Sulla filosofia antica. Manoscritti delle lezioni inedite di Oxford (1935) e Yale (1942). Testo inglese a fronte 8830104922, 9788830104921

Per la prima volta in traduzione italiana – e con testo a fronte – le lezioni inedite sulla filosofia antica di Ernst Ca

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Italian Pages 992 [974] Year 2023

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Table of contents :
Copertina
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Frontespizio
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Sommario
Premessa di Christian Möckel
Prefazione di Fabio Minazzi
Introduzione. Lo strano caso delle Lectures on Ancient Philosophy di Ernst Cassirer di Giacomo Borbone
Avvertenza del traduttore e ringraziamenti
Nota bio-bibliografica
Bibliografia
SULLA FILOSOFIA ANTICA
Lezioni sulla filosofia antica
Prima lezione introduttiva
Seconda lezione introduttiva
Cap. I. La Scuola ionica
Cap. II. Eraclito di Efeso
Cap. III. Pitagora e i Pitagorici
Cap. IV. La Scuola eleatica
Cap. V. Empedocle, Anassagora e gli Atomisti
Cap. VI. I Sofisti
Cap. VII. Socrate
Cap. VIII. Platone
Cap. IX. Aristotele
Cap. X. La filosofia stoica
Cap. XI. Il Neoplatonismo
Conclusione
Note di critica del testo inglese
Note alla traduzione italiana
Indice dei nomi
Indice generale
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Sulla filosofia antica. Manoscritti delle lezioni inedite di Oxford (1935) e Yale (1942). Testo inglese a fronte
 8830104922, 9788830104921

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BOMPIANI IL PENSIERO OCCIDENTALE Collana fondata da

GIOVANNI REALE diretta da

MARIA BETTETINI

ERNST CASSIRER SULLA FILOSOFIA ANTICA MANOSCRITTI DELLE LEZIONI INEDITE DI OXFORD (1935) E YALE (1942)

A cura di Giacomo Borbone Premessa di Christian Möckel Prefazione di Fabio Minazzi

BOMPIANI IL PENSIERO OCCIDENTALE

In copertina: Ernst Cassirer in una foto del 1931 © ullstein bild / Getty Images Progetto grafico generale: Polystudio Copertina: Zungdesign

ISBN 978-88-587-9054-0 Realizzazione editoriale: Vincenzo Cicero – Rometta Marea (ME) www.giunti.it www.bompiani.it © 2023 Giunti Editore S.p.A./Bompiani Via Bolognese 165 - 50139 Firenze - Italia Via G.B. Pirelli 30 - 20124 Milano - Italia Prima edizione digitale: marzo 2023

SOMMARIO Premessa di Christian Möckel Prefazione di Fabio Minazzi Introduzione di Giacomo Borbone Avvertenza del traduttore e ringraziamenti Nota bio-bibliografica Bibliografia

7 13 65 91 95 111

LEZIONI SULLA FILOSOFIA ANTICA Prima lezione introduttiva 123 Seconda lezione introduttiva 153 177 Cap. I. La Scuola ionica Cap. II. Eraclito di Efeso 223 277 Cap. III. Pitagora e i Pitagorici Cap. IV. La Scuola eleatica 321 Cap. V. Empedocle, Anassagora e gli Atomisti 379 Cap. VI. I Sofisti 433 Cap. VII. Socrate 461 Cap. VIII. Platone 499 Cap. IX. Aristotele 737 Cap. X. La filosofia stoica 863 Cap. XI. Il Neoplatonismo 907 Conclusione 917

Note di critica del testo inglese Note alla traduzione italiana Indice dei nomi Indice generale

919 953 969 973

PREMESSA*

È con grande piacere e soddisfazione che ringrazio il dottor Giacomo Borbone per la sua iniziativa e mi congratulo con lui per aver con successo realizzato questa edizione delle lezioni inedite di Ernst Cassirer sulla filosofia greca, dal titolo Sulla filosofia antica, disponibili adesso in traduzione italiana per la Cassirerforschung internazionale. Difatti, queste conferenze – sulle quali Giacomo Borbone fornisce un prospetto informativo nel suo saggio introduttivo – sono state tenute da Cassirer a Oxford nel 1935 e a New Haven nel 1942 e originariamente erano state pensate come tredicesimo volume della ECN (Ernst Cassirer Nachgelassene Manuskripte und Texte). Ad esempio, il vecchio piano delle opere postume di Cassirer, edite dalla Meiner Verlag di Amburgo, così recita: “Band 13 – Lectures on Greek Philosophy/Inhalt: Plato Lectures (Vorlesung, Oxford 1935); History of Ancient Philosophy (Vorlesung, Yale 1942); Beilage: Notes on two seminar meetings on Heraclitus (Columbia 1945)”. Per quanto ricordo, tuttavia, gli allora curatori di questi testi non erano più tanto sicuri del valore scientifico di queste conferenze di Yale, decidendo così di cassarle dal volume inizialmente previsto1. Come attuale curatore della ECN non intendo, a posteriori, commentare o mettere in discussione siffatta decisione. * Traduzione dal tedesco di Giacomo Borbone. 1 Il volume 13 della ECN contiene adesso i testi sulla filosofia del Rinascimento: cfr. E. Cassirer, Nachgelassene Manuskripte und Texte, Band 13: Philosophie der Renaissance, hrsg. von C. Möckel, Meiner Verlag, Hamburg 2020.

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PREMESSA

Tuttavia, mi sembra che in determinate circostanze questo severo criterio – con analoghe argomentazioni – lo si possa eventualmente applicare anche a quelle lezioni accademiche di carattere introduttivo incluse nella ECN. In ogni caso, la presente pubblicazione delle lezioni tenute in inglese a Oxford e a Yale – raggruppate in base a criteri storico-filosofici – costituisce una significativa e preziosa aggiunta all’edizione in 18 volumi della ECN, che la Cassirerforschung italiana e internazionale potrà certamente apprezzare. Fortunatamente, un gran numero di opere e pubblicazioni di Cassirer sono già state tradotte in italiano fino a oggi e continuano a esserlo. La presente edizione (Sulla filosofia antica), a ogni modo, rappresenta – in Italia – la prima e unica pubblicazione di queste carte di Cassirer condotta proprio sui manoscritti; il che le conferisce una caratteristica unica nella Cassirerforschung italiana. Interessante, a tal proposito, è il fatto che Cassirer abbia tenuto le lezioni sulla filosofia greca nell’anno accademico 1942-1943 per i corsi di laurea dell’Università di Yale, New Haven, al posto del suo collega Robert L. Calhoun, in quel periodo malato. Verso la fine dell’ottobre 1942, Cassirer fa sapere a Paul Arthur Schilpp che quell’anno «quasi non avevo avuto ferie estive, poiché all’inizio dell’estate il collega Prof. Robert L. Calhoun si ammalò e io decisi improvvisamente di accollarmi le sue lezioni sulla filosofia antica»2. Questi manoscritti fanno adesso parte del GEN 98 2 Cfr. Ernst Cassirer an Paul Arthur Schilpp, New Haven, 26. Oktober 1942, in E. Cassirer, Ausgewählter wissenschaftlicher Briefwechsel, Hrsg. von John Michael Krois unter Mitarbeit von Marion Lauschke, Claus Rosenkranz und Marcel Simon-Gadhof, in Nachgelassene Manuskripte und Texte, Band 18, Begründet von Klaus Christian Köhnke, John Michael Krois und Oswald Schwemmer, Hrsg. von Christian Möckel, Hamburg 2009, DVD.

PREMESSA

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Box 36, custoditi presso la Beinecke Library della Yale University. Quanto affermato da Cassirer sembra trovare conferma nello Yale Catalogue dell’anno accademico 1942-1943, in cui si fa riferimento alla sospensione di un corso che, con ogni probabilità, proprio Calhoun avrebbe dovuto tenere: «Courses omitted in summer or fall terms of 1942 and spring term of 1943: Philosophy 127, Greek Philosophy»3. È anche indicativo il fatto che Cassirer tenne un seminario su Platone sia a Oxford nel 1935 come anche a Yale durante l’anno accademico 1943-1944, dal titolo The Development of Plato’s Dialectic. Né la lezione sulla filosofia antica né quelle su Platone costituiscono, tuttavia, una svolta radicale nella carriera accademica di Cassirer, pertanto l’interesse su Platone e il Platonismo – su cui si richiama l’attenzione nel saggio introduttivo – si spiega in ultima istanza con la costellazione concettuale del neo-kantismo di Marburgo (Paul Natorp, Nicolai Hartmann), da cui Cassirer emerge come filosofo. La filosofia antica ha accompagnato il docente Cassirer in tutte le fasi importanti della sua vita, da Berlino a Yale e New York. La lezione Die Philosophie der Griechen, als historische Einführung in die Philosophie, venne tenuta da Cassirer alla Königlichen Friedrich-Wilhelms-Universität di Berlino – in qualità di Privatdozent prima e di professore ordinario dopo – durante i semestri estivi del 1910, 1914 e 1918; la lezione su Platone e sulla storia del Platonismo durante i semestri estivi del 1914 e del 1916; le esercitazioni sulla storia della filosofia antica (in seguito al Teeteto di Platone) nel semestre estivo del 1915, mentre le esercitazioni sulla platonica dottrina delle idee (Platons Ideenlehre) Cfr. Yale University Graduate School. XXIX. Philosophy. Faculty. Description of Courses. Graduate Courses. 1943-44, p. 189. 3

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PREMESSA

nel semestre estivo del 1916. Tuttavia, i manoscritti di queste lezioni e seminari non sono stati conservati. Cassirer continuò l’insegnamento di filosofia antica – e in particolare della filosofia di Platone – anche durante il suo incarico come professore ordinario all’Università di Amburgo, che era stata fondata nel 1919 in seguito alla rivoluzione tedesca del novembre 1918. La lezione berlinese su Platone e il Platonismo venne tenuta nel semestre estivo del 1921; la conferenza sulla filosofia greca venne riproposta nei semestri invernali del 1923/24, del 1926 e del 1928/29. Le esercitazioni sulla dottrina delle idee si svolsero nel corso del semestre estivo del 1921 e in quello invernale del 1922/23 (in particolare sulle opere della vecchiaia di Platone: Sofista, Politico, Timeo e Filebo). Non sorprende, dunque, che il Cassirer emigrante abbia tenuto un seminario su Platone (in inglese) presso l’All Souls College di Oxford nel 1935 durante il Trinity Term (da aprile a giugno). Inoltre, in qualità di visiting professor a Göteborg (1935-1941), Cassirer continuò il suo insegnamento sulla filosofia antica, in particolare su Platone. Nel semestre autunnale del 1935 tiene un corso in tedesco dal titolo Geschichte und System des philosophischen Idealismus. I. Platon und die geschichtliche Fortbildung des Platonimus; mentre nel semestre primaverile del 1937 tiene una conferenza – a noi già nota – sulla filosofia dei Greci e un seminario sui seguenti dialoghi di Platone: Menone, Fedone, Repubblica libri VI e VII. Nel semestre autunnale del 1938 Cassirer organizza un seminario sulla dottrina delle idee (Repubblica, Teeteto, Sofista). Da tutto ciò appare evidente come la decisione, da parte di Cassirer, di tenere delle lezioni sulla filosofia antica durante il semestre autunnale del 1942 fosse già stata preceduta da decenni di esperienza didattica.

PREMESSA

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Giacomo Borbone, nel suo saggio introduttivo, fa riferimento in maniera dettagliata a un’altra circostanza che ebbe modo di favorire queste lezioni: Cassirer non era di certo predestinato a tenere delle lezioni all’Università di Yale soltanto per via dei corsi sulla filosofia greca tenuti sin dal 1914, ma piuttosto per l’elevato numero di pubblicazioni precedute, tra le altre cose, da approfonditi studi e ricerche. Oltre alle opere citate nel saggio introduttivo, vanno qui menzionati anche i seguenti testi di Cassirer: il secondo capitolo del primo volume di Das Erkenntnisproblem (1906) intitolato “L’umanesimo e il conflitto tra Platonismo e Aristotelismo”, il contributo su Goethe e Platone del 1922, il saggio Eidos ed Eidolon del 1924, Die Platonische Renaissance in England und die Schule von Cambridge del 1932 come anche il contributo – apparso lo stesso anno – Die Antike und die Entstehung der exakten Wissenschaft. Questa serie di testi conferma la tesi secondo cui con Ernst Cassirer abbiamo a che fare con un eccellente conoscitore della filosofia antica, le cui lezioni sull’argomento meritano comunque di essere curate, pubblicate e quindi rese accessibili a un’ampia cerchia di lettori; anche se, per il momento, soltanto a coloro che conoscono bene la bella lingua italiana. Berlino, 2022

Christian Möckel

PREFAZIONE

«La idea, over immaginativa, è e timone e briglia de’ sensi, in però che la cosa immaginata move il senso.» Leonardo da Vinci, W 1901

La pubblicazione italiana di queste lezioni inedite sulla filosofia antica svolte da Ernst Cassirer nelle Università di Oxford (nel corso del 1935) e nell’Università di Yale (nel corso del 1942) costituisce una novità assoluta a livello mondiale. Una novità assoluta la cui pubblicazione italiana è merito, in primis et ante omnia, del giovane curatore di questo volume, Giacomo Borbone, alla cui introduzione, Lo strano caso delle “Lectures on Ancient Philosophy” di Ernst Cassirer, rimando senz’altro il lettore interessato a conoscere analiticamente le vicissitudini di questi manoscritti autografi cassireriani e anche i motivi che ne hanno precluso, fino a ora, la loro pubblicazione, facendo sì che queste Lezioni sulla filosofia antica non fossero raccolte nella più recente edizione dei testi e manoscritti postumi di Cassirer, ovvero la Ernst Cassirer Nachgelassene Manuskripte und Texte1 (pubblicata in 18 volumi, ma il piano originario ne prevede venti), che integra e completa la precedente e già monumentale Gesammelte Werke degli scritti del filosofo di Breslau Cfr. E. Cassirer, Nachgelassene Manuskripte und Texte, herausgegeben von John Michael Krois und Oswald Schwemmer, F. Meiner Verlag, Hamburg 1995-2020, 18 voll. 1

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(apparsa in complessivi 26 volumi)2. Certamente queste lezioni sono state pensate, predisposte e infine svolte da Cassirer in un momento particolarmente drammatico non solo per la sua vita personale, ma anche per la storia mondiale. Infatti, poco dopo la presa del potere da parte di Adolf Hitler, nel gennaio del 1933, Cassirer si dimise dall’Università di Amburgo e, come altri eminenti ebrei di lingua tedesca (basterebbe ricordare i nomi di Albert Einstein e di Sigmund Freud), iniziò il suo personale esilio per salvarsi dalla morsa omicida e criminale del nazismo che, tuttavia, godeva allora dell’appoggio, pressoché incondizionato, della maggioranza della popolazione tedesca. Queste Lezioni cassireriane, propedeutiche allo studio diretto e analitico delle fonti del pensiero greco classico, sono state svolte per alcuni giovani studenti americani cui Cassirer si rivolge esplicitamente nelle Conclusioni, ringraziandoli «cordialmente per la [loro] attenzione», nonché «per la perseveranza e la pazienza con cui [hanno] seguito queste lezioni»3. Pur fornendo a questi suoi studenti «una panoramica piuttosto breve dei princìpi fondamentali del pensiero greco» (917), tuttavia va anche ricordato come in queste sue Lezioni Cassirer segua sempre l’impianto storico-metodico – e Cfr. Id., Gesammelte Werke herausgegeben von Birgit Recki, F. Meiner Verlag, Hamburg 1998-2009, 26 voll. 3 Id., Sulla filosofia antica. Manoscritti delle lezioni inedite di Oxford (1935) e Yale (1942), traduzione e introduzione a cura di Giacomo Borbone, Premessa di Christian Möckel, Prefazione di Fabio Minazzi, Bompiani, Milano 2023, p. 917. D’ora in poi indicherò direttamente nel testo, tra due parentesi tonde, con il riferimento a un numero arabo, le pagine della presente edizione da cui sono tratte tutte le citazioni di Cassirer provenienti da queste sue lezioni inedite sulla filosofia antica. 2

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teoretico – proprio della sua celebre e fondamentale Das Erkenntnisproblem in der Philosophie und Wissenschaft der neueren Zeit4 (apparsa in complessivi quattro volumi). Infatti, anche in queste lezioni sul pensiero greco Cassirer si sforza sempre di illustrare, con grande rigore e altrettanta chiarezza concettuale, quello che potremmo indicare (facendo nostra una sua precisa indicazione che si legge in apertura del capitolo nono consacrato ad Aristotele), come «il centro di gravità» (739) teoretico dei vari pensatori greci e delle loro differenti scuole di pensiero. In tal modo nella pur sintetica e propedeutica ricostruzione storico-critica cassireriana l’essenziale ricognizione storica si fonda, mirabilmente, con un orizzonte teoretico che sempre aiuta il lettore a meglio intendere l’originale ed effettivo contributo di pensiero che la riflessione degli antichi pensatori greci ha donato all’umanità. Non per nulla in apertura di queste sue Lezioni Cassirer richiama esplicitamente l’insegnamento di un grande storico come Tucidide, onde sottolineare come, a suo avviso, «il pensiero e la cultura greca» costituiscano, ancor oggi, un «“possesso perenne e permanente” dell’umanità», aggiungendo che «è proprio nell’individualità e nell’unicità di questo pensiero che consiste la sua universalità e il suo valore». Ma universalità e individualità non costituiscono forse «concetti e ideali che si escludono a vicenda?» (145). A questa domanda di Cassirer si potrebbe poi anche aggiungere un altro rilievo: di fronte alla catastrofe planetaria cui il nazismo stava allora rapidamente precipitando l’intero mondo, 4 E. Cassirer, Das Erkenntnisproblem in der Philosophie und Wissenschaft der neueren Zeit, B. Cassirer Verlag, Berlin 19061950, 4 voll., altra più recente edizione presso Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1994, 4 voll.

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perché riferirsi proprio al pensiero dei primissimi pensatori greci, ovvero a quegli antichi filosofi che con la loro riflessione hanno comunque configurato la feconda e inesausta matrice della stessa tradizione occidentale? A fronte di queste domande più che legittime ecco la risposta di Cassirer: «a mio avviso, a essere davvero decisivi nel pensiero greco non sono i risultati ai quali esso approdò, bensì i metodi da esso scoperti e applicati. A essere di incomparabile valore era non tanto il modo di rispondere, ma il modo di domandare. Per esprimermi in maniera sintetica, direi che i Greci furono i primi a scoprire le categorie fondamentali del pensiero scientifico ed empirico» (147). La precisa modalità teoretica di queste loro scoperte si radica, dunque, in un nuovo atteggiamento mentale e in una nuova disponibilità culturale che scopre la fecondità di un’interrogazione critica continua, aperta e intrinsecamente problematica. In questa prospettiva la filosofia, nata all’interno della cultura greca (pur essendo stata inizialmente importata nel cuore della civiltà greca provenendo quasi sempre – e non a caso – dai territori di confine delle colonie greche) non serve tanto per fornire eventuali risposte, bensì, e al contrario, proprio per suscitare nuove domande e nuovi problemi. Nuove domande e nuovi problemi, la cui fecondità consiste, appunto, nell’avviare quel confronto critico-concettuale che ha plasmato lo stile concettuale della cultura occidentale. Un particolare e fecondo stile concettuale, critico, culturale e civile che proprio il nazismo tentava allora di cancellare dalla faccia della terra, onde far ritornare l’Europa all’età delle barbarie e delle tenebre in cui solo la forza – ovvero, per dirla aristotelicamente, l’argomento di chi non ha più argomenti! – avrebbe potuto e dovuto dirimere le eventuali controversie e gli stessi conflitti onde creare un unico e

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tirannico potere dittatoriale. In questa particolare chiave ermeneutica allora queste Lezioni cassireriane non costituiscono solo l’espletamento effettivo di un compito specifico (ovvero quello di insegnare Storia della filosofia all’All Souls College in qualità di visiting professor), ma costituiscono anche un tacito ripensamento critico delle stesse radici della migliore tradizione occidentale onde trovare un riorientamento di denuncia e di lotta, culturale e civile, contro l’allora sempre più imperante e montante barbarie nazista. In questa prospettiva di lungo periodo tutti noi allora non possiamo non essere discepoli dei Greci, non per i loro eventuali risultati scientifici, bensì proprio per i «metodi del pensiero scientifico – non di singole verità, ma dei modi per trovare e perseguire la verità. È in questo senso che i Greci sono gli autentici precursori del pensiero scientifico. Siamo loro debitori non per le cose che hanno scoperto nel corso della direzione intrapresa, ma per il fatto stesso di aver imboccato questa nuova direzione. Da questo punto di vista tutti noi, consapevolmente o meno, siamo allievi dei Greci. […] Se paragonati alla nostra conoscenza dei fatti empirici e alla nostra esperienza dei mezzi tecnici, i Greci sembrano alquanto superati. Ma l’abbondanza di fatti non indica necessariamente una ricchezza di pensieri; inoltre, il più potente apparato tecnico non può compensare la mancanza di un giudizio accurato. I Greci non inventarono nuovi strumenti tecnici, ma ci hanno fornito gli strumenti di pensiero più essenziali. Furono i primi a capire e a spiegarci cos’è e cosa significa una teoria matematica, scientifica e medica – ed è per tale ragione che tutti noi resteremo sempre debitori nei confronti del pensiero greco» (151). Prendendo le mosse da questa consapevolezza – a un tempo storico-critica e anche teoretica – Cassirer

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analizza allora come i primi pensatori del mondo greco attuarono una progressiva, ma decisiva, emancipazione dal pensiero mitologico. Certamente già l’introduzione di una religione antropomorfica come quella connessa con gli dèi personali dei Greci aveva costituito un notevole progresso rispetto alle precedenti forme di «religione animalistica», giacché nel mondo greco «gli dèi non assumono più forma animale – la forma dei gatti, dei coccodrilli, delle oche o delle mucche – ma assumono invece forma umana; sono umanizzati. Tuttavia, si tratta ancora di mitologia e pensiero mitico, non di pensiero filosofico. Quest’ultimo si spinge più in là. I primi pensatori greci, per così dire, esordiscono dichiarando guerra al pensiero mitico e agli dèi personali; tentano di emanciparsi dalla mitologia dei poemi omerici. Risulta piuttosto difficile valutare la difficoltà e l’audacia di questo secondo grande passo che conduceva dalla mitologia alla filosofia, dal pensiero mitico al pensiero teoretico» (163). Se si tiene presente il ruolo fondamentale e decisivo che i poemi omerici hanno ricoperto all’interno della primitiva cultura greca – giocando un ruolo del tutto analogo a quello che la Bibbia ha svolto, per alcuni secoli, all’interno della cultura occidentale – si può allora meglio intendere l’opera rivoluzionaria svolta dalla genesi della riflessione filosofica nel mondo greco. Annota a questo proposito Cassirer: «la prima filosofia greca fu una rivoluzione intellettuale e religiosa che forse non ha eguali in tutta la storia dell’uomo» (165). Ed è proprio in virtù di questa epocale rivoluzione culturale che noi possiamo continuare a considerare i Greci come i «classici del mondo»: «è con i Greci che l’umanità, per la prima volta, è entrata in questa nuova fase, che ha imparato a osservare il mondo da un punto di vista teo-

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retico, a indagare le ragioni delle cose e a ricercare una spiegazione razionale dei fenomeni naturali e una teoria razionale dell’uomo» (169 s.). Secondo un noto rilievo platonico, alle Olimpiadi si recano diverse categorie di persone. Vi sono infatti in primo luogo gli atleti che si recano a Olimpia per gareggiare e cercare di vincere. Vi sono poi altre persone che si recano a Olimpia per commerciare e trarre profitto da queste manifestazioni sportive. Infine, vi sono coloro che si recano a Olimpia non per gareggiare e neppure per guadagnare, bensì per assistere ai giochi da spettatori. Proprio l’attitudine specifica al “saper guardare” di questa terza categoria di persone ci aiuta allora a meglio intendere l’atteggiamento teoretico che per i Greci consiste in uno sguardo disinteressato, volto a conoscere le cose nella loro stessa autonoma natura. Ed è esattamente entro questa felice – e feconda – chiave teoretica che Cassirer sviluppa le sue Lezioni sulla filosofia antica – come già aveva dipanato le sue mirabili considerazioni storiografiche sull’Erkenntnisproblem in der Philosophie und Wissenschaft der neueren Zeit. Presentando infatti i differenti concetti elaborati dai pensatori greci, Cassirer è sempre interessato a far cogliere al suo lettore «in che modo tutti questi concetti sono reciprocamente interconnessi. Essi sono parti e componenti di una grande totalità. Non sono resti sparsi, quanto invece costituenti di un sistema coerente di pensiero. Ogni nuovo pensatore ha una parte nuova e davvero originale nel processo generale del pensiero greco. Ogni pensatore si pone una nuova questione e ce ne fornisce una soluzione. Se guardiamo alla filosofia greca in questo modo, allora essa non appare più come una cosa strana, remota, difficile e oscura. Non è inaccessibile o impermeabile al nostro pensiero moderno; essa diventa, per così dire, trasparente» (171 s.).

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In questo preciso senso Cassirer sa, del resto, di non aver di fronte a sé un uditorio di studenti interessati a uno studio storico-scientifico specialistico del pensiero greco perché rivolti a una formazione squisitamente e necessariamente filosofica. Cassirer sa invece che i suoi studenti costituiscono un gruppo misto, molto vario e assai composito, animato da differenti interessi di studio e proprio per questo chiede loro di essere disposti a seguirlo nella sua linea interpretativa precedentemente accennata, in modo da poter mostrar loro «i Greci in una luce diversa; non come gli antichi o come i classici, ma come quegli uomini che devono essere interessanti per ogni giovane – poiché in essi sentiamo la giovinezza stessa dell’umanità». Avviando in questo modo – squisitamente teoretico – queste sue lezioni sugli antichi pensatori greci, Cassirer avverte subito come «i filosofi di Mileto furono i primi a scoprire il mondo teoretico e trovarono anche un approccio scientifico per questo mondo», proprio perché la Scuola ionica è riuscita a separare criticamente il concetto di «una verità “puramente” teoretica», distinguendola dalla «verità mitica» (183). Come noto, la riflessione degli Ionici ha elaborato il concetto di arché (equivalente al principium dei latini). Ma per meglio cogliere il preciso significato di questo “principio” Cassirer si rifà alla testimonianza del primo storico della filosofia, ovvero ad Aristotele che nel primo libro della Metafisica qualifica gli Ionici come «antichi fisiologi» (983a e b)5. Cassirer fa sua questa definizione aristotelica, ricordando che la “fisiologia” cui si riferisce lo Stagirita presenta una dupliCfr. Aristotele, Metafisica, con testo greco a fronte, Introduzione, traduzione, note e apparati di Giovanni Reale, Bompiani, Milano 2000/2014, pp. 14-15. 5

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ce componente etimologica: Physis e Logos. Il primo termine deriva dal verbo phyo che indica il crescere di una determinata realtà. «La Fisio-logia è pertanto un Logos che significa una teoria, una dottrina, un’ipotesi scientifica sull’origine delle cose» (189). A fronte e in aperto contrasto con la tradizionale spiegazione mitologica della formazione del mondo, i pensatori della Scuola ionica aspirano così all’elaborazione «di una descrizione scientifica dell’origine e della crescita del mondo» (191). Su questo nuovo terreno, grazie alla Scuola ionica, emerge allora «un nuovo modo di domandare e di rispondere» (193), perché «i pensatori ionici cercano una fisio-logia, ossia le cause fisiche delle cose» (195), ovvero l’individuazione di una «causa fisica» che non dipende più dalla mitologia o da un dio personale. All’interno di questo nuovo orizzonte di ricerca emerge la necessità di riferirsi a un nuovo concetto, quello della sostanza, «di un qualcosa di persistente, permanente, duraturo che sta alla base di tutti i mutamenti» (197), grazie al quale si può costruire una scienza della natura e anche una «teoria della natura». Rileva ancora Cassirer: «qui ci troviamo al cospetto di un nuovo concetto che, da quel momento in poi, avrebbe governato l’intero sviluppo del pensiero filosofico: il concetto di sostanza. I primi pensatori greci – Talete, Anassimandro e Anassimene – non avevano ancora utilizzato il termine “sostanza”. Il termine greco per questo concetto – οὐσία o Essere – non apparve prima di Platone e Aristotele. Ma cionondimeno, i pensatori ionici sapevano bene cosa fosse la “sostanza” e cosa significasse. Essi furono i primi creatori del concetto di “sostanza materiale”, di una cosa che rimane costante e immutabile malgrado il mutamento delle sue qualità. Ciò che gli Ionici chiamano principio delle cose non è un mero inizio nel tempo. Esso è il primo principio e il fon-

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damento permanente delle cose. Esso non si affievolisce, ma rimane ciò che è, mantiene la sua natura invariabile» (209 s.). Nel che si può cogliere tutta la distanza che allora sussiste tra il pensiero mitico e quello scientifico inaugurato dagli Ionici: nel pensiero mitico infatti la causa coincide con qualcosa di fortuito e insignificante, mentre l’effetto è micidiale e invariabilmente fatale. Al contrario, «la relazione tra “causa” ed “effetto” presente nel pensiero ionico è diametralmente opposta a quella presente nel pensiero mitico» (213) perché per gli Ionici vale esattamente l’opposto: «gli effetti sono mutevoli e molteplici. È proprio questa circostanza che fa la differenza, poiché introduce una nuova era, l’era del pensiero teoretico» (213 s.). Epoca che inaugura, dunque, l’avvio della lunga e complessa tradizione del pensiero scientifico occidentale, che troverà infine nella massima lucreziana ex nihilo nihil fit, in nil nil posse reverti un suo punto di riferimento irrinunciabile. Il che costituisce un permanente acquisto di pensiero che troverà espressione originale anche nella teoria dell’apeiron di Anassimandro, in virtù della quale «a ogni cosa nel mondo viene garantito un tempo determinato per la sua esistenza. Non si può trasgredire questo tempo e non si possono sorpassare i limiti temporali che ci vengono concessi. Altrimenti si dovrebbero violare i diritti degli altri e ciò sarebbe una richiesta inammissibile, un’ingiustizia. Le singole cose devono risarcirsi a vicenda e soddisfarsi a vicenda, giacché una perisce mentre l’altra resta in vita» (221). Il che induce naturalmente a modificare anche la percezione della morte che si configura allora come «il destino naturale di tutte le cose finite» giacché «una cosa finita deve necessariamente svanire per far posto a un’altra. Soltanto così l’ἄπειρον, l’Illimitato, la sostanza e il fondamento reale delle cose può vivere» (221).

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Non è naturalmente possibile seguire analiticamente lo straordinario testo delle lezioni cassireriane, anche per non togliere, volutamente, al lettore il piacere, squisitamente teoretico, di vedere come il pensatore di Breslau sappia sempre dipanare concettualmente tutte le differenti movenze concettuali connesse alle figure e alla riflessione degli antichi filosofi greci, da Eraclito a Pitagora, da Parmenide e la sua scuola a Empedocle, da Anassagora alla riflessione degli Atomisti, Leucippo e Democrito, per poi indagare anche il movimento dei Sofisti, la figura di Socrate, quella di Platone e di Aristotele, senza infine trascurare il movimento dello Stoicismo, quello inaugurato da Epicuro per infine concludere la sua trattazione panoramica con la considerazione del Neoplatonismo plotiniano, che ci proietta fin quasi alle soglie della nuova epoca del pensiero medievale. Nell’affidare ora al sagace e discreto lettore, à la Galileo, la mirabile “cavalcata” cassireriana lungo questi secoli dell’antica riflessione occidentale, mi corre tuttavia l’obbligo di ricordare come la presente edizione del testo di Cassirer si legga con grande piacere e autentico godimento intellettuale anche grazie al certosino e prezioso lavoro filologico posto in essere dal curatore del libro, Giacomo Borbone. Infatti, è merito di Borbone aver riscontrato analiticamente e filologicamente le citazioni che figurano nel testo di Cassirer, riuscendo a individuare le differenti fonti, ripristinando anche tutte le diverse citazioni onde poter offrire al lettore un testo quanto più possibilmente articolato e strutturato. Infatti, Cassirer non ha potuto rivedere, in vista di una eventuale edizione, tutti questi suoi sparsi appunti predisposti per le sue lezioni americane consacrate all’antica filosofia greca. Ebbene, ciò che non ha potuto fare a suo tempo l’Autore, è stato ora egregiamente predisposto e rigorosamente “ricostruito” dal curatore che, con un la-

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voro di notevole impegno filologico e critico, è riuscito a restituirci un testo che se ancora risente, inevitabilmente, soprattutto in qualche punto meno strutturato, della mancata revisione finale dell’Autore, tuttavia è perfettamente in grado di restituirci l’orizzonte complessivo di queste preclare lezioni cassireriane sull’antica filosofia greca. Ma il lettore che potrà così godere di questo importante testo, utilizzandolo, eventualmente, anche per i suoi studi e le sue autonome riflessioni, non dovrà tuttavia mai dimenticare il debito culturale che tutta la comunità degli studiosi ha contratto con Borbone per aver saputo individuare e promuovere la pubblicazione di questo gioiello e anche per aver predisposto l’editing accurato di un testo che ora si può leggere e godere nella sua preziosa movenza concettuale. Ma nel delineare questa Prefazione non mi posso tuttavia sottrarre alla considerazione di un nodo concettuale particolarmente importante che del resto ben emerge sia dalla panoramica cassireriana, sia anche da alcune considerazioni dello stesso Borbone. Anche perché Borbone, da parte sua, ha già indagato, puntualmente, anche altri e differenti aspetti della ricerca cassireriana cui ha dedicato un interessante studio su La razionalizzazione del mito nella filosofia di Ernst Cassirer (apparso nel 2018)6 e un ancor più pregnante disamina critica e analitica del rapporto teoretico sussistente tra Cassirer ed Husserl dispiegata nelle pagine della monografia Pensieri al limite. Sostanza, funzione e idealizzazione in Cassirer e Husserl (del 2019)7, senza peraltro 6 G. Borbone, La razionalizzazione del mito nella filosofia di Ernst Cassirer, Tipheret, Catania 2018. 7 Id., Pensieri al limite. Sostanza, funzione e idealizzazione in Cassirer e Husserl, Diogene Edizioni, Scisciano (Napoli) 2019.

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dimenticare anche due suoi precedenti contributi, quello sulle Questioni di metodo. Leszek Nowak e la scienza come idealizzazione (del 2016)8 e una monografia precedente su La rivoluzione culturale di Antonio Labriola (del 2012)9. Da tutti questi suoi studi, scaturiti, perlopiù, dalla stessa formazione di Borbone attuatasi a stretto e fecondo contatto con le ricerche e le riflessioni di uno storico della filosofia con seri interessi epistemologici come Francesco Coniglione, emerge sempre un’attenzione specifica per l’immagine della conoscenza scientifica e la connessa considerazione critica della natura intrinseca della scienza. Questo interessante file rouge delle ricerche di Borbone è naturalmente presente, in filigrana, anche nella sua meditata Introduzione in cui viene ricostruito l’andamento complessivo, all’interno di queste Lectures, di quella che Borbone individua costituire la «sintesi filosofica cassireriana», sempre in grado di attuare «un circolo virtuoso tra ricognizione storica e riflessione teoretica, tra problema e sistema», proprio perché sempre preoccupata – per dirla con Charles W. Hendel – di esplicitare le «interdipendenze delle diverse forme di conoscenza e della cultura umana». Non solo: tenendo ben presente la produzione teoretica dello stesso Cassirer – e, in particolare, la sua monumentale Philosophie der symbolischen Formen (3 voll, in 4 tomi)10 – Borbone si sofferma allora, del tutto Id., Questioni di metodo. Leszek Nowak e la scienza come idealizzazione, Bonanno, Acireale-Roma 2016. 9 Id., La rivoluzione culturale di Antonio Labriola. L’innesto creativo del marxismo nella tradizione della cultura italiana, Prefazione di F. Coniglione, Aracne Editrice, Roma 2012. 10 E. Cassirer, Philosophie der symbolischen Formen, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1954-1958, 3 voll. in 4 tomi. 8

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giustamente, sulla figura di Platone e il ruolo e l’importanza che la sua filosofia assume anche nella riflessione teoretica e storiografica dello stesso Cassirer. Infatti, scrive Borbone, «anche il Platone proposto da Cassirer […] viene arricchito di nuove interpretazioni e chiavi di lettura che sottraggono il grande pensatore ateniese alla miriade di semplificazioni e banalizzazioni di cui spesso è rimasto vittima. L’esemplarità del Platone di Cassirer, infatti, emerge proprio quando la si smetta di considerarlo come quell’eccentrico pensatore teso a postulare l’esistenza di due mondi separati, per intenderlo invece come un pensatore che, per il bene di questo mondo e per una sua più appropriata comprensione, offre la sua teoria delle idee in chiave eminentemente gnoseologica e ontologica insieme. In buona sostanza, il mondo delle idee (livello gnoseologico o epistemologico) – situato idealmente al di sopra della immediatezza empirica (livello ontologico) – ci permette di collocare gli innumerevoli aspetti dell’opaca conoscenza sensibile a un livello categoriale superiore» (infra, p. 80). Ricollegandosi esplicitamente alla lettura neokantiana del Platonismo elaborata da pensatori come Cohen e Natorp, Borbone ricorda allora come un aspetto fondamentale per la comprensione dell’idealismo (e non solo del Platonismo) si radichi «nell’imparare a “distinguere l’essere […] dell’idea dall’essere della cosa”. In tal modo Platone non viene visto più come un acerrimo nemico della realtà empirica, giacché quest’ultima, proprio perché prima facie ci appare imperfetta e variegata, ha bisogno di trovare ordine e sistematicità nel concetto, senza la cui funzione unificante il mondo si ridurrebbe a un mero caos. Pertanto, secondo il pensatore ateniese – nella interpretazione che ne dà Cassirer – non vi è alcun dualismo, nessun mondo ideale separato da quello

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empirico, quanto invece un intero, sulla cui base fenomenologica si erge un sistema categoriale che ci permette di cogliere, qualora dovesse mostrarsi efficace, l’ordine immanente agli aspetti della realtà fenomenica. Se tale sistema dovesse invece rivelarsi insufficiente, allora saremo costretti a risalire a un livello superiore, fino al punto da raggiungere un principio anipotetico di fronte al quale ci si può fermare. Fatto ciò, sarà possibile ridiscendere verso il mondo fenomenico il quale, alla luce del principio dal quale siamo discesi, acquista adesso un senso che, in prima istanza, non era possibile cogliere per via della debolezza scaturente dalla mera osservazione empirica. I principi di cui parla Platone – e ciò emerge dalla lettura cassireriana dell’intera produzione platonica – sono principi immanenti al reale ed è proprio questa lettura apparentemente così drastica che sarà alla base dell’originale interpretazione cassireriana di Galileo e della funzione esercitata dal Platonismo in epoca rinascimentale. Se questi principi sono immanenti al reale, allora ciò significa che anche per Platone la natura parla in linguaggio matematico, per cui il Platonismo del Rinascimento lo si può a ben diritto considerare come un’applicazione – in chiave fisico-matematica – della dottrina delle idee al mondo del divenire. Pertanto, come afferma Cassirer, in Die Philosophie im XVII und XVIII Jahrhundert, bisogna intendere “il pensiero galileiano come platonico-archimedeo. Galileo osò introdurre per primo nella fisica l’ἐξ ὑποθέσεως σκοπεῖν che Platone insegnò nel Menone”11» (infra, pp. 81 s.). Questa ampia citazione dal saggio di Borbone, che introduce puntualmente la lettura di questo libro, ci Id., Die Philosophie im XVII und XVIII Jahrhundert, Hermann et Cie, Paris 1939. 11

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consente di cogliere tutta l’importanza strategica – sia a livello storiografico, sia anche a livello teoretico – che la lettura cassireriana di Platone inevitabilmente assume all’interno della storia del pensiero occidentale antico e moderno. Naturalmente Cassirer non può che sottolineare tutto il valore intrinseco della lezione platonica. Se un pensatore come Alfred North Whitehead ha scritto che «the safest general characterization of the European philosophical tradition is that it consist of a series of footnotes to Plato»12, per parte sua Cassirer rileva, invece, come «la dottrina di Platone divenne, per così dire, un palinsesto, paragonabile a una pergamena sulla quale, nel corso dei secoli successivi, si è scritto e riscritto più volte fino al punto da aver quasi cancellato del tutto lo scritto originale» (517). Ma nel sottolineare l’importanza storica e concettuale decisiva che il Platonismo ha esercitato nel corso della storia occidentale occorre naturalmente tener presenti perlomeno due aspetti non trascurabili. In primo luogo, che allora il “Platonismo”, entro questa complessa dipanatura storica non può che essere inteso alla luce della pluralità dei “platonismi”, molto diversi tra di loro, che, nel corso dei secoli, si sono variamente intrecciati e reciprocamente contaminati. In secondo luogo, non andrebbe poi dimenticato come la riflessione platonica prenda avvio in virtù e grazie alla straordinaria lectio socratica per la quale, come Socrate stesso dichiara nel Fedro, «io sono uno che ama imparare. La campagna e gli alberi non mi vogliono insegnare niente; gli uomini della città, invece, sì» (FiA. N. Whitehead, Process and Reality. An Essay in Cosmology, edited by D. R. Griffin and D. W. Sherburne, The Free Press, New York 1978, p. 39. 12

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lebo, 230D)13. Proprio questa importante e significativa svolta socratica segna un decisivo abbandono dell’interesse prettamente naturalistico (basato, come si è visto, sullo studio della Fisio-logia ionica) per lo studio della natura, per concentrarsi, invece, su una riflessione che trova nell’uomo il suo punto archimedeo di riferimento privilegiato. In tal modo anche il conseguente e coerente naturalismo connesso a pressoché tutta la riflessione degli Atomisti è sostanzialmente abbandonato, come pure è abbandonato l’antico e originale interesse di Pitagora per la “scienza esatta”. Infatti, come rileva lo stesso Cassirer in queste sue Lezioni, «ciò che Pitagora rilevò non fu un singolo fenomeno di natura, bensì un principio fondamentale della nostra conoscenza della natura. Questo principio è il vero e proprio inizio di ciò che chiamiamo “scienza esatta”. Per “scienza esatta” non si intende altro che la capacità umana di ordinare e connettere le esperienze sensibili, in modo tale da renderle descrivibili in termini matematici, in termini di numero. E fu proprio Pitagora ad aver fornito il primo esempio e la prima prova convincente di una descrizione del genere. Egli creò una teo­ria dell’acustica; concepì il mondo dei suoni – che fino ad allora potevano essere percepiti soltanto attraverso l’udito – come un ordine concettuale» (307). In tal modo anche nella lezione pitagorica si afferma un originale nesso tra le esperienze sensibili e l’ordine concettuale numerico che pone, appunto, l’avvio della costruzione di una “scienza esatta”, in virtù della quale si gettano le premesse per una diversa considerazione conoscitiva del mondo fisico e sensibile. Ma è proprio Platone, Opere, trad. it. di Autori Vari, Editori Laterza, Bari 1966, 2 voll., il Filebo si trova nel vol. I, pp. 657-721. 13

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rispetto a questa innovativa strada decisamente naturalistica (sia pur variamente e differentemente approfondita dalla Scuola ionica, da quella atomistica e anche da quella pitagorica) che il Platonismo, soprattutto grazie alla fondamentale lectio socratica, devia in modo sensibile, inaugurando un nuovo orizzonte della riflessione che trova appunto nell’uomo (e nella città) e non nella natura (e nella campagna) il suo punto di riferimento privilegiato. Se infatti Socrate afferma, come si è visto, che la campagna e gli alberi non vogliono insegnargli nulla, mentre gli uomini della città vogliono insegnargli, cambia, allora, proprio lo sguardo teoretico con cui i naturalisti studiavano la natura per meglio conoscere il mondo (la campagna e gli alberi) e l’uomo stesso. Non per nulla proprio nel confronto critico tra questi due differenti “sguardi teoretici” già nel mondo antico si consumò anche un serrato confronto critico alla luce del quale i naturalisti – soprattutto e con particolare riferimento agli Atomisti (si pensi, per esempio, all’VIII libro della Fisica di Aristotele) – furono complessivamente sconfitti, mentre l’indirizzo platonico, sia pur variamente intrecciato e variamente contaminato anche con quello aristotelico, si affermò, appunto, come il “palinsesto” fondamentale della tradizione occidentale, perlomeno fino alla modernità (cfr. infra). Il che spiega anche l’interesse strategico decisivo che per la riflessione platonica assume allora il problema del linguaggio (la cui analisi è mirabilmente delineata nel Cratilo14). Anche perché, come giustamente sottolinea Cassirer, «secondo Platone, non possiamo definire la natura delle cose, né coglierne l’origine senza aver prima indagato la natura della verità. L’ontologia (la scienza dell’essere) dipende dalla logica (la scienza 14

Cfr. Id., Opere, op. cit., vol. I, pp. 187-257.

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della verità). La spiegazione della verità è il punto fermo al quale vanno riferiti tutti i giudizi particolari sull’esistenza e sulle proprietà delle cose. Platone considera la definizione di verità come il punto fisso e stabile della filosofia – un concetto che funge per noi da guida e stella polare in tutte le nostre indagini su oggetti particolari e problemi particolari» (533 s.). Per questa ragione per Platone il concetto dell’Essere deve allora risultare conforme ai principi del ragionamento dialettico e la stabilità dei principi non può che entrare in tensione critica con l’incessante mutevolezza dei fenomeni propri dell’esperienza sensibile. Pertanto, per avviare una riflessione filosofica degna di questo nome, per Platone – autentico «theologus mente captus», secondo la nota qualifica di Francis Bacon – «dobbiamo pertanto violare la sfera delle apparenze finite e transitorie. Dobbiamo andare alla ricerca di quegli oggetti adeguati al nostro postulato di una conoscenza invariante – di una conoscenza delle cose per come sono realmente, invece di rinunciare o negare questa sua natura da un momento all’altro. Nella terminologia di Platone, questo pensiero viene espresso dalla distinzione tra ciò che viene chiamata sfera dell’ὄντως ὄν (l’esistenza reale) e il dominio dei meri ὄντα (esistenza empirica). Attraverso tale distinzione, la filosofia platonica introduce, per così dire, una nuova dimensione nell’indagine e spiegazione dell’universo. Il campo delle cose empiriche, in un certo senso, rappresenta soltanto la superficie delle cose; una superficie che non rivela in alcun modo la loro reale profondità» (535). Per questa ragione, come si legge espressamente nel Fedone (99D-E)15, per poter cogliere la verità delle cose che sono Platone 15

Cfr. Id., Opere, op. cit., vol. I, pp. 93-185.

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ritiene allora che si debba prender le mosse dai logoi, ovvero da alcuni postulati. Insomma: la realtà sensibile non può mai essere conosciuta se la si studia unicamente con l’occhio sensibile, ma solo se la si indaga partendo da alcuni precisi principi epistemici. Il che risulta del tutto corretto nella misura in cui ci consente di cogliere tutti i limiti di ogni induttivismo acritico e anche di ogni empirismo radicale, anche se poi rischia di configurare, a sua volta, un’accentuazione teoretica altrettanto unilaterale e acritica proprio nella misura in cui contrappone alla realtà sensibile illusoria un presunto vero mondo ideale assoluto. Esattamente entro questa mossa teoretica si radica il merito teoretico del Platonismo di Platone. Come ancora sottolinea Cassirer «Platone non inizia le sue indagini chiedendosi che cosa sono le cose; piuttosto, si chiede perché e per quale ragione esse sono. Egli non indaga solamente l’esistenza e le proprietà delle cose; esige di conoscere la loro essenza e ragione. Pertanto, la questione filosofica da lui posta non la si può indirizzare direttamente alle cose effettivamente empiriche, a ciò che egli chiama τὰ ὄντα o τὰ πράγματα; essa, piuttosto, va diretta ai princìpi ideali che spiegano la natura delle cose e che forniscono un resoconto logico e scientifico di essa, ovvero a ciò che egli chiama οἵ λόγοι» (537 s.). La celebre “seconda navigazione” platonica, lo indusse così a scoprire «una nuova terra: il mondo delle idee». A questo proposito Cassirer ricorda come «sarebbe un errore pensare che Platone poté effettuare questa scoperta librandosi sopra l’intero campo della conoscenza e trascendendo questo campo in una sorta di improvvisa visione estatica. Una tale estasi – richiesta ed esaltata da tutti quei successivi sistemi filosofici che si sono appellati all’autorità di Platone – non costitui-

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sce affatto il metodo di Platone» (539). Proprio perché «Platone decide di abbandonare il mondo empirico (il mondo dei πράγματα), ma non oltrepassa mai i limiti del mondo logico (il mondo dei λόγοι). Platone non afferma di possedere una intuizione immediata della verità; tenta di trovarla attraverso un processo dialettico, attraverso un processo di analisi e deduzione» (539). Anche su questo piano Platone si muove, dunque, in profonda sintonia con la lezione dialettica socratica e anche con quel terreno di riflessione sul linguaggio che era stato sistematicamente sfruttato dagli stessi Sofisti. La conclusione di Platone ci ricorda che i nomi «non sono nomi di cose, oggetti dell’esperienza sensibile, ma nomi di concetti. Se non ammettiamo la verità e la realtà dei concetti, allora non possiamo render conto del fatto del linguaggio» (549). In questa prospettiva per Platone l’avvio del pensiero è strettamente intrecciato con l’imposizione dei nomi, anche se poi lui stesso «traccia una netta linea di demarcazione tra il mondo delle parole e il mondo delle idee pure. Logica e metafisica, le quali hanno a che fare con quest’ultimo campo, non vanno confuse con la grammatica o con la retorica, che appartengono invece al primo campo». Per questa ragione di fondo Platone non può allora che criticare sia il sofisticato nominalismo dei Sofisti, sia il rozzo realismo dei suoi oppositori (si pensi a Diogene di Sinope). Nella sua prospettiva «entrambe queste concezioni vanno attaccate ed emendate radicalmente: la prima perché si basa su un concetto forte della soggettività, il cui campo è ristretto alla percezione sensibile e non viene definito secondo la soggettività che manifesta se stessa nel pensiero e nel sapere; la seconda perché non riesce a comprendere e a spiegare il vero senso dell’oggettività, la quale andrebbe ricercata non tanto nei pragmata, quan-

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to invece nei logoi, non nelle semplici cose empiriche, ma nelle ragioni delle cose». Per Platone l’indagare le ragioni delle cose coincide con l’esatta comprensione della geometria. Non per nulla sull’ingresso stesso dell’Accademia platonica era esplicitamente indicato che non vi dovesse entrare chi non conosceva la geometria. Perché? Proprio perché lo studio della matematica ci consente di comprendere come i nomi (uguaglianza, identità, similarità) esprimano qualcosa di generale dotato di un significato immutabile e costante. Lo stesso che, sempre secondo Platone, sarebbe connesso anche ad altri nomi, quelli etici ed estetici (bontà, bellezza, giustizia, temperanza). Osserva Cassirer: «tutte queste parole perderebbero il loro senso, se oltre la sfera della nostra esperienza sensibile non vi fosse un’altra e più elevata sfera – una sfera di oggetti di pensiero – di oggetti “ideali” ai quali possiamo attribuire un identico e immutato significato, una reale identità» (561 s.). L’individuazione e la scoperta di questa dimensione concettuale pone naturalmente il problema del suo nesso con la dimensione degli oggetti sensibili. Come è noto Platone cerca di risolvere questo problema della relazione dei fenomeni sensibili con i criteri ideali attraverso un nesso che risulti essere, al contempo, di affinità e di diversità, instaurando, insomma, una connessione che, tuttavia, non implica mai una saldatura perfetta. Metessi e anamnesi costituiscono le due relazioni fondamentali con le quali Platone si sforza di precisare questa relazione eidetica che risulta essere, al contempo, di diversità e affinità tra il mondo concettuale delle idee e il mondo sensibile. Naturalmente per Platone «la conoscenza necessaria e apodittica è una conoscenza di verità eterne» (589), ma nella sua riflessione la teoria metafisica (per esempio quella dell’im-

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mortalità) si radica sempre entro la teoria logica. Il che permette allora a Platone di comprendere come la stessa percezione sensibile si possa attuare, conoscitivamente, solo se si radica entro precisi presupposti teorici. Per Platone è infatti evidente che il vedere si attua sempre e solo se si è capaci di saper vedere. Scrive Cassirer: percepiamo gli oggetti sensibili solo perché «li percepiamo attraverso la mediazione degli occhi e delle orecchie, poiché l’organo corporeo è soltanto uno strumento adoperato dalla mente nell’atto della percezione, e non la causa reale e originaria […] non è il senso l’autentico soggetto della percezione e non è l’organo corporeo a produrre l’atto della sensazione. È soltanto mediante la facoltà dell’anima, mediante la sua capacità di combinare e separare, unire o discriminare i dati forniti dai diversi sensi, che l’atto della percezione diviene possibile. Volendo esprimerci in termini più corretti, dobbiamo affermare che con la mente o anima – attraverso la mediazione di occhi e orecchi – noi diveniamo coscienti del mondo empirico, dei fenomeni dell’esperienza sensibile» (601 s.). Dopo aver così precisato l’impianto epistemologico del Platonismo e il suo modo di intendere il rapporto tra la conoscenza e la verità, Cassirer spiega perché proprio la difesa della trascendenza delle idee pure si intrecci sempre in Platone con il motivo etico – che trova il suo culmine nell’idea del Bene – per il cui tramite il filosofo ateniese non può che accentuare il nesso di metessi (di partecipazione) che sempre deve sussistere col mondo sensibile. Annota ancora Cassirer: «Platone non ritiene lecito per il filosofo abbandonare o negare il mondo empirico. Il filosofo è tenuto a comprendere e organizzare il mondo sia attraverso la facoltà del suo intelletto, sia attraverso la facoltà della sua volontà. Per quest’opera e organizzazione si esige la conoscenza

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del Bene e la conoscenza della verità. Soltanto il filosofo – l’uomo che ha ottenuto la conoscenza e intuizione del mondo ideale – è in grado di comprendere e governare il mondo empirico» (633). Il che spiega, naturalmente, anche le ragioni di fondo dell’impegno politico dello stesso Platone. Alla luce di questa ricostruzione del pensiero platonico Cassirer sottolinea poi la sostanziale continuità concettuale che connette la riflessione di Aristotele a quella di Platone. Scrive infatti Cassirer: «Aristotele criticò in modo piuttosto severo la dottrina platonica delle idee: ma tutte le sue obiezioni sono basate su una visione generale e definizione generale di filosofia che dipende interamente dai concetti platonici. La definizione aristotelica di forma e la sua definizione di “essere”, i concetti di οὐσία e εἶδος – che costituiscono i princìpi fondamentali dell’intera metafisica aristotelica – non possono essere intesi né spiegati senza un rimando alla loro origine platonica. Pertanto, possiamo affermare che, in un certo senso, la rivoluzione intellettuale esercitata dalla filosofia di Platone si è rivelata più efficace e più importante nell’opera dei suoi avversari, piuttosto che nell’opera dei suoi immediati successori o seguaci. Lo spirito del Platonismo si è rinvigorito in questi oppositori, rivelandosi una forza vivente e plastica nell’evoluzione del loro proprio pensiero. L’opposizione tra Platone e Aristotele diventò un’opposizione e un problema generale per il futuro sviluppo del pensiero filosofico. Questa opposizione costituisce la radice di tutte le controversie in ragione delle quali le scuole di filosofia medievale erano suddivise in diversi gruppi. Il tema di queste controversie, le dispute tra i seguaci del nominalismo e del realismo, non si possono spiegare e determinare senza un’analisi dei princìpi fondamentali

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della filosofia platonica» (505 s.). Se questo è vero allora non risulta solo che il Platonismo avrebbe costituito effettivamente l’alfa e l’omega della stessa filosofia occidentale – il suo “palinsesto” fondamentale come si è visto – ma risulta anche come lo stesso Aristotelismo abbia allora finito per costituire un elemento sostanzialmente “interno” alla stessa tradizione platonica o, per meglio dire, un elemento profondamente “complementare” alla lezione di Platone. Al punto che la stessa classica “contrapposizione” tra Platone e Aristotele cui si rifà Cassirer e che è stata plasticamente – ed emblematicamente – rappresentata da Raffaello nella sua celebre e classica Scuola di Atene, finirebbe, allora, per esaltare, semmai, proprio la loro sostanziale ed essenziale complementarietà, proprio perché Platone e Aristotele rappresenterebbero i due principali e paralleli binari concettuali lungo i quali si è complessivamente dipanata l’intera storia del pensiero occidentale, perlomeno fino alla nascita della scienza moderna, nel XVII secolo. Un pensiero occidentale che lungo tutti questi ventuno secoli e questi due millenni avrebbe allora avuto questo singolare sviluppo, a un tempo dicotomico e pure complementare e assai solidale, proprio perché nel V secolo a.  C. si era già consumata una precedente e radicale liquidazione teoretica di un’altra e alternativa tradizione di pensiero, ovvero quella della tradizione atomistica, emblematicamente rappresentata da un pensatore come Democrito di Abdera. In questa prospettiva ermeneutica non è allora un caso che nella trattazione di Cassirer di queste sue Lezioni sulla filosofia antica, il rilievo attribuito all’Atomismo democriteo risulti essere complessivamente alquanto insufficiente e depotenziato, proprio perché concepito sempre come subordinato, in qualche modo, alla massi-

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ma considerazione del Platonismo. Al punto che il lettore di queste Lectures può anche non cogliere tutta l’importanza e la dirompente novità teoretica intrinseca del programma di ricerca delineato dagli Atomisti, i quali hanno appunto posto le basi per un progetto teoretico e di pensiero scientifico decisamente alternativo a quello costruito dall’asse platonico-aristotelico che ha poi variamente egemonizzato la storia occidentale. Il che, naturalmente, nulla toglie ai meriti intrinseci della ricostruzione cassireriana del Platonismo e alla sua stessa larga influenza nella storia del pensiero occidentale. Anche perché quando Cassirer tratta il pensiero di Aristotele ha il merito, indubbio, di sottolineare, con forza, come la riflessione dello Stagirita nasca e tragga origine fondamentalmente dalla sua profonda vocazione biologica. Proprio questo vivo e fecondo interesse aristotelico per la biologia si riverbera poi in pressoché tutta la sua articolatissima opera, e giustamente Cassirer sottolinea come la stessa filosofia dello Stagirita non possa essere adeguatamente compresa se non si tiene presente proprio questa sua costante attenzione a un approccio biologico e organico allo studio del mondo. Aristotele era del resto figlio del famoso medico Nicomaco, appartenente, a sua volta, al qualificato gruppo degli “asclepiadi”, per i quali era prassi normale insegnare ai propri figli l’arte della dissezione. In tal modo il giovane Aristotele, oltre ad aver assimilato fin da piccolo la pratica e la tecnica della medicina, è stato poi per tutta la sua vita un paziente, assiduo, intelligente, perspicace e straordinario osservatore dei fenomeni naturali, che ha sempre studiato da differenti punti di vista. Tant’è vero – ricorda ancora Cassirer – che anatomisti e naturalisti della statura di un Cuvier e di un Darwin hanno sempre tenuto nella massima considerazione i contributi

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naturalistici di Aristotele. Del resto a questo proposito basterebbe ricordare quanto ha scritto lo stesso Darwin (in un giudizio puntualmente ricordato da Cassirer) osservando quanto segue: «Linneo e Cuvier sono state le mie due divinità in direzioni completamente diverse, ma essi non sono che principianti in confronto al vecchio Aristotele»16. È dunque proprio su questo terreno naturalistico delle indagini organiche e biologiche che secondo Cassirer può e deve essere allora individuata una differente e originale curvatura di pensiero emergente dall’interno dell’opera di Platone e di Aristotele. Certamente Cassirer non è il primo a sottolineare il debito che la riflessione aristotelica ha variamente contratto con le ricerche biologiche perché a questo proposito bisognerebbe ricordare come un eminente studioso del pensiero antico come Theodor Gomperz nel quarto volume della sua fondamentale opera Griechische Denker. Eine Geschichte der antiken Philosophie (1896-1909), consacrato ad Aristotele e i suoi successori, avesse già sviluppato questa originale e feconda lettura ermeneutica dell’opera dello Stagirita. Scrive infatti Gomperz a proposito dell’Aristotele naturalista (cap. XII): «se non conoscessimo Aristotele come un enciclopedista che abbraccia tutto il sapere del suo tempo, si potrebbe quasi essere tentati di considerarlo come uno specialista in z o o l o g i a , così sorprendente è il grado di approfondimento da lui raggiunto in questo campo, così meravigliosa la vastità delle sue ricerche zoologiche»17. Non C. Darwin, Life and Letters, edited by Francis Darwin, John Murray, London 1887, vol. III, p. 152. 17 T. Gomperz, Pensatori Greci, vol. IV: Aristotele e i suoi successori, trad. it. di D. Faucci, La Nuova Italia, Firenze 1967, p. 185, spaziato nel testo. 16

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solo: sempre Gomperz sottolinea anche come le stesse categorie fondamentali della metafisica aristotelica (potenza e atto, materia e forma) derivino, essenzialmente, dal suo approccio biologico, giacché a suo avviso «la vera patria di queste categorie è la vita della natura, in particolare la vita organica, che offre, tanto nei gradi dell’accrescimento come nella scala degli esseri, una progressiva realizzazione di germi dapprima rudimentali e di disposizioni solamente accennate»18. Ma, a sua volta, questo eminente fondamento biologico e questo costante interesse dello Stagirita per il mondo organico si fonda poi proprio con il Platonismo aristotelico che secondo Gomperz si radica nella stessa critica fondamentale che Aristotele ha rivolto al suo maestro. Per Aristotele, infatti, «è impossibile dire che una essenza e ciò di cui essa è essenza sussistono divise l’una dall’altra. Questa obiezione – continua Gomperz (ibidem) –, diretta contro la “separazione” o la trascendenza, costituisce nello stesso tempo il ponte che conduce alla trasformazione, operata da Aristotele, della dottrina del maestro nella dottrina dell’immanenza delle idee. Proprio qui il più sorprendente spettacolo si offre ai nostri occhi. Lo scolaro che combatte nel modo più vivo ed energico il proprio maestro non rimane per questo meno scolaro e si sforza, tanto zelantemente quanto inutilmente, di liberarsi dalla dottrina ricevuta. La tesi fondamentale, e, potremmo subito aggiungere, l’errore fondamentale di Platone, dal quale Aristotele non riesce a svincolarsi, si può formulare in breve così. Le cose sensibili sono innumerevoli, transeunti, in continuo flui­re, perciò non possono formare oggetto di una conoscenza veramente salda. Dovremmo quindi rinunciare a questa 18

Ivi, p. 125.

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se, o l t r e alle cose singole, non ci fosse un qualcosa di permanente e imperituro, appunto l’oggetto iperfisico della conoscenza reale»19. Si badi: per Gomperz non è affatto decisivo «che anche Aristotele non riesca a liberarsi completamente della tendenza platonica ad oggettivare le astrazioni, che egli lotti contro questa tendenza, che una volta appaia come vincitore di essa e di nuovo poi ne sia vinto, tutto questo è vero, ma non è la circostanza decisiva per la valutazione della metafisica aristotelica»20. Infatti, la tendenza a ipostatizzare le astrazioni non costituisce un’«insidia del linguaggio», cui sono spesso caduti anche eminenti scienziati, fisici e psicologi. Semmai, osserva ancora Gomperz «“Forma e forza attiva”, questa associazione di parole che si incontra nella Metafisica illumina vivamente lo spirito dell’ontologia aristotelica. Dove noi parliamo di forze della natura e di leggi che regolano la loro azione, Aristotele tratta di concetti. È qui che il suo metodo si distingue dai fondatori della genuina e feconda scienza della natura. Dal suo studio dei concetti nessun filo conduce alle conoscenze fondamentali dello studio della natura»21. Non è infatti questa la strada sulla quale si è incamminata la scienza moderna con la rivoluzione galileiana. E non è neppure questa la strada seguita da un Archimede nell’antichità. E non è neppure questo l’orizzonte teoretico delineato dalla riflessione degli Atomisti greci. Semmai, aggiunge ancora Gomperz, occorre tener presente che «in un passo della Metafisica si leggono queste parole quanto mai caratteristiche: “il perché si riduce in ultima analisi Ivi, p. 115, spaziato nel testo. Ivi, p. 127. 21 Ivi, p. 128. 19 20

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al concetto della cosa”. È questa la tipica espressione di quella illusione, per la quale crediamo di poter dedurre il nesso reale delle cose dal rapporto dei concetti che le rappresentano, mentre si può dire piuttosto il contrario: poiché l’osservazione e l’esperimento ci hanno illuminati sul concatenamento dei fenomeni, adattiamo le nostre concezioni al sapere così ottenuto; prima viene la conoscenza sperimentale, poi la corrispondente sistemazione dei concetti»22. Pur dissentendo legittimamente da questa conclusione empiristica e positivista, à la Mill, che emerge chiaramente dal passo di Gomperz, tuttavia è indubbio come questo studioso abbia colto, con precisione, la genesi platonica delle pseudo-spiegazioni aristoteliche nell’ambito della fisica, proprio perché in questo ambito le teorie fisiche di Aristotele mostrano la stretta alleanza (metafisica) instauratasi tra il platonico e l’asclepiade: «le teorie fisiche di Aristotele formano un capitolo poco felice della storia della scienza. Ci mostrano una mente elevata, in lotta con problemi per i quali non ha nessuna attitudine. Dico nessuna, poiché – cosa abbastanza strana – le buone qualità dell’intelletto aristotelico si sono mostrate non meno dannose delle sue manchevolezze. I l P l a t o n i c o e l ’ A s c l e p i a de non stanno questa volta in lotta l’uno c o n l ’ a l t r o . Essi sono alleati, a comune danno del progresso scientifico»23. Per ben comprendere questa pur assai mirabile e profonda fusione tra il platonico e l’asclepiade presente in Aristotele che ha poi variamente, ma sempre assai intensamente, condizionato la tradizione occidentale basti tener presente proprio l’apriorismo della teoria aristote22 23

Ibidem. Ivi, p. 153, spaziato nel testo.

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lica: «Un decimo di empirismo, nove decimi di speculazione; così forse si può equamente definire il contenuto delle opere che Aristotele ha dedicato alle questioni di fisica e affini. E nota bene: per speculazione non è da intendersi qui la legittima deduzione di conclusione da solide premesse, cioè la corretta applicazione del metodo deduttivo. Questa sarebbe stata una fisica matematica, alla quale in quell’età mancavano quasi tutti i fondamenti. Intendiamo piuttosto l’apriorismo nel cattivo senso della parola, cioè partire da ipotesi arbitrarie o da pregiudizi radicati ed estenderli mediante una dialettica sottile, che si impone con la sua ingegnosità e abilità, ma che non frutta in alcun modo utili risultati. Per ricchezza di espedienti, per agilità dialettica lo Stagirita è in verità insuperabile. Ma per il naturalista questa è stata una dote fatale»24. Ma l’apriorismo aristotelico si radica esattamente nella metafisica e nell’ontologia platonica, giacché la via seguita da Aristotele è sempre quella platonica: «l’essenza o l’essenziale è il concetto; “all’essenziale si riferisce la scienza; la scienza deve riferirsi a qualcosa di reale; conseguentemente… il concetto è qualcosa di reale”. In tal modo sembra che Aristotele sia ritornato alla dottrina platonica delle idee, da lui così violentemente combattuta. Eppure, egli non vuole convenirne. Si salva da questa ricaduta ponendo l’immanenza in luogo della trascendenza, facendo sussistere “il concetto o la forma delle cose d e n t r o , invece che a c c a n t o ad esse. […] Ci avvieremo il più possibile alla verità, se chiameremo la dottrina aristotelica un r e a l i s m o (o platonismo) a t t e n u a t o »25. Un Platonismo attenuato 24 25

Ivi, p. 89. Ivi, p. 121, spaziato nel testo.

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che, certamente, è anche scaturito da un serrato e sofferto confronto critico con la dottrina dell’Atomismo democriteo che Aristotele non manca di lodare confrontandolo criticamente con quello meramente concettuale. In tal modo lo Stagirita – rileva Gomperz – «volendo biasimare soltanto Platone, biasima se stesso» anche se, conclusivamente, «nell’essenziale e nel risultato finale», Aristotele «torna indietro»26 rispetto al punto di vista elaborato dagli Atomisti. Perché? Proprio perché si rifà, platonicamente, al concetto e alla forma e alla loro equiparazione: «in questa equiparazione sta la nota più caratteristica dell’ontologia aristotelica. Il concetto è per lui il principio che dà forma e perciò il principio attivo che conferisce ad ogni cosa la sua unità e determinatezza. Talvolta possiamo parlare di un principio di struttura e organizzazione, un’altra volta di una funzione suprema, del compito o dello scopo dell’essere di cui si tratta»27. Ma, in ogni caso, è proprio questo ritorno alla dottrina platonica del concetto quale essenza della realtà che colloca, in definitiva, l’Aristotelismo su un binario teoretico del tutto parallelo a quello del Platonismo. Questa puntuale ricostruzione gomperziana del pensiero aristotelico visto nel suo solidale intreccio ontologico con l’opera metafisica platonica, consente di meglio intendere e apprezzare il differente modo con cui Cassirer, pur partendo da una giusta rivalutazione del fondamento biologico della riflessione dello Stagirita, valuta il rapporto che, a suo avviso, è intercorso – teoreticamente – tra Aristotele e Platone. Si è già visto come lo stesso Cassirer abbia sottolineato come la visione generale di Aristotele e anche la sua definizione 26 27

Ivi, p. 96. Ivi, pp. 121-122.

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generale della filosofia dipendessero «interamente dai concetti platonici» (505). Tuttavia, pur cogliendo con precisione questo aspetto di profonda continuità teoretica esistente tra Platone e Aristotele, Cassirer giunge però a conseguenze assai differenti da quelle di Gomperz quando considera il rapporto tra Platone e Aristotele con la scienza moderna. Scrive infatti Cassirer: «è vero che la scienza induttiva, nel suo tentativo di trovare ed elaborare i suoi metodi caratteristici, i propri metodi di osservazione e sperimentazione, non poté seguire la via tracciata da Platone. Ma se la scienza moderna si sforzò di allargare il campo della conoscenza abbracciato dalla dottrina platonica, non per questo essa giunse a considerare questa dottrina come obsoleta una volta per tutte. I primi fondatori della scienza induttiva, pur respingendo l’autorità di Aristotele nella spiegazione dei fenomeni naturali e pur contrastando le sue idee fisiche e cosmologiche, non credevano vi fosse una necessaria e radicale opposizione tra i loro princìpi fondamentali e quelli sostenuti da Platone. Lungi dal rigettare la filosofia di Platone, essi non di rado si appellavano a quest’ultima per rifiutare la fisica e la cosmologia di Aristotele» (509). In tal modo la genesi della scienza moderna sembrerebbe allora scaturire più da un netto rifiuto della riflessione di Aristotele piuttosto che da quella di Platone. Meglio ancora: la lezione platonica sarebbe servita agli scienziati moderni proprio come strumento per liberarsi, criticamente, dalla lezione propria della tradizione aristotelica. Certamente questa lettura cassireriana del ruolo euristico svolto dal Platonismo entro la genesi della scienza moderna, in particolare con riferimento diretto all’opera di Galileo, si può e si deve ricondurre anche all’interno della vexata questio del presunto “aristote-

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lismo” oppure del presunto “platonismo” dell’opera galileiana. Questione variamente e approfonditamente dibattuta, con indubbio acume, da alcuni dei principali studiosi di Galileo (in questa sede basterebbe ricordare, sui due opposti fronti ermeneutici dei “platonici” e degli “aristotelici”, i soli, ma emblematici, contributi di Alexandre Koyré e quelli di Ludovico Geymonat) ma che oggi appare forse molto meno decisiva di quanto potesse forse risultare a questi protagonisti della storiografia galileiana. Galileo, del resto, è stato nel corso della sua vita intellettuale e di ricerca certamente più uno scienziato militante (nel senso geymonatiano del termine) che un filosofo interessato a schierarsi sotto l’una o l’altra bandiera filosofica. Tant’è vero che nei suoi testi i riferimenti a Platone e anche quelli ad Aristotele hanno sempre una chiara funzione strumentale, finalizzata, semmai, a rafforzare, anche dialetticamente, il suo autonomo programma di ricerca scientifico. Come tutti gli scienziati militanti – da Galileo a Einstein – lo scienziato pisano era infatti seriamente interessato a far progredire le proprie ricerche, onde poter eventualmente conseguire una migliore conoscenza del mondo, mentre non era certamente interessato a schierarsi sotto le bandiere di questo o quel filosofo. Pertanto Galileo, nel perseguire tenacemente questa sua precisa intenzionalità scientifica utilizzava, assai strumentalmente, i richiami ai pensieri filosofici di Platone e Aristotele, onde poter rafforzare la sua stessa ricerca e poter così conquistare un maggior spazio per le sue libere indagini fisiche e cosmologiche, come ho cercato di illustrare analiticamente nel mio Galileo «filosofo geometra» (del lontano 1994)28 che Borbone 28

F. Minazzi, Galileo «filosofo geometra», Rusconi, Milano 1994.

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ha avuto la cortesia di ricordare nella sua Introduzione. Rispetto a questa storica disputa storiografica Cassirer appare indubbiamente schierato con i “platonici” nel sottolineare il ruolo fondamentale che il Platonismo avrebbe avuto per la stessa genesi della scienza moderna. Ma, come si è già accennato, è indubbio come il Platonismo – come del resto documenta anche Cassirer in queste sue Lectures – abbia continuamente subito, nel corso della storia occidentale, una continua e diversificata metamorfosi di pensiero, subendo anche molteplici “contaminazioni” teoretiche, al punto che lo stesso concetto di “Platonismo”, al singolare, non può che apparire oggi come assai problematico, come ha del resto più volte sottolineato anche uno storico di impianto neoidealistico come Eugenio Garin. Più che di un solo “Platonismo” dovremmo infatti parlare di una molteplicità di “platonismi” i quali, a loro volta, se pure presentano, forse, una certa, per quanto assai problematica, “comune aria di famiglia”, tuttavia hanno anche avviato differenti programmi di ricerca filosofica che si sono radicati, a loro volta, in differenti teoresi che non è sempre agevole poter ricondurre a un unico, comune e preciso denominatore teoretico. A fronte di questa intrinseca problematicità di queste tradizioni concettuali bisognerebbe quindi avvertire l’esigenza critica di considerare l’opera galileiana all’interno di altre e autonome coordinate teoretiche le quali, semmai, hanno voltato decisamente le spalle sia al Platonismo, sia all’Aristotelismo. Tenendo presente, in particolare, come la sua opera, determinando la genesi della scienza moderna, ha in realtà introdotto nella storia umana – e non solo in quella del pensiero – una svolta invero radicale ed epocale, un autentico turning point. Semmai, lungo questo differente orizzonte biso-

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gnerebbe ridiscendere sul piano della storia di lungo – o lunghissimo periodo – per rimettere in relazione l’opera degli scienziati moderni (da Galileo a Newton) con l’innovativa impostazione epistemologica e scientifica delineata nel V secolo a. C. dagli Atomisti. Impostazione che la cultura greca, complessivamente, rifiutò epistemologicamente, gettandola senz’altro nel cestino delle idee rifiutate. Forse, proprio ripescando da questo cestino dei rifiuti epistemologici dell’umanità questa vecchia, ma assai innovativa, impostazione concettuale delineata dagli antichi Atomisti è invece scaturita proprio quella scienza moderna la cui genesi ha finito per introdurre nella storia umana una svolta decisiva giacché, per dirla con Bertrand Russell, autore di The Scientific Outlook (1931), «centocinquant’anni di scienza si sono dimostrati più esplosivi di cinquemila anni di cultura prescientifica»29. Sempre a questa precisa consapevolezza storico-critica e teoretica si ispira del resto anche la grande e monumentale Storia del pensiero filosofico e scientifico (1970-1976)30 in sette volumi di Ludovico Geymonat che, non a caso, dedica un’attenzione critica progressivamente maggiore e sempre più analitica proprio agli ultimi tre secoli della storia occidentale, ribaltando le tradizionali impostazioni storiografiche che, invece, operano con uno schema ermeneutico (e storiografico) esattamente opposto (in virtù del quale si dedicano più tomi ai periodi più remoti della storia del pensiero per poi affrontare, spesso in modo molto più B. Russell, La visione scientifica del mondo, trad. it. di Emilio A. G. Loliva, riveduta da M. Mamiani, Laterza, Roma-Bari 1982, p. 5. 30 L. Geymonat, Storia del pensiero filosofico e scientifico, Garzanti, Milano 1970-1976, 7 voll. 29

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sintetico ed ellittico la complessità, esplosiva, della cultura contemporanea…). In ogni caso quanto scrive a questo proposito Cassirer in queste sue Lectures delineate negli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso si inserisce in una diversa temperie culturale, per la quale si avvertiva ancora l’esigenza di collocare l’opera scientifica galileiana “sotto le bandiere del Platonismo”. Tuttavia, malgrado questa sorta di indubbio “debito con la caducità” (per dirla con Kant!) pagato da queste Lectures, non si può comunque negare come anche la sua lettura di Aristotele non sia priva di un suo fascino teoretico specifico. Del resto, anche Cassirer sottolinea lo stretto legame esistente tra Aristotele e Platone poiché, pur osservando come «Aristotele non avrebbe mai potuto giurare sulle parole di un maestro» (secondo il classico rilievo aristotelico Amicus Plato, sed magis amica veritas) «cionondimeno, non sarebbe corretto parlare di una opposizione inconciliabile tra Platone e Aristotele. In un certo senso quest’ultimo continuò sempre a essere un allievo di Platone. Platone ha impresso nella mente di Aristotele i suoi pensieri fondamentali, come anche le categorie fondamentali della sua filosofia. Quando Aristotele ci fornisce la sua teoria delle “forme” delle cose, non per questo sta rifiutando la teoria platonica delle idee; piuttosto ne è un compimento e, in un certo senso, un’attuazione. Ma vi è un punto nel quale, fin dal principio, avvertiamo una netta e decisiva differenza. Platone guarda la natura con gli occhi di un dialettico e di un matematico, mentre Aristotele la guarda con gli occhi di un empirista, di un osservatore e ricercatore di fenomeni naturali e, prima di tutto, con gli occhi di un biologo interessato ai fenomeni della vita organica. La matematica è la traccia che ci serve da guida nel nostro studio della filosofia platonica;

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la vita organica e le leggi dello sviluppo organico costituiscono invece la traccia da seguire nel nostro studio di Aristotele» (743). Come ben emerge da questo passo la differenza rilevata da Cassirer tra Platone e Aristotele non solo rimanda, dunque, al fondamento biologico della riflessione aristotelica (fondamento già individuato e sottolineato da Gomperz, come si è visto), ma fa anche riferimento al ruolo fondamentale che la matematica ha giocato entro la riflessione platonica. Proprio il riferimento alla matematica platonica consentirà poi a Cassirer di individuare quel nesso diretto tra la lezione platonica e la genesi della scienza moderna. Ma proprio questa sua impostazione lo indurrà infine a trascurare che Galileo guardava semmai alla matematica non tanto con gli occhi platonici dell’idealismo realista, bensì con quelli archimedei volti a sottolineare il carattere decisamente operativo, strumentale ed euristico delle matematiche. «A ogni modo – prosegue Cassirer –, in un aspetto sussiste un perfetto accordo tra allievo e maestro. C’è un principio generale in cui Aristotele non si dissocia mai da Platone, e questo principio è di estrema e vitale importanza; esso concerne l’essenza e il significato della conoscenza e della verità» (745). In questa prospettiva la tradizionale opposizione tra un Platone idealista e un Aristotele “empirista” (o “Asclepiade”, per dirla con Gomperz) quale è rappresentata da Raffaello rischia di essere fuorviante se non si aggiunge che anche lo Stagirita concorda con il fondatore dell’Accademia nel ritenere come una conoscenza che abbia a che vedere unicamente con fatti particolari e singoli non possa essere considerata un’autentica conoscenza: «La conoscenza o scienza ha sempre a che fare con l’“essenza delle cose”, non con caratteristiche particolari, acciden-

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tali, fortuite. Ciò che la scienza intende conoscere non sono i fatti come tali, ma le ragioni dei fatti. Non è sufficiente conoscere “ciò che è”; noi desideriamo sapere perché le cose sono ciò che sono. Questa fondamentale distinzione la ritroviamo ovunque nell’opera di Aristotele ed è per tale ragione che anche la sua metafisica viene vista come la somma scienza, il punto culminante nella gerarchia della conoscenza» (entrambi i controcaratteri sono di Cassirer) (745 s.). Con la metafisica si perviene pertanto alla conoscenza dei principi ultimi e più generali proprio perché si comprenderebbe la vera ragione delle cose. Certamente in apertura della sua Metafisica Aristotele rileva come l’esperienza, rispetto ai fini dell’azione, non sembri affatto inferiore alla scienza o all’arte: chi possiede esperienza spesso consegue risultati migliori – sul piano dei pragmata rispetto a chi possiede la teoria senza alcuna esperienza. Ma la ragione di questo esito si radica proprio nel fatto che l’esperienza costituisce una conoscenza dell’individuale, mentre l’arte e la scienza sono conoscenze dell’universale. Il medico non guarisce mai la malattia bensì sempre un individuo concreto e particolare, Callia o Socrate. Se un medico conosce l’universale, ovvero le ragioni della malattia, ma è invece privo di esperienza (ovvero se ignora l’individuale presente entro l’universale) sbaglierebbe probabilmente la cura, giacché il medico deve sempre curare un individuo particolare. «E tuttavia crediamo che chi ha l’arte conosce una cosa e se ne intende di più di chi ha esperienza, e riteniamo che coloro che praticano l’arte siano più sapienti degli empirici, in quanto in tutti la sapienza è una conseguenza più del conoscere che della pratica: e ciò è dovuto al fatto che chi possiede l’arte conosce la causa, gli altri no. Infatti, gli empirici sanno che cosa c’è, ma non sanno perché, mentre chi

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possiede l’arte sa perché, e conosce la causa. Per questo riteniamo che quelli che dirigono, in ogni caso, siano più importanti e abbiano più conoscenza degli operai manuali, e siano anche più sapienti, perché conoscono le cause delle opere che vengono eseguite. […] Perciò coloro che posseggono l’arte saranno più sapienti non perché sanno fare le cose, ma perché posseggono la ragione di ciò che fanno e ne conoscono le cause»31. Il che risulta essere in profonda sintonia proprio con la metafisica platonica e con le tesi fondamentali di Platone per il quale «vi è una realtà sostanziale e una verità sostanziale e spetta proprio alla metafisica – intesa come la scienza più elevata – rivelarci questa verità e questa realtà, condurci alla ragione suprema delle cose, a qualcosa di eterno, immutabile e immobile» (753 s.). Ma allora Aristotele che cosa critica della dottrina platonica? Secondo Cassirer «Aristotele non rifiuta la realtà degli universali, ma la loro esistenza separata, così come, secondo lui, è stata teorizzata da Platone» (755). In questa prospettiva la metafisica platonica e quella aristotelica risultano essere quindi in una sintonia sostanziale giacché, secondo Aristotele, «Platone era nel giusto quanto alla premessa, ovvero nella descrizione del mondo matematico, ma da questa premessa aveva ricavato una falsa conclusione» (755). Come si è visto attraverso la precedente disamina sviluppata da Gomperz, Aristotele condivide infatti con Platone sia l’idea che il concetto coincida fondamentalmente con l’essenza, sia la convinzione che la scienza non possa non riferirsi all’essenza, con la conseguenza che ciò a cui si riferisce la scienza non può allora che essere reaAristotele, Metafisica, I, 981 b, a cura di C. A. Viano, Utet, Torino 2005, p. 183. 31

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le: dunque il concetto dovrebbe essere necessariamente qualcosa di reale. In questo modo, attraverso una riformulazione immanentista, la dottrina platonica delle idee è pienamente conservata dallo Stagirita che, infatti, considera il concetto o forma delle cose come una dimensione reale presente all’interno delle differenti realtà individuali. Certamente in Aristotele è poi presente, come si è accennato, una particolare sensibilità per la dimensione organica della natura vivente ed è proprio questo suo specifico punto di vista biologico che lo induce poi a considerare le categorie di “materia” e “forma” (e anche quelle di “potenza” ed “atto”) come categorie correlative e non mai assolute, sempre reciprocamente relative. Come ha scritto anche Gomperz «con la più piena realizzazione delle facoltà va di pari passo l’imprimersi più preciso della forma, sicché l’attualità più elevata diviene nello stesso tempo una totale preponderanza della forma sopra l’indeterminata materia. Conformemente a ciò, la forma è anche equiparata alla realizzazione del concetto, la materia alla sua esistenza semplicemente potenziale; anzi, in questo senso le due coppie di concetti (forma-materia, atto-potenza) vengono a coincidere»32. Per Aristotele la piena realizzazione delle disposizioni presenti in un determinato organismo costituisce la sua entelechia giacché, come ricorda Cassirer, «anche negli organismi inferiori noi rinveniamo la medesima unità teleologica, una connessione e una giusta proporzione tra gli strumenti corporei, gli organi e lo scopo a cui tutti questi mezzi sono destinati. È questo principio di vita che Aristotele chiama “anima”. L’anima viene da lui definita come l’“entelechia del corpo 32 T. Gomperz, Pensatori Greci, vol. IV: Aristotele e i suoi successori, cit., p. 124.

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organico”. “Entelechia”: il termine deriva da telos, che significa “fine” o “scopo”. L’anima è quel principio nel corpo organico che unifica tutte le sue differenti funzioni, che conferisce a ogni attività corporea la sua funzione nella vita del tutto, che le dirige tutte verso il loro scopo comune» (controcaratteri di Cassirer) (761). Cassirer nota come l’entelechia potrebbe anche essere qualificata come «“l’attualità essenziale di un organismo”, che attualizza tutte le inerenti facoltà del corpo» (761). Per Aristotele proprio questa energia presente in tutta la natura organica consente, allora, di introdurre una distinzione metafisica tra ciò che risulta essere “privo di vita” e ciò che denota, invece, la presenza di una attività e alcune funzioni che possono andare dalle funzioni nutritive delle piante a quelle sensitive degli animali per giungere, infine, all’anima rationalis dell’uomo in cui si radica il pensiero cosciente e, appunto, razionale, in cui sono tuttavia presenti anche tutte le anime “inferiori”. Naturalmente Aristotele parla e scrive sempre «da biologo, non da pensatore religioso o mistico. Per Aristotele non può darsi alcuna separazione fondamentale tra anima e corpo. L’anima non ha un’esistenza separata, essa possiede soltanto una generica funzione che non può essere esercitata fuori dal corpo, in quanto è legata agli organi corporei» (767). Insomma, per Aristotele anche la forma – anche al suo grado più elevato – va sempre intesa come una forma organica. In tal modo il classico dualismo platonico tra forma e materia è nettamente rifiutato da Aristotele poiché lo Stagirita ritiene che forma e materia siano non due differenti sostanze, bensì due differenti principi: «l’anima è forma, ma non è una forma separata; è la forma, l’entelechia, il principio organizzatore del corpo. Il principio non può essere separato dal corpo in cui appare, proprio come la funzione del vedere

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non può essere staccata dall’occhio» (769). Su questa base metafisica Aristotele ha poi costruito anche la sua Fisica, la quale delinea una mirabile razionalizzazione dell’esperienza comune basandosi non solo fu molti fatti osservabili individuali, ma anche su principi universali proprio perché lo Stagirita possedeva «la sorprendente capacità di osservare in modo esatto e dettagliato, ma dall’altro lato, è anche un logico e un dialettico; mira alla più ampia universalità di pensiero» (777). Senza naturalmente mai dimenticare lo sguardo biologico e organico con cui Aristotele guardava, appunto, anche alla dimensione della fisica. «Il carattere fondamentale della fisica di Aristotele – in contrapposizione alla nostra fisica moderna – consiste nella sua rigorosa tendenza a descrivere i fenomeni inorganici in termini di vita organica. Nella sua teoria questi fenomeni – la salita del fuoco, la discesa della terra – non possono essere compresi e non possono trovare una loro spiegazione conclusiva se non mediante le analogie ricavate dalla vita organica» (785). Sempre entro questo orizzonte organico e biologico deve allora essere collocato il rilievo affatto speciale che nella concezione fisica aristotelica assume la causa finale giacché «la “teleologia” – la spiegazione dei fenomeni naturali secondo cause finali – è pertanto il principio generale della filosofia della natura di Aristotele» (787). Non è ora il caso di seguire oltre la ricostruzione analitica della filosofia aristotelica operata da Cassirer in queste sue Lectures, anche perché quanto si è precedentemente accennato consente di avere un’idea di fondo complessiva della sua lettura del pensiero aristotelico. Come si è visto, pur sottolineando l’originalità dell’approccio biologico aristotelico allo studio del mondo, tuttavia Cassirer ha anche sottolineato l’esistenza di una convergenza di fondo tra la riflessione

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metafisica platonica e quella dello Stagirita. Il che, appunto, conferma la “complementarietà” tra le loro due, pur divergenti, riflessioni che trova un suo significativo punto di convergenza teoretica nella difesa della natura essenziale del concetto metafisico di essere e della stessa verità. Il che non può allora che riproporre il problema del rapporto che può eventualmente sussistere tra la riflessione scaturita da Platone – e variamente ripresa e integrata dalla riflessione aristotelica – con la genesi della scienza moderna. Come si è già accennato per Cassirer questo nesso non sarebbe affatto di contrapposizione e di reciproca esclusione. Rifacendosi infatti a un importante passo del Filebo platonico (16 D-E)33 Cassirer sottolinea come per il fondatore dell’Accademia sono proprio i discorsi che si svolgono sulle realtà che risultano essere «intermedie» tra l’uno e l’illimitato, a meritare un’attenzione dialettica specifica. Certamente nell’orizzonte platonico, la conoscenza «è riservata a quelle cose che, nel linguaggio di Platone, vengono descritte come caratterizzate dalla medesima forma auto-sussistente e immutabile, che non ammette alcun tipo di mutamento. Ma oltre a questo dominio del μονοειδές viene ammessa una conoscenza che, sebbene inferiore alla prima, non viene privata di un certo valore relativo» (703). In questa prospettiva per Platone il pensiero umano non si rivolge unicamente a ciò che è dotato di identità e unità – caratteri propri e specifici delle idee pure platoniche – ma anche a indagare logicamente la molteplicità delle cose. Non solo, sempre secondo Cassirer, «una limitazione simile è quindi contenuta e presupposta nel vero e proprio atto del pensare stesso. Pensare significa limitare, includere una molteplicità 33

Cfr. Platone, Opere, op. cit., vol. I, pp. 589-590.

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entro certi limiti. Una limitazione simile non è ammessa soltanto dal mondo idea­le, ma anche dal mondo fisico; non soltanto dal regno delle forme pure, ma anche dal regno della materia e del movimento. L’universo fisico, l’universo della materia e del movimento partecipa della natura del numero e il numero non è affatto una semplice molteplicità; è piuttosto la molteplicità riferita e ridotta a unità. Riuscire in una simile riduzione e scoprire – nel mondo fenomenico, nel mondo della materia e del movimento – le regole empiriche generali descrivibili in termini di numero ed esprimibili da relazioni numeriche, significa compiere il primo e decisivo passo verso una conoscenza della natura. In tal caso, “natura” non significa più illimitata molteplicità di fatti, un mero ἄπειρον; essa è giunta a un limite, a un πέρας, ed è proprio grazie a questo limite che noi siamo in grado di comprenderla, di includere al suo interno le precise forme del pensiero matematico» (703 s.). Esattamente lungo questa pista della “limitazione” e della conseguente “determinazione” dell’universo fisico si apre allora quel percorso dei discorsi concernenti «le cose che sono intermedie» (secondo quanto si legge nel Filebo) entro i quali, sempre secondo Cassirer, sarebbe allora possibile leggere la genesi della scienza moderna come la conseguenza più feconda dello stesso Platonismo. Ergo per Cassirer la scienza della natura presente nell’astronomia di Kepler e nella dinamica di Galileo, che «si sforza di conoscere il mondo fisico e le leggi generali del moto dalle quali questo mondo è governato» (699), non sarebbe affatto in clamoroso contrasto con la lezione del dualismo metafisico platonico, ma risulterebbe esserne, invece, la figlia legittima, perlomeno di quei nostri logoi che si occupano delle «cose che sono intermedie» tra l’uno

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e i molti. Non solo: sulla base di questo Platonismo si aprirebbe allora la possibilità di inaugurare proprio la scienza della natura – così come è stata praticata nella scienza moderna – giacché la conoscenza del mondo sensibile può essere conseguita, platonicamente parlando, solo individuando la vera base e la radice delle realtà sensibili che va, appunto, «descritta e spiegata in termini intelligibili, non in termini di mera percezione sensibile». L’arte platonica della divisione e dell’analisi può così essere trapiantata dal tradizionale mondo metafisico dei concetti a quello delle realtà fisiche, seguendo del resto quanto ha fatto lo stesso Platone nel Timeo quando ha delineato un sistema fisico di impianto “atomistico” basato sulle differenti configurazioni geometriche. Se per Platone la distinzione tra solidi regolari come il tetraedro, il cubo, l’ottaedro, il dodecaedro e l’icosaedro – ossia i differenti solidi caratterizzati, rispettivamente, da quattro, sei, otto, dodici e venti facce regolari – è valida sia nell’ambito geometrico sia in quello fisico, allora tutte le differenti materie del mondo sensibile potrebbero – e dovrebbero – essere descritte e conosciute proprio grazie alle differenti forme geometriche. Quindi, conclude Cassirer, per un astronomo come Kepler «i fatti empirici, accertati tramite la mera osservazione, sono pertanto di un tipo tale da ammettere e richiedere una esatta descrizione matematica, una descrizione basata sui concetti e definizione della geometria pura e della matematica pura». Su questa base Kepler avrebbe allora compreso come il mondo della natura e il mondo intellettuale della matematica pura sarebbero, in realtà, strettamente correlati: «è grazie a tale concezione – sviluppata e spiegata nella sua Harmonia mundi – che Kepler pensa di aver trovato la sola soluzione possibile

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al problema della conoscenza; e in questa soluzione egli stesso si professa un vero discepolo di Platone» (719). In questa prospettiva fu allora Platone – e non certamente Aristotele – ad aver compreso la precisa natura della conoscenza matematica, giacché «ciò che possiamo affermare e provare scientificamente, è soltanto il fatto dell’intimo legame e della correlazione tra fisica e matematica» (721). In tal modo, aggiunge Cassirer, «possiamo esprimere questo fatto dicendo che la mente umana è in grado di leggere e comprendere il libro della natura senza oltrepassarne i limiti, senza abbandonare il campo delle sue idee innate. Di queste idee, il concetto e la categoria di quantità è la più importante: è l’idea che in un certo senso abbraccia tutte le altre e ne costituisce il fondamento» (721). Penso che alla luce di questi rilievi cassireriani non ci sia molto da aggiungere allora per spiegare anche il platonismo galileiano del famoso passo de Il Saggiatore34 in cui lo scienziato pisano ricorda che il mondo è scritto in caratteri matematici e che, quindi, per intenderlo e comprenderlo occorre, appunto, conoscere la matematica e la geometria. Con il che sarebbe naturalmente ampiamente giustificata la lettura “platonica” dell’opera galileiana, mentre anche la genesi stessa della rivoluzione scientifica moderna, che pure ha profondamente trasformato la storia occidentale, introducendo un’autentica ed epocale svolta concettuale, civile e sociale, può essere agevolmente ricondotta alla precedente tradizione, in particolare proprio a quella del Platonismo che pure, come si è Cfr. Edizione Nazionale delle Opere di Galileo Galilei, a cura di Antonio Favaro, G. Barbera Editore, Firenze 1890-1909, 20 voll. (ristampa anastatica 1968), vol. VI, p. 232. 34

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visto, è sfociato in una forma di dualismo metafisico affatto particolare. Infatti, come si è accennato, Cassirer non ha alcun problema particolare a collocare l’opera dello stesso Galileo “sotto le bandiere” del Platonismo osservando come «ciò che Galilei cerca è una teoria della natura, non un accumulo di fatti isolati e disconnessi. E secondo lui una simile teoria, sebbene dipendente dall’osservazione, contiene sempre un elemento formale, logico. Essa si basa su giudizi empirici, la verità dei quali non si può dimostrare senza presupporre certi assiomi generali impliciti nella stessa definizione di verità e di conoscenza. Ed è per fornire una tale definizione che Galileo torna indietro a Platone e si appella alla sua autorità. Il principio filosofico che governa e pervade l’intera scienza di Galileo è l’asserzione: la conoscenza e la verità vanno concepite in un modo semplice e unico. Il carattere della verità rimane sempre lo stesso, indipendentemente dagli oggetti che ne sono coinvolti. Da questo principio deriva la massima generale che viene mantenuta e rimarcata da Galileo nella sua difesa della verità del sistema copernicano. […] Se intendiamo il termine “verità” nel suo senso preciso e adeguato, bisogna affermare che questo termine implica la medesima esigenza: l’esigenza di universalità e necessità […]. Le cose naturali sono mutevoli, ma la scienza della natura, le proposizioni, i giudizi e le dimostrazioni concernenti queste cose, posseggono un carattere stabile e costante, necessario» (725, 727 s., 731). Conclusivamente per Cassirer in Galileo – e, più in generale, nella scienza moderna scaturita dalla rivoluzione scientifica del Seicento – «la matematica è il legame intermedio tra la dialettica e il pensiero empirico, poiché la verità poggia su princìpi logici uni-

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versali in grado di fornire una dimostrazione a priori, ma, dall’altro lato, dobbiamo utilizzarne gli assiomi e le dimostrazioni al fine di trovare le vere leggi di natura e di dare all’esperienza stessa un fondamento stabile e solido» (733). Naturalmente questa lettura “platonica” della matematica galileiana non tiene però in alcuna considerazione la formazione stessa di Galileo e il suo riferirsi, continuo e privilegiato, alla concezione archimedea (non platonica!) della matematica. Concezione che insiste, appunto, sul suo carattere pratico, operazionale ed eminentemente strumentale, mediante il quale il «filosofo geometra» – come si legge espressamente nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo – deve sempre essere in grado di «difalcare gli impedimenti della materia»35 prendendo le mosse da alcuni principi astratti che il fisico deve introdurre ex supposizione, onde poter costruire una teoria le cui conseguenze devono poi essere poste in relazione critica mediata con le evidenze sperimentali. Come si può evincere anche da queste poche ed ellittiche indicazioni, la concezione epistemologica della scienza elaborata da Galileo risulta dunque essere ben più articolata rispetto a quella presente nei discorsi concernenti le “realtà intermedie” di cui parla Platone nel Filebo. Non solo: in Galileo ci troviamo in presenza di un pensiero scientifico – come si evince anche dai suoi Discorsi e dimostrazioni matematiche introno a due nuove scienze del 163836 – che sa considerare, analiticamente, il ruolo e la funzione 35 G. Galilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, in Edizione Nazionale delle Opere, cit. vol. VII, p. 234. 36 Cfr. Id., Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze in Edizione Nazionale delle Opere di G. Galilei, op. cit., vol. VIII.

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delle differenti componenti del pensiero scientifico che si costruisce infatti nella capacità di saper intrecciare la dimensione tecnico-sperimentale (e meccanica, in particolare) con quella convenzionale (ex supposizione), nonché con quella logico-matematica propria delle inferenze deduttive. Semmai il modello del pensiero scientifico consapevolmente elaborato da Galileo risulta essere in profonda sintonia con quello che sarà poi difeso, tre secoli dopo, da un altro eminente fisico come Albert Einstein che, non a caso, distingueva il ruolo del Lebenswelt, da quello della postulazione creativa matematica, dalle inferenze deduttive e dalla mediazione critica della dimensione sperimentale. Ma proprio alla luce di tutti questi differenti momenti euristici costitutivi del pensiero emerge, allora, una differente immagine della scienza e della stessa conoscenza scientifica, la quale se da un lato ci spiega il suo profondo debito con la tradizione del pensiero pre-scientifico, tuttavia ci consente anche di cogliere tutta la novità radicale di pensiero che contraddistingue il pensiero scientifico della modernità. Una novità di pensiero che, non a caso, ha saputo determinare, sul piano storico, e anche all’interno del mondo della prassi storica, una svolta davvero epocale. Ed è proprio alla luce della precisa percezione di tale svolta epocale introdotta dalla scienza moderna che non pochi pensatori del Seicento hanno sottolineato tutta la discontinuità che esiste tra il pensiero scientifico moderno e la precedente tradizione metafisica e concettuale. Al punto che il cercare ancor oggi di collocare l’opera galileiana “sotto le bandiere” vuoi del Platonismo, vuoi dell’Aristotelismo, appare come un tentativo storiografico (e anche teoretico) datato che non ci aiuta a elaborare una più adeguata immagine critica della plasticità della ra-

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zionalità scientifica che si è manifestata nella costruzione del patrimonio tecnico-scientifico di cui l’uomo contemporaneo può effettivamente disporre. D’altra parte, anche in queste parti delle sue Lectures, in cui il discorso cassireriano appare essere inevitabilmente più datato, tuttavia non si può negare il piacere e l’interesse intrinseco delle sue considerazioni, che aiutano comunque il lettore, galileianamente sagace e discreto, a saper cogliere, ancora una volta, la grandezza dello sforzo filosofico e concettuale con cui Cassirer aiuta sempre il suo interprete a meglio intendere il fascino e la complessità intrinseca della nostra complessa storia concettuale. Non per nulla Cassirer, parlando della filosofia stoica, ricorda e sottolinea come questa tradizione di pensiero delinei «una filosofia militante, la filosofia di Epicuro è una filosofia della pace. Lo stoico descrive la vita di un saggio come una lotta continua e vigorosa: una lotta contro le sue proprie inclinazioni, desideri e passioni; e combatte contro i mali morali, contro il disordine e l’ingiustizia. Ogni uomo deve prendere parte a questa battaglia e deve compiere una missione speciale in questa lotta universale per il bene. Ogni uomo deve collaborare con Dio e aiutarlo a mantenere l’ordine dell’universo. Il saggio, l’uomo virtuoso, dice Marco Aurelio, “è un sacerdote e ministro, un collaboratore degli dèi” (Ad se impsum III, 4). Questo è un ideale di vita attivo ed energico, severo e austero» (899). Ed è proprio questo stesso ideale di vita attiva ed energica, severa e austera che emerge, con forza, anche da queste Lectures, che sono state pensate e dettate da Cassirer in un momento storico drammatico. Un momento in cui Cassirer indica così ai propri studenti americani la necessità di ritornare, con chiarezza concettuale, ai momenti fondativi della tradizione oc-

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cidentale per poter combattere la barbarie del nazismo montante con la forza della ragione e della lotta civile, onde poter tutelare i diritti degli uomini degni di questo nome, che non si vogliono ridurre, per dirla con Leonardo37, a meri «trombetti», ovvero a meri transiti di cibo… Università degli Studi dell’Insubria, 2022 Fabio Minazzi

Leonardo da Vinci, Scritti scelti, a cura di Anna Maria Brizio, Utet, Torino 1966 (II ed. rivista), p. 99. 37

INTRODUZIONE lo strano caso delle lectures on ancient philosophy di ernst cassirer

Premessa I manoscritti inediti che compongono le Lectures on Ancient Philosophy, qui presentati, vennero redatti dal filosofo tedesco Ernst Cassirer in occasione di alcune lezioni e seminari universitari tenuti durante il suo esilio “forzato” in Inghilterra e in America. Come è noto, Cassirer, in quanto ebreo, si dimise dall’Università di Amburgo pochi mesi più tardi (5 aprile 1933) la nomina di Adolf HItler a cancelliere, il 30 gennaio. In riferimento a tale nefasta circostanza, la moglie Toni Cassirer, nella biografia dedicata al marito, riporta queste eloquenti parole vergate da Ernst in una missiva a lei indirizzata: «Gli uomini del nostro genere, in Germania, non hanno più nulla da cercare e da sperare»1. Dopo alcune brevi soste a Zurigo, Vienna e Berlino, Cassirer e la sua famiglia si recano a Oxford, dove il filosofo inizia a insegnare storia della filosofia all’All Souls College in qualità di visiting professor dal settembre del 1933 al giugno del 1934, continuando successivamente fino alla primavera del 1935. Nello stesso anno Cassirer ottiene una cattedra a Göteborg (Svezia) e dopo il periodo “svedese” con la moglie Toni si reca a New York il 4 giugno del «Menschen unseres Schlages haben in Deutschland nichts mehr zu suchen und nichts mehr zu hoffen»: in T. Cassirer, Mein Leben mit Ernst Cassirer, Meiner Verlag, Hamburg 2003, p. 194. 1

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19412. Dal settembre dello stesso anno fino al luglio del 1944 Cassirer insegnò alla Yale University, prima come visiting professor e in seguito in qualità di research associate. Nell’autunno del 1944 i coniugi Cassirer si trasferiscono infine da New Haven a New York, dove Cassirer finisce per insegnare alla Columbia University. Morirà il 13 aprile del 1945. Questo gruppo di lezioni inedite sulla filosofia antica – che come già accennato appartengono al periodo “inglese” e “americano” – rappresentano un caso editoriale alquanto singolare. È infatti nota a tutti la recente edizione dei testi e manoscritti postumi di Cassirer, edita in 18 volumi3 dalla casa editrice Meiner di Amburgo, ossia la Ernst Cassirer Nachgelassene Manuskripte und Texte (da ora in poi ECN), che affianca e completa la ben più vasta edizione dei Gesammelte Werke in 25 volumi (più il volume 26 composto da un Registerband). Ci si aspetterebbe, pertanto, che tale edizione comprendesse, quantomeno, tutto il lascito cassireriano attualmente disponibile presso la Beinecke Rare Book and Manuscript Library della Yale University, visto che l’edizione ECN – oramai conclusa – si presentava proprio come una Di ciò abbiamo conferma non soltanto nella biografia scritta dalla moglie Toni (cfr. T. Cassirer, Mein Leben mit Ernst Cassirer, cit., p. 291), ma anche in una fotografia scattata ai coniugi Cassirer al loro arrivo a New York. Sul retro della foto – la cui unica copia è in possesso del sottoscritto – è presente un foglietto che reca la seguente scritta: “G. S. Rammeren, New Swedish American Liner Arrives in New York. Among passengers on board were Mr. And Mrs. Ernst Cassirer of Gothenburgh, Sweden. Mr. Cassirer is a Professor of Philosophy and is going to Yale University to lecture. This is the first trip for the Cassirers to the United States. 6/4/1941”. In realtà la nave mercantile su cui viaggiarono i coniugi Cassirer si chiamava “Remmaren”. 3 Il piano originario ne prevedeva 20. 2

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raccolta completa del Cassirer inedito4 (a eccezione di quegli scritti in effetti inutilizzabili, poiché non particolarmente rilevanti o originali da un punto di vista propriamente scientifico). Tuttavia, leggendo un saggio del compianto John Michael Krois – principale ideatore della ECN e attento studioso dell’opera cassireriana – dal titolo Ernst Cassirer’s Philosophy of Biology del 20045, notai con mia grande sorpresa che quest’ultimo faceva un esplicito riferimento a delle lezioni inedite di Cassirer concernenti la filosofia antica6, che riteneva estremanente significative per via, soprattutto, della notevole mole di pagine dedicate ad Aristotele (ben 120 pagine manoscritte). L’ampio manoscritto dedicato allo Stagirita, in effetti, rappresenta il più imponente – e al tempo stesso unico – confronto cassireriano con l’intera filosofia aristotelica. Esattamente a pagina 282 nota n. 8 del suo saggio, John Michael Krois afferma che tali Lectures sarebbero apparse nel volume 13 della ECN col titolo redazionaSu questi aspetti cfr. J. M. Krois, Le carte inedite di Ernst Cassirer e l’edizione dei “Nachgelassene Manuskripte und Texte”, «Rivista di Storia della Filosofia», vol. 50, n. 4, 1995, pp. 871-888 e V. Giroud, How the Cassirer Papers Came to Yale, in C. Hamlin-J. M. Krois (eds.), Symbolic Forms and Cultural Studies. Ernst Cassirer’s Theory of Culture, Yale University Press, New Haven-London 2004, pp. 263-269. 5 J. M. Krois, Ernst Cassirer’s Philosophy of Biology, «Sign Systems Studies», vol. 32, 1/2, 2004, pp. 277-295. 6 In effetti già Donald Phillip Verene, nell’appendice a una raccolta di inediti cassireriani da lui curata, faceva riferimento a un «folto gruppo di lezioni per quello che probabilmente è un corso undergraduate di filosofia greca tenuto a Yale», D. P. Verene, Una descrizione degli inediti cassireriani, in appendice a E. Cassirer, Simbolo mito e cultura, a cura di D. P. Verene, trad. it. di G. Ferrara, Laterza, Roma-Bari 1981, p. 297. 4

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le di Lectures on Greek Philosophy7; incuriosito, fu mia cura controllare subito tutti i volumi della ECN pubblicati dalla Meiner Verlag per vedere se effettivamente tali lezioni fossero già state edite o se, molto semplicemente, fossero ancora in corso di stampa. Con grande stupore ho constatato che il volume 13 della ECN era in verità dedicato alla filosofia del Rinascimento8 e non alle Lectures cui Krois faceva riferimento nel suo lavoro. Ciò mi spinse a contattare uno dei curatori della ECN, il prof. Christian Möckel che, alle mie domande sulla mancata presenza delle Lectures nel volume 13 della ECN, gentilmente precisò come per via della morte di Krois (2010) il progetto sia passato in mano ad altri curatori. Questi ultimi, contrariamente a quanto sostenuto da John Michael Krois, reputarono le Lectures cassireriane di scarso interesse scientifico, preferendo per tal motivo cassare questi manoscritti dalla ECN. Feci presente al prof. Möckel di essere seriamente interessato a queste lezioni inedite di Cassirer e che sarebbe stato per me estremamente stimolante poter visionare queste “carte”. Il prof. Möckel, con una disponibilità per me del tutto inaspettata, non esitò a inviarmi a spese della Humboldt Universität di Berlino copia della versione dattiloscritta delle Lectures ma non la copia dei manoscritti originali, della quale non disponeva (com’è noto, tali manoscritti cassireriani sono custoditi presso la Beinecke Library di Yale). Per mia fortuna, alcuni membri dello staff della Beinecke LiCiò lo si evinceva anche da una prima versione del piano generale della ECN posto in appendice al volume T. Cassirer, Mein Leben mit Ernst Cassirer, cit., p. 352. 8 Cfr. E. Cassirer, Nachgelassene Manuskripte und Texte, Band 13: Philosophie der Renaissance, hrsg. von C. Möckel, Meiner Verlag, Hamburg 2020. 7

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brary (Yasmin Ramadan e June Can) sono stati in grado di fornirmi una scansione dei manoscritti originali delle Lectures di Cassirer, dandomi così la possibilità di confrontare la versione dattiloscritta con i manoscritti originali e quindi di effettuare un lavoro filologicamene più accurato, onde segnalare eventuali incongruenze tra la versione dattiloscritta posseduta dai berlinesi e gli originali conservati a Yale. D’altra parte, non sappiamo chi abbia trascritto le Lectures, e lo stesso prof. Möckel non è riuscito a fornirmi ulteriori delucidazioni, sicché mi è sembrato alquanto plausibile individuare in John Michael Krois l’artefice della trascrizione, visto e considerato che si era assunto proprio lui il compito di pubblicarle. Le “carte” di Cassirer Una volta ricevuto tutto il materiale ho proceduto innanzitutto a operare un confronto tra le due versioni, non riscontrando particolari imprecisioni nella trascrizione delle lezioni (comunque tutte segnalate in nota). In seguito, ho intrapreso uno studio accurato delle pagine cassireriane e più ne approfondivo i contenuti, più esse mi apparivano interessanti, penetranti e quindi meritevoli di una loro edizione in lingua italiana. Il piano generale che ho ricevuto – e che appartiene al gruppo dei General Manuscripts 98 – era così strutturato: I. Lectures on Plato (Oxford 1935) [old envelope 50] Box 48, folders 958-963 [48, 958] (50): Lectures on Plato (Oxford 1935); [48, 959-960] (50): Lectures on Plato; [48, 961-962] (50): Lectures on Plato; [48, 963] (50): Seminar on Plato (Yale 1943-1944).

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II. Ancient Philosophy (Yale 1941-1942) [old envelope 50] [= Philosophy 12: History of Ancient Philosophy] Box 36, folders 680-692 [36, 680] (8). Chapter 1: The Ionian School (1942) [36, 681] (8). Chapter 2: Herakleitos of Ephesos (1942) [36, 682] (8). Chapter 3: Pythagoras and the Pythagoreans (1942) [36, 683] (8). Chapter 3: The Eleatic School (1942) [36, 684] (8). Chapter 4: Empedokles, Anaxagoras, and the Atomists (1942) [36, 685] (8). Chapter 5: The Sophists (1942) [36, 686] (8). Chapter 6: Socrates (1942) [36, 687] (8). The Stoic Philosophy (1942) [36, 688] (8). Epikurus (1942) [36, 689] (8). Neo-Platonism (1942) [36, 690] (8). Ancient Philosophy. Aristotle (1942) [36, 691] (8). Ancient Philosophy. Introduction: First Lecture (1942) [36, 692] (8). Ancient Philosophy. Second Lecture (Monday 13 July 1942)

Questo materiale corrisponde al piano originario stabilito da Krois per il volume 13 della ECN e riprende l’esatta collocazione dei manoscritti conservati a Yale. Tuttavia, di questo gruppo di inediti non esiste il dattiloscritto del Seminar on Plato (Yale 1943-1944) e delle due lezioni introduttive Ancient Philosophy. Introduction: First Lecture (1942) e Ancient Philosophy. Second Lecture (Monday 13 July 1942), che ho quindi dovuto trascrivere direttamente dalla copia dei manoscritti cassireriani (a eccezione del Seminar on Plato tenuto a Yale a cavallo tra il 1943 e il 1944, in quanto trattasi di semplici appunti colmi di citazioni ricavate, principalmente, dalle opere di Platone e Aristotele e che in ogni caso non contengono nulla di nuovo rispetto ai seminari di Oxford del 1935).

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Queste lezioni non rappresentano di certo il primo confronto cassireriano con la filosofia antica e nemmeno un occasionale incontro con lo studio dei pensatori antichi; ricordiamo infatti ai lettori che il filosofo di Breslau (ora Wrocław, in Polonia) già nel 1925 aveva avuto modo di pubblicare un ampio testo intitolato Die Philosophie der Griechen von den Anfängen bis Platon, appositamente scritto per il Lehrbuch der Philosophie curato da Max Dessoir, come anche un lungo saggio dal titolo Logos, Dike, Kosmos in der Entwicklung der griechischen Philosophie del 19419. Queste lezioni e seminari, rispetto ai lavori sulla filosofia antica pubblicati in vita da Cassirer e dei quali abbiamo costantemente tenuto conto per la presente traduzione, contengono notevoli elementi di novità, rinvenibili in primo luogo nei contenuti e nell’estensione delle tematiche trattate. Ad esempio, il folto gruppo di manoscritti su Platone – utilizzati per dei seminari tenuti a Oxford nel 1935 – contiene una trattazione del filosofo ateniese più ampia rispetto a quella presente nel testo del 1925. Nel gruppo di manoscritti sulla filosofia antica – utilizzati per un corso di filosofia antica tenuto alla Yale University nel 1942 – viene dato spazio anche allo Stoicismo, al Neoplatonismo e soprattutto, come ricordava John Michael Krois, in queste lezioni è presente anche un’estesa disamina della filosofia di Aristotele (assente invece nel testo del 1925, concluso da un breve capitolo dedicato alle scuole Cfr. Id., Die Philosophie der Griechen von den Anfängen bis Platon, in M. Dessoir (Hrsg.), Lehrbuch der Philosophie, Band I, Ullstein, Berlin 1925, pp. 7-139; Id., Logos, Dike, Kosmos in der Entwicklung der griechischen Philosophie, «Göteborgs Högskolas Årsskrift», vol. XLVII, n. 6, 1941, pp. 3-31 (entrambi i lavori sono disponibili in traduzione italiana nel volume E. Cassirer, Da Talete a Platone, trad. it. di G. A. De Toni, Laterza, Roma-Bari 1992). 9

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socratiche minori: la scuola cinica, la scuola cirenaica e la scuola megarica10). Le Lectures sono state scritte da Cassirer direttamente in inglese e, com’è facilmente immaginabile, la resa stilistica non è di certo paragonabile a quella delle opere da lui scritte nella sua madrelingua. Tuttavia, come ci racconta la moglie Toni nella biografia dedicata al marito, la sua padronanza della lingua inglese, «nonostante la lunga interruzione durante gli anni svedesi, si era rafforzata piuttosto che indebolita, e in America egli iniziò a redigere i suoi nuovi lavori direttamente in inglese»11. D’altra parte, come ricorda Charles W. Hendel nella sua premessa a Il mito dello stato, Cassirer aveva «fra le molte altre, la capacità sorprendente di scrivere, senza aiuto, in un inglese chiaro, scorrevole, e con un nitido senso dei significati del linguaggio»12. In effetti, dalla lettura dei manoscritti delle Lectures, si evince chiaramente un’ottima padronanza, da parte di Cassirer, della lingua inglese, sia pur controbilanciata da una esposizione non sempre brillante; ma ciò è del tutto fisiologico quando ci si ritrova a scrivere in una lingua che non è la propria. Il problema della conoscenza nelle “Lectures” di Cassirer È bene precisare che le Lectures cassireriane, sebbene frutto di circostanze di natura accademica, non rappresentano di certo un interesse circoscritto a tali incom10 D’altra parte, tale lavoro venne svolto su commissione, per cui Cassirer fu “costretto” a limitarsi nell’estensione della trattazione. 11 T. Cassirer, Mein Leben mit Ernst Cassirer, cit., p. 303. 12 C. W. Hendel, Premessa a E. Cassirer, Il mito dello stato, trad. it. di C. Pellizzi, Longanesi, Milano 1971, p. 15.

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benze didattiche, giacché i riferimenti alla filosofia antica – in particolar modo al tanto amato Platone – sono una costante lungo la vasta produzione scientifica del filosofo delle forme simboliche. Dal punto di vista della trattazione e dell’impianto concettuale, queste lezioni si collocano in un’unità ideale con la monumentale opera in quattro volumi Das Erkenntnisproblem in der Philosophie und Wissenschaft der neueren Zeit (1906-1957). La modalità con cui Cassirer affronta le varie tappe del pensiero greco risente senz’altro dell’approccio magistralmente applicato nell’opera Das Erkenntnisproblem; per l’appunto, si tratta di analizzare criticamente e in modo sistematico non soltanto il processo della conoscenza ma anche il suo concetto. Seguire la strada della mera ricognizione storica si rivelerebbe infatti sterile e infruttuoso, giacché con ciò si correrebbe il rischio di circoscrivere l’analisi della conoscenza entro il perimetro dei suoi aspetti esteriori, quando invece questi ultimi andrebbero opportunamente collocati all’interno di quella intelaiatura concettuale che li sorregge e che conferisce a essi il loro pieno significato. Questi scritti, riuniti assieme in base a un ordine tematico, danno vita a una vera e propria storia della filosofia antica e sfuggono a una trattazione di tipo meramente dossografico: a interessare Cassirer è non tanto una mera esposizione manualistica delle varie dottrine prese in esame, quanto invece il problema della conoscenza così come affrontato e concettualizzato dai vari pensatori e dalle varie scuole filosofiche antiche. In queste sue lezioni Cassirer, lungi dal presentare la storia della filosofia antica come un mero tessuto di opinioni, coniuga in modo assai efficace le necessarie precisazioni storiche con aspetti più squisitamente teorici, sicché l’articolazione della trattazione rivela un circolo virtuoso tra

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ricognizione storica e riflessione teorica, tra problema e sistema. Il lettore, in queste lezioni, potrà inoltre individuare quella che, con un’espressione forse apparentemente vuota ma in realtà essenziale, possiamo definire “sintesi filosofica cassireriana”. Su questo aspetto si leggano le seguenti parole del già citato Charles W. Hendel, tratte dalla sua premessa a Il mito dello stato: «egli non si limitava a passare in rassegna, con sottile comprensione, ciò che avevano pensato i filosofi precedenti, ma riuniva anche in una visione sinottica generale tutto ciò che si riferiva al tema sotto ogni aspetto dell’esperienza umana: arte, letteratura, religione, scienza, storia. In tutto ciò che egli intraprendeva c’era una costante dimostrazione delle interdipendenze delle diverse forme di conoscenza e della cultura umana. Egli possedeva, cioè, il genio della sintesi filosofica, oltre che l’immaginazione e la dottrina dello storico. Queste qualità vennero ad essere particolarmente care ai suoi colleghi e a molti studenti più appassionati, in quei rari corsi e nelle lezioni che egli tenne successivamente alle università di Yale e di Columbia»13. D’altra parte, le singole lezioni di Cassirer consegnano sempre un particolare sguardo prospettico, una nuova sintesi organica che funge da filtro concettuale e da stimolo di riflessione per leggere gli autori esaminati in modo originale e molto spesso in aperto contrasto con le classiche interpretazioni storiografiche, oramai divenute quasi un cliché. Basti come esempio Eraclito. Il nerbo della riflessione del grande filosofo di Efeso, nella letteratura manualistica e non solo, viene quasi sempre ridotto all’arcinota affermazione πάντα ῥεῖ, ossia tutto scorre (peraltro assente nei frammenti eraclitei). Una tale sem13

Ibid., p. 11.

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plificazione, con la quale si suole mettere in evidenza, in maniera unilaterale, il perenne flusso delle cose, rischia di fornire infatti un’interpretazione banalmente relativistica di un pensatore lungi invece da ogni forma di relativismo filosofico. Per tal motivo Cassirer, nel capitolo dedicato a Eraclito, libera il pensatore di Efeso dalla stretta morsa di questo pregiudizio filosofico-storiografico, facendo leva su quello che è invece il concetto più importante della filosofia eraclitea, ossia il concetto di Logos. Interpretare in senso spregiativamente relativistico la celebre affermazione di Eraclito significherebbe travisarne il pensiero complessivo che è invece volto, a detta di Cassirer, alle eterne misure che il pensiero coglie proprio all’interno del divenire14. Questa lettura di Eraclito si basa su un approccio che Cassirer applica ovviamente all’intera filosofia antica e che, com’è noto, si condensa nella coppia platonica πράγματα-λόγοι. Il pensiero non può arrestarsi all’immediato presentarsi fenomenico, ai πράγματα, giacché la verità “di ciò che è” la si può cogliere e afferrare soltanto nei λόγοι. Difatti, afferma Socrate in risposta a Cebete nel dialogo Fedone, «non è forse vero che, mentre queste cose mutevoli tu le puoi vedere o toccare o percepire con gli altri sensi corporei, quelle, invece, che permangono sempre identiche non c’è altro mezzo per coglierle, se non col puro ragionamento della mente, perché queste cose sono invisibili e non si possono cogliere con la vista?»15 Per usare la grammatica galileiana, si tratta pertanto di connettere le sensate esperienze 14 Cfr. E. Cassirer, Filosofia delle forme simboliche, vol. II: Il pensiero mitico, La Nuova Italia, Firenze 1964, p. 189. 15 Platone, Fedone, 79 A, in Id., Tutti gli scritti, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2008.

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alle necessarie dimostrazioni in virtù di un processo di idealizzazione della realtà atto a diffalcare gli impedimenti della materia. Questo aspetto metodologico è di capitale importanza non soltanto per la comprensione del Cassirer filosofo, ma anche, più nello specifico, per quella del Cassirer storico del pensiero antico; ci riferiamo alla critica del sostanzialismo in favore di una concezione funzionalista16. Detto brevemente, per Cassirer la concezione dell’universale, nel campo della logica, è esemplificata dal fronteggiarsi di due opposte tendenze: quella astrazionista, secondo la quale l’universale viene ottenuto tramite la generalizzazione di fatti empirici, e quella funzionale, laddove si ha una determinata regola alla quale sottostanno gli elementi empirici collegati l’un l’altro in serie. Nel primo caso, afferma Cassirer, l’universale «ci serve per innalzarci da ciò che è conosciuto e dato empiricamente a classi e specie [Klassen und Arten] sempre più alte e sempre più povere di contenuto», mentre nel secondo caso noi riuniamo nell’universale «un complesso di relazioni sempre più ricco, in virtù delle quali gli elementi empirici precedentemente separati si collegano per noi in serie»17. Ad esempio, nel caso degli Ionici Cassirer – in netta antitesi alla nota lettura aristotelica presente nel primo libro della Metafisica – afferma che in realtà l’arché da loro ricercato, ossia il principio di tutte le cose, non era affatto (o non solo) qualcosa di puramente sostanziale o materiale, quanto invece un Cfr. E. Cassirer, Substanzbegriff und Funktionsbegriff. Untersuchungen über die Grundfragen der Erkenntniskritik, Verlag von Bruno Cassirer, Berlin 1910. 17 Id., Freiheit und Form. Studien zur Deutschen Geistesgeschichte, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1975, p. 213. 16

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λόγος e quindi un principio della ragione18. Per dirla con le parole di Giovanni Gentile, la filosofia è sì idealismo da Platone in poi, ma è pur vero che la «filosofia precedente, chi ben rifletta, è già anch’essa idealistica: un idealismo avant la lettre. La natura dei Presocratici, infatti, è la natura pensata; la natura a cui, nel pensiero, si riduce la natura empirica. Sulla quale deve perciò esercitarsi il pensiero affinché dentro di essa, o di là da essa, si scopra quella natura assoluta, nella cui cosmogonica configurazione consisterà propriamente l’oggetto del nostro conoscere. Oggetto mediato dal soggetto»19. Si noti inoltre che Cassirer, pur approdando a conclusioni simili a quelle della nota opera di Theodor Gomperz sulla filosofia antica, diversamente da quest’ultimo parte invece da premesse antipositiviste. Difatti anche per Gomperz, nella filosofia degli Ionici, si rendono manifeste «due idee capitali della chimica moderna, importanti ciascuna per sé presa, doppiamente importanti per la loro unione: la esistenza di materie elementari e la indistruttibilità della materia»20; ma l’originalità della lettura di Cassirer, rispetto a quella marcatamente positivista di Gomperz, risiede invece nell’aver ricondotto l’arché degli Ionici non tanto a una mera natura sostanziale, quanto a un principio di natura teorica e speculativa, sia pur non ancora sufficientemente sviluppato. Difatti, noi sappiamo che Talete era in grado di applicare l’agrimensura ma, come precisa Martin Heidegger, 18 Su questi aspetti si veda anche la proposta ermeneutica di Giorgio Colli: cfr. G. Colli, La natura ama nascondersi, cap. III, a cura di E. Colli, Adelphi, Milano 1988, pp. 93-135. 19 G. Gentile, La religione, Sansoni, Firenze 1965, p. 328. 20 T. Gomperz, Pensatori greci. Storia della filosofia antica dalle origini ad Aristotele e alla sua scuola, trad. it. di L. Bandini, Bompiani, Milano 2013, p. 71.

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«ciò non significa che egli conoscesse in modo esplicito i presupposti teoretici di tali misurazioni. La conoscenza delle regole del misurare non esige la cognizione della condizione teoretica della loro possibilità e necessità»21. Ciononostante, resta comunque valido, a nostro avviso, l’acuto giudizio espresso da Hegel nella sua ponderosa Wissenschaft der Logik, secondo cui «i princìpi delle filosofie antiche o moderne, l’acqua, oppure la materia o gli atomi, sono pensieri [Gedanken], universalità, idealità e non cose quali immediatamente si trovano, cioè nella loro individualità sensibile. Nemmeno quell’acqua di Talete [taletische Wasser]; poiché, sebbene sia anche l’acqua empirica, è però al tempo stesso, oltre a questo, l’in sé [Ansich] o l’essenza [Wesen] di tutte le altre cose; e queste non sono indipendenti, fondate in sé, ma poste [gesetzte] da un altro, dall’acqua, ovvero sono ideali [ideelle]»22. Cassirer, alla luce di questo suo paradigma ermeneutico, “riabilita” inoltre un pensatore come Empedocle il quale, ricercando l’esatta proporzione numerica tra gli elementi, anticipa un aspetto fondamentale della chimica moderna (si pensi alla legge delle proporzioni multiple di Dalton)23; vi è poi Anassagora il quale, nell’indagine sulla struttura dell’universo e dei suoi elementi ultimi, si appella alla forza della ragione; vi sono infine gli Atomisti i quali, sottoponendo ad analisi gli aspetti quantitativi del reale piuttosto che quelli qualitativi, anticipano 21 M. Heidegger, I concetti fondamentali della filosofia antica, trad. it. di G. Gurisatti, Adelphi, Milano 2000, pp. 126-127. 22 G. W. F. Hegel, Wissenschaft der Logik, Erste Buch, in Id., Werke, Band 5, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1969, p. 172. 23 Cfr. E. Cassirer, Determinismo e indeterminismo nella fisica moderna. Studi storici e sistematici sul problema della causalità, trad. it. di G. Borbone, Mimesis, Milano 2020, p. 250.

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di molti secoli la prospettiva concettuale della scienza moderna e via dicendo. Tutti questi aspetti, chiaramente, trovano la loro massima espressione, sistematicità e compiutezza nell’opera di Platone, da Cassirer considerato indubbiamente il più grande filosofo dell’antichità. Sin dalle primissime pagine del suo capolavoro, ossia la monumentale Filosofia delle forme simboliche, Cassirer illustra il principale contributo filosofico di Platone, il quale supera – in modo definitivo – quella oscillazione tra “fisico” e “spirituale” ancora prevalente nella prospettiva concettuale dei Pitagorici e di Democrito: […] sia il numero dei Pitagorici che l’atomo di Democrito, per grande che sia la distanza che li separa dalla materia originaria degli ionici, dal punto di vista metodologico sono entità intermedie che non hanno ancora in sé stesse la propria peculiare natura e che per così dire non si sono ancora decise circa la loro patria spirituale. Questa intima incertezza è definitivamente superata solo nella dottrina delle idee di Platone. Il grande apporto sistematico e storico di questa dottrina è costituito dal fatto che in essa l’essenziale presupposto spirituale di ogni comprensione e di ogni spiegazione filosofica del mondo appare per la prima volta in forma esplicita. Ciò che Platone ricerca sotto il nome di “idea” era attivamente presente come principio immanente anche nei primi tentativi di spiegazione, negli eleati, nei Pitagorici, in Democrito; ma solo in lui questo principio diviene cosciente di ciò che esso è e significa. Platone stesso ha inteso in questo senso il suo apporto filosofico. Nelle opere della vecchiaia, nelle quali raggiunge la massima chiarezza circa i presupposti logici della sua dottrina, egli fa consistere la differenza netta che separa la sua speculazione da quella dei presocratici appunto nel fatto che in lui

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l’essere che in quelli veniva preso come saldo punto di partenza sotto forma di un esistente singolo, è stato per la prima volta riconosciuto come problema. Egli non ricerca più semplicemente l’articolazione, la costituzione e la struttura dell’essere, ma il suo concetto e il significato di questo concetto24.

Questa significativa citazione lascia intendere l’enorme importanza che Cassirer attribuiva alla dottrina delle idee del filosofo ateniese; e la valutazione del platonismo contenuta nel brano appena citato trova una conferma anche in queste lezioni inedite, come il lettore potrà notare senza troppe difficoltà. In ogni caso, anche il Platone proposto da Cassirer, analogamente agli esempi già illustrati, viene arricchito di nuove interpretazioni e chiavi di lettura che sottraggono il grande pensatore ateniese alla miriade di semplificazioni e banalizzazioni di cui spesso è rimasto vittima. L’esemplarità del Platone di Cassirer, infatti, emerge proprio quando si smette di considerarlo come quell’eccentrico pensatore teso a postulare l’esistenza di due mondi separati, per intenderlo invece come un pensatore che, per il bene di questo mondo e per una sua più appropriata comprensione, offre la sua teoria delle idee in chiave eminentemente gnoseologica e ontologica insieme. In buona sostanza, il mondo delle idee (livello gnoseologico o epistemologico) – situato idealmente al di sopra della immediatezza empirica (livello ontologico) – ci permette di collocare gli innumerevoli aspetti dell’opaca conoscenza sensibile a un livello categoriale superiore. Secondo la grande lettura neo-kanId., Filosofia delle forme simboliche, vol. I: Il linguaggio, La Nuova Italia, Firenze 1961, p. 4. Abbiamo sostituito lo spaziato con il corsivo. 24

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tiana del Platonismo (Cohen, Natorp25), un aspetto fondamentale e centrale, non soltanto per la comprensione del pensiero platonico, ma dell’idealismo, in generale, consiste infatti nell’imparare a «distinguere l’essere […] dell’idea dall’essere della cosa»26. In tal modo Platone non viene visto più come un acerrimo nemico della realtà empirica, giacché quest’ultima, proprio perché prima facie ci appare imperfetta e variegata, ha bisogno di trovare ordine e sistematicità nel concetto, senza la cui funzione unificante il mondo si ridurrebbe a un mero caos. Pertanto, secondo il pensatore ateniese – nella interpretazione che ne dà Cassirer – non vi è alcun dualismo, nessun mondo ideale separato da quello empirico, quanto invece un intero, sulla cui base fenomenologica si erge un sistema categoriale che ci permette di cogliere, qualora dovesse mostrarsi efficace, l’ordine immanente agli aspetti della realtà fenomenica. Se tale sistema dovesse invece rivelarsi insufficiente, allora saremo costretti a risalire a un livello superiore, fino al punto da raggiungere un principio anipotetico di fronte al quale ci si può fermare. Fatto ciò, sarà possibile ridiscendere verso il mondo fenomenico il quale, 25 Cfr. H. Cohen, Die platonische Ideenlehre psychologisch entwickelt, in Id., Schriften zur Philosophie und Zeitgeschichte (1866), Band I, herausgegeben von A. Görland-E. Cassirer, Akademie Verlag, Berlin 1928, pp. 30-87; Id., Platons Ideenlehre und die Mathematik (1878), in Id., Schriften zur Philosophie und Zeitgeschichte (1866), Band I, cit., pp. 336-366 e P. Natorp, Platons Ideenlehre. Eine Einführung in den Idealismus, Dürr’schen Buchhandlung, Leipzig 1903 (opera pubblicata in seconda edizione nel 1921). 26 E. Cassirer, Sulla questione riguardante il metodo della critica della conoscenza, in E. Cassirer-L. Nelson, Una controversia sul metodo critico, a cura di F. Biagioli, Morcelliana, Brescia 2011, p. 166.

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alla luce del principio dal quale siamo discesi, acquista adesso un senso che, in prima istanza, non era possibile cogliere per via della debolezza scaturente dalla mera osservazione empirica. Questa esigenza platonica, come sottolinea Cassirer nella sua postuma Geschichte der philosophischen Anthropologie (Vorlesung Göteborg 1939/1940), era stata pienamente realizzata dai matematici dell’Accademia per l’appunto «nella costruzione della Geometria [im Aufbau der Geometrie]»; d’altra parte, è così che si sviluppano gli Elementi di Euclide, ossia «la prima geometria sistematica, che ancora oggi è esemplare per il carattere scientifico della matematica [Wissenschaftscharakter der Mathematik]; che parte dai princìpi primi […] per poi scendere passo dopo passo verso conoscenze particolari»27. Ed è proprio nell’abbrivio del processo speculativo-matematico che, per dir così, l’esperienza diventa a noi accessibile in maniera mediata, sicché – per dirla con la grammatica di Wittgenstein – gioca un ruolo cruciale il «vedere le connessioni. Di qui l’importanza del trovare anelli intermedi»28. I princìpi di cui parla Platone – e ciò emerge dalla lettura cassireriana dell’intera produzione platonica – sono princìpi immanenti al reale ed è proprio questa lettura apparentemente così drastica che sarà alla base dell’originale interpretazione cassireriana di Galileo e 27 Id., Geschichte der philosophischen Anthropologie (Vorlesung Göteborg 1939/1940), in Id., Nachgelassene Manuskripte und Texte, Band 6: Vorlesungen und Studien zur philosophischen Anthropologie, herausgegeben von G. Hartung-H. Kopp Oberstebrink, Meiner Verlag, Hamburg 2005, p. 46. 28 L. Wittgenstein, Note sul “Ramo d’oro” di Frazer, trad. it. di S. de Waal, Adelphi, Milano 20139, p. 29.

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della funzione esercitata dal Platonismo in epoca rinascimentale29. Se questi princìpi sono immanenti al reale, allora ciò significa che anche per Platone la natura parla in linguaggio matematico, per cui il Platonismo del Rinascimento lo si può a buon diritto considerare come un’applicazione – in chiave fisico-matematica – della dottrina delle idee al mondo del divenire. Pertanto, come afferma Cassirer in Die Philosophie im XVII. und XVIII. Jahrhundert, bisogna intendere «il pensiero galileiano come platonico-archimedeo. Galilei osò introdurre per primo nella fisica l’ἐξ ὑποθέσεως σκοπεῖν che Platone insegnò nel Menone»30. È attraverso tale operazione ermeneutica che, secondo Cassirer, lo scienziato pisano «può, come convinto platonico, avventurarsi a trasferire nel “regno delle idee” il movimento stesso»31. Ma proprio perché trattasi di un’operazione ermeneutica, Galileo non può certo limitarsi a un semplice “travaso” della teoria delle idee dalla dimensione della idealità al mondo del divenire giacché, 29 Su questi aspetti mi permetto di rinviare a G. Borbone, The Concept of Idealization in Ernst Cassirer’s Theory of Knowledge, «Analysis and Metaphysics», vol. 15, 2016, pp. 88-109; Id., Pensieri al limite. Sostanza, funzione e idealizzazione in Cassirer e Husserl, Diogene Edizioni, Napoli 2019 e Id., Lokale und globale Idealisierungen. Das Wissenschaftsmodell von Ernst Cassirer, «Deutsche Zeitschrift für Philosophie», vol. 68, n. 2, 2020, pp. 188216. Sull’interpretazione cassireriana del platonismo di Galileo si veda anche F. Minazzi, Galileo «filosofo-geometra», Rusconi, Milano 1994, pp. 257-260. 30 E. Cassirer, Die Philosophie im XVII. und XVIII. Jahrhundert, in Id., Gesammelte Werke, Band 22: Aufsätze und kleine Schriften (1936-1940), herausgegeben von C. Rosenkranz, Meiner Verlag, Hamburg 2006, p. 237. 31 Id., La rinascenza platonica in Inghilterra e la scuola di Cambridge, trad. it. di R. Salvini, La Nuova Italia, Firenze 1947, p. 140.

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come scrive Fabio Minazzi, «appare molto più plausibile considerare l’interesse e l’apertura di Galileo nei confronti della tradizione platonica all’interno della sua coraggiosa e radicale opzione a favore di una ricezione storico-critica della tradizione archimedea e di quella democritea. Solo se si tiene presente il nuovo orizzonte concettuale e pratico, al cui interno Galileo inserisce la costruzione della sua nuova scienza (che fa tutt’uno con questo nuovo e rivoluzionario orizzonte teorico e pratico), si possono comprendere adeguatamente i suoi riferimenti al Platonismo, sia le sue aperture, non meno interessanti, nei confronti della tradizione platonica»32. Da queste considerazioni acquista un senso del tutto nuovo anche la dialettica platonica, che non indica in alcun modo una conoscenza di tipo immediato, una ἔκστασις di plotiniana memoria. Come scrive Cassirer nel manoscritto di Oxford (1935), Platone «non afferma di possedere una intuizione immediata della verità; tenta di trovarla attraverso un processo dialettico, attraverso un processo di analisi e deduzione»33. La dialettica viene per l’appunto intesa come un metodo diretto alla ricerca della verità, sia pur nella sua accezione di via (ὁδός) e non «nel senso moderno, cioè cartesiano, di insieme di regole stabilite preliminarmente alla ricerca vera e propria»34. In effetti la funzione fondamentale della dialettica, per dirla con la grammatica galileiana, consiste proprio nell’abituare gli uomini alla fatica atlantica del pensiero: in buona sostanza a pensare con la propria teF. Minazzi, Galileo «filosofo-geometra», cit., p. 260. E. Cassirer, Plato=Vorlesungen, Oxford 1935. Manoscritto del Box 48, folder 959, p. 31 (infra, p. 539). 34 E. Berti, Contraddizione e dialettica negli antichi e nei moderni, L’Epos, Palermo 1987, p. 77. 32

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sta (sapere aude!, avrebbe scritto Immanuel Kant molto tempo dopo). È qui che, a nostro avviso, entra in gioco il rapporto tra le dottrine scritte e quelle “non scritte” (ἄγραφα δόγματα), che Cassirer, purtroppo, non prende in considerazione35. D’altra parte, Platone, da buon maestro, non intende fornire al lettore delle soluzioni definitive, ma spunti di riflessione, continui rinvii e allusioni, analogamente al dio Apollo che, come scrive Eraclito, «non dice né nasconde, ma accenna»36. Queste chiavi di lettura del pensiero platonico, assieme a tante altre e che meriterebbero di certo ben altri approfondimenti critici, ci restituiscono un’immagine di Platone sicuramente rinnovata e suggestiva, ma non per questo meno rigorosa sotto il profilo concettuale e filosofico. Che Cassirer sia un irriducibile platonico ciò sembra oramai un fatto assodato; in effetti, come ha affermato Dorothea Frede, ciò che traspare dall’intera produzione cassireriana è che per il filosofo tedesco «Platone era il filosofo per eccellenza [war für ihn Plato der Philosoph schlechthin]»37, sicché non sarebbe poi così inverosimile sostenere che, facendo il verso a un noto apoftegma hegeliano, per il filosofo delle forme simboliche philosophieren ist platonieren. Cassirer, in sostanza, rinviene in Platone (ancor prima che in Kant) Su tale argomento cfr. F. Coniglione, Some Remarks on the Meaning of Esotericism and Plato’s Unwritten Doctrines, «Mondi. Movimenti simbolici e sociali dell’uomo», vol. I, n. 1, 2018, pp. 5-51. 36 Eraclito, Tutti i frammenti, trad. it. di B. Salucci, Le Monnier, Firenze 1967. 37 D. Frede, Das Nachleben der Antike im Werk Ernst Cassirers, in B. Recki (ed.), Philosophie der Kultur – Kultur des Philosophieren. Ernst Cassirer im 20. und 21. Jahrhundert, Felix Meiner Verlag, Hamburg 2012, p. 37. 35

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le basi per una corretta impostazione del problema della conoscenza, la quale ricevette i suoi connotati moderni dal razionalismo di Descartes e Leibniz e dal metodo sperimentale di Galileo; anche se il terreno era stato laboriosamente preparato dall’opera di rinnovamento culturale attuato da pensatori rinascimentali come Marsilio Ficino, Pico della Mirandola, Niccolò Cusano e così via. A detta del filosofo delle forme simboliche, infatti, è proprio il concetto platonico di verità ad aver «impresso il proprio marchio su tutti i sistemi dell’idealismo apparsi in seguito nella storia della filosofia»38. Ma questa è una questione talmente ampia e complessa che non possiamo di certo affrontarla in questa sede. Estremamente originale – e per certi aspetti alquanto eterodossa – è anche la lettura cassireriana del pensiero aristotelico, il cui centro di gravità viene da Cassirer rinvenuto nella biologia. Il motivo è molto semplice e lo si può ricavare dalla stessa biografia intellettuale dello Stagirita. D’altra parte, i principali interessi filosofici e scientifici del giovane Aristotele erano indirizzati verso la vita organica; Aristotele guarda la realtà con gli occhi del biologo interessato a cogliere le leggi di sviluppo della vita organica. Ciò spiega anche il famoso rifiuto aristotelico della filosofia della matematica dell’Accademia platonica, giacché le forme delle quali ci parla Aristotele non corrispondono a quelle astratte e geometriche proposte da Platone, ma alle concrete forme viventi. La concezione aristotelica degli enti matematici, essendo di natura non-realistica, rendeva impossibile una fisica matematica, 38 E. Cassirer, The Philosophy of Kant (Yale 1941/42), in Id., Nachgelassene Manuskripte und Texte, Band 15: Vorlesungen und Vorträge zu Kant, herausgegeben von C. Möckel, Meiner Verlag, Hamburg 2016, p. 297.

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mentre la tradizione platonica che va da Proclo a Cusano, come afferma Massimo Cacciari, «si muove nella direzione opposta: la perfezione della costruzione matematica non è comprensibile come esito di un procedimento astrattivo, che coordina e ‘armonizza’ il materiale fornito dalle percezioni. Essa è il risultato di una ‘intuizione intellettuale’: sulla ‘scoperta’ di questa facoltà si fonderà la possibilità stessa della moderna fisica matematica»39. Il deciso rifiuto aristotelico della filosofia della matematica di Platone, almeno per lo sviluppo della scienza moderna, «per molti aspetti è stato fatale»40, laddove invece «è solamente sotto l’influsso di Platone che le matematiche sono diventate scienze puramente teoretiche»41. Che i corpi elementari siano dei solidi regolari42, non soltanto rappresenta «indubbiamente una delle più splendide e originali idee di Platone»43, ma ha consentito anche la matematizzazione del sensibile. In effetti, sull’intima connessione vigente tra la teoria platonica delle idee e la matematica, Cassirer non ha alcun dubbio: È innegabile che Platone abbia modellato il suo concetto della conoscenza sul modello della mate­ ma­tica; la sua teoria delle idee è non solo debitrice M. Cacciari, Dell’inizio, Adelphi, Milano 2001, p. 688. V. Hösle, I fondamenti dell’aritmetica e della geometria in Platone, trad. it. a cura di E. Cattanei, Vita e Pensiero, Milano 1994, p. 53. 41 M.-D. Richard, L’insegnamento orale di Platone, trad. it. di G. Reale, Bompiani, Milano 2008, p. 77. 42 Cfr. Platone, Timeo 57 B. 43 C. Steel, Proclus’ Defence of the Timaeus against Aristotle: A Reconstruction of a Lost Polemical Treatise, in R. Sorabji (ed.), Aristotle Re-Interpreted. New Findings on Seventh Hundred Years of the Ancient Commentators, Bloomsbury, London-Oxford-New York-New Delhi-Sidney 2016, p. 354. 39 40

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alla matematica di alcune vedute fondamentali, ma ne è ben determinata in tutta la sua struttura. D’altra parte, però, essa va ben più lontano di quelli che sono i risultati effettivi della matematica greca. Nella sua relazione con la matematica greca Platone sembra dare assai più di quanto prenda. Egli pone un’“idea” pura come modello e prototipo di fronte alla matematica e pretende dalla scienza che si conformi a questo modello posto dal pensiero filosofico e gli si avvicini progressivamente44.

Aristotele invece, in netta opposizione al punto di vista platonico, afferma che «poiché nessuna cosa, come sembra, esiste separata dalle grandezze sensibili, è nelle forme sensibili che esistono gli intelligibili e quelli che si dicono per astrazione e quanti sono qualità e proprietà dei sensibili»45. Se da un lato questa chiave interpretativa ci aiuta a meglio intendere la differenza essenziale tra Platone e Aristotele, dall’altro non implica di certo una lettura empirista e positivista dello Stagirita, giacché il concetto di verità sostenuto da Aristotele è decisamente in linea con quello platonico: la verità è universale. Per concludere, in queste queste dense pagine cassireriane il lettore potrà trovare non soltanto originali spunti e stimoli di riflessione sui principali filosofi dell’antichità, ma anche un aspetto del pensatore di Breslau non ancora del tutto esplorato, ossia la sua figura di maestro. Dalla lettura di queste lezioni di Cassirer si potrà infatti notare non soltanto la sua indiscussa padronanza concettuale delle varie dottrine prese in esame, ma anche una 44 E. Cassirer, Storia della filosofia moderna, vol. IV: Il problema della conoscenza nei sistemi posthegeliani, trad. it. di E. Arnaud, Einaudi, Torino 1958, p. 29. 45 Aristotele, Dell’anima, III, 432a 4-7, in Id., Opere, vol. 4, trad. it. di R. Laurenti, Laterza, Bari 2007.

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straordinaria chiarezza espositiva, tipica di chi la filosofia la insegna e la fa. Come già accennato, un indubbio merito di Cassirer risiede nella sua capacità di saper coniugare, in maniera efficace, la dimensione problematica delle varie scuole di pensiero con le soluzioni teoriche da esse prospettate, unitamente all’analisi logica dei loro concetti e a una proposta ermeneutica sempre rinnovata e stimolante. D’altra parte – e ciò appare evidente dalla lettura di queste lezioni – uno degli obiettivi essenziali di Cassirer consiste non soltanto nella necessaria esposizione e chiarificazione logico-concettuale delle varie dottrine filosofiche, ma anche nel fornire le opportune contestualizzazioni storiche e i precisi riferimenti testuali, consentendo così ai suoi uditori di “osservare” con strumenti più adeguati l’imperituro fascino della costellazione concettuale della filosofia antica.

AVVERTENZA DEL TRADUTTORE E RINGRAZIAMENTI La traduzione di questo nutrito gruppo di inediti cassireriani è stata condotta sulla copia dei manoscritti originali custoditi presso la Beinecke Rare Book and Manuscript Library dell’Università di Yale, come anche sulla parziale versione dattiloscritta delle Lectures gentilmente fornitami dal prof. Christian Möckel della Humboldt Universität di Berlino. Nella disposizione dei manoscritti abbiamo deciso di non seguire l’ordine cronologico (ossia le date dei singoli manoscritti) ma quello tematico, altrimenti avremmo dovuto iniziare con Platone (testo del 1935) per poi concludere con le due lezioni introduttive (entrambe del 1942) e, com’è facilmente immaginabile, ciò avrebbe reso l’intero corpus degli scritti cassireriani alquanto slegato, confusionario e privo inoltre di una certa unitarietà tematica. Le Lectures, come già segnalato, sono state scritte da Cassirer direttamente in inglese, ma non abbiamo riscontrato particolari errori di sintassi alcuni dei quali, in ogni caso, erano già stati segnalati dal curatore della versione dattiloscritta (anche se non sempre in maniera corretta). Cassirer, molto spesso, riutilizza alcuni stralci di lezioni precedenti, ma, ciononostante, non abbiamo deciso di eliminare le ripetizioni per due ragioni principali: in primo luogo, per non operare tagli arbitrari al testo cassireriano; in secondo luogo, per fornire al lettore l’effettivo svolgimento delle lezioni di Cassirer il quale, da buon didatta, era solito riprendere, sia pur en passant, gli argomenti esposti in precedenza onde rendere il discorso più fluido e ben collegato. In merito ai tagli operati da Cassirer – ossia l’eliminazione di alcuni brani o talvolta di intere pagine – precisiamo che non sempre è stato possibile intendere le reali intenzioni di Cassirer; per cui, nei casi più dubbi, abbiamo deciso di por-

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re i brani “apparentemente” eliminati tra parentesi quadre o in nota. Abbiamo invece deciso di sostituire i termini e le espressioni sottolineate con il corsivo e di eliminare tutte le citazioni ripetute. Le citazioni utilizzate da Cassirer sono spesso un po’ imprecise e non sempre segnalate tra virgolette, sicché con grandissima difficoltà siamo riusciti a riprodurle correttamente dai testi originali, ma ciò è del tutto fisiologico per coloro i quali si assumono l’arduo compito di pubblicare e curare manoscritti inediti di natura principalmente preparatoria o didattica (sia pur rilevanti a livello teorico); nel tradurre in italiano le citazioni, abbiamo reso letteralmente l’inglese (anche ricostruito) dei manoscritti, mentre nelle note alla traduzione vengono riportate eventuali corrispondenze con le più accreditate edizioni italiane dei testi filosofici greci. La paragrafazione spesso è del tutto assente, per cui abbiamo deciso, tenendo conto delle tematiche affrontate, di dotare il testo di paragrafi redazionali. Tutti i termini stranieri sono stati riportati in corsivo per una scelta editoriale di uniformazione del testo, mentre tutti i corsivi di Cassirer sono sempre segnalati in nota. Le note al testo inglese sono tutte del curatore, giacché trattandosi di manoscritti sono presenti soltanto note a margine che, in ogni caso, vengono sempre segnalate in nota. Alcune brevi parole le debbo infine spendere per ringraziare coloro senza i quali questo lavoro non sarebbe mai stato portato a termine. Ringrazio sentitamente il prof. Christian Möckel e il gruppo della Ernst Cassirer Nachlass Edition della Humboldt Universität di Berlino, per l’invio della parziale versione dattiloscritta delle Lectures cassireriane, dispensandomi così dalla fatica atlantica di dover trascrivere quasi per intero i manoscritti; Yasmin Ramadan e June Can della Beinecke Rare Book and Manuscript Library dell’Università di Yale per la scansione dei manoscritti originali; il Prof. Fabio Minazzi dell’Università degli Studi dell’Insubria per aver supportato questa mia iniziati-

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va editoriale e per aver letto scrupolosamente tutto il testo e, last but not least, la Professoressa R. Loredana Cardullo – ordinario di Storia della Filosofia Antica dell’Università degli Studi di Catania – per aver controllato e corretto le varie imprecisioni presenti nei passi in greco. A tutte queste persone vanno attribuiti i meriti di questo lavoro, mentre al sottoscritto soltanto i difetti. Mirabella Imbaccari, marzo 2018

Giacomo Borbone

*** A causa della recente pandemia da COVID-19, l’editore Bompiani è stato costretto a posticipare la pubblicazione di questi inediti cassireriani al 2023. Tuttavia, come si dice dalle mie parti, ogni impedimento è giovamento, sicché mi è stato possibile – come spesso accade – non soltanto rinvenire ulteriori refusi e piccole imprecisioni, ma di disporre anche di tutto il tempo necessario per trascrivere interamente il testo inglese. In un primo momento, difatti, si era pensato di pubblicare soltanto la traduzione italiana e, successivamente, un’edizione col testo a fronte. Nel frattempo, la versione originale in inglese è stata pubblicata dall’editore Meiner di Amburgo, anticipando così l’edizione Bompiani. Siffatte precisazioni erano doverose, in particolar modo per rendere ragione delle affermazioni del Prof. Möckel e del Prof. Minazzi, che in riferimento a queste lezioni – giustamente – si erano espressi in termini di “anteprima mondiale”, sia pur nella sola lingua italiana. Mirabella Imbaccari, ottobre 2022

Giacomo Borbone

NOTA BIO-BIBLIOGRAFICA

Forniamo qui, in forma data-evento, le principali informazioni sulla vita e sulle opere di Ernst Cassirer1. 1. Nota biografica 1874: Ernst Cassirer nasce il 28 luglio a Breslau (oggi Wrocław, Polonia) da una ricca famiglia di commercianti ebrei tedeschi. Prima della sua nascita, il padre Eduard e la madre Eugenie (Jenny) avevano avuto un maschio e due femmine. Il fratello di Ernst, prima ancora che quest’ultimo venisse al mondo, era morto in tenera età e fu così che la madre Jenny riversò sul nuovo arrivato un amore appassionato che potesse lenire il dolore per la morte del primo figlio. Sin da ragazzino Ernst si dimostra un assiduo lettore, soprattutto grazie alla frequentazione della ricca biblioteca del nonno materno Sigfried Cassirer (quest’ultimo aveva sposato Per le notizie contenute in questa appendice bio-bibliografica mi sono avvalso delle seguenti opere: T. Cassirer, Mein Leben mit Ernst Cassirer, Meiner Verlag, Hamburg 2003; B. Recki, Cassirer, Reclam, Stuttgart 2013; H. Paetzold, Ernst Cassirer – Von Marburg nach New York. Eine philosophische Biographie, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1995; D. Gawronsky, Ernst Cassirer: his Life and his Work. A Biography, in A. Schilpp (ed.), The Philosophy of Ernst Cassirer, The Library of Living Philosophers, Inc., Evanston (Illinois) 1949, pp. 1-37; J. Hansson-S. Nordin, Ernst Cassirer: The Swedish Years, Peter Lang, Berlin et al. 2006; G. Raio, Introduzione a Cassirer, Laterza, Roma-Bari 20023 e S. Wittek, Ernst Cassirers Hamburger Jahre 1919-1933, Wallstein Verlag, Göttingen 2019. 1

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NOTA BIO-BIBLIOGRAFICA

una sua cugina, proprio come avrebbe fatto più tardi lo stesso Ernst). 1886: Cassirer va a vivere a Berlino, dove darà inizio alla sua formazione culturale frequentando il Gymnasium (corrispondente, grossomodo, al nostro liceo). Cassirer si rivela il miglior allievo della sua classe, ottenendo il massimo dei voti al termine degli studi. A Berlino viveva anche il cugino Bruno Cassirer (1872-1941), importante editore col quale il giovane Ernst avrebbe pubblicato gran parte dei suoi lavori filosofico-scientifici. 1892-1896: il giovane Ernst si iscrive all’Università di Berlino in Giurisprudenza, più per volontà del padre che per sincera convinzione personale. Abbandona subito questo percorso disciplinare, per dedicarsi invece agli studi di filosofia e letteratura, ma non senza un certo travaglio interiore. Difatti, egli nutriva una evidente insoddisfazione per il nuovo sentiero intrapreso, testimoniato dai diversi cambi di università. Da Berlino si spostò infatti a Lipsia, poi ad Heidelberg per ritornare infine, nuovamente, a Berlino. Nel frattempo, Cassirer continuava l’approfondimento dei suoi studi filosofici, che subirono una svolta nel 1894, anno in cui il giovane Ernst decise di seguire le lezioni su Kant di Georg Simmel. Fu proprio durante le lezioni di quest’ultimo che il giovane Ernst sentì per la prima volta il nome di Hermann Cohen, principale fondatore – assieme a Paul Natorp – del cosiddetto neo-kantismo marburghese e alle cui opere Simmel rimandava costantemente. In merito a quel periodo Cassirer, in un suo articolo commemorativo del 1943 intitolato Hermann Cohen 1842-1918, racconta un simpatico aneddoto su Simmel il quale da un lato invitava i suoi studenti a studiare le opere profonde

1. NOTA BIOGRAFICA

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e sagaci di Cohen, ma dall’altro riteneva queste ultime talmente oscure da risultare quasi indecifrabili: «Simmel was a very original and penetrating thinker. He worked in nearly all the fields of modern philosophy, and later he became one of the first founders of philosophical sociology. At that time, however, he was still a young privat docent who delivered his lectures before a small but very interested and attentive audience. In one of the first hours he gave a short bibliography of the literature on Kant. And it was on that occasion that I first heard the name of Hermann Cohen. Simmel emphasized how much he himself owed to the study of Cohen’s books, but he immediately added that those books, in spite of their real sagacity and profundity, suffered from a very grave defect. They were written, he said, in such an obscure style that as yet there was probably no one who had succeeded in deciphering them. That was, of course, a great paradox that could not fail to make an impression on the mind of a young man. What a surprise to hear that, after all, there was a work on Kant which the best judges considered to be a true and thorough explanation of his fundamental thoughts but which at the same time was declared to be nearly inaccessible to the common reader!»2. Ma questa spiazzante affermazione di Simmel non intimorì per nulla il giovane Cassirer, il quale si prodigò immediatamente per reperire una copia di Kants Theorie der Erfahrung (1871) di Cohen. Furono proprio le opere di quest’ultimo a rappresentare quella guida di cui Ernst aveva bisogno nel suo studio sistematico della filosofia kantiana. Cassirer, in cuor suo, aveva già preso la decisione di spostarsi a Marburgo per seguire i corsi di E. Cassirer, Hermann Cohen 1842-1918, «Social Research», vol. 10, n. 2, Maggio 1943, p. 222. 2

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Cohen e Natorp, ma questo non prima di essersi cimentato in uno studio approfondito tanto delle opere di Kant e dei neo-kantiani di Marburgo, quanto degli autori da lui ritenuti fondamentali per una adeguata comprensione della filosofia critica kantiana: Platone, Descartes e Leibniz. Inoltre, Cassirer aveva dedicato buona parte delle sue ricerche scientifiche anche all’approfondimento di discipline quali la matematica, la meccanica, la biologia, poiché indispensabili per una corretta intepretazione della lettura coheniana di Kant. Dopo questa fase Cassirer, nel 1896, si iscrive finalmente all’Università di Marburgo dove segue i corsi di Cohen e Natorp. 1898-1899: durante l’anno accademico 1898-1899 viene bandito un concorso a premio (Preisaufgabe), il cui tema – la filosofia di Leibniz – venne scelto da Cohen e Natorp. Cassirer partecipò presentando un manoscritto successivamente pubblicato in volume col titolo Leibniz’ System. Nel mese di giugno del 1899 Cassirer presenta alla facoltà di filosofia di Marburgo la parte introduttiva del manoscritto – Descartes’ Kritik der mathematischen und naturwissenschaftliche Erkenntnis – come dissertazione inaugurale, ricevendo il massimo dei voti nella forma di opus eximium. 1900: Cassirer invia il lavoro su Leibniz all’Accademia delle Scienze di Berlino per concorrere al premio per un lavoro monografico su Leibniz. 1901: nel mese di luglio l’Accademia decise di non attribuire a nessuno il primo premio, conferendo a Cassirer il secondo premio. La monografia di Cassirer, pur avendo ricevuto grandi riconoscimenti, non venne ritenuta meritevole del primo posto poiché appiattita su

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problemi eminentemente epistemologici. Nel mese di marzo dello stesso anno il giovane Ernst, durante il matrimonio di un suo parente, incontra a Berlino la cugina Toni Bondy, di nove anni più giovane, da lui vista l’ultima volta otto anni prima. 1902: nel mese di settembre Cassirer sposa la giovane cugina Toni. I coniugi Cassirer vissero il loro primo anno a Monaco. La decisione di spostarsi a Monaco, a quanto pare, venne presa dalla moglie Toni in quanto quest’ultima nutriva un certo timore nei confronti della potente famiglia Cassirer. Dalla fine dell’Ottocento fino alla fine della Repubblica di Weimar la famiglia Cassirer aveva esercitato un ruolo culturale e artistico estremamente significativo. Si pensi al cugino Fritz Cassirer (1871-1926), compositore e direttore d’orchestra, al già citato Bruno Cassirer, a Richard Cassirer (1868-1925), noto neurologo nonché docente presso l’Università di Berlino e fratello di un altro illustre membro della famiglia Cassirer, ossia Paul Cassirer (1871-1926), famoso per essere stato uno dei rappresentanti della Secessione berlinese come anche per la sua attività di collezionista d’arte. Fu quest’ultimo, difatti, ad aver introdotto in Germania l’impressionismo francese e ad aver organizzato mostre su van Gogh, Matisse, Monet, Renoir, Gauguin, Toulouse-Lautrec e così via. Viene pubblicato in volume il lavoro su Leibniz col titolo Leibniz’ System in seinen wissenschaftlichen Grundlagen, N. G. Elwert’sche Verlagsbuchhandlung, Marburg. 1903: il 9 agosto nasce il primo figlio Heinrich Walter. I coniugi Cassirer tornano nuovamente a Berlino. 1904: il 26 luglio nasce il secondogenito Georg Eugen.

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1905: nel maggio 1905 i coniugi Cassirer lasciano i loro due figli – affidati alla custodia della sorella di Ernst – per recarsi in viaggio a Weimar3. 1906: esce il primo volume della monumentale opera Das Erkenntnisproblem, pubblicato dalla casa editrice del cugino Bruno. Cassirer inizia anche a collaborare con la prestigiosa rivista “Kant-Studien” e viene nominato Privatdozent presso l’Università di Berlino. L’11 agosto Cassirer tiene la sua prolusione a Berlino, non prima del cosiddetto Habilitationskolloquium del 26 luglio. Cassirer presentò il primo volume del suo Das Erkenntnisproblem all’esame di abilitazione, ottenuta grazie a Wilhelm Dilthey, in commissione assieme ad Alois Riehl e Carl Stumpf. Questi ultimi due contestarono in modo veemente le tesi di Cassirer ma Dilthey, non sentendosela di essere ricordato dai posteri come colui che si rifiutò di dare l’abilitazione a Cassirer, convinse i due colleghi a conferire a quest’ultimo la venia legendi. 1907: esce il secondo volume di Das Erkenntnisproblem. 1908: il 3 giugno nasce la figlia Anna Elisabeth (Anne). 1910: esce la prima grande opera teoretica di Cassirer, Substanzbegriff und Funktionsbegriff, Bruno Cassirer Verlag, Berlin. Questa opera venne tradotta in russo nel 1912 e in inglese nel 1923.

Su questa esperienza dei coniugi Cassirer cfr. T. Cassirer, op. cit., pp. 84-89. 3

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1911: esce una seconda edizione – riveduta e corretta – dei primi due volumi di Das Erkenntnisproblem. 1912: assieme a H. Cohen, A. Buchenau, O. Buck, A. Görland, B. Kellermann e O. Schöndörfer cura la pubblicazione delle opere di Kant in 10 volumi (Bruno Cassirer Verlag, Berlin, 1912-1922). 1913: l’Università di Harvard invita Cassirer come visiting professor ma quest’ultimo, per ragioni personali, fu costretto a declinare l’invito. 1914: l’Accademia di Heidelberg conferisce a Cassirer la prestigiosa medaglia d’oro Kuno Fischer. Per volontà di Cassirer, viene a questi recapitata la medaglia di bronzo piuttosto che quella in oro, donando la differenza di valore alla Croce Rossa. 1915-1918: nel corso della Prima Guerra Mondiale Cassirer è arruolato nel servizio civile, occupandosi dello spoglio della stampa estera. Nel 1916 pubblica Freiheit und Form: Studien zur deutschen Geistesgeschichte (Bruno Cassirer Verlag, Berlin). Nel 1918 esce Kants Leben und Lehre (Bruno Cassirer Verlag, Berlin), che verrà inoltre utilizzato come supplemento all’edizione delle opere di Kant (volume undicesimo). Nello stesso anno viene a mancare Hermann Cohen. 1919: nel mese di giugno, all’età di 44 anni, viene chiamato dall’Università di Amburgo, da poco fondata. Cassirer accetta l’invito per via della natura progressiva e democratica di questa università. Inizia a lavorare alla sua opera maggiore Philosophie der symbolischen Formen. Incontra Aby Warburg e Fritz Saxl e inizia a

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frequentare la ricchissima Bibliotek Warburg, preziosa soprattutto per il materiale utilizzato da Cassirer per le sue ricerche sul mito. 1920: esce il terzo volume dell’opera Das Erkenntnisproblem, Bruno Cassirer Verlag, Berlin. Una seconda edizione uscirà nel 1922. 1921-1925: Cassirer incontra Albert Einstein, che nell’inverno del 1921 tenne una conferenza ad Amburgo sulla teoria della relatività. Esce il saggio Zur Einstein’schen relativitätstheorie: Erkenntnistheoretische betrachtungen (Bruno Cassirer Verlag, Berlin). Nel 1923 esce il primo volume del capolavoro cassireriano: Philosophie der symbolischen Formen, Erster Teil: Die Sprache, Bruno Cassirer Verlag, Berlin). Nel 1925 pubblica il secondo volume – Philosophie der symbolischen Formen, Zweiter Teil: Das mythische Denken, Bruno Cassirer Verlag, Berlin – e il saggio Sprache und Mythos, Teubner, Leipzig. 1927: pubblica Individuum und Kosmos in der Philosophie der Renaissance, Teubner, Leipzig. 1928: in occasione del decimo anniversario della fondazione della Repubblica di Weimar Cassirer, l’11 agosto tiene il discorso Die idee der republikanischen Verfassung, pubblicato l’anno dopo in un fascicolo a parte per i tipi De Gruyter di Amburgo. 1929: esce il terzo volume del capolavoro cassireriano: Philosophie der symbolischen Formen, Dritter Teil: Phänomenologie der Erkenntnis, Bruno Cassirer Verlag, Berlin. Dibattito con Martin Heidegger a Davos su Kant.

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Nella primavera viene eletto rettore dell’Università di Amburgo per l’anno accademico 1929-1930. 1930: il 10 marzo nasce la nipote Irene, figlia del primogenito Heinrich. 1931: durante il periodo estivo si reca alla Biblioteca Nazionale di Parigi e lavora alla Philosophie der Aufklärung. 1932: pubblica Die platonische Renaissance in England und die Schule von Cambridge, Teubner, Leipzig-Berlin. 1933: il 30 gennaio Adolf Hitler viene nominato cancelliere e Cassirer, il 5 aprile, si dimette da rettore. I coniugi Cassirer lasciano la città di Amburgo per recarsi prima a Zurigo dal figlio Heinrich, poi a Vienna e infine a Berlino. Il 26 giugno nasce il nipote Peter, figlio del secondogenito Georg. 1933-1935: dal settembre 1933 al giugno 1934 Cassirer insegna all’All Souls College di Oxford in qualità di visiting professor. Si reca a Stoccolma, Uppsala e Göteborg. Ritorna a Oxford per insegnare nuovamente all’All Souls College, dove rimarrà fino alla primavera del 1935. Nella città di Oxford incontra Albert Schweitzer. Il secondogenito Heinrich ottiene un incarico presso l’Università di Glasgow, dedicandosi agli studi kantiani e pubblicando A Commentary of Kant’s “Critique of Judgement”, Methuen, London 1938 e Kant’s First Critique, Allen & Unwin, London 1954. Nel settembre del 1935 i coniugi Cassirer si stabiliscono definitivamente in Svezia dove Ernst, grazie alla mediazione di Malte Ja-

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cobsson, otterrà un incarico come professore di filosofia teoretica presso l’Università di Göteborg. 1937-1939: pubblica Determinismus und Indeterminismus in der modernen Physik. Historische und systematische Studien zum Kausalproblem. Nel 1938 il figlio Georg e la sua famiglia si stabiliscono a Göteborg, dove rimarranno anche dopo la partenza per gli Stati Uniti dei genitori. Nel 1939 Cassirer pubblica Descartes’ Lehre-Persönlichkeit-Wirkung, Bermann-Fischer, Stockholm, la monografia Axel Hägerström. Eine Studie zur schwedischen Philosophie der Gegenwart, Elanders Boktryckeri Aktiebolag, Göteborg e Die Philosophie im XVII. und XVIII. Jahrhundert, Hermann et C. Éditeur, Paris (Philosophie. Chronique annuelle, vol. 5/Actualités scientifiques et industrielles, vol. 841). 1940: Cassirer lavora a una serie di studi che confluiranno in seguito nella raccolta Zur Logik der Kulturwissenschaften del 1942. Lavora anche al quarto volume dell’opera Das Erkenntnisproblem, che apparirà postumo. 1941: Cassirer viene invitato dalla Yale University in qualità di visiting professor. Accetta l’invito e con la moglie Toni si imbarca il 20 maggio per gli Stati Uniti. I coniugi Cassirer giungeranno a New York il 4 giugno. 1941-1944: dal settembre del 1941 al luglio del 1944 Cassirer insegna presso l’Università di Yale dapprima in qualità di visiting professor e in seguito come research associate. Nel 1944 pubblica An Essay on Man, Yale University Press, New Haven e collabora inoltre al

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Journal of the History of Ideas. Nell’autunno del 1944 i coniugi Cassirer si spostano da New Haven a New York, dove Cassirer insegnerà alla Columbia University. Nel frattempo, lavora a The Myth of the State, che uscirà postumo nel 1946. 1945: il 13 aprile stava aspettando un taxi per ritornare a casa. Quando arrivò all’angolo tra la 116esima strada e Morningside Avenue, proprio mentre attendeva il taxi, il suo studente di filosofia Arthur Pap gli si avvicinò per parlargli, ma Cassirer affondò tra le sue braccia e morì per un improvviso attacco di cuore. La sua tomba si trova a Westwood (New Jersey) nei Cedar Park BethEl Cemeteries, nella Congregation Habonim.

2. Indicazioni bibliografiche Si riportano qui soltanto le opere principali di Cassirer. Le relative traduzioni italiane sono state poste tra parentesi quadre. La lista completa degli scritti cassireriani è reperibile sulla pagina internet dei Gesammelte Werke editi dalla casa editrice Meiner di Amburgo in 25 volumi con annesso un volume 26 composto da un Registerband. Nel 2020, con l’uscita dell’ultimo volume (per la precisione il vol. 13), si è conclusa l’edizione dei manoscritti e testi postumi di Cassirer (Ernst Cassirer Nachgelassene Manuskripte und Texte, 18 voll., Meiner Verlag, Amburgo 1995-2020). Sulla letteratura critica concernente il pensatore tedesco rinviamo a W. Eggers-S. Mayer, Ernst Cassirer: An Annotated Bibliography, Garland, New York 1988 e a G. Raio, op. cit., pp. 249-266.

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NOTA BIO-BIBLIOGRAFICA

Opere di Ernst Cassirer in ordine cronologico 1899 – Descartes’ Kritik der mathematischen und naturwissenschaftliche Erkenntnis, Diss., Marburg [tra. it. in Cartesio e Leibniz, trad. it. di G. A. De Toni, Laterza, Roma-Bari 1986]. 1902 – Leibniz’ System in seinen wissenschaftlichen Grundlagen, N. G. Elwert’sche Verlagsbuchhandlung, Marburg [trad. it. in Cartesio e Leibniz, cit.]. 1906 – Das Erkenntnisproblem in der Philosophie und Wissenschaft der neueren Zeit, Band I, Bruno Cassirer Verlag, Berlin [trad. it. Storia della filosofia moderna, Vol. I: Il problema della conoscenza nella filosofia e nella scienza dall’Umanesimo alla scuola cartesiana, a cura di A. Pasquinelli, Einaudi, Torino 1952]. 1907 – Das Erkenntnisproblem in der Philosophie und Wissenschaft der neueren Zeit, Band II, Bruno Cassirer Verlag, Berlin [trad. it. Storia della filosofia moderna, Vol. II: Il problema della conoscenza nella filosofia e nella scienza da Bacone a Kant, a cura di G. Colli, Einaudi, Torino 1964]. 1910 – Substanzbegriff und Funktionsbegriff, Bruno Cassirer Verlag, Berlin [trad. it. Sostanza e funzione, a cura di E. Arnaud, La Nuova Italia, Firenze 1973 (ristampa 1999)]. 1916 – Freiheit und Form: Studien zur deutschen Geistesgeschichte, Bruno Cassirer Verlag, Berlin [trad. it. Libertà e forma. Studi sulla storia spirituale della

2. INDICAZIONI BIBLIOGRAFICHE

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Germania, a cura di di G. Spada, Le Lettere, Firenze 1999]. 1918 – Kants Leben und Lehre, Bruno Cassirer Verlag, Berlin [trad. it. Vita e dottrina di Kant, a cura di G. A. De Toni, Castelvecchi, Roma 2016]. 1920 – Das Erkenntnisproblem in der Philosophie und Wissenschaft der neueren Zeit, Band III, Bruno Cassirer Verlag [trad. it. Storia della filosofia moderna, Vol. III: Il problema della conoscenza nei sistemi postkantiani, a cura di E. Arnaud, Einaudi, Torino 1955]. 1921 – Zur Einstein’schen relativitätstheorie: Erkenntnistheoretische betrachtungen, Bruno Cassirer Verlag, Berlin [trad. it. Teoria della relatività di Einstein, a cura di G. Raio, Newton Compton, Roma 1997]. 1923 – Philosophie der symbolischen Formen, Erster Teil: Die Sprache, Bruno Cassirer Verlag, Berlin [trad. it. Filosofia delle forme simboliche, vol. I: Il linguaggio, La Nuova Italia, Firenze 1961]. 1925a – Philosophie der symbolischen Formen, Zweiter Teil: Das mythische Denken, Bruno Cassirer Verlag, Berlin [trad. it. Filosofia delle forme simboliche, vol. II: Il pensiero mitico, La Nuova Italia, Firenze 1964]. 1925b – Sprache und Mythos, Teubner, Leipzig [trad. it. Linguaggio e mito, a cura di G. Alberti, SE, Milano 2018]. 1927 – Individuum und Kosmos in der Philosophie der Renaissance, Teubner, Leipzig [trad. it. Individuo e

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NOTA BIO-BIBLIOGRAFICA

cosmo nella filosofia del Rinascimento, a cura di G. Targia, Bollati Boringhieri, Torino 2012]. 1929 – Philosophie der symbolischen Formen, Dritter Teil: Phänomenologie der Erkenntnis, Bruno Cassirer Verlag, Berlin [trad. it. Filosofia delle forme simboliche, vol. III, tomo I: Fenomenologia della conoscenza, La Nuova Italia, Firenze, 1966 e Filosofia delle forme simboliche, vol. III, tomo II: Fenomenologia della conoscenza, La Nuova Italia, Firenze 1966. 1932 – Die platonische Renaissance in England und die Schule von Cambridge, Teubner, Leipzig-Berlin [trad. it. La rinascenza platonica in Inghilterra e la scuola di Cambridge, a cura di R. Salvini, La Nuova Italia, Firenze 1947]. 1937 – Determinismus und Indeterminismus in der modernen Physik. Historische und systematische Studien zum Kausalproblem, Elanders Boktryckeri Aktiebolag, Göteborg [trad. it. Determinismo e indeterminismo nella fisica moderna, a cura di G. A. De Toni, La Nuova Italia, Firenze 1970; Determinismo e indeterminismo nella fisica moderna. Studi storici e sistematici sul problema della causalità, trad. it. di G. Borbone, Mimesis, Milano 2020]. 1939a – Axel Hägerström. Eine Studie zur schwedischen Philosophie der Gegenwart, Elanders Boktryckeri Aktiebolag, Göteborg. 1939b – Descartes’ Lehre-Persönlichkeit-Wirkung, Bermann-Fischer, Stockholm.

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1939c – Die Philosophie im XVII. und XVIII. Jahrhundert, Hermann et C. Éditeur, Paris [trad. it. La filosofia nel XVII e nel XVIII secolo, a cura di G. Borbone, La Scuola di Pitagora Editore, Napoli 2019]. 1942 – Zur Logik der Kulturwissenschaften. Fünf Studien, Göteborgs Högskolas Årsskrift, Göteborg [trad. it. Sulla logica delle scienze della cultura, a cura di M. Maggi, La Nuova Italia, Firenze 1979]. 1944 – An Essay on Man, Yale University Press, New Haven [trad. it. Saggio sull’uomo, trad. it. di C. d’Altavilla, Armando, Roma, 1977 – ristampa per i tipi Mimesis, Milano 2011]. 1946 – The Myth of the State, edited by C. W. Hendel, Yale University Press, New Haven [trad. it. Il mito dello stato, a cura di C. Pellizzi, Longanesi, Milano, 1971 – ristampa per i tipi SE, Milano 2010]. 1950 – The Problem of Knowledge: Philosophy, Science, and History since Hegel, Trans. W. H. Woglom and C. W. Hendel, Yale University Press, New Havem 1950 [edizione tedesca Das Erkenntnisproblem in der Philosophie und Wissenschaft der neueren Zeit, Band IV, Kohlhammer, Stuttgart 1957; trad. it. Storia della filosofia moderna, Vol. IV: Il problema della conoscenza nei sistemi posthegeliani, trad. it. di E. Arnaud, Einaudi, Torino 1958].

BIBLIOGRAFIA

In questa bibliografia si riportano tutte le opere citate da Cassirer, a eccezione di quelle prive di ogni riferimento utile per risalire all’edizione utilizzata. Nella maggior parte dei casi Cassirer, in effetti, si limita a citare soltanto l’autore e il titolo dell’opera. In aggiunta abbiamo inserito la produzione cassireriana dedicata a Platone e/o al pensiero antico, come anche la principale letteratura su Cassirer e la filosofia antica che i lettori potranno consultare per una più ampia disamina dei rapporti tra il filosofo delle forme simboliche e il pensiero greco. 1. Opere citate da Cassirer J. Burnet, Early Greek Philosophy, A. and C. Black, London-Edinburgh 1892. — Greek Philosophy I: Thales to Plato, Macmillan, London 1914 C. Darwin, Life and Letters, 3 vols., edited by Francis Darwin, John Murray, London 1887. T. Gomperz, Greek Thinkers, vol. I, edited by L. Magnus, John Murray, London 1901. G. Grote, Aristotle, vol. I, edited by A. Bain and C. Croom Robertson, John Murray, London 1872. J. Kepler, Astronomia nova, Prague 1609. — Harmonia mundi, J. Plancus, Lindi 1619. — Mysterium Cosmographicum, Tübingen 1596. L. Lévy-Bruhl, How Natives Think, edited by L. A. Claire, Knopf, New York 1925.

