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Italian Pages 224 Year 2006
Vito Salierno
I musulmani in Italia Documento acquistato da () il 2023/05/19.
(Secoli IX-XIX)
Capone Editore
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Vito Salierno
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Introduzione
I musulmani in Italia
Delle tante presenze straniere in Italia, che spesso a torto si è detto abbiano avuto influenze durevoli sulla vita e sulla cultura italiana, quella musulmana è stata a lungo operante nell’evoluzione storica dell’Europa in genere e dell’Italia in particolare. Non si vuole certo qui affermare che sia stata preponderante e decisiva; si vuole solo fare un excursus storico e culturale, scevro da quei pregiudizi, da quelle irragionevoli avversioni e paure istintive che hanno per lungo tempo caratterizzato la posizione dell’Europa nei confronti dell’Islam e che hanno volutamente minimizzato o negato l’esistenza di una realtà considerata pericolosa non sotto l’aspetto di una conquista militare ma sotto l’aspetto di un sovvertimento del modo di pensare tradizionale verso una religione considerata come nata inizialmente dalla stessa radice del Cristianesimo e divenuta ben presto una temibile concorrente. Non si dimentichi che nel VI secolo d. C. il Cristianesimo era molto diffuso nel Yemen e in Siria nella corrente monofisita, cioè quell’eresia che crede essere in Cristo una sola natura, e nella Babilonide nella corrente nestoriana, cioè quella setta che crede essere in Cristo due nature, l’umana e la divina, sì unite in una sola persona ma tale da far pensare in realtà a due persone distinte: inoltre il Sinai e la regione del Mar Morto erano pieni di conventi cristiani. Nessuna meraviglia quindi se il Cristianesimo era penetrato tra le genti arabe. Per quanto riguarda il Higiaz, la regione dove è sorto l’Islam, va detto che ci vivevano sia elementi cristiani che ebrei: le loro idee monoteistiche ebbero certamente un’influenza, anche se nella fede di Maometto l’elemento nazionale arabo ebbe un valore preponderante.1 Senza entrare nei dettagli di quella che fu l’attività di Maometto sino alla nascita di un iniziale Stato medinese amministrato da Muhammad, l’Inviato di Allah, va rilevato che a Medina, dove Maometto ed i suoi si trasferirono nel 622 d.C. (anno 1 dell’Égira o higrah, ossia emigrazione, 16 luglio corrispondente al 1° del mese di muharram) e dove l’Islam divenne Stato, esisteva già da tempo una comunità ebraica che viveva in pieno accordo con i due nuclei arabi degli Aws e dei Khazrag. L’arrivo di Maometto fu accettato da tutti sul piano politico poiché il futuro Profeta era visto come l’ago della bilancia della situazione: venendo da fuori, dalla Mecca, un luogo di interessi economici, punto di incontro delle vie carovaniere, Maometto era riuscito a pacificare quella città-oasi che non chiedeva 3
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di meglio che avere un periodo di pace dopo gli scontri e le rivalità interne degli anni precedenti; inoltre c’era, almeno all’inizio, una consapevolezza dell’identità sostanziale del credo dell’Islam con quello dell’Ebraismo e del Cristianesimo – dal punto di vista formale le tre religioni monoteistiche guardavano a Gerusalemme come luogo di nascita. Ricordiamo a supporto due versetti del Corano tra i tanti al riguardo: Noi crediamo in Dio, in ciò ch’è stato rivelato a noi, e in ciò che fu rivelato ad Abramo, a Ismaele, a Isacco, a Giacobbe, e alle Dodici Tribù, e in ciò che fu dato a Mosè e a Gesù, e ai profeti dal Signore; non facciamo differenza alcuna fra loro e a Lui tutti ci diamo! (II, 136). Non disputate con la Gente del Libro altro che nel modo migliore, eccetto quelli di loro che sono iniqui, e dite: “Noi crediamo in quel che è stato rivelato a noi e in quel che è stato rivelato a voi e il nostro e il vostro dio non sono che un Dio solo, e a Lui noi tutti ci diamo!” (XXIX, 46).
Gli scontri con la Gente del Libro, ebrei e cristiani, avvennero in seguito sul piano dottrinale. Sessant’anni fa, e precisamente nel 1946, uno storico, Emilio Bussi, concludeva un suo breve saggio “I Musulmani e l’Italia” con queste parole:
Più stabile delle altre signorie straniere in Italia e assai più durevole nella moltitudine delle conseguenze cui essa, colla sua esistenza, ha dato vita, quella musulmana merita una completa rivalutazione nei confronti del corso generale della nostra storia, mentre l’influenza dell’elemento musulmano in genere, come elemento culturale e fattore civile, va ricordata come lungamente presente ed operante nella evoluzione storica dell’Europa in genere e dell’Italia in specie. Basti pensare al fatto - tanto per fermarci alle manifestazioni più evidenti e materiali - che furono proprio i Musulmani a far conoscere e diffondere in Italia, come del resto nella rozza Europa, durante i secoli dell’evo di mezzo, i beni proprii di un elevato tenor di vita e di una fine e raffinata civiltà; talune specie di tessuti, come i broccati d’Almeria, la carta, i cuoi lavorati, talune speciali lavorazioni di metalli; oltre all’industria vetraria di cui sono preclari esempi non pochi preziosi calici che ancor oggi fan parte dei tesori delle Chiese di Occidente. Perfino nella lingua, questo patrimonio così prezioso per ogni popolo, perché è il segno che attribuisce il carattere di ben definito e distinto gruppo etnico, gli Arabi hanno lasciato vestigia di notevole entità tanto che se si volesse fare un lessico dei vocaboli che l’arabo, cioè la lingua sacra dei musulmani, ci ha lasciato, ci stupiremmo davvero della sua ricchezza.2
Ad esclusione della Sicilia dove il dominio musulmano durò per 4
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I musulmani in Italia
due secoli e mezzo, tutta l’Italia, in particolare quella meridionale, era nel IX secolo una terra instabile e insicura, teatro di battaglia per Bizantini, Longobardi, Slavi, Ungheri, Saraceni, intenti solo a predare e ad assalire senza alcuna idea di un governo permanente. All’inizio del IX secolo sembrava che l’Europa carolingia avesse raggiunto un’unità politica grazie all’appoggio del papato che a sua volta si sforzava di ampliare il territorio di San Pietro e di controllare le ricche abbazie benedettine di Montecassino e di San Giovanni al Volturno. L’alleanza tra Papato e Impero in funzione antibizantina era la naturale conseguenza della situazione politica del tempo: l’intento era quello di eliminare la presenza di Bisanzio nella penisola e di contenere la crescente pressione araba. Dal canto suo l’impero bizantino aveva concentrato tutte le sue speranze nella Sicilia; nella primavera del 663 Costante II, primo basileus a venire in Italia, anziché dare inizio ad una campagna militare anti-longobarda insieme all’esarca di Ravenna, si stabilì a Siracusa dove morì assassinato nel 668. Anche se pare accertato che l’imperatore non volesse allora trasferire la capitale dell’esarcato a Siracusa, si può dire che, trascurando la campagna al nord dell’Italia, il basileus avesse in mente un progressivo sganciamento dalla penisola per concentrarsi sulla Sicilia, che era allora la provincia più ricca dell’Italia e riforniva di grano non solo tutta la penisola ma forse anche altre zone dell’impero; inoltre si presume che le tasse pagate sui latifondi siculi rappresentassero le entrate fiscali più cospicue dell’Occidente bizantino. Dopo la perdita dell’esarcato d’Africa alla fine del VII secolo, Bisanzio cercò di portare la Sicilia ad un posizione amministrativa pari alla sua importanza politica elevandola a “thema” con l’attuale Calabria alla sua dipendenza; poi, con la conquista di Ravenna da parte di Astolfo nel 751 e il successivo intervento di Pipino nel 756, cui fece seguito la donazione al papato delle città dell’ex esarcato, fu giocoforza per Bisanzio concentrarsi sulla Sicilia. Lo stratega di Sicilia era ormai l’unico collegamento con la capitale dell’impero e l’unico baluardo alla minaccia araba. ***
Lo sbarco degli Arabo-Berberi in Sicilia pose per la prima volta la Cristianità di fronte all’Islam: fino a quando l’Islam si era fermato alle coste del Mediterraneo e alla penisola iberica l’Italia e il Mediterraneo 5
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erano ancora un dominio esclusivo della Cristianità. Giunti i primi conquistatori sull’isola i rapporti tra Cristianità e Islam subirono un mutamento: le due fedi si trovarono a convivere sullo stesso suolo e furono costrette a dialogare per necessità anche se le due comunità specifiche, quella latino-bizantina e quella musulmana, convissero ma separate, ognuna con le proprie leggi e le proprie usanze, pur vivendo la stessa vita, gli stessi problemi quotidiani - e qui pensiamo alla maggior parte della popolazione, cristiana, ebrea, musulmana, che dopo ogni scontro doveva riaffrontare situazioni e modi di vita comuni. La massa popolare si adattò come sempre sfruttando le possibilità del momento e cogliendo le opportunità che si presentavano di volta in volta: i miglioramenti nell’agricoltura e l’aumentato volume di commercio crearono le basi per una convivenza più o mena pacifica e per una collaborazione sul piano sociale e amministrativo. I primi contatti con la cultura araba avvennero in Sicilia nel IX secolo e si mantennero fino al periodo normanno, anche se si trattò del tipico scambio che si verifica nell’entente più o meno cordiale tra due popolazioni e due culture costrette a convivere sullo stesso territorio. Sempre a partire dal IX secolo ebbero inizio gli insediamenti saraceni più o meno stabili nell’Italia meridionale e gli scambi commerciali tra arabi dell’Ifriqiyyah e/o saraceni siciliani e le repubbliche marinare. Le due civiltà, l’araba e la bizantina, pur conflittuali in tutto anche se unite da un comune monoteismo religioso, dopo un arroventato scontro iniziale si adattarono alla situazione di una convivenza forzata ma non sempre di guerra: in Sicilia, in particolare, gli esponenti delle due etnie, costretti dalle necessità di carattere politico ed economico, seppero aprirsi ad un tentativo di intesa e di collaborazione. La Sicilia, centro vitale di traffici politici e commerciali nel Mediterraneo e nel Tirreno, visse in un clima di compromesso in cui uomini dell’una e dell’altra civiltà e religione operarono in modo da volgere a proprio vantaggio quella contesa che durò per vari secoli e si svolse in tutto l’arco di tempo in cui l’isola fu dominata politicamente e culturalmente non solo dagli Arabi ma anche dai Normanni fino addirittura alla morte di Federico II di Svevia. Si trattò, grosso modo, di quattro secoli che videro il graduale insediamento arabo, la presenza saracena nelle contese e faide longobarde sulla terraferma, la lotta tra Arabi e Berberi per il predominio nell’isola, le tendenze autonomiste nel periodo di intervallo tra regime aghlabita e regime kalbita, lo scontro di potere a Palermo per tutto il X secolo per conse6
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guire di tempo in tempo una sempre maggiore autonomia dai Fatimidi (910-947). E ciò senza parlare della continua diaspora dall’Ifriqiyyah alla Sicilia e viceversa, talora in un senso talora nell’altro, in particolare quando la lotta si svolse all’interno della comunità musulmana fra sunniti e sciiti: ai richiami di Abu ‘Abdallah detto il Mahdi, che dichiarava i musulmani di Sicilia “più meritevoli dei favori che Allah ha generosamente elargito ai correligionari d’Ifriqiyyah in quanto vivono a contatto con i politeisti e si trovano impegnati nel gihad contro i miscredenti”3 fecero eco mezzo secolo dopo i versi di Ibn Hamdis,4 il poeta arabo-siculo, che se ne andò in volontario esilio nella Spagna musulmana all’arrivo di Roberto il Guiscardo: Essa è terra di lotte, frontiera della guerra sacra, campo de’ corridori, asilo de’ proscritti. Tal che contrappone audaci ad audaci, nobili a nobili, leoni a leoni. Prosperità a chi vive di loro, riposo eterno agli spiriti de’ lor trapassati (LXXV, 28-30).
È vero che con la dinastia semi-indipendente dei Kalbiti, chiamata l’età dell’oro dell’Islam siciliano, e la conseguente stabilità politica si elevò il tenore di vita in tutta l’isola e si ebbe una fioritura delle arti e delle lettere; ma è anche vero che si abbassò la guardia nei confronti del gihad, preferendo gli agi e le mollezze al rigore della guerra santa e aprendo la strada agli intrighi e alle fazioni locali. Palermo in particolare, la città che unica si ebbe il titolo di “sorella di Medina”, mantenne un suo ruolo nella cultura siculo-maghrebina: piccolo borgo prima dell’arrivo dei musulmani, la città divenne tale con la sua espansione verso il mare con la cittadella fortificata dell’alKhalisah, con lo sviluppo del vecchio nucleo dell’Harat al-Masgid e con la creazione del nuovo quartiere dell’Harat al-Giadidah. L’Islam siciliano aveva sempre guardato all’Ifriqiyyah sia sul piano giuridico che letterario. Nessun cedimento era permesso: gli uomini di legge vigilavano affinché l’ortodossia fosse rispettata. Con tutto ciò si svilupparono, seppur timidamente, verso la fine della dominazione musulmana, quelle discipline non in stretta linea con la tradizione quali la filologia, la grammatica, la lessicografia. Non molti ma significativi i nomi: il filologo Ibn al-Birr as-Siqilli, attivo a Mazara e a Palermo, frequentatore più di osterie che di scuole, per la qual cosa fu espulso da Mazara dal qa'id Ibn Mankud, e il suo allievo Ibn al-Qatta, 7
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anch’egli siciliano, autore di un’antologia di poeti andata perduta ma rimastaci parzialmente in altre compilazioni; l’arabo-siculo Ibn alFahham, autore di due trattati sul Corano - morì al Cairo cadendo dalla terrazza della moschea di Amr dove si era ritirato a vita ascetica; il mazarese Ibn Makki, che si dedicò ad emendare la lingua araba dalle improprietà lessicali e dalle deformazioni fonetiche - emigrò in Ifriqiyyah dopo le vittorie dei Normanni e fu qadi a Tunisi; e infine il poligrafo Ibn Zafar, nato in Sicilia nel 1104, un Machiavelli ante litteram, fattoci conoscere da Michele Amari nella sua traduzione ottocentesca sotto il titolo di Solwan el Mota' ossiano conforti politici: servendosi di apologhi presi dalla letteratura araba e derivati da quella indo-persiana, l’autore si propose di erudire, moralizzare ed esortare il governante nel suo compito non facile ma di particolare importanza. E questo senza parlare della poesia, la più tipica espressione letteraria araba, che visse un momento felice più per qualità che per quantità: lo testimoniano i due Canzonieri di Ibn Hamdis e di al-Ballanubi, e ciò che ci rimane dell’antologia di Ibn al-Qatta, un’opera imponente comprendente, secondo fonti bio-bibliografiche, centosettanta poeti per complessivi ventimila versi. Tranne queste eccezioni, e non sempre, la poesia arabo-sicula fu più tradizionalista nei temi e più vicina a quella del Maghreb che non innovatrice com’era quella della vicina Andalus: non vi hanno trovato posto adeguato le manifestazioni della natura, l’uno o l’altro aspetto della società siciliana plurilingue e interconfessionale, gli eventi militari e politici conseguenti alla presenza dell’Islam nell’isola e sul continente, per cui alla produzione poetica arabo-sicula non potranno certo tornare appropriate le considerazioni del filologo Ibn Qutayba (m.889), che ritenne la poesia, ma con riferimento ai suoi più antichi e genuini frutti, “la miniera della scienza degli Arabi, il libro della loro saggezza, l’archivio della loro storia, il tabulario delle loro giornate campali, il baluardo elevato a difesa delle loro memorie”.5 L’amore degli Arabi per la poesia fu forse ulteriormente sviluppato dalle assonanze della prosa del Corano nella recitazione quotidiana mnemonica sin dall’infanzia: tutto ciò malgrado la lunga surah XXVI, detta la “sura dei poeti”, sembra formulare una inequivocabile condanna dei poeti, corretta nel versetto finale che fu probabilmente aggiunto più tardi quando l’Islam ebbe i suoi poeti in polemica con i pagani. 8
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E i poeti tuoi, che i traviati seguono, non vedi come vagolano per ogni vallata e dicono quel che non fanno? Eccetto coloro che credono ed operano il bene, e molto menzionano Dio e si difendono, coll’aiuto divino, quando sono ingiustamente oppressi: ma gli oppressori sapranno quale sorta li attenda! (224-227).
Da ricordare che la poesia araba classica, cioè quella preislamica, considerava il poeta un essere ispirato in maniera soprannaturale: forse le formule stereotipate di quella poesia incentrata sull’amata che parte e sull’amante che folle d’amore vaga per valli e deserti alla ricerca di lei avevano infuso nel Profeta Muhammad, poeta anch’egli e di ben altra statura, ma poeta nuovo, un’impressione di fatuità e vanità, quella fatuità e vacuità contro cui egli ripetutamente si scaglia nel Corano.6 L’Islam siciliano si era inconsapevolmente avviato sulla via del tramonto: il colpo definitivo fu l’inverso del preludio. Nel IX secolo gli Arabi erano giunti sull’isola al richiamo del bizantino Eufemio che sperava di servirsi di loro per la sua ascesa; nell’XI secolo se ne andavano alla richiesta di aiuto ai Normanni da parte del qa'id Ibn athThumna di Siracusa che sperava di vendicarsi del suo rivale Ibn alHawwas di Castrogiovanni e di mantenere al tempo stesso immutato, se non aumentato, il suo potere. Con gli Altavilla si assiste al superamento, in nome della scienza, di ogni irrigidimento confessionale e alla collaborazione tra cristiani e musulmani anche se a titolo personale e non collettivo. Ci riferiamo al connubio culturale tra Ruggero II e Ibn Idrisi o a quello artistico tra maestranze cristiane e artisti musulmani nella Cappella Palatina a Palermo o a quello letterario che produsse un Ibn Hamdis, il poeta più siculo dei Siciliani stessi, e un Guglielmo Appulo, il cronista delle gesta dei primi Normanni; e ciò senza parlare dell’impatto che produsse la versione greca del Kalila wa Dimna di Eugenio l’emiro che portò a quella latina del Directorium humanae vitae di Giovanni da Capua (XIII secolo), offrendo spunti o riscontri al Boccaccio in alcune novelle del Decameron - un lungo filo che si dipana dall’India del Panchatantra attraverso la Persia, il Vicino Oriente, la Sicilia, per giungere sino a Napoli e poi alla penisola tutta. Sconfitto sul piano militare, l’Islam risultò vincitore sul piano sociale e culturale. Sotto l’insegna della tolleranza e della protezione iniziò il regno di Ruggero II, nato ed educato in Sicilia, conoscitore del 9
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greco e dell’arabo, continuatore della tradizione delle corti orientali sull’esempio di quella erudita e dotta dei Comneni di Costantinopoli, di quella splendida di al-Mutamid di Siviglia dove trovò ospitalità Ibn Hamdis, e delle stesse corti dei suoi predecessori kalbiti, alcuni dei quali gran mecenati e poeti in prima persona. Anche se sperticato, risponde alla realtà l’elogio che ne fece Ibn Idrisi attribuendo a Ruggero II “animo valoroso, intelletto lucido, profondo pensiero, imperturbata calma, ingegno nelle discipline matematiche e politiche”: per lui scrisse quel Libro di Ruggero, una summa delle conoscenze geografiche del tempo, suggerita dal sovrano al suo consigliere scientifico che ne tradusse in atto il disegno e ne curò la redazione definitiva in lingua araba. Ibn Idrisi studiò ed adoperò le opere di Tolomeo, Claudio, Orosio ed altri sei geografi arabi dai quali derivò quella concezione fisico-astronomica che rappresentava la terra come un disco rotondo, circondato da acque e da terre e posto in mezzo alla volta celeste. Tra la linea equatoriale (diametro della superficie terrestre) e il parallelo settentrionale giace quella quarta parte del disco terrestre che è abitata dagli uomini, divisa in sette climi, corrispondenti ai sette mari, limitati da altrettante linee parallele. Il lavoro intrapreso constava, pertanto, di due parti: disegnare una nuova carta geografica e dare una descrizione generale della terra abitata. E per volere del re l’intera mappa venne poi incisa sopra un disco di puro argento, di due metri di diametro e del peso di 150 chili, andato perduto, dove - secondo la testimonianza di Ibn Idrisi - furono riportati “le marine, gli altipiani, i golfi, i mari, i corsi d’acqua, le foci dei fiumi, le terre abitate e le deserte, le strade battute che uniscono ogni paese ad uno o a parecchi altri, con le distanze in miglia e i principali itinerari [marittimi] e i porti più conosciuti”.7 La cultura arabo-sicula sopravvisse alla caduta del dominio musulmano solo quando fu sostenuta dall’impulso personale di un re che vedeva in essa un ornamento del regno; così fu anche con i due Guglielmo I e II che diedero vita ai grandi edifici arabo-normanni della Cuba e della Zisa, testimonianza di quella koiné culturale che si estese dal Maghreb centrale alla Sicilia sotto i Fatimidi, e diede asilo a corte all’erudito e poeta Ibn Saddad, autore di una storia della Sicilia andata perduta. Con il passare del tempo si intensificò, come un passaggio naturale e obbligato, la lotta all’arabismo e al bizantinismo in nome di una cultura latina in grado di cementare e unificare le popolazioni del regno normanno che dalla Sicilia si era ormai esteso all’Italia meri10
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I musulmani in Italia
dionale. Gli epigoni dell’arabismo siciliano sopravviveranno, ma sempre a titolo personale, per un breve periodo nella scuola medica di Salerno e nel cenobio benedettino di Montecassino: alla fine dell’XI secolo si ritirò nell’abbazia il cristiano maghrebino Costantino detto l’Africano, che tradusse in latino varie opere arabe compresi trattati di medicina tra i quali quello di anatomia di ‘Ali ibn al-‘Abbas, fornendo alla scuola salernitana nuovo materiale di studio; fu emulato alcuni anni dopo dal suo discepolo Yahya ibn Aflah, noto come Giovanni Aflacio.
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Dal punto di vista del lessico l’apporto arabo alla lingua italiana consisté in alcune centinaia di vocaboli, soprattutto nel settore relativo ai titoli e professioni, all’agricoltura e all’idraulica, alle costruzioni, agli oggetti e utensili, ai tessuti, alla medicina e all’onomastica. Partendo da quest’ultima sono di origine araba, tanto per fare degli esempi concreti, i cognomi liguri Alfachino (al-faqih = giureconsulto), Bachemi (abu hakim = padre del medico), Buferio (abu'l faris = padre del cavaliere), Bucassema (abu'l qasim = padre di colui che distribuisce), Muscetto (mugiahid = combattente per la fede); i cognomi toscani Bozechi (abu zaka = padre della purezza), Buzaccarini (abu zakaria' = padre di Zaccaria), Marzucco (marzuq = fortunato); i cognomi pugliesi Càffaro (kafir = miscredente) e Tafuri (taifur = scodella); i cognomi calabresi Bosurgi (buzurg = grande), Corapi (ghurab = corvo), Ielapi (yelab = scudo, elmo), Modàfferi (muzaffar = vittorioso); e i numerosissimi cognomi siciliani da Badalà ('abd Allah = servo di Allah) a Buscemi (abu shamah = padre di colui che ha un grosso neo) e Buscetta (abu as-Sayyid = padre del Sayyid, discendente del Profeta, e quindi “nobile”), da Cabibbo (habib = amico) a Cangemi (haggiam = applicatore di mignatte), da Cattanu (qattan = mercante di cotone) a Farace (farag = gioia), da Fragalà (farag Allah = gioia di Allah) a Garufo (qaraf = duro, crudele), da Macaluso (maklus = schiavo liberato) a Marabotto (marbut = eremita), da Mogàvero (mughavir = guerriero) a Molè (mawla = padrone ), da Pittalà (bait Allah = casa di Allah, o hibat Allah = dono di Allah) a Salemi (salam = pace), da Sciortino (shurta = guardia) a Sodano (saudan = negro) da Vadalà ('abd Allah = servo di Allah, o wadd Allah = amore di Allah, o wadi Allah = valle di Allah) a Zappalà ('izz bi Allah = potenza in Allah).8 Degli altri vocaboli ne ricordiamo, a titolo esemplificativo, alcuni 11
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tra quelli più comunemente usati nella nostra lingua: albicocco da albarquq, alcali da al-qali, alchimia e chimica da al-kimiya' (la pietra filosofale), alcool da al-kuhl, alcova da al-qubba (cupola), alfiere da alfaris (cavaliere) e da al-fil (elefante, come pezzo degli scacchi), algebra da al-giabr (la riduzione), ammiraglio da amir (emiro), arancio da narang, barracano da barrakan, a bizzeffe da giazaf nella corruzione maghrebina bizzaf, caffé da qahwa, camicia da qamis, canfora da kafur, carovana da karwan (comitiva di mercanti), càssero da qasr (castello), catrame da qatran, cifra e zero da sifr (nulla), cotone da qutun, dogana da diwan (da cui l’italiano “divano” per “sedile”), fachiro da faqir (povero), fóndaco da funduq, gabella da qabala (cauzione), giarra o giara da giarra, giubba da giubba, limone da limun, magazzino da makhzan, materasso da matrah, meschino da miskin (povero), mùssola dalla città di Mosul in ‘Iraq, nafta da naft, quintale da qintar, ragazzo da raqqas (corriere, messaggero), razzia da ghazwa nella corruzione maghrebina ghaziyya, ricamo da raqama, salamelecchi da salam 'aleik (il saluto arabo “la pace sia con te”), sciroppo da sharab, sorbetto da sherbet, taccuino da taqwim, tamarindo da tamr (dattero), tariffa da ta‘rifa, zafferano da za'faran, zerbino da zirbiya, zibibbo da zabib (uva passa), zimarra da sammur, zucchero da sukkar.9 ***
Tra i documenti in latino, ascrivibili al tardo medioevo, c’è un testo noto come indovinello veronese: Se pareba boves, alba pratalia araba, (et) albo versorio teneba, (et) negro semen seminaba
cioè:
spingeva innanzi i buoi, arava i bianchi prati, teneva un bianco aratro, seminava un nero seme,
laddove i buoi sono le dita dello scrivente, il prato bianco il foglio di carta, il bianco aratro la penna d’oca, il seme nero l’inchiostro, e l’uomo o la mano che scrive il soggetto dell’intera allegoria. Ebbene, questo indovinello scoperto nel 1924 da Luigi Schiaparelli e decifrato qualche anno dopo fu trascritto su un foglio di guardia in un codice liturgico mozarabico, ossia opera di cristiani della Spagna musulma12
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na,10 redatto forse a Tarragona agli inizi dell’VIII secolo e finito in Italia nello stesso periodo alla Biblioteca Capitolare di Verona (cod.LXXXIX).11 Si tratta, è vero, solo di un caso fortuito, ma non proprio, che denota l’esistenza di un interscambio culturale tra Spagna araba e Europa cristiana: sono ormai note le relazioni della Chiesa mozarabica con la sede apostolica di Roma e con le Chiese d’Occidente. Ma affinità strutturali e anche concettuali si possono vedere nel periodo di Federico II e del “dolce stil novo” in un sottile filo che lega la letteratura in lingua araba e le letterature romanze, anche se spesso le analogie sono più un indice di un comune atteggiamento intellettuale che non una relazione di dipendenza. Resta il fatto - scrive un arabista contemporaneo - che, dal punto di vista della struttura formale, è oggi difficile negare un influsso della poesia strofica arabo-spagnola (lo zagial)12 sull’elaborazione della poesia europea in lingua volgare; quanto poi i trovatori occitani, i rimatori siciliani e quelli toscani debbano all’Islam per quanto riguarda l’essenza stessa del loro poetare, è argomento quanto mai problematico da chiarirsi.13 Riportiamo, a titolo di esempio, uno strambotto discusso nel quadro di una relazione di mezzo secolo fa sulla lirica arabo-ispanica e il sorgere della lirica romanza fuori della penisola iberica. L’autore riporta uno strambotto Di ‘na finestra s’affacciau la luna e ‘nta lu mienzu la stidda Diana: su’ tanti li splenduri ca mi duna, lampu mi parsi di la tramuntana
in cui la metafora “luna-amata” costituisce il rapporto di bellezza fra l’amata e le altre donne uguale a quello che esiste tra la luna e le stelle. Senza entrare nei complessi rapporti di interdipendenza e analogie tra sostenitori e negatori di un passaggio diretto dalla poesia araba alla poesia in volgare, si può comunque affermare il passaggio indiretto, in qualche modo, di motivi dalla poesia arabo-ispanica alla poesia dei trovatori attraverso una lunga ed eterogenea mediazione: “non mondi separati in senso assoluto, ma nemmeno connessione continua [...]. Prestiti e calchi possono conferire un particolare colorito alla tradizione su cui s’innestano; ma ne lasciano intatte le radici profonde. Ciò che si trasmette è uno schema, un motivo, uno spunto tematico; non la tradizione stessa del gusto che storicamente lo sor13
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regge e intimamente lo anima; non dunque il modo di sentirlo e di svolgerlo”.14 Inoltre, anche se si è d'accordo sulla conoscenza dell’arabo parlato da parte di Federico II, non abbiamo notizie certe della sua conoscenza della poesia araba, di cui non vi furono traduzioni al suo tempo: d’altro canto le voci degli ultimi poeti siculi di lingua araba si spensero con l’epoca di Ruggero II. Pur ammettendo una qualche conoscenza derivata dalla innata curiositas dell’imperatore, se un influsso ci fu sulla scuola siciliana lo fu per via mediata, dallo zagial dell’arabo volgare in Spagna alla strofa della lirica trobadorica, senza passare necessariamente per la Sicilia dove giunse dal settentrione. Soffermiamoci per un attimo sulla “rosa fresca aulentissima ch’apari inver’ la state” con cui ha inizio il “Contrasto” di Cielo d’Alcamo, forse trapiantato a Messina, una composizione di 160 versi collocabile dai dati interni tra il 1231, anno del Liber Augustalis melfitano, e il 1250, anno della morte dell’imperatore svevo. È un serrato “contrasto” tra l’amante e la donna, un susseguirsi di preghiere e ripulse, che si sa come andrà a finire - le lusinghe dell’uno e le negazioni dell’altra sottintendono una medesima brama sensuale: bastino per tutte l’allusione dell’uomo alla sua solitudine di straniero e al suo recondito bisogno di affetto, o l’astuta lusinga della vanità femminile, nel ricordo della veste che la donna portava il giorno in cui egli la vide per la prima volta e se ne innamorò. In questo susseguirsi di incalzanti richieste il poeta parla di “massamotini d’oro”, monete dei califfi Almoadi, regnanti in Ifriqiyyah (Africa settentrionale) e in alAndalus (Spagna), del leggendario Saladino (1174-1193), ricordato con ammirazione nel Novellino, nel Convivio e nel Decameron, del Soldano cioè il sultano di Egitto e, in tempi più recenti, nel dramma di Lessing, il Nathan der Weise (Nathan il Saggio), nel quale lo scrittore tedesco riprende dalla terza novella della prima giornata del Decameron il tema dei tre anelli per parlare di tolleranza e di fede – i tre anelli lasciati in eredità da un padre ai suoi figli, ognuno dei quali crede di essere il depositario del vero anello, sono l’allegoria delle tre religioni monoteiste l’Ebraismo, il Cristianesimo e l’Islam che Dio ha dato agli uomini e che solo Lui sa quale sia la vera. Inoltre il nostro autore indica come spazio della sua ricerca senza trovare “donna tanto cortese” regioni quali la Calabria, la Toscana, la Lombardia, la Puglia, città quali Costantinopoli, Genova, Pisa, e l’Oriente con la Sorìa (Siria), Babilonia e tutta la Barberìa, cioè l’Ifriqiyyah (vv.61-63).15 Non più che richiami ad un oriente islamico, 14
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che però dimostrano l’esistenza di un arco culturale composito in una terra quale la Sicilia per secoli crogiuolo e sintesi di civiltà varie. Concludiamo con un cenno alla questione delle fonti islamiche della Divina Commedia, perché si tratta di un problema sul quale si sono versati fiumi di inchiostro e si sono innescate polemiche vivaci, oggi ridimensionate. Nel 1919 lo studioso spagnolo Miguel Asìn Palacios stupiva e irritava al tempo stesso il mondo occidentale, in particolare italiano, descrivendo in un discorso all’Academia Española le analogie esistenti tra la costruzione del mondo ultraterreno nel poema dantesco e l’escatologia musulmana.16 A sostegno della sua tesi portava comparazioni tra episodi della Commedia e passi della letteratura araba. All’epoca gli fu controbattuto il fatto che Dante non conosceva l’arabo e che le opere della letteratura araba cui si riferiva l’Asìn Palacios non erano state tradotte in alcuna lingua europea al tempo di Dante. In realtà queste controtesi, valide di per se stesse, erano state in parte dettate più da un senso di consorteria che da un approccio critico, almeno da parte di molti studiosi interessati alla questione: si trattava di fare quadrato contro l’Islam come se la fama di un Dante potesse essere diminuita da una conoscenza o da un uso di testi islamici e non viceversa accresciuta. Va aggiunto che se Dante non conosceva testi letterari arabi, la filosofia e la scienza islamiche gli erano note sia attraverso traduzioni latine che attraverso la tradizione indiretta: riferimenti circostanziati si ritrovano nella Commedia oltre che nel Convivio. Trent’anni dopo, nel 1949, l’orientalista Enrico Cerulli pubblicava Il “Libro della Scala” e la questione delle fonti arabo-spagnole della Divina Commedia:17 nella prima parte riportava i testi francese e latino relativi ad un viaggio celeste del Profeta ed alla sua visione dei cieli e dell’inferno; nella seconda i testi, pressoché inediti, di autori medievali contenenti notizie sulle tradizioni escatologiche musulmane. Ma che cos’era questo Libro della Scala? Una traduzione dal castigliano, a sua volta derivata dall’arabo, nell’originale Kitab al-Mi‘rag ossia “Il libro dell’ascensione” di Maometto, fatta fare da Alfonso X il Savio, re di Castiglia, nella seconda metà del XIII secolo. La traduzione è duplice: francese e latina (1264); fu opera di Bonaventura da Siena,18 un notaio toscano, forse esule ghibellino, che si trovava in Spagna nello stesso periodo in cui Brunetto Latini, inviato come ambasciatore di Firenze al re spagnolo, avrebbe potuto avere, durante la sua permanenza in Spagna, conoscenza di questo testo. 15
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La scoperta del Libro della Scala, postuma all’opera dell’Asìn Palacios, se da un lato conferma la possibilità di conoscenza del mondo musulmano da parte di Dante, dall’altro non conferma analogie o derivazioni nella Commedia. Si potrebbe comunque dire che non sia possibile che Dante non avesse conosciuto questo Libro della Scala, menzionato anche da Fazio degli Uberti nel Dittamondo, per non parlare dei tanti ecclesiastici che ne erano a conoscenza se non altro per confutarlo.19 Ma non è questo il punto che può oggi interessarci dopo le polemiche in cui agli elementi critici si sono mescolati nel tempo elementi nazionalistici, religiosi e simili, facendo perdere di vista l’importanza delle ricerche da parte degli studiosi spagnoli e italiani. Quel che conta, oggi, è la dimostrazione di come la diffusione della cultura, a dispetto di barriere e cortine più o meno di ferro, non abbia conosciuto soste: chi desidera sapere, può farlo solo che lo voglia. Semmai l’errore sta nell’accettazione di schemi prefissati, dai quali è sempre difficile scostarsi. Ed oggi, nel rigoglio di studi sull’Islam, dovremmo ammantarci di umiltà e accettare – come scriveva il Gabrieli cinquant’anni fa – “la parte che tutti ci unisce, anziché insistere oltre su ciò che ci divide”. Concludiamo anche noi con le sue parole finali di un saggio su Dante e l’Islam, tuttora valide: “un mi‘rag arabo, un re spagnolo, un medico ebreo, un notaio italiano ... e le fantasie d’oltretomba, fiorite su un oscuro versetto rivelato un giorno nel cuore d’Arabia, aggirano il Mediterraneo, penetrano nella dolce Toscana dello Stil Novo, e concorrono a fecondare l’humus ricchissimo onde sboccerà il supremo fiore della Commedia”.20 È proprio il caso di dire che le vie della cultura sono infinite!
1 F. M. PAREJA, Islamologia, Roma, Orbis Catholicus, 1951, pp.55-71; L. VECCIA VAGLIERI, L’Islam da Maometto al secolo XVI, in “Storia Universale”, Milano, F. Vallardi, vol.III, tomo secondo, 1963, pp.139-597; F. RAHMAN, La religione del Corano, Milano, Il Saggiatore, 1968, pp.11-21; M. GUIDI, Storia e cultura degli Arabi fino alla morte di Maometto, Firenze, Sansoni, 1951, pp.143-156. 2 E. BUSSI, I Musulmani e l'Italia, in Questioni di storia medioevale, a cura di E. Rota, Como-Milano, Marzorati, 1946, pp.723-764. 3 U. RIZZITANO, Cristiani e musulmani in Sicilia, in AA.VV., Cristianesimo e Islamismo, Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 1974, p.174. 4 IBN HAMDIS, Il Canzoniere, nella traduzione di Celestino Schiaparelli, a cura di
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Stefania Elena Carnemolla, Palermo, Sellerio, 1998, p.145. 5 U. RIZZITANO, Storia e cultura nella Sicilia saracena, Palermo, Flaccovio, 1975, p.179. 6 A. BAUSANI (a cura), Il Corano, Firenze, Sansoni, 1961, pp.610-611. 7 A. DE STEFANO, La cultura in Sicilia nel periodo normanno, Bologna, Zanichelli, 1954, pp.19-22. 8 G. B. PELLEGRINI, Onomastica e toponomastica araba in Italia, in “Atti del VII Congresso Internazionale di Scienze Onomastiche”, vol.III, Antroponimia, Firenze, Istituto di Glottologia dell’Università degli Studi, 1963, pp.445-477. 9 G. B. PELLEGRINI, Gli arabismi nelle lingue neolatine con speciale riguardo all'Italia, Brescia, Paideia, 1972, vol.I. 10 I mozarabi (in ar. musta'riba) sono i cristiani di Spagna che sotto il dominio musulmano rimasero fedeli alla religione dei loro padri pur diventando arabofoni e spesso bilingui. 11 A. VARVARO, Origini romanze, in AA.VV., Storia della letteratura italiana, diretta da E. MALATO, Milano, Il Sole 24 Ore, 2005, vol.I, pp.149-150. 12 La strofa dello zagial ha come nucleo tre versi monorimi; è una forma usata non solo nella poesia medievale spagnola, ma anche nella più antica poesia provenzale. La teoria della origine arabo-andalusa ritiene che questa forma strofica, insieme con alcuni elementi della ideologia amorosa che si esprimeva nello zagial arabo-andaluso, abbia avuto un’influenza sulle prime manifestazioni della poesia provenzale. Cfr. R. MENENDEZ PIDAL, Poesia araba e poesia europea, Bari, Laterza, 1949, pp.1-59. 13 A. VENTURA, Presenze islamiche nell’opera di Dante, in “Islam”, Roma, IV, N.4, ottobre-dicembre 1985, p.39. 14 A. RONCAGLIA, La lirica arabo-ispanica e il sorgere della lirica romanza fuori della penisola iberica, in AA. VV., Oriente e Occidente nel Medio Evo, Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 1957, pp.321-343. 15 E. PASQUINI, La letteratura didattica e la poesia popolare del Duecento, Bari, Laterza, 1975, pp.119-120. 16 M. ASIN PALACIOS, La escatologìa musulmana en la Divina Comedia, seguida de la Historia y critica de una polémica, II edicìon, Madrid-Granada, 1943. Traduzione italiana: Dante e l’Islam. Vol. I – L’escatologia islamica nella Divina Commedia. Vol.II – Storia e critica di una polemica, Parma, Pratiche Editrice, 1994. 17 Pubblicato dalla Biblioteca Apostolica Vaticana, seguito nel 1972 da Nuove ricerche. 18 Nel maggio 1264 tradusse il testo dal castigliano in francese, il Livre de l’Eschiele Mahomet, codice Laud. Misc. 534, Bodleian Library, Oxford. Il testo latino, probabilmente coevo, ci rimane in una trascrizione, ricopiata alcuni decenni dopo, nel secolo XIV: si trova nel codice lat.6064 alla Bibliothèque Nationale, Paris, sotto il titolo di Liber Scalae Machometi. 19 G. LEVI DELLA VIDA, Aneddoti e svaghi arabi e non arabi, Milano-Napoli, Ricciardi, 1959, pp.149-161. 20 F. GABRIELI, Dal mondo dell’Islam, Milano-Napoli, Ricciardi, 1954, pp.156172.
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L’Italia intorno al Mille
Regioni e città della penisola arabica
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Capitolo primo
I musulmani in Italia
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La conquista araba della Sicilia (827 - fine XI secolo)
Alla fine del VII secolo gli Arabi partiti dalle regioni desertiche del Higiaz erano giunti alle coste mediterranee dell’Africa settentrionale e alla valle dell’Indo attraverso il Makran persiano: erano state tutte spedizioni via terra più a scopo di conquista o di bottino che di un vero e proprio insediamento. Quelle che nella prima metà del VII secolo erano state in Ifriqiyyah solo scorrerie diventarono vere e proprie spedizioni militari con ‘Uqba ibn Nafi‘, il pio fondatore di al-Qayrawan (670), che intraprese l’islamizzazione delle genti del Maghreb anche se dovette fare i conti con le popolazioni berbere da sempre riottose a qualunque freno e indomite sin dai tempi dei Romani: lo stesso ‘Uqba morirà in un’imboscata berbera nel 683. Il grande condottiero, oggi venerato come un santo e apostolo della fede, aveva portato gli arabi terricoli alle sponde del Mediterraneo: la tradizione ce lo dipinge mentre avanza con il destriero nelle onde del mare e chiama Dio a testimone d’aver adempiuto al giuramento di portare l’Islam ai confini del mondo. Da terricoli gli Arabi dovevano ora diventare marinai: fu Mu‘awiya, il capostipite della dinastia ommiade, per vent’anni governatore della Siria e per altri venti califfo (661-680), a trasformare i suoi correligionari, diffidenti nei confronti del liquido elemento, in abili marinai aprendo cantieri navali a Beirut e ad Alessandria da poco tempo entrate nell’orbita araba. In breve la flotta araba fu pronta ad appoggiare gli eserciti e a portare oltre il cosiddetto Bahr ar-Rum (Mare dei Romei) la minaccia alle isole e alle coste del Mediterraneo ad occidente e a Costantinopoli ad oriente. L’impero bizantino, colto alla sprovvista, dalla crescente attività marinara musulmana nel Mediterraneo centrale, si preoccupò solo di salvaguardare le proprie coste: non aveva potenziato la marina da guerra poiché non si era trovato ad essere minacciato direttamente, perdendo in questo modo la Sicilia. Agli inizi dell’VIII secolo ripresero le grandi conquiste musulmane favorite dalle crisi interne nei territori ad est e ad ovest delle terre dell’Islam. Ad occidente, nell’aprile 711 (ragiab 92 H), Muhammad Tariq, un 19
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liberto berbero di Musa ibn Nusayr, governatore dell’Ifriqiyyah e conquistatore del Marocco, attraversa lo stretto di Gibilterra, che da lui prenderà il nome (Gebel el-Tariq = montagna di Tariq), sconfigge Roderigo, re dei Visigoti nella battaglia del Rio Barbato presso la laguna della Janda, il 19 luglio, e occupa in ottobre Córdoba e Toledo, dando così inizio all’espansione arabo-berbera in Spagna.1 Anche in questo caso c’era stata la richiesta di un certo Giuliano, conte di Ceuta, che per odio contro Roderigo aveva fornito a Tariq le navi per il trasporto degli invasori e supporto logistico in Spagna. La conquista fu completata dallo stesso Musa ibn Nusayr che, per il timore di essere messo in ombra dal suo liberto dimostratosi troppo intraprendente nella rapida avanzata, sbarcò in Spagna nel giugno 712, occupando Medina Sidonia a sud di Cadice, Siviglia e Mérida e giungendo fino a Saragozza: si apriva così la strada per la Francia. Caddero una dopo l’altra Narbonne (720), Autun, Nîmes e Carcassonne (725), Avignone (734), Lione (743), senza contare i saccheggi e le devastazioni, anche se la conquista non fu duratura ma soggetta agli andamenti e agli esiti degli attacchi, ora favorevoli ora contrari – in questa zona meridionale della Francia la linea di confine non fu mai stabile. Non si dimentichi che nel 732 (o 733 secondo altre fonti) si svolse tra Tours e Poitiers quella battaglia che fu enfatizzata nei secoli come il grande scontro tra Islam e Cristianità: si disse che per sette giorni le truppe franche di Carlo e quelle musulmane di al-Ghafiqi si fronteggiarono senza combattere, quindi la cavalleria musulmana attaccò e fu sconfitta, infine sopraggiunta la notte i musulmani si ritirarono. Probabilmente la verità è un’altra: il contingente andaluso, che non era lì per uno scontro campale ma per razziare i tesori di Tours, alla vista dell’esercito franco, si sganciò con il favore delle tenebre senza attaccare. Fu la propaganda a creare il topos di Poitiers e il mito di Carlo divenuto Martello: fu lo storico ufficiale dei Franchi, Paolo Diacono, a creare il mito scrivendo di 375.000 saraceni uccisi contro 1.500 franchi! La dimostrazione che Poitiers fu uno dei tanti scontri sta nel fatto che il figlio di Carlo, Pipino il Breve, fu costretto a lottare contro i musulmani per altri vent’anni: la situazione cominciò a invertirsi solo nel 759 con la riconquista di Narbonne da parte dei Franchi. A oriente, nel 712, Muhammad ibn Qasim conquista la valle dell’Indo partendo dal porto di Debal, vicino l’odierna Karachi, e spingendosi verso nord lungo la direttiva di Haiderabad-Multan.2 Negli stessi anni Qutaiba ibn Muslim giungeva nel cuore dell’Asia centrale, conquistando Balkh e proseguendo verso Bukhara e 20
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Samarqand (712) sino al Turkestan cinese (715). Anche qui ci fu una Poitiers: nel luglio 751 l’avanzata musulmana fu fermata sul fiume Talas, in Transoxiana, e la via per la Cina rimase preclusa per sempre. Fu grazie alle notizie dei cinesi fatti prigionieri in quella battaglia che gli Arabi e poi l’Europa conobbero il metodo di fabbricazione della carta. Ai primi dell’800 due erano i nomi attorno ai quali ruotavano l’Occidente e l’Oriente: Carlo Magno e Harun ar-Rashid, che tra il 797 e l’802 si scambiarono delegazioni e doni con il reciproco scopo di conoscere i rispettivi progetti e sondarne le intenzioni. Nel 797 fu Carlo Magno ad inviare al califfo un’ambasceria di due laici, Lantfrido e Sigismondo, e un interprete, un ebreo tedesco, Isacco, mercante di Aquisgrana. In risposta Harun ar-Rashid inviò una delegazione di due dignitari, uno suo personale, l’altro rappresentante dell’emiro di Qayrawan, Ibrahim al-Aghlab, che furono ricevuti da Carlo Magno nell’801 tra Vercelli e Ivrea. I due laici erano morti durante il viaggio di ritorno dopo essere stati ricevuti dal califfo, unico superstite Isacco che rientrò nel luglio dell’802 portando al sovrano, ad Aquisgrana, i doni del califfo tra i quali un elefante, Abul ‘Abbas di nome, e un complicato orologio. Non era senza un fine che Ibrahim, l’emiro più potente dell’Africa del nord, il cui ruolo nell’Ifriqiyyah, l’odierna Tunisia, diventerà in seguito preminente nella conquista della Sicilia e negli attacchi alla Puglia, si faceva rappresentare presso colui che dall’altra parte del Mediterraneo appariva come l’uomo dei tempi nuovi. Ancora, verso la fine dell’802, partiva per Baghdad un’altra delegazione franca tra cui un certo Radberto, che morì appena ritornato in patria senza aver potuto incontrare Carlo Magno. Al tempo stesso giunsero ad Aquisgrana, separatamente, anche se con un programma comune, un certo ‘Abdallah, inviato personale del califfo, e due monaci inviati dal patriarca di Gerusalemme. È probabile che l’interesse di Carlo Magno fosse quello di proteggere e aiutare le comunità cristiane d’Oriente, ma è anche probabile che l’imperatore volesse mantenere un canale diplomatico personale, sempre aperto, con quello che era allora uno dei maggiori pericoli per l’occidente, l’impero arabo: lo richiedevano non solo la logica politica, ma anche gli scambi commerciali tra i due mondi, mai interrotti neppure nei periodi di maggior tensione. La mèta di entrambi i personaggi era Costantinopoli: Carlo Magno per scacciare dal trono l’usurpatrice Irene e diventare il nuovo impe21
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ratore d’oriente e d’occidente, Harun ar-Rashid per impadronirsi della capitale bizantina da dove continuare la manovra a tenaglia per un’islamizzazione dell’Europa. La morte dei due sovrani - Harun ar-Rashid nell’809, Carlo Magno nell’814 - fece svanire questo progetto e segnò al tempo stesso il declino sia franco che arabo. L’espansione musulmana riprese il suo corso ma ad opera di una dinastia nuova e periferica, quella degli Aghlabiti impiantatisi sulle coste dell’Africa mediterranea, l’attuale Maghreb: era stato proprio Harun ar-Rashid nel luglio dell’800 a nominare emiro dell’Ifriqiyyah Ibrahim ibn al-Aghlab, vassallo di nome, di fatto indipendente. C’era stato un precedente anche nelle relazioni tra franchi e musulmani dell’al-Andalus, una richiesta di aiuto tipo quella del bizantino Eufemio all’aghlabita Ziyadat Allah in Sicilia. Nel 777 il qa‘id di Barcellona, Suleyman ibn al-Arabi, fu ricevuto a Paderborn da Carlo Magno che si vide offrire molte città a sud dei Pirenei da parte di una lega di capi arabi in cambio dell’aiuto franco nella lotta contro l’emiro di Córdoba ‘Abd ar-Rahman I (755-788), il fondatore di uno stato ommiade indipendente da Baghdad. La spedizione di Carlo Magno, che giunse fino a Saragozza, di cui fece abbattere le mura, dopo un iniziale successo, si concluse in una sconfitta per un voltafaccia dei musulmani, preoccupati degli iniziali successi franchi e timorosi delle ribellioni dei loro sudditi; il finale fu la famosa ritirata di Roncisvalle, anch’essa consegnata alla storia dall’immaginario collettivo come un’epica lotta tra franchi e mori quando invece la realtà fu che lo scontro si svolse tra la retroguardia franca di Rolando e montanari baschi interessati solo alla preda. I primi tentativi degli Arabi di impadronirsi della Sicilia3 risalgono alla metà del VII secolo: nel 652 fu organizzata dal governatore della Siria Mu‘awiya una spedizione marittima che fece ritorno con solo un bottino malgrado l’esarca bizantino Olympio fosse stato sconfitto; identica fu la conclusione della successiva spedizione nel 667 quando Mu‘awiya era diventato califfo. Furono probabilmente queste due spedizioni che spinsero l’imperatore bizantino Costante II ad interessarsi delle province dell’Italia meridionale e della Sicilia al punto da trasferirsi a Siracusa dove morì il 17 luglio 668: la sua politica di evitare una manovra araba di graduale accerchiamento dei territori greci - cosa che si sarebbe verificata in caso di una conquista musulmana della Sicilia - fu vanificata dalla resistenza dei Longobardi nel sud e dalla mancanza di fondi per proteggere le coste siciliane e potenziare 22
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la flotta. Negli anni successivi la Sicilia fu per i Bizantini una base attiva per i loro attacchi contro l’Ifriqiyyah dove l’espansione araba aveva costretto bizantini e berberi a trovare rifugio nell’isola: è del 697 l’ultima spedizione bizantina contro Cartagine. Agli inizi dell’VIII secolo gli Arabi diedero inizio ad un contrattacco: nel 704 un’incursione contro le grandi isole del Mediterraneo portò all’occupazione temporanea di una città siciliana di cui non si conosce il nome; si legge nei resoconti arabi che il bottino era stato tale da poter distribuire ad ogni soldato cento dinar d’oro. Le spedizioni arabe si susseguirono a ritmo incalzante senza che si registrasse una forte e concreta reazione bizantina: le date 727, 729, 730, 731, 733, 734, 740, sono un indice significativo delle numerose azioni di disturbo. Nella seconda metà del secolo gli attacchi arabi diminuirono a causa delle rivolte berbere nel Nord Africa e di una maggiore presenza della flotta bizantina dell’imperatore Costantino V (741-775): fortificati i porti della Sicilia, i Bizantini furono in grado di portare le loro offensive contro le coste dell’Ifriqiyyah e di proteggere al tempo stesso i commerci tra la Sicilia bizantina ed il mondo arabo. Tranne i tentativi di Mu‘awiya volti ad una conquista, tutti gli altri non ebbero successo poiché furono azioni isolate e sporadiche volte più a fare razzie e schiavi che ad una permanenza sull’isola: un risultato utile per gli Arabi, importante strategicamente, fu l’occupazione nel 700 dell’isola di Pantelleria, l’antica Cossyra, situata nel canale a metà strada tra Susah in Tunisia e Mazara in Sicilia. Per oltre un secolo Pantelleria sarà la base musulmana più avanzata verso l’Italia: dai porti di Tunisi, Nabeul, Kelibia, Susah, Monastir i berberi islamizzati faranno costanti incursioni in Sicilia e in Calabria alla ricerca soprattutto di legname per la costruzione delle navi e di schiavi per i remi. Se il primo degli emiri aghlabiti, Ibrahim ibn al-Aghlab (800-812), aveva risolto il problema della sicurezza del commercio arabo nel Mediterraneo con un trattato di pace decennale con il patrizio Costantino di Sicilia, fu il figlio Abu al-‘Abbas ‘Abdallah I (812-817) a far costruire una potente flotta e a concludere un secondo trattato di pace con il patrizio Gregorio: completato il riarmo, la tregua non resse più e nell’819-820 fu allestita una spedizione al comando di Muhammad ibn ‘Abdallah, cugino del terzo emiro, quel Ziyadat Allah che passerà alla storia come il conquistatore della Sicilia. I Bizantini si difendono come possono e, soprattutto all’inizio, rea23
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giscono con attacchi contro le coste dell’Ifriqiyyah, ma hanno commesso un errore: dopo Costante II gli imperatori bizantini non hanno continuato a rafforzare la flotta da guerra, anche se per mancanza di fondi adeguati, e lo scarso naviglio a disposizione fu usato a protezione dell’Egeo e delle province orientali dell’impero. L’unica ad avere una marineria di questo nome era Venezia, ma la Serenissima si mosse solo per mantenere il controllo dell’Adriatico. Il problema della sicurezza dei mari interni si ripropose quando ebbero inizio le scorrerie dei Saraceni di Sicilia nell’Adriatico: negli anni 827-828 lo stesso imperatore bizantino Michele II, privo di una flotta idonea, fu costretto a chiedere a Venezia un congruo numero di navi per poter portare i suoi soldati a Siracusa assediata da Asad ibn al-Furat. Trent’anni dopo la situazione era migliorata se Michele III fu in grado di inviare in Sicilia una flotta di trecento navi in relazione alla caduta di Castrogiovanni. Furono nel complesso due secoli di alterne vicende sui mari che non portarono mai ad una supremazia dell’una o dell’altra parte o ad una totale interruzione dei rapporti economici e culturali tra l’occidente latino, l’oriente bizantino e il vicino oriente islamico: pellegrinaggi, commerci, scambi culturali si svolsero più o meno regolarmente, con le logiche interruzioni di periodi più o meno brevi di guerra o di recrudescenze, comunque sempre limitati dal punto di vista spaziale, vale a dire localizzati. Il triangolo Bisanzio-MaghrebAndalus rimase sempre operante a tutte le possibilità con la Sicilia nel bel mezzo di quel gihad che l’Islam espansionista per vocazione avrebbe dovuto o voluto estendere all’Europa tutta. Dopo tanti tentativi, a dire il vero non coordinati e non miranti ad un insediamento duraturo, nell’827 il terzo sovrano della dinastia aghlabita, Ziyadat Allah I (817-838), si decise ad una spedizione in grande contro l’isola. L’emiro colse due piccioni con una fava: in difficoltà in patria con la casta militare, probabilmente per allontanare gli elementi più pericolosi e al tempo stesso per ingraziarsi la casta religiosa di Qayrawan, progettò una spedizione che aveva il duplice connotato di conquista e di guerra santa. Il pretesto si presentò a Ziyadat Allah quando Eufemio, il comandante bizantino della flotta in Sicilia, in disaccordo con lo stratega Costantino, minacciato forse di arresto o di punizione per un qualche reato, defezionò approdando in Tunisia con le navi e chiedendo l’aiuto degli Aghlabiti: l’accordo prevedeva l’appoggio di un contingente arabo per riprendersi la Sicilia e governarla da sovrano in cambio di 24
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un tributo annuo all’emiro. Pare che all’origine ci fosse una donna, Omoniza, una suora di cui Eufemio si era invaghito e che era stata obbligata a sposarlo. L’imperatore Michele II, dopo un’inchiesta, ordinò che Eufemio fosse punito con il taglio del naso: di qui la ribellione del comandante della flotta e la sua richiesta di aiuto agli Aghlabiti. Una storia romantica sotto la quale si cela invece una realtà più prosaica: il successo degli Arabi sulla marina bizantina a Creta e la conseguente occupazione dell’isola nell’825 furono la causa che spinse Eufemio a ribellarsi all’imperatore per rendersi indipendente in Sicilia. Come la conquista della Spagna era stata un’azione prevedibile determinata dalla situazione di generale debolezza in cui versava il regno visigoto, così lo fu anche la conquista della Sicilia: la frustrazione di Eufemio, se vera, fu la causa occasionale, se non il consueto topos storico-letterario – era il gihad che doveva, dopo anni di pausa, essere portato avanti contro l’isola una volta consolidatosi il potere degli Arabi nel Maghreb. Il consesso dei notabili berberi convocati da Ziyadat Allah si mostrò all’inizio titubante e restio ad un’avventura oltremare: dopo varie riunioni il sovrano aghlabita si rivolse per consiglio ai due giuristi e qadi di Ifriqiyyah, Abu Muhriz e Asad ibn al-Furat, giudici supremi a Qayrawan. Esisteva infatti nell’amministrazione della giustizia a quel tempo una diarchia insolita. Abu Muhriz era stato nominato qadi dal primo emiro aghlabita Ibrahim; dopo il breve regno del figlio Abu al-‘Abbas (812-817), il nuovo sovrano Ziyadat Allah decise di insediare a Qayrawan il giovane Asad ibn al-Furat senza rimuovere il primo che non aveva affatto demeritato nella carica. Si determinò così una singolare situazione, non prevista dalla prassi tradizionale, che comportava ovviamente dei problemi in caso di pareri diversi su questioni di importanza politica. Temporeggiatore e conciliante per natura Abu Muhriz, deciso e tempista Asad ibn al-Furat, avevano già dimostrato il loro carattere durante la missione ufficiale a Tripoli presso quel governatore alMansur at-Tunbudhi che aveva capeggiato la rivolta dell’esercito contro Ziyadat Allah. Nelle trattative affidate ai due giuristi, che peraltro non ebbero alcun successo, Abu Muhriz era stato conciliante e quasi favorevole ad at-Tunbhudi, Asad ibn al-Furat si era mostrato invece molto energico: la rivolta fu poi sedata con la forza nel mese di ramadan dell’827. Poche settimane dopo Ziyadat Allah, che in cuor suo voleva la spe25
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dizione in Sicilia per avere maggior sicurezza e tranquillità in patria e riprendersi il prestigio appannato dalla riforma fiscale che aveva dato luogo alla rivolta militare, consultò i due giuristi: Abu Muhriz prese tempo perché desiderava avere più dettagli sulla spedizione, Asad ibn al-Furat4 si dichiarò a favore della necessità di sfruttare l’occasione continuando la guerra santa interrotta, la gihad. Ziyadat Allah che non aspettava altro decise per la guerra e affidò il comando della spedizione proprio ad Asad ibn al-Furat, quasi settantenne, così come nei primi tempi dell’Islam personaggi di fede e di pietas, ignari di arte militare, erano stati investiti del comando supremo per il loro carisma e per il loro zelo religioso. Difficile è definire la gihad che letteralmente significa guerra legale, una sorta di obbligo religioso: secondo il giurista hanbalita Ibn Qudama (m. 1223) si tratta di un dovere personale per tutti i musulmani che si trovano in prima linea o in un paese invaso dal nemico. Inoltre va aggiunto che nella comunità islamica la guerra santa è un dovere canonico a causa del carattere universale della missione dell’Islam: ecco perché potere temporale e potere spirituale sono uniti. In ogni caso questo concetto di guerra, comune sia al cristianesimo che all’islam, aveva all’epoca più il connotato di guerra difensiva che di conquista: doveva essere giustificata da uno stato di necessità e proclamata da un’autorità legittima (il Papa per i cristiani, la ‘umma o comunità dei credenti per i musulmani) e secondo il rispetto di certe norme di umanità, soprattutto il rispetto della vita e il non versare il sangue inutilmente. La stessa prima crociata era stata bandita da Urbano II con questi intenti che erano validi non solo nei confronti dei musulmani ma anche nei confronti degli eretici: “crociata” fu quella condotta contro gli albigesi indetta da Innocenzo III, “crociata” fu quella ideata dal sunnita Nur ad-Din (m.1174) contro i califfi sciiti del Cairo e condotta dal noto Saladino, tanto per fare un esempio su entrambi i fronti. La convocazione delle truppe per la spedizione fu stabilita a Susah, uno dei più importanti ribat5 lungo la costa, modellato sul castro bizantino, a pianta quadrangolare e mura rafforzate da torri una delle quali più elevata serviva da minareto e torre di avvistamento – luogo di preghiera e di attività militari al tempo stesso: anni dopo il ribat si trasformò in città con la costruzione di una cittadella sulla collina prospiciente il porto, pur continuando ad essere una sorta di luogo di ritiro per i suoi abitanti monaci-asceti. Ai soldati, che portavano l’appellativo di murabit, in italiano 26
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“marabutto”, una sorta di guerrieri di assoluta fedeltà, il qadi rivolse più un discorso di fede che di guerra, consono alla sua professione di uomo di scienza e di studi:
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... Non v’ha altro Dio che il Dio uno, il Dio che non ha compagni. Affè di Dio, o gente tutta, né avolo né padre ebbi io che avessero avuta signoria, e nessuno dei miei antenati ha mai visto cosa come questa. Io non ho veduto quel che voi ora vedete, se non in virtù della penna. Su, dunque, sforzate alacremente gli animi, affaticate i corpi nel cercare scienza e farne tesoro, né siatene sazii giammai, né mai vinti da’ travagli ch’ella v’arreca, e sappiate che ne conseguirete il guiderdone in questa vita, e in quella ch’è da venire...6
