Hannah Arendt sulla «Critica del Giudizio». Le lezioni inedite di Chicago del 1964


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Hannah Arendt sulla «Critica del Giudizio». Le lezioni inedite di Chicago del 1964

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bibliot

a filo ofi a di ~ua

Serena Suppa

Hannah Arendt sulla Critica del Giudizio Con le lezioni inedite di Chicago del1964

edizioni di pagina

tio

Indice

Ringraziamenti

V

Studio monografico

Hannah Arendt sulla Critica del Giudizio Ragioni, sviluppi e criticità di un'interpretazione

Parte L Introduzione e analisi Un'ipotesi singolare L'eccezione costituita da Kant sullo sfondo del tradizionale conflitto tra filosofia e politica 3. Il giudizio riflettente come pensiero della realtà: nascita ed evoluzione di un problema 4. KantsPolitical Philosophy, 1964 4-1. La ridefinizione del politico attraverso il concetto di apparenza. p.

1.

3

3

2.

8

36 - 4.2. L'importanza del giudizio estetico e i suoi antecedenti storici, p. 50 - 4.3. Il senso comune o senso della comunità, p. 59 - 4.4. Il disinteresse della comunicazione e la comunicabilità del disinteressato, p. 67 - 4.5. Civili e barbari: la comunità dei giudicanti, p. 74 - 4.6. Il "favore" verso il mondo, p. 83 - 4-7. Dal genere umano ali' umanità, p. 88

Parte IL Rilievi della critica

s.

Rilievi filologici. Il Kant decostruito 5.1. Omissioni e rielaborazioni, p. 99 - 5.2.. L •antropologizzazione del trascendentale sullo sfondo della polis greca, p. 102. - 5.3. Confusioni concettuali e temporali, p. 106

9S

96

Indice

VI

6. Rilievi politici.L'insufficienza del paradigma esreàco

secondo R. Beinere J. Habermas

no

6.1. R. Bciner: "Kant o Aristotele?" Condizioni formali e sostanziali del giudizio, p. III - 6.2..J. Habcrmas. L'antitesi tra verità e opinione. Il rischio di infondatezza del giudizio non conoscitivo, p. u8 7. Altri rilievi. J.~F. Lyotard: la rassicurazione del bello

contro l'inquietudine e lo spaesamento del sublime. Il mancato coraggio di Hannah Arendt 8. La traiettoria arendtiana da una concezione estetica della politica a una concezione politica dell'estetica

126

132

8.1. La politica come arte della pefonnance in Vita activa, p. 133 - 8.2. L'estetismo di Hannah Arendt tra Nicc-LSChe, Kant e Medcau-Pomy, p.138

Conclusioni

145

Bibliografia

151

Nota sulla collocazione e sulla fruibilità del materiale d'archivio

160

Hannah Arendt La filosofia politica di Kant Lezioni all'Università di Chicago 1964 (testo inedito, traduzione di S. Suppa) Nota alla traduzione

165

6 ottobre 1964 [Prima lezione] 8 ottobre 1964 [Seconda lezione] 13 ottobre 1964 [Terza lezione] 15 ottobre 1964 [Quarta lezione] 20 ottobre 1964 [Quinta lezione] 22 ottobre 1964 [Sesta lezione] 27 ottobre 1964 [Settima lezione] 29 ottobre 1964 [Ottava lezione] 3 novembre 1964 [Nona lezione] 5 novembre 1964 [Decima lezione] 10 novembre 1964 [Undicesima lezione] 12 novembre 1964 [Dodicesima lezione] 17 novembre 1964 [Tredicesima lezione]

167 172 175 179 184 189

196 200 206 212 220

223 229

Indice

VII

19 novembre 1964 [ Quattordicesima lezione] 2.4 novembre 1964 [ Quindicesima lezione] 1° dicembre 1964 [Sedicesima lezione] 3 dicembre 1964 [Pensieri e citazioni finali]

Riferimenti bibliografici utilizzati da H. Arendt in Kant Politica/ Philosophy, 1964

s

2.35 2.43 2.52. 2.60

Ringraziamenti

Il presente lavoro costituisce un ampliamento e un approfondimento del lavoro svolto durante i miei anni di dottorato presso l'Università di Bari "Aldo Moro". Desidero penanto ringraziare in primo luogo il prof. Paolo Ponzio, sotto la cui guida si è svolto il mio percorso di studi fìn dalla laurea triennale, per aver favorito la possibilità di una ricerca autenticamente personale, in cui al rigore dell'indagine scientifica si è sempre affiancata la libertà delle scelte e la passione della scoperta. Desidero ringraziare profondamente il prof. Costantino Esposito, imprescindibile punto di riferimento nella mia crescita umana e intellettuale: lo ringrazio in particolare in questa sede per aver condiviso con me la fase di supervisione del lavoro prima delle stampe. Un ringraziamento va anche a due figure che, pur non avendo seguito da vicino il mio percorso di dottorato, ne hanno segnato la traiettoria in alcuni punti: mi riferisco al prof. Francesco Marrone, che in una fase iniziale di incertezza nella definizione del mio progetto di ricerca mi ha aiutato a sciogliere i dubbi e a non aver paura di "rischiare" su un'autrice così diffusamente studiata come Hannah Arendt, investendo sull'ipotesi positiva di poter ancora dire qualcosa di nuovo; mi riferisco inoltre al prof. Francesco Fistetti, importante studioso del pensiero arendtiano, per avermi offerto la sua preziosa competenza e i suoi suggerimenti, indirizzandomi verso alcune letture decisive. Sul confine tra lavoro e amicizia, desidero ringraziare il collega Antonio Lombardi, per la costante disponibilità che in questi anni mi ha mostrato nel discutere questioni di natura pratica e speculativa, e per aver contribuito in alcuni momenti ad alleggerire le fatiche del cammino e a rianimare lo spirito della ricerca, nella semplicità di una chiacchierata fra amici.

X

Ringraziamenti

Ringrazio i direttori della "Biblioteca filosofica di Quaestio", Costantino Esposito e Pasquale Porro, per aver ospitato questo lavoro nella loro prestigiosa collana. Ringrazio i miei genitori, che mi sostengono nel perseguimento della mia strada. Ringrazio infine gli amici, passati e presenti, che mi hanno farro compagnia per tratti brevi o lunghi del mio percorso, poiché a volte è proprio nel tempo apparentemente "inutile" e disimpegnato dello stare insieme che si modella e si definisce la fisionomia del proprio io e della propria "ricerca".

Studio monografico Hannah Arendt sulla Critica del Giudizio Ragioni, sviluppi e criticità di un'interpretazione

Parte prima Introduzione e analisi

Un'ipotesi singolare

1.

Nd primo libro della Dialettica trascendentale, all'interno della Critica della ragion pura, Kant così scriveva:

«Non è affatto inusuale nel linguaggio comune, come pure nella letteratura, che - tramite il paragone dei pensieri che un autore esprime circa il suo oggetto - si in, tenda un autore meglio di quanto egli stesso si sia inteso; infatti, può accadere che egli non abbia determinato sufficientemente il proprio concetto e penanto abbia parlato o anche pensato talvolta in contrapposizione alla sua stessa intenzione» 1• Circa due secoli dopo, riportando queste parole, Hannah Arendt aggiunge: «Il che, naturalmente, si applica alla stessa opera kantiana»•. Sembrerebbe quasi che, senza volerlo, Kant abbia fornito in anticipo una buona giustifica, zione per coloro che avessero voluto, in futuro, rivisitare il suo pensiero fuori dai vincoli di un canone esegetico prestabilito o di una fedeltà meramente "filologica". La lettura interpretativa offerta da Hannah Arendt è sicuramen, te uno degli esempi più significativi di un tale atteggiamento, considerando che, come già sarà noto agli studiosi arendtiani, 1' autrice riconosce a Kant dei meriti che lui stesso non avrebbe saputo di avere, e ne rilegge gli scritti, per così dire, in controluce. T aie operazione ermeneutica si inserisce in un quadro contestuale più ampio, che è connotato dall'avvenuta constatazione di una perdita. Come scrive Laura Bazzicalupo 1. I. Kant, Critica della ragion pura (A 314), a cura di C. Esposito, Bompiani, Milano 2.014,

p.m. 2..

H. Arendt, La vita della mente, traci it. di G. Zanetti, Il Mulino, Bologna 2009, p. 148.

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Studio monografico

«la frattura evidenziata dall'esperienza totalitaria, lo choc che essa induce, unpone un ripensamento; da una parte una perdita di senso delle vecchie parole, dall'altro una liberazione del senso di frammenti e immagini che il continuum tradizionale racchiudeva e tacitava. Si rende così necessario un rapporto decostruttivo, che rinvenga nei testi classici figure, parole, topoi., da ripensare in un contesto nuovo post-metafisico» 1.

È la stessa Arendt a sottolineare la fecondità del delicato punto di giuntura in cui il pensiero si trova a muoversi: proprio questa crisi (il tramonto della metafisica e della filosofia) «ci consentirebbe di guardare al passato con occhi nuovi, liberi dal fardello e dalla costrizione di qualsiasi tradizione, e di disporre perciò di un patrimonio enorme di esperienze immediate, senza essere vincolati da alcuna prescrizione sul modo di trattare simili tesori» 4 • Scrive ancora Renata Viti Cavaliere, «Leggere gli autori come se nessuno li avesse mai letti prima fu il progetto ambizioso che con spirito d'avventura la Arendt intraprese dal suo osservatorio extraeuropeo nel secondo dopoguerra, con la convinzione che occorresse aver orecchie per ascoltare finalmente il nuovo che ci parla da molto lontano» s. È nell'orizzonte di questa libera fruizione del passato, di un dialogo di pensiero mai soggetto a passaggi obbligati e traiettorie predefinite, che va collocato il tema in questione. L'audace tesi interpretativa che Hannah Arendt esprùne e sulla quale questo studio intende soffermarsi è infatti la seguente: la Critica del Giudizio di Kant è un'opera di filosofia politica. O, detto anche diversamente, la vera filosofia politica di Kant è contenuta nella Critica del Giudizio, molto più che nei cosiddetti scritti politici o nella Critica della ragion pratica. Si tratta di una tesi palesemente sui generis sulla quale, come sarà noto a molti, la critica ha già ampiamente discusso e dibattuto, anche e soprattutto per via del cruciale punto di tangenza con la questione del Giudizio, questione che abbraccia in qualche modo tutta la riflessione arendtiana e la cui trattazione esplicita avrebbe dovuto costituire l'epilogo mai compiuto de La vita della mente, ultima opera dell'autrice. Forse proprio questo carattere di "tassello mancante" o di punto non risolto, che ancora ne fa un motivo di

3. L. Bazzicalupo, // Kant di Hannah Armdt, in La filosofia politica di Kant, a cura di G. Chiodi, G. Marini, R. Gatti, Franco Angeli, Milano 2001, p. 153. 4. H. Arendt, La vita del/a mente, cit., p. 945. R. Viti Cavaliere, Critica della vita intima. Soggettivi/a e giudizio in Hannah Arendt, Guida, Napoli 2005, p. 217.

I. Introduzione e analisi

attenzione per gli studiosi, basterebbe a giustificare il fatto che si voglia o si possa tornare a parlare dell'argomento, nonostante la cospicua ed eloquente letteratura critica che ci precede; ma se si volesse cercare un ulteriore motivo per riaprire questo "fìleD, lo si potrebbe trovare nella possibilità di servirci oggi di alcuni testi inediti, che già da alcuni anni la Biblioteca del Congres, so di Washington ha reso disponibili in rete, ma che hanno meritato finora poca attenzione, rimanendo relegati nell'ambito di semplice materiale d'ar, chivio. Si tratta in effetti, in molti casi, di appunti e considerazioni personali che la Arendt annotava in preparazione delle sue lezioni, e che pur seguendo complessivamente l'andamento di una trattazione discorsiva e continuativa, riflettono anche un inevitabile carattere di provvisorietà e di disorganicità interna, come è proprio di qualsiasi testo che non sia destinato ad un utilizzo pubblico. Per altro, queste stesse pagine dattiloscritte sono il più delle volte cosparse di note aggiuntive scritte a mano o di piccoli ritagli incollati in un secondo momento, che richiedono un vero e proprio lavoro di ricostruzione grafica. Tuttavia, alcune delle "tracceD che Hannah Arendt ha lasciato in que, sci Papers meritano di essere "raccolte" dal disordine in cui sono state generate e di essere portate nella giusta luce, come forse l'autrice stessa avrebbe voluto che accadesse quando, a partire dal 1965, cominciò a depositare il suo lascito presso la Biblioteca del Congresso6• Relativamente al tema qui affrontato, una fonte non trascurabile in questo senso è costituita dal corso che Hannah Arendt tenne presso l'università di Chicago nell'autunno del 1964, intitolato Kants Politica/ Phi!.osophy7. Tale corso può essere considerato una versione precedente delle più note Lectures on Kant's Politica/ Phi!.osophy tenute dalla Arendt nel 1970 presso la New School for Social Research di New York e pubblicate postume nel 1982 dall'allievo Ronald Beiner (in Italia con il titolo di Teoria del Giudizio Politico. Lezioni sulla fi!.osofia politica di Kant) 8• Oc,

6. Gran parte del lascito arendtiano, comprendente i corsi universitari tenuti in America ma anche i dattiloscritti originali delle opere più famose, le corrispondenze private, ecc., si trova presso la Biblioteca del Congresso di Washington, nella sezione Manuscript Divisum, sotto il nome di Hannah Arendt Papers. Per informazioni più precise sulla collocazione del materiale d •archivio in genere e sulla sua disponibilità si veda la Nota in coda alla bibliografia, infta pp. 160-161. 7. Nella catalogazione degli Arendt Papers il corso si colloca nella sezione Subject File I949· I975, box s9. Il codice identificativo per la consultazione on line è il seguente: http://hdl.loc.gov/loc.mss/msoo1004-mm1056.01oo2.. 8. H. Arendt, Teoria deigiudizio politico. Lezioni sulla filosofia poutka di Kant, a cura di P. Portinaro, Il Melangolo, Genova 1005.

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Studio monografico

corre specificare che molti studiosi hanno cercato nelle lezioni del 1970 dei validi indizi che potessero servire a ricostruire o quantomeno ad abbozzare il possibile contenuto della sezione sul Giudicare con la quale Hannah Arendt si proponeva di concludere La vita della mente, ma a cui non poté nemmeno dare inizio perché stroncata da un fatale arresto cardiaco (la sera del 4 dicembre 1975). Nella postfazione al Pensare è l'autrice stessa, del resto, a indirizzare la ricerca in questa direzione, quando dichiara che 1' analisi sul Giudizio avrebbe comportato delle difficoltà dovute, in primo luogo, alla «penuria singolare delle fonti in grado di produrre una testimonianza autorevole» a riguardo, e che « si dovette aspettare la Critica delgiudizio di Kant perché tale facoltà divenisse il tema di primo piano di un pensatore di primo piano» 9• Come si legge inoltre nella nota della curatrice dell'edizione americana, Mary McCarthy, la Arendt era convinta per questo motivo (ma forse sbagliandosi) che la stesura della sezione dedicata al Giudizio le avrebbe portato via meno tempo delle altre, e che il terreno fosse stato già adeguatamente preparato dalle sue stesse lezioni su Kant. Queste indicazioni hanno naturalmente accentuato l'importanza delle Lectures del 1970, che si configurano come l'ultima parola lasciata dall'autrice in merito ad una questione, quella del giudizio, a sua volta "definitiva": la Arendt si proponeva infatti con la trattazione del Giudizio di superare l'impasse cui la avevano portata le sue riflessioni sulla volontà10 e forse, più genericamente, di ricomporre quel dualismo tra vita activa e vita contemplativa da cui la sua intera opera era segnata, un po' come Kant cercava, con la sua terza Critica, di saldare il divario tra le prime due. Alla luce di cali considerazioni, potremmo chiederci che valore abbia un corso di lezioni risalente ad una quindicina di anni prima sullo stesso tema; se abbia senso, potendo disporre di una versione più tarda e più matura (nonché più organica nella struttura) rifarsi ad uno scritto precedente che esprime presumibilmente gli stessi contenuti in maniera forse meno consapevole e più acerba. In realtà, nonostante le lezioni su Kant del 1970 si presentino decisamente più chiare e fruibili alla lettura ( anche nella loro originaria forma dattiloscritta che, appunto, ne ha permesso la pubblicazione), non è così scontato decidere per una maggiore completezza o esaustività di queste ultime solo sulla base di una collocazione più avanzata nel tempo. Alcuni riferimenti, snodi o pensieri presenti nel corso del 1964, mancano del tutto in quello sue9. H. Arendt, La vita della mente, cit., p. 310. 10. Si vedano le ultime pagine della se-Lione de La vita della mente dedicata al Volere {in pare. pp. s4s-s46).

I. Introduzione e analisi

7

cessivo, per esempio. Dovendo dare una indicazione preliminare, si potrebbe dire che nel '64 la Arendt sembri seguire il testo della terza Critica in maniera più costante e puntuale, che maggiore sia il numero dei passi citati- o almeno richiamati dalla parola "Quote" accanto al numero del paragrafo e ad alcune parole identificative - e che, in generale, prevalga una sorta di intento "illustrativo" dell'opera. Ciò potrebbe dipendere dal fatto che la Arendt stessa sentisse allora un più vivo bisogno di servirsi del testo kantiano da vicino, forse nel tentativo di trovare ulteriori conferme a quella singolare ipotesi di lettura che, pur essendosi affacciata già a partire dal 1957, era ancora in fase di elaborazione e consolidamento. Come se, in qualche modo, questi appunti di preparazione fossero per lei, prima ancora che per i suoi studenti, un modo per fermare certi concetti e metterli nero su bianco. Diversamente, il corso del 1970, pur abbondando di citazioni tratte dall'intero opus kantiano, riprende il testo della terza Critica in modo molto sporadico, e rivolge un'attenzione particolare soltanto ai paragrafi 39-40 e 41, nelle ultime pagine. Si può dire che l'argomentazione sia condotta qui in modo più libero e meno "aderente" alla fonte, forse, come abbiamo ipotizzato, in virtù di una acquisita familiarità con il tema, che permette alla Arendt di allontanarsi da un tipo di spiegazione meramente ostensivo. In ogni caso, lo studio che segue non intende appiattirsi sul piano di un semplice confronto tra i due testi, volto a rilevare differenze e analogie; piuttosto, s'intende ripercorrere la genesi, gli sviluppi e le ragioni di un'ipotesi di lettura così singolare come quella che Hannah Arendt offre sulla Critica del Giudizio di Kant, includendo le lezioni del 1964 come terreno aggiuntivo di indagine e di provocazione. Nel corso di questo tentativo sarà inevitabile imbattersi in alcuni punti salienti del pensiero arendtiano, o recuperare alcune coordinate di fondo che, dal tema in questione, sono inevitabilmente richiamate; tuttavia mi preme sottolineare che non si vuole qui condurre un lavoro "riepilogativo" o esaustivo rispetto all'intera opera di Hannah Arendt o rispetto a ciò che la sua figura ha significato intellettualmente nella storia del pensiero del Novecento. Per una ricomposizione generale dei singoli aspetti e per un quadro più completo non possiamo che rimandare alla copiosa letteratura critica già esistente", riservandoci di usare questo spazio come una sorta di lente d'ingrandimento, o di obiettivo fotografico che favorisca e riposizioni la messa a fuoco sul particolare. Di recente uscita è la monografìa di Laura Boella, Hannah Armdt, Feltrinelli, Milano ma imprescindibile rimane anche il prezioso lavoro di Simona Foni, Hannah Arendt tra filDsofia epolitica, Mondadori, Milano 2.006 (Il ed.). 11.

2.02.0,

Studio monografico

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2.

L'eccezione costituita da Kant sullo sfondo

del tradizionale conflitto tra filosofia e politica In una celebre intervista rilasciata alla televisione tedesca il 28 ottobre del 1964, il giornalista Giinter Gaus chiedeva alla Arendt se il fatto di essere una donna la portasse a vivere in modo particolare o insolito il suo ruolo nella cerchia dei filosofi. A tale domanda la Arendt rispose: «Temo di dover protestare. Io non appartengo alla cerchia dei filosofi. La mia professione, se si può considerarla tale, è la teoria politica»•~ (aggiungendo poi, per rispondere nel merito, che il fatto che la filosofia fosse genericamente considerata una prerogativa maschile non significava che tale dovesse rimanere per sempre). Nella stessa intervista, l'autrice dichiara di voler «~ardare alla politica, per così dire, con gli occhi sgombri dalla filosofia». È noto che la riflessione arendtiana si muova costantemente sul filo di questa tensione, al punto che il conflitto tra filosofia e politica diventa, nelle sue varie declinazioni, il tema portante da cui cale riflessione è innervata. Si potrebbero addurre molti esempi di luoghi arendtiani nei quali questo conflitto è esplicitamente teorizzato. Il saggio Verità e politica, già emblematico nel titolo, ne individua l'origine storica nell'antica Grecia, quando cominciarono a delinearsi due stili di vita opposti: quello del filosofo, appunto, assorto nella contemplazione delle verità eterne, immutabili, e dunque infastidito e sprezzante verso gli inutili affanni della vita terrena, e quello del cittadino, impegnato con la mutevolezza e la contingenza delle cose del mondo. Ma più precisamente, afferma la Arendt in un altro suo scritto, vi è un evento che segna l'inizio di questa ostilità, e tale evento è costituito dalla condanna a morte di Socrate: «la nostra tradizione di pensiero politico ha inizio quando, con la morte di Socrate, Platone perde ogni speranza nella vita della polis e giunge a mettere in dubbio anche i fondamenti dell'insegnamento socratico»' 3• In particolare, Platone comincia a dubitare del valore persuasivo del discorso, di quell'arte retorica che avrebbe dovuto servire a cambiare il parere dei giudici ateniesi. Da questo momento, scrive la Arendt, ha inizio la furiosa denuncia che Platone fa contro la doxa: «questa denuncia, oltre a percorrere come un filo rosso le sue opere politiche, diventa una 12.. •che cosa resta? Resta la lingua~ Una conversazione con Gunter Gaus, in H. Arendc, Antologia. Pensiero, azione e critica nell'epoca dei totalitarismi, a cura di P. Cosca, Feltrinelli, Milano 2.011, p. 9. 13. H. Arendc, Socrate, a cura di I. Possenti, Raffaello Cortina, Milano 2.01s, p. 2.s.

I. Introduzione e analisi

9

delle pietre angolari del suo concetto di verità. In Platone la verità è sem, pre intesa, anche quando la doxa non è menzionata, come l'esatto opposto dell' opinione»'4. Su quest'ultimo aspetto, decisivo per il nostro discorso, avremo modo di tornare. Ma il conflitto tra ftlosofia e politica è a tema anche nelle pagine di Vita activa dedicate all'azione: anche qui bersaglio privilegiato della Arendt è Platone, il quale avrebbe per primo divaricato il significato originario dell'agire in due direzioni, l 'archein e il prattein. Queste parole indicano, rispettivamente, il cominciare ed il portare a termi, ne, due fasi distinte dell'azione che, nell'accezione platonica, si associano a due corrispettive categorie di persone: coloro che danno inizio all'azione in quanto impartiscono l'ordine di eseguirla e coloro che a tale comando sono soggetti, e dunque compiono l'azione in quanto ne sono gli esecutori materiali. In questo modo «Platone fu il primo a introdurre la divisione fra quelli che sanno e non agiscono e quelli che agiscono e non sanno, al posto dell'antica articolazione dell'azione in principio e conclusione, così che sapere cosa fare e farlo divennero due prestazioni del tutto differenti» •s. La linea di separazione tra pensiero e azione veniva così a coincidere con la distinzione tra governanti e governati, in un'ottica secondo la quale la vita politica avrebbe dovuto conformarsi al modello dell'amministrazione domestica, orientata sul rapporto del padrone con i suoi schiavi. Concepire le cose in questi termini significava, in pratica, fare in modo che l'azione autentica non giocasse alcun ruolo negli affari umani. Il tentativo messo in atto dalla nostra tradizione di pensiero è stato infatti, secondo la Arendt, quello di ridurre l'agire alla meccanica esecuzione di un compito e, più pre, cisamente, di piegarne l'intima essenza ai processi produttivi della fabbrica, zione. Questa assimilazione coincide di fatto con un totale snaturamento dell'azione, poiché quest'ultima non rappresenta soltanto una sfera opera, tiva diversa dalle altre nella classificazione della vita activa, ma costituisce per la Arendt una vera e propria categoria ontologica, in quanto affonda le radici nell'evento originario con cui ciascun essere umano fa il proprio ingresso nel mondo come un nuovo initium: «delle tre attività [della vita activa] è l'azione che è in più stretto rapporto con la condizione umana della natalità; il cominciamento inerente alla nascita può farsi 14. lvi, p. 2.6. 15. H. Arendt, Vita activa. La comlizione umana, trad. it. di S. Finzi, Bompiani, Milano 2.004, p. 164-

Smdio monografico

IO

riconoscere nd mondo solo perché il nuovo venuto possiede la capacità di dar luogo a qualcosa di nuovo, cioè di agire» 16• O, più avanti: «il fatto che l'uomo sia capace d'azione significa che da lui ci si può attendere l'inatteso, che è in grado di compiere ciò che è infinitamente improbabile. E ciò è possibile solo perché ogni uomo è unico e con la nascita di ciascuno viene al mondo qualcosa di nuovo nella sua unicità» 17• L'agire presenta gli stessi caratteri di irriducibilità e di novità di quel primo imprevisto storico rispetto al quale ogni atto successivo è al tempo stesso espressione e rievocazione, e cioè la nascita. Per questo motivo possiede anche il carattere dell'illimitatezza, e dell'irreversibilità.L'azione non si compie mai unicamente nel suo stesso svolgimento: può essere motivata dal perseguimento di un certo scopo ma non si definisce né si esaurisce nella realizzazione dello stesso; essa procede, in qualche modo, indefinitamente, aldilà delle intenzioni del soggetto agente, e si dipana attraverso una rete di relazioni umane che ne moltiplica e ne diversifica gli effetti. Voler ridurre l'agire al fare significa, allora, cercare di tenere a freno questa imprevedibilità, di costringere in qualche modo la libertà umana (con tutti i rischi che essa comporta per il soggetto stesso che si trova a goderne) entro le maglie di un percorso già stabilito. Tornando dunque a Platone, «la divisione tra sapere e fare, così estranea ali' ambito dell'azione [... ] è esperienza di ogni giorno nella fabbricazione, i cui processi evidentemente sono divisi in due parti: in primo luogo, la percezione dell'immagine o della forma (eidos) del prodotto-che-sarà, e poi l'organizzazione dei mezzi e l'avvio dell'esecuzione» 18• Il tentativo di sostituire il fare ali' agire si evidenzia ancor meglio quando si esprime nell'autentico cuore della filosofia platonica, e cioè la dottrina delle idee. A partire dalla Repubblica le idee vengono trasformate in criteri, misure e regole di comportamento, che sono tutte variazioni o derivazioni dell'idea del bene nel senso greco della parola, cioè di "'buono per", di "'adatto a". La Arendt spiega in questo senso la scelta di Platone di considerare il buono, e non il bello, come l'idea più elevata

16. lvi, p. 8. 17. lvi, p. 12.9. 18. lvi, p. 166.

I. Introduzione e analisi

Il

che il filosofo potesse contemplare: solo così, una volta ritornato nella buia caverna degli affari umani, egli poteva disporre di un criterio con il quale guidare gli altri uomini, ovvero di «regole con cui misurare (e sotto cui sussumere) la svariata moltitudine degli atti e delle parole degli uomini con la stessa assoluta, "oggettiva" certezza da cui l'artigiano può essere guidato nel fare - e il profano nel giudicare - i letti singoli, usando un modello immutabile ed eterno, l'idea del letto in generale» 19 • «Nella Repubblica», continua la Arendt più avanti «il re,filosofo applica le idee come l'artigiano applica le sue regole e i suoi sistemi di misura; egli "fa" la sua città come lo scultore fa una statua; e nell'opera finale di Platone queste stesse idee sono diventate anche leggi che richiedono solo di divenire esecutive» 10• Nelle pagine de La vita della mente, la Arendt descrive il conflitto tra filo, sofia e politica tratteggiando le differenze "emotive" tra l'io che pensa e l'io che vuole: « Parlando in termini di tonalità [... ] lo stato emotivo dominante dell'io che pensa è la serenità, il puro godimento di un'attività che non è mai costretta a superare la resistenza della materia. Nella misura in cui tale attività è in stretta connessione col ricordo, il suo stato emotivo è incline alla melanconia - secondo Kant e Ari, sto tele, l'umore peculiare del filosofo. Lo stato emotivo dominante della Volontà è l'ansietà della tensione, che manda in rovina la tranquillità della mente, !'"animi tranquillitas" di Leibniz su cui, a suo dire, insiste ogni "filosofo serio"» 11•

Questo spiega anche alcune considerazioni che la Arendt svolge nel corso su Kant del 1970. Il bios politikos servirebbe, in definitiva, soltanto a favorire e proteggere il bios teoretikos: gli autori che, nel corso dei secoli, si sono im, pegnati con opere di filosofia politica, non lo hanno fatto per un reale amore verso la politica, ma piuttosto per un'ostilità verso di essa, o verso la condizio, ne su cui si basa, cioè la pluralità degli uomini.

«È chiaro che Platone scrisse la Repubblica per dare un fondamento alla tesi se, condo cui i filosofi dovrebbero diventare re, non per una spontanea inclinazione verso la politica ma perché così, prima di tutto, non sarebbero governati da gente peggiore di loro, e poi si instaurerebbe nella polis quella completa serenità, quella

19. Ibid. :z.o. lvi, p. 167. 2.1. H. Arendt, La vita della mente, cit., p. 353.

12.

Studio monografico

pace assoluta, che certamente costituisce la condizione più favorevole per la vira del filosofo» 12• Aristotele non seguì Platone sulla stessa linea, ma anche per lui era solo la filosofia a poter permettere agli uomini di "ttirr6v XGtlf)flV", godere della propria autosufficienza. Spinoza diceva già nel titolo di uno dei suoi trattati politici che il suo fine ultimo non era politico ma consisteva nella libertas philosophandi. E persino Hobbes che certamente era assai più vicino agli interessi politici di qualsiasi altro autore di filosofia politica, scrisse il suo Leviatano per proteggersi dai pericoli della politica e garantire pace e sicurezza nella misura dell' umanamente possibile•3. Infine, la Arendt cita le parole irriverenti e sarcastiche di Pascal: «Non ci si raffigura Platone e Aristotele se non con grandi toghe di pedanti. Erano invece persone di mondo che, come le altre, ridevano con i loro amici; e quando si sono divertiti a comporre le loro Leggi e la loro Politica, lo hanno fatto come per giuoco: era la parre meno filosofica e meno seria della loro vira, la più filosofica era di vivere in maniera semplice e tranquilla. Se scrissero di politica, lo fecero come per regolare un ospedale di pazzi; e se fecero sembiante di parlarne come di una gran cosa, fu perché sapevano che i pazzi ai quali parlavano si figuravano di essere re e imperatori. Essi entrano nei loro princìpi per moderare la loro pazzia e renderla il meno dannosa possibile»•4. Queste parole sembrano gettare un velo d'ironia sul problema, o almeno dischiudere la possibilità di guardarlo con maggiore leggerezza. In realtà, sebbene alcuni studiosi affermino che nell'ultima fase della sua vira la Arendt avesse attenuato la sua dura presa di posizione nei confronti della filosofia, tanto da riconciliarsi con essa e decidere di dedicarsi, appunto, alla stesura de La vita della mente, l'interrogazione sul rapporto tra filosofia e politica ha radici troppo profonde nel vissuto biografico dell'autrice perché si possa parlare di un suo oltrepassamento. T aie interrogazione, scrive Catherine Vallée, «nasce certamente dallo choc del 1933 e dalla leggerezza dell'adesione al nazismo da parte di Heidegger»•s. In molti dei suoi scritti (comprese le 2.2.. H. Arendc, Teoria del giudizio politico, dc., p. 36. 2.3 Cfr. ibid. 2.4. B. Pascal, Pensieri, n. 340, a cura di P. Serini, Einaudi, Torino 1962., pp. 146-147.

2s. C. Vallée, Hannah Arrodt. Socrate e la questione del totalitarismo, traci. it di F. Fistecti, Palomar, Bari 2.006, p. 93.

I. Introduzione e analisi

lezioni sulla filosofia politica di Kant, in entrambi gli anni) la Arendt riporta 1'aneddoto raccontato da Platone nel Teeteto, riguardante Talete: U filosofo, dedito a scrutare il cielo per osservare i corpi celesti, non vede il pozzo che ha davanti ai piedi e vi cade dentro, suscitando la risata di una servetta tracia che si trova per caso a passare di lì. L'episodio, ripreso anche da altri autori, è diventato nel corso della storia emblematico del rapporto tra U fìlosofo e la gente comune, o meglio del pubblico scherno a cui è sottoposto chiunque si dedichi alla ricerca di verità più alte di quelle che non siano già sotto gli occhi di tutti. Ma nella riflessione arendtiana tale episodio si colora di un significato tristemente metaforico. Scrive ancora C. Vallée: «C'è qualcosa della contadina tracia in Hannah Arendt [... ]: come possono i pensatori professionali, nelle loro costruzioni dotte e sofisticate, giungere a non vedere più quello che sta accadendo davanti ai loro occhi?» 26 • Heidegger è il filosofo che non vede davanti a sé la trappola del nazionalsocialismo, e vi sprofonda. L'aneddoto platonico sembra descrivere in termini scenici 1' avvenuto allontanamento di Hannah Arendt dal suo maestro e la maturazione di una posizione critica non più ritrattabile. Tra i molti saggi che hanno preso in esame il complicato rappono tra Hannah Arendt e Heidegger si pensi, a questo proposito, al saggio di Jacques T aminiaux, Lafil/e de Thrace et le Penseur professwnel'-7, che assume tale riferimento già nel titolo. Si comprende infine quanto potessero essere accese le parole di accusa che la Arendt riserva alla filosofia in alcuni appunti personali dell'agosto 1950: «Che cos'è la politica? La politica poggia sul dato di fatto della pluralità degli uomini [...]. Poiché si occupano sempre dell'uomo, poiché cucce le loro asserzioni sarebbero corrette quand'anche si desse o solo un uomo o solo due uomini o solo uomini identici, la filosofia e la reologia non hanno trovato una risposta valida dal punto di vista filosofico alla domanda: che cos'è la politica?» 28 • E, nel novembre dello stesso anno, si legge: «Se l'uomo è il tema della filosofia, mentre gli uomini Usoggetto della politica, allora nel totalitarismo ha luogo una vittoria della fìlosofia sulla politica - e non viceversa» 29•

2.6. lvi, p. 89. 2.7. J. T aminiaux, La fil/e de Thrace et le pmseurprofessione/, Payot, Parigi 1992. 2.8. H. Arendt, Nel deserto del pensiero, Quaderni e Diari 1950-1973, a cura di C. Marazia, Neri Pozza, Vicenza 2.007, pp. 19-2.0. 2.9. lvi, p. 43.

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Nel clima di questa condivisa avversione da parte dei filosofi nei confronti della politica la figura di Kant costituirebbe, agli occhi della Arendt, un'eccezione. A dire il vero, entrambi i corsi di lezione a lui dedicati partono da una constatazione che, di primo acchito, sembrerebbe affermare il contrario o, perlomeno, non evidenziare alcuna differenza in positivo. La Arendt comincia infatti dicendo che «Kant non ha mai scritto una filosofia politica», al contrario di altri autori. Ma questa constatazione (che di per sé sarebbe già piuttosto discutibile per uno studioso kantiano) è immediatamente controbilanciata, nel 1964, dalla seguente: «la politica non costituiva del resto un interesse centrale per questi filosofi. Pascal ne parla come di un insieme di regole per un ospedale di matti, qualcosa con cui divertirsi» 30• O come ancora si legge nella terza delle lezioni del 1970: «Certo, altri filosofi fecero quello che Kant non fece: scrissero delle filosofie politiche. Ma questo non significa che essi ne avessero una più alta opinione o che i problemi politici stessero al centro delle loro filosofie» 3'. Gli esempi addotti dalla Arendt a questo proposito sono quelli che abbiamo poc'anzi menzionato. Si potrebbe dire dunque che la Arendt privi i cosiddetti scritti politici kantiani del loro valore dichiarato per riaccreditare, come in una transazione economica, lo stesso valore ad un'opera che invece non ha nei suoi propositi nulla a che fare con la politica. Secondo 1' autrice lo stesso Kant non doveva prendere troppo sul serio la parte espressamente politica del suo pensiero, se pensiamo che per uno di questi scritti, e il più importante di essi forse, scelse un titolo volutamente ironico: Per la pace Perpetua era infatti 1' iscrizione satirica che com pariva sull'insegna di un' osteria olandese, e che alludeva al cimitero31 • La Arendt cita poi il parere negativo di Schopenhauer in merito alla Dottrina del diritto (Prima parte della Meta.fisica dei costumi), e aggiunge: «Il concetto di legge riveste una grande importanza nella filosofia pratica kantiana, dove l'uomo è concepito come un essere legislatore. Ma se vogliamo studiare la filosofia del diritto in generale, dobbiamo rivolgerci non a Kant, ma a Pufendorff o a Grozio o a Montesquieu» ll.

30. Prima lezione, si veda infra p. 167. 31. H. Arendt, 1roria del giudizio politico, cit., p. 36. 32. Cfr. ivi, pp. 18 e 80. LaArendt riprende l'indicazione fornita dallo stesso Kant ali' inizio

del suo saggio (Perla pace perpetua. Un progettofilosofico dihmnanuel Kant in Scritti di storia, poutica e diritto, a cura di F. Gonnclli, Later.la, Roma-Bari 2009, p. 163). 33. lvi, p. 18.

I. Introduzione e analisi

IS

Il tentativo di ridimensionare il Kant politico tradizionalmente inteso è una mossa certamente utile alla Arendt per sostenere la sua ipotesi. Lascian, do per il momento da parte i rilievi della critica su quelle che possono essere state anche le evidenti forzature messe in atto dall'autrice per attuare questo "sbilanciamento", vorrei rifarmi in questo frangente a quanto affermato da Pa, trick Riley nel saggio Hannah Arendt on Kant, Truth and Politics. La Arendt potrebbe anche avere ragione nel ritenere che la Critica del Giudizio sia indi, spensabile per comprendere a pieno la filosofia politica kantiana, scrive Riley. Ma è certamente in torto nel pensare che la politica di Kant sia in qualche modo "nascosta" all'interno della sua nozione di opinione "allargata"i4 e ge, neralizzata, in riferimento al giudizio estetico. «La politica di Kant è infatti tutto fuorché nascosta: essa sostiene apertamente la pace eterna e il repubblicanesimo universale come approssimazione 1($1..(e al regno dei fini. Nelle sue Lectures on Kant's Politica! Philosophy - come anche nel precedente sa~o Verità e politica - la Arendt lavora per portare alla luce una "vera" politica kantiana che, in realtà, è ben esposta alla pubblica luce dei riflettori da circa duesecoli»is. Alla luce di quanto detto si potrebbe considerare l'argomentazione con, dotta dalla Arendt come internamente articolata in una pars destruens e in una pars construens: nella prima, l'autrice s'impegna a spiegare i motivi per i quali la vera filosofia politica di Kant non può risiedere né nella suadottri, na morale né tanto meno negli scritti di filosofia della storia (o di diritto); nella seconda introduce ed esamina gli elementi della Critica del Giudizio estetico per i quali sarebbe proprio quest'ultima ad avere una valenza "po, litica". Queste due fasi vengono spesso a compenetrarsi, ma si può dire che corrispondano anche ad un ordine consequenziale, con più evidenza, forse, nel testo del 1964. La discussione del tema in oggetto cercherà di seguire lo stesso tipo di percorso. Non sono state però ancora sufficientemente chiarite le ragioni della pre, ferenza che Hannah Arendt accorda a Kant. Nel dialogo riportato in Cosa

34. «Erweiterter Denkungsart», il largo modo di pensare di cui si parla nel§ 40 della Critica del Gjudizio e su cui la Arendt ha costruito una parte consistente della sua interpretazione. 3s. P. Riley, Hannah Armdt on Kant, Truth andPoutics, in «Political Studios», voi. 3s, n. 3, 1987, p. 379 (traduzione mia).

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resta? Resta la lingua, il giornalista chiede alla Arendt il motivo della sua scelta di studi universitari in filosofia presso le città di Marburgo, Heidelberg e Friburgo, con i professori Heidegger, Bultmann eJaspers. Lei risponde: «"Beh, sa che le dico, me lo sono sempre chiesto anch'io! Posso solo dirle che ho sempre saputo che avrei studiato filosofia. Sin dall'età di quattordici anni". "Perché?". "Avevo letto Kant"» 36• Si tratta, dunque, di una predilezione piuttosto precoce, forse originariamente anche un po' istintiva, che va specitìcandosi nel corso del tempo secondo caratteristiche più precise. Una iniziale espressione di "stima" nei confronti di Kant è presente nello scritto What is Existenz Philosophy? (1946) che rappresenta il primo tentativo della Arendt di scrivere di filosofia in inglese, e anche l'impresa un po' azzardata di « passare in rassegna gli sviluppi della filosofia tedesca da Kant a Hegel, nei termini della loro rilevanza per Husserl, Jaspers e Heidegger» 37• Secondo Elisabeth Young-Bruehl «si trattava di un tour de farce, e il risultato era talmente ellittico e sovraccarico da essere quasi impenetrabile per il lettore comune» i8• Ma assieme al suo carattere un po' acerbo, What is Existenz Philosophy? rappresenta anche «la prima presa di posizione, decisa ed ardita, nei confronti della tìlosotìa occidentale, considerata come un'unica tradizione omogenea risalente a Parmenide, e caratterizzata dal fatto di non aver mai dubitato del fatto che l'essere e il pensiero sono identici»i9. La filosofia dell'esistenza costituirebbe, rispetto a questa tradizione, un punto di rottura. La modernità stessa prende avvio secondo la Arendt dal riconoscimento che il che cosa non è mai in grado di spiegare il che, «comincia con il terribile choc di una realtà vuota in sé» 40• E poiché l' essentia non ha più nulla a che fare con l 'existentia, «la filosofia moderna si allontana dal modello delle scienze che cercano il che cosa degli enti» 4 ', e comincia a riflettere, piuttosto, su quelle che potremmo definire 36. H. Arendt, Antologia. Pensiero, azione e critica ne/I 'epoca dei totalitarismi, cit., p. 9. 37. E. Young-Bruehl, Hannah Arendt. Una biografia, traci it. di D. Me-Lzacapa, Bollati Boringhieri, Torino 2006, p. 257.

38.lbid. 39. S. Maletta, Hannah Arendt: unafilosofia della cultura, in H. Arendt, Checos 'è lafilosofia de/J'esistenza?,a cura di S. Maletta,Jaca Book,Milano 2009, p. 9. 40. H. Arendt, Che cos'è la.filosofia de/l'esistenza?, cit., p. 53.

41. lvi, p. 54- Quando la Arendt parla qui di modernità o di filosofia moderna non sta evidentemente indicando la filosofia che si sviluppa a partire dal XVII secolo (e sulla quale il modello scientifico esercita, al contrario, un grosso ascendente), ma la filosofia che ha inizio

I. Introduzione e analisi

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con Jaspers le situazioni-limite: «la morte, la colpa, il destino, il caso, poiché in tutte queste esperienze la realtà si mostra inevitabile, irriducibile al pensiero» 4 1 • Nel resoconto arendtiano, il primo ad utilizzare la parola esistenza in senso moderno sarebbe stato Schellingu, mal 'unità di essere e pensiero, che presuppone la coincidenza prestabilita di essenza ed esistenza, «cioè che tutto ciò che può essere pensato e che tutto ciò che esiste, grazie alla sua conoscibilità, deve essere razionale» 44, è stata messa in crisi per la prima volta da Kant. La Arendt lo definisce in questa sede «il padre vero, benché nascosto, della filosofia moderna, il quale ne è rimasto finora il segreto sovrano» 45. Assieme all'introduzione dei giudizi sintetici a priori, che esprimono la possibilità di definire un oggetto oltrepassando la sua natura meramente intrinseca e concettuale, il passo più decisivo è costituito, in questo senso, dalla confutazione della prova ontologica dell'esistenza di Dio. Com'è noto infatti, per Kant non può essere ritenuta valida la prova a priori cartesiana, riconducibile a Sane' Anselmo, secondo cui Dio in quanto essere perfetto e non mancante di alcun attributo debba per ciò stesso essere pensato come esistente.L'esistenza non è da considerarsi come un predicato inerente alla natura dell'oggetto e, reversibilmente, la pensabilità di un oggetto nella sua perfezione non ci dice nulla riguardo la sua esistenza reale. Quello che si verifica con Kant è secondo la Arendt un rivoluzionamento dell'antico concetto di essere. Anche Cartesio, prima di lui, si era posto la questione della realtà in senso moderno, ovvero domandandosi se l'essere in quanto tale è, ma vi aveva risposto in modo del tutto tradizionale. Il cogito ergo sum infatti, come già aveva osservato Nietzsche, non prova l'esistenza dell'ego cogitam ma tutt'al più quella del cogitare. Come scrive S. Forti, la grandezza di Kant viene legata già in questo saggio al suo essere eccentrica rispetto alla dinamica egemonica della tradizione metafìsica46 • « Quasi fosse l'iniziatore segreto dell'esistenzialismo, il pensiero kantiano viene ritratto nella sua opera di distruzione della certezza secondo

nella prima metà dell'Ottocento, come mostra il riferimento esplicito ad autori quali Kierkegaard o Schelling. 42. lvi, pp. 53-5443. Cfr. ivi, p. 53. 44. lvi, p. 54. 45. Jbid.

46. Cfr. S. Forti, Hannah Arendt tra filosofia e politica, cit., p. 46.

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cui ogni cosa pensabile è anche esistente e ogni cosa esistente, perché cono, scibile, è anche razionale» 47_ Posto che la Arendt si muova a partire da una conoscenza profonda del pensiero di Kant e dunque da presupposti storicamente veritieri, il profilo che ne tracciasi delinea già in questa fase con accenti e sfuma cure molto personali: non è del cucco usuale, in una narrazione scorico,filosofica, accostare Kant alla filosofia dell'esistenza. L'impressione che si ha, sostiene ancora S. For, ti, è che sottesa a rutta l'operazione ermeneutica arendtiana vi sia la volontà dell'autrice di restituirci un'immagine della filosofia di Kant emendata dei suoi aspetti universalistici: «Si potrebbe quasi dire: non un Kant pre,hegeliano, ancora ignaro della potenza del negativo, ma un Kant post,hegeliano, o addirittura post,mecafisico che, quasi fosse passato anraverso la fìlosofìa dell'esistenza, si volge a riflettere sulla fìnicu, dine del nostro esserci e sull 'incrascendibilicà della coappartenenza di uomo e mondo»48• Nell'ultima fase della produzione arendtiana, la posizione di debito nei confronti di Kant si definisce esplicitamente secondo due linee: accanto alla scoperta della facoltà del giudizio, cui la Arendt accenna ne La vita della mente senza poterne poi veramente parlare, fondamentale è ritenuta la distinzione era la ragione come organo del pensiero e l'intelletto come organo della conoscenza. Quest'ultimo aspetto si era imposto agli occhi della Arendt già anni prima, sul terreno di formulazione di una delle sue espressioni più celebri e al tempo stesso più contestate, quella di "banalità del male". Definire banale la lucida pianificazione di uno sterminio orga, nizzato poté apparire, in prima battuta, non solo inappropriato e para, dossale, ma anche profondamente irresponsabile e offensivo nei confronti delle vittime. Ma com'è noto la Arendt non intendeva alludere, con questa espressione, ad una minore gravità dell'accaduto o delle relative colpe, in, dividuali e collettive; intendeva piuttosto dare voce a quel fenomeno di cui lei stessa si era trovata ad essere spettatrice quando, nel 1961, aveva assistito al processo contro Adolf Eichmann come inviata speciale del New Yorker, e aveva potuto constatare personalmente l'assoluta incapacità di pensare da parte dell'imputato. Eichmann non era un genio del male, uno di quei

47. lbid.

48. lvi, p. 32.9.

I. Introduzione e analisi

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personaggi mostruosi che la letteratura ci ha abituato a conoscere e ad imJ maginare, ma un grigio burocrate, che si era reso colpevole di uno dei più grandi crimini contro l'umanità con la stessa freddezza con cui si svolge una pratica d'ufficio, senza mai sporcarsi le mani con il sangue delle proJ prie vittime e senza mai rendersi davvero conto, probabilmente, di ciò che stava facendo. Colpita da tale sconcertante evidenza, la Arendt cominciò ad interrogarsi sulla possibile connessione tra la nostra capacità di pensare e l'attitudine a compiere il male e, conseguentemente, sulla natura stessa del pensiero. Questa indagine poteva, allo stesso tempo, chiarire meglio I' origiJ ne di un concetto che altrimenti rischiava di risuonare ambiguo. Come lei stessa scrive in Pensiero e riflessioni morali (1971), saggio che anticipa alcuni importanti contenuti de La vita della mente: «In altri termini, e per usare il linguaggio kantiano, dopo essere stata colpita da un fenomeno - la quaestio facti - che, volente o nolente, mi aveva permesso di afferrare un concetto (la banalità del male), non ho potuto evitare di affrontare

anche la quaestio iuris e di chiedermi con quale diritto possedessi questo concetto e me ne servissi»•9. La differenza tra Vemunfte Verstand, cruciale per l'impresa di chi voglia approfondire la natura del pensiero, si apre a partire dalla constatazione del famoso "scandalo della ragione": «il fatto cioè che la nostra mente non è in grado di pervenire ad una conoscenza certa e verificabile riguardo a mateJ rie e questioni sulle quali, tuttavia, non può fare a meno di pensare»~ Per Kant, continua la Arendt, simili questioni, quelle cioè di cui si occupa il puro pensiero, erano circoscritte a ciò che oggi chiamiamo le questioni ultime: Dio, la libertà, l'immortalità. La distinzione delle due facoltà, ragione ed intelletto, coincide con la distinzione tra le due attività spirituali del pensare e del conoscere, cui la Arendt fa corrispondere, ne La vita della mente, anche due diversi ordini di interesse, il significato nel primo caso, la verità nel seJ condo. Nonostante Kant insistesse sulla necessità di questa distinzione, egli stesso era ancora, secondo la Arendt, troppo vincolato al peso della tradiJ zione metafisica, e dunque si limitò a considerare ciò che ne costituiva I' ogJ getto principale, «quei temi, cioè, di cui si potesse provare l'inconoscibiliJ 0 •

49. H. Arendt, Pensiero e riflessioni morali, in La disobbedienza dvi/e e altri saggi, a cura di T. Serra, Giuffrè, Milano 1985,p. 117. so. H. Arendt, La vita della mente, cit., p. 9s.

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2.0

tà» s•. Ma in realtà «il bisogno di riflettere dell'uomo abbraccia praticamente tutto quanto gli accade, le cose che conosce non meno delle cose che non potrà mai conoscere» sz. La distinzione tra pensiero e conoscenza non riguarda, cioè, soltanto le cosiddette questioni ultime. Ancora nello scritto Pensiero e Riflessioni morali la Arendt scrive: «io ritengo che l'uomo sia portato a pensare e, se non pressato da più urgenti esigenze di vita, abbia addirittura un bisogno (il kantiano bisogno della ragione) di pensare oltre i limiti della conoscenza, di usare le sue capacità intellettuali per qualcosa di più che non come semplice strumento per conoscere e fare» si. Ciò che prevalentemente differenzia il pensiero dalla conoscenza è infatti quella che potremmo definire una sorta di inutilità: il pensiero non cerca necessariamente un risultato, un punto d'approdo.L'attività conoscitiva, per quanto possa anch'essa dirsi in qualche modo inestinguibile, data l'immensità dell'ignoto, lascia però dietro di sé dei prodotti: quel «tesoro crescente di conoscenze che viene fissato e immagazzinato da ogni civiltà come parte essenziale del suo mondo»s4. L'attività del conoscere, scrive la Arendt, è un'attività di costruzione del mondo come lo è quella della costruzione di case. L'inclinazione o il bisogno di pensare, invece, non produce niente di tangibile, e può trovare soddisfacimento solo nell'atto stesso del pensare. «Il grande ostacolo che la ragione ( Vernunft) frappone al suo stesso cammino sorge da parte dell'intelletto (Verstand) e dei criteri completamente giustificati che esso ha stabilito per i propri scopi» ss, scrive la Arendt ne La vita della mente. E il motivo per cui né lo stesso Kant né i suoi successori diedero poi particolare attenzione al pensare come attività e ancor meno alle esperienze dell'io pensante è che essi esigevano dal loro lavoro lo stesso genere di risultati e di evidenze che si possono pretendere da un'attività cognitiva. È proprio questo, secondo la Arendt, l'errore di fondo anteriore a tutte le fallacie metafisiche: «interpretare il significato secondo il modello della verità» s6

51. lvi, p. 96. 52.. Jbid.

53. H. Arendt,Penskro e riflessioni morali, cit., pp. 12.1-12.2.. 54. lvi, p. 12.2.. 55. H. Arendt, La vita tklla mente, cit., pp. 96-97. 56. lvi, p. 97.

I. Introduzione e analisi

2.1

(nell'accezione qui intesa, secondo il modello di una certezza raggiungibile e misurabile, come lo sarebbe il prodotto di un'attività di ricerca scienti, fica). Allo stesso tempo, il bisogno di significato è in qualche modo indispensa, bile anche per la ricerca della verità. Se gli uomini cessassero infatti di porsi delle domande "inutili", ovvero delle domande a cui non si può rispondere, perderebbero probabilmente non solo l'attitudine a generare quegli enti di pensiero che chiamiamo opere d'arte, ma anche la capacità di porre tutte le interrogazioni suscettibili di risposta su cui si fonda ogni civiltà. «In que, sto senso, la ragione costituisce la condizione a priori dcli' intelletto e del sapere» s7_ Possiamo ben comprendere che allora la scoperta della ragione come facol, tà del pensiero in quanto distinto dalla conoscenza costituisce per la Arendt una conquista molto più estesa e imponante di quanto lo stesso Kant non potesse intendere. «Egli non sembra mai essersi reso pienamente conto di aver emancipato la ra, gione e il pensiero, di aver giustificato questa facoltà e la sua attività sebbene non potessero vantare nessun risultato positivo. Come si è visto, egli affermò di aver ritenuto necessario rigettare la conoscenza [...] per far posto alla fede: ciò che aveva rigettato era in realtà la conoscenza di cose inconoscibili, e non aveva fatto posto alla fede bensì al pensiero» s8 • Secondo alcuni studiosi, la stessa struttura tripartita de La vita della mente, articolata in Pensare, Volere e Giudicare ricalcherebbe, in modo non dichiara, to, la suddivisione delle tre Critiche kantiane, a conferma del debito intellet, tuale riconosciuto dall'autrice. Nell'ampio raggio di questa preferenza, manifestatasi in forma origina, le fin dagli esordi, l'interesse verso la terza Critica subentra in un punto preciso del percorso arendtiano, orientando in un senso specifico e forse inaspettato le riflessioni precedenti, già fortemente legate al tema del gin, dizio. Volendo tracciare una sona di genealogia del problema e dei suoi sviluppi, sarà necessario tenere a mente l' imponante monito che Hannah Arendt ha espresso nella premessa ai saggi raccolti in Tra passato efoturo e da cui lei stessa

57. lvi,p. 146. 58. lvi, p. 148.

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si lasciava guidare: l'idea cioè «che il pensiero nasca dai fatti dell'esperienza viva e debba rimanervi legato come agli unici segni indicatori validi per la propria ispirazione»w. La riflessione arendtiana si muove infatti sull'onda del contraccolpo della realtà, e la domanda sulla natura del giudizio, che abbraccia l'intero arco produttivo dell'autrice, sorge certamente a partire dalle analisi sul fenomeno totalitario. Come già anticipato non si potrà qui dar conto della profondità della trattazione arendtiana nel suo complesso, e nemmeno assumere il giudizio, in quanto tale, come oggetto di discussione (poiché questo richiederebbe altre diramazioni del discorso). Pur tenendo presente un quadro contestuale dal quale è impossibile prescindere e di cui, anzi, è utile richiamare alcuni aspetti, il nostro tentativo sarà fondamentalmente quello di "registrare" i punti in cui tale assetto filosofico incontra il pensiero kantiano e lo "feconda", per così dire, in modo inedito.

3. Il giudizio riflettente come pensiero della realtà:

nascita ed evoluzione di un problema Ne Le origi,ni del totalitarismo sono delineati i tratti e le caratteristiche di una forma di governo del tutto nuova, non paragonabile alle precedenti. L' elemento identificativo più importante che laArendt individua e dal quale tutto il resto scaturisce, in qualche modo, come conseguenza, sta nel fatto che il regime totalitario pretenda di andare alle fonti dell'autorità da cui il diritto positivo ha sempre ricevuto la sua legittimazione, e che dunque, lungi dall' essere arbitrario o senza legge, esso si consideri più ossequioso nei confronti di queste forze sovrumane rispetto a qualsiasi precedente governo; che lungi dall'esercitare il potere nell'interesse di un uomo solo, sia pronto a sacrificare gli interessi vitali immediati di chiunque ali• attuazione di quella che considera la legge della storia o della natura 6°. « La sua noncuranza per il diritto positivo pretende di essere una forma superiore di legittimità che, ispirandosi alle fonti, può fare a meno della meschina legalità [... ]. Disprezzando la legalità il regime totalitario pretende di attuare la legge della

59. H. Arendt, Tm passato efoturo, trad. it. di T. Gargiulo, Garlallti, Milano 2.009, p. 38. 60. Cfr. H. Arendt, Le origini del totalitarismo, trad. it. di A. Guadagnin, Einaudi, Torino 2.004, p. 632..

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storia o della natura senza tradurla in principi di giusto e ingiusto per il comportamento individuale» 61 • Gli stessi concetti di colpevolezza e innocenza, dice più avanti la Arendt, perdono il loro significato, perché colpevole è chi è di ostacolo al processo naturale o storico6 ~. Se in una fase iniziale dunque la dittatura totalitaria potrebbe mostrare aspetti simili alle antiche forme di dispotismo o alla tirannide, essa presenta in realtà una natura propria e irriducibile al passato. Nello stesso modo, tragicamente insolito è il progetto di uno sterminio organizzato. La nuova tipologia di criminali che fa il suo ingresso nella storia è aldilà persino della solidarietà derivante dalla consapevolezza della peccabilità umana, ed il male perpetrato, che la Arendt qui definisce ancora "male assoluto" (o "male radicale", riprendendo un'espressione di Kant) è "impunibile" e "imperdonabile", poiché sfugge ai tradizionali criteri con i quali il male stesso, benché non giustificabile, poteva essere fìno a questo momento almeno compreso o riportato entro i limiti di una spiegazione antropologica. È in questo contesto che comincia ad affacciarsi il problema del giudizio. Lo si può intravedere, nel suo sorgere, in queste parole: «Non abbiamo nulla a cui ricorrere per comprendere un fenomeno che ci sta di fronte con la sua mostruosa realtà e demolisce tutti i criteri di giudizio da noi conosciuti. Un'unica cosa sembra certa: possiamo dire che il male radicale è comparso nel contesto di un sistema in cui tutti gli uomini sono diventati egualmente superflui» 6 3. Sembrerebbe questa una constatazione fattuale e quasi rassegnata, sebbene lo stesso tentativo arendtiano di entrare nel fenomeno totalitario e sviscerarne i presupposti esprima di per sé quella volontà critica che si sottrae ad ogni rassegnazione. Si consideri, a conferma di ciò, che la Arendt conclude le sue riflessioni sul totalitarismo con il riferimento alla celebre frase di Agostino, esemplificativa dell'essenza stessa della libertà umana: initium ut esset creatus est homo 64, volendo intendere che, finché permane la possibilità di un nuovo 61. Ibid. 62. Cfr. ivi, p. 636. 63. lvi, p. 629.

