’attuale concilio, che sotto molti aspetti è più importante dei testi approvati, i quali possono contenere solo una parte della nuova vita che s’è destata in questo intimo incontro della Chiesa con se stessa» (RATZINGER, Problemi e risultati del concilio Vaticano II, 87; corsivo mio). Un altro perito conciliare scrive a proposito del de Ecclesia: «… non si può isolare la Costituzione dagli altri documenti conciliari, che sono stati elaborati in maniera concentrica intorno ad essa. Il suo spirito dev’essere colto anche da tutta l’atmosfera del Concilio, che non è scritta né può essere constatata per iscritto» (A. GRILLMEIER, in BARAÚNA, 221). Il vescovo di Reggio Emilia, G. Baroni, che partecipò a tutti i lavori conciliari, all’indomani della conclusione scriveva – riecheggiando Paolo VI – che il concilio «diventa propriamente operante dopo la sua chiusura» e che riconoscere questo significa accogliere «lo spirito che il Concilio trasmette alla Chiesa; e per “spirito” si intende mentalità, principio di pensiero e di azione, stile dell’anima, direzione del cuore, costume. Ecco allora che si può parlare di “spirito nuovo” che il Concilio ha fatto nascere nella Chiesa. Esso consiste in una maniera nuova di vedere le cose, in una nuova mentalità, in un atteggiamento spirituale nuovo di fronte ai problemi del mondo di oggi, in uno stile nuovo di vita e di azione: mentalità, atteggiamento e stile nuovi, che hanno trovato la loro concretizzazione nei documenti conciliari» (G. BARONI, Liturgia e quaresima, Lettera pastorale per la Quaresima 1966, in Bollettino della Diocesi di Reggio Emilia 1966, 1-13, qui 1). Gli esempi si potrebbero facilmente moltiplicare. Sulla questione, cf. tra gli altri O’MALLEY, What Happened at Vatican II, 310s. 128 Cf. in questa linea TRIACCA, «L’uso dei “loci” patristici», che ci sembra però troppo limitato, almeno il de Ecclesia; va in questa direzione, in ogni caso, anche l’approccio di J.W. O’Malley a proposito dello «stile» del Vaticano II (cf. sopra, § 3).
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della theologia nova, avvertita come una minaccia da combattere; se si confrontano tra di loro, sotto il profilo del riferimento esplicito ai Padri, e nel loro «stile» complessivo, lo schema preparatorio e il testo rielaborato nel 1963, e che diventerà poi la Lumen gentium, sembra impossibile negare che il Vaticano II sia stato un momento di cambiamento. Per riprendere il linguaggio di O’Malley, qualcosa è successo, qualcosa è cambiato: e l’appello ai Padri è un elemento importante di questo cambiamento. Questo è anzi, naturalmente, il fatto davvero sorprendente: che il cambiamento sia avvenuto proprio facendo ricorso alla venerabile tradizione della Chiesa, attingendo alla dottrina dei suoi Padri. In questo senso, certo, il cambiamento avviene entro la tradizione, non fuori né contro di essa: è così, del resto, che il concilio ha mostrato di recepire la lezione del ressourcement, come era già chiaro sin dall’intervento di Frings del dicembre 1962, al quale dobbiamo ancora una volta rimandare, per l’importanza davvero determinante che ha per la nostra questione.129 La tradizione, accolta nel suo carattere integrale e valorizzata nell’apprezzamento di quel momento specifico, che fu quello patristico, si è manifestata al concilio quale vera forza di rinnovamento: al punto che – lo si diceva poco sopra – si è persino avuto timore di questa forza e si è preferito abbracciare in modo incompleto il dinamismo del ritorno alle fonti. C’è ancora un aspetto significativo, che la scelta conciliare del riferimento ai Padri può apportare alla questione dell’ermeneutica del Vaticano II: si tratta, se vogliamo, di una specificazione dello «spirito patristico», di cui abbiamo parlato, ed è quella riguardante lo «stile» dei documenti conciliari, che abbiamo discusso al § 3, sulla base delle riflessioni di O’Malley. L’orientamento conciliare è determinato da una retorica, che modella la maggior parte dei testi e influisce anche sul loro contenuto: un certo modo di proporre la dottrina cristiana determina anche la scelta di ciò che viene presentato e l’articolazione della stessa «gerarchia delle verità» (cf. UR 11) che vengono proposte. Costituisce per certi versi un paradosso il dover riconoscere questa coimplicazione di «forma» e «contenuto», se si pensa che la distinzione dell’una rispetto all’altro è richiamata in un passo centrale dell’allocuzione Gaudet Mater Ecclesia, con la quale Giovanni XXIII inaugurò il Vaticano II: «Est enim aliud ipsum depositum Fidei, seu veritates, quae veneranda doctrina nostra continentur, aliud modus, quo eaedem enuntiantur, eodem tamen sensu eademque sententia».130 La distinzione è fondamento del richiamo alla dimensione «pastorale» dell’insegnamento del concilio, richiamo che tante volte risuonò sotto le volte della basilica vaticana nel corso dei dibattiti conciliari e determinò, appunto, la scelta di una «retorica» che non poteva non influire sui contenuti stessi. 129 Cf. sopra, c. 5, nota 43 e testo relativo. L’importanza dell’intervento è di nuovo sottolineata da HÜNERMANN, «Der Text: Werden - Gestalt - Bedeutung», 46, e da RUGGIERI, in MELLONI – RUGGIERI (edd.), Chi ha paura del Vaticano II?, 21. 130 Cf. EV 1/55*; MELLONI, Papa Giovanni, 325.
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In ogni caso, anche prescindendo dal complesso problema del rapporto tra «contenuto» e «forma», tra Parola rivelata e sua ricezione storica,131 il concilio si distingue per la scelta di un «genere letterario» sensibilmente diverso rispetto a quello dei concili precedenti e molto vicino, come si è detto, al linguaggio dei Padri, o almeno ad alcune sue espressioni. Concordiamo con O’Malley nel pensare che alcuni conflitti ermeneutici dipendano proprio dalla mancata comprensione di questa scelta.132 Al termine della sua biografia di s. Agostino, Possidio, che aveva potuto contemplare la biblioteca del vescovo di Ippona – scampata, a quanto sembra, all’incendio che, dopo la morte di Agostino, devastò la città ormai evacuata dagli abitanti, – e aveva potuto redigerne un Indiculum, annota che gli scritti del vescovo defunto rivelano, come si può constatare alla luce della verità, che egli fu un vescovo gradito e caro a Dio, vissuto correttamente e integralmente nella fede, nella speranza e carità della Chiesa cattolica: lo riconoscono tutti quanti traggono profitto dalla lettura dei suoi scritti religiosi. Ma, io penso, ottennero maggior profitto coloro che poterono anche vederlo presente nella chiesa e l’udirono parlare, e soprattutto chi conobbe il suo modo di vita fra gli uomini.133
Se, con tutti i limiti del caso, possiamo applicare a un concilio «patristico», quale fu il Vaticano II, i termini che Possidio utilizzava per il suo antico vescovo, diremo che il concilio che si celebrò quasi cinquant’anni or sono ha lasciato tanto un patrimonio di scritti (i suoi documenti) quanto un modello di conversatio ecclesiae inter homines, gli uni e gli altri profondamente debitori all’insegnamento e all’esempio dei sancti Patres. Diversamente da quanto fa Possidio, non vorremmo, tuttavia, stabilire una gerarchia tra l’una e l’altra cosa: ma ci preme sottolineare che, grazie al Vaticano II, i Padri della Chiesa non sono stati ridotti a una serie, per quanto ricca e appropriata, di citazioni, ma hanno potuto far risuonare la loro voce, quella vox Patrum (cf. LG 21) che ha permesso di incontrarli ancora oggi loquentes in ecclesia. 131 Ci sembra pertinente, in ogni caso, richiamare qui alcune osservazioni di C. Theobald, secondo il quale «[l]a chiesa conciliare prende progressivamente coscienza che la rivelazione non esiste al di fuori della sua ricezione storica e culturale: la “tradizione” effettivamente vissuta, il corpo della fede – quello che essa è, che riceve e che si dona – è la sola traccia della sua origine divina; l’interpretazione storica e culturale fa dunque parte della rivelazione nel senso in cui la prima (l’interpretazione) è radicalmente consegnata alla seconda (la rivelazione). Come il corpus testuale, l’evento teologale del concilio si definisce dunque per il legame intrinseco tra questi due livelli: come comprendere il gigantesco sforzo d’aggiornamento se non come tentativo di rendere oggi possibile l’annuncio del Vangelo e, più ancora, come atto di rispetto teologale del destinatario, quale che sia, anzi come scoperta inaudita che la capacità di apprendere dell’altro e del mondo è la condizione stessa dell’annuncio, perché ciò di cui si parla nel Vangelo di Dio è già all’opera in essi»: THEOBALD, «Enjeux herméneutiques», tr. it., 63; cf. ID., Il cristianesimo come stile, I, 137-140. 132 Cf. O’MALLEY, Quattro culture dell’Occidente, 171s. 133 POSSIDIO, Vita Augustini 31,9; tr. it. ripresa da Vita di Cipriano. Vita di Ambrogio. Vita di Agostino, Introduzione di C. MOHRMANN. Testo critico e commento a cura di A.A.R. BASTIAENSEN. Traduzioni di L. CANALI e C. CARENA, Milano 31989, 239-241; per l’Indiculum, cf. ivi, 406.
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Conclusioni
Nel 1958 veniva eletto vescovo di Roma un ex insegnante di storia e di patrologia; cinquant’anni dopo, siede sulla cattedra di Pietro uno studioso dei Padri, che ha voluto anzi proporre la loro figura all’attenzione non solo dei teologi o degli specialisti di storia dottrinale, ma all’insieme della Chiesa, facendone l’oggetto delle catechesi indirizzate ai partecipanti delle udienze generali del mercoledì:1 non si può davvero dire che i Padri non abbiano un posto d’onore nella Chiesa di oggi.2 Per richiamare ancora una volta, in sede conclusiva, il modo in cui il concilio Vaticano II ha contribuito a far crescere nella coscienza della Chiesa la rilevanza del ruolo che vi ha la testimonianza patristica, faremo ricorso però alla parola di un altro dei papi di questo ultimo mezzo secolo, Paolo VI. Scegliamo di riferirci in modo particolare a papa Montini, non solo perché fu, con Giovanni XXIII, uno dei due papi del Vaticano II, ma perché egli ebbe l’opportunità di riflettere sulla figura dei Padri e sul loro posto nella tradizione e nella vita della Chiesa in un’occasione che ha per noi qualcosa di emblematico: a dieci anni dalla conclusione del concilio, nel 1975, si celebrava il centenario della morte dell’abbé Jacques-Paul Migne, il prete-editore francese dell’Ottocento, che
1 Cf. BENEDETTO XVI, I Padri della Chiesa. Da Clemente Romano a sant’Agostino, LEV, Città del Vaticano 2008. 2 Dal momento che, qui di seguito, menzioneremo soprattutto Paolo VI, vogliamo ricordare almeno alcuni degli interventi espliciti, in ambito patristico, di Giovanni Paolo II, in particolare la lettera apostolica Patres Ecclesiæ, in occasione del XVI centenario della morte di s. Basilio (2 gennaio 1980: AAS 72[1980], 5-23) e la lettera apostolica Augustinum Hipponensem, per il XVI centenario della conversione di s. Agostino (28 agosto 1986: cf. AAS 79[1986], 137-170); da sottolineare, poi, l’ampio riferimento alla patristica orientale nella lettera apostolica Orientale lumen del 2 maggio 1995 (cf. AAS 87[1995], 745-774).
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I Padri della Chiesa al concilio Vaticano II
fu protagonista di una titanica impresa editoriale, la cui parte più imponente e duratura consiste a tutt’oggi nei quasi quattrocento volumi delle due Patrologiæ, indissolubilmente legate al suo nome.3 In quell’occasione Paolo VI, che aveva seguito con molta attenzione le celebrazioni in ricordo del Migne,4 indirizzò al card. M. Pellegrino, presidente del comitato internazione del centenario, un suo messaggio, dove esprimeva la «riconoscenza della Chiesa per la grande impresa editoriale dell’insigne sacerdote».5 Ma il papa, che scrive pochi mesi prima della scadenza del decimo anniversario della conclusione del Vaticano II, non manca di ricordare il ruolo che i Padri hanno avuto nel concilio e il modo in cui il concilio stesso li ha raccomandati all’attenzione della Chiesa. Riprendendo un’affermazione tradizionale nella Chiesa almeno dai tempi di Agostino, osserva Paolo VI, il Vaticano II, dopo aver affermato che «le asserzioni dei Padri attestano la vivificante presenza della tradizione, le cui ricchezze sono trasfuse nella pratica e nella vita della Chiesa che crede e che prega» (DV 8), ha raccomandato lo studio dei Padri in vista di «una intelligenza sempre più profonda delle Sacre Scritture» (ivi, 23), per l’insegnamento della teologia, che deve mostrare agli studenti «il contributo dei Padri della Chiesa orientale e occidentale nella fedele trasmissione ed enucleazione delle singole verità rivelate» (OT 9), per una solida scienza sacerdotale (PO 19), per l’arricchimento della preghiera ufficiale della Chiesa (SC 92) e per la ricerca teologica nelle terre di missione (AG 22) (481).
Paolo VI proseguiva notando che lo studio dei Padri è di «imperiosa necessità» per quanti hanno a cuore e vogliono cooperare al rinnovamento teologico, pastorale e spirituale promosso dal concilio; infatti, [d]opo gli apostoli, la Chiesa è cresciuta, come dice s. Agostino, grazie ai Padri, che l’hanno piantata, irrigata, edificata e nutrita (c. Jul. II,10,37). Essa continuerà a crescere beneficiando delle loro ricchezze. Queste sono di grande varietà, ma comportano alcune proprietà costanti, che sono precisamente alla base di ogni rinnovamento autentico di ordine tanto spirituale che teologico: l’attaccamento indefettibile alla fede, il desiderio ardente di scrutare il mistero di Cristo, il senso profondo della tradizione, l’amore illimitato per la Chiesa. Questi sentimenti, che animano i Padri della Chiesa, erano anche quelli dell’abbé Migne (481s).
3 Su Migne, si vedano A. HAMMAN, Jacques Paul Migne, Beauchesne, Paris 1975, e i contributi raccolti in Migne et le renouveau des études patristiques. Actes du Colloque de Saint-Flour 7-8 juillet 1975, édités par A. MANDOUZE et J. FOUILHERON, Beauchesne, Paris 1985; inoltre R. HOWARD BLOCH, God’s Plagiarist, Chicago 1994, tr. it.: Il plagiario di Dio, Milano 2002. 4 Cf. A. MANDOUZE, «Des Pères de l’Église aux fils de Vatican II», in Migne et le renouveau des études patristiques, 433 nota. 5 Testo del messaggio (in francese), datato 10 maggio 1975, in Insegnamenti di Paolo VI, XIII (1975), TPV, Città del Vaticano 1976, 479-483 (cito nel testo le pagine di questa edizione). Il messaggio fu letto all’inizio del convegno tenuto a Chantilly dal 17 al 19 maggio 1975, i cui atti sono pubblicati (ma senza il messaggio di Paolo VI) in Migne et le renouveau des études patristiques.