Un esercito forte di diecimila uomini, arabi, berberi e musulmani dell’Andalus (la Spagna araba), di settecento cavalli e di settanta navi salpò il 14 giugno dell’827 (15 rabi‘ al-awwal 212 dell'Égira) da Susah assieme alle forze di Eufemio, dando l’avvio, anche se in maniera inconsapevole allora, all’espansione dell’Islam nel Mediterraneo centrale. L’obiettivo immediato degli Arabi era l’occupazione di un’altra isola, la più grande nel Mediterraneo, dopo la conquista di Cipro, Creta, Pantelleria, le Baleari: come non pensare ad una manovra tendente nel tempo ad accerchiare l’Europa anche se non certo pensata o preordinata a quell’epoca? Lo sbarco avvenne tre giorni dopo, il 17 giugno, a Mazara, ancor oggi una cittadina con forte popolazione tunisina. Occupato il porto senza incontrare resistenza, Asad ibn al-Furat rinunciò subito all’aiuto delle forze di Eufemio di cui evidentemente non si fidava e si preparò ad affrontare in campo aperto i bizantini. Lo scontro ebbe luogo il 15 luglio: i bizantini furono sconfitti ed il loro capo Balatah o Palatas, forse corruzione di Curopalates, fuggì in Calabria dove morì. Lasciata Mazara nelle mani di Abu Zaki, il qadi puntò a nord verso Jato ed Entella convergendo poi all’interno dell’isola lungo la direttiva Biscari-Chiaramonte-Palazzolo e puntando su Siracusa, allora concentrata sull’isolotto di Ortigia. La manovra tendeva a chiudere in una morsa la parte meridionale dell’isola, dai due punti estremi delle Valli di Mazara e di Noto. Dopo la sconfitta nei pressi di Mazara i Bizantini avevano fortificato la capitale Siracusa, sede dello stratega e porto primario: i musulmani si accamparono nella circostante zona delle latomie e si prepararono ad un lungo assedio. Si parlò anche di un tributo offerto dai siracusani al qadi, poi ritrattato dagli stessi, una sorta di stratagemma per avere il tempo di rafforzare le fortificazioni. Malgrado l’alto numero degli assedianti - otto o novemila uomini 27
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Asad ibn al-Furat non disponeva di macchine d’assedio e non aveva scorte di viveri sufficienti per un lungo tempo: prima dell’arrivo dei conquistatori, i Bizantini avevano portato all’interno della città il bestiame ed il cibo reperibili nelle zone circostanti. Il blocco e l’assedio di Siracusa si protrassero per un anno: da una parte il qadi ricevette aiuti dall’Ifriqiyyah e da Creta, dall’altra lo stratega ebbe rinforzi da Bisanzio tramite la flotta veneziana richiesta da Michele II al doge Giustiniano Participazio. Lo scoramento e forse anche una rivolta nelle file musulmane, seguiti da un’epidemia nell’estate dell’828, durante la quale morì lo stesso qadi, indussero il nuovo comandante dell’esercito, Muhammad ibn Abi al-Giawari nominato sul posto dai soldati, a togliere l'assedio. Ritornando sui loro passi, i musulmani cercarono di ri-imbarcarsi per l’Africa ma le navi furono bloccate dalla flotta veneto-bizantina: bruciate le navi per non farle cadere in mani bizantine, l’esercito arabo prese la direzione di Mazara. Lungo la strada i musulmani occuparono nell’828 la rocca di Mineo, ad un giorno di marcia da Siracusa in direzione nord-ovest, e la cittadina di Girgenti, l’odierna Agrigento, puntando poi verso Castrogiovanni, l’attuale Enna. L’attacco a Castrogiovanni, situata in posizione strategica su una rupe scoscesa, fallì. In precedenza il turmarca Eufemio, abbandonato dai suoi alleati arabi, aveva tentato di farsi riconoscere dagli abitanti di Castrogiovanni ma era stato sopraffatto ed assassinato; mentre il generale bizantino Teodoto, che era giunto da Costantinopoli con rinforzi, fu costretto a rinchiudersi nella fortezza. Durante l’assedio, nella primavera dell’829 morì Muhammad ibn Abi al-Giawari sostituito da Zuhayr ibn al-Ghawth; la situazione di stallo fu capovolta da una sortita di Teodoto che riuscì ad infliggere gravi perdite agli assedianti, i quali poco dopo si ritirarono a Mineo, abbandonando anche Girgenti perché indifendibile. Così, alla fine dell’829, dopo la prima fase dell’invasione, rimanevano in mani arabe solo il porto di Mazara e la rocca di Mineo. ***
Tutto faceva pensare ad una fine della guerra e alla ritirata dei musulmani dalla Sicilia quando nell’830, dopo aver soffocato la ribellione militare di Tunisi, Ziyadat Allah fu in grado di inviare un qualche aiuto dall’Ifriqiyyah; al tempo stesso un nutrito gruppo di arabi spagnoli al comando del berbero Asbagh ibn Wakil detto Farghalus 28
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sbarcò in Sicilia e si unì ai rinforzi aghlabiti. Il nuovo esercito, forte di trecento navi e dai ventimila ai trentamila uomini, mosse in soccorso degli arabi assediati in Mineo da Teodoto. Il generale bizantino fu ucciso ed i superstiti si rifugiarono nella roccaforte di Castrogiovanni: era l’estate dell’830. Ha ora inizio la ripresa araba che si concluderà un anno dopo a Palermo. Da Mineo Asbagh raggiunse la zona dell’attuale Caltanisetta: ma, scoppiata un’epidemia, Asbagh morì e gli arabi spagnoli tornarono a Mazara. Molti di loro ripresero il mare per l’Andalus, altri rimasero nell’isola unendosi all’esercito aghlabita, che puntò in direzione di Palermo. L’assedio durò un anno: priva di soccorso, la città capitolò nel settembre dell’831. Palermo diventò così la capitale della Sicilia occidentale ormai sotto dominazione araba, mentre la sede dell’amministrazione bizantina fu spostata da Siracusa non più sicura alla fortezza di Castrogiovanni nell’interno. Non fu una scelta felice poiché stando sul mare i bizantini avrebbero potuto ricevere un qualche aiuto, mentre chiusi all’interno, con le vie di comunicazione sotto controllo arabo, avrebbero prima o poi dovuto capitolare. Probabilmente la decisione fu presa nella consapevolezza del declino di Bisanzio sul mare. Non molti furono i superstiti di Palermo: la popolazione era stata decimata non solo dagli attacchi ma anche dagli stenti subìti in un anno di assedio e dalla pestilenza che ormai infieriva sull’isola da quattro anni. Non ci furono altri attacchi arabi per due anni: i musulmani che avevano vissuto da nomadi in accampamenti dovevano ora avere il tempo di riorganizzarsi in un governo stabile e di provvedere allo stanziamento sul territorio in una convivenza tra l’elemento arabo puro, quello berbero e quello bizantino oltre a cercare di mantenere un atteggiamento di tolleranza religiosa. Furono questi i problemi che i musulmani si trovarono a dover risolvere sin dai primi anni della loro conquista di Palermo. Se dallo sbarco nell’827 alla presa di Palermo nell’831 avevano vissuto da nomadi senza un loro territorio, ora che erano in possesso della parte più importante della Sicilia occidentale e zone limitrofe dovevano creare uno Stato che, pur dipendente dall’Ifriqiyyah aghlabita, aveva una certa autonomia decisionale e quindi una responsabilità verso sé stesso. Non abbiamo notizie dirette e coeve dei primi anni di vita della Palermo araba: le prime cronache note risalgono alla fine del X seco29
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lo-primi dell’XI secolo. Con tutta probabilità i pochi abitanti rimasti si parla di tremila sui settantamila che ci vivevano prima dell’assedio - furono sottomessi e adoperati per i lavori più umili. Una volta organizzatisi, gli Arabi di Sicilia misero di certo in vigore le regole derivanti dal gihad: i conquistati furono ridotti in condizione di vassallaggio o schiavitù; le terre e i beni demaniali ed ecclesiastici passarono allo Stato assieme alle proprietà di coloro che erano morti o fuggiti; le genti viciniori che si erano sottomesse, i cosiddetti protetti (dhimmi), furono sottoposte al pagamento dei tributi. Si è parlato di mozarabi siciliani al pari di quelli di altre regioni quali la Spagna; le scarse fonti non consentono una risposta a questi problemi se non soltanto alla luce di elementi religiosi e linguistici. È probabile che cristiani siciliani siano diventati nel tempo arabofoni e bilingui soprattutto nei grandi centri urbani e negli immediati dintorni nel contatto quotidiano con i dominatori musulmani: ci riferiamo in particolare a quegli elementi che entrarono al servizio dell’amministrazione dello stato assimilandosi ai musulmani pur rimanendo cripto-cristiani.7 Chi forse si trovò a migliorare la propria condizione furono i convertiti all’Islam che si videro affrancati dalla schiavitù diventando individui liberi con gli stessi diritti di tutti gli altri musulmani: a gran parte di loro andarono di certo le terre dove il latifondo fu spezzato e frazionato permettendo così la coltura intensiva.8 La toponomastica rurale di origine araba è una conferma della prevalenza della piccola proprietà, in primis, in Val di Mazara, la prima terra arabizzata e rimasta tale con una fitta popolazione rurale fino ai tempi del viaggiatore Ibn Giubayr che visitò l’isola sullo scorcio del XII secolo. Grazie anche ad una fitta rete di canali che - cosa allora sconosciuta in Europa - portavano l’acqua fin dentro gli ambienti domestici, vi si coltivavano il cotone, la canapa, il papiro, gli ortaggi dal carciofo allo spinacio, la frutta, in particolare gli agrumi, la canna da zucchero, i datteri, i gelsi, la classica palma da dattero. A fianco della tradizionale coltivazione del grano, compreso orzo e segale, si aggiunsero l’ulivo e la vigna; e nella cucina entrarono le spezie, dalla cannella allo zenzero, dalla noce moscata ai chiodi di garofano, dallo zafferano al cardamomo. I primi coltivatori furono certamente autoctoni a fronte della tradizionale tendenza dell’arabo per la pastorizia e la guerra; ma in breve tempo conquistati e conquistatori si amalgamarono - di qui le nuove colture e soprattutto il fiorire di giardini e acqua, la predilezione per i profumi, i bagni e le piscine. 30
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Nell’832, cinque mesi dopo la presa di Palermo, Ziyadat Allah nominò il cugino Abu Fihr governatore della Sicilia: per il sovrano aghlabita era indispensabile avere in Sicilia una persona di fiducia perché c’era il timore di rivendicazioni spagnole o indipendentiste. Trascorsi due anni, nell’834 Abu Fihr intraprese una nuova spedizione contro Castrogiovanni: malgrado le perdite inflitte al nuovo turmarca Alessio, la roccaforte resistette sia in quell’occasione sia all’attacco dell’anno seguente. Prima di rientrare a Palermo Abu Fihr inviò una parte dei suoi uomini contro Taormina: ma l’esercito si ribellò e l’uccise. Dall’Ifriqiyyah fu mandato a sostituirlo come comandante dell’esercito e governatore pro tempore Fazl ibn Ya‘qub che rinnovò gli attacchi a Siracusa e a Castrogiovanni assalendo anche le isole Eolie e forse anche Tindaro: pochi mesi dopo Ziyadat Allah nominò governatore il fratello di Abu Fihr, Abu al-Aghlab Ibrahim. Il nuovo governatore si preoccupò subito di potenziare la flotta con unità incendiarie, adoperando quel “fuoco greco”, una miscela di salnitro, zolfo e calce viva, che i bizantini avevano usato per la prima volta, con effetti devastanti, contro gli Arabi di Mu‘awiya che assediavano Costantinopoli nella guerra dei sette anni (674-680). L’11 giugno 838 morì Ziyadat Allah; gli successe il fratello Muhammad ibn al-Aghlab (838-841). Durante i suoi quindici anni di governatorato Abu al-Aghlab Ibrahim allargò con una conquista dopo l’altra il dominio musulmano nell’isola: coadiuvato da due validi generali ai quali affidò l’esercito, il governatore rimase sempre a Palermo rivelandosi un ottimo amministratore. La prima conquista più importante fu Messina nell’842: oltre a dominare il canale tra l’Ifriqiyyah e la Sicilia, gli Arabi controllavano ora anche lo stretto. Si intensificano in questo periodo le relazioni commerciali e gli incontri-scontri tra gli arabi di Sicilia e le repubbliche marinare del Tirreno quali Gaeta, Napoli, Amalfi. Ne accenna in un Libro dei climi il geografo e viaggiatore persiano al-Istakhri (metà X sec.): Frequentano il Mediterraneo le navi de’ Musulmani e dei Rum; e gli uni sogliono passare alla costiera [abitata] dagli altri e farvi preda. Talvolta s’incontrano [in questo mare] gli eserciti delle due genti, con cento e più legni da guerra per parte, e combattono su l’acqua.9
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Nell’835 Andrea, duca di Napoli, aveva chiesto l’appoggio del governatore di Palermo per liberarsi dall’assedio del longobardo Sicardo che aspirava ad ingrandire il principato di Benevento con uno sbocco al mare. Nell’838, su richiesta o consiglio del duca di Napoli che voleva creare difficoltà a Sicardo, una flotta araba era salpata dalla Sicilia, aveva attraversato lo Jonio e il Canale d’Otranto e assalito per la prima volta Brindisi. Sicardo si era così precipitato, via terra, per difendere la città che faceva allora parte del principato di Benevento, ma ne fu sconfitto: saccheggiata la città, gli Arabi se ne tornarono in Sicilia. Alla fine dell’840 o agli inizi dell’841 forze berbere dall’Ifriqiyyah tentarono un attacco a Bari, "Barah [...] situata ad una distanza di quindici giorni, più o meno, da Barqah [l’attuale Cirenaica].10 Secondo il diritto islamico (fiqh) gli scambi commerciali si svolgevano nel rispetto di precise norme. Da alcuni passi estratti dall’opera di Muhammad ibn Sahnun11 risulta che il traffico marittimo con gli infedeli era regolato nel seguente modo:
Per le navi dei Cristiani catturate in mare, in prossimità dei porti (controllati da Arabi) o da essi lontano, bisognava distinguere due casi. Se le navi sottoposte a controllo praticavano il commercio con i Musulmani era illecito impossessarsene a meno che fossero di passaggio per porti arabi verso lidi non arabi. Se, invece, si trattava di navi che di solito non praticavano il commercio con gli Arabi, la loro cattura era ritenuta lecita (halal). Anche per le navi fermate in alto mare, provenienti da porti francesi, se l’equipaggio dichiarava di essere sotto la protezione (dhimma) del sovrano di al-Andalus (Spagna musulmana) al quale pagava la giziah, tassa di protezione personale o capitazione, bisognava considerare due possibili soluzioni: o l’equipaggio dimostrava con documenti quanto dichiarato o le navi stesse erano catturate come bottino di guerra. Nel caso in cui era riconosciuta valida la protezione dichiarata, se questa era dimostrata da persone di dubbia onestà le medesime erano sottoposte a giuramento.12
Questo tipo di regolamento serviva agli Arabi per rafforzare gli scambi commerciali con i non-musulmani e per bloccare la navigazione nei mari interni qualora le città rivierasche non avessero accettato la protezione araba: ecco perché Gaeta, Napoli, Amalfi e altre città portuali erano state costrette ad accettare, volenti o nolenti, un’alleanza con i musulmani. Non si trattava dunque di un problema religioso, ma esclusivamente economico anche se il Papa tuonava contro i “perfidi Saraceni il cui principio era la distruzione dei segni del cristianesimo e la conquista delle altrui proprietà senza diritto e 32
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senza ragion legale” e minacciava scomuniche nei casi recidivi: e pensare che tra gli alleati dei musulmani c’era persino il vescovo-duca di Capua, Landolfo.13 Come si può notare, sin dai primi anni della lenta ma costante islamizzazione della Sicilia, gli Arabi si erano avventurati nello Jonio e nel Tirreno, spesso inserendosi nelle vicende locali delle città costiere della Campania, sfruttandone le discordie, con lo scopo di emarginare sempre più Bisanzio dal Mediterraneo centrale. Dopo Messina, conquistata con l’aiuto di Napoli, caddero in mani arabe Modica nell’845, Lentini nell’846, Ragusa nell’849, mentre i piccoli centri bizantini preferirono sottomettersi con il pagamento dei tributi. Lungo è l’elenco delle località conquistate, non più che date e nomi, ma significativo della graduale sottomissione dell’isola, elenco che si rileva dalla Cronaca di Cambridge, un testo anonimo composto in Sicilia tra la fine del X e gli inizi dell’XI secolo.14 Il governatore Abu al-Aghlab Ibrahim morì il 17 gennaio dell’851 (10 ragiab 236 H): fu sostituito da ‘Abbas ibn Fazl scelto sul posto dall’esercito e poi confermato dal quinto emiro aghlabita Muhammad I (841-856). Fiero capo militare, ‘Abbas ibn Fazl rinnovò gli attacchi a Castrogiovanni, scorazzando per tutta la Sicilia e devastando le campagne di Catania, Siracusa, Noto, Ragusa; nell’853 assediò Butera facendo un gran numero di prigionieri che vennero ridotti in schiavitù. Cinque anni dopo conquistò Cefalù e nel gennaio dell’859 occupò la capitale bizantina, quella Castrogiovanni che aveva resistito per oltre trent’anni agli attacchi musulmani. Secondo una cronaca araba la città fu espugnata con l’aiuto di un traditore che ne aveva indicato la via attraverso un camminamento nascosto. Stando al Kitab al-kamil fi‘t-ta'rikh, ossia “Il libro della storia perfetta”, di Ibn al Athir:
Il [traditore] mostrò loro il luogo donde conveniva entrare per prender la città. Appoggiate le scale, salirono sul monte e arrivarono, poco innanzi l’alba, a piè delle mura della città, mentre le scôlte dormivano. Si ficcarono per una porticina [praticata] nel muro, dalla quale entrava l’acqua in città, e di là anco si buttavano le immondizie. Quando tutti i Musulmani furon dentro, dettero addosso ai Rum, ed aprirono le porte della città: dalle quali entrò al-‘Abbas col resto dell’esercito, in su l’ora della preghiera mattutina del giovedì, quindici di shawwal 244 H (24 gennaio 859). Immediatamente egli vi acconciò una moschea, nella quale rizzò il pulpito e [salivvi per] pronunziare la khutbah15 il venerdì. Ei messe a morte tutti i combattenti che trovò; i Musulmani presero figliuole di patrizii coi loro corredi e figliuoli di re. Trovarono in Castrogiovanni [tante ricchezze] ch’egli è impossibile a descriver-
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le: quel giorno sì che fu umiliato di molto il politeismo in Sicilia!16
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La conquista di Castrogiovanni fu certamente un evento di particolare importanza per quell’epoca se si ritrova, narrata in forma più o meno ampia, presso numerosi storici arabi. A quella di Ibn Athir del XIII secolo aggiungiamo un brano ripreso dal Kitab ar-rawd al-mi'tar fi khabar al-aqtar, ossia “Il libro del giardino aulente sulle notizie dei paesi”, del poligrafo al-Himyari del XIV secolo:
Il luogotenente di al-‘Abbas camminò con il prigioniero fino ad arrivare ad un condotto attraverso cui defluiva l’acqua della città; qui fece entrare i propri uomini introducendovisi egli stesso. Fu così che l’infedele li guidò alla porta della fortezza, i cui abitanti non erano all’erta. I Musulmani passarono a fil di spada i custodi uccidendoli; la popolazione della città, udite le grida, accorse da ogni parte verso la porta della fortezza, ma i Musulmani continuarono a battersi fin quando riuscirono ad aprirla. A questo punto le truppe che si trovavano all’esterno irruppero nella città al grido di "Allah è Massimo". I Cristiani si dettero alla fuga, mentre i Musulmani si sparpagliarono per l’abitato uccidendo e razziando finché - spogliata la città di tutte le sue ricchezze - la misero a fuoco. Ed era quello il centro più imponente, più esteso, più ricco di frumento che i Bizantini possedessero in quelle contrade! La sua conquista avvenne nel mese di shawwal del 244 [gennaio 859]. Abu Ibrahim [al-Aghlab] inviò ad al-Mutawakkil un messaggero ad annunciare la nuova conquista e con lui sontuosi doni ed i migliori elementi tra gli schiavi e le schiave che erano stati presi.17
A seguito della caduta di Castrogiovanni l’imperatore bizantino Michele III (842-867) si vide costretto ad inviare una flotta di trecento chelandrie o salandrie, navi da guerra a vela latina e ad un ordine di remi, che giunsero a Siracusa nell’autunno dell’859 al comando di Costantino Contomita. Di lì si diressero verso la costa settentrionale dell’isola: parecchi centri bizantini che si erano già sottomessi si ribellarono sperando in una vittoria. Nella battaglia navale che ne seguì gli arabi inflissero ai bizantini una pesante sconfitta affondando un terzo della flotta di Contomita. I due eserciti si affrontarono nei pressi di Cefalù: sconfitti i bizantini, ‘Abbas ibn Fazl si spostò a Castrogiovanni che fortificò insediandovi una colonia araba. Quindi prese la strada per una nuova spedizione nel Siracusano, ma ammalatosi al ritorno morì nei pressi di Caltagirone il 14 agosto dell’861. Gli Arabi di Sicilia elessero a governatore lo zio di ‘Abbas, Ahmed ibn Ya‘qub, nomina ratificata da Qayrawan: il che ci dimostra la forza dei pretoriani arabi che facevano e disfacevano a loro piacimento, tanto è vero che pochi mesi dopo deposero Ya‘qub sostituendolo con il figlio di ‘Abbas. Questa volta l’emiro aghlabita provvide di perso34
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na ad inviare a Palermo un suo fidato, Khafagia ibn Sufyan, che morì anch’egli assassinato dai suoi pretoriani il 27 maggio 871 - sorte comune a molti dei suoi effimeri successori. Il ventennio 859-878 fu un periodo di costante guerra nella Sicilia orientale con scorrerie e spedizioni punitive arabe contro Taormina, Catania, Siracusa, Noto, Ragusa. L’esercito arabo era padrone dell’intera zona anche se assassinii e congiure erano all’ordine del giorno tra le fazioni a Palermo e nell’esercito: resistevano a fatica solo le città lungo il mare e quelle chiuse tra le mura. In quel tempo, il 24 agosto 870, gli Arabi aghlabiti occuparono, con il concorso di truppe siciliane, l’isola di Malta che rimase nelle loro mani sino al 1090, lasciando un’impronta indelebile nella lingua maltese: Bisanzio aveva così perduto un’altra importante pedina nel Mediterraneo. Nell’875 a Qairawan, alla morte di Ziyadat Allah II, era succeduto il fratello Abu Ishaq Ibrahim II (875-902), un emiro di gran tempra e qualità, pari solo ai suoi due predecessori, il capostipite Ibrahim ibn al-Aghlab e il terzo emiro Ziyadat Allah I. Al governo dell’isola pose Gia‘far ibn Muhammad cui spettò l’onore di conquistare Siracusa. A cinquant’anni di distanza dal primo attacco di Asad ibn al-Furat nell’827, Gia‘far sferrò un primo assalto contro l’antica capitale bizantina: malgrado la popolazione fosse stata decimata dalle pestilenze, guerre ed emigrazioni, i siracusani si difesero con coraggio ben sapendo che si trattava di una questione di vita o di morte. Da Costantinopoli il primo imperatore di casa Macedone, l’energico Basilio I (867-886) inviò rinforzi condotti dall’ammiraglio Adriano e per il momento Gia‘far fu costretto a togliere l’assedio e tornarsene a Palermo. Ma l’assedio fu ripreso con vigore nella primavera dell’anno dopo, l’878, da un luogotenente del governatore, un Abu Isa o forse Abu Ishaq ibn al-Hagib. Per mesi gli abitanti, ritiratisi nel nucleo originario dell’isoletta di Ortigia, sostennero l’attacco: battute le mura e sbrecciate dalle macchine da guerra musulmane, crollata la Torre sul Porto Grande, la città capitolò tra il saccheggio e le stragi consuete. I pochi che si salvarono furono deportati a Palermo: smantellata e rasa al suolo, Siracusa fece la fine di Cartagine. Ricostruita, riemerse un secolo dopo con Ibn ath-Thumna durante il periodo degli effimeri regni provinciali. L’avvenimento è registrato nella Cronaca di Cambridge con un lapidario al “ventuno del mese di maggio (878) giorno di mercoledì” e in 35
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maniera più dettagliata da Ibn al-Athir, cosa questa insolita nella storiografia araba, generalmente scarna e sobria:
Quest’anno, il quattordici di ramadan (20 maggio 878), i Musulmani si impadronirono di Siracusa, una delle prime città di Sicilia: il che seguì in questo modo. L’emiro di Sicilia, Gia‘far ibn Muhammad, avea fatta una scorreria [ne’ pressi di] questa città e guastate le messi [nel suo territorio] e in quelli di Catania, Taormina, Rametta e d’altri paesi di Sicilia rimasti in mano dei Rum. Messo poi il campo a Siracusa, assediolla per mare e per terra, e s’impadronì di alcuni de’ suoi borghi. Arrivate in questo delle navi di Rum in aiuto della città, Gia‘far mandò contro di quelle un’armata che le [vinse e] prese. Potendo allora i Musulmani [volgere tutte le forze] all’assedio, strinsero la città per nove mesi: [alfine] la espugnarono; ucciservi parecchie migliaia d’uomini e fecero tanta preda, quanta non se n’era mai raccolta in altra città. Dei [Cristiani] di Siracusa non campò che qualcuno qua e là. I Musulmani rimasero nella città per due mesi, poi la distrussero: ed allora venne un’armata di Costantinopoli; la quale scontratasi coi Musulmani, fu vinta; presine quattro legni e messi a morte quanti v’erano. I Musulmani se ne tornarono a casa l’ultimo di zu 'al-qa'dah (3 agosto 878). [Del resto di tutti questi eventi il solo] Iddio ne sa il vero.18
Sulla caduta della città ci rimane anche una cronaca bizantina coeva, l’epistola del monaco e grammatico Teodosio che, dal carcere di Palermo ove era stato portato prigioniero, scrisse a un ecclesiastico amico, Leone Arcidiacono, narrandogli il drammatico epilogo: i nove mesi dell’assedio, la speranza nel soccorso bizantino, la carestia, la fame, e la peste, l’assalto finale, la sorte tragica della città e dei suoi abitanti. Il racconto si dilunga poi sulle vicende personali, la cattura assieme al vescovo nella cattedrale, le sofferenze della prigionia mentre prosegue l’eccidio e la spoliazione della capitale della Sicilia bizantina. E infine il viaggio, l’ingresso nella Palermo araba tra folle di curiosi, la discussione teologica fra l’emiro superbo e insolente e il vescovo fermo nella sua dignità.19 Rimanevano ancora da conquistare Taormina e piccole sacche di resistenza all’interno dell’isola, soprattutto in Val Dèmone e nel Catanese. Le discordie interne non favorivano azioni in grande stile: gli attacchi arabi si esaurivano in saccheggi e distruzioni permettendo la sopravvivenza di nuclei bizantini che vivevano abbandonati a sé stessi, in maniera indipendente, in una condizione di estrema insicurezza. In Sicilia si assiste in quegli anni ad uno scontro fra le nuove generazioni nate nell’isola e quelle provenienti dall’Ifriqiyyah, oltre che tra arabi e berberi, i primi in maggioranza a Palermo, i secondi a 36
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I musulmani in Italia
Girgenti: tra l’886 e l’894 infuriarono almeno due rivolte, la prima sedata nell’886-887 con truppe inviate dagli aghlabiti, la seconda che durò cinque anni, dall’889 all’894. La situazione fu alla fine presa di petto dall’emiro in persona: visti gli insuccessi, Ibrahim II mandò in Sicilia il figlio ‘Abdallah che aveva già dato prova in patria soffocando altre rivolte in Ifriqiyyah. Questi sbarcò a Mazara il 24 luglio 900 con centoventi navi da trasporto e quaranta da guerra: i ribelli mossero contro di lui da Palermo ma furono sconfitti. Poi per bloccare i soccorsi bizantini inviati a Taormina e pronti in Calabria, ‘Abdallah passò lo stretto e prese d’assalto Reggio nel giugno 901. A questo punto l’emiro richiamò il figlio al quale cedette la sovranità dell’Ifriqiyyah e si preparò a passare di persona in Sicilia, secondo alcuni perché preso forse dallo scrupolo di aver mancato ai suoi doveri di musulmano riprendendo così il gihad interrotto, secondo altri perché il figlio non aveva proseguito l’avanzata sul continente. Nel luglio 902 Ibrahim II assunse a Palermo il governo diretto dell’isola: marciò subito dopo su Taormina che fu conquistata il 1° agosto, mentre la guarnigione bizantina fuggì imbarcandosi sulle navi al comando dell’ammiraglio Eustazio Argiro, accusato poi di negligenza o tradimento. La popolazione rimasta fu massacrata e la città data alle fiamme: si arresero contemporaneamente Mico, Aci, Rametta. Di quest’impresa di Brachimus - questo il suo nome nelle cronache altomedievali - rimangono le descrizioni vivaci di Giovanni Diacono. Il piano dell’emiro non doveva essere solo la conquista di Taormina per la quale sarebbe bastato l’intervento del figlio con altri rinforzi, ma prevedeva con tutta probabilità la continuazione del gihad in terraferma. Il 3 settembre Ibrahim II attraversò lo stretto a Messina e risalì la Calabria con l’intenzione di giungere a Roma e poi a Costantinopoli: sostò nei pressi di Cosenza (in ar. Kushtah) dove ricevette gli ambasciatori delle città atterrite da un forte esercito in marcia nel nome di Allah - era il mese di ramadan, il mese del digiuno e della preghiera per i musulmani osservanti.
Attraversò l’ultima Calabria senza trovar nemici; sostò non lungi da Cosenza; dove, traendo al campo ambasciatori delle atterrite città a chieder patti, Ibrahim li intrattenne alquanti dì; poi rispose nella insolenza della vittoria: “Tornate ai vostri e dite che renderò cura io dell’Italia e che farò degli abitatori quel che mi parrà! Speran forse resistermi il regolo greco o il franco? Così fossermi attendati qui innanzi con tutti gli eserciti! Aspettatemi dunque nelle città vostre, m’aspetti Roma, la città del vecchiarello Pietro, coi suoi soldati germanici; e poi verrà l’ora di
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Vito Salierno
Costantinopoli”.20
Il sogno dell’ultimo grande aghlabita si infranse sotto le mura di Cosenza dopo alcuni giorni di assedio: colto da dissenteria, vi morì il 23 ottobre.
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Intanto i Cosentini che ignoravan la morte dell’emiro, chiesero l’aman; ed ebberlo. I Musulmani, rimasti sul posto fino al ritorno delle [gualdane] mandate già d’ogni parte [a far preda], marciaron poi tutti insieme e fecero ritorno alla città di Palermo, portando seco [il cadavere di] Ibrahim. Quivi lo seppellirono e fu fabbricato un castello sopra la sua tomba. Si portò poi in Affrica tutto l’esercito.21
Era quella di Ibrahim II un’avventura dettata solo dal suo zelo religioso? o non piuttosto un piano preordinato visti i precedenti insediamenti musulmani a macchie di leopardo quali gli effimeri emirati di Bari (841-871) e Taranto (840-880), la presenza di truppe saracene in Puglia e Lucania, forze mercenarie pressoché indipendenti, l’esistenza dei due ribat del Garigliano (883-915) e di Agropoli (870-916) e i legami, patti o accordi che fossero, esistenti tra gli Arabi di Sicilia e le repubbliche marinare lungo le coste del basso Tirreno? Giungere a Roma non era cosa difficile: i problemi sarebbero venuti dopo, ma un conquistatore non si pone queste domande, si preoccupa dell’obiettivo immediato; la situazione del momento avrebbe determinato il da farsi. Una volta occupata l’Italia meridionale si sarebbe prodotta una destabilizzazione nel centro del Mediterraneo che avrebbe causato un’intrinseca debolezza dell’Oriente bizantino esponendolo agli attacchi dal vicino Oriente. È anche vero che Venezia si sarebbe mossa per non essere chiusa nell’Adriatico, ma la Serenissima era una potenza navale non terrestre: poteva fornire abili marinai e bravi combattenti sul mare, ma non aveva un esercito. E se la spinta araba iniziale si era esaurita, non mancavano le forze giovani dei nuovi stati indipendenti all’interno dell’ecumene arabo. Con la morte di Ibrahim II, figura controversa e specchio delle instabilità del suo tempo, si chiudeva per la Sicilia il periodo di guerra, ma terminava anche il ruolo degli aghlabiti - gli ultimi due, ‘Abdallah (902-903) ucciso in una congiura e il figlio Ziyadat Allah III (903-909), non fanno storia. L’isola, ormai arabizzata, visse anni di tregua e anche la popolazione cristiana si sentì meno oppressa rispetto a quella sottoposta sul continente al dominio longobardo o franco. 38 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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I musulmani in Italia
I rapporti tra cristiani e musulmani in Sicilia erano regolati sulla base delle norme giuridiche già messe in atto in altri territori conquistati: i tributi dovuti dalla gente protetta (ahl al-dhimma) erano la giziah, l’imposta di capitazione sulla persona, e il kharag, l’imposta sulla terra posseduta, e tributi particolari per la popolazione di città e borghi, tutti elencati nei registri (defetari) introdotti per la prima volta. Di solito ogni comunità risolveva i problemi interni con tribunali propri: i cristiani, pur godendo pieni diritti in seno alla loro comunità, erano sottoposti ad alcune restrizioni. Un cristiano non poteva sposare una musulmana, mentre il contrario era lecito; la testimonianza e il prezzo del sangue valevano meno di quelli di un musulmano, di solito la metà; infine i cristiani erano costretti a portare un segno di riconoscimento di colore blu, anche se spesso tale norma era scarsamente osservata. La Sicilia seguiva il sistema di giurisprudenza malikita, codificato da Malik ibn Anas che era nato, vissuto e morto nel 795 a Medina, la città dove il Profeta aveva trascorso parte della sua vita: la scuola sunnita ortodossa conservò più delle altre22 il valore della tradizione e si diffuse nel Maghreb e in Spagna. Ovviamente tutte queste restrizioni assieme ai tributi da pagare venivano meno in caso di conversione: non furono pochi i passaggi all’Islam, facilitati da una pratica semplice, ossia la volontà espressa di abiurare e il compimento di atti rituali. Eccettuati i momenti inevitabili di tensioni, che pure si verificarono non solo nei confronti dei cristiani ma anche all’interno della comunità musulmana tra arabi, berberi, immigrati e residenti da lungo tempo o nativi, ci fu uno sviluppo dei traffici mercantili, un incremento demografico, un maggior benessere derivato da un intelligente sfruttamento della terra sia con nuove colture che nell’utilizzo di una rete di canali per l’irrigazione. Non dimentichiamo l’uso della nòria (in ar. na'ura) che fu un contributo arabo allo sfruttamento dell’acqua per irrigare i campi: si trattava di una ruota meccanica per l’elevazione dell’acqua, azionata da schiavi o da un quadrupede, utilizzata ancora sino a pochi decenni fa nelle campagne della Sicilia e della Puglia. Il problema idrico era sempre stato una delle principali preoccupazioni dei musulmani: si ricordi che a Qayrawan per risolvere questo problema di vitale importanza furono creati in poco più di un secolo, tra il 740 e l’862, quindici bacini idrici di cui due sopravvivono ancor oggi. 39
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Vito Salierno
Questa coesistenza e collaborazione sul piano sociale e amministrativo miglioreranno nel X secolo sotto i Kalbiti, che fedeli ai Fatimidi si creeranno un emirato ereditario per quasi cento anni.
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Il colpo agli Aghlabiti fu inferto da un missionario sciita,23 Abu ‘Abdallah, che si presentò in Ifriqiyyah affermando di essere un discendente di ‘Ali e di Fatimah, rispettivamente genero e figlia del Profeta: la sua propaganda attecchì fra la popolazione rurale. L’ultimo degli Aghlabiti rinunciò alla lotta e si rifugiò prima a Tripoli, poi in Egitto. Abu ‘Abdallah, sostenuto dai Berberi Kutama, pose sul trono di Ifriqiyyah un certo Sa‘id che si proclamò califfo prendendo il pomposo titolo di ‘Ubaid Allah al-Mahdi (909-934), ossia “L’Atteso” secondo l’annuncio fatto dal suo protettore dell’avvento di colui che avrebbe riportato giustizia e ordine prima del Giudizio Universale. Nel documento programmatico Abu ‘Abdallah incluse un paragrafo rivolto alla popolazione della Sicilia:
E voi o gente dell’isola di Sicilia meritate più di quanto ho incaricato di elargire in fatto di benefici e benevolenza e che ho concesso. Ne siete meritevoli a maggior ragione, per essere la vostra terra più prossima a quella degli associazionisti (al-mushrikin) e per il vostro gihad contro i miscredenti peccatori (al-kufrah az-zalimin). Colmerò – se Dio vorrà – la vostra isola di cavalieri e fanti tra i credenti nella vera fede (al-mu‘minin) che hanno il compito di combattere sulla via di Dio per il vero gihad. Che Dio renda forti, tramite loro, la religione e i musulmani, ed umilii, loro tramite, l’idolatria e gli idolatri (ash-shirk wa’l-mushrikin). La potenza e la forza appartengono a Dio l’Altissimo e l’Onnipotente e Lui a noi basta e Lui è ottimo difensore (Iftitah).24
Per quarant’anni la Sicilia ricevette o si diede un governatore dopo l’altro senza troppi entusiasmi: l’isola diventò il rifugio di molti musulmani sunniti costretti ad emigrare per motivi politici e religiosi. Tra Arabi e Berberi in Sicilia si affievolirono i contrasti iniziali e nell’isola regnò un clima di maggior tolleranza malgrado le lotte politiche ricorrenti e la scarsa propensione dimostrata verso i Fatimidi, la nuova dinastia dell’Ifriqiyyah che si era insediata nella nuova capitale di Mahdiyyah, costruita nel 912 sul litorale del Sahel, all’altezza di Pantelleria. Ad un governatore favorevole agli Aghlabiti ne successe nel 910 40
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I musulmani in Italia
uno favorevole ai Fatimidi: Ibn Abi Khinzir, già prefetto di polizia a Qayrawan, che diede vita ad un regime di terrore e fu sostituito poco tempo dopo, su richiesta dell’aristocrazia araba di Palermo, da un altro uomo di fiducia del Mahdi, ‘Ali ibn ‘Umar al-Balawi. La popolazione si accorgeva di queste diatribe di palazzo durante la preghiera del venerdì quando prima della khutbah si pronunciava il nome del califfo fatimide o abbaside. Con l’affermazione del fatimismo la scuola malikita ne risentì sia in Ifriqiyyah che in Sicilia: per non piegarsi allo sciismo dei Fatimidi, i malikiti optarono per l’hanafismo che pur essendo anch’esso ortodosso non era stato avversato né nel Maghreb né in Sicilia dallo sciismo ufficiale. Nel 912 la nobiltà araba di Palermo mostrò il suo dissenso dai Fatimidi scegliendosi un proprio capo, Ziyadat Allah ibn Qurhub, già capitano aghlabita: in quel periodo di interregno (912-916) nella khutbah fu pronunciato solo il nome del Califfo abbaside al-Muqtadir Billah (908-932) che aveva dato ad ibn Qurhub l’investitura. All’inizio furono d’accordo tutti, Arabi e Berberi, che speravano di riavere quell’autonomia di cui avevano goduto sotto gli Aghlabiti. Il nuovo governatore, uomo devoto al califfo di Baghdad, si trovò però di fronte ad un compito impossibile: il confronto diretto con i Fatimidi di Ifriqiyyah e la guerra santa in Calabria, non ultima la lotta sorda da sempre esistente tra l’elemento berbero forte a Girgenti e quello arabo dominante a Palermo che portò ad una nuova rivolta. Dall’Ifriqiyyah giunsero a Trapani le truppe fedeli dei Fatimidi che conquistarono Palermo di sorpresa dal mare, inviarono Ibn Qurhub in Africa dove venne messo a morte e lasciarono come governatore Salim ibn Abi Rashid. L’indipendenza di fatto di cui aveva goduto la Sicilia cessò e l’isola ebbe governatori di nomina fatimide. Alla morte di al-Mahdi, il figlio Qa‘im (934-946) adottò una politica di tolleranza sia nei confronti dei musulmani sunniti che dei cristiani: accettò di sostituire il governatore Salim ibn Abi Rashid, un duro inviso ai notabili di Palermo, con il più mite Khalil ibn Ishaq, il fondatore del quartiere della Khalisa (937), nota tra il popolo con il nome di Calsa, una zona fortificata prospiciente il porto, alla fine dei due assi portanti che si snodano oggi fino al Palazzo dei Normanni e alla Cappella Palatina. La Khalisa fu modellata secondo il piano topografico di Mahdiyyah: chiusa da quattro porte, era nel X secolo una cittadella sicura, che diventò il centro del potere con la residenza ufficiale del governatore, la sua dimora personale, l’arsenale, la prigione, 41
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Vito Salierno
la zecca e le sedi dei dipartimenti militare e civile. Il sud dell’isola continuò ad essere un focolaio di fermento: come sempre, nei periodi di minore pressione dal Maghreb, la zona tra Mazara e Girgenti in prevalenza berbera si contrapponeva a quella di Palermo che era formata dalla nobiltà araba. Nel 937 era scoppiata a Girgenti una rivolta che si propagò a Palermo e che fu sedata da alQa‘im con la sostituzione di Khalil ibn Ishaq al governo dell’isola, “un Paese inebriato dal benessere, infrollito dalla vita comoda” secondo la considerazione del successore di al-Qa‘im, al-Mansur (946-953) in una lettera dell’epoca relativa agli insorti di Sicilia. Tra il 943 e il 947 la sovranità dei Fatimidi corse in patria una seria minaccia ad opera dei Kharigiti, secessionisti sciiti intransigenti: varie città dell’Ifriqiyyah caddero nelle mani di Abu Yazid che assediò per un anno la stessa capitale Mahdiyyah. Tutto ciò ebbe notevoli ripercussioni sulla Sicilia che vide l’arrivo di profughi fatimidi, in maggioranza artigiani, soldati e rifugiati politici con i soliti contrasti tra berberi autoctoni e berberi immigrati nel sud dell’isola. Durante la rivolta kharigita il califfo al-Mansur nominò una sua creatura a governare la Sicilia, Hasan al-Kalbi (947-953): con lui inizia una vera e propria dinastia, quella dei Kalbiti, semi-indipendente ma fedele ai Fatimidi anche quando il legame si allentò con lo spostamento della sede califfale dall’Ifriqiyyah al Cairo in Egitto nel 969. Trentacinque anni durò il governatorato di Hasan al-Kalbi e dei suoi due figli Ahmad ibn Hasan (953-969) e Abu al-Qasim (970-982). Si trattò di un governo attivo caratterizzato dal consolidamento del potere musulmano nella zona più recalcitrante e tutto sommato di recente conquista quale il Messinese, dai tentativi di espansione nell’Italia meridionale e dagli scontri con i bizantini che non si erano arresi alla perdita della Sicilia sperando in una riconquista. Gli Arabi di Sicilia prestano ora una maggiore attenzione agli avvenimenti sulla penisola: nel 950 e nel 952 Hasan al-Kalbi si trasferì per due volte sulla terraferma. Nel frattempo, nel 949, il letterato imperatore bizantino Costantino VII Porfirogenito aveva tentato di riprendersi Cipro. Nel 950 truppe bizantine sbarcarono ad Otranto. Hasan al-Kalbi chiese al califfo al-Mansur rinforzi per portare il conflitto in terraferma: il 2 luglio giunsero a Palermo tremilacinquecento uomini e settemila cavalli con navi da trasporto e da guerra al comando del liberto Farag Muhaddad. Le forze africane si unirono a quelle siciliane e Hasan al-Kalbi partì il 12 luglio alla volta di Messina, attraversò lo 42
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I musulmani in Italia
stretto e assalì Reggio; risalita la Calabria assediò Gerace e pose poi il campo a Cassano allo Jonio, ma sopraggiunto l’inverno, concluse la tregua di un anno e ripassò lo stretto; lasciata la flotta a Messina, se ne ritornò a Palermo. Nel frattempo le forze bizantine si riorganizzarono in Calabria: nella primavera del 952, l’8 maggio, ci fu un nuovo scontro a Gerace che si concluse con la vittoria dei musulmani. Hasan al-Kalbi se ne ritornò poi a Reggio dove - secondo l’Amari - fece costruire una moschea che scomparve nel giro di quattro anni. Nel marzo 953, alla morte del califfo al-Mansur, salì al trono il figlio al-Mu‘izz (953-975): Hasan al-Kalbi, lasciato il governo dell’isola al figlio Ahmad ibn Hasan, riconfermato poi dal califfo, partì per Mahdiyyah. Il nuovo califfo aveva bisogno di lui in patria per intraprendere l’impresa d’Egitto e per punire il califfo di Spagna ‘Abd arRahman, reo di aver assalito una nave in Sicilia: gli Arabi di Spagna e gli Arabi di Sicilia, alleati un secolo prima, sono ora rivali e non c’è nulla di meglio per al-Mu‘izz che ordinare una spedizione punitiva contro la base di Almería. Mentre il figlio rimaneva a Palermo, Hasan al-Kalbi condusse un’incursione di due anni, nel 962-963, per sottomettere definitivamente il Messinese, dove parecchi centri cristiani vivevano ancora in una sorta di semi-indipendenza. Nel 962 si riprese Taormina, ribattezzandola al-Mu‘izziya in onore del califfo fatimide. Lo stesso capitò a Rametta nel 965 malgrado gli aiuti mandati da Niceforo Foca, il bellicoso imperatore bizantino, la cui politica era tutta contenuta nel binomio armi e terra: l’ammiraglio bizantino Niceta fu fatto prigioniero e inviato in Ifriqiyyah, ma Hasan al-Kalbi perse la vita durante l’assalto a Rametta. I successi musulmani furono enfatizzati dal poeta di origini andaluse Ibn Hani in un Diwan in lode del califfo fatimide al-Mu‘izz: Tu hai ereditato i paesi che erano loro e la terra è distesa come prato e tappeto che si allungano come guida. [...] Quest’isola tra le tue terre di confine è quella che più si innalza, su di essa risplende la luce della profezia. [...] Ha preteso il Domestico difendere contro di te queste contrade meglio per lui sarebbe stato aver prima protetto i suoi territori, ha inviato una grande armata in aiuto ai mushrikin [idolatri] ed essa per prima soccombé sotto i colpi tuoi, legioni ha spinto avanti impavide, legioni han tentato trovare scampo nel mare fondo in preda alla paura
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Vito Salierno
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e i flutti, tuoi valenti sostenitori, li sopravvennero e le onde li affondarono e la tua spada li abbatté.25
Altri versi si riferiscono al ruolo della Sicilia nel Mediterraneo e alla sua posizione nel quadro geopolitico dell’epoca. Dieci secoli dopo il poeta-vate della nazione pakistana, Muhammad Iqbal (18771938) durante un suo viaggio in mare verso l’Inghilterra nel 1905, in vista delle coste siciliane, effonderà il suo pianto in una lirica Siqilliya (Sicilia), struggente ricordo delle antiche glorie dell’isola, diventata ora tomba della civiltà araba. Un tempo – dice – gli abitanti del deserto solcavano il mare Mediterraneo con le loro agili navi, facendo risuonare tutta l’isola del grido di battaglia; ora, invece, tutto piange nel mondo dell’Islam: piange il poeta persiano Sa‘di (1184-1291), l’usignuolo di Shiraz, sulla Baghdad distrutta nel 1258 per mano dei mongoli di Ulagu Khan, piange il poeta urdu Dagh (1831-1905) su Jahanabad (Delhi) conquistata dagli inglesi, piange il poeta arabo Ibn Badrun (m.1134) su Granada caduta in mano ai cristiani. E piange infine il poeta stesso, Iqbal, che riporterà in patria una visione della decadenza dell’Islam. Apriti al pianto, cuore, occhio bagnato di sangue! Di lontano t’appare la tomba della civiltà araba! Qui c’era un tempo una folla di abitatori del deserto, Qui solcavano un tempo le loro navi. Terremoti nei troni di re han portato, Nelle spade nidi di lampi albergavano. Messaggio d’un nuovo mondo fu il loro apparire, I tempi vecchi le loro spade divoravano impazienti. Al grido “risorgi”, vivo fu un mondo morto, Dalle catene degli affanni l’uomo fu liberato. C’è un orecchio che apprezzi il loro grido? Tacerà per sempre l’Allah-u-akbar?26
Nel primo secolo e mezzo dell’occupazione araba la cultura musulmana in Sicilia fu in prevalenza scolastica: vi abbondarono giuristi e insegnanti di scuole coraniche. Giurista era stato il primo conquistatore, Asad ibn al-Furat, che aveva seguito in patria sia gli insegnamenti della scuola malikita che quelli della scuola hanafita: a Qayrawan aveva tenuto corsi di fiqh (giurisprudenza) e di hadith (la Sunna o la consuetudine del profeta nella forma tradizionale), oltre a svolgere la funzione di qadi, giudice supremo. In Sicilia purtroppo il 44
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I musulmani in Italia
suo compito fu solo quello di mugiahid, martire per la fede: morì l’anno successivo alla spedizione. Luoghi di culto e annesse scuole coraniche fiorirono di certo sin dagli inizi: dalle cronache arabe si sa che a Castrogiovanni, espugnata nell’859, fu costruita una moschea con scuola - ricordiamo che la prima moneta coniata in Sicilia risale all’829, anno del primo assedio di Castrogiovanni: è un dirham di argento, con la data del 214 dell’Égira e i nomi dell’emiro Ziyadat Allah e del governatore Giawari. Fra i primi mediatori delle discipline arabe in Sicilia fu un discepolo di Asad ibn al-Furat, Ahmad ibn Muhammad ibn Qadim. Molti i nomi tramandatici dalle Tabaqat, le raccolte di biografie di eruditi: non breve l’elenco anche se fatto solo di menzioni, tra le quali si citano studiosi emigrati dall’Ifriqiyyah e oriundi siciliani (min ahl Siqilliyya) come Muhammad ibn Ibrahim ibn Abi Subayh (m.946) che si dice fosse talmente ligio all’ortodossia da portarsi a Palermo persino il sale per non servirsi di quello locale ritenuto di provenienza illecita o come il mistico Abu al-Hasan as-Siqilli al-Hariri (m.934). Fu solo nella seconda metà del X secolo che si svilupparono in Sicilia la poesia, le scienze tradizionali e la speculazione filosofica e, paradosso ma non tanto, fiorirono proprio quando il potere politico musulmano era al tramonto. Il primo viaggiatore e geografo che visitò la Sicilia e alcune zone dell’Italia meridionale quali Salerno, Amalfi, Napoli fu Ibn Hawqal (m.981), nativo dell’Iraq:27 fu in Sicilia e a Palermo nel 973 sotto il governatorato di Abu al-Qasim, l’emiro kalbita che combatté contro l’imperatore Ottone. Malgrado il suo cosmopolitismo, Ibn Hawqal si dimostrò poco tollerante nei suoi giudizi sui siciliani: probabilmente fu prevenuto nei loro confronti sia dal tipo di vita provinciale che dall’essere stato accolto con una certa aria di sufficienza e con scarsa ospitalità. Nelle sue espressioni fu eccessivamente severo: parlò di ottusità e ignoranza dell’élite siciliana, dei loro tratti antipatici e vizi che dice di aver descritto in un libro, andato perduto, il Kitab Siqilliyyah o “Libro della Sicilia”. Ne riportiamo da una redazione successiva un brano importante perché nella negatività dei giudizi troviamo le poche notizie disponibili sulle finanze e sull’economia dell’emirato siciliano: Quanto alla loro ricchezza, pur avendo essi pochi gravami, esigue spese e abbondanti raccolti, non si trova fra loro chi possegga una borsa di contante né l’abbia mai veduta, salvo che presso un sovrano, se è di quelli che lo frequentano e a lui
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hanno accesso. Sul denaro, le imposte e le ricchezze si valutano le condizioni degli abitanti delle città e delle provincie, oltre alla nobiltà e al valore ecc. Ma la ricchezza dell’isola di Sicilia a quest’età nostra, che è per essa fra tutte la più prospera e abbondante sotto ogni punto di vista e di leggi, comprendendovi il quinto, i raccolti, il reddito del vino, il testatico, i diritti marittimi, l’annuo tributo dovuto da quei di Calabria, i diritti di caccia e ogni altro cespite, ammonta in tutto a [...].28 I suoi raccolti e la sua fertilità, la sua produzione in cibi e bevande erano in antico larghi e abbondanti, come nei luoghi che ho indicato in capo al mio libro; ma quando io ci entrai, tutto si era di fertilità ridotto in carestia. I costumi dei signori di campagna sono lì come quelli in genere degli isolani, uomini di barbarica e incondita loquela, sordi e muti; quanto agli abitanti (del contado) cui i viaggi non abbiano un po’ raffinato, essi vivono in uno stato bestiale di ottusità e trascuranza d’ogni dovere, come appar chiaro al loro tratto, in opinioni sballate, e in una violenta avversione verso ogni straniero e forestiero che capiti da loro, privi quali sono di ogni socialità; in questo prendendo dalla popolazione cittadina, che anch’essa odia i mercanti e i forestieri colà in missione, di un odio che non ha pari presso alcuna generazione di tangheri a questo mondo, né presso i più rozzi e duri montanari. E tutto ciò nonostante che i loro interessi dipendano dagli importatori, e che essi abbian vivo bisogno dei viaggiatori, trattandosi di un’isola priva delle risorse degli altri paesi, eccettuato il grano, la lana, i panni a velo, il vino e lo zucchero, e una certa produzione di vesti di lino, che per dire il vero sono senza pari in bontà e buon prezzo: quelle che si producono colà di taglio doppio si vendono da cinquanta a sessanta ruba'i, e sono assai superiori alle analoghe che si comprano in Egitto per cinquanta o sessanta dinar. Ma tutto il resto, di prodotti occorrenti ed articoli, è importato e addotto sull’isola dal di fuori ...29
Puntuale la descrizione di Palermo, la città dalle infinite moschee, divisa in cinque quartieri: il Cassero (al-Qasr), la città propriamente detta, racchiusa da un alto muro di cinta, abitata dai mercanti con la moschea maggiore, già chiesa bizantina; la Calsa (al-Khalisah), ossia la cittadella del governatore che oltre agli uffici governativi, all’arsenale e al carcere aveva una piccola moschea e due bagni; il quartiere degli Schiavoni (Harat as-Saqalibah) con il porto e le abitazioni dei mercanti stranieri; il quartiere della Moschea (Harat al-Masgid) con il mercato e le botteghe; e infine il quartiere nuovo (Harat al-Giadidah). Ibn Hawqal cita l’esistenza di trecento moschee con annesse scuole; in realtà - specifica - il gran numero è dovuto al fatto che ogni famiglia che si rispetti vuole la propria moschea al punto che padre e figlio, o fratello e fratello, hanno la propria moschea: Un giorno me ne stavo nei pressi della casa di Abu Muhammad al-Qafsi, giureconsulto esperto in contratti, e vidi che dalla sua moschea, per quanto percorre una freccia, ce n’era una decina d’altre a cui arrivava il mio occhio, alcune affrontate e
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divise solo dalla strada. Domandai la cagione di questo fatto, e mi fu detto che la gente di là è così gonfia di superbia che ognuno vuole avere la sua moschea privata in esclusiva, dove non ci siano altri che la sua famiglia e i suoi dipendenti: tanto che ci sono magari due fratelli, dalle case contigue e confinanti, e ognuno dei due si è costruito una moschea per starci dentro lui solo. Così, tra quelle dieci moschee che ho detto, ce n’era una in cui faceva la preghiera Abu Muhammad al-Qafsi, e accanto ad essa, a venti passi di distanza, un’altra da lui fatta costruire per suo figlio perché costui vi studiasse giurisprudenza. Lo scopo di ognuno di loro è che si dica: la moschea del tale, e non altro.30
Oltre a considerare gretto quest’atteggiamento egoistico e da parvenu, Ibn Hawqal non tralasciò di parlar male dei suoi correligionari, non ultimi i poveri maestri di scuola che considerò non solo scarsamente motivati ma addirittura tiepidi combattenti che facevano di tutto per sfuggire al servizio militare:
I Palermitani sono stati indotti a bere acqua di pozzo in luogo di quella dolce e corrente, dalla lor scarsa nobiltà d'animo, e dal gran mangiar cipolle crude, che ha rovinato loro i sensi. Non c’è uno fra loro, di qualsiasi classe sociale, che non ne mangi ogni giorno e nella cui casa non se ne mangi mattina e sera, ciò che ha guastato loro la testa e rovinato il cervello, scemato l’intelletto e sfigurato i tratti del volto, alterando la loro complessione in modo che vedono le cose diverse da quello che sono in realtà. Si aggiunga ancora che in Palermo ci sono più di trecento maestri di scuola, che insegnano ai ragazzi; e la gente di lì crede che costoro siano la élite del luogo e uomini di Dio, e li tiene per testimoni legali e fiduciari; questo, con tutta la ben nota loro deficienza di cervello e comprendonio, e con tutto che si sono ridotti a quell’arte di maestri di scuola per sfuggire ai doveri della guerra santa e per sottrarsi al servizio militare. Io ho composto su di loro un libro, dove ci sono tutte le loro storie.31
Nella descrizione della Sicilia Ibn Hawqal prese in considerazione i ribat, che erano sorti inizialmente come luoghi fortificati dove risiedevano musulmani di provata fede, mistici-guerrieri devoti alla difesa e alla propagazione dell’Islam. L’usanza in voga in Ifriqiyyah, dove vide la sua età dell’oro sotto gli Aghlabiti, fu trasportata anche in Sicilia e nella penisola: ribat erano i campi del Garigliano nel Lazio, di Agropoli in Campania, di Frassineto sulle colline di Saint-Tropez in Francia di cui abbiamo notizia. Dopo un primo periodo in cui fu un centro di devozione e di misticismo, una sorta di monastero e luogo di ritiro per anacoreti, oltre che residenza dei combattenti per la fede, luogo di sosta per i viaggiatori e anche di comunicazione con la sua 47
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torre di avvistamento, in altre parole un avamposto in zone di frontiera, il ribat probabilmente perse il suo primitivo carattere e cadde di tono profanizzandosi. Riferendosi a quelli di Sicilia, Ibn Hawqal ne parlò male probabilmente per motivi politici essendo un seguace dei Fatimidi e forse anche un loro informatore:
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Giaccion su la spiaggia del mare molti ribat pieni di sgherri, uomini di mal affare, gente di sedizioni, vecchi e giovani, ribaldi di tante favelle, i quali si son fatte in fronte le callosità delle prosternazioni per piantarsi lì a chiappare le limosin e sparlar delle donne oneste. La più parte son mezzani di lordure o rotti a vizio infame. Riparan costoro nei ribat, come uomini da nulla ch’e’ sono, gente senza tetto, [vera] canaglia.32
Nel 969 ci fu un interregno di alcuni mesi poiché i Fatimidi, che non avevano alcuna intenzione di instaurare in Sicilia una dinastia kalbita, richiamarono in patria Ahmad ibn Hasan con tutta la famiglia e lo sostituirono con un Ya‘ish; ma la decisione di al-Mu‘izz portò ad una rivolta e l’emiro fu costretto a rimandare i Kalbiti in Sicilia facendo rappresentare Ahmad ibn Hasan dal fratello Abu al-Qasim. Questi fu riconfermato a pieno titolo di lì a poco alla morte di Ahmad ibn Hasan: la Sicilia diventò in pratica un feudo kalbita la cui indipendenza di fatto fu agevolata quando la capitale fatimide fu trasferita al Cairo. L’opera dei Fatimidi in Egitto fu messa in pratica da un musulmano di Sicilia, Giawhar as-Siqilli, il segretario siciliano: tale titolo si leggeva infatti nella moschea di al-Azhar33 al Cairo, la nuova capitale fondata proprio da Giawhar con il nome di al-Qahirah (La Trionfatrice) – secondo alcuni Giawhar era di origine slava e il suo soprannome doveva essere as-Saqlabi, lo slavo. Un altro viaggiatore della seconda metà del X secolo, alMuqaddasi, il gerosolimitano (947-dopo il 988), raccolse verso il 985 le sue esperienze di viaggio in un libro34 in cui, diversamente da Ibn Hawqal parla delle varie sorgenti nei dintorni di Palermo e dell’acqua condottavi attraverso doccionati e dei mulini in città. Dopo aver descritto la capitale che gli parve più grande di al-Fustat, la Cairo vecchia, al-Muqaddasi passa in rassegna altre ventinove città dell’isola: Trapani città murata, Mazara, Caltabellotta posta in alto e ben fortificata, Girgenti città murata senz’acqua se non di pozzi, Butera come una rocca, Siracusa cinta da un fosso d’acqua marina e con un porto mirabile, Lentini posta su un fiume non lontano dal mare, Catania la città dell’elefante, Aci sul mare ove si beve acqua di fonte, Paternò 48
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sotto il monte di fuoco, Taormina con una rocca e uno scalo sul mare, Messina, Rametta, Geraci, Petralia e Partinico nell’entroterra, e altre citate con i soli nomi. Abu al-Qasim morì, come il padre, martire per la fede durante la campagna di Calabria nel 982: al suo posto i soldati elessero sul campo il figlio Giabir, che fu in breve deposto dai notabili di Palermo. Dal Cairo giunse a sostituirlo un altro kalbita, Gia‘far ibn Muhammad (983-986) che nei pochi anni di governo sistemò il problema delle terre ridando prosperità all’agricoltura. Alla sua morte gli subentrò il fratello ‘Abd Allah ibn Muhammad che morì tre anni dopo lasciando l’ufficio al figlio Yusuf (990-998), la cui nomina fu more solito ratificata dal sovrano fatimide al-‘Aziz (975-996) che gli conferì il titolo di Thiqat ad-dawlah (Fiducia dell’impero): gli epigoni della Sicilia musulmana saranno lui e i suoi quattro figli che si alterneranno nel governo dell’isola sino al frazionamento finale nei vari “regni provinciali”. Press’a poco in questo periodo visse l’estensore della Cronaca di Cambridge, l’unica narrazione coeva della dominazione araba sull’isola, che lapidaria per il periodo aghlabita diventa meno concisa quando tratta della dinastia kalbita anche se le annotazioni si fermano al 964. La Sicilia musulmana al suo tramonto godé di un periodo di quiete e prosperità: letterati e poeti, filosofi e scienziati popolarono la corte di Palermo che attirava anche persone di dubbia fama. L’Amari ci parla di uno strano personaggio, dedito a studi di alchimia e alla ricerca della pietra filosofale, Ibn al-Mu‘addib, che si ingraziò Yusuf con una qasidah, un poema panegirico in suo onore. Insoddisfatto del donativo, Ibn al-Mu‘addib sparlò apertamente di Yusuf che lo fece ricercare dalla sua polizia: ovviamente al-Mu‘addib sparì dalla circolazione rifugiandosi presso un amico. Uscito di casa una sera, fu fermato e portato da Yusuf: per sua fortuna se la cavò con la citazione di un verso di al-Mutanabbi35 in continuazione di un altro verso recitato da Yusuf. Perdonatolo, Yusuf gli fece dare cento monete d’oro invitandolo ad andarsene perché difficilmente l’avrebbe perdonato una seconda volta. Un altro panegirista alla corte kalbita fu Muhammad ibn ‘Abdun, che elogiò Yusuf e diventò amico del figlio di lui Gia‘far, l’erede noto come l’emiro-poeta; secondo l’Amari, il nostro panegirista era giunto da Susah in Sicilia per un soggiorno che durò a lungo se sia l’emiro che il figlio, impressionati favorevolmente dai suoi versi, ne procrastinarono il ritorno in patria: 49
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Al veder la luna piena sursi a salutarla e me le mostrai umilissimo servitore. Poi le dissi: l’emiro Ibn Yusuf somiglia a te ed è difficil cosa d’arrivare dov’egli alberga. Deh! intercedi per me presso di lui, e fagli ricordo di me quando vai in casa sua a salutarlo.36
Di lui ci rimangono anche versi scritti per la festa della fine del pellegrinaggio37 con la consueta descrizione dei pregi del principe, il difensore della fede, tra scene cruente ad esaltazione della pietas del suo mecenate. Alla corte di Palermo visse anche Ibn al-Khayyat che per capacità di osservazione e tecnica descrittiva è oggi considerato secondo solo a Ibn Hamdis. Nel congratularsi con l’emiro per la guarigione del figlio dal vaiolo il poeta rievoca le sue pene d’amore, forse metaforiche, malgrado l’età matura: Benché sia io ormai giunto a età matura Non puoi desiderare che dimentichi: Sono chi hai conosciuto Come tuo primo amore. [...]