64- La frase «Initium utesset creatusest homo.ante quem nullus fuit»,che ricorre in gran parte degli scritti arendtiani, è tratta dal De civitate Dei 12, 20.

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inizio, custodito nella nascita di ogni uomo, nessuna vittoria del male potrà mai davvero dirsi defìnitiva. Questi due aspetti, ovvero l'oggettiva situazione di spossessamento dei criteri usuali di giudizio e valutazione della realtà e, dall'altro lato, la possibilità di non soccombere alla devastazione proprio in virtù di un principio oncologico che ci rende sempre "nuovi" e dunque suscettibili di cominciamento, si trovano ad essere uniti in modo ancora più esplicito in un saggio pubblicato un paio di anni dopo, Understanding and Politic/' 5: «Anche se abbiamo perso i metri con cui misurare e le regole sotto cui sussumere il particolare, un essere la cui essenza è di essere un inizio può avere in sé stesso abbastanza originalità per comprendere senza categorie preconcette e per giudicare senza quell'insieme di regole consuetudinarie che costituisce la moralità» 66• Aldilà della posizione maggiormente fìduciosa, ciò che trapela da queste poche righe è soprattutto l'evidenza di un passaggio, ancora non compiuto forse ma certamente già in atto, dall'assunzione di un dato fattuale, di per sé negativo, all'individuazione del problema che cale dato fattuale pone. Si potrebbe, infatti, porre la cosa in forma di domanda, e suonerebbe così: è possibile rapportarsi ad un evento o ad un dato della realtà senza disporre di una categoria o uno schema anteriore entro il quale cale dato vada ricondotto? Siamo in grado di stare di fronte al "nuovo" che s'impone, senza tentare di ridurlo al già noto? Cosa succederebbe, infatti, se il già noto si rivelasse insuffìciente e inadeguato rispetto ai colpi inattesi della realtà? Di quali strumenti disponiamo per fronteggiare questa perdita? L '"inatteso" è, nel campo appena delineato, l'indicibile catastrofe (il male che la collera non può vendicare, la carità sopportare, l'amicizia perdonare, la legge punire) 67, ma tale catastrofe è a sua volta l'esito del folle tentativo umano di subordinare la politica e la stessa vita degli uomini ad un disegno superiore, ad una logica sussuntiva. Così il totalitarismo è l'oggetto per il quale si rende necessario un approccio di comprensione nuovo, ma è al tempo stesso l'esempio tragico di

6s. H. Arendt, Understandingand Politics, in «Partisan Review», voi. 2.0, n. 4, 1953, pp. 377-392.. 66. H. Arendt, Comprensione e politica, in La disobbedienza civile e altri saggi, cit., p. 109. 67. Cfi-. H. Arendt, Le origini dei totalitarismo, cit., p. 62.8.

I. Introduzione e analisi

ciò che accade quando la logica dell'idea, altrimenti detta ideologia, ingloba in sé la particolarità del reale e ne fa un proprio strumento di verifica e di attuazione. Le parole scritte nel 1953, in particolare là dove la Arendt menziona le « regole sotto cui sussumere il particolare» (rules under which to subsume the particular), attestandone l'avvenuta perdita, richiamano più da vicino, rispetto al 1951, l'impostazione kantiana del problema, ovvero l'introduzione di un tipo di giudizio che possa fare a meno delle regole sussuntive, qual è appunto il caso del giudizio riflettente in quanto distinto dal determinante. Si potrebbe notare, inoltre, che sempre in quest'ultimo stralcio la Arendt utilizza apertamente la parola "giudicare" 68 , assente nella precedente citazione tratta da Le origini del totalitarismo, dove anche l'espressione "criteri di giudizio", in realtà, traduce in italiano il più generico "standards" inglese (e dunque non vi è un vero e proprio riferimento al giudizio nel testo originale) 6 9. È il caso allora forse di riprendere alcuni passaggi dell'Introduzione alla terza Critica, per chiarire di cosa si stia parlando. « ll giudizio è in genere la facoltà di pensare il particolare come contenuto nell' universale. Se è dato l'universale (la regola, il principio, la legge), il Giudizio che opera la sussunzione del particolare [...] è determinante. Se è dato invece soltanto il particolare, e il Giudizio deve trovare l'Universale, esso è semplicemente riflettente» 70•

Il giudizio determinante segue le leggi trascendentali universali date dall' intelletto, e per questo è soltanto sussuntivo: «la legge gli è prescritta a priori, e così esso non ha bisogno di pensare da sé ad una legge per poter sottoporre all'universale il particolare della natura» 7'. Tuttavia leleggi dell'intelletto non consentono, per così dire, una copertura totale, rispetto alla molteplicità delle forme esistenti in natura e delle loro variazioni; queste rimangono indeterminate poiché le leggi fornite a priori dall'intelletto puro «non riguardano se non 68. «A being whose essence is beginning may have enough of origin within himself to understand without preconceived categories and to judge without che set of costumary rules which is morality». 69. « We actually have nothing to fai) back in order to understand a phenomenon that nevertheless confronts us with is overpowering reality and breaks down ali standards we know». 70. I. Kant, Critica del Giudizio (Introduzione, sezione IV), trad. it. di A. Gargiulo, introduzione di P. D'Angelo, LaterLa, Roma-Bari 1997, pp. 27-29. 71. lvi, p. 29.

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2.6

la possibilità di una natura (come oggetto dei sensi) in generale»7 1 • Dovranno esservi allora delle leggi empiriche che, pur rimanendo contingenti dal punto di vista dell'intelletto, possano risultare necessarie (e dunque essere chiamate "leggi" a ragion veduta) secondo un principio, a noi sconosciuto, di unità del molteplice. Il giudizio riflettente dovrà trovare da sé questo principio, senza poterlo ricavare dall'esperienza (poiché deve fondare esso stesso 1'unità di tutti i principi empirici) e senza poterlo ricevere dall'intelletto, poiché altrimenti saremmo ancora nell'ambito della determinazione. Al tempo stesso, una volta trovato, questo principio non può essere realmente imposto alla natura ma solo "supposto". Le leggi particolari empiriche dovranno essere considerate secondo un'unità, «quale avrebbe potuto stabilire un intelletto (quand'anche non il nostro) a vantaggio della nostra facoltà di conoscere, per rendere possibile un sistema dell'esperienza secondo particolari leggi della natura» 73• Non è necessario ammettere l'esistenza reale di un cale intelletto "ordinatore", poiché questo principio serve solo per riflettere, e non per determinare, e «per tal modo la facoltà del giudizio dà a sé stessa, e non alla natura, una legge» 74 . Il principio di cui si parla è il principio della fìnalicà, un particolare concetto a priori che ha la sua origine soltanto nel giudizio riflettente, e che non appartiene propriamente né alla natura né alla libertà. Nell'autunno del 1964la Arendt tiene il suo primo corso universitario sulla Critica del Giudizio. Nello stesso anno, qualche mese prima, viene pubblicato un articolo (Persona! Responsability under dictatorship, in « The Listener») nel quale le domande che già si erano affacciate negli scritti precedenti, quasi come ospiti incerte di un contesto più ampio che le incorporava, escono allo scoperto: «Come si fa a pensare, o meglio come si fa a giudicare, senza basarsi su schemi preconcetti, ossia senza affidarsi a norme e regole generali sotto le quali sussumere i diversi casi con i quali veniamo confrontati? Per dirlo in altro modo: cosa resta della nostra facoltà di giudizio quando ci scontriamo con fatti che sfuggono ai nostri tradizionali standard di giudizio, con eventi per i quali non ci sono precedenti, con fatti ed eventi che non sono previsti in alcun modo dalle nostre regole generali di giudizio, nemmeno come altrettante eccezioni alla regola? Una risposta sensata a questa domanda dovrebbe prendere le mosse da un'analisi preliminare di quella

72.. Ibid. 73. lvi, pp. 2.9-31. 7 4- lvi, p. 31.

I. Introduzione e analisi

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misteriosa facoltà umana che è la facoltà di giudizio. E dovrebbe permetterci di stabilire che cosa questa facoltà sia in grado di fare e che cosa no» 7 s. Il problema del giudizio, che da sempre abita in diverso modo la riflessione arendtiana, assume qui una fisionomia precisa, incanalandosi nella direzione di un'analisi della stessa facoltà del giudicare. È inoltre ancora più marcato l'uso di espressioni e parole che richiamano il problema nei termini in cui esso si poneva per Kant. La Arendt continua dicendo che dovrà trattarsi di una facoltà che «funzioni in maniera spontanea, senza restare vincolata a norme o regole di giudizio preconcette», e che sia «in grado di produrre da sé i principi che governano l'attività di giudizio»16• Si può dunque affermare che tra i primi anni '50 e il 1964 si sia delineata una pista d'indagine precisa, e che il richiamo alla terza Critica kantiana, pre~ sente in modo vago all'inizio, sia diventato via via più manifesto. Non a caso, come già abbiamo detto, il 1964 è l'anno in cui la Arendt decide di assumere la Critica del Giudizio come oggetto di studio per i suoi corsi, dando forma a quelle lezioni che saranno poi ripresentate e rielaborate nella versione de~ finitiva del 1970. Ma cosa accade in questo arco di tempo perché l'autrice orienti così deci~ samente la sua attenzione verso la terza Critica? Si possono individuare degli eventi o delle date rappresentative di un'evoluzione in questo senso? La data che ha valore di spartiacque è, sicuramente, il 1957, anno in cui Karl Jaspers pubblica l'opera I grandi Filosofi, contenente una sezione su Kant dalla quale la Arendt si disse fortemente colpita. La lettera del 29 agosto è un prezioso luogo di testimonianza da questo punto di vista perché, oltre all'ammirazione espressa verso il suo maestro e amico77, la Arendt formula per la prima volta l'ipotesi secondo la quale la vera filosofia politica di Kant sarebbe celata nella Critica del Giudizio. Così scrive: 75. H. Arendt, La responsabilità personale sotto la dittatura, in Responsabilita e Giudizio, trad. it. di D. Tarizzo, a cura di). Kohn, Einaudi, Torino 2004,pp. 22-23.

76.lbiti. 77. «Non ho letto il libro per intero: circa tre quani. Tuttavia sono abbastanza sicura che il suo autentico centro sia la splendida analisi di Kant. Se un giorno Lei salirà al cielo, e ciò avverrà nel senso in cui Socrate lo ha immaginato, e cioè che ci si allontana dal mondo soltanto per conversare con altri uomini, e con gli uomini migliori di ogni epoca, allora il vecchio Kant, in Suo onore, si alzerà dal suo seggio e verrà ad abbracciarLa. Nessuno aveva ancora capito Kant come lo ha capito Lei». H. Arendt, K. Jaspers, Carteggio 1926-1969, a cura di A. Dal Lago, Fdtrinelli, Milano 1989, p. 160.

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2.8

«Attualmente sto leggendo con crescente entusiasmo la Critica del Giudizw. È qui che si cela la vera filosofia politica di Kant, non nella Critica della ragion pratica. Qui Kant innalza un inno di lode al tanto denigrato "senso comune", sottopone ad una seria indagine filosofica il fenomeno del gusto come fondamento del giudizio [... ], analizza quell'ampliamento della maniera di pensare che è implicito nella facoltà di giudicare, e secondo cui chi pensa può rappresentare, col proprio pensare, tutti gli altri uomini. È l' esigema della comunicabilità. Qui ci sono le esperienze del giovane Kant nella società, poi ravvivate nella memoria da Kant nella sua tarda vecchiaia. Fra le tre Critiche di Kant, questo libro è quello che ho sempre prediletto. Mai però esso ha parlato alla mia mente come ora che lo rileggo sulla scorta del Suo capitolo su Kant»78 • Non è un caso, secondo alcuni studiosi, che le prime annotazioni personali dell'autrice intorno alla Critica del Giudizio com paiano, all'interno del XXII Quaderno, sotto l'intestazione "Palenville, agosto 1957'', la stessa riportata nella lettera a Jaspers 79• L'impressione è che, in concomitanza con la lettura de/ grandifilosofi, la Arendt avesse ripreso materialmente in mano la Critica del Giudizio e avesse voluto "fermare" alcuni pensieri a caldo. Le prime osservazioni di questi appunti riguardano il giudizio riflettente: «L'impossibilità di sussumere l'individuale. L'individuale può essere centrato o mancato solo nel giudizio. Di questo si tratta, in politica, dove siamo sempre a confronto con situazioni per le quali, al massimo, vi sono precedenti, ma non regole generali» 80 • L'autrice riporta quanto affermato dallo stesso Jaspers in proposito: «siamo in possesso dell'esperienza del particolare e lo pensiamo in base all 'ammissione di un universale non conosciuto» 8'. E aggiunge: «In altre parole, nella facoltà del giudizio determinante procedo dall'esperienza

78. lvi, p. 161.

79. In particolare questo dettaglio è stato portato alla mia attenzione da una nota dell' interessante saggio di F. Fistetti, Immaginazione e ragione politica. Totalitarismo e dnnomzzia, in Hannah Arnult. Filosofia e totalitarismo, a cura di F. Fistetti e F. Recchia Luciani, Il Melangolo, Genova 2.007, pp. ss-8s. 80. H. Arendt, Nel deserto del pensiero, Quaderni e Diari IfJJO·IfJ73, cit., p. 455. 81. La frase si trova in K.Jaspers, I grandi.filosofi, trad. it. di F. Costa, Longanesi, Milano 1973,p. 564-

I. Introduzione e analisi

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dell "'io penso" e dunque dai principi (a priori) dati nel Sé, nella facoltà di giudizio riflettente dall'esperienza del mondo nella sua particolarità» 81• Anche il principio della finalità assume, in questo contesto, un significato particolare; riprendendo le parole dell'Introduzione, la Arendt scrive che la facoltà del giudizio riflettente dà una legge solo a sé stessa, e non alla natura, aggiungendo fra parentesi che cale legge «vale soltanto per il mondo umano» 83• Se infatti, come abbiamo poc'anzi spiegato, l'accordo che il Giudizio stabilisce a priori tra la natura e la nostra facoltà conoscitiva non ci dice nulla sulle qualità oggettive della natura, ma è un accordo soltanto presupposto, allora sarà la natura, guardata secondo il principio della fìnalità, a "trasformarst nel mondo degli uomini. In altre parole con il principio della fìnalità si introduce quello sguardo totalmente umano sulle cose, che è assente nelle prime due Critiche. Come vedremo con chiarezza più avanti è questo un aspetto fortemente sottolineato dalla Arendt: nella Critica del Giudizio l'uomo riacquisterebbe la sua interezza, definendosi come un abitante della terra e un essere che vive in comunità con gli altri uomini, a differenza di quanto accade soprattutto nella seconda Critica, dove egli è considerato esclusivamente in virtù di quella componente razionale che lo accomuna a tutti gli altri esseri intelligibili dell'universo. Conformemente a questa visione, anche la natura qui non è più il regno delle leggi meccaniche cui la nostra conoscenza deve sottomettersi, ma piuttosto una sorta di "specchio" nel quale possiamo riconoscerci e sentirci affermati, o "confermati", direbbe la Arendt, poiché tutto sembra già concepito e orientato in nostro favore. Naturalmente è qui già in atto un travisamento del pensiero kantiano, benché la Arendt argomenti le sue tesi con puntuali riferimenti al testo. Con il principio della fìnalità, infatti, Kant intendeva assicurare unità e coerenza all'esperienza della natura nel suo complesso, oltrepassando (o, per così dire, integrando) i principi generali della determinazione, affinché si realizzasse il passaggio tra il dominio del concetto di natura e il dominio del concetto di libertà (nella misura in cui è il secondo a dover avere un influsso sul primo, come spiega l'autore nella sezione II dell'Introduzione). Ma sarebbe un azzardo affermare che questa natura penetrata da un principio di libertà o di intelligenza possa equivalere al "mondo degli uomini", come vorrebbe la 82. H. Arcndt, Nel deserto del pensiero, Quaderni e Diari I950-I973, cit., p. 4s6.

83. lvi, p. 458.

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Arendt; o più semplicemente, sarebbe sbagliato sostituire alla parola "natura", quand'anche intesa finalisticamente, la parola "mondo", soprattutto tenendo conto di quanto questi termini siano evocativi, in entrambi gli autori, di tematiche specifiche e strettamente legate al contesto storico di appartenenza. Ma, appunto, un confronto così condotto rischia di risultare sterile se non, addirittura, impossibile. Può essere utile a questo proposito ricordare ciò che afferma Gaetano Rametta nel suo saggio Comunicazione, giudizio ed esperienza del pensiero in Hannah Arendt, impostando il problema del rapporto con Kant: «Non si tratterà tanto di mettere in conto, e saldamente tenere presente, il contenuto genuino della filosofia di Kant, "prima" delle sovrapposizioni e dislocazioni ermeneutiche indotte dalla Arendt nel suo oggetto; né tantomeno si tratterà di mostrare, sulla base di quello che dovrebbe essere il nucleo originario delle teorie kantiane, dove la Arendt forzi la lettura, dove la filologia confermi, e dove invece non potrebbe farlo la sua versione dei testi kantiani» 84. Non avrebbe senso, in altri termini, ragionare secondo la logica del "giustosbagliato". Bisognerà piuttosto « misurare l'operazione ermeneutica arendtiana nel suo valore sintomatico in rapporto a sé stessa, al pensiero di cui testimonia e che in essa si produce, senza riportarla a o misurarla su presunti paradigmi originariamente prefissati» 8s. Quello che si potrebbe qui sinteticamente dire è che il giudizio che riflette sulla natura senza determinarla dischiude uno spazio nuovo, non subordinato a vincoli scientifici, ma orientato soltanto da un implicito accordo tra la natura e le nostre facoltà conoscitive, al fine di rendere possibile la stessa esperienza della natura secondo la sua particolarità; e così, per analogia, vengono ridisegnati i confini di uno spazio a misura d'uomo, dove ciò che conta non è tanto la validità oggettiva dei criteri di orientamento, quanto la possibilità stessa di usare tali criteri per costruire una relazione con ciò che ci circonda. Sull'utilità di questi primi appunti del 1957 avremo modo di tornare. Ma, restando ancora sul problema della "genealogia" del giudizio, c'è un'altra data importante che occorre ricordare, ed è il 1961, anno in cui si svolse il processo contro Adolf Eichmann. Tale evento, come scrive Beiner, diresse ulterior-

84. G. Ramett:1, Comunicazione, giudizio ed esperienza dei pensiero in Hannah Arendt, in Filosofia epratica dei pensiero, a cura di G. Duso, Franco Angeli, Milano 1988, p. 253.

85. lvi, p. 2.54-

I. Introduzione e analisi

mente gli sforzi della Arendt verso la teorizzazione della natura del giudizio86• Dell'argomento, già molto noto, abbiamo fatto menzione nel paragrafo precedente, e non ci dilunghiamo qui sui dettagli della vicenda. Ciò che può essere utile sottolineare però è che, come ancora affermaBeiner nel suo saggio, il caso Eichmann pone il problema del giudizio da un doppio punto di vista: in primo luogo è a tema la capacità, o meglio 1' incapacità dello stesso Eichmann di pensare e di giudicare, e dunque di distinguere il vero dal falso, il bello dal brutto, nella situazione in cui era coinvolto; in secondo luogo è a tema la nostra capacità di giudizio retrospettivo nei confronti dell'accaduto, ed è soprattutto su quest'ultimo punto che fa leva 1' appendice alla seconda edizione (1965) de La banalita del male. Per comprendere la natura del problema occorre richiamare il passaggio in cui la Arendt fa riferimento alla teoria classica della ragion di Stato, secondo la quale le azioni compiute dallo Stato non sono soggette alle stesse regole delle azioni dei cittadini. «La ragion di Stato si appella - a torto o a ragione, secondo i casi - alla necessità, e i crimini di Stato commessi in nome della necessità [... ] sono considerati misure d'emergenza, concessioni fatte alla Realpolitik al fìne di conservare il potere e assicurare così la sopravvivenza dell'ordine legale vigente» 87. Il crimine è, in quest'ottica, giustificato, poiché è in gioco l'esistenza stessa dello Stato; ma nel caso del Terzo Reich la situazione è esattamente inversa, poiché qui è piuttosto l'azione non criminosa a costituire una concessione verso 1'ordine costituito, uno strappo alla regola. Il problema è proprio questo: nel regime nazista il normale rapporto tra regola ed eccezione, fondamentale per riconoscere la criminalità di un comando, si trova ad essere invertito. Come valutare allora un criminale il cui atto anziché porsi come infrazione della norma ne costituisce la sua più fedele esecuzione? «Possiamo noi applicare ad un regime in cui il crimine è legale ed anzi è la regola i principi che valgono per i regimi in cui il crimine e la violenza sono eccezioni e casi limite?» 88 • In queste domande si evidenzia tutta l'inadeguatezza dei sistemi e dei concetti giuridici in nostro possesso di fronte a massacri amministrativi, organizzati da un apparato statale89. Resta un problema, continua la Arendt, «implicito in tutti i processi del

86. R. Beiner, J/giudizio in Hannah .Armdt. Saggio interpretativo (postfazione alle kLioni del 1970), in H. Arendc, Teoria de/giudizio politico, cic., p. 144. 87. H. Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, trad. it. di P. Bemardini, Feltrinelli, Milano 1998, p. 2.93.

88.lbid. 89.

Cfr. ivi, p. 2.95.

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dopoguerra contro i criminali nazisti, e di cui non si può fare a meno di parlare perché interessa una delle più grandi questioni morali di tutti i tempi: il problema della natura e della funzione dei giudizi umani»9°. In queste pagine, dunque, come già era accaduto un anno prima, nell' articolo La responsabilità personale sotto la dittatura, la questione viene espressa nei suoi termini essenziali, superando la specifica contestualità storica di fattori e circostanze che ne sono ali' origine. Fondamentale è infine la rivendicazione che 1' autrice fa, difendendosi dalle accuse ricevute in merito alla pubblicazione del suo libro, a rimanere sul particolare, senza ricorrere a categorie astratte che ne svuotino il significato. «L'opinione pubblica mondiale permette che si giudichino e magari si condannino soltanto tendenze, o collettività intere (più vaste sono meglio è), insomma soltanto entità così astratte e generiche da escludere che si possano fare distinzioni, che si possano fare nomi. [... ] Si usa di solito dire, con aria di superiorità, che è da superficiali insistere sui particolari e menzionare individui, e che invece è segno di intelligenza ragionare in termini generali, badare al quadro generale, quel quadro dove tutti i gatti di notte sono bigi e dove tutti siamo ugualmente colpevoli»9'. Così si ricorre a ipotesi astratte e non verificabili, a schemi che spiegano tutto senza spiegare nulla, e «tutti questi dichés hanno una cosa in comune: rendono superfluo ogni giudizio e possono essere adoperati senza alcun rischio» 9~. Le stesse polemiche sorte intorno al libro nascono, in qualche modo, da una divagazione rispetto al suo oggetto: Eichmann in Jerusalem vuole essere il resoconto di un processo, che ha al centro un imputato, un individuo in carne ed ossa, con una sua storia particolare e un complesso particolare di qualità, di modi di agire e di reagire. Tutte le altre cose (la storia del popolo ebraico nella diaspora, 1'antisemitismo, le ideologie ddl' epoca e 1' apparato governativo del Terzo Reich) interessano il processo solo nella misura in cui servono a precisare lo sfondo e le circostanze in cui 1' imputato ha commesso i reati che gli sono contestati9J. Naturalmente quando scrive questo, la Arendt è ben consapevole del fatto che non si stia parlando di un processo qualunque, e che le colpe dell'imputato sollevino, certamente, problemi di ordine

90. lvi, p. 2.96. 91. lvi, p. 2.97. 92.. lvi, p. 2.98. 93. Cfr. ivi, p. 2.89.

I. Introduzione e analisi

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generale che vanno molto aldilà delle questioni affrontate a Gerusalemme; problemi che in parte l'autrice stessa dice di aver affrontato nell'Epilogo del libro, dove il suo discorso non è più un semplice reportage. L'invito a restare sul particolare non vuol essere dunque in nessun modo una riduzione dell' orizzonte problematico del pensiero, o una forma di miopia; al contrario, il tentativo è forse proprio quello di comprendere fìno in fondo la complessità delle cose, sciogliendo il particolare da quelle astratte generalizzazioni che ne offuscano la natura. Come lei stessa scrive in proposito: «Quando io parlo della banalità del male, lo faccio su un piano quanto mai concreto» 94• Se nel 1957, in concomitanza con la pubblicazione dello scritto Die grojlen philosophen, troviamo le prime due espressioni in ambito privato dell'ipotesi di lettura che la Arendt andava sviluppando sulla Critica del Giudizio (la lettera allo stesso Karl Jaspers del 29 agosto e gli appunti del XXII Quaderno), nel 1961 troviamo invece le prime due espressioni pubbliche: trattasi dei saggi Freedom and Politics e The crisis in culture: its socia/ and its politica/ signifi-

cance95. In Freedom and Politics la Arendt afferma per la prima volta che Kant «espone due filosofie politiche, nettamente distinte l'una dall'altra: la prima generalmente accettata come quella contenuta nella Critica della ragion pratica, la seconda contenuta nella Critica del Giudizio. Che la prima parte di quest'ultima sia, in realtà, una filosofia politica, è un fatto che viene raramente menzionato negli studi su Kant: eppure si può notare, credo, attraverso tutti i suoi scritti politici, che per lo stesso Kant il tema del giudizio ha un peso molto maggiore di quello della ragion pratica»96_ Nella Critica del Giudizio, continua la Arendt, la libertà è raffigurata come un predicato del potere dell'immaginazione e non della volontà, e il potere dell'immaginazione è legato ancora più strettamente a quel più ampio modo di pensare che è per eccellenza il pensiero politico, perché ci consente di "metterci nella mente di altri uomini". È solo in questo contesto che si rende chiaro, da un punto di vista fìlosofìco, perché Kant si senta libero di dire 94- Ivi, p. 2.90. 95. Trad. it. La crisi de/la cultura: ne/la sode/a e nella politica, in H. Arendt, passato e foturo, cit., pp. 2.56-2.1!9. 96. H. Arendt, Freedom and Politcs, in Freedom and Serfdom: an anthology oJ Western thought, a cura di A. Hunold, Dordrecht 1961, p. 2.07 (la traduzione è mia perché il testo non esiste in traduzione italiana).

1m

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con enfasi: «Le forze esterne che privano l'uomo della libertà di esprimere il proprio pensiero pubblicamente, lo privano anche della sua stessa libertà di pensiero» 97. «Ma a questo concetto di una libertà che sia totalmente indipendente dalla libertà del volere, poca importanza, o nessuna, è stata data nelle successive affermazioni della fùosofia di Kant. Nei suoi stessi scritti fùosofici, questo aspetto è oscurato dall'importanza attribuita alla ragion pratica, che nelle vicende umane ascrive rutti i poteri alla volontà - nel bene e nel male [... ] » 98• L'idea di questa libertà totalmente indipendente dalla facoltà del volere richiama le ultime pagine de La vita della mente (che all'epoca di Freedom and Politics non erano ancora state scritte) poiché qui, concludendo il suo excursus storico-ftlosofìco sulla volontà, la Arendt affermava di trovarsi di fronte ad un'impasse: la libertà sembra essere in ultima analisi qualcosa a cui siamo in qualche modo condannati, senza che lo si possa scegliere o meno. Non a caso nel corso della storia si è sempre cercato di attutire il colpo di un inizio assoluto, di "smussare" per così dire, questa radicalità, ricorrendo a delle interpretazioni che vedessero nel nuovo una riproposizione del vecchio (si pensi alla fondazione di Roma, raccontata da Virgilio come la ri-fondazione dell'antica città di Troia). L'impasse, scrive laArendt, potrà essere superata e risolta solo facendo appello ad un'altra facoltà della mente, non meno misteriosa della facoltà del cominciamento, ovvero la facoltà del Giudizio99. Il secondo saggio del 1961 pone l'accento, in maniera più evidente, sul passaggio dall'ideale della coerenza con sé stessi, che fonda l'imperativo categorico, a quell'ampliamento di mentalità che s'introduce nella terza Critica, e che permette di includere nel proprio ragionamento, a livello ipotetico, il punto di vista degli altri. È questo il cosiddetto "pensiero rappresentativo" che nel

97. Il riferimento è probabilmente allo scritto di I. Kant, Che cosa significa orientarsi nel pensare (a cura di M. Giorgiantonio, Carabba, Lanciano 1975, p. 105): «Si dice, in verità, che la libertà di parlare o di scrivere può indubbiamente esserci tolta da un potere superiore, ma non la libenà di pensare. Ma penseremmo noi molto e penseremmo noi bene se non pensassimo in comune con altri ai quali comunichiamo i nostri pensieri, e che ci fanno pane dei loro? Si può dunque ben dire che questa potenza esteriore che strappa agli uomini la libenà di comunicare apertamente i loro pensieri toglie ad essi anche lalibenà di pensare( ... ]». Il brano è riponato anche nelle le-Lioni del '70 (1wria del giudizw politico, cit., p. 63). 98. H. Arendt, Fm:dom and Politics, cit., pp. 207-208. 99. Cti-. H. Arendt,La vita della mente, cit., p. 546.

I. Introduzione e analisi

3S

1967, in Verità epolitica, viene defmito dallaArendt come il pensiero politico per eccellenza. Ci torneremo più avanti.

Considerando il quadro finora tracciato come una sorta di discorso introduttivo, volto a circoscrivere il preciso ambito di indagine nel quale matura e si sviluppa la domanda arendtiana sulla natura del giudizio, possiamo ora entrare maggiormente nel merito della questione. Il tentativo sarà quello di illustrare la lettura che Hannah Arendt elabora sulla Critica del Giudizio tenendo conto, soprattutto, del corso di lezioni del 1964 e provando a seguire i passi che l'autrice stessa compie in queste pagine. Prima di iniziare tale analisi occorre forse anticipare quale sia, in linea generale, il secondo punto nevralgico dell'opera kantiana su cui la Arendt costruisce la sua interpretazione, accanto alla nozione di giudizio riflettente: si tratta della celebre definizione, conclusiva del Secondo momento dell 'Analitica del bello, secondo la quale «bello è ciò che piace universalmente senza concetto». È qui contenuto un insolito e fortunato paradosso, poiché come rutti sanno l'universalità è sinonimo di necessità, tanto quanto l'assenza di concetto descrive la variabilità di ciò che è contingente e soggettivo. Il bello, collocandosi a metà strada tra il buono e il piacevole, include in sé entrambi i poli, e si erge a possibile paradigma per una dimensione politica autentica, dove vi siano i presupposti per un'intesa comune, ma nessun elemento di coercizione. Come vedremo è proprio su questo carattere internamente antitetico che la Arendt insiste, riportando frasi ed espressioni a loro volta ossimoriche. È probabile che, anche su questo punto, un ruolo decisivo sia stato giocato dalle pagine dell'opera diJaspers. L'autore dedica infatti una breve sezione a La visione del bello 1°0 , riprendendo passaggi e contenuti propri del testo kantiano, ma anch'egli con una particolare attenzione verso questo aspetto: «Ognuno si aspetta che la bellezza dell'oggetto sia esperita come valida, ma in modo che non si possa dare la regola universale di cui l'oggetto è un esempio. In esso risiede una "legalità senza legge" [Gesetzmiij{igkeit ohne

Gesetz] » 101 • L'impressione che ne scaturisce è che, partendo da una riflessione sul giudizio in quanto tale, come facoltà autonoma che sottrae il fenomeno alla presa concettuale dell'intelletto, la Arendt sia approdata ad un territorio nuovo, non previsto e non ancora esplorato. La definizione del bello, con tutte le 100. 101.

K. Jaspers, / grandifilosofi. cit., p. 588.

Ibid.

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implicazioni che ne conseguono, costituisce, infatti, il vero fulcro della lettura arendtiana, la "scoperta" che subentra in un percorso d'indagine già avviato e ne ridetermina più precisamente le coordinate: è qui, più che altrove, che trova senso e giustificazione 1'ipotesi secondo cui la Critica del Giudizio costituirebbe un'opera di filosofia politica.

4. Kant's Politica/ Philosophy, 1964 4.1. La ridefinizione del politico attraverso il concetto di apparenza

Come già abbiamo anticipato, il discorso di Hannah Arendt può essere considerato secondo 1' organizzazione in una pars destruens e una pars construens. Nelle prime pagine del corso del '64, e fino alla sesta lezione, 1' attenzione è volta a considerare i motivi per i quali non si possa parlare di una filosofia politica kantiana, né considerando gli scritti di filosofia morale, né considerando quelli di filosofia della storia. L'argomentazione qui condotta presenta contenuti che, in parte, saranno riscontrabili anche nelle lezioni del 1970. In entrambi i corsi la Arendt fa riferimento, ad esempio, alle tre famose domande che animano l'interrogazione kantiana (Cosa posso conoscere? Cosa devo fare? Cosa mi è lecito sperare?), per affermare che nessuna di queste tre domande contiene una questione politica, nemmeno la seconda che sembrerebbe alludere al problema dell'azione, e dunque al contesto della pluralità umana.Tale domanda considera in realtà 1' uomo nel suo isolamento, e assume come criterio l'antico detto socratico: "è meglio per me che io sia in conflitto con il mondo intero piuttosto che, essendo uno, che io sia in conflitto con me stesso" 10~. L'imperativo categorico altro non è, secondo la Arendt, che la formulazione in chiave moderna dell' esortazione a non entrare in contraddizione con sé stessi, esortazione che nasce proprio dall'esperienza di pensiero socratica, intesa come esperienza di un dialogo silenzioso fra sé e sé. La moralità è considerata in questo senso come una forma di coerenza, poiché nessuno vorrebbe convivere con un assassino; nessuno vorrebbe scoprirsi, in questo sdoppiamento interno, nemico di sé stesso. L'autrice stessa aveva attribuito molta importanza a questa capacità di dialogo interiore in cui consiste, fondamentalmente, l'umana coscienza ( «la coscienza è l'anticipazione del compagno che ti aspetta se e quando 102.

Platone, Gorgia 482.c.

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torni a casa» )' 0 3. Tuttavia, nel lavoro di interpretazione della Critica del Giudizio (e già a partire dagli appunti del 1957) si afferma una prospettiva un po' diversa: il guadagno realizzato da Kant con 1' ultima delle sue Critiche sarebbe stato proprio quello di aggiungere al principio di non contraddizione, all'accordo con sé stessi, l'accordo con gli altri. «E questo è, nella filosofia politica, il passo più grande che sia stato compiuto dopo Socrate»' 04 • Nel testo del 1964 si legge ad un certo punto che l'imperativo categorico può essere considerato come il concetto teoreticamente puro della Volontà Generale di Rousseau. È questo un aspetto sul quale l'autrice si era già soffermata in un precedente corso di lezioni del 1955, intitolato Politica/ Theory oJ Kant, anch'esso rimasto ad oggi inedito. Nonostante la similare denominazione, questo corso del 1955 non menziona in nessun modo la Critica del Giudizio, a conferma dell'ipotesi sostenuta da diversi studiosi e poc'anzi delineata secondo cui occorre aspettare il 1957 per parlare di una "svolta" nell'approccio arendtiano al pensiero di Kant. Ancora nel 1955 infatti, il Kant politico è il Kant della Critica della ragion pratica, per quanto si possa con ragione affermare che già qui la Arendt assume tale convinzione allo scopo di contestarla. Il confronto con Rousseau è, a tal proposito, significativo. Per l'autore ginevrino la politica assume - in estrema sintesi - un compito quasi salvifico, quello di resti mire l'individuo alla sua originaria libertà: ma ciò è possibile soltanto attraverso una cessione totale di sé al corpo dello Stato. Il contratto sociale, scriverà la Arendt nel '65, «è un contratto tra me, come essere particolare con interessi particolari ed una volontà particolare, e me stesso, come essere generale, che pensa all'interesse comune, motivato dalla volontà generale» • s. La celebrazione della politica come liberazione dall'angustia dell'individualità e degli interessi personali, che di primo acchito sembrerebbe rievocare la nobile aspirazione degli antichi a coltivare il bene comune, rivela facilmente la sua pericolosa ambiguità: «la politica ritorna sì a configurarsi come una dimensione collettiva - spiega S. Forti - ma il suo soggetto è una volontà generale che si comporta come il più solitario degli uomini» 106• Nella visione della Arendt l'autodeterminazione della volontà kantiana si pone come formulazione posteriore, e forse più efficace, del medesimo ten0

103. H. Arendt, La vita della mente, cit., p. 2.87. 104. H. Arendt, Nel deserto de/ pensiero, cit., p. 456. 105. From Machiave/Jj to Marx, in Ha1111ah Arendt's Papers (Library oJ Congress, Digitai Col/ection ). Subject File 1949-1975, Courses, p. 023490 (traduzione mia). 106. S. Forti, Hannah Arendt trafilosofia epolitica, cit., p. 165.

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tativo di riunificazione di un io lacerato. Con la differenza che non sarà più necessario, qui, postulare la cessione di sé al corpo comune dello Stato, o la conversione della propria volontà individuale in una Volontà Generale, perché è la volontà stessa a farsi legislatrice e a scoprirsi "universale". Così nel testo del 1955 si legge: «Kant scoprì che l'unanimità che Rousseau cercava è inerente alla qualità reale della volontà stessa: se tutti seguiranno il principio inerente alla volizione, arriveranno tutti allo stesso risultato: questo implica che le leggi non sono ricevute ma sono costantemente prodotte dagli uomini come esseri ragionevoli; esse sono dentro di noi e non è necessaria alcuna autorità esterna» 10,. Ciò che emerge è, come già abbiamo sottolineato, l'assoluta autoreferenzialità di una tale concezione dell'individuo, impegnato in un permanente obbligo di coerenza con sé stesso. Intimamente legato a questo aspetto è anche il secondo punto di criticità che la Arendt individua nella visione morale kantiana: l'uomo è qui considerato in virtù della sua mera componente razionale, che lo accomuna a tutti gli altri esseri intellegibili dell'universo. Come chiaramente spiega l'autore stesso nella Critica della ragion pratica: «Ora questo principio della moralità, appunto per l'universalità della legislazione che lo fa motivo determinante formale supremo della volontà, senza tener conto di tutte le differenze soggettive di essa, la ragione lo definisce una legge per tutti gli esseri razionali [...]. Esso non si limita dunque semplicemente all'uomo, ma si estende a rutti gli esseri finiti, che hanno la ragione e la volontà, anzi comprende perfino l'infinito come intelligenzasuprema» 108• Per questo motivo nel testo del 1955 la Arendt può scrivere quasi con ironia: «la bontà della volontà non coincide con la bontà dell'uomo: sarebbe vera anche per un popolo di demoni, purché siano dotati di intelligenza» 109• 107. Politica/ Theory ofKant, in Hannah Armdt Papm (Library ofCongress, Digitai Colkction), Subject File 1949-1975, Courses, p. 032.2.99 (traduzione mia}: «Kant discovered that the unanimity which Rousseau demanded is inherent in the very quality of the will itself: if only people will follow the principle inherent in volition, ali will always arrive at the same result. This implies Laws are not given but constantly produced by men as reasonable; they are within us and no authority (is) even necessary». 108. I. Kant, Critica della ragum pratica, trad. it. di F. Capra, LaterLa, Roma-Bari 1997, p. 69. 109. Politica/ Theory o/Kant, p. 032.2.99 (traduzione mia}: « The Goodness of the Will is nor the Goodness of men: it is true "even fora nation of devils, provided they have sense"».

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Quest'ultimo riferimento allude ad un passaggio dello scritto Per la pace perpetua, che la Arendt riporta più di una volta anche nelle lezioni del 1964 e in quelle del 1970. Il passo è, infatti, emblematico da diversi punti di vista. Qui Kant, descrivendo la Costituzione repubblicana come la migliore e la più conforme al diritto degli uomini, afferma anche che essa è la più difficile da istituire, e ancor più da conservare, e che gli uomini, con le loro inclinazioni egoistiche, non sarebbero capaci di una Costituzione tanto sublime. Si dovrebbe dire che essa si addice piuttosto ad uno Stato di angeli. Ma a questa limitatezza umana sopperisce il meccanismo già in atto in natura per il quale le singole spinte egoistiche degli uomini vengono a neutralizzarsi a vicenda, cosicché sembri che tutti gli individui siano originariamente animati da buone intenzioni. Il buon funzionamento dello Stato allora non dipenderà tanto da una reale propensione morale dei cittadini verso il bene, quanto dalla capacità dello Stato stesso di assecondare il meccanismo della natura, per il quale i conflitti interni sono autonomamente portati ad una risoluzione. «Il problema dell'instaurazione dello Stato, per quanto ciò possa suonare aspro, è risolvibile anche da un popolo di diavoli (purché abbiano intelletto) e suona così: "ordinare e disporre una costituzione per una moltitudine di esseri razionali, che tutti insieme hanno bisogno di leggi universali per la loro conservazione, ma i quali sono ognuno per sé, segretamente inclinati a sottrarvisi; così che, sebbene nelle loro intenzioni private si avversino l' W1 l'altro, queste si frenino a vicenda in modo che nel pubblico comportamento di quegli esseri il risultato sia il medesimo che se non avessero quelle intenzioni cattive"» 110• Il passo merita attenzione, come già si è detto, per diversi aspetti. Come scrive la Arendt nelle lezioni del 1970, la chiave sta in quel "segretamente". L'individuo malvagio non è infatti, nell'accezione kantiana, colui il quale non riconosca la validità della legge: ciò sarebbe impossibile perché la legge è già immanente alla ragione. Egli è piuttosto colui che pur riconoscendo la legge tende a fare un'eccezione per sé, nel proprio intimo (e per questo, tornando al discorso di prima, risulta in contraddizione con sé stesso). Si può infatti desiderare di rubare, ma non si può desiderare che il furto venga elevato a legge universale, perché altrimenti non esisterebbe più la proprietà. In questo senso, essere malvagi vuol dire sottrarsi "segretamente" a quella

110. I. Kant, Perla pace perpetua. Un progettofilosofico dilmmanue/ Kant in Scritti di storia, politica e diritto, cit., pp. 184-185.

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legge che pure si riconosce valida per tutti. Qui si evidenzia, tra le altre cose, l'importanza che Kant attribuisce al concetto di "pubblico", al punto tale che «i pensieri malvagi sono, per definizione, segreti» 111• Ma sono soprattutto due i contenuti che vanno considerati in merito a questo passaggio. In primo luogo, la Arendt se ne serve spesso per sottolineare la contraddizione rilevabile tra la filosofia morale di Kant e la sua filosofìa della storia, o del diritto. Quella che qui viene presentata è infatti la versione kantiana dell'egoismo illuminato, per la quale alle spalle degli uomini vi sarebbe una grande forza manovratrice, che sospinge il genere umano verso un inevitabile progresso. Se così fosse, non si renderebbe più necessario quel miglioramento morale che l'autore sostiene come doveroso nella sua filosofìa pratica. La contraddizione si evidenzia nello stesso scritto Per la pace perpetua allorché Kant afferma: «Non del miglioramento morale degli uomini, bensì solo del meccanismo della natura si ha il compito di sapere come si possa utilizzare al fìne di indirizzare, in nn popolo, il conflitto tra le loro intenzioni ostili [... ] così da introdurre lo stato di Pace [... ]»m. Così come, afferma più avanti, non dalla moralità dei cittadini ci si dovrà aspettare la buona Costituzione dello Stato ma, al contrario, dalla Costituzione la buona educazione morale dei cittadini. In secondo luogo, relativamente all'aspetto che stiamo qui analizzando, andrebbero sottolineati i termini che l'autore stesso usa in riferimento alla politica. Gli uomini sono considerati qui «una moltitudine di esseri razionali», non diversamente, appunto, da come si potrebbe definire un «popolo di diavoli» o uno «Stato di angeli», espressioni ugualmente menzionate dall'autore. L'impressione che se ne ricava è che la politica non abbia realmente per oggetto l'uomo, inteso nella sua integralità e nel suo carattere mondano, ma una creatura intelligibile, priva di qualsiasi appartenenza. Può essere utile a questo proposito leggere ciò che la Arendt scrive in un testo del 1965, From Machiavelli to Marx: «Attraverso la virtù di esercitare questa capacità legislativa, l'uomo diventa membro di un mondo intelligibile, o regno dei fini, cioè di un regno in cui ciascuno è in sé un fine e mai un mezzo[ ... ]. Nello scritto sulla Pace Perpetua, possiamo vedere come l'appartenenza così acquisita trascenda il corpo politico della nazione

H. Arendt, Teoria del giudizio po/itico,cit., p. 33. Kant, Per la pace perpetua. Un progetto filosofico di /111,nanuel Kant in Scritti di storia, politica e diritto, cit., p. 18s. 111.

112. I.

I. Introduzione e analisi

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o dd paese: è un'appartenenza, in quanto cittadini responsabili, al genere umano, all'umanità come intero. È perfino, secondo Kant, appartenenza ad un regno di esseri razionali, non importa dove essi siano - che siano su altri pianeti, o che siano angeli» 11 i. Tanto nella tìlosofia morale dunque, quanto nei cosiddetti scritti di politica, l'uomo viene considerato, paradossalmente, proprio in virtù di quella caratteristica che lo separa dal mondo sensibile, quel mondo abitato anche dagli altri uomini. Da questo punto di vista, come già sottolineato, la Critica del Giudizio riporta al centro l'uomo nella sua interezza. È soprattutto una la parola attorno a cui gravita questo spostamento, e che può essere considerata, per certi versi, la parola chiave di questo testo inedito del '64, o se non altro una delle più ricorrenti. È la parola "apparenza", inserita, quasi sempre, in espressioni che ne rimarcano il significato e il valore immanente: "appearance qua appearance", "che appearances insofar as chey appear", ecc. Le apparenze in quanto cali, o le apparenze nel loro apparire, appunto: si potrebbero dare diverse traduzioni per queste ripetizioni volute e quasi ridondanti che sembrerebbero non aggiungere nulla al concetto di partenza. Lo scopo della Arendt è in realtà proprio quello di sottolineare l'esclusione di qualsiasi "doppiofondo" di carattere metafisico. Non c'è un senso che sia nascosto dietro le cose, o che vada scoperto: il senso è già nel loro apparire. L'argomento sarà, più tardi, distesamente spiegato nelle pagine de La vita della mente, dove la Arendt affronta l'antico pregiudizio relativo al primato oncologico dell'invisibile sul visibile e ne tenta il rovesciamento, richiamandosi frequentemente al pensiero di Merleau-Ponty" 4 • Gli scienziati e i filosofi sono spesso impegnati a combattere il problema dell'errore e dell'illusione, spiega la Arendt, «eppure, nessuna eliminazione degli errori

113. }"rom Machiavelli lo Marx, p. 023492 ( traduzione mia): «By virtue of exercising this legislative capacity, man becomes a member of"an intelligible wortd•, or a "realm of ends•, namely a realm where everybody is an end in himself and never a means [...] . In Eternai Peace, you then can see that che membership thus acquired trascends che body politic of nation or country; it is a membership, as responsible citizen, in mankind, humanity, as a whole. le is, according co Kant, even a membership in a realm of racional beings, no matter where they are - perhaps on other planets, perhapsthe angels». 114- I testi dell'autore francese che la Arendt prende in considerazione nel primo capitolo de La vita tk/la mente sono in particolare: // visibile e /'invisibile (in edizione italiana a cura di M. Carbone, trad. di A. Bonomi, Bompiani, Milano 1993), Segni (a cura di A. Bonomi, trad. di G. Alfieri, Net, Milano 2003).

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e nessuna dissipazione delle illusioni possono condurre ad una regione aldilà dell'apparenza» 115• «Infatti», scrive citando da Il visibile e l'invisibile di Merleau-Ponty «quando un'illusione si dissolve, quando all'improvviso una realtà è distrutta, è sempre a vantaggio di una nuova apparenza che riprende su di sé la funzione ontologica della prima [... ]. La disillusione non è la perdita di una evidenza se non in quanto è l'acquisizione di un'altra evidenza». Così, il primato dell'apparenza è un dato di fatto della vita quotidiana a cui né gli scienziati né i filosofi possono sottrarsi, e a cui devono sempre far ritorno dai loro laboratori e dai loro studi 11 6• Alla luce di tali considerazioni si può comprendere più facilmente perché la Arendt intraveda un nesso tra il giudizio estetico e il giudizio politico: entrambi hanno a che fare con la realtà in quanto mondo dell'apparire. Si potrebbe, a questo punto, aprire una riflessione più ampia che coinvolga anche le pagine di Vita activa, e in particolare il capitolo relativo all'azione, poiché anche qui il tema gioca un ruolo tutt'altro che secondario: « Discorso e azione sono le modalità in cui gli esseri umani appaiono gli uni agli altri, non come oggetti fisici, ma in quanto uomini [... ]. Agendo e parlando gli uomini mostrano chi sono, rivelano attivamente la loro identità personale, e fanno così la loro apparizione nel mondo umano» 117• O ancora: «Lo spazio dell'apparenza si forma ovunque gli uomini condividano la modalità del discorso e dell'azione, e quindi anticipa e precede ogni costituzione formale della sfera pubblica e delle varie forme di governo, le varie forme, cioè, in cui la sfera pubblica può essere organizzata» 118• Questa insistenza ha portato alcuni studiosi a ritenere che già prima dell'avvicinamento alla terza Critica, e dunque ad una interpretazione dell'estetico in termini politici, la Arendt esponesse una concezione della politica fortemente ispirata a fattori estetici (come testimoniano anche i numerosi riferimenti alla scena teatrale greca, e il paragone tra l'agire e la performatività delle arti non-poietiche), tanto da poter parlare di una sorta di reversibilità simmetrica tra questi due aspetti. Ma torneremo a parlarne nei rilievi critici. È utile soffermarci ora sul modo in cui, in relazione all'apparenza, si ridefinisca l'ambito del politico e, conseguentemente, anche l'ambito di ciò che politico non è. Il grande problema della filosofia morale kantiana, infatti, è 115. H. Arendt, La vita della mente, cit., p. 107. 116. Cfr. ivi, p. 105. 117. H. Arendt,

118. lvi, p. 146.

Vita adiva, cit., p. 12.8; p. 130 {corsivo mio}.

I. Introduzione e analisi

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che essa si basa sulle intenzioni, le quali, di per sé, non sono visibili. Nella se, conda delle sue lezioni del 19 64, ricapitolando le ragioni introduttive del suo discorso, la Arendt scrive: «Le categorie della libertà non sono applicabili al mondo delle apparenze: qualsiasi bene io compia non appare mai in quanto tale». Negli appunti successivi l'autrice propone di leggere la già menzionata contraddizione tra la filosofia morale di Kant e la sua filosofia della storia nei termini di uno scontro tra intenzione e significato, dove l'intenzione sta all'inizio come il significato sta alla fine. Le narrazioni sulla storia del mon, do sono suddivisibili all'interno di queste due grandi categorie: la categoria dell'inizio e la categoria della fine. Nel primo caso, si avrà una visione "generi, ca" della storia, volta a cercare la verità nel passato, nel punto d'origine di tutto (a questa categoria appartiene l'idea della cosiddetta Età dell'Oro, rispetto alla quale il tempo che segue non è che un'involuzione). Nel secondo caso, il movimento è quello di una proiezione in avanti: la storia comincia con una caduta e termina con una redenzione. Allora tutto il significato degli eventi è contenuto nella fine, e si afferma una forma di teleologia o di finalismo come nel caso di Kant o di Hegel. Ora, se nella sua filosofia della storia è indubbio che Kant scelga, appunto, l'idea della "fine", nella filosofia morale la priorità converge sull' "inizio": «so, lo la volontà può essere buona, le intenzioni»" 9 • Ma queste intenzioni, ripete ancora la Arendt, non appaiono mai. «Così, quando si tratta di giudicare il mondo delle apparenze, egli deve trovare un diverso insieme di concetti, e tali concetti sono in contraddizione con la sua filosofia morale». Più avanti, la Arendt riporta un brano del saggio Sul detto comune: questo può essere gi.usto in teoria, ma non vale per la prassi, dove Kant afferma di sentirsi autorizzato a supporre che il progresso del genere umano verso il suo fine naturale debba includere anche un miglioramento dal punto di vista morale, e che tale pro, cesso possa essere interrotto ma mai eliminato del tutto. « Questa è un'ipotesi della quale non posso mai essere del tutto certo, ma che tuttavia devo adottare come una massima, come un presupposto necessario nell'ambito pratico, do, ve la questione riguarda ciò che si debba fare e ciò che possa essere fatto» 110• Kant non può mai essere del tutto certo, ribadisce la Arendr, proprio perché le motivazioni non appaiono, nemmeno a sé stessi. L'uomo non abbandona 119. Quarta lezione, si veda in.fra p. 182.. 120. Il riferimento è allo scritto Sul detto comune: questo può mere giusto in teoria, ma non vale perla prassi, (in Scritti di storia, politica e diritto, cit., pp. 154-155), ma la traduzione è qui condotta sull'inglese della Arendt.

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mai completamente la sfera delle apparenze, ed è solo la sua coscienza a ricordargli che egli appartiene anche ad un mondo di noumena. Nella quinta lezione, che si può ritenere conclusiva di questo discorso preliminare sulla "non politicità" del Kant politico tradizionalmente inteso, la Arendt elenca alcune aporie relative soprattuno all'idea di progresso e al modo in cui, nella concezione della storia kantiana, la pluralità degli individui si annulla e si sacrifica nella singolarità di un Genere Umano astratto. La storia, che dovrebbe essere presumibilmente il campo di dominio della libertà, viene così assimilata alla natura, e il giudizio teleologico che dovrebbe costituire il legame tra libertà e necessità, subordina di fatto la prima alla seconda. Queste motivazioni, sommate alle precedenti, «sono una prima indicazione delle incoerenze che precludono la possibilità di una filosofia politica in Kant, sia che si parta dal conceno del Bene, come il prodotto della libertà, sia che si parta dal concetto di Storia» 111 • Per quanto riguarda il conceno di storia il problema sta, come appena deno, nella visione teleologica, che annulla di farro la libertà dell'uomo facendone uno strumento per la realizzazione di un fine superiore e contraddice, in questo modo, anche l'idea di dignità umana, legata alla concezione dell'uomo come fine-in-sé. «Per quanto riguarda il Bene, inteso come prodono della libertà, è presto detto: partiremmo da qualcosa che non appare mai, per definizione, per poi applicare le sue regole al mondo delle apparenze, il che è assurdo»m. Potrà sembrare singolare, per certi versi, questa discussione intorno al tema dell'apparenza nell'ambito del pensiero kantiano, e ancor più il fatto che si possa rimproverare a Kant di aver "preferito" il mondo che non appare, poiché in verità, com'è noto, si deve proprio a lui la distinzione tra una realtà fenomenica e una realtà noumenica, e il conseguente valore che la realtà sensibile è tornata ad acquisire, almeno come dato empirico. La Arendt non manca di riconoscere questo aspetto nelle sue lezioni, quando afferma che Kant ha condotto una grande opera di rivalutazione del sensibile1zi. Inoltre, nel definire il mondo come il regno delle apparenze, l'autrice

121. Quinta lezione, si veda in.fra p. 187. 122./bid. 123. Nel testo del 1964 {come anche ne La Vita della mente, cit., p. 92), la Arendt riporta la frase di Democrito, il quale pur mettendo in discussione la veridicità della sensazione, era al tempo stesso timoroso di denigrare i sensi: «O misera ragione! Tu attingi da noi le tue prove (tas pisteis), ciò che è credibile, l'evidenza, e ora cerchi di abbatterci? La nostra sconfitta sarà anche la tua rovina» {frammento 12s). La Arendt aggiunge: «Questo potrebbe essere un

I. Introduzione e analisi

4S

richiama la prima frase dell'.&tetica trascendentale: «In qualunque modo e con qualunque mezzo una conoscenza possa mai riferirsi agli oggetti, è certo che il suo modo di riferirsi immediatamente a questi oggetti - un modo a cui ogni pensiero tende come al suo mezzo - è l'intuizione» •~4 • E aggiunge: «Poiché tutto ciò che esiste appare, l'Intuizione è la forma più alta di conoscenza». Tuttavia, la giustificazione del sensibile operata da Kant è sempre, ancoJ ra, totalmente legata al problema della conoscenza. È solo nella Critica del Giudizio che le apparenze acquisiscono una propria autonomia, e non sono più considerate come la parte visibile di un mondo, per così dire, diviso a metà tra ciò che può essere esperito e ciò che non può essere esperito, ma diventano l'orizzonte esaustivo che si dona, senza pretese, al nostro sguarJ do. Se nella Critica della ragion pura la domanda è "come possono essere conosciute le cose il cui modo di essere è l'apparire?", scrive la Arendt, nella Critica del Giudizio la domanda è invece "come giudichiamo le apparenze che, in quanto appaiono, vanno considerate per il loro aspetto, cioè belle o brutte o qualcosa di intermedio, indipendentemente dalle loro qualità oggettive?". L'eliminazione della prerogativa conoscitiva cambia il senso del nostro rapporto con le cose, e lo stesso concetto di apparenza non può più essere inteso allo stesso modo. Occorrerebbe sottolineare che, in realtà, la stessa parola, così ampiamente utilizzata dalla Arendt, non compare affatJ to nel testo della terza Critica, dove sono altri i termini identificativi delJ la questione trattata (come "bellezza, contemplazione, giudizio di gusto", ecc). L'"appearance" potrebbe trovare, forse, un equivalente nel kantiano Erscheinung, il "fenomeno" della Critica della ragion pura ma, in virtù delle ragioni appena espresse, ritengo che tale traduzione non renderebbe giustiJ zia al concetto che qui la Arendt vuole esprimere: un concetto che attinge certamente al pensiero kantiano, ma che si nutre anche di profondi richiaJ mi a MerleauJPonty e a Nietzsche. Come spiega egregiamente Roberto Esposito: «La Arendt, nel riproporre il tema nietzscheano dell'esse est percipi, batte tanto sul tasto dell'apparenza della realtà quanto su quello della realtà dell'apparenza:

motto anche per la grande opera di giustificazione del sensibile condotta da Kant». Ottava le-Lione, si veda in.fra p. 2.03. 12.4. I. Kant, Critica tklla ragion pura (B33), cit., p. 113. Riportando questa citazione la Arendt scrive la parola "incuition" in stampatello maiuscolo.

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l' apparem.a è reale dal momento che la realtà ha un carattere costitutivamente fenomenico. L'apparire[ ... ] non ha qui nulla a che fare con la semantica della simulazione o dell •impostura [... ] ma con un ambito di pura presentazione [... ] » 12s. L'apparire, continua l'autore, ha una portata ontologica, e non semplicemente fenomenologica, come risulta dalla sua riconduzione all'accadimento della nascita in quanto venire alla presenza o, nel senso pieno dell'espressione, alla luce126• Nelle pagine de La vita della mente è esplicitamente affermata questa identificazione tra Essere e Apparire. E nella misura in cui l'uomo, immerso in questo mondo che appare, è al tempo stesso anch •egli apparente (cioè visibile) si comprende la demolizione dell'idea di soggettività cartesianamente intesa, e l'affermazione di quella reversibilità, sempre possibile, tra soggetto e oggetto che è appunto uno dei cardini del pensiero di MerleauPonty. Il mondo così inteso è il mondo umano. «Nessun giudizio di gusto sarebbe valido in un regno intelligibile», si legge ancora nella sesta lezione. A margine di questa trattazione, alcuni appunti manoscritti risultano particolarmente significativi: «Se nella fìlosofia morale abbiamo l'animale dotato di ragione qui abbiamo la ragione dotata di sensorialità. Al posto dell'anima! rationalis, abbiamo una ratio animalis» 127• La Arendt inverte la definizione tradizionale di uomo, nella quale la razionalità è assunta come caratteristica specifica rispetto all'animalità, e pone invece la razionalità come genere, rispetto al quale l'uomo è identificato dal suo essere animale. Il problema infatti è qui, in un ceno senso, rovesciato: occorre ritrovare ciò che individua l'uomo sottraendolo al predominio dell'intelligibile. È di nuovo chiara la volontà della Arendt di marcare una differenza all'interno degli scritti kantiani, sotto questo punto di vista. E del resto è lo stesso Kant a sottolineare questo cambiamento di prospettiva quando, dopo aver distinto le varie forme di piacere tra loro, afferma: « ll piacevole vale anche per gli animali irragionevoli. La bellezza solo per gli uomini, nella loro qualità di essere animali, ma ragionevoli, e non soltanto in quanto essi sono semplicemente ragionevoli (come sono, per esempio, gli spiriti) ma in

12s.