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Conclusioni
Nel seguito del messaggio il papa ritorna sull’opera del Migne, mettendone in rilievo l’importanza e il contributo che essa può dare sia per il lavoro delle edizioni critiche dei testi, sia per la diffusione delle opere dei Padri. Di fatto, «con i felici progressi della cultura, i cristiani in numero crescente manifestano oggi il desiderio di conoscere direttamente le fonti [sources], e sono molto riconoscenti a quanti forniscono loro, in edizioni accessibili a tutti, questi tesori di fede e di dottrina della grande Tradizione cattolica» (482). Paolo VI sottolinea poi, nella parte finale del messaggio, che uno dei meriti maggiori di Migne fu la sua preoccupazione di inglobare nella sua impresa immensa i testimoni della tradizione delle Chiese d’Oriente, e di metterli, grazie a una versione latina, alla portata di un numero più ampio di lettori. Anche in questo egli mostrava di essere un precursore e annunciava già quell’ecumenismo positivo e costruttivo, nei confronti del quale si nota oggi tanta sensibilità nella Chiesa, soprattutto dopo il concilio Vaticano II. Ci piace far risalire all’abbé Migne una parte del merito di questo clima nuovo nelle relazioni con i fratelli separati d’Oriente, felice evoluzione, eloquentemente attestata, peraltro, dalla loro sollecitudine ad associarsi a questa celebrazione centenaria (483).
Felice coincidenza, dunque, quella che permetteva a Paolo VI di riconoscere, nell’opera del Migne, un’anticipazione e una promessa di quanto risulta ora evidente ai «figli del Vaticano II».6 Questo legame, che va dal singolare editore ottocentesco dei Padri alla Chiesa del dopo Vaticano II, attesta peraltro che, nel corso di un secolo, qualcosa è successo. Nelle molte pagine di questo saggio si è cercato di dar conto, appunto, di ciò che è successo, concentrando l’attenzione sul concilio di Giovanni XXIII e di Paolo VI e su ciò che lo ha preparato da vicino e da lontano, per riconoscervi un momento di particolare rilievo nella storia plurisecolare del rapporto della Chiesa con i suoi «Padri». Per riassumere, in qualche riga di sintesi, la peculiarità di questo momento, vorremmo suggerire di fare attenzione a una sorta di movimento pendolare, che oscilla fra i due poli della estraneità e della familiarità. Nel ressourcement di metà Novecento – e gli editori delle «Sources chrétiennes», l’abbiamo visto, ne erano ben consapevoli – accostare i Padri, in particolare quelli greci, voleva dire fare i conti con un mondo singolare e straniante, rispetto alle prospettive teologiche e spirituali dominanti: i Padri avevano, per molti, qualcosa di sorprendente e inatteso, e come tali vennero presentati a un pubblico, e a una Chiesa, che in gran parte li aveva dimenticati. (Un analogo effetto di sorpresa straniante circonda il concilio voluto da Giovanni XXIII,7 rispetto al quale non
6 Riprendiamo l’espressione dal titolo dell’intervento di MANDOUZE, «Des Pères de l’Église aux fils de Vatican II». 7 Cf. G. ALBERIGO, Transizione epocale. Studi sul Concilio Vaticano II, Il Mulino, Bologna 2009, 556-559.
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I Padri della Chiesa al concilio Vaticano II
c’erano state consultazioni previe significative o itinerari di avvicinamento condivisi; ma poi le sorprese non mancarono neppure durante lo stesso concilio. C’è una simmetria, una convergenza, possiamo dire, tra la «scoperta» dei Padri e la scoperta di una sinodalità che a molti sembrava ormai solo un retaggio del passato: e non è un caso che, per entrambe le cose, si trattasse piuttosto di una riscoperta, del poter riprendere familiarità con qualcosa che apparteneva da sempre alla Chiesa, che fossero i Padri, o la prassi conciliare). In ogni caso, gli anni del concilio sono stati anni nei quali la Chiesa ha potuto rendersi sempre più familiare con la propria tradizione patristica, consacrando e portando a compimento quei movimenti che già si erano avviati nei decenni precedenti. La descrizione di questo dinamismo di rinnovata familiarità ha occupato gran parte delle pagine precedenti, e non dobbiamo riprenderla ora. Possiamo invece notare che, all’indomani del concilio, si poteva cogliere di nuovo un movimento di estraneità, la cui spia maggiore sembra da individuare nella separazione, lamentata da alcune voci importanti, tra l’approccio dominante negli studi esegetici e l’interpretazione patristica della Scrittura,8 come pure nell’opposizione – anziché nella complementarità, come fu al Vaticano II – fra ressourcement e «aggiornamento».9 Il pendolo si muove oggi di nuovo nella direzione di una ritrovata familiarità della Chiesa con i suoi Padri? Vi sono certamente segnali promettenti, al riguardo;10 e senza dubbio preme in modo determinante in questa direzione, per la sua storia personale, per la sua attività di teologo prima, e di Prefetto della Congregazione della dottrina della fede poi,11 e ora in virtù del servizio petrino, papa Benedetto XVI. Ciò che, nondimeno, vorremmo suggerire alla fine di questo percorso, è che anche i momenti nei quali il pensiero dei Padri suona estraneo alla vita della Chiesa e alla sua teologia hanno la loro importanza e fecondità. Abbiamo detto che il Vaticano II, per quanto concerne il rapporto con i Padri, si colloca lungo un percorso di riscoperta di qualcosa che, pur essendo un patrimonio mai perduto, ha avuto bisogno di un itinerario relativamente lungo, e non privo di problemi, per essere ritrovato: e pro8 Cf. sopra, c. 9, nota 115 e testo relativo (Dossetti e Ratzinger); un’altra voce critica è stata quella di I. DE LA POTTERIE (cf. ad es. «La lettura della sacra Scrittura “nello Spirito”: il modo patristico di leggere la Bibbia è possibile oggi?», in CivCatt 137[1986]3, 209-223); la questione era stata toccata anche in occasione del Sinodo straordinario dei vescovi a vent’anni dal Vaticano II (cf. Il Regno - Doc. 31[1986], 24). 9 Cf. J. RATZINGER, «I Padri nella teologia contemporanea», in ID., Natura e compito della teologia. Il teologo nella disputa contemporanea. Storia e dogma, Jaca Book, Milano 1993, 143s. 10 Cf. le osservazioni che abbiamo proposto sopra, all’inizio del c. 9. 11 Richiamiamo qui, per la questione dell’interpretazione della Scrittura, il documento della PONTIFICIA COMMISSIONE BIBLICA, L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa (15 aprile 1993), in particolare la p. III, sez. B.2, sull’esegesi patristica; cf. anche L. PERRONE, «La via dei Padri. Indicazioni contemporanee per un ressourcement critico», in “Con tutte le tue forze”. I nodi della fede cristiana oggi. Omaggio a Giuseppe Dossetti, a cura di A. e G. ALBERIGO, Marietti, Genova 1993, 113-120.
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Conclusioni
prio in questo cammino di riscoperta sta una componente non secondaria dell’innegabile dimensione di cambiamento che il concilio ha portato con sé. Con questo, naturalmente, non si vuol dire che una ripetuta ed eventualmente prolungata dimenticanza dei Padri farebbe bene alla teologia e all’insieme della vita della Chiesa: tutt’altro. Si tratta, piuttosto, di riconoscere il beneficio, non già dell’estraneità, bensì dell’alterità: nel senso che i Padri appartengono anche a un passato dal quale ci separano secoli (con tutte le implicazioni, spirituali, teologiche, pastorali e culturali, che la cosa comporta) e che non potremmo richiamare nostalgicamente e, in ogni caso, anacronisticamente.12 Al Vaticano II va riconosciuto, crediamo, di aver evitato ogni tentazione nostalgica, ogni archeologismo indebito, nel richiamarsi alla grande tradizione della Chiesa: al punto che si potrebbe rimproverare al concilio persino una certa timidezza, nel proprio rifarsi alla ricchezza della tradizione patristica. In questo modo, però, il concilio ha anche saputo custodire la giusta tensione fra la ritrovata familiarità con i Padri e il riconoscimento dell’alterità, di cui dicevamo. Da quell’alterità – che il credente, beninteso, riconosce e situa nell’unità della tradizione e della comunione animata dallo Spirito – i Padri continuano a sollecitare la Chiesa oggi, così come l’hanno fatto negli anni del concilio; «appropriarsene» e «attualizzarli», nella consapevolezza della comunanza di fede, sono procedimenti che non potranno mai prescindere dalla coscienza storica della distanza che ci separa dai Padri e che richiede lunghi e complessi percorsi di studio e di conoscenza. Da questa distanza, crediamo, la vox Patrum, senza ridursi a un patrimonio magari elogiato ed esibito, ma sostanzialmente inerte, continuerà a risuonare per la Chiesa, come ha fatto per il concilio Vaticano II, come un appello vivente.
12 «Connaître les Pères doit nous aider à vivre aujourd’hui, et non à faire comme si nous étions morts entre le deuxième et le cinquième siècle. Or, ce serait être mort au champ d’honneur pseudo-patristique que de vouloir à toute force, selon le cas, mourir comme Polycarpe, faire de l’exégèse comme Origène, administrer l’Église comme Cyprien ou Ambroise, pourfendre les hérétiques comme Augustin» (MANDOUZE, «Des Pères de l’Église aux fils de Vatican II», 439; cf. anche le osservazioni di PERRONE, «La via dei Padri», 85-88 e 110-113).
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Appendice I Indice delle citazioni patristiche nella L u me n g e n t i u m
ORDINAMENTO PER AUTORE
A L FA B E T I C O
1
AGOSTINO Bapt. c. Don. V,28,39 e al. (II,14,12) C. Faustum 12,20 (III,26,54) Civ. Dei XVIII,51,1 (I,8,14) Don. persev. 14,37 (II,11,7) Enarr. in Ps. 85,24 (VII,49,4) Enarr. in Ps. 86,4 (III,18,1) Enchir. 121,32 (V,42,12) In Io. tract. 13,12 (VIII,64,20) In Io. tract. 61,2 (II,14,12) Præd. sanct. 14,27 (II,12,8) Retract. II,18 (V,40,3) Sanc. Virgin. 6 (VIII,53,3) Sanc. Virgin. 15,15 (V,42,13) Serm. 51,2,3 (VIII,56,9)
1 L’elenco include le citazioni di autori greci fino a Giovanni Damasceno e latini fino a Beda. Non sono considerate le citazioni di testi conciliari e liturgici, con l’eccezione della Didachè e della Traditio apostolica. Abbiamo distinto citazioni dello stesso passo, ma riportate in luoghi diversi; passi diversi di una stessa opera citati congiuntamente (ad es. CIPRIANO, Hab. Virg. 3 e 22, in LG 42 nota 14) e l’indicazione passim, sono stati considerati come una sola citazione. I titoli delle opere sono uniformati, prescindendo da eventuali differenze che si possono riscontrare nel testo conciliare. Nei casi di opere di dubbia attribuzione, abbiamo mantenuto l’autore indicato in LG. Le cifre tra parentesi si riferiscono rispettivamente a capitolo, numero e nota di LG.
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Appendici
Serm. 57,7 (III,26,54) Serm. 71,20,33 (I,4,4) Serm. 191,2,3 (VIII,64,20) Serm. 232,2 (VIII,56,9) Serm. 268,2 e al. (I,7,8) Serm. 340,1 (IV,32,1) Serm. 341,9,11 (I,2,2) passim (I,2,1) AMBROGIO Ep. 63 (VIII,62,17) Expos. Luc. II,7 (VIII,63,18) Expos. Luc. II,7 (VIII,64,20) Expos. Luc. X,24s (VIII,64,20) In Ps. 38,25s (III,21,22) Inst. virg. (VIII,57,10) Viduis 4,23 (V,42,16) AMBROSIASTER In Ef. 4,11-12 (III,21,22) In 1 Tim. 5,19 (III,21,22) ANASTASIO DI ANTIOCHIA Serm. 2 de Annunt., 2 (VIII,56,5) ANDREA DI CRETA Can. in B. V. Nat. 4 (VIII,56,5) Hom. 3 in dorm. SS. Deiparæ (VIII,59,14) Hom. in dorm. 1 (VIII,56,5) In B. V. Nat. 1 (VIII,56,5) In nat. Mariæ ser. 4 (VIII,62,15) Apophtegmata patrum (VI,43,1) ATANASIO (?) de Virg. (V,42,14) BEDA In Lc. expos. I,2 (VIII,64,20) CELESTINO Ep. 18,1s (III,23,35) CIPRIANO Ep. 11,3 (III,28,70) Ep. 36,4 (III,23,32) Ep. 55,24 (III,23,32)
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Appendice I - Indice delle citazioni patristiche nella Lumen gentium
Ep. 56,3 (III,22,26) Ep. 61,3 (III,28,64) Ep. 63,14 (III,21,22) Ep. 64,6 (I,2,1) Ep. 66,8 (III,23,31) Ep. 69,6 (II,9,1) Ep. passim (III,20,13) Orat. domin. 23 (I,4,4) Hab. Virg. 3 e 22 (V,42,14) CIRILLO DI ALESSANDRIA Glaph. in Gen. 2,10 (I,2,1) CIRILLO DI GERUSALEMME Catech. 12,15 (VIII,56,9) Catech. 17, II, 35-37 (II,11,5) CLEMENTE ROMANO Cor. 42,3s (III,20,13) Cor. 44,2 (III,20,6) Cor. 44,3 (III,20,5) Cor. 44,3s (III,20,13) Cor. 57,1s (III,20,13) CORNELIO Ep., in Cipr., Ep. 48,2 (III,28,73) DIDACHÈ Did. 14 (II,17,22) Did. 15,1 (III,29,75) DIDIMO DI ALESSANDRIA Trin. 2,1 (I,7,8) DIONIGI DI ALESSANDRIA Ep., in Eusebio, Hist. eccl. VII,5,2 (III,22,23) EPIFANIO Hær. 78,18 (VIII,56,8) Epistula ad Diognetum 6 (IV,38,9) ESICHIO DI GERUSALEMME In Lev. II,9,23 (III,21,22) EUSEBIO DI CESAREA Hist. eccl. V,23s (III,22,24)
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Appendici
Hist. eccl. V,24,10 (III,22,23) Præp. Ev. 1,1 (II,16,20) GELASIO I De libris recipiendis 3 (VII,50,7) GERMANO DI COSTANTINOPOLI In annunt. Deiparæ (VIII,56,5) In annunt. Deiparæ (VIII,62,15) In dorm. Deiparæ 2 (VIII,56,5) In dorm. Deiparæ 3 (VIII,62,15) In S. Dei Gen. dorm. Serm. 1 (VIII,59,13) In S. Dei Gen. dorm. Serm. 2 (VIII,59,13) In S. Dei Gen. dorm. Serm. 3 (VIII,59,13) GIOVANNI CRISOSTOMO In 2 Tim. hom. 2,4 (III,21,22) In Ephes. hom. 9,3 (I,7,8) In Ephes. hom. 20,2 (V,41,11) In Io. hom. 65,1 (II,13,9) In Mt. hom. 46 (47), 2 (IV,38,9) In Mt. hom. 7,7 (V,42,16) In Ps. 44,7 (VIII,56,9) Virg. (V,42,14) GIOVANNI DAMASCENO Adv. Icon. 11 (I,2,2) Adv. Icon. 12 (I,4,4) Fide orth. IV,14 (VIII,59,14) Enc. in dorm. Dei genitr. hom. 2 e 3 (VIII,59,13) In dorm. B. V. M. hom. 1,8 (VIII,62,15) In dorm. B. V. M. hom. 2 (VIII,56,9) GIROLAMO Adv. Iovin. 1,26 (III,18,1) Epist. 22,21 (VIII,56,9) Lib. c. Vigil. 6 (VII,49,4) GIUSTINO Apol. I,65 (III,20,13) Dial. 41 (II,17,22) GREGORIO MAGNO Hom. in Ev. 19,1 (I,2,2) Mor. in Iob IV,7,12 (III,23,34) Mor. in Iob XXVIII,5 (III,18,1)
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Appendice I - Indice delle citazioni patristiche nella Lumen gentium
GREGORIO NAZIANZENO Apol. II,22 (III,28,66) IGNAZIO DI ANTIOCHIA Eph. 5,1 (III,27,61) Eph. 6,1 (III,28,62) Magn. 3 (III,20,13) Magn. 6,1 (III,20,12) Magn. 13,1 (V,41,6) Philad. 1,1 (III,20,12) Philad. 2 (III,20,13) Philad. 4 (III,28,73) Philad., præf. (III,20,11) Rom., præf. (II,13,11) Smyrn. 8 (III,20,13) Smyrn. 8,1 (III,26,49) Smyrn. 8,1 (III,26,52) Trall. 2,3 (III,29,75) Trall. 2,3 (V,41,9) Trall. 7 (III,20,13) passim (III,20,7) ILARIO In Mt. 23,6 (I,2,1) In Ps. 14,3 (III,23,34) In Ps. 67,10 (III,18,1) INNOCENZO I Ep. ad Decent. (III,28,64) IRENEO Adv. hær. Adv. hær. Adv. hær. Adv. hær. Adv. hær. Adv. hær. Adv. hær. Adv. hær. Adv. hær. Adv. hær.