Eppure già mi ha reso schiavo, Malgrado il volo libero dell’anima, Una gazzellina che si deliziava Come un limpido vino prelibato. È lei di quelle che i bei frutti Avarizia protegge dalle mani E all’occhio la cela Di chi la contempla.
Il suo rigore ho blandito Con la più dolce tenerezza Perché la mano di chi è abile, Intenerisce il cuore più difficile.38
Dopo otto anni di governo, Yusuf fu colpito da una paralisi e lasciò il potere al figlio Gia‘far (998-1019) che prese il titolo di Taj ad-dawlah (Corona dell’impero): godette di un’autonomia senza precedenti ed agì anche formalmente da emiro, affiancato da un vizir ed un ciambellano, e chiamato malik (signore, re) dai suoi protetti. Visse tra la 50
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corte di Palermo e quella della Favara o Maredolce, che fino ai tempi di Guglielmo il Buono fu conosciuta come il Qasr Gia‘far o Castello di Gia‘far. Ma l’ozio porta al declino: i governanti musulmani delle terre di frontiera dell’Islam sono costretti alla guerra santa, se non vogliono perire. L’aveva ricordato al-Mutanabbi in un noto distico:
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Gli uomini valgono secondo i re che li governano e non prosperano Arabi che han per sovrani dei barbari.39
Prima si ribella a Gia‘far il fratello ‘Ali con il sostegno dei Berberi di Sicilia e degli schiavi negri nel gennaio 1015: nel conseguente scontro armato ‘Ali fu fatto prigioniero e decapitato assieme a tutti gli schiavi, mentre i Berberi furono cacciati in Africa. Poi l’imposizione antigiuridica di una tassa del dieci per cento sui grani e sui prodotti della terra al posto della tassa fissa sul terreno coltivabile portò ad una rivolta della capitale il 14 maggio 1019. Ad evitare il peggio intervenne il vecchio Yusuf paralitico, che promise ai ribelli di sostituire Gia‘far con il fratello Ahmad al-Akhal che s’ebbe il titolo di Ta'yid addawlah (Sostegno dell’impero); dopo di che il venerando patriarca e Gia‘far se ne tornarono in Egitto. Ai Bizantini e Longobardi si erano da poco aggiunti sulla penisola italiana i Normanni che nel maggio 1017 erano giunti in Puglia chiamati da Melo di Bari per combattere i Bizantini. Si trattava di uno sparuto gruppo che in breve tempo condizionò non solo la vita dell’Italia meridionale, dove ottennero con Rainolfo Drengot il feudo di Aversa nel 1027 e con gli Altavilla il feudo di Melfi nel 1043, ma anche quella della Francia con un insediamento nella Normandia e dell’Inghilterra con Guglielmo il Conquistatore. Questi Normanni erano probabilmente già giunti, secondo il cronista Amato di Montecassino, nel mezzogiorno d’Italia, sin dal 999 quando quaranta cavalieri normanni di ritorno da un pellegrinaggio al Santo Sepolcro avrebbero aiutato il principe Guaimaro di Salerno a respingere un attacco musulmano; verso la fine dell’XI secolo, dopo essersi attestati saldamente nell’Italia meridionale, daranno inizio alla conquista della Sicilia fidando anche nella frantumazione del potere musulmano nell’isola. Durante il governo di al-Akhal (1019-1038) si assiste in Sicilia ad una ripresa dello scontro tra Bizantini e Arabi di Sicilia, ora aiutati dagli Ziridi, i padroni effettivi dell’Ifriqiyyah dopo il trasferimento 51
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dei Fatimidi in Egitto.40 Rottasi l’alleanza tra Kalbiti e Ziridi, un Abu Hafs si ribellò in Sicilia chiedendo l’aiuto dello ziride al-Mu‘izz Ibn Badis, che verso la metà dell’XI secolo aveva rotto il vincolo con il Cairo, riconoscendo il califfo di Baghad e tornando così al sunnismo; dal canto suo Ahmad al-Akhal fece l’imprudenza di rivolgersi ai bizantini per fronteggiare la rivolta interna. Fu un grave errore perché non ottenne nulla e contribuì ad innescare una revanche dell’occidente che portò poi all’insediamento normanno nell’isola. Prima che gli aiuti greco-normanni arrivassero, Ahmad al-Akhal fu sconfitto dalle truppe inviate da Ibn Badis al comando del figlio ‘Abdallah: assediato tra le mura di Palermo, Ahmad al-Akhal fu vinto e trucidato nella sua Khalisah. Fu in quest’epoca di splendore e di miserie che fiorì a Qayrawan il poeta Hasan ibn Rashiq (1000-1064), discepolo di al-Qazzaz, riconosciuto come il più grande imam (qui nel significato di “supremo”) africano di lingua e letteratura araba. Entrato al servizio della cancelleria di al-Mu‘izz Ibn Badis, Ibn Rashiq fu in breve apprezzato dal sovrano, fine letterato, e nominato poeta di corte: e quando Qayrawan dovette essere abbandonata, Ibn Rashiq seguì il suo mecenate a Mahdiyyah. Morto al-Mu‘izz, il nostro poeta lasciò l’Ifriqiyyah per la Sicilia, stabilendosi a Mazara dove morì nell’ottobre del 1064. Malgrado il lungo elenco di opere attribuitegli, poco ci rimane di lui, così come poco ci rimane dei letterati siciliani di questo periodo. Pur essendo un ammiratore della perfezione degli antichi, Ibn Rashiq fu un difensore strenuo dei “moderni”. Il suo Diwan si apre con una quartina pensosa: Ho chiesto alla terra perché era luogo di preghiera e perché era per noi un luogo che rende puri e buoni. Rispose senza parlare, perché ho ascoltato per ognuno una persona cara.41
A questi versi meditativi fa riscontro il frammento sul sufismo di un poeta contemporaneo di Ibn Rashiq, il siculo Ibn at-Tazi, che mette in risalto l’aspetto interiore di una pratica mistica di cui si esaltava spesso solo l’aspetto esteriore, il più deteriore. Per il Gabrieli fu questo forse il più religioso accento che abbia mai risuonato nell’ambiente del tempo: Non consiste il sufismo nel vestir la lana
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che vai tu stesso rattoppando, né nel gridare e danzare e agitarti, né nel farti venir svenimenti come fossi impazzito. Ma sufismo è l’essere limpido senza macchia, e seguire la verità, il Corano, la fede, e mostrarti timorato di Dio, pentito sempre delle tue colpe, intimamente contrito.42
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Della situazione incerta, creatasi nell’isola tra le varie fazioni musulmane, ne approfittarono i bizantini che avevano trovato un nome di spicco nel generale Giorgio Maniakès, già distintosi nelle due guerre di Siria (1030 e 1034). Nel 1038 Maniakès, che non aveva nessuna intenzione di aiutare Ahmad al-Akhal di cui non si fidava, temendone un voltafaccia, si era acquartierato a Reggio con il rinforzo di alcune centinaia di cavalieri normanni: attraversato lo stretto, investì Messina che occupò proprio con l’appoggio dei Normanni di Guglielmo d’Altavilla, soprannominato Braccio di Ferro, e di un gruppo di Scandinavi guidati dal loro re Harald III (m.1066). Seguì poi l’occupazione di Rametta che diede a Maniakès il controllo della Sicilia nord-orientale, da sempre poco fedele ai Kalbiti; e infine di Siracusa nel 1040 ove fece costruire, sull’estrema punta di Ortigia una fortezza che porta ancora oggi il suo nome. La conquista si sarebbe potuta allargare al resto dell’isola visto il difficile momento per i musulmani e la situazione precaria a Palermo dove il potere era tornato nelle mani dell’ultimo dei figli di Yusuf, Hasan detto Samsam addawlah (Brando dell’impero), dopo il breve predominio dello ziride ‘Abdallah. Se ciò non avvenne, lo fu per le faide di corte a Bisanzio: Maniakès, sospettato di tradimento o quanto meno di grande indipendenza, cadde in disgrazia e fu richiamato in patria. Con il ritorno di Maniakès a Costantinopoli, Bisanzio perse nuovamente nel giro di due anni la parte orientale dell’isola. Ma anche per i Kalbiti iniziò la fine: l’indebolimento e la discordia nel campo musulmano, privo di una mano forte, portarono in breve alla creazione di città-stati indipendenti. È un periodo confuso e oscuro: l’autorità di Hasan Samsam si limitò in pratica alla sola Palermo. A poco a poco anche la capitale cadde nelle mani dei notabili che nel 1044 deposero Hasan Samsam assumendone collettivamente il potere con la creazione di una assemblea di notabili (giama‘a), una repubblica oligarchica di fatto. Ovunque sorsero signorie locali, i cosiddetti muluk at-tawa'if (signori provinciali o di partiti), l’equivalente dello spagnolo reyes de taifas: Trapani con Marsala, Mazara e Sciacca cadde 53
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sotto il governo di un qa'id Ibn Mankud; Castrogiovanni e Girgenti di un Ibn al-Hawwas; Catania di un Ibn al-Maklati; Siracusa di un Ibn ath-Thumna, l’Eufemio della Sicilia araba che mantenne un’entente, non si sa quanto cordiale, con i bizantini.
Gli uomini più abietti salirono al potere; ognuno si chiarì indipendente nel suo paese; ed As Simsam fu cacciato [di Palermo]; il qayd ‘Abdallah ibn Mankut si chiarì independente in Mazara, Trapani ed altre città; il qayd ‘Ali ibn Ni‘mah, soprannominato Ibn al Hawwas (“Il figlio del Lupo”) in Castrogiovanni, Girgenti ed altre città; ed Ibn at Timnah nelle città di Siracusa e Catania: il quale sposò una sorella di Ibn al Hawwas. Or un giorno, litigando costei col marito e sendo trascorsi entrambi alle ingiurie, Ibn at Timnah, ch’era ubbriaco, comandò di segarle le vene d’ambo le braccia e lasciarla morire. Ma il suo figliuolo Ibrahim, sentito il fatto, accorse; chiamò i medici, e questi la curarono, sì che rinvenne.. La dimane Ibn at Timnah si pentì; le chiese perdono, scusandosi con l’ubbriachezza; ed ella finse di accettare le discolpe. Dopo alcun tempo gli chiese licenza di andare a visitare il fratello; e Ibn at Timnah lo permesse e mandò con essolei de’ doni e de’ presenti [al cognato]. Arrivata ch’ella fu appo il fratello, gli raccontò ciò che avea fatto il suo marito; onde Ibn al Hawwas giurò di non rinviargliela. Invano Ibn at Timnah mandava a richiederla: quegli mai non la rese. L’altro ragunò allora l’esercito suo [molto forte], poich’egli ormai signoreggiava la più parte dell’isola, e nella capitale stessa si facea la preghiera pubblica in suo nome. Andò Ibn at Timnah ad assediare Ibn al Hawwas in Castrogiovanni; ma sceso questi [dalla fortezza] e venuti alle mani, Ibn al Hawwas lo ruppe; inseguillo fin presso la città di Catania; né tornò addietro prima di aver menata grande strage tra le sue genti. Quando Ibn at Timnah vide l’esercito suo fatto a brani, gli venne in capo, come volle il sommo Iddio, di gittarsi a chieder aiuto agli Infedeli. Portossi alla città di Mileto, tenuta allora dai Franchi, i quali se n’erano impadroniti nella impresa di Bardwil il Franco.43
Prima della sconfitta definitiva, tra disordini e faide locali, tra battaglie cruenti per difendersi dall’avanzata normanna e lo strazio dell’inevitabile abbandono, anche i signori provinciali sono ricordati nei versi degli ultimi poeti arabo-siculi, pur se immeritevoli nella realtà del loro tempo. L’eco ritorna nei versi di Ibn Qasim ibn Zayd, detto il katib, il segretario: destinatario è Ibn al-Hawwas, il signore di Castrogiovanni e Girgenti (l’odierna Agrigento): Quanta guerra per te, notte su notte, e quanti assalti disperati! Quanti i desideri di te, gli sgomenti ...44
Così com’era avvenuto agli inizi della conquista araba, anche l’e54
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pilogo si consuma tra beghe familiari. Verso la metà dell’XI secolo il qa'id di Catania fu attaccato e sconfitto da quello di Siracusa, che l’uccise e ne sposò la moglie Maymuna, sorella del qa'id di Castrogiovanni e Girgenti. Seguirono dissapori tra Ibn ath-Thumna e Maymuna, la quale si rifugiò dal fratello, aggravati dal dissidio tra i due cognati per il predominio dell’isola: Ibn ath-Thumna assediò inutilmente Castrogiovanni, la città da sempre imprendibile se non per fame o tradimento, ma sconfitto perse il controllo della situazione e si rivolse per un aiuto a Ruggero il normanno che aveva una sede a Mileto in Calabria. È la fine dei musulmani di Sicilia anche se, dal punto di vista culturale, la decadenza politica segnerà la rinascita dell’arabismo nell’isola. 1 IBN AL-KARDABUS, Historia de al-Andalus (Kitab al-Iktifa'), estudio, traducción y notas por Felipe Maíllo Salgado, Madrid, Akal Ediciones, 1986. 2 V. SALIERNO, L’India degli dei. Storia, civiltà, cultura, Milano, Mursia, 1986. 3 M. AMARI, Storia dei Musulmani di Sicilia, seconda edizione modificata e accresciuta dall’A. pubblicata con note a cura di Carlo Alfonso Nallino, Catania, 19301939. P.J.ALEXANDER, Les débuts des conquêtes arabes en Sicile et la tradition apocalyptique byzantino-slave, in “Bollettino del Centro di studi filologici e linguistici siciliani”, Palermo, 1973, pp.7-37. 4 Abu ‘Abdallah Asad ibn al-Furat ibn Sinan (759-828), dopo alcuni anni trascorsi a Qayrawan si trasferì a Tunisi con la famiglia: lì fu iniziato alle scienze teologiche e giuridiche. Nel 788 si spostò nel Higiaz per seguire i corsi del giurista Malik ibn Anas; infine in Egitto nel 795 dove fu allievo di ‘Abd ar-Rahman ibn alQasim: le conversazioni tra docente e discepolo furono raccolte in un testo noto come Asadiyya. Nominato qadi, al-Furat fece parte dell’amministrazione aghlabita per otto anni sino alla nomina a comandante della spedizione in Sicilia. Cfr. U. RIZZITANO, Storia e cultura nella Sicilia Saracena, Palermo, Flaccovio, 1975, pp.3-17. 5 Molte sono le interpretazioni della parola ribat: stando alla più antica, significa luogo di raccolta delle forze e dei cavalli pronti da montare per una spedizione nel quadro del gihad (min quwwat wa min ribat ‘l-khayl, Corano, VIII, 60). Cfr. la voce ribat in H.A.R.GIBB – J.H.KRAMERS, ShorterEncyclopaedia of Islam, Leiden, E.J.Brill, 1974, pp.473-475. Dal punto di vista militare, cfr. G. E. CARRETTO, Appunti per una storia dell’Islam nella penisola italiana, in AA.VV., Presenza araba e islamica in Campania, Napoli, Istituto Universitario Orientale, 1992, pp.149-158. Per una possibile derivazione degli ordini militari cristiani dal ribat, cfr. A. DEMURGER, Chevaliers du Christ, Paris, Éditions du Seuil, 2002; traduzione italiana: I Cavalieri di Cristo. Gli
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ordini religioso-militari del Medioevo XI-XVI secolo, Milano, Garzanti, 2004. 6 M. AMARI, op. cit., vol.I, pp.392-393. 7 H. BRESC – A. NEF, Les Mozarabes de Sicile (1100-1300), in Cavalieri alla conquista del sud. Studi sull’Italia normanna in memoria di Léon-Robert Ménager, a cura di E. Cuozzo e J. M. Martin, Bari, Laterza, 1998, pp.134-156. L’A. tratta specificatamente il problema in vari paragrafi relativi alle origini del mozarabismo siculo, testimonianze onomastiche, mozarabi di città e borghi, e su un possibile mozarabismo dell’élite palermitana e dei funzionari dello Stato. 8 Sul frazionamento del latifondo operato dai musulmani di Sicilia e sulla ripartizione della terra esiste un Kitab al-amwal di Nasr al-Dawudi (m.1011), studiato parzialmente. 9 Il Kitab al-Aqalim di Abu Ishaq ‘Ali al Farisi, detto al-Istakhri. Cfr. M. AMARI, Biblioteca Arabo-Sicula, (testo arabo) Leipzig, F. A. Brockhaus, 1857, e traduzione italiana, Torino, E. Loescher, 1880-1881, voll. 2 + Appendice, 1899. Edizione anastatica: Catania, Dafni, 1982., vol.I, p.9. 10 Così la nomina nel Kitab futuh al-buldan, ossia “Il libro delle conquiste dei paesi”, al-Baladhuri (m.892), che visse verso la metà del IX secolo alla corte del califfo al-Mutawakkil (847-861). 11 Muhammad ibn Sahnun (817-870), celebre giurista, autore di una raccolta di scritti, Mudawwana, stampata al Cairo nel 1905. 12 M.TALBI, L'émirat Aghlabide (184-296), Paris, A. Maisonneuve, 1966. 13 R. TUCCIARONE, I Saraceni nel Ducato di Gaeta (842-916), Gaeta, Centro Storico Culturale, 1971. 14 Ms arabo conservato nella Biblioteca dell’Università di Cambridge: si tratta di un probabile rifacimento, ampliato, di due testi greci della stessa cronaca conservati alla Biblioteca Vaticana e alla Biblioteca Nazionale di Parigi. Cfr. M. AMARI, Biblioteca Arabo-Sicula, op. cit.. 15 Il sermone che precede la preghiera canonica del venerdì. 16 Ibn al-Athir (1160-1233) raccontò in forma annalistica la storia del mondo musulmano fino all’anno 628 dell’Égira, ossia 1231-1232. 17 Originario di Ceuta, morì nel 727 H (1326-1327). Nella premessa alla sua opera fa un confronto con quella del suo conterraneo Ibn Idrisi. Cfr. AL-HIMYARI, La descrizione dell’Italia nel Rawd al-Mi'tar, versione dall’arabo e note di Adalgisa De Simone, Mazara del Vallo, Liceo Ginnasio G. G. Adria, 1984, p.34-35. 18 M. AMARI, Biblioteca Arabo-Sicula, op. cit., vol.I, p.396. 19 B. LAVAGNINI, Siracusa occupata dagli Arabi e l’Epistola di Teodosio Monaco, in “Byzantion”, XXIX-XXX, 1959-1960, pp.267-279. Per il testo greco della lettera e la traduzione latina cfr. C. O. ZURETTI, La espugnazione di Siracusa nell'800, in AA. VV., Centenario della nascita di Michele Amari, Palermo, 1910, vol.I, pp.165-183. 20 M. AMARI, Storia dei Musulmani di Sicilia, op.cit., vol.II, p.111.
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21 Dal compendio enciclopedico di Abu an-Nuwayri (m.1332), il Nihayat al-arib, che si avvalse di opere precedenti tra le quali gli annali di Ibn al-Athir. Cfr. M. AMARI, Biblioteca Arabo-Sicula, op.cit. vol.II, p.153 22 Le altre erano l’hanafita, la sciaifiita e l’hanbalita, tutte sunnite ortodosse: le differenze all’interno delle quattro scuole riguardavano il metodo e non i princìpi. 23 La maggioranza dei musulmani si divide in sunniti e sciiti. I primi, gli ortodossi, riconoscono l’elettività del califfato e quindi i tre califfi dopo Maometto, cioè Abu Bakr, ‘Omar e ‘Othman. I secondi invece affermano che il califfato era ereditario e si rifanno ad ‘Ali, genero di Maometto; dal punto di vista spirituale i sostenitori di ‘Ali accusano i primi califfi di aver soppresso i passi coranici relativi ai diritti di ‘Ali e di non aver tenuto conto della volontà del Profeta. Il punto controverso è il seguente: dopo il “pellegrinaggio di addio” Maometto partì per Medina; lungo la strada fece una rivelazione. Prendendo la mano di ‘Ali, disse: “Non sono io più caro ai credenti che la loro stessa vita?”. Essi risposero: “Sì, o Inviato di Dio!”. Allora egli dichiarò: “Chiunque riconosce me come suo maestro (maula), riconoscerà ‘Ali come suo maestro”. 24 A. PELLITTERI, I Fatimidi e la Sicilia (sec.X), Palermo, Centro Culturale alFarabi, 1997, p.46. U. RIZZITANO, Scisma fatimita e reazione ortodossa in Sicilia, in Storia e cultura nella Sicilia saracena, Palermo, S. F. Flaccovio, 1975, pp.89-120. 25 A. PELLITTERI, op.cit., pp.75-78. Ricordiamo che il “Domestico” è l’imperatore bizantino Niceforo Foca. 26 V. SALIERNO, “Protesta e Risposta alla protesta” di Muhammad Iqbal. Traduzione dall’urdu con introduzione e note, in “Annali dell’Istituto Universitario Orientale”, Napoli, 58, fasc.1-2, 1998, pp.229-254. 27 Non si sa molto della sua vita tranne che iniziò i suoi viaggi nel maggio 943 e visitò la Persia, l’Africa settentrionale e la Spagna. Verso il 951, Ibn Hawqal incontrò il geografo e cartografo arabo al-Istakhri, che aveva rielaborato l’opera di un altro geografo, Abu Zaid al-Balkhi, e fu da lui invitato a collaborare. Ci rimane così il suo Kitab al-masalik wa al-mamalik, “Il libro delle strade e dei regni”, preziosa testimonianza della civiltà islamica nell’alto Medioevo. 28 Illeggibile la cifra che dal contesto doveva apparire bassa ad Ibn Hawqal. 29 F. GABRIELI - U. SCERRATO, Gli Arabi in Italia, Milano, Scheiwiller, 1979, p.736. 30 F. GABRIELI, Viaggi e viaggiatori arabi, Firenze, Sansoni, 1975, p.64. 31 Ibidem, pp.64-65. 32 M. AMARI, Biblioteca Arabo-Sicula, op.cit., vol.I, pp.18-19. 33 Nel giro della cupola si leggeva: “In nome di Dio ecc. edificata per comando del servo e amico di Dio Abu Tamim Ma‘add al-Mu‘izz li-din Allah principe dei Credenti (sul quale e sugli egregi suoi progenitori e discendenti siano le benedizioni di Dio) e per opera del servo di esso principe, Giawhar il segretario siciliano,
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l’anno 360”. Cfr. M. AMARI, Storia dei Musulmani di Sicilia, op. cit., vol.II, p.326. 34 Ahsan at-taqasim fi ma'rifat al-aqalim, ossia “La migliore divisione per la conoscenza delle regioni”, specchio della vita e della società islamica nel suo secolo d’oro. 35 Abu at-Tayyib al-Mutanabbi (905-965), poeta neoclassico dalla vena vivace, panegirista di grido, autore di Saifiyyat, carmi in onore di Saif ad-Dawlah, emiro di Aleppo, interessanti perché cronache rimate della guerra arabo-bizantina. 36 M. AMARI, Biblioteca Arabo-Sicula, op. cit., vol.II, pp.47-49 37 Il pellegrinaggio alla Mecca, l’hagg, inizia il 7 del mese di zu al-higgiah, con la predica, la visita ai luoghi sacri e i vari rituali, e si conclude il 10 con la festa del sacrificio. 38 F. M. CORRAO (a cura), Poeti arabi di Sicilia, Milano, Mondadori, 1987, pp.1721. 39 F. GABRIELI, Storia della letteratura araba, Milano, Nuova Accademia Editrice, 1962, p.171. 40 Il primo di questa famiglia fu il berbero Bulukkin ibn Ziri, il fondatore di Algeri nel 960; un suo discendente, al-Mu‘izz ibn Badis, verso la metà dell’XI secolo si rese indipendente dal Cairo e riconobbe il califfo di Baghdad, tornando così al sunnismo. Il sovrano di Egitto, al-Muntasir (1036-1094), non trovò di meglio che inviare contro il ribelle le tribù beduine dei Banu Hilal e dei Banu Sulaim, che si impossessarono per loro conto di gran parte dell’Ifriqqiyah. Ibn Badis si ritirò a Mahdiyyah mentre le altre città e le campagne passarono ai nomadi beduini in un clima di anarchia. 41 J. N. SFAIR, Ibn Rashiq e il suo tempo, Mazara del Vallo, Liceo Ginnasio G. G. Adria, 1986, p.56. 42 F. GABRIELI, Dal mondo dell’Islam, Milano-Napoli, Ricciardi, 1954, p.100. M. AMARI, Biblioteca Arabo-Sicula, op. cit., vol.II, p.449. La parola “sufismo” o misticismo deriva da suf ossia lana perché i seguaci indossavano un rozzo saio di lana come simbolo di austerità. Il movimento apparve pericoloso ai teologi poiché i sufi, proclamando la possibilità dell’intuizione di Dio, infondevano nel Corano un contenuto estraneo rischiando di diventare eretici. Tra i primi a farne le spese fu il noto al-Hallag che in un momento di estasi pronunciò la celebre frase ana‘l-Haqq, “io sono il verbo”, e morì martirizzato (922). 43 Dal Kitab al-kamil fi‘t-Ta‘rikh (Il libro della storia perfetta) di Ibn al-Athir. Cfr. M. AMARI, Biblioteca Arabo-Sicula, op. cit. vol.I, pp.445-447. 44 F. M. CORRAO, op.cit., p.2.
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Capitolo secondo
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L'Italia meridionale: gli emirati di Bari e Taranto
Se per la Sicilia, come era già avvenuto per la Spagna, si poteva parlare di dar al-Islam, ossia un territorio soggetto all’Islam a tutti gli effetti, l’Italia meridionale fu per i musulmani dar al-harb, cioè un territorio degli infedeli sottoposto ad azioni di guerra. Una volta attestatisi i musulmani in Spagna e in Sicilia e occupate tutte le isole del Mediterraneo ad eccezione della Sardegna e della Corsica, peraltro sottoposte a frequenti e rovinose incursioni, la conquista sarebbe certamente progredita nella penisola e nella Francia; se le cose andarono diversamente, il tutto fu dovuto all’esaurimento graduale della spinta araba, che ad Oriente si fermò all’India nord-occidentale e ad Occidente alla penisola iberica e alla Sicilia, e a fattori di resistenza locale quali la tensione franco-bizantina, l’inserimento della forza nuova dei Normanni, il ruolo del papato, l’azione delle repubbliche marinare, la presenza di città-stati lungo le coste, cui si aggiunsero le rivalità e le divisioni all’interno del mondo arabo. Non erano trascorsi che pochi anni dall’arrivo degli Arabi in Sicilia, otto per l’esattezza e quattro dalla presa di Palermo, che già si registrava un’alleanza tra Napoli e Palermo. Nell’835 infatti Andrea di Napoli aveva chiesto l’aiuto del governatore arabo Ibrahim ibn ‘Abdallah nella lotta interna tra lui e il longobardo Sicardo di Benevento (832-839) che intendeva avere uno sbocco al mare. ‘Abdallah, che era cugino dell’emiro di Ifriqiyyah, aveva capito due cose: era necessario sfruttare ogni occasione per essere presente sulla penisola non solo con scorrerie ma anche e soprattutto con alleanze; per far ciò era necessario avere una flotta che disponesse anche di unità incendiarie da opporre alle navi bizantine. Se nei decenni precedenti la presenza musulmana sulla penisola fu sotto forma di attacchi improvvisi e scorrerie alternati a scambi commerciali, ora per la prima volta si assiste ad un’alleanza e quindi ad un contatto diretto che durerà mezzo secolo. L’aiuto arabo a Napoli fu ricompensato con il conseguente aiuto di Napoli agli Arabi di Sicilia per occupare Messina e quindi impedire alla flotta bizantina l’accesso al mare Tirreno attraverso lo Stretto di Messina così come si verificava già per il Canale di Sicilia il cui accesso era bloccato dalla linea Mazara-Pantelleria-Susah controllata dagli Arabi. 59
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Gli Arabi liberarono Napoli dall’assedio di Sicardo costringendolo a tornare a Benevento. Da questo primo intervento diretto discende il secondo, nell’838, su Brindisi. Non si sa se avvenne su richiesta dei napoletani o su loro consiglio per creare difficoltà a Sicardo: una flotta saracena, salpata dalla Sicilia, entrò nello Jonio, superò il canale d’Otranto ed assalì Brindisi che faceva parte del principato longobardo di Benevento. Sicardo fu quindi costretto ad allontanarsi da Benevento e ad attraversare un territorio impervio per difendere Brindisi, ma fu sconfitto: i musulmani però non si fermarono nel porto pugliese ma se ne ritornarono in Sicilia. Siamo ancora in una fase preliminare, che avrebbe potuto portare ad una conquista stabile se nel X secolo non si fossero verificate le prime crepe nei turbolenti territori dell’Ifriqiyyah. Pur ritiratisi da Brindisi, i musulmani erano e rimasero a lungo presenti nei territori del sud della penisola costituiti dalle odierne Campania, Puglia, Basilicata e Calabria, ossia da quelle regioni che formarono il regno normanno fino alla creazione del regno di Napoli nel XVIII secolo. Tutta la zona in questione era percorsa da bande musulmane che vivevano di razzie: verso l’840 il duca di Napoli aveva preso al suo servizio soldati arabi, forse di Sicilia, per difendersi contro le aggressioni dei vicini; lo stesso avevano fatto altri potentati locali assoldando mercenari africani e spagnoli. Questi saraceni oltre a combattere contro i signori nemici devastavano spesso il territorio dei propri padroni che erano alla mercé delle loro stesse truppe: non lo apprendiamo dalle fonti arabe inesistenti, ma lo deduciamo dalle poche fonti latine disponibili. D’altronde per le fonti arabe le vicende del Mezzogiorno o “Grande Terra” furono certamente irrilevanti o insignificanti trattandosi di azioni di frontiera che non interessavano i centri vitali di Baghdad o Qayrawan; mentre per quelle latine si trattava di azioni che sconvolgevano la vita locale, di per sé stessa già difficile nel contrasto tra Franchi, Longobardi e Bizantini e nella frantumazione del potere. Molto confusa è la situazione nella zona campano-pugliese: ne faranno le spese i vari monasteri, soprattutto quello di Montecassino, il più ricco e il più venerando del tempo, che si venne a trovare nel mezzo della disputa tra Radelchi e Siconolfo. Il monastero cassinese, che nell’VIII secolo era non solo un faro di cultura ma anche una potenza economica, si era ingrandito con le donazioni di Pipino, Carlomanno, Carlo Magno e Ludovico cui avevano contribuito le numerose elargizioni di tanti fedeli: ricordiamo che nel 743 ce ne fu 60
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I musulmani in Italia
una fatta da un “quidam sculdais Beneventanus Saracenus nomine in loco, qui Congla vocatur, territorio Aliphano ecclesiam in honore sancti Cassiani a solo construxit”: si trattava di uno sculdascio saraceno presso la corte beneventana che, convertitosi, dopo aver rimesso in libertà tutti i suoi servi, poté donare al monastero la chiesa da lui edificata.1 La spoliazione del IX secolo non fu solo opera dei musulmani, ma anche dello stesso Siconolfo che nel biennio 843-844 impose prestiti forzati al monastero per poter finanziare le sue imprese belliche: sette furono le razzie da lui compiute, regolarmente registrate dalle fonti cassinesi. Nell’848 il monastero si salvò dalla razzia di Abu Ma‘shar che, secondo le cronache, impose ai suoi di non compiere atti ostili contro il convento: è probabile invece che la salvezza fosse dovuta ad ordini di Radelchi che si era già messo d’accordo con il monastero. Abu Ma‘shar, il Massar delle fonti cassinesi, trovò di ritorno a Benevento la morte il 12 maggio ad opera delle truppe di Ludovico II che era sceso in Italia per mettere ordine in Campania e per venire incontro alle sollecitazioni di papa Sergio II (844-847). Anche se si tratta di un aneddoto, il racconto dell’Amari di un fatto capitato tra l’843 e l’846 a Siconolfo e Abu Gia‘far, un andaluso-cretese di base a Taranto, ripreso dal Chronicon dell’Anonimo Salernitano, è un indice significativo della volubilità dei personaggi di quell’epoca nel cambiare campo a seconda delle situazioni e degli interessi. Abu Gia‘far e Siconolfo sono alleati; un giorno di ritorno da una delle frequenti scorrerie comuni, mentre i due salgono le scale del palazzo principesco a Salerno, Siconolfo che doveva essere alto e robusto prende in braccio per scherzo Abu Gia‘far sicuramente più basso di statura. L’arabo, offeso, rompe l’amicizia e se ne torna a Taranto da dove offre la sua alleanza al rivale Adelchi. Questi l’accetta: tempo dopo Abu Gia‘far si distingue nella difesa di Benevento nuovamente assalita da Siconolfo, ma tradito proprio da Adelchi viene ucciso (846 ?):
Narrasi che tornando a Salerno Siconolfo e Apolafar [Abu Gia‘far], dopo alcuna di queste fazioni, messisi per diletto a spronare a gara i cavalli, il principe volle mostrar nuova prodezza della gente germanica all’altro che piccino era della persona, ma destro, animoso e baldanzoso. Smontati al palagio, mentre salivano per le scale, Siconolfo lo levò di peso per un braccio e ripostolo tre gradini più su, lo abbracciò e baciò, per addolcire o aggravare tal insolenza. E il Musulmano, quando la rabbia gli permesse di parlare, proruppe esser finita da quel dì ogni amistade tra
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lui e Siconolfo: lo giurò per Allah; né scuse valsero a ritenerlo che con tutti i suoi non se ne tornasse a Taranto. Di lì manda ad offerirsi a Radelchi; corre a Benevento; fa cavalcar sue gualdane alla volta di Salerno: le quali giunsero al fiume Tusciano, come tuttavia si chiama, ad otto miglia verso mezzodì; e lasciarono in quelle parti terribile memoria del nome di Apolafar. Del quale aneddoto io non veggo perché si debba dubitare; stando bene quel villano scherzo a un principe longobardo che si tediava già dei Cretesi, perché non n'avea più bisogno. Il Cronista poi racconta la fine di Apolafar: segnalatosi per gran valore nella difesa di Benevento; preso a tradigione da Adelchi; impavido e altero, sì che sputò in faccia al traditore prima di andare alla morte.2
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Dopo Brindisi fu attaccata, senza successo, Bari verso la fine dell’840 o all’inizio dell’841. L’impresa è menzionata dal cronista alBaladhuri che parla di un’azione condotta da un liberto aghlabide “contro una città marittima chiamata Baruh che giace in occidente, lì sulla Gran Terra (al-ard al-kabira) , lungi da Barqah3 quindici giorni di viaggio poco più o poco meno”.4 Nello scorcio dell’ultima decade della prima metà del IX secolo gli Arabi erano comparsi nel golfo di Gaeta dove nell’842 cinsero d’assedio la fortezza e forse si impadronirono temporaneamente di Formia. Negli stessi anni, nell’846, ci fu un’incursione a Punta Licosa, il promontorio che chiude a sud il golfo di Salerno, e all’isola di Ponza che furono occupate, anche se i musulmani ne furono in seguito ricacciati da una lega delle repubbliche marinare di Napoli, Gaeta, Amalfi e Sorrento, le quali altrimenti sarebbero state strangolate nei loro traffici commerciali: una cosa era allearsi con i saraceni temporaneamente, un’altra era averli vicini di casa. Un’altra incursione predatoria fu condotta nello stesso anno contro Ostia che sotto il pontificato di Gregorio IV (827-844) era stata fortificata in previsione di attacchi saraceni: la popolazione che abitava alla foce del Tevere si rifugiò a Roma protetta da una forte cinta di mura. Furono saccheggiate le basiliche di San Pietro e di San Paolo che erano fuori delle mura nonché i borghi e i villaggi circostanti. Ritiratisi, i musulmani puntarono su Fondi, poi su Montecassino, riunendosi infine ai correligionari che assediavano Gaeta, l’unico scalo marittimo agibile lungo la costa tirrenica tra Roma e Napoli, dopo il progressivo insabbiamento dei porti di Anzio e Terracina e il declino del porto fluviale di Minturno. Quelle che erano state spedizioni per costituire sulla costa tirreni62
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ca altri ribat, teste di ponte da dove iniziare ulteriori conquiste e scorrerie, come poi avvenne per i ribat di Agropoli e del Garigliano, furono rinnovate nell’849 contro Roma, questa volta per una conquista stabile. Le conoscenze che gli Arabi avevano dell’Italia, in molti casi vaghe o imprecise, erano alquanto sicure per Roma, pur nella mescolanza di descrizioni mitizzate o riprese da racconti favolosi. Le notizie di questo periodo iniziale derivavano o da elaborazioni di racconti bizantini provenienti da arabi che erano stati in prigionia a Costantinopoli o che avevano avuto contatti commerciali o da cristiani fatti prigionieri lungo le coste tirreniche. Alle scorrerie dell’846 allude la descrizione di un viaggiatore arabo, un Harun ibn Yahya che fu a Roma verso la fine del IX secolo: più libresca che vissuta la sua descrizione di Roma, anche se non mancano accenni ad elementi di cronaca quotidiana come gli attacchi saraceni alla città o l’usanza dei romani di radersi la barba o la tonsura per gli ecclesiastici. Eccone lo squarcio finale: A occidente della città è il mare. La città è circondata da giardini e oliveti. La sua popolazione è esposta alle scorrerie per mare dei Berberi di Spagna e Tahert, provenienti dai paesi di Idris ibn Idris e di Tahert superiore [odierna Tiaret in Algeria]. I Romani di alta e bassa condizione si radono interamente la barba, non lasciandone sul mento pelo alcuno, e così si radono il mezzo del capo. Domandai loro perché si radessero la barba, e dissi: “L’ornamento dell’uomo sta appunto nella barba; cosa intendete fare con codesto atto?”. Risposero: “Chiunque non si rada la barba non è un vero cristiano: giacché Simon Pietro e gli altri Apostoli vennero a noi senza bastone né bisaccia, da povera e umile gente, quando noi eravamo dei re rivestiti di broccato e assisi su seggi d’oro, invitandoci ad abbracciare la fede cristiana. E noi non vi aderimmo, li prendemmo e martirizzammo, e tondemmo loro il capo e la barba. Ora che ci è apparsa chiara la verità della loro predicazione, abbiam preso a raderci noi la barba, in espiazione di ciò che commettemmo radendo loro la barba”.5
Nella primavera dell’849, una spedizione organizzata forse a Palermo o a Qayrawan salpò numerosa verso il Tirreno: il nuovo papa Leone IV (847-855), che stava cingendo di mura l’area di San Pietro, si preparò all’attacco al quale non sarebbe sopravvissuto se non si fosse presentata in soccorso la flotta congiunta di Cesario, figlio del duca Sergio di Napoli, e delle altre repubbliche marinare. Lo stesso papa dubitò della loro lealtà ben conoscendo le trame e gli accordi delle repubbliche con i musulmani di Sicilia: l’aiuto si rivelò tale anche se gli alleati della lega campana lo davano per un loro proprio interesse - un insediamento saraceno a Roma avrebbe chiuso le 63
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loro navi nel golfo alla pari del precedente attacco a Gaeta e a Ponza. La battaglia navale di Ostia fu favorevole ai cristiani: la vittoria fu ingigantita come un grande fatto storico, alla stregua di quella di Lepanto sette secoli dopo, tanto che fu poi celebrata da Giulio Romano nelle cinquecentesche Stanze raffaellesche del Vaticano: ironia della sorte, si dice che le mura leonine siano state costruite o completate dai saraceni fatti schiavi in quella battaglia. Le notizie di questo scontro, considerato memorabile per le forze cristiane, sono di fonte occidentale: fu ignorato dai cronisti arabi trattandosi di un evento come un altro nel quadro del gihad, così come lo era stato quello di Poitiers (732 o 733), di cui di recente si è addirittura messo in dubbio lo svolgimento – secondo nuove indagini pare che a Poitiers non si sia svolta alcuna battaglia e che i musulmani ivi accampati si siano ritirati durante la notte all’arrivo di Carlo. Poitiers non aveva comunque fermato gli attacchi musulmani, contro i quali Pipino il Breve fu costretto ad intervenire successivamente a più riprese, anche se rimane ancor oggi come un topos nella memoria collettiva. Nel suo esordio l’anonimo autore della Chronica Sancti Benedicti Casinensis scrisse: “O lettore, se vuoi conoscere per qual ragione i saraceni dominarono la terra beneventana sappi che questa triste ventura si abbatté su di noi per le discordie dei signori di quella terra, dimentichi del monito evangelico che omne regnum in se ipsum divisum desolabitur”. Si riferiva ovviamente alla divisione del principato di Benevento tra Radelchi e Siconolfo che si combatterono chiamando in aiuto i saraceni. Sull’altro versante adriatico, lungo la costa pugliese, si erano già costituiti nello stesso periodo a Bari e a Taranto due insediamenti saraceni, che diverranno dei veri e propri emirati. ***
Nell’846 Radelchi di Benevento (839-851) in lotta con Siconolfo di Salerno (839-849) chiese a Pandone, suo gastaldo a Bari, di sollecitare in suo aiuto un capobanda berbero, un certo Khalfun, che doveva già essere presente da anni nel territorio. Negli stessi anni a Benevento Radelchi si avvaleva, nolente o volente di un altro capobanda, il Massar delle cronache o Abu Ma‘shar, che spadroneggiava nella zona comportandosi da padrone. I saraceni di Khalfun, giunti nell’autunno dell’847, si accamparono lungo il mare, nella zona dell’attuale castello svevo, essendo a quel tempo la città racchiusa nella peniso64
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Istanbul (da Matrakci Nasuh, XVI sec.). Maometto II il Conquistatore (a sin.) e Solimano il Magnifico.
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letta della cosiddetta “città vecchia”: i predoni pensarono bene di sfruttare l’occasione e di notte si impadronirono della città. Poco o nulla si sa di questo Khalfun al quale successe, probabilmente nell’856, Mufarrag ibn Sallam che è ricordato per due motivi: la costruzione di una moschea e la richiesta dell’investitura inoltrata direttamente al califfo abbaside al-Mutawakkil (847-861) saltando la gerarchia dell’emiro aghlabide: il che dimostra che non correva buon sangue tra berberi e arabi di Sicilia o del Maghreb. Inoltre la richiesta al califfo anziché all’emiro è un sintomo di voler creare un emirato vero e proprio e non un ribat: infatti l’investitura califfale, delega di poteri da parte del califfo e quindi dell’intera comunità musulmana, era a titolo ereditario, mentre quella concessa da un visir scadeva con la morte di quest’ultimo che era un delegato del califfo. Per inciso, fu proprio questo particolare dell’investitura a far registrare l’esistenza di un emirato a Bari nell’unica fonte araba coeva, il Kitab futuh al-buldan, del già citato al-Baladhuri. Mufarrag ibn Sallam non doveva essere un personaggio incolto o sprovveduto se sapeva come rivolgersi al califfo; inoltrò infatti la sua richiesta al direttore della posta in Egitto che per la sua carica era l’informatore diretto o agente segreto del califfo, i suoi “occhi” come dicono gli Arabi; all’epoca di Harun ar-Rashid, il direttore della posta lo teneva informato sul comportamento dei più alti funzionari rispondendo direttamente al califfo – ad esempio, il direttore della posta di Merw, nel Khorasan, lo avvertì che il governatore, il Barmekide alFazl, si dava ai bagordi e al piacere della caccia invece di occuparsi degli affari dello stato e il Califfo lo richiamò al dovere:6 Dopo Khalfun resse Bari un uom per nome Mufarrag ibn Sallam; il quale prese e tenne [in quella regione] ventiquattro castella, e fatto signore di questo [novello territorio musulmano], scrisse al direttore della posta in Egitto, informandolo del fatto, e aggiugnendo com’egli non sperava benedizione divina per sé, né per alcuno de’ Musulmani che lo seguivano, se il pontefice [musulmano] non gli conferisse il comando militare della provincia e l’ufizio di wali della medesima; nel qual modo egli sperava d’uscir dal novero degli [illegittimi] occupatori (mutaghallibun). [Intanto] ei fondò una moschea (giami‘) cattedrale. Poscia i suoi, tumultuando contr’esso, lo uccisero.7
Mufarrag ibn Sallam, il cui nome è rimasto nel toponimo del torrente Salemme che divide le due località di Pietrapertosa e Castelmezzano in Basilicata a ricordo di non poche scorrerie, fu deposto e ucciso prima di ricevere le patenti richieste. Gli successe 66
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Sawdan, il Mazarese, la figura più nota e più complessa di quest’effimero emirato: governò tre lustri (857-871) e fu l’unico ad essere ufficialmente investito del titolo di emiro. La sua richiesta, fatta nell’861, fu dopo gli assassinii di due califfi e di un wali del Maghreb esaudita solo alla fine dell’863. Non si contano le scorrerie e le devastazioni compiute durante il suo governo: fu in perenne lotta con Adelchi di Benevento (854-878) dal quale pretese tributi e ostaggi tra cui la figlia, devastò il napoletano nell’858 sconfiggendo i longobardi ad Ariano di Puglia, bruciò Ascoli nell’861, depredò il monastero di San Giovanni al Volturno, compì razzie nella zona dell’abbazia di Montecassino, tentò un attacco ad Oria nell’865 ampiamente descritto in una cronaca ebraica dell’XI secolo, il Sefer Yohasin, ossia “Libro della genealogia”, di Ahimaaz ben Paltiel. Nella sua cronaca Ahimaaz racconta che Sawdan aveva inviato messaggeri per concludere un trattato di pace, promettendo di rispettare la città previo il pagamento di un tributo. Il governatore di Oria rispose inviando all’emiro un suo delegato, Shefatiah, antenato di Ahimaaz, che, resosi conto trattarsi di un trucco per giungere all’improvviso sulla città e saccheggiarla, ne informò subito il governatore di Oria: gli abitanti del contado ebbero il tempo di rifugiarsi nella città vanificando in tal modo le intenzioni dei saraceni. Riportiamo un brano significativo dell’attività dei musulmani a quel tempo:
All’incirca in questo tempo gli Arabi cominciarono ad invadere la terra con i loro eserciti, per superare i confini del regno dei non circoncisi, la terra degli idolatri; portarono la distruzione nella Calabria, gettarono le loro città nel disordine, devastarono le loro province, abbatterono le loro mura di difesa. Avanzarono nella Puglia; colà crebbero in potenza, ne assalirono in massa gli abitanti, abbatterono la loro potenza e conquistarono molte città, distrussero e saccheggiarono.8
Le previste campagne dell’imperatore Ludovico II9 furono vanificate per vari motivi: nell’867 da uno scontro perduto con Sawdan e dalla peste scoppiata nel campo, nell’869 da un equivoco con Bisanzio le cui navi giunte in settembre non trovarono ad attenderle l’esercito franco ritiratosi a Venosa. È probabile che non si fosse trattato di un equivoco ma di una mossa diplomatica dell’imperatore franco che non voleva dividere con il collega bizantino i vantaggi della presa di Bari ma desiderava riconquistare il meridione d’Italia da solo, sia per non essere debitore verso Basilio I sia per non riaprire il problema del 67
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In alto a sinistra: il califfo Harun arRashid in una miniatura di Behzad: copia del XIX secolo (Biblioteca privata). In alto a destra: La Mecca, pannello in ceramica da Iznik, Turchia, circa 1665, con versetti coranici e iscrizioni (Kuwait, National Museum). A lato: immagini dal De arte venandi di Federico II.
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Tunisi (sopra) e Brindisi in due carte di Piri Re’is.
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titolo imperiale. Secondo l’imperatore bizantino Basilio e il suo ammiraglio Niceta le navi erano giunte in tempo ma erano stati i Franchi che non si erano presentati all’appuntamento. Ad ogni modo, Ludovico II, indignato, inviò i suoi ambasciatori a Costantinopoli per protestare contro le presunte scorrettezze. Probabilmente le incomprensioni furono da entrambe le parti perché franchi e bizantini erano in competizione fra loro per il possesso dell’Italia meridionale e gli uni volevano escludere gli altri dalle operazioni di riconquista. Ludovico II ritornò in Puglia agli inizi dell’870: la situazione era ora più favorevole anche perché difficilmente sarebbero giunti dal mare soccorsi ai saraceni di Bari per la presenza della flotta bizantina nell’Adriatico. Dopo un breve assedio le truppe franche e quelle di Adelchi occuparono la città il 3 febbraio dell’871: Sawdan fu fatto prigioniero e risparmiato avendo trattato con onore la figlia di Adelchi, suo ostaggio da anni. Adelchi dal canto suo l’aveva risparmiato per servirsene forse contro l’imperatore che rientrato a Benevento, fu catturato a tradimento e tenuto prigioniero per oltre un mese nell’estate dello stesso anno 871. È in questo contesto che torna alla ribalta Sawdan: in un componimento popolare, il Rithmus de captivitate Ludovici imperatoris, l’emiro gioca la parte del malefico consigliere colpito alla fine dal giudizio divino. L’ignoto cantastorie racconta la cattura dell’imperatore e lo schiamazzo del popolo di Benevento che ne chiede la morte, lo scherno di Sawdan, il discorso di Ludovico II che si chiude con un “sono venuto per sterminare una stirpe crudele [i Saraceni], sono venuto per amore della santa Chiesa di Dio, sono venuto per vendicare il sangue che è stato sparso sulla terra” e il dileggio di Sawdan con sul capo la corona dell’impero. Nella realtà storica, invece, Sawdan passò per uomo di fine cultura, di sottile abilità politica, amico dell’aristocrazia longobarda. Il suo nome è stato utilizzato verso la metà dell’Ottocento per il libretto di un’opera tragica in quattro atti, Il Seudan di Bari di Francesco Rubino10 per la musica di Nicola de Giosa, incentrato sull’assedio, sulle vicende dello scontro e sull’amore di Ida, figlia di Adelgiso (ossia Adelchi), per Orvel, figlio di Idifilone (ossia il Seudan): al tempo della stesura del libretto si pensava di aver a che fare con il titolo arabo di “sultano” che i cronisti latini e bizantini, compreso in seguito anche Ludovico Muratori, avevano trascritto in vari modi da “Saudan” a “Soldanos” con infinite varianti; successivamente si stabilì l’identità di “Seudan” con il nome proprio del terzo emiro di Bari, Sawdan. 70
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Più oscure e meno documentate sono le origini e le vicende dell’emirato di Taranto (840-880) che nacque anch’esso dalle solite diatribe intestine tra longobardi in Campania. Alla morte di Sicardo nell’839 il principato di Benevento si frazionò in due: Benevento andò a Radelchi e Salerno a Siconolfo, già esiliato in precedenza a Taranto. Forse chiamati da Siconolfo confinato a Taranto, forse approfittando delle discordie interne, i saraceni siciliani si insediarono a Taranto al comando di un certo Saba, che sembra essere più un titolo che un nome proprio, ossia Sahib al-ustul “comandante della flotta”. L’imperatore bizantino Teofilo (829-842) chiese l’aiuto dei veneziani che si mossero non tanto per aiutare l’imperatore quanto per proteggere i propri commerci e mantenere la libertà dell’Adriatico che era in prevalenza un mare veneziano. La flotta veneziana fu però sconfitta e i saraceni di Saba potettero darsi al saccheggio delle coste attaccando Cherso, Adria, Ancona, e depredando le navi lungo le coste adriatiche. Con il successore di Saba, l’Apolaffar delle cronache, ossia un Abu Gia‘far (843-846), Taranto assunse l’aspetto di un emirato, ora alleato ora in conflitto sia con Radelchi che con Siconolfo. Non devono meravigliarci questi incontri e scontri, tipici di un periodo in cui patti e propositi di condominio politico non erano questioni religiose ma commerciali: la fede con c’entrava per niente, Islam e Cristianesimo non avevano nessun valore di fronte alla sopraffazione per il potere ciò che contava era solo la forza. Taranto fu forse ripresa dalle forze cristiane, poi perduta nuovamente: dopo anni di oscurità delle fonti, nell’875 ricompare un emiro di nome ‘Uthman. Unica testimonianza dell’attività di quel periodo è quella del monaco franco Bernardo che, di passaggio a Bari e Taranto, parlò di una Bari opulenta, governata da un principe chiamato Sawdan, il quale era sotto la giurisdizione del principe dei credenti di Baghdad, e di una Taranto dove aveva visto sei navi con a bordo novemila schiavi cristiani di Benevento in procinto di salpare per l’Africa. Il che ci fa capire come i due emirati si fossero divisi la rispettiva sfera d’influenza: gli emiri di Bari controllavano grosso modo il nord della Puglia e le zone interne della Campania, quelli di Taranto la Basilicata e la Calabria. Il dissidio tra franchi e bizantini, le polemiche tra Ludovico II e Basilio I favorirono per un certo tempo i musulmani tarantini che arrivarono a depredare la stessa Benevento e a minacciare Bari ridi71
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In alto: Il monogramma stilizzato di “Allah” in caratteri cufici nel pavimento absidale della Basilica di San Nicola a Bari. A lato: Cattedra espiscopale eseguita da Romualdo per il vescovo Urso (10781089) nel duomo di Canosa: evidente la suggestione islamica nei due elefanti. In basso: Particolare del mosaico pavimentale della Cattedrale di Brindisi con iscrizioni pseudo-cufiche.
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Bari, la basilica di San Nicola e, sotto, la cattedrale di Brindisi.