R. Esposito, L'origine della politica. Hannah Arendt o Simone Weil?. Donzelli, Roma

2014 (II ed.), p. 41. 126.

Cfr. ivi, p. 42.

12.7. Sesta lezione, si veda infra p. 193.

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quanto sono nello stesso tempo animali; il buono invece ha valore per ogni essere ragionevole in generale»':r.B. Potremmo considerare questo passaggio come uno dei punti fondanti dell'intera lettura arendtiana. È proprio la diversa concezione dell'uomo (o dovremmo dire, degli uomini, al plurale) qui affermata dallo stesso Kant che autorizza la Arendt a interpretare l'opera come una sorca di apologia dell' umano. In diversi studi critici si è parlato, a questo proposito, di uno spostamento dal piano trascendentale ad un piano empirico-antropologico. In questa linea va collocata quella che potrebbe essere definita, assieme ad altre, come una sorca di "manipolazione" sul cesto kantiano, ovvero la scelta di rendere il termine tedesco allgemein (e le sue relative derivazioni o costruzioni) con l'inglese "generai", in luogo di "universal". A tale aspetto specifico, tutt'altro che secondario, la critica non ha forse riservato la dovuta attenzione. Si contano infatti, almeno per ciò che ci risulta, poche segnalazioni in merito, rinvenibili nei seguenti punti"9 : l'apparato critico dell'edizione americana delle Lectures on Kant's Politica/ Philosophy del 1970, curato da R. Beiner' 30 ; il saggio Arendt'sAppropriation ofKant's Theory ofJudgment' 3' di B. Flynn, che per altro cita lo stesso Beiner; il testo di E. T assin, Sens Commune et Communauté: la lecture arendtienne de Kant ( «Arendt perverte questo compito nel rinviare sistematicamente l'universalità alla generalità. La Critica trascendentale è, di colpo, senza oggetto» )' 3~. La nota di Beiner, che chiarisce in primis il problema, è relativa alla seguente citazione tratta dal paragrafo 40 della Critica del Giudizio: 128. I. Kant,

Critica del Giudizio. cit., p. 85.

129. Potrebbero, naturalmente, esservi altri luoghi oltre quelli menzionati, ma ciò che s'in-

tende dire è che questa sostituzione terminologica, di per sé molto significativa, non sembra essere un argomento di primo piano nell'ambito della letteratura critica esistente. 130. Si vedano, nell'edizione americana delle Lectures on Kant s Politica/ Philosophy {The University of Chicago Press, Chicago 1992; I ed. 1982), la nota n. 155 relativa alle lezioni della Arendt e la nota n. rn2relativa alla postfuzionedi Beiner. Nell'edizione italiana la nota n. 155 è stata ridotta al riferimento del passo citato dalla Critica, e manca di tutta la lunga osservazione condotta da Beiner. 131. B. Flynn, Arendts Appropriation oJKant's 11Jeory ofjudgmmt, in «JBSP. Joumal of che British Society for Phenomenology». voi. 19, n. 2, 1988, pp. 128-140. 132. «Arendt pervertit cette ca.che en ramenant systématiquement l'universalité à la généralité. La Critique trascendentale est, d'un coup, sans object». E. T assin, Sense commun et communautl: la lecture arendtienne de Kant, in «Les Cahiers de Philosophie», n. 4. 1987, p. 98 {traduzione mia).

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«un uomo, per quanto siano piccoli in lui la capacità e il grado delle doti naturali, mostrerà di avere un largo modo di pensare quando si elevi al di sopra delle condizioni soggettive particolari del giudizio [... ] e rifletta sul proprio giudizio da un punto di vista universale [allgemeinen Standpunkte] ». Citazione che la Arendt riporta scrivendo «and reflects upon it from a generai standpoint». Così anche nella successiva - «si potrebbe perfino definire il gusto come la facoltà di rendere universalmente comunicabile il nostro sentimento [... ] » -1' avverbio è reso con "generally" in luogo di "universally"; e ancora in una terza citazione, la comunicabilità universale (allgemeine Mitthelbarkeit) equivale alla "genera! comunicability". Spiace notare, a conferma della scarsa attenzione sul problema da parte della critica in genere, che il traduttore italiano delle Lectures non si sia accorto della differenza, e abbia riportato questi tre passaggi nella loro traduzione autentica, eliminando la modifica apportata dalla Arendt assieme alla nota esplicativa di Beiner da cui tale modifica era messa in rilievo. Sulla copia personale dell'edizione inglese posseduta dall'autrice ( resa disponibile alla consultazione on line sul sito del Bard College di New York, dove è custodita parte della biblioteca arendtiana)•n sono visibili alcune correzioni a matita, con le quali il termine "universal", adottato nella traduzione inglese, viene barrato e sostituito da "genera!". Il § 8 in particolare presenta questa operazione ripetuta per sette volte, a partire dal titolo, L'universalità del piacere in un giudizio estetico è rappresentata solo come soggettiva. Anche il testo del 1964 testimonia in diversi punti questa sostituzione: si potrà leggere, ad esempio, che il bello è ciò che piace "generalmente" senza concetto, e frequenti sono espressioni come "generalità estetica", "validità generale", ecc. Ma la Arendt non fa mistero di questa scelta; anzi, proprio nel testo del '64 sembra darne una spiegazione, quando scrive: « Ciò che è universale è anche sempre generale. Ma la differenza è che "universalmente valido" vuol dire valido in tutto l'universo, ovvero per ogni essere razionale in quanto dotato ragione. "Generalmente valido" si riferisce invece solo agli esseri umani, e dunque non implica alcuna necessità. È la ragione, pura o pratica, a portare con sé la necessità; non il giudizio o il gusto»' 34• La chiarificazione di tale differenza, e dunque dell'uso che la Arendt sce133. Le copie personali della Critica dei Giudizio, sia in edizione inglese che in edizione tedesca, sono consultabili all'indirizzo Blogs.bard.edu/arendtcollection nella se-Lione Mar-

ginalia. 134- Nona le-Lione, si veda infra p. 2.08.

I. Introduzione e analisi

49

glie di fare rispetto alle parole, è del umo assente nelle lezioni del 1970, come pure negli altri luoghi dove viene chiamata in causa la Critica del Giudizio. Un'unica eccezione è rappresentata, forse, dal saggio La crisi de/I.a cultura: ne/I.a società e ne/I.a politica, dove la Arendt riferendosi al giudizio di gusto afferma che, poiché esso si basa sulla presenza degli altri, non potrà mai avere una validità universale. Ma qui tale affermazione va letta in relazione ad un diverso tipo di problema, riguardante il modo in cui si può intendere la "presenza degli altri", al posto dei quali ci si pone nel dare il giudizio: se in termini meramente ipotetici, come Kant sembra suggerire, o se in termini reali, e in tal caso sarebbe giusto dire che il giudizio non può mai essere universale, perché aspira a coprire solo un ambito circoscritto di persone. Di questo aspetto, riguardante, ancora una volta, il passaggio da un piano astratto e trascendentale ad un piano empirico e addirittura comunitario, torneremo a parlare più avanti. Si potrebbe comunque dire, in difesa della Arendt, che il termine "allgemein" non presenta di fatto una traduzione univoca, e che la scelta di renderlo con "generale" non costituisce una vera e propria violazione del suo senso originario, quanto piuttosto, appunto, una flessione preferenziale, ancora giustificabile nei margini di quella libertà che accompagna il passaggio da una lingua ad un'altra. B. Flynn nel suo saggio tenta di evidenziare l'arbitrarietà dell'operazione arendtiana ricordando quanto i due termini avessero per Kant un significato diverso, e richiama per questo il § 7 della Critica del Giudizio. Qui Kant, parlando del "piacevole", porca come esempio quello del padrone di casa che, sapendo accontentare tutti i suoi ospiti, dimostra di avere gusto. Ma, aggiunge, «qui si parla solo comparativamente: e non vi sono che regole generali (come son tutte le regole empiriche) e non regole universali, come quelle cui sottostà, o pretende, il giudizio di gusto sul bello»•JS. È dunque evidente che i due termini non sarebbero per Kant interscambiabili e che, soprattutto in rapporto al bello, sia doveroso parlare di "universalità" (come infatti accade in tutte le traduzioni dal tedesco). Al tempo stesso, si potrebbe anche notare che in questo preciso passaggio Kant non utilizza la parola "allgemein", come in tutti gli altri casi, ma la parola tedesca "universal" [ «und da giebt es nur generale (wie die empirischen alle sind), nicht universale Regeln» ], totalmente somigliante al suo equivalente inglese, e la cui traduzione non prevede, appunto, alcuna variabilità di significato. Perciò si

135. I. Kant, Critica del Giudizio, cic., p. 93.

so

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potrebbe affermare che l'esempio portato da Flynn, per quanto pertinente e appropriato, manchi in ultima istanza il suo obiettivo.

4.2. L'importanza dd giudizio estetico e i suoi antecedenti storici

L •analisi vera e propria dell'opera ha inizio, come già si è detto, a partire dalla sesta lezione, benché non si possa parlare di fatto di una spartizio, ne precisa o di un ordine ben definito, tale da escludere, al suo interno, digressioni, rimandi, anticipazioni e riprese. Il tema del giudizio è infatti introdotto già nella seconda lezione, dove la Arendt menziona l'incipit del saggio Sul detto comune: questo può essere giusto in teoria, ma non vale per la prassi, e l'esempio qui addotto del medico che non è in grado di giudicare perché più dedito allo studio che non all'applicazione. In questo passaggio Kant spiega che tra la teoria e la prassi è richiesto anche un termine medio di congiunzione, perché «al concetto intellettuale che contiene la regola deve aggiungersi un atto della facoltà del giudizio grazie a cui il pratico distingua se qualcosa appartenga al caso della regola o no; e dato che alla facoltà del giudizio non possono essere sem, pre date ulteriori regole secondo le quali debba giudicare (poiché ciò andrebbe all'infinito), possono darsi teorici che nella loro vita non riescono mai a diventare pratici, perché sono scarsi quanto a facoltà di giudicare: ad esempio medici o giu, reconsulti che hanno compiuto bene i loro studi, ma che quando si trovano a dare un certo parere non sanno come comportarsi [...]» 1l 6• Nella stessa linea di riflessione la Arendt si rifà, più avanti, alla Critica della ragion pura (B 172), dove viene ugualmente messa in luce la necessità di una facoltà specifica che serva a compiere il salto dal generale al particolare. È di questa facoltà che ci stiamo occupando qui, spiega la Arendt, di «un talento particolare», il «cosiddetto intuito originario», un «dono naturale» che deve essere «acuito per mezzo degli esempi»m. Per applicare delle regole, infatti, si renderebbero necessarie altre regole, in

136. I. Kant, Sui detto comune: questo può essere giusto in teoria, ma non vaie per la prassi, cit.• P· u3. 137. Espressioni relative alla Critùa dei/a ragion pura, B 172.-174 (besondm Taimt; so gmnantm Mutterwitus; naturgabe), ma restituite qui sulla base della versione inglese che la Arendt ne propone.

I. Introduzione e analisi

SI

un processo ad infinitum, come poc'anzi detto, perciò «diventa chiaro che se l'intelletto è capace di essere istruito e attrezzato mediante delle regole, la facoltà di giudizio, invece, è un talento panicolare, che non può essere inse, gnato, ma solo esercitato»' 38 • Non è un caso che Kant definisca la mancanza della facoltà di giudizio come ciò che propriamente si chiama stupidità (paro, la citata dalla Arendt due volte): «un difetto, quest'ultimo, di fronte al quale non c'è rimedio che tenga»' 39 • In questa prima parte la Arendt evidenzia tre diverse concezioni di giu, dizio: il giudizio che procede dal generale al singolare applicando, ancora, le regole del ragionamento teoretico; il giudizio morale, che non può essere definito realmente come un giudizio in quanto qui è la ragion pratica a co, mandare (pertanto l'individuazione della regola, in questo caso della legge, e la sua applicazione sono un unico e medesimo atto)' 40 ; e infine il giudizio di gusto, che è esso stesso una prova per la correttezza delle regole (in questo caso il giudizio è di nuovo ciò che lega il particolare al generale, ma partendo dal particolare). La Arendt si serve, per quest'ultima definizione, ancora della Critica della ragion pura e in particolare della nota contenuta in B 36, dove Kant argomenta contro il tentativo di Baumgarten di ricondurre la valuta, zione critica del bello sotto dei principi razionali, e di innalzare le sue regole a scienza, scrivendo: «Ma si tratta di uno sforzo inutile: le regole e i criteri suddetti, infatti, considerati nelle loro fonti principali, sono semplicemente empirici, e perciò non potranno mai servire come determinate leggi a priori, sulle quali dovrebbe regolarsi il nostro giudizio di gusto, giacché èpiuttosto quest'ultimo che costituisce la vera pietra di paragone della loro giustezza» '4'. Nello stesso modo Kant affermerà, nella Critica del Giudizio, che del bel, lo non ci può essere scienza(§ 44). Per questo motivo risulta inappropriato utilizzare il termine "estetica" in riferimento alla terza Critica, benché spesso lo si usi in un senso vago e non intenzionalmente riconducibile all'accezione intesa da Baumgarten.

138. I. Kant,

Critica della ragion pura, cit., B 171-172., p. 2.95. Della facolta trascendentale di giudizio in

139. lvi, p. 2.97 {nota contenuta nel paragrafo

generale). 140. Cfr. TerLa lezione, si veda infra p. 177. 141.

I. Kant, Critica della ragion pura, cit., p. us.

52.

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Nella sesta lezione è spiegato il motivo per il quale, per capire la natura del giudizio, occorrerà soffermarsi soltanto sulla prima parte dell'opera, la parte riguardante, appunto, il giudizio estetico (tralasciandola seconda sul giudizio teleologico). È interessante notare che la Arendt, nel dare tale giustifìcazione, voglia ricorrere alla Prima Introduzione alla Critica del Giudizio, quell'introduzione che Kant non pubblicò mai personalmente e che potrebbe essere considerata di valore secondario rispetto all'introduzione "ufficiale". È anche questo un punto "esclusivo" nella ricognizione dei riferimenti arendtiani alla terza Critica. «Dei due tipi d'uso del Giudizio riflettente (l'estetico e il teleologico), il giudizio che precede ogni concetto dell'oggetto, ossia il giudizio riflettente estetico, è il solo ad avere il suo principio di determinazione unicamente nel Giudizio, non confuso con nessun'altra facoltà della conoscenza»' 42 , scrive Kant. Il giudizio teleologico è ancora imparentato con la ragione, e di fatto non esigerebbe un'analisi volta a ricercarne i principi a priori. È solo nel gusto che il Giudizio si manifesta come una facoltà che ha un principio peculiare, ed è tramite questo principio che pone la fondata pretesa di un posto nella critica generale delle facoltà superiori della conoscenza•4i. Osservazioni simili si ritrovano, in realtà, anche nell'Introduzione vera e propria che precede l'opera, nella sezione VIII, dove Kant scrive che la parte comprendente il Giudizio estetico «è essenziale in una critica del Giudizio, perché essa sola contiene un principio sul quale il Giudizio fonda interamente a priori la sua riflessione sulla natura» ' 44• La preferenza accordata alla Prima Introduzione è dovuta forse alle maggiori precisazioni che Kant qui fornisce, e di cui l' autrice riporta nel suo inglese alcuni passaggi. A conclusione di questo breve confronto la Arendt scrive: «Se vogliamo studiare il giudizio, è opportuno che ci concentriamo allora sulla prima parte della Critica». Con quest' affermazione si abbandona la parte preliminare del testo per entrare più nel vivo della questione, sebbene, come già si è detto, questa suddivisione vada intesa più come un criterio orientativo nella lettura che non come una spartizione effettiva e compiuta. Dopo una schematizzazione delle facoltà kantiane, la Arendt si propone di condurre una sorta di excursus storico che permetta di individuare le premesse 142.. I. Kant, Prima Introduzione alla Critica del Giudizio, traci it. di P. Manganaro, Laterza, Bari 1969, p. 12.8. 143. Cfi-. ivi, p. 12.9. 144. I. Kant, Critica del Giudizio, cit., p. 57. Si veda in proposito anche p. 59.

I. Introduzione e analisi

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relative al concetto di gusto e alle sue implicazioni, poiché, come affermato da Baeumler' 4 S, Kant poggerebbe qui sulla tradizione più che altrove. Questa selettiva panoramica di autori è anche l'occasione per cominciare a disquisire su alcuni temi centrali della Critica tra cui, soprattutto, la nozione di sensus communis. È noto che il concetto di gusto abbia preso piede in epoca illuminista, con la conseguente fondazione di una nuova disciplina accademica ad esso dedicata. La Arendt riporta l'esempio di una lettera del 1765 indirizzata a Kant, dove si legge: « Tutta Berlino filosofeggia unicamente intorno alle cosiddette "belles-lettres" » (la lettera, datata 13 novembre è di Johann Heinrich Lambert e la traduzione letterale di questo punto sarebbe "ovunque qui si filosofeggia unicamente intorno alle cosiddette belle scienze")' 46• Conformemente a questo spirito, anche Kant aveva inizialmente pensato di intitolare la sua Critica come Critica del Gusto. Inoltre, già nel corso dei primi sviluppi del lavoro, egli avrebbe affermato di volersi occupare del senso comune {la Arendt indica come data il 1765 ma non specifica il luogo di tale dichiarazione). È così ammesso fin da subito un legame tra il gusto e il senso comune, legame che si allarga poi a comprendere anche il giudizio. Partendo da questo assunto, la Arendt si domanda se la sostituzione della parola gusto con la parola giudizio appartenga solamente a Kant, e se si debba ritenere originale il legame da lui stabilito tra gusto, giudizio, e senso comune. La risposta è che tali connessioni sono state rinvenute nel corso della storia già da altri autori, il primo dei quali è Cicerone. Il riferimento, contenuto anche nelle lezioni del 1970, è al De oratore III, 195, dove Cicerone parla di un senso silenzioso che permette a tutti gli uomini di distinguere il giusto dallo sbagliato in materia di arte e di proporzione, pur non avendo essi alcuna conoscenza né dell' aree né della proporzione. Tali nozioni, infatti, sono già radicate in noi, nel nostro senso comune, perché la natura ha voluto che nessuno ne fosse totalmente inesperto. Così, scrive l'autore, «è incredibile quanta poca differenza ci sia tra il dotto e 1' ignorante nel giudicare, a fronte

I 45. Alfred Baeumler ( 1887-1968 ), filosofo tedesco, studioso di estetica, citato dalla Arendt nei suoi appunti, è stato autore di Kants Kritik der Urteilskraft: Das lrrationa/itiitsprob/ern in der Aesthetik und Logik des achzehnten jahrhundert (192.3), dove si è interrogato anche sul rapporto della Critica del Giudizio con la tradizione. 146. Lettera di Johann Heinrich Lambert del 13 novembre 1765 (n. 33), in Kant 's gesammelte Schriften, Akademie Ausgabe (d'ora in poi AA) X, Brief,uechsel, p. 52.: «Hier herum philosophirt man schlechthin nur tiber die sogenannten schonen WiBenschaften».

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della grande differenza che vi è nel produrre». In questo breve passo si evidenzia già, secondo la Arendt, la coincidenza fra giudizio e gusto, e il modo in cui questa "dote naturale" di cui tutti sono provvisti si allontana dalle prerogative esclusive della conoscenza. Il riepilogo storico approda, con un salto temporale non indifferente, direttamente al XVII secolo, epoca in cui la questione dell'estetica trova il suo punto d'origine. Si snoda qui una successione di nomi e riferimenti, del tutto assente nelle lezioni del 1970, come anche in altri luoghi della produzione arendtiana: un passaggio filologicamente interessante, e prezioso per certi versi, che patisce però anche i limiti di un'argomentazione veloce e talvolta solo abbozzata. Nel riportare a galla autori e opere del passato la Arendt non manca di incorrere, tra l'altro, in qualche inesattezza: è il caso dell'opera Anfangsgrunde aller schonen Kunste und Wissenschaften (17 48 ), erroneamente attribuita a Baumgarten, e appartenente invece a GeorgFriedrich Meier, che di Baumgarten era stato allievo presso l'università di Halle; o, ancora, dell'Art poetique di Boileau (1764), presentata come traduzione dell'Ars poetica di Longino. In verità, I'Ars poetica da cui Boileau trasse ispirazione, senza farne una vera traduzione, fu scritta da Quinto Orazio Fiacco, mentre di Longino o dello Pseudo-Longino, Boileau aveva tradotto il Trattato sul sublime (Traité du sublime 1674). La Arendt sovrappone quindi i due riferimenti. Allo stesso modo, non è del tutto chiaro il richiamo al "Discreto" di Baltasar Gracian che verrebbe a coincidere, secondo l'autrice, con la figura del "politicus" (cui Gracian dedicò un'altra opera). Tali inesattezze non devono stupire poiché si presuppone che nell'impeto creativo della scrittura la Arendt si affidasse al flusso tanto immediato quanto incerto della memoria, e che la sua fosse una sorta di "corsa" verso un obiettivo principale rispetto al quale la precisione dei dati di contorno risultava, in fondo, secondaria (e ciò può essere ritenuto ancor più vero rispetto ad uno scritto come questo, non destinato alla pubblicazione). Ferruccio Focher inquadra tali frequenti anomalie ali' interno del complessivo "antifilologismo" della Arendt, di cui si è già parlato all'inizio di questo saggio: «inevitabili, per chi muova da un tale atteggiamento, non soltanto forzature ermeneutiche, non tutte facili da accettare - come la posizione attribuita a Vico di sostanziale concordanza con Cartesio, sottacendo, o ignorando, la polemica umanistica anticartesiana del filosofo italiano [... ] - ma anche qualche svista, o confusione vera e propria - come l'attribuzione a Catone il censore, che si limita

I. Introduzione e analisi

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a riferirli, di detti risalenti ali' Africano Maggiore, e di una cdebre sentenza appar, tenente invece a Lucano [... ] » '47. A dispetto di ciò, vi sono comunque aspetti significativi e meritevoli di essere valorizzati. Liquidando velocemente Boileau, la Arendt cita una frase di Crousaz, au, tore del Traité du Beau, 1715 : «le bon gout nous faic d'abord escimer par le sentimene ce que la raison aurait approuvé après qu' elle se serait donné le temps de l'examiner assez pour en juger sur les justes idées»' 48 : il buon gusto ci porta a stimare fin da subito attraverso il sentimento ciò che la ra, gione potrebbe approvare solo dopo che le fosse dato il tempo di esaminare sufficientemente 1' oggetto per giudicarlo secondo le giuste nozioni. Questa affermazione scompone l'unità contenuta nel "senso silenzioso" concepito da Cicerone, e riduce il gusto ad una sorta di istinto che anticipa la retta ragione. È testimoniato qui, secondo la Arendt, quel dualismo era ragione e sentimen, to che caratterizza la cultura del Settecento e che condizionò anche 1' estetica. In qualche modo, si era costretti ad ammettere solo due alternative: o la ra, gione è schiava delle passioni e non può che riverirle (Hume); o al contrario la ragione domina le passioni ma diventa, per questo, una ragione calcolante (Hobbes). Questa ingenuità è dovuta, secondo l'autrice, all'inadeguatezza del quadro pre,kantiano di classificazione delle facoltà mentali. Il grande me, rito di Kant è stato infatti quello di uscire dal dualismo ragione,sentimento per elaborare una cornice ben più articolata: la sensibilità riacquisisce valore ponendosi come organo ricettore della realtà, senza per questo prevaricare sulla ragione; l'intelletto e la ragione vengono distinti tra loro, essendo il primo l'organo della conoscenza e la seconda 1'organo del pensiero ( «nel, la misura in cui sappiamo che pensare e conoscere non sono la stessa cosa, siamo autorizzati ad un pensiero che trascende la conoscenza» )' 49 ; a queste facoltà si aggiungono l'immaginazione e il giudizio, aventi entrambi origine nell'esperienza estetica. Ma il quadro presenta un'ulteriore estensione. Occorre ricordare infatti che solitamente il sentimento e le passioni sono legati all'ambito privato, o

147. F. Focher, Hannah Armdt, gli Autori e la «tradizione infranta», in Libertà e teoria de/l'ordine politico, Franco Angeli, Milano 2.000, pp.144-145. 148.Jean-Pierre de Crousaz, Traiti du Beau {1715),Fayard, Paris 1985, VII,§ 5, p. 108 (edizione originale: che-L François l'Honoré, Amsterdam 1715, p. 68). 149. Ottava le-Lione, si veda infra p. 2.02..

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soggettivo, tanto quanto la ragione corrisponde ad una dimensione oggettiva e pubblica. Stando a cale suddivisione, i giudizi considerati validi dovrebbero provenire soltanto dalla ragione, ovvero da ciò che è comune. Kant, invece, oltre a distinguere i sensi tra interni ed esterni, soggettivi e oggettivi's introduce un senso con cui posso sentire me stesso, ciò che mi piace e ciò che non mi piace. Tale senso rompe defìnitivamente la dicotomia; è infatti soggettivo, da un certo punto di vista, perché non porta mai alla conoscenza, ma oggettivo, da un altro punto di vista, o per meglio dire "pubblico", perché si relaziona agli altri. È appunto il senso comune, oggetto privilegiato dell'analisi arendtiana, e anch'esso fondato in qualche modo su un ossimoro (un po' come la defìnizione del bello), poiché generalmente non dovrebbe essere il senso, quanto piuttosto l'intelletto, a defìnirsi "comune". Prima di affrontare il § 40 della Critica del Giudizio (Del gusto come una specie di «sensus communis») la Arendt considera ancora, a questo proposito, due "predecessori" di Kant, «uno francese e l'altro italiano». Il primo, Dubos, ritenuto il meno interessante tra i due, è autore delle Réflexions critiques sur la poésie et sur la peinture, 1719: «Il est en nous un sens destiné pour juger du mérite de ces ouvrages»•s• [vi è in noi un senso predisposto a giudicare il valore di queste opere], come un sesto senso. Il gusto e il giudizio per molti autori di questo periodo cominciano ad appartenersi, scrive la Arendc. Il gusto, affermò qualcuno di loro, giudica il valore, diverso dal costo, di ogni cosa•s•. Gottsched, seguace di Dubos, sarebbe stato il primo a utilizzare la parola Urteilskraft. Nel suo V ersuch einer kritischen Dichtkunstfar die Deutschen•sJ ( 1730) egli identifìcò il giudizio con il sensus communis, ma poi nuovamente il sensus communis con l'intelletto. L'immediato precursore di Kant è Baumgarten, che introdusse la parola Beurteilung.skraft per indicare il gusto, la cui funzione era quella di percepire la perfezione, o la sua assenza, in un oggetto. Ma, scrive la Arendt con un tono perentorio, di gran lunga più importante è l'italiano Muratori. Colpisce l'attenzione riservata, seppure in un breve paragrafo, a questo 0 ,

150. Si veda I. Kant, Antropologia da/ punto di vista pragmatico, introduzione e note di M. Foucault, trad. it. di M. Bertani e G. Garelli, Einaudi, Torino l0I0, § 15, p. 143. 151.Jeanne Baptiste Du Bos,Rtjkxions critiques sur /apoésiut sur /a peinture, 1719, Seconde Partie, Section XXII, chezJean Mariette, Paris 1719, p. 307 (consultabile sul sito Archive.org). 15l. Cfr. Ottava le-Lione, si veda infra p. lo4. 153. Saggio di poetica critica per i tedeschi, 1730.

I. Introduzione e analisi

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autore il cui nome, per quanto risulta, non compare in nessun altro luogo della produzione arendtiana; ed è ancora maggiormente degno di nota il fatto che alcune frasi o alcuni periodi vengano riportati nel loro italiano originale. «To judge and to taste,giudicare et gustare, are synonymous». Muratori è presentato qui come autore delle Riflessioni sopra il buon gusto'H, ma in verità brani citati dalla Arendt risultano tratti da un'altra opera: Della perfetta poesia italiana spiegata e dimostrata con varie osservazioni da Ludovico Antonio Muratori (1724). Parafrasando un passaggio ivi contenuto, l'autrice scrive che il giudizio concerne tutti i nostri atti e pensieri, è il Re fra tutte le nostre facoltà ed è la virtù più rara (diversamente da quanto affermava Cicerone, ovvero che si trattasse di un dono naturale di cui tutti sono dotati). Il brano cui l'autrice fa riferimento, senza citarlo espressamente, è il seguente: « Questo infatti è il Motor più riguardevole, e la Virtù più nobile, che siede nella parte più limpida dell'Anima nostra, abitando esso in noi come Re, come Giudice di tutte le azioni, e de' ragionamenti nostri, onde ha eziandio tratto con ragione il nome di Giudizio. Ma quanto è stimabile questa bella Virtù, altrettanto è rara nel mondo, e perciò Platone nell'Alcibiade Secondo ebbe a dire che infinita è la schiera di coloro che sono privi del Giudizio [... ]»•ss.

Nell'opera dell'illuminista italiano, che precede il monumentale lavoro critico di Kant di circa una sessantina d'anni, si possono riscontrare inoltre, secondo la Arendt, delle vere e proprie anticipazioni. Ad esempio, il giudizio viene definito come una facoltà che riguarda la considerazione degli individui e delle cose particolari; e poiché queste sono infinite, non sarà possibile avere delle regole o delle leggi valide per il giudizio, in quanto dovrebbero essere infinite anch 'esse'S 6• Questo punto richiama, come sarà evidente, l 'argomentazione kantiana contenuta nella Critica della ragion pura e altrove, secondo cui il giudizio, essendo già impegnato a sussumere il singolo caso sotto una regola, non può a sua volta ricevere altre regole, perché altrimenti si cadrebbe 154- Delle riflessioni sopra il btl()n gusto intorno le scimze e le arti, I ed. nel 1708, II ed. con leggera variazione nel titolo ("nelle scienze e nelle arti") nel 1715, di Ludovico Antonio Muratori (Vignola, 1671 -Modena, 1750). 155. Della perfetta poesia italiana spiegata e dimostrata con varie osservazumi da Ludovico Antonio Muratori, Venezia 1714 (I ed. 1706), tomo I. libro Il, capitolo X, p. 370. 156. « Il giudizio è una vertù, che si fonda sulla considerazione de gl •individui, et delle cose particolari, e perché queste cose son per così dire innumerabili, perciò innumerabili ancora sono le leggi, et le regole del giudizio», ivi, p. 371.

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in un processo ad infinitum. La Arendt ripona la frase originale di Muratori, e avvicina il pensiero dei due autori scrivendo: «ciò che è individuale o panicolare non può essere sussunto sotto delle regole». Infine, Muratori avrebbe già capito, secondo la Arendt, che il giudizio implica un'immedesimazione con il punto di vista altrui. Giudicando, siamo coscreni a "fingere d'essere un altro", parole citate in italiano e ricavate dal seguente brano: «Aprirà dunque anche il poeta cene' occhi, scenderà la vista per cento lati [... ] E talvoltafingendo d'essere un altro, interroga sé stesso, e dice: S'io fossi il Petrarca, se Cicerone, se Virgilio, parlerei in questa maniera? O pur va dicendo: se udissi in componimento altrui queste immagini, mi dilenereohero esse? Porrebbe egli approvarsi da me questa ragione, questo sentimento, s' altri me lo proponesse per dilettarmi, o persuadermi in questo suggetto? In somma non v'è particolarità, e circostanza, che il Giudizio acutamente non esamini, per conseguire il fine, eh' egli s'è in primaproposto»•s7_ Allo stesso tempo occorrerebbe notare che, nel tracciare questo parallelo, laArendt sottolinea per due volte una leggera discrepanza tra il tipo di immedesimazione cui allude Kant nel paragrafo 40 e il tipo di immedesimazione proposto da Muratori. Nel primo caso, infatti, si trana di assumere la posizione di ciascun altro; nel secondo caso, invece, si trana di "fingere" un'altra identità. È difficile chiarire quale potesse essere, nelle intenzioni della Arendt, il senso di questa sottolineatura, indicata con poche e rapide battute'58• Si potrebbe forse

157. lvi, p. 373. 158. Verso la fine dell'ottava lezione la Arendt invita ad un confronto tra il "fingere d'essere un altro" di Muratori e il§ 40 della Critica,escrive: «Il senso comune ci fa vedere la posizione di ciascun altro, benché non il ciascun altro in quanto tale» ( « Common sense make me see che position of everybody else - not che everybody himself», p. 032.2.65 del dattiloscritto originale); e più avanti, sempre commentando il§ 40: «Ci mettiamo al posto di ciascun altro, piuttosto che, propriamente, immaginare di essere qualcun altro» ( «We put ourselves in che position ofeveryone else, instead of: We image we are somebody else», p. 032.2.67 ). Un punto di somiglianza con queste affermazioni è da riscontrare anche nella breve aggiunta relativa al pensiero rappresentativo, in cui la Arendt adduce l'esempio di coloro che abitano nelle baraccopoli, e scrive: «provo a immaginare come mi sentirei se vivessi lì. E aggiungo questa rappresentazione alla mia perce-Lione oggettiva. Ciò non vuol dire che io mi senta come realmente si sentono gli abitanti delle baraccopoli: sono io a parlare, con la mia voce. E questo è appunto il giudizio che ne scaturisce: [... ] un giudizio, o un pensiero, di tipo rappresentativo» (p. 032.2.77 ).

I. Introduzione e analisi

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azzardare a dire che, per quanto il pensatore italiano introduca già il con, fronto con gli altri sotto il nome di "giudizio", tale confronto ha ancora la forma elementare del gioco di fantasia, non a caso attribuito al poeta, mentre in Kant si tratta di nn esercizio critico vero e proprio, che consiste nel fare astrazione dalle proprie condizioni particolari. Il paragone con Muratori è ad ogni modo introduttivo all'analisi del paragrafo 40 della Critica, vero pun, to d'approdo di questa particolare ricognizione relativa al "background" del concetto di gusto.

4.3. Il senso comnne o senso della comunità

In nna nota della sua importante monografia su Hannah Arendt, e in par, ticolare nel capitolo dedicato al rapporto con Kant, S. Forti scrive: «Si può affermare che il § 40 della Kritik der Urteilskraft, Delgusto come di una specie di sensus communis, sia il perno attorno a cui ruota la "politicizzazione" del giudizio estetico operata dalla Arendt» 1w. Tale opinione, sulla quale con, verge il parere di molti studiosi, tiene conto soprattutto di quel «modo di pensare largo» che Kant introduce in questo paragrafo, e che ci abilita ad un tipo di pensiero inclusivo, non più semplicemente orientato sull'ideale della coerenza logica o morale. Si potrebbe dire che, in effetti, si verifìchi qui una riformulazione della stessa morale kantiana, non più intesa come im, pegno del soggetto razionale a non entrare in contraddizione con la legge - e dnnque con sé stesso (come già si è evidenziato) quanto piuttosto co, me apertura, immedesimazione, confronto con l'altro da sé. Ciò comporta una paradossale inversione di ambiti: «vi sono infatti nna serie di elementi che ci aspetteremmo di trovare nella fìlosofìa morale di Kant, piuttosto che nell'estetica» 160• L'autrice cita dalle Riflessioni sull'Antropologia, n. 767, dove Kant, parlando del gusto, afferma « Wir miissen uns gleichsam anderen zu gefallen entsagen» 161 : dobbiamo in nn certo modo rinunciare a noi stessi per piacere agli altri o in favore degli altri. Questa frase ricorre anche in nn saggio successivo, Alcune questioni di filo, sofia morale, accompagnata da un'osservazione dello stesso tipo: «è più che

159. S. Forti, Hannah Arendt Ira filosofia e politica, cit., p. 33 4. 160. Decima lezione, si veda infra p. 2.16. 161. «Wir mtisscn dabcy uns gleichsam anderen zu gefallen entsagcn». Rejlexionro zur Anthropologie n. 767, AAXV, pp. 334-335.

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curioso che questa critica dell'egoismo sia formulata non nell'ambito della sua filosofia morale, bensì nell'ambito di una critica del giudizio estetico [... ] » 16 •. I passaggi di questi due testi (Kant 's Politica/ Phi!.osophy, 1964 e Alcune questioni di filosofia morale, 1965) relativi a tale annotazione sono in effetti molto simili, e anzi quasi sovrapponibili. In entrambi gli scritti la Arendc sostiene che solo attraverso il gusto diveniamo "rispettosi" nel senso originario del termine. Nell'ambito propriamente morale ciò non avviene: non consideriamo le conseguenze delle nostre azioni, poiché esse sono totalmente irrilevanti rispetto alla legge e alla bontà del volere cui l'atto deve essere ispirato. In questo tipo di giudizi, invece, «il detto socratico: "È meglio essere in conflitto con il mondo intero piuttosto che essere in conflitto con sé stessi" non è più vero. Bisogna provare a raggiungere un accordo con gli altri» 163• Nel gusto l'egoismo è superato, scrive Kant: ciò vuol dire che in società dobbiamo superare le nostre condizioni particolari e soggettive, afferma la Arendc, un po' come nella filosofia morale si devono superare le "inclinazioni"; ma mentre in quest'ultimo caso il superamento della propria "particolarità" avviene sempre per un vantaggio personale, nel giudizio di gusto avviene invece in favore degli altri, o, come spiega l'autrice, in favore di sé «solo nella misura in cui io stesso sono umano e non posso vivere fuori dalla compagnia» 16 4. Alla luce di cali considerazioni, il testo del '64 invita a considerare le tre Critiche kantiane dal punto di vista della trascendenza, intendendo quest' ultima non in termini metafisici, ma appunto nei termini di una uscita da sé. In tutti e tre i casi, infatti, si tratterà di un olcrepassamento: nella Critica della ragion pura, in direzione degli oggetti, ovvero del mondo esterno; nella Critica della ragion pratica in direzione dell'intelligibile e del sovrasensibile (che come tale non si vede); nella Critica del Giudizio in direzione degli altri soggetti, ovvero degli uomini in quanto uomini ( «men qua men»). Possiamo ora considerare il modo in cui la Arendc riprende il discusso paragrafo 40 ali' interno di Kant 's Politica/ Philosophy. Queste lezioni, come già si è detto, risultano più ricche di riferimenti ai paragrafi specifici della Critica, quasi che la Arendc voglia guidare i suoi studenti nella lettura; in riferimento al senso comune, l'indicazione è di considerare i paragrafi 40,41 e 20-22. Nelle lezioni del 1970 non v'è menzione dei paragrafi 20-22 (come di molti altri) Arendc, Akunequestioni difilosofia morale, in Responsabi/ita e Giudizio, cic., p. 122. Decima le-Lione, si veda infra p. 217. 164.Ibid.

162.. H. 163.

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e ritengo che, anche rispetto al paragrafo 40, il resto del •64 offra forse qual, che particolare in più che ci consente di impostare diversamente il discorso. La Arendr segue il ragionamento condotto ali' inizio da Kant: "senso co, mune" è il nome poco lusinghiero con cui si designa solitamente l' inrelligen, za comune, ovvero quel sano intelletto, «non peranco colrivaro» 16\ che «si riguarda come il minimo che si possa sempre aspettare da chi aspiri al nome di uomo»' 66 • In questo senso, l'aggettivo "comune" è inteso come sinonimo di vulgare ( «ciò che si trova dovunque, e che non è affatto né un merito né un privilegio il possedere» )' 67• Ma tale identificazione è, appunto, errata, come per altro Kant aveva già chiarito nel § 2.0, dove è espressamente affermato che l'intelligenza comune e il senso comune non sono la stessa cosa, poiché nel primo caso vi è la mediazione del concetto, nel secondo invece vi è solo il sentimento. Per sensus communis, allora, si dovrà intendere qualcos'altro: «si deve intendere l'idea di un senso che abbiamo in comune, cioè di una facoltà di giudicare che nella sua riflessione tien conto a priori del modo di rappresentare di rutti gli altri [... ] » 168• È in queste parole che si chiarisce il diverso significato che Kant attribuisce ali' aggettivo "comune", pur non espii, citandolo completamente, e che la Arendr fa suo. "Comune" non vuol dire qui infatti semplicemente "condiviso", come qualcosa di cui più persone siano in possesso, ma vuol dire "inclusivo" (di un punto di vista esterno) o come dirà la Arendr, "comunitario". Il sensus communis è "comune" non soltanto in quanto appartiene a rutti, come lo stesso Kant scrive, ma in quanto è la facoltà attraverso la quale si può anticipare il punto di vista degli altri. Se la prima accezione è confermata dalle stesse parole di Kant ed è, del resto, quella più inruiriva, la seconda potrebbe sembrare il frutto di un• interpretazione, anco, ra una volta arbitraria. Ma ritengo che in questo caso si possa invece dire che la Arendr assecondi pienamente la contrapposizione voluta dallo stesso Kant tra una concezione del senso comune più usuale, che lo appiattisce a livello di "minimo comun denominatore" e una concezione nuova, meno scontata, che permette di identificare il senso comune con il senso della comunità (sebbene Kant non lo definisca propriamente così, almeno nella Critica del Giudizio). Per questo laArendt può scrivere, proprio dopo aver citato la definizione kan, tiana: «it's nor common sense, it's sense of communiry», volendo intendere 165. I. Kant, Critica del Giudizio, cit., p. 263. 166. /biti. 167. !bui. 168. /bui.

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che il significato classico dell'espressione va riformulato (come appunto Kant suggerisce). E così intese, le due espressioni diventano sinonimiche, tanto da essere usate dalla Arendt quasi sempre insieme: "senso comune o senso della comunità", come si potrà leggere anche nelle lezioni del 1970 (cit., p. 44) 169• A sostegno della propria tesi la Arendt introduce un riferimento ad una non meglio identificata "Metafisica", che risulta corrispondere alla Metafisica Li, compresa nel volume XXVIII degli scritti kantiani editi dall'Accademia delle Scienze di Berlino' 70. Anche qui vi è infatti una sezione dedicata alla facoltà del piacere e del dispiacere. E anche qui, distinguendo le tre forme di vita possibili (animale, umana e spirituale), Kant individua tre tipi di piacere (come accadrà nel paragrafo s della Critica del Giudizio), corrispondenti a ciascuno stadio. Ciò che distingue il piacere animale dal piacere umano è ap~ punto il fatto che il primo consista in un sentire privato (Privatsinn) mentre il secondo è, invece, «il sentimento secondo il senso comune>>'7'. La Arendt riprende questa distinzione sottolineando come, in merito a ciò che è meramente "privato", non possa esserci discussione e non vi sia, dunque, nemmeno alcuna possibilità di dialogo. Il Privatsinn (parola che ricorre an~ che nella Critica del Giudizio, all'interno della Nota generale sull'esposizione dei giudizi estetici rijlettenti)' 7 ~ è una sorta di prigione che confina l'individuo in uno stato di isolamento e lo relega nella sua primitiva animalità. L'uscita da tale prigione è possibile solo attraverso il senso comune - o senso generale, e se ci chiediamo come sia possibile giudicare secondo un tale senso generale, dal momento che ciascuno considera l'oggetto in base al proprio senso privato, la risposta è nella comunità: è lo stesso vivere insieme tra gli uomini che produce un senso comunitario, valido per tutti 173•

169. Si consideri anche l'inizio della tredicesima lezione, 1emia del giudizio politico, cit., p. 109: «Concludiamo ora la nostra discussione del senso comune nel suo autentico significato kantiano, secondo il quale il senso comune è senso comunitario, smsus communis, distinto dal

sensus privatus». 170. Metaphysik L,, in Vorlesungen uber Metaphysik und Rationaltheologie, a cura di Gerhard Lehmann. Erste Halfte (voi. I), Vorlesungen uber Metaphysik, AA XXVIII, Berlino 1968. 171. Parte della Metafisica L, si trova in traduzione italiana in I. Kant, Lezioni di Psicologia, a cura di L. Mecacci, traduzione di G. De Toni, LaterLa, Roma-Bari 1986. ll riferimento qui èap. 78. 172. l. Kant, Critica del Giudizio, cit., p. 231. 173. Si potrà forse osservare che qui l'animalità compare in un• accezione negativa, come quella sfera in cui il piacere è appiattito sul piano della mera gratificazione, e da cui bisogna

I. Introduzione e analisi

Chi non partecipa di una comunità non possiede dunque questo senso co, mune. Gli uomini possono distinguere il bello dal brutto solo in quanto vivo, no insieme, e possiedono un metro condiviso (gemeimchaftlichen Majfstab). «Se ad una persona piace qualcosa in accordo con un senso comune e gene, ralmente valido, questa persona ha gusto»'74. Dopo questa breve digressione nelle Vorlesungen, la Arendt torna ad ana, lizzare il paragrafo 40 della Critica, e in particolare il punto in cui Kant spiega il funzionamento della "riflessione" (da intendere in senso letterale anche co, me un "rispecchiamento") con cui si tiene conto a priori del modo di pensare altrui: «Ora ciò avviene quando paragoniamo il nostro giudizio con quello degli altri, e piuttosto coi loro giudizi possibili che con quelli effettivi, e ci poniamo al posto di ciascuno di loro, astraendo soltanto dalle limitazioni che sono attinenti in modo contingente al nostro proprio giudizio: il che si ottiene rigettando dal nostro stato rappresentativo tutto ciò che è materia, cioè sensazione, e portando unicamente l'attenzione sulle proprietà formali della nostra rappresentazione o del nostro sta, to rappresentativo»•7s. Tale estratto, molto caro all'autrice e citato infatti in entrambi i corsi su Kant, è paradossalmente al tempo stesso tanto un sostegno alla sua tesi quan, to il luogo forse più utilizzato dalla critica per dimostrarne la sconfitta: è qui introdotto il tema di un confronto con gli altri, che costituirebbe la vera no, vità rispetto alla fìlosofìa morale, ma è anche esplicitamente chiarito che cale confronto è soltanto ipotetico, poiché i giudizi di cui si parla sono i giudizi possibili, e non quelli effettivi. Secondo alcuni studiosi la Arendt avrebbe precisamente invertito questa indicazione, attribuendo una forma concreta e

uscire per potersi definire realmente umani; ciò potrebbe apparire in contraddizione con altri punti del testo in cui la Arendt sostiene invece la necessità di un recupero dell'animalità, perché l'uomo possa distinguersi dalla schiera degli esseri intelligibili. La contraddizione è però solo apparente, proprio perché il bello non coincide né con la mera gratificazione, né col piacere mediato dal concetto ( il bene) ma è - come spiegato da Kant nel§ s - un piacere totalmente umano. Così accade che la Arendt, spiegando il fenomeno del gusto, insista a volte sulla distanza dal regno dell'animalità, altre volte sulla distanza dal regno degli esseri razionali. 17 4- MetaphysikL,, AA XVIII, p. 2.49. Traduzione italiana in I. Kant.Lezioni di psicologia, cit.,p. 79. 175. I. Kant, Critica del Giudizio, cit., p. 2.6s.

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fattuale a ciò che si configura piuttosto come un lavoro di astrazione176• Ana~ lizzeremo meglio cale aspetto più avanti. Per ora consideriamo ancora alcuni importanti punti contenuti in queste pagine. Se la realtà si dà solo nel suo apparire, "mettersi al posto degli altri", ovvero giudicare, significherà chiedersi come una cosa appaia da più punti di vista. Riprendendo ancora le parole di Kant, l'autrice afferma che cale operazione potrà sembrare artificiosa, ma che in realtà è la più naturale. «Il gusto può es~ sere chiamato sensus communis in maniera più legittima del Gesunde Verstand, il sano intelletto» '77 ; facoltà che, aggiunge ironicamente la Arendt, risulta non essere poi così "sana". Ali' intelletto, infatti, l'autrice fa corrisponderei' as~ solucezza e l'indiscutibilità del vero, tanto quanto al gusto corrisponde l' opi~ nione, la doxa, quella visione del mondo che si fa plurale non appena si cambi anche di poco la propria angolatura. Attorno a ciò che non è certo si può ancora discutere, si può creare lo spazio di un confronto libero che diventa, nello stesso tempo, lo spazio aperto di una comunità. Nelle lezioni del 1970 la Arendt rileva a questo proposito come non sia casuale il fatto che Kant parli di "massime" del senso comune: « Tutto ciò non è oggetto di conoscenza: la verità costringe, non ha bisogno di "massime". Le massime si applicano e sono necessarie esclusivamente in materia di opinione e nei giudizi» 178• A cale aspetto si lega un altro dei punti più decisivi nell'interpretazione arendtiana: la questione della comunicabilità. Nella sfera della conoscenza la comunicabilità è possibile in quanto abbiamo tutti le stesse facoltà, scrive la Arendt. «Non comunichiamo dunque noi stessi (il nostro piacere o di~ spiacere) ma l'identico risultato delle nostre facoltà conoscitive. Potremmo essere tutti uguali, e parlare nello stesso modo» ' 79• La pluralità degli uomini somiglierebbe allora ad una mera moltiplicazione. Se ci trovassimo a vivere nel mondo assieme ad esseri totalmente identici a noi, ciò che è vero per uno sarebbe vero per tutti (compulsione). Il giudizio, invece, valuta le cose in rapporto a noi stessi; «come senso comune si riferisce al soggetto ma è, nello stesso tempo, intersoggettivo, perché prende in considerazione tutti 176. Si vedano, tra gli altri, E. T assin, Sens Commune et Communauti: la kcture arendtienne de Kant, cit., p. 93; R. Esposito, Communitas. Origine e destino della comunità, Einaudi, Torino

1998,p. 76. 177. U riferimento è al § 40 della Critica del Giudizio, cit., p. 2.67 ( «Dico che il gusto potrebbe esser chiamato sensus commur1is con più ragione che il sano intelletto; e che spetta piuttosto al Giudizio estetico che al Giudizio intellettuale il nome di senso comune»). 178. H. Arendt, Teoria del giudizio politico, cit., p. 107. 179. Tredicesima lezione, si veda in.fra p. 2.34.

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gli altri» 180 • Qui abbiamo la pluralità nel senso autentico del termine: gli uomini nella loro diversità; posizioni uniche nello spazio e nel tempo. La comunicabilità allora non potrà essere sinonimo di compulsione, poiché: «ciò che è vero per una sola persona non può in nessun modo essere vero per tutti. Si può soltanto tendere all'intesa, all'accordo o all'armonia, perché ciò che comunico non è l'oggetto, mala mia relazione con esso. Il giusto modo di pensare in questa sfera è il modo rappresentativo: quante più posizioni includo nella mia considerazione, tanto più essa sarà valida. Il pensiero rappresentativo è la possibi, lità più alta del senso comune» 1s1• Che qualcosa sia bello non vuol dire mai che è bello in modo assoluto, ma sempre "in relazione a"; contrariamente al buono che, invece, è buono in modo assoluto. Abbiamo dunque a che fare con una facoltà che giudica in modo rela, tivo e tuttavia porta con sé una validità: il metro di valutazione è dato dalla pre, senza degli altri, dalla loro approvazione. La validità quindi è interna alla socie, tà e alla compagnia di altri uomini. Ciò risulta particolarmente chiaro, secondo la Arendt, nel§ 41, dove il criterio di validità della sensazione viene identificato con la sua comunicabilità. Ma prima di analizzare più da vicino quest'ultimo aspetto, che merita una trattazione a sé stante, possiamo qui osservare che la Arendt comincia ad insistere sul carattere felicemente contraddittorio dd giu, dizio di gusto, il quale aspira ad un consenso collettivo pur essendo privo di qualsiasi fondamento concettuale. Ali' inizio della decima lezione viene riba, dita questa linea guida: «il gusto è una sorta di senso comune che si basa sulla presenza degli altri e genera un giudizio la cui validità è generale, in opposizione alla validità universale o assoluta. Tutti i giudizi del gusto e del senso comune sono relativi e allo stesso tempo possiedono questa validità» 18~. Da questo punto di vista risulta fondamentale il § 20, che laArendt richia~ ma sempre in riferimento ali' idea di senso comune {è di fatto questo il punto in cui Kant comincia a parlarne) ma che mette in luce anche l'oscillazione, o meglio la coincidenza tra soggettivo e oggettivo sui cui poggia tutta l'ar~ gomentazione kantiana. Vale pertanto la pena riportarne un ampio estratto:

180. Tredicesima lezione, si veda infra p. 2.3 5. 181. Ibia. 182.. Decima lezione, si veda infra p. 2.13. Si consideri l'opposizione qui delineata tra validità generale e validità universale in rapporto al problema già esposto nel paragrafo 4.1., riguardo

la resa in inglese del termine "allgemein».

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«Se i giudizi di gusto (come i giudizi di conoscenza) avessero un principio oggettivo determinato, colui che giudica pretenderebbe ad una necessità incondizionata del suo giudizio. Se essi invece fossero senza alcun principio, come quelli del semplice gusto del senso, nessuno penserebbe mai ad una loro necessità. Sicché essi debbono avere un principio soggettivo, che solo mediante il sentimento e non mediante concetti, ma universalmente, determini ciò che piace o che dispiace. Un cale principio però non potrebbe esser riguardato che come un senso comune, che è essenzialmente diverso dall'intelligenza comune, la quale talvolta si chiama anche senso comune (sensus communis); perché quest'ultima giudica non secondo il sentimento, ma sempre secondo concetti [... ] » 18 i. Le prime due frasi del paragrafo, come sarà evidente, esprimono due alternative opposte (ed entrambe sbagliate): o il giudizio di gusto è determinato tramite concetti, e dunque è necessario; o il giudizio di gusto è infondato, e dunque non può pretendere ad alcun grado di necessità. La particolarità di questo tipo di giudizi è, invece, proprio quella di abbandonare lo schema di questa dicotomia, e di coprire entrambi gli aspetti. Così verranno delineate nei paragrafi 32 e 33 le due proprietà del giudizio di gusto, antitetiche fra loro: «ll giudizio di gusto determina il suo oggetto, per ciò che riguarda il piacere (in quanto bellezza), pretendendo il consenso di ognuno, come se il piacere fosse oggettivo» (§ 32),s•; «il giudizio di gusto non può essere determinato mediante prove, proprio come se fosse puramente soggettivo» (§ 33) 18s. La Arendt vi fa riferimento nelle ultime pagine delle sue lezioni riprendendo così considerazioni emerse già negli appunti precedenti. Si noti per altro che è proprio in rapporto a queste due proprietà che la Arendt definiva la Critica del Giudizi,o già nei suoi primi appunti del 1957 come una «dissimulata critica della ragion politica» 186•

183. I. Kant, Critica del Giudizio, cit., p. 143. 184. lvi, p. 2.39. 18s. lvi, p. 2.43. 186. H. Arendt, Nel deserto de/pensiero, Quaderni e Diari 1950-1973,cit., p. 463.

I. Introduzione e analisi

4.4. Il disinteresse della comunicazione e la comunicabilità

del disinteressato I temi principali che qui cerchiamo di enucleare, quasi volendo sbrogliare il ftlo di una disordinata matassa, non sono trattati dall'autrice una volta per tutte, in maniera isolata ed esaustiva, ma, come già si è detto, si anticipano e si rincorrono reciprocamente, incanalandosi a volte in un unico binario, per poi tornare a separarsi. In questo tentativo di circoscrivere alcune questioni fondamentali, raggruppando considerazioni diverse attorno ad un medesimo punto che le accomuna e ne chiarisce il senso, vi sono due temi in particola, re che si richiamano l'un l'altro, e che meritano, forse, un'unica trattazione. L'intreccio in questione è dato dalla comunicabilità del giudizio di gusto e dal carattere disinteressato di quest'ultimo. Si potrebbe dire che il paragrafo 9 della Critica stabilisca già un legame in questo senso: la comunicabilità del giudizio di gusto è resa possibile dall'interazione di immaginazione e intellet, to di fronte alla rappresentazione, e tali facoltà «sono qui in un gioco libero, perché nessun concetto determinato le costringe a una particolare regola di conoscenza» 187• Il gioco è libero in quanto non persegue alcuno scopo: è que, sta, del resto, la caratteristica della bellezza che si afferma nel terzo momento dell'Analitica ( «la bellezza è la forma della fmalità in un oggetto in quanto questa vi è percepita senza la rappresentazione di uno scopo»), e che rievoca, a sua volta, la definizione del primo momento, per la quale il bello è l'oggetto di un piacere disinteressato (come anche si richiamano tra loro le definizioni del secondo e del quano momento). Parlando del § 9 nei suoi appunti, la Arendt scrive: «Il "gioco" va inteso in senso letterale: in opposizione al "la, voro" della cognizione» 188 • In questo giudizio dell'apparenza in quanto apparenza, inoltre, entra in campo o si attualizza «la coscienza della finalità puramente formale nel gioco delle facoltà conoscitive del soggetto rispetto ad una rappresentazione» 189• Che cos'è questa "finalità puramente formale" (blojsformale Zweckmii/figkeit) - domanda l'autrice - che Kant menziona nel paragrafo 12 e che richiama la definizione riassuntiva del terzo momento dell'Analitica del bello? È «una finalità priva del fine fpurposiveness without a purpose] », risponde la Arendt, riprendendo forse un'espressione dello stesso Kant, contenuta nel paragrafo 187. I. Kant, Critica del Giudizio, cit., p. 101. 188. Dodicesima lezione, si veda infra p. 2.26. 189. Ibid.

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15 (eine Zweckmiijligkeit ohne Zweck). Ma, più in generale, si può dire che qui come in altri luoghi la Arendc scelga la via dell'ossimoro per rendere l'intima contraddittorietà del bello, un po' come Jaspers parlava, nelle sue pagine dedicate al giudizio estetico, di una «legalità senza legge»'9°. Il giudizio estetico non tiene conto dello scopo per cui un oggetto è fatto: possiamo soffermarci su quanto un cavallo sia ben costruito allo scopo di essere un cavallo, ma quando diciamo "questo è un bel cavallo" non stiamo più considerando l'organismo animale in rapporto al suo scopo, ma solo in rapporto al sentimento di piacere che la sua immagine suscita: «ciò che di fatto era lo scopo lascia ora il posto ali' armonia»'9'. Nello stesso modo, ogni qualvolta giudichiamo un oggetto "bello", intendiamo riferirci a qualcosa di diverso dalla sua semplice utilità: intendiamo dire che aldilà di qualsiasi scopo o funzione, che pure possa essere presente, l'oggetto è di per sé "significativo". «Esso possiede, per così dire, uno scopo oltre lo scopo [a purpose beyond purpose] ». La poesia è in questo senso la forma d'arte più pura. Ogni opera d'arte ha anche un qualche valore di intrattenimento, specifìca la Arendt in una nota a margine del cesto, intrattenimento che dovrà a sua volta essere ben pensato, esattamente come il cavallo, per essere considerato "bello", presuppone un organismo sano; tuttavia, non è in questo che risiede la vera essenza dell'opera d'arte. Ancora in riferimento al paragrafo 9, l'autrice riprende l'idea di Gemuthszustand, lo stato d'animo che scaturisce dal libero accordo di immaginazione e intelletto e che coincide, contemporaneamente, con la consapevolezza di cale accordo o armonia: «Posso accorgermi di questo solo nel giudicare. Ciò che sento qui è che tutte le mie facoltà sono ben predisposte allo scopo, e precisamente lì dove nessuno scopo è implicato» 19 •. Sull'assenza di scopo nel bello si basa anche la differenza tra la bellezza e la perfezione; differenza che Kant rimarca nel paragrafo 15 (Il giudizio di gusto è del tutto indipendente dal concetto della pe,fezione), volendo contrapporsi implicitamente al pensiero di Baumgarten e di altri suoi predecessori, secondo i quali la bellezza non è che un grado inferiore della perfezione, o per meglio dire, non è che la stessa perfezione percepita in modo confuso19 J. La perfezio-

190.