III,2,2 (III,20,10) III,3,1 (III,20,9) III,16,6 (II,13,10) III,22,1-3 (II,13,10) III,22,4 (VIII,56,6) III,22,4 (VIII,56,7) III,24,1 (I,4,3) IV,17,5 (II,17,22) IV,26,2 (III,20,10) IV,33,8 (III,20,10)
LEONE MAGNO Epist. ad Flav. (VIII,57,10) Serm. 4,3 (III,22,28) Serm. 5,3 (III,21,17) Serm. 63,7 (III,26,55)
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Appendici
METODIO Symposion VII,3 (VII,50,8) MODESTO DI GERUSALEMME In dorm. SS. Deiparæ (VIII,59,13) ORIGENE Comm. Rom. 7,7 (V,40,2) Comm. Rom. 10,14 (V,42,13) In Is. hom. 6,1 (V,41,5) In Mt. 16,21 (I,6,5) PALLADIO Historia (VI,43,1) POLICARPO Phil. 5,2 (III,29,75) PRIMASIO Comm. in Ap. 5 (III,18,1) PSEUDO-BASILIO In Is. 15,296 (III,23,34) PSEUDO-DIONIGI AREOPAGITA Eccl. Hier. 1,2 (III,28,66) PSEUDO-MACARIO Orat. 11 (V,40,2) SOFRONIO DI GERUSALEMME Or. 2 in Annunt. 18 (VIII,56,5) TEODORO DI MOPSUESTIA Hom. Catech. 15,21 e 24 (III,21,22) TERTULLIANO Adv. Marc. 3,7 (I,6,5) Exhort. Cast. 10 (V,42,14) Ieiun. 13 (III,22,25) Præscr. hær. 32 (III,20,7) Præscr. hær. 32 (III,20,8) TRADIZIONE APOSTOLICA Trad. ap. 2 (III,21,20) Trad. ap. 2s (III,26,56) Trad. ap. 3 (III,21,19) Vitæ Patrum (VI,43,1)
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Appendice II Rilievi statistici
1) E L E N C O D E I P A D R I C I TAT I I N LG, I N O R D I N E D E C R E S C E N T E P E R N U M E R O D I C I TA Z I O N I Agostino (22) Ignazio di Antiochia (17)* Cipriano (12) Ireneo (10) Giovanni Crisostomo (8) Ambrogio (7) Germano di Costantinopoli (7) Giovanni Damasceno (6) Andrea di Creta (5) Clemente Romano (5) Tertulliano (5) Leone Magno (4) Origene (4) Eusebio di Cesarea (3) Girolamo (3) Gregorio Magno (3) Ilario (3) Traditio apostolica (3) Ambrosiaster (2)
* Si noti che s. Tommaso d’Aquino è citato 16 volte nella LG.
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Appendici
Cirillo di Gerusalemme (2) Didachè (2) Giustino (2) Anastasio di Antiochia (1) Apophtegmata patrum (1) Atanasio (?) (1) Beda (1) Celestino (1) Cirillo di Alessandria (1) Cornelio (1) Didimo (1) Dionigi di Alessandria (1) Ad Diognetum (1) Epifanio (1) Esichio di Gerusalemme (1) Gelasio (1) Gregorio Nazianzeno (1) Innocenzo I (1) Metodio (1) Modesto di Gerusalemme (1) Palladio (1) Policarpo (1) Primasio (1) Pseudo-Basilio (1) Pseudo-Dionigi (1) Pseudo-Macario (1) Sofronio di Gerusalemme (1) Teodoro di Mopsuestia (1) Vitæ Patrum (1)
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Appendice II - Rilievi statistici
2) R A F F R O N T I
S TAT I S T I C I
Citazioni per capitolo (ordine decrescente): Capitolo III VIII I V II VII IV VI Tot.
Citazioni 67 35 17 16 14 4 3 3 159
% 42,1 22,0 10,7 10,0 8,9 2,5 1,9 1,9 100,0
Rapporto fra lunghezza del testo e citazioni (ordine decrescente) Capitolo III VIII V I II VII VI IV Tot. (nn. 20-22:
2
Lunghezza2 28.731 16.803 11.332 15.749 19.919 10.375 7.695 16.038 142.680
Citazioni 67 35 16 17 14 4 3 3 159
Frequenze relative 0,233 0,208 0,141 0,107 0,070 0,038 0,038 0,018 0,111
7.089
37
0,523)
In caratteri, sulla base del testo latino.
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Appendice III Tavola di concordanza delle note di L G
In ogni colonna, la cifra a sinistra riporta la numerazione delle note capitolo per capitolo, come nelle edizioni ufficiali della LG, utilizzata anche nel presente lavoro; la cifra a destra riporta la corrispettiva numerazione unica delle note, presente in alcune edizioni e commenti alla LG (cf. Avvertenze, p. 17). c. I 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14
1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14
c. II 1 2 3
15 16 17
4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22
18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36
c. III 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19
37 38 39 40 41 42 43 44 45 46 47 48 49 50 51 52 53 54 55
20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39
463
56 57 58 59 60 61 62 63 64 65 66 67 68 69 70 71 72 73 74 75
40 41 42 43 44 45 46 47 48 49 50 51 52 53 54 55 56 57 58 59
76 77 78 79 80 81 82 83 84 85 86 87 88 89 90 91 92 93 94 95
60 61 62 63 64 65 66 67 68 69 70 71 72 73 74 75
96 97 98 99 100 101 102 103 104 105 106 107 108 109 110 111
c. IV 1 112 2 113
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Appendici 3 4 5 6 7 8 9
114 115 116 117 118 119 120
c. V 1 2 3 4 5 6
121 122 123 124 125 126
7 8 9 10 11 12 13 14 15 16
127 128 129 130 131 132 133 134 135 136
c. VI 1 137 2 138 3 139
4 5 6 7 8 9 10
140 141 142 143 144 145 146
c. VII 1 2 3 4 5 6
147 148 149 150 151 152
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153 154 155 156 157 158 159 160 161 162 163 164 165 166 167
22 23 24 25
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c. VIII 1 172 2 173 3 174 4 175 5 176 6 177 7 178 8 179 9 180
10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24
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1 Questa bibliografia comprende un elenco selezionato di contributi riguardanti il rinnovamento degli studi patristici, in rapporto soprattutto con l’ecclesiologia, pubblicati a partire dall’inizio del XX secolo fino al 1964. Non si cercherà qui una bibliografia esaustiva, ma solo un complemento bibliografico relativo in particolare ai cc. 1 e 2 della nostra ricerca. Le indicazioni bibliografiche sono riportate in ordine cronologico. Le opere pubblicate nel corso di più anni sono inserite nell’anno iniziale. All’interno di ogni anno, l’ordine è alfabetico per autore o – per le opere collettive, miscellanee ecc. – per titolo (ignorando l’eventuale articolo iniziale). Per le abbreviazioni di riviste, opere di riferimento, collezioni ecc., abbiamo utilizzato le sigle di: Theologische Realenzyklopädie. Abkürzungsverzeichnis, 2., überarbeitete und erweiterte Auflage, zusammengestellt von S.M. SCHWERTNER, W. de Gruyter, Berlinò-New York 1994.
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Indice tematico
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Abeille (Editions) 81 85 Accademia teologica romana 160 Ad Caeli Reginam (enciclica) 183 Aeterni Dei sapientia (enciclica) 141s 224 Aggiornamento 426 432-436 441 444n 448 Agiografia 32 Alleanza 256 307 Allegoria 43 Angelicum (P. Università) 78s 106s 118n 137n 160 408n Angers (Università catt.) 131 Annuncio e predicazione 39 125 129 137-139 199n 201s 234 246 250n 260 272 276 400 433 444n Antico Testamento 66 90 100 348 385 394 404 (v. anche Bibbia e studi biblici) Antonianum (P. Università) 160 Antropologia 58 Apofatismo v. Teologia negativa Apologetica 25 31 35s 48s 71 88s 211 309 400 Apostoli collegio apostolico 223s 247 257-259 272s 280s 312s 316 339342 372 374 446 Argomento patristico 29s 123s 165s 261 277-279 283 356 370 381 392394 408 419 438
Ateismo
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Battesimo 219 267n 270 288s 311 326 337 374 394s 402 Bibbia e studi biblici 32 36s 39 41 49 55 58 71 73s 79 94 99s 108 111 118129 132-135 139s 144 148 156 162 164 166 169s 176 178-180 183 188 190s 194s 198s 203 205s 209-211 215 227 233 238 242s 258 261 263s 271 278 284n 287 292 294 297s 303 310-313 316s 332s 337 339s 343346 348 368 370s 373 381 383n 390 394s 403 412 415-418 426 428-430 435s 438 446 448 (v. anche Esegesi biblica; Padri della Chiesa e Bibbia) Biblico (P. Istituto) 119 161n 201n 348n Biblioteca ambrosiana 32 Biblioteca apostolica vaticana 27 30 32 Breviario 134n 138s 143s Carismi 291 308 375 Carità 292-294 310 327s 402 Catene esegetiche 31 35 Calcedonia (concilio) 43s 61n 224 282 334n 437 Catechismo 121
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Indice tematico Catecumeni 271 310 404n Catholicisme (H. de Lubac) 38 58 65 83 88 90 93 97 397n 420 Celibato 277 294 Cerf (Éditions du) 81 85-87 94 96 Chiesa: – apostolicità 128 – casa di Dio 66 – cattolicità 128 309s 399 – celeste 328-330 338 352 – comunione 49 248 255s 288 293 317s 356 377s – congregatio iustorum 253s 265s 304 – Corpo (mistico) di Cristo 47 5158 60 65s 77 127 170 176 188 191 212 215s 219 232 244s 253 260n 268-270 285 305s 332 337n 383 416 – e croce 264 – e cultura 131 134 264 – e escatologia 50 215 217 254 288 304 328 392 395 397 400 428 437n – e Eucaristia 48 66 211s 248 265 268 276 282 288 296 311 321 336s 378s 386 388 397 399 416 437n – e incarnazione 52s 55 – e Israele 254 394 404 – e Maria v. Maria Vergine – e mondo 385 434 – e non cristiani 245 256 310 396 399 – e potere civile 61 227 234 – e regno di Dio 215 305 388 – e salvezza 189 218s 266 270 310s 403 410 – e Trinità 217s 244 265 267s 292 304s 386-390 394 – Ecclesia ab Abel 54 57 243s 253s 261 265s 304 336 386 393 – familia Dei 268 287 321 – gerarchia 48 50 221-225 271-286 289 308 311-323 342 417 – immagini 215 245 268s 305 337 390s 393 – incorporazione 309s – istituzione 49 54s 60 254 383 437 – locale 48 218 247 272 274 279 286 294 296 310 319-321 373 378s 397 399 417 419 437n
– madre 214 217s 269s 287 389n 398 404 – membri 188s 214n 218-221 245 255s 260 270s 310 – militante 211 217 387 – missione missionarietà 131 245 287 311 387 394s 399 419 434 436 – mistero 49 73 149 213-214 243245 253 265s 306 382-386 392 394 417 – ordinamento alla C. 219 – origine 217s – peccato e peccatori 59 128 191 219s 245 254s 271 289 305 307 326s 337s 342s 391s 403 410 – pellegrinante 217 245 329 338 391 394 – popolo di Dio 65-67 128 226 260s 286-289 292 307-311 338 377n 387n 394s 397 404 416 426 439 – potestà suprema nella C. 378381 396 410 – prefigurazione 266 386s – rinnovamento 429 433 439 443 446 – sacramento 61s 64s 149s 215 244 304s 307 384-386 394 – santità 59 128 220 292 326 342s 392 – società visibile 54-56 60 64 175s 212 217 232 245 254-256 266 270 384 386 – sposa 218 269 389n 404 – unità 141s 208 288 377s (v. anche Ecumenismo) – universale 192 218 243 247 253 319 378s 387 397 v. anche Ecclesiologia; Episcopato; Papa; Primato; Spirito Santo; Successione apostolica Chiese orientali v. Oriente cristiano Citazioni patristiche (nei testi conciliari) 11 170-174 238 363s 367-371 380-382 390s 414 420s 424n 436s 441s 444 Condiscendenza 399 Collegio episcopale collegialità v. Episcopato Collegio romano 25 47 55 Collezioni patristiche 26-28 34s 94 100 407 446 (v. anche Sources chrétiennes)
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Indice tematico Comillas (Università) 118 Commissione Biblica 120n 316s Commissioni conciliari v. Vaticano II Communio 255 377s (v. anche Chiesa comunione) Compagnia di Gesù v. Gesuiti Concili conciliarità 280s 284 317s 356 378 448 Concili ecumenici 60s 179 224 262s 279n 281s 284 317s 356 378 380 384 415 421s 433 444 (per i singoli concili v. sotto i rispettivi nomi; v. anche Sinodi sinodalità) Conciliarismo 258 Conferenza episcopale italiana 265 Conferenza episcopale tedesca 121 124 127s 134 198 382n 424n Congregazioni romane 115 118 161 (v. anche S. Uffizio) – dei Seminari 118 – per i religiosi 295 Consigli evangelici 251 294 328 402s Consiglio ecumenico delle Chiese 206 Corpo mistico v. Chiesa – Corpo mistico Corpus mysticum (H. de Lubac) 97 Coryphaeus 280 312 Creazione 256 395 428 Cresima 402 Cristo cristologia 43s 67n 69 77 101 141 146s 191s 216 244 253s 256 262 265s 269s 283 288 292 304 306 308 310 312 314 332 353s 373s 388s 391 394 404 418 428s 435 Defunti 329 343n Deificazione 292 322 Denzinger v. Enchiridion symbolorum Desclée de Brouwer (Éditions) 84 135 Diaconato diaconi 62s 238 247 274277 322s 327 354n 399s 413 Dialogue théologique (1947) 109s Dizionari storico-teologici 28s Dogma 38 58 65 77 87 105 111 114 117 129 134 234 427-430 – storia 29 32n 40 75n – sviluppo 36 77s 263 429n Domenicani 73 75 78s 85s 89 106-
109 (v. anche Angelicum; Saulchoir) Donatismo donatisti 66 279 282 326n 376 Dottori della Chiesa 137 141 368 Ecclesia/ekklesia 218n 266 Ecclesia domestica 226 249 290 (v. anche Matrimonio e famiglia) Ecclesiam suam (enciclica) 149 Ecclesiologia – e antropologia 50 – e ressourcement 49-51 – e studi storici 42 – eucaristica v. Chiesa e Eucaristia – nella Scrittura 55 – nei Padri 44-67 127-132 156 363405 412s 431 437s – nel XIX secolo 25 382s – simboli e immagini della Chiesa 49s 58s 268s – societas perfecta 48 «Economia» salvifica 36 42 50 57 64s 69 77 100 244 310 332 384-388 394 401 428 Ecumenismo 37 42 46 49s 60-62 69 87s 121s 124-127 134 142 149 178 184 188s 194 202s 206 208s 212s 218 222 224 228 234 253 260 262s 270s 292 297s 310 337 343s 346 386 389 392s 400s 409 412 418 425 427 430n 435-438 447 (v. anche Patristica ed ecumenismo) Editoria e Padri 26-28 34s Efeso (concilio) 138n 190 192n 357 Ellenismo cristiano 34 42n Ellenizzazione del cristianesimo 33s 53n Enchiridion patristicum 29s 412 Enchiridion symbolorum (Denzinger) 29s 74 epéktasis 91 Epidittico genere 425 Episcopato 60-62 64 127 176-180 209 221-225 246-248 262 268 271-286 293s 311-322 327 372-380 383 399 (v. anche Primato; Successione apostolica) – collegialità 129 178 188 207n 209 231n 234 238 246s 257-260 271 275 277-285 316-320 338-342 351