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ventata longobarda. La morte di Ludovico II nell’875 e di Adelchi nell’878 segnò la fine di Taranto che ridiventò bizantina nell’880. La testimonianza del monaco Bernardo ci porta al problema dei prigionieri di guerra e in genere di tutti coloro che erano stati catturati nelle razzie e nelle incursioni soprattutto sulle coste italiane: non era affatto un problema religioso o politico, ma un’attività affaristica alla pari di qualunque altra – non dimentichiamo che a queste spoliazioni di cose e di persone partecipavano spesso cristiani rinnegati e sfruttatori d’ogni genere, così come avverrà molti secoli dopo nella tratta degli schiavi africani da parte di negrieri bianchi. E se i pellegrini avevano la possibilità di andare ai luoghi santi o i mercanti di viaggiare in oriente per commercio ciò era reso possibile per lo sfruttamento che se ne faceva degli uni e degli altri con la vendita di lasciapassare, gli aman, sorta di salvacondotti validi per distanze più o meno brevi, e con l’imposizione di gabelle e regalie stabilite ad libitum da questo o quel signore, così come avveniva in tutta l’Europa del tempo. ***
Ritorniamo al versante tirrenico. La battaglia navale di Ostia non aveva interrotto le relazioni e gli scambi commerciali tra i Saraceni di Sicilia e d’Africa e le repubbliche marinare. Non è escluso che negli accordi che si facevano e disfacevano a seconda dei casi e del tempo ci fosse anche quello tacito di non coinvolgere il papato e Roma: d’altronde gli accordi erano sempre a carattere temporaneo od occasionale. Dopo un decennio di tregua dalla battaglia di Ostia, nell’estate dell’868 giunse alla foce del Garigliano una flotta di saraceni siciliani al comando dello stesso governatore Muhammad ibn Khafagia che assediò invano per un mese la città di Gaeta: malgrado questa avesse mantenuto regolari rapporti commerciali con gli arabi, l’azione saracena fu ugualmente condotta contro il piccolo ma ricco ducato forse a scopo intimidatorio per la presenza di Ludovico II nella zona. Il papa, dal canto suo, era pressoché relegato in Roma: le campagne circostanti erano dominio di saccheggiatori e predoni, non tutti saraceni, ma tutti legati da un fine comune. Le richieste del pontefice all’imperatore si facevano sempre più pressanti: ma nessun aiuto concreto giunse da Ludovico II che aveva già dovuto preoccuparsi di Bari e di Salerno. A più riprese papa Giovanni VIII (872-882) si rivolse alle 74
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repubbliche marinare per invitarle ad interrompere ogni relazione con i musulmani senza alcun risultato: cosa comprensibile quando c’era la certezza che perfino il vescovo-duca di Capua era connivente con i saraceni per ragioni economiche. Un cambiamento in peggio si ebbe con il successore di Ludovico II, Carlo il Calvo, interessato più ai problemi del trono che a quelli della presenza saracena in Italia. Tra il settembre 876 e il maggio 877 il papa si lamentò invano con il vicario imperiale in Italia prima, poi direttamente con l’imperatore, infine con una denuncia aperta ai vescovi:
Corron la terra come locuste ed a narrare i guasti loro sarebbero mestieri tante lingue quante foglie hanno gli alberi di questi paesi. Le campagne son fatte deserti, albergo di belve; rovinate le chiese; uccisi o imprigionati i sacerdoti; menate in cattività le suore; abbandonate le ville e castella; rifuggiti i miseri abitatori a Roma; e sì la ingombrano, che i monasteri della città non bastano a nudrirli. Il senato ha dato fondo al suo avere; io non dormo né mangio per la sollecitudine [...] e tra non guari verranno ad assalirci in Roma: poiché stanno armando cento legni e quindici navi da traghettare cavalli.11
Probabilmente il papa esagerava nelle sue lamentele: il suo scopo era quello di ottenere aiuti militari sia dall’imperatore bizantino che dall’imperatore franco per imporre la sua supremazia nella penisola e allargare i territori della Chiesa. Alla fine riuscì ad organizzare a Traetto un incontro tra i principi e duci della zona campano-laziale e a convincere gli Amalfitani a staccarsi dall’alleanza con i Saraceni e ad impegnarli alla difesa del litorale laziale contro la promessa di un congruo pagamento; quindi, minacciando la scomunica, papa Giovanni VIII impose ai principi di Napoli, Salerno, Gaeta, Amalfi, Capua, Sessa, Traetto, Fondi, Terracina, Sora, Alife, di troncare i rapporti con i Saraceni; e facendo leva sul dissidio tra il duca di Napoli Sergio, che aveva stretto nuovi vincoli di alleanza con i saraceni, e il fratello Atanasio vescovo della città, il pontefice sostenne il prelato durante una sommossa popolare contro Sergio, che fu accecato e consegnato al papa per finire i suoi giorni in una prigione romana. Nella denuncia del papa non c’era nulla di religioso contro i saraceni: l’intento era solo politico tanto è vero che si accomunano “pagani e malvagi cristiani” intenti a minacciare o attaccare la Chiesa di Roma. Giovanni VIII si comporta da politico non da papa: stringe alleanze, fa guerra o pace a seconda delle condizioni politiche del momento, e quando si trova in difficoltà è disposto anche a comprare 75
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In alto: Miniatura dal Kalila wa Dimna di ‘Abdallah ibn alMuqaffa’ da un manoscritto arabo della prima metà del XIII secolo (Paris, Bibliothèque Nationale).
A lato: Corano calligrafato e miniato a Siviglia nel 1227 (München, Bayerische Staatsbibliothek).
Nella pagina seguente: Liber ad honorem Augusti di Pietro da Eboli (1200 circa).
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Miniatura di Mahmud al-Wasiti dalle Maqamat (Scene o episodi) di Hariri (in basso).
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a caro prezzo l’armistizio con i musulmani come fece nell’aprile 878 con il pagamento di venticinquemila mancusi d’argento. Malgrado i suoi sforzi, il papa risultò perdente non avendo né una flotta né un esercito tali da poter contrastare la crescente presenza musulmana nel Tirreno: le città costiere continuarono nelle loro alleanze e nei loro commerci con i saraceni se volevano salvaguardare la loro indipendenza territoriale ed economica. Nella carenza del potere imperiale e nel proliferare dei dissidi locali il papato tendeva a sostituirsi gradualmente nella politica antisaracena e al tempo stesso a ritagliarsi un suo territorio che a poco a poco controllerà la parte centrale della penisola costituendo un cuneo tra il settentrione e il meridione. ***
Al sud della penisola la Calabria era in parte bizantina e in parte musulmana: in mani saracene erano forse varie enclavi, piuttosto che territori, quali Santa Severina lungo il fiume Neto tra l’840 e l’866, Tropea sul promontorio tra i golfi di Santa Eufemia e Gioia, Gerace ad ovest di Locri, Amantea lungo la costa tirrenica, a sud di Cosenza, con un Cincimo (Simsim, emiro ?), ricordato come collegato con i saraceni di Taranto. Numerose incursioni sporadiche si erano spesso verificate contro le coste calabre, ma fu solo nel giugno 901 che ‘Abdallah, il figlio dell’emiro aghlabide Ibrahim II, attraversò lo stretto con gran forze e occupò Reggio. L’anno successivo, come abbiamo già detto in precedenza, fu il padre in persona a portare il gihad sulla penisola, mèta Roma e Costantinopoli, possibile la prima, molto più difficile la seconda non essendo sufficienti le forze messe in campo, che si sarebbero assottigliate nel corso della campagna militare. Sotto le mura di Cosenza dove si era acquartierato, l’emiro, ricevendo gli ambasciatori giunti per patteggiare, si era espresso con tracotanza: “M'aspetti Roma, la città del vecchiarello Pietro, co' suoi soldati germanici; e poi verrà la volta di Costantinopoli”.12 La spedizione fu interrotta dalla morte di Ibrahim II il 23 ottobre 902, esecrato dai cristiani, osannato dai suoi come martire per la fede. Nel secolo precedente la Calabria era stata più volte saccheggiata dal nord, dai Saraceni di Bari e Brindisi. Probabilmente, a causa delle difficoltà delle vie interne di comunicazione, la Calabria e la Basilicata avevano subìto attacchi via terra dal nord o via mare, meno via terra 78
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dal sud tranne le spedizioni aghlabidi dalla Sicilia. Sembra quasi che la ricorrente strategia dei Saraceni, siciliani o maghrebini che fossero, sia stata in prevalenza quella di aggirare il sud della penisola puntando direttamente all’Adriatico su Taranto, Brindisi, Bari, e al Tirreno sul golfo di Salerno, usando talvolta la via di Sardegna per poi convergere verso il Lazio, la Toscana, la Liguria. Cadute le città di Bari e Taranto, i bizantini ristabilirono la loro sovranità sulla Calabria sullo scorcio del IX secolo, anche se la loro flotta dovette subìre una pesante sconfitta al largo di Reggio nell’888889 e se alcune enclavi rimasero, fluttuanti, in mano ai musulmani come Gerace e Amantea. Dopo l’unica pericolosa invasione aghlabide del 902 la Calabria visse senza particolari problemi se non per gli attacchi dal mare che erano solo a scopo di rapina o di schiavi. Diversa fu la situazione della Basilicata, stretta ai lati tra Puglia e Campania e a sud dalla Calabria di cui era una naturale continuazione dal punto di vista geografico e morfologico: le vicende delle secolari incursioni o stanziamenti saraceni temporanei nell’area lucana dimostrano come la regione abbia seguito o subìto gli avvenimenti pugliesi nella parte orientale e quelli campani nella parte occidentale. Di difficile accesso, in prevalenza boschiva, scarsamente popolata, la Basilicata fu un terreno favorevole alla creazione di sicuri rifugi in epoche difficili. Le bande saracene vi crearono insediamenti a pelle di leopardo, soprattutto nelle zone interne e più elevate della regione: Matera fu più volte conquistata, mentre saracene furono nella seconda metà del IX secolo le località di Pietrapertosa, Castelmezzano, Abriola, Castelsaraceno, Lagopesole, Pescopagano, Tricarico e Tursi poste ad altitudine tra gli 800 e i 1000 metri. Il sogno aghlabide di giungere a Roma fu ripreso ottant’anni dopo dai kalbiti con Abu al-Qasim, che si scontrò con l’imperatore Ottone nel 982: dopo un’iniziale sconfitta, l’emiro ottenne la vittoria nella battaglia di Capo Colonne (Crotone o Stilo), ma morì poco dopo. Le spedizioni contro la Basilicata non cessarono, ma furono a carattere sporadico e diluite nel tempo: nel 994 fu occupata per qualche tempo Matera. Agli inizi dell’XI secolo cessa l’offensiva saracena sulla penisola a causa dei dissensi interni nell’ultimo periodo della dominazione kalbita in Sicilia e il conseguente frazionamento del potere con il sorgere delle signorie locali, i muluk at-tawa'if. 79 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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L’Italia nella cartografia di Idrisi.
Il Salento in una carta di Piri Re’is.
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È forse una coincidenza, ma non proprio, che i ribat del Garigliano e di Agropoli siano sorti dopo la caduta degli emirati pugliesi di Bari e Taranto: probabilmente esistevano già da tempo ma non erano venuti alla ribalta del confuso panorama politico dell’Italia meridionale. Situato sulla collina di Traetto, l’attuale Minturno, alla foce del fiume Garigliano, l’omonimo ribat fu attivo tra l’880 ed il 916: sorto in epoca precedente, si rafforzò con l’arrivo di saraceni esuli dalla Puglia. Se molte incursioni saracene contro la Campania e il Lazio erano venute dal mare, non poche di quelle via terra, nelle zone interne, sono da attribuire ai musulmani del ribat del Garigliano: le scorrerie che avevano interessato quelle regioni avevano avuto successo grazie al controllo che le varie bande esercitavano sugli assi fluviali e sulle arterie viarie: basti pensare che solo nel Lazio furono almeno una sessantina le località che subirono attacchi e saccheggi saraceni nel giro di un secolo. I musulmani del Garigliano, quasi certamente indipendenti sia da Qayrawan che da Palermo, avevano sfruttato le ostilità esistenti tra le locali signorie longobarde per sopravvivere non solo indisturbati ma fornendo anche milizie mercenarie a questo o quel signore. Dal ribat del Garigliano partirono le incursioni contro i monasteri di San Vincenzo al Volturno (881), di Montecassino (883), di Farfa (892), di San Clemente a Casauria (916), sortite che si avvalevano spesso della connivenza dei servi o famuli dei monasteri, categoria irrequieta, trattata male dagli abati e pronta a passare dalla parte dei saraceni così com’era solita fare con altri invasori. D’altronde la manodopera servile, di poco costo e di molta utilità nei lavori dei campi, era una componente importante nella vita del tempo: non dimentichiamo che al commercio di questi servi, alias schiavi, partecipavano senza remora alcuna le varie città-stati dell’Italia meridionale e a nulla servivano le proteste del papa. Questo ribat si era inoltre ingrandito con l’arrivo dei correligionari di Agropoli ove esisteva un altro ribat, forse di data più antica, di cui non si ha più notizia verso la fine del X secolo. Il campo trincerato di Agropoli, anch’esso in zona elevata, sul promontorio del Cilento, doveva essersi formato verso l’870 senza che il principe di Salerno fosse intervenuto o forse con l’acquiescenza di quest’ultimo. Sappiamo inoltre che nell’881 l’ìpata Docibile di Gaeta aveva richie81
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sto i servigi dei saraceni di stanza ad Agropoli contro i longobardi di Capua: prontamente accorsi, i saraceni di Agropoli si sistemarono o si unirono a quelli del Garigliano. Invano tuonò il papa: nel 903 si mosse Atenolfo di Capua ma fu sconfitto. Fu solo una coalizione nel 916 ad aver ragione di quest’insediamento: facendo leva su aiuti finanziari e politici, papa Giovanni X riuscì a mettere insieme, con l’aiuto di Bisanzio, una lega con i duchi di Napoli, Salerno, Gaeta, Spoleto, Capua e Benevento. La lotta fu dura e con fasi alterne ma alla fine le forze preponderanti della lega ebbero la meglio ed il ribat fu distrutto come tale. Gruppi sparsi di musulmani rimasero ovviamente nella zona: a Orte e Nepi nel Viterbese, a Monteleone Sabino nel Reatino, a Saraciniscum, l’odierna San Biagio Saracinesco, al confine con il Molise, dove secondo il racconto di Leone Ostiense trovarono rifugio gli scampati alla strage del Garigliano - il toponimo ne sarebbe una chiara conferma. Potrebbe sembrare che l’Italia settentrionale fosse immune da scorrerie arabe e soprattutto da insediamenti; eppure non è così. A parte le consuete scorrerie sulle coste toscane e liguri un ribat si formò in maniera strana, ma con uguali caratteristiche a Frassineto, sempre alla fine del IX secolo: saraceni giunti dal mare, provenienti probabilmente dalla Spagna, per fare incursioni nella Provenza verso l’889890, fatto naufragio davanti alle coste di Saint Tropez, attaccarono il villaggio di La-Garde-Freinet situato in un punto impervio della strada per Le Luc e vi insediarono un ribat che divenne noto come Frassineto dal nome latino della località. Non doveva essere di scarsa importanza se fu menzionato da Ibn Hawqal nel suo Kitab al Masalik (977) che lo riprese a sua volta da un trattato di al-Istakhri (951):
Il Giabal al-Qalal [il monte delle vette] era deserto da lunga età, ma aveva acque, buone terre, culture e seminati da fornire sussistenza a chi vi riparasse. Capitatavi una man di Musulmani, presero ad abitarlo e vi si mantennero a fronte de’ Franchi; i quali, atteso la fortezza del luogo, non poterono nulla contro di essi.13
Di lì i musulmani si spingevano per ruberie in Provenza e, attraverso le Alpi Marittime, in Piemonte e forse anche nell’entroterra ligure. Nel 907 devastarono l’abbazia di Pedona, l’odierno Borgo San Dalmazzo, a Cuneo; nel 912 ne fece le spese l’abbazia della Novalesa che fu distrutta, mentre l’abate e i monaci riuscirono a salvarsi in tempo a Torino. L’insediamento musulmano, che oltre alla roccaforte si estendeva 82
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di certo all’ampia insenatura dell’odierno golfo di Saint Tropez, costituì una spina nel fianco dei piccoli stati e delle città dell’epoca, impotenti ad organizzare un’attiva difesa sulle Alpi e sui passi montani: l’unica possibilità era la via di mare ma né i signori di Provenza o di Borgogna né quelli dell’Italia settentrionale disponevano di flotte. Fu Ugo di Arles, che aveva interessi in Provenza, a chiedere l’aiuto della flotta bizantina nel 942 e fors’anche nel 931: la flotta giunse sul posto senza però impegnarsi a fondo. Dopo le prime vittorie, Ugo abbandonò il campo per difendersi dalle mire di Berengario d’Ivrea: anzi sembra che, accordatosi con i saraceni, si sia servito di loro come “cuscinetto” per sbarrare l’accesso in Italia a Berengario ed al suo eventuale esercito. Ai saraceni di Frassineto è attribuita anche una breve conquista della cittadina di Acqui, a nord ovest di Pavia, che nel 935 subì un nuovo attacco. Successivamente Ottone I di Sassonia, che cinse la corona d’Italia nel 951 dopo aver sposato Adelaide, la vedova di Lotario II, tentò invano la stessa impresa: fece anche passi diplomatici presso il califfo di Cordova ma la situazione non mutò; anzi si aggravò con un ampliamento delle forze saracene sostenute dal califfo, peraltro forti di accordi taciti nel controllo della zona. Non è senza significato che proprio sotto l’anno 951 si registra una testimonianza del cronista Frodoardo:
I Saraceni occupanti i passi alpini ricevono dai pellegrini diretti a Roma un tributo per il quale era permesso loro il passaggio”.14
Il ribat fu attivo sino alla seconda metà del X secolo (975?) quando un avvenimento fortuito portò alla sua scomparsa: l’abate di Cluny, San Maiolo, di ritorno alla sua abbazia in Francia, pare nel 972, fu catturato, assieme ad un gruppo di viaggiatori che lo accompagnavano per maggior sicurezza, dai saraceni lungo la strada del Gran San Bernardo. Un mese dopo, pagata la taglia di mille libbre di argento, l’abate fu liberato. Dopo quest’episodio, forse casuale, i saraceni sparirono dalla zona probabilmente in seguito alla distruzione del ribat da parte di Guglielmo conte di Provenza. Più che a scontri armati la scomparsa dei saraceni fu dovuta di certo al nuovo assetto politicoamministrativo creato da Berengario d’Ivrea, cioè alla creazione delle tre Marche di Torino, Savona e Genova, cui furono affidati i compiti di riportare ordine nel territorio così suddiviso: si aggiunse a ciò il rafforzamento dell’autorità imperiale sotto gli Ottoni e il progressivo 83
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declino del califfato di Cordova dal quale provenivano o dipendevano quei saraceni – Ottone I riteneva il califfo ‘Abd ar-Rahman responsabile dell’instabilità nella zona.
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Gli attacchi saraceni alle coste toscane, in particolare a Luni e a Pisa, diedero luogo nel 906 ad un particolare risvolto diplomatico. Sette anni prima, nell’899, una spedizione navale era stata organizzata dall’emiro aghlabide Ibrahim II contro le coste del Tirreno settentrionale: al comando della flotta era l’eunuco ‘Ali. Nello scontro con i Franchi i Saraceni furono sconfitti: ‘Ali, fatto prigioniero, fu regalato come schiavo a Berta di Toscana, figlia di Lotario II re di Francia. Nel 906 Berta, indubbiamente una donna intelligente ed energica, si fece promotrice di una singolare e in apparenza ingenua proposta che si basava su una falsa o imperfetta conoscenza della realtà: inviò ‘Ali come suo messaggero personale al califfo abbaside al-Muktafi (902908) con una lettera, ricchi doni ed un messaggio orale di cui ‘Ali era l’unico conoscitore. Si trattava di una proposta di matrimonio che nelle intenzioni di Berta avrebbe dovuto essere un’iniziativa diplomatica per un’alleanza tra Franchi e Arabi contro i Bizantini. La lettera, scritta su seta bianca in lingua franca, ossia latino, fu tradotta in greco e quindi in arabo a Samarrra, un villaggio nei pressi di Baghdad, dove il califfo si trovava (metà giugno 906) per una partita di caccia; assieme alla relativa risposta del califfo, cortese ma evasiva, ci è pervenuta tramite il manoscritto arabo di un autore vissuto nella seconda metà del XIV secolo, un certo Hasan al-Auhadi. Questo tentativo di alleanza è una ennesima dimostrazione di un costante interesse dei Franchi per il mondo arabo dal quale continuavano a giungere sulla penisola non pochi attacchi predatori. Da parte di Berta ci fu una reboante quanto inutile enfatizzazione del suo ruolo, invero marginale: si proclamò nella lettera “regina dei Franchi e dei territori circostanti, signora di ventiquattro regni, ognuno dei quali ha un linguaggio diverso da quello del regno che gli è vicino, e nel mio regno sta la città di Roma la grande (Rumi al-‘azma)”. Forse la marchesa di Lucca - questa la sede da cui scriveva - sperava di fare cessare con la sua iniziativa le scorrerie saracene contro l’Italia. Da parte del califfo ci furono solo belle parole ed un invito a continuare la corrispondenza: d’altronde Berta non si era resa conto che il potere del califfo era solo nominale e che la politica mediterranea era nelle mani 84
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I musulmani in Italia
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della dinastia che governava l’Ifriqiyyah, gli Aghlabiti inseritisi tra i quattro grandi dell’epoca – i califfi di Baghdad e di Córdoba e gli imperatori di Bisanzio e dei Franchi. In quest’iniziativa di Berta sembra quasi di vedere una ripetizione delle ambascerie tra Carlo Magno e Harun ar-Rashid: ma erano differenti i tempi e quanto mai differenti i personaggi!
Nel nome di Dio clemente e misericordioso. Dio ti guardi, o re eccellente in autorità e potente in signoria, da tutti i tuoi nemici, ti assicuri il regno, ti mantenga in salute nel corpo e nell’anima. Io, Berta figlia di Lotario, regina di tutti i Franchi, ti saluto, mio signore re. Tra me e il re dell’Ifriqiyyah vi era amicizia, perché io finora non sospettavo che vi fosse sulla terra un re superiore a lui. Le mie navi essendo uscite presero le navi del re dell’Ifriqiyyah il cui comandante era un eunuco chiamato ‘Ali: lo feci prigioniero con centocinquanta uomini che erano con lui su tre navi, e rimasero in mio possesso per sette anni. Lo trovai intelligente e pronto, ed egli m’informò che tu sei sopra tutti i re; e benché molta gente fosse venuta nel mio regno, nessuno mi aveva detto il vero intorno a te eccetto questo eunuco che ti porta questa mia lettera. Ho mandato con lui dei doni di cose che si trovano nel mio paese per tributarti onore e ottenere il tuo affetto: essi consistono in cinquanta spade, cinquanta scudi e cinquanta lance del tipo in uso presso i Franchi, venti vesti tessute d’oro, venti eunuchi slavi e venti schiave belle e graziose, dieci grandi cani contro i quali non valgono né fiere né altre bestie, sette falchi e sette sparvieri, un padiglione di seta con tutto il suo apparato, venti vesti di una lana prodotta da una conchiglia estratta dal fondo del mare in quelle parti, dai colori cangianti come l’arcobaleno, che cambia colore a ogni ora del giorno, tre uccelli del paese dei Franchi i quali se vedono cibi e bevande avvelenati gettano uno strido orrendo e battono le ali, sicché si conosce la cosa, delle perle di vetro che estraggono senza dolore frecce e punte di lancia, anche se la carne vi sia cresciuta intorno. Egli mi ha informato che tra te e il re dei Bizantini che risiede a Costantinopoli vi è amicizia. Ma io ho signoria più vasta ed eserciti più numerosi, poiché la mia signoria comprende ventiquattro regni, ciascuno dei quali ha un linguaggio diverso da quello del regno che gli è vicino, e nel mio regno sta la città di Roma la Grande: Dio sia lodato. Mi ha detto di te che le tue cose procedono bene, riempiendo il mio cuore di soddisfazione, e io chiedo a Dio di aiutarmi a ottenere la tua amicizia e l’accordo tra noi per quanti anni io rimanga in vita; che ciò avvenga dipende da te. L’accordo è cosa che nessuno della mia famiglia, della mia parentela e della mia stirpe ha mai ricercata, né alcuno mi aveva mai informata intorno ai tuoi eserciti e all’eccellenza in cui ti trovi come mi ha informata questo eunuco che ti ho spedito. Or dunque, o signore, sia su te per l’amor di Dio la salute più grande: scrivimi intorno alla tua salute e a tutto ciò che può abbisognarti nel mio regno e nel mio paese per mezzo di questo mio eunuco ‘Ali; non trattenerlo presso di te, affinché egli possa portarmi la tua risposta: io aspetto il suo arrivo. L’ho anche incaricato di un segreto che egli ti dirà quando vedrà il tuo volto e udrà le tue parole, affinché questo segreto rimanga tra noi, giacché non voglio che ne sia in possesso alcuno tranne te e questo eunuco. La salute di Dio più grande sia su te e sui tuoi e possa
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Vito Salierno
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Iddio umiliare il tuo nemico e farlo calpestare sotto i tuoi piedi. Salute.15
Per concludere la panoramica della situazione italiana nel IX-X secolo rimane da esaminare la Sardegna. Se la conoscenza che i geografi arabi avevano dell’Italia peninsulare non era sempre precisa e in molti casi abbastanza vaga, al contrario è più dettagliata la loro collocazione delle isole che furono oggetto di vere e proprie occupazioni: una volta conquistate, le isole erano facilmente difendibili e avevano confini più sicuri bastando un controllo delle coste ed un’attiva collaborazione della flotta che gli Arabi avevano potenziato sin dai tempi del califfo Mu‘awiya. Un geografo arabo del X secolo, Ibn Rusta, enumerò ben 262 isole nel Mediterraneo collocando al posto giusto la Corsica e la Sardegna. La Sardegna fu presa di mira dai saraceni sin dalla fine del VII secolo: la prima spedizione nota risale al 710-711 e fu organizzata da Musa ibn Nusayr, il governatore dell’Ifriqiyyah e conquistatore del Marocco, al tempo della prima invasione della Spagna. Il racconto di questo primo attacco fu fatto da Ibn al-Athir, nel XIII secolo, nel già citato Kitab al-Kamil fi‘t-Ta'rikh, che si dilunga sul ritrovamento di un bottino smisurato e incredibile nelle acque di un porto e nella vicina chiesa:
Quando Musa (ibn Nusayr) conquistò la Spagna, ei mandò per mare una banda dell’esercito contro quest’isola, l’anno novantadue. Sbarcati che furono [i Musulmani], i Cristiani raccolsero tutto il vasellame d’oro e d’argento che aveano e lo buttarono in mare, entro il loro porto. Nascosero poi il danaro in un palco che costruirono nella lor chiesa maggiore, sotto il palco primitivo. I Musulmani fecero in Sardegna immensa preda, [tale] da non potersi descrivere, e [con ciò] commessero moltissime frodi [contro l’erario musulmano]. Or egli accadde che un Musulmano, bagnandosi nel porto, sentì al piede un inciampo, e cavato fuori l’oggetto nel quale s’era imbattuto, vide un vassoio di argento: allora i Musulmani presero tutti i [tesori] che quivi si trovavano. Entrato un altro musulmano nella chiesa della quale [si è detto], vide una colomba, le tirò con l’arco; ma fallito il colpo, la saetta andò a rompere un asse del palco, donde cascarono alcuni dinar. I Musulmani preser tutto questo e commisero grandi frodi contro lo Stato. Chi ammazzava un gatto, lo sventrava, lo riempiva di dinar, ricuciva la pancia e buttava la carogna sulla via, per andarla a riprendere quand’egli uscia dalla chiesa. Fuvvi chi adattò l’impugnatura della spada sopra il fodero, riempitolo pria d’oro. Quando essi rimontarono su le navi e furono in [alto] mare, sentirono una voce che gridava: “Sommergili o Sommo Iddio!” e tutti annegarono dal primo fino all’ultimo. Ritrovata poi la più parte dei cadaveri dei naufraghi, si vide che avean le cinture piene di dinar.16
A questa incursione ne seguirono altre nel 752, 813, 816, 817, 835, 86
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I musulmani in Italia
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fino all’ultima avventura, quella dell’andaluso Mugetto, il cordovano Mugiahid, liberto (mawla) del geniale ministro Muhammad ibn Abi ‘Amir, noto alla storia come Almanzur. Dopo aver occupato nel 1014 le Baleari, Mugiahid tentò nel settembre 1015 quella che avrebbe potuto essere un’occupazione stabile e far diventare la Sardegna come scrive il Gabrieli - per la sua posizione, non meno della Sicilia, dar al-Islam17 se non ci fosse stata una pronta reazione bizantina. Nel racconto di Ibn al-Athir: Nell’anno 406/1015 Mugiahid al ‘Amiri da Denia, di cui era signore, assalì per mare la Sardegna con 120 navi. La conquistò, facendo stragi e catturando donne e bambini. Avuta notizia di ciò, i re dei Rum fecero alleanza contro di lui e partirono dal continente con un potente esercito. Si scontrarono e i Musulmani furono sconfitti e cacciati dall’isola di Sardegna; furono anche catturate alcune loro navi e fatti prigionieri il fratello di Mugiahid e il figlio ‘Ali ibn Mugiahid. Quindi Mugiahid tornò con i superstiti a Denia. Dopo questo [avvenimento], [l’isola] non subì altre invasioni.18
Dieci anni prima Mugiahid aveva attaccato e saccheggiato Pisa che si trovava temporaneamente sguarnita poiché la flotta pisana era impegnata a Reggio Calabria. Malgrado i vari tentativi dei Pisani contro le basi sarde di Mugiahid, i musulmani resistettero per un certo tempo evitando uno scontro diretto fino a che Pisa e Genova, con il sostegno della popolazione sarda e forse anche del papa e dell’imperatore, riuscirono a sloggiare Mugiahid ed i suoi dalla Sardegna. Non per questo si interruppero i commerci tra le repubbliche marinare di Pisa e Genova con i musulmani: ristabilita una parità sul piano militare, Pisa soprattutto continuò l’attività mercantile e diplomatica con i musulmani d’Africa. ***
Mentre in Sicilia tramontano gli Aghlabiti, c'è in tutta la Puglia nel X secolo un ritorno saraceno: per le modalità in cui si svolsero le azioni militari si trattò più di faide locali o a scopo di saccheggio che di un ristabilimento dei due emirati precedenti. Poche le notizie nelle fonti arabe sulle azioni musulmane in terraferma, forse per disinteresse trattandosi di azioni locali che avevano scarsa eco nel mondo arabo. Le notizie che abbiamo sono di fonte italiana alto-medievale: cronisti laici e monaci del IX e X secolo, Giovanni Diacono, la “Cronaca Cassinese”, Erchemperto, l’Anonimo Salernitano, Leone Ostiense. 87
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Vito Salierno
La prima azione si svolse nell’estate del 925: una flotta saracena proveniente dall’Ifriqiyyah o dalla Sicilia, al comando di Gia‘far ibn ‘Ubaid, puntò su Otranto difesa dallo stratega bizantino di Bari. Resistendo Otranto, i musulmani ripiegarono su Oria che fu saccheggiata il 1° luglio. L’attacco a Otranto, da sempre considerata la chiave d’accesso all’Adriatico, fu rinnovato nel 928: anche questa volta la cittadina riuscì a resistere e si salvò grazie ad un’epidemia che, secondo i cronisti arabi, costrinse gli assalitori a ritornarsene in Sicilia. Di Taranto, che era stato un fiorente anche se oscuro emirato non se ne sente più parlare poiché la città era ormai diventata un cumulo di rovine dopo i saccheggi e le distruzioni del 928, 977 e 991. Al contrario Bari si era ripresa economicamente pur tra le lotte intestine e le campagne circostanti in balia delle bande saracene spesso alleate con le due fazioni rivali, quella bizantina e quella longobarda. Nel 998 la fazione longobarda capeggiata da Smagardo o Maraldo da Bari con l’ausilio del saraceno Busito, forse un Abu as-Sayyid, tentò di scacciare i bizantini dalla città: il colpo fallì o per un equivoco o per un sospetto di tradimento. Qualche anno dopo ci fu un nuovo tentativo saraceno volto forse ad una riconquista più che a semplice bottino. Nel maggio 1002 un rinnegato, un certo Luca diventato il qa'id Safi, che si era impadronito di Pietrapertosa, un paese montuoso nel cuore della Basilicata, pose l’assedio a Bari. In soccorso della città giunse in settembre da Venezia una flotta al comando del doge in persona, Pietro II Orseolo (991-1008), che entrato in città organizzò la difesa da terra in appoggio alle sue navi: dopo un combattimento durato tre giorni i saraceni si ritirarono. Il soccorso veneziano, che fu visto allora come un aiuto fraterno, fu invece determinato dalla necessità di proteggere la sicurezza dell’Adriatico e la libertà di navigazione, minacciate dall’eventuale ristabilimento di un’occupazione saracena di Bari: né è da escludere che l’intervento fosse stato sollecitato dalla colonia veneziana di Bari interessata ai commerci con la Puglia e con l’Oriente. L’aiuto di Venezia faceva parte della politica attiva del doge che si era ripresa con le armi l’Istria e la Dalmazia, ridefinendo su nuove basi i rapporti diplomatici della Serenissima sia con il basileus che con il califfo fatimide del Cairo. Guerra, non incursione di predoni, fu l’altra che seguì il 1004 [in realtà 1002], capitanando i Musulmani il qa'id Safi, rinnegato. Il quale in su l’entrar di maggio,
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poneva il campo a Bari, vi chiudea Gregorio catapano della provincia; e avrebbe espugnata la capitale senza le armi dei Veneziani, pronti ad aiutar l’impero greco quando ne andava la sicurezza dell’Adriatico. Perché Pietro Orseolo [II] doge di Venezia, salpato con l’armata a dieci di agosto, approdava a Bari il 6 settembre in faccia ai nemici, che invano instrussero i cavalli su la costiera e fecero avvisaglie con lor navi. Rifornita Bari di vettovaglie, il doge ordinò ogni cosa per fare ad un tempo la sortita dal sobborgo e dar battaglia navale. E per tre dì fu combattuto ad armi bianche e dardi artifiziati con fuoco; finché Safi vedendo averne la peggio, chetamente levò il campo la notte del ventidue settembre.19
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L’avvenimento fu ampiamente descritto anche in una fonte occidentale coeva, il Chronicon Venetum di Giovanni Diacono:
Nell’anno 1004 [in realtà 1002] dell’incarnazione di Cristo e nel decimo del dogado di Pietro, doge dei Veneti e dei Dalmati, [...] un gran numero di Saraceni, aggredendo le terre pugliesi, circondava d’assedio da ogni parte la città di Bari, dove governava Gregorio, catapano imperiale. Udendo ciò, il potente doge Pietro ordinò che si apprestasse una numerosa spedizione, e salpando da Venezia nella festività di San Lorenzo, si mosse per attaccarli; e facendo vela per il mare aperto superò diversi luoghi e giunse in vista della suddetta città il 6 settembre. Il duplice esercito dei Saraceni si accorse che ai cristiani stava giungendo l’insperata salvezza per mezzo di quegli armati: una parte dei Saraceni era a cavallo lungo la costa; mentre una parte d’essi, salendo sulle loro navi, provocavano audacemente alla lotta i cristiani. Ma col favore divino il doge Pietro entrò indenne con tutti i suoi nel porto della suddetta città, dove fu degnamente accolto dai cittadini e dall’imperiale catapano Gregorio, che lo ospitarono in un palazzo della stessa città. Quindi il doge cominciò ad esaminare come potesse proteggere la città dalla malvagità dei Saraceni; dapprima rifornì largamente di vettovaglie i cittadini sofferenti per mancanza di cibo; quindi li istruì su come dovevano muovere battaglia virilmente contro quella malvagia gente; e, comandando che ne lo precedesse il vessillo vincitore mandò alcuni a combattere nei dintorni, e prendendone alcuni con sé, si mosse per iniziare la battaglia sul mare. Quindi si combatté senza sosta per tre giorni, ora con spade, ora scagliando contro i Saraceni dardi infuocati. Nell’oscurità della terza notte l’esercito dei pagani si diede alla fuga; e gli altri, che si erano impossessati dei luoghi vicini col diritto della forza, trattenutisi non molto tempo dopo la partenza dei primi, si ritirarono confusamente. I cittadini tennero perciò il nome del doge Pietro come celebre ed onorevole, poiché egli, non impedito da alcun timore terreno o divino, li aveva liberati dalla persecuzione dei nemici.20
L’ultimo avvenimento relativo ai Saraceni fu registrato dai cronisti nei primi decenni del XII secolo: Ruggero II aveva inviato a Bari alcuni ingegneri saraceni con relative maestranze per murare la nuova fortezza costruita fuori della città vecchia. Durante i lavori scoppiò una ribellione: secondo alcuni la causa fu l’uccisione del figlio di un 89
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notabile barese da parte dei musulmani, secondo altri la rivolta scoppiò per la decisione del re di fortificare la fortezza per esercitare un controllo della città. Di qui la decisione dei baresi che si vendicarono uccidendo, impiccando o gettando in mare i saraceni.21 Tutto ciò si verificò dopo la sconfitta, di breve durata, subìta da Ruggero ad opera delle forze congiunte di papa Innocenzo II (11301143) e dell’imperatore Lotario III che nel 1137 celebrarono a Bari il successo con una messa solenne nella basilica di San Nicola. Poco dopo la situazione si capovolse: l’imperatore morì sulla via del ritorno in Germania in un borgo del Trentino (4 dicembre) e il papa, virtualmente prigioniero nello scontro del luglio 1139 lungo le rive del Garigliano fra Montecassino e Sessa Aurunca, si sottomise di fatto a Ruggero II. Dopo la rivolta di Bari determinata forse da un contrasto locale non si sentirà più parlare di musulmani nel capoluogo pugliese se non in posizione servile: il Codice Diplomatico Barese è pieno di riferimenti a saraceni schiavi o convertiti che si integrarono con il tempo nel contesto della vita cittadina. A testimonianza di questo stato di cose sono i vari Saracenus che si incontrano nelle pergamene del periodo greco (939-1071): una schiava Setanna con il figlio Nicolula “ex genere sarracenorum” (1065); del periodo normanno (1075-1194), un Nicola venditore (1107), il proprietario di un vigneto (1147), la moglie di un fornaio saraceno (1155), il testimone di un atto a Conversano (1174); e del periodo svevo (1195-1266), un notaio in atti del 1245, 1255, 1256, un testimone in atti del 1215 e 1242; e ciò senza contare gli ecclesiastici di lontana ascendenza saracena ricordati nelle pergamene del Duomo di Bari quali l’arcivescovo Giovanni Saraceno menzionato in vari atti tra il 1264 ed il 1303, il fratello canonico Angelo Saraceno in procure del 1267 e 1274, un cappellano Pietro Saraceno ricordato in carte relative al periodo tra il 1274 ed il 1281.22 1 Dal longobardo “skuldhaizo”, lo sculdascio era a capo di una circoscrizione territoriale che dipendeva dal più vicino duca. Si tratta probabilmente di un musulmano fattosi cristiano, ma è anche possibile una sorta di collaborazione o condominio: ricordiamo che Benevento fu per qualche tempo una città in mani congiunte di Radelchi e Abu Ma‘shar, così come Salerno lo fu con Siconolfo e Abu Gia‘far. E. M. BERANGER, Presenze ed influenze saracene nel Medio e Basso Liri (IX-XII sec.), in AA. VV., Presenza araba e islamica in Campania, Napoli, I.U.O., 1992, pp.56-57. 2 M. AMARI, Storia dei Musulmani di Sicilia, op. cit., vol.I, pp.503-504.
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3 L’attuale Cirenaica. 4 M. AMARI, Storia dei Musulmani di Sicilia, op. cit., vol. I, pp.497-498. 5 G. GABRIELI, Viaggi e viaggiatori arabi, op. cit., pp.37-42. 6 V. VECCIA VAGLIERI, L’Islam da Maometto al secolo XVI, op. cit., p.270. 7 M. AMARI, Biblioteca Arabo-Sicula, op. cit., vol.I, pp.269-270. 8 G. MUSCA, L'emirato di Bari 847-871, Bari, Dedalo, 1992, pp.77-90. 9 Ludovico II (855-875), primogenito di Lotario I, ebbe l’Italia; al fratello Lotario, come il padre, andò la Germania centrale (Lotaringia); e all’altro fratello Carlo andò Arles e la Provenza. 10 Si tratta di un ms. della metà del XIX secolo [1853-1854], partitura autografa, libretto autografo con titolo cancellato La Schiava / L'assedio di Bari e libretto non autografo con titolo a matita, forse autografo, Il Seudan di Bari (Biblioteca Nazionale di Bari, Fondo De Giosa A X. 1-3). Il libretto, attribuito a Francesco Rubino, era stato scritto per la prima rappresentazione dell’opera al Teatro Piccinni di Bari con il titolo di Ida di Benevento, mai avvenuta in seguito a probabili dissapori tra il librettista e il musicista. Nel 1855 il libretto apparve a stampa a Bari con il titolo di Ida di Benevento per la musica di Nicola Ferri. 11 M. AMARI, Storia dei Musulmani di Sicilia, op.cit., vol. I, p.588. 12 M. AMARI, Storia dei Musulmani di Sicilia, op. cit., vol.II, p.111. 13 M. AMARI, Biblioteca Arabo-Sicula, op. cit. vol.I, pp.26-27. 14 Annales Rhemenses, ed. by G. Waitz, Hannover, 1877: “Anno 951: Saraceni meatum Alpium obsidentes a viatoribus Romam petentibus tributum accipiunt et sic eos transire permittunt”. Cfr. B. LUPPI, I Saraceni in Provenza in Liguria e nelle Alpi Occidentali, Bordighera, Istituto Internazionale di Studi Liguri, 1983, pp.16-17, 138. Inoltre il longobardo Liutprando in Antapodosis scritto nel 958: “Quamvis enim misera Italia multis Hungariorum et ex Fraxeneto Saracenorum cladibus premeretur, nullis tamen furiis aut pestibus sicut ab Africanis agitabatur” (MGH.SS, ed. by Joseph Becker, Hannover & Leipzig, 1915, II, 44, p.57). 15 G. LEVI DELLA VIDA, Aneddoti e svaghi arabi e non arabi, Milano-Napoli, R. Ricciardi, 1959, pp.26-44. 16 M. AMARI, Biblioteca Arabo-Sicula, op. cit., vol.I, p.357. 17 F. GABRIELI - U. SCERRATO, Gli Arabi in Italia, op. cit., p.132. 18 M. G. STASOLLA, Italia euro-mediterranea nel Medioevo: testimonianze di scrittori arabi, Bologna, Pàtron, 1983, pp.302-303. 19 M. AMARI, Storia dei Musulmani di Sicilia, op. cit., vol.II, p.397. 20 J. DIACONO, Chronicon Venetum usque ad annum 1008, in Cronache veneziane antichissime, a cura di G. Monticolo, Roma, Istituto Storico Italiano, 1890, vol.I, pp.165-167. 21 M. AMARI, Storia dei Musulmani di Sicilia, op. cit., vol.III, pp.404-405. 22 Per l’onomastica e la toponomastica di questo periodo, cfr. V. SALIERNO, I Musulmani in Puglia e in Basilicata, Manduria, Lacaita, 2000, pp.236-244.
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Vito Salierno
Capitolo terzo
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La Sicilia arabo-normanna
Se l’occupazione vera e propria della Sicilia da parte degli Arabi durò oltre due secoli, va rilevato che per un altro secolo e forse più, senza parlare di Federico II, la cultura araba sopravvisse sotto i normanni e i musulmani continuarono ad occupare posizioni elevate nella Palermo normanna. Gli Arabi non erano venuti per conquistare ma per stabilirvisi e così molti rimasero trasmettendo la loro cultura e il loro tipo di vita a sovrani che nella realtà si comportarono e vissero più da emiri che da re cristiani. Anche nella toponomastica rimasero i nomi del periodo arabo: Marsala, la Lilibeum greca, rimase tale, ossia marsa 'Ali (il porto di ‘Ali); Enna, diventata Qasryanni, mantenne il nome di Castrogiovanni, cioè qasr yanih; e i tanti toponimi formati con Gebel, monte, quali Gibellina in provincia di Trapani, Gibilmanna e Gibilrossa in provincia di Palermo, il monte Gibilmeri a sud ovest di Monreale, il Mongibello ossia l’Etna, o con Calta (ar. qal'at = rocca), quali Caltanisetta, Caltavuturo in provincia di Palermo, Calatafimi in provincia di Trapani, Caltagirone e Calatabiano in provincia di Catania, Caltabellotta in provincia di Agrigento, Calascibetta in provincia di Enna. Altri noti toponimi di derivazione araba sono Alcamo (ar. 'Alqamah), Favara (da favvarah = sorgente d’acqua), Misilmeri (da manzil al-amir = casale dell’emiro), il fiume Alcántara e l’omonimo borgo nei pressi di Giardini Naxos (da al-qantara = il ponte). La faida familiare tra Ibn ath-Thumna di Siracusa e il cognato Ibn al-Hawwas di Castrogiovanni portò all’arrivo dei Normanni chiamati dal primo dopo che era stato sconfitto dal cognato sotto le mura di Castrogiovanni e aveva perso il prestigio nell’isola. Si era ripetuto puntualmente quanto già avvenuto nell’827 ad Eufemio: Ibn ath-Thumna si rivolse ai Normanni nella vana speranza di essere aiutato a riconquistare la Sicilia. Il qa‘id non aveva capito che la politica dei Normanni era già da tempo rivolta alla conquista dell’isola: i Normanni, squattrinati cavalieri provenienti da Hauteville, nel Cotentin, tra Saint-Lô e Coutances, erano sì bramosi di guadagno ma anche di potere. Al basileus Costantino X Monomaco, che aveva cercato di attrarli nella sua orbita con promessa di ingenti doni e argento per servirsene sia a Costantinopoli che nella riconquista delle zone dell’Italia meridionale sfuggite al suo controllo, i dodici signori 92
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di Melfi avevano risposto seccamente che il loro scopo preciso era quello di conquistare il sud d’Italia ma per sé. L’aveva bene sperimentato la coalizione delle forze papali sconfitta il 18 giugno 1053 a Civitate, alla confluenza tra lo Staina e il Fortore, e papa Leone IX (1049-1054) che, fatto prigioniero, morì pochi mesi dopo. Nel giro di cinque anni, da scomunicati i Normanni diventarono alleati del papato: l’imperatore e il basileus erano lontani, i Normanni troppo di casa per farne degli oppositori. Per avere mano libera nella riforma della chiesa e per avere una certa autonomia non restava al papato che allearsi ai Normanni: fu Niccolò II (1059-1061) che, sostenuto dall’abate di Montecassino, il colto monaco Desiderio, riconobbe a Roberto il Guiscardo il titolo di duca di Puglia e Calabria concedendogli in feudo le terre che avrebbe conquistato contro i musulmani di Sicilia (et utroque subveniente futurus Siciliae). Nel 1058 il dissidio sorto tra i due fratelli normanni Roberto il Guiscardo e Ruggero si era concluso con un compromesso: Roberto si teneva il ducato di Puglia e la parte settentrionale della Calabria cedendo al fratello la Calabria meridionale. Roberto impegnato in Puglia nella lotta contro Bisanzio lasciò mano libera a Ruggero nella conquista della Sicilia: ma i primi tentativi di attaccare Messina nel 1060 e nel febbraio 1061 fallirono. Fu necessario attendere l’arrivo di Roberto alla fine dell’anno per aver ragione dei musulmani di Messina malgrado questi avessero ricevuto rinforzi da parte del qa‘id di Castrogiovanni: la stasi nell’avanzata fu determinata non solo dalle scarse forze normanne valutate in appena cinquecento cavalieri ma anche e soprattutto nella speranza delusa di un appoggio dei cristiani di Sicilia che non si ribellarono. Per dieci anni la pressione normanna in Sicilia fu limitata alla sola Messina mentre nel resto dell’isola si consumavano le lotte tra la fazione di Ibn al-Hawwas e quella nord-africana di Ayyub e ‘Ali, i figli di Tamim, emiro di Ifriqiyyah: Ibn ath-Thumna era scomparso dalla scena, assassinato nel marzo 1062 nei pressi della Rocca di Entella che, come vedremo, sarà l’ultima resistenza araba contro Federico II. Nel 1071, dopo aver tolto Bari ai Bizantini, Roberto e Ruggero si resero conto che per sottomettere la Sicilia bisognava attaccare Palermo via mare e via terra al tempo stesso: la capitale musulmana fu per mesi assediata fino alla resa finale il 7 gennaio 1072. La caduta di Palermo portò alla sottomissione di Mazara anche se la resistenza saracena continuò nel centro dell’isola e nella fascia orientale da 93
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Taormina sino a Siracusa e alla Val di Noto. L’eroe della resistenza musulmana fu il Benavert delle fonti cristiane, l’Ibn Abbad cantato dai poeti arabo-siculi, in particolare dal più noto di essi, Ibn Hamdis. Nato a Siracusa verso il 1055 e vissuto a Noto, a vent’anni Ibn Hamdis lasciò la Sicilia invasa dagli “infedeli” emigrando in volontario esilio a Siviglia alla corte di al-Mutamid, grande figura di sovrano e poeta egli stesso. In Spagna trascorse tredici anni, il periodo forse più felice della sua vita, avendo a compagni lo stesso al-Mutamid, di cui cantò le lotte contro Alfonso VI di Castiglia, e i poeti Ibn Ammar (m. 1086) e Ibn al-Labbana (m.1113), con i quali celebrò i palazzi e i giardini di Siviglia, le singolari gare poetiche di corte, il vino e le allegre brigate lungo le sponde del Guadalquivir. Caduta Siviglia nel 1091 e trascinato il suo patrono in catene in Marocco, Ibn Hamdis riprese le sue peregrinazioni in Ifriqiyyah morendo in tarda età, secondo alcuni a Bigiaya (la Bougie dell’attuale Algeria), secondo altri a Maiorca, verso il 1133. Pur non avendo più rivisto la terra natale, Ibn Hamdis visse nell’illusione di potervi un giorno rientrare dopo la sperata riconquista musulmana e ne sentì sempre il rimpianto, male adattandosi al fatto che i suoi correligionari non fossero stati all’altezza del compito affidato loro da Allah. Benavert, un oscuro eroe, divenne il simbolo del perfetto musulmano: indomito combattente nel decennio 1075-1086, morì il 5 maggio 1086 nell’estrema difesa di Siracusa di cui si era impadronito nel 1075. Il mistero circonda la sua vita: ignorato nelle cronache arabe, il suo nome è rimasto nelle fonti occidentali ovviamente sotto forma di predatore di monasteri e violatore di monache e donne. Secondo le cronache latine, durante l’assedio per mare e per terra a Siracusa da parte di Ruggero il Normanno, Benavert tentò l’arrembaggio della galea stessa di Ruggero ma il salto sulla nave fu troppo corto e cadde in mare, annegando per il peso dell’armatura. Il Diwan di Ibn Hamdis, un volume di oltre seimila versi, è l’unica testimonianza di una certa consistenza del periodo finale della dominazione musulmana in Sicilia. Le parti migliori non sono oggigiorno quelle classiche, le più note, incentrate sulla nostalgia, sul ricordo o sull’esaltazione del valore invano profuso dagli arabi-siculi che dormono il sonno eterno sui cuscini di polvere della guerra santa, ma i frammenti descrittivi più freschi ed originali. Il Canzoniere si apre proprio con un verso nostalgico e polemico: Fin quando mi vorrete da voi esule e bandito?
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Ahimè! che trovo gli amici miei eguali ai miei nemici (I, 1). ... Avevo raggiunto l’ombra meridiana del vigor giovanile, quand’essa si allontanò da me declinando. Sai tu recar conforto ai miei freschi anni perduti? Chi trova il male, cerca il rimedio (II, 2-3). ... Vi ho lasciati, e il separarmi da voi fu cosa dura, cui regger non può né il corpo, né il cuore (VII, 1). ... Dopo la partenza dei generosi del mio popolo, mi fur dati de’ lupi per tenermi compagnia, invece di compagni. Trovai che l’amico mi faceva opposizione, e non tenevo compagnia, fuorché di libri. Quanti amici sinceri la calamità ha ridotto all’indigenza, amici che, quando la sorte era avversa, erano buoni! (XII, 18-20). ... Quanti esuli per cui sospira [l’amata] lontana! Quanti desolati cui tormenta il pensiero dell’afflitta! S’impadronì di noi la tristezza della separazione, ma forse il conforto del ravvicinamento è vicino. E quando c’incontreremo, le anime nostre diverranno l’una medico dell’altra (XXV, 1-3). ... E se la mia terra fosse libera, di sicuro ci andrei con tale animo che ritiene l’andata indispensabile. Ma come posso io liberare la mia terra dal vincolo che sta nelle mani dello straniero che l’opprime? (XXVII, 30-31) ... Certo sotto l’egida di Dio, v’ha una casa in Noto, su cui si versano nuvole pregne di pioggia. Io me la rappresento al pensiero ad ogni istante, e per essa verso pioggia copiosa di lacrime. Come camela verso i figli, io sospiro per quella patria verso cui mi attirano le dimore delle sue pudiche fanciulle. Ché colui che lasciò il cuore qual vestigio di una dimora, brama di farvi ritorno colle membra (XXVII, 51-54). Ricordo la Sicilia, ed il ricordo vien dal dolore che mi travaglia [per averla abbandonata]. E [ricordo] una dimora dove liberamente si folleggiava, frequentata da gente di spirito. Ma se fui bandito da un paradiso, come posso io darne informazioni? Se non fosse che le lacrime sanno d’amaro, io crederei che esse fossero i suoi fiumi. Risi a vent’anni per giovanile follia;
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piango a sessanta per le sue colpe. Or tu non ritener gravi i miei falli, perché il Signor tuo è sempre il gran Misericordioso (CX, 32-37). ... Come no, se è già fatta segno d’ignominia, e le mani dei Cristiani han fatto chiese delle sue moschee? Là i monaci a piacimento fan parlare le loro campane, sonandole mattina e sera. ... La fortuna tradì le città della Sicilia, che erano propugnacoli contro i popoli possenti. Quanti occhi per la paura stanno vegliando, i quali prima in perfetta sicurtà riposavan tranquilli! Veggo la mia patria vilipesa dai Rum, essa la cui gloria, con la mia gente, era incrollabile. Le terre degli Infedeli vestian la paura che essa incuteva, ed ora è dessa che veste consimil paura che quelle incutono (CLVII, 8-14).
Ma sul silenzio dei secoli riecheggia ancora il verso nostalgico dell’arabo figlio per la sua Siracusa: Un paese a cui la colomba diè in prestito il suo collare, ed il pavone lo vestì del manto [screziato] delle sue penne. Pare che quei papaveri sian vino e che i piazzali delle case siano i bicchieri (CCCLII, 1-2).1
Nella povertà di fonti letterarie arabe relative a questo periodo vanno menzionati i versi che Ibn Hamdis dedicò alla battaglia di Capo Dimas svoltasi nel 1123 sulle coste maghrebine tra Ruggero II e le forze zirite di Hasan. Per rappresaglia in seguito al saccheggio di Nicotera in Calabria ad opera dell’almoravide Tashufin, sospettato di essere stato a ciò istigato da Hasan, o per approfittare della confusione alla morte di ‘Ali e alla salita al trono di Hasan allora dodicenne, Ruggero II decise di invadere la capitale zirita Mahdiyyah, che si era già preparata a quest’evento. La flotta di Ruggero partì nel giugnoluglio 1123 ma all’uscita da Marsala incappò in una violenta tempesta ed una delle navi si arenò sulla costa tunisina: dai naufraghi Hasan apprese la notizia dell’imminente attacco. Dopo aver saccheggiato Pantelleria, la flotta di Ruggero sbarcò e attaccò il forte di Dimas, che cadde per tradimento: i Normanni si impossessarono anche dell’isoletta di Ahasi. Il contrattacco musulmano vide Ruggero ed i suoi spar96
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Venezia in una mappa dell’ammiraglio turco Piri Re’is (1525 circa). Mosaico nella sala di Re Ruggero, Palazzo dei Normanni, Palermo (XII sec.).
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si tra le navi, l’isola e il forte: la maggior parte di essi si ritirò in salvo sulle navi tranne un centinaio che, assediati nel forte, senza possibilità di soccorso, furono abbandonati al loro destino. Fu uno scontro come tanti altri, esaltato qui come una grande vittoria per la penna di Ibn Hamdis che si rivela attento cronista pur nell’elogio sperticato del destinatario di questa qasida, l’emiro al-Hasan ibn ‘Ali ibn Yahya: L’esercito tuo numeroso, menando strage, trascinò su di loro i fati, tra montagne di aste. L’energico tuo duce, che ne avea il comando, la mattina dello scontro ebbe in mano la vittoria. Videro per mano di Abu Ishaq stritolata lor massa, sciolta lor compagine, sparpagliate lor file. E quando si adattarono a restar cerchiati di assedio, ché nessuna loro vita ardeva dal desiderio di morire, è stato drizzato contro di loro un mangano che li ha coperti di un nugolo di duri sassi, le cui rotture non guariscono. Allora la morte violenta è stata loro pesata colla stadera di un pesatore, i cui miqtal2 sono i macigni. E quanti si sforzarono di riscattarsi dalla morte a peso d’oro, ma l’oro non era accetto! Là l’Islam estinse la sete ardente che avea del sangue loro, rompendo e tagliando a colpi di lancia e di spada (vv.30-37).3
Conquistata Palermo, Roberto il Guiscardo se ne tornò sulla penisola lasciando al fratello Ruggero il compito di portare a termine la sottomissione dell’isola che avvenne a tappe: alla caduta di Mazara nel 1072, seguirono quella di Trapani nel 1077, di Taormina nel 1078, di Siracusa nel 1086, di Castrogiovanni nel 1087, di Noto nel 1091. L’ultimo baluardo musulmano fu la rocca di Entella, a sud-ovest di Corleone, che si mantenne indipendente per oltre un secolo: ribellatasi a Federico II, resistette agli attacchi dell’imbiratur per cinque anni sino alla completa sottomissione nel 1223. La storia normanna della Sicilia non ci interessa più come tale se non per il contributo della presenza saracena nell’isola sia dal punto di vista sociale che culturale soprattutto. Per restare in questo campo, forse i più bei versi arabo-siciliani a noi giunti – scrive Francesco Gabrieli – non sono dell’epoca del politico dominio musulmano, ma proprio degli anni normanni. Oscuri segretari e letterati di Butera, di Trapani, celebrarono nella lingua dei vinti le pompe e i luoghi di piacere dei vincitori, conquistati a lor volta dalla superiore civiltà orien98
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tale che avevan trovata sul luogo. Un discorso a parte meriterebbe il problema del commercio tra la Sicilia e le coste africane, che si mantenne sempre attivo anche nei momenti di gravi difficoltà politiche. Nel periodo del trapasso dai Kalbiti ai Normanni, in particolare nella fase di transizione e dei “signori provinciali”, dalle lettere dei mercanti si hanno notizie preziose e di prima mano: porti chiusi, pericoli nella navigazione tra le due sponde, difficoltà di carico e scarico delle merci, mercati deboli, insicurezza lungo le vie interne dell’isola, anche se non è da escludere si trattasse di situazioni intermittenti considerando il complesso dell’attività marittima nel Mediterraneo di cui i porti di Palermo e di Mazara erano parte integrante. Non dimentichiamo che le grandi e piccole imprese commerciali avevano ramificazioni in tutti i porti dell’area mediterranea, dall’al-Andalus alla Sicilia, all’Ifriqiyyah, all’Egitto e oltre verso oriente, e che i legami familiari e di amicizia facevano sì che merci invendibili in quel momento su una piazza potevano essere vendute su un’altra o accantonate temporaneamente in vista di future possibilità di mercato. La situazione peggiorò negli anni 1050-1060: un sintomo dell’instabilità che regnava nell’isola fu l’emigrazione di intere famiglie arabe ed ebree verso le coste africane ed anche del Mediterraneo orientale considerate più sicure. Un ebreo arabofono che emigrò nel Libano scrisse ad un amico rifugiatosi ad Alessandria all’incirca nel 1060: Iddio è stato generoso con te poiché nulla di buono rimane in Sicilia! [...] Lascia che ti descriva la guerra civile che ha sconvolto la Sicilia. Sono stato testimone di eventi che non avrei mai pensato di vedere nella mia vita a causa dell’eccessivo spargimento di sangue. Ho camminato sui cadaveri come se avessi camminato su un terreno completamente ricoperto di morti ed è scoppiata una grave epidemia.4
Uguali notizie si possono leggere in altre lettere scritte da Mazara e da Mahdiyyah negli anni 1060-1061, testimonianze delle difficoltà di vita nell’isola e dell’impatto sul commercio e sulla vita economica e sociale alla vigilia della conquista normanna. Solo pochi anni prima si era verificato un esodo al contrario: arabi ed ebrei dei porti dell’Ifriqiyyah, sotto la pressione di attacchi dall’interno, avevano abbandonato le città marittime per rifugiarsi in Sicilia. La nuova stabilità politica sotto i Normanni portò alla normalità le relazioni commerciali tra le due sponde: il flusso di mercanti, merci, 99
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Palermo, la Cuba (da Salazaro, fine ’800). Palermo, la cattedrale (da Salazaro, fine ‘800).
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Palermo, la Zisa (da Salazaro, fine ’800). Palermo, San Giovanni degli Eremiti in una foto d’epoca.