«GesetzmaBigkeic ohne Gesec-L». K.Jaspers, Diegrofen phi/osophen, Piper, Miinchen

2012, p. 498.

lezione, si veda in.fra p. 227. Dodicesima le-Lione, si veda in.fra p. 228. 193. Cfr. A.G. Baumgarcen, L 'estetka. crad. ic. di S. Tedesco, Aeschecica, Palermo 191. Dodicesima

192.

2000.

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ne, spiega la Arendt, è già troppo vicina al concetto di scopo (è infatti, nelle parole di Kant, la finalità oggettiva interna, distinta dalla finalità oggettiva esterna che è l'utilità): «nel giudizio di gusto non confronto la rosa con altre rose che siano più o meno perfette; non dico "questa è la rosa perfetta", dico soltanto che è bella, e non desidero di più»•94. A questo aspetto si lega intimamente, come preannunciato, il tema del disinteresse: tema che costituisce in verità il primo nodo affrontato da Kant nella sua Critica, la prima caratteristica del bello che ne consente una definizione. Come afferma l'autrice, nei primi paragrafi della Critica, il bello o "disinteressato" viene spiegato per mezzo dei suoi contrari (il piacevole e il buono). Le tre forme di piacere che Kant individua sono infatti accomunabili sempre e solo a gruppi di due: il piacevole e il bello hanno in comune l' immediatezza, a differenza del buono che dipende dalla mediazione del concetto. Il buono e il bello possono vantare, però, un carattere di validità universale, a differenza del piacevole che rimane relegato nell'ambito della mera gratificazione e dunque della soggettività. Infine, il buono e il piacevole sono due forme di piacere interessato, a differenza del bello. Potremmo dire, dunque, che il bello condivide l'universalità del buono e l'immediatezza del piacevole masi distingue da entrambi in virtù del suo disinteresse 195. Allora, ricordando come solo la bellezza valga per gli uomini in quanto animali ragionevoli, e non soltanto nella misura in cui essi sono ragionevoli ma anche in quanto sono nello stesso tempo animali 19 6, il disinteressato diventa l'ambito proprio di "interesse" dell'umano. Il gioco di parole non è casuale: laArendt afferma che avere un interesse per l'umanità vuol dire avere un interesse acquisito per il disinteressato. Far parte di questo mondo specificamente umano significa infatti liberarsi da qualsiasi tipo di interesse, che ci caratterizzi come essere intelligibili (interesse morale) o come animali (interesse al godimento fisico). « Questo è dunque il vero e proprio regno dell'uomo» scriveva la Arendt già L •aspetto in questione è messo in luce da P. D •Angelo nell'Introduzione ali' edizione LaterLa della Critica del GiudÌZÙJ (cit., pp. xn-xm). 194- Quindicesima lezione, si veda infra p. 2.49. 195. La Arendt nei suoi appunti ripete il gioco di questi "accoppiamenti": «II Buono e il Piacevole si distinguono fra loro per il fatto che il Buono rimane tale anche se non piace e, da questo punto di vista, il Bello e il Piacevole hanno in comune fra loro più di quanto entrambi non abbiano con il Buono. Dall'altro lato, il Buono e il Piacevole hanno in comune tra loro più di quanto entrambi non abbiano con il Bello, perché nutrono un interesse verso l'esistenza dell'oggetto». Quindicesima lezione, si veda infra pp. 2,47-2.48. 196. Si veda il§ s della Critica del Giudizio, cit., p. 85.

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nei suoi appunti del 1957, «e soltanto in questo regno, che dista in misura uguale dai bisogni animali e dalla ragione in generale, esiste la libertà» 197• Ogni interesse presuppone o produce un bisogno, spiega Kant nel § s, e per questo non lascia libertà al giudizio sopra l'oggetto. Al piacere del bello corriJ sponde il favore ( Gunst) che, appunto, è libero perché non subordinato all' inJ clinazione e all'affezione e non imposto dalla ragione. Il "favore" non parte da un bisogno o una mancanza, e somiglia per questo, secondo la Arendt, al concetto di amore che Agostino esprimeva con le parole Volo ut sis: "voglio che tu sia", indipendentemente da ogni mio bisogno o utilizzo. Il riferimento ad Agostino e a questa particolare frase, che accompagna la Arendt durante tutto l'arco della sua produzione benché non si tratti di una citazione origiJ naria' 98 , emerge in questi appunti anche quando si tocca la definizione stessa di interesse, che Kant elabora nel paragrafo 2: « È detto interesse il piacere che noi congiungiamo con la rappresentazione dell'esistenza di un oggetto» (e tale piacere avrà pertanto sempre una relazione con la facoltà di desiderare) 199• Com'è noto, dall'altra parte, «quando si tratta di giudicare se una cosa è bella non si vuol sapere se a noi o a chiunque altro importi, o anche soltanto possa importare, della sua esistenza; ma come la giudichiamo contemplandoJ la semplicemente» 100• È appunto questa la differenza che abbiamo ribadito poc'anzi tra il bello e le altre forme di piacere, nelle quali si rinviene un desiJ derio verso l'oggetto nel suo esistere reale. Ma proprio a questo proposito subentra una puntualizzazione da parte dell'autrice, attraverso una scrittura che si fa qui (come in altri punti) poco organica nell'espressione, ma ancora limpida nel significato: Kant chiama in causa la facoltà di desiderare intendendo quest'ultima come volontà di posJ

197. H. Arendt, Nel deserto dei pensiero, Quaderni e Diari 1950-1973, cit., p. 460. 198. È Heideggcr a scrivere, in una lettera rivolta ad Hannah Arendt del 13 maggio del 192.s: «Agostino ha detto una volta: amo significa volo ut sis: ti amo, voglio che tu sia, ciò che sci» {H. Arendt, M. Heidcgger, Lettere 1925-1975 e altre testimonillllU, a cura di M. Bonola, Edizioni di Comunità, Torino 2.001, p. 2.0). La citazione non trova un riscontro vero e proprio nelle fonti agostiniane e sembra essere piuttosto una libera rielaborazione dello stesso Heidcgger; nonostante questo, anzi forse proprio per questo, la Arendt se ne servirà per tutta la vita, adottandola nella forma imprecisa che le era stata comunicata dal suo amato maestro. Sul tema mi permetto di rinviare alla lettura del mio anicolo: Il peso dell '111nore: / 'influenza di Agostino di Ippona nelle opere di Hannah Armdt, in «Syncsis» {Rivista di filosofia dell'Università Cattolica di Pecr6polis, Rio de Janeiro, Brasile), v. 8, n. 1, 2.016, pp. 146-172.. 199. Cfi-. I. Kant, Critica de/ Giudizio, cit., p. 73. 2.00. Ibid.

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sesso o di utilizzo; eppure ci può essere un desiderio sull'esistenza dell'altro che prescinde da questo personale tornaconto, un desiderio che chiede 1' esistenza dell'altro senza considerare alcun secondo fine. È questo, appunto, il desiderio d'amore, il "voglio che tu sia" di Agostino. Nel desiderio con cui l'altro ci afferma ci sentiamo accolti, ovvero siamo strappati alla mera arbitrarietà dell'esistere. In questo senso, la Arendt sembra voler contestare l'idea kantiana che il piacere per l'esistenza dell'oggetto sia definibile sempre come "interesse": quantomeno, bisognerebbe riconoscere che almeno in una delle sue declinazioni anche questo interesse diventi "disinteressato". Come si relaziona dunque tutto questo al tema della comunicabilità? Il problema posto dal paragrafo 9 già nel titolo 201 è quello di capire cosa venga prima, se il sentimento di piacere rispetto al giudizio sull'oggetto, o viceversa. In alcuni appunti manoscritti inseriti nel testo la Arendt riprende quanto affermato da Kant, ovvero che la soluzione di questo quesito sia la "chiave" della critica del gusto ( «e perciò degna di ogni attenzione» ) 202• Tale soluzione si individua nelle seguenti parole di Kant:

«È quindi la possibilità di comunicare universalmente lo stato d'animo, prodottosi rispetto alla rappresentazione data, che deve stare a fondamento del giudizio di gusto, come sua condizione soggettiva, e avere come conseguenza il piacere per l' oggetto» 20 J. Il piacere scaturisce, dunque, dalla comunicabilità dello stato d'animo (e per questo è successivo rispetto al giudizio sull'oggetto, diversamente da quanto avviene nell'ambito della semplice gratificazione sensibile). È la comunicabilità la maggiore fonte di piacere per la vita dell'uomo, e la conoscenza stessa, secondo la Arendt, genera piacere solo in quanto può essere comunicata. Un individuo da solo su un'isola deserta potrà ancora perseguire la conoscenza, ma non ne trarrà alcun godimento; e del resto, il fatto stesso che le nostre facoltà conoscitive possano accordarsi tra loro e generare qualcosa di comunicabile indica che nel desiderio di conoscenza del singolo sia già inclusa una pluralità. La Arendt richiama a questo proposito la frase di Isak Dinesen riponata anche all'interno di Vita activa: «Qualsiasi dispiacere diventa sop-

2.01. "Esame della questione, se nel giudizio di gusto il sentimento di piacere preceda il giudizio sull'oggetto, oviceversan. 2.02.. lvi, p. 99. 2.03. lvi, pp. 99-101.

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portabile se viene inserito in una storia, o se di esso se ne fa una storia» 20 4, ovvero, aggiunge l'autrice, se lo si comunica. Perfino il dolore porta con sé un elemento di gioia, se viene raccontato. La comunicazione, dunque, non va intesa come qualcosa di strumentale, ma piuttosto come la risposta a quel naturale bisogno di socievolezza che alberga in tutti gli uomini. L'oggetto di ogni discorso è, in maniera implicita, il semplice pretesto perché questa comunicazione avvenga; e in misura ancora maggiore, l'oggetto del giudizio di gusto, che definiamo "bello", viene scelto in quanto sembra non avere altro scopo se non quello che se ne parli20 ~. Questo concetto è espresso, per certi versi, nel § 41 della Critica: Kant spiega qui che storicamente l'uomo ha cominciato a civilizzarsi quando ha avuto il desiderio di "distinguersi" all'interno della sua specie, di essere apprezzato individualmente. Nessun uomo, infatti, relegato su un'isola deserta, si preoccuperebbe di adornare la sua capanna o la sua persona: il gusto per la bellezza nasce in società, e l'uomo civile è colui che «è disposto e capace di comunicare agli altri il proprio piacere, e che non è soddisfatto da un oggetto, se non ne può condividere con gli altri il piacere» 206 • Così agli albori del vivere civile cominciarono ad assumere importanza diversi oggetti o materiali, propriamente "inutili" di per sé: i colori per dipingerela persona, i fiori, le conchiglie, le penne d'uccello, ecc. Fino ad un punto di maturazione del gusto, che Kant definisce in questi termini: «la civiltà, pervenuta al suo massimo grado, ha farro di ciò quasi l'essenziale delle sue tendenze raffinate, e non ha apprezzato se non quelle sensazioni le quali possono essere universalmente comunicate; di guisa che, ora, se anche uno ritrae da un oggeno un piacere insignificante e che non ha per lui un interesse notevole, all'idea della comunicabilità universale del piacere stesso, ne vede quasi cresciuto il valore infinitamente» 207• Nel grado più evoluto della società, dunque, il bello acquisisce un ruo204. La frase è riportata all'inizio del capitolo dedicato all'azione ( VI/a adiva, cit., p. 127, traduzione qui modifkata),ed è originaria di un 'intervista, Talk with Jsak Dinesen, pubblicata in « The New York Times Book Review», 3 novembre 1957, p. 284- Isak Dinescn è uno dei diversi pseudonimi utilizzati dalla scrittrice danese Karen Christentzc Dincscn, nota al grande pubblico soprattutto con il nome di Karen Blixen. 20s. Cfr. Tredicesima lezione, si veda infra p. 231. 206. I. Kant, Critica dei Giudizio. cit., p. 271.

207.Jbui.

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lo centrale, poiché la comunicazione si gioca al livello del puro disinteresse: l'uomo civile è colui che abbandona il primitivo criterio dell'utile. Hannah Arendt, riportando il passo succitato, aggiunge: in altri termini, si parla allo scopo stesso di parlare, senza perseguire alcun particolare risultato. Questa osservazione richiama fortemente alla memoria un passaggio dello scritto su Socrate, nel quale 1' autrice vuole evidenziare come la maieutica non avesse propriamente un intento "costruttivo", perché lo scopo del filosofo non era quello di impartire una qualche "dottrina" ai suoi interlocutori, ma piuttosto di indurli a ragionare, di far vacillare le loro presunte certezze senza per questo garantirne di nuove. Per questo motivo, i frutti della maieutica «non potevano essere misurati in termini di risultati, in base al raggiungimento di questa o di quella verità generale»: «Rientra ancora ampliamente nella tradizione socratica[ ... ] il fatto che i primi dialoghi di Platone si chiudano spesso in modo inconcludente, senza un qualche risultato o una vera conclusione. Aver discusso un argomento, aver ragionato di qualcosa, ovvero delladoxa di un singolo cittadino, sembrava già un risultato» 108• L'improduttività del disquisire socratico e la non-utilità del discorso che si genera attorno ali' oggetto estetico sembrano richiamarsi a vicenda, e tale analogia lascia intravedere un nesso con la tematica propriamente politica. Un ulteriore punto di chiarimento è fornito dalle riflessioni condotte ne Le origi,ni del totalitarismo, quandosi parla dei "passaggi" obbligati del ragionamento ideologico per il quale, assunte determinate premesse, ne deriveranno inevitabilmente le corrispettive conclusioni (che il pensiero è costretto ad accettare). La stessa politica, nella sua deformazione totalitaria, diventa lo strumento per 1'attuazione di un fine superiore, come si è avuto modo di sottolineare in precedenza. La comunicazione disinteressata è invece una comunicazione libera: 1' uomo, che può essere definito kantianamente come un fine in sé, si rapporta ali' oggetto artistico che è, a sua volta, un fine in sé, e la conversazione che ne scaturisce non potrà che essere della medesima natura109 • Il paragrafo 41 della Critica costituisce sotto questo aspetto uno dei principali punti di attenzione per la Arendt. Qui Kant mette a tema l'interesse empirico per il bello, ovvero quel tipo di interesse che si aggiunge al giudizio estetico puro in maniera estrinseca. «Quando Kant afferma che "l'interesse

2.08. 2.09.

H. Arendt, Socrate, cit., p. 36. Cfr. Nona lezione, si veda infra p. 2.12..

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empirico per il bello nasce solo nella società"uo - spiega l'autrice - si riferisce a questo interesse per il discorso: l'interesse verso il disinteressato». Lo stesso paragrafo presenta però anche, ironicamente, uno di quei passaggi che permettono di "smascherare" le intenzioni appropriative della Arendt sul testo kantiano. È infatti vero che qui Kant affronta il tema della comunicabilità universale del gusto, e dell'interesse che ne è scaturito in ambito sociale nel corso della storia; ma l'autore aggiunge subito dopo che «questo interesse indiretto per il bello, che dipende dalla tendenza alla società, ed è quindi empirico, non ha alcuna importanza per noi, che dobbiamo guardare soltanto a ciò che può riferirsi a priori al giudizio di gusto» 111• Nelle sue osservazioni la Arendt omette questa precisazione, che permetterebbe di ricalibrare il discorso kantiano sul piano della tematica trascendentale, verso cui erano realmente tesi gli sforzi dell'autore.

4.5. Civili e barbari: la comunità dei giudicanti

Il tema del disinteresse, ancora, riguarda propriamente più da vicino l'attività stessa del giudicare, che non dovrebbe essere influenzata da condizionamenti esterni. Non si potrà infatti rendere un giudizio imparziale, fino a quando si dipenderà dall'esistenza reale dell'oggetto, e non si potrà, a rigor di termini, giudicare affatto, perché ogni giudizio risulterebbe compromesso dall'interesse, o sarebbe ancora parte dell'azione. L'imparzialità può infatti subentrare soltanto quando l'azione è conclusa, come testimonia l'episodio dell'Iliade nel quale Achille, dopo aver ucciso Ettore, riporta il suo corpo a Priamo perché possa ricevere sepoltura. L'annosa questione del dare sepoltura ai propri nemici riguarda, per certi versi, proprio questo aspetto: solo quando il conflitto è cessato, e non vi sono più motivi di interesse personale, si potrà cedere alla pietà e si dovrà, per questo, essere generosi. Nello stesso modo, in un'aula di tribunale -è scontato dirlo -l'imparzialità appartiene solo alla corte che giudica e non alle singole parti in causa, le quali, pur essendo dotate della capacità di immedesimarsi con altri punti di vista, sono in questo caso impossibilitate a farlo, perché devono difendere la propria vita.

2m. «Empirisch interessin das Schone nur in derGesellschaft». Critica del Giudizio, cit., p.270. 211. lvi, pp. 272-273.

I. Introduzione e analisi

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La Arendt cita in proposito l'incipit del paragrafo 13: «Ogni interesse corrompe il giudizio di gusto e gli toglie la sua imparzialità»m. In questo paragrafo Kant spiega che il giudizio di gusto, per essere un giudizio puro, deve non essere "sporcatoD da elementi esterni alla mera "finalità della formaD. Gli esempi relativi a tale affermazione sono illustrati nel paragrafo successivo: «l'attrattiva dei colori [in un'opera pittorica] o dei suoni piacevoli di uno strumento può contribuire all'effetto; ma il disegno nel primo caso, e la composizione nel secondo, costituiscono l'oggetto puro del giudizio di gusto» 2 •J. La purezza dei suoni e dei colori, o anche la loro varietà e il loro contrasto, sembrano contribuire alla bellezza, ma ciò non significa che essi siano piacevoli per sé stessi; piuttosto hanno il merito di rendere maggiormente intuibile la forma, e di vivificare con la loro attrattiva la rappresentazione, «risvegliando e conservando l'attenzione sull'oggetto» 214• L'attrattiva che si unisce al piacere meramente formale è, dunque, una sorta di inganno o di sussidio di cui ha bisogno l'individuo il cui gusto non sia ancora sufficientemente raffinato. È per questo che nel § 13 Kant scrive: «Il gusto resta sempre barbarico quando abbia bisogno di unire al piacere le attrattive e le emozioni, o di queste faccia anche il criterio del suo consenso» ••s. Questa affermazione sembra colpire particolarmente l' autrice, che rievoca in due punti del testo l'immagine dei "barbari", riferendosi a coloro che non fanno parte della società civile, perché non sono in grado di giudicare. In un primo caso, è richiamata alla mente, con parole diverse, la stessa citazione kantiana tratta dal§ 13: «Per far parte di questo mondo specificamente umano, occorre che ci liberiamo di tutti i nostri interessi, sia in quanto animali sia in quanto esseri intelligibili; di tutte le preoccupazioni, siano esse del corpo o dell'anima. Emerge così l' UMANITÀ o l'umanesimo, che ci differenzia dai barbari(§ 13), i quali sono ancora simili agli animali nel fatto di aver bisogno di una gratificazione o di una spinta per riconoscere questo mondo specificamente umano» 216 •

In un secondo caso, i barbari rappresentano coloro che sono esclusi da quella validità universale del consenso che il giudizio di gusto produce. È

213.

lvi• p. u3. lvi, p. 119.

2.14.

!bui.

2.12.

lvi, p. u3. 2.16. Quindicesima le-Lione, si veda infra p. 2.15.

250.

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questo nn elemento importante che costituisce anche materia di dibattito tra gli studiosi. In nna delle ultime lezioni la Arendt riprende nn passaggio decisivo del§ 8, dove si legge: «l'nniversalità estetica, che è attribuita ad nn giudizio, dev'essere di nna specie particolare, perché essa non lega il predicato della bellezza col concetto dell'oggetto considerato nella sua intera sfera logica, e tuttavia lo estende all'intera sfera dei giudicanti» 117• Riportando il riferimento nei suoi appunti, la Arendt aggiunge a questa "intera sfera dei giudicanti" un "ma non oltre!", che modifica in maniera sostanziale il senso inteso da Kant. Si potrebbe infatti dire che Kant voglia indicare il raggio coperto dall'umanità stessa, intesa come «comunità formale giudicante» (Beiner) 118, mentre la Arendt restringe il significato di questa "sfera" a quello di nn insieme reale di persone che condividono l'attività del giudizio e che, proprio in virtù di tale condivisione, formano una comunità. Questa ipotesi è ulteriormente confermata dal commento a matita che la Arendt scrive a margine della frase suddetta ali' interno della sua copia personale dell'opera: "Only those who judge". Così, se per Kant la sfera dei giudicanti è intesa in senso, potremmo dire, estensivo, per la Arendt assume invece nn significato restrittivo. T aie variazione di senso scompone, per altro, il perfetto contrasto che Kant vuole qui intenzionalmente mettere in luce tra l'assenza di concetto nel giudizio estetico e la sua pretesa di universalità. È come se la Arendt riscrivesse la frase di Kant dicendo: il giudizio di gusto dev'essere di una specie particolare, perché non lega il predicato della bellezza col concetto dell'oggetto e tuttavia lo estende ali' intera sfera dei giudicanti; ma, al tempo stesso, non va oltre. Le avversative diventano dunque due. A ben guardare, in realtà, negli appunti del '64 la citazione originaria kantiana è "tagliata", poiché si legge: «La validità estetica attribuita ad un giudizio dev'essere di una specie particolare: si estende ali' intera sfera dei giudicanti (der Urteilenden), ma non oltre!». È dunque omesso il particolare relativo all'assenza di concetto, ed è difficile dire se ciò possa rientrare nella scelta, frequentemente messa in atto in queste pagine, di abbreviare le citazioni, riportandone talvolta, perfino, soltanto gli estremi, o se si tratti invece di una consapevole riformulazione della frase, che ne cambia ulteriormente il senso (si potrebbe propendere per questa seconda ipotesi perché, solitamente, le altre citazioni di cui manca una parte presentano dei puntini di sospensione all'interno o dei segni di punteggiatura che lasciano intendere la lacuna, mentre qui la stesura del testo 217.

I. Kant, Critica del Giudizio, cit., p. 97.

218. R. Beiner, Il giudizio in Hannah Arendt, cit.,

p. 179.

I. Introduzione e analisi

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è continuativa): i giudizi estetici, allora, sarebbero "di una specie particolare" non per via del suddetto contrasto era soggettività e universalità che in essi si riscontra (e cui pure la Arendt attribuisce molta importanza), ma perché si estendono ali' intera sfera dei giudicanti, e tuttavia non vanno oltre. È ad ogni modo chiaro che la Arendt introduca così un problema estraneo ali' orizzonte kantiano, e relativo alla differenza tra chi giudica e chi non giudica. Il giudizio qui non è più inteso nella sua accezione "trascendentale", ma si avvicina piuttosto al piano di una pratica discorsiva e deliberativa, che accomuna coloro che se ne rendono partecipi, e coincide per questo con l' assunzione di un impegno. Un tale tipo di impostazione emerge già nel menzionato saggio del 1961, La crisi della cultura, nella società e nella politica, dove si legge: «Dice Kant: "il giudizio vale per ogni singola persona che giudica"; ma l'accento cade su "che giudica": non vale dunque per chi non giudica o per quanti non sono membri di quel mondo pubblico nel quale appaiono gli oggetti del giudizio» (in Tra passato e foturo, cic., p. 2.83). La citazione è probabilmente riferita alla sezione Settima dell'Introduzione della Critica del Giudizio, dove Kant afferma che, nel giudizio di gusto, il piacere viene considerato connesso con la rappresentazione in modo necessario, «e quindi non solo per il soggetto che apprende questa forma, ma per ogni soggetto giudicante in genere [sondemfarjeden Urtheilenden uberhaupt] » 119• B. Flynn riprende nel suo saggio questo punto, portando avanti l'ipotesi che il giudizio estetico kantiano non si conformi in nessun modo ali' intento che la Arendt si prefigge, ovvero quello di delineare una nuova teoria del giudizio politico prendendo a modello la terza Critica; anche il passo suddetto andrebbe, rispetto a questo scopo, in direzione del tutto opposta:

«il problema è che nella sezione Settima dell'Introduzione Kancnon dice assolutamente nulla che inviti a considerare il giudizio come valido per i membri di una realtà pubblica nel senso di una comunità specifica storicamente. Per lui il giudizio - purificato da tutte le idiosincrasie delle persone che giudicano e da tutte le materie, la sensazione organica dell'oggetto - è valido per chiunque giudichi » 110• Sull'onda di questa riflessione il saggio del 1961 presenta un'altra affermazione ugualmente discutibile, secondo lo studioso. La Arendt afferma infatti

2.19. I. Kant, CriJka del Giudizio, cit., p. 49. 2.2.0. B. Flynn, Arendt Appropriation ofKant Theory ofjudgmmt, cit., p. 133 ( traduzione mia).

s

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che la capacità di giudicare è un talento specificamente politico, proprio nel senso kantiano di saper vedere le cose non solo dal proprio punto di vista, ma anche dal punto di vista di tutti coloro che si trovano ad essere presenti ( «ali those who happen to be present»). Con quest'ultima espressione, scrive Flynn, la Arendt introduce un elemento di contingenza, che certamente non sarebbe stato voluto da Kant. Il punto di ambiguità nella lettura arendtiana starebbe dunque, come già evidenziato, nell'arbitrario passaggio dalla comunità formale-astratta alla comunità reale, e nelle successive implicazioni che questo passaggio comporta. È questo uno dei temi maggiormente discussi dalla critica, sul quale torneremo più avanti. Possiamo però qui almeno limitarci ad osservare che sarebbe altrettanto riduttivo parlare, nel pensiero arendtiano, di una comunità identificata solo dalla sua definizione fisica: se così fosse, il riferimento ai barbari che riecheggia in alcuni punti delle lezioni avrebbe una valenza escludente e "discriminatoria", decisamente incompatibile con il pensiero di un'autrice che ha conosciuto in prima persona l'esperienza della discriminazione e ne ha fatto anche l'oggetto principale delle sue riflessioni. È evidente invece che la delimitazione di un dentro-fuori dalla società civile non possa alludere ad un confine territoriale o geografico (e tantomeno etnico), ma che piuttosto questa cosiddetta "comunità dei giudicanti" sia costituita da umi coloro che scelgono di prenderne parte. Ritornando alle pagine del '64, vale ancora la pena sottolineare alcuni punti a riguardo. La Arendt menziona il paragrafo 2.2. della Critica e, con probabile riferimento al punto in cui si legge: «questo senso comune non dice che ognuno si accorderà, ma che si dovrà accordare col nostro giudizio» 111 , afferma: «La difficoltà sta nel fatto che si parli di "dovere" nonostante la base del giudizio sia solo il nostro sentimento». E allo stesso tempo, se possiamo parlare di una soggettività generale è perché essa «riguarda l'accordo di diversi individui giudicanti»m. «L'accento è qui posto ancora sul giudicare: vale solo per coloro che vogliono giudicare e, potremmo aggiungere, ciò non accade oggi per la maggior parte delle persone»u3• Come si potrà notare, il passaggio è molto simile al brano citato del 1961, ma forse qui si chiarisce con evidenza ancora maggiore come la differenza tra i giudicanti e i non giudicanti non 221.

Critica del Giudizio, cit., pp. 14s-147.

222.

lvi, p. 147. Decima lezione, si veda infra p. 216.

223.

I. Introduzione e analisi

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sia una differenza prestabilita, ma dipenda unicamente dall'assunzione di un impegno personale in tal senso. Nella quindicesima delle sue lezioni la Arendt torna sul paradosso dell'universalità senza concetto, su cui propriamente fa leva la sua interpretazione politica dell'opera.L'autrice menziona il paragrafo 6, dove tale caratteristica è esplicitamente messa a tema. Parafrasando il testo, scrive: «[... ]la libertà è libertà dalle condizioni private[... ]. Nell'accordare il suo Gunst, "il soggetto si sente completamente libero'°, e proprio perché è libero egli "crede di avere delle buone ragioni per presupporre lo stesso piacere in ciascun altro" u4. Fuori dalla privatezza dei suoi cinque sensi egli diventa un abitante del mondo delle apparenze (è nel mondo, libero, non più nella prigione del suo io privato)» :us. Gli altri da cui ci si aspetta lo stesso tipo di piacere sono, a loro volta, dei coabitanti, che non possono certamente essere condizionati da alcun tipo di ragione o principio (§ 8)u6, ma con i quali si può aspirare ad un accordo, sulla base di ciò che abbiamo chiamato appunto "generalità soggettiva" o valore pluralistico. Il valore pluralistico del bello è, spiega la Arendt, profondamente diverso dal valore comparativo delle cose gradevoli: in quest'ultimo caso il consenso comune può essere stabilito solo sulla base di un sondaggio, di una "statistica" o di un conteggio dei pareri. La validità pluralistica è invece immanente o a priori: non abbiamo bisogno che gli altri ci forniscano degli esempi per il loro gusto, perché il giudicare tiene già conto di loro. Inoltre il piacere della mera gratificazione contiene, a differenza del bello, un elemento di coercizione, come già si è visto, poiché è imposto dai sensi e non deriva da un libero riconoscimento. Nell'ambito del "piacevole" allora ciascuno accetta di esprimere qualcosa di strettamente individuale: vale a pieno diritto l'espressione secondo cui "ciascuno ha il proprio gusto.., e non c'è nient'altro da aggiungere. Ma, scrive Kant «Per il bello la cosa è del tutto diversa. Sarebbe (proprio al contrario) ridicolo, se uno che si rappresenta qualche cosa secondo il proprio gusto, pensasse di giustificarsene in questo modo: questo oggetto[... ] è bello per me, perché egli non Riferimento al§ 6 della Critica del Giudizio, cit., p. 89. Quindicesima le-Lione, si veda in.fra p. 2.50. 2.2.6. «Se si tratta di giudicar bello un abito, una casa, un flore, non ci lasceremo imporre il giudizio da ragioni o principii (Oh ein K/eid, ei11 Haus, eine B/ume schòn sei: dazu liij!t man sich sein UrtheiJdurr:h keine Grunde oder Grundsatze aufichwatzen] ». I. Kant, Critica del Giudizio, cit., § 8, p. 97. 2.2.4. 2.2.s.

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deve chiamarlo bello, se gli piace semplicemente. Molte cose pos.rono avere per lui attrattiva e vaghezza; ma questo non importa a nessuno; ma quando egli dà per bella una cosa, pretende dagli altri lo stesso piacere; non giudica solo per sé, ma per rutti, e parla quindi della bellezza come se essa fosse una qualità della cosa»u.7• Nelle pagine in cui la Arendt svolge la sua riflessione, i riferimenti al testo della Critica sono inclusi in un discorso appropriativo che unisce già la citazione originaria alla sua parafrasi o alla spiegazione che 1' autrice ne dà. Si può dire che la Arendt conduca il proprio discorso con le parole della Critica, al punto che non c'è quasi distinguibilità tra le due cose. Il nodo centrale riguarda la differenza tra il bello e il piacevole. Nessuno dice mai "questo è bello per me", scrive l'autrice parafrasando Kant, sarebbe ridicolo. E aggiunge: « Chi insiste sul proprio particolare gusto idiosincratico non si è liberato delle sue condizioni private, non è civilizzato, ovvero non appartiene alla cerchia di coloro che giudicano. Se fosse vero che "ciascuno ha il proprio gusto", allora il gusto stesso non esisterebbe affatto118• E, di conseguenza, non esisterebbero degli esseri umani civilizzati che in quanto tali formino l'Umanità, e non appena il "Genere umano"u9_ Essere degli esseri umani significa in questo senso essere capaci di "giudicare non solo per sé ma per rutti gli altri uomini"•i0 , nella misura in cui essi sono a loro volta capaci di giudizio. Non si può infatti giudicare al posto dei barbari» •i•.

La distinzione tra un mondo comune inteso come mondo della civiltà e un mondo privato dove prevale la soggettività non comunicabile dei sensi, era stata tratteggiata dalla Arendt già nelle pagine precedenti, in particolare nell'ottava lezione, dove 1' autrice chiamava in causa il sensus communis come quella terza possibilità che infrange il tradizionale quadro conoscitivo dominato dal dualismo sensi-ragione. Secondo questo schema, infatti, i giudizi potevano avere una validità comune solo se provenienti dalla ragione. Il senso comune, che si identifica con il gusto ma dischiude in sé un significato molto

u.7. lvi,§ 7, p. 91. 228. «E per conseguenza qui non si può dire: ognuno ha il suo gusto particolare. Varrebbe quanto dire che il gusto non esiste». Jbid. 229. Si veda su questo più avanti il paragrafo 4-7. del presente studio, Dal genere umano

a/l'umanità. 230. « [... ] ma quando egli dà per bella una cosa, pretende dagli altri lo stesso piacere; non giudica solo per sé, ma per tutti [... ] ». Critica del Giudizw, cit. p. 91. 231. Quindicesima le-Lione, si veda infra p. 252.

I. Introduzione e analisi

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più ampio della semplice percezione sensoriale, smentisce questo presupposto, perché ci abilita ad una dimensione collettiva, al pari di quanto farebbe la ragione. La Arendt cita a tal proposito Eraclito, il quale, esprimendo una consapevolezza ben radicata nella filosofia greca, scriveva: « Bisogna dunque seguire ciò che è comune, ma pur essendo questo logos comune, la maggior parte degli uomini vivono come se avessero una loro propria e particolare saggezza» 23 \ ovvero, aggiunge l'autrice, «come se la loro conoscenza delle cose derivasse dalle sensazioni private (ad esempio quelle avute in sogno)». Queste ultime parole riportano alla mente un passaggio dell'Antropologia dal punto di vista pragmatico, menzionato in una sua breve pane anche nelle lezioni del 1970 ( «il solo carattere generale della pazzia è la perdita del senso comune [sensus communis] e la sua sostituzione col senso privato [sensus privatus] ») 233, e trascritto invece per esteso nelle pagine conclusive del corso del '6 4, dove sono appunto raggruppate, in forma di elenco e senza un apparente ordine tematico, diverse citazioni kantiane. È necessaria una pietra di paragone soggettiva della correttezza dei nostri giudizi in generale, e dunque anche della sanità del nostro intelletto, afferma Kant, considerando a tal proposito la proibizione dei libri come offensiva per l'umanità, perché ci viene così sottratto «se non l'unico, comunque il più grande e più potente mezzo per rettificare i pensieri che ci sono propri» 234• Colui che non tiene in considerazione questa pietra di paragone, data dal parere altrui, «ma anzi si mette in testa di riconoscere validità al sentire privato, indipendentemente dal senso comune o anche contro di esso, finisce per abbandonarsi a un gioco di pensieri nel quale egli non si vede, non si compona né si giudica in un mondo condiviso con altri, ma nel mondo suo proprio (come accade nel sogno)» 235 • È per certi versi facile, per la Arendt, sovrapporre (anche se solo in maniera implicita) questo passaggio kantiano con il frammento di Eraclito, poiché entrambi identificano il "valido" con ciò che è comune, o con ciò che è rimesso alla comunità (con tutte le dovute distinzioni del caso). Posta la separazione tra privato e pubblico, ciò che consente il passaggio dall'una all'altra dimensione è da individuare proprio nel logos, che è sì la ragione comune a tutti gli uomini (nonché il senso che governa l'universo),

2.32.. Eraclito, frammento B 2., in / presocratid. Testimonianze e.frammenti, a cura di G. Giannantoni, voi. 1, Latera, Roma-Bari 2.004, p. 19s. 2.33. H. Arendt, Teoria del giudizio politico, cit., p. 106. 2.34. I. Kant, Antropologia dal punto di vista pragmatico, cit., p. 2.2.1. 2.3s. Ivi, pp. 2.2.1-2.2.2..

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ma è anche il discorso, la parola. Allora anche le sensazioni potranno diventare "valide" nella misura in cui potranno essere espresse e comunicate. «Occhi ed orecchie sono cattivi testimoni per gli uomini che hanno anime barbare» 136 , scrive ancora l'autrice citando Eraclito, e - aggiunge - anime barbare vuol dire anime prive di logos. Il paragrafo 13 della Critica del Giudizio costituirebbe, secondo la Arendt, un'eco o una riscoperta di questo, e ancora più importante viene considerato, come abbiamo appena visto, il paragrafo 41, «dove la comunicabilità universale assurge a criterio » 137• Rimanendo su tale tema, nell'ultima delle sue lezioni la Arendt affronta il paragrafo 8, dove Kant utilizza per la prima volta la parola "publik" in riferimento ai giudizi estetici. Se 1'universalità non appartenesse in maniera essenziale al bello, scrive Kant, non ci sarebbe stato bisogno di utilizzare questo aggettivo, poiché tutto ciò che piace senza concetto sarebbe stato riportato unicamente al piacevole, «per il quale si lascia ad ognuno il proprio parere e nessuno esige dagli altri il consenso [... ] » 138 • Così si può defìnire il piacevole come gusto dei sensi, e il bello gusto della riflessione, « in quanto il primo dà semplici giudizii personali, il secondo invece giudizi che vogliono valere universalmente (pubblici)» 139• È questo un passo nel quale, in effetti, l'ipotesi di lettura arendtiana trova validi argomenti di supporto. L'autrice scrive, commentando il paragrafo, che nel dire bello stiamo implicitamente già affermando "e così per tutti": «facciamo affidamento su una sorta di a priori, costituito dalla compagnia degli altri, come nel senso comune, ma in questo caso, ancor più precisamente, costituito dalla compagnia"civimzata". In questo punto Kant elucida il significato di Gemeingultigkeit (validità comune) ricorrendo all'idea di" pubblico" (publike), e suggerisce che debba esserci quantomeno uno spazio pubblico nel quale poter entrare da soli e pronunciare parole come "bello", e non semplicemente "piacevole"» 1 4°. La Arendt puntualizza inoltre a proposito di questo paragrafo un difetto di traduzione, che riguarda la parola Merkwurdigkeit (terzo rigo del§ 8), tradotta nell'edizione inglese con noteworthy, o come anche scrive la Arendt signi236. Eraclito, frammento B 107, in I presocralid. Testimonianu e.frammenti, cit., p. 217. 237. Ottava lezione, si veda infra p. 203. 238. l. Kant, Critica del Giudkio, cit., p. 93. 239. lvi, pp. 93-9s. 240. Sedicesima lezione, si veda infra p. 2s3.

I. Introduzione e analisi

ftcant jèature, espressioni ritenute in una certa misura ancora troppo vaghe, rispetto alla specificità del termine tedesco. L' aF}!,f!ttivo Merkwurdig significa infatti "'curioso", "'strano", "'bizzarro",ed è forse proprio questo quello che Kant intendeva parlando dell'universalità del giudizio estetico {che qui la Arendt chiama, come sempre, "'validità generale", per omettere il riferimento all'uni~ versalità): un fatto curioso, un paradosso, potremmo dire, qualcosa cheimpe~ gna il filosofo trascendentale a scoprirne l'origine con «non poca fatica» 141• Questa puntualizzazione, che potrebbe sembrare superflua, è comprensibile solo alla luce del tentativo di mettere in risalto, ancora una volta, quell'io~ trinseca compresenza degli opposti, il generale e il SOF}!,f!ttivo, su cui si gioca la possibilità di condividere una dimensione comune e al tempo stesso libera. L'anomalia, la stranezza (Merkwurdigkeit) sta nel fatto che la validità estetica sia di una specie particolare, come si è detto poc'anzi: «non lega il predicato della bellezza con il concetto dell' OF}!,f!tto e tuttavia lo estende all'intera sfera dei giudicanti» {ma, aggiungerebbe la Arendt, non oltre). Quest'ultimo aspetto trattato, sul rappono civiltà~barbarie e sul modo in cui questi termini vadano intesi ci sospingerebbe già, senza bisogno di pas~ saggi intermedi, verso il piano della discussione critica vera e propria, che vede un'ampia parte di studiosi impegnati a verificare il livello di attendibilità dell'analisi arendtiana soprattutto da un punto di vista testuale~filologico. Prima di procedere in tal senso occorre però evidenziare ancora qualche panicolare inerente il contenuto di queste lezioni, soprattutto in riferimento a quegli elementi che {come già si è visto in alcuni casi) sono presentati qui in modo diverso rispetto alle successive lezioni del 1970, o che risulteranno in queste ultime addirittura assenti. Tra questi è certamente da annoverare lo spazio riservato, nella quattordicesima lezione, al tema del Sublime, e alle riflessioni che esso dischiude.

4.6. Il "'favore" verso il mondo Il sublime merita una menzione limitatissima nelle lezioni del '70, lì dove la Arendt si interessa al conflitto tra il punto di vista dell'attore e il punto di

2.41. «Questa particolare determinazione dell'universalità di un giudizio estetico, che si rinviene in un giudizio di gusto, è un fatto degno di nota, non veramente per il logico, bensì per il filosofo trascendentale, che spende non poca futica per scoprire la sua origine». I. Kant, Critica del Giudizio, cit., p. 93.

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vista dello spettatore, ed interpreta tale conflitto nei termini di nn divario tra nna visione "morale" e una visione estetica242 • L'esempio addotto è quello della guerra, che viene condannata come ingiusta dal pnnto di vista morale e giuridico (in particolare nello scritto Per la pace perpetua), ma che nella Critica del Giudizio è considerata oggetto d'ammirazione. Essa ha infatti in sé qualcosa di "sublime", e rende il carattere del popolo tanto più sublime quanto più numerosi sono stati i pericoli a cui si è esposto ( «mentre invece nna lnnga pace di solito dà il predominio al semplice spirito mercantile, e quindi al basso interesse personale, alla viltà, alla mollezza, abbassando il carattere e la mentalità del popolo» ) 2 43. Si potrà disputare finché si vuole, scrive Kant, per decidere a chi spetti la preferenza nella nostra stima, se all'uomo di stato o al guerriero; il giudizio estetico è per quest'ultimo 244• La Arendt riprende con questi passaggi il paragrafo 28 della Critica, che rientra nella sezione dell 'Analitica del sublime, ma come si può notare tale riferimento è meramente occasionale. Nelle lezioni del '64, invece, l'autrice dedica estesamente alcune pagine al tema, sebbene il discorso da lei condotto costituisca, in gran parte, nn calco di quanto già affermato da Kant. Ciò su cui vale la pena pnntare l'attenzione è la differenza che la Arendt sottolinea tra il bello e il sublime: nel primo caso si ha nn piacere, per così dire, "accomodante", nel quale mete le nostre facoltà si armonizzano tra loro e si trovano a proprio agio, nel secondo caso si ha, com'è noto, nn piacere negativo, o anche nn dispiacere. Se infatti la caratteristica principale di ciò che si dà come apparenza è la sua forma o figura, e dunque anche la sua limitazione, il sovrasensibile e l'invisibile possono invece mostrarsi agli occhi dei comnni mortali solo attraverso ciò che è privo di forma e rappresenta l'illimitatezza 24s. L'esempio più ricorrente è quello del cielo stellato menzionato alla fine della Critica della ragion pratica: la vista di questa illimitatezza «non è in alcun modo accompagnata dal piacere; non ci offre "nn sentimento di intensificazione della vita" ma al contrario suscita "la sensazione di nn momentaneo arresto delle forze vitali"; è in un certo senso "repellente" » 2 4 6• I nostri sensi non sono fatti per l'illimitato, non possono "sentirsi a casa" qui.

242. Cfr. H. Arendc, Teoria de/ giudizio poutico, cic., pp. 80-81. 243. I. Kant, Critica del Giumzro, cic., pp. 197-199. 244. Cfr. ivi, p. 197. 245. Cfr. Quattordicesima lezione, si veda infra p. 237. 246. Quattordicesima le-Lione, si veda infra p. 238. Le parole riponace tra virgolette dalla Arendc sono rdacive al§ 23 della Critica de/ Giudizio.

I. Introduzione e analisi

«Ciò che infatti rende la bellezza così piacevole, ovvero il fatto che l'oggetto sembri essere già predisposto per il nostro giudizio e perfettamente conforme alla nostra immaginazione e al gioco delle facoltà, si trova qui ad essere invertito: guardiamo qualcosa che, nel suo apparire, contraddice le nostre facoltà ed è "un oltraggio all'immaginazione" 247• Dunque, se il bello mostra quanto le nostre facoltà siano funzionali a farci sentire a casa nel mondo, il Sublime con il suo carattere di oltraggio, repellenza e dispiacere ci lascia presagire un mondo nel quale noi, con il nostro essere e il nostro apparire, non riusciamo a stare bene»•4s. La differenza qui tracciata, che sembra in fondo non aggiungere nulla a quanto già notoriamente affermato da Kant, si pone però nel complesso dell'analisi arendtiana come un ulteriore elemento di chiarificazione: il giudizio estetico fa del mondo la nostra casa, perché si basa precisamente sul presupposto di una doppia armonia, quella delle nostre facoltà (sensi, immaginazione e intelletto) fra di loro, e quella tra queste stesse facoltà e il mondo delle apparenze in cui ci troviamo a vivere. T aie presupposto non può, di fatto, essere dimostrato, come afferma lo stesso Kant: è un presupposto soltanto ideale. Ma proprio il fatto che il presupposto (il principio della finalità) sia ideale, e non reale, consente l'ingresso di uno sguardo umano sulle cose, di uno sguardo cioè che non sia subordinato al rispetto di leggi meccaniche già esistenti. Quando giudichiamo la bellezza in generale, cerchiamo in noi stessi a priori il criterio di giudizio, e la facoltà del giudizio estetico è per sé stessa legislatrice (§58 ). Il realismo della finalità della natura implicherebbe che noi apprendessimo dalla natura stessa quali sono gli oggetti da trovar belli, e il

2.47. «Troveremo che la bellezza naturale {per sé stante) include una finalità nella sua forma, per cui l'oggetto stesso sembra come predisposto pel nostro Giudizio, e perciò costituisce essa stessa un oggetto di piacere; mentre ciò che [... ] nella semplice apprensione, produce in noi il sentimento del sublime, può apparire, riguardo alla forma, contrario alla finalità per il nostro Giudizio, inadeguato alla nostra facoltà d'esibizione e quasi come violento contro l'immaginazione stessa fgleichsam gewa/tthiitigfor die Einbildung.rkra.ftl ». I. Kant, Critica del Giudizio, cit., p. 161 {corsivo mio). 2.48. Quattordicesima lezione, si veda infra p. 2.38. Il sublime inoltre si rivela ali' uomo nella sua solitudine, e suscita uno stupore muto, simile al thaumazein degli antichi greci: il discorso che qui può realizzarsi è soltanto l'appello al sentimento morale universale, ma non può esservi ricerca di consenso collettivo, né condivisione, come accade per il bello. Il sublime costituisce, di fatto, una rottura nella presentazione kantiana del giudizio estetico, qualcosa con cui lo stesso Kant si trova ad essere in difficoltà, come afferma Hannah Arendt e come osserverà, con motivazioni diverse, anche Jean-François Lyotard.

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giudizio di gusto sarebbe allora sottoposto a criteri empirici1 49. Invece, come scrive la Arendt parafrasando questo punto, non abbiamo bisogno di ricevere istruzioni dalla natura, perché abbiamo in noi stessi il modello a priori1 s0 • Il giudizio estetico coincide allora con l'elargizione di quel "favore" ( Gunst) di cui abbiamo parlato in precedenza, il favore con cui accogliamo il mondo: è proprio questa la differenza tra una finalità oggettiva, secondo la quale la natura avrebbe realmente predisposto le sue forme per il nostro piacere, e una finalità soggettiva, «la quale riposa sul libero giuoco dell'immaginazione, e in cui siamo noi che accogliamo la natura con favore, non è essa che offre un favore a noi»2.s 1 • La Arendt rielabora quest'ultima frase della Critica scriven, do: «non è la natura che ci offre un favore nel rendere bello il tulipano, ma siamo noi che offriamo un favore al tulipano riconoscendone la bellezza» 151 • Si badi al tempo stesso che questa frase non vuole affermare un ordine gerarchico di supremazia rispetto alla natura (o rispetto alle cose): il favore non va inteso qui come la svogliata concessione di un padrone verso il suo servo, o come qualcosa di forzato. Al contrario, nell'accezione intesa dalla Arendt (perché nelle intenzioni di Kant è più palese il senso della frase, da contestualizzare nel paragrafo 58 della Critica) sarebbe più giusto parlare di un atteggiamento di favore, o un atteggiamento di benevolenza verso il mon, do; una posizione esistenziale, dunque, che sembrerebbe rievocare il celebre Amor mundi, l'amore per il mondo che costituisce il vero motore del lavo, ro intellettuale dell'autrice e che avrebbe dovuto dare il titolo ad una delle sue opere più importanti, pubblicata poi come The Human Conditwn ( Vita activa )•si. L'espressione Amor mundi (derivata anch'essa probabilmente da, gli studi giovanili su Sane' Agostino) ricorre in molti studi legati alla figura

249. Cfr. I. Kant, Critica del Giudizio, cit., p. 379. 250. Cfr. Sedicesima lezione, si veda infra p. 259. 251. l. Kant, Critica del Giudizio, cit., p. 379. 252. Sedicesima lezione, si veda infra p. 259.«Una fìnalità soggettiva, la quale riposa sul libero giuoco dell'immaginazione, e in cui siamo noi che accogliamo la natura con favore, non è essa che offre un favore a noi». I. Kant, Critica del Giudizio, cit., p. 379. 253. È la Arendt stessa a dichiarare tale intenzione in una lettera indirizzata aJaspcrs il 6 agosto 1955: «Ho cominciato così tardi ad amare veramente questo mondo, a dire il vero solo in questi ultimi anni, e dovrei essere capace di farlo ormai. Per gratitudine intitolerò il mio libro sulle teorie politiche "Amor Mundi"» (il riferimento ali' originale tedesco è in ArcndtJaspcrs, Briefwechsel 1926-1969, Pipcr, Munchen-Zurig1985, p. 301. Per la traduzione del passo mi sono servita anche della versione francese contenuta in Arendt-Jaspcrs, Corresponda»ce 1926-1969, Payot, Paris 1995, p. 370).

I. Introduzione e analisi

di Hannah Arendt, quasi possa essere ritenuta riassuntiva dei molti fattori che delineano il profilo biografico e intellettuale dell'autrice'-54• La biografia scritta da Elisabeth Young-Bruehl s'intitola non a caso Hannah Arendt. For loveofthe Worfd>- 55 • Nelle prime pagine della prefazione Young-Bruehl spiega che il pensiero di Hannah Arendt era attraversato da opposte correnti: era in lei una vitalità naturale chel 'accompagnava, come testimoniato in una lettera del 19 luglio 1947 indirizzata a Kurt Blumenfeld, perfino nel periodo in cui cominciavano ad imporsi alla sua attenzione di studiosa i mali provocati dal regime totalitario; e al tempo stesso vi era come un'innata malinconia, contro la quale l'unico rimedio era provare a capire le cose ancora più a fondo. «Hannah Arendt lottava per tenersi aggrappata a un atteggiamento dello spirito che lei stessa chiamava Amor Mundi» 1 s6• O per citare un altro stralcio che chiarisca il problema, nelle parole di C. Vallée: «Il suo radicalismo selvaggio ha questo di affascinante: che non 1a conduce a nessun disprezzo, a nessun nichilismo, ma a un umanismo che, senza negare i limiti o iJ tragico della "condizione umana", conserva intatta 1a fiducia nella capacità che gli uomini hanno di giudicare, di inventare soluzioni nuove e di agire insieme. Amor mundi nonostante rutto, fu certamente qualcosa di più di una parola d 'ordine puramente formaJe» 1s7.

È dunque sulla scia di questa "propensione" per il mondo che va inteso il favore elargito alla natura: una sorta di "disponibilità" verso le cose, e verso la loro bellezza, benché tale bellezza non sussista di fatto al di fuori del nostro sguardo, o meglio proprio per questo motivo. Il tema del favore è associato fìn da subito, come già si è visto, al nome di Agostino, e anche nelle battute finali del testo arendtiano troviamo una

2.s+ «"Amore per il mondo" è una delle espressioni più celebrate di Hannah Arendt ed è diventata simbolo della straordinaria capacità di sopravvivenza, della vitalità e del coraggio

con cui la filosofa ha affi-ontato il tormentato percorso dell'esilio». Laura Boella, Hannah Art:ndt, Feltrinelli, Milano 2.02.0, p. 36. 2.55. E. Young-Bruehl, Hannah Art:ndt. For love ofthe World, Yale University Press, New Haven, London 1982.. La traduzione italiana, edita da Bollati Boringhieri, ha mantenuto nel titolo l'espressione «Per amore del mondo» solo nelle prime edizioni, omettendola nella versione più recente (2.006): Harmah Art:ndt. Una biografia, cit. 2.56. E. Young-Bruehl, Hannah Art:ndt. Una biografia, cit., p. 18. 2.57. C. Vallée, Hannah Armdt, Socrate e la questione dei totalitarismo, cit., p. 189.

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nota a margine che ribadisce questo legame: «Amo ut sis», si legge in stam, parelio maiuscolo, espressione che costituisce certamente una contrazione dell'originario "amo: volo ut sis" attribuito ad Agostino (si vedano i paragra, fi precedenti), e che potrebbe spiegarsi come un'abbreviazione involontaria dovuta all'impeto della scrittura, ma anche, più probabilmente, come una voluta trasposizione del "volere" nell'"amare". "Amo che sia" potrebbe essere infatti, la frase che Hannah Arendt riferisce al mondo, nel momento stesso in cui descrive il favore che va "accordato" ad esso da parte nostra («Nell'elargire questo favore al mondo attualizziamo tutte le nostre facoltà e le armonizzia, mo insieme, facendo del mondo la nostra casa. Confermiamo così il mondo e noi stessi» 158). Il favore introdotto da Kant nel paragrafo s come l'atteggiamento asso, dato al piacere del bello, e come qualcosa di totalmente libero, diversamente dall'inclinazione e dalla stima, acquisisce dunque un peso centrale soprattut, to nell'epilogo del discorso arendtiano. Ma per poter comprendere il messag, gio che la Arendt affida alla conclusione di questo suo corso sulla filosofia politica di Kant occorre tener conto di un secondo elemento, che si chiarisce in queste battute finali ma che, in realtà, era emerso già in alcune osservazioni precedenti.

47. Dal genere umano all'umanità

L'ultima delle lezioni del corso prende in considerazione diversi paragrafi della Critica del Giudizio, tra cui anche il paragrafo riguardante l'antinomia del giudizio estetico (§ 56): «tesi: il giudizio di gusto non si fonda sopra concetti; perché altrimenti di esso si potrebbe disputare (decidere mediante prove). Antitesi: Il giudizio di gusto si fonda sopra concetti; perché altri, menti non si potrebbe neppure contendere, qualunque fosse la diversità dei giudizi (non si potrebbe pretendere alla necessaria approvazione alrrui)» 159 • Come lo stesso Kant spiega, l'antinomia non è risolvibile se non dimostrando che il concetto al quale si riferisce l'oggetto di questa specie di giudizii, non è preso nello stesso significato nelle due massime. Nel paragrafo successivo Kant introduce infatti l'idea che, oltre al concetto intellettuale, che è di tipo determinato, esista un tipo di concetto indeterminato e indeterminabile al,

2.58. Sedicesima lezione, si veda infta p. 2.59. 2.59. l. Kant, Critica dei Giudkio, cit., pp. 355-57.

I. Introduzione e analisi

lo stesso tempo, che corrisponde al concetto razionale del soprasensibile. Se dunque è naturalmente escluso che il giudizio di gusto possa fondarsi su un concetto del primo tipo, è invece ammissibile (e anzi necessario) che vi sia un fondamento concettuale del secondo tipo: ma si tratta, in questo caso, di «un concetto non determinabile per via dell'intuizione; un concetto col quale non si conosce niente, e che quindi non fornisce alcuna prova pel giudizio di gusto>> 160• Parafrasando questo punto dell'opera, e riproponendo sinceri~ camence la soluzione al problema dell'antinomia del gusto, la Arendt scrive: «il giudizio di gusto ha un rapporto con il concetto, ma con uno strano tipo di concetto e in uno strano modo» 161• Il concetto coincide in questo caso, se~ condo laArendt, con l'idea della ragione secondo cui noi e la natura siamo in armonia: idea che non consente alcuna possibilità di dimostrazione. L'autrice prosegue dunque riprendendo il paragrafo 58, Dell'idealismo della .finalità tanto nella natura che nell'arte, come unico principio del giudizio estetico, dove tale armonia viene descritta e messa in risalto, come evidenziato poc'anzi, e nel far questo rispetta lo sviluppo dello stesso discorso kantiano, poiché il paragrafo 58 si colloca effettivamente subito dopo i paragrafi riguardanti il problema e la soluzione dell'antinomia. Tuttavia nella spiegazione di questi passaggi, non è del tutto chiaro se la Arendt sia realmente fedele al contenuto espresso da Kant o se lo riformuli secondo una propria visione. Kant scrive infatti a un certo punto: «forse il principio determinante del giudizio sta nel concetto di ciò che può essere considerato come il sostrato soprasensibi~ le dell'umanità» 161 (la soluzione all'antinomia del Giudizio estetico prende una via analoga a quella delle antinomie della ragion pura teoretica, dice poi l'autore alla fine del paragrafo 57, perché anche qui le antinomie ci costrin~ gono a guardare aldilà del sensibile e a cercare nel sovrasensibile il punto di unione di tutte le nostre facoltà a priori). Così laArendt, parlando del giudizio estetico, si esprime ad un certo punto nello stesso modo: «la validità dei nostri giudizi non può essere spiegata con l'appello ai numeri - del tipo "si dà il caso che un certo numero di persone condivida la stessa opinione" né considerando questo gusto come il gusto del solo nostro palato, uguale in tutte le persone dotate della stessa costituzione fisica. Alla base vi è qualcosa che non

2.60. lvi, p. 359. 2.61. Sedicesima le-Lione, si veda infra p. 2.57. 2.62. I. Kant, Critica de/ Giudizio, cit., p. 359. La parola usata per"umanità" è "Menschhcit".