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Indice tematico 354n 356 364 376-381 396 398s 403 413 426 428 430 – collegio episcopale 130 222 224 238n 247 258s 279-284 316 318s 341s 377 – e Chiesa universale 192 247 274 279 286 378s – e magistero papale 224 – e presbiterato 130 221 225 234 246 275s 294 320 323 327 357 399 417 – e primato 128s 176 189 221-225 234 247 257-260 271 282-284 316 318 320 377 382 418 – e religiosi 295s – munera episcopali 260 275n 293 315 320s 376s 399 – ordo episcoporum 247n 318 – origine divina 177 – paternità del vescovo 221 246 321n 374 400 – potestà di giurisdizione 176-178 189s 223 230 247 342n 377 – sacramentalità 128-130 221 246 259s 263 274-277 314-316 338-342 354n 371 373-376 379 381 399 Eretici e scismatici 188 218s 272 282 295 372n 399 Ermeneutica del Vaticano II 10 421 426s 439-444 Esegesi biblica 75n 91 113 119s 156 200 419 438 Esegesi patristica 34 43 90s 100 113 119 337 375 381 390 408 419 438 Esistenzialismo 100s Estetica 104 Études (rivista) 98-101 104n 430n «Extra Ecclesiam nulla salus» 218s 403n (v. anche Chiesa e salvezza) Eucaristia e Chiesa v. Chiesa e eucaristia Evoluzionismo 101 111 Famiglia v. Matrimonio e famiglia Fede e teologia 75s Fidei donum (enciclica) 259 Filologia patristica 28s 32 34s 37 408 419 Filosofia 100s 103 118-120 133 146 428n Firenze (concilio) 125 363n
Fonti – dei testi conciliari 170-176 180 182s 188-191 194 197 210-216 227s 232234 237 242-252 261 263 296-298 343-345 409 430 436 – della teologia 42 49s 74 79 97-100 108 112 117s 132s 144 164 278s 374 386 418 429 431 434 447 (v. anche Ressourcement) Formazione del clero e Padri 46s 132-135 446 Fourvière (Scolasticato della Compagnia di Gesù) 82-84 98 101-103 106s 110s 113 Gaudet Mater Ecclesia (allocuzione) 143 427 443 Gesuiti 81-85 87 95 104-110 113 137n Giovanni XXIII 10 Giuridismo 170 177 211s 214s 217 228 233 276n 292n 377n 389n 422 427n 433 Gnosi e gnosticismo 33 35 44 295 372n 385 404 Greco 133n 136n 142n 262 Gregoriana (P. Università) 106n 110 160 168n 215 Hegelismo 103 historia 90 Humani generis (enciclica) 22 72 78s 107n 111-113 116-118 122s 162s 270 339 431 Imposizione delle mani 315 374s Inculturazione 436 Indice dei libri proibiti 31n 52 71 79-81 Ineffabilis Deus (bolla pontificia) 349 Infallibilità 178 225 278 281 286 320 Istituto per le Scienze Religiose (BO) 439 Laici 63s 179 226s 234 239 248-250 287 289-291 324-326 352 383 402 410s 430n Lateranense (P. Università) 117 119 130s 135s 139 160 168s 201n Lateranense V (concilio) 421 Latino 133n 142s Leopoldville/Kinshasha (Università catt.) 130 133n
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Indice tematico Linguaggio dei Padri 121 124-126 213 227 398 424s 430 444 Linguaggio del concilio 121 124-126 164 198s 201s 398 412 421-427 444 (v. anche Stile) Liturgia 21 37 41 49 55 58 62s 71 88 99s 123 126 129s 133s 143 197 207n 225 228 246 248 259-261 264 267 275-277 280 287 312 315 318 335n 337n 339s 347 352 356 368 370 375s 381 383n 412 415-417 421-423 429s 436 (v. anche Vaticano II – Sacrosanctum concilium) Lovanio (Università catt.) 77s 80 119s 160n Magistero 49 77 80 105 112 114 118121 123 128 130 165s 170s 180 182s 194 203 211 217n 224 234 248 261 278 293 295 297s 306 308 310 314 320 327 344s 381 390 422 431 (v. anche Infallibilità) Maria Vergine (v. anche Mariologia; Vaticano II – schema de Beata Virgine) – annunciazione 332s 344n – assunzione 68s 115 278 334 – corredentrice 67 192s – culto 329 – e Chiesa 67-69 131 176 180 182 332 334 347s 397 404n – fede 331n 398 401 – Immacolata Concezione 67-69 333s 345 349 353 401 – immagine e modello della Chiesa 131 146 332 334 347s – Madre della Chiesa 181 331n 345-348 353 401 – Madre di Dio 68s 228 335 398 – maternità spirituale 131 345 347s – mediazione 67 131 181s 192 331 334 344-347 353 401 – membro della Chiesa 181 332 346 348 – nuova Eva 131 330n 333 345 349s – obbedienza 333 398 – privilegi 180 333 335 – santità 69 333 349 401 – socia Christi 184 331n
– sposa 184n – verginità 69 334s 350 398 Mariologia 67-69 227s 297 335 397 400 Martiri v. Santi e culto dei santi Marxismo 100 Matrimonio e famiglia 226 248 290s 296 308 327 396 402 (v. anche Ecclesia domestica) Méditation sur l’Église (H. de Lubac) 68 147n 248n 335n 383n 385n 404n Melchiti 133 205 207-209 413 Messale 139 Metafisica 103 Milano (Fac. teologica) 130 161 Mistica 92 Modernismo 23 31s 34s 41 45 48s 71 73s 80 99 110 134 194 200n 203 Monachesimo 58 251 328 Movimento liturgico v. Liturgia Movimento patristico 21 Munera profetico sacerdotale regale 175 179s 188s 226n 268 288 306 308 324s 352 396 Mysterion/mysterium 64 244 255 303 307 332 382 385 Mystici Corporis (enciclica) 54-58 60 149 164 168 170 176n 191 211 213 216s 219 268 270 314 338 343 377n 383 392n Nag Hammadi 35 44 Nascita di Cristo nei credenti 353s 401 Nicea I (concilio) 190 247n 318n 378 437 Nicea II (concilio) 329s Nota explicativa praevia 355s 379n 433 «Nouvelle théologie» 22 72 79s 96114 117s 134 204n 424n 430 443 (v. anche Fourvière) Oriente cristiano 10 41 49-51 69 122 125s 129 133 139 176 178s 183s 190 202 204-209 211s 225 228 242 260 265 267 277 287 292 297s 342 347 379n 389 393 401 412 436-438 445n 447 Ortodosse Chiese 112n 122 125 129 224 228 267 379s 447
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Indice tematico Ortodossia dottrinale
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Pacem in terris (enciclica) 287 Padri della Chiesa (v. anche Patristica) – Padri greci 38 41s 46s 49 52-54 65 84s 87s 92 98 100 112 122 126 129s 133n 139 172 183s 189 205208 211-213 216s 239 242 253 256 262s 280 297s 334 337 346s 374 390n 431 436s 447 – Padri latini 49 53s 85n 88 129s 172 184 213n 239 337 353 390n 397 – Padri siriaci 390n – autorità dottrinale dei Padri 123s – definizione 434s – dottrina sull’episcopato 129s – e Bibbia 43 90s 93 100 134 136s 191 408 418 438 446 448 (v. anche Esegesi patristica) – e primato romano 129 – nelle Chiese d’Oriente 207-209 – vox Patrum 371 374s 381 444 449 Paolo (lettere e teologia) 52 55 290 Papa 55 61 176-178 238n 247 255 258 271 280-285 311 314 316 380 (v. anche Primato) Parola di Dio v. Rivelazione Parrocchia 226 276 Pascendi (enciclica) 80 111 Pastoralità 201s 209 214 234s 240 268 409 412 422 426-429 443 Patriarcati 274 320 Patristica – ed ecumenismo 30 35 41s 46 49 87s 121s 125 127n 129 202 206-209 253 271 408 435 438 – e spiritualità 87s – e teologia sistematica 38 40 75n 108 419s 432 – e Università 41n 87s 420 – ricerca cattolica nel ’900 30s Patrologie 29 40 135 Penitenza (sacramento) 396 Perfezione v. Santità (vocazione alla) Pietro 142 213 223s 227 247 257s 272s 280 312 339-341 372 Platonismo 42 131 255n Pleroma 269 306 Pneumatologia v. Spirito Santo
Popolo di Dio v. Chiesa – popolo di Dio Predestinazione 34 Predicazione v. Annuncio Preparazione evangelica 244s 256 304 310 387 396 Presbiterato e presbiteri 221 225 246 251 260 263 274-276 293 322s 327 357 399 (v. anche Episcopato e presbiteri) Presbyterium 276n 323 399 Primato romano 61 128s 177s 188 222 234 257s 264 278 282 310 318 352 430 (v. anche Episcopato e primato) Qumran
35
Recherches de sciences religieuses 29 107 109s Redenzione 175 213n 288 395 Relativismo teologico 102s 108s 112 118 134 195 Religiosi e vita religiosa 250 295 326 328 402 Ressourcement 10 22s 34-37 39s 42 48-51 58 71s 83 87-91 94 99 111113 116 118 120 132 134 140 142 147s 150s 166 193 195s 198s 204n 235 237 241s 291s 295 342 346 361 375 381 385 407 410-412 414 418s 424 427 429-438 442s 447s Retorica 420-429 443 Revue Thomiste 97 104n 106-108 Ricapitolazione 53n 175 244 305 310 388 395 Ritorno alle fonti v. Ressourcement Rivelazione 36 73-77 80s 99 113 123 132s 205 263 284 308 349 373n 418 428 434s 444 Riviste storico-teologiche 29 S. Anselmo (P. Ateneo) 118 S. Bonaventura (Fac. teologica) 119 S. Uffizio 31n 79-81 106n 118 120 161 166s 175 195 377n 418n Sacerdos 246 Sacerdozio dei fedeli 61 63s 131 178n 226 239 249 260s 288 308 395 398 Sacerdozio (ministeriale) v. Episcopato, Presbiterato
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Indice tematico Sacra Scrittura v. Bibbia Sacramentalità e Chiesa 64-66 128 305 416s (v. anche Chiesa sacramento) Sacramenti 218 239 249n 267 276 293 303 308 337 374 385 418 Sacramentum 64 244 255 303s 307 384s 393 Sacrificio 269 322 Salamanca (Università) 117 Salvezza 100 244 (v. anche Chiesa e salvezza) Santi e culto dei santi 328-330 343 400 Santità (vocazione alla) 239 250 261 291-296 325-328 402 Saulchoir 71-79 97 Scolastica v. Teologia scolastica Segreteria di Stato 161 Seminario romano 135s Sensus fidei 123 249 308 396 398 Simbolo e teologia 39 49 58s 88 90 96 Sinodi sinodalità v. Concili conciliarità Sinodo romano (1962) 137n 140 Societas 255 Soddisfazione 155 Soggettivismo 103 200n Soteriologia 52 100 216 Sources chrétiennes (collezione) 35 42 71 81-100 113s 120 375 407 430 447 «Spirito» del concilio Vaticano II 439-444 Spirito Santo 219 233 244s 256 267 282 287s 305-307 310 314 320n 333 337 347 353 374s 389 391 404 418 437n 449 Spiritualità 91-93 99 101s 133 Stati di perfezione 179 250-252 290 294-296 325 Stile del concilio 125 198 201-203 213 233 356 409s 416 421-429 442s Storia del dogma 29 40 75n Storia delle religioni 37 Storia e scienze storiche 75s Storia e teologia v. Teologia e storia Successione apostolica 60 128s 223 246 271-274 313s 316 352 368 372s 381 399
Summa theologiae 133 Surnaturel (H. de Lubac)
110
Teologia – come scienza 75 77 102 – dogmatica 38 40 75 88 132 – della storia 64 – e cultura moderna 32 37s 73 94 99 – e storia 58 72s 75-77 99s 102s 117s 156 203 381 408s 428 433 – e verità 102-105 108s 113 118 135 – metodo 72s 75-77 113 115 203s 426 – morale 132 – negativa 90 92 – neoscolastica 22 36-38 59 77 79s 96 98-102 112 121 125s 132 193 202-204 214 242 410 412 424 429s – positiva 73-77 112 117 203 408 429 – progresso teologico 102s 105 123 190 346 – rinnovamento 25 32 37 39 45-47 49 58s 87 97s 117 120 122 134 422 – scolastica medievale 37 58 93 134 429 432 – speculativa 74s 77 117 120 199n 408 430n Teologia kerygmatica 39 Teologia ortodossa 41 50s Théologie (collezione) 97-101 Theoria 90 Tipologia 90 Tomismo 36 51 74 79 81 98-100 102 109 113 117s 120 133 424n Tradizione 47 51 74 79 93 114 119-123 125 129 132-134 148 162 165s 176180 183 194s 203-207 210s 215 218 238 258 263-265 271 274-279 285s 297s 310s 313 317n 337s 342-346 348 356 369-373 375 381 393 400 403 418 430 432-435 438 443-447 449 Trento (concilio) 122 124 199 211 215 265 314 329 343 363n 421 440 Treviri (Fac. teologica) 123n 125n Trionfalismo 214 Tura 35
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Indice tematico Ufficio divino v. Breviario Unam sanctam (collezione) 41s 45 48n 56 58 60 97 280n Università ecclesiastiche 115 117 119 123 129 160 Unzione dei malati 396 Urbaniana (P. Università) 131 Veterum sapientia (Cost. ap.) 142s Vaticano I (concilio) 47 104 123s 127 129 149 164 169 178 192 202 213 215 224 234 239 258 278 282s 285s 314 320n 339 382 421 424 430 – schema de Ecclesia Christi 47 202 239n 258 – costituzione Pastor Aeternus 285 Vaticano II 1) fase antepreparatoria 11 22 115-135 169 382 393 424 436 – Commissione antepreparatoria 167 – vota antepreparatori 115-135 148 150 382 412 2) fase preparatoria 55 141 156 411 426-428 – Commissioni preparatorie 167s 184-187 230 – Commissione centrale preparatoria 11 142 144 148 151 156 159 162-166 170-172 174-184 186-188 191-193 195 204 212n 219 226s 229-231 383 411 – Sottocommissione per gli emendamenti 159 175 184-193 229-231 – Altre commissioni preparatorie: teologica 54 155s 159-175 180182 185-188 191 193-195 204 207 209 219 229 231-233 236 296 353 418 • sottocommissione de Ecclesia 167-170 • sottocommissione de Beata Virgine 180-184 per i sacramenti 161 per la liturgia 195n per le Chiese orientali 179 3) periodi conciliari – schemi (escluso de Ecclesia) de Beata Virgine 11 159n 172n 174 180-184 186 190-193 227s
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230s 234 236 238n 262n 269n 296-298 330-335 343-350 353s 364 de fontibus Revelationis 11 148 165 197s 200-206 210 212 214 241 412s 431 438 de deposito fidei 155 159n de Ecclesiae unitate 199n 206209 412 de laicis 194 de ordine morali 174 194 230n de ordine sociali 193 230n de orientalibus ecclesiis 320n de sacra liturgia 195 198-200 412 416 – de Ecclesia schema della TE 245-252 288n 306n 310 383 409 412 422n 426n 443 schema cileno 236n 288n 357 schema francese 236n 304n schema «Parente» 236 384n schema «Philips» 235-237 364 384 409n schema tedesco 215n 236s 244 250n fonti 210-216 232-234 238s 242-252 261 263 326n 409s modi e votazioni 350-357 – organismi conciliari commissioni 11 228 Commissione di coordinamento 228-239 317n 331 Commissione dottrinale 11 55 206 218 228s 231 234 236-238 273s 286n 298s 301-330 344 347 349 352-357 374s 377n 386 391 409 411 415 • sottocommiss. biblica 274 302n • sottocommiss. de Ecclesia 234-237 302s • sottocommiss. de re patristica 302 Commissione per i religiosi 326n Commissione per la liturgia 198 Commissione per l’apostolato dei laici 239 324n Consiglio di presidenza 206
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Indice tematico Segretariato de Concilii negotiis extra ordinem 236 Segretariato per l’unità 164 179 186 202 206s 209 Segreteria e Segretario generale 238 350s – periti 115 162 204 231 235 239 365 413 430n – documenti approvati (esclusa Lumen gentium) Ad gentes 389n 394 436 Christus Dominus 379n Dei Verbum 113 156 264 364 404 414s 438 Gaudium et spes 395 425n
Optatam totius 389n Orientalium Ecclesiarum 379n Perfectae caritatis 429 Presbyterorum ordinis 221n 389n Sacrosanctum Concilium 265 267 305n 363s 375 414 416 424n Unitatis redintegratio 310n 389n 443 Vehementer nos (enciclica) 176 Vescovi v. Episcopato Vicarius Christi 61 155 248 312 321 376 399
Vicarius Petri
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Indice dei nomi
Avvertenza: i nomi dei Padri della Chiesa sono in grassetto; i nomi dei padri conciliari (inclusi vescovi e superiori religiosi che hanno inviato un votum nella fase antepreparatoria) in maiuscoletto. Un numero seguito da n segnala un riferimento presente nelle sole note della pagina.