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navi, lettere continuò ininterrotto, salvo brevi periodi di poche settimane o mesi e limitatamente alle zone interessate da scontri militari o da temporanee difficoltà politiche. Nei decenni successivi il commercio tra la Sicilia e l’Africa fu contrastato, con parziale successo, da parte dei mercanti delle repubbliche marinare. Tutto ciò si verificò soprattutto dopo la “crociata” del 1087, coordinata da papa Vittore III (1086-1087), che riuscì a mettere insieme Genovesi, Pisani e Amalfitani e allestire una spedizione contro Mahdiyyah, la capitale del regno zirita di Tamim, allora limitato alla sola città essendo il resto del territorio di fatto nelle mani dei vari signori locali. Solo dieci anni prima, il suo predecessore, papa Gregorio VII (1073-1085), era in relazioni epistolari e diplomatiche con il sovrano di Bugiah su un problema relativo alla comunità cristiana di quel regno, arrivando a dire che, “sebbene in differente modo, ambedue riconosciamo un Dio unico e ogni giorno Lo lodiamo e adoriamo come Creatore e sovrano dell’universo”. Inutile sottolineare che le repubbliche marinare si mossero solo per difendere la libertà dei commerci sul mare infestato da predoni musulmani collegati alla Sicilia e all’Ifriqiyyah. Significativo è il fatto che Ruggero non abbia partecipato all’impresa perché non voleva fossero disturbate le sue relazioni commerciali con i paesi del Maghreb. La spedizione ebbe successo poiché la squadra navale al comando di un Colonna e collegata con i Genovesi, i Pisani e gli Amalfitani agli ordini dei loro ammiragli, anziché attaccare la capitale il cui porto era stato chiuso da catene, si ancorò nelle vicinanze dando agli uomini la possibilità di prendere terra indisturbati. Lo scontro che avvenne il 6 agosto 1087 diventò così terrestre: in poche ore la città-capitale cadde, ma Tamim fu lasciato al suo posto sia per evitare una destabilizzazione pericolosa nell’anarchia vigente sia in vista dei futuri scambi commerciali attraverso l’importante porto africano. L’evento fu cantato in un lungo carme latino dal ritmo avvincente, opera di un diacono Guido. L’autore elogia i capitani, riporta l’allocuzione alle truppe da parte del vescovo Benedetto, legato pontificio nella spedizione, descrive lo sbarco, l’episodio dei leoni liberati contro l’invasore, la morte in battaglia di Ugo Visconti, il condottiero pisano che per primo prese terra, e l’assalto finale alla fortezza di Tamim: Altri distrussero il porto / con mirabile arte costrutto, e le darsene tutte e le torri / trattarono alla stessa stregua
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ne trassero quindi fuori mille navi / che arsero sul litorale: fu il loro incendio / pari a quello di Troia. Altri ancora irruppero nel forte / e ne abbatterono le torri, tutti uccisero i cavalli / del re e tutte le sue mule, mille vessilli d’oro / sottrassero e d’argento, che stanno in Pisa / gloriosi premi del trionfo. ...
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Quando ciò seppero i prodi / che stavano in Madian corsero più dei leopardi / ordinati e mobili. Re Tamim in persona / dall’alto osservava dei suoi edifici e già in cuore s’allietava / per i pericoli sui due popoli incombenti. Non nelle armi, né nel valore / confidarono gli Arabi, ma lesti si volsero / in velocissima fuga; quelli che rimasero infatti / a battersi intorno alle navi, tutti trafissero le lance dei Pisani / e le spade mutilarono. Vinta in tal modo Madian / rioccupata Zawila, pieni di gloria i Pisani / risaliron sulle navi; distrussero qua e là / preziosi edifici, portando via nel contempo / prede piccole e grandi.
Liberarono centomila / e più prigionieri, che riaccolse Romània già da tempo triste. Saraceni e prigionieri / seco portaron senza numero, il che fu solo tuo dono / o Gesù, senza alcun dubbio.5
Dai documenti scoperti poco più di un secolo fa in una stanza della sinagoga della Cairo vecchia, a Fustat, molti dei quali in arabo, risulta chiaro lo scambio commerciale tra le repubbliche marinare e l’Egitto, oltre a quello dei mercanti ebrei arabofoni di Sicilia. In uno di questi documenti indirizzato al califfo fatimide al-Amir (1101-1130) si parla dell’arrivo di cinque mercanti cristiani (Rum) due dei quali sono un amalfitano ed un genovese, con un carico di legname,6 che - come sappiamo - era un materiale prezioso per la marineria maghrebina ed egiziana. Il legname che nei primi secoli dell’incontro-scontro tra Maghreb e Sicilia aveva costituito l’elemento necessario per i musulmani ed era stato ampiamente saccheggiato dalla Sicilia, dalla Calabria e dalla Basilicata, allora propaggine di quest’ultima, è ora oggetto di un attivo scambio commerciale, anche se continua ad essere un elemento di contrasto in Occidente. Alla fine del X secolo, nel 103
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Palermo in una stampa del ’600.
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Messina dirimpettaia di Reggio Calabria (da Piri Re’is, 1525). La Sicilia (da Piri Re’is, 1525).
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971, l’imperatore bizantino Giovanni I Zimiscè si lamentò con il Doge minacciando di bruciare le navi veneziane che commerciavano il legno e il ferro con i musulmani; successivamente in vari concilii (1179, 1215, 1245) vennero promulgati canoni comminanti le sanzioni della scomunica, della confisca dei beni e della perdita della libertà personale per coloro che vendevano ai Saraceni ferro, armi e legname per la costruzione di navi. Ovviamente a nessun risultato portarono queste minacce se nei documenti della cancelleria dei Fatimidi si parla ancora e ufficialmente del traffico di legname, ferro e pece con i Pisani, che nel 1173 conclusero addirittura un trattato con il Saladino per la fornitura della preziosa merce di scambio, reiterato nel 1177. Un secolo dopo la situazione non era mutata: in un trattato tra il sultano d’Egitto al-Malik al-Mansur Qalawun (1279-1290) e Giacomo d’Aragona concluso nel 1290 il re di Sicilia si impegnava a “permettere alla gente dei suoi paesi ed agli altri Franchi di portare ai posti musulmani di frontiera il ferro, la pece, il legname ed altro”.7 Da notare che la pece nera era la materia con cui si faceva il catrame indispensabile per calafatare le navi; e le tre cose delle quali il sultano d’Egitto chiedeva libertà di importazione (ferro, pece, legname) erano appunto i tre materiali fondamentali per costruire le navi. Questi scambi “proibiti” non erano affatto un segreto come sembrerebbe. In un suo studio sulle crociate, Fra’ Fidenzio da Padova scriveva nella seconda metà del XIII secolo:
Vi sono taluni Latini, maledetti da Dio e dalla Chiesa, che portano ai Saraceni ferro, armi, legname e altre cose proibite e che danno loro strumenti mercé i quali essi scannano ed uccidono i Cristiani. Ma vi è poi un male ancora maggiore ed è che molti Cristiani latini, allettati dalle ricchezze e dai piaceri sensuali, si fanno Saracini abbandonando la religione cristiana, poi combattono con le armi in pugno contro i Cristiani. Insomma, molti dei Cristiani che vanno in Terra Santa, anziché rendersi utili, sono di grave danno.8
Queste non sono considerazioni libresche riprese da altri ma di prima mano avendo fra’ Fidenzio soggiornato in Egitto per quindici anni, dal 1275 al 1290: fu papa Gregorio X al concilio ecumenico di Lione nel gennaio 1274 ad affidare al frate patavino il compito di approntare un piano concreto per contrastare l’Islam e per riconquistare i luoghi sacri. E nella sua opera, il Liber recuperationis Terrae Sanctae, presentata ad uno dei successori, papa Niccolò IV, Fra’ Fidenzio illustrò con cognizione di causa parecchie osservazioni e 106
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citazioni di fatti che gettavano luce su molti aspetti delle crociate alle quali parteciparono uomini impreparati sia sotto il profilo culturale che ideologico. Al commercio di prodotti di importanza strategica per l’Islam si aggiunsero col tempo prodotti di lusso quali le spezie, le stoffe, i cristalli di rocca, gli avori, gli argenti, i bronzi, i cuoi, i vetri, le ceramiche, oggi disseminati nei musei di tutta Europa e in Italia in particolare. Significative sono le ceramiche di provenienza dall’area mediterranea giunte in Italia attraverso il Maghreb e conservatesi perché usate a scopo ornamentale sulle facciate degli edifici, in prevalenza religiosi, tra l’XI e il XIV secolo in diverse località, soprattutto dell’Italia centro settentrionale. La rinnovata attività edificatoria nei primi secoli dopo il Mille portò all’uso di questi bacini, belli dal punto di vista del colore e di poco costo, per ingentilire le nude facciate. Gli oltre seicento esemplari di bacini pisani rimastici sono una testimonianza di quell’intensa attività commerciale tra Pisa e gli stati rivieraschi del Mediterraneo, pur ammettendo che qualche pezzo fosse di uso quotidiano o a titolo di ricordo di viaggi esotici. La lotta per la supremazia nel Mediterraneo centrale e occidentale si era svolta tra Fatimidi del Maghreb e Omayyadi di Spagna: la Sicilia pur fatimide o kalbita rimase sia dal punto di vista religioso che geografico un’isola avanzata nello scacchiere musulmano. I contrasti religiosi attenuati (sunniti, sciiti, kharigiti convissero in Sicilia più o meno pacificamente) favorirono le relazioni commerciali e l’instaurarsi di un’entente cordiale che non venne mai meno, neppure nelle ricorrenti ribellioni, fino all’occupazione da parte di una forza esterna, quella normanna, che s’impose nel giro di trent’anni (10611091) fino alla caduta di Noto. ***
Il giorno di Natale del 1130, a Palermo, Ruggero II d’Altavilla fu incoronato re di Sicilia, Calabria e Puglie, una sorta di stato unitario italiano ante litteram. Tre erano le stirpi che popolavano a quel tempo la Sicilia: la greca, la latina e l’araba, e cioè i bizantini nella parte orientale, i normanni in buona parte dell’isola e gli arabi nella zona centrale e occidentale oltre che nelle città importanti di Palermo e Messina. “Urbs felix populo dotata trilingui” chiamò Palermo il poeta Pietro da Eboli, e trilingue era la cancelleria normanna i cui diplomi erano redatti in greco, in latino e in arabo: tra i documenti trilingui si 107
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Una veduta di Tunisi.
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In alto: Pirati barbareschi.
A lato: Ariadeno Barbarossa come è rappresentato nel museo di Touzer (Tunisia).
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menzionano il Psalterium del monastero greco di Rossano del 1183 e l’iscrizione (in quella in arabo la data è indicata secondo il calendario musulmano, 536 dell’Égira) ancora esistente nella Cappella Palatina di Palermo che ricorda l’orologio ad acqua costruito nel 1141 da uno scienziato arabo di Malta per Ruggero II simile a quello inviato a Carlo Magno da Harun ar-Rashid: una clessidra indicava l’ora per mezzo di dodici palline di bronzo fatte cadere in un risonante piatto di metallo da una statuetta, raffigurante una fanciulla che alla fine di ogni ora si affacciava ad una finestra. Nel Liber ad honorem Augusti di Pietro da Eboli9 si nota una illustrazione in cui, separati da colonnine, sono dipinti due notai greci, due saraceni e due latini; nello stesso ms. un medico arabo compie un’analisi delle urine (la scritta latina achim medic. è la corruzione araba di hakim cioè “medico”), mentre un astrologo compie una misurazione con un astrolabio, strumento perfezionato dagli Arabi. La scienza medica araba fu fatta conoscere alla scuola salernitana per l’interessamento dell’abate di Montecassino, Desiderio, diventato papa con il nome di Vittore III (1086-1087): fondata in epoca imprecisata del medioevo, secondo la leggenda da quattro maestri, un latino, un greco, un ebreo e un musulmano, simboleggianti il sincretismo universale della sua dottrina, la scuola medica di Salerno fiorì soprattutto sotto i normanni e gli svevi per decadere verso il 1224. I protagonisti della vicenda furono due monaci di origine araba, Costantino e Aflacio, che vissero entrambi nel celebre monastero. Costantino maghrebino, di cui non conosciamo il nome arabo, giunse a Salerno dove si convertì al cristianesimo ed ebbe l’idea di tradurre in latino opere arabe di medicina; secondo altri era un mercante, forse già cristiano, che capitò per caso a Salerno dove fu spronato ad interessarsi alla medicina, che studiò in Africa per tre anni, ritornando poi nel centro campano con un carico di libri. Dopo un periodo di tirocinio per apprendere il latino, mecenate l’arcivescovo di Salerno, il dotto Alfano, Costantino fu raccomandato all’abate Desiderio che resse la celebre abbazia per quasi trent’anni (10581086). Preso l’abito benedettino, Costantino trascorse gli ultimi anni della sua vita, dal 1070 al 1087, nel monastero di Montecassino, impegnato nella traduzione dall’arabo o meglio nella rielaborazione di fondamentali opere di medicina in arabo, oltre venti titoli, non senza aggiunte e digressioni, con una certa autonomia rispetto all’originale – cosa oggi incomprensibile ma non nel medioevo quando era consuetudine rimanipolare, arricchire ed elaborare copie e traduzioni, 110
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attribuendosene spesso anche la paternità; va comunque detto che il suo non fu un lavoro facile sia per la necessità di rendere intelligibili opere scritte in un linguaggio non semplice sia per la mancanza di terminologia specifica che spesso dovette creare. Un secolo e mezzo dopo, il suo biografo Pietro Diacono ne parlò come di un “nuovo Ippocrate”: forse un’esagerazione dal punto di vista medico ma un appellativo sicuramente appropriato per essere stato Costantino il primo grande diffusore della medicina araba allora sconosciuta in Europa. L’altro protagonista fu l’allievo di Costantino, Giovanni Aflacio ossia un Yahya ibn Aflah o Yahya al-Falaki, di chiara origine saracena, forse profugo dalla Sicilia normanna, autore di un Aureus liber di medicina, anch’egli monaco a Montecassino, morto a Napoli in un convento benedettino verso il 1120. Nello stesso periodo opera un Giovanni Saraceno che tradusse alcuni libri della Pantegni Pratica di al-Magiusi (m.994), un voluminoso trattato dedicato alla teoria e alla pratica dell’arte medica, di cui si era interessato anche Costantino – il che fa pensare che per la concomitanza di interessi e dati cronologici Giovanni Saraceno e Giovanni Aflacio siano la stessa persona. I sovrani della dinastia normanna, novelli califfi, adoperarono appellativi musulmani assieme al titolo occidentale, anche se con un carattere formale consigliato dal clima di tolleranza delle culture in un territorio dove convivevano Normanni, Bizantini e Saraceni, oltre che Longobardi in terraferma. Ruggero II (1130-1154) assunse l’appellativo di al-mu'tazz billah ossia “l’esaltato o il potente per volere di Dio”, facendo apporre sui documenti in arabo e non sottoscritti di sua mano la 'alamah, cioè il motto scelto da ogni sovrano e scritto da un segretario per dare autenticità al diploma: la 'alamah o cifra personale scelta da Ruggero fu quella di al-hamdu li'llahi wa shukrun li-anumihi, ossia “lode a Dio per riconoscenza dei suoi benefici”. Guglielmo I (1154-1166) prese l’appellativo di al-hadi bi-amr billah, ossia “la guida o il condottiero per volere di Dio”, e Guglielmo II (1166-1189) quello di al-musta'izz billah, ossia “il diventato potente per volere di Dio”. Più complesso, ma non meno interessante, è il problema dell’uso dell’arabo nelle leggende e nelle monete (il tarì d’oro recava al-mut‘azz billah al-malik Rugiar al-mu‘azzam “il potente in Dio, re Ruggero il sublime”), nelle iscrizioni e nelle formule giuridiche e notarili. Secondo il Johns10 tutti gli Altavilla, tranne Guglielmo III, presero il titolo dinastico di al-mu'azzam, ossia “il sublime”. Nell’amministrazione normanna, soprattutto nel XII secolo, l’ele111
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Kairouan, il minareto della Grande Moschea e, in primo piano, il cimitero islamico. Gerusalemme, la Cupola della Roccia.
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mento musulmano fu preponderante in particolare nel ministero delle finanze, il diwan at-tahqiq, che mantenne la stessa dicitura in latino, dohana de secretis: a questa era affidata tutta la materia finanziaria, la sorveglianza del tesoro e la custodia dei registri, i defetari o deptari (dall’ar. daftar sing. e dafatir plur.), quaderni catastali contenenti la descrizione dei confini, dell’estensione e qualità delle terre con la menzione delle pertinenze compresi i villani che facevano parte della proprietà e con l’annotazione dei vari passaggi delle proprietà fatti in seguito a successione o a donazione o a vendita; in un documento del 1087 questo registro fu denominato “fiscalis quaternus in quo servitium debitum curie declarabatur”. Fino all’epoca di Guglielmo II i defetari erano scritti in arabo, il che fa nascere la supposizione che fossero quaderni compilati durante il periodo dell’occupazione araba, il tutto avvalorato dal fatto che in un documento del 1094 si menzionavano le “antique divisiones saracenorum”; non è però escluso che gli stessi Arabi abbiano usato per i loro scopi fiscali, traducendoli nella loro lingua, i libri catastali preesistenti alla loro invasione dell’isola.11 Affascinato da quella civiltà araba, che pure aveva contribuito ad abbattere sul piano politico, Ruggero II non solo non si dimostrò ostile ai musulmani del suo regno, ma ne adottò modi e costumi, come d’altronde fecero anche i suoi successori. L’adesione di Ruggero fu probabilmente solo formale essendo il re meno agnostico di quanto si creda: fu cristiano sì, ma re cristiano della sua epoca, un uomo impregnato di sacro, un uomo in cui il formalismo non conglobava la sostanza, né gli si poteva chiedere più di quello che l’epoca in cui visse poteva dare. Le voci di un sovrano “mezzo musulmano, semipaganus” presero subito a circolare, alimentate da una personalità carismatica come quella di un Bernardo di Chiaravalle: una probabile accusa gratuita, ma che durò a lungo, che si insinuò “nel cuore di un dibattito sul sincretismo culturale e artistico, nonché religioso, di cui non si intravede lo sbocco...” – come ha scritto di recente Pierre Aubé. Interessante è la testimonianza del viaggiatore andaluso Ibn Giubayr, segretario del governatore almohade di Granada, che fu a Palermo nel mese di ramadan 580 (6 dicembre 1184 - 4 gennaio 1185) durante il regno di Guglielmo II: In quanto concerne il Re di questo popolo, egli è ammirabile per la sua buona condotta e per il suo valersi dell’opera dei Musulmani, e pel tenere a servizio giovani eunuchi i quali tutti, o [almeno] la maggior parte, mantengono in segreto la loro credenza, e stanno attaccati alla legge dell’Islam. Ripone molta fiducia nei
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Musulmani e si affida a loro nelle sue faccende e nelle cose più gravi, al segno che il soprintendente della cucina è un musulmano. Dispone di un corpo di schiavi negri musulmani, retti da un qa‘id (comandante) scelto fra loro stessi. Fanno da visiri e da ciambellani i paggi suoi di cui ha un numero grande; costoro sono i pubblici ufficiali del regno ed hanno il titolo di cortigiani. All’aspetto loro si scorge lo splendore del reame, cotanto sfoggiano di vesti ricche e di cavalli agili. Questo Re [...] tiene a suo servizio molti paggi ed ancelle, e non v’ha reame nella cristianità dove il Re meni vita più molle, più deliziosa e più comoda di lui. Rassomiglia ai Musulmani per il vivere immerso nei godimenti del regnare, per l’ordinamento legislativo, per il cerimoniale, per la distribuzione dei gradi nei suoi ottimati, per il rispetto alla maestà del reame e la pompa sua manifesta. Il suo dominio è molto esteso. Ha medici ed astrologhi a cui prodiga ogni attenzione, ed è sì vago di tal classe di persone che se viene a sapere che alcuno di loro è di passaggio ne’ suoi dominii, lo fa trattenere e lo provvede largamente del bisogno per fargli dimenticare il proprio paese. Dio colla sua bontà preservi i Musulmani da siffatta tentazione. Questo Re ha circa trent’anni. Faccia Iddio che non si mostri nemico dei Musulmani o cerchi di estendersi a [lor danno].12
Durante il regno di Ruggero II si collocano due delle più importanti opere tardo-musulmane - il soffitto della Cappella Palatina a Palermo e il Kitab Rugiar di Muhammad ibn Idrisi. L’unica opera pittorica che ci è rimasta del periodo arabo-normanno, a parte alcuni resti di decorazione sul soffitto del Duomo di Cefalù venuti alla luce nel 1973, è il soffitto ligneo della Cappella Palatina nel Palazzo Reale di Palermo situato nella parte alta della città, ossia il Qasr o Cassaro. La costruzione, iniziata sotto Ruggero II verso il 1132, fu inaugurata il 28 aprile 1140: le pitture risultavano già terminate prima del 1150. Tranne alcune iconografie di riferimento occidentale, tutto il ciclo dei dipinti è incentrato sulla vita del tipico sovrano o califfo con il contorno di animali mitici, scene idealizzate o di vita quotidiana, di derivazione abbaside in stile persiano o iraqeno. A dire il vero l’iconografia non segue una successione regolare ed ogni scena va presa di per sé stessa, con speciale predilezione per le figure decorative di animali e uccelli secondo la tradizione delle ceramiche e dei tessuti egiziani. Particolarmente interessanti sono le scene che ritraggono il bevitore con la coppa nell’ebbrezza del vino o il sovrano nell’atto del bere da una coppa che tiene nella mano destra mentre nella sinistra regge un fiore, un atteggiamento tipico ripreso nella miniatura indopersiana del secolo di ‘Omar Khayyam (m.1123), il mistico esoterico e l’ateo scettico al tempo stesso, l’epicureo che nella brevità della vita 114
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canta il vino, le donne, la passione d’amore; oppure la scena della fanciulla che balla al suono del tamburello facendo giocare con le mani coppe e caraffe secondo il racconto della schiava di Harun ar-Rashid che “cantava ritta dinanzi a lui, reggendo nelle mani due coppe piene”; o infine la scena dei giocatori, condannata dai teologi, dal trictrac agli scacchi (lo shah mat persiano, ossia “lo scacco matto”, cioé “il re è morto”), rappresentata secondo uno schema diventato frequente nella miniatura persiana. Un accenno va fatto alle iscrizioni che si rintracciano fra le decorazioni dipinte sul soffitto della Cappella nelle cornici che delimitano in alto la zona a muqarnas13 della navata centrale: si tratta di 280 iscrizioni formate dalla combinazione di grafemi arabi in forma cufica, che ritroveremo, in forma modificata sì da essere quasi indecifrabili, nelle chiese rupestri della Puglia e della Basilicata nel XIV secolo. Si può dire che le parole qui leggibili non siano più di trenta, sistemate senza un ordine logico, con la ricorrenza di vocaboli quali barkat (beatitudine), samar (ricchezza), sa'd (prosperità), na'am (felicità), e simili. Rimane il problema della provenienza degli artisti che vi lavorarono: forse dall’Egitto fatimide, o dalla Siria, o dal vicino Maghreb, anche se non sono da escludere gli artisti locali. Purtroppo è impossibile avere riferimenti di comparazione poiché i soffitti lignei a muqarnas, sicuramente diffusi a quell’epoca, non sono sopravvissuti alla distruzione dell’uomo e del tempo. Bisogna comunque tener conto del fatto che nel campo intellettuale, sia in Sicilia sia nella penisola italiana, i due mondi, quello arabo e quello cristiano, vissero separati, in una sorta di sdegnoso sprezzo reciproco anche nei periodi di cordiale collaborazione. Ognuna delle due culture, pur nel bilinguismo tipico delle terre di frontiera, guardò alle proprie radici: a Costantinopoli i cristiani, a Baghdad e Qayrawan, a Córdoba e al Cairo i musulmani; se un risultato ci fu, lo fu solo sul terreno artistico e linguistico. Se passiamo al campo letterario incontriamo una singolare figura di viaggiatore, geografo e scrittore: Muhammad ibn Idrisi, discendente della dinastia degli Idrisiti, fondatrice di uno Stato indipendente nel Marocco settentrionale verso la fine dell’VIII secolo. Da Ceuta, dove nacque nel 1100 (morì nel 1165), Ibn Idrisi passò a Palermo ospite di Ruggero II nel 1138. Su richiesta del sovrano normanno Idrisi scrisse un compendio di geografia, il Nuzhat al-mushtaq fi ikhtiraq al-afaq, ossia “Il diletto di chi è appassionato alle peregrinazioni attraverso il mondo”, finito di scrivere nel mese di shawwal del 115
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548 H (metà gennaio 1154). La parte relativa alla Sicilia e all’Italia è apparsa sotto il titolo di Kitab Rugiar noto come “Il libro di Ruggero”: vi si trovano notizie attendibili ed originali, frutto di informazioni dirette e basate su esperienze personali. L’Italia insulare e peninsulare abbraccia quasi quattro dei settanta compartimenti compresi nei sette “climi” in cui Ibn Idrisi - seguendo la strutturazione geografica greca - ha diviso la quarta parte abitata del globo: di essi uno è occupato dalle nostre isole e tre dalle terre continentali. Da notare che i geografi musulmani dividevano il mondo in “climi” (ar. iqlim) dall’antico greco klima, ma si trattava di una classificazione puramente geografica, senza alcuna delle implicazioni politiche, tanto meno culturali, che hanno i nomi dei continenti nelle lingue moderne dell’Occidente. Nell’introduzione al suo trattato geografico Ibn Idrisi fa un elogio sperticato di re Ruggero “divenuto per grazia divina il potentissimo sovrano di Sicilia, Italia, Longobardia e Calabria, il sostegno del Pontefice di Roma e il difensore della Cristianità”; quindi giustifica le richieste del sovrano che volle “appurare la reale situazione dei suoi domini ed averne notizie chiare e precise: conoscerne i confini, gl’itinerari terrestri e marittimi, l’ubicazione di ciascun territorio in rapporto ai climi, i relativi mari e golfi. Di tutti gli altri paesi e contrade dei sette climi volle sapere: i dati su cui concordavano i dotti e che relatori e compilatori annotavano sui propri taccuini, quali compartimenti di ogni regione appartenessero a ciascun clima, quanti fossero da comprendere in esso e da considerare sua parte integrante”14 e conclude dicendo di aver obbedito all’ordine del re scrivendo questo libro. Lunga e minuziosa è la sua descrizione della Sicilia arabo-normanna; man mano procede verso nord le notizie diventano più scarne e meno precise. Una particolare cura Ibn Idrisi mise nella descrizione delle città portuali, indice non solo dell’interesse del geografo ma anche dell’importanza che quelle località ebbero nel passato per i musulmani e avranno nel futuro. Riportiamo qui le parti relative a Messina, Siracusa, Taranto, Venezia, Genova: Ad una giornata leggera da Milazzo si incontra Messina, adagiata su una delle punte orientali dell’isola e cinta ad ovest dai monti. La sua spiaggia è amena, fertile e produttivo il suolo, vi abbondano giardini e frutteti e lungo i fiumi dalle acque copiose sono sistemati molti mulini. Messina è da comprendere fra i paesi più illustri e prosperi anche per il continuo andirivieni di viaggiatori. Essa ospita un arse-
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nale, quindi è qui che ormeggiano e da qui salpano le imbarcazioni provenienti da tutti i paesi costieri dei Rum. A Messina, dove si raccolgono le grandi navi nonché i viaggiatori e i mercanti dei più svariati paesi latini e musulmani, i mercati sono fiorenti, le mercanzie hanno smercio e numerosi vi affluiscono gli avventori. I monti del territorio messinese hanno miniere di ferro che viene esportato nei paesi vicini; il porto è un’autentica meraviglia e se ne fa un gran parlare in tutto il mondo dato che non vi è nave, di qualsiasi stazza essa sia, che non possa gettar l’ancora nei pressi della spiaggia in modo da procedere allo scarico delle merci passandole di mano in mano fino alla terraferma. Messina giace sullo Stretto attraverso il quale si traghetta in Calabria; quel tratto di mare è difficile, massimamente quando il vento soffia in senso contrario all’acqua; se poi avviene l’incontro di opposte correnti marine, allora è estremamente difficile che scampi, se non per grazia dell’Altissimo, chi si trova avviluppato in esse. La larghezza massima dello Stretto è di dieci miglia, la minima di tre soltanto.
[...] Siracusa, che è fra le principali e le più rinomate città della Sicilia e meta di cittadini e di foresi, a cui convergono da ogni remota contrada viaggiatori e mercanti. Essa sorge sul mare, che la bagna da tutti i lati, ma è attraverso una porta ubicata a settentrione che si entra e si esce. Di Siracusa - celebre metropoli e rinomata fortezza - la fama è tale che ci dispensa da ogni ulteriore dettaglio descrittivo. Dei suoi due porti, senza pari in tutto il mondo, l’uno - sistemato a sud - è più ampio dell’altro che si trova al nord, ma che è più noto. A Siracusa si trova la sorgente dell’Anapo,15 veramente straordinaria, che scaturisce da una roccia proprio in riva al mare. Al pari delle altre maggiori metropoli, anche questa città è fornita di mercati, grandi arterie, caravanserragli, case d’abitazione, terme, superbi edifici e vaste piazze. Essa ha anche un contado d’ampiezza considerevole, con poderi e casali, terreni fertili ed opulenti campi da semina: insomma, un vero emporio di viveri e derrate d’ogni genere che le navi caricano e trasportano in altri paesi. Di giardini e di frutteti in questa contrada ve ne sono in numero incalcolabile, infinito.
Taranto, città grande e di antica fondazione, ha begli edifici e pullula di mercanti e viaggiatori. È qui che si caricano le navi, qui convergono le carovane data l’abbondanza delle merci e delle ricchezze. La città è anche dotata di un porto sistemato a ponente nel mare alto ed a nord-est ha una laguna la cui ansa dal ponte alla porta della città misura dodici miglia; detto ponte è gettato fra il mare aperto e l’accennata laguna, ed è lungo dalla porta di Taranto, orientata a nord, alla terraferma trecento braccia, e largo quindici. I suoi fornici lasciano passare l’acqua dal mare alla baia e viceversa due volte il giorno e due la notte. La laguna, nella quale si versano tre fiumi, ha una profondità che varia da trenta a quindici a dieci braccia. La città è circondata dal mare alto e dalla laguna in ogni sua parte, ad eccezione di quella che guarda a nord. Venezia è la capitale dei Veneziani e residenza del loro Doge, signore di eserciti e flotte; la città è circondata dal mare da ogni parte.
Genova è città di antica costruzione, con bei dintorni ed imponenti edifici; essa
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è ricca di frutta, di campi da semina, di borgate e casali e giace presso un piccolo fiume.16 La città pullula di ricchi mercanti che viaggiano per terra e per mare e si avventurano in imprese facili e difficili. I Genovesi, dotati di un naviglio formidabile, sono esperti nelle insidie della guerra e nelle arti del governo: fra tutte le genti latine sono quelli che godono di maggior prestigio.17
L’opera di Ibn Idrisi, che rappresentava indubbiamente un progresso nelle conoscenze geografiche del tempo, rimase ignorata fuori della Sicilia: esempio significativo dello scarso interesse esistente per la cultura araba e islamica nella terraferma ad eccezione di alcune opere di tipo medico. Fu solo alla fine del XVI secolo, nel 1592, che un compendio dell’opera di Ibn Idrisi apparve a Roma nella Tipografia Medicea Orientale con il titolo di Geographia nubiensis. Il Monneret de Villard, a riprova della pochissima diffusione della cultura musulmana in Italia, e soprattutto del nessun interesse che c’era nel sapere che cosa si leggesse nelle iscrizioni in arabo, anche su oggetti importati dall’oriente islamico, cita l’esempio delle cassette di legno ricoperte di lamine di avorio dette arabo-sicule ma in realtà mesopotamiche: le iscrizioni sono spesso frasi licenziose, talvolta oscene, eppure tali cassette furono per secoli, e molte lo sono tuttora, usate per conservarvi reliquie di santi e martiri, senza riguardo alla contraddizione tra lo scopo santo e l’oscenità del testo, ovviamente ignoto agli utenti. Un uguale disinteresse per l’Islam e per l’opera di Maometto dominava il mondo colto e letterario: si è a lungo discusso sul grado di conoscenza globale esistente in Occidente. Da un esame della situazione storica e culturale la risposta è negativa: anche a livello popolare la conoscenza è stata pressoché nulla. Nel XII e XIII secolo l’opera di studio dell’Islam fu esclusiva della Spagna. Ciò che si fece nelle altre parti dell’Europa fu ben piccola e trascurabile cosa. Né la prima traduzione del Corano commissionata a Roberto di Chester, matematico e arcidiacono di una chiesa in Spagna, da Pietro di Cluny (1092-1156) che nel 1141 si recò a questo scopo in Spagna, né le Crociate servirono molto per una migliore conoscenza dell’Islam: la prima perché fu utilizzata più per confutare che per desiderio di conoscenza; le seconde, che pure avrebbero dovuto portare almeno all’apprendimento dell’arabo, perché condotte per motivi politici ed economici malgrado l’intento missionario di Urbano II, antico monaco cluniacense, e i pochi che cercarono di sapere furono sopraffatti dai molti che cercarono in Oriente la conferma di 118
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quanto credevano o volevano credere di sapere. Pietro il Venerabile si era reso conto che per combattere i musulmani nel campo teologico bisognava conoscere con esattezza i loro testi religiosi: che poi la versione latina non fosse propriamente tecnica come l’intendiamo noi oggi fa parte della società del suo tempo. Malgrado l’intento di carattere scientifico, lo scopo primario della traduzione del Corano fu quello di confutare: lo dimostrò lo stesso Pietro di Cluny che in una Summula, breve trattato contro l’Islam, scrisse:
Ai Saraceni si addice il nome di eretici poiché hanno alcune credenze in comune tra noi, mentre in molte altre dissentono; anzi forse sarebbe più esatto chiamarli etnici, che è peggio. poiché sebbene essi affermano qualche cosa veritiera circa Dio, ne dicono altresì molte false e non hanno, né il battesimo, né la confessione, né alcuno altro sacramento cristiano. [...] Maometto, per non apparire completamente disonesto, raccomandò la pratica delle elemosine e qualche opera di misericordia, infine elogiò la preghiera. In tal modo egli si rivela sotto tutti gli aspetti mostruoso, cioè, come dice quegli (Orazio nell’Arte poetica) riunente la testa d’uomo, il collo del cavallo e le penne d’uccello. Persuaso dal monaco (Sergio) e dagli Ebrei, abbandonò completamente l’idolatria e indusse coloro che poté ad abbandonarla predicando che bisognava adorare un Dio unico abbandonando la molteplicità degli Dei.18
Pur con questi giudizi negativi, fu fatto ogni sforzo per tenere la traduzione di Roberto di Chester il più possibile lontano dagli occhi degli eventuali lettori tranne gli ecclesiastici autorizzati – il popolo analfabeta non contava – poiché molte erano le parti del Corano che avrebbero potuto porre l’Islam in una luce troppo favorevole: gli insegnamenti etici, le lodi di Cristo e della Vergine, l’Annunciazione, l’autorità data da Dio al figlio di Maria, e simili. E questo potrebbe spiegare la posizione di un Dante, che in teoria avrebbe potuto conoscere il testo sacro dell’Islam pur, con tutte le sue approssimazioni, e capire che Maometto non era un eresiarca cristiano; fu invece influenzato dalle opinioni correnti e dagli opuscoli di propaganda del tempo, e collocò Maometto e ‘Ali tra i seminatori di discordie nella IX bolgia dell’Inferno (XXVIII, vv.25-32) in versi così troppo realistici che l’Islam gli rinfaccerà quest’errore per secoli. D’altronde esisteva una tradizione secolare che vedeva in Maometto un eretico ed uno scismatico, mentre egli aveva invece convertito al monoteismo popolazioni pagane non cristiane: e come ben sappiamo i luoghi comuni sono duri a morire – la tradizione aveva alimentato una nota leggenda, narrata e rielaborata da innumerevoli fonti cronachistiche e letterarie, secondo la quale Maometto, giovane gentile e 119
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Vito Salierno
cristiano, era stato traviato da un alto prelato deluso nella sua carriera ed aveva così provocato lo scisma nella Chiesa cristiana. Fu solo il mondo religioso che a partire dalla seconda metà del XIII secolo, Domenicani e Francescani, mostrò un vero interesse di conoscenza anche se inserito in un programma missionario e di evangelizzazione.
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A Palermo funzionarono sotto i Normanni i tiraz, officine regie per la tessitura con maestranze musulmane. Probabilmente risalivano all’epoca kalbita ma non ci sono rimaste tracce: unico elemento potrebbe essere il mantello di tessitura musulmana che Melo da Bari donò tra il 1018 ed il 1020 ad Enrico II, ora nel Duomo di Bamberga se fosse di scuola palermitana sarebbe una prova dell’esistenza di tiraz in epoca prenormanna. Dai tiraz di Palermo uscirono il manto che si suppose fosse stato usato per l’incoronazione di Ruggero II, a semicerchio su fondo rosso con decorazioni in oro e perle, recante un’iscrizione cufica lungo la bordura, oggi nel Kunsthistorisches Museum di Vienna, dalla quale si rileva invece che è posteriore, anche se di poco (528 H = 1133-1134); la veste di seta bianca di Guglielmo II, ornata di una frangia in porpora e oro, lungo la quale corre un’iscrizione bilingue in latino e in arabo con i titoli di Guglielmo e la data del 1181; ed una stoffa con due leoni addossati, in oro su fondo blu, di cui ci rimane un frammento, oggi nel museo di Hannover, e che doveva essere, in quanto al motivo, identico al mosaico nel pavimento della Cappella Palatina. Queste stoffe sicule hanno poi ispirato i modelli in argento e oro delle tessiture di Lucca e di Venezia. Ricordiamo che già nella seconda metà del X secolo ne aveva parlato quell’attento viaggiatore che fu Ibn Hawqal con riferimento a Napoli: La principale ricchezza di Napoli [consiste] nel lino e nei tessuti di quella. Io ne ho viste in quella [città] delle pezze, alle quali non trovo compagne in nessun altro paese; né avvi artefice che sappia fabbricarne in nessun altro tiraz [manifattura di tessuti e di vestiti. Talvolta si chiamava così per antonomasia la manifattura del principe, donde uscivano i sontuosi vestiti di corte ricamati] del mondo: della tela tirata [alla lunghezza] di cento dira [braccio o cubito, circa 48 cm.] sopra quindici o dieci [di larghezza]; la quale si vende da centocinquanta ru'bai [quarto di dinar] alla pezza, più o meno.19
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Dopo una diaspora iniziale verso l’Ifriqiyyah e la Spagna, non pochi musulmani siculi, soprattutto della classe media, rimasero in Sicilia: la tolleranza di Ruggero II facilitò il loro reinserimento nell’ amministrazione normanna anche se l’élite preferì tornare o emigrare nel Maghreb o nell’Andalus portando con sé nella nisbah o soprannome di relazione geografica “as-Siqilli” [il Siciliano] il ricordo dell’isola. ‘Abd al-Halim fu uno di questi: Amavo la Sicilia nella mia prima giovinezza: m’appariva simile ad un giardino di perenne felicità. Ma non ero ancora giunto agli anni della maturità che, mirate, divenne una rovente Gehenna.20
In Egitto emigrò un autoctono poeta siciliano, nato a Palermo nel 1041: Ibn al-Qatta che, dopo un soggiorno andaluso a Saragozza, si trasferì al Cairo dove tenne scuola di metrica, di grammatica e di lessicologia; ricordato come il “siculo-egiziano” (as-siqilli al-misri), morì ottantenne nel 1121. Autore di cinque trattati di metrica, è ricordato soprattutto per una raccolta antologica di poeti, ad-Durra al-khatira min shu'ara al-Giazira, ossia “La perla preziosa sui poeti dell’isola”, andata perduta: alcuni estratti sono inclusi in una antologia di ‘Imad ad-Din al-Isfahani (1125-1201), la Kharidah al-qasr o “La perla del castello”. L’antologia di Ibn al-Qatta, ridottasi nel tempo nelle epitomi posteriori a causa di censure o autocensure da parte dei compilatori, doveva certamente contenere versi sulla vita della Sicilia e dei Normanni: i versi rimastici sono quelli consueti sul tema dell’amore con il raffinato contorno di coppieri, canti, danze, liuti; non mancano i funambolismi ed i virtuosismi su oggetti o uomini, ossia i tipici preziosismi della poesia araba. Ce lo dimostrano alcuni versi tratti da quest’antologia: Laggiù l’anemone assomigliava ad una gota scintillante per peluria e nel colore della violetta sembravano amalgamarsi tenebre e luce; il giglio aveva il candore delle cupole, con al centro aurei pistilli e sui teneri steli ammiravi i narcisi: parevano lanterne sospese ai sostegni; i cedri ricordavano cofanetti d’oro in ordinata serie, o seni di fanciulle.
Struggenti i versi di ‘Abd ar-Rahman al-Ballanubi, originario di 121
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Vito Salierno
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Villanova presso Bivona di Sicilia:
Mi hanno ucciso sguardi di donne simili a statue, fra un candore di denti e labbra di scura porpora: dopo aver detto che la mia giovanile follia s’era conclusa, eccola rendermi nuovamente pazzo d’amore e di passione. O mio detrattore, cessa ogni ulteriore biasimo: più mi biasimi e più si fa sordo il mio orecchio. La vita di mio padre offro in cambio di colei che è venuta contrita e timida, disposta a fare ammenda delle sue colpe! Nel suo volto ho visto la luna, sorridente nel viso radioso: apparsami, ho interrogato il mio occhio: ero sveglio o sognavo? Aveva un manto discordante con il cerchio della caviglia; questo ha svelato il segreto, quello l’ha occultato. Ma come avrebbe potuto restare ignota la visita mattutina, ché la sua venuta ha fatto fiorire i giardini e rischiarare le tenebre? Quello sguardo è un enigma: se è indifferente inferma il corpo, ma se è consenziente lo risana anche. È una luna che lo spasimante venera come chi in passato, indotto dalla tentazione, ha adorato gli idoli. È ben lei che al calice ha dato in prestito la gota, ed anche i denti, il sorriso e la bocca.21
Per converso, un poeta di Butera, ‘Abd ar-Rahman al-Buthiri, rimase nell’isola e scrisse in lode della Sicilia e di re Ruggero II: Fa’ circolare il vecchio vino dorato, e bevi da mattina a sera. Bevi al suon del liuto, e dei canti degni di Ma‘bad.22 Non v’è vita serena, se non all’ombra della dolce Sicilia, sotto una dinastia che supera le cesaree dinastie dei Re. Ecco palazzi regali, in cui la gioia ha preso albergo; meravigliosa dimora, cui Iddio largì perfetta bellezza! Ecco il teatro fulgente su ogni edifizio di architettura, i superbi verzieri, per cui il mondo è tornato a fiorire, i leoni della sua fontana, che versano acque di Paradiso. La primavera ha vestito le sue contrade di splendidi bei drappi, ha coronato il lor viso di variopinte vesti gemmate, ha profumato gli aliti dello zefiro, al mattino e alla sera.23
Un altro ‘Abd ar-Rahman detto al-Itrabanisi, ossia di Trapani, ne celebrò palazzi e giardini: idilliaca e agreste è la descrizione del parco della Favara (in ar. favvarah = sorgente) o di Maredolce, risalente all’epoca dell’emiro kalbita Gia‘far, sulle rive di un laghetto artificiale nei 122
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I musulmani in Italia
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pressi di Palermo, che chiamò con l’appellativo di Mu‘tazziyya da almu‘tazz, il titolo arabo di Ruggero II: è un inno alle acque dolci e limpide zampillanti nelle vasche di questo tipico “paradiso”/giardino arabo, dove l’amore regna sovrano, i pesci nuotano, gli uccelli cinguettano, il limone ha l’aspetto pallido di un amante, gli aranci sembrano fuoco ardente, e le palme a coppia hanno l’aspetto di due amanti che vivono il loro amore al riparo della natura ospitale. Si riprende qui il tema coranico della dualità del giardino: due mari, due palmizi, aranci e limoni, pesci e uccelli (Corano, sure 47 e 55): Favara dal duplice lago, ogni desiderio in te assommi: vista soave e spettacol mirabile. Le tue acque si spartiscono in nove rivi: oh bellissime diramate correnti! Dove i tuoi laghi s’incontrano, ivi l’amore si accampa, e sul tuo canale la passione pianta le tende. I rami dei giardini sembran protendersi a guardare i pesci delle acque e sorridere. Nuota il grosso pesce nelle limpide onde del parco, gli uccelli cinguettano nei suoi verzieri. Gli aranci superbi dell’isoletta sembran fuoco ardente su verghe di smeraldo. Il limone pare avere il pallor d’un amante che ha passato la notte nell’angoscia della lontananza. E le due palme paion due amanti che per paura dei nemici si siano eletto un forte castello. Palme dei due laghi di Palermo, possiate essere abbeverate da continuo flusso di pioggia! Prosperate, e offrite riparo agli amanti; alle sicure ombre vostre vige inviolato l’amore.24
Alle acque delle innumerevoli fontane di Sicilia innalza un inno il poeta egiziano Ibn Qalaqis, che soggiornò nell’isola nel 1168-1169 trascorrendovi giorni di libertinaggio e di svaghi, partecipando a banchetti e libagioni: vide certamente la Zisa (dall’ar. al-‘aziza “la splendida”) che, finita di costruire nel 1166, veniva decorata in quegli anni, e la sala della fontana con il mormorio dell’acqua che scivolava lungo una lastra obliqua decorata a mosaici - modello terreno del paradiso coranico promesso dal Profeta ai fedeli meritevoli:25 Fontana benedetta, dalla cui acqua poco profonda traemmo gaudio! Sgorgano i suoi zampilli trascorrendo col più fuggevole dei bagliori.
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Vito Salierno
Si sottraggono essi veloci alla vista dell’assetato che teme gli si neghi il bere. Ora è tersa: si son dissolte le strie ed essa appare simile a (scintillante) coppa.
Mentre tra tratti impressionistici e tendenza allo scherzo affiora in vari frammenti il motivo erotico: Baciai allora (l’altro) su una fronte tutta intorno cinta da gioielli. Ed ei divenne simile a luna nuova, che rammenta la luna piena per fulgore. E mai alcuno vide un hilal 26 che, come questo, risplendesse radioso sotto i raggi.
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... Lo baciai un giorno e l’incontrai con piacere, ma provo pudore a parlarne.
Oppure sul tema consueto del vino, dell’amore e della bellezza, alla ‘Omar Khayyam tanto per intenderci: Alzati e porgi la coppa come un sole al mattino e fa’ del tuo calice una stella nel (buio) della sera. ... Soffiò lo zefiro e si destarono le bianche gazzelle avviandosi nel fragrante giardino. Mi ha turbato, al par del suo coppiere, il vino col suo colore verdeggiante tra le foglie del cortile. E diventai, grazie al calice, il più ricco fra tutti, perché d’oro è il vino, d’argento l’acqua.27
Nel maggio 1168 Ibn Qalaqis si trovava in Sicilia su invito del qa‘id Abu‘l-Qasim ibn Hammud, alto funzionario dell’amministrazione normanna, nel periodo della reggenza di Margherita di Navarra tra i due Guglielmi, e capo spirituale della sua gente. Tra il musulmano di Sicilia ed il musulmano di Alessandria le relazioni non dovettero essere delle migliori sia per la diversa posizione tra mecenate e protetto che per i differenti caratteri dei due personaggi: fatto sta che dopo un soggiorno a Palermo Ibn Qalaqis ricevette dal suo protettore un ordine di partenza. Sullo sfondo aleggia il sospetto che il viaggio del poeta nell’isola fosse legato ad un tentativo fallito di riscossa di alcuni musulmani di Sicilia e alla possibiltà che il nostro poeta fosse stato l’emissario di alti funzionari della corte fatimide d’Egitto. Tracce di quest’attività si trovano nel poemetto dal lungo titolo “Il fiore splendente ed il profumo aulente in lode dell’inclito Abu‘lQasim”. Durante il soggiorno a Siracusa Ibn Qalaqis si fece incautamente intercessore presso il suo mecenate a favore della popolazione 124
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I musulmani in Italia
di quella città, chiedendo per conto loro l’abolizione della giziah:
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Sei ministro del regno e il re ti ha scelto, egli che insedia chiunque presieda. Siracusa è frontiera di cui hai creato lo splendore, puoi mai compiacerti che vi si resti allo sbando? I suoi abitanti son prigionieri e tu puoi liberarli, ‘se il peso delle tasse appesantisce il loro tenore di vita’. O nobile rampollo dei Quraysh, O tu che fra essi discendi dalla stirpe degli Hashim, volgi lo sguardo ad esiliati: te ne ho parlato, perché siano ricompensati con la dolcezza di una vita agevole.
Chiuse la sua ultima qasida di felicitazioni, “rivestendola – sono le sue parole – della sua impronta luminosa con espressioni rare, in grado di accattivare gli animi”: Non abbellisce il velo se non v’è chi lo annodi, ma la bellezza ha un viso che celare non vale. Pari è la venustà a un verziere – oh, potesse lo sguardo attraversarlo! – e in esso sono flessuosi rami e [fiorite] zolle. Se la flessuosità [dei rami] a me appartiene, al qa‘id ascrivi intemerata e liberale virtù. Talvolta il fumo d’ambra trasforma in notte il giorno, e divengon allor i nostri calici risplendenti stelle. Ho sorbito [vino] in coppe d’argento e d’oro, né mai da esso mancano i lor colori. L’acqua [argentea] nel mescersi al mero fino ai bordi del calice fa sprizzar le infocate scintille. O gente, perfino nella terra dei Rum ho un cuore cui [grandemente] preme la sorte degli Arabi!28
Di tipico impianto arabo è anche San Giovanni degli Eremiti che Ruggero II fece erigere nel 1132: era un’antica moschea che fu ampliata mantenendo l’aspetto islamico con le cinque cupolette di color rosso. Resti arabi si ritrovano inoltre nella Martorana, la chiesa eretta nel 1143 dall’ammiraglio di Ruggero, Giorgio di Antiochia, che tra il 1146 ed il 1148 conquistò per conto del suo sovrano i più importanti porti della costa africana (Tripoli, Mahdiyyah, Susa, Sfax), persi nel giro di pochi anni: su due colonne sotto il coro, in bande con eleganti caratteri cufici, si leggono iscrizioni coraniche. Queste colonne dovevano certamente far parte di quelle moschee esistenti ancora a 125
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Vito Salierno
Palermo al tempo di Ibn Giubayr; anche nel museo di Trapani c’è una colonna di provenienza dalla locale moschea, ed è di pochi anni fa la scoperta di una moschea a Segesta. Da ricordare infine il ponte dell’Ammiragliato fatto costruire da Giorgio di Antiochia nel 1113 per mettere in comunicazione le due sponde del fiume Oreto. Nei documenti redatti in arabo Ruggero II fu definito al-malik almu'azzam al-qiddis, ossia il grande e venerabile re; anche le sue monete recavano il titolo arabo accanto a quello cristiano di nasir an-nasraniyya, “il difensore della Cristianità”. La sua vita era quella di un emiro: parlava l’arabo, si serviva di medici arabi, aveva truppe musulmane che impiegò nella repressione di città ribelli come Venosa e Troia. Nella curia lavoravano funzionari musulmani - non sappiamo se osservanti, criptomusulmani o convertiti - che si fregiavano del titolo di amir o amiratus:29 il più alto funzionario manteneva il titolo di amir al-umara, emiro in capo. Arabe erano inoltre nell’amministrazione le titolature del ministero delle finanze, il diwan at-tahqiq, definito in latino dohana de secretis, del ministero del tesoro, il diwan al-ma'mur, e del ministero della terra, il diwan al-fava'id. Sotto Ruggero II i musulmani avevano le loro moschee, le loro scuole, i loro mercati: vivevano in quartieri separati retti da leggi proprie e governati da qadi e qa'id, così com’era avvenuto nei secoli precedenti. La sola differenza è che non erano più in posizione predominante e si era invertito il ruolo con la comunità cristiana, anche se non sono da escludere fenomeni xenofobi nella vita d’ogni giorno. Il sincretismo religioso di Ruggero II, dettato più da motivazioni politiche che di fede, consentì al sovrano di attuare un modus vivendi nel crogiuolo delle nazionalità presenti all’interno del suo regno che si estendeva sino ai confini dello Stato della Chiesa e degli Abruzzi. Dai diplomi e dagli atti pubblici del tempo si rileva che la posizione giuridica e sociale dei musulmani fu di vario tipo. Una prima distinzione riguarda i centri che si arresero mantenendo libertà personale e beni privati e quelli conquistati che furono ridotti in servitù: quest’ultima fu di grado diverso, da quella assoluta a quella con diritti limitati; una categoria a parte fu quella dei musulmani delle città, liberi ma tenuti ai tributi, e dei pochi qa'id o gaiti che esercitavano le funzioni di capi o costituivano punti di riferimento dei loro correligionari. Anche le relazioni tra Ruggero II e il califfo fatimide al-Hafiz (11301149) si mantennero buone malgrado l’attività militare normanna in Ifriqiyyah. In una delle ambascerie tra Palermo e il Cairo si parlò del126
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l’occupazione dell’isola di Gerba da parte di una flotta siciliana nel 1135: in una lettera al califfo Ruggero II spiegò che l’occupazione di Gerba era stata causata dalla necessità di dover distruggere un covo di corsari e al-Hafiz ne fu soddisfatto. Probabilmente il motivo di questa entente cordiale era nelle relazioni di commercio tra i due: nel 1123 Ruggero II aveva inviato come suo ambasciatore al predecessore di al-Hafiz, il califfo al-Amir (1101-1130), il noto funzionario Giorgio di Antiochia che aveva potuto concludere vantaggiosi accordi con sgravi fiscali per il suo signore. Per vent’anni, dal 1123 al 1143, e forse più Ruggero scambiò con i due fatimidi ambascerie, doni, lettere: e non è escluso che queste buone relazioni non abbiano avuto influenze positive sull’aspetto “califfale” della monarchia siciliana. Alterne furono invece le relazioni con gli Ziriti e gli Hammaditi che controllavano le due regioni dell’Ifriqiyyah e dell’Algeria: si trattava di due dinastie dirimpettaie e potenzialmente conflittuali anche se gli scambi commerciali si svolgevano regolarmente nei periodi di tregua militare sfruttando inoltre lo stato di permanente agitazione esistente all’interno degli Stati della fascia del Maghreb.30 Ruggero II cercò di sfruttarne i contrasti aiutando ora gli uni ora gli altri a seconda delle circostanze, ma con fasi alterne: malgrado il sogno di un Mediterraneo normanno, la politica di Ruggero fu sempre legata alla penisola italiana e al continente – il suo interesse verso l’Ifriqiyyah e l’Egitto fu di prestigio, di commercio, di presenza, mai di stabile conquista. Comunque, anche se irrealizzabile, il sogno ruggeriano svanì con la morte di Giorgio di Antiochia, l’arconte degli arconti, l’emiro degli emiri, nel 1151. ***
La crisi politica già serpeggiante negli ultimi anni di regno di Ruggero II si acuì alla sua morte il 26 febbraio 1154; con il figlio Guglielmo I il Malo, che rase al suolo Bari, le teste di ponte in Ifriqiyyah furono perse completamente. Dal punto di vista culturale si accentuò il carattere orientale del regno: furono costruite a cavallo dei regni di Guglielmo I e Guglielmo II, tra il 1164 e il 1170, la Zisa (al‘aziza), un antico palazzo di delizie dove regnavano i giochi d’acqua, e nel 1180 la Cuba (al-qubba), un padiglione nel grande parco di Palermo. Nelle iscrizioni della Zisa Guglielmo I è descritto da vero califfo: è detto malik az-zaman, “re di questo tempo, nel suo eccelso soggiorno”. “A lui si conviene la magnificenza e l’allegria (al-tazahur 127
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wal-surur)”. “Questo è il paradiso terrestre che si offre agli sguardi, Egli è colui che cerca la gloria (al-Musta'izz) ed è il [Luogo] Glorioso (al-'Aziz)”. “Questa gloria è duratura ('Izz al-da'im)”. Sotto la protezione della basmala, l’invocazione coranica “Nel nome di Allah misericordioso e clemente” è invece la Cuba (dall'ar. al-Qubba, la Cupola): l’invocazione Bismillah ar-rahman ar-rahim, che è posta all’inizio di ciascuna surah tranne la IX, è poi diventata la formula introduttiva di ogni testo, adoperata dal pio musulmano prima di incominciare una qualunque azione. Continuò inoltre l’opera di traduzione e revisione dall’arabo. Il più significativo tra gli studiosi di religione e di etica del periodo normanno fu Muhammad ibn Zafar detto as-Siqilli, originario della Sicilia o forse nativo della Mecca, insigne glossatore del Corano. Il suo lavoro più noto, dedicato al qa‘id Abu‘l-Qasim già menzionato, è il Sulwan al-muta', o “Conforti politici” diretti agli uomini di governo per essere in grado di fronteggiare tutte le situazioni e di amministrare per il bene del popolo. Sembra che la prima stesura di questo libro fosse stata compiuta durante un soggiorno dell’autore in Oriente: quella finale fu di certo terminata in Sicilia nel 1159. Questo Sulwan al-muta' richiama per stile e struttura il Kitab Kalila wa Dimna che verso la fine del XII secolo Eugenio31 l’emiro rielaborò o fece rielaborare in una versione greca, Stephanites kai Ichnelates, condotta sul testo arabo: si tratta di una delle più interessanti vicende di questo libro, di origine sanscrita, il Panciatantra, una raccolta di circa novanta racconti che un saggio brahmano narra ai due figli stolti di un re per insegnare loro la saggezza nel giro di due mesi. Nel VI secolo d. C. il Panciatantra fu tradotto in persiano pahlavico: da questa versione perduta originò quella araba di ‘Abdallah ibn al-Muqaffa‘ (m. 757) dal titolo di Kalila wa Dimna (circa 750). Dall’oriente la raccolta giunse in Europa attraverso una versione greca di Simeone di Antiochia (fine XI secolo) che fu quella rielaborata da Eugenio con l’ausilio del testo arabo. Dopo altre vicende si ebbe, tra il 1263 ed il 1278, una versione latina di Giovanni da Capua, il Liber Kalilae et Dimnae, che nel sottotitolo di Directorium humanae vitae testimonia il carattere pedagogico dell’opera.32 Ibn al-Muqaffa‘ non fu solo un letterato, ma anche un’anima inquieta e aperta ai problemi più ardui della speculazione religiosa, che al suo tempo spinsero le cerchie intellettualmente più audaci dell’Iraq abbaside a una fervida adesione e propaganda per il dualismo manicheo. Una traccia quasi certamente originale ed autentica di questo travaglio nella ricerca di un 128
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Dall’alto a sinistra, in senso orario: La fortezza costruita su uno sperone di roccia a Roseto Capo Spulico, il Palazzo dei Rettori a Benevento e il castello di Melfi.
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“ubi consistam” – rileva il Gabrieli – si ritrova nell’introduzione al Kalila wa Dimna, dove il primo traduttore dal sanscrito in pahlavico, Burzoe, racconta la sua vita di medico e pensatore, oscillante tra un epicureismo materialistico e un ascetismo di sfondo buddhista. Passando dal particolare al generale si può affermare che tutto il materiale leggendario e favolistico, gnomico-sentenzioso o puramente fantasioso o di intreccio semistorico, venuto dall’India e dalla Persia, fu mediato verso l’Europa attraverso il mondo musulmano. Ma ancor più importante, essendo il testo greco andato perduto, è la traduzione che Eugenio l’emiro fece dall’arabo in latino dei libri IIV dell'Ottica di Claudio Tolomeo, un felice connubio tra arte e scienza.33 Se Eugenio da Palermo – scrive A. M. Piemontese – appare in grado di praticare tre culture, egli non doveva costituire un caso isolato, una rarità accidentale, ma essere espressione della ricchezza del confronto culturale che si poneva nella sua società. Egli poteva emergere come personalità di studioso grazie anche al fattore del proprio rango politico.34 Precursore di Gherardo da Cremona nella diffusione dell’Almagesto fu Enrico Aristippo, più noto per aver introdotto nell’Europa latina le opere di Aristotele. Reduce da una legazione presso l’imperatore Manuele Comneno, Aristippo portò da Costantinopoli un manoscritto greco del Mathematikè Syntaxis che fu tradotto in latino in Sicilia verso il 1160, anticipando di oltre un decennio l’omonima traduzione di Gherardo da Cremona. La versione fatta in Sicilia, cui non furono estranei Aristippo ed Eugenio l’emiro, pur essendo stata la prima in ordine di tempo, fu nota solo ad una ristretta cerchia di studiosi: fu quella di Gherardo che si impose offuscandone la primogenitura siciliana. Il nome di Eugenio l’emiro (ca. 1130-1202), alto funzionario sotto Guglielmo II, è connesso ad un manoscritto trilingue, greco, latino e arabo, con testo su tre colonne, redatto verso il 1153 in Puglia, forse a Nardò. Si tratta di un Salterio, una raccolta di salmi biblici, di grande rilievo perché trascritto in uno scriptorium di territorio pugliese – il che “amplierebbe di per sé l’estensione dell’area arabografa coeva oltre la dimensione insulare siciliana”.35 Sulla situazione della comunità musulmana sotto Guglielmo II ci dà notizie utili e di prima mano il già citato Ibn Giubayr,36 che visitò la Sicilia nel 580 H: di ritorno da un viaggio alla Mecca si fermò nell’isola dal dicembre 1184 al marzo 1185, redigendo un diario di viaggio, una Rihlah. La nave che lo trasportava naufragò dinanzi Messina 130
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e i passeggeri musulmani e cristiani furono salvati per l’intervento diretto di Guglielmo II che si trovava in quella città.