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può essere dimosrraco ma che tuttavia agisce come un modello, e cioè il sosrraco sovrasensibile dell'umanità» 16J. Attorno alla parola umanità ruota, inoltre, il senso finale del discorso arendciano. Ma occorre, proprio per questo, fare luce sull'utilizzo di questa parola, ed evidenziare come essa subentri da nn cerco momento in poi, ali' interno delle lezioni del '6 4, e in particolare nella quindicesima (dunque verso la fine del corso). Fino a cale momento l'autrice si era espressa utilizzando unicamente la parola "mankind", che può essere considerata come il corrispettivo del tedesco "menschliche Geschlecht", frequentemente usato da Kant. La stessa parola ricorre anche al di fuori delle citazioni kantiane vere e proprie, ma il suo utilizzo è sempre inquadrabile in quella prospettiva teleologica che Kant abbraccia con la sua filosofia della storia, e che la Arendc riprende soprattutto nella parte iniziale del suo discorso. Il primo punto in cui la Arendc parla di "Humanity" si ritrova, come già detto, nella quindicesima lezione, quando l'autrice affronta il tema del" disinteressato". Si potrebbe annoverare, prima di cale menzione, soltanto un passo della nona lezione in cui la Arendc riprende il paragrafo 41 della Critica: la citazione non è riportata dalla Arendc per esteso, ma solo indicata da poche parole che ne consentono l'individuazione. All'interno di questo paragrafo Kant utilizza la parola "Humanicac", il cui significato, probabilmente, sarebbe stato inceso dalla Arendt in modo letterale, anche alla luce del contesto in cui la parola è inserita 164; sfortunatamente però, per il motivo testuale, non ne abbiamo riscontro effettivo. Il brano della quindicesima lezione che qui ci interessa è stato già oggetto d'esame poc'anzi, ma occorre ritornarci per evidenziare l'aspetto in questione. Dopo aver affermato che il mondo umano in quanto cale è il mondo nel quale ci liberiamo dai nostri interessi, sia in quanto animali sia in quanto esseri intelligibili (preoccupazioni del corpo e dell'anima), la Arendc scrive: «emerge così i'UMANITÀ o l'umanesimo [whac comes abouc is HUMANI263. Sedicesima le-Lione, si veda infra p. 259. 264. «Empiricamente il bello interessa solo nella società; e se si ammette come naturale

nell'uomo la tendenza alla società, e la socievolezza, cioè l'attitudine e l'inclinazione alla vita sociale, come una qualità inerente ai bisogni dell'uomo, in quanto creatura destinata alla società, e quindi inerente all'umanità, allora non si potrà non considerare il gusto come la facoltà di giudicare di tutto ciò in cui il proprio sentimento può esser comunicato ad ogni altro, e quindi come il me-Lzo di soddisfare ciò che è richiesto all'inclinazione naturale di ognuno». I. Kant, Critica del Giudizio, cit., p. 271.

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TY or humanism], che ci differenzia dai barbari (§ 13), i quali sono ancora simili agli animali nel fatto di aver bisogno di una gratificazione o di una spinta per riconoscere questo mondo specificamente umano»i 6i. La stessa autrice, utilizzando il verbo "come about" (nascere, emergere, subentrare) in riferimento al concetto di umanità o umanesimo, sottolinea l'ingresso di un cambiamento; di una diversa sfumatura di significato rispetto al preceden, te e ripetuto "mankind", che indica, appunto, non !'"umanità" ma il "genere umano". L'enfasi è espressa, come si può notare, anche attraverso l'utilizzo del maiuscolo, che compare ancora nella frase immediatamente successiva: «Avere un interesse verso l'"uMANITÀ" vuol dire avere un interesse acquisito verso il disinteressato». Se in precedenza abbiamo ripreso questi passaggi per evidenziare la dif ferenza tra civili e barbari, ovvero tra giudicanti e non giudicanti, adesso vediamo dischiudersi in queste stesse parole una seconda differenza, che la Arendt ribadisce con chiarezza ancora maggiore più avanti e che merita di essere posta nella giusta luce. La differenza è, appunto, quella tra Mankind e Humanity, Genere umano e Umanità. Il distacco è reso esplicito quando, commentando il paragrafo 7 della Critica, la Arendt scrive: « Se fosse vero che "ciascuno ha il proprio gusto", allora il gusto stesso non esisterebbe affatto. E, di conseguenza, non esisterebbero degli esseri umani civilizzati che in quanto tali formino l'Umanità, e non appena il "Genere umano"» i 66• Nella sedicesima lezione la parola "umanità" ritorna: la voce generale di cui Kant parla nel paragrafo 8 ( «allgemeine Stimme») è per la Arendt la voce dell'umanità cui tutti i miei giudizi si riferiscono; «è la voce che posso sentire solo se, quando e nella misura in cui giudico» i6 7_ Più avanti si legge ancora che il riuscire a guardare un oggetto fuori dalla concatenazione mezzi, fini è possibile solo all'uomo, in quanto egli stesso si trova di fatto al di fuori di questa concatenazione. Così, riprendendo il§ 17 della Critica, Dell'ideale della bellezza, la Arendt afferma: «Solo ciò che ha in sé stesso lo scopo della sua esistenza, l'uomo[ ... ] è capace dell'ideale della bellezza»i68 • E aggiunge: «E ciò perché è l'Umanità stessa a parlare per mezzo della sua persona».

2.65. Quindicesima lezione, si veda infra p. 2.50. 2.66. Quindicesima lezione, si veda infra p. 2.52.. 2.67. Sedicesima lezione, si veda infra p. 2.54. 2.68. Jbid. «Solo ciò che ha in sé stesso lo scopo della sua esistenza, l'uomo, il quale può determinare da sé i suoi fini mediante la ragione [... ] , l'uomo dunque, tra tutti gli oggetti del mondo, è il solo capace dell'ideale della bellezza». I. Kant, Critica del Giudizio, cit., p. 133.

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Si comprende attraverso questi ultimi stralci che con la parola "umani, tà" la Arendt vuole indicare qualcosa di molto più profondo e nobile di una semplice classificazione naturale o biologica: in un certo senso, l'umanità è il livello di compimento, e al tempo stesso l'originaria destinazione ontologica, di quello che si definisce comunemente genere umano. È forse per questo motivo che la Arendt ritiene di poter affermare, come già evidenziato, che la validità dei nostri giudizi non risiede nel valore stati, stico di un sondaggio, né nell'oggettività di una caratteristica fisica che possa essere assunta come minimo comun denominatore: ciò su cui i nostri giudizi poggiano è un sostrato sovrasensibile, il sostrato sovrasensibile dell'umanità. Nelle battute conclusive la Arendt afferma, riepilogando anche quanto affermato poco prima, che ci troviamo così ad avere due idee. La prima, ri, guarda quella che è stata già definita come la finalità soggettiva della natura rispetto alla nostra capacità di giudicare, ovvero il fatto che la natura sembri già predisposta per essere ammirata dal nostro sguardo. Ma, in questa sede, la Arendt enfatizza ulteriormente questo aspetto, scrivendo che la natura, nel suo darsi, non solo è apparenza, ma vuole apparire, e apparire magnifìcamen, te. E ciò proprio perché vi è il genere umano a fare da spettatore, il quale è dotato di una capacità percettiva e immaginativa che è già in sintonia con l'apparire della natura. L'autrice anticipa qui un aspetto che verrà trattato in maniera esplicita all'interno de La vita della mente, riguardante l'impulso naturale all' autoesibizione, ma su questo si tornerà nella parte critica. Ci in, teressa sottolineare adesso un'altra questione: il riconoscimento della natura (dove per natura si può intendere anche tutto ciò che è fuori di noi) da parte dell'uomo consiste nell'elargizione di quel favore di cui abbiamo poc'anzi parlato. Ma in queste poche righe finali si comprende che la corrispondenza sancita dal finalismo soggettivo della natura, e dunque la possibilità di elargire il favore, e cioè di riconoscere il mondo, di accoglierlo, e di farne la nostra casa, è soltanto un presupposto o, se vogliamo, una potenzialità. Perché tale potenzialità si attualizzi - per essere in grado di elargire questo favore, seri, ve la Arendt - dobbiamo "umanizzare" noi stessi. È questa la seconda idea, o il secondo passo, che definisce la traiettoria di un'evoluzione: dal genere umano all'umanità. L'educazione verso questo scopo avviene attraverso le arti liberali che Kant chiama humaniora (§ 60 ), e più in generale, si potrebbe dire, attraverso quella coltivazione del proprio animo che la Arendt altrove attribuisce a Cicerone, considerandola un antecedente del gusto•69. 2.69. Si veda la parte flnale del corso: «Ciò che Kant chiama gusto è per Cicerone la cultura

I. Introduzione e analisi

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Restando sul passo in questione, la Arendt si rifa al paragrafo 60 della Critica e riporta, con accenti personali, la definizione che qui Kant offre di "umanità" (ancora in questo caso "Humanitat" in tedesco). Nelle parole dell'autore: « Umanità significa da un lato il sentimento universale della simpatia e dall'altro la facoltà di poter comunicare intimamente e universalmente; due proprietà che, prese insieme, costituiscono la socievolezza propria dell'umanità per cui essa si differenzia dalla limitatezza propria della vita animale» 170• Nella trasposizione che ne fa la Arendt è omesso naturalmente il riferimento all'universalità; e il sentimento di simpatia è spiegato come "partecipazione" e "mentalità allargata". L'autrice continua parafrasando il testo e scrive: «L'umanità si realizza anraverso l '"ane della comunicazione reciproca", da cui scaturisce "la giusta misura che nessuna legge universale potrebbe mai produrre" e che Kant chiama allgemeiner Menschensinn - non più il senso comune, ma il generale senso umano» 171• Il senso comune - quando non presentato nella locuzione latina sensus communis - è definito infatti da Kant "Gemeinsinn", parola che non include ancora un esplicito riferimento all'uomo. Umanità è, infine, la parola che conclude propriamente il dattiloscritto arendtiano, se escludiamo gli ultimi appunti preparatorii che raccolgono, di fatto, un insieme di citazioni kantiane e di relativi commenti, e che quindi non consideriamo nel novero delle "lezioni" vere e proprie. I giudizi di gusto sono resi possibili dalla corrispondenza tra il mondo e l'Umanità: «Ciò che appare nel tulipano, o piuttosto aldilà di esso, è 1' idea di una na-

animi: una mente così ben allenata e coltivata da risultare affidabile nel giudicare e nel prendersi cura del mondo» {Pensieri e Citazioni fìnali, infra p. 2.67 ); si veda anche il saggio La crisi della cultura: nella società e nella politica, in Tm passato efoturo, cit., pp. 2.87-2.89. 2.70. I. Kant, Critica del Giudizio, cit., p. 393. 2.71. Sedicesima le-Lione, si veda infra pp. 2.59-2.60. Il riferimento è meglio comprensibile se ci serviamo - solo in questo caso - di un• altra traduzione della Critica del Giudizio, quella di M. Marassi (Bompiani, Milano 2.017, p. 411): «quest'epoca e questo popolo dovettero anzitutto inventare l'arte della comunicazione reciproca delle idee tra la parte più colta e la parte più rozza, il modo di accordare l'ampliamento e l'affinamento della prima con la naturale semplicità e l'originalità della seconda, scoprendo in tal modo tra la cultura superiore e la semplice natura quel termine medio che costituisce anche per il gusto, in quanto universale senso umano [a//gemeiner Menschmsinn], la giusta misura che nessuna regola universale può addurre» {corsivo mio).

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tura ordinata; e ciò che appare attraverso il mio giudizio, o piuttosto ciò a cui esso tacitamente rimanda, è una comunità umana ordinata, o Umanità»'7'. Si potrebbe forse ragionare ancora sulla differenza di significato tra le pa~ role "mankind" e "humanity" che la Arendt abbozza nei pochi passi eviden~ ziati, e sulle "due idee" che enuncia in conclusione del suo discorso e che ab~ biamo potuto qui solo approssimativamente ricostruire. Inoltrarsi in questo territorio significherebbe però cercare di forzare la natura di questo testo, che rimane un quaderno di lavoro, tanto prezioso quanto poco strunurato; tanto ridondante e ripetitivo in alcuni punti quanto criptico e misterioso in altri; e al quale forse abbiamo chiesto già più di quanto non potesse darci. Il tentativo di analisi che si è voluto qui portare avanti in merito all' inter~ pretazione arendtiana della Critica del Giudizio segue l'ordine e gli sviluppi tematici che l'argomento stesso ha suggerito e rivelato nel suo progressivo dispiegamento. L'auspicio è quello di aver allargato, anche di poco, il peri~ metro delle conoscenze già esistenti sul tema, e di aver fornito nello stesso tempo una sorta di guida introduttiva a questo materiale di laboratorio rima~ sto finora inedito.

2.72.. Sedicesima le-Lione,

si veda infra p. 2.60.

Parte seconda

Rilievi della critica

L'interpretazione di Hannah Arendt sulla Critica del Giudizio di Kant ha sollevato molteplici obiezioni, che sono raggruppabili, a mio modo di vedere, in due fìloni principali: il filone della critica "filologica", orientato a discutere la minore o maggiore fedeltà da parte dell'autrice alle reali intenzioni di Kant, al suo progetto fìlosofìco e ai testi in cui esso si esprime, e il filone "polito~ logico", che indaga sull'applicabilità reale dell'analogia tra estetico e politico nel mondo contemporaneo, e dunque sul valore di una teoria del giudizio politico come quella che Hannah Arendt propone. Accanto a queste due correnti principali, nelle quali si trovano accomunate le opinioni di diversi e autorevoli studiosi, vi è una terza posizione, non del tutto assimilabile alle due precedenti, quale la posizione di Jean~François Lyotard, cui va dedicata una trattazione autonoma. Infine, può essere svolto un discorso più generale sul nesso tra estetica e politica che attraversa in qualche modo l'intera pro~ duzione arendtiana e che dischiude, a sua volta, un diverso tipo di riflessioni. Prima di entrare in questa "catalogazione" ed evidenziarne le caratteristi~ che occorre forse precisare che la maggior parte di questi studiosi si esprime con riferimento alle Lectures on Kant's Politica! Philosophy del 1970 e ad altri passi dell'opera arendtiana relativi al materiale edito. Il corso del 1964 vie~ ne menzionato, per ciò che ci risulta, solo da Ronald Beiner nel suo saggio Il giudizio in Hannah Arendt, relativamente a due brevi citazioni, e in un articolo di Barbara Henry, Il giudizio politico. Aspetti kantiani nel carteggio Arendt-jaspers', dove l'autrice lo identifica come il primo nucleo espositivo di quei contenuti che saranno riproposti nel 1970. L'assenza di altri riferimenti 1. B. Henry, Il giudizio politico. Aspetti kantiani nel carteggw Arendt..Jaspers, in «Il pensiero politico», n. 2.0, 1987, pp. 361-375.

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all'interno della letteratura critica lascia presupporre che questo materiale di lavoro, benché depositato dall'autrice stessa negli archivi di Washington e dunque disponibile alla consultazione presumibilmente già a partire dalla fìne degli anni '60, non sia stato oggetto di attenzione da parte degli studiosi, i quali, come già affermato, si sono attenuti prevalentemente alle fonti edite. Alla luce di ciò, il tentativo di una ricognizione complessiva delle varie posizioni espresse dalla critica potrebbe sembrare qualcosa di artificioso o di non totalmente aderente all'analisi fin qui svolta, nella quale si è scelto di adottare il testo del 1964 come principale pietra di paragone. In verità, se assumiamo le lezioni del '64 come preliminari rispetto a quelle del '70 e in generale come tappa di un percorso che parte già dal '57 coinvolgendo scritti di carattere privato e pubblico, esse risultano parte integrante di quel medesimo oggetto di ricerca su cui la critica si è copiosamente spesa, e non possono che costituire un ulteriore terreno di conferma o di verifica rispetto alle domande e alle obiezioni sollevate nel corso degli anni. Il recupero delle diverse voci in capitolo risulta allora non soltanto un utile completamento del discorso fin qui svolto, ma anche uno sforzo doveroso.

5. Rilievi filologici. Il Kant decostruito Si è già avuto modo di notare che la particolare lettura della Critica del Giudizio da parte di Hannah Arendt si inserisce in un più ampio quadro di riscoperta degli autori del passato, dove il criterio guida non è più dato dall' obbedienza a dei canoni esegetici prestabiliti, bensì da una libera frequentazione, volta a "raccogliere" i tesori di un'eredità ancora sconosciuta. Alcuni studiosi richiamano in proposito le parole che Heidegger scrisse nella Prefazione alla seconda edizione del suo.Kant eilproblema della Metafisica (1929), parole che potrebbero aver implicitamente condizionato la Arendt o quantomeno essere servite come un valido alibi: « Di continuo ci si scandalizza per le forzature che si ravvisano nelle mie interpretazioni. [... ]. A differenza dei metodi della filologia storica, che ha il suo proprio compito, un dialogo di pensiero è soggetto ad altre leggi che sono più vulnerabili. Nd dialogo è più alto il rischio e sono più frequenti le mancanze»•.

2. M. Heidegger, Kant e il problema della metafisica, trad. it. di V. Verra, LaterLa, RomaBari 1981, p. 7.

Il. Rilievi della critica

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In realtà, se volessimo trovare una fonte ispiratrice per quell'opera di deco, struzione che di fatto laArendt ha messo in atto, questa è piuttosto da ricerca, re nella figura di Walter Benjamin, scrittore e pensatore tedesco cui laArendt dedicò nel 1968 il saggio Benjamin: l'omino gobbo e il pescatore di perle. Al centro di ogni lavoro di Benjamin, scrive la Arendt, vi è la citazione (soprat, tutto successivamente alla pubblicazione del saggio sulle Affinità Elettive di Goethe). L'ideale del!' autore era quello, surreale, di mettere insieme un testo che fosse composto di sole citazioni, riunite in maniera talmente magistrale da poter fare a meno di qualsiasi discorso di accompagnamento. Lo scopo principale consisteva nello «strappare frammenti dal loro contesto e riordi, narli secondo un nuovo criterio in maniera tale che si illuminassero recipro, camente e nello stesso tempo, come sospesi e liberi, potessero conservare la loro giustificazione di esistere» 3• Il lavoro di Benjamin si distanziava allora profondamente da quello delle lunghe dissertazioni erudite dove la citazione era ridotta a documentazione di altre opinioni e rimandata all'apparato di note. La Arendt fa ricorso, per descrivere questo atteggiamento, alla figura del collezionista, colui che isolando il suo oggetto da collezione ne distrugge, in qualche modo, l'originario contesto di appartenenza. Il custode o erede del passato è tale solo se si trasforma in un distruttore, nel!' accezione positiva che questa parola può assumere. La rottura della tradizione occidentale ha facilitato per noi questo processo poiché non si dovrà far altro che chinarsi a raccogliere i preziosi frammenti rimasti dal cumulo di rovine del passato. Nelle ultime battute del saggio la Arendt richiama, sulla stessa linea d'onda, l'immagine del "pescatore di perle", colui che si immerge nelle profondità del passato non per richiamarlo in vita così com'era, ma per portarne in superficie gli aspetti più preziosi. Quello che guida questo pensiero, scrive l'autrice, è la convinzione che il mondo ceda alla rovina dei tempi, ma che il processo di decomposizione sia, insieme, un processo di cristallizzazione; e che dunque «nella protezione del mare[ ... ] nascano nuove forme e formazioni cristalline che, rese invulnerabili contro gli elementi, sussistono e aspettano solo che il pescatore di perle le riporti alla luce»4. Tra gli studi che hanno maggiormente evidenziato l'utilizzo da parte di Hannah Arendt del metodo benjaminiano vi è senz'altro la sezione che Laura Bazzicalupo dedica al "Giudicare" nel suo lavoro Hannah Arendt. La storia 3. H. Arendt, Benjamin: l'omino gobbo e il pescaJore di perle, in !/_futuro alle spalle, a cura di L. Ritter Santini, trad. it. di V. Bazzicalupo e S. Muscas, Il Mulino, Bologna 2.011, p. 96. 4. lvi, p. 99.

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per la politica. Qui, proprio in riferimento ali' interpretazione arendtiana della Critica del Giudizio, Bazzicalupo afferma: «Il pensiero kantiano viene decostruito, frantumato in immagini e intuizioni individuali, che ne indeboliscono o ne rimuovono addirittura lo sfondo filosofico

[...]s; [... ] la Arendt ricava frammenti che, distolti dal proprio contesto, "citati" in modo differente, sottolineano una lettura non che antimetafisica, anche antitrascendentale; lasciano cadere il centrale concetto di teleologia, come fondamento in genere delle finalità soggettive della natura rispetto al giudizio: tradiscono insomma il pensiero kantiano» 6• La stessa Bazzicalupo, in un articolo intitolato Il Kant di Hannah Arendt, parla esplicitamente di decostruzione e di «eresia fllologica» 7• Per quanto forti siano queste espressioni, esse vanno inserite in un quadro di analisi più complesso, che ci consente appunto se non di giustificare, almeno di contestualizzare questa presunta "manipolazione": «Il richiamo a Kant, le citazioni rianimate e discusse nelle sue Lezioni, possono far pensare alla violenza di una falsificazione, ma in realtà cercano un rapporto di libera frequentazione col passato, col pensiero di un grande cui si sentono affini.

[... ]

La Arendt non cerca in questi testi kantiani un supporto erudito, prestigioso per le sue tesi, ma strumenti di chiarificazione, punti di riferimento, metafore, suggerimenti creativi non gravati dal peso metafisico che li obbligava alla certezza e all'assetto sistematico» 8•

Allo stesso modo anche Simona Forti nelle pagine della sua monografia, di cui abbiamo già ripreso alcuni stralci in apertura, evidenzia i caratteri di questa precisa operazione ermeneutica, volta a restituirci un'immagine della filosofia kantiana completamente emendata dei suoi aspetti universalistici, secondo un'interpretazione che è selettiva e proiettiva al contempo9. In

s. L. Bazzicalupo, Hannah Arendt. La storia per la politica, Edizioni Scienciflche Italiane, Napoli 1996, p. 2.93. 6. lvi, p. 2.92.. 7. L. Bazzicalupo, Il Kant di Hannah Arendt, in La.filosofia politica tll Kant, cit., p. 153. 8. L. Bazzicalupo, Hannah Arendt. La storia per la polltica, cit., p. 2.93. 9. Cfr. S. Forti, Hannah Arendt trafilosofia epolitica, cit., p. 32.8.

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quest'ottica va compreso anche il confronto che spesso la Arendt instaura tra Kant ed Hegel, volendo attribuire a questi autori due paradigmi antitetici: «o si è con Kant e si salva il significato e 1' autonomia di ciò che appare, o si è con Hegel e allora tutto viene riassorbito nella logica monistica dell'Idea e della necessità storica a cui si demanda - secondo la ben nota attitudine metafisica - il significato di ogni singolarità» ' Sebbene non si possano negare dei punti di convergenza tra i due pensatori, soprattutto in merito alla concezione teleologica della storia, e all'idea di un genere umano astratto che prende il posto degli individui concreti, la Arendt di fatto minimizza la portata di tali analogie per riaffermare con più forza la divaricazione: si rende così evidente l'intento di disegnare un profilo di Kant che in ogni suo tratto possa essere contrapposto a Hegel; un Kant, come già si è detto in precedenza, post hegeliano, post metafisico, addirittura già prossimo alla filosofia dell' e~ sistenza novecentesca. Diversi studiosi convengono nel ritenere che la Arendt elegga la Critica del Giudizio come luogo privilegiato e in qualche modo separato dal resto della produzione kantiana. Secondo Pierpaolo Portinaro, curatore dell'edizione italiana delle Lectures, per chi si accosti alle lezioni su Kant senza conoscerne a fondo i presupposti sarà inevitabile constatare, accanto alle "perle", ovvero ai passi trascurati e riemersi attraverso la viva luce dell'interpretazione, anche «vistose lacune, deliberate o inavvertite omissioni»". Lo studioso sostiene, assieme ad altri, che gli scritti kantiani di filosofia morale e filosofia del di~ ritto non godano della dovuta attenzione da parte dell'autrice, e condivide l'osservazione di Patrick Riley (riportata già nei primi paragrafi del presente studio) secondo cui per rendere plausibile la sua ipotesi la Arendt è costretta a minimizzare 1'importanza degli scritti kantiani tradizionalmente qualificati come "politici", considerandoli alla stregua di fantasticherie un po' senili. 0



5.1. Omissioni e rielaborazioni

Diffuso è anche il rilievo di una mancata attenzione verso il concetto di finalità, subordinato a quello più decisivo di "apparenza": «la politica scrive Edoardo Greblo - come l'estetica, è il regno delle apparenze, e non

10.

lvi, p. 330.

P. Poninaro, L'azione, lo spettatore e il giudizkJ. Una kttura dell'opus posthumum di HmmahArendt, in « Teoria politica», voi. s, n. 1, 1989, p. 136. 11.

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delle finalità, che infatti la Arendt non prende in considerazione nella sua lettura di Kant» 11• Tale concezione introduce per altro delle perplessità anche sulla concezione stessa di "politico", poiché non può essere ritenuto politico un giudizio che escluda del tutto l'orizzonte dei fini; ma su questo aspetto contenutistico si tornerà più olcre. Ciò che qui possiamo osservare è che in realtà il rilievo di Greblo, condiviso anche da altri studiosi (tra cui lo stesso Portinaro), non risulta essere del runo veritiero poiché il principio della finalità viene menzionato dalla Arendt già nei suoi primi appunti del 1957 (dove la natura guardata attraverso il principio finale corrisponde al mondo degli uomini)•, e ricorre frequentemente anche nelle pagine del corso del 1964, come si è avuto in parte modo di notare nell'analisi qui svolta (si pensi alla finalità delle facoltà conoscitive che "giocano" insieme producendo armonia, alla definizione di bellezza come finalità puramente formale, alla paradossale finalità senza scopo che costi ruisce di fatto l' orizzonte dell'estetico, ecc). Il concetto è effettivamente meno presente nelle lezioni del 1970, ma le parole di Greblo possono essere forse meglio comprese nella probabile ipotesi che esse si riferiscano ad una più ampia e visibile esclusione, quella che riguarda runa la seconda sezione dell'opera, dedicata appunto al Giudizio teleologico. La Arendt sceglie infani di soffermarsi come si è visto unicamente sulla prima sezione, relativa al Giudizio estetico, e nelle lezioni del '64 cale scelta viene espressamente dichiarata e motivata nelle sue ragioni 14. Ritengo utile riportare ad ogni modo un estratto del saggio di Greblo nel quale viene toccato l'argomento: «L'interpretazione dell'opera kantiana condotta dalla Arendc non è priva di ingenti forzature (ad esempio, per sostenere la "traduzione" delle categorie estetiche in categorie storico-politiche, è coscrena a rimuovere la nozione di finalità, mentre sappiamo che la teleologia, che è un principio soltanto regolativo per il giudizio riflenente, e non costitutivo per il giudizio determinante, svolge un ruolo tun' altro che secondario nella Critica del Gjudizio). Una lenura angustamente filologica di un tentativo che, non va dimenticato, è rimasto prematuramente interrotto, sarebbe però arbitraria e sopranuno limicaciva» 1s. 12.. E. Greblo, J/ poeta cieco. Hannah .Armdt e il giudizio, in «Aut-aut», nn. 2.39-2.40, 1990,p. 11413. Cfr. H. Arendt,Ne/ deserto del pensiero. Quademi e Diari 1950-1973, cit., p. 458. 14- Si veda l'inizio della Sesta le-Lione, in.fra pp. 189-190. 15. E. Greblo, Ilpoeta cieco. Hmmah .Armdt e ilgiudizio, cit., p. 12.1.

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Parlando di omissioni o di "rimozioni", interessante è anche il saggio di Gaetano Rametta, Comunicazione, giudizio ed esperienza del pensiero in Hannah Arendt, dove lo studioso sottolinea l'aggiramento, da parte della Arendt, delle nozioni politiche di rappresentanza e sovranità, nozioni fortemente presenti nel corpus politico degli scritti kantiani. Ciò non può stupire poiché, come spiega lo stesso Rametta, la prassi della rappresentanza consolida una separazione verticale tra rappresentanti e rappresentati, e sancisce come situazione durevole la disuguaglianza nella distribuzione del potere e nella conseguente capacità d'intraprendere azioni politiche. Non è difficile allora comprendere perché «un pensiero che intende la politica e il potere nella forma del!' inter-azione comunicativa tra cittadini dotati di pari dignità debba rifiutare il consolidamento della spaccatura verticale tra i delegati e quanti vengono ridotti alla funzione di elettori» 16• Viceversa, attestandosi entro lo spazio politicamente periferico della Critica del Giudizio, la Arendt rimette in gioco in veste di politica autentica ciò che il politico moderno aveva estromesso dai suoi confìni e "spoliticizzato", prendendolo al massimo in considerazione sul piano neutralizzato della teoria estetica 17. L'approssimazione, infìne, a ciò che si pone esplicitamente come politico anche nello stesso pensiero kantiano riguarda i temi della comunicazione, del giudizio, della libertà di stampa e del!' opinione pubblica: «luoghi investiti dalla luce proveniente da una Critica del Giudizio sguarnita del lato teorico dell' apriori, e riscoperta nel potenziale pratico della sua politica activa» 18• Anche Rametta nel suo saggio mette in luce l'eliminazione della prospettiva trascendentale da parte della Arendt, ma ne individua un più preciso orientamento. La capacità di giudicare, infatti, perdendo il suo fondamento trascendentale si radica nella praxis, e si vincola ad uno statuto discorsivo e comunicativo. O come altrimenti detto dall'autore, «il giudizio viene ricondotto alle pratiche comunicative dell'inter-azione linguistica»' 9• Una conferma di ciò si potrebbe senz'altro riscontrare nel!' attenzione che un filosofo come Jiirgen Habermas rivolse al giudizio estetico kantiano "rivisitato" dalla Arendt, trovando in esso un esempio di intersoggettività e di intesa verbale

16. G. Rametta, Comunicazione, giudizio ed esperienza dei pensiero in Hannah .Arendt, in Filosofia epratica deipensiero, cit., p. 2.68. 17. Cfr. ibid.

18. lvi, p. 2.69. 19. lvi, p. 2.s6.

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che avrebbe costituito ( assieme al concetto aristotelico di praxis ripreso in Vita activa) un primo importante contributo alla sua teoria dell'agire comunicativo - si veda più avanti. La traslitterazione dei significati avrebbe dunque, in questo senso, il risvolto positivo di aver "liberato" dei nuovi contenuti, suscettibili di essere messi in gioco. Il problema rimane tuttavia invariato da un punto di vista filologico. Come scrive Étienne T assin: «Arendt semble ne faire aucune différence de statue entre "l'idèe d'une communicabilité universelle" qui est une Idée de la raison, imprésentable, sans corrélat empirique, et une communication empirique effective [... ] » ~ 0•

s.2. L' antropologizzazione del trascendentale sullo sfondo della polis greca Il saggio di T assin contiene diversi rilievi decisivi a tal proposito, inquadrati dallo studioso in un tipo di approccio che egli definisce complessivamente come "antropologizzazione del trascendentale". L'espressione è ripresa anche da Roberto Esposito nel suo libro Communitas. Origine e destino della comunità (Einaudi, Torino 1998, p. 76). Il riferimento all'interpretazione arendtiana di Kant è contenuto in appendice al capitolo intitolato "La legge", che per l'appunto prende in esame il pensiero del grande fìlosofo prussiano in rapporto al tema della comunità (il libro procede attraverso 1'individuazione di nodi tematici cui corrispondono altrettanti capitoli, e in ciascuno di essi si assume il punto di vista di un particolare autore). Il discorso in quanto tale esula dai nostri scopi e possiamo limitarci soltanto a coglierne qualche particolare in superficie. Esposito riprende il celebre passaggio del paragrafo 40, dove Kant afferma che «per sensus communis si deve intendere l'idea di un senso che abbiamo in comune, cioè di una facoltà che tien conto a priori del modo di rappresentare di tutti gli altri», aggiungendo: «anche se Kant raffigura poi tale accordo come una possibilità, un'aspirazione, un dovere, ma mai come una realtà empiricamente rinvenibile o concretamente operabile»u. La Arendt tende invece proprio ad enfatizzare questo secondo aspetto, ovvero tende ad «antropologizzare

20. E. T assin, Smse commun et communauté: la lecture arendtienne de Kant, in « Les Cahiers de Philosophie», n. 4, 1987, p. 97. 21. R. Esposito, Communitas. Origine etkstino della comunità, Einaudi, Torino 1998, p. 76.

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il trascendentale secondo un corto circuito che trascorre senza interruzioni di continuità dalla comunicabilità alla comunicazione e da questa alla comunità di fatto» 11• L'esempio identificativo di questo atteggiamento, e dunque anche di quel raccordare il giudizio estetico alle pratiche dell'inter-azione discorsiva, come evidenziato da Ramerra, si riscontra in maniera palese nel saggio La crisi della cultura: nella società e nella politica, che è tra l'altro uno dei primi luoghi in cui l'autrice espone pubblicamente la sua ipotesi di lettura riguardo la Critica del Giudizio. In un punto del saggio la Arendt paragona il giudizio di gusto all'opinione politica, ritenendo che entrambi non possano esigere l'assenso incondizionato che spetta alle verità dimostrare scientificamente o ai fatti verificabili nell'esperienza, e che tuttavia (come già ampiamente discusso nella sezione precedente di questo studio) abbiano un valore; un valore per l'appunto non vincolante. Così, afferma l'autrice: « Come le opinioni politiche possono diffondersi solo con la persuasione, così la persona che giudica, secondo la bella espressione di Kant, può solo "corteggiare gli altri per averne il consenso", nella speranza di arrivare infine ad un accordo con loro»' 3• Il riferimento è al paragrafo 19 della Critica, in particolare alla frase «Si pretende al consenso di ognuno» (intedesco Man wirbt um jedes andern Bestimmung, letteralmente "si spinge affinché ciascuno cambi disposizione"). La parola che la Arendt sceglie, "corteggiare" (woo) per tradurre il verbo tedesco W erben esprime il tentativo di avvicinare la pretesa al consenso universale di cui parla Kant, alle pratiche persuasive che animavano il discorso politico nell'antica Grecia. È la stessa autrice a rendere subito esplicita l'analogia: «Tale coneggiamento, o opera di persuasione, corrisponde in modo quasi perfetto a1 1rei8m dei greci, il linguaggio convincente e persuasivo che in Grecia era considerato la forma tipicamente politica del dialogo. I rapponi tra i cittadini della polis erano regolati dalla persuasione, che non solo escludeva il ricorso alla violenza fisica, ma anche si distingueva da quella forma di coercizione non violenta che è la coercizione della verit໕•.

2.2.. Ibid. 2.3. H. Arendt, La crisi della cultura: nella società e nella politica, in Tra passato e foturo, cit., p. 2.8s. 2.4. Ibid.

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L'analogia era tracciata già in forma molto sintetica negli appunti del '57 sulla Critica del Giudizio contenuti nei Quaderni e Diari. Il verbo tedesco Werben non esclude, in realtà, tra i suoi significati, quello di "corteggiare", e ciò giustificherebbe la traduzione voluta dalla Arendt; tuttavia diversi studiosi riconducono anche questa scelta alla strategia complessiva che permetterebbe aU' autrice di indirizzare il discorso verso un piano diverso da quello inteso da Kant. Bisognerebbe inoltre tener conto del fatto che la stessa traduzione inglese dell'opera adotta, come in italiano, il significato di "pretesa" o di richiesta, non quello di "corteggiamento": «We ask for the agreement of everyone else». Non a caso nella sua copia personale dell'opera in inglese l'autrice copre con un segno a matita la parola "ask", e riporta a margine del paragrafo i due verbi, considerati equivalenti, Werben e Woo. Cosa consegue dunque da questa differenza terminologica? La Arendt rievoca lo scenario dell'agorà greca e dell'arte retorica; qualcosa di totalmente estraneo all'epoca e allo spirito della terza Critica kantiana, e perfino di contrario alle intenzioni di Kant che, proprio nella terza Critica, manifesta apertamente il suo disprezzo per l'eloquenza, quando essa venga intesa non come la semplice arte del buon dire ma più precisamente come l' aree del persuadere. In questo caso essa è infatti mera dialettica, «che non si allontana dalla poesia se non quanto è necessario per guadagnare gli animi all'oratore e toglier loro la libertà; sicché non si può consigliare né pel tribunale né per la cattedra»zs. Infatti, «Sebbene possa essere usata talvolta per fini legittimi e lodevoli, diventa riprovevole quando corrompe soggettivamente le massime e le intenzioni, sebbene oggettivamente il fatto sia conforme alla legge; giacché non basta fare ciò che è giusto, ma bisogna farlo soltanto perché è giusto»z6•

In una nota dello stesso paragrafo(§ 53) Kant scrive ancora: «l'arte oratoria, in quanto arte di servirsi della debolezza umana ai propri fini (siano supposti o siano realmente buoni quanto si voglia), non merita alcuna stima. Così quest'arte raggiunse il suo massimo grado ad Atene e a Roma, in un tempo in cui lo stato correva alla rovina e il vero patriottismo era estinto»z7•

25. I. Kant, Critica del Giudizio, cit., p. 331. 26. Ibid. 27.

lvi, p. 333.

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Alla luce di tali considerazioni, il richiamo della Arendt alla polis antica risulta quanto mai inadeguato. Come osserva Tassin, la Arendt confonde la pretesa alla comunicabilità universale nel giudizio estetico con le figure dell'eloquenza persuasiva18, di, menticando la condizione che contraddistingue secondo Kant la purezza del giudizio stesso: « il gusto esige l'autonomia. Fare dei giudizi altrui il motivo del proprio, sarebbe eteronomia» (§ 32.). Interessante è anche l'affermazione di Barry Clarke che Tassin ripona nel suo saggio: se la forma pura del giudi, zio consiste nel confrontare i nostri giudizi con quelli degli altri, intendendo però, come lo stesso Kant precisa, piuttosto i loro giudizi possibili che non quelli effettivi, allora un esercizio impuro o depravato del giudizio sarà quello che segue l'ottica inversa 1 9• In altre parole, osserva Tassin, l'allargamento del pensiero di cui parla il paragrafo 40 non può mai verificarsi nella forma di un dibattitc>3°. Un'osservazione simile si riscontra anche nelle parole di Lyotard, per quanto la posizione critica di questo autore vada aldilà della questione fì, lologica e si esprima su di un altro versante, che affronteremo più avanti. Ma rispetto a questo punto, Lyotard riprende nel saggio Sensus Communis l'idea di "voce universale" (allgemeine Stimme) che Kant introduce nel pa, ragrafo 8, e scrive: «Di che voce o di quali voci si tratta? A chi appaniene questa voce o a chi appar, tengono queste voci? Forse agli individui empirici? Ma che cosa verrebbero a fare nella determinazione trascendentale del gusto? Non dico che il testo kantiano non permetta talvolta questa lettura antropologica. Ma abbondano anche le rac, comandazioni in senso inverso, di mantenersi cioè sul piano della stretta analisi critica, ed esse mi sembrano escludere che ci si possa accontentare di intendere queste voci come fenomeni. Non si tratta di un consenso sociale, e ancor meno di un consenso mediante scrutinio. Non si elegge il bello come [si elegge] Miss Mondo»J•.

2.8. Cfr. E. T assin, Sense commun et communauté: la kcture arendtimne de Kant, cit., p. 93. 2.9. Il riferimento è al saggio di B. Clarke, Beyond the banality oJevi/, in « British Joumal of Politica! Science», voi. IO, pan. 4, Ocr. 1980, pp. 417-439. 30. Cfr. E. T assin, Sense commun et communauté: la kcture arendtimne de Kant, cit., p. 93.

31. J.-F. Lyotard, Sensus communis, in AniTIJll minima. Sul bello e il sublime, traduzione e cura di F. Sossi, Nuova Pratiche Editrice, Parma 1995, p. 32..

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5.3. Confusioni concettuali e temporali

La sovrapposizione tra la pretesa al consenso universale del giudizio estetico e le pratiche persuasive che caratterizzavano il discorso politico nell'antica Grecia si incastona in un problema più ampio, che riguarda una sorta dianacronismo interpretativo o, meglio, una «destoricizzazione dei concetti». Come osserva R. Esposito, «la nozione di gusto risulta carica di espliciti riferimenti alla tradizione ciceroniana e poi vichiana che la ricollocano dentro un quadro categoriale di marca inconfondibilmente umanistica»i•. Anche Portinaro evidenzia con chiarezza le sbavature temporali di questa operazione, scrivendo: «Aldilà di ogni rimprovero di estetismo, va comunque rilevato come un limite indubbio dell'impostazione arendtiana consista nell'uso forzatamente astorico di queste categorie: eppure il gusto, il giudizio e il senso comune di cui si parla negli scritti kantiani sono determinazioni inequivocabili della burgerliche Gesellscahft, della sfera pubblica illuminata di una società di privati» n. Allo stesso modo Tassin rileva nel suo saggio che la Arendt, misconoscendo le origini concettuali del discorso kantiano, legge Kant secondo una falsa linea di discendenza che lo accomunerebbe a Cicerone e a Baltasar Graciani4. Il luogo visibile di questa mescolanza è, ancora una volta, il saggio La crisi della cultura: nellasodetà e nella politica, non soltanto per il richiamo alla persuasività dell'eloquenza antica, ma anche per la frase che Tucidide attribuisce a Pericle e con la quale di fatto la Arendt introduce il tema del legame tra il gu32. R. Esposito, Communitas. Origine e tkstino della comuni/a, cit., p. 75. Rispetto ai riferimenti espliciti a Cicerone, che compaiono nelle lezioni su Kant del '70 come anche in quelle del '64 e nello stesso saggio La crisi de/la cultura, il richiamo a Vico costituirebbe piuttosto una sorta di recondita ispirazione, poiché la Arendt non fa mai menzione dell'autore in riferimento alla tematica del gusto, ma tutt'al più in altri contesti. T urravia diversi studiosi ritengono fondato questo legame {ancora Tassin, Sense commun et communauté, cit., pp. 9496; si veda poiJ. Dostal.]udging hu11111n action: Arrodt appropriation o/Kant, in « Review of Metaphysics», voi. 37, n. 4, 1984, pp. 725-755, in pare. alle pp. 7 47-7 48), rilevando in esso una sorta di paradosso, perché la tradizione vichiana e umanista si colloca per certi versi in totale antitesi con il pensiero di ispirazione illuminista che alimenta la riflessione kantiana. 33. P. Portinaro, L'azione, /o spettatore e il giudizio. Una lettura dell'opus posthumum di Hannah Arendt, cit., pp. 152-153. 34. Cfr. E. T assin, Sense commun et communauté, cit., p. 93.

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sto per la bellezza e le virtù politiche. La frase 1ÀoicctÀoti(l€V yctp (l€'t'' EU't'EÀeictç 1Cct1 1ÀoCTooti(l€V étvEv (.tltÀcticiaç (La guerra del Peloponneso, II, 40) vuol dire letteralmente: "noi amiamo la bellezza con misura, e filosofiamo senza mol~ lezza", cioè, presumibilmente, senza cedere al mero compiacimento estetico. Sia per ciò che riguarda la bellezza, sia per ciò che riguarda il sapere, ciò che conta è la virtù della moderazione; virtù notoriamente rappresentativa del~ la mentalità greca e per questo delimitante un confine con coloro che greci non sono. La "mollezza" o effeminatezza è infatti, precisamente, il vizio dei barbari, e coincide con una « raffinatezza eccessiva, una sensibilità indiscrimi~ nata, incapace di operare una scelta» Js. Diversamente da quanto si potrebbe pensare comunemente, dunque, la barbarie non si definiva come un'assoluta mancanza di cultura, ma piuttosto come un diverso rapporto con le "cose" della cultura, un atteggiamento diverso nei confronti della bellezza e della sapienza, le quali possono essere amate soltanto entro i limiti stabiliti dalle istituzioni della polis36• È chiaro infatti che il "noi" implicato nella frase di Pericle alluda agli ateniesi, e stabilisca una distanza rispetto ad un "loro". Al~ !ora, se il giusto amore per la bellezza o, potremmo dire, l'amore "misurato" per la bellezza è possibile soltanto all'interno della polis, ecco che si profila un possibile legame tra gusto e politica o, meglio, ecco che il gusto comincia ad assumere dei connotati politici. È già in atto qui naturalmente la confusione semantica evidenziata poc •anzi, poiché la parola gusto nel suo valore "culru~ rale" richiama un certo tipo di attenzione al bello che si afferma soprattutto in epoca settecentesca, e che dunque poco aveva a che vedere con il mondo pagano e con il suo ideale di "moderazione" (o come scrive la Arendt EU't'EÀeict, parsimonia). La connessione arbitraria di concetti e sfere temporali si riscontra con par~ ticolare evidenza in questo punto: «Potrebbe darsi[ ... ] che l'amore del bello resti barbaro se non è accompagnato dall •e11['6Àfia, la capacità di cogliere il segno nel giudizio, nel discernimento, nella discriminazione, in una parola, da quella facoltà curiosa e ardua da definire che chiamiamo "gusto"? E infine, è possibile che questo giusto amore per il bello, il rapporto appropriato con le cose belle (la cultura animi, che abilita l'uomo a pren~ dersi cura delle cose del mondo, da Cicerone attribuita invece alla filosofia) abbia

35. H. Arendt, La crisi della cultura: nella società e nella politica, in Tm passato e foturo, cit.,p. 276.

36. Cfi-. ibid.

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qualcosa a che fare con la politica? Potrebbe essere che il gusto faccia parte delle facoltà politiche?» 31_

In seguito, per spiegare l'utilizzo della parola "gusto" in riferimento alla frase di Pericle la Arendt si richiama, appunto, alla Critica del Giudizio, po, nendo così Kant in una improbabile linea di continuità con i suoi "predeces, sori" greci e romani. Ancora in queste pagine l'autrice afferma che il valore politico della ca, pacità di giudicare, intesa proprio nel suo significato kantiano, ovvero come quella capacità di vedere le cose non solo dal proprio, ma anche dal punto di vista di tutti coloro che si trovano ad essere presentiJ 8 (affermazione anche questa discutibile, come già si è visto nella critica di Bernard Flynn) 39 era rico, nosciuto già agli albori dell'elaborazione concettuale dell'esperienza politica in quanto cale, quando i greci davano a questa facoltà il nome di phronesis. Si evidenzia nuovamente qui una sovrapposizione di contesti, scenari e assetti culturali storicamente distanti nello spazio e nel tempo. Come osserva T assin il riferimento a Kant «è introdotto tra Cicerone e Aristotele per giustifì, care l'utilizzo della parola "gusto" nella traduzione della famosa formula di Pericle»4°. La confusione è duplice, o triplice, si potrebbe dire, perché «La cultura romana è inconciliabile con la polis greca; ed entrambe sono incon, ciliabili con il principio del giudizio estetico. Era necessario, per dislocare il senso del Sollen estetico e far ricadere il dominio della Critica nel campo dell' antropo, logia che il giudizio estetico fosse confuso con il gusto empirico, considerato dal punto di vista della cultura umanista»••.

Alcuni degli altri rilievi relativi all'"infedeltà" dell'interpretazione arendtiana sono stati già messi in evidenza nel corso della trattazione prece, dente, perché inevitabilmente richiamati dall'analisi stessa dei contenuti di tale interpretazione, pertanto ci limitiamo qui a riepilogarli. Si pensi all'at, tenzione che la Arendt rivolge al paragrafo 41, dove emerge l'importanza del 37.Jbiti. 38. Cfr. ivi, p. 183. 39. B. Flynn, Arendt's Appropriation ofKant's Theory ofjudgment, cit., p. 135. Si veda la sezione 4.5. {"Civili e barbari: la comunità dei giudicanti") del presente studio. 40. E. T assin, Sense co111111un et communauté: la lecture arendtienne de Kant, cit., p. 90

(traduzione mia). 41. lvi, pp. 93-94 ( traduzione mia).

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piacere per la comunicazione come forma di interesse empirico che si lega al giudizio di gusto, di per sé disinteressato: l'autrice accentua molto questo aspetto, sottolineato dallo stesso Kant, ma omette il passaggio in cui Kant spiega che tale interesse, proprio perché "empirico", non può realmente rienJ trare in un'analisi del giudizio come facoltà a priori e dunque, di fatto, non ci riguarda. Si pensi ancora allo slittamento di significato della parola allgemein, volutamente resa dalla Arendt con "generale" in luogo di "universale". E infine si pensi al problema relativo alla «sfera intera dei giudicanti» (die ganze Sphiire der Urtheilenden, § 8) cui si estende la validità del giudizio: una sfera che per Kant ha valore estensivo mentre per la Arendt ha, insieme, valore estensivo e restrittivo4 2, poiché i giudicanti nell'accezione arendtiana sono coloro che scelgono di giudicare ( «e, potremmo aggiungere, ciò non accade oggi per la maggior parte delle persone» ) 43 • Un ultimo riferimento al testo kantiano che permette di mettere in luce la distanza rispetto alle posizioni assunte dalla Arendt è da ritrovare, forse, nella Prefazione dell'opera, dove Kant scrive: « Poiché lo studio del gusto, in quanto facoltà del giudizio estetico, non è intrapreJ so qui allo scopo di educarlo e coltivarlo (siffacca cultura può continuare a fare a meno di queste speculazioni), ma soltanto per uno scopo trascendentale, esso sarà giudicato, spero, con indulgenza riguardo alla sua insufficienza circa quel primo scopo. Ma, per ciò che concerne il punto di vista trascendentale, esso deve fondarsi sull'esame piùrigoroso»44. Il passaggio non è, appunto, era quelli ripresi dalla Arendc e infatti con queste parole Kant sembra delineare di fronte a sé un sentiero del rutto oppoJ sto a quello che 1' autrice intende percorrere. È ancora una volta T assin (fìanJ cheggiaco da altri studiosi) a mettere in rilievo l'incoerenza, confermando ulteriormente la sua ipotesi critica: «Si comprende che, presa era Roma e Atene, l'analisi arendtianadel giudizio esceJ cico dimentica il monito kantiano secondo il quale "lo studio del gusto, in quanto facoltà del giudizio estetico, non è intrapreso qui allo scopo di educarlo e coltiJ vario, ma soltanto per uno scopo crascendentale".Mentre Kant dunque, distingue 42.. Si veda ancora la sezione 4.s. "Civili e barbari: la comunità dei giudicanti" del presente

studio. 43. Decima lezione, si veda in.fra p. 2.16. 44. I. Kant, Critica del Giudizio, cit., p. 9.

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radicalmente Ja Critica che risponde ad uno scopo trascendentale dall' antropologia che, empiricamente, riguarda l'uomo come cittadino dd mondo ed esamina gli aspetti della cultura nell'ottica di una conoscenza dd mondo, laArendt si serve della Critica del Giudizw come di un· Antropologia» 4s. Come si _potrà capire attraverso questo breve excursus relativo ali' aspetto "filologico" (excur.susche potrebbe essere naturalmente arricchito e completato da innumerevoli studi, per alcuni dei quali rimando alla bibliografia critica in appendice) gli studiosi non si sono preoccupati di nascondere o smussare gli angoli delle criticità e delle evidenti sproporzioni che caratterizzano I' interpretazione di Hannah Arendt rispetto alla lettera e allo spirito originario del testo kantiano; in alcuni casi anzi non si sono risparmiati critiche molto aspre.Tuttavia occorre precisare che nella maggior parte di questi saggi I' analisi del dettaglio e del confronto testuale è preceduta o accompagnata da una benevola premessa: lo scopo oggettivo non sarà mai quello di promuovere o bocciare la lettura arendtiana di Kant come "giusta" o "sbagliata". Al contrario, la misurazione talvolta anche millimetrica del particolare ha senso solo in quanto sostenuta da un tentativo di comprensione più ampio, che si interroga sulle motivazioni, i recessi e le implicazioni di un'operazione ermeneutica come quella arendtiana; operazione la cui chiave d'accesso non risiede evidentemente nell'utilizzo esclusivo di parametri "tecnici", e il cui valore prescinde dall'esito di un'analisi filologica strettamente intesa.

6. Rilievi politici. L'insufficienza del paradigma estetico secondo R. Beiner e J. Habermas La seconda parte di constatazioni che definiscono l'ambito della ricezione critica riguarda, come già si è detto, aspetti maggiormente dottrinali. Le posizioni dei due autori con i quali mi propongo di affrontare questa sfera rappresentano, a mio modo di vedere, le due maggiori frange d'"accusa" o di "correzione" alle quali l'interpretazione arendtiana di Kant possa andare sottoposta, ed è fondamentalmente in questi due binari principali che si incanalano anche le varie espressioni critiche "minori" 46•

45. E. T assin, Seme commun et communauté, cit., p. 90 {traduzione mia). 46. Per un riepilogo della ricezione critica sul fronte "politologico" è utile consultare la monografia di S. Forti (Hannah Arendt trafilosofia epolitica, cit., pp. 337-3 so), dove la studiosa

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III

6.1. R. Beiner: "Kant o Aristotele?" 47 Condizioni formali e sostanziali del giudizio

Il confronto con Ronald Beiner risulta essere un luogo di passaggio obbligato, per certi versi, poiché a lui si deve la pubblicazione postuma delle lezioni di Hannah Arendt sulla filosofia politica di Kant del 1970, accompagnate da una lunga postfazione critica. Un anno dopo l'uscita delle lezioni, nel 1983, Beiner pubblicò anche Politica/ judgment, uno studio sul giudizio politico che assume come premessa le stesse lezioni di Hannah Arendt e sviluppa in maniera articolata le osservazioni con cui lo studioso si era già espresso ali' in, terno della precedente postfazione. Per meglio inquadrare il problema è utile rifarsi alle parole di S. Forti, che ricorda 1'appartenenza di Beiner alla corrente del comunitarismo anglosasso, ne. Gli sforzi dell'autore sono in questo senso rivolci ad una definizione del giudizio politico che tenga conto di una nozione forte di cittadinanza: i pro, blemi legati all'intesa intersoggettiva e al consenso non potranno rimanere sul piano di un confronto ipotetico o immaginario ma dovranno essere calati nel tessuto fattuale di una comunità vivente. Da questo punto di vista le obiezioni mosse da Beiner all'idea arendtiana di un'analogia tra estetico e politico sembrano andare in direzione opposta ai rilievi messi in campo finora dalla critica filologica; se infatti quest'ultima rimproverava alla Arendt di aver "traslato" il discorso kantiano su di un piano empirico e antropologico del tutto estraneo agli interessi originari dell'auto, re, Beiner mette invece sotto accusa 1'eccessivo formalismo del giudizio esteti, co kantiano, considerando di conseguenza ingenua o insufficiente una teoria come quella arendtiana che voglia basarsi esclusivamente su tale modello. Un'influenza non indifferente e per certi versi opposta a quella esercitata da Hannah Arendt sul pensiero comunitarista di Beiner è quella proveniente da Hans,Georg Gadamer, autore che nel suo Verità e metodo dedicò, com'è noto, alcune pagine alla Critica del Giudizio, valutando in termini decisamen, te negativi la separazione voluta da Kant tra il campo della bellezza e dell'arte

individua quattro principali pensatori, rappresentativi di correnti filosofiche diverse: assieme a R. Beiner, anche E. Vollrach, S. Benhabib e J.-F. Lyocard Pur trovando molto preziose le indicazioni rilevate da Forti, il quadro critico che qui intendo presentare prende spunto solo in pane da esse e si focali= su alcuni particolari che ho ritenuto per me di maggiore interesse. 47. È la domanda con cui Beiner apre il VI capitolo del suo Political]udgment, The Universicy of Chicago Press, Chicago 1983, p. 102..

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da un lato e il campo della conoscenza concenuale dall'altro ( «Ma ha senso riservare la verità alla conoscenza concenuale? Non si deve piuttosto anche riconoscere che l'opera d'arte ha una sua verità?» )48• La concezione kantiana del giudizio estetico come di un giudizio "distaccato", meramente contemplativo, un giudizio da puro "spettatore", si potrebbe dire, induce Gadamer a parlare di una colpevole "soggettivizzazione dell'estetica" da parte di Kant (accusa che segue la scia della critica già mossa da Heidegger al soggettivismo della filosofia moderna). A tale soggettivizzazione Gadamer contrappone una diversa concezione del rapporto tra opera d'arte e fruitore, che si esprime nell'idea di "gioco": idea nella quale è messa da parte l'unilateralità della coscienza soggettiva e si riafferma un primato del gioco stesso rispetto ai giocatori. Lasciando da parte tale questione, nella quale non possiamo qui entrare, è interessante invece notare che anche Gadamer affronti nella sua trattazione il tema del sensus communis, richiamandosi soprattutto al pensiero di Giambattista Vico, con il quale condivide 1'esigenza di contrapporsi ad un ideale di verità misurato soltanto sul modello della scienza moderna. E anche a proposito del sensus communis Gadamer sviluppa una dura critica della riproposizione fattane da Kant, poiché quest'ultima non tiene conto della lunga tradizione politico-morale a cui il concetto di sensus communis appartiene. Secondo Gadamer l'idea kantiana disensus communis si compone di due aspetti: «in primo luogo, l'universalità che spetta al gusto in quanto è il prodotto del libero gioco di tutte le nostre facoltà conoscitive e non è limitato ad un settore specifico come uno dei sensi esterni; in secondo luogo, il gusto possiede una generale comunicabilità in quanto, secondo Kant, fa astrazione da tutte le condizioni soggettive, nel senso di private, come gli stimoli sensibili e l'emozione. L'universalità di questo "senso" è quindi determinata in entrambe le direzioni in modo negativo, mediante ciò da cui esso fa astrazione, e non positivamente attraverso ciò che rende possibile la comunicazione e fonda l' accordo»49. Nd saggio interpretativo posto al termine delle Lectures del 1970 Beiner riprende il punto di vista di Gadamer, che si configura ironicamente come inverso rispetto alla tesi sostenuta da Hannah Arendt: lungi dal fornire

48. H.G. Gadamer, Verità e metodo, trad. e cura di G. Vanimo, Bompiani, Milano 2004, pp. 66-67. 49. lvi, p. 69.

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suggerimenti e spunti validi per una riqualificazione del politico in ambito contemporaneo, Kant sarebbe responsabile di aver "depoliticizzato" l'idea di sensus communis, svuotandola del suo significato storico. Riportiamo un breve estratto: «Kant spoglia il senso comune della ricchezza che era conservata nel suo significato romano. Come "contromodelli" a Kant, Gadamer cita Vico, Shaftesbury e, soprattutto, Aristotele. Dal punto di vista "aristotelico" di Gadamer, Kant "intellettualizza" il sensus communis; "esteticizza" 1a facoltà del gusto, che era stata precedentemente compresa come una facoltà socio-morale; circoscrive e delimita precisamente l'ambito di questi concetti, incluso quello del giudizio; e generalmente astrae questi concetti dalle relazioni della comunità»s 0 • Pertanto, continua Beiner, se vogliamo ricercare altre possibili fonti della teoria del giudizio, possiamo assumere l'ermeneutica filosofica di Gadamer, che evita sapientemente Kant e attinge invece all'etica aristotelica, «rappresentando una delle strade percorribili più promettenti»s•. È questa, in effetti, la strada che lo stesso Beiner propone nel suo Politica/Judgment: 1'elaborazione di una teoria del giudizio politico che parte dall'ipotesi di lettura arendtiana ma che introduce Aristotele come il necessario bilanciamento al formalismo kantiano. I luoghi aristotelici che lo studioso prende in considerazione sono il libro VI dell'Etica Nicomachea, dove viene introdotto il concetto di phronesis, e 1' intera Retorica che può essere considerata, a tutti gli effetti, uno studio sul giudizio politico ante litteram. Per quanto riguarda il primo aspetto, è noto che Aristotele concepì la phronesis come una forma di ragionamento calcolante volto alla ricerca del miglior bene "pratico". In questo senso essa non coincide né con la scienza (epistéme) né con l'arte (techne), poiché si configura come un'attività deliberatrice che, come tale, ha per oggetto solo il contingente (a differenza della scienza) e non è orientata verso un fine produttivo, come l'abilità tecnica, ma si realizza solo nello stesso agire che consegue alla deliberazione (EticaNicomachea, VI, 1140 b ). Kant sembra non tener conto di questa fondamentale differenza - che ha so. R. Beiner, Il giudizio in Hannah Arendt. Saggio interpretativo, in H. Arendr, Teoria del giudizio politico, Lezioni sullafiwsofia politica di Kant, cit., pp. 179-180. Traduzione modificata (per consultare l'originale si veda Hannah Arendt onJudging, in H. Arendt, Lectures on Kant s Politica/ Phiwsophy, cit., p. 136). s1. Jbid.