ABASOLO Y LECUE J.A. 303n Abellan P. 326n Acerbi A. 15 44n 47n 52n 54n 59n 64n 165n 167-171 174n 190n 210n 215n 224n 233s 243-246 248-250 252 254n 257n 260n 265n 271n 286n 291n 298n 301-305 307n 309n 311s 316s 319-322 324 327s 343n 352n 377n 379n 403n ADAM F.N. 274 Adam K. 38 40 50n 57n Adnès P. 396n Adornato G. 147n Afanasieff N. 248n AGAGIANIAN G.P. 229n Agostino di Ippona 33 47 53s 56s 64n 66 69 88 101 120 122 126-128 131 137-141 143-146 150n 160n 172-174 180-182 190s 193 203n 217-221 225-227 238 243-246 248s 251-254 260s 264s 267n 269-273 276 281-284 286-295 304s 307s 310 313n 321n 324 326-330 332s 335337 340 343 348 350 353 368 374n 376 387s 391s 395s 401-404 432 437 444-446 Aimone di Auxerre 315n Alberigo G. 16 72 78s 136 211n 237n 355n 357n 422n 433 439s 447n Alberto Magno 192
Alberto S. 55n 57n 127 160n 169s 216n 236n 243s 265n 303n 306 Alès A.d. 31 Alexandre M. 34n 43n 95n Alfaric P. 33n ALFRINK B.J. 179 199n Alivisatos A.S. 61n Allmen J.J. von 404n ALMARCHA HERNÁNDEZ L. 291n Alonso Schökel L. 415n Altaner B. 30n 40 54n ALTER K.J. 162n Álvarez Alonso F. 168n ALVIM PEREIRA G. 320n Ambrogio di Milano 46 57n 65 69 85n 137-139 141 144-147 149s 178 180 182 189 249n 251n 267 305n 316n 332-335 337 339n 346 349 353 368 395n 404n Ambrosiaster 130 275 316n 375n Anastasio di Antiochia 320 333n Anatolio di Costantinopoli 223n ANAYA Y DIEZ DE BONILLA J.G. 345n ANCEL A. 301n 324n 331n 341n Andrea di Creta 190 333s 347 Angelini G. 26n ANGERHAUSEN J. 125 AÑOVEROS ATAÚN A. 276n ANTEZANA Y ROJAS A.I. 177-179 Antón A. 22 44n 47-50 52 54-56 65s
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Indice dei nomi Antonelli C. 167n 180-183 193n 227n 238n 296-299 330-332 334n 342s 347s 353n 371n ANTONELLI F. 198 ARAMBURU Z. 132 ARGAYA GOICOECHEA J. 117n 119n 123n 337 343 Aristide 250 Aristotele 423 Arrupe P. 429n Atanasio di Alessandria 46s 53 141 208 251n 283 290 295 315 375n 437 Atenagora 86 94s Aubert R. 26n 28n 31s 35-37 39n 45n 58n 62 96n Bacht H. 43 Backer E. de 64n Backes I. 54n 63 Bakhuizen van den Brink J.N. 160n BALDASSARRI S. 271 281n 310 Bali C. 131 161 168 180-182 228n 235 299 330s 334n 371n Balthasar H.U. v. 36n 39 41 59 83 98 104 221n 385n 391n Baluze É. 257n BAMPI C.G. 213n Baraúna G. 9 16s 364s 398n 401n BARBADO Y VIEJO F. 229 311n Barbara M.A. 35 BARBERO L. 268 289 BARBETTA G. 204n 211n BARBIERI R. 119n Bardenhewer O. 27s 30n Bardy G. 31 60 86 95n BARRACHINA ESTEBAN P. 226 Barth K. 48 90 BARTHE G.H.A. 287n BARONI G. 442n Basilio (Ps.) 172s 192 238 247n 319 Basilio di Ancira 251n Basilio di Cesarea 46 95n 138n 207s 217n 225 249n 251s 261 263n 319 375 416n 445n Batiffol P. 31 48 146 285n BATTAGLIA G. 202n BATTÚ WICHROWSKI W. 297 Baudelaire C. 90 BAUDOUX M. 126 195n 213s 253 Bauer B. 63 BÄUERLEIN S. 294
Bazatole B. 258n BAZELAIRE L.M.F. DE 122 133 BAZIN V. 177s BEA A. 28 166 178s 201n 212 217 232n 263 266s 269s 291-294 296s 306 335n 343s Beauduin L. 37 62n Beda 249n 335n Beinert W. 409n 422n 426n BÉJOT G. 313n Bellini E. 35n 46n Bellis M. 41n BENAVENT ESCUÍN E. 133 Benedetto 51 251s 282 291n Benedetto XIV 190 Benedetto XVI 439s 445 448 (v. anche Ratzinger J.) BENGSCH A. 202n Beniamino della SS.ma Trinità 326n Benoît A. 434s BERECIARTÚA BALERDI L. 132n Berengario di Tours 346n Berengaud di Angers / di Ferrières 346n BERGONZINI M. 131 226n Bergson H.-L. 117 BERNACKI L. 222 Bernanos G. 48n 50 BERNARD M. 178s Bernardo 228 432 Bernards M. 65n Bertoldi F. 96n BETTAZZI L. 284n Betti U. 167n 224n 231n 243n 257n 271n 311n 313n 316n 319n 321n 369n 372s 378n Bevilacqua G. 145 Biffi I. 147n BLANCHET E.A. 122 221n Blanco Sarto P. 212n Blondel M. 110 117 146 BLOMJOUS J. 324n Bochenski J.M. 107n Boezio 250 BOILLON P. 216 Bolgiani F. 27 41 Bonaventura 192 239 329 BONOMINI F. 264 Borras A. 276n Bossuet B. 131n 140 Botte B. 61s 130n 259n 375
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Indice dei nomi BOUDON R. 275n Boüessé H. 130 Bouillard H. 98 101n 103 106s 111 Boularand E. 130 Bourdaloue L. 131n Bousset W. 33n Bouyer L. 21 39 46n 53n 56n 64n 110 385n Bover y Oliver J.M. 182 346n Boyer C. 79 106 146 326n 424n Boynes N. de 106 Brambilla F.G. 47n 72n 75s 97n 109113 148n Braulione di Saragozza 137n 248n BRAUNSTORFER K. 282 Brehier E. 92 Brisson J. 95n BROWNE M. 166 185n 187s 190n 192 229 234 237 326n Bruckberger R.-L. 109 Bruno 315n BUCKLEY J. 286n BUILES M.A. 275n Bujanda J.M. de 31n 79n Bullett J.J. 52n Buonaiuti E. 27 32 Buonasorte N. 200n 279n 430n Burigana R. 119n 126n 160-163 167s 171 200s 203n 206 214n 438n BUTLER C. 301n 326n BUTLER E.J. 122n Cabasilas N. 88 94s 249n 292 Cadiou R. 34n CAGGIANO A. 215n CALABRIA R. 117n CALCARA A. 128n CALOYERAS D. 121n CAMBIAGHI P.M. 290n 325n CAMBOURG J. DE 181n 220 245n Camelot P.-T. 61n 64n 85 95n 385n 437n Campenhausen H. v. 40 Camplani A. 44 Canobbio G. 63 97n 384n CANZONIERI E. 284 Capelle B. 38 CAPOZI D.L. 253s Caprile G. 16 160n 167n 200n 229n 273n 339n 355n Caprioli A. 145-147
CARLI L. 222 253-258 260s 265 274n 278n 284s 291 303 310n 338-341 349 354n 382n Carlo Borromeo 139 CARRARO G. 277 413 Casel O. 37 Cassiodoro 250 CASTÀN LACOMA L. 345n CASTELLANO I.M. 289 Castellino G. 303s CASTELLTORT SUBEYRE J. 132 Castellucci E. 322n 399n Caster M. 114n CASTRO BECERRA J.A. 128n CASTRO MEYER A. DE 121n 345n CATANI A. 265s 269n 281 CAUWELAERT J. VAN 214n CAVAGNA A. 338 Cayré F. 29s 135 CAZZARO B. 348 Celestino I 174 319 357 368 Celso 250 CENTO F. 118n Cerfaux L. 49n 62 160 165 170 239 243 Cerrato R. 32n Cesario di Arles 144 249n Chadwick O. 41 Chaillet P. 45n 83n 87 Chalendard M. 95n CHANONIE P. DE LA 254 Charlier L. 75 77-81 85n 113 CHARUE A. 120s 196n 202n 204n 229 234 236s 292n 301n 303 317n 326n 331n 343n 351 373n CHAVES O. 277n CHEIKHO P. 184 213n Chenaux P. 111n 119n Chenu M.-D. 71-82 85n 92 113 156n 205n 212s Chifflot T.-G. 86 94 96 Ciappi L. 156 160s 165 311n Ciccarese M. 41n 420n CICOGNANI A. 150 229s 232s 236 355n Cipriano di Cartagine 45n 61n 65s 127 129 131 136s 143-145 173 178 192 217-219 222-224 238 244 246248 251n 254 257-260 267s 270 273-276 279-281 283-285 287-289 292 294 296 303 305 314 316n 318-
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Indice dei nomi 320 323 343n 357 368 386n 388s 399 Cipriano (Ps.) 315n 375 Cirillo di Alessandria 47 52s 57n 127 173n 207s 225 228 244s 247n 262s 281n 305n 345n 424 437 Cirillo di Gerusalemme 64n 205 244n 249n 265 280 305n 330n 333n 350n 402 Citterio B. 149n CIVARDI L. 291n Claudel P. 38 90-92 430 Clemente Alessandrino 43 45n 57n 85s 92 94s 98 131 145n 172s 191 216n 247n 251n 264n 288 Clemente Romano 225 238 246s 250n 272s 282 284 286 290n 313s 322s 372s Coathalem H. 68 335n Coffele G. 21 37n 40s 43n 97n COLETTE A. 129n COLOMBO C. 96n 103n 130 160s 168 194 235 316n 355 Colombo P. 45n Colson J. 62s 280n COMPAGNONE E.R. 326n CONFALONIERI C. 178s 185-188 190 192 229s Congar Y. 9 16 25n 29s 39 41s 44s 4765 68 72n 96-98 107n 113 160s 163s 167n 169s 181 193-196 199 201s 204s 208n 212n 214s 218 231s 234237 244n 247n 255-257 261n 272 277n 280n 299 307 317n 320n 331n 334n 341n 347n 349n 351n 365 388390 396n 411n 413n 418n 421s 428 434n Connolly T.A. 117n 123 CONWAY W. 254 276n COORAY T.B. 177s COPELLO S.L. 185n 187s 192 Cordovani M. 78s Cornelio 246n 323 CORNELIS F.J. 336s CORTÉS PÉREZ F. 131n Courcelle P. 41 COUSINEAU A.F. 343n COUSSA A. 179 184 189 Couturier C. 64n 385n Cullmann O. 60 Crouzel H. 34n 41
Curti C.