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Fra le cose notevoli che di lui [Guglielmo II] si contano v’ha che sa leggere e scrivere l’arabo. Uno dei servi suoi personali ci disse che la sua 'alamah è “La lode a Dio quale gli è dovuta”, e quella di suo padre era “La lode a Dio per gratitudine ai suoi benefizi”. Le ancelle e le concubine che tiene a palazzo sono tutte musulmane. Tra le cose più singolari che ci raccontò lo stesso servo anzidetto, il cui nome è Yahya (Giovanni) ibn Fityan, il ricamatore, il quale ricama in oro nella fabbrica reale dei broccati, è che le donne cristiane di nazionalità franca che capitano a corte si fanno musulmane, convertite dalle dette ancelle, e tutto questo ad insaputa del Re. Sul bene fatto da queste ancelle [si contano] cose sorprendenti.37
Il diario di Ibn Giubayr è oltremodo interessante per la descrizione che vi si fa del viaggio da ‘Akkah, cioè da San Giovanni d’Acri sulla costa orientale del Mediterraneo, fino a Messina, un tratto di mare che si percorre di solito in dieci-quindici giorni e che durò per gli sfortunati pellegrini oltre due mesi: ma allora il viaggio di mare era soggetto ai venti con tutti gli inconvenienti che ne derivavano. La partenza prevista per il 9 ottobre 1184 fu differita di dieci giorni perché non si alzava il vento che in quelle parti “ha delle leggi arcane singolari, cioè il vento di levante non tira che nelle stagioni di primavera e d’autunno, e non è possibile navigare altro che in queste”. Dopo una lunga attesa la nave salpò il 19 ottobre e per cinque giorni andò spedita con un vento favorevole; senonché il 27 del mese si sollevò il vento di ponente che ruppe il pennone dell’albero maestro. Fatte le riparazioni necessarie, il 31 si alzò il vento di levante, ma debole e leggero, che durò poco: cessato questo, si levò una nebbia sottile e il mare ridiventò piatto come un cristallo e “non si sentì dai quattro punti cardinali alito che spirasse”. Per quattro giorni fu bonaccia sino a che non si alzò il vento di tramontana e la nave poté riprendere il suo corso: a questo punto del viaggio erano morti di stenti due musulmani e due cristiani, ed un altro era caduto in mare e scomparso. Il capitano della nave “ereditò gli averi dei musulmani e dei pellegrini cristiani morti, usando i capitani far così con tutti coloro che muoiono in mare, e l’erede [legittimo] del morto non ha modo di ricevere l’eredità, del che ci maravigliammo a lungo”. Il 13 novembre, un martedì, la nave gettò l’àncora in un’isola dell’arcipelago greco soggetta a Bisanzio dove si trattenne per un giorno; ripreso il mare, la nave costeggiò l’isola di Creta per lungo. Il mare ritornò burrascoso, ma il vento di tramontana agevolò la navigazione 131
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Dall’alto a sinistra, in senso orario: Il castello e una torre lungo le mura della città di Termoli; il castello di Manfredonia. Nella pagina successiva: Lucera, in alto, e il castello di Otranto.
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sino a che non si levò di nuovo il vento di ponente. Nessuno sapeva più dire dove si trovasse la nave: chi diceva che si andava verso l’Ifriqiyyah, chi indietro verso Costantinopoli, chi in direzione della Siria, chi ad Alessandria. Il timore di tutti era di capitare su un’isola deserta dell’arcipelago greco ed essere costretti a svernarvi. Domenica 18 novembre si alzò una nuova burrasca con onde alte “come le mura di una città” e “l’urlo dei marosi il cui muggire percoteva gli orecchi”. Il mattino dopo la nave si ritrovava a Creta. Sconsolata, ma saggia, l’osservazione di Ibn Giubayr:
Si può viaggiare in ogni tempo, ma il viaggio di mare [deve farsi] soltanto nel periodo favorevole e nell’epoca riconosciuta, e non si deve andare alla ventura nelle stagioni dei mesi d’inverno come facemmo noi. La cosa prima e poi è nelle mani di Dio; attenti! adunque, attenti! dallo esporvi ad un pericolo come questo, benché contro il destino non giovi precauzione di sorta. - Dio ci basta, qual protettore!
Con l’aiuto di venti favorevoli la nave riprese il suo corso per fermarsi ancora per alcuni giorni all’isola di Zante; il 29 novembre si abbatté un nuovo uragano con tuoni e grandine che fece disperare della salvezza. Finalmente si arrivò in vista della Calabria dove scesero molti pellegrini cristiani, provati da un lungo viaggio: Ibn Giubayr aveva visto sorgere tre lune nei mesi di ragiab, sha'ban e ramadan.38 Giunta la nave in vista dell’Etna nello stretto, sembrava che le peripezie fossero finite: ma una nuova burrasca più forte di tutte le precedenti sballottolò il legno tra le due coste finché non naufragò di fronte al porto di Messina. Dopo essere rimasto in città per nove giorni, il 18 dicembre Ibn Giubayr salì su una barca diretta a Palermo. La sera successiva era a Cefalù (in ar. Shafludi), dove abitavano un certo numero di musulmani; quindi si fermò a Termini (in ar. Tarmah) dove c’era un grosso sobborgo di musulmani con moschee. Poi a Qasr Sa‘d, a sei chilometri da Palermo, un antico castello musulmano localizzato alla Cannita presso Villabate: era un edificio circondato da tombe musulmane, chiuso da una porta in ferro, con una moschea illuminata da quaranta lampade, nei cui pressi scaturiva una sorgente, la 'Ayn al-magnunah o Fonte dell’indemoniata. Trascorsa la notte, Ibn Giubayr giunse il giorno successivo a Qasr Gia‘far, il castello della Favara o di Maredolce. Lunga la descrizione di Palermo nota presso gli Arabi come alMadinah: 134
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In questa città i Musulmani conservano traccie di lor credenza; essi tengono in buono stato la maggior parte delle loro moschee e vi fanno la preghiera alla chiamata del muezzin. Vi hanno dei sobborghi dove dimorano appartati dai Cristiani; i mercati sono tenuti da loro e son essi che vi fanno il traffico. Non tengono adunanze congregazionali il venerdì, essendo la khutbah loro proibita; la recitano però nelle feste solenni, facendo l’invocazione a nome del [Califfo] ‘abbaside. Vi hanno un qadi al quale si appellano nelle loro divergenze, ed una moschea congregazionale dove si radunano per le funzioni, e in questo mese santo vi fanno grande sfoggio di luminaria. Le moschee [ordinarie] sono poi tante da non contarsi; la più parte servono di scuola ai maestri del Corano. In generale questi Musulmani non praticano coi loro confratelli alla dipendenza degli infedeli e non [godenti sicurtà] nelle sostanze, nelle donne e nei figliuoli - Dio, per bontà sua, provveda a costoro coll’opera sua benefica.
Ripartito da Palermo, Ibn Giubayr si fermò una notte ad Alcamo (in ar. 'Alqamah); il 29 dicembre era ai bagni termali di Segesta (in ar. Hisn al-hammah), giungendo l’ultimo dell’anno a Trapani, punto di imbarco per l’Ifriqiyyah e l’Andalus. Lì dovette attendere sino al 25 marzo prima che una nave salpasse per la Spagna. Durante questo soggiorno il nostro viaggiatore venne a sapere quali fossero le reali condizioni dei suoi correligionari: la posizione di vassallaggio in cui erano tenuti, le conversioni forzate, la precarietà in cui vivevano, citando l’esempio del qa'id Abu‘l-Qasim ibn Hammud, il capo della comunità musulmana di tutta l’isola, imparentato con gli Idrisiti di Fez, continuamente angariato dal potere e angustiato della sua situazione:
Ci trovammo adunque insieme ed egli ci svelò le intime condizioni della sua esistenza, e quelle [dei Musulmani] dell’isola nei rapporti coi loro nemici, cosa da far piangere a lacrime di sangue e da struggere i cuori dal dolore. E fra le altre cose ci disse: “Io desideravo di esser venduto [schiavo], io e la mia famiglia, sperando che questo ci avrebbe liberati dalle [tristi] condizioni in cui viviamo, e ci avrebbe condotti a soggiornare in paesi musulmani”. Or tu considera lo stato in cui doveva trovarsi quest’uomo il quale, non ostante l’alta sua autorità e la nobiltà del suo lignaggio, era portato a concepire desideri come questo, benché carico di famiglia e figliuoli e figliuole! Noi pregammo Dio grande e possente che lo liberasse per carità dalla posizione in che si trovava, e così degli altri Musulmani che dimorano in quest’isola; ed ogni Musulmano è tenuto a pregare per costoro ogni qualvolta nelle sue preci si rivolge a Dio grande e possente. Noi lo lasciammo che piangea e ci facea piangere. Il suo nobile modo di agire, le singolari qualità sue naturali, la gravità dei suoi costumi, la sua compiacenza ed il suo riguardo verso tutti, la bontà del suo carattere e della sua indole ci conciliarono gli animi nostri. Già avevamo veduto in Palermo i palazzi suoi, dei suoi fratelli e dei suoi parenti, palazzi che sembravano castelli eccelsi e superbi; e tutta la famiglia, specialmente lui, erano di elevata con-
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In questa e nella pagina seguente alcune immagini di Castel del Monte.
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dizione. Durante il tempo che egli soggiornò qui si adoperò graziosamente in pro dei pellegrini poveri e mendicanti, sovvenendo ai loro bisogni, e aiutandoli a pagare il nolo e le provvigioni di viaggio. - Dio colla sua bontà ne lo ricompensi e lo rimeriti copiosamente.39
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Nello stesso periodo, un altro infaticabile viaggiatore di Mossul, vestito di un ruvido saio, ‘Ali ibn Abi Bakr al-Harawi, capitò in Sicilia nel 1175 e fu spettatore di un’eruzione dell’Etna, anche se lo scopo apparente era quello di mettere alla prova quanto si diceva della salamandra:
È nell’isola di Sicilia (in ar. Isqaliah) il monte del fuoco, che dalla riva del mare si estolle maestoso verso il cielo. Di giorno n’esce del fumo; di notte del fuoco. Un dei dotti del paese mi raccontò d’aver veduto un animale, della forma d’una quaglia e di color di piombo, che volava in mezzo a cotesto fuoco e vi si rituffava. Egli diceva esser questo il samandar [la salamandra che si supponeva vivesse nel fuoco]: ma dal mio canto io non vi ho vista se non che una pietra nera tutta bucherata, somigliante a quella da [stropicciare] i piedi nel bagno. Così fatte pietre cascan da quel monte verso il mare.40
Il vero intento di questo pio sufi era il pellegrinaggio più che il viaggio: lo si rileva dai pochi frammenti rimastici del suo Kitab al-isharat (Libro di note [dei luoghi da visitare]). Ci dice che a Marsala (in ar. Marsah ‘Ali) “giaccion quivi in unica tomba sette Compagni [contemporanei] del Profeta”, che a Catania (in ar. Qatanah) “in un cimitero a levante giaccion de’ martiri... che siano un trentina, de’ Tabi‘ [la generazione successiva a quella di Maometto], e che siano stati uccisi in quel posto”, che tra Catania e Castrogiovanni (in ar. Qasryannah) “nella regione orientale dell’isola è sepolto Asad ibn al-Furat”, il giurista che per primo condusse la spedizione araba in Sicilia, che a Trapani (in ar. Tarabulus) è sepolta in una moschea una ‘Ayshah, parente di Abu Dharr, uno dei più antichi Compagni del Profeta morto nell’anno 32 H (652-653). Anch’egli, ammalatosi, fu beneficato dal qa‘id Abu‘l-Qasim ibn Hammud che lo ospitò “nella moschea di ‘Ayn as-Shafa [ossia Fonte della guarigione, forse un’acqua termale], alla qual fonte molti accorrono, Iddio Possente e Glorioso mi fece risanare. Il detto caid mi beneficò e diemmi lettere ch’gli indirizzava al Sultano [il Saladino] per sospingerlo al conquiso della Sicilia”.41 138 www.torrossa.com - For non-commercial use by authorised users only. License restrictions apply.
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Gli ultimi anni della dinastia normanna non fanno storia se non per le persecuzioni nei confronti dei musulmani che portarono a rivolte e sommosse negli anni 1189-1190: anche in questo caso le persecuzioni non erano religiose ma di carattere economico perché miravano alla confisca dei beni in possesso di funzionari influenti della burocrazia normanna. A Palermo ci fu un massacro di musulmani con la conseguente fuga dei sopravvissuti verso le zone montuose della parte centro-occidentale dell’isola: è significativo il fatto che mentre all’epoca dei due Ruggeri i documenti redatti in arabo erano per numero uguali a quelli in greco o latino, sotto Guglielmo I il rapporto fu di uno a sette e sotto Gugliemo II di uno a dieci per diventare nullo nel breve regno di Tancredi quando furono redatti solo in latino. L’ultimo documento di Sicilia redatto in arabo è del 1242, in piena epoca sveva, e riguarda Cefalù dove c'erano ancora abitanti musulmani, mentre l’ultima sottoscrizione in arabo in un atto pubblico è del gennaio 1265; altri di epoca più tarda sono transunti notarili, e cioè nel 1258 il transunto in latino di un atto in arabo del 1154 e nel 1286 quello di un atto del 1175. Per quanto riguarda le iscrizioni epigrafiche in arabo c’è da dire che ne sono rimaste poche in rapporto alla lunga presenza musulmana: una cinquantina in Sicilia, una decina in Campania, alcune in Puglia e in Sardegna, pressoché niente nel resto dell’Italia meridionale. La maggior parte sono epigrafi funerarie risalenti all’XI-XII secolo, poche quelle edili e domestiche: quelle funerarie, che dovevano essere molto di più, sono andate perdute con la distruzione dei cimiteri musulmani nessuno dei quali è sopravvissuto alle spoliazioni. L’ipotesi più probabile è che in epoca di riconquista o di riappropriazione del territorio si sia voluto cancellare qualunque traccia della presenza musulmana, come fu il caso del cimitero musulmano di Lucera fatto distruggere da Carlo II d'Angiò. Se molte steli si sono salvate lo devono al fatto di essere state riutilizzate nella costruzione di edifici o oggetti: uno di questi è il trono vescovile, già in San Pietro in Castello, antica cattedrale di Venezia, il cui dossale è costituito da una stele funeraria del XII secolo riciclata a suo tempo. Da un esame delle steli rimaste, in caratteri cufici, si rileva la sobrietà e la modestia delle epigrafi i cui epitaffi cominciano con la consueta invocazione iniziale a Dio, la basmala, nella forma di Bismillah ar-rahman ar-rahim “nel nome di Dio clemente e misericor139
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Il duomo di Amalfi e una torre sulla costiera amalfitana. Nella pagina precedente: Il castello di Vasto, in alto, e una torre sulla costiera amalfitana.
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dioso”, con cui iniziano tutte le centoquattordici sure coraniche, tranne la IX che anticamente faceva tutt’uno con l’VIII, oppure in forme di significati similari quale la ricorrente “benedici Dio il profeta Muhammad e la sua stirpe e da’ loro pace”, o altre ancora dello stesso tenore. Vi si menzionano poi versetti del Corano o qualche pia sentenza, il nome, la data della morte e spesso qualche verso sul tema della vanità e della caducità del mondo. Di rado si menziona il luogo della morte: ne conosciamo una pugliese,42 ritrovata a Monastir, in Tunisia, scritta nell’usuale carattere cufico, in cui si commemora la morte avvenuta a Bari di un qa'id, un tale Mukhtar ibn al-qa‘id ‘Abd al-‘Aziz; in questa stele non c’è la data, che potrebbe essere dei primi del Mille, forse il 1002, anno dell’assedio musulmano di Bari, oppure una data successiva se si trattava di un capo dedito ad attività corsare.43 Tra le steli sepolcrali di maggior impatto decorativo è quella “a mihrab”, ossia a forma della nicchia o abside della moschea, rinvenuta a Pozzuoli nella prima metà dell’Ottocento, murata assieme ad altre nella casa Calzola ed ora al Museo di Napoli: riguarda un Muhammad ibn Abu Sa‘adah che morì il venerdì 14 di ramadan del 473 H, corrispondente al 26 febbraio 1081.44 È probabile che questa stele o altre rinvenute a Napoli e in Sicilia non siano di fattura locale ma di importazione dalla vicina Tunisia essendo difficile pensare, in quei secoli, alla presenza di scalpellini così abili da poter incidere con particolare cura la pietra in caratteri cufici e in lunghi testi coranici di non facile trascrizione. La situazione non è migliore nel settore monetario: da un sondaggio risalente a quarant’anni fa si rileva che nell’arco di tempo di un secolo (1857-1959) i ritrovamenti ufficiali sono stati quattordici per un totale di circa 500 monete con iscrizioni cufiche alle quali ne vanno aggiunte circa 2500 sparse nei musei. Considerando la risistemazione dei musei interessati e la ricognizione effettuata nell’altro mezzo secolo dal 1960 ad oggi si potrà arrivare al massimo ad una cifra doppia, ossia un totale di 6000 monete, non molte tenuto conto dell’intensa circolazione che sembrano aver avuto le monete arabe nel medioevo non solo in Italia ma anche in tutta l’Europa.45 1 IBN HAMDIS, Il Canzoniere, op. cit., pp.77-78, 81, 85, 92, 94-95, 189-190, 251-252, 429. F. GABRIELI, Storia della letteratura araba, Milano, Nuova Accademia Editrice, 1962, pp.194-196.
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2 Misura di peso e peso stesso pari a grammi 4,25. 3 A. BORRUSO, Islàm e Occidente, Mazara del Vallo, Quaderni del corso “alImàm al-Màzari”, 1984, pp.31-48. 4 A. L. UDOVITCH, New materials for the history of Islamic Sicily, in AA. VV., Del nuovo sulla Sicilia musulmana, Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 1995, pp.192193. 5 Versione di Amedeo Giacomini. Per comprendere il ritmo riportiamo nel testo latino la quartina iniziale del carme: "Inclitorum Pisanorum / scripturus istoriam, antiquorum Romanorum / renovo memoriam: nam extendit modo Pisa / laudem admirabilem, quam recepit olim Roma / vincendo Cartaginem". 6 S. M. STERN, An original document from the Fatimid chancery concerning Italian merchants, in Studi orientalistici in onore di Giorgio Levi della Vida, Roma, Istituto per l’Oriente, 1956, vol.II, pp.529-538. 7 C. A. NALLINO, Bayad = pece, in Trattati fra Egitto ed Aragonesi del secolo XIII, in “Rivista di Studi Orientali”, Roma, XVI, 1935-1937, pp.388-391. 8 FRA’ FIDENZIO DI PADOVA, Liber recuperationis Terrae Sanctae, Firenze, 1912 9 Ms latino fine sec. XII (1195) conservato nella Bürgerbibliothek di Berna, cod.120, ff.101, 97. 10 J. JOHNS, I titoli arabi dei sovrani normanni di Sicilia, in “Bollettino di Numismatica”, N.6-7, 1987, p.22. 11 L. GENUARDI, I defetari normanni, in AA. VV., Centenario della nascita di Michele Amari, Palermo, 1910, vol.I, pp.159-164. 12 IBN GIUBAYR, Viaggio in Ispagna, Sicilia, Siria, e Palestina, Mesopotamia, Arabia, Egitto, traduzione e note di Celestino Schiaparelli, disegni di Bruno Caruso, Palermo, Sellerio, 1979, p.226. 13 Alveoli, nicchiette disposte in file, spesso sovrapposte, come celle di alveare a scopo decorativo, usate per raccordare superfici piane a superfici curve. 14 IDRISI, Il Libro di Ruggero, tradotto e annotato a cura di Umberto Rizzitano, Palermo, Flaccovio, 1994, pp.16, 18. Il planisfero era accompagnato da una serie di settanta fogli con circa 2500 nomi, conservati oggi alla Bodleiana di Oxford, assieme al commento “Il diletto ecc.”. 15 Equivoco per Aretusa. 16 Il fiume Bisagno. 17 IDRISI, Il Libro di Ruggero, op.cit., pp.35-36, 38-39, 72, 78, 82. 18 A. MALVEZZI, L’Islamismo e la cultura europea, Firenze, Sansoni, 1956, pp.8889. A. BAUSANI, Breve storia dei pregiudizi anti islamici in Europa, in Il “pazzo sacro” nell’Islam, Milano-Trento, Luni Editrice, 2000, pp.83-100. 19 M. AMARI, Biblioteca arabo-sicula, op.cit., vol.I, p.25. 20 Ibidem, vol.II, p.434. 21 U. RIZZITANO, Storia e cultura nella Sicilia Saracena, op.cit., p.184. 22 Celebre cantore della corte ommiade di Siria nell’VIII secolo. 23 F. GABRIELI - U. SCERRATO, Gli Arabi in Italia, op.cit., p.738. 24 F. GABRIELI, Storia della letteratura araba, op. cit., p.197. 25 Si tratta dell’unico esempio intatto che ci è rimasto del salsabil, ossia di un ambiente con fontana a cascatella e l’acqua che scorre dall’interno verso l’esterno in
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Quel che resta di San Nicola di Casole, a sud di Otranto.
un giuoco di colorazioni cangianti in rapporto ai mosaici del pavimento: oltre alla funzione decorativa il salsabil serviva a rinfrescare il locale. Di origine persiana si diffuse nel Vicino Oriente e in Sicilia dove la fontana a cascata decorò non pochi palazzi nobili e signorili: il termine ricorre nel Corano come “d'una fonte che ha nome Salsabil” (LXXVI, 18). 26 Hilal, cioè la luna nuova, metafora per un bel giovane. 27 Ibn Qalaqis (1137-1172), autore di un’opera letteraria, da poco scoperta, che ha un qualche riferimento alla storia dei musulmani di Sicilia in epoca normanna. A. DE SIMONE, Ibn Qalaqis in Sicilia, in Yad-nama in memoria di Alessandro Bausani, Roma, Bardi, 1991, vol.II, pp.323-344; e Al-Zahr al-Basim di Ibn Qalaqis e le vicende dei musulmani nella Sicilia Normanna, in AA.VV., Del nuovo sulla Sicilia musulmana, Roma, Accademia dei Lincei, 1995, pp.99-152. 28 A. DE SIMONE, Splendori e misteri di Sicilia in un’opera di Ibn Qalaqis, Soveria Mannelli, Rubbettino, 1996, pp.88-91, 124-127. 29 Da amir deriva la voce amiratus, adoperata probabilmente nell’801 per Ibrahim ibn Ahmad al-Aghlab, e successive varianti sino a quella di capo della flotta o ammiraglio. Inoltre da qa'id, voce del X secolo, derivano le forme cayt, caytus, gaitus, e successive varianti. 30 J. JOHNS, I re normanni e i califfi fatimidi. Nuove prospettive su vecchi materiali, in AA.VV. Del nuovo sulla Sicilia musulmana, op.cit., pp.26-30.
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31 Notaio greco proveniente dalla Calabria, fu a capo dell’ amministrazione del regno sotto Guglielmo I; svolse funzioni amministrative e politiche anche in Campania e in Puglia. 32 V. SALIERNO, Riscontri indiani nel Decameron, in Atti del primo congresso nazionale di studi sanscriti (Torino 17 ottobre 1980), a cura di S. Piano e A. Comba, Torino, 1982, pp.117-129. 33 L'ottica di Claudio Tolomeo di Eugenio Ammirato di Sicilia scrittore del sec.XII ridotta in latino sovra la traduzione araba di un testo greco imperfetto, a cura di Gilberto Govi, Torino, Stamperia Reale, G.B.Paravia e I.Vigliardi, 1885. 34 A.M.PIEMONTESE, Trinacria arabistica e umanistica, in AA.VV., Azhàr. Studi arabo-islamici in memoria di Umberto Rizzitano (1913-1980), Palermo, Università di Palermo, 1995, pp.177-186. 35 Ibidem, p.178. Il codice contenente il Salterio, il Ms. Harley 5786, è conservato alla British Library a Londra. 36 Nato nella Spagna musulmana, forse a Valenza, nel 1145, Ibn Giubayr visse quasi sempre a Granada morendo ad Alessandria d’Egitto nel 1217. La sua Rihlah è frutto di osservazioni personali e di cose viste. 37 IBN GIUBAYR, op. cit., p.227. 38 Si tratta del settimo, ottavo e nono mese del calendario musulmano che è lunare, suddiviso in sei mesi di 30 giorni alternati con sei mesi di 29 giorni. 39 IBN GIUBAYR, op.cit., pp.215-224, 232-233, 241. 40 M. AMARI, Biblioteca Arabo-Sicula, op. cit. vol.I, p.136. 41 Ibidem, Appendice, pp.1-5. 42 S. M. ZBISS, Corpus des Inscriptions Arabes de Tunisie, 2e partie. Inscriptions de Monastir, Tunis, 1960, pp.40-41, plate VI, N.25. 43 Va ricordato che il titolo di qa'id non indicava necessariamente un capo o condottiero: spesso era usato per indicare una persona di nobili natali o anche una persona pia. 44 V. GRASSI, Iscrizioni funerarie arabe nel Napoletano, in Presenza araba e islamica in Campania, Napoli, Istituto Universitario Orientale, 1992, pp.349-351. 45 Per un elenco dei ritrovamenti e delle collezioni conservate nei vari musei italiani cfr. G. OMAN, Vestigia arabe in Italia, in Gli Studi sul Vicino Oriente in Italia dal 1921 al 1970. II. L’Oriente Islamico, Roma, Istituto per l’Oriente, 1971, pp.283-290.
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Capitolo quarto
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Federico II e i Saraceni di Sicilia e di Lucera
Il sincretismo culturale e religioso di Ruggero II darà i suoi frutti migliori, gli ultimi, sotto Federico II. Nato il 26 dicembre 1194, Federico rimase orfano del padre, l’imperatore Enrico VI Hohenstaufen, a tre anni e della madre Costanza d’Altavilla a quattro anni. Con la scomparsa degli elementi di fede islamica dalla corte di Palermo, gli abitanti musulmani delle città e delle campagne avevano perso l’unico loro punto di riferimento in tempi grami e difficili. Le rivolte, soffocate a Palermo, ripresero in tutta l’isola nel 1197 alla morte dell’imperatore. Poco si sa dei primi anni di vita di Federico II, che fu affidato alla tutela di papa Innocenzo III: diventato maggiorenne a quattordici anni, gli fu data in moglie Costanza d’Aragona, più vecchia di lui di dieci anni. Si dice che capisse e parlasse l’arabo appreso a Palermo dove ebbe a maestro il qadi dei musulmani stando alle parole dello storico Ibn Sa‘id: quanto a religione è probabile che Federico fosse personalmente agnostico anche se ufficialmente dava la preminenza al cattolicesimo per ragioni politiche, così come si interessava all’Islam considerato non come religione ma come sistema sociale, politico e culturale. In un primo tempo i musulmani gli furono ostili: da poco incoronato imperatore, dovette fronteggiare una forza di ribelli, tra i 25.000 ed i 30.000, che avevano le loro basi ad Entella, nel cuore della Val di Mazara, e a Jato, a pochi passi da Palermo. L’anima della ribellione era Muhammad ibn ‘Abbad, un immigrato tunisino, chiamato Mirabetto nelle cronache cristiane: nel 1223, dopo anni di lotta, Ibn ‘Abbad, omonimo di quell’Ibn ‘Abbad annegato durante l’assedio normanno di Siracusa e forse un suo discendente, si arrese con la garanzia della vita per sé ed i suoi. Federico II, che aveva promesso di rimandarlo in Ifriqiyyah assieme ai suoi beni, non mantenne la parola data, anzi infierì sul vinto ferendolo con un calcio del piede speronato, e lo mandò a morte assieme ai due figli. Secondo una tarda compilazione geografica del XIV secolo, il Kitab al-rawd al-mi'tar di alHimyari, l’avvenimento collocato nel 616 H (1219-1220) non andò così: la figlia di Ibn ‘Abbad, chiusasi in Entella, la rocca a sud-ovest di Corleone, rifiutò l’accordo in attesa dello svolgersi degli eventi. Salpata per l’Africa la nave con a bordo il capo musulmano, in alto mare Ibn ‘Abbad fu annegato: saputa la cosa, la figlia si fortificò ad 146
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Entella da dove iniziò a fare scorrerie nei dintorni. Nel 619 H (12221223) mandò a dire a Federico II che era una donna stanca e sola, prigioniera virtuale dei suoi cavalieri, proponendogli di introdurre di notte nella rocca trecento uomini fedeli a Federico e liberarla così da una difficile situazione. Il sovrano accettò: la mattina dopo i trecento uomini penzolavano dai merli della fortezza. Non essendo riuscito nel suo intento con la forza, l’imperatore volle anch’egli giocare di astuzia e si offrì di sposare l’indomita virago: ma la donna, che aveva spie nel campo svevo, aveva capito la verità. Si rinchiuse nella rocca finché, allo stremo, si uccise con il veleno.1
Entella, imponente rocca e fortezza inaccessibile in Sicilia. In essa si era asserragliato Muhammad ibn ‘Abbad, che reggeva le sorti dei Musulmani nell’isola. Quando fu l’anno 616 [1219-1220] egli venne a patti con l’imperatore che regnava sulla Sicilia e su altre contrade: Ibn ‘Abbad avrebbe fatto atto di sottomissione al Sovrano, conservando i propri beni e tesori e quegli lo avrebbe spedito con alcune navi al litorale d’Ifriqiyah senza ucciderlo. La figlia di Ibn ‘Abbad ricusò di aderire all’accordo e se ne rimase arroccata nella fortezza dicendo al padre: “Possa io essere il tuo riscatto! Se tutto ti andrà bene, ti seguirò, in caso contrario a me spetta farla pagare ai tuoi nemici, vendicandoti per quanto sarà possibile. Quando le galere salparono e si allontanarono dagli sguardi, gli addetti alla sua custodia dissero ad Ibn ‘Abbad: “Il Sovrano ha mantenuto la sua promessa e non è venuto meno al giuramento! Eccoci ormai in rotta verso l‘Ifriqiya, senza che egli ti abbia ucciso; saremo noi a farti affogare in mare liberando la religione del Messia dalla tua presenza, perché i misfatti che hai perpetrato in questa isola non possono essere dimenticati!”. Quindi lo annegarono e fecero ritorno con tutte le sue ricchezze dall’imperatore.2
Stando alle non poche monete ritrovate nella zona controllata da Ibn ‘Abbad, il capo musulmano doveva esercitare un forte potere: le monete, che sono in lega d’argento e rame e hanno un peso di 0,75 grammi, corrispondenti ad un quarto di dirham, recano una leggenda in caratteri naskhi in cui il capo maghrebino è chiamato Muhammad figlio di ‘Abbad, principe dei musulmani (Muhammad ibn ‘Abbad amir al-Muslimin). Non si sa quando e dove furono coniate queste monete, probabilmente a Entella: certo è che, battute in lingua araba ed a nome di Ibn ‘Abbad, erano destinate alla circolazione interna, in aperta sfida all’autorità imperiale.3 La rivolta musulmana continuò a piccoli gruppi nelle zone più impervie della Val di Mazara sino alla resa definitiva tra il 1222 ed il 1224. Fu a questo punto che Federico II progettò il trasferimento del grosso dei 16.000 musulmani superstiti a Lucera: è probabile che 147
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avesse predisposto anche due piccoli insediamenti in Calabria, a Girofalco e a Nocera, ma non abbiamo documenti sicuri. L’esodo non avvenne tutto assieme ma a tappe, in rapporto alla situazione politica della Sicilia: nel 1239, a seguito delle ricorrenti ribellioni nella parte interna della Sicilia occidentale, fu ribadita l’ordinanza che obbligava tutti i saraceni a risiedere a Lucera. Ovviamente questa città orientale creò un perenne conflitto con il Papato e la Chiesa in generale: il papa chiedeva a Federico la conversione di quei saraceni che si diceva capissero bene l’italiano e lo invitava ad accogliere frati predicatori a tale scopo. Dal canto suo Federico II si dimostrava favorevole a parole, ma nei fatti ne ostacolava l’opera di conversione per molte ragioni. Sino agli ultimi anni di vita Federico II fu di continuo messo sotto accusa dalla Chiesa per lo scandalo di Lucera: un sostenitore del Papato, in un memoriale ai cardinali riuniti in concilio a Lione nel 1245, ribadì che l’imperatore “civitatem maximam Agarenorum fecit in regno”. Lucera, città spopolata e decaduta alla scomparsa dell’impero romano, riacquistò la sua importanza con l’arrivo dei primi Saraceni siculi tra il 1224 ed il 1230: eccellenti agricoltori, i nuovi venuti ne fecero uno dei centri migliori di produzione cerealistica, ottenendo notorietà nell’artigianato, dalla lavorazione delle pelli alla produzione di ceramiche di tipo arabo-siculo destinate a lasciare profonde tracce nell’intera Puglia. Quali i motivi che spinsero Federico II ad un esodo saraceno così lontano dalla Sicilia? tanti e ben motivati. Raccogliere in un unico luogo, lontano dall’isola, i Musulmani rimasti in Sicilia, in particolare quelli della zona di Girgenti e dell’interno dell’isola che si erano dimostrati i più riottosi all’autorità; ripopolare una zona depauperata di abitanti; costituire una colonia militare che avrebbe dovuto essergli fedele dipendendo in tutto e per tutto da lui; non ultimo il motivo fiscale - sappiamo che negli anni più floridi la colonia di Lucera contribuì all’erario con un terzo delle entrate dell’intera zona. Calcolando il territorio coltivabile, sia quello demaniale che non demaniale, la popolazione della città con nuclei nei dintorni, a Stornara e a Casal Monte Saraceno, non dovette superare nei periodi di maggior benessere i 40.000 abitanti, anche se nel Ta'rikh Mansuri4 si parla di 170.000 persone, una cifra sproporzionata per quei tempi. Sia le fonti arabe che soprattutto quelle occidentali abbondano di notizie su questa atipica colonia musulmana nel XIII secolo, una minuscola enclave in un territorio cristiano. Lucera è già menzionata 148
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in un compendio di geografia coevo, il Mukhtasir al-gighrafiah, del magrebino-andaluso Ibn Sa‘id (1214-18 – 1274-86), bene informato del nostro paese. Lo provano i passi relativi a piccole località quali Lucera e le isole di Pantelleria e Lampedusa: Torna in questo compartimento [sesto clima, secondo compartimento] la città di Lushir dove l’imperatore [Federico II] diè sede ai Musulmani, ch’egli avea cacciati dalla Sicilia. L’isola di Qusirah è tenuta da Musulmani sotto la signoria de’ Franchi di Sicilia, dalla quale quest’isola è distante una giornata di navigazione.
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L’isola di Anbadushiah è deserta. Quivi posson riparare le navi e far acqua. La Sicilia torna a tramontana di questa isoletta.5
Più ampia e dettagliata è la descrizione di Lucera, mezzo secolo dopo, nel Kitab ar-rawd al-mi'tar:
Città in territorio cristiano, situata sul continente, nella quale il re di Sicilia trasferì i Musulmani che erano rimasti nell’isola poiché questi costituivano per lui un contingente militare di grande utilità, da opporre ai nemici. Egli ve li trasferì nell’intento di usar loro riguardo, dato che di essi aveva bisogno, ed insieme per propria salvaguardia dato che essi erano in numero consistente. I Musulmani popolarono questa città, ne incrementarono lo sviluppo e vi godettero grande prosperità, dimostrandosi abili e capaci. Il loro soggiorno durò così gran tempo fin quando nacquero i dissensi, si formarono le fazioni, scoppiò la discordia. La loro situazione si è tanto aggravata in epoca recente, che l’attuale sovrano di Sicilia li ha scacciati dalla città. Da allora le sventure si sono abbattute su di loro, che sono andati incontro a sorti diverse. Alcuni sono stati infatti cacciati, altri presi prigionieri, altri uccisi, altri infine sono andati raminghi chi in Oriente, chi in Ifriqiyyah, chi un paese e chi in un altro. La città di Lucera è così divenuta cristiana, né vi resta più alcuno di quei Musulmani.6
Nel settembre del 1231, con la promulgazione delle Costituzioni di Melfi, i Saraceni, sia la minoranza sicula che il grosso stanziato a Lucera, si trovarono ad avere uno status giuridico e godere degli stessi diritti e doveri delle altre comunità quale quella ebraica, anche se solo sulla base di considerazioni etiche. Nella realtà godevano della protezione statale sin dove la loro attività risultava utile al regno e non recasse disturbo ai princìpi dello Stato. Non si era ovviamente giunti - i tempi non potevano essere maturi a tal punto - ad una parità assoluta dei diritti: ad esempio, nel caso di un assassinio di cui non 149
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si fosse scoperto l’autore, il prezzo del sangue di un saraceno o di un ebreo era stato stabilito, per il comune in cui era avvenuto, nella metà del sangue di un cristiano, ossia cinquanta augustali contro i cento per un cristiano. Dopo i primi timori di essere destinati a scomparire fisicamente, i Saraceni di Lucera, che erano al tempo stesso agricoltori e soldati, diventarono le truppe più fedeli all’imperatore, una sorta di guardia pretoriana: lo testimoniano le battaglie di Cortenuova (1237), di Vittoria e Fossalta (1248-1249) con Federico II, di Benevento (1266) con Manfredi, di Tagliacozzo (1268) con Corradino. Secondo una stima i Saraceni atti alle armi si aggiravano sui cinque o seimila, cifra per nulla disprezzabile in eserciti medievali: erano per la maggior parte arcieri a piedi e a cavallo, muniti di arco, cui si aggiungeva un coltello o una corta spada, e rappresentavano una fanteria leggera, mobile e facile da manovrare. Si sa che a Cortenuova, il 27 novembre 1237, intervennero nel tardo pomeriggio a battere con il loro tiro i picchieri lombardi e a scompaginarli dando poi la possibilità alla cavalleria di intervenire: l’azione dei saraceni non poté svilupparsi ulteriormente per il sopraggiungere delle tenebre. Nella successiva battaglia di Vittoria, il 18 febbraio 1248, l’imperatore disponeva di quattromila saraceni oltre a duemila fanti cremonesi e mille cavalieri tedeschi, anche se quella mattina, trovandosi a caccia, aveva preso con sé metà dei cavalieri e fanti. Quel giorno i Lombardi si mossero da Parma per sbloccare Brescello e proteggere il trasporto dei viveri in città, mentre per coprire il movimento intervennero da Vittoria cinquecento cavalieri lombardi con i fanti e la popolazione di Parma. I cavalieri lombardi si spinsero verso l’Appennino per impegnare le forze imperiali del campo di Vittoria, ma assaliti dai cavalieri tedeschi che erano a Fornovo dovettero retrocedere in disordine. Fu a quella vista che intervennero i Saraceni sicuri di poter penetrare in Parma con i cavalieri lombardi in rotta. Spinti dalla fretta e trascinati dalla brama di saccheggio, i Saraceni sarebbero usciti dal loro accampamento fortificato di Vittoria senza archi, armati solo di coltelli o corte spade: respinti, morirono in gran numero. Anche sotto Manfredi i Saraceni dimostrarono la loro fedeltà: nella battaglia di Benevento, il 26 febbraio 1266, gli arcieri saraceni combatterono valorosamente contro la massa dei ribaldi dei cavalieri francesi; in particolare nello scontro di San Germano, il 10 febbraio 1266, la retroguardia di Manfredi, forte di circa duemila Saraceni e di 150
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non molti cavalieri, subì gravi perdite riducendosi alla metà. Anche se a Benevento non si può parlare di una particolare e autonoma funzione dei saraceni nella battaglia, è credibile che Manfredi, consapevole della defezione degli elementi indigeni del regno, abbia fatto affidamento sulle forze forestiere, e cioè saraceni e tedeschi.7 L’esistenza di questa colonia è registrata anche nelle cronache arabe. Secondo il Ta'rikh Mansuri nel 627 H (1229-1230) un arabo siciliano, lo sceicco Ahmad ibn Abi al-Qasim, soprannominato arRumman, ossia la melagrana, fece visita al sovrano Malik al-Kamil, sultano di Babilonia e Damasco dal 1218 al 1238: nel corso della conversazione lo sceicco si lamentò della triste situazione dei musulmani che vivevano tra i monti e le rocche dell’interno a Jato, Entella ed altre località impervie, chiedendo un intervento del sovrano presso Federico II affinché facesse tornare i Saraceni di Lucera ai loro paesi d’origine in Sicilia o, nel caso l’imperatore non lo consentisse, permettesse loro almeno di partire per l’Egitto senza fare loro alcun male.8 Se il grosso della popolazione di Lucera era costituita da agricoltori-soldati, pure c’erano artigiani di vario genere tra i quali di particolare importanza erano i fabbricanti di bardature per animali da tiro, da sella, da carico, tessitori, armaiuoli, fabbri, carpentieri; in vari documenti si menzionano spesso gli intarsiatori i cui nomi sembrano di origine siciliana (ne è una prova il vocabolo stesso di “tarsia” dall’ar. tarsi'). Tra le ricorrenti accuse a Federico II c’era quella di vivere alla stregua di un sultano - tale era chiamato dai suoi fedeli di Lucera. Si è parlato di harem, concubine, eunuchi: tutte probabili esagerazioni, anche se è lecito supporre che la corte dell’imperatore avesse un innegabile fasto orientale. L’unico riferimento utile per poter parlare di un entourage femminile più che un vero e proprio harem è in una lettera dell’imperatore a Giovanni Moro il 10 novembre 1239 interpretato in questo senso dall’Egidi: Federico II ordina di dare ad ognuna delle “garciae” una veste foderata di martora, due camicie e due mutande di lino, e alle “ancillae” una gonna “de mayuto”, due camicie e due mutande di lino, “il tutto sui proventi della nostra corte che sono nelle tue mani”.9 Maestranze saracene lavorarono a vario titolo nella costruzione delle domus solaciorum di Federico II, i castelli e palazzi eretti per il riposo e gli svaghi dell’imperatore, quali Castel del Monte con la grande fontana nel cortile interno a forma ottagonale, il palazzo di 151
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Apricena per le battute di caccia nelle riserve costituite dai laghi di Lesina e Varano, il castello di San Lorenzo in Pantano che comprendeva un grande parco per gli animali ed un lago artificiale. Tutto ciò comportava l’esistenza di riserve di animali, non esclusi quelli esotici quali elefanti, leoni, pantere, struzzi, pappagalli che avevano bisogno di numeroso personale: schiavi, valletti, giocolieri, musici, acrobati, nonché cantatrici e danzatrici. In un trattato di falconeria, il De arte venandi cum avibus,10 l’imperatore mise a frutto le osservazioni e le esperienze personali fatte durante i suoi otia tra i canneti e le lagune salmastre della Puglia, tra Manfredonia e l’Ofanto, una riserva naturale dove ancor oggi svernano migliaia di uccelli l’anno. Per prepararsi a questo compito Federico II, che aveva numerosi falconieri saraceni, fece tradurre in latino da Teodoro di Antiochia,11 il segretario inviatogli dal sultano Malik al-Kamil nel 1236, il trattato sulla falconeria dell’arabo Moamin (Mu‘min) vissuto nel IX secolo.12 Teodoro fu più importante di quanto si pensi nella formazione culturale di Federico II: rappresentò il vero mediatore fra la Sicilia federiciana ed il mondo musulmano non solo dell’Oriente islamico, ma anche del Maghreb. Fu il redattore delle lettere arabe indirizzate a vari sovrani arabi e l’autore di un trattato di igiene derivato dallo pseudo-aristotelico Secretum secretorum. Durante la sua permanenza in Terrasanta Federico II, che aveva una corte composta da molti personaggi musulmani, ebbe certamente conoscenza di un trattato di falconeria, il Kitab al-bayzarah, compilato verso la fine del X secolo dal gran falconiere del califfo fatimida al‘Aziz. A questo proposito l’imperatore si espresse chiaramente scrivendo: “non negleximus ad nos vocare expertos huius rei tam de Arabia quam de regionibus undecumque, [...] reges namque Arabum mittebant ad nos falconarios suos peritiores in hac arte cum multis modis falconum”.13 L’opera di Federico II non va considerata solo alla stregua di un manuale. Il suo interesse andava oltre la falconeria pur considerandone il significato del tempo: la caccia con il falcone era un simbolo di nobiltà e di potere. Nel proemio l’imperatore scrisse che la caccia con il falcone era arte dei nobili: “Plures de nobilibus hanc artem addiscunt et diligenter exercent, pauci vero de ignobilibus”. Costosa oltre che nobile: si dice che un girifalco ammaestrato fosse stato acquistato per conto del sultano Malik al-Kamil per ben trecento once d’oro. Ce n’è menzione nel Ta'rikh Mansuri sotto gli anni 1232-1233: “Or era arrivato [in Egitto] un ambasciatore de’ Franchi, per nome M. sir 152
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Raymun [messer Ramondo], il quale portava un uccello chiamato sunqur [girifalco]. Egli narrava di averlo comperato da [certa] gente di mare al prezzo di trecento once d’oro per commissione di al-Malik alKamil, così egli asseriva”.14 Il De arte venandi cum avibus è un lavoro scientifico, permeato dall’interesse e dal desiderio di verificare attraverso l’esperienza la conoscenza appresa da precedenti scritti, rafforzandola sulla base delle osservazioni personali: non per nulla il manoscritto,15 oggi nella Biblioteca Apostolica Vaticana, reca preziose miniature raffiguranti nella prima parte una gran quantità di uccelli delle più svariate specie e nella seconda parte i rapaci adatti per la caccia e circa centosessanta rappresentazioni di falconieri alle prese con il loro addestramento. Anche in queste illustrazioni si può notare una sorprendente sopravvivenza di motivi islamici: con molta probabilità l’ignoto miniatore del manuale è stato infuenzato da bestiari musulmani, dai tessuti dei tiraz palermitani, da prototipi sassanidi. Un altro personaggio di rilievo alla corte di Federico II fu Michele Scoto, anello di congiunzione fra l’ambiente federiciano e il centro di traduzioni di Toledo, dove aveva operato nel XII secolo Gherardo da Cremona,16 il traduttore dell’Almagesto17 e di innumerevoli opere scientifiche tra cui un trattato di algebra, che introdusse questa disciplina numerica in Europa,18 e il celebre Al-qanun fi‘t-tibb di Avicenna, quel Canone di Medicina, che fu il testo medico enciclopedico più noto nel medioevo sino al XVIII secolo, al punto tale che una copia stampata nell’originale arabo a Roma nel 1593 era ancora in uso nel Yemen nel XX secolo.19 Da Toledo dove aveva lavorato nel 1217-1220 alla versione di Alpetragio,20 Michele Scoto passò a Bologna e dal 1227 sino alla morte nel 1235 fu addetto alla corte di Federico per il quale tradusse dall’arabo in latino scritti aristotelici con i commenti di Averroé 21 o (per la parte zoologica) nelle rielaborazioni di Avicenna.22 A Federico II Michele Scoto dedicò varie opere di astrologia tra le quali il trattato Phisionomia per il quale si basò sugli scritti di illustri esponenti dell’astrologia araba quali Fakr ad-din ar-Razi, Abu Ma‘shar (m.886), occidentalizzato in Albumasar, Thabit bin Qurrah, Abu al-‘Abbas al-Farghani (m. dopo l’861), l’Alfraganus delle fonti medievali occidentali, e altri. Non dimentichiamo che proprio in Sicilia, fu tradotto in latino, agli inizi del XIII secolo, il trattato di alchimia De aluminibus et salibus del medico ar-Razi23 – il manoscritto più completo è conservato a Palermo. 153
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A probabile dimora per le sue battute di caccia con il falcone l’imperatore diede inizio alla costruzione di Castel del Monte del quale parlerà come di un castrum, uno strano edificio, poco funzionale, né residenza né fortezza, a pianta ottagonale, aperto al centro e coronato all’esterno da otto torri ottagone, cinquantasei facciate tante quante gli anni di vita di Federico, con all’interno sedici stanze trapezoidali, otto per piano. Leggenda e realtà s’intrecciano in questo castello, probabile luogo di incontro di due civiltà, di due idee, di due realtà: l’imperfezione umana rappresentata dal quadrato e la perfezione divina rappresentata dal cerchio, la rivelazione di ciò che non si può rivelare. Chissà! il nido dell’aquila per colui che si favoleggiava avesse riportato dall’Oriente la coppa del sacro Graal. E in quest’ottica Castel del Monte potrebbe essere stato solo una costruzione-simbolo, un simbolo di stato, ripreso dalla tradizione di una Gerusalemme come città a pianta ottagonale e come città celeste e dalla moschea della Roccia, con l’aggiunta di elementi esoterici, un libro di pietra in cui è possibile vedere tutte le implicazioni che si vogliono vedere, astronomiche, geometriche, matematiche, misteriosofiche, in sintesi una sorta di “Divina Proporzione”. ***
Uno degli eventi politici più importanti del regno di Federico II fu l’amicizia personale con il sultano Malik al-Kamil risalente al 1225, epoca del matrimonio di Federico II con Iolanda o Isabella di Brienne, regina di Gerusalemme per parte di madre. Per rendersi conto delle intenzioni di colui che era chiamato in arabo al-Imbiratur, non solo di nome ma anche di fatto per la sua propensione all’Islam, il sultano aveva inviato a Palermo un’ambasceria diretta dall’emiro Fakhr addin ibn ash-Sheikh. Questi rimase strabiliato e ne scrisse in termini più che lusinghieri:
Sì, tutto ciò che si diceva di Federico corrispondeva a verità! Egli parlava e scriveva perfettamente l’arabo, non nascondeva la propria ammirazione per la civiltà musulmana, si mostrava sprezzante nei confronti dell’Occidente barbaro e soprattutto nei confronti del Papa di Roma la Grande. I suoi stretti collaboratori erano arabi, nonché i soldati della sua guardia, i quali, nelle ore della preghiera, si prosternavano volgendo lo sguardo verso la Mecca. Avendo passato tutta la sua gioventù in Sicilia, allora culla privilegiata della cultura araba, questo spirito curioso non sentiva di avere molto in comune con gli ottusi e fanatici Franchi. Nel suo regno la voce del muèzzin risuonava libera.24
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I musulmani in Italia Nel settembre 1228 Federico II sbarcava ad Acri convinto di poter entrare in Gerusalemme senza colpo ferire: ciò sulla base di un precedente invito di Malik al-Kamil che gli aveva proposto di occupare Gerusalemme quando la città era in mano al fratello al-Mu‘azzam con il quale era in lite. Ma all’arrivo di Federico II Gerusalemme, morto nel frattempo al-Mu‘azzam, era possesso di al-Kamil che, non avendo più bisogno dell’aiuto di Federico, venne a trovarsi in una posizione imbarazzante anche se per lui la situazione a Damasco, dichiaratasi fedele al defunto fratello, non era delle più semplici: difficile quindi una cessione che avrebbe avuto il sapore di un tradimento nei confronti degli Arabi. Si venne quindi ad un’entente cordiale tra i due dato che né l’imperatore né il sultano erano disposti ad uno scontro frontale dall’esito incerto e nel quale non credevano sulla base delle loro idee laiche dello Stato: erano entrambi assertori dell’inutilità delle guerre di religione che non solo non risolvevano niente ma che aggravavano al contrario qualunque situazione. La disputa tra i due fratelli, al-Kamil e al-Mu‘azzam, che portò alla cessione di Gerusalemme, è narrata più o meno allo stesso modo da tutti i cronisti arabi, molti dei quali si copiarono a vicenda. Al-Kamil, temendo la vendetta del fratello al-Mu‘azzam, [...] mandò al re dei Franchi l’emiro Fakhr ad-din Yusuf, figliuolo dello Shaikh as-shuyukh, per invitarlo a venire in Acri, promettendo di dargli alcuni paesi della costiera tenuti dai Musulmani. Tanto egli fece per guastar le fila della trama che ordiva [allora contro di lui] il suo fratello al-Mu‘azzam. L’imperatore, re dei Franchi, si apprestò dunque a venire nella costiera (di Siria): ed al-Mu‘azzam, risaputolo, scrisse al sultano Gialal al-din, chidendogli aiuto contro il fratello al-Kamil e promettendogli di far recitare la preghiera pubblica e battere la moneta in suo nome. Gialal ad-din allora gli mandò le sue khil‘ah (vestimenta di gala), le quali al-Mu‘azzam indossò, andando per le vie di Damasco. Egli soppresse la preghiera pubblica a nome di al-Kamil; il quale, avutone avviso, mosse dal Cairo con l’esercito. [...] Sopravvenne la morte di al-Mu‘azzam [...]. Trasecolò [alle richieste di Federico II] al-Malik al-Kamil; ma non potea respingerlo né fargli guerra, avendo precedentemente conchiuso l’accordo con lui. Si consigliò dunque [di mantenere] la pace e di accarezzarlo.25
La crociata26 del 1228, compiuta da Federico II anomalo crociato per accontentare papa Gregorio IX, che peraltro lo aveva già scomunicato per il ritardo della spedizione d’oltremare, si concluse con un compromesso, un “patto scellerato”, considerato da molti un’ennesima prova della islamizzazione del sovrano, il quale non solo non 155
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faceva nulla per smentire quella fama ma sembrava invece prenderci gusto e avvalorare quelle dicerie. Nella realtà il termine “patto scellerato” o “empia alleanza” erano tali solo quando determinavano una politica contraria ai propri interessi. Non dimentichiamo che la Chiesa stessa fece ricorso alle crociate non solo contro i musulmani ma anche contro i dissidenti interni, quali la crociata contro gli albigesi, la crociata contro gli Hohenstaufen e simili. Dall’altro canto, anche i musulmani si comportarono allo stesso modo: non potendosi mai parlare di pace con gli infedeli, erano necessari periodi di tregua, all’interno dei quali si costituirono quelle alleanze ritenute empie dal Papa - ci riferiamo, nell’ambito del nostro studio, all’alleanza tra Napoli e i maghrebini di Sicilia nell’835-838 contro Benevento e nell’843 contro Messina, tra Damasceni e Franchi nel 1140 contro l’atabek Zinki di Mossul e Aleppo, tra Riccardo Cuor di Leone e il Saladino nel 1192, tra Federico II e Malik al-Kamil nel 1229. In Palestina Federico II, che parlava o capiva l’arabo, si trovò a suo agio, circondato da funzionari e paggi musulmani, interessato com’era alle scienze musulmane, in particolare alla medicina e alla matematica. Lì si rinnovò la cordiale amicizia con l’emiro Fakhr ad-din, che aveva già incontrato a Palermo e che aveva avuto dal sultano il compito di condurre le trattative con lui, trattative avviate dai rappresentanti di due mondi con un senso della realtà storica e con una spregiudicatezza difficilmente riscontrabili nelle relazioni tra Islam e Cristianità nei secoli successivi. L’accordo, stipulato il 18 febbraio 1229, creò una Gerusalemme demilitarizzata in mani sveve assieme a Betlemme, Nazareth, i dintorni di Sidone e la fortezza di Tibnin; in mani arabe rimasero l’ottagonale moschea della Roccia (Qubbat as-Sakhra), così chiamata dalla nuda pietra al centro all’interno, dalla superficie irregolare, già sacra per gli ebrei, base dell’altare degli olocausti, e sacra per i musulmani che la ritennero il luogo di partenza del misterioso viaggio notturno verso i cieli del Profeta giunto dalla Mecca a Gerusalemme a cavallo di un destriero alato, e la zona dell’Haram ash-Sharif, il terrapieno al quale si accede da imponenti scalinate. Un poeta alemannico o svevo, magister Fridancus o Freidank, che fu presente all’assedio di San Giovanni d’Acri e all’ingresso di Federico II in Gerusalemme, si fece interprete dei malumori creatisi: Cosa al mondo può fare un imperatore quando cristiani, pagani e clero,
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si scagliano contro di lui con tanta forza?27
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Lo storico Ibn Wasil,28 contemporaneo di Federico II, ha lasciato un’accurata cronaca della consegna di Gerusalemme ai Franchi, il Mufarrag al-kurub fi akhbar Bani Ayyub, ossia “Il dissipatore delle angustie circa la storia degli Ayyubiti”, una delle migliori fonti per la storia delle crociate nel XIII secolo, anche se rimane qualche dubbio su questa descrizione un po’ troppo idilliaca. Non dimentichiamo che entrambi i protagonisti erano stati contestati dai propri seguaci e che ognuno cercava di accreditarsi come vincitore ingigantendo Federico la propria conquista (la liberazione del Santo Sepolcro, quando nella realtà si trattava di una città in gran parte danneggiata, con l’esclusione del monte del Tempio e della parte relativa alle due moschee) e minimizzandola al-Kamil (qualche chiesa e un pugno di case in rovina):
Il Sultano Malik al-Kamil ritenne che se fosse venuto in rotta con l’Imperatore e non lo avesse interamente soddisfatto, ne sarebbe risultata una guerra coi Franchi e una irreparabile rottura, sfuggendogli di mano tutti gli obbiettivi per cui si era mosso. Volle quindi dar soddisfazione ai Franchi cedendo loro Gerusalemme smantellata, e stipulando con loro una temporanea tregua; dopo di che avrebbe potuto ristrappare loro queste concessioni quando lo avesse voluto. Condusse le trattative fra lui e l’Imperatore l’emiro Fakr ad-din ibn ash-Shaikh, ed ebbero luogo fra essi conversazioni su diversi argomenti, durante le quali l’Imperatore inviò al Malik alKamil dei quesiti su difficili questioni di filosofia, geometria e matematica per mettere alla prova i valenti uomini della sua corte. E il Sultano sottopose i quesiti matematici allo sheikh ‘Alam ad-din Qaisar, maestro di quest’arte, e il resto a un gruppo di dotti, che dettero a tutto risposta. Indi il Malik al-Kamil e l’Imperatore giurarono i termini dell’accordo, e stipularono una tregua a tempo determinato; così furon regolate fra loro le cose, e ognuna delle due parti si sentì sicura dell’altra. Mi è stato riferito che l’Imperatore disse all’emiro Fakhr ad-din: “Se non fosse stato che io temo il crollo del mio prestigio presso i Franchi, non avrei imposto al Sultano queste condizioni. Io non ho alcuna effettiva mira su Gerusalemme né su altra terra, ma ho solo voluto tutelare il mio onore presso la Cristianità”.29
Naturalmente i rapporti tra Federico II e la Chiesa, in particolare con papa Gregorio IX, non furono facili. Dopo aver rinviato la spedizione per anni, finalmente il 25 luglio 1225 l’imperatore si decise a sottoscrivere il trattato di San Germano con il quale s’impegnava a partire per l’Oriente il 15 agosto 1227 con mille cavalieri e servirvi per due anni pena la scomunica. Dopo imponenti preparativi e aiuti finanziari da varie parti compresi quelli dai comuni lombardi reticen157
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ti, il 15 agosto 1227 una parte considerevole dell’esercito partiva da Brindisi. Federico II si imbarcò l’8 settembre assieme al patriarca di Gerusalemme, Geraldo di Losanna, ma ammalatosi tornò in porto: il patriarca continuò il viaggio mentre la flotta fu affidata al Gran Maestro dei Cavalieri Teutonici Ermanno di Salza. Gregorio IX non ci credette: non volle ricevere l’ambasceria di scuse e sicuro di essere stato preso in giro lo scomunicò il 29 settembre. Di certo il papa era esasperato dal comportamento dell’imperatore: la vera ragione non erano le continue dilazioni ma la rivendicazione del papato sul regno di Sicilia e l’aspro comportamento di Federico verso il clero di Sicilia. Rimessosi da quello che era stato un attacco di colera che aveva colpito molti dei cavalieri del suo seguito, Federico II riprese il mare; questa volta però partiva scomunicato e in teoria non avrebbe potuto intrattenere alcuna relazione con i suoi vassalli, ma era pur sempre l’imperatore e il re di Gerusalemme. Approfittando di ciò, Federico II escluse dai negoziati con al-Kamil il patriarca Geraldo, che se ne risentì poiché – more solito – i patriarchi avevano la pretesa di esercitare un’autorità temporale oltre che spirituale. Geraldo, prendendo a pretesto la scomunica di Federico II, volle che si gettasse l’interdetto su Gerusalemme, il che avrebbe impedito ai crociati di compiere il loro pellegrinaggio ai luoghi santi; ma l’imperatore batté sul tempo il patriarca. Precipitatosi con l’esercito al Santo Sepolcro, si impadronì della corona e se la pose sul capo; poi fece leggere al Gran Maestro dell’Ordine Teutonico, Ermanno di Salza, l’elenco delle sue lamentele contro il papa – l’arcivescovo di Cesarea incaricato della notifica dell’interdetto arrivò il giorno dopo a cose fatte. ***
Federico II era solito sottoporre domande e problemi ai dotti del suo tempo, in particolare ai dotti arabi: anche se oggi molti dei suoi quesiti sembrano a noi ovvi, non lo erano per quei tempi che gli avevano dato il soprannome di “stupor mundi”. Sono noti i cosiddetti “Quesiti siciliani” ch’egli aveva proposto tramite un’ambasceria ad hoc al califfo almohade Abu Muhammad ‘Abd al Wahid ar-Rashid che regnò dal 1232 al 1242. Alcuni dei quesiti di Federico II riguardavano l’eternità del mondo, l’immortalità dell’anima e il valore degli insegnamenti divini: per una soluzione di questi quesiti il califfo si rivolse al dotto maghrebino Ibn Sab‘in30, che redasse le risposte tra il 1237 ed il 1242 in un Kitab al-Masayl as-Siqilliyah, il “Libro delle Tesi 158
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I musulmani in Italia
Siciliane”. Purtroppo le fonti a nostra disposizione non ci consentono di approfondire i veri rapporti tra Federico II ed i dotti musulmani: i cronisti di parte occidentale minimizzarono e tralasciarono volutamente di parlare degli entusiami dell’imperatore per la tradizione culturale islamica per evidenti interessi politici, quelli di parte orientale al contrario esaltarono, forse più del dovuto, la figura di un imperatore dedito alla scienza musulmana, sensibile alle più suggestive espressioni della civiltà musulmana, imbevuto di cultura araba. Dell’apertura ecumenica di Federico II si trova notizia in un altro cronista arabo contemporaneo, Sibt ibn al-Giawzi,31 autore di una prolissa storia universale, il Mir'at az-Zaman, lo “Specchio del tempo”, laddove parla della visita fatta dall’imperatore alla moschea della Roccia e del soggiorno a Gerusalemme. Il sultano Malik al-Kamil aveva ordinato al qadi di Nabulus di dare istruzioni ai muèzzin affinché si astenessero dall’appello alla preghiera durante la sosta dell’imperatore. La prima notte il muèzzin fece il richiamo solito essendosi il qadi dimenticato di informarlo dell’ordine del sultano; richiamato, la seconda notte se ne astenne:
Al mattino seguente l’Imperatore chiamò il cadì, che era entrato in Gerusalemme addetto al suo servizio e fu lui che gli fece la consegna della città: “O cadì - disse - dov’è quell'uomo che salì ieri sul minareto e disse quelle parole?”. Quegli lo informò che il Sultano gli aveva fatto quella raccomandazione. “Avete fatto male, o cadì - ribatté l'Imperatore; - volete voi alterare il vostro rito e la vostra Legge e fede per cagion mia? Se foste voi presso di me nel mio paese, sospenderei io forse il suono delle campane per cagion vostra? Perdio, non lo fate; questa è la prima cosa in cui vi troviamo in difetto”. Indi distribuì una somma di denaro fra gli addetti e i muèzzin e i devoti del Santuario, dando ad ognuno dieci dinàr; non stette a Gerusalemme che due notti, e fece ritorno a Giaffa, temendo dei Templari che volevano ammazzarlo.32
Sempre Sibt ibn al-Giawzi dice che l’imperatore era accompagnato dal suo precettore arabo-siculo, quello che lo aveva iniziato allo studio della logica: si tratta forse di quel qadi palermitano che gli aveva insegnato in gioventù l’arabo? La notizia non è purtroppo confermata da altre fonti: se fosse così e il cronista non si fosse sbagliato riferendosi ad altri personaggi a noi noti quali Teodoro, avremmo un’ulteriore prova dell’influsso della cultura arabo-islamica nella formazione culturale di Federico II. I rapporti tra Federico II e Fakhr ad-din si mantennero cordiali anche in seguito: di ritorno in Puglia, Federico II inviò all’emiro due 159
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lettere scritte in arabo. Nella prima, da Barletta il 23 agosto 1229, parla dell’angoscia della separazione dall’amico raccontandogli le vicende occorsegli, e cioè che a Brindisi aveva trovato il regno invaso dall’esercito del papa al comando del suocero, Jean de Brienne, e che Montecassino era stata consegnata dall’abate al papa; nella seconda lettera, del settembre dello stesso anno, Federico parla della sua preparazione alla rivincita.