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percorso i secoli - tra phronesis e techne quando, nell'introduzione alla Critica del Giudizio, annovera la "prudenza" tra le regole tecnico-pratiche della volontà, in opposizione alle regole etic~pratiche (nel primo caso la causalità della volontà è determinata da un concetto della natura, nel secondo caso da un concetto della libertà). Ma soprattutto la filosofia kantiana, sia nel suo aspetto morale che in quello "politico", non può concedere alcun posto alla nozione di prudenza, ovvero di saggezza pratica, in virtù di quello che Beiner definisce un atteggiamento "democratico" dell'autore, ereditato in parte da Rousseau. Alla prudenza infatti, definita nella Critica della ragion pratica come «la massima dell'amor proprio»s•, Kant contrappone la legge della moralità: mentre la prima consiglia, la seconda comanda. E vi è una grande differenza tra le due cose perché «ciò che sia da fare secondo il principio dell'autonomia del libero arbitrio, l'intelletto più volgare lo vede facilmente e senza alcun dubbio; ciò che sia da fare con la supposizione dell'eteronomia di esso, è difficile e richiede la cognizione del mondo» 53• Soddisfare il comando categorico della moralità è, insomma, sempre in potere di ognuno; soddisfare al precetto empiricamente condizionato della felicità è possibile a pochi, e solo di rado. Come scrive ancora Kant in uno dei suoi scritti politici, «ci vuole una buona testa per venire a capo del groviglio delle ragioni favorevoli e contrarie e per non ingannarsi nel calcolo finale» s4 • Proprio per tali motivi, scrive Beiner, la politica per Kant non ha a che fare con la felicità, che si basa sull'esperienza, ma ha a che fare con il diritto, che è a prioriss. Questa concezione della politica, che esclude l'ambito della saggezza pratica e del ben deliberare (ovvero di quelli che per Kant sono i processi di determinazione eteronoma della volontà) oltre ad essere per l'appunto discutibile dal punto di vista di Beiner, si rivela secondo lo studioso anche incoerente e fallimentare, perché per poter sopperire a tale esclusione Kant sarà costretto a fare ricorso ai meccanismi invisibili della Storia che operano alle spalle degli uomini, sostituendo, in qualche modo, le loro effettive volontà56•

51.. I. Kant, Critica della ragion pratica, cit., p. 79.

53.lbid. 54. I. Kant, Sul detto comune: questo può essere giusto in teoria, ma non vale per la prassi, in Scritti di storia, politica e diritto, cit., p. 134. 55. Cfr. R. Beiner, Politicaljudgment, The University of Chicago Press 1983, p. 65. 56. Ciò lo si nota con evidenza secondo Beiner nel più importante degli scritti politici kantiani, Per la pace perpetua, dove la difesa del repubblicanesimo, del federalismo e della pace tra gli Stati si congiunge in modo bizzarro con una concezione strumentale dell'uomo e della

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Ad ogni modo, per restare sullo scopo vero di questa digressione: sebbene il rifiuto per l'ideale aristotelico della prudenza caratterizzi più da vicino il Kant morale e politico piuttosto che il Kant della terza Critica, nel saggio interpretativo Il giudizio in Hannah Arendt, Beiner pone in relazione i due aspetti, facendo seguito alla stessa interpretazione arendtiana del giudizio estetico come giudizio politico. In nessun punto della discussione sul giudizio in Kant, osserva Beiner, troviamo un interesse per l'esperienza, la maturità e la sana abitudine, che sono state tradizionalmente considerate come il segno della saggezza pratica dell'uomo d'aziones 7• La descrizione del giudizio offerta da Kant è una concezione altamente formale, e questo punto è accettabile finché ciò che cerchiamo è una deduzione trascendentale della facoltà del gusto. Ma ad un certo punto bisogna chiedersi: « cosa c'è nel contenuto dei fini e delle proposte degli attori politici o degli agenti storici che rende un certo assetto di "apparenze politiche" preferibile ad un altro? Cosa c'è nel contenuto di un dato giudizio che lo rende un giudizio informato, un giudizio affidabile, un giudizio dettato dalla consuetudine, opposto ai giudizi che mancano di questi attributi? Che cosa realmente caratterizza qualcuno come perspicace o intelligente o responsabile nei suoi giudizi - a parte le condizioniformali di disinteresse e libertà dalle influenze esterne e dalle condizioni eteronome? Quali sono le condizioni sostanzia/i, che ci permettono di riconoscere la saggezza e l'esperienza del soggetto giudicante e l' appropriatezza e la rilevanza nell'oggetto del giudizio?» ss_

Senza introdurre domande come queste, continua Beiner, il tentativo di trasporre una teoria del giudizio formale come quella kantiana in una teoria del giudizio politico, corre il rischio di trasformarsi da una stima genuina delle apparenze politiche - in quanto apparenze - in una estetizzazione ingiustificata della politica. «È a questo punto che la Arendt avrebbe dovuto consultare Aristotele, perché lui pone fermamente il giudizio in un contesto di fini reali e di intenzioni di deliberazione politica, retorica e comunitaria»s9.

sua libertà; una conce-Lione certamente incompatibile con le nobili aspettative della filosofia morale kantiana (si veda Po/iticaljudgment, cit., p. 66). 57. Cfi-. R. Beiner, Ilgiudizio in Hannah Arendt. Saggio interpretativo, in H. Arendt, Teoria del giudizio politico, Lezioni sullafibJsofia politica di Kant, cit., p. 178. 58. lvi, p. 181 (traduzione modificata, si veda l'originale Hannah Armdt on]udging, cit., pp. 137-138).

59.Ibili.

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Conformemente a questa osservazione il secondo punto di riferimento accanto all'Etica Nicomachea è costituito per Beiner, come già si è detto, dalla Retorica. In questo scritto si rende evidente che il giudizio politico non possa essere inteso astrattamente rispetto alla comunità reale di persone che lo elabora e lo pronuncia, e che lo stesso consenso non è mai da intendere in senso "universale", come se fosse l'umanità in quanto cale a doverlo elargire. L'oratore dovrà anzi tener conto del particolare tipo di uditorio che si trova davanti e di quale sia il modo migliore per persuaderlo ( «la retorica può essere definita la facoltà di scoprire il possibile mezzo di persuasione riguardo a ciascun soggetto», Retorica, I libro, 1355 b).Il carattere dimostrativo del discorso è soltanto uno degli elementi di cui esso si compone: un ruolo decisivo è giocato anche (e soprattutto) dal carattere dell'oratore e dalla sua capacità di predisporre l'ascoltatore in un certo stato d'animo, perché è noto che «i giudizi non vengono emessi allo stesso modo se si è influenzati da sentimenti di dolore o di gioia, oppure di amicizia o di odio» 60• Non basterà dunque che il retore conosca le logiche argomentative del discorso; egli dovrà anche saper riflettere intorno ai caratteri, alle virtù e alle emozioni, poiché, appunto, non è sufficiente tener conto di ciò di cui si parla, ma bisognerà anche tener conto di coloro ai quali si parla (sulla base della diversa situazione, per altro, esistono tre tipi di discorsi retorici: deliberativo, giudiziario, epidittico). Posto che il tentativo di Beiner sia dunque quello, ricordato più volce, di "calare" la tematica del giudizio in un contesto comunitario per bilanciare l'insufficienza dei presupposti kantiani ripresi da Hannah Arendt, nel capitolo VI del suo Politica/ Judgment Beiner elabora una visione comprensiva dei due punti di vista antitetici, I' arciscocelico e il kantiano, reinterpretandoli come complementari. Ciascuno dei due ha, infatti, il proprio "momento di verità" 61 : il punto di vista kantiano esprime il requisito formale del giudizio politico, ovvero la distanza (che include naturalmente le idee di imparzialità, distacco, autonomia dalle influenze esterne, ecc); il punto di vista aristotelico ne riafferma invece il requisito sostanziale, cioè I' esperienza. Distanza ed esperienza sono a loro volta traducibili in due fattori esemplificativi: lo spazio e il tempo. Com'è facile comprendere, lo spazio si rende necessario per compiere quel passo indietro che permette di guardare I' oggetto nella sua interezza; il tempo, in maniera meno scontata, non allude soltanto ali' esperienza passata, e dunque alla maturità raggiunta, ma anche 60. Aristotele,Retorka (1356 a), a cura di M. Dorati, Mondadori, Milano 2.019, p.13. 61. Cfr. R. Beiner, Politica/judgment, cit., p. 103.

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a quel!' intervallo di riflessione che precede il momento della decisione vera e propria. È ancora l'Etica Nicomachea a illustrare questa caratteristica, lì dove Aristotele afferma che la deliberazione si distingue dalla scienza ma anche dalla prontezza di spirito (una sorta di istintività) poiché quest'uhi, ma non ha bisogno di ragionamento ed è rapida, «mentre la gente delibera a lungo, e si dice che si deve eseguire rapidamente ciò che si è deliberato, ma deliberare con calma» 6 ~. Questi due "momenti" possono dirsi entrambi veri perché di fatto corri, spondono ad un'ambivalenza contenuta nella stessa parola "giudizio" o, come scrive Beiner, nella «grammatica del concetto» 6 J: da un certo punto di vista, siamo indotti a pensare al giudizio come qualcosa che segue il suo oggetto, una sorta di verdetto finale. Da un altro punto di vista, esso invece precede la decisione, e dunque gioca in anticipo sulla realtà, la progetta. Si tratta della tradizionale tensione tra il punto di vista (kantiano) dello spettatore e il punto di vista (aristotelico) del!' attore: tensione da cui il giu, dizio è internamente abitato e per la quale, nelle sue formulazioni teoriche, esso può risultare talvolta mancante o "sbiadito" in una delle sue parti. Se, condo alcuni studiosi, in verità, anche la concezione arendtiana del giudizio avrebbe privilegiato, in una fase più acerba, la visione "attiva" e aristotelica (si pensi al saggio La crisi della cultura dove il giudizio è di fatto imparentato con una forma di deliberazione), e in una fase più matura la visione contem, plativa e distaccata dello spettatore kantiano (anche in relazione al maturare di un interesse per l'articolazione delle facoltà mentali) 64 • Tale suddivisione non è tuttavia così rigida da impedire che i due aspetti si incontrino, o si sovrappongano, dando luogo alle mescolanze concettuali e cronologiche di cui si è parlato nel capitolo precedente (motivo per il quale ho ritenuto per, sonalmente che la questione non meritasse grande attenzione all'interno del presente studio). Alla luce di quanto detto, ad ogni modo, la posizione critica di Beiner nel suo tentativo di "correzione" o integrazione rispetto alla lettura

62.. Aristotele, Etica Nicomachea (1142. b}, a cura di C. Natali, Laterza, Roma-Bari 1999,

P· 2.41. 63. R. Beiner, Politica/ Judgment, cit., p. 7. 64- È lo stesso Beiner a notarlo nel suo saggio interpretativo Il giudizio in Hannah Arendt, pp. 139-40. Si consideri sul tema anche M. Yar, From actor to spectator, Hannah Arendt '.s •two theones• ofpo/iticaljudgment, in «Philosophy & social criticism», voi. 2.6, n. 2., 2.000, pp. 1-2.7;

e ancora il saggio di R. Bernstein.]udging: The actor and the spectatorin PhilosophicaJ Profiks. Essays in a pragmatic mode, Polity Press, Oxford 1986, pp. 2.2.1-2.37.

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arendtiana di Kant si rivela anche un'interessante possibilità di approfondimento del problema e di riscoperta di alcune delle coordinate tematiche e storico-filosofiche che ne sono alla base. 6.2. J. Habermas. L'antitesi era verità e opinione. Il rischio di infondatezza del giudizio non conoscitivo

La posizione critica di Jiirgen Habermas è espressa nelle battute finali di un celebre saggio,La concezione comunicativa del potere (1976), che costituì al momento della sua pubblicazione un punto di svolta importante nella visione critica relativa al pensiero di Hannah Arendt, poiché fìno ad allora, nella ricezione comune, l'autrice era ancora strettamente legata alla provocatoria formula della "banalità del male" e agli studi, altrettanto discussi e contestati, sul fenomeno totalitario. Fu J. Habermas, come spiega ancora S. Forti, a consacrare Hannah Arendt come "classico" del pensiero politico novecentesco, proprio all'interno del suddetto saggio, dove l'autore considera Vita activa come l' archi testo della teoria dell'agire comunicativo e attribuisce ad esso il merito di aver riscattato l'agire politico da una troppo stretta connessione con l'agire strumentale6 s. Nonostante l'intento volutamente celebrativo del saggio (si consideri che l'autrice era scomparsa un anno prima) Habermas non si esime però dall'individuare alcuni punti deboli della teoria arendtiana nel suo complesso. Tale "contestazione" coinvolge anche il tema della possibile elaborazione di una teoria del giudizio politico sul modello della terza Critica kantiana: il riferimento si rende esplicito quando Habermas menziona il "pensiero rappresentativo", riportando in nota un passaggio di Verità e Politica dove la Arendt spiega estesamente che cosa s'intenda con questa espressione 66 • Qui l'autrice scrive a un certo punto: «È questa capacità di mentalità allargata che mette gli uomini in grado di giudicare; in quanto cale, fu scoperta da Kant nella prima parte della Critica del Giudizio; ma egli, tuttavia, non si rese conto delle implicazioni morali e politiche di questa scoperta» 67• 6s. Cfr. S. Forti, Hannah Arendt: fiwsofoz e politica, introduzione alla raccolta di saggi Hannah Arendt, a cura di S. Forti, Mondadori, Milano 1999, p. I. 66. J. Habermas, La concezione comunicativa del potere in Hannah Arendt, in «Comunità», vol. 3s, n. 183, 1981, p. TL. 67. H. Arendt, Verità e politica, a cura di V. Sorrentino, Bollati Boringhieri, Torino 199s, p.48.

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Quando Habermas sviluppa le sue riflessioni a riguardo, nel 1976, le lezioni di Hannah Arendt sulla filosofia di Kant non erano state ancora pubblicate (ciò avverrà nell'82), tuttavia è certo che l'autore avesse avuto modo di assistervi personalmente, almeno in parte6 8• Una valida testimonianza di ciò è contenuta nel discorso tenuto da Habermas il 4 giugno del 1980 alla New Schoolfar Socia/ Research di New York (dove si era svolto il corso di Hannah Arendt nel 1970), e pubblicato poi col titolo On the GermanJewish Heritage. Qui l'autore, esprimendo il suo debito nei confronti di questa istituzione dove lui stesso si era trovato ad insegnare, mostra una particolare riconoscenza nei confronti di Hannah Arendt, e individua come momenti fondamentali del suo pensiero due aspetti: la ricostruzione del concetto aristotelico di praxis, per quanto riguarda la teoria politica; la riscoperta dell'analisi kantiana sul Giudizio (menzionato nel tedesco Urteilskraft), per una teoria della razionalità6 9. I due aspetti sono per altro in relazione tra loro perché la facoltà del Giudizio, su cui l'autrice si proponeva di lavorare nell'ultima parte de La vita della mente, è secondo Habermas il nocciolo su cui si basa l'orientamento razionale di Vita activa ( « the core of rational orientations in the Vita activa» )7°. Ciò che l'autrice avrebbe probabilmente voluto fare con le pagine mai scritte della sua opera era proprio portare alla luce le implicazioni di quell'ampliamento mentale ("modo di pensare largo", nella traduzione italiana) 7 ' che secondo Kant ci rende capaci di giudicare. Al tempo stesso tale pensiero rappresentativo, o pensiero critico, che rende presenti coloro che sono assenti delinea uno spazio pubblico, aperto su più lati. Per questo motivo Habermas parla in proposito di «un primo approccio verso un concetto di razionalità comunicativa che si radichi nel discorso e nell'azione» 71• In sostanza, è come se il pensiero rappresentativo, su cui la Arendt costruisce buona parte della sua interpretazione politica della terza Critica, costituisca un aspetto più specifico di quel particolare orientamento che l'autrice aveva già delineato in Vita activa, e che consiste nell'idea di un agire declinato verso l'intesa e il consenso comune.

68. È S. Forti a confermarlo in una nota del suo Hannah Arendt tra filosofia

epolitica, cit.,

p.344. 69. Cfr. J. Habermas, On the German-Jeruish Heritage, in « Telos», n. 44, 1980, p. 12.8. 70. lvi, p. 130. 71. «Eiweiterten [denken]». I. Kant, Critica del Giudizio, cit., pp. 2.64-65. 72.. J. Habermas, On the German-jewish Heritage, in « T dos», cit., p. 130 ( traduzione mia).

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È proprio quest'ultimo il punto su cui fa leva il saggio del '76. Habermas sostiene qui che la Arendt abbia formulato un modello "comunicativo" di potere, in contrapposizione al tradizionale modello "teleologico". Nel modello teleologico, il cui principale esponente è Max Weber, ciò che conta è il successo dell'azione, e nella misura in cui tale successo dipende dal comportamento di altri soggetti, colui che agisce dovrà disporre di mezzi volti a influenzare la volontà altrui. La possibilità di far valere entro una relazione sociale, anche di fronte ad un'opposizione, la propria volontà, è appunto ciò che Max Weber definisce "potere" (Macht) e che invece per Hannah Arendt ha già i connotati della "forza" ( Gewalt). Il modello teleologico non esclude che, oltre alla coercizione esercitata da una parte sull'altra, possa esservi un libero accordo fra i partecipanti; tuttavia il problema sta nel modo stesso di concepire l'azione, in quanto orientata verso uno scopo. È proprio questo carattere strumentale dell'agire che "falsa" la natura dell'accordo e ne vanifica i presupposti, perché i partecipanti raggiungono un'intesa solo nella misura in cui ciascuno è favorito nei propri obiettivi: «ma un accordo di questa sorta, che è perseguito unilateralmente con la clausola condizionale di essere strumentale al proprio successo, non è inteso seriamente e non soddisfa le condizioni di un consenso determinatosi senza coercizione» 73 • L'accordo può dirsi infani seriamente inteso soltanto quando sia un fine in sé stesso e non venga subordinato ad altri scopi. Si comprende facilmente che quest'ultima concezione, sulla quale si fonda il modello comunicativo del potere in Hannah Arend t, scaturisce direnamente dalla diversa idea di "agire" che l'autrice propone in Vita activa: un agire, come già si è detto, completamente ripensato sul modello aristotelico della "praxis" in quanto distinta e irriducibile alla poiesis (si veda il capitolo 2 del presente lavoro). Il fenomeno fondamentale del potere, nella riconcettualizzazione arendtiana dell'agire, non è dunque la strumentalizzazione della volontà di un altro, ma «la formazione di una volontà comune in una comunicazione diretta a raggiungere il consenso» 74 • In questo senso il potere non è mai proprietà di un singolo individuo; «esso appartiene ad un gruppo e permane soltanto finché il gruppo si mantiene unito. Quando diciamo di qualcuno che è al potere, di fatto ci riferiamo alla sua investitura da parte di un certo numero di persone ad agire per loro conto» 7~. 73. J. Habermas, La concezione comunicativa delpotere in Hannah

Arendt, cit., p. 57.

74- Jbid. 75. Jbid. (citazione tratta da H. Arendt, Sulla violenza, trad. it. di A. Chiaruttini, Mondadori, Milano 1971, p. 55).

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Il criterio che guida questa comunicazione libera e spontanea non è altro se non «la pretesa di validità razionale immanente al discorso» 76. Il potere di quelle che Habermas chiama "convinzioni comuni", cioè appunto le idee che si formano secondo questo criterio, deriva dal particolare uso del linguag, gio: non più in funzione "perlocutiva" (cioè nel tentativo di condurre l'altro su binari prefissati) ma in funzione "illocutiva", cioè per instaurare relazioni intersoggettive prive di coercizione. Si può infine dire che il potere non sia, appunto, qualcosa di separato dal processo comunicativo con cui esso si ge, nera, eda cui è mantenuto in vita: esso «si forma un po' alla volta nell'azione comunicativa» n, e non può di fatto preesistere in forma autonoma o come risorsa privata dell'individuo ( «è un risultato collettivo di quelle procedure discorsive per le quali il raggiungimento di un accordo vale come fme in sé stesso per tutti coloro che sono coinvolti» )78• Soffermarsi su queste premesse è un passaggio necessario per comprendere quale sia il terreno di riflessione sul quale maturano anche le critiche mosse da Habermas. Non si potrà naturalmente seguire qui il ragionamento condotto dall'autore per intero nel suo saggio, né inoltrarsi in altri aspetti del pensie, ro habermasiano che, per quanto interessanti, ci allontanerebbero dal tema d'origine. Possiamo dire però che all'elogio dell'identificazione arendtiana tra potere politico e prassi (il parlare e l'agire insieme) seguono alcune pun, tualizzazioni: se è vero infatti che con questa nuova concezione del potere la Arendt si colloca in netto e "illuminante" contrasto con la visione tradizio, nale, è anche vero che rimuove dalla definizione di "politico" alcuni elementi che risultano invece fondamentali, come ad esempio l'elemento strategico79. Il caso classico di azione strategica (che, appunto, è una specificazione della stessa azione strumentale, per la Arendt estranea al politico) è la guerra. Co, me per gli antichi greci la guerra era qualcosa che avveniva fuori dalle mura della città, e dunque non riguardava propriamente, per così dire, la vita della polis, così anche per Hannah Arendt la guerra non ricade nel dominio del politico. L'esempio scelto da Habermas non è casuale perché ciò che 1' autore principalmente rimprovera alla Arendt è proprio il suo permanente attacca,

76. lvi, p. 58. 77. lvi, p. 59. 78. Ibid. 79. Habermas puntualizza a tal proposito che «l'acquisizione e la conservazione del potere

politico vanno distinte sia dall'esercizio del potere politico - cioè il governo - sia dalla sua generazione. Nell'ultimo caso, ma solo nell'ultimo, il concetto di prassi è utile». lvi, p. 67.

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mento alla costellazione storica e concettuale della filosofia greca classica; attaccamento che indebolisce e ridimensiona le intuizioni pur decisive che l'autrice aveva elaborato. «La Arendt ipostatizza l'immagine che ha della polis greca nell'essenza stessa della politica. Questo è lo sfondo delle sue dicotomie preferite: pubblico e privato,

stato ed economia, libertà e benessere, attività politica-pratica e produzione dicotomie rigide, a cui tuttavia la moderna società borghese e lo stato moderno sfuggono» 80• Tra queste dicotomie è da annoverare, relativamente al nostro scopo, anche la dicotomia tra verità e opinione. È infatti questo il punto su cui verte la critica habermasiana all'analogia tra giudizio estetico e giudizio politico che la Arendt propone con la sua lettura di Kant. Occorre spiegarne però l' origine fattuale: secondo Habermas vi sono dei casi in cui la comunicazione tra individui, pur non essendo espressamente piegata ad una logica strumentale, non è però nemmeno completamente libera. Sono i casi in cui è in atto una violenza strutturale, come Habermas la definisce, cioè una violenza che non si estrinseca come forza visibile ma agisce dall'interno, alterando il processo di formazione delle convinzioni. Tale ipotesi di un "blocco latente" della comunicazione potrebbe spiegare, ad esempio, la formazione delle ideologie, e così anche le varie situazioni in cui le persone coinvolte elaborano convinzioni soggettivamente libere da costrizioni, ma tuttavia illusorie (queste persone generano comunicativamente un potere che, non appena istituzionalizzato, può essere anche usato contro di loro8 '). Ammettere e riconoscere questo fenomeno vuol dire trasporre il modello comunicativo in una sua versione più realistica. Adottando però una tale ipotesi (che secondo Habermas è assolutamente necessaria) si dovrà anche articolare un nuovo parametro critico che consenta di distinguere, appunto, tra convinzioni illusorie e non illusorie. È proprio su questo punto che la prospettiva arendtiana risulta mancante: com'è noto, nel riabilitare una dimensione comune, autenticamente condivisa, la Arendt si richiama al valore della doxa, l'opinione soggettiva e al tempo stesso non arbitraria che si contrappone alla dogmaticità del vero assoluto. Nella sfera della doxa nulla è rigorosamente vero o falso: le opinioni non sono suscettibili di verifica. Cade così quella pretesa di razionalità immanente al

So. lvi, p. 65. 81. Cfi-. ivi, p. 72.

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discorso che, nelle pagine precedenti, Habermas aveva ammesso come fondamento dell'agire comunicativo, in quanto distinto dall'agire meramente strumentale. Il rilievo condotto da Habermas è esplicito: «Una concezione antiquata della conoscenza teorica, basata su intuizioni e certezze definitive, impedisce alla Arendt di cogliere il processo di raggiungimento di un'intesa su questioni pratiche come formazione di una volontà razionale. Se, al contrario, il pensiero rappresentativo - che esamina la gcneralizzabilità dei punti di vista, vale a dire la legittimità delle norme - non è separato dall' argomentazione da un abisso, allora si può anche aspirare ad un fondamento conoscitivo per il potere delle convinzioni comuni» 81 • La Arendt vede spalancarsi un abisso tra la conoscenza e le opinioni, dice ancora Habermas più avanti, un abisso che non può essere colmato con argomentazioni. Per questo è costretta a cercare un altro fondamento al potere dell'opinione e lo trova nella capacità, da parte dei soggetti responsabili, di fare e mantenere promesse. Nel dire questo l'autore si riferisce ancora alle stesse pagine di Vita activa, dove la Arendt annovera la promessa come uno dei fattori di stabilizzazione dell'agire politico, un argine all'imprevedibilità e ali' illimitatezza dell'azione e, per questo, una delle clausole da sempre utilizzate in politica (si pensi alla nozione di inviolabilità degli accordi e dei trattati già presente nel sistema giuridico romano): «Abbiamo parlato del potere che si genera quando le persone si riuniscono e agiscono di concerto, e che si dissolve quando si separano. La forza che le tiene unite, distinta dallo spazio di apparenza in cui si raccolgono e dal potere che mantiene questo luogo in esistenza, è la forza della mutua promessa, o contratto» 8J. Così, secondo Habermas, la Arendt finisce per riporre più fiducia nella venerabile figura del contratto che non nel suo stesso concetto di prassi: si ritira, anzi, nella teoria contrattualistica del diritto naturale. L •assenza di un fondamento razionale nell'opinione impedisce di facto lo sviluppo e la reale fecondità di quelli che apparivano inizialmente dei validi presupposti per una ridefinizione del politico, quali la rivalutazione del concetto di praxis da un lato e la riscoperta del giudizio estetico kantiano dall'altro (come lo stesso Habermas aveva avuto modo di sottolineare nel saggio On the 82.. lvi, pp. 72.-73. 83. H. Arcndt, Vita activa, cit., p. 180.

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German-Jewish Heritage )84. L'assimilazione del giudizio estetico al giudizio politico è accettabile infatti limitatamente al fatto che entrambi esprimano un punto di vista libero e predisposto all'immedesimazione con altri; ma ciò su cui 1' analogia perde terreno è proprio il carattere non conoscitivo del giudizio di gusto. La posizione di Habermas è condivisa anche da altri studiosi, che si muovono sulla stessa linea (si veda ad esempio il saggio di Albrecht W ellmer, Hannah Arendt on Judgment: the unwritten doctrine ofreason )8s. Anche Beiner, nel suo saggio interpretativo, riprende il testo di Habermas assecondandone le obiezioni: «Non è chiaro - scrive - come potremmo conferire significato a opinioni che non coinvolgono alcuna pretesa cognitiva [... ] o perché dovremmo aspettarci di considerare seriamente opinioni che non hanno nessuna pretesa di verità (o non esigono più verità di quella reclamata da opinioni alternative possibili)» 86. Al tempo stesso, la lettura di Habermas è stata a sua volta oggetto di diverse critiche. In linea generale, 1' autore avrebbe contribuito da un lato a conferire ad Hannah Arendt quella dignità di grande pensatrice che ancora non le era stata riconosciuta, e dall'altro a costruirne 1' immagine negativa di "nostalgica ed utopista della polis" che tuttora stenta a morire nella comunità scientifica87. Come spiega S. Forti, il duplice gesto habermasiano ha dato il via a quella che si potrebbe definire - ironicamente - l'urbanizzazione della provincia arendtiana: innumerevoli studi volti a depurarele grandi intuizioni arendtiane dalle valenze utopistiche e irrazionalistiche per consegnarle a un progeno politico "ragionevole", se non razionalistico 88. Considerando poi la questione più nello specifico, alcuni studiosi Ooel Roman, nel suo saggio Habermas lecteur de Arendt: une conftontation philosophique)89 ritengono che 1' autore riconduca i concetti arendtiani entro il proprio orizzonte linguistico, alterandone il senso originario. In particolare egli conferisce un'inflessione critico-riflessiva o gnoseologica a concetti che 84- J. Habermas, On the German-]ewish Ht:ritage, cit., p. 128.

85. A. W ellmer, Hannah Armdt onJudgmmt: the unwrittm doctrine ofreason, in Endspiele: Die unversohnliche Moderne, Suhrkamp, Frankfurt 1993, pp. 309-330. 86. R. Beiner, Il giudizio in Hannah Armdt, cit., p. 180. 87. Si veda S. Forti, Hannah Arendt: filosofia e politica, introduzione alla raccolta di saggi su Hannah Armdt, a cura di S. Forti, cit., p. I. 88. Cfi-. ibid. 89. J. Roman, Habermas l«teur de Arendt: une confrontation philosophique, in « Les Cahiers de PhUosophie», n. 4, 1987, pp. 161-181.

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per la Arendt hanno una portata antropologica e più ancora, ontologica9°. Il tema della comunicazione nd pensiero arendtiano non ha propriamente a che vedere con quello più circoscritto (ed epistemologico, per ceni versi) dell'intesa verbale, e dei criteri che rendono tale intesa possibile overitiera9'. Non è un caso che, nelle pagine di Vita activa, il "parlare" venga menzionato quasi sempre insieme all'"agire", come se si trattasse di una medesima catego, ria: una categoria, appunto, ontologica (come mostrato all'inizio di questo studio, entrambi il parlare e l'agire si radicano nell'evento originario della nascita e ne sono la permanente riproposizione). Per lo stesso motivo, l'autrice non cerca un modello di razionalità specifica per l'agire, in quanto l'agire è propriamente «senza ragione»: esso scaturisce dal fatto stesso della pluralità umana9 2 • Sulla stessa linea si muovono anche alcune considerazioni di Margaret Ca, novan (A case ofdistorted comunication: a note on Habermas and Arendt)9J, secondo cui Habermas traspone i concetti arendtiani nella propria termino, logia, li rilegge in un'altra chiave, e quando è infine costretto ad ammettere che le sue conclusioni differiscono da quelle dell'autrice, accusa quest'ultima di non aver portato a compimento le implicazioni contenute nel suo stesso pensiero94. Nella visione di Habermas la discussione verbale è un processo orientato al raggiungimento di un'intesa, e dunque una pratica che precede e consente la formazione di una volontà comune che si traduca in azione. Per Hannah Arendt invece, come già si è detto, il parlare e l'agire non sono mo, menti distinti 95 e si potrebbe aggiungere (benché Canovan non lo dica) che 90. Cfi-. ivi, p. 163. 91. Roman osserva per altro che la Arendt utilizza solo raramente le locuzioni legate al "comunicare" o alla "comunicazione",locuzioni che invece Habermasassume come identificative dello stesso modello politico da lei elaborato. L'osservazione di Roman è del tutto pertinente se si considerano le pagine di Vita activa; ma subisce una brusca smentita se ci si rapporta alle lezioni su Kant, dove le parole "communicabilit(, "communication", ecc. sono perfino inflazionate (il lessico delle lezioni del '64 è, in generale, molto ripetitivo). Ciò dipende, del resto, dal fatto che lo stesso Kant ne faccia uso nel testo tedesco (un esempio, il§ 39, « Von der Mittheilbarkeit einer Empfindung», «Della comunicabilità di una sensazione»). 92. Cfr. J. Roman, Habermas lecteur de Armdt: une confrontation phikJsophique, cit., p. 164. 93. M. Canovan,A case ofdistorted comunication: a note on Habmnas and Arendt, in « Politica! Theory», voi. 11, n. 1, 1983, pp. 105-116. 94- Cfi-. ivi, p. 107. 95. Si consideri questo passo di Vita activa (cit., p. 20 ), in riferimento allo status politico dell'agire e del parlare nella civiltà greca: «la grandezza dell'Achille omerico può essere compresa solo se lo si concepisce come chi "è autore di grandi imprese e pronuncia grandi discorsi"

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non siano affatto definibili secondo l'idea di uno scopo, fosse anche quello dell'intesa reciproca: il parlare e l'agire sono piuttosto quell'unica e medesi, ma attività con cui gli uomini si rendono visibili ai propri simili, facendo la loro apparizione sulla scena del mondo; apparizione che, appunto, equivale a una seconda nascita. Inoltre, secondo Canovan, la Arendt non avrebbe pro, babilmente apprezzato l'idea di una "volontà comune", che esprime una sorta di omologazione e di appiattimento della pluralità in un individuo unico. Si possono ricordare in proposito le critiche che l'autrice aveva mosso ali' idea di Volontà Generale di Rousseau, e anche il modo in cui, nelle sue analisi sul fe, nomeno totalitario, avesse considerato patologico quello stato di uniformità dell'opinione pubblica indotto dall'ideologia. Come spiega ancora efficace, mente S. Forti, per la Arendt «la sfera pubblico,politica è la sfera dell'essere, in,comune non perché coloro che vi albergano hanno un unico e comune obiettivo, ma perché tutti hanno qualcosa in comune: e questo qualcosa è il mondo» 96• Il tema sarebbe suscettibile di ulteriori diramazioni o interrogativi a cui in questa sede non possiamo dar seguito. Rimandiamo per possibili approfon, dimenti ai titoli compresi nella bibliografia fmale.

7. Altri rilievi. J.-F. Lyotard: la rassicurazione del bello

contro l'inquietudine e lo spaesamento del sublime. Il mancato coraggio di Hannah Arendt Il punto di vista critico di Jean,François Lyotard corrisponde ad una "terza voce", non assimilabile a nessuna delle due correnti qui individuate - relative l'una all'aspetto filologico e l'altra ali' aspetto politico. Come nel caso di Ha, bermas, anche il punto di vista di Lyotard necessita di una breve contestua, lizzazione per poter essere compreso. Si può affermare che la posizione sostenuta dal pensatore francese abbia

[... ]. II pensiero era secondario rispetto al discorso, ma discorso e azione erano considerati coevi ed equivalenti, dello stesso rango e dello stesso genere; e ciò originariamente significava non solo che l'azione più politica, in quanto rimane estranea alla sfera della violenza, si realizza nel discorso, ma anche, aspetto questo fondamentale, che trovare le parole opportune al momento opportuno, indipendentemente da quanto esse vogliano informare o comunicare, significa agire». 96. S. Forti, Hannah Arendt tra filosofia e politica, cit., p. 2.86.

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un carattere forse più personale delle altre, perché egli si confronta in prima persona con la terza Critica kantiana facendone oggetto di interesse e di ispi, razione in più occasioni. In un certo senso, è proprio partendo da un' esigen, za condivisa con l'autrice - quella di definire un luogo di resistenza contro l'egemonia del giudizio determinante97 - che Lyotard imbocca un sentiero diverso e più arduo. Il sentiero, cioè, definito non dal paradigma equilibrato e confortante del bello, che può essere considerato il vittorioso punto di sintesi dell'interpretazione arendtiana, ma da quello, ben più scomodo e inquieto, del sublime. All'Analitica del sublime Lyotard dedica alcune lezioni, i cui appunti pre, paratori sono stati raccolti in Leçons sur l'Analytique du sublime98, ma l'in, teresse dell'autore verso la Critica del Giudizio si manifesta in più luoghi. Significativo è il saggio intitolato Sensus Communis99 , dove Lyotard mette in luce (con la suggestiva capacità espressiva che connota la sua penna) il carat, tere paradossale di questo senso, un senso a cui nessuno sarà mai preparato. Il sensus communis porta infatti con sé le costitutive aporie del gusto: «piacere ma senza interesse, universalità ma senza concetto, finalità ma senza rappre, sentazione del fine, necessità ma senza argomentazione» 100• La definibilità è possibile solo attraverso un negativo. Perciò Lyotard scrive «L'impreparazione è propria al mio soggetto, il sensus communis, poiché esso l'e, sige. Esige che l'intelletto sia sperduto. Che non sia al riparo da nulla. Senza para, ta. Del che l'intelletto è incapace, poiché esso è attività spontanea, Selbsttiitigkeit. Questo sensus e questo comune sembrano incoglibili dall'esposizione.L'altro del concetto» 101 • Un decisivo punto di tangenzadell' opera lyocardiana con la terza Critica di Kant è costituito dal celebre Le difforend (Il dissidio). L'autore annovera qui

97. Cfr. ivi, p. 348. 98. J.-F. Lyotard, Leçons sur l'Analytique du sublime, Galilée, Paris 1991 (ripubblicato nel 2.015 per l'edizione Klincksieck), da poco presente anche in traduzione italiana: .Lezwni sull'Analitica del sublime, a cura di A. Branca, Mimesis, Milano-Udine 2.02.1. 99. Conferenza tenuta il 2.5 novembre 1986 al Collège lnternational de Philosophie (pubblicata poi in «Le Cahier du Collège lnternational de Philosophie», 3, 1987). In traduzione italiana al! 'interno di J.-F. Lyotard, Anima minima. Sul bello e ii sublime, a cura di F. Sossi, Nuova Pratiche Editrice, Parma 1995, pp.19-48. 100. J.-F. Lyotard, Anima minima, cit., pp. 19-2.0. 101. lvi, pp. 19-2.0.

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esplicitamente la terza Critica come una delle sue principali fonti ispiratrici, assieme ai testi storico-politici dello stesso Kant e al Wirrgensrein delle Ricerche Logiche e degli scrini postumi. Questi testi sono considerati da Lyorard come l'epilogo della modernità, poiché prendono ano del declino delle dottrine universalistiche e menono in questione i termini nei quali tali dottrine pretendevano di dirimere i dissidi 101• Occorre forse specificare brevemente che cosa s'intenda con quest'ultimo termine: il dissidio è un particolare tipo di conflitto in cui le parti in causa appartengono a generi diversi di discorso; esso risulta insanabile poiché non si dà un'unica regola di giudizio applicabile ad entrambe le parti. «Il fatto che una [argomentazione] sia legittima non vuol dire che l'altra non lo sia. Tuttavia, se si applicasse la stessa regola di giudizio all'una e all'altra per dirimere il dissidio come se fosse una lite, si farebbe torto a una di esse almeno - e a entrambe se nessuna ammettesse tale regola»• i. Il titolo del libro allude a questa assenza di una regola universale di giudizio tra generi eterogenei. Secondo lo studioso francese, nell'introduzione alla terza Critica la dispersione dei generi di discorso è non soltanto riconosciuta ma anche drammatizzata, al punto che il problema diviene quello di trovare dei passaggi (Obergange) fra questi diversi generi' 04 • «E la facoltà di giudicare, proprio in virtù della sua ubiquità [... ] appare in essa come una potenza in grado di operare i "passaggi" fra le facoltà[ ... ]» • s. La scoperta kantiana dell'eterogeneità delle facoltà conoscitive è di fatto per l'autore un punto di grande interesse, a cui si associa «l'insistenza sull'irriducibilità della differenza tra le wittgensteiniane famiglie di frasi estetiche, teoretiche, eriche, politiche - e l'accusa di violenza mossa ad ogni tentativo di sussumerle sotto un unico discorso cognitivo»' 06 • Così, spiega S. Forti, dietro una terminologia molto diversa da quella arendtiana e sconfinante spesso nei tecnicismi della fìlosofìa del linguaggio, si nasconde in 0

0

102. Cfr. J.-F. Lyotard, // dissidio, trad it. di A. Serra, Feltrinelli, Milano 1985, p. 14103. lvi, p. II. 104- Cfr. ivi, p. 166. 105. /bid. Lyocard introduce,a questo proposito, la metaforadell 'arcipelago: «Ognuno dei

generi di discorso sarebbe come un 'isola, e la facoltà di giudicare, almeno in una cerca misura, sarebbe come un armatore o come un ammiraglio che organizzasse fra un'isola e l'altra delle spedizioni destinate a presentare all'una quanto si fosse trovato nell'altra [...]. Questa forLa di intervento, bellica o commerciale, non ha oggetto, non ha un'isola propria, ma esige un elemento intermedio, che è il mare, I' Archepelagos, il mare principale». 106. S. Forti, Hannah Armdt tra filosofia e politica, cit., p. 346.

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realtà una grande affinità tra i due autori: entrambi sono tesi a riaffermare il particolare nella sua unicità, contro qualsiasi tentativo di totalizzazione. Il giudizio estetico è ciò che consente di «salvaguardare il dissidio, di non ricompattarlo, di non mettere a tacere il pluriverso di voci costitutivo della cosiddetta condizione post,moderna» 107. Questo spiega perché l 'operazio, ne ermeneutica lyotardiana, come quella di Hannah Arendt, sia volta ad amplificare la portata antimetafisica di alcune nozioni kantiane, e perché anche il pensatore francese ci restituisca l'immagine per certi versi surreale di un Kant post,hegeliano, impegnato a scardinare il sistema dialettico in tutte le sue varianti. Tuttavia a partire da questo terreno comune, come già si è detto, la posizio, ne di Lyotard si fa più drastica. Se l'esigenza è quella di sottrarre la realtà alla sopraffazione del giudizio concettuale, che rutto assorbe nelle maglie delle sue determinazioni, la vera alternativa a questo potere omologante, il vero emblema dell'inconciliabilità, dello strappo non più rammendabile, è dato dal sublime. Solo qui ogni tentativo di sintesi acquietante è realmente scon, fitto e si dovrà cedere al rischio della pura contraddizione. Prima di approfondire il lieve rimprovero che Lyotard muove in questo senso ad Hannah Arendt nelle pagine del saggio Sopravvissuto, può essere utile richiamare i termini in cui l'autore descrive la questione. A proposito del sublime scrive infatti: «Qui il rapporto del pensiero con l'oggetto pre, sentato si guasta[ ... ]. Si potrebbe dire che il pensiero, nel sentimento subii, me, si spazientisce, dispera, si disinteressa al fatto di raggiungere i fini della libertà attraverso la natura» 108• L'analisi sul sentimento del sublime sembra non contribuire al progetto di unificazione che la terza Critica rappresen, ta; piuttosto ne è l'interruzione. Lo stesso Kant doveva esserne, in qualche modo, consapevole, se consideriamo che nell'Introduzione della Critica del Giudizio il sublime merita solo una menzione fugace, alla fine della sezione VII, dove Kant parla di un diverso tipo di piacere estetico (un piacere nega, tivo, si dirà) che il soggetto prova di fronte agli oggetti considerati nella loro forma, o perfino nell'assenza di forma' 9. La presentazione esigua, priva di ulteriori chiarimenti, che Kant riserva al tema in queste pagine introduttive, lascia pensare che l'autore fosse quasi sul punto di dimenticarsi di menzionare l'Analitica del sublime, «o che, ricordandola così sommariamente, cerchi di 0

107. !bili. 108. J. F. Lyotard, Un confronto tra 109.

il sublime e il gusto, in Anima minima, cit., p. 87. Cfr. I. Kant, Critica del Giudizio, cit., p. ss.

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farla dimenticare» 110• Secondo Lyorard, inoltre, egli non fa mistero dell'incongruità che questo aspetto rappresenta nella sua opera, quando afferma che «il concetto del sublime naturale è molto meno imponante e ricco di conseguenze di quello del bello naturale; e che, in generale, esso non rivela qualche cosa di finalistico nella natura stessa, ma soltanto nel possibile uso delle intuizioni di essa [... ] » 111• Per questo motivo la teoria del sublime risulta essere una semplice appendice {«einen blo&:n Anhang») al giudizio estetico della finalità nacurale111 • Si osservi a questo proposito che anche Hannah Arendt, nelle lezioni del '64, si esprime in maniera simile riguardo quella che, a suo modo di vedere, è una difficoltà manifesta da parte di Kant: «Il vero punto della questione è che il sentimento del Sublime, a causa della sua relazione con la Ragione, non appartiene a questo contesto, e lo stesso Kant si trova a disagio nel parlarne: "il concetto del sublime è di gran lunga meno importante e ricco di conseguenze del concetto del bello" »"3. Il sublime costituirebbe dunque un'aporia nella costruzione architettonica della terza Critica, che è, a sua volta, un ponte tra le prime due. Ancora nelle parole di Lyotard: «Ciò che viene ad aggiungersi alla natura finalizzata esteticamente è, in fondo, la perdita della sua finalità. Con il nome di Analitica del sublime un'estetica denaturata, o meglio un'estetica della denaturazione, infrange il buon ordinamento dell'estetica naturale e sospende la funzione assunta da quest'ultima nel progetto di unifìcazione» 11 4.

In un altro saggio, L'interesse del sublime, si riscontra ugualmente questo accento di perdita, di disperazione: «L'analisi del bello permette di aspirare a una fondazione del soggetto come unità delle facoltà, e di legittimare l'accordo degli oggetti reali con la destinazione autentica di tale soggetto, l'Idea di natura. Meteora precipitata nell'opera dedicata a questa doppia edificazione, l'Analitica delsublime, sebbene sia solo una "semplice appendice", sembra porre fine a queste speranze»"~.

uo. J.-F. Lyotard, Un confronto tra il sublime e ilgusto, in Anima minima, cit., p. 88. m. I. Kant, Critica del Giudizio, cit., p. 163. m. Cfr. ibid. II3. Quattordicesima lezione, si veda in.fra p. 2.42.. II4-J.-F. Lyotard, Un confronto tra il sublime e ilgusto, in Anima minima, cit., p. 88. us.J.-F. Lyotard,L 'interesse del sublime, in Anima minima, cit., p. 49.

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In un certo senso è proprio alla luce di questo carattere esasperante ed esasperato, mai "ricomponibile" del sublime, che Lyocard, pur evidenziando l'assenza di una dovuta attenzione al tema da parte di Hannah Arendt, sembra comprenderne al tempo stesso le ragioni, e assolve l'autrice dal peso di un'accusa che rischierebbe di essere troppo severa. Secondo il pensatore francese, infatti, è ancora vivo per la Arendt l'orrore dei mali perpetrati dal regime nazista; orrore che appartiene ad un passato recente, e serenamente intrecciato con l'esperienza personale, intellercuale, biografica. Per questo motivo tutta l'opera arendtiana è attraversata, implicitamente, dalla ricerca di una protezione contro la catastrofe; dalla ricerca, si potrebbe dire con parole diverse, di un'ultima carezza, che non elimina la serietà e l'impegno dell'analisi, ma ne costituisce l'intimo approdo, il necessario punto di respiro (si consideri che Le origini del totalitarismo si concludono con il riferimento alla citazione agostiniana «lnitium ut esset creatus est homo», cui laArendt affida la speranza di un riscatto). Così, secondo Lyotard, anche il principio della natalità e della forza iniziatrice dell'azione che Hannah Arendt afferma in Vita activa sono investiti di questo potere redentore. Alla natalità è accordato un valore redentivo o protettivo e, spiega Lyotard, «l'economia o la strategia del pensiero di Arendt, attraverso le sue svolte, le sue correzioni e le sue esitazioni, mi sembra spesso dominata da tale virtù, che ne limita la posta in gioco» 116• Il bello rappresenta la celebrazione della nascita, come il sublime l'evento della morte. La scelta di porre l'accento sull'accordo armonico delle facoltà, piuttosto che sulla loro distonia, conferma l'impostazione di un pensiero che, pur confrontandosi a viso aperto con la realtà, non può rinunciare del turco all'edificazione e alla luce. Il punto del saggio lyotardiano in cui si chiarisce la posizione dell'autore in proposito è il seguente: «Con il bello c'è pura felicità, miracolo della promessa. Con il sublime, però, c'è la sua impossibilità, e la minaccia imminente del non-essere. Il bello, evento della nascita, il sublime, della morte. E se nel seminario del 1970 Arendt non si è soffer-

mata sull'Analitica del sublime, in cui risuona lo spavento dell'abbandono, credo che sia perché il desiderio di proteggere e di essere protetta contro l 'insopportabile, a cui ho alluso, vince in questo caso l'ostinato coraggio della sua ricerca» 11 7. Quello che prevale secondo l'autore è dunque un comprensibile istinto di 116. J.-F. Lyotard, Sopravvusuto, in Harmah Arrodt, a cura di S. Forti, cit., p. 76. 117. lvi, p. 81.

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difesa, che argina le ambizioni di un pensiero drammaticamente impegnato con la realtà: l'autrice non può guardare fino in fondo la contraddizione {l'"oltraggio", come lei stessa lo definisce nelle pagine del '64), non può assumerne il peso, e cerca infine di "ricomporre" il dissidio. Pur animata dall'intenzione iniziale di riaffermare l'irriducibilità del reale contro ogni pretesa di catalogazione e sopraffazione da parte dell'intelletto, la Arendt sceglie infine di ripiegare sulla via più comoda, quella della sintesi, della riconciliazione. Il rilievo evidenziato da Lyotard rinuncia subito, come già si è detto, ad ogni possibile tono accusatorio: dobbiamo ricordarci, scrive l'autore, che noi scriviamo e pensiamo in relativa pace, «senza spiare la scampanellata delle sei del mattino» 118• Senza, cioè, l'immediata e costante minaccia del più abietto annientamento: «La protezione contro l'abbandono perde la propria urgenza nel pensiero quando la persecuzione è così lontana. Il pensiero può avvicinarsi un po' di più al lato della catastrofe, del sublime per esempio, del non-essere, poiché, a eccezione di qualche terrorista, nessuno oggi ci rifiuta il diritto di coabitare sulla terra con lui, come fu invece il caso di Eichmann. [... ] » 119•

8. La traiettoria arendtiana da una concezione estetica della politica a una concezione politica dell'estetica. L'ultimo tassello di cui si compone questo quadro critico non riguarda la legittimità o la funzionalità della proposta arendtiana, né la sua fedeltà alle premesse più o meno audaci da cui era partita. Abbandoniamo il campo delle possibili "obiezioni" {filologiche, politologiche o di altro tipo) per soffermarci su un'altra visione del problema che consente di leggerne più intimamente i caratteri di continuità e di provenienza rispetto al resto della produzione arendtiana. Diversi studiosi, infatti, hanno ritenuto di dover evidenziare che l'interesse verso la Critica del Giudizio non costituisce un aspetto isolato e autonomo all'interno del pensiero arendtiano, una sorca di deviazione o di curvatura "estetizzante" rispetto alle precedenti riflessioni dell'autrice. Al contrario, esso si pone quasi come un naturale epilogo, esplicitando quel nes-

n8. Ivi, p. 82.. n9.lbid.

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so tra estetica e politica che è presente (benché non apertamente tematizzato) già nelle pagine di Vita activa. Abbiamo toccato questo argomento nel paragrafo 4.1, parlando della ridefinizione del politico attraverso il concetto di apparenza, e ricordando come in Vita activa l'agire e il parlare siano considerate le modalità attraverso cui gli uomini rivelano sé stessi e fanno la loro "apparizione" nel mondo. Lo spazio in cui tale apparizione accade, lo spazio dell'apparenza appunto, «anticipa e precede ogni costituzione formale della sfera pubblica e delle varie forme di governo, le varie forme, cioè, in cui la sfera pubblica può essere organizzata» 110• L'apparenza costituisce dunque, per così dire, il fondamento ontologico della politica. Per lo stesso motivo « La polis, propriamente parlando, non è la città-stato in quanto simata fisicamen-

te in un territorio; è I' o~izzazione delle persone così come scamrisce dal loro agire e parlare insieme[... ]. E lo spazio dell'apparire, nel più vasto senso della parola: lo spazio dove appaio agli altri come gli altri appaiono a me, dove gli uomini non si limitano a esistere come le altre cose viventi o inanimate ma fanno la loro esplicita apparizione» 111•

Ali' interno di questa analogia, già tracciata, come si diceva, nelle pagine precedenti, vi sono alcuni aspetti specifici, alcune più sottili approssimazioni del politico ali' estetico, che meritano rinnovata attenzione. 8.1. La politica come arte della peiformance in Vita activa Occorre sottolineare il carattere di intangibilità che connota l'agire e il parlare, e il modo in cui l'identità individuale che emerge attraverso gli atti e le parole sia, a sua volta, qualcosa di intangibile. Di fatto secondo la Arendt un'azione che non sia rivelatrice del "chi" dell'agente, non è un'azione, ma una forma produttiva come le altre (e ciò accade quando viene meno lo stare insieme degli uomini nel suo senso originario). L'agire ha di per sé un carattere intimamente rivelatore; e tuttavia, ciò che viene rivelato, il "chi" dell'agente, mantiene una sua curiosa inafferrabilità. Per quanto infatti nessuna identità possa essere scambiata con un'altra, è evidente la difficoltà di rendere questa

120. 121.

H. Arendt, Vita activa, cit., p. 146. lvi, p. 14s.

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identità con le parole. Mentre cerchiamo di esprimere il "chi" di qualcuno, spiegalaArendt, il nostro vocabolario ci spinge a virare più verso il "che cosa", ovvero verso una descrizione nutrita di qualità e caratteristiche che, in fondo, accomunano quella persona ai suoi simili, «con il risultato che la sua specifica unicità ci sfugge»m. Del resto, l'identità è qualcosa di totalmente eccedente alle qualità definibili in senso psicologico, caratteriale, ecc., al punto che l'agente stesso non ne dispone: egli non possiede il suo "chi", né possiede il processo con cui esso, inevitabilmente, si rivela agli occhi degli altri ( «si può nascondere "chi si è" solo nel completo silenzio e nella perfetta passività» )12 i. Il carattere intangibile dell'azione e dell'identità che in essa si rivela stabilisce un forte nesso con le arti performative, quelle arti la cui essenza risiede nello stesso processo esecutivo. Vi sono, è vero, delle opere d'arte plastiche che, nel celebrare il ricordo di un'impresa o di un importante momento storico, sottopongono il contenuto dell'azione ad una sorta di condensazione o di reificazione. Tuttavia questa restituzione è solo parziale: «la specifica qualità rivelatrice dell'azione e del discorso, la manifestazione implicita di chi agisce e parla, è cosl indissolubilmente legata al flusso vivente dell'agire e del parlare che può essere rappresentata e reificata solo mediante una sorta di ripetizione, l'imitazione o mimesis che, secondo Aristotele, prevale in tutte le arti ma è realmente appropriata solo nel drama, il cui autentico significato (dal verbo greco dran, "agire") indica che recitare è veramente un'imitazione dell'agire» 124. Agli interpreti della storia è affidato il compito di restituire il "flusso vivente" dell'agire e il suo potere rivelatore; il coro invece, che nella tragedia greca si configura quasi come una voce esterna, per mezzo della quale è enunciato il significato della vicenda, propriamente non "recita", ovvero non imita l'azione, ma si esprime in forma di commenti poetici, rappresentando il punto di vista del narratore 12s. Una rappresentazione artistica del "chi" può essere veritiera solo se ne con-

lvi, p. 132.. lvi, p. 130. 12.4- lvi, p. 137. 12.5. Cfr. ibid. La distinzione tra il coro che racconta e dunque non recita da un lato e gli attori, che recitando imitano l'agire, dall'altro, ripropone la suddivisione più generale che proprio in queste pagine la Arendt mette a fuoco: il significato degli eventi è precluso, paradossalmente, al protagonista; è solo lo sguardo retrospettivo di chi osservi tali eventi a posteriori che può coglierne il senso e pronunciarlo. 12.2.. 12.3.

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divide gli stessi caratteri di inafferrabilità e di contemporaneità: l'agire può essere reso solo attraverso un'altra forma di agire, attraverso cioè l'imitazione. Per questi motivi la Arendt osserva che «il teatro è l'arte politica per eccellenza» 116 : solo in esso la sfera politica della vita umana (la sfera dell' a~ zione, cioè) è trasposta nell'arte. E allo stesso modo, esso è l'unica forma d'ar~ te che assume come unico soggetto l'uomo nelle sue relazioni con gli altri uomini. Osservazioni simili si ritrovano anche in un saggio precedente, Che cos'è la libertà? (1961 ), pubblicato all'interno di Tra passato efoturo. Qui la Arendt riprende, ad un certo punto, il concetto machiavelliano di virtù, la capacità di~ stintiva del politico di saper fronteggiare gli eventi e piegarli in qualche modo a proprio favore. In questa sede la Arendt interpreta la virtù machiavelliana nei termini di un virtuosismo: è probabilmente questo ciò che il pensatore fiorentino aveva in mente, pur non essendone completamente consapevole. Gli antichi greci si servivano spesso di metafore artistiche per designare la specificità dell'attività politica rispetto a tutte le altre; metafore attinte per l'appunto dall'ambito della mera performance (la danza, l'arte di suonare il flauto, ecc). Cosa differenzia dunque il virtuosismo dell'esecuzione, assieme alle attività che in tale virtuosismo trovano la propria essenza, da quei pro~ cessi produttivi che pur definendosi anch'essi "'artistici" mancano di questa immediatezza, e trovano il proprio obiettivo nella realizzazione di un oggetto finito, posteriore ed esterno rispetto al processo creativo? La differenza è, in primo luogo, quella già evidenziata tra praxis e poiesis; dunque la separazione tra il mezzo e il fine, che è ben scandita nella poiesis, e invece del tutto assente nella praxii 17• Ma vi è un secondo aspetto, decisivo per il nostro discorso, che merita qui di essere evidenziato: il processo produttivo di un oggetto o di un'opera d'arte non è esposto al pubblico, e non chiede di essere visto nelle sue fasi di svolgimento, ma al massimo nei suoi esiti finali. Nelle cosiddette arti performative, invece, la presenza di un pubblico di spettatori è la con~ dizione stessa perché lo spettacolo avvenga. Non vi è possibilità di esistenza autonoma della rappresentazione scenica senza qualcuno che ne fruisca, che

126. Ibid. 12,7. A questo proposito l'autrice ricorda in Vila adiva che l'attività vivente dell'agire e del parlare, l'attività non subordinata ad uno scopo, fu concettualizzata da Aristotele nella nozione di mergda (atto), con la quale il filosofo designava tutte le attività che non perseguono un fine e non lasciano dietro di sé delle opere, ma esauriscono il loro pieno significato nell'esecuzione stessa (ivi, p. 152,).

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la guardi. È questo il maggiore punto di contatto tra l'arte performativa e la politica. Come i danzatori, gli attori e i musicisti hanno bisogno di "esibirsi" davanti ad un pubblico, così gli uomini che agiscono hanno bisogno di altri uomini alla cui presenza comparire: «gli uni e gli altri, per lavorare hanno bisogno di uno spazio a struttura pubblica, e in entrambi i casi la loro "esecuzione" dipende dalla presenza altrui. T aie spazio destinato alle apparizioni degli uomini non è affatto un attributo fisso e scontato di qualsiasi comunità. La polis greca fu appunto quella forma di governo che forniva agli uomini uno spazio per apparire, nel quale agire, una sorta di teatro dove la libertà poteva fare la propria comparsa» " 8• L'attenzione per il tema dell'apparenza perdura nel percorsoarendtiano e si allarga a comprendere la sfera della vita fino al suo livello biologico. Come spiega Elena Tavani nel saggio Il mondo e la sua ombra: estetica e ontologia in Hannah Arendt e Merleau-Ponty, ne La vita della mente la metafora visivoteatrale precedentemente utilizzata in rapporto al mondo-scena dell'agire, si estende qui a comprendere la terra-sfondo del vivere 129• O più semplicemente, potremmo dire che il mondo stesso diventa un grande palcoscenico, poiché non esiste nulla o nessuno il cui essere non presupponga uno spettatore•30. È interessante da questo punto di vista il richiamo di Hannah Arendt agli studi di Adolf Portmann, zoologo e biologo svizzero che volle ribaltare la prospettiva del funzionalismo, prospettiva che concepisce 1' apparenza esterna degli organismi naturali (vegetali e animali) come mera funzione del processo vitale. Sarebbe infatti lecito chiedersi se non sia piuttosto il processo vitale ad essere in funzione dell'apparenza: in un mondo che appare, è molto più plausibile che ciò che vi è di più rilevante e significativo sia da ricercare sulla superficie, piuttosto che nelle profondità'''· Gli studi

128. H. Arendt,Che cos'è la ubertà?, in Tnz passatoefaturo, cit., p. 206. 129. E. Tavani, Il mondo e la sua ombra: estetica e ontologia jn Hannah Arendt e MerkauPonty, in «Chiasmi Intemational», n. 15, 2013, pp. 316. 130. Cfr. H. Arendt, La vita della mente, cit., p. 99. 131. Cfr. ivi, p. 108. È in effetti questo il vero senso del ribaltamento operato da Portmann, ed espresso nelle seguenti parole: «Non ciò che una cosa è, ma come essa appare costituisce il problema della ricerca» (ivi, p. 109). Tale tesi, relativa all'ambito delle scienze naturali

e biologiche, si rivela vera agli occhi della Arendt anche in un senso metafisico o, meglio, anti-metafisico, perché antitetico alla visione tradizionale che sostiene il primato oncologico dell'invisibile sul visibile.