35n
Dabin P. 63 Dagens C. 418n 428n 432n D’AGOSTINO B. 287n D’ALMEIDA TRINDADE M. 268n 290n DAL PRÀ G.B. 122n 133n Dalaye E. 111 Daley B. 72n 97n DAMMERT BELLIDO J.A. 259 Dander F. 39 DA SILVA CAMPOS NEVES J. 130 Daniélou J. 39 41 81-87 89-92 95s 98102 104n 106s 235s 283n 303n 387n 390s 419 430n DÉAGE P.E. 121n 131n DEARDEN J.F. 229 307 Decenzio di Gubbio 322 357 Declerck L. 204n 233n 301s Deconinck J. 31 De Fiores S. 67n 69n 180n Deimel L. 56 Dejaifve G. 62 Dekkers E. 34 DEL CAMPO Y DE LA BÁRCENA A. 266 Delhaye P. 324n Deman T. 114n Deneken M. 45n Denzinger H. 29 DE PROENÇA SIGAUD G. 121n D’Ercole G. 130 311n 316n 343n DARMANCIER M. 288n DESCUFFI J. 126 129 225 Des Places E. 95n Devreesse R. 41 Dhanis E. 316s Diadoco di Fotica 95n Dianich S. 417n Di Berardino A. 60n Didimo di Alessandria 35 245n Dionigi Areopagita (Ps.) 85 90 145n 246n 280 288n 293s 322n Dionigi di Alessandria 279 318 425n Dix G. 62n DJAJASEPOETRA A. 321n DODEWAARD J. VAN 229 303n DOI T.P. 219 221 Doignon J. 340n Dölger F.J. 39 Dolle J. 141n Domenico 51
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Indice dei nomi Donneaud H. 72n DONZE H.C. 325n DÖPFNER J. 162 175 177 179 188 198n 210 214n 229n 234n Dossetti G. 211n 213n 217n 237n 379n 389n 409 414n 417 422n 438 448 DOUMITH M. 229 311n 320n Dournes P. 255n Doutreleau L. 83 95n 98 Draguet R. 33n 41 75 77-80 Drewniak F. 68n Drilling P. 217n 244n 268n Drobner H. 434n Dubois M. 168 Duchesne L. 31 Dufort J.-H. 328n Dulles A. 403n Dupuy B.-D. 62 341n Durand A. 111 DURRIEU L.M.J. 129 Durrwell F.-X. 389n DWEYER G.P. 117n 208n EDELBY N. 16 176n 179 183 202n 205n 207 209n 283n 298 Efrem 183s 191 347n 353 Eger J. 65 395n Egesippo 272 284 425n EGUINO TRECU J. 123n 132n ELCHINGER A. 214n 217s 222 225n 256 264n 310n 328n EMANUEL I.M. 225n ENCISO VIANA J. 273n 278n 281 284 313n ENRIQUE Y TARANCÓN V. 265n 273n 313n Epifanio 190 269 312n 330n 333n Erasmo 424 Erhard A. 31n Erma 373n Esichio di Gerusalemme 316n Esteban Romero A. 114n Eteria 95n Eulogio di Alessandria 178 189 192n 283 320 Eusebio di Cesarea 85 145n 172 188 245s 252n 272s 310 314 317s 374n 399n Eutiche 223n 225 Eynde D. van den 160
Fabro C. 117n FADY J. 121n Fagiolo V. 185n Faggioli M. 440n Famerée J. 204n Fastidio 173 188 Faye E. de 34n Feige G. 437n Felice II 319n FELICI P. 229n 351n 355n 430n FELTIN M. 222 224n Fenton J. 165 168 304n Feret H.M. 64n 425n 428n FERNÁNDEZ A. 229 281n 326n 331n 338 Fernandez D. 365n 400s F ERNÁNDEZ Y F ERNÁNDEZ D. 121n 123 Fesquet H. 242n Fessard G. 83 98n 104 106 Festugière A.-J. 88 Field J.J. 133n Filastrio 144 FIORDELLI P. 226 290s Fleury C. 46 FLORES MARTIN J. 282n 310n FLORIT E. 203s 212-214 229 316 Fogarty G. 200s Fontaine J. 41 Fontoynont V. 82-87 96 FORER H. 346n FOSSATI M. 119n FOUGERAT A.-J. 287n Fouilloux E. 21 26s 31n 37n 41s 71s 76s 82-92 94-97 99n 101-104 106s 109-111 113s 116n 119s 122n 163n 167n 198n 204n 424n Francesco di Sales 251n FRANI F. 202n 204n 206 223s 226s 229 282n 293s 322n 355n Fransen P. 62 Franzelin J.B. 25 47 202 248n Frend W.H.C. 41 FREUENDORFER J. 133n Frey C. 56n 72n 96n 111n 383n 397n 430n Fries H. 383n FRINGS J. 67 185n 187n 195n 198s 201s 211s 214n 216 233 263 278280 283 412s 416n 443 Frisque J. 22 44n 47n 49n 58n
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Indice dei nomi Fruyitier J. 64n 385n FUKAHORI D.S. 297 Fulgenzio di Ruspe 173n 244n 249n 305n Fumet S. 86 Furlani G. 27 Gagnebet R. 160s 164 168-170 185 217n 231n 235 316n 326n 331n GAGNON J.R. 126 Galot J. 335n 398n Galuzzi A. 135n Gambari E. 326n Ganne P. 111 Gardeil A. 74-77 GARCIA LAHIGUERA J.M. 127s GARCIA MARTINEZ F. 281 286 GARCIA Y GARCIA DE CASTRO R. 219n 338 348n GARGITTER G. 264 GARIBI Y RIVERA J. 162n Garnier J. 319 Garofalo S. 165 168 Garrigou-Lagrange R. 78 101n 104n 106s 109s 112 424n GARRONE G.M. 229 234 236n 264 307 329n 331n GASBARRI P. 263 345n Gasser V. 320n Gaudenzio di Brescia 144 GAWLINA J. 297n Gebhardt O. v. 26 Geiselmann J.R. 45n 65n GELAIN G. 134n Geremia F. 426n GERLIER P. 212n 214 Germano di Costantinopoli 190 333s 347n Gerho di Reichesberg 335n GHATTAS I. 228 Ghellinck J. de 31 33n 53 Gherardini B. 385n Giacomo apostolo 312n Gianotti D. 200n 414n 434n Gilbert M. 119n 201n Gil Hellín F. 16 18 Gill J. 125 Gillet P. 78 GILROY N.T. 204n Gilson E. 33n 36n 92 146 424n Giovanni apostolo 312 340
Giovanni Bosco 27 Giovanni Cassiano 249n 251s 338n Giovanni Climaco 251n Giovanni Crisostomo 7 47 53 85 131 137-142 145n 172-174 188 207s 216s 220 225s 245s 249-252 262s 269 274s 280 288-291 293s 309 312n 314-316 325 327 333s 374s 404n 437 Giovanni Damasceno 127 173n 190s 205 217n 244n 247n 262s 288n 304s 333s 347 388 437 Giovanni della Croce 90 Giovanni XXIII 10 12 22 29n 115 118n 122 135-144 148 150s 160s 165 182 185n 202 206 224n 229 238 240s 263 268 287 328 382 427 443 445 447 Giovanni Paolo II 440n 445n (v. anche Wojtyla K.) Gioviniano 340 Girolamo 130 136-138 145n 173n 213n 248s 252n 266n 272s 275 294n 313n 321n 329 333n 340 343n 350 425 Giustino 131 145n 193 245 250 269 311n 314 333n GODFREY W. 178n Gnech C. 150n Goemans M. 60 Goffredo di S. Vittore 335n GONÇALVES CEREJEIRA M. 294 GONZALEZ ARBELÁEZ J.M. 294 GONZALEZ MARTIN M. 275 293n GONZALEZ MORALEJO R. 214n 281n GONZI M. 287n Gorostarzu B. de 107n GOUYON P. 280 Grabmann M. 37n Grabowski S.J. 127n GRACIAS V. 179 217n 263 GRANADOS GARCIA A. 288n Gréa A. 48 Gregorio di Nazianzo 138-140 172s 205 207s 217n 245s 249n 252n 262 322n 337n 399n 437n Gregorio di Nissa 35n 42 47 57n 81 85s 89-92 95n 98 101 205 208 216s 225 249n 262 Gregorio Magno 57n 136-140 143n 145n 172-174 178 189 192 222-226
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Indice dei nomi 238 243n 247n 249n 251n 253 264 266 272n 283 289 291 293s 313 319s 339s 387 Gribomont J. 436n Griffiths J. 168 229 307 Grillmeier A. 40 43 322n 377n 385n 391n 399n 403n 442n GRIMAULT A. 254n Groot J. 62n Grootaers J. 62n 229n 233-237 239n 301n 316n 355s 430n GROTTI G.M. 264 344n 349 GUANO E. 287n 324n Guardini R. 48 Guasco M. 139n Guelluy R. 31n 37n 72n 77-80 GUERRY E. 130 202n 221 GUFFLET H. 290 GUILLER F. 227 GÚRPIDE BEOPE P. 226n 263n 284 293 GUT B. 229 326n GUYOT L.J. 276n Gy P.-M. 246n Habicht M. de 324n HAGE A. 280s 294n 296n HAKIM G. 204-206 212-214 217n 413n Hamer J. 377n Hamman A. 446n Häring B. 160 324n Harnack A. v. 26 28 30n 33 48 HEALY K. 258s HEILIGERS C. 117n 122n Hemmer H. 27 93 100 HENGSBACH F. 125 214n 324n Henn W. 204n 244n HENRIQUEZ JIMENEZ L. 301n 316 331n Henry P. 110 HERMANIUK M. 263 278 HERVÁS Y BENET J. 133 268 277n 292n Hervé di Bordeaux 315n Herwegen I. 37 HEUSCHEN J. 272s 301n 313 316 321n 349s 413 Hilberat B.J. 17 Himes M.J. 45n Hirschmann J. 324n Hoeck J. 283n 320n Hofmann F. 127n 391n Holdt J. 39n
Holl K. 28 30n HOLLAND T. 215 Holotik G. 429n Hoping H. 434n Hornef J. 63 HOUDIARD L. 117n Howard Bloch R. 446n Hünermann P. 16s 29n 44n 48n 55n 62n 171 195n 212n 237n 365n 372s 376s 383n 385 387n 396n 400n 402n 433n 440n 443n Huntston Williams G. 63 HURK A.H. VAN DEN 273 HURLEY D.E. 177s 183 198n 212n 214s Hürth F. 161-163 168 HUYGHE G. 214n Ignazio di Antiochia 48 53 95n 127130 143-145 172s 179 214n 221 223-225 238 245-248 250 260 263n 267n 272n 276s 279-282 284 286 288 294 296 309 313s 320-323 327n 352 368 373s 378n 399s 417 437 Ignazio di Loyola 51 Ilario di Poitiers 53 95n 247n 249n 288n 294n 313n 319n 340 Ildefonso di Toledo 137n Indelicato A. 160-162 171n 174s 193 Innocenzo I 173 190 322 357 Ippolito 276 375 Ireneo di Lione 33 53s 57n 85 101 127 129-131 137s 145n 173 193 223-225 238 243s 246 256 260 263n 269 272-274 281s 284 305 307 309 311n 313 330n 333n 367-373 389 395 404n 437 Isacco della Stella 335n Iserloh E. 21 Isidoro di Kiev 125 Isidoro di Pelusio 374n Isidoro di Siviglia 137s 275 JACONO V.M. 280n JACQ A.R. 260 JACQUEMIN A. 120 JACQUIER G. 282 JAEGER L. 121s 124s 127-129 151 164n 199n 272n 280n 282 288 347 382n 424n Jaeger W. 35n
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Indice dei nomi Jáki S. 44n 46n 48s 51-53 59n 66n Jalland T.G. 61 JANNUCCI A. 117n Janssens A. 63n JANSSENS J. 104 106n 110 230n 253 306 JARAMILLO TOBÓN A.J. 130n Jedin H. 440 JELMINI A.G. 191n JENNY H. 268 Jossua J.-P. 42 72n Jouassard G. 95n 160 329n Journet C. 54 59 102s 168 424n JUBANY ARNAU N. 265 276s 296 Jungmann J.A. 39 Juste Y. 140n Kelly J.N.D. 41 Kéramé O. 283n Kerkvoorde A. 63 323n 400n Kerrigan A. 165 170 303n 307 KERVÉADOU F.L.M. 228 KHOURY J. 208s Kierkegaard S. 101 KLEINER S. 326n KLEPACZ M. 206 275n Kleutgen J. 202 Kloppenburg B. 322n Klostermann F. 324n Kolping A. 64n KOMINEK B. 210 Komonchak J.A. 119n 160n 164n 167s 171n 175n 185n 190n 195n 201n 209n 215n 232n 235-237 336n 338n 347n 350s 353s 377n KÖNIG F. 175 177 179 184 188 203s 229 234 236n 280n 298 311n 329-331 Kornyaljak P. 168 Köster H. 67 69n Koster M.D. 56 65 KOVÁCS S. 294n KOZLOWIECKI A. 293 KRAMER F.G. 259n KROL J.J. 255 297n 306 Labourdette M.-M. 89 92n 95n 97-99 101-104 106-110 112s 160 326n 329n 424n Labriolle P. de 31n Lacey T.A. 65n Ladrière J. 72n
Lafont G. 116n 416n Lafortune P. 235 307n 324n Lagrange M.-J. 337n Lai B. 199-201 204 Lakner F. 39 Lamberigts M. 198n Lambert B. 322n Lambruschini F. 316n Lamirande E. 33n Lancel S. 376n Lanfranco 315n LANZO E.L. 128 Lanzoni F. 25n 32 Laplace J. 95n Laplanche F. 31n La Potterie I. de 63 448n LARDONE F. 133 LARRAÍN ERRÁZURIZ M. 288 LARRAONA A.M. 328 338n La Soujeole B.-D. de 255n LÁSZLÓ S. 289 327n 342s La Taille M. de 38 Lattanzi U.E. 160 164 168s 194n Lattanzio 138n 145n 245 250 Laurentin R. 181s 242n 330s 345n 401n Lausberg H. 425n Lazzati G. 41 Leandro di Siviglia 137n Lebon J.-M. 31 37n Lebreton J. 31 88 Leclercq J. 25n 36s 86 141n 408n 421n Leclercq M. 171n LE COUËDIC J. 344n Lécuyer J. 62s 130 161 168 235 275n 280n 311n 319 323n 341n 374-376 399s Ledóchowski W. 83s 104 106n Leeuwen B. van 396n LEFÈBVRE J. 202n 341n LEFEBVRE M. 131n 133n 254n 440 LEFÈVRE A. 297n Le Fort G. v. 48n LÉGER P.E. 126 162 184s 187n 229 234 295 350n Le Guillou M.-J. 394s 399n Lejay P. 27 93 100 LÉMENAGER A. 297n Lemonnyer A. 74 Leone XIII 165n 182 189n 285 313n
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Indice dei nomi Leone Magno 57n 131 137-142 145n 150 172s 189 213n 222-226 230s 244n 246-249 260 273 275 282s 285s 288s 292n 314 319n 334n 345n 356 373 399n Leonzio di Gerusalemme 320n LERCARO G. 143s 199n 229n 237n 267 305 321n 337 414n Levie J. 52n Levillain P. 195n LIÉNART A. 177 179 183s 199n 229n 274n Lietzmann H. 28 30n Lio E. 326n LLOPIS IVORRA M. 260 344n Lohfink N. 201n Loisy A. 73n LOMMEL L. 131 Longobardo L. 364n Loofs F. 28 33n LÓPEZ ORTIZ J. 227 Lorenzo Giustiniani 140 Luneau A. 397n Lubac H. de 7 9 16 36n 38s 41 43 53n 58 65s 68 81-88 90s 93-95 97s 101107 109-111 119n 134n 147 155s 160s 163s 166s 182n 187n 193-196 203n 207n 212n 228n 230n 235n 241s 248n 255n 290n 318n 335n 363n 365 383-385 387s 390 392 394-398 401s 404n 408n 414s 418s 427n 431s Lutero M. 424 Lyonnet S. 83 Macario (Ps.) 250n 326 Maccarrone M. 61 130 155 316s MACEACHERN M.A. 126 Madrigal Terrazas S. 429n Magister S. 439n MALANCZUK V. 264 310n 347 Malanowski G.E. 52n Malevez L. 54n Mallarmé S. 90 Malpensa M. 41n Mandouze A. 447n 449n MANEK G. 203 Manfredini E. 146n MANNIX D. 212n 214 Manoir H. du 53n MANSILLA REOYO D. 278n 283s