[...] il Papa a tradimento e inganno (?) ha preso una delle nostre roccheforti a nome Montecassino, consegnatagli dal maledetto suo Abate; ed egli aveva promesso di fare ancor più danno (?) ma non poté, giacché i nostri fedeli sudditi attendevano il nostro felice ritorno. Così fu costretto a spacciar la falsa notizia della nostra morte, e fece di questo giurare i Cardinali, e che il nostro ritorno era impossibile. Essi cercarono ingannare il volgo con queste fole, e col dire che nessuno dopo di noi poteva amministrare i nostri stati e custodirli per nostro figlio così come il Papa. Così sui giuramenti di costoro, che sarebbero i Pontefici della religione e i successori degli Apostoli, fu abbindolata una masnada di gentaglia e di malfattori. Arrivati perciò noi al porto della ben guardata Brindisi, trovammo che il re Giovanni e i Lombardi avevano fatto irruzione ostile nel nostro reame, e alla notizia stessa del nostro arrivo dubitavano, per quel che i Cardinali avevano loro con giuramento asseverato [...]
Noi abbiam radunato un grande esercito, e ci affrettiamo a combattere coloro che ci stanno aspettando e non son fuggiti (come gli altri) dinanzi al nostro cospetto. Ora è avvenuto quel che noi prevedevamo: essi avevano cioè assediato una nostra rocca, drizzandovi contro le catapulte, le macchine mobili e simili strumenti di guerra, ma quando sentirono della nostra avanzata, pur con la grande distanza che ci separava, senza indugio bruciarono tutti i loro ordigni, e si dettero alla fuga dinanzi a noi, mentre noi avanziamo rapidamente per raggiungerli, disperderli e annientarli. Il Papa volle raccogliere quei che lì trovammo, e li ha poi rimandati timorosi per la loro testa (?) e pentiti del loro proposito [...].33
Per capire la contraddizione tra il Federico filoarabo e il persecutore dei musulmani di Sicilia con il conseguente trasferimento delle ultime sacche di resistenza a Lucera è necessario tener presente la dicotomia in lui tra interessi culturali ed interessi politici. I due potevano anche coincidere, ma quando c’era divergenza erano gli interessi politici a prevalere. Le ricorrenti ribellioni dei musulmani, in particolare nel 1154 e nel 1189, e la dispersione delle colonie cittadine nel 1196, avevano costretto non pochi ribelli a rifugiarsi sui monti e nell’interno dell’isola o ad emigrare verso l’Africa del Nord, l’Egitto e la Spagna: i musulmani rimasti erano contadini, pastori e gente di bassa estrazione - l’ultimo 160
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I musulmani in Italia
eroe della resistenza, Muhammad ibn ‘Abbad, costituì un’eccezione. Tra il suo filoarabismo e la ragion di stato Federico II scelse sempre quest’ultima: l’imperatore non poteva tollerare alcuna sfida alla sua autorità e fu spietato nel colpire l’eresia ogni qual volta questa fu di ostacolo alla sua azione aggregatrice, tanto è vero che, quando il pericolo cessò, si mostrò tollerante nei confronti della comunità musulmana di Lucera, diventata la fedele guardia pretoriana in tutte le battagli cruciali per il mantenimento dell’unità dell’impero; e i musulmani lo ricambiarono con uguale simpatia e fedeltà sino alla fine.
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Con la morte di Federico II il 13 dicembre 1250 ha inizio il lungo letargo della cultura araba in Italia; pochi mesi prima, il 10 febbraio, era stato assassinato l’emiro Fakhr ad-din durante un attacco a sorpresa dei Franchi alla città del Cairo. Ma la vita della comunità saracena di Lucera continuò per ancora mezzo secolo. I due nuovi interlocutori furono Manfredi, l’eretico e lo scomunicato, succeduto al padre come sovrano d’Italia e di Sicilia (1260-1266) e il sultano turco Rukn ad-din Baibars (1260-1277). Nell’agosto del 1261 [ramadan del 659 H] fu ospite di Manfredi a Barletta l’ambasciatore di Baibars, Giamal ad-din ibn Salim ibn Wasil, il famoso qadi di Hamat (Siria), che fu favorevolmente impressionato di quanto vide. Nella sua storia parla di Lucera i cui abitanti sono musulmani di Sicilia che professano apertamente il culto islamico e partecipano alla preghiera del venerdì; la stessa libertà di culto ibn Wasil vide nel campo di Manfredi che aveva collaboratori musulmani ai quali era garantita la massima libertà religiosa con l’appello del muèzzin alla preghiera canonica.
Morto Federigo l’anno seicentoquarantotto (5 aprile 1250-25 marzo 1251), prese il regno di Sicilia e degli altri paesi in Terraferma d’Italia il suo figliuolo Qura ibn Fardarik (Corrado secondo). E venuto questi a morte, gli successe nel regno il suo fratello Manfrid ibn Fardarik (Manfredi). [...] Conversai più volte con Manfredi e lo trovai uomo di molto discernimento, amante delle scienze speculative: e teneva a mente dieci proposizioni del libro di Euclide. Presso il paese nel quale io soggiornava è una città chiamata Lujarah (Lucera), gli abitatori della quale son tutti Musulmani di Sicilia; e quivi si fa la pubblica preghiera del venerdì, e si compiono pubblicamente i riti dell’islamismo. Ed io vidi che i principali della corte di Manfredi erano musulmani, e che nel suo campo si facea pubblicamente l’idhan (appello del muwaddin = muèzzin) e la preghiera giornaliera. Tra Roma e la città nella quale io vivea corrono cinque giorni di cammino. Quand’io partii dalla corte
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dell’imperatore, il papa, califo dei Franchi, e il Raydafrans (re di Francia) si erano collegati per far guerra all’imperatore e combatterlo; e il papa l’avea già prima scomunicato; e tutto ciò perché il suddetto imperatore era inclinato a favore dei Musulmani. Similmente il suo fratello Corrado e il suo padre Federigo erano stati scomunicati dal papa di Roma per la loro inclinazione all’islam.34
Ma quella che è davvero stupefacente sarebbe l’esistenza di una scuola superiore di insegnamento, una dar al-'ilm, o istituto scientifico dove era “coltivato ogni ramo delle scienze speculative”35: altro che ghetto per i saraceni siculi o semplice stanziamento coloniale con tutt’al più qualche maestro di scuola coranica. Si potrebbe parlare, al contrario, di un vero e proprio ribat, più moderno e più consono ai tempi dove vivevano agricoltori-guerrieri con a fianco studiosi di diritto e di scienze. Purtroppo nulla ci può dire il Codice Diplomatico dei Saraceni di Lucera, che nella parte rimastaci va dal 1286 al 1343:36 mancano tutti i documenti del periodo svevo. L’unico documento arabo, in pieno periodo angioino, è una sottoscrizione da parte di un Riccardo Saraceno che interviene in un atto giuridico firmandolo con un “Messir Rigiard di Lugiara”: un convertito il cui nome originale era “Abu ‘Abdallah, figlio di ‘Abdallah della tribù dei Quraysh, conosciuto tra i Cristiani col nome di Messer Riccardo di Lucera”.37 Anche se si tratta di una semplice sottoscrizione, è nella penuria delle fonti un ulteriore tassello dell’importanza culturale della colonia lucerina nella quale non ci furono solo maestri di lingua araba o insegnanti di Corano ma anche dotti religiosi, quei faqih chiamati “fichini” nelle fonti pugliesi, e forse quell’istituto di studi superiori ricordato dall’ambasciatore di Baibars. Un indice della presenza saracena è lo spoglio delle carte del Codice lucerino dal quale risultano nell’ultimo periodo della colonia musulmana oltre duecento nomi saraceni: capi militari, giudici, artigiani. Sono tanti pur considerando che parecchi sono registrati due volte, come saraceni prima della dispersione del 1300 e come convertiti dopo: non pochi erano comunque i personaggi di rilievo che sono ricordati con il doppio nome, quale il milites ‘Abd al-‘Aziz che prese il nome di Nicola da Lucera (morì nel 1301), il custode della Camera di Lucera Riccardo Maltese che assunse il nome di Filippo da Lucera, il domestico di Carlo II Murzuccus (in ar. marzuq “fortunato”) che diventò Pietro da Lucera. Mancano ovviamente dallo spoglio i nomi di coloro che non hanno mai avuto nulla a che fare con carte notarili, e sono i più.38 162
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I musulmani in Italia
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I rapporti tra Baibars e Manfredi si mantennero sempre cordiali: nel luglio 1262 il sultano inviò un’altra ambasceria con doni, tra i quali una giraffa, ed una lettera che Manfredi capì nell’originale arabo; e nel 1265 un’altra lettera a Manfredi, chiamato “imperatore” con l’annuncio di una vittoria. Nella sua storia Ibn Wasil parla anche della scomunica inflitta dal papa a Manfredi giustificandola con “la sua propensione ai Musulmani e per aver lacerato l’onore della Legge religiosa cristiana”, concludendo con una notizia sulla sua fine: Il Papa e il fratello del Re di Francia, mossi contro Manfredi figlio dell’Imperatore [Federico II], lo affrontarono in battaglia, disfecero il suo esercito e lo catturarono. Il Papa ordinò fosse ammazzato, e fu ammazzato. E il fratello del Re di Francia [Carlo d'Angiò] regnò sulle terre che erano state del figlio dell’Imperatore, e se ne impadronì. Questo, credo, nell’anno 663 (1265-1266).39
Malgrado il differente modo di vedere di Carlo I d’Angiò (12661285) nei confronti dei musulmani, la vita della colonia lucerina andò avanti senza gravi problemi: dopo un iniziale sostegno a Corradino sino alla battaglia di Tagliacozzo ed una sorda resistenza dei saraceni contro gli Angiò, che durò un anno, i coloni di Lucera si sottomisero nell’agosto del 1269. Le condizioni imposte non furono dure anche perché Carlo d’Angiò pensava di sfruttarne le capacità militari così come avevano fatto gli svevi: parecchi sono i milites saraceni che combatterono con le loro truppe tra le file angioine. La situazione peggiorò sotto il regno di Carlo II (1285-1309) con la persecuzione nei confronti dei notabili saraceni sino ad allora considerati fedeli e utili alla corona. Il motivo fu in apparenza il fervore religioso; il 24 agosto 1300 a distruzione avvenuta il re scriveva:
[...] già da gran tempo avevamo coscienza che favorire i Saraceni del nostro Regno, i quali abitavano Lucera, era non poco disdicevole, anzi in un certo modo sembrava delitto contro la fede. Pertanto nutrimmo sempre il pensiero di devastare e spopolare dei Saraceni Lucera per darla ad abitare ai fedeli di Cristo. E così, ciò che su tal riguardo chiudemmo sempre nel petto, ciò che accarezzammo nella mente, oggi, colta l’opportunità, mettemmo ad effetto.40
In realtà le motivazioni erano, come al solito, politiche. La Chiesa aveva da sempre considerato peccaminosa la tolleranza dei due Angiò, così come aveva tuonato contro Federico II e Manfredi, sco163
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municandoli entrambi. Più che ad un improvviso mutamento di Carlo II l’impresa di Lucera fu decisa dopo un incontro del re con il papa che gli aveva concesso consistenti aiuti finanziari nella guerra di Sicilia in cambio della dispersione degli infedeli, necessaria dimostrazione della supremazia dell’unica vera fede nel primo anno giubilare della Chiesa, il 1300 per l’appunto; inoltre i Saraceni non erano più utili come mercenari per le defezioni ed il basso numero di coloro che rispondevano alla chiamata alle armi e come coloni per le frequenti conversioni che facevano diminuire le imposte gravanti sui musulmani. Infine c’era un risvolto economico non indifferente per un erario dissestato: la vendita dei Saraceni come schiavi e la confisca dei loro beni avrebbero dato una boccata d’ossigeno ad un erario che aveva per anni coperto i buchi finanziari con i prestiti dei banchieri romani e toscani su avallo del papa e con gli aiuti a fondo perduto dei re di Francia. Il 15 agosto 1300 le truppe angioine entrarono in Lucera al comando di Giovanni Pipino da Barletta in atteggiamento amichevole: accortisi i Saraceni delle vere intenzioni, cercarono di opporre resistenza ma fu tutto inutile. I notabili e gli artigiani saraceni furono inviati in prigionia a Napoli; il grosso della popolazione, circa diecimila persone, fu distribuito in varie località della Puglia e della Basilicata per essere venduta come schiavi. In ricompensa della vittoria riportata sui Saraceni - secondo la leggenda Pipino si salvò da una caduta da cavallo per l’intercessione della Vergine - Carlo II diede al generale quel casale di Tertìveri già proprietà dal 1296 del “Sarracenus milex, camere n. fid. et servus” ‘Abd al-‘Aziz o Adelasisius, diventato ora uno schiavo. È significativo il fatto che nei documenti originali del comune di Lucera del periodo angioino e aragonese non ci sia più alcuna menzione di nomi saraceni come se la loro presenza non fosse mai avvenuta: solo in un documento di Roberto d’Angiò del 1314 con il quale si confermavano agli abitanti della città le immunità concesse dal padre Carlo II si menziona un “eiectis abinde Sarracenis” (“scacciati di poi i Saraceni”).41 Tutte le tracce dell’architettura musulmana in Lucera scomparvero: al posto della moschea del Castello fu costruita una chiesa dedicata a San Francesco; la stessa decisione fu presa per la moschea nel centro della città, più o meno là dove ora sorge la cattedrale per la quale furono forse utilizzate pietre di riporto; il cimitero saraceno fu distrutto ed il terreno venduto nell’agosto 1302 per la costruzione di un mulino a vento.42 Si trattò di una sorte comune a tutti gli insediamen164
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I musulmani in Italia
ti musulmani non solo dell’Italia meridionale, ma anche della Sicilia e parzialmente della Spagna dove la presenza araba si era protratta più a lungo e avrebbe dovuto lasciare tracce più durevoli. Gli unici reperti lucerini sono vetri e vasellame databili tra il 1250 ed il 1300 ritrovati in pozzi per derrate: maioliche e ceramiche, vasi da acqua con filtri decorati, tutti di fattura locale, tra i quali vari piatti con ornati policromi ed un vaso con il monogramma di Allah in caratteri arabi, l’unica testimonianza scritta di un secolo della colonia saracena in terra di Puglia. A testimonianza di questa permanenza musulmana rimangono però alcuni toponimi; nel Gargano, un Monte Saraceno che domina la cittadina di Mattinata; una Punta Saracena a settentrione del promontorio garganico, tra Vieste e il lago di Varano; le rovine di Castelpagano, a sud-est di Apricena, su uno sperone del Gargano, borgo a 500 metri sul mare dove Federico insediò una comunità di saraceni; inoltre uno Scalo dei Saraceni vicino Manfredonia ed una Cala dei Turchi nell’isola di Capraia, nelle Tremiti, questi ultimi risalenti però al periodo successivo, quello delle conquiste ottomane, così come i numerosi toponimi arabi nel sud della penisola salentina. 1 Per l’intero passo, tradotto da F. GABRIELI, v. Gli Arabi in Italia, op. cit., p.748. 2 Al-HIMYARI, op. cit., pp.36-38. 3 F. D’ANGELO, La monetazione di Muhammad ibn 'Abbad, emiro ribelle a Federico II di Sicilia, in “Studi Maghrebini”, Napoli, VII, 1975, pp.149-153. 4 La “Storia mansurica”, opera di un funzionario degli Ayyubiti di Siria, un Abu al Fada‘il, qadi di Hamat, dedicata nel 1233 al principe al-Malik al-Hafiz. 5 Nato a Granada nel 1214, apparteneva ad una famiglia di letterati: terminò una grande opera storica, ora perduta, sull’Oriente iniziata dal nonno e continuata dal padre. Morì a Tunisi nel 1274. Secondo l’Amari il suo trattato appartiene più alla geografia matematica che alla descrittiva: dai pochi squarci rimastici sembra bene informato sugli avvenimenti della sua epoca. M. AMARI, Biblioteca Arabo-Sicula, op. cit., vol.I, p.230, pp.228-229. Puntuali anche le indicazioni e misurazioni relative ad altre isole più lontane quali Minorca, la Sardegna (in ar. Sardaniah), lunga due giorni e mezzo di navigazione da tramontana a mezzogiorno, e la Corsica (ar. Qursicah), “che guarda Genova alla distanza di 60 miglia”. Ibidem, Appendice, p.5. Con questa geografia precisa non c’è da meravigliarsi delle future scorrerie e attacchi e invasioni a tutta la penisola italiana compreso Genova, tranne il golfo di Venezia ben custodito dalla Serenissima. 6 A. DE SIMONE, La descrizione dell'Italia nel Rawd al-mi'tar di al-Himyari, op. cit., pp.50-51. 7 V. SALIERNO, I Musulmani in Puglia e in Basilicata, op.cit., pp.111-112.
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8 M. AMARI, Biblioteca Arabo Sicula. Appendice, Torino-Roma, E. Loescher, 1899, pp.63-64. 9 Per P. EGIDI, La colonia saracena di Lucera e la sua distruzione, in “Archivio Storico per le Province Napoletane”, XXXVI, 1911, p.615, si tratta di donne al servizio della famiglia dell’imperatore; per U. RIZZITANO - F. GIUNTA, Terra senza crociati, Palermo, Flaccovio, 1967, pp.123-124, si tratta di un harem custodito da eunuchi. 10 FEDERICO II DI SVEVIA, Il trattato di falconeria. Postfazione di Carl Arnold Willemsen, Legnano, EdiCart, 1991. 11 Teodoro, originario di Antiochia, secondo alcuni un cristiano giacobita, secondo altri un ebreo, filosofo e astrologo, attivo come traduttore, segretario e ambasciatore, aveva studiato a Baghdad e a Mossul. 12 Individuato nel 1967 dall’arabista e ornitologo François Viré come il più famoso mediatore della scienza greca agli arabi. 13 H. HASKINS, Studies in the History of Mediaeval Science, New York, 1967, pp. 318, 320. 14 M. AMARI, Biblioteca Arabo-Sicula. Appendice, op. cit., p.64. 15 Il manoscritto originale andò perduto durante il saccheggio dell’accampamento di Federico II il 18 febbraio 1248: quello attuale, il codex ms Pal. Lat. 1071, fu commissionato dal figlio Manfredi che aveva riproposto il testo del padre o forse rielaborato gli appunti perduti. 16 Gherardo da Cremona (1114-1187), autore di circa ottanta traduzioni che contribuirono in notevole misura alla diffusione della cultura matematica araba nell’Europa cristiana nel XII secolo. B. BONCOMPAGNI, Della vita e delle opere di Gherardo cremonese, traduttore del secolo duodecimo, in “Atti dell’Accademia Pontificia de’ Nuovi Lincei”, Roma, IV, 1850-1851, pp.387-449. 17 La traduzione dell’Almagesto di Tolomeo fu compiuta nel 1175 sulla base della versione araba al-Megiste fatta a Baghdad nell’827 per ordine del califfo alMa‘mun dall’originale greco Megàle Sùntaxis. A Norimberga si conserva un codice ms. del XV secolo con la traduzione fatta sotto gli auspici di Federico II nel 1230. 18 Nel codice Vat. 4606 esiste in ms il trattato tradotto da Gherardo da Cremona che va sotto il titolo di Incipit liber qui secundum Arabes vocatur algebra et almucabala, et apud nos liber restauracionis nominatur. La conferma ci viene dal matematico arabo Muhammed ibn Musa, vissuto nel IX secolo sotto il califfo al-Ma‘mun: la sua opera principale, il Mukhtasar fi hisab al-giabr wa‘l-muqabala, cioè “Calcolo della reintegrazione e del raffronto”, è quella che ha dato all’algebra il nome che tale disciplina conserva tutt’oggi. 19 G. VERCELLIN, Il Canone di Avicenna fra Europa Oriente nel primo Cinquecento, Torino, UTET, 1991. Da ricordare che nel XIV secolo fu il medico bellunese Andrea Alpagio a recarsi a Damasco per studiare meglio il Canone e altre opere mediche, insoddisfatto delle traduzioni esistenti. Il medico orientalista Tommaso Sarnelli racconta di aver trovato a San‘a nel 1932 presso un medico yemenita una copia dell’edizione romana del 1593, prima opera stampata in arabo, due secoli prima che la stampa araba comparisse a Costantinopoli e in India. 20 Si tratta di Abu Ishaq Nur-ud-Din al-Bitrugi, filosofo arabo-ispano (m. verso il 1204), autore di un Kitab al-hay'a sui moti solari e planetari. 21 Ibn Rushd (1126-1198) studiò medicina e diritto a Cordoba, sua città natale; si
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I musulmani in Italia
dedicò all’analisi delle opere di Aristotele alle quali dedicò tre commentari noti sotto il titolo di Grande commentario di Aristotele: “Averroìs, che ‘l gran comento feo” (Dante, Inferno, IV, v.144). 22 Ibn e-Sina (Bukhara 980-Hamadan 1037), autore di un Kitab ash-shifa', ossia “Il libro del rimedio o della guarigione”, diviso in quattro parti comprendenti diciotto trattati ordinati secondo un piano aristotelico. 23 Al-Razi (m. verso il 925), medico e direttore dell’ospedale fondato a Baghdad nel 918 dal califfo al-Muqtadir. 24 A. MAALOUF, Le crociate viste dagli Arabi, Torino, SEI, 1994, p.249. 25 Dal Kitab as-Suluk, storia dell’Egitto dal regno di Saladino sino ai tempi dell’autore, al-Maqrizi (1358-1441). Cfr. M. AMARI, Biblioteca Arabo-Sicula, op. cit. vol. II, pp.259-266. 26 Non è semplice definire il termine “crociata” che ha assunto nei secoli varie sfaccettature. Ci sembra che la definizione di F. CARDINI, Europa e Islam. Storia di un malinteso, Roma-Bari, Laterza, 1999, p.104, sia la più esauriente nella sua brevità di un paragrafo: “La crociata è insomma una e al tempo stesso molteplice; non può essere intesa se non attraverso la sua dinamica interna; conosce una legislazione coerente e rigorosa, ma si articola in una pluralità di casi fenomenologicamente parlando diversi fra loro e muta sia nei differenti obiettivi volta per volta proposti, sia nel tempo e nel contesto in cui viene bandita. È una realtà proteiforme, una sorta di balena bianca all’interno della Cristianità: uno strumento giuridico-politico e un’idea-forza, una fonte inesauribile di metafore, un mito, un oggetto infinito di apologie, di condanne, di polemiche e di malintesi capace di riproporsi in situazioni diverse e soggetta a impensati revivals”. 27 Freidank o Vridank (fine XII sec.-1233 circa), autore di un Bescheidenheit scritto verso il 1230. 28 Giamal ad-din ibn Salim ibn Wasil (Hamat 1207-1298), ebbe vari uffici sotto gli Ayyubiti, andò come ambasciatore da Manfredi nel 1261 e terminò la carriera come qadi nella sua città natale. 29 F. GABRIELI, Storici arabi delle crociate, Torino, Einaudi, 1957, pp.254-255. 30 Ibn Sab‘in (Murcia 1217-Mecca 1270) era a Ceuta quando gli fu ingiunto dal califfo di rispondere alle tesi filosofiche di Federico II. Per le risposte v. M. AMARI, Biblioteca Arabo-Sicula, op.cit., vol.II, pp.414-419; e M. A. F. MEHREN, Correspondance du philosophe Soufi Ibn Sab'in abd oul-Haqq avec l'Empereur Frédéric II de Hohenstaufen, in “Journal Asiatique”, Paris, 1879, pp.341-454. 31 Sibt ibn al-Giawzi (Baghdad 1186-Damasco 1256), predicatore, visse a lungo a Damasco, intimo dei principi Ayyubiti. 32 F. GABRIELI, Storici arabi delle crociate, op. cit., pp.259-260. 33 Lettere riportate nel Ta'rikh Mansuri. Traduzione di F.GABRIELI, ibidem, pp.264-266. 34 M. AMARI, Biblioteca Arabo-Sicula, op. cit. vol.II, pp.107-108. 35 F. GABRIELI, Le ambascerie di Baibars a Manfredi, in Saggi orientali, CaltanisettaRoma, S. Sciascia, 1960, pp.97-106. 36 P. EGIDI (a cura), Codice Diplomatico dei Saraceni di Lucera dall'anno 1285 al 1343, Napoli, Soc. Nap. di Storia Patria, 1917: sono stati pubblicati in regesto i documenti dal 1285 al 1302, degli altri dal 1303 al 1343 ne è stata fatta una scelta. 37 G. LEVI DELLA VIDA, La sottoscrizione araba di Riccardo di Lucera, in “Rivista
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degli Studi Orientali”, Roma, X, 1924, pp.284-293. 38 V. SALIERNO, I Musulmani in Puglia e in Basilicata, op.cit., pp.236-254, che registra un lungo elenco di cognomi e nomi saraceni con le possibili derivazioni. 39 F. GABRIELI, Storici arabi delle crociate, op. cit., pp.262-264. Si ricordi l’incontro di Dante e Manfredi nell’antipurgatorio con il racconto della sua morte e la persecuzione di papa Clemente IV che ordinò al vescovo di Cosenza di farne disseppellire il corpo dal tumolo dove giaceva presso il ponte di Benevento, condannandolo ad infradiciare “di fuor del Regno, quasi lungo il Verde, / dov’ei le trasmutò a lume spento” (Dante, Purgatorio, III, vv.131-132). 40 P. EGIDI, La colonia Saracena di Lucera e la sua distruzione, op. cit., p.677. Per l’originale in latino cfr. Codice Diplomatico dei Saraceni di Lucera, op. cit., p.127, doc. N.318. 41 A. PETRUCCI, I più antichi documenti originali del Comune di Lucera (12321496), Bari, Società di Storia Patria per la Puglia, 1994, pp.36-37. 42 Codice Diplomatico dei Saraceni di Lucera, op. cit., p.351-352. doc. N.689: “...solum in quo fuit Cimiterium Sarracenorum, inutile prorsus et vacuum, ut dei exponentes possint in illo ad ipsorum commodum quoddam construere molendinum ad ventum”.
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Capitolo quinto
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La riscossa turca nel XV secolo
L’espansione musulmana in Italia avrebbe forse avuto una qualche probabilità di successo se la Sicilia fosse rimasta in mani arabe e se si fossero mantenuti gli emirati e i ribat di terraferma. Se ciò non avvenne, non fu solo per la perdita della Sicilia ma soprattutto perché la spinta araba si era già esaurita alla fine dell’XI secolo dopo che il centro politico dell’Islam si era spostato da Damasco a Baghdad e poi ai Mamelucchi del Cairo. Già quel passaggio del potere dagli Omayyadi agli Abbasidi aveva segnato il tramonto dell’egemonia araba e la rottura dell’impero unitario: si erano man mano staccati la Spagna e l’Africa settentrionale ed erano sorti altri Stati arabi o arabizzati, di fatto e spesso anche di nome indipendenti. L’occupazione di Baghdad nel 1258 da parte di Hulagu, il nipote di Gengis Khan, segnò la fine del califfato abbaside e l’inizio dell’egemonia turca. Una volta islamizzati, i Turchi diventarono i difensori più tenaci dell’Islam: ormai a ridosso dell’Impero d’Oriente, i Turchi furono in grado di esercitare una costante pressione contro Costantinopoli fino alla definitiva conquista della capitale bizantina, il 29 maggio 1453, con Maometto il Conquistatore. Insediatisi sul Bosforo, diventava per loro logico e naturale riprendere il vecchio sogno pan-europeo rimasto tale per secoli: avanzare nell’Adriatico, a nord verso Venezia, a sud lungo le coste albanesi e le isole, per poi rimettere piede sulla terraferma a cominciare dal tallone dell’antica “Terra Lunga”. L’aveva già capito un secolo prima Demetrio Cidone, ministro dell’imperatore Giovanni V Paleòlogo; con grande lungimiranza politica, in una lettera del 1364 all’amico Simone Atumano, aveva scritto: Sappi comunque che, se essi non pongono in atto ora le loro minacce contro gli infedeli e tutto l’anno se ne va in risoluzioni e preparativi, la capitale sarà presa: questo insegnano i fatti, come se fossero dotati di parola. E una volta che la [nostra] città sarà presa, essi saranno costretti a fare la guerra contro i barbari [turchi] in Italia e sul Reno.1
I secoli XIII-XIV, che videro un’attiva ripresa del commercio tra l’Europa e l’Africa, in particolare tra l’Italia e le coste africane, furono 169
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caratterizzati da due elementi: i patti con i vari emiri e signorotti locali e gli scontri nel Mediterraneo per la protezione dei commerci con una recrudescenza nella cattura di schiavi da parte musulmana anche se i cristiani non disdegnavano all’occorrenza di fare la stessa cosa. Sembra che il primo accordo commerciale e d’amicizia fosse stato stipulato verso la metà del XII secolo tra la Repubblica di Pisa e l’emiro di Tunisi: a quell’epoca risale la prima colonia pisana a Tunisi e a Bugiah con un insediamento a Tabarka per la pesca del corallo. A quest’accordo ne seguì un altro trentennale nel 1230 con la facoltà di stabilire a Tunisi un fondaco con la presenza di un console e la concessione di privilegi portuali, rinnovato nel 1265. Nello stesso anno 1230 anche i genovesi ottennero uguali condizioni. A più alto livello fu il trattato tra Federico II e l’emiro Abu Ishaq Abi Hafzi nel 1231 per la durata di quindici anni: una clausola riguardava lo scambio degli schiavi che, rimasti fedeli alla propria religione, avessero voluto tornare in patria, un’altra la protezione dei mercanti cristiani del regno di Sicilia sottoposti a vessazioni da parte dei pirati nord-africani. La strada ai trattati e ai rinnovi era stata aperta. Nel 1236 e nel 1250 furono i genovesi a stipulare trattati con l’emiro Abu ‘Abdallah alMustansir Billah. Nel 1251 Venezia ottenne un fondaco a Tunisi e in altre località per la durata di quarant’anni. Nel 1252 fu la volta di Firenze che, già presente nel traffico con Tunisi sotto bandiera pisana, stipulò un trattato in proprio; e nel 1270 anche Giacomo II d’Aragona concluse un accordo decennale con l’emiro di Tunisi che firmò con il pomposo titolo di amir al-muminin, ossia “principe dei credenti”, lo stesso titolo spettante ai califfi! Se l’antagonista per eccellenza di Venezia nel Mediterraneo orientale fu l’impero ottomano, prima ancora la Serenissima dovette vedersela con i mamelucchi del Cairo con i quali concluse una ventina di trattati commerciali nel giro di due secoli, dal XIII al XV sceolo. Il papa poteva tuonare quanto voleva, ma gli interessi economici venivano in prima linea: nessuna remora religiosa impediva questi scambi - Venezia che non aveva mire espansionistiche aveva fondato il suo impero solo sul commercio. L’Egitto e la Siria - scrive il Gabrieli - non furono per l’intraprendenza veneziana che scali ed empori di traffico. Nei porti di Alessandria, Damiata, e Beirut, sui mercati di Alessandria stessa e del Cairo, di Damasco ed Aleppo, le navi veneziane portarono per tutto il Basso Medioevo i prodotti dell’Occidente, legname e metalli [merci 170
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proibite], olio e vino, miele e frutta, corallo ed ambra, pellicce e lane, stoffe e manufatti di lusso come argenterie e cristallerie. E compiuta ”la muda”, lo scarico cioè e l’imbarco di nuove merci, ripartivano per l’Occidente con zucchero e datteri, lini e altri tessuti d’Egitto, ma soprattutto con le celebri spezie d’India, per cui l’Egitto serviva soprattutto di transito: il pepe in primo luogo, il chiodo di garofano e la noce moscata, la cannella e lo zenzero, oltre al legno di sandalo, all’avorio, alle perle e agli altri preziosi.2 Dei tanti trattati, delle relazioni stese dagli ambasciatori della Serenissima nel corso dei secoli e delle lettere ad alto livello riportiamo un brano di una lettera di lamentele del mamelucco Qait Bey (1458-1495) al doge Nicolò Tron nel 1473: [...] abbiamo ordinato di vergar rescritti a tutte le nostre province, raccomandando i mercanti veneziani, e che tutte le loro faccende presso di noi sian condotte a buon fine. Abbiamo parimenti ordinato che il pepe che vien loro dato dai nostri nobili magazzini sia scevro di terra, umidità e mistura, per riguardo sua signoria il Doge. Dobbiamo però informare sua signoria il Doge che l’oro e l’argento che giunge sulle galere al porto d’Alessandria ed altri è adulterato, in quanto cento dirham d’argento, a fonderli, non arrivano a sessanta, e il più è rame. Inoltre le pezze di velluto ricamato che giungono al nostro nobile soglio sono adulterate con rame (in luogo dei fili d’oro puro nel ricamo). Circa le pezze di lana, era uso prima che ogni pezza fosse di 55 cubiti, mentre ora non arriva a 30, e ce n’è di quelle tagliate al mezzo.3
Il regno di Napoli era il più interessato di tutti sia per la posizione geografica che per le numerose navi coinvolte nel traffico marittimo nel canale di Sicilia. Alfonso il Magnanimo tentò più volte di trattare con il regno di Tunisi verso la metà del ‘400.4 Di un episodio avvenuto nel 1443 ci rimangono alcune lettere del re relative a naviganti trapanesi che, colti da un fortunale, furono sbattuti sulle coste tunisine e catturati mentre cercavano di raggiungere Tripoli via terra, malgrado ci fosse una tregua tra re Alfonso e il sultano Abu ‘Amr ‘Uthman. Le autorità di Tunisi non erano comunque nuove ad abusi contro i sudditi napoletani sia in fatto di riscatti che di conversioni forzate. Alcuni anni prima, nel 1431, un trapanese, Enrico de Vita, confessò che, “captus per barbaros, ob mortis et tormentorum timorem vi coactus”, aveva rinnegato il cristianesimo ed abbracciato “l’iniqua setta maomettana”. 171
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La violazione della tregua determinò nel 1443 il blocco delle navi nel porto di Trapani in attesa che la situazione si chiarisse dopo l’arrivo dell’ambasciatore tunisino e le lettere scritte da Alfonso il Magnanimo al sultano nel maggio di quell’anno.5 Nonostante ciò le scorrerie, le rapine e la cattura di schiavi continuarono come se nulla fosse; d’altronde gli stessi trattati prevedevano che la cattura di schiavi, l’imprigionamento di mercanti presenti nei fondachi e il sequestro delle mercanzie non avrebbero portato alla rottura della pace. Sappiamo che la proporzione degli schiavi era di nove ad uno a favore dei musulmani. Con tutto ciò i trattati convenivano ad entrambe le parti: ai cristiani per avere in Ifriqiyyah una base di informazione ed un centro per il riscatto materiale dei prigionieri, ai musulmani perché erano i consoli che si interessavano di pagare il relativo ammontare in loco. Si costituirono in Europa in questo periodo varie confraternite di redentori, che con questue e donazioni di comuni, signorie, prìncipi e prelati riuscivano a mettere insieme le somme necessarie e ad organizzare il trasporto materiale dei riscattati: il primo viaggio di redenzione fu effettuato nel 1199 al Marocco, il successivo nel 1204 a Tunisi con ritorno a Ostia, mèta la basilica di San Pietro dove gli ex-schiavi furono accolti da Innocenzo III (1198-1216). Verso la metà del XV secolo terminarono i “patti d’amicizia” con gli emiri: la pressione ottomana nel Mediterraneo portò alla nascita di un nuovo tipo di pirateria, quella turca e barbaresca, sotto la copertura semiufficiale dell’impero ottomano e dei loro tributari nel Maghreb. Dopo la caduta di Costantinopoli i pirati si tramutarono in corsari che in periodo di pace avevano come scopo la ricchezza della preda e la cattura degli infedeli, mentre in periodo di guerra erano a disposizione della Sublime Porta. Si trattava di un sistema che si era consolidato alla fine del Quattrocento. Tutto il Mediterraneo orientale pullulava di navi corsare tanto che le navi commerciali erano obbligate a viaggiare in convoglio sotto la protezione della marina da guerra; ma anche il Mediterraneo occidentale non ne era esente. C’è solo una differenza: le navi turche e barbaresche, le cosiddette fuste piccole e veloci, trovavano a levante riparo nelle numerose isole; a ponente, invece, nel mare più aperto la guerra di corsa aveva bisogno di navi più grandi che potessero tenere più a lungo il mare e reggere il confronto dei corsari cristiani. 172
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Non dimentichiamo che nello stesso periodo i pirati o corsari cristiani sono ancora i protagonisti della guerra di corsa, i Francesi al primo posto. Le loro squadre navali passavano all’occorrenza dalla partecipazione ad una guerra dichiarata alla rapina più manifesta: nel 1497 un’intera flotta lasciò Marsiglia per svolgere attività corsara con l’autorizzazione del re di Francia. Al secondo posto gli Italiani: le cronache sono pieni di avvenimenti di tal genere, comprese le connivenze locali che sfociavano in veri e propri “patti empi”: è noto il comportamento del marchese di Roccella, porto vicino a Crotone, che proteggeva la pirateria e che nell’estate del 1497 diede rifugio all’avventuriero biscaglino Pietro Navarro, futuro ammiraglio del Re Cattolico. ***
Dopo Costantinopoli, nel giro di venticinque anni, i Turchi di Maometto II conquistarono Atene, la Morea, Trebisonda, l’Albania, le colonie genovesi del mar Nero, giungendo a saccheggiare l’Istria e a compiere scorrerie nel Friuli. Ai primi del 1479 si era conclusa, in maniera pesante per Venezia, la lunga guerra durata tre lustri contro il Turco. La Sublime Porta era ora in grado di rivendicare la Puglia considerata territorio bizantino e quindi spettante ai Turchi eredi di Bisanzio. Approfittando della rivalità tra Napoli, Venezia e Milano, gli Ottomani, partendo da Gallipoli di Turchia, si impadronirono delle isole appartenenti a Napoli e situate lungo la rotta marittima tra l’Italia e la Turchia: nell’estate del 1479 furono occupate Zante, Cefalonia e Itaca e nella primavera successiva fu posto l’assedio a Rodi. Nel 1479 si erano intensificate le relazioni diplomatiche tra Venezia e la Sublime Porta: la Serenissima, già dissanguata nel lungo confronto con i Turchi, cercò di rimanere neutrale e di allontanare per quanto possibile le mire musulmane sui suoi territori; il Sultano, dal canto suo, tentò di ottenerne l’appoggio giocando sulla rivalità tra Venezia ed il Regno di Napoli, contrapposti sia nella politica peninsulare che in quella orientale, e sulla posizione difficile del Papato, cuscinetto tra i due e ago della bilancia tra i numerosi Stati italiani o città indipendenti. La Serenissima non era in grado di attuare alcuna politica nei confronti dei Turchi; né d’altronde poteva o voleva sostenere il Regno di Napoli. L’unica via possibile era quella di contrap173
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porre Napoli e Costantinopoli, “i due imperialismi che la minacciavano o le si opponevano, facendo sì che si logorassero e neutralizzassero reciprocamente, ma evitando che l’uno prevalesse in maniera decisiva ai danni dell’altro”.6 Volente o nolente Venezia fu evasiva nella richiesta turca di appoggio: anche se non correva buon sangue tra la Serenissima e Napoli, Venezia non aveva alcun interesse ad uno stanziamento turco in Puglia perché ne sarebbe stato minacciato il suo controllo dell’Adriatico, così com’era avvenuto cinque secoli prima nell’aiuto a Bari. Il Sultano, accogliendo la richiesta veneziana affinché la spedizione si svolgesse al di fuori delle sue acque territoriali che a quell’epoca si estendevano sino alla linea Saseno-Otranto, ritenne che la Serenissima fosse d’accordo. Probabilmente ci fu malafede da entrambe le parti, certamente si creò un malinteso. Nel maggio 1480 si sapeva già che ci sarebbe stato un attacco contro la Puglia: lo sapeva Venezia che si guardò bene dall’informare Ferdinando d’Aragona, ma non poteva ignorarlo lo stesso re di Napoli tanto più che il figlio, il duca Alfonso, aveva indetto una riunione a Lecce in gennaio per predisporre le operazioni di difesa. Sulla necessità dei rafforzamenti delle opere murarie furono d’accordo sia il vescovo che la comunità giudaica a conoscenza dell’imminente pericolo turco e del fatto che la città si trovava proprio alla frontiera dell’armata turca. Anziché mettersi d’accordo in un’alleanza comune, i vari stati italiani e lo stesso papa tergiversavano. L’unico a proporre un’unione generale contro i Turchi fu il Re di Napoli, che sarebbe stato direttamente coinvolto nell’imminente attacco ottomano: non fu ascoltato. Il 16 aprile 1480 fu conclusa un’alleanza tra papa Sisto IV e Venezia; e il 25 luglio, alla vigilia dell’attacco turco ad Otranto, fu rinnovata la lega tra Napoli, Milano, Firenze e Ferrara per contrapposizione alla prima. Dopo l’occupazione delle isole Jonie l’ammiraglio della flotta ottomana, Gedük Pascià, ebbe dal sultano l’ordine di andare a conquistare il paese di Puglia, a cacciarne gli infedeli dai cattivi pensieri, distruggere con l’esercito vittorioso la potenza degli infedeli dall’iniquo costume, incorporare quelle terre nel dar al-Islam (ecumene dell’Islam) innalzando le insegne conquistatrici dell’Islam vittorioso ed eliminare di là ogni traccia di miscredenza.7
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La flotta turca, 150 navi di cui 30 da carico e 18.000 uomini, salpò da Valona il 26 luglio 1480: due giorni dopo le unità da sbarco, presumibilmente 10.000-13.000 uomini, presero terra di fronte ai laghi Alimini, l’unica fonte idrica disponibile per tante persone, il che fece pensare in seguito ad una scelta ben precisa del luogo e non affidata al caso. L’11 agosto Otranto fu conquistata: molti idruntini, tra i quali il governatore Francesco Zurlo e l’arcivescovo Stefano Pendinelli, morirono durante gli assalti e il saccheggio della città, ottocento furono decapitati su un colle nei pressi, millecinquecento vennero deportati, trecento i sopravvissuti. Devastati i borghi e i casali circostanti, incendiato il monastero di San Nicola di Casole a pochi chilometri dalla città, occupate le cittadine murate e distrutti i grossi centri dell’interno, i Turchi si apprestarono a rafforzarsi dentro Otranto. Nel contempo effettuarono scorrerie via mare contro la costa pugliese da Monopoli sino a Manfredonia e Vieste, spingendosi via terra sino alla periferia di Brindisi, Lecce, Gallipoli e Taranto. Tutto ciò avalla l’ipotesi che intendessero estendere la testa di ponte di Otranto per un’eventuale conquista dell’intera penisola salentina lungo la linea Brindisi-Taranto, creando così una nuova provincia turca dipendente ora da Costantinopoli così come lo era stata al tempo di Bisanzio. Contrariamente a quanto aveva pensato Ferdinando d’Aragona, e cioè ad una spedizione in grande a scopo di bottino, l’assedio di Rodi e l’occupazione di Otranto non erano azioni isolate ma facevano parte di un più vasto piano per la destabilizzazione dell’Italia e per la successiva graduale conquista della penisola con l’eliminazione del papato. I Turchi persero tempo anche perché i primi rinforzi giunsero solo a gennaio del 1481: se dopo Otranto avessero attaccato Bari e Brindisi avrebbero avuto buone possibilità di successo e un insediamento allargato a tre porti importanti della costa avrebbe portato alla conquista dell’intera Terra d’Otranto, al controllo dell’Adriatico e dei relativi traffici commerciali, tenendo anche conto del disorientamento di Napoli e della frammentarietà della situazione politica italiana. Tre documenti nell’Archivio del Topkapi,8 riguardanti resoconti di informatori turchi sull’Italia e sulla Puglia, ci danno notizie preziose sulla fase preparatoria dell’impresa, che dimostrano come questa fosse stata accuratamente studiata avallando quanto già sostenuto, e cioè che “sotto alcuni aspetti la spedizione ottomana nelle isole Jonie fu un preludio della successiva impresa nella penisola salentina”.9 175
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Nel primo documento si fa un chiaro riferimento alla spedizione, si danno notizie sulla situazione in Puglia e si informa il Sultano della fattibilità dell’impresa. Nel secondo, un vero e proprio rapporto sulla situazione italiana, si parla delle discordie esistenti tra le varie Signorie d’Italia. Nel terzo, il più interessante, redatto forse da Iskander Beg, il governatore turco della Bosnia, si pone l’accento sulla Puglia, un paese molto ricco e poco custodito, di facile conquista: “la Puglia il cui miele è molto, mentre le sue api sono poche [...] Dio eccelso voglia concedere subito quelle terre al Fortunato Padiscià. Così sia, o Signore dei Mondi”. Non sembra vederci un altro tassello a favore della tesi di un attacco alla regione pugliese come preludio ad una testa di ponte per ulteriori conquiste sulla penisola? La situazione geografica della Puglia era ben nota ai Turchi dalla descrizione di Ibn Kemal:
La Puglia è un grande paese (iqlim) tra quelli che si affacciano sul mare, essa è descritta e nota ampiamente; il suo esercito dal cattivo costume è rinomato e noto per numero e ottimo addestramento; poiché il Mar Mediterraneo circonda la maggior parte dei confini di questo paese, esso è stato annoverato tra le isole; essendo battuto dalle onde del mare, il paese è fiorente e i suoi prodotti abbondanti.10
Per il Sultano la conquista della Puglia rientrava nel quadro della gihad necessaria per assorbire gli infedeli nell’ecumene dell’Islam: nessuna delle fonti ottomane accenna alle cause e ai fini della spedizione. È chiaro comunque che un allargamento dell’azione di Otranto era stato approvato da Maometto II: per quanto abile è difficile pensare che Gedük Pascià avesse fatto di testa sua, soprattutto dopo essere caduto in disgrazia e aver patito il carcere nella triste fortezza di Anadolu Hisar sul Bosforo. Perché mai il Qapudan Pascià avrebbe rafforzato Otranto se si fosse trattato solo di una base per scorrerie? Se l’azione turca fosse stata solo un atto della guerra di corsa, sarebbe durata poche settimane al massimo: ciò non avvenne perché la presa di Otranto andava al di là di un semplice bottino di merci e di schiavi. Molti erano stati i segnali premonitori giunti nel corso di un anno da Costantinopoli: se l’attacco fosse stato una scorreria, Ferdinando d’Aragona non avrebbe richiamato il figlio Alfonso dalla Toscana e Sisto IV non si sarebbe impensierito al punto di pensare di abbandonare Roma per rifugiarsi in Francia. Probabilmente la spedizione aveva come mèta iniziale Roma: significativa era la leggenda popolare turca della “mela rossa” (qyzyl elma) per indicare la Roma eterna. 176
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Sotto questa leggenda diffusa dagli “oracoli turcheschi” si nascondeva la brama del possesso, il simbolo di imperio dei sultani osmanli: “Verrà l’imperatore nostro, piglierà il regno d’un principe infedele, piglierà ancora un pomo rosso e lo ridurrà in sua possanza”. I progetti ottomani non era sconosciuti in Italia: Nicolò Sagundino, di ritorno a Napoli da Costantinopoli nel gennaio 1454 aveva detto ad Alfonso I d’Aragona che Maometto il Conquistatore,
indirizza ogni pensiero e decisione a questa sua aspirazione e per questo ammassa e prepara attrezzature di ogni genere, truppe di fanteria ed equipaggi navali, forte di alcune predizioni e profezie che gli promettono il regno d’Italia e la conquista della città di Roma; e dice che la sede di Costantino gli è concessa dal cielo e che questa sede sembra esser in verità Roma, non Costantinopoli, e ciò esser giusto e corrispondere bene, come se, presa la figlia con la forza, possa prendersi anche la madre.11
Il sultano ribadì questo pensiero anni dopo, nel 1463, in una conversazione con Benedetto Dei, inviato della signoria di Firenze: Oggi voi siete venti Signorie e Potenze in essa, e siete mal d’accordo l’un con l’altro e nemici cordialissimi [...] e so molte cose le quali mi stanno tutte per giovare al mio pensiero fatto: e vedendomi io e giovane e ricco e benigna fortuna favorevole, intendo di gran lunga passare e Cesare e Alessandro e Serse.12
Dopo la presa di Otranto si acuirono a Costantinopoli i problemi interni e la lotta di potere scatenatasi alla vigilia della morte di Maometto il Conquistatore. A fine gennaio del 1481 Gedük Pascià era ritornato ad Otranto con navi e rinforzi tanto che si cominciò a parlare di un’imminente spedizione turca al comando del sultano in persona: erano forse voci senza fondamento per mascherare la difficile situazione nella capitale ottomana. Fatto sta che a fine febbraio il Qapudan Pascià partì per Valona, forse per recarsi a Costantinopoli: le notizie davano il sultano seriamente ammalato e il Pascià aveva bisogno di appoggi per la sua causa. Da tutto ciò trasse profitto il Re di Napoli per prepararsi alla riconquista: il 3 maggio muore Maometto II. Nessun aiuto giunge ai Turchi di Otranto dal nuovo sultano Bayazid II alle prese con la lotta intestina con il fratello Gem e la rivolta albanese. L’insuccesso turco, stabilito “nella pagina della sorte e del destino”, fu descritto un secolo dopo dallo storico Sa‘d ad-Din che si era basa177
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to su cronache anteriori:
Il Pascià percorse per qualche tempo la Puglia e conquistò quanti castelli poté, poi, saputo ch’erasi eclissato il sole di prosperità di Mehmed Khan [Maometto II] e che, svelatosi lo specchio della potenza di Bayezid Khan, il Trono del Padiscià s’era adornato di quella degna corona protettrice del mondo, portò alla Porta della felicità [il Serraglio] per il servizio del nobile Harem prestanti schiavi e scelte schiave insieme con le cose più preziose di quelle terre ed ebbe l’onore di toccare con la fronte la soglia paradisiaca. Venendo alla capitale, egli intendeva, presentati gli omaggi (al nuovo Sultano) per l’assunzione al trono e compiuta la cerimonia del baciapiedi, prendere molti soldati e mezzi bellici e occupare i rimanenti castelli di Puglia. Ma l’attuazione di questo proposito e l’occupazione di quel territorio non erano previsti nella pagina della sorte e del destino, e perciò non fu possibile; la figura sperata non assunse aspetto.13
Durante la lotta per la successione che vide impegnati da una parte il nuovo sultano Bayazid II e dall’altro suo fratello Gem, le truppe ottomane vennero ritirate da Otranto e il piano di conquista dell’Italia fu rimandato a tempi migliori e, in seguito, abbandonato. La facilità con cui, pochi anni più tardi, nel 1494-1495, i Francesi riuscirono a conquistare uno stato italiano dopo l’altro, senza incontrare quasi alcuna resistenza, lascia supporre che, se i turchi non avessero desistito dall’impresa, si sarebbero impadroniti della maggior parte della penisola, se non di tutta, senza troppe difficoltà. Un’ipotetica conquista turca dell’Italia nel 1480, proprio agli inizi del Rinascimento, avrebbe trasformato la storia del mondo intero.14 La vicenda di Otranto costituì un argomento per saggi, storie, romanzi, agiografie sproporzionati all’evento che assunse con il tempo connotati leggendari, drammatici, mistici. Fu un evento sopravvalutato dalle fonti occidentali e passato quasi inosservato nelle fonti turche proprio alla stregua della battaglia di Poitiers o delle crociate che furono viste con occhi differenti e da angolazioni diverse a seconda degli interessati: così come il toponimo di Poitiers o la parola "crociata" sono inesistenti nelle fonti orientali, il massacro di Otranto fu un accadimento come tanti altri nello scontro plurisecolare tra Occidente e Oriente, tra Cristianità e Islam. 1 Demetrio Cidone, ministro dal 1356 al 1358, vedeva già con chiarezza tutta la
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situazione: l’impero bizantino chiuso in una morsa di ferro, nessuna speranza di aiuto dall’occidente, vane le promesse dei papi. Cfr. A. PERTUSI (a cura), La caduta di Costantinopoli. Le testimonianze dei contemporanei, Milano, Mondadori, 1976, p.IXX dell’Introduzione. 2 F. GABRIELI, Venezia e i Mamelucchi, in AA.VV., Venezia e l’Oriente fra Tardo Medioevo e Rinascimento, Firenze, Sansoni, 1966, pp.417-432. 3 Ibidem, p.430. 4 F. CERONE, Alfonso il Magnanimo ed Abu ‘Omar Othman. Trattative e negoziati tra il Regno di Sicilia di qua e di là dal faro ed il Regno di Tunisi, “Archivio storico per la Sicilia orientale”, IX (1912), pp.45-70; X (1913), pp.22-78. 5 S. FODALE, Una lettera di Alfonso il Magnanimo al sultano Abû ‘Amr ‘Uthmân e un incidente nelle relazioni tra Trapani e Tunisi (1443), in Azhàr – Studi arabo-islamici in memoria di Umberto Rizzitano (1913-1980), a cura di A. Pillitteri e G. Montaina, Palermo, Annali della Facoltà di lettere e filosofia dell’Università di Palermo, 1995, pp.125-129. 6 A. BOMBACI, Venezia e l'impresa turca di Otranto, in “Rivista Storica Italiana”, LXVI, 1954, p.195. 7 Dalle Tevarikh-i Al-i 'Osman, o “Cronache della casa di ‘Osman”, dello storico Ibn Kemal che ricoprì la carica di Sheikh al-Islam al tempo di Solimano il Magnifico. A. GALLOTTA, I Turchi e la terra d'Otranto (1480-1481), in Otranto 1480, Galatina, Congedo, 1986, vol.II, p.186. 8 A. GALLOTTA, ibidem, pp.184-185. 9 A. BOMBACI, op. cit., p.164. 10 A. GALLOTTA, op. cit., p.185. 11 “Ad haec omnes cogitationes, cuncta consilia dirigit, ad haec apparatus omnes copiasque maritimas et pedestres componit struitque, innixus vaticiniis et praedicationibus quibusdam quae sibi regnum Italiae et urbis Romae expugnationem promittunt; ait sibi concedi coelitus Constantini sedem, hanc vero Romam esse, non Constantinopolim videri aequum valdeque congruere, quasi filiam vi ceperit, hanc etiam matrem capere posse”. A. PERTUSI, op. cit., vol.II, pp.126-141. 12 M. PISANI, Un avventuriero del Quattrocento. La vita e le opere di Benedetto Dei, Firenze, 1923, p.13. 13 Dalla Taj at-Tevarikh, o “La corona delle storie”, di Sa‘d ad-Din (1534-1599). E. ROSSI, Notizie degli storici turchi sull'occupazione di Otranto nel 1480-1481, in “Japigia”, Bari, II, 1931, pp.188-190. 14 B. LEWIS, Europa barbara e infedele. I musulmani alla scoperta dell'Europa, Milano, Mondadori, 1983, p.23.