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di Portmann, andando in questa direzione, dimostrano ciò che secondo la Arendt dovrebbe essere già evidente ad occhio nudo, e cioè che l'incredibile varietà della vita animale e vegetale, l'autentico sfarzo dell'esibizione nella sua pura e semplice superfluità non possono essere spiegati alla luce dell'ipotesi funzionalistica. Ciò che più conta in questo interessante discorso che non possiamo qui seguire nel dettaglio, è la scoperta da parte di Ponmann di un «impulso all'autoesibizione» in ciascuna creatura vivente, una sorta di stimolo innato non meno cogente dell'istinto alla sopravvivenza o alla conservazione, stimolo per il quale «ogni cosa che può vedere vuole essere vista, ogni cosa che può udire richiede di essere udita, ogni cosa che può toccare si offre per essere toccata» 131• Abbiamo già avuto modo di notare in precedenza come in queste pagine l'autrice si impegni a sovvertire la tradizionale gerarchia metafisica tra la superficie che appare e il fondo che non appare, richiamandosi in maniera esplicita ed implicita al pensiero di Maurice Merleau-Ponty. Anche il riferimento a Portmann in questo senso non è casuale poiché lo stesso Merleau-Ponty se ne sarebbe servito in alcuni dei suoi lavori•n. Si potrebbe affermare in sintesi che all'analogia tra agire e apparire stabilita in Vita activa si sostituisce, ne La vita della mente, una più profonda identificazione tra Essere e Apparire' 34• Occupandoci qui della parte più propriamente "politica» della questione, è naturalmente il primo aspetto a dover costituire il centro del nostro interesse. Ma il riferimento a La vita della mente, oltre ad essere in qualche modo inevitabile vista la compresenza del tema, potrà tornare utile anche in un secondo momento di questa analisi. Il tema di un nesso tra estetica e politica ha ispirato il lavoro della già menzionata Elena T avani, che nel suo studio monografico Hannah Arendt e lo spettacolo del mondo definisce il pensiero arendtiano nei termini di una fenomenologia e di una ontologia estetico-politica prospettica e plurale13~. Secondo Tavani la teoria politica di Hannah Arendt diventa anche e non mar-

132. lvi, p. uo. 133. Secondo quanto riportato da Tavani (Il mondo e la sua ombra, cit., p. 317 ), il riferimento di Merleau-Poncy a Portmann si riscontra in una nota di lavoro de Il visibile e l'invisibile (cit., p. 257) e nell'ambitodi un corso tenuto al Collège de France nel 1957-1958 (inLinguaggio,storia, natura. Corsi al Co/Jège de France, 1952-61, Bompiani, Milano 1995, p. 102). 134. Cfr. H. Arendt, La vita della mente, cit., p. 99. 13 5. Cfr. E. T avani, Hannah Arendt e lo spettacolo del mondo. Estetica epolitica, Manifestolibri, Roma2010, p. 13.

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ginalmente una teoria dell'estetico proprio in virtù della critica radicale che rivolge ali' indirizzo"dispotico" della fìlosofìa, ovvero a quelle spiegazioni che riducono il molteplice a unità, ignorando le ragioni dell'esperienza particolare e contingente 136• Per questo motivo essa è stata anche bersaglio di critiche da parte di coloro che invece difendono «il paradigma logico-razionale» e considerano le deviazioni in direzione dell'estetico come un pericoloso oscuramento della strada maestra, o tutt'al più come un escamotage che si rende necessario quando la teoria utilizzata rivela i propri punti di insufficienza o inadeguacezza'J7. Tavani si chiede esplicitamente, nel primo capitolo del suo lavoro, quali idee estetiche siano già operanti nell'analitica della condizione umana della Vita activa, «in una fase del pensiero arendtiano che, se non ha ancora messo del tutto a punto le questioni legate alla scoperta di uno spessore politico del principio kantiano del giudizio di gusto, ha tuttavia già consolidato una descrizione della sfera pubblica in termini scenici, defìnita in base al doppio regime spettacolare dell'attore e dello spettatore»' 38• L'autrice rivolge così alla Arendt una richiesta irrituale, come lei stessa afferma, opposta e simmetrica a quella che la Arendt rivolge al Kant della terza Critica. In altri termini, se la Arendt aveva cercato nel Kant estetico il vero Kant politico, davanti a noi si schiude 1' opzione inversa di enucleare dalla teoria politica arendtiana i suoi presupposti estetici. La simmetria dell'operazione, evidenziata esplicitamente da Tavani, richiama alla mente l'espressione ben riuscita con cui Luca Savarino descrive la traiettoria compiuta dalla Arendt: «un progressivo passaggio da una concezione estetica della politica a quella che, con Mongin, potremmo defìnire una concezione politica dell'estetica» 139•

8.2. L'estetismo di Hannah Arendt era Nietzsche, Kant e Merleau-Poncy

Vi è un secondo aspetto, strettamente unito al primo (il carattere di performance) che, sempre all'interno delle pagine di Vita activa, caratterizza l'azione in senso estetico. Tale aspetto, che è per certi versi un'ulteriore decli136. Cfr. ibid. 137. Cfr. ivi, p. 16. 138. lvi, p. 19. 139. L. Savarino, Politica ed estetica. Saggio su Hannah Arendt, Zamarani, Torino 1997, p. 161 (il riferimento è al saggio di O. Mongin, Du politique a /'esthttique, in «Esprit», voi. 42,, n. 6, 1980, pp. 98-108).

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nazione del carattere esecutorio e scenico dell'agire, riguarda la grandiosità dell'azione, il suo rendersi memorabile. Si può parlare di un concetto eroico di azione che la Grecia classica ereditò dai poemi omerici e che forgiò in ma~ niera indiretta la mentalità dei cittadini, secondo uno spirito agonistico che li spingeva a mettersi in mostra e a competere gli uni con gli altri 14°. Ancora R. Esposito nel suo libro L'origine della politica: Hannah Arendt o Simone W eil?, interrogandosi sulla natura della guerra in relazione alla politica, ovvero sul suo carattere di evento fondativo rispetto alla storia che segue (l'esempio por~ taco è quello della guerra di Troia), afferma che proprio qui sta il massimo punto di continuità tra le due sfere: «la doppia origine appare riunificarsi nello stesso vettore semantico costituito dal concetto di agon e da quello, congiunto, di aristeuein come aspirazione del cittadino a dimostrarsi in ogni occasione il migliore» 141 • Si tratta di una specificazione estremamente impor~ tante, continua Esposito perché, «sottolineando come qualificante, e anzi costitutivo, dell'ambito della politica l'elemento della visibilità, rende chiaro l'ultimo, ovvero primo, significato dell'origine prepolitica della politica. Essa è fonte di luce - la scena della battaglia è inondata di luce, si svolge sempre in pieno giorno, anche quando scende la notte perché è una notte che prelude al nuovo giorno della politica» 142• In Vita activa diversi riferimenti chiarificano il senso di questo agire "eroi~ co", di questa appassionata tendenza a voler "meravigliare" i propri simili con qualcosa che irrompa nell'ordinario. Secondo la Arendt, l'arte della politica doveva insegnare agli uomini a intraprendere cose grandi e radiose, ta megtila kai lampra, nelle parole di Democrito; «fin quando la polis è capace di susci~ tare negli uomini il desiderio di "osare lo straordinario", tutto è salvo; ma se essa perisce, tutto è perduto» 143• Tale visione, come osserva Dana Villa nell'interessante articolo al quale faremo qui riferimento (D. Villa, Beyond Good and Evi!: Arendt, Nietzsche and theAestheticization ofPoliticalAction) 144 comporta un drastico ridimen~ sionamento della componente motivazionale ed etica dell'azione. È la stessa Arendt a confermarlo quando scrive che

140. Cfi-. H. Arendt, Vita activa, cit., p. 142.. 141. R. Esposito, L 'origjne della politica. Hannah Arendt o Simone Weii?, cit, p. 40. 142.. lvi, pp. 40-41. 143. H. Arendt, Vita activa, cit., p. 151. 144. D. Villa, Beyond Good and Evi/: Arendt, Nietzsche and the Aestheticization ofPo/itical Action,in «Political Theory», voL 2.0, n. 2., 1992., pp. 2.74-308.

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«Diversamente dal mero comportamento umano -che i greci, come tutti i popoli civili, giudicavano secondo" criteri morali", tenendo conto di motivi e intenzioni da una parte e di scopi e conseguenze dall'altra - l'azione può essere giudicata solo mediante il criterio della grandezza, perché è nella sua natura interrompere ciò che è comunemente accettato e irrompere nello straordinario, dove non trova più applicazione ciò che è vero nella vita comune e quotidiana»•4s. Inoltre, spiega ancora l'autrice, i motivi e gli scopi non sono mai propria, mente unici: come le qualità psicologiche anch'essi rientrano, per così dire, in delle categorie, comuni a più persone; e così l'autenticità dell'atto e il suo senso specifico si riscontrano solo nella grandezza dell'esecuzione, non negli aspetti motivazionali né nelle sue conseguenze. Ciò a cui ci troviamo davanti è una "riconcetrualizzazione estetica" dell 'a, zione, che secondo Villa avvicinerebbe la Arendt molto di più al pensiero di Nietzsche che non al modello dialogico,consensuale elaborato da Habermas e spesso assunto come identificativo dello stesso pensiero politico arendtiano. Mentre infatti una certa corrente interpretativa, di stampo appunto haberma, siano, ha a lungo "colonizzato" il pensiero arendtiano, sottolineandone come punto di forza l'introduzione di una politica della persuasione e dell'accordo contro la politica dell'interesse e dell'efficienza, una prospettiva critica più recente suggerisce invece di guardare con più interesse a quegli elementi di virtuosismo, agonismo e teatralità dell'azione che connotano quest'ultima in un senso quasi opposto al precedente, e che sembrano prevalere sul modello aristotelico dei cittadini deliberanti ripreso da Habermas. Il saggio di Villa, nel tentativo di comprendere anche come questi due aspetti stiano insieme, si sofferma principalmente sul paragone con Nietzsche. Interpretare l'azione nei termini di una perfonnance vuol dire infatti abo, lire l'insieme dei criteri standard con cui essa viene valutata (motivazioni, obiettivi, conseguenze)' 46• L'azione aurocompiuta è valutabile soltanto in maniera immanente, sulla base della sua bellezza o grandiosità. Per questo Villa scrive che «Estetizzare l'azione vuol dire redimerne il significato, re, staurare la sua innocenza e collocarla aldilà del bene e del male» '47• Il riferimento è, principalmente, alle pagine della Genealogia della morale,

145. H. Arendt, Vita adiva, cit., p. 151. 146. Cfr. D. Villa, Beyond Good and Evii: Armdt, Po/iticalAction,in «Politica! Theory», 2, 1992, p. 276. 147. !biti. (traduzione mia).

Nietzsche and the Aestheticization of

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nelle quali Nietzsche spiega il sorgere della morale come arma dei deboli per sovvertire 1' ordine naturale delle cose, in cui sarebbe di fatto il più forte a imporsi e a vincere grazie al suo istinto di prevaricazione. Com'è noto, la morale del ressentiment inaugura il vocabolario della colpa, della vergogna, della giustificazione. Lo stratagemma principale di cui tale visione si serve è l'illusione del soggetto, un sostrato autonomo che disporrebbe della forza come di una sua proprietà, potendo scegliere se metterla in ano o trattenerla. Secondo Nietzsche, al contrario, non v'è separazione tra la forza e le sue estrinsecazioni; e soprattutto non vi è alcun soggetto dietro le azioni, ma c'è solo il puro agire. È qui, in un certo senso, il sottile punto di contatto con la riflessione finora portata avanti. La finzione di un soggetto autonomo introduce infatti lo spazio della libertà, ovvero della scelta, della responsabilità: 1' azione non esprime più la grandezza, l'audacia, l'indomabile splendore, ma si piega al meschino monitoraggio dei rischi e delle conseguenze, perdendo il suo vero valore; e ciò affinché la debolezza dei deboli possa vestire i panni menzogneri della virtù e del merito' 48 . Il modello di azione "eroica" che la Arendt descrive in Vita activa e di cui poc'anzi si è parlato - un'azione ispirata alla gloria delle gesta imperiture e dunque distinta dall'ambito dell'ordinario comportamento morale - farebbe pensare secondo Villa ad una forte analogia con 1'estetismo di Nietzsche.Tuttavia occorre ricordare che la riconcettualizzazione dell'azione da parte di Hannah Arendt in termini di performance scaturisce dall'esigenza di ribadire la specificità dell'agire rispetto alle altre forme della vita activa, e in particolare dall'esigenza di escludere del tutto il rischio di assimilazione ai processi fabbricativi della poiesis. Da questo punto di vista non avrebbe avuto senso barattare un certo tipo di riduzionismo con un altro (la concezione strumentale dell'agire con la concezione nietzscheana che interpreta 1' agire come pura espressione della volontà di potenza)'49. Ma soprattutto, osserva lo studioso, la Arendt non poteva non essere consapevole dei rischi inerenti un agonismo incontrollato, e non avrebbe mai potuto realmente condividere una marginalizzazione così evidente della componente etica. Sarebbe proprio per questo motivo, secondo Villa, che la Arendt sente l'esigenza di rivolgersi al Kant della terza Critica: è qui che può recuperare 1'elemento deliberativo e dialogico col quale ricalibrare il peso del suo discorso e ritrovarne i presuppo148. Cfr. F. Nier-LSChe, Genealogia della morak. Uno scritto polemico, trad. it. di F. Masini, Adelphi, Milano 1984, pp. 33-3s. 149. Cfr. D. Villa, Beyond Good and Evi/: Armdt, Nietzsche and the Aestheticization oJ Politica/Action, cit., p. 2,76.

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sti originari. Ciò che si verifica non è però un abbandono dell'orizzonte estetico, ma appunto, un'integrazione o una correzione per mezzo dell'estetico stesso•s0 • In questo senso anche le due correnti critiche individuate da Villa all'inizio del suo saggio (la corrente del modello dialogico-consensuale e la corrente del modello agonistico di azione) si troverebbero ad essere ricomprese in un nuovo sguardo sintetico, che non le vede più come contrapposte ma come complementari. All'ipotesi interpretativa di Villa sono state offerte alcune risposte, sulle quali non possiamo soffermarci qui nel dettaglio. Ci limitiamo però a riportare 1'osservazione di alcuni studiosi (B. Honig, nel suo articolo apertamente intitolato The politics oJAgonism: A criticai Response to "Beyond Good and

Evi/: Arendt, Nietzsche and the Aestheticization oJPolitica/ Action ", by Dana R. Vilfa•s•, ma ancheJ. T aminiaux nel suo Performativitè et Grecomanie?) 151 secondo i quali già in Vitaactiva 1' enfasi sul carattere performativo dell'azione è controbilanciata dall'individuazione dei suoi" effetti collaterali" e dalla ricerca di un rimedio ( il perdono, rimedio all'irreversibilità; la promessa, rimedio all' imprevedibilità)•sJ. In altre parole, come afferma T aminiaux, la descrizione condotta dalla Arendt non vuole essere un elogio della performance: 1' utilizzo di termini in prevalenza negativi per designare le caratteristiche proprie dell'agire (quali l'illimitatezza, l'irreversibilità, l'imprevedibilità, ma anche l'assenza di padronanza da parte dell'attore, ecc.) mostra con chiarezza che l'intenzione non è quella di tesserne un panegirico, ma piuttosto di evidenziarne il carattere di fragilità e paradosso 154• Ciò che si potrebbe sottolineare in proposito a mio modo di vedere è che, pur ammettendo 1'ipotesi di una visione estetizzante dell'agire che ne esalta le componenti di bellezza e virtuosismo a discapito degli aspetti etico-comportamentali, e che dunque per certi versi permetterebbe di segnare un parallelo tra Arendt e Nietzsche, vi è però una decisiva differenza tra i due autori: l' azione eroica di derivazione omerica che la Arendt racconta è pur sempre in-

1so. Cfr. ivi, p. 2.88. 1s1. B. Honig. The politics ofAgonism: A criticai Response lo •&yond Goodand Evi/: Arendt, Nktzsche and the Aestheticizatwn ofPolitica/ Actwn •by Dana R. Villa, in «Political Theory», vol.11, n. 3 (August), 1993, pp. 518-m. 151. J. Taminiaux, Perfonnalivitè et Greco,nank?, in «Revue Imernationale de Philosophie», voi. 53, n. 108 (1), 1999, pp. 191-1os. 153. Cfr. H. Arendt, Vita adiva, cit, p. 174 e seguenti. 1s4. Cfr. J. T aminiaux, Perfomativité et Grécomanie?, cit., p. 19s.

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terna ad nn orizzonte comunitario; l'individuo che compie gesta memorabili vuole distinguersi agli occhi dei suoi simili, ed essere ricordato dai posteri. Vi è, in ultima istanza, nn desiderio di approvazione e di riconoscimento che si indirizza verso gli altri; quel desiderio di "apparire" e di essere visti che ritorna ne La vita della mente. Tale desiderio non trova corrispondenza nella visione totalmente autoreferenziale dell'agire nietzscheano, nn agire che è pura estrinsecazione della forza, senza destinatari e perfino senza soggetto agente. Il riferimento a Nietzsche rimane forse però nna costante quando si parli del tema in questione 1ss. Anche E. Tavani infatti, nel già menzionato saggio Il mondo e la sua ombra: estetica e ontologia in Hannah Arendt e MerleauPonty, ritiene che Nietzsche svolga nn ruolo non indifferente nel pensiero arendtiano, soprattuno per ciò che concerne l'approccio decostrunivo alla metafisica; e che tunavia a tale imprescindibile premessa si accompagni poi un diverso accento, dato dal riferimento a Merleau-Ponry (ecco ritornare La vita della mente). Secondo Tavani, Merleau-Ponry costituirebbe nna sorta di pars construens del discorso arendtiano, proprio a bilanciamento dell' influenza nietzscheana: «Lasciare Nietzsche, dopo averlo percorso, per incontrare Merleau-Ponry significa per Arendt approdare non ad nna pluralità di interpretazioni ma di posizioni e situazioni» 1S6• È curioso notare che al pensatore francese venga ora anribuito lo stesso ruolo che poc'anzi abbiamo visto anribuito a Kant, quello cioè di stemperare il rischio di una deriva irrazionale o perfino nichilistica del pensiero. Anche l'adesione a Merleau-Ponry tuttavia non potrà essere totale da parte della Arendt, poiché l'autrice, pur assumendo come propria l'idea del chiasma, assieme alla visione di nn soggetto-oggetto che smentisce l'assolutezza e la "rarefazione" del cogito cartesiano, «non può seguire Merleau-Ponry quando si inoltra nelle profondità carnali dell' essere» 1s7. «Arendt comprende bene come la reversibilità di Merleau-Ponry non implichi semplicemente una reciprocità o uno scambio dei ruoli, ma piuttosto un reciproco implicarsi e risolversi di volta in volta l'uno nell'altro. Non per questo tuttavia arriva a parlare di metamorfosi, vortici o pieghe, preferendo rileggere la reversibilità

1ss. Si consideri anche il già menzionato riferimento da parte di R. Esposito in L'origine della politica, cit., p. 41. 1s6. E. Tavani, Il mondo e la sua ombra: estetica e ontologia in Hannah Arendt e MerleauPonty, cit., p. 32.s. 1s7. lvi, p. 32.8.

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di soggetto e oggetto dell'apparire come un• attestazione della necessaria pluralità di chi si esibisce e di chi assiste all 'esibizione» 1s8• Abbiamo voluto dunque allargare il focus della ricezione critica sul tema in oggetto per includere, accanto ai possibili capi d •accusa cuila lettura arendtiana della Critica del Giudizio si sottopone, anche una più ampia riflessione su quel nesso tra estetica e politica che precede e forse alimenta tacitamente tale lettura. Quest'ultimo sguardo dischiude interrogativi sul rapporto tra Hannah Arendt e alcuni dei suoi "altri" autori, assieme a Kant; e rimette in gioco alcuni degli aspetti salienti del pensiero arendtiano, osservandoli forse da una diversa angolatura. Su tali giochi e intersezioni tematiche si potrebbero, probabilmente, costruire ulteriori prospettive d'indagine, ma riteniamo di poter per il momento arginare il campo esaminato, lasciando virtualmente aperta la possibilità di verifiche, integrazioni, discussioni e ripensamenti.

158. lvi, p. 329.

Conclusioni

Si è voluto in questa sede analizzare nel dettaglio l'ipotesi di lettura soste, nuca da H. Arendt riguardo alla Critica del Giudizio, evidenziandone i nessi con i generali presupposti del pensiero arendtiano e con il contesto storico, biografico nel quale l'esperienza intellettuale dell'autrice è maturata. In una seconda sezione la nostra indagine si è volta a considerare gli aspetti critici di una tale interpretazione, mettendo a tema, in primo luogo, quello che è stato definito da alcuni studiosi come un eccessivo "arbitrion da parte dell'autrice, un'appropriazione indebita dell'opera kantiana e dei suoi significati, nonché, in alcuni casi, una vera e propria "manipolazionen testuale. L'analisi critica si è dipanata poi nella considerazione delle mancanze e delle contraddizioni in cui la teorizzazione estetico,politica arendtiana cade: la posizione degli studiosi presi in esame a tal proposito esprime la necessità di un'integrazione o di una correzione che riposizioni il punto di vista arendtiano in un' otti, ca reale e comunitaria di superamento del formalismo kantiano {Beiner), e nel contesto di un confronto possibile tra opinioni razionalmente fondate e suscettibili di verifica {Habermas). E ancora, decisamente interessante è il punto di vista critico di J.,F. Lyotard, autore che, come H. Arendt, nutre un profondo fascino verso la terza Critica kantiana, e in particolare verso la nozione di giudizio riflettente, ma che, pur partendo da premesse simili, approda poi ad una diversa conclusione: se è vero che il giudizio riflettente costituisce una possibilità di riscatto del particolare, poiché non pretende di ridurre a sé l'eterogeneità dei generi, allora non il bello, bensì il sublime è il vero paradigma dell'inconciliabilità, del dissidio; quel dissidio che non può essere ricompattato se non a scapito di una delle sue parti, se non, appunto, per un atto di violenza del pensiero. Infine abbiamo voluto estendere il tema in oggetto ad un più ampio qua,

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dro di riflessione, che tenga conto del legame tra estetica e politica, sussistente, secondo alcuni studiosi, già in Vita activa, e riscontrabile nell'arco di tutta la produzione arendtiana (fino a La vita della mente) secondo modi e inclinazioni che lasciano intravedere suggestioni provenienti dal pensiero di Nietzsche e di Merleau-Ponty. Come già si è detto in conclusione delle due sezioni precedenti, l 'intenzione di questo lavoro non è quella di lasciare una parola esaustiva sull 'argomento; per altro, se è vero che le lezioni sulla Critica del Giudizio di Kant costituiscono una sorta di materia grezza sulla quale H. Arendt aveva intenzione di elaborare la sua trattazione del Giudizio, mai effettivamente iniziata a causa della morte improvvisa, possiamo dire che in un certo senso l'argomento stesso manchi della sua formulazione ultima, e che rimanga costitutivamente incompiuto. Tuttavia, approssimandoci a quella che è almeno idealmente la meta finale di questo percorso, possiamo tornare a prendere in considerazione l' oggetto della nostra indagine ponendolo, questa volta, in forma di domanda. Il cuore della questione rimane infatti questo: perché la Arendt sceglie un'opera non politica di Kant per ridefinire i presupposti di quella che potrebbe essere, nella sua visione, una teoria politica autentica, sviluppando per altro le sue argomentazioni non nella forma di un'analogia, o di un'allusione, ma di un vero e proprio commentario? Abbiamo già evidenziato, nella prima parte della nostra analisi, le ragioni per le quali la Arendt ritiene inadeguati, e per certi versi perfino contraddittori, gli scritti in cui Kant delinea il suo disegno politico, assieme alla sua concezione della storia; per poi mettere in risalto, viceversa, i connotati che permettono all'autrice di definire in positivo il "politico" che c'è nella Critica del Giudizio. Ma a questo proposito torna nuovamente utile rifarsi alle pagine del 1964, relativamente ad un passaggio della decima lezione. Qui è la stessa autrice a porsi la decisiva domanda: «a proposito della filosofia politica, perché ho scelto la Critica del Giudizio e, se ho ragione, perché nessun altro lo ha mai fatto prima, incluso lo stesso Kant che certamente non riteneva che l'opera appartenesse a tale categoria?». La risposta è da ricercarsi, secondo l'autrice, nel modo in cui la politica è stata tradizionalmente considerata nel corso dei secoli. E in particolare la Arendt sostiene che vi siano due principali pregiudizi o, potremmo dire, due "riduzioni" a cui questa sfera è andata abitualmente incontro. Il primo pregiudizio sta nel ritenere che la politica abbia sostanzialmente a che fare con il dominio, con il comando di qualcuno su qualcun altro; essa non sarebbe altro, dunque, che la risposta alla domanda: "Chi comanda su chi?", da cui de-

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riva l'articolazione nelle diverse forme di governo (monarchia, oligarchia, democrazia). Il secondo pregiudizio - antico quanto il primo, scrive la Arendt - riguarda l'utile, in un duplice significato: in una prima accezione, la politica ha a che fare con l'utile strettamente inteso, cioè con la salvaguardia di un interesse; in una seconda accezione, questo stesso interesse va inteso come il bios theoretikos, il privilegio di una vita dedita allo studio e alla contemplazione. Come abbiamo evidenziato agli inizi di questo studio infatti (e come si legge nelle pagine di Teoria delgiudizio politico)', secondo H. Arendt i filosofi che si sono occupati di politica nel corso della storia lo hanno fatto solo nel tentativo di garantire un ordine sociale, un• organizzazione del tessuto collettivo che permettesse a loro stessi di mantenere inalterata la loro libertas philosophandi; di riservarsi cioè in maniera permanente uno spazio inviolato e inviolabile dal quale guardare il mondo, senza esserne disturbati. Così la politica, che di per sé persegue l'utile strettamente inteso, è a sua volta subordinata, per così dire, ad uno scopo superiore, per il quale essa nasce e dal quale permanentemente dovrebbe essere guidata, ovvero lo scopo del primato della vita contemplativa sulla vita activa. Il bios politikos servirebbe solo, in quest'ottica, a rendere possibile il bios theoretikos. Se questi sono i due falsi modelli a cui la politica è stata erroneamente ricondotta nel corso dei secoli (il modello del dominio e il modello dell'utile, doppiamente inteso), non c'è da stupirsi - sembra dire la Arendt fra le righe - che la Critica del Giudizio non abbia mai ricevuto, come opera politica, l' attenzione che merita. Infatti essa è l'espressione di una perfetta antitesi a questi modelli: per quanto riguarda il primo, nella Critica del Giudizio «siamo di fronte ad una forma dello stare insieme in cui il dominio non sarebbe possibile; una società di eguali in cui nessuno comanda e nessuno obbedisce, ma tutti si persuadono vicendevolmente. [Nota a margine: non l'autorità, ma il pensiero rappresentativo la forma più alta di senso comune]»~. Per quanto riguarda il secondo, scrive la Arendt, abbiamo visto che nella Critica del Giudizio si parla di cose senza "interesse", aventi già in sé il proprio fine (dunque quanto di più lontano dal criterio dell'utile). Su questa stessa linea l'autrice riprende brevemente le due teorie sull 'origine dello Stato, volendo mostrare come la terza Critica kantiana si distanzi anche da queste, poiché afferma un diverso presupposto antropologico della socialità. La prima teoria è quella secondo la quale gli uomini decidono di H. Arcndt, Teoriade/giudido politico,cit.,pp. 35-37. 2.. Decima le-Lione, si veda infra p. 2.19.

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mettersi insieme per sopperire ai propri bisogni materiali, ovvero in virtù del fatto che nessuno di noi è autosufficiente, da un punto di vista corporeo, e che ciascuno ha bisogno degli altri. La seconda teoria è basata invece sull'idea di una prevaricazione originaria, che H. Arendt chiama qui volontà di potenza: solo lo Stato di diritto può appianare la guerra di tutti contro tutti che vige nello stato di natura. Nella visione delineata da Kant ali' interno della sua terza Critica -visione che emerge con particolare evidenza nel paragrafo 41 - ali' origine del vivere civile vi è al contrario una naturale socievolezza dell'uomo, che si esprime nel suo livello primordiale con il voler piacere agli altri e con la comunicazione inerente a ciò che piace ( «finché la civiltà, pervenuta al suo massimo grado, ha fatto di ciò quasi 1'essenziale delle sue tendenze raffinate, e non ha apprezzato se non quelle sensazioni le quali possono essere universalmente comunicate» )J. Il gusto e la comunicabilità del gusto sono elementi distintivi dell'essere umano in società, poiché nessuno che sia relegato su un'isola deserta penserebbe mai di adornare la propria capanna o la propria persona. Vi è dunque un tipo di interdipendenza che non riguarda i bisogni materiali; la Arendt ritornerà su questo aspetto nelle lezioni del 1970, commentando il paragrafo 41 e affermando che proprio qui si ha «una svolta radicale rispetto a tutte quelle teorie che sottolineano l'interdipendenza umana come dipendenza dal prossimo mediata dai bisogni e dai desideri. Kant pone l'accento sul fatto che almeno una delle nostre facoltà spirituali, la facoltà del giudizio, presuppone la presenza degli altri» 4 • Questa concezione, per altro, discorda con quanto l'autore stesso sembrava affermare nei suoi scritti cosiddetti politici, e in particolare nell'Inizio congetturale della storia degli uomini, dove si parla della socievolezza come del più alto scopo della destinazione umana, e questo lascerebbe intendere che essa sia qualcosa da perseguire in vista della civilizzazione, quando invece, come si afferma nella terza Critica, ne è all'origine 5. Tornando alle pagine del 1964, la Arendt puntualizza che non è sua intenzione negare l'importanza e perfino la centralità che i concetti di interesse, potere e dominio rivestono da un punto di vista politico, ma che occorre chiedersi «se questi siano concetti fondanti, o se non siano derivati dal vivere-insieme che, a sua volta, scaturisce da un'altra origine (compagnia e 3. I. Kant, Critica dei Giudizio, cit., p. 2.71. 4. H. Arendt, Teoria del giudizio politico, cit., p. 111.

s. Cfr. ibid.

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azione)» 6 • Quest'ultima affermazione ci riporta alle pagine di Vita activa, dove la Arendt teorizza più esplicitamente la sua visione della politica come poggiata sulla condizione di pluralità degli esseri umani e sul loro costitutivo essere,insieme. Lo spazio del!' apparenza ( in cui gli uomini si rendono visibili gli uni agli altri), come già si è detto, si forma ovunque gli uomini condivi, dano le modalità del discorso e dell'azione, e quindi anticipa e precede ogni costituzione formale della sfera pubblica e delle varie forme di governo in cui essa può essere organizzata7• La parola potere indica nella sua stessa etimo, logia qualcosa di "potenziale", qualcosa che non è mai posseduto una volta per tutte e in maniera univoca, ma che scaturisce dall'agire comune di un gruppo di persone, e non può sopravvivere in maniera autonoma al di fuori di quello stesso processo da cui è continuamente generato. Per questo il potere mantiene sempre la sua natura potenziale, "dinamica", e non è mai "fissato" nei termini di una risorsa misurabile e separata, alla quale poter attingere in, dividualmente8• Questo ci fa tornare, naturalmente, a quell'idea di una "concezione co, municativa del potere" con cui Habermas definisce la principale novità del pensiero politico arendtiano in rapporto alla tradizione precedente; novità che si esprime anche e soprattutto nella distinzione tra i concetti di potere e di forza. Come scrive H. Arendt in Vita activa: «Mentre la forza [strenght] è la qualità naturale di un individuo separatamente preso, il potere [power] scaturisce fra gli uomini quando agiscono assieme, e svani, sce appena si disperdono. Per queste peculiarità [...] il potere è straordinariamente indipendente da fattori materiali, sia in termini di numeri che di mezzi. [... ] Il solo fattore materiale indispensabile alla generazione di potere è il vivere insieme delle persone»9. Tali parole riecheggiano, in maniera molto contratta, in un piccolo appun, to manoscritto a margine delle lezioni del '64, relativamente al passaggio di cui si è appena parlato: «Power: I always owe to others, strenght to myself [Nel potere sono sempre debitore verso gli altri. Nella forza sono debitore verso me stesso]». La formula, benché molto sintetica, permette di riallac,

6. Decima le-Lione, si veda infta p. 22.0. 7. Cfr. H. Arendr, Vita activa, cit., p. 146. 8. Cfr. ivi, p. 147. 9.Ibid.

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dare senza esitazione le considerazioni di queste pagine inedite con la concezione politica espressa in Vita activa: se la Critica del Giudizio è un'opera di filosofia politica, ad insaputa di tutti, compreso il suo stesso autore, è perché la politica stessa va ripensata nei suoi fondamenti; e i concetti di interesse, dominio, potere (quest'ultimo inteso nella sua accezione tradizionale), considerati solitamente centrali, sono invece concetti derivati, ai quali va anteposta una diversa origine. Il passaggio qui evidenziato è ripreso non a caso da R. Beiner nel saggio critico che accompagna le lezioni del 1970, da lui curate: l'autore fa qui alcuni brevi ma significativi cenni al testo del '64, che aveva evidentemente avuto modo di consultare. Si tratta dell'unico caso (per lo meno a quanto ci risulta) in cui la letteratura critica abbia dato spazio a questo materiale, che pure deve essere stato a lungo accessibile nella Biblioteca del Congresso di Washington nel suo formato cartaceo, prima della digitalizzazione. Beiner ne traspone, addirittura, un breve estratto, che merita di essere riportato: «La Critica del Giudizw rimane la sola tra i grandi scritti kantiani in cui il punto di partenza è il mondo assieme ai sensi e alle facoltà che rendono gli uomini, al plurale, capaci di abitarlo. Questa forse non è ancora filosofia politica ma è certamente la sua conditio sine qua non» 10•

Queste parole costituirebbero, effettivamente, il giusto approdo rispetto alla domanda iniziale: ciò che la Arendt trova nella Critica del Giudizio è l'affermazione dello stare insieme degli uomini in quanto uomini - ed è in questa specificazione che si gioca tutto - come condizione di possibilità e come origine della politica, prima ancora delle diverse forme organizzative in cui quest'ultima si stabilisce e si struttura. Le lezioni del 1964 sono, da questo punto di vista, un'importante possibilità di affondo in quella che era certamente una fase di elaborazione dell' ipotesi di lettura relativa a Kant da parte dell'autrice, ma anche, più in generale, di quella concezione originale del politico che contraddistingue il pensiero arendtiano, rendendolo tuttora un pensiero irriducibile alle facili classificazioni.

10. Sesta le-1:ione, si veda infra p. 193. Upassaggio è citato da R. Beiner a p. 184 del suo saggio, Ii giudizio in Hannah Arendt, in Teoria dei giudizio politico, cit.

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152.

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Nota sulla collocazione e sulla fruibilità del materiale d'archivio

Gli scritti originali di H. Arendt sono custoditi in gran parte nella sezione

Manuscript Division della Library ofCongress di Washington, dove l'autrice stessa cominciò a depositarli a partire dal 1965. Qui si trovano gli appunti personali in preparazione ai corsi universitari che l'autrice svolse in diverse città degli Stati Uniti, ma anche i dattiloscritti delle opere più famose, le corrispondenze private, e molto altro ancora. Il lascito, che si è arricchito nel tempo anche di contributi esterni, è così suddiviso: Family Papers (IS9SI975), Corrispondence (I93S-I97ti), AdolfEichmann File (I93S-I9tiS), Subject File (I949-I975), Speeches and Writings File (I923-I975), Clippings (I942-I975), Addition I (I9M-I977), Addition II (I906-I975) e Addition III (I945). L'archivio è stato poi trasferito in forma digitale in altri due centri di studio: l' Hannah Arendt Center istituito nel 2.000 presso la New Schoolfor Socia/ Research di New York, e l 'Hannah Arendt Centre collocato presso la Cari von Ossietzky Universitiit di Oldenburg, in Germania, 1999. Successivamente la raccolta è stata condivisa anche in rete, ed è ora interamente disponibile sul sito della Library oJ Congress, alla voce Digitai Collections, Hannah Arendt Papers (cui rinviamo per informazioni più dettagliate). Un secondo archivio "cartaceo" si trova in Europa, ed è il Deutsches Literatur Archiv di Marbach, in Germania: era i documenti depositati, anche in questo caso per volontà dell'autrice, troviamo i famosi carteggi con Kurt Blumenfeld, con KarlJaspers e con Martin Heidegger, e i quaderni di appunti pubblicati poi nel 2.002. nella raccoltaDenktagebuch I950-I973 ( in Italia col titolo Nel deserto delpensiero, Quaderni eDiari I950-I973, da Neri Pozza 2.007 ). Per un elenco del materiale disponibile alla consultazione in sede si veda il sito Deutsches Literatur Archiv Marbach, alla voce "Archiv" e poi "Index der Handschriften Bescande".

Nota sulla collocazione e sulla fruibilità del materiale d'archivio

161

Infine è imporrante segnalare la biblioteca personale di Hannah Arendt, costituita dai volumi che l'autrice possedeva nel suo ultimo appanamento a New York, e acquisita dal Bard College (Annandale-on-Hudson, frazione di New York), oggi sede dell 'Hannah Arendt Centerfar Politics and Humanities. Anche in questo caso, il materiale in catalogo è andato incontro ad un processo di digitalizzazione, non ancora del tutto completato, che rende fruibili on line le copie personali dell'autrice, relativamente alle pagine contraddistinte da marcature, annotazioni e altri segni a matita. I titoli più utili in questo senso sono stati collocati ed esposti nella sezione "Marginalia". L'indirizzo web è Blogs.bard.edu/arendtcollection.

Hannah Arendt La filosofia politica di Kant Lezioni all'Università di Chicago, 1964 Testo inedito, traduzione di Serena Suppa

Nota alla traduzione

Il testo qui presentato corrisponde ad appunti personali che l'autrice scrisse in preparazione alle sue lezioni sulla filosofia politica di Kant e che, dunque, non avevano alcuna destinazione editoriale. Il lavoro di traduzione ha dovu, to pertanto sopperire ad alcune "lacune" dovute al carattere intrinsecamente sintetico e provvisorio di tali appunti, assumendo talvolta il compito di una "ricostruzione" o anche di una "riorganizzazione" del testo. Le parole da me aggiunte sono esplicitamente segnalate da una particolare virgolettatura (del tipo: "La soluzione "), ma si tenga conto che vi è stato in generale uno sforzo teso a rendere quanto più possibile fluido e scorrevole qualcosa che di per sé avrebbe potuto risultare ostico tanto alla lettura quanto alla comprensione. Se talvolta mi sono concessa qualche mar, gine di intervento ciò è accaduto solo in favore del significato più plausibile del testo, e non a suo discapito. Nelle pagine del dattiloscritto vi sono in alcuni casi rimandi ad aggiunte posteriori, o anche indicazioni che spezzano il continuum del discorso segna, lando l'inserzione o l'anticipazione di brani che verrebbero dopo; in altre parole, il lavoro di traduzione ha comportato anche uno sforzo interpretativo in merito all'individuazione del corretto ordine che la Arendt avrebbe voluto dare al suo discorso, ordine che si nutre per l'appunto anche di correzioni, ripensamenti, note a margine. Nonostante quanto detto, non si è potuta sciogliere del tutto l'ambiguità o la mancanza di chiarezza di alcuni punti (come ad esempio il difficile affondo sui Prolegomeni di Kant). Si è preferito in ogni caso lasciare spazio al contenu, to, anche quando il suo significato non sia del tutto manifesto. Alcune note a margine o alcune indicazioni che risultano incompatibili con il contesto sono state riportate direttamente in nota, con una relativa ipotesi di spiegazione.

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Hannah Arendt, Li.filosofia politica di Kant

Sono stati omessi i numeri di pagina che la Arendt indica, relativi a copie personali delle opere citate, delle quali non vi è possibilità di riscontro. A questo proposito occorre specificare che nonostante il Bard College, che custodisce la biblioteca personale della Arendt, abbia reso disponibile alla consultazione on line la Critica del Giudizio sia nell'edizione inglese sia in quella tedesca (e su entrambe sono ben visibili le annotazioni dell'autrice), il numero di pagina che frequentemente la Arendt richiama nella sua dissenazione, non trova corrispondenza in nessuna delle due edizioni. Da che si desume che per le sue lezioni l'autrice abbia utilizzato un'altra edizione ancora. Nel testo originale alcuni termini chiave del discorso arendtiano (come bello, piacevole, buono, sublime, natura, storia, ragione, intelletto, giudizio, piacere, dispiacere) ricorrono a volte con 1' iniziale maiuscola e altre volte minuscola: si è scelto di non forzare il testo verso un obbligo di uniformità, e di rispettare le intenzioni dell'autrice assecondando, per quanto possibile, il senso e il contesto del suo discorso. Lì dove, ad esempio, la parola "piacevole" è usata in un'accezione più ampia e non esplicitamente riferita all 'Angenehm kantiano, si è preferito lasciarla in minuscolo. Rimane però lecito pensare che molte di queste discordanze siano per lo più casuali e non volute, come dimostra il fatto che ricorrano spesso anche all'interno di una stessa pagina o di uno stesso periodo (dove si suppone che ad un termine corrisponda un'unica accezione). La traduzione delle frasi citate dalla Arendt - relativamente alla Critica del Giudizio ma anche ad altre opere - è stata condotta direttamente sull'inglese, ma ho voluto riportare in nota anche la traduzione del brano in edizione italiana, accompagnata in alcuni casi dall'originale tedesco. Il testo originale è custodito presso la Biblioteca del Congresso di Washington, Manuscript Division, e consultabile all'indirizzo loc.gov/ collections/hannah-arendt-papers, nella sezione Subject Files I949-I975: Courses, Universityof Chicago. Kant's Po/iticalPhilosophy, seminar, 1964 (codice per 1' accesso diretto: http://hdl.loc.gov/loc.mss/ msoo1004.mssz 1056.01002).

Kant, Filosofia Politica

Chicago, Aumnno 1964

6 ottobre 1964 [Prima lezione]

Kant non ha mai scritto una fùosofia politica, al contrario di Platone, Aristotele, Hobbes o Spinoza. Ad eccezione di Hobbes, la politica non costimiva del resto un interesse centrale per questi filosofi. Pascal ne parla come di un insieme di regole per un ospedale di matti, qualcosa con cui divertirsi'. Oggi tali scritti hanno riguadagnato terreno, anche solo rispetto a qualche decennio fa, quando si preferiva il mito della caverna all'intera Repubblica, o la Metafisica e il De anima alla Politica e alla Retorica. Caratteristica comune a tutti (in misura minore per Aristotele) è una certa diffidenza verso la vita politica. Questa diffidenza, o perfino ostilità, ha due radici: la minaccia effettiva che la moltitudine costituisce per lo stile di vita del filosofo (Socrate); il disprezzo per la moltitudine che troviamo già in Parmenide e in Eraclito, sebbene non si tratti ancora di "paura" verso i molti. Così anche in assenza di un vero e proprio pericolo, due stili di vita - il politico e il filosofico - che sono in conflitto fra loro. Da un punto di vista teoretico abbiamo: l'uno contro i molti; la filosofia contro il senso comune ("Il senso comune guarda le cose a testa in giùn, Hegel, aneddoto su Talete)~, e dunque il filosofo contro l'uomo comune. Per certi aspetti, Kant è sulla stessa linea: i suoi scritti politici in senso stretto non possono certamente essere considerati fra i più importanti. Per la pace perpetua (1795), Idea di una storia universale da un punto di vista cosmopolitico (1784), Il conflitto delle facoltà (1798), La.fine di tutte lecose (1794), Inizio di tutte le cose (1786) 3, sono incentrati sui concetti di storia,di guerra e di Costituzione. L'osservazione di Pascal è per certi versi significativa. Schopenhauer scrisse a proposito della Dottrina del Diritto (Prima parte della Meta.fisica dei costumi): «sembra che essa non sia l'opera di questo grande uomo, ma il prodotto di un comune mortale (gewohnlichen Erdensohnes) » (Borries) 4 • Di certo non si può dire che tali scritti costituiscano una quarta critica. Ma soprattutto:

a) le tre domande kantiane - Cosa posso conoscere? Cosa devo fare? Cosa mi è lecito sperare? - non contengono alcuna questione politica. Anche il "Cosa devo fare?", infatti, è indipendente dall'agire con gli altri: si riferisce all'uomo nel suo isolamento, dunque all'uomo inteso come essere filosofico. Tutti gli uomini sono "esseri filosofici", ma la questione dell'azione non viene posta politicamente. Il criterio è infatti l'antico criterio del filosofo: "è meglio per me che io sia in conflitto con il mondo intero piuttosto che, essendo uno, che io sia in conflitto con me

2. L'aneddoto riguardante Talete che cade nel pozzo compare nelle Lezioni sulla St()Yia della filosofia di Hegel. nella seconda edizione curata da Karl Ludwig Michelet (1840-1844);

trad it. di E. Codignola e G. Sanna, La nuova Italia, Firenze 1981. La citazione arendtiana risulterebbe riconducibile a questo punto: «La gente ride di queste cose, e ha il vantaggio che i fllosofi non possono ribattere nulla; ma non capisce che i fllosofi ridono di essa, che certamente non può cadere in un fosso, giacché vi si trova in perpetuo, incapace com'è di guardare verso l'alto» (voi. 1, p. 192). 3. Il riferimento è allo scritto Inizio congetturale della storia degli UQmini, 1786. 4. La citazione di A. Schopenhauer è contenuta nella sua Critica della filosofia kantiana, appendice al quarto libro di // mondo come volonta e rappresentazione (si veda l'opera a cura di S. Giamena, Bompiani, Milano 2006, pp. 1004-1005). K. Borries riprende tale riferimento nel suo Kant als Politiker, Zur Staats- und Gesel/schafts/ehre des Kritizjsmus. Scientia Verlag Aalem, Hamburg 1973 (neudruck der ausgabe Leipzig 1928), pp. 186-187.

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stesso "s. L'imperativo categorico è in ultima istanza basato sul comando "non devi contraddire te stesso", o "non devi agire in modo da oltraggiare te stesso". Presuppone, dunque, la relazione tra me e me stesso, che equivale al pensiero. b) Inoltre, in modo più sottile, Kant condivide la sfiducia dei filosofi verso la vita. Ricorderete Platone, quando diceva che solo il suo corpo abitava ancora nella polis, e che siamo tutti un po' innamorati della morte, o ancora Socrate nell'Apologia: «Cosa può essere più piacevole di una lunga notte senza sogni?» 6• La vita è percepita come un fardello, e senza un legame con il fatto che vivere significhi vivere in mezzo agli altri. Essere vivi vuol dire infani far parte di una comunità di uomini: inter homines esse I desinere inter homines esse. La morte è il simbolo della separazione dagli altri uomini, dell'essere da soli. Kant era socievole, amava la società e la compagnia degli altri, ma anch'egli scrisse a proposito della vita: , le sue reazioni sono nella Critica del Giudizio (1790), nota al§ 65; ne La Religione entro i limiti della sola ragione (1793), nota al§ 4 del Quarto Capitolo, Parte seconda ' 3; ne Il Conflitto delle Facoltà (1798), dove egli considera la Rivoluzione Francese come la prova dell'innata disposizione morale dell'uomo. Secondo Kant l'uomo in quanto è vivo può essere considerato come appartenente a 3 regni: il regno animale, dove il senso è privato; il regno umano, a cui egli appartiene in quanto è dotato di giudizio, e di un senso generale e pubblico o comune; il regno degli esseri intelligibili a cui appartiene in quanto possiede la ragione. Tutti e tre questi regni sono legati alla vita. Il piacere e il dispiacere sono considerati come ciò che promuove o inibisce la vita. Nella misura in cui sono cosciente di essere vivo, e posso, diversamente dagli animali, riflettere sul mio essere vivo, ho bisogno infatti del piacere e del dispiacere come delle mie due alternative di giudizio: il piacere è ciò che promuove la mia sensazione di essere vivo' 4 • Se anche avessi la facoltà della originale è consultabile in Kant 's gesammelte Schriften: Bemerkungen zu den Beobarhtungen ii ber das Gefohl des Schonen und Erhabenen, Akademie Ausgabe XX (Hlllldschriftlicher Nachlass), p. 176. D'ora in avanti per indicare gli scritti kantiani pubblicati nell'edizione dcli' Ac-

cademia useremo la sigla AA. 12. «Se la giustizia scompare, non ha più alcun valore che vivano uomini sulla terra». I. Kant, La metafisica dei costumi (parte II, sezione I, nota generale), trad it. di G. Vidari, Laterza, Roma-Bari 2018, p. 165. 13. Il riferimento è alla nota contenuta nel§ 4 del quarto capitolo; si veda I. Kant,1.a religione entro i limiti della sola ragione, trad. it. di A. Poggi, Latera, Roma-Bari 2010, pp. 209-210. 14. Un possibile riscontro di questa frase è nel § 23 della Critica del Giudizio, cit., p. 159:

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Hannah Arendt, LafiUJsofia politica di Kant

conoscenza, ma non avessi la facoltà del Piacere e del Dispiacere, non sarei in grado di muovermi. Guardando le tre Critiche da questo punto di vista : Critica della ragion pura: l'uomo in quanto creatura finita: la vita gli è data così come gli è dato il mondo. Non la mortalità, ma la dipendenza dai sensi : egli è contrapponibile a Dio in quanto Intuitus Originarius, ovvero l'indeterminato, l'assoluta libertà. Critica della ragion pratica: l'uomo in quanto creatura intelligibile, senza sensibilità; assimilabile agli altri esseri razionali. Critica del Giudizio: l'uomo in quanto vivente e umano, assimilabile al regno animale•s. 8 ottobre 1964 [Seconda lezione]

Ricapitolando: Kant non ha mai scritto una filosofia politica. Motivazione della Critica del Giudizio: fra le tre domande di Kant la domanda "Come giudico?" è assente, e la domanda "cosa devo fa~ re?" non ha un valore politico, non semplicemente perché sia una domanda morale, ma perché riguarda l'uomo nella sua singolarità, e prevede dunque questa risposta: il solo giudice di me stesso sono io. È la coscienza a definirsi come giudice. Inoltre, le categorie della libertà non sono applicabili al mondo delle ap~ parenze: qualsiasi bene io compia non appare mai in quanto tale. Esempio del commerciante che voglia essere onesto: le sue intenzioni, la sua volontà, buone o cattive che siano, non appaiono 16 •

« (...] Il bello implica direttamente un sentimento di agevolazione e intensificazione della vi-

ta». 15. Quest'ultima frase può sembrare contraddittoria perché l'uomo considerato nella sua specificità "umana" non dovrebbe essere assimilabile al mondo animale, ma dovrebbe anzi distinguersi da esso; ciò si spiega però alla luce del fatto che, secondo la Arendt, nella Critica del Giudizio il recupero di questa specificità avviene proprio attraverso un distacco dalla visione esclusivamente razionale dell'uomo, che Kant propone soprattutto nella sua filosofia morale, e un ritorno alla considerazione dell'"animale ragionevole" nella sua interezza (si veda il § s della Critica del Giudhio). 16. È questo un punto fondamentale, che percorre e sostiene tutta l'ipotesi interpretativa arendtiana: la Critica dei Giudizio ha a che fare col mondo del "visibile", ed è proprio in questo spazio scenico definito dalla visibilità che si giocano le vicende umane e si circoscrive l'ambito del politico. La filosofia morale kantiana, che pure potrebbe affermare un legame con il politico perché stabilisce la dignità dell'uomo e nello stesso tempo del cittadino, rimane però vincolata all'ambito dell'intenzionalità pura e del dovere autoreferenziale, i

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Nello scritto Sul detto comune: questo puòesseregi.usto in teoria, ma non vale per la prassi, Kant distingue ere tipologie di uomo "pratico", o uomo d'azione, contro l'"uomo di scuola": il privato o uomo d'affari, la morale; l'uomo di Stato, la politica; l'uomo cosmopolitico, il bene del genere umano'7. Il giudizio è nel mezzo tra teoria e pratica, ma come un atto indipendente. Stupidità ' 8 : esempio del medico che non è in grado di giudicare perché più dedico allo studio che non ali' applicazione. Dal saggio Sul detto comune: questo può essere gi.usto in teoria, ma non vale per la prassi, Introduzione: < «Che tra la teoria e la prassi sia richiesto anche un termine medio di congiunzione e di passaggio dall'una all'altra, per quanto perfetta sia la teoria, è evidente: infatti al concetto intellettuale che contiene la regola deve aggiungersi un atto della facoltà del giudizio grazie a cui il pratico distingua se qualcosa appartenga al caso della regola o no; e dato che alla facolcà del giudizio non possono essere sempre date ulteriori regole secondo le quali debba giudicare (poiché ciò andrebbe all'infinito), possono darsi teorici che nella loro vita non riescono mai a diventare pratici, perché sono scarsi quanto a facoltà di giudicare: ad esempio medici o giureconsulti che hanno compiuto bene i loro scudi, ma che quando si trovano a dare un certo parere non sanno come comportarsi [... ] » >'9. Abbiamo inoltre detto che Kant fu svegliato dal suo sonno dogmatico grazie a Hume, dal suo sonno morale grazie a Rousseau e dal suo sonno politico grazie alla Rivoluzione Francese. Quanto lui fosse preparato alla Rivoluzione

quali, oltre ad escludere un rappono con l'esterno, non sono di fatto visibili agli occhi. Questo particolare, di per sé quasi banale, assume un peso decisivo in una concezione politica come quella arendtiana che, da Vita activa in poi, definisce lo spazio politico come lo spazio dell'apparire. 17. Cfr. I. Kant, Su/ detto comune: questo può essere giusto in teoria, ma non vale per la prassi, in Scritti di storia, politica e diritto, a cura di F. Gonnelli, LaterLa, Roma-Bari 2.009, p. 12.5 {testo originale Ober den Gemt:inspruch: Das mag in der Theorie richtig st:in, taugt aber nichtfar dk Praxis,AA VIII [Wt:lk],p. 2.77). 18. Nella Critica del/a ragion pura Kant definisce "stupidità" la mancanza della facoltà di giudizio: «un difetto, quest'ultimo, di fronte al quale non c'è rimedio che tenga». Nota al paragrafo Del/a facoltà trascendentale di giudizio in genera/e (Critica del/a ragion pura, a cura di C. Esposito, Bompiani, Milano 2.014, p. 2.97 ). 19. Si presume che il passo indicato sia questo (I. Kant, Su/ detto comune: questo può essere giusto in teoria, ma non va/e per /a prassi, cit., p. 123).

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Hannah Arendt,Lafilosofia politùadi Kant

lo si nota già nelle interessantiAnnotazioni alle Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime2°, a proposito dell'uguaglianza e della giustizia. Cosa ancora più importante, perdere la libertà o non averla sarebbe peggio che morire, perché significherebbe perdere la qualità di essere umani 21 • Gli esempi di ciò sono estremamente vividi: il padrone ti direbbe quando muoverti, quando dormire, quando svegliarti, etc.n. Inoltre, contro i grandi personaggi, nessun uomo è grande, se non per il fatto di avere in sé la dignità umana: «Che i grandi uomini splendano solo in lontananza, che il principe perda tanto agli occhi del suo cameriere, deriva dal fatto che nessun uomo è grande» 2 J. Robespierre: «la grandeur de l'homme» contro la piccolezza dei grandi 2 4 • Un'ulteriore nota a proposito delle Annotazioni: abbiamo parlato della limitatezza del tipo di vita condotto da Kant: qui vediamo che questa economia di vita prende il posto dell'esperienza del mondo: leggere diari di viaggio piuttosto che viaggiare1s.

20. Il testo risale al 1766. 21. «Un uomo dipendente non è più un essere umano: egli ha perso questo diritto e infine diventa l'accessorio di un altro». I. Kltnt, Annotazioni alle Osservazioni su/sentimento del bello e del sublime, cit., p. 118. 22. «Se oggi fa molto freddo posso decidere, a piacere, di uscire o di restare a casa: unicamente la volontà di un altro non stabilisce cosa sia per me, < bensì per lui> gradevole. Quando voglio dormire, lui mi sveglia; quando voglio riposare o giocare, mi costringe a lavorare». lvi, p.116. 23. lvi, p. 47. 24. «Nous voulons substituer dans no tre pays la morale à I' égoi'sme, la probité à I' honneur, (... ] la grandeur de I 'homme à la petitesse des grands, un peuple magnanime, puissant, heureux, à un peuple aimable, frivole et misérable, c' est-à-dire toutes !es vertus et tous les miracles de la république à tous !es vices età tous les ridicules de la monarchie», M. Robespierre, Sur /es

principes de morale politique qui doivent guider la convention nationa/e dans /'administration intérieure de la République. Séance du 5/évrier 1794 (17 pluviòse an II de la république française ). Il testo originale è in Oeuvres deMaximilien Robespierre, Société des études robespierristes, Parigi 1961-1967, a cura di Mare Bouloiseau e altri, voi. X, pp. 3so-366; il testo italiano è in M. Robespierre, La rivoluzione giacobina, a cura di Umberto Cerroni, Editori Riuniti, Roma 1984, pp. 1s8-181. 2s. Non sono individuabili dei punti dell'opera che permettano di offrire un riscontro preciso dell'affermazione della Arendt. È presumibile che l'autrice dica questo perché già nelle Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime Kant aveva condotto un'analisi dei diversi temperamenti dell'uomo, della differenza tra i due sessi, dei caratteri nazionali dei popoli, senza però essersi mai realmente avventurato fuori da Konigsberg. Anche nell'ultima delle sue lezioni la Arendt afferma che pur avendo molto a cuore il tema della libertà,

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13 ottobre 1964 [Terza lezione]

Aggiunta alla "stupidità"• 6: il giudizio è un atto indipendente, che coinvolge una facoltà diversa sia dall'intelletto sia dalla ragione. Critica della ragion

pura,BI72: 17• Per applicare le regole si renderebbero necessarie altre regole, in un proces~ so ad infinitum. In altre parole, per compiere il salto dal generale al particola~ re, occorre una facoltà specifica. È di questa facoltà che ci stiamo occupando qui: di «un talento parti~ colare», il «cosiddetto intuito originario», un «dono naturale» che deve essere «acuito per mezzo degli esempi»• 8• Vi è la difficoltà aggiuntiva che in

Kant mancava di esperienza a riguardo. Un'eco delle parole qui espresse dalla Arendt si ritrova nella Prefazione ali' Antropologia dal punto di vista pragmatico, dove lo stesso Kant afferma: «Fra i mezzi idonei ad ampliare l'ambito dell'antropologia c'è il viaggiare, o almeno la lettura dei resoconti di viaggio» (I. Kant, Antropologia dal punto di vista pragmatico, introduzione e note di M. Foucault, trad. it. di M. Bertani e G. Garelli, Einaudi, Torino 2.010, p. 100). L'autrice sembra dunque affermare che Kant avrebbe preferito la seconda via alla prima. 2.6. Si veda la nota n. 18 al testo di H. Arendt in questo volume. 2.7. I. Kant, Critica della ragion pura, cit., B 171-172., p. 2.95. li passo non è direttamente riportato dall'autrice ma è identificabile attraverso l'indicazione "B 172." come anche attraverso il prosieguo del discorso. 2.8. Le espressioni tra virgolette sono relative alla Critica della ragion pura, B 172.-17 4 (besonders Talmt; so gennanten Mutterwitz; Naturgabe ); la traduzione di tali termini è qui condotta sull'inglese della Arendt e diverge leggermente dalla traduzione dell'edizione italiana dell'opera.