Manzo M. 135s Maraldi V. 44n 48s 54-57 244n 268n 305n 389n 434n MARCHETTI ZIONI V. 265n Marchetto A. 439s Marcotte E. 114n MARENGO M. 132 MARGIOTTA N. 122n Maritain J. 101-103 106s 145n 424n Marot H. 61n MÁRQUEZ TÓRIZ O. 345n Marrou H.-I. 33n 41 88 92-94 100n Martelet G. 231n 395s 415s Martimort A.G. 62 341n MARTIN P. 204n 219n 265 MARTÍNEZ GONZÁLES E. 119n 272n Martino I 225 MARTY F. 287n Masi R. 131 Massignon L. 91 MASSIMILIANI R. 277n Massimo Confessore 85 95n 205 337n 374n 437 Massimo di Torino 57n 143n MAURER J.C. 276s MAXIMOS IV SAÏGH 133 176-179 183s 189s 202n 207 212n 214n 274 297s 320 Maydieu J.A. 91 Mazza E. 340n MAZZIERI F.C. 293n Mazzolini S. 384n 403n MCCANN O. 276n McCool G.A. 109n 424n MCELENEY J. 253 255 321n MCGRATH M.G. 229 235 278n 280 324n MCKEEFRY P.T. 178n MCINTYRE J. 202n 204n Medina Estevez J. 324n Meer F. van der 64n 385n MELENDRO F. 217n 337 343 MÉNAGER J. 324s MEOUCHI P.P. 253 260n 265 325n Melitone di Sardi 145n 425n Melloni A. 16 23 116n 132n 135n 138-140 142 167n 186n 209n 211n 213n 215n 217n 234n 262n 271n 274n 295n 298n 301n 422n 427n 443n Mercati G. 30n 32s 80
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Indice dei nomi Mersch É. 52-54 131n 216 Metodio di Olimpo 225 329 425n Mettepenningen J. 97n 105n 110n MICARA C. 185n 188n 192 Midali M. 372n 374-376 379n 387n 397n MIGLIORINI B.L. 133 Migne J.-P. 407 445-447 Miller J.H. 365n Minucio Felice 145n Mitterer A. 56 Modesto di Gerusalemme 334n MODREGO Y CASAÚS G. 122 Moeller C. 236n 239 242 248n 316n 324n 331n 341n 375 377 389n 437n Möhler J.A. 7 23 25 41 45-47 49 51s 80 85n 433n Mohrmann C. 41 64n 385n Moingt J. 419n Molinari F. 145n Molinari P. 328s Monceaux P. 31n Mondésert C. 31n 41 43 82-84 86n 92s 95s 98 114 Monica 343n MONTÀ A.M. 345 347-349 Montagnes B. 31n Montanelli I. 201n Montcheuil Y. de 83 99 106 Montini G.B. v. Paolo VI Moran J. 387n 391n MORCILLO GONZALEZ C. 132n 202n 238 266s 289 325n MORETTI P. 134n MORILLEAU X. 154n Mouroux J. 98n 101n MULDOON T.W. 287n Müller A. 68 Napiwodzki P. 56n Naud A. 235 307 Nautin P. 41 Neri U. 269 Nestorio 424 Neufeld K.H. 39s Neunheuser B. 397n Newman J.H. 7 25 46 51 263 396 433n NEŽI D. 293 NGO-DINH-THUC P.M. 266n NGUYEN VAN BINH P. 254n
NGUYEN-VAN HIEN S.H. 205n 226n Niceforo di Costantinopoli 190 Niceta Stethatos 95n Nichols A. 66n Nicolas M.-J. 104n 109s Nicoletti E. 120 Nicolò I 227 Niebecker E. 63 NIEDHAMMER M.A. 123n NIERMAN P.A. 128 Nilo di Ancira 251s Nissiotis N.A. 380n Noceti S. 322n OLANO Y URTEAGA L.A. 219n OLAZAR MURUAGA G.E. 346 Olgiati F. 146 Olive L. 46n O’Malley J.W. 198s 201n 409n 421426 429s 433n 440-444 Orbe A. 41 44 435n Origene 33-35 40n 42s 45s 85 88 95 98 131 144s 173n 216n 219n 228 243-245 249-251 261 263n 269 272 281n 304 326 329 354 383n 432 Ormisda 248n Ottato di Milevi 66 189 247n 259 273 279 282 OTTAVIANI A. 106n 160 162 165 167169 181 183 185 201s 209 227n 229 232 236s 317n 355n 373n 384n 427 Otterbein A.J. 63 Ouince R. de 83 101n Pacomio 252n PADIN C. 291n Palanque J.-R. 85n PALATUCCI G.M. 133n Palladio 251n Paolo apostolo 127 216-218 227 251 268 270 283 290 312 337n 340 Paolo VI 12 16 22 106n 144-151 176 178 189 199n 212n 214n 240n 262 291 304 311 316 318 328 331 336n 338n 341n 355 384n 401 429n 441s 445-447 PARENTE P. 45n 80s 161 182 229 234 316 331n 377n 384n Parola A. 41n Pascasio Radberto 272 313n 341 345n
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Indice dei nomi Pasini G. 144-147 Pasquali G. 27 Passaglia C. 25 47 Pavan P. 160 PAWLOWSKI A. 271 297 PEARCE G.H. 286 Pégon J. 95n Péguy C. 36n 432 PEIRIS E. 276n Pelagio 315n Pellegrino M. 27-29 41 415s 446 PELLETIER G.L. 229 303n Pelz K. 52 PERANTONI P.LM. 228 345n 347n Peretto E. 372n PÉREZ PLATERO L. 119n PERRIN M. 177-179 Perrone G. 47 Perrone L. 27 364n 420n 429n 432n 448s Peruzzo G.B. 229 Petau D. 47 389n 407 Peterson E. 33n Petit J.-C. 72n 75-77 79n 96n 104n Pétré H. 95n Philipon M. 326n 331n 389n PHILIPPE P. 161 167 295 Philips G. 9 62 160s 163n 167s 194s 204n 217n 228n 235-239 242-247 301s 306s 321n 324 330-332 341n 349-351 355s 364s 369n 371-376 378 383-385 387-389 391 395-404 409n 419 422n 426n 432 Pier Damiani (Ps.) 335n Pietri C. 30n 365 372n 383n 387n 389-391 395-398 400n 402n Pietro apostolo 227 272s 280 282s 312 340 372n Pincherle A. 41 Pio IX 192n 224 348s 353 Pio X 23 176 189n Pio XI 33n 145 178 192 251n 308 Pio XII 54s 57n 80 104-106 111-113 127 137s 162 165n 171 183 189 192 217n 259 268 270 280n 308 328n 349n 431 Piolanti A. 117n 160s 168 329n PIRES J.M. 120 Pizzolato L.F. 146s 149n Platone 423 432 435 PLA Y DENIEL E. 133
Plumpe J.C. 68n Policarpo di Smirne 221n 277 279 282 323 368 373n POMA A. 301n 343n Pompili B. 136 Pontet M. 98n Portalié E. 146 Possidio 295 444 Poswick P. 140n Poswick R.-F. 140n Poulat E. 23 26 32n POURCHET M.J.A. 350n Prat F. 34n Prestige G.L. 28 Prignon A. 234n Primasio 272n 313n 340s PRONTI G. 347n PROU J. 224n 254n 278n 284n PROVENCHÈRES C. DE 212s 217n 222s 225n 296n 350n Pruche B. 85 95n Przywara E. 52 Puech A. 31n 88 Quacquarelli A. 46n 420n Quasten J. 40 QUINT E.G. 297 346 Rabano Mauro 315n RABBAN R. 214n 219 Rabeau G. 75-77 Rahner H. 39s 58s 61 65n 67 221n 335n 354n 390n Rahner K. 39s 63 113 161 201n 219n 231n 235s 316s 321n 323n 326n 331n 334n 343n 372n 376s 379n 391s 396n RAKOTOMALALA J. 177 Ranft J. 65n RASTOUIL R. 131n 288n Ratzinger J. 38 66s 199-201 212n 231n 235 261n 279n 316s 377-381 390 395 397n 412 416s 419 425n 428s 433-435 438 440s 448 (v. anche Benedetto XVI) Raymundus T.G. 129 Rea J.E. 63 REETZ B. 295 Regnon T. de 389n Reitzenstein R. 33n RENARD A. 276
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Indice dei nomi Rétif A. 131 Reuter A. 307 RIBERI A. 264 Riccardi A. 198n 229n Richard M. 41 RICHAUD P.M.A. 179 Riedmatten H. de 324n Rigaux B. 303n 311n 331n Riggi C. 143n Rimoldi A. 130n RITTER J.E. 215 RIVERA MEJÍA P.J. 134n ROBERTI F. 229n Roberto Bellarmino 216 275 Rodhain J. 322n RODRIGUEZ DIEZ I. 294n Romanato G. 145n Romeo A. 119n ROMOLI D.L. 303n Roncalli A.G. v. Giovanni XXIII Rondeau M.-J. 39n Rosenberg A. 39n Rosmini A. 25 46s Rosweyde H. 251n ROTA P. 134 Roüet de Journel M.J. 29s ROUGÉ P. 273n 275 280n 286 313n ROUSSEAU M.P. 213n Rousseau O. 92 112n 207n 283n 383n 408n Routhier G. 126n 204n ROY M. 126 229 322n 344n RUBIO L. 118 278n 284 295 RUFFINI E. 123 176n 191 263 266 269s 276 291 304n 306 RUGAMBWA L. 177 263 271 289 Ruggieri G. 200s 206s 209s 212n 219n 227n 235n 417n 439n Ruini C. 439s RUPP J. 280 312n RUSCH P. 280n 344n 347 Russo A. 96n 107n 261 SABA A. 129 SABOIA BANDEIRA DE MELLO C.E. 275n 284n 286 Salaverri J. 155 180s 189n 316s 331n Salaville S. 85 95n SANTOS R.J. 202n 229 298 307 329n 331 SAPELAK A. 347n
Sarpi P. 440 Sartre J.P. 117 Sauer H. 438n Sauras E. 307 SAUVAGE J.P. 273n 313n 336-338 SAVINO P. 255n SCALAIS F. 310n Schauf H. 168 176n 185 189s 231n 235s 248 302n 313n 316n Schäzler K. v. 52 Scheeben M. 25 47 52 Scheel O. 33n Schelkens K. 97n 105n 110n Schermann T. 27 SCHERER A.V. 229 322n SCHICK E. 211n 276 321n Schillebeeckx E. 201n Schmaus M. 33n 38 160 Schmemann A. 283n SCHMIDT W.L. 277n SCHNEIDER J. 313n Schrader C. 25 47 Scheffczyck L. 26n 29n 38s Schelling F.W.J. 45n Schleiermacher F. 45n SCHOISWOHL J. 130 SCHRÖFFER J. 164 196n 229 234 236n 316 324n SCHULTE P. 133n Schultenhover D.G. 409n SCHÜTTE J. 287n Schwartz E. 28 30n Scrima A. 380n 437s Sedulio Scoto 315n Seeberg R. 28 SEITZ P.-L. 255-261 270s 288 309s 321n Semeraro M. 247n 397n Semmelroth O. 68 235 346n 394s 397n 401n SENSI G. 215n ŠEPER F. 177 216s 219s 226 229 236n 269 294 309n 326n 343n SÉPINSKI A. 177s 184 191s 266n 291 309n 326n Serapione di Antiochia 272 SERRANO PASTOR J. 295n Seumois A.V. 63 Shofani S. 205n SILVA HENRIQUEZ R. 183 199n 202n 268n 288 344n 349s
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Indice dei nomi SILVA SANTIAGO A. 178n Silvestro I 225 Simonetti M. 26n 28n 31-35 41-44 91n Siniscalco P. 257n SIPOVIC C. 326n SIRI G. 178n 185n 187n 199-202 204 206 253 265 278s 281n 284n 416n 430n SMEDT E. DE 202 214 217n 413 Smulders P. 64n 203n 316n 322n 385n 389n SOCCHE B. 132 266 SOEGIJAPRANATA A. 212n Sofronio di Gerusalemme 333n Solages B. de 107n 110 Soos M. de 385n SORTAIS G. 225 SOUTO VIZOSO J. 284n Spallanzani C. 64n SPANEDDA F. 229 234 SPELLMAN F. 229n Stackemeier E. 125n Staffa D. 161 167 338 Stano G. 329n Stead C. 41 Stefano I 280 318 STEIN B. 326n Steinman J. 91 STELLA G. 214n Stella P. 26n Stickler A. 142 Stolz A. 37 Strotmann T. 246n 374n 383n 395n 400n Studer B. 435n SUENENS L.J. 177 229s 233 235s 238240 250 276n 325n 341s 353 Sugranyes de Franch R. 324n Suhard E. 79n SUHR I.T. 177s Swedenborg E. 90 Swete H.B. 28 TABERA ARAOZ A. 119n 123 255 259n 292n 297n 319n 321n 363n Tagle L.A.G. 341n 355n Tardini D. 116 161 Tascon T. 326n TAWIL J. 292 Teilhard de Chardin P. 101 117
TEMIÑO SAIZ A. 268 Teodoreto di Cirro 249n 252n 312n 315n 375n Teodoro di Mopsuestia 316n 375n Teodoro Studita 225 Tertulliano 64n 66 127 144s 189 193 245-247 249n 259 272-274 281-284 313 318n 323n 333n 338 343n 368s 372s 383n 425n Teuffenbach A. v. 160n Thils G. 62 233n 235 239 243 248n 316s 326n 396n Theobald C. 415n 427n 440n 444 Thomassin L. 47 389n 407 Tillard J.M.-R. 378n TINIVELLA F.S. 222 TISSERANT E. 114 Tixeront J. 29 31 Tommaso d’Aquino 7 37 54 56s 73 79n 97 101s 104-106 108 117s 120 126s 130 133 188 191s 227 239 244s 248-251 261 265 272 275 289n 291293 295 306 315 326 328s 342n 368 383 394 408n 423 432 Toniolo E. 180n Tourneaux A. 248n 276n 321n 397n TOUTOUNGY A. 218n Trapè A. 160 322n 343n 416n TREVOR PICACHY L. 291n Triacca A. 363s 414n 424n 442n Troisfontaines C. 316n 338n Tromp S. 11 16 54-57 60 155 160-165 167-171 173-175 182 185-190 194 204n 215s 219 229 231-233 236s 248 269s 313n 331n 335n 343n 354356 389s 431 TSCHUDY R. 344-346 Tshibangu T. 72n 96n Tucci R. 324n Turmel J. 31 Turrado L. 311n Turner G.H. 28 Tyciak J. 50 Tyrrell G. 45 73n 304n URBANI G. 229-231 URIBE JARAMILLO A. 288n URTASUN J. 275 Vaccari A. 162 Vagaggini C. 118s 418n
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Indice dei nomi VAGNOZZI E. 199n VAIRO G. 216s 244n Valeske U. 56 Vasquez J. 324n Vaudagnotti A. 119n Velati M. 137n Verardo E. 161 Verardo R. 326n Verschooten W. 204n 301s VERWIMP A. 177 Vian G.M. 26-28 31s 35n 43n Vian P. 30n Vilanova E. 27s 311n 316n 326n 328n Villette L. 128n Vincenzo di Lérins 173 249n Vischer L. 206 Visser’t Hooft W.A. 206 Vitali D. 396n Vittore I 317 Vives J. 26n 34n Vogt E. 161 VOLK H. 265 280n 288n 316 328n Vona C. 134 Vonier A. 37 Vorgrimler H. 63 323n VUCCINO A.G. 264 282n 291s Wagner H. 45n Waszink J.H. 41 Wayenbergh H. van 80 WEBER J.J. 123 126 129 195 287n 347n Weigl E. 52
WELYKYJ A.G. 254n Wenger A. 142n Werbick J. 59n Weyman C. 27 WILLEBRANDS J. 344n Witte J.L. 168 307 385n Wittstadt K. 124n WOJTYLA K. 273s 313n (v. Giovanni Paolo II) WOLFF J. 267n Wood S.K. 97n WRIGHT J.J. 229 324n Wulf F. 399n Xiberta B. YAGO B.
anche
311n 177
Zahn T. 28 ZAK F. 280n ZANINI L. 280n ZAZINOVIC C. 280n 282s ZAZPE V. 344n 349n ZIADÉ I. 287 Zimara F. 56 Ziviani G. 44n 48s 54n 56n 287n 389n 404n 434n ZOA J.B. 204n ZOGHBY E. 207n 263 280n 283 320 ZUCCARINO P. 128 Zulli G. 329n ZUYLEN G. VAN 288n
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Indice generale
INTRODUZIONE ..............................................................................