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Capitolo sesto
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Turchi e Barbareschi in Italia (secoli XVI-XIX)
La lezione di Otranto era servita agli Stati rivieraschi dell’Italia, in particolare al Regno di Napoli e allo Stato della Chiesa, per iniziare o accelerare un programma di difesa delle coste: il rischio di ulteriori invasioni turche era talmente elevato che non era esente neppure la sicurezza delle grandi città, come si era già visto in precedenza. La soluzione migliore sarebbe stata quella di una difesa attiva, ossia di creare una flotta agile con funzioni di pattugliamento lungo le coste per impedire che turchi, corsari e barbareschi prendessero terra e per permettere al tempo stesso agli abitanti delle coste di mettersi in salvo o organizzare la difesa laddove possibile. Si trattava purtroppo di un progetto costoso, che richiedeva enormi spese per la costruzione di centinaia di navi e denaro senza fine per la gestione del personale necessario. Il governo di Napoli scelse la difesa passiva, ossia la costruzione di torri, non certo per ragioni strategiche quanto perché era la soluzione meno costosa: le casse dell’erario erano dissanguate tanto è vero che l’ordine di costruzione delle torri di avvistamento, popolarmente chiamate saracene, fu imposto ai privati e ai comuni a loro totale carico. Con l’avvento degli Spagnoli a Napoli fu ripreso il progetto di opere di fortificazioni murarie, già intrapreso dagli Aragonesi dopo Otranto. Sin dai primi anni del XVI secolo gli Spagnoli provvidero a nuove opere nelle piazzeforti marittime di Palermo, Siracusa, Reggio Calabria, Tropea, Amantea, Sorrento, Napoli, Gaeta, Gallipoli: i lavori vennero realizzati nella prima metà del secolo “con ogni prestezza per tema che si aveva dell’armata turchesca”.1 La prima opera di fortificazione in ordine di tempo fu il rafforzamento delle mura urbane, anche se da sola non era in grado di impedire gli attacchi neppure nei pressi delle città. Pur importante, quest’opera di difesa, se risolveva il problema della protezione delle grandi città, lasciava insoluto quello della difesa del territorio in genere e della prevenzione; inoltre le stesse piazzeforti erano vulnerabili quando erano sottoposte ad attacchi via terra poiché spesso gli sbarchi avvenivano sulle spiagge viciniori, com’era accaduto per Otranto dove i Turchi avevano preso terra ad alcuni chilometri dalla città. 180
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Il viceré Don Pedro de Toledo nei suoi vent’anni di governo (15321553) fece quello che poté considerate le scarse risorse finanziarie, soprattutto lungo la costa tirrenica, affidando la costruzione e la manutenzione delle torri alle autorità locali e ai privati. Al suo successore, il duca d’Alcalà Perafan de Ribera (1558-1571), toccò il compito di attuare il vecchio progetto di costruzione di una catena continua e costante di torri marittime. Il sistema non era nuovo: torri saracene erano state costruite dagli Svevi, dagli Angioini, dagli Aragonesi. A Federico II di Svevia si attribuisce la torre di avvistamento chiamata turris octava, che diede poi vita a Torre del Greco, e che era una di otto torri nella serie che univa Napoli a Castellamare di Stabia; il restauro operato nel 1230 della torre della Serpe sul promontorio di Otranto (oggi parzialmente esistente) e la costruzione della torre di Leverano in provincia di Lecce. Da Carlo I d’Angiò fu ordinata nel 1278 la costruzione di Torre Assiola, vicino a Praiano, lungo la costa amalfitana, nel quadro degli apprestamenti difensivi per il pericolo di invasioni siculo-aragonesi durante la guerra del Vespro e in ogni caso degli interventi connessi alle coste sia del Tirreno che dell’Adriatico. A Carlo II d’Angiò si deve invece la costruzione della torre Cavallo a Brindisi nel 1301. Durante il regno di Alfonso I d’Aragona fu eretta la costruzione che diventò l’attuale Torre Annunziata. Si trattava ora di rimediare agli inconvenienti del passato e creare una linea regolare e continua di torri, mantenendole sempre efficienti. Il progetto prevedeva torri pubbliche e, su decisione insindacabile dello Stato, l’espropriazione delle torri private previo indennizzo, l’erezione di torri a distanze tali da essere visibili l’un l’altra. Il costo di ogni torre fu imputato alle università interessate e dal 1567 fu esteso a tutte le università che distavano meno di 12 miglia dal mare.2 I lavori di quest’imponente catena di torri vennero interrotti più volte e ripresi solo con l’imposizione di nuove tasse; inoltre, prima ancora di costruire le nuove torri, le vecchie erano già in rovina per mancanza di manutenzione e anche di personale quali guardiani, operai e cavallari. Il grandioso disegno progettato all’inizio del ‘500 di sbarrare le coste al nemico rubandogli il prezioso vantaggio della sorpresa si rivelò un’utopia per le enormi difficoltà che l’attuazione di una impresa così complessa e imponente aveva presentato.3 Le torri, che per esigenze militari erano di due tipi, uno dotato di artiglieria con archibugiere e caditoie ed uno di avvistamento munito di caditoie e feritoie, erano costiere e interne, suddivise in egual pro181
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porzione anche se con scopo diverso. Quelle lungo la costa erano di difesa o avvistamento, quelle dell’entroterra erano invece legate alle vicende storiche di ogni zona: alcune servivano come vedetta o difesa del casale circostante, altre erano case-torri per rifugio delle varie famiglie in caso di capovolgimenti politici, altre erano luoghi di osservazione per trasmettere all’interno gli allarmi giunti dalla costa, altre sono da collegare a quelle che saranno le masserie fortificate. Dal punto di vista costruttivo le torri erano circolari e quadrate. Le prime sono le più antiche, risalenti in genere sino alla prima metà del ‘500, e recano all’interno un unico ambiente a volta: alte sui 12 metri, con base esterna di 10-12 metri e interna di 5, contenevano un’ampia cisterna sotto il basamento e un ambiente interno al piano superiore nel quale si apriva l’ingresso, sempre sopraelevato per motivi di sicurezza. Le seconde, progettate dopo il 1568 dal Presidente della Real Camera Alfonso Salazar nel suo viaggio di ispezione, avevano il lato esterno di 10-12 metri, un’altezza sui 12-20 metri, su tre piani, uno per i magazzini, uno per l’alloggio di uomini e il più alto per l’azione difensiva. La tipologia di queste torri costante nel tempo è un chiaro indice delle non mutate condizioni politiche per secoli: chiamate saracene o torri-martello, non avevano uno scopo prettamente difensivo perché il nemico si basava solo sulla sorpresa e non aveva alcun interesse ad espugnarle essendo il suo intento o quello di conquistare temporaneamente un centro abitato o di rifornirsi di acqua da bere e viveri e razziare merci, denaro e schiavi. Alla fine del 1569 la costruzione delle torri lungo l’Adriatico era terminata, come annunciava il viceré alla Real Camera nel dare gli ordini per la provvista delle artiglierie: 20 negli Abruzzi, 20 nel Molise e nella Capitanata, 9 in Terra di Bari, 40 in Terra d’Otranto; non conosciamo il numero delle torri sui versanti jonico e tirreno, ma, da una stima dell’epoca che dava la cifra totale di 380 torri nel Regno di Napoli, dovevano essere circa 300 sottraendo quelle del versante adriatico. Nella Sicilia all’epoca di Ferrante Gonzaga (1535-1546) esistevano 137 torri, in maggioranza sul lato orientale e su quello meridionale dell’isola; con le altre torri erette negli anni successivi si ha una stima di 150-160 torri. Da notare che gli anni 1565-1575 corrispondono al periodo più intenso di potenziamento della difesa costiera voluto da Filippo II nel suo sforzo di contrattacco nella guerra contro i Turchi. Sia la posizione delle torri che il funzionamento risalivano in pra182
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tica ai tempi dei Romani e poi dei Bizantini e degli Arabi. Il segnale di pericolo era dato di giorno mediante fumate dalla sommità della torre, effettuate bruciando in un cestello di ferro detto grisella, scorrevole su un’antenna centrale, fasci di fieno e di erica bagnati con acqua e bitume per ottenere molto fumo; di notte, con fuochi; si usavano anche segnali acustici a mezzo campane e corni. I segnali di vario tipo così captati erano trasmessi di torre in torre: il tutto si basava ovviamente sulla visibilità e le torri erano pertanto situate in posizioni che consentissero un’ampia visuale del mare e che fossero visibili ciascuna rispetto alle altre contigue. Sorgevano, in genere, su un promontorio o su una roccia elevata da dove si potesse scorgere l’avvicinarsi delle navi barbaresche, o in tratti di spiaggia dove fosse più facile l’approdo o alle foci dei fiumi.4 Importante era, oltre a quella dei guardiani, la funzione dei cavallari, uomini che avevano il compito di perlustrare, a turni alternati, la zona di litorale loro assegnata e di informare subito i centri abitati non solo delle coste ma anche dell’immediato interno. I cavallari erano eletti ogni tre anni, erano ordinari e straordinari, e dipendevano da un capo: dato il costo di mantenimento a carico delle università, vennero in seguito organizzati in gruppi di volontari; alcune torri, quelle alle foci di un fiume, disponevano di una barca-feluca con rematori. C’erano comunque molte disfunzioni nel servizio, soprattutto per i soliti motivi economici, se le autorità erano spesso costrette a rinnovare alle amministrazioni locali raccomandazioni e ordini di “ponere li cavallari ordinari per le marine [...] per causa delli Turchi et infideli”. Malgrado gli sforzi, il sistema difensivo creato dai viceré spagnoli risultò poco efficace. Molte e varie furono le cause: il ritardo nella costruzione dato che le incursioni turche più gravi erano già avvenute, l’incapacità di assicurare il funzionamento del sistema per motivi economici e le disfunzioni burocratiche. Ebbe comunque un’utilità marginale: limitò le piccole scorrerie, anche se spostò le incursioni predatorie a nord dell’Abruzzo dove non esisteva una rete capillare di torri tranne le fortezze di Ancona, Fano, Pesaro e Comacchio, fece diminuire il contrabbando e costituì un punto di controllo sanitario soprattutto in occasione delle ricorrenti pestilenze provenienti dal mare, prima fra tutte la peste del 1656. Nello Stato della Chiesa si fece ancor meno. L’unico sistema di difesa fu quello voluto da Paolo III (1534-1549) nei primi anni di pontificato: per tranquillizzare la popolazione e per proteggere l’Urbe dagli 183
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attacchi barbareschi, in particolare da quelli del Barbarossa che avevano arrecato gravi danni alla costa tirrenica tra Fondi e Terracina e alla foce del Tevere, il papa deliberò nel 1534 una “cinta bastionata alla moderna”, anche se i lavori furono interrotti dopo l’impresa vittoriosa di Carlo V contro Tunisi nel 1535 e ripresi dopo l’esito infelice contro Algeri nel 1541 e il disastro degli alleati cristiani all’isola di Gerba nel 1560. Fu dopo quest’ultimo episodio che Pio IV (1559-1565) acconsentì alla richiesta della gente di mare e dei mercanti di Roma per la costruzione di un torrione alla foce del Tevere ed una catena di torri litoranee tra il promontorio Circeo, Anzio e la Foce del Tevere, realizzata solo entro la fine del secolo. Furono costruite in tutto una cinquantina di torri ripartite quasi in egual numero fra la costa a sud della foce del Tevere e quella a nord. Per le coste dell’Italia settentrionale abbiamo solo delle stime: 60 torri suddivise in ugual numero tra la Liguria di ponente e quella di levante; 50 torri per la Toscana e le isole; 25 torri per lo Stato dei Presìdii e 40 per la Sardegna. Si può ragionevolmente affermare che alla fine del XVI secolo esistevano in Italia 700 torri costiere, non poche considerato che lo sviluppo dei litorali peninsulari e insulari è di circa 7500 chilometri, 3350 dei quali si riferiscono alle due isole maggiori della Sardegna e della Sicilia. Il rapporto complessivo sarebbe di una torre ogni 10-11 km.: a prima vista quest’intervallo sembrerebbe essere soddisfacente se l’intero sistema fosse stato realizzato in pochi anni e non nel giro di un secolo e se il personale addetto fosse stato adeguato per numero e per compiti, il che non fu mai neppure nei primi tempi; inoltre molte erano già in decadimento nello stesso periodo in cui se ne costruivano di nuove, molte vennero distrutte dagli stessi barbareschi soprattutto nei punti di più facile approdo, molte di esse furono abbandonate nei periodi di minore recrudescenza della pirateria, parzialmente o totalmente distrutte dall’incuria, dagli agenti atmosferici, dalle stesse popolazioni che le usavano come materiale da costruzione.5 ***
Con la morte di Maometto II si era chiuso il periodo espansionistico turco: il sogno di conquista di Roma e dell’Italia svanì per sempre, anche se per tutto il XVI secolo aumentarono gli attacchi, le scorrerie e le azioni predatorie condotte a regolari cadenze dalla flotta turca e dagli alleati barbareschi. L’impero ottomano aveva ormai esaurito la 184
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sua iniziale forza d’urto pur raggiungendo la massima espansione proprio alla metà del secolo con Solimano il Magnifico (1520-1565) che regnò su un territorio che andava dalla Persia all’Egitto, al Maghreb e ai Balcani sino alle porte di Vienna. Solo verso la fine della vita Solimano pensò al vecchio sogno panislamico: con la sua morte il progetto fu vanificato ed iniziò il lento e impercettibile decadimento dell’impero nelle mani dei gran visir. Sino alla battaglia di Lepanto la flotta turca era stata la protagonista nel Mediterraneo con il sostegno più o meno ufficiale dei grandi corsari barbareschi, i più importanti dei quali erano o erano stati signori o bey delle città di Barberìa quali Tripoli, Tunisi, Algeri, l’isola di Gerba, vassalli della Sublime Porta cui versavano una parte dei loro bottini di guerra da corsa, diventando spesso qapudan pascià ossia ammiragli della flotta turca. Fu verso la fine del XVI secolo che i sultani decisero di affidare il governo degli stati barbareschi a pascià di loro nomina e destinati, in teoria, a rimanere in carica per tre anni: a poco a poco i legami tra gli Stati del Maghreb e la Sublime Porta si allentarono e la carica di pascià servì solo per accumulare ricchezze a titolo personale, rifacendosi così delle spese sostenute per ottenere l’investitura. Con il tempo il potere passò di volta in volta nelle mani del dey, il capo della milizia, o del bey, il capo delle truppe incaricate delle riscossioni dei tributi e del controllo delle tribù. I grandi corsari rispondevano a nomi noti: Kamal Ra‘is, il Camalicchio delle cronache popolari, che da corsaro indipendente passò al servizio dell’impero ottomano diventandone ammiraglio nel 1499; suo nipote fu Piri Re‘is, il celebre cartografo, anch’egli ammiraglio turco. Qa‘id ‘Ali, detto Gaddalì, famoso per aver catturato nel 1518 Paolo Vettori, l’ammiraglio delle galere di Papa Leone X che dovette pagare un forte riscatto per la sua liberazione. Khair ad-Din, il Barbarossa, il più abile e temuto corsaro di tutti i tempi, fondatore della potenza di Algeri, e il suo allievo Turghut Ra‘is, il Dragut tristemente noto in Puglia per il massacro di Vieste nel 1554. Il rinnegato calabrese ‘Ulug ‘Ali di Cutro, nel golfo di Squillace, a nome Luca o Giovanni Dionigi Galeni, conosciuto come Luccialì o Occhialì, che da novizio domenicano diventò il braccio destro di Dragut: prese parte alla battaglia di Lepanto e terminò la sua carriera come qapudan pascià. Il rinnegato ligure Osta Murad che nel 1615 diventò comandante della flotta tunisina e nel 1637 dey di Tunisi, trasmettendo il potere al figlio Mohammed, dando vita alla dinastia dei Muraditi che 185
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regnò sino a primi del Settecento e fu soppiantata nel 1705 da un bey della casa husaynita della vicina Algeria, governante ancora nel periodo della tutela francese. Ricordiamo infine che nel XVI secolo undici dei ventidue rais presenti nelle Reggenze erano rinnegati italiani: non parliamo del Marocco i cui corsari con base a Salé, non lontano dall’attuale Rabat, si spinsero raramente nel Mediterraneo privilegiando le rotte marittime verso l’America e le coste atlantiche sino al mare del Nord. Tutti questi ammiragli e comandanti di flotte avevano una conoscenza precisa e dettagliata delle coste italiane: tra i portolani più noti disponevano del Kitab-ï Bahriyye o “Libro del mare” che Piri Re‘is aveva presentato a Solimano il Magnifico nel 1526: in 215 tavole a colori ad acquarello l’ammiraglio cartografo disegnò coste e isole del Mediterraneo da lui percorse in lungo e in largo navigando e combattendo, dapprima, nella guerra di corsa al seguito dello zio, poi in proprio come comandante delle flotte del Sultano, facendo altresì tesoro della cartografia italiana e araba dei secoli precedenti e di notizie raccolte da prigionieri e mercanti della sua epoca. Un esame completo del suo Kitab-ï Bahriyye dimostra come la conoscenza dell’ammiraglio fosse molto precisa per le coste adriatiche che conobbe certamente di persona rispetto alle coste tirreniche note in maniera più frammentaria. Il periplo inizia da Venezia per concludersi in Sardegna; leggiamone l’incipit:
Il circuito della città di Venezia è di dodici miglia. Queste dodici miglia sono un cerchio di mare, pieno, da terra e da mare, di palazzi. Alcuni punti di questo mare sono bassi, altri profondi. La città è stata costruita conficcando pali nei luoghi bassi: su questi appunto è costruita. Prima che vi si edificasse, si trattava di una contrada deserta. Nel luogo ove ora è eretta la città venivano dei pescatori a metter da ogni parte le loro reti per pescare. Altri pescatori presero a raccogliersi lì da ogni parte e così si cominciò a costruire su palafitte; dopo molto tempo, a mano a mano, la popolazione aumentò e nacque la città. I notabili del tempo allora dissero: “Qui si è creata una città. Ora bisogna trovare un qualcosa che la renda famosa e ne elevi la gloria fino al dì del Giudizio”. Con questa idea andarono ad Alessandria dove c’era la tomba di Samarqo. Santa Marqo era uno dei dodici amici di Gesù che i Cristiani chiamano “apostoli” (havariyun). I Veneziani, ritenendo che quel Samarqo fosse l’apostolo, rubarono il corpo di San Marco da Alessandria, lo misero in un baule e lo fecero uscire dalla città dicendo che era carne di maiale, portandolo così a Venezia. Qui lo seppellirono e costruirono sopra una chiesa.6
Dettagliata è la descrizione della Sardegna che si conclude con la 186
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parte nord-orientale, anche se vi sono salti e vuoti nella narrazione; ad esempio, come si può notare dal seguente brano, sembra che Piri Re‘is non conoscesse le isole di Caprera e della Maddalena, lasciando un vuoto nella descrizione tra Capo Ferro e l’Asinara ed ignorando la costa settentrionale della Sardegna: A NO di Tavolara (Tavlara) c’è uno specchio d’acqua; è un bassofondo, e l’estremità più interna si chiama Terranova (Tare Nove) cioè “città nuova” (yeni sehir) [Terranova Pausania, oggi Olbia]. C’è un borgo che una volta tentammo di conquistare con il defunto Kamal Reis, ma non ci riuscimmo. Dalla detta isola di Tavolara a Capo Corso (Qavo Qorso) ci sono trenta miglia. Ci sono in realtà due “Capo Corso”:uno è nella detta isola, l’altro in Corsica. Questo Capo Corso è la punta NE della Sardegna. Oltre la detta punta c’è lo stretto di Bonifacio (Bonofase), che sta tra l’isola di Sardegna e l’isola di Corsica (Qorsuga). Tanto si sappia, e addio! (Söyle malum oluna vesselam!).7
Il Cinquecento, più di ogni altro secolo, fu caratterizzato da frequenti cambiamenti di fronte da parte dei grandi condottieri del tempo. La rivalità tra Carlo V di Spagna e Francesco I di Francia vide una corsa per assicurarsi in qualunque modo e a qualunque prezzo i servigi di figure di prestigio: per la Spagna militarono Ferrante Gonzaga, il marchese di Saluzzo, i Colonna; per la Francia i Vitelli, gli Orsini, i Baglioni, per citarne alcuni. Poco noti furono i tentativi di Carlo V, durati un decennio, per attrarre al suo servizio il Barbarossa malgrado il suo status di pirata e musulmano. Inutile giudicarli sulla base di un concetto etico o morale: lo stesso Francesco I aveva concluso nel 1535 con la Sublime Porta una vera e propria alleanza che aveva visto più di una volta Francesi e Turchi combattere assieme contro gli Spagnoli. Probabilmente per controbilanciare l’alleanza franco-turca, contro la quale non disponeva di uomini sufficienti in aperti scontri militari, Carlo V decise di prendere contatto con il Barbarossa per un eventuale passaggio del corsaro nel campo spagnolo. Ricordiamo alcuni antefatti: nel 1528, dopo la sconfitta dei Francesi a Pavia nel 1525, l’ammiraglio Andrea Doria aveva abbandonato la Francia per entrare al servizio di Carlo V; nel 1529 i Turchi erano giunti sotto le mura di Vienna; nel 1530 si erano installati a Malta i Cavalieri Gerosolimitani scacciati da Rodi dai Turchi; nel 1534 il Barbarossa si era insediato a Tunisi. Sembra che i primi contatti con il Barbarossa siano iniziati proprio nel 1534 probabilmente con lo scopo di una conquista congiunta del 187
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Maghreb che sarebbe poi stato governato dal Barbarossa, alleato della Spagna; in questo modo Carlo V pensava di togliere l’iniziativa alla Francia e un prezioso territorio rivierasco ai Turchi. Nella primavera del 1534, non sappiamo se prima o dopo il fallito tentativo di agganciare il corsaro, il Barbarossa salpò da Costantinopoli: dopo aver eliminato vari presidi nelle isole greche, puntò sulle coste della Calabria e della Sicilia che saccheggiò a man bassa, giunse nel golfo di Napoli depredando Capri, si avvicinò a Gaeta e prese terra per marciare su Fondi. Stando alle cronache l’obiettivo era quello di rapire Giulia Gonzaga, la giovane vedova di Vespasiano Colonna di cui tutti parlavano a quel tempo: l’aveva cantata Ludovico Ariosto nell’Orlando Furioso e l’aveva ritratta Sebastiano del Piombo. Circondata la cittadina di Fondi, di notte i corsari scalarono le mura penetrando nel palazzo Colonna; qualcuno diede l’allarme e Giulia Gonzaga fece a tempo ad uscire dal borgo attraverso un cammino segreto e a mettersi in salvo. Vent’anni prima, nell’ottobre 1516, anche papa Leone X (1513-1521) era sfuggito per un soffio alla cattura sul litorale romano da parte di uomini al soldo del rais turco Kurtogali. Rientrato in Ifriqiyyah, il Barbarossa si impadronì di Tunisi sfruttando le rivalità dei due figli di Mulay Muhammad morto in precedenza. La situazione era divenuta preoccupante per i Cavalieri di Malta direttamente minacciati, per papa Clemente VII (1523-1534) che non era più sicuro a Roma e per Carlo V che aveva perso la supremazia sul mare. Il più attivo in una spedizione contro le basi corsare dell’Ifriqiyyah era proprio Carlo V che sperava di sconfiggere il Barbarossa per poi costringerlo ad entrare al suo servizio e toglierlo ai Turchi. Nel maggio 1535 fu dato inizio a quella che doveva apparire come una nuova “crociata” contro Tunisi: una flotta di 250 navi tra cui 80 galere con 25.000 fanti e cavalieri si ritrovò l’11 giugno a Cagliari. L’imponente concentrazione di uomini e mezzi era formata dalle galere del papa, di Malta, di Napoli e Genova, del Portogallo, dei veterani tedeschi e italiani guidati dal governatore di Milano, il marchese del Vasto, e di volontari d’ogni parte. Il 13 giugno l’armata salpò al comando di Carlo V in persona e dell’ammiraglio Andrea Doria con il viatico di papa Paolo III (1534-1549): due giorni dopo era in vista di Biserta. Lo sbarco avvenne il giorno seguente sulla costa a 50 km da Tunisi essendo impensabile un attacco navale entro il golfo: il Barbarossa, a 188
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conoscenza dei preparativi dell’impresa, si era premunito facendosi inviare soccorsi da Costantinopoli. Il tutto si svolse alla Goletta, l’isola fortificata che sbarrava la strada per la capitale: ci volle quasi un mese per completare l’assedio sotto un caldo torrido con l’acqua che mancava e che occorreva fare arrivare per nave dalla Sicilia. Il 14 luglio la piazzaforte capitolò e il 20 Carlo V si mise in marcia verso Tunisi: lo scontro si svolse fuori città e si risolse a favore delle forze imperiali grazie alla superiorità di tiro dell’artiglieria. Il 21 luglio Carlo V entrò a Tunisi: fu una vittoria parziale perché il Barbarossa con i suoi fedelissimi era riuscito a fuggire ad Algeri da dove rientrò a Costantinopoli, lasciando al suo aiutante Hasan Agha il compito di corseggiare nel Mediterraneo mentre il suo ex-braccio destro Dragut, messosi in proprio, gli diede anch’egli una mano. Il Barbarossa non rimase inoperoso: ai primi di luglio 1537, al comando di una flotta di Solimano il Magnifico, attaccò e conquistò il porto di Castro, situato a metà strada tra Otranto e la punta di Leuca, seminando morte e terrore nell’interno della penisola salentina. Da Napoli il viceré, temendo che si ripetesse una nuova Otranto con una nuova testa di ponte, inviò l’ammiraglio Andrea Doria per intercettare eventuali navi turche di rinforzo da Corfù e dall’Epiro: la mossa fu fortunata e un convoglio di quattordici navi turche fu distrutto. In precedenza, sempre nel 1537, era stato il Barbarossa a riprendere o ad iniziare i contatti con Carlo V tramite il viceré di Sicilia, Ferrante Gonzaga: il 24 aprile il viceré scrisse da Messina all’imperatore di un contatto del Barbarossa per mezzo di un nobile spagnolo, Alonso de Alancon, che era stato prigioniero del corsaro per cinque anni ma che si era riscattato accattivandosi la sua fiducia. Secondo quanto scritto nella lettera il Barbarossa era mosso da due motivi: l’onore e l’utile – l’onore perché si sentiva messo da parte dalla Sublime Porta dopo i fatti di Tunisi, l’utile perché quello che gliene veniva da Costantinopoli era aleatorio e soggetto alle mutevolezze dei tempi. Il viceré terminava invitando l’imperatore a parlare direttamente con l’Alancon ma a continuare i preparativi di difesa contro i Turchi per tema che sotto l’offerta si celasse un inganno. Di queste trattative o pourparler, oltre ai documenti rimasti, le testimonianze sono nei fatti: è vero che nel 1537 lo sforzo turco si era concentrato sulla Puglia e sulla Sicilia, ma è anche vero che nei fatti, per quanto riguarda la Puglia, si era risolto in scontri locali; nel 1539 il Barbarossa confermò ad un emissario imperiale di essere stato lui “ad impedire che l’esercito turco passasse in Puglia” e questo per ingra189
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ziarsi Carlo V. La stessa battaglia della Prévesa dell’agosto 1538, vinta dai Turchi, non era stata voluta dal Barbarossa costretto a difendersi: questi affermò, a sostegno dei suoi rapporti con Carlo V, di non aver attaccato le navi di Andrea Doria per non far torto all’imperatore, anche se è possibile che il corsaro non conoscesse la reale situazione della flotta cristiana in alto mare e di notte. Ciò che è più singolare sono le parole del Barbarossa che intendeva assalire le Puglie e giungere indisturbato in pochi giorni sino a Napoli.8 Captatio benevolentiae nei confronti di Carlo V o un piano turco prestabilito per una conquista della Puglia che la Sublime Porta continuava a rivendicare come territoro turco ritenendosi erede di Bisanzio? Forse perché le trattative erano fallite, forse perché l’imperatore pensava che ormai solo una soluzione militare avrebbe potuto sbloccare la situazione, si riprese in considerazione nell’ottobre 1541 l’idea di una nuova spedizione contro Algeri che oltretutto attirava siciliani, napoletani, sardi, corsi a emigrare e a “farsi turchi” con la promessa di migliori condizioni di vita. Contro il parere dei suoi consiglieri e di Andrea Doria che consideravano la stagione troppo inoltrata, Carlo V decise ugualmente per un’immediata spedizione per sfruttare l’effetto sorpresa ed evitare che il Barbarossa fosse informato dei suoi piani com’era avvenuto la volta precedente. Com’era da prevedersi, tra piogge torrenziali ed un uragano, la spedizione si concluse con una disfatta per la Spagna. Il XVI secolo vide una cinquantina di attacchi e scorrerie lungo le coste italiane: in particolare furono distrutte nel 1508 Diano Marina in Liguria, nel 1514 Siniscola in Sardegna, nel 1516 Civita Lavinia nel Lazio, nel 1543 una flotta franco-barbaresca si impadronì di Nizza saccheggiandola, nel 1544 furono attaccate Sanlucido e Cetraro in Calabria, nel 1588 Pratica di Mare nel Lazio. Una recrudescenza si verificò in concomitanza con l’Anno Santo 1550 quando aumentò il traffico di navi cariche di pellegrini in viaggio per Roma: nel Tirreno centrale in particolare si concentrarono i legni barbareschi che trovavano un sicuro rifugio lungo le coste inaccessibili della Sardegna. Si trattò di scorrerie di piccola entità ma che diedero i loro frutti per la cattura di un gran numero di navi pellegrine indifese. La conquista di al-Mahdiyyah da parte di Andrea Doria nello stesso anno acuì lo scontro tra cristiani e barbareschi, anche perché il pirata Dragut era sfuggito alla cattura. D’allora in poi i barbareschi, spesso collegati con la flotta ottomana, compiranno ogni anno una spedi190
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zione alla grande nel Mediterraneo con notevoli successi. Non ne furono esenti neppure le grandi città complice il dissidio tra Francesi e Spagnoli: l’alleanza militare, già stipulata nel 1543 tra Francesco I e Solimano il Magnifico fu rinnovata da Enrico II a danno di Carlo V. Era quanto il sultano desiderava: copertosi sul fronte francese, il Gran Turco avrebbe potuto concentrare tutti i suoi sforzi contro la Spagna. Agli inizi di giugno del 1551 la flotta turca, forte di 112 galere, 2 galeazze, 50 navi onerarie, con a bordo 12.000 fanti, 600 cavalieri, 5000 operai, seguita da un numero imprecisato ma notevole di fuste barbaresche, lasciò il Bosforo al comando di Sinam Pascià. Nello stretto di Messina un contingente occupò la fortezza di Augusta, saccheggiando le zone dell’interno della Sicilia. Quindi puntò su Malta senza impegnarsi a fondo contro il forte di Sant’Elmo ben protetto: occupò però l’isola di Gozo facendo seimila prigionieri. La flotta turca puntò poi su Tripoli allora in mano ai Cavalieri di Malta: la fortezza capitolò il 26 agosto. Un anno dopo, in luglio, si rinnovò puntuale la spedizione nel Mediterraneo contro Carlo V, in particolare contro i domini spagnoli in Italia, soprattutto il regno di Napoli e la Corsica. Mentre la flotta di Sinam Pascià si ancorò all’isola di Ponza in attesa delle navi francesi, Dragut incendiò Procida, prese poi terra a Pozzuoli, devastando il litorale fino a Minturno. Il timore di un attacco a Napoli crebbe ma i turchi, terminate le razzie, si allontanarono il 10 agosto. L’epoca del sogno ottomano di una conquista dell’Europa era ormai tramontata. Nella seconda metà del secolo XVI due furono gli episodi eclatanti che avrebbero potuto portare ad una supremazia turca nell’Adriatico ma che furono invece l’ultimo conato ottomano: Vieste nel 1554 e Lepanto nel 1571. Nel 1554 la flotta turca, forte di settanta galere, era diretta a Malta quando fu spinta da una tempesta sulle coste settentrionali della Puglia, a Vieste. La città garganica non aveva presidî o fortificazioni: fu chiesto aiuto ai governatori provinciali, ma le poche milizie giunte servirono a poco. Dragut tentò di impadronirsi del castello situato su un promontorio roccioso, senza successo: fu solo con il tradimento o, secondo altre fonti, con l’offerta di resa da parte di un maggiorente della città che le schiere di Dragut poterono entrare in Vieste il 15 luglio 1554. Il risultato fu il solito saccheggio, la cattura o la morte di alcune migliaia di abitanti; molti furono trucidati presso la cattedrale su un roccione detto “chianca”, chiamata poi “pietra amara”, anche se 191
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con una certa esagerazione si parlò di settemila persone: “Nell'anno 1554 nel mese di luglio - recita un’iscrizione postuma - Vieste, dopo esser stata assediata per sette giorni da Dragut con settanta galere dell’Armata del Gran Turco, fu ultimamente, non potendosi più difendere, saccheggiata, presa, e abbrugiata con preda notabile di cittadini e ricchezze e con perdita di settemila anime tra presi, e morti; e fu questa notabilissima ruina pianta per tutta Italia”. L’ultimo tentativo turco in grande stile nel secolo XVI contro la costa orientale dell’Italia fu quello che culminò nel 1571 con la battaglia di Lepanto sotto il successore di Solimano, Selim II. Il pomo della discordia fu Cipro: il 15 gennaio 1570 era giunto a Venezia un ambasciatore turco con la richiesta di consegna di Cipro al sultano o la guerra. Il Senato si era già pronunciato sulla questione, votando a stretta maggioranza, 220 contro 199, per la guerra: Cipro si arrese ai turchi il 1° agosto 1571. Fu solo con la perdita di Cipro che la Lega Santa patrocinata e voluta da Pio V poté decollare con l’adesione ufficiale di Venezia il 25 maggio 1571: la costa orientale dell’Italia diventava così il fronte di una guerra che opponeva i due grandi imperi, quello spagnolo e quello ottomano, oltre che due religioni universali, il cristianesimo e l’islam. Il sultano, quasi a voler sottolineare la sua volontà di rendersi padrone dell’intero Adriatico - era ormai saltata la linea ideale di confine del Golfo Adriatico, la Valona-Otranto - stabilì la sua base navale avanzata a Lepanto, sullo stretto che unisce il golfo di Corinto a quello di Patrasso. In tal modo una flotta turca sarebbe stata in grado di partire indisturbata da Lepanto e sbarcare un esercito lungo le coste orientali della penisola senza grandi difficoltà: la barriera protettiva della laguna non era più sicura per Venezia, che solo allora s’era decisa al gran passo dell’abbandono della neutralità diplomatica nei confronti dell’impero ottomano. Il 7 ottobre 1571, domenica, vide il grande scontro tra i due imperi: 207 galere, 6 galeazze e 30 navi della Lega con a bordo 80.000 uomini contro 220 galere e 60 fuste dei Turchi. Con la vittoria delle forze occidentali si chiuse definitivamente il capitolo dell’espansione musulmana verso le terre del Mediterraneo.9 ***
Nel secolo successivo la situazione cambia nel senso che gli attac192
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chi turchi sono terminati dal punto di vista di future conquiste o insediamenti stabili. Si tratta ora di guerriglia da corsa al solo scopo di bottino: nel XVI secolo la pirateria era stata spesso al servizio della politica dell’impero ottomano; d’ora in poi l’attività corsara, non più congiunta a quella del sultano, si estrinsecherà sino alla metà dell’800 in attacchi volti a conquistare beni e schiavi. L’episodio più eclatante del XVII secolo fu l’attacco turco a Manfredonia nel 1620. Si trattò di un attacco improvviso ma non del tutto inaspettato; esattamente un anno prima il viceré di Napoli, il discusso duca di Ossuna, aveva voluto tentare un’impresa di rilievo contro la base corsara di Susah approfittando del fatto che le navi maghrebine e la squadra navale turca erano impegnate lungo le coste della Siria per domare la rivolta dell’emiro Fakr ad-din. L’impresa fallì clamorosamente sia per la scarsa segretezza sia per la poca coesione all’interno della flotta napoletana: la colpa ricadde sul duca di Ossuna che nel giugno 1620 fu sostituito dal cardinale Gaspar de Borja y Velasco il cui compito, durato appena sei mesi, doveva essere quello di riportare la calma nell’Adriatico soggetto alle frequenti controversie navali con la Serenissima, situazione di cui si avvantaggiava la Sublime Porta per azioni di disturbo contro le coste del medio e basso Adriatico. Salpata da Navarrino, la flotta ottomana al comando di ‘Ali Pascià si presentò all’alba del 16 agosto 1620 nel golfo di Manfredonia senza che fosse stata intercettata in mare malgrado la presenza dell’Armata Cattolica nel Mediterraneo. In due ore, nel pomeriggio di quella domenica, dalle 54 galere sbarcarono in località Calafico e Pietra Masella, a poche miglia dalla città, cinquemila uomini tra i quali una truppa di giannizzeri. Il governatore spagnolo, non avendo forze sufficienti per contrastare l’attacco, fuggì sui monti del Gargano: la città, aperta al saccheggio, fu conquistata, tranne il castello che resisté sino a martedì 18 agosto. A trattare la resa furono scelti due gentiluomini, Antonio Stellatello e Antonio Nicastro: quest’ultimo ha lasciato una relazione di rara efficacia non tanto per la narrazione dei fatti noti quanto per la denuncia dei mali e del comportamento della burocrazia dell’epoca. Alli 18, martedì, a 2 hore di sole, il Bascià Generale discese di nuovo in terra a riparare la temerità de' suoi soldati sbarcati, e dei capitani, alla porta del castello con il secretario. I nostri, con dolor intimo, humili e chini all’imperio ottomano, uscivano fuori, rimessi all’impietà barbara; piangevano, vedendo i carboni ardere le loro case, le piazze desolate, l’uccisi stesi per strada, le case di Dio abrugiate, l’imagine
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di nostra Donna et Avocata nel cielo diruta e diluta, le seppolture aperte, le campane robbate; finalmente con fonte di lagrime, semivivi, dell’opulenta patria desolata e schiava, e dispersi di qua e di là per la Puglia nel pien del mezzo giorno del sol leone, famelici et assetati, nudi di lor vesti e commodi solo quanto se stessi coprivano, anelavano il pane e l’acqua e un proprio luogo di sicurtà che fu il primo monastero di San Leonardo. Donne e fanciulli, nobili e populane stesi a l’ombra in terra del Preside, che ivi stava, a suo aggio, di soccorso di trombe d’acqua fredda; senza vino (oh miseria, oh agiuto!).10
I Turchi si ritirarono all’alba di mercoledì; malgrado le truppe spagnole di soccorso fossero giunte il lunedì al comando del governatore della Capitanata, Francesco Carafa, questi non ritenne di impegnare i Turchi attendendone alla periferia la partenza. Nell’impossibilità di presidiare l’intera costa, la soluzione di solito adottata era quella di mantenere piccoli presidî con scopi di vigilanza ed informazione e di concentrare il grosso delle forze in un’unica unità pronta ad intervenire; purtroppo questo sistema era inefficace nei casi di rapide incursioni poiché l’unità aveva bisogno di almeno due-tre giorni per giungere sul posto e la zona attaccata doveva resistere da sola per quel periodo di tempo, il che non avveniva mai sia perché le forze per resistere non erano sufficienti per una difesa di alcuni giorni sia perché gli assediati si facevano prendere dal panico trattandosi di milizie cittadine impreparate sul piano militare e psicologico. Nel caso di Manfredonia ci furono anche negligenza e viltà se il Viceré fu costretto a scrivere al Carafa il 18 agosto lamentando la lentezza dei movimenti, la passività del comportamento e la perdita di prestigio: ... spero che, dopo aver fatto affluire il maggior numero di uomini possibile da ogni parte, vorrete tener fede agli impegni che il vostro nome vi impone assieme agli obblighi nei confronti di Sua Maestà mirando a recuperare la dignità perduta, scacciando il nemico dal territorio che occupa.11
L’unico elemento a giustificazione del comportamento del governatore della Capitanata era l’estrema vulnerabilità della città e del porto. In una perizia tecnico-militare del 1566 enumerando i castelli e le città fortificate lungo la costa pugliese, cioè Vieste, Manfredonia, Trani, Bari, Monopoli, Brindisi, Lecce, Gallipoli e Taranto, si parlava di Manfredonia in questi termini: 194
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Il castello e la piazza di Manfredonia sono di grandissima importanza perché si trovano presso la marina sotto la montagna di Sant’Angelo, in una insenatura che costituisce un ottimo porto dove possono rifugiarsi in assoluta tranquillità, anche in caso di burrasche, tutti i mercantili e le navi adibiti al trasporto del grano [...] Tale piazza interdice la montagna di Sant’Angelo e l’intera Puglia; disgraziatamente è estremamente debole, ed il castello anche peggio, tanto che difficilmente potrebbe resistere anche per una sola giornata [...] occorre che S. M. comandi che si innalzi al suo posto una moderna fortezza che, sporgendosi sul mare quanto più possibile, difenda il fronte a mare della città.12
Da registrare nell’occasione del sacco un curioso episodio. Nel monastero delle Clarisse di Manfredonia i Turchi rapirono una bambina di sette-otto anni, Giacometta Beccarino, orfana della madre e affidata alle cure delle suore dal padre, un alto ufficiale dell’esercito spagnolo. Portata a Costantinopoli e allevata a corte, la ragazza ora chiamata Zafira divenne la prima moglie del sultano Ibrahim il Pazzo. Qualche anno dopo, nel settembre 1644, Zafira si recò alla Mecca assieme al figlio ‘Osman di due anni ma la nave e il convoglio di scorta furono attaccati dai Cavalieri di Malta lungo il viaggio fra Rodi e Alessandria. Zafira e l’erede furono condotti a Malta dove Zafira morì sei mesi dopo senza abiurare alla sua nuova fede islamica. L’erede ‘Osman, educato nel convento dei Domenicani di Malta, si convertì, prese l’abito dei Predicatori e assunse il nome di fra’ Domenico Ottomano; per alcuni mesi del 1660 visse a Napoli, poi per quattro anni a Roma, infine a Parigi, per rientrare definitivamente a Roma nel 1668 quando gli fu affidata da papa Clemente IX una impossibile missione diplomatica a Candia, cioè invitare la Sublime Porta a metter fine al conflitto nell’isola, iniziato ventidue anni prima da Ibrahim II per punire i veneziani che avevano ospitato nelle acque dell’isola le navi dei Cavalieri di Malta dopo la cattura della sultana e dell’erede al trono. Nell’agosto 1675 fra’ Domenico Ottomano fu nominato Priore e Vicario Generale dei Domenicani a Malta dove giunse il 28 marzo 1676 mentre infuriava la peste: morì il 26 ottobre dello stesso anno a trentaquattro anni.13 A distanza di dieci anni dal sacco di Manfredonia, il 29 giugno 1630 sette fuste e due brigantini barbareschi partiti da Biserta e da Algeri presero terra ad Agropoli che, come abbiamo già visto, era stata sino a sette secoli prima un pericoloso ribat di notevole importanza. La scarsa vigilanza e la mancanza di munizioni nel castello favorirono l’incursione che fu rapida e coronata da successo. 195
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Gli attacchi continuarono nel XVIII secolo tanto che in un proclama del 15 luglio 1716 il governatore di Terra d’Otranto, Pietro Bolano y Mendoza, fu costretto a rilevare “le continue incursioni dei corsari turchi nelle marine di questa Provincia, che non cessano di tenere inquietati li naturali”, invitando la popolazione ad “armare qualche legno e mandarlo in corso in queste marine contro dei corsari”.14 L'anno dopo uno sbarco di corsari a Roca Nuova fruttava quaranta ostaggi, mettendo in serio pericolo la stessa città di Lecce. La situazione non mutò nei decenni successivi: lo stesso Giacomo Casanova rischiò di cadere nelle mani dei corsari nel 1745 durante il viaggio di ritorno ad Otranto da Corfù dove si era recato per scritturare una compagnia di comici. Se tutte le regioni italiane vivevano nel costante pericolo corsaro, le più esposte erano quelle costiere ed in particolare il meridione e le isole. Le cronache del tempo sono piene di episodi di piccola o grande entità. Le isole minori si erano a poco a poco spopolate: il loro abbandono aveva portato di conseguenza a insediamenti barbareschi o a temporanei rifugi di legni corsari. Per sottrarne l’uso si decise di ripopolarle: una di queste fu l’isola di Ustica, a nord di Palermo, ripopolata nel 1761. Con i suoi dodici chilometri di coste alquanto frastagliate, l’isola era diventata un pericoloso covo da dove i barbareschi partivano per le loro scorrerie. Sin dal 1597 il parlamento di Palermo ne aveva deciso la fortificazione al pari delle altre isole minori: ma l’inerzia burocratica aveva prevalso e non se ne era fatto nulla. Solo un secolo e mezzo dopo, il 4 aprile 1759, Carlo III di Borbone autorizzò il ripopolamento di Ustica: l’isola stava tornando a nuova vita quando nel settembre del 1762 una flotta tunisina effettuò un colpo di mano che portò alla cattura di una settantina di persone. Deportate a Tunisi, parte di loro fu riscattata solo nel 1771.15 La fine del secolo, il 1798, vide un’altra disastrosa incursione contro Carloforte, il centro principale dell’isola di San Pietro, prospiciente la costa meridionale della Sardegna. L’isola era stata ripopolata verso il 1736 per volere di Carlo Emanuele III di Savoia che aveva invitato a tale scopo oltre trecento abitanti della zona di Tabarka sulla costa tunisina: l’intento era lo stesso di Ustica, cioè l’eliminazione di un rifugio barbaresco. Con uno sviluppo costiero di circa 6 km., l’isola di San Pietro aveva a protezione un presidio di 50 uomini e 14 cannoni a Carloforte sul lato est: ma tra i tabarkini che si erano impegnati 196
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a pescare il corallo dovevano esserci elementi turbolenti legati ai loro connazionali e probabilmente disposti ad aiutarli. Nella notte del 2 settembre 1798 da una flotta tunisina di dodici legni sbarcarono trecento barbareschi che saccheggiarono l’abitato per due giorni catturandone l’intera popolazione di ottocento persone: a nulla erano valsi i legami con la patria di origine essendo ormai saltati gli equilibri di un periodo in cui l’attività bellica si accompagnava ad una collaborazione politica ed economica. La stessa cosa avvenne l’anno dopo all’isola del Giglio: questa volta pare che i barbareschi fossero algerini.
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Con il XIX secolo le incursioni turco-barbaresche presero a diminuire di intensità sia a causa di trattati fra le Reggenze africane da una parte, Napoli e la Santa Sede dall’altra, sia per il sempre più costante intervento delle marinerie da guerra occidentali con il contributo di quella statunitense operante nel Mediterraneo. E quando si verificarono delle recrudescenze si trattò di fenomeni limitati e a carattere puramente locale allo scopo di reperire vettovagliamenti e schiavi, ora chiamati ironicamente prigionieri. L’apporto statunitense fu indiretto ma efficace: durante la guerra di secessione i commercianti americani avevano perso i mercati del Mediterraneo. A guerra conclusa la riconquista fu ostacolata dalle reggenze barbaresche che catturavano tutte le navi statunitensi riducendone in schiavitù gli equipaggi. Inoltre la caduta dell’impero napoleonico e i nuovi tipi e armamenti di navi più forti e più veloci avevano dato vigore agli stati barbareschi ora in grado di inviare le loro flotte in alto mare anche d’inverno. Molte erano state le proposte per fronteggiare il pericolo: chi pensava ad una difesa attiva, cioè ad organizzare una forza militare terrestre per impedire gli sbarchi, chi a costruire navi militari di scorta ai bastimenti mercantili, chi a creare una Lega italiana. L’idea di una lega fu esposta dal Ministro di Inghilterra a Firenze al Nunzio Apostolico nel 1815: questi osservò che né Napoli, né Roma, né la Toscana, né la Sardegna sarebbero state in grado di sostenere, per lo meno in quel tempo, delle spese considerevoli. In un anonimo progetto, redatto in francese, in data 26 gennaio 1816, si parlava delle difficoltà politiche di una Lega fra Stati di cui ognuno era geloso dell’altro. Per i mezzi si contava sulle offerte dei privati: sudditi genovesi e napoletani avevano dimostrato la loro 197
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buona volontà, e si sperava anche nel contributo degli Stati non marinari. Per il comando della flotta circolava il nome di Sidney Smith che aveva dato buona prova di sé in Siria e in Egitto. Il papa avrebbe dovuto prendere l’iniziativa della Lega inviando due suoi Legati, uno nei paesi del nord, l’altro in quelli del sud per fare opera di convincimento, in altre parole si trattava di una sorta di nuova “crociata”. L’idea della Lega però non fece presa sugli uomini di governo responsabili dell’attuazione. Il Tesoriere generale la scartò senz’altro come impolitica e irrealizzabile per varie ragioni: la Lega avrebbe infatti difeso le coste pontificie e abbandonato quelle di altri paesi, avrebbe potuto servire per il Tirreno ma non per l’Adriatico dove l’unico ad avere interessi di difesa sarebbe stato il Governo pontificio dato che quello austriaco aveva da tempo stipulato la pace con gli Stati Barbareschi.16 La conclusione fu quella del compromesso, ossia ottenere una tregua mediante il versamento dei soliti tributi. A questo stato di cose non si adattò il governo degli Stati Uniti che si vide dichiarare guerra dal bey di Tripoli, Yusuf Caramanli. Alla spavalda dichiarazione gli americani risposero inviando una squadra navale al comando del commodoro Richard Dale con l’ordine di scortare e difendere i mercantili statunitensi e di bloccare nei porti la flotta tripolina. L’azione americana ebbe successo: nel 1803 la flotta fu potenziata e il nuovo commodoro Edward Preble ebbe dall’Inghilterra l’uso delle basi di Gibilterra e Malta e dal Regno di Napoli la base di Siracusa. Risultato di non facile attuazione il blocco dei porti barbareschi, fu dato al console statunitense a Tunisi l’incarico di studiare la possibilità di attaccare il bey, via terra, partendo dall’Egitto. L’8 marzo 1805 un corpo di spedizione statunitense con l’appoggio di mercenari greci, arabi e turchi si mise im marcia per Bomba e Derna che furono occupate il 25 e il 27 aprile rispettivamente: in giugno fu conclusa la pace con il bey Yusuf Caramanli. Tra i tanti punti discussi al Congresso di Vienna ci fu anche il problema turco-barbaresco: la pratica di pagare riscatti e offrire donativi alle Reggenze era diventata una palese perdita di prestigio. Interprete del generale desiderio degli Stati partecipanti al Congresso, l’Inghilterra inviò nel Mediterraneo nell’aprile 1816 una forte squadra navale al comando di Lord Exmouth che con la persuasione o le cannonate avrebbe dovuto costringere Algeri, Tripoli e Tunisi a liberare gli schiavi senza riscatto e a concludere trattati allo scopo. I bey di Tripoli e Tunisi acconsentirono, il dey di Algeri si rifiutò ma fu ridot198
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to all’obbedienza dopo un duro bombardamento. Seguirono vari trattati conclusi tra il 1816 ed il 1818 tra gli Stati italiani e le Reggenze: la situazione migliorò ma la piaga turco-barbaresca non cessò. La cattura di schiavi ed i riscatti erano la voce principale degli introiti delle Reggenze: rinunciarvi avrebbe significato la loro fine economica. Se i bey di Tripoli e Tunisi cercavano di mantenere un modus vivendi con le potenze interessate, non così agiva il dey di Algeri, poco incline ai Francesi e in rotta con il bey di Tunisi contro il quale si preparò ad una guerra nel 1827. Il contrasto con la Francia era inoltre acuito da una sorta di guerra fredda nelle relazioni commerciali: carichi di derrate da Algeri a Tolone erano spesso depredati lungo il percorso o giungevano avariati a destinazione per i costanti ritardi. Uno scontro diplomatico tra il dey ed il console francese il 27 aprile 1827 portò ad una guerra aperta che si concluse il 5 luglio 1830 con la presa di Algeri da parte dell’esercito francese: finiva così la pirateria turco-barbaresca nel Mediterraneo che per secoli aveva condizionato la vita delle popolazioni lungo i litorali della penisola e nelle isole. ***
Al problema del revival turco-barbaresco è strettamente connesso quello dell’apostasia all’Islam, in particolare l’abiura per quegli schiavi o prigionieri che tornati in patria rivelavano la loro conversione ai giudici ecclesiastici e rientravano nella fede con penitenze o pene varie. Il problema, che si era presentato su scala minore nella Sicilia dopo la conquista normanna nei confronti di musulmani battezzati per forza o per convenienza e successivamente nel sud dell’Italia sotto gli Angiò, in particolare a Lucera, si ripropose su scala più ampia nei secoli XVI-XIX. Dal punto di vista teorico il problema nasce con la creazione del tribunale dell’Inquisizione17 in Italia nel 1542 anche se ovviamente la “riconciliazione” esisteva da tempo: il caso più noto è quello di un Giacomo da Sacile detto Mammelucco, che fatto schiavo durante l’invasione turca del Friuli del 1499 e condotto in Levante rinnegò; divenuto esperto nell’uso dell’arco, gli capitò di accompagnare un ambasciatore turco a Venezia dove rimase, entrando nel 1507 al servizio della Serenissima.18 Nella maggior parte dei casi l’apostasia era avvenuta per necessi199
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tà; in altri, per opportunità, per convenienza, per caso. Gli interessati erano passati al servizio dei Turchi o dei Barbareschi per il desiderio di cariche importanti, o paghe migliori, o un trattamento meno oppressivo, o una sistemazione sociale più consona. Molti di questi convertiti, giunti in Oriente come marinai, erano passati nella flotta turca o barbaresca diventando musulmani per migliori opportunità di vita. Il problema doveva essere di vasta scala se nel 1554 l’ambasciatore Trevisano suggeriva al Senato Veneto di non far partire alcuna nave per Costantinopoli se i comandanti non rilasciassero una nota dei marinai imbarcati con l’obbligo del rientro a viaggio compiuto, vietando altresì l’imbarco a marinai sotto i sedici anni, che erano per la giovane età i più inclini a farsi turchi. Una volta ritornati in patria, i rinnegati si ritrovavano dinanzi a tribunali ecclesiastici ai quali dovevano render conto della loro apostasia: il più delle volte la loro vicenda si concludeva con l’abiura e qualche penitenza, in altri casi, anche se rari, con il carcere o la morte quando si trattava di rinnegati convinti e che avevano recato offese e torture ai loro ex correligionari. Similari sono i racconti della conversione e del rituale dell’apostasia: in tutti si nota la sensazione sgradevole della circoncisione in età adulta. C’è comunque una matrice comune di furbizia che rende la conversione una festa ma anche una sorta di pantomima. Valga per tutti il racconto di un tale Domenico Molinello, nativo di San Giorgio di Polistena in Calabria ma residente a Bitonto; catturato dai turchi durante un soggiorno a Crotone, fu portato schiavo in Montenegro e di lì a Ragusa, l’odierna Dubrovnik, dove si convertì all’Islam per convenienza. Riscattato dall’arcivescovo di quella città e ritornato in Puglia, si presentò spontaneamente alle autorità ecclesiastiche di Bitonto per fare atto di abiura: su parere favorevole del vescovo di Bitonto, la Congregazione del Sant’Uffizio in Roma accolse la dichiarazione di abiura nel settembre 1706:
Dissi al mio Padrone che volea negar la fede, e dubbitando ch’io non la facesse esteriormente mi esaminò molte volte et alla fine mi fece entrare nella Moschea de’ Turchi con farmi prima scalzare e mi portò annanti come se fusse un Altare e ivi tenuto da due Turchi per braccia, ciò è uno è il destro e l’altro il sinistro e due altri passavano annanti di me con sciable sfoderate e un altro che dicono sia il Papas Vecchio con una barba lunga mi circoncise, dopo mi fece ponere la mano dicretando un giuramento di credere solo a Dio grande e al maledetto Maomett, e fatta detta funzione mi portarono per la città vestito di scarlatto a cavallo e cinque altri similmente a cavallo e andavano gridando con sciable sfoderate alle mani, dicendo, que-
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sto è fedel Turco, crede a Dio grande e al nostro Maomett, e cossì gionti nella casa del Padrone mi tosarono il capo con lasciarmi un ciuffo in mezzo la mia testa, e per sei giorni continui si fece festa, conviti, e io magnava con essi loro, e poi mi diedero ordine che cinque volte il giorno havesse adorato Dio grande, e mi portavano alle loro moschee dove stava prima all’impiedi, poi di faccia a terra, poi all’impiedi un’altra volta con ponere tutte due le mani alle proprie orecchie a modo d’ali, e poi incrocicchiate al petto.19
Tra i casi più difficili ci fu quello di ‘Ali il ferrarese che creò problemi di natura diplomatica e di politica. Nativo di Ariano, un villaggio non lontano dal delta del Po di Goro, Francesco Guicciardo detto Guicciardino – questo il suo nome di origine – nato nella seconda metà del XVI secolo, di professione marinaio, catturato in mare, abiurò e diventò nel giro di pochi anni rais a Biserta. Noto per la sua crudeltà nei confronti dei suoi ex correligionari, al comando di tre galeoni fu catturato al largo di capo Bon nell’estate del 1624 da una flotta comandata dal marchese di Santa Cruz e portato a Palermo. Il processo iniziato presso il tribunale del Santo Uffizio il 22 giugno 1624 fu complesso poiché l’imputato non ammise mai di essere un cristiano rinnegato sostenendo di essere turco nativo di Sinope, porto dell’Anatolia settentrionale – di qui l’altro suo soprannome di ‘Ali del Mar Nero. Con l’ausilio di decine di testimoni il procuratore ebbe la prova certa che ‘Ali era nato cristiano e che aveva rinnegato senza peraltro pentirsi, chiedendo contro di lui le pene maggiori, la massima scomunica e la consegna alla giustizia e al braccio secolare: servirà di esempio. Dinanzi ai giudici e alle prove testimoniali ‘Ali, parlando sempre in turco attraverso un interprete, negò recisamente restando fermamente nella sua nascita a Sinope. Al tribunale non restò altro che estendere le indagini in quel di Ferrara: nel marzo 1626 l’inquisitore generale di Ferrara interrogò ad Ariano vari parenti stretti di Francesco Guicciardo apprendendo che il loro parente in servizio su un battello veneziano era stato catturato sedicenne nel golfo di Venezia da una galeotta turca di Biserta. Ormai c’erano le prove anche se il rais ‘Ali non confessò neppure sotto tortura: la sentenza fu inesorabile – consegna dell’imputato al braccio secolare, cioè al rogo. E qui iniziano i colpi di scena: il 18 ottobre 1627 la sentenza fu commutata in carcere a vita perché l’imputato non era reo confesso. La verità è un’altra: del processo si discusse ad alto livello a Palermo, a Madrid, a Tunisi; vari importanti personaggi, chi per un verso chi per un altro, erano interessati ad uno scambio. Il Gran Maestro dell’Ordine di Malta sperava di riscattare uno dei suoi cavalieri pri201
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gioniero a Tunisi, la Chiesa si dava da fare per uno scambio contro diciotto sacerdoti trattenuti a Tunisi, il bey di Tunisi minacciava di vendicarsi se ‘Ali non fosse stato liberato o quanto meno trattato da turco e non da rinnegato, l’arcivescovo di Palermo proponeva lo scambio con un religioso in carcere a Tunisi. La realtà è che il prigioniero non poteva essere giustiziato a causa delle rappresaglie che la sua morte avrebbe provocato da parte musulmana, ma non poteva neppure essere scambiato per le ritorsioni che ‘Ali il ferrarese o ‘Ali del mar Nero avrebbe effettuato in seguito sui cristiani da lui catturati. Altri tentativi di scambio ci furono in seguito, sempre vanificati dagli inquisitori di Palermo, sino al 1642, dopo di che se ne perdono le tracce.20 1 L. SANTORO, Le mura di Napoli, Napoli, 1984, p.97. 2 O. PASANISI, La costruzione generale delle torri marittime ordinata dalla R. Corte di Napoli nel sec. XVI, in Raccolta di studi di storia napoletana in onore di Michelangelo Schipa, Napoli, 1925, pp.423-442. 3 L. TROCCOLI VERARDI, Le torri costiere, in R. DE VITA (a cura), Castelli, torri ed opere fortificate di Puglia, Bari, Adda, 1974, pp.223-231. 4 S. BONO, I corsari barbareschi, Torino, ERI, 1964, p.197. 5 V. FAGLIA, La difesa anticorsara in Italia dal XVI secolo. Torri costiere, edifici rurali fortificati, Roma, Istituto Italiano dei Castelli, 1974, pp.12-15. 6 A. BAUSANI, L’Italia nel Kitab-ï Bahriyye di Piri Reis, Venezia, Università degli Studi, 1990, p.19. 7 Ibidem, p. 52. 8 C. CAPASSO, Barbarossa e Carlo V, in “Rivista Storica Italiana”, LXIX, 1932, pp.169-209, 304-348. 9 V. SALIERNO, I Musulmani in Puglia e in Basilicata, op. cit., pp.186-187. 10 A. NICASTRO, Relazione della presa di Manfredonia da' Turchi, s.d., pp.13-14. 11 A. LA CAVA, Il sacco turchesco di Manfredonia nel 1620, in “Archivio Storico per le Province Napoletane”, N.S. XXVI, 1940, p.77. 12 F. RUSSO, Guerra di corsa. Ragguaglio storico sulle principali incursioni turco-barbaresche in Italia e sulla sorte dei deportati tra il XVI ed il XIX secolo, Roma, Stato Maggiore dell'Esercito, Ufficio Storico, 1997, tomo I, p.186. 13 V. SALIERNO, La sultana. Giacometta Beccarino da Manfredonia. Romanzo storico, Foggia, Edizioni del Rosone, 2001. 14 A. RAELI, Contro le incursioni turche, in “Rinascenza Salentina”, I, 1933, pp.213-214.
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Indice
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Introduzione 3
La conquista araba della Sicilia (827-fine XI secolo) 19 L’Italia meridionale: gli emirati di Bari e Taranto 59 La Sicilia arabo-normanna 92
Federico II e i Saraceni di Sicilia e di Lucera 146 La riscossa turca nel XV secolo 169 Turchi e Barbareschi in Italia (secoli XVI-XIX) 180 Bibliografia 204
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