Hannah Arendt, Lafilosofia politica di Jvmt

alcuni giudizi, come quelli di gusto, è il giudizio stesso a costituire la pietra di paragone per la correttezza delle regole (B 36 nota) ~9• Distinzioni preliminari:

1) il giudizio come applicazione di regole nel ragionamento teoretico: parto da una proposizione generale per discendere verso il particolare; non però come accade nel ragionamento logico del tipo "Tutti gli uomini sono mortali. Socrate è un uomo, dunque Socrate è mortale". Anche in quest'ultimo caso, infatti, si arriva al particolare, ma per mezzo di una deduzione, non per mezzo del giudizi0 30• Il giudizio è un dono dell'individuo. 2.) Il giudizio morale: non è realmente un giudizio, perché è la Ragion Pratica qui a imporre le regole cui obbedire. La capacità di obbedire è propria di ogni uomo in quanto uomo, ma non in quanto individuo: l'idea del dovere coincide con la voce della ragione. « Ogni uomo trema quando sente questa voce austera» J•. È una capacità insita nel genere umano. Che si possa adempiere o meno a quest' obbligo non è in questione, perché il dovere implica anche il potere: ultra posse nerno obligatur3~. Concezione anti-cristiana: non serve alcuna grazia33 • [Nota a margine: La Ragion Pratica è l'unico luogo in cui i sensi non gio29. In riferimento al tentativo di Baumganen di ricondurre la valutazione critica del bello sotto dei principi razionali, e di innalzare le sue regole a scienza, Kant scrive: «Ma si tratta di uno sforLo inutile: le regole e i criteri suddetti, infatti, considerati nelle loro fonti principali, sono semplicemente empirici, e perciò non potranno mai servire come determinate leggi apriori, sulle quali dovrebbe regolarsi il nostro giudizio di gusto, giacché è piuttosto quest'ultimo che costituisce la vera pietra di paragone della loro giustezza». I. Kant, Critica della ragion pura, cit., B 36, p. 115. 30. L'esempio di questo sillogismo è riponato anche ne La vita della mente (di H. Arendt, trad. it. di G. Zanetti, Il Mulino, Bologna 2009, p. 310): «[ ...] I giudizi, insomma, non hanno nulla in comune con le operazioni logiche - con enunciati del tipo "Tutti gli uomini sono monali; Socrate è un uomo; quindi Socrate è monale" ». 31. « [... ] la cui voce fa tremare anche il malfattore più audace, e l'obbliga a nascondersi al suo cospetto». I. Kant, Critica della ragion pratica, trad. it. di F. Capra, Latera, Roma-Bari 2017 {capitolo terw), p. 175. 32. Principio del diritto romano, riportato da Kant nello scritto Per la pace perpetua ( Un progettofilosofico di Immanuel Kant, in Scritti di storia, politica e diritto, cit., p. 188), e implicito anche altrove: «Infatti, se la legge comanda che noi dobbiamo essere ora uomini migliori, inevitabilmente, ne consegue che noi siamo necessariamente nella condizione di potere anche esserlo». I. Kant, La religione entro i limiti della sola ragione, cit., p. 54. 33. «[ ... ] L'invocazione degli effetti della grazia è una delle aberrazioni suddette e non

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cano alcun ruolo. La fìlosofìa di Kant è stata considerata come una legittimazione dei sensi, e ciò è vero, ma ad eccezione della fìlosofìa morale. Qui non ci sono apparenze, e dunque non ci sono particolari. L'individuazione della regola (o della legge) e la sua applicazione sono un unico e medesimo atto].

3) il giudizio di gusto come prova delle regole34 : il giudizio è di nuovo ciò che lega il particolare e il generale, ma partendo dal particolare. Se per "pratico" intendiamo il "morale", non è più il giudizio il legame tra teoria e pratica. Il legame tra ragione teoretica e ragion pratica è dato dalla libertà, che equivale alla spontaneità. Ciò mi porta alla mia seconda postilla: la dignità. La dignità dell'uomo per Kant come per Robespierre risiede nella virtù: «la felicità contiene tutto ciò che ci è procurato dalla natura (e non più di questo); la virtù, invece, contiene ciò che nessuno se non l'uomo può dare o prendere a sé stesso» 35. Dignità: autonomia della volontà, indipendenza delle proprie doti, inclusi i talenti. La dignità e la libertà sono due lati della stessa medaglia: la mia dignità consiste nella mia capacità di incominciare qualcosa senza alcuna influenza esterna. Kant fìlosofo della Rivoluzione francese ( Marx: «teoria tedesca sulla rivoluzione francese» ) 36• Si può dire che ciò sia vero per due aspetti: in primo luogo l'imperativo categorico non è altro che il concetto teoreticamente puro della Volontà generale di Rousseau37; in secondo luogo, e in modo ancora più importante, può essere accolta nelle massime della ragione, se la ragione resta nei suoi limiti». I. Kant, La religione entro i limiti della sola ragione, cit., (Annotazione generale al primo capitolo), p. 57. 34. Riferimento ancora alla nota contenuta nella Critica della ragion pura, B 36. 35. I. Kant, Sul detto comune: questo può essere giusto in teoria, ma non vale per la prassi, cit., p. 131. 36. «Se quindi a ragione si deve considerare la filosofia di Kant come la teoria tedesca della Rivoluzione francese [... ]». K. Marx, Il manifesto filosofoo della scuola storica del diritto, in Scritti politicigiovanili, a cura di L. Firpo, Einaudi, Torino 1950, p. 161. 37. La stessa idea è riportata anche in un testo inedito del •55, Politica! Theory ofKant(ne'l).i Hannah Arendt Papers, Subject File I949-I975), p. 032.2.99: «Kant scopri che l'unanimità che Rousseau cercava è inerente alla qualità reale della volontà stessa: se tutti seguissero il principio inerente alla volizione, arriverebbero tutti allo stesso risultato. Ciò significa che le leggi non sono ricevute ma sono costantemente prodotte da'l).i uomini come esseri ragionevoli; esse sono dentro di noi e non è necessaria alcuna autorità esterna (Kant discovered thai the unanimity

tuhich Rousseau demanded is inherent in the very qua/ity ofthe wi/1itself: ifonlypeople willfallow

Hannah Arendt, Lafilosofia politica di Kant

se un evento di tale immensa ponata "spirituale" come la Rivoluzione francese è potuto accadere, allora la politica ha nn significato ben più ampio che non quello di assicurare le semplici condizioni "materiali" per la realizzazione delle nobili aspirazioni. Vi ho riponato diverse citazioni sulla Rivoluzione francese, tratte soprattutto dal Conflitto delle Faco/tà3 8, che descrivono questo evento del nostro tempo come nna prova dell'attitudine morale nel genere umano. La parola decisiva, una parola nuova, è la paro, la "spettatore": solo nell'opinione disinteressata si esprime questa tendenza moral& 9 , e non nell'azione, che può essere di per sé criminosa o comunque ispirata ad interessi personali. Questo contraddice un'osservazione di molto anteriore (1774), assumere il punto di vista del cittadino del mondo e non quello dello spettatore del mondo. Il pnnto di vista dello spettatore è il punto di vista dello storico. Nel saggio Idea per una storia universale dal punto di vista cosmopolitico (1784) si parla per la prima volta di storia, manna storia della Natura, nella quale cioè la possibilità del progresso non implica nn cambiamento di men, talità, come richiesto nella morale, che solo il pensiero può generare. In apparenza abbiamo qui molti individui, ma i molti si riducono a Uno: il genere umano equivale ad nn unico Uomo. La natura, regno della necessità, the principle inherent in vo/ition, ali u,ill alu,ays arrive at the same result. This implies Lau,s are notgiven but constantly produced by men as reasonable; they are u,ithin us and no authority {is) even necessary] ». 38. ll brano cui la Arendt fa riferimento (Riproposizione della domanda: se i/genere umano sia in costante progresso verso il meglio) corrisponde effettivamente alla seconda sezione dell •opera Il conflitto dellefacoltà (1798 ), ma compare anche come saggio autonomo ali• interno del corpus di scritti politici kantiani. La Arendt ne parla anche nelle lezioni del 1970, riportandone per esteso alcuni estratti (di-. Teoria del giudizio politico, cit., pp. 69-70). 39. «È soltanto I• atteggiamento di pensiero degli spettatori [Es ist blof die Denhmg.fart der Zw-chauer] che, in questo gioco di grandi trasformazioni, si scopre pubblicamente e rende manifesta una tanto universale e tuttavia disinteressata partecipazione di coloro che giocano da una parte contro quelli che giocano dall'altra, pur col pericolo che questo parteggiare possa essere per loro molto svantaggioso, ma così dimostra un carattere del genere umano nella sua totalità (a causa dell'universalità) e insieme un suo carattere morale (a causa del disinteresse), almeno nella disposizione, che non soltanto lascia sperare verso il meglio, ma è già come un tale progresso, sin dove ne giunga per ora la capacità». I. Kant, Riproposizione della domanda: se ilgenere umano sia in costante progresso verso il meglio, in Scritti di storia, politica e diritto, cit., pp. 2.2.8-2.9.

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usa determinate strategie attraverso cui far avanzare il genere umano verso il meglio, nonostante la natura di ciascun uomo rimanga invariata. L' insocievole socievolezza4° della natura umana con i suoi conseguenti conflitti porta al progresso; ma ciò si applica solo al genere umano nella sua interezza. Se ci domandiamo dunque se il genere umano abbia uno scopo, un obietti, vo, la risposta è sì, ma ciò non vale per l'uomo, né per gli uomini. La domanda "Per quale fine esiste l'uomo?" o "Per quale fine era necessario che esistessero gli uomini (al plurale)?" non può essere posta nella filosofia kantiana, perché ogni uomo è già un fine in sé (§ 83 e 84 della Critica del Giudizio ) 4'. Se il genere umano ha dunque un fine, la sua legge dinamica è il Progresso, in quanto opposto al regresso - il quale è impossibile perché ad un certo punto giungerebbe alla sua cessazione - e opposto alla stagnazione -1 'eterno protrarsi di alterne vicende che degenererebbe in una farsa. Ma l'idea di Progresso non è soddisfacente (citazione da Idea per una storia universale dal punto di vista cosmopolitico ) 41 e soprattutto, essa implica che gli uomini siano strumenti in vista di uno scopo, in contraddizione dunque con la filosofia morale (prima contraddizione). 15 ottobre 1964 [Quarta lezione]

La prima contraddizione riguarda il rapporto tra la filosofia morale di Kant e la sua filosofia della storia43 . La contraddizione si rende evidente quando Kant osserva: «Ci si può aspettare un miglioramento morale solo sotto una

40. « Die ungesellige Geselligkeit», celebre espressione utilizzata da Kant nel saggio Idea

per una storia universale da/ punto di vista cosmopolitico, in SlTitti di storia, politica e diritto, cit.,p. 33. 41. «Ora, dell'uomo {e così di ogni essere ragionevole del mondo), in quanto essere morale, non si può domandare ancora per qual fine (que,n in finem) esiste. La sua esistenza ha in sé stessa lo scopo supremo, al quale, per quanto è in sua facoltà, egli può sottomettere l'intera natura[ ... ]». Critica de/ Giudizio, cit., § 84, pp. sss-ss7. 42.. Non ci sono indicazioni più chiare che permettano di identificare con certezza la citazione, ma potrebbe trattarsi, visto il riferimento ad un progresso "insoddisfacente", della stessa citazione che la Arendt riporta ne La vita della mente (cit., p. 478), tratta dal saggio Idea per una storia universale da/punto di vista cosmopolitico (cit., p. 32.) « Resta sempre sconcertante, in ciò, che le generazioni precedenti sembrano condurre i loro faticosi affari soltanto a vantaggio delle successive [...] e che però solo le più tarde debbano avere la fortuna di abitare nell'edificio al quale la lunga serie dei loro antenati (e certo senza averne l'intenzione) ha lavorato (... ] ». 43. È questa una tesi su cui la Arendt torna anche nel corso successivo sulla filosofia politica di Kant (dr. 1Mia de/ giudizio politico, cit., p. 87 ).

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buona costituzione » 44 (Per la pace perpetua) e tuttavia ribadisce: «questa può essere realizzata anche da un popolo di diavoli» 4s. Addenda: Conoscete forse il detto di Ranke4 6:Jede epoche ist unmittelbar zu Gott47 - ogni epoca è ugualmente vicina a Dio. Considerata solitamente come una forma di relativismo, di fatto anche una protesta contro l'idea di Progresso. Importante: perfino Kant può parlare della sfera attuale delle cose umane solo in termini di "storia", ed elabora questo concetto a partire dalla Rivoluzione francese. La domanda è dunque cosa ci sia nella natura di questa sfera - comprendente le gesta e le azioni degli uomini - che porta alle nozioni di: a) Storia in luogo delle storie (si pensi alle !storie Fiorentine di Machiavelli, sempre menzionate al singolare come "la" Storia di Firenze48), e quindi Genere umano; b) astuzia della Natura, astuzia della Ragione, mano invisibile, finalità superiori che si realizzano alle spalle degli attori, mentre questi sono impegnati a perseguire soltanto le loro limitate intenzioni (si pensi a Vico , etc.). È nella natura dell'azione umana il facto che essa possa svolgersi solo con l'aiuto di altri che hanno a loro voltala capacità di agire. Il campo dell'Azione nel quale non siamo mai soli. I nostri scopi e le nostre inten-

44. «[ ...] Non da questa (dalla moralità dei cittadini] ci si deve aspettare la buona costituzione dello Stato ma, viceversa, dalla costituzione la buona educazione morale dei cittadini». I. Kant, Per la pace perpetua, cit., p. 185. 4 s. « Il problema del!' instaurazione dello Stato, per quanto ciò possa suonare aspro, è risolvibile anche da un popolo di diavoli (purché abbiano intelletto)». lvi, p. 18446. Leopold von Ranke, storico tedesco (Wiehe, 179s - Berlino, 1886). Riconosciuto come maestro della storiografia tedesca, assunse posizione contro la tendeni.a della filosofia della storia a costringere gli eventi entro schemi interpretativi astratti e totalizi.anti, e si oppose in particolare alla filosofia della storia di Hegel. 47. « Jede Epoche ist unmittelbar zu Gott, und ihr W ert beruht gar nicht auf dem, was aus ihr hervorgeht, sondern in ihrer Existenz selbst, in ihrem eigenen Selbst». Ober die Epochen

der neueren Geschichte. Vortriige dem Kònige Maximilian II von Bayern im Herbst IS54 zu &rchtesgadm geha/Jen, von Leopold von Ranke, Verlag von Duncker & Humblot, Leipzig 1906 (Vortrage vom 2s September 1854, p. 17). In traduzione italiana: «ogni epoca deriva immediatamente da Dio, e il suo valore non risiede in ciò che vien fuori da essa, ma nella sua stessa esistenza, nella sua peculiarità». L. von Ranke, Le epoche della storia moderna, a cura di F. Pugliese Carratelli, trad. it. di G. Valera, Bibliopolis, Napoli 1984, (prima confereni.a), p. 10448. Si confronti con Teoria del giudizio politico, cit., p. 8s: «[ ...] le !storie fiorentine di Machiavelli, a voi note sotto il titolo fuorviante di Scoria di Firenze».

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zioni cadono in una rete di relazioni e l'esito non è mai conforme allo scopo iniziale. Inoltre, a causa della molteplicità , ogni atto dà inizio ad una storia, e il significato di tale storia o perfino il suo contenuto differisce da ciò che ciascuno poteva aver inteso realmente fare 49• La scoperta del XVIII secolo fu che la storia non è un azzardo ma che, se raccontata, ha un significato. A raccontare è lo spettatore: egli vede quel significato che l'attore non può vedere, perché di fatto ancora non c'è. Come nei racconti di fantasia, infatti, questo significato può essere pienamente visto e compreso solo quando la storia ha raggiunto una fine, almeno provvisoria [nota a margine: lo spettatore di cui parla Kant corrisponde al narratore]. In confronto a tale significato che si dispiega alla fine, gli atti in quanto tali risultano poco importanti. Abbiamo dunque il terribile paradosso per cui proprio nel campo in cui gli uomini agiscono essi sono al tempo stesso, in quanto attori, privati del sensos Lo scontro qui è tra il Significato e l'Intenzione. L'intenzione è all'inizio, il significato è alla fine. Se spostiamo l'attenzione sull'intenzione, conta l' ini~ zio; se la spostiamo invece sul significato, conta la fine. Per questo abbiamo, in linea generale, due diverse filosofie della storia: nel primo caso, la verità essenziale si trova nell'inizio - il principio, nel senso originario del termine. La verità è all'origine, filologia ed etimologia; movi~ mento legato alla genesi della Storia, Romanticismo: ci si volge al passato per trovare la verità, perché essa può essere solo dove le cose hanno inizio. Ciò è all'opposto della teleologia o del finalismo che troviamo in Kant e in Hegel < (secondo tipo di filosofia della storia)>. È questa un'esperienza comune an~ che all'ambito dell'azione: l'archè come una sorta di Dio. Il modo in cui si incomincia decide in un certo senso su ciò che si farà, ma non su come andrà a finire. La libertà è nell'inizio: una volta che si incomincia non si è più liberi, si è catturati nelle conseguenze. Guardando le caratteristiche dell'azione dal punto di vista della Storia, si 0•

49. È questa una prima risposta alle domande poste: è proprio la divaricazione tra gli intenti dell'attore e il risultato flnale della sua opera, o il suo significato, ad aver legittimato in alcuni pensatori l'idea di una Storia che "cammina» autonomamente alle spalle degli uomini, e che realizza i suoi obiettivi attraverso di essi. so. Le stesse osservazioni ricorrono nelle pagine di Vita activa dedicate all'Azione, e ai suoi paradossi. In particolare: «Non c'è campo[ ... ] dove l'uomo appaia meno libero che in quelle facoltà la cui vera essenza è la libertà», o ancora, «l'agente[ ... ] sembra mancare la realizzazione della sua libertà nel momento stesso in cui ne fa uso». H. Arendt, Vita activa. La condizione umana, trad. it. di S. Finzi, Bompiani, Milano 2.004, pp. 172.-173.

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avrà un movimento uniforme, ininterrotto, che sembra guidato o subito da un unico Uomo.Tale è appunto il genere umano, la personificazione del Processo stesso. In sintesi: se è la fine a contenere umo il significato allora il processo parte da premesse relativamente peggiori e procede verso il meglio: "ottimismo". L'accento, in questo caso, è posto sul futuro: la storia comincia con una caduta e termina con una redenzione. Se invece, come già detto, il significato è nell' inizio, abbiamo l'età dell'Oro, rispetto alla quale potrà solo andare peggio: non nel senso di un vero e proprio regresso, che è per Kant già l'opposto del progresso; piuttosto la fine coincide con l'età del ferro, e abbiamo il "pessimismo". Kant nella sua filosofia morale assume l'inizio: solo la volontà può essere buona, le intenzioni. Ma queste intenzioni non appaiono mai. Così, quando si tratta di giudicare il mondo delle apparenze, egli deve trovare un diverso insieme di concetti, e tali concetti sono in contraddizione con la sua filosofia morale5' (inutile dire che se Kant avesse adottato la filosofia della storia improntata sulla genesi con tutte le sue conseguenze, la prospettiva non sarebbe stata migliore; avremmo sempre potuto chiederci infatti perché ci spetti di vivere adesso piuttosto che nell'età dell'Oro). La contraddizione emerge se confrontiamo la posizione di Kant su ciò che si deve fare con quello che è l'interesse o il corso del mondo. L'imperativo categorico, infatti, non tiene conto di quest'ultimo, e si basa soltanto sull' accordo di me con me stesso in quanto essere razionale (se rubo, continuo tuttavia a volere che la legge protegga la proprietà, e dunque sono in disaccordo con me stesso•). Tuttavia possiamo dire che perfino qui un interesse per il mondo e per le sue istituzioni rimanga presente. Consideriamo questa frase: «ciascuno può fare una falsa promessa qualora si trovi in una difficoltà dalla quale non riesca a uscire diversamente» s•. Posso desiderare di 51. Attraverso i concetti di "fine" e "inizio" la Arendt ripensa i due ambiti principali della filosofia kantiana, che vengono così ad opporsi: da un lato la filosofia della storia, incentrata sulla "fine", ovvero sull'ipotesi di un epilogo nel quale tutto sia destinato a convergere e a compiersi, dall'altro lato la filosofia morale, basata invece sull'"inizio", ovvero sulle "intenzioni". Il mondo delle intenzioni però non è visibile e così Kant si trova in difficoltà quando deve rapportarsi al mondo reale che è, appunto, il mondo delle apparenze: l'idea di "inizio" viene pertanto a segnare anche un divisorio tra la filosofia morale e quella parte del pensiero kantiano che prende in considerazione il mondo reale, assieme alle istituzioni che ne fanno parte. 52.. La frase si riferisce alle riflessioni condotte da Kant nella Fondazione della metafisica dei costumi, in particolare nella Se-Lione Prima: Passaggio dalla comune conoscenza morale di

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mentire, ma non posso desiderare che mentire divenga una legge universale, « perché con una tale legge non vi sarebbe alcuna promessa [... ] e dunque non appena la mia massima fosse assunta come legge universale, si distruggerebbe inevitabilmente da sé» (Fondazione della. Metafisica dei costumi)B. In questo caso la promessa appare come un'istituzione, qualcosa del mondo, che rischia di essere distrutto. Vi darò un esempio tratto dalle Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime: Citazione: Istituzione del matrimonio. Due possibilità di difendere questa istituzione - una delle due è la migliore ai fini del matrimonio, ma riduce l'uomo ad un mezzo rispetto ad un fine'i4. Secondo esempio: storia del mendicante (Rink [Friedrich Theodor], Ansichten aus Kant's Leben, 1805, p. 83): dare l'elemosina non può certamente corrispondere ad una massima che diventi legge universale. Ad ogni modo, Kant fu tentato dall'essere buono. Diede l'elemosina per tre volte come molti altri, portò ancora altre monete a questo scopo per il mendicante, e il risultato fu che non poté più condurre la sua passeggiata quotidiana. Di sicuro condannò sé stesso, perché aveva agito senza amor proprio. Ma se pensiamo al mendicante come ad un fine in sé... [testo mancante]

• [Nota a margine: Potremmo dare allora questa definizione: una volontà che non contraddice sé stessa è buona. Un po' come: un argomento senza conragione a/la conoscenzafilosofica: « E potrei inoltre chiedermi: è lecito ad ognuno fure una falsa promessa.quando si trova in imbarazzo e non ha altra via d'uscita?». I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, in Scritti mora/i, a cura di P. Chiodi, Utet, Torino 1970, p. 59. 53. «Mi renderei subito conto che, se posso volere la menzogna, non posso certo volere una legge universale che comandi di mentire, perché, stabilita questa legge, non ci sarebbe più propriamente alcuna premessa: sarebbe inutile dichiarare la mia volontà rispetto alle azioni future perché gli altri non presterebbero alcuna fede alle mie dichiarazioni o, se sconsideratamente lo fucessero, mi ripagherebbero con egual moneta, con la conseguenza che la mia massima, una volta trasformata in legge universale, non potrebbe fu a meno di distruggersi da sé». Ibid. 54. Il riferimento al matrimonio è toccato nel terLo capitolo delle Osservazioni sul sentimento de/ bello e del sub/ime (trad. it. di L. Novati, Rizzoli, Milano 2.004), "Sulla distinzione tra il sublime e il bello nel rapporto tra i due sessi", e qui Kant accenna anche alla circostanza in cui il rapporto coniugale si incrina (p. 12.2.). Tuttavia dalle pagine del testo kantiano non è possibile desumere quali siano le due possibilità di tenere in piedi il matrimonio cui la Arendt allude (né è chiaro in che modo tale esempio costituisca un 'illustrazione di quanto la Arendt aveva affermato poco prima). Il carattere secco e veloce di queste poche battute e l'assenza di uno sviluppo argomentativo, ci portano ad intenderle piuttosto come un promemoria di cui la Arendt intendeva servirsi al momento della sua esposizione orale.

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traddizioni è vero. Da ciò consegue che il male è ciò che si contraddice: «il male morale presenta come qualità inseparabile dalla sua essenza quella di opporsi alle sue stesse intenzioni, e di essere distruttivo, lasciando così il posto al principio del bene» ss]. 20

ottobre 1964 [Quinta lezione]

La questione della natura umana [... ]s6: alle sue tre domande Kant aggiunge la domanda "Che cos'è l'uomo?", supponendo dunque che ci sia una natura umana che non cambia. Tale essenza è utilizzata dalla Natura ai fini del progresso: le inclinazioni e gli istinti, !'"insocievole socievolezza" dell'uomo, portano in ultima istanza all'idea di Genere Umano e all'abolizione della guerra. Dal punto di vista dell'uomo, questo significa che egli impara ad usare la ragione. Ma il comportamento razionale indipendente da una visione morale è corretto solo esteriormente, e porta dunque alla Legalità, non alla Moralità: «Il problema dell •instaurazione dello Stato, per quanto ciò possa suonare aspro, è risolvibile anche da un popolo di diavoli» (Per la pace perpetua, Primo Supplemento). Ciò che la Storia registra è uno sviluppo della ragione, ma di una ragione che era stata data all'uomo fìn dall'inizio: nessuna nuova facoltà è implicata. Il filosofo può in una certa misura fare delle previsioni, dal momento che egli possiede questa ragione e il suo lavoro è quello di conoscere. Il resto degli uomini impara dall'esperienza, ma questa esperienza non insegna nulla di completamente nuovo. Il concetto decisivo qui è quello di sviluppo, un concetto ovviamente ripreso dalla scienza: il genere umano è guardato attraverso le fasi biologiche dell'individuo - secondo un aspetto molto diffuso nel XVIII secolo. Per Kant si tratta di un '"ipotesi". Sul detto comune: questo può essere giusto in teoria, ma non valeper la prassi: alla luce dell' «ewige Einerlei» e della natura di farsa che si offre allo spettatore quando manca la prospettiva del Progressos7, : «Sono auto55. «Il male morale ha la proprietà, inscindibile dalla sua natura, di contrastare e distruggere i suoi stessi propositi [...] e di far posto così, seppure attraverso un lento progresso, al principio (morale) del bene». I. Kant, Per la pace perpetua, cit., p. 197. 56. La pagina è strappata in questo punto. 57. «È uno spettacolo massimamente indegno non dico per una divinità, ma anche per l'uomo più comune, purché retto, vedere il genere umano, di era in era, fare passi in avanti verso la virtù e poi ricadere subito in modo altrettanto profondo nel vizio e nella miseria. Assi-

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rizzato a supporre che poiché il genere umano è in costante progresso rispetto al suo fine narurale, esso proceda verso un miglioramento anche dal punto di vista morale, e che tale processo possa essere interrotto ma mai eliminato del rutto. Questa è un'ipotesi della quale non posso mai essere del rutto certo, ma che tuttavia devo adottare come una massima, come un presupposto necessa~ rio nell'ambito pratico, dove la questione riguarda ciò che si debba fare e ciò che possa essere fatto» ~8• Ecco il punto, Kant non può mai essere certo: le motivazioni non appaiono, nemmeno a sé stessi. < Ciò costituisce un problema perché> perfino nella filo~ sofiadella Ragion Pratica l'uomo non abbandona mai completamente la sfera delle apparenze; è solo la sua coscienza a ricordargli che egli appartiene anche ad un mondo di noumena, di non apparenze, un mondo che, appunto, non appare mai in quanto tale, perché ciò sarebbe una contraddizione in termini. «Ich als denkendes W esen bin zwar mit Mir als Sinnenwesen ein und dasselbe Subject; aber als Objekt der inneren empirischen Anschauung [... ], erkenne ich mich doch nur, wie ich mir selbst erscheine, nicht als Ding an sich selbst» (Anthropologie, § 7): «In quanto penso e in quanto sono un essere sensibile (esposto al mondo ed affetto da esso) sono un unico e medesimo individuo. Ma come oggetto dell'introspezione empirica[ ... ], mi conosco solo in quanto appaio a me stesso, e non come cosa in sé» 59• Kant non può dunque essere certo che la namra dell'uomo cambi come cosa in sé o solo nella sua apparenza. stere per qualche tempo a questa tragedia può forse essere toccante e istruttivo; ma infine deve pur cadere il sipario. Perché alla lunga diverrebbe una farsa; e se gli attori non se ne stancano, perché sono pazzi, se ne stanca lo spettatore, che ad un atto o all'altro finisce per averne abbastanza se ha motivo di presumere che l'opera, non giungendo mai alla fine, sia eternamente la stessa [dn ewiges Einer/ei] ». I. Kant, Sul detto comune: questo può essere giusto in teoria, ,na non vale per la prassi, cit., p. 15458. «Io potrò dunque supporre che, in quanto il genere umano è costantemente in progresso riguardo alla cultura, la quale è il suo fine naturale, esso sia anche pensato in progresso verso il meglio riguardo al fine morale della sua esistenza, e che questo progresso venga talvolta sl interrotto.ma mai fermato.[ ... ] E perquanto incerto io possa essere e rimanere se perii genere umano vi sia da sperare nel meglio, ciò non può tuttavia pregiudicare la massima, e neppure dunque la sua necessaria premessa dal punto di vista pratico, che quello sia attuabile». lvi, pp.

1s4-1ss. 59. «Io, in quanto essere pensante, sono invero un unico e medesimo soggetto con me, in quanto essere sensibile; ma, in quanto oggetto dell'intuizione empirica interna, cioè nella misura in cui sono colpito da sensazioni del tempo [... ], mi conosco solo per come appaio fenomenicamente a me stesso, non come cosa in sé». I. Kant, Antropologia dal punto di vista pragmaJico,cir., §7, p.12.9.

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Per poter capire nna visione opposta della Storia 215. L'uomo di pensiero, in possesso della ragione critica, parla allora per cucci perché rutti sono dotati di un senso comune e di un senso speculativo, o intelletto. La differenza è che il primo funziona bene solo in compagnia degli altri uomini, il secondo solo al di fuori di cale compagnia. poi

212. « Più d'un naturalista della ragion pura [... ] potrebbe ben assentire che ciò che qui vien presentato con tanto apparato o, se meglio garba, con prolissa o pedantesca pompa, egli ha già da lungo tempo, con lo spirito profetico della sua sana ragione, non soltanto presentito, ma anche saputo e capito: "che, cioè, noi non possiamo mai, con tutta la nostra ragione, uscir fuori dal campo delle esperienze"». I. Kant, Prolegomeni ad ognifatura metafisica che si presentmi come scienza, cit., p. no. 213. « [ ... ] non è sicuro di cadere inopinatamente, aldilà degli oggetti d •esperienza, nel campo delle chimere». lvi, pp. uo-m. 214. «E di solito anch'egli vi è ben profondamente avviluppato». lvi, p. m. 215. Nel testo è contenuta solo la parola "Quote", in riferimento all'appendice Soluzione della questione generale dei prolegomeni, che segue il paragrafo 60 dei Prolegomeni. La citazione è presumibilmente questa, benché assente nel testo originale.

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i falsi amici del senso comune16• Ma «nella metafisica come scienza specu, laciva della ragion pura, non possiamo mai appellarci al senso comune; piut, tosto, se vi si è costretti, si può abbandonarla, rinunziare ad ogni conoscenza speculativa»~' 7• La ragion pura è dunque una sfera isolata e chiusa in sé stessa. Essa impone al senso comune cosa pensare nella sfera speculativa, e il filosofo informa su cali questioni l'uomo comune - compreso quell'uomo comune che egli stesso è. La ragione è qui l'unica autorità: non c'è un libero dialogo. Proprio come nell'ambito delle scienze e di tutto ciò che è oggetto di cono, scenza intellettiva, ci si piega alla pura necessità. Consideriamo un'ultima volta le nostre facoltà: abbiamo anzitutto i cinque sensi, che sono riferiti all'oggetto e per mezzo dei quali siamo affetti da tutto ciò che noi non siamo. Questo tipo di affezione è privata e non comunicabile. Abbiamo poi, per conoscere e per capire, i concetti a priori che ordinano le sen, sazioni e giungono ad un'esperienza capace di conoscenza. L'immaginazione guida l'interazione dei sensi e dell'intelletto attraverso lo schema (presencifi, cando ciò che non è mai presence, il nascosto, il Ponce che si nascon, de dietro tutti i ponti). Insieme, essi ci indicano la realtà di qualcosa che è fuori di noi: il mondo comune dell'oggettività. In questa sfera della conoscenza la comunicabilità è possibile perché abbiamo tutti le stesse facoltà. Non comuni, chiamo dunque noi stessi ( il nostro piacere o dispiacere) ma l'identico risultato delle nostre facoltà conoscitive. Potremmo essere tutti uguali, e parlare nello stesso modo: la pluralità degli uomini come mera moltiplicazione. Immaginate se ci trovassimo a vivere nel mondo assieme ad altri esseri totalmente identici a noi: ciò che è vero per uno sarebbe vero per tutti (compulsione). Nella Critica del Giudizio si aggiunge un'unica facoltà, quella del giudizio

216. «È consueto pretesto di cui sogliono servirsi questi "fulsi amict del senso comune (che all'occasione lo esaltano.ma d'ordinario lo dispre-lZano) [... ]». Ivi, p. 183. 217. lvi, p. 184, traduzione leggermente modificata. È questo in definitiva il punto d' approdo della digressione: nonostante alcuni aspetti positivi che potrebbero far pensare ad un' apertura verso il senso comune (la possibilità di fame un buon uso, quando questo sia coadiuvato dalla ragione critica; il riferimento ad uno "spirito profeticon del senso comune, che permetterebbe di anticipare talvolta i risultati della ricerca razionale), Kant giunge infine a riaffermare con forza la totale estraneità del senso comune ali' ambito della metafisica intesa come scienza. I principi del buon senso o della verosimiglianza, che l'autore richiama in queste pagine, possono sussistere solo fuori dall'ambito speculativo, e hanno imponanza solo in relazione alla pratica (di-. ivi, pp. 184-185). La Arendt sottolinea dunque come qui prevalga l'autorità della ragione, e con essa il criterio vincolante della necessità.

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o del senso comune: il giudizio valuta il valore delle cose in rappono a noi stessi; come senso comune si riferisce al soggetto ma è, nello stesso tempo, intersoggettivo, perché prende in considerazione tutti gli altri. L' immaginazione ha qui una diversa funzione, quella di preparare il particolare per una stima valida e generale, e farne un "esempio" {nello schema, invece, il particolare è ricondotto alla generalità). L'immaginazione non raffigura più il "nascosto", come la massima prova della libertà. La libertà coincide con la Pura Attività:

Ad Libertà: Antropologia§ 8: Apologia della sensibilità: l'unico male in essa è la sua passivitàl

2 9.

Conflitto delle facoltà, I: la filosofia antica è criticata perché ha ridotto l'uomo ad una parte meramente passiva del mondo. La Critica della Ragion Pura ha determinato invece per l'uomo un'esistenza totalmente attiva. L'uomo è il creatore di tutte le sue rappresentazioni e i suoi concetti, nonché l'unico autore delle sue azionill 0 • Per la pace perpetua, Seconda sezione, Primo articolo: la libertà esterna è definita come la condizione per la quale non obbedisco ad altra legge se non a quella a cui avrei potuto dare il mio consenso. Così l'uguaglianza: non vi è 32.8. Si ricordi che nella decima lezione la Arendt aveva ripreso le due teorie sull'origine dello Stato, la prima delle quali basata appunto sull'idea dell'interdipendenza reciproca, dovuta al soddisfacimento dei bisogni primari. In tale circostanza la Arendt aveva sottolineato come per Kant, invece, l'interdipendenza degli uomini non sia legata esclusivamente alle esigenze del corpo ma anche, e soprattutto, a quelle della mente (dr. note 165 e 166 nel testo di H. Arendt in questo volume). 32.9. « Ciò che la sensibilità contiene di passivo, di cui comunque non possiamo sbarazzarci, è propriamente la causa di rutto il male che se ne dice». I. Kant.Antropologia dal punto di vista pragmatico, cit., p. 131. 330. «Ora, sotto questo profilo, la vecchia filosofia assegnava una collocazione del rutto errata all'uomo nel mondo, facendone una macchina che, come tale, non poteva che dipendere interamente dal mondo, o dalle cose esterne e dalle circostanze; faceva insomma dell'uomo una parte quasi soltanto passiva del mondo. A questo punto apparve la Critica della ragione, e destinò all'uomo nel mondo un'esistenza assolutamente attiva. L'uomo stesso è originariamente artefice di rune le sue rappresentazioni e dei suoi concetti, e dev'essere unico autore di rune le sue azioni». I. Kant, Il conflitto delle facoltà, a cura di D. Venturelli, Morcclliana, Brescia 1994, p. 142.. Per il testo originale si vedaDer Streit der Facu/Jiitm, AA VII (Werke), pp. 69-70.

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2.65

alcuna ragione per la quale io debba avere il dovere di obbedire mentre qualcun altro ha il diritto di comandareH'.

In questo richiamo , anche il Bene entra in gioco come oggetto del giudizio, ovvero come qualcosa che piace: 8.Metafisica « Come può piacere il bene, dal momento che esso non suscita diletto? [... ] La libertà è il sommo grado dell'agire e del vivere. La vita animale non presenta alcuna spontaneità. Quando sento che qualcosa si accorda con il sommo grado della libertà, e dunque con la vita spirituale, allora quel qualcosa mi piace. [... ] Ciò che si accorda con la libertà, si intona con la vita intera. E ciò che si intona con la vita intera, piace»m.

La libertà coincide con l'inizio e qui sta la difficoltà: sembra contraddire l' assioma Nihilsine causa: 9. «È difficile capire come un ens derivativum possa compiere un actus origi-

narius [... ] perché noi non possiamo mai capire l'inizio, ma solo ciò che accade in una serie di cause ed effetti.L'inizio è il limite della serie, ma la libertà realizza costantemente nuove cesure all'interno di questa serie, in direzione di nuovi inizi. Ecco perché è qualcosa di così difficile da capire» m. «Parlando in generale, non è affatto nella natura del nostro destino preoc331. «La mia libertà esterna {secondo il diritto) è da definirsi così: la facoltà di non obbedire ad altra legge se non a quella a cui avrei potuto dare il mio consenso. Altrettanto, l 'uguaglianza esterna {giuridica) in uno Stato è quel rapporto tra i cittadini secondo cui nessuno può obbligare un altro senza che insieme si sottoponga alla legge secondo cui può essere reciprocamente obbligato allo stesso modo». I. Kant, Per la pace perpetua (Primo articolo definitivo per la pace perpetua, nota) in Scritti di storia, politica e diritto, cit., p. 170. 332.. «Wie kann aber das Gute gefallen, da es doch kein Vergniigen erweckt? (...] Die Freiheit ist der gro8te Grad der Thatiglceit und des Lebens. Das thierische Leben hat keine Spontaneitat. Fiihle ich nun, da8 etwas mit dem hochsten Grade der Freiheit, also mit dem geistigen Leben iibereinstimmt; so gefallt es mir[ ... ] Was aber mit der Freiheit zusammenstimmt; das stimmt mit dem ganzen Leben iiberein. Was aber mit dem ganzen Leben iibereinstimmt, das gefallt». Metaphysik Li, AA XXVIII, p. 2.50. Traduzione italiana del brano {qui leggermente modificata) in I. Kant, Lezioni di psicologia, cit., p. So. 333. «Es wird durch den Verstand der Speculation noch schwer einzusehen, wie ein ens derivativum acrus originarios ausiiben konne; [... ]; denn wir konnen niemals den Anfang begreifen, sondern nur, was in der Reihe der Ursachen und Wirkungen geschieht. Der Anfang ist aber die Granze der Reihe, die Freiheit aber macht lauter neue Abschnitte zu einem neuen

2.66

Hannah Arendt, Lafilosofia politica di Kant

cuparci troppo dell'aldilà. Dobbiamo chiudere il cerchio cui siamo destinati qui sulla terra e aspettare qualsiasi cosa accada in seguito»H 4 • « < Quando si ha a che fare> con la libertà, la causa suprema non è mai semplicemente una causa ma un autore [ Ursache-Urheber] »m. «Solo attraverso la libertà possiamo cominciare ad agire»H 6• La Causa prima deve essere una Persona, un Qualcuno e non un Qualcosa. Per questo «solo attraverso la libertà possiamo cominciare ad agire». Dunque l'azione è in un certo senso compresa tra tutte le facoltà e inerente a ciascuna - ad eccezione della sensibilità. L'azione è possibile solo come inizio. T roviarno due parole in greco e in latino per indicare l'azione: archeinprattein, agere-gererem. Kant comprende che il mio atto libero interrompe sempre una concatenazione o una serie; non comprende però che, dando inizio a sua volta ad un'altra concatenazione, esso non può essere portato a compimento da me medesimo. Ciò in parte perché Kant manca di esperienza e in parte perché è ostinatamente interessato alla libertàH 8• È infatti discutibile che io possa essere libero anche "dopo» < (aver agito)>. Sono catturato nelle concatenazioni causali - ma viene forse così catturato anche l'inizio del mio atto? Ciò che semplicemente intendo è: incominciando ad agire sono libero, ma non rimango libero sempre. Anfang; deBwegen ist es schwereinzusehen». Metaphysik L,. AA XXVIII, p. 2.70. Traduzione italiana del brano (qui modificata) in I. Kant, Lezioni di psicologia, cit., p. 107. 334. «Allgemein fiihren wir noch an: daB es ganz und gar nicht hier unserer Bestimmung gemaB ist, uns um die kiinftige Welt viel zu bekiimmem; sondem wir miissen den Kreis, zu dem wir hier bestimmt sind, vollenden, und abwanen, wie es in Ansehung der kiinftigen W elt seyn wird». MetaphysikL,. AAXXVIII, pp. 300-301. Traduzione italiana(qui modificata) in I. Kant, Lezioni di psicologia, cit., p.141. L'inglese dellaArendt non è in questo caso del tutto aderente alla frase tedesca. 33s. «Eine oberste Ursache mit Freiheit ist aber nicht allein eine Ursache, sondern auch ein U rheber». Metaphysik L,. AA XXVIII, p. 316. 336. «Denn nurch Freiheit kann man anfangen zu handeln». lvi, p. 342.. 337. La distinzione ricorre anche nelle pagine di Vita adiva, cit., in pan. pp. 163-164. 338. La Arendt sembra qui voler dire che Kant fosse interessato ostinatamente al problema della libenà ma che, mancando di esperienza, non potesse riconoscere le dinamiche reali della libenà e le sue aporie: il fatto cioè che il soggetto sia libero soltanto quando "incomincian ad agire, ma non dopo. D'altra pane però, come scrive l'autrice più avanti, la filosofia kantiana conosce già una simile contraddizione poiché considera ogni atto compiuto come compreso in una concatenazione causale, all'interno della quale esso perde il suo carattere di "originen.

Lezioni all'Università di Chicago

Questo è già in qualche modo implicato in quello che si può considerare il più grande scoglio del pensiero kantiano: il fatto che qualsiasi gesto io com, pia ricade nella causalità e pertanto smette di essere qualcosa di libero, è mera apparenza339 • Tornando all' Umanità: cinadinanza del mondo: Cicerone: Ciò che Kant chiama gusto è per Cicerone la cultura animi: una mente così ben allenata e coltivata da risultare affidabile nel giudicare e nel prendersi cura del mondo. Tale educazione, secondo Cicerone, deriva dalla filosofia, e in particolare dalla contemplazione: il lasciare le cose così come sono, l'essere semplici spettatori, come coloro che si recavano agli agoni delle grandi feste, e non cercavano né di vincere gloriosi premi, né di arricchirsi vendendo o comprando qualcosa, ma erano attratti semplicemente dallo spenacolo, da ciò che veniva fatto e dal modo in cui veniva fatto. Costoro erano realmente nobili perché impegnati nel più libero (liberalissimum) di tutti i propositi ( T uscolanae Disputationes) 34°. I loro giudizi avevano a che fare con la qualità, una qualità (di cui l'autentico e l'inautentico sono deboli eco) che è del tut, to indipendente da altri conceni. Cicerone esemplifica la libertà dell'umana persona riferendosi ad una disputa allora diffusa, riguardante alcune verità fìlosofìche: chi è nel giusto, i pitagorici o Platone? Ed egli decide: «Errare

339. La parola apparenza potrebbe avere qui una doppia valenza: in una prima accezione è sinonimo di inautenticità, poiché l'atto libero perde il suo carattere di libertà quando entra a far parte di una serie di eventi, non più prevedibili e reversibili dal soggetto stesso dell'atto iniziale. In una seconda accezione, più vicina al lessico kantiano, l'apparenza coincide con il darsi fenomenico delle cose, contrapposto al regno noumenico, che è appunto il regno della libertà. Così, dire che la libertà diventa mera apparenza vuol dire che essa si stacca dalla sua provenienza originaria ed entra a far parte del mondo, subordinandosi alle sue dinamiche fattuali. Il senso della frase è, in entrambi i casi, il medesimo. 340. Tuscolanae Disputationes, V, 3, 9: «Allora Pitagora rispose: A mio parere la vita umana è simile a una di quelle fìere che si tengono con grande apparato di giochi e sono frequentate da tutta la Grecia. lvi infatti alcuni cercano la gloria e la fama di un premio nelle gare sportive, altri sono attirati dal guadagno trafficando a comprare o a vendere, e c'è poi una categoria di persone -ed è la più nobile - che non cercano né l'applauso né il guadagno, ma ci vanno come spettatori e osservano attentamente quel che avviene e come avviene. (...] E come nella fìera l'atteggiamento più nobile è fare da spettatore senza cercar vantaggio alcuno, così nella vita lo studio e la conoscenza della natura è di gran lunga superiore a tutte le attività». M. Tullio Cicerone, Opere politiche e.filoso.fiche, voi. II, a cura di N. Marinone, Utet, Torino 1955, pp. 444-445. Il riferimento è presente anche ne La vita della mente (cit., p. 177), dove la Arendt riporta la versione nelle parole di Diogene Laerlio.

2.68

Hannah Arendt, Lafilosofia politica di Kant

mehercule malo cum Platone [... ] quam istis vero sentire», Dio sa che preferirei sbagliare con Platone piuttosto che essere nel giusto con questi ciarlatani 34 '.

Se il presupposto della vera vita politica è quello di Erodoto ( «non intendo comandare né essere comandato» [Erodoto, Storie, III, 83, 2]) allora troviamo la più elementare tesi su come gli uomini dovrebbero relazionarsi gli uni agli altri nelle Ri.jlessionisull'Antropologia di Kant, n. 1096: «Comportati come se ti trovassi sempre tra persone rispettabili e amabili. Ti farebbero resistenza se pretendessi da loro che ti obbediscano; e ti disprezzerebbero se fossi tu a sottometterti a loro. Questo è ciò che s'intende per "buone maniere"» H 1 •

341. Tusculanae Disputationes, I, 17, 39, in M. Tullio Cicerone, Opere politiche efiloso.fiche, cit., p. 2.81. La frase ricorda nel contenuto la citazione con cui laArendt si proponeva di aprire la sezione sul Giudicare ne La vita della mente: "Victrix causa diis placuit sed vieta Catoni" {la causa dei vincitori piacque agli Dei ma la causa dei vinti piacque a Catone - Lucano, De bd/u,n civile, libro I, verso 12.8). In quest'ultima è sottolineata infatti la stessa libertà di pensiero del soggetto giudicante, il quale non ratiflca le vittorie sancite dalla storia ma decreta autonomamente i propri "vincitori". 342.. I. Kant, Rejlexionen zur Anthropologie n. 1096, AA XV, p. 488 ( « Sey bescheiden, heiBt [e~ere umili vuol dire]: Ftihre dich so, als ob du dich bewust warest, unter lauter ehrliebenden Personen zu seyn. Sie wtirden dir wiederstehen, wenn du ihnen unterwcrfung zumuthest; sie wtirden dich Verachten, wenn du dich unter sie schmiegctest. 1m au&m ist dies der Anscand» ).

Riferimenti bibliografici utilizzati da H. Arendt in Kant's Politica/ Philosophy, 1964

Si vuole offrire qui un quadro d'insieme delle opere di Kant e di altri autori utilizzate da H. Arendt nel corso della sua trattazione. Per il riferimento bibliografico completo alle opere in questione e alle relative traduzioni italiane si vedano, nelle pagine precedenti, le mie note al testo di H. Arendt.

Kant 's Gesammelte Schriften Riferimenti alle Kant's Gesammelte Schriften, Koniglich-Preu8ische Akademie der Wissenschaften zu Berlin, 1902 ss.

- Bemerkungen zu den Beobachtungen uber das Gefahl des Schònen und Erhabenen [Annotazioni alle Osservazioni sulsentimento del bello e delsublime], Handschriftlicher Nachlajl, AA XX. - Lettera diJohann Heinrich Lambert del 13 novembre 1765 (n. 33). Brie.fiuechsel [Corrispondenza], Band I, AA X.

- Logik, p. 160 (n. 1931).Handschriftlicher Nachlajl, AA XVI. - Metafisica L 1 (Lezioni tenute tra il 1775 e il 1780 presso l'Università di Konisberg). Vorlesungen uber Metaphysik und Rationaltheologie. AA XXVIII, tomo secondo, pp. 167-350.

- Rejlexionen zur Anthropologie (in particolare le Rejlexionen nn. 640, 763, 767, 906, 1096), Handschriftlicher Nachlass, AAXV. L'espressione Akademie Ausgabe è riportata dalla Arendt - in maniera abbreviata o anche "inglesizzata", del tipo "Ak. edition" - solo in tre punti del suo corso su Kant: in riferimento alla prima citazione tratta dalle Bemerkungen (da lei menzionate con il titolo inglese e, successivamente, senza alcun riferimento specifico all'edizione dell'Accademia di Berlino), in riferimento

270

Hannah Arendt, 1Afilosofia politica di Kant

all'annotazione n. 1931 dellaLogik e in riferimento alla Reflexion zur Anthropologie n. 640. Negli altri casi in elenco non vi sono indicazioni esplicite, ma si può supporre che la fonte sia la medesima, soprattutto in considerazione del fatto che i testi suddetti non appartengono alla sezione dei Werke, le opere che Kant pubblicò in vita, e alle quali potrebbero corrispondere molte altre edizioni, ma alle successive sezioni degli scritti kantiani (Corrispondenze, Lascito manoscritto e Lezioni), il cui contenuto è tuttora solo parzialmente riprodotto altrove'.

Altre opere di Kant

Annotazioni alle Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime, scritto del 1766, pubblicato postumo. Antropologia dal punto di vista pragmatico, 1798. Che cosa significa orientarsi nelpensare?, 1786 (riferimento indiretto) Critica del Giudizio, 1790. Critica della ragion pratica, 1788. Critica della ragion pura, 1781, seconda edizione 1787. Fondazione della metafisica dei costumi, 1785. Idea per una storia universale dal punto di vista cosmopolitico, 1784Inizio congetturale della storia degli uomini, 1786. Il conflitto dellefacoltà, 1798. 1A metafisica dei costumi, 1797. 1Afine di tutte le cose, 1794IA religione entro i limiti della sola ragione, 1793. Logica, 1800 (riferimento indiretto)i. 2•

1. Solo per quanto riguarda la Metafisica L, è documentato l'utilizzo di un'altra edizione da parte dell'autrice: sul sito del Bard College si può inf.1tti ritrovare la copia personale delle Vorlesungm uberMetaphysik, edita da Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 19642. Un brano di Che cosasignifoa orientarsi nelpmsare?è riportato all'interno delle lezioni del 1970 (Teoria del giudizio politico, p. 63), ma si può supporre che a tale brano la Arendt si riferisca implicitamente già nel '64, quando sottolinea che la presenza di un pubblico o la compagnia di altri uomini ai quali poter comunicare il proprio pensiero sia considerata da Kant una condizione necessaria al pensare stesso; al punto tale che l'interdipendenza sociale per il soddisfacimento dei bisogni primari, che alcuni filosofi politici considerano come la principale spinta aggregativa all'origine del vivere civile, sarebbe secondo il Kant riletto dalla Arendt un'interdipendenza anche e soprattutto mentale. 3. Il riferimento riguarda la domanda "Che cos'è l 'uomor, che va ad aggiungersi alle prime tre domande kantiane all'interno della Logica. L'opera in questione, curata da un allievo di

Lezioni all'Università di Chicago. Riferimenti bibliografici

Osservazioni sulsentimento del bello e del sublime, 1764Per la pace perpetua. Un progetto filosofico di Immanud Kant, 1795. Prima Introduzione alla Critica del Giudizio, scritta nel 1790, ritrovata come materiale inedito da W. Dilthey nel 1889 e data alle stampe nel 1914. Prolegomeni ad ognifotura metafisica che si presenterà come scienza, 1783. Riproposizione della tUJmanda: se il genere umano sia in costante progresso verso il meglio, 1798 (riferimento implicito; il saggio è pane dell'opera Il conflitto delle facoltà). Risposta alla tUJmanda: che cos'è l'Illuminismo?, 1784Sul detto comune: questo può essere giusto in teoria ma non vale per la pratica, 1793. Storia universale della natura e teoria del cielo, 1755. Opere e scritti di altri autori L'elenco che segue è frutto di un lavoro di ricerca sulle fonti utilizzate dalla Arendt, non essendo queste sempre esplicitate. Per lo più l'autrice riporta la citazione affiancata dal nome dell'autore, ma senza il titolo dell' opera4. Questa modalità riguarda soprattutto i brani di cui la Arendt si serve nel condurre la sua stessa argomentazione; lì dove invece si tratta di "stilare" un elenco riepilogativo (per esempio in merito alle diverse opere di estetica pubblicate dai predecessori di Kant) l'autrice fornisce indicazioni più precise su autore e opera, ma senza entrare troppo nel merito, e talvolta cadendo anche in qualche svista (come nel caso dell'opera di G. F. Meier, erroneamente attribuita a Baumgarten). Vi sono poi opere che ho voluto inserire in questa lista perché "presenti" in qualche modo nel discorso arendtiano, sebbene non attraverso richiami espliciti al titolo da parte dell'autrice, né attraverso citazioni di brani o frasi ben individuabili. È il caso del De doctrina christiana di Agostino, per il riferimento al tema della distinzione tra uti e frui; de Il contratto sociale di Kant (Gottlob Benjamin Jasche), si trova nel volume IX delle Gesammelte Schriften (WMe) e va distinta dunque dalla "Logik" del volume XVI (Handschriftlicher Nachlass), cui la Arendt pure allude, in un appunto scritto a mano, con indicazioni più chiare (ma anche qui senza menzionarne il titolo). 4. Ciò vale per Baeumler, Borries, Cassirer, Hegel, Hobbes, Hume, Marx, Pascal, von Ranke, Robespierre; di Muratori sono menzionate le Riflessioni sopra il buon gusto, nonostante i brani riponati dall'autrice risultino tratti, in realtà, dall'opera Della perfetta poesia italiana; di Platone sono menzionate esplicitamente l'Apowgia di Socrate e la Settima Lettera, non il

FetUJne.

2,72,

Hannah Arendt, Lafilosofia politua di Kant

Rousseau, per il riferimento alla "Volontà generale"; e della lettera di Martin Heidegger del 13 maggio 192.5, dove si trova la citazione attribuita ad Agostino: «amo: volo ut sis». I titoli che la Arendt riporta nella loro lingua originale sono lasciati qui invariati, come anche i titoli di alcune opere non esistenti in traduzione italiana. AGOSTINO D'IPPONA,De doctrina christiana, 396-42.7 d. C. A. BAEUMLER,Kants kritik der urteilskraft: das imltionalitatsproblemin der aesthetik undlogik des achzehntenJahrhundert [La Critica del Giudizio di Kant: il problema dell'irrazionalità nell'estetica e nella logica del XVIII secolo], 192.3. N. BOILEAU, Artpoétique, 1674K. BoRRIES, Kant als Politiker, Zur Staats- und Gesellschaftslehre des Kritizismus, [Kant politico: sulla dottrina dello Stato e della Società nel Criticismo], 192.8. E. CASSIRER, Vita edottrina di Kant, 1918. M. CICERONE,De Oratore, 55-54 a.C. - Tuscolanae disputationes, 45-44 a.e. J.-P. DE CROUSAZ, Traité du Beau, 1715. I. DINESEN, Talk with Jsak Dinesen, intervista rilasciata per «The New York Times Book Review», 3 novembre 1957. J.B. DUBOS, Réflexions critiquessur la poésie et sur la peinture, 1719. ERACLITO,Frammenti, VI-V sec. a.e. J.C. GoTTSCHED, Versuch einer kritischen Dichtkunstfar die Deutschen [Saggio di poetica critica per i tedeschi], 1730. G. BALTASAR, El discreto, 1646. F. HEGEL,Lezioni sullafilosofia della storia, II ed. a cura di K. Michdet, 1840-1844M. HEIDEGGER,Lettera del 13 maggio 192.5 ad HannahArendt. T. HOBBES, Elementi di filosofia. Il corpo - L'uomo, 1655-1658. D. HUME, Trattato sulla natura umana, 1739. K. JASPERS, Cifre della trascendenza (lezioni tenute nel 1961, pubblicate postume del 1977). L. KOCHAN,Acton on History, 1954N. MACHIAVELLI, /storie fiorentine, scritte tra il 152.0 e il 152.5, pubblicate postume nel 1532.. K. MARX, Il manifesto filosofico della scuola storica del diritto, 1842.. G.F. MEIER, Anfangsgrunde aller schònen Kunste und Wissenschaften [Principi rudimentali delle belle Arti e delle belle Scienze], 1748-1750. Nel testo arendtiano l'opera è erroneamente attribuita a A.G. Baumganen). L. MURATORI, Delle riflessioni sopra il buon gusto nelle scienze e nelle arti, 1708-1715.

- Della perfetta poesia italiana spiegata e dimostrata con varie osservazioni da Ludovico Antonio Muratori, Venezia 1706.

Lezioni all'Università di Chicago. Riferimenti bibliografici

2.73

ÙMERO,Iliade, VIII-VI sec. a.e. p ARMENIDE, Frammenti, VI-V sec. a.e. PASCAL, Pensieri, 1670. PLATONE, Apologia di Socrate, 399-388 a.C. - Fedone, 380 a.C. - Settima lettera, 354 a.e circa. PSEUDO LoNGINo,Peri Hypsous [Trattato sul sublime], I sec. cl.e. L. von RANKE, Le epoche della storia moderna, 1854F.T. RINK, Ansichten aus Kant 's Leben [Scorci sulla vita di Kant], 1805. M. ROBESPIERRE, Sui principi di morale politica che devono guidare la convenzione nazionale nell'amministrazione interna della repubblica, Discorso pronunciato il IS

piovoso, anno II {5febbraio I794).

J.-J. ROUSSEAU, Il contratto sociale, 1762. A. SCHOPENHAUER, Il mondo come volontà e rappresentazione, 1819.