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2. Scritti di Cassirer sulla filosofia antica E. Cassirer, An Essay on Man, Capitolo I, § 1, Yale University Press, New Haven 1944. [trad. it. E. Cassirer, Saggio sull’uomo, trad. it. di C. d’Altavilla, Armando Editore, Roma 1977]. — Aristoteles und Kant (1911), in Id., Gesammelte Werke, Band 9: Aufsätze und kleine Schriften (19021921), hrsg. Von M. Simon, Meiner Verlag, Hamburg 2001, pp. 468-483. — Das Erkenntnisproblem in der Philosophie und Wissenschaft der neueren Zeit, Erster Band, Einleitung II “Das Erkenntnisproblem in der griechischen Philosophie”, Bruno Cassirer Verlag, Berlin 1906, pp. 20-50. [Com’è noto, questa seconda parte dell’introduzione venne poi eliminata dallo stesso Cassirer in occasione della pubblicazione della seconda edizione apparsa nel 1911]. — Die Antike und die Entstehung des exakten Naturwissenschaften, «Die Antike», 8, 1932, pp. 276-300. — Die Philosophie der Griechen von den Anfängen bis Platon, in M. Dessoir (Hrsg.), Lehrbuch der Philosophie, vol. I, Ullstein, Berlin 1925, pp. 7-139. [trad. it. in E. Cassirer, Da Talete a Platone, trad. it. di G. A. De Toni, Laterza, Roma-Bari 1992, pp. 3-163]. — Die Platonische Renaissance in England und die Schule von Cambridge, B. G. Teubner, Leipzig 1932. [trad. it. E. Cassirer, La rinascenza platonica in Inghilterra e la Scuola di Cambridge, a cura di R. Salvini, La Nuova Italia, Firenze 1947]. — Eidos und Eidolon. Das Problem der Schönen und der Kunst in Platons Dialogen, «Vorträge der Bibliotek Warburg», II, 1922-1923, parte I, Teubner, Leipzig-Berlin 1924, pp. 1-27. [trad. it. E. Cassirer, Ei-

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dos ed eidolon. Il problema del bello e dell’arte nei dialoghi di Platone, a cura di M. Carbone, Raffaello Cortina Editore, Milano 2009]. — Galileo: a New Science and a New Spirit, «The American Scholar», vol. 12, n. 1, winter 1942-1943, pp. 5-19. [trad. it. in E. Cassirer, Dall’umanesimo all’illuminismo, a cura di P. O. Kristeller, La Nuova Italia, Firenze 1967, pp. 175-192]. — Galileo’s Platonism, in M. F. Ashley Montagu (ed.), Studies and Essays in the History of Science and Learning Offered in Homage to George Sarton, New York 1944, pp. 277-297. [trad. it. in E. Cassirer, Dall’umanesimo all’illuminismo, a cura di P. O. Kristeller, La Nuova Italia, Firenze 1967, pp. 193-220]. — Goethe und Platon, «Sokrates. Zeitschrift für das Gymnasialwesen», LXXVI, 1922, pp. 1-22. [trad. it. in E. Cassirer, Goethe e il mondo storico, a cura di R. Pettoello, Morcelliana, Brescia 1995, pp. 129-165]. — Individuum und Kosmos in der Philosophie der Renaissance, capitolo I “Nikolaus Cusanus”, B. G. Teubner, Leipzig 1927, pp. 7-48. [trad. it. E. Cassirer, Individuo e cosmo nella filosofia del Rinascimento, a cura di F. Plaga e C. Rosenkranz, Bollati Boringhieri, Torino 2012, pp. 9-53]. — Logos, Dike, Kosmos in der Entwicklung der griechischen Philosophie, «Göteborgs Högskolas Årsskrift», vol. XLVII, n. 6, 1941, pp. 3-31 [trad. it. in E. Cassirer, Da Talete a Platone, trad. it. di G. A. De Toni, Laterza, Roma-Bari 1992, pp. 167-195]. — Mathematische Mystik und mathematische Naturwissenschaft. Betrachtungen zur Entstehungsgeschichte der exakten Wissenschaft, «Lychnos», 5, 1940, pp. 248-265. [trad. it. E. Cassirer, Misticismo matematico e scienza matematica della natura. Considerazioni

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sulla storia delle origini della scienza esatta (1940), a cura di G. Borbone, La Scuola di Pitagora Editrice, Napoli, 2019]. — Philosophie der symbolischen Formen, Erster Teil: Die Sprache, Einleitung und Problemstellung, Bruno Cassirer Verlag, Berlin 1923, pp. 3-6. [trad. it. E. Cassirer, Filosofia delle forme simboliche, vol. I: Il linguaggio, a cura di E. Arnaud, La Nuova Italia, Firenze 1961, pp. 3-6]. — The Myth of the State, capitoli V e VI, edited by C. W. Hendel, Yale University Press, Yale 1946. [trad. it. E. Cassirer, Il mito dello stato, trad. it. di C. Pellizzi, Longanesi, Milano 1971]. 3. Scritti su Cassirer e il pensiero antico S. Bielert, Ernst Cassirer — Mythos und mythisches Denken in der antiken Philosophie bis zu Platons Staatstheorie, Grin Verlag, Munich 2005. G. Borbone, Pensieri al limite. Sostanza, funzione e idealizzazione in Cassirer e Husserl, cap. II “Cassirer e il platonismo di Galileo”, Diogene Edizioni, Napoli 2019. M. Carbone, Tra eidos ed eidolon, in E. Cassirer, Eidos ed eidolon. Il problema del bello e dell’arte nei dialoghi di Platone, a cura di M. Carbone, Raffaello Cortina Editore, Milano 2009, pp. 41-69. M. Ferrari, Cassirer, Natorp, e l’immagine di Platone, «Rivista di filosofia», XCVI, n. 3, 2005, pp. 427-456. S. Ferretti, L’ispirazione platonica di Cassirer, interprete della matematica moderna, «Il Cannocchiale. Rivista di studi filosofici», 1-2, 1991, pp. 131-149. M. Fichant, Ernst Cassirer et les commencements de la science Classique, in J. Seidengart (dir.), Ernst Cas-

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Foto scattata ai coniugi Cassirer al loro arrivo a New York (4 giugno 1941). Dalla collezione privata di Giacomo Borbone.

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SULLA FILOSOFIA ANTICA

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LECTURES ON ANCIENT PHILOSOPHY

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LEZIONI SULLA FILOSOFIA ANTICA

FIRST LECTURE1

If I understood the purpose of this course in the right way[,] I think the course is meant to give you a first introduction into the general problems of philosophy. But in this case before entering in our subject we have to put a preliminary question and we have to face a very serious objection that may be raised against the task that we ask ourselves. Why should one first approach to philosophy by a historical approach? Are there no better, shorter[,] and simpler ways that lead us to philosophy? It was one of the greatest thinkers of our modern times, it was Kant who in a famous passage of his Critique of pure reason said that in philosophy there is no classical author. For philosophical knowledge and historical knowledge are clearly separated from each other both in its ends and in its methods. In a certain sense we may say that philosophy has always to begin with the beginning – with what we call the “principia”, the first principles of things. It inquiries into the principles of human knowledge and into the principles of our moral life. The method that we have to use for finding out these principles is the method of logical analysis. Such an analysis must approach the things, the fundamental problems themselves; it cannot content itself with the mere opinions about things. And can the history of philosophy mere give us anything except such opinions? And even if we should admit that it may be wise and advisable to listen to the different voices of the past, to the great choir of our philosophical tradition – why should we begin with ancient philosophy, with thinkers that are separated from us by more than two thousand years? Can we hope to find here, in a very remote

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Questo corso, se ne ho ben compreso il fine, si propone di fornirvi una prima introduzione ai problemi generali della filosofia. Ma in tal caso, ancor prima di addentrarci nella nostra indagine, dobbiamo porci una questione preliminare e affrontare un’obiezione alquanto seria che si potrebbe sollevare contro il fine che ci siamo posti. Perché dovremmo avvicinarci alla filosofia, prima di tutto, in virtù di un approccio storico? Non esistono forse vie migliori, più brevi e più semplici in grado condurci alla filosofia? È stato Kant – uno dei più grandi filosofi della modernità – ad affermare, in un noto brano della sua Critica della ragion pura, che in filosofia non c’è nessun autore classico1. D’altra parte, la conoscenza filosofica e quella storica sono nettamente separate, sia nei loro scopi che nei loro metodi. In un certo senso, si può affermare che la filosofia inizia sempre con il principio – con ciò che chiamiamo principia, i primi princìpi delle cose. La filosofia indaga i princìpi della conoscenza umana e i princìpi della nostra vita morale. Il metodo da utilizzare per la conoscenza di questi princìpi è quello dell’analisi logica. Un’analisi di questo tipo deve occuparsi delle cose stesse, dei problemi fondamentali; difatti, essa non può limitarsi alle semplici opinioni relative alle cose. E la storia della filosofia è in grado di darci altro che tali opinioni? E se anche ammettessimo che sia saggio e opportuno prestare ascolto alle diverse voci del passato e al coro della nostra grande tradizione filosofica – perché dovremmo iniziare proprio con la filosofia antica e con quei pensatori dai quali ci separano più di duemila anni? Davvero pensiamo di tro-

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age and in a culture of a perfectly different type, the answers to those questions which we have to envisage and which, from one day to another, seem to become more perplexing, more serious and more difficult? I do by no means overvalue or underrate the might of this objection and I feel under the obligation to give you a clear and definite answer to this question before we enter the field of our common investigation. We are by no means the first to raise this question. Its importance has been put since the very beginning of modern philosophy. On the age of Renaissance2 our modern civilisation begins with a rebirth of classical culture. All the treasures of this culture are now discovered anew. Greek philosophy, the thought of Plato, of Aristotle, of Plotinus, is seen in a new light and cultivated in a new sense. Latin language and Latin poetry is regarded as the great model that our poetry has to imitate and that it can never hope to reach. Greek art become the great paragon. We meet even with the thesis that in order to reach the perfection in art it is a better and short way to imitate the ancients than to imitate nature itself. The greatest and the most original artists of the Renaissance have been deeply influenced by this conception. Ancient poetry, ancient philosophy, ancient art become the object not only of the deepest admiration, but of a sort of religious worship. All this was not only an artistic or theoretical ideal; it was a new social ideal; it has stumped its soul upon the whole social structure of the Renaissance. But in the first beginning of modern philosophy, in the seventeenth century, these ideals of the Renaissance begin to fade away. Here there appear two great thinkers who have

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vare proprio qui, in un’età così remota e in una cultura di tipo così diverso, le risposte a quelle questioni su cui dobbiamo meditare e che, con il passare del tempo, diventano sempre più complesse, impegnative e difficili? Non intendo in alcun modo sopravvalutare o sottovalutare la forza di questa obiezione, ma prima di addentrarci nel campo della nostra comune indagine mi sento in dovere di fornirvi una risposta chiara e precisa a questa questione. Non siamo di certo i primi ad averla sollevata. La sua importanza è stata posta sin dall’inizio della filosofia moderna. Nell’età del Rinascimento la nostra civiltà inizia con una rinascita della cultura classica. Tutti i tesori di questa cultura vengono adesso riscoperti. La filosofia greca – il pensiero di Platone, di Aristotele, di Plotino – viene vista sotto una nuova luce e coltivata in un senso rinnovato. La lingua latina e la poesia latina vengono considerate come il grande modello che la nostra poesia deve imitare e che non potrà mai sperare di eguagliare. L’arte greca diventa il grande modello. Ci imbattiamo anche nella tesi secondo cui, al fine di raggiungere la perfezione nell’arte, la via migliore e più breve sia quella di imitare gli antichi piuttosto che la natura stessa. I più grandi e originali artisti del Rinascimento vennero influenzati profondamente da questa concezione. La poesia antica, la filosofia antica e l’arte antica divennero oggetto non soltanto della più profonda ammirazione, ma di una sorta di venerazione religiosa. Tutto ciò non costituiva solamente un ideale artistico o teoretico, ma piuttosto un nuovo ideale sociale che impresse la sua anima all’intera struttura sociale del Rinascimento. Ma agli albori della filosofia moderna – nel diciassettesimo secolo – questi ideali iniziano a svanire. Difatti, appaiono due grandi pensatori che hanno il coraggio in-

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the intellectual courage to break openly with all the forms and all the systems of classical philosophy. They are seeking after a new way; and they are convicted that they will find this way and pursue it to its end. Bacon and Descartes are in perfect agreement with regard to this principal task. They do not agree in their opinions about the means that we have to use for attaining the end. Bacon is an empiricist, Descartes a rationalist. But both of them employ their intellectual weapons – the weapons of reason and experience – in order to free our minds from a fundamental superstition – from the superstition of the unique value and the preeminence of antique culture. Descartes starts with the postulate that, once in his life, every man has to make a first intellectual start. He has to forget and to efface all what he had learnt in his former life and by the usual methods of education: by tradition and authority. This is the first and inevitable step in new philosophical life. If instead of confiding in our own forces[,] we confide in the forces of others we are […]3 for philosophy. Reason, says that Descartes in the first words of his Discourse on Method, is that gift that has been distributed in the best and fairest way. For everyone has got its right stance in reason. The only thing we have to do is to find a method that can show us the right use of reason. One of the first and fundamental precepts of this method is not to believe anything except that what we have found by reason and what we can prove by reason. What man has received by other sources is to be doubted and to be rejected until it can be confirmed by better proofs. Hitherto it was not reason that taught men. His whole instruction was depending on other powers; it was taken from hearsay. What he knew he did not know by reason, but by his sources and his first teachers. All this we

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tellettuale di rompere apertamente con tutte le forme e con tutti i sistemi della filosofia classica. Essi cercavano una nuova via ed erano convinti che l’avrebbero trovata e seguita fino alla fine. Bacon e Descartes si trovavano in perfetto accordo su questo compito principale. Le loro idee, circa i mezzi da utilizzare per il raggiungimento dei loro rispettivi scopi, erano divergenti. Bacon era un empirista, Descartes un razionalista. Ma entrambi impiegano le loro armi intellettuali – la ragione e l’esperienza – per liberare le nostre menti da una superstizione fondamentale: quella del valore unico della cultura antica e della sua superiorità. Descartes prende le mosse dal postulato secondo cui, una volta nella sua vita, ogni uomo deve compiere un primo inizio intellettuale. Deve dimenticare e rimuovere tutto ciò che aveva appreso nella sua vita precedente attraverso gli usuali metodi di insegnamento – la tradizione e l’autorità. Questo è il primo e inevitabile passo nella nuova vita filosofica. In filosofia dobbiamo confidare sulle nostre proprie forze, piuttosto che su quelle altrui. La ragione, afferma Descartes all’inizio del suo Discorso sul metodo, è quel dono che è stato distribuito nel modo migliore e più equo2. D’altra parte, essa, per natura, è uguale in tutti gli uomini. La sola cosa che dobbiamo fare è trovare un metodo che ce ne mostri il retto uso. Uno dei primi e fondamentali precetti di questo metodo consiste nel non credere a nulla, a eccezione di ciò che abbiamo individuato e dimostrato con la ragione. Ciò che proviene da altre fonti va messo in dubbio e rigettato, a meno che non venga corroborato da prove migliori. Finora non è stata la ragione a istruire l’uomo; la sua intera istruzione dipendeva da altre facoltà; poggiava più che altro su fonti indirette. Ciò che sapeva non lo apprese tramite la ragione, ma appellandosi ad altre fonti e ai

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have to forget and as it were to erase in order to become philosophers – in order to become lovers and students of truth. Bacon takes the opposite view. He does not believe in the power of logical and speculative reason – in the power of mere arguing and reasoning. He confides in the power of experience, he is searching for empirical proofs. But from his point of view[,] he is led to the same conclusion. If experience is the way to truth and the very criterion of truth – what judgement have we to give about the classical systems of Greek Philosophy? Bacon defends a new technical ideal of knowledge and philosophy. He does not enquire into a new theoretical truth – he wishes a practical truth. “Scientia propter potentiam” – science for the sake of power – is his fundamental device. What man has to seek and what he can win by science is the technical mastery over nature. By this he will finally find the “regnum hominis”, he will get the upper hand, the victory over the forces of nature. But what did the Greeks, what did the classical thinkers, what did Plato and Aristotle know of this ideal? Far from approximating it they could not even conceive it. They are preaching us a contemplative ideal of science and philosophy, that is in strict opposition to Bacon’s own practical demands. These systems – says Bacon – are to be compared with chaste and holy virgins – and they may awake our admiration and our religious awe[,] but they are infertile – they can bear no fruit. By this Bacon become the first herald of that great battle that fills the history of civilisation during the 17th century and that in France was called “la querelle des

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suoi maestri. Dobbiamo dimenticare e cancellare tutto questo se vogliamo diventare dei filosofi, se vogliamo diventare amanti e seguaci della verità. Bacon sostiene invece una concezione diametralmente opposta. Egli non confida affatto nella forza logica e speculativa della ragione – nella forza della mera discussione razionale. Egli si appella alla forza dell’esperienza, va alla ricerca delle prove empiriche. Ma pur partendo da una diversa prospettiva concettuale, perviene alla medesima conclusione. Se l’esperienza costituisce l’autentico criterio di verità, come anche la via che conduce a essa, allora quale giudizio possiamo formulare sui sistemi classici della filosofia greca? Bacon difende un nuovo ideale tecnico della conoscenza e della filosofia. Egli non ricerca una nuova verità teoretica, desidera piuttosto una verità pratica. Scientia propter potentiam – la scienza per la potenza – è la sua strategia fondamentale. Ciò che l’uomo deve cercare e che può ottenere grazie alla scienza è la padronanza tecnica della natura. Soltanto così egli potrà finalmente trovare il regnum hominis, riuscirà a prevalere e vincere sulle forze della natura. Ma i Greci, i pensatori classici, Platone e Aristotele – cosa sapevano di questo ideale? Lungi dall’avvicinarvisi, non poterono nemmeno concepirlo. Essi propugnavano un ideale diametralmente opposto alle esigenze pratiche di Bacon, ossia un ideale di scienza e di filosofia di tipo contemplativo. Questi sistemi – secondo Bacon – possono essere paragonati alle caste e sante vergini, che potranno magari risvegliare la nostra ammirazione e il nostro religioso stupore, ma sono del tutto sterili, non danno alcun frutto. Con ciò Bacon diviene il primo portavoce della grande battaglia che attraversa la storia della civiltà durante il diciassettesimo secolo e che in Francia venne chiamata

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anciens et des modernes” – the battle between the ancients and the moderns. If to grow old means to increase in experience, in learning and wisdom – says Bacon in the Novum Organum – why then the moderns are the really old ones? For who can deny that we are incomparably4 richer in experience than those nations that we call “The Ancients”[:] The opinion which men cherish of antiquity – says Bacon – is altogether idle, and scarcely accords with terms. For the old age and increasing years of the world should in reality be considered as antiquity, and this is rather the character of our own times than of the less advanced age of the world in those of the ancients. For that age, with respect to us, is ancient and elder, with respect to world itself, modern and younger. And as we expect a greater knowledge of human affairs and a mature judgement of from an old man than from a youth, by reason of this experience, and the variety and numbers of things he ha seen, heard, and meditated upon, so we have reason to expect much greater things of our own age (if it knew but its strength and would essay and exert it) than from antiquity, since the world has grown older, and its stock has been increased and accumulated with an infinite number of experiments and observations. (Bacon, Novum Organum I, 84)5

That was a formidable attack directed from two opposite sides against the heart and the values of ancient philosophy. But neither ancient philosophy nor ancient culture in general succumbed to this attack. Bacon was bold enough and blind enough to speak of Plato as a “tumidus poeta”, and a “theologus mente captus” – as a “pompous poet” and an insane theologian. But no philosopher of our own times – even the most radical one – can repeat such a judgement. On the

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la “querelle des anciens e des modernes”, la battaglia fra antichi e moderni. Se invecchiare significa incrementare la propria esperienza, la propria sapienza e saggezza – afferma Bacon nel Novum Organum – allora non sono proprio i moderni quelli realmente anziani? D’altra parte, chi può negare che la nostra esperienza sia incomparabilmente più ricca di quella delle nazioni che chiamiamo “gli antichi”? L’opinione che dell’antichità nutrono gli uomini – dice Bacon – è del tutto superficiale e quasi non risponde al significato della parola. Per antichità, infatti, si devono propriamente intendere la vecchiaia e l’età avanzata del mondo; esse si devono attribuire ai nostri tempi, non a quelli degli antichi, che del mondo erano invece l’età più giovane. Infatti, quell’età, antica e maggiore rispetto alla nostra, è nuova e minore rispetto a quella del mondo. E come da un vecchio, per l’esperienza, la varietà e l’abbondanza delle cose che ha visto, udito e pensato, ci aspettiamo una maggiore conoscenza delle cose umane e un giudizio più maturo che da un giovane, così, per la medesima ragione, anche dalla nostra età (se conoscesse le proprie forze e volesse sperimentarle e applicarle), dovremmo aspettarci molto di più che dai tempi antichi, com’è naturale da un’età del mondo più adulta, rafforzata e accresciuta da un’infinità di esperimenti e di osservazioni3.

Questo attacco formidabile fu diretto – da due fronti opposti – contro il cuore e contro i valori della filosofia antica. Ma di certo né la filosofia antica né la cultura antica, in generale, soccombettero per via di questo attacco. Bacon fu abbastanza audace e anche abbastanza cieco nel considerare Platone un tumidus poeta e un theo­logus mente captus – ovvero un “poeta pomposo” e un “teologo pazzo”4. Ma nessun filosofo dei nostri tempi – nemmeno quello più radicale – potrebbe pronunciare

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other hand[,] we have to admit that the arguments of Bacon seem to have been not only confirmed by the further development of modern thought but that they have now quite a new strenght. Bacon promised us a new technical age. But what could he know himself about this age? He only stood at the threshold of the promised land; he could not enter it. But for ourselves the whole situation has completely changed. We know now what a technical age is[,] what it really means. Even the great founders of our modern mathematical science, the men of the 17th century – Galileo, Kepler, Huygens, Newton – could not know this. Let me mention in this connexion a personal experience which once made a strong impression upon my mind. At a visit in Utrecht in Holland a friend showed me the physical laboratory of the great physicist Christian Huygens which still contains all the instruments he had used for his physical investigations. All these instruments were of a very simple nature; and I was amazed by the thought what had been reached by such elementary technical means. The same holds for Galilei. One of the first great discoveries of Galilei was the law of isochronism, of the uniform vibration of a pendulum. He was led to this discovery observing, as a youth of 18 years, in the cathedral of Pisa a lamp swinging suspended from the roof. But for measuring the time of the oscillation of the pendulum Galilei had no instrument. He was not in possession of any however simple chronometer, of no clock. He had to count for this purpose the beats of his pulse. If we turn back at this state of affairs that still prevailed a few centuries ago we may easily convince us that ancient thought which was restricted to

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un simile giudizio. Dall’altro lato, bisogna ammettere che gli argomenti di Bacon non soltanto sembrano aver ricevuto conferma dal successivo sviluppo del pensiero moderno, ma posseggono adesso anche una nuova forza. Bacon ci ha promesso una nuova era tecnica. Ma cosa poteva saperne di questa era? Egli si trovava solamente alle soglie di questa terra promessa; non poté accedervi. Ma per noi l’intera situazione è del tutto cambiata. Noi sappiamo bene che cos’è l’età della tecnica e qual è il suo significato. Nemmeno i grandi fondatori della nostra moderna scienza matematica, ovvero gli uomini del diciassettesimo secolo – Galileo, Kepler, Huygens, Newton – potevano saperlo. A tal proposito, consentitemi di raccontarvi una mia personale esperienza, la quale suscitò in me una forte impressione. Mentre ero in visita a Utrecht, in Olanda, un mio amico mi mostrò il laboratorio fisico del grande scienziato Christian Huygens, il quale tutt’ora contiene tutti gli strumenti da lui adoperati per le sue indagini fisiche5. Tutti questi strumenti erano veramente rudimentali e restai meravigliato da ciò che Huygens era riuscito a realizzare con dispositivi tecnici così elementari. Lo stesso vale per Galilei. Una delle sue più grandi scoperte fu la legge dell’isocronismo, della vibrazione uniforme del pendolo. Egli giunse a tale scoperta all’età di diciotto anni, mentre nella cattedrale di Pisa era intento a osservare una lampada appesa al soffitto. Ma per poter calcolare il tempo di oscillazione del pendolo, Galilei non poté disporre di alcuno strumento. Non era in possesso di alcun cronometro, per quanto semplice, né di alcun orologio. Dovette contare i battiti del suo polso. Se ritorniamo a questa situazione, ancora in vigore fino a qualche secolo fa, possiamo facilmente constatare che il pensiero antico si limitava a pochi e modestissimi mezzi, che non potrebbero di certo com-

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most poorer means never could compete with us with regard to rational science. They had not our physical and technical laboratories; they had not the slightest idea of our powerful technical apparatus which is the pride of our own ages. And what is a philosophy that is not based upon empirical observation and that does not prove the first fundamental laws of motion? The law of inertia, the law of the conservation of energy and so on. But this objection may perhaps be answered in a different way. The Greeks – it may be said – could not become the teachers of mankind in the field of science, but they are the great teachers of wisdom, of morality. Nobody can contest this claim. We have to admit that these moral ideals that have been conceived by Socrates, Plato, by the Stoics could not be surpassed or eclipsed. If you study a text of later Stoic philosophy, if you read the books of Epicurus and of Marcus Aurelius, you will find in these books the greatest and most sublime thoughts. But does that mean that in this field, in our moral philosophy, we are still the pupils of the Greeks and that we can return to their fundamental principles? Greek ethical philosophy had by no means a mere speculative character. It was not meant as an absolute and lofty speculation for the use of philosophers – it was no castle in the air. In Greek thought there is no sharp line of demarcation that separates the field of moral thought from the field of political thought. All moral reflections are immediately directed to the problem of the state. Plato tells us that in order to understand human nature we have not to begin with a mere introspective method, with an analysis of the individual soul6. Human nature, says Plato, is like a difficult text the true meaning of which has to be found out by philosophy.

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petere con quelli della nostra scienza razionale. Essi non disponevano dei nostri laboratori fisici e tecnici e non avevano la benché minima idea del nostro potente apparato tecnico, il quale rappresenta l’orgoglio dei nostri tempi. A cosa serve una filosofia che non poggia sull’osservazione empirica e che non è in grado di dimostrare le prime leggi fondamentali del moto, come la legge di inerzia o la legge della conservazione dell’energia e via dicendo? Ma questa obiezione potrebbe forse trovare una risposta diversa. Difatti, i Greci non poterono diventare i maestri dell’umanità nel campo della scienza, ma furono grandi maestri di saggezza, di moralità. Nessuno può contestare un’affermazione del genere. Dobbiamo ammettere che gli ideali morali concepiti da Socrate, Platone, dagli Stoici, non possono essere né superati né eclissati. Leggete la tarda filosofia stoica, leggete le opere di Epicuro, Marco Aurelio e troverete in esse i pensieri più grandi e sublimi. Dobbiamo forse per questo affermare che in questo campo, nella nostra filosofia morale, noi siamo ancora allievi dei Greci e che possiamo quindi ritornare ai loro princìpi fondamentali? La filosofia etica dei Greci non aveva affatto un carattere meramente speculativo. Non voleva essere in assoluto una mera speculazione a uso dei filosofi – non era un castello in aria. Nel pensiero greco non vi è alcuna netta linea di demarcazione che separa il campo del pensiero morale da quello del pensiero politico. Tutte le riflessioni morali sono immediatamente indirizzate al problema dello stato. Platone ci dice che per comprendere la natura umana non dobbiamo prendere le mosse da un metodo meramente introspettivo, da un’analisi dell’anima individuale. La natura umana, afferma Platone, è come un testo difficile il cui vero significato va scoperto dalla filosofia. Ma

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But in our own individual experience this text is written us in small characters that it becomes nearly illegible. Philosophy must for understanding and interpreting his task try to enlarge these characters. The nature of man is written in capital letters in the nature of the state. Plato’s own theory of the state will always remain one of the greatest and most remarkable examples of what a philosophy of the state is and means. But can we use it as a model and paragon for our own political thought? To be sure Plato is a powerful and most profound thinker; but his personal political experience was restricted to a very narrow circle. The very word Politeia indicates this restriction. Politeia is derived from polis and polis is the Greek term for the City. The Greeks had no other conception and ideal of the state than that conception which they found actualised in their own city-states, in the Athenian, the Lacedemonian, the Corinthian state and so on. Can we transfer the rules they found here to our own political problems that are of a quite different type and that belong to quite a different order of thought and of political reality? If7 nowadays we8 speak9 of Politeia we have preserved the Greek term; but the thing itself has gone. It has,10 so to speak, evaporated and it can never return in the same shape. How could we hope to find a solution of our present political, moral, social problems by going back to philosophers who whenever deep and sagacious could not have and could not even conjecture these problems? It is by these considerations that we are led to a very important result – to a result that is decisive for our relation to Greek thought. We can no longer use this thought as an immediate information nor can we appeal to it as a paragon, as

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nella nostra esperienza individuale questo testo è scritto a caratteri talmente piccoli da risultare quasi illeggibile. La filosofia, se vuole comprendere e interpretare il suo compito, deve cercare di ingrandire questi caratteri. La natura dell’uomo è scritta a caratteri maiuscoli nella natura dello stato. La teoria platonica dello stato rimarrà sempre uno dei più grandi e notevoli esempi di ciò che una filosofia dello stato è e significa. Ma possiamo noi utilizzarla come modello e riferimento per il nostro stesso pensiero politico? Certo, Platone è uno dei pensatori più potenti e profondi, ma la sua esperienza politica si limitava a un ambito molto circoscritto. La stessa parola Politeia indica questa restrizione. Politeia deriva da polis e quest’ultima sta a indicare il termine greco per “città”. I Greci non avevano altra concezione e ideale dello stato, se non quella che trovarono in atto nelle loro città-stato, come la ateniese, la lacedemone, la corinzia e così via. Possiamo trasferire le regole che essi trovarono per le loro città-stato ai nostri problemi politici, i quali sono di tipo alquanto diverso e appartengono anche a un diverso ordine di pensiero e a una diversa realtà politica? Quando oggi parliamo di Politeia, adoperiamo ancora il termine greco, ma la cosa stessa è sparita, svanita e non potrà mai più ripresentarsi con la medesima forma. Ma allora, come possiamo sperare di trovare una soluzione ai nostri attuali problemi politici, morali e sociali, se ritorniamo a quei filosofi che, per quanto profondi e sagaci, non potevano nemmeno ipotizzare simili problemi? Grazie a queste considerazioni siamo giunti adesso a un risultato importante – a un risultato decisivo per il nostro rapporto con il pensiero greco. Non possiamo più utilizzare questo pensiero come un’informazione immediata, né possiamo appellarci a esso come a un

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an absolute authority. The time of the so-called “classicism” is over. Classicism has a very long and a very interesting history; it is one of the great phenomena in our cultural life, without which this life could not have reached its present form: if you wish to understand the rule of classicism in poetry[,] I recommend you to study the book of one of the greatest contemporary classical scholars: the book of Gilbert Murray The Classical Tradition in Poetry. This tradition was still in full vigour during the seventeenth and eighteenth centuries. But now it seems definitively to have lost its power and influence. We may regret this fact, but we cannot alter it. As for me I have always been a very decided “humanist”, but I do not think that we can understand and define humanism in that sense in which it was understood in the first centuries of the Renaissance. If humanism means not only an admiration of Greek culture but an imitation of Greek models[,] we have to resign humanism. But does that mean that we have to break down all the bridges that hitherto have connected our own culture with antique culture? It is no other land left to relate and build up together our own thought and our own life with the thought and the life of the Greeks? Let me begin with a brief sketch of what may be called the rise and the decay of classicism. There are two fundamental forms of classicism: the one to be found is the history of science and philosophy, the other to be found in the history of art. Both of them are closely connected with one and the same name: with the name of Aristotle. During the last centuries of the Middle Ages, in the times of Thomas Aquinas, there was no other authority that could be compared with Aristotle.

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modello o a un’autorità assoluta. Il tempo del cosiddetto “Classicismo” è finito. Il Classicismo ha una storia lunga e piuttosto interessante; è stato uno dei più grandi fenomeni della nostra vita culturale, senza il quale quest’ultima non avrebbe mai raggiunto la sua forma attuale. Se desiderate comprendere la regola del classicismo in poesia, allora vi consiglio di studiare il libro di uno dei più grandi studiosi contemporanei del classicismo: il libro di Gilbert Murray The Classical Tradition in Poetry6. Questa tradizione era ancora in pieno vigore durante il diciassettesimo e il diciottesimo secolo. Adesso sembra aver perso definitivamente la sua forza e la sua influenza. Possiamo rammaricarci per questo fatto, ma non possiamo mutarlo. Per quel che mi riguarda, sono sempre stato un convinto “umanista”, ma non penso si possa comprendere e definire l’umanesimo nel senso in cui veniva concepito nei primi secoli del Rinascimento. Se l’umanesimo non indica soltanto l’ammirazione per la cultura greca ma un’imitazione dei modelli greci, allora dobbiamo rinunciare a esso. Ma ciò significa forse che dobbiamo rompere tutti quei ponti che fino adesso hanno connesso la nostra cultura con quella antica? Non vi è più alcun terreno per collegare e costruire insieme la nostra cultura con quella antica? Permettetemi di iniziare con un breve resoconto di ciò che possiamo definire ascesa e declino del classicismo. Vi sono due forme fondamentali di classicismo: la prima va rinvenuta nella storia della scienza e della filosofia, l’altra nella storia dell’arte. Entrambe sono strettamente connesse da un unico nome: dal nome di Aristotele. Durante gli ultimi secoli del Medioevo, ai tempi di Tommaso d’Aquino, non vi era nessun’altra autorità lontanamente paragonabile a quella di Aristotele.

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Aristotle was regarded as the “maestro di color che sanno”11 – as Dante says – as the master of all those who know and who wish to know. Even in the beginning of our modern science, in the times of Galileo, there seemed to be no possibility to question and to attack Aristotelian Physics and Cosmology. It was Galileo who by his new science of Dynamics and by his instrumental discoveries first made a brake in this system. But Galileo never was able to convince his Aristotelian adversaries. We have a curious report concerning the attitude of one of the most famous philosophers in the University of Pisa12 towards the discoveries of Galilei. He did not only deny the arguments proposed by Galileo, but he wholly refused to watch through the telescope in order to convince himself of the existence of the new stars. All this – he told his pupils – would be of no use for him; it would only disturb and confound his thoughts. Galilei himself utterly complained of this conspiracy. What would you say – he writes in a letter to Kepler – of the most distinguished philosophers in our university who in spite of a thousand demands never could be prevailed upon to look at the planets or the moon at the telescope itself and who by this deliberately shut their eyes to the clear light of truth? These people think philosophy to be a book like the Aeneis or the Odissey. They did not believe that the truth is inscribed in nature – these are their own words – that is to be found out by a comparison of the texts of the classical authors13.

And we must not think that this was only a single case that we may explain by the weakness of intellect in this adversary of Galileo. We have the name of this philosopher: Cremonini. When I was a young man, about forty years ago, I was in need14 of studying the great commentary of Cre-

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Aristotele veniva considerato come il “maestro di color che sanno”, come dice Dante. Nemmeno all’inizio della nostra scienza moderna, ai tempi di Galilei, sembrava ci fosse la possibilità di mettere in questione o di attaccare la fisica e la cosmologia aristoteliche. Ma fu proprio Galilei che, con la sua nuova scienza della dinamica e con le sue scoperte tecniche, per primo aprì una breccia in questo sistema. Ma Galilei non fu mai in grado di convincere i suoi avversari aristotelici. Disponiamo di un curioso aneddoto concernente l’atteggiamento che uno dei più famosi filosofi dell’Università di Padova nutriva nei confronti delle scoperte di Galilei. Egli non soltanto negava gli argomenti proposti da Galilei, ma si rifiutò, nella maniera più assoluta, di guardare attraverso il telescopio per convincere se stesso dell’esistenza di nuove stelle. Da tutto ciò – disse ai suoi studenti – non avrebbe tratto alcun giovamento; avrebbe soltanto disordinato e confuso i propri pensieri. Lo stesso Galilei si lamentò di questa cospirazione: Che dire – scrive Galilei a Kepler – dei più celebri filosofi di questo Studio i quali, colmi dell’ostinazione dell’aspide, nonostante più di mille volte io abbia offerto loro la mia disponibilità, non hanno voluto vedere né i pianeti, né la luna, né il cannocchiale? […] Questo genere di uomini ritiene infatti che la filosofia “naturale” sia un libro come l’Eneide e l’Odissea e che le verità siano da ricercare non nel mondo o nella natura, bensì (per usare le loro parole) nel confronto dei testi7.

Ma non bisogna pensare che questo sia soltanto un caso isolato e che lo si possa spiegare facendo leva sulla debolezza di intelletto di questo avversario di Galilei. Noi conosciamo il nome di questo filosofo: Cremonini. Quando ero giovane, circa quarant’anni fa, fui costretto a studiare il grande commentario di Cremonini al

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monini on Aristotle’s De coelo for the solution of a special historical problem. I found it full of very interesting and sagacious remarks. The problem was indeed not a personal problem; it was a problem of method and it could not be solved without a perfect revolution in the field of scientific methodology. But it proved to be much more difficult to break or reject the authority of Aristotle in the field of art and especially in the theory of Poetry. The French classicists of the 17th and 18th centuries develop[s] from Poetics of Aristotle their own theories about the three unities: the unity of space, of time and of action. On the authority of this theory Voltaire scorns and despices Shakespeare whom he thinks to be a mere barbarian. Lessing vindicates the rights of the Shakespearian tragedy against the objections of Voltaire15. But ever he who is one of the most original and one of the most critical minds of his age is still under the spell of Aristotle’s Poetics that he regards as an irrefutable and canonical truth. In a passage of his Hamburgische Dramaturgie Lessing declares that Aristotle’s Poetics is infallible in the field of poetry as the elements of Euclid in the field of geometry. I think none of us whatever his position may be as to the problem of Greek culture could nowadays subscribe such a thesis. Classicism has played a very important role in the history of human civilisation – and I don’t think that our intellectual culture could have reached its present state without its help. But Classicism has done its work. It is first the progress in the study of Greek poetry, Greek religion that have convinced us that all this is a very original but at the same time a very individual work – a work that belongs to a definite epoch which had their own specific problems,

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De coelo di Aristotele per la risoluzione di un problema storico particolare. Trovai questo commentario colmo di considerazioni interessanti e sagaci. Il problema non era in effetti un problema personale; era un problema di metodo che non poteva essere risolto senza una perfetta rivoluzione nel campo della metodologia scientifica. Ma si rivelò molto più difficile spezzare o rigettare l’autorità di Aristotele nel campo dell’arte e in particolar modo nella teoria della poesia. I classicisti francesi del diciassettesimo e del diciottesimo secolo ricavano proprio dalla Poetica di Aristotele le loro teorie sulle tre unità: l’unità di spazio, di tempo e di azione. È proprio in base all’autorità di questa teoria che Voltaire disdegna e disprezza Shakespeare, da lui considerato semplicemente un barbaro. Lessing difende i diritti della tragedia shakesperiana contro le obiezioni di Voltaire. Ma anche Voltaire, che è una delle menti più originali e critiche del suo tempo, tuttavia, è ancora sotto l’incantesimo della Poetica di Aristotele, da lui considerata una verità indiscutibile e canonica. In un brano della sua Hamburgische Dramaturgie Lessing afferma infatti che la Poetica di Aristotele, in poesia, è infallibile come lo sono gli Elementi di Euclide nel campo della geometria. Penso che nessuno di noi, qualunque sia la propria posizione in merito al problema della cultura greca, possa sottoscrivere una tesi simile. Il classicismo ha giocato un ruolo davvero importante nella storia della civiltà umana – e non penso che la nostra cultura intellettuale avrebbe potuto raggiungere il suo stato attuale senza il suo aiuto. Ma il classicismo ha svolto la sua funzione. È stato, in primo luogo, lo studio della poesia greca, della religione greca, che ci ha convinti del fatto che si tratta di un lavoro davvero originale ma al tempo stesso individuale – un lavoro che appartiene a un’epoca definita e

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their own historical interests[,] and their own very historical conditions16. If we forget these individual conditions, if we try to generalize the questions that the great Greek thinkers – Heraclitus and Democritus, Parmenides and Anaxagoras, Plato[,] or Aristotle – put themselves, then we lose our ground. Such a generalization would be a falsification. We cannot transfer our own problems to Greek thought[,] and we cannot judge Greek thinkers by our standards. It has a standard of its own; it is in a sense incommensurable with modern thought. Nevertheless, I hope to convince you in these lectures that Greek thought and Greek culture are – to express it in the words of one of the greatest Greek historians, in the words of Thucydides [–] κτῆμα ἐς αἰεί, that means: a permanent and everlasting possession of humanity. To my mind it is just the individuality and the uniqueness of this thought that institutes its universality and its value. If I admit such a thesis[,] I must be prepared that many of you will think it to be not only a paradox but a contradiction in terms. Are not individuality and universality concepts and ideals that exclude each other? If we insist on the purely temporal conditions under which the systems of ancient philosophy arouse – can we ascribe them a typical value? A value that could not be diminished or questioned by the further development of philosophy and by its modern progress? Wherein does this real, typical, unforgettable value consist [of]? To this question I wish to give a very short answer – which in the beginning may perhaps appear difficult and very obscure. But I hope it will become clearer and clearer

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con i suoi specifici problemi, con le sue condizioni storiche. Se dimentichiamo queste condizioni individuali, se cerchiamo di generalizzare le questioni che si posero i grandi pensatori greci – Eraclito e Democrito, Parmenide e Anassagora, Platone o Aristotele – allora non potremo che perdere il nostro fondamento. Una tale generalizzazione si tramuterebbe in una falsificazione. Non possiamo trasferire i nostri problemi al pensiero greco e non possiamo giudicare i pensatori greci in base ai nostri criteri. Il pensiero greco ha un suo proprio criterio e in questo senso è incommensurabile con il pensiero moderno. Cionondimeno, con queste lezioni spero di convincervi del fatto che il pensiero greco e la cultura greca sono – per esprimerci con le parole di uno dei più grandi storici greci, ovvero Tucidide – κτῆμα ἐς αἰεί, che significa “possesso perenne e permanente” dell’umanità. A mio modo di vedere, è proprio nell’individualità e nell’unicità di questo pensiero che consiste la sua universalità e il suo valore. Il fatto di sostenere questa tesi mi costringe anche ad aspettarmi da da molti di voi un’obiezione: in effetti ciò sembra costituire non soltanto un paradosso, ma una vera e propria contraddizione in termini. D’altra parte, l’individualità e l’universalità non sono concetti e ideali che si escludono a vicenda? Se insistiamo unicamente sulle condizioni puramente temporali sotto le quali emersero i sistemi della filosofia antica – possiamo attribuire loro un valore tipico? Un valore che non potrebbe essere diminuito o messo in discussione dall’ulteriore sviluppo della filosofia e dal suo progresso moderno? In che cosa consiste questo valore reale, tipico, indimenticabile? A questa domanda vorrei dare una risposta molto breve e che inizialmente potrà anche apparirvi difficile e piuttosto oscura. Ma mi auguro possa diventare sempre

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the more we proceed in our way and the more we approach the single, concrete problem of Greek philosophy. My point is that what is really decisive in Greek thought are not the results to which it was led but the methods discovered and applied by it. It is not as much the mode of answering as the mode of questioning that was of incomparable value. To put in in a brief formula I should like to say that the Greek were the first to discover the fundamental categories of scientific and empirical thought. But what does such an assertion mean? If these categories are really fundamental – must we not presuppose that they needed no discovery, that they were known among all nations and at all times? In a certain sense this may be quite correct. But in order to explain and to illustrate my point let me make a sort of mental experience. I should like to ask you a few questions about very simple and in a certain sense commonplace things17. I will choose these questions at random; I do not intend to follow a definite system. What is number, what is space, what is matter? It is obvious that anyone of us has a certain idea of what number, space, matter are – he knows what he is speaking about when uses these terms18. As regards yourselves you may perhaps find a little difficulty to answer my questions on the spur of the moment and your conception of number, space, matter will perhaps be somewhat vague. Nevertheless[,] after a short reflection you will be able to tell me what you understood by these terms. But from what source did you draw your knowledge? You will reply to me – well, we learned it all in school. All of us have been instructed in the elements of mathematics, of geometry, of physics, and it was here that we learned to use the concepts of number, of space, of matter in a clear and indubitable sense. But here my question returns. Where

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più chiara, man mano che procediamo nel nostro cammino, avvicinandoci sempre più al singolo, concreto problema della filosofia greca. A mio avviso, a essere davvero decisivi nel pensiero greco non sono i risultati ai quali esso approdò, bensì i metodi scoperti e applicati. A essere di incomparabile valore era non tanto il modo di rispondere, ma il modo di domandare. Per esprimermi in maniera sintetica, direi che i Greci furono i primi a scoprire le categorie fondamentali del pensiero scientifico ed empirico. Ma se queste categorie sono effettivamente fondamentali, dobbiamo forse supporre che non ebbero bisogno di essere scoperte, che fossero già note da sempre presso ogni nazione? In un certo senso, ciò potrebbe anche risultare del tutto corretto, ma per spiegare e illustrare il mio punto di vista consentitemi di fare una sorta di esperimento mentale. Vorrei porvi qualche domanda su cose piuttosto semplici e in un certo senso banali. Sceglierò queste domande a caso e non intendo seguire un criterio definito. Cos’è il numero, cos’è lo spazio e cos’è la materia? È ovvio che ognuno di noi ha una certa idea di cosa siano il numero, lo spazio e la materia – sa di cosa sta parlando quando adopera questi termini. Quanto a voi, potreste forse trovare un po’ di difficoltà nel rispondere alle mie domande così su due piedi e la vostra concezione del numero, dello spazio e della materia sarà forse un po’ vaga. Tuttavia, dopo una breve riflessione, sarete in grado di dirmi cosa avrete inteso con questi termini. Ma da quale fonte avete ricavato la vostra conoscenza? Voi risponderete – bene, l’abbiamo imparata tutti a scuola. Tutti noi abbiamo ricevuto delle nozioni di matematica, geometria, fisica ed è qui che abbiamo imparato a utilizzare i concetti di numero, spazio e materia in modo chiaro e inequivocabile. Ma qui ritorna la mia domanda. Dove hanno appreso questi con-

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did your teachers learn these concepts? In the universities of course[,] where they got their technical learning, where they were engaged in studies about algebra, about geometry, about mechanics and chemistry. But by this we have come to the real point. Our modern science of number, our modern science of space, our modern science of matter could not have build up without the help of Greek thought. Surprising as it may be – this historical fact is quite certain and incontestable. Before the times of Greek philosophy there was no clear, precise[,] and exact concept of number, space and matter. Of course[,] people could speak of these things and did speak of them in a vague and indistinct way. But they could not “define” them; they could not use them in such a way that they19 were fixed for scientific purposes and that they were […]20 of a scientific proof. What we nowadays call a scientific proof – let us say the demonstration of a theorem of Euclidean geometry – was an unknown fact before the times of Plato and the first great mathematical thinkers of Greece – the so-called Pythagoreans. Euclid’s mathematical thought is by a direct, uninterrupted[,] and unquestionable tradition connected with Plato’s philosophical thought; the real teachers of Euclid were the mathematicians of Platonic Academy – men like Theaetetus and others. And in the same sense we may say that what we call “matter” was an unknown fact before the times of the first Ionian thinkers – Thales, Anaximander, Anassimenes – and before the times of Leucippus and Democritus, who did not only speak of matter in a general sense but were the first to discover one of the most fundamental features of matter: its atomic structure. It would be exaggerated to call the Greeks the founders of mathematical and astronomical science. Many and very important results, many

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cetti i vostri insegnanti? Nelle università, ovviamente; luogo in cui essi acquisirono il loro sapere tecnico e in cui condussero i loro studi di algebra, geometria, meccanica, chimica e così via. Ma con ciò siamo giunti al punto decisivo. La nostra moderna scienza del numero, la nostra moderna scienza dello spazio e la nostra moderna scienza della materia non si sarebbero potute sviluppare senza l’aiuto del pensiero greco. Per quanto ciò possa sembrare sorprendente, questo fatto è del tutto certo e incontestabile. Prima della filosofia greca non esisteva alcun concetto chiaro, preciso ed esatto di numero, di spazio e di materia. Naturalmente, la gente poteva parlarne, sia pur in modo vago e indistinto. Ma non potevano “definirli”; non potevano usarli in modo tale da essere fissati per scopi scientifici e come se fossero […] di una prova scientifica. Ciò che oggigiorno noi intendiamo per “prova scientifica” – diciamo la dimostrazione di un teorema di geometria euclidea – era un fatto sconosciuto prima dei tempi di Platone e dei primi grandi pensatori matematici della Grecia, i cosiddetti Pitagorici. Il pensiero matematico di Euclide poggia su una tradizione diretta, ininterrotta e incontestabile legata al pensiero filosofico di Platone; i veri maestri di Euclide furono i matematici dell’Accademia platonica – uomini come Teeteto e altri. E, nello stesso senso, possiamo affermare che ciò che noi chiamiamo “materia” era un concetto sconosciuto ai tempi dei primi pensatori ionici – Talete, Anassimandro, Anassimene – e ai tempi di Leucippo e Democrito, che non soltanto parlavano di materia in un senso generale, ma furono anche i primi a scoprirne una delle caratteristiche fondamentali: la sua struttura atomica. Sarebbe esagerato considerare i Greci come i fondatori della scienza matematica e di quella astronomica. Molti e importanti

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mathematical theorems and many astronomical observations have been borrowed by the Greeks from other sources: especially from Babylonians and Egyptians. But here I am not speaking about single scientific results21, I am speaking about the methods of scientific thought – not about single truths but about the ways to find and to pursue the truth. It is in this respect that the Greeks are the real pioneers of scientific thought. We are indebted to them not for the things they found in their new way, but for the opening of the new way itself. In this respect, all of us consciously or unconsciously are the pupils of the Greeks. The Greeks did not possess our powerful and scientific and historical apparatus – they did not even know what such an apparatus is. They had to create an astronomical theory without having a telescope – they had, in the work of Aristotle or Theophrastus, the great pupil of Aristotle, to describe and classify animals and plants, to give a comparative anatomy or botany with the simplest means, without knowing the use of a microscope. When compared with our knowledge of empirical facts and with our experience of technical means the Greeks appear to be mere […]22. But the abundance of facts is not necessarily wealth of thoughts[,] and the most powerful technical apparatus cannot compensate for a lack of careful judgement. The Greeks did not invent a new technical implement, but they have provided us with the most fundamental23 instruments of thought. They were the first to understand and to tell us, what a mathematical, a scientific, a medical theory is and means – and it is for this reason that all of us always will remain indebted to Greek thought.

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risultati, numerosi teoremi matematici e numerose osservazioni astronomiche sono stati presi in prestito dai Greci da altre fonti: specialmente dai babilonesi e dagli egizi. Ma qui non sto parlando di singoli risultati scientifici, quanto piuttosto dei metodi del pensiero scientifico – non di singole verità, ma dei modi per trovare e perseguire la verità. È in questo senso che i Greci sono gli autentici precursori del pensiero scientifico. Siamo loro debitori non per le cose che hanno scoperto nel corso della direzione intrapresa, ma per il fatto stesso di aver imboccato questa nuova direzione. Da questo punto di vista tutti noi, consapevolmente o meno, siamo allievi dei Greci. I Greci non possedevano il nostro potente apparato storico e scientifico – non sapevano nemmeno cosa fosse un simile apparato. Essi dovettero creare una teoria astronomica senza il possesso di un telescopio; essi – si pensi all’opera di Teofrasto, il grande allievo di Aristotele – dovettero descrivere e classificare animali e piante e fornire anche un’anatomia comparata o la botanica con mezzi davvero semplici, senza l’ausilio di un microscopio. Se paragonati alla nostra conoscenza dei fatti empirici e alla nostra esperienza dei mezzi tecnici, i Greci sembrano alquanto superati. Ma l’abbondanza di fatti non indica necessariamente una ricchezza di pensieri; inoltre, il più potente apparato tecnico non può compensare la mancanza di un giudizio accurato. I Greci non inventarono nuovi strumenti tecnici, ma ci hanno fornito gli strumenti di pensiero più essenziali. Furono i primi a capire e a spiegarci cos’è e cosa significa una teoria matematica, scientifica e medica – ed è per tale ragione che tutti noi resteremo sempre debitori nei confronti del pensiero greco.

SECOND LECTURE24

In my first lecture I attempted to show you the general task that Greek philosophy had to fulfil in the history of human civilisation. This task was an extremely difficult one. What the Greeks had to discover were not new facts that could have been found by the use of simple experimental methods – by a careful observation of single phenomena, by experiments or by a general method of induction. What we nowadays call “induction” or “deduction”, what we call scientific analysis or scientific abstraction – all this was unknown in that period, in which the first Greek thinkers appear. Every modern philosopher – Descartes or Bacon, Spinoza[,] or Locke – uses these methods. Spinoza writes a book on Ethics that he calls: Etica more geometrico demonstrata, “Ethics demonstrated in the way of geometry”. He wishes to convince us that we have to treat ethical questions in the same way as geometrical questions – according to a method equivalent to the method of Euclid. Locke opens a new way to Psychology, to the theory of knowledge, to moral philosophy – that way that in the introduction to his Essay concerning human understanding is called “a plain historical method”. He does not proceed in a deductive, logical, geometrical way – by the common methods of arguing and reasoning. What he wishes to give us is the history of human soul – that gradual development of all our ideas from facts that we can ascertain by psychological introspection. You know in which way Locke solves this problem, by reduc-

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Nella prima lezione ho cercato di mostrarvi il compito generale che la filosofia greca ha dovuto adempiere nella storia della civiltà umana. Questo compito si è rivelato di estrema difficoltà. Ciò che i Greci avevano da scoprire non erano nuovi fatti da individuare con l’utilizzo dei semplici metodi sperimentali, ossia attraverso una scrupolosa osservazione dei singoli fenomeni, attraverso gli esperimenti o attraverso un generale metodo induttivo. Ciò che oggigiorno noi siamo soliti chiamare “induzione” o “deduzione”, ciò che intendiamo per analisi scientifica o astrazione scientifica – tutto ciò era ignoto nel periodo in cui i primi pensatori greci fecero la loro comparsa. Ogni filosofo moderno – Descartes o Bacon, Spinoza o Locke – utilizza questi metodi. Spinoza scrive un libro sull’etica intitolato Etica more geometrico demonstrata (Etica dimostrata col metodo geometrico). Egli vuole convincerci della necessità di affrontare le questioni etiche analogamente alle questioni geometriche – sulla base di un metodo equivalente a quello di Euclide. Locke apre una nuova via alla psicologia, alla teoria della conoscenza, alla filosofia morale – quella via che nell’introduzione al suo Saggio sull’intelletto umano egli chiama “un semplice metodo storico”8. Locke non procede in modo deduttivo, logico, geometrico, ossia sulla base dei comuni metodi di argomentazione e ragionamento. Egli intende fornirci una storia dell’anima umana, ossia quel graduale sviluppo di tutte le nostre idee a partire dai fatti verificabili attraverso l’introspezione psicologica. Voi sapete in che modo Locke risolve questo problema, ossia riducendo tutta la conoscenza a

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ing all knowledge these fundamental sources: to sensation and reflexion. The Greeks could not begin in this way. They could not use neither the deductive method of Spinoza nor the empirical method of Locke. They had to discover, to create both these methods: and this discovery is their real merit and their greatest achievement. As I pointed out at the end of our last lecture, the Greeks did not invent a new technical implement, but they have provided us the most fundamental and most powerful instruments of thought. They were the first to unerstand and to teach us, what a mathematical, a scientific, a biological, a medical theory is and means. The very term “theory” is created by the Greeks – it is derived from the Greeek word “Theoria”, that means “contemplation”, “meditation”. But how did the Greeks reach this state of mind – this new attitude towards the world that we now call the theoretical or scientific attitude? The first step that they had to do for opening this new way of thought was an extremely difficult one. The Greek philosophers had to free themselves from genre that hitherto have dominated all human culture and all human history. They had to attack and to overcome another form of thought that we may call mythical or mythological thought. The emancipation from mythological thought was the first great task that the Greek thinkers had to perform25. But in order to show this intellectual process and its single stages, I have first to explain you what mythical or mythological thought means. It is not to be confused with mystical thought. Mysticism is a very general phenomena we meet with in the development of all our great religions. There is a Jewish mysticism, a Christian mysticism, a Chinese, or Indian mysticism and so on. Roughly speaking,

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queste fonti fondamentali: la sensazione e la riflessione. I Greci non potevano principiare in questo modo. Essi non potevano utilizzare né il metodo deduttivo di Spinoza, né il metodo empirico di Locke. Per loro fu necessario scoprire e creare entrambi questi metodi ed è proprio questa scoperta a costituire il loro autentico merito e il loro maggior risultato. Come ho già segnalato nel corso della mia precedente lezione, i Greci non inventarono alcun nuovo strumento tecnico, ma ci hanno fornito gli strumenti di pensiero più potenti e fondamentali. Essi furono i primi a comprendere e a insegnarci cosa è e cosa significa una teoria matematica, scientifica, biologica e medica. Il vero e proprio termine “teoria” è stato creato dai Greci – esso deriva dalla parola greca theoria, che significa “contemplazione”, “meditazione”. Ma come riuscirono i Greci a raggiungere questa condizione mentale, questo nuovo atteggiamento verso il mondo, da noi oggi chiamato atteggiamento teoretico o scientifico? Il primo passo che essi dovettero compiere per introdurre questo nuovo modo di pensare fu estremamente difficile. I filosofi greci dovettero liberarsi dal genere che fino ad allora aveva dominato l’intera cultura e storia umana. Essi dovettero attaccare e superare un’altra forma di pensiero: quella mitica o mitologica. L’emancipazione dal pensiero mitologico fu il primo grande compito che i pensatori greci dovettere adempiere. Ma per mostrarvi questo processo intellettuale e le sue singole fasi, devo prima di tutto spiegarvi il significato del pensiero mitico o mitologico. Esso non va confuso con il pensiero mistico. Il misticismo è un fenomeno piuttosto generale e lo incontriamo nello sviluppo di tutte le nostre grandi religioni. Esiste infatti un misticismo giudaico, un misticismo cristiano, un misticismo cinese, indiano e così via. In parole povere, il misticismo lo si

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mysticism may be explained as the attempt of the individual soul to come into an immediate contact with God. Mysticism is always based upon a deep personal religious experience. The mystic rejects all intermediate links between God and himself. He feels and he grasps God immediately in his inner life. He thinks that his inner, personal, individual life is the only pure approach to God. The mystic does not need and does not acknowledge the outward forms of religion – he does not think that by these outward forms, by a certain dogmatic creed or by the performance of certain religious rites or ceremonies we can come nearer to God. For this we need quite a different thing: an immediate mystical illumination by which our human nature is transformed into the divine nature – by which our individual soul reaches a perfect union with God and is melded together with God. If you are interested in mysticism, as a fundamental form of religious experience, you will find all the necessary instructions in one of the greatest American thinkers: in the work of William James The varieties of religious experience. But here I am not speaking of these later and highly developed theories of mysticism. What I am speaking about is a much more elementary and primitive stage of human culture that may be described as mythical or mythological thought26. To give you a clear and consistent description of mythical or mythological thought is a very difficult task. There exists an enormous literature about this subject. In the last decades it has been treated from very different planes: we have a philosophical theory of myth and mythological thought, an ethnological and anthropological theory, a psychological, a sociological theory. But all this I cannot presuppose here. I wish to show you an easier way to the under-

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può intendere come il tentativo dell’anima individuale di entrare in contatto immediato con Dio. Il misticismo si basa sempre su una profonda esperienza religiosa personale. Il mistico rigetta ogni legame intermedio tra se stesso e Dio. Egli sente e coglie Dio, immediatamente, nella sua vita interiore. Egli pensa che la sua vita interiore, personale, individuale sia l’unico approccio puro verso Dio. Il mistico non ha bisogno e non riconosce alcuna forma esteriore di religione – egli non pensa che attraverso tali forme esteriori, attraverso un determinato credo dogmatico o tramite l’esecuzione di certi riti religiosi o cerimonie ci si possa avvicinare sempre di più a Dio. A tal proposito abbiamo bisogno di qualcosa di diverso: di un’immediata illuminazione mistica grazie alla quale la natura umana si trasforma in natura divina, con la quale la nostra anima individuale raggiunge un’unione perfetta con Dio e si fonde con esso. Se siete interessati al misticismo, inteso come fondamentale forma di esperienza religiosa, potrete trovare tutte le informazioni necessarie in uno dei più grandi pensatori americani: nell’opera di William James Le varietà dell’esperienza religiosa9. Ma qui non sto parlando delle teorie del misticismo più recenti e più sviluppate. Ciò di cui sto parlando è la fase più elementare e primitiva della cultura umana e che possiamo designare come pensiero mitico o mitologico. Fornirvi una descrizione chiara e coerente del pensiero mitico o mitologico è un compito davvero arduo. Del resto, esiste una letteratura enorme su tale tema. Negli ultimi decenni lo si è affrontato da ogni angolazione: abbiamo infatti una teoria filosofica del mito e del pensiero mitologico, una teoria etnologica e antropologica, psicologica, sociologica e così via. Ma non possiamo affrontare tutte queste teorie. Intendo solo mostrarvi un

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standing of mythical or mythological thought by referring to those things with which all of you are familiar. You know the poems of Homer, the Iliad and the Odyssey. What do we find in the Iliad and in the Odyssey? We find a mythology – that means if we translate this term literally – a story, a legend of the Gods. We are told the origins of the Gods and their memorable deeds. And what are these Homeric Gods like? They seem to be highly elevated over human nature. They are infinitely superior to all the powers of men; they are not subject to death or decay, they are eternal and immortal. Nevertheless[,] there is no sharp line of demarcation that separates the life of the Gods from the life of man. The Gods are superhuman with regard to their powers, but they are human, all too human in their character, their nature, their interests. They have the same emotions and passions as men – they are subject to love and hate, to anger and fury, to envy and jealousy. They partake in all human interests and in all human combats. In the Iliad there are some gods – Apollon, Athens – that are partial to the Greeks; there are other gods – Hera, Aphrodite – that are partial to the Troians. In an episode of the Iliad[,] we are told that the goddess Aphrodite or Venus is wounded by the sword of the Greek hero Diomedes; she feels the greatest pains; she is frightened and begins to cry. All this is mythology and mythological thought – but it is not its27 first and28 most elementary phase29. Anthropology, Ethnology, the history of religions have shown us that there are different geological layers of mythical thought. When comapred with our own religious conceptions and ideals – with those conceptions that we find in Judaism, in Christianity, in all the monotheistic religions – the polytheism of the Greeks, of the Homeric poems, may appear to be very primitive. But it is not primitive from the point of view of the general history of religion. When it first appeared in his-

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modo più semplice per comprendere il pensiero mitico o mitologico, servendomi di elementi a voi familiari. Voi conoscete i poemi di Omero, l’Iliade e l’Odissea. Cosa troviamo nell’Iliade e nell’Odissea? Troviamo una mitologia, che tradotta letteralmente significa una storia, una leggenda degli dèi. Ci vengono raccontate le origini degli dèi e le loro memorabili gesta. E come sono questi dèi omerici? Essi sovrastano di gran lunga la natura umana, sono infinitamente superiori a ogni capacità umana e non sono soggetti a morte o decadimento, sono eterni e immortali. Cionondimeno, non si dà alcuna netta linea di demarcazione tra la vita degli dèi e quella dell’uomo. Gli dèi sono superuomini per quel che concerne i loro poteri, ma sono umani troppo umani nel loro carattere, nella loro natura e nei loro interessi. Provano le stesse emozioni e passioni degli uomini – sono soggetti all’amore e all’odio, all’invidia e alla gelosia. Partecipano a tutti gli interessi umani e a tutti i combattimenti umani. Nell’Iliade vi sono alcuni dèi – Apollo, Atena – che stanno dalla parte dei Greci; vi sono poi altri dèi – Era, Afrodite – che stanno dalla parte dei Troiani. In un episodio dell’Iliade si racconta che la dea Afrodite o Venere era stata ferita dalla spada dell’eroe greco Diomede; lei sente il dolore più grande, è spaventata e inizia a piangere. Tutto ciò è mitologia e pensiero mitologico – ma non è la sua prima e più elementare fase. L’antropologia, l’etnologia e la storia delle religioni ci hanno mostrato che vi sono diversi strati geologici del pensiero mitico. Se confrontato con le nostre concezioni e ideali religiosi – con quelle concezioni che rinveniamo nel giudaismo, nella cristianità e in tutte le religioni monoteistiche – il politeismo dei Greci, dei poemi omerici, appare decisamente primitivo. Ma non lo è dal punto di vista della storia generale della religione. La sua prima

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tory it was a great step in advance. In what we find in our elementary stages of religious thought are not these human gods of the Greeks but animal gods30. The belief in animal gods is spread over the whole world. In its most elementary form[,] we find it in the so-called totemistic systems. “Totemism” is a phenomenon that plays an important role in the history of human civilisation. We find it among all the tribes of the Nath-American Indians, we find it, in a very characteristic and interesting state, among the aborigens of Australia. All these tribes show us a cult not of personal gods, like the Greek gods and goddesses, but of animal-gods31. The whole social life of the Nath-American Indians and the Australian aborigens is dominated by this conception. The society of these people is divided and subdivided into many separate groups – into clans and subclans. Each of these clans has a special function in the social life of the tribe – one clan is a clan of agriculturists, another is a clan of warriors, of priests and so on. And every clan and subclan bears a close and intimate relation to a special animal32, that he regards as his “totem” – that means his animal ancestor. Some clans are descendant from bears; other ones are descendant from crocodiles or from kangaroos. And the whole behaviour, the social and religious duties of the various clans is perfectly determined by this descendance. The man who belongs to a clan that reduces its origin to the bear will not eat the flesh of a bear – a man when belongs to a special totemistic group – let us say to the kangaroots – will not marry a wife who belongs to the same group, the same totemistic family; he must seek his wife ouside his own clan, his own totemistic relationship. All this appear to us very primitive – but we find the same conceptions of the Gods

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apparizione nella storia fu un grande passo in avanti. Ciò che noi troviamo nelle nostre fasi elementari del pensiero religioso non sono questi dèi umani dei Greci, bensì dèi animali. La credenza negli dèi animali è diffusa in tutto il mondo. Nella sua forma più elementare la rinveniamo nei cosiddetti sistemi totemici. Il “totemismo” è un fenomeno che gioca un ruolo importante nella storia della civiltà umana. Lo ritroviamo tra tutte le tribù dei nativi americani, lo ritroviamo, in uno stato davvero caratteristico e interessante, tra gli aborigeni australiani. Tutte queste tribù ci mostrano non un culto di dèi personali, come gli dèi e le dee dei Greci, ma dèi-animali. L’intera vita sociale dei nativi americani e degli aborigeni australiani è pervasa da questa concezione. La società di queste persone è divisa e sotto-divisa in diversi gruppi separati – ossia in clan e sotto-clan. Ognuno di questi clan svolge una speciale funzione nella vita sociale della tribù – un clan è composto da agricoltori, un altro da guerrieri, un altro da sacerdoti e così via. Ogni clan e sotto-clan instaura un’intima e stretta relazione con un animale particolare, che esso considera come il proprio “totem” – ossia il suo antenato animale. Alcuni clan discendono dagli orsi, altri dai coccodrilli o dai canguri. E la condotta, come anche i doveri sociali e religiosi dei vari clan, sono interamente determinati da questa discendenza. L’uomo appartenente a un clan che riconduce la sua origine all’orso, di conseguenza, non mangerà carne di orso, un uomo che appartiene a uno speciale gruppo totemico – ad esempio a quello dei canguri – non prenderà in moglie una donna appartenente allo stesso gruppo, alla stessa famiglia totemica; egli deve cercare la propria moglie al di fuori del suo clan, al di fuori della sua relazione totemica. Tutto ciò potrà anche apparirci alquanto primitivo; tuttavia, ritroviamo

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among highly civilised nations. In Egypt[,] for instance[,] there is a very complicated system, a sort of hierarchy of animal Gods. It was a very important step in the history of religion, when these animal gods were replaced and eclipsed by another form – by the personal gods of the Greeks. The Greeks have no longer an animalistic religion33, they have an anthropomorphic34 religion. The Gods do not appear in the shapes of animals – in the shapes of cats, of crocodiles, of oxen or cows – they appear in human shapes; they are humanized35. But this is still mythology and mythical thought, it is not philosophical36 thought. Philosophical thought goes much further. The first Greek thinkers begin as to speak with a declaration of war against mythical thought, against personal Gods37; they try to emancipate themselves from the mythology of the Homeric poems. We can scarcely overrate the difficulty and the boldness of this second great step that led from mythology to philosophy[,] from mythical thought to theoretical thought. In Greek authors the poems of Homer hold almost the same position and played albeit the same role as the Bible in our culture. Every child had to learn the poems of Homer – every Greek very knew them by heart. How was it possible that a grownup Greek man could forget or overcome these ideas, these images, these conceptions, that he had imbibed from his first childhood? The whole system of Greek education was based upon the poems of Homer. Herodotus, the first Greek historian, says that Homer and Hesiod «made the generations of the Gods and gave them their names and distinguished their officies and crafts, and portrayed their shapes». From this we may infer what a tremendous task it was for the first

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le medesime concezioni degli dèi anche in nazioni altamente civilizzate. In Egitto, ad esempio, è rinvenibile un sistema davvero complesso, una sorta di gerarchia degli dèi-animali. Fu un passo veramente importante nella storia delle religioni quello in cui tali dèi-animali vennero rimpiazzati ed eclissati da un’altra forma – dagli dèi personali dei Greci. I Greci non avevano più alcuna forma di religione animalistica, avevano piuttosto una religione antropomorfica. Gli dèi non assumono più forma animale – la forma dei gatti, dei coccodrilli, delle oche o delle mucche – ma assumono invece forma umana; sono umanizzati. Tuttavia, si tratta ancora di mitologia e pensiero mitico, non di pensiero filosofico. Quest’ultimo si spinge più in là. I primi pensatori greci, per così dire, esordiscono dichiarando guerra al pensiero mitico e agli dèi personali; tentano di emanciparsi dalla mitologia dei poemi omerici. Risulta piuttosto difficile valutare la difficoltà e l’audacia di questo secondo grande passo che conduceva dalla mitologia alla filosofia, dal pensiero mitico al pensiero teoretico. Negli autori greci, i poemi omerici occupano quasi la medesima posizione ed esercitano lo stesso ruolo avuto dalla Bibbia nella nostra cultura. Ogni bambino doveva imparare i poemi di Omero, ogni greco li conosceva a memoria. Com’era possibile che un greco adulto potesse dimenticare o superare queste idee, immagini, concezioni, da lui assimilate sin dalla prima infanzia? L’intero sistema educativo greco si basava sui poemi di Omero. Erodoto, il primo storico greco, afferma che Omero ed Esiodo «hanno assegnato agli dèi i loro appellativi, hanno distribuito tra loro prerogative e attività, hanno descritto il loro aspetto»10. Da ciò possiamo dedurre quale tremendo compito fu per i primi pensatori

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Greek thinkers to combat all these popular views about the nature and the origin of the Gods. But they had to do it in order to find their own way. In the first systems of Greek philosophy[,] we find the most severe criticisms of Homerian gods and of Homer himself. Herakleitus – one of the deepest thinkers – goes so far as to say that Homer should be turned out by the list and whipped. How could38 he speaks in such a tone of a man who for all the countrymen pursued the highest authority – whose name was a sacred name? We shall find the answer to this question if we come to the description of the philosophy of Heracleitus. Herakleitus was a man used to express his thoughts not in a direct but in an indirect way. He used to express himself by symbolic words and by symbolic acts. After having finished his philosophical book[,] he performed such a symbolic act; he laid down the book at the steps of the altar of the goddess Artemis in the temple of Ephesos. By this he intimated that he did not mean to destroy Greek religion; but that he wished to introduce a new, a higher, a more sublime religion – a philosophical religion. Early Greek philosophy39 was an intellectual and relogious revolution that perhaps have no40 equal in the whole history of mankind. We shall have to explain all this in detail as nearer as we come to the description of the systems of the single thinkers. But here, in these introductory remarks, I wish to show you the general character of this revolution in another field, in the field of Greek medicine41. In all primitive culture, in the in the organization of primitive life, we find a phenomenon that we designate by the name of the “medicine-man”. He is the priest and the teacher, the sorcerer, the wizard; he makes the weather; he takes care for the ripening of the fruits; he knows how to cure the different diseases42. But this most

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greci combattere tutte queste concezioni popolari sulla natura e sull’origine degli dèi. Ma per trovare la propria strada ciò si rivelò necessario. Nei primi sistemi della filosofia greca troviamo le più severe critiche agli dèi omerici e allo stesso Omero. Eraclito – uno dei più profondi pensatori – arriva al punto da affermare che Omero «è degno di essere espulso dagli agoni e percosso con la verga»11. Come poté parlare con un tono simile di un uomo che, per tutti i suoi connazionali, aveva raggiunto l’autorità suprema, il cui nome era avvolto da un alone di sacralità? Per trovare la risposta a questa domanda dobbiamo però descrivere la filosofia di Eraclito. Eraclito era un uomo abituato a esprimere i suoi pensieri non in modo diretto, ma indiretto. Si esprimeva ricorrendo a parole e atti simbolici. Una volta terminato il suo libro, eseguì questo gesto simbolico: pose il libro ai gradini dell’altare della dea Artemide nel tempio di Efeso. Con ciò egli lasciava intendere di non voler distruggere la religione greca; piuttosto, intendeva introdurre una nuova, più alta e sublime religione filosofica. La prima filosofia greca fu una rivoluzione intellettuale e religiosa che forse non ha eguali in tutta la storia dell’uomo. Più ci avviciniamo alla descrizione dei sistemi dei singoli pensatori e più siamo costretti a spiegare tutto ciò in modo dettagliato. Tuttavia, in queste osservazioni introduttive, desidero mostrarvi il carattere generale di questa rivoluzione in un altro campo, ossia nel campo della medicina greca. In ogni cultura primitiva, nell’organizzazione della vita primitiva, rinveniamo un fenomeno che possiamo designare col nome di “stregone”. Questi è un sacerdote, un insegnante, un mago; esercita la sua influenza sul clima; si prende cura della maturazione dei frutti; sa come curare le diverse malattie. Ma

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powerful man has vanished in Greek culture. Here we are at the threshold of a new world43. In our history of medicine all this is concentrated in one name: in the name of Hyppocrates. All the theories of early Greek medicine are are comprised in the so-called Corpus Hyppocraticum. To be sure Hyppokrates himself did not write all the things we find in this Corpus Hyppocraticum; but they are all written in the spirit and the style of this great medical thinker and teacher, who lived about 400 years before Christ44. We must say that Hyppocrates and his pupils were the first to discover the concept of disease. What does that mean? Does not everyone know very well if he feels ill and does it need a logical effort to understand what illness is? Are45 we in need of a physician or of a philosopher to tell us the difference between illness and good health? Nevertheless[,] the history of civilisation shows us that mankind was very badly in need of such philosophers. Before the times of Greek philosophy and Greek medicine it did not really know what illness is. Even now if you look at primitive people, if you consult very rich ethnological and anthropological material, you will always find that this people had no conception of illness and its physiological conditions. In primitive culture illness is never regarded us as a natural phenomenon. A disease is not brought about by natural causes, but by suprannatural or magical causes. It is a divine affliction, it means to be possessed by a malignant demon or to be under the spell of a malevolent, of a sorcerer. Even the Greeks were by no means free from such a conception. If you look at the first book of the Iliad[,] you will find that the great pestilence in the camp of the Greeks is attributed to the indignation of Apollon who sent his poisoned arrows among the Greek sol-

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nella cultura greca questo uomo potentissimo è scomparso. Qui ci troviamo alle soglie di un nuovo mondo. Nella storia della medicina tutto ciò si condensa in un nome: nel nome di Ippocrate. Tutte le teorie della più antica medicina greca si trovano nel cosiddetto Corpus Hyppocraticum. Di certo non fu lo stesso Ippocrate a scrivere tutte le cose contenute nel Corpus Hyppocraticum, ma esse sono comunque scritte nello spirito e nello stile di questo grande maestro e pensatore medico vissuto all’incirca quattocento anni prima di Cristo. Va detto che Ippocrate e i suoi allievi furono i primi a scoprire il concetto di malattia. Che significa? Tutti sanno molto bene quando si sentono male: che bisogno c’è quindi di uno sforzo logico per capire che cos’è una malattia? Abbiamo bisogno di un fisico o di un filosofo che ci spieghi la differenza tra malattia e buona salute? Cionondimeno, la storia della civiltà ci mostra invece che l’umanità aveva proprio un gran bisogno di tali filosofi. Ancor prima dei tempi della filosofia greca e della medicina greca, non si sapeva ancora cosa fosse realmente una malattia. Anche adesso, studiando un popolo primitivo, consultando i ricchi materiali etnologici e antropologici, troverete sempre che tali persone non avevano alcuna concezione della malattia e delle sue condizioni fisiologiche. Nella cultura primitiva la malattia non viene mai vista come un fenomeno naturale. Una malattia non sorge per cause naturali, ma per cause soprannaturali o magiche. È un’afflizione divina, e ciò significa che si è posseduti da un demone maligno o si è sotto l’incantesimo di un malvagio o di uno stregone. Nemmeno i Greci erano del tutto liberi da una concezione del genere. Se leggete il primo libro dell’Iliade troverete che la grande pestilenza nel campo dei Greci era stata attribuita all’indignazione di Apollo, il quale inviò tra i soldati greci le sue frecce

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diers. All this had to be overcome before Greek philosophy and Greek medicine could arise46. Before the times of Hyppocrates there was a practical medicine. Our theoretical and scientific medicin had to be created by the common efforts of Greek philosophers and Greek physicians. If we nowadays speak of sympthomology, of diagnosis and prognosis, of pathology, physiology – then we are not only using Greek names; we are thinking in Greek concepts and categories47. If you speak about the axioms of geometry, if you speak about matter, if you speak of the elements of things, of natural laws – why then you are speaking Greek philosophy – without even knowing it. And this is the case case with all of us. If a logician, a mathematician, a scientist, a biologist, even an historian develops a scientific theory, and if he wishes to give us a proof of his theory, if a politician inquiries into the principles of politics, if a moral philosopher seeks for the reasons of our moral obligations and our social duties – then he has to use those categories and those methods of thought that were introduced by the Greeks and their great thinkers. It is in this way that we may continue to call the Greeks classics of the world. They are no longer classics to us in the sense of that earlier conception that has dominated our whole thought for so many centuries. We can no longer accept the classicism of the Renaissance – nevertheless we feel that without the Greeks and their philosophers our modern world would not exist and would not be what it is – and that we have to to study the Greeks in order to understand the very conditions of our present life, which, after all, is not only a practical or technical life, but a theoretical one. It was in the times of the Greeks that humanity first entered into this new stage; that it learned to look at the world from a

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avvelenate. Bisognava superare tutto questo affinché la filosofia greca e la medicina greca potessero sorgere. Prima dei tempi di Ippocrate esisteva una medicina pratica. La nostra medicina teoretica e scientifica dovette essere creata dagli sforzi congiunti dei filosofi e dei fisici greci. Quando adesso parliamo di sintomatologia, di diagnosi e prognosi, di patologia, fisiologia – allora non soltanto stiamo adoperando nomi greci, ma stiamo pensando sulla base di nozioni e categorie greche. Quando parlate degli assiomi della geometria, di materia, degli elementi delle cose e di leggi naturali, allora voi state discutendo di filosofia greca senza nemmeno saperlo. E ciò vale per tutti noi. Quando un logico, un matematico, uno scienziato, un biologo e anche uno storico sviluppano una teoria scientifica e intendono fornirci una prova di questa teoria, quando un politico indaga i princìpi della politica, quando un filosofo morale ricerca le ragioni dei nostri obblighi morali e dei nostri doveri sociali – ebbene, tutti costoro devono utilizzare quelle categorie e quei metodi di pensiero introdotti dai Greci e dai loro grandi pensatori. È in questo modo che noi possiamo continuare a riferirci ai Greci come ai “classici del mondo”. Per noi non sono più dei classici nel senso di quella concezione che ha dominato il nostro pensiero per così tanti secoli. Non possiamo più accettare il classicismo del Rinascimento – ma cionondimeno siamo consapevoli che, senza i Greci e senza i loro filosofi, il nostro mondo moderno non esisterebbe e non sarebbe quello che è; per cui dobbiamo studiare i Greci se vogliamo comprendere le condizioni stesse della nostra vita presente, la quale, dopotutto, non è soltanto una vita pratica o tecnica, ma anche teoretica. È con i Greci che l’umanità, per la prima volta, è entrata in questa nuova fase, che ha imparato a osservare il mondo da un punto

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theoretical point of view, that it inquired into the reasons of things, that it searched for a rational explanation of natural phenomena and for a rational theory of man. It is in this sense that I wish to treat here the problems of Greek philosophy. Greek philosophy would mean to be a very poor and rather tedious thing if, in order to learn and to understand it, we had to fill our memories with a hundred of names, of historical dates or with a description of different and widely divergent opinions maintained by various philosophers. All this I wish carefully to avoid in these lectures. Of course[,] you have to know some names, and you have to learn some chronological dates, you have to learn a great deal of biographical and historical facts, in order to understand the course of history of Greek philosophy. Very often I shall have to refer to these facts – but I do not mean to give you the whole bulk of our empirical and historical evidence. For all this I shall ask you to consult your usual textbook in what you will find all the necessary details. In these lectures I wish to use a different method. I wish to interpret our sources – just from a systematic and historical point of view. From a systematic point of view[,] I wish to analyse the terms that have been coined by the Greeks philosophers and the very difficult concepts to which these terms refer. I wish to make you understand what “number” means in the Pythagoreans, what matter means in the founders of the atomistic systems, what “idea” means in Plato, what “organism” means in Aristotle. But this is not enough. We cannot do justice to these concepts if we regard them as thoughts of single thinkers. We must ask ouserlves in what way all these thoughts are interlinked to each other. They are the parts and components of a great whole. They are not scattered remains[,] but they are the constitutents of a coherent system of thought. Every new thinker has a new and

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di vista teoretico, a indagare le ragioni delle cose e a ricercare una spiegazione razionale dei fenomeni naturali e una teoria razionale dell’uomo. È da questo sguardo prospettico che intendo affrontare qui il problema della filosofia greca. Quest’ultima sarebbe una cosa davvero povera e piuttosto tediosa se, per impararla e comprenderla, dovessimo soltanto riempire i nostri ricordi con centinaia di nomi, date storiche o con le descrizioni delle diverse e ampiamente divergenti opinioni sostenute dai vari filosofi. In queste lezioni cercherò scrupolosamente di evitare tutto questo. Naturalmente, affinché voi possiate seguire il corso di storia della filosofia greca, è necessario conoscere qualche nome e imparare alcune date e un gran numero di fatti biografici e storici. Spesso dovrò farvi riferimento, ma non intendo fornirvi l’intera mole della nostra evidenza empirica e storica. A tal proposito vi invito a consultare il vostro libro di testo, al cui interno troverete tutti i dettagli necessari. In queste lezioni intendo utilizzare un metodo differente. Difatti, preferisco interpretare le nostre fonti da un punto di vista sistematico e storico. Da un punto di vista sistematico analizzerò i termini forgiati dai filosofi greci e i difficilissimi concetti ai quali questi termini si riferiscono. Intendo farvi comprendere cosa significa “numero” nei Pitagorici, cosa significa “materia” nei fondatori dei sistemi atomistici, cosa significa “idea” in Platone, cosa significa “organismo” in Aristotele. Ma ciò non è sufficiente. Non possiamo rendere giustizia a questi concetti se li consideriamo come pensieri di singoli pensatori. Dobbiamo chiederci in che modo tutti questi concetti sono reciprocamente interconnessi. Essi sono parti e componenti di una grande totalità. Non sono resti sparsi, quanto invece costituenti di un sistema coerente di pensiero. Ogni nuovo pensatore

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very original share in the general process of Greek thought. Every thinker asks a new question and gives us a solution for this question. If we look at Greek philosophy in this way it is no longer a strange, a remote, a difficult and obscure thing. It is not inaccessibile and it is not impermeable to our own modern thought; it becomes, so to speak, transparent. I do not invite you here for a scientific-historical study of Greek thought; its sources, its origin and development. All this is full of interest for a Greek scholar and for a student of history of philosophy. But not all of you wish to be or to become scholars – and if you are philosophers[,] you are philosophers to come. In this case, of course, you will return to the Greeks, and you will find in them much more than I can hope to tell you in these start course. But I wish to invite you to another task what, I think, is accessible and what, I dare say, may even be attractive to all of you48. I remember49 very well the time when as a youth of your own age, I begun to study Greek philosophy. At this time[,] I was filled with the greatest enthusiasm for all new things I found here. It was like a voyage of discovery that led me to a new country – a voyage full of surprises and intellectual adventures. In these lectures I hope to repeat this voyage of discovery in your company. As for myself I can scarcely return to my first impressions in this field. Sometimes I am inclined to think that it is a pity that in the course of my life I had to read so much, to lecture so much and to write so much about Greek philosophy that now I can no longer remember or renew my first, very fresh and naïve experience. But for you the case is otherwise. You are not bound to look at Greek philosophy with the eyes of a scholar. If you are prepared to follow me in my line of interpretation – then

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gioca una parte nuova e davvero originale nel processo generale del pensiero greco. Ogni pensatore si pone una nuova questione e ce ne fornisce una soluzione. Se guardiamo alla filosofia greca in questo modo, allora essa non appare più come una cosa strana, remota, difficile e oscura. Non è inaccessibile o impermeabile al nostro pensiero moderno; essa diventa, per così dire, trasparente. Non vi esorto qui a uno studio storico-scientifico del pensiero greco, delle sue fonti, della sua origine e del suo sviluppo. Tutto ciò è di grande interesse per uno studioso greco o per uno studente di storia della filosofia. Ma non tutti voi desiderate essere o diventare studiosi – e se siete filosofi, allora siete filosofi a venire. In questo caso, naturalmente, tornerete ai Greci e troverete in loro molto più di quanto io possa sperare di dirvi in questo corso preliminare. Ma vi esorto a un altro compito che ritengo accessibile e che, oserei dire, può persino risultarvi affascinante. Ricordo molto bene il tempo in cui, alla vostra età, iniziai a studiare la filosofia greca. In quel periodo ero pervaso da un grande entusiasmo per le novità che vi trovavo. È stato come un viaggio di scoperta che mi ha portato in un nuovo paese, un viaggio pieno di sorprese e di avventure intellettuali. In queste lezioni spero di ripetere questo viaggio di scoperta in vostra compagnia. Per quel che mi riguarda, con fatica riesco a rivivere le mie prime impressioni in merito. A volte penso che sia un vero peccato che nel corso della mia vita abbia dovuto leggere e scrivere così tanto sulla filosofia greca e tenere così spesso conferenze da non riuscire più a ricordare o rivivere la mia prima, freschissima e ingenua esperienza. Ma per voi la situazione è diversa. Non siete obbligati a guardare la filosofia greca con gli occhi dello studioso. Se siete disposti a seguire la mia chiave interpretativa,

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I hope to show you the Greeks in a different light – not as the ancients or the Classics, but as those men who must be interesting for every young man – because we feel in them the very youth of humanity50.

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allora spero di mostrarvi i Greci in una luce diversa, non come gli antichi o i classici, ma come quegli uomini che non possono non destare interesse in ogni giovane, perché è in loro che sentiamo la giovinezza stessa dell’umanità.

chapter i

THE IONIAN SCHOOL51 The first thinkers we meet with at the threshold of Greek philosophy are the thinkers of the so-called Ionian or Milesian school. This name designates that the philosophers belonging to this school resided at Miletus, the center of a Greek colony in Asia Minor. It is perhaps not by chance that Greek philosophy did not originate in the native country of the Greeks, in Hellas or the soil of Athens, but in a Greek colony. The life of a colonist is depending on special conditions. It is apt to develop not only new forms of social life, but also new forms of intellectual life. Generally speaking[,] the colonists are the younger man with a sense for adventure and with a bold spirit of enterprise. When leaving their country these men had to give up many of their former customs and beliefs and many of their traditional and conventional views. This is especially to be felt in the field of religion. Primitive religion, primitive rite and primitive cult is always closely bound up with a certain locality. The God himself had its definite and fixed place; and it is only at this place that he can be revered in the right way, that he can hear the prayers directed to him and that he can accept the sacrifices due to him. Early Greek religion is full of these local gods and these local cults. But when the first colonists left their country[,] they could not bear with themselves these local gods and they had, to a certain extent, to forget these local forms of worhip. By this, the idea of God itself became more universal. Zeus, for instance, is no longer regarded as a single deity, residing at a special place, not even in the

cap. i

LA SCUOLA IONICA I primi pensatori in cui ci imbattiamo sulla soglia della filosofia greca sono i cosiddetti filosofi della Scuola ionica o di Mileto. Con questo nome si indicano i filosofi appartenenti alla scuola situata a Mileto, il centro di una grande colonia greca in Asia minore. Forse non è un caso se la filosofia greca non nacque nel paese d’origine dei Greci, nell’Ellade o sul suolo di Atene, ma in una colonia greca. La vita di un colono, difatti, dipendeva da condizioni particolari. Egli era in grado di sviluppare non soltanto nuove forme di vita sociale, ma anche nuove forme di vita intellettuale. In generale, i coloni erano uomini molto giovani, desiderosi di avventura e dotati di un audace spirito di iniziativa. Nel lasciare il loro paese, essi dovettero abbandonare molti dei loro precedenti costumi e credenze, come anche molte delle loro opinioni abituali e tradizionali. Ciò lo si avverte, in particolar modo, nel campo della religione. La religione primitiva, il rito primitivo e il culto primitivo, sono sempre strettamente legati a una determinata località. Dio stesso ha una sua dimora fissa e definita ed è soltanto in quel luogo che egli può essere venerato in maniera appropriata, può sentire le preghiere a lui rivolte e accettare i sacrifici che gli sono dovuti. L’antica religione greca è colma di questi dèi e culti locali. Ma una volta lasciata la loro terra, i primi coloni non poterono più portare con sé questi dèi locali; pertanto, in una certa misura, essi dovettero dimenticare queste forme locali di culto. Con ciò, la stessa idea di Dio divenne più universale. Zeus, ad esempio, non viene più visto come una singola divinità, che dimora sempre nel suo luogo particolare, e

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Olympus of Homer; he becomes the universal god of the sky. If you study a book like Gilbert Murray’s Columbia lectures “Four stages of Greek Religion”52 (New York 1912) you will find there a full description of this very interesting religious process. «It is a long way» – says Gilbert Murray – from the first primitive conception of Zeus, as a god of the storm and the mountains to the universal Sky-God and, later, to the Zeus of Aeschylus, «a figure as sublime as the Jehovah of Job». But it is not this problem with which we are concerned here. We can follow up the same process of generalisation, universalisation, systematization much more clearly in the field of philosophical thought. And it is this view that brings into being a new thing – the thing that now we are used to describe by the name of a “system of philosophy”53. But when using this name[,] we need [to] bear in mind that the first thinkers of the Ionian School – Thales, Anaximander, Anaximenes – did by no means claim to give a philosophical system – in the sense of Descartes, of Spinoza, or Hegel. They were concerned with concrete phenomena and concrete problems. They were speculative thinkers, but their speculations were not lofty, abstract, metaphysical thoughts. Thales, the first of this group, is a very rich and interesting personality. He is not only a philosopher, he is also a statesman and he has played an important role in the political life of Miletus. In a Platonic dialogue, the dialogue Theaitetus (174) we find a little anecdote about Thales. Plato relates that Thales when observing some astronomical phenomena had the bad chance to fall into a well and that for this[,] he was mocked by a young Thracian maid who told

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nemmeno nell’Olimpo di Omero. Egli, infatti, diviene il dio universale del cielo. Cimentatevi nello studio di un libro come Quattro stadi della religione greca di Gilbert Murray (New York 1912)12 e al suo interno troverete una esauriente descrizione di questo interessantissimo processo religioso: «È una lunga via», afferma Gilbert Murray, «quella che va dalla prima concezione primitiva di Zeus – dio della tempesta e delle montagne – a quella di Zeus come Dio celeste universale e, più tardi, al Zeus di Eschilo, una figura sublime come quella del Jehovah di Giobbe»13. Ma non è questo il problema che qui ci tocca affrontare. Lo stesso processo di generalizzazione, universalizzazione e sistematizzazione, lo possiamo rinvenire, in maniera ancora più marcata, nel campo del pensiero filosofico. Ed è proprio questa concezione a dar origine a una cosa completamente nuova – la cosa che adesso siamo soliti chiamare col nome di “sistema di filosofia”. Ma quando utilizziamo questo nome, dobbiamo tenere a mente che i primi pensatori della Scuola ionica – Talete, Anassimene, Anassimandro – non intendevano affatto fornire un sistema filosofico nel senso di Descartes, Spinoza o Hegel. Essi si occupavano di fenomeni e problemi concreti. Erano dei filosofi speculativi, ma le loro speculazioni non erano pensieri rarefatti, astratti, metafisici. Talete, il primo di questo gruppo di pensatori, era dotato di una personalità ricca e interessante. Egli non era soltanto un filosofo, ma anche uno statista e giocò inoltre un ruolo importante nella vita politica di Mileto. In un dialogo platonico, il Teeteto (174), troviamo un piccolo aneddoto su Talete. Platone ci racconta che Talete, nell’osservare alcuni fenomeni astronomici, finì, sfortunatamente, per cadere in una fossa e che per tal motivo venne deriso dalla sua giovane serva, la quale gli

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him he may be very wise with regards to the things in the heavens but that he could not see what was before his feet and on the earth – he behaved like a fool (Jowett edit. IV, 232)54. Plato only relates this story in order to show us that the vulgar never was able to comprehend the true philosophical and scientific attitude. [«]The philosopher – says Plato – is wholly unacquainted with his next-door neighbour; he is ignorant not only of what he is doing but he hardly knows whether he is a man or an animal; he is searching into the essence of man, and busy in inquiring what belongs to such a nature to do[»]. But Thales scarcely was a philosopher of this type. He was not only a very skilful astronomer – Herodotos tells55 us that he foretold the eclipse of the sun which took place in the great battle between the Lydians and the Medes – he also was a statesman who proved to have a very great political insight by urging the different Ionian cities to unite themselves in a federal state in order to protect themselves from the immanent danger of a Persian aggression. In Greek tradition Thales is reckoned among the Seven Wise Men of Greece. The second of the Milesian philosophers is Anaximander who in our ancient sources is described as an associate of Thales; the same sources give him credit to the invention of some practical astronomical or nautical inventions. Anaximenes, the third of this group, was a friend and pupil of Anaximander, so that we have here a real and continual school-tradition56. I do not enter here into a report of the different theorems that in the field of Geometry, of Physics or Astronomy are ascribed to these three Milesian thinkers – all this you will find in Burnet’s57 book on “Early Greek Philosophy”. What it is interesting for us is a different question. What was the real discovery that the Ionian school made and in which way proved this discovery to be decisive for the further progress

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diceva che, preoccupandosi di conoscere le cose celesti, non si accorgeva di quelle che aveva davanti e tra i piedi. Platone racconta questa storia soltanto per mostrarci che la persona volgare non è in grado di comprendere la vera attitudine filosofica e scientifica. Al filosofo – dice Platone – «sfugge non solo che cosa fa il suo prossimo, persino il suo vicino di casa, ma quasi quasi anche se è un uomo o qualche altro animale»14; ciò che egli cerca è soltanto l’essenza dell’uomo e si trova impegnato a indagare cosa appartiene a una natura simile. Ma Talete a malapena fu un filosofo di questo tipo. Non fu soltanto un astronomo molto acuto – Erodoto stesso ci dice che egli predisse l’eclissi di sole che si verificò nella grande battaglia tra i Medi e i Lidi – ma anche uno statista che aveva mostrato di possedere una grande intuizione politica, incitando le diverse città ioniche a unirsi in uno stato federale al fine di proteggersi dall’imminente pericolo di un’aggressione persiana. Nella tradizione greca Talete viene riconosciuto come uno dei Sette Saggi della Grecia. Il secondo dei filosofi di Mileto è Anassimandro, che nelle nostre fonti antiche viene di solito descritto come un collaboratore di Talete; le stesse fonti gli attribuiscono l’ideazione di alcune invenzioni pratiche astronomiche o nautiche. Anassimene, il terzo del gruppo, era un amico e discepolo di Anassimandro, per cui appare evidente che ci troviamo di fronte a una effettiva e continua tradizione scolastica. Non entrerò nei dettagli dei differenti teoremi che, nel campo della geometria, della fisica o dell’astronomia, vengono di solito attribuiti ai tre pensatori di Mileto; tutto ciò lo potrete trovare nel libro di Burnet dal titolo La prima filosofia greca15. È diversa la questione che ci interessa. Quale fu la reale scoperta della Scuola ionica e in che modo questa si rivelò decisiva per l’ulteriore

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of philosophical thought? To this question we can answer by one58 word59. The Milesian philosophers are the first who discovered the theoretical world and who found a scientific approach to this world. But in order to understand this, we have to explain what term “theoretical world” means. The Greeks were by no means the first to meditate over general problems. Babylonian Culture, Egyptian culture show us a very high shape of intellectual training and intellectual superiority. There is no doubt that the first Greek thinker owed very much to this very old tradition; to the treasure of learning that from one generation to another, had been transmitted by the Babylonian and Egyptian priests. It is very probable that Thales himself visited Egypt and that from this journey he brought home many theorems that he had learned there. But as long as this astronomical and geometrical tradition was maintained and transferred by the priests alone, it could not liberate itself from certain fundamental presuppositions that had to be destroyed before the new concept of a purely “theoretical” truth could arise. Theoretical truth had to be distinguished from mythical truth with which in the whole religious tradition it was constantly intermingled and associated. It is this great step that is made by the Ionian thinkers[,] and it is here that we have to seek their fundamental philosophical merit. All this may be condensed in the analysis of a single term that probably first was introduced by Anaximander, the second thinker in our series, the disciple of Thales. It is the Greek term: ἀρχή [which if we take it in its literal sense meanse: beginning, commencement. All the Ionian philosophers speak of the beginning, of the ἀρχή of things. That is their common category; that is the interest which incites

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progresso del pensiero filosofico? Possiamo rispondere a questa domanda soltanto con una parola. I filosofi di Mileto furono i primi a scoprire il mondo teoretico e trovarono anche un approccio scientifico per questo mondo. Ma per comprendere ciò, dobbiamo prima di tutto spiegare il significato del termine “mondo teoretico”. I Greci non furono di certo i primi a meditare su problemi generali. La cultura babilonese e quella egizia ci mostrano una condizione piuttosto elevata di formazione intellettuale e di superiorità intellettuale. Non vi è dubbio che i primi pensatori greci debbano molto a questa antica tradizione, al tesoro di conoscenza che, da una generazione all’altra, era stato trasmesso dai sacerdoti babilonesi ed egizi. È molto probabile che Talete stesso visitò l’Egitto e che da questo viaggio egli portò con sé molti teoremi, che aveva avuto modo di apprendere. Ma fino a quando questa tradizione astronomica e geometrica veniva mantenuta e trasferita soltanto nella cerchia dei sacerdoti, essa non poté liberarsi di certi presupposti fondamentali che andavano distrutti prima che il concetto di una verità “puramente” teoretica potesse sorgere. La verità teoretica andava distinta dalla verità mitica, con la quale si trovava costantemente mescolata e associata all’interno di tutta quanta la tradizione religiosa. Fu proprio questo il grande passo compiuto dalla Scuola ionica ed è qui che noi dobbiamo rinvenire il loro merito filosofico fondamentale. Tutto ciò si condensa nell’analisi di un singolo termine, probabilmente introdotto per la prima volta da Anassimandro, il secondo pensatore della nostra serie nonché discepolo di Talete. Il termine greco è ἀρχή [che preso nel suo senso letterale significa: inizio, principio. Tutti i filosofi ionici parlano di principio, di ἀρχή di tutte le cose. Questa è la loro categoria comune, l’interesse che

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them to make their speculations and their empirical observations and investigations. To know that “beginning” of things becomes the fundamental philosophical and scientific interest. But however[,] agreeing in the problem itself the Ionian thinkers, Thales, Anaximander, Anaximenes do not agree in the solution of the problem. Thales tells us that “water” is the ἀρχή, the beginning of all things; Anaximander tells us that the ἀρχή is a principle that is described by the term ἄπειρον – a term that may be translated as “infinite” or perhaps better as the “indefinite”. It means something that has no definite boundaries; that is boundless both with regard to space and with regard to its qualities; that is before all single qualities, the undifferentiated background, from which all the special elements – as water, air – and so on evolve. Anaximenes declares the air to be the primary thing from]60. [According to the general plan of these lectures it is another question that is of paramount importance to us. What share had the Milesian school in that general task that we ascribed to early Greek philosophy. In which way did the thinkers of this school prepare the new way – the way that leads from Mythology to Philosophy. At first glance[,] it is not quite easy to answer this question. What we find in all Milesian thinkers – in Thales, in Anaximander, in Anaximenes – are certain speculations about the origin of things. Their common principle is that general category which in Greek language is described by the term ἀρχή – a term probably introduced by the second thinker of this series: by Anaximander]61. But what means ἀρχή? If we take the term in its literal sense means beginning, commencement, it is equivalent to the Latin term principium, so that we could best translate

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li incita a esercitare le loro speculazioni e le loro ricerche e osservazioni empiriche. Conoscere questo “principio” delle cose diventa il loro fondamentale interesse filosofico e scientifico. Ma per quanto essi fossero d’accordo con il problema in sé, tuttavia i pensatori ionici (Talete, Anassimandro e Anassimene) prospettarono una soluzione diversa al problema. Talete ci dice che l’ἀρχή, il principio di tutte le cose, è l’“acqua”; Anassimandro ci dice invece che l’ἀρχή è un principio descritto in termini di ἄπειρον – un termine che può essere tradotto con “infinito” o meglio ancora con “indeterminato”. Esso indica qualcosa che non ha confini determinati; che è illimitato sia riguardo allo spazio sia alle sue qualità; che viene prima di tutte le singole qualità, un contesto indifferenziato dal quale provengono tutti gli elementi particolari come l’acqua, l’aria e così via. Anassimene afferma che è l’aria l’elemento primario dal quale (…)]. [Secondo il piano generale di queste lezioni vi è un’altra questione di estrema importanza per noi, ossia cosa condivide la Scuola di Mileto con il compito generale di solito attribuito alla prima filosofia greca. In che modo i pensatori di questa scuola prepararono il nuovo percorso, ossia il percorso che conduce dal Mito alla Filosofia. A un primo sguardo, non è facile rispondere a questa questione. In tutti i pensatori di Mileto – Talete, Anassimandro e Anassimene – noi troviamo alcune speculazioni sull’origine delle cose. Il loro comune principio è quella categoria generale che nel linguaggio greco viene descritto in termini di ἀρχή, un termine probabilmente introdotto dal secondo pensatore di questa serie: Anassimandro]. Ma cosa significa arché? Se prendiamo il termine nel suo significato letterale, allora esso significa inizio, principio, è l’equivalente del termine latino principium, per

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it by first principle. All the Ionian thinkers are seeking for such a first principle. That is the interest which gives rise to their speculations[,] and which incites them to their empirical observations and investigations. But although agreeing in the problem itself the Milesian thinkers do not agree in the solution of the problem. Thales tells us that water62 is to be regarded as the first principle of all things; Anaximander thinks that this principle is not to be found in any concrete special stuff like water or air but in something else that he describes as the ἄπειρον – the Boundless of the Infinite. For the time being we do not raise the question by what special reasons and by what observations the single thinkers were led to their special theses. This question was already raised by Aristotle in his Metaphysics – but he himself could not decide it in a clear way. What he says about this problem are only conjectures which to my mind are not very probable. But what we wish to know here is another thing – it is the logical value that we can ascribe to the new concept – to the concept of a first origin or a first principle of things. At first sight we may be inclined to think that, in this first step, Greek philosophy is still very near to mythology. For from times immemorial religion and mythology had asked the same question: they had sought for the first origin of things. Every great religion of the world – Jewish religion, Egyptian religion, Indian religion – has its Cosmology63 – that means it gives us a doctrine or a mythical story of the creation of the world and the origin of the world-order. The most elaborate and the most famous of these comsologies is of course the story of the Genesis; of the first book of the Old Testament. But we find analogous stories of the creation

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cui lo si protrebbe tradurre con primo principio. Tutti i pensatori ionici vanno alla ricerca di un tale primo principio. È questo loro interesse ad aver dato vita alle loro speculazioni e ad averli sollecitati nelle loro ricerche e osservazioni empiriche. Ma sebbene i pensatori di Mileto si trovassero d’accordo sul problema in sé, diversa fu invece la soluzione al problema da loro prospettata. Talete ci dice che il primo principio di tutte le cose è l’acqua; Anassimandro ritiene che questo principio non lo si possa trovare in qualcosa di concreto e materiale come l’acqua o l’aria, ma in qualcos’altro, ossia nell’ἄπειρον, l’Illimitato o Infinito. Per il momento non solleveremo la questione circa le ragioni particolari e le osservazioni che spinsero questi singoli pensatori a formulare le loro rispettive tesi. Questa questione è già stata sollevata da Aristotele nella sua Metafisica, anche se egli stesso non la risolvette in modo chiaro. Ciò che egli dice su questo problema sono soltanto congetture, le quali, tra le altre cose, non mi sembrano poi molto probabili. Ma è un’altra la cosa che ci interessa sapere e cioè il valore logico che possiamo attribuire al nuovo concetto, ossia al concetto di una prima origine o primo principio delle cose. A prima vista, potremmo essere inclini a pensare che, nella sua fase iniziale, la filosofia greca fosse ancora molto vicina alla mitologia. D’altra parte, da tempi immemori la religione e la mitologia si sono poste la stessa domanda: esse hanno cercato la prima origine delle cose. Ogni grande religione del mondo – la religione ebraica, la religione egizia, la religione indiana – ha la sua cosmologia, ossia una dottrina o storia mitica della creazione del mondo e dell’origine dell’ordine cosmico. La più elaborata e famosa di queste cosmologie è ovviamente la storia della Genesi, il primo libro del Vecchio Testamento. Ma troviamo analoghe storie della creazione del mondo non

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of the world not only in the Bible but also among very primitive religions and mythologies. In German mythology we are told that the world has its origin in an enormous tree: this is called World-Ash. The different parts of the world have been made out of the parts of this tree – out of the trunk, its roots, its branches. In Indian mythology we find the conception that the world has arisen from a great lotus. In Melanesia and on other islands of the Pacific we are told how the world was fished out of the sea or moulded out of slime. If I tell such a story about the origin of things to a modern scientist, he will smile at it and he will think it to be extremely childish and ridiculous. But if I tell the same scientist that once upon a time there was a thinker who seriously upheld the theory that all things have come from the water and that this man is not only regarded as a philosopher, but as the first founder of philosophy – will he not smile at philosophy in the same way as he smiled at Myth – and will he not think that from his own point of view there is little difference between mythical thought and the first form of philosophical thought? But we must seek the difference not in the subject-matter but in the form of thought; not in the contexts but in the mode of thinking. When speaking about the Milesian thinkers Aristotle calls them the ancient Physiologists64. What does that mean? “Physiology” is not to be understood here in our modern sense as the science of the functions of the human body. Physio-logy [–] the name contains two elements: Physis and Logos. Physis means “nature” – but the name “Physis” is derived from the verb phyo; which65 means to grow up. Physis, nature is therefore not only the existence of things but the Growth of things66. – a Physio-Logy67 is therefore a “Logos” that means a theory, a doctrine, a scientific hypothesis abouth the origin of things – What are the conditions of such a doctrine, of a scientific description of

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soltanto nella Bibbia, ma anche all’interno di religioni e mitologie primitive. Nella mitologia tedesca si racconta che il mondo ebbe origine da un enorme albero, chiamato “Frassino cosmico” [Yggdrasil]16. Le diverse parti del mondo sono state fatte proprio con le parti di questo albero: tronco, radici e rami. Nella mitologia indiana si trova la concezione secondo cui il mondo ebbe origine da un grande loto. Nella Melanesia, come anche in altre isole del Pacifico, si racconta che il mondo venne pescato dal mare o formato dalla melma. Se raccontassi una storia simile a uno scienziato moderno, probabilmente ne riderebbe e la considererebbe estremamente infantile e ridicola. Ma se allo stesso scienziato dicessi che c’era una volta un filosofo che sosteneva, seriamente, la teoria secondo cui tutte le cose provengono dall’acqua e che quest’uomo non era soltanto un filosofo ma il primo fondatore della filosofia, allora egli non riderà della filosofia così come ha riso del mito? E non penserà che, dal suo punto di vista, c’è una piccola differenza tra il pensiero mitico e questa prima forma di pensiero filosofico? Ma noi dobbiamo cercare la differenza non tanto nel tema trattato, quanto invece nella forma di pensiero; non nei contesti ma nel modo di pensare. Quando Aristotele parla dei filosofi di Mileto, li chiama gli antichi fisiologi. Cosa significa? Non dobbiamo intendere la “fisiologia” in un’ottica moderna, ossia come la scienza delle funzioni del corpo umano. Il termine fisio-logia contiene due elementi: Physis e Logos. Physis significa “natura”, ma il nome Physis deriva dal verbo phyo, che significa crescere17. La Physis (la natura) non concerne quindi soltanto l’esistenza delle cose, ma anche la crescita delle cose. La Fisio-logia è pertanto un Logos che significa una teoria, una dottrina, un’ipotesi scientifica sull’origine delle cose. Quali sono le condizioni di una simile

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the origin and the growth of the world – in contradistinction to a merely mythical description?68 I will try to answer this question – but when doing so I must ask you for a little patience. For I cannot show you this difference without entering into problems that seem to lie outside our own way – the way of ancient philosophy – and that belong to a different field: Anthropology and the general history of Religion. But I will try to be very short and to express myself as clearly as possible. There was always a certain tendency to explain mythological thought and primitive mythology in a very simple way by saying that all the creations of mythical thought have their origin in what has been called in German “die Urdummheit des Menschen” – the primeval stupidity of man. But if we accept this view[,] we can scarcely explain the fact that all the great cultures that have appeared before the times of the Greeks were indissolubly connected with mythical thoughts and mythical ideas. Is all that, what we find in Egyptian culture, in Babylonian culture, in Indian culture, in the poems of the Veda, even in many parts of the Old and New Testament only an outgrowth of man’s intellectual incapacity? I think all this must have other and deeper roots. Plato says, in his Theaetetos, that wonder is the beginning of philosophy. If this be true[,] we have to confess that even the primitive man, to a certain extent, is a philosopher. For there seems to be no stage in human life and human civilization in which man did not possess this faculty to wonder about things and to ask questions about things. Man may be defined as that animal that is capable of wondering and

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dottrina, di una descrizione scientifica dell’origine e crescita del mondo, in contrasto con una descrizione puramente mitica? Cercherò di rispondere a questa questione, ma nel far ciò devo chiedervi un po’ di pazienza, poiché non posso mostrarvi tale differenza senza prima addentrarmi nei problemi che sembrano giacere al di fuori del nostro percorso – il percorso della filosofia antica – e che appartengono a un campo differente: l’antropologia e la storia generale della religione. Ma cercherò di essere breve e di esprimermi nella maniera più chiara possibile. Vi è sempre stata una certa tendenza a spiegare il pensiero mitologico e la mitologia primitiva in modo davvero semplicistico, specie quando si afferma che ogni crea­zione del pensiero mitico ha origine da quella che in tedesco si chiama die Urdummheit des Menschen, la primordiale stupidità umana. Ma accettando questo punto di vista risulta arduo spiegare il fatto che tutte le grandi culture apparse prima dei Greci erano indissolubilmente connesse con pensieri mitici e idee mitiche. Tutto ciò che noi ritroviamo nella cultura egizia, in quella babilonese, in quella indiana, nei poemi dei Veda e anche in molte parti del Nuovo e del Vecchio Testamento, è soltanto una conseguenza dell’incapacità intellettuale dell’uomo? Io ritengo che tutto ciò abbia ben altre e più profonde radici. Platone, nel suo Teeteto, dice che la meraviglia costituisce l’inizio della filosofia. Se ciò fosse vero, allora dovremmo ammettere che, in una certa misura, anche l’uomo primitivo è un filosofo. D’altra parte, non sembra esservi alcuno stadio, nella vita umana e nella civiltà umana, nella quale l’uomo non abbia posseduto la facoltà di provare meraviglia di fronte alle cose e di porsi domande intorno a esse. L’uomo può essere definito come quell’animale che è in grado di meravigliarsi e di porsi

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questioning. He never takes things for granted; he begins to inquire after their causes. But the research for causes means something quite different for the primitive mind than for our scientific mind. The primitive mind is not led in this research by speculative reasons, by a mere intellectual curiosity. What is the driving force in it are the practical interests, the affections and emotions of the primitive man. What man wishes to understand and to explain are not so much the phenomena of nature as the phenomena of his own life – especially of his social life. He wishes to understand the social order, in which he lives and69. And myth and religion are the only powers that can give him such an understanding and justification of the human and social world. Society and its order have70 arisen from mythical sources; it has been created and instituted by the will of a God, a demon, a hero, a mythical ancestor. This answer is accepted by man in good faith. For whatever exists from time immemorial cannot be doubted: it is holy and unquestionable. The mythical past is a sacred time; it is justified in itself and by itself; to call it into question would be a sacrilege. That is the only answer[,] that is the “explanation”71 that mythical thought wishes72 to give and that is able73 to give. But in the Ionian thought there arises quite a new and different interest – a new mode74 of questioning and answering. First of all: the theory of these thinkers, of Thales, Anaximander, Anaximenes deliberately avoids all supernatural elements. It does not appeal to the power of a God or to the will of a demon. All the reasons alleged in these theories are empirical reasons – in a broad and general sense. They must be verifiable – even now in our own empirical world, in our common experience. Obviously[,] that is not the case with the mythical elements of things – we cannot find the German world-ash or the Indian lotus

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domande. Egli non dà mai per scontate le cose; inizia a indagare le loro cause. Ma la ricerca delle cause indica qualcosa di diverso per l’uomo primitivo rispetto alla nostra mentalità scientifica. La mente primitiva non ricerca per ragioni speculative, per mera curiosità intellettuale. La spinta le viene fornita da interessi pratici, da affetti ed emozioni dell’uomo primitivo. Ciò che l’uomo desidera comprendere sono non tanto i fenomeni della natura, ma la sua stessa vita – e soprattutto la sua vita sociale. Desidera comprendere l’ordine sociale nel quale vive. E il mito e la religione sono le sole facoltà che le possono fornire una simile comprensione e giustificazione del mondo umano e sociale. La società e il suo ordine hanno tratto origine da fonti mitiche; sono stati creati e istituiti dalla volontà di Dio, da un demone, da un eroe, da un antenato mitico. Questa risposta viene accettata dall’uomo in buona fede, giacché ciò che esiste da tempo immemore non può essere messo in discussione: è sacro e inconfutabile. Il passato mitico è un passato sacro e si giustifica da sé; porlo in questione sarebbe un sacrilegio. Questa è la sola risposta, la sola “spiegazione” che il pensiero mitico intende fornire e che è in grado di fornire. Ma nel pensiero ionico sorge un interesse nuovo e piuttosto differente, un nuovo modo di domandare e di rispondere. Innazitutto, la teoria di questi pensatori – Talete, Anassimandro e Anassimene – evita deliberatamente ogni elemento sovrannaturale. Essa non si appella al potere di un dio o alla volontà di un demone. Tutte le ragioni ipotizzate in queste teorie sono ragioni di tipo empirico – in un senso ampio e generale. Esse devono essere verificabili, anche adesso, nel nostro mondo empirico e nella nostra esperienza comune. Ovviamente, ciò non avviene con gli elementi mitici delle cose, giacché noi non troviamo nel nostro mondo empirico il frassino cosmico tedesco o il

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in our empirical world – they are fantastic and capricious things – But the water of Thales and the air of Anaximenes are not such fantastic things – We are living among them – they are surrounding us from all sides – We observe water – in the seas, in every river, in the heavens[,] in the shapes of clouds – and we do not only experience water itself – but the change of water75 – we know that under special conditions is turned into ice or into vapour. All this is not mythical – it is understandable, because it is observable and verifiable76. The Ionian thinkers are looking for a Physio-logy, that means for the physical77 causes of things – Such a physical cause cannot be dependent upon caprice or fancy of a personal God. For these things are incalculable – they admit of no “theory”, no rational explanation – The first cause of things must have a definite, permament, persisting nature78. It is this moment of permanence and persistence79, on which we must lay the80 stress. If Thales declares water to be the ἀρχή, the beginning of things – then he does not think of water as if it was belonging to a remote past. Water has been turned in new forms and shapes – but by all this it has not lost its fundamental character, it has preserved its nature, it has maintained its condition. Here we have that new concept that henceforward will govern the whole development of philosophical thought: the concept of substance81. The first Greek thinkers: Thales, Anaximander, Anaximenes have not yet used the term82 “substance”; the Greek term for this concept – the term οὐσία or Being – has not been coined before the times of Plato and Aristotle. But the Ionian thinkers knew what “substance” is and what it means. They are the first creators of the concept of a “material substance”, of a thing that remains constant and im-

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loto indiano. Esse sono unicamente entità fantastiche ed eccentriche. Ma l’acqua di Talete o l’aria di Anassimene non sono affatto simili a tali oggetti fantastici. Noi ci viviamo in mezzo ed esse ci circondano da ogni lato. Noi osserviamo l’acqua nel mare, in ogni lago, nei cieli, nelle forme delle nuvole, e non sperimentiamo soltanto l’acqua in sé, ma il mutamento dell’acqua. Sappiamo che, sotto condizioni particolari, l’acqua si trasforma in ghiaccio o in vapore. Tutto ciò non ha nulla di mitico – è invece comprensibile, in quanto osservabile e verificabile. I pensatori ionici cercano una fisio-logia, ossia le cause fisiche delle cose. Ma una simile causa fisica non dipende dal capriccio o dalla immaginazione di un dio personale. D’altra parte, queste cose sono incalcolabili, non ammettono alcuna “teoria” o spiegazione razionale. La prima causa delle cose deve possedere una natura determinata, permanente e persistente. È sul momento della permanenza e della persistenza che dobbiamo focalizzare la nostra attenzione. Se Talete afferma che l’acqua è l’ἀρχή, il principio delle cose, allora non pensa all’acqua come appartenente a un passato remoto. L’acqua ha infatti assunto nuove forme e aspetti, ma ciononostante non ha perso la sua caratteristica fondamentale, ha preservato la sua natura, ha mantenuto la sua condizione. Abbiamo qui un concetto che, da quel momento in poi, ha determinato l’intero sviluppo del pensiero filosofico: il concetto di sostanza. I primi pensatori greci, ossia Talete, Anassimandro e Anassimene, non avevano ancora usato il termine “sostanza”; il termine greco per questo concetto – il termine οὐσία o Essere – non apparve prima di Platone e Aristotele. Ma cionondimeno, i pensatori ionici sapevano cosa fosse la “sostanza” e cosa significasse. Essi furono i primi creatori del concetto di una “sostanza materiale”, di una

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mutable notwithstanding the change of its qualities. What the Ionians83 call the beginning of things is not a mere beginning in time. It is the first principle and the permanent ground of things. It does not fade away; it remains what it was, it keeps its invariable84 nature. In our voyage of discovery[,] we have reached here the first station. And this station is a very important one. For without the concept of substance, of a lasting, permanent, enduring something, that underlies all changes we should not have been able to build up a physical science, a theory of nature85. […] which all the other have developed. There have been many speculations about the reasons that induced the single thinkers to make these statements. Aristotle, for instance, suggests that Thales was led to his thesis by meteorological considerations or by biological facts. But all this is very uncertain[,] and I don’t think that Aristotle conjectures have any probability from the point of view of a strictly historical interpretation. But all these questions are rather irrelevant to us. What we have to decide is the question [of] what philosophical nature we have to ascribe to the Ionian concept of ἀρχή – of a beginning of all things, a common stuff, a fundamental reality from which all the things of our common experience have evolved. As I said before[,] one of the principal aims of all the Ionian thinkers was the aim to overcome the former mythical explanations. But, if this be true, how could they hope to reach this end by their own concepts; by the concept of an ἀρχή, of a first beginning and origin of all things[?] “Beginning” seems to be one of the most used and fundamental mythical categories. All the great religions tell us a story about the first beginning86 of things. The most famous story

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cosa che rimane costante e immutabile malgrado il mutamento delle sue qualità. Ciò che gli Ionici chiamano principio delle cose non è un mero inizio nel tempo. Esso è il primo principio e il fondamento permanente delle cose. Esso non si affievolisce, ma rimane ciò che è, mantiene la sua natura invariabile. Nel nostro viaggio di scoperta abbiamo raggiunto adesso la prima fermata. E questa fermata è veramente importante, giacché senza il concetto di sostanza, di un qualcosa di persistente, permanente, duraturo che sta alla base di tutti i mutamenti, non saremmo stati in grado di costruire una scienza della natura, una teoria della natura. Vi sono state molte congetture sulle ragioni che indussero i singoli pensatori a fare affermazioni simili. Aristotele, ad esempio, sostiene che Talete giunse alle sue tesi sulla base di considerazioni meteorologiche o di fatti biologici. Ma ciò è alquanto incerto e non penso che le congetture di Aristotele abbiano una qualche probabilità dal punto di vista di una interpretazione strettamente storica. Ma tutte queste questioni sono piuttosto irrilevanti per noi. Dobbiamo invece deciderci su quale natura filosofica dobbiamo attribuire al concetto ionico di ἀρχή, di un principio di tutte le cose, di una materia comune, di una realtà fondamentale dalla quale tutte le cose della nostra esperienza comune si sono evolute. Come ho detto prima, uno degli scopi principali dei pensatori ionici consisteva nel superare le prime forme di spiegazione mitica. Ma, se questo è vero, come avrebbero potuto sperare di raggiungere questo scopo tramite il loro concetto di ἀρχή, di un principio e di una origine di tutte le cose? “Principio” sembra essere una delle categorie mitiche più utilizzate e fondamentali. Tutte le grandi religioni ci raccontano una storia sul principio delle cose. La storia più famosa è quella contenuta nel

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is the story contained in the first book of the Old Testament: in the beginning God created the Heavens and the Earth. And myth does not only give us an account about the origin of things[,] but also about the descent of men, about the origins of the tribe, about the first cause of social organisation of the tribe, its division in several clans, each of which draws its origin from a special ancestor, which in most cases, in the so-called87 systems of totemism, is an animal ancestor. If we bear this in mind – how can we say that the Ionians introduced a new, a philosophical88 concept, when speaking of the beginning, of the ἀρχή, the first principle of things? In order to answer this question in a clear and precise way[,] I must begin with a general analysis of the nature of mythical thought. This may at first sight seem to be a digression, but it will be soon lead us back to our principal subject and it will illuminate this subject. In modern times the theme of mythical thought has gained an ever-increasing interest. It has been treated under many and various aspects; by ethnologists, by anthropo[logists], by psychologists, by sociologists, by philosophers. As regards myself I may mention that in the second volume of my Philosophy of symbolic forms I have treated the problem explicitly. But since this book is written in German, I do not wish to refer to it here. Roughly speaking[,] we may say that in modern anthropological and philosophical literature there have been proposed three different theses about the general character of mythical thought. The first of these theses89 is maintained in the well-known90 work of Sir James Frazer “The Golden Bough” – a work that in about fifteen volumes contains a tremendous […]91 of ethnographical material that unfortunately is brought together and compiled in a very uncritical way. Frazer proposes the theory that mythical or magical

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primo libro del Vecchio Testamento: in principio Dio creò i cieli e la terra. Il mito non soltanto ci fornisce un resoconto sulle origini delle cose, ma anche sulla discendenza degli uomini, sulle origini della tribù, sulla prima causa di organizzazione sociale della tribù, sulla sua divisione in diversi clan, ognuno dei quali trae origine da un antenato particolare il quale, nella maggior parte dei casi, nei cosiddetti sistemi del totemismo, è un antenato animale. Se teniamo a mente tutto ciò, come possiamo affermare allora che gli Ionici introdussero un nuovo concetto filosofico, se essi stessi parlavano di principio, di ἀρχή, di primo principio delle cose? Per rispondere a questa domanda in modo chiaro e preciso, devo iniziare con un’analisi generale della natura del pensiero mitico. A prima vista ciò potrà anche sembrare una digressione, ma invece essa ci condurrà presto al nostro soggetto principale e ci fornirà anche alcune delucidazioni in merito. Nei tempi moderni il tema del pensiero mitico ha ottenuto un interesse sempre crescente. È stato trattato sotto tanti e vari aspetti: da etnologi, da antropologi, da psicologi, da sociologi, da filosofi. Per quel che mi riguarda, vorrei solo accennarvi che nel secondo volume della mia Filosofia delle forme simboliche ho affrontato questo problema esplicitamente. Poiché questo libro è scritto in tedesco, non intendo farvi riferimento. In parole povere, possiamo affermare che nella moderna letteratura antropologica e filosofica sono state proposte tre tesi differenti circa il carattere generale del pensiero mitico. La prima di queste tesi viene sostenuta nel ben noto lavoro di Sir James Frazer Il ramo d’oro, un’opera di circa quindici volumi che contiene uno straordinario materiale etnografico il quale, sfortunatamente, è stato assemblato e compilato in modo poco critico. Frazer propone la teoria secondo

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thought is nothing else than scientific thought – but it is the science of primitive and uncultivated people, built upon a very insufficient material. According to Frazer[,] the magician and the scientist belong to the same genus; both of them attempt to control nature by the practical application of scientific knowledge. But the magician, the sorcerer[,], or the medicine-man of primitive people, fail in his attempt because they have too little knowledge of the real empirical facts and because their methods of resoning are full of gross errors and crude suppositions. The very opposite view was upheld in the works of modern French sociologists, in the works of Durkheim and his pupils. One of the best and most fascinating descriptions of primitive thought was given from this point of view by Lévy-Bruhl92 in his two books “Les fonctions mentales dans les societé inferieures” and “La mentalité primitive” both translated into English the first under the title How Natives Think (1925) and Primitive Mentality (1923). Lévy-Bruhl93 thinks that primitive thought and logical thought are opposed to each other in their very principles. Primitive thought is a mythical thought that does not know of any logical rules, not even of the fundamental logical rule, the law of contradiction. The primitive mind is a “prelogical mind”; its creations cannot be measured by our own standards; they show us a completely opposite structure of mind that is to be explained by the completely opposite structure of human society. For it is the form of society that forms and determines all our modes of perceiving, of feeling, of reasoning. But to my mind these theories, the theory of Frazer and of Lévy-Bruhl94[,] are not able to reveal us the true character of mythical thought and to give us an insight into its fun-

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cui il pensiero mitico e magico altro non è che pensiero scientifico, sebbene scienza di gente primitiva e incolta, costruita su del materiale piuttosto insufficiente. Secondo Frazer il mago e lo scienziato appartengono allo stesso genere; entrambi tentano di controllare la natura attraverso l’utilizzo della conoscenza scientifica. Ma il mago, lo stregone o lo sciamano dei primitivi, falliscono in questo scopo per via della loro ristrettissima conoscenza dei concreti fatti empirici e per via del vasto numero di banali errori e rozze ipotesi presenti nei loro metodi di ragionamento. Una concezione diametralmente opposta è presente nelle opere dei sociologi francesi moderni, nelle opere di Durkheim e dei suoi allievi. Una delle migliori e più affascinanti descrizioni del pensiero primitivo ci è stata fornita, da questo punto di vista, da Lévy-Bruhl nei suoi due volumi Les fonctions mentales dans les societés inferieures e La mentalité primitive, entrambe disponibili in traduzione inglese con i seguenti titoli: How Natives Think (1925) e Primitive Mentality (1923). Lévy-Bruhl pensa che il pensiero primitivo e il pensiero logico, nei loro propri princìpi, siano diametralmente opposti. Il pensiero primitivo è un pensiero mitico che non conosce alcune regole logiche, nemmeno quella fondamentale, ovvero il principio di non-contraddizione. La mente primitiva è una mente “pre-logica” e non possiamo valutare le sue creazioni in base ai nostri criteri; esse ci mostrano una struttura della mente del tutto diversa e che va spiegata con una struttura completamente opposta della società umana, giacché essa è la forma che compone e determina tutti i nostri modi di percepire, di sentire e ragionare. Ma a mio modo di vedere, entrambe queste teorie, la teoria di Frazer e Lévy-Bruhl, non sono in grado di rivelarci la caratteristica peculiare del pensiero mitico, né di

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damental motives. I cannot expound here the reasons that lead me to this conclusion; I must content myself with a few hints. Myth cannot be explained as a sort of incomplete or primitive science. It is distinguished from science both in its ends and in its means. But just as little can we regard myth as a mere congeries of haphazard disconnected ideas, of wild imaginations, of dreams and illusions. Many anthopologists were inclined to seek the ultimate reason of myth in what they called “die Urdummheit des Menschen” – the primeval stupidity of mankind. But by such a theory we cannot do justice to the historical fact that all the great cultures that have appeared before the times of the Greeks are indissolubly connected with mythical thought and that we cannot95 explain them without their mythical and religious background. All this cannot be a mere outgrowth of our inherent stupidity; it must have other and deeper roots. To explain my own view on myth in the way of a short formula[,] I should say that myth is not a theoretical conception but a dramatic conception of human life. It is not, like science, interested in the causes of things nor does it attempt to explain the course of events by reducing the particular phenomena to a few general causes. All this is perfectly unknown and ununderstandable to mythical thought. Even mythical thought is not entirely illogical or contradictory. It is by no means perfectly confused or disorganized; it has a logic of its own. But this logic is not our logic of judgement, of arguing and reasoning. It is a logic of imagination and emotion. Imagination and emotion are the great powers that govern mythical thought. Nature is not thought to be a series of events connected with each other by fixed causal

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fornirci una panoramica dei suoi motivi fondamentali. Non posso esporre qui le ragioni che mi hanno condotto a questa conclusione. Dovrò limitarmi soltanto ad alcuni accenni. Il mito non può essere spiegato come una sorta di scienza incompleta o primitiva. Esso si distingue dalla scienza sia rispetto ai suoi scopi, sia rispetto ai suoi mezzi. Men che meno possiamo considerare il mito un mero insieme disordinato di idee disconnesse, di ardite immaginazioni, di sogni e illusioni. Molti antropologi erano inclini a ricercare la ragione ultima del mito in ciò che essi definirono die Urdummheit des Menschen, ossia la primordiale stupidità umana. Ma una teoria simile non rende giustizia al seguente fatto storico: tutte le grandi culture apparse prima dei Greci erano, appunto, indissolubilmente legate al pensiero mitico; e, inoltre, non le possiamo spiegare prescindendo dal loro retroterra mitico e religioso. Tutto ciò non può essere solamente una conseguenza della nostra innata stupidità, ma deve invece avere altre e ben più profonde radici. Per spiegare il mio punto di vista sul mito in base a una breve formula, dirò che il mito non è una concezione teoretica ma una concezione drammatica della vita umana. Il mito, a differenza della scienza, non è interessato alle cause delle cose, né tenta di spiegare il corso degli eventi riducendolo a fenomeni particolari o a poche cause generali. Tutto ciò è perfettamente sconosciuto e incomprensibile per il pensiero mitico. Esso, inoltre, non è in alcun modo del tutto confuso e disorganizzato; al contrario, possiede una sua propria logica. Ma questa logica non è la nostra logica del giudizio, dell’argomentare e del ragionare. È piuttosto una logica dell’immaginazione e dell’emozione. Immaginazione ed emozioni sono le grandi facoltà che governano il pensiero mitico. La natura non viene pensata come una serie di eventi

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laws or as a whole of physical things provided with determinate qualities and determinate powers. All things are filled with personal powers; all events originate in personal causes. Death, for instance, is not a general fact depending on biological reasons; it is always due to a personal agent: to the spell or the malignant influence of a sorcerer. The primitive mind does not think about the general causes of the phenomena. It is absorbed in the great spectacle of human life. And it is not only beholding this spectacle[,] but it partakes in it in an immediate way; it has an active share in the drama of life. We cannot explain myth as a mere intellectual representation or conception; we must study it in its actions. Mythical life is always closely connected with ritual life and it is the study of primitive rites which gives us the real clue to the interpretation of mythical thought. All these rites have a dramatic character96. They represent some great events of the mythical past; some scenes of the life of gods and demons, of the animal ancestors of man. In his religious dances, in his magical acts man does not only remember these scenes; but he changes his nature, he becomes the god, the demon, the animal ancestor himself. It is only by projecting the great events of his life to the mythical past that man can understand these events. Mythical explanation does not originate in the wish to derive the special phenomena from general causes. What is sought here is not the understanding of a thing or event in our own sense, but the justification of the fundamental tracts of human life97 [especially the justification of the social order in which man lives. The primitive mind never can think that it was man himself who made this

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connessi l’un l’altro da ferree leggi causali o come un insieme di cose fisiche provviste di determinate qualità e facoltà. Tutte queste cose vengono riempite con poteri personali; tutti gli eventi trovano la loro origine in cause personali. La morte, ad esempio, non è un fatto generale dipendente da cause biologiche; essa è sempre causata da un agente personale, da un incantesimo o dall’influenza maligna di uno stregone. La mente primitiva non pensa alle cause generali dei fenomeni, è assorbita nel grande spettacolo della vita umana. E non è una semplice spettatrice di questo spettacolo, ma vi partecipa in maniera immediata, ha un ruolo attivo nel dramma della vita. Pertanto, non possiamo spiegare il mito come una mera rappresentazione o concezione intellettuale; dobbiamo studiarlo nelle sue azioni. La vita mitica è sempre strettamente connessa con la vita rituale ed è proprio lo studio dei riti primitivi che ci fornisce un’effettiva idea dell’interpretazione del pensiero mitico. Tutti questi riti posseggono un carattere drammatico e rappresentano alcuni grandi eventi del passato mitico, alcune scene della vita degli dèi e dei demoni, degli antenati animali dell’uomo. L’uomo, nelle sue danze religiose, nei suoi atti magici, non ricorda soltanto queste scene, ma muta la sua natura; egli stesso diventa dio, il demone, l’antenato animale. Solo proiettando i grandi eventi della vita nel suo passato mitico, l’uomo può comprendere questi eventi. La spiegazione mitica non trae origine dal desiderio di far derivare fenomeni particolari da cause generali. Ciò che viene ricercato non è tanto la comprensione di una cosa o evento nel nostro senso, ma la giustificazione dei tratti fondamentali della vita umana [specialmente la giustificazione dell’ordine sociale nel quale vive l’uomo. La mente primitiva non può mai pensare che a creare questo ordine sociale sia

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social order. This order does not depend on the free will of man; it is infinitely superior to him. It was created by the will of a God or established by the will of a hero from time immemorial. What belongs to this immemorial time, to the remote mythical past, cannot be doubted or questioned. This time is a holy, sacred time: every doubt would be a sacrilege. What has been since immemorial times is good, is justified, is holy; for there is no more sacred thing than the sacredness of age.] especially of social life. Primitive social life is by no means primitive in its structure. It is extremely complicated. Society is divided into different groups and subgroups every tribe contains several clans; and each of these clans has a definite place in social life, an unmistakable and unchangeable social function. All this calls for explanation. But man cannot98 find this explanation if he looks around himself and if he restricts himself within the narrow limits of his present life. It is not he who has created this social order. It has been ever since; it belongs to an immemorial time, to the remote mythical past. But it is just by this that it is holy and unquestionable. The mythical past is a sacred time; to doubt or question it would be a sacrilege. What has been from time immemorial is good, is justified, is holy in itself; for, for the feeling and the mind of primitive man, there is no more sacred thing than the sacredness of age. All this may perhaps appear to you a little difficult and a little far-fetched99 in a course on ancient philosophy. But as a matter of fact[,] I cannot hope to explain you the first steps of Greek philosophy and the fundamental value of these steps without a clear contradistinction of the new con-

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stato l’uomo stesso. L’ordine sociale non dipende dalla volontà umana, poiché esso le è infinitamente superiore. L’ordine sociale è stato creato dalla volontà di un dio o fondato da un eroe da tempo immemore. Ciò che appartiene a questo tempo immemore, a questo remoto passato mitico, non può essere posto in questione né messo in dubbio. Questo tempo è sacro e dubitarne sarebbe un sacrilegio. Ciò che è sempre stato da tempo immemore è buono, giustificato e sacro, giacché non vi è nulla di più sacro della sacralità di un’epoca], specialmente della vita sociale. La vita sociale primitiva non è in alcun modo primitiva nella sua struttura, piuttosto è alquanto complessa. La società è divisa in diversi gruppi e sotto-gruppi, ogni tribù contiene diversi clan e ognuno di essi ha un suo posto determinato nella vita sociale, una funzione sociale inequivocabile e immutabile. Tutto ciò richiede una spiegazione, ma l’uomo non può trovare questa spiegazione se guarda soltanto attorno a se stesso e se restringe se stesso entro i limiti della sua vita presente. Egli non ha creato questo ordine sociale. Quest’ultimo c’è sempre stato e appartiene a un tempo immemore, a un remoto passato mitico. Ed è proprio in ragione di ciò che esso è sacro e indiscutibile. Il passato mitico è un passato sacro, e porlo in questione o dubitarne sarebbe un sacrilegio. Ciò che è sempre stato da tempo immemore è buono, giustificato e sacro in se stesso, giacché per il sentimento e per la mente dell’uomo primitivo non vi è nulla di più sacro della sacralità di un’epoca. Tutto ciò potrà apparirvi alquanto difficile e un po’ inverosimile per un corso di filosofia antica, ma, di fatto, non posso pretendere di spiegarvi le prime tappe della filosofia greca e il loro valore fondamentale senza prima distinguere, in modo chiaro, i nuovi concetti introdot-

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cepts introduced by them from the earlier forms of mythical thought. We have seen that the terms100 used by the first Ionian thinkers are still very near to the mythical language. They too are inquiring into the first beginning the origin of things; they too go back to a fremote first cause. But this cause is understood in quite a different sense. First of all[,] it is no longer a superhuman power or a supernatural thing. It is an empirical thing, a thing of our common experience, it is water or air. Moreover[,] it is not a personal cause. And that means that it is not dependent on the incalculable whims of a demon, the caprice or fancy of a god, but that it possesses a definite, permanent and persisting nature. It is this moment of permanence and persistence on which we must lay the principal stress. If Thales declares water to be the ἀρχή, the beginning101[.] the stress. If Thales declares water to be the ἀρχή, the beginning of things – then he does not think of water as if it were belonging to a remote past. Water has been turned into new forms and shapes – but by all this it has not lost its fundamental character; it has preserved its nature, it has maintained its condition. Here we have that new concept that henceforeward will govern the whole development of philosophical thought: the concept of substance102. The first Greek thinkers: Thales, Anaximander, Anaximenes have not yet used the term103 “substance”; the Greek term for this concept – the term οὐσία or Being – has not been coined before the times of Plato and Aristotle. But the Ionian thinkers knew what “substance” is and what it means. They are the first creators of the concept of a “material substance” of a thing that remains constant and immutable notwithstanding the change of its qualities. What the Ionians call the beginning of things is not a mere beginning in time. It is the first

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ti dai primi filosofi greci dalle prime forme di pensiero mitico. Abbiamo visto che i termini utilizzati dai primi pensatori ionici sono ancora molto vicini al linguaggio mitico. Anch’essi cercano il primo principio, l’origine delle cose, e nel far ciò risalgono a una prima causa remota. Ma questa causa viene intesa in un modo alquanto differente. Prima di tutto, non vi è più alcun potere sovrumano o un qualcosa di sovrannaturale, ma piuttosto una cosa empirica, qualcosa che fa parte della nostra esperienza comune, come l’acqua o l’aria. Inoltre, non vi è più una causa personale e ciò significa che essa non dipende dagli incontrollabili capricci di un demone, dalla fantasia di un dio, ma possiede invece una natura determinata, permanente e persistente. È sul momento della permanenza e della persistenza che dobbiamo focalizzare la nostra attenzione. Se Talete afferma che l’acqua è l’ἀρχή, il principio delle cose, allora egli non pensa affatto all’acqua come appartenente a un remoto passato. L’acqua ha subìto nuove forme e fisionomie, ma ciononostante essa non ha perso il suo carattere fondamentale, ha preservato la sua natura e ha conservato la sua condizione. Qui ci troviamo al cospetto di un nuovo concetto che, da quel momento in poi, avrebbe governato l’intero sviluppo del pensiero filosofico: il concetto di sostanza. I primi pensatori greci – Talete, Anassimandro e Anassimene – non avevano ancora utilizzato il termine “sostanza”. Il termine greco per questo concetto – οὐσία o Essere – non apparve prima di Platone e Aristotele. Ma cionondimeno, i pensatori ionici sapevano bene cosa fosse la “sostanza” e cosa significasse. Essi furono i primi creatori del concetto di “sostanza materiale”, di una cosa che rimane costante e immutabile malgrado il mutamento delle sue qualità. Ciò che gli Ionici chiamano principio delle cose non è un mero inizio nel tempo.

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principle and the permanent ground of things. It does not fade away; it remains what it was, it keeps its invariable104 nature. In our voyage of discovery[,] we have reached here the first station. And this station is a very important one. For without the concept of substance, of a lasting, permanent, enduring something, that underlies all changes we should not have been able to build a physical science, a theory of nature. Let me illustrate this by a concrete example that, I hope, will show you very clearly the fundamental difference between that form of “explanation” that we find in mythical thought and that new form of scientific or physical explanation which first was introduced by the Ionian thinkers. I borrow this example from the excellent book of Prof. Malinowski “The Foundations of Faith and Morals” (Oxford 1936). Many of you will know the name of Prof. Malinowski who holds105 the chair of Anthropology at Yale University and who unfortunately died so suddenly a few months ago106. And some of you will perhaps be studied one of his works. There is perhaps no other problem that occupies the mind of the primitive man so consistently as the problem of the death of man. Death does not appear, from the point of view of the primitive mind, as an inevitable fact. It has not always been; it has been brought into the world107 by a fortuitous event, by a sort of accident. I will give you such a mythical explanation of death in full detail, in the words of Prof. Malinowski for I think the comparison with such a mythical story to be very illuminating for our present problem. It is a tale of the aborigines of the Trobriand Islands in Melanesia. This tale speaks of the original immortality of

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Esso è il primo principio e il fondamento permanente delle cose. Esso non si affievolisce, ma rimane ciò che è, mantiene la sua natura invariabile. Nel nostro viaggio di scoperta abbiamo raggiunto adesso la prima fermata. E questa fermata è veramente importante, giacché senza il concetto di sostanza, di un qualcosa di persistente, permamente, duraturo su cui poggiano tutti i mutamenti, non saremmo stati in grado di costruire una scienza fisica, una teoria della natura. Permettetemi di illustrare tutto ciò con un esempio concreto che, spero, possa mostrarvi in modo chiaro la differenza fondamentale tra la forma di “spiegazione” così come si trova nel pensiero mitico e quella nuova forma di spiegazione scientifica o fisica così come introdotta per la prima volta dai pensatori ionici. Prenderò in prestito questo esempio dall’eccellente libro del Prof. Malinowski I fondamenti della fede e della morale (Oxford 1936). Molti di voi conosceranno il nome del Prof. Malinowski, il quale ha tenuto la cattedra di Antropologia all’Università di Yale e che, purtroppo, è improvvisamente scomparso pochi mesi fa18. Tra voi, probabilmente, ci sarà anche chi ha studiato qualcuna delle sue opere. A ogni modo, non vi è nessun altro problema che occupa la mente dell’uomo primitivo in maniera così consistente come il problema della morte dell’uomo. La morte non appare, dal punto di vista della mente del primitivo, come un fatto inevitabile; non c’è sempre stata e ha tratto la sua origine da un evento fortuito, da una specie di incidente. Adesso vi fornirò dettagliatamene una spiegazione della morte con le parole del Prof. Malinowski, giacché penso che il paragone con una simile storia mitica sia alquanto illuminante per i nostri scopi. È il racconto degli aborigeni delle isole di Trobriand, in Melanesia. Questo racconto parla dell’originaria immortalità dell’uomo, della perdita di questa

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man, the loss of this immortality and its partial retention in the survival of death. Malinowski, loc. cit. p. 16f. I have dwelt on this little story – for, I think, it shows us in a palpable way the fundamental difference between a mythical and a theoretical explanation108. [If we only enquire into the truth of both stories, the story of the Trobriand109 Islands and the story of Thales, we should perhaps be inclined to deny or minimize the difference. If I tell the story of the Trobiand110 Islands to a modern scientist he will think it to be extremely silly; he will not hesitate to call it an offspring of our “Urdummheit”, of the primeval stupidity of man. But if I tell the same scientist that once upon a time there was a man who seriously upheld the thesis that all things have come from the water, and that this man is not only regarded as a philosopher but as the first founder of philosophy – will he not smile at philosophy in the same way as he smiled at myth? Will he not think this thesis to be a rather fairy tale than a scientific truth? But the difference does not lie in the subject-matter, but in the form of thought; not in the contents but in the mode of thinking]. The relation between “cause” and “effect” is just the opposite in Ionian thought as it was in mythical thought. In mythical thought, what is called the cause is quite a fortuitous, adventitious, insignificant thing: the failure of a young woman to recognize her grandmother111. But the effect112 is fatal and formidable, the loss of the highest goods of man, the loss of immortality. The cause has long passed away, it is an event of the mythical past – the effect persists and can never be amended. In the case of the Ionians[,] it is quite the reverse: the “cause” persists; it is fundamental, it is the primary substance; the effects are changing and manifold. And it is this circumstance that makes all the difference – that introduces a new era –

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immortalità e della sua parziale conservazione nel sopravvivere alla morte. Malinowski, loc. cit., pp. 16 s.19. Mi sono soffermato su questa storia poiché penso che ci mostri in modo tangibile la fondamentale differenza tra una spiegazione mitica e una spiegazione teoretica. [Solo indagando la verità di entrambe le storie – la storia delle isole di Trobriand e quella di Talete – potremmo pendere per una negazione o minimizzazione della differenza. Se raccontassi la storia delle isole di Trobriand e la storia di Talete a uno scienziato moderno, egli le considererebbe piuttosto ridicole; non esiterebbe a definirle come il frutto della Urdummheit, della primordiale stupidità umana. Ma se allo stesso scienziato dicessi che un tempo ci fu un filosofo che sostenne seriamente questa tesi secondo cui tutte le cose derivano dall’acqua e che quest’uomo non era soltanto un filosofo ma il primo fondatore della filosofia, allora non riderebbe egli sia della filosofia che del mito? Non riterrebbe questa tesi un racconto fantastico piuttosto che una verità scientifica? Ma la differenza non sussiste soltanto nel tema trattato, ma nella forma di pensiero, non nei suoi contenuti ma nel modo di pensare]. La relazione tra “causa” ed “effetto” presente nel pensiero ionico è diametralmente opposta a quella presente nel pensiero mitico. Nel pensiero mitico, ciò che viene definito causa è qualcosa di fortuito, avventizio, insignificante: il fallimento di una giovane donna nel riconoscere sua nonna. Ma l’effetto è fatale e formidabile, ovvero la perdita del più grande dei beni umani, la perdita dell’immortalità. La causa è scomparsa da tempo, è un evento del passato mitico, l’effetto invece persiste e non può essere modificato. Nel caso degli Ionici, la situazione è esattamente l’opposta; gli effetti sono mutevoli e molteplici. È proprio questa circostanza che fa la differenza, poiché introduce una nuova era, l’era del

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the era of theoretical thought113. [Let us examine the same problem in the case of the second of the Ionian thinkers – in the case of Anaximander. One of the most characteristic features of mythical thought is that it is not bound to any fixed law of change. One of the most important device of scientific thought is the maxim expressed in the words of Lucretius: Ex nihilo nihil fit.] Before leaving the thought of Thales I must still mention another point. We have a fragment of Thales – transmitted by Aristotle – in which he says that “all is full of Gods”. That seems to be not at all surprising; in a certain sense it is a commonplace-saying. But it must very much surprise us to find this saying in the theory of Thales. For what Thales says here is a typical statement of mythical thought. It is myth which tells us that gods or demons are present in everything. There is no tree which is not the dwelling-place of a spirit, of the elf of the tree – there is no brook and no river that is not inhabitated by a nymph or a nix. But how could Thales, how could a man who strived for a physical theory, say such a thing? Obviously[,] we have to understand and to interpret it in a different sense as in common mythical thought. And it is easy to find the right interpretation if we take into consideration a special feature that is characteristic for all these first Ionian thinkers. These thinkers are in a sense the first discoverers of our scientific concept of “Matter”. But by this they have become by no means what we nowadays call “Materialists”. They do not think that matter is a dead thing, a mere inert stuff, that has no motion of its own, but that must be moved from without, by an external power. This discrimination between power and stuff is perfectly strange

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pensiero teoretico. [Esaminiamo lo stesso problema nel caso del secondo pensatore ionico, ossia Anassimandro. Uno degli aspetti più caratteristici del pensiero mitico è che esso non è legato ad alcuna legge fissa del cambiamento. Uno dei più importanti strumenti del pensiero scientifico risiede nella massima espressa dalle parole di Lucrezio: Ex nihilo nihil fit]. Prima di lasciare il pensiero di Talete devo ancora menzionare un altro punto. Noi possediamo alcuni frammenti – trasmessi da Aristotele – nei quali Talete dice che “tutto è pieno di dèi”. Ciò non sembra per nulla sorprendente, in un certo senso è un luogo comune. Ma ci sorprende molto il fatto di trovare questo detto proprio nella teoria di Talete. Ciò che Talete afferma corrisponde, in effetti, a un asserto tipico del pensiero mitico. È proprio il mito a dirci che gli dèi e i demoni sono presenti in ogni cosa. Non vi è alcun albero che non sia una dimora di uno spirito, di un elfo; non vi è alcun ruscello e alcun fiume che non siano abitati da una ninfa o da uno spirito dell’acqua (Nix)20. Ma come poteva Talete, un uomo che aspirava a una teoria fisica, affermare qualcosa del genere? Ovviamente, dobbiamo comprendere e interpretare le sue affermazioni in un senso diverso rispetto a quello comune nel pensiero mitico. È facile trovare la giusta interpretazione, se prendiamo in considerazione un aspetto particolare che si rivela caratteristico di tutti questi primi pensatori ionici. Questi pensatori, infatti, sono in un certo senso i primi scopritori del nostro concetto scientifico di “materia”. Ma con ciò non bisogna associarli a quelli che noi adesso chiamiamo “materialisti”. Loro non pensavano che la materia fosse una cosa morta, un mero materiale inerme, senza movimento e da mettere in moto dall’esterno, grazie a una forza esterna. La distinzione tra potere e materia è

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to the mind of these philosophers. All matter is [a] moving matter – and that means living matter. It is full of power – and that means, if we express it in a metaphorical sense, it is full of Gods. This conception of the first Ionian philosophers is usually called Hylozoism114 – in contradistinction and contrast to Materialism. Hylozoism means that matter - ὕλη – is not a dead, inert thing, – but that it is provided with original internal powers – that it is moving and living. The magnet is alive – said Thales – for it has the power of moving iron. We meet with the same problem when examining the thesis of the second Ionian thinker – the thesis of Anaximander. It is not quite easy to grasp the real sense of this thesis, for Anaximander uses much more abstract language than Thales or Anaximenes. He does not speak of a concrete stuff, of water or air, as the origin of things. He introduces a new name for this origin: he calls it the “Apeiron”. But that is a rather ambiguous term about which was much disputed115 among the historians of Greek philosophy. Literally translated the Apeiron would mean the Boundless or Infinite116. But it is not only boundless in a special sense so that it has no definite limit in space. It is also boundless in a quantitative sense – it has no special, finite, determined qualities117. It is, so to speak, before and beyond all special qualities as we meet them in water or air. It is neither dry nor humid, neither cold or warm, but it is that fundamental thing from which all these special qualities and properties evolve. This boundless undifferentiated principle is the origin of all the particular things and [of] all the special qualities. But what is still more important to us is another thought of Anaximander. It is the thought that this evolution from the general

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del tutto estranea alla mente di questi pensatori. Tutta la materia è materia in movimento – e ciò significa materia vivente. Essa è gravida di forza e ciò significa, per dirla in modo metaforico, che è piena di dèi. Questa concezione dei primi filosofi ionici viene di solito definita ilozoismo e quindi in netto contrasto con il materialismo. L’ilozoismo implica che la materia – ὕλη – non sia una cosa morta e inerte, ma che sia invece provvista di forze interne originarie che sono in movimento e viventi. Il magnete è vivo, disse Talete, giacché ha il potere di muovere il ferro. Ci imbattiamo nello stesso problema nella disamina della tesi del secondo pensatore ionico, Anassimandro. Non è facile cogliere il senso della sua tesi, giacché Anassimandro utilizza un linguaggio molto più astratto rispetto a Talete e Anassimene. Egli non parla di una materia concreta, di acqua o di aria intese come origine delle cose. Per tale origine, Anassimandro introduce un nuovo nome: apeiron. Ma questo termine è piuttosto ambiguo e ha generato molte dispute tra gli storici della filosofia greca. Tradotto letteralmente, apeiron vuol dire illimitato o infinito. Ma esso non è illimitato in un senso particolare, ossia che non ha limiti nello spazio. È illimitato anche in un senso quantitativo, giacché non ha qualità particolari, definite e determinate. Si trova, per così dire, prima e oltre tutte le qualità particolari che incontriamo nell’acqua o nell’aria. Non è né secco né umido, né freddo né caldo, ma è piuttosto quella cosa fondamentale dalla quale si evolvono tutte queste qualità e proprietà particolari. Questo principio indifferenziato e illimitato costituisce l’origine di tutte le cose particolari e di tutte le qualità particolari. Ma ciò che per noi risulta ancora più importante è un altro pensiero di Anassimandro. È il pensiero secondo cui questa evoluzione da

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cause and the general substantial background takes place in a definite order118 – an order that is determined by definite and inviolable rules. The concept of such inalterable and inviolable rules is perfectly strange to mythical thought. If you look at mythical thought you find quite the contrary. We may express our own concept of nature and natural laws by the words of Lucretius “Ex nihilo nihil fit, in nil nil posse reverti” – nothing comes from nothing, nothing can be turned into nothing. Mythical thought follows the opposite maxim: we may express it by saying [that] everything may come from everything[;] everything may be turned into everything. You will remember many of these mythical transmutations from your reading of the Ovidian metamorphoses: Niobe is turned into a stone, Daphne is turned into a laurel, Actaeon is turned into a cerf. All this is declared to be null and void in Milesian thought and especially in the thought of Anaximander. Nature – he says – has a regular order; and all particular events have their definite place in this order. I must give you the thought of Anaximander in his own words. The text, that is transmitted to us by Theophrastus, the disciple of Aristotle. It seems to be rather obscure at first sight, especially if we have to translate it into modern language. «Into that from which things take their rise they pass away once more – for they make reparation and satisfaction to one another for their injustice according to the ordering of time» (Burnet119 p. 52). Theophrastus adds that these are “somewhat poetical terms” – and to be sure he is right in this judgement. Anaximander cannot express his thought except by a metaphysical circumlocution – a poetical periphrase. But the thought itself seems to be perfectly clear. There is one order of nature that

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una causa generale, da un retroterra sostanziale generale, ha luogo in base a un ordine definito, un ordine che è determinato da regole precise e inviolabili. Il concetto di regole inalterabili e inviolabili è del tutto estraneo al pensiero mitico. Se volgete il vostro sguardo al pensiero mitico, allora troverete l’esatto opposto. Possiamo esprimere il nostro concetto di natura e delle leggi naturali con le parole di Lucrezio: “Ex nihilo nihil fit, in nil nil posse reverti” (Nulla viene dal nulla, e nulla può essere trasformato in nulla). Il pensiero mitico segue invece la massima opposta. Possiamo esprimerla dicendo che tutto può provenire da tutto, e tutto può essere trasformato in tutto. Ricorderete molte di queste trasmutazioni dalla vostra lettura delle Metamorfosi di Ovidio: Niobe viene trasformata in pietra, Dafne in alloro, Atteone in cervo. Tutto ciò viene considerato come insignificante e vuoto dai pensatori di Mileto e soprattutto da Anassimandro. La natura, egli dice, ha un ordine regolare e tutti gli eventi particolari hanno il loro luogo ben definito all’interno di questo ordine. Vi fornirò il suo pensiero con le sue stesse parole. Il testo, che ci è stato trasmesso da Teofrasto – discepolo di Aristotele – a prima vista potrà sembrare decisamente oscuro, specie se cerchiamo di tradurlo nel linguaggio moderno: «principio degli esseri è l’infinito… da dove infatti gli esseri hanno origine, ivi hanno anche la distruzione secondo necessità: poiché essi pagano l’uno all’altro la pena e l’espiazione dell’ingiustizia secondo l’ordine del tempo»21. Teofrasto aggiunge che questi sono “in qualche modo termini poetici” e sicuramente il suo giudizio è corretto. Anassimandro non può esprimere il suo pensiero se non con una circonlocuzione metafisica, con una perifrasi poetica. Ma il pensiero stesso sembra essere perfettamente chiaro. Vi è un ordine della natura che contiene

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contains all things and embraces all events. This order is described here as the order of time. For everything in the world there is granted a definite time of its existence. It cannot transgress its time; it cannot120 overpass the temporal limits that are conceded to it. For in this case[,] it would trepass on the rights of others; it would make an unwarrantable claim; it would do an injustice. The single things have to make reparation and satisfaction to one another – one has to die and to pass away that the other may live. Only the ἄπειρον, the boundless origin and background, lasts an infinite time; the time of all the particular things is limited. That is the eternal, the metaphysical and ethical order of things. Once again[,] we find here an interpretation of that fundamental phenomenon which of all the things in the world is for man the most perplexing and alarming one. But Greek philosophy is no longer panic-stricken by this phenomenon. It begins to see it in a new light; it begins to conceive its necessity and inevitability. Man needs no longer to fear death: he has to understand that death is the natural fate of all finite things; that one finite thing has to vanish in order to make room for another. It is only by this that the ἄπειρον, the Boundless, the real substance and foundation of things can live. That is no longer a mythical but a truly philosophical interpretation of death[,] that is of quite a different and much more profound type than any mythical explanation121.

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tutte le cose e che abbraccia ogni evento. Questo ordine viene descritto come l’ordine del tempo, poiché a ogni cosa nel mondo viene garantito un tempo determinato per la sua esistenza. Non si può trasgredire questo tempo e non si possono sorpassare i limiti temporali che ci vengono concessi. Altrimenti si dovrebbero violare i diritti degli altri e ciò sarebbe una richiesta inammissibile, un’ingiustizia. Le singole cose devono risarcirsi a vicenda e soddisfarsi a vicenda, giacché una perisce mentre l’altra resta in vita. Solamente l’ἄπειρον, l’origine e retroterra illimitato, dura un tempo infinito, mentre il tempo di tutte le cose particolari è limitato. Questo è l’ordine eterno, metafisico ed etico delle cose. Ancora una volta, troviamo qui quel fenomeno fondamentale che, tra tutte le cose nel mondo, si rivela per l’uomo il più allarmante e misterioso. Ma la filosofia greca non è più in preda al panico per via di questo fenomeno. Essa inizia a vederlo in una nuova luce, inizia a concepirne la necessità e inevitabilità. L’uomo non ha più bisogno di temere la morte, egli deve comprendere che quest’ultima costituisce il destino naturale di tutte le cose finite; che una cosa finita deve necessariamente svanire per far posto a un’altra. Soltanto così l’ἄπειρον, l’illimitato, la sostanza e il fondamento reale delle cose può vivere. Questa non è più un’interpretazione mitica, ma piuttosto un’interpretazione genuinamente filosofica della morte e quindi di tipo decisamente diverso e molto più profondo di qualsiasi spiegazione mitica.

chapter ii

HERAKLEITOS OF HEPHESOS122 Before entering into a description of the philosophy of H[erakleitos] I must say a few words about the sources, from which we draw our knowledge about H[erakelitos] and all the other Pre-Socratic thinkers. What is the state of these123 sources – in which way are the concepts and theories of the Presocratic thinkers transmitted to us? To give an answer to this question by one word, I must tell you that our sources to express it quite clearly and frankly are in a deplorable state. All the great Pre-Socratic thinkers have written books on their theories – and sometimes, as it seems, rather big books. But what do we possess of these books? We possess only a few fragments – and in most cases we do not know the order of these fragments – we do not know how they were linked together in the books themselves and in the mind of their authors. That is really a desperate state of affairs. To give you an idea of this state let me use a little example. Let us assume that a man should take the Ethics of Spinoza, Kant’s Critique of pure reason, Locke’s Essay concerning human understanding. Let us assume that he should destroy these books and leaves us only a few pages. But then he may continue in the same way; he may tear into pieces these single leafs and mix them up and throw them into confusion. What would we have, in this case, of the works of Spinoza, Locke and Kant and of the thought of these philosophers? But it is just this unfortunate situation that we have to confront when speaking about Pre-Socratic philosophy. The most important things are lost – and what has been left is often given to us in a hopeless disorder, in a medley. What we have here is

cap. ii

ERACLITO DI EFESO Prima di addentrarci in una disamina della filosofia di Eraclito, devo spendere alcune parole sulle fonti dalle quali abbiamo tratto la nostra conoscenza di Eraclito e di tutti gli altri pensatori presocratici. Qual è lo stato di queste fonti? In che modo sono pervenuti a noi i concetti e le teorie dei pensatori presocratici? Nel rispondere a queste domande posso solo dirvi, con chiarezza e con franchezza, che queste fonti si trovano in uno stato deplorevole. Tutti i grandi pensatori presocratici hanno scritto libri sulle loro teorie e, in alcuni casi, libri piuttosto ponderosi. Ma cosa possediamo di questi libri? Di essi possediamo soltanto alcuni frammenti e nella maggior parte dei casi non ne conosciamo nemmeno l’ordine; inoltre, non sappiamo come questi frammenti fossero disposti insieme nei libri e nelle stesse menti dei loro autori. Questa è una situazione davvero disperata. Per darvene un’idea permettetemi di fare un piccolo esempio. Supponiamo che qualcuno prenda l’Etica di Spinoza, la Critica della ragion pura di Kant e il Saggio sull’intelletto umano di Locke. Supponiamo che costui distrugga queste opere lasciandoci solamente alcune pagine. Ma allora potrebbe continuare oltre nello stesso modo; potrebbe fare a pezzi ogni singola pagina, mischiarne i frammenti e gettarli alla rinfusa. In questo caso, cosa ci rimarrebbe delle opere di Spinoza, Locke e Kant e del pensiero di questi filosofi? Sfortunatamente, è questa la situazione con la quale ci dobbiamo confrontare allorquando parliamo di filosofia presocratica. Le cose più importanti sono andate perdute e ciò che ci è rimasto si trova in un disperato stato di disordine, in un miscuglio. Ciò che ci

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really – to use the words of Horace – disiecti membra poetae124 – the scattered remains of philosophers. We can never hope to amend this state of affairs – we shall never read the books of these first thinkers in the way in which they could be read in ancient times, by Plato, by Aristotle and Theophrastus. The only thing that can console us in this situation is that we probably never will know the whole extent of our loss – if we could divine it we should feel so much the more sorry for this irreparable damage. This situation becomes so much the more difficult if we have to speak about an author like Herakleitos. For the book of Herakleitos never was an easy book to read. It has perplexed and embarrassed its readers from the very beginning – even when they were in possession of the whole book. And it seems as if Herakleitos himself deliberately contributed to this perplexity125. He writes a very obscure and very ambiguous style. Rather early Herakleitos got the name: the σκοτεινός – that means the Dark126. [He wrote in a style very near to the style of the oracle of Delphi. You know the stories that are told about the Delphic127 oracles and its prophecies. When Kroisos[,] the king of Lydia[,] had the intention to attack the Persian empire he consulted the oracle about the success of this enterprise. If Kroisos crosses the Hales – he was told – that means the river which separated the Lydian empire from the Persian empire, he will destroy a great empire. Trusting this words Kroisos attacked Persia; he lost the battle[;] he had destroyed a great empire – but this empire was his own. Herakleitos purposely128 imitates this ambiguous style. He does not wish to express his thoughts in a clear and unquestionable way – he prefers a metaphorical or symbolic way. In one of his fragments[,] he compares himself with Apollo, the Delphic God, who speaks in riddles, in

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rimane non sono altro che – per dirla con le parole di Orazio – disiecti membra poetae – le membra sparse dei filosofi22. Non riusciremo mai a migliorare questa situazione, non potremo mai leggere i libri di questi primi pensatori nello stesso modo in cui, ai tempi, li poterono leggere Platone, Aristotele e Teofrasto. L’unica cosa che ci consola, in questa situazione, è che probabilmente non conosceremo mai l’intero contenuto della nostra perdita e se potessimo scoprirlo ci sentiremmo molto più dispiaciuti per questo irreparabile danno. Questa situazione si fa ancora più difficile allorquando parliamo di un autore come Eraclito. Il libro di Eraclito non è mai stato semplice da leggere. Ha confuso e imbarazzato i suoi lettori sin dagli inizi, anche quando costoro si trovavano in possesso dell’intero libro. Pare anche che Eraclito stesso contribuì deliberatamente a tali perplessità. Egli scrisse con uno stile ambiguo e oscuro. Abbastanza presto Eraclito venne definito appunto σκοτεινός, che significa l’Oscuro. [Eraclito scriveva in uno stile molto affine a quello dell’oracolo di Delfi. Voi conoscete le storie che si raccontano sull’oracolo di Delfi e sulle sue profezie. Quando Creso, il re di Lidia, ebbe l’intenzione di attaccare l’impero persiano, consultò l’oracolo sull’eventuale successo dell’impresa. Gli fu detto che se fosse riuscito a superare il fiume Halys – che separava l’impero di Lidia da quello persiano – avrebbe distrutto un grande impero. Credendo a tali parole Creso attaccò la Persia, perse la battaglia: distrusse un grande impero, ma questo impero non era altro che il suo. Eraclito imita deliberatamente questo stile ambiguo. Egli non intendeva esprimere i suoi concetti in modo chiaro e inequivocabile, ma piuttosto in modo simbolico e metaforico. In uno dei suoi frammenti paragona se stesso ad Apollo, dio delfico, che si esprime per enigmi e con

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enigmatic and cryptic words. He wishes to intimate, not to explain. «The lord whose is the oracle at Delphi – says Herakleitos – neither utters nor hides his meaning – but shows it by a sign (fr. 11,12129)»]. Herakleitos speaks by signs, by symbols – and we have to decipher these signs, we have to interpret these symbols and hieroglyphs. I perfectly admit that this [is] a very difficult task. But we are bound to give such an interpretation if we wish to understand the text and the thought of Herakleitos. And I am bold enough to say that, after all, the problem is not insoluble. For to my mind Herakleitos[,] although being a very obscure writer[,] is not only a profound but also a clear and consistent thinker. I hope I can convince you of this fact by arranging his thoughts in a special order. This order is not the same as we find it in our editions of Herakleitos. All these editions give us the fragments as a mere chaos. I wish to bring a certain order in this chaos; I wish to give you a clue of Ariadne that can led you through this labyrinth of thought. I hope that I shall be able to show you the inner connexion of all the thoughts of Herakleitos – that connexion that makes the real merit of a philosopher. I do not pretend here to give you the single thoughts in that order in which they were contained in the book of Herakleitos himself. There have been made various and many interesting attempts to reconstruct this order; from the side of classical scholars and from the side of historians of ancient philosophy. But the task seems to be hopeless; it has been given up by the best authorities. What I wish to give here is a systematic reconstruction of the thoughts of Herakleitos. For this we need not to enter into a learned discussion of special problems – we have only to study carefully the text of Herakleitos himself and look for an inner unity in all these single and disposed fragments of thought.

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parole oscure, criptiche ed enigmatiche. Preferiva lasciar sottintendere, ma non spiegare: «Il signore, di cui è l’oracolo  che si trova a  Delfi, non dice né nasconde, ma allude» (fr. 11,12)23]. Eraclito parla per segni e simboli e noi siamo costretti a decifrare questi segni, dobbiamo interpretare questi simboli e geroglifi. Ammetto con franchezza che è un compito molto difficile. Ma siamo costretti a fornire una tale interpretazione, se desideriamo comprendere il testo e il pensiero di Eraclito. E sono anche un po’ sfacciato nell’ammettere che il problema, dopo tutto, non è insolubile. A mio modo di vedere, Eraclito sarà stato pure uno scrittore profondo e decisamente oscuro, ma fu anche un pensatore chiaro e consistente. Spero di convincervi di questo fatto organizzando i suoi pensieri in un ordine particolare. Questo ordine non è lo stesso che troviamo nelle varie edizioni degli scritti di Eraclito. Tutte queste edizioni ci danno solamente frammenti sparsi in maniera caotica. Io desidero invece riportare un certo ordine in questo caos; intendo fornirvi un filo d’Arianna in grado di guidarvi attraverso questo labirinto di pensiero. Spero di essere in grado di fornirvi l’intima connessione di tutti i pensieri di Eraclito, una connessione che costituisce l’autentico pregio di un filosofo. Non ho la pretesa di fornirvi i singoli pensieri nello stesso ordine in cui erano disposti nel libro dello stesso Eraclito. Sono già stati fatti vari e interessanti tentativi di ricostruzione di questo ordine; sia da parte degli studiosi classici, sia da parte degli storici della filosofia antica. Ciò che intendo fornirvi è una ricostruzione sistematica dei pensieri di Eraclito. A tal scopo non è necessario perdersi in una dotta discussione di problemi particolari; è sufficiente studiare accuratamente il testo di Eraclito stesso e osservare l’intima unità presente in tutti questi singoli e sparsi frammenti di pensiero.

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It is obvious that Herakleitos knows the Milesian thinkers – and sometimes he seems to quote some of their thought. But he does not think himself to be a pupil or follower of these first philosophers. He is perfectly convinced that he has opened a perfectly new way of thought that hitherto was inaccessible130. He always speaks with the greatest pride and with the greatest self consciousness of this new way. I have already mentioned the attacks of Herakleitos addressed against Homer and the Homeric poems. But he speaks in the same tone of the most famous names of Greece. He thinks that all of them have missed the point. And what was the cause of this failure? The answer that Herakleitos gives to this question is very characteristic. Till now he tells us men only possessed a πολυμάθεια, but not a philosophy. πολυμάθεια – that means what in English we can express by the word poly-history. According to Herakleitos all his predecessors have been polyhistors, but they were not philosophers. They did possess a special knowledge of many and various things. They were mathematicians like Pythagoras – they were physicists like Thales or Anaximenes – they were historians like Hekataios. But all this is not philosophy. The philosopher is not the man who is engaged in speculations about a special thing or special problem – he does not[,] like the mathematician[,] inquire into the nature and the relations of number; he does not[,] like the physicist[,] inquire into the causes of physical events; he is not, like the historian, interested in past events and the causes of these events. The knowledge of all this can never make us reasonable. By such a knowledge we become acquainted with the facts of nature and the facts of history – but we are not able to understand the facts, we cannot give a sound judgement about them.

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È ovvio che Eraclito conosceva i pensatori di Mileto e qualche volta sembra citare alcuni dei loro pensieri. Ma non considerava se stesso un allievo o seguace di questi primi filosofi. Egli è del tutto convinto di aver aperto un nuovo percorso di pensiero, che fino a quel momento era rimasto inaccessibile. Di questo nuovo percorso parla sempre col più grande orgoglio e con la più grande autoconsapevolezza. Ho già menzionato gli attacchi che Eraclito diresse contro Omero e i suoi poemi. Ma parla con lo stesso tono di tutti gli autori più famosi della Grecia. Secondo Eraclito tutti questi autori non hanno colto il punto fondamentale. Quale fu la causa di questo fallimento? La risposta fornita da Eraclito è piuttosto caratteristica. Ci dice che fino adesso gli uomini hanno posseduto soltanto una πολυμάθεια, ma non una filosofia. Il termine πολυμάθεια significa ciò che in inglese possiamo esprimere con la parola poly-history, polistoria. Secondo Eraclito, tutti i suoi predecessori sono stati dei polistorici ma non dei filosofi. Essi possedevano una conoscenza particolare di tante e varie cose. Erano matematici come Pitagora, fisici come Talete o Anassimene, storici come Ecateo di Mileto; ma tutto ciò non è filosofia. Il filosofo non è un uomo impegnato in speculazioni su una cosa particolare o un problema particolare; egli non indaga, come fa un matematico, la natura e le relazioni del numero; egli non indaga, come fa un fisico, le cause degli eventi fisici; egli non è interessato, come lo storico, agli eventi del passato e alle cause di questi eventi. La conoscenza di tutto ciò non può mai soddisfarci. Con una conoscenza del genere ci troviamo a nostro agio con i fatti della natura e con i fatti della storia, ma con ciò non siamo in grado di comprendere i fatti, non possiamo fornire un solido giudizio su di essi. Eraclito rigetta tutto ciò che è

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Herakleitos rejects all that had been taught by the former philosophers, by former scientists and former poets. He attacks Hesiod in the same way as he attacks Homer – Hesiod who had given to the Greeks the genealogy of the Gods, who had written the story and the origins of the Gods in his Teogony. Herakleitos speaks of Hesiod as the polymath, the polyhistor whom most men follow as their master, he speaks of Hecataeus, the historian and geographer, with very little esteem. Nevertheless, Hecataeus was by no means an insignificant thinker; a mere annalist; a collector of single historical fatcs. He begins his four books131 of Genalogies by words that have become famous in the history of human civilization. «Thus speaketh Hecataeus of Miletos. I have written everything down as it appeared to me to be true; for manifold and laughable are the sayings of the Hellenes as they seem to me». Hekataios is therefore not at all a mere polyhistor, he is, on the contrary, the first critical historian. But all this is rejected by Herakleitos and replaced by a new ideal. Pythagoras he says in the 17th fragment (Burnet p. 134) [«]practised scientific inquiry beyond all other men, and making a selection of these writings, claimed for his own wisdom what was but a knowledge of many things and an imposture[»]. [«]For the learning of many things – polymathy and polyhistory – teacheth not understanding; else would it [have] taught Hesiod and Pythagoras, and again Xenophanes and Hekataios (fr. 16)[»]. But if philosophy is not a knowledge or science of many things – of number, matter, history – what is it? The answer of Herakleitos to this question is perfectly clear. It is the knowledge of One132 thing – of that only thing, that is necessary and indispensable for man, of the thing that we call by the name of “Wisdom”133. To attain wisdom not to learn Mathematics, Physics, History is the aim of philosophy.

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stato insegnato dai primi filosofi, dai primi scienziati e dai primi poeti. Attacca Esiodo allo stesso modo in cui attaccò Omero. Esiodo è colui che ha fornito ai Greci la genealogia degli dèi, colui che ha scritto la storia e le origini degli dèi nella sua Teogonia. Eraclito parla di Esiodo come di un eclettico, che la maggior parte degli uomini segue come un maestro; parla di Ecateo, lo storico e geografo, con pochissima stima. Cionondimeno, Ecateo non era affatto un pensatore insignificante, un mero annalista, un collezionista di singoli fatti storici. Egli inizia i suoi quattro libri delle Genealogie con delle parole oramai diventate celebri nella storia della civiltà umana: «Ecateo di Mileto espone questi fatti. Scrivo gli avvenimenti come mi sembrano veri. Infatti, a mio giudizio, i racconti dei Greci sono molti e assurdi»24. Ecateo, tuttavia, non è semplicemente un eclettico, al contrario è il primo critico storico. Ma tutto ciò viene rigettato da Eraclito e rimpiazzato da un nuovo ideale. Pitagora – come Eraclito ci dice nel frammento 17 (Burnet p. 134) – «coltivò la ricerca più di tutti gli altri uomini, e da questi scritti trascegliendo formò la propria sapienza: vasta erudizione, mala arte»25. E nel frammento 16 afferma che «la vasta erudizione non insegna ad avere acutezza d’intelletto: in tal caso avrebbe insegnato questo a Esiodo e a Pitagora e ancora a Senofane e a Ecateo»26. Ma se la filosofia non è conoscenza o scienza di molte cose – come del numero, della materia e della storia – allora che cosa è? La risposta di Eraclito a questa domanda è abbastanza chiara. La filosofia è la conoscenza di una cosa, di quella sola cosa che è necessaria e indispensabile per gli uomini, della cosa che noi chiamiamo “saggezza”. L’autentico compito della filosofia consiste nel raggiungere la saggezza, non nell’imparare la ma-

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Wisdom is not a conglomerate, an assemblage of scattered facts. It is an organic whole; it means to understand these facts; to bring them into an intellectual order and intellectual unity. This unification and systematization is[,] according to Herakleitos, the real scope of philosophy – and it is only philosophy that can fulfil this task. We shall meet with such analytical thinkers if we pass from the thought of Herakleitos to the thought of his great opponent and adversary – to the thought of Parmenides of Elea. Parmenides and his pupil, Zeno of Elea – they are analysing logical concepts and they try to determine, in a clear and sharp way, the meaning of logical terms. Herakleitos follows quite a different way and a different method. We may call him an “intuitive” thinker, instead of an analytical thinker, a synthetic or, to put it even more clearly, a synoptic thinker. He does not wish to divide the things or the concepts of things into their elements. He strives to unite all special views of things134 into one, great, fundamental intuition – to “lock them together” as it is called in a characteristic Greek term, that later on was used by Plato. Not to divide but to unify; not to separate, but to harmonize; not to classify, but to organize is the great scope of philosophy. Herakleitos was convinced that he was the first who had succeeded in this attempt. What he tries to teach us is the inner harmony of things. Most men are content with outer, superficial[,] and accidental harmonies as they can be given to us in sense-experience. They are able to understand the harmonies, the proportions of number, they can enjoy music, they are sensitive to the harmony of sounds. But by all this they miss the real, the fundamental

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tematica, la fisica o la storia. La filosofia non è un conglomerato, un assemblaggio di fatti sparpagliati. Essa è piuttosto un tutto organico; significa comprendere questi fatti e uniformarli a un ordine intellettuale e a un’unità intellettuale. Questa unificazione e sistematizzazione, secondo Eraclito, costituisce il vero scopo della filosofia ed è la filosofia soltanto che può adempiere a questo compito. Eraclito non è un pensatore analitico, un logico o un dialettico. Incontreremo un simile pensatore analitico quando passeremo dal pensiero di Eraclito a quello del suo grande oppositore e avversario: Parmenide di Elea. Difatti Parmenide, assieme al suo allievo Zenone di Elea, analizzano concetti logici e cercano anche di determinare, in modo chiaro e preciso, il significato dei termini logici. Eraclito segue una via differente, come anche un metodo diverso. Possiamo definire Eraclito un pensatore “intuitivo”, piuttosto che analitico e sintetico o, per dirla più chiaramente, un pensatore sinottico. Egli non intende dividere le cose o i concetti delle cose nei loro elementi. Egli si impegna a unire tutte le concezioni particolari delle cose in un’unica, grande e fondamentale intuizione – le “chiude insieme”, per dirla con un caratteristico termine greco, che in seguito venne utilizzato da Platone. Non dividere, ma unificare; non separare, ma armonizzare; non classificare, ma organizzare – è il grande scopo della filosofia. Eraclito era convinto che fosse stato lui il primo a riuscire in questo tentativo. Ciò che cerca di insegnarci è l’intima armonia delle cose. La maggior parte degli uomini si accontenta delle armonie esteriori, superficiali e accidentali, che ci vengono fornite dalla esperienza sensibile. Essi sono in grado di comprendere le armonie e le proporzioni del numero, possono godere della musica, sono sensibili alle armonie dei suoni; ma con tutto ciò non colgono in alcun modo la

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harmony, which is not visible at the surface of things. In order to become aware of this harmony we must cease to take the things at their face-value. We must immerse deeper, we must feel and understand what Herakleitos calls the invisible, the hidden harmony of things. For nature is not an aobvious thing135, accessible to everyone. «Nature loves to hide»136 – says Herakleitos (fragment 10). «The hidden attunement [–] says H[erakleitos] fragment 47 – is better than the open» – But as yet this invisible harmony, this “hidden attunement” was not heard by any philosopher[,] by any poet. «Of all whose discourse I have heard – says Herakleitos in the 18th fragment – there is no one who attains to understanding that wisdom is apart from all». But here arises a new difficult problem. For a philosopher it is not enough to assure us that there is a fundamental harmony of things. He must show us a way to comprehend this harmony – he must teach us a method by which we can become aware of it. If this harmony is hidden or invisible, it is clear that we can never hope to find it by following the usual way of our sense-experience. Herakleitos had no longer that implicit faith in the truth of our sense-experience that we find in Thales or Anaximenes. He is perhaps the first to introduce a new branch of philosophical knowledge; he gives us a criticism of the senses. This criticism is not the same as we shall find it in later Greek thinkers – for instance in Parmenides and Plato are arguing upon the principle that there is a double world: a sensible world and a supra-sensible world, a world of phenomena and a world of noumena – and that truth is only to be found in the second world: in the supra-sensible, the noumenal sphere. But Herakleitos does

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reale e fondamentale armonia, che non è di certo visibile alla superficie delle cose. Per diventare consapevoli di questa armonia dobbiamo cessare di prendere le cose per quello che sono. Dobbiamo andare più a fondo; dobbiamo sentire e comprendere ciò che Eraclito chiama l’armonia invisibile, nascosta, delle cose. D’altra parte, la natura non è qualcosa di accessibile a tutti: «La natura ama nascondersi»27, afferma Eraclito nel frammento 10. Nel frammento 47 afferma che «l’armonia invisibile è superiore alla visibile»28, anche se questa “armonia invisibile” non era stata ascoltata da nessun filosofo, scienziato o poeta. Nel frammento 18 Eraclito dice che «di tutti coloro dei quali udii i discorsi, nessuno è arrivato a comprendere che la sapienza è una cosa distinta da tutte le altre»29. Ma qui sorge un nuovo e arduo problema. Per un filosofo non è sufficiente garantirci che esista un’armonia fondamentale delle cose. Egli deve mostrarci come poter comprendere questa armonia; deve insegnarci un metodo grazie al quale prenderne coscienza. Se questa armonia è nascosta o invisibile, allora è chiaro che non possiamo sperare di trovarla seguendo la consueta via della nostra esperienza sensibile. Eraclito non nutriva più quella fede intrinseca nella verità della nostra esperienza sensibile che, invece, troviamo in Talete e Anassimene. Eraclito è forse il primo a introdurre una nuova branca della conoscenza filosofica: ci dà il criticismo dei sensi. Questa forma di criticismo non è la stessa rinvenibile in alcuni pensatori successivi; ad esempio, in Parmenide e Platone vi sono discussioni sul principio secondo cui esiste un duplice mondo: quello sensibile e quello sovra-sensibile, un mondo di fenomeni e un mondo di noumeni e la verità la si può trovare soltanto nel secondo mondo, ossia in quello sovra-sensibile, nella sfera noumenica. Ma Era-

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not accept such a division. If “wisdom” is really one – then it must have a unique and uniform object. We cannot speak of a double world or of a double truth. Herakleitos is therefore no sceptic with regard to the truth of our sense-experience. He feels no general mistrust of the reliability of our sense-perception, of our eyes or ears. He even tells us in one of his fragments that sense-experience137 is to be preferred to the other sources of knowledge. [«]That things that can be seen, heard or learned – he says – (fragment 13) are what I prize the most[»]. On the other hand[,] he is convinced that it is enough to open his eyes or his ears in order to “learn” what the things are. We have to use our sense – but we have at the same time to judge them. Without such a sound and critical judgement[,] the witness of the senses cannot be understood and cannot be valued and appreciated in the right way. Most of us, says Herakleitos, do not possess this form of judgement, this critical discernment. We hear the language of the senses – we see colours, we hear sound – but we do not understand this language – we behave like barbarians138 who apprehend the sounds of Greek language but who are unable to grasp the meaning of these sounds. If a man is deaf to this meaning – his sense-experience becomes elusive – it is liable to all sorts of errors and fallacies. That is expressed one of the most interesting and important sayings of Herakleitos, in fragment 4: [«]Eyes and ears are bad witnesses to men if they have barbarian souls[»] – that means if they have souls that do not understand the language of the senses. We need an interpreter for this language – and where can we find this interpreter.

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clito non accetta una simile divisione. Se la “saggezza” è realmente una, allora essa deve avere un oggetto unico e uniforme. Non ci è possibile parlare di un duplice mondo o di una doppia verità. Eraclito non è quindi scettico nei confronti della verità della nostra esperienza sensibile. Egli non prova alcuna diffidenza generale nei confronti dell’affidabilità della nostra esperienza sensibile, dei nostri occhi e delle nostre orecchie. In uno dei suoi frammenti ci dice addirittura che l’esperienza sensibile è da preferire ad altre fonti di conoscenza. Difatti, afferma nel frammento 13: «Quelle cose di cui si dà vista, udito, apprendimento: sono ciò che apprezzo di più»30. Dall’altro lato, è convinto che non sia sufficiente aprire i suoi occhi o le sue orecchie per apprendere ciò che le cose sono. Dobbiamo usare i nostri sensi ma, al tempo stesso, dobbiamo giudicarli. Senza un solido e critico giudizio del genere, la testimonianza dei sensi non potrebbe essere né compresa né valutata e nemmeno apprezzata nel suo giusto valore. Molti di noi, dice Eraclito, non possiedono siffatta forma di giudizio, questo discernimento critico. Noi ascoltiamo il linguaggio dei sensi, vediamo i colori, sentiamo i suoni, ma non ne comprendiamo il linguaggio, ci comportiamo come dei barbari che apprendono i suoni del linguaggio greco senza però intenderne il senso. Se un uomo è sordo a tali significati, allora la sua esperienza sensibile diventa elusiva e soggetta a ogni sorta di errori e fallacie. Questo è quanto viene espresso da Eraclito in uno dei suoi frammenti più interessanti e importanti, il frammento 4: «Occhi e orecchie sono cattivi testimoni per gli uomini, se questi hanno anime barbare»31, ossia se hanno anime che non sono in grado di comprendere il linguaggio dei sensi. Abbiamo bisogno di un interprete per questo linguaggio e di sapere dove possiamo trovare questo interprete.

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Even to this question Herakleitos gives a perfectly clear answer. There is only one interpreter who can teach us and who can make understandable to us the language of the eyes and the ears: and this interpreter is called “Understanding” or “Reason”. Without understanding or reason, without the faculty of discerning and judging our sense-perception, all of us would live like in a dream. We should have a dim and vague feeling of reality and truth; but we could never attain reality and truth; we could not see them face to face. Herakleitos is convinced that the “common man”[,] the vulgar is really in this state of mind – and that he never succeeds in transgressing this state of mind. He has no sense for the fundamental reality; he lives in illusions, in all sorts of imaginations, on a chimerical world. [«]Most of us [–] says Herakleitos (fragment 2) [–] know not what we are doing when awake even as they forget what they do in sleep[»]. But it is for philosophy to alter this state of mind, to show us reality in its new light, to rouse us from sleep, to free us from our illusions and fancies, from our superstition and prejudices. To begin with the first point, the freeing from superstitions, Herakleitos makes a vigorous and formidable attack against all the usual conceptions of Greek religions. We have already spoken of his criticism of the Homeric139 poems and of the poem of Hesiod. Homer – he says – [«] should be banished from the public recitation and scourged with rods140[»]. He thinks all worship of statues or images to be ridiculous – the pray to these images, as if one were to talk with a man’s house, with a stony wall (fr. 126). In early Greek religion it was the so-called Orphic Theology

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Anche in questo caso Eraclito ci fornisce una risposta perfettamente chiara. Può esservi soltanto un interprete in grado di insegnarci il linguaggio degli occhi e delle orecchie e che può rendercelo comprensibile: e questo interprete viene chiamato “Intelletto” o “Ragione”. Senza l’intelletto o ragione, senza la facoltà del discernere e giudicare la nostra esperienza sensibile, ognuno di noi vivrebbe in un sogno. Avremmo una tenue e vaga percezione della realtà e della verità; ma non potremmo mai raggiungerle, non potremmo mai vederle faccia a faccia. Eraclito è convinto che “l’uomo comune”, volgare, si trovi proprio in questa condizione mentale e che non sarà mai in grado di superarla. L’uomo volgare non ha alcuna sensibilità per la realtà fondamentale; vive nell’illusione, in ogni genere di immaginazioni, in un mondo chimerico. Scrive Eraclito nel frammento 2: «La maggior parte di noi non comprendono ciò che fanno al risveglio, proprio come dimenticano quanto compiono nel sonno»32. Ma è la filosofia che altera questa condizione mentale, ci mostra la realtà in una nuova luce, ci desta dal sonno, ci libera dalle illusioni e dalle fantasie, dalle nostre superstizioni e dai nostri pregiudizi. In merito alla liberazione dalle superstizioni, Eraclito compie un vigoroso e formidabile attacco contro tutte le usuali concezioni filosofiche delle religioni greche. Abbiamo già parlato della sua critica ai poemi omerici e al poema di Esiodo. Omero – scrive Eraclito – «è degno di essere espulso dagli agoni e percosso con la verga»33. Eraclito considera ridicole ogni sorta di venerazione di statue o immagini, le preghiere rivolte a queste immagini, come se si stesse parlando alla casa di un uomo, a un muro di pietra (fr. 126). Nella prima religione greca fu la cosiddetta teologia orfica a giocare un ruolo importante.

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which played an important role. The Orphics are mystics that tell us about the future life of the soul. In order to reach a higher state our soul has to free from the spots and soils, from the impurity and immoralities it has received by her communication with the body. For this the Orphics demand the performance of a special ritual by which the soul shall be purified. All this is rejected and scorned by Herakleitos. «They vainly purify themselves – he says – fragm. 129 – by defiling themselves with blood, just as if one who had stepped into the mud were to wash his feet in mud. Any man who marked [him doing] thus, would deem him mad». «The mysteries practised among men – he says [in] fragm. 125 – are unholy mysteries – we should be ashamed of them». But if man cannot hope to find the truth by following the clear and plain way of sense-experience or the mysterious way of Orphic Theology – which other way is left to him? To this question Herakleitos answers by one word: the word “Logos”. The truth of things and the fundamental unity of things cannot be revealed to man – except by the power of his “Logos”. But at first sight this seems to be no answer at all. For it is not the so-called Logos itself a very mysterious thing? There is perhaps no other philosophical term that in the history of philosophy and in the history of religion, has played such a decisive role as the term “Logos”. The development of the Christian dogma is closely bound up with that term; the whole Christian Theology[,] in a certain sense[,] may be described as the history of the concept of “Logos”. All of you remember the first words in the gospel of the apostle John ἐν ἀρχῇ ἦν ὁ λόγος – in the beginning there was the Logos. But if we wish to understand the thought of Herakleitos we must not think of all these later developments. We

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Gli Orfici sono dei mistici che ci parlano della vita futura dell’anima. Per raggiungere una condizione più elevata, la nostra anima deve liberarsi dalle macchie e dalla sporcizia, dall’impurità e immoralità che ha ricevuto attraverso la sua comunicazione con il corpo. Per tale ragione, gli Orfici esigono il compimento di un rituale speciale con il quale l’anima viene purificata. Tutto questo viene rigettato e deriso da Eraclito. Nel frammento 129 egli afferma che gli Orfici «si purificano contaminandosi con altro sangue, come se uno, entrato nel fango, intendesse lavarsi il piede col fango. Sarebbe giudicato pazzo, se qualcuno l’osservasse fare questo»34. Nel frammento 125 afferma che «i misteri che praticano tra gli uomini sono misteri empi – di cui dovrebbero vergognarsi»35. Ma se non possiamo sperare di trovare la verità seguendo la chiara e semplice via della percezione sensibile oppure la via misteriosa della teologia orfica, in quale altro modo ci è possibile? A questa domanda Eraclito risponde con una parola: la parola “Logos”. La verità delle cose e la loro unità fondamentale non possono essere rivelate all’uomo se non dalla forza del suo Logos. Ma a prima vista questa non sembra per nulla una risposta. D’altra parte, non è questo cosiddetto Logos un qualcosa di davvero misterioso? Non esiste alcun termine filosofico nella storia della filosofia e in quella della religione che abbia giocato un ruolo così decisivo come il termine Logos. Lo sviluppo del dogma cristiano è strettamene legato a questo termine; l’intera teologia cristiana, in un certo senso, può essere descritta come la storia del concetto di Logos. Tutti voi ricorderete le prime parole del vangelo secondo Giovanni: in principio era il Logos (ἐν ἀρχῇ ἦν ὁ λόγος). Ma se vogliamo comprendere i pensieri di Eraclito, allora non dobbiamo pensare a tutti questi sviluppi successivi. Dobbiamo sforzarci di com-

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must find out what the term Logos means for himself and in his own mind. The usual translation is “Word”. In Christian Theology the Logos has become the word: the second person of the trinity. In Herakleitos we had better to translate us by “Speech”. But even this does not lead us very far[,] nor can it solve our difficulties. Herakleitos always insists upon the unity and the universality of the Word. All what happens in nature and in human life – he tells us – happens according to this uniform and universal Word. But man does not understand this universal Word, he does not grasp its meaning before philosophy has taught him the right way. Herakleitos promises to us to show us this way: he speaks like a prophet of the universal word. He explicitly warns us against trusting himself or his personal opinion. He only wishes to be the mouthpiece, the speaker of the universal Word. [«]Don’t listen to me! – he admonishes us in a sentence which according to the testimony of Aristotle in his Rethoric was the very beginning of his book – Don’t listen to me but to the Word and confess that all things are one (fr. 1)[»]. But here arises our first and fundamental difficulty. It is not contradictory to speak of a universal Logos – that means of the Word or Speech as a universal fact and a universal principle. It is not obvious that the Word – far from being a unique and general fact – is multifarious, changeable[,] and diversified. Human speech is the most multiform and diversified thing. There is no real unity in it; there seems only to be a confusion of tongues. Every nation, every age, even every individual speaks his own language. “Logos” when understood and translated as the universal word seems, therefore, to be a contradiction in terms. We have a hundred of languages and we have innumerable single idioms, but we hope in vain to find anything what all these idioms have in common.

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prendere il significato del termine Logos così come esso si presenta nella mente di Eraclito. La traduzione usuale è “Parola”. Nella teologia cristiana il Logos si è fatto parola: la seconda persona della Trinità. Nel caso di Eraclito dovremmo invece tradurre con “Discorso”. Ma anche questo tentativo non ci porta molto lontano, né risolve le nostre difficoltà. Tutto ciò che accade in natura e nella vita umana – afferma Eraclito – accade secondo questa Parola uniforme e universale. Ma nessun uomo può comprendere questa Parola universale, né può afferrarne il significato, se prima la filosofia non gli ha insegnato la retta via. Eraclito promette di mostrarci questa via; egli parla come un profeta della parola universale. Lui ci avverte esplicitamente di non fidarci della sua persona o della sua personale opinione. Egli desidera essere soltanto il portavoce, colui che parla per la Parola universale. «Non ascoltate me!» – ci ammonisce Eraclito in un frammento che, stando a quanto ci testimonia Aristotele nella sua Retorica36, costituiva l’inizio del suo libro – «Non ascoltate me, ma il Logos, e converrete che tutto è uno»37. Ma qui sorge la nostra prima e fondamentale difficoltà. Non è contraddittorio parlare di un Logos universale, ossia della Parola o del Discorso come fatto universale e principio universale? Non è ovvio che la Parola – lungi dall’essere un fatto unico e generale – sia molteplice, mutabile e diversificata? Il linguaggio umano è la cosa più multiforme e diversificata. Non vi è alcuna reale unità in esso; sembra esserci soltanto una confusione di lingue. Ogni nazione, ogni epoca, ogni individuo parla la sua lingua. Logos, se inteso e tradotto come parola universale, appare pertanto come una contraddizione in termini. Abbiamo centinaia di linguaggi e innumerevoli singoli idiomi, ma speriamo invano di trovare qualcosa di comune a tutti questi idiomi.

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But when putting this question[,] we have already to a certain extent answered the question. We have found out to which fact Herakleitos appeals when attributing to his Logos, to the word a real universality141. Our human languages – he tells us – are diversified with regard to their verbal symbol – with regard to the sound they use for expressing a special meaning. But they are not diversified with regard to the meaning itself. One and the same meaning may be expressed by different sounds. In Greek language we have not the same words for a certain thing or a certain concept as in Persian language. Nevertheless[,] we cannot deny the identity and the unity of the concept itself. If an Egyptian Geometer speaks of a triangle or a circle, he means the same as a Greek geometer – but he uses different words. It is, therefore, not the word in the usual sense, physical sound, but it is what is meant by the word, what is designated by the word to which Herakleitos refers. In this he was influenced by the spirit of Greek language itself. In Greek the verb Legein means two things indiscriminately. If in Greek I wish to say a man “You speak nonsense” I can express it by the words: οὐδὲν λέγεις, that is you speak “nothing”. – what you say makes no sense to me. English is, as far as I know, the only modern language in which we find quite a correspondent phenomenon. The phrase “You don’t say so!” is quite usual in English – but it signifies you don’t mean that. We would, therefore, understand Herakleitos much better if instead of translating his “Logos”, as we are used to do, by Word we should choose the term “Meaning”. What Herakleitos promises to tell us is the meaning of human life. It is wise – he says – to hearken142 not to me, not to my words or phrases. These words and phrases are

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Ma nel porre questa domanda, le abbiamo già in una certa misura risposto. Abbiamo visto a quale fatto si appella Eraclito quando attribuisce al suo Logos, alla Parola, una reale universalità. I nostri linguaggi umani – sostiene Eraclito – si distinguono per i loro simboli verbali, per il suono che utilizzano nell’esprimere un significato particolare. Ma non si distinguono per il significato in sé. Uno stesso significato può essere espresso tramite suoni differenti. Nella lingua greca, per una certa cosa o un certo concetto, non abbiamo la stessa parola presente nella lingua persiana. Ma cionondimeno, non possiamo negare l’identità e l’unità del concetto stesso. Quando un geometra egizio parla di un triangolo o di un cerchio, egli intende la stessa cosa di un geometra greco, anche se le parole utilizzate sono diverse. Pertanto, Eraclito fa riferimento proprio a ciò che la parola significa, a ciò che essa designa, e non alla parola nel suo senso usuale, ossia al suono fisico. In ciò, egli venne influenzato dallo stesso spirito della lingua greca. In greco il verbo legein indica due cose indistintamente. Se in greco desiderassi dire a un uomo “tu parli senza senso”, allora potrei esprimermi con le parole οὐδὲν λέγεις, ossia “tu parli di niente”, ciò che dici non ha alcun senso per me. L’inglese, per quanto ne so, è la sola lingua moderna nella quale rileviamo un fenomeno alquanto corrispondente. La frase You don’t say so! è abbastanza comune in inglese, ma essa significa “tu non dici ciò”. Pertanto, comprenderemmo meglio Eraclito se invece di tradurre il suo Logos, come siamo soliti fare, con “Parola”, scegliessimo il termine “Significato”. Ciò che Eraclito promette di dirci è proprio il significato della vita umana. È saggio – sostiene Eraclito – prestare ascolto non a me, alle mie parole o frasi. Queste parole e frasi sono dubbie, oscure, discutibili, ambigue. Eraclito

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dubious, dark, questionable, ambiguous. Herakleitos never avoids these obscure and equivocal terms; on the contrary he seeks them. Nearly all of his sayings have a double meaning. He indulges in all sorts of words-plays; he likes to speak in riddles. He himself boasts of this enigmatic and oracular style that is destined to conceal his true sense to the vulgar which is not able to understand it. He compares himself and his language with the language of the Delphic oracle. [«] The Pythian God – he says – express naught and conceals naught but merely hints at his meaning[»] or: [«]the voice of the Sibyl143 rings through the centuries by the power of the god that speaks through her and proclaims its message to mankind, naked and unadorned» (fr. 11, 12). Nevertheless[,] if Herakleitos speaks in mythic words he does not intend to proclaim a mythic message. He wishes to mystify144 us by his words in order to incite our intuition and our curiosity. But he expects that, when listening to his words and when interpreting in the right sense we shall finally be led to a meaning which is not mystical but perfectly rational, – which is reason itself. Sometimes he is describing the Logos, the “Word” by a term wich in Greek is equivalent to the term: Reason or Understanding. It is the Greek term Gnōme – that we have to reproduce by wisdom, reason, universal intelligence. «Wisdom consists in this alone – he says – to understand reason or universal intelligence by which all things are steered through all things» (fr. 19). But if all things are governed and steered by a universal reason – why does man, from the very beginning, understand this leading principle? Why does he persevere in all sorts of deceptions, of errors and superstitions? Why can he not find his way alone – why has he to wait for a philosopher to show him the way? And why does he not understand

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non evita mai questi termini oscuri ed equivocabili, al contrario li cerca. Quasi tutti i suoi motti hanno un duplice significato. Egli indulge a ogni sorta di giochi di parole, gli piace esprimersi per enigmi. Egli stesso si vanta di questo suo stile enigmatico e oracolare destinato a celare il suo vero senso al volgo, che non è in grado di comprenderlo. Paragona se stesso e il suo linguaggio all’oracolo di Delfi. Dice Eraclito: «Il Dio Pitico non esprime nulla e non nasconde nulla, ma semplicemente accenna al suo significato», o «la voce della Sibilla risuona nei secoli per la potenza del Dio che parla attraverso di lei e proclama il suo messaggio all’umanità, nuda e disadorna»38. Cionondimeno Eraclito, pur esprimendosi con parole mitiche, non intende affatto annunciare un messagio mitico. Intende ingannarci con le sue parole, per incitare la nostra intuizione e curiosità. Ma egli presume che, una volta ascoltate e interpretate le sue parole nel loro senso esatto, saremo finalmente condotti a un significato che non è affatto mistico, quanto invece del tutto razionale – che è la ragione stessa. Qualche volta egli descrive il Logos, la “Parola”, con un termine che in greco è l’equivalente del termine “ragione” o “intelletto”. È il termine greco gnōme, che possiamo riprodurre con saggezza, ragione, intelligenza universale: «Saggezza consiste solo in ciò – afferma Eraclito –: comprendere la ragione o intelligenza universale grazie a cui tutte le cose sono governate mediante tutte le cose»39. Ma se tutte le cose sono governate e guidate da una ragione universale, allora come mai l’uomo, sin dall’inizio, non è stato in grado di comprendere questo principio-guida? Come mai continua a perseverare in ogni sorta di illusioni, errori e superstizioni? Come mai non riesce da solo a trovare la via, ma deve attendere un filosofo che gliela mostri? E perché non è in grado di com-

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the philosopher when145 he first speaks to him? Herakleitos emphatically insists on this incapability146 of most men to understand the true sense of his philosophical doctrine: «Though this Word – he says in the second fragment – is true evermore, yet men are as unable to understand it when they hear it for the first time as before they have heard it all. For, though all things come to pass in accordance with this Word men seem as if they had no experience of them, when they make trial of words and deeds such as I set forth, dividing each thing according to its kind and showing it truly is. But other men know not what they are doing when awake, even as they forget what they do in sleep». By this Herakleitos turns, so to speak, the tables on147 the great contention between speculative and practical life. In a former lecture I mentioned a little story that is related by Plato about the life of Thales. Thales fell into a well when observing the stars – and a young Thracian maid laughed at him and told him that he was so eager to know what was going on in heaven that he could not see what was before his feet. Plato adds that this is a jest148 which is equally applicable to all philosophers. It is a commonplace saying that the philosopher, by living in his ideas and for his ideals, becomes a stranger in the real world. He is a dreamer; he indulges in all sorts of reveries. But Herakleitos retorts this argument. [«]All of you – he tells his fellow-citizen – are dreaming; but I am awake and I wish to rouse you from sleep[»]. What is meant by this is explained in another fragment – the 95th149 fragment. [«]The waking have one common world; the sleeping turn aside each into a world of his own[»]. If to be awake means to live in a common world, in

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prendere il filosofo quando gli parla per la prima volta? Eraclito, con enfasi, insiste sulla incapacità della maggior parte degli uomini di comprendere il vero senso della sua dottrina filosofica: «Sebbene questo Logos – dice nel frammento 2 – sia sempre vero, tuttavia gli uomini non lo comprendono, né quando lo odono per la prima volta né subito dopo averlo udito. Infatti, sebbene tutte le cose avvengano secondo questo Logos, essi sono simili a inesperti quando si cimentano con parole e atti tali quali io espongo, distinguendo ogni singola cosa secondo la sua natura ed esponendola così com’è veramente. Ma gli altri uomini non sanno ciò che fanno al risveglio, proprio come dimenticano quanto compiono nel sonno»40. A questo punto Eraclito ribalta la situazione indirizzandola verso la grande disputa tra vita speculativa e vita pratica. In una lezione precedente, ho menzionato una piccola storia sulla vita di Talete raccontata da Platone. Talete, mentre osservava le stelle, cadde in una pozza e a quel punto la sua serva rise di lui giacché, preoccupandosi di conoscere le cose dei cieli, non si accorgeva di quelle che aveva davanti e tra i piedi. Platone aggiunge che si tratta di una battuta, ugualmente applicabile a tutti i filosofi. In effetti, è un luogo comune quello secondo cui il filosofo, vivendo nelle sue idee e nei suoi ideali, finisce per diventare uno straniero nel mondo reale. Il filosofo è un sognatore, indulge a ogni sorta di fantasticheria. Ma Eraclito risponde a tono a questa argomentazione. Rivolgendosi a un suo concittadino, Eraclito afferma: «Tutti voi state sognando, ma io sono sveglio e desidero svegliarvi dal vostro sonno». Ciò che qui si intende viene espresso in un altro frammento: «Per quelli che sono svegli c’è un unico cosmo comune; ma ciascuno di quelli che dormono si volgono a un mondo tutto proprio»41. Se essere svegli significa vivere in un mondo comune, nell’universo, allo-

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the universe – it is the philosopher who along fulfils this condition. For he does not confide in his own, narrow, individual experience. He who only speaks for individual feelings, who wishes to utter a mere personal opinion, is no philosopher. We must follow the common rule – says Herakleitos – not the individual rule. We must transgress the exiguity and narrowness of our private life and our private thoughts in order to live in harmony with the universe. We must forget our idiosyncrasies, our individual whims and wishes. «We must follow the common – says H[erakleitos] in the 92th150 fragment – yet through my Word is common the many live as they had a wisdom of their own». To live in the Common, the Koinon151, does not mean to live152 in mere sense-experience, but to live in Thought. Thought is the only universal principle[,] it is the same for God and men. [«]Those who speak with understanding – says Herakleitos – [(]fragm. 91b[)] must hold fast to what is common to all as a city holds fast to its law, and even more strongly. For all human laws are fed by the one divine law. It prevails as much as it will, and suffices for all things[»]. So far[,] I tried to give you a clear account of what I think to be153 the most characteristic and the most original thought of Herakleitos. And since in these lectures we cannot enter into all details of the philosophical doctrines – since we have to content ourselves with an outline of the fundamental principles I should[,] in a sense[,] feel entitled to leave this subject and to proceed to our next chapter: to the doctrine of the Pythagoreans. But when doing so I should perhaps give to most of you a very great surprise. Those of you who[,] to however little an154 extent[,] have studied Greek philosophy would object to me that I have forgotten the principal thing. Whoever heard the name of Herakleitos has heard at the same time of his famous doctrine of the flux of things. In all our textbooks155 of

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ra è il filosofo che soddisfa questa condizione. Egli non confida nella sua limitata esperienza individuale. Colui che parla soltanto dei suoi sentimenti individuali, che desidera pronunciare una mera opinione personale, non è un filosofo. Noi dobbiamo seguire una regola comune, sostiene Eraclito, non una regola individuale. Dobbiamo superare l’esiguità e la limitatezza della nostra vita privata e dei nostri pensieri privati, se vogliamo vivere in armonia con l’universo. Dobbiamo dimenticare le nostre idiosincrasie, le nostre voglie e desideri individuali: «Bisogna pertanto seguire ciò che è comune – ma benché sia comune il mio Logos, i molti vivono come se avessero una loro propria saggezza»42. Vivere in comune, koinon, non significa vivere in una mera esperienza sensibile, ma vivere nel pensiero. Il pensiero è il solo principio universale, uguale per Dio e per gli uomini: «Coloro che parlano con intelligenza – dice Eraclito – devono attenersi a ciò che è comune a tutti, come una città si attiene alla sua legge, e ancor più fortemente. Perché tutte le leggi umane sono alimentate dall’unica legge divina. Essa prevale quanto vuole, e basta per tutte le cose»43. Finora ho cercato di fornirvi un chiaro resoconto di ciò che ritengo essere il più originale e caratteristico pensiero di Eraclito. E poiché in queste lezioni non possiamo addentrarci in tutti i dettagli della sua dottrina filosofica, e poiché dobbiamo accontentarci di un profilo dei suoi princìpi fondamentali, mi sento autorizzato a lasciare questo tema e a procedere al prossimo capitolo: la dottrina dei Pitagorici. Ma nel far ciò, probabilmente, darei a molti di voi una grandissima sorpresa. Quanti di voi, per quanto poco, hanno studiato filosofia greca, mi obietteranno di aver dimenticato la cosa principale. Chiunque abbia sentito il nome di Eraclito ha anche sentito parlare, al tempo stesso, della sua dottrina del divenire di tutte le cose. Questa dottrina la

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philosophy and in all the monographs about the philosophy of Herakleitos you find this doctrine in the first page. I need scarcely [to] describe it in detail; it has become so popular that all of us have heard of it. Things are liable to incessant variations and transformations. Our life is to be compared to a flowing stream. «We step156 and do not step into the same rivers – says Herakleitos fragm. 81 – we are and are157 not». If we think that we can descent into the same river for a second time, then we are mistaken. We are no longer the same – because no particle of our body is the same as it was a few days or a few hours before. And even the river is no longer the same – for what is a river except a mass of water – and how can we ever meet with the same mass of water in a flowing stream? There is no rest, no standstill in the nature of things. All is vanishing and fading away under our hands. The famous phrase: πάντα ῥεῖ, “all things are flowing” is not to be found in the fragments that we possess of the work of Herakleitos. But that may be a fortuitous circumstance. The doctrine itself is clearly testified by all the ancient witnesses, especially by Plato and Aristotle. «Nothing ever is, everything is becoming»: this is the Platonic description of the doctrine of Herakleitos given in the Theaetetus. Of course[,] we cannot contest the weight of this evidence. But if this be true – why did I omit all these wellknown things – why did I not begin with a description of the doctrine of the flux of things? Till now I did omit all this deliberately. For I think we cannot understand the true meaning and purport of the doctrine if we put it at the beginning; we have to put it at the end. The doctrine of the flux of the things, as it is contained in the fragments of Herakleitos, must be understood as a result of his thought, as a corollary to his first principle; but it is not the first principle in itself.

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si trova sempre nelle prime pagine di tutti i manuali di filosofia e di tutte le monografie dedicate alla filosofia di Eraclito. Non ho bisogno di descriverla nei dettagli, essa è così nota che ognuno di noi, per l’appunto, ne ha sentito parlare. Le cose sono soggette a variazioni e trasformazioni incessanti. La nostra vita viene paragonata a un fiume che scorre: «Nel medesimo fiume – dice Eraclito – entriamo e non entriamo, ci siamo e non ci siamo»44. Se pensiamo di poterci bagnare nello stesso fiume una seconda volta, allora siamo in errore. Noi non siamo più gli stessi, giacché nessuna delle particelle del nostro corpo è la stessa di qualche giorno fa o di qualche ora fa. E anche il fiume non è più lo stesso; difatti, come possiamo incontrare la stessa massa d’acqua in un fiume che scorre? Non vi è alcun riposo, alcuna stasi nella natura delle cose. Tutto svanisce e si dilegua fra le nostre mani. La famosa frase πάντα ῥεῖ, “tutto scorre”, non si trova nei frammenti che noi possediamo dell’opera di Eraclito. Ma potrebbe essere una circostanza fortuita. La dottrina in sé è stata chiaramente dimostrata dai testimoni antichi, specialmente da Platone e Aristotele. «Niente è mai, ma tutto diviene»45: questa è la descrizione platonica della dottrina di Eraclito fornita nel Teeteto. Ovviamente, non possiamo contestare il peso di questa evidenza. Ma se ciò è vero, allora perché ho omesso tutte queste cose ben note? Perché non ho iniziato con la dottrina del perenne divenire delle cose? Fino adesso, ho omesso tutto ciò deliberatamente, giacché non ritengo possibile comprendere l’autentico significato e senso di questa dottrina se la poniamo all’inizio; dobbiamo invece porla alla fine. La dottrina del divenire delle cose, così come si trova nei frammenti di Eraclito, va intesa come il risultato del suo pensiero, come un corollario del suo primo principio; ma non è il primo principio stesso. Se

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If we do not read and do not interpret this doctrine in the light of his really fundamental view, that is contained in his conception of a universal truth – the same for all individual subjects, the same for God and man – then we cannot understand its meaning and its purport. It is for this reason that I had to postpone the discussion of this problem. But I hope that now we are both prepared to answer the question what the so-called theory of the flux of things really means and which place it holds in the thought of Herakleitos. If all what Herakleitos intended to say should be nothing else than to tell us that what we regard as constant things or as constant goods are fleeting, fugitive, transient, evanescent – this would scarcely be a very original thought[,] nor would it be a very deep thought. At all times men have complained of the uncertainty, the mutability, the instability of all things. We find this complaint in philosophy; we find it among the poets and in all the great religious teachers. But we do not find it in Herakleitos. His concept of the continual change of all things has quite a different character. In the “Theaetetus” Plato does not wish to give a strictly historical description of the thought of Herakleitos. What he gives here is a polemical description and in a certain sense a polemical construction. What Plato attacks is the theory of the Sophists as it was upheld in his own times. And he makes Herakleitos responsible for all the inferences that the Sophists had drawn from his premises. But that is not the right way to interpret and to judge Herakleitos himself. Did Herakleitos ever say that all158 things are passing[,] and nothing abides? Did he say[,] “all things are in motion”, “nothing steadfastly is”. He could not say such a thing without being in flagrant contradiction to his own fundamental doctrine: to the doctrine of the Logos, the Word, the universal principle[,] and the universal

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non leggiamo e se non interpretiamo questa dottrina alla luce della sua intuizione veramente fondamentale, che è contenuta nella sua concezione di una verità universale – uguale per tutti i soggetti individuali, per Dio così come per l’uomo – allora non possiamo intenderne il senso e il significato. È per questa ragione che ho deciso di posticipare la discussione su questo problema. Ma adesso spero di essere – voi compresi – pronto per rispondere alla domanda circa il senso e il posto che la teoria del divenire delle cose occupa nel pensiero di Eraclito. Se tutto ciò che Eraclito intendeva dirci è che le cose che noi consideriamo come costanti sono in realtà fugaci, cangianti, transitorie ed evanescenti, allora a ciò non corrisponde affatto un pensiero originale né profondo. In tutti i tempi gli uomini hanno protestato contro questa incertezza, mutabilità e instabilità delle cose. Questa protesta noi la rinveniamo in filosofia, tra i poeti e in tutti i grandi maestri religiosi. Ma non in Eraclito. Il suo concetto del continuo mutamento di tutte le cose ha un carattere piuttosto diverso. Nel Teeteto Platone non intende fornire una descrizione strettamente storica del pensiero di Eraclito. Ciò che egli fornisce è in realtà una descrizione polemica e, in un certo senso, una costruzione polemica. Ciò che Platone attacca è la teoria dei Sofisti così come essa veniva sostenuta ai suoi tempi; ed egli reputa Eraclito responsabile per tutte le inferenze che i Sofisti avevano tratto dalle sue premesse. Ma questo non è un modo corretto di interpretare e giudicare Eraclito stesso. Ha mai affermato Eraclito che tutto scorre, niente resta? Ha mai detto Eraclito che “tutte le cose sono in movimento” e che “nulla è saldo”? Egli non avrebbe potuto affermare qualcosa di simile senza entrare in contraddizione con la sua dottrina fondamentale: la dottrina del logos, della parola, del principio universale e della verità universale.

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truth. For it is just this principle that, in the philosophy of Herakleitos, is declared most emphatically to be unchangeable and eternal. We find the very term “eternal” (or to give it in the Greek term: always being, never changing) applied to the Word. This word, this principle – says Herakleitos – has always been and will ever be; it cannot alter its nature; it remains what it is. But if we accept this – what does the doctrine of the flux of things really mean? It is by no means in contradiction to the fundamental principle of his philosophy; it is rather an explanation and elucidation of this principle. This is easily to be understood if we compare the philosophy of Herakleitos with the philosophy of his predecessors. What is the difference between Herakleitos and the Milesian philosophers: Thales, Anaximander, Anaximenes[?] We have emphasized the fact that these thinkers first discovered a fundamental concept of our scientific thought. This concept was the concept of substance. There is an unchanging, constant, steadfast, persevering thing called “matter”. If from here we proceed to the thought of Herakleitos we have to confront a very great historical and systematic paradox. For it seems as if all this what had been gained by the philosophy of the Milesian school is lost again in the philosophy of Herakleitos. Let me explain this by an example. I wish to bring back your memory an episode related in the Odyssey of Homer. Penelope, the wife of Odysseus, is solicited pressingly by her suitors who urge her to make her choice and to marry one of them. In order to evade this demand[,] she takes refuge in159 a ruse. She promises her suitors to take one of them for her husband as soon as she has finished weaving a shroud destined for her father-in-law Laertes. But every night she gets up secret-

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D’altra parte, è proprio questo principio ad essere considerato come immutabile ed eterno. Noi notiamo che il termine “eterno” (o, per dirla in termini greci: ciò che è sempre, che mai muta) viene applicato al Logos. Questo logos, questo principio – dice Eraclito – è sempre stato e sempre sarà; non se ne può alterare la natura; rimane ciò che è. Ma se accettiamo tutto ciò, allora cosa significa realmente la dottrina del flusso di tutte le cose? Essa, in realtà, non è in alcun modo in contraddizione con il principio fondamentale della sua filosofia; essa è piuttosto una spiegazione e delucidazione di questo principio. Ciò lo si può comprendere facilmente se paragoniamo la filosofia di Eraclito a quella dei suoi predecessori. Qual è la differenza tra Eraclito e i filosofi di Mileto come Talete, Anassimandro e Anassimene? Abbiamo già messo in evidenza che questi pensatori, per primi, scoprirono il concetto fondamentale del nostro pensiero scientifico. Questo concetto era il concetto di sostanza. Esiste una cosa che non cambia, che è costante, salda, persistente e che viene chiamata “materia”. Se da qui procediamo verso il pensiero di Eraclito, allora dobbiamo confrontarci con un grande paradosso storico e sistematico. In effetti, sembra che tutto ciò che era stato conquistato dalla filosofia della scuola di Mileto fosse andato nuovamente perduto nella filosofia di Eraclito. Permettetemi di spiegare tutto ciò con un esempio. Desidero far tornare alla vostra memoria un episodio della Odissea di Omero. Penelope, la moglie di Odisseo, viene pressantemente sollecitata dai suoi spasimanti affinché prenda una decisione, ossia sposare uno di loro. Per evitare questa richiesta lei ricorre a uno stratagemma. Promette ai suoi spasimanti di scegliere uno di loro non appena avrà finito di tessera una tela per il suocero Laerte. Ma lei ogni notte si alzava in segreto, per disfare la tela che

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ly and unravels what she had woven in the day. Was early Greek philosophy in the same condition as Penelope? Had it to undo in Herakleitos what it just had done in the Milesian thinkers? What should we think of the continuity and consistency of Greek thought in this case? But the answer to this question may easily be given. That Herakleitos denies and attacks the concept of substance – that he thinks that there is no persisting thing, that all is in a continual flux is a view that is upheld in nearly all our textbooks of the history of Greek philosophy. But to my mind this traditional view is perfectly wrong. Herakleitos does not mean to destroy the concept of substance. He wishes to maintain it – but for this he has to make a fundamental correction. If you look for a true substance – for an immutable, a subsisting, persisting thing – in the field of our sense-experience160 – he tells us – then you will never find it. The Ionian thinkers were wrong to speak of a physical thing, like water or air, as unchanging, as substantial. All of our physical elements – water, air, earth, fire – are in a continual change. One of them gives room to the other; one of them has to vanish and to die in order that the other may come into being. This transmutation of the single elements into each other is described by Herakleitos as the incessant cycle of physical nature. In one of the fragments of Herakleitos the universe is described as an everlasting fire – as a fire that is without beginning and without end: «This one order of all things – he says – was created by none of the gods and by no man; it ever was, and is, and shall be, an ever living fire ignited by measure and extinguished by measure» (fr. 20 in Burnet161: but not the same version). From this fire there arise all the other things, all our physical elements. [«]All things – says Herakleitos in a very striking simile – are an exchange for Fire, and Fire for all things – even as wares for gold and gold for wares (fr.

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aveva tessuto durante il giorno. La filosofia greca si trovava forse nella medesima condizione di Penelope? Doveva essa disfare in Eraclito ciò che era stato fatto dai pensatori di Mileto? Ma la risposta alla domanda la si può fornire facilmente. Che Eraclito neghi e attacchi il concetto di sostanza, che pensi che non vi sia alcuna cosa persistente, che tutto sia in continuo movimento, è una concezione che viene sostenuta in quasi tutti i nostri manuali di storia della filosofia greca. A mio modo di vedere, questa tesi tradizionale è assolutamente errata. Eraclito non intende distruggere il concetto di sostanza. Piuttosto, egli desidera mantenerlo, ma per far ciò è costretto a operare una fondamentale correzione. Se cercate la vera sostanza – ossia una cosa immutabile, sussistente e persistente – nel campo della nostra esperienza sensibile, allora, ci dice Eraclito, non la troverete mai. I pensatori ionici sbagliavano a ritenere che cose fisiche – come l’acqua o l’aria – potessero avere una natura immutevole, sostanziale. Tutti i nostri elementi fisici come l’acqua, l’aria, la terra e il fuoco, sono in continuo mutamento. Uno di essi fa spazio all’altro, uno di essi svanisce e muore per permettere all’altro di nascere. Questa trasmutazione dei singoli elementi l’uno nell’altro viene descritta da Eraclito come il ciclo incessante della natura fisica. In uno dei suoi frammenti, Eraclito descrive l’universo come un fuoco eterno, come un fuoco che non ha né inizio né fine: «Quest’unico ordine di tutte le cose – dice Eraclito (fr. 20 in Burnet, ma non la stessa versione) – non è stato creato da nessuno degli dèi né da uomini; fu sempre, ed è, e sarà, un fuoco sempre vivo arso secondo misura e secondo misura estinto»46. Da questo fuoco sorgono tutte le altre cose, tutti i nostri elementi fisici. «Tutte le cose – dice Eraclito in una similitudine molto suggestiva – sono scambio per il fuoco, e il fuoco per tutte le cose – come anche i beni lo sono per l’oro e l’oro per i

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22)[»]. «Fire lives the death of air, and air lives the death of fire; water lives the death of earth, earth that of water» (fr. 25). But we must not think that Herakleitos by this doctrine only meant to replace the physical theory of the Milesians by another more probable theory. His point of view is quite different. His theory of the eternal fire that ever was, and is, and shall be is not a physical, but a metaphysical theory. In a certain sense Herakleitos may be said the first metaphysician among the Greeks. If he speaks of the everlasting fire[,] he takes it only as a symbol of that only principle to which we can ascribe a true eternity – as a symbol of the Word, the Logos. No single thing, no single element can be thought to be unchanging or substantial. For what really persists is not a physical element, but the rule according to which the change of the elements into each other takes place. This rule is invariable and inviolable; it is not liable to change[,] and it does not admit any exception. In order to express this thought of Herakleitos had to introduce a new concept – a concept that proved to be decisive for the whole further intellectual development. It is the concept “Metron” or “Measure”. “Measure” is one of the most important terms that has been created by Greek thought. We fell its influence not only in Greek philosophy but also in all the other fields of Greek culture: in poetry, in art, in Ethics. But for the time being we only have to take into consideration the special meaning [to] which Herakleitos connects this term. Let us take an example chosen by Herakleitos himself. What is the sun? Most of us will answer162 that it is a celestial body, a perdurable163, substantial, physical thing. But according to this theory of the flux of things Herakleitos cannot admit this view. It is by no means the same identical

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beni»47. E in seguito: «Il fuoco vive la morte dell’aria e l’aria vive la morte del fuoco; l’acqua vive la morte della terra, la terra quella dell’acqua»48. Tuttavia, non dobbiamo pensare che l’intento di Eraclito fosse quello di sostituire, con la sua dottrina, la teoria fisica dei pensatori di Mileto con un’altra e più plausibile teoria. Il suo punto di vista è alquanto differente. La sua teoria del fuoco eterno, che è sempre stato e che è e che sarà, non è una teoria di tipo fisico ma metafisico. In un certo senso, Eraclito lo si può considerare come il primo vero metafisico tra i Greci. Quando parla di un fuoco eterno lo intende soltanto come un simbolo di quell’unico principio al quale egli ascrive una effettiva eternità, come un simbolo della parola, il Logos. Nessuna cosa individuale, nessun singolo elemento può essere pensato come immutevole o sostanziale. Difatti, ciò che realmente persiste non è un elemento fisico, ma una regola secondo la quale si verifica il cambiamento degli elementi l’uno negli altri. Questa regola è invariabile e inviolabile, non è soggetta a mutamento e non ammette alcuna eccezione. Per esprimere questo pensiero Eraclito dovette introdurre un nuovo concetto, rivelatosi decisivo per tutto l’ulteriore sviluppo intellettuale. È il concetto di “metron” o “misura”. “Misura” è uno dei più importanti termini mai forgiati dal pensiero greco. Ne avvertiamo l’influenza non soltanto nella filosofia greca, ma anche in tutti gli altri campi della cultura greca: poesia, arte, etica. Ma per il momento dobbiamo soltanto prendere in considerazione il significato particolare che Eraclito connette a questo termine. Prendiamo l’esempio scelto da Eraclito stesso. Che cos’è il sole? Molti di noi risponderanno che è un corpo celeste, una cosa fisica perdurante, sostanziale. Ma secondo la teoria del divenire delle cose, Eraclito non può ammettere qualcosa del ge-

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thing that we saw yesterday when looking at the sun and that we see today. The sun can never return exactly the same way. For it is nothing but a burning fire and the flames of this fire continually consume and destroy all the material elements contained in the sun. From one moment to another they are replaced by new elements. We can, therefore, not speak of the sun as a constant thing: [«]The sun is new at every new morning[»] (fr. 32). But does that mean that in the whole process of combustion we cannot find any definite rule? Not at all – it means rather the contrary. The substance of the sun is continually changing; but the proportion164 of the change proves to be the same. In a certain time[,] there is always going on the same change. There is a measure165 in the change which is maintained at all times. The fire of the sun burns itself out and is replaced from the vapours of the ocean. All these changes are not made at random; they always follow the same rule. Herakleitos chooses a mythical example for expressing this thought – but the thought as such is by no means mythical. The cosmic166, the physical order is conceived by him like an ethical order. You will remember that we found the same analogy in the thought of Anaximander. Even Anaximander described the cosmic167 order as a general system in which to everything has its well-measured time that cannot be exceeded. If it would go beyond this time that would mean an injustice, done to other things that have their claim to existence. We find the same thought in Herakleitos. His fundamental concept, the concept of the Word, that governs everything and determines everything, is here completed by the concept Díkē168 or Justice. Justice does not allow that anything goes beyond the limits that are set [to] him in

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nere. Il sole che noi vediamo oggi non è in alcun modo la stessa cosa che abbiamo visto ieri. Il sole non può mai ritornare allo stesso modo. D’altra parte, esso non è altro che fuoco ardente e le fiamme di questo fuoco consumano e distruggono continuamente tutti gli elementi contenuti nel sole. Da un momento all’altro, vengono rimpiazzati da nuovi elementi. Di conseguenza, non possiamo parlare del sole come di una cosa persistente, giacché «il sole è nuovo ogni nuovo mattino»49. Ma ciò significa forse che nell’intero processo della combustione noi non possiamo rinvenire alcuna regola determinata? Niente affatto, anzi significa piuttosto il contrario. La sostanza del sole è in continuo mutamento, ma la proporzione del cambiamento si dimostra la stessa. A un certo tempo si verifica sempre lo stesso cambiamento. Vi è una misura nel cambiamento che viene mantenuta in qualsiasi momento. Il fuoco del sole si esaurisce e viene sostituito dai vapori dell’oceano. Tutti questi cambiamenti non si verificano a caso, ma seguono sempre la medesima regola. Eraclito sceglie un esempio mitico per esprimere questo pensiero, ma il pensiero come tale non è in alcun modo mitico. L’ordine cosmico e fisico viene concepito da lui come ordine etico. Voi ricorderete che abbiamo rinvenuto la stessa analogia nel pensiero di Anassimandro. Difatti, anche Anassimandro descrisse l’ordine cosmico come un sistema generale nel quale ogni cosa ha il suo tempo stabilito che non può essere oltrepassato. Andare oltre questo tempo significherebbe commettere un’ingiustizia verso le cose che hanno il diritto di venire alla luce. Lo stesso pensiero ritroviamo in Eraclito. Il suo concetto fondamentale, il concetto del Logos che governa ogni cosa e determina ogni cosa, viene qui completato dal concetto di Díkē o Giustizia. La Giustizia non permette che una cosa possa eccedere

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the universal order, otherwise the Furies would be sent from Tartarus to take their revenge. «The sun will not overstep his measures – says Herakleitos in the 29th fragment – if he does, the Erinnys, the handmaids of Justice, will find him out[»]. That is, of course, mythical language; but it is not a mythical thought. For Herakleitos forbids these sudden, abrupt, haphazard changes that are quite usual in mythical thought – all these metamorphoses as they are described in the work of Ovid. Every change has its rule and its measure[,] and it is by this that the cosmic169 order is maintained. We see by this that Greek philosophy when passing from the thought of the first Milesian thinkers to the thought of Herakleitos did by no means a mere destructive work, a work of Penelope. It is true that the concept of substance in its first form, as a material unchangeable thing, had to be given up; it could not resist the severe criticism of Herakleitos. But the general category170 of substance proves to be like a Phoenix that burnt itself in the thought of Herakleitos in order to rise from the ashes with renewed youth. What is really constant, lasting, eternal is not a material stuff, like water or air, it is the general rule, the measure, the proportion according to which all the single stuffs are changed into each other. The progress from mythical thought to philosophical or theoretical thought that according to our view is the decisive and most important feature in early Greek philosophy becomes even clearer if we pass to Herakleitos’ ethical philosophy. Herakleitos is not only a physicist; he is the teacher of a new moral ideal. He does not think that we can find the truth by the mere study of natural phenomena. He tries to probe into the depth of his own soul – and here he finds a new type of

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i limiti che le sono stati imposti dall’ordine universale, altrimenti le Furie saranno inviate da Tartaro per prendersi la loro vendetta: «Il sole non oltrepasserà le sue misure – dice Eraclito nel frammento 29 – se lo farà, le Erinni, le ministre di Giustizia, lo sorprenderanno»50. Questo linguaggio, ovviamente, è mitico, ma il pensiero non è mitico. Del resto, Eraclito non ammette questi mutamenti improvvisi, repentini e disordinati, che sono invece alquanto usuali nel pensiero mitico, come nel caso delle metamorfosi descritte nell’opera di Ovidio. Ogni mutamento ha la sua regola e la sua misura, ed è per tal ragione che l’ordine cosmico viene preservato. Con ciò noi vediamo che la filosofia greca, nel passaggio che va dal pensiero dei primi pensatori di Mileto al pensiero di Eraclito, non ha effettuato alcun lavoro distruttivo, nessun lavoro di Penelope. È vero che il concetto di sostanza nella sua prima forma, ossia la sostanza come cosa materiale immutabile, lo si dovette abbandonare; esso, infatti, non resistette alle severe critiche di Eraclito. Ma la categoria generale di sostanza si è rivelata come una fenice dissoltasi nel pensiero di Eraclito, per poi risorgere dalle ceneri con rinnovata giovinezza. Ciò che veramente è costante, durevole ed eterno, non è una materia concreta, come l’acqua o l’aria, quanto invece la regola generale, la misura, la proporzione secondo la quale tutte le singole materie mutano l’una nell’altra. Il progresso che va dal pensiero mitico al pensiero filosofico o teoretico – che secondo il nostro punto di vista è la più importante e decisiva caratteristica degli albori della filosofia greca – si fa ancora più chiaro quando passiamo alla filosofia etica di Eraclito. Eraclito non è soltanto un fisico, ma anche il maestro di un nuovo ideale morale. Egli non pensa che noi siamo in grado di trovare la verità unicamente attraverso lo studio dei fenomeni na-

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truth. The matter of his philosophy is given in few words in one of his fragments (the 80th fragment): «I have sought for myself». We must know ourselves in order to know nature and the harmony of things. But Herakleitos is perfectly aware that this is a very difficult task. He is inquiring into the harmony, the true proportion, the measure of things. But the human soul is of such a deep and complicated nature that it is not easy to grasp and to understand its measure. «You will not find the boundaries of soul by traveling in any direction, so deep is the measure of it» – says Herakleitos in the 71st fragment – That is the translation of Burnet171 – but in Greek the expression is even more characteristic: οὕτω βαθὺν λόγον ἔχει, says Herakleitos[;] that means: so deep is the Logos of the soul[,] that is to say – the rule that governs the soul. Herakleitos is concerned that even every individual soul172 has its inherent, intrinsic, individual rule. She is seeking for physical analogies to describe and explain this rule. The soul is of a dynamic not of a static character. She is never at rest; she is continually striving after new ends. In this respect she is closely related with the nature of fire – for among all the physical things fire is the most mobile one. The soul lives the life173 of fire – to lose174 this character means death for the soul. It is for this reason that a drunken man – a man whose soul is filled with the opposite element, is no longer a man at all. [«]A man when he gets drunk, says Herakleitos, in the 73th175 fragment, is led by a beardless lad, tripping, knowing not where he steps, having his soul moist[»]. [«] The dry soul – he continues in the 74th176 fragment – is the wisest and the best[»]. Of course[,] “dry” does not mean here “arid”, it means a fiery soul, a bold, strong, and ener-

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turali. Egli cerca di saggiare la parte più profonda della sua anima ed è qui che egli trova un nuovo tipo di verità. Il nocciolo della sua filosofia ci viene dato, in poche parole, in uno dei suoi frammenti: «Ho investigato me stesso»51. Dobbiamo conoscere noi stessi per conoscere la natura e l’armonia delle cose. Ma Eraclito è perfettamente cosciente della difficoltà del compito. Egli indaga l’armonia, la vera proporzione e misura delle cose. Ma l’anima umana è di una natura così profonda e complessa che non è per niente facile afferrarne e comprenderne la misura: «Non troverai i confini dell’anima viaggiando in alcuna direzione, tanto profonda è la sua misura»52. Così afferma Eraclito nel suo frammento 71, che noi abbiamo citato nella traduzione di Burnet, ma in greco è molto più caratteristico: οὕτω βαθὺν λόγον ἔχει, dice Eraclito, che significa: così profondo è il Logos dell’anima, ossia, la regola che governa l’anima. Eraclito è convinto che ogni anima individuale abbia la sua regola inerente, intrinseca, individuale. Egli cerca delle analogie fisiche per descrivere e spiegare questa regola. L’anima ha un carattere dinamico e non statico. Essa non si arresta mai, si impegna continuamente per nuovi scopi. Da questo punto di vista è strettamente correlata alla natura del fuoco, giacché tra tutte le cose fisiche il fuoco è la più mobile. L’anima vive la vita del fuoco, e la perdita di questa caratteristica implica la morte per l’anima. È per tale ragione che un uomo ubriaco – un uomo la cui anima è piena di elementi opposti – non è più un uomo. «Un uomo quando si ubriaca – dice Eraclito nel frammento 73 – è condotto da un ragazzo imberbe: incespica, non sa dove mette i piedi, avendo l’anima madida»53. «L’anima asciutta – continua nel frammento 74 – è la più saggia e la migliore»54. Ovviamente per “asciutta” Eraclito non intende “arida”, intende piuttosto un’anima

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getic soul. It means a soul like the soul of Herakleitos himself – a soul filled with powerful emotions but at the same time capable of the deepest thought to govern and to direct these emotions. Who has got such a soul will live a great life: the life of a man and the life of a thinker, whereas the [man] with a mediocre or vile soul will live a mediocre and vile life. For the life of a man is not determined by external and fortuitous circumstances; it depends on himself and his personal character. [«]Man’s character is his fate[»] – says Herakleitos in the 121st177 fragment. That is the translation of Burnet178 – but in Greek the words are even stronger and more impressive. ῏Ηθος ἄνθρωπος δαίμων – he says – the ē̂thos, the moral principle in man that it [is] his demon. We find here in the field of Ethics [is] the same emancipation from mythical thought as we found it in Herakleitos’ natural philosophy. Man is not possessed by a divine or demonic power; he has to form his life according to his own theoretical and moral judgement. He has to live the life of the Logos – and by this he will be in perfect harmony with the Universe which in itself is nothing else than the incarnation of the Logos, – the universal rule and the universal measure. Before leaving the philosophy of Herakleitos I must say a few words about a doctrine that is no less famous than his doctrine of the flux of things. In modern times the doctrine even was regarded as the central and most important part of his philosophy. It is the doctrine of the harmony or identity of the opposites or the co-existence of contraries. It was Hegel and his followers and disciples in Germany who brought this conception of Herakleitos into focus and who laid the greatest stress on it. It is true that they tried to interpret it in their own terms, in the terms of the Hegelian Logic. Herakleitos

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fiera, salda, forte ed energica. Ovvero, un’anima come quella di Eraclito stesso, un’anima piena di forti emozioni, ma al tempo stesso capace dei più profondi pensieri e in grado di governare e dirigere queste emozioni. Chi possiede una simile anima vivrà una grande vita: la vita dell’uomo e del pensatore; mentre un uomo con un’anima vile e mediocre non potrà che vivere una vita vile e mediocre. D’altra parte, la vita dell’uomo non è determinata da circostanze esterne e fortuite; essa dipende dall’uomo stesso e dal suo personale carattere. Scrive Eraclito: «Il carattere dell’uomo è il suo destino». Questa è la traduzione di Burnet, ma in greco le parole sono ancora più forti e impressionanti. ῏Ηθος ἄνθρωπος δαίμων dice Eraclito, l’ethos, il principio morale nell’uomo, è il suo demone. Nel campo dell’etica rileviamo quella stessa emancipazione dal pensiero mitico, da noi già rinvenuta nella filosofia naturale di Eraclito. L’uomo non è posseduto da un potere divino o demoniaco; egli stesso deve dare forma alla sua vita sulla base del giudizio teoretico e morale. Egli deve vivere la vita del Logos e così facendo potrà vivere in perfetta armonia con l’universo, che in se stesso non è nient’altro che l’incarnazione del Logos, la regola universale e la misura universale. Prima di terminare la nostra trattazione della filosofia di Eraclito vorrei spendere alcune parole su una dottrina, non meno famosa della sua dottrina del divenire delle cose. Nei tempi moderni questa dottrina è stata addirittura considerata come la parte centrale e più importante della sua filosofia. È la dottrina dell’armonia e dell’identità degli opposti o co-esistenza dei contrari. È stato Hegel (e i suoi seguaci e discepoli in Germania) ad aver dedicato la più grande attenzione a questa concezione di Eraclito. È pur vero che questi ultimi hanno interpretato tale dottrina nei loro propri termini, nei termini della lo-

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was declared to [be] the great predecessor of Hegel in ancient times. He was considered as the founder and teacher of a new Logic, which, like the logic of Hegel, dispendes with the principle of contradiction and combatted this principle. I cannot enter here into a discussion of this problem because I cannot presuppose here a knowledge of Hegel’s own logical system. All I wish to say is that to my mind we had better avoid this modern point of view in order to come to a clear historical understanding of the doctrine of Herakleitos. The Hegelian categories when applied to Herakleitos have much more obscured than illuminated his thought. Herakleitos did by no means to attack that principle which in our textbooks is called principle of identity and contradiction. This principle is of a later date – in Greek thought we can trace its first origin down to the thinkers of the Eleatic School – to Parmenides and Zeno. What Herakleitos says is of quite a different character. He was the first to describe reality not as a steadfast, stable permanent thing, but as a continual process179. For a modern reader there is perhaps no easier access to the philosophy of Herakleitos than to study the same problem in our contemporary Metaphysics. Those of you are acquainted with the works of Bergson or with Whitehead’s book: Process and Reality will have no difficult to understand the philosophy of Herakleitos – he is, to my mind, in much closer relation to Bergson and Whitehead than to Hegel. But if life – the life of nature and the life of man – is a process – there must always be a tension between opposite extremes. The motion of life consists in oscillating from one pole to another. But both poles are indispensable for the very essence of life, we cannot miss one of them without destroying the other. Without this continual strife between the op-

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gica hegeliana. Eraclito è stato infatti dichiarato come il grande predecessore di Hegel. È stato considerato come il grande fondatore e maestro di una nuova logica che, al pari della logica di Hegel, è dispensata dal principio di contraddizione, contro il quale combatté. Non posso addentrarmi in una discussione su questo problema, giacché non posso presupporre che voi conosciate il sistema logico di Hegel. Ciò che intendo affermare è che, a mio modo di vedere, faremmo bene a evitare questo punto di vista moderno per pervenire a una chiara comprensione storica della dottrina di Eraclito. Le categorie hegeliane, quando applicate a Eraclito, rendono il suo pensiero ancora più oscuro, piuttosto che chiaro. Eraclito non attaccò mai quel principio che, nei nostri manuali di logica, viene chiamato principio di identità e principio di contraddizione. Questo principio è di un periodo successivo; nel pensiero greco possiamo rintracciarne le origini nei pensatori della Scuola eleatica: Parmenide e Zenone. Quanto affermato da Eraclito è piuttosto diverso. Egli fu il primo a descrivere la realtà come un qualcosa di saldo, stabile, permanente, ma in continuo processo. Per un lettore moderno non vi è alcun altro accesso alla filosofia di Eraclito, se non tramite lo studio dello stesso problema nella nostra metafisica contemporanea. Quelli di voi che conoscono le opere di Bergson o il libro di Whitehead Processo e realtà, non avranno alcuna difficoltà a comprendere la filosofia di Eraclito. Io ritengo infatti che la filosofia di Eraclito stia in una relazione molto più stretta con Bergson e Whitehead, piuttosto che con Hegel. Ma se la vita – la vita della natura e la vita dell’uomo – è un processo, allora vi è sempre una tensione tra gli opposti estremi. Ma entrambi questi poli sono indispensabili per l’essenza della vita e non possiamo rinunciare a uno senza distruggere l’altro. Senza questo conflitto tra gli opposti,

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posites life would be impossible and meaningless. For this reason[,] Herakleitos blames all those who wish to exclude strife and war from the life of man. [«]War – he declares – is the father of all things (frag. 44)[»]. Quoting a passage from Homer Herakleitos says that Homer did not understand himself when he exclaimed: [«]Would that strife might perish from among gods and men[»]. «He did not see – he tells us – that he was praying for the destruction of the universe; for, if his prayer were heard, all things would pass away» (fragm. 43). Moreover[,] Herakleitos insists on the fact, that this fundamental process, this oscillation from one extreme to another has no one-sided, unilateral direction. It is a cyclical motion that had no beginning and no end; that does not start from a certain point and does not cease in a certain point. In the circumference of a circle – says Herakleitos – [«]the beginning and end are common[»] (frag. 70). In his Physics Herakleitos speaks of a double way: the upward and downward path. If fire is changed in water – then he sinks, as it were, down – it goes downward path. But if water or earth are turned into fire[,] they go the upward path. But in that circular process which constitutes our physical world both motions are indispensable. No direction has a privilege over the other. We may, therefore, say that both of them coincide with each other: [«]the way up and the way down is one and the same[»] (fr. 69). The same holds good for the life of the soul. Even the soul is a harmony which is bound up by different and opposed elements. There would be no consonance in the soul without a corresponding dissonance. In this respect nature and the human soul are compared by Herakleitos to a lyre or to a bow. Neither the lyre nor the bow could do their work without a tension between the different chords180 or the different parts of the bow. The bow must be bent, the strings

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la vita sarebbe impossibile e senza senso. Per questa ragione Eraclito biasima tutti coloro che desiderano escludere la lotta e il conflitto dalla vita dell’uomo. Dichiara Eraclito: «Conflitto è il padre di tutte le cose»55. Citando un passaggio di Omero, Eraclito afferma che quest’ultimo non comprese se stesso quando esclamò: «Possa perire questa discordia tra gli dèi e gli uomini»; ma, risponde Eraclito, Omero «non si è accorto che stava pregando per la distruzione dell’universo; perché, se la sua preghiera fosse stata ascoltata, tutte le cose sarebbero trapassate». Inoltre, Eraclito insiste sul fatto che questo fondamentale processo, questa oscillazione da un estremo all’altro, non ha una direzione univoca, unilaterale. Essa è costituita da un movimento ciclico che non ha né inizio né fine; non parte da un certo punto per poi cessare in un altro. Nella circonferenza di un cerchio – afferma Eraclito – «l’inizio e la fine sono comuni»56. Nella sua fisica Eraclito parla di una doppia via: quella verso l’alto e quella verso il basso. Se il fuoco si muta in acqua, allora affonda come se stesse andando giù, segue il percorso verso il basso. Ma se l’acqua o la terra si tramutano in fuoco, allora seguono il percorso verso l’alto. Ma in questo processo circolare, che costituisce il nostro mondo fisico, entrambi i movimenti sono indispensabili. Nessuna direzione è privilegiata rispetto a un’altra. Possiamo tutt’al più affermare che entrambe coincidono l’una con l’altra: «la via verso l’alto e la via verso il basso sono una e medesima» (frammento 69). Lo stesso vale per la vita dell’anima. Anche l’anima è un’armonia legata a diversi e opposti elementi. Non vi sarebbe alcuna consonanza nell’anima senza una corrispondente dissonanza. A tal proposito, Eraclito paragona la natura e l’anima umana a una lira o a un arco. Né la lira né l’arco potrebbero funzionare senza una tensione tra le diverse corde o diverse parti dell’arco. L’arco deve

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must be stretched. Everywhere in the universe we find the same necessity of tensione and relaxation. Men do not know – says Herakleitos in the 45th181 fragm – [«]how what is at variance agrees with itself. It is an attunement of opposite tensions, like that of the bow and the lyre[»]. In nature, in life, in the human soul the extremes – far from excluding each other – are therefore correlative to each other. It is clear that this thought is in perfect concordance with Herakleitos’ fundamental view. As a matter of fact[,] it is only a corollary, a new expression of this view. Herakleitos is very rich in similes all of which aim at the same end to provide different symbols for this unity of the opposites. [«]God – he says – (fragm. 36) is day and night, winter and summer, war and peace, surfeit and hunger; but he takes various shapes, just as fire, when it is mingled with spices, is named according to the savor of each[»]. Even life and death are only two different aspects of one and the same indivual process: «it is the same thing in us that is quick and dead, awake and asleep, young and old; the former are shifted and become the latter, and the latter in turn are shifted and become the former» (fragm. 78). The universe may be said to be at rest[,] and it may be said to be in continual change for it knows of no other rest than it change; it rests by changing – as Herakleitos says (fr. 83). By all this I have given you a complete survey of all what is contained in the fragments of Herakleitos. I hope182 I could convince you of the fact that we give not his due to Herakleitos if we regard him as a very obscure thinker – as the “dark philosopher”. To my mind he is perfectly clear in his fundamental intention and his fundamental intuition – and he did find very characteristic and striking symbols for expressing his thought.

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stare in tensione, le corde tirate. Ovunque nell’universo troviamo la medesima necessità della tensione e del rilassamento. Gli uomini non sanno – dice Eraclito nel frammento 45 – «come ciò che è in disaccordo è in accordo con se stesso. È una sintonizzazione di tensioni opposte, come quella dell’arco e della lira»57. In natura, nella vita, nell’anima umana, gli estremi – lungi dall’escludersi reciprocamente – si trovano in uno stato correlativo. È chiaro che questo pensiero si trova in perfetto accordo con la concezione fondamentale di Eraclito. Di fatto, non è solo un corollario, una nuova espressione di questa concezione. Il pensiero di Eraclito è pieno di similitudini, le quali sono tutte dirette allo stesso fine: fornire diversi simboli per l’unità degli opposti. Scrive Eraclito nel fr. 36: «Dio è giorno e notte, inverno ed estate, guerra e pace, sazietà e fame; ma assume varie forme, proprio come il fuoco, quando si mescoli con le spezie, è chiamato secondo il sapore di ciascuna»58. Anche la vita e la morte sono soltanto due differenti aspetti di uno stesso processo individuale: «È la stessa cosa in noi vivo e morto, sveglio e dormiente, giovane e vecchio; le prime mutano e divengono le seconde, e le seconde a loro volta mutano e divengono le prime»59. Si può sostenere che l’universo sia a riposo e si può dire che sia in continuo mutamento, poiché non conosce altro riposo che non sia il suo mutamento; «si riposa mutando»60, afferma Eraclito. Con ciò vi ho fornito una rassegna completa di tutto ciò che è contenuto nei frammenti di Eraclito. Spero di essere riuscito a convincervi che non sarebbe corretto considerare Eraclito come un pensatore oscuro, come l’“oscuro filosofo”. A mio avviso, egli è del tutto chiaro nel suo intento fondamentale e nella sua intuizione fondamentale, facendo ricorso a simboli piuttosto caratteristici e suggestivi per esprimere il suo pensiero.

chapter iii

PYTHAGORAS AND THE PYTHAGOREANS183 If from the doctrine of Herakleitos we pass to the philosophy of Pythagoras and the Pythagoreans we have to face a new difficulty, which in a sense is the very opposite of the difficulty we meet in the case of Herakleitos. In the first case we had to complain of the lack in our evidence, in our historical sources; here we have to complain the abundance of these sources. We seem to have an overwhelming material, we have detailed descriptions of the life of Pythagoras himself, of the institutions, the habits and customs of the Pythagorean School, of their religious ideas and their mystical doctrines. But all this is very doubtful and unreliable; it is mixed up with many legendary features that in most cases are quite incredible. Here I wish to omit and to exclude all these later sources and all these legends on the life and doctrine of Pythagoras. With regard to the founder of the school, to Pythagoras himself I restrict myself to the only antique witness who is really trustworthy – because he belongs to the same period as Pythagoras and because himself is a philosopher. It is the witness of Empedokles. Empedokles speaks of Pythagoras with the greatest admiration. «There was a man of rare knowledge», he tells us, «most skilled in all manner of wise works, a man who had won the utmost wealth of wisdom: for whenever he strained with all his mind he easily saw anything of all the things that are, in ten, yea twenty lifetimes of men» (Empedokles, fragm. 129 Burnet p. 224). We learn from these words that Empedokles speaks of Pythagoras not only as a philosopher or scientist, but as a religious teacher and as a sort of prophet. We know

cap. iii

PITAGORA E I PITAGORICI Passando dalla dottrina di Eraclito alla filosofia di Pitagora e dei Pitagorici, ci troviamo di fronte a una nuova difficoltà; quest’ultima, in un certo senso, è opposta a quella incontrata nel caso di Eraclito. Difatti, nel caso di Eraclito, abbiamo dovuto lamentare una certa mancanza di prove, di fonti storiche; invece, nel caso di Pitagora e dei Pitagorici, dobbiamo constatare un eccesso di fonti. Abbiamo infatti un enorme materiale: descrizioni dettagliate sulla vita di Pitagora, sulle istituzioni, sugli usi e costumi della Scuola pitagorica, sulle sue idee religiose e sulle sue dottrine mistiche. Ma tutto questo materiale è piuttosto incerto e inaffidabile, mescolato inoltre con molti aspetti leggendari, che nella maggior parte dei casi hanno dell’incredibile. In tal caso desidero omettere ed eludere tutte queste fonti e tutte queste leggende sulla vita e sulla dottrina di Pitagora. Per quel che concerne il fondatore della Scuola pitagorica, mi limiterò al solo testimone antico effettivamente attendibile, poiché non soltanto egli stesso era un filosofo, ma visse anche nello stesso periodo di Pitagora. Questo testimone è Empedocle. Empedocle parla di Pitagora con la più grande ammirazione: «Vi era un uomo di rara conoscenza», ci dice, «più abile in ogni sorta di opere sapienti, un uomo che aveva guadagnato la massima ricchezza in saggezza: poiché ogni volta che si sforzava con tutta la sua mente vedeva facilmente qualsiasi delle cose che sono in dieci, sì, venti generazioni di uomini»61. Da queste parole apprendiamo che Empedocle parla di Pitagora non soltanto come di un filosofo o scienziato, ma anche come di un maestro religioso e come una sorta di profeta. Dalla stes-

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from the same source – from a fragment of Empedokles – that Pythagoras was a representative of the so-called Orphic religion and theology. Orphic theology is a very important phenomenon the full knowledge of which is indispensable for an interpretation of Greek religion and Greek philosophy. It had a decisive influence not only upon the Pythagorean doctrine but also upon the Platonic doctrine of the soul. But now I cannot dwell upon this very interesting subject. If you wish to study a good book on the subject, and a very attractive one, I give you the advice to read the book of Erwin Rohde, Psyche184. An English translation of this book was published in the year 1925. Like other Orphic theologians Pythagoras firmly believed in a transmigration of the human soul. After her death the soul may enter into all sorts of human and even animal shapes. There is a continual “wheel of birth” to which the soul is transfixed – until, at last, it will win her freedom; it will be released from the prison of the body and return to her own original spiritual nature. As Empedokles relates, Pythagoras when he saw a dog being maltreated exclaimed: «Leave off beating this dog, for I recognize in his tones the voice of the soul of a friend». How could one of the greatest mathematicians and scientists that ever has appeared in human history uphold such a mystical theory? Is there any connecting link between the mathematician and the Orphic theologian – between the philosopher and the hierophant and mystagogue? I think we can find this link. Pythagoras was not a scientist in our modern sense. He did not ask his questions and he did not make his fundamental investigations for the mere satisfaction of an intellectual curiosity. If we nowadays speak of Pythagoras[,] we always connect his name with his famous theorem. But this theorem is by no means a

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sa fonte – ossia da un frammento di Empedocle – sappiamo anche che Pitagora fu un esponente della cosiddetta religione e teologia orfica. La religione orfica è un fenomeno molto importante, la cui completa conoscenza è indispensabile per l’interpretazione della religione greca e della filosofia greca. Essa ha esercitato un’influenza decisiva non soltanto sulla dottrina pitagorica ma anche sulla dottrina platonica dell’anima. Ma adesso non posso dilungarmi su questo tema così affascinante. Se desiderate studiare un buon libro su questo argomento, allora vi consiglio di leggere il volume di Erwin Rohde, Psyche62. Una traduzione inglese è stata pubblicata nel 1925. Come tanti altri teologi orfici, Pitagora credeva fermamente nella trasmigazione dell’anima umana. Dopo la morte l’anima sarebbe entrata in tutti i tipi di forme umane e animali. C’è una continua “ruota della nascita” alla quale l’anima viene inchiodata, almeno fino a quando essa non avrà conquistato la sua libertà. Essa verrà poi liberata dalla prigione del corpo per ritornare alla sua originaria natura spirituale. Come ci testimonia Empedocle, Pitagora, quando vide un cane che veniva maltrattato, esclamò: «Smetti di percuotere questo cane, poiché riconosco nei suoi toni la voce dell’anima di un amico»63. Com’è possibile che uno dei più grandi matematici e scienziati mai apparsi nella storia umana abbia sostenuto una simile teoria mistica? Vi è una qualche connessione tra la matematica e la teologia orfica? Tra il filosofo e lo ierofante e mistagogo? Penso sia possibile trovare questo legame. Pitagora non fu uno scienziato nel nostro senso moderno. Egli non si poneva domande e non faceva le sue ricerche fondamentali per soddisfare una mera curiosità intellettuale. Quando oggi parliamo di Pitagora, colleghiamo sempre il suo nome al suo famoso teorema. Ma questo teorema

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discovery of Pythagoras. We find it, although in a more restricted sense, and applied to special cases, in a much earlier stage of the history of Mathematics; it is mentioned in some Egyptian and Indian sources. What was really new with Pythagoras was not the theorem itself – but the way in which he proved it and in which he conceived it as a general mathematical truth. Such a universality had not been reached before the times of the Greeks. The truth that in a rectangular triangle the square of the hypothenuse is equal to the sum of the squares on the two other sides has been ascertained by special examples and by a concrete measurement. But Pythagoras was not content with such a method. He did not find a perfectly unknown mathematical truth; but he introduced a new standard of mathematical truth – the first really philosophical185 standard. Eudem186, one of the great Greek mathematicians, the precursor and the real teacher of Euclid, says that Pythagoras was the first who transformed Geometry into a “free science” – a “liberal art” as it was called later on. He did not seek geometrical truth for practical purposes. The very name “Geometry” reminds us of the fact that Geometry was a practical art before it became a theoretical science. Herodotus tells us that the Egyptian priests had to invent this art – the art of land-surveying – because the regular inundations of the Nile destroyed all the material boundary-posts that separated the different fields. Egyptian geometry shows still many traces of this first origin. But Pythagoras made a new step. He laid down the theoretical principles of the science of Mathematics; he taught the Geometers a new method; the method of deduction, of rational proof. And we find the same characteristic feature not only

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non è in alcun modo una scoperta di Pitagora. Infatti, sebbene in un senso più ristretto, lo troviamo applicato a casi speciali in una fase molto precedente della storia della matematica; viene infatti menzionato in alcune fonti egizie e indiane. Ciò che vi era di nuovo in Pitagora non era tanto il teorema in sé, ma il modo in cui egli lo dimostrò e il modo in cui lo concepì come una verità matematica generale. Una universalità del genere non è mai stata raggiunta prima dei tempi dei Greci. La verità secondo cui in un triangolo rettangolo il quadrato costruito sull’ipotenusa è equivalente alla somma dei quadrati costruiti sui due cateti, venne accertata con esempi particolari e con una misurazione concreta. Ma Pitagora non si accontentò di un simile metodo. Egli non trovò una verità matematica perfettamente sconosciuta, ma introdusse invece un nuovo criterio per la verità matematica, il primo criterio veramente filosofico. Eudemo, un grande matematico greco, precursore e vero maestro di Euclide, dice che Pitagora fu il primo ad aver trasformato la geometria in una “scienza libera”, in un’“arte liberale”, come venne chiamata in seguito64. Egli non ricercava la verità geometrica per scopi pratici. Il nome “geometria” ci ricorda il fatto che quest’ultima, prima che diventasse una scienza teoretica, altro non era che un’arte pratica. Erodoto ci dice che i sacerdoti egizi avevano inventato questa arte, ossia l’arte dell’agrimensura, giacché le inondazioni regolari del Nilo distruggevano tutte le linee di confine che separavano i diversi campi. La geometria egizia mostra ancora le tracce di questa prima origine. Ma Pitagora fece un nuovo passo. Egli pose i princìpi teoretici della scienza della matematica, insegnò ai geometri un nuovo metodo, ovvero il metodo della deduzione, della prova razionale. Troviamo lo stesso aspetto caratteristico non soltanto nella matematica, ma anche

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in his mathematical but even in his religious conception. Pythagoras did by no means reject the ritualism of Orphic religion. But he did not think that the performance of special rites, of practical observances is enough for liberating the human soul from the wheel of birth. What he demanded from his pupils was much more. It was a perfect change of mind; a new direction and tendency of the human soul, a new theoretical attitude. Science itself became a religious study. Most of you should be acquainted with a little anecdote that relates us that Pythagoras after having discovered his theorem celebrated this discovery by a great sacrifice offered to the Gods, by the slaughter of a hecatomb – that means of a hundred oxen. If this story is true – then it was perhaps the first time that such a religious and ritual act was performed not for any individual purpose or for any social and practical interest, but for the sake of science, of a new scientific insight. But the first great discovery of Pythagoras seems to belong to a different field187. § 1: The Sources If from the doctrine of Herakleitos we pass to the philosophy of Pythagoras and the Pythagoreans[,] we have to face a new difficulty. In the case of Herakleitos, we had to complain of the lack of our evidence. What is left of his book are only a few fragments – and these fragments are scattered pieces. It needs a great critical effort and an effort of thought to bring them into the right order and to understand their systematic connexion. But if we succeed in this task[,] we have the feeling that we stand on firm ground. Our evidence is scarce – but it is perfectly reliable. Every word and every sentence of Herakleitos bears the seal of his philosophical

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nella sua concezione religiosa. Pitagora non rigetta in alcun modo il ritualismo della religione orfica. Non pensava che l’esecuzione di riti speciali, di osservanze pratiche fosse sufficiente per liberare l’anima umana dalla ruota della nascita65. Esigeva molto più dai suoi allievi; ovvero un ripensamento, una nuova direzione e tendenza dell’anima umana, una nuova attitudine teoretica. La scienza stessa divenne uno studio religioso. Molti di voi conosceranno l’aneddoto secondo cui Pitagora, dopo aver scoperto il suo teorema, celebrò questa scoperta con un grande sacrificio offerto agli dèi, con un’ecatombe – ovvero l’uccisione di cento capi di bestiame. Se questa storia è vera, allora è stata forse la prima volta che un tale atto rituale e religioso venne eseguito non per scopi personali, per qualche interesse sociale o pratico, ma piuttosto per il bene stesso della scienza e di una nuova concezione scientifica. Ma la prima scoperta di Pitagora, invece, sembra appartenere a un campo differente. 1. Le fonti Se dalla dottrina di Eraclito passiamo alla filosofia di Pitagora e dei Pitagorici, ci vediamo costretti ad affrontare una nuova difficoltà. Nel caso di Eraclito ci siamo lamentati di una mancanza di prove. Ciò che ci rimane della sua opera sono soltanto alcuni frammenti sparsi. Si ha bisogno di un grande sforzo critico e di pensiero, per conferire loro il giusto ordine e comprenderli nella loro sistematica connessione. Ma se riusciamo in questo compito, avremo la sensazione di poggiare su un terreno solido. La nostra evidenza è scarsa, ma quantomeno affidabile. Ogni parola e ogni sentenza di Eraclito porta il sigillo del suo genio filosofico e ci mostra il carattere del

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genius and shows us the character of his very original and inimitable style. We cannot doubt the authenticity of any of the fragments that have been transmitted to us under the name of Herakleitos. But in the case of Pythagoras[,] we meet the opposite difficulty. We have not to complain of the want or the scarcity of sources but of the abundance of sources. About of no other Greek thinkers we know so little as about Pythagoras and his disciples. We know very much – for we have tales of every sort concerning the life of Pythagoras sect, the special beliefs[,] and rules of the Pythagorean brotherhood. But most of these tales are entirely legendary; we cannot ascribe to them any historical value. There are for instance many biographies of Pythagoras – written by later authors, by the so-called Neo-Platonists or Neo-Pythagoreans, in which his life is described like the life of a sorcerer or a wonder-worker. The most fantastic stories and legends are related about his life; and most of the things ascribed to him are perfectly incredible and unreliable. It needed a very great critical effort to sift the chaff from the wheat in our sources about Pythagoras and the early Pythagoreans. A famous classical scholar of the 19th century, August Boeckh, wrote a book on the fragments of Philolaus, the most famous disciple of Pythagoras, in which he laid a firm ground to our study of the sources of Pythagoreanism. In the last decades we have very much advanced in this direction. But there still remain many questions which for the time being admit of no definite answer. I cannot enter here in a learned discussion of this rather difficult philological problem. You will find all the necessary instructions188 about this subject in Burnet’s book Early Greek Philosophy that, as I suppose

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suo stile inimitabile e originale. Non possiamo dubitare dell’autenticità dei frammenti che ci sono stati trasmessi sotto il nome di Eraclito. Ma nel caso di Pitagora incontriamo invece la difficoltà opposta. Non dobbiamo lamentarci della mancanza o scarsità di fonti, quanto invece della loro abbondanza. Di nessun altro pensatore conosciamo così tanto, ma al tempo stesso così poco, come nel caso di Pitagora e dei Pitagorici. Sappiamo molte cose, giacché siamo a conoscenza di molti racconti su ciò che riguarda la vita di Pitagora, il suo insegnamento, il carattere della setta pitagorica, le speciali credenze e regole della confraternita pitagorica. Ma molti di questi racconti sono interamente leggendari, per cui non possiamo attribuire loro alcun valore storico. Ad esempio, vi sono molte biografie su Pitagora, scritte da autori a lui successivi, i considdetti Neoplatonici o Neopitagorici, nelle quali la vita di Pitagora viene descritta come la vita di uno stregone o taumaturgo. Alla sua vita sono legate le storie e le leggende più fantasiose, e la maggior parte delle cose a lui attribuite sono assolutamente incredibili e inattendibili. C’è voluto uno sforzo critico piuttosto notevole per setacciare la pula dal grano nelle nostre fonti su Pitagora e sui primi Pitagorici. Un famoso studioso classico del diciannovesimo secolo, August Boeckh, scrisse un volume sui frammenti di Filolao, il più famoso discepolo di Pitagora, col quale pose delle solide basi per il nostro studio sulle fonti del Pitagorismo. Negli ultimi decenni abbiamo fatto molti progressi in questa direzione. Ma rimangono ancora molte questioni che, per adesso, non consentono alcuna risposta definitiva. Non posso addentrarmi in una dotta discussione su questo arduo problema filologico. Su questo tema troverete tutte le informazioni necessarie nel libro di Burnet La prima filosofia greca, che probabilmente

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you have in your hands. According to the general plan of these lectures we have to concentrate our thought upon one fundamental problem. We have to determine the place of Pythagoras and his pupils in the general evolution of Greek thought; we have to ask ourselves which new category and which new method of thought has been introduced and firmly established by these thinkers. § 2: The religious foundations of the Pythagorean system There can be no doubt that Pythagoras is not only a scientist – in the sense in which we may speak of the first Ionian thinkers, of Thales, Anaximander, Anaximenes as scientists. It is true that he worked in all fields of Greek science: in Geometry, in Music, in Astronomy. And all we know of him convinces us that he was one of the most comprehensive and most powerful scientific geniuses of all times. Even Herakleitos who speaks with contempt of the science of Pythagoras, who thinks him to be a polymath or polyhistor, not a true philosopher, had to admit this: [«]Pythagoras[»] – he says – [«]has practiced research and inquiry more than all other men, and has made up his wisdom out of polymathy and out of bad arts[»]. Certainly[,] we shall not assent to this judgement if we bear in mind that the “bad arts” cultivated by Pythagoras were the arts of Music, Arithmetic and Geometry, of Acoustics and Astronomy. Even in ancient times Pythagoras was regarded as a man who had acquired an incomparable wisdom in the most various fields of knowledge. Empedokles – a Greek thinker of the fifth century – says of Pythagoras that he was a man of rare knowledge, [«]most skilled in all manner of wise works, a man who had won the utmost wealth of wisdom; for whensoever189 he strained

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avete fra le mani. Secondo il piano generale di queste lezioni, dobbiamo concentrare il nostro pensiero su un problema fondamentale. Dobbiamo determinare il posto di Pitagora e dei suoi allievi nell’evoluzione generale del pensiero greco; dobbiamo chiederci quale nuova categoria e quale nuovo metodo di pensiero questi pensatori hanno introdotto e consolidato. 2. I fondamenti religiosi del sistema pitagorico Pitagora, indubbiamente, non fu soltanto uno scienziato, nel senso in cui lo furono i primi pensatori ionici come Talete, Anassimandro e Anassimene. È vero che egli lavorò in tutti i campi della scienza greca: geometria, musica, astronomia. Tutto ciò che sappiamo di lui conferma che si trattava di uno dei geni scientifici più grandi e potenti di tutti i tempi. Anche Eraclito, sebbene parlasse con disprezzo della scienza di Pitagora e sebbene lo considerasse più un eclettico che un filosofo, dovette ammettere quanto segue: «Pitagora – egli dice – ha praticato ricerca e indagine più di tutti gli altri uomini, e ha tratto la sua saggezza dall’erudizione e dalle cattive arti»66. Di certo non ci troviamo d’accordo con questo giudizio, se pensiamo al fatto che le “male arti” coltivate da Pitagora furono arti come la musica, l’aritmetica, la geometria, l’acustica e l’astronomia. Anche nell’antichità, Pitagora veniva visto come un uomo che aveva acquisito un’incomparabile saggezza nei campi più vari della conoscenza. Empedocle, un pensatore greco del quinto secolo, a proposito di Pitagora afferma che era un uomo di rara conoscenza «un uomo che aveva guadagnato la massima ricchezza in saggezza; poiché ogniqualvolta si sforzava con tutta la

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with all his mind, he easily saw everything of all the things that are, in ten, yea, twenty lifetimes of men[»] (Emped., fragm. 129, Burnet p. 224). That is a very high praise – but it is confirmed by all we know of the life of Pythagoras and of his scientific work. He begins as a religious and moral teacher. He is born in Samos, a little Greek island; but he left his native country because of political reasons. When Polycrates usurped the political power in Samos, Pythagoras left the island. He went to Croton – a Greek colony in Southern Italy. In this new environment he immediately gave the strongest proofs of his power of thought and his power of organizations. He became the founder of a school that did not only occupy itself with philosophical or scientific problems but strived after a general political and religious reform. For a certain time[,] this school governed the whole social life of the colony. But, then, probably after the death of Pythagoras, there came a sudden and violent reaction. The Pythagoreans were attacked; the community-house in which they used to have their assemblies190 was burnt; most of them lost their lives. Only a few of them could escape; they went to different parts of Greece, to Athens or Thebes. This circumstance proved to be fruitful for the further development and for the propagation of Pythagorean thought. In nearly all the parts of Greece, the expelled Pythagorean scholars seem to have exerted a strong influence. We are told by Epaminondas191, the greatest statesman of Thebes, received instructions from a Pythagorean teacher. In the Platonic dialogue Phedon we meet with disciples of Socrates, Simmias and Kébes192, who when still living in Thebes had been the pupils of the famous Pythagorean Philolaus. And it is a well-known193 fact which decisive influence the acquaintance and friendship with Archytas, the Pythagorean of Taranto194, had on the develop-

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sua mente, vedeva facilmente qualsiasi delle cose che sono in dieci, sì, venti generazioni di uomini»67. Questo elogio è piuttosto significativo, ma trova conferma in ciò che sappiamo sulla vita di Pitagora e sul suo lavoro scientifico. Egli esordì come insegnante religioso e morale. Nacque a Samo, una piccola isola greca, ma lasciò la sua terra natìa per ragioni politiche. Quando Policrate usurpò il potere politico a Samo, Pitagora dovette abbandonare l’isola. Egli si recò a Crotone, una colonia greca nel Sud Italia. In questo nuovo ambiente, egli diede immediatamente prova della sua potenza di pensiero e della sua capacità di organizzazione. Difatti, divenne il fondatore di una scuola che non si occupava solamente di problemi filosofici e scientifici, ma era impegnata anche in una generale riforma politica e religiosa. Per un po’ di tempo la scuola governò l’intera vita sociale della colonia. Ma in seguito, probabilmente dopo la morte di Pitagora, si verificò una improvvisa e violenta reazione. I Pitagorici vennero attaccati; la loro residenza, nella quale solevano tenere le loro assemblee, venne bruciata e molti di loro persero la vita. Soltanto alcuni riuscirono a fuggire e a recarsi in diverse zone della Grecia, come Atene o Tebe. Questa circostanza, tuttavia, si rivelò feconda per il successivo sviluppo e la propagazione del pensiero pitagorico. In quasi tutte le zone della Grecia gli studiosi pitagorici, in precedenza espulsi, esercitarono una forte influenza. Si dice che Epaminonda, il più grande statista di Tebe, ricevette la sua istruzione da un Pitagorico. Nel Fedone di Platone incontriamo i discepoli di Socrate Simmia e Cebete i quali, quando ancora vivevano a Tebe, furono allievi del famoso pitagorico Filolao. È inoltre ben noto quanta influenza ebbe sulla mente e sulla dottrina di Platone la familiarità e amicizia con Archita, il pitago-

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ment of the mind and the doctrine of Plato. I think we can affirm without any exaggeration that without this influence there would not be such a thing as the Platonic doctrine of ideas. In all this the two different threads – the thread of religious and scientific thought – are so closely interwoven with each other, that historically speaking, we can scarcely saprate them. Nevertheless, from a systematic point of view, we are entitled[,] and we are bound to make a distinction between both of them. Our first question is the relation of science and religion in the philosophy of the Pythagoreans. What we find first is the close connection between the doctrine of Pythagoras and the so-called Orphic Religion and Theology195. It is not easy to give you a clear insight into the true character of this religion. The problem is of great importance from the point of view of a general history of religion – and it has been studied very carefully. If you wish to read a good book about the subject, I recommend you the book of Erwin Rohde, Psyche, the cult of the souls and the belief in immortality among the Greeks (Engl. trans. 1925), in which you will find a very clear and impressive description of Orphic religion and of the wild worship of the God Dionysos. Some of you are perhaps acquainted with these Dionysian196 cults by having read the book of Nietzsche (Die Geburt der Tragödie aus der Geister der Musik) “The birth of tragedy”. But here I cannot enter into any learned discussion of this highly interesting subject. Fortunately[,] there is an easier way for understanding what these Dionysian cults really were – a way that I recommend you very warmly. In order to have an immediate, concrete, vivid impression of these cults you need not [to] study the vast literature on the subject. For this purpose[,] it is much better to read one of

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rico di Taranto. Ritengo si possa affermare, senza esagerazioni, che senza tale influenza nemmeno la dottrina platonica delle idee sarebbe stata possibile. Questi due ambiti – quello del pensiero religioso e quello del pensiero scientifico – sono talmente intrecciati tra loro che, storicamente parlando, a malapena possiamo scinderli. Cionondimeno, da un punto di vista sistematico, abbiamo il diritto e il dovere di distinguerli. La nostra prima questione concerne la relazione tra scienza e religione nella filosofia dei Pitagorici. Il primo aspetto che qui riscontriamo è, innanzitutto, la stretta connessione tra la dottrina di Pitagora e la cosiddetta religione e teologia orfica. Non è facile fornirvi una panoramica chiara dell’autentico carattere di questa religione. Il fenomeno, dal punto di vista di una storia generale della religione, è di grande importanza ed è anche stata studiata in modo accurato. Se desiderate leggere un buon libro su questo tema, vi raccomando il libro di Erwin Rohde Psyche, il culto dell’anima e la credenza nell’immortalità fra i Greci (trad. inglese 1925), all’interno del quale troverete una descrizione piuttosto chiara e notevole della religione orfica e dell’adorazione del dio Dioniso. Alcuni di voi avranno forse familiarità con i culti dionisiaci, avendo letto il libro di Nietzsche Die Geburt der Tragödie aus der Geister der Musik (La nascita della tragedia dallo spirito della musica), ma qui non posso addentrarmi in una dotta discussione su questo argomento così interessante. Fortunatamente, c’è un modo ancora più semplice per comprendere cosa fossero realmente questi culti dionisiaci – un modo che vi raccomando calorosamente. Per avere un’immediata, concreta, intensa impressione del culto, non avete la necessità di studiare la vasta letteratura sul tema. A tale scopo fareste meglio a leggere uno dei più grandi capo-

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the greatest masterpieces of Greek poetry: the Bakchai of Euripides. And you will have no difficulty to read this tragedy; for we have an excellent English version of it, made by one of the great masters of classical philology who at the same time is a real poet: Gilbert Murray197. The name “Orphic Theology” is derived from Orpheus, that famous legendary poet and singer, who, according to the legend, by the power of his songs was able to move the rocks. The principal theme of this Orphic religion is the fate of human soul after his death. It describes how the soul of man, how by his own fault, losts his spiritual nature and was transfixed to the body. Here she lives no longer her own life; she lives like a prisoner in his cell. And even by the death of man the soul cannot be freed from her imprisonment. For death does not mean a separation of the body, it means only that the soul from one bodily shape passes to another bodily shape. There is no escape from this continual “wheel of birth” except by the strict observation of certain strict observances and rules that are taught by the Orphics. A man who performs these rites will finally get rid of his bodily life; he will be released from his prison. His soul will no longer live in the tomb of his body; she will return to her original immaterial nature. We find the same features in the religion of the Pythagoreans. They also strived to release the soul from wheel of birth198. They believed in the transmigration of souls, even in the transmigration of souls into animals. We have a striking evidence that Pythagoras himself maintained these views, which at first sight may appear very strange in such a powerful thinker. Empedocles tells us in one of his poems that Pythagoras, seeing a dog being maltreated exclaimed: [«]

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lavori della poesia greca: Le Baccanti di Euripide. Non avrete difficoltà a leggerla, giacché esiste una eccellente versione in inglese curata da uno dei più grandi maestri di filologia classica e, al tempo stesso, grande poeta: Gilbert Murray. Il nome “Teologia orfica” deriva da Orfeo, il famoso e leggendario poeta e cantore il quale, secondo la leggenda, attraverso il potere della sua musica era in grado di muovere le rocce. Il tema principale di questa religione orfica riguarda il destino dell’anima umana dopo la sua morte. Essa descrive come l’anima umana, per sua stessa colpa, perdette il suo potere spirituale e come venne inchiodata al corpo. Qui essa non vive più la sua vita, giacché vive come un prigioniero nella sua cella. Nemmeno con la morte dell’uomo essa potrà liberarsi da tale prigionia. Difatti, la morte non significa separazione dal corpo, ma significa solo che l’anima passa da una forma corporea a un’altra. Non è possibile fuggire da questa continua “ruota della nascita”, se non a patto di osservare rigidamente certe rigorose osservanze e regole insegnate dagli Orfici. Un uomo che esegue questi riti potrà finalmente disfarsi della sua vita corporea; egli verrà rilasciato dalla sua prigione. La sua anima non vivrà più nella tomba del suo corpo, ma ritornerà invece alla sua originaria natura immateriale. Le stesse caratteristiche le ritroviamo nella religione dei Pitagorici. Essi si sono anche sforzati di liberare l’anima dalla ruota della nascita. Credevano nella trasmigazione delle anime e anche nella trasmigazione delle anime negli animali. Abbiamo a disposizione prove evidenti per dimostrare che Pitagora stesso sostenne queste concezioni; anche se, a un primo sguardo, potranno sembrarci piuttosto singolari in un pensatore così potente. In uno dei suoi poemi, Empedocle ci dice che Pitagora, vedendo un cane maltrattato, esclamò: «Smetti di percuo-

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Leave off beating this dog, for I recognize in his tones the voice of the soul of a friend[»]. And even the Orphic rituals played an important role among the Pythagoreans. We hear of very strict observances to which they were bound by oath; one of the best known among them is the famous prohibition to eat beans. Here I need not dwell on all these curious things; you will find a detailed description of them in the second chapter of Burnet’s book on Early Greek Philosophy. § 3: The rise199 of a Theory of Mathematics But it is not by this that Pythagoras is important to us and that he deserves a place in the history of philosophy. His fundamental merit is to be sought in something quite different. In order to express it by one word we may say that he was the first discoverer of the theory of Mathematics. By this I do not wish to say that there was no mathematical knowledge before the times of Pythagoras. The Babylonian astronomers, the Egyptian priests had reached a high degree of mathematical culture – and there seems to be no doubt that Pythagoras himself has borrowed very much from oriental sources. Even the famous theorem that bears his name: the theorem that in a rectangular triangle the square of the hypotenuse is equal to the sum of the squares on the other sides is not a real200 discovery of Pythagoras – as the history of mathematics shows201 this theorem was well known both in Indian and Egyptian mathematics. But it is just this example that can give us a clear insight into the true character of Pythagorean Mathematics. The real advance made by Pythagoras wss not the discovery of the theorem but the

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tere questo cane, poiché riconosco nei suoi toni la voce dell’anima di un amico»68. Anche i rituali orfici giocarono un ruolo importante tra i Pitagorici. Abbiamo notizia di osservanze piuttosto severe, alle quali erano vincolati da un giuramento; uno dei più noti di questi giuramenti è il famoso divieto di mangiare fagissssssssssoli. Non ho bisogno di dilungarmi su tutte queste curiosità; potrete trovare una loro descrizione dettagliata nel secondo capitolo del libro di Burnet La prima filosofia greca. 3. Lo sviluppo di una teoria matematica Ma non è questo il motivo per cui Pitagora è importante per noi o merita un posto di rilievo nella storia della filosofia. Il suo merito fondamentale va invece ricercato in qualcosa di differente. Volendo esprimerlo con una parola, possiamo affermare che egli fu il primo scopritore di una teoria della matematica. Con ciò non intendo sostenere l’inesistenza di un sapere matematico prima dei tempi di Pitagora. Gli astronomi babilonesi e i sacerdoti egizi avevano raggiunto un livello piuttosto elevato nella cultura matematica e non sembrano esservi dubbi che Pitagora stesso si sia ispirato in larga parte alle fonti orientali. Lo stesso vale per il famoso teorema che porta il suo nome. Il teorema secondo cui in un triangolo rettangolo il quadrato costruito sull’ipotenusa è equivalente alla somma dei quadrati costruiti sui due cateti, non è una effettiva scoperta di Pitagora. Difatti, la storia della matematica ci mostra che questo teorema era ben noto sia alla matematica indiana, sia a quella egizia. Ma è proprio questo esempio a fornirci una chiara idea dell’autentico carattere della matematica pitagorica. Il reale progresso compiuto da Pitagora consisteva non tanto nella scoper-

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prove of the theorem. Hitherto this prove had been given in a practical way. The truth of the theorem had been ascertained by special examples and by a concrete measurement. But Pythagoras was not content with such a method. He had another ideal and another standard of truth. I can describe this difference best by referring to a passage that we find in an antique author: in a treatise of Proklos, who was a Neoplatonic philosopher. Proclos himself goes back here to a judgement of Eudem, who was one of the greatest Greek mathematicians. Eudem says that the greatest merit of Pythagoras in the field of geometry was that he was the first who transformed Geometry into a “free science”, a liberal art. He reached this scope by introducing a new method: the method of deduction. He laid down the principles202 of Mathematics and he taught the geometers the rules by which, starting from these principles, they could find convincing and irrefutable proofs of their theorems. That is the new step that was made by Pythagoras and his pupils – and, as you see, this step is in perfect accordance with the general character of Greek philosophy as we have found and studied it both in the Ionian thinkers and in the philosophy of Herakleitos. But how could Pythagoras unite this scientific thought – the thought of a strict logical method of Geometry, with his theological thought? How could he pass from one side to the other? How can we account for the strange fact, that a Theologian, a religious mystic who believed in the transmigration of the soul, became the first founder of scientific Mathematics? Can we find any connecting link between these two thoughts203 that at first sight may appear not only to be very remote from each other but also irreconcilable

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ta del teorema, ma nella prova dello stesso. Fino a quel momento si trattava soltanto di una prova di carattere pratico. La verità del teorema, difatti, era stata fornita attraverso esempi particolari e mediante una misurazione concreta. Ma Pitagora non era soddisfatto di un metodo del genere. Egli aveva un ben diverso ideale e criterio di verità. Posso descrivere meglio questa differenza facendo riferimento a un brano rinvenibile in un autore antico, ossia in un trattato di Proclo, un filosofo neoplatonico. Proclo stesso riprende il giudizio di Eudemo, uno dei più grandi matematici greci. Eudemo afferma che il grande merito di Pitagora, nella geometria, consistette nell’aver per primo trasformato la geometria in una “scienza libera”, in un’arte liberale. Egli raggiunse questo scopo grazie all’introduzione di un nuovo metodo: il metodo della deduzione. Egli pose i princìpi della matematica e insegnò ai geometri le regole grazie alle quali, partendo dai princìpi, essi avrebbero potuto trovare prove convincenti e irrefutabili dei loro teoremi. Questo fu il nuovo passo compiuto da Pitagora e dai suoi allievi e, come potete vedere, questo passo era in perfetto accordo con il carattere generale della filosofia greca – e ciò lo si evince da ciò che abbiamo rinvenuto e studiato sia nei pensatori ionici, sia nella filosofia di Eraclito. Ma come riuscì Pitagora a unire questo pensiero scientifico – ossia il pensiero del rigoroso metodo della geometria – con il pensiero teologico? Come poté passare dall’uno all’altro? Come possiamo rendere conto di questo fatto così singolare, ovvero che un teologo e mistico religioso che credeva nella trasmigazione delle anime divenne il primo fondatore della matematica scientifica? È possibile trovare una connessione tra queste due forme di pensiero che, a prima vista, sembrano non soltanto così distanti l’una dall’altra ma anche in-

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with each other? If we do not succeed in finding a real unity of the thought of Pythagoras[,] we could scarcely speak of him as a philosopher. His doctrine would remain a strange mixture of the most profound scientific views and the crudest superstitions. But we can scarcely miss the inner unity of the Pythagorean doctrine if we bear in mind the personal character of his first founder. To be sure Pythagoras was not a scientist in our modern sense. He did not ask his questions and he did not make his investigation for satisfying a mere intellectual curiosity. He had a religious conception of science itself. Science was thought to be one of the greatest and one of the indispensable instruments in the great process of religious liberation and religious salvation. Orphic Theology had introduced a carefully elaborated system of practical precepts that were destined to show man the way out of his prison, to free him from the chain of the body. Pythagoras did not only accept this system, he seems to have enlarged it. But at the same time[,] he found a new way – a way unknown to the Orphics. According to him there can be no better and no more decisive purification of the human soul than that sudden change we feel when passing from our common practical activities to the new activity and the new attitude of our theoretical life. Theoretical life – a life of contemplation and meditation – is the true and the easiest access to that liberation of the human soul which had been promised by the Orphics. Theory is the true way to religion. That is the answer given by Pythagoras – and we immediately feel that this answer is based upon a great personal experience; upon the deepest experience of his own life. Among the Pythagoreans we find a conception and a doctrine of human soul which in many respects is in very close agreement with

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conciliabili? Se non dovessimo riuscire a trovare una reale unità del pensiero di Pitagora, allora difficilmente potremmo parlare di lui come filosofo. La sua dottrina rimarrebbe uno strano miscuglio di profonde concezioni scientifiche e di superstizioni primitive. Ma il problema non si pone se teniamo a mente il carattere personale del suo primo fondatore. Sicuramente Pitagora non fu uno scienziato nel senso moderno del termine. Egli non si poneva domande e non faceva la sua ricerca per soddisfare una mera curiosità intellettuale. Egli aveva una concezione religiosa della scienza. La scienza veniva considerata come uno dei più grandi e indispensabili strumenti nel grande processo di liberazione religiosa e di salvezza religiosa. La teologia orfica aveva introdotto un sistema accuratamente elaborato di precetti pratici, destinati a mostrare all’uomo la via d’uscita da questa prigione, a liberarlo dalle catene del corpo. Pitagora non soltanto accettò questo sistema, ma sembra anche averlo ampliato. Ma al tempo stesso egli trovò una nuova via, una via sconosciuta agli Orfici. Secondo Pitagora, non può esservi nessuna purificazione dell’anima umana che sia migliore e più decisiva di quella che avvertiamo quando passiamo dalle comuni attività pratiche alla nuova attitudine e attività della nostra vita teoretica. La vita teoretica – una vita di contemplazione e meditazione – costituisce il più vero e semplice accesso a quella liberazione dell’anima umana promessa dagli Orfici. La teoria è la strada maestra verso la religione. Questa è la risposta fornita da Pitagora, e notiamo immediatamente che si tratta di una risposta basata su una grande esperienza personale, sulla più profonda esperienza della sua stessa vita. Tra i Pitagorici troviamo una concezione e una dottrina dell’anima umana che, sotto molti aspetti, è piuttosto vicina alla tripartizione dell’anima esposta

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the tripartition of the soul that is taught in the Republic of Plato; Burnet204 is even inclined to think that we can reduce this tripartition to Pythagoras himself. There are three kinds of men – we are told – just as there are three classes of strangers who came to the Olympic Games. The lowest consists of those who come to buy and sell, and the next above them are those who come to compete. But best of all are those who simply come to look on. Men may be classified accordingly as lovers of gain, and lovers of honors or praise, and as lovers of wisdom. The latter ones are the true scientists and the true philosophers205. They look on the spectacle of life and they try to understand it but they are not prompted to any immediate practical interest or by any immediate practical end. They are “Theoreticians” – in that special meaning that is indicated in the Greek term “Theoria”; for this term is derived from the verb θεωρεῖν that means: to look on a thing, to watch a thing. We find that it was one and the same fundamental conception that led Pythagoras both to a new scientific and to a new religious ideal. With regard to religion he changed the ritualism of the Orphics[,] that consisted of mere practical observances[,] into an obligation of a different order; he demanded a perfect change of mind, a new direction of the soul. In Mathematics we find the same reverse. In Egypt, Geometry206 was closely bound with practical ends. Herodotus tells us that the art of Geometry has its origin in Egypt because the Egyptian priests were under the necessity to invent a special technique of land-surveying because of the regular inundations of the Nile that destroyed the fixed boundary-posts207 between the different fields. The very name “Geometry” remembers of this first origin; for it means “measurement” of the earth. But this concept is replaced and superseded in the theory of

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nella Repubblica di Platone; Burnet ritiene addirittura possibile attribuire questa tripartizione a Pitagora stesso. Vi sono tre tipi di uomini, così come vi sono tre classi di stranieri che si recano ai giochi olimpici. La classe più bassa è formata da coloro che vanno a comprare e a vendere, e poi ci sono coloro che gareggiano. Migliori di tutti, però, sono soltanto quelli che vanno semplicemente a vedere. Di conseguenza, possiamo classificare questi uomini come amanti del guadagno, amanti degli onori e degli elogi, infine amanti della saggezza69. Questi ultimi sono i veri scienziati e i veri filosofi. Essi, infatti, guardano lo spettacolo della vita e cercano di comprenderla, ma non sono spinti da alcun interesse pratico immediato o da qualche necessità pratica immediata. Sono “teoretici”, nel senso indicato dalla parola greca theoria. Questo termine deriva in effetti dal verbo θεωρεῖν, che significa appunto vedere, osservare una cosa. Pertanto, notiamo che fu un’unica e medesima concezione ad aver condotto Pitagora sia al suo nuovo ideale scientifico, sia al suo ideale religioso. Egli mutò il ritualismo degli Orfici – che consisteva in semplici osservanze pratiche – in un obbligo di ordine differente; egli esigeva un perfetto mutamento di idea, una nuova direzione dell’anima. In matematica rinveniamo la medesima inversione. In Egitto la geometria era strettamente legata a scopi pratici. Erodoto ci dice che l’arte della geometria ebbe le sue origini in Egitto, poiché i sacerdoti egizi si trovarono costretti a inventare una tecnica speciale per l’agrimensura, per via soprattutto delle regolari inondazioni del Nilo, che distruggevano i limiti posti tra i diversi campi. Il nome “geometria” ricorda infatti la sua prima origine, giacché significa appunto “misura della terra”. Ma questo concetto venne rimpiazzato e sostituito dalla teoria di Pitagora e dei suoi allievi.

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Pythagoras and his pupils. Here Geometry is first conceived in our own sense – as a theoretical science based on different precepts and following a strict method of reasoning – a deductive method. By this the art of surveying has become a “theory” – a mathematical science. Burnet is right to say in his chapter on “Science and Religion” that with Pythagoras and the Pythagoreans science itself became a religion208. [To become aware of this fact that is very remote from our modern views we need only remember a little anecdote of the life of Pythagoras in which, in this special case, we can rely [on] because it preserves an inner probability. We are told that when he discovered his great theorem, the so-called209 Pythagorean theorem, he celebrated his discovery by a great sacrifice offered to the gods – by the slaughter of a hecatomb – that means of a hundred of oxen. If this be true, it is perhaps the first case that such a sacrifice was made not for any individual or social interest but for the attainment of a mere theoretical end, for a scientific discovery. But the most important step made by Pythagoras was not the prove of the Pythagorean theorem. He made another discovery which from the point of view of his general philosophical theory, is to be regarded as still more important]210. He was a passionate lover of music – and according to the general attitude of his mind began to speculate about musical problems. Till now the differences of the musical sounds had not yet aroused a specifically scientific interest. It was the ear of the artist that had to decide about the various questions that could arise here. Pythagoras was the first to discover the dependence of the pitch of sound on the

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Per la prima volta, infatti, la geometria venne intesa nel nostro senso, ossia come una scienza teoretica che è basata su diverse regole e si attiene a un rigoroso metodo di ragionamento: il metodo deduttivo. Fu così che l’arte dell’indagine divenne “teoria” – una scienza matematica. Ha ragione Burnet quando, in un suo capitolo su “Scienza e religione”, afferma che con Pitagora e con i Pitagorici la scienza stessa divenne religione. [Per prendere consapevolezza di questo fatto, così lontano dalle nostre moderne concezioni, è per noi sufficiente menzionare un piccolo aneddoto sulla vita di Pitagora; in questo caso particolare, possiamo farvi affidamento in quanto conserva una sua plausibilità. Si dice che quando scoprì il suo teorema, il cosiddetto teorema di Pitagora, celebrò questa sua scoperta con un sacrificio offerto agli dèi, con un’ecatombe – ovvero l’uccisione di cento capi di bestiame. Se questa storia è vera, allora serebbe la prima volta che un siffatto atto rituale e religioso venne eseguito non per scopi personali, per qualche interesse sociale o pratico, ma per il raggiungimento di un fine puramente teorico, per una scoperta scientifica. Ma il decisivo passo compiuto da Pitagora non fu tanto la dimostrazione del suo teorema, giacché egli compì un’altra scoperta la quale, dal punto di vista della sua teoria filosofica generale, è da considerarsi ancora più importante]. Egli fu un appassionato amante della musica e per via della sua generale attitudine mentale iniziò a riflettere sui problemi musicali. Fino a quel momento le differenze dei suoni musicali non erano state oggetto di interesse scientifico. Era l’orecchio dell’artista che doveva decidere sulle varie questioni che sarebbero potute sorgere. Pitagora fu il primo ad aver scoperto la dipendenza dell’altezza del suono dalla lunghezza della parte di corda suonata. Il monocordo, da lui uti-

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length of the vibrating chord. The monochord which he used for his experiments consisted of a string stretched over a resounding board with a movable bridge, by means of which it was possible to divide a string into different lengths, and thus to produce the various high and low notes on one and the same string211. [«Great was the surprise of the inquirer», says Theodor Gomperz in his “Greek Thinkers” (Engl. translation, New York, 1901, I, 102) – well versed as he was both in mathematics and music, when this simple experiment revealed at a single stroke the most wonderful operations of law in a field hitherto completely closed to scientific investigation. He was still unable to determine the vibrations on which the separate sounds depended, but inasmuch as he could now measure the vibrating chord[,] which was the material cause that produced the sound, rule and law and spatial quantity were thus imposed on something that had hitherto been wholly intangible, undefinable, and almost another world. The history of science contains no luckier hit than this…the simplest conceivable experiment sufficed to bring to light a great regulative principle embracing a wide domain of nature[»]]. The intervals between the sounds – the fourth, the fifth, the octave, and so forth – which had hitherto solely been perceptible to the fine ear of the professional musician, but which could never be communicated to others[,] were now reduced to clear and fixed numerical relations. Let me interrupt here for a short time our historical exposition of the Pythagorean doctrine. According to the general plan of these lectures we cannot content ourselves with a mere historical account of the opinions of the single thinkers. We have to ask a more general question; we have to inquire into the systematic meaning and purport of the

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lizzato per i suoi esperimenti, consisteva in una corda tirata su di una cassa di risonanza con un ponte mobile, grazie al quale era possibile dividere la corda in diverse lunghezze in modo da produrre varie note alte o basse sulla medesima corda. [Theodor Gomperz, nel suo Pensatori greci (trad. inglese, New York 1901, I, 102) dice che: «Grande fu la sorpresa del ricercatore, molto versato com’era sia nella matematica sia nella musica, quando questo semplice esperimento rivelò in un colpo solo le più meravigliose leggi in un campo fino ad allora completamente precluso all’indagine scientifica. Non era ancora in grado di determinare le vibrazioni da cui i diversi suoni dipendevano, ma giacché poteva ora misurare la corda vibrante, che era la causa materiale che produceva il suono, regola e legge e grandezza spaziale furono così imposte a qualcosa che era stato fino a quel momento del tutto intangibile, indefinibile, e quasi di un altro mondo. La storia della scienza non racchiude colpo più fortunato di questo... il più semplice esperimento concepibile bastò a portare alla luce un grande principio regolatore che abbracciava un vasto dominio della natura. L’intervallo tra i suoni – la quarta, la quinta, l’ottava, e così via – che fino ad allora erano stati percepibili soltanto per il fine orecchio del musicista professionista, ma che non potevano mai essere comunicati agli altri, erano ora ridotti a relazioni numeriche chiare e fisse»70]. Consentitemi di sospendere momentaneamente la nostra esposizione storica della dottrina pitagorica. Secondo il piano generale di queste lezioni, noi non possiamo limitarci a un mero resoconto storico delle opinioni dei singoli pensatori. Dobbiamo porci una questione più generale; dobbiamo indagare il significato e il senso sistematico dei diversi princìpi che intendiamo conoscere,

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different principles; we wish to know what they meant for the progress of philosophical and scientific thought. What meant the discovery of Pythagoras – the discovery that the difference between musical sounds may be reduced to fixed numerical relations for the general history of science? To this question we can answer by one word. It meant an enormous step in advance. What Pythagoras detected here was not a single phenomenon212 of nature; it was a fundamental principle213 of our knowledge of nature. This principle is the very beginning of what we call “exact science”. For “exact science” means nothing else than the capability of the human mind to order and to connect sense-experiences in such a way that they are describable in terms of mathematics, in terms of number. And it was Pythagoras who gave the first great example and the first convincing prove of such a description. He created a theory of Acoustics; he conceived the world of sounds that hitherto could only be perceived by the sense of hearing, as a conceptual214 order. And it was by this single and simple step that he immediately envisaged a problem of quite a universal character. Pythagoras and the Pythagoreans made at once a most important generalization of the phenomenon they had met with in the world of sounds. They were convinced that this phenomenon was by no means an isolated case. They applied the same principle to the whole of nature. Pythagoras had begun to inquire into nature of Music and musical sounds. But what he found here was something quite different. It was a new being and essence: the Being of Number. What we have in the sounds of Music is not a mere sensuous fact that gives us a sensuous pleasure. It is an intellectual fact: it is the proportion and harmony of numbers. What we really experience in the musical

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che significato hanno avuto per il progresso filosofico e scientifico. Per la storia generale della scienza, che significato ebbe la scoperta di Pitagora, secondo cui la differenza tra i diversi suoni musicali può essere ridotta a relazioni numeriche stabili? Possiamo rispondere a questa questione con una parola. Essa costituì un enorme passo in avanti. Ciò che Pitagora rilevò non fu un singolo fenomeno di natura, bensì un principio fondamentale della nostra conoscenza della natura. Questo principio è il vero e proprio inizio di ciò che chiamiamo “scienza esatta”. Per “scienza esatta” non si intende altro che la capacità umana di ordinare e connettere le esperienze sensibili, in modo tale da renderle descrivibili in termini matematici, in termini di numero. E fu proprio Pitagora ad aver fornito il primo esempio e la prima prova convincente di una descrizione del genere. Egli creò una teo­ria dell’acustica; concepì il mondo dei suoni – che fino ad allora potevano essere percepiti soltanto attraverso l’udito – come un ordine concettuale. E fu proprio grazie a questo singolo e semplice passo, che egli immaginò immediatamente un problema di carattere decisamente universale. Pitagora e i Pitagorici effettuarono subito un’importante generalizzazione del problema, da loro affrontato nel mondo dei suoni. Essi ritenevano che questo fenomeno non fosse affatto un caso isolato, e difatti applicarono lo stesso principio all’intera natura. Pitagora iniziò a indagare la natura della musica e dei suoni musicali, ma ciò che egli vi trovò fu qualcosa di diverso, che aveva un nuovo essere e una nuova essenza: l’Essere del Numero. Ciò che noi rinveniamo nei suoni non è un mero fatto empirico fornitoci da un piacere sensibile. È piuttosto un fatto intellettuale: ovvero la proporzione e l’armonia dei numeri. Ciò che noi sperimentiamo nei suoni musicali non sono i suoni stessi, quanto invece qualcosa che, per

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sounds are not the sounds themselves but something that, as it were, is hidden behind them. They do not only speak to our ear; they speak to our intellect[;] they make us understand the fundamental truth of things. It is by the sounds that we grasp the numbers of vibrations of the sounding instrument. The intervals of the scale can be expressed by the simple numerical ratios 2:1, 3:2, 4:3. To us all this seems to be very simple; but it proved to be a true revelation of thought215. [In a certain sense we may see that all the founders of modern science in the different fields – in Astronomy, in Dynamics, in Physics and Chemistry – were Pythagoreans. In Astronomy it was Kepler who first discovered exact laws for the motion of the planets: the three Keplerian laws. But Kepler was a convinced Pythagorean; he wrote an admirable work on the Harmony of the world (Harmonia Mundi)]. One of the greatest Mathematicians of the 19th century, Karl Friedrich Gauss216 had said that Mathematics is the queen of science, but the theory of number is the queen of Mathematics. That is the true spirit of Pythagoras and the Pythagoreans that we find more than thousand years afterwards in its full vigour. But let us now after this short digression return to our historical problem. In the first book of the Metaphysics Aristotle gives us a very clear description of the Pythagorean doctrine and its intellectual origin. «the so-called Pythagoreans» he says, «who were the first to take up mathematics, not only advanced this study, but also having been brought up in it they thought its principles were the principles of all things. Since of these principles numbers are by nature the first, and in numbers they seemed to see many resemblances to the things that exist and come into being – more

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così dire, è nascosto dietro di loro. Essi non parlano soltanto alle nostre orecchie, ma anche al nostro intelletto, e ci fanno comprendere la fondamentale verità delle cose. È grazie ai suoni che afferriamo i numeri delle vibrazioni degli strumenti sonori. Gli intervalli di scala possono essere espressi da dalle semplici rationes numeriche 2:1, 3:2, 4:3. Tutto ciò potrà anche apparirci piuttosto semplice, ma si è dimostrato un’autentica scoperta del pensiero. [In un certo senso, possiamo affermare che tutti i fondatori della scienza moderna, nei loro differenti campi – astronomia, dinamica, fisica e chimica –, furono pitagorici. In astronomia fu Kepler a scoprire per primo le leggi esatte del movimento dei pianeti: le tre leggi di Kepler. Ma Kepler fu anche un convinto pitagorico, autore di un’ammirevole opera sull’armonia del mondo (Harmonia Mundi)]. Uno dei più grandi matematici del diciannovesimo secolo, Karl Friedrich Gauss, ha affermato che la matematica è la regina delle scienze, ma che la teoria del numero è la regina della matematica71. Questo è lo spirito autentico di Pitagora e dei Pitagorici, che ritroviamo dopo più di duemila anni ancora in tutto il suo vigore. Ma dopo questa breve digressione, ritorniamo adesso al nostro problema storico. Nel primo libro della sua Metafisica Aristotele ci fornisce una descrizione piuttosto limpida della dottrina pitagorica e della sua origine intellettuale: «I cosiddetti Pitagorici» egli dice, «che furono i primi a occuparsi di matematica, non solo fecero progredire questo studio, ma essendo stati educati in esso pensavano che i suoi princìpi fossero i princìpi di tutte le cose. Poiché di questi princìpi i numeri sono naturalmente i primi, e nei numeri essi sembrano vedere molte rassomiglianze con le cose che esistono e che vengono in essere – più che in fuoco e terra e acqua [...] poiché,

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than in fire and earth and water […]217 since, again, they saw that the modifications and the ratios of the musical scales were expressible in numbers; – since, then, all other things seemed in their whole nature to be modelled on numbers, and numbers seemed to be the first things in the whole of nature, they supposed the elements of numbers to be the elements of all things, and the whole heaven to be a musical scale and [a] number. And all the properties of numbers and scales which they could show to agree with the attributes and parts and the whole arrangement of the heavens, they collected and fitted into their scheme; and if there was a gap anywhere, they readily made additions so as to make their whole theory coherent» (Aristotle, Metaphysics A5 985b; Engl. translat. by W. D. Ross). We see from this that the Pythagoreans did not speak of numbers – in our own modern sense – as if they were logical forms or categories. They were not mere logicians, but Metaphysicians. Metaphysics or “first philosophy” is described by Aristotle as that science that examines being qua218 being and the attributes which belong to it qua219 being – as the inquiry into those truths that hold good for everything that is, and not for some special genus apart from others (Aristotle, Metaphys., Book III, 2; 1005a). The Pythagorean number was conceived in this way. It was not only regarded as a formal or logical concept, but as the essence, the fundamental substance of things. But this essence was on longer a material one, like the water of Thales, the air of Anaximenes; it was an intellectual one. The things do not only possess numbers, they are not only ordered according to definite numerical relations; but they are220 numbers; they are, so to speak, the embodiements, the incarnations of numbers. If we come to a description of the later philosophical systems of the Greeks, to a description of

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ancora, essi videro che le modificazioni e i rapporti delle scale musicali erano esprimibili in numeri; – poiché, dunque, tutte le altre cose sembravano modellare sui numeri la loro intera natura, e i numeri sembravano essere le prime cose della natura intera, essi supposero che gli elementi dei numeri fossero gli elementi di tutte le cose, e che l’intero cielo fosse una scala musicale e [un] numero. E tutte le proprietà dei numeri e delle scale che essi potevano mostrare accordarsi con gli attributi e le parti e l’intera disposizione dei cieli, le coglievano e adattavano al loro schema; e se c’era una lacuna da qualche parte, essi prontamente facevano aggiunte così da rendere l’intera teoria coerente» (Aristotele, Metafisica, Libro I, 5, 985b)72. Con ciò notiamo che i Pitagorici non parlano di numeri nel nostro senso moderno, come se fossero forme logiche o categorie. I Pitagorici non erano meri logici, ma metafisici. La metafisica o “filosofia prima” viene descritta da Aristotele come quella scienza che esamina l’essere in quanto essere e gli attributi che gli appartengono in quanto essere; come l’indagine di quelle verità che valgono per tutto ciò che è, e non soltanto per qualche genere particolare separato dagli altri (Aristotele, Metafisica, Libro III, 2; 1005a). Il numero pitagorico veniva concepito in questo modo. Esso non veniva considerato soltanto un concetto logico o formale, ma l’essenza, la sostanza fondamentale delle cose. Ma questa essenza non era più di tipo materiale, come l’acqua di Talete o l’aria di Anassimene; era piuttosto di tipo intellettuale. Le cose non soltanto posseggono i numeri, non vengono ordinate secondo relazioni numeriche determinate, esse sono numeri; esse sono, per così dire, la materializzazione, l’incarnazione dei numeri. Nel giungere a una descrizione dei tardi sistemi filosofici dei Greci, a una

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Eleatic thought, and the Platonic thought, we shall find that it was natural for all the Greek thinkers to identify “Being” and “Truth”. What we call “Truth” is, according to Plato, nothing but the highest form of Being; it is the Being of Being; Being in full sense. That perfectly explains the saying of the Pythagoreans that number is the highest, and in a sense, the only Being. For number is according to them the only perfectly trustworthy thing. For Pythagoreans were no sceptics with regard to the sensuous world. They did not mistrust our sense-experience. But nobody can deny that sense-experience is liable to grave errors and to all sources of deception. Very often we take one thing for another; we are mixing up and confusing things. But such a confusion never takes place in the realm of number. The number one, the number two, the number three: all of them have a definite essence and nature. We know these natures – and we know the proportions, the ratios between these numbers. In mathematical thought, in the science of numbers, we cannot err; it is the most infallible thing. All this is expressed very clearly in a fragment that is ascribed to the Pythagorean Philolaus. It is rather difficult to translate this fragment that is written in a very concise and archaic style; but I will try to circumscribe the words of Philolaus. «The nature of number», he says, «possesses a perfect harmony; therefore it cannot harbour lie or error. Lie is not associated with number; it cannot affect the nature of number. Lie is the irreconcilable enemy of truth and essence; but truth and essence are inherent and inborn to Number». Without number there would be no access to truth for man. All would be vague and indistinct. But when man begins to count, when he learns to distinguish the number of things – then he sees nature in a new light; he understands the uni-

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descrizione del pensiero eleatico e del pensiero platonico, noteremo che è sempre stato alquanto naturale, per tutti i pensatori greci, identificare “Essere” e “Verità”. Ciò che noi chiamiamo “Verità”, secondo Platone, non è altro che la forma più alta di Essere, è l’Essere dell’Essere, l’Essere nel suo senso più pieno. Ciò spiega perfettamente il detto dei Pitagorici secondo cui il numero è il sommo e, in un certo senso, il solo Essere. Secondo i Pitagorici il numero è l’unica cosa del tutto degna di fiducia. I Pitagorici non erano scettici o diffidenti nei confronti del mondo sensibile e della nostra esperienza percettiva. Ma nessuno può negare che l’esperienza sensibile sia soggetta a gravi errori e a ogni sorta di illusione. Molto spesso noi prendiamo una cosa per un’altra, mescoliamo e confondiamo le cose. Il numero uno, il numero due, il numero tre: ognuno di essi ha una natura ed essenza ben definita. Noi conosciamo queste nature e le loro proporzioni, le rationes tra questi numeri. Nel pensiero matematico, nella scienza dei numeri, non possiamo sbagliare, giacché essa è la cosa più infallibile. È piuttosto difficile tradurre questo frammento scritto in uno stile così conciso e arcaico, ma ciononostante proverò a circoscrivere le parole di Filolao: «La natura del numero», egli dice, «possiede un’armonia perfetta; pertanto non può annidare menzogna o errore. La menzogna non è associata al numero; non può influenzare la natura del numero. La menzogna è il nemico irreconciliabile della verità e dell’essenza; ma la verità e l’essenza sono inerenti e innate al Numero»73. Senza il numero, non vi sarebbe alcun accesso alla verità per l’uomo. Tutto sarebbe vago e indistinto. Ma quando l’uomo inizia a contare, quando impara a distinguere i numeri delle cose, allora egli vede la natura sotto una nuova luce, egli comprende l’unità e le dif-

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ty and the difference of things[,] and he becomes aware of the inner harmony. The whole Universe reflects the character and the truth of number in various shapes. In Music, in Astronomy, in Geometry we feel the force of number; and without this force all our knowledge would be impossible. Let us explain this by an example of Astronomy221. Pythagorean Astronomy contains still many questionable and fictious elements. The Pythagoreans were eager to find the power of certain numbers, to which they ascribed a special value and a character of scacredness, in the heavens. One of these numbers was the number ten. “Ten” is, according to the Pythagoreans, one of the most perfect numbers – for it is the sum and, as it were, the synthesis, the united force, of all these numbers with which our series of numbers begins222 1+2+3+4=10. From this point of view, the Pythagoreans attempted to give a general scheme of the “Kosmos”, of the physical universe according to the number “ten”. But here they meet with an obstacle. If we take our solar system, it consists of the sun, of the moon, the earth, the different planets. In ancient times there were known nine of these planets. So[,] we have nine celestial bodies – but that does not fit into the general scheme. Since the Pythagoreans were convinced by general apriori reasons that this scheme must hold good – they did not hesitate to assume the existence of a tenth celestial body. This body was called the Anti-Chthon, the Counter-Earth. That we do not see the Couter-Earth was explained by the fact that the side of the earth on wich we live is always turned away from it. Even in the case of the moon – it was said – a man living on the other side of the moon never would see our earth, because the moon always presents the same face to us. Aristotle blames223 the Pythagorean astronomical theory because it did corrupt the facts in

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ferenze delle cose e diviene cosciente della loro intima unità. L’intero universo riflette il carattere e la verità del numero in varie forme. Noi avvertiamo la forza del numero e senza questa forza tutta la nostra conoscenza sarebbe impossibile. Permettetemi di spiegare tutto ciò con un esempio tratto dall’astronomia. L’astronomia pitagorica contiene ancora molti elementi discutibili e fittizi. I Pitagorici erano ansiosi di rinvenire nei cieli la forza di certi numeri, ai quali essi attribuivano un valore speciale e un carattere di sacralità. Uno di questi numeri era il numero dieci. Il “dieci”, secondo i Pitagorici, era uno dei numeri più perfetti poiché è la somma e, per così dire, la sintesi, la forza congiunta di tutti i numeri con i quali iniziano le nostre serie di numeri 1+2+3+4=10. Da questo punto di vista, i Pitagorici tentarono di fornire uno schema generale del kosmos, dell’universo fisico secondo il numero dieci. Ma qui essi si imbatterono in un ostacolo. Se prendiamo il nostro sistema solare, esso consiste del sole, della luna, della terra e dei diversi pianeti. Nell’antichità, si era a conoscenza di nove di questi pianeti. Pertanto, si aveva uno schema dei corpi celesti che non riusciva ad adattarsi a questo schema generale. I Pitagorici, convinti sulla base di spiegazioni a priori generali che questo schema fosse valido, non esitarono a ipotizzare l’esistenza di un decimo corpo celeste. Questo corpo venne chiamato Anti-Chthon, ovvero Anti-Terra. Che l’Anti-Terra non fosse visibile veniva spiegato con il fatto che il lato della terra sul quale noi viviamo si trova sempre nella parte opposta rispetto a essa. Anche nel caso della luna – come è stato detto – un uomo che vivesse in un lato di essa non potrebbe vedere mai la terra, giacché la luna presenta a noi sempre il medesimo lato. Aristotele condanna74 la teoria astronomica pitagorica, poiché a suo dire i Pitagorici

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reference to certain theories that are built upon mere speculative reasons. Nevertheless[,] it must be said that this Pythagorean cosmology was the first step to one of the greatest achievements of modern science – to a mathematical and empirical Astronomy. First of all the earth has no longer any privileged place in the general system of the heavenly bodies. All the ten celestial bodies, including the earth, are moving around224 a common center that was called by the Pythagoreans the Central-Fire. This universal fire is always described with a sort of religious reverence. To give you an impression of this feeling I quote a passage from a book of Theodor Gomperz, “Greek Thinkers”. Here you will find also the famous Pythagorean doctrine of the “Harmony of the Spheres”. [«]The circular course of the divine luminaries […]225 was described as a dance. The rhythm of this starry dance was set to the sounds arising from the motion itself, and making unceasing music which was recognized and known as the harmony of the spheres. [226Next, the universal fire, which was the central point of the celestial procession, was known by many names. It was called the “mother of the gods”, the “citadel of Zeus”, and so forth, but two of its titles may be mentioned as especially characteristic. These were the “altar” and the “hearth of the universe”. The stars revolved round the sacred source of all life and motion like worshippers around an altar, and the universal hearth was the center of the world or cosmos as a man’s domestic hearth was honored as the sacred center of his home, or as the flame that burned and was never extinguished in the civic hearth of the Prytaneum formed the holy rallying-point of every Greek community]227. All the threads of the Greek view of

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avevano alterato i fatti in base alle loro teorie e opinioni privilegiate. Per la verità, questo è un errore piuttosto comune nelle teorie costruite sulla base di spiegazioni puramente speculative. Ciononostante, va detto che questa cosmologia pitagorica compì il primo passo verso una delle più grandi conquiste della scienza moderna, verso una astronomia matematica ed empirica. Prima di tutto, la terra non era più il luogo privilegiato nel sistema generale dei corpi celesti. Tutti i corpi celesti – terra inclusa – orbitano attorno a un centro comune che i Pitagorici chiamarono Fuoco Centrale. Questo fuoco centrale viene sempre descritto con una sorta di religiosa reverenza. Per darvi un’impressione di questa sensazione, cito un brano tratto dal libro di Theodor Gomperz intitolato Pensatori greci. Qui troverete anche la famosa dottrina pitagorica della “armonia delle sfere”: «L’andamento circolare dei luminari divini [...] era descritto come una danza. Il ritmo di questa danza stellare era regolato sui suoni derivanti dal movimento stesso, e produceva una musica incessante che era nota e riconosciuta come l’armonia delle sfere. [Ora, il fuoco universale, che era il punto centrale della processione celeste, era conosciuto con molti nomi. Era chiamato la “madre degli dèi”, la “cittadella di Zeus”, e così via, ma due dei suoi titoli possono essere menzionati come particolarmente caratteristici. Questi erano l’“altare” e il “focolare dell’universo”. Le stelle ruotavano attorno alla sorgente sacra di ogni vita e moto come adoratori attorno a un altare, e il focolare universale era il centro del mondo o del cosmo come il focolare domestico d’un uomo era onorato come il centro sacro della sua casa, o come la fiamma che ardeva e non si estingueva mai nel focolare civico del Pritaneo formava il punto sacro di radunamento di ogni comunità greca]. Tutte le fila della visione greca della

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life are combined here. We see the exalted joy in existence, the loving awe for the universe ruled by divine forces, the sublime sense of beauty, symmetry, and harmony […] Nowhere else do we find a picture of the universe at once so genial and so sublime» (loc. cit. p. 117). It is, indeed, necessary to bear in mind that the Pythagorean doctrine of the cosmical order, that had arisen from Music and Astronomy, was not only a mathematical but an estethic theory. Both threads are indissolubly interwoven with each other. [228You will find the same union still in our modern astronomy in Kepler’s work on the harmony of the word]229. And we can easily understand this double character of the Pythagorean doctrine. It depends on this fundamental concept: on the concept of number. Number is multitude – but it is at the same time unity – it is the unity in the multitude. And in Greek thought and Greek culture we always find the convinction that this is the very character of “Beauty”. Whenever we find number, whenever we find sensuous appearances, like the sounds of Music – the motions of the stars that are governed by strict numerical rules – then we are in the very centre of truth and in the very focus of beauty. This interpenetration of beauty and truth is a very characteristic feature of the Greek mind230. No Greek philosopher ever could draw a sharp line of demarcation between the two realms of beauty and truth. All of them strived to find a common origin of beauty and truth and they were convinced that this common origin is the very principle of the “Kosmos”, of the universal order of things.

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vita sono qui combinate. Vediamo l’esaltata gioia nell’esistere, l’amorevole soggezione per l’universo regolato dalle forze divine, il senso sublime della bellezza, della simmetria, e dell’armonia [...] Da nessun’altra parte noi troviamo un’immagine dell’universo allo stesso tempo così geniale e così sublime» (loc. cit., p. 117)75. A ogni modo, è necessario tenere a mente che la dottrina pitagorica dell’ordine cosmico, sorta dalla musica e dall’astronomia, non era soltanto una teoria matematica ma anche estetica. Entrambi questi fili sono indissolubilmente intrecciati. La medesima associazione si trova perfino nella nostra astronomia moderna, nell’opera di Kepler sull’armonia del mondo. Possiamo comprendere facilmente il duplice carattere della dottrina pitagorica. Essa dipende da questo concetto fondamentale: il concetto di numero. Il numero è moltitudine ma, al tempo stesso, anche unità, ossia unità nella moltitudine. Nel pensiero e nella cultura greca troviamo sempre la certezza che questo costituisca l’autentico carattere della “bellezza”. Là dove troviamo dei numeri, apparenze sensibili come i suoni della musica, i movimenti delle stelle governati da rigorose regole numeriche, lì troviamo il centro della verità e il fulcro della bellezza. Questa compenetrazione di bellezza e verità è un tratto caratteristico della mente greca. Nessun filosofo greco avrebbe mai potuto tracciare una netta linea di demarcazione tra questi due mondi: il mondo della verità e il mondo della bellezza. Tutti i filosofi greci aspiravano a trovare una comune origine della bellezza e della verità ed erano anche convinti che questa origine comune sia il vero e proprio principio del kosmos, dell’universale ordine delle cose.

[chapter iv] THE ELEATIC SCHOOL231 [§1: Xenophanes]232 If from the thought of Herakleitos and from the thought of the Pythagoreans[,]233 we proceed to the Eleatic School we have to make quite a fresh start. We cannot immediately connect the Eleatic School with any former school that had appeared in Greek philosophy. To be sure there are some personal connections. Parmenides, the greatest among Eleatic thinkers, is said to have been a pupil of Anaximander; and he was very much devoted to Ameinias, a Pythagorean, who, as one of our sources says, converted him to the philosophic life. But with regard to the contents of the Eleatic doctrine we find a sharp incision, a sort of caesura, which separates this school from all the previous forms of Greek thought. From the very beginning we must insist on this point. If we look at the Milesian thinkers, at Herakleitos and Pythagoras we find between them a commond bond; a general problem with which they are dealing. They approach this problem from different angles[,] and they submit different solutions. Nevertheless[,] all of them strive, in a sense, at the same end. They try to find not a mythical, but a rational explanation of the phenomena of the sensuous world. These phenomena are manifold and changing, but they have a substantial background; they may be reduced to a common and universal principle. This principle is called “matter” by234 the Milesian thinkers; it is called “Logos” by Herakleitos, it is called “Number” by the Pythagoreans. But all this implies a general supposition. It means that our sense-experience is an ordered whole and that it has a truth, a reality of its own.

cap. iv

LA SCUOLA ELEATICA 1. Senofane Se dal pensiero di Eraclito e dei Pitagorici ci dirigiamo verso la Scuola eleatica, ci tocca compiere un nuovo inizio. Non possiamo collegare immediatamente la Scuola eleatica ad altre scuole precedenti apparse nella filosofia greca. Certamente sussistono alcuni legami personali. Si dice che Parmenide, il più grande tra i pensatori eleati, fu allievo di Anassimandro e fu molto devoto ad Ameinias, un pitagorico che, stando alle nostre fonti, convertì Parmenide alla vita filosofica. Ma riguardo al contenuto della dottrina eleatica, troviamo un taglio netto, una sorta di cesura, che separa questa scuola da tutte le precedenti forme di pensiero greco. Dobbiamo insistere sin dall’inizio su questo punto. Se volgiamo il nostro sguardo ai pensatori di Mileto, a Eraclito e a Pitagora, rinveniamo fra essi un legame comune; un problema generale da loro affrontato. Essi si approcciarono al problema da diverse angolazioni e proposero anche diverse soluzioni. Cionondimeno, tutti loro, in un certo senso, miravano allo stesso scopo, ovvero non cercavano una spiegazione mitica dei fenomeni del nostro mondo sensibile, quanto invece una loro spiegazione razionale. Questi fenomeni sono numerosi e mutevoli, ma hanno anche uno sfondo sostanziale; sono riconducibili a un principio comune e universale; questo principio i pensatori di Mileto lo chiamavano “materia”, Eraclito “Logos” e i Pitagorici “Numero”. Ma tutto ciò implica una supposizione generale secondo cui la nostra esperienza sensibile è un tutto ordinato, che possiede inoltre una verità e una sua peculiare

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But it is just this principle that is denied by Parmenides and his pupils. With Parmenides we come to the first great crisis in Greek thought – which at the same time proved to be one of the deepest crisis in the whole history of philosophy. We shall have to inquire very thoroughly into the reasons of this crisis that[,] in a certain sense[,] must be regarded as the decisive fact in the history of Metaphysics235. But here, at the beginning, I only wish to describe it by a short formula. What Parmenides discusses is a distinction that has been said by Kant to be the classical distinction in Metaphysics. It is the distinction between the “phenomenal” and the “noumenal” world, as it is called in Greek – or, to put it in our own terms, the distinction between “Appearance” and “Reality”. Parmenides declares that all the former thinkers – Thales, Anaximander, Herakleitos, Protagoras – have missed the point. They could not find the entrance into the world of truth – because all of them were, so to speak, under the spell of a common illusion. What they were seeking for was the truth of our sensuous world – of the phenomena in space and time. But they sought in vain. For the pretended truth of the sensuous world is a contradiction in terms. Truth has to be defined in a new way and in a quite different way. There is a logical truth, a conceptual truth – but this truth is in sharp opposition to our so-called “empirical” truth, to the truth of our sense-experience. Empirical truth must be denied and destroyed in order to find the logical truth. The philosophical discipline that we call “Logic” – the discipline that we regard as the very foundation of philosophy – did not exist before the times of the Eleatics. They are the first pioneers of Logic; they had to find and to pave the way that leads to Logic. But for this they had to pay a very high price.

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realtà. Ma è proprio questo principio che viene negato da Parmenide e dai suoi allievi. Con Parmenide giungiamo alla prima grande crisi di pensiero in Grecia che, al tempo stesso, si rivela essere una delle crisi più profonde nell’intera storia della filosofia. Noi indagheremo scrupolosamente le ragioni di questa crisi la quale, in un certo senso, va considerata come l’evento determinante della storia della metafisica. Ma qui, proprio all’inizio, desidero soltanto descrivervela con una breve formula. Ciò di cui Parmenide discute è una distinzione che lo stesso Kant considerava, in effetti, come la distinzione classica della metafisica. È la distinzione tra “mondo fenomenico” e “mondo noumenico” – come lo chiamarono i Greci – o, per dirla in termini moderni, tra “apparenza” e “realtà”. Parmenide afferma che tutti i primi pensatori – Talete, Anassimandro, Eraclito, Protagora – non avevano centrato il bersaglio. Essi non poterono trovare la via d’accesso alla verità poiché tutti loro, per così dire, rimasero vittima di un’illusione comune. Infatti, ciò che essi cercavano era la realtà del nostro mondo sensibile, dei fenomeni nello spazio e nel tempo. Ma questa loro ricerca era vana, poiché questa presunta verità del mondo sensibile era una contraddizione in termini. La verità andava definita in un modo nuovo e decisamente differente. Vi è una verità logica, una verità concettuale, ma questa verità si trova in netta opposizione alla cosiddetta verità “empirica”, alla verità dell’esperienza sensibile. La verità empirica va negata e distrutta per trovare la verità logica. La disciplina filosofica che noi chiamiamo “Logica” e che consideriamo come l’autentico fondamento della filosofia, non esisteva prima degli eleati. Essi sono i primi pionieri della logica; furono loro ad aprire la strada che conduce alla logica. Ma per tutto questo essi dovettero pagare un prezzo davvero alto. Misero in que-

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They had to question all what hitherto had been considered as unquestionable; they had to leave the world of senses in order to find the world of Logic – the “intelligible” world as later on it was called by Plato236. Before entering into a detailed description of Eleatic thought we must say a few words about a thinker who according to a tradition mentioned in the first book of Aristotle’s Metaphysics was the teacher of Parmenides and who often is regarded as the real founder of the Eleatic school. The name of this thinker is Xenophanes237; the time of his life is the second half of the sixth and the first half of the 5th century. We know not very much about the life of Xenophanes; the evidence is defective and[,] in some cases[,] uncertain. But he himself gives us a short description of his life in some verses which he wrote as an old man of over ninety years. In these verses he tells us that238 since his early youth he had led a wandering life. He was born at Kolophon, in a Greek colony of Asia minor, in the same region from which the Ionian school of philosophy had taken its origin. But since the victory of the Persian over the Greek colonists, since Ionia had become a Persian province, that is since the year 545 b.C. – Xenophanes lived in exile. He found a new home in Sicily, and he seemed to have stayed at the court of Hiero of Syracuse who reigned from 498 to 467 b.C. At the end of his life[,] he seems to have come to Elea a town in the south of Italy which was the seat of a Greek colony. We cannot speak of Xenophanes as a philosopher in the sense of the first Ionian philosophers as of Herakleitos239 or Pythagoras. He did not – like these thinkers – discuss a new fundamental principle of thought and he did not maintain a general philosophical theory. Some physical theories are ascribed to him; but they are of no great importance[,] and they do not prove any scientific originality. The life of Xenophanes was not a philosophical or scientific life;

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stione proprio ciò che fino ad allora veniva considerato indiscutibile; dovettero abbandonare il mondo dei sensi per trovare il mondo della logica, il mondo “intelligibile” – come lo avrebbe chiamato più tardi Platone. Prima di addentrarci in una dettagliata descrizione del pensiero eleatico, devo spendere alcune parole su un pensatore che, secondo una tradizione menzionata nel primo libro della Metafisica di Aristotele, fu il maestro di Parmenide, in genere considerato come il vero fondatore della Scuola eleatica. Il nome di questo pensatore è Senofane. Egli visse tra la seconda metà del sesto secolo e la prima metà del quinto. Non sappiamo molto sulla vita di Senofane; le fonti sono imprecise e in alcuni casi incerte. Tuttavia, egli stesso ci ha fornito una breve descrizione della sua vita in alcuni versi da lui scritti quando era oramai un anziano ultranovantenne. In questi versi egli ci dice che sin dalla prima gioventù condusse una vita errabonda. Nacque a Colofone, in una colonia greca dell’Asia minore, nella stessa regione dalla quale aveva tratto la propria origine la Scuola ionica. Ma in seguito alla vittoria dei persiani sui coloni greci, la Ionia, a partire dal 545 a.C., divenne una provincia persiana e Senofane fu costretto a vivere in esilio. Trovò una nuova dimora in Sicilia e pare che fosse alla corte di Ierone di Siracusa, il quale regnò dal 498 al 467 a.C. Verso la fine della sua vita pare che ritornò a Elea, nel Sud Italia, sede di una colonia greca. Non possiamo parlare di Senofane come di un filosofo, nel senso in cui lo furono i primi pensatori ionici o Eraclito o Pitagora. A differenza di questi pensatori, egli non parlò di un nuovo principio del pensiero e non sostenne una teoria filosofica generale. Gli vennero attribuite alcune teorie fisiche, ma esse non hanno grande importanza e non rivelano alcuna originalità scientifica. La vita di Senofane non fu né filosofica né scientifica;

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it was the life of a poet, of a wandering minstrel, who used to recite his poems: «There are by this time threescore years and seven»[,] he says in one of his fragments that have been transmitted to us[,] «that have tossed my careworn soul up and down the land of Hellas; and there are then five-andtwenty years from my birth, if I can say aught truly about these matters». So[,] for nearly seventy years Xenophanes lived the life of a refugee; he saw Ionia, he saw Phocaea, he saw Sicily – he became familiar with all the forms of Greek life and Greek culture. All this he did not see with the eyes of a philosopher or a scientist, but with the eyes of a sharp critic. And his criticism was first and principally aroused by the forms of Greek religious life. He became a sceptic not in the usual theoretical sense of this term – but a sceptic against the traditional views of Greek religion. And it was his moral sense that led him to this scepticism. What did the Greek learn – he asked – from their principal teachers in the field of religion – from Homer and Hesiod? What are the moral and religious ideals preached by these poets? They are not only questionable; they are esecrable. There is no crime, and no abomination that has not been ascribed to the gods, theft, adultery, mutual deceit – all this is in constant use among them. According to Xenophanes all this is absurd. If the Divine means anything – it means the Good. To speak of the gods is liable to the greatest moral defects, to lie and deceit, to jealousy and adultery, is to conceive the gods not in their true shape – but in our very imperfect, in our own vicious human shapes. This Anthropomorfism is denounced by Xenophanes as the fundamental defect of the popular religion of the Greeks. Instead of recognizing the true nature of the Gods we are only

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fu piuttosto la vita di un poeta, di un cantore errante che soleva recitare i suoi poemi: «Sono a questo punto sessantasette gli anni – dice Senofane in uno dei suoi frammenti che ci sono stati trasmessi – che hanno sballottato la mia anima logorata dalle preoccupazioni su e giù per la terra dell’Ellade; e vi sono poi i venticinque anni dalla mia nascita, se posso veramente dire alcunché su tali questioni»76. Pertanto, Senofane, per quasi settant’anni, condusse una vita da rifugiato; vide la Ionia, Focea, la Sicilia ed ebbe anche familiarità con tutte le forme di vita e di cultura greche. Tutto questo non lo vide con gli occhi di un filosofo o di uno scienziato, ma con gli occhi di un critico acuto. Questo suo criticismo venne stimolato principalmente dalle forme religiose greche. Egli divenne uno scettico non nel senso usuale del termine, ma scettico verso le concezioni tradizionali della religione greca. Cosa hanno imparato i Greci – si chiede Senofane – dai loro principali maestri nel campo delle religioni? Da Omero e da Esiodo? Quali sono gli ideali morali e religiosi predicati da questi poeti? Essi sono non soltanto discutibili, ma anche esecrabili. Non vi è alcun crimine, alcun abominio che non sia stato attribuito agli dèi: furto, adulterio, truffa reciproca – tutto ciò è costantemente diffuso fra loro. A detta di Senofane ciò è assurdo, poiché se il Divino significa qualcosa, allora questo qualcosa non può che essere il Bene. Parlare degli dèi come se questi fossero soggetti ai più grandi difetti morali – alla menzogna, alla truffa, alla gelosia e all’adulterio – vuol dire concepire gli dèi sotto false forme: le imperfette e infide forme umane. Questo antropomorfismo viene denunciato da Senofane come il fondamentale difetto della religione popolare dei Greci. Invece di riconoscere la vera natura degli dèi, noi

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projecting our own nature, both in the corporeal and in the moral or spiritual sense. [«]If bulls, horses, or lions[»] – says Xenophanes – [«]had hands to paint pictures or to mould statues – then they would represent the gods as lions, horses, and bulls. And it is the same with man[»]. There are as many and as different gods as there are different nations or races. And all these nations and races are convinced that they have got the best and most perfect240 gods – because all of them are convinced of their own superiority. Not only our moral ideals are conceived in this sort. The negroes represent their Gods as snub-nosed and black; the Thracians depict them with blue eyes and red hair. But all this is ridiculous. In order to find out the truth about the Gods we must, first of all, forget our human and mortal nature. We must forget all our imperfections, our faults and deficiencies. These deficiencies are of a double sort – they regard our existence and our moral nature. As regards the first point the Greeks used to speculate about the origin of the Gods. Hesiod wrote a special book that relates this origin – that gives us a systematic description of the Genealogy of the Gods. But, as Xenophanes insists, there is not such a thing as a genealogy of the gods. If there are gods they have been from all times[,] they are not generated and they are not liable to death or decay. The well-known Anthropologist James Frazer has written a whole volume entitled “The Dying God”. In the 3d volume of the Golden Bough, he gives a survey of a belief that we find in nearly all religions and that is spread over the whole world – the belief in the death and regeneration of Gods. We find this belief in Phoenician, in Egyptian, in

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stiamo proiettando la nostra propria natura, sia in senso corporeo, sia in senso morale o spirituale: «Se tori, cavalli o leoni – dice Senofane – avessero mani per dipingere quadri o per modellare statue, allora rappresenterebbero gli dèi come leoni, cavalli e tori. Ed è lo stesso per l’uomo»77. Vi sono altrettante e diverse divinità quante sono le nazioni o le razze. E tutte queste nazioni e razze sono certe della loro superiorità. Ma non sono solo i nostri ideali morali a essere concepiti in questo modo. I neri rappresentano i loro dèi col naso camuso e nero; i traci li dipingono con occhi blu e capelli rossi. Ma tutto ciò è ridicolo, quindi per trovare la verità sugli dèi dobbiamo, prima di tutto, dimenticare la nostra natura umana e mortale. Dobbiamo dimenticare tutte le nostre imperfezioni, difetti e carenze. Questi difetti hanno una duplice tipologia, sia in merito alla nostra esistenza sia in merito alla nostra morale. Per quel che concerne il primo punto, i Greci solevano speculare sull’origine delle loro divinità. Esiodo scrisse un libro particolare che racconta proprio questa origine; egli, infatti, ci fornisce una descrizione sistematica della genealogia degli dèi. Ma, come insiste Senofane, non esiste un qualcosa come la genealogia degli dèi. Se ci sono degli dèi, allora essi ci sono sempre stati, per cui non sono soggetti né alla generazione, né alla morte e nemmeno al decadimento. Il ben noto antropologo James Frazer ha scritto in merito un volume intitolato Il Dio morente. Nel terzo volume del Ramo d’oro egli passa in rassegna una credenza che è possibile rinvenire in quasi tutte le religioni e che si è diffusa in tutto il mondo – la credenza nella morte e rigenerazione degli dèi. Questa credenza la troviamo nei culti fenici, egizi, nei culti greci come quelli di Adone, Attis e Osiride. Essa poggia su motivazioni mitiche e religiose genera-

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Greek cults – in the cult of Adonis, of Atthis, and Orisis. It is founded upon a general religious and mythical motive: upon the death and regeneration of the life of nature, upon the cycle of the seasons. But all this is rejected by Xenophanes. The nature of God is beyond time; it has no beginning and no end; and it is not subject to any change. God must be unchangeable and unmoveable. But where is this unmoveable and unchangeable God to be found? We cannot ascribe to him a particular, individual shape. For every particular shape is bound up with particular time; it does not exist at all times. There is only one being that exists at all times: the Universe itself. By this Xenophanes is led to his most important and fundamental result: to the consideration of the identity of God and Universe. We cannot imagine God in a special, individual, human shape without committing a grave error. God has an undivided and invisible nature – he exists and works as a Whole. Aristotle complains that this thought was not very clearly expressed by Xenophanes. [«] Xenophanes – he says speaking about the Eleatich School – the first of these partisans of the One […]241 gave no clear statement, nor does he seem to have grasped the nature of either of these causes, but with reference to the whole material universe he says the One is God[»] (Aristotle, Metaph. A 5, 986b). In our own philosophical terminology[,] we are used to describe such a system as a system of Pantheism242. In this way we may call Xenophanes the first pantheist. If God lives, if he sees and hears – he tells us – he does not do this in our own human way – he needs no special sense-organ, of seeing or hearing, no eye and no ear and he needs no organ of motion or thought. Motion and change are perfectly strange to his nature – and his thought is not dispersed into

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li: sulla morte e rigenerazione della vita della natura, sul ciclo delle stagioni. Ma tutto ciò viene rigettato da Senofane. La natura è al di là del tempo, non ha né inizio né fine e non è soggetta ad alcun cambiamento. Dio deve essere immutabile e immobile. Ma dove si trova questo Dio immutabile e immobile? Noi non possiamo attribuirgli alcuna forma individuale o particolare, giacché ogni forma particolare è legata a un tempo particolare, ma una forma simile non esiste da sempre. C’è un solo essere che esiste da sempre: l’Universo stesso. Con ciò Senofane giunge al suo risultato più importante e fondamentale: alla identità di Dio e Universo. Non possiamo immaginarci Dio in forma umana, particolare e individuale, senza commettere un grave errore. Dio ha una natura indivisa e indivisibile, poiché esiste e opera come un Tutto. Aristotele rimprovera Senofane per non aver espresso questo pensiero in maniera adeguatamente chiara: «Senofane – dice Aristotele parlando della Scuola Eleatica – il primo di questi partigiani dell’Uno [...] non ha fornito un’esposizione chiara né sembra abbia afferrato la natura di queste cause, ma in riferimento all’intero universo materiale egli dice che l’Uno è Dio»78. Nella nostra terminologia filosofica siamo soliti descrivere un simile sistema in termini di panteismo. In questo modo possiamo sostenere che Senofane fu il primo panteista. Se Dio vive, se vede e se sente – ci dice Senofane – egli lo fa secondo modalità non umane; egli non ha bisogno di alcun organo sensibile particolare, di nessun organo per la vista o per l’udito, di nessun occhio o orecchio e di nessun organo per il movimento o per il pensiero. Il movimento e il mutamento sono perfettamente estranei alla sua natura e il suo pensiero non si disperde in diversi atti, ma è piuttosto una perfetta unità, un tutto

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different acts, it is a perfwct unity, an unbroken Whole. [«] He sees all over, thinks all over, and hears all over – says Xenophanes – land without toils he swayeth all things by the thought of his mind[»] (fragm. 24 and 25, Burnet, p. 199). That is the doctrine of Xenophanes as we can recostruct it from the few fragments left to us. But here arises a difficult question. What role such a doctrine plays243 in the general development of Greek thought? As I mentioned before[,] Xenophanes can scarcely be regarded as a speculative or empirical thinker. His whole thought is directed to one point and absorbed in one question: in the question of the nature of God. If we should give him a name[,] we had to call him a theologian. But how could this theologian win such a decisive influence – how could he become the founder and the first teacher of such an important and powerful school as the Eleatic school? The fact seems at first sight so strange that some historians of Greek philosophy were inclined to deny it. If you study the book of Burnet on early Greek thought you will find that, in this respect, Burnet is very sceptical – and he even tries to confute244 the clear statement that, with regard to this problem, we find in Plato or Aristotle. But I cannot see any reason for this scepticism. To my mind it is clear that there is a real connexion between Xenophanes and Parmenides, the real philosopher245 of the Eleatic School. Xenophanes restricts his inquiry and his critical question to a special field – to the field of Greek religion. But here he opens a new way. He does not only give a new answer to the question of what God is – but he maintains a new principle or postulate of thought. In order to know the truth of God we have to emancipate ourselves from those two powers that hitherto have governed the religious life of Greece. We must

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integro: «Vede dappertutto, pensa dappertutto e sente dappertutto – dice Senofane – senza fatiche egli scuote tutte le cose col pensiero della sua mente» (fram. 24 e 25, Burnet, p. 199)79. Questa è la dottrina di Senofane, per come siamo riu­ sciti a ricostruirla a partire dai frammenti pervenutici. Ma qui sorge una difficile questione. Quale ruolo ha giocato una simile dottrina nello sviluppo generale del pensiero greco? Come vi ho già accennato, difficilmente possiamo considerare Senofane un pensatore speculativo o empirico. Tutto il suo pensiero era diretto a un punto e si condensa in una questione: la natura di Dio. Se proprio dovessimo dargli un nome, allora dovremmo chiamarlo teologo. Ma come ha potuto questo teologo esercitare una simile influenza? Come fece a diventare il fondatore e il primo maestro di una delle più importanti e potenti scuole come quella eleatica? Questo fatto, a prima vista, sembra talmente strano che alcuni storici della filosofia greca non esitarono a negarlo. Studiando il libro di Burnet sugli inizi del pensiero greco, noterete che egli è molto scettico a riguardo e prova anche a confutare le affermazioni che, in merito a questo problema, ritroviamo in Platone e Aristotele. Ma io non vedo alcuna ragione per siffatto scetticismo. A mio avviso, è evidente che vi è una reale connessione tra Senofane e Parmenide, il vero filosofo della Scuola eleatica. Senofane restringe la sua indagine e la sua questione critica a un campo speciale, ossia al campo della religione greca. Ma qui si apre una nuova fase. Egli non cerca soltanto di fornire una nuova risposta alla questione su cosa sia Dio, ma sostiene invece un nuovo principio o postulato del pensiero. Per conoscere la verità di Dio dobbiamo affrancarci da quelle due forze che fino ad allora avevano governato la vita religiosa della Grecia. Dobbiamo affrancarci dal pensie-

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free ourselves from mythical thought and poetical imagination. Myth and poetry have corrupted Greek feligion. They have falsified and spoiled all our knowledge of God. For myth and poetry cannot conceive anything without representing it in a concrete, single, sensuous shape. But such a shape is perfectly inadequate to God, it is the reverse of his nature. If there is any approach to God – it is not given in sense-experience or in imagination. We have to transgress the limits of our sense-experience and the boundaries of Mythology and Poetry, if we wish to find God. For this purpose[,] we are in need of different means. It becomes imperative to replace and supersede imagination by pure thought. Pure thought, rational thought, logical thought are the only access to a pure and true religion that is in opposition to all sorts of superstitious and popular beliefs. [§2: Parmenides] We need not doubt that such a doctrine had a very deep influence on the mind of Parmenides. But Parmenides was a great and powerful thinker who did not restrici himself to a special field. He does not raise the question of religious truth but he inquiries into the very essence of truth – he wishes to explain the meaning of truth. He has described and defended his theory in a poem, in metrical language. In this poem, he has introduced an allegory. But this allegory is only an emblem and a description of his fundamental logical convinction. He describes himself as seeking the way to truth. Suddenly there appears to him a goddess who promises him her help. She will lead him to the temple, to the very sanctuary of Truth. He is received here – and the

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ro mitico e dall’immaginazione poetica. Mito e poesia hanno corrotto la religione greca e hanno falsificato e rovinato tutta la nostra conoscenza di Dio. Infatti, il mito e la poesia non riescono a concepire nulla che non sia rappresentato in forme concrete, individuali e sensibili. Se esiste un approccio a Dio, allora esso non può esserci fornito dall’esperienza sensibile o dall’immaginazione. Dobbiamo superare i limiti della nostra esperienza sensibile e i limiti della mitologia e della poesia, se intendiamo trovare Dio. A tale scopo abbiamo bisogno di mezzi differenti. Pertanto, diventa un imperativo spodestare e sostituire l’immaginazione attraverso il pensiero puro. Il pensiero puro, il pensiero razionale, il pensiero logico costituiscono il solo accesso alla vera e pura religione, che si trova in netta opposizione a ogni tipo di credenze superstiziose e popolari. 2. Parmenide Non ci sono dubbi sulla profonda influenza che questa dottrina esercitò sulla mente di Parmenide. Ma Parmenide fu anche un grande e potente pensatore, il quale non si limitò a un campo particolare. Egli non solleva la questione della verità religiosa, ma indaga piuttosto l’essenza della verità e intende spiegarne il significato. Egli ha descritto e difeso la sua teoria in un poema, in linguaggio metrico. In questo poema ha introdotto un’allegoria, ma questa allegoria è soltanto un emblema e una descrizione della sua fondamentale convinzione logica. Egli descrive se stesso mentre è alla ricerca della via alla verità. Improvvisamente gli appare una dea che si dice pronta ad aiutarlo. Lei lo condurrà al tempio, all’autentico santuario della Verità. Vi viene quindi accolto, e la prima

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first thing he has to learn is that for man there are two ways: the one leading to knowledge, the other leading to error and deception. He is warned against the second way and all its illusions. It is the way that all of us go in common life and in our daily experience. But the philosopher, the thinker, has carefully to avoid this way, he has to take another direction and he has to use different standards. What are these standards – what is the fundamental criterion for truth? That is the question raised by Parmenides. It is a question of paramount importance. Since its first was put in a clear way it would never be silenced again. In the whole history of philosophy, in the Logic, in the theory of knowledge we shall henceforward always meet with the same problem – with the problem of a criterion, of a crucial test of truth. The obvious answer seems to be that this crucial truth must be an experimental one. Experience and observation are the two ways to truth. But it is just this solution that is emphatically denied by Parmenides. If we trust our senses and our experience[,] we cannot find the way to truth. They lead us astray[;] they are a will-o’-the wisp246 that makes us move erratically. We have to seek for another and for a more reliable guide. And where can we find this guide? Here the answer given by Xenophanes recurs. Xenophanes had described pure thought, in contradistinction and opposition to mythical-practical imagination, as the only way to recognize the nature of God. Parmenides declares that pure thought alone is able to give us an insight into the fundamental character of reality. But that is not all. It is only the first step in

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cosa che apprende è che per l’uomo ci sono due vie: una conduce alla conoscenza, l’altra all’errore e all’inganno. Viene messo in guardia contro la seconda via e contro tutte le sue illusioni. Questa, infatti, non è altro che la via intrapresa da tutti gli uomini nel corso della loro vita comune e della loro esperienza quotidiana. Ma il filosofo, il pensatore, deve invece evitare con cura questa via, prendere un’altra direzione e utilizzare criteri diversi. Quali sono questi criteri – qual è il criterio fondamentale della verità? Questa è la questione sollevata da Parmenide. È una questione di estrema importanza, e dal momento in cui venne posta per la prima volta con chiarezza, non sarebbe mai più stata messa a tacere. Da quel momento in poi, nell’intera storia della filosofia, nella logica e nella teoria della conoscenza, incontreremo sempre lo stesso problema: il problema di un criterio, di una prova cruciale della verità. La risposta più ovvia sembra quella secondo cui questa verità cruciale debba essere di tipo sperimentale. Esperienza e osservazione sono le due vie che conducono alla verità. Ma è proprio questa la soluzione esplicitamente negata da Parmenide. Se credessimo ai nostri sensi e alla nostra esperienza, non potremmo trovare mai la via che conduce alla verità. Sensi ed esperienza ci porterebbero fuori strada, sono un miraggio che ci fa muovere in modo imprevedibile. Dobbiamo cercare un’altra guida, più affidabile. Dove possiamo trovarla? È qui che si ripresenta la risposta di Senofane. Quest’ultimo ha infatti descritto il pensiero puro – in contrasto e opposizione all’immaginazione pratico-mitica – come la sola via per riconoscere la natura di Dio. Parmenide afferma che il pensiero puro è il solo in grado di fornirci un’idea del carattere fondamentale della realtà. Ma ciò non è tutto. Questo è soltanto il primo passo di una lunga catena di deduzioni logiche.

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a long chain of logical deductions. These deductions lead to a surprising result – but according to Parmenides we have to accept this if we accept his premises. Pure thought is not the only way to reality – it is reality itself. “Being” and “Thought”, “reality” and “knowledge” are not two things; they are only one thing. They do not only correspond [with] each other, but they coincide with each other. In order to explain this[,] let us first hear the description of the two ways of inquiry given by Parmenides himself (It is contained in the fourth and fifth fragment: you will find it in Burnet’s Early Greek Philosophy, p. 173). «Come now, I will tell thee – and do thou hearken to my saying and carry it away» – so speaks the Goddess of truth to Parmenides – «the only two ways of search that can be thought of. The first, namely, that It is247, and it is impossible for it not to be, is the way of belief, for truth is its companion. The other, namely that It is not248, and that it must needs not be – that, I tell thee, is a path that none can learn of [at] all. For they cannot know what is not – that is impossible – nor utter it: for it is the same thing that can be thought and that can be». These are, indeed, very dark words, and I should not be surprised if you told me that you think them to be unintelligible. But let us not despair to find the right interpretation. As we pointed out[,] the true originality of Parmenides is the fact that he introduced a new standard of truth. We cannot trust our senses, the sense of seeing or hearing, we cannot trust experience and observation, we cannot trust our imagination. For all of us know that these pretended sources of knowledge have deceived us innumerable times. By all of them we are led to all sorts of illusions, to contradictory statements. If we see a thing, let us say a tower, from a certain

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Queste deduzioni ci conducono a un risultato sorprendente, ma secondo Parmenide noi dobbiamo accettarlo, se ne accettiamo anche le premesse. Il pensiero puro non è la via che conduce alla realtà – è la realtà stessa. “Essere” e “Pensiero”, “realtà” e “conoscenza” non sono due cose separate, ma una cosa sola. Non soltanto si equivalgono, ma coincidono l’una con l’altra. Prima di spiegare tutto ciò, leggiamo la descrizione delle due vie di ricerca fornite dallo stesso Parmenide (che si trova all’interno del quarto e del quinto frammento: la trovate a p. 173 del volume di Burnet La prima filosofia greca): «Ecco vieni, ora ti dirò – e tu fai tesoro di quanto ti dico e portalo con te –», così parla la dea della verità a Parmenide, «le sole due vie di ricerca che si possono pensare. La prima: che è, ed è impossibile che non sia, è la via della credenza, perché verità è sua compagna. L’altra: che non è, e che è necessario non sia – che, io ti dico, è un sentiero che nessuno può apprendere affatto. Poiché non si può sapere ciò che non è – ciò è impossibile – né proferirlo: poiché è come dire che si possa pensare e che possa essere»80. Queste parole, effettivamente, sono piuttosto oscure e non mi sorprenderei se voi mi diceste che suonano alquanto incomprensibili. Ma non disperiamoci e cerchiamo di trovare la giusta interpretazione. Come abbiamo già segnalato, l’autentica originalità di Parmenide consiste nell’aver introdotto un nuovo criterio di verità. Noi non possiamo fidarci dei nostri sensi, della nostra vista o del nostro udito, non possiamo fidarci dell’esperienza e dell’osservazione e nemmeno dell’immaginazione. In effetti, tutti noi sappiamo che queste presunte fonti di conoscenza ci hanno illuso innumerevoli volte. Esse ci conducono a ogni sorta di illusioni e ad asserti contraddittori. Se vediamo una cosa – ad esempio una torre – da

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distance we may ascribe to it a certain geometrical form; we may say: this tower is round. But coming nearer to the tower we find that it has not a round, but a square shape. In this case we have two propositions: the one a249 is b250, the other a251 is not b252. But these propositions exclude each other; if one of them is true the other must necessarily be false. And here we come to the point. What Parmenides discovers and what he wishes to describe is a truth that nowadays we may think to be a very commonplace truth. It is that principle that in our Logic we call the principle of contradiction. He explains it in his own way by saying that Being and Not-Being are incompatible. You cannot unite in your thought the predicate “Being” and Not-Being – then you have to deny the truth, nay the possibility of Non-Being: and from here Parmenides is led to a very bold and radical consequence. If we analyze our empirical concepts and our empirical judgements – he tells us – we should always find that they are incongruous and inconsistent. They are a strange mixture of Being and Non-being; they are a hidden contradiction in terms. In order to avoid this discrepancy, in order to remain faithful to our fundamental principle – to the principle of contradiction – we have to cancel all this so-called empirical evidence. The only evidence we can really trust is not the evidence of our senses, but the evidence of pure thought – the evidence of logical analysis and logical deduction. And now let us apply this general rule to a special case. Let us analyze that category and that concept which hitherto was in the focus of Greek thought253. It is the concept of change. All the former thinkers – Thales, Anaximander, Anaximenes, Herakleitos – had built up their philosophy upon two fundamental concepts: the concept of substance

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una certa distanza allora potremmo attribuirle una certa forma geometrica; potremmo dire che la torre è rotonda. Ma più ci avviciniamo alla torre e più ci rendiamo conto che essa in realtà non è rotonda bensì quadrata. In questo caso abbiamo due proposizioni: “a è b”, “a non è b”. Ma queste due proposizioni si escludono a vicenda, giacché se l’una è vera l’altra è necessariamente falsa. E qui arriviamo al punto. Ciò che Parmenide scopre e intende descrivere è una verità che oggigiorno consideriamo una verità comune. È quel principio che nella nostra logica chiamiamo principio di contraddizione. Egli lo spiega a modo suo, dicendo che Essere e non-Essere sono incompatibili. Non potete unire nel vostro pensiero “Essere” e “non-Essere”; dovete scegliere tra questi due predicati. Se affermate la verità dell’Essere, allora dovete negare la verità, o meglio, la possibilità del non-Essere. Da ciò Parmenide giunge a una conseguenza ardita e radicale. Se analizziamo i nostri concetti e giudizi empirici – dice Parmenide – noteremo che sono sempre inconsistenti e incongruenti. Si rivelano una strana mescolanza di Essere e non-Essere, una velata contraddizione in termini. Per evitare questa discrepanza, per rimanere fedeli al nostro principio fondamentale – al principio di contraddizione – dobbiamo cancellare tutta quanta la cosiddetta evidenza empirica. La sola evidenza a cui possiamo credere non è quella dei sensi, ma l’evidenza del pensiero puro – l’evidenza dell’analisi logica e della deduzione logica. E adesso applichiamo questa regola fondamentale a un caso particolare. Analizziamo quella categoria, quel concetto che fino a ora è stato al centro del pensiero greco. È il concetto di cambiamento. Tutti i primi pensatori – Talete, Anassimandro, Anassimene, Eraclito – basarono la loro filosofia su due concetti fondamentali: il concetto di sostanza e il concetto di cambiamento. Vi è un cambia-

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and the concept of change. There is a change in things, but this change is not absolute. In spite of this change there always remains something that is unchanging, persistent, perdurable. “Being” and “Becoming” are thus blended into one another – and it is just this penetration of the two concepts, this interdependence that we call “Nature”. The very term “Nature” (Physis) means in Greek both being and becoming. But here the objection of Parmenides begins. It is very thoughtless – he declares – to combine the two terms in this way – to speak of nature as a combination of “Being” and “Becoming”. Such a combination is a contradiction in terms. If a thing A undergoes a change that means that it is a passing from on a state a254 to another state b255. In this case the first state a256 ceases being; the second comes into being, it begins to be. But if we understand being in its true sense, it is to be conceived as persistent; it has no beginning and no end; it cannot be generated and it cannot be destroyed. The fusion between Being and Becoming that we find in Thales, in Anaximander, in Anaximenes, in Herakleitos is therefore nothing else than a confusion. The very terms of these thinkers are unthinkable and ununderstandable (sic). Let us explain this by Parmenides’ own words which after these remarks will, as I hope, be clear to you – Burnet p. 174257[:] [«]In this path are very many tokens that what is is uncreated and indestructible… Nor was it ever, nor will it be, for now is all at once, a continuous one. For what kind of origin for it wilt thou look for? In what way and from what source could it have drawn its increase? I shall not let thee say nor think that it came from what is not; for it can neither bo thought nor258 uttered that anything is not. And, if it came from nothing, what need could have made it arise later rather than sooner? Therefore must it either be altogether

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mento nelle cose, ma questo cambiamento non è assoluto. Nonostante questo cambiamento, rimane sempre qualcosa di immutabile, persistente, perdurante. “Essere” e “Divenire” sono pertanto amalgamati – ed è proprio questa compenetrazione dei due concetti, questa interdipendenza ciò che noi chiamiamo “Natura”. Il termine “Natura” (physis) in greco significa sia essere sia divenire. Ma qui inizia l’obiezione di Parmenide. È sconsiderato – secondo Parmenide – pensare che si possano combinare questi due termini in tal modo, parlare della natura come di una combinazione di “Essere” e “Divenire”. Una simile combinazione è una contraddizione in termini. Se una cosa A sottostà al cambiamento, ciò significa che essa passa da uno stato a a uno stato b. In questo caso, il primo stato cessa di essere, mentre il secondo viene alla luce, inizia a essere. Ma se intendiamo l’essere nel suo autentico senso, ossia come persistente, allora esso non può avere né inizio né fine, non può essere né generato né distrutto. La fusione tra Essere e Divenire – che ritroviamo in Talete, Anassimandro, Anassimene ed Eraclito – non è nient’altro che una confusione. I termini di questi pensatori diventano pertanto impensabili e incomprensibili. Spieghiamo tuttò ciò con le parole dello stesso Parmenide, le cui osservazioni, come spero, saranno per voi abbastanza chiare – Burnet p. 174: «Lungo questo sentiero [che è] vi sono molti segni che ciò che è è increato e indistruttibile... non è mai stato, né lo sarà, poiché è adesso tutto in una volta, un uno continuo. Quale tipo di origine cercherai di esso? In che modo e da quale fonte potrebbe aver tratto la sua crescita? Non ti lascerò dire e neppure pensare che provenga da ciò che non è; poiché non si può né pensare né proferire ciò che non è. E, se fosse venuto dal nulla, quale necessità avrebbe potuto farlo sorgere dopo piuttosto che prima? Perciò deve o essere del tutto o

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or be not at all. […]259 Surely it is adjuded, as it needs must be, that we are to set aside the one way as unthinkable and nameless – for it is not true way – and that the other path260 is real and true[»]261. Even this may still appear rather abstract and difficult. But you will find it much easier to grasp the meaning of the thesis of Parmenides if you look back at his predecessor, if you remember the doctrine of Xenophanes. Xenophanes had declared that there is only one access to a true knowledge of God: the access by pure thought. Any other way – the way of the senses as well as the way of imagination – leads us astray262. And Xenophanes himself was what we call a “pantheist” – he admits no fundamental difference between God and the universe. His criticism must, therefore, [be] transferred from one problem to the other. Xenophanes rejects and decries our usual concepts of the deity and of the universe. He thinks that we cannot reach a true idea of both as long as we are under our anthropomorphic prejudices – as long as we give to God and the Universe our own human shapes. They must be conceived in a universal way; not in a particularized or individualized way. Parmenides perfectly agrees with Xenophanes in this fundamental conception. But he is no theologian; he is a logician. His first and fundamental interest is not the problem of God but the problem of truth. But here he is led to the same conclusion. We cannot reach the truth as long as we are confined within the limits of a particular view, as long as we are speaking about particular objects. We must elevate thoughts to the highest possible abstraction: to the concept of Being in general. A limited, a particular being, a single, isolated object that is separated from the whole reality cannot give us the insight into the

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non essere per niente. [...] Senza dubbio si giudichi, come è necessario che sia, che dobbiamo accantonare il primo modo in quanto impensabile e senzanome – poiché non è la vera via – e che l’altro sentiero è reale e vero»81. Anche questi passi potranno apparirvi ancora astratti e difficili. Ma vi verrà più facile cogliere il significato della tesi di Parmenide, se volgerete il vostro sguardo al suo predecessore, se vi ricorderete della dottrina di Senofane. Quest’ultimo ha affermato che esiste un’unica via d’accesso alla vera conoscenza di Dio: il pensiero puro. Ogni altra via – quella dei sensi e dell’immaginazione – ci condurrebbe fuori strada. Senofane stesso fu quello che possiamo definire un “panteista”, giacché non ammetteva alcuna differenza tra Dio e l’universo. Pertanto, il suo criticismo va trasferito da un problema a un altro. Senofane rigetta e condanna i nostri usuali concetti di divinità e di universo. Egli pensa che non è possibile raggiungere una autentica idea di entrambi, fino a quando restiamo vittime di pregiudizi antropomorfici, fino a quando estendiamo a Dio e all’Universo le nostre forme umane. Essi, piuttosto, vanno concepiti in modo universale; non in modo particolare o individuale. Parmenide aderisce perfettamente alla concezione fondamentale di Senofane. Ma egli è un logico, non un teologo. Il suo problema prioritario e fondamentale non è il problema di Dio, bensì quello della verità. Ma qui egli giunge alla medesima conclusione. Non si può cogliere la verità fino a quando si resta confinati all’interno dei limiti di un punto di vista particolare, fino a quando si continua a parlare di oggetti particolari. Dobbiamo elevare i nostri pensieri alla più alta astrazione possibile: al concetto di Essere in generale. Un essere limitato, particolare, un singolo oggetto isolato e separato dall’intera realtà, non può fornirci una intuizione della natura della realtà. La

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nature of reality. Reality must be understood as an unbroken Whole – or it cannot be understood at all. Parmenides speaks of Being and not-Being. We even find the words of Hamlet in his poem. Our judgements – he says – depend on this: “Is it or is it not?”263. But Being and Non-Being are the most general terms of philosophy that tax our power of abstraction to the utmost. If you wish to have an easier approach to the thought of Parmenides[,] I recommend you to replace both these terms by other ones. Instead of Being you may just as well speak of reality – but of reality not in any partial, restricted sense, but of reality taken as a Whole, or an absolute totality. In this case the words of Parmenides immediately get a clear sense. To Reality, taken as a whole, we cannot ascribe a beginning or an end. It can have no beginning – for such a beginning must have a cause and there is no cause outside and beyond the all-embracing Universe. We cannot think this all-embracing Universe, liable to change – for to change means to pass to a different state of being and the Universe comprehends, by its very concept and definition, all possible states of being; it comprehends the past, the present and the future. All the predicates that are ascribed by Parmenides to the Universe may be said to be mere logical deductions from this original definition. How can we speak of becoming or changing universe – how can the universe that is all reality whatever even be “not yet” or “no more”? It was not in the past and it will not be in the future; it is now and forever, eternal and immortal. [«]How can what is264 be going to be in the future? Or how could it come into being? If it came265 into being it is not; nor is it if it is going to be in the future. Thus is becoming extinguished and passing away not to be heard of. Nor is it divisible, since

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realtà va concepita come un tutto integro, oppure non la si può comprendere affatto. Parmenide parla di Essere e non-Essere. Nel suo poema troviamo persino le parole dell’Amleto. I nostri giudizi – dice – dipendono da ciò: “È o non è?”. Ma Essere e non-Essere sono i termini più generali della filosofia che spingono la nostra facoltà di astrazione all’estremo. Se desiderate utilizzare un approccio più semplice al pensiero di Parmenide, vi consiglio di rimpiazzare questi due termini con altri. Invece di Essere dovreste parlare di Realtà, ma non della realtà in senso parziale, ristretto, bensì della realtà nel senso dell’Intero, come una totalità assoluta. In questo caso le parole di Parmenide assumono immediatamente un senso chiaro. Alla Realtà, presa come un Tutto, non possiamo attribuire alcun inizio o alcuna fine. Essa non può avere alcun inizio, giacché se così fosse dovrebbe avere una causa, ma non esiste alcuna causa al di fuori o al di là dell’Universo globale. Non possiamo pensare questo Universo come soggetto a cambiamento, poiché quest’ultimo implicherebbe il passaggio a uno stato differente, mentre l’Universo comprende, per suo concetto e sua definizione, tutti i possibili stati dell’essere; comprende il passato, il presente e il futuro. Tutti i predicati che Parmenide attribuisce all’Universo vanno considerati come mere deduzioni logiche tratte dalla sua definizione originale. Come possiamo parlare di universo in divenire o in cambiamento – come può l’universo, che è tutta quanta la realtà, essere anche “non ancora” o “non più”? Non era nel passato e non sarà nel futuro; è ora e per sempre, eterno e immortale: «Come può ciò che è stare per andare a essere nel futuro? O come potrebbe venire nell’essere? Se è venuto all’essere, non è; né è, se sta per andare a essere in futuro. Così viene estinguendosi e trapassando ciò di cui non si sente parlare. Neppure

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it is all alike. Wherefore it is wholly continuous, for what is, is in contact with what is…It is the same, and it rests in the self-same place, abiding in itself». If we wish to find a modern analogy to this point of view, we may find it in the thought of Spinoza. Even Spinoza defines God or, what it means the same, the Universe, as a substantia quae in se est et per se concipitur – a substance, a permanent and unchanging thing, that is in itself, perseveres by itself and is to be thought by itself. That in Greek philosophy this was a real crisis, a revolutionary thought, is best to be felt if we compare Parmenides and Herakleitos. Parmenides is perfectly aware of this fundamental difference. He attacks the view of Herakleitos in the most vehement way. Herakleitos had defined reality not as a permanent or persisting thing, but as a process. He had declared that things are never at rest; they are continually swinging or vacillating between opposite poles, between life and death. [«]The life of one element – he says – is the death of another: fire lives the death of the air, water lives the death of the earth, earth that of water[»]. The boundaries between life and death, between Being and Non-being are, therefore, uncertain, we cannot trace a sharp line of demarcation which separates the two realms. [«]All the things we see when we are awake are death – says Herakleitos in the 64th fragment – even as all we see in slumber are sleep[»]. We think to see the truth, the reality of things, if we [are] awake; if we open our eyes in the morning. But from the point of view of a higher being, from the point of view of a God, what we call reality, may appear as sleep or dream. «Mortals are immortals and immortals are mortals,

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è divisibile, poiché è tutto uguale. Pertanto è interamente continuo, poiché ciò che è, è in contatto con ciò che è... È il medesimo, e permane nel medesimo luogo, dimorando in se stesso»82. Se volessimo trovare un’analogia moderna con questo punto di vista, potremmo rinvenirla nel pensiero di Spinoza. Anche Spinoza definisce Dio – o, che è lo stesso, l’Universo – come una substantia quae in se est et per se concipitur, una sostanza, una cosa permanente e immutabile, che è in sé, persevera per sé ed è pensata da se stessa. Che nella filosofia greca questo abbia costituito una autentica crisi, un pensiero rivoluzionario, lo possiamo avvertire ancora meglio ponendo a confronto Parmenide ed Eraclito. Parmenide è del tutto consapevole di questa fondamentale differenza. Egli attacca la concezione di Eraclito in modo particolarmente violento. Eraclito definì la realtà non tanto come un qualcosa di stabile e permanente, ma come un processo. Affermò anche che le cose non stanno mai in quiete, che oscillano e vacillano continuamente tra poli opposti, tra la vita e la morte. «La vita di un elemento – egli dice – è la morte di un altro: il fuoco vive la morte dell’aria, l’acqua vive la morte della terra, la terra quella dell’acqua»83. I confini tra la vita e la morte, tra Essere e non-Essere sono pertanto incerti, non possiamo tracciare una netta linea di demarcazione che separi questi due mondi: «Tutte le cose che vediamo quando siamo svegli sono morte», dice Eraclito nel frammento 64, «così come quelle che vediamo nel torpore sono sonno»84. Noi crediamo di vedere la verità, la realtà delle cose, se siamo svegli, se apriamo i nostri occhi al mattino. Ma dal punto di vista di un essere più elevato, dal punto di vista di un dio, ciò che noi chiamiamo realtà può apparirci sonno o sogno: «I mortali sono immortali e gli immortali sono mortali,

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the one living the other’s death and dying the other’s life» (fr. 67). To Parmenides this doctrine of Herakleitos – the doctrine of the unity of the opposite – is a noisy play with words. He has discovered a fundamental law that decidedly rejects this pretended unity: the law of contradiction. For the sake of this law[,] he scorns and derides the doctrine of Herakleitos which according to him is nothing but one great contradiction. Herakleitos speaks in riddles, in mysteries, in impossibilities. His terms as well as his thougts are incomprehensible. «I hold thee back – says the Goddess of truth in the poem of Parmenides – from this way of inquiry266 upon which mortals knowing naught wander two-faced267; for helplessness guides the wandering thought in their breasts, so that they are borne268 along stupefied like men deaf and blind. Undiscerning crowds, who hold that it is and is not the same and not the same, and all things travel in opposite directions» (fragm. 6). Here too we may have the feeling as if Greek philosophy were much more destructive than constructive. Its work seems to be alike the work of Penelope. What one thinker does, is undone by the other; what one thinker affirms is denied and decried by the other. Nevertheless[,] such a judgment would be rash and incorrect. If we proceed in our way[,] we shall find in which way even this fundamental division – the division between Herakleitos and Parmenides [–] was a real step in advance. It is the greatest Greek thinker, it is Plato, who shall try to cure this dissention – to come to a synthesis of the principles of Herakleitos and Parmenides, of the principles of Becoming and Being.

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gli uni vivono la morte degli altri, e muoiono la vita di questi»85. A Parmenide, questa dottrina eraclitea dell’unità degli opposti appariva soltanto un fumoso gioco di parole. Egli ha scoperto una legge fondamentale che rigetta definitivamente questa presunta unità: la legge della contraddizione. Nel rispetto di questa legge, egli disprezza e deride la dottrina di Eraclito, che secondo lui altro non era che una grande contraddizione. Eraclito parla per enigmi, misteri, impossibilità. Tanto i suoi termini quanto i suoi pensieri sono incomprensibili: «Ti trattengo», dice la Dea della verità nel poema di Parmenide, «da questa via di indagine su cui i mortali che nulla sanno vagano bifronti; poiché l’incapacità guida il pensiero errante nei loro petti, cosicché essi sono trascinati in avanti inebetiti come uomini sordi e ciechi. Folle senza discernimento, che ritengono che è e non è sia e non sia lo stesso, e che tutte le cose viaggino in direzioni opposte»86. Anche qui si ha la sensazione che la filosofia greca sia più distruttiva che costruttiva. La sua opera assomiglia a quella di Penelope. Ciò che un filosofo fa, viene poi disfatto dall’altro; ciò che un filosofo afferma viene poi negato e disprezzato dall’altro. Ciononostante, un simile giudizio sarebbe avventato e inesatto. Se procediamo per la nostra strada troveremo che questa divisione – la divisione tra Eraclito e Parmenide – costituì un autentico passo in avanti. È il più grande pensatore greco, Platone, colui che tenterà di curare tale dissenso, di giungere a una sintesi dei princìpi di Eraclito e Parmenide, dei princìpi dell’Essere e del Divenire.

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[§3: Zenon of Elea] In his dialogue “Parmenides” Plato describes a visit with Parmenides as a man of about 65 years at Athens and in which he becomes engaged in a long discussion with the young Socrates. At this occasion Parmenides is accompanied by a younger man: his friend and elevated pupil Zeno of Elea who reads from one of his own books that deals with the question of plurality and infinity. When the recitation is completed[,] Socrates wishes to ask a few questions. He begins by269 saying that there seems to be a real difference between the philosophy of Parmenides himself and the thesis maintained in the book of Zeno. «I see, Parmenides – says Socrates – that Zeno would like to be not only with you in friendship but your second self in his writings too; he puts what you say in another way and would fain make that he is telling us something which is new. For you, in your poems, say The All is one, and of this you adduce excellent proofs; and he on the other hand says “There is no many”; and on behalf of this he offers overwhelming evidence. You affirm unity, he denies plurality. And so you deceive the world into believing that you are saying different things when really you are saying much the same». But Zeno rejects this blame. He meant no deception at all. «The truth is – replies – that these writings of mine were meant to protect the arguments of Parmenides against those who make fun of him and seek to show the many ridiculous and contradictory results which they suppose to follow from the affirmation of the one. My answer is addressed to the partisans of the many, whose attack I return with interest by retorting upon them that their hypothesis of the being of many, if carried out, appears to be still more ridiculous than the hypothesis of the being of one. Zeal for my master led me to write the book in the days of

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3. Zenone di Elea Nel suo dialogo Parmenide Platone descrive la visita di Parmenide (un uomo di circa 65 anni) ad Atene e la lunga discussione con il giovane Socrate. In questa occasione Parmenide è accompagnato da un giovane uomo: il suo amico e acuto allievo Zenone di Elea, che legge da uno dei propri libri la questione della pluralità e dell’infinito. Dopo aver completato la sua lettura, Socrate desidera porgli alcune domande. Inizia dicendo che sembra sussistere una effettiva differenza tra la filosofia dello stesso Parmenide e la tesi sostenuta nel libro di Zenone: «Vedo, Parmenide – dice Socrate – che Zenone gradirebbe non solo essere con te in amicizia, ma essere anche il tuo secondo io nei suoi scritti; mette quello che dici in un altro modo e vorrebbe far credere che ci stia dicendo qualcosa di nuovo. Per te, nei tuoi poemi, dici che il Tutto è uno, e di questo adduci prove eccellenti; e Zenone invece dice: “Non esistono i molti”; e al riguardo offre prove schiaccianti. Tu affermi l’unità, lui nega la pluralità. E così inganni il mondo facendogli credere che stai dicendo cose diverse, quando in realtà stai dicendo più o meno la stessa cosa». Ma Zenone rigetta quest’accusa. Egli non intendeva ingannare nessuno: «La verità – risponde – è che questi miei scritti avevano lo scopo di proteggere le argomentazioni di Parmenide contro coloro che lo prendono in giro e cercano di mostrare i tanti risultati ridicoli e contraddittori che suppongono conseguano dall’affermazione dell’uno. La mia risposta è rivolta ai partigiani dei molti, al cui attacco rispondo con interesse ribattendo che la loro ipotesi dell’essere di molti, se realizzata, appare ancora più ridicola dell’ipotesi dell’essere di uno. Lo zelo per il mio maestro mi portò a scrivere il libro nei giorni della mia giovinezza – dice Zenone – ma qualcu-

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my youth – says Zeno – but some one stole the copy; and therefore I had no choice whether it should be published or not; the motive, however, of writing, was not the ambition of an elder man, but the pugnacity of a young one» (Plato, Parmenides 128A). As a matter of fact[,] the thesis of Zeno does not differ form the thesis of Parmenides in its meaning and purport. They only differ in their methods. What Zeno introduces here is a sort of proof that later on became very famous in the history of Mathematics. It is what we call an induced proof, a deduction ad absurdum270. Parmenides had denied the possibility of change – Zeno denies the possibility of plurality. But what does that mean? Are not change and plurality obvious, palpable, undeniable facts – and it is not ridiculous to shut our eyes towards these facts? Parmenides and Zeno take all their arguments from the so-called principle of contradiction – they try to convince us that the concept of change and the concept of plurality are contradictory concepts. But it is not just as much contradictory to contest the evidence of our immediate experience than the evidence of a logical principle? Must not a sound philosophy hear both parts? But what we have to do and what judgement have we to give if both witnesses are diametrically opposed to each other? In this case there always seems to arise an indissoluble dilemma. In a little verse of Goethe[,] it is said that there is no better reply to a philosopher who denies the fact of motion than to walk before his nose. But such an argument would scarcely have convinced the thinkers of the Eleatic School. They would have preferred to defy the evidence of their senses than to admit that such an absurd and contradictory thing as motion can exist, can have a reality and truth. But all this may appear to us very futile and very infertile. The arguments of Zeno against the possibility of motion

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no ne rubò la copia; e quindi non avevo scelta se dovesse essere pubblicato o meno; il motivo, tuttavia, della scrittura, non era l’ambizione di un uomo anziano, ma la combattività di un giovane»87. Di fatto, la tesi di Zenone non differisce da quella di Parmenide, sia nel suo significato sia nel suo scopo. Le due tesi differiscono soltanto nei loro metodi. Ciò che Zenone introduce qui è una sorta di prova, in seguito divenuta piuttosto famosa nella storia della matematica. È ciò che si chiama una prova indiretta, una deductio ad absurdum. Parmenide aveva negato la possibilità del cambiamento, Zenone nega la possibilità della pluralità. Ma ciò cosa significa? Il cambiamento e la pluralità non sono in fin dei conti fatti ovvi, palpabili, innegabili? E non sarebbe ridicolo tapparci gli occhi di fronte a questi fatti? Parmenide e Zenone traggono i loro argomenti dal cosiddetto principio di contraddizione e tentano di convincerci della contraddittorietà dei concetti di cambiamento e di pluralità. Ma non è ancora più contraddittorio contestare l’evidenza della nostra esperienza immediata, piuttosto che l’evidenza di un principio logico? Una sana filosofia non dovrebbe prestare ascolto a entrambe? Ma cosa dovremmo fare e quale giudizio dare nel caso in cui entrambe siano diametralmente opposte l’una all’altra? In questo caso sembra sempre sorgere un dilemma indissolubile. In un piccolo verso di Goethe si dice che non vi è replica migliore, a un filosofo che nega il fatto del movimento, che camminare davanti al suo naso. Ma difficilmente un argomento simile avrebbe convinto i pensatori della Scuola eleatica. Avrebbero preferito opporsi all’evidenza dei loro sensi, piuttosto che ammettere che una cosa così assurda e contraddittoria come il movimento possa esistere, possa essere vera e reale. Ma tutto ciò può apparirci piuttosto futile e molto sterile. Gli argomenti di Zenone contro la possibilità

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and plurality have always aroused a great admiration among philosophers, among dialecticians and mathematicians. The view [is] held in highest esteem because of its271 sagacity and penetration. But if sagacity and penetration, if the subletly of discernment and judgement, are directed to such an aim they seem to be not only useless, but also dangerous. Such an assertion of our dialectical powers may have a certain sportive interest; it may divert ourselves and sharpen our wits; but it seems to lack a real philosophical value and it seems scarcely to be worthy272 of a true philosopher. Nevertheless[,] such a judgement would not do justice to the arguments of Zeno. We must try to find a better and deeper interpretation of them in order to understand their true meaning and their historical and systematic value. Let me begin with a short exposition of the arguments themselves. I do not intend to discuss them in detail; I only wish to give you a general impression of the method used by Zeno. The first argument of Z[eno] was an argument taken from the field of our sense-perception. Zeno invites us to make a little and very simple experiment. For technical reasons we cannot make this experiment ourselves; but you will very easily understand it if I describe to you its conditions. I put on this table before me a vessel, a bushel of corns. This bushel is supposed to contain a great number of very small grains of corn – to fix our thoughts, let assume that it consists of 10˙000 separate grains. Now I take one of these273 grains and let it fall to the ground. It sinks noiselessly to the earth. If I ask you what did you hear, when this grain fell to the ground – every one of you will answer me “I heard nothing”. The noise made by the single grain is equal to zero. But now let me make the same experiment a second,

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del moto e della pluralità hanno sempre suscitato una grande ammirazione tra filosofi, dialettici e matematici. Questa tesi è stata apprezzata per la sua sagacia e profondità. Ma se la sagacia e la profondità, se la sottigliezza del giudizio e del ragionamento, sono fini a se stesse, allora si rivelano non soltanto inutili, ma anche pericolose. Una simile rivendicazione delle nostre capacità dialettiche può rivestire un certo interesse agonistico, può divertirci e aguzzare il nostro ingegno, ma sembra priva di un autentico valore filosofico e a malapena degna di un vero filosofo. Tuttavia, un simile giudizio non renderebbe giustizia agli argomenti di Zenone. Dobbiamo tentare di fornirne un’interpretazione migliore e più profonda, per comprendere il loro autentico significato e il loro valore storico e sistematico. Permettetemi di iniziare con una breve esposizione degli argomenti stessi. Non intendo discuterli in dettaglio; desidero solo fornirvi un’impressione generale del metodo utilizzato da Zenone. Il primo argomento di Zenone viene ripreso dal campo della nostra esperienza percettiva. Zenone ci invita a fare un piccolo e semplicissimo esperimento. Per ragioni tecniche non possiamo fare questo esperimento da soli, ma lo comprenderete facilmente se ve ne descrivo le condizioni. Su questo tavolo, davanti a me, posizionerò un recipiente con del grano. Supponiamo che questo recipiente contenga un gran numero di piccolissimi chicchi di grano e che la quantità di grano sia pari a 10.000 unità separate. Adesso prendo uno dei chicchi e lo lascio cadere a terra. Cadrà silenziosamente. Se vi chiedessi cosa avete udito quando il chicco è caduto al suolo, ognuno di voi mi risponderebbe: “Non ho udito nulla”. Il rumore prodotto da un singolo chicco di grano è pari a zero. Ma adesso ripetiamo lo stesso esperimento una seconda, una terza, una

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a third, a fourth time and let me note your answers. In this case I shall have the following schedule: Grain

Noise

1 0 0 2 3 0 …….. 10˙000 0 ____________ Bushel 0 But it is clear that the result of this calculus is not in accordance with the real facts ascertained by our sense-experience. For if I take the whole bushel of ten thousand grains and when I turn the bushel over, then one will hear a very considerable noise. This is the “apory”, the difficulty of Zeno. How can an addition of mere noughts, of zeros of noise, produce a definite magnitude? But before trying to answer these questions let us ask, what modern science has to tell us about the facts themselves? It seems very easy274 to decide the problem by referring to our more elaborate conceptions and to our much more refined observations. Since the problem is a problem of sense-perception, it belongs to the field of psychology. Modern psychology has built an enormous technical apparatus to study the phenomena of sense-perception. And as a matter of fact[,] the problem caused by Zeno has played an275 important role in the history of modern psychology. It was by the study of this problem that the way was paved to this new science that was called “Psychophysics”. The first founders of this science were G. Th. Fechner and Wilhelm Weber. And they detected a very interesting law that gives us the real clue to the solution of

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quarta volta e vediamo le vostre risposte. In questo caso avremo la seguente tabella: grano rumore 1 0 0 2 3 0 …….. 10.000 0 ___________ recipiente 0 Ma è chiaro che il risultato di questo calcolo non è in accordo con i fatti reali riscontrati nella nostra esperienza sensibile. Ma se adesso prendessi tutto il contenitore con i 10.000 chicchi di grano e versassi tutto il suo contenuto per terra, allora voi sentireste un rumore considerevole. Questa è l’“aporia”, la difficoltà di Zenone. Come può una somma di meri zeri – zeri di rumore – produrre una grandezza determinata? Prima di rispondere a queste questioni, chiediamoci cosa ci dice in proposito la scienza moderna. Sembra facile decidersi sul problema ricorrendo alle nostre concezioni più elaborate e alle nostre ben più raffinate osservazioni. Poiché il problema è un problema di percezione sensibile, esso appartiene al campo della psicologia. La psicologia moderna ha costruito un enorme apparato tecnico per studiare il fenomeno della percezione sensibile. Di fatto, il problema provocato da Zenone ha giocato un ruolo importante nella storia della psicologia moderna. Fu proprio a partire dallo studio di questo problema che venne spianata la strada a questa nuova scienza chiamata “psicofisica”. I primi fondatori di questa scienza furono G. Th. Fechner e Wilhelm Weber, i quali individuarono una legge interessante che ci fornisce l’autentico indizio della soluzione della diffi-

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Zeno’s difficulty. It is the so-called Weber-Fechner law of the law of the limen or threshold of sensation. Not every physical stimulus produces a sensation. In order to produce a sensation a stimulus must have reached a certain degree. By empirical methods of observation and measurement we can in every single case ascertain this degree. It is not the same in all the different fields of sense-perception. The sense of seeing, of hearing, of smelling or touching – all of them have their own numbers – their own “threshold of sensation”. As long as a stimulus remains below this threshold, it will not produce a sensation; but the sensation is produced as soon as we surpass the threshold. And here we have the solution to the problem of Zeno. The fall of a single grain was not really noiseless; but the noise was below the threshold; it could not be heard. The noise of the whole bushel, being far above the threshold, is heard very distinctly. That seems to be extremely simple – but I do not think that Zeno would be satisfied with this modern solution. As a matter of fact[,] the founders of our modern Psychophysics were arguing upon the principle, that we can apply the same concepts and the same methods of measurement to physical and psychical phenomena. They even tried to find a mathematical formula that expresses the exact relation between psychical and physical phenomena. Our sensations – says Fechner – are not directly proportionate to the magnitude of the physical stimuli; they are proportionate to the logarithms of the stimuli. I cannot enter here into the details of this questions; you will find a description of it in every text-book276 of psychology. Let me only insist on a single point. In order to find and to prove his law Fechner had to regard human consciousness in the same way as a physicist

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coltà di Zenone. È la cosiddetta legge Fechner-Weber o legge della soglia della sensazione. Non tutti gli stimoli fisici producono una sensazione. Per produrre una sensazione, uno stimolo deve aver raggiunto un certo grado. Tramite i metodi empirici di osservazione e misurazione possiamo, per ogni singolo caso, verificare questo grado. Ciò non vale per tutti i diversi campi della percezione sensibile. Il senso della vista, dell’udito, dell’olfatto e del tatto hanno tutti i loro propri numeri, ossia la loro “soglia di sensazione”. Fino a quando uno stimolo rimane al di sotto della soglia, esso non produrrà alcuna sensazione, ma la sensazione viene prodotta non appena superiamo la soglia. E qui abbiamo la soluzione al problema di Zenone. La caduta di un singolo chicco di grano non è realmente silenziosa, giacché il rumore era al di sotto della soglia e quindi non poteva essere percepito. Il suono dell’intero recipiente, essendo ben al di sopra della soglia, viene invece sentito chiaramente. Tutto ciò può sembrare estremamente semplice, ma non penso che Zenone sarebbe rimasto soddisfatto di questa soluzione moderna. Di fatto, i fondatori della moderna psicofisica stavano ragionando se fosse possibile applicare gli stessi concetti e gli stessi metodi di misurazione ai fenomeni psichici e fisici. Essi cercarono anche di trovare una formula matematica in grado di esprimere l’esatta relazione tra i fenomeni psichici e fisici. Le nostre sensazioni – dice Fechner – non sono direttamente proporzionali alla grandezza degli stimoli fisici; esse sono proporzionali ai logaritmi degli stimoli. Non posso addentrarmi nei dettagli di questa questione; potrete trovarne una descrizione in qualunque libro di psicologia. Permettetemi di insistere su un punto. Per trovare e provare la sua legge, Fechner dovette considerare la coscienza umana così come un fisico considera un pezzo

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regards a piece of matter. A piece of matter is a direct object of sense-perception; but the atoms, the last elements of matter, are not visible or perceivable. If we accept the same principle for our analysis of mind[,] we come to the conclusion that even our consciousness277 consists of imperceptible elements. It was this conclusion that led to the foundation of modern Psychophysics. But what would Zeno278 think of such an answer? Far from thinking it a refutation of his argument he would think it to be the strangest confirmation of his own view. Why! – he should reply – you say just the same as I did[,] and you make the intrinsic contradiction much clearer! You are speaking of a sensation that is too small to be perceived. But it is not an unperceived and imperceptible sensation an absurdity? If you tell me that the sound I hear is composed of elements that cannot be heard you have admitted all I need for my argument – and even more than I need. For an inaudible sound is a contradiction in terms, because sound – according to its definition – is an audible thing279. Another argument of Zeno has become even more famous; the argument of Achilles and the tortoise. In the Iliad Achilles appears as280 one of the swiftest runners; the tortoise is one of the slowest creatures. They agree to run a race under the condition that Achilles gives the tortoise a considerable start. Let us assume that the start is no281 more than a metre – and that Achilles seems ten times as fast as the tortoise. Of course[,] he cannot win the race without first reaching and then outstripping the tortoise. But how is this condition to be fulfilled? First of all[,] he has to complete the metre that divides him from the tortoise. But it is clear that in the meantime the tortoise has not been idle. Of course[,]

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di materia. Un pezzo di materia è un oggetto diretto della percezione sensibile, ma gli atomi, ossia gli elementi ultimi della materia, non sono né visibili né percepibili. Se accettiamo questo stesso principio anche per l’analisi della mente, allora giungiamo alla conclusione secondo cui anche la nostra coscienza consiste di elementi impercettibili. Fu questa conclusione a determinare la fondazione della psicofisica moderna. Ma cosa avrebbe pensato Zenone di una risposta simile? Lungi dal rifutare il suo argomento, avrebbe pensato trattarsi in realtà della più strana conferma della sua concezione. Perché – avrebbe risposto – tu dici la stessa cosa che sostengo io, e rendi la contraddizione intrinseca ancora più chiara. Tu parli di una sensazione che è troppo piccola per essere percepita, ma una sensazione non percepita e impercettibile non è un’assurdità? Se mi dici che il suono che sento è composto di elementi che non possono essere uditi, allora tu hai ammesso tutto ciò di cui ho bisogno per il mio argomento – anche di più. D’altra parte, un suono inudibile è una contraddizione in termini, giacché il suono, secondo la sua definizione, è una cosa udibile. Un altro argomento di Zenone è diventato ancora più famoso: l’argomento di Achille e della tartaruga. Nell’Iliade Achille appare come uno dei corridori più veloci; la tartaruga è invece una delle creature più lente. Entrambi accettano di correre in una gara, a patto che Achille conceda alla tartaruga un certo vantaggio. Assumiamo che la partenza sia di non più di un metro e che Achille sia dieci volte più veloce della tartaruga. Ovviamente Achille non può vincere la gara senza aver prima raggiunto e poi superato la tartaruga. Ma come può essere soddisfatta questa condizione? Prima di tutto, egli deve completare il metro che lo divide dalla tartaruga, ma è chiaro che nel frattempo la tartaruga non è rimasta inerme. Sebbene molto più lenta

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it was much slower; but, after all, it has run a distance of a tenth of a metre. This very little distance must now be passed by Achilles; he has to run a tenth of a metre. But in this case too the tortoise has advanced a little; it has run the hundredth part of a metre. And this – argues Zeno – cannot be altered in any stage of the course. Achilles will come nearer and nearer, but he will never reach or overstep the tortoise – he cannot win the race. Mathematicians used to solve this paradox by telling us that Zeno was perfectly right in his calculations – but that he was wrong in his logical consequences. As a matter if fact if you sum up the single distances run by Achilles, according to the presuppositions of Zeno, you will have what we call in mathematical terms a geometrical series. The first links in this series is 1 metre, then follows 1/10 m, 1/1000 m and so on. But according to a well-known rule the sum of this infinite series: 1+1/10+1/102+1/103… (in infin) always remains under a certain quantity, it is always less than 1 1/9. But Achilles only needs to exceed this limit, he only has to go further than one meter and a ninth, in order to reach and, later on, to overtake his opponent. That is, of course, perfectly corrct; but Zeno would not admit that by this his logical difficulty is really solved. What according to him is inconceivable and contradictory is just the fact that a mathematician, without any hesitation, speaks of infinite series: 1/n+1/n2+1/n3+1/n4 (in infin.) and that at the same time he assures us that this infinite series never will go beyond a certain limit; that it cannot exceed the value

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di Achille essa, dopotutto, ha percorso una distanza pari a un decimo di un metro. Questa brevissima distanza deve ora essere percorsa da Achille; deve correre un decimo di metro. Ma anche in questo caso la tartaruga è avanzata un po’; ha percorso una centesima parte di un metro. E ciò – argomenta Zenone – non può essere alterato in nessuno stadio della corsa. Achille si avvicinerà sempre di più, ma non riuscirà mai a raggiungere o superare la tartaruga, non potrà vincere la gara. I matematici hanno cercato di risolvere questo problema dicendoci che Zenone aveva perfettamente ragione nei suoi calcoli, ma a essere sbagliate erano le sue conseguenze logiche. Di fatto, se sommate le singole distanze percorse da Achille, secondo i presupposti di Zenone, avrete ciò che in termini matematici si chiama serie geometrica. Il primo collegamento di questa serie è 1 m, segue poi 1/10m, 1/1000 m e così via. Ma secondo una ben nota regola, la somma di questa serie infinita 1+1/10+1/102+1/103… (in infin.) rimane sempre al di sotto di una certa quantità, è sempre minore di 1 e 1/9. Ma Achille deve soltanto superare questo limite, gli basta percorrere più di 1 metro e un nono, per poter raggiungere e poi superare la sua avversaria. Ciò, ovviamente, è del tutto corretto, ma Zenone non avrebbe con ciò considerato effettivamente risolta la sua difficoltà logica. Ciò che a suo dire è inconcepibile e contraddittorio è proprio il fatto che un matematico, senza esitazione, parli di serie infinita 1/n+1/n2+1/n3+1/n4 (in infin.) e che al tempo stesso ci assicuri che questa serie infinita non andrà mai oltre un certo limite, che non può superare il valore

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1/n–1 That is a flagrant contradiction that this time is to be found not in our ordinary sense-experience, but in Mathematics itself that is regarded as the prototype, the very model of truth and certainty. I cannot enter here into282 a systematic discussion of the argument of Zeno – for such a discussion would presuppose a great deal of mathematical technicalities. The greatest mathematicians of all ages have dealt with the problem or have given various solutions. If you are interested in the problem and if you wish to know the modern answers[,] I recommend you to study the chapter of Zeno in Bertrand Russel’s Principles of Mathematics283. But here we have to ask ourselves a different question. Which place and which significance has the paradox of Zeno in the history of Greek thought. In Plato’s dialogue Parmenides284 Zeno is said to have directed his attack against the partisans of the many – and that he strived to protect his master and friend Parmenides, who was a partisan of the one, from the objections raised against him. But who were these “partisans of the many”? Curiously enough it took a very long time before this question – a question that is very important for our whole conception of the development and continuity of Greek thought – could be answered in a satisfactory way. To my mind the first really conclusive answer has been given in the book of a French scholar and mathematician: in the book of Paul Tannery Pour l’histoire de la science hellène285 published in the year 1887. Tannery declares it to be very improbable286 that the Zenonian arguments are simply directed against our general and commonplace view that there exist many and various things. In this case the arguments would have missed the mark; for it is obvious that this view

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1/n – 1 Questa è una palese contraddizione, che stavolta va trovata non nella nostra esperienza quotidiana, ma nella matematica stessa, la quale viene intesa come il prototipo, il vero modello di verità e certezza. Non posso addentrarmi in una discussione sistematica dell’argomento di Zenone; una discussione simile presupporrebbe una grande quantità di tecnicismi matematici. I più grandi matematici di tutti i tempi hanno affrontato questo problema e hanno fornito anche diverse soluzioni. Se siete interessati al problema e se desiderate conoscere le risposte fornite dai moderni, vi consiglio di studiare il capitolo che Bertrand Russell ha dedicato a Zenone nella sua opera Principi di matematica. Ma qui dobbiamo porci una questione diversa. Quale posto e quale significato ha avuto il paradosso di Zenone nella storia del pensiero greco? Nel Parmenide di Platone si dice che Zenone diresse i suoi attacchi contro i sostenitori del “molteplice” e che quindi mirava a proteggere il suo maestro e amico Parmenide – che era un sostenitore dell’Uno – dalle obiezioni sollevate contro di lui. Ma chi erano questi “partigiani del molteplice”? Curiosamente, ci volle molto tempo prima che a questa domanda – una domanda molto importante per la nostra concezione dello sviluppo e della continuità del pensiero greco – si potesse rispondere in modo soddisfacente. A mio avviso, la prima risposta realmente conclusiva è stata fornita nel libro di uno studioso e matematico francese: ossia Pour l’histoire de la science hellène88 di Paul Tannery, pubblicata nel 1887. Tannery ritiene davvero improbabile che gli argomenti di Zenone fossero semplicemente diretti contro la nostra generale e comune concezione secondo cui esistono tante e varie cose. In questo caso, l’argomento avrebbe mancato il bersaglio; difatti, è ovvio che questa concezione non è in gra-

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cannot be shaken287 by such [a] nice dialectical subtleties as they were contained in the book of Zeno. What Zeno wishes to attack and to destroy is a scientific and philosophic theory. And we cannot doubt who the adversaries were that he had in mind. The “partisans of the many” that he wished to refute and to confound were the Pythagoreans. Zeno lived in Elea, in the South of Italy, and it was here that the Philosophy of the Pythagoreans had its greatest representation and won its decisive importance. The Pythagoreans maintained the thesis of the identity of number and reality. Whatever is real has its definite number; it is composed of single elements and is nothing else than an288 aggregate of these elements. We have followed the development of this thesis both in the musical and in the astronomical theory of the Pythagoreans. But there is still another most important field: the field of Geometry. If the Pythagorean doctrine was right it had to be proven here – so much the more as Pythagoras himself was one of the greatest Geometers and he had made here a decisive step in advance by the discovery of his famous theorem. But it was just this theorem that led to a very great paradox and to a grave dilemma that at first seemed to be entirely insoluble. This dilemma left the deepest traces in Greek thought. It is often mentioned in the dialogues of Plato289 and Plato thinks that nobody can understand Mathematics or Philosophy who has not faced this problem. It is the problem which nowadays is described as the problem of the so-called irrational numbers. In a very curious passage of his “Laws”, Plato complains bitterly of the fact that there are still Greeks who think to be cultivated men and who nevertheless had never heard of this problem. Let me recall the well-known question to your mind in a few words. If you have a square the basis of which [is] equal to one yard and

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do di scuotere le graziose sottigliezze dialettiche contenute nel libro di Zenone. Ciò che Zenone intende attaccare e distruggere è una teoria filosofica e scientifica. E non ha dubbi su chi fossero gli avversari che aveva in mente. I “sostenitori del molteplice” che intendeva confutare e smentire erano i Pitagorici. Zenone visse a Elea nel Sud Italia e fu proprio qui che la filosofia dei Pitagorici ebbe la sua massima diffusione e raggiunse la sua decisiva importanza. I Pitagorici sostenevano la tesi dell’identità di numero e realtà. Ciò che è reale ha un numero determinato, è composto da singoli elementi e non è nient’altro che l’aggregato di questi elementi. Abbiamo seguito lo sviluppo di questa tesi sia nella teoria musicale, sia nella teoria astronomica dei Pitagorici. Ma vi è un altro campo ancora più importante: il campo della geometria. Se la dottrina pitagorica si fosse rivelata corretta, sarebbe stato necessario dimostrarla proprio in questo campo – tanto più che lo stesso Pitagora fu uno dei più grandi geometri e in questo campo aveva effettuato un decisivo passo in avanti con la scoperta del suo famoso teorema. Ma fu proprio questo teorema a condurre a un grande paradosso e a un grave dilemma – a prima vista insolubile. Questo dilemma ha lasciato le tracce più profonde nel pensiero greco. Viene menzionato spesso nei dialoghi di Platone e quest’ultimo pensava appunto che nessuno avrebbe potuto comprendere la matematica e la geometria, se non avesse affrontato questo problema. Questo problema viene oggi descritto come il problema dei cosiddetti numeri irrazionali. In un brano piuttosto curioso delle sue Leggi, Platone si lamenta amaramente del fatto che vi fossero ancora greci che si ritenevano uomini colti, ma che ciononostante non ne avessero mai sentito parlare. Permettetemi di ricordarvi, in poche parole, questa ben nota questione. Se avete un quadrato la cui base è uguale a una yarda

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if you trace the diagonal in this square – what is the exact length of this diagonal?290

According to the Pythagorean theorem we have the equation or or for

a2 + a2 = c2 2a2 = c2 a = 1, c2 = 2 ([equation] I)

The length of the diagonal is therefore a quantity that multiplied by itself is 2. But here the Pythagoreans were confronted with a great problem – a problem that at its first discovery came upon them with a severe and violent shock. For it could easily be shown that among all the numbers we know of there is none which fulfills the conditions of our equation (I) – a number which multiplied by itself gives the product 2. Nowadays we speak of irrational numbers; we create the symbol √2 and designate291 by this symbol an irrational number. But for the Greeks, and especially for the Pythagorean mind, this escape was not possible. Their numbers were the numbers 1, 2, 3, 4… the whole numbers, the integers. They had a mathematical theory of these integers[,] and they had a theory about the proportions of these integers – for instance the proportions 2:3, 3:4 that Pythagoras had discovered in his doctrine of

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e se tracciate una diagonale su questo quadrato, qual è l’esatta lunghezza della diagonale?

Secondo il teorema pitagorico abbiamo la seguente equazione oppure oppure per

a2 + a2 = c2 2a2 = c2 a = 1, c2 = 2 ([equazione] I)

La lunghezza della diagonale è pertanto una quantità che moltiplicata per se stessa dà 2. Ma qui i Pitagorici dovettero confrontarsi con un grande problema, che suscitò una seria e violenta scossa quando venne scoperto per la prima volta. Difatti, si potrebbe facilmente dimostrare che tra tutti i numeri che conosciamo non ce n’è uno che soddisfi le condizioni della nostra equazione (I), un numero che moltiplicato per se stesso dia il prodotto 2. Oggi noi parliamo di numeri irrazionali; creiamo il simbolo √2 per designare il numero irrazionale. Ma per i Greci – e specialmente per i Pitagorici – questa scappatoia non era possibile. I loro numeri erano i numeri 1, 2, 3, 4,…, ossia i numeri interi. Loro possedevano una teoria matematica per questi numeri interi, come anche una teoria delle proporzioni di questi interi; ad esempio fu con le proporzioni 2:3, 3:4 che Pitagora scoprì la sua

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Music and Acoustics292. To think of other “numbers” meant for them an impossibility, a flat contradiction. You will perhaps find it difficult to realize what this problem meant for a Greek mathematician and a Greek philosopher. Our elementary instruction in Mathematics has made us quite familiar with the concept of an incommensurable length. But what is an incommensurable length? It is a length that has no definite ratio to the unity of length. In Pythagorean terms such a ratio is expressed by the word Logos293. We have met with this expression both in our description of the philosophy of Herakleitos and in our description of the Pythagorean doctrine. We know that it is not an easy term to translate. For on the one hand “Logos” means “Word” or “Speech”; on the other hand[,] it means “ratio” or “proportion”. If we take the term literally294 an incommensurable length is therefore a thing for which you have no word, of which you cannot “speak”, and it is at the same time a length the part of which you cannot count – or, as you may express it, that cannot be accounted for. It is quite understandable that the existence of such lengths became a stumbling-block for the whole theory of the Pythagoreans. But Zeno went a step further. “What you have discovered – he tells the Pythagoreans – is by no means an isolated fact. It is so to speak a general and incurable disease of your whole concept of quantity and multitude. You define quantity as a thing that consists of many parts. If these parts are counted up, you will find by this process of counting tne “number” of this quantity. According to you everything has295 a number and is296 a number. But shall I easily show you that even in your own field, in the realm of Mathematics and quantity, there

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dottrina della musica e dell’acustica. Per i Pitagorici era impossibile e del tutto contraddittorio pensare che vi fossero altri “numeri”. Troverete magari difficile capire quale significato ebbe questo problema per i matematici e i filosofi greci. La nostra istruzione elementare in matematica ci ha reso alquanto familiari con il concetto di lunghezza incommensurabile. Ma cos’è una lunghezza incommensurabile? È una lunghezza che per unità di lunghezza non ha una ratio definita. In termini pitagorici una simile ratio viene espressa dalla parola Logos. Abbiamo incontrato questa espressione sia nella descrizione della filosofia di Eraclito, sia nella descrizione della dottrina pitagorica. Sappiamo bene che non è un termine facile da tradurre. Da un lato “Logos” significa “Parola” o “Discorso”, dall’altro significa ratio o “proporzione”. Se prendiamo il termine alla lettera, una lunghezza incommensurabile è pertanto una cosa per la quale non esiste alcuna parola, della quale non si può parlare; ma al tempo stesso è una lunghezza la cui parte non si può contare o della quale non si può render conto. Si comprende abbastanza facilmente come mai l’esistenza di una simile lunghezza funse da ostacolo per l’intera teoria dei Pitagorici. Ma Zenone andò più avanti: “Ciò che avete scoperto nel caso delle lunghezze incommensurabili – dice Zenone ai Pitagorici – non è in alcun modo un fatto isolato. È, per così dire, un male generale e incurabile della vostra intera concezione della quantità e della moltitudine. Voi definite la quantità come una cosa che consta di molte parti. Se queste parti vengono sommate, attraverso questo processo di conteggio troverete il “numero” di questa quantità. Secondo voi, ogni cosa ha un numero ed è un numero. Ma io vi mostrerò facilmente che anche nel vostro campo, nel mondo della matematica e della quantità, vi sono molte cose che non am-

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are many things that admit of no number. In our own mathematical theory[,] we are used to make a sharp distinction between two kinds of quantity. One of them we call discrete quantity; the other one we call continuous quantity. A discrete quantity consists of parts each of which has a separate being. If, for instance, you take a heap of grains on a wall of stones – you may ascribe to every grain and every stone a separate existence – and you may say that the heap on the wall is the sum-total of the single elements; that it contains a definite number of grains or stones. And such a conception is impossible in the case of a continuous quantity. You cannot divide a straight line into its elements[,] and you cannot define it by the number of these elements. For in the case of a continuous quantity the division never comes to its end; we can[,] and we must, indeed, prolong it indefinitely”. It is this fundamental distinction – the distinction between the discrete and the continuous quantity – that lies at the bottom of all the paradoxes of Zeno. Greek Mathematics, the Mathematics of the Pythagorean school, had developed a theory of number. But it did not yet possess a coherent and satisfactory theory of continuous quantity. Those of you who have studied mathematical problems will know that such a theory belongs to the most intricate questions of the Logic of Mathematics. Great logicians, great philosophers, great mathematicians have struggled for many centuries to solve this problem: the problem of the mathematical continuum. Even now we are by no means sure to have found a perfectly satisfactory and adequate solution. In the last decades we have experienced in the field of mathematics what was called a “Grundlagen-Krise”, a crisis in the fundamental principles of Mathematics. This crisis was, for the first time, felt in the Eleatic School: and it was expressed, in a very striking and

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mettono alcun numero. Nella nostra teoria matematica siamo soliti effettuare una netta distinzione tra due tipi di quantità. Una di queste la chiamiamo quantità discreta, l’altra quantità continua. Una quantità discreta consiste di parti ognuna delle quali ha un essere separato. Se, ad esempio, prendete un mucchio di grani da un muro di pietre, potete attribuire a ogni grano e a ogni pietra un’esistenza separata e potete anche dire che il mucchio sul muro è la somma totale dei singoli elementi, che esso contiene un determinato numero di grani o di pietre. Una concezione simile è impossibile nel caso di una quantità continua. Non potete dividere una linea retta nei suoi elementi e non potete definirla attraverso i numeri di questi elementi. Difatti, nel caso di una quantità continua, la divisione non giunge mai al termine; noi, invece, possiamo e dobbiamo prolungarla indefinitamente”. È questa la fondamentale distinzione – la distinzione tra quantità discreta e continua – che si trova alla radice di tutti i paradossi di Zenone. La matematica greca, i matematici della Scuola pitagorica, hanno sviluppato una teoria del numero, ma non possedevano ancora una soddisfacente e coerente teoria della quantità continua. Quelli di voi che hanno studiato problemi matematici sapranno che una tale teoria appartiene alle più intricate questioni di logica della matematica. Grandi logici, grandi filosofi e grandi matematici hanno faticato per molti secoli per risolvere questo problema: il problema del continuo matematico. Anche adesso non siamo per niente sicuri di aver trovato una soluzione perfettamente soddisfacente e adeguata. Negli ultimi decenni, nel campo della matematica, abbiamo sperimentato quella che è stata definita una “Grundlagen-Krise”, una crisi nei princìpi fondamentali della matematica. Questa crisi venne avvertita per la prima volta nella Scuola eleatica e venne espressa,

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impressive way, in the paradoxes of Zeno. Of course[,] the Eleatic thinkers were not ble to overcome the crisis, to solve the difficulties that are contained in the concept of a continuous quantity, of the infinity and indivisibility of space and time. But their great merit is that they saw the difficulty. By this they became the great critics of Greek thought. Parmenides analyses and criticizes the concept of change, as it was used by the Ionian thinkers – by Thales, Anaximander, Anaximenes, Herakleitos. Zeno attacks and defies the second great school of Greek thought: the Pythagorean school. His famous paradoxes are nothing else than a challenge directed against the Pythagoreans. The Pythagoreans have told us that number is the only Being and the only truth. But if you analyse this pretended truth – you will find in it all sorts of errors, of delusions, of hidden contradictions. That seems to be a desperate result. But if you study the history of philosophy[,] you will always find that a sincere, clear and powerful scepticism is not only a destructive but also a constructive power. It has a positive value, not a merely negative one: it prepares the way to new questions and new solutions. Now in the case of the Eleatic school this proved to be true. For all later thinkers with whom we will deal in our next lectures – Empedocles, Anaxagoras, Democritos – are closely connected with the Eleatics297. They do not admit the answers given by Parmenides and Zeno, but they see and acknowledge the problem and they attempt to solve it in their own ways.

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in modo veramente straordinario e notevole, nei paradossi di Zenone. Ovviamente, i pensatori eleatici non furono in grado di superare la crisi, di risolvere le difficoltà contenute nel concetto di quantità continua, di infinità e indivisibilità dello spazio e del tempo. Ma il loro grande merito consistette nell’aver visto la difficoltà. Con ciò gli Eleati divennero i grandi critici del pensiero greco. Parmenide analizza e critica il concetto di cambiamento così come adoperato dai pensatori ionici – Talete, Anassimandro, Anassimene, Eraclito. Zenone attacca e si oppone alla seconda grande scuola del pensiero greco: la Scuola pitagorica. I suoi famosi paradossi non sono altro che una sfida mossa ai Pitagorici. Questi ultimi ci hanno detto che il numero è il solo Essere e la sola verità. Ma se analizzate questa presunta verità, troverete al suo interno ogni sorta di errori, di delusioni e di velate contraddizioni. Ciò sembra un risultato disperato. Ma studiando la storia della filosofia scoprirete che un sincero, chiaro e profondo scetticismo si rivela non soltanto una forza distruttiva, ma anche costruttiva. Esso ha un valore positivo e non meramente negativo: prepara la strada a nuove questioni e a nuove soluzioni. Per il momento, nel caso della Scuola eleatica, ciò si è dimostrato vero. Difatti, tutti i pensatori successivi che analizzeremo nelle prossime lezioni – Empedocle, Anassagora, Democrito – sono strettamente connessi con gli Eleati. Essi non ammettono le risposte fornite da Parmenide e Zenone, ma vedono e riconoscono il problema e cercano di risolverlo a modo loro.

[chapter v] EMPEDOKLES, ANAXAGORAS AND THE ATOMISTS298 §1: Empedokles of Akragas In his dialogue Theaetetos Plato compares the philosophy of the Pre-Socratics with a battlefield in which two great armies meet each other and combat each other. On the one side we find the partisans of the Many. One party proposes and defends the thesis that all things are at rest299; the other party is convinced that things are in continual flux. The leader of the first army is Parmenides, the leader of the second is Herakleitos. Plato criticizes the doctrine of Herakleitos very severily. But of Parmenides he speaks with a greate reserve and with a sort of awe. He nearly dares to attack such a powerful thinker. «I have a kind of reverence – says Socrates – not as much for the others, who say that “All is one and at rest”, as for the great leader himself, Parmenides, venerable and awful, as a Homeric language may be called him. I should be ashamed to approach in a spirit unworthy of him. I met him when he was an old man, and I was a mere youth, and he appeared to me to have a glorious depth of mind» (Theaetet. 183). The feeling expressed in these words of Plato seems to have been general among all the great thinkers of Greece300. They could not admit the fundamental assumptions of Parmenides that implied a negative and perfect destruction of every theory of Physics. Most of these thinkers were physicists and interested in the solution of special and general problems of natural philosophy. But they would

cap. v

EMPEDOCLE, ANASSAGORA E GLI ATOMISTI 1. Empedocle di Agrigento Nel suo dialogo Teeteto, Platone paragona la filosofia presocratica a un campo di battaglia sul quale due grandi eserciti si incontrano e combattono l’uno contro l’altro. Da un lato troviamo i partigiani del molteplice. Un partito propone e difende la tesi che tutte le cose sono in quiete; l’altro partito è convinto che le cose sono in un flusso continuo. Il capo del primo esercito è Parmenide, mentre il capo del secondo è Eraclito. Platone critica severamente la dottrina di Eraclito, mentre nel caso di Parmenide parla con grande riserbo e timore reverenziale. Egli quasi osa sfidare un pensatore così potente: «Ho una sorta di riverenza – dice Socrate – non tanto per gli altri che dicono che “Tutto è uno e in quiete”, quanto per lo stesso grande capo, Parmenide, venerabile e terribile, come lo si può chiamare in un linguaggio omerico. Dovrei vergognarmi di avvicinarmici con uno spirito indegno di lui. L’ho incontrato quando era anziano, e io ero un semplice giovane, e mi sembrava avesse una gloriosa profondità di mente»89. Il sentimento espresso in queste parole di Platone pare fosse alquanto diffuso tra i grandi pensatori greci. Questi non potevano ammettere le tesi fondamentali di Parmenide, che implicavano una distruzione perfetta e negativa di ogni teoria fisica. La maggior parte di questi pensatori erano infatti dei fisici, impegnati anche nella soluzione di problemi particolari e generali di filosofia naturale. Ma non avrebbero potuto compiere un solo passo, non

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not make a single step, they could not advance any physical theory before having answered the fundamental question that had been raised by the Eleatic thinkers. How is such a physical theory possible if the very concept of change is an impossible and self-contradictory concept – if “Being” and “Change” are irreconciliable with each other and exclude each other. That was the new and most urgent problem that called for a solution and clarification before Greek thought could proceed. It is this general problem that is treated from different angles in all systems of natural philosophy that have appeared after the Eleatic school. Empedokles, Anaxagoras, the Atomists, all of301 them are at one with the Eleatic thinkers in one basic presupposition. They acknowledge the principle that there cannot be such a thing as an absolute change. Change is not a predicate that we can attribute to the absolute reality. But on the other hand[,] we cannot302 deny or overlook that there is something like change in the empirical phenomena. Change is not an absolute but a relative fact; it is not a fundamental but a derivative fact. To make clear, to explain the relation between this absolute and this relative fact is the common aim, to which all the later systems of natural philosophy tend. Empedokles, Anaxagoras, the Atomists submit different theories for the solution of this problem; but they all agree in their general conception of the problem itself. Before entering into a description of the systems of the single thinkers we need to concentrate upon this point. The general maxim: “Ex nihilo nil fit, nil nil posse reverti”, as it was later on expressed by Lucretius, is accepted and acknowledged by all these thinkers. Nothing can come from nothing – nothing can be turned into nothing. But how

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avrebbero potuto sviluppare alcuna teoria fisica, senza prima aver risposto alla questione fondamentale sollevata dai pensatori eleatici. Com’è possibile una simile teoria fisica se il concetto di cambiamento è un concetto impossibile e auto-contraddittorio? Se “Essere” e “Cambiamento” sono inconciliabili e si escludono a vicenda? Questo nuovo e urgentissimo problema richiedeva una soluzione e un chiarimento prima che il pensiero greco potesse procedere. È questo problema generale – apparso dopo la Scuola eleatica – a essere trattato da diverse angolazioni in tutti i sistemi di filosofia naturale. Empedocle, Anassagora e gli Atomisti sono tutti dei pensatori eleatici in un presupposto fondamentale. Essi riconoscono il principio secondo cui non può esservi qualcosa come il cambiamento assoluto. Il cambiamento non è un predicato che possiamo attribuire alla realtà assoluta. Ma, dall’altro lato, non possiamo negare o ignorare che esista un cambiamento nei fenomeni empirici. Il cambiamento non è un fatto assoluto, ma relativo; non è un fatto fondamentale, ma derivato. Per chiarire e spiegare la relazione tra questo fatto assoluto e questo fatto relativo, dobbiamo prendere in considerazione il comune scopo al quale tendono tutti i successivi sistemi di filosofia naturale. Empedocle, Anassagora e gli Atomisti presentano diverse teorie per la soluzione di questo problema, ma concordano tutti nella loro concezione generale del problema stesso. Prima di addentrarci in una descrizione dei sistemi dei singoli pensatori, dobbiamo concentrarci su questo punto. La massima generale “Ex nihilo nil fit, nil nil posse reverti”, espressa in seguito da Lucrezio, è accettata e riconosciuta da tutti questi pensatori. Nulla può provenire dal nulla e nulla può diventare nulla. Ma, in tal caso, come possiamo rendere

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can we, in this case, account for the obvious and innumerable changes we meet in the field of our sense-experience? There is only one possible explanation. The world of our sense-experience is not an ultimate and it is not a simple fact. Sense-experience is composed of different constituents and depending on different conditions. We must analize our experience[,] we must reduce it to its very elements in order to find the true answer. Empedokles, Anaxagoras, the Atomists – all of them agree in the assumption that we have to make a sharp distinction between the different forms of human knowledge. One of them contents itself, so to speak, with taking things at their face-value. We ascribe to the things those qualities that are given us in immediate sense-perception. But it is impossible to build up upon this basis a sound physical theory. The Eleatics were quite right to say that this way is rather the way of non-Being, than the way of Being, the way of truth. Scientific truth and scientific certainty cannot be found without a severe criticism of sense-experience. It is not enough for a scientist or for a philosopher, to look at the mere outside, at the outward appearances of things. The scientific outlook is of quite different type. Of course[,] we have to begin with a careful observation of natural phenomena. But that is only the first step; it is the beginning, not the end. After having ascertained the facts303 we have to ask for the reasons304 of these facts305. And for this purpose[,] it is imperative to advance in a different direction. We cannot remain with the surface; we have to strive at the depth. We have[,] so to speak, to probe reality in order to know this depth. There are, as it were, different logical strata306 of reality. It is the principal problem of a physical theory to know and to distinguish these strata; to recognize the sub-structure

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conto degli ovvi e innumerevoli cambiamenti nei quali ci imbattiamo nel campo della nostra esperienza sensibile? Esiste una spiegazione soltanto. Il mondo della nostra esperienza sensibile non è un fatto semplice e definitivo. La nostra esperienza sensibile è infatti composta da differenti costituenti e dipende da diverse condizioni. Per trovare la vera risposta dobbiamo analizzare la nostra esperienza, ridurla ai suoi propri elementi. Empedocle, Anassagora e gli Atomisti sono tutti d’accordo sul fatto di operare una netta distinzione tra le diverse forme di conoscenza umana. Una di esse consiste, per così dire, nel prendere le cose per quello che sono. Noi attribuiamo alle cose quelle qualità che ci vengono fornite dalla percezione sensibile immediata. Ma su queste basi è impossibile costruire una solida teoria fisica. Gli Eleati avevano ragione nell’affermare che questa via è semmai la via del non-Essere, piuttosto che la via dell’Essere, della verità. La verità scientifica e la certezza scientifica non possono essere trovate senza una severa critica dell’esperienza sensibile. Per uno scienziato o per un filosofo non è sufficiente guardare unicamente all’esterno, all’apparenza delle cose. Lo sguardo scientifico è di tipo completamente diverso. Certamente, noi dobbiamo iniziare con un’accurata osservazione dei fenomeni naturali, ma questo costituisce soltanto il primo passo; è l’inizio, non la fine. Dopo aver accertato i fatti, dobbiamo chiederci quali sono le ragioni di questi fatti e a tale scopo avanzare verso una diversa direzione diventa un imperativo. Non possiamo arrestarci alla superficie, ma dobbiamo andare in profondità. Dobbiamo, per così dire, mettere alla prova la realtà per poter conoscere questa profondità. Vi sono come diversi strati logici della realtà. È il problema principale di una teoria fisica conoscere e distinguere questi strati; riconoscere la sottostruttura e la

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and the super-structure of our physical world. To show us this sub-structure and super-structure, the basic elements of nature and its derivative and accidental features; that is the common task of all the later systems of natural philosophy, of the system of Empedokles, Anaxagoras, and the Atomists. The first thinker in this series is Empedokles of Akragas. Empedokles is not only a speculative philosopher. He is at the same time a very rich, a very interesting and many-sided personality. But it is not easy to get a clear and consistent impression of his life, his work[,] and his personality. We have many descriptions of his life; but most of them are of questionable value. Just as much as in the case of Pythagoras we find a great many legendary features in our sources concerning the life of Empedokles. He is described as a scientist, an explorer of natural phenomena – but sometimes he appears in quite a different light; as a sort of medicine-man, a hierophant, a performer of miracles. What seems to be clear is that he was a real statesman and that he played an important role in the political life of his city. By his birth he belonged to one of the richest and noblest families of Acragas. Since the political power was in the hands307 of the Aristocrats it would have been easy for him to win the throne. But he refused to join the aristocratic party. Aristotle tells us that he refused the crown. Instead of this he became for a long time the great democratic leader at Akragas. Later on[,] there was a dissension and a rupture between Empedokles and the democratic party; he was banished from his native city. An old tradition relates that he found his death by leaping into the crater of Aetna that he might deemed a god; but this seems to be a mere legend.

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sovrastruttura del nostro mondo fisico. Mostrarci questa sottostruttura e sovrastruttura, gli elementi di base della natura e le sue caratteristiche secondarie e accidentali: ecco lo scopo di tutti i successivi sistemi di filosofia naturale, ovvero dei sistemi di Empedocle, di Anassagora e degli Atomisti. Il primo pensatore di questa serie è Empedocle di Agrigento. Empedocle non è soltanto un filosofo speculativo; ha al tempo stesso una personalità ricca, interessante e variegata. A ogni modo, non è facile ricavare un’impressione chiara e consistente della sua vita, del suo lavoro e della sua personalità. Possediamo numerose descrizioni della sua vita, ma la maggior parte sono di dubbio valore. Analogamente al caso di Pitagora, vi sono molti elementi leggendari nelle nostre fonti sulla vita di Empedocle. Egli viene descritto come uno scienziato, un esploratore di fenomeni naturali, ma qualche volta viene posto sotto una luce diversa, ovvero descritto come una sorta di medico, come uno ierofante o come un esecutore di miracoli. Ciò che sembra evidente è che egli fu un autentico statista e che giocò un ruolo importante nella vita politica della sua città. Empedocle apparteneva per nascita a una delle più ricche e nobili famiglie di Agrigento. Poiché il potere politico si trovava nelle mani degli aristocratici, sarebbe stato facile per lui ottenere il trono. Ma rifiutò di unirsi al partito aristocratico. Aristotele ci dice che rifiutò la corona. Empedocle divenne invece, per lungo tempo, il grande leader democratico di Agrigento. Più tardi si verificò un dissenso e una rottura tra lui e il partito aristocratico, per cui egli venne bandito dalla sua città natale. Secondo una vecchia tradizione, trovò la morte gettandosi nel cratere dell’Etna, così da essere considerato un dio, ma questa è soltanto una leggenda.

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If now we pass to the doctrine of Empedokles we have to begin with that general statement in which he agrees with the Eleatic thinkers. He has expressed this principle very clearly. There cannot be such a thing as an absolute beginning or an absolute end. Reality – the true reality – is without beginning and without end. Here we grasp the fundamental difference between the later natural philosophers and the first thinkers of the Ionian school. All of them inquired into the Arché, the beginning, the origin of things. «Fools – says Empedokles in the eleventh fragment – (Burnet, p. 207) for they have no far-reaching thoughts – who deem that what before was not comes into being, ot that aught can perish and bu utterly destroyed. For it cannot be that aught can arise from what in no way is; and it is impossible and unheard of that what is should perish; for it always be, wherever one may keep putting it». Here we believe to hear the voice of Parmenides and his very words. The real fundamental things can neither come into being nor can they ever fade away or be destroyed. But if we admit that there is no generation or destruction – are we to concede to Parmenides and his pupils that there is no change? By no means. We have only to conceive and to explain308 change in a different way. Change is not to [be] understood in the sense of generation and destruction, but in the sense of mixture309. The elements that enter into this mixture are permanent and unchangeable; but the mixture itself admits of many forms and many degrees. What, in our usual popular language, we call “beginning” or “end” is nothing but a continuation or separation of steadfast and perdurable elements. Empedokles has illustrated this process by a striking simile[,] by comparing the work of nature to the work of a painter. A painter may be able not only to compete with nature, he may even exceed310 it; he may create the most wonderful shapes and

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Nel volgere la nostra attenzione alla dottrina di Empedocle, dobbiamo iniziare con quell’asserzione generale che lo vede allineato ai pensatori eleatici. Egli ha espresso questo principio in modo piuttosto netto. Non può esservi qualcosa come un inizio assoluto o una fine assoluta. La realtà – la vera realtà – è senza inizio e senza fine. Qui cogliamo la differenza fondamentale tra i successivi filosofi naturali e i primi pensatori della scuola ionica. Ognuno di essi andava alla ricerca dell’arché, dell’inizio, dell’origine di tutte le cose: «Stolti – dice Empedocle nel frammento 11 – poiché non hanno pensieri di vasta portata – coloro che ritengono che ciò che prima non era viene all’esistenza, o che qualcosa possa perire e completamente distrutto. Non può infatti nascere qualcosa da ciò che non è in alcun modo; ed è impossibile e inaudito che ciò che è debba perire, perché esso è sempre, ovunque si possa collocarlo»90. Qui ci sembra di sentire la voce di Parmenide e le sue parole. Le cose veramente fondamentali non possono né nascere, né svanire o essere distrutte. Ma se ammettiamo che non vi è alcuna generazione o distruzione, allora dobbiamo forse concedere a Parmenide e ai suoi allievi il fatto che non esiste alcun cambiamento? Ovviamente no. Dobbiamo soltanto concepire e spiegare il cambiamento in maniera differente. Il cambiamento non può essere compreso nel senso della generazione o della corruzione, ma nel senso di una mescolanza. Gli elementi che entrano in questa mescolanza sono permanenti e immodificabili, ma la mescolanza stessa ammette molte forme e molti gradi. Nel nostro comune linguaggio popolare, ciò che chiamiamo “inizio” o “fine” non è altro che una continuazione o separazione di elementi stabili ed eterni. Empedocle ha illustrato questo processo con una similitudine, paragonando il lavoro della natura a quello di un pittore. Un pittore non è soltanto in grado di competere con la natura, ma la eccede anche; egli può

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forms that are not to be found in nature. But all this he attains by constantly mixing the colours he has on his palette (fragm. 23, Burnet p. 209). A natural philosopher has, as it were, to find out and to determine the various colours that nature itself has on its palette and by which it brings about the astounding multiplicity and variety of things. These colours are not only in a limited, but in a very small number. According to Empedokles there are only four311 elements of which all natural things are composed. They are described in his theory as that well-known312 elements that we use to distinguish even in our popular views before any deeper scientific analysis. Empedokles does not yet go beyond these popular views; he transforms them for his own purpose[,] but he does not call them into question. Air, water, earth, fire are believed to be the elements of things. All we find in nature is only the combination of these elements. I must insert here a few words about the origin of the term “element”313 – a term which nowadays is perfectly familiar to us[,] and which has played such an important role in the history of chemistry. As a matter of fact[,] the elements of Empedokles – water, air, earth, fire – give us the first historical example of the theory that all the material things are to be explained as combinations of simple elements. Empedokles himself does not yet use this term; he speaks not of the elements of things but of the “roots” or “germs” of things. The Latin314 term “elementum”315 has a rather interesting history, that has been described in a special treatise of Hermann316 Diels – the famous classical317 scholar and the editor of the fragments of the Pre-Socratics. The Latin318 term “elementum” is derived from the usual alphabetical order of our letters. If we, instead of beginning with a, b, c, we begin with the letter l319 – then

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infatti creare le forme più belle e le forme che non si trovano in natura. Ma egli ottiene tutto ciò mescolando costantemente i colori che si trovano sulla sua tavolozza (cfr. fr. 23, Burnet p. 209). Un filosofo naturale deve, per così dire, trovare e determinare i vari colori che la natura stessa ha sulla propria tavolozza e con i quali essa genera la sorprendente varietà e molteplicità delle cose. Questi colori non sono soltanto di numero limitato, ma anche molto pochi. Secondo Empedocle vi sono solo quattro elementi di cui tutte le cose naturali sono composte. Nella sua teoria corrispondono a quei ben noti elementi che siamo soliti distinguere – ancor prima di una più profonda analisi scientifica – nelle nostre concezioni popolari. Empedocle non va oltre queste concezioni popolari; le trasforma per il suo proprio scopo, ma non le pone in questione. Aria, acqua, terra e fuoco sono ritenuti gli elementi delle cose. Tutto ciò che troviamo in natura non è altro che la combinazione di questi elementi. Devo aggiungere qui alcune parole sull’origine del termine “elemento”; un termine che oggigiorno ci è del tutto familiare e che ha giocato un ruolo importante nella storia della chimica. Di fatto, gli elementi di Empedocle – acqua, aria, terra, fuoco – ci forniscono il primo esempio storico della teoria secondo cui tutte le cose materiali possono essere spiegate come combinazioni di elementi semplici. Empedocle stesso non adopera ancora questo termine; non parla di elementi delle cose, ma di “radici” o “semi” delle cose. Il termine latino “elementum” ha una storia piuttosto interessante, descritta da Hermann Diels – il famoso studioso classico e curatore dei frammenti dei Presocratici – in uno specifico trattato. Il termine latino “elementum” deriva dall’usuale ordine alfabetico delle nostre lettere. Se, invece di iniziare con le lettere “a, b, c”, iniziamo con la lettera “l”, allora avremo la sequen-

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we have the abecedarian sequence l, m, n, – and it is this sequence that originally is expressed by the term “L-M-Ntum”. Here the very term shows us that nature is compared to an alphabet, consisting of a small number of letters by the combinations and permutations of which the most various things may arise. The four roots of all things – we are told by Empedokles – Fire, Air, Earth, and Water – are immortal; they cannot die. What we call death is a phenomenon that we only find in compound things – and it simply means that these compounds are resolved into their single components. The “immortality” of the fundamental elements is expressed by Empedokles in the way that he even gives to them the names of Gods. [«]Hear first the four roots of all things – he says in his 6th fragment – shining Zeus, life-bringing Hera and so on[»]. But of course[,] these are only poetical and metaphorical expressions – what he meant to give was a physical or as we should call it a chemical theory of matter. In this respect we may mention another interesting and important feature of the theory of Empedokles. He was perhaps the first to envisage a problem that did not come to its full maturity before the 19th century – before the beginning of modern Chemistry. For he did not only assume that all our empirical bodies are compounds of a fixed number of elements[,] but he attempted to find out the exact proportion320, the numerical relations between these elements. He thinks, for instance, that some parts of our human body, as flesh or blood – contain equal parts of the four elements – whereas the bones show us a different proportion – they are supposed to be composed of ½ of Fire, ¼ of Earth and ¼ of Water. Of

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za abecedaria “l, m, n,”; ed è questa la sequenza originariamente espressa dal termine “L-M-N-tum”. Qui il termine ci mostra che la natura viene paragonata a un alfabeto, caratterizzato da un piccolo numero di lettere, dalla cui combinazione e permutazione possono sorgere le cose più varie. Empedocle ci dice che le quattro radici di tutte le cose – Fuoco, Aria, Terra, Fuoco – sono immortali; non possono morire. Ciò che chiamiamo “morte” è un fenomeno che troviamo soltanto nelle cose composte; ciò significa, molto semplicemente, che questi composti si risolvono nei loro singoli componenti. L’“immortalità” degli elementi fondamentali viene espressa da Empedocle in modo tale da attribuire loro dei nomi di dèi: «Ascolta prima le quattro radici di tutte le cose – dice Empedocle nel frammento 6 – Zeus splendente, Era apportatrice di vita e così via»91. Ma, ovviamente, queste sono soltanto espressioni poetiche e metaforiche – ciò che intendeva fornire era proprio una teoria fisica, o quella che potremmo anche chiamare teoria chimica della materia. A tal proposito dobbiamo menzionare un’altra interessante e importante caratteristica della teoria di Empedocle. Egli fu probabilmente il primo a prefigurare un problema che, tuttavia, non avrebbe raggiunto la sua maturità prima del XIX secolo – prima dell’inizio della chimica moderna. In effetti, Empedocle non soltanto riteneva che tutti i nostri corpi empirici siano composti da un numero fisso di elementi, ma tentò anche di trovare l’esatta proporzione, le relazioni numeriche tra questi elementi. Egli pensa, ad esempio, che alcune parti del nostro corpo – come la carne o il sangue – contengano parti uguali dei quattro elementi, laddove le ossa ci mostrano invece una proporzione differente: si ipotizza infatti che siano composte da ½ di fuoco, ¼ di terra e ¼ di

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course, this was not based on any empirical investigation; it was simply a speculative hypothesis. Nevertheless[,] the question itself proved to be very fruitful – we find here the first traces of a fundamental law of modern Chemistry: Dalton’s law of combination in multiple proportions. But according to the general principle that dominates the physical theory of Empedokles he could not satisfy himself with ascertaining the fact that all natural bodies are nothing but mixtures of a few basic elements. He had to inquire into the reason321 of this mixture. This reason could not be found in the element themselves. They are of different nature and bear no relations to each other. We must therefore look for an external cause that accounts for their combination and their separation. By this Empedokles is led to his second fundamental assumption: to his theory of “Love”322 and “Hate”323. Love and Hate are psychological terms – and it is rather surprising to meet with them in a theory that claims to be a physical explanation of the Universe. But if we look closer at the doctrine of Empedokles we find that he uses these terms in such a way as to express nothing but a fact of the physical world; that fact which later on was described by the terms “attraction”324 and “repulsion”325. It is remarkable and it is very curious that, when Newton first gives his general theory of attraction, which after all was nothing but a mathematical theory, his concepts are immediately interpreted in a psychological way. Many contemporaries and many followers of Newton – for instance the Scotch philosophers of the 18th century – declared that there is not an analogy but a real identity between those powers that govern our natural universe and the powers that, in our own human life, we expe-

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acqua. Ovviamente, tutto ciò non si basava su alcuna indagine empirica, ma era soltanto un’ipotesi speculativa. Cionondimeno, la questione stessa si rivelò alquanto feconda, giacché in essa rinveniamo proprio le prime tracce di una legge fondamentale della chimica moderna: la legge delle proporzioni multiple di Dalton. Ma secondo il principio generale che domina la sua teoria fisica, Empedocle non poteva limitarsi a verificare il fatto che tutti i corpi naturali altro non sono che mescolanze di pochi elementi di base. Doveva indagare la ragione di siffatta mescolanza, ma questa ragione non la si poteva trovare negli elementi stessi. Essi sono infatti di natura diversa e non stanno in relazione reciproca. Pertanto, dobbiamo cercare una causa esterna in grado di render conto della loro combinazione e separazione. Ciò condusse Empedocle alla sua seconda assunzione fondamentale: alla sua teoria dell’“Amore” e dell’“Odio”. Amore e Odio sono due termini psicologici ed è piuttosto sorprendente incontrarli in una teoria che si propone come spiegazione fisica dell’universo. Ma se guardiamo ancora più da vicino la dottrina di Empedocle, notiamo che essa adopera questi termini in modo da non esprimere altro che un fatto del mondo fisico: quel fatto che più avanti sarebbe stato descritto con i termini “attrazione” e “repulsione”. È significativo e alquanto curioso che quando Newton, per primo, fornisce la sua teoria generale dell’attrazione – che dopotutto non era altro che una teoria matematica – i suoi concetti sono interpretati immediatamente in senso psicologico. Molti contemporanei e molti seguaci di Newton – come, ad esempio, i filosofi scozzesi del XVIII secolo – affermarono che non vi era soltanto un’analogia, ma una identità reale tra quelle forze che governano il nostro universo naturale e le forze che, nella nostra vita umana, sperimentiamo in termini di

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rience as love and hate, as sympathy or antipathy. According to Empedokles we find two different tendencies in nature. One of them is the attraction of like by like; another one is the tendency of like to separate from like and of unlike to combine with unlike. These two opposite tendencies struggle with each other – and each of them tends to prevail on the other. But none of them can gain a definite victory. There are periods in which the one power outweights the other or predominates over the other whereas in other periods the order is reversed. “Love” and “Hate”, “Friendship” and “Discord” have both their share in the government of the world. Friendship combines and brings together substances of different natures; Discord unites these connexions. We can trace this perpetual conflict both in the phenomena of nature and in the phenomena of human life. You will perhaps think it to be quite plausible if Empedokles assures us that our own era is an era in which hate[,] and discord have gained the upper hand. But there will be a later period, in which love[,] and friendship shall prevail over the powers of enmity, of separation and disagreement. It is true that the combat between these opposite powers never will be settled; it will return in a cyclical order. There was once a period, in which all the four elements – water, fire, earth, air – were not separated from each other. They lived, so to speak, together in love and harmony. But then there came a sort of catastrophe – an outbreak of war between the elements. The elements were disintegrated and driven away from each other. Nature is, as it were, a pendulum that oscillates between the two poles of love and hate. But to give a full impression of this theory I had better quote the words of Empedokles himself. «I shall tell thee – he says in the 17th 326 fragment – a twofold tale. At one time it grew to be only out of many; at another, it divided up to be many instead of one…These things never cease

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amore e odio, simpatia o antipatia. Secondo Empedocle, nella natura si trovano due differenti tendenze. Una di esse è l’attrazione di simile e simile; l’altra è la tendenza del simile a separarsi dal simile e la tendenza del dissimile a combinarsi con il dissimile. Queste due tendenze si scontrano a vicenda e ognuna di esse tende a prevalere sull’altra. Ma nessuna può conquistare una vittoria definitiva. Vi sono periodi nei quali una forza ha più peso dell’altra o la domina, mentre in altri la situazione si ribalta. “Amore” e “Odio”, “Amicizia” e “Discordia” hanno entrambi la loro parte nel dominio del mondo. L’Amicizia combina e unisce sostanze di nature diverse. La Discordia scioglie queste connessioni. Possiamo rintracciare questo conflitto perpetuo sia nei fenomeni della natura, sia nei fenomeni della vita umana. Forse riterrete abbastanza plausibile se Empedocle asserisce che la nostra propria era è un’era in cui l’odio e la discordia hanno avuto la meglio. Ma ci sarà un periodo successivo nel quale amore e amicizia prevarranno sulle forze dell’inimicizia, della separazione e del disaccordo. È vero che la lotta tra queste due forze opposte non si risolverà mai; essa si ripresenterà in base a un ordine ciclico. Vi fu un periodo in cui tutti e quattro gli elementi – acqua, fuoco, terra e aria – non erano separati l’uno dall’altro. Vivevano, per così dire, assieme in amore e armonia. Ma poi si verificò una sorta di catastrofe, lo scoppio di una guerra tra gli elementi. Gli elementi si disintegrarono e si allontanarono l’uno dagli altri. La natura è, per così dire, un pendolo che oscilla tra i due poli dell’amore e dell’odio. Ma per darvi un’impressione esaustiva di questa teoria farei meglio a menzionare le parole dello stesso Empedocle: «Ti racconterò – dice nel frammento 17 – una duplice storia. In un tempo esso è cresciuto dai molti fino a essere uno solo; in un altro tempo, si è diviso per essere molti invece che uno [...]. Queste cose non cessano mai di cambiare

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continually changing places; at one time all uniting in one through Love, at another each borne in different directions by the repulsion of Strife… It is love itself that is known as being implanted in the frame of mortals. It is she that makes them have thoughts of love and work the works of peace. They call her by the name of Joy or Aphrodite. But Love and Hate are equal and alike in age; yet each has a different prerogative and its own peculiar nature, but they gain the upper hand in turn when we the time comes around. And nothing comes into being besides them, nor do they pass away… These are these alone; but running through one another, they become now this, now that, and like things evermore». A very interesting application of this general principle is made by Empedokles in his theory of sense-perception327. According to the maxim that governs Empedokles’ natural philosophy we cannot trace a sharp line of demarcation between physical and psychological phenomena. Both of them belong to the same order and are to be explained according to the same rules. If we wish to understand the facts of sense-perception we must therefore argue upon the principle that what we call “consciousness” is not a separate sphere of being. The conscious life of man is only a mirror of the general order of nature. Our inner world expresses and reflects the outer world. There is a microcosm in the macrocosm – a minor world in the major world; but both of them obey to the same rules. Their difference is a difference of degree, not a qualitative or specific difference. We find in the microcosm, in the minor world, the same properties and the same relations as in the larger world. The elements and processes in both of these worlds perfectly correspond [to] each other. To use a modern mathematical term[,] we could say that there is a one-to-one relation between all the phenom-

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continuamente luogo; una volta tutti uniti in uno attraverso l’Amore, un’altra volta ciascuno portato in direzioni diverse dalla repulsione della Contesa [...]. È l’amore stesso che è saputo come impiantato nella struttura dei mortali. È lei che fa avere loro pensieri d’amore e compiere opere di pace. La chiamano con il nome di Gioia o Afrodite. Ma Amore e Odio sono uguali e simili per età; eppure ognuno ha una differente prerogativa e una sua propria natura peculiare, ma a loro volta quando arriva il momento prendono il sopravvento. E nulla viene all’esistenza oltre a loro, né essi trapassano... Soltanto questi sono le cose; ma attraversandosi l’un l’altro, diventano ora questo, ora quello, e sempre come le cose»92. Un’applicazione davvero interessante di questo principio generale viene fatta da Empedocle nella sua teoria della percezione sensibile. Secondo la massima che governa la filosofia naturale di Empedocle, noi non possiamo tracciare una netta linea di demarcazione tra i fenomeni fisici e quelli psicologici. Entrambi appartengono allo stesso ordine e vanno spiegati in base alle medesime regole. Se desideriamo comprendere i fatti della percezione sensibile, allora dobbiamo ragionare intorno al principio secondo cui ciò che chiamiamo “coscienza” non è una sfera separata dell’essere. La vita cosciente dell’uomo è soltanto uno specchio che riflette l’ordine generale della natura. Il nostro mondo interiore esprime e riflette il mondo esterno. Esiste un microcosmo nel macrocosmo, un mondo minore nel mondo maggiore, ma entrambi obbediscono alle stesse regole. La loro differenza è soltanto di grado, non una differenza qualitativa o particolare. Nel microcosmo, nel mondo minore, noi troviamo le stesse proprietà e relazioni del macrocosmo. Gli elementi e i processi di entrambi questi mondi si corrispondono perfettamente. Per usare un termine matematico moderno, potremmo dire che vi è una

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ena of the macrocosm and the microcosm. We can perceive fire, because we are made of fire; we can perceive earth or air; because we are made of earth and air. We can speak of love and hate as dominating principles of nature because we experience both of them in ourselves. «For it is with earth – says Empedokles328 in fragm. 109 – that we see Earth, and Water with water; by air we see bright Air, by fire destroying Fire. By love do we see Love and Hate by grievous hate». From this we have to draw another conclusion that, for the further development of a theory of knowledge, proved to be of great importance. The theory that, later on, was expressed by the famous simile of the “tabula rasa”, has no place in the philosophy of Empedokles. Man is not a “tabula rasa” – that means: an empty table, an erased tablet, upon which external objects make their impression. Knowledge is not a mere passive process; it presupposes an activity from the side of man. But this too is understood by Empedokles in a physical and material sense. The elements of human body, the elements contained in our various sense-organs, have to cooperate with the external objetcs in order to make sense-perception possible. A very elaborate description of this cooperation is given by Empedokles in his theory of vision. The act of vision is explained by two processes that head in opposite directions. The one goes from the external object to the eye, the other from the eye to the external object. If both these processes meet each other in an intermediate sphere and if they, so to speak, penetrate each other, we have the phenomenon of vision – we see and perceive the outward things. I cannot enter here into all the details of this theory of perception. It is transmitted to us in a text of

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relazione uno-ad-uno tra tutti i fenomeni del macrocosmo e del microcosmo. Noi possiamo percepire il fuoco perché siamo fatti di fuoco; possiamo percepire la terra e l’aria perché siamo fatti di terra e aria. Possiamo parlare di amore e di odio come princìpi dominanti della natura, perché li sperimentiamo entrambi in noi stessi: «Perché è con la terra – dice Empedocle nel frammento 109 – che vediamo la Terra, e l’Acqua con l’acqua; tramite l’aria vediamo l’Aria splendente, tramite il fuoco, il Fuoco distruttivo. Tramite l’amore vediamo l’Amore, e l’Odio tramite l’odio atroce»93. Da ciò abbiamo tratto un’altra conclusione che, per il successivo sviluppo della teoria della conoscenza, si è rivelata di grande importanza. La teoria che, in seguito, venne espressa con la famosa analogia della tabula rasa, non trova alcun posto nella filosofia di Empedocle. L’uomo non è una tabula rasa, ossia una tavola vuota, cancellata, sulla quale gli oggetti esterni lasciano le loro impressioni. La conoscenza non è un processo passivo, giacché presuppone un’attività da parte dell’uomo. Anche questo viene compreso da Empedocle, sia pur in senso fisico e materiale. Gli elementi del corpo umano, gli elementi contenuti nei vari organi sensibili, devono cooperare con gli oggetti esterni per rendere possibile la percezione sensibile. Una descrizione piuttosto elaborata di questa cooperazione ci viene fornita da Empedocle nella sua teoria della visione. L’atto della visione viene spiegato attraverso due processi che si vanno in direzioni opposte. Una va dall’oggetto esterno all’occhio, l’altra dall’occhio all’oggetto esterno. Quando entrambi questi processi si incontrano in una sfera intermedia e, per così dire, si compenetrano a vicenda, allora abbiamo il fenomeno della visione – vediamo e percepiamo le cose esterne. Non posso scendere nei dettagli di questa teoria della percezione. Ci è stata trasmessa in un testo

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Theophrastos that you will find in Burnet’s329 “Early Greek Philosophy” pages330 246-248. Here you will see that Empedokles explains the phenomena of sense-perception by the hypothesis of two sorts of effluvia – by effluences from the object and by minute particles that are emitted from the eye or any other sense-organ. Every outward element is known by the corresponding part of the human body. Since like is recognized by like, the fiery part of the eye recognizes external fire, the watery part external water; and it is by this that we become aware of light and darkness. §2: Anaxagoras331 The second system of natural philosophy that is influenced by Eleatic thought is the system of Anaxagoras. Empedokles and Anaxagoras are contemporaries; they belong to the first half of the 5th century. In some respects they seem to be in close relationship with each other. They are struggling with the same general problem; they wish to give us a general theory of matter. Nevertheless[,] they are very dissimilar – not so much in their objective problems as in their way of approach to these problems. Empedokles is a sharp observer of natural phenomena, but his logical power is not equal to his power of observation. He has not got a critical mind; he indulges not only in all sorts of imagination[,] but he likes to give a free course to his imagination. Sometimes he speaks as a scientist, sometimes as a hierophant or mystagogue who wishes to initiate us into the mysteries of Orphic religion. He thought himself to be in the possession of superhuman powers – in one of his fragments he even speaks of himself as an immortal God. Anaxagoras is a thinker of quite a different type. He has a clear analytical mind – a logical

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di Teofrasto, che potete trovare nel libro di Burnet La prima filosofia greca alle pp. 246-248. Qui vedrete che Empedocle spiega i fenomeni della percezione sensibile attraverso l’ipotesi dei due effluvi: tramite l’effluvio proveniente dagli oggetti e tramite le minuscole particelle emesse dall’occhio o da un altro organo sensibile. Poiché il simile è riconosciuto dal simile, la parte focosa dell’occhio riconosce il fuoco esterno, la parte acquea l’acqua esterna; ed è così che diventiamo consapevoli della luce e dell’oscurità. 2. Anassagora Il secondo sistema di filosofia naturale ad aver subìto l’influenza del pensiero eleatico è il sistema di Anassagora. Empedocle e Anassagora sono contemporanei; appartengono infatti alla prima metà del quinto secolo. Per certi versi, sembrano trovarsi in stretta relazione l’uno con l’altro, giacché lottano entrambi contro lo stesso problema e desiderano fornire una teoria generale della materia. Cionondimeno, essi sono anche molto dissimili, non tanto nei loro problemi oggettivi, quanto nel loro modo di affrontarli. Empedocle è un acuto osservatore di fenomeni naturali, ma la sua capacità logica non eguaglia la sua capacità di osservazione. Non ha una mente critica e non soltanto indulge a ogni sorta di immaginazione, ma gli piace proprio darle libero sfogo. A volte parla da scienziato, altre volte da ierofante o da mistagogo che desidera iniziarci ai misteri della religione orfica. È convinto di possedere poteri sovrumani; in uno dei suoi frammenti parla di se stesso, addirittura, come di un dio immortale. Anassagora è un pensatore di ben altra natura. Ha una limpida mente analitica – una mente logica e matematica.

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and a mathematical mind. He strives at clarity and sobriety both in his thought and in his expression. He is perhaps the first Greek thinker who introduces a technical philosophical language in a perfectly consistent way. His interests are wide and manyfold; he is a mathematician, a physicist, an astronomer. His life is in perfect agreement with this general attitude. The life and personality of Anaxagoras is one of the earliest examples332 of a new ideal that begins to develop in the 5th century: the ideal of a life that is entirely absorbed in scientific problems. From the very beginning Anaxagoras lives the life of a pure scientist. He was born at Klazomenai, a town in the neighborhood of Smyrna in Asia Minor as a son of an aristocratic family. But he seems to have had no political interests and no political ambition. Aristotle tells us that he even neglected his patrimony in order to devote himself to his scientific studies. At an age of about fourty years Anaxagoras leaves his native town Klazomenai and comes to Athens. And here begins a new great epoch both of his own life and of the life of Athens. Anaxagoras was the first thinker who transplanted philosophy to Athens. He immediately won a decisive influence upon the whole intellectual and cultural life of Athens. The great cultural age of Athens, the Periclean age, is indissolubly connected with him333 and with his philosophy. He became the friend and the teacher of all the great statesmen and the great poets of this age. There is perhaps no better and no more beautiful description of one of the fundamental doctrine[s] of Anaxagoras as in the great hymn which Euripides has inscribed in one of his tragedies. For nearly thirty years Anaxagoras was in the focus of Athenian thought and Athenian culture. Then came a sudden reaction. The political adversaries of Pericles who were jealous of his influence assailed him and brought him against him a charge of atheism and blasphemy. Anaxagoras had

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Mira alla chiarezza e alla sobrietà, sia nel suo pensiero sia nella sua espressione. È forse il primo pensatore greco a introdurre un linguaggio tecnico in modo perfettamente coerente. I suoi interessi sono ampi e variegati: è infatti un matematico, un fisico e un astronomo. La sua vita è in accordo perfetto con la sua attitudine generale. La vita e il carattere personale di Anassagora sono i primi esempi di un nuovo ideale che inizia a svilupparsi nel quinto secolo: l’ideale di una vita interamente assorbita dai problemi scientifici. Sin dall’inizio, Anassagora vive la vita di uno scienziato puro. Era nato a Clazomene, una città nelle vicinanze di Smirne in Asia minore, da una famiglia aristocratica. Ma non sembrava coltivare alcun interesse per la vita politica e non aveva ambizioni politiche. Aristotele ci racconta che aveva anche rinunciato al suo patrimonio per dedicarsi agli studi scientifici94. All’età di quasi quarant’anni lascia la sua città natale e si trasferisce ad Atene. E qui inizia una grande epoca sia per la sua vita, sia per la vita di Atene. Anassagora è stato infatti il primo filosofo ad aver trapiantato la filosofia ad Atene. Esercitò immediatamente un’influenza decisiva sull’intera vita culturale e intellettuale di Atene. La grande età classica di Atene, l’età di Pericle, è indissolubilmente connessa ad Anassagora e alla sua filosofia. Egli divenne amico e maestro di tutti i grandi politici e i grandi poeti di quell’epoca. Di una delle dottrine fondamentali di Anassagora non esiste forse descrizione migliore e più bella di quella contenuta nel grande inno scritto da Euripide in una delle sue tragedie95. Per quasi trent’anni Anassagora si trovò al centro della cultura e della filosofia ateniese. Ma in seguito si verificò una reazione improvvisa. Gli avversari politici di Pericle, gelosi della sua influenza, lo assalirono e lo accusarono di ateismo e blasfemia. Anassagora non aveva mai condiviso le credenze religiose po-

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never shared the popular religious beliefs of the Greeks. He spoke of the sun and the moon not as an immortal God, but as physical masses, as astronomical bodies. This was used by his enemies who accused him to have said that the sun was a red-hot stone and that the moon was made of earth. Anaxagoras was condemned, but it seems that he could escape with the help of his friend Pericles. He returns to his native country in Asia Minor and dies there at the age of 72. The natural philosophy of Anaxagoras starts with the same principle that we found in Empedokles and that, since the times of the Eleatic thinkers, is regarded as a fundamental presupposition of every physical theory. If we look at the ultimate reality[,] we find in it no beginning and no end. “Beginning” and “end” are terms that may be used in the description of derivative phenomena; but they do not regard the essence of things. To speak of generation or destruction of things is, therefore, nothing but a metaphorical expression that has to be corrected in a true scientific language. «The Greeks – says Anaxagoras – err in speaking of a beginning and a perishing thing. No thing begins neither does it perish. What we call change means only a mixture of pre-existent things, or a decomposition of things that were mixed in this way. It would, therefore, be more correct to call the one process a mixture, the other process a decomposition[»]. The Universe, take as a whole, is unchangeable, nothing can be added to it, or subtracted from it, nothing can come into being and nothing can pass away. «These things having been thus decided – says Anaxagoras – we must know that all of them are neither more nor less; for it is not possible for them to be more than all, and are always equal» (fragm. 5). But if this Eleatic maxim holds good – what does it mean if we speak of change of things? As we have heard,

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polari dei Greci. Difatti, Anassagora parlava della luna e del sole non come dèi immortali, ma come masse fisiche, corpi astronomici. Ma i suoi nemici utilizzarono queste argomentazioni accusandolo di aver paragonato il sole a una pietra rossa rovente e di aver affermato che la luna era fatta di terra. Anassagora fu condannato, ma pare sia riuscito a fuggire grazie all’aiuto del suo amico Pericle. Ritorna nella sua terra natìa, in Asia minore, dove muore all’età di settantadue anni. La filosofia naturale di Anassagora inizia con lo stesso principio che abbiamo rinvenuto in Empedocle e che, sin dai tempi dei pensatori eleatici, veniva considerato come il presupposto fondamentale di ogni teoria fisica. Se volgiamo il nostro sguardo alla realtà ultima, allora non rinveniamo in essa alcun inizio e alcuna fine. “Inizio” e “Fine” sono termini che andrebbero utilizzati nella descrizione dei fenomeni derivati, ma non in merito all’essenza delle cose. Parlare di generazione e corruzione delle cose, pertanto, non è nient’altro che un’espressione metaforica da correggere tramite il linguaggio scientifico: «I Greci – dice Anassagora – sbagliano parlando di una cosa che comincia e di una cosa che perisce. Nessuna cosa comincia né perisce. Ciò che chiamiamo cambiamento significa solo un miscuglio di cose preesistenti, o una decomposizione di cose che sono state mescolate in questo modo. Sarebbe quindi più corretto chiamare l’un processo una mescolanza, l’altro processo una decomposizione»96. L’universo, preso come un tutto, è immutabile e non vi si può aggiungere né sottrarre nulla; nulla può venire all’essere e nulla può trapassare: «Queste cose così decise – dice Anassagora – bisogna sapere che tutte sono né più né meno; poiché non è possibile che siano più di tutte, e sono sempre uguali»97. Ma se è valida questa massima eleatica, allora cosa intendiamo quando parliamo del cambiamento delle

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it means mixture and decomposition – but how can we find the elements that enter into this double process? It is the same question that had been asked by Empedokles. But the answer given by Anaxagoras diverges from the theory of Empedokles in one fundamental point. The reason of this divergence is not to be sought in mere empirical fact that are admitted by Empedokles or denied by Anaxagoras. In order to understand these reasons[,] we must begin with a more general problem: with that problem that in the Eleatic school was called the question of the criterion of truth334. This question is answered in different senses by the Eleatics, by Empedokles and Anaxagoras. The Eleatic schools absolutely deny and reject the evidence of our sense-experience. Sense-experience is no way to truth; it is the source of all sorts of illusions; it is the way of “Non-Being”. By this way physical theory had lost its ground. The first task of all the later systems of natural philosophy was to reestablish and to vindicate the rights of sense-perception. Of course[,] the testimony of the senses could not be trusted implicitly; it had to submit some critical tests. But after this critical examination it could not only be admitted, it had to be used in a systematical way. Reason was no longer in opposition to sense-experience; it was declared to be the judge who has to decide between the different senses. This is the view of Empedokles. He declares reason to be the arbiter who has to give an unbiased verdict in all the contentions and controversies that may arise between the different senses. «Consider with all thy powers – he says in the 4th fragment – in what way each thing is clear. Hold not thy sight in greater

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cose? Abbiamo visto che per cambiamento si intende mescolanza e decomposizione, ma come possiamo trovare gli elementi che entrano a far parte di questo processo? È la medesima questione che si era posta Empedocle. Ma la risposta fornita da Anassagora diverge da quella di Empedocle in un punto fondamentale. La ragione di questa divergenza non va cercata nei meri fatti empirici ammessi da Empedocle o negati da Anassagora. Per comprendere queste ragioni dobbiamo iniziare con un problema più generale: con il problema che nella Scuola eleatica è noto come la questione del criterio di verità. Gli Eleati, Empedocle e Anassagora hanno fornito diverse risposte a questa questione. La Scuola eleatica, ad esempio, nega e rigetta nel modo più assoluto l’evidenza della nostra esperienza sensibile. L’esperienza sensibile non è la via della verità, ma piuttosto l’origine di ogni sorta di illusione; è la via del “non-Essere”. A causa di ciò, la teoria fisica ha perduto il proprio fondamento. Il primo compito di tutti i successivi sistemi di filosofia naturale consistette nel ristabilire e rivendicare i diritti della percezione sensibile. Ovviamente, non ci si può fidare ciecamente della testimonianza dei sensi; essa andava sottoposta a delle verifiche critiche. Ma, dopo questo esame critico, non soltanto la si sarebbe potuta ammettere, ma anche dovuta utilizzare in modo sistematico. La ragione non si trovava più in netta opposizione rispetto all’esperienza sensibile; la ragione diventava così il giudice che doveva pronunciarsi tra i diversi sensi. Questa è la concezione di Empedocle. Egli afferma infatti che la ragione è l’arbitro che deve fornire un verdetto imparziale in tutte le contese e controversie che possono sorgere tra i diversi sensi: «Considera con tutte le tue forze – dice nel frammento 4 – in che modo ogni cosa è chiara. Non dare maggior credito alla tua

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credit as compared with thy hearing, nor value thy resounding ear above the clear instructions of thy tongue; and do not withhold thy confidence in any of thy other bodily parts by which there is an opening for understanding but consider everything in the way it is clear». Even Anaxagoras does not defy or mistrust the senses. But on the other hand[,] the objections of the Eleatics had made too335 strong an impression upon his mind as than he could have an unconditioned belief in the testimony of the senses. The senses – he tells us – are good and trustworthy guides as long as we are engaged in the study of our common empirical objects. But they forsake us as soon as we set ourselves a higher and more difficult task – as soon as we wish to know the true elements of things. Empedokles seeks these elements among the objects of our ordinary sense-experience. Some of them – as fire, water, air, earth – are declared as the “roots” of things. But Anaxagoras is not content with this result. He is convinced that we must plunge much deeper in order to find the truly fundamental and elementary things. In this ultimate analysis of reality[,] it is the understanding that has to play the leading part. In the theory of Anaxagoras336 the elements of things are no longer regarded as concrete physical bodies, like fire or water. They are of a much more refined structure than these gross material things. We cannot distinguish them by the naked eye or by the sense of touch. We have to use other and more powerful instruments. But Anaxagoras does not think here of technical implements as the microscope or the telescope. What he aims at are intellectual instruments.

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vista rispetto al tuo udito, né più valore al tuo orecchio risonante nei confronti delle chiare istruzioni della tua lingua; e non rifiutare la tua fiducia a nessuna delle altre parti del tuo corpo tramite cui c’è un’apertura per la comprensione, ma considera ogni cosa nel modo in cui è chiara»98. Anche Anassagora non rifiuta né dubita dei sensi. Ma, dall’altro lato, le obiezioni degli Eleati avevano esercitato su di lui una così forte impressione al punto che egli non poteva più credere, in modo incondizionato, alla testimonianza dei sensi. I sensi – ci dice Anassagora – sono guide buone e affidabili fino a quando si è impegnati nello studio dei nostri comuni oggetti empirici. Ma ci abbandonano non appena ci poniamo un compito più elevato e difficile – non appena desideriamo conoscere i veri elementi delle cose. Empedocle cerca questi elementi tra gli oggetti della nostra ordinaria esperienza sensibile. Alcuni di essi – come il fuoco, l’acqua, l’aria e la terra – sono considerati le “radici” delle cose. Ma Anassagora non si accontenta di un simile risultato. Egli è convinto che bisogna andare ancora più a fondo, se si vogliono trovare le cose autenticamente fondamentali ed elementari. In questa fondamentale analisi della realtà è l’intelletto a dover svolgere il ruolo principale. Nella teoria di Anassagora gli elementi delle cose non vengono più concepiti come dei corpi fisici concreti, come il fuoco o l’acqua. Sono formati da una struttura più sofisticata, piuttosto che da queste generiche cose materiali. Queste cose non possiamo distinguerle a occhio nudo e nemmeno col senso del tatto. Dobbiamo adoperare altri e più potenti strumenti. Qui, ovviamente, Anassagora non sta pensando affatto a uno strumento tecnico come il microscopio o il telescopio. Egli mira piuttosto a degli strumenti intellettuali. Solamente il nostro intelletto può fornirci una

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It is our intellect that alone can give us a clear insight into the structure of the physical world and its ultimate elements. Anaxagoras’ theory of matter is, therefore, of much subtler and much more complicated nature than the theory of Empedokles. Empedokles still cherished the hope to find out the elements of things among the objects of our sense-experience. But Anaxagoras is convinced that these elements are far beyond the reach of our sense-organs. They are not perceivable, visible or palpable things. They are micro-elements, not macro-elements. That is the conception in which the system of Anaxagoras is at one with the third great system of natural philosophy that we shall have to consider very soon: with the atomistic system. But on the other side the elements of Anaxagoras differ from the atoms of Leukippus and Demokritos in one fundamental feature. They are qualitative elements, not merely quantitative elements. The atomistic theory declares that a scientific theory of nature cannot be reached as long as we regard the sense-qualities as objective properties which belong to the nature and essence of things. These qualities – colours, sounds, odours and tastes – have only a subjective value. They are mere appearances; they have no fundamental truth and reality. The atom has a definite spatial magnitude, a definite geometrical form – but it has no colour or any other sensible quality. But that is not the view of Anaxagoras337. He finds that all physical objects are endowed with special sense qualities – that they are white or black, warm or cold, dry or fluid. And he does not think that these fundamental qualities can be destroyed by a mere quantitative process of division and sub-division. I may divide matter in as many parts as I like – it will always show me the same properties. In contra-

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chiara intuizione della struttura del mondo fisico e dei suoi elementi ultimi. La teoria della materia di Anassagora, pertanto, è più sottile e complessa di quella di Empedocle. Quest’ultimo nutriva ancora la speranza di poter trovare gli elementi delle cose tra gli oggetti comuni della nostra esperienza sensibile. Ma Anassagora è invece convinto che questi elementi si trovino al di là della portata dei nostri organi sensibili. Non sono cose percepibili, palpabili o visibili. Sono microelementi e non macroelementi. Questa è la concezione nella quale il sistema di Anassagora diventa tutt’uno con il terzo grande sistema di filosofia naturale che andremo ad analizzare: il sistema atomistico. Ma, dall’altro lato, gli elementi di Anassagora differiscono da quelli di Leucippo e Democrito in una caratteristica fondamentale. Essi sono elementi qualitativi, non elementi meramente quantitativi. La teoria atomistica afferma che non è possibile giungere a una teoria scientifica della natura se le qualità sensibili vengono considerate come proprietà oggettive appartenenti alla natura e all’essenza delle cose. Queste qualità – colori, suoni, odori e sapori – hanno soltanto un valore soggettivo. Sono mere apparenze, prive di verità fondamentale e di realtà. L’atomo ha una grandezza spaziale determinata, una forma geometrica determinata, ma non ha alcun colore né altre qualità sensibili. Ma questa non è la concezione di Anassagora. Egli ritiene che tutti gli elementi fisici siano dotati di qualità sensibili particolari – sono bianchi o scuri, caldi o freddi, asciutti o fluidi. Non pensa che queste qualità fondamentali possano essere distrutte da meri processi quantitativi di divisione e sotto-divisione. Potrei anche dividere la materia in tante parti a mio piacimento, ma essa mostrerà sempre le medesime proprietà. In contrapposizione alla dottrina atomistica, Anassagora non pensa

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distinction to the atomistic doctrine Anaxagoras does not think the matter consists of a definite and finite number of particles. He starts from the principle that the divisibility of matter has no definite limit. Like geometrical space, the physical body is infinitely divisible; I cannot resolve it in ultimate elements, in least portions. «There is no least of what is small – says Anaxagoras (fragm. 3) – but there is always a smaller; for it cannot be that what is should cease to be by being cut». The mere external process of division cannot alter that intrinsic character of a thing. It remains what it is on a minor scale. It can be diminished and reduced in size; but is not to be dissolved or destroyed. A portion of matter, however small, always possesses the same unalterable and irreducible characteristics and properties. But in this case what does an “analysis of matter” mean? If we admit the infinite divisibility of matter it seems to be a flat contradiction to speak of its elements. At first sight it is indeed very difficult to reconcile these two poles both of which we find in the theory of Anaxagoras. Of all the systems of natural philosophy that we find in ancient thought the system of Anaxagoras is from our own point of view, from the point of view of modern science, perhaps the most intricate and perplexing one. We are perfectly familiar with the atomistic system – for it has prevailed for centuries and it has become one of the surest and indispensable foundation of our scientific knowledge. But with Anaxagoras the case is otherwise. His theory of matter is very interesting for an historian of science and philosophy. It gives us a characteristic specimen of a general physical theory. It is clear and consistent; it shows us one of the ways to give a rational account of the structure of matter. But since this account was not based on a satisfactory empirical evidence it could exert no influence

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che la materia consista di numeri di particelle determinate e finite. Parte dal principio secondo cui la divisibilità della materia non ha limiti determinati. Analogamente allo spazio geometrico, il corpo fisico è divisibile infinitamente; non si può risolvere nei suoi elementi ultimi, in porzioni minime: «Non c’è il minimo di ciò che è piccolo, ma c’è sempre un più piccolo; poiché non può essere che ciò che è cessi di essere venendo tagliato»99. Il mero processo esterno della divisione non può alterare il carattere intrinseco di una cosa. Esso rimane ciò che è su scala minore. Si può ridurre e diminuire la sua misura, ma non si può dissolvere o distruggere. Una porzione di materia, per quanto piccola, possiede sempre le stesse inalterabili e irriducibili caratteristiche e proprietà. Ma, in questo caso, cosa significa “analisi della materia”? Se ammettiamo l’infinita divisibilità della materia, allora sembrerebbe contraddittorio parlare dei suoi elementi. A prima vista, sembra piuttosto difficile riconciliare questi due estremi, i cui poli sono rinvenibili nella teoria di Anassagora. Di tutti i sistemi di filosofia naturale, presenti nel pensiero antico, il sistema di Anassagora – dal nostro punto di vista, cioè dal punto di vista della scienza moderna – è forse quello più intricato e complesso. Conosciamo piuttosto bene il sistema atomistico – esso, infatti, ha prevalso per secoli ed è diventato uno dei fondamenti più sicuri e indispensabili della nostra conoscenza scientifica. Ma con Anassagora il caso è diverso. La sua teoria della materia risulta davvero interessante per uno storico della scienza e della filosofia. Ci fornisce un caratteristico esempio di teoria fisica generale. È chiara e consistente, e ci mostra una delle modalità con la quale fornire una spiegazione razionale della struttura della materia. Ma poiché questa spiegazione non poggiava su evidenze empiriche soddisfacenti, essa non poté

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on the further development of scientific thought. The theory of Anaxagoras is, therefore, in a certain sense a unique phenomenon for which we scarcely can find any analogy in the history of science. Nevertheless[,] we must endeavour to explain and interpret this theory. And I think we find the right interpretation if we bear in mind that Anaxagoras approaches the problem from a specific angle. His ultimate realities are not material bodies like the atoms. They are specific qualities – and what we call “bodies” are nothing else than aggregates or mixtures of these qualities. What we find in nature, what is accessible to us by immediate experience are those differences and those oppositions we express by the terms: cold or hot, dry or humid, fluid or solid338. According to Anaxagoras these differences are irreducible339. We have to regard them as fundamental distinctions – as the roots of all things or, as it is expressed by Anaxagoras, as the “seeds” of all things. All the things of our common experience arise from these fundamental qualities and are composed of them – in the same sense as a plant grows up from its seed. There are innumerable and infinitely small particles each of which shows us a different and characteristic nature. And our material universe is nothing but a mixture or conglomerate of these particles. To put it in modern mathematical language, in the language of the differential calculus, we could say that all our physical bodies are integrals of infinitesimal qualities. In the beginning these qualities did not exist as separate things. They were all mixed together – as a uniform mass. There was not yet a spatial order of the different qualities, none of them possessed a definite place to which

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esercitare alcuna influenza sul successivo sviluppo del pensiero scientifico. La teoria di Anassagora, pertanto, rimane un fenomeno in un certo senso unico, per il quale a malapena possiamo trovare un’analogia nella storia della scienza. Cionondimeno, dobbiamo comunque sforzarci di interpretare e spiegare questa teoria. Penso sia possibile trovare la sua giusta interpretazione, se teniamo a mente che Anassagora si approccia al problema da un’angolazione specifica. Le realtà ultime di cui ci parla non sono corpi materiali come gli atomi; sono piuttosto specifiche qualità, e ciò che noi chiamiamo “corpi” altro non sono che aggregati o mescolanze di queste qualità. Ciò che troviamo in natura, ciò che ci è accessibile in modo immediato tramite l’esperienza, sono proprio quelle differenze e opposizioni che esprimiamo con i termini: caldo o freddo, asciutto o umido, fluido o solido. Secondo Anassagora, queste differenze sono irriducibili. Dobbiamo considerarle distinzioni fondamentali – come le radici di tutte le cose o, per esprimerci con le parole di Anassagora, come “semi” di tutte le cose. Tutte le cose della nostra esperienza comune sorgono da queste qualità fondamentali e sono composte da esse, proprio nello stesso senso in cui una pianta cresce dal suo seme. Vi è un numero infinito di piccole particelle, ognuna delle quali ci mostra una natura diversa e peculiare. Il nostro universo materiale non è altro che una mescolanza o agglomerato di queste particelle. Per esprimerci nel moderno linguaggio matematico, nel linguaggio del calcolo differenziale, potremmo dire che tutti i nostri corpi fisici sono integrali di qualità infinitesimali. All’inizio queste qualità non esistevano come cose separate. Si trovavano mischiate, come una massa uniforme. Non vi era ancora alcun ordine spaziale delle diverse qualità; nessuna di esse possedeva un luogo determinato a cui era vincolata.

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it was attached. The origin of things was a mere chaos in which all the different “seeds” were melted into each other and confused with each other. «All things were together, infinite both in number and in smallness; for the small too was infinite. And, when all things were together none of them could be distinguished for their smallness… But before they were separated off, when all things were together, not even was any colour distinguishable; for the mixture of all things prevented it – of the moist and the dry, and the warm and the cold, and the light and the dark…and of a multitude of innumerable seeds in no way like each other. For none of other things either is like any other. And these things being so we must hold that all things are in the whole». That our cosmic340 order has arisen from a primeval chaos is a very old thought – a thought that long before the beginnings of philosophical speculation was maintained in nearly all mythical cosmogonies. But if we look at the doctrine of Anaxagoras[,] we find here a new and very surprising feature. For Anaxagoras submits the thesis that even in our own world, in our present physical order, the original chaos is not perfectly overthrown. It still persists to a certain degree. All the different qualities or “seeds” of which our physical world consists were341 not only together in the beginning; they are still together. Even now, even in the present state of the world, [we] find no sharp disjunction between the different elements. None of them has a separate existence apart from all the others; each is connected with the other and it is ever mixed with its very opposite. In the language of Anaxagoras this thought is expressed by a special term that was first introduced by him. Everything

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L’origine delle cose era un mero caos nel quale tutti i diversi “semi” erano mescolati e fusi l’uno con l’altro: «Tutte le cose erano insieme, infinite sia per numero sia per piccolezza; infatti anche il piccolo era infinito. E, quando tutte le cose erano insieme, nessuna di esse si distingueva per la loro piccolezza [...]. Ma prima che fossero separate, quando tutte le cose erano insieme, non si distingueva neppure alcun colore; infatti la mescolanza di tutte le cose lo ha impedito: dell’umido e del secco, del caldo e del freddo, della luce e dell’oscurità [...] e di una moltitudine di innumerevoli semi in alcun modo uguali tra loro. Perché nessuna delle altre cose è come un’altra. E stando così le cose, dobbiamo ritenere che tutte le cose siano nel tutto»100. Che il nostro ordine cosmico sia sorto da un caos primordiale è un pensiero molto antico – un pensiero che molto prima degli albori della speculazione filosofica veniva sostenuto in quasi tutte le cosmogonie mitiche. Ma se gettiamo uno sguardo sulla dottrina di Anassagora, troviamo una caratteristica nuova e davvero sorprendente. Difatti, Anassagora sostiene la tesi secondo cui anche nel nostro mondo, nel nostro ordine fisico presente, il caos originario non è del tutto rimosso. Esso persiste ancora fino a un certo grado. Tutte le diverse qualità o “semi” di cui è composto il nostro mondo fisico non stavano insieme soltanto all’inizio; sono ancora insieme. Anche adesso, anche nello stato presente del mondo non si trova alcuna netta disgiunzione tra i diversi elementi. Nessuno di essi ha un’esistenza separata da tutti gli altri, poiché ognuno di essi è connesso agli altri ed è sempre mescolato con il suo opposto. Nel linguaggio di Anassagora, questo pensiero viene espresso mediante un termine speciale da lui introdotto per la prima volta. Ogni cosa – ci dice – è

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– he tells us – is a “panspermia” – that means everything is not a compound of single qualities or elements in contradistinction to all the others, but an aggregate of all qualities whatsoever, an integral of all the various and infinitely small “seeds”. But if this be true – if all things contain all elements or seeds342 – how can we distinguish the different empirical objects – how can we call them by different names343 – how can we speak of one of them as fire, of the other as water and so on? The answer of Anaxagoras344 is that we are entitled to use these names – but that it would be wrong to assume that these names are the expression of one absolute quality excluding the others. What we mean by these names is only that, in a special physical thing, we find a certain quality that predominates all over the others. We call a thing by the name of “Fire” – and by this we wish to ascribe to it certain properties: the property of being hot, of being fry, of being luminous. This is sufficient for all practical purposes and from the point of view of a popular description. But a truly philosophical or scientific analysis cannot content itself with such a description. It will detect that fire, besides these obvious qualities, also contains all the other ones, nay the very opposite ones, although of course to a less degree. Anaxagoras expresses this thought by the paradoxical assertion that the snow is black. That means that although the predominant quality in the snow is its striking brightness, it nevertheless contains an infinitesimal portion of darkness. Things – says Anaxagoras345 in the 8th fragment – [«]are not divided nor cut off from one another with a hatchet, neither the warm from the cold nor the cold from the warm[»].

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“panspermia”; ovvero, ogni cosa non è un composto di singole qualità o elementi in contrapposizione con gli altri, ma un aggregato di tutte le qualità, un integrale di tutti i vari e infinitamente piccoli “semi”. Ma se ciò è vero, se tutte le cose contengono tutti gli elementi o semi, allora come possiamo distinguere i diversi oggetti empirici? Come possiamo chiamarli con nomi differenti? Come possiamo parlare di uno di essi come fuoco, di un altro come acqua e così via? La risposta di Anassagora è che noi siamo sì autorizzati a utilizzare questi nomi, ma sarebbe tuttavia sbagliato supporre che questi nomi altro non siano che l’espressione di una qualità assoluta tale da escludere tutte le altre. Ciò che intendiamo con questi nomi è soltanto questo: in una cosa fisica particolare noi troviamo una certa qualità che predomina sulle altre. Noi chiamiamo una cosa col nome “fuoco” e con ciò non desideriamo altro che attribuirle certe proprietà: la proprietà dell’essere calda, asciutta e luminosa. Ciò è del tutto sufficiente per i nostri scopi pratici e dal punto di vista di una descrizione di tipo comune. Ma un’analisi genuinamente filosofica e scientifica non può limitarsi a una descrizione del genere. Essa noterà che il fuoco, oltre a queste sue ovvie qualità, contiene anche tutte le altre, anzi quelle realmente opposte – sebbene, è ovvio, in un grado minore. Anassagora esprime questo pensiero attraverso la paradossale asserzione secondo cui la neve è nera. Ciò significa che sebbene la qualità predominante della neve sia la sua straordinaria luminosità, ciononostante essa contiene un’infinitesima porzione di oscurità. Le cose – sostiene Anassagora nel frammento 8 – «non sono divise né separate l’una dall’altra con un’accetta, né il caldo dal freddo né il freddo dal caldo»101.

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But although there is no absolute separation between the different qualities there is a relative order and without this order our world could not persists. The sun, the stars, the moon, the earth, the sea – all these things have their predominating qualities and their definite place. How has this cosmic346 order come into being? The answer to this question is given by Anaxagoras by the introduction of a new concept and a new term. It is the term Noûs. It was Noûs which from the primeval absolute chaos developed that order of nature in which we now live. The term “Noûs” has been translated in several ways. Commonly it is reproduced by “Reason”, by “mind”, by “intelligence”. But all these translations are rather misleading and may easily give rise to wrong conceptions. What is clear is that Noûs is thought to be not a sort of quality, like all the other ones, but a moving power, which produces the mixtures of the different qualities. “Ordering[”], [“]arranging[”], [“]organizing[”] power would, therefore, be a correct translation. «Noûs set in order all things that were to be – says Anaxagoras in the 12th fragment – and all things that were and are not now and that are, and this revolution in which now revolve the stars and the sun and the moon, and the air and the aether that are separated off. And this revolution causes the separating off – and the rare is separated off from the dense and the dry from the moist. And these are many portions in many things. But no thing is altogether separated off nor distinguished from anything else except Noûs». As the moving power which sets in order all things, the Noûs is superior to all of them and independent of them; it is infinite and selfruled, it is – as Anaxagoras347 says – «mixed with nothing, but is alone itself by itself». But we must not think of the

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Ma sebbene non sussista alcuna assoluta separazione tra le differenti qualità, vi è comunque un ordine relativo, e senza questo ordine il nostro mondo non potrebbe persistere. Il sole, le stelle, la luna, la terra, il mare – tutte queste cose hanno le loro qualità predominanti e il loro luogo determinato. Ma come è nato questo ordine cosmico? La risposta a questa questione ci viene fornita da Anassagora con l’introduzione di un nuovo termine e di un nuovo concetto. Il termine è “Noûs”. È stato il Noûs che, dal caos assoluto e primordiale, ha sviluppato quell’ordine della natura nel quale viviamo. Il termine Noûs è stato tradotto in molti modi. Di solito viene reso con “ragione”, “mente”, “intelligenza”. Ma tutte queste traduzioni sono piuttosto fuorvianti e possono anche far sorgere concezioni errate. Una cosa è chiara: il Noûs non va pensato come una sorta di qualità, come tutte le altre, ma piuttosto come forza motrice, che produce la mescolanza delle diverse qualità. Pertanto, la corretta traduzione di Noûs sarebbe “forza ordinatrice”, “sistematrice”, “organizzatrice”: «Il Noûs mette in ordine tutte le cose che dovevano essere – dice Anassagora nel frammento 12 – e tutte le cose che erano e non sono ora e che sono, e questa rivoluzione in cui ora ruotano le stelle e il sole e la luna e l’aria e l’etere, che sono separati. E questa rivoluzione causa la separazione – e il raro viene separato dal denso e il secco dall’umido. E queste sono molte porzioni in molte cose. Ma nessuna cosa è del tutto separata né distinta da qualsiasi altra cosa tranne il Noûs». In quanto forza motrice che stabilisce l’ordine in tutte le cose, il Noûs è superiore a tutte loro e indipendente, è infinito e si regola da sé, è – come dice Anassagora – «mescolato con niente, ma è solo se stesso tramite se stesso»102. Ma non dobbiamo pensa-

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Anaxagorean348 Noûs as if it were an “intelligent cause” in the usual sense of this word; we must not ascribe to it a definite conscious purpose. Such an interpretation does not follow from the words of Anaxagoras349 and it would be in contradiction to one of our best sources, to the testimony of Plato350. From your study of the Platonic Phaedon you will remember the passage, in which Plato tells us, in express words, that the Noûs of Anaxagoras is an efficient cause, not a final cause – a mechanical power, not an intelligent power. Plato was delighted when he first heard of a philosopher who had reduced all things to a “Mind”, to a spiritual force. «I could not imagine – says Plato – that when he spoke of mind as the disposer of all things, he would give any other account of their being as they are, except that this was best. These hopes I would not have sold for a large sum of money and I seized the books and read them as fast as I could in my eagerness to know the better and the worse. But how grievously was I disappointed! As I proceeded I found my philosopher altogether forsaking mind or any other principle of order, but having recourse to air and aether, and water and other eccentricities» (Phaidon 98). That is, indeed, the limit which none of these systems – the systems of Empedokles, of Leukippos and Demokritos – wish to transgress. All these thinkers are no metaphysicians in the sense of Plato351; they are inquiring into the physical problems and wish to explain them by physical forces.

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re al Noûs anassagoreo come a una “causa intelligente” nel senso abituale di questa parola, non dobbiamo attribuirgli alcuno scopo consapevole e determinato. Tale interpretazione non corrisponde alle parole di Anassagora e sarebbe anche in contraddizione con una delle sue fonti più autorevoli, la testimonianza di Platone. Dal vostro studio del Fedone platonico ricorderete il brano col quale Platone ci dice espressamente che il Noûs di Anassagora è una causa efficiente, non una causa finale – una forza meccanica, non una forza intelligente. Platone fu contento di aver sentito che c’era un filosofo che riduceva tutte le cose a una “mente”, a una forza spirituale: «Non potevo immaginare – dice Platone – che, quando parlava della mente come dispositrice di tutte le cose, avrebbe dato un’altra spiegazione del loro essere così come sono, eccetto che questa era la cosa migliore. Queste speranze non le avrei vendute per nessuna grande somma di denaro, e ho preso i libri e li ho letti il più velocemente possibile, nella mia impazienza di conoscere il meglio e il peggio. Ma quanto fui gravemente deluso! Mentre procedevo, trovai il mio filosofo che abbandonava del tutto la mente o qualsiasi altro principio di ordine, ma ricorreva all’aria, all’etere, all’acqua e ad altre eccentricità»103. Ecco infatti il limite che nessuno di questi sistemi – i sistemi di Empedocle, Leucippo e Democrito – desidera trasgredire. Tutti questi pensatori non sono metafisici nel senso di Platone; essi indagano i problemi fisici e desiderano spiegarli ricorrendo a forze fisiche.

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§3: The Atomists352 If a modern student of Greek philosophy come to the doctrine of the Atomists, he may feel like a traveler who after a long journey in a foreign country suddenly came back to his native land. For we do not look at the history of the Atomists as if it belonged to a remote past. What we find here are our own scientific concepts, our own thoughts and our own problems. To be sure the modern atom, the atom of our Quantum-Mechanics[,] is not the atom of the Greeks, of Leukippos and Demokritos. There is perhaps no other scientific concept that has such a long, such a rich and interesting history than the concept of the atom. But in spite of this continuous evolution the original concept has survived and has proved to be one of the greatest and most powerful stimuli of our scientific thought. What was the reason tha made prevail the theory of the Atomists for so many centuries? That this theory is extremely fruitful in empirical results is incontestable. But these results do scarcely suffice to explain its nature and its permanent fruitfulness. For the empirical evidence upon which the theory of the ancient Atomists was based was very unsatisfactory. None of our fundamental physical or chemical facts were known to the Greeks. In this case too what they have really given to us is much more a new intellectual instrument than a new bulk of empirical facts. Of the first founder of the Atomistic theory, of Leukippos353, we possess no more than a single fragment. It contains only a few words. But if we read these words we feel at once that they express a fundamental thought – a thought which, since the times of the Greeks, did not lose anything of its interest or its impor-

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3. Gli Atomisti Se un moderno studente di filosofia greca dovesse approdare alla dottrina degli Atomisti, si sentirebbe come un viaggiatore che, dopo un lungo viaggio in terra straniera, improvvisamente si ritrova nella sua terra natìa. Non dobbiamo pensare agli Atomisti come apparteneni a un remoto passato. D’altra parte, in loro troviamo i nostri concetti scientifici, i nostri pensieri e i nostri problemi. Ovviamente, l’atomo moderno – l’atomo della meccanica quantistica – non è l’atomo dei Greci, di Leucippo e di Democrito. Forse nessun altro concetto scientifico ha avuto una storia così lunga, ricca e interessante come il concetto di atomo. Ma, nonostante questa continua evoluzione, l’originario concetto di atomo è sopravvissuto e si è rivelato anche uno dei più grandi e potenti stimoli per il nostro pensiero scientifico. Cosa ha fatto sì che la teoria degli Atomisti potesse durare per così tanti secoli? Che questa teoria sia estremamente feconda nei risultati empirici è incontestabile. Ma questi risultati non sono sufficienti per spiegare la sua natura e la sua permanente fecondità. D’altra parte, l’evidenza empirica sulla quale poggiava la teoria degli antichi Atomisti era piuttosto insoddisfacente. Nessuno dei nostri fatti fisici o chimici fondamentali era noto ai Greci. Anche in questo caso, ciò che i Greci ci hanno fornito realmente è più che altro un nuovo strumento intellettuale, piuttosto che una nuova mole di fatti empirici. Del primo fondatore della teoria atomistica, Leucippo, possediamo non più di un piccolo frammento. Esso contiene soltanto poche parole, ma, se le leggiamo, immediatamente rinveniamo in esso l’espressione di un pensiero fondamentale; un pensiero che, sin dai tempi dei Greci, non ha perduto nulla del suo interesse e della

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tance. «Nothing happens without a cause – says Leukippos – but everything with a cause and by necessity». This is the first perfectly clear formula of the principle of causality we meet with in human history. The principle of scientific determinism, the principle that all events in nature must have a sufficient reason is the real basis of the Atomistic systems. Nothing what happens happens at random; nothing is fanciful or capricious; all things and events have their reason and must be explained by and deduced from these reasons. Demokritos, the pupil of Leukippos, said that he would like much more to discover a clear and indubitable [link]354 between an effect and its cause than to gain the throne of the Persian empire. It is not riches or power that it is alluring for these men – it is science. And they conceive science in a perfectly modern sense: as a strict causal concatenation between the empirical phemomena, as the reduction of all actual events to universal inviolable laws. But for reaching this ideal, for founding a science of nature, another step proved to be inevitable. Empedokles and Anaxagoras had set themselves the same task as the Atomists. They too355 strived at a theory of physics. But their conceptions of what a physical body is[,] was quite different from the conception of the Atomists. In the theory of Empedokles a physical body is something like356[.] [I]t is necessary to say a few words about one of the most complicated concepts of the atomistic system: the concept of Not-Being. If we study the fragments of Leukippos and Demokritos we find in them a very paradoxical statement. What is – they357 tell us – does not more truly exist than that which is not. Or, to put in their own very striking and laconic words, which to the Greeks must have sounded just as much surprising as they sound to us: “Naught” has the same claim

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sua importanza: «Nulla accade senza una causa – dice Leucippo – ma tutto con una causa e per necessità»104. Questa è la prima formula, perfettamente chiara, del principio di causalità che incontriamo nella storia umana. Il principio del determinismo – il principio secondo cui tutti gli eventi in natura hanno una ragione sufficiente – costituisce l’autentico fondamento dei sistemi atomistici. Niente di ciò che accade, accade per caso, niente è imprevedibile o dovuto al caso; tutte le cose e gli eventi hanno la loro ragione e vanno spiegati e dedotti proprio a partire da queste ragioni. Democrito, l’allievo di Leucippo, disse che gli sarebbe piaciuto di più scoprire un chiaro e indubitabile [nesso] tra un effetto e la sua causa, piuttosto che ottenere il trono dell’impero persiano. Questi uomini, appunto, non erano interessati alla ricchezza o al potere, bensì alla scienza. Concepivano quest’ultima proprio nel nostro senso moderno, ovvero come una rigida concatenazione causale tra i fenomeni empirici, come riduzione di tutti gli eventi concreti a delle leggi universali inviolabili. Ma per raggiungere questo ideale, per fondare una scienza della natura, si rivelò inevitabile un altro passo. Empedocle e Anassagora avevano posto a se stessi il medesimo compito degli Atomisti. Essi miravano a una teoria della fisica. Ma la loro concezione di ciò che un corpo è, era alquanto diversa da quella degli Atomisti. È necessario spendere alcune parole su uno dei concetti più complicati del sistema atomistico: il concetto di non-Essere. Studiando i frammenti di Leucippo e di Democrito, troviamo in essi un’affermazione piuttosto paradossale. Essi ci dicono che ciò che è non è più reale di ciò che non è; oppure, per dirla con le loro sorprendenti e laconiche parole che sarebbero apparse ai Greci tanto sorprendenti quanto lo sono per noi: il’“nulla” ha la me-

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to being as “Aught”; “thing” and “nothing” are [the] true and real constituents of our physical universe. That seems to be a flat contradiction; but we can easily understand it if we take into consideration the special historical situation of the Atomistic philosophers. In a certain sense they were the pupils of Parmenides and the Eleatic thinkers. They admitted some of their fundamental premises; but they rejected the consequences that had led to a perfect negation and destruction of every physical theory. In this regard they had to refute and to challenge the Eleatic doctrine. It is this challenge that is contained in the words of the Atomists. What is358 is no more real than what “is not”359. But here we must understand the terms “what is” and “what is not”, not in a logical or metaphysical sense, but in a physical sense. “What is”: that means the world of the atoms, of the ultimate elements of Matter. But matter is not only the only reality. There is still another reality that is just as much necessary and indispensable for every physical theory. Matter and motion are the fundamental physical realities. That is the view of the Atomists, but it is just as much the view of our modern science. If you wish to understand what these terms mean in a modern science[,] I advice you to study a little popular treatise of one of our greatest physicists: Maxwell’s360 treatise: Matter and Motion361. But motion had been denied by the Eleatic thinkers – under the pretense that motion is not possible without an empty space – and that an empty space implies a contradiction – that is a non-Being362. «Thus either wholly Being must be or wholly must not be. – says Parmenides in his poem – Wherefore the All is unbroken, and Being approacheth to Being[.] Same in the same abiding, and self through itself it reposes for it is lacking in naught, or else it were lacking in all things».

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desima pretesa a essere dell’“ulla”105; “ente” e “niente” sono i costituenti veri e reali del nostro universo fisico. Ciò sembra un’evidente contraddizione, ma possiamo facilmente comprenderla prendendo in considerazione la particolare situazione storica dei filosofi atomisti. In un certo senso, essi furono allievi di Parmenide e dei pensatori eleati. Ne accettavano alcune premesse fondamentali, ma ne rigettavano le conseguenze che avevano condotto a una perfetta negazione e distruzione di ogni teoria fisica. A tal proposito, dovettero rifiutare e sfidare la dottrina eleatica. È quella sfida contenuta nelle parole degli Atomisti secondo cui ciò che è non è più reale di ciò che “non è”. Ma qui dobbiamo intendere i termini “ciò che è” e “ciò che non è” non tanto in un senso logico e metafisico, ma piuttosto in senso fisico. “Ciò che è” significa il mondo degli atomi, degli elementi ultimi della materia. Ma la materia non è la sola realtà. Vi è un’altra realtà, altrettanto necessaria e indispensabile per ogni teoria fisica. Materia e movimento sono le realtà fisiche fondamentali. Questa è la concezione degli Atomisti, ma lo è anche della nostra scienza moderna. Se desiderate comprendere il significato di questi termini nella scienza moderna vi consiglio di studiare il piccolo trattato divulgativo di uno dei nostri più grandi fisici: il trattato di Maxwell dal titolo Materia e movimento. Ma il movimento era stato negato dagli Eleati in ragione del fatto che il movimento, senza uno spazio vuoto, sarebbe impossibile e che lo spazio vuoto è di per sé una contraddizione – ossia un non-Essere: «Quindi o tutto l’essere deve essere, oppure tutto non deve essere – dice Parmenide nel suo poema –. Perciò il Tutto è ininterrotto, e l’Essere si avvicina all’Essere. Lo stesso nello stesso dimorare, ed è se stesso in quiete per se stesso perché non gli manca nulla, o altrimenti mancherebbe a tutte le cose».

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That is the thesis which the Atomists had to challenge. The physical world – they tell us – is a true unity; for it is governed by universal and inviolable laws. But it is not “unbroken” in the sense of the Eleatics; it is not a continuous uninterrupted whole, in which “Being approaches to Being”, in which one material thing is in immediate vicinity to the other. The elements of matter, the atoms, are separated from each other by a Vacuum, by an empty space. Since motion could not exist without an empty space – and since motion is the fundamental physical reality, we have to admit the reality of the Vacuum just as much as the reality of matter – or, to put it in the Eleatic terms, we have to admit that the plenum and the void, matter and space, being and non-being are the true fundamental and indispensable elements of our physical world.

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È proprio questa la tesi che gli Atomisti intesero sfidare. Essi ci dicono infatti che il mondo fisico è una vera unità; giacché è governato da leggi universali e inviolabili. Ma non è “tutto omogeneo” nel senso degli Eleati; non è un tutto continuo e ininterrotto, nel quale “l’Essere si approccia all’Essere” e nel quale una cosa materiale si trova in immediata vicinanza a un’altra. Gli elementi della materia, gli atomi, sono separati gli uni dagli altri dal Vuoto, da uno spazio vuoto. Poiché il movimento non può esistere senza spazio, e poiché il movimento è la realtà fisica fondamentale, allora dobbiamo ammettere la realtà del vuoto così come ammettiamo la realtà della materia o, per dirla in termini eleatici, dobbiamo ammettere che il pieno e il vuoto, materia e spazio, essere e non-essere sono i veri elementi fondamentali e indispensabili del nostro mondo fisico.

[chapter vi] THE SOPHISTS363 [§]1[: The Sophists364] It is not an easy task to give a short and clear delineation of this great intellectual movement that begins in the 5th century and that finds its expression in the doctrine of the “Sophists” – in the doctrine of Protagoras, Gorgias, Prodikos, Hippias. And the task becomes much more difficult if we wish not only to give an historical account of this movement but an unbiased judgement of its value – its value for the development of philosophical thought in general and for the development of Greek culture. Undoubtedly the new direction of thought we find here has left deep traces in the evolution of Greek culture. In a certain sense it must be regarded as a decisive and revolutionary step. We feel the influence of the great sophists of the 5th century, especially the influence of Protagoras, not only in Greek philosophy but also in Greek poetry. The last of the three great tragedians, Euripides, was in close relationship with the doctrine of the sophists – and in many of his verses we seem to hear their voice. And it is the same in nearly all the other fields. We cannot study Greek art, Greek science, Greek political and social life without, step by step, finding the characteristic features of the thought of the Sophists. They were not “philosophers” in any specialised sense of this term. They were not engaged in the solution of abstract speculative problems. All this is not excluded but it is overshadowed by a new interest. What the great sophists promised to their pupils was to teach them

cap. vi

I SOFISTI 1. I Sofisti Non è un’impresa agevole fornirvi un quadro sintetico e chiaro di questo grande movimento intellettuale iniziato nel quinto secolo a.C. e che trova la sua espressione nella dottrina dei “Sofisti”: Protagora, Gorgia, Prodico, Ippia. E l’impresa si rivela ancora più difficile nel caso in cui si intenda non soltanto fornire un resoconto storico di questo movimento, ma anche un giudizio imparziale circa il suo valore per lo sviluppo del pensiero filosofico in generale e per lo sviluppo della cultura greca. Indubbiamente, la nuova direzione di pensiero rinvenibile al suo interno ha lasciato profonde tracce nell’evoluzione della cultura greca. In un certo senso, bisogna considerarla come un passo decisivo e rivoluzionario. Noi avvertiamo l’influenza dei grandi Sofisti del quinto secolo, specialmente quella di Protagora, non soltanto nella filosofia greca, ma anche nella poesia greca. L’ultimo dei tre grandi tragediografi, Euripide, era in stretta relazione con la dottrina dei Sofisti e in molti dei suoi versi ci sembra di udire la loro voce, e lo stesso accade anche in quasi tutti gli altri campi. Non ci è possibile studiare l’arte greca, la scienza greca, la vita politica e sociale greca senza, passo dopo passo, trovarvi i tratti distintivi del pensiero dei Sofisti. Essi non erano “filosofi” nel senso specialistico del termine; non erano impegnati nella soluzione di astratti problemi speculativi. Tutto ciò non veniva di certo escluso, ma era oscurato da un nuovo interesse. Ciò che i grandi Sofisti promisero ai loro allievi era l’insegnamento della sophia e della areté. Letteral-

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“sophia” and “arete”. Literally speaking that means “wisdom” and “virtue”. But we must be on guard against a false interpretation of these terms. “Wisdom” does not mean a mere theoretical ideal – nor means areté (virtue) a moral ideal. Greek philosophy had begun to emphasize in Herakleitos that Wisdom is “one”. Herakleitos constantly warns us against the dangers of mere “polymathy” or “polyhistory”. «Polymathy – he says – the knowledge of many and dispersed things does not make a man wise and does not make him a philosopher. The learning of many things teacheth no understanding». But it is just this “learning of many things” that by the sophists is proclaimed as the highest philosophical and educational ideal. They professed to be not only teachers of philosophy, but teachers of everything, of every possible branch of knowledge365. They were no mere thinkers; they were skilled artisans in every field366. We have a little anecdote which is very characteristic and illuminating in this respect. Hippias of Elis, one of the famous sophists, once appeared at Olympian games in garments every part of which he had manufactured himself. He had made the sandals on his feet, the girdle round his waist, the rings on his fingers. The same Hippias was a geometer, astronomer, arithmetician, he wrote treatises on phonetics, rhythm and music; he discussed historical and ethnological problems, he discovered a new art, the art of the mnemonics. Another sophist, Prodicus, has treated grammatical problems, the origin of the language, the etymology of words, he has written a book on Synonyms367; at the same time[,] he was engaged in all sorts of physical and ethical questions. This variety of interests, and this mobility and versability of mind is the general character of all the sophists. Hippias boasted of being able to lecture to anyone and on everything. In the Platonic dialogue Gorgias[,] the sophist Gor-

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mente queste parole indicano la “saggezza” e la “virtù”, ma dobbiamo guardarci bene dalle false interpretazioni di questi termini. La “saggezza” non indica un mero ideale teoretico, né la areté (virtù) indica un ideale morale. La filosofia greca – già con Eraclito – aveva iniziato a sottolineare il fatto che la saggezza è “una”. Eraclito ci mette costantemente in guardia dai pericoli di una mera polimatìa o “polistoria”: «La polimatia – dice Eraclito – la conoscenza di molte cose disparate non rende l’uomo saggio e non lo rende filosofo. L’apprendimento di molte cose non insegna la comprensione»106. Ma è proprio questa “vasta erudizione” che i Sofisti consideravano come il più alto ideale filosofico e educativo. Essi si dichiaravano non soltanto insegnanti di filosofia, ma insegnanti di ogni cosa, di ogni possibile branca della conoscenza. Non erano meri pensatori, ma bensì artigiani esperti in ogni campo. Abbiamo un piccolo aneddoto molto caratteristico e illuminante. Ippia di Elide, un famoso sofista, una volta si presentò ai giochi olimpici con degli indumenti, le cui parti erano state interamente lavorate da lui. Egli stesso era l’artefice dei suoi sandali, del suo busto e dei suoi anelli. Ippia era anche un geometra, un astronomo, un matematico, scrisse trattati sulla fonetica, sul ritmo, sulla musica; discusse problemi storici ed etnologici, aveva scoperto una nuova arte, l’arte della mnemonica. Un altro sofista, Prodico, aveva trattato problemi di grammatica, l’origine del linguaggio, l’etimologia delle parole, aveva scritto un libro sui sinonimi e, al tempo stesso, era impegnato in ogni sorta di questioni fisiche ed etiche. Questa varietà di interessi e questa plasticità e versatilità mentale costituiscono il carattere generale dei Sofisti. Ippia si vantava di essere in grado di fornire lezioni a chiunque e su qualunque tema. Nel dialogo platonico

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gias promises to answer any question about even so difficult or remote a problem on the spur of the moment368. At the same time[,] he boasts of being able to use every style that is wished by the audience. It is the same in the field of morality. If we come to a description of the thought of Sokrates we shall find that one of the fundamental principles of Sokrates was the maxim “Virtue” (Areté) is One. But the “virtue” of the sophists was as many-sided and many-colored as their concept of “wisdom” or knowledge. There are so many different “virtues” as there are different professions. “Every profession has its own virtue” – that means its own capability to perform its task in the right way. The virtue of a farmer is of a different kind than that of a physician; the virtue of a horse-keeper is not the same as that of a politician. For “virtue” means skill and training – and every art is in need of a special training. Protagoras defined virtue by prudence – prudence in affairs private as well as public. And he declared to be able to teach this prudence. «Who will listen to me – he told to his pupils – will learn to order his own house in the best manner, and he will be best able to speak and act in the affairs of the state[»] (cf. Plato, Protagoras, 318E). [§]2[: Wisdom] And here we come to the second important point that calls for an explanation. The virtue of man and especially the virtue of the statesman, of the politician, is defined by Protagoras as the faculty “to speak and act” in the right way. What in this definition is surprising to us is the fact that “speaking” and “acting” appear side by side. There is no difference be-

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Gorgia, l’omonimo sofista promette di rispondere, così su due piedi, a qualsiasi domanda su un problema difficile o remoto. Al tempo stesso, si arroga il merito di poter adoperare ogni stile gradito al pubblico. La situazione è la medesima anche nel campo della moralità. Se passiamo a una descrizione del pensiero socratico, troviamo che uno dei princìpi fondamentali di Socrate era che la “virtù” (areté) è Una. Invece la “virtù” dei Sofisti era poliedrica e variopinta, come i loro concetti di “saggezza” o conoscenza. Ci sono così tante virtù diverse quante sono le diverse professioni. “Ogni professione ha la sua propria virtù” – ossia la capacità di attuare il suo compito in maniera corretta. La virtù di un contadino è diversa da quella di un fisico; la virtù di uno stalliere non è la stessa di quella di un politico. D’altra parte, “virtù” significa abilità ed esercizio, e ogni arte necessita di un esercizio particolare. Protagora definì la virtù come accortezza – accortezza negli affari privati come anche in quelli pubblici, e dichiarava di essere in grado di insegnare questa accortezza: «Chi mi ascolterà – diceva ai suoi allievi – imparerà a ordinare al meglio la propria casa, e saprà parlare e agire meglio negli affari dello Stato»107. 2. La saggezza Qui giungiamo al secondo punto decisivo, per il quale è necessaria una spiegazione. La virtù dell’uomo – e in particolar modo la virtù dell’uomo di stato, del politico – viene definita da Protagora come la facoltà di “parlare e agire” nel modo giusto. Ma in questa definizione ci sorprende il fatto che “parlare” e “agire” appai­ano fianco a fianco. Non sussiste alcuna differenza fra loro;

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tween them; they are put on the same level. How was such an identification possible? Or is [it] the same to speak rightly and to act rightly? We cannot answer this question without taking into consideration the special conditions of Greek social and political life during the 5th century. More than ever before the political influence that a man could win was dependent on his faculty of speech. The art of Politics was no longer possible without the art of Rhetoric. Rhetoric had become one of the great political powers. For in a democracy like the Athenian democracy all [the] important political questions were treated in the Agorà, in the assembly of the people. Nobody could hope to win the victory over a political adversary without overpowering him – not so much by the strength of his arguments but by the strength of his words. The strength of the words could, at any occasion[,] make the worse reason appear the better reason. But all this required a special art that had to be learnt very carefully. It was this art, the art of eloquence, that that the sophists promised to teach [to] their pupils. The greatest of them, Protagoras, was by no means a mere orator. He must have possessed a real political insight; for we know that, when the Athenians founded, in the year 443, a new colony, the colony Thurioi in the south of Italy, Protagoras received from Pericles instructions to give the laws for this colony. Such an important political mission would scarcely have been entrusted to Protagoras by a great statesman like Pericles if he had not won a high reputation. And the integrity of his personal character cannot be doubted. Even Plato, his greatest adversary, always

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sono posti sullo stesso livello. Ma fino a che punto era possibile una simile identificazione? Forse parlare correttamente e agire correttamente sono la stessa cosa? Non possiamo rispondere a questa domanda senza prima prendere in considerazione le particolari condizioni della vita politica e sociale della Grecia del quinto secolo. Più che mai l’influenza politica che un uomo poteva raggiungere dipendeva dall’arte del discorso. L’arte della politica, oramai, era impossibile senza l’arte della retorica. La retorica era divenuto uno dei grandi poteri politici. Infatti in una democrazia come quella ateniese tutte le più importanti questioni politiche venivano affrontate nell’agorà, nell’assemblea popolare. Nessuno poteva sperare di ottenere la vittoria sul proprio avversario politico senza dominarlo – ma non tanto in virtù della forza delle sue argomentazioni, quanto invece attraverso la forza delle sue parole. La forza delle parole, in ogni occasione, era in grado di far apparire la peggior spiegazione come la migliore. Ma per tutto ciò si richiedeva un’arte particolare da apprendere in modo molto accurato. Era proprio quest’arte, l’arte dell’eloquenza, che i Sofisti promettevano di insegnare ai loro allievi. Il più importante di loro, Protagora, non era affatto un semplice oratore. Egli doveva avere un autentico intuito politico; difatti, noi sappiamo che quando nel 443 gli ateniesi fondarono una nuova colonia, la colonia di Thurii nell’Italia del sud, Protagora ricevette da Pericle alcune istruzioni per dotare la sua colonia di leggi. Se Protagora non avesse goduto di un’alta reputazione, difficilmente un grande statista come Pericle gli avrebbe affidato una missione politica così importante. E l’integrità del suo carattere personale non può di certo essere messa in dubbio. Anche Platone, il suo più grande avversario,

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speaks of him with great respect – and the portrait he gives of him in his dialogue “Protagoras” is not without a certain sympathy. Nevertheless it was Protagoras who promised his pupils to teach them the art “to make the weaker statement the stronger”. That was a dangerous principle – and it became so much the more dangerous in the hands of the pupils who were by no means scrupulous in the use of the new weapon. For it is a common trait in all the sophists that they regard the use of words as an instrument to prevail on an adversary and to get the upper hand on him. The sophists were no philosophers in the same sense as the former Presocratic thinkers. They had no consistent systematic theory of the universe, no physical or moral theory as we find it in Herakleitos, in Pythagoras, in the Eleatic thinkers, in the atomistic doctrine. They were discussing all these theories – they were engaged in the inquiry of special questions. There was not a thing that did not arouse their interest and their scientific curiosity. But all this was regarded as a mean369[,] not as an end in itself. It was the dispute itself[,] not the subject-matter of the dispute which became the most interesting point – both for the sophists and for their audience. We know that Protagoras wrote a book to which he gave the title: “Kataballontes Logoi” that means “the throwing discourse”. The term to throw is a technical term taken from the art of wrestling. It means to strike an adversary, to bring him to his knees, to knock him out. For this you need no philosophy. You need not know the truth about a thing. But you must know all the tricks of the art of fighting; you must be able to answer any possible objection; you must possess the nicest and swiftest techniques of arguing.

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ne parla sempre con grande rispetto e il ritratto che egli ne fa nel suo dialogo Protagora non è privo di una certa partecipazione. Cionondimeno, fu proprio Protagora a promettere ai suoi allievi di insegnar loro l’arte di “rendere più forte l’argomento più debole”108. Questo era un principio pericoloso, e lo divenne ancora di più tra le mani di quegli allievi che non si dimostrarono affatto prudenti nell’utilizzo di questa nuova arma. D’altra parte, è un tratto comune a tutti i Sofisti quello di aver utilizzato le parole come uno strumento per prevalere sull’avversario e prendere il sopravvento su di lui. I Sofisti non furono filosofi nello stesso dei precedenti pensatori presocratici. Non possedevano alcuna teoria sistematica dell’universo, nessuna teoria fisica o morale come quelle che troviamo in Eraclito, in Pitagora, nei pensatori eleatici e nella dottrina atomistica. Essi discutevano intorno a tutte queste teorie ed erano impegnati in indagini su questioni particolari. Non c’era nulla che non stimolasse il loro interesse e la loro curiosità scientifica. Ma tutto ciò costituiva un mezzo e non un fine in sé. Era la disputa in sé e non il soggetto della disputa a costituire l’aspetto più interessante – sia per i Sofisti sia per i loro uditori. Sappiamo che Protagora scrisse un libro al quale diede il titolo di Kataballontes Logoi, che significa “discorsi ribaltanti”. Il termine “ribaltare” è un termine tecnico ripreso dall’arte della lotta olimpica. Significa colpire un avversario, metterlo in ginocchio per poi picchiarlo. Ma ciò non richiede alcuna filosofia. Non avete bisogno di conoscere la verità di una cosa; semmai, avete bisogno di conoscere tutti i trucchi dell’arte del combattimento, essere in grado di rispondere a ogni possibile obiezione e possedere le più raffinate e rapide tecniche di discussione.

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In this regard we can scarcely consider the intellectual movement introduced by the sophists as an integral370 part of the history of Greek philosophy371. The sophists were not a philosophical school or sect. They had no common doctrine; they were very much divided in their opinions and theories. But they had to fulfill the same social function372 in the development of Greek life and Greek culture. In order to give an unbiased historical judgement upon this social function – we must not rely upon the description that we find with their great opponents. Plato always speaks contemptuously of the sophists373 because they were paid teachers of science and philosophy. Even Aristotle describes the sophists as paid huntsmen of rich and distinguished young men. They wandered from one place to another, they374 spoke very ostentatiously of themselves and of their art; they exacted[,] and they received large fees. All this hurted the aristocratic feelings of Plato. It was, however, a necessary step in the development of Greek society. In order to judge it in the right way we must bear in mind that the Greek system of education was widely divergent from our modern system. The Greeks had neither public schools nor universities. The first instruction of a child was restricted to the house and family – and usually it was led in the hands of slaves. It is clear that by the rapid advance of learning and of scientific and philosophical interest this system became impossible. A new way of teaching became imperative. The sophists375 recognized this gap and they filled this gap. All the great treasures of knowledge that had been acquired by the common effort of philosophical and scientific thought were used by the sophists. But they used it for a new purpose; for the purpose of our daily practical life. For this they had to re-

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A tal proposito, difficilmente possiamo considerare il movimento intellettuale introdotto dai Sofisti come una parte integrante della storia della filosofia greca. I Sofisti non erano una scuola o una setta. Non avevano una dottrina comune; le loro opinioni e teorie erano piuttosto divergenti. Ma dovettero assolvere alla medesima funzione sociale nello sviluppo della vita e della cultura greca. Se intendiamo fornire un giudizio storico imparziale su questa funzione sociale, allora non dobbiamo appellarci alla descrizione rinvenibile nei loro grandi oppositori. Platone parla sempre con disprezzo dei Sofisti, poiché solevano insegnare filosofia e scienza dietro compenso. Anche Aristotele descrive i Sofisti come cacciatori stipendiati di giovani uomini ricchi e raffinati109. Essi vagavano da un posto all’altro, parlavano di sd stessi e della loro arte in maniera veramente ostentata; pretendevano e ricevevano lauti compensi. Tutto ciò feriva i sentimenti aristocratici di Platone. Tuttavia, fu un passo necessario nello sviluppo della società greca. Per poterlo giudicare in maniera corretta dobbiamo tenere a mente che il sistema educativo greco era ampiamente divergente dal nostro sistema moderno. I Greci non avevano né scuole pubbliche né università. La prima formazione di un ragazzo si limitava alla casa e alla famiglia, ed era di solito condotta per mano degli schiavi. È chiaro che, a causa del rapido progresso dell’apprendimento e dell’interesse filosofico e scientifico, questo sistema divenne impossibile. Un nuovo metodo di insegnamento si rivelò necessario. I Sofisti riconobbero questo divario e lo colmarono. Tutti i grandi tesori della conoscenza acquisiti dal comune sforzo del pensiero filosofico e scientifico vennero sfruttati dai Sofisti. Ma essi li utilizzarono per un nuovo scopo: per la nostra vita pratica quotidiana. Per

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place the former ideals of Greek philosophy – for all these ideals were speculative or contemplative, not practical ideals. I may illustrate this new tendency of intellectual culture by referring to a saying of Pythagoras. We are told that Pythagoras upheld the doctrine that there are three forms of life. [«]There are three kinds of man – said Pythagoras – just as there are three classes of strangers who come to the Olympic games. The lowest consists of those who come to buy and sell, and next above them are those who come to compete. But best of all are those who neither buy or sell nor compete in the Olympic games; who simply376 come ‘to look on the games’[»]. Men may be classified as lovers of wisdom, as lovers of honour and lovers of gain. But the first form of life, the theoretical and contemplative life, the life of meditation or speculation, has the highest rank in the hierarchy of values. That is the common, the classical view of all the great systems of Greek philosophy. Even Aristotle can conceive no higher ideal. When speaking of the divine life, of the life of God, Aristotle described it as a life of pure contemplation. The sophists deny and subvert377 this order. To be sure they call themselves philosophers – lovers of wisdom. But they refuse to be mere onlookers on the game they wish to play and to gain the victory over their adversaries. By this the former ideals undergo a very curious change. The philosophic ideals do not lose their power; but they are, as it were, turned into sportive ideals. Philosophy, rhetoric, reasoning and arguing – all this becomes a new sort of intellectual sport. All this is very characteristic for Greek

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tal motivo, essi dovettero rimpiazzare i precedenti ideali della filosofia greca, giacché tutti questi ideali erano di tipo speculativo o contemplativo e non pratico. Posso illustrarvi questa nuova tendenza della cultura intellettuale riportandovi un detto di Pitagora. Si racconta che Pitagora sostenne la teoria secondo cui vi sono tre forme di vita: «Ci sono tre tipi di uomini – diceva Pitagora – così come ci sono tre classi di stranieri che vengono alle Olimpiadi. Il tipo inferiore è costituito da coloro che vengono a comprare e vendere, e subito sopra di loro ci sono quelli che vengono a competere. Ma i migliori di tutti sono coloro che non comprano né vendono né partecipano ai giochi olimpici; coloro che vengono semplicemente “a guardare i giochi”»110. Gli uomini, pertanto, possono essere classificati come amanti della saggezza, amanti dell’onore e amanti del guadagno. Ma la prima forma di vita, la vita teoretica o contemplativa, una vita di meditazione e speculazione, occupa il vertice nella gerarchia dei valori. Questa è la concezione classica comune a tutti i grandi sistemi della filosofia greca. Anche Aristotele non poteva concepire un ideale più alto. Quando parlava di vita divina, della vita di Dio, la descriveva come una vita di pura contemplazione. I Sofisti negano e rovesciano questo ordine. Certo, si definivano filosofi, amanti della saggezza, ma rifiutavano di essere meri spettatori del gioco al quale desideravano giocare, e per tal ragione intendevano ottenere la vittoria sui loro avversari. Ma questi primi ideali subirono un mutamento piuttosto curioso. Gli ideali filosofici non persero la loro forza, ma, per così dire, si tramutarono in ideali sportivi. La filosofia, la retorica, il ragionamento e la discussione divennero una sorta di sport intellettuale. Tutto ciò è molto caratteristico per la vita greca. I Greci erano estrema-

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life. The Greeks were extremely fond of all sorts of games – you know what an important and decisive role the Olympic Games have played in Hellenic life. But since the beginning of the 5th century[,] we feel that the games that were played in Olympia were no longer the only ones that roused a general interest. The mere physical efforts were no longer regarded as obtaining the first rank. In this respect we find a curious and very characteristic remark in one of the fragments of Xenophanes – the founder of the Eleatic school. Xenophanes complains that philosophy among the Greeks is held in lower esteem than other things that, in fact, are much less valuable. He gives to this feeling a rather naïve expression: «If a man wins a victory in swiftness of foot – he says – or in the pentathlon (five games) at Olympia, or in wrestling, he becomes more glorious in the citizens’ eyes, and wins a place of honour[,] his food at the public cost from the state – he will nor deserve all this for the portion so much as I do. For better is our art than the strength of man and of horses. There are but thoughtless judgements378, nor it is fitting to set strength before goodly wisdom. Even if here there arise a mighty boxer among a people or one great at wrestling, or one excelling in swiftness of foot – the city would be none the better governed for that. It is but little joy a city gets of it if a man conquer at the games in Olympia; it is not this that makes fat the store-houses of a city[»]. That a city, for its glory and prosperity, needs other powers than all these physical or bodily talents became a general convinction in the cultural life of the 5th century. But even now the Greeks were still inclined to put the new intellectual forces side by side to physical forces. Sophia (Wisdom) itself became a sort of intellectual sport. If we read the first dialogues of Plato[,] we are surprised at the eminent role that this intellectual

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mente appassionati per ogni sorta di gioco – d’altra parte, voi conoscete bene il ruolo importante e decisivo che i giochi olimpici esercitarono nella vita ellenica. Ma sin dagli inizi del quinto secolo, ci accorgiamo che i giochi olimpici non erano più gli unici a destare l’interesse generale. I semplici sforzi fisici non occupavano più il vertice. A tal proposito, in uno dei frammenti di Senofane – il fondatore della Scuola eleatica – rinveniamo un’osservazione alquanto curiosa e caratteristica. Senofane si lamenta che la filosofia tra i Greci è purtroppo tenuta in bassa considerazione rispetto ad altre questioni, in realtà, molto meno importanti. Egli conferisce a questo sentimento un’espressione piuttosto naïf: «Se un uomo vince nella velocità del piede – dice Senofane – o nel pentathlon (cinque giochi) ad Olimpia, o nella lotta, diventa più glorioso agli occhi dei cittadini, e conquista un posto d’onore, il suo cibo a spese pubbliche dello stato – non meriterà tutto questo più di quanto lo meriti io. Perché la nostra arte è migliore della forza dell’uomo e dei cavalli. Ci sono solo giudizi sconsiderati, né è giusto anteporre la forza alla buona saggezza. Anche se sorgesse tra un popolo un pugile potente o un grande nella lotta, o uno eccellente nella rapidità del piede, la città non sarebbe per questo meglio governata. Non è che una piccola gioia per una città quando un uomo vince ai giochi di Olimpia; non è questo che fa ingrassare i magazzini di una città»111. Che una città, per la sua gloria e prosperità, avesse bisogno di altre forze oltre a tutti questi talenti fisici o corporei, divenne una convinzione generale nella vita culturale del quinto secolo. Ma ancora adesso i Greci erano inclini a porre le nuove forze intellettuali accanto alle forze fisiche. La stessa sophia (saggezza) divenne una sorta di sport intellettuale. Nel leggere i primi dialoghi di Platone restiamo sorpresi

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sport began to play in Athenian life. The arrival of a famous sophist always creates a great sensation. He is received in the same way as we nowadays receive a champion-boxer. We have a very vivid and impressive description of such a reception in the beginning of the Platonic dialogue “Protagoras”. In the early morning, Sokrates, lying379 in his bed, is suddenly awakened by Hippocrates380, one of his pupils. [«]Hast thou heard the great news? – asks the pupil – For heaven’s381 sake, replies Socrates, what evil tidings dost thou bring? God forbidden – says Hippocrates382 – ‘tis the best of all. He has come[.] Who? The great sophist of Abdera[»]. And then Hippocrates383 implores Socrates to put in a good word for him with the great sophist; that he might admit him in the […]384 of his disciples. Socrates gets up; and he and Hippocrates385 go to the house of Callias, a wealthy Athenian, where the guest from Abdera was lodging. There they found the greatest excitement. A crowd of people has come to see Protagoras, to listen to his discourses, to attend his discussions with Sokrates or other sophists386. The audience was enchanted; sometimes they broke into storms of applause; every new argument was heard with an387 indefatigable zeal and interest. That is the sort of Sophía388 – of wisdom that the Sophists gave to the Greeks – a wisdom not as a mere theoretical knowledge, but at the same time as a spectacle, a public show, a new intellectual sport. That is the general cultural, political, social background of the doctrine of the Sophists; but it is not the only important feature. We cannot deny that all their doctrines had also a philosophic background and a specific philosophic interest. We find this philosophical centre if we analyse the famous

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dal ruolo eminente che questo sport intellettuale giocò nella vita di Atene. L’arrivo di un nuovo sofista suscitava sempre una grande sensazione. Veniva accolto così come adesso noi accogliamo un campione di pugilato. Una descrizione piuttosto notevole e intensa di una simile accoglienza la si può rinvenire all’inizio del dialogo platonico Protagora. La mattina presto Socrate, ancora a letto, viene svegliato improvvisamente da Ippocrate, uno dei suoi allievi: «[Socrate,] hai sentito la grande notizia? – chiede l’allievo – Per amor del cielo, risponde Socrate, quali cattive notizie porti? Per gli dèi – dice Ippocrate – è il migliore di tutti. È venuto. Chi? Il grande sofista di Abdera»112. In seguito, Ippocrate implora Socrate di intercedere presso Protagora a suo favore, così che quest’ultimo possa ammetterlo nella cerchia dei suoi discepoli. Socrate, dunque, si alza dal letto e con Ippocrate si dirige verso la casa di Callia, un ateniese benestante, presso la cui casa Protagora alloggiava come ospite. Lì trovarono una grande agitazione. Una folla di gente era venuta per vedere Protagora, per ascoltare i suoi discorsi e le sue discussioni con Socrate o con altri Sofisti. Il pubblico era incantato; a volte rompevano il silenzio con qualche applauso e ogni nuovo argomento veniva ascoltato con infaticabile zelo e interesse. Questo era il tipo di Sophia, di saggezza, che i Sofisti fornirono ai Greci: una saggezza intesa non come conoscenza meramente teoretica, quanto invece come spettacolo pubblico, una sorta di nuovo sport intellettuale. Era proprio questo il generale retroterra culturale, politico e sociale della dottrina dei Sofisti, anche se non la sola caratteristica importante. Non possiamo negare che tutte le loro dottrine possedevano un retroterra filosofico e un interesse teoretico specifico. Troviamo questo centro filosofico se analizziamo il famoso detto di Pro-

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saying of Protagoras. «Man is the measure of all things, of those which are, that they are – of those which are not, that they are not». That is one of the best known and famous words of Greek philosophy – but at the same time it is a much controversial389 one. I cannot enter here into all the details of this controversy. Generally speaking[,] there are two possible interpretations of this maxim of Protagoras according to the meaning that we ascribe to the term “Man”. Man may be understood as the “universal” man as an equivalent to “mankind”. In this case the maxim of Protagoras would mean that human knowledge is depending on certain principles[,] on universal conditions, on maxims and rules and that it is for philosophy to discover, to establish and to prove these rules. This would by [no] means include a sceptical thesis; it would be very near to what, in modern philosophy, was called by Kant the “critical” point of view. On the other hand[,] we may interpret the term “man” in the saying of Protagoras in quite a different way. The measure of all things – we may say – is not man in general – but the individual man. It is for the individual mind to give a decision about truth and morality – and every individual man is entitled to use his own standards, to judge according to his individual theoretical and moral experience. That, of course, would be a much more radical thesis. That Protagoras understood his thesis in this radical sense is confirmed by the authority of Plato who in his dialogue “Theaetetus” interpreted and criticized the theses of Protagoras in this sense. But in our modern history of philosophy[,] it was objected that Plato cannot be regarded as a reliable source in this case. He was the stronger opponent of Protagoras and of all the other sophists – he could scarcely interpret their doctrine in the right way – what he gave – it was said – was

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tagora secondo cui «l’uomo è la misura di tutte le cose – di quelle che sono in quanto sono e di quelle che non sono in quanto non sono». Questo è uno dei più noti e celebri detti della filosofia greca, ma al tempo stesso uno dei più controversi. Purtroppo, non posso addentrarmi nella disamina di questa controversia ma, in generale, ci sono due possibili interpretazioni di questa massima di Protagora, a seconda del significato che attribuiamo al termine “uomo”. Lo si può infatti intendere come uomo “universale” e quindi come l’equivalente di “umanità”. In questo caso, la massima di Protagora afferma che la conoscenza umana poggia su alcuni princìpi, condizioni universali, massime e regole che la filosofia dovrà scoprire, stabilire e dimostrare. Ciò non implica in alcun modo una tesi scettica; in realtà essa è piuttosto vicina a ciò che in filosofia moderna Kant definì punto di vista “critico”. Per un altro verso, possiamo interpretare il termine “uomo” dell’affermazione protagorea in un modo del tutto differente. La misura di tutte le cose – potremmo dire – indica non tanto l’uomo in generale, ma piuttosto quello individuale. Spetta alla mente individuale decidere sulla verità e moralità e ogni individuo ha il diritto di adoperare i suoi propri criteri, di giudicare in base alla sua individuale esperienza teoretica e morale. Questa, ovviamente, è una tesi decisamente radicale. Che Protagora propendesse per questa seconda tesi ci viene confermato dall’autorità di Platone, il quale, nel suo dialogo Teeteto, interpreta e critica le tesi di Protagora proprio in questo senso. Ma la nostra storia della filosofia moderna ha obiettato che Platone non può essere considerato, in tal caso, come una fonte attendibile. Platone fu il più grande oppositore di Protagora e di tutti gli altri Sofisti; difficilmente avrebbe potuto interpretare le loro dottrine in maniera corretta. Difatti, si è sostenu-

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rather a caricature than an objective historical description of their fundamental views. But I do not think that this reproach is justified. It is true that whenever Plato attacked a philosophic theory[,] he always attacked it by the strongest weapons. If he strucks390 an adversary[,] he strucks391 him very vigorously, and he always found the most vulnerable point. But that does not mean that we have, in this case or in any other case, to suspect or to distrust the judgement of Plato. He knew his adversaries – and he spoke in good faith. I think, therefore, that there is no reason for rejecting the interpretation of Plato392 – the individualistic393 interpretation of the maxim, that “man is the measure of all things”. Plato himself explains this maxim by many concrete examples. The world of a man – says Protagoras – is the world of sense-perception. By no intellectual effort man can go beyond this boundary. What it is not revealed to him by any immediate sense-perception remains unknown to him and does not exist for him. In this sense man is the measure of all things that means of all empirical perceptibles objects. And there are no other, no “imperceptibles” things; there is no sphere of “Being” beyond the sphere of perception and perceptibility. Every new perception gives us a new reality; every change in the conditions of our sense-perception, the physiological and psychological conditions, changes at the same time our intuition of the real world. There are many possible causes of such a change. In the case of an illness our sense-organs are not in the same conditions as they were before. Of course[,] we may speak of normal and abnormal conditions. But in this case normality and abnormality do not coincide with truth or error. What we call the abnormal

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to113 che Platone fornì una descrizione caricaturale, piuttosto che storico-oggettiva delle loro concezioni fondamentali. Tuttavia, ritengo tale rimprovero ingiustificato. È vero che ogni qual volta Platone attaccava una teoria filosofica lo faceva ricorrendo alle armi più forti. Quando colpisce un avversario, lo fa nel modo più vigoroso e individuando sempre il punto più vulnerabile. Ma ciò non significa che, in questo caso o in un altro, si debba sospettare o diffidare del giudizio di Platone. Egli conosceva i suoi avversari e parlava in buona fede. Io penso, tuttavia, che non vi siano ragioni per rifiutare l’interpretazione di Platone, ossia l’interpretazione individualistica della massima secondo cui “l’uomo è la misura di tutte le cose”. Platone stesso spiega questa massima attraverso numerosi esempi concreti. Il mondo dell’uomo – dice Protagora – è il mondo della percezione sensibile. L’uomo non può superare questo ostacolo con nessuno sforzo intellettuale. Ciò che non si svela attraverso l’immediata esperienza sensibile gli rimane ignoto, e quindi per lui non esiste. In tal senso, il detto “l’uomo è la misura di tutte le cose” indica pertanto che le cose cui ci si riferisce sono gli oggetti empiricamente percepibili. Non esistono altre cose, non esistono cose “impercettibili”; non esiste alcuna sfera dell’“essere” al di là della sfera della percezione e della percettibilità. Ogni nuova percezione ci fornisce una nuova realtà; ogni mutamento nelle condizioni della nostra percezione sensibile, le condizioni fisiologiche e psicologiche, mutano, al tempo stesso, la nostra intuizione del mondo rea­le. Vi sono diverse possibili cause alla base di un mutamento del genere. Nel caso di una malattia i nostri organi sensoriali non si trovano più nelle medesime condizioni precedenti. Ovviamente, possiamo parlare di condizioni normali e anormali. Ma in questo caso la normalità e l’anorma-

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case is only the less usual case – and it is not by nature, but by convention394 that we ascribe to the more common and usual sense a higher “objectivity”, a higher value[,] and a higher truth. Even when suffering from a fever or any other illness we are not deceived by our senses; we see things as they “are”; but they are no longer as they were before, because what we call an object never has an absolute, independent existence but only exists by a cooperation of our sense-organs with the outward stimuli. The latter theory was not a new one in Greek philosophy – as you will remember it had been introduced in the philosophy of Empedokles. People who are suffering from jaundice – says Protagoras – see all things yellow; other people see them in other colours. But the yellow colour is in the first case no mere illusion or hallucination – it is the real color, that means that color that necessarily must appear in this special case – in the case of a sick man whose body is in this special state under these particular conditions. But if these conditions are “real”and if therefore we cannot deny them to be true – it does not follow that they are desirable. A man may very well wish to be freed from the special, unusual, “abnormal” conditions of his sense-organs and his sense-perception – and in this case he will apply to a physician who will cure him of his illness – that means who will bring his body into the normal state. In the same sense a sophist will by his teaching make men “better” than they were before. He cannot implant in their mind “true” judgements; he cannot show them the absolute reality of things; but he can give to a man a more desirable

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lità non coincidono con la verità o con l’errore. Ciò che noi chiamiamo “caso anormale” è soltanto un caso meno consueto, e non è per natura bensì per convenzione che attribuiamo al caso più consueto e comune una “oggettività” più alta, un valore più alto e un grado maggiore di verità. Anche quando soffriamo per via della febbre o per via di qualche altra malattia, non veniamo per questo illusi dai nostri sensi: noi vediamo le cose per quello che “sono”; ma esse non sono più quelle di prima, poiché ciò che chiamiamo “oggetto” non ha mai un’esistenza assoluta e indipendente, in quanto esso esiste soltanto grazie alla cooperazione tra gli organi sensoriali e gli stimoli esterni. Questa teoria non era di certo ignota alla filosofia greca; ricorderete, infatti, che essa era stata introdotta in filosofia da Empedocle. Le persone che soffrono di itterizia – afferma Protagora – vedono tutte le cose di colore giallo; altre persone le vedono invece di altri colori. Ma nel primo caso il colore giallo non è una mera illusione o allucinazione; esso è in realtà il colore reale, ossia il colore che in questo caso particolare doveva necessariamente apparire così – cioè nel caso di un uomo malato, il cui corpo si trova in uno stato particolare e sotto condizioni specifiche. Ma se tali condizioni sono “reali” e se quindi non possiamo negare loro il valore di verità, da ciò non consegue che esse siano per questo desiderabili. Un uomo può ben desiderare di liberarsi da queste condizioni particolari, inusuali e “anormali” dei suoi organi sensoriali e della sua percezione – e in tal caso si rivolgerà a un medico che curerà la sua malattia, ossia a colui che riporterà il suo corpo a uno stato normale. Analogamente, un sofista, attraverso il suo insegnamento, renderà un uomo “migliore” di quanto non fosse prima. Non può innestare nelle menti giudizi “veri”, non può mostrare loro la realtà assoluta delle cose, ma può

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state of mind – both for himself and for the common weal, for the sake of society. The thesis of Protagoras that man is the measure of all things is, therefore, no sceptical thesis. It is not directed against what we call the empirical truth of things. But it restricts this truth to the phenomena of sense-experience, to the sphere of human perception. In this regard Protagoras must be regarded as the founder of that theory of knowledge that later on, in modern philosophy, has been maintained by Berkeley or Hume. He is a “sensationalist”, not a sceptic. That is confirmed by another testimony about the philosophy of Protagoras. It regards a problem of Mathematics and contains an attack against the usual method of treating mathematical questions. He denied the doctrine that the tangent touches the circle only at one point. There must be a stretch of a certain magnitude for which the line and the circle are in contact (Aristotle395, Metaphys. B 2, 998a). It is interesting that we find quite the same conception in modern sensationalism – for instance in Hume’s396 “Treatise on human nature”. The so-called397 “points” or “lines” of which the Geometer speaks and about which he formulates his propositions have no reality and no truth. For “reality” and “truth” are bound up with the conditions of sense-perception; and neither these points nor these lines are perceptibles. They belong to a “conceptual” [world] and that means for Protagoras to an imaginary world. That was a challenge directed both against Greek science and Greek philosophy. For not only the mathematical but also the physical theories of the Pre-Socratics were founded on the assumption of imperceptible elements. We found this assumption of Protagoras in

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fornire a un uomo uno stato mentale più desiderabile, sia per se stesso, sia per il benessere comune e per il bene della società. La tesi protagorea secondo cui l’uomo è la misura di tutte le cose, tuttavia, non è affatto una tesi scettica. Essa non è diretta contro ciò che chiamiamo verità empirica delle cose, ma restringe questa verità ai fenomeni della nostra esperienza percettiva, alla sfera della percezione umana. Da questo punto di vista, possiamo annoverare Protagora tra i fondatori di quella teoria della conoscenza che, successivamente, nella filosofia moderna è stata sostenuta da Hume e Berkeley. Egli è un “sensista”, non uno scettico. Questo ci viene confermato da un’altra testimonianza sulla filosofia di Protagora. Essa riguarda un problema matematico e contiene un attacco diretto contro il consueto metodo di trattare le questioni matematiche. Protagora negava la dottrina secondo cui la tangente tocca il cerchio soltanto in un punto. Deve esservi un tratto di una certa grandezza in cui la linea e il cerchio sono in contatto (Aristotele, Metafisica, libro terzo, 998a)114. La cosa interessante è che troviamo quasi la medesima concezione nel sensismo moderno, ad esempio nel Trattato sulla natura umana di Hume115. I cosiddetti “punti” o “linee”, di cui parla lo studioso di geometria e con cui formula le sue proposizioni, non hanno alcuna realtà e verità, giacché “realtà” e “verità” sono legate alle condizioni della percezione sensibile e né questi punti né queste linee sono percepibili. Essi appartengono al mondo “concettuale”, che per Protagora non indica altro che un mondo immaginario. Questa era una sfida indirizzata contro la scienza greca e contro la filosofia greca. Infatti, per i presocratici non soltanto le teorie matematiche ma anche le teorie fisiche poggiavano sul presupposto di elementi impercettibili. Abbiamo

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the theories of Anaxagoras, of Leukippos and Demokritos. If the theses398 of Protagoras were true – it would mean the destruction of Greek Mathematics and Greek natural philosophy. It was this danger that was clearly felt by Plato – and that convinced Plato of the necessity to find an entirely new approach to the general theory of knowledge.

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trovato questo presupposto di Protagora nelle teorie di Anassagora, di Leucippo e Democrito. Se le tesi di Protagora fossero vere, ciò comporterebbe la distruzione della matematica greca e della filosofia naturale greca. Fu Platone ad avvertire con chiarezza questo pericolo, e si convinse della necessità di trovare un approccio totalmente nuovo a una teoria generale della conoscenza.

[chapter vii] SOKRATES399 To speak about Sokrates is very easy and very difficult. It is easy – for, if from the Presocratic thinkers we come to S[okrates] – we suddenly feel to be on firm ground. What do we know of the Presocratic thinkers? We know some of their principal doctrines and we can clearly distinguish their fundamental principles. But men themselves who created these principles, the single thinkers, their life, their personalities – all this remains, so to speak, in a clair-obscur; we seem to see it only in the dusk. The life of Pythagoras or Empedokles is full of legendary traits. Of Parmenides, Anaxagoras, Demokritos we have a clear and definite image – but they belong to a remote past. But if we approach to Sokrates – the scene suddenly changes. With him we seem to [be] entirely at home. Everyone who ever read a Platonic dialogue knows Sokrates. He has not only a general impression of his philosophy – he knows the man himself. He sees him before his eyes400. We do not only know his way of thinking, his [way of] arguing and reasoning; we know his whole behaviour, his manners, his physiognomy. We know innumerable and unforgettable features of his life, we know his trial and his death. There is no other figure of ancient philosophy – perhaps no other figure in the whole history of philosophy – with which we are so familiar. But if we wish to give a definite judgement about the doctrine401 of Socrates, we feel at once the greatest difficulties. What are we to say about the doctrine of a thinker who always emphatically declared to possess no doctrine – who, over and over again,

cap. vii

SOCRATE Parlare di Socrate è molto facile e molto difficile. È facile perché se dai pensatori presocratici giungiamo a Socrate, improvvisamente ci sembra di sostare su un terreno saldo. Cosa sappiamo dei pensatori presocratici? Conosciamo alcune delle loro principali dottrine e possiamo distinguere chiaramente i loro princìpi fondamentali. Ma coloro i quali crearono questi princìpi, i singoli pensatori, le loro vite e le loro personalità – tutto ciò rimane, per così dire, in chiaro-scuro, ci sembra di poterlo osservare soltanto al crepuscolo. La vita di Pitagora o di Empedocle è colma di tratti leggendari. Di Parmenide, di Anassagora, di Democrito possediamo un’immagine chiara e precisa, ma appartengono a un remoto passato. Ma quando ci approcciamo a Socrate lo scenario muta improvvisamente. Con lui ci sentiamo come a casa nostra. Chiunque abbia letto i dialoghi di Platone conosce Socrate. Platone non ha soltanto un’impressione generale della sua filosofia – conosce l’uomo stesso. Lo ha davanti gli occhi, sente la sua voce. Non conosciamo solamente il suo modo di pensare, discutere e ragionare; conosciamo il suo intero comportamento, le sue maniere, la sua fisionomia. Sappiamo di innumerevoli e indimenticabili caratteristiche della sua vita, ne conosciamo il processo e la morte. Non vi è nessun’altra figura nella filosofia antica – e forse nell’intera storia della filosofia – che ci sia così familiare. Ma se desideriamo fornire un giudizio definitivo sulla dottrina di Socrate, avvertiamo subito le più grandi difficoltà. Cosa possiamo dire sulla dottrina di un pensatore che ha sempre dichia-

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professed his ignorance? If I read a book about Sokrates – and there are innumerable books that treat his life, his personality, his philosophy – I always have a curious feeling. I have the impression as if Sokrates himself were looking over my shoulder – with his well-known ironical smile. If Socrates had thought that his philosophy could be expressed by books – why didn’t he write a book himself? Why do we not possess a single line of him? Was this only an accidental trait – was it an idiosyncrasy402 in Sokrates like so many other idiosyncrasies403 with which we are well acquainted? I think that such a judgement404 would be rather superficial. There is something in the life, in the personality, in the philosophy of Sokrates that is inexpressible by books – that resists every attempt of a literary or a merely historical description. For an historian of philosophy there is perhaps no more intricate and more puzzling problem than the problem of Sokrates. And Sokrates is not only full of riddles from the point of view of the historian. He was a riddle to his own contemporaries. Even his nearest friends and pupils described him as one of the strangest and most paradoxical human being405. Everyone knew him – but nobody was sure to know his nature, his true face. His disciples did not regard him as a mere teacher, they felt to be under a spell406 of a sorcerer. If you have read the great speech of Alkibiades, at the end of the Symposium, you know this sort of fascination that S[okrates] exerted upon the youth of Athens. In this speech Alkibiades compares him with the figures of Silenos that are made with pipes or flutes in their hands, with the satyr

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rato, con enfasi, di non possedere alcuna dottrina e che professava continuamente la propria ignoranza? Nel leggere un libro su Socrate – e ve ne sono innumerevoli che trattano la sua vita, la sua personalità, la sua filosofia – provo sempre un sentimento curioso. Ho sempre l’impressione che Socrate stesso mi stia osservando, sulla mia spalla, col suo ben noto sorriso ironico. Se Socrate avesse pensato di poter esprimere la sua filosofia tramite i libri, come mai egli stesso non ha scritto neanche un libro? Perché non possediamo nemmeno una riga di Socrate? Ciò era forse dovuto a ragioni accidentali, era soltanto un’idiosincrasia di Socrate – o una delle tante altre alle quali siamo abituati? Penso che un giudizio del genere sarebbe piuttosto superficiale. Vi è qualcosa nella vita, nella personalità, nella filosofia di Socrate che non può essere espressa tramite i libri e che resiste a ogni tentativo di descrizione letteraria o meramente storica. Per uno storico della filosofia non esiste alcun problema che sia più intricato e più enigmatico del problema di Socrate. E Socrate non è un personaggio pieno di enigmi soltanto per uno storico, poiché lo era anche per i suoi contemporanei. Anche i suoi amici più stretti e i suoi allievi lo descrissero come l’essere umano più strano e paradossale. Chiunque lo conosceva, ma nessuno era sicuro di aver compreso la sua natura, il suo autentico volto. I suoi discepoli non lo consideravano un semplice maestro, in quanto si sentivano come sotto l’incantesimo di uno stregone. Se avete letto il grande discorso di Alcibiade, alla fine del Simposio, allora conoscete questa sorta di fascino che Socrate esercitava sulla gioventù di Atene. In questo discorso Alcibiade lo paragona alle figure di Sileno – costrui­ te con zampogne e flauti in mano – e al satiro Mar-

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Marsyas[,] queer and even ugly in their outward appearances, but with images of the gods inside them. «If you don’t admit it – says Alk[ibiades] – I shall call witnesses. Ay, and aren’t you a piper? A far more wonderful than he was! He only charmed by his instruments; you beat him because you produce the very same effect by words alone without any instrument. When we hear anyone else speak, even a very good speaker, none of us care a bit; but when everyone hears you or anyone else repeating your words; even if the speaker is an indifferent one407 we are all confounded and inspired». Inspiration and confusion – that is the first impression made by Sokrates upon all those who listen to his words. «Before I met you – says Meno in Plato’s dialogue – I was told you did nothing but confuse yourself and make other people confused. And now I really think you are just bewitching me and casting spells and enchantments over me, so that I am full of confusion. I think, if I may be allowed the jest, you have a very strong resemblance, not only in figure but also in other respects, to the torpedo-fish. It benumbs408 anyone who comes near it and touches it, and that is just what you have don to me. Both my soul and my lips are literally409 benumbed and I don’t know what answer give to you» (Plato410, Meno 79e). In order to understand Sokrates we have, indeed, to change our usual methods of historical interpretation. We cannot begin with a description of his doctrine – with the contents411 of his thought. Sokrates never meant to give us a philosophical system; in a certain sense he would have denied the possibility of such a system. If you study a book

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sia, bizzarri e persino sgradevoli nelle loro sembianze esterne, ma nondimeno con le immagini degli dèi al loro interno: «Se non lo ammetti – dice Alcibiade – chiamerò dei testimoni. Sì, e non sei forse un suonatore di flauto? Molto più meraviglioso di [Marsia]! Lui affascinava soltanto con i suoi strumenti; tu lo batti perché produci lo stesso effetto con le sole parole, senza alcuno strumento. Quando sentiamo parlare qualcun altro, anche un ottimo oratore, a nessuno di noi importa neanche un po’; ma quando tutti sentono te o chiunque altro ripetere le tue parole, anche se l’oratore è di scarso valore, siamo tutti confusi e ispirati»116. Ispirazione e confusione costituivano pertanto la prima impressione che Socrate esercitava sui suoi uditori: «Prima di conoscerti – dice Menone nel dialogo di Platone – mi è stato detto che non facevi altro che confondere te stesso e confondere gli altri. E ora penso davvero che tu mi stia solo stregando e lanciando malie e incantesimi su di me, così che sono pieno di confusione. Penso, se posso permettermi la battuta, che tu abbia una fortissima somiglianza, non solo nella figura ma anche sotto altri aspetti, con la torpedine. Essa intorpidisce chiunque si avvicini e la tocchi, ed è proprio quello che mi hai donato. Sia la mia anima sia le mie labbra sono letteralmente intorpidite e non so che risposta darti» (Platone, Menone, 79e)117. Per comprendere la figura di Socrate dobbiamo pertanto mutare i nostri consueti metodi di interpretazione storica. Non possiamo prendere le mosse da una descrizione della sua dottrina, dal contenuto del suo pensiero. Socrate non ha mai inteso fornirci un sistema filosofico; in un certo senso, avrebbe negato la possibilità stessa di un tale sistema. Se studiate un libro come quello ben noto

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like the well-known412 book of Burnet413 “Greek Philosophy from Thales to Plato” you will find there a whole chapter entitled “the Philosophy of Sokrates”. In this chapter there are ascribed to Sokrates a great many metaphysical theories: a theory of “the forms” – that means what is called by Plato a theory of ideas, a theory of reminiscence, a general theory of knowledge. Socrates appears here as a metaphysician like Plato or Aristotle and as one of the founders of metaphysics. But we have not the slightest conclusive evidence that Sokrates ever upheld and defended those theories that are ascribed to him. All the evidence to which Burnet refers is taken from the dialogues of Plato414; and we have the strongest historical and systematical reasons to assume that nobody except Plato was the real author of these doctrines. All of them show us the stamp of the Platonic mind; they presuppose the fundamental principles of Plato’s theory of Mathematics, of Plato’s general theory of knowledge, of his moral and religious ideas. If Sokrates had professed these views and if he had taught his pupils these doctrines that contain very positive and clear assertions about the most difficult metaphysical questions – he could not have spoken of himself as an agnostic. If you have read the Apology of Socrates you know that he remained faithful to this agnosticism even with the regard to the problem of the immortality of the soul. Even here he does not venture to give a definite judgement or to make a dogmatic assertion415, he declares his ignorance, he upholds the maxim “I know that I do not know”. But if this be true – how can we speak of Sokrates not only as a philosopher, but also as one of the greatest and most influential teachers of philosophical thought? The an-

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di Burnet, dal titolo La filosofia greca da Talete a Platone, troverete al suo interno un capitolo intitolato “La filosofia di Socrate”. In questo capitolo vengono attri­buite a Socrate una gran quantità di teorie metafisiche: una teoria della “forma” – quella che Platone chiamava teoria delle idee – una teoria della reminiscenza, una teoria generale della conoscenza. Socrate viene presentato come un metafisico alla stessa stregua di Platone e Aristotele e come uno dei fondatori della metafisica. Ma non abbiamo la minima prova definitiva che Socrate abbia mai sostenuto e difeso le teorie a lui attribuite. Tutte le prove alle quali fa riferimento Burnet vengono riprese dai dialoghi di Platone e abbiamo le più forti ragioni storiche e sistematiche per affermare che nessuno, a eccezione di Platone, fu il vero autore di queste dottrine. Queste ultime ci mostrano infatti il sigillo della mente platonica: presuppongono i princìpi fondamentali della teoria della matematica di Platone, la platonica teoria generale della conoscenza, le sue idee religiose e morali. Se Socrate avesse realmente professato queste concezioni e se avesse insegnato ai suoi allievi queste dottrine contenenti asserzioni chiare e positive circa le più difficili questioni metafisiche, allora egli non avrebbe di certo definito se stesso un agnostico. Voi sapete, se avete letto l’Apologia di Socrate, che rimase sempre fedele a questo agnosticismo, anche rispetto al problema dell’immortalità dell’anima. Anche in questo caso non si azzarda a fornire un giudizio determinato o a fare asserzioni dogmatiche; egli dichiara la sua ignoranza e sostiene la massima “Io so di non sapere”. Ma se questo è vero, allora come possiamo continuare a considerare Socrate non soltanto un filosofo, ma anche uno dei più grandi e influenti maestri del pensiero

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swer to this question is that what Sokrates established was not a new philosophical system. What he discovered was on the one hand a new problem416 – on the other hand a new method417. The problem discovered by Sokrates may be shortly described as the problem of man. But that needs an explanation and a nicer distinction. For even Presocratic thought had never overlooked this problem. It was not exclusively a physical thought – it was directed to ethical problems. Of Demokritos, for instance, the founder of the atomistic system, we possess a great number of fragments which in an excellet way and in an admirable style treat the most profound problems of ethical life, of human conduct. Nevertheless[,] Cicero was right to glorify Sokrates as the first founder of a really human418 philosophy. As he says Sokrates made philosophy descend from the heavens to the earth. Sokrates was no longer engaged like all the former Greek philosophers of nature – like Thales, Herakleitos, Empedokles, Anaxagoras, Demokritos – in cosmological, in physical or astronomical problems. The only problem that he thinks to be worthy of the thought of a philosophy is the problem of man. In one of the Platonic dialogues this new interest is expressed in a very clear and striking way. Here Sokrates is described as engaged in a conversation with Phaidros, one of his pupils. They are walking; and after a short time[,] they come to a place outside the doors of Athens. Sokrates burst into admiration for the beauty of the place; he is delighted with the landscape and praises it very vividly. But Phaidros interrupts him. «I always wonder at you – he says – for when you are in the country you really behave like a stranger who is being led about by a guide. Do you ever cross the border?

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filosofico? La risposta a questa questione sta nel fatto che Socrate non volle fondare un nuovo sistema filosofico. Ciò che scoprì era, da un lato, un nuovo problema e, dall’altro, un nuovo metodo. Il problema scoperto da Socrate lo si può descrivere brevemente come il problema dell’uomo. Ma ciò richiede una spiegazione, come anche una distinzione più raffinata. Difatti, anche il pensiero presocratico non ha mai trascurato questo problema. Esso non era esclusivamente un pensiero fisico, giacché era diretto anche a problemi di natura etica. Ad esempio, di Democrito – il fondatore del sistema atomistico – noi possediamo un gran numero di frammenti i quali, in modo eccellente e con uno stile ammirevole, affrontano i più profondi problemi della vita etica e della condotta umana. Cionondimeno, Cicerone aveva ragione nel considerare Socrate come il fondatore di una filosofia propriamente umana. Secondo Cicerone, fu infatti Socrate ad aver fatto scendere la filosofia dal cielo alla terra118. Socrate, a differenza dei primi filosofi della natura come Talete, Eraclito, Empedocle, Anassagora e Democrito, non era più impegnato in problemi cosmologici, fisici o astronomici. Il solo problema che gli sembrava degno di pensiero era il problema dell’uomo. In uno dei dialoghi platonici, questo nuovo interesse viene espresso in modo abbastanza chiaro e suggestivo. Qui Socrate viene descritto come impegnato in una conversazione con Fedro, uno dei suoi allievi. Stanno passeggiando e dopo un po’ di tempo giungono in un posto fuori dalle mura di Atene. Socrate resta ammirato dalla bellezza del luogo ed è così contento del paesaggio da elogiarlo intensamente. Ma Fedro lo interrompe: «Mi meraviglio sempre di te – dice – perché quando sei in campagna ti comporti davvero come uno straniero portato in giro da una guida. Passi mai il confine? Penso piut-

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I rather think that you never venture even outside the gates. Very true my friend – replies Sokrates – and I hope that you will excuse me when you hear the reason – which is that I am a lover of knowledge – and the men who dwell in the city are my teachers, and not the trees or the country» (Plato, Phaidros 230). The men, not the natural, the physical things have become the teachers of Sokrates. When the Presocratic thinkers were speaking about man, they always conceived him as a part of nature. We cannot separate man from nature – both must be explained according to the same general principles. For the microcosm – the universe of man – is an image of the macrocosm; the minor world reflects the larger world and is a mirror of the larger world. We found this thought in nearly all the Presocratic thinkers – in Herakleitos, in Empedokles, in Demokritos. Herakleitos has a theory of the human soul, according to which the human soul consists of a special element, of the element of fire. If this element is corrupted or mixed up with other elements of an opposite nature – it means decay or death for the human soul. «It is death to souls to become water[»] – says Herakleitos – or «the dry soul, the fiery soul, is the wisest and the best». An even more elaborate theory of the correspondence between the microcosm and the macrocosm419, of the correspondence between the physical world and the human world is to be found in Empedokles. Here we are told that man knows420 every element of the outer world by the corresponding element in himself. «It is with earth that we see Earth, and Water with water; by air we see bright fire, by fire destroying Fire. By love do we see Love and Hate by grievous hate». In the atomistic theory even the soul is said to be an atomistic structure – but it is composed of the nicest and subtlest atoms. But all these speculations have

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tosto che non ti avventuri mai nemmeno fuori le mura. Verissimo amico mio – risponde Socrate – e spero che mi scuserai quando sentirai il motivo – che è che sono un amante della conoscenza – e i miei maestri sono gli uomini che abitano la città, non gli alberi o la nazione»119. Gli uomini, non le cose naturali, fisiche, sono diventati i maestri di Socrate. I pensatori presocratici, invece, quando parlavano dell’uomo, lo concepivano sempre come facente parte della natura. Non possiamo separare l’uomo dalla natura – entrambi vanno spiegati sulla base dei medesimi princìpi generali. Infatti il microcosmo – l’universo dell’uomo – è un’immagine del macrocosmo; il mondo più piccolo riflette quello più grande ed è il suo specchio. Troviamo questo pensiero in quasi tutti i pensatori presocratici come Eraclito, Empedocle e Democrito. Secondo la teoria dell’anima di Eraclito, quest’ultima consisterebbe di un elemento particolare, l’elemento del fuoco. Se questo elemento dovesse corrompersi o mescolarsi con altri elementi di opposta natura, ciò implicherebbe il decadimento e la morte dell’anima umana. È letale per le anime diventare acqua, dice Eraclito, poiché «l’anima asciutta, l’anima ardente, è la più sapiente e la più migliore»120. Una teoria ancora più elaborata della corrispondenza tra microcosmo e macrocosmo è presente in Empedocle. Qui ci viene detto che l’uomo conosce ogni elemento del mondo esterno dall’elemento corrispondente in se stesso: «Con la Terra vediamo la terra, e l’Acqua con l’acqua, con l’Aria vediamo fuoco brillante, con il fuoco il Fuoco distruttore. Con l’amore vediamo l’Amore, e l’Odio con l’odio funesto»121. Nella teoria atomistica anche l’anima veniva considerata come caratterizzata da una struttura atomica, anche se composta da atomi più piccoli e sottili. A ogni modo, tutte queste speculazioni hanno perso il loro interesse per So-

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lost their interest for Sokrates. He does not start from the similarity between nature and man; he insists on the specific difference. He wishes to arouse the question about this specific421 difference – about the characteristic privilege422 that man has over nature and over all physical things. Is there any such privilege – and in which way we may describe it? In which way does human423 behaviour differ from those actions and reactions that we find everywhere in the physical world? What is the characteristic mark that distinguishes the deeds and the works of man from the effects of nature? To this question we may answer by one word – by the word424 “consciousness”425. Man is a “conscious”426 being. But in order to grasp the meaning of Sokrates and in order to give full justice to his thought – we must understand the term “consciousness” in a special sense. If we moderns speak of “conscious” or “unconscious” acts – we are immediately involved in a special psychological terminology. We speak of “consciousness” in terms of psychology – and even of psychoanalysis. But Sokrates was very far from this modern views. His maxim was the devise written on the door of the temple in Delhpi – the devise “Know thyself”! But what he strived at was not a psychological knowledge of man – it was an ethical knowledge. He was no psychologist[,] let alone a psycho-analyst – he was a moralist. According to him the precept “Know thyself” is, therefore, not to be satisfied by a mere introspective method – by the usual means of psychological observation. It implies a moral demand. All this is expressed in one of the most obscure and difficult words of Sokrates – in his saying that “Virtue is knowledge”427. What does that mean? In which way we can identify “virtue” and “knowledge”? Do they belong to entirely different spheres?

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crate. Egli non prende le mosse dalla similarità tra natura e uomo, insiste sulla loro differenza specifica. Desidera risvegliare la questione circa questa differenza specifica, circa il privilegio caratteristico che l’uomo ha sulla natura e su tutte le cose fisiche. Esiste un tale privilegio? E se sì, come spiegarlo? In che modo il comportamento umano diverge dalle azioni e reazioni che rinveniamo ovunque nel mondo fisico? Qual è il tratto caratteristico che distingue le azioni e le opere dell’uomo dagli effetti della natura? A questa questione possiamo rispondere soltanto con una parola: “coscienza”. L’uomo è un essere “cosciente”. Ma per afferrare il significato di Socrate e per rendere piena giustizia al suo pensiero, dobbiamo intendere il termine “coscienza” in un senso particolare. Quando noi moderni parliamo di atti “coscienti” e “inconsci”, ci imbattiamo immediatamente in una particolare terminologia psicologica. Parliamo infatti di “coscienza” in termini di psicologia o addirittura di psico-analisi. Ma Socrate era ben lungi dalle nostre concezioni moderne. La sua massima altro non era se non l’esortazione scritta sul frontone del tempio di Delfi: “conosci te stesso”. Ma ciò a cui aspirava non era una conoscenza psicologica dell’uomo, bensì una conoscenza etica. Egli non era uno psicologo e men che mai uno psico-analista; era un moralista. Secondo Socrate, il precetto “conosci te stesso” non viene, tuttavia, soddisfatto da un metodo meramente introspettivo, attraverso i consueti mezzi dell’osservazione psicologica. Il precetto implica una esigenza morale. Tutto ciò trova espressione in una delle più oscure e difficili affermazioni di Socrate, vale a dire “la virtù è conoscenza”. Cosa significa? In che modo possiamo identificare “virtù” e “conoscenza”? Appartengono forse a due sfe-

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Virtue belongs to the sphere of human actions – knowledge to the sphere of human thought. In one case we have to use a practical standard – in the other case a theoretical standard. But Sokrates denies this difference. He declares that a man who has won the true insight428 into the nature of the good never will act in a wrong way. «No man errs of his own free will» – says Sokrates. He who knows what is right will always do what is right. Our moral failures are intellectual failures; they do not originate in any fundamental deficiency or in any perversity of our will – but in a defect of our understanding and our judgment. “Judgment” is the highest moral power in man; who has won a clear, firm, and imperturbable judgment of “good” and “evil” needs no other power, to do the right thing. That seems a great paradox to us – in the same sense as it appeared to be a paradox for every contemporary of Sokrates, for a citizen of Athens in the 5th century. At first sight the theory of Sokrates may be thought to be a mere dialectical theory – as a subject-matter for an interesting logical discussion. In this case it would be nothing but a nice theoretical problem that could be decided in different ways. Which decision we may choose – the thesis itself seems to have no practical bearings and no important practical consequences. But the pupils of Sokrates and his fellow-citizens did not understand his thesis in this way. They were either enchanted by it or they were shocked by it. SoKrates’ new definition of “Virtue”, of Areté” became the stumbling-block for all his adversaries – in a certain sense we may even say that is was this point that finally led to the trial and condemnation of Sokrates. How was this possible? In the history of Ethics

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re interamente differenti? La virtù appartiene alla sfera delle azioni umane, mentre la conoscenza alla sfera del pensiero umano. In un caso dobbiamo utilizzare criteri pratici, nell’altro un criterio teoretico. Ma Socrate nega proprio questa differenza. Egli afferma che un uomo che è riuscito a giungere a una autentica intuizione del bene non agirà mai in modo errato. Dice infatti Socrate che «nessun uomo erra deliberatamente»122. Colui che sa cosa è giusto agirà sempre in maniera giusta. I nostri fallimenti morali sono fallimenti intellettuali; essi non derivano da una inadeguatezza fondamentale o da una perversione della nostra volontà, bensì da un difetto del nostro intelletto e del nostro giudizio. Il “giudizio”, nell’uomo, è il più alto potere morale; d’altronde, chi possiede un giudizio chiaro, stabile e impertubabile sia del “bene” sia del “male”, non necessita di alcun altro potere per fare la cosa giusta. Questo, in effetti, ci sembra un grande paradosso e dovette apparire tale anche a tutti i contemporanei di Socrate, i cittadini dell’Atene del quinto secolo. A prima vista, la teoria di Socrate la si può intendere come una teoria dialettica, come un interessante oggetto di discussione logica. In tal caso, non sarebbe altro che un bel problema teoretico risolvibile in diversi modi. Qualunque sia la decisione presa, la tesi in se stessa sembra non aver alcuna rilevanza pratica e alcuna importante conseguenza pratica. Ma gli allievi di Socrate e i suoi concittadini non compresero le sue tesi in questo modo. Essi ne venivano incantati o scioccati. La nuova definizione socratica di “virtù”, di areté, divenne un vero e proprio rompicapo per tutti i suoi avversari; in un certo senso, possiamo addirittura affermare che essa fu il motivo principale del processo e della condanna di Socrate. Come fu possibile tutto ciò? Nella storia dell’etica Socrate introduce un

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Sokrates introduces a new principle. He is one of the first and the most determinate champions of what we designate429 by the name of “intellectualism” or “rationalism”. He thinks that “reason” is the fundamental moral power in man – that without cultivating this power man cannot attain his moral end. We may object to this intellectualism; we may think it to be a one-sided conception of human nature. But we can describe it as a dangerous and even subversive principle. Can we think of Sokrates as a man who corrupted the Athenian youth by destroying all the foundations of the social and religious order?430 We find that even the most radical modern thinkers often subscribed this judgment. For many centuries Sokrates was regarded as a martyr. In Christian times he was often put side by side to the Christian saints. Even in the beginning of the modern ages this judgment still prevails. Sancte Socrates, ora pro nobis431 – Saint Sokrates, pray for us – says Erasmus of Rotterdam in one of his writings. But in the 19th century we meet with a sudden change. In his judgement about the trial of Sokrates Nietzsche openly takes sides with the judges that condemned Sokrates to death. He declares that he was guilty of the crime of which he was accused. He was not the consummation of Greek thought, he undermined the very foundation of Greek culture. To my mind such a judgment is absurd; but we need not enter into this question. What we wish to know is wherein the real innovation of Sokrates consists [of]. What was new, what was revolutionary in his thought? To answer this question[,] we may go back to the Sophists. The thought of Sokrates was always in danger of being mixed up with the thought of the Sophists. One of the greatest Greek poets is responsible for

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nuovo principio. Egli è uno dei primi e più determinati campioni di ciò che designiamo col termine di “intellettualismo” o “razionalismo”. Riteneva che la “ragione” fosse il potere morale fondamentale dell’uomo e che senza il suo alimento l’uomo non sarebbe mai stato in grado di raggiungere il suo fine morale. Possiamo anche opporci a questo “intellettualismo”; possiamo anche considerarlo come una concezione unilaterale della natura umana. Ma possiamo veramente attribuirgli un principio pericoloso e realmente sovversivo? Possiamo affettivamente considerare Socrate un corruttore della gioventù ateniese e reo di aver distrutto tutti i fondamenti dell’ordine sociale e religioso? In effetti, anche i più radicali pensatori moderni hanno spesso sottoscritto questo giudizio. Per molti secoli Socrate è stato visto come un martire. Nell’epoca cristiana spesso veniva accostato ai santi cristiani. Questo giudizio prevalse anche agli inizi dell’età moderna. “Sancte Socrates, ora pro nobis” (Santo Socrate, prega per noi), dice Erasmo da Rotterdam in uno dei suoi scritti123. Ma nel diciannovesimo secolo assistiamo a un mutamento di rotta. In un suo giudizio sul processo di Socrate, Nietzsche prende le parti dei giudici che misero a morte Socrate. Dichiara Socrate colpevole dei crimini che gli venivano imputati. Socrate non rappresentava il compimento del pensiero greco, aveva in realtà minato le fondamenta della cultura greca. A mio parere, un simile giudizio è del tutto assurdo, ma non c’è bisogno di entrare nei dettagli. Ciò che intendiamo sapere è in cosa consiste l’autentica novità di Socrate. Cosa c’era di nuovo e di rivoluzionario nel suo pensiero? Per rispondere a questa domanda dobbiamo ritornare ai Sofisti. Il pensiero di Socrate ha sempre corso il rischio di essere confuso con quello dei Sofisti. Il responsabile di una simile confusione è uno dei più grandi poeti greci. Chi

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such a confusion. Those of you who have read the “Clouds” of Aristophanes know in which way Sokrates is ridiculed. He is described as a student of natural science – who is interested in the things in the heavens and the things beneath the earth; he is accused of teaching his pupils to make the weaker argument the stronger. That is, of course, nothing but a comical caricature of Sokrates. But how could a great poet, a genius like Aristophanes, who in the dialogues of Plato even is described as a personal friend of Sokrates, even give such a caricature? Aristophanes was a very conservative man – and it was his conservatism that reacted against the new principles introduced and maintained by Sokrates. He felt the whole power of this principle and he combated this power. What was “virtue”432 before the times of Sokrates and in which way was it explained? We may remember here the definitions of virtue, of Areté, given by the sophists. Every man, every social group or class, every profession – it was said – has a “virtue”, an Areté of his own. The virtue of a man is not the same as that of a woman – the virtue of the slave is of another kind as the virtue of a free man. The virtue of a warrior is not the same as the virtue of an artisan or a tradesman. For virtue, Areté, means efficiency; and the efficiency of man depends on his understanding his own business. If a man has the capacity to perform his task in the state or huma society – he has all the “Areté”, all the virtue, he needs. Of course[,] that is not denied by Sokrates. But what he demands is much more. Sokrates makes a fundamental distinction between two kinds and two types of “virtue”. The former is a conventional virtue; the latter is a real one. The former is based upon traditional rules; the latter is founded upon rational rules. The first may be learnt by mere

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di voi ha letto le Nuvole di Aristofane conosce bene il modo in cui Socrate viene ridicolizzato. Quest’ultimo viene descritto come uno studioso di scienze naturali, interessato ai corpi celesti e terrestri; viene accusato di insegnare ai suoi allievi a rendere più forte l’argomento più debole124. Tutto ciò, ovviamente, costituisce soltanto un’immagine caricaturale di Socrate. Ma come poté un grande poeta, un genio come Aristofane – che nei dialoghi platonici viene anche descritto come un amico di Socrate – fornire una simile caricatura? Aristofane era un conservatore e fu proprio il suo conservatorismo a indurlo a reagire contro il nuovo principio introdotto e sostenuto da Socrate. Egli percepì tutta la potenza di questo principio e si accinse a combatterlo. Ma cosa si intendeva per “virtù” prima dell’epoca di Socrate e in che modo la si spiegava? A tal proposito dobbiamo qui ricordare il concetto sofistico di virtù, di areté. Ogni uomo, ogni gruppo o classe sociale, ogni professione – è stato detto – ha una sua propria virtù, areté. La virtù di un uomo non è la stessa di quella di una donna, la virtù di uno schiavo non è la stessa di quella di un uomo libero. La virtù di un guerriero non è la stessa di quella di un artigiano o di un commerciante. D’altra parte, virtù (areté) significa eccellenza, e l’eccellenza dell’uomo dipende dalla comprensione dei suoi propri compiti. Se un uomo ha la capacità di svolgere il suo compito nello stato o nella società umana, allora ha tutta la areté, la virtù di cui necessita. Ovviamente, tutto ciò non viene negato da Socrate. Ma egli esige infatti qualcosa di più. Socrate opera una distinzione fondamentale tra due tipi e specie di “virtù”. La prima è una virtù convenzionale, la seconda è reale. La prima si fonda su regole tradizionali, la seconda su regole razionali. La prima la si apprende tramite la pratica, attraverso una

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practice, by a sort of technique or routine433; but the second depends on judgment, or reflective thought. And it is this first form of “virtue” that by Sokrates is declared to be insufficient. It is only an apparent good not a real good. In the sphere of our ethical life, it is not enough to rely on the force of convention and tradition. A merely traditional morality is no true morality. Our actions must be based upon principles, upon insight, upon “knowledge”434, not upon custom. Habit and custom are reliable guides in the course of our usual practical life; but for our moral life we need other and higher standards. We need a consciousness of what “good” or “evil” really means; we must be led by general “reasons”435, not by mere instinct or habit. What Sokrates wishes to make clear to his pupils and to all those who are prepared to listen to him and to enter in a conversation with him is the fact that there is a sharp difference, a contrast between moral life and instinctive life. They are demanded and they are expected to pass from the one form of life to the other one – and all what Sokrates promises is to assist them in this fundamental task. In the Platonic “Apology”, Sokrates has told us the way that led him to this conception and to his philosophical mission. One of his pupils, Chairephon, who was a passionate admirer of him, decided to ask the Delphic oracle whether there was anyone in Greece436 wiser than Sokrates. The oracle replied that nobody was wiser than Sokrates. For himself, however, this answer led to a great dilemma. He always had professed his ignorance; he had not maintained any positive philosophic doctrine. If such a man was called by Apollon the wisest man of Greece – the oracle must imply a hidden

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specie di tecnica o routine; la seconda dipende invece dal giudizio o dal pensiero riflessivo. Ed è proprio la prima forma di “virtù” che Socrate considera insufficiente. Essa è infatti soltanto un bene apparente e non reale. Nella sfera della nostra vita etica non è infatti sufficiente far leva sulla forza della convenzione e della tradizione. Una moralità meramente tradizionale non è una autentica moralità. Le nostre azioni devono invece poggiare su princìpi, intuizioni, sulla “conoscenza” e non sull’abitudine. La consuetudine e l’abitudine sono guide affidabili nel corso della nostra vita pratica, ma per la nostra vita morale necessitiamo di altri e ben più elevati criteri. Dobbiamo sapere cosa significhino realmente “bene” e “male”, dobbiamo essere guidati dalle “ragioni” generali e non dalla semplice abitudine o consuetudine. Ciò che Socrate intende rendere chiaro ai suoi allievi e a tutti coloro che erano in grado di ascoltarlo e di conversare con lui, è il fatto che esiste una netta differenza, un contrasto tra la vita morale e quella istintiva. Da loro si pretende e ci si aspetta che passino da una forma di vita all’altra, e tutto ciò che Socrate promette loro è di assisterli in questo compito fondamentale. Nell’Apologia platonica, Socrate ci racconta il modo in cui giunse a questa sua concezione e alla sua missione filosofica. Uno dei suoi allievi e suo grande ammiratore, Cherefonte, decise di chiedere all’oracolo di Delfi se vi fosse in Grecia un uomo più saggio di Socrate. L’oracolo replicò che nessuno era più saggio di Socrate. Ma questa risposta divenne per lui stesso un dilemma. Aveva professato infatti la sua ignoranza e non aveva sostenuto alcuna dottrina filosofica positiva. Se un uomo simile era stato considerato da Apollo l’uomo più saggio di tutta la Grecia – e l’oracolo allude sempre a un si-

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meaning – and it became a religious duty for Sokrates to discover this meaning. For this purpose[,] he had, first of all, to examine and to probe the wisdom of all those who had a great reputation for their ability in all the different forms of life – in art, in craftsmanship, in politics. He asked them to explain the principles of their conduct. But nobody was able to give him a clear, coherent, satisfactory answer. What all these men did, they did unconsciously by mere habit or routine. And what was even worse – most of these men did not even understand the sense of the Socratic question. They did not realise that there are such things as principles of social and political life. Many of these men seemed to be very able in a special field of practical activity; but none of them could stand a theoretical test – none of them could give an account of his actions. In this respect they proved to be entirely ignorant. It is this ignorance – concluded Sokrates – at which the Delphic oracle hinted by telling himself the wisest man of Greece. He was not in possession of a higher wisdom – but he, at least, [knew]437 what he had to ask and in what direction he had to seek. He knew the defects, the lack of his knowledge; he did not delude himself and others by a pretended wisdom that at the first test proved to be entirely inadequate. That is the history of his life and of his mission that Sokrates gives in his “Apology”. It may, however, be objected that the Socratic demand was not an unusual but also an unnecessary demand – that it was fantastic and extravagant. As Sokrates tells[,] us he made a true pilgrimage among his

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gnificato nascosto –, allora per Socrate divenne un vero e proprio dovere religioso scoprire questo significato. A tal scopo, per prima cosa, egli dovette esaminare e sondare la saggezza di tutti coloro che godevano di una grande reputazione per la loro abilità nelle più disparate manifestazioni della vita – nell’arte, nell’artigianato, nella politica. Chiedeva loro di spiegargli i princìpi della loro condotta. Ma nessuno era in grado di fornirgli una risposta chiara, coerente e soddisfacente. Questi uomini non facevano altro che seguire inconsciamente le loro inclinazioni o routine. E la cosa ancora peggiore era data dal fatto che la maggior parte di questi uomini non era nemmeno in grado di comprendere il senso della questione posta da Socrate. Essi non capivano che esistono cose come i princìpi della vita sociale o politica. Molti di questi uomini erano effettivamente abili in un campo particolare dell’attività pratica, ma nessuno di loro poteva misurarsi con una prova teoretica, nessuno di loro riusciva a fornire le ragioni delle sue azioni. In questo caso essi dimostravano soltanto la loro completa ignoranza. Ma era proprio questa ignoranza – concludeva Socrate – ciò a cui accennava l’oracolo di Delfi allorquando sosteneva che Socrate era il più saggio di tutta la Grecia. Egli non era in possesso di una saggezza somma, ma quantomeno [sapeva] cosa domandare e in che direzione cercare. Conosceva i difetti e la precarietà della sua conoscenza; non illudeva se stesso e gli altri con una finta saggezza, che alla prima prova si rivelava del tutto inadeguata. Questa è la storia della sua vita e della sua missione così come si trova esposta nella Apologia. Si può anche obiettare che la pretesa di Socrate era in realtà non soltanto inusuale, ma anche non necessaria, ossia stravagante e fantasiosa. Socrate stesso ci dice che compì un vero

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fellow-citizens; he went not only to the statesmen, but also to the poets and to all sorts of craftsmen and asked them to give an intelligible account of their own works. And he was very much disappointed when he found that nobody could answer his question. But it is enough for a man to perform438 his work in the right way? Must he be able to explain439 it? Can there be any better explanation than the work itself? This became particularly clear in the case of the poets. A poet does not create his work according to fix and established rules of poetry. The works made in this way seem always to be very poor poetry. In spite of his rationalism and intellectualism[,] Sokrates did not deny that poetry does not depend on merely rational principles. In the Platonic dialogue “Phaidros” Sokrates declares, in express words, that poetry is always in need of other powers and impulses. It needs a sort of inspiration – a “divine madness”. Sokrates did not entirely reject these impulses, but he wished to restrict them, he wished to exclude them from our social, political, moral life. We cannot build up a true social, political, moral life – he declared – as long as we confide in the mere powers of emotional life. The strength of our emotions is no true standard of morality. If we give a free course to our emotions[,] we enfeeble and undermine the principles of a really moral and political life. Sokrates does not admit that there is a fundamental distinction, a sharp line of demarcation between these two forms of life. In this respect too he constantly attacks the traditional views. In all the Platonic dialogues we find that Sokrates had to defend his own ideal of Politics against the theories of the state that were maintained by the sophists – and that had found an echo even in other political circles which did

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pellegrinaggio tra i suoi concittadini e si recò non soltanto presso gli uomini di stato, ma anche presso i poeti e presso tutti i tipi di artigiani, ai quali chiedeva di fornirgli una spiegazione comprensibile delle loro opere. Socrate mostrava il più grande disappunto quando realizzava che nessuno di loro riusciva a rispondere alla sua domanda. Ma non è sufficiente per un uomo eseguire la propria opera in modo corretto? Deve per forza essere in grado di spiegarla? Esiste forse una spiegazione migliore del lavoro in sé? Ciò divenne particolarmente chiaro nel caso dei poeti. Un poeta non crea la sua opera sulla base di regole poetiche fisse e stabilite. Le opere create in questo modo sembrano piuttosto povere. Nonostante il suo razionalismo e intellettualismo, Socrate non negava affatto la possibilità, da parte della poesia, di ricorrere ad altri princìpi oltre a quelli razionali. Nel dialogo Fedro, Socrate afferma espressamente che la poesia ha sempre bisogno di altre facoltà e impulsi. La poesia necessita di una sorta di ispirazione, di una “follia divina”. Socrate non rifiutava interamente questi impulsi, ma desiderava solo circoscriverli ed escluderli dalla nostra vita sociale, politica e morale. Non possiamo costruire una autentica vita sociale, politica e morale – afferma Socrate – se ci si affida alle semplici facoltà della vita emotiva. La forza delle nostre emozioni non costituisce l’autentico criterio della moralità. Se diamo libero sfogo alle nostre emozioni, allora indeboliamo e miniamo i princìpi di una vita realmente morale e politica. Socrate non ammette una distinzione fondamentale, una netta linea di demarcazione tra queste due forme di vita. In questo senso, egli attacca le concezioni tradizionali. In tutti i dialoghi platonici notiamo che Socrate si trova a difendere il suo ideale di politica contro le teorie dello stato sostenute dai Sofisti e che avevano trovato eco anche nei circoli politici che

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not care for any philosophical theory. In the dialogue “Gorgias” Kallikles declares that it is ridiculous to seek for any ideal or moral reason of political conduct. For the political man our usual concepts of what is good and what is wrong, our standards of “justice” or “injustice” are completely invalid. For the true statesman there can be no other definition of “Right” than to declare that Might is Right. The “strong man”, the hero is the true politician. In the first book of the Republic of Plato[,] the sophist Thrasymachos upholds the same doctrine. There is no universal right, no moral right, no so-called440 “right of nature”. All these441 are nothing but conventional names. What really matters is the “interest of the stronger”. The weaker has to accept the laws that are imposed to him by the stronger. That is the true principle of political life. Sokrates maintains and defends the opposite view. The mere physical power of a state – he declares – is an illusionary power. What the true statesman has to strive for is not a mere increase of his mere physical power which in most cases will prove to be a destructive, not a constructive principle. A society or a state may be very powerful – and at the same time very unhealthy and doomed to decay and death. In one of the Platonic dialogues Sokrates declares that nobody is to be regarded as a true statesman who does not succeed in changing the souls of the citizens, in bringing them to a better and more healthy state. For it is not the external power of a state, but its inner constitution – that is the principal condition of its whole existence and of its preservation. Without these inherent moral powers[,] no political power can subsist, it only prepares its own destruction. This, however, leads to a new and even more important conclusion. If you wish to form the soul of a man[,] you

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non si curavano di alcuna teoria filosofica. Nel dialogo Gorgia, Callicle afferma che sarebbe ridicolo cercare un idea­le o una ragione morale della condotta politica. Infatti, per il politico i consueti concetti di ciò che è buono e di ciò che è sbagliato, i nostri criteri di “giusto” e “sbagliato”, sono del tutto privi di valore. Per il vero statista non può esserci altra definizione del diritto se non quella di dichiarare che la forza è giusta. L’“uomo forte”, l’eroe è l’autentico politico. Nel primo libro della Repubblica di Platone Trasimaco sostiene la medesima dottrina. Non esiste alcun diritto universale, nessun diritto morale, nessun cosiddetto “diritto di natura”. Tutti questi non sono altro che nomi convenzionali. Ciò che realmente conta è l’“interesse del più forte”. Il debole deve accettare le regole imposte dal più forte. Questo è l’effettivo principio della vita politica. Socrate, invece, sostiene e difende la tesi opposta. La mera forza fisica di uno stato – egli afferma – è una forza illusoria. Ciò a cui deve aspirare il vero statista non è il semplice incremento della propria forza fisica, che nella maggior parte dei casi si rivelerebbe un principio distruttivo e non costruttivo. Una società o uno stato possono essere potenti, ma al tempo stesso pericolosi e condannati al decadimento e alla morte. In uno dei dialoghi platonici, Socrate afferma che nessun uomo andrebbe considerato uno statista, qualora non fosse in grado anche di cambiare le anime dei suoi cittadini e di condurle a uno stato migliore e salutare. D’altra parte, non è la forza esterna di uno stato, ma la sua costituzione interna a rappresentare la principale condizione della sua intera esistenza e conservazione. Senza questa intrinseca forza morale, nessun potere politico potrebbe sopravvivere e preparerebbe soltanto la sua distruzione. Siamo giunti adesso a una nuova e più importante conclusione. Se si intende formare l’anima di un uomo,

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cannot proceed in the same way as in other branches of education – for instance in merely technical education. Technical education is, to a great deal, founded upon imitation. Who wishes to learn a certain craft will do best to imitate his master. He can reach a great skill and dexterity in this way – a great manual adroitness. But a mental activity is of quite a different type. It depends on spontaneous acts that cannot442 be taught or learned in merely mechanical way. Technical skill may be learned by reproduction; mental or moral attitudes are in need of a different principle – in need of original, productive powers. What Sokrates promises is to incite these powers – not to replace them. If “virtue” means “knowledge” you cannot teach virtue in the same way in which you can teach a mere technical ability. «What can just as little implant truth in the soul of a man – says Plato in his Republic – as we are to insert the power of seeing into the eyes of a man who was born blind[»]. Nobody can teach443 to see who does not see with his own eyes. Over and over again Sokrates emphasizes this principle – which at first sight may appear to be obvious and even trivial but which, as a matter of fact, is pregnant with important consequences. What we call the Socratic method entirely depends on this principle. In the Platonic dialogue Theaetetus Sokrates describes this method as his art of midwifery. He has inherited this art from his mother; but what he brings into the world are not children, but the thoughts of men. «The triumph of my art is in thoroughly examining whether the thought of which the mind of a young man brings forth is a false idol or a noble true birth. And like the midwives, I am barren, and the reproach which is often made against me, that I ask questions of other and have not the art to answer them myself, is very

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allora non si può procedere in modo analogo alle altre branche dell’educazione, come ad esempio nel caso dell’educazione tecnica. Quest’ultima poggia quasi interamente sull’imitazione. Chi desidera imparare una certa arte dovrà imitare al meglio il suo maestro. In tal modo potrà acquisire una grande capacità e destrezza, una grande abilità manuale. Ma l’attività mentale è di tipo diverso. Essa dipende da atti mentali che non possono essere insegnati in modo meccanico. L’abilità tecnica la si può apprendere tramite la riproduzione; le attitudini mentali e morali necessitano invece di un principio differente, di facoltà originali e produttive. Socrate promette infatti di incitare queste facoltà, non di rimpiazzarle. Se “virtù” significa “conoscenza”, allora essa non la si può insegnare allo stesso modo in cui si insegna un’abilità tecnica. Dice Platone nella Repubblica: «Si può così poco impiantare la verità nell’anima di un uomo – dice Platone nella sua Repubblica – quanto inoculare la facoltà di vedere negli occhi di un uomo nato cieco»125. Nessuno può insegnare a vedere a chi non vede con i propri occhi. Ancora una volta Socrate enfatizza questo principio il quale, a prima vista, può sembrare ovvio e addirittura banale, ma che, di fatto, è gravido di conseguenze importanti. Ciò che chiamiamo “metodo socratico” dipende interamente da questo principio. Nel dialogo platonico Teeteto, Socrate descrive questo metodo come arte della maieutica. Egli ha ereditato quest’arte dalla madre; ma ciò di cui favoriva la nascita non erano neonati, bensì pensieri: «Il trionfo della mia arte sta nell’esaminare a fondo se il pensiero emerso dalla mente di un giovane sia un falso idolo o una nobile nascita vera. E, come le ostetriche, io sono sterile, e il rimprovero che spesso mi viene fatto, che faccio domande ad altri e non ho l’arte

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just – the reason is that the god compels me to be a midwife, but does not allow me to bring forth. And therefore I am not myself all wise, nor have I anything to show which is the invention or birth of my own soul, but those who converse with me profit» (Theaetetus 150). Even in this description of his own art we feel the Scoratic irony. For Sokrates does not think that this way of teaching[,] in which the teacher does not bring forth his own thought but helps the pupil to become aware of his own thought[,] is in any way inferior to other modes of instruction. He regards it, on the contrary, as the only possible way if the human soul is to reach a true knowledge – a theoretical or moral convinction. Such a convinction cannot be impressed from without – it must be produced by the powers and the spontaneity of the thinking subject himself. On the other hand[,] the act of “thinking” is according to Sokrates of a special and incomparable nature. In the case of the thinking subject[,] we cannot use the same method of investigation that is possible and fruithful in other cases. If we have to do with a physical object[,] we may content ourselves with describing its properties. We may collect all the available empirical evidence that is at444 our disposal and we may try to subsume the single facts under general concepts. But if we wish to have a knowledge of human445 nature – it is enough to proceed this way. The passive method of observation must be turned into a different, more active method. A physical thing is, so to speak, a mute thing. But a human soul is a living thing – and the life of a human soul cannot be communicated to us except by the art of speech446. This act is the clue to our knowledge of human nature. It is only in the intercourse between man and man, it is only in a social act, not in a mere individual act, that we

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di rispondere, è molto giusto – la ragione è che il dio mi costringe a essere un ostetrico, ma non mi permette di partorire. E quindi non sono io stesso tutto saggio, né ho nulla da mostrare riguardo all’invenzione o alla nascita della mia stessa anima, ma se ne giovano coloro che conversano con me»126. Anche in questa descrizione della sua arte percepiamo l’ironia socratica. Infatti, Socrate non ritiene che questo metodo di insegnamento – col quale un insegnante non genera propri pensieri, ma aiuta invece l’allievo a diventare consapevole dei suoi – sia in qualche modo inferiore ad altri metodi pedagogici. Al contrario, Socrate reputa questo metodo come l’unico in grado di conseguire una conoscenza autentica, una convizione teoretica o morale. Una tale convinzione non può essere impressa dal nulla, ma necessita della facoltà e della spontaneità dello stesso soggetto pensante. Dall’altro lato, per Socrate l’atto del “pensare” è di una natura speciale e incomparabile. Nel caso del soggetto pensante, non possiamo utilizzare lo stesso metodo di ricerca che invece è possibile e fecondo in altri casi. Quando abbiamo a che fare con un oggetto fisico, ci limitiamo a descriverne le proprietà. Possiamo accumulare tutta l’evidenza empirica disponibile e sussumere i singoli fatti sotto concetti generali. Ma se si intende ottenere una conoscenza della natura umana, allora non è sufficiente procedere in questo modo. Il passivo metodo dell’osservazione va mutato in qualcosa di diverso, in un metodo più attivo. Una cosa fisica è, per così dire, una cosa muta. Ma l’anima umana è invece qualcosa di vivente e la vita dell’anima non può essere comunicata se non con l’arte del discorso. Questo atto è la chiave per la nostra conoscenza della natura umana. È solo nel confronto tra uomo e uomo, solo in un atto sociale e

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can come in conctact with a human soul. In order to discover the essence of man it needs therefore at least two subjects – it needs two different partners that are engaged in a conversation, in a dialogue. This dialogical method – or, as it was called by Plato – the “dialectic” method is an essential feature in the philosophy of Sokrates. We cannot come to a true insight concerning ourselves without constantly examining and scrutinizing the thoughts of others. This continual examination of our own thoughts is regarded by Sokrates not only as a fundamental faculty of man but also as the highest duty. By this postulate the common standard of life has completely changed. It is Sokrates himself who in his Apology described this change. «Someone will say – cannot you hold your tongue, and then you may go to a foreign country, and no one will interfere with you. Now I have great difficulty in making you understand my answer to this. For if I tell you that this would be a disobendience to a divine command and therefore that I cannot hold my tongue you will not believe that I am serious and if I say that the greatest good of man is daily to converse about virtue and all that concerning which you hear me examining myself and other – and that the life which is unexamined is not worth living, then you are still less likely to believe. And yet what I say is true, although a thing of which it is hard for me to persuade you». That is the most characteristic and striking expression of the thought of Sokrates – an expression that only could be found by his greatest and most devoted pupil. A life of mere routine or instinct, an unexamined life would not be worth living. For the highest power in man is the power of reflective thought – and it is only by this that he can fulfill his moral task and reach the highest value447.

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non in un mero atto individuale che possiamo entrare in contatto con l’anima umana. Per scoprire l’essenza dell’uomo ci vogliono almeno due soggetti, due diversi partner coinvolti in una conversazione, in un dialogo. Questo metodo dialogico – che Platone chiama metodo “dialettico” – è una caratteristica essenziale della filosofia di Socrate. Non possiamo pervenire a una genuina conoscenza di noi stessi, senza esaminare e ispezionare costantemente i pensieri degli altri. Questa continua disamina dei nostri pensieri viene da Socrate considerata come l’unica facoltà fondamentale dell’uomo, come anche il suo compito più elevato. Con questo postulato, il criterio comune di vita è mutato completamente. È Socrate stesso a descrivere questo mutamento nell’Apologia: «Qualcuno dirà: non puoi tenere a freno la lingua, e allora potresti andare in un paese straniero e nessuno interferirà con te. Ora ho molta difficoltà a farvi capire la mia risposta a questo. Perché se ti dico che questa sarebbe una disobbedienza a un comando divino, e quindi che non posso tacere, non crederai che sono serio, e se dico che il maggior bene dell’uomo è conversare quotidianamente della virtù e di tutto ciò riguardo al quale mi senti esaminare me stesso e gli altri – e che la vita che non è esaminata non è degna di essere vissuta – allora è ancora meno probabile che tu creda. Eppure quello che dico è vero, sebbene sia una cosa di cui mi è difficile convincerti»127. Questa è l’espressione più caratteristica e straordinaria del pensiero di Socrate, un’espressone rinvenibile soltanto nel suo più grande e devoto allievo. Una semplice vita abitudinaria o istintiva, una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta. D’altra parte, la più grande facoltà dell’uomo è quella del pensiero riflessivo, ed è soltanto grazie a esso che egli può adempiere al suo dovere morale e raggiungere questo sommo valore.

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[In the last lecture we have treated the problem of Sokrates. As I pointed out[,] one of the most important maxims of S[okrates] is the maxim that virtue is knowledge. It is knowledge – that means it is no mere matter of convention, of custom[,] of habit. A conventional morality is not a true morality. True morality must be based on knowledge – that means it is not only a form of instructive life but of conscious life. A moral being is a being that does not only perform448 certain actions in the right way – in that way that is prescribed by our common social rules – but that gives an account for his actions. And just as much as the principles of our moral life Sokrates strives to find out the principles of political life. He attacks the common doctrine upheld by the sophists that, in the political sphere, Might and Right coincide. Right and Justice are not only depending on conventional standards, on the written laws and statutes of the state. They have a deeper origin and an independent meaning. In one of the Platonic dialogues[,] we find the rather paradoxical statement of Sokrates that nobody […]449. By the last remark we are led to one of the fundamental principles of the philosophy of Plato. When speaking of Plato[,] I wish to follow the same method as I used in our former lectures in the description of the doctrine of the Pre-Socratic thinkers. In the short time that is still left to us it is impossible to give you a detailed interpretation of the Platonic philosophy. If you wish to have an account of Plato’s life, of his personality, of the principal subject of his philosophy, you will find all this in the last part of Burnet’s book: Greek Philosophy I: Thales to Plato, London 1914. Here I must use a different method. Instead of a mere historical description of the contents of Plato’s thought, I wish you to explain you the

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[Nella mia ultima lezione ho affrontato il problema di Socrate. Come ho già sottolineato, la massima più importante di Socrate afferma che la virtù è conoscenza. Ciò significa che essa non è una semplice convenzione, una consuetudine o un’abitudine. Una moralità convenzionale non è una autentica moralità. Quest’ultima deve poggiare sulla conoscenza; ciò significa che essa non è soltanto una forma di vita istruttiva, ma anche cosciente. Un essere morale è un essere che non esegue soltanto certi atti in modo corretto – nelle maniere prescritte dalle nostre comuni regole sociali – ma deve anche rendere conto dei suoi atti. Come nel caso dei princìpi della nostra vita morale, Socrate si sforza di trovare i princìpi della vita politica. Egli attacca la comune dottrina sostenuta dai Sofisti secondo cui, nella vita politica, forza e diritto coincidono. Diritto e giustizia non dipendono soltanto da criteri convenzionali, da leggi scritte e dalle norme dello stato. Essi hanno un’origine più profonda e un significato indipendente. In uno dei dialoghi platonici troviamo un’affermazione piuttosto paradossale di Socrate, secondo cui nessuno […]. Da quest’ultima osservazione siamo giunti a uno dei fondamentali princìpi della filosofia di Platone. Nel parlarvi di Platone desidero seguire lo stesso metodo da me utilizzato per le precedenti lezioni sulla dottrina dei pensatori presocratici. Dato il poco tempo a nostra disposizione, mi è impossibile fornirvi una interpretazione dettagliata della filosofia platonica. Se desiderate disporre di un resoconto della vita di Platone, della sua personalità e degli argomenti principali della sua filosofia, allora potrete trovare tutto ciò nel libro di Burnet Filosofia greca I: da Talete a Platone, London 1914. Personalmente, utilizzerò un metodo diverso. Invece di una mera descrizione storica dei contenuti del pensiero di Platone, intendo piuttosto spiegarvi la for-

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systematic form of his thought. I wish to show you in which way all his fundamental conceptions and his theories – his theory of knowledge, his theory of the soul, his theory of the state – were connected with each other. In Plato’s own mind all these theories are by no means single or isolated450 facts. They are bound up with each other by a general principle – and it is this principle that I wish to expound in the following lecture.]

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ma sistematica del suo pensiero. Desidero mostrarvi in che modo tutte le sue concezioni e teorie fondamentali – teoria della conoscenza, teoria dell’anima, teoria dello stato – sono reciprocamente connesse. Nella mente di Platone, tutte queste teorie non sono in alcun modo fatti isolati o separati. Esse sono invece legate insieme da un principio generale; ed è proprio questo principio che desidero esporvi nella prossima lezione].

[chapter viii] PLATON = VORLESUNGEN (OXFORD 1935)451 History of Ancient Philosophy Plato Lecture-Notes

I) The analysis of Being Plato claims to be the first philosopher who gave a precise and clear definition of the concept of “Being”. All the former theories used this concept without inquiring into its meaning and significance. They could, therefore, not give us a real insight; they contain no “theory of Being”; they give us only a mythical tale. Plato’s dialectical criticism of the Pre-Socratic systems Principal source: Theaetetus and Sophistes comp. espec.: Sophistes 242. II) “Being” and “Becoming”. The platonic “separation” (Chorismos) Becoming|Being Appearance|Reality Sense-perception|Pure thought “Faith” (Pistis)|Knowledge Opinion|Science “Existence|”Essence” Empirical things|Ideal reasons “Pragmata”|”Logoi”

cap. viii

PLATONE Storia della Filosofia antica Platone Appunti per le lezioni

I) L’analisi dell’Essere Platone afferma di essere il primo filosofo ad aver fornito una precisa e chiara definizione del concetto di “Essere”. Tutte le precedenti teorie usarono questo concetto senza indagarne a fondo il senso e il significato. Pertanto, esse non erano in grado di fornirci una conoscenza reale; non contengono alcuna “teoria” dell’Essere; ci danno soltanto un racconto mitico. La critica dialettica di Platone ai sistemi presocratici Fonte principale: Teeteto e Sofista Confronta specialmente: Sofista 242. II) “Essere” e “Divenire” La “separazione” platonica” (Chorismos) Divenire | Essere Apparenza | Realtà Percezione sensibile | Pensiero puro “Fede” (Pistis) | Conoscenza Opinione | Scienza “Esistenza” | “Essenza” Cose empiriche | Ragioni ideali Pragmata | Logoi

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The instability of the empirical world The “flux” of “things” – the thesis of Herakleitos Principal sources Theaetetus 152D, 183A The sameness and stability of the “Ideas” Sources: Phaidon 75D, 79Aff. Philebus 59AB Timaeus 29C III) The Nature of Truth – Being and Truth 1) The “second way” (“second voyage”) of Plato Phaidon 99Bff. 2) The simile of the cave The ascent from the sensible world to the intelligible world Republic 514ff. IV) The three foundations of Plato’s doctrine of ideas a) The Analysis of Language. “Semantics” – The theory of “Meaning” Truth and Error in language Sources: Kratylos, cf. esp. Kratylos 386D,438A Epistle III b) The Analysis of Mathematics The character of geometrical truth “Equality” itself and “equal things” Phaidon 75A,B, 76Dff., Theaetetus 155E The material circle and the ideal circle (Plato’s 7th letter) c) Plato’s ethical theory The Idea of the Good as the highest idea Republic 505Aff. The transcendence of the Idea of the Good

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L’instabilità del mondo empirico Il “flusso” delle “cose” – La tesi di Eraclito Fonti principali Teeteto152D, 183A L’identità e stabilità delle “Idee” Fonti: Fedone 75D, 79Ass. Filebo 59AB Timeo 29C III) La natura della verità – Essere e Verità 1) La “seconda navigazione” (second voyage) di Platone, Fedone 99B ss. 2) La similitudine della caverna L’ascesa dal mondo sensibile al mondo intelligibile Repubblica 514 ss. IV) I tre fondamenti della dottrina delle idee di Platone a) L’analisi del linguaggio “Semantica” – La teoria del significato Verità ed errore nel linguaggio Fonti: Cratilo, cfr. soprattutto Cratilo 386D, 438A Lettera III b) L’analisi della matematica Il carattere della verità geometrica “Uguaglianza” in sé e “cose uguali” Fedone 75A, B, 76Dss., Teeteto 155E Il circolo materiale e il circolo ideale (Platone, Lettera VII) c) La teoria etica di Platone L’Idea del Bene come l’idea somma Repubblica 505Ass. La trascendenza dell’Idea del Bene [Repubblica 509B]

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V) The theory of Participation (Methexis) The participation of the sense-phenomena in the pure ideas Sources: Philebus 62A “Peras” and “Apeiron” The “Limit” and the “Boundless” Philebos 15ff. The “strive” of the phenomena after the ideas Phaidon 74Dff. VI) Plato’s theory of the soul a) The mythical theory The theory of Reminiscence (“Anamnesis”) Menon, Phaidon 75A, E, 76D, Phaidros 245C The “super-celestial place” (Phaidros 247C, 250A) b) The dialectical theory The soul as “unity of consciousness” Theaitetos 184D The soul and the act of sense-percepetion VII) Plato’s theory of the State The State and the Philosopher Republ. 519D VIII) Plato’s natural philosophy The “Teleology of Nature” – Plato’s452 criticism of Anaxagoras453 Phaidon 98 The mythical explanation of nature (The Dialogue Timaius) “Truth and “probability”

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V) La teoria della partecipazione (Methexis) La partecipazione dei fenomeni sensibili alle idee pure Fonti: Filebo 62A Peras e Apeiron Il “Limite” e l’“Illimitato” Filebo 15ss. L’“aspirazione” dei fenomeni alle idee Fedone 74Dss. VI) La teoria platonica dell’anima a) La teoria mitica La teoria della reminiscenza (Anamnesis) Menone, Fedone 75A, E, 76D, Fedro 245C L’“Iperuranio” (Fedro 247C, 250A) b) La teoria dialettica L’anima come “unità della coscienza” Teeteto 184D L’anima e l’atto della percezione sensibile [Teeteto 185D] VII) La teoria platonica dello Stato Lo Stato e il filosofo Repubblica 519D VIII) La filosofia naturale di Platone La “teleologia della natura” – La critica di Platone ad Anassagora. Fedone 98 La spiegazione mitica della natura (Il dialogo Timeo) “Verità” e “Probabilità”.

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PLATON=VORLESUNGEN (OXFORD 1935)454

[§1: Introduction. The Legacy of Plato]455 In the whole history of European thought there has appeared no philosophical doctrine that with respect to its general historical and systematic influence may be compared with Platonic doctrine of ideas. This doctrine was exposed to objections of all sorts and very often it was attacked in a vehement way. But its importance and its power has not been enfeebled by these attacks. Even the adversaries of Plato did not succeed in emancipating themselves from the overwhelming influence of his original philosophical conception. In combatting the inferences drawn by Plato, in rejecting his special arguments they could not avoid or reject the general problem first introduced and recognized in his philosophy. Aristotle criticized in a very severe manner the Platonic doctrine of ideas: but all his objections are based upon a general view and a general definition of philosophy that entirely depends on Platonic concepts. The Aristotelian definition of Form and his definition of Being, the concepts of οὐσία and εἶδος that are the basic principles of the whole Aristotelian Metaphysics456 cannot be understood and cannot be explained without referring them to their Platonic origin. Hence[,] we may say[,] in a certain sense[,] that the intellectual revolution brought about by the philosophy of Plato proved to be even more efficient and more momentous in the work of his adversaries than in the work of his immediate followers and adherents. The spirit of Platonism has, as it were, revived in these opponents and it proved to be a liv-

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LEZIONI SU PLATONE (OXFORD 1935)

Introduzione: l’influenza di Platone Nell’intera storia del pensiero europeo non è mai apparsa alcuna dottrina filosofica che, quanto alla sua generale influenza storica e sistematica, possa essere paragonata alla dottrina platonica delle idee. Questa dottrina è stata esposta a obiezioni di ogni sorta e molto spesso è stata attaccata in modo veemente. Ma la sua importanza e la sua potenza non sono state indebolite da questi attacchi. Nemmeno gli avversari di Platone riuscirono a emanciparsi dalla travolgente influenza della sua originale concezione filosofica. Nel combattere le conclusioni tratte da Platone, nel rifutare i suoi argomenti particolari, essi non poterono eludere o rigettare il problema generale per la prima volta introdotto e riconosciuto nella sua filosofia. Aristotele criticò in modo piuttosto severo la dottrina platonica delle idee: ma tutte le sue obiezioni sono basate su una visione generale e definizione generale di filosofia che dipende interamente dai concetti platonici. La definizione aristotelica di forma e la sua definizione di “essere”, i concetti di οὐσία e εἶδος – che costituiscono i princìpi fondamentali dell’intera metafisica aristotelica – non possono essere intesi né spiegati senza un rimando alla loro origine platonica. Pertanto, possiamo affermare che, in un certo senso, la rivoluzione intellettuale esercitata dalla filosofia di Platone si è rivelata più efficace e più importante nell’opera dei suoi avversari, piuttosto che nell’opera dei suoi immediati successori o seguaci. Lo spirito del Platonismo si è rinvigorito in questi oppositori, rivelandosi una forza vivente e plasti-

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ing and moving force in the evolution of their own thought. The opposition of Plato and Aristotle has become a general opposition and a general problem of the future development of philosophical thought. This opposition is at the root of all controversies by which the schools of medieval philosophy were divided into different camps. The subject-matter of these controversies, the disputes between the adherents of Nominalism and Realism cannot be explained and determined without an analysis of the fundamental principles of Platonic philosophy. The so-called problem of the “Universalia”, the question whether the universal concepts and essences are after the concrete and particular beings or before them or in them (universalia ante res, universalia post res, universalia in rebus) is not to be solved and not to be set without a constant reference to that general concept of Being that was maintained in Plato’s457 doctrine of ideas. And if we proceed from the history of medieval thought to the history of modern thought[,] we find that the latter likewise is to be regarded as a continuation and a further development of the same problem. It was not by merely accidental circumstances that modern philosophy, in the first and early beginnings, was led back to this question – to the question of the difference between the Platonic and the Aristotelian system and to the question of the superiority of one of these systems over the other. The philosophy of the Renaissance starts with this question that for some decades has been the subject matter of a most heated dispute between Plithon and Bassarion on the one side, Georgios of Trapezunt and Theodore Gaza, on the other side. It was by this dispute, by this historical and systematic comparison of the views of Plato458 and Aristotle that modern thought first prepared its own way and was led to its own new problems. On the other hand[,] this influence and preponderance of Platonic thought is by no means restricted to the field of Metaphysics459 or to the field of scholastic phi-

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ca nell’evoluzione del loro proprio pensiero. L’opposizione tra Platone e Aristotele diventò un’opposizione e un problema generale per il futuro sviluppo del pensiero filosofico. Questa opposizione costituisce la radice di tutte le controversie in ragione delle quali le scuole di filosofia medievale erano suddivise in diversi gruppi. Il tema di queste controversie, le dispute tra i seguaci del nominalismo e del realismo, non si possono spiegare e determinare senza un’analisi dei princìpi fondamentali della filosofia platonica. Il cosiddetto problema degli universalia, la questione se i concetti universali e le essenze stanno dopo gli esseri concreti e particolari o prima di essi o in essi (universalia ante res, universalia post res, universalia in rebus), non la si può risolvere e impostare senza un costante riferimento a quel concetto generale di essere sostenuto dalla dottrina delle idee di Platone. E procedendo dalla storia del pensiero medievale alla storia del pensiero moderno, notiamo che anche quest’ultimo va considerato come una continuazione e un ulteriore sviluppo del medesimo problema. Non fu per mere circostanze accidentali che la filosofia moderna, ai suoi albori, venne ricondotta a questa questione – ossia alla differenza tra il sistema platonico e quello aristotelico e alla questione della superiorità dell’uno sull’altro. La filosofia del Rinascimento prese le mosse proprio da questa questione, la quale per decenni costituì il tema di un’accesa disputa tra Pletone e Bessarione da un lato, Giorgio di Trebisonda e Teodoro Gaza dall’altro. Fu attraverso questa disputa, attraverso questo confronto storico tra le concezioni di Platone e Aristotele, che il pensiero moderno preparò innanzitutto la sua strada e fu condotto ai suoi nuovi problemi. Dall’altro lato, questa influenza e preponderanza del pensiero platonico non è in alcun modo limitata al campo della metafisica o al

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losophy. Even Science when attempting to find and to stand its own ground, when attempting to free itself from the power of authority and tradition, did not leave the way of Plato. All the champions of modern Science, of that new Mathematics and Physics that was introduced in the sixteenth and seventeenth centuries lay stress upon the intimate connexion between their own thoughts and the thought of Plato. Galileo and Kepler, in a mere personal way, expressed not only their admiration and reverence for Plato – but they strived for supporting and renewing his views in an objective sense. In order to prove the right and necessity of his own method, in order to explain his concept of truth and his standard of truth, Galileo constantly refers to the Platonic theory of knowledge, to the theory of ἀνάμνησις. It is true, that inductive science in its attempt to find out and elaborate its own characteristic460 methods, the methods of observation and experiment, could not follow the way of Plato. But if modern science strives to enlarge the field of knowledge embraced by the Platonic doctrine, it did not admit that this doctrine had become obsolete once and for all461. The first founders462 of the new inductive Science, however rejecting the authority of Aristotle, in the explanation of natural phenomena and however combatting his physical and cosmological views do not believe that there is any necessary and radical opposition of their fundamental principles to those principles that are maintained by Plato. Far from rejecting the philosophy of Plato[,] they very often appeal to his philosophy in order to refute the Physics and Cosmology of Aristotle. There seems to be only one remarkable exception of this general rule. Bacon in his Novum Organum seems to be the first to denounce in a most vehemently way the fundamental principles of the Platonic doctrine of ideas. He thinks this doctrine to be one

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campo della filosofia scolastica. Anche la scienza, allorquando cercò di trovare il proprio terreno e di affermarsi, quando cercò di liberarsi dal potere dell’autorità e della tradizione, non abbandonò la via di Platone. Tutti i campioni della scienza moderna, di quella nuova matematica e fisica che fu introdotta nei secoli XVI e XVII, pongono l’accento sull’intima connessione tra il proprio pensiero e il pensiero di Platone. Galileo e Kepler, in modo del tutto personale, espressero non soltanto la loro ammirazione e reverenza per Platone, ma si sforzarono anche di supportarne e rinnovarne le idee in un senso oggettivo. Per provare la correttezza e necessità del suo metodo, per spiegare il suo concetto e criterio di verità, Galileo ricorre costantemente alla teoria platonica della conoscenza, alla teoria dell’ἀνάμνησις. È vero che la scienza induttiva, nel suo tentativo di trovare ed elaborare i suoi metodi caratteristici, i propri metodi di osservazione e sperimentazione, non poté seguire la via tracciata da Platone. Ma se la scienza moderna si sforzò di allargare il campo della conoscenza abbracciato dalla dottrina platonica, non per questo essa giunse a considerare questa dottrina come obsoleta una volta per tutte. I primi fondatori della scienza induttiva, pur respingendo l’autorità di Aristotele nella spiegazione dei fenomeni naturali e pur contrastando le sue idee fisiche e cosmologiche, non credevano vi fosse una necessaria e radicale opposizione tra i loro princìpi fondamentali e quelli sostenuti da Platone. Lungi dal rigettare la filosofia di Platone, essi non di rado si appellavano a quest’ultima per rifiutare la fisica e la cosmologia di Aristotele. A questa regola generale sembra esservi soltanto un’eccezione degna di nota. Bacon nel suo Novum Organum, difatti, sembra essere il primo a denunciare, in modo piuttosto veemente, i princìpi fondamentali della dottrina platonica delle idee. Egli

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of the main and the most dangerous obstacles that hitherto have deviated the investigation of nature from its true course. The Platonic doctrine of ideas is placed by Bacon in the rank of those idols that must be revealed and removed before the human mind may find its philosophical and scientific way, the way of the discovery of truth. In the opinion of Bacon, Plato was not a natural philosopher; he was a theologian and even, as Bacon says, a theologus mente captus. And by his theology he has bolted and barred the way to true science. But if we consider this polemic463 against Plato that pervades all the writings of Bacon, and if we analyze its contents and its reasons, we do not find that if proved to be fruitful for the further development of modern scientific thought. For it was by this polemic464 that Bacon was prevented from recognizing and acknowledging the true value of Mathematics. And by this he failed to understand the new methods of Physics in their full significance and in their true sense. By rejecting the mathematical presuppositions of the science of Galileo and Kepler, by denying the cosmological views of Copernicus, Bacon was compelled to go back to the same scholastic conception of nature and natural philosophy that by his own method of induction he strived to overcome. In combatting the Platonic doctrine of ideas[,] he had to return to the Aristotelian concept of substantial forms. His method, however diverging from Aristotle in its general logical structure and procedure, does not differ from the Aristotelian system with regard to its essential aim – for it is the discovery of the universal form of the different classes of natural phenomena – the discovery, for instance, of the form of heat – that is declared by Bacon to be the end and purpose of all inductive science.

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considera questa dottrina come uno dei principali e pericolosi ostacoli che, fino a quel momento, avevano deviato l’indagine della natura dal suo autentico sentiero. La dottrina platonica delle idee viene posta da Bacon nella classe di quegli idola che vanno rivelati e rimossi prima che la mente umana possa trovare la sua via filosofica e scientifica, la via per la scoperta della verità. Secondo l’opinione di Bacon, Platone non era un filosofo naturale; era un teologo, ma soprattutto, dice Bacon, un “theologus mente captus”. Ed è in virtù della sua teologia che egli ha chiuso e sbarrato la strada alla vera scienza. Ma se consideriamo questa polemica contro Platone – la quale pervade tutti gli scritti di Bacon – e analizziamo i suoi contenuti e le sue ragioni, ci rendiamo conto che essa non si è rivelata in alcun modo feconda per il successivo sviluppo del pensiero scientifico moderno. In effetti, fu proprio per via di questa polemica che Bacon negò a se stesso la possibilità di riconoscere l’autentico valore della matematica. E per tal motivo non riuscì a comprendere i nuovi metodi della fisica nel loro pieno significato e nel loro autentico senso. Rigettando i presupposti matematici della scienza di Galileo e Kepler e negando le idee cosmologiche di Copernico, Bacon si trovò costretto a ripiombare in quella stessa concezione scolastica della natura che egli si sforzava di superare tramite il suo metodo induttivo. Nel combattere la dottrina platonica delle idee, dovette ritornare al concetto aristotelico delle forme sostanziali. Il suo metodo, comunque divergente da quello aristotelico nella sua procedura e struttura logica generale, non differisce dal sistema aristotelico riguardo al suo scopo essenziale, ossia la scoperta della forma universale delle diverse classi di fenomeni naturali – la scoperta, ad esempio, della forma del calore – da Bacon ritenuta il fine e lo scopo di tutta la scienza induttiva.

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[§2: Intepretations of Plato]465 But this extremely wide and nearly all-embracing influence of the thought of Plato included[,] at the same time[,] a grave danger for its systematic and philosophical interpretation. For it was by this historical influence that the concepts of Plato were transformed and were[,] in many respect[,] deviated from their original meaning and tendency. In appealing to Plato466 the different schools of philosophy under the protection and patronage of his idealism seek to explain their own views and to defend their own assumptions. They try to interpret the doctrine of Plato in such a way as to make it conformable to these views. This process of interpretation that at the bottom is nothing else than a slow and continuous metamorphosis of the thought of Plato sets in very early. We may follow it up in all the late development of Greek philosophy. The immediate followers of Plato, the different Academic Schools as well as the Stoics, the Neo-Pythagoreans, the Neo-Platonists partake in this general evolution. Each of these schools understands and explains the Platonic doctrine of ideas in its own sense and attempts to make subservient this doctrine to its own systematic view and systematic ends. For this purpose[,] there was required an interpretation of the original Platonic concepts which very often was in the danger of making them nearly unrecognizable. And the same process of modifying and transforming the doctrine of Plato continues in medieval and modern philosophy. In the century of the Middle Ages the danger of such a radical transformation could not be avoided by going back to the original sources. For medieval philosophy these sources were no longer accessible: it had in general to draw its

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2. Le interpretazioni di Platone Ma questa influenza così ampia e pressoché universale del pensiero di Platone comportava, al tempo stesso, un serio problema per la sua interpretazione sistematica e filosofica. Difatti, fu proprio per via di questa influenza storica che i concetti di Platone subirono una trasformazione e, sotto molti aspetti, risultarono piuttosto distanti dal loro significato e tendenza originari. Nell’appellarsi a Platone, le differenti scuole filosofiche sotto l’egida e l’appoggio del suo idealismo cercano di spiegare le loro proprie concezioni e di difendere i propri presupposti. Esse tentano di interpretare la dottrina di Platone in modo da renderla conforme a queste concezioni. Questo processo di interpretazione, che in fondo non è altro che una lenta e continua metamorfosi del pensiero di Platone, inizia molto presto. Possiamo seguirlo nel corso dell’intero sviluppo successivo della filosofia greca. Gli immediati successori di Platone, le diverse scuole accademiche come anche gli Stoici, i Neopitagorici, i Neoplatonici, presero parte a questa evoluzione generale. Ognuna di queste scuole intende e spiega la dottrina platonica delle idee in base al proprio significato e cerca di subordinarla alle proprie concezioni sistematiche e finalità sistematiche. A tal fine si esigeva un’interpretazione degli originali concetti platonici la quale, molto spesso, correva il rischio di renderli quasi irriconoscibili. Lo stesso processo di modifica e trasformazione della dottrina di Platone continua nella filosofia medievale e moderna. Nei secoli del Medioevo, il pericolo di una trasformazione così radicale non lo si poteva evitare ritornando semplicemente alle fonti originali. Per la filosofia medievale, difatti, queste fonti non erano più accessibili: essa, in generale, doveva

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knowledge from the Platonic Timaeus and from some scarce fragments of other dialogues that by no means could afford a thorough understanding of the essential aim and content of Platonic philosophy. At the beginning of the Middle Ages[,] we find a thinker who467 seems to be deeply influenced by Platonic thought and seems to owe to this thought the suppositions and principles of his own philosophical doctrine. The theory of knowledge contained in the work of Augustine468 and the religious Metaphysics469 of Augustine470 is based on Platonic views and it presupposes the radical distinction upheld by Plato: the distinction between the mundus sensibilis and mundus intelligibilis, between the sensual and the suprasensual world. But even this distinction is no longer understood in its proper and original sense. Augustine adopts the Platonic doctrine of ideas: but this doctrine has no longer the same central position and the same fundamental significance as it possessed in the thought of Plato. For the mundus intelligibilis, the world of the pure forms or ideas, has no longer a real autonomy, an independent meaning. The being of the pure ideas that in the system of Plato is conceived as the ultimate basis of all reality whatever is in the system of Augustine471, subordinated to a different reality: to the reality of God. Pure ideas are not subsistent of themselves and by themselves; they need a substantial support, and this support cannot be found but in the essence of God. Ideas are not to be conceived as self-sufficient entities; they are thoughts of God and inherent and residing in his infinite mind. By this view Augustine472 seems to succeed in harmonizing and reconciling the principles of Platonic philosophy and the suppositions the Christian faith is based upon. The same point of view is still maintained and defended in the first centuries of the philosophy of the Renaissance. The Re-

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trarre la sua conoscenza dal Timeo platonico e da alcuni pochi frammenti ricavati da altri dialoghi, che in nessun modo avrebbero potuto offrire una conoscenza accurata dello scopo e del contenuto essenziale della filosofia platonica. Agli albori del Medioevo troviamo un pensatore, a quanto pare, profondamente influenzato dal pensiero platonico e che sembra aver ricavato proprio da questo pensiero i presupposti e i princìpi della sua dottrina filosofica. La teoria della conoscenza contenuta nell’opera di Agostino, come anche la sua metafisica religiosa, poggiano su concezioni platoniche e presuppongono proprio quella radicale distinzione sostenuta da Platone: la distinzione tra mundus sensibilis e mundus intelligibilis, tra mondo sensibile e mondo sovrasensibile. Ma anche questa distinzione non conserva più il suo senso proprio e originario. Agostino adotta la dottrina platonica delle idee, ma quest’ultima non occupa più lo stesso posto centrale e lo stesso significato fondamentale che possedeva nel pensiero di Platone. Infatti, il mundus intelligibilis, il mondo delle forme pure o idee, non ha più una reale autonomia, un significato indipendente. L’essere delle idee pure, che nel sistema di Platone veniva concepito come il fondamento ultimo di tutta la realtà, nel sistema di Agostino viene invece subordinato a una realtà differente: alla realtà di Dio. Le idee pure non sono in se stesse e per se stesse; necessitano di un supporto sostanziale e quest’ultimo lo si può rinvenire soltanto nell’essenza di Dio. Le idee non vengono concepite come entità auto-sufficienti: sono pensieri di Dio e quindi innate e dimoranti nella sua mente infinita. Da questo punto di vista, Agostino sembra riuscire a conciliare e armonizzare i princìpi della filosofia platonica e i presupposti sui quali si fonda la fede cristiana. Lo stesso punto di vista viene mantenuto e difeso nei primi secoli

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naissance intended to be a Platonic Renaissance, a revival of those first and fundamental Platonic concepts that seemed to be forgotten and as it were buried in the Middle Ages. The Platonic Academy of Florence was the first to resuscitate the thought473 of Plato and to prepare the way to its real and authentic sources. It was not until the founder and leader of this Academy, Marsilius Ficinus, had translated the principal dialogues of Plato into Latin that these dialogues would gain their influence on the development of modern thought. But even Ficinus, however comparing Plato with Moses or even with Christ himself, is far from understanding or appreciating his doctrine in its full and original sense. In order to uphold and defend his doctrine he has to adapt it to the Christian dogma: and this adaptation, as it is attempted, for instance, in his work De religione Christiana, is one of the principal aims of the philosophy of Ficinus. By all these different attempts the doctrine of Plato has become, so to speak, a palimpsest. It may be compared with a parchment that in the course of the following centuries has been written upon over and over again, the original writing nearly having been rubbed out. Our first purpose must be to find again and to read the original text and, by a further careful investigation, to distinguish from it the different and diverging readings that have been introduced later on. Of course[,] we cannot attempt, in these few lectures, to give a full account of all the variants of this Platonic text. I wish only to draw the principal lines of thought according to which Plato’s doctrine of ideas has been varied in the later development of metaphysical, of religious or scientific thought. Even in modern times and after all the careful and patient labour

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della filosofia del Rinascimento. Il Rinascimento intendeva essere un Rinascimento platonico, un ritorno a quei primi e fondamentali concetti platonici che sembravano oramai dimenticati e seppelliti nel Medioevo. L’Accademia platonica di Firenze fu la prima a far rivivere il pensiero di Platone e a preparare la strada verso le sue fonti reali e autentiche. Fu grazie al fondatore e direttore di questa Accademia, Marsilio Ficino, e alla sua traduzione in latino dei principali dialoghi di Platone, che questi ultimi poterono esercitare la loro influenza sullo sviluppo del pensiero moderno. Ma anche Ficino, sebbene paragonasse Platone a Mosè o a Cristo stesso, era lungi dal compredere o apprezzare la dottrina platonica nel suo senso autentico e originale. Per sostenere e difendere la sua dottrina si trovò costretto ad adattarla al dogma cristiano: ed è proprio in tale adattamento – così come si tenta di fare, ad esempio, nell’opera De religione Christiana – che risiede uno degli scopi principali della filosofia di Ficino128. Per via di tutti questi tentativi la dottrina di Platone divenne, per così dire, un palinsesto, paragonabile a una pergamena sulla quale, nel corso dei secoli successivi, si è scritto e riscritto più volte fino al punto da aver quasi cancellato del tutto lo scritto originale. Il nostro obiettivo primario deve consistere nel ritrovare e nel leggere il testo originale e, grazie a un’accurata ricerca, distinguerlo dalle differenti e divergenti letture introdotte in una fase successiva. Ovviamente, non possiamo pretendere, in queste lezioni, di fornire un resoconto completo di tutte le versioni del testo platonico. Desidero solo abbozzare le principali linee di pensiero, in base alle quali la dottrina platonica delle idee è stata alterata nel corso dei successivi sviluppi del pensiero metafisico, religioso e scientifico. Anche nei tempi

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spent in the interpretation of the work of Plato by the most eminent philosophers and classical scholars[,] we are very far from having reached the goal, from having ascertained an unambiguous and generally admitted interpretation. To cite only a few well-known examples of German philosophical literature the view of Schleiermacher, of Lotze, of Zeller or Natorp concerning the meaning and tendency of Plato’s doctrine of ideas are widely divergent and they seem to be irreconcilable. I do not mean, in these lectures, to go into the detail of this controversy; all I wish is to expound my own view, to inquire into the original meaning of Plato’s philosophy and to explain the various influences by which this meaning has been altered and modified according to the different tendencies of metaphysical, religious[,] or scientific thought. [§3: Plato and his Predecessors]474 In his dialogue The Sophist, Plato gives a very striking and characteristic account of the essential differences that consists, in his opinion, between his own philosophy and the philosophy of all his predecessors. He points out that all philosophers agree with each other with regard to one and the same principal question. They inquire into the true nature of things[,] and they attempt to find out this nature by reducing the multiplicity and variety of things to some fix and permanent essences and to some primordial qualities. These qualities are considered as the elements of things – and it is elements to which alone we can ascribe a true and original being, while the being of all compound things is only a secondary and derivative one. Early Greek philosophy start-

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moderni e nonostante tutto l’accurato e paziente lavoro d’interpretazione dell’opera di Platone attuato dai più eminenti filosofi e studiosi della classicità, siamo ancora ben lungi dall’aver raggiunto lo scopo, dall’aver determinato una interpretazione chiara e generalmente accettata. Per citare solo alcuni ben noti esempi della letteratura filosofica tedesca, le concezioni di Schleiermacher129, Lotze130, Zeller131 o Natorp132, concernenti il significato e la direzione della dottrina delle idee di Platone, sono ampiamente divergenti e sembrano quasi del tutto inconciliabili. In queste lezioni non intendo addentrarmi nei dettagli di questa controversia; desidero soltanto esporre il mio punto di vista, indagare il significato originario della filosofia di Platone e quindi spiegare le varie influenze con cui questo significato è stato alterato e modificato dalle diverse tendenze del pensiero metafisico, religioso o scientifico. 3. Platone e i suoi predecessori Nel dialogo Il Sofista, Platone fornisce un importante e caratteristico resoconto della differenza essenziale esistente, a suo avviso, tra la sua filosofia e quella di tutti i suoi predecessori. Egli fa notare che tutti i filosofi concordano su un’unica e medesima questione principale. Essi indagano la vera natura delle cose e tentano di trovarla riducendo la molteplicità e varietà delle cose a delle essenze fisse e permanenti e ad alcune qualità elementari. Queste qualità vengono considerate come gli elementi delle cose e soltanto a questi elementi noi possiamo attribuire un essere vero e originario, mentre l’essere di tutte le cose composte è soltanto un essere secondario e derivato. La filosofia greca antica iniziò

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ed with the assumption that these elements of things had to be sought for and to be found in the physical world, in the world of bodies and corporeal qualities. By the philosophers of the Ionian schools a corporeal substance or quality, the substance of air, of water, of fire, was thought to be the primary matter from which all the different classes of physical things are to be derived and of which all these things consist [of]. Other philosophers as for instance Empedocles, have maintained the same doctrine, but they have, on the other hand, completed it by introducing a new point of view. According to Emp[edocles], we cannot explain the nature of things by taking into consideration their material elements alone; we have at the same time to take into consideration the forces475 by which these corporeal elements are combined with each other or separated from each other. Nature is to be explained not only by its different elementary stuff, but by those principles on which the mixture of this stuff depends. We have not only to seek for the origins of matter; we have to inquire into the nature and origin of the moving force that governs the physical universe. The principle of love and hate is declared by Empedocles to be the true origin of this moving force. [In explaining the essence of things and the constitution of the universe we have to go back to this ultimate principle]. But it is a general objection that Plato raises against all these attempts of former philosophy, Thales or Anaximenes, Empedocles and Heraclitus have, each in his turn, declared a special and concrete being to be at the root of all things, but they never give any definition of explanation of what is meant by the concept of being itself476, if we understand this concept in its universal sense. This universal sense, not a mere particular sense, is the true

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col presupporre che tutti gli elementi delle cose andassero ricercati e trovati nel mondo fisico, nel mondo dei corpi e delle qualità corporee. Per i filosofi della scuola ionica una sostanza corporea o qualità – la sostanza dell’aria, dell’acqua, del fuoco – andava pensata come la materia fondamentale dalla quale tutte le diverse classi di cose fisiche sono derivate e della quale consistono. Altri filosofi, come ad esempio Empedocle, sostennero la medesima dottrina ma essi, d’altra parte, dovettero completarla introducendo un nuovo punto di vista. Secondo Empedocle, non possiamo spiegare la natura delle cose prendendone in considerazione unicamente gli elementi materiali; noi dobbiamo, al tempo stesso, prendere in considerazione le forze attraverso le quali questi elementi materiali si mescolano e si separano. Non possiamo spiegare la natura solamente attraverso i suoi componenti elementari, ma attraverso quei princìpi dai quali dipende la mescolanza di questi componenti. Non dobbiamo cercare unicamente le origini della materia; dobbiamo piuttosto indagare la natura e l’origine della forza motrice che governa l’universo fisico. Il principio dell’amore e dell’odio viene considerato da Empedocle come l’autentica origine di questa forza motrice. Per spiegare l’essenza delle cose e la costituzione dell’universo dobbiamo ritornare a questo principio ultimo. Ma l’obiezione generale che Platone solleva contro tutti questi primi tentativi filosofici – come Talete o Anassimene, Empedocle o Eraclito, i quali, a turno, affermarono che alla radice di tutte le cose vi è un essere particolare e concreto – consiste nel fatto che non forniscono mai una definizione o spiegazione di ciò che intendono con il concetto di essere stesso, se intendiamo questo concetto nel suo senso universale. Questo senso universale, non un mero

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problem of philosophy, the problem all truly philosophical, all dialectic477 thought has to begin with. For a philosopher it is by no means enough to elect, from the totality of the universe, a single thing and to declare it is the first principle of things. For, by this, the philosophical explanation of the world would not be distinguished from the mythical explanation. That origin which is to be found in a special concrete being is declared by Plato to be a mythical not a dialectic origin. The former systems of natural philos[ophy] – says P[lato] – are not much more than fairy tales: «All who undertook to determine the number and nature of existences – says Plato in the Sophist 242 – talked to us in rather a light and easy strain. As if we had been children, to whom they repeated each his own mythos or story; one said that there were three principles, and that at one time there was war between certain of them; and then again there was peace, and they were married and begat children, and brought them up; and another spoke of two principles, – a moist and a dry, or a hot and a cold, which he brought together and gave in marriage to one another. [...] there are Ionian, and in more recent times Sicilian muses, who [...] say that being is one and many, and that these are held together by enmity and friendship, [ever parting, ever meeting [...] peace and friendship sometimes prevailing under the sway of Aphrodite, and then again plurality and war, by reason of a principle of strife]478. Whether any of them spoke the truth in all this is hard to determine; besides, antiquity and famous men should have reverence, and not be liable to accusations; so serious; Yet one thing may be said of them without offence. What thing? That

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senso particolare, rappresenta il vero problema della filosofia – il problema dal quale tutto il pensiero veramente filosofico e dialettico deve prendere le mosse. Per un filosofo non è mai sufficiente selezionare, dalla totalità dell’universo, una singola cosa e considerarla come il primo principio delle cose. In questo senso, la spiegazione filosofica non si distinguerebbe dalla spiegazione mitica. Quell’origine che viene rinvenuta in un essere particolare e concreto, Platone la considera di tipo mitico e non dialettico. I primi sistemi di filosofia naturale – afferma Platone – non sono altro che delle fiabe: Tutti coloro che si siano accinti a determinare il numero e la natura degli essenti – dice Platone nel Sofista – ci hanno parlato in un tono piuttosto leggero e sempliciotto. Come fossimo stati dei bambini, ai quali ripetevano ciascuno il proprio mito o storia; uno disse che vi erano tre princìpi, e che talvolta vi era guerra tra alcuni di essi; e poi di nuovo vi era pace, e si sposavano e generavano figli e li allevavano; e un altro parlò di due princìpi, – uno umido e uno secco, oppure uno caldo e uno freddo, ch’egli riunì e diede in matrimonio l’uno all’altro. [...] Vi sono muse ioniche, e in tempi più recenti siciliane, che [...] dicono che l’essere è uno e molti, e che questi molti sono tenuti insieme dall’inimicizia e dall’amicizia, [disunendosi e ricongiungendosi sempre [...] la pace e l’amicizia a volte prevalgono sotto l’influsso di Afrodite, e poi di nuovo la pluralità e la guerra, in ragione del principio di lotta]. È difficile da determinare se qualcuno di loro abbia detto la verità in tutto questo; inoltre, l’antichità e gli uomini illustri dovrebbero essere riveriti, e non essere passibili di accuse così. Eppure di loro una cosa si può dire senza offesa. Che cosa? Che andava-

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they went on their several ways with a good deal of disdain of people like ourselves; they did not care whether they took us with them, or left us behind them. How do you mean? I mean to say, that when they talk of one, two, or more elements, which are or have become or are becoming, or again of heat mingling with cold, assuming in some other part of their works separations and combinations of them, [...] do you understand what they mean by these expressions? When I was a younger man, I used to fancy that I understood quite well what was meant by the term “not-being”, which is our present subject of dispute; and now you see in what a perplexity we are. [...] And very likely we have been getting into the same difficulty about “being”, and yet may fancy that when anybody utters the word, we understand him and are in no difficulty [...]. The right method, I conceive, will be to call into our presence and interrogate the dualistic philosophers. To them we will say, “Ye, who affirm that hot and cold, or any other two principles which the universe consists what term is which you apply to both of them, and what do you mean when you say that both and each of them ‘are’? How are we to understand the word ‘are’? [...] Are we to suppose that there is a third principle over and above the other two, and that there are three in all, and not two, according to your notions? For clearly you cannot say that one of the two principle is being, and yet attribute being equally to both of them [...]. Since, then, we are in a difficulty, please to tell us what you mean, when you speak of being; for there can be no doubt that you always from the first understood your own meaning, whereas we once thought that we understood you, but now we are in a great strait».

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no per le loro diverse vie con una buona dose di disprezzo verso le persone come noi; non si curavano se ci portavano con loro o se ci lasciavano dietro di loro. Che intendi? Intendo dire che quando parlano di uno, due o più elementi, che sono o sono divenuti o stanno divenendo, o ancora del caldo che si mescola con il freddo, assumendo in qualche altra parte delle loro opere separazioni e ricongiunzioni di essi, [...] tu capisci cosa intendono con queste espressioni? Quando ero più giovane, solevo immaginare di aver capito abbastanza bene cosa si intendesse con il termine “non-essere”, che è il nostro attuale oggetto di disputa; e ora tu vedi in quale perplessità ci troviamo. [...] E molto probabilmente ci siamo ritrovati nella stessa difficoltà riguardo all’“essere”, eppure possiamo immaginare che, quando qualcuno pronuncia questa parola, noi lo capiamo e non siamo in difficoltà [...]. Il metodo corretto, penso, sarà chiamare idealmente alla nostra presenza i filosofi dualistici e interrogarli. A loro diremo: “Voi, che affermate l’universo consista in caldo e in freddo, o in qualsiasi altri due princìpi, che termine è mai questo che applicate a entrambi, e cosa intendete quando dite che entrambi e ciascuno di essi “sono”? Come dobbiamo intendere la parola “sono”? Dobbiamo supporre che vi sia un terzo principio oltre e al di sopra degli altri due, e che ve ne siano tre in tutto, e non due, secondo la vostra concezione? Perché è chiaro non si possa dire che uno dei due princìpi sia essere, eppure attribuite l’essere ugualmente a entrambi [...]. Siccome, dunque, siamo in difficoltà, vi preghiamo di dirci cosa intendete, quando parlate di essere; poiché non c’è dubbio che voi avete sempre compreso sin dall’inizio il vostro personale significato, mentre noi una volta pensavamo di comprendervi, ma ora siamo in grande difficoltà133.

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By this we understand in what way and by what characteristic feature of dialectic thought the thought of Plato is separated and distinguished from the thought of early Greek philosophy, from all the attempts of former natural philosophers. According to Plato natural philosophy necessarily failed to reach its goal, for it was searching for a true Being in a field in which such a Being never is to be met with. Being means persistence and permanence, and we can never hope to find it amongst those objects that are given us by sense-perception. All objects contained in Space and Time have this in common that they partake in the general nature of Space and Time. They share in the multiplicity involved in the concept of space and in the instability and mutability involved in the concept of time. The phenomena in space and time have only a transitory being and that means no true being at all. True being can be ascribed only to those objects that are not liable to change and not subject to alteration or decay. In the world of the senses such a postulate seems to be an impossible and self-contradictory one. This world, indeed, may be defined in accordance with the saying of Heraclitus. It is a world of becoming, not of Being. There is no real steadiness and no real permanence in the object of senses. [They are not to be considered as things – if we define the concept of thing by the concept and demand of substantiality]479. An object of sense-perception480 it is only a fleeting phenomenon, a single moment in a continuous process of change. There are not two of these moments that can be said to be exactly alike to each other; there is no single state that in the same manner as it is given [to] us at a certain time recurs and is repeated at a following instant. Heraclitus therefore was right to compare the world of senses with a

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Da questo brano comprendiamo in che modo, e in base a quale caratteristica dialettica, il pensiero di Platone si separa e si distingue dal pensiero presocratico e da tutti i tentativi dei primi filosofi naturali. Secondo Platone, la filosofia naturale fallì nel suo scopo, ossia cercare il vero essere proprio in quel campo in cui un tale essere non lo si sarebbe mai incontrato. “Essere” vuol dire persistenza e permanenza, e di certo non possiamo mai sperare di trovarlo proprio tra quegli oggetti che si danno a noi nella percezione sensibile. Tutti gli oggetti contenuti nello spazio e nel tempo hanno in comune il fatto di partecipare alla generale natura dello spazio e del tempo. Essi condividono la molteplicità implicita nel concetto di spazio e l’instabilità e mutabilità implicita nel concetto di tempo. I fenomeni nello spazio e nel tempo hanno soltanto un essere transitorio – e ciò significa che non vi è alcun essere vero. Il vero essere lo si può attribuire soltanto a quegli oggetti non suscettibili di cambiamento e non soggetti ad alterazione o corruzione. Nel mondo dei sensi un simile postulato si rivela impossibile e auto-contraddittorio. Questo mondo, invece, lo si può definire in accordo con quanto detto da Eraclito. Esso è il mondo del divenire, non dell’essere. Non vi è alcuna reale stabilità o reale permanenza negli oggetti dei sensi. [Essi non possono essere considerati come cose – se definiamo il concetto di cosa attraverso il concetto di sostanzialità]. Un oggetto della percezione sensibile è soltanto un fenomeno fuggevole, un singolo momento in un continuo processo di cambiamento. Non si danno due di questi momenti che possano essere considerati l’uno simile all’altro; non vi è alcun singolo stato che, nello stesso modo in cui si dà in un preciso momento, possa ricomparire e ripetersi in un istante successivo. Eraclito ebbe pertanto ragione nel parago-

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stream and to say that it is impossible for us, to dive twice into the same stream. In the field of phenomena belonging to space and time human thought cannot find any possibility of fixation. It never meets with a firm and steadfast point on which it may rest. If occupied with these objects our thought is incessantly driven from one position to another; it cannot satisfy and fasten itself, because the objects dealt with are by their very nature opposed to such an attempt. They possess no permanent qualities or determinations; but at the same moment in which we ascribe to them a fix property or modification we find ourselves compelled to deny this statement and to replace it by a different and even contradictory one. There is therefore no knowledge, no philosophy, no language which may be able to express this fluctuating and vacillating state of the phenomenal world in an adequate manner; for language and thought are dependent on stability and must give a stable character or value to all with which they wish to come in touch. To represent and describe the transitory state of the world of sciences we had to invent a new language that would consist, instead of positive terms, of merely negative terms, [of terms contradicting each other and by this destroying each other]. As the Theaitetos says (152D, 183): «nothing – in this world of sense-experience – has an absolute being by itself and, therefore, we cannot rightly call anything by any name, such as great or small, or heavy or light, for the great will prove to be small and the heavy light. There is no one or some (or any sort) of nature, but out of motion and change and admixture all things are becoming, which “becoming” is by us incorrectly called

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nare il mondo dei sensi a un fiume e ad affermare che non possiamo bagnarci due volte in esso. Nel campo dei fenomeni appartenenti allo spazio e al tempo, il pensiero umano non può mai trovare alcuna possibilità di ancoraggio. Non incontra mai un punto fermo e saldo su cui possa appoggiarsi. Se concentrato su questi oggetti, il nostro pensiero viene incessantemente spinto da una posizione all’altra; non può placarsi e stabilizzarsi, perché gli oggetti in questione sono per loro natura opposti a tale tentativo. Essi non posseggono alcuna qualità o determinazione permanente; ma nello stesso momento in cui noi attribuiamo loro una proprietà fissa o una variazione, allora ci vediamo costretti a negare questo asserto e a rimpiazzarlo con un altro alquanto differente, se non addirittura contraddittorio. Di conseguenza, non vi è alcuna conoscenza, filosofia o linguaggio, in grado di esprimere in modo adeguato questo fluttuante e vacillante stato del mondo fenomenico; d’altra parte, il pensiero e il linguaggio dipendono dalla stabilità e devono fornire un valore o carattere stabile a tutto ciò con cui intendono entrare in contatto. Per rappresentare e descrivere lo stato transitorio del mondo delle scienze, abbiamo dovuto inventare un nuovo linguaggio che consiste, piuttosto che di termini positivi, di termini negativi, di termini che si contraddicono e che si distruggono vicendevolmente. Come affermato nel Teeteto (152D, 183)134: «Niente – in questo mondo di esperienza sensoriale – è in sé un essere assoluto e, pertanto, non possiamo chiamare nulla correttamente con alcun nome, come grande e piccolo, o pesante e leggero, poiché il grande si rivelerà essere piccolo, e il pesante leggero. Non c’è alcun uno o alcuna (o alcun tipo di) natura, ma dal movimento e dal cambiamento e dalla mescolanza tutte le cose sono in divenire, il quale “divenire” è da noi impropriamente

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being. For nothing ever is but all things are becoming […]. And we ought not to use the word “this” or “not this”, for there is no motion in “this” or “not this”; the maintainers of this doctrine have as yet no words to express themselves, and must introduce a new language. The word that would perhaps be the most appropriate is perhaps the word “in no way” – which means what is perfectly indefinite and indeterminate (οὐκ ἔχουσι ῥήματα, εἰ μὴ ἄρα τὸ “οὐδ᾿ ὅπως μάλιστα δ᾿ οὕτως ἂν αὐτοῖς ἁρμόττοι, ἄπειρον λεγόμενον… Theat. 183 A481)»482. But it is obvious that philosophical, that dialectic thought cannot be satisfied with such a negative language. [in which sophistic thought rejoices, because it finds this negativity appropriate and convenient to defend its principal thesis: the thesis of the relativity of all truth]. Dialectic strives for a positive, and that means for a steadfast and unalterable knowledge, for a knowledge of absolute certainty and absolute validity. According to this first axiom483, according to the presupposition and to the very aim of Dialectic, Philosophy has to go beyond the limits of the phenomenal world. This world is a world of faith (πίστις), not a world of knowledge (ἐπιστήμη). We can never gain an exact and precise knowledge of an object which by its very nature excludes all precision, which is not capable of a distinct and accurate definition484 but remains to a certain extent vague, which is of an ill-defined meaning. All the objects of sense are liable this sort of vagueness. They may be perceived: but to be perceived means something very different from being conceived. To conceive a thing means to give it a definite and unalterable character, by means of which it may be recognized as one at the same time[,] at all different times. This sameness, this identity and uniformity is the essential

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chiamato essere. Poiché niente è mai ma tutte le cose sono in divenire [...]. E non dovremmo usare la parola “questo” o “non questo”, perché non c’è movimento in “questo” o “non questo”; i sostenitori di questa dottrina non hanno ancora parole per esprimersi, e devono introdurre un nuovo linguaggio. La parola che sarebbe forse quella più appropriata è forse la parola “in nessun modo” – che significa ciò che è perfettamente indefinito e indeterminato [οὐκ ἔχουσι ῥήματα, εἰ μὴ ἄρα τὸ “οὐδ᾿ ὅπως μάλιστα δ᾿ οὕτως ἂν αὐτοῖς ἁρμόττοι, ἄπειρον λεγόμενον] (Teeteto 183A)135»136. Ovviamente, il pensiero filosofico o dialettico non può limitarsi a un simile linguaggio negativo, di cui il pensiero sofistico invece si rallegra, poiché tale negatività risulta appropriata e conveniente per difendere la propria tesi principale: la tesi della relatività di ogni conoscenza. La dialettica tende al positivo, ossia a una conoscenza salda e immutabile, di validità e certezza assolute. Secondo questo primo assioma, come anche secondo il presupposto e lo scopo principale della dialettica, la filosofia deve procedere oltre i limiti del mondo fenomenico. Quest’ultimo è un mondo di fede (πίστις), non un mondo di conoscenza (ἐπιστήμη). Non possiamo acquisire una conoscenza esatta e precisa di un oggetto che, per sua natura, esclude ogni precisione, che non è suscettibile di una distinta e accurata definizione, ma che rimane invece piuttosto vago e dal significato indefinito. Tutti gli oggetti sensibili sono suscettibili di questo tipo di vaghezza. Noi li possiamo percepire: ma “essere percepito” significa qualcosa di molto diverso dall’“essere concepito”. Concepire una cosa significa conferirle un carattere definito e immutabile, grazie al quale possiamo riconoscerla come “una” in ogni singolo momento. Questa identità e uniformità costituisce il carattere es-

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character of true knowledge. That idea or essence, which in the dialectical process we define as essence or true existence – whether essence of quality, beauty, or anything else, is not liable at times to some degree of change. Each of them is always what it is485, having the same simple self existent and unchanging forms, and not admitting of variation at all, or in any way, or at any time (ἢ ἀεὶ αὐτῶν ἕκαστον ὃ ἔστι, μονοειδὲς ὂν αὐτὸ καθ᾽ αὑτό, ὡσαύτως κατὰ ταὐτὰ ἔχει καὶ οὐδέποτε οὐδαμῇ οὐδαμῶς ἀλλοίωσιν οὐδεμίαν ἐνδέχεται, Phaid., 78D). According to these considerations we are now in a position to define in a general way the Platonic doctrine of ideas. [§4: The Doctrine of Ideas]486 [This doctrine is, of course, a metaphysical one – and it involves a definite metaphysical conception of the universe. But the Metaphysics487 of Plato is not based on a merely subjective view nor is it speculative in such a sense as to be dependent on arbitrary assumptions. It rests on a speculation that is not concerned with and directed to imaginary things but that entirely depends on Plato’s definition of truth]488. According to Plato we cannot define the nature of things and we cannot penetrate their origin before having investigated the nature of truth489. Ontology, the science of being, depends on Logic – the science of truth; the explanation of truth is the fix point to which all special judgements490 about the existence and properties of things must be referred. Plato declares the definition of truth to be the fixed and unmoving pole of philosophy – as the concept which has to serve as a

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senziale della vera conoscenza. Questa idea o essenza, che nel processo dialettico definiamo come essenza o vera esistenza – come l’essenza dell’uguaglianza, della bellezza e via dicendo –, non è soggetta nel tempo a un qualche grado di mutamento. Ognuna di esse rimane sempre ciò che è, avendo costantemente la medesima forma immutata e auto-evidente e non ammettendo in alcun modo variazioni nel tempo (ἢ ἀεὶ αὐτῶν ἕκαστον ὃ ἔστι, μονοειδὲς ὂν αὐτὸ καθ᾽ αὑτό, ὡσαύτως κατὰ ταὐτὰ ἔχει καὶ οὐδέποτε οὐδαμῇ οὐδαμῶς ἀλλοίωσιν οὐδεμίαν ἐνδέχεται, Fedone, 78D). In base a queste considerazioni, siamo adesso in grado di descrivere, in modo generale, la dottrina platonica delle idee. 4. La dottrina delle idee [Questa dottrina, ovviamente, è di tipo metafisico e implica una determinata concezione metafisica dell’universo. Ma la metafisica di Platone non poggia su una concezione puramente soggettiva, né la si può considerare speculativa nel senso di dipendere da assunzioni arbitrarie. Essa poggia in verità su una speculazione che non concerne e non è diretta verso oggetti immaginari, ma dipende interamente dalla definizione platonica di verità]. Secondo Platone, non possiamo definire la natura delle cose, né coglierne l’origine senza aver prima indagato la natura della verità. L’ontologia (la scienza dell’essere) dipende dalla logica (la scienza della verità). La spiegazione della verità è il punto fermo al quale vanno riferiti tutti i giudizi particolari sull’esistenza e sulle proprietà delle cose. Platone considera la definizione di verità come il punto fisso e stabile della filosofia – un concetto che funge per noi da guida e stella polare in

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guide and lodestar in all our inquisitions into particular objects and particular problems. We must define and determine the concept of Being in such a way as to make it conformable to the standard of truth that is to be detected and to be explained by the principles of dialectic reasoning. The existence of the varying and mutable phenomena of sense-experience is contrary to the first and principal demand. To fulfill this demand, [or, what means the same, to fulfill the necessary condition of all philosophical thought], we must therefore transgress this sphere of finite and transitory appearances. We must search for objects that are appropriate to our postulate of an invariable491 knowledge – of a knowledge of things that really are, instead of forsaking and denying their own nature from one moment to another. In the terminology of Plato this thought is expressed by the distinction of what is called the sphere of the ὄντως ὄν, the real existence from the domain of mere ὄντα. By this distinction the Platonic Philosophy introduces, so to speak, a new dimension in the investigation and explanation of the universe. The field of empirical things is, as it were, only the superficies of things; a superficies that does not indicate their real depth. To explore this depth, to probe and penetrate with the perception (of the ὄντα) of the concrete and particular objects in space and time; [we must define and explain the meaning of the ὄντως ὄντα]492: we must conceive the universal sense that is contained in our logical, mathematical, ethical concepts and judgements. The clearest and most characteristic description of this new starting point of Platonic philosophy is contained in a passage of Phaidon (99B)493. In this passage

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tutte le nostre indagini su oggetti particolari e problemi particolari. Dobbiamo definire e determinare il concetto di essere in modo da renderlo conforme al criterio di verità rilevato e spiegato dai princìpi del ragionamento dialettico. L’esistenza dei variabili e mutevoli fenomeni dell’esperienza percettiva è contraria a questa prima e principale esigenza. Per soddisfare questa esigenza – o, il che è lo stesso, per soddisfare la condizione necessaria di tutto il pensiero filosofico – dobbiamo pertanto violare la sfera delle apparenze finite e transitorie. Dobbiamo andare alla ricerca di quegli oggetti adeguati al nostro postulato di una conoscenza invariante – di una conoscenza delle cose per come sono realmente, invece di rinunciare o negare questa sua natura da un momento all’altro. Nella terminologia di Platone, questo pensiero viene espresso dalla distinzione tra ciò che viene chiamata sfera dell’ὄντως ὄν (l’esistenza reale) e il dominio dei meri ὄντα (esistenza empirica). Attraverso tale distinzione, la filosofia platonica introduce, per così dire, una nuova dimensione nell’indagine e spiegazione dell’universo. Il campo delle cose empiriche, in un certo senso, rappresenta soltanto la superficie delle cose; una superficie che non rivela in alcun modo la loro reale profondità. Per esplorare questa profondità, per saggiare e penetrare l’essenza delle cose, dobbiamo imboccare una strada diversa. Non bisogna prendere le mosse dalla percezione degli oggetti concreti e particolari presenti nello spazio e nel tempo (degli ὄντα); [dobbiamo definire e spiegare il significato degli ὄντως ὄντα]: dobbiamo considerare il senso universale espresso nei nostri concetti e giudizi logici, matematici ed etici. La descrizione più chiara e caratteristica di questo nuovo punto di partenza della filosofia platonica è contenuto in un brano del Fedone (99B). In questo brano Socrate fornisce un reso-

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Sokrates gives an account of the motives that induced him to leave the way of all the former systems of Greek philosophy and to pursue a perfectly new course. But there is no doubt that Plato in this passage does not mean to describe the origin of the thought of Sokrates[,] but he alludes to his own philosophical evolution: «I thought – says Sokrates after having described his vain and fruitless attempts to gain a true knowledge by the investigation of the natural phenomena – I thought that I ought to be careful unless I should fall to the lot of those who gaze on the sun during an eclipse. For many of them injure their eyes, unless they take the precaution of only looking at the image of the sun, reflected in the water, or in some similar medium. That occurred to me, and I was afraid that my soul might be blinded altogether if I looked at the things with my eyes or tried to apprehend them by all the different kinds of sense-perception. And I thought that I had better have recourse to the reason of things (λόγοι) and contemplate in them the truth of things (ἔδοξε δή μοι χρῆναι εἰς τοὺς λόγους καταφυγόντα ἐν ἐκείνοις σκοπεῖν τῶν ὄντων τὴν ἀλήθειαν). But I dare say that the simile is not perfect – for I am very far from admitting that he who contemplates existences through the medium of thought (τὸν ἐν τοῖς λόγοις σκοπούμενον τὰ ὄντα) sees them only like mere pictures any more than he who sees them in their actuality, in their working and effects (Phaed. 99D)». We had to quote this passage at some length – for, in the whole work of Plato it is perhaps the only one in which Plato himself gives an account of the historical and systematic origin of his doctrine, of the reasons that led him to the assumption of a world of ideas or pure forms. Plato does not begin with the question what494 things are, he asks why495 and

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conto dei motivi che lo indussero ad abbandonare la via seguita da tutti i precedenti sistemi filosofici greci e a battere, invece, un sentiero del tutto nuovo. Ma senza alcun dubbio Platone, con questo brano, non intende descrivere l’origine del pensiero di Socrate, ma allude piuttosto alla propria evoluzione filosofica. «Pensai – dice Socrate dopo aver descritto i suoi vani e infruttuosi tentativi di ottenere una vera conoscenza attraverso l’indagine dei fenomeni naturali – pensai di dover stare attento, a meno che non volessi cadere nella sorte di coloro che guardano il sole durante un’eclissi. Poiché molti di essi danneggiano i loro occhi, a meno che non prendano la precauzione di guardare soltanto all’immagine del sole riflessa nell’acqua, o in qualche tramite simile. Questo mi venne in mente, ed ebbi paura che la mia anima potesse venire completamente accecata guardando alle cose coi miei occhi o cercando di coglierle attraverso ciascuno degli altri tipi di percezione sensoriale. E pensai che avrei fatto meglio a ricorrere alla ragione delle cose (λόγοι) e contemplare in esse la verità delle cose (ἔδοξε δή μοι χρῆναι εἰς τοὺς λόγους καταφυγόντα ἐν ἐκείνοις σκοπεῖν τῶν ὄντων τὴν ἀλήθειαν). Ma oserei dire che la similitudine non è perfetta – poiché sono ben lungi dall’ammettere che chi contempla le esistenze tramite il medio del pensiero (τὸν ἐν τοῖς λόγοις σκοπούμενον τὰ ὄντα) le veda come mere immagini più di chi non le veda nella loro attualità, nel loro operare e nei loro effetti» (Fedone, 99D)137. Abbiamo citato questo brano in tutta la sua estensione, giacché all’interno dell’intera opera platonica esso si rivela forse l’unico in cui Platone fornisce l’origine storica e sistematica della sua dottrina, delle ragioni che lo condussero a presupporre un mondo di idee o forme pure. Platone non inizia le sue indagini chiedendosi che cosa sono le cose; piuttosto, si chiede perché e per quale ra-

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by what reason496 things are. He does not only inquire into the existence and properties of things; he demands to know their essence and their reason. Therefore[,] his philosophical question cannot be immediately directed [to what he calls τὰ ὄντα o τὰ πράγματα] to the actual empirical things; it must be directed [to what he calls οἵ λόγοι] to the ideal principles that explain the nature of things and that give a logical and scientific account of it. After many fruitless attempts to find out these principles in the sphere of empirical objects themselves Plato had to change his course. He formed a resolution to shift the problem to a different place or, he says himself, to venture a second voyage (δεύτερον πλοῦν), that voyage, that ultimately led him to the discovery of a new land, of the realm of ideas. But it would be a mistake to think that Plato could make this discovery by soaring above the whole field of knowledge and by transcending this field in a sort of a sudden ecstatic view. Such an ecstasy that was demanded and extolled in later philosophical systems that appealed to the authority of Plato, is not the way of Plato himself. What he demands is a careful method, that, step by step, leads the human mind from the world of ϕαινόμενα to the world of νοούμενα, from the world of mere things to the world of pure forms. Plato resolves to leave the empirical world [the world of πράγματα] but he never goes beyond the limits of the logical world [the world of λόγοι]. He does not claim to possess an immediate intuition of truth; he attempts to find out truth by dialectical process, by a process of analysis and deduction. The aim of philosophy is not to be reached by a leap in the dark: the way to truth must be found and must be secured by a patient labour of the human mind, by a slow

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gione esse sono. Egli non indaga solamente l’esistenza e le proprietà delle cose; esige di conoscere la loro essenza e ragione. Pertanto, la questione filosofica da lui posta non la si può indirizzare direttamente alle cose effettivamente empiriche, a ciò che egli chiama τὰ ὄντα o τὰ πράγματα; essa, piuttosto, va diretta ai princìpi ideali che spiegano la natura delle cose e che forniscono un resoconto logico e scientifico di essa, ovvero a ciò che egli chiama οἵ λόγοι. Dopo molti tentativi infruttuosi di trovare questi princìpi nella sfera degli oggetti empirici stessi, Platone dovette modificare il suo percorso. Concepì una soluzione al fine di spostare il problema da un’altra parte o, come egli stesso dice, avventurarsi in un secondo viaggio (δεύτερον πλοῦν), che lo condusse in definitiva alla scoperta di una nuova terra: il mondo delle idee. Ma sarebbe un errore pensare che Platone poté effettuare questa scoperta librandosi sopra l’intero campo della conoscenza e trascendendo questo campo in una sorta di improvvisa visione estatica. Una tale estasi – richiesta ed esaltata da tutti quei successivi sistemi filosofici che si sono appellati all’autorità di Platone – non costituisce affatto il metodo di Platone. Ciò che egli esigeva era un metodo accurato, che conducesse la mente umana, passo dopo passo, dal mondo dei ϕαινόμενα al mondo dei νοούμενα, dal mondo delle semplici cose al mondo delle idee pure. Platone decide di abbandonare il mondo empirico (il mondo dei πράγματα), ma non oltrepassa mai i limiti del mondo logico (il mondo dei λόγοι). Platone non afferma di possedere una intuizione immediata della verità; tenta di trovarla attraverso un processo dialettico, attraverso un processo di analisi e deduzione. Lo scopo della filosofia non va raggiunto con un salto nel buio: la via che conduce alla verità va cercata e protetta attraverso un paziente lavoro della mente umana, attraverso un

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and continuous progress of thought that is to be made in the full light and under the control of reason. Plato describes this progress, this ascent from the world of sense-experience to the world of pure forms in the famous simile that he has inserted in the beginning of the seventh book of the Republic497. What is most important and most significant in this Platonic simile of the prisoner in the cave is the fact that Plato does not admit that men can be freed from their state of original ignorance, from this state in which they mistake the shadows of things for real things, by a sudden impulse of their own will of by assistance from without, by a sort of immediate revelation498 of truth. Everyone who wishes to come to an insight into the nature of truth, to a vision of the pure ideas or forms, has to traverse an arduous and toilsome way – and he cannot leap over any single step of this way without missing his aim. Dialectic means the way contrary to any immediate illumination or any immediate inspiration of the human mind. The light of truth cannot be given [to] us by such an illumination; it must be reached and be conquered by a patient and assiduous labour that makes the human reason accustomed to the sight of truth. According to this, the philosophy of Plato is to be regarded not only as a speculative theory that defends a certain thesis about the nature of truth and that, so to speak, reveals this nature at one blow. It is not only a metaphysical dogma that all at once has to be accepted or to be rejected: it is a method destined for the investigation of truth. Hence[,] the real meaning of Plato’s doctrine cannot be understood and cannot be explained in the right sense by merely assigning its final goal; we must follow its way. Instead of contenting ourselves with a material description of what is meant by the

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lento e continuo progresso di pensiero da realizzare alla luce e sotto il controllo della ragione. Platone descrive questo progresso, questa ascesa dal mondo dell’esperienza sensibile al mondo delle forme pure, con la famosa similitudine da lui inserita all’inizio del settimo libro della Repubblica. L’aspetto più importante e significativo della similitudine del prigioniero della caverna consiste nel fatto che Platone non ritiene gli uomini possano essere liberati dal loro stato di originaria ignoranza – da quello stato in cui essi scambiano erroneamente le ombre delle cose per quelle reali – attraverso un improvviso impulso della loro volontà o tramite un aiuto esterno, mediante una sorta di immediata rivelazione della verità. Chiunque desideri giungere a una intuizione della natura della verità, a una intuizione delle idee o forme pure, deve attraversare un arduo e faticoso percorso – e non può saltare un singolo passaggio del percorso senza mancare lo scopo. La dialettica si pone in netta antitesi a una illuminazione o ispirazione immediata della mente umana. La luce della verità non ci viene fornita da una simile illuminazione; va raggiunta e conquistata attraverso un paziente e assiduo lavoro che abitui la ragione umana alla vista della verità. In base a ciò, la filosofia di Platone va pertanto concepita non tanto come una teoria speculativa tesa a difendere una determinata tesi sulla natura della verità e che, per così dire, rivela tale natura in un sol colpo. Essa non è soltanto un dogma metafisico che d’un tratto può essere accettato o rifiutato; è piuttosto un metodo diretto alla ricerca della verità. Pertanto, l’autentico significato della dottrina di Platone non può essere compreso o spiegato in un senso corretto limitandoci unicamente al suo scopo finale; dobbiamo invece seguirne il percorso. Invece di accontentarci di una descrizione materiale di ciò che si intende per mondo delle forme pure, dobbiamo

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realm of pure forms we must examine the formal principles, on which the hypothesis of Plato499 is based; we must not adopt or reject his ready-made doctrine, we must analyze and scrutinize the single arguments he proposes; we must probe deeply into his way of arguing and reasoning. It is in this point that many of the followers of Plato and many of his commentators have failed500. But it is not enough to give a description, a sort of mental picture of the essence and constitution of the Platonic realm of ideas; we must repeat the process of thought by which Plato is led to his hypothesis and by which he attempts to make sure of his validity and necessity. [5: Language, Mathematics, Ethics]501 In setting ourselves this task we may refer to three important problems by the consideration of which Plato was led to his fundamental doctrine and all of which proved to be indispensable for the discovery and demonstration of this doctrine. The first of these problems is the problem of language502; the second is the problem of Mathematics503, the third is the problem of Ethics and ethical life504. To begin with the first question, with Plato’s theory of language, we find that this theory pervades[,] in a certain sense[,] his whole philosophical world. He has treated the problem of the nature and origin of language in a special writing, the Dialogue Kratylos, and in the systematic survey of the meaning and the sources of the doctrine of ideas that is contained in the seventh letter of Plato – a letter the authenticity of which seemed to be questionable for a long time[,] but has recently been505 proved by convincing philological and philosophical arguments506.

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esaminare i princìpi formali sui quali poggiano le ipotesi di Platone; dobbiamo non tanto adottare o rigettare una dottrina già bell’e pronta, quanto invece analizzare e vagliare i singoli argomenti da lui proposti; dobbiamo saggiare profondamente il suo modo di discutere e ragionare. È proprio su questo punto che molti dei successori di Platone, come anche un buon numero di commentatori, hanno fallito. Ma ciò non basta a fornire una descrizione, una sorta di ritratto intellettuale dell’essenza e costituzione del platonico mondo delle idee; dobbiamo ripercorrere il processo di pensiero che condusse Platone alle sue ipotesi e in virtù del quale egli cercò di assicurarsi della sua validità e necessità. 5. Linguaggio, matematica, etica Nel prefissarci questo compito possiamo far riferimento a tre importanti problemi, la cui analisi condusse Platone alla sua dottrina fondamentale e che si rivelarono tutti indispensabili per la scoperta e dimostrazione di questa dottrina. Il primo di questi problemi è quello del linguaggio; il secondo è il problema della matematica, il terzo è quello dell’etica e della vita etica. Iniziando con la prima questione, con la teoria platonica del linguaggio, notiamo che essa pervade in un certo senso il suo intero mondo filosofico. Platone affrontò il problema della natura e dell’origine del linguaggio sia in uno scritto particolare, il dialogo Cratilo, come anche nell’indagine sistematica del significato e delle fonti della dottrina delle idee contenuta nella settima lettera – la cui autenticità è stata per lungo tempo oggetto di diatriba e che solo di recente è stata considerata autentica con convincenti argomenti filologici e filosofici.

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As I pointed out at the end of my last lecture[,] there are three ways that are apt to lead us to an understanding of his principal doctrine – of doctrine507 of ideas. We have to study his philosophy of language508, his philosophy of Mathematics and his ethical philosophy. To begin with the first point: what is509 language and what means it (sic), if we consider it, not from the point of view of a philologist or grammarian, and not like the Sophists from the point of view of Rhetoric510 but from the point of view of philosophy or Dialectic. Dialectic is, of course, from its very beginning and according to its nature and essence, interested in this problem – for without language there would be no “dialogue” and no dialectic thought. But how can we ascribe any truth, any objective nature, to language? It is not obvious that the terms of language have an entirely conventional character? They are spoken by men[,] and they are made by men. They are arbitrary signs511 that would have been made in a quite different way. There is no connexion at all between a word, a linguistic term, and a thing to which the term refers. In the dialogue Kratylos512 – Kratylos, a pupil of Heraclitus513 – maintains the thesis that the first and originary words of men expressed the nature of the thing spoken of. They gave us a true insight514 into this nature – that had a really objective value, they were not merely conventional signs. But Plato rejects and ridicules this thesis. The dialogue Kratylos is one of the most amusing pieces of Greek philosophy – it is really a joke of Plato. What Plato derides is the new art of etymology515 that had been introduced a short time before and that had been introduced a short time before and that had won a great interest. Etymology means, in Greek, the use of the “right word”. It contains, therefore, the assumption that

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Come ho già segnalato nella mia ultima lezione, esistono tre vie che ci consentono di comprendere la principale dottrina di Platone – la sua dottrina delle idee. Bisogna studiare la sua filosofia del linguaggio, la sua filosofia della matematica e la sua filosofia morale. Iniziamo dal primo punto: cosa è il linguaggio e cosa significa, considerandolo non da un punto di vista filologico o grammaticale e nemmeno dal punto di vista della retorica come solevano fare i Sofisti, quanto invece dal punto di vista della filosofia e della dialettica. La dialettica, ovviamente, è interessata a questo problema sin dai suoi inizi e secondo la sua natura ed essenza, poiché senza linguaggio non vi sarebbe alcun “dialogo” e nessun pensiero dialettico. Ma come possiamo attribuire una qualunque verità o natura oggettiva al linguaggio? Non è ovvio che i termini del linguaggio possiedono un carattere interamente convenzionale? Essi vengono pronunciati e creati dagli uomini. Sono segni arbitrari da realizzare in un modo piuttosto differente. Non sussiste alcuna connessione tra una parola, un termine linguistico, e la cosa alla quale il termine fa riferimento. Nel dialogo omonimo, Cratilo – un seguace di Eraclito – sostiene la tesi secondo cui le prime e originarie parole degli uomini esprimevano le cose di cui si parlava. Esse ci fornivano una comprensione genuina di questa natura e possedevano un autentico valore oggettivo, per cui non erano segni meramente convenzionali. Ma Platone rigetta e ridicolizza questa tesi. Il dialogo Cratilo è una delle più piacevoli composizioni della filosofia greca – Platone si prende proprio gioco di Cratilo. Ciò che Platone ridicolizza è la nuova arte dell’etimologia, la quale non soltanto era stata introdotta poco tempo prima, ma aveva anche goduto di un ampio interesse. Etimologia, in greco, indica l’utilizzo della “parola esat-

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there is such a thing as a “right word” for everything – and that we shall succeed in discovering this right word as soon as we go back to the origin of language. When understood in this way the thesis is, of course, quite inadmissible for Plato516. He cannot admit that there517 is any natural resemblance, any conformity between the name of a thing and the thing in itself. Nevertheless, the fact that we express things by names – that it is possible to speak about objects – raises a new question. As long as we confine ourselves within the limits of sense-perception, we can scarcely account for this fact. For the name always means something general518 – whereas all our sense-perceptions never have a general, but a particular or even individual character. Moreover[,] the name is supposed to have a constant, steadfast, unchanging meaning. In order to be understood it must, by the speaker and the listener, [be] used in the same sense. It is, however, just this sameness, this identity, this constancy that – as we have seen – is entirely alien to the world of our sense perception519. The name must possess a certain steadfastness[,] it must be used in the same identical sense, or it would not at all be a name;520 it would be a changing and fluctuating sound by which nothing could be denominated of communicated. But it is just this condition that never is to be fulfilled – so far as we are concerned with empirical objects and so far as we are confined within the strict limits of sense-perception. For, as Plato had pointed out before, in this field we hope in vain to find any sameness or constancy. Here all the so-called objects prove to be nothing but fleeting phenomena that change their nature from one moment to another. If things521 are in a perpetual flow – how can we speak522

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ta”. Essa contiene, pertanto, l’assunto secondo cui si dà una “parola esatta” per ogni cosa, e noi saremo in grado di scoprirla una volta ritornati all’origine del linguaggio. Se intesa in questo modo, la tesi risulta piuttosto inammissibile per Platone. Egli non ritiene possibile una somiglianza naturale, una conformità tra il nome di una cosa e la cosa stessa. Ciononostante, il fatto che noi esprimiamo le cose attraverso i nomi – che è possibile parlare di oggetti – solleva una nuova questione. Finché confiniamo noi stessi all’interno dei limiti della percezione sensibile, non possiamo spiegare questo fatto; infatti il nome indica sempre qualcosa di generale, mentre tutte le nostre percezioni sensibili non hanno mai un carattere generale, quanto invece particolare o, addirittura, individuale. Inoltre, il nome si suppone abbia un significato costante, saldo, immutabile. Se intendiamo comprenderlo, allora dobbiamo utilizzarlo nello stesso senso in tempi differenti e sia chi parla sia chi ascolta devono attribuirgli il medesimo significato. Ed è proprio questa identità, questa costanza che, come abbiamo già visto, è del tutto estranea al mondo della nostra percezione sensibile. Il nome deve possedere una certa determinazione, che va usata nello stesso e identico senso, altrimenti non sarebbe un nome ma un suono mutevole e variante col quale non si potrebbe designare o comunicare nulla. Ma è proprio questa condizione che non viene mai soddisfatta, nella misura in cui ci occupiamo di oggetti empirici e ci rinserriamo negli angusti limiti della percezione sensibile. D’altra parte, come Platone aveva già rilevato, in questo campo noi speriamo invano di trovare l’identità o la costanza. Qui, tutti i cosiddetti oggetti si rivelano nulla di più che fenomeni passeggeri che mutano la loro natura da un momento all’altro. Se le cose sono soggette a un movimento perpetuo, come

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of things? At the same moment of using a certain word it would have lost its meaning because the object it was meant for had lost its nature and undergone a radical change523. If there are any objects that correspond to our words – they can, therefore, not be usual objects, the empirical objects given by sense-perception. They must belong to a different realm. Names – concludes Plato – are not names of things524, of objects of sense-experience – but names of concepts525. If we do not admit the truth and the reality of concepts, we cannot account for the fact of language. In language we always speak of general predicates. In mathematics we introduce such terms as likeness, equality, similarity – in our ethical or aesthetical judgements we speak of beauty, justice, temperance and so on. All this would entirely lose its sense if beyond the sphere of our sense-perception there were not another sphere – if there were no ideal objects that possess a real sameness, an identity and unchangeability. The second approach to the ideal world we find in Mathematics526. When Plato527 founded his philosophic school in Athens, his Academy, he wrote on the door of his school the famous words: A man who does not know geometry ought not to cross this threshold! Plato’s whole theory of truth, his theory of the ideal world, depends, as a matter of fact, entirely on the answer he gives to the question what mathematical528 truth is and means. Mathematics must have an object – or it would not529. Empirical things are never exactly alike; for in the world of becoming to which these things belong the saying of Heraclitus that we cannot dive twice

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possiamo parlare di cose? Nel preciso momento in cui utilizziamo una certa parola, essa perde il suo significato, in quanto l’oggetto che essa indicava ha già perso la sua natura, in quanto soggetto a un mutamento radicale. Se vi sono oggetti che corrispondono alle nostre parole, allora non possono in alcun modo essere gli oggetti comuni, gli oggetti empirici che si danno nella percezione sensibile. Devono appartenere a un mondo differente. I nomi – conclude Platone – non sono nomi di cose, oggetti dell’esperienza sensibile, ma nomi di concetti. Se non ammettiamo la verità e la realtà dei concetti, allora non possiamo render conto del fatto del linguaggio. Nel linguaggio parliamo sempre di predicati generali. In matematica noi introduciamo termini come somiglianza, uguaglianza, similarità; nei nostri giudizi etici o estetici parliamo di bellezza, giustizia, temperanza e così via. Tutti questi termini perderebbero interamente il loro senso, se oltre la sfera della nostra percezione sensibile non vi fosse un’altra sfera, se non vi fossero oggetti ideali che possiedono una reale similarità, identità e invarianza. Il secondo approccio al mondo ideale lo rinveniamo nella matematica. Quando Platone fondò la sua scuola filosofica ad Atene, l’Accademia, scrisse sulla porta della scuola queste parole famose: “non entri chi non sa di geometria”. L’intera teoria platonica della verità, la sua teoria del mondo ideale, di fatto, dipende interamente dalla risposta che egli diede alla seguente questione: cos’è la verità matematica e cosa significa? La matematica deve avere un oggetto – altrimenti non sarebbe. Le cose empiriche non sono mai esattamente simili; infatti nel mondo del divenire, al quale queste cose appartengono, rimane valido il detto di Eraclito secondo cui non possiamo bagnarci due volte nello

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into the same stream remains always valid. In this world nothing is530, nothing has a fixed state, but it is generated by motion. There is no one or self-existent thing, but everything is becoming and in relation; and being has to be altogether abolished (τὸ δ᾽ εἶναι πανταχόθεν ἐξαιρετέον Theaet. 157B). But in the act of denomination, in denoting a thing by a name, human thought faces this difficulty and supersedes this difficulty. It abstracts from all the innumerable variety of things and of all their special differences, it gives them a constant form by calling them by one and the same name. The imposition of a name is therefore the first beginning of thought – and since all thought is concerned with true being it possesses an objective value, it is a preparatory and necessary step for reaching objective truth. The special name given to a special thing is, of course, conventional and arbitrary; it cannot be derived from nor explained by the nature of the thing itself. But the act of denomination, taken as a whole, is not a merely arbitrary and capricious one; it involves an act of thinking and submits therefore to the rules of thinking, to logical rules. By this solution of the problem Plato overcomes at the same time the mere subjectivity of the sophistical doctrine and the false objectivity of the realistic hypothesis maintained by Cratylus. But however[,] insisting on the logical power of language, he is very far from admitting that the real scope of knowledge is to be reached in this sphere. He draws a sharp line of demarcation between the realm of words and the realm of pure ideas. Logic and Metaphysics531 that are concerned with the latter field are not to be confused with Grammar or Rhetoric, which deal with the former field. It is by this distinction that Plato, once

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stesso fiume. In questo mondo nulla è, nulla possiede uno stato fisso, poiché le cose sono invece generate dal movimento: «Non c’è cosa che sia una o esistente in sé e per sé, ma tutto diviene ed è in relazione; e l’essere dev’essere del tutto abolito (τὸ δ᾽ εἶναι πανταχόθεν ἐξαιρετέον)»138. Ma nell’atto della denominazione, nel denotare una cosa mediante un nome, il pensiero umano affronta questa difficoltà e la supera. Esso astrae dalla innumerevole varietà di cose e da tutte le sue differenze particolari, conferendo a tale varietà una forma costante chiamandola con un solo e unico nome. L’imposizione di un nome costituisce pertanto l’inizio del pensiero; e poiché tutto il pensiero ha a che fare con il vero essere, allora possiede un valore oggettivo, è un passo preliminare e necessario per la ricerca della verità oggettiva. Il nome particolare dato a una cosa particolare è, ovviamente, convenzionale e arbitrario; non lo si può far derivare, né spiegare dalla natura della cosa stessa. Ma l’atto della denominazione, preso nel suo complesso, non è un atto meramente artificioso e arbitrario, giacché esso implica un atto del pensare soggetto, pertanto, alle regole del pensare, alle regole logiche. Con tale soluzione al problema, Platone supera al tempo stesso la mera soggettività della dottrina sofistica e la falsa oggettività dell’ipotesi realistica sostenuta da Cratilo. Ma insistendo comunque sulla forza logica del linguaggio, è ancora lungi dall’ammettere che il vero scopo della conoscenza sia da ricercarsi in questa sfera. Egli traccia una netta linea di demarcazione tra il mondo delle parole e il mondo delle idee pure. Logica e metafisica, le quali hanno a che fare con quest’ultimo campo, non vanno confuse con la grammatica o con la retorica, che appartengono invece al primo campo. È in virtù di tale distinzione che Platone, una volta per tutte,

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and for all532, separates his own theory of language from the theory of the Sophists, and in the seventh letter he goes so far as to deny that any name can ever be adequate to the content and essence of the pure ideas. Philosophy can therefore never hope to find any symbols, any verbal expression that would be really appropriate to its essential task: the domain of philosophical λόγος transcends the sphere in which the words and concepts of human language belong and within the bounds of which they are confined. But in spite of this essential distinction there remains533: «For there are no other names to which appeal can be made, but obviously recourse must be had to another standard which, without employing names, will make clear which of the two are right; and this must be a standard which shows the truth of things (ἀλλὰ δῆλον ὅτι ἄλλ᾽ ἄττα ζητητέα πλὴν ὀνομάτων, ἃ ἡμῖν ἐμφανιεῖ ἄνευ ὀνομάτων ὁπότερα τούτων ἐστὶ τἀληθῆ)» (Kratyl. 438D).

After having reached this standard[,] we can no longer be satisfied neither with the Nominalism of the sophistical theory, with the thesis of the θέσει ὄν, nor with the strange and crude realism of their opponents, of the maintainers of the φύσει  ὄν. Both views are to be charged and radically corrected: the former one, because it is based on a strong concept of subjectivity, the field of which is restricted to sense-perception and not defined according to the truth of subjectivity that manifests itself in thinking and knowing; the latter one because it fails to understand and explain the true sense of objectivity that is to be sought not in the πράγματα, but in the λόγοι, not in mere empirical things but in the reasons of things.

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separa la sua teoria del linguaggio da quella dei Sofisti. E nella settima lettera egli si spinge fino al punto da negare che un qualsiasi nome possa essere adeguato al contenuto e all’essenza delle idee pure. La filosofia, pertanto, non può mai sperare di trovare simboli o espressioni verbali in grado di rivelarsi realmente adatte al loro compito essenziale. Il dominio del λόγος filosofico trascende quella sfera alla quale appartengono le parole e i concetti del linguaggio umano e al cui interno sono confinati. Ma ciononostante, la distinzione essenziale rimane: Infatti non vi sono altri nomi cui si possa fare appello, ma ovviamente si deve ricorrere a un altro criterio che, senza impiegare nomi, chiarirà quale fra due [nomi] sia corretto; e deve essere questo un criterio che mostri la verità delle cose (ἀλλὰ δῆλον ὅτι ἄλλ᾽ ἄττα ζητητέα πλὴν ὀνομάτων, ἃ ἡμῖν ἐμφανιεῖ ἄνευ ὀνομάτων ὁπότερα τούτων ἐστὶ τἀληθῆ) (Cratilo, 438D)139.

Una volta raggiunto questo criterio, non possiamo più ritenerci soddisfatti né del nominalismo della teoria sofistica affermante la tesi della θέσει ὄν, né del curioso e rozzo realismo dei suoi oppositori, i quali affermano la φύσει ὄν. Entrambe queste concezioni vanno criticate ed emendate radicalmente: la prima perché poggia su un concetto forte della soggettività, il cui campo è ristretto alla percezione sensibile e non viene definito secondo la soggettività che manifesta se stessa nel pensiero e nel sapere; la seconda perché non riesce a comprendere e a spiegare il vero senso dell’oggettività, la quale andrebbe ricercata non tanto nei πράγματα, quanto invece nei λόγοι, non nelle semplici cose empiriche, ma nelle ragioni delle cose.

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And by this we have come to the guiding principle of Plato’s philosophy and to the clue to his doctrine of ideas. This doctrine is not to be understood and not to be interpreted in its right sense but by referring it to its systematic origin: to the question of the nature of that truth that is presupposed by and contained in the science of Mathematics. The famous inscription on the building of the Platonic Academy in Athens534: ἀγεωμέτρητος μηδεὶς εἰσίτω, nobody who is not well acquainted with Mathematics may cross this threshold is the very advice535 of Platonism. The whole theory of truth and objectivity involved in Platonism depends as a matter of fact on Plato’s answer to the problem in which way the truth of Mathematics is to be explained. Mathematics must have an object – or it would not.536 As I pointed out at the end of my last lecture there are three ways by which Plato tries to convince us that [it] is necessary to assume, beyond the sphere of the phenomena in space [and] time, beyond our usual empirical objects, a different sphere of Being – a realm of ideas or “pure forms”. The truth and the necessity of such an assumption is proved by Plato by referring to language, to mathematics, and to our ethical concepts and ideals. To begin with the first point – what is537 language? Plato does not approach the problem from the point of view of a linguist, or a philologist or grammarian who has simply to study the facts, the phenomena of language. But just as little he sees the problem with the eyes of the sophists who had tried to found a new science: the science of Rhetoric. He is interested in language as a philosopher or what means the same to him, as a dialectician. Dialectic must clear the problem of language – for it is, by its nature and fundamental task, connected with language.

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Con ciò siamo adesso giunti al principio-guida della filosofia di Platone e della sua dottrina delle idee. Questa dottrina non va intesa e interpretata nel suo corretto significato; essa va piuttosto ricondotta alla sua origine sistematica: alla questione della natura di quella verità presupposta dalla scienza della matematica e contenuta in essa. La famosa trascrizione sull’edificio dell’Accademia platonica di Atene: ἀγεωμέτρητος μηδεὶς εἰσίτω, ovvero “non entri chi non sa di geometria”, costituisce l’autentico precetto del Platonismo. L’intera teoria della verità e dell’oggettività presente nel Platonismo poggia, di fatto, sulla risposta di Platone al problema relativo al modo in cui è possibile fornire una spiegazione della verità della matematica. La matematica deve avere un oggetto – o non sarebbe. Come ho già segnalato nella mia ultima lezione, esistono tre modalità attraverso le quali Platone cerca di convicerci della necessità di affermare che, oltre la sfera dei fenomeni spazio-temporali, oltre i nostri oggetti empirici, esiste una differente sfera dell’essere, il mondo delle idee o “forme pure”. La verità e necessità di tale assunto viene dimostrata da Platone allorquando ricorre al linguaggio, alla matematica e ai nostri concetti etici e ideali. Iniziamo dal primo punto: che cos’è il linguaggio? Platone non si approccia al problema dal punto di vista di un linguista, di un filologo o di un grammatico il quale, molto semplicemente, studia i fatti o i fenomeni del linguaggio. E nemmeno osserva il problema con gli occhi dei Sofisti, i quali cercarono di fondare una nuova scienza: la scienza della retorica. Piuttosto, si interessò al problema da filosofo o – e il che per Platone è la stessa cosa – da dialettico. La dialettica deve chiarire il problema del linguaggio perché essa – per sua natura e per via del suo compito fondamentale – è connessa

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As Sokrates had insisted upon and as he had shown by his example, philosophical or dialectic truth cannot be discovered except by the method of questioning and answering, by a dialogue – and every dialogue presupposes the use of language. But is not language itself a very doubtful and uncertain instrument of thought[?] Can we hope to attain the truth by the use of mere words? It is this question that Plato treats in his dialogue Kratylos. With regard to the truth and the value of language there were maintained in Greek philosophy two opposite theses. The first thesis was the thesis of the sophists who declared that all human language has only a conventional sense. There is no objective relationship between a term and the thing itself denoted and designated by this term. The imposition of a name is an entirely arbitrary act of the human mind. To this thesis – that we may describe as the thesis of Nominalism538 – there was opposed a realistic539 thesis. In Plato’s dialogues this realistic thesis is maintained by Kratylos – a philosopher and a pupil of Heraclitus who had been the first philosophical teacher of Plato. Kratylus does by no means regard the name as a mere sound. He declares that the name of a thing – in order to be a true name – must have a natural connexion, a relationship with the object itself. In our usual terms we cannot always find this relationship because in the course of time the names have changed and lost their original form. But if we go back to the origin of words – if we study the etymology540 of a word – we shall always find that, in its original form, the word was a sort of copy or image, or imitation of the object itself. The word gives us a true insight into the characteristics and into the properties of the thing – it has an objective541 nature. If we study the dialogue Kratylos we feel, at first, a serious

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al linguaggio. Come già Socrate aveva insistito e dimostrato col suo esempio, la verità filosofica o dialettica non la si può scoprire se non con il metodo della domanda e della risposta, con il dialogo, in quanto ogni dialogo presuppone l’utilizzo del linguaggio. Ma non è il linguaggio stesso uno strumento di pensiero alquanto dubbio e incerto? Possiamo noi sperare di raggiungere la verità attraverso l’utilizzo delle semplici parole? È questa la questione trattata da Platone nel dialogo Cratilo. A proposito della verità e del valore del linguaggio, nella filosofia greca erano presenti due tesi opposte. La prima tesi era quella dei Sofisti, i quali affermavano che tutto il linguaggio umano è dotato di un senso unicamente convenzionale. Non esiste alcuna relazione oggettiva tra un termine e la cosa stessa denotata e designata da questo termine. L’imposizione di un nome costituisce un atto interamente arbitrario della mente umana. A questa tesi – che possiamo qualificare come tesi del nominalismo – si opponeva la tesi realista. Nei dialoghi platonici questa tesi viene sostenuta da Cratilo, un filosofo e discepolo di Eraclito, il quale fu il primo maestro filosofico di Platone. Cratilo non considera in alcun modo il nome come un mero suono. Afferma che il nome di una cosa – per essere un vero nome – deve avere una connessione naturale o relazione con l’oggetto stesso. Detto in termini per noi usuali, non possiamo mai trovare questa relazione, in quanto nel corso del tempo i nomi hanno perso e mutato la loro forma originaria. Ma se risaliamo all’origine delle parole – se studiamo l’etimologia di una parola – scopriremo che la parola altro non è che una sorta di copia, immagine o imitazione dell’oggetto stesso. La parola ci fornisce la comprensione delle caratteristiche e delle proprietà delle cose, poiché essa possiede una natura oggettiva. Se studiamo il dialogo Cratilo, a prima

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difficulty. For Plato gives us an exposition of both opposed theses without any definite decision of the problem itself. He does not give us his own opinion – we have to guess this opinion. And it is not quite easy to grasp the true meaning of his own thesis. What is obvious is that he neither accepts the realistic view of Kratylos – nor the nominalistic view of the Sophists – he seeks for a different, for a third solution of the problem. Of course[,] Plato could not accept the thesis that the word has a real truth – in the sense that it expresses the nature and character of the object itself. He does not only reject such a conception of the nature of language – he even ridicules it. He gives us a caricature of the thesis of Kratylos – by professing the most adventurous and incredible etymology of the words. The whole question is turned by Plato into a joke. The Kratylos is the most amusing dialogue of Plato – unfortunately it is not easy to understand the joke if we do not read the dialogue in its original text – for it is nearly impossible to translate all the plays upon words, the very funny puns contained in this dialogue. According to Plato there is no natural resemblance, no sort of kinship or conformity, between the name and the thing. But if this was542 true we have to confront a new problem. If the name is entirely distinct543 from the object, how can it express544 the object? Must we not concede that there is an objective reality to which our names and terms refer[?] And in this case – where can we find such a reality? We cannot find it in the realm of our usual empirical objects. If we analyze the fact of language, if we reflect upon the character of names[,] we find that545 a name is never the imitation or reproduction, the copy or image of an empirical object. The name always means some-

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vista percepiamo una seria difficoltà. In effetti, Platone fornisce sì una esposizione di entrambe le tesi opposte, ma senza risolvere in maniera ben definita il problema stesso. Non ci fornisce la sua propria opinione, per cui non possiamo fare altro che immaginarla. D’altra parte, non è affatto semplice cogliere il vero significato della sua tesi. Ciò che sappiamo con certezza è che Platone non accetta né la concezione realista di Cratilo, né la concezione nominalista dei Sofisti; cerca una terza e differente soluzione al problema. Ovviamente, Platone non poteva accettare la tesi secondo cui il mondo possiede una verità reale, nel senso di esprimere la natura e il carattere dell’oggetto stesso. Egli non soltanto rifiuta una simile concezione della natura del linguaggio, ma la ridicolizza anche. L’intera questione viene trasformata da Platone in un gioco scherzoso. Il Cratilo è il più divertente dialogo platonico, ma sfortunatamente non è facile comprenderne la componente scherzosa, se non leggiamo il dialogo nel testo originale, poiché è quasi impossibile tradurre tutti quei divertenti giochi di parole contenuti al suo interno. A detta di Platone non vi è alcuna somiglianza, nessun tipo di affinità o conformità tra il nome e la cosa. Ma se ciò corrisponde al vero, allora dobbiamo confrontarci con un nuovo problema. Se il nome è interamente distinto dall’oggetto, allora esso come può esprimere l’oggetto? Non dobbiamo forse ammettere che esiste una realtà oggettiva alla quale i nostri nomi e termini fanno riferimento? E in questo caso, dove possiamo trovare una simile realtà? Di certo non possiamo trovarla nel mondo dei nostri comuni oggetti empirici. Analizzando il fenomeno del linguaggio e riflettendo sul carattere dei nomi, constatiamo che un nome non è mai la semplice imitazione o riproduzione, la copia o l’immagine di un oggetto empirico. Il nome

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thing general – whereas the empirical objects, the objects of sense-experience, have no true generality; they are particular or individual objects. Moreover[,] the name is supposed to have a constant, steadfast unchanging meaning. In order to be understood it must be used in the same sense at different times – and the talker546 and the listener must ascribe to it an identical sense. It is, however, just this sameness, this constancy, this identity that, as Plato had demonstrated, is entirely alien to the world of our empirical objects. These objects are nothing but fleeting phenomena that change their nature from one moment to another. If things are in a perpetual flux[,] how can we speak547 about things[?] At the same moment in which I use a word for describing a certain thing, the thing had become something different; it can, therefore, no longer be designated by the same name. Here we come to the real conclusion of Plato – to his own thesis. According to him there are548 objects corresponding to our terms and our general terms. But they do not belong to the world of sense-perception but to a different realm of being. Names are not names of empirical things – what they designate549 are concepts550. If we do not admit the truth and reality of concepts we can, therefore, not admit any truth of language. And in this case thought, as dialectic thought, would itself be devoid of meaning. In thought and in language we have always to do with general predicates. In mathematics we use such terms as likeness, equality, similarity – in our ethical or aesthetical judgements we speak of goodness, beauty, justice, temperance. All this would lose its sense if, beyond the sphere of our sense-experience, there were not another and higher sphere – a sphere of objects of thought – of “ide-

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significa sempre qualcosa di generale, laddove gli oggetti empirici, gli oggetti dell’esperienza sensibile non hanno alcuna generalità; essi sono oggetti particolari o individuali. Inoltre, si suppone che il nome abbia un significato costante, saldo e immutabile. Se intendiamo comprenderlo, dobbiamo utilizzarlo nello stesso senso in tempi differenti, e sia chi parla sia chi ascolta devono attribuirgli il medesimo significato. Pertanto, è proprio questa costanza, questa identità che, come Platone ha dimostrato, è interamente estranea al mondo dei nostri oggetti empirici. Questi oggetti non sono altro che fenomeni transitori, che mutano la loro natura da un momento all’altro. Se le cose sono soggette a un flusso perpetuo, come possiamo parlare di cose? Nel preciso momento in cui io utilizzo una parola per descrivere una certa cosa, quest’ultima è già diventata qualcosa di diverso; di conseguenza, non la si può più designare con lo stesso nome. Giungiamo così all’autentica conclusione di Platone, alla sua tesi. Secondo Platone vi sono oggetti che corrispondono ai nostri termini generali. Ma essi non appartengono al mondo della percezione sensibile, bensì a un diverso mondo dell’essere. I nomi non sono nomi di cose empiriche, ciò che essi designano sono concetti. Se non ammettiamo la verità e realtà dei concetti, allora non possiamo nemmeno ammettere la realtà del linguaggio. In questo caso, il pensiero dialettico verrebbe privato del suo significato. Nel pensiero e nel linguaggio abbiamo sempre a che fare con predicati generali. In matematica utilizziamo termini come uguaglianza, identità, similarità, mentre nei nostri giudizi etici o estetici parliamo di bontà, bellezza, giustizia, temperanza. Tutte queste parole perderebbero il loro senso, se oltre la sfera della nostra esperienza sensibile non vi fosse un’altra e più elevata sfera – una sfera di oggetti di

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al” objects to which we can ascribe an unchanging identical meaning, a real sameness. The second approach to this ideal world we find when studying Mathematics. When Plato first founded his philosophical school in Athens, the so-called Platonic Academy, he wrote on the door of the Academy the famous words – nobody shall ever cross this threshold who is ignorant of Geometry. Nobody can understand Dialectic who does not understand Mathematics. But in which sense can we speak of mathematical truth? Mathematics must have a definite object – or it would not be a science at all551 – it would be a mere play of words,552 it would not contain any true knowledge. But we attempt in vain to find out these objects if we search after them in that field that is made accessible by sense-perception. In this field we never can discover the true originals of mathematical knowledge. Neither any arithmetical concept nor any geometrical definition can be verified in this way. If we had no other way of verification (of the establishment of mathematical truth) had to despair of the truth of Mathem[atics], we had to yield to Skepticism553. For there is no empirical object that really corresponds to the concepts and definitions of Mathematics. When considered from the point of view, of principles of empirical truth these concepts and definitions seem therefore be reduced to a mere nothing. Protagoras was in a certain sense entirely right to deny the truth of the geometrical proposition that a straight line can touch the circle only in one point; for in this definition of reality that restricts the field of reality to the field of sense-perception there is no room left for such objects as are defined in Geometry as a point, as a straight line, a circle and so on. It is not until we have passed the limits and the conditions of sense-perception that we may grasp

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pensiero – di oggetti “ideali” ai quali possiamo attribuire un identico e immutato significato, una reale identità. Il secondo approccio a questo mondo ideale lo possiamo rinvenire nello studio della matematica. Quando Platone fondò la sua scuola filosofica ad Atene, la cosiddetta Accademia platonica, egli fece scrivere sulla porta le famose parole “non entri chi non sa di geometria”. Nessuno può comprendere la dialettica senza aver prima compreso la matematica. Ma in quale senso possiamo parlare di verità matematica? La matematica deve avere un oggetto definito, altrimenti non sarebbe affatto una scienza; tutt’al più risulterebbe un mero gioco di parole e non conterrebbe alcun tipo di vera conoscenza. Ma sarebbe un tentativo inutile voler trovare questi oggetti nel mondo a noi accessibile per il tramite dei sensi. In questo campo non riusciremo mai a scoprire le autentiche origini della conoscenza matematica. Né un concetto aritmetico, né una definizione geometrica si possono verificare in questo modo. Ma se non vi fosse altro modo per verificare o stabilire la verità matematica, allora dovremmo perdere ogni fiducia nella verità della metafisica e cedere allo scetticismo; giacché non esiste alcun oggetto che corrisponda realmente ai concetti e alle definizioni della matematica. Questi concetti e definizioni, se considerati dal punto di vista dei princìpi della verità empirica, sembrano ridursi a un puro nulla. Protagora, in un certo senso, aveva completamente ragione a negare la verità della proposizione geometrica secondo cui una linea retta può toccare un cerchio soltanto in un punto; poiché nella sua definizione di realtà – che restringe il campo della realtà al campo della percezione sensibile – non vi è alcun posto per quegli oggetti geometrici come il punto, la linea retta, il cerchio e così via. Fino a quando non superiamo i limiti e le condizioni della

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the sense and validity of these definitions. What is meant by equality in the strict mathematical sense cannot be described and explained in terms of perception, in referring to empirical things in which the mathematical property called equality appears and manifest its nature. For even applying the term in the latter sense, when speaking of equal pieces of wood or equal stones, we do not use the term in its true and adequate sense – we give no real description but only a metaphorical paraphrase of what is meant by equality. Equality has no correlate, no duplicate or counterpart in the world of senses. In this world we never find tow objects that are exactly alike; we find only objects that are more or less resembling each other. But this “more or less”554 that is an essential feature in all our definitions of empirical objects is perfectly meaningless when applied to mathematical objects. These objects555 involve556 an exact557 sense: they require and afford an absolute precision not only a relative accuracy. They are conceived according to a standard of truth that is not attainable or maintainable in the world of senses. Empirical objects may more or less comply with this standard, but they can never really satisfy it; they cannot be made adequate to those demands that are involved in the very definition of mathematical objects. Those who cannot conceive any other reality but the reality of physical, of material things, must therefore contest the objective character and the objective truth of Mathematics; the must preclude Mathematics from reality. This truth is not of palpable nature; it cannot be touched or grasped with our hands (ἀπρὶξ

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percezione sensibile, saremo impossibilitati ad afferrare il senso e la validità di queste definizioni. Ciò che si intende per uguaglianza in senso strettamente matematico non può di certo essere descritto e spiegato in termini percettivi o facendo riferimento alle cose empiriche nelle quali la proprietà matematica chiamata uguaglianza appare e manifesta la sua natura. Quando utilizziamo il termine in questo ultimo senso, quando parliamo di uguali pezzi di legno o di pietre, non usiamo il termine nel suo senso autentico e appropriato, non forniamo una reale descrizione ma soltanto una parafrasi metaforica di ciò che si intende per “uguaglianza”. L’uguaglianza non ha alcun correlato, alcuna copia o controparte nel mondo dei sensi. In questo mondo non troveremo mai due oggetti perfettamente uguali; piuttosto, si danno oggetti che si trovano, più o meno, in uno stato di somiglianza. Ma questo “più o meno”, il quale rappresenta una caratteristica essenziale di tutte le nostre definizioni degli oggetti empirici, non avrebbe alcun senso se applicato agli oggetti matematici. Questi ultimi implicano un senso esatto: essi, infatti, richiedono e offrono una precisione assoluta e non soltanto un’accuratezza relativa. Gli oggetti matematici vengono concepiti sulla base di un criterio che non è di certo raggiungibile o sostenibile nel mondo dei sensi. Gli oggetti empirici potranno anche rispettare, più o meno, questo criterio, ma non potranno mai soddisfarlo realmente; non potranno mai essere adeguati a quelle esigenze richieste proprio dalla definizione degli oggetti matematici. Coloro che non sono in grado di concepire un’altra realtà che non sia quella delle cose fisiche o materiali, saranno costretti a contestare il carattere oggettivo e la verità oggettiva della matematica; saranno costretti a negare ogni realtà alla matematica. Questa verità non è di natura palpabile;

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τοῖν χεροῖν λαβέσθαι, as says Plato in the Theaetetos 155D). By this Mathematics proved to be the necessary and indispensable medium for reaching the true aim of philosophy – for ascending from the world of senses to the intellectual world! [In the description of this ascent that is contained in the seventh Platonic letter Mathematics is declared to be the second and more important step that follows the first effort made in language by the act of denomination]558. In order to reach to reach the idea of a circle or a sphere, we must first subsume many and various appearances none of which is perfectly alike to the other under a common class, a subsumption that is made by calling them by one and the same name559. But there is another description of the circle or sphere that seems to reveal their nature in a much more perfect sense. Instead of giving a merely verbal explanation of what is meant by a circle or sphere, we may give a real explanation by bringing about, by producing both of them560. The potter who makes on his wheel a circular trencher, the turner who makes a wooden ball seem to exhibit the nature and properties of a circle or sphere in an immediate palpable material way. But it is just in these material representations that the difference between the being561 of a circle or sphere and the appearance562 of both becomes obvious. The true being, the οὐσία of a geometrical concept, is not to be attained by any physical things. These things are nothing but copies and imitations that are far from giving an insight into the nature of original, of the ideal archetype. The ball formed by a turner out of wood or ivory never contains the true shape of the geometrical sphere; it contains innumerable irregularities that separate and preclude it once and for all563 from the sphere of the exact objects of mathematical

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non può essere toccata o afferrata con le nostre mani (ἀπρὶξ τοῖν χεροῖν λαβέσθαι, dice Platone nel Teeteto 155D). Pertanto, la matematica si è rivelata un mezzo indispensabile per raggiungere l’autentico fine della filosofia, per sollevarsi dal mondo dei sensi al mondo intellettuale! [Nella descrizione di questa ascesa contenuta nella settima lettera platonica, la matematica viene considerata come il secondo e più importante passo che segue il primo sforzo operato dal linguaggio nell’atto della denominazione]. Per raggiungere l’idea di sfera o di cerchio, dobbiamo innanzitutto sussumere le tante e varie apparenze – nessuna delle quali è perfettamente simile all’altra – sotto una classe comune, una sussunzione che viene realizzata chiamandole tutte con un unico e stesso nome. Ma esiste un’altra descrizione del cerchio o della sfera che rivela la loro natura in un senso molto più preciso. Invece di fornire una spiegazione meramente verbale di ciò che si intende per sfera o cerchio possiamo, al contrario, fornire una spiegazione reale causandoli e producendoli entrambi. Il vasaio che sul suo tornio costruisce un tagliere circolare, un tornitore che lavora una palla di legno, sembrano mostrare la natura e le proprietà di un cerchio o di una sfera con una modalità materiale immediatamente tangibile. Ma è proprio in questa rappresentazione materiale che la differenza tra l’essere di un cerchio, o di una sfera, e la loro apparenza diventa ovvia. Il vero essere, l’οὐσία di un concetto geometrico, non la si può ottenere a partire da oggetti fisici. Questi oggetti – che non sono altro che copie e imitazioni – sono ben lungi dal fornire una visione della natura del loro archetipo originale, ideale. La palla che il tornitore crea col legno o con l’avorio non contiene mai la vera forma della sfera geometrica; essa contiene piuttosto innumerevoli irregolarità che la separano

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knowledge. The same incongruity holds good for all those concepts of Mathematics that define and explain the character of the fundamental mathematical relations. These relations – as for instance the relation of equality, of similarity, of more or less may be predicated of empirical things; but they are not to be confounded with empirical things. They always retain their identity and their independence, their pure ideal nature. Equality, similarity and so on564, however predicated of empirical objects can never coincide with them: when compared to these objects they always prove to be of a different nature (ἕτερόν τι). «Shall we affirm – says Socrates in the Phaidon (74A) – that there is such a thing as equality, not of one piece of wood or stone with another, but that (over and above this) there is, as a different nature, equality itself (ἀλλὰ παρὰ ταῦτα πάντα ἕτερόν τι, αὐτὸ τὸ ἴσον). And where did we obtain this knowledge of equality itself? Did we see equalities of material things, such as pieces of wood565 and stone and gather566 from them the knowledge of an equality which is different from them…But do not the same pieces of wood or stone appear at one time equal, and at another time unequal and sometimes equal to one subject and unequal to another subject? And are real equals ever unequal? Or is equality ever the same as inequality? – Impossible – Then these equals are not the same with equality itself (οὐ ταὐτὸν ἄρα ἐστίν, ἦ δ᾽ ὅς, ταῦτά τε τὰ ἴσα καὶ αὐτὸ τὸ ἴσον) and yet from these equals, although differing from that equality itself, you conceived and attained the knowledge of the latter».

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del tutto dalla sfera degli oggetti esatti della conoscenza matematica. La stessa incongruenza vale anche per tutti quei concetti della matematica che definiscono e spiegano il carattere delle fondamentali relazioni matematiche. Queste relazioni – come nel caso della relazione di uguaglianza, o di similarità – possono, più o meno, essere predicate delle cose empiriche, ma non vanno in ogni caso confuse con esse. Esse conservano sempre la loro identità, la loro indipendenza e la loro natura ideale. L’uguaglianza, la similarità e così via, comunque attribuite agli oggetti empirici, non possono mai coincidere con questi ultimi: se confrontate con questi oggetti, esse rivelano la loro differente natura (ἕτερόν τι). Afferma Socrate nel Fedone: Affermiamo pure che esista qualcosa come l’uguaglianza, non di un pezzo di legno o di pietra con un altro, ma che (oltre e al di sopra di questo) ci sia, di differente natura, l’uguaglianza in sé (ἀλλὰ παρὰ ταῦτα πάντα ἕτερόν τι, αὐτὸ τὸ ἴσον). E come abbiamo ottenuto questa conoscenza dell’uguaglianza in sé? Forse abbiamo visto uguaglianze di cose materiali, come pezzi di legno e di pietra, e da esse abbiamo ricavato la conoscenza di un’uguaglianza che da esse è differente... Ma gli stessi pezzi di legno o di pietra non appaiono in questo momento uguali e in un altro momento disuguali, e a volte uguali a un soggetto e disuguali a un altro soggetto? E gli uguali reali sono mai disuguali? O l’uguaglianza è mai la stessa che la disuguaglianza? – Impossibile – Allora questi uguali non sono la medesima cosa dell’uguaglianza in sé (οὐ ταὐτὸν ἄρα ἐστίν, ἦ δ᾽ ὅς, ταῦτά τε τὰ ἴσα καὶ αὐτὸ τὸ ἴσον), eppure da questi uguali, sebbene differiscano da quell’uguaglianza in sé, hai concepito e conseguito la conoscenza di quest’ultima.140

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There is, therefore, a strange and a paradoxical relation between the subjects of our empirical judgements and the mathematical predicates attributed to them – the predicate of equality or inequality567, of number and magnitude. There can be no identity, not even a similarity, between the former and the latter: for the former belongs568 to the world of becoming, the latter to the world of pure being. And both realms, the realm of being and the realm of becoming, are radically distinct from each other. There is no possible transition from one to the other; there is an absolute division – a χωρισμός, as Plato says – that separates the objects of sense from569 the pure forms, the αἰσθητά from the νοητά. But in spite of this distinction and separation we cannot desist from searching after a logical relation and a logical connection between the world of sense-experience and the world of the pure ideas. For without such a relation the empirical world itself would be a state of utter confusion and disorder and by this it would become perfectly unknowable. Even that relative knowledge of what empirical objects are capable of would be impossible and unconceivable if we would not connect, in a certain sense, our empirical sensations with our mathematical concepts and if we could not subject them to mathematical rules. Without such a connection the empirical world would not even deserve this name; it would no longer be a world, a κόσμος, that demands and presupposes a certain order and regularity; it would be reduced to a mere chaos. It is only by the application of mathematical concepts and mathematical rules to empirical phenomena that such a chaotic state of human knowledge can be avoided. There is a characteristic passage in the dialogue Philebos in which this view is explained and emphasized. «Will a man – asks Socrates – have enough of knowledge if he

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Pertanto, sussiste una singolare e paradossale relazione tra i soggetti dei nostri giudizi empirici e i predicati matematici attribuiti a essi – il predicato di uguaglianza o ineguaglianza, di numero e grandezza. Non vi è alcuna identità o similarità tra giudizi empirici e predicati matematici: i primi appartengono infatti al mondo del divenire, mentre gli ultimi a quello del vero essere. Entrambi questi mondi – quello dell’essere e quello del divenire – sono distinti l’uno dall’altro in modo radicale. Non vi è alcuna possibile transizione dall’uno all’altro; si dà una divisione assoluta – χωρισμός, come dice Platone – che separa gli oggetti dei sensi dalle forme pure, gli αἰσθητά dai νοητά. Ma a dispetto di tale distinzione e separazione, non possiamo desistere dal continuare a cercare, una volta supposta una relazione logica e una connessione logica tra il mondo dell’esperienza sensibile e il mondo delle idee pure. Del resto, senza tale relazione lo stesso mondo empirico rimarrebbe in uno stato di totale confusione e disordine, e per tal motivo del tutto inconoscibile. Anche quella relativa conoscenza di cui sono capaci gli oggetti empirici si rivelerebbe impossibile e inconcepibile, se non connettessimo, in un certo senso, le sensazioni empiriche con i nostri concetti matematici e se non li rendessimo soggetti alle regole matematiche. Senza una tale connessione il mondo empirico non meriterebbe nemmeno il suo nome; non sarebbe più quel mondo, κόσμος, che richiede e presuppone un certo ordine e una certa regolarità; esso si ridurrebbe a un mero caos. Soltanto l’applicazione dei concetti matematici e delle regole matematiche ai fenomeni empirici può dispensare la conoscenza umana da un simile stato caotico. Vi è un interessante brano del dialogo Filebo il quale spiega e sottolinea questo punto. «Un uomo – chiede Socrate – avrà conoscenza sufficiente se è edotto

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is acquainted only with the definition (λόγος) of the divine circle and sphere, but knows nothing of our human spheres and circles, and nevertheless uses these or any other figures or rules in the building of a house? – Such a knowledge – replies Protarchos – that is concerned only with the divine things would appear ridiculous in men – What, then, do you mean – says Socrates – Do you mean that you are to throw into the cup and mingle the impure and uncertain art which uses the false rule and the false circle? – Yes, that must be done, if any of us is ever to find his way home» (Philebos 62A). By this very remarkable passage we see once more that Plato is by no means such a conventional “idealist” as to forget the empirical world and to abandon it to its own fate; the fate of disorder and irregularity. It is for the sake of this empirical world, for its theoretical and practical control and mastery, that the knowledge of the pure ideas is required and is to be sought for. The true relation between the visible and the invisible world, between the κόσμος αἰσθητός and the κόσμος νοητός, is therefore not a relation of logical opposition or contradiction; it is, on the contrary, that relation that is called by Plato, the relation of participation570 (μέθεξις). This participation includes at the same time a positive and a negative sense. The μέθεξις does not mean that the pure idea can immediately enter into the world of sense and that it can become a part, an element or constituent of the latter. Such a mixture is impossible in things that are qualitatively different, that are distinguished from each other by their very nature and essence. The world of being and the world of becoming can never be subsumed under a common genus; they are and they remain heterogeneous, they are diverse in kind and manner. But in spite of this diversity that is unavoidable and ineradicable571, there must be a relation between both of these worlds. [This relation is – to express

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soltanto della nozione (λόγος) di cerchio e sfera divini, senza sapere niente delle nostre sfere e cerchi umani, e tuttavia usando queste o qualsiasi altra figura o regolo nella costruzione di una casa? Una tale conoscenza – replica Protarco – che concernesse soltanto le cose divine apparirebbe ridicola agli uomini – Cosa intendi, dunque? – dice Socrate – Intendi dire che bisogna gettare nel calice e mescolare l’arte impura e malcerta del falso regolo e del falso cerchio? – Sì, bisogna farlo, se uno di noi vuole trovare la strada di casa»141. Da questo importante brano risulta evidente che Platone non è affatto quel tradizionale “idealista” intento a ignorare il mondo empirico, per abbandonarlo infine al suo destino: il disordine e l’irregolarità. È per il bene del mondo empirico, per la sua padronanza e per il suo controllo teorico e pratico che si esige e si ricerca la conoscenza delle idee pure. L’autentica relazione tra mondo visibile e mondo invisibile, tra κόσμος αἰσθητός e κόσμος νοητός, pertanto, non è una relazione di opposizione logica o di contraddizione; al contrario, questa relazione viene definita da Platone relazione di partecipazione (μέθεξις). Questa partecipazione implica, al tempo stesso, un senso negativo e uno positivo. Il termine μέθεξις non significa che l’idea pura entra a far parte del mondo dei sensi in modo immediato, fino a diventarne una parte, elemento o costituente. Una simile mescolanza è impossibile nelle cose qualitativamente differenti, che si distinguono l’una dall’altra per via della loro natura ed essenza. Il mondo dell’essere e quello del divenire non possono essere sussunti sotto un genere comune; essi sono e rimangono eterogenei, sono diversi per genere e specie. Ma a dispetto di questa inevitabile e inestirpabile diversità, deve esservi una relazione tra questi mondi. [Questa relazione – per dirla nei termini

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it by the terms of Kant – a synthetical one, not an analytical one; it means not a reduction to identity but a connexion of different things]. According to Plato this connexion is not considered as a sort of metaphysical mystery. For as a matter of fact it is contained and presupposed in every act of speaking or thinking; and it may be discovered by a mere logical analysis of both these acts, by scrutinizing the general conditions of our common presuppositions and judgements. If I judge that two material things are alike or dissimilar, if I assert that a human action is good or bad, just or unjust, the subjects572 of these propositions belong to our empirical world; they are physical bodies or natural events. But the predicates573 I make use of cannot be explained in the same way; for as we have seen before, the being of equality or inequality, of virtue or vice, of justice or injustice (αὐτὸ τὸ ἴσον, αὐτὸ τὸ ἀγαθόν, αὐτὸ τὸ δίκαιον) is not to be defined in a true and exact way by referring to any phenomena that are accessible to sense-perception. They must be determined and ascertained in quite a different way – and they have no adequate examples in the world of sense. Our empirical574 judgements consist therefore of two elements which possesses, so to speak, no common denominator. None of them can be reduced to the other. But in spite of this necessary distinction human thought is capable of throwing, as it were a bridge over that abyss that separates the intellectual world from the world of sense-experience. It cannot attempt to deny or to efface the difference – but however maintaining and acknowledging it, it states not only a distinction, but at the same time a correlation between the different members, (between the πράγματα and the λόγοι), between the things that are called equal, or good, or just and the pure concepts

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di Kant – è di tipo sintetico e non analitico; ciò indica non tanto una riduzione all’identità, quanto invece una connessione di cose differenti]. Secondo Platone, questa connessione non costituisce un mistero metafisico. D’altra parte, è un dato di fatto che essa è contenuta e presupposta in ogni atto del parlare e del pensare, e può essere scoperta tramite una semplice analisi logica di entrambi questi atti, esaminando le condizioni generali dei nostri presupposti e giudizi comuni. Se giudico due cose materiali come simili o dissimili, se asserisco che un’azione umana è buona o cattiva, giusta o ingiusta, i soggetti di queste proposizioni appartengono al nostro mondo empirico; essi sono corpi fisici o eventi naturali. Ma i predicati di cui faccio uso non possono essere spiegati allo stesso modo; infatti, come abbiamo già visto in precedenza, l’essere dell’uguaglianza o dell’ineguaglianza, della virtù o del vizio, della giustizia o dell’ingiustizia (αὐτὸ τὸ ἴσον, αὐτὸ τὸ ἀγαθόν, αὐτὸ τὸ δίκαιον) non possono essere definiti in modo preciso e corretto facendo riferimento ai fenomeni accessibili tramite della percezione sensibile. Essi vanno determinati e accertati in ben altro modo; inoltre, per essi non vi è alcun esempio adeguato nel mondo dei sensi. I nostri giudizi empirici consistono pertanto di due elementi, i quali non possiedono, per così dire, alcun comune denominatore. Nessuno di essi può essere ridotto all’altro. Ma a dispetto di questa necessaria distinzione, il pensiero umano è comunque in grado di gettare un ponte sull’abisso che separa il mondo intellettuale dal mondo dell’esperienza percettiva. Non si può tentare di negare o eclissare la differenza, ma la si può invece affermare e riconoscere. Si afferma infatti non soltanto una distinzione, ma al tempo stesso una correlazione fra i diversi membri (tra i πράγματα e i λόγοι), tra le cose

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of Equality, Goodness, Justice. If such a correlation proved to be impossible the empirical world would not be accessible to any logical determination. But every proposition and every judgement requires[,] and contains such a determination. It always depends on those two elements, which in the dialogue Philebus, are contradistinguished from each other (as ἄπειρον and πέρας), as the infinite and indeterminate matter and as the pure form, that confines this indeterminate matter within certain and permanent limits. [§6: Methexis and Anamnesis]575 [In our last lecture we have attempted to describe and explain that sort of relation which in the system of Plato exists between the realm of pure ideas on the one hand, the real of empirical things on the other hand – that relation which is called by Plato the participation (μέθεξις) of the phenomena in the nature of pure ideas]. According to Plato every act of cognition is such an act of limitation. It sets a boundary576 to the infinite flux of perception; it introduces a rule of thought, an intelligible standard according to which objects of sense may be measured and valued. It is this act of measurement that in the philosophical language of Plato is described by the term μέθεξις (participation). Ideas and empirical things never can be conceived as being on the same level; for the former has577 an absolute, the latter has578 only a relative being. But the relative truth that we ascribe to our empirical concepts and empirical judgements would not be possible, if it were not based on an absolute truth. Supposing that the fleeting and particular phenomena, that are given to us in the world of sense-experience, could not partake in the constant

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considerate uguali, buone o giuste e i concetti puri di uguaglianza, bontà e giustizia. Se una simile correlazione dovesse rivelarsi impossibile, il mondo empirico non risulterebbe accessibile ad alcuna determinazione logica. Ma ogni proposizione e ogni giudizio esige e contiene una simile determinazione. Essa dipende sempre da quei due elementi che nel dialogo Filebo risultano contraddistinti l’uno dall’altro (ἄπειρον e πέρας), come la materia infinita e indeterminata e la forma pura, che confina questa materia indeterminata all’interno di limiti specifici e permanenti. 6. Methexis e anamnesis [Nella nostra ultima lezione abbiamo tentato di descrivere e spiegare una sorta di relazione, presente nel sistema di Platone, tra il mondo delle idee pure da un lato e il mondo delle cose empiriche dall’altro. Questa relazione è stata chiamata da Platone “partecipazione” (μέθεξις) dei fenomeni alla natura delle idee pure]. Essa pone un limite all’infinito flusso della percezione, introduce una regola di pensiero, un criterio intelligibile sulla base del quale gli oggetti dei sensi possono venire valutati e considerati. Questo atto di misurazione, nella filosofia del linguaggio di Platone, viene descritta in termini di μέθεξις (partecipazione). Idee e cose empiriche non possono essere concepite come se fossero poste sullo stesso piano: infatti le prime hanno un essere assoluto, mentre le seconde hanno soltanto un essere relativo. Ma la verità relativa che noi attribuiamo ai nostri concetti e giudizi empirici sarebbe impossibile, se non poggiasse su una verità assoluta. Supporre che i fenomeni fugaci e particolari che si danno nel mondo dei sensi non possano pren-

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and universal character of the pure ideas – these phenomena could never be subjected to the conditions and rules of knowledge. The relation between the phenomena of senses and the ideal standards according to which they are to be judged and to be valued must therefore579 be described both as a relation of diversity and as [a] relation of affinity; as a connexion which, nevertheless, never can become a perfect union. For denoting this twofold relation, which has, so to speak, a double sign, Plato makes use of different metaphorical expressions that are coined by him for this purpose. The phenomena can never be alike to the ideas nor can they reach their perfections; but they aspire to this perfection although necessarily remaining behind them. It is this strive after perfection, this ὂρεξις as it is called by Plato580, that is the characteristic mark of the infinite and relative beings of the sensual world581. On the other hand[,] the investigation and analysis of the problem of participation (μέθεξις) leads us to another important and decisive problem of Platonic philosophy, to the problem of the origin of human knowledge. Both questions are closely connected with each other[,] and they are illuminating each other. It is the theory of participation that throws full light upon that theory of knowledge, that is called by Plato582 the theory of reminiscence (ἀνάμνησις). The term “reminiscence” may be said the subjective counterpart of what is called participation in the objective theory of the intellectual world. If the phenomena, objectively spoken, partake in the nature of the ideas we must, at the same time, ascribe them the power to lead in the knowing subject to the intuition of the ideas. Since certain empirical objects, as for instance two stones or pieces of wood, partake in the concept of equality their perception is of such a kind as to induce us to this concept and give rise to it in our souls. In

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dere parte al carattere costante e universale delle idee pure, significherebbe negare loro la possibilità di essere soggetti alle condizioni e alle regole della conoscenza. La relazione tra i fenomeni dei sensi e i criteri ideali in base ai quali vengono sottoposti a giudizio e valutazione deve quindi essere descritta sia come una relazione di diversità, sia come relazione di affinità; come una connessione che, nondimeno, non può diventare mai una unione perfetta. Per denotare questa duplice relazione, la quale ha, per così dire, un doppio segno, Platone ricorre a diverse espressioni metaforiche da lui stesso forgiate a tale scopo. I fenomeni non possono essere mai simili alle idee né raggiungere la loro perfezione, ma tendono a tale perfezione pur rimanendo necessariamente distanti da esse. È proprio questo tendere alla perfezione – ὄρεξις, come la chiama Platone – che costituisce il tratto caratteristico degli esseri finiti e relativi del mondo sensibile. Dall’altro lato, l’analisi e indagine del problema della partecipazione (μέθεξις) ci conduce a un altro importante e decisivo problema della filosofia di Platone, al problema dell’origine della conoscenza umana. Entrambe le questioni sono strettamente connesse e si illuminano a vicenda. È proprio la teoria della partecipazione che getta luce sulla teoria della conoscenza, chiamata da Platone teoria della reminiscenza (ἀνάμνησις). Il termine “reminiscenza” lo si può considerare come la controparte soggettiva di ciò che nella teoria oggettiva del mondo intellettuale viene invece definita “partecipazione”. Se i fenomeni, in senso oggettivo, partecipano della natura delle idee allora, al tempo stesso, dobbiamo attribuire a essi la capacità di condurre il soggetto conoscente alla intuizione delle idee. Poiché certi oggetti empirici, come ad esempio due pietre o due pezzi di legno, partecipano del concetto di uguaglianza, la

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this case the concept is not derived583 from sense-perception nor can we draw and, so to speak, extract it from sense perceptions by a mere process of logical abstraction. For how could we find the exact sense and the exact standard, the pure being of quality, in a domain that contains no true and perfect example of this being? Perception is therefore not the first ground of our mathematical ideas and of all the other pure forms – it is only their secondary and occasional cause. It does not explain their content and their original being; – it explains only the act by which the human soul first becomes aware584 of a sphere of objects that in itself lies beyond all the boundaries sensation. Sensation is the beginning of the consciousness of pure ideas; but it is by no means the source from which these ideas may be derived or the principle on which they depend. We do not conceive the pure form by looking at sensation and by comparing and classifying them; we cannot discover the form by a mere process of generalization. The universality ascribed to the idea is not a result, it is, on the contrary,585 the presupposition of our knowledge of particular empirical beings. Therefore[,] we do not find the oneness and unity of the idea in the multiplicity and variety of sense-phenomena; but, in a certain sense, we recover it: we find it as something that does not originate from the senses but as a property that we have possessed before and that, after its loss, we regain. This theory of reminiscence (ἀνάμνησις) is therefore a primary logical motive and a logical constituent of Plato’s philosophy; it is contained and presupposed in the very definition of knowledge on which this philosophy is based. And it is only later on that this log-

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loro percezione è tale da indurci a questo concetto e a farlo sorgere nelle nostre anime. In tal caso il concetto non è derivato dalla percezione sensibile né, per così dire, possiamo estrapolarlo dalle percezioni sensibili attraverso un mero processo di astrazione logica. Come possiamo trovare il senso preciso e il criterio esatto, il puro essere dell’uguaglianza in un dominio che non contiene alcun esempio vero e perfetto di questo essere? Pertanto, la percezione non può costituire il primo fondamento delle nostre idee matematiche e di tutte le forme pure, in quanto essa è piuttosto una loro causa secondaria e occasionale. La percezione non spiega affatto il loro contenuto e il loro essere; essa spiega soltanto l’atto attraverso il quale l’anima umana diventa, in primo luogo, consapevole della sfera degli oggetti che, in se stessi, si trovano al di là dei limiti della sensazione. La sensazione costituisce l’inizio della consapevolezza delle idee pure, ma non è in alcun modo la fonte dalla quale derivano le idee o il principio dal quale dipendono. Noi non concepiamo la forma pura rivolgendoci alle sensazioni e classificandole; non possiamo scoprire la forma attraverso un processo di mera generalizzazione. L’universalità attribuita all’idea non è un risultato, ma è al contrario il presupposto della nostra conoscenza degli enti empirici particolari. Di conseguenza, non ci è dato trovare l’unità dell’idea nella molteplicità e varietà dei fenomeni sensibili, ma in un certo senso la recuperiamo: la troviamo come un qualcosa che non trae origine dai sensi, ma piuttosto come una proprietà che era già in nostro possesso e che, dopo la sua perdita, recuperiamo. Questa teoria della reminiscenza (ἀνάμνησις) è pertanto il principale motivo e costituente logico della filosofia di Platone; essa è contenuto e presupposto dall’autentica definizione di conoscenza sulla quale poggia la sua

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ical theory is supported by a metaphysical theory; by the theory of the preexistence of our soul and of its abode in a super-celestial place (ὑπερουράνιος τόπος). By a closer examination of the theory of reminiscence we find that, at first sight, it seems to consist of two different and rather incongruous parts. At one hand586 it is conceived and explained from a purely epistemological point of view; it is destined for defining the character and for determining the conditions of human knowledge especially of mathematical and ethical knowledge. But on the other hand[,] the theory contains a mythical element: it is based upon a myth concerning that sort of existence that the soul of man possessed before descending to the lower world and before mingling itself with an opposite nature, with the nature of physical bodies. But this seeming incongruity and incoherency of the theory of reminiscence is not an accidental defect nor it was brought about by mere chance. It follows, on the contrary, from the very principles of Platonism. The theory has a double systematic meaning and a double systematic task. It contains a doctrine about the nature and essence of pure ideas; and it contains a doctrine concerning the way in which this essence becomes a subject of knowledge, becomes accessible to the human soul and [to] their rational faculties. But according to the principles of Platonism both doctrines cannot claim the same exactness, the same dialectical accuracy. The question of the nature of the pure ideas is a question of the being: and Being alone is the true subject-matter of Dialectic. This question, therefore, is capable of highest degree of certainty; it is based on logical principles and logical proofs. But if I ask in which manner the human soul has taken possession of the essence of the pure ideas, in which manner it

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filosofia. E soltanto in seguito questa teoria logica trova un suo fondamento nella teoria metafisica; ossia in virtù della teoria della preesistenza della nostra anima e della sua dimora nell’Iperuranio (ὑπερουράνιος τόπος). A un più attento esame della teoria della reminiscienza abbiamo notato che, a prima vista, essa sembra caratterizzata da due parti differenti e piuttosto contraddittorie. Da un lato viene spiegata da un punto di vista puramente epistemologico; sembra diretta a definire e a determinare il carattere e le condizioni della conoscenza umana, in particolar modo quella matematica ed etica. Ma dall’altro lato, questa teoria contiene un elemento mitico: si basa infatti sul mito concernente questa specie di esistenza, della quale l’anima umana era già in possesso ancor prima di discendere nel mondo sensibile e di mescolarsi con una natura opposta, con la natura dei corpi fisici. Ma questa apparente contraddittorietà e incoerenza della teoria della reminiscenza non è un difetto accidentale, né ha avuto origine dal caso. Essa, al contrario, deriva proprio dai princìpi stessi del Platonismo. La teoria ha un duplice significato sistematico, come anche un duplice scopo. Essa contiene una dottrina della natura e dell’essenza delle idee pure e contiene inoltre una dottrina concernente il modo in cui questa essenza diviene un soggetto di conoscenza e il modo in cui diviene accessibile all’anima umana e alle sue facoltà razionali. Ma secondo i princìpi del Platonismo, entrambe le dottrine non possono rivendicare la medesima esattezza, la medesima accuratezza dialettica. La questione delle idee pure è una questione dell’essere: e soltanto l’essere costituisce l’autentico soggetto della dialettica. Questa questione, pertanto, è suscettibile del più alto grado di certezza, poiché si basa su princìpi logici e su prove logiche. Ma se mi chiedo in che modo l’anima umana si è impossessata

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has become conscious of them and by what further steps this consciousness, once acquired, was lost and is to be regained: I am no longer concerned with a problem of Dialectic, with a problem that belongs to the sphere of Being. I am speaking of the origin of the soul, of its primeval state and of its following fall and decay. It is not only the pure nature of the soul, it is, so to speak, its metaphysical history587 that I wish to explore. But this history is not capable of the same truth of Dialectic knowledge. It involves the concept of time: and according to Plato the explanation of time is not possible by alleging mere philosophical reasons. Time, as the principle of becoming, contains always a mythical element: a theory of time is not capable of an exact proof but possesses only this sort of truth, that in the Platonic doctrine of knowledge is called εὐκαιρία (probability or verisimilitude). The mythical theory of the physical Time, of the Time of Bodies and corporeal movements, is given by Plato in his Timaeus – the mythical theory of the Time of the Soul is contained in the myth of Phaedrus concerning the dwelling of the soul in the super-celestial place, in the ὑπερουράνιος τόπος, and concerning the original intuition of the pure ideas. But in the Dialogues in which the theory of reminiscence is first introduced and developed – in the Menon and the Phaidon – the stress is laid much more on the mere logical side of the problem – on the methodological arguments, on which the theory is based. In the “Menon” there is introduced a young slave who without formerly having been taught in Geometry by the mere assistance of Sokrates’ method of questioning, by the help of the μαιευτικὴ τέχνη, of the Socratic practice

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dell’essenza delle idee pure, in quale modo essa ne è divenuta cosciente e attraverso quali passi questa coscienza, una volta acquisita, è andata perduta e recuperata, allora non mi sto più occupando di un problema di dialettica, di un problema che appartiene alla sfera dell’essere. Piuttosto, sto parlando dell’origine dell’anima, del suo stato originario e della sua successiva caduta e degradazione. Non è soltanto la pura natura dell’anima che intendo esplorare, ma piuttosto la sua storia metafisica. Ma la storia non è in grado di fornire la medesima verità della dialettica, né la si può affrontare con gli stessi metodi e criteri della conoscenza. Essa implica il concetto di tempo, ma, secondo Platone, la spiegazione del tempo non è possibile se si sostengono mere ragioni filosofiche. Il tempo, come principio del divenire, contiene sempre un elemento mitico: una teoria del tempo non è in grado di fornire una prova esatta, ma possiede solo questo tipo di verità, ossia ciò che nella teoria platonica della conoscenza viene definita εὐκαιρία (probabilità o verosimilitudine). La teoria mitica del tempo fisico, del tempo dei corpi e dei movimenti corporei, viene fornita da Platone nel Timeo, mentre la teoria mitica del tempo dell’anima è contenuta nel dialogo Fedro, che concerne la dimora dell’anima nell’iperuranio (ὑπερουράνιος τόπος) come anche l’originale intuizione delle idee pure. Ma nei dialoghi in cui, in primo luogo, viene introdotta e sviluppata la teoria della reminiscenza – nel Menone e nel Fedone – l’enfasi viene posta maggiormente sul mero aspetto logico del problema, sugli argomenti metodologici sui quali poggia la teoria. Nel Menone vi è un giovane schiavo che, senza aver mai ricevuto in precedenza alcuna istruzione in campo geometrico, grazie al supporto del metodo socratico delle domande, con

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of midwifery, detects the truth of the Pythagorean theorem: [of the theorem that in a right-angled triangle the square of the hypotenuse is equal to the sum of the squares of the two catheters. It follows from this that although in the order of time588 there is no knowledge which precedes our empirical knowledge, our knowledge of sense-perceptions, the logical truth and the logical demonstration of mathematical knowledge is not to be derived from this origin – that sense-perception is only the occasional or incidental cause of our discovery of the relations between figures or numbers[,] but it cannot be considered as being the source and foundation of these relations. «We must recognize – says the Phaidon – that equality, in its true, in its mathematical sense, has only be known and can only be known through the medium of sight or touch, or of some other of the senses what are all alike in this respect (μὴ ἄλλοθεν αὐτὸ ἐννενοηκέναι μηδὲ δυνατὸν εἶναι ἐννοῆσαι ἀλλ᾽ ἢ ἐκ τοῦ ἰδεῖν ἢ ἅψασθαι ἢ ἔκ τινος ἄλλης τῶν αἰσθήσεων). Therefore by the help of the senses we may become aware that the objects of senses aim at equality itself (ὀρέγεται τοῦ ὃ ἔστιν ἴσον) of which nevertheless they fall short. Then, before, we begin to see or hear or perceive in any way, we must have had the knowledge that equality is, or we could not have referred to that standard the equals which are derived from the senses – for to that they all aspire, and of that they fall short…Then we must have acquired the knowledge of equality and in the same sense the knowledge of beauty, goodness, justice, holiness, and all which we stamp with the name of essence in the dialectical process, when we ask and answer the questions,

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l’ausilio della maieutica (μαιευτικὴ τέχνη) o pratica socratica dell’ostetricia, scopre la verità del teorema di Pitagora secondo cui, in ogni triangolo rettangolo, l’area del quadrato costruito sull’ipotenusa è uguale alla somma delle aree dei quadrati costruiti sui due cateti. Ne consegue che, sebbene nell’ordine del tempo non vi sia alcuna conoscenza che preceda quella empirica, la nostra conoscenza delle percezioni sensibili, tuttavia la verità e dimostrazione logica della conoscenza matematica non deriva dalla percezione; quest’ultima costituisce soltanto una causa occasionale e accidentale della nostra scoperta delle relazioni tra le figure e i numeri, ma non la si può considerare come la fonte e il fondamento di queste relazioni: Dobbiamo riconoscere – dice il Fedone – che l’uguaglianza, nel suo senso vero, matematico, è e può essere conosciuta soltanto per tramite della vista o del tatto, o di qualcuno degli altri sensi, che sono tutti uguali sotto questo aspetto (μὴ ἄλλοθεν αὐτὸ ἐννενοηκέναι μηδὲ δυνατὸν εἶναι ἐννοῆσαι ἀλλ᾽ ἢ ἐκ τοῦ ἰδεῖν ἢ ἅψασθαι ἢ ἔκ τινος ἄλλης τῶν αἰσθήσεων). […] Pertanto, con l’aiuto dei sensi, noi possiamo prendere coscienza che gli oggetti dei sensi mirano all’uguaglianza in sé (ὀρέγεται τοῦ ὃ ἔστιν ἴσον), di cui nondimeno non sono all’altezza. Allora, prima di iniziare a vedere o sentire o percepire in qualsiasi altro modo, dobbiamo aver avuto conoscenza dell’uguaglianza, o non avremmo potuto riferire a questo criterio gli uguali che ci derivano dai sensi – perché a questo tutti aspirano, e di questo non sono all’altezza. Allora dobbiamo aver acquisito ancor prima di nascere la conoscenza dell’uguaglianza e, in questo stesso senso, la conoscenza di bellezza, bene, giustizia, santità e di tutto ciò cui noi imprimiamo il nome di essenza nel corso del processo dialettico

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before we were born. But if the knowledge which we acquired before birth was lost by us at birth, and if afterwards by the use of the senses we recovered that which we previously knew, will not that which we call learning be a recovering of the knowledge which originally belongs to us, and may not this be rightly termed recollection? (ἆρ᾽ οὐχ ὃ καλοῦμεν μανθάνειν οἰκείαν ἂν ἐπιστήμην ἀναλαμβάνειν εἴη; τοῦτο δέ που ἀναμιμνῄσκεσθαι λέγοντες ὀρθῶς ἂν λέγοιμεν) Phaidon 75A, 75E».

The term ἀνάμνησις (reminiscence)589, when applied to our knowledge of mathematical truth or to any other truth that is necessary and apodictic, means therefore that such a necessary truth cannot be implanted to the human mind from without – much less than the power of seeing can be placed and inserted into blinded eyes (as Plato says in the Republic). In order to gain and to understand this sort of truth, we must draw it out of ourselves; we must discover and regain it as being an original possession of the human mind. Necessary and apodictic knowledge is a knowledge of eternal truths; of ἀεὶ ὄν, as Plato says. But a knowledge of an eternal object cannot be derived from a source that in itself has no permanent, but only a temporary being. The human soul cannot590 grasp and conceive the eternal essence of the pure ideas by those of her powers which, like the power of perception, have a reference only to the world of sense, to the world of becoming. The soul must have an eternity of her own in order to be equal to the everlasting essence of the pure forms. It is this conclusion, by which Plato is led to his doctrine of reminiscence. In order to understand and inter-

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quando poniamo e rispondiamo alle domande. Ma se la conoscenza che abbiamo acquisito prima della nascita è andata da noi perduta al momento della nascita, e se in seguito, grazie all’uso dei sensi, abbiamo recuperato ciò che in precedenza sapevamo, allora ciò che noi chiamiamo apprendimento non sarà forse un recupero della conoscenza che originariamente ci appartiene, e non potrebbe essere giustamente definito un ricordo? (ἆρ᾽ οὐχ ὃ καλοῦμεν μανθάνειν οἰκείαν ἂν ἐπιστήμην ἀναλαμβάνειν εἴη; τοῦτο δέ που ἀναμιμνῄσκεσθαι λέγοντες ὀρθῶς ἂν λέγοιμεν)»142.

Dall’applicazione del termine ἀνάμνησις (reminiscenza) alla nostra conoscenza della verità matematica o a qualche altra verità apodittica o necessaria, consegue l’impossibilità di innestare nella mente umana una simile verità necessaria dall’esterno – ancor meno si potrebbe collocare e inserire in occhi ciechi la facoltà del vedere (come afferma Platone nella Repubblica). Allo scopo di ottenere e comprendere una simile verità, dobbiamo trarla fuori da noi stessi; dobbiamo scoprirla e riottenerla come se fosse un originario possesso della mente umana. La conoscenza necessaria e apodittica è una conoscenza di verità eterne; di ἀεὶ ὄν, come dice Platone. Ma la conoscenza di un oggetto eterno non può scaturire da una fonte che, in sé, non ha alcun essere eterno, ma soltanto un essere transitorio. L’anima umana non può afferrare e contemplare l’essenza eterna delle idee pure attraverso quelle facoltà che, come la facoltà della percezione, si riferiscono soltanto al mondo dei sensi, al mondo del divenire. L’anima deve possedere una sua propria eternità, al fine di eguagliare l’imperitura essenza delle forme pure. Questa è la conclusione che ha condotto Platone alla sua dottrina della reminiscenza. Per comprendere e

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pret this doctrine in its true systematical sense we must carefully observe the logical order in which the arguments of Plato depend on each other. Plato has not founded his doctrine of ideas upon his belief in the immortality of the human soul; he has, on the contrary, based his theory of the essence and immortality of the human soul upon the supposition of the absolute truth and the absolute necessity of the realm of pure forms. The Platonic doctrine of ideas is not a special inference drawn from the principles and presuppositions of his spiritualistic psychology. Quite the contrary, the metaphysical theory of immortality is nothing else than a correlate and a corollary to Plato’s logical theory, to his definition of truth and of the necessary conditions of truth. By this peculiar feature the Platonic doctrine of the soul, of its preexistence and its permanence, however in its contents agreeing with the results of former religious or mystical thought, proves to belong to quite a different type of thinking and arguing. It is a rational not a mystical faith that is involved in this doctrine. And even in another point the Platonic theory of the soul is sharply distinguished from former view that we find in Greek philosophy. In the Presocratic systems we find a double conception of human soul – a natural or naturalistic one and a mystical one. But both these conceptions, however diverging in their general tendency of thought, agree, nevertheless, in one general presupposition. The soul is thought to be as a moving power591. The definition of the Soul in its essential difference from the material body is based on the fact that the latter has no independent moving force of its own, that it must be moved by an impulse from without, whereas the soul does not need such an impulse as being the original principle and source of motion (κινήσεως μὲν ἀρχή). Even the Greek term ψυχή

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interpretare questa dottrina nel suo vero senso sistematico, bisogna osservare accuratamente l’ordine logico in cui gli argomenti di Platone dipendono l’uno dall’altro. Platone non ha fondato la sua dottrina delle idee sulla fede nell’immortalità dell’anima; al contrario, egli ha fondato la sua teoria dell’essenza e dell’immortalità dell’anima umana sul presupposto della verità assoluta e dell’assoluta necessità di un mondo delle forme pure. La dottrina platonica delle idee non è un’inferenza particolare tratta dai princìpi e dai presupposti della sua psicologia spiritualistica. All’opposto, la teoria metafisica dell’immortalità non è nient’altro che un correlato e un corollario della teoria logica di Platone. Per via di questa sua caratteristica peculiare, la dottrina platonica dell’anima, della sua preesistenza e permanenza – sebbene in accordo, nei suoi contenuti, con i risultati del precedente pensiero religioso e mistico – mostra di appartenere a un modo di pensare e ragionare alquanto diverso. Questa dottrina non implica una fede mistica, bensì razionale. La teoria platonica dell’anima, inoltre, si distingue in un altro aspetto da quella rinvenibile nella prima filosofia greca. Nei sistemi presocratici vi è una duplice concezione dell’anima umana: quella naturalistica e quella mistica. Ma entrambe queste concezioni, sebbene divergenti nella loro generale tendenza di pensiero, cionondimeno convergono su un presupposto di carattere generale. L’anima viene pensata come una forza motrice. La definizione di anima e la sua essenziale differenza dal corpo materiale poggia sul fatto che quest’ultimo non ha una sua propria e indipendente forza motrice; per tali ragioni viene mosso da un impulso esterno, laddove l’anima non ha bisogno invece di un impulso del genere, in quanto essa stessa costituisce il principio originario e la fonte del movimento (κινήσεως μὲν ἀρχή). Anche il ter-

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seems to have an immediate reference to this conception; for ψυχή originally means the power of breathing and, by this, the power of life. Soul is that principle that is to be conceived as the source of life, as the vivifying principle that enlivens and animates the Universe. Without this animating and inspiring power[,] the corporeal world could not maintain itself; it would come to a standstill and would be condemned to death. Plato himself does not deny the correctness of this conception; he strives, on the contrary, to confirm and strengthen the definition of the soul as a self-moving principle. In the dialogue “Phaidros” the soul is said to be immortal: for that is immortal which is ever in motion. «But that which moves another and is moved by another, in ceasing to move ceases also to alive. Now, the beginning is unbegotten, for that which is begotten, has a beginning; but the beginning itself has no beginning, for if a beginning were begotten of something it would not be a real beginning…Therefore a self-moving is the beginning of motion, and this can neither be destroyed nor begotten, else the whole heavens and all creation would collapse and stand still, and never again have motion or birth (Phaidros 245C)». But if we follow this conception of the soul and if we maintain the definition of its being a moving force, we encounter, from the Platonic point of view, very grave systematic difficulties. For, when arguing on this principle how can we hope to find out and prove a real relationship, a sort of ideal affinity, between the essence of the soul and the essence of the pure ideas? The latter are everlasting; they are exempt from all change or movement; the former is the very principle of change, the origin and source of motion. The subject and the object of knowledge, the thinking soul and the ideas seem, therefore, to be diametrically opposed to each other; the one belongs to the pure sphere of being, the other appears to be, once for all, applied to the world of be-

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mine greco ψυχή sembra riferirsi immediatamente a questa concezione, giacché la ψυχή originariamente indica la capacità di respirare e quindi il potere della vita. L’anima è quel principio che costituisce la fonte della vita, il principio vivificante che anima l’universo. Senza questa forza ispiratrice e vitale, il mondo corporeo non potrebbe continuare a vivere; resterebbe paralizzato e destinato alla morte. Platone stesso non nega la corretteza di questa concezione; al contrario, si ostina a confermare e rafforzare la definizione di anima come principio di auto-movimento. Nel dialogo Fedro l’anima viene considerata immortale: «Ma ciò che altro muove e da altro è mosso, cessando di muoversi cessa anche di vivere. Ora, il principio non è generato, poiché ciò che è generato ha un principio; ma il principio stesso non ha principio, poiché se un principio fosse generato da qualcosa non sarebbe un vero principio... Pertanto ciò che muove da sé è il principio del movimento, e questo non può essere né distrutto né generato, altrimenti i cieli interi e tutta la creazione collasserebbero e rimarrebbero immobili, e mai più si avrebbe movimento o nascita» (Fedro, 245C)143. Ma adottando questa concezione dell’anima e accettando la definizione del suo essere inteso come una forza in movimento, ci imbattiamo, dal punto di vista platonico, in serie difficoltà sistematiche. Difatti, ragionando su questo principio, come possiamo pensare di trovare e dimostrare un’effettiva relazione, una sorta di affinità ideale tra l’essenza dell’anima e l’essenza delle idee pure? Queste ultime sono eterne, sono dispensate da ogni mutamento e movimento; l’anima costituisce invece l’autentico principio del mutamento, l’origine e la fonte del movimento. Il soggetto e l’oggetto della conoscenza, l’anima pensante e le idee, sembrano diametralmente opposte, in quanto le idee appartengono alla pura sfera dell’essere, mentre l’anima, in modo definitivo,

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coming. Plato does not deny that, in a certain sense, this entanglement of the soul in the world of becoming, takes place and is unavoidable. If the soul, in search for truth, only uses her power of perception, if she considers the world of perception592 to be the ultimately reality, she remains absorbed in fleeting and changing phenomena, that preclude her from the knowledge of true Being. In this case the soul becomes as multifarious and, so to speak, as many-coloured as the objects of sense-perception to which it addicts itself. As the “Theaetetos” points out[,] no object of perception has a true and real being, a steadfast character593; but out of motion and change and admixture all things are becoming, so that, in order to speak correctly, we ought not even to use the word “this” or “not this” (Theaet. 183). But the same must be said of the soul – of the Self, that is devoted to these objects and that reflects upon them. When absorbed in the world of perception even the soul of the Self is changing from one moment to another594. The soul, it could not come to any firm and steadfast being, if she were not provided with other faculties that allow her to change her route and to turn away to a new and different aim. But such a change of direction, such a reversal – this reversal takes place as soon as the soul applies to a different kind of objects, to the objects of pure Mathematics. The soul cannot595 deal with these objects without attempting to make herself equal to them: and this equality means that it detects in its own nature and essence a principle that is not subject to change or motion. This principle is the power of pure thought – of a thought which is independent of all the conditions of sensibility. It is by this operation of thought alone, by the exertion of its logical and dialectical powers that the soul is led, on the one hand, to the realm of pure being, on the other hand, to the consciousness of her own essence. By looking at the pure ideas, which are the only firm and permanent objects of thought the soul first

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sembra soggetta al mondo del divenire. Platone non nega che, in un certo senso, questo intreccio dell’anima nel mondo del divenire abbia luogo e sia inevitabile. Se l’anima, nella sua ricerca della verità, adopera soltanto la facoltà della percezione, se considera il mondo della percezione come la realtà ultima, essa rimane immersa nei fenomeni effimeri e in continuo mutamento, che le precludono la possibilità di cogliere la conoscenza del vero essere. In tal caso l’anima diviene molteplice e, per dir così, variopinta tanto quanto quegli oggetti dai quali essa stessa dipende. Come si afferma nel Teeteto, nessun oggetto della percezione ha un essere vero e reale, una natura costante. Del resto, a causa del movimento, del cambiamento e della mescolanza, ogni cosa è in divenire, per cui, per esprimerci correttamente, non dovremmo nemmeno usare la parola “questo” o “non questo” (Teeteto 183)144. Ma al tempo stesso va detto che l’anima, il Sé, è legata a questi oggetti e riflette su di essi. Se immersa nel mondo della percezione, anche l’anima o il Sé muta da un momento all’altro. Ma un simile mutamento di direzione, un tale capovolgimento, si verifica non appena l’anima si dedica a un diverso tipo di oggetti: gli oggetti della matematica pura. L’anima non può occuparsi di tali oggetti senza prima tentare di rendersi uguale a essi, e per tale uguaglianza si intende il fatto che essa rileva, nella sua propria natura ed essenza, un principio che non è soggetto a mutamento né a movimento. Questo principio corrisponde alla facoltà del pensiero puro, di un pensiero indipendente da tutte le condizioni della sensibilità. È proprio attraverso le operazioni del solo pensiero, attraverso l’esercizio della sua forza logica e dialettica, che l’anima viene condotta, da un lato, al regno del puro essere e, dall’altro, alla coscienza della sua propria essenza. Volgendo il proprio sguardo alle idee pure – i soli e fissi oggetti del pensiero – l’ani-

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becomes aware of its own original and unalterable character. It is by the intuition of these objects alone that it can fulfill the demand of the Delphic Apollo: the demand: γνῶθι σεαυτόν. The identity and sameness of the Idea, leads the soul to the consciousness of her own identity, of her invariable essence and nature. In the act of perceiving the soul is, so to speak, dispersed in different directions, it is thrown here and there according to the multifarious and varying impressions which it is concerned. But the act of thought frees the soul from this dispersion. We cannot think but by concentrating our mind to one point: by assembling and collecting, as it were, the whole of our soul to a single focus. It is, therefore, the unity of the ideas that makes us acquainted and familiar with the indestructible identity of our soul596. «Would it not be strange, if in each of us there were perched, as in a sort of Trojan horse, a number of separate perceptions, and these did not all meet in some one nature, whether you term this Soul or what other name you like to give it». This unity is not intended to be found in that part of the soul by which it is in contact with the world of sense. It manifests itself exclusively in the act of thinking and reasoning; and it is therefore only by means of this act, by means of dialectical investigation, that it can be ascertained and proved. Every logical act, every activity of reflecting, of judging, of arguing is enough to convince us of the necessity of the unity of the soul. What we call our Self is not to be defined as a mere aggregate, as an unorganized mass of sense-perception or sensual desires597. According to Plato the real power and the true source becomes manifest in that operation that is described by him as a “συνάγειν εἰς ἕν” or as a “συνοραν εἰς ἕν” – as a power of synopsis or synthesis. In order to reach a

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ma diviene subito consapevole del suo carattere originario e inalterabile. Soltanto attraverso l’intuizione di questi oggetti essa può soddisfare la richiesta dell’Oracolo di Delfi: il detto γνῶθι σεαυτόν. L’identità e singolarità dell’idea conduce l’anima alla coscienza della propria identità, della sua natura ed essenza invariabili. Nell’atto della percezione l’anima, per così dire, si disperde in diverse direzioni, viene gettata qua e là a seconda delle varie e molteplici impressioni che la riguardano. Ma l’atto del pensiero libera l’anima da questa dispersività. Non possiamo pensare se non concentrando la nostra mente su un unico punto, se non assemblando e raccogliendo, per così dire, la nostra intera anima su un punto focale. Pertanto, è proprio l’unità delle idee a renderci consapevoli e coscienti dell’indistruttibile identità della nostra anima: «Non sarebbe strano, se in ciascuno di noi fossero arroccate, come in una sorta di cavallo di Troia, un certo numero di percezioni distinte, ma non si riunissero tutte in un’unica natura, sia che la si chiami Anima, sia che le si voglia dare un altro nome.»145. Questa unità non va rinvenuta in quella parte dell’anima che si trova in contatto con il mondo dei sensi. Essa si manifesta esclusivamente nell’atto del pensare e del ragionare; pertanto, è soltanto mediante questo atto, attraverso l’indagine dialettica, che può essere rilevata e dimostrata. Ogni atto logico, ogni attività di riflessione, di giudizio, di argomentazione, è sufficiente a convincerci della necessità dell’unità dell’anima. Ciò che chiamiamo il nostro Sé non va inteso come un mero aggregato, come una massa disorganizzata di percezioni o desideri sensibili. Secondo Platone, la vera forza e l’autentica fonte dell’anima si rende manifesta in quell’operazione da lui descritta come συνάγειν εἰς ἕν o come συνορᾶν εἰς ἕν,

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true knowledge[,] the soul must, so to speak, imitate in its own sphere the sameness and eternity of objective truth; it must find itself an absolute oneness and an absolute duration. In order to prove this point the dialogue Theaetetos introduces a new argument. Here Plato puts a question that proved to be of great importance for the further development of logical thought and which, even in our modern logical theories, still has its definite place. It is essential to the act of thinking – he says – that it contains a statement of relations, that it ascertains the likeness or unlikeness, the resemblance or dissimilarity, of things. But as Plato points out¡,] this statement never can arise from mere sense-perception. By sense-perception we gain a knowledge of certain qualities of things, but, by the means of perception alone, we could not compare these qualities with each other and make sure of their mutual relation, of their identity or diversity. For this comparison there is always required a new operation of thought, which cannot be derived from the content of the single perception, but it has its origin in the thinking and knowing Self – in the ψυχή αὐτὴ καθ᾽αὑτή. Sight provides us with the perception of light and colours, hearing provides us with the perception of sounds. But if we think of the relations of colours or words, if we judge, that one colour is similar or dissimilar to another or that colour in general and sound in general are different and disparate qualities this judgement cannot598 be proved by appealing to a special sense, to a corporeal organ. There is no part of our body that may be said to be the support599 and condition of our judgements concerning identity or diversity, conformi-

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ossia la facoltà della sinossi o sintesi. Per raggiungere la vera conoscenza l’anima deve dunque, per così dire, imitare nella sua propria sfera l’identità ed eternità della verità oggettiva; deve trovare in se stessa un’unità assoluta e una durata assoluta. Per fornire una prova di tutto ciò, nel dialogo Teeteto Platone introduce un nuovo argomento. Qui Platone pone una questione rivelatasi di grande importanza per il successivo sviluppo del pensiero logico e che anche nelle nostre teorie logiche moderne possiede ancora una sua collocazione ben precisa. L’atto del pensare, egli dice, è fondamentale che contenga un enunciato su relazioni, che verifichi la somiglianza o la dissomiglianza, la similarità o dissimilarità delle cose. Ma, rileva Platone, questo enunciato non può mai sorgere dalla mera percezione sensibile. Attraverso quest’ultima noi otteniamo una conoscenza relativa a determinate qualità delle cose, ma attraverso la sola percezione non ci è possibile confrontare queste qualità con le altre ed essere sicuri della loro mutua relazione, della loro identità o diversità. Infatti, per un tale confronto si richiede sempre una nuova operazione del pensiero, che non deriva di certo dal contenuto di una singola percezione sensibile, ma piuttosto dal pensiero e dal conoscere stesso – nella ψυχή αὐτὴ καθ᾽ αὑτή. La vista ci fornisce la percezione della luce e dei colori, l’udito la percezione dei suoni, ma se pensiamo alle relazioni dei colori o delle parole, se giudichiamo un colore simile o dissimile da un altro o che il colore in generale e il suono in generale son qualitào diverse ed eterogenee, questo giudizio non lo si può provare appellandosi a un senso particolare, a un organo corporeo. Non si dà nessuna parte del nostro corpo che possa fungere da supporto, fonda-

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ty[,] or contrariety – in the same as the eye may be called the organ of seeing, the ear the organ of hearing. All these concepts and judgements that are concerned with pure relations must be brought about by the soul alone and must be based on its power of thinking, of comparing, of uniting or separating. In order to give a correct statement of the problem and in order to express it in a really adequate way we must therefore not say that we perceive the objects, even the objects of sense-perception, with the organs of sensation, with the eye and the ear – we must rather say that we perceive them though the medium600 of the eyes and our ears. For the bodily organ is only an instrument the mind makes use of in the act of perception; it is not the real and originary cause. «The free use of words and phrases – says Sokrates to Theaetetos – rather than minute precision is generally characteristic of a liberal education and the opposite is pedantic; but sometimes precision is necessary; and thus the answer which you have just given – namely that we perceive colours with the eyes, sounds with the ears (ὄμμασί τε καὶ ὠσίν) is open to the charge of incorrectness. For which is more correct to say that we see or hear with the eyes and with the ears, or through the eyes and through the ears (σκόπει γάρ: ἀπόκρισις ποτέρα ὀρθοτέρα, ᾧ ὁρῶμεν τοῦτο εἶναι ὀφθαλμούς, ἢ δι᾽ οὗ ὁρῶμεν, καὶ ᾧ ἀκούομεν ὦτα, ἢ δι᾽ οὗ ἀκούομεν). I should say – replies Theaitetos – by the medium rather than with»601.

For in every case[,] it is not the sense that is the real subject of perception and it is not the corporal organ that produces the act of sensation. It is only by the power of soul,

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mento e condizione dei nostri giudizi concernenti l’identità o la diversità, la conformità o la contrarietà, nello stesso senso in cui diciamo che l’occhio è l’organo della vista e l’orecchio l’organo dell’udito. Tutti questi concetti e giudizi, che hanno a che fare con le relazioni pure, vengono causati solamente dall’anima e si basano sulla sua facoltà di pensare, comparare, unire o separare. Se intendiamo fornire un corretto resoconto del problema ed esprimerlo in modo adeguato, allora non dobbiamo affermare che percepiamo gli oggetti (anche quelli sensibili) con gli organi della sensazione, con l’occhio e con l’orecchio; piuttosto, dovremmo dire che li percepiamo attraverso la mediazione degli occhi e delle orecchie, poiché l’organo corporeo è soltanto uno strumento adoperato dalla mente nell’atto della percezione, e non la causa reale e originaria: Il libero uso di parole ed espressioni – dice Socrate a Teeteto – anziché una precisione minuta, è generalmente caratteristico di un’educazione liberale ed anzi il contrario è pedante; ma a volte la precisione è necessaria; e quindi la risposta che hai appena dato – cioè che percepiamo i colori con gli occhi, i suoni con le orecchie (ὄμμασί τε καὶ ὠσίν). – si espone all’accusa di scorrettezza. Per cui è più corretto dire che vediamo o udiamo con gli occhi e con gli orecchi, oppure mediante gli occhi e mediante gli orecchi? (σκόπει γάρ: ἀπόκρισις ποτέρα ὀρθοτέρα, ᾧ ὁρῶμεν τοῦτο εἶναι ὀφθαλμούς, ἢ δι᾽ οὗ ὁρῶμεν, καὶ ᾧ ἀκούομεν ὦτα, ἢ δι᾽ οὗ ἀκούομεν). Sarebbe meglio dire – replica Teeteto – mediante cui e non con cui146.

A ogni modo, non è il senso l’autentico soggetto della percezione e non è l’organo corporeo a produrre l’atto

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by her faculty of combining and separating[,] of uniting and discriminating the data afforded by the different senses, that the act of perception becomes possible. To express the question in the right way we must therefore say that with the Mind or Soul, through the medium of our eyes and ears, we become conscious of the empirical world, of the phenomena of sense-experience. [§7: Konwledge and Truth]602 If we compare this argumentation contained in the Dialogue Theaetetos with Plato’s earlier statements of the problem we become aware of a definite progress of thought. In these former statements – especially in the Phaidon – the principal aim of Plato seems to consist in a radical distinction between the nature and essence of the Soul and the nature and essence of the Body. According to this general tendency he insists on an analogous distinction between the act of thinking, of judging, of reasoning on the one hand, the act of perceiving on the other hand. As the Phaidon points[,] out the true nature and the pure essence of the soul can be testified by those acts only, that exclusively belong to herself, and that are not mixed up with any operation that belongs to a different sphere and is dependent on different conditions. In order to give a real evidence of the unity and indivisibility of the human soul and in order to evince her independence and her immortality we have to observe the soul in her original perfect condition, in her purity and integrity. In order to be adequate to her essential task, to the task of reaching knowledge and virtue, the soul must exclusively rely on her own forces. She must retire from the world of senses and become

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della sensazione. È soltanto mediante la facoltà dell’anima, mediante la sua capacità di combinare e separare, unire o discriminare i dati forniti dai diversi sensi, che l’atto della percezione diviene possibile. Volendo esprimerci in termini più corretti, dobbiamo affermare che con la mente o anima – attraverso la mediazione di occhi e orecchi – noi diveniamo coscienti del mondo empirico, dei fenomeni dell’esperienza sensibile. 7. Conoscenza e verità Confrontando questa argomentazione, contenuta nel dialogo Teeteto, con le prime dichiarazioni platoniche sull’argomento, rileviamo un preciso processo di pensiero. In queste prime dichiarazioni – in particolar modo nel Fedone – lo scopo principale di Platone sembra consistere in una radicale distinzione tra la natura ed essenza dell’anima e la natura ed essenza del corpo. Sulla base di questa tendenza generale egli insiste sull’analoga distinzione tra l’atto del pensare, del giudicare, del ragionare, da un lato, e l’atto del percepire, dall’altro. E il Fedone fa notare che la vera natura e la pura essenza dell’anima possono essere verificate soltanto mediante quegli atti che appartengono esclusivamente a essa, e che non sono mescolati con altre operazioni appartenenti invece a una sfera differente e basate su ben altre condizioni. Se vogliamo fornire una reale evidenza dell’unità e indivisibilità dell’anima umana ed evincerne l’indipendenza e immortalità, allora dobbiamo osservare l’anima nella sua originaria condizione di perfezione, nella sua purezza e integrità. Se l’anima vuol essere adeguata al suo compito essenziale, al compito di raggiungere virtù e conoscenza, essa deve far leva esclusivamente sulle proprie forze.

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absorbed in herself. It is only by avoiding the company of the body that she can attain a sincere, a distinct and exact knowledge. The data with which the senses provide us cannot help the soul in the investigation of truth; they disturb the soul and obscure their concepts and judgements. A genuine and unsophisticated knowledge is only to be hoped, if the soul recovers her proper and original possession (οἰκείαν ἂν ἐπιστήμην ἀναλαμβάνειν), if it emancipates herself from the influence and power of the body and the bodily organs. «Have sight and hearing any truth in them – says Sokrates in the Phaidon – or are not even the poets always telling us that we neither see nor hear in a really distinct and accurate way? And yet, if even they are inaccurate and indistinct what is to be said of the other senses?... Then when does the soul attain truth? – for in attempting to consider anything in company with the body she is obviously deceived… Then must not reality be revealed to her in thought, if at all… And thought is best when the mind is gathered into herself and none of these things trouble her – neither sights, nor sounds, nor pain, nor any pleasure – when she has as little as possible to do with the body – and, without any community with it, aspires, so far as possible after true being… If therefore, we strive after pure knowledge we must free ourselves from the body the soul in herself must behold all things in themselves. Phaed. 65B, 66D (αὐτῇ τῇ ψυχῇ θεατέον αὐτὰ τὰ πράγματα)».

But if we look at the theory of perception developed in the “Theaetetos” we find that the point of view of Plato has changed. Of course[,] Plato does not renounce or disavow his fundamental hypothesis, the hypothesis of the radical distinction between the visible and the invisible world. But he does no longer maintain that the soul must, so to speak, imitate this original separation in her own field. She may

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Deve congedarsi dal mondo dei sensi e concentrarsi su se stessa. Solo evitando la compagnia del corpo essa può raggiungere una conoscenza verace, distinta ed esatta. I dati fornitici dai sensi non aiutano l’anima nella ricerca della verità; la disturbano e annebbiano i suoi concetti e giudizi. Bisogna solo sperare in una conoscenza genuina e non sofisticata, se l’anima riscopre il suo possesso proprio e originale (οἰκείαν ἂν ἐπιστήμην ἀναλαμβάνειν), se si emancipa dall’influenza e dal potere del corpo e degli organi corporei: Vista e udito hanno in sé qualche verità – dice Socrate nel Fedone – o non sono forse i poeti a dirci sempre che noi non vediamo né udiamo in modo veramente preciso e accurato? Eppure, se anche questi sono imprecisi e inaccurati, cosa dire degli altri sensi? [...] Allora quand’è che l’anima raggiunge la verità? – infatti, accingendosi a considerare qualcosa insieme con il corpo essa ne è ovviamente ingannata [...]. Dunque la realtà non dev’esserle rivelata nel pensiero, se mai le venga rivelata [...]. E il pensiero è migliore quando la mente è raccolta in se stessa e nessuna di queste cose la turba – né visioni, né suoni, né dolori, né alcun piacere – e, senza alcuna comunanza con esso, aspira, per quanto possibile, al vero essere [...] Se, pertanto, miriamo alla pura conoscenza, dobbiamo liberarci dai nostri stessi corpi, l’anima da sé deve vedere tutte le cose in se stesse (αὐτῇ τῇ ψυχῇ θεατέον αὐτὰ τὰ πράγματα)147.

Ma volgendo il nostro sguardo alla teoria della percezione sviluppata nel Teeteto, troviamo che il punto di vista di Platone è mutato. Ovviamente, Platone non rinuncia o rinnega la sua ipotesi fondamentale, l’ipotesi della radicale distinzione tra il mondo visibile e quello invisibile. Ma non ritiene più che l’anima debba, per così dire, imitare questa originaria separazione nel suo pro-

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prove her purity and her unity, her uncorrupted essence not only by being absorbed in her own concepts. In the operation of pure thought, but also by turning to the world of sense, by contemplating and judging them. The soul does by no means pollute herself or desert from her pure origin by those acts, which, instead, of remaining in her own sphere, in the sphere of pure thought, are concerned with the data of senses. Even here603 she may prove he power and independence. For in604 considering the relations between sense-perception, in thinking of their similarity or dissimilarity, of their homogeneity or disparity, she becomes not entangled in the region of mere sensibility. She is acting upon her own principles[,] and she is applying these principles to the world of sensation. The concept of identity or diversity, of likeness or unlikeness, however being applied to this latter world remains a pure concept; it involves a logical meaning that is not contained in the passive impressions of seeing or hearing but for the truth of which we have to appeal to a different tribunal, to an activity of the mind itself. If, for instance, I make sure of the difference existing between a colour and a sound I cannot affirm that I am aware of this difference through the eye or the ear. For the object of one sense cannot be perceived by another; the eye is unable to grasp the nature of sounds; the ear is unable to grasp the nature of colours. Therefore[,] if I perceive anything about the objects of the two different senses it cannot be through either of them. Hence a thought605 which regards disparate sense-perception[,] and which refers both of them to a common rule and standard, cannot come to us either through the one or the other organ. If we say that sounds and colours

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prio campo. Essa potrebbe dimostrare la sua purezza e unità, la sua essenza incorrotta, non soltanto essendo interamente assorbita nei suoi concetti, nell’operazione del pensiero puro, ma anche rivolgendosi al mondo dei sensi, contemplandoli e giudicandoli. L’anima non inquina in alcun modo se stessa, né diserta dalla sua pura origine attraverso quegli atti che, invece di restare nella sua propria sfera – nella sfera del pensiero puro – si occupano dei dati percettivi. Anche in questo caso essa dimostra la sua potenza e indipendenza. Difatti, nel considerare le relazioni tra percezioni sensibili, nel pensare la loro similarità o dissimilarità, la loro omogeneità o disparità, l’anima non resta impigliata nella regione della mera sensibilità. Agisce sui suoi propri princìpi e applica questi princìpi al mondo della sensazione. Sebbene applicati al mondo della sensazione, i concetti di identità o diversità, di similarità o dissimilarità, rimangono pur sempre concetti puri; implicano un significato logico che non è contenuto nelle impressioni passive del vedere o dell’udire; ma in merito alla sua verità dobbiamo comunque appellarci a un tribunale differente, a un’attività della mente stessa. Se, ad esempio, mi accerto della differenza sussistente tra un colore e un suono, non posso affermare di essere consapevole di questa differenza attraverso l’occhio o l’orecchio, poiché l’oggetto di un senso non può essere percepito da un altro; l’occhio è incapace di afferrare la natura dei suoni e l’orecchio è incapace di afferrare la natura dei colori. Pertanto, se io percepisco qualcosa degli oggetti di due sensi diversi, ciò non avviene attraverso entrambi. Di conseguenza, un pensiero che prende in considerazione diverse percezioni sensibili e che le rinvia a una regola o criterio comune, non può giungere a noi né attraverso l’uno né attraverso l’altro organo. Se diciamo che i suoni e i colori esistono, che si

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exist, that either of them is different from the other, but the same with itself, that both are two and each of them one, through what do we perceive all this about them? «For neither through hearing nor yet through seeing – says Sokrates – can you apprehend that which they have in common…What power of instrument will determine that which is common not only to words and colours, but to all classes of sensible objects, as for instance [that] which we call being and not being, likeness and unlikeness, sameness and difference, and also unity and other numbers which are applied to the objects of sense? I cannot answer this question – replies Theaitetus – all I can say is that they have no separate organ, but that the soul, by a power of her own, contemplates the universal in all things (ὅτι μοι δοκεῖ τὴν ἀρχὴν οὐδ εἶναι τοιοῦτον οὐδὲν τούτοις ὄργανον ἴδιον ὥσπερ ἐκείνοις, ἀλλ αὐτὴ δι᾽ αὑτῆς ἡ ψυχὴ τὰ κοινά μοι φαίνεται περὶ πάντων ἐπισκοπεῖν, Theait. 185D)».

By this the Platonic theory of knowledge has made a new and very important step. Of course[,] Plato does not mean to withdraw or to restrict this universal definition of truth, according to which an exact and perfect truth can be acknowledged to the objects of the pure intellect alone. The “Theaetetus” over and over again insists on this logical postulate of Platonism – and his special aim consists in giving a definite prove of the fundamental and ineradicable606 difference between ἐπιστήμη and αἴσθησις, between knowledge and sensation. But there exists at least a relative truth that now is conceded to the objects of sense-experience. Whereas the Phaidon, in its attempt to prove the preexistence and immortality of the human soul, laid the greatest stress upon the separation of the sensible and supersensible world, of

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differenziano l’uno dall’altro, ma ognuno è identico a se stesso, che insieme sono due ma ognuno di essi è uno, attraverso che cosa percepiamo tutto questo? Infatti né attraverso l’udito né attraverso la vista – dice Socrate – si può apprendere ciò che essi hanno in comune [...]. Per mezzo di quale strumento si determinerà ciò che è comune non solo alle parole e ai colori, ma a tutte le classi di oggetti sensibili, come per esempio [ciò] che diciamo è e non è, somiglianza e dissomiglianza, medesimezza e differenza, e inoltre l’unità e altri numeri che vengono applicati agli oggetti sensibili? Non posso rispondere a questa domanda – replica Teeteto – tutto ciò che posso dire è che non v’è un organo separato, ma che l’anima, per mezzo di se stessa, contempla l’universale in tutte le cose (ὅτι μοι δοκεῖ τὴν ἀρχὴν οὐδ εἶναι τοιοῦτον οὐδὲν τούτοις ὄργανον ἴδιον ὥσπερ ἐκείνοις, ἀλλ αὐτὴ δι᾽ αὑτῆς ἡ ψυχὴ τὰ κοινά μοι φαίνεται περὶ πάντων ἐπισκοπεῖν)148.

Con ciò la teoria platonica della conoscenza ha compiuto un passo nuovo ed estremamente importante. Ovviamente, Platone non intende rimuovere o restringere questa definizione universale di verità, secondo la quale una conoscenza perfetta ed esatta può essere attribuita soltanto agli oggetti del puro intelletto. Il Teeteto insiste più e più volte su questo postulato logico del Platonismo, e il suo scopo principale consiste nel fornire una dimostrazione precisa della fondamentale e inestirpabile differenza tra ἐπιστήμη e αἴσθησις, tra conoscenza e sensazione. Ma esiste almeno una conoscenza relativa che, adesso, viene concessa agli oggetti dell’esperienza sensibile. Laddove il Fedone, col suo tentativo di dimostrare la preesistenza e immortalità dell’anima umana, poneva maggiormente l’enfasi sulla separazione del mondo sensibile e di quello sovrasensibile, del corpo e della mente,

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Body and Mind, the Theaetetos emphasizes their correlation and cooperation. The former dialogue insists on the principle of the Platonic χωρισμός, the latter on the principle of μέθεξις. For acknowledging the power and superiority, the purity and independence of the Soul we have not only to regard her in her own field, in the act of thinking and judging. This pure essence of the soul may be found even in the act of perceiving itself and may be proved by a thorough analysis of this act. For such an analysis inevitably leads us to the conviction that what we call sensation is by no means founded upon sensibility alone but requires and involves the power of the understanding, of the pure mind. Sensation itself is not a mere chaos consisting of single and disconnected facts. It has a certain organization and constitution of its own; it does not only consist of individual data each of which has a separate existence and a separate meaning607. [§8: The Good]608 [At the end of our last lecture we have analyzed the theory of sense-perception contained in the system of Plato and we have expounded the very remarkable development that this theory undergoes in the later dialogues, especially in the Dialogue Theaetetus. As this dialogue points out the power of the soul, of the pure intellect extends not only on the field of thought, but over the whole field of sense-experience. Even the act of perception is not entirely dependent on the mere power of the body, on the single sense-organs. It requires and presupposes an original power of the intellect by which the various and isolated sense-data are referred to each other

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il Teeteto enfatizza la loro correlazione e cooperazione. Il primo dialogo insiste sul principio del platonico χωρισμός, il secondo sul principio della μέθεξις. Per riconoscere la forza e superiorità, la purezza e indipendenza dell’anima, non dobbiamo considerare quest’ultima solamente in riferimento a se stessa, nell’atto del pensare e del giudicare. Questa pura essenza dell’anima la si può anche rinvenire nell’atto della percezione stessa e la si può dimostrare attraverso l’analisi di questo atto. Una analisi di questo tipo ci conduce inevitabilmente alla convinzione che ciò che chiamiamo sensazione non poggia in alcun modo soltanto sulla sensibilità, ma richiede e include la facoltà dell’intelletto, della mente pura. La sensazione in sé non è un mero caos costituito da fatti singoli e isolati. Essa possiede una certa organizzazione e una propria costituzione; non consta soltanto di dati individuali, ognuno dei quali ha una esistenza distinta e un significato distinto. 8. Il Bene [Al termine della nostra ultima lezione abbiamo analizzato la teoria della percezione sensibile contenuta nel sistema di Platone e abbiamo illustrato l’importante sviluppo che questa teoria ha avuto nei successivi dialoghi, in particolar modo nel dialogo Teeteto. In questo dialogo si afferma che la facoltà dell’anima, del puro intelletto, si estende non soltanto al campo del pensiero, ma anche all’intero campo dell’esperienza sensibile. Ogni atto della percezione non dipende interamente dalla mera facoltà del corpo, da singoli organi sensibili. Essa richiede e presuppone una facoltà originaria dell’intelletto, attraverso la quale i vari e isolati dati percettivi vengono riferiti l’u-

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and are subsumed under general categories]. [B]ut it proves to possess a general, a common nature; it is, so to speak, permeated by universal relations. These relations are not accessible to the senses and to their bodily organs; they are to be apprehended by the understanding, by the mind itself. The power of the mind extends, therefore, not only over the field of pure thought, but even over the whole field of sense-experience. Its real and ultimate proof is to be sought for outside this field; but after one having given this prove, after having gained the insight into the nature of the pure ideas, we may return to the world of sense[,] and we may detect in the phenomena themselves a sort of analogy to the pure ideas. Even the phenomena contained in space and time could not be perceived, could not be apprehended in their due sense, if there were not the power of the mind to contemplate them and to refer them to its own universal categories: to the categories of Being or not Being, of sameness and difference, unity[,] and multitude. But if we inquire after the reason by which Plato in his later Dialogues – in the later books of the Republic, in the Parmenides, the Theaetetus, the Sophistes, the Philebos – was led to this conclusion – if we seek for the primal and systematic motive that induced him, instead of simply transcending the empirical world, to turn back to it and attempt, by the power of philosophical thought, to organize and govern the empirical world: we find that this motive is not to be found in the domain of mere theoretical thought. As a mere logician and dialectician or as a mathematical thinker Plato might have yielded to the temptation to leave once and for all609 the world of sense-perception: a world in which the human mind can never find an entirely reliable truth, in which he always is liable to error and self-delusion. And even in his Ethics Plato strongly maintains this view. He does not

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no all’altro e sussunti sotto categorie generali]. Ma essa mostra di possedere una natura generale e comune: è, per così dire, permeata da relazioni universali. Queste relazioni non sono accessibili ai sensi o ai loro organi corporei; esse vanno apprese dall’intelletto, dalla mente stessa. Pertanto, la facoltà della mente si estende non soltanto al campo del pensiero puro, ma anche al campo dell’esperienza sensibile. La sua prova reale e definitiva va ricercata al di fuori di questo campo; ma una volta fornita questa prova, dopo aver acquisito l’intuizione della natura delle idee pure, possiamo ritornare al mondo dei sensi e individuare nei fenomeni stessi una sorta di analogia con le idee pure. Anche i fenomeni contenuti nello spazio e nel tempo non potrebbero venir percepiti e colti nel loro significato appropriato, se non ci fosse la mente a contemplarli e a ricondurli alle sue proprie categorie universali, alle categorie dell’essere e del non-essere, di medesimezza e differenza, di unità e molteplicità. Ma se indaghiamo la ragione per cui Platone nei suoi Dialoghi tardi – negli ultimi libri della Repubblica, nel Parmenide, nel Teeteto, nel Sofista, nel Filebo – giunse a tale conclusione, se cerchiamo il motivo principale e sistematico che lo indusse a ritornare al mondo empirico piuttosto che trascenderlo semplicemente e quindi a organizzarlo e governarlo grazie alla potenza del pensiero filosofico, ci accorgiamo che tale motivo non lo rinveniamo affatto nel dominio del mero pensiero teoretico. Platone, come mero logico e dialettico o come pensatore matematico, avrebbe potuto cedere alla tentazione di abbandonare una volta per tutte il mondo della percezione sensibile: un mondo nel quale la mente umana non può mai trovare una verità del tutto affidabile, nel quale si è sempre soggetti all’errore e all’autodelusione. Anche nella sua etica Platone sostiene con forza questa conce-

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admit that the true aim of our ethical thought and ethical life can be reached if we confine ourselves within the limits of the phenomenal world. The real, the ultimate good is not to be found in this world; it transcends not only the sphere of empirical Being, but the sphere of Being in general, it is as Plato emphasizes, ἐπέκεινα τῆς οὐσίας, beyond the sphere of being. «If you have often be[en] told – says Sokrates in the Republic to Glaucon – that the idea of good is the highest knowledge (μέγιστον μάθημα) and that all other things become useful and advantageous only by their use of this. Without the knowledge of Good any other knowledge or possession of any kind will profit us nothing. It is the idea of good which every soul of man [pursues] and makes the end of all his actions, having a presentiment that there is such an end, and yet hesitating because neither knowing the nature nor having the same assurances of this as of other things, and therefore losing whatever good there is in other things (Republ. 505 A-E). The place of the idea of Good in the intellectual world may therefore be compared with the place of the sun in the visible world. In the visible world the sun is not only the origin and condition of the visibility of things; it is not only that principal cause that makes the eye to see perfectly and the visible to appear. At the same time the sun must be described as the author, not only of the visibility of things, but as the author of generation and nourishment and growth. In the same sense the idea of good is that which impart truth to the known and the power of knowing to the knower; it is the cause of science and of truth in so far as the latter becomes the subject of knowledge. But beautiful too, as are both [truth] and knowledge, you will be right in esteeming this other

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zione. Egli non ritiene possibile raggiungere l’autentico scopo del nostro pensiero etico restando confinati all’interno degli angusti limiti del mondo fenomenico. L’autentico e sommo bene non lo si può trovare in questo mondo, giacché esso trascende non soltanto la sfera empirica dell’essere, ma anche quella dell’essere in generale, come Platone stesso sottolinea: ἐπέκεινα τῆς οὐσίας, al di là della sfera dell’Essere. Nella Repubblica Socrate, rispondendo a Glaucone, afferma: Ti è stato detto spesso che l’idea del bene è la conoscenza più elevata (μέγιστον μάθημα), e che tutte le altre cose diventano utili e vantaggiose solo attraverso l’uso di questa. Senza la conoscenza del Bene qualsiasi altra conoscenza o qualsiasi tipo di possesso non ci gioverà a nulla. È l’idea del bene che tutte le anime degli uomini [perseguono] e fanno diventare il fine delle loro azioni, avendo il presentimento che esista un tale fine, e tuttavia esitando perché non ne conoscono la natura né ne hanno le stesse garanzie come con le altre cose, e pertanto perdendo quanto di buono c’è nelle altre cose (Repub. 505 A-E). Il posto dell’idea del Bene nel mondo intelligibile può pertanto essere comparato con il posto del sole nel mondo visibile. Nel mondo visibile il sole non è soltanto l’origine e la condizione della visibilità delle cose; non è soltanto la causa principale che fa sì che l’occhio veda perfettamente e il visibile appaia. Allo stesso tempo il sole dev’essere descritto come l’autore, non solo della visibilità delle cose, ma anche come l’autore della generazione e del nutrimento e della crescita. Nello stesso senso l’idea del bene è quella che conferisce la verità al conosciuto e il potere di conoscere al conoscente; essa è causa della scienza e della verità nella misura in cui questa diviene oggetto di conoscenza. Ma, per quanto belle siano [la verità] e la conoscenza, avrai ragione di stimare quest’altra na-

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nature as more beautiful than either; and, as in the previous instance, light and sight may be truly said to be like the sun, and yet not to be the sun, so in the other sphere, science and truth may be deemed to be the good, but not610 the good itself; the good has a place of honour yet higher… The good may be said to be not only the author of knowledge to all things known, but of their being and essence, and yet the good is not essence, but far exceeds essence in dignity and power (οὐκ οὐσίας ὄντος τοῦ ἀγαθοῦ, ἀλλ ἔτι ἐπέκεινα τῆς οὐσίας πρεσβείᾳ καὶ δυνάμει ὑπερέχοντος, Republ. 509B).

It follows from this that the idea of Good occupying the highest place in the hierarchy of ideas must possess to the highest degree that property that characterizes and distinguishes all ideas whatever: the property of transcendence. The Good must be called transcendent in a peculiar and eminent sense; it has, so to speak, not only a transcendence of the first power, but of second power. For it lies beyond the limits not only of the sensible, but also of the intellectual world: it surpasses not only the boundaries of the phenomenal world[,] but it exceeds and excels[,] in a certain sense[,] even the limits of pure being, of the being of the ideas. That the supreme good never can belong611 to the empirical world, that it would be a vain[,] and hopeless attempt to catch the good in this realm, is one of the first maxims of Platonic philosophy. «Evils – says Socrates in the Theaetetos – can never pass away; for there must always remain something which is antagonistic to good. Having no place among the gods in heaven, of necessity they hover around the mortal nature, and this earthly sphere. Wherefore we ought to fly away from here as quickly as we can. But to fly away means to become like God, so far as it is possible; to become holy,

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tura come più bella di entrambe. E, come nell’esempio precedente, si può realmente dire che la luce e la vista siano come il sole, e tuttavia non sono il sole, così d’altra parte, la scienza e la verità possono essere ritenute il bene, ma non sono il bene stesso; il bene ha un posto d’onore ancor più elevato [...]. Il bene si può dire sia non solo l’autore della conoscenza di tutte le cose conosciute, ma del loro essere e della loro essenza, e tuttavia il bene non è l’essenza, ma eccede di gran lunga l’essenza in dignità e potenza (οὐκ οὐσίας ὄντος τοῦ ἀγαθοῦ, ἀλλ ἔτι ἐπέκεινα τῆς οὐσίας πρεσβείᾳ καὶ δυνάμει ὑπερέχοντος)»149.

Da ciò consegue che l’idea del Bene, poiché occupa il vertice nella gerarchia delle idee, deve possedere al massimo grado quella proprietà che caratterizza e distingue ogni idea: la proprietà della trascendenza. Il Bene va definito trascendente in un senso del tutto peculiare ed eminente: esso, per così dire, non ha soltanto una trascendenza di prima potenza, ma [anche] di seconda potenza. Infatti il Bene si trova al di là dei limiti non soltanto del mondo sensibile, ma anche del mondo intellettuale; supera non soltanto i limiti del mondo fenomenico, ma eccede ed eccelle, in un certo senso, anche oltre i limiti del puro essere, dell’essere delle idee. Una delle prime massime della filosofia di Platone è che il bene supremo non appartiene mai al mondo empirico, che sarebbe vano e senza speranza voler cogliere il bene in questo regno. «I mali – dice Socrate nel Teeteto – non possono mai scomparire; infatti deve sempre rimanere qualcosa che sia antagonista al bene. Non avendo posto tra gli dèi in cielo, necessariamente essi aleggiano attorno alla natura mortale e a questa sfera terrestre. Perciò dovremmo volar via da qui il più rapidamente possibile. Ma volare via significa diventare come Dio, quanto più è

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just and wise. (Theaet. 176A)». But in spite of this impossibility of attaining the very end of philosophy, of reaching and actualizing the ideal of good in the world of sense-experience the philosopher is not allowed to abandon this world once and for all612 and as it were to leave it to its fate. It is not a sensual613 desire; it is an ethical demand that binds him to this world. Following his614 own wishes and tendencies the philosopher, the pure thinker would soar above the field of phenomena; and would attempt to free himself from the pressure it constantly puts upon him. But there is another obligation that counteracts and counterbalances this effort. The philosopher must return to the world of sense, not because himself is in need of it, but because it stands in need of him. «He whose mind is fixed upon true being – says Sokrates in the “Republic” – has surely no time to look down upon the affairs of earth, or to be filled with malice and envy, contending against men, his eye is ever directed towards thing[s] fix and immutable, which he sees neither injuring nor injured by one another, but all in order moving according to reason; these he imitates and to those he will, as far as he can, confirm himself. Can a man help imitating that with which he holds reverential converse? And the philosopher holding converse with the divine order, becomes orderly and divine as far as the nature of man allows» (Republ. 500B). But on the other hand[,] it is not only individual perfection[,] it is the aim of universal perfection to which the philosopher is bound and which has to direct his efforts. It is in regard to this universal good the attainment and maintenance of which is imposed on the founders of the State that the philosopher after having made his ascent to the world of pure ideas must be compelled to look back at the empirical world and to take care of it. When

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possibile; diventare santi, giusti e saggi»150. Ma a dispetto di questa impossibilità di raggiungere l’autentico scopo della filosofia, di cogliere e attualizzare l’ideale del bene nel mondo sensibile, il filosofo non è autorizzato ad abbandonare questo mondo una volta per tutte, come volesse lasciarlo al suo destino. Non è un desiderio sensibile, è un’esigenza etica che lo lega a questo mondo. Seguendo i suoi propri desideri e aspirazioni, il filosofo, il pensatore puro finirebbe per librarsi sopra il mondo dei fenomeni, e tenterebbe di liberarsi dalla pressione che costantemente lo opprime. Ma vi è un altro obbligo che contrasta e controbilancia questo sforzo. Il filosofo deve ritornare nel mondo sensibile, non perché egli stesso ne senta il bisogno, ma perché è il mondo sensibile che ha bisogno di lui. Dice Socrate nella Repubblica: «Colui la cui mente è fissa sul vero essere non ha certo il tempo di guardare in basso gli affari terrestri, o di essere pieno di malizia e invidia disputando contro gli uomini; il suo occhio è sempre rivolto verso cose fisse e immutabili, che non si vedono danneggiate né si danneggiano l’un l’altra, ma tutte in ordine si muovono secondo ragione; questi le imita e a quelle si conformerà, per quanto può. Può un uomo fare a meno di imitare ciò con cui egli intrattiene un rapporto di riverenza? E il filosofo intrattiene rapporti con l’ordine divino, diventa perciò ordinato e divino quanto più la natura dell’uomo lo consente»151. Ma dall’altro lato, non è tanto la perfezione individuale, quanto invece la perfezione universale, alla quale il filosofo è legato e verso la quale dirige i suoi sforzi. È in considerazione di questo bene universale, il conseguimento e mantenimento del quale è imposto dai fondatori dello Stato, che il filosofo, dopo aver compiuto la sua ascesa al mondo delle idee pure, deve essere costretto a guardare indietro al mondo

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they have ascended and seen enough[,] we must not allow them to remain in the upper world; they must be made to descend again among the prisoners in the cave and partake of their labours and honours, whether they are worth of having or not (Republ. 519D). It is this moral duty of taking a part in the advancement of the common good that restraints the inclination of the philosopher to flee from the world of sense. It is, therefore, an ethical motive by which Plato however maintaining and defending the transcendence615 of the pure ideas, and above all, of the idea of Good, is obliged to lay stress upon the correlative motive, upon the motive of participation (μέθεξις). It is true, on the other hand, that in order to understand the idea of Good in its most universal sense and its whole systematic importance, we must not restrict it to the problem of ethical life. If the position of the Good in the invisible world is to be compared with the position of the sun in the visible world – this comparison involves that the Good is not only the supreme ruler of the ethical, but also of the physical world. Even nature would fall to pieces were it not supported and preserved by the power of Good. Plato rejects every attempt to explain the constitution and order of nature by having recourse to material causes alone. The true principle of natural things, that ἀρχή-beginning that had been searched for in early Greek philosophy, cannot be detected and cannot be explained by those causes that are admitted in the previous systems of natural philosophy; in the doctrine of Democritus or of Empedocles and Anaxagoras. Even the latter, even Anaxagoras, makes by no means an exception of this general rule. In proclaiming the νοῦς to be the original and highest principle it seems to admit that reason is to be regarded as the ruler and governor of the world. But he con-

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empirico e prendersi cura di esso. Dopo essere ascesi e aver visto abbastanza, non dobbiamo permettere loro di rimanere nel mondo lassù; devono essere fatti scendere di nuovo tra i prigionieri nella caverna e partecipare alle loro fatiche e ai loro onori, abbiano essi valore o meno (Repub. 519D).152. Questo dovere morale, consistente nel prendere parte al miglioramento del bene comune, è proprio ciò che trattiene il filosofo dal fuggire dal mondo sensibile. È dunque per un motivo etico che Platone, pur affermando e difendendo la trascendenza delle idee pure e, soprattutto, dell’idea del Bene, è costretto a porre l’accento sul motivo correlativo, sul motivo della partecipazione (μέθεξις). È vero, d’altra parte, che per comprendere l’idea di Bene nel suo senso più universale e in tutta la sua importanza sistematica, non dobbiamo restringerla al problema della vita etica. Se la posizione del Bene nel mondo invisibile la si può paragonare alla posizione del sole nel mondo visibile, tale paragone implica che il Bene non è soltanto il supremo sovrano del mondo etico, ma anche del mondo fisico. Anche la natura andrebbe in pezzi se non fosse supportata e preservata dalla forza del Bene. Platone rigetta ogni tentativo di spiegare la costituzione e l’ordine della natura ricorrendo alle sole cause materiali. L’autentico principio delle cose naturali, quell’ἀρχήinizio ricercato fin dagli albori della filosofia greca, non lo si può individuare né spiegare attraverso le cause ammesse nei precedenti sistemi di filosofia naturale – nelle dottrine di Democrito o di Empedocle e Anassagora. Perfino quest’ultimo, perfino Anassagora non fa eccezione a questa regola generale. Nel considerare il νοῦς come il principio originario e sommo, anch’egli sembra ammettere che la ragione va considerata come il sovrano e governatore del mondo. Ma egli si limita soltanto a

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tents himself with this vague and general assertion, and he fails to explain any special phenomenon by means of and in accordance with his universal maxim. It is by material causes and effects, not by formal causes, not by the connection of means and ends that he describes and explains the order of the Universe. But such a description falls short of the proper aim and the essential task of a philosophy of nature. In the Phaidon Sokrates relates what expectations he had formed when first hearing of the doctrine of Anaxagoras[,] of the doctrine that mind (νοῦς) is the disposer and the cause of all. [«]But, how grievously was I disappointed – he continues –; for as I proceeded, I found my philosopher altogether forsaking mind or any other principles of order, but having recourse to air, and ether, and water, and other eccentricities. I might compare him to a person who began by maintaining generally that mind is the cause of my several actions in detail, went on to how that I sit here because my body is made up of bones and muscles, and the bones, as he would say, are hard and have joints which divide them, and the muscles are elastic, and they cover the bones, which have also a covering or environment of flesh and skin which contains them, and as the bones are lifted at their joints by the contraction or relaxation of the muscles, I am able to bend my limbs, and that is why I am sitting here in a curved posture – that is what he would say, forgetting to mention the true cause, which is, that the Athenians have thought fit to condemn me, and accordingly I have thought it better and more right to remain here and undergo my sentence; for I am inclined to think that these muscles and bones of mine would have gone off long ago to Megara or Boeotia if they had been moved only by their

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questa vaga e generale asserzione, non riuscendo così a spiegare un fenomeno particolare attraverso e in accordo con questa sua massima universale. Egli descrive e spiega l’ordine dell’Universo ricorrendo a cause ed effetti materiali, non a cause formali, né attraverso la connessione di mezzi e fini. Ma una descrizione simile non è all’altezza del vero e proprio scopo e compito essenziale della filosofia della natura. Nel Fedone Socrate racconta quali aspettative si era formato quando sentì per la prima volta la dottrina di Anassagora, la dottrina secondo cui la mente (νοῦς) è l’ordinatore e la causa di tutto. Ma quanto fui gravemente deluso – continua Socrate –; mentre procedevo, infatti, trovai il mio filosofo che rinunciava del tutto all’intelletto o a qualsiasi altro principio d’ordine, ma faceva ricorso all’aria, all’etere, all’acqua, e ad altre eccentricità. Potrei paragonarlo a una persona che, cominciando col sostenere in generale che la mente è la causa delle mie svariate azioni, proseguisse dicendo che io sono seduto qui perché il mio corpo è fatto di ossa e muscoli, e le ossa, come direbbe lui, sono dure e hanno articolazioni che le separano, e i muscoli sono elastici, e ricoprono le ossa, che hanno anche una copertura o rivestimento di carne e pelle che le contiene, e, poiché le ossa vengono sollevate alle loro articolazioni dalla contrazione o dal rilassamento dei muscoli, sono in grado di piegare le mie membra, e questo è il perché io sono qui seduto in questa postura curva – questo è ciò che direbbe, dimenticando di menzionare la vera causa, cioè che gli Ateniesi hanno ritenuto opportuno condannarmi, e di conseguenza io ho ritenuto fosse meglio e più giusto rimanere qui e subire la mia condanna; sono infatti incline a pensare che questi miei muscoli e queste mie ossa sarebbero andati molto tempo fa a Megara o in Beozia, se fossero stati mossi soltanto dalla loro opi-

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own opinion of what was best, and if I had not thought it better and nobler, instead of running away, to endure any punishment which the state inflicts (Phaed. 98C)[»].

It follows from these considerations that, in the mind of Plato, even nature cannot be understood and interpreted in its true sense, if we look at it as a mere series of single events connected with each other by no other and no stronger ties than by the ties of empirical causality, by the categories of cause and effect. This phenomenal order of Nature must be replaced by a rational order – and that means by an order of finality. Even nature must be explained by referring its616 single events to an ultimate aim, to a hierarchy of means and ends. And this supposition holds good so much the more in the explanation of the human world, in the explanation of human actions. These actions belong, in a certain sense, to the world of natural experience and they may be described by pointing out merely their physical causes and their physical effects. But every description of this sort necessarily falls short617 of its real purpose. The insight into the empirical causes by which a certain action was brought about, never can give us a true insight into its meaning and purport, into its ethical sense and ethical value. For determining this value[,] we must go back to that different sort of cause (ἄλλο τῆς αἰτίας τὸ εἶδος) that has been established in the Platonic doctrine of ideas. The so-called physical causes describe only the occasions and conditions of human actions; they cannot determine their true origin and their real and ultimate ground. As Sokrates says, it may be said, indeed, [«] that without bones and muscles and the other parts of the body I cannot execute my purposes; but to say that I do, as I do, because of them, and that this is the way in which mind

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nione di ciò che era meglio, e se io non avessi pensato che fosse meglio e più nobile, invece di scappare via, affrontare qualsiasi punizione inflitta dallo stato (Fed. 98C)153.

Da queste considerazioni consegue che, nella mente di Platone, anche la natura non si può comprendere e interpretare nel suo senso più profondo se la si concepisce come una mera serie di singoli eventi, connessi l’un l’altro da nessun altro legame che non sia quello della causalità empirica, delle categorie di causa ed effetto. Questo ordine fenomenico della natura va sostituito con un ordine razionale, ossia con un ordine finalistico. Anche la natura va spiegata indirizzando i suoi singoli eventi a uno scopo ultimo, a una gerarchia di mezzi e fini. E tale ipotesi vale ancora di più nella spiegazione del mondo umano, nella spiegazione delle azioni umane. Queste azioni, in un certo senso, appartengono al mondo dell’esperienza naturale e possono essere descritte indicando semplicemente le loro cause fisiche e i loro effetti fisici. Ma ogni descrizione di questo tipo manca necessariamente il suo scopo reale. L’intuizione delle cause empiriche dalle quali origina una certa azione non può mai fornirci una vera intuizione del suo significato e scopo, del suo senso etico e del suo valore etico. Per determinare questo valore dobbiamo ritornare a quel differente tipo di causa (ἄλλο τῆς αἰτίας τὸ εἶδος) stabilito nella teoria platonica delle idee. Le cosiddette cause fisiche descrivono soltanto le occasioni e condizioni dell’azione umana; non possono in alcun modo determinare la loro vera origine e il loro reale e ultimo fondamento. Come afferma Socrate, si può dire infatti «che senza ossa e muscoli e senza le altre parti del corpo non posso eseguire i miei scopi; ma dire che lo faccio, come faccio, a causa loro, e che questo è il modo in cui agisce la mente, e non

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acts, and not from the choice of the best, is a very careless and idle mode of speaking. I wonder that they are not able to distinguish the cause from the condition and to understand that that which is the cause of something and that without which this cause cannot produce its effect are very different things (ὅτι ἄλλο μέν τί ἐστι τὸ αἴτιον τῷ ὄντι, ἄλλο δὲ ἐκεῖνο ἄνευ οὗ τὸ αἴτιον οὐκ ἄν ποτ᾽ εἴη αἴτιον, Phaed. 99B)[»]. To understand, to judge and appreciate an action we cannot content ourselves with inquiring after their physical conditions and their physical effects; we must inquire after its physical purpose and that means after the quality and nature of the soul by which the action is produced. By this alone we can make sure of its true meaning and purport. It is the soul which alone is capable of grasping the sense of that idea of good which is presupposed and involved in every human action. For every soul, by her very essence, strives after the idea of good and never can desist from pursuing the aim of good, but at the same time she may miss her aim, she may seek for the good in a place in which it is not to be found. It is, therefore, in this sphere of problem, it is in the field of ethical life that true and final interpretation of the general Platonic principle is to be sought: of that principle according to which the phenomena, aim at being some other thing, but fall short of, and cannot be that other thing but remain always inferior. This principle is not to be derived from and to be proved the consideration of mere physical things or physical events, but by the consideration of the soul, of her actions and her motives. The first objects the soul strives after and to which she directs all her efforts are the objects of the world of sense. It is by her sensual inclinations and desires that the soul is prompted and instigated to her actions. But in pursuing this way she becomes aware that she constantly falls short of her purpose. In this field she

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per scelta del meglio, è un modo di parlare molto trascurato e ozioso. Mi meraviglio che non siano in grado di distinguere la causa dalla condizione e di comprendere che ciò che è causa di qualcosa e ciò senza il quale questa causa non può produrre il suo effetto sono cose molto diverse (ὅτι ἄλλο μέν τί ἐστι τὸ αἴτιον τῷ ὄντι, ἄλλο δὲ ἐκεῖνο ἄνευ οὗ τὸ αἴτιον οὐκ ἄν ποτ᾽ εἴη αἴτιον)»154. Per comprendere, giudicare o apprezzare un’azione, non possiamo limitarci a un’indagine delle sue condizioni fisiche e dei suoi effetti fisici; dobbiamo indagare il suo scopo fisico e la qualità e la natura dell’anima mediante cui l’azione viene prodotta. Solo così facendo, possiamo accertarci del suo vero significato e scopo. Soltanto l’anima è in grado di afferrare quell’idea del Bene pressuposta e implicita in ogni azione umana. Difatti, ogni anima, per via della sua genuina essenza, aspira all’idea del Bene e non può mai desistere dal perseguire lo scopo del Bene, ma al tempo stesso essa mancherebbe il suo obiettivo se cercasse il Bene proprio là dove non può trovarlo. Pertanto, è in questa sfera del problema, è nel campo della vita etica, che bisogna ricercare l’interpretazione vera e ultima del principio platonico generale: il principio secondo cui i fenomeni mirano a essere un’altra cosa, ma non riescono, e non possono essere quell’altra cosa ma le rimangono sempre inferiori155. Questo principio non lo si può ricavare, né dimostrare tramite l’analisi di mere cose fisiche o eventi fisici; ma lo si ricava dalla considerazione dell’anima, delle sue azioni e dei suoi motivi. I primi oggetti dei quali l’anima si occupa e verso i quali dirige tutti i suoi sforzi, sono gli oggetti del mondo dei sensi. È per via di tali inclinazioni e desideri sensibili che l’anima viene stimolata e sollecitata alle sue azioni. Ma attraverso questa via l’anima diventa cosciente del fatto che, così facendo, manca costantemen-

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never gains a real satisfaction for every seeming actualization of her hopes, every consummation of her wishes proves to be the beginning of a new desire. The soul is driven from one object to another, and she never can rest on any objects whatever: as in the legend of Ixion she is bound on a fiery wheel which rolls unceasingly. But at the same time the soul, (according to the principle of ἀνάμνησις), according to her power of reminiscence cannot desist from the thought, that there must be a definite truth, a definitive and absolute aim of all her desires and all her actions. What is thought by the concept of good, of virtue, of justice never has an exact expression, an adequate representation among the objects of the empirical world. But it does by no means follow from this that all these concepts are void of sense, that they are only imaginary thoughts of the human mind. It follows, on the contrary, that their reality, their true fulfillment, is to be sought in a different origin, in the region of the pure “noumena”. By this[,] the circular course of Plato’s thought has come to its end. It is by the investigation of the true objects of human knowledge and of human will, it is by the inquiry into the nature of the objects of Mathematics and of the ethical objects that Plato is led to his doctrine of the nature and necessity of the pure ideas. Supposing that we doubt or deny the reality of the pure ideas we had to deny, at the same time, the reality of pure knowledge and reality of the pure will. Philosophy has to make its choice between Idealism and Scepticism; it is only by the establishment and prove of the former that we may protect ourselves against the latter. By this we have come to one of the decisive results of Platonic philosophy. If we compare the original view of Plato concerning the nature of truth and the nature of the supreme Good with the view upheld by his followers and

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te il suo scopo. In questo campo essa non ottiene alcun tipo di soddisfazione, ogni apparente realizzazione delle sue speranze e dei suoi desideri si rivela l’inizio di un nuovo desiderio. L’anima viene trascinata da un oggetto all’altro, ma non può soffermarsi su un oggetto qualsiasi: come nella leggenda di Issione, essa è legata a una ruota ardente che gira incessantemente. Ma al tempo stesso l’anima, secondo il principio dell’ἀνάμνησις, secondo la facoltà della reminiscenza non può esimersi dal pensare che esiste una verità determinata, uno scopo definitivo e assoluto di tutti i suoi desideri e di tutte le sue azioni. Ciò che viene pensato dai concetti di bene, virtù o giustizia, non può mai avere un’espressione esatta, un’adeguata rappresentazione tra gli oggetti del mondo empirico. Ma da ciò non consegue che tutti questi concetti siano vuoti di senso, che siano soltanto pensieri immaginari della mente umana. Al contrario, ne consegue che la loro realtà, il loro vero compimento, è da cercare in un’origine differente, nella regione dei puri “noumeni”. Con ciò, il percorso circolare del pensiero di Platone è giunto alla fine. È attraverso l’indagine dei veri oggetti della conoscenza umana e della volontà umana, attraverso l’indagine della natura degli oggetti della matematica e degli oggetti etici, che Platone è giunto alla sua dottrina della natura e della necessità delle idee pure. Se supponessimo di dubitare o negare la realtà delle idee pure, dovremmo al tempo stesso negare la realtà della conoscenza pura e la realtà della volontà pura. La filosofia deve scegliere tra l’idealismo o lo scetticismo; soltanto stabilendo e dimostrando il primo possiamo proteggerci dal secondo. Con ciò abbiamo raggiunto uno dei risultati decisivi della filosofia platonica. Se confrontiamo l’originaria concezione di Platone concernente la natura della verità e la natura del supremo Bene, con la concezione soste-

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interpreters[,] we find that in most cases this interpretation fails to give a full insight into that double tendency of the Platonic thought, that is described in his philosophy by the terms χωρισμός and μέϑεξις, separation and participation. In the mind of Plato both terms and both conceptions are not opposed to each other; they are strictly correlative with [each] another. Even Aristotle[,] when arguing against the Platonic doctrine of ideas[,] failed to recognize the full sense of this correlation. He insisted on the immanence, on the indwelling power of the pure forms – and by this he thought to have proved the futility of the ideas of Plato that seem to own their truth, their universal validity and eternity, only to their abstract character. On the other hand[,] the later systems of Neoplatonism extol and enhance the transcendence of the ideas – but they attempt at the same time to soar even above the realm of ideas themselves. Instead of that multiplicity and diversity that is inherent in the pure ideas[,] they are seeking for a concept and an ideal of truth that is exempt from this condition, that is endowed with an absolute perfection, and that means with an absolute unity and simplicity. The supreme end of our philosophical investigation and the highest speculative truth is not to be found in a field of knowledge that, however pure in itself, still partakes in and so to speak imitates the property of multiplicity. The object of this truth must possess a real and transcendent oneness; – a oneness that leaves behind itself not only the multiplicity involved in Space and Time and in the phenomena belonging to Space and Time, but also the multiplicity and manifoldness of the ideas themselves. By this demand[,] the Neoplatonic Schools especially the philosophy of Plotinus are instigated to seek after the supreme good and the supreme truth, in a different sphere as in the sphere of the

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nuta dai suoi successori e interpreti, notiamo che nella maggior parte dei casi questa interpretazione non riesce a rendere pienamente conto della duplice tendenza del pensiero platonico, che nella sua filosofia è descritta dai termini χωρισμός e μέϑεξις, separazione e partecipazione. Nella mente di Platone, i due termini e le due concezioni non sono opposti, sono strettamente correlati. Anche Aristotele, nel contestare la dottrina platonica delle idee, fallì nel riconoscere il senso pieno di questa correlazione. Egli ha insistito infatti sull’immanenza, sulla forza intrinseca delle forme pure, ritenendo così di aver dimostrato la futilità delle idee di Platone, le quali sembrano possedere la loro verità, la loro universale validità ed eternità soltanto nel loro carattere astratto. Dall’altro lato, i successivi sistemi neoplatonici esaltano e valorizzano la trascendenza delle idee, ma tentano, al tempo stesso, di sollevarsi addirittura al di sopra del regno delle idee stesse. Invece della molteplicità e diversità intrinseca alle idee pure, essi cercano un concetto e un ideale di verità esente da questa condizione, dotato di un’assoluta perfezione, il che significa di un’assoluta unità e semplicità. Lo scopo supremo della nostra ricerca filosofica e la somma verità speculativa non vanno ricercati nel campo della conoscenza che, sebbene pura in se stessa, condivide ancora e, per così dire, imita la proprietà della molteplicità. L’oggetto di questa verità deve possedere una unità reale e trascendente; un’unità che lascia dietro di sé non soltanto la molteplicità insita nello spazio e nel tempo e nei fenomeni appartenenti allo spazio e al tempo, ma anche la molteplicità e multiformità delle idee stesse. In base a questa esigenza, le scuole neoplatoniche – in particolare la filosofia di Plotino – si spingono a cercare il sommo bene e la verità suprema in una sfera differente che nella sfera delle idee pure. Questa tarda concezione

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pure ideas. This later Neoplatonic conception is, however, alien to Plato himself – and it is not in keeping with the spirit of his doctrine. He does not allow the philosopher to leave or neglect our empirical world. The philosopher is bound to understand and organize the empirical world, both by the power of his intellect618 and by the power of his will. The knowledge of Good and the knowledge of truth is required for this work and organization. It is only the philosopher, the man who has gained the knowledge and intuition of the ideal world, who is able to comprehend and to govern the empirical world. Such a comprehension and such a mastery, is demanded by Plato, in his later dialogues, both with respect to the natural world and to the moral and political world. The philosopher must not withdraw from the natural and political world, he619 must not become absorbed in himself and in the intuition of the pure forms; he must, so to speak, penetrate the empirical world with the power of these forms. It is true that this penetration never can be a complete and absolute one; that it would be vain and futile to seek after a real identification, after a suppression of the difference between λόγος and πράγματα, between form and matter. Concerning the natural world[,] we cannot hope to come to a sure and exact knowledge, to a knowledge comparable with the truth involved in Mathematics. Concerning the moral and political world we cannot hope to avoid and to overcome the evil and imperfection that is necessarily connected with it; we can only attempt to correct, to restrict, to master this evil, so far as such a mastery is possible to human knowledge and human will. The solution of the latter problem is contained in Plato’s Republic, the solution of the former is attempted in the dialogue Timaeus620.

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neoplatonica è comunque estranea allo stesso Platone e non è conforme allo spirito della sua dottrina. Platone non ritiene lecito per il filosofo abbandonare o negare il mondo empirico. Il filosofo è tenuto a comprendere e organizzare il mondo sia attraverso la facoltà del suo intelletto, sia attraverso la facoltà della sua volontà. Per quest’opera e organizzazione si esige la conoscenza del Bene e la conoscenza della verità. Soltanto il filosofo – l’uomo che ha ottenuto la conoscenza e intuizione del mondo ideale – è in grado di comprendere e governare il mondo empirico. Platone, nei suoi dialoghi tardi, esige una simile comprensione e padronanza sia rispetto al mondo naturale, sia rispetto al mondo politico ed etico. Il filosofo non deve ritirarsi dal mondo naturale e politico, né restare del tutto ripiegato in se stesso e nell’intuizione delle forme pure; egli, per così dire, deve piuttosto penetrare nel mondo empirico mediante il potere di queste forme. È vero che questa capacità di penetrazione non potrà mai essere completa e assoluta, che sarebbe vano e futile cercare una reale identificazione, una soppressione della differenza tra λόγος e πράγματα, tra forma e materia. Per quanto concerne il mondo naturale, non possiamo sperare di giungere a una conoscenza esatta, a una conoscenza paragonabile alla verità insita nella matematica. Per quanto concerne il mondo morale e politico, non possiamo sperare di evitare e superare il male e l’imperfezione a esso necessariamente connessa; possiamo soltanto tentare di correggere, restringere, dominare questo male, per quanto una simile padronanza sia possibile per la conoscenza umana e per la volontà umana. La soluzione di quest’ultimo problema è contenuta nella Repubblica di Platone, la soluzione del primo è invece tentata nel dialogo Timeo.

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[§9: Philosophy of Politics and Natural Philosophy]621 In these lectures I cannot attempt to give you a detailed description of Plato’s political theory. Such a description will scarcely be necessary – you will find a carefully analysis of Plato’s political thought in all textbooks on the history of Greek philosophy. What I wish to emphasize here is not so much the contents as the fundamental principle on which Plato’s doctrine of the state depends. In the Republic Plato speaks as a true pupil of Sokrates – there is perhaps no other Platonic dialogue that shows us so clearly and impressively the influence of Sokrates than the Republic. That sounds rather paradoxical. For Sokrates introduced and defended a new ethical622 ideal, but he never was a political thinker in the proper sense of this term. His ideal was an individual one – not a social or political one. But was623 Plato who transferred the doctrine of Sokrates to a new field and who624 made it applicable to a new problem. Sokrates had declared that all virtue is knowledge. We have tried to explain the meaning of this principle. It means that a mere conventional morality has no specific ethical value. In our ethical life it is not enough to follow the established rules, to rely on habit or custom. If we follow these traditional rules, we may act rightly – but we are not acting in a true moral sense, we are not acting like rational beings. A rational being must act upon principles[,] and it must be able to account for these principles. We must have a true insight into the nature, the character, the presuppositions of our moral conduct in order to act rightly. What is required here is not only “right opin-

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9. Filosofia della politica e filosofia naturale In queste lezioni non posso fornirvi una descrizione dettagliata della teoria politica di Platone. Una descrizione del genere non è poi così necessaria; in ogni caso potrete trovare accurate analisi del pensiero politico di Platone in ogni libro di testo sulla storia della filosofia greca. Desidero piuttosto porre l’accento non tanto sui contenuti, quanto sul principio fondamentale dal quale dipende la dottrina dello stato di Platone. Nella Repubblica, Platone parla da autentico allievo di Socrate; per tale ragione non vi è altro dialogo platonico in grado di mostrarci così chiaramente e grandiosamente l’influenza di Socrate che la Repubblica. Ciò suona piuttosto paradossale, considerato che Socrate introdusse e difese sì un nuovo ideale etico, ma non fu mai un pensatore politico nel vero senso della parola. Il suo ideale era di tipo individualistico, non politico e sociale. Ma fu proprio Platone a trasferire la dottrina di Socrate a un nuovo campo e a renderla applicabile a un nuovo problema. Socrate aveva affermato che tutta la virtù è conoscenza. Abbiamo cercato di spiegare il significato di questo principio. Esso indica che una mera convenzionalità morale non possiede alcun specifico valore etico. Nella nostra vita etica non è sufficiente seguire delle regole stabilite, rifarsi alle abitudini e ai costumi. Seguendo queste regole tradizionali potremmo anche agire correttamente, ma non di certo in un senso prettamente morale; non agiremmo, insomma, come esseri razionali. Un essere razionale deve agire sulla base dei princìpi e deve anche saperne rendere conto. Dobbiamo possedere una autentica conoscenza della natura, del carattere e dei presupposti della nostra condotta morale, se vogliamo agire correttamente. Ciò che qui si richiede non è soltanto una “retta opinione”, ma una conoscenza

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ion” but a firm and steadfast knowledge; a clear conception, a “definition” of what virtue is and what it625 means. It is this postulate of Sokrates that is at the bottom of Plato’s political doctrine. Plato does not doubt or deny that in the history of mankind there have appeared many good and wise legislators. But according to him all of them acted by a sort of intuition and inspirations – in about the same way in which a poet produces his work. They had a right opinion about what is good and beneficial for a state – but they had no true knowledge. Therefore, their work could not last. It was based on their personal influence[,] and it had, therefore, no permanence and stability. What Plato shows us is a true theory of Politics founded upon stable, steadfast, permanent principles. It is this problem itself, not the solution of the problem, contained in Plato’s Republic that makes the real merit of Plato’s political doctrine. As regards the latter point, as regards the concrete solutions626, a closer study of the Republic will easily convince us that they are, in most cases, not applicable to our modern political and social problems. They presuppose a special structure of Greek society and Greek political life; and often they seem to depend on personal predilections or even personal prejudices of Plato himself. But all this is not the really decisive point. What matters alone is that Plato was the first to recognize and to emphasize that there is such a thing as a political theory, that Politics must not be allowed to be the mere playground627 of material interests – that it must be based on theoretical or, as Plato says, on dialectical standards. It is this conviction that is expressed in the famous saying of Plato that the philosopher, the dialectician, the man who knows the ideas, and

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stabile e salda, una concezione chiara, una “definizione” di ciò che la virtù è e del suo significato. È questo postulato di Socrate che sta alla base della dottrina politica di Platone. Che nella storia del genere umano siano apparsi legislatori buoni e saggi, questo non viene messo in dubbio o negato da Platone. Ma secondo lui tutti agivano per una sorta di intuizione e ispirazione – più o meno allo stesso modo in cui un poeta produce la sua opera. Essi possedevano una retta opinione di ciò che è buono e salutare per uno stato, ma non possedevano alcuna vera conoscenza. La loro opera non poté quindi durare a lungo. Essa poggiava sulla loro personale influenza e, di conseguenza, non aveva alcuna stabilità e permanenza. Ciò che Platone ci presenta è una teoria della politica fondata su princìpi stabili, saldi, permanenti. È il problema in sé, non la soluzione del problema, ciò che è contenuto nella Repubblica di Platone e costituisce il merito reale della sua dottrina politica. Per quel che concerne quest’ultimo punto, le soluzioni concrete, uno studio più accurato della Repubblica ci convincerà facilmente che, nella maggior parte dei casi, esse sono inapplicabili ai nostri problemi sociali e politici moderni. Esse presuppongono infatti una particolare struttura della società greca e della vita politica greca; e spesso sembrano dipendere da inclinazioni personali o addirittura dai pregiudizi personali dello stesso Platone. Ma tutto ciò non costituisce il punto realmente decisivo. La sola cosa veramente importante è che Platone fu il primo a riconoscere e a sottolineare che esiste qualcosa come una teoria politica, che la politica non va intesa come il mero terreno di gioco di interessi particolari: essa deve poggiare su criteri teoretici o, come dice Platone, dialettici. Questa convinzione viene espressa da Platone col suo famoso detto secondo cui il filosofo, il dialettico, l’uomo che conosce le idee e l’i-

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the highest idea, the idea of the Good, is the true ruler of the state; that we must conceive what an “ideal state” is before giving practical rules for our political and social life. The last question that we have to take into consideration in this survey of the Platonic system is his theory of nature. Strictly speaking Plato could not give such a theory in the same sense as the Presocratic thinkers. He always tells us that nature is nothing but the sphere of Becoming – of fleeting and changing phenomena. We cannot hope to attain a true knowledge of these phenomena. True knowledge presupposes fixed, perdurable, permanent objects – like the objects of Mathematics. If we build up a theory of nature[,] we must therefore not expect too much from such a theory. We can ascribe to it a certain relative truth – but not an absolute truth. Absolute truth is reserved for dialectical or mathematical thought. If we study natural phenomena[,] we must content ourselves with a different and lower type of knowledge. What we can reach here is probability, not necessity; opinion, not science. Plato does, therefore, not promise us to give us a science628 of nature – in the same sense as we speak of a science of Mathematics. But in his dialogue “Timaeus” he gives us what he calls a myth of nature – a story about the origin of things. He indulges in these speculations – however admitting that they are mere speculations to which we cannot ascribe a real and a perfect certainty. For a certain time[,] the philosopher may be allowed to act aside meditations about eternal thing and for recreation turn to consider the truths of generation which are probably only – by this629

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dea suprema (l’idea del Bene), è il vero governante dello stato; e dobbiamo concepire cosa sia uno “stato ideale” prima di fornire regole pratiche per la nostra vita politica e sociale. L’ultima questione da prendere in considerazione in questa ispezione del sistema platonico è la sua teoria della natura. Detto in breve, Platone non poteva fornirci una tale teoria nel senso in cui la intesero i pensatori presocratici. Egli ci dice sempre che la natura non è nient’altro che la sfera del divenire, dei fenomeni effimeri e mutevoli. Non possiamo sperare di acquisire una vera conoscenza di questi fenomeni. La conoscenza vera presuppone oggetti fissi, permanenti ed eterni, come gli oggetti della matematica. Se elaboriamo una teoria della natura, non dobbiamo pertanto aspettarci più di tanto da una teoria del genere. Possiamo attribuirle una conoscenza relativa, ma non una verità assoluta. La verità assoluta è riservata alla dialettica e al pensiero matematico. Studiando i fenomeni naturali dobbiamo accontentarci di un tipo di conoscenza differente e di grado inferiore. Ciò che troveremo al loro interno sarà la probabilità, non la necessità; l’opinione, non la scienza. Platone, pertanto, non promette di darci una scienza della natura nello stesso senso in cui parliamo di una scienza matematica. Ma nel dialogo Timeo ci dà ciò che chiama un mito della natura, una storia sull’origine delle cose. Egli indulge a queste speculazioni, pur ammettendo che sono mere speculazioni a cui non si può attribuire una certezza rea­le e perfetta. Per un certo tempo, al filosofo può essere permesso di mettere da parte le meditazioni sulle cose eterne e, per ricreazione, volgersi a considerare le verità della generazione che sono soltanto probabili e, a scopo ricreativo, volgersi a considerare le verità della generazione, che sono soltanto probabili – con ciò otterremo un piacere di

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we shall gain a pleasure not to be repented of and secure ourselves a wise and moderate pastime (μέτριον ἂν ἐν τῷ βίῳ παιδιὰν καὶ φρόνιμον ποιοῖτο, Timaeus 59C). And this sort of study of the phenomena of nature once admitted Plato does no longer contempt or disdain the phenomena of the visible universe, he goes so far as to praise them for the sake of their immanent order and immanent beauty. The power of sight is declared in the Timaeus to be the source of the greatest benefit to mankind. «For had we never seen the stars, and the sun, and the heaven – says Plato – none of the words which we have spoken about the universe would ever have been uttered. But now the sight of the day and night and the revolutions of the years, have created numbers, and had given to us a conception of time, and the power of inquiring about the nature of the universe; and from this source we have derived philosophy, than which no greater good ever was or will be given by the gods to mortal man… [God invented and gave us sight to the end that we may behold the causes of intelligence in the heaven and apply them to the courses of our own intelligence which are akin to them (ἵνα τὰς ἐν οὐρανῷ τοῦ νοῦ κατιδόντες περιόδους χρησαίμεθα ἐπὶ τὰς περιφορὰς τὰς τῆς παρ᾽ ἡμῖν διανοήσεως, συγγενεῖς ἐκείναις οὔσας), the unperturbed to the perturbed, and that we learning them and partaking of the natural truth of reason, might imitate the absolute unerring courses of God and regulate our own vagaries (Timaeus 47A)»]. It is therefore not only by the intuition of the pure ideas, it is the intuition of the phenomenal universe and of its regular course that is admitted by Plato to have a specific value of its own; to have a logical and ethical purport. By this we have come to an indirect legitimation of the visible world itself. As it

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cui non pentirsi e ci assicureremo un passatempo saggio e moderato (μέτριον ἂν ἐν τῷ βίῳ παιδιὰν καὶ φρόνιμον ποιοῖτο)156. E questo tipo di studio dei fenomeni naturali, come una volta ha ammesso Platone, non disprezza o disdegna più i fenomeni dell’universo visibile. Egli si spinge così lontano da lodarli per il loro ordine immanente e la loro bellezza immanente. Nel Timeo, il potere della vista è dichiarato come la fonte dei più grandi benefici per il genere umano: «Poiché se non avessimo mai visto le stelle e il sole e il cielo – dice Platone – nessuna delle parole che abbiamo detto sull’universo sarebbe mai stata pronunciata. Ma ora la vista del giorno e della notte e le rivoluzioni degli anni hanno creato i numeri e ci hanno dato la concezione del tempo e il potere di indagare sulla natura dell’universo; e da questa fonte abbiamo derivato la filosofia, di cui nessun bene più grande è stato o sarà mai dato dagli dèi all’uomo mortale [...] [Dio ha inventato e ci ha dato la vista affinché noi potessimo vedere le cause delle circolazioni dell’intelligenza in cielo e applicarle alle circolazioni della nostra stessa intelligenza, che sono simili a esse (ἵνα τὰς ἐν οὐρανῷ τοῦ νοῦ κατιδόντες περιόδους χρησαίμεθα ἐπὶ τὰς περιφορὰς τὰς τῆς παρ᾽ ἡμῖν διανοήσεως, συγγενεῖς ἐκείναις οὔσας), sia pure come circolazioni imperturbabili a circolazioni perturbabili, e, imparandole e prendendo parte alla verità naturale della ragione, potessimo imitare le circolazioni assolutamente infallibili di Dio e regolare le nostre stesse circolazioni capricciose]»157. Platone ammette quindi che a possedere un suo valore specifico, come anche un significato logico ed etico non è soltanto l’intuizione delle idee pure, ma anche l’intuizione dell’universo fenomenico e del suo ciclo regolare. In base a ciò, dobbiamo giungere a una legittimazione indiretta dello stesso mondo visibile. Come si afferma alla fine del dialogo Timeo,

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is stated at the end of the dialogue “Timaeus” the motions which are naturally akin to the divine principle within us are the thoughts and revolutions of the Universe (αἱ τοῦ παντὸς διανοήσεις καὶ περιφοραί). These each man should follow, and by learning the harmonies and revolutions of the universe should assimilate the thinking being to the thought, renewing his original nature, and having assimilated them should attain to that perfect life which the gods have set before mankind, both for the present and the future (Timaeus 90D). In his conception of the value and of the necessity of a natural philosophy Plato introduced a new scientific ideal. But according to the very principles of his philosophy he could not proceed in this new direction. He remained within the limits of dialectical and mathematical thought. It was his greatest pupil, it was Aristotle, who followed this new way – who became the founder of a new Physics630. [§10: Plotinus’ Neo-Platonism]631 [Even in the transformation of the original Platonic doctrine that takes place in the systems of Neo-Platonism we find to a certain degree that this view is upheld and preserved. The Neo-Platonism of Plotinus632 seems to disparage and despise the lower world, the world of sense-phenomena, and all its efforts seems to be directed to the aim of getting rid of this world, of discharging the human intellect and the human will from the chains of sensibility]. But even in this attempt there remains still a certain original beauty and a kind of original dignity, that is acknowledged to the visible Universe. In all Greek philosophy, not excepting Hellenistic philosophy, this Universe is regarded as a κόσμος, it has an intrinsic order and regularity that elevates it above the state of mere cor-

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«i movimenti che sono naturalmente affini al principio divino che è in noi sono i pensieri e le rivoluzioni dell’Universo (αἱ τοῦ παντὸς διανοήσεις καὶ περιφοραί). Questi ogni uomo dovrebbe seguire, e, imparando le armonie e le rivoluzioni dell’universo, dovrebbe assimilare il pensante al pensato, rinnovando la sua natura originaria, e, dopo averli assimilati, dovrebbe raggiungere quella vita perfetta che gli dèi hanno predisposto per l’umanità, sia per il presente sia per il futuro»158. Nella sua concezione del valore e della necessità di una filosofia naturale, Platone introduce un nuovo ideale scientifico. Ma, secondo i princìpi propri della sua filosofia, in realtà non poté procedere in questa nuova direzione. Egli rimase entro i limiti della dialettica e del pensiero matematico. Fu il suo più grande allievo, Aristotele, a seguire questa nuova via e a diventare il fondatore di una nuova fisica. 10. Il Neoplatonismo di Plotino [Anche nella trasformazione dell’originaria dottrina platonica operata nel sistema del Neoplatonismo, troviamo che solo in parte questa concezione viene sostenuta e conservata. Il Neoplatonismo di Plotino sembra denigrare e disprezzare il mondo inferiore, ovvero il mondo dei fenomeni sensibili, e ogni suo sforzo sembra diretto allo scopo di liberarsi di questo mondo, di liberare l’intelletto umano e la volontà umana dalle catene della sensibilità]. Ma anche in questo tentativo permangono ancora una certa bellezza e un’originale dignità riconosciute all’universo visibile. In tutta la filosofia greca, compresa la filosofia ellenistica, questo universo è considerato come un κόσμος, ha un ordine intrinseco e una regolarità che lo elevano al di sopra dello stato della mera corporeità o

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porality or materiality and that secures it a share in the pure realm of forms. If the material world is beautiful, it cannot be worthless. Beauty never is a property of matter itself; it is produced and preserved by a principle that is more than matter and opposed to matter. What is the similitude – asks Plotinus in his essay on the Beautiful (Περὶ τοῦ καλοῦ) – [«]between the beauties of sense and that beauty which is divine?...After what manner are the two beautiful? It is by participation of species that we call every sensible object beautiful…Everything void of form is by nature fitted for its reception, as far as it is destitute of reason and form it is base and separate from the divine reason, the great fountain of forms…And such is matter, which by its nature is ever averse from supervening irradiations of form…But whenever form accedes, it conciliates in amicable unity the parts which are about to compose a whole; for being itself one it is not wonderful that the subject of its power should tend to unity, as far as the nature of a compound will admit…But how can that which is inherent in body, accord with that which is above body? Let me reply by asking how the architect pronounces the building beautiful by accommodating the external structure to the fabric of his soul? Perhaps, because the outward building, when entirely deprived of the stones, is no other than the intrinsic form, divided by the external mass of matter, but indivisibility existing, though appearing in the many (τὸ ἔνδον εἶδος μερισθὲν τῷ ἔξω ὕλης ὄγκῳ). When, therefore, sense beholds the form in bodies, as strife with matter, binding and vanquishing its contrary nature, and sees form gracefully shining forth in other forms, it collects together the scattered whole and introduces it to itself, and to the invisible form within; and renders it consonant, congruous and

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materialità e gli garantiscono la partecipazione al mondo puro delle forme. Se il mondo materiale è bello, non può essere privo di valore. La bellezza non è mai una proprietà della materia stessa; essa è prodotta e preservata da un principio che è qualcosa di più della materia e opposto alla materia. Si chiede Plotino nel suo saggio Sul Bello (Περὶ τοῦ καλοῦ), qual è la similitudine tra le bellezze sensibili e la bellezza che è divina? [...] In che modo le due sono belle? È per partecipazione della forma che noi chiamiamo bello ogni oggetto sensibile [...]. Tutto ciò che è privo di forma è per natura predisposto a riceverla; in quanto privo di ragione e di forma, è vile e separato dalla ragione divina, la grande fonte delle forme [...]. E tale è la materia, che per sua natura è sempre avversa al sopravvenire di irradiazioni di forma [...]. Ma non appena la forma aderisce, essa riconcilia in un’unità armoniosa le parti in procinto di comporre l’intero; poiché essa è una, non è sorprendente che l’oggetto della sua potenza debba tendere all’unità, per quanto la natura di un composto lo permetta [...]. Ma come può ciò che è inerente al corpo accordarsi con ciò che precede il corpo? Lasciatemi rispondere domandando in che modo l’architetto definisce bello l’edificio comparando la struttura esteriore all’architettura che ha dentro la sua anima? Forse perché l’edificio esteriore, quando è interamente spogliato delle pietre, non è altro che la forma intrinseca, divisa nella massa della materia esterna, ma l’indivisibilità sussiste, pur apparendo nella molteplicità (τὸ ἔνδον εἶδος μερισθὲν τῷ ἔξω ὕλης ὄγκῳ). Quando, dunque, la sensazione scorge nei corpi la forma, che lotta con la materia, tenendo insieme e dominando la natura a essa contraria, e vede la forma risplendere con grazia in altre forme, essa ricompone insieme l’intero sparpagliato e lo riconduce alla propria interiorità e forma

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friendly to its own intimate form» (Plotin, Περὶ τοῦ καλοῦ, Ennead. I, 6, chap. 2, transl. by Thomas Taylor, An Essay on Beautiful, From the Greek of Plotinus, London 1917)633.

Since this divine power of the pure form masters and pervades even the world of sense, the latter never can be entirely louse and worthless. The world of sense has no light of its own; but it is able, so to speak, to reflect the light of the Idea, of the pure form. And because of this possibility, of this power of reflexion we must hold it in esteem; we cannot think of it as something absolutely abject and despicable. «One does not become a good man – he objects to the doctrine of the Gnostics – by scorning the world and the beauties it contains…For when one loves a being, he loves all that attaches thereto; he extends to the children the affection for the parent…How could this sense-world with the divinities it contains (with the intellectual and immortal souls that preside over the stars) be separated from the intelligible world?...To doubt such truth is really the characteristic of a blind and senseless man, without experience and reason, and who is so far removed from knowledge of the intelligible world that he does not even know the sense-world? Could any musician who had once grasped the intelligible harmonies hear that of sense-sounds without profound emotion? What skillful geometrician or arithmetician will fail to enjoy symmetry, order and proportion, in the objects that meet his view?...Heavy and senseless must be that mind which could contemplate all the visible beauties, this harmony, and this imposing arrangement, this grand panoramic view furnished by the stars in spite of their distance, without being stirred to enthusiasm and admiration of their splendor and magnificence (Ennead. II, 9, chap. 6, transl. by Guthrie, Works of Plotinus, II, 630f.)»634.

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invisibile; e lo rende consonante, congruo e armonico alla sua propria forma interiore159.

Poiché questo potere divino della forma pura governa e pervade anche il mondo dei sensi, quest’ultimo non può mai essere del tutto spregevole e privo di valore. Il mondo dei sensi, di per sé, non ha alcuna luce, ma è comunque in grado, per così dire, di riflettere la luce dell’Idea, della pura forma. E per questa possibilità, per questa capacità di riflessione dobbiamo tenerla in considerazione; non possiamo pensarlo come qualcosa di assolutamente abietto e spregevole. Non si diventa uomini buoni – obietta Plotino alla dottrina degli gnostici – disprezzando il mondo e le bellezze che esso contiene [...]. Poiché quando uno ama un essere, ama tutto ciò che vi si congiunge; si estende ai figli l’affetto per il genitore [...]. Come potrebbe questo mondo sensibile, con le divinità che contiene (con le anime intellettuali e immortali che presidiano sulle stelle), essere separato dal mondo intelligibile? [...] Dubitare di tale verità è davvero caratteristico di un uomo cieco e privo di senno, senza esperienza né ragione, e chi mai è così lontano dalla conoscenza del mondo intelligibile da non conoscere nemmeno il mondo sensibile? Potrebbe un musicista, una volta che avesse colto le armonie intelligibili, sentire quella dei suoni sensibili senza profonda emozione? Quale abile geometra o matematico mancherà di godere della simmetria, dell’ordine e della proporzione negli oggetti che la sua vista incontra? Oppressa e senza senno dev’essere quella mente che potrebbe contemplare tutte le bellezze visibili, questa armonia e questa composizione imponente, questa grande visione panoramica fornita dagli astri nonostante la loro distanza, senza essere destato dall’entusiasmo e dall’ammirazione del loro splendore e della loro magnificenza160.

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By this vehement attack upon the doctrine of the Christian Gnostics it becomes evident that Plotinus in spite of all his efforts to overcome the world of sense and to go beyond its boundaries did not leave and did not absolutely reject the general tendency of Greek thought. The disdain and abhorrence of the visible world is not maintained and defended by him in the same sense and by the same arguments as in the early Christian sects or for instance in the famous work of Augustine635 “De contemptu mundi”. Of course[,] this world occupies a very low place in the universal hierarchy of being and it is very far from the perfection of the original source; but even in this distance and this disparity it partakes to a certain degree in the greatness of its first origin. The universe, however remote from the absolute perfection of this first origin, preserves a relative perfection: for it is not a shapeless mass of accidental things or events, it is a κόσμος, that means a harmonious whole bound to a fix order and regularity. But in spite of this theodicy, of this relative justification and legitimation of the visible world, it is true that, in the doctrine of Plotinus, the soul never can be ascribed to636 this sphere. It is one of the characteristic features and one of the essential privileges of the human soul that in the whole hierarchy of being, in the whole chain that leads from the absolute perfection of the first principle to the lowest degree that appears in matter and in the material world, we cannot ascribe to the soul a fixed and constant place, to which it is bound once and for all637. In the metaphysical order of the universe the soul has no definite, no predetermined place; but it is her essential task, to give herself to choose her place. She has the intrinsic power to determine

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Attraverso questo veemente attacco alla dottrina degli gnostici cristiani, appare evidente che Plotino, a dispetto di tutti i suoi sforzi atti a superare il mondo sensibile e ad andare oltre i suoi limiti, non abbandona e non rigetta in modo assoluto questa generale tendenza del pensiero greco. Il disdegno e l’avversione al mondo sensibile non vengono preservati e difesi da Plotino nello stesso senso e con gli stessi argomenti avanzati dalle prime sette cristiane o, per esempio, da Agostino con la sua celebre opera De contemptu mundi. Ovviamente, questo mondo occupa un posto decisamente inferiore nella gerarchia universale dell’essere ed è lungi dalla perfezione della sua fonte originaria; ma anche in tale distanza e disparità esso partecipa, fino a un certo grado, della grandezza della sua prima origine. L’universo, sebbene lontano dall’assoluta perfezione di questa origine, conserva una sua relativa perfezione: difatti, esso non è una massa informe di cose o eventi accidentali, piuttosto è un κόσμος, ossia un “tutto” armonioso soggetto a un ordine fisso e a una regolarità. Ma a dispetto di questa teodicea, di questa relativa giustificazione e legittimazione del mondo visibile, è pur vero che nella dottrina di Plotino l’anima non può mai essere attribuita a questa sfera. Che noi – nell’intera gerarchia dell’essere, nell’intera catena che conduce dalla perfezione assoluta del primo principio al grado più basso che appare nella materia e nel mondo materiale – non possiamo attribuire all’anima un posto fisso e costante, al quale essa si trovi legata una volta per tutte, costituisce uno degli aspetti caratteristici e uno dei privilegi essenziali dell’anima umana. Nell’ordine metafisico dell’universo l’anima non ha alcun luogo definito e predeterminato, ma è il suo compito essenziale fornire a se stessa la possibilità di scegliersi il proprio luogo. Essa possiede infatti l’intrinseca capacità di determinare

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her own nature – according to the different nature of the objects she is concerned with and to which, so to speak, she turns her face. In the system of Plotinus[,] the soul has an intermediate position; she partakes, at the same time, in the character of the higher and of the lower world; she is the first hypostasis that immediately follows the Intelligence, the νοῦς, and on the other hand, she borders on and is in contact with the phenomenal universe. In all our speculative attempts to define the nature of the soul we must, therefore, give a twofold and seemingly contradictory statement of her essence and character. «Since the nature of the Soul is so divine and precious – says Plotinus in the first book of the fifth ennead, in the treatise of the three principal hypostases of Forms and Existence – you may be assured of being able to reach the divinity through her, with her you can ascend to him…To reach him take as guide the divinest and highest part of the Soul, the power from which she proceeds, and by which she impinges on the intelligible world. The soul is no more than an image of Intelligence (εἰκών τίς ἐστι). As the exterior word (speech) is the image of the interior word of the soul, the Soul herself is the word and actualization of Intelligence. She is the life which escapes from Intelligence to form another hypostatic form of existence, just as the fire contains the latent heat which constitutes its essence and also the heat that radiates from it outside…As the soul proceeds from Intelligence, she is intelligible (Οὖσα οὖν ἀπὸ νοῦ νοερά ἐστι) and the manifestation of her intellectual power is discursive reason. The Soul, therefore, is the hypostatic substance that proceeds from Intelligence, and when the Soul contemplates Intelligence the soul is reason actually… She intimately possesses the things she thinks; from her own resources she draws the actualization she

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la sua propria natura, a seconda della diversa natura degli oggetti di cui si occupa e a cui volge il proprio sguardo. Nel sistema di Plotino l’anima occupa una posizione intermedia; essa partecipa, al tempo stesso, della natura del mondo superiore e di quello inferiore; è la prima ipostasi che segue immediatamente l’intelligenza, il νοῦς, e, dall’altro lato, confina ed è in contatto con l’universo fenomenico. In tutti i nostri sforzi speculativi di definire la natura dell’anima dobbiamo, pertanto, fornire un’asserzione duplice e apparentemente contraddittoria della sua essenza e del suo carattere. Poiché la natura dell’Anima è così divina e preziosa – dice Plotino nel primo libro della quinta enneade, nel trattato delle tre principali ipostasi delle forme e dell’esistenza – puoi esser certo di essere in grado di raggiungere la divinità per suo mezzo, con essa ascendervi [...]. Per raggiungerla prendi come guida la parte più divina e più elevata dell’Anima, la potenza da cui essa promana e attraverso cui incide sul mondo intelligibile. L’Anima non è altro che una immagine dell’Intelligenza (εἰκών τίς ἐστι). Come la parola esteriore (discorso) è l’immagine della parola interiore dell’anima, così l’Anima stessa è la parola e l’attualizzazione dell’Intelligenza. Essa è la vita che procede dall’Intelligenza per formare un’altra forma ipostatica di esistenza, proprio come il fuoco contiene il calore latente che costituisce la sua essenza e, insieme, il calore che da esso s’irradia all’esterno [...]. Poiché l’anima promana dall’Intelligenza, essa è intelligibile (Οὖσα οὖν ἀπὸ νοῦ νοερά ἐστι), e la manifestazione della sua potenza intellettuale consiste nella ragione discorsiva. L’Anima, quindi, è la sostanza ipostatica che procede dall’Intelligenza, e, quando l’Anima contempla l’Intelligenza, l’Anima è autentica ragione [...]. Essa possiede intimamente le cose che pensa; dalle sue proprie risorse trae le realizzazioni che produce; queste

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produces; these intellectual and pure actualizations are indeed the Soul’s only characteristic activities (καὶ ταὐτῷ μὲν τούτῳ δῆλον, ὅτι κρεῖττον ψυχῆς τοιᾶσδε οὔσης) Ennead. V, 1, 3, Guthrie I, 178f.)».

But on the other hand the soul always and necessarily takes a different direction: the direction to what is below herself [(]Πᾶσα γὰρ ψυχὴ ἔχει τι καὶ τοῦ κάτω πρὸς σῶμα καὶ τοῦ ἄνω πρὸς νοῦν[)] – every soul has a lower part turned towards what is beneath her and a higher part turned towards what is above her. (Ennead. IV, 8, 8, Guthrie I, 132). [«]The function of the rational soul is to think, but she does not limit herself to thinking. Otherwise there were would be no difference between her and intelligence. Besides her intellectual characteristics, the soul’s characteristic nature, by virtue of which she does not remain mere intelligence, has a further individual function…By raising her glance to what is superior to her, she thinks… by lowering them to what is inferior to her, she adorns it, administers it, and governs it (Ennead IV, 8, 3, Guthrie I, 124f.)»638.

It is not for her own sake that the soul seeks this administration and this government639 [for in undertaking this task she has in a certain sense to renounce her principal aim, the aim of her intelligible perfection. But by this renunciation and resignation there is attained another goal – there is reached a greater perfection not of the soul, but of the universe on which she bestows her cares. It is, therefore, not only a decline and fall of the soul that induces her to take care of the lower world; it is, at the same time, the fulfillment of an obligation under which she feels herself, of a sort of divine mission imposed to her.] «As it is by an eternal law of nature – says Plotinus – that this being (the Soul) acts and suffers in that manner,

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realizzazioni pure e intellettuali sono infatti le uniche attività caratteristiche dell’Anima (καὶ ταὐτῷ μὲν τούτῳ δῆλον, ὅτι κρεῖττον ψυχῆς τοιᾶσδε οὔσης)161.

Ma, dall’altro lato, l’anima prende sempre e necessariamente una diversa direzione: la direzione che si trova al di sotto di essa (Πᾶσα γὰρ ψυχὴ ἔχει τι καὶ τοῦ κάτω πρὸς σῶμα καὶ τοῦ ἄνω πρὸς νοῦν) – ogni anima possiede una parte inferiore rivolta verso ciò che sta al di sotto di essa e una parte superiore che si trova sopra di essa (Enneadi, IV 8, 8, Guthrie I, 132). La funzione dell’anima razionale è pensare, ma essa non si limita al pensare. Altrimenti non vi sarebbe differenza tra essa e l’intelligenza. Oltre alle sue proprietà intellettuali, la natura caratteristica dell’anima – in virtù della quale essa non rimane una mera intelligenza – dispone di un’ulteriore funzione [...]. Alzando lo sguardo verso ciò che le è superiore, essa pensa [...] abbassandolo verso ciò che le è inferiore, essa lo adorna, lo amministra e lo governa162.

Non è per se stessa che l’anima cerca questa amministrazione e questo governo [poiché nell’intraprendere questo compito essa deve, in un certo senso, rinunciare al suo scopo principale, lo scopo della sua perfezione intelligibile. Ma attraverso questa rinuncia e rassegnazione si ottiene un altro scopo – è raggiunta una più grande perfezione, non dell’anima, ma dell’universo di cui essa si prende cura. Perciò, non sono soltanto un declino e una caduta dell’anima a indurla a prendersi cura del mondo inferiore, ma è al tempo stesso l’adempimento di un obbligo che essa stessa sente, una sorta di missione divina imposta a essa]. Poiché è per una legge naturale eterna – dice Plotino – che questo essere (l’Anima) agisce e soffre a questo

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we may, without contradiction or violence to truth, assert that the being who descends from his rank to assist some lower thing is sent by the divinity… Thus, although the soul have a divine nature, though she originate in the intelligible world she enters into a body. Being a second divinity, lower in rank, she descends here below by a voluntary inclination, for the purpose of developing her power, and to adorn what is below her…The soul herself would ignore what she possesses if her faculty did not manifest by procession, for everywhere it is the actualization that manifests the potentiality… Otherwise the latter would be completely hidden and obscured».

It is therefore the variety of sense-effects which illustrates the greatness and unity of the intelligible principle whose nature publishes itself by the beauty of its works (Ennead. IV, 8, 5, Guthrie I, 128f.). But although the soul by her destiny and by a sort of natural and divine law has been sent to this lower world[,] she never can forget her true origin. For it follows from her very essence that she never can entirely submit to conditions that are imposed on her from without. She is a free agent – and, as such, she is not liable to fatality; she can abolish and revoke the sentence of Fate itself. The natural order of things, the order of the physical universe is bound to laws of absolute necessity. In this order there is no room left for any sort of freedom, for any exception of the general rules that determine the movements of bodies. But to give a real account of the action of the soul we have to seek for a different principle. The power of Fate, of the εἱμαρμένην, does not extend over the energy and activity of the soul.

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modo, possiamo affermare, senza entrare in contraddizione o fare violenza alla verità, che l’essere che discende dal suo rango per assistere qualcosa di inferiore è inviato dalla divinità [...]. Così, sebbene l’Anima abbia una natura divina, sebbene abbia origine nel mondo intelligibile, essa entra in un corpo. Essendo una seconda divinità, di rango inferiore, essa scende quaggiù per inclinazione volontaria, allo scopo di sviluppare la sua potenza e adornare ciò che è al di sotto di essa [...]. L’Anima stessa ignorerebbe ciò che possiede se le sue facoltà non si manifestassero tramite processione, poiché ovunque è l’attualizzazione a manifestare la potenza [...]. Altrimenti quest’ultima resterebbe completamente nascosta e oscurata163.

È dunque la varietà degli effetti sensibili che illustra la grandezza e l’unità del principio intelligibile, la cui natura mostra se stessa attraverso la bellezza delle sue opere (Enneadi, III 1, 9 e 10, Guthrie I, 98 s.). Ma sebbene l’anima, per via del suo destino e di una sorta di legge naturale e divina, sia stata mandata in questo mondo inferiore, non può comunque dimenticare la sua autentica origine. Ne consegue che, essenzialmente, l’anima non è interamente sottomessa a condizioni impostele dal nulla. L’anima è un agente libero e, in quanto tale, non soggetta alla fatalità; può abolire e revocare la sentenza del Fato stesso. L’ordine naturale delle cose, l’ordine dell’universo fisico è vincolato a leggi di necessità assoluta. In questo ordine non vi è spazio alcuno per la libertà e nemmeno per qualche eccezione alle regole che determinano i movimenti dei corpi. Ma per fornire un effettivo resoconto dell’azione dell’anima, dobbiamo cercare un principio diverso. Il potere del destino, dell’εἱμαρμένην, non si estende sull’energia e sull’attività dell’anima.

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[«]We must conclude – says Plotinus in his investigation of the nature of Fate (Περὶ εἱμαρμένην) – that while everything is indicated and produced by causes, these are of two kinds: first the human soul, and then only external circumstances… When a soul makes a decision, and carries it out, because she is impelled thereto by external things, and yields to a blind impulse, we should not consider her determination and action to be free… On the contrary, when she follows her own guide, pure and impassable reason, her determination is really voluntary, free, and independent, and the deed she performs is really her own work…she derives it from her inner power, her pure being, from the primary and sovereign principle which directs her…When the soul acts conformably to right reason she acts freely. Otherwise, she is tangled up in her deeds, and she is rather passive than active» (Ennead III, 1, 9 u. 10; Guthrie I 98 f.).

The immersion into the lower world, the world of physical necessity, is therefore not [to] be regarded as an absolute loss of her freedom, as a definitive desertion and apostasy from her own principle. [It is the principal and the highest task of philosophy to recognize and to repair this apostasy – to restore the health and liberty of the soul. By this] The philosophy of Plotinus is a philosophy of redemption; his thought is directed to this ultimate goal; it aims at the redemption of the soul, at her deliverance from the chain of fate and necessity. For this purpose[,] the soul has640 to retrace her steps; she has to return the same way that led her to her entanglement with the corporeal universe. Her descent is to be followed by her ascent. But this ascent is no longer understood in the same sense as it was described and explained in the Republic of Plato. The ascent, described by Plato, is a metaphysical one – and its different steps are marked by the

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Dobbiamo concludere – dice Plotino nella sua indagine sulla natura del Fato (Περὶ εἱμαρμένην) – che, se tutto è segnato e prodotto da cause, queste sono di due specie: prima l’anima umana, e poi le sole circostanze esterne [...]. Quando un’Anima prende una decisione, e la porta a termine, perché è spinta da fattori esterni e cede a un cieco impulso, non dovremmo considerare libere la sua determinazione e la sua azione [...]. Al contrario, quando essa segue come sua propria guida la ragione pura e priva di passioni, la sua determinazione è realmente volontaria, libera e indipendente, e l’azione che compie è realmente opera sua [...] essa la trae dalla sua forza interiore, dalla sua pura essenza, dal principio fondamentale e dominante che la dirige [...]. Quando l’anima agisce in conformità alla retta ragione, essa agisce liberamente. Altrimenti, è ingarbugliata nelle sue azioni ed è passiva piuttosto che attiva164.

Pertanto, l’immersione nel mondo inferiore, nel mondo della necessità fisica, non va vista come una perdita assoluta della libertà, come una definitiva diserzione e apostasia dal suo proprio principio. [Il compito principale e anche più elevato della filosofia consiste nel riconoscere questa apostasia e nel rimediare a essa, nel ristabilire la salute e la libertà dell’anima. Pertanto,] La filosofia di Plotino è una filosofia della redenzione; il suo pensiero è diretto a questo ultimo scopo, aspira alla redenzione dell’anima, alla sua liberazione dalla catena del destino e della necessità. A tal scopo l’anima deve ripercorrere i suoi passi, deve ritornare sulla stessa via che l’aveva condotta al suo coinvolgimento con l’universo corporeo. Alla sua discesa deve seguire la sua ascesa. Ma questa ascesa non la si può più concepire nello stesso senso in cui è stata descritta e spiegata nella Repubblica di Platone. L’ascesa descritta da Platone è metafisica e i suoi vari passaggi sono contrassegnati dai diversi gradi

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different degrees of knowledge the human mind is capable of. We begin with the lowest degree of certainty, with what is called by Plato πίστις or εἰκασία; we advance from here to the realm of true science, to the realm of Mathematics; and from this field, from the field of ἐπιστήμη and διάνοια, we pave the way that leads us to the highest knowledge, to the intuition of the idea of the good. Plotinus does not deny or contradict this methodical scheme – but he is not satisfied with this slow and continuous ascent. He insists on the fact that, at last, there must be a sudden impulse that brings the soul to the aim she longs for. [In the intuition of the pure form, and in the intuition of the supreme Idea, of the Idea of the Good, there always remains a sort of dualism. The object known differs from the knowing subject – the soul partakes in the nature and perfection of her object[,] but she is at the same time distinguished and, therefore, separated from this perfection. To avoid this dualism] we must, at last, go beyond the limits of Science and Knowledge; we must come to a mystical vision, in which all difference is overcome and extinguished. This mystical vision and this mystical union is described by Plotinus as a real identification with God, as a ἔκστασις and ἅπλωσις that cannot be reached by mere intuition (θέαμα) but presupposes an ecstasy, in which the soul, liberated not only from the body but from the realm of finite forms returns to the true, to the infinite source of all being and all wisdom. «On waking641 from the slumber of the body – says Plotinus (in the eighth book of the fourth ennead), in the treatise on the descent of the soul into the body – to return to myself, and on turning my attention from exterior things so as to concentrate it on myself, I often observe an alluring beauty, and then I trust to live out a higher life

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di conoscenza di cui la mente umana è capace. Iniziamo col grado più basso di certezza, che Platone chiama πίστις o εἰκασία; da qui procediamo verso il regno della vera scienza, verso il regno della matematica, e da questo campo, dal campo dell’ἐπιστήμη e della διάνοια, apriamo la strada che ci conduce alla conoscenza più elevata, all’intuizione dell’idea del bene. Plotino non contraddice, né nega questo schema metodico, ma non è soddisfatto di questa ascesa lenta e continua. Egli insiste sul fatto che, infine, deve esservi un impulso improvviso che conduce l’anima verso lo scopo da essa ardentemente desiderato. [Nell’intuizione della forma pura, e nell’intuizione dell’Idea suprema, dell’Idea del Bene, permane sempre una sorta di dualismo. L’oggetto conosciuto differisce dal soggetto conoscente, l’anima partecipa della natura e perfezione del suo oggetto, ma al tempo stesso è distinta e, pertanto, separata da questa perfezione. Per evitare questo dualismo,] dobbiamo pertanto andare al di là dei limiti della scienza o conoscenza; dobbiamo giungere a una visione mistica, nella quale la differenza si estingue e viene quindi superata. Questa visione e unione mistica viene descritta da Plotino come una reale identificazione con Dio, come una ἔκστασις e ἅπλωσις, che non è di certo raggiungibile per semplice intuizione (θέαμα), giacché presuppone un’estasi con la quale l’anima, liberata non soltanto dal corpo ma anche dal regno delle forme finite, ritorna alla vera fonte di tutto l’essere e di tutta la saggezza. «Ridestandomi dal sonno del corpo – dice Plotino (nell’ottavo libro della quarta enneade), nel trattato sulla discesa dell’Anima nel corpo – per riavermi, e distogliendo la mia attenzione dalle cose esteriori così da concentrarla su me stesso, osservo spesso una seducente bellezza, e allora mi convinco di vivere una vita più elevata e sperimento un’u-

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and I experience a union with the divinity (ζωήν τε ἀρίστην ἐνεργήσας καὶ τῷ θείῳ εἰς ταὐτὸν γεγενημένος, Ennead IV, 8, 1; Guthrie I, 119). This vision does not imply the existence of two different things – the one that sees, the other that is to be seen – but he who sees and what is to be seen are melted in a perfect unity (ἀλλ ἔν ἦν ἀυτὸς ὸ ἰδὼν πρὸς τὸ ὲωραμένον) Ennead. VI, 9, 11; Guthrie I, 169). «Then indeed there is in the subject no difference, neither in regard to himself, nor to other beings. There is within him no activity, no anger, no appetite, no reason, nor even thought. So much more, if we dare say so, he is no longer himself, but sunk in trance or enthusiasm tranquil and solitary with the divinity, he enjoys an imperturbable calm… In this condition, indeed, the soul busies herself not even with the beautiful things, for she rises above beauty and passes beyond even the choir of virtues (ὑπερβὰς ἤδη καὶ τὸν τῶν ἀρετῶν χορόν). [Thus who penetrates into the interior of a sanctuary leaves behind him the statues placed at the entrance of the temple… [Τὸ δὲ ἴσως ἦν οὐ θέαμα, ἀλλὰ ἄλλος τρόπος τοῦ ἰδεῖν, ἔκστασις καὶ ἅπλωσις καὶ ἐπίδοσις αὐτοῦ καὶ ἔφεσις πρὸς ἁφὴν καὶ στάσις καὶ περινόησις πρὸς ἐφαρμογήν, εἴπερ τις τὸ ἐν τῷ ἀδύτῳ θεάσεται]. This, therefore, is not a mere contemplation; it is rather an ecstasy, a simplification, a self-abandonment, a desire for intercourse, a perfect quietude and last a wish to become indistinguishable from what was contemplated in the sanctuary. Anyone642 who would seek to see the Divinity in any other way would be incapable of enjoying his presence. (Ennead II643, 9, 11, Guthrie I, 170f.)». In this description of his mystical ideal of the state of ἔκστασις and ἅπλωσις, ectasy and simplification, Plotinus does not think to deviate from the way of Plato. He always appeals to Plato as the supreme philosophical authority; he does not mean to change, but to interpret his doctrine. But

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nione con la divinità (ζωήν τε ἀρίστην ἐνεργήσας καὶ τῷ θείῳ εἰς ταὐτὸν γεγενημένος) (Enneadi, IV, 8, 1; Guthrie I, 119)165. Questa visione non implica l’esistenza di due cose separate – l’una che vede, l’altra che è vista – ma colui che vede e ciò che è visto si fondono in una perfetta unità» (ἀλλ ἔν ἦν ἀυτὸς ὸ ἰδὼν πρὸς τὸ ὲωραμένον, Enneadi, VI, 9, 11; Guthrie I, 169). «Non c’è allora alcuna differenza per il soggetto, né rispetto a se stesso né con altri esseri. Non c’è in lui alcuna attività: né rabbia, né desiderio, né ragione, neppure pensiero. Vieppiù, se così possiamo dire, egli non è più se stesso, è piuttosto caduto in trance o in un entusiasmo sereno e solitario con la divinità, gode di una calma imperturbabile [...]. In questa condizione, infatti, l’Anima non si occupa neppure delle cose belle, poiché si eleva al di sopra della bellezza e persino oltre il coro delle virtù (ὑπερβὰς ἤδη καὶ τὸν τῶν ἀρετῶν χορόν). [Come chi penetrando all’interno di un santuario lasci dietro di sé le statue poste all’ingresso del tempio ...] [Τὸ δὲ ἴσως ἦν οὐ θέαμα, ἀλλὰ ἄλλος τρόπος τοῦ ἰδεῖν, ἔκστασις καὶ ἅπλωσις καὶ ἐπίδοσις αὐτοῦ καὶ ἔφεσις πρὸς ἁφὴν καὶ στάσις καὶ περινόησις πρὸς ἐφαρμογήν, εἴπερ τις τὸ ἐν τῷ ἀδύτῳ θεάσεται]. Questa, quindi, non è mera contemplazione; è piuttosto un’estasi, una semplificazione, un abbandono di sé, un desiderio di relazione, una quiete perfetta e infine un desiderio di diventare indistinguibili da ciò che si era contemplato nel santuario. Chiunque cercasse di vedere la Divinità in qualsiasi altro modo, sarebbe incapace di godere della sua presenza» (Enneadi, II, 9, 11, Guthrie I, 170s.)166. In questa descrizione del suo ideale mistico di ἔκστασις e ἅπλωσις, di estasi e semplificazione, Plotino non pensa di allontanarsi dalla via di Platone. Egli si appella sempre a Platone come alla suprema autorità filosofica; non intende modificarne la dottrina, ma inter-

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there is no doubt that, in this interpretation, there is introduced a new element of thought and a new feeling, – a feeling very remote from and opposed to the original thought of Plato. In all his enthusiastic644 description of the realm of the pure forms, and in all his praise of that θεία μανία, of that divine rapture, that leads us to the intuition of the intellectual world Plato never ceases to be a dialectical thinker. And all dialectical thought is based upon that operation of the mind that is called by Plato645 the act of διαίρεσις, the act of distinction and discernment. According to Plato it is this art of distinction and discernment that makes a real and decisive difference between sophistical and dialectical thought, between Rhetoric and Philosophy. As Plato points out at the end of the dialogue Phaedros the principal task of the philosophy consists first in the attempt of comprehending scattered particulars in one idea (εἰς μίαν τε ἰδέαν συνορῶντα ἄγειν τὰ πολλαχῇ διεσπαρμένα). But the second principle, correlative to the first and necessarily connected with it, is the principle of division into species according to the natural formation of every concept; where the joint is, not breaking any part as a bad carver might (κατ᾽ εἴδη δύνασθαι διατέμνειν κατ᾽ ἄρθρα ᾗ πέφυκεν). Sokrates professes himself a passionate friend of this dialectical art, of the art of division and connexion (τῶν διαιρέσεων καὶ συναγωγῶν) and he declares, that on this art there is based the power of speaking and thinking. «And if I find any man – he adds – who is able to see ‘a One and Many’ in nature, him I follow, and ‘walk in his footsteps as if he were a God’. And those who have this art I have hitherto been in the habit of calling dialecticians; but God knows whether the name is right or not (Phaedros 265D)». This principle and this definition of the Platonic Dialectic has undergone an important change

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pretarla. Indubbiamente, in questa interpretazione viene introdotto un nuovo elemento e un nuovo sentimento; un sentimento ben distante e opposto all’originario pensiero di Platone. In tutta la sua entusiastica descrizione del regno delle forme pure e in tutto il suo elogio di questa θεία μανία, di questa estasi divina, che ci conduce all’intuizione del mondo intellettuale, Platone non cessa mai di essere un pensatore dialettico. Tutto il pensiero dialettico poggia su quell’operazione della mente che Platone chiama l’atto della διαίρεσις, l’atto della distinzione e del discernimento. Secondo Platone, è proprio questa arte della distinzione e del discernimento a costituire l’autentica e decisiva differenza tra il pensiero sofistico e quello dialettico, tra la retorica e la filosofia. Come afferma Platone alla fine del dialogo Fedro, il compito principale del filosofo consiste prima di tutto nel tentativo di comprendere i vari particolari di una idea (εἰς μίαν τε ἰδέαν συνορῶντα ἄγειν τὰ πολλαχῇ διεσπαρμένα). Ma il secondo principio, correlato al primo e necessariamente legato a esso, è il principio della divisione in specie, secondo la naturale formazione di ogni concetto, dov’è la giuntura, senza spezzare alcuna parte, come invece farebbe un pessimo scalco (κατ᾽ εἴδη δύνασθαι διατέμνειν κατ᾽ ἄρθρα ᾗ πέφυκεν)167. Socrate si professa amico appassionato di questa arte dialettica, dell’arte della divisione e della unione (τῶν διαιρέσεων καὶ συναγωγῶν) e afferma che è su questa arte che è basata la capacità di parlare e pensare. «E se trovo un uomo – aggiunge – che sia per natura in grado di guardare all’Uno e ai Molti, io lo seguo, e “cammino sulle sue orme come fosse un Dio”. E coloro che hanno quest’arte ho finora avuto l’abitudine di chiamarli dialettici; ma Dio solo sa se il nome sia giusto o meno» (Fedro, 265D)168. Questo principio e questa definizione della dialettica platonica hanno subìto

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in the mind and in the doctrine of Plotinus and of all the other Neo-Pl[atonic] thinkers. In Plato’s definition unity and multitude are bound together and dependent on each other in the process of logical and dialectical thought; the philosopher is he who is able to grasp and explain this independence (δυνατὸν εἰς ἓν καὶ ἐπὶ πολλὰ πεφυκόθ᾽ ὁρᾶν). But in the mystical ideal of Plotinus, in the ideal of (ἔκστασις καὶ ἅπλωσις), of unification and simplification, there is contained not only a tendency of subordinating the multitude and manifoldness of things to the unity of thought and of determining and governing it by virtue of this unity; but there is a desire and an effort to get rid, once and for all646, of the deceptive image, of the idol of multitude, and to be absorbed in the pure, the absolute unity, that admits no difference and distinction. Such an annulment, such an annihilation of all differences whatever is not believed to be a true ideal in the philosophy of Plato, [that, from its very origin, represented a new way of arguing and reasoning, of asking and answering]. Both in his logical and ethical thought Plato insists on the fact, that many may strive and ought to strive for a divine life, for a ὁμοίωμα, resembl[ance] with God, never can be reached in an absolute sense, that there can be no real ἔκστασις, no real apotheosis. There is no mixture, no melting or evanescence647 of God and man. In the philosophy of Plato there always remains a dualism between the thinking and knowing Self and the true object of knowledge; between the Soul that strives to intuit the Ideas and the ideas, the pure forms themselves: and it is that dualism that the possibility of thinking and knowing depends on. Plotinus’ philosophy strives to remove this dualism. Our highest aim is the melting together of the human soul with the Absolute, with God.

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un importante mutamento nella mente e nella dottrina di Plotino e di tutti gli altri pensatori neoplatonici. Nella definizione di Platone, l’unità e la moltitudine sono legate assieme e dipendono l’una dall’altra nel processo del pensiero logico e dialettico; il filosofo è colui che è in grado di afferrare e spiegare questa interdipendenza (δυνατὸν εἰς ἓν καὶ ἐπὶ πολλὰ πεφυκόθ᾽ ὁρᾶν). Ma nell’ideale mistico di Plotino, nell’ideale della ἔκστασις καὶ ἅπλωσις, ossia di unificazione e semplificazione, è contenuta non soltanto una tendenza a subordinare la moltitudine e molteplicità delle cose all’unità del pensiero e di determinarla e governarla in virtù di questa unità; ma vi è anche il desiderio e lo sforzo di gettare via, una volta per tutte, l’immagine ingannevole, l’idolo della moltitudine, e di assorbirlo nella pura e assoluta unità che non ammette né differenza né distinzione. Un simile annullamento, un simile annichilimento di ogni differenza, non viene ritenuto l’autentico ideale della filosofia di Platone [che sin dalle sue origini ha rappresentato un nuovo modo di ragionare, domandare e rispondere]. Tanto nel suo pensiero logico quanto in quello etico, Platone insiste sul fatto che si può e si dovrebbe aspirare a una vita divina, a una somiglianza (ὁμοίωμα) con Dio, la quale non può essere raggiunta in senso assoluto, poiché non vi è alcuna reale ἔκστασις, alcuna reale apoteosi. Non si dà alcuna mescolanza, fusione o indistinzione tra Dio e l’uomo. Nella filosofia di Platone permane sempre un dualismo tra il pensare e conoscere sé e il vero oggetto di conoscenza, tra l’anima che aspira a intuire le Idee e le idee, le pure forme stesse: ed è da questo dualismo che dipende la possibilità di pensare e di conoscere. La filosofia di Plotino tenta di rimuovere questo dualismo. Il nostro più alto scopo consiste nel fondere insieme l’anima umana con l’Assoluto, con Dio. Attraverso questo

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By this principle, Neo-Platonism paves the way to that new development, that we find in medieval thought, and especially in the philosophy of Augustine. [§11: Plato and Augustine]648 Augustine was not a philosopher in the Greek sense of this term. He was a Christian thinker – and he was the first to develop the fundamental thoughts of Christian religion into a coherent system. He lives in the beginning of the fifth century a.Chr.; at the end of the ancient world and the Roman empire. He wishes to give us a complete irrefutable system of Christian creed. For such a purpose he could not miss all those instruments of thought that had been created by the Greek philosophers. Greek philosophy, and especially the philosophy of Plato is still held by him in the highest esteem649. The character of every soul is determined by the character of her desire and her love; by the power of the ἔρως that is the original principle of her inclinations and her thoughts. But this principle does not mean an absolute perfection; it means, at the same time, the absence of perfection, it means want and indigence. In the Symposion Love (ἔρως) is described by Diotima not as a God, but as a demon. [«]Love (ἔρως) is not to be called a God; for how could we think of God as being in want of something, as not possessing but only striving after the Good and the Beautiful? Nor is love merely mortal; but it is in a mean between mortality and immortality. So Love may be said to be a great spirit, and like all spirits, to be intermediate between the divine and the mortal650 (δαίμων μέγας, ὦ Σώκρατες: καὶ γὰρ πᾶν τὸ δαιμόνιον). He interprets between gods and men and to men the commands and replies of the Gods… For God mingles not with man, whether awake or asleep, is carried (Symp.

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principio il Neoplatonismo apre la strada a un nuovo sviluppo, che troviamo nel pensiero medievale e soprattutto nella filosofia di Agostino. 11. Platone e Agostino Agostino non era un filosofo nel senso greco di questo termine. È stato un pensatore cristiano e per primo ha sviluppato i pensieri fondamentali della religione cristiana in un sistema coerente. Vive agli inizi del quinto secolo dopo Cristo; quindi alla fine del mondo antico e dell’Impero romano. Intende darci un sistema completo e irrefutabile della confessione cristiana. Per la realizzazione di questo scopo non poteva non beneficiare di tutti quegli strumenti di pensiero forgiati dai grandi filosofi greci; in particolar modo dalla filosofia di Platone, per il quale nutriva la più grande stima. Il carattere di ogni anima è determinato dal carattere del suo desiderio e del suo amore; dalla forza dell’ἔρως, ossia il principio originario delle sue inclinazioni e dei suoi pensieri. Ma questo principio non indica una perfezione assoluta; esso indica, al tempo stesso, l’assenza di percezione, indica mancanza e indigenza. Nel Simposio, Amore (ἔρως) non può esser detto un Dio; poiché come potremmo pensare che Dio sia manchevole di qualcosa, o che non possegga ma soltanto tenda al Bene e al Bello? Né Amore è semplicemente un mortale; ma è di mezzo tra mortalità e immortalità. Si può perciò dire che Amore sia un grande spirito, e, come tutti gli spiriti, è qualcosa di intermedio tra il divino e il mortale (δαίμων μέγας, ὦ Σώκρατες: καὶ γὰρ πᾶν τὸ δαιμόνιον). […] Interpreta tra gli dèi e gli uomini, e agli uomini i comandi e le risposte degli dèi [...]. Perché Dio non si mescola all’uomo, che sia vigile o dor-

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202)[»]. By this principle, by the conviction that God does not mingle with men (θεὸς δὲ ἀνθρώπῳ οὐ μείγνυται), Plato forbids that mystical interpretation of his doctrine of ideas that is maintained by Plotinus. Human thought cannot fill the chasm between infinity and finitude[,] and it cannot bring both of them to a real coincidence. Both terms are related to each other, but this relation does not mean identity but is based on their essential difference – a difference that cannot be extinguished by any effort of human thought and human will, nor by any immediate action of divine Grace. The finite phenomena, the beings existing in Space and Time, strive after the perfection of the pure ideas, by they don’t reach this perfection. What we call equals in the domain of sense-experience, what we regard as equal portions of wood or stone, are not the same with the idea of equality. Equality itself always remains something different (ἕτερον τι), from these empirical instances, that aim at equality but necessarily fall short of it. In the same sense the soul of man by her love for the Good and the Beautiful strives to reach equality with God (ὀμοίωσις τῷ θεῷ) by the distance between the essence of God and man is not to be removed: there is no act of ecstasy, no immediate union that can annul this distance. If we proceed from this brief delineation of the interpretation of Plato’s doctrine of ideas contained in the work of Plotinus to the first period of medieval thought we have to begin with that thinker that was the first to develop the fundamental thoughts of Christian religion into a coherent system, a system that with respect to its truth claimed to be superior to all systems maintained by former philosophers and, that at the same time, pretended to be equal to

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miente»169. Con questo principio, secondo cui Dio non si mescola all’uomo (θεὸς δὲ ἀνθρώπῳ οὐ μείγνυται), Platone nega l’interpretazione mistica della sua dottrina delle idee, che è sostenuta da Plotino. Il pensiero umano non può colmare l’abisso tra l’infinità e la finitudine, e non può far giungere entrambe a una effettiva coincidenza. Entrambi i termini sono reciprocamente collegati; ma questa relazione non implica identità, ma è basata sulla loro differenza essenziale; una differenza che non può essere estinta da alcuno sforzo del pensiero umano e della volontà umana, né da un’azione immediata della grazia divina. I fenomeni finiti, gli esseri esistenti nello spazio e nel tempo, aspirano alla perfezione delle idee pure, ma non la raggiungono mai. Ciò che chiamiamo “uguale” nel dominio dell’esperienza sensibile, ciò che intendiamo per “uguale porzione di legno o pietra”, non sono la stessa cosa della idea di uguaglianza. L’uguaglianza in sé rimane sempre qualcosa di diverso (ἕτερον τι) rispetto a questi esempi empirici, i quali tendono sì all’uguaglianza, ma falliscono necessariamente nel loro scopo. Nello stesso senso, l’anima umana, attraverso il suo amore per il Bene e il Bello, mira a raggiungere l’uguaglianza con Dio (ὀμοίωσις τῷ θεῷ), ma la distanza tra l’essenza di Dio e quella dell’uomo non viene rimossa: non vi è alcun atto estatico, alcuna unione immediata che possa annullare tale distanza. Se da questo breve resoconto dell’interpretazione della dottrina platonica contenuta nell’opera di Plotino procediamo verso il primo periodo del pensiero medievale, bisogna iniziare con quel pensatore che per primo ha sviluppato i pensieri fondamentali della religione cristiana in un sistema coerente, un sistema che rispetto alla sua verità si proclamava superiore a tutti i sistemi sostenuti dai filosofi precedenti e che, al tempo stesso,

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them with regard to its consistency. It is by this connection that Augustine, at the beginning of the fifth century of the post-Christian era, has become the651 real founder of a system of creed that has impressed its stamp upon all the future evolution of medieval thought and medieval faith. In this attempt Augustine652 was compelled to make use of the instruments created by Greek thought and especially by the thought of Plato. And of all Greek philosophers Plato is held by Augustine653 in the highest esteem. He admires the sagacity and the profoundness of Plato by which he was able to find out, by a mere process of speculative thought, the most important truths concerning the nature of God and the nature of the intellectual world – those truths that seemed not [to] be accessible to the human mind but by an immediate divine revelation. «Inter discipulos Socratis – says Augustine in the eighth book of the City of God (De Civit. Dei 2, VIII, Cap. 4) – non quidem immerito excellentissima gloria claruit, quae omnino caeteros obscurant, Plato». Among the disciples of Sokrates Plato – says Aug[ustine] – was the one who shone with a glory which far excelled that of the others, and who not unjustly eclipsed them all. But at the same time Augustine admits and emphasizes that it is very difficult to come to a true understanding and to a correct interpretation of the philosophical views of Plato, because the latter, as a disciple of Sokrates, retained his method of disputation – a method by which his true thought is more concealed and obscured than detected and revealed (ibid.). Therefore[,] in treating of the philosophy of Plato it seems to be the best and surest way to accept the interpretation of those who are praised as having the most closely followed Plato and who are said to have manifested the greatest acuteness in understanding

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pretendeva di essere uguale a essi quanto a consistenza. È attraverso tale connessione che Agostino, all’inizio del quinto secolo dopo Cristo, divenne il vero fondatore di un sistema dottrinale che impresse il suo marchio su tutta la futura evoluzione del pensiero medievale e della fede medievale. In questo tentativo, Agostino si trovò costretto a fare uso degli strumenti forgiati dal pensiero greco, in particolar modo del pensiero di Platone. Di tutti i filosofi greci Platone era quello che, presso Agostino, godeva della più alta stima. Agostino ammira la sagacità e profondità di Platone, grazie alle quali questi fu in grado di scoprire, attraverso un mero processo di pensiero speculativo, le più importanti verità concernenti la natura di Dio e la natura del mondo intellettuale – quelle verità che non sembravano accessibili alla mente umana se non attraverso una rivelazione divina immediata: «Inter discipulos Socratis – dice Agostino nell’ottavo libro della Città di Dio (De Civit. Dei 2, VIII, Cap. 4) – non quidem immerito excellentissima gloria claruit, quae omnino caeteros obscurant, Plato» (Tra i discepoli di Socrate, Platone fu quello che brillava di una gloria eccedente di gran lunga gli altri, e che non ingiustamente li eclissò tutti)170. Ma al tempo stesso, Agostino ammette e sottolinea che è piuttosto arduo giungere a una vera comprensione e a una corretta interpretazione delle concezioni filosofiche di Platone, poiché quest’ultimo, come discepolo di Socrate, conservava il suo metodo della disputatio, un metodo attraverso cui il suo vero pensiero viene più che altro celato e oscurato, piuttosto che individuato e rivelato (ibid.)171. Pertanto, nella trattazione della filosofia di Platone, il modo migliore e più sicuro sembra consistere nell’accettare l’interpretazione di coloro i quali vengono elogiati per aver seguito più da vicino Platone e che hanno manifestato anche la più

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him – that means to the thinkers of the various Neoplatonic schools (ibid. VIII, 4). As a matter of fact[,] Augustine654 seems to possess no immediate knowledge of the doctrine of Plato, drawn from the sources themselves. He always sees this doctrine, so to speak, in a sort of refraction through the medium of Neoplatonic doctrines. And the principles of Neoplatonism itself are understood and interpreted in such a sense as to conceive them as intimations and hints of a superior truth from which the heathen philosophers were precluded655. [«]You proclaim – says Augustine in the tenth book of the City of God addressing the Neoplatonic philosophers – the Father and his Son, whom you call the Father’s Intellect or mind, and between these a third, by whom we suppose you mean the Holy Spirit, and in your own fashion you call these three Gods. In this, though your expressions are inaccurate, you do in some sort, and as through a veil, see what we should strive towards; but the incarnation of the unchangeable Son of God, whereby we are saved, and are enabled to read the things we believe, or in part understand, this is what you refuse to recognize. You see in a fashion, although at a distance, although with filmy eye the country, in which we should abide, but the way to it you know not… But in order[»]656.

It is, therefore, not possible to treat the doctrine of Augustine as a philosophical system. What is changed here is not the subject-matter of thought – but the whole form of thought. Augustine himself expresses this change, this shifting of the center of gravity, by tracing a sharp line of demarcation between two ideals that he describes by the terms “Sapientia”657 and “scientia”, Wisdom and Science. We cannot, like the Greeks, begin with sapientia658, with science.

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grande acutezza nel comprenderlo, vale a dire i pensatori delle varie scuole neoplatoniche (ibid., VIII, 4). Di fatto, Agostino non sembra possedere una conoscenza diretta della dottrina di Platone, tratta dalle fonti stesse. Egli vede sempre questa dottrina, per così dire, in una sorta di rifrazione attraverso il medium delle dottrine neoplatoniche. E gli stessi princìpi del Neoplatonismo vengono compresi e interpretati in un senso tale da concepirli come indizi e suggerimenti di una verità superiore preclusa ai filosofi pagani. Scrive Agostino, nella Città di Dio, riferendosi ai neoplatonici: Voi proclamate – dice Agostino nel decimo libro della Città di Dio rivolgendosi ai filosofi neoplatonici – il Padre e il Figlio, che voi chiamate Intelletto o mente del Padre, e tra questi un terzo, con il quale supponiamo intendiate lo Spirito Santo, e a modo vostro chiamate questi tre Dèi. In questo, sebbene le vostre espressioni siano inaccurate, voi in qualche modo vedete, come attraverso un velo, ciò verso cui dovremmo tendere; ma l’incarnazione dell’immutevole Figlio di Dio, grazie alla quale noi siamo salvati e siamo in grado di leggere le cose in cui crediamo, o in parte di comprenderle, questo è ciò che voi vi rifiutate di riconoscere. Voi in certo senso vedete, anche se a distanza, anche se con la vista appannata, il paese in cui dovremmo dimorare, ma la strada per raggiungerlo non la conoscete172.

Pertanto, non è possibile trattare la filosofia di Agostino come un sistema filosofico. Ciò che qui è mutato non è l’argomento del pensiero, ma l’intera forma del pensiero. Agostino stesso esprime questo mutamento, questo spostamento del centro di gravità, tracciando una netta linea di demarcazione tra due ideali, che egli descrive in termini di sapientia e scientia, Saggezza e Scienza. Non possiamo, come i Greci, iniziare con la sapientia, con la

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Science is a product of reason and according to the fundamental dogma of August[ine]. Human reason has lost its power by the fall of man. By the fall of man human reason has not only been659 enfeebled but radically perverted. We must begin with an act of faith, not with an act of reason. «Si non potes intelligere – says A[ugustine]660 – crede ut intelligas, praecedit fides, sequitur intellectus. If you cannot understand believe in order to understand: Faith precedes, the intellect follows[»]. The right order demands that we first believe in the mysteries of faith before we pretend to discuss them by reason. “Scientia” (science) is directed to the corporeal world, that is to say, to changeable and perishable things. A knowledge of these things, even provided that it could be reached would be worthless from the moral and religious point of view. It is by wisdom alone, not by science, that we can attain the only desirable end: the knowledge of God and the human soul. To wisdom – says Augustine – belongs the intellectual cognition of eternal things to science the rational cognition of temporal things661. He concentrates the whole effort of his thought to this single point, in which, according to him, the content of all philosophy, of the love of wisdom, is contained and, as it were, condensed. «Deum et animam scire cupio – says Augustine in his Soliloquia – Nihilne plus? Nihil omnino» (Soliloquia I, 7). God and the soul, that is what I desire to know. Nothing more? Nothing whatever. And even this sole question to which henceforth all philosophy is reduced is not to be understood. In a certain sense this seems very near to the thought of Plotinus. But the philo[sophy] of P[lotinus] and the philos[ophy] of A[ugustine] are philosophies of redemption. But even redemption is understood it in a new and different sense as in any system of Greek thought. Plotinus admits that the true end of re-

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scienza. La scienza è un prodotto della ragione e, secondo il dogma fondamentale di Agostino, la ragione umana ha perduto il suo potere con la caduta dell’uomo. A causa di questa caduta la ragione umana non è stata soltanto indebolita, ma anche radicalmente corrotta. Dobbiamo iniziare con un atto di fede, non con un atto di ragione: «Si non potes intelligere – dice Agostino – crede ut intelligas, praecedit fides, sequitur intellectus» (Se non puoi capire, credi per poter capire: la Fede precede, l’Intelletto segue)»173. Il giusto ordine, innanzitutto, esige da parte nostra la credenza nei misteri della fede, prima ancora di discutere intorno a essi mediante la ragione. La scientia (scienza) è diretta al mondo corporeo, ovvero alle cose mutevoli e periture. Una conoscenza di queste cose, anche provato che fosse raggiungibile, non avrebbe alcun valore da un punto di vista morale e religioso. Solo attraverso la saggezza, e non attraverso la scienza, possiamo raggiungere l’unico scopo desiderabile: la conoscenza di Dio e dell’anima umana. Alla saggezza, dice Agostino, appartiene la conoscenza intellettuale delle cose eterne, alla scienza la conoscenza razionale delle cose temporali. Agostino concentra ogni sforzo del suo pensiero su un singolo punto nel quale, secondo lui, è presente e condensato l’intero contenuto della sua filosofia, l’amore per la saggezza: «Deum et animam scire cupio – dice Agostino nei suoi Soliloquia – Nihilne plus? Nihil omnino» (Dio e l’anima desidero conoscere. Niente di più? Assolutamente nulla) (Soliloquia I, 7)174. In un certo senso, ciò sembra piuttosto vicino al pensiero di Plotino. Ma la filosofia di Plotino e la filosofia di Agostino sono filosofie della redenzione. Ma anche la redenzione viene intesa in un senso del tutto nuovo e differente rispetto a qualsiasi sistema del pensiero greco. Plotino ammette che l’autentico fine della redenzione,

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demption, the union of the human soul with God, is not to be brought about by the effort of philosophical thought alone. At the end662 all the effort[s] of speculation must be overcome and overwhelmed by a new power, by an ecstatical view, in which the soul is engaged in the immediate contemplation of God. But according to Plotinus this state of ecstasy is not to be reached without a careful preparation; – and it is philosophy, it is speculative thought to the care of which this preparation is to be entrusted. The highest intellectual vision transcends the power of mere thought; but, at the same time, it presupposes this power and rests upon it. A[ugustine] denies this power. Man cannot redeem himself. There remains only the Grace of God by which the salvation of the soul, her deliverance from the original sin, may be produced. In the philosophy of Plotinus redemption means an end, an ultimate aim; in the doctrine of Augustine663 it means not only an end, but it is understood at the same time as the beginning of all speculative and religious thought. In the first words of his Confessions Augustine has expressed this thought: «Fecisti nos ad te – says Augustine – et inquietum est cor nostrum, donec664 requiescat in te». [«]Thou has transformed us for Thyself, and our hearts are restless till they find rest in Thee». It is the rest of our hearts, is not the perfection and satisfaction of our intellect that the doctrine of Augustine is destined for. Unhappy is the man – says he in the fifth book of the Confessions – who knoweth all terrestrial665 and celestial666 things, but knoweth Thee not; but happy is who knoweth Thee, thought these he may not know. [But he who knoweth both Thee and them is not the happier on account of them, if knowing Thee he glorify Thee as God]. (Confess. B. V, chap. 4, sect. 7). And by this we are necessarily led to a new interpretation of the Platonic doctrine of ideas. In the philosophy of Plato[,] the being of the pure ideas imme-

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l’unione dell’anima umana con Dio, non può aver luogo grazie allo sforzo del solo pensiero filosofico. Alla fine, ogni sforzo della speculazione va superato e sopraffatto da una nuova forza, da una visione estatica, nella quale l’anima è impegnata nell’immediata contemplazione di Dio. Ma secondo Plotino, questo stato di estasi non lo si può raggiungere senza un’accurata preparazione; ed è la filosofia, il pensiero speculativo, ciò alla cui cura deve essere affidata questa preparazione. La più alta visione intellettuale trascende la forza del semplice pensiero; ma, al tempo stesso, presuppone questa forza e poggia su di essa. Agostino nega questa forza. L’uomo non può redimere se stesso. Rimane soltanto la grazia di Dio, mediante la quale può realizzarsi la salvezza dell’anima, la sua salvezza dal peccato originale. Nella dottrina di Agostino la grazia non indica soltanto uno scopo, ma è intesa, al tempo stesso, come l’inizio di ogni pensiero speculativo e religioso. All’esordio delle sue Confessioni, Agostino ha espresso così questo pensiero: «Fecisti nos ad te – dice Agostino – et inquietum est cor nostrum, donec requiescat in te» (Tu ci hai trasformati per Te, e i nostri cuori sono irrequieti finché non trovano riposo in Te)175. È alla quiete dei nostri cuori, non alla perfezione e alla soddisfazione del nostro intelletto, che è rivolta la dottrina di Agostino: «Infelice è l’uomo – dice nel quinto libro delle Confessioni – che conosce tutte le cose terrestri e celesti, ma non conosce Te; ma felice è colui che conosce Te, anche se non conosce quelle. [Ma chi conosce e Te esse, non in ragione di quelle è più felice, ma se, conoscendoti, glorifica Te come Dio]» (Confessioni, Libro V, cap. 4, sezione 7). Con ciò veniamo necessariamente condotti a una nuova interpretazione della dottrina platonica delle idee. Nella filosofia di Platone l’essere delle idee pure deriva immediatamente

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diately follows from the very concept of truth. In the very definition of truth we meet with the necessity of a world of pure forms, without which truth would not have any object or any meaning. But in the doctrine of Augustine the logical and epistemological definition of truth is replaced by its theological definition. «Behold and see, if thou canst, o soul – says he in the eighth book of “De trinitate” – God is truth…Ask not what is truth; for immediately the darkness of corporeal images and the clouds of phantasmas will put themselves in the667 way, and will disturb that calm which at the first twinkling, shone forth to these, when I said Truth. See that thou remainest, if thou canst, in that first twinkling with which thou are dazzled, as it were, by a flash, when it is said to theem Truth (De trinity. VII, 2, transl. Dods; VII p. 204)[»]. We have not in the way of the philosophers, to explore and to investigate the nature of truth nor have we to divide it into its different kinds; we have to trust in that absolute, simple and invisible truth that is revealed us by the divine word. And the same holds good, for the concept of good. Goodness is not a quality that may be divided and distributed among many and various subjects. «Why add yet more and more? – asks Augustine – This thing is good and that good, but take away this and that, and regard Good itself, if thou cans; so wilt thou see God, not good by a good that is other than Himself, but the Good of all Good… For the good that must be sought for the soul is not one above which is to fly by judging, but to which it is to cleave by loving; and which can this be except God? Not a good mind, or a good angel, of the good heaven, but the good?» (De trin. VIII, 3 Dods VII, 205).

If therefore, God embraces and absorbs all truth, there can be no reality or substantiality of the pure ideas except that which is given in the essence and nature of God him-

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dal concetto di verità. Proprio nella definizione di verità noi incontriamo la necessità di un mondo di pure forme, senza il quale la verità non avrebbe alcun oggetto o significato. Ma nella dottrina di Agostino, la definizione logica ed epistemologica di verità viene rimpiazzata dalla sua definizione teologica. «Guarda e osserva, se puoi, o anima – dice Agostino nell’ottavo libro del De trinitate – Dio è verità [...]. Non chiedere cos’è la verità; perché immediatamente le tenebre delle immagini corporee e le nubi dei fantasmi si metteranno in mezzo e disturberanno quella calma che al primo scintillio risplendeva a costoro, quando affermai la Verità. Vedi di rimanere, se puoi, a quel primo scintillio in cui sei stata abbagliata, per così dire, da un lampo, quando veniva affermata a costoro la Verità»176. Non dobbiamo, alla maniera dei filosofi, esplorare e indagare la natura della verità, né dividerla in tipi differenti; bisogna credere in quell’assoluta, semplice e indivisibile verità che si rivela a noi grazie alla parola divina. Lo stesso vale per il concetto di bene. La bontà non è una qualità che può essere divisa e distribuita tra i tanti e vari soggetti. Che altro aggiungere ancora? – chiede Agostino – Questo è buono e quello è buono, ma metti da parte questo e quello e considera il Bene stesso, se puoi; vedrai allora Dio, buono non grazie a un bene che sia diverso da Sé, ma in quanto il Bene di ogni Bene [...]. Poiché il bene che si deve ricercare per l’anima non è quello su cui essa sorvola coi suoi giudizi, ma quello a cui aderisce col suo amore; e quale può essere se non Dio? Non un’anima buona, o un buon angelo, o un buon cielo, ma il Bene177.

Se, pertanto, Dio abbraccia e assorbe tutta la verità, non può esservi alcuna realtà o sostanzialità delle idee pure, a eccezione di quella che si dà nella essenza e na-

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self. In the description of the Platonic Timaeus the creator of the world, the divine architect is described as the demiurge, who produces the order and harmony of the visible world by looking at the invisible and eternal archetypes, by looking at the ideas of number, of figure and so on. But in the doctrine of Augustine these archetypes possess no longer any objective and independent being. The pure forms have no substantiality of their own; they are nothing in themselves and by themselves. They are contained in the mind of God; and outside the divine intelligence we cannot ascribe to them any reality whatever. The manifoldness of the ideas is nothing else than that multiplicity which by no means is opposed to his essential unity. «Neque enim multae sed una sapientia est, in qua sunt […] intelligibilium, in quibus sunt omnes invisibiles atque in commutabiles rationes rerum etiam visibilium et mutabilium, quae per ipsum factae sunt». There are not many wisdomds but one, in which are untold and infinite treasures of things intellectual wherein are all invisible and unchangeable reasons of things visible and changeable which were created by it (Civitas Dei, B. XI, Chap. 10, Schaff, A Select Library of the Nicene and PostNicene Fathers of Christian Church, vol. II, 211). The realm of ideas, the intelligible world, may be called the reason of the visible world, of the world of phenomena668 in space and time; for it is only by referring to this intellectual world, that we can give a satisfactory explanation of the existence and order of the phenomenal world. But we must not forget that the true and669 sufficient reason, the ultimate reason for all things whatever is to be sought in God alone. There is no goodness, no ethical value outside his will – and there is no truth, no formal or logical value outside his intellect. It is according to the steady and immutable thoughts of God, that have no beginning or end, no origin[,] and no termination that all our mutable modes of thought and that all perish-

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tura di Dio stesso. Nella descrizione del Timeo platonico, il creatore del mondo, l’architetto divino viene descritto come il demiurgo che, con lo sguardo rivolto verso il mondo invisibile, gli archetipi eterni, le idee di numero, figura e così via, produce l’ordine e l’armonia del mondo visibile. Ma nella dottrina di Agostino queste forme non posseggono più un essere oggettivo e indipendente. Le forme pure non hanno alcuna sostanzialità di per sé; non sono nulla in se stesse e per se stesse. Difatti, sono contenute nella mente di Dio e, al di fuori dell’intelligenza divina, non possiamo attribuire loro alcuna realtà. La varietà delle idee non è altro che quella molteplicità che non si oppone affatto alla sua unità essenziale. «Neque enim multae sed una sapientia est, in qua sunt […] intelligibilium, in quibus sunt omnes invisibiles atque in commutabiles rationes rerum etiam visibilium et mutabilium, quae per ipsum factae sunt» (Non ci sono molte sapienze, ma una, in cui si trovano gli infiniti e inesprimibili tesori delle cose intelligibili, in cui si trovano tutte le ragioni invisibili e immutabili delle cose visibili e mutevoli che da essa sono state create) (Civitas Dei, l. XI, cap. 10)178. Il regno delle idee, il mondo intelligibile lo si può chiamare “ragione del mondo visibile”, del mondo dei fenomeni nello spazio e nel tempo, poiché solo riferendoci a questo mondo intellettuale possiamo fornire una spiegazione soddisfacente dell’esistenza e dell’ordine del mondo fenomenico. Ma non dobbiamo dimenticare che la ragione vera e sufficiente, la ragione ultima di tutte le cose, va ricercata solamente in Dio. Non si dà alcuna bontà, alcun valore etico al di fuori della sua volontà e nessuna verità o valore logico e formale al di fuori del suo intelletto. È proprio grazie ai pensieri immutabili ed eterni di Dio – che non hanno inizio o fine, origine o conclusione – che tutti i nostri mutevoli modi di pensare

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able things are formed670. [As Augustine points out in his “Retractationes” (Lib. I, cap. 3) it was not an error of Plato to answer the truth and reality of an intelligible world – provided that we do not regard the term that is not appropriate to ecclesiastical language but the subject-matter itself. (si non vocabulum quod ecclesiasticae consuetudini…inusitatum est, ipsam rem velimus attendere). For Plato understood by this term the eternal and unchanging reason, according to which God has created the world; and if we should deny this reason we had to assume, that God’s creation is irrational or that God, before creating a thing or in the act of creation itself did not know what he was doing – provided that in himself there was no reason of his operation. But if there can be and must be alleged such a reason, it seems that it was this reason that has been called by Plato the intelligible world – although, for ecclesiastic use and from the point of view of pure Theology it seems better to avoid the term (nec tamen isto nomine nos uteremur, si iam satis essemus litteris ecclesiasticis eruditi)]. But if the ideas are declared to be that sources or reasons of things that are contained in the divine mind, it follows from this that the human soul, in elevating herself to the intuition of the pure ideas, as for instance in her intuition of the forms, the figures, the numbers of things, participates by this in the nature and essence of God himself. The act of knowledge that is included in this consciousness of form or number, is therefore not an empirical act that is to be explained by empirical causes: it is a metaphysical act. Whenever we are contemplating the world of geometrical figures or the world of Arithmetic, of numerical relations, we penetrate, so to speak, in the essence of God and we are illumi-

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e ogni cosa corruttibile vengono formati. [Come argomenta Agostino nelle sue Retractationes (libro I, cap. 3), non fu un errore, da parte di Platone, rispondere alla verità e alla realtà di un mondo intelligibile – a condizione che si consideri non il termine, che non è appropriato al linguaggio ecclesiastico, ma l’argomento stesso. (Si non vocabulum quod ecclesiasticae consuetudini... inusitatum est, ipsam rem velimus attendere). Poiché Platone intendeva con questo termine la ragione eterna e immutabile, in base alla quale Dio ha creato il mondo; e se dovessimo negare questa ragione, dovremmo presumere che la creazione di Dio sia irrazionale o che Dio, prima di creare qualcosa o nell’atto stesso della creazione, non sapesse cosa stesse facendo – dato che in sé non c’era alcuna ragione della sua operazione. Ma se una tale ragione ci può essere e si deve presumere, sembra che sia stata questa ragione a esser stata chiamata da Platone mondo intelligibile – anche se, secondo l’uso ecclesiastico e dal punto di vista della Teologia pura, sembrerebbe meglio evitare il termine (nec tamen isto nomine nos uteremur, si iam satis essemus litteris ecclesiasticis eruditi)»]. Ma se le idee vengono considerate come la fonte o ragione delle cose contenute nella mente divina, ne consegue che l’anima umana – nell’elevarsi all’intuizione del mondo delle idee pure, come nel caso della intuizione delle forme, delle figure, dei numeri delle cose – partecipa perciò alla natura ed essenza di Dio stesso. L’atto della conoscenza, incluso in questa coscienza della forma o del numero, non è pertanto un atto empirico da spiegare tramite cause empiriche, ma è piuttosto un atto metafisico. Ogni volta che contempliamo il mondo delle figure geometriche o il mondo dell’aritmetica e delle relazioni numeriche, noi penetriamo, per così dire, nell’essenza di Dio e veniamo illuminati dal pensiero divino.

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nated by the divine thought. As Plato compared the position of the highest Idea, of the idea of Good, in the intelligible world with the place of the sun in the visible world: Augustine671 calls God an “intelligible sun”. God is the father of the intelligible sun and father of our illumination. “pater intelligibilis lucis” et “pater illuminationis nostrae” (cf. Soliloquy I, 1, 2 u. ö). «As in this visible sun – says Augustine in his “Soliloquies” – we may observe three things: that he is, that he shines, that he illuminates (quod est, quod fulget, quod illuminat) so that God most far with drawn whom thou wouldst fain apprehend, there are those three things: that He is, that He apprehend and that He makes other things to be apprehended (quod est, quod intellegitur et quod caetera facit intellegi672) (Solil. I, 15, Transl. ed. Schaff VII, 542)[»]. [The senses of the soul are as it were the eyes of the mind: but all the certainties of the sciences673 are like those things which are brought to light by the sun, that they may be seen: the earth for instance and the light upon it: while God is Himself the Illuminator: “Deus autem est ipse qui illustrat” (Solil. I, 12)]. The human soul cannot create nor develop out of herself that internal light by which the eternal and intelligible truth can be seen – all she can is to receive this light, if it is offered to her by her divine master. And of course[,] there always remains a strict and clear difference between the receiving subject and the truth, that is received, between the seeing soul and God as the father and origin of illumination – [a difference that never can be effaced or reduced to nothing.] In this sense Augustine is very far from admitting those mystical consequences the systems of Neoplatonism are inclined to. He does not admit any immediate union of the soul with God – any real apotheosis. But by this he is not led back to the original sense and tendency of Plato’s doc-

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Come Platone ha paragonato la dimora dell’idea somma (l’idea del Bene) nel mondo intelligibile al posto occupato dal sole nel mondo visibile, Agostino chiama Dio “sole intelligibile”. Dio è il padre della luce intelligibile e il padre della nostra illuminazione, “pater intelligibilis lucis” e “pater illuminationis nostrae” (cfr. Soliloqui, I, 1, 2). «Come in questo sole visibile – dice Agostino nei suoi Soliloqui – noi possiamo osservare tre cose: che è, che risplende, che illumina (quod est, quod fulget, quod illuminat), così in quel Dio molto lontano, tratteggiato, che tu vorresti conoscere, ci sono tre cose: che Egli è, che Egli conosce e che Egli fa altre cose siano conosciute (quod est, quod intellegitur et quod caetera facit intellegi)» (Solil. I, 15, Transl. Ed. Schaff VII, 542). [«I sensi dell’anima sono per così dire gli occhi della mente; ma tutte le certezze delle scienze sono come quelle cose che vengono tratte alla luce dal sole, affinché possano essere viste: la terra per esempio, e la luce su di essa; mentre Dio è lui stesso l’Illuminatore: “Deus autem est ipse qui illustrat”» (Solil. I, 12)179]. L’anima non può creare né sviluppare da sé questa luce interiore, grazie alla quale la verità eterna e intelligibile può essere vista; tutto ciò che può fare consiste nel ricevere questa luce, se le viene offerta dal signore divino. Ovviamente, rimane una marcata e chiara differenza tra il soggetto ricevente e la verità che si riceve, tra l’anima che vede e Dio come padre e origine dell’illuminazione [una differenza che non può essere rimossa o ridotta a nulla]. In questo senso, Agostino è lungi dall’ammettere quelle conseguenze mistiche alle quali sono inclini i sistemi del Neoplatonismo. Agostino non ammette una unione immediata dell’anima con Dio – nessuna reale apoteosi. Ma con ciò non viene ricondotto al senso originario e alla tendenza originaria della dottrina delle idee di Platone e della sua dottrina

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trine of ideas and of his doctrine of truth. For in the Platonic system philosophical truth is not to be attained in any other way than by means of dialectical thought. It is the energy of the thinking soul by which alone the truth of the pure ideas can be apprehended and can be demonstrated. The ideas, the pure forms are described by Plato as unchangeable and unmovable; they are conceived in a static way. But the soul that strives after the intuition of the pure Being (ὀρέγηται τοῦ ὄντος) is to be conceived in a dynamical way. It is only with the utmost exertion of all her rational energies that she can attain her end. In the Sophistes of Plato (254A) the philosopher is described as the man, who always applies himself to the idea of being and incessantly pursues this idea [(] τῇ τοῦ ὄντος ἀεὶ διὰ λογισμῶν προσκείμενος ἰδέᾳ[)]; in the Menon Plato speaks of a θήρα τοῦ ὄντος (hunting after being) that is the end and the profession of the dialectician. Reason would desert from her aim and her essential task, if she would give up this continuous chase of being and truth. It is in this effort that she detects her own fundamental power and activity: the activity of logical thought (λογισμοῦ). Augustine is forbidden, by the very principles of his theological system, to admit such an independence, such a real autonomy of reason. For in admitting it he had to renounce or to restrict his fundamental dogma: the dogma of that radical corruption of reason that has been produced by the fall of man and that cannot be cured by any effort of our own, but by a supernatural assistance, by the Grace of God alone. It is to this theological doctrine of Grace and free will, a doctrine explained and defended especially in his Anti-Pelagian works – that Augustine’s theory of knowledge and truth is to be conformed. To the human mind there is left no orig-

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della verità. Infatti, nel sistema filosofico platonico la verità non la si può raggiungere se non attraverso il pensiero dialettico. Soltanto attraverso la sola energia dell’anima pensante è possibile comprendere e dimostrare la verità delle idee pure. Le idee, le forme pure descritte da Platone come immutabili e immobili, vengono concepite in modo statico. Ma l’anima che mira all’intuizione del puro essere (ὀρέγηται τοῦ ὄντος) va invece concepita in modo dinamico. Soltanto con lo sforzo estremo di tutte le sue energie razionali essa può raggiungere il suo scopo. Nel Sofista di Platone (254A), il filosofo viene descritto come l’uomo che si dedica sistematicamente all’idea di essere e la ricerca incessantemente (τῇ τοῦ ὄντος ἀεὶ διὰ λογισμῶν προσκείμενος ἰδέᾳ); nel Menone si parla di θήρα τοῦ ὄντος, di ricerca dell’essere180, la quale costituisce il fine e la professione del dialettico. La ragione diserterebbe dal proprio scopo e dal suo compito essenziale, se abbandonasse questa ricerca dell’essere e della verità. È proprio in questo sforzo che essa scopre la sua facoltà e attività fondamentale: l’attività del pensiero logico (λογισμός). Agostino, per via dei princìpi del suo sistema teologico, non riesce ad ammettere una simile indipendenza, una simile autonomia della ragione. Se l’ammettesse, dovrebbe rinunciare o restringere il suo dogma fondamentale: il dogma di questa radicale corruzione della ragione prodotta dalla caduta dell’uomo e che non può essere curata per mezzo dei suoi propri sforzi, ma soltanto da un aiuto sovrannaturale, dalla sola grazia di Dio. Agostino conforma la sua teoria della conoscenza e della verità proprio a questa dottrina teologica della grazia e del libero arbitrio, una dottrina spiegata e difesa soprattutto nei suoi lavori anti-pelagiani. Per la mente umana non vi è alcuna facoltà originaria attraverso la quale essa possa sollevarsi al di sopra del mondo

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inal power by which it may soar above the world of senses and attain an intuition of the intelligible world. This intuition must be produced by and depends on a different form: on the force that one universal and eternal674 reason that is reserved to God and by which God in the act of cognition, illuminates the human soul. In his refutation of the doctrine of free will, contained in his work “De libero arbitrio” Augustine lays special stress upon this point (cf. De lib. arbitrio, L. II, ch. 10 and 12). To gain a true insight into the nature of God and into her relationship with God, the soul must not trust in any way her own powers and activities; she must give up herself in order to transcend herself, to go beyond her own boundaries. «Promiseram […] me tibi demonstraturum esse aliquid quod sit mente nostra atque ratione sublimius. Ecce tibi est ipsa veritas: amplectere illam si potes, et fruere illa, et delectare in Domino». (De lib. Arbitr. II, 13, t. 32, c. 1260 (Migne) engl.). It follows from this first supposition and of this essential aim of the philosophy of Augustine, that the world of outward experience, the world contained in Space and Time, cannot be understood and cannot be interpreted in the right way, except by applying to this world a rule and a measure that we have to find in ourselves – in the nature not of our physical world but of our religious experience. The nature of things is to be explained by means of and in accordance with the nature of the human soul; the nature of the human soul is to be explained by the nature of God. By this principle[,] Physics is reduced to Psychology, Psychology is reduced to Theology. «Noli foras ire – says Augustine in his book “De vera religione” – in teipsum redi;

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dei sensi e raggiungere l’intuizione del mondo intelligibile. Questa intuizione dev’essere prodotta e dipende da una forma differente: dalla forza di quella ragione universale ed eterna riservata a Dio e con la quale Dio, nell’atto della cognizione, illumina l’anima umana. Nel suo rifiuto della dottrina del libero arbitrio, contenuta nella sua opera De libero arbitrio, Agostino sottolinea in modo particolare questo punto (cfr. De lib. arbitrio, l. II, capp. 10 e 12). Per cogliere la vera intuizione di Dio e della propria relazione con Dio, l’anima non deve confidare in alcun modo nelle sue facoltà e attività; deve sacrificarsi per trascendere se stessa e andare al di là dei propri confini. Scrive Agostino nella sua opera De libero arbitrio: «Promiseram […] me tibi demonstraturum esse aliquid quod sit mente nostra atque ratione sublimius. Ecce tibi est ipsa veritas: amplectere illam si potes, et fruere illa, et  delectare in Domino» [Avevo promesso […] che ti avrei mostrato qualcosa che è più sublime nella nostra mente e nella nostra ragione. Ed ecco: è la stessa verità. Abbracciala, se puoi, e godine e dilettati nel Signore]181. Da questa prima premessa e da questo scopo essenziale della filosofia di Agostino consegue che il mondo dell’esperienza fenomenica, il mondo contenuto nello spazio e nel tempo, non può essere compreso e interpretato in modo corretto, se non applicando alla natura una regola e una misura che abbiamo trovato in noi stessi, nella natura non del nostro mondo fisico, ma della nostra esperienza religiosa. La natura delle cose viene spiegata attraverso la natura dell’anima umana e in accordo con quest’ultima; la natura dell’anima umana viene spiegata dalla natura di Dio. In base a questo principio, la fisica viene ridotta a psicologia, la psicologia a teologia. Nel suo libro De vera religione Agostino scrive: «Noli foras ire, in teipsum redi; in interiore homine

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in interiore homine habitat veritas; et si tuam naturam mutabilem inveneris, transcende et teipsum. […] Illuc ergo tende, unde ipsum lumen rationis accenditur». [Do not go out of thyself, return to thyself, it is in the interior essence of man that the truth resides. But after having discovered that this essence itself is mutable transcend thyself and turn thither, from which the light of reason itself is kindled]. The intermediate link between the knowledge of the outward and the knowledge of the inner world is to be found in the concept of number and form. «Towards whatever you may turn – says Augustine in the second book of “De libero arbitrio” (chapter 42) – you will find those divine marks and traces that God has impressed upon his creation. For whatever delights thee in bodies and allures and fascinates thy corporeal senses, partakes in number. And if you enquire into the origin of number you must go back to yourself; and you will find that you can not approve or disapprove what you perceive by the eye or the ear, if there are not within yourself certain laws of beauty to which you refer in regarding what you call beautiful in the world of sense. Behold the sky and the earth and the ocean: all what is shining and glittering in them, has a form, because it has a number. Take away this form and this number, and it is reduced to nothing. [A quo ergo sunt, nisi a quo numerus; quando quidem in tantum illis est esse, in quantum numerosa esse]». [«]Where can we therefore seek the source and origin of corporeal things and corporeal beauty except in that nature in which number originates, since they have a being only so far as they have numbers? All things to what we ascribe beauty in the world of sense, in the works of nature as well as in the works of art, are beautiful with regard to space and time (locis et temporibus sint pulchra). But equality and unity cannot be known and apprehended but by the mind itself – and this spiritual

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habitat veritas; et si tuam naturam mutabilem inveneris, transcende et teipsum. […] Illuc ergo tende, unde ipsum lumen rationis accenditur» (Non uscire da te stesso, ritorna a te stesso, è nell’essenza interiore dell’uomo che la verità risiede. Ma dopo aver scoperto che questa stessa essenza è mutevole, trascendi te stesso. [...] E volgi là, dove la luce stessa della ragione si accende)182. Il legame intermedio tra la conoscenza del mondo esterno e il mondo interiore va rinvenuto nei concetti di numero e forma. «Ovunque tu volga – dice Agostino nel secondo libro del Libero arbitrio (capitolo 42) – troverai quei segni e quelle tracce divine che Dio ha impresso nella sua creazione. Infatti tutto ciò che ti delizia nei corpi, che seduce e affascina i tuoi sensi corporei, partecipa del numero. E se indaghi sull’origine del numero devi tornare a te stesso; e scoprirai che non puoi approvare o disapprovare ciò che percepisci con l’occhio o con l’orecchio, se in te non ci sono certi criteri di bellezza a cui fare riferimento riguardo a ciò che nel mondo sensibile chiami bello. Contempla il cielo e la terra e l’oceano: tutto ciò che in essi splende e luccica ha una forma, poiché ha un numero. Togli questa forma e questo numero, e si ridurrà a nulla» [A quo ergo sunt, nisi a quo numerus; quando quidem in tantum illis est esse, in quantum numerosa esse]183. «Dove possiamo quindi cercare la fonte e l’origine delle cose corporee e della bellezza corporea se non in quella natura in cui il numero ha origine, dal momento che hanno l’essere solo in quanto hanno i numeri? Tutte le cose a cui noi attribuiamo bellezza nel mondo sensibile, alle opere della natura come alle opere d’arte, sono belle in relazione allo spazio e al tempo [locis et temporibus sint pulchra]. Ma l’uguaglianza e l’unità non possono essere conosciute e comprese se non dalla mente stessa – e questa uguaglianza e unità spirituali non sono

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equality and unity is not tumid in place nor unstable in time (illa aequalitas et unitas menti tantummodo cognita, secundum quam de corporea pulchritudine sensu internuntio iudicatur, nec loco tumida est, nec instabilis tempore, De vera relig. Cap. 30, § 56)[»]. It is obvious that this doctrine of beauty contained in the work of Augustine has been deeply influenced by Platonic and Neo-Platonic thought – and that, in the same sense, we can show up and demonstrate this influence in many important features of his theory of the physical universe, of his theory of the human soul, of his theory of knowledge. But from a systematical point of view[,] we must not overrate this influence – for in the mind of Augustine all the concepts of Platonism have undergone a decisive change. In concentrating the whole theory of being into a single point, into the question of being and nature of God, Augustine675 has transformed and, as it were, refounded the thought of Plato – he has changed the logical, the ethical, the dialectical categories of Platonism into theological categories. [§12: The Platonism of Ficinus, Galilei and Kepler]676 It was not before that general movement of ideas that sets in the age of the Renaissance, in the sixteenth and seventeenth centuries, that this transformation was replaced by a new and different interpretation of the thought of Plato and of the meaning of his doctrine of ideas. This new interpretation rests no longer on the theological categories nor [is it governed by merely religious views. It was the general theory of Mathematics contained in the philosophy of Plato that was upheld and[,] in a certain sense[,] renewed in the works of

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ridondanti nello spazio né instabili nel tempo» [illa aequalitas et unitas menti tantummodo cognita, secundum quam de corporea pulchritudine sensu internuntio iudicatur, nec loco tumida est, nec instabilis tempore]»184. È ovvio che questa dottrina del bello, presente nell’opera di Agostino, risente profondamente dell’influenza di Platone e del pensiero neoplatonico, e possiamo inoltre porre in evidenza questa influenza in diversi importanti aspetti della sua teoria dell’universo fisico, della sua teoria dell’anima e della sua teoria della conoscenza. Ma da un punto di vista sistematico non dobbiamo sopravvalutare questa influenza, poiché nella mente di Agostino tutti i concetti del Platonismo hanno subìto un mutamento decisivo. Nel concentrare l’intera teoria dell’essere in un singolo punto – nella questione dell’essere e della natura di Dio – Agostino ha trasformato e, per così dire, rifondato il pensiero di Platone – ha modificato le categorie logiche, etiche e dialettiche del Platonismo in categorie teologiche. 12. Il platonismo di Ficino, Galilei e Kepler Questa trasformazione venne rimpiazzata da una nuova e differente interpretazione del pensiero di Platone e del significato della sua dottrina delle idee non prima dell’avvento di quel movimento generale di idee che prese piede nell’età del Rinascimento, nel sedicesimo e nel diciassettesimo secolo. Questa nuova interpretazione non dipende più da categorie teologiche, né [è dominata da concezioni puramente religiose. Fu la teoria generale della matematica contenuta nella teoria di Platone a venire sostenuta e, in un certo qual senso, rinnovata nelle opere dei primi fondatori della matematica moderna e

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the first founders of modern Mathematics and modern science – in the work of Kepler and Galileo. And by this new orientation of thought there was introduced a perfectly new frame of reference that proved to be essential and fruitful for the discovery of the original and genuine form of the Platonic doctrine. It is true that this discovery could not be made at one blow. It took a long time before modern philosophy with respect to this most important historical and systematic problem, could find its own way and become aware of its new task. The philological and critical part of the problem – the question that could be asked and could be answered by means of pure erudition, by the new learning introduced by the Renaissance – seemed to be solved in the work of Marsilius Ficinus, the leader and head-master of the Platonic Academy of Florence]677. By his indefatigable zeal[,] by a continuous and patient labour extended over half a century Ficinus succeeded in restoring the philosophy of Plato as a systematic whole. By his Latin translation of all the Platonic dialogues Ficinus laid the first and solid foundation to a new study of the sources themselves. But the philosophical originality of Ficinus is far from being equal to the universal task he sets to himself. He succeeds in giving a fresh and comprehensive view of Plato’s philosophical work – but this conception and this systematic interpretation of this work is, in many respects, still bound to the same restriction that were prevalent in the philosophy of the Middle Ages. The title of the principal work of Ficinus is characteristic in this respect. This work in which he endeavours to give a full account of the doctrine of Plato is called “Theologia Platonica”. It begins with a statement of Plato’s logical views and with a general explanation of his theory of knowledge:

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della scienza moderna – nell’opera di Kepler e Galileo. E grazie a questo nuovo orientamento di pensiero, venne introdotta una cornice di riferimento del tutto rinnovata, rivelatasi essenziale e feconda per la scoperta della forma originaria e genuina della dottrina platonica. È anche vero che questa scoperta non la si poté compiere di colpo. Ci volle molto tempo prima che la filosofia moderna, in merito a questo importante e sistematico problema, potesse trovare la sua strada e diventare consapevole del suo nuovo compito. La parte filologica e critica del problema, le questioni che potevano essere poste e che potevano trovare risposta attraverso la pura erudizione, attraverso la nuova cultura introdotta dal Rinascimento, trovarono una loro soluzione nell’opera di Marsilio Ficino, il fondatore e direttore dell’Accademia platonica di Firenze]. Grazie al suo infaticabile zelo, dopo un continuo e paziente lavoro protrattosi per oltre mezzo secolo, Marsilio Ficino riuscì a restaurare la filosofia di Platone come un tutto sistematico. Grazie alla sua traduzione latina di tutti i dialoghi platonici, Ficino pose i primi e solidi fondamenti per un nuovo studio delle fonti stesse. Ma l’originalità filosofica di Ficino era lungi dall’eguagliare il compito universale che lui stesso si era prefissato. Riuscì a fornire una nuova ed esaustiva concezione dell’opera filosofica di Platone, ma questa concezione e interpretazione sistematica dell’opera platonica restava ancora legata, sotto molti aspetti, alle stesse restrizioni che si erano diffuse nel Medioevo. Il titolo dell’opera principale di Ficino è caratteristico sotto questo aspetto. Quest’opera, in cui è presente un quadro esaustivo della dottrina di Platone, si intitola Teologia platonica. Essa inizia con una illustrazione delle concezioni logiche di Platone e con una spiegazione generale della sua teoria della conoscenza: ma tutto ciò viene considera-

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but all this is considered by Ficinus to be only a first and preliminary step. The logical theory is a mere preamble that cannot lead us to the true sanctuary of Platonic thought. This sanctuary is to be sought in that part of the doctrine of Plato which is much more than a mere philosophy – the prophecy of the truth of Christianity in the mind of a heathen philosopher. The doctrine of Plato does not only belong to the development of human, of philosophical thought – it belongs to that uninterrupted chain of divine revelation which, according to Ficinus, is not confined within the limits of Holy Scripture, of the Old and New Testament, but is to be recognized and acknowledged even in the work of Pythagoras and Orpheus, of Zoroaster or Herms Trismegistos. Plato is called by Ficinus the Attic Moses who has predicted the essential truth of Christian faith[,] the truth about the fundamental relation between the human soul and God. By this conception Ficinus, in spite of his comprehensive view and of his thorough knowledge of the whole of Plato’s literary work, is necessarily led back to the same maxims of interpretation as were introduced by Augustine. The “Theologia Platonica” is endeavouring to give a full account and a careful and detailed examination of Platonic concepts submits, at the same time to the authority of Augustine678 that is considered as unrivaled and uncontested not only in the field of religious, but also in the field of philosophical thought. Everywhere in the work of Ficinus we meet with quotations from the writings of Augustine that are used by him to explain and confirm his own views about the essential harmony between Platonism and Christian faith. But it is quite a different point of view, that is introduced in the later period of the Renaissance – at the end of679 [the] sixteenth and at the beginning of the seventeenth century. By Galileo or Ke-

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to da Ficino soltanto come un primo passo preliminare. La teoria logica è un mero preambolo che non può condurci al vero santuario del pensiero platonico. Questo santuario va ricercato in quella parte della dottrina di Platone che è molto più di una semplice filosofia: la profezia della verità del cristianesimo nella mente di un filosofo pagano. La dottrina di Platone non appartiene soltanto allo sviluppo del pensiero umano, del pensiero filosofico, poiché appartiene anche a quella ininterrotta catena della rivelazione divina che, secondo Ficino, non è confinata entro i limiti delle Sacre Scritture, del Vecchio e del Nuovo Testamento, ma può essere individuata e riconosciuta anche nell’opera di Pitagora e Orfeo, di Zoroastro o Ermete Trismegisto. Platone viene definito da Ficino il Mosè attico185, che ha predetto l’essenziale verità della fede cristiana, la verità sulla relazione fondamentale tra l’anima umana e Dio. Grazie a questa concezione Ficino, nonostante la sua concezione generale e accurata conoscenza dell’intera produzione platonica, viene necessariamente ricondotto a quelle medesime massime di interpretazione introdotte da Agostino. La Teologia platonica, nel tentativo di fornire un quadro esaustivo e un’accurata disamina dei concetti platonici, si sottomette al tempo stesso all’autorità di Agostino, da lui considerato come modello insuperato e incontestato non soltanto nel campo del pensiero religioso, ma anche nel campo del pensiero filosofico. Nell’opera di Ficino incontriamo ovunque citazioni tratte dagli scritti di Agostino, da lui utilizzate per spiegare e confermare le proprie concezioni sull’armonia essenziale tra Platonismo e fede cristiana. Ma è un punto di vista piuttosto differente quello introdotto nel tardo periodo del Rinascimento, alla fine del sedicesimo e all’inizio del diciassettesimo secolo. In Galileo o in Kepler l’enfasi non viene posta

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pler[,] the stress is no longer laid on Platonic Theology or Psychology, on his doctrine about the essence of God or the essence and origin of the human soul. What they strive for is a true and unbiased study of Nature, of its fundamental phenomena and its fundamental laws. It may be said that such an enterprise, from a merely historical point of view, seems to be even more doubtful and more paradoxical than an adaptation of Platonism to Christian dogma. For did not Plato himself exclude the study of Nature and of natural phenomena from the sphere of true, of philosophical knowledge? Did he not, over and over again, insist on the fact that all his study is based on mere probability (εἰκασία) and that it can never reach the real standard of truth, of absolute certainty? It seems therefore that the first logical and methodological claim introduced by the founders of modern Physics, that their concept of a physical truth is in direct opposition to the fundamental views of Platonism. A true and real science of nature, a science which, in the sense of Kepler’s Astronomy and Galileo’s Dynamics, strives for a knowledge of the corporeal world and of those general laws of motion, by which this world is governed, seems to be forbidden by the Platonic doctrine of ideas, in which all knowledge is restricted to the field of pure being, of eternal and unchangeable forms. But in spite of this obvious difference between the thought of Plato and the thought of Kepler or Galileo, we may say that both of them did not fall into a mere self-delusion in admiring the work of Plato and in considering themselves as his true followers. For in this work there is contained a very important and powerful impulse for that sort of investigation that is at the root of all the first discoveries of modern Science. In order to understand and to explain this fact we must

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più sulla teologia o sulla psicologia di Platone, sulla dottrina platonica dell’essenza di Dio o dell’essenza e origine dell’anima umana. Essi si impegnano in un vero e proprio studio obiettivo della natura, dei suoi fenomeni fondamentali e delle sue leggi fondamentali. Si può dire che una tale impresa, da un punto di vista meramente storico, sembra essere ancora più improbabile e più paradossale dell’adattamento del Platonismo al dogma cristiano. Infatti, non fu Platone stesso a escludere lo studio della natura e dei fenomeni naturali dalla sfera della vera conoscenza, quella filosofica? Non fu lui a insistere, più e più volte, sul fatto che tutto il suo studio poggia soltanto sulla mera probabilità (εἰκασία) e che non può mai raggiungere un reale criterio di verità, di certezza assoluta? Sembra, pertanto, che la prima esigenza logica e metodologica introdotta dai fondatori della fisica moderna, come anche i loro concetti di verità fisica, si trovino in diretta antitesi con le concezioni fondamentali del Platonismo. Una scienza vera e reale della natura, una scienza che, nel senso dell’astronomia di Kepler e della dinamica di Galileo, si sforza di conoscere il mondo fisico e le leggi generali del moto dalle quali questo mondo è governato, sembra negata dalla dottrina platonica delle idee, nella quale l’intera conoscenza viene ristretta al campo del puro essere, delle forme eterne e immutabili. Ma nonostante questa ovvia differenza tra il pensiero di Platone e il pensiero di Kepler o Galileo, dobbiamo affermare che questi ultimi non rimasero affatto vittime di una semplice illusione nell’ammirare l’opera di Platone e nel ritenersi suoi seguaci. Difatti, nell’opera di Platone è contenuto un impulso davvero importante e potente per quel tipo di ricerca che è alla radice di tutte le prime scoperte della scienza moderna. Per comprendere e spiegare questo fatto, dobbiamo ritornare agli ultimi dialoghi

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go back to Plato’s later dialogues, especially to his dialogue Philebus. In the beginning of this dialogue[,] we find a passage that in a certain sense may be understood and interpreted as a foretelling of that essential task of modern Science. [«]A gift of heaven – says Socrates here (Philebus 16A, I give the passage in the English translation of Jowett) – a gift of heaven which, as I conceive, the gods tossed among men by hands of a new Prometheus, and therewith a blaze of light; and the ancients, who were our betters and nearer the gods than we, handed down the tradition, that all things of which we say ‘they are’ draw their existence from the one and the many and have the finite and infinite implanted in them (πέρας δὲ καὶ ἀπειρίαν ἐν αὑτοῖς σύμφυτον ἐχόντων). Seeing, then, that such is the order of the world, we too ought in every enquiry to begin by laying down one idea of that which is the subject of enquiry; this unity we shall find in every thing, and having found [it], we may next proceed to look for two, if there be two, or not, then for three or some other number, subdividing each of these units, until at last the unity as one and many and infinite, but also as a definite number…This as I was saying, is the way of considering and learning and teaching one another which the gods have handed down to us. But the wise men of our time are either too680 quick or too slow in conceiving plurality in unity. Having no method, they make their one and many anyhow, and from unity pass at once to infinity without thinking of the intermediate steps. And this, I repeat, is what makes the difference between the mere art of disputation and true dialectic».

In this passage of the Philebus we find a new and very remarkable division of the whole sphere of human knowledge. On the one hand Plato insists, now as ever, on the fact that a perfect knowledge cannot be gained of any objects which do

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platonici, specialmente al Filebo. All’inizio di questo dialogo troviamo un passaggio che, in un certo senso, si può intendere e interpretare come un’anticipazione del compito essenziale della scienza moderna. Un dono del cielo – dice qui Socrate (Filebo 16A) – un dono del cielo che, quale io lo concepisco, gli dèi gettarono tra gli uomini per mano di un nuovo Prometeo, insieme a una vampata di luce; e gli antichi, che erano migliori di noi e più vicini agli dèi, trasmisero la tradizione che tutte le cose di cui noi diciamo “esse sono” traggono la loro esistenza dall’uno e dai molti e hanno in sé impiantato il finito e l’infinito (πέρας δὲ καὶ ἀπειρίαν ἐν αὑτοῖς σύμφυτον ἐχόντων). Vedendo, dunque, che tale è l’ordine del mondo, anche noi dovremmo, in ogni indagine, iniziare stabilendo un’unica idea riguardo all’oggetto di indagine; quest’unità la troveremo in esso dappertutto, e avendola trovata potremo poi procedere a cercarne due, se ce ne sono due, altrimenti allora tre o qualche altro numero, suddividendo ciascuna di queste unità, finché alla fine non giungiamo all’unità in quanto una e molteplice e infinita, ma anche in quanto numero definito [...]. Questo, come dicevo, è il modo di considerare e imparare e insegnare gli uni agli altri che gli dèi ci hanno trasmesso. Ma gli uomini saggi del nostro tempo sono o troppo veloci o troppo lenti nel concepire la pluralità nell’unità. Non avendo alcun metodo, essi unificano e moltiplicano come capita, e dall’unità passano in una volta all’infinito senza pensare ai passaggi intermedi. E questo, ripeto, è ciò che fa la differenza tra la mera arte della disputa e la vera dialettica186.

In questo brano del Filebo troviamo una nuova e davvero notevole divisione dell’intera sfera della conoscenza umana. Da un lato Platone, ora come sempre, insiste sul fatto che non si può acquisire una conoscen-

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not possess in themselves an absolute and complete unity. Knowledge is reserved to those things which are described in the language of Plato as possessing always the same simple self-existent and unchanging form, not admitting of variation at all, or in any way, or at any time (μονοειδὲς ὂν αὐτὸ καθ᾽αὑτό, Phaid. 78D). But outside and beneath this domain of the μονοειδές there is admitted a knowledge that, however inferior to the former, is not deprived of a certain relative worth. Human thought must not only strive for a knowledge of what has a unique essence, an essence not to be divided into single parts, an essence beyond the realm of space, of time and number; but it must probe into the origin and meaning of those things, that submit to the laws of time or number. It is not only the oneness and sameness of the pure ideas, it is also the multiplicity of things, that is capable of a logical explanation and that requires such an explanation. It is true that an object of such a character as to contain nothing more and nothing else than a mere multiplicity could not be known and understood in any way. For681 an object682 of this kind would be unmanageable for human thought. When subjected to a logical analysis it would, so to speak, evaporate and dwindle into nothing. We cannot know a thing without determining its nature and essence; and this determination always involve a sort of definition, of limitation. Such a limitation is therefore contained and presupposed in the very act of thinking itself. To think means to delimit – to include a multiplicity into certain boundaries. And it is not only the ideal, but also the physical world, it is not only the realm of pure forms but also the realm of matter and motion that admits of such a limitation. The physical universe, the universe of matter and motion, partakes in the

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za di oggetti che non presentano in sé un’assoluta e completa unità. La conoscenza è riservata a quelle cose che, nel linguaggio di Platone, vengono descritte come caratterizzate dalla medesima forma auto-sussistente e immutabile, che non ammette alcun tipo di mutamento (μονοειδὲς ὂν αὐτὸ καθ᾽αὑτό, Fedone 78D). Ma oltre a questo dominio del μονοειδές viene ammessa una conoscenza che, sebbene inferiore alla prima, non viene privata di un certo valore relativo. Il pensiero umano non mira soltanto a una conoscenza di ciò che ha un’unica essenza, un’essenza che non può essere divisa in singole parti, un’essenza oltre il mondo dello spazio, del tempo e del numero; essa deve saggiare ed esplorare l’origine e il significato di quelle cose soggette alle leggi del tempo e del numero. Non è soltanto l’unità e l’identità delle idee pure, ma anche la molteplicità delle cose a essere suscettibile di una spiegazione logica e a esigere una simile spiegazione. È vero che un oggetto di questo tipo, che non contiene nulla di più e nient’altro che la molteplicità, non può essere conosciuto e compreso in alcun modo. Infatti, un oggetto di questo tipo sarebbe incontrollabile per il pensiero umano. Se lo sottoponessimo a un’analisi logica, esso, per così dire, evaporerebbe e si ridurrebbe a mero nulla. Non possiamo conoscere una cosa senza determinarne la natura e l’essenza; e questa determinazione implica sempre una sorta di definizione, di limitazione. Una limitazione simile è quindi contenuta e presupposta nel vero e proprio atto del pensare stesso. Pensare significa limitare, includere una molteplicità entro certi limiti. Una limitazione simile non è ammessa soltanto dal mondo idea­le, ma anche dal mondo fisico; non soltanto dal regno delle forme pure, ma anche dal regno della materia e del movimento. L’universo fisico, l’universo della materia e del movimento partecipa della

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nature of number, and Number is by no means mere multiplicity – it is multiplicity referred to and reduced to unity. If we succeed in such a reduction, if we discover in the phenomenal world, in the world of matter and motion, certain general empirical rules that may be described in terms of number and may be expressed by numerical relations – we have made a first and decisive step to a knowledge of nature. In this case nature means no longer a boundless multiplicity of facts, a mere ἄπειρον; it has come to a limit, to πέρας, and, according to this limit we are able to comprehend it, to include it into the definite forms of mathematical thought. It is the category of quantity, of the ποσόη as it is called by Plato683 by which such a delimitation and determination of the physical universe becomes possible. But the importance and fertility of this general maxim could not be recognized so long as it did not prove its power and validity by its application to concrete problems. It was by such an application, it was by transferring the Platonic distinction from the field of dialectical thought to the field of natural science, that the founders of modern Physics were able to maintain and, at the same time, to enlarge the view of Plato. In the early works of Kepler, especially in his “Mysterium Cosmographicum”, published in the year 1596, we can pursue, step by step, his characteristic process of thought. In this work, Kepler has not yet reached the new method and the new ideal of science that is contained in his later works, in his “Astronomia nova[”] of the year 1609, and in his “Harmonia Mundi” of the year 1619. When compared with these works the “Mysterium Cosmographicum” is nothing but a first and

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natura del numero e il numero non è affatto una semplice molteplicità; è piuttosto la molteplicità riferita e ridotta a unità. Riuscire in una simile riduzione e scoprire – nel mondo fenomenico, nel mondo della materia e del movimento – le regole empiriche generali descrivibili in termini di numero ed esprimibili da relazioni numeriche, significa compiere il primo e decisivo passo verso una conoscenza della natura. In tal caso, “natura” non significa più illimitata molteplicità di fatti, un mero ἄπειρον; essa è giunta a un limite, a un πέρας, ed è proprio grazie a questo limite che noi siamo in grado di comprenderla, di includere al suo interno le precise forme del pensiero matematico. È grazie alla categoria di quantità, al ποσόν, come lο chiama Platone, che una simile delimitazione e determinazione dell’universo fisico diventa possibile. Ma l’importanza e la fecondità di questa massima generale non potevano ancora essere riconosciute, finché essa continuava a essere concepita in modo puramente astratto e finché non riusciva a dimostrare la sua forza e validità grazie alla sua applicazione a problemi pratici. Fu grazie a una simile applicazione, fu grazie al trasferimento della distinzione platonica dal campo del pensiero dialettico al campo della scienza naturale, che i fondatori della fisica moderna furono in grado di mantenere, e al tempo stesso di estendere, la concezione di Platone. Nelle prime opere di Kepler, soprattutto nel suo Mysterium Cosmographicum, pubblicato nel 1596, possiamo seguire, passo dopo passo, il suo caratteristico processo di pensiero. In quest’opera Kepler non ha ancora raggiunto il nuovo metodo e il nuovo ideale di scienza contenuto nei suoi lavori successivi, come ad esempio nella sua Astronomia nova del 1609 e nella sua Harmonia Mundi del 1619. Se confrontiamo il Mysterium Cosmographicum con queste opere, allora esso ci appare nulla più che un

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very imperfect attempt. For here Kepler does not proceed from special facts made sure by empirical observation; he begins with a general assumption, with a mathematical and philosophical construction of the universe and he tries to adapt the astronomical facts to his constructive view. The general scheme of this construction is borrowed from the Platonic Timaeus. The physical theory of Plato developed in the Timaeus entirely depends on his geometrical theory. According to Plato there would be no physical theory, there would be no knowledge of the constitution and elements of physical things if these things were accessible to us by no other way than the ordinary way of empirical observation. If in our investigation of the physical universe we follow those methods only that were used in early Greek philosophy, if we seek after the origin of things in the domain of those elements which are given [to] us by immediate sense perception, we never can hope to reach a scientific theory of the corporeal world. In this case all our doctrines cannot claim any true knowledge; they remain in the field of mere opinion (δόξα). But there is a different way of attaining a684 more satisfactory explanation of the constitution of physical bodies and of their true elements. All the attempts of the former schools of natural philosophy, the attempts of the Ionian schools as well as those of Empedocles or Anaxagoras, have necessarily failed: for they were searching for a permanent essence in a sphere of objects that by their very nature are precluded from this essence, from any firm and determinate being. What we call water or air, fire or earth is no absolute and definite object that admits an absolute and definite knowledge. These objects of common experience may be perceived, but they never can be understood in a clear and

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primo e assai imperfetto tentativo. In effetti, in quest’opera Kepler non procede da fatti particolari verificati tramite l’osservazione empirica; inizia con un’assunzione generale, con una costruzione matematica e filosofica dell’universo, e cerca di adattare i fatti astronomici alla sua concezione costruttiva. Lo schema generale di questa costruzione è preso in prestito dal Timeo di Platone. La teoria fisica sviluppata da Platone nel Timeo dipende interamente dalla sua teoria geometrica. Secondo Platone, non vi sarebbe alcuna teoria fisica, alcuna conoscenza della costituzione e degli elementi degli oggetti fisici, se queste cose ci fossero accessibili solamente attraverso il metodo dell’osservazione empirica. Se nella nostra indagine dell’universo fisico adoperassimo soltanto i metodi utilizzati dai primi filosofi greci, se cercassimo l’origine delle cose nel dominio di quegli elementi che si danno nella immediata percezione sensibile, non potremmo mai sperare di giungere a una teoria scientifica del mondo corporeo. In questo caso, tutte le nostre dottrine non possono esigere alcuna vera conoscenza; esse permangono nel campo della mera opinione (δόξα). Ma esiste un diverso modo per acquisire una spiegazione più soddisfacente della costituzione dei corpi fisici e dei loro veri elementi. Tutti i tentativi delle prime scuole di filosofia naturale, i tentativi della scuola ionica come anche quelli di Empedocle o di Anassagora, fallirono necessariamente, in quanto cercavano un’essenza permanente nella sfera di oggetti ai quali, per loro natura, era preclusa questa essenza, questo essere immobile e determinato. Ciò che chiamiamo acqua o aria, fuoco o terra, non sono oggetti definiti e determinati che ammettono una conoscenza assoluta e definita. Questi oggetti dell’esperienza comune possono essere percepiti, ma non potranno mai essere compresi in maniera chiara e distinta. Essi

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distinct way; they belong to the sphere of mere opinion (δόξα) not to the sphere of true knowledge (ἐπιστήμη). «It there any self-existent fire? – (asks Plato in the Timaeus 51B) ἆρα ἔστιν τι πῦρ αὐτὸ ἐφ᾽ ἑαυτοῦ – and are all those things we speak self-existent685? Or are only those things which we see, or in some way perceive through the bodily organs, truly existent, and no other besides them? And is all that which we call intelligible essence nothing at all, and only a word?...Concerning this question, thus I state my view. If intellectual knowledge and true opinion (νοῦς καὶ δόξα ἀληθής) are two distinct classes, then I say that there certainly are these self-existent ideas unperceived by sense (παντάπασιν εἶναι καθ᾽ αὑτὰ ταῦτα, ἀναίσθητα ὑφ᾽ ἡμῶν εἴδη, νοούμενα μόνον). If, however, as some say true opinion differs in no respect from intellectual knowledge (νοῦ), then everything that we perceive through the body is to be considered as most real and certain. But we must affirm them to be distinct, for they have a distinct origin and are of a different nature – and the one is implanted in us by instruction, and the other by persuasion (τὸ μὲν γὰρ αὐτῶν διὰ διδαχῆς, τὸ δ᾽ ὑπὸ πειθοῦς ἡμῖν ἐγγίγνεται)».

Following this general dialectic distinction between the different types of knowledge, between ἐπιστήμη and δόξα, Plato points out that a theory of the physical universe cannot be built up out of these raw materials686 alone that is given [to] us by sense-perception687. Such a theory must be based on geometrical distinctions that by themselves are capable of an exact definition and a demonstration. In order to fulfill this methodological demand Plato replaces, in his physical theory, the objects of common experience by objects of a different type. The elementary differences between physi-

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appartengono alla sfera della mera opinione (δόξα), non alla sfera della vera conoscenza (ἐπιστήμη). C’è un fuoco che esiste di per sé? (ἆρα ἔστιν τι πῦρ αὐτὸ ἐφ᾽ ἑαυτοῦ) – (chiede Platone nel Timeo 51B) – e tutte quelle cose di cui parliamo sono esistenti di per sé? O sono soltanto quelle cose che vediamo, o che in qualche modo percepiamo attraverso gli organi del corpo, a essere veramente esistenti, e non altre oltre a esse? E tutto ciò che noi chiamiamo essenza intelligibile non è alcunché, ed è soltanto una parola?... Riguardo questa questione espongo pertanto la mia visione. Se la conoscenza intellettuale e la vera opinione (νοῦς καὶ δόξα ἀληθής) sono due generi distinti, allora io dico che vi sono certamente queste idee esistenti di per sé non percepibili attraverso i sensi (παντάπασιν εἶναι καθ᾽ αὑτὰ ταῦτα, ἀναίσθητα ὑφ᾽ ἡμῶν εἴδη, νοούμενα μόνον). Se, invece, come alcuni dicono, la vera opinione non differisce in alcun modo dalla conoscenza intellettuale (νοῦ), allora tutto ciò che noi percepiamo attraverso il corpo è da considerarsi più reale e più certo. Ma dobbiamo affermare che sono distinte, perché hanno un’origine distinta e sono di natura differente – e l’una è impiantata in noi attraverso l’istruzione, e l’altra attraverso la persuasione (τὸ μὲν γὰρ αὐτῶν διὰ διδαχῆς, τὸ δ᾽ ὑπὸ πειθοῦς ἡμῖν ἐγγίγνεται)187.

In base a questa distinzione dialettica generale tra i differenti tipi di conoscenza, tra ἐπιστήμη e δόξα, Platone rileva che una teoria dell’universo fisico non la si può costruire sulla base del solo materiale grezzo che si dà nella percezione sensibile. Una teoria simile, piuttosto, andrebbe fondata su distinzioni geometriche suscettibili, di per se stesse, di una esatta definizione e dimostrazione. Per soddisfare questa esigenza metodologica Platone, nella sua teoria fisica, rimpiazza gli oggetti dell’esperienza comune con oggetti di tipo diverso. Le differenze

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cal things are reduced to spatial differences, to differences of shape and configuration. Plato’s physical theory however dealing with the objects of the sensible world strives to maintain in this field the general rules and precepts that he had established for the treatment of the problems of the intellectual world. Even his Physics tries688, so far as possible, to imitate his Dialectic. Dialectic is defined by Plato as the general art of division and subdivision. The principal task of the dialectic philosopher consists in reaching a perfect knowledge of the structure and organization of the intellectual world. He must not only have a firm knowledge of this world taken as a whole; he must be able to consider and explain its articulation, its special differences; he must [–] as Plato says [–] possess the art of τέμνειν κατ᾽ εἴδη, of διαιρεῖσθαι κατὰ γένη. But such a division and dissection is possible and is required even in the case of the investigation of nature. Here we are no longer concerned with mere concepts, with those pure forms the dialectician deals with; we try to analyze the objects of sense-experience and to reduce them to their physical constituents. But it is the power of reason, not of mere imagination that must lead us in this research after the first elements of the sensible things. The basis and root of these things must be described and explained in intelligible terms, not in terms of mere sense-perception. It follows from this that the data of the different senses, have to undergo an important change before we can use them as elements of a physical theory. To determine and to distinguish, in a scientific way, the forms of things, we must go back to the distinctions made and demonstrated by geometrical thought. According to this maxim Plato does no longer

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elementari tra le cose fisiche vengono ridotte a differenze spaziali, a differenze di forma e configurazione. La teoria fisica di Platone, sebbene abbia a che fare con gli oggetti del mondo sensibile, si sforza comunque di mantenere in questo ambito delle regole generali e precetti da lui stabiliti nella trattazione dei problemi del mondo intellettuale. Anche la sua fisica cerca, per quanto possibile, di imitare la sua dialettica. La dialettica è definita da Platone come l’arte generale della divisione e della suddivisione. Il compito principale del filosofo dialettico consiste nel raggiungimento di una perfetta conoscenza della struttura e dell’organizzazione del mondo intellettuale. Si deve infatti possedere non soltanto una conoscenza salda di questo mondo nel suo complesso, ma si dev’essere anche in grado di considerare e spiegare la sua articolazione, le sue differenze speciali; si deve possedere, come afferma Platone, l’arte del τέμνειν κατ᾽ εἴδη, l’arte del διαιρεῖσθαι κατὰ γένη. Ma una simile divisione e dissezione è possibile e va pretesa anche nel caso dell’indagine della natura. Qui non si tratta soltanto di meri concetti, di quelle forme pure di cui si occupa il dialettico; qui si cerca di analizzare gli oggetti dell’esperienza sensibile e di ridurli ai loro costituenti fisici. Ma è la facoltà della ragione, non della mera immaginazione, che ci guida in questa ricerca degli elementi primi delle cose sensibili. La base e la radice di queste cose vanno descritte e spiegate in termini intelligibili, non in termini di mera percezione sensibile. Ne consegue che i dati dei diversi sensi devono subire un cambiamento, ancor prima che li si possa utilizzare come elementi di una teoria fisica. Per determinare e distinguere, in modo scientifico, le forme delle cose, dobbiamo ritornare alla distinzione operata e dimostrata dal pensiero geometrico. Secondo questa massima, Platone non considera più la differenza tra cose fisiche, tra fuoco

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regard the difference between physical things, between fire and water, earth, or air, as the true and ultimate origin of the constitution of the visible world. This constitution depends on more profound reasons; it rests, not on the qualities of sensible things, but on the differences of geometrical configurations. Plato’s system of Physics is an atomistic system: but the atoms to which all physical phenomena are reduced by him are not atoms of matter, but atoms of geometrical space and geometrical figures689. Geometry has proved that there are five different types of perfectly regular solid figures: the tetrahedron, the hexahedron, the octahedron, the dodecahedron and the icosahedron[,] the solids contained by four, by six, by eight, by twelve and by twenty regular plane faces. This fundamental distinction is not only valid in the field of pure Geometry; it extends its power over the whole field of Physics. What we call different matters may and must be described as different geometrical shapes. As Plato points out to the element, called earth, there corresponds the cube, to the element “fire” there corresponds the tetrahedron, to the air the octahedron, to the water the icosahedron and so on. We need not to go, for the present moment, into the detail of this Platonic theory that had to be given up by the founders of modern Physics. But in his first writings, especially in his “Mysterium Cosmographicum”, Kepler not only maintains the general view of Plato[,] but he tries to confirm and prove this view by astronomical considerations. As he emphasizes there must be a definite reason of that special arrangement of bodies we meet with in our corporeal universe. It is not by chance that the sun, the planets, the fix stars have been arranged in this particular way. The astronomical cosmos is governed by universal laws; by laws which determine not only the motions of the celestial bodies

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e acqua, terra o aria, come l’origine vera e ultima della costituzione del mondo visibile. Questa costituzione dipende da ragioni molto più profonde; non attiene alle qualità delle cose sensibili, ma alle differenze delle configurazioni geometriche. Il sistema fisico di Platone è un sistema atomistico: ma gli atomi ai quali vengono ridotti tutti i fenomeni fisici non sono gli atomi della materia, ma gli atomi dello spazio geometrico e delle figure geo­ metriche. La geometria ha dimostrato che vi sono cinque tipi diversi di figure solide perfettamente regolari: il tetraedro, il cubo, l’ottaedro, il dodecaedro e l’icosaedro – i solidi caratterizzati, rispettivamente, da quattro, sei, otto, dodici e venti facce regolari. Questa distinzione fondamentale non è valida soltanto nel campo della geometria pura, ma anche in quello della fisica. Quelle che noi chiamiamo “materie diverse” possono essere descritte come forme geometriche diverse. Come rileva Platone, all’elemento chiamato “terra” corrisponde il cubo, all’elemento “fuoco” corrisponde il tetraedro, all’“aria” l’ottaedro, all’“acqua” l’icosaedro e così via. Per il momento non abbiamo bisogno di addentrarci nei dettagli di questa teoria platonica, in seguito abbandonata dai fondatori della fisica moderna. Ma nei suoi primi scritti Kepler, soprattutto nel Mysterium Cosmographicum, non soltanto mantiene questa concezione platonica generale, ma cerca anche di dimostrarla e confermarla attraverso considerazioni astronomiche. Difatti, egli afferma che deve esserci una precisa ragione per questa speciale disposizione dei corpi che incontriamo nel nostro universo corporeo. Di certo non è dovuto al caso se il sole, i pianeti, le stelle fisse siano stati disposti in questo modo. Il cosmo astronomico è governato da leggi universali, da leggi che determinano non soltanto i movimenti dei corpi celesti ma anche la loro relativa posizione. Possiamo

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but also their relative position. Can we make any rational assumption concerning this relative position – concerning the distance between the different planets, between the single planets and the sun, between the sun and the other fix stars and so on? Kepler attempts to explain the reason of these distances by the same view by which Plato had explained the properties of the material elements. He tries to prove that the same fundamental relation – the relation between the five regular solid figures – may be regarded as a general model according to which the whole structure of the universe is formed. The archetype of the visible world is to be sought in the intellectual world; that means that the reason for the order and arrangement of the celestial bodies can be found nowhere but in pure geometrical relations and proportions. The tetrahedron, the hexahedron, the octahedron, the dodecahedron, the icosahedron are, therefore, to be considered as the true and real patterns of our cosmical architecture: and it is only by going back to the ideal properties, contained in the definition of these figures, that we are able to give a rational account of the empirical properties, of the distance between the various bodies of the cosmical system. But in his later works Kepler does no longer persist in this view. He has convinced himself that the method of a mere a priori construction of the universe has no place in our empirical and scientific investigation of nature. We have to choose a different way: the way of a patient observation of the phenomena and it is only by pursuing it that we can hope to bring Physics and Astronomy to their perfection. It was by such a careful and meticulous observation that Kepler succeeded in discovering the three fundamental laws concerning the orbits of the planets and their periods of revolution. But in reflecting on the character of these empirical laws Kepler was, once more, led to universal philosophical

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noi operare delle assunzioni razionali concernenti questa relativa posizione – concernenti la distanza tra i diversi pianeti, tra i singoli pianeti e il sole, tra il sole e le stelle fisse e così via? Kepler cercò di spiegare la ragione di queste distanze adottando il medesimo punto di vista con cui Platone aveva spiegato le proprietà degli elementi materiali. Egli cerca di dimostrare che la stessa relazione fondamentale – la relazione tra le cinque figure solide regolari – la si può intendere come un modello generale secondo cui si è formata l’intera struttura dell’universo. L’archetipo del mondo visibile va ricercato nel mondo intellettuale, e ciò significa che la ragione dell’ordine e della disposizione dei corpi celesti può essere rinvenuta unicamente nelle relazioni e proporzioni geometriche. Il tetraedro, il cubo, l’ottaedro, il dodecaedro e l’icosaedro, pertanto, vanno considerati come i veri e reali modelli della nostra architettura cosmica: ed è solo tornando alle proprietà ideali contenute nella definizione di queste figure, che siamo in grado di fornire un resoconto razionale delle proprietà empiriche, delle distanze tra i vari corpi del sistema cosmico. Ma nelle sue opere tarde Kepler non accetta più questa concezione. Egli era convinto che un metodo basato su di una mera costruzione a priori dell’universo non potesse avere posto nella nostra ricerca empirica e scientifica della natura. Dobbiamo scegliere una via diversa: la via della paziente osservazione dei fenomeni, ed è solo grazie a essa che possiamo far sì che la fisica e l’astronomia giungano alla loro perfezione. Fu proprio grazie a tale accurata e meticolosa osservazione che Kepler riuscì a scoprire le tre leggi fondamentali delle orbite dei pianeti e dei loro periodi di rivoluzione. Ma nel riflettere sul carattere di queste leggi empiriche Kepler, ancora una volta, giunse a speculazioni filosofiche universali. Kepler

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speculations. Kepler does not deny and does not doubt the fact that the true laws of nature, the laws of Physics and Astronomy cannot be discovered but in a mere empirical way. But in regarding the form of those laws he is led to a new problem. The orbit of the earth and of the other planets is described as an ellipse, the relation existing between the period of revolution of the various planets and their distance from the sun is expressed by a formula according to which the cubes of the mean distances of the planets from the sun are proportional to the squares of their annual periods. The empirical facts ascertained by mere observation are therefore such a sort as to admit and require an exact mathematical description – a description that is based on the concepts and definitions of pure Geometry and pure Arithmetic690. But how may we explain – asks Kepler – the universal fact that such a correlation and such a perfect harmony between the two realms of truth is possible? It is not to be denied that Physics as well as Astronomy are inductive sciences – and that means that they always have to begin with the statement and with the unbiased examination of facts. But if this examination, if the analysis of facts themselves results in such concepts as are defined and presupposed by pure Mathematics – this intimate connection between the two fields of knowledge becomes in itself a striking and important problem. We cannot solve this problem without going back to the first origin of human knowledge and in a certain sense, to the first origin of the universe itself. We must find out, so to speak, the point of intersection in which the two lines of empirical and mathematical thought meet each other. This common point is found by Kepler in the concept and category of quantity. It is this concept by which the unity of the human mind and the divine intellect and, in consequence of this, the unity of the human mind and the universal cosmi-

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non dubita e non nega che le vere leggi di natura, le leggi della fisica e dell’astronomia, possano essere scoperte soltanto in modo meramente empirico. Ma riguardo alla forma di quelle leggi è giunto a un nuovo problema. L’orbita della terra e degli altri pianeti viene descritta come un’ellisse, la relazione esistente tra il periodo di rivoluzione dei vari pianeti e la loro distanza dal sole viene espressa da una formula secondo la quale i cubi delle distanze medie dei pianeti dal sole sono proporzionali ai quadrati dei loro periodi annuali. I fatti empirici, accertati tramite la mera osservazione, sono pertanto di un tipo tale da ammettere e richiedere una esatta descrizione matematica, una descrizione basata su concetti e definizioni della geometria pura e dell’aritmetica pura. Ma, si chiede Kepler, come possiamo spiegare il fatto universale di una simile correlazione e come è possibile una tale armonia tra i due regni della verità? Non bisogna negare che sia la fisica sia l’astronomia sono scienze induttive; ciò significa che devono sempre iniziare con l’enunciazione e con l’esame imparziale dei fatti. Ma se tale esame, se l’analisi dei fatti stessi risulta da tali concetti definiti e presupposti dalla matematica pura – questa intima connessione tra i due campi della conoscenza diventa in se stessa un problema rilevante e importante. Non possiamo risolvere questo problema senza tornare alla prima origine della conoscenza umana e, in un certo senso, alla prima origine dell’universo stesso. Dobbiamo individuare, per così dire, il punto d’intersezione nel quale si incontrano le due linee del pensiero: il pensiero empirico e quello matematico. Questo punto in comune viene da Kepler individuato nel concetto e nella categoria di quantità. Grazie a questo concetto è possibile spiegare l’unità della mente umana e dell’intelletto divino e, di conseguenza, l’unità della mente umana e l’ordine

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cal order is to be explained. [«]Creator Deus mathematica ut archetypos secum ab aeterno habuit in abstractione simplicissima et divina ab ipsis etiam quantitatibus materialiter consideratis (I, 136, cfr. Ep. I, 334) – God the Creator from eternity possessed in himself the mathematical ideas as the archetypes of things – intuiting them in their absolute simplicity apart and independently from all considerations of material objects[»]. This first and independent intuition of mathematical relations, of relations of numbers and figure, has been imparted and communicated to the human mind – and it is this impartment according to which we may say in a true sense that the human mind was created as an image of God. But on the other hand[,] the same image is to be found in the visible world – if we consider it not in its mere multiplicity but in its real unity. This unity is based on those harmonies and concordances that we find spread over the whole of the physical universe. This harmony appears not only in the world of music in the melodious consonance of different sounds, it appears, in the same sense, in the order of celestial bodies and their motions, in the structure of the organisms and, in the inorganic691 world, in the internal structure of the crystals. The visible and the intellectual world, the world of nature and the world of pure Mathematics are connected with each other in these fundamental harmonic relations. It is by this conception, developed and explained in his “Harmonia mundi”, that Kepler thinks to have found the only possible solution of the problem of knowledge. And in this solution[,] he professes himself a true disciple of Plato. In his opinion it was Plato, not Aristotle, who understood the true character and the fundamental importance of mathematical knowledge. It was Plato who by his theory of reminiscence (ἀνάμνησις) first explained

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cosmico universale. «Creator Deus mathematica ut archetypos secum ab aeterno habuit in abstractione simplicissima et divina ab ipsis etiam quantitatibus materialiter consideratis» (Il Dio Creatore possedeva in sé dall’eternità le idee matematiche quali archetipi delle cose – intuendole nella loro assoluta semplicità separatamente e indipendentemente da ogni considerazione degli oggetti materiali) (I, 136, cfr. Ep. I, 334)188. La prima e indipendente intuizione delle relazioni matematiche, delle relazioni di numero e figura, è stata rivelata e comunicata alla mente umana – ed è proprio grazie a tale rivelazione che, in un senso vero, possiamo affermare che la mente umana è stata creata a immagine di Dio. Ma, dall’altro lato, la stessa immagine va rinvenuta nel mondo visibile – se la consideriamo non nella sua mera molteplicità, ma nella sua unità reale. Tale unità poggia su quelle armonie e concordanze che troviamo sparse in tutto l’universo fisico. Questa armonia appare non soltanto nel mondo della musica, nelle consonanze melodiche dei vari suoni, ma appare anche, nello stesso senso, nell’ordine dei corpi celesti e dei loro movimenti, nella struttura degli organismi e, nel mondo inorganico, nella struttura interna dei cristalli. Il mondo visibile e quello intellettuale, il mondo della natura e quello della matematica pura, sono connessi l’uno con l’altro in queste relazioni armoniche fondamentali. È grazie a tale concezione – sviluppata e spiegata nella sua Harmonia mundi – che Kepler pensa di aver trovato la sola soluzione possibile al problema della conoscenza; e in questa soluzione egli stesso si professa un vero discepolo di Platone. A suo avviso, è stato Platone – non Aristotele – a comprendere il vero carattere e l’importanza fondamentale della conoscenza matematica. È stato Platone, grazie alla sua teoria della reminiscenza (ἀνάμνησις), a spiegare per primo la pos-

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the possibility of pure a priori concepts. But according to Kepler the doctrine of reminiscence is to be understood and interpreted in a logical, not in a mystical sense. We need not [to] say that our knowledge is a recovery of things known to the human soul in a previous existence. For by such an explanation we should lose the firm ground of a scientific theory. What can be affirmed and what can be proved in a scientific way is the fact of the intimate connexion and of the correlation between Physics and Mathematics. We may express this fact by saying that the human mind is capable of reading and understanding the book of Nature without going beyond its own limits, without leaving the field of its own innate ideas. Of these ideas the concept and category of quantity is the most important one: it is that idea which[,] in a certain sense[,] embraces all the others and is the foundation of all the others. The idea of quantity is not to be derived from mere sense-perception; it is not given [to] us by the data of outward experience[,] but it originates in the nature and activity of the mind itself. When speaking in his optical writings of the structure of the human eye and when developing his theory of vision, Kepler declares that in such a theory we cannot follow the mere way of sensationalism[,] but we have to go back to the principles of Platonic idealism. For, as he says, it is on mathematical reasons, it is on the knowledge of quantities that we have to base our study of Optics and Physiology. The knowledge of quantities that is inborn to our soul discovers and determines the nature and properties of the human eye. Instead of thinking that the fundamental ideas of our mind are nothing but the results of sense-experience we must, on the contrary, say that it is the original nature of the human mind, to which the structure

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sibilità dei concetti puri a priori. Ma secondo Kepler, la dottrina della reminiscenza andava intesa e interpretata in senso logico, non in senso mistico. Non abbiamo bisogno di affermare che la nostra conoscenza è un recupero di cose che l’anima umana ha appreso in una esistenza precedente. Con una simile spiegazione rischieremmo di perdere il solido fondamento di una teoria scientifica. Ciò che possiamo affermare e provare scientificamente, è soltanto il fatto dell’intimo legame e della correlazione tra fisica e matematica. Possiamo esprimere questo fatto dicendo che la mente umana è in grado di leggere e comprendere il libro della natura senza oltrepassarne i limiti, senza abbandonare il campo delle sue idee innate. Di queste idee, il concetto e la categoria di quantità è la più importante: è l’idea che in un certo senso abbraccia tutte le altre e ne costituisce il fondamento. L’idea di quantità non deriva in alcun modo dalla percezione sensibile; non ci viene fornita dai dati dell’esperienza esterna, ma ha origine nella natura e nell’attività della mente stessa. Kepler, quando nei suoi scritti di ottica parla di struttura dell’occhio umano e quando sviluppa la sua teoria della vista, intende affermare che con una tale teoria non possiamo imboccare la via della sensazione, ma dobbiamo invece ritornare ai princìpi dell’idealismo platonico. Difatti, egli dice che dobbiamo basare i nostri studi di ottica e di fisiologia su ragioni matematiche, sulla conoscenza delle quantità. La conoscenza delle quantità, che è innata nella nostra anima, scopre e determina la natura e le proprietà dell’occhio umano. Invece di pensare che le idee fondamentali della nostra mente altro non sono che i risultati della nostra esperienza percettiva, dobbiamo al contrario affermare che la struttura dell’occhio e, attraverso questo, il processo della vista si conformano alla natura originaria della mente umana. L’assumere

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of the eye and by this the process of vision conforms. By assuming this idealistic principle[,] we are by no means deprived of a real objective knowledge of the outward world. For as this outward world has been formed according to the same archetypes as the human mind finds in itself, to the archetypes of number, of figure and quantity, the facts of the outward world, the phenomena of Physics and Astronomy, can never contradict the fundamental principles of our mathematical knowledge. Plato was right therefore to say that Arithmetic692 and Geometry, the abstract sciences of number and figure, are the wings693 of Astronomy by which alone it can soar up to a knowledge of the structure and order of the visible world. The symbolism of Mathematics has, therefore, in the mind of Kepler a double significance and a double value. In this symbolism the two opposite poles of knowledge find their real unity and reconciliation, for it is not from a mere subjective, nor from a mere objective view, it is not by a one-sided idealistic or realistic theory, that we can explain the use, the fertility[,] and the necessity of this symbolism. We learn from it that the cosmical harmony and the harmony of our own mind are based on the same principle; that they supply and confirm one the other. It is a different but, in spite of this difference, a very kindred type of Platonism we meet with in the work of Galileo. At first sight it may be rather surprising that Galileo[,] who in his attempt to found a new empirical science of nature, constantly attacks the system of Aristotle and who criticizes very severely the Peripatetic Physics and Cosmology, does not extend his criticism to the fundamental concepts and doctrines of Plato. For we may be inclined to think that the spirit of Platonism was much more opposed

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questo principio idealistico non ci priva affatto di una reale conoscenza oggettiva del mondo esterno. Poiché questo mondo esterno è stato formato secondo gli stessi archetipi che la mente umana trova in se stessa – gli archetipi di numero, figura, quantità –, ne consegue che i fatti del mondo esterno, i fenomeni della fisica e dell’astronomia, non possono mai contraddire i princìpi fondamentali della nostra conoscenza matematica. Platone, pertanto, aveva ragione nell’affermare che aritmetica e geometria, le scienze astratte di numero e figura, sono le ali dell’astronomia, con le quali quest’ultima può sollevarsi verso la conoscenza della struttura e dell’ordine del mondo visibile. Il simbolismo della matematica, a parere di Kepler, ha pertanto un duplice significato e un duplice valore. In questo simbolismo i due poli opposti della conoscenza trovano una loro reale unità e riconciliazione. Infatti, non si tratta di una mera visione soggettiva né di una mera visione oggettiva, non è attraverso un’unilaterale teoria idealistica o realistica che possiamo spiegare l’utilizzo, la fecondità e la necessità di questo simbolismo. Noi impariamo da esso che l’armonia cosmica e l’armonia della nostra mente poggiano su un medesimo principio, che esse si soddisfano e confermano reciprocamente. È un tipo di platonismo differente ma, nonostante questa differenza, molto affine quello che incontriamo nell’opera di Galileo. A prima vista appare piuttosto sorprendente che Galileo, nel suo tentativo di fondare una nuova scienza empirica della natura, attacchi costantemente il sistema di Aristotele e critichi molto severamente la cosmologia e la fisica peripatetiche, senza estendere tale sua critica ai concetti e alle dottrine fondamentali di Platone. Infatti, verrebbe da pensare che lo spirito del Platonismo fosse ben più ostile al compito

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to the general task of Galileo than the system of Aristotle, which however diverging from his special physical and astronomical views did not deny or degrade the value of an empirical investigation of nature. In order to understand this historical fact[,] we must go back to the universal concept and to the universal definition of science that is the supposition of all the particular problems with which Galileo is concerned. Galileo is, of course, a[n] empirical philosopher and he is perfectly convinced that a physical theory that is not based on observation and experiment cannot claim to any truth or certainty. But on the other hand[,] he is far from admitting that the human mind can become familiar with the nature of things and with the nature of experience itself by doing nothing else than to amass and heap together the single data of sense-perception. What Galilei strives for is a theory694 of nature; not an accumulation of single and disconnected facts. And according to him such a theory, however dependent on observation, always contains a formal, a logical element. It is based on empirical judgements – the truth of which cannot be proved without presupposing certain general axioms that are involved in the very definition of truth and knowledge itself. And it is for giving this definition that Galileo goes back to Plato and that he appeals to his authority. The philosophical principle that governs and pervades the whole science of Galileo is the assertion that knowledge and truth are to be conceived in a simple and unique way. The character of truth remains always the same – independently of the objects with which it is concerned. From this principle there follows the general maxim that is maintained and emphasized by Galileo in his defence of the truth of the Copernican system. To the theological adversaries of this system[,] he always replies that there is no double truth; the one contained in the nature of things, the other

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generale di Galileo, piuttosto che al sistema di Aristotele il quale, sebbene distante dalle sue concezioni cosmologiche e astronomiche, non negava o degradava il valore di una indagine empirica della natura. Per comprendere questo fatto in termini storici, dobbiamo ritornare al concetto universale e alla definizione universale di scienza che costituiva l’ipotesi di tutti i problemi particolari affrontati da Galileo. Galileo è, senza dubbio, un filosofo empirico ed è del tutto convinto che una teoria fisica che non poggi sull’osservazione e sull’esperimento non può rivendicare alcuna verità o certezza. Ma, dall’altro lato, è lungi dal sostenere che la mente umana possa familiarizzare con la natura delle cose e con la natura dell’esperienza stessa, ammassando e accumulando insieme i singoli dati della percezione. Ciò che Galilei cerca è una teoria della natura, non un accumulo di fatti isolati e disconnessi. E secondo lui una simile teoria, sebbene dipendente dall’osservazione, contiene sempre un elemento formale, logico. Essa si basa su giudizi empirici, la verità dei quali non si può dimostrare senza presupporre certi assiomi generali impliciti nella stessa definizione di verità e di conoscenza. Ed è per fornire una tale definizione che Galileo torna indietro a Platone e si appella alla sua autorità. Il principio filosofico che governa e pervade l’intera scienza di Galileo è l’asserzione: la conoscenza e la verità vanno concepite in un modo semplice e unico. Il carattere della verità rimane sempre lo stesso, indipendentemente dagli oggetti che ne sono coinvolti. Da questo principio deriva la massima generale che viene mantenuta e rimarcata da Galileo nella sua difesa della verità del sistema copernicano. Agli avversari teologici di questo sistema egli replica sempre che non esiste una doppia verità, l’una contenuta nella natura delle cose, l’altra rivelata immediatamente

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immediately revealed by God. A truth that is ascertained by careful empirical observation and by infallible mathematical demonstration is therefore not to be shaken by arguments borrowed from Holy Scripture. And in the same sense as Galileo rejects the distinction between a theological and a physical truth, he rejects the opposition of physical truth to mathematical truth. There is no double truth – the one concerning the pure and abstract ideas of number and figure, the other concerning physical bodies and physical motions. There is no chasm separating the world of empirical reality from the world of mathematical ideas. It would be very strange – says Galileo in the second day of his Dialogues – to think that our arithmetical rules, that the rules concerning pure numbers and numerical relations, should lose their force by applying them to special and concrete objects, by summing up coins of gold or silver or in the accounts of our tradesmen. And it would be no less absurd to suppose that the laws of Geometry, the laws concerning the properties of pure Space are no longer valid if we deal with physical bodies, with the properties of matter. According to this view Galileo rejects, in express words, the saying of Aristotle that physical problems can never be treated in the same way as mathematical ones and that the ideal of exactness, maintained in Geometry, cannot be transferred to physical investigations. We have to strive after the same precision and after the same certainty in inquiring into the nature of physical things of matter and motion, than in investigating the nature of numbers or figures. Of course[,] the objects of nature, the empirical objects are of a quite a different type as the objects of pure thought. But the difference of these objects does not imply and does not prove any radical difference of truth. If we understand the term “truth” in its precise and

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da Dio. Una verità accertata tramite un’accurata osservazione empirica e tramite l’infallibile dimostrazione matematica non può quindi essere scossa da argomenti presi in prestito dalla Sacra Bibbia. E nello stesso senso in cui rigetta la distinzione tra verità teologica e verità fisica, Galileo rigetta l’opposizione tra verità fisica e matematica. Non vi è alcuna doppia verità – l’una concernente le idee pure e astratte di numero e figura, l’altra concernente i corpi fisici e i movimenti fisici. Non vi è alcun abisso che separa il mondo della realtà empirica dal mondo delle idee matematiche. Sarebbe molto strano – dice Galileo nella seconda giornata dei suoi Dialoghi – pensare che le nostre regole aritmetiche, che le regole concernenti i numeri puri e le relazioni numeriche, perdessero la loro forza se applicate a oggetti speciali e concreti, sommando monete d’oro o d’argento oppure nei conti dei nostri mercanti189. E sarebbe ugualmente assurdo supporre che le leggi della geometria – le leggi concernenti le proprietà dello spazio puro – non siano più valide nel caso dei corpi fisici, delle proprietà della materia. Sulla base di tale concezione, Galileo rigetta in modo del tutto esplicito le affermazioni di Aristotele secondo cui i problemi fisici non possono essere trattati nello stesso modo di quelli matematici e l’ideale di esattezza sostenuto in geometria non lo si può trasferire alle ricerche fisiche. Nell’indagine sulla natura delle cose fisiche, della materia e del movimento, dobbiamo invece cercare la stessa precisione e certezza che perseguiamo nell’indagine sulla natura dei numeri o delle figure. Ovviamente, gli oggetti della natura, gli oggetti empirici sono alquanto diversi rispetto agli oggetti del pensiero puro. Ma la differenza di questi oggetti non implica e non dimostra alcuna radicale differenza di verità. Se intendiamo il termine “verità” nel suo senso preciso e ade-

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adequate sense, we must say that this term always includes the same demand: the demand of universality and necessity. Physical truth as well as mathematical truth must conform to this demand. Even when dealing with physical, that is to say with changeable and perishable things, truth is not liable to change or decay: it maintains its purity and necessity. For physical truth is not concerned with this or that particular thing; it is concerned with the laws of motion and that means with the reality of nature considered as a whole. As Galileo declares, nature is not to be defined as an aggregate of things, it must be understood as a system, as a concatenation of causes and effects. And between these causes and effects there always exists an invariable695 relation, a necessary connexion. «quella, e non altra si debba propriamente stimar la causa, la quale posta segue sempre l’effetto, e rimossa si rimuove»: “that alone can be said to be the cause of a thing, the existence of which always produces a certain effect and the absence of which always removes the effect”. It is by this conception of causality that Galileo is led back to the Platonic concept of knowledge and truth. He adopts and acknowledges in its full sense the Platonic concept of truth; he repeats in his Dialogues the saying of Plato that true knowledge is attainable only of such objects as are in themselves firm and steadfast depending on unchangeable and eternal causes [che dependono da cause invariabili, une ed eterne, Dial. IV (Alb. I, 497, Erkprobl., I, 389)]. But from this supposition he does not draw the same inference as Plato did. For he is far from admitting that Nature, when considered in its true meaning, is nothing but a fleeting phenomenon. Nature presupposes and includes change; but at the same time[,] it transcends the sphere of change and chance. For it is bound to eternal and invariable696 rules that admit of no exception and no alteration. The physical universe, the universe of matter and motion, may be called a mere phenomenon – but from this

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guato, bisogna affermare che questo termine implica la medesima esigenza: l’esigenza di universalità e necessità. La verità fisica, al pari di quella matematica, deve conformarsi a questa esigenza. Anche quando la verità si occupa di oggetti fisici, ossia mutevoli e deteriorabili, essa non diventa soggetta a mutamento o corruzione: conserva la sua purezza e necessità. La verità fisica non ha a che fare con questa o quella cosa particolare, ha a che fare con le leggi del movimento, e ciò significa con la realtà della natura considerata come un tutto. Come sostiene Galileo, la natura non va definita come un mero aggregato di cose, ma va piuttosto intesa come un sistema, come una concatenazione di cause ed effetti. E tra queste cause ed effetti sussiste sempre una relazione invariabile, una connessione necessaria: «quella, e non altra si debba propriamente stimar la causa, la quale posta segue sempre l’effetto, e rimossa si rimuove»190. Galileo, con questa concezione della causalità, ritorna al concetto platonico di verità e di conoscenza. Egli adotta e riconosce, nel suo senso più profondo, il concetto platonico di verità. Nei suoi Dialoghi ripete il detto di Platone secondo cui la vera conoscenza è possibile solo di quegli oggetti che in se stessi sono stabili e saldi e che «dependono da cause invariabili, une ed eterne»191. Ma da questa ipotesi non trae la stessa inferenza che ne aveva tratto Platone. Galileo è lungi dall’affermare che la natura, se considerata nel suo autentico significato, non è altro che un fenomeno momentaneo. La natura presuppone e include il mutamento ma, al tempo stesso, trascende la sfera del mutamento e del caso. Essa è infatti legata a delle regole eterne e invariabili che non ammettono eccezioni né alterazioni. L’universo fisico, l’universo della materia e del movimento lo si può anche definire “mero fenomeno”, ma da ciò non segue

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it does not follow that the same characteristics is admissible for the science of Physics. This science depending not only on haphazard observations but on mathematical analysis and mathematical demonstration can attain the highest ideal of mathematical truth. It is true that the new science the foundation of which Galileo endeavors to lay, that the science of Dynamics is exclusively concerned with the phenomenon of change. But in explaining this phenomenon by mathematical laws it elevates it to a new rank and dignity. Natural things are changeable; but the science of nature, the propositions, the judgements, and demonstrations concerning these things, possess a firm and constant, a necessary character. By this it becomes understandable that Galileo, however insisting on the right and necessity of a true empirical method, was not inclined and not compelled to deviate from Plato in his general logical and methodological views. He defends the right of this method, of observation and experience, with an indefatigable zeal against the arbitrary suppositions of the Physics of the Schoolmen and he constantly attacks the authority of Aristotle in the field of physical science, of Astronomy and Cosmology. But on the other hand[,] he admits and emphasizes that, even in following the way of experience, the human mind is not condemned to mere passivity. He could not understand experience without analyzing it – and that means without judging it according to certain general concepts and principles. These principles are to be demonstrated not only by the investigation of outward things but, above all, by the examination of our own mind; and it is this examination that alone can give their full evidence and certainty. This evidence is an internal, not a merely external

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che la stessa caratteristica sia ammissibile per la scienza della fisica. Questa scienza, che dipende non soltanto da confuse osservazioni ma anche dall’analisi matematica e dalla dimostrazione matematica, può raggiungere il più alto ideale della verità matematica. È vero che la nuova scienza, cioè la dinamica – i cui fondamenti sono stati opera degli sforzi di Galileo – ha a che fare esclusivamente con il fenomeno del mutamento. Ma la spiegazione di questo fenomeno attraverso le leggi della matematica ha permesso alla dinamica di raggiungere un nuovo grado e una nuova dignità. Le cose naturali sono mutevoli, ma la scienza della natura, le proposizioni, i giudizi e le dimostrazioni concernenti queste cose, posseggono un carattere stabile e costante, necessario. Ciò detto, diventa comprensibile perché Galileo, sebbene insistesse sulla correttezza e necessità di un vero metodo empirico, non sia stato per nulla incline né costretto ad allontanarsi da Platone nelle sue concezioni logiche e metodologiche generali. Galileo, con infaticabile zelo, difende la correttezza di questo metodo – dell’osservazione e dell’esperienza – contro le arbitrarie ipotesi della fisica degli scolastici e attacca costantemente l’autorità di Aristotele nel campo della scienza fisica, dell’astronomia e della cosmologia. Ma, dall’altro lato, ammette e sottolinea che, anche seguendo la via dell’esperienza, la mente umana non è condannata a mera passività. Non si potrebbe comprendere l’esperienza senza analizzarla, ossia senza giudicarla sulla base di determinati concetti e princìpi generali. Questi princìpi vanno dimostrati non soltanto attraverso l’indagine delle cose esterne, ma,soprattutto attraverso l’esame della nostra mente; ed è soltanto questo esame che può conferire loro piena evidenza e certezza. Questa evidenza è di tipo interno, non meramente esterno.

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one. [«]I must tell you – says Galileo in the second day of his Dialogues – (Alb. I, 175, Epbl. I, 443) – that if anyone does not know a certain truth from himself (da per sé) it is impossible for him to communicate this truth to other men. You may learn from something concerning these things that are neither true nor false (that means concerning those accidental circumstances that admit of no exact knowledge, but are only more or less probable) but with respect to the true, the necessary things, to those things that cannot possibly be otherwise, we must judge that every sound mind either knows them by itself or not at all[»]. In this characteristic description of human knowledge as a knowledge by itself (da per sé Galileo says) we find once more the traces of Platonism; the traces of the Platonic doctrine of reminiscence. Galilei does not hesitate to extend the validity of this doctrine not only over the field of dialectic or mathematical thought, but even over the field of physical and empirical thought. For he is convinced, that there can be no real separation between these two forms of thought: that one and the same type of truth is to be sought for and is attainable in both spheres of knowledge. Mathematics is the intermediate link between dialectic and empirical thought. For its truth is based on universal logical principles that are capable of an a priori demonstration, but, on the other hand, we must make use of their axioms and demonstrations in order to find out the true laws of nature and to give a firm and solid ground to experience itself. That is a new type of Platonism – widely different from that type that was introduced in ancient philosophy by the schools of Neo-Platonism, in medieval philosophy by Augustine or by Ficinus in the first centuries of the age of Renaissance but it proves that modern science even making its first attempts to find its own method and

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«Io vi dico – sostiene Galileo nella seconda giornata dei suoi Dialoghi – che se uno non conosce una certa verità da sé (da per sé) è impossibile che comunichi questa verità ad altri uomini. Si possono in qualche modo imparare le cose che non sono né vere né false (vale a dire concernenti quelle circostanze accidentali che non ammettono alcuna conoscenza esatta, ma sono soltanto più o meno probabili), ma riguardo alle cose vere, alle cose necessarie, a quelle cose che non è possibile siano altrimenti, dobbiamo giudicare che ogni mente sana o le conosce da sé o non le conosce affatto»192. In questa caratteristica descrizione della conoscenza umana come conoscenza per sé (da per sé, dice Galileo), noi rinveniamo ancora una volta le tracce del Platonismo; le tracce della dottrina platonica della reminiscenza. Galileo non esita a estendere la validità di questa dottrina non soltanto al campo della dialettica o del pensiero matematico, ma anche al campo del pensiero fisico ed empirico. Egli ritiene infatti che non sussista alcuna reale separazione tra queste due forme di pensiero: lo stesso e identico tipo di verità va ricercato ed è raggiungibile in entrambe le sfere della conoscenza. La matematica è il legame intermedio tra la dialettica e il pensiero empirico, poiché la verità poggia su princìpi logici universali in grado di fornire una dimostrazione a priori, ma, dall’altro lato, dobbiamo utilizzarne gli assiomi e le dimostrazioni al fine di trovare le vere leggi di natura e di dare all’esperienza stessa un fondamento stabile e solido. Questo è un nuovo tipo di Platonismo, ampiamente differente da quello introdotto nella filosofia antica dalle scuole neoplatoniche, nella filosofia medievale da Agostino o nei primi secoli del Rinascimento da Ficino; ma ciò dimostra che la scienza moderna, anche nel corso dei suoi primi tentativi di trovare il proprio

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to emancipate itself from traditional and historical view[s] did not mean to leave once and for all697 the ways of ancient classic philosophy – that, however diverging in its solutions, it remained true, in a certain sense, true to the fundamental problem put in the philosophy of Plato and in his doctrine of ideas.

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metodo e di emanciparsi dalle concezioni tradizionali e storiche, non ha dovuto abbandonare una volta per tutte le vie battute dalla filosofia antica classica – che, sebbene divergente nelle sue soluzioni, è rimasta, in un certo senso, fedele al problema fondamentale posto nella filosofia di Platone e nella sua dottrina delle idee.

[chapter ix] ARISTOTLE698 [§1: Introduction]699 To give you, in a few hours, a general impression of A[ristotle]’s philosophy, its systematic value and its historical influence is nearly impossible. There is no other philosophical system that had such a strong and decisive influence upon the whole development of an intellectual culture than the system of Aristotle. For many centuries this system possessed an unparalleled power. Aristotle was not regarded as a single thinker, as one700 of the great philosophers – he was, so to speak, the incarnation of the philosophic and scientific spirit – the great teacher of humanity. In the 13th century A. D. Dante701 still speaks of him in this sense. Aristotle – he says in his “Convivio”702 – is most worthy of trust and obedience, as being the master-artist who considers of and teaches us the end of human life to which, «as men, we are ordained». And in a passage of his “Inferno”, Dante calls Aristotle «the master of those who know». He describes him as sitting as head of the “philosophic family”. Sokrates and Plato, and all the others look up to him with awe and reverence (Inferno IV 131). This authority of Aristotle was uncontradicted and uncontroverted (sic) from his own time up to the beginning of our modern era. Then we find a sudden reverse and a sort of intellectual revolution. The new Physics, the Physics of Galileo, attacks and destroys he Aristotelian system of Physics and Cosmology. In the field of natural science[,] the

cap. ix

ARISTOTELE 1. Introduzione Fornirvi, in poche ore, un’impressione generale della filosofia di Aristotele, del suo valore sistematico e della sua influenza storica, è praticamente impossibile. Nessun altro sistema filosofico ha esercitato una così forte e determinante influenza sull’intero sviluppo della cultura intellettuale come quello di Aristotele. Per molti secoli questo sistema ha goduto di una forza impareggiabile. Aristotele non era considerato solamente come un pensatore, come uno dei grandi filosofi: egli era, per così dire, l’incarnazione dello spirito filosofico e scientifico, il grande maestro dell’umanità. Nel tredicesimo secolo, Dante ne parla ancora in questi termini. Aristotele, scrive Dante nel Convivio, è degnissimo di fiducia e di obbedienza, in quanto maestro-artista che considera e insegna il fine della vita umana al quale, «in quanto uomini, siamo destinati»193. E in un passaggio dell’Inferno, Dante definisce Aristotele «il maestro di color che sanno»194. Egli lo descrive come seduto in cima alla “filosofica famiglia”. Socrate, Platone e tutti gli altri lo guardano con timore e reverenza (Inferno IV 131)195. L’autorità di Aristotele rimase incontrastata e indiscussa dal suo tempo fino all’inizio della nostra era moderna. Successivamente, si assistette a un improvviso rovesciamento e a una sorta di rivoluzione intellettuale. La nuova fisica – quella di Galileo – attacca e distrugge il sistema della fisica e della cosmologia aristoteliche. Nel campo della scienza naturale l’autorità di Aristo-

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authority of Aristotle is broken. Neverthelesse there are still great and most important provinces of thought, in which the thought of Aristotle continues to exert ist decisive influence. He remains one of the great ethical teachers – and his logic is always regarded as the great incomparable classical model. In as late a period as the end of the 18th century, a thinker like Kant703 declared, in the preface to the second edition of the “Critique of Pure Reason” that [«]logic since Aristotle had not had to retrace a single step[»] and [«]that to the present day it [has] not been able to make one step in advance, so that, to all appearance, it may be considered as completed and perfect[»]. Aristotle’s theory of Art, especially his theory of Poetry, has become the most influential system of Aesthetics. The sharpest and most critical minds often accepted the rules of Aristotle as if they were unvariable and inviolable laws. In a passage of his “Hamburg Dramaturgy”, Lessing704 says that Aristotle’s Poetics is infallible in its own way as the Elements705 of Euclid. Within the limits of these lectures[,] I cannot give you a description of the Aristotelian system and of all its ramifications. I only wish to find, as it were, the centre of gravity of this system. To my mind this centre of gravity is to be sought in the biology706 of Aristotle, in his theory of organic life. From his early youth, the phenomena of organic life have aroused the philosophical and scientific interest of Aristotle. He was born in the year 384 B. C., at Stagira, a Grecian colony in Thrace, as the son of a famous physician. His father is said to have been an “Asclepiad” – that is he belonged to the distinguished caste who claimed to be the descendants of Aesculapius – the god of medicine. As Galen tells us [«]it was the custom in Asclepiad families for

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tele viene infranta. Cionondimeno, vi sono ancora grandi ed estremanente importanti province del pensiero sulle quali il pensiero di Aristotele continua a esercitare la sua decisiva influenza. Egli rimane uno dei grandi maestri morali e la sua logica viene sempre ritenuta il grande e ineguagliabile modello classico. In un periodo così tardo come il diciottesimo secolo, un pensatore come Kant, nella sua prefazione alla seconda edizione della Critica della ragion pura, ha dichiarato che «la logica dopo Aristotele non era dovuta retrocedere di un solo passo» e «che fino ai giorni nostri non ha potuto fare un passo avanti, sicché, secondo ogni apparenza, può considerarsi compiuta e perfetta»196. La teoria dell’arte di Aristotele – in particolar modo la sua teoria della poesia – è divenuta uno dei più influenti sistemi di estetica. Le menti più acute e critiche hanno spesso accettato le regole di Aristotele come fossero leggi invariabili e inviolabili. In un passo della sua Drammaturgia amburghese, Lessing afferma che la Poetica di Aristotele, a suo modo, è infallibile come gli Elementi di Euclide197. In queste lezioni, per ovvie ragioni, non posso fornirvi una descrizione del sistema aristotelico e di tutte le sue ramificazioni. Spero solo di trovare, per così dire, il centro di gravità di questo sistema. A mio avviso, questo centro di gravità va ricercato nella biologia di Aristotele, nella sua teoria della vita organica. Fin dalla sua prima giovinezza, i fenomeni della vita organica suscitarono l’interesse filosofico e scientifico di Aristotele. Egli nacque nel 384 a.C. a Stagira, una colonia greca in Tracia ed era figlio di un famoso medico [Nicomaco]. Si dice che suo padre sia stato un “asclepiade”, poiché appartenne all’eminente casta dichiaratasi discendente di Asclepio, il dio della medicina. Come ci racconta Galeno, «pres-

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the boys to be trained by their father in the practice of dissection just as regularly as the boys in other families learn to read and write» (cf. Grote707, Aristotle, I, 4)708. From his boyhood Aristotle was brought up in studies of this sort. He learned the whole technique and practice of medicine. But he went much farther. He became the most careful, the most patient and assiduous observer of natural phenomena. His knowledge in this field is unparalleled and unprecedented. The most famous biologists are unanimous in their praise of Aristotle. Cuvier709, one of the greatest anatomists and founder of our modern comparative anatomy, says about Aristotle’s “History of Animals” and his treatise “On the Parts of Animals”: «I cannot read this work without being ravished with astonishment. Indeed it is impossible to conceive how a single man was able to collect and compare the multitude of particular facts implied in the numerous rules and aphorisms which are contained in this book» (cf. G. H. Lewes710, Aristotle, p. 270)711. We find the same judgment in a letter of Charles Darwin712. «Linnaeus and Cuvier – says Darwin – have been my two gods, though in very different ways, but they were mere schoolboys to old Aristotle» (Life and Letters III, 152)713[.] And here, I think, we have to seek the true difference between the thought of Plato and the thought of Aristotle. Aristotle has been a pupil of Plato714 for more than twenty years – and he was not only his greatest but also his most devoted pupil. It is true that from his early youth he possessed a very independent and original mind. He did not accept the theories of Plato without reservations and without criticism – and with regard to the fundamental doctrine of Plato, with regard to the theory of Ideas, his criticism is sometimes very

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so le famiglie asclepiadi era consuetudine che i ragazzi venissero istruiti dal padre nella pratica della dissezione con la stessa regolarità con cui i ragazzi delle altre famiglie imparavano a leggere e scrivere» (cfr. Grote, Aristotle, I, 4)198. Sin dalla sua adolescenza Aristotele venne educato a studi di ogni sorta. Imparò interamente la tecnica e la pratica della medicina, ma andò oltre. Divenne il più acuto, paziente e assiduo osservatore di fenomeni naturali. La sua conoscenza in questo campo è impareggiabile e senza precedenti. I più famosi biologi moderni sono unanimi nel lodare Aristotele. Cuvier, uno dei più grandi anatomisti nonché fondatore della moderna anatomia comparata, in merito alla Storia degli animali e al trattato Sulle parti degli animali di Aristotele afferma quanto segue: «Non posso leggere quest’opera senza esserne rapito con stupore. Difatti, è impossibile comprendere come un solo uomo abbia potuto raccogliere e comparare la miriade di fatti particolari racchiusi nelle numerose regole e aforismi contenuti in questo libro» (cfr. G. H. Lewes, Aristotele, p. 270)199. Lo stesso giudizio è presente in una missiva di Charles Darwin: «Linneo e Cuvier – dice Darwin – sono stati le mie due divinità, sebbene in modi piuttosto diversi, ma essi non sono che scolaretti in confronto al vecchio Aristotele» (Vita e lettere III, 152)200. È qui che, a mio avviso, dobbiamo cercare la differenza tra il pensiero di Platone e quello di Aristotele. Aristotele è stato un allievo di Platone per più di vent’anni e non fu soltanto il suo più grande allievo, ma anche il più devoto. È vero che sin dalla giovinezza egli mostrò una mente originale e indipendente. Non accettava le teorie di Platone senza riserve e senza critiche; per quel che concerne la dottrina fondamentale di Platone – la teoria delle idee – le sue critiche sono a volte piuttosto severe.

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severe. Aristotle never could swear the words of a master. Nevertheless[,] we cannot speak of an irreconcilable opposition between Plato and Aristotle. In a certain sense Aristotle always continued to be the pupil of Plato. Plato has inculcated his fundamental thoughts and the fundamental categories of his philosophy upon the mind of Aristotle. If Aristotle gives his own theory about the “forms” of things he does not give us a refutation but a completion and in a sense a consummation of the Platonic theory of ideas. But there is one715 point in which, from the very beginning, we feel a trenchant and decisive difference. Plato looks at nature with the eyes of a dialectician and a mathematician – Aristotle looks at it with the eyes of an empiricist, an observer and investigator of natural phenomena – and, first and foremost, with the eyes of a biologist, who is interested in the phenomena of organic life. Mathematics is the clue that serves us as guide in our study of Platonic philosophy; organic life and the laws of organic development are the clue that we have to follow in our study of Aristotle. Nobody ought to cross this threshold – wrote Plato on the door of his Academy – who is ignorant in Geometry. And when Plato was invited to the court of Dionysius the first, the ruler of Syracuse, whom he hoped to convert to his philosophical views and his political views – he began his instruction by teaching his pupil the first principles of Geometry. When Dionysius became indignant at this method, when he asked if there were no shorter way to Philosophy, Plato replied [to] this question in the negative. There is no other and more reliable guide to philosophy than Mathematics. Aristotle too, like all the other great philosophers, was interested in mathematical problems. But in the structure of his system these problems

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Aristotele non avrebbe mai potuto giurare sulle parole di un maestro. Cionondimeno, non sarebbe corretto parlare di una opposizione inconciliabile tra Platone e Aristotele. In un certo senso quest’ultimo continuò sempre a essere un allievo di Platone. Platone ha impresso nella mente di Aristotele i suoi pensieri fondamentali, come anche le categorie fondamentali della sua filosofia. Quando Aristotele ci fornisce la sua teoria delle “forme” delle cose, non per questo sta rifiutando la teoria platonica delle idee; piuttosto ne è un compimento e, in un certo senso, un’attuazione. Ma vi è un punto nel quale, fin dal principio, avvertiamo una netta e decisiva differenza. Platone guarda la natura con gli occhi di un dialettico e di un matematico, mentre Aristotele la guarda con gli occhi di un empirista, di un osservatore e ricercatore di fenomeni naturali e, prima di tutto, con gli occhi di un biologo interessato ai fenomeni della vita organica. La matematica è la traccia che ci serve da guida nel nostro studio della filosofia platonica; la vita organica e le leggi dello sviluppo organico costituiscono invece la traccia da seguire nel nostro studio di Aristotele. “Non entri chi non sa di geometria”, fece scrivere Platone sulla porta della sua Accademia, e quando venne invitato alla corte di Dionisio – il tiranno di Siracusa che Platone sperava di convertire alle sue concezioni filosofiche e alle sue teorie politiche – iniziò a istruire il suo allievo insegnandogli i primi princìpi della geometria. E quando Dionisio si indignò per il suo metodo, quando chiese a Platone se ci fosse una via più breve per la filosofia, quest’ultimo replicò negativamente a questa domanda. Non esiste nessun’altra guida per la filosofia che sia più affidabile della matematica. Anche Aristotele, come tutti gli altri grandi filosofi, era interessato a problemi matematici, ma nella struttura del suo sistema questi problemi non occupano

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do not occupy a central place. He knew all the results of Greek Mathematics; but in this field of thought he was not an original or creative thinker. His fundamental philosophical interest tends to a different direction. If he speaks of forms – he speaks of concrete, of living716 forms – not, like Plato, of abstract geometrical forms. Plato begins with an analysis of mathematical thought – Aristotle begins with an analysis of organic life. If we bear in mind the difference between these two starting-points[,] we can understand and explain the difference between the results of Plato’s and Aristotle’s philosophy. In one point, however, there is a perfect agreement between the master and the pupil. There is a general principle in which Aristotle never deviates from Plato. And this principle is of paramount and vital importance717. It regards the very essence and meaning of knowledge and truth. In the history of philosophy, Plato often was described as a strict “rationalist”718, as a speculative and a priori thinker whereas Aristotle was thought to be one of the leaders and first representative of mere empirical719 thought. But this characterization is scarcely correct720; it needs, at least, a more precise explanation. Even as an empiricist, as an observer of facts, Aristotle is by no means a positivist in our modern sense. He does not admit that a collection of empirical facts can give us a true science. For Aristotle – just as much as for Plato – the true character of science is its universality. A knowledge that is only concerned with single or particular facts is not to be regarded as a true knowledge. Knowledge or science is always concerned with the “essence” of things – not with particular, accidental, fortuitous features. What science

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un posto centrale. Egli era a conoscenza di tutti i risultati della matematica greca, ma in questo campo di pensiero non fu un pensatore originale e crea­tivo. Il suo interesse filosofico fondamentale tendeva verso un’altra direzione. Quando Aristotele parla di forme, egli fa riferimento alle forme concrete, viventi e non, come Platone, alle astratte forme geometriche. Platone prende le mosse con un’analisi del pensiero matematico, mentre Aristotele con l’analisi della vita organica. Se teniamo a mente la differenza fra questi due punti di partenza, potremo comprendere e spiegare la differenza tra i risultati della filosofia di Platone e quelli della filosofia di Aristotele. A ogni modo, in un aspetto sussiste un perfetto accordo tra allievo e maestro. C’è un principio generale in cui Aristotele non si dissocia mai da Platone, e questo principio è di estrema e vitale importanza; esso concerne l’essenza e il significato della conoscenza e della verità. Nella storia della filosofia, Platone è sempre stato descritto come un rigoroso razionalista, come un pensatore speculativo e aprioristico, laddove Aristotele si pensava fosse invece uno tra i principali protagonisti ed esponenti del pensiero meramente empirico. Ma questo giudizio non è del tutto corretto. Esso necessita, quantomeno, di una spiegazione più precisa. Aristotele, come empirista e come osservatore di fatti, non è in alcun modo un positivista nel senso moderno del termine. Egli non pensa affatto che una semplice raccolta di fatti empirici possa fornirci una vera scienza. Difatti per Aristotele, così come per Platone, l’autentico carattere della scienza risiede nella sua universalità. Una conoscenza che abbia a che fare soltanto con fatti singoli e particolari non è una vera conoscenza. La conoscenza o scienza ha sempre a che fare con l’“essenza delle cose”, non con caratteristiche particolari, accidentali, fortuite. Ciò che la scienza

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strives to know is not the facts as such – but the reasons721 of facts. It is not enough to know “what722 is”; we wish to know why723 things are what they are. We find this fundamental distinction everywhere in the work of Aristotle. And it is for this reason that even his Metaphysics is regarded as the highest science – the culminating point in the hierarchy of knowledge. For it is only in Metaphysics that we reach the ultimate724 and most general principles, the very reasons of things. The theoretician must always be a metaphysician. In the beginning of his Metaphysics Aristotle admits that, with a view to action, experience seems in no respect inferior to art or theory. Men of experience often succeeded even better than those who have theory without experience. The reason is that experience is knowledge of individuals725, art726 of universals727; and actions and productions are all concerned with the individual. [«]The physician – says Aristotle – does not cure man in general – he has to cure Callias or Socrates or some other called by some such individual name, who happens to be a man. If, then, a man has the theory without experience, and recognizes the universal but does niot know the individual included in this, he will often fail to cure; for it is the individual that is to be cured. But yet we think that knowledge728 and understanding729 belong to art – that means to “theory” – rather than to experience, and we suppose artists to be wiser than men of experience…and this because the former know the cause, but the latter do not. For men of experience know that the thing is, but do not [know] why730, while the others know the why and the cause. Hence we think also that the master-workers in each craft are more

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intende conoscere non sono i fatti come tali, ma le ragioni dei fatti. Non è sufficiente conoscere “ciò che è”; noi desideriamo sapere perché le cose sono ciò che sono. Questa fondamentale distinzione la ritroviamo ovunque nell’opera di Aristotele ed è per tale ragione che anche la sua metafisica viene vista come la somma scienza, il punto culminante nella gerarchia della conoscenza. Infatti, è soltanto nella metafisica che noi cogliamo i princìpi ultimi e più generali, l’autentica ragione delle cose. Un teoreta deve sempre essere un metafisico. All’inizio della sua Metafisica, Aristotele ammette che, in vista dell’azione, l’esperienza non sembra in alcun modo inferiore all’arte o alla scienza. Gli uomini di esperienza spesso riescono ancora meglio di coloro che hanno teoria senza esperienza. La ragione sta nel fatto che l’esperienza è conoscenza dell’individuale, l’arte dell’universale, e le azioni e le produzioni hanno tutte a che fare con l’individuale. «Il medico – dice Aristotele – non cura l’uomo in generale, egli deve curare Callia o Socrate o qualche altro chiamato con un analogo nome individuale, che casualmente è un uomo. Se, quindi, un uomo ha la teoria senza esperienza, e riconosce l’universale ma non conosce l’individuo incluso in questo, spesso non riuscirà a curare; poiché è l’individuo che deve essere curato. Eppure pensiamo che la conoscenza e la comprensione appartengano all’arte – cioè alla “teo­ ria” – piuttosto che all’esperienza, e supponiamo che gli artisti siano più saggi degli uomini di esperienza… e questo perché i primi conoscono la causa, ma i secondi no. Perché gli uomini di esperienza sanno che la cosa è, ma non [sanno] perché, mentre gli altri conoscono il perché e la causa. Quindi pensiamo anche che i maestri in ogni mestiere siano più onesti e sap-

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honourable and know in a true sense and are wiser than the manual workers, because they know the causes of the things that are done – thus we view them as being wiser not in virtue of being able to act, but of having the theory for themselves and having the cause» (Metaphys. 981b)[.] If we accept this definition of knowledge731 we understand that Aristotle cannot732 be satisfied before having reduced all truth whatever to a metaphysical truth. It is only Metaphysics which answers the question why733 things are what they are in a really adequate and peremptory way. It shows us the reason of things – not those reasons734 that are restricted to a special field of phenomena, but the reasons of all being whatever, the ultimate and fundamental causes. I must insert here a few remarks about the term “Metaphysics”. This term is not used by Aristotle himself, it has a fortuitous origin. All those works of Aristotle that we possess today have a rather curious history. They are not the works that were published by Aristotle himself. These works seem to be lost completely735; only a few fragments of them are left. What we now call the works of Aristotle are nothing else than the736 notes he had written down and that he used as a foundation for his lectures737. These lecture-notes were in the possession and under the care of Theophrastus, the pupil of Aristotle and his successor. At his death, Theophrastus left them to Neleus, a friend and pupil who lived at Scepsis in Asia Minor. That district of Asia Minor belonged to the kingdom of Pergamum; and at this time the kings of Pergamum had begun to collect valuable books and manuscripts in order to rival the Ptolemies and their famous library at Alexandria. Fearing the loss of their treasure the successors of Neleus locked up the Aristotelian manuscripts in a cellar-vault. At length a rich bibliophile, Apellicon of Teos, bought them for

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piano in un vero senso e siano più saggi dei lavoratori manuali, perché conoscono le cause delle cose che vengono fatte – quindi li consideriamo più saggi non in virtù del poter agire, ma dell’avere per se stessi la teoria e avere la causa» (Metafisica, 981b)201. Se accettiamo questa definizione di conoscenza, allora capiamo benissimo che Aristotele non poteva ritenersi soddisfatto, se non prima di aver ridotto tutta la verità alla verità metafisica. Soltanto la metafisica può rispondere, in modo adeguato e perentorio, alla domanda circa il perché le cose sono ciò che sono. Essa ci mostra la ragione delle cose; non quelle ragioni ristrette a un campo speciale di fenomeni, ma le ragioni di tutto l’essere, le cause ultime e fondamentali. Devo aggiungere qui alcune osservazioni circa il termine “metafisica”. Questo termine non viene utilizzato dallo stesso Aristotele, ma ha avuto un’origine fortuita. Tutte le opere di Aristotele in nostro possesso hanno una storia piuttosto curiosa. Esse non sono opere pubblicate da Aristotele. Queste opere pare siano andate perdute completamente: ci sono rimasti soltanto un paio di frammenti. Quelle che noi adesso siamo soliti chiamare “opere” di Aristotele, altro non sono che appunti da lui scritti e adoperati come supporto per le sue lezioni. Questi appunti per le lezioni erano in possesso e sotto la cura di Teofrasto, il discepolo di Aristotele e suo successore. Alla sua morte, Teofrasto li lasciò a Neleo, un amico e discepolo che visse a Scepsi, in Asia minore. Questo distretto dell’Asia minore apparteneva al regno di Pergamo; a quei tempi i re di Pergamo iniziarono a collezionare importanti libri e manoscritti per rivaleggiare contro i Tolomei e la loro famosa biblioteca d’Alessandria. Temendo la perdita del loro tesoro, Neleo nascose i manoscritti aristotelici in una cassa. Infine, un ricco bibliofilo, Apellicone di Teo,

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a large sum, and by this care a first very defective edition was made. At the capture of Athens by Sulla, in the year 81 B. C., the library of Apellicon came to Rome as a part of Sulla’s loot. Tyrannion, a writer in grammar, now gave a careful738 revision of the text which formed the basis of the first complete edition of the manuscripts of Aristotle, that was made by Andronicus of Rhodes in the middle of the first century B. C. In this edition the manuscripts are grouped according to their subject-matter, and what we now call the Metaphysics of Aristotle got its name from the circumstance that it had its place after739 his Physics. “Metaphysics” in its original sense means therefore not at all a science that goes beyond Physics; it simply meant a treatise which, in the order of the edition, had its place after the books740 on Physics. Aristotle himself seems to have given no special title to this treatise; but if he speaks of the science with which he deals here he always calls it “first philosophy”. This “first philosophy” is distinguished from all the other sciences by the fact that it is not restricted to a special field of reality741. It has not, like all the other disciplines, a particular subject-matter. There must be three theoretical philosophies – says Aristotle – «mathematics, physics, and first philosophy. And the highest science must deal with the highest genus. Thus, while the theoretical sciences are more to be desired than the other sciences, this is more to be desired than the other theoretical sciences. For one might raise the question whether first philosophy is universal, or deals with one genus, i. e. some one kind of being; for not even mathematical sciences are all alike in this respect – geometry and astronomy deal with a certain particular kind of thing, while universal mathematics applies alike to all. We answer that if there is no substance

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li acquistò pagando un’ingente somma e ne curò una prima edizione (a dire il vero lacunosa). Con la presa di Atene da parte di Silla nell’81 a.C., la biblioteca di Apellicone giunse a Roma, come parte del bottino di Silla. Tirannione, un grammatico, ebbe modo di revisionare accuratamente i testi, che poi andarono a formare la base della prima edizione completa dei manoscritti di Aristotele, curata da Andronico di Rodi nella metà del primo secolo a.C. In questa edizione i manoscritti vennero raggruppati in ordine tematico, per cui ciò che noi adesso chiamiamo Metafisica di Aristotele deve il suo nome al fatto di essere stata posta dopo la Fisica. “Metafisica”, nel suo senso originario, non indica pertanto una scienza che va oltre la fisica; molto semplicemente, essa indicava un trattato che, nell’ordine dell’edizione, venne posto subito dopo i libri di fisica. Aristotele stesso non diede alcun nome al suo trattato, e quando parla della scienza in esso affrontata la chiama sempre “filosofia prima”. Questa “filosofia prima” si distingue da tutte le altre scienze per il fatto di non limitarsi a un campo particolare della realtà; essa, a differenza di tutte le altre discipline, non ha un soggetto particolare. Tre dovrebbero essere le scienze teoretiche, dice Aristotele, ossia «matematica, fisica e filosofia prima. E la scienza più alta deve occuparsi del genere più alto. Così, mentre le scienze teoretiche sono più desiderabili delle altre scienze, questa è più desiderabile delle altre scienze teoretiche. Perché si potrebbe sollevare la questione se la prima filosofia sia universale o si occupi di un genere, cioè di un tipo particolare di essere; poiché nemmeno le scienze matematiche sono tutte uguali sotto questo aspetto: la geo­metria e l’astronomia si occupano di un certo genere particolare di cose, mentre la matematica universale si applica allo stesso modo a tutte. Rispondia-

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other than those which are formed by nature, natural science will be the first science; but if there is an immovable substance (– and there must be such an immovable substance, a substance called God is according to Aristotle undeniable –) then the science of it (the science called742 theology) must be prior and must be first philosophy, and universal in this way, because it is first. And it will belong to this to consider being qua being – both what is and the attributes which belong to it qua being[»] (Metaphys. 1026a)[.] We must know what “Being in general” is and means before we can develop a satisfactory theory of being in particular. Metaphysics precedes Physics both in an ontological and in an epistemological order – in the order of reality and in the order of knowledge. «There are many senses in which a thing is to be said to be, but all refer to one starting point. Some things are said to be because they are substances; others because they are affections of substances; other because they are a process towards substance. As, then, there is one science which deals with all healthy things (the science of Medicine) the same applies in all other cases also…It is clear then that it is the work of one science also to study the things that are qua being. But everywhere science deals chiefly with what which is primary, and on which the other things depend, and in virtue of which they get their names. If, then, this is substance, it will be of substances that the philosopher must grasp the principles and causes[»] (Metaphys. 1003b). All this is in perfect agreement with the spirit of Platonism and with Plato’s fundamental thesis. There is one substantial reality and one substantial truth – and it is for Metaphysics, as the highest science, to reveal this truth and this reality, to lead us to the highest reason of things, to

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mo che se non c’è sostanza diversa da quelle che sono formate dalla natura, la scienza naturale sarà la prima scienza; ma se c’è una sostanza immobile (– e deve esserci una tale sostanza immobile, una sostanza chiamata Dio è secondo Aristotele innegabile –) allora la scienza di essa (la scienza chiamata teologia) deve essere prima e deve essere filosofia prima, e universale in questo senso, perché è la prima. E apparterrà a questa considerare l’essere in quanto essere – sia ciò che è, sia gli attributi che gli appartengono in quanto essere» (Metafisica, 1026a)202. Bisogna sapere che cosa è l’“essere in generale” e che cosa significa ancor prima di aver sviluppato una soddisfacente teoria dell’essere in particolare. La metafisica precede la fisica sia nell’ordine ontologico sia in quello epistemologico, nell’ordine della realtà e nell’ordine della conoscenza: «Ci sono molti sensi in cui si può dire che una cosa sia, ma tutti si riferiscono a un punto di partenza. Si dice che alcune cose siano perché sono sostanze; altre perché sono affetti di sostanze; altre perché sono un processo verso la sostanza. Poiché, poi, c’è una scienza che si occupa di tutte le cose sane (la scienza della medicina), lo stesso vale anche per tutti gli altri casi... È chiaro allora che è compito di una scienza anche studiare le cose che sono in quanto essere . Ma ovunque la scienza si occupa principalmente di ciò che è primario, e da cui dipendono le altre cose, e in virtù delle quali prendono il loro nome. Se dunque questa è sostanza, sarà delle sostanze che il filosofo dovrà cogliere i principi e le cause» (Metafisica, 1003b)203. Tutto ciò si trova in perfetto accordo con lo spirito del Platonismo e con le tesi fondamentali di Platone. Vi è una realtà sostanziale e una verità sostanziale e spetta proprio alla metafisica – intesa come la scienza più elevata – rivelarci questa verità e questa realtà, condurci

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something eternal, unchangeable, immovable. But if Aristotle admits this presupposition – how could he attack and reject the Platonic theory of ideas? And what does he himself wish to oppose to this theory? What Aristotle denies is by no means the assumption of “universals”, of pure forms in the Platonic sense. This assumption is indispensable, and it is of vital importance for his own philosophy – without it his philosophy would lose its ground. He does not reject the reality of universals, but their separate existence, which, according to him, was taught by Plato. Universals are necessary; but they are no self-subsistent entities. The world which is given [to] us in experience, the actual world[,] is a totality of concrete individual things. Whatever exists, exists in an individual shape. We cannot think of a separate world of universals apart from the being of individuals. In order to prove this point, Plato always referred to the world of our mathematical concepts. According to Aristotle he was right in the premise, in the description of the mathematical world – but from this premise he draws a false conclusion. Aristotle too insists on the fact that our mathematical concepts have a truth of their own, a logical truth and meaning that cannot be derived from sense-perception. The thesis of Protagoras that we can speak of no other objects than perceptibles objects and that, therefore, our mathematical theorems are devoid of meaning is rejected by him in the same sense and by the same arguments as743 in the Theaetetus of Plato. «If the objects of mathematics exist – says Aristotle – they must exist either in sensible objects, as some say, or separate from sensible objects. Or if they exist in nei-

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alla ragione suprema delle cose, a qualcosa di eterno, immutabile e immobile. Ma dal momento che Aristotele ammette questo presupposto, per quale ragione attacca e respinge la teoria platonica delle idee? E cosa vuole opporre a questa teoria? Ciò che Aristotele intende negare non è affato il presupposto degli “universali”, delle forme pure nel senso platonico. Questo è un presupposto indispensabile e di vitale importanza per la sua filosofia, senza il quale perderebbe il proprio fondamento. Aristotele non rifiuta la realtà degli universali, ma la loro esistenza separata, così come, secondo lui, è stata teorizzata da Platone. Gli universali sono necessari, ma non sono entità auto-sussistenti. Il mondo che si dà a noi nell’esperienza, il mondo concreto, è una totalità di cose individuali e realmente esistenti. Tutto ciò che esiste, esiste in una forma individuale. Non possiamo pensare che esista un mondo di universali separato dall’essere degli individui. Per dimostrare questo aspetto, Platone faceva sempre riferimento al mondo dei nostri concetti matematici. Secondo Aristotele, Platone era nel giusto quanto alla premessa, ovvero nella descrizione del mondo matematico, ma da questa premessa aveva ricavato una falsa conclusione. Aristotele stesso insiste sul fatto che i nostri concetti matematici hanno una loro intrinseca verità, una verità logica e un significato che non possono derivare dalla percezione sensibile. La tesi di Protagora, secondo cui noi non possiamo parlare di oggetti che non siano percepibili e che quindi i nostri teoremi matematici sono privi di significato, viene rigettata da Aristotele nello stesso senso e con gli stessi argomenti avanzati da Platone nel Teeteto. Dice Aristotele: «Se gli oggetti della matematica esistono, devono esistere o negli oggetti sensibili, come dicono alcuni, o separati dagli oggetti sensibili. Oppure, se non esistono in nessuno di

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ther of these ways, either they do not exist, or they exist only in some special sense». So that in the subject of our discussion will be not whether744 they exist but how they exist745. That it is impossible for mathematical objects, for points and lines, to exist in sensible things and the doctrine in question is an artificial one is admitted and emphasized by Aristotle. «But, again, it is not possible that such entities should exist separately746. For if besides the sensible solids there are to be other solids that are separate from them and prior to the sensible solids, it is plain that besides the planes also there must be other and separate planes and points and lines; for consistency requires this…And the same account will also apply to numbers…How is it possible to solve all these questions? How can lines be substances747? Neither as a form [nor as a] shape… nor as a matter, like the solid; for we have no experience of anything that can be put together out of lines or planes or points, while if this had a sort of material substance, we should have observed things which could be put together out of them. Grant, then, that they are prior in definition748. Still not all things that are prior in definition are also prior in substantiality. For those things are prior in substantiality which when separated from other things surpass them in the power of independent existence; but things are prior in definition of those whose definitions are compounded out of their definitions; and these two properties are not co-extensive. For if attributes do not exist apart from their substances (e. g. a “mobile” or a “pale”) pale is prior to the pale man in definition, not in substantiality. For it cannot exist separately, but it is always along with the concrete thing; and by the concrete thing I mean the pale man… It has, then, been sufficiently pointed out that the objects of

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questi modi, o non esistono affatto, o esistono solo in un senso speciale». Allora il soggetto della nostra discussione sarà non se esistono, ma come essi esistono. Aristotele ammette e sottolinea che è impossibile che oggetti matematici, come punti e linee, esistano nelle cose sensibili, e che la dottrina in questione è artificiale. «Ma, di nuovo, non è possibile che tali entità esistano separatamente. Infatti, se oltre ai solidi sensibili devono esserci altri solidi separati da essi e anteriori ai solidi sensibili, è chiaro che oltre alle superfici devono esserci anche altre superfici separate, e [altri] punti e linee [separate]; lo esige la coerenza […]. E lo stesso discorso vale anche per i numeri […]. Come è possibile risolvere tutte queste domande? Come possono le linee essere sostanze? Né come forma [né come] figura… né come materia, come il solido; poiché non abbiamo esperienza di nulla che possa essere messo insieme da linee o superfici o punti, mentre se questi avessero una sorta di sostanza materiale, avremmo osservato cose che potrebbero essere messe insieme da essi. Si conceda, quindi, che siano precedenti nella definizione. Tuttavia non tutte le cose che sono precedenti nella definizione sono anche precedenti nella sostanzialità. Infatti, sono prima nella sostanzialità quelle cose che, quando separate da altre cose, le superano nel potere dell’esistenza indipendente; ma sono precedenti nella definizione quelle cose la cui definizione è costitutiva delle definizioni di altre cose; e queste due proprietà non sono coestensive. Perché se gli attributi non esistono al di fuori delle loro sostanze (ad esempio “mobile” o “pallido”), pallido è prima dell’uomo pallido nella definizione, non nella sostanzialità. Perché non può esistere separatamente, ma è sempre insieme alla cosa concreta; e per cosa concreta intendo l’uomo pallido [...]. È stato, quindi, sufficientemente osservato che gli

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mathematics are not substances in a higher degree than the bodies are, and that they are not prior to sensibles in being but only in definition and that they cannot exist somewhere apart (Metaphys. 1076a-1077b)». At first sight all this seems to be very simple; it seems to point to a serius defect, a vulnerable point in the Platonic theory of ideas. But when reading this criticism of Aristotle[,] we must be ward749 off a possible misinterpretation. What Aristotle says here seems to involve a thesis, that the socalled750 “universals”, the “pure concepts” or “pure forms” have their origin in a mental process that we usually call a process of “abstraction”. In this case we had to say that, if they exist[,] they exist only in our own minds. They have the reality of thoughts or even the reality of mere names – or signs or symbols – but no objective, no “substantial” reality. That is the doctrine of universal as it later on was developed in the so-called “nominalistic” systems. But such a nominalistic conception and interpretation is out of keeping with the presuppositions and with the spirit of the Aristotelian system. The objective validity of the “universals”, of the “pure forms” is never attacked by him; he thinks, on the contrary, that Plato has once and for all751 established and proved this point. But in order to understand the true meaning of Aristotle’s own thesis we have to go a step further. As we pointed out before, his real interests tend not to the direction of mathematics but to the direction of Biology. If “pure form” has any reality we must seek this reality not in the field of Mathematics – in points, lines, surfaces and so on – but in the field of life. The problem of “organic forms”752 is of vital and paramount importance in the philosophy of Aristotle. All

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oggetti della matematica non sono sostanze in un grado superiore a quello dei corpi, e che essi non sono prima dei sensibili nell’essere, ma solo nella definizione, e che non possono esistere da qualche parte a parte» (Metafisica, 1076a-1077b)204. Tutto ciò, a un primo sguardo, pare piuttosto semplice; sembra indicare un serio difetto, un punto vulnerabile della teoria platonica delle idee. Ma nel leggere questa critica di Aristotele dobbiamo prevenire possibili fraintendimenti. Ciò che Aristotele afferma sembra in realtà implicare la tesi secondo cui i cosiddetti “universali”, i “concetti puri” o “forme pure” traggano la loro origine da un processo mentale da noi di solito chiamato processo di “astrazione”. In questo caso dovremmo dire che, se gli universali esistono, esistono soltanto a livello concettuale; esistono in quanto pensieri o addirittura in quanto meri nomi, segni o simboli; ma non posseggono alcuna realtà oggettiva, “sostanziale”. Questa è la dottrina degli universali sviluppata in seguito dai cosiddetti sistemi “nominalisti”. Ma una simile concezione e intepretazione nominalista non combacia per niente con i presupposti e con lo spirito del sistema aristotelico. La validità oggettiva degli “universali”, delle “forme pure”, non è mai attaccata da Aristotele; egli pensa, al contrario, che Platone abbia già stabilito e dimostrato questo punto in maniera definitiva. Ma se vogliamo comprendere l’autentico significato della tesi di Aristotele, dobbiamo compiere un ulteriore passo avanti. Come abbiamo già rilevato, i reali interessi di Aristotele erano diretti verso la biologia e non verso la matematica. Se una “forma pura” non ha alcuna realtà, dobbiamo cercare questa realtà non nel campo della matematica – punti, linee, superfici e così via – ma nel campo della vita. Il problema delle “forme organiche” è di vitale e primaria importanza nella filoso-

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of us speak of organic forms – but what do we mean by this term?753 It is a rather remarkable fact that even the term754 “organic” was not used before the time of Aristotle; he had to create and to explain this term. He starts from the fact that every living being, in order to live, is in need of some “organs” – that means of some bodily instruments or implement of life. We speak of sense-organs; but they are only a special class. The whole body as such has a characteristic structure that enables it to perform its different functions. But all its different functions point in the same direction and tend to a common end. They help to preserve the life of the organic body. We must therefore assume a common principle that accounts for this characteristic unity of organic life – a unity that we do not find in man alone, but also in all other organic things, in plants or animals. The higher we ascend in the scale of nature, so much the richer and the more complicated becomes the bodily structure. But the principle of life remains always the same: for even in the lowest organisms[,] we find a teleological unity, a connection and a right proportion between755 the bodily means, the organs and the purpose which all these means have to serve. It is this principle of life that is called “soul” by Aristotle. The soul is defined by him as the “entelechy of the organic body”756. “Entelechy – the term is derived from “telos”, that means “end” or “purpose”. The soul is that principle in the organic body that unifies all its different functions – that gives to every bodily activity its place in the life of the whole – that directs all of them to their common end. We may, therefore, call it the “essential actuality of an organism” – that what actualises all the inherent powers of the body. If we accept this definition, we cannot restrict the energy of the soul to a spe-

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fia di Aristotele. Tutti noi parliamo di forme organiche, ma cosa intendiamo con questo termine? È piuttosto degno di nota il fatto che anche il termine “organico” non era stato utilizzato prima di Aristotele; è stato lui a creare e spiegare questo termine. Egli constata che ogni essere vivente, per vivere, ha bisogno di qualche “organo” – ossia di qualche strumento corporeo o organo vitale. Parliamo di organi di senso, ma essi costituiscono soltanto una classe speciale. L’intero corpo come tale ha una sua struttura che lo rende in grado di esercitare le sue diverse funzioni. Ma tutte le sue diverse funzioni puntano verso la medesima direzione e tendono a un fine comune. Esse aiutano a preservare la vita del corpo organico. Dobbiamo pertanto assumere un principio comune che spieghi questa caratteristica unità della vita organica – un’unità che non troviamo soltanto nell’uomo, ma anche in tutte le altre cose organiche, nelle piante o negli animali. Più si sale nella scala della natura, più ricca e complessa diventa la struttura del corpo. Ma il principio della vita rimane lo stesso; anche negli organismi inferiori noi rinveniamo la medesima unità teleologica, una connessione e una giusta proporzione tra gli strumenti corporei, gli organi e lo scopo a cui tutti questi mezzi sono destinati. È questo principio di vita che Aristotele chiama “anima”. L’anima viene da lui definita come l’“entelechia del corpo organico”. “Entelechia”: il termine deriva da telos, che significa “fine” o “scopo”. L’anima è quel principio nel corpo organico che unifica tutte le sue differenti funzioni, che conferisce a ogni attività corporea la sua funzione nella vita del tutto, che le dirige tutte verso il loro scopo comune. Potremmo quindi definirla “attualità essenziale di un organismo”, che attualizza tutte le inerenti facoltà del corpo. Se accettiamo questa definizione, non possiamo limitare l’energia dell’anima

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cial field of organic life. This energy is not confined within the bounds of our human life – it embraces the whole field of organic nature. What is the757 difference between inorganic matter and organic life – what758 makes the fundamental distinction between a stone and a plant[?] We say that the stone is “lifeless”, a piece of “dead” matter – but what do we express by this term? We wish to express the fact that the plant performs some activities, some specific functions, that we do not find in the stone. It has the power of nutrition, of growth, or reproduction; it has the power of restitution and regeneration. If a part of a plant is injured, the organism has the capability759 to repair the damage, to restore itself to its former state. All these biological functions are designated by the Aristotelian term “soul”. It follows from this that for Aristotle the term “soul” does not imply the fact of “consciousness”760. “Consciousness” is a character[istic] of the human soul, the “rational” soul. But this rational soul is only one stage, the highest stage, in the evolution of the soul. Generally speaking[,] Aristotle distinguishes between three of these stages according to the different functions of the organism. In plants the function of nutrition761 is prevalent – the plant has, therefore, a “nutritive soul” – an “anima vegetativa”. When ascending to the animal world we find the power of sensation – the animal has a “sensitive soul”762, a “perceptive soul” – an “anima sensitiva”. Even in man we find both of these souls. For in the ascending scale of being the lower forms are always preserved in the higher forms. The human soul is characterized by the power of reason, of conscious thought – it is a rational soul, an “anima rationalis”. But in the rational soul the lower forms are still contained and, so to speak, absorbed – «as the triangle is

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a un campo speciale della vita organica. Questa energia non è confinata entro i limiti della nostra vita umana; essa, difatti, abbraccia l’intero campo della natura organica. Ma qual è la differenza tra la materia inorganica e la vita organica? In cosa consiste la differenza fondamentale tra una pietra e una pianta? Si può affermare che la pietra è “senza vita”, un pezzo di materia “morta”; ma cosa esprimiamo con questo termine? Noi intendiamo esprimere il fatto che una pianta esercita una qualche attività, alcune specifiche funzioni, che non troviamo in una pietra. La pianta ha la facoltà di nutrirsi, di crescere, di riprodursi; ha la facoltà della compensazione e della rigenerazione. Se una pianta ha una qualche lesione, l’organismo ha la capacità di rimediare al danno, di ritornare al suo stato iniziale. Il termine aristotelico “anima”, pertanto, designa tutte queste funzioni biologiche. Da ciò consegue che per Aristotele il termine “anima” non implica il fatto della “coscienza”. La “coscienza” è una caratteristica dell’anima umana, dell’anima “razionale”, ma questa anima razionale è soltanto uno “stadio” – sebbene il più elevato – nell’evoluzione dell’anima. In generale, Aristotele distingue tre di questi stadi, in base alle differenti funzioni dell’organismo. Nelle piante la funzione principale è la nutrizione; la pianta ha pertanto un’“anima nutritiva”, un’“anima vegetativa”. Salendo al regno animale troviamo la facoltà della sensazione – l’animale ha un’“anima sensitiva”, un’“anima percettiva”. Anche nell’uomo troviamo entrambe queste anime poiché, salendo lungo la scala dell’essere, le forme inferiori vengono sempre conservate da quelle superiori. L’anima umana è caratterizzata dalla facoltà della ragione, dal pensiero cosciente – essa è pertanto un’anima razionale, un’anima rationalis. Ma in quest’anima razionale sono ancora contenute le forme inferiori; esse sono, per così

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contained potentially in the quadrilateral» – says Aristotle. The triangle is potentially contained in the quadrilateral; for if you divide763 a quadrilateral by its diagonal you have two triangles. In the same sense our human soul contains the nutritive and the perceptive soul; but in addition to them it possesses a new specific power, the power of thought. This theory of Aristotle764 about the soul makes a sharp and trenchant incision in the development of Greek thought. Aristotle approaches the problem from quite a new angle. He may be said to be the first founder of the science of empirical Psychology765. Aristotle does not yet use the term “Psychology”, but he was the first to give a clear and systematic survey of all the problems that we nowadays treat under this heading. His originality, his power of analytical thought and of careful empirical observation, is perhaps in no other field as striking as in his doctrine of the soul. For here Aristotle had no real precedessor in Greek philosophy. All the former doctrines – the doctrines of Pythagoras and the Pythagoreans, the doctrine of Plato – were metaphysical, not empirical doctrines. They tried to define the metaphysical essence of the soul and to give us, as it were, the metaphysical history of the soul. In all this they were deeply influenced by religious and mystical thought – by the conception of the socalled Orphic Theology. This Orphic Theology was based on the presupposition that between the soul and the body there is only an accidental, not a substantial connection. In their nature and essence both of them are radically distinguished and fundamentally opposed to each other. It is by a metaphysical fate, or by its own fault, by a sort of original sin, that the soul lost its766 own pure nature and that it

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dire, assorbite, dice Aristotele, «come nel quadrilatero è contenuto potenzialmente il triangolo»205. Il triangolo è potenzialmente contenuto nel quadrilatero poiché, se dividiamo quest’ultimo attraverso la sua diagonale, otteniamo due triangoli. Nello stesso senso anche l’anima umana contiene l’anima nutritiva e l’anima sensitiva ma, in aggiunta a esse, possiede anche una nuova facoltà specifica, la facoltà del pensiero. Questa teoria aristotelica dell’anima traccia una linea precisa e netta nello sviluppo del pensiero greco. Aristotele si approccia al problema da una nuova angolazione. Egli è il fondatore della scienza della psicologia empirica. Aristotele non usa ancora il termine “psicologia”, ma fu il primo a fornire una chiara e sistematica rassegna di tutti quei problemi che noi, oggigiorno, siamo soliti trattare sotto il nome di psicologia. La sua originalità, la sua potenza analitica e la sua capacità di osservazione empirica in nessun altro campo sono così impressionanti come nella sua dottrina dell’anima. Infatti, in questo campo Aristotele non ebbe alcun vero predecessore nella filosofia greca. Tutte le dottrine precedenti – le dottrine di Pitagora e dei Pitagorici, la dottrina di Platone – erano metafisiche e non empiriche. Essi cercavano di determinare l’essenza metafisica dell’anima e di fornirci, per così dire, una storia metafisica dell’anima. In ciò vennero profondamente influenzati dal pensiero religioso e mistico, dalla concezione della considdetta teologia orfica. Questa teologia orfica era basata sul presupposto secondo cui tra l’anima e il corpo sussiste soltanto una connessione accidentale, non sostanziale. Nella loro natura ed essenza, anima e corpo sono radicalmente distinti e fondamentalmente opposti. È per via di un fato metafisico, o per sua stessa colpa, a causa di una sorta di peccato originale, che l’anima perdette la sua pura natu-

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was united with the body. But the body is not its767 proper place; its768 bodily existence is unworthy of its769 nature and its770 divine origin. If it771 lives in the body, it772 lives in it like a prisoner in his cell or as in a grave. We must forget all these metaphysical and mystical conceptions of the human soul in order to understand the character of Aristotle’s psychology. He speaks as a biologist – not as a religious or mystical thinker. For him there cannot be any fundamental separation between the soul and the body. The soul has no separate existence, it773 has only a generic function774 – and it775 cannot exert this function outside the body; it776 is bound to the bodily organs. Aristotle expresses this thought by a striking simile777. «If the eye were an animal – he says – the sight would have been its soul; for this is the essence of the eye as far as this is expressible in a definition». If we wish to describe or to define the eye, we cannot content ourselves with enumerating its single parts. We must know in which way these parts are connected with each other – and this connection is not a merely natural but a functional778 one. It is one and the same function – the function of seeing – that all the bodily elements we find in the eye have to fulfill. They are built and constructed for this function. Sight – it may be said – is the constructive principle of the eye – if we know what sight is and means, we understand the eye; if we do not take into consideration this function[,] we cannot understand or explain its anatomical structure. In the same sense we cannot explain a living body without knowing its “entelechy”, its soul or form. Without this form or entelechy[,] it would appear to us a mere heap of disconnected and disparate elements.

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ra e che si unì al corpo. Ma il corpo non è il suo luogo peculiare; la sua esistenza corporea non è degna della sua natura e origine divina. Se essa dimora nel corpo, allora vive come un prigioniero nella sua cella o come in una tomba. Se vogliamo comprendere il tratto peculiare della psicologia di Aristotele, dobbiamo dimenticare tutte queste concezioni metafisiche e mistiche dell’anima umana. Egli parla da biologo, non da pensatore religioso o mistico. Per Aristotele non può darsi alcuna separazione fondamentale tra anima e corpo. L’anima non ha un’esistenza separata, essa possiede soltanto una generica funzione che non può essere esercitata fuori dal corpo, in quanto è legata agli organi corporei. Aristotele esprime questo pensiero con una similitudine suggestiva: «Se l’occhio fosse un animale, la vista ne sarebbe l’anima; infatti questa è l’essenza dell’occhio nella misura in cui è esprimibile in una definizione»206. Se intendiamo descrivere o definire l’occhio, non possiamo limitarci a enumerare le sue singole parti. Dobbiamo sapere in che modo queste parti sono reciprocamente connesse, tenendo conto che tale connessione non è puramente naturale ma funzionale. Tutti gli elementi corporei che troviamo nell’occhio devono soddisfare una sola e medesima funzione, la funzione del vedere. Sono strutturati per svolgere questa funzione. La vista, si potrebbe dire, è il principio costruttivo dell’occhio; se sappiamo cosa è la vista e qual è il suo significato, siamo in grado di comprendere l’occhio, se invece non prendiamo in considerazione questa funzione, non potremo comprenderne o spiegarne la struttura anatomica. Nello stesso senso, non possiamo spiegare un corpo vivente senza conoscerne l’“entelechia”, la sua anima o forma. Senza questa forma o entelechia esso ci apparirebbe come un ammasso di elementi sparsi e isolati.

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The form, as organic form, is therefore by no means a mere abstraction. It possesses the highest power. It is the vital principle that connects and holds together all the natural phenomena. On the other hand[,] Aristotle rejects the ontological dualism779 between matter and form as it was maintained by Plato780. Matter and Form, Body and Soul are, according to Aristotle, different principles781; but they are not different substances782. The soul is form; but it is not a separated form; it is the form, the entelechy, the organizing principle of the body. The principle cannot be detached from the body in which it appears just as little as the function of sight can be detached from the eye. «The eye – says Aristotle – is the matter of sight, and when sight fails it is no longer an eye except in an equivocal sense, like a ston eye or a paintend eye. What is true of a part must be applied to the whole living body; for as a part of the sensitive faculty is to a part of the body, so is the whole sensitive faculty to the whole sentient body as such. As, then, cutting and seeing are actualities, so is waking, and as sight and the faculty of the organ of sight, so is the soul; […] but as the pupil and sight are the eye, so in the other case the soul and the body are the animal. Now, that the soul is not separable from the body […] is clear enough; for […] the actuality belongs to the parts of the body themselves» (De Anima; cf. Aristotle Selections, ed. W. D. Ross, p. 201 ff.)783. The soul can, therefore, not choose its body nor can it, by an external fate, descend into the body. The theories of a previous existence or of a transmigration of the human soul are declared by Aristotle to be mere mythical tales. «You might as well speak of the carpenter’s art (which is the result of the carpenter’s tool) migrating into flutes which are the tools of a musician». Just as much as a musician in order to express

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La forma, in quanto forma organica, non è affatto una mera astrazione; essa possiede la massima potenza; è il principio vitale che connette e tiene insieme tutti i fenomeni naturali. Dall’altro lato, Aristotele rigetta il dualismo ontologico tra materia e forma sostenuto da Platone. Materia e forma, corpo e anima sono, secondo Aristotele, princìpi differenti, ma non sostanze differenti. L’anima è forma, ma non è una forma separata; è la forma, l’entelechia, il principio organizzatore del corpo. Il principio non può essere separato dal corpo in cui appare, proprio come la funzione del vedere non può essere staccata dall’occhio. Dice Aristotele: «L’occhio è materia della vista, e, quando la vista viene meno, non è più occhio se non in senso equivoco, come un occhio di pietra o un occhio di vernice. Ciò che è vero di una parte deve essere applicato a tutto il corpo vivente; poiché come una parte della facoltà sensibile sta a una parte del corpo, così l’intera facoltà sensibile sta a tutto il corpo senziente in quanto tale. Come, dunque, tagliare e vedere sono attualità, così è la veglia, e come la vista e la facoltà dell’organo della vista, così è l’anima; […] ma come la pupilla e la vista sono l’occhio, così nell’altro caso l’anima e il corpo sono l’animale. Ora, che l’anima non sia separabile dal corpo […] è abbastanza chiaro; infatti […] l’attualità appartiene alle parti del corpo stesse» (Dell’anima; cf. Aristotle Selections, ed. W. D. Ross, p. 201 ss.)207. L’anima, pertanto, non sceglie il suo corpo per via di un destino esterno, né può discendere in un corpo. Le teorie di una preesistenza dell’anima o di una trasmigazione dell’anima umana vengono considerate da Aristotele meri racconti mitici: «Si potrebbe allora parlare dell’arte del falegname (che è il risultato dello strumento del falegname) come migrante nei flauti, che sono gli strumenti di un musico»208. Così come un

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himself cannot use every material instrument whatever, but has to choose a specific and appropriate instrument, a lyre or a flute, every soul can only appear and exert its power in a specific body. Here we have to explain another fundamental term of Aristotle, “potentiality”784. The division between “matter” and “form” corresponds in his system to the division between “dynamis” and “energeia” – possibility and actuality. The “organic physical body” is defined by him as that what is “potentially alive” – and it is for the soul or entelechy to realise or actualize this potential life of the organism. You will easily understand this if you bear in mind some of the fundamental features of organic life. Let us begin with a general analysis of the phenomena of change. The problem of change is one of the basic problems of Greek philosophy. All the former philosophers – Herakleitos, Parmenides, Empedokles, Anaxagoras, the Atomists – have given us their theories of change. Aristotles mentions and criticizes all these theories, and he thinks that all of them have missed the mark. The Eleatics denied the phenomena of change; they declared it to be a mere illusion. But such a denial is impossible; it seems to border to insanity. We have to accept change as the best-known uncontroverted fact of nature. In the theories that followed the Eleatic schools change was explained as a mixture or as a separation of constant elements. Especially in the atomistic system there was given a mechanistic theory of change. Such a theory may[,] in a certain sense[,] apply to the inorganic world; but according to Aristotle it can by no means account for those changes that we find in the organic world, in the life of plants or an animal. What is characteristic for these changes is that they

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musico per esprimersi non può utilizzare uno strumento materiale qualunque, ma deve scegliere uno strumento specifico e appropriato, così ogni anima può soltanto apparire ed esercitare la sua facoltà in un corpo specifico. Adesso bisogna spiegare un altro termine fondamentale di Aristotele: “potenza”. La divisione tra “materia” e “forma”, nel suo sistema, corrisponde alla divisione tra dynamis ed energeia – potenza e atto. Il “corpo fisico organico” viene definito da Aristotele come ciò che è “vivo in potenza” ed è compito dell’anima o entelechia realizzare o attualizzare questa vita potenziale dell’organismo. Comprenderete tutto ciò con facilità, se terrete a mente alcune delle caratteristiche fondamentali della vita organica. Iniziamo con un’analisi generale del fenomeno del mutamento. Il problema del mutamento costituisce uno dei problemi fondamentali della filosofia greca. Tutti i primi filosofi – Eraclito, Parmenide, Empedocle, Anassagora, gli Atomisti – ci hanno fornito una loro teoria del mutamento. Aristotele menziona e critica tutte queste teorie ed è anche convinto che nessuna di esse raggiunse lo scopo desiderato. Gli Eleati negarono il fenomeno del movimento, considerandolo una mera illusione, ma una negazione del genere è impossibile, rasenta quasi la follia. Bisogna accettare il mutamento come il fatto naturale più noto e indiscutibile. Nelle teorie successive alle scuole eleatiche il mutamento veniva spiegato in termini di mescolanza o separazione di elementi costanti. Specialmente nei sistemi atomistici rinveniamo, in particolar modo, una teoria del mutamento di stampo meccanicista. Una teoria simile, in un certo senso, la si potrebbe applicare al mondo inorganico; ma secondo Aristotele essa non fornirebbe alcuna descrizione di quei mutamenti che si verificano nel mondo organico, nella vita di una pianta o di un animale. Ciò che è caratteristico in

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have a specific direction. In the whole of its life an organism depends on certain external conditions. In order to grow a plant is in need of special physical elements – of water and air. It draws its nourishment from these inorganic elements; if it is deprived of them it is bound to die. But all this is only a negative condition of the life of an organism. What is essential and characteristic for this form of life is what we call assimilation785 of these material things. All plants need water or air – but each plant gives to the […]786 of water or air a different form that corresponds to the specific form of the organism. And even in the act of reproduction – which in the system of Aristotle is only a special case of the general act of nutrition, the same principle holds good. It is evident that an organism cannot produce or generate anything that does not belong to its own type, that does not possess its own specific essence and nature. An oak always generates an oak; a man generates a man and so on. It is the whole organic being of the oak or the man, their “substantial form”, that is contained in the seed or semen. This substantial form is not brought into being; it has existed before. But this existence was only a “potential” one, not an “actual” one. Change in the organic world means not generation in an absolute, but in a relative sense. It means evolution of a preexisting germ. The specific form of an organism is external – but it must grow up, it must come to its maturity – and this process or ripening is the basic character[istic] of organic life. By this we understand the Aristotelian definition of motion787. «Motion – he says – is actualization of that which is potentiality as such». In order to understand his definition, we have to

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questi cambiamenti è che hanno una direzione specifica. Nel corso della sua intera esistenza un organismo dipende da determinate condizioni esterne. Per crescere, una pianta ha bisogno di elementi fisici particolari – di acqua e aria. Trae nutrimento da elementi inorganici e, se ne è privata, la pianta è destinata a morire. Ma tutto ciò costituisce soltanto una condizione negativa della vita di un organismo. Ciò che è essenziale e caratteristico per questa forma di vita è in ciò che chiamiamo assimilazione di queste cose materiali. Tutte le piante hanno bisogno di acqua o di aria, ma ogni pianta conferisce all’acqua o all’aria una forma diversa, che corrisponde alla forma specifica dell’organismo. Lo stesso principio vale anche nell’atto della riproduzione, che nel sistema di Aristotele costituisce soltanto un caso speciale dell’atto generale della nutrizione. È evidente che un organismo non può riprodurre o generare nulla che non appartenga al suo tipo, che non possegga la sua specifica essenza e natura. Una quercia genera sempre una quercia, un uomo genera sempre un uomo e così via. È l’intero essere organico della quercia o dell’uomo, la loro “forma sostanziale”, a essere contenuta nel germe o seme. Questa forma sostanziale non è portata all’essere, esisteva già. Ma questa esistenza era soltanto in “potenza”, non “in atto”. Il mutamento nel mondo organico indica la generazione non in senso assoluto, ma in senso relativo. Essa significa evoluzione di un seme preesistente. La specifica forma di un organismo è esterna, ma deve anche crescere, deve raggiungere la sua maturità, e questo processo di maturazione è la caratteristica fondamentale della vita organica. Grazie a ciò comprendiamo la definizione aristotelica di movimento: «Il movimento – dice Aristotele – è attualizzazione di ciò che è in potenza in quanto tale»209. Per comprendere questa definizione, dobbiamo tenere

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bear in mind that Aristotle uses the term “motion” in a much broader sense as modern Physics. For modern Physics motion is always locomotion – it is a spatial phenomenon. But for Aristotle motion is change in general – quantitative as well as qualitative. Spatial movement or change of place is, even in Aristotle, regarded as a condition of all quantitative or qualitative changes; but we cannot define788 motion as a mere change of place. Motion is a process by which a potential state is transformed into an actual state. If an architect, for instance, builds a house he must begin with such a process. He brings a certain material – the bricks and the mortar – into a new form, into a state of being a house. The organic form – or the soul – works like such an architect. It cannot work without matter – but it gives to matter, which was a mere potential being, an actual being, a characteristic shape. And this holds not only for the single organism but for the whole organic life. Organic life is a continuous chain, a hierarchy of life, in which we ascend from the lower forms to the higher one, from the less developed to the more developed forms. By slow and imperceptible gradations[,] we can pass from the inorganic world to the world of plants, to the narrow species of animals and lastly to man, «whose soul’s childhood you might say differs not from the lower animals». After these general remarks we can now determine in a more precise way the place of Aristotle in the development of Greek thought and in the history of philosophy in general. If we study Aristotle’s Physics and Metaphysics[,] we find that he claims to be the first philosopher who succeeded in giving us a theory of nature789. That is rather surprising – for

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a mente che Aristotele utilizza il termine “movimento” in un senso molto più ampio rispetto alla fisica moderna. Per la fisica moderna il movimento è sempre locomozione, è un fenomeno spaziale. Ma per Aristotele il movimento è cambiamento in generale, sia quantitativo sia qualitativo. Anche in Aristotele il movimento spaziale, o mutamento di luogo, viene considerato come una condizione di tutti i mutamenti quantitativi o qualitativi; ma non possiamo definire il movimento come un semplice mutamento di luogo. Il movimento è un processo attraverso il quale uno stato in potenza è trasformato in uno stato in atto. Se un architetto, ad esempio, costruisce una casa, deve cominciare con un processo simile. Egli modifica alcuni materiali – come i mattoni e la malta – conferendo loro una forma rinnovata, che è quella della casa. La forma organica – o l’anima – lavora proprio come un architetto. Non può lavorare senza materia, ma conferisce a quest’ultima – inizialmente un semplice essere potenziale – un essere attuale, una forma caratteristica. Ciò vale non soltanto per il singolo organismo, ma anche per la vita organica nel suo complesso. La vita organica è una catena continua, una gerarchia nella quale ci innalziamo dalle forme inferiori a quelle superiori, dalle forme meno sviluppate a quelle più sviluppate. Attraverso gradazioni lente e impercettibili, si passa dal mondo inorganico al mondo delle piante, alle specie più limitate e infine all’uomo, «l’infanzia della cui anima, si potrebbe dire, non differisce dagli animali inferiori»210. Dopo queste osservazioni generali possiamo adesso determinare, in maniera più precisa, il posto di Aristotele nello sviluppo del pensiero greco e nella storia della filosofia in generale. Se studiamo la Fisica e la Metafisica di Aristotele, troviamo la sua dichiarazione di essere stato il primo filosofo ad aver fornito una teoria della natura.

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was not such a theory the general aim of all the great Greek thinkers since the time of Thales? Even Parmenides who, as a dialectician, denied the reality of change and motion gives to his poem the title: “On Nature” and he added to this poem a second part in which he deals with natural phenomena. Plato gave his natural philosophy in the Dialogue “Timaeus”; Empedokles, Anaxagoras, the Atomists had developed very detailed systems of Physics. In which sense can Aristotle reject all these former attempts and declare that, with regard to the phenomena of nature, philosophy had to make an entirely new start? He approaches the problem from a new angle. What is characteristic for Aristotle is the fact that he unites790 in an unusual way the two gifts that are indispensable for every great naturalist. He has an astounding gift for detailed and exact observation; but on the other hand[,] he is a logician and a dialectician; he strives at the widest universality of thought. Both features are combined and harmonized in his philosophy of nature. He contests the doctrine of the Eleatic thinkers and the doctrine of Plato by empirical arguments, and he tries to refute the former systems of natural philosophy by logical arguments. To deny the fact of change, to regard change as a mere illusion or as a sensible appearance that admits of no exact scientific description, is impossible. We cannot restrict philosophy to the realm of pure forms, to the realm of the eternal, the unchangeable and immovable. On the other hand[,] we have not explained the fact of change as long as we are only concerned with the sensible world and with material causes. For by such a method we never can find the truth791 of change. With regard to the

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Ciò appare piuttosto sorprendente. Una teoria simile non era stata infatti uno degli scopi generali di tutti i grandi pensatori greci a partire da Talete? Anche Parmenide – che nel suo poema Sulla natura, come dialettico, aveva negato la realtà del mutamento e del movimento – aggiunse alla sua opera una seconda parte che affrontava proprio i fenomeni naturali. Platone espose la sua filosofia naturale nel Timeo; Empedocle, Anassagora e gli Atomisti svilupparono un sistema di fisica estremamente dettagliato. In che senso Aristotele può rigettare tutti questi precedenti tentativi e affermare che, in merito ai fenomeni della natura, la filosofia doveva ricominciare completamente da capo? Egli si approccia al problema da una nuova angolazione. Ciò che è caratteristico in Aristotele è l’unificazione in maniera inusuale di due pregi indispensabili per ogni grande naturalista. Egli ha la sorprendente capacità di osservare in modo esatto e dettagliato, ma dall’altro lato, è anche un logico e un dialettico; mira alla più ampia universalità di pensiero. Entrambe le caratteristiche erano fuse e armonizzate nella sua filosofia della natura. Egli contesta – tramite argomentazioni empiriche – le dottrine dei pensatori eleatici e la dottrina di Platone, ma cerca anche di confutare i precedenti sistemi di filosofia naturale sulla base di argomentazioni logiche. Negare il fatto del mutamento, concepire il mutamento come una mera illusione o come un’apparenza sensibile che non ammette alcuna descrizione scientifica, è impossibile. Non possiamo restringere la filosofia al mondo delle forme pure, al mondo di ciò che è eterno, immutabile e immobile. Dall’altro lato, non possiamo di certo spiegare il fatto del mutamento prendendo in considerazione soltanto il mondo sensibile e le cause materiali. Infatti, attraverso questo metodo, non possiamo trovare la verità del mutamento. In meri-

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problem of truth Aristotle always speaks as a pupil of Plato and as a determined Platonist. True knowledge is no mere knowledge of single empirical facts because these facts cannot792 give us that universality793 that is contained in the very definition of truth. Scientific knowledge – says Aristotle in his Posterior Analytics – [«]is not possible through the act of perception[»]. For perception is restricted to the field of individual things and events in the “here” and “now”. [«]But that which is commensurately universal and true in all cases one cannot perceive, since it is not “this”, and it is not “now” – if it were, it would not be commensurately universal – the term we apply to that what is always and everywhere. Seeing, therefore, that demonstrations are commensurately universal and universals imperceptible, we clearly cannot obtain scientific knowledge by the act of perception; [nay] it is obvious that even if it were possible to perceive that a triangle has its angles equal to two right angles we should still be looking for a demonstration; we should not (as some say) possess knowledge of it; for perception must be of a particular, whereas scientific knowledge involves the recognition of the commensurate universal[»]794. Scientific knowledge always must give us the answer to the question why795 things are, instead of merely showing us what796 they are. «So if it were on the moon, and saw the earth shutting out the sun’s light, we should not know the cause of the eclipse: we should perceive the present fact of the eclipse, but not the reasoned fact at all, since the act of perception is not of the commensurate universal» (cf. Selections (Ross), p. 31 ff.). A theory797 of nature must, therefore, not only be based upon observable individual facts, but also on universal principles; it must possess a definite logical

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to al problema della verità, Aristotele parla da autentico discepolo di Platone, come un platonico a tutti gli effetti. La vera conoscenza non è mera conoscenza di fatti empirici, in quanto questi fatti non possono fornirci quell’universalità contenuta nella definizione stessa di verità. La conoscenza scientifica – afferma Aristotele nei suoi Analitici secondi – «non si può raggiungere attraverso l’atto di percezione». Infatti la percezione è ristretta al campo delle cose e degli eventi individuali nel “qui” e “ora”. «Ma ciò che è proporzionalmente universale e vero in tutti i casi non si può percepire, poiché non è “questo”, e non è “ora” – se lo fosse, non sarebbe proporzionalmente universale – il termine che applichiamo a ciò che è sempre e ovunque. Visto, quindi, che le dimostrazioni sono proporzionalmente universali e gli universali impercettibili, è chiaro che non possiamo ottenere la conoscenza scientifica mediante l’atto di percezione; [no] è ovvio che, anche se fosse possibile percepire che un triangolo ha gli angoli uguali a due retti, dovremmo comunque cercare una dimostrazione; non dovremmo (come dicono alcuni) possederne conoscenza; infatti la percezione deve essere di un particolare, mentre la conoscenza scientifica implica il riconoscimento dell’universale proporzionato»211. La conoscenza scientifica deve sempre fornirci la risposta alla domanda sul perché le cose sono, invece di mostrarci semplicemente cosa sono: «Così, se fossimo sulla luna, e vedessimo la terra escludere la luce del sole, non sapremmo la causa dell’eclissi: percepiremmo il fatto presente dell’eclissi, ma non il fatto motivato, poiché l’atto di percezione non è dell’universale proporzione» (cfr. Selections (Ross), pp. 31 ss.). Una teoria della natura non deve quindi basarsi solo sull’osservazione di fatti individuali, ma anche su princìpi universali; deve

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structure. It is not enough to know the facts; we must investigate into their reasons and must be able to give a systematic survey of these reasons. In his Physics, Aristotle begins with a general definition of nature. Things which exist by nature are distinguished from other things – from artificial things, from things made by art – by the fact that they have in themselves «a source of movement or rest». They have a certain tendency to move – fire for instance has the tendency to move up, earth the tendency to move down. In manufactured things we find no tendency to move: if the[y] move the[y] do not move as such but in virtue of the material of which they are made. But all natural processes (except the motion of the celestial bodies that we shall have to treat later on) the upward and downward movement of terrestrial elements, the growth of plants and animals have a terminating point – a certain end; even if they have reached their terminating point they naturally come to rest. It is therefore not motion as such – but it is motion that strives to an end and that attains this end that is characteristic for all natural phenomena. It follows from this that it is impossible to explain these phenomena if we only take into consideration their mechanical causes. By these causes we can account for the local motion of natural things[,] but we can gain no insight into the ends they strive at; we cannot find the first principle of their motion. Generally speaking[,] Aristotle distinguishes between four kinds of cause: causa materialis, causa formalis, causa efficiens, causa finalis – the material cause, the formal cause, the efficient cause, the final cause. (cf. Ross, Selections, p. 56 ff.). «The term cause first applies to that out of which a thing comes to be and which is present as a con-

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possedere una struttura logica determinata.212 Non è sufficiente la conoscenza dei fatti; dobbiamo piuttosto indagarne le ragioni ed essere in grado di fornire una rassegna sistematica di queste ragioni. Nella sua Fisica Aristotele inizia con una definizione generale di natura. Le cose che esistono per natura si distinguono dalle altre cose – ossia dalle cose artificiali, dagli oggetti artistici – poiché esse hanno in sé «una fonte del movimento o della quiete»213. Esse hanno una certa tendenza a muoversi; per cui, ad esempio, il fuoco ha la tendenza a muoversi verso l’alto, mentre la terra verso il basso. Negli oggetti artificiali non troviamo alcuna tendenza a muoversi: se si muovono, non lo fanno in virtù del tipo di materia di cui sono fatti. Ma tutti i processi naturali (a eccezione dei movimenti dei corpi celesti, che verranno trattati più avanti) come il movimento verso l’alto e quello verso il basso degli elementi terrestri, la crescita delle piante e degli animali, hanno un termine verso cui tendono, un certo fine; anche se hanno raggiunto il loro punto terminale, si arrestano naturalmente. Esso non è dunque il movimento in quanto tale, ma il movimento che tende a un fine e che raggiunge questo fine tipico di tutti i fenomeni naturali. Ne consegue l’impossibilità di spiegare questi fenomeni prendendone in considerazione unicamente le cause meccaniche. Attraverso queste cause possiamo fornire un resoconto del moto locale, delle cose naturali, ma non possiamo intuire in alcun modo i fini a cui tendono; non possiamo trovare il principio primo del loro movimento. In generale, Aristotele distingue quattro tipi di cause: causa materialis, causa formalis, causa efficiens e causa finalis214 – causa materiale, causa formale, causa efficiente e causa finale (cf. Ross, Selections, pp. 56 ss.): «Il termine “causa” si applica in primo luogo a ciò da cui una cosa nasce e che è presente come componente

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stituent in the product. In this sense it means the immanent material of a thing for instance the bronze of the statue or the silver of the saucer. But the term cause is also applied to the form or pattern, or as Aristotle expresses himself, to the “formula of the essence”. In this sense we may say that the ratio 2:1 is the cause of the octave; it gives us the formula, the exact definition of the octave. The third kind of cause – the moving or efficient cause – designs that from which come the immediate origin of the movement or rest. In this sense we may speak of natural causes or moral causes. Who gives us a[n] advice becomes by this the cause of a special action; and in a physical sense the father is said to be the cause of the child. In general the maker is a cause of the thing made and the change-producing of the changing». But the last and the most important kind of cause is, according to Aristotle, the “causa finalis”, the “final cause”, that means the end or the aim of a certain action. In this sense “health” may be said to be the cause of “our walking”. «For why does one walk? We say ‘that one may be healthy and in speaking thus we think we have given the cause. The same is true of all the means that intervene before the end, when something else has put the process in motion, as e. g. thinning or purging or drigs or instruments intervene before health is reached; for all these are for the sake of the end, though they differ from one another in that some are instruments and other are actions». Even when describing the phenomena of the inorganic world we can never give a satisfactory theory of these phenomena – we cannot answer the question why798 they are, what they are – without appealing to final causes. For even the elements of the inorganic world have a certain inherent tendency of motion. Each element moves in a certain direc-

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nel prodotto. In questo senso significa la materia immanente di una cosa, per esempio il bronzo della statua o l’argento del piattino. Ma il termine “causa” si applica anche alla forma o modello, o – come si esprime Aristotele – alla “formula dell’essenza”. In questo senso si può dire che il rapporto 2:1 è la causa dell’ottava; ci dà la formula, la definizione esatta dell’ottava. Il terzo tipo di causa – la causa motrice o efficiente – disegna ciò da cui viene l’origine immediata del movimento o della quiete. In questo senso si può parlare di cause naturali o di cause morali. Chi ci dà un consiglio diventa per questo la causa di un’azione speciale; e in senso fisico si dice che il padre è la causa del figlio. In genere il fattore è causa della cosa fatta e ciò che produce mutamento è causa del mutante». Ma l’ultima e la più importante delle cause, secondo Aristotele, è la causa finalis, la “causa finale”, che indica il fine o lo scopo di una certa azione. In questo senso si può dire che la “salute” è la causa del “nostro camminare”. «Perché si cammina? Diciamo “che lo si fa può essere sani e, parlando così, pensiamo di aver dato la causa”. Lo stesso vale per tutti i mezzi che intervengono prima della fine, quando qualcos’altro ha messo in moto il processo, come ad es. prima che si raggiunga la salute intervengono diradamenti o purganti o farmaci o attrezzi ginnici; infatti tutti questi sono per amore del fine, sebbene differiscano l’uno dall’altro in quanto alcuni sono strumenti e altri sono azioni»215. Anche nella descrizione dei fenomeni del mondo inorganico, non possiamo mai fornirne una soddisfacente teoria di questi fenomeni – non possiamo rispondere alla domanda “perché sono”, “cosa sono” – se non ci appelliamo alle cause finali. Infatti, anche gli elementi del mondo inorganico hanno una certa intrinseca direzione di movimento. Ogni elemento si muove in una certa di-

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tion; and it strives to a certain place. If this place is reached, the motion comes to its end. According to this presupposition, Aristotle gives us his general scheme of the physical world. He accepts the theory of the elements that had been given by Empedokles. Earth, water, air, fire are regarded as the elements of things799. They are not absolute elements[;] they admit of a further composition but their components have no separate existence; they only exist in the elements themselves. These components are the four fundamental qualities; the warm800 and the cold801 and the dry802 and the moist. The elements are combinations of these qualities: fire is the dry-warm, earth is the dry-cold, air the moistwarm, water the moist-cold. And each of these elements has its “natural place” – its definite position in the universe. If by external circumstances[,] by “violent” motion it is dislodged from his place it always strives to return to it. Each of these elements has within itself a principle of its change and of its coming to rest. Earth, for instance, always tends downwards to the centre of the universe; fire always tends upward to the higher sphere, to the sphere above the moon. The fundamental character of the Physics of Aristotle – in contradistinction to our modern Physics – is his thoroughgoing tendency to describe inorganic phenomena in terms of organic life. In his theory these phenomena – the rising of fire, the sinking of earth – cannot be understood, cannot find a final explanation, except by analogies of organic life. It is the very nature of earth to be at the centre of the universe – therefore it cannot rest before it has reached this “natural place” – just as much as an organism does not rest until it

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rezione e tende verso un determinato luogo. Se questo luogo viene raggiunto, il movimento ha raggiunto il suo fine. Aristotele ci fornisce uno schema generale del mondo fisico proprio sulla base di questo presupposto. Egli accetta la teoria degli elementi fornita da Empedocle, secondo cui gli elementi delle cose sono terra, acqua, aria e fuoco. Essi, tuttavia, non sono elementi assoluti, poiché ammettono una ulteriore composizione; anche se i loro componenti non hanno un’esistenza separata, poiché esistono soltanto negli elementi stessi. Questi componenti costituiscono le quattro qualità fondamentali: il caldo, il freddo, l’asciutto e l’umido. Gli elementi sono combinazioni di queste qualità: il fuoco è l’asciutto-caldo, la terra l’asciutto-freddo, l’aria l’umido-caldo e l’acqua l’umido-freddo. Ognuno di essi ha il suo “luogo naturale”, la sua posizione determinata nell’universo. Se per circostanze esterne o per via di un moto “violento” un elemento viene rimosso dal suo luogo, esso tende sempre a ritornarvi. Ognuno degli elementi ha in se stesso un principio del suo mutamento e del suo ritornare in quiete. La terra, ad esempio, tende sempre verso il basso, al centro dell’universo; il fuoco cerca sempre di tendere verso l’alto fino alla sfera più alta, ossia la sfera sopra la luna. Il carattere fondamentale della fisica di Aristotele – in contrapposizione alla nostra fisica moderna – consiste nella sua rigorosa tendenza a descrivere i fenomeni inorganici in termini di vita organica. Nella sua teoria questi fenomeni – la salita del fuoco, la discesa della terra – non possono essere compresi e non possono trovare una loro spiegazione conclusiva se non mediante le analogie ricavate dalla vita organica. Così come la terra per sua natura sta al centro dell’universo – e quindi non può stare in quiete se non ha prima raggiunto il suo “luogo naturale” – così gli organismi non stanno in quiete fino

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comes to its full maturity. To ask why803 fire moves upwards [–] says Aristotle in a characteristic simile [–] is like asking why the curable when acted upon qua curable attains health. In the inorganic world, just as much as in the organic world, “becoming” is explained according to the same views and by the same terms: the rising of fire, the falling of earth, is the “actualization of potentiality”. “Teleology” – the explanation of natural phenomena according to final causes – is, therefore, the general principle of Aristotle’s philosophy of nature. We cannot understand a particular thing or event before having found its final cause. Nature is always striving after a goal. In this regard there is no difference between its activity and the [activity]804 of man. Nature does nothing in vain. It is true that nature cannot always attain its end. For the formal or final cause is not the only one. There is a material cause that in many cases impedes or obstructs the energy of the formal cause. Nevertheless[,] in the whole process of nature the latter always gains the definitive victory. Aristotle does not ascribe a conscious purposive action to nature; but he says that nature behaves as if it foresaw the future. «This is most obvious in the animals other than man; they make things neither by art nor after inquiry or deliberation – wherefore people discuss whether it is by intelligence or by what it is that these creatures work, spiders, ants, and the like. By gradual advance in this direction[,] we come to see that in plants too that is produced which is conducive to the end – leaves e. g. grow to provide shade for the fruit. If then it is both by nature and for an end that the swallow makes its nest and the spider its

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a quando non raggiungono la loro piena maturità. Chiedersi perché il fuoco va verso l’alto – sostiene Aristotele con una similitudine caratteristica – è come chiedersi perché ciò che è guaribile, quando ha agito in quanto soggetto a guarire, perviene alla salute216. Nel mondo inorganico, analogamente a quello organico, il “divenire” viene spiegato in base alle medesime concezioni e negli stessi termini: la salita del fuoco, la caduta della terra, sono “l’attualizzazione della potenza”. La “teleologia” – la spiegazione dei fenomeni naturali secondo cause finali – è pertanto il principio generale della filosofia della natura di Aristotele. Non possiamo comprendere un evento particolare o una cosa particolare senza averne prima trovato la causa finale. La natura tende sempre verso uno scopo. Da questo punto di vista, non sussiste alcuna differenza tra la sua attività e l’attività dell’uomo. La natura non fa nulla invano. È vero che la natura non sempre raggiunge il suo scopo. Ma non ci sono soltanto la causa formale o finale. C’è anche la causa materiale, che in molti casi impedisce od ostruisce l’energia della causa formale. Cionondimeno, nell’intero processo della natura, quest’ultima ottiene sempre la sua vittoria definitiva. Aristotele non attribuisce alla natura una cosciente azione intenzionale; ma sostiene che essa si comporta come se anticipasse il futuro: «Questo è più evidente negli animali diversi dall’uomo, i quali non fanno le cose né con l’arte né con indagine né con deliberazione – per cui si discute se è per intelligenza o per altro che lavorano queste creature, ragni, formiche e simili. Avanzando per gradi in questa direzione, vediamo che anche nelle piante si produce ciò che è favorevole al fine – ad es., le foglie crescono per fornire ombra ai frutti. Se dunque è per natura e per fine che la rondine fa il suo nido e il ragno la sua tela, e le piante fanno le foglie

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web, and plants grow leaves for the sake of the fruit and send their roots down (not up) for the sake of the nourishment, it is plain that this kind of cause is applicable to things which come to be and are by nature. And since “nature” meanse two things, the matter and the form, of which the latter is the end, and since all the rest is for the sake of the end, the form must be the cause – that for which» (cf. Selections, Ross, p. 118 f.). A mechanical theory of nature – in the sense of the Atomists and other Pre-Socratic systems – is, therefore, according to Aristotle, not only insufficient, but it would not be at all a “theory”; for a theory must always contain an element of reason, of rationality. When Anaxagoras introduced the Nūs as the moving force of the universe – says Aristotle – he became by this the true founder of a philosophy of nature. «When these men and the principles of this kind had had their day, as the latter were found inadequate to generate the nature of things men were again forced by the truth itself […] to inquire into the next kind of cause. For it is not likely either that fire or earth or any such element should be the reason why things manifest goodness and, beauty both in their being and in their coming to be… nor again could it be right to entrust so great a matter to spontaneity and chance. When one man said, then, that reason was present – as in animals, so throughout nature – as the cause of order and of all arrangement, he seemed like a sober man in contrast with the random talk of his predecessors» (Metaphys. 984a)805. After this short description of Aristotle’s Physics and of his doctrine of the soul we must now raise a more general question. Wherein consists [of] the systematic connexion between Aristotle’s and Plato’s thought – and what makes

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per il frutto e mettono le radici in basso (non in alto) per il nutrimento, è chiaro che questo tipo di causa è applicabile alle cose che nascono e sono per natura. E poiché “natura” significa due cose, la materia e la forma, di cui quest’ultima è il fine, e poiché tutto il resto è in vista del fine, la forma deve essere la causa – ciò in vista di cui» (cf. Selections, Ross pp. 118 s.)217. Secondo Aristotele, una teoria meccanicistica della natura – nel senso degli Atomisti e degli altri sistemi presocratici – non solo non sarebbe sufficiente, ma non sarebbe nemmeno una “teoria”, poiché una teoria deve sempre contenere un elemento di ragione, di razionalità. Aristotele afferma che, quando Anassagora introdusse il Nūs inteso come forza motrice dell’universo, con ciò divenne il vero fondatore della filosofia della natura. Riferendosi ai pensatori di Mileto e a Empedocle, Aristotele afferma: «Quando questi uomini e i princìpi di questo tipo ebbero fatto il loro tempo, poiché questi ultimi furono trovati inadeguati a generare la natura delle cose, gli uomini furono nuovamente costretti dalla verità stessa […] a indagare sul prossimo tipo di causa. Perché non è verosimile che né il fuoco, né la terra, né alcuno di questi elementi siano la ragione per cui le cose manifestino la bontà e la bellezza sia nel loro essere sia nel loro divenire [...], né ancora potrebbe essere giusto affidare una questione così grande alla spontaneità e alla possibilità. Quando uno disse quindi che la ragione era presente – negli animali e in tutta la natura – come causa dell’ordine e di ogni disposizione, sembrò un uomo sobrio in contrasto con il parlare ebbro dei suoi predecessori»218. Dopo questa breve esposizione della fisica di Aristotele e della sua dottrina dell’anima, dobbiamo sollevare adesso una questione più generale. Qual era la connessione sistematica tra il pensiero di Aristotele e il pensiero

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the real difference between both thinkers? To regard Aristotle as a mere adversary of Plato would be very superficial. He has been a pupil of Plato806 for more than twenty years – and there is no doubt that he was filled with a great admiration and deep reverence for his master. We have no historical evidence whatever that their personal friendship ever was enfeebled or seriously endangered. It is true that in many of Aristotle’s writings we find a severe criticism of Plato’s fundamental doctrines. But that was by no means unusual in the Academy of Plato. It is one of the greatest merits of Plato himself and of many of his pupils that they were very independent spirits. The education of Plato’s Academy was not based on authority. The Academy had a very free organization. [Every disciple of Plato was at liberty to search his own way. He was expected to choose his object of investigation and his method of research]807. Plato himself seems at all times to have encouraged this spirit of independence. If we look at his later dialogues – the Parmenides or the Sophist – we find here a modification and correction of his original theory which very likely was called forth by objections that had been made in his own school. In a famous passage of his Nicomachean Ethics Aristotle gives a beautiful expression of the general maxim that governed the life in the Platonic Academy. «We had perhaps better consider the universal good and discuss thoroughly what is meant by it – says Aristotle – although such an inquiry is made an uphill one by the fact that the Forms have been introduced by friends of our own. Yet it would perhaps be thought to be better, indeed to be our duty, for the sake of maintaining the truth even to destroy what touches us closely; especially as we are philosophers or lovers of wisdom; for, while both are dear, piety requires us to know truth above our friends»

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di Platone? E in cosa consiste esattamente la differenza tra i due pensatori? Considerare Aristotele un semplice avversario di Platone sarebbe molto superficiale. Egli fu allievo di Platone per più di vent’anni, e per il suo maestro, indubbiamente, nutriva una grande ammirazione e un profondo rispetto. Non disponiamo di prove storiche per sostenere che la loro amicizia si indebolì o affievolì mai. È vero che in molti scritti di Aristotele troviamo delle severe critiche alle dottrine fondamentali di Platone, ma questo non era di certo inusuale nella stessa Accademia platonica. Fu uno dei più grandi meriti di Platone e dei suoi allievi l’aver sempre coltivato uno spirito critico. L’educazione, nell’Accademia di Platone, non poggiava sull’autorità. L’Accademia era un’organizzazione abbastanza libera. [Ogni discepolo di Platone era libero di cercare il suo metodo. Da sé sceglieva il suo oggetto di indagine e il suo metodo di ricerca]. Platone stesso sembra aver sempre incoraggiato questo spirito di indipendenza. Se volgiamo il nostro sguardo ai suoi dialoghi tardi – il Parmenide o il Sofista – notiamo qui una modifica e correzione della sua originaria teoria, che molto probabilmente richiama le obiezioni che gli erano state mosse nella sua stessa scuola. In un famoso brano della sua Etica Nicomachea, Aristotele ci fornisce una bella espressione della massima generale che regolava la vita dell’Accademia platonica: «Faremmo forse meglio a considerare il bene universale e discutere a fondo cosa si intende con esso – dice Aristotele – sebbene tale indagine sia resa difficile dal fatto che le Forme sono state introdotte da nostri amici. Eppure si potrebbe forse pensare che sia meglio, anzi nostro dovere, per mantenere la verità, distruggere anche ciò che ci tocca da vicino; tanto più che siamo filosofi o amanti della saggezza; infatti, mentre entrambi sono cari, la pietà ci richiede di cono-

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(Nic. Eth. 1096a; cf. Select. p. 221). It is this passage that usually is quoted in the form: Amicus Plato, sed magis amica veritas. To put it shortly[,] we may say that Aristotle adopted Plato’s conception and definition of truth – but he did not admit his definition of reality. But by this he was led on to a difficult question and he had to confront a very serious dilemma. In Plato we find a perfect harmony, nay a real identity between the concept of truth808 and the concept of Being809. He follows, in this respect, the general maxim of Parmenides. In the Theaetetus Plato speaks of Parmenides as a profound thinker, for whom he feels the deepest respect; he calls him “venerable and awful” (Theaetetus 183). Parmenides throughout his whole poem emphasizes that we can make no difference between “Being” and “Truth”, between thought and reality. From this Eleatic presupposition Plato draws the consequence that if truth is only to be found in universal and necessary propositions – reality itself must be of the same kind. The single, unchangeable things, the objects of sense-perception, have no reality, because it is impossible to form universal propositions about them; they are to be compared with fugitive shadows. That seems to be entirely clear and consistent. But if we study the work of Aristotle, we find to our surprise that he admits the premise of Plato without accepting the inference that Plato had drawn from this premise. He, too, says us that scientific knowledge is not possible through the act of perception. Perception gives us only individual cases – it is restricted to a definite present place and time, to a “here” and “now”. But science must be universal – it is concerned with what is always and everywhere. (Analyt. Poster. 87b; cf. Selections p. 31). On the other hand[,] Aristotle insists on the fact that reality810 is not to be found in mere forms. It is always composed of two elements – of “matter” and “form”. What is real is not the abstract universal form, but the synthesis,

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scere la verità al di sopra dei nostri amici» (Etica Nicomachea, 1096a; cf. Select. p. 221)219. Questo passo di solito viene citato nella forma: Amicus Plato, sed magis amica veritas. In breve, Aristotele adottò la concezione e definizione platonica di verità, pur non accettando la sua definizione di realtà. Ma con ciò egli giunse a una questione difficile e dovette confrontarsi con un serio dilemma. In Platone noi rinveniamo una perfetta armonia, anzi una effettiva identità tra il concetto di verità e il concetto di essere. Nel Teeteto Platone descrive Parmenide come un profondo pensatore, verso il quale nutre il più grande rispetto; lo chiama “venerando e terribile” (Teeteto 183)220. Parmenide, col suo poema, sottolinea che non vi è alcuna differenza tra “essere” e “verità”, tra pensiero e realtà. Platone, da questo presupposto eleatico, trae la conseguenza: se la verità può essere trovata in proposizioni universali e necessarie, allora anche la realtà deve essere dello stesso tipo. Le cose singole e mutevoli, gli oggetti della percezione, non hanno alcuna realtà, in quanto è impossibile formare delle proposizioni universali riguardo a esse; vanno infatti paragonate a delle ombre mutevoli. Ciò sembra piuttosto chiaro e consistente. Ma se studiamo l’opera di Aristotele notiamo, con nostra grande sorpresa, che egli ammette la premessa platonica senza accettarne le conclusioni. Anch’egli ci dice che la conoscenza non è possibile attraverso il solo atto della percezione. La percezione ci fornisce unicamente casi individuali, è limitata a un preciso luogo e tempo, al “qui” e all’“ora”. Ma la scienza deve essere universale, ha a che fare con ciò che è sempre e ovunque (Analitici secondi 87b; cf. Selections p. 31). Dall’altro lato, Aristotele insiste sul fatto che la realtà non va trovata in mere forme. Essa è sempre composta da due elementi, “materia” e “forma”. Ciò che è reale

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the union, the penetration of matter and form. All real things are therefore individual811 things. Our knowledge812 however is always directed to universal things; for it is only of these things that we can give a definition813 and that we can get a demonstration814. A definition and demonstration is impossible in the case of mere individual things or individual facts. On the other hand every substance815 in the universe is individual[;] the universal as such, although undoubtedly real and objective, has no separate existence. The “principle of individuation” or individuality lies in matter; the principle of knowledge lies in form. Aristotle has attempted many solutions of this problem – of the question how individuals can be known (About this see W. D. Ross, Aristotle p. 170 ff.). But none of them seems to be entirely convincing and satisfactory. The question has remained a stumbling block for all the commentators of Aristotle – both for the medieval and for the modern commentators. But I cannot enter here in a discussion of this difficult and much controverted question; I only wish to inquire into the causes816, into the historical and systematical motives of this discussion between Plato and Aristotle. In his doctrine of ideas Plato had given an analysis of Being. Aristotle, however, could not remain with this doctrine. For here he could not find any solution of his principal problem; of the problem of organic life. Life is not a steadfast, permanent, constant thing – it is a process. It is going on and it is evolving in time. For understanding and interpreting it we are therefore not only in need of a logical and dialectic theory of Being817. We must begin at the opposite end; we must develop a the-

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non è l’astratta forma universale, ma la sintesi, l’unione, la compenetrazione di materia e forma. Tutte le cose reali sono quindi individuali. La nostra conoscenza è comunque sempre diretta alle cose universali, giacché solo di queste cose noi possiamo fornire una definizione e possiamo avere una dimostrazione. Una definizione e una dimostrazione sono impossibili nel caso di mere cose individuali o fatti individuali. Dall’altro lato, ogni sostanza nell’universo è individuale; l’universale come tale, sebbene indubbiamente reale e oggettivo, non ha un’esistenza separata. Il “principio di individuazione” o di individualità è insito nella materia; il principio della conoscenza è insito nella forma. Aristotele ha cercato di fornire diverse soluzioni a questa questione, la questione su come si possano conoscere gli individui (su questa tematica si veda W. D. Ross, Aristotele, pp. 170 ss.)221. Ma nessuna di esse sembrava interamente soddisfacente e convincente. La questione è rimasta una pietra d’inciampo per tutti i commentatori di Aristotele – sia per i commentatori medievali sia per quelli moderni. Ma non posso entrare qui nel merito in una discussione di tale difficile e molto controversa questione. Intendo soltanto indagare le cause, i motivi storici e sistematici di questa discussione tra Platone e Aristotele. Nella sua dottrina delle idee, Platone ha fornito un’analisi dell’essere. Aristotele, in ogni caso, non poteva arrestarsi a questa dottrina, perché non rinveniva in essa alcuna soluzione del suo problema principale: il problema della vita organica. La vita non è un qualcosa di fisso, permanente, costante – è un processo. Essa procede e si evolve nel tempo. Per comprenderla e interpretarla, pertanto, non abbiamo bisogno unicamente di una teoria logica o dialettica dell’essere. Dobbiamo iniziare dall’estremo opposto; dobbiamo sviluppare una teoria

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ory of Becoming818. A scientific analysis819 of the concept of becoming was, therefore, the first step that Aristotle had to take in order to construct his theory of nature. All his fundamental concepts – his distinction between matter and form, between potentiality and actuality – are destined for this purpose. Motion is conceived as organic evolution – and organic evolution is described as the passage from potentiality to actuality from an undifferentiated and implicit state to a more deterministic and explicit state. If we look at “matter” or “form” as separate entities[,] we cannot find the true evolution of the problems of life. Both the materialists and the formalists, the atomistic theory[,] and the Platonic doctrine of ideas, have missed the point. Matter as such has no reality at all; it is mere possibility or potentiality; for it is, taken in itself, entirely indeterminate, as Aristotle says, an “Apeiron” – something boundless, inexplicable indefinable. «We must articulate our meaning before we begin to inquire – says Aristotle – if not, the inquiry is on the boder-line between being a search for something and a search for nothing. Since we must have the existence of the thing as tomething given, clearly the question is why820 the matter is some definite thing – e. g. why are these materials a house? Because that which was the essence of a house is present. […] Therefore what we seek is the cause, i. e. the form, by reason of which the matter is some definite thing» (Metaphys, 1041b). Reality, true reality, is neither to be found in matter separably, or in form separately, it is the synthesis, the concrete union of matter and form. A house is neither a heap of bricks and timbers, nor is it a mere immaterial form – it is the correlation an, as it were, a penetration of these two moments; it

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del divenire. Il primo passo che Aristotele doveva compiere per costruire la sua teoria della natura, pertanto, era un’analisi scientifica del concetto di divenire. Tutti i suoi concetti fondamentali – la distinzione tra materia e forma, tra potenza e atto – erano finalizzati a questo scopo. Il movimento è concepito come evoluzione organica – e l’evoluzione organica è descritta come il passaggio dalla potenza all’atto, da uno stato indifferenziato e implicito a uno stato deterministico ed esplicito. Non possiamo trovare la vera evoluzione dei problemi della vita, se concepiamo la “materia” e la “forma” come entità separate. Sia i materialisti sia i formalisti – la teoria atomistica e la dottrina platonica delle idee – non hanno colto il punto. La materia in quanto tale non ha alcuna realtà: è una mera possibilità o potenzialità, in quanto essa, presa in se stessa, è interamente indeterminata, come dice Aristotele, è un apeiron, qualcosa che non ha limiti, inspiegabile, indefinibile: «Dobbiamo articolare il nostro significato prima di iniziare a indagare – dice Aristotele – altrimenti l’indagine è al confine tra l’essere una ricerca di qualcosa e una ricerca di niente. Dal momento che dobbiamo avere data l’esistenza della cosa come qualcosa, chiaramente la domanda è perché la materia è una cosa definita – ad es. perché questi materiali sono una casa? Perché quella che era l’essenza di una casa è presente. […] Quindi ciò che cerchiamo è la causa, cioè la forma, in virtù della quale la materia è qualcosa di definito» (Metafisica, 1041b)222. La realtà, la vera realtà, non la si può trovare separatamente nella materia o separatamente nella forma: essa è la sintesi, l’unione concreta di materia e forma. Una casa non è un mucchio di mattoni e legni, né una mera forma immateriale – è la correlazione e, per così dire, compenetrazione di questi due momenti: la casa può essere definita come

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may be defined as «bricks and timbers in such [and such] a position» (Metaphys. 1043a). If we look back at this Aristotelian theory of Nature[,] we find that it gives us a very coherent logical view of all the natural phenomena. All of them obey the same general laws and are explained according to the same principles. Nature is always the same. It is not a ready-made thing but a continuous process. This process leads us, without any break of continuity, without a sudden interruption from the inorganic world to the organic world, from plants to animals, from animals to man. And this scale of beings is also a scale of value. There are higher and lower shapes. In the lower shape the higher is contained potentially; in the higher shape the lower is actualized; it has come to its full maturity. Of course[,] Aristotle’s theory of evolution is not our own modern theory. We must821 avoid to mix it up with the principles of Darwinism. Nevertheless[,] the general conception of the universe as a continuous scale of being that leads from the formless matter to the highest developed forms governs the whole philosophical system of Aristotle. But all this seems suddenly to be called into question as soon as we enlarge our view – as soon as we leave the organic world, the world of life. If from the Aristotelian biology[,] we pass to the Aristotelian cosmology and astronomy we seem to meet quite different concepts. We cannot immediately transfer these principles that proved to be valid for the description of our terrestrial phenomena to the celestial phenomena. It is a very different image of nature that we find here. According to Aristotle the universe is composed of two strictly separated spheres.

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«una posizione così e così di mattoni e legno» (Metafisica, 1043a)223. Se ritorniamo a questa teoria aristotelica della natura, troviamo che essa ci fornisce un quadro logico davvero coerente di tutti i fenomeni naturali. Questi ultimi obbediscono alle medesime leggi generali e vengono spiegati secondo gli stessi princìpi. La natura è sempre la stessa. Essa non è qualcosa di già pronto, ma un continuo processo. Questo processo – senza alcuna soluzione di continuità, senza alcuna interruzione improvvisa – ci conduce dal mondo inorganico a quello organico, dalle piante agli animali, dagli animali all’uomo. E questa scala dell’essere è anche una scala di valori. Vi sono le forme superiori e quelle inferiori. La forma superiore è potenzialmente contenuta in quella inferiore; quella inferiore è invece in atto in quella superiore: è giunta alla sua piena maturità. Ovviamente, la teoria aristotelica dell’evoluzione non corrisponde alla nostra teoria moderna. Dobbiamo evitare di confonderla con i princìpi del darwinismo. Cionondimeno, la concezione generale dell’universo concepito come una continua scala dell’essere, che va dalla materia senza forma alle più alte forme sviluppate, governa l’intero sistema filosofico di Aristotele. Ma tutto ciò si rivela immediatamente problematico non appena allarghiamo il nostro sguardo, non appena abbandoniamo il mondo organico, il mondo della vita. Se dalla biologia aristotelica passiamo alla cosmologia e astronomia aristoteliche, ci sembra di incontrare concetti piuttosto diversi. Non possiamo trasferire immediatamente ai fenomeni celesti questi princìpi dimostratisi, invece, validi per la descrizione dei nostri fenomeni terrestri. Qui ci imbattiamo in una immagine della natura del tutto diversa. Secondo Aristotele l’universo è composto da due sfere rigorosamente separate. Il

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The sublunary world, the world below the moon is of quite different type than the world above the moon, the world of celestial bodies. If we ascend to this higher world[,] we find no longer the same matter and we find no longer the same form of motion. All our earthly bodies are composed of four fundamental elements: of earth and air, of water and fire. Each of these elements has a characteristic and specific form of motion. By its very nature and essence earth always sinks downwards; fire always tends upwards. They strive to reach their natural places. But beyond the sphere of the earth and the sphere of these elementary movements there begins a new world that is not composed of the elements of fire and water, of air and earth822, and that, therefore, cannot have the same form of motion. All our earthly elements are moving in straight lines – and such a movement after a certain time necessarily comes to a standstill. Aristotle did not know our law of inertia; he could not admit that a body, if it finds no external obstacle, will continue its movement for an indefinite time. Experience seemed to prove undeniably that823 motion becomes slower and slower and that at the end it is annihilated without a new impulse from without. But the celestial bodies are not subject to such a limitation. Their motion is eternal because their substance is eternal. The celestial bodies are not made of a changing and perishable stuff. Whereas the substance of our earthly elements is liable to change and decay the substance of the heavens is indestructible and incorruptible. And to such and indestructible and eternal substance there must correspond an eternal form of motion. The starry heavens move824 with an unceasing circular motion. That its motion is circular is not only confirmed by experience; it is regarded by Aristotle as a necessary fact

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mondo sublunare, il mondo posto al di sotto della luna, è di tipo decisamente diverso rispetto a quello lunare – il mondo dei corpi celesti. Se saliamo verso questo mondo superiore non troviamo più la stessa materia e nemmeno la stessa forma di movimento. Tutti i nostri corpi terrestri sono composti da quattro elementi fondamentali: terra, aria, acqua e fuoco. Ognuno di questi elementi ha una sua specifica forma di movimento. Per sua natura ed essenza la terra va sempre verso il basso, il fuoco verso l’alto; entrambi tendono al loro luogo naturale. Ma, al di là della sfera della terra e della sfera di questi movimenti fondamentali, si dà un nuovo mondo che non è composto dagli elementi come il fuoco e l’acqua, l’aria e la terra, e che pertanto non è soggetto alla medesima forma di movimento. Tutti i nostri elementi terrestri si muovono in linea retta, e un simile movimento, dopo un certo tempo, si ferma necessariamente. Aristotele non conosceva la legge di inerzia, poiché egli non poteva riconoscere che un corpo, se non fosse per la resistenza di un ostacolo, continuerebbe a muoversi per un tempo indefinito. L’esperienza sembrava dimostrare, in modo innegabile, che il movimento diviene sempre più lento e che alla fine si annulla senza un nuovo impulso dall’esterno. Ma i corpi celesti non sono soggetti a una limitazione simile. Il loro movimento è eterno poiché la loro sostanza è eterna. I corpi celesti non sono composti da materia mutevole e corruttibile. Laddove la sostanza dei nostri elementi terrestri è soggetta a mutamento e decadimento, quella dei cieli è invece indistruttibile e incorruttibile. E a una tale sostanza eterna e indistruttibile deve corrispondere una forma eterna di movimento. I cieli stellati si muovono con un movimento circolare incessante. Che il suo movimento sia circolare non viene confermato soltanto dall’esperienza; Aristotele lo considera un fatto ne-

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that can be deduced from general metaphysical and a priori reasons. Of all the geometrical figures the circle is the most regular and, therefore, the most perfect one. And to the most perfect body there necessarily corresponds the most perfect form of motion. Of all forms the heaven possesses the most perfect one: the spherical form; and it possesses the inherent tendency to move in the most perfect of plane figures, the circle. Every other form would be inadequate to the heaven; it would, as it were, be below its dignity. Aristotle does not regard heavenly bodies as a mere dead stuff. They, too, have their form of life – and the highest and most sublime form. They are under the immediate influence of an eternal and divine moving power; and they are endowed with souls. Far from being purely corporeal entities they are living beings or as we may call them living souls or gods. Every celestial sphere is moved by a special soul; and all these souls together form a celestial hierarchy that ends in God. In this astronomical theory of Aristotle825, God remains outside the universe; he is not regarded as a part of the universe. Nevertheless[,] the universe is pervaded with the power of God; for it is God who imparts to the heavens their everlasting motion, and this motion is, degree by degree, transmitted to our own human world, to the sublunary world. «All natural bodies and magnitudes – says Aristotle in his treatise De caelo826 (cf. Selections, p. 124 ff.) – we hold to be, as such, capable of locomotion; for nature, we say, is their principle of movement. But all movement that is in place, all locomotion, as we term it, is either straight or circular or a combination of these two, which are the only simple movements. And the reason of this is that these two, the straight line and the circular line, are the only simple magnitudes. Now revolution about the centre is circular motion, while the upward

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cessario deducibile da ragioni metafisiche generali e a priori. Di tutte le figure geometriche il cerchio è quella più regolare e, pertanto, la più perfetta; quindi, al corpo più perfetto deve corrispondere necessariamente la forma più perfetta di movimento. Di tutte le forme, il cielo possiede quella più perfetta, la forma sferica, e possiede anche l’innata tendenza a muoversi seguendo la più perfetta delle figure piane: il cerchio. Ogni altra forma sarebbe inadeguata per il cielo, le sarebbe inferiore per dignità. Aristotele non considera i corpi celesti come mero materiale morto. Anch’essi hanno la loro forma di vita: una forma nobile e sublime. Difatti, i corpi celesti sono soggetti all’influenza immediata di una forza motrice eterna e divina e sono anch’essi dotati di anima. Lungi dall’essere entità puramente corporee, essi sono esseri viventi o anche anime viventi o dèi. Ogni sfera celeste viene mossa da un’anima speciale, e tutte queste anime, insieme, formano una gerarchia celeste che termina in Dio. In questa teoria astronomica di Aristotele, Dio rimane al di fuori dell’universo, non ne fa parte. Cionondimeno l’universo è pervaso dal potere di Dio, poiché è quest’ultimo a impartire ai cieli il loro eterno movimento il quale, di grado in grado, viene trasmesso al nostro mondo umano, al mondo sublunare. Nel suo trattato Del cielo (cf. Selections, pp. 124 ss.), Aristotele dice: «Tutti i corpi e le grandezze naturali riteniamo siano, come tali, capaci di locomozione; poiché la natura, diciamo, è il loro principio di movimento. Ma tutto il movimento che è in atto, tutta la locomozione, come la chiamiamo noi, è o rettilinea o circolare oppure una combinazione di questi due, che sono gli unici movimenti semplici. E la ragione di ciò è che queste due, la retta e la circolare, sono le uniche grandezze semplici. Ora la rivoluzione attorno al centro è un movimento circolare, mentre i mo-

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and downward movements827 are in a straight line, ‘upward’ meaning motion away from the centre, and ‘downward’ motion towards it…Bodies are either simple or compounded of such; and by simple bodies I mean those which possess a principle of movement in their own nature, such as fire and earth with their kinds, and whatever is akin to them…Supposing, then, that there is such a thing as simple movement, and that circular movement is an instant of it, and that both movement of a simple body […]828 then there must necessarily be some simple body which revolves naturally and in virtue of a its own nature with a circular movement… Further, this circular motion is necessarily primary. For the perfect is naturally prior to the imperfect, and the circle is a perfect thing. This cannot be said of any straight line: […]829 for, if it were perfect, it would have a limit and an end: nor of any finite line; for in every case there is something beyond it, since any finite line can be extended…These premises clearly give the conclusion that there is in nature some bodily substance other than the formations we know, prior to them and more divine than they. It is equally reasonable to assume that this body will be ungenerated and indestructible and exempt from increase and alteration…The mere evidence of the senses is enough to convince us of this, at least with human certainty. For in the whole range of time past, so far as our inherited records reach, no change appears to have taken place either in the whole scheme of the outermost heaven or in any of its proper parts… And so, implying that the primary body is something else beyond earth, fire, air, and water, even our distant ancestors gave the highest

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vimenti verso l’alto e verso il basso sono in linea retta, “verso l’alto” significa movimento lontano dal centro, e movimento “verso il basso” verso di esso [...]. I corpi sono semplici o composti di semplici; e per corpi semplici intendo quelli che possiedono un principio di movimento nella loro propria natura, come il fuoco e la terra con le loro specie, e tutto ciò che è loro simile [...]. Supponendo, dunque, che esista un movimento semplice, e che il movimento circolare sia un istante di esso, e che entrambi siano i movimenti di un corpo semplice […], allora deve necessariamente esserci qualche corpo semplice che giri naturalmente e in virtù di una sua propria natura con un movimento circolare […]. Inoltre, questo movimento circolare è necessariamente primario. Perché il perfetto è naturalmente prima dell’imperfetto, e il cerchio è una cosa perfetta. Questo non si può dire di alcuna linea retta, […] perché, se fosse perfetta, avrebbe un limite e una fine; né di alcuna linea finita, poiché in ogni caso c’è qualcosa al di là di essa, poiché qualsiasi linea finita può essere estesa [...]. Queste premesse danno chiaramente la conclusione che esiste in natura qualche sostanza corporea diversa dalle formazioni che conosciamo, precedente a esse e più divina di loro. È altrettanto ragionevole presumere che questo corpo sarà ingenerato e indistruttibile ed esente da accrescimento e alterazione [...]. La mera evidenza dei sensi è sufficiente a convincerci di questo, almeno con certezza umana. Poiché nell’intera gamma del tempo passato, per quanto arrivano i nostri documenti ereditati, nessun cambiamento sembra aver avuto luogo né nell’intero schema del cielo più esterno né in alcuna delle sue parti proprie... E così, implicando che il corpo primario è qualcos’altro oltre la terra, il fuoco, l’aria e l’acqua, anche i nostri lontani antenati hanno dato al luogo più alto un nome

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place a name of its own, aether830, derived from the fact that it ‘runs always’ for an eternity of time». But this appeal to a belief of our “distant ancestors” seems to be not very conclusive; it seems, on the contrary, to be rather suspicious in a philosophical or scientific theory. If a modern student of astronomy first hears of the Aristotelian view and if he judges it according to his own empirical and methodological standars he will always object that his conception of the stars as living gods sounds like a mythical tale. It seems to be a work of imagination: it may have a certain aesthetical value, but no theoretical value. The dogma that the substance of the heavenly bodies is of a special character, that it is exempt from increase and alteration, was one of the first that, in the beginning of our own era, had to be attacked and destroyed. Galileo began his work, as a physicist and an astronomer, by rejecting this dogma. And later on[,] Newton gave his theory of gravitation that is still considered as one of the higher triumphs of modern science. If we think of any explanation of the celestial phenomena[,] we always tacitly assume that it must be based on mechanical principles. But it is just this presupposition that is emphatically denied by Aristotle. Mechanical principles – as they were supposed in the system of the Atomists – are not able to give any explanation of organic life, let alone an explanation of that highest form of life that we have to acknowledge in the movement of the celestial bodies. If we deny the life of these bodies, if we do not think to be endowed with a vital principle and animated by this principle, the whole of nature would become lifeless. Organic nature is not to be thought without the two fundamental powers of light and heat. And it is in the sun and the heavenly bodies that these powers originate. Take away this first and principal source – and

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proprio, etere, derivato dal fatto che “corre sempre” per un’eternità di tempo»224. Ma questo appello alla credenza nei nostri “lontani antenati” non sembra così decisivo; esso, al contrario, sembra piuttosto discutibile in una teoria filosofica o scientifica. Se un moderno studente di astronomia sentisse per la prima volta le concezioni di Aristotele e le giudicasse in base ai suoi criteri metodologici ed empirici, obietterebbe che la concezione aristotelica – secondo cui le stelle sono divinità viventi – sembra in verità un racconto mitico o un’opera di fantasia, dotata anche di un indubbio valore estetico, ma priva di valore teoretico. Il dogma secondo cui la sostanza dei corpi celesti ha un carattere speciale, esente da crescita e alterazione, fu uno dei primi a essere attaccato e distrutto agli albori della nostra nuova era. Galileo, come fisico e come astronomo, iniziò il suo lavoro rigettando questo dogma; e più avanti Newton fornì la sua teoria della gravitazione universale, che è ancora considerata come uno dei più grandi trionfi della scienza moderna. Quando pensiamo a una qualunque spiegazione dei fenomeni celesti, supponiamo sempre tacitamente che essa debba poggiare su princìpi meccanici. Ma è proprio questo presupposto che Aristotele nega esplicitamente. I princìpi meccanici – così come ipotizzati nel sistema degli Atomisti – non sono in grado di fornirci una spiegazione della vita organica, per non parlare della più alta forma di vita che abbiamo individuato nel movimento dei corpi celesti. La natura nel suo complesso sarebbe senza vita, se negassimo la vita di questi corpi, se non li pensassimo dotati di un principio vitale e animati da questo principio. Non si può pensare la vita organica senza le due forze fondamentali della luce e del calore; ed è nel sole e nei corpi celesti che queste forze hanno origine. La rimozione di questa prima

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you destroy all life whatever. Even in his astronomical doctrines Aristotle speaks as a biologist. But what he gives us is not a mere scientific theory. It is, so to speak, the religion of a biologist. Even in his astronomical and cosmological theories Aristotle always appears as a determined empiricist. He never indulges in more speculations – he remains faithful to his general methodological principles. He was perfectly acquainted with all the astronomical facts that were available at his time – and he was in close connexion with the great Greek astronomers – especially with Eudoxos of Cnidos831, one of the first founders of a scientific astronomy. The Greek astronomers Eudoxos and Calippus had developed a theory according to which the movements of the sun, the planets, the fixed stars were832 explained by the fact that these bodies are attached to concentric spheres. The sphere of the earth was thought to be at rest [and] at the centre of the universe. The outer shell of the universe – the “first heaven” contains the fixed stars833 which by the uniform rotation of the first heaven are carried round once in twenty-four hours. Calippus had to introduce five more spheres in order to account for the motions of the moon, the sun, Mercury, Venus, and Mars. But both Eudoxus and Calippus spoke as mere mathematicians. They gave no theory of the causes of motion; they only submitted a hypothesis according to which the phenomena could be described in a clear way and could be predicted with a certain precision. It was Plato himself who had recommended this astronomical method and who inculcated it upon the minds of his pupils, of the mathematicians and astronomers of the Academy. A scientist – he had said – has not to speculate on the first causes of motion; it is enough for him if he is able to account for the phenomena or – as Plato expressed his thought – to “save the appearances”.

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e principale fonte implicherebbe la distruzione di tutta la vita. Anche nelle sue dottrine astronomiche Aristotele parla da biologo. Ma egli non ci fornisce solamente una mera teoria scientifica. Essa è, per così dire, la religione di un biologo. Anche nelle sue teorie astronomiche e cosmologiche si rivela un ostinato empirista. Non indulge mai a troppe speculazioni, preferendo rimanere fedele ai suoi princìpi metodologici generali. Egli era a perfetta conoscenza di tutti i fatti astronomici disponibili ai suoi tempi ed era a stretto contatto con i grandi astronomi greci, soprattutto con Eudosso di Cnido, uno dei primi fondatori dell’astronomia scientifica. Gli astronomi greci Eudosso e Callippo svilupparono una teoria secondo cui i movimenti del sole, dei pianeti e delle stelle fisse potevano essere spiegati dal fatto che questi corpi sono legati a sfere concentriche. Si pensava che la sfera della terra fosse in quiete e al centro dell’universo. L’involucro esterno dell’universo – il “primo cielo” – contiene le stelle fisse, le quali, grazie alla rotazione uniforme del primo cielo, compiono un giro rotatorio in ventiquattro ore. Callippo doveva poi introdurre cinque ulteriori sfere per la spiegazione dei movimenti della luna, del sole, di Mercurio, Venere e Marte. Ma sia Eudosso sia Callippo parlavano da matematici. Non fornirono alcuna teoria delle cause del movimento; si limitarono a proporre un’ipotesi grazie alla quale i fenomeni potevano essere descritti in modo chiaro ed essere previsti con una certa precisione. Fu Platone stesso a raccomandare questo metodo astronomico e a inculcarlo nelle menti dei suoi discepoli, dei matematici e degli astronomi dell’Accademia. Uno scienziato – disse – non deve speculare sulle prime cause del movimento; gli è sufficiente rendere conto dei fenomeni o – come Platone ha espresso il suo pensiero – “salvare le apparenze”. Ma una teoria ma-

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But Aristotle was not satisfied with such an abstract mathematical theory. By a misunderstanding of the true character of Eudoxus’ and Calippus’ theories he was led here to an error, that he himself had so sharply attacked in his own criticism of Plato’s doctrine of ideas. The sphere theory of Eudoxus and Calippus was not meant to be a physical explanation; it was regarded as a mathematical abstraction; but in Aristotle’s own theory this abstraction is turned into a reality. The celestial spheres in their rotatory movement, in their eternal motion are declared to be the inspiring powers and the ultimate sources of life. But here necessarily arises a new question. The motion of the heavenly bodies is everlasting and without beginning. Nevertheless[,] we must ask for the first cause of this motion. Aristotle is convinced that the fundamental task of his philosophical theory consists in going back to the first causes of things and to the first principles of thought. Neither in the realm of thought nor in the realm of being can we admit a regressus in infinitum834, an infinite regression. In his Analytics, Aristotle declares that all demonstrable logical truth presupposes as its basis some verities that are indemonstrable. They cannot be deduced from anything else; they must be “known by themselves”. Without these ultimate principles there would be no logical truth. It is the same in the field of nature. If there is any motion, there must be a first origin of motion – “a first mover”. An infinite series of causes is impossible. «Evidently there is835 a first principle – says Aristotle in his Metaphysics (994a; cf. Selections, p. 49) [–] and the causes of things are neither an infinite series nor infinitely various in kind. For neither can one thing proceed from another, as from matter, ad infinitum (e. g. flesh from earth, earth from air, air from fire, and so onn without stop-

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tematica così astratta non poteva soddisfare Aristotele. Attraverso un fraintendimento dell’autentico carattere delle teorie di Eudosso e Callippo, egli incappò in un errore, da lui stesso severamente attaccato nella sua critica alla dottrina delle idee di Platone. La teoria delle sfere di Eudosso e Callippo non intendeva fornire una spiegazione di tipo fisico; era piuttosto un’astrazione matematica. Ma nella stessa teoria di Aristotele questa astrazione è trasformata in realtà. Le sfere celesti nel loro movimento rotatorio, nel loro eterno movimento circolare, vengono considerate come forze vitali e fonti supreme della vita. Ma qui sorge necessariamente una nuova questione. Il movimento dei corpi celesti è imperituro e senza inizio. Cionondimeno, dobbiamo chiederci qual è la causa prima di questo movimento. Aristotele è convinto che il compito fondamentale di una teoria filosofica consista nel ritornare alle cause e ai princìpi primi del pensiero. Non si dà alcun regressus in infinitum, alcuna regressione al’infinito, né nel mondo del pensiero né in quello dell’essere. Nei suoi Analitici Aristotele afferma che ogni verità logica dimostrabile presuppone, come suo fondamento, alcune verità indimostrabili. Esse non possono essere dedotte da alcunché, in quanto devono essere “note di per sé”. Senza questi princìpi ultimi non vi sarebbe alcuna verità logica. Lo stesso avviene nel campo della natura. Se esiste il movimento, allora deve esservi una prima origine del movimento, “un primo motore”. Una serie infinita di cause è impossibile: «È evidente che c’è un primo principio – afferma Aristotele nella sua Metafisica (994a; cf. Selections, p. 49) – e le cause delle cose non sono né una serie infinita né di specie infinitamente varie. Infatti né una cosa può procedere da un’altra, come dalla materia, ad infinitum (ad es. la carne dalla terra, la terra dall’aria, l’aria dal fuoco,

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ping) nor can the sources of movement form an endless series… Similarly the final causes cannot go on ad infinitum – walking being for the sake of health, this being for the sake of happiness, happiness for the sake of something else, and so one thing always for the sake of another. And the case of the essence is similar. For in the case of intermediates, which have a last term and a term prior to them, the prior must be the cause of the later terms. But if series which are infinite, and of the infinite in general, all the parts down to that now present are alike intermediated; so that if there is no first there is no first caus at all… Further the final cause836 is an end, and that sort of end which is not for the sake of something else, but for whose sake everything else is; so that if there is no such term there will be no final cause, nor would there be reason in the world; the reasonable, man, at least, acts for a purpose, and this is a limit; for the end is a limit». Here we have reached the very summit of the Aristotelian system – his concept of God. God is conceived by Aristotle both as the first cause of things and as their ultimate end. In the essence of God both these837 concepts are not separated from each other; they coincide with each other. He is the Alpha and the Omega, the beginning and end of all things whatever; their first cause and their ultimate aim. He is the highest formal cause, the moving cause[,] and the final cause. But he could not be all this, he could not move the universe if he were a part of the universe. The moving force of the universe is to be sought in a principle outside the universe. Such a principle is not liable to any reaction from the side of the universe. It lives in itself and by itself; it is not open to any other influence. God is the first mover; but he himself cannot be moved by anything; he is the “un-

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e così via senza sosta) né le fonti del movimento possono formare una serie infinita [...]. Allo stesso modo le cause finali non possono andare avanti ad infinitum: camminare in vista della salute, avere la salute in vista della felicità, la felicità in vista di qualcos’altro, e quindi una cosa sempre in vista di un’altra. E il caso dell’essenza è simile. Infatti, nel caso degli intermedi, che hanno un termine ultimo e un termine precedente, il precedente dev’essere causa dei termini successivi. Ma nel caso di serie infinite, e dell’infinito in generale, tutte le parti fino a quella ora presente sono egualmente intermedie; per cui se non c’è un primo, non c’è affatto una causa prima [...]. Inoltre la causa finale è un fine, e quel tipo di fine che non è in vista di qualcos’altro, ma in vista del quale tutto il resto è; sicché se non c’è tale termine, non ci sarà causa finale, né ci sarebbe ragione nel mondo; l’uomo ragionevole, almeno, agisce per uno scopo, e questo è un limite; perché il fine è un limite»225. Qui abbiamo raggiunto il vertice del sistema aristotelico – il suo concetto di Dio. Dio viene inteso da Aristotele sia come la causa prima delle cose, sia come il fine ultimo. Nell’essenza di Dio questi due concetti non sono separati, ma coincidono l’uno con l’altro. Dio è l’alpha e l’omega, l’inizio e la fine di tutte le cose, la causa prima e lo scopo ultimo. Egli è la somma causa formale, la causa motrice e la causa finale. Ma se Dio facesse parte dell’universo allora ciò non sarebbe possibile, non potrebbe muovere l’universo. La forza motrice dell’universo va ricercata piuttosto in un principio esterno all’universo. Difatti, un principio del genere non è soggetto ad alcuna influenza proveniente dall’universo. Esso vive in sé e per sé ed è libero da ogni influsso esterno. Dio è il primo motore, ma egli stesso non può essere mosso da altro; per tal motivo egli è il “motore immobile”. Tut-

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moved mover”. This concept of an “unmoved mover” seems to be very difficult, because in nature, in the field of Physics we cannot find any analogy to it. But we can explain it in a satisfactory way if we bear in mind that “motion” in the Aristotelian system does not mean the same as in modern Physics. Motion had been defined by Aristotle as the transition from potentiality to actuality. It is – as he says – the actualization of that which is potentially, as such. Movement is the passage from an incomplete state to a more complete state; from a comparatively undeveloped or implicit state to a higher developed, explicit, more perfect state. But it is clear that we cannot ascribe such a passage to the highest being, to God himself. He cannot move because he cannot perfect his state; he is the “ens realissimum” or “perfectissimum”, as he was called by the838 Schoolmen, by the medieval pupils of Aristotle. He is absolute reality and absolute perfection; he has no incompleteness or potentiality; he is “actus purus”, pure actuality. «If something is moved – says Aristotle [Metaphys. 1072b] – it is capable of being otherwise than it is…But since there is something which moves while itself unmoved, existing actually, this can in no way be otherwise than as it is…The first mover, then, exists of necessity; and in so far as it exists by necessity, its mode of being is good, and it is in this sense a first principle. […]839 On such a principle, then, depend the heavens and the world of nature. And it is a life such as the best which we enjoy, and enjoy for but a short time (for it is ever in this state, which we cannot be). […]840 And life also belongs to God; for the actuality of thought is life, and God is that actuality; and God’s self-dependent actuality is life most good and eternal. We say therefore that God is a living being, eternal, most

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tavia, il concetto di “motore immobile” sembra molto difficile, poiché in natura, nel campo della fisica non troviamo nulla che vi corrisponda. In ogni caso, è possibile fornirne una spiegazione soddisfacente tenendo a mente che il “movimento”, nel sistema aristotelico, non coincide affatto con quello della fisica moderna. Il movimento è stato definito da Aristotele come la transizione dalla potenza all’atto. Esso è – afferma – l’atto di ciò che è in potenza come tale. Il movimento è un passaggio da uno stato incompleto a uno completo, da uno stato relativamente embrionale a uno altamente sviluppato, più perfetto. Ma è chiaro che non possiamo attribuire un simile passaggio all’essere sommo, a Dio stesso. Dio non può muoversi perché non può perfezionare il proprio stato: è un “ens realissimum” o “perfectissimum”, come è stato chiamato dagli scolastici, gli allievi medievali di Aristotele. Dio è realtà assoluta e perfezione assoluta; non possiede alcuna incompiutezza o potenzialità: è actus purus, atto puro: «Se qualcosa è mosso – dice Aristotele [Metafisica, 1072b] – è capace di essere diversamente da come è [...]. Ma poiché c’è qualcosa che muove mentre esso stesso è immobile, esistente attualmente, questo non può in alcun modo essere diverso da come è [...]. Il primo motore, quindi, esiste necessariamente; e in quanto esiste necessariamente, il suo modo d’essere è buono, e in questo senso è principio primo. […] Da un tale principio, quindi, dipendono i cieli e il mondo della natura. E una vita come questa è la migliore – noi ne godiamo, ma solo per un breve periodo (perché esso è sempre in questo stato, noi non possiamo esserlo sempre). […] E anche la vita appartiene a Dio; infatti l’attualità del pensiero è vita, e Dio è quell’attualità; e l’attualità autodipendente di Dio è la vita più buona ed eterna. Diciamo dunque che Dio è un essere vivente, eterno, buonissimo, sicché la

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good, so that life and duration continuous and eternal belong to God; for this is841 God». But here we are confronted with a new problem. Aristotle tells us[,] in express words[,] that the eternal and unmovable substance of God is separate from sensible things. This substance cannot have any magnitude; it is without parts and indivisible. Every magnitude is either infinite or finite. God has no infinite magnitude, because according to the principles of Aristotle, there is not such a thing as an infinite magnitude – an “actual infinite” would be a contradiction in terms. But as little we can ascribe to God a finite magnitude. Hence[,] he is impassive and unalterable; for all the other changes are posterior to change of place. The relation that God bears to the physical universe – to the universe contained in space – is therefore not to be described in spatial terms – God has neither magnitude nor a definite place. It is true that Aristotle in his theology does not avoid spatial terms and spatial descriptions. He speaks of God as being “beyond” the world; he seems to localize him in the highest sphere, in the sphere above the “first heaven”. But all this we cannot take in its literal sense; it is only an indirect description, a metaphorical way to speak of God’s nature and essence. If we wish to express his nature in a more adequate way[,] we842 have to choose spiritual analogies instead of spatial or physical ones. Such a spiritual analysis is contained in the words of Aristotle that God moves the universe, not like a material cause or by a physical impulse, but in the same sense as a “loved object moves his lover”. It is not a physical force which moves the universe. The real, the ultimate source of motion is to be sought in that intrinsic desire of all finite and incomplete beings for a higher perfection, for the divine, as the first

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vita e la durata continue ed eterne appartengono a Dio; infatti questo è Dio»226. Ma a questo punto ci imbattiamo in un nuovo problema. Aristotele ci dice espressamente che la sostanza eterna e immobile di Dio è separata dalle cose sensibili. Questa sostanza non possiede alcuna grandezza, è senza parti e indivisibile. Ogni grandezza è infinita o finita. Dio non possiede alcuna grandezza, poiché secondo i princìpi di Aristotele non esiste nulla che possa essere una grandezza infinita; un “infinito in atto” sarebbe una contraddizione in termini e tanto meno possiamo attribuire a Dio una grandezza finita. Pertanto, egli è immobile e immutabile, poiché tutti gli altri mutamenti sono successivi al mutamento di luogo. Pertanto, la relazione che Dio intrattiene con l’universo fisico – con l’universo contenuto nello spazio – non va descritta in termini spaziali. Dio non è né una grandezza, né un luogo determinato. È vero che Aristotele, nella sua teologia, ricorre spesso a termini e descrizioni spaziali. Egli parla di Dio come se fosse “al di là” del mondo e sembra collocarlo nella somma sfera, nella sfera posta sopra il “primo cielo”. Ma non possiamo prendere tutto ciò nel suo senso letterale; è soltanto una descrizione indiretta, un modo metaforico di parlare della natura e dell’essenza di Dio. Se vogliamo esprimere la sua natura in modo più adeguato, dobbiamo scegliere analogie spirituali piuttosto che analogie spaziali o fisiche. Una tale analisi spirituale è contenuta nelle parole di Aristotele secondo cui Dio muove l’universo, ma non come se fosse una causa materiale o per via di un impulso fisico, ma nello stesso senso in cui un “oggetto amato muove il suo amante”. Non è una forza fisica a muovere l’universo. La fonte reale, ultima del movimento va ricercata in quell’intrinseco desiderio – comune a tutti gli esseri finiti e incompleti – di una somma perfezione, del divino in-

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source and the ultimate end of all things. As a final cause God produces motion as being loved (Metaphys. 1072b). «The object of desire and the object of thought move in this way; they move without being moved». If as a thinker, as a scientist or philosopher, I am engaged and absorbed in a special problem, if I strife with all my powers to find the truth – then the truth, taken in itself, is of a steadfast, stable and unchanging and unmoved character. Nevertheless[,] it moves myself; it attracts my thoughts; I am searching for it, I cannot rest before I have attained my end. Even this is a metaphorical way of speaking; but it expresses much better than all spatial analogies, the Aristotelian view about the relation between God and the universe. But we have not only to ask after this relation; we must also attempt to determine the absolute character of the Deity. This, however, is a very difficult task; for, as finite beings, we have no immediate approach to the divine nature. We must carefully avoid our usual anthropomorphism; we cannot speak of God in a human way. Even “personality” or “individuality” are human categories that, according to Aristotle, cannot be applied to God. In a strict sense[,] God does not possess this character that we have in view when speaking of a “personal” God. He is exempt from all emotions and all affections. We cannot even ascribe him a personal will – for what should be the object of this will? Aristotle says[,] in express word[,]s that we cannot think of God as an active being in our own human sense. If we act[,] we are prompted by a special desire, we are in need of a particular thing, we wish to attain an end. But God cannot

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teso come la prima fonte e il fine ultimo di tutte le cose. In quanto causa finale, Dio produce il movimento essendo amato (Metafisica, 1072b): «L’oggetto del desiderio e l’oggetto del pensiero si muovono in questo modo: si muovono senza essere mossi»227. Se come pensatore, come scienziato o filosofo, sono impegnato e concentrato su un problema particolare, se lotto con tutte le mie forze per trovare la verità – allora la verità, presa in se stessa, possiede un carattere saldo, stabile, immutabile e immobile. Cionondimeno, essa muove me stesso, attira i miei pensieri, la cerco e non posso arrestare la mia ricerca se non prima di aver raggiunto il mio scopo. Anche questo è un modo metaforico di parlare, ma esso, in ogni caso, spiega la concezione aristotelica della relazione tra Dio e l’universo meglio di ogni altra analogia spaziale. Ma non dobbiamo interrogarci soltanto su questa relazione, dobbiamo anche cercare di determinare il carattere assoluto della divinità. Ciò, tuttavia, è un compito piuttosto arduo poiché, come esseri finiti, non abbiamo alcun approccio immediato alla natura divina. Dobbiamo evitare con cura il nostro solito antropomorfismo; non possiamo parlare di Dio in modo umano. Anche “personalità” o “individualità”, secondo Aristotele, sono categorie umane che non vanno applicate a Dio. In senso stretto, Dio non possiede quel carattere che abbiamo in mente quando parliamo di un Dio “personale”. Egli è infatti esente da ogni emozione e ogni affezione. Non possiamo nemmeno attribuirgli una volontà personale; difatti, quale sarebbe l’oggetto di questa volontà? Aristotele dice espressamente che non possiamo pensare Dio come un essere attivo nel nostro senso umano. Se agiamo, siamo spinti da un desiderio speciale, sentiamo il bisogno di una cosa particolare, desideriamo raggiungere un fine. Ma Dio non può essere mosso da oggetti ester-

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be moved by external objects; he is absolute and self-dependent; he is not in need of anything else. Therefore[,] he cannot work or act; he cannot strive after an end beyond and outside himself. But in this case must we not deny to the deity all activity whatever; must we not reduce it to a dead and passive thing? What is that life of God, of which Aristotle speaks, if it excludes all practical activities – and if it is not instigated by a personal and purposeful will? Can we conceive any activity that is exempt from these conditions – that is of an entirely different type843[?] To this question Aristotle replies that there is, indeed, such an activity: the activity of thought. When thinking and contemplating we do not pursue a special practical end. We are not strived by emotions, by personal wishes or needs. Our attitude is an entirely objective attitude – we are concerned with the nature and essence, with the objective truth of things. It is this objective, theoretical844 attitude, that we can ascribe to God – for it is the only one that is worthy of the highest being. God does neither act nor will – but he thinks and contemplate. On the other hand[,] his thought is not to be compared with our own human way of thinking. If we think we think of an object outside ourselves. We wish to come in touch845 with this object, to grasp and understand its nature. But there always remains a distance and a difference between ourselves, the thinker, and the thing thought of – between the subject and the object of thought. In the divine we cannot admit such a difference. It comprises all things whatever – it has nothing outside itself. If God thinks his thought can, therefore, not be directed to an external object; he has no other possible thought than himself. If God is a perfect self-sufficient being the object of his thought must be of the same perfection; it must be the highest possible object – and this object is nothing except God himself. The thought of God is, therefore,

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ni, egli è assoluto, indipendente e non necessita di nulla. Pertanto, Dio non può operare o agire, non può aspirare a un fine che sia al di fuori e al di là di lui. Ma in questo caso, non dobbiamo forse negare alla divinità qualsiasi attività? Non dobbiamo ridurla a una cosa morta e passiva? Cos’è la vita di Dio della quale parla Aristotele, se esclude ogni attività pratica e se Dio non viene mosso da alcuna volontà personale e intenzionale? Possiamo concepire un’attività che sia esente da queste condizioni, che sia di un tipo interamente differente? Aristotele replica invece che una tale attività esiste ed è l’attività del pensiero. Quando pensiamo e contempliamo, non perseguiamo un particolare fine pratico. Non veniamo spinti dalle emozioni, dai desideri o dai bisogni personali. La nostra attitudine è di tipo interamente oggettivo, poiché abbiamo a che fare con la natura e l’essenza, con la verità oggettiva delle cose. È proprio questa attitudine teoretica, oggettiva, che noi possiamo attribuire a Dio, poiché è l’unica degna dell’essere sommo. Dio non agisce né desidera, ma contempla e pensa. Dall’altro lato, il suo pensiero non va paragonato al nostro modo di pensare. Quando pensiamo, pensiamo a un oggetto esterno a noi. Desideriamo entrare in contatto con questo oggetto, afferrarlo, comprenderne la natura. Ma rimane sempre una distanza e una differenza tra colui che pensa e la cosa pensata, tra il soggetto e l’oggetto di pensiero. Nel divino, non possiamo ammettere tale differenza. Esso comprende infatti ogni cosa e non ha nulla al di fuori di sé. Se Dio pensa, il suo pensiero non può essere diretto a qualcosa di esterno; egli non ha alcun altro pensiero che non sia lui stesso. Se Dio è un essere perfetto, auto-sufficiente, l’oggetto del suo pensiero deve essere della sua stessa perfezione: il più alto oggetto possibile e quest’ultimo non è altro che Dio stesso. Il pensiero di

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“thought of thought” – it is the divine mind directed to itself and contemplating itself. There can be no greater perfection and, therefore, no greater happiness846 than this constant and unalterable self-contemplation by which the divine mind comprehends itself and enjoys its nature. If God thinks – he does not think about objects that are alien to his own nature; he thinks upon himself; the thought of God is the “thinking upon thought”. In God there is no longer any process847 of thought; any passage from one thought to another. For such a passage would be a change in God, a transition from potential to actual existence – and in God there is no potentiality, no want or imperfection – he is “actus purus”, pure act. His thought is always directed towards the best, that is, himself – and this form of contemplation fills him with a perfect joy and blessedness. God’s848 blessedness consists in the everlasting contemplation of his own perfection. There is no doubt that this description of the nature and the life of God has exerted the deepest influence upon the history of religion. It occurs, over and over again, in later monotheistic thought, especially in Christian thought. When Dante, at the end of his great poem, of the Divina commedia849, wishes to describe the nature of God and of his eternal blessedness, the great poet finds no other and no better language than the language of Aristotle – he even repeats the Aristotelian terms. If you wish not only to understand but also to feel the true character of the Aristotelian theology, I can give you no better advice than to read the verses of Dante in the twenty-fourth canto of the Paradiso: «I in one God believe; One sole eternal Godhead, of whose love all heaven is moved, himself unmoved the while». That is not only a Christian creed – it is a pure Aristotelian creed. Nevertheless850 there is no true identity between the two ideals of

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Dio, pertanto, è “pensiero di pensiero”, è la mente divina diretta a se stessa e che contempla se stessa. Non esiste perfezione più grande e, quindi, felicità più grande di questa costante e inalterabile auto-contemplazione, attraverso la quale la mente divina comprende se stessa e gode della sua natura. Se Dio pensa, non pensa oggetti che siano estranei alla sua natura; egli pensa se stesso, il pensiero di Dio è “pensiero di pensiero”. In Dio non vi è più alcun processo di pensiero, un passaggio da un pensiero all’altro. Un passaggio simile implicherebbe infatti il mutamento in Dio, una transizione dall’esistenza in potenza a quella in atto, ma in Dio non vi è alcuna potenza, alcun volere o imperfezione; egli è actus purus, atto puro. Il suo pensiero è sempre diretto verso il meglio, cioè lui stesso, e questa forma di contemplazione lo riempie di una gioia e di una beatitudine perfette. La beatitudine di Dio consiste nell’eterna contemplazione della sua propria perfezione. Senza alcun dubbio, questa descrizione della vita di Dio ha esercitato la più profonda influenza sulla storia della religione. Si presenta, più e più volte, nel pensiero monoteista successivo, soprattutto nel pensiero cristiano. Quando Dante, alla fine del suo grande poema La divina commedia, si propone di descrivere la natura di Dio e della sua eterna beatitudine, il sommo poeta non trova nessun altro e miglior linguaggio che quello di Aristotele, persino ripetendo i termini aristotelici. Se desiderate non soltanto comprendere, ma anche saggiare l’autentico carattere della teologia aristotelica, il miglior consiglio che posso darvi è leggere i versi danteschi del ventiquattresimo canto del Paradiso: «Io credo in uno Dio solo ed etterno, che tutto il ciel move, non moto, con amore e con disio»228. Questa non è soltanto una fede cristiana – è una pura fede aristotelica. Cionondimeno, non sussiste alcu-

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God. In spite of all his profundity and sagacity of thought[,] Thomas Aquinas was not able to throw a bridge across the gap that separates the Aristotelian God from the personal God of our monotheistic religion. This Aristotelian God bears no relation to our human world; he is the “unmoved mover” – unmoved also by all our human wishes and desires – he rests in himself and is blessed in the contemplation of himself. Aristotle’s system has often been described as a system of evolution851. Some historians of philosophy have said that Aristotle deserves [«]the credit of having produced the only philosophy of evolution which the world has ever seen with the exception of that of Hegel[»] and that this [«]was perhaps Aristotle’s most original contribution to thought[»] (cf. W. T. Stace, A Critical History of Greek Philosophy, p. 333)852. But when applying the term “evolution” to the Aristotelian system we have to be careful. If we take the term in our modern sense, it would be an inadequate and rather misleading description of the Aristotelian system. It is true that Aristotle was perhaps the first thinker who conceived the idea of a “scala naturae” – of a scale of nature. In nature we find no discontinuity, no sudden jumps. All forms whatever are connected with each other. By slow and imperceptible transitions[,] we may pass from the inorganic world to the organic world, from plants to animals, from animals to man. But this connexion, this close and fundamental relationship between the lower and the higher form does not mean, for Aristotle, that the latter have developed from the former in a process that takes place in time. For such a development, such a generation of the higher forms by the lower forms, would contradict one of the basic principles of Aristotle’s

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na identità tra i due ideali di Dio. Nonostante tutta la sua profondità e sagacità di pensiero, Tommaso d’Aquino non fu in grado di gettare un ponte sul divario che separa il Dio aristotelico dal Dio personale della nostra religione monoteista. Questo Dio aristotelico non intrattiene alcuna relazione con il nostro mondo umano, è il “motore immobile”, impassibile di fronte a tutti i nostri desideri e voleri. Egli è immobile e si bea nella contemplazione di sé. Il sistema di Aristotele, molto spesso, è stato descritto come un sistema dell’evoluzione. Alcuni storici della filosofia hanno affermato che «Aristotele merita l’onore di aver prodotto la sola filosofia dell’evoluzione che il mondo abbia mai visto, a eccezione di quella di Hegel; […] e ciò, forse, è stato il maggior contributo fornito da Aristotele al pensiero (cfr. W. T. Stace, Una storia critica della filosofia greca, p. 333)»229. Ma nell’applicare il termine “evoluzione” al sistema aristotelico dobbiamo procedere con cautela. Se interpretassimo questo termine in chiave moderna, rischieremmo di fornire una descrizione del sistema aristotelico piuttosto inadeguata e del tutto fuorviante. È vero che Aristotele fu senza dubbio il primo pensatore ad aver concepito una scala naturae, una scala della natura. In natura non troviamo discontinuità, né salti improvvisi. Tutte le forme sono reciprocamente connesse. Attraverso lente e impercettibili trasformazioni, si passa dal mondo inorganico a quello organico, dalle piante agli animali, dagli animali all’uomo. Ma questa connessione, questa stretta e fondamentale relazione tra la forma inferiore e la superiore, per lo Stagirita non significa che le ultime si siano sviluppate dalle prime sulla base di un processo verificatosi nel corso del tempo. Infatti uno sviluppo del genere, una generazione delle forme superiori da quelle inferiori, contraddirebbe uno dei princìpi fondamentali della filosofia di Aristotele. Nella

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philosophy. In Aristotle’s terminology the end is said to be “prior” to the means, the more developed is “prior” to the less developed. It has a priority of nature and of value. «Those who suppose – says Aristotle in his Metaphysics 1072 b30 – […]853 that supreme beauty and goodness are not present in the beginning, because the beginnings both of plants and of animals are causes854, but beauty and completeness are in the effects855 of these, are wrong in their opinion. For the seed comes from other individuals which are prior and complete, and the first thing is not seed but the complete being; e. g. we must say that before the seed there is a man, – not the man produced from the seed, but another from whom the seed comes». In the order of time856 we may say that potentiality comes before the actuality, but in the order of being857 actuality is prior to potentiality. God as the highest being and as pure actuality is “prior” to the world – for he is both the moving cause, the formal cause[,] and the final cause of all things. God leads all natural processes to their very aim and end. He moves nature not as a mechanical force, by an impulse from without, but by showing it its final goal – in the same sense as a thing being loved moves his lover. But the perfection of nature is not brought about in time – it exists at all times. The lower and the higher forms have existed, side by side, from all eternity. Even as a biologist Aristotle never could forget his Platonism. In nature he found what we may describe in modern terms, in the terms of Bergson, a “creative evolution”858. But evolution, as a process, as a mere becoming cannot be regarded as the highest principle. The highest principle is to be sought in something that has no evolution and that is not in need of any evolution because it has reached its end; because it is the consummation of all things. «Where there is better – says

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terminologia aristotelica, il fine è “anteriore” ai mezzi, il più sviluppato è “anteriore” al meno sviluppato; ha la precedenza in termini di natura e di valore: «Coloro che suppongono – dice Aristotele nella sua Metafisica 1072 b30 – […] che la somma bellezza e bontà non siano presenti nel principio, perché i princìpi sia delle piante sia degli animali sono cause, ma la bellezza e la completezza sono negli effetti di questi, hanno un’opinione sbagliata. Infatti il seme viene da altri individui che sono precedenti e completi, e la prima cosa non è il seme ma l’essere completo; ad es. bisogna dire che prima del seme c’è un uomo, – non l’uomo prodotto dal seme, ma un altro da cui viene il seme»230. Nell’ordine del tempo potremmo dire che la potenza è anteriore all’atto, ma nell’ordine dell’essere è l’atto che precede la potenza. Dio, in quanto essere sommo e atto puro, è “anteriore” al mondo, in quanto è, al tempo stesso, causa motrice, causa formale e causa finale di tutte le cose. Dio conduce tutti i processi naturali verso il loro autentico scopo e fine. Egli muove la natura non come una forza meccanica, tramite un impulso dall’esterno, ma mostrandole il suo scopo finale, nello stesso senso in cui una cosa amata muove il suo amante. Ma la perfezione della natura non si realizza nel tempo, essa esiste in ogni tempo. Le forme inferiori e quelle superiori esistono, fianco a fianco, dall’eternità. Anche come biologo Aristotele non ha mai dimenticato il suo platonismo. In natura egli trova ciò che in termini moderni – nei termini di Bergson – possiamo descrivere come “evoluzione crea­trice”. Ma l’evoluzione, in quanto processo, in quanto mero divenire, non può essere vista come il principio sommo. Il principio sommo va ricercato in qualcosa che non è soggetto a evoluzione e non necessita di alcuna evoluzione, giacché ha raggiunto il suo fine; poiché è il compimento di tutte le cose: «Dove c’è

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Aristotle – there must be a best». No greek thinker could ever admit that this best of all things is unattainable to man; that it cannot be reached by any human effort. Beyond the world of nature – of moving, changing, striving things [–] there always remains an eternal sphere, the pure sphere of Being, of rest and happiness. That is one of the deepest tendencies of Greek thought that is expressed in a classical way both in the Platonic doctrine of ideas and in the Aristotelian doctrine of living forms. [§2:] Aristotle’s Ethics859 A[ristotle]’s Ethics is in perfect agreement with the general spirit of his system. It is here that the ethical problems were scarcely the first which attracted Aristotle[,] and which aroused his philosophical and scientific interest. He began with a study of the phenomena of nature and, first and foremost, he was interested in the phenomena of organic life. But it was just this method of research that was able to lead to a new conception of ethical problems. A thinker who was convinced that the ultimate and highest cause of the universe is a final cause must, of course, have had a special interest to study this final cause in that field in which it manifests itself in the clearest and uncontroversial way. This field is the sphere of human and particularly of political, of social and ethical life. That reality is a system of means and ends is nowhere more obvious and evident than in this sphere. It became, therefore, imperative for Aristotle to deal with the problems of political and ethical life in order to complete his system and to give to this system a logical unity.

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un meglio – dice Aristotele –, c’è anche un ottimo»231. Nessun pensatore greco potrebbe mai sostenere che l’ottimo di tutte le cose sia irraggiungibile per l’uomo; che non possa essere raggiunto da alcuno sforzo umano. Al di là del mondo della natura – delle cose mobili, mutevoli, agenti, rimane sempre una sfera eterna, la pura sfera dell’essere, della quiete e della felicità. Questa è una delle più profonde tendenze del pensiero greco, che ha trovato la sua espressione classica tanto nella dottrina platonica delle idee, quanto nella dottrina aristotelica delle forme viventi. 2. L’etica di Aristotele L’etica di Aristotele è in perfetto accordo con lo spirito generale del suo sistema. I problemi etici, in questo sistema, non erano di certo stati i primi ad attrarre Aristotele e a suscitare il suo interesse filosofico e scientifico. Egli iniziò con uno studio dei fenomeni naturali e, innanzitutto, il suo interesse era principalmente rivolto ai fenomeni della vita organica. Ma fu proprio tale metodo di ricerca a condurlo a una nuova concezione dei problemi etici. Un pensatore convinto che la causa finale fosse la causa ultima e somma dell’universo, ovviamente, deve aver nutrito un interesse particolare per lo studio della causa finale in quel campo nel quale essa si manifesta nel modo più chiaro e incontestatile. Questo campo è la sfera umana e in particolar modo la vita politica, sociale ed etica. Che la realtà sia un sistema di mezzi e di fini mostra tutta la sua ovvietà ed evidenza proprio in questa sfera. Pertanto, per Aristotele divenne un imperativo affrontare i problemi della vita etica e politica, per completare il suo sistema e dotarlo di una unità logica.

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Aristotle seems to have written many treatises about ethical and political questions – but most of them are lost. He wrote a dialogue “On Justice”, another dialogue “The Statesman”, and a treatise “On Monarchy” – that had the form of a letter addressed to Alexander the Great who, as a youth, had been the pupil of Aristotle. What is left to us is Aristotle’s Politics and his treatises of ethics that are known by the names “Nicomachean Ethics” and “Eudemian Ethics”. The first treatise was probably edited by or dedicated to his son Nicomachus; the second is a paraphrase of the same treatise given by his disciple Eudemos. A third work which we usually call the “Great Ethics”, “Magna Moralia”, is, in spite of this traditional name, of minor importance – it is a mere extract, a handbook for school use. The Nicomachean and Eudemian Ethics were lectures[,] that Aristotle delivered to his mature pupils; Aristotle himself says that they were unsuited to the too youthful hearers. Before entering into a closer analysis of Aristotle’s ethical writings we must say a few words about his method. This method was, in many respects, a new and original one. Aristotle was deeply influenced by Plato – and in some respect he immediately goes back to the thought of Sokrates. Nevertheless[,] he approaches the problem from a different angle. He does not speak as a moralist who wishes to give us a coherent ethical system and who wishes to teach us our fundamental duties. He speaks much more as a psychologist, as an observer of human nature. He does not start, like Sokrates or Plato, from the question: What is the duty of man? Even the term860 “duty” or “obligation” is scarcely to be found in Aristotle’s ethical treatises. What he gives us is a new branch of philosophical knowledge that, in a modern term, we may

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Pare che Aristotele abbia scritto molti trattati su questioni etiche e politiche, ma la maggior parte di essi sono andati perduti. Scrisse il dialogo Sulla giustizia, un altro dialogo dal titolo Lo statista e il trattato Sulla monarchia, scritto sotto forma di lettera ad Alessandro Magno, che in gioventù era stato allievo di Aristotele. Ciò che ci rimane è la Politica di Aristotele e i suoi trattati di etica, noti con i titoli di Etica Nicomachea ed Etica Eudemia. Il primo trattato, probabilmente, venne dedicato al figlio Nicomaco, oppure curato da quest’ultimo; il secondo è una parafrasi dello stesso trattato fornita dal suo discepolo Eudemo. Una terza opera, in genere nota come Grande Etica (Magna Moralia), a dispetto del suo titolo tradizionale, è di minore importanza, è un mero estratto, un manuale scolastico. L’Etica Nicomachea e l’Etica Eudemia di Aristotele erano lezioni destinate ai suoi allievi maturi; Aristotele stesso dice che erano inadatte agli uditori troppo giovani. Prima di addentrarci in un’analisi approfondita degli scritti etici di Aristotele, dobbiamo spendere alcune parole sul suo metodo. Questo metodo, sotto molti aspetti, si rivelò nuovo e originale. Aristotele venne profondamente influenzato da Platone e, per certi versi, si riallaccia direttamente al pensiero di Socrate. Cionondimeno, si approccia al problema da una diversa angolazione. Non parla come un moralista intento a fornirci un coerente sistema etico e a insegnarci i nostri doveri fondamentali. Agisce più che altro da psicologo, da osservatore della natura umana. Diversamente da Socrate e Platone, non prende le mosse dalla questione: qual è il dovere dell’uomo? Lo stesso termine “dovere” o “obbligo” non si trova quasi mai nei trattati etici di Aristotele. Ciò che egli ci fornisce è una nuova branca della conoscenza filosofica che, in termini

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describe as “Characterology”. Characterology – that means the study of human characters and of the various forms and types of life corresponding to these characters. Theophrastus, the greatest and most original pupil of Aristotle, later on wrote his famous work “The Character” that is based on Aristotelian ideas and that has become a classical. We find the influence of this work still in as late a period as the 18th century – for instance in the work of La Bruyére861 that is regarded as a master-work of French classical literature862. Even in his Ethics Aristotle did not cease to be a naturalist. His ethics has much more a descriptive character than that strictly imperative863 that we find in other great ethical thinkers – first of all in Kant. Aristotle’s [ethics] puts before us different forms and ideals of life and conducts. But he does not think that these forms can give us absolute ethical standards. They have no absolute validity; they are not fit for every individual. Their applicability depends on various conditions – on personal conditions, on social conditions, even on differences of temperament. Of course[,] Aristotle does not exclusively speak as a naturalist who wishes to describe various organic forms. He does not hesitate to give a definite judgment about their objective value. He wishes to order the different forms of life in a certain hierarchy – and in the description he gives of this hierarchy we feel clearly his own ethical ideals, nay his personal predilections. But even in this field he remains a great empiricist. He wishes to give us a perfect survey of the possible forms of ethical life before giving a definite judgment about them. And he thinks that all of them have their specific value; in the totality of political and social life none of them can be entirely missed.

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moderni, possiamo descrivere come “caratterologia”. La caratterologia indica lo studio dei caratteri umani e delle varie forme e tipologie di vita che corrispondono a questi caratteri. Teofrasto, il più grande e originale allievo di Aristotele, scrisse infatti una famosa opera dal titolo Il carattere, basata su idee aristoteliche e in seguito destinata a divenire un classico232. Quest’opera esercitò la sua influenza sin nel diciottesimo secolo, come ad esempio nell’opera di La Bruyère, considerata un capolavoro della letteratura classica francese. Anche nella sua etica Aristotele non cessa di essere un naturalista. La sua etica ha un carattere di tipo più descrittivo che rigorosamente imperativo, rinvenibile invece in altri grandi pensatori etici, soprattutto in Kant. L’etica di Aristotele ci propone diverse forme e ideali di vita e di condotta, ma egli non ritiene che tali forme possano fornirci criteri etici assoluti. Essi non hanno alcuna validità assoluta, poiché non valgono per ogni individuo. La loro applicabilità dipende da varie condizioni: da condizioni personali, sociali e anche da differenze di temperamento. Ovviamente, Aristotele non veste i panni del naturalista intento a descrivere le varie forme organiche. Non esita a fornirci un determinato giudizio sul loro valore oggettivo; intende ordinare le diverse forme di vita in una determinata gerarchia, e nella descrizione di questa gerarchia individuiamo chiaramente i suoi ideali etici, addirittura le sue inclinazioni personali. Ma anche in questo campo rimane un grande empirista. Aristotele intende fornirci una esaustiva panoramica delle possibili forme della vita etica, prima di esprimere un giudizio in merito. Egli pensa anche che queste forme posseggano il loro specifico valore; nella totalità della vita politica e sociale nessuna di esse può essere interamente trascurata. Analogamente alla vita

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Just as much as in organic life we find here864 a “scala naturae”, an ascendent series of ethical forms. It is this point of view that makes one of the principal distinctions between Platonic and Aristotelian ethics. When Plato speaks of the “Good”, he thinks of the absolute Good. All the relative goods must, so to speak, be absorbed in this absolute Good. But this absolute Good does not belong to our human world. It is far elevated above it; it is a transcendent ideal. The transcendence865 of the idea of the Good is emphasized over and over again by Plato. In the Platonic Republic the idea of Good is said to have the same place in the intelligible world, the world of pure forms and ideas as sun has in the sensible world. The sun does not only make all things visible to us; it is also the origin of their being866. The light and the heat of the sun are867 the source of life for every natural and every human being. In the same sense the idea of the Good is said to be the “ratio cognoscendi” and the “ratio essendi” of all things – the reason of the knowledge of things, and the reason of their essence. But this highest principle of truth remains inaccessible to man. We are longing for an absolute truth, we are aspiring to it, but as human beings we cannot reach it in its pure state. Our own world, our human world, must always remain an imperfect world – a mixture of good and evil. The phenomena – says Plato in the Phaidon – strive868 after pure forms, but they cannot attain them, they necessarily remain behind them – they fall short of their perfection. The Good – says Plato in the Republic – may be said not only the cause of knowledge to all things known (sic) – but also the origin of their being and essence. And yet the Good, when understood in its highest and absolute sense, is not essence – but far exceeds essence in dignity and power. It is, therefore, hopeless to

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organica, anche qui rinveniamo una scala naturae, una serie ascendente delle forme etiche. Questo punto di vista costituisce una delle principali distinzioni tra l’etica platonica e quella aristotelica. Quando Platone parla di “Bene”, pensa al Bene assoluto. Tutti i beni relativi, per così dire, si risolvono in questo Bene assoluto. Tuttavia, il Bene assoluto non appartiene al nostro mondo umano, ma si trova al di sopra di esso, è un ideale trascendente. La trascendenza dell’idea del Bene viene costantemente evidenziata da Platone. Nella Repubblica platonica si dice che così come il sole ha il suo luogo nel mondo sensibile, l’idea del Bene dimora nel mondo intelligibile, nel mondo delle forme pure e delle idee. Il sole non soltanto rende visibili tutte le cose, ma è anche l’origine del loro essere. La luce e il calore del sole sono la fonte di vita per ogni essere naturale e per ogni essere umano. Nello stesso senso, l’idea del Bene viene definita come la ratio cognoscendi e la ratio essendi di tutte le cose, la ragione gnoseologica delle cose e la ragione della loro essenza. Ma questo sommo principio di verità rimane inaccessibile all’uomo. Noi bramiamo la verità assoluta, aspiriamo a essa, ma in quanto esseri umani non possiamo raggiungere il suo stato puro. Il nostro mondo – il nostro mondo umano – resta pur sempre un mondo imperfetto, una mescolanza di bene e male. I fenomeni – dice Platone nel Fedone – aspirano alle forme pure, ma non possono raggiungerle, in quanto gli rimangono inferiori e non possono raggiungere la loro perfezione. Il Bene – afferma Platone nella Repubblica – può esser detto non soltanto la causa della conoscenza di tutte le cose conosciute, ma anche l’origine del loro essere e della loro essenza. E tuttavia il Bene, se inteso nel suo senso sommo e assoluto, non è essenza – ma eccede l’essenza in dignità e potenza. Pertanto, sarebbe vano

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seek for a perfect and unmixed good in our empirical world. We must abandon the world and go beyond it the find the real good. «Evil – says Sokrates in the Theaetetos – can never pass away; for there must always remain something which is antagonistic to good. Having no place among the gods in heaven, of necessity they hover around the mortal nature and this earthly sphere. Wherefore we ought to fly away from here as quickly as we can. But to fly away means to become like God so far as it is possible; to become truly just and wise» (Theaetetus 176A). Neither in his thought nor in his conduct Aristotle ever feels this Platonic desire: the desire to flee away from the empirical world. As a thinker he wishes to understand this world; as a practical man he wishes to organize it. And it is for this purpose that he tries to construct a clear and consistent political and ethical theory. He makes no sharp distinction between these two problems. He regards Ethics as a part of Politics. For if we describe Ethics as the science of the “summum bonum”, of the supreme good, we cannot separate it from Politics. Aristotle declares that the chief good of the State and of the individual are identical – the former one is only on a grander scale than the other. Man is by nature a social animal, a community-forming being; he has no separated or isolated existence outside the community. If we ask after the end869 of man we must, therefore, always understand the question in both these senses. We must distinguish between subordinate ends and ultimate ends. There are some things that have this character of ultimate […]870 end. They are not desired or sought for the sake of something else but for their own sake. And will not this knowledge of this highest end, of this chief good, have a great influence of life[?] «Shall we not – asks

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cercare nel nostro mondo empirico questo bene perfetto e puro. Se vogliamo trovarlo, dobbiamo abbandonare questo mondo e andare al di là di esso: «Il male – dice Socrate nel Teeteto – non può mai passare; infatti deve sempre rimanere qualcosa che è in contrasto con il bene. Non avendo posto tra gli dèi in cielo, per necessità aleggiano attorno alla natura mortale e a questa sfera terrena. Perciò dobbiamo volare via di qui il più presto possibile. Ma volare via significa diventare simili a Dio per quanto è possibile; per diventare veramente giusto e saggio» (Teeteto, 176A)233. Invece Aristotele non sente mai, né nel suo pensiero né nella sua condotta, questo desiderio platonico di fuggire dal mondo empirico. Come pensatore egli intende comprendere questo mondo; come uomo pratico desidera organizzarlo. Per tali ragioni egli cerca di costruire una teoria etico-politica chiara e consistente. Non opera una netta distinzione tra questi due problemi. Ritiene che l’etica faccia parte della politica. Difatti, se consideriamo l’etica come la scienza del summum bonum, del bene supremo, non possiamo separarla dalla politica. Aristotele afferma che il bene principale dello Stato e quello dell’individuo sono identici; il primo è soltanto di dimensioni più grandi rispetto al secondo. L’uomo, per natura, è un animale sociale e comunitario che non ha alcuna esistenza separata o isolata dalla comunità. Se ci domandiamo quale sia lo scopo dell’uomo, dobbiamo sempre comprendere la questione in entrambi i sensi. Dobbiamo infatti distinguere tra fini subordinati e fini ultimi. Vi sono alcune cose che posseggono questo carattere di fine ultimo. Esse non vengono desiderate né ricercate in vista di qualcos’altro, ma per se stesse. E non sarà la conoscenza di questo sommo fine, di questo bene principale, a esercitare una grande influenza sulla vita? Difatti, si chiede Aristotele: «Non dovremmo es-

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Aristotle – like archers who have a mark to aim at, be more likely to hit upon what is right?...And politics appears to be of this nature; for it is this that ordains which of the sciences should be studied in a state, and which each class of citizens should learn and up to what point they should learn them… now, since politics uses the rest of the sciences and since, again, it legislates as to what we are to do and what we are to abstain from, the end of this science must include that of the others, so that this end must be good for man. For even if the end is the same for a single man and for a state, that of the state seems at all events something greater and more complete wheter to attain or to preserve; though it is worth while to attain the end merely for one man, it is finer and more godlike to attain it for a natio or for city-states. These, then, are the ends at which our inquiry aims, since it is political science, in one sense of this term» (cf. Selections, Ross, p. 219). We must bear in mind this intimate connexion between Aristotle’s ethical and political thought if we wish to understand and to account for the structure of his ethical system871. Aristotle872 did not, like Plato, construct the ideal of a perfect state and he did not demand that the empirical and historical state should conform to this ideal. In this field he rejected every deductive method of thinking and reasoning. What he objected to Plato was that in his Politeia he was misled by a scientific ideal that may have very great and incontestable value but that is not applicable to the phenomena with which we have to deal in political life. That type of arguing and reasoning, that we use in mathematical thought, is not applicable in the field of Politics. In modern philosophy there was a strong tendency to reduce political and ethical thought to

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sere, come gli arcieri che hanno un bersaglio a cui mirare, più propensi a colpire ciò che è giusto? [...] E la politica sembra essere di questa natura; poiché è questo che ordina quali scienze debbano essere studiate in uno stato, e quale classe di cittadini debba imparare e fino a che punto debba imparare [...]; ora, poiché la politica usa il resto delle scienze e poiché, ancora, legifera su ciò che dobbiamo fare e su ciò da cui dobbiamo astenerci, il fine di questa scienza deve includere quello delle altre, in modo che questo fine deve essere buono per l’uomo. Infatti, anche se il fine è lo stesso per un uomo solo e per uno stato, quello dello stato sembra comunque qualcosa di più grande e più completo sia da raggiungere sia da conservare; sebbene valga la pena raggiungere il fine solo per un uomo, è più bello e più divino raggiungerlo per una nazione o per città-stato. Questi, dunque, sono i fini a cui mira la nostra indagine, poiché è scienza politica, in un certo senso del termine» (cf. Selections, Ross, p. 219)234. Dobbiamo tenere a mente questa intima connessione tra il pensiero etico e politico di Aristotele, se vogliamo comprendere e render conto della struttura del suo sistema etico. Aristotele, a differenza di Platone, non ha costruito l’ideale di uno stato perfetto e non ha preteso che uno stato storico ed empirico dovesse conformarsi a questo ideale. In questo campo egli rigetta ogni metodo deduttivo di pensiero e di ragionamento. Obietta a Platone di essersi fatto sviare, nella sua Politeia, da un ideale scientifico che, sia pur di grande e incontestabile valore, non è applicabile ai fenomeni con cui abbiamo a che fare nella vita politica. Questo modo di argomentare e ragionare, che utilizziamo nel pensiero matematico, non è applicabile nel campo della politica. Nella filosofia moderna vi è stata una forte tendenza a ridurre

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the type of mathematical thought. Spinoza wrote his Ethics in the form of a mathematical treatise: “Ethica more geometrico demonstrata”. All these attempts are rejected by Aristotle; they are declared to be false ideals and methodological errors. Ethics is not, like Mathematics, concerned with necessary truths. It deals with things which, as Aristotle says, «are for the most part so», things which are «capable of being otherwise». Of such things we can give no exact mathematical demonstrations; for these are only possible in the case of «things that are of necessity» (Eth. Nic. 1094a I ff.). In order to express the thought of Aristotle by a distinction that was introduced by a modern thinker, by Pascal, we may say that what is required in ethical and political science is not “l’esprit geometrique”, but “l’esprit fin” – not a geometrical spirit but a “fine” or “nice” spirit. Here we cannot subject the phenomena to a rigid scheme. We must use a subtler and more elastic thought – a thought that is able to adapt itself to all the differences, the fine shades[,] and gradations of our subject-matter873. Our method must be an empirical and a psychological one – not a mathematical or deductive one. In his Politics Aristotle never was a radical; nor had he any revolutionary ideas. He accepted the given political order. He saw very clearly the historical conditions from which this order had arisen – and he did not think it possible to change these conditions by any effort of philosophical thought. In this approval and acceptance of special historical and social conditions Aristotle went very far. There is a famous passage in his work, in which he, from this point of view, undertakes to defend the institution of slavery. As long as there will be manual labour – he declares – there always

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il pensiero etico e politico al tipo di pensiero matematico. Spinoza scrisse la sua etica nella forma di un trattato matematico: Ethica more geometrico demonstrata. Tutti questi tentativi vennero rigettati da Aristotele, poiché considerati falsi ideali ed errori metodologici. L’etica, diversamente dalla matematica, non concerne verità necessarie, ma tratta di cose che – come dice Aristotele – «sono per lo più»235, cose che sono «capaci di essere diversamente» (Etica Nicomachea, 1094a I ss.)236. Di tali cose non si dà alcuna esatta dimostrazione matematica, poiché queste ultime non sono possibili per quelle «cose che sono necessariamente»237. Volendo esprimere il pensiero di Aristotele con una distinzione introdotta da un pensatore moderno, Pascal, possiamo affermare che ciò che si esige da una scienza etica e politica non è l’esprit geometrique ma l’esprit fin – non uno spirito geometrico, ma uno spirito “raffinato” o “elegante”238. Qui non possiamo sottomettere i fenomeni a uno schema rigido, ma dobbiamo piuttosto utilizzare un pensiero più sottile ed elastico, un pensiero in grado di adattarsi a tutte le differenze, alle sottili sfumature e gradazioni del nostro oggetto. Il nostro metodo deve essere empirico e psicologico, non matematico o deduttivo. Nella sua Politica Aristotele non è mai stato radicale, né ha proposto idee rivoluzionarie. Accettò l’ordine politico esistente e vide chiaramente le condizioni storiche dalle quali era sorto questo ordine; inoltre, non riteneva possibile modificare queste condizioni attraverso uno sforzo del pensiero filosofico. In questa ammissione e accettazione delle particolari condizioni storiche e sociali Aristotele si è spinto molto lontano. Vi è un famoso brano della Politica col quale, a tal proposito, si impegnò a difendere l’istituto della schiavitù. Da quando esiste il lavoro manuale – afferma Aristotele – vi è sempre stata qualcosa come la

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must be something like slavery. All manual labour, agriculture[,] and industry, should be performed by slaves. There are some individuals – he tells us – who are unfit for the free disposal of their own life; who have no capacity for reflexion and who, therefore, are appointed by nature to slavery. «Is there any one thus intended by nature to be a slave – asks Aristotle in his Politics (1253b, cf. Selections p. 291) [–] and for whom such a condition is expedient and right, or rather is not all slavery a violation of nature? There is no difficulty – he replies – in answering this question, on grounds both of reason and of fact. For that some should rule, and others be ruled is a thing not only necessary but expedient; from the hour of their birth, some are marked out for subjection, others for rule». In a thinker of the rank of Aristotle, that is a very astounding conservatorism; it shows us, to what a high degree, even in the field of Politcs and Ethics, he was much more inclined to describe the present order of things than to prescribe definite rules. In his general analysis of the different forms of government we find the same moderation and the same reserve. He speaks as an empiricist who carefully considers and ponders out the advantages of each single form. Here, too, he maintains his fundamental principle – he describes the state as an organism. «As in other departments – he says – so in politics, the compound should always be resolved into the simple elements or least parts of the whole. We must therefore look at the elements of which the state is composed, in order that we may see in what the different kinds of rule differ from one another, and whether any scientific result can be attained about each of them…. the state is by nature clearly prior to the family and to individual, sinche the whole is of necessity prior to the part; for example, if the whole body be destroyed, there will be

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schiavitù. Ogni lavoro manuale, l’agricoltura e l’industria, dovrebbero essere svolti da schiavi. Vi sono alcuni individui – ci dice – che non sono in grado di disporre liberamente della loro vita; che non hanno alcuna capacità di riflessione e che, pertanto, sono destinati per natura a essere schiavi: «C’è qualcuno così destinato per natura a essere schiavo – si chiede Aristotele nella sua Politica (1253b, cfr. Selections p. 291) – e per il quale una tale condizione sia opportuna e giusta, o piuttosto ogni schiavitù è una violazione di natura? Non c’è difficoltà a rispondere a questa domanda, sia per motivi razionali sia fattuali. Infatti che alcuni regnino e altri siano governati è cosa non solo necessaria ma opportuna; dall’ora della loro nascita, alcuni sono destinati a venire assoggettati, altri a dare le regole»239. Per un pensatore del rango di Aristotele questo conservatorismo appare piuttosto sorprendente; esso ci mostra che Aristotele anche nel campo della politica e dell’etica era più incline a descrivere l’ordine reale delle cose, che non a prescrivere regole determinate. Nella sua analisi generale delle diverse forme di governo rinveniamo la medesima moderazione e prudenza. Egli veste i panni di un empirista che analizza e valuta accuratamente i pregi di ogni singola forma. Anche in questo caso tiene fede al suo principio fondamentale – descrive lo stato come un organismo: «Come in altri campi – dice – così in politica il composto va sempre risolto negli elementi semplici o parti minime del tutto. Dobbiamo quindi esaminare gli elementi di cui è composto lo stato, in modo da poter vedere in cosa differiscono i diversi tipi di governo e se si può ottenere un risultato scientifico intorno a ciascuno di essi [...]. Lo stato è per natura chiaramente anteriore alla famiglia e all’individuo, poiché il tutto è necessariamente anteriore alla parte; per esempio, se tutto il corpo viene distrutto,

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no foot or hand, except in an equivocal sense, as we might speak of a stone hand…The proof that the state is a creation of nature and prior to the individual is that the individual, when isolated, is not self-sufficing; and therefore he is like a part in relation to the whole» (Politics 1252ff. cf. Selections p. 284 ff.)874. From this Aristotle proceeds to an inquiry about the best constitution. In contradistinction to Plato, he emphasizes that he does not mean to assume a «standard of virtue which is above ordinary persons, nor an education which is exceptionally favored by nature and circumstances, nor yet an ideal state which is an aspiration only». He only wishes to have «regard to the life in which the majority are able to share and to the form of government which states in general can attain» (Politics 1295 ff.; cf. Selections p. 306 f.). From this general principle[,] Aristotle is led to the conclusion that the best state would be a community in which all free men are admitted to a share in the administration and at the same time submit themselves to the law which is described as «passionless reason». This will be the most stable polity. Inasmuch as, in such a polity, all in turn rule and are ruled the middle classes have a preponderant influence. In a middle mode of life obedience to reason is easier than in other superfluity, whether in wealth or in nobility of birth and the direct opposites of these, destitution[,] and weakness, are alike difficult to enlist in the service of reason. As to the inner constitution there must be some supreme or constitutional laws, alterable only under special circumstances and by special formulations. All ordinary enactments875 and all the laws upheld by courts of justice must conform to

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non ci sarà né piede né mano, se non in senso equivoco, come potremmo parlare di una mano di pietra [...]. La prova che lo stato è una creazione della natura e anteriore all’individuo è che l’individuo, quando è isolato, non è autosufficiente; e quindi è come una parte in relazione al tutto» (Politica, 1252ss. cf. Selections p. 284 ss.)240. Da qui Aristotele procede con una indagine sulla costituzione migliore. In contrapposizione a Platone, sottolinea che non intende assumere «un criterio di virtù che è al di sopra delle persone comuni, né un’educazione eccezionalmente favorita dalla natura e dalle circostanze, né ancora uno stato ideale che è solo un’aspirazione». Desidera solo avere «riguardo alla vita a cui la maggioranza è capace di partecipare e alla forma di governo che gli stati in generale possono raggiungere» (Politica, 1295 ss.; cf. Selections p. 306 s.)241. Da questo principio generale Aristotele giunge alla conclusione che lo stato migliore sarebbe una comunità nella quale tutti gli uomini liberi possono partecipare all’amministrazione, ma al tempo stesso devono sottostare alla legge, che è descritta come «ragione senza passione»242. Questo sarà il sistema di governo più stabile. Nella misura in cui, in un tale sistema, tutti a loro volta governano e vengono governati, i ceti medi hanno un’influenza preponderante. In una vita secondo misura, l’obbedienza alla ragione è più semplice rispetto a quella in cui vige il superfluo, come ad esempio nel caso della ricchezza e della nobiltà di nascita e nel caso dei loro opposti (miseria e debolezza), i quali risultano più difficili da porre al servizio della ragione243. Per quanto riguarda la costituzione interna, sono necessarie alcune leggi supreme o costituzionali, modificabili soltanto in presenza di circostanze particolari e di formulazioni speciali. Tutte le norme ordinarie e tutte le leggi sostenute dalla corte di giustizia devono

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these constitutional laws. By these few quotations you see in which way some of the fundamental doctrines of modern democracy have their support and are perhaps at the first time clearly expressed in Aristotle’s political theory. [3:] Aristotle’s description of Monarchy and Democracy Our description of Aristotle’s Ethics and of his system of virtue must begin with the analysis and interpretation of a single term. The aim of all human activity, says Aristotle, is “Eudaimonia”. It is the supreme good – for it is the only thing that is desired for itself alone – not for the sake of something else. “Eudaimonia” consists in beauty and perfection of existence as such. But what means “eudaimonia” and in which sense is the term understood by Aristotle? Here we have to begin with a negative statement – it does not mean pleasure. Aristotle’s system is a system of Eudaimonism, but not a system of Hedonism. In the history of Greek Ethics Hedonism – the doctrine that pleasure (hedoné) is the highest aim and the supreme good [–] has played an important role. Even before the times of Epicurus we find many thinkers who defend this view. A theory of Hedonism was upheld by Aristippus of Cyrene876, a pupil of Sokrates – another very interesting and elaborated one was given by Eudoxus of Cnidus877, the famous astronomer878. We know this ethical theory of Edoxus because it has been discovered very carefully in Plato’s dialogue “Philebus”. Eudoxus of Cnidos was a personal friend of Aristotle, and one of the most eminent thinkers of the Platonic Academy. The criticism of his theory given by Aristotle is so much the more

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essere conformi a queste leggi costituzionali. Da queste poche citazioni vedete che alcune delle dottrine fondamentali della democrazia moderna hanno il loro supporto e sono forse state espresse chiaramente per la prima volta nella teoria politica di Aristotele. 3. Monarchia e democrazia La nostra descrizione dell’etica di Aristotele e del suo sistema della virtù deve iniziare con l’analisi e interpretazione di un singolo termine. Lo scopo di tutta l’attività umana, dice Aristotele, è l’eudaimonia. Essa è il bene supremo, poiché è la sola cosa desiderata di per se stessa e non in vista di qualcos’altro. L’eudaimonia consiste nella bellezza e perfezione dell’esistenza in quanto tale. Ma cosa significa eudaimonia e in che senso questo termine viene inteso da Aristotele? Innanzitutto, dobbiamo iniziare con un’affermazione negativa: essa non significa piacere. Il sistema di Aristotele è un sistema dell’eudemonismo, non dell’edonismo. Nella storia dell’etica greca l’edonismo – la dottrina che considera il piacere (hedoné) come il sommo fine e il bene supremo – ha giocato un ruolo importante. Molti pensatori hanno difeso questa concezione ancor prima dei tempi di Epicuro. Una teoria dell’edonismo venne sostenuta da Aristippo di Cirene, un allievo di Socrate; un’altra interessante e raffinata teoria fu quella di Eudosso di Cnido, il famoso astronomo. Conosciamo questa teoria etica di Eudosso perché è stata individuata – in maniera piuttosto accurata – nel dialogo Filebo di Platone. Eudosso di Cnido fu un amico personale di Aristotele e uno dei pensatori più importanti dell’Accademia platonica. La critica di questa teoria mossa da Aristotele è davvero rilevante: «Tutti gli

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remarkable. «All beings, rational as well irrational – that was the thesis of Eudoxus – strive after pleasure; and their moving in that direction makes it plain that pleasure is the best thing for them. For every creature is able to find what is best for it, just as it knows how to choose its own food. But that which is good for all, and after which all strive, is the universal good» (Eth. Nic. X. 2). Aristotle does by no means fully reject this thesis – and he does not criticize it as deeply as Plato did. No activity – he says – [«]is perfect when it is impeded – and eudaimonia is a perfect thing; it needs therefore external goods and pleasurable things as for instance those of fortune in order that he may not be impeded in these ways. Those who say that the victim on the rack or the man who falls into great misfortunes is happy if he is good, are, wheter they mean to or not, talking nonsense» (Selections p. 268). But, however admitting this, Aristotle even in this case follows the same general principles that he had derived from his study of organic nature. All our human instincts and impulses are originally not directed towards pleasure but to the fulfilment of nature’s purposes. Pleasure is only a subsidiary result – it is not the ultimate end, the end in itself. But if we cannot render “eudaimonia” by pleasure it seems to be natural to translate it by “happiness” – a translation that, as far as I can see, has been adopted in the best English versions879. But even this term is in a sense equivocal and misleading. For a Greek thinker “eudaimonia” had a very characteristic and specific meaning that we can scarcely express in entirely adequate terms. Literally880 speaking[,] to possess “eudaimonia” means to be under the guidance and protection of a “good demon”. That every man possesses from his birth a personal demon, a guardian genius who

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esseri, razionali e irrazionali – questa era la tesi di Eudosso – aspirano al piacere; e il loro muoversi in quella direzione rende chiaro che il piacere è per loro la cosa migliore. Infatti ogni creatura è in grado di trovare ciò che è meglio per essa, così come sa scegliere il proprio cibo. Ma ciò che è bene per tutti, e al quale tutti aspirano, è il bene universale» (Etica Nicomachea, X. 2)244. Aristotele non rigetta del tutto questa tesi e non la critica così a fondo come fece Platone. Nessuna attività – dice Aristotele – «è perfetta quando è impedita – e l’eudaimonia è una cosa perfetta; ha bisogno quindi di beni esterni e di cose piacevoli, come per esempio le cose della fortuna, affinché non sia impedito dalla loro mancanza. Coloro che dicono che la vittima suppliziata alla ruota o l’uomo caduto in grandi disgrazie sono felici se sono buoni, dicono – lo vogliano o no – delle sciocchezze» (Selections p. 268)245. Ma, pur ammettendo questo, Aristotele anche in tal caso segue gli stessi princìpi generali ricavati dal suo studio della natura organica. Tutti i nostri istinti e impulsi umani non sono originariamente diretti al piacere, ma al soddisfacimento dei fini della natura. Il piacere è soltanto un risultato accessorio – non costituisce il fine ultimo, il fine in sé. Ma se non possiamo tradurre il termine eudaimonia con piacere, allora sembra naturale tradurlo con “felicità” – una traduzione che, per quel che mi risulta, è stata adottata nelle migliori versioni inglesi. Ma anche questo termine, in un certo senso, è equivoco e fuorviante. Per un pensatore greco il termine eudaimonia aveva un significato caratteristico e particolare che difficilmente possiamo esprimere in termini del tutto adeguati. Letteralmente, possedere l’eudaimonia significa essere sotto la guida e la protezione di un “demone buono”. Che ogni uomo, alla sua nascita, sia posseduto da un demone per-

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leads him in his actions and assists him in his actions is a very widespread881 mythical and religious creed. We find this creed both in Greek and especially in Roman religion. Our modern term “genius” has its origin in this mythical concept of a tutelary genius who accompanies man throughout his life, who gives him his advice, who watches over him against all sorts of dangers. In his Republic Plato had given a new turn to this religious thought. The genius of a man, his personal demon – says Plato – is not imposed upon him by a blind necessity, by a mythical fate. It is the human soul herself who, by a free act, by an act of her own will, chooses this genius. In a mythical tale Plato describes how before the birth of man his soul lives in Hades, to the lower world. Here she is led to a judge who proposes to her different kinds of demons. She has to make her choice between them. She may choose the life of a tyrant or of a just and wise ruler; the life of a scoundrel or of a virtuous man. Her fate for good and evil is settled by this primeval decision – nevertheless this fate does not come from without, but from within; for it is the soul herself who has chosen her daimon (cf. Plato, Republic X 617 D-E). Aristotle, of course, does not accept any of the mythical implications of Plato’s theory of the soul and of the preexistence of the soul. But he, too, defends the principle of the freedom of the human will. To have a good daimon, to be “eu-daimon” does not depend upon merely external circumstances. It depends upon the original character of man. A man who has a good character, who preserves it in its purity, who brings his character to its full actuality by developing all his gifts, by exerting all

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sonale, un custode-genio che lo guidi e che lo assista nelle sue azioni, è una credenza mitica e religiosa abbastanza diffusa. Troviamo questa credenza sia in Grecia sia specialmente nella religione romana. Il nostro termine moderno “genio” affonda le sue origini proprio nel concetto mitico di genio tutelare, che accompagna l’uomo durante la sua vita, gli dà consigli e veglia su di lui per evitargli ogni sorta di pericoli. Nella sua Repubblica Platone aveva conferito una nuova svolta a questo pensiero religioso. Il genio di un uomo, il suo demone personale – dice Platone – non gli viene imposto da una cieca necessità, da un destino mitico. È la stessa anima umana che, per via di un atto libero, per un atto della sua stessa volontà, sceglie il suo demone. In un racconto mitico Platone descrive come, prima della nascita dell’uomo, la sua anima viva nell’Ade, il mondo degli inferi. Qui viene condotta da un giudice che le propone diversi tipi di demoni. Lei deve solo fare la sua scelta: può scegliere la vita di un tiranno o di un governante giusto e saggio, la vita di un furfante o di un uomo virtuoso. Il suo destino – verso il bene o verso il male – è determinato da questa decisione iniziale; cionondimeno questo destino non viene dal nulla, ma dall’interno, poiché è l’anima stessa che ha scelto il suo demone (cfr. Platone, Repubblica, X, 617 D-E). Aristotele, ovviamente, non accetta in alcun modo le implicazioni mitiche della teoria dell’anima di Platone, e nemmeno la teoria della preesistenza dell’anima. Ma anch’egli, tuttavia, difende il principio della libertà della volontà umana. L’avere un demone buono, essere eu-daimon non dipende unicamente da circostanze esterne, ma piuttosto dall’originario carattere dell’uomo. Un uomo che ha un buon carattere, che lo preserva nella sua purezza, che conduce il proprio carattere alla piena attualità sviluppando tutti i propri talenti, eserci-

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his activities – this man will be “eu-daimon”; he will live a perfect ethical life. Such a life must be based on freedom or, as Aristotle says, on autarchy – or self-independence. It is not by a pleasurable life, it is only by developing his special function, his power of reason that man can become eudaimon, that he can attain the highest end. A second rather difficult problem of the Ethics of Aristotle may be solved in the same way. A will is moral – he says – when it preserves the correct mean between two extremes. Each virtue is therefore a mean between two errors. In everything, says Aristotle, [«]it is possible to take more, less, or an equal amount […] and the equal is an intermediate between excess and defect […] If thus, then, that every art does its work well – by looking to the intermediate […] and if it, further, virtue is more exact and better than any art, as nature also is, then virtue must have the quality of aiming at the intermediate…Therefore virtue is a kind of mean…it is a mean between two vices, that which depends on excess and that which depends on defect…Hence in respect of its substances and the definition which states its essence virtue is a mean, with regard to what is best and right an extreme[»] (Nic. Eth.; cf. Select. 230 ff.)882. The Aristotelian principle of the mean also calls for a careful interpretation and explanation. It is by no means convincing, it sounds, on the contrary, to be very paradoxical to speak of virtue as a mean between two vices. But here, too, it will help us very much if we approach the problem from the angle of Aristotle’s theory of organic nature. Aristotle began as a biologist and physicist – and he was deeply influenced by the spirit of Greek medicine. In Greek medicine there had evolved a new conception of natural life and

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tando tutte le sue attività – costui sarà un uomo eu-daimon e vivrà una vita etica perfetta. Una vita di questo tipo deve poggiare sulla libertà o, come dice Aristotele, sull’autarchia o sull’autonomia. L’uomo può diventare eu-daimon, raggiungere il fine sommo, non attraverso una vita di piacere, ma soltanto attraverso lo sviluppo della sua funzione speciale, la sua facoltà razionale. Un secondo problema, piuttosto difficile, dell’etica di Aristotele può essere risolto allo stesso modo. Una volontà è morale – dice Aristotele – quando mantiene il giusto mezzo tra due estremi. Ogni virtù, pertanto, si trova a metà tra due vizi. In tutte le cose, dice Aristotele, «si può prendere di più, di meno, o una quantità uguale […], e l’uguale è un intermedio tra l’eccesso e il difetto […]. Quindi, ogni arte fa bene il suo lavoro guardando all’intermedio […]; e se, inoltre, la virtù è più esatta e migliore di qualsiasi arte, come lo è anche la natura, allora la virtù deve avere la qualità di tendere all’intermedio [...]. Quindi la virtù è una specie di mezzo [...], è un mezzo tra due vizi, ciò che dipende dall’eccesso e ciò che dipende dal difetto [...]. Quindi, rispetto alle sue sostanze e alla definizione che ne afferma l’essenza, la virtù è un mezzo, mentre è un estremo rispetto a ciò che è buono e giusto» (Etica Nicomachea; cf. Select. 230 ss.)246. Il principio aristotelico del giusto mezzo richiede inoltre un’accurata interpretazione e spiegazione. Esso non è affatto convincente; al contrario, sembra piuttosto paradossale parlare di virtù come un mezzo tra due eccessi. Ma anche in questo caso ci sarà di grande aiuto affrontare il problema dal punto di vista della teoria aristotelica della natura organica. Aristotele esordì come biologo e fisico e venne profondamente influenzato dallo spirito della medicina greca. Nella medicina greca si era fatta strada una nuova concezione della vita naturale e

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human life. Both of them were comprised under the same categories, that in the work of Hippocrates and his pupils, are described as Taxis, Eunomia, Harmonia – as inner accordance, order, harmony. Every organism – it was said – has an inherent good and an inherent evil – and it is the task of the art of medicine to find out what they are, to determine their nature. Aristotle was not the first to transfer this view of Greek medicine to the field of ethical investigation. It was Plato, who in his dialogue “Gorgias” and in his Republic, had drawn the same parallel. The soul, he says, has just as much its inherent good and evil, as the body. «Everything has a good and also an evil…as ophthalmia883 is the evil of the eyes, as mildew is of corn and rot of timber or rust of copper and iron: in everything or in almost everything there is an inherent evil and disease…The vice and the evil which is inherent in each is the destruction of each, and if this does not destroy it, there is nothing else that will» (Plato, Republic 609B). If we take into consideration this organic884 theory of the Good[,] we can easily understand the Aristotelian doctrine of the mean. According to Aristotle, measure, proportion, balance, moderation are not only human qualities. They are the very principles of organic life. An organism must die and perish if it does not keep the right balance. Both, the defect[,] and the excess, are detrimental to it. A plant may die by want of water and air; but it may even degenerate by a[n] abundance of water. It is the same with man; he can develop his qualities and energies only if he finds the “just mean”, the right proportion of them. But what is the highest “eudaimonia” – the supreme happiness or excellence of man? Aristotle answers this question by giving us his hierarchy of values and his classification of virtues. This classification is based on a classification of our

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della vita umana. Entrambe erano incluse nelle stesse categorie, che nell’opera di Ippocrate e dei suoi allievi venivano descritte come taxis, eunomia, harmonia – accordo interno, ordine, armonia. Ogni organismo – si diceva – ha un bene specifico e un male specifico, ed è compito dell’arte medica scoprire quali sono e determinarne la natura. Aristotele non fu il primo a trasferire questa concezione della medicina greca al campo della vita etica. Fu Platone, nel suo dialogo Gorgia e nella Repubblica, a trarre il medesimo parallelismo. Egli afferma che l’anima, così come il corpo, ha il suo male specifico e il suo bene specifico: «Ogni cosa ha un bene e anche un male [...], come l’oftalmia è il male degli occhi, come la muffa è il male del grano e il marciume del legno o la ruggine del rame e del ferro: in tutto o quasi è insito un male e una malattia [...]. Il vizio e il male insiti in ciascuno sono la distruzione di ciascuno, e se ciò non lo distrugge, non c’è nient’altro che lo farà» (Platone, Repubblica, 609B)247. Prendendo in considerazione questa teoria organica del Bene, potremo facilmente comprendere la dottrina aristotelica del giusto mezzo. Secondo Aristotele, misura, proporzione, equilibrio, moderazione, non sono soltanto qualità umane; sono piuttosto i veri e propri princìpi della vita organica. Un organismo deve morire e perire se non mantiene il giusto equilibrio. Il difetto e l’eccesso gli sono entrambi nocivi. Una pianta può morire per mancanza d’acqua o di aria, ma può anche deteriorarsi per abbondanza d’acqua. Lo stesso avviene nell’uomo; egli può sviluppare le sue qualità ed energie soltanto se trova un “giusto mezzo”, la giusta proporzione tra esse. Ma qual è la somma eudaimonia, la felicità suprema o l’eccellenza dell’uomo? Aristotele risponde alla questione fornendoci una gerarchia dei valori e una classificazione delle virtù. Questa classificazione poggia su una

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human activities. That activity will be the best and highest which is the most characteristic of man – which is not to be found in any other organic being. But it is not enough that this activity exists in a latent sense; it must be exerted[,] and it must be continued during a complete period of existence. Aristotle has described to us the scale of nature that by slow and imperceptible degrees leads from plants to animals, from animals to men. Each realm is designated by a special vital principle or – as Aristotle calls it – by a special soul. We have an anima vegetativa, an anima sensitiva, an anima rationalis – a nutritive soul, a sensitive soul, a rational soul. Growth is the fact that we share with animals. Man’s distinctive mark is reason – and in the field of our ethical life reason means the conscious control, the mastery over our sensuous inclinations, our desires[,] and passions. It is the excellence of the rational part in man, its full development and perfection in which virtue consists [of]. But here too we have to make a new distinction. There are two types of virtue – in the same sense as there are two kinds of rational activity. We have a practical activity or an ethical virtue and a theoretical activity, an activity of thought. By this Aristotle is led to his fundamental division between dianoetic and ethical virtues. Practical wisdom or prudence, is the power of good deliberation – not about how particular things are to be made, such as health or strength are produced – these are objects of [medical] art885, not of practical wisdom – but about “things good for oneself”, i. e. about how a whole state of being which will satisfy us is to be brought into existence. But after that which we have heard in Aristotle’s Metaphysics we cannot doubt that he will put

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classificazione delle nostre attività umane. La migliore e la più degna attività sarà quella che è la più caratteristica dell’uomo – e che non è dato trovare in nessun altro essere organico. Ma non è sufficiente che questa attività esista in uno stato latente; essa va esercitata e deve proseguire per tutta la durata dell’esistenza. Aristotele ci ha descritto la scala della natura, che attraverso lenti e impercettibili gradi conduce dalle piante agli animali, dagli animali agli uomini. Ogni ambito è caratterizzato da un particolare principio vitale o – come lo chiama Aristotele – da un’anima particolare. Noi abbiamo un’anima vegetativa, un’anima sensitiva, un’anima rationalis. La crescita è ciò che condividiamo con gli animali. Il tratto distintivo dell’uomo è la ragione, e nel campo della nostra vita etica la ragione indica il controllo cosciente, il dominio sulle inclinazioni sensibili, sui nostri desideri e sulle nostre passioni. La virtù consiste proprio nell’eccellenza della parte razionale dell’uomo, nel suo pieno sviluppo e perfezione. Ma anche in questo caso dobbiamo effettuare una nuova distinzione. Vi sono due tipi di virtù, così come vi sono due tipi di attività razionale. Abbiamo un’attività pratica o virtù etica e un’attività teoretica, un’attività di pensiero. Con ciò Aristotele giunge alla fondamentale distinzione tra virtù dianoetiche e virtù etiche. La saggezza pratica, o prudenza, è la facoltà della buona deliberazione e non riguarda il modo in cui vanno prodotte alcune cose particolari, o stati particolari come la salute o la forza – questi sono oggetti dell’arte medica, non della saggezza pratica; piuttosto, essa verte sulle cose “buone in se stesse”, come ad esempio su come possa aver luogo un intero stato dell’esistenza che ci soddisferà. Ma dopo quello che abbiamo appreso dalla Metafisica di Aristotele, non possiamo dubitare che egli collocherebbe la saggezza te-

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theoretical wisdom much higher than practical wisdom. Theoretical wisdom deals with the highest objects – with God and the celestial bodies. It is far superior to a mere science of man – and it is from the intuition of these objetcs that we may draw the deepest and most permanent satisfaction. A theoretical life is, therefore, the highest type of life; the very summit of human excellence and human happiness. Once again it is described in an enthusiastic way. I will read you this description because in a sense it gives us the best insight into the general character of Aristotle’s thought. «If happiness is activity in accordance with virtue, it is reasonable that it should be in accordance with the highest virtue; and this will be that of the best thing in us. Whether it be reason or something else that is this element which is thought to be our natural ruler and guide and to take thought of things noble and divine, whether it be itself also divine or only the most divine element in us, the activity of this in accordance with its proper virtue will be perfect happiness. That this activity is contemplative we have already said… For, firstly, this activity is the best […] and secondly, it is the most continuous, since we can contemplate truth more continuously than we can do886 anything…If reason is divine, then, in comparison with man, the life according to it is divine in comparison with human life. But we must not follow those who advice us, being men, to think of human things, and, being mortal, of mortal things, but must, so far as we can, make ourselves immortal, and strain every nerve to live in accordance with the best thing in us; for even if it be small in bulk, much more does it in power and worth surpass everything. This would seem, too, to be each man himself, since it is the authoritative and better part of him. It

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oretica molto più in alto rispetto alla saggezza pratica. La saggezza teoretica si occupa degli oggetti superiori – di Dio e dei corpi celesti. È di gran lunga superiore a una mera scienza dell’uomo ed è dall’intuizione di questo tipo di oggetti che noi possiamo ricavare la soddisfazione più profonda e costante. Pertanto, la vita teoretica costituisce il sommo tipo di vita, il vertice dell’eccellenza umana e della felicità umana. Ancora una volta, ciò viene descritto in modo appassionato. Voglio leggervi questa descrizione, se non altro perché ci offre la migliore spiegazione del carattere generale del pensiero di Aristotele: «Se la felicità è attività conforme alla virtù, è ragionevole che sia conforme alla più alta virtù; e questa sarà la cosa migliore in noi. Che sia la ragione o qualcos’altro a costituire questo elemento che viene pensato come il nostro naturale reggente e guida e come rivolto col pensiero alle cose nobili e divine, oppure sia l’elemento stesso qualcosa di divino o soltanto il più divino in noi, in ogni caso l’attività di questo elemento secondo la sua propria virtù sarà perfetta felicità. Che questa attività sia contemplativa l’abbiamo già detto... Infatti, in primo luogo, questa attività è la migliore [...] e, in secondo luogo, è la più continua, poiché possiamo contemplare la verità più continuamente di quanto possiamo fare qualsiasi cosa [...]. Se la ragione è divina, allora, rispetto all’uomo, la vita secondo essa è divina rispetto alla vita umana. Ma non dobbiamo seguire coloro che ci consigliano, essendo uomini, di pensare alle cose umane, e, essendo mortali, alle cose mortali, ma, per quanto ci è possibile, dobbiamo renderci immortali e sforzarci di vivere secondo la cosa migliore in noi; infatti, anche se di piccola mole, per potenza e per valore essa supera ogni altra cosa. E sembra anche che ciascuno di noi consista di per sé in questo elemento, poiché esso ne è

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would be strange, then, if he were to choose not the life of his self but that of something else» (Nic. Eth. 1177a; cf. Selections p. 279 ff.). If anywhere we have in these words the whole887 Aristotle; his theory of the universe and of human life, his highest concepts and ideals and his deepest desires – his personality and character888. With these remarks I wish to conclude our study of Aristotle’s philosophy. I attempted to give you a general survey of the system of Aristotle – of his Physics and Biology, his Metaphysics, his Politics and Ethics. But there is still one889 chapter missing – and a very important one. In these lectures I could not enter into a study of the Aristotelian Logic. Aristotelian Logic has exerted an enormous historical influence – and even from a mere systematic point of view it has not lost its value[;] it contains the most interesting problems. But in a general history of ancient philosophy these problems cannot be dealt with in an adequate way. They must be studied in special courses. I think that all of you have a certain elementary knowledge of Aristotle’s logical principles890.

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la parte autorevole e migliore. Sarebbe strano, quindi, se uno non scegliesse la vita di se stesso ma quella di qualcos’altro» (Etica Nicomachea, 1177a; cf. Selections pp. 279 ss.)248. In queste parole abbiamo l’intero Aristotele: la sua teoria dell’universo e della vita umana, i suoi concetti e ideali supremi e i suoi desideri più profondi, la sua personalità e il suo carattere. Con queste osservazioni desidero concludere il nostro studio della filosofia di Aristotele. Ho tentato di fornirvi una rassegna generale del sistema di Aristotele, della sua fisica, della sua biologia, della sua metafisica, della sua politica e della sua etica. Ma manca ancora uno dei capitoli più importanti. In queste lezioni non ho potuto approfondire lo studio della logica aristotelica. Quest’ultima ha esercitato un’enorme influenza storica, e anche dal punto di vista puramente sistematico non ha perso nulla del suo valore. Difatti, essa contiene i problemi più interessanti, ma in una storia generale della filosofia antica questi ultimi non possono essere trattati in modo adeguato. Vanno affrontati in corsi speciali. Penso che tutti voi abbiate una qualche conoscenza elementare dei princìpi logici di Aristotele.

[chapter x] THE STOIC PHILOSOPHY891 [§1: Introduction]892 In these last lectures I wish to give you a general impression of the last period of Greek thought that is usually designated by the name “Hellenistic philosophy”893. In the description of this period[,] I cannot use the same method as in our analysis of the great systems of Greek philosophy. These systems – the systems of Herakleitos and Parmenides, of Anaxagoras and Demokritos, of Plato and Aristotle [–] are the creations of individual thinkers. They show us very clear and definite marks of the personality of these thinkers[,] and they are systematic developments of a certain fundamental fundamental principle. In the various directions of thought we meet with in Hellenistic philosophy we find neither the same personal nor the same systematic unity. Of course[,] even here the individual features are not missing. If you ever read a line of Epiktetos894, of Seneca, of Marcus Aurelius, you can scarcely forget the characteristic physiognomy of these thinkers. You can feel the personal charm of their style and their mode of thinking. Nevertheless[,] the Stoic philosophy is much more a collective work than an individual work. It is a great intellectual movement that ends in a religious movement. It is the last great effort of Greek and Roman thought to give a comprehensive view of the universe and of human life. All the former systems, all the treasures of Greek philosophy and Greek culture, are used for this purpose. The Stoics do not only develop the ethical thought of Sokrates, of Plato and Aristotle. In their physics they link themselves with the Pre-Socratic systems, especially with

cap. x

LA FILOSOFIA STOICA 1. Introduzione In queste ultime lezioni intendo fornirvi un’impressione generale di quell’ultimo periodo del pensiero greco solitamente designato col nome di “filosofia ellenistica”. Nel descrivere questo periodo non posso usare lo stesso metodo già adoperato per l’analisi dei grandi sistemi della filosofia classica greca. Questi sistemi – i sistemi di Eraclito e Parmenide, di Anassagora e Democrito, di Platone e Aristotele – sono creazioni di pensatori individuali. Essi ci mostrano, in maniera chiara e definita, il sigillo della personalità di questi pensatori e rappresentano inoltre sviluppi sistematici di un determinato principio fondamentale. Nelle varie diramazioni del pensiero che incontriamo nella filosofia ellenistica non troviamo né la stessa unità personale, né la stessa unità sistematica. Ovviamente, anche qui non mancano le caratteristiche individuali. Chi di voi abbia letto anche una sola riga di Epitteto, Seneca, Marco Aurelio, difficilmente può dimenticare la fisionomia caratteristica di questi pensatori. Potete avvertire il fascino personale del loro stile e del loro modo di pensare. Cionondimeno, la filosofia stoica è più il frutto di un lavoro più collettivo che individuale. È un grande movimento intellettuale che si risolve in un movimento religioso. È l’ultimo grande tentativo del pensiero greco e romano di fornire una visione d’insieme dell’universo e della vita umana. Gli Stoici non soltanto sviluppano i pensieri etici di Socrate, Platone e Aristotele, ma nella loro fisica si ricollegano anche ai sistemi presocratici, in particolar modo alla filosofia di

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the philosophy of Herakleitos. At first sight this seems to be a mere eclecticism, – a mixture of different and divergent motives of thought. Nevertheless[,] the Stoic philosophy does not lack a real unity. We find this unity much less in the single parts of the Stoic system – in the Stoic logic, the Stoic physics, the Stoic ethics – than in the general tendency of thought that inspires and persuades all their special doctrines. It is only this fundamental tendency that I wish to make clear in the following remarks. [§2: The Origins of the Stoa]895 The Earlier Stoa, the doctrine that was founded by Zeno896 (of Citium in Cyprus) about 300 B.C., and that was continued and developed by Cleanthes897 and Chrysippus898 is still very much interested in general logic or dialectical questions. Zeno even seems to be the first thinker who introduced the name “Logic” to a special group of studies that were concerned both with dialectic and with grammatical or rhetorical questions. The Stoics divide Logic into two parts: into a theory of “inward” and “outward” speech. They gave a theory of signs, a general Semantics, they gave a theory of definition, a theory of knowledge and of the criteria of truth. In the course of the development of the Stoic school, in the middle and later Stoa, these merely theoretical interests are more and more enfeebled. They are eclipsed by practical interests. Ethical and religious thought begins to prevail over theoretical thought. Among the Roman Stoics this tendency has become prevalent. In his philosophical diary, in his book “Ad se ipsum”899 (Communings with Himself) Marcus Aurelius – the emperor of Rome and the great Stoic philosopher, who lived in the second century A. D. – thanks the Gods that

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Eraclito. A prima vista, ciò appare un mero eclettismo, una mescolanza di motivi di pensiero diversi e contrastanti. Cionondimeno, la filosofia stoica non è affatto privo di una reale unità. Troviamo questa unità non tanto nelle singole parti del sistema stoico – logica stoica, fisica stoica ed etica stoica – quanto invece nella generale tendenza di pensiero che anima e pervade tutte le loro dottrine speciali. È solo questa tendenza fondamentale che desidero chiarire nelle seguenti osservazioni. 2. Le origini della Stoà La prima Stoà – la dottrina fondata da Zenone di Cizio (Cipro) nel 300 a.C. circa e continuata e sviluppata da Cleante e Crisippo – è ancora interessata alle questioni generali di logica e dialettica. Pare anche che Zenone sia stato addirittura il primo pensatore a introdurre il termine “logica” per un gruppo speciale di studi relativi a questioni sia dialettiche, sia grammaticali o retoriche. Gli Stoici suddivisero la logica in due parti: una teoria del discorso “interno” e una teoria del discorso “esterno”. Fornirono una teoria dei segni, una semantica generale, come anche una teoria della definizione, una teoria della conoscenza e una teoria del criterio di verità. Nel corso dello sviluppo della scuola stoica – nella media e tarda Stoà – questi interessi meramente teoretici si indebolirono. Si eclissarono per via di interessi pratici. I pensieri etici e religiosi iniziano a prevalere sul pensiero teoretico. Tra gli Stoici romani questa tendenza è divenuta dominante. Nel suo diario filosofico, nel suo libro Ad se ipsum (Colloqui con se stesso), Marco Aurelio – imperatore di Roma e grande filosofo stoico vissuto nel secondo secolo d.C. – ringrazia gli dèi che, dopo aver

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when he had set his heart of philosophy he became no writer on philosophy nor a solver of syllogisms (Marcus Aurelius, Ad se ipsum, I, 8 – English translation by C. R. Haines, London 1916). Seneca often warns us against a merely theoretical study of Philosophy. Philosophy – he says – should teach us not to talk but to act: facere docet philosophia non dicere (Seneca, Epistol. 20). What does not make a man better and juster (sic) is not only superfluous, it is dangerous; it averts us from the true task of man (Epist. 88). It is wisdom, not learning, we need; and wisdom is a very simple thing. Most of the dialectic questions we use to treat in our philosophical schools, even in the Stoic schools, are worthless for our moral conduct. We can, for instance, give no metaphysical theory of the human soul – in the sense in which was900 given by Plato or Aristotle. The philosophical definitions of the soul that we find in the different philosophical schools are widely divergent from each other and even contradictory to each other. «What and where the soul is – says Seneca – no one can fathom. One sets up this definition and another that (Naturales Quaest. VII, 25)». But we are not in need of the solution of these metaphysical questions in order to find our way. Our concepts and our ideals of virtue are not based on futile metaphysical or dialectical distinctions – and virtue is the only thing that matters in philosophy. But what we have to understand by virtue itself? Can we give a general description of “virtue” that comprehends all our special obligations? This question is answered in the affirmative in all Stoic schools. Zeno himself, the founder of the School, starts from a definition of virtue. Virtue – he

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provato la passione per la filosofia, non è divenuto uno scrittore di filosofia né un risolutore di sillogismi (Marco Aurelio, Ad se ipsum, I, 8)249. Seneca spesso ci mette in guardia da uno studio meramente teoretico della filosofia. La filosofia – afferma Seneca – «dovrebbe insegnarci non a parlare, ma ad agire» [facere docet philosophia, non dicere]» (Epistola 20)250. Ciò che non rende un uomo né migliore né giusto non è soltanto superfluo, è pericoloso; ci distoglie dal vero compito dell’uomo (Epistola 88)251. Non è l’apprendimento, ma la saggezza ciò di cui abbiamo bisogno, e la saggezza è una cosa davvero semplice. La maggior parte delle questioni dialettiche che di solito affrontiamo nelle nostre scuole filosofiche, anche nelle scuole stoiche, non sono di alcun valore per la nostra condotta morale. Ad esempio, non possiamo fornire alcuna teoria metafisica dell’anima umana, nel senso inteso da Platone e Aristotele. Le definizioni filosofiche dell’anima, rinvenibili nelle diverse scuole filosofiche, divergono ampiamente l’una dall’altra e si contraddicono a vicenda: «Cosa e dove sia l’anima – dice Seneca – nessuno può capirlo. Uno ne dà una definizione, un altro un’altra (Naturales Quaest., VII, 25)»252. Ma non abbiamo bisogno di risolvere questi problemi per trovare la nostra strada. I nostri concetti e i nostri ideali di virtù, non si poggiano su futili distinzioni metafisiche o dialettiche e la virtù è la sola cosa che importi in filosofia. Ma cosa dobbiamo intendere per virtù? Siamo in grado di fornire una descrizione generale di “virtù” che comprenda tutti i nostri obblighi particolari? Tutte le scuole stoiche rispondono affermativamente a questa domanda. Zenone stesso, il fondatore della scuola, prende le mosse dalla definizione di virtù. A suo dire, la virtù non è altro

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says – is nothing else than a form and direction of life. It means a life that is in accordance with nature and in perfect harmony with the general rules of nature. Stoic philosophy does not admit any intrinsic difference between a natural law and a moral law. “Natural law” and “moral laws” are different terms which refers to one and the same thing. Here we find a very characteristic feature of the Stoic system and one of its most important motives – a motive that is not only an ethical one but also an intellectual one. The Stoic philosophy is a monistic901 philosophy. It negates and it wishes to overcome all those dualistic902 principles that we find in the classical systems of Greek philosophy. In Plato we find the fundamental dualism, the separation between the sensible and the intelligible world, the world of the phenomena in space and time and the world of the pure ideas, the world of Becoming and the world of Being. Aristotle rejects this Platonic dualism. But his whole system is founded upon a new dualism – the dualism between “matter” and “form”. In their ethical philosophy the Stoics are pupils of Plato and Aristotle. But in their general concept of nature[,] they go back to the Pre-Socratic conceptions. They conceive nature in the same way as the first Greek philosophical thinkers – as those thinkers who by Aristotle are called the ancient “physiologists”. In Greek the term “Nature” (Physis) has a special significance and, so to speak, a special sound. It means “growth” or “the process of growth”. This process is one and the same in the organic world and in our human world. «It is Nature (Physis) – says Prof. Gilbert Murray in his lecture on the Stoic Philosophy (p. 32) [–] which gradually shapes or tries to shape every living thing into a more perfect form. It shapes the seed, by infinite and exact gradations, into the oak; the blind puppy into the good hunting dog; the savage tribe into the civilized city. If you analyze

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che la forma e la direzione della vita; ovvero, una vita in accordo con la natura e in perfetta armonia con le sue regole generali. La filosofia stoica non ammette alcuna differenza intrinseca tra una legge naturale e una legge morale. “Legge naturale” e “legge morale” sono due termini che si riferiscono a un’unica e medesima cosa. Qui troviamo un aspetto piuttosto caratteristico del sistema stoico e uno dei suoi più importanti motivi, ossia un motivo non soltanto etico ma anche intellettuale. La filosofia stoica è una filosofia monistica. Essa rifiuta tutti quei princìpi dualistici presenti nei sistemi classici della filosofia greca e intende anche superarli. Ad esempio, in Platone troviamo il fondamentale dualismo basato sulla separazione tra mondo sensibile e mondo intelligibile – tra il mondo dei fenomeni nello spazio e nel tempo e il mondo delle idee pure, tra il mondo del divenire e il mondo dell’essere. Aristotele rifiuta il dualismo platonico, ma ciononostante fu proprio il suo intero sistema a fondare un nuovo dualismo: quello tra “materia” e “forma”. Nella loro filosofia etica gli Stoici sono allievi di Platone e Aristotele, ma nel loro concetto generale di natura ritornano invece alle concezioni dei presocratici. Essi intendono la natura allo stesso modo dei primi pensatori greci o, come li chiamava Aristotele, antichi “fisiologi”. In greco il termine natura (physis) possiede, per così dire, un significato particolare. Esso significa “crescita” o “processo di crescita”. Questo processo è identitico sia nel mondo organico sia nel nostro mondo umano. Nelle sue lezioni sulla filosofia stoica (p. 32), il prof. Gilbert Murray afferma che «è la natura (physis) a formare in modo graduale o a cercare di dare una forma perfetta a ogni essere vivente. Essa, attraverso infinite ed esatte gradazioni, trasforma il seme in quercia, un cucciolo cieco in un buon cane da caccia, la tribù selvaggia

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this process, you find that Physis is shaping each thing towards the fulfillment of its own function – that is, towards the good»903. In Plato’s Republic the Good is described as the culminating point, as the highest summit of the intellectual world. It is absolute and transcendent; it is, as Plato says, not only beyond the sphere of Becoming but also beyond the sphere of Being. Man strives after this absolute Good[,] but he can never attain it. In its full sense it remains unapproachable to all our thoughts and to all our human efforts. Even in Aristotle’s philosophy the life of God is a transcendent life. Natural life and human life are bound up with two inseparable conditions. They are a synthesis, a unity of matter and form. But in God the element of matter has vanished; he is pure form, “actus purus”, absolute actuality without any measure of potentiality. All these divisions are however denied in Stoic philosophy. There is no gap that separates form and matter, natural and human life. To the spiritualism of Plato and Aristotle the Stoics oppose a clear materialism. Zeno declared that everything has not only a body but is a body. He did not hesitate to say that even God, or virtue, or justice are bodies. Corporeal objects are the only real objects – the only ones to which we can ascribe an “objective” existence. The human soul, the deity, all qualities of things consist904 of a fundamental stuff which permeates all things and imparts to them the tension (tónos) by which they are held together. The term by which this stuff is described is the Greek word: pneuma905; but here the word has not, like in the New Testament and in later Christian thought, a spiritual, but an entirely material meaning. It is breath which forms

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in una città civilizzata. Se si analizza questo processo, si trova che la physis dà forma a ogni cosa verso l’adempimento della sua propria funzione, ossia verso il bene». Nella Repubblica di Platone il Bene viene descritto come il punto culminante, come il sommo vertice del mondo intellettuale. Esso è assoluto e trascendente e, come dice Platone, si trova non solo al di là della sfera del divenire ma anche al di là della sfera dell’essere. L’uomo tende al Bene assoluto, ma non riesce mai a raggiungerlo. Nel suo autentico significato, esso rimane inaccessibile a ogni nostro pensiero, come anche a ogni sforzo umano. Anche nella filosofia di Aristotele la vita di Dio è di tipo trascendente. La vita naturale e la vita umana sono legate a due condizioni inseparabili. Sono una sintesi, un’unità di materia e forma. Ma in Dio l’elemento della materia è svanito; egli è pura forma, actus purus, atto assoluto e non potenza. Tutte queste divisioni vengono comunque negate dalla filosofia stoica. Non sussiste alcun divario tra forma e materia, vita naturale e vita umana. Allo spiritualismo di Platone e Aristotele, gli Stoici oppongono un esplicito materialismo. Zenone afferma che ogni cosa non soltanto ha un corpo, ma è corpo. Egli non esita ad affermare che anche Dio, o la virtù o la giustizia, siano corpi. Gli oggetti corporei sono i soli oggetti reali, i soli oggetti ai quali possiamo attribuire un’esistenza “oggettiva”. L’anima umana, la divinità e ogni qualità delle cose sono costituite da una materia particolare che permea tutte le cose e che impartisce loro la tensione (tónos) con la quale sono tenute insieme. Il termine col quale viene descritta questa materia è la parola greca pneuma. Ma qui la parola non ha, come nel Nuovo Testamento e nel pensiero cristiano, un significato spirituale, ma un significato interamente materiale. È il respiro che forma e tiene insieme le cose

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and holds together material things – the air, that pervades all things and is the vital principle of all things. In its highest form this all-embracing and all-pervading breath is called “Reason”906. “Reason” is by no means a special power or a special privilege of man. It is an integral907 part and an indispensable condition of nature. We find it in the inorganic world, we find it, in a more developed stage, in plants and animals. Reason is not superior to nature or different from nature, it is in nature, it is, as it were, fused into nature. All things whatever are filled and saturated with “Reason”. The soul itself is a body – for otherwise it could not influence the body (cf., e.g., Seneca, Ep. 106). It is the finest of all substances; but afterall, it is a material substance. This theory of the human soul is borrowed from Herakleitos who had described the universe as an ever-living Fire, with measures of it kindling and measures going out and who had declared the dry soul, the fiery soul to be the wisest and the best (Herakleitos, fragm. 20, 74). The “pneuma”, the warm and fiery breath, is present in all living forms and is the animating principle of things908. In this regard it is called by the Stoics the “Logos spermatikós”, the “seminal reson”, that contains in itself all the seeds of the special forms. This universal formative force of the universe, this “seminal reason” assumes its highest form in human thought, in man’s power of reflection. What in nature, in plants and animals, was still undeveloped and obscure, becomes clear and explicit in man. Man is not only inspired by the universal principle of life; he knows this principle. He has not a being or essence of his own; he is not separated from nature. But his distinctive mark consists in his consciousness – and, first

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materiali: l’aria che pervade tutte le cose ed è il principio vitale di ogni cosa. Nella sua forma suprema, questo respiro onnicomprensivo e onnipervasivo viene chiamato “ragione”. La “ragione” non indica in alcun modo un potere speciale o un privilegio particolare dell’uomo. È una parte integrante e una condizione indispensabile della natura. La troviamo nel mondo inorganico e in uno stadio più sviluppato nelle piante e negli animali. La ragione non è superiore alla natura o qualcosa di diverso da essa; piuttosto, la ragione è nella natura e, per così dire, si fonde con essa. Tutte le cose sono piene e sature di “ragione”. L’anima stessa è un corpo, poiché altrimenti non potrebbe influenzarlo (cfr. ad es. Seneca, Epistola 106)253. È la più raffinata di tutte le sostanze, ma, dopo tutto, è una sostanza materiale. Questa teoria dell’anima umana viene mutuata da Eraclito, che descrisse l’universo come un fuoco sempre-vivente che secondo misura si accende e secondo misura si spegne; mentre l’anima asciutta o focosa viene considerata la migliore e la più saggia (Eraclito, frr. 20, 74). Questo pneuma, il respiro caldo e focoso, è presente in tutte le forme viventi ed è il principio che anima le cose. In tal caso, gli Stoici lo chiamano logos spermatikós, la “ragione seminale”, che contiene in sé tutti i semi delle forme speciali. Questa universale forza formatrice dell’universo, questa “ragione seminale” assume le sue forme più elevate nel pensiero umano, nel potere umano della riflessione. Ciò che in natura, nelle piante e negli animali è ancora embrionale e oscuro, diventa chiaro ed esplicito nell’uomo. L’uomo non è soltanto ispirato dal principio universale di vita: conosce questo principio. Non ha un suo proprio essere o un’essenza: non è separato dalla natura. Ma il suo tratto distintivo risiede nella sua coscienza e, soprattutto, nella

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and foremost, in his moral consciousness, in his knowledge of good and evil. To live in accordance with nature means, therefore, to develop this consciousness to its highest degree and to obey it in an unrestricted and absolute essence. If man is a rational being everything which does not express this character is below this sphere; it is inhuman, it is unworthy of man. There is one great sphere of life that, by this verdict, is excluded form the properly human sphere. The Stoics draw up a sharp line of distinction between rational life and emotional life. Rational life is the highest form of self-consciousness and active life. Emotional life means just the contrary. In Greek the very term “pathos” (affection or passion) denotes a passive state of the human mind. When being under the strain of a passion or any strong emotion, we are not really acting; we are suffering. We are estranged from our own human, active, self-dependent, rational nature. In order to live in accordance with nature men must, therefore, begin with denying the whole of their909 emotional life. The Stoics do by no means give us the advice to restrict or direct, to govern or to rule our passions. Such a device would be useless – for what is irrational admits of no possible rule. Between activity and passivity, between a rational and emotional life there cannot be any compromise. The uncompromising character[,] the absolute radicalism is one of the nicest characteristic features of the ethical system of the Stoics. Not only violent passions but all our common affections – such innocent and harmless affections as joy or grief, as hope and fear, as anger or anxiety are described as dangerous illnesses of the human soul. The man who is under the power of these affections is like a madman. Between these two opposite poles everyone has to make his choice. He has to live the life of a wise man

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sua coscienza morale, nella sua conoscenza del bene e del male. Vivere in accordo con la natura, pertanto, vuol dire sviluppare questa coscienza al suo massimo grado e obbedirle in modo assoluto e senza restrizioni. Se un uomo è un essere razionale, tutto ciò che non esprime questo carattere si trova al di sotto di questa sfera; è inumano, è indegno dell’uomo. C’è una grande sfera della vita che, con questo verdetto, è esclusa dalla sfera propriamente umana. Gli Stoici tracciano una netta distinzione tra vita razionale e vita emotiva. La vita razionale è la più alta forma di auto-coscienza e di vita attiva. La vita emotiva è invece l’esatto contrario. Per i Greci il termine pathos (passione o affetto) denota uno stato passivo della mente umana. Quando ci si trova sotto il peso di una passione o di una forte emozione, non si sta realmente agendo, ma piuttosto subendo. Siamo estraniati dalla nostra natura umana, attiva, autodipendente e razionale. Per vivere in accordo con la natura, pertanto, l’uomo deve iniziare a negare la sua intera vita emotiva. Gli Stoici non ci suggeriscono in alcun modo di limitare o dirigere, governare o dominare le passioni. Un simile suggerimento sarebbe inutile, giacché ciò che è irrazionale non ammette alcuna regola. Tra attività e passività, tra vita razionale e vita emotiva non può esservi alcun compromesso. Il carattere inflessibile, il radicalismo assoluto, sono solo alcuni degli aspetti più caratteristici del sistema etico degli Stoici. Non soltanto le passioni violente, ma tutte le nostre comuni affezioni – ad esempio le innocenti e innocue affezioni come la gioia o il dispiacere, la speranza o la paura, la rabbia o l’ansia – vengono descritte come malattie pericolose per l’anima umana. L’uomo soggetto a queste affezioni è come un folle. È tra questi due poli opposti che ognuno deve scegliere. Si può vivere la vita

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or the life of a fool. No intermediate stages between these two forms of life are admitted by the Stoic philosophers. “Aut Caesar aut nihil” either Caesar or nothing. What they demand is a perfect “apathy” – an insensibility to all passions or emotions. Without a perfect freedom of affections there can be no rational life, no life according to nature. But the man who has reached this inner form of freedom has at the same time attained the freedom from910 all physical needs. He has attained the perfect life – his happiness is equal to that of the Gods. According to the Stoics the complete911 “apathy”, the freedom from912 affections, necessarily implies the complete “autarchy” (Autarkeia). This “autarchy” means that a man is no longer dependent on anything but himself. As long as we seek for external goods – we are never ourselves. All these apparent goods – riches, rank, fame, honour, even life and health have no worth of their own. The true worth of man cannot depend on a thing that is not in his own power. It is my own decision and my own judgment that makes me good or bad and that by this determines the value of my life. All the other things are irrelevant and indifferent (Adiaphora). Even such things as human friendship and affection are declared to be such indifferent things in the Stoic ethical system. All this sounds very paradoxical913 – and it becomes so much the more paradox if we look back at the evolution of Greek ethical thought. One of the principal aims of the classic systems of Ethics was to give us a scale of ethical values. They tried to distinguish the different types of virtues and to bring them into a systematical order. To grasp all these nice distinctions914 requires, according to Aristotle, a special gift – «virtue – he says in his Nicomachean Ethics (II, 6, 9) – is more nice and delicate than the finest of the arts».

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di un saggio, oppure la vita di un folle. Non vi è alcuno stadio intermedio tra queste due forme di vita ammesse dai filosofi stoici. Aut Caesar aut nihil – o Cesare o niente. Ciò che essi esigono è una perfetta “apatia”, un’insensibilità verso tutte le passioni o emozioni. Senza una perfetta libertà dalle affezioni non potrebbe darsi nessuna vita razionale, nessuna vita secondo natura. Ma l’uomo che ha raggiunto questa sua libertà interiore ha, al tempo stesso, raggiunto la libertà dai bisogni fisici. Egli ha così raggiunto la vita perfetta, per cui la sua felicità si rivela uguale a quella degli dèi. Secondo gli Stoici la totale “apatia”, la libertà dalle affezioni, implica necessariamente la totale “autarchia” (autarkeia). Questa “autarchia” significa che un uomo non dipende più da nulla se non da se stesso. Finché ricerchiamo i beni esteriori, non saremo mai noi stessi. Tutti questi beni apparenti – ricchezza, prestigio, fama, onore, persino la vita e la salute – non hanno un valore di per sé. L’autentico valore di un uomo non può dipendere da una cosa che non è in suo potere. È la mia propria decisione e il mio proprio giudizio a rendermi buono o cattivo e a determinare con ciò il valore della mia vita. Tutte le altre cose sono irrilevanti e indifferenti (adiaphora). Anche cose come l’amicizia e gli affetti umani, nel sistema etico stoico, vengono considerate come cose indifferenti. Tutto ciò suona piuttosto paradossale e lo diviene ancora di più se ripensiamo all’evoluzione del pensiero etico greco. Uno degli scopi principali dei sistemi etici classici consisteva nel fornire una scala di valori. Essi provarono a distinguere diversi tipi di virtù e a dotarle di un ordine sistematico. Cogliere tutte queste sottili distinzioni richiede, secondo Aristotele, un dono speciale: «La virtù – dice nella sua Etica Nicomachea (II, 6, 9) – è più bella e delicata della più fine delle arti»254. Tutto ciò sem-

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All this seems to be entirely forgotten and obliterated in the Stoic system. All the distinctions between different types or different degrees of virtue are denied. Here, too, we become aware of one of the metaphysical presuppositions of Stoic philosophy – of its radical monism. A plurality or variety of virtues is emphatically rejected. In this regard the Stoics go back to Sokrates – but they understand the Socratic principle of the unity of virtue in a much more uncompromising way. Virtue is an undivided and indivisible whole – where one virtue is there is all virtue and conversely where one vice is all must be. Virtue and vice are qualities that admit of no degree and no differentiation. The wise man unites in himself all virtues whatever, he is complete in every respect; the unwise, on the other hand, possesses all defects and all misery. For the only evil is wickedness; the only good is goodness or virtue; we cannot have parts or fragments of both; we can only be in full possession of them or entirely miss them. Here, however, the Stoic philosophers were encountered with a great difficulty. Their ethical system seemed to be liable to an incontrovertible objection. The principal task of every ethical system is to give us concrete prescriptions for our moral conduct, to teach us our individual, our political and social duties. But how can we speak of social915 duties if we accept the fundamental thesis of the Stoics? All these duties seem suddenly to have lost their ground – for there is no longer any social feeling916 to which we can appeal. The Stoic ideal of the wise man seems, at first sight, to be an entirely individualistic ideal. The wise man has no other and no higher aim than his own perfection. He has no political ambition – rank, honour, social dignity are nothing to him. If

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bra sia stato completamente dimenticato e rimosso dal sistema stoico. Ogni distinzione tra i diversi tipi o diversi gradi di virtù viene negata. Ed è proprio qui che prendiamo coscienza di uno dei presupposti metafisici della filosofia stoica: il suo radicale monismo. Una pluralità o varietà di virtù viene rigettata con forza. A tal proposito, gli Stoici ritornano a Socrate, ma ne intendono il principio di unità della virtù in termini assoluti. La virtù è un tutto indiviso e indissolubile – là dove vi è una virtù vi è ogni virtù e, al contrario, la presenza di un vizio implica quella di ogni vizio. Virtù e vizio sono qualità che non ammettono alcun grado e alcuna differenziazione. Il saggio condensa in se stesso ogni virtù ed è completo sotto ogni aspetto; lo stolto, invece, possiede ogni difetto e miseria. Il solo male è la debolezza, mentre il solo bene è la bontà o virtù. Non possiamo possedere parti o frammenti di entrambi; o ne siamo in pieno possesso oppure ne siamo del tutto privi. Qui, a ogni modo, la filosofia stoica incontrò una grande difficoltà. Il loro sistema etico sembrava infatti soggetto a una obiezione incontrovertibile. Il compito principale di ogni sistema etico consiste nel fornirci suggerimenti concreti per la nostra condotta morale, nell’insegnarci i nostri doveri individuali, politici e sociali. Ma come potremmo parlare di doveri sociali qualora accettassimo le tesi fondamentali degli Stoici? Tutti questi doveri sembrano aver perso improvvisamente il loro fondamento, poiché non vi è alcun sentimento sociale al quale ci si possa appellare. L’ideale stoico del saggio, a prima vista, sembra più che altro un ideale interamente individualistico. Il saggio non ha nessun altro e più alto scopo che non sia la sua propria perfezione. Non ha alcuna ambizione politica – prestigio, onore, dignità sociale non sono nulla per lui. Anche l’amore per i pro-

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he loves his friends even this love is not to be understood in the usual way. It is not our usual form of human sympathy. For if we admit such a sympathy[,] we can no longer defend the Stoic ideal of a perfect “apathy”. Apathy means the freedom from917 all918 affections – even of the affection of love and friendship. If, as a wise man, I am not allowed to feel pleasure and pain, joy[,] and grief, how can I sympathize with the joy and grief of the others? As a matter of fact[,] the Stoics forbade, in express words, such a sympathy. The wise man remains untouched by all the afflictions of the others – just as much as by his own afflictions. The death of his wife, of his children, of his dearest friend does not diminish his inner satisfaction and does not perturb his mind. But is not this indifference the strongest and most serious drawback for every true ethical life? Is not the Stoic wise man a radical egoist? This question[,] however, is emphatically answered in the negative by all the Stoic thinkers. They admit and acknowledge the Aristotelian definition of man as a political or social animal. Even the practical conduct of the Stoics was entirely in keeping with this definition. They demanded that the wise man should have an active share in all problems of social and political life. Many of the greatest Roman statesmen – men like Scipio or Marcus Aurelius, the emperor of Rome – were imbibed with Stoic ideals. Practically speaking there never was a gap between these ideals and an active energetic political life. But how could the Stoics account for this part of their ethical system without contradicting their theoretical presuppositions? In this difficult problem they proved a real dialectical acuteness and subtlety. They went back to their philosophy of nature and to their fundamental metaphysical principle. In their religious views the Stoics

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pri amici non può essere inteso nel senso abituale. Non si tratta della nostra consueta forma di simpatia. Infatti, ammettere una tale simpatia non ci consentirebbe più di difendere l’ideale stoico della perfetta “apatia”. Apatia significa libertà da ogni affezione – anche dall’affezione dell’amore e dell’amicizia. Se, come uomo saggio, non mi è concesso provare piacere e dolore, gioia e dispiacere, come potrei simpatizzare con la gioia e con il dolore degli altri? Di fatto, gli Stoici vietavano espressamente una simile simpatia. Il saggio non viene minimamente toccato dalle sofferenze altrui e nemmeno dalle proprie. La morte di sua moglie, dei suoi figli, degli amici più cari non riducono la sua soddisfazione interiore e non inquietano la sua mente. Ma questa indifferenza non è in fin dei conti l’inconveniente maggiore e più grave per ogni autentica vita etica? Non è il saggio stoico un radicale egoista? Tutti i pensatori stoici rispondono in maniera negativa a questa domanda. Essi ammettono e riconoscono la definizione aristotelica di uomo, inteso come animale politico e sociale. Anche la condotta pratica degli Stoici si trovava in perfetto accordo con questa definizione. A loro dire, il saggio dovrebbe esercitare una parte attiva in tutti i problemi della vita politica e sociale. Molti dei più grandi statisti romani – come Scipione o Marco Aurelio, l’imperatore di Roma – erano imbevuti di ideali stoici. In pratica, non vi è mai stato un divario tra questi ideali e una vita politica energica e attiva. Ma come potrebbero gli Stoici rendere conto di questa parte del loro sistema etico, senza contraddire i loro presupposti teoretici? In questo difficile problema, diedero prova di una vera e propria acutezza e sottigliezza dialettica. Ritornarono alla loro filosofia della natura e al loro presupposto metafisico fondamentale. Nelle loro concezioni religiose, gli Stoici hanno sempre adottato

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always had adopted a religious pantheism. We cannot find the Divine as long as we seek it in single insulated parts of the Universe. It is only the Whole of the Universe that is to be regarded as the true divine principle. If we speak of single or individual parts of nature – that is only an abstract and inadequate way of speaking. Nature is a coherent system of causes and effects. An effect in nature is never bound to a special place; it is continued[,] it is transmitted from one point to another. I cannot work upon one part of nature without necessarily working upon the whole. For there is a universal “pneuma” – there is one and the same breath of life that binds together all the things in space and all events in time. In Stoic philosophy this principle was expressed by the doctrine of the “Sympathy of the Whole” (συμπάϑεια τῶν ὄλον, σύμπνοια πάντα)[.] We need only [to] transfer this principle from nature to human life to find a solution of our problem. The Stoics had defined ethical life as a life that is in accordance, in perfect harmony with nature. But if nature shows us a universal sympathy[,] how could we deny it in the case of man? All the differences between men are conventional; they do not regard his essence, his true being. If we speak of differences between nations, between races, between social classes and castes – all this is artificial and superficial. As rational beings all men are related to another. There can be no closer and more intimate relationship than to partake in the same reason – which is the reason of mankind, not of individual men. All men – the slave as well as the free man[,] the barbarian as well as the Greek, the men of all races and all religions stand under the same laws and they have the same inborn natural rights. This concept of universal and inviolable natural rights – the same for all

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un panteismo religioso. Non possiamo trovare il divino finché lo cerchiamo in singole parti isolate dell’universo. Solamente l’universo come un tutto può essere visto come l’autentico principio divino. Parlare di parti della natura singole o individuali, significa parlarne in modo astratto e inappropriato. La natura è un sistema coerente di cause ed effetti. Un effetto in natura non è mai legato a un luogo particolare; esso, infatti, procede e si trasmette da un punto a un altro. Non posso lavorare su una parte della natura senza lavorare sul tutto. D’altronde, esiste uno “pneuma” universale, un solo respiro della vita che lega assieme tutte le cose nello spazio e tutti gli eventi nel tempo. Nella filosofia stoica questo principio venne espresso dalla dottrina della “simpatia del tutto” (συμπάϑεια τῶν ὄλον, σύμπνοια πάντα). Dobbiamo soltanto trasferire questo principio dalla natura alla vita umana, per trovare la soluzione al nostro problema. Gli Stoici definirono la vita etica come quella vita che si trova in accordo e in perfetta armonia con la natura. Ma se la natura ci mostra una simpatia universale, come potremmo negarla nel caso dell’uomo? Tutte le differenze tra gli uomini sono convenzionali; non riguardano la sua essenza, il suo vero essere. Parlare di differenze tra nazioni, tra razze, tra classi sociali e caste, tutto ciò è superficiale e artificioso. In quanto esseri razionali, tutti gli uomini sono in relazione reciproca. Non vi è alcuna relazione più vicina e intima di quella che si manifesta nella partecipazione alla stessa ragione – che è la ragione dell’umanità e non degli uomini individuali. Tutti gli uomini – lo schiavo come l’uomo libero, il barbaro come il greco, gli uomini di tutte le razze e religioni – sottostanno alle medesime leggi e hanno gli stessi innati diritti naturali. Questa concezione dei diritti universali e inviolabili – uguali per tutti gli uomini – che avrebbe in segui-

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men – that later on has played such a decisive role in the history of Ethics and in the history of political philosophy was first introduced by the Stoics. Justice and love are implanted in human nature by a natural instinct. But in order to be in keeping with their theory of affections and with their principle of “apathy” the Stoics had to define this love of mankind in a new sense. It is not a passionate love but a rational love; it draws its origin not from an emotional sympathy but from an ethical, a religious and metaphysical convinction. There is one state and one society – and all of us are citizens of this state. And it is not men alone who are interrelated and connected with each other by a common social bond. The true[,] the universal society comprises both Gods and men. In this respect there is no division or separation between our own mortal nature and the immortal nature. The community of all rational being holds good for God and men – even God is to be conceived as a citizen of this community. The wise man is the man who is aware of this connexion; he communes with God, both in his thoughts and in his deeds. By all this I could only give you a general survey and an abstract scheme of the Stoic ethical system. But such a scheme is scarcely enough to show you its real purport and to explain its historical influence. This influence was overwhelming – there is perhaps no other philosophical theory that in the history of human civilization has proved its power and its fertility to such a large measure than the Stoic theory. If you wish to have a full and deep impression of this Stoic spirit you must not rely on your tex-book. You must study yourselves one of the classical works of Stoicism. That is not a difficult task. Most of these works are written

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to giocato un ruolo fondamentale nella storia dell’etica e nella storia della filosofia politica, è stata introdotta per la prima volta proprio dagli Stoici. La giustizia e l’amore sono radicati nella natura umana per via di un istinto naturale. Ma per armonizzare la loro teoria delle affezioni con il loro principio dell’apatia, gli Stoici dovettero definire questo amore per l’umanità in un senso del tutto nuovo. Non si tratta di un amore passionale, bensì di un amore razionale; trae origine non da una simpatia emotiva, ma da una convinzione etica, religiosa e metafisica. Esiste soltanto uno stato e una società, e tutti noi siamo cittadini di questo stato. E non sono soltanto gli uomini a essere in relazione e connessi gli uni con gli altri attraverso un comune legame sociale. La vera e propria società universale comprende sia Dio sia gli uomini. A tal proposito, non sussiste alcuna divisione o separazione tra la nostra natura mortale e la natura immortale. La comunità di tutti gli esseri razionali comprende Dio e gli uomini – anche Dio va concepito come un cittadino di questa comunità. L’uomo saggio è consapevole di questa connessione: è in armonia con Dio, tanto con i suoi pensieri quanto con i suoi atti. Con tutto ciò ho potuto fornirvi soltanto una panoramica generale e uno schema astratto del sistema etico stoico. Ma uno schema del genere non è sufficiente a mostrarvi il suo autentico significato e a spiegare la sua influenza storica. Questa influenza fu enorme; forse non vi è alcun’altra teoria filosofica che, nella storia della civiltà umana, abbia dato prova della sua fecondità e potenza su larga scala come la teoria stoica. Se desiderate ricavare un’impressione dettagliata e profonda dello spirito stoico, non dovete limitarvi al vostro libro di testo. Dovete studiare per conto vostro anche una delle opere classiche dello stoicismo. Non è un compito dif-

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in a very clear[,] precise and admirable style – in a style that is free from all technicalities. They are no mere philosophic books919; they are at the same time great works of art, of classical literature. If you wish to convince you of this fact – read one of the treatises of Seneca, read Epiktetos or Marcus Aurelius. Of all these books ther are, as far as I can see, very good and reliable English translations [that are easily accessible – (you will even find them on the shelves of the Linonia & Brothers Library]. Here, at the end of this description of the Stoic System, I only wish to give you a special example. I wish to select some passages from the work of Marcus Aurelius. The texts I am going to quote are taken from the English translation of R. C. Haines (The Communings with Himself of marcus Aurelius Antoninus London 1916). You will remember that Marcus Aurelius was one of the greatest figures of Roman history and one of the noblest minds of antiquity. He was born in the year 121 A. D. in Rome. Philosophy very early attracted him; he read not only the Stoics; he was a student and a great admirer of Plato. He was adopted by Adrian, and he became the emperor of the Roman empire. It is as an emperor that he wrote his philosophical diary: the book Ad se ipsum – “To himself”. What is man? – asks Marcus Aurelius – how can we find out his true nature and essence? «Call none of those things a man’s – he replies – that do not fall to him as920 man. They cannot be claimed of a man[;] the man’s nature does not guarantee them[;] they are no consummations of that nature. Consequently neither is the end for which man lives placed in these things, nor yet that which is perfective of the end, namely The Good. […] if any of these things did fall to a man, it would not fall to him to contemn them and set his face against them. […] But, as it is, the more a man cut himself free […] from

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ficile. Molte di queste opere sono state scritte con uno stile davvero chiaro, preciso e ammirevole – in uno stile scevro da qualsiasi tecnicismo. Queste opere non sono meramente filosofiche; sono al tempo stesso grandi opere d’arte, opere di letteratura classica. Se volete convincervi di questo fatto, leggete uno dei trattati di Seneca, leggete Epitteto o Marco Aurelio. Di tutte quese opere, per quel che ne so, esistono delle traduzioni inglesi piuttosto buone e affidabili. Sono facilmente accessibili e le potete addirittura trovare sugli scaffali della Linonia & Brothers Library. Qui, alla fine di questa descrizione del sistema stoico, vorrei soltanto fornirvi un esempio particolare. Vorrei selezionare alcuni brani dell’opera di Marco Aurelio. Il testo che sto per citarvi è tratto dall’edizione inglese di C. R. Haines (I colloqui di Marco Aurelio Antonino con se stesso, Londra 1916). Ricorderete che Marco Aurelio fu una delle più grandi figure della storia romana e una delle menti più nobili dell’antichità. Nacque a Roma nel 121 d.C. La filosofia lo attrasse abbastanza presto; Marco Aurelio non leggeva soltanto gli Stoici, fu infatti uno studioso e grande ammiratore di Platone. Venne adottato da Adriano e divenne imperatore dell’Impero romano. È da imperatore che ha scritto il suo diario filosofico, il libro Ad te ipsum (A te stesso). Che cos’è l’uomo? – si chiede Marco Aurelio – come possiamo trovare la sua vera natura ed essenza? Egli risponde così: «Non chiamare “uomo” nessuna di quelle cose che non gli spettano come uomo. Non possono essere esigenze di un uomo; la natura dell’uomo non le garantisce; non sono perfezioni di quella natura. Di conseguenza, né il fine per cui l’uomo vive è posto in queste cose, né ciò che è perfettivo del fine, cioè il Bene. […] Se una di queste cose si addicesse a un uomo, sarebbe disdicevole per lui disprezzarle e opporsi a esse. […] Ma,

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these and other such things[,] by so much more is he good» (V, 14, 15)921. «That which does not make a man himself wors […] cannot make his life worse either, nor injure it […] from without or within» (IV, 8, II, 11)922. «Never fail to ask thyself this question and to cross-examine thyself thus: What relation have I to this part of me which they call the Ruling Reason?» (V, 11). «[…] distract not thyself, be not too eager, but be thine own master, and look upon life as a man, as a human being, as a citizen, as a mortal creature. But among the principles readiest to thine hand […] let there923 be these two924. [One is that things do not touch the soul, for they are external and remain immovable but our disturbance comes only of that judgment that we form in ourselves. The other is that all these things which thou seest chance immediately, and will no longer be; and constantly bear in mind how many of these changes thou hast already witnessed. The Universe-mutation, Life-judgment]925» [IV, 3]. That is perhaps the clearest and most concise expression of the basic principle of the Stoic philosophy. The worth, the moral value and dignity of man cannot depend on our external circumstances; it exclusively depends on himself, on the power of his judgment, his will, his character.

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stando così le cose, quanto più un uomo si libera […] da queste e altre cose simili, tanto più è buono» (V, 14, 15). «Ciò che non fa peggiorare l’uomo stesso […] non può neppure peggiorare la sua vita, né ferirla […] da fuori o da dentro» (IV, 8, II, 11). «Non mancare mai di porti questa domanda e di interrogarti così: che relazione ho con questa parte di me che chiamano la Ragione Dominante?» (V, 11). «[...] non distrarti, non essere troppo ansioso, ma sii padrone di te stesso, e considera la vita come un uomo, come un essere umano, come un cittadino, come una creatura mortale. Ma lascia che fra i princìpi da tenere più presenti […] ci siano questi due. [Uno è che le cose non toccano l’anima, perché sono esterne e restano immobili, ma il nostro turbamento viene solo da quel giudizio che formiamo in noi stessi. L’altro è che tutte queste cose che tu vedi cambiano immediatamente e non saranno più; e considera sempre a quanti di questi cambiamenti hai già assistito. L’universo è mutazione, la vita è giudizio]» [IV, 3]. Questa è forse la più chiara e concisa espressione del principio fondamentale della filosofia stoica. Il valore morale e la dignità dell’uomo non possono dipendere da circostanze esterne; poggiano piuttosto sull’uomo stesso, sulla forza del suo giudizio, della sua volontà e del suo carattere.

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[§3: Epikurus]926 Between Stoicism and Epicureanism there was an incessant struggle and a constant rivalry. Both Schools were founded at about the same time, in the beginning of the third century B. C., and both of them lasted over many centuries. But whereas in the Stoic Scholl we find many individual thinkers of great importance[,] we cannot say the same of the pupils and followers of Epikurus. With the only exception of Lucretius whose work is of incomparable value for our knowledge of the Epicurean doctrine they had but a little originality. In this survey we can therefore restrict ourselves to the thought of Epikurus himself and the work of Lucretius. When speaking of Epicureanism[,] we must, first of all, forget a common prejudice. The “Epicurean” is often used in a very misleading sense. An Epicurean is thought to be a man who thinks “pleasure” to be the highest, nay the only value in human life. By all means he wishes to reach and to secure this end. He is not scrupulous in the choice of his ends; he appreciates all sorts of pleasures in the same way. But if we adopt this definition[,] we must say that Epikurus himself was very far from being an Epicurean. His life was by no means a life of pleasure. It contained all the great virtues that had been praised in the classical systems of Greek philosophy. It was a life of great simplicity and sobriety, of moderation and temperance. If we look at his conduct[,] we can scarcely find a radical difference between himself and many of the Stoic thinkers: in many practical respects they professed the same ideal of an ethical life. The principal difference is to be sought in theoretical presuppositions, not in practical standards. And even in this regard it is possible to connect the thought of Epikurus with that of his Stoic adversaries. Both of them – Epikurus and the Stoics – have a

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3. Epicuro Tra lo Stoicismo e l’Epicureismo vi fu una lotta incessante e una costante rivalità. Entrambe le scuole vennero fondate nello stesso periodo – all’inizio del terzo secolo a.C. – e durarono per molti secoli. Ma se nella scuola stoica troviamo molti grandi pensatori individuali, non possiamo dire lo stesso degli allievi e seguaci di Epicuro. Essi si rivelarono poco originali, con la sola eccezione di Lucrezio, la cui opera è di incomparabile valore per la nostra conoscenza della dottrina epicurea. In questa indagine dovremo pertanto limitarci al pensiero dello stesso Epicuro e all’opera di Lucrezio. Quando parliamo di Epicureismo, prima di tutto, dobbiamo dimenticare un pregiudizio comune. L’aggettivo “epicureo” viene spesso utilizzato in modo fuorviante. Si pensa infatti che un uomo “epicureo” consideri il “piacere” come il valore più alto, se non l’unico, della vita umana, e che cerchi, con ogni mezzo possibile, di raggiungere e garantirsi questo fine. Egli non è scrupoloso nella scelta dei suoi fini; apprezza in egual maniera ogni tipo di piacere. Ma se si adotta questa definizione, bisogna affermare che Epicuro è lungi dall’essere un epicureo. La sua vita non fu affatto una vita di piacere, ma piuttosto racchiudeva in sé tutte le grandi virtù elogiate nei sistemi classici della filosofia greca. La sua fu una vita di semplicità e sobrietà, di moderazione e temperanza. Se guardiamo alla sua condotta, difficilmente riusciamo a trovare una differenza radicale tra lui e la gran parte dei pensatori stoici. La differenza principale va ricercata nei presupposti teoretici, non nei criteri pratici. E anche a questo riguardo è possibile associare i pensieri di Epicuro a quelli dei suoi avversari stoici. Entrambi – Epicuro e gli Stoici – hanno un comune pun-

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common starting-point. They begin with a concept of nature – and they strive, by a series of logical inferences, to derive from this concept a certain ethical ideal. The Stoic definition that virtue means a life according to the rules of nature could have been adopted by Epikurus; it expresses the spirit of his own doctrine. But how could the Stoics from this definition draw the consequence that there is a radical difference[,] an irreconcilable opposition between virtue and pleasure[?] According to Epikurus nature teaches us quite the opposite. The Stoics had not only denied the moral value of pleasure, they had described the strive for pleasure as a sort of insanity. Only a fool, not a wise man, can regard pleasure as the highest end. Pleasure is a thing that is unworthy of a rational being. But if this be true – says Epikurus – nature itself declared to be a fool. There are innumerable and incontrovertible phenomena that show us in the clearest way that the instinct which drives us to seek for pleasure is an ineradicable927 natural instinct. Every organic being testifies this fact. If there is any natural rule that admits of no exception it is the rule that all beings have the tendency to avoid pain and to pursue pleasure. They cannot desist from this tendency – just as little as fire can cease being hot or ice can cease being cold. Here is no choice; here reigns necessity. Every creature, even plants and animals, instinctively strive after pleasure and seek to ward off pain. Every philosophy that tends to the opposite direction is artificial and unnatural. The Stoic who defends the wise man to follow his desire of happiness protests and revolts against nature. [«]I call men – says Epikurus in one of his letters (Epicurea928, ed. Herm. Usener929,

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to di partenza. Essi prendono le mosse dal concetto di natura e si propongono, con una serie di inferenze logiche, di ricavare questi concetti logici da un determinato ideale etico. Epicuro avrebbe potuto adottare il punto di vista stoico secondo cui per virtù bisogna intendere una vita in armonia con le regole della natura, in quanto esso esprime lo spirito della sua stessa dottrina. Ma gli Stoici come potevano trarre, da questa definizione, la conseguenza secondo cui sussiste una radicale differenza e un’inconciliabile opposizione tra virtù e piacere? Secondo Epicuro la natura ci insegna proprio l’esatto opposto. Gli Stoici non avevano soltanto negato il valore morale del piacere, ma anche descritto la ricerca del piacere come una sorta di follia. Solo un folle, non un saggio, potrebbe considerare il piacere come il sommo fine. Il piacere è una cosa indegna di un essere razionale. Ma se ciò fosse vero – sostiene Epicuro – la natura stessa si dichiarerebbe folle. Vi sono innumerevoli e incontrovertibili fenomeni che ci mostrano, nella maniera più chiara, come l’instinto che ci spinge alla ricerca del piacere altro non è che un istinto naturale inestirpabile. Ogni essere organico attesta questo fatto. Se vi è una qualche regola che non ammette eccezioni, è la regola secondo cui tutti gli esseri hanno la tendenza a evitare il dolore e a ricercare il piacere. Non si può far cessare questa tendenza, così come il fuoco non può cessare di essere caldo e il ghiaccio di essere freddo. Qui non si dà alcuna scelta; qui regna la necessità. Ogni creatura, ogni pianta e animale, istintivamente tendono al piacere e cercano di allontanare il dolore. Ogni filosofia che procede in direzione opposta è artificiale e innaturale. Lo stoico che difende il saggio per seguire il suo desiderio di felicità, protesta e si rivolta contro la natura. In una delle sue lettere Epicuro afferma: «Chiamo gli uomini al

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Leipz. 1887 fr. 116) [–] to continual pleasure not to empty and idle virtues which have but a confused expectation of fruit[»]. He himself defines philosophy as a mean930, not as end; it is «a daily business of speech and thought to ensure a happy life». A happy life is, however, not a life of fugitive and ephemeral pleasures. These pleasures, especially the mere bodily pleasures, can never give us a real satisfaction. What we have to strive at is a true and permanent state of happiness. What Epikurus recommends is, therefore, by no means a voluptuous or luxurious life. Such a life could not secure a real happiness; it is, on the contrary, open to the greatest misery. A simple life, a life of contemplation and of moderate wishes, is the best way to happiness. The highest good that man can attain is a life of permanent bodily and mental tranquillity – a serene and peaceful life, free from all disturbance by violent affections, free from fear and anxiety. In the description of this ideal Epicurus closely follows Demokritus. Demokritus was the teacher of Epicurus both in his physical and in his ethical theory. In his Physics Epicurus entirely adopts the Atomistic systems. The atoms and empty space are the basic elements of all things. Even the human soul is composed of atoms: of atoms of fire and air and of another substance to which we can give no name (fr. 315) and which in Lucretius is described as mens931 or animus932 – in contradistinction to the irrational soul that we find in animals which by Lucretius is named: “anima”933. At the death of man[,] the soul-atoms, being no longer held together by the stronger bodily atoms, are scattered. But Demokritos has also developed a very elaborated and very interesting ethical

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piacere continuo, non alle virtù vuote e oziose che hanno solo una confusa attesa di frutti» (Epicurea, ed. Herm. Usener, Leipz. 1887 fr. 116)255. Epicuro stesso definisce la filosofia come un mezzo, non come fine; essa non è altro che «un’attività quotidiana di parola e pensiero per assicurare una vita felice»256. Una vita felice, comunque sia, non è una vita di piaceri effimeri e fugaci. Questi piaceri, specialmente i piaceri corporei, non possono mai fornirci una reale soddisfazione. Ciò a cui dobbiamo aspirare è uno stato di felicità autentico e stabile. Quanto Epicuro raccomanda, pertanto, non corrisponde in alcun modo a una vita dissoluta e lussuriosa. Una vita del genere non potrebbe mai assicurarci la felicità; essa, al contrario, è soggetta alla più grande miseria. Una vita semplice, una vita di contemplazione e di desideri moderati, costituisce la via migliore verso la felicità. Il bene più elevato che un uomo può ottenere consiste in una tranquillità mentale e fisica; una vita serena e pacifica, libera dai disturbi delle affezioni violente, dalla paura e dall’ansietà. Nella descrizione di questo ideale, Epicuro segue molto da vicino Democrito. Quest’ultimo fu il maestro di Epicuro e la sua influenza è presente sia nella sua teoria fisica sia in quella etica. Nella sua fisica Epicuro adotta interamente i sistemi atomistici. Gli atomi e lo spazio vuoto sono gli elementi fondamentali di tutte le cose. Ogni anima umana è composta di atomi, di atomi di fuoco e di un’altra sostanza alla quale non possiamo dare alcun nome (fr. 315), e che in Lucrezio viene descritto come mens o animus – in contrapposizione all’anima irrazionale presente negli animali, che Lucrezio chiama “anima”. Alla morte dell’uomo, gli atomi-anima, non essendo più legati assieme dagli atomi più forti, si disperdono. Ma Democrito ha anche sviluppato una teoria etica molto elaborata e

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theory. His ethical fragments show us that even in this field he was a profound and original thinker and a very independent spirit. His highest ideal was the ideal that he designated by the name “euthymia” – that means: a well-ordered state of mind, a perfect equipoise, a cheerfulness of temper. Demokritos has described this state of mind by comparing it with the calmness of the sea in the absence of all winds, in a complete lull. We find the same metaphorical expression with Epicurus. «The end of all our actions – he says [–] is to be free from pain and apprehension. When once this happens to us, the tempest in the soul becomes a calm, the organism no longer needs to make progress to anything which it lacks, or seek anything further to complete the good for soul and body. For we only need pleasure as long as the absence of it causes pain. As soon as we cease to be in pain we have no need of further pleasure. Now it is because this is our primal and connatural good that we do not chose to have every pleasure when a greater inconvenience follows from them and prefer many pains to pleasure when a greater pleasure follows from endurance of the pain. Every pleasure then is a good, but not every pleasure is to be chosen; also every pain is an evil, but not every pain should be avoided (Ep. III, Usener 62)». The pleasures of repose are, according to Epicurus, much preferable to the pleasures of transition; the pleasures of mind are much better and much more secure than the pleasures of body. «Freedom from mortal disquietude and from pain – he says – are pleasures of repose; joy and delight we regard as activities of change» (Fr. 2). Epicurus emphasizes that all pleasure and pain are occasionated by bodily states. But the body is only affected by present pleasures and pains, whereas the soul is moved by those of the past and future. The soul can arm itself with the recollec-

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molto interessante. I suoi frammenti etici ci mostrano che, anche in questo campo, egli si rivelò un pensatore profondo e originale e uno spirito davvero indipendente. Il suo ideale più nobile era quello da lui designato col nome di euthymia, che significa: stato mentale ben ordinato, perfetto equilibrio, temperamento allegro. Democrito ha descritto questo stato mentale paragonandolo alla calma del mare in assenza di vento, a una calma piatta. Troviamo la stessa espressione metaforica in Epicuro: «Il fine di tutte le nostre azioni – dice – è essere liberi dal dolore e dall’apprensione. Quando ciò accade a noi, la tempesta nell’anima diventa una calma, l’organismo non ha più bisogno di progredire verso ciò che gli manca, o di cercare qualcosa di più per completare il bene per l’anima e per il corpo. Infatti abbiamo bisogno del piacere solo finché la sua assenza provoca dolore. Non appena smettiamo di provare dolore, non abbiamo bisogno di ulteriore piacere. Ora, proprio perché questo è il nostro bene primo e connaturale, non abbiamo scelto di avere tutti i piaceri quando ne consegue un maggior inconveniente, e preferiamo molte pene al piacere quando dalla sopportazione del dolore deriva un maggior piacere. Ogni piacere è dunque un bene, ma non ogni piacere è da scegliere; anche ogni dolore è un male, ma non ogni dolore va evitato» (Ep. III, Usener 62)257. I piaceri stabili, secondo Epicuro, sono preferibili ai piaceri transitori, i piaceri della mente sono migliori e più sicuri dei piaceri del corpo: «La libertà dall’inquietudine mortale e dal dolore – dice – sono i piaceri del riposo; gioia e delizia le consideriamo attività di cambiamento» (Fr. 2)258. Epicuro sottolinea che tutti i piaceri e i dolori sono causati da stati corporei, ma il corpo è influenzato soltanto da piaceri e dolori presenti, mentre l’anima viene mossa da quelli del passato e del futuro. L’anima può avvalersi del

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tion of the past and with the anticipation of the future in order to endure or overcome a present pain. All this is not so far from the practical ideals of the Stoic school. Even with Epicurus the wise man enjoys a sort of autarchy, he becomes independent of externals. He walks, as says Epicurus, «as a god among men; even on bread and water he needs to envy Zeus» (Fr. 602). The essential difference between the Stoic and the Epicurean ethical ideal consists not so much in the single and concrete practical precepts as in the general spirit of the two doctrines. The Stoic philosophy is, so to speak, a militant philosophy; the philosophy of Epicurus is a philosophy of peace. The Stoics describe the life of a wise man as a continual and vigorous struggle: a struggle against his own inclination, desires[,] and passions; and as a combat against moral evils, against disorder and injustice. Every man has to partake in this combat; he has to fulfill a special mission in this universal strife for the good. Every man has to collaborate with God and to help him to maintain the order of the universe. The wise, the virtuous man, says Marcus Aurelius, «is a priest and minister, a coadjutor of the gods» (Ad se ipsum III, 4). That is an active and energetic, a severe and austere ideal of life. The spirit of Epicurean philosophy is of a different sort – it is a spirit of peace and repose, of quietism. Happiness is quietude. It is not to be found in action; for action means change, and change is irreconcilable with real happiness that must be a permanent state, a state of traquillity. Epicurus did not advise his followers and pupils to take part in public life. Real peace is only to be found in a modest and private life; the best life, said Epicurus, is to live a plain and unpretending, a concealed life (fr. 551). But it is not enough for man to avoid all the external sources [of]

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ricordo del passato e dell’anticipazione del futuro al fine di resistere a un dolore presente o superarlo. Tutto ciò non è poi così distante dagli ideali pratici della scuola stoica. Anche con Epicuro il saggio gode di una sorta di autarchia; si libera dalle cose esterne. Egli cammina, come dice Epicuro, «come un dio fra gli uomini»259; vive di solo pane e acqua, non ha bisogno di invidiare Zeus» (Fr. 602)260. La differenza essenziale tra l’etica stoica e quella epicurea consiste non tanto nei singoli e concreti precetti pratici, quanto nello spirito generale delle due dottrine. La filosofia stoica è, per così dire, una filosofia militante, la filosofia di Epicuro è una filosofia della pace. Lo stoico descrive la vita di un saggio come una lotta continua e vigorosa: una lotta contro le sue proprie inclinazioni, desideri e passioni; e combatte contro i mali morali, contro il disordine e l’ingiustizia. Ogni uomo deve prendere parte a questa battaglia e deve compiere una missione speciale in questa lotta universale per il bene. Ogni uomo deve collaborare con Dio e aiutarlo a mantenere l’ordine dell’universo. Il saggio, l’uomo virtuoso, dice Marco Aurelio, «è un sacerdote e ministro, un collaboratore degli dèi» (Ad se impsum III, 4)261. Questo è un ideale di vita attivo ed energico, severo e austero. Lo spirito della filosofia epicurea è di tipo diverso – è uno spirito di pace e riposo, di quiete. La felicità è quiete. Non la si trova nell’azione; infatti l’azione implica il mutamento, e il mutamento è inconciliabile con la felicità reale, che deve essere uno stato permanente, uno stato di tranquillità. Epicuro sconsigliava ai suoi allievi e seguaci di prendere parte alla vita pubblica, poiché la vera pace la si può trovare soltanto in una vita privata e modesta; la vita migliore, diceva Epicuro, consiste nel vivere una vita piena e senza pretese, una vita nascosta (fr. 551). Ma ciò non è sufficiente affinché l’uomo possa evi-

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disturbances that have their origin in himself and in his own mind. Even under the best and most fortunate circumstances man cannot come to a real happiness, to a seren and quiet state of mind, as long as himself creates, in his own imagination, all sorts of spectres, as long as he is haunted by the fear of ghosts, of demons or gods. According to Epicurus it is popular religion that is the eternal source of this fear. To combat the superstitions of popular religion becomes, therefore, an urgent and indispensable task for every true philosophy of life. Superstition is the most dangerous enemy of happiness. If philosophy succeeds in freeing man from934 superstition he gives him the best and most valuable gift. It is only by a sound Physics and by a sound psychology that philosophy can attain this end. According to Epicurus such a Physics and such a psychology is given in the atomistic system. Lucretius over and over again insists on the fact that by this system alone can we find the true approach to Ethics. The theory of the Atomists has freed man, once and for all935, from all the errors of popular belief. It has shown us that the world has been produced without any divine agency and that we need not fear a future state. By this religion, [«t]he vague dread if the unknown, is put under foot, as Lucretius says, and man brought level with heaven[»]. Epikurus develops this thought in a double direction. He does not deny the existence of Gods; he is convinced that a belief that is common to all men must have its ground, that it cannot be devoid of all truth. Gods certainly are – says Epicurus – since our cognition of them is clear and evident. But gods such as the vulgar believe in there are not. [«]The impious man is not he who rejects the gods of the vulgar, but he who ascribes to the gods the things which the vulgar believe936 of them». Epi-

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tare tutte le fonti esterne di turbamento, che traggono origine in lui stesso e nella sua mente. Anche sotto le migliori e più fortunate circostanze l’uomo non può raggiungere una reale felicità, uno stato mentale quieto e sereno, finché nella sua immaginazione crea ogni sorta di spettri, finché è perseguitato dalla paura di fantasmi, di demoni o dèi. Secondo Epicuro la fonte di questa paura è la religione popolare. Combattere la religione popolare, pertanto, diventa un compito urgente e indispensabile per ogni vera filosofia della vita. La superstizione è il più dannoso nemico della felicità. Se la filosofia riesce a liberare l’uomo dalla superstizione, gli fa il dono più grande e prezioso. Soltanto grazie a una solida fisica e a una solida psicologia l’uomo potrà raggiungere questo fine. Secondo Epicuro, una tale fisica e una tale psicologia sono date nel sistema atomistico. Lucrezio, più e più volte, insiste sul fatto che solo attraverso questo sistema possiamo trovare un autentico approccio all’etica. La teo­ria degli Atomisti ha liberato l’uomo, una volta per tutte, dagli errori della credenza popolare. Essa ci ha mostrato che il mondo non è stato prodotto da alcun intervento divino e che non dobbiamo aver paura di uno stato futuro. «Il vago terrore dell’ignoto è messo sotto i piedi, come dice Lucrezio, e l’uomo portato all’altezza del cielo»262. Epicuro sviluppa questo pensiero in una duplice direzione. Egli non nega l’esistenza degli dèi; è infatti convinto che una credenza comune a tutti debba avere comunque il suo fondamento, che non possa essere priva di ogni verità. Gli dèi certamente esistono – dice Epicuro – dato che la nostra conoscenza di essi è chiara ed evidente. Ma gli dèi in cui crede il popolo volgare non esistono: «L’uomo empio non è colui che rifiuta gli dèi del volgo, ma colui che attribuisce agli dèi le cose che il volgo crede di loro»263. Epicuro stesso fornisce una de-

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curus himself gives a new and very divergent description of the life of the gods. It has rightly been said that these Epicurean gods are, afterall, nothing else than «magnified Epicurean philosophers» (A. E. Taylor, Epicurus, p. 77)937. Like the Epicurean sage they live a life of perfect tranquillity. They abide not in material things; their dwelling-place are the intervening spaces between the material bodies, the intermundial empty spaces. Here they are not affected by the decay of the worlds; they are immortal and enjoy the greatest happiness. They do not interfere with the course of the world[,] and they do not care about the actions and the fate of man. As for the rest the life of these gods is described in entirely human terms; Epicurus is even said to have declared that the language of the gods must be Greek – because Greek is the noblest language – the only language that is worthy of gods. But philosophy has not only to rid us of this fear of the Gods; it has to remove still another more dangerous obstacle. The greatest fear of man is his fear of death. As long as we do not succeed in banishing this fear[,] we can never attain the ultimate end. Here it is psychology, it is the theory of the soul that must come to our help. The true psychology, the psychology of the Atomists, has proved that the soul is nothing but an aggregate of atoms of a special kind. At death this aggregate is dissolved. It would be unreasonable to fear this dissolution because it never can be felt by us. What does not affect our feelings cannot affect our happiness. «Death – says Epicurus – cannot concern us; for so long as we are, death is not; and when death is, we are not». «Accustom thyself that death is nothing to us, since good and bad depend entirely on sensation, and death is privation of sensation. Hence the true knowledge that death is nothing to us

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scrizione nuova e del tutto diversa della vita degli dèi. È stato giustamente affermato che questi dèi epicurei, dopotutto, non sono altro che «filosofi epicurei ingigantiti» (A. E. Taylor, Epicuro, p. 77), i quali, come il saggio epicureo, vivono una vita di perfetta tranquillità. Essi non dimorano tra le cose materiali; la loro dimora consiste di spazi intermedi tra i corpi materiali e gli spazi vuoti intermondani. Qui essi non sono soggetti alla corruzione dei mondi: sono immortali e godono della più grande felicità. Non interferiscono con il corso del mondo e non si curano delle azioni e del destino degli uomini. Per il resto, la vita di questi dèi viene descritta in termini interamente umani; si dice anche che Epicuro abbia affermato che la lingua degli dèi dev’essere il greco – perché il greco è la lingua più nobile, l’unica lingua degli dèi. Ma la filosofia non deve soltanto liberarci dalla paura degli dèi, deve rimuovere un ostacolo ancora più pericoloso. La più grande paura dell’uomo è la paura della morte. Fino a quando non riusciremo a bandire questa paura, allora non potremo mai raggiungere il fine ultimo. Qui è la psicologia, la teoria dell’anima, che deve venire nuovamente in nostro soccorso. La vera psicologia, la psicologia degli Atomisti, ha dimostrato che l’anima non è altro che un aggregato di atomi di tipo particolare. Alla morte, questo aggregato si dissolve. Sarebbe irragionevole avere paura di questa dissoluzione, poiché noi non possiamo mai percepirla. Ciò che non tocca i nostri sentimenti non può toccare la nostra felicità. «La morte – dice Epicuro – non può riguardarci; infatti finché siamo, la morte non è; e quando la morte è, noi non siamo». «Convinciti che per noi la morte non è nulla, poiché il bene e il male dipendono interamente dalla sensazione, e la morte è privazione della sensazione. Quindi la vera conoscenza che per noi la morte non è nulla rende piace-

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makes mortal life enjoyable, not by adding endless duration to it, but by taking away the craving for immortality. There is nothing terrible in life for one who really comprehends that there is nothing terrible in not living. Hence he who says he fears death, not because it will [be] painful when it comes, but because in our present assurance that it will come is painful, is a fool. […]938 Death, then, is nothing to the living, nor yet to the dead, since it does not affect the former, and the latter no longer exist. […]939 The wise man neither declines life nor shrinks from death since life is not distasteful to him, nor does he think it an evil not to live» (Ep. III, Usener p. 60).

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vole la vita mortale, non aggiungendovi una durata infinita, ma togliendo il desiderio di immortalità. Non c’è niente di terribile nella vita per chi comprende davvero che non c’è niente di terribile nel non vivere. Quindi è uno stolto chi dice di temere la morte non perché [sarà] doloroso quando essa verrà, ma perché è doloroso nella nostra presente certezza che verrà. […] La morte, quindi, non è nulla per i vivi, né per i morti, poiché non tocca i primi, e i secondi non esistono più. […] Il saggio non rifiuta la vita né rifugge dalla morte, poiché la vita non gli è sgradevole, né pensa che sia un male non vivere» (Ep. III, Usener p. 60)264.

[chapter xi] NEOPLATONISM940 [§1: Introduction]941 In its origin and in its fundamental motive Neo-Platonism is much more a religious than an intellectual or philosophical movement. But it has preserved most of the ideas of Greek classical thought. The influence of Plato prevails throughout; but side by side with Platonic concepts we find many doctrines that are derived from Aristotelian and Stoic ideas. But Neo-Platonism did no longer think that it is possible to find a philosophy of the universe and a poetical philosophy, a philosophy of human life by mere rational means. It sought a remedy in revelation received in a state of mystical ecstasy. Whereas the philosophy of Plato is directed to a reconstruction of the political and social order[,] Neo-Platonism has an individualistic tendency. The kernel of philosophic thought lies in the redemption of the human soul in her mystical union with God. In this respect it contains a certain truth if some historians of Greek philosophy, for instance Zeller, have spoken of Neo-Platonism as the “suicide of Greek philosophy”. «Only the fact that the liberation from the bonds of the sensual is a self-liberation which the philosopher can accomplish with his own strength remains the last flickering of the splendor of the Socratic autarkia»942. Nevertheless[,] it is necessary to treat here the principles of Neo-Platonism because in the further development of philosophical thought, especially in the development of medieval thought[,] they have exerted a very great influence. In medieval thought the doctrine of Plato was always seen

cap. xi

IL NEOPLATONISMO 1. Introduzione Nella sua origine e nel suo motivo fondamentale, il Neo­ platonismo è un movimento più religioso che intellettuale o filosofico. Ma esso ha comunque mantenuto molte delle idee del pensiero classico greco. Il pensiero di Platone domina in ogni sua parte, ma accanto ai concetti platonici troviamo molte dottrine di marca aristotelica e stoica. Il Neoplatonismo non riteneva più possibile elaborare una filosofia dell’universo, una filosofia poetica e una filosofia della vita umana attraverso strumenti meramente razionali. Esso cercò un rimedio nella rivelazione ricevuta in uno stato di estasi mistica. Mentre la filosofia di Platone è diretta a una ricostruzione dell’ordine politico e sociale, il Neoplatonismo ha una tendenza individualistica. Il nocciolo del suo pensiero filosofico risiede nella redenzione dell’anima umana e nella sua unione mistica con Dio. Ciò ha una sua fondatezza, se alcuni storici della filosofia greca, come ad esempio Zeller, hanno indicato il Neoplatonismo come il “suicidio della filosofia greca”: «Solo il fatto che la liberazione dai vincoli del sensuale è un’autoliberazione che il filosofo può compiere con le proprie forze resta l’ultimo guizzo dello splendore dell’autarchia socratica». Cionondimeno, la trattazione dei princìpi del Neoplatonismo è comunque necessaria, perché nel corso del successivo sviluppo del pensiero filosofico, in particolar modo in quello del pensiero medievale, esso ha esercitato un’influenza davvero notevole. Nel pensiero medievale la dottrina platonica è stata sempre filtrata e

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through the medium of Neo-Platonic thought and interpreted in its sense. [§2: Plotinus]943 In the following survey of this thought I restrict myself to the most original and most profound thinker[,] to Plotinus944. He was born in Egypt in 204 B. C. and became the real founder of the Neo-Platonic school. The system of Plotinus proceeds from the idea of God and concludes with the demand for an absolutum945 union of the individual soul with God. It wishes to describe the way that leads from God to the sensible world[,] to the world of matter – and the return of the human soul to its946 origin, to the absolute-One. In his conception of God Plotinus carries to the extreme the infinity and supermundanity of God. God is outside all beings and beyond all knowledge. We cannot reach him by theoretical concepts, but only by a mystical illumination or ecstasy. We cannot ascribe him any attributes; any corporal or mental qualities, not even thought or will. For if he had such attributes[,] he would no longer be the absolute-One; he would be divided in his own nature. All thought has the distinction of subject and object; of thinker from thought. All will has the distinction of the being and activity, hence a plurality within itself. But we must forget all these distinctions if we wish to conceive an idea of God. He is an absolutely independent and self-contained unity; he requires nothing besides himself. He does not stand in need of himself either and cannot distinguish himself from himself. Hence[,] we may ascribe him no self-consciousness; no personality. We may ascribe to him the predicates of unity and good; but even these pred-

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interpretata nel suo senso attraverso la mediazione del Neoplatonismo. 2. Plotino Nell’analisi di questo pensiero mi limiterò al pensatore più originale e profondo del Neoplatonismo, Plotino. Egli nacque in Egitto nel 204 a.C. e divenne il reale fondatore della scuola neoplatonica. Il sistema di Plotino muove dall’idea di Dio, per giungere all’esigenza di un’assoluta unione dell’anima individuale con Dio. Plotino intende descrivere la via che conduce da Dio al mondo sensibile, o mondo della materia, e il ritorno dell’anima umana alla sua origine, all’Uno assoluto. Col suo concetto di Dio, Plotino porta l’infinità e sovramondanità di Dio al suo estremo. Dio è al di fuori di tutti gli esseri e al di là di ogni conoscenza. Non possiamo coglierlo tramite concetti teorici, ma soltanto attraverso un’illuminazione mistica o estasi. Non possiamo assegnargli alcun attributo, nessuna qualità fisica o mentale, nemmeno pensiero o volontà. Infatti, se possedesse tali attributi, non sarebbe più l’Uno assoluto, sarebbe diviso nella sua propria natura. Ogni pensiero è costituito dalla distinzione tra soggetto e oggetto, tra pensatore e pensato. Ogni volontà poggia sulla distinzione tra essere e attività, pertanto vi è una pluralità al suo interno. Ma dobbiamo dimenticare tutte queste distinzioni, se intendiamo concepire un’idea di Dio. Egli è un’unità assolutamente indipendente e autosussistente; non esige nulla oltre se stesso. Non ha bisogno di altro, neppure di se stesso, ed è indistinguibile da se stesso. Pertanto, non possiamo attribuirgli alcuna autocoscienza, alcuna personalità. Possiamo soltanto attribuirgli i predicati dell’unità e del bene, ma anche que-

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icates can [be] applied to God in an indirect and metaphysical sense. Strictly speaking we have no terms to express the essence of God. If there is any theology, any doctrine of God, it cannot be a positive science. The only possible theology is a negative Theology. What we can say about the nature of God is that in every respect it is completely different from all finite beings and from all our usual means of knowing. But there is a continuous chain that connects the absolute Being of God with the finite beings. The system of Plotinus is a system of emanation947, not creation948. God did not create the universe or the human soul; for an act of creation would presuppose an act of personal will that cannot be ascribed to God. But the first in virtue of its perfections flows over, as it were. There arise derivative beings. These derivative beings are entirely dependent on their origin; they have no perfection and existence of their own. They strive back towards their first origin. The first link in this chain of being after God is Nūs – Thought. In the downward scale thought occupies the nearest position to the first principle. But this thought is not yet our own finite, subjective thought. It is not our logical or discursive thought, but an intuitive thought; it is a timeless contemplative thought that is complete in every instant. After the Nūs there comes the soul949 who also belongs to the divine supernatural world. Like the Nūs the soul leads an eternal timeless life. But the soul stands already on the border of the supersensual intelligible world. She inclines to the divisible and corporeal; she cares for it and communicates to this corporeal world the effects which proceed from nūs. Plotinus distinguished between different forms of soul. The first is the world-soul; is elevated over nature and does not directly work upon it; but this first soul

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sti predicati vanno attribuiti a Dio in un senso indiretto e metafisico. A rigore, non abbiamo termini per esprimere l’essenza di Dio. Se vi è una teologia, una dottrina di Dio, non può essere una scienza positiva. La sola teologia possibile è la teologia negativa. Ciò che possiamo affermare sulla natura di Dio è che, sotto ogni aspetto, quest’ultimo è completamente diverso da tutti gli esseri finiti e da tutti i nostri consueti mezzi di conoscenza. Ma c’è comunque una concatenazione continua che connette l’essere assoluto di Dio con gli esseri finiti. Il sistema di Plotino è un sistema di emanazione, non di creazione. Dio non ha creato l’universo o l’anima umana, poiché l’atto della creazione presupporrebbe un atto di volontà personale che non può in alcun modo essere attribuito a Dio. Ma il primo, per così dire, trabocca per la sua perfezione. È lì che sorgono gli esseri derivati. Ma questi esseri derivati dipendono interamente dalla loro origine; non hanno alcuna perfezione o esistenza di per sé. Essi ritornano alla loro prima origine. Il primo legame in questa concatenazione dell’essere, dopo Dio, è il nūs – il Pensiero. Nella scala verso il basso il pensiero occupa la posizione più vicina al primo principio. Ma questo pensiero non è ancora il nostro pensiero finito, soggettivo. Non è il nostro pensiero discorsivo o logico, ma un pensiero intuitivo; è un pensiero contemplativo senza tempo che è completo in ogni istante. Dopo il nūs viene l’anima, che appartiene al mondo divino sovrasensibile. Come il nūs, l’anima gode di una vita eterna senza tempo. Ma l’anima sta già al confine del mondo intelligibile sovrasensibile. Essa tende verso il divisibile e corporeo; ha cura di esso e comunica a questo mondo corporeo gli effetti che procedono dal nūs. Plotino distingue diverse forme di anima. La prima è l’anima del mondo; essa si trova al di sopra della natura e non opera su di essa diret-

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radiates from it a second soul, which is called nature – and this soul of nature is combined with the body of the world as the soul with our bodies. The world-soul950 creates and comprehends a plurality of particular souls, which are connected with it as their origin and extend from it to the various parts of the world. With these951 particular souls the lowest limit of the suprasensual world is reached. When the divine force descends still further matter952 is created as its most imperfected manifestation. The material world has no true being; matter is more correctly to be described as not-Being than as Being. It is a mere shadow – a faint and very remote copy of the true supersensual world. The soul belongs by nature to a higher world953; its highest aim can only be to live in this world and to free itself from inclination towards the sensual. By this thought Neoplatonism seems to be in close relationship with early Christian thought and Christian feeling. The first step of philosophy and its highest aim must be a process of purification, a katharsis of the human soul. The soul must free herself from the body and all that is connected with it. Plotinus, however, did not require that this liberation should be affected by a life of ascetism, by an entire contempt and denial of the sensual world. In this respect he remained faithful to the Platonic theory of love and to that description of the idea of beauty that had been given by Plato in his “Symposium”. It is the beauty of the sensual world that gradually leads to the supersensual world. In this respect we find a very characteristic difference between Plotinus and Christian sects. He has written a special treatise against the Christian Gnostics in which he rejects the contempt that the Christian sects had for nature. I will give you the princi-

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tamente. Ma questa prima anima ne sprigiona da sé una seconda chiamata natura – e, a sua volta, questa anima è collegata al corpo del mondo, come l’anima al nostro corpo. L’anima del mondo produce e comprende una pluralità di anime particolari, connesse a essa come alla loro origine e che da essa si diffondono alle varie parti del mondo. Con queste anime particolari viene raggiunto il limite più basso del mondo sovrasensibile. Quando la forza divina scende ulteriormente, viene creata la materia come la sua manifestazione più imperfetta. Il mondo materiale non ha alcun vero essere; la materia andrebbe descritta, più correttamente, come non-essere piuttosto che come essere. Essa è una mera ombra, una copia sfocata e assai remota del vero mondo sovrasensibile. L’anima, per sua natura, appartiene a un mondo superiore; il suo compito supremo deve essere quello di vivere soltanto in questo mondo liberandosi dalle inclinazioni verso il mondo sensibile. Questo pensiero sembra accomunare il Neoplatonismo al primo pensiero cristiano e al suo modo di sentire. Difatti, il primo passo della filosofia e il suo scopo supremo consistono in un processo di purificazione, una katharsis dell’anima umana. L’anima umana deve liberarsi dal corpo e da tutto ciò che è legato a esso. Plotino, comunque sia, non esige che questa liberazione si realizzi per mezzo di una vita ascetica, mediante un totale disprezzo e rifiuto del mondo sensibile. A tal proposito, egli rimase fedele alla teoria platonica dell’amore e alla descrizione dell’idea del bello fornita da Platone nel suo Simposio. È la bellezza del mondo sensibile che, gradualmente, ci conduce al mondo sovrasensibile. A tal proposito, scorgiamo una differenza davvero caratteristica tra Plotino e le sette cristiane. Egli ha scritto uno speciale trattato contro gli gnostici cristiani, col quale respinge il disprezzo che le sette cristiane

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pal thoughts of this treatise – because they show us, in a very clear light, the specific difference that – in spite of this connexions – remains between the spirit of the Hellenistic philosophy and the religious views of the different Christian sects. Plotinus, too, seems to despise and disparage the world of sense-phenomena954. All his efforts are directed to the aim of getting rid of this lower world. Philosophy strives to discharge us from the chains of sensibility. But in the philosophy of Plotinus there remain still a certain dignity that is acknowledged955.

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nutrivano nei confronti della natura. Vi presenterò i pensieri principali di questo trattato, poiché ci mostrano, con grande chiarezza, la differenza specifica che – nonostante queste connessioni – sussiste tra lo spirito della filosofia ellenistica e le concezioni religiose delle diverse sette cristiane. Anche Plotino sembra disprezzare e denigrare il mondo dei fenomeni sensibili. Tutti i suoi sforzi sono diretti allo scopo di liberarsi di questo mondo inferiore. La filosofia si sforza di scioglierci dalle catene della sensibilità. Ma nella filosofia di Plotino rimane ancora una certa dignità riconosciuta [al mondo sensibile].

CONCLUSION956