»
9
ABBREVIAZIONI ..............................................................................
»
15
PARTE I DALL’APOLOGETICA AL RINNOVAMENTO TEOLOGICO: LO STUDIO DEI PADRI NELLA PRIMA METÀ DEL NOVECENTO
1. GLI
STUDI PATRISTICI E L’ECCLESIOLOGIA
NELLA PRIMA METÀ DEL
NOVECENTO
1. SGUARDO D’INSIEME: GLI STUDI PATRISTICI FINO AGLI ANNI ’40.. a. I Padri dalla teologia alla ricerca scientifica .................. b. I grandi strumenti dell’erudizione patristica .................. c. La patrologia in ambito cattolico...................................... d. Nomi significativi ..............................................................
» » » » »
25 25 28 30 33
2. UN NUOVO SLANCIO: DAGLI ANNI ’40 AL VATICANO II .............. a. Prospettive nuove: il ressourcement ................................ b. Convergenze multidisciplinari ........................................ c. Internazionalità e slancio ecumenico .............................. d. Nuovi orizzonti di ricerca ................................................
» » » » »
34 34 37 40 42
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Indice generale
3. VERSO L’ECCLESIOLOGIA DEL «CORPO MISTICO» ...................... a. I precursori del XIX secolo .............................................. b. Ritorno alle fonti ed ecclesiologia .................................. c. Ecclesiologia del «Corpo mistico» e Padri ......................
» » » »
44 44 48 51
» » » » »
58 58 60 64 67
1. IL «RITORNO ALLE FONTI»: CHENU E LE SAULCHOIR.................. a. Il progetto teologico del Saulchoir .................................. b. Attorno al Saulchoir: Rabeau, Charlier, Draguet .......... c. Dalle discussioni alle condanne romane ........................
» » » »
72 72 75 78
2. LA COLLEZIONE «SOURCES CHRÉTIENNES» ................................ a. Alle origini del progetto: V. Fontoynont .......................... b. La ripresa del progetto: de Lubac – Daniélou ................ c. Le dichiarazioni di intenti ................................................ d. Primi successi, reazioni, problemi....................................
» » » » »
81 82 84 87 92
3. IL DIBATTITO SULLA «NOUVELLE THÉOLOGIE» ............................ a. L’affiorare del disagio........................................................ b. L’offensiva di Daniélou .................................................... c. Reazioni degli ambienti tomisti ........................................ d. Un dialogo difficile............................................................ e. Verso l’Humani generis ....................................................
» 96 » 96 » 98 » 101 » 104 » 109
4. NUOVE
PROSPETTIVE DI RICERCA: DAL SECONDO DOPOGUERRA AL CONCILIO..................................
a. Le ricchezze inesplorate dei Padri .................................. b. La Chiesa e le sue istituzioni .......................................... c. L’ampliamento delle categorie ecclesiologiche .............. d. La Chiesa e Maria ............................................................
2. IL
RITORNO ALLE FONTI: UN TEMA CONTROVERSO
3. I PADRI I. I PADRI 1. LO
NEL CAMMINO VERSO IL CONCILIO
NEI VOTA DELLA FASE ANTEPREPARATORIA
......
» 116
2. IL LINGUAGGIO DA ADOTTARE NEL CONCILIO ............................ a. I Padri: quale autorità?...................................................... b. I Padri, fonte di un nuovo linguaggio per la Chiesa ......
» 122 » 122 » 124
3. LE QUESTIONI ECCLESIOLOGICHE .............................................. a. Per una nuova impostazione dell’ecclesiologia .............. b. Le questioni istituzionali ..................................................
» 127 » 127 » 128
4. I PADRI
» 132
STATUTO DELLA VERITÀ CRISTIANA NELLA
E LA FORMAZIONE DEL CLERO
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CHIESA
OGGI
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Indice generale
II. SUGLI
ORIENTAMENTI PATRISTICI DI
GIOVANNI XXIII
E
PAOLO VI
1. GIOVANNI XXIII: UN PATROLOGO SULLA CATTEDRA DI PIETRO? a. L’antico docente di patrologia .......................................... b. I Padri nell’itinerario teologico e spirituale di Roncalli.. c. Verso il concilio..................................................................
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135 135 138 140
2. GIOVANNI BATTISTA MONTINI, I PADRI E IL MYSTERIUM ECCLESIAE a. Montini fra Agostino e Ambrogio .................................... b. Nel contesto del concilio ..................................................
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PARTE II I PADRI DELLA CHIESA NEL DIBATTITO CONCILIARE SUL DE ECCLESIA
4. IL
DE ECCLESIA: LO SCHEMA PREPARATORIO E IL DIBATTITO NELLA COMMISSIONE CENTRALE PREPARATORIA
1. GLI
ORIENTAMENTI DELLA COMMISSIONE TEOLOGICA PREPARATORIA........................
a. La composizione della TE ................................................ b. La TE di fronte alla questione delle fonti........................
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2. IL DE ECCLESIA DELLA TE E LE SUE FONTI DI RIFERIMENTO ........ a. L’elaborazione del de Ecclesia ........................................ b. L’utilizzazione delle fonti..................................................
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3. IL DIBATTITO NELLA COMMISSIONE CENTRALE PREPARATORIA .... a. La discussione sui primi due capitoli .............................. b. Le questioni relative all’episcopato ................................ c. L’elaborazione del de Beata Virgine ................................
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4. L’ULTIMA DISCUSSIONE DELLA FASE PREPARATORIA .................... a. La sottocommissione per gli emendamenti .................... b. La rivendicazione di competenza della TE .................... c. L’esame degli emendamenti ............................................
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5. BILANCIO ..................................................................................
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5. IL
DE ECCLESIA AL CONCILIO: IL DIBATTITO NEL PRIMO PERIODO
1. PRELIMINARE: I DIBATTITI DI OTTOBRE-NOVEMBRE 1962 ............ a. Una «musica nuova»? Lo schema liturgico .................... b. Ritorno al passato? Il de fontibus revelationis ................ c. Teologie diverse a confronto ............................................ d. I Padri, patrimonio di tutta la Chiesa ..............................
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a. Il de Ecclesia arriva in aula .............................................. b. Il dibattito: l’uso delle fonti nel de Ecclesia .................... c. Superare i limiti della Mystici corporis............................
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3. ALCUNE QUESTIONI SPECIFICHE ................................................ a. Appartenenza alla Chiesa ................................................ b. Gerarchia ed episcopato .................................................. c. Germi patristici per la futura revisione............................ d. La questione mariana ......................................................
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4. LA RIELABORAZIONE DELLO SCHEMA DE ECCLESIA .................... a. La Commissione di coordinamento.................................. b. Le opzioni: schema rivisto o schema nuovo? .................. c. L’adozione dello «schema Philips» .................................. d. La redazione del nuovo testo ..........................................
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228 228 231 234 237
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242 242 243 246 248 250
2. IL
DE ECCLESIA: GLI ORIENTAMENTI FONDAMENTALI DEL PRIMO DIBATTITO ................................................................
6. «CHIESA,
CHE DICI DI TE STESSA?» L’ELABORAZIONE DEL DE ECCLESIA NEL SECONDO PERIODO
1. IL NUOVO SCHEMA DE ECCLESIA E LE SUE FONTI DI RIFERIMENTO a. L’annotazione del nuovo schema .................................... b. Le fonti del capitolo I ........................................................ c. Il richiamo ai Padri nel capitolo sull’episcopato ............ d. Il capitolo sui laici ............................................................ e. Integrazione patristica del IV capitolo ............................ 2. LE
REAZIONI ALLO SCHEMA ALLA VIGILIA DEL SECONDO PERIODO CONCILIARE ......................
a. Luci e ombre nelle prime reazioni .................................. b. Conflitti interpretativi intorno alla questione della collegialità .......................... c. Incertezze e delusioni sui capitoli III-IV .......................... DIBATTITO ECCLESIOLOGICO DEL SECONDO PERIODO: IL MISTERO DELLA CHIESA ........................................................
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3. IL
3.1. Il dibattito sullo schema in genere................................
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3.2. Il primo capitolo.............................................................. a. Ecclesiologia misterico-eucaristica .............................. b. L’orizzonte della oikonomia trinitaria .......................... c. La Chiesa «corpo di Cristo» e le altre immagini ........ d. La Chiesa e i suoi membri............................................
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4. LA STRUTTURA GERARCHICA DELLA CHIESA .............................. 4.1. Successione apostolica .................................................. a. Chiesa fondata sugli apostoli .................................. b. I vescovi, successori degli apostoli .......................... 4.2. Sacramentalità dell’episcopato .................................... a. La sacramentalità dell’episcopato e le sue conseguenze ................................................ b. Presbiteri e diaconi .................................................. 4.3. Collegialità e primato.................................................... a. Il ricorso alla tradizione: un problema di metodo .. b. I Padri a sostegno della collegialità ........................ c. Le obiezioni contro l’argomento patristico .............. 4.4. Il resto del capitolo ........................................................
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5. IL DIBATTITO SUL CAPITOLO III: POPOLO DI DIO E LAICI .............. a. Verso un capitolo sul «popolo di Dio» ............................ b. «Laici» o «cristiani»? ........................................................
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6. IL CAPITOLO IV: LA CHIAMATA ALLA SANTITÀ NELLA CHIESA .... a. Rinnovamento della Chiesa o arcaismo? ........................ b. Le diverse forme dell’unica santità.................................. c. «Stato di perfezione»? ......................................................
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7. LA QUESTIONE MARIANA .......................................................... a. Il primo schema mariologico e le sue fonti .................... b. Maria e la Chiesa: l’unificazione dei due schemi ..........
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7. VERSO
LA LUMEN GENTIUM: L’ELABORAZIONE DEFINITIVA DEL DE ECCLESIA
1. LA REVISIONE DELLO SCHEMA IN CD ........................................ 1.1. Il primo capitolo ............................................................ a. Mysterium/sacramentum .......................................... b. Revisione dei nn. 2-4 ................................................ c. Revisione dei nn. 5-8 ................................................ 1.2. Il nuovo capitolo II: il popolo di Dio ............................ a. Il popolo di Dio nel disegno salvifico ...................... b. Cattolicità del popolo di Dio .................................... 1.3. Il capitolo III: gerarchia ed episcopato ........................ a. Il proemio del capitolo .............................................. b. I Dodici e i loro successori ........................................ c. Il testo sulla collegialità ............................................
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d. I munera dei vescovi e il loro esercizio .................. e. Presbiteri e diaconi.................................................... 1.4. I capitoli IV e V.............................................................. a. La revisione del capitolo sui laici ............................ b. Vocazione universale alla santità e «stati di perfezione» ..............................................
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2. L’INSERIMENTO DEI CAPITOLI VII E VIII .................................... 2.1. Il capitolo VII ................................................................ 2.2. Il de Beata Virgine ........................................................ a. L’elaborazione di un nuovo testo de Beata Virgine b. I rimandi ai Padri nel nuovo testo............................
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3. REAZIONI E DISCUSSIONI SUI NUOVI SCHEMI .............................. 3.1. Gli interventi nell’intersessione sui capitoli I e III ...... a. Osservazioni sul nuovo testo del capitolo I ............ b. Contestazioni alla dottrina della collegialità .......... 3.2. Il dibattito conciliare del settembre 1964 .................... a. Il dibattito sul capitolo VII ........................................ b. La discussione sul capitolo VIII: le fonti.................. c. La discussione sul capitolo VIII: i contenuti ............ d. Temi mariologici particolari......................................
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4. LE
VOTAZIONI, GLI EMENDAMENTI E L’APPROVAZIONE DEL DE ECCLESIA ..........................................
a. Il piano per le votazioni .................................................... b. Votazioni ed emendamenti al de Ecclesia ...................... c. Votazioni e modi al capitolo III ........................................
PARTE III IL VATICANO II E LA CHIESA DEI PADRI: ELEMENTI PER UN BILANCIO
COME
8. LA LUMEN GENTIUM ESPRESSIONE DI UN’ECCLESIOLOGIA
PATRISTICA
1. I PADRI
DELLA CHIESA NELLA LUMEN GENTIUM: CASO O PROGETTO? ..................................................................
2. «VOX SANCTORUM PATRUM» .................................................... 2.1. Un linguaggio fluido .................................................... 2.2. La vox Patrum nel capitolo III della Lumen gentium a. Un punto di concentrazione: LG 20-22 .................. b. «Teste traditione»: successione apostolica (LG 20) c. «Vox Patrum»: sacramentalità dell’episcopato (LG 21)....................
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d. «Perantiqua disciplina»: collegialità (LG 22) .......... e. Elementi per un bilancio ..........................................
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3. CONTENUTI E STRATEGIE DEI TEMI PATRISTICI NEL CAPITOLO I .. 3.1. Mysterium Ecclesiæ ...................................................... a. Il mysterium come punto prospettico di LG .......... b. Un termine-ponte: «sacramentum» ........................ 3.2. La Chiesa nell’oikonomia trinitaria.............................. a. La Ecclesia universalis .............................................. b. «Ecclesia de Trinitate».............................................. 3.3. I Padri: dottrine «dimenticate»? .................................. a. I Padri «sottintesi» .................................................... b. I Padri «dimenticati»? ..............................................
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4. LA LG E I PADRI DELLA CHIESA: SGUARDO D’INSIEME .............. a. Funzioni dell’insegnamento patristico ............................ b. Prospettive dominanti ...................................................... c. Integrazioni dottrinali........................................................ d. La portata persuasiva della dottrina patristica .............. e. Utilizzazioni occasionali del riferimento ai Padri .......... f. Dottrine patristiche trascurate ..........................................
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9. I
CARATTERI PATRISTICI DEL CONCILIO PROSPETTIVE E LIMITI
VATICANO II:
1. SGUARDO RETROSPETTIVO ........................................................ a. Le evidenze testuali alla luce della genesi del de Ecclesia .................................. b. La «coscienza patristica» dei padri conciliari ................
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2. «PATRUM EXEMPLA»: L’IMITAZIONE CONCILIARE DEI PADRI ........ a. Alla scuola della Scrittura e della liturgia ...................... b. Uno sforzo di integrazione ..............................................
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PATRISTICUS LOQUENDI»: RETORICA PATRISTICA E RETORICA CONCILIARE
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3. «MODUS
.......................... a. Un cambiamento stilistico ................................................ b. «Stile» patristico e finalità «pastorale» del concilio ......
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4. «REDITUS AD FONTES»: IL RESSOURCEMENT CONCILIARE ............ a. Ritorno alle fonti: «destruere» e «aedificare» ................ b. Ressourcement e aggiornamento .................................... c. Sui limiti del ressourcement conciliare............................
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5. I PADRI AL VATICANO II E LA QUESTIONE ERMENEUTICA ............ a. Un problema dibattuto...................................................... b. Il ricorso ai Padri come possibile orientamento..............
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CONCLUSIONI ................................................................................
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APPENDICI .................................................................................... I. Indice delle citazioni patristiche nella Lumen gentium.. II. Rilievi statistici .................................................................. III. Tavola di concordanza delle note di LG ........................
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BIBLIOGRAFIA ................................................................................ I. Bibliografia storica ............................................................ II. Bibliografia generale ........................................................
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INDICE
TEMATICO
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INDICE
DEI NOMI ............................................................................
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530
451 453 459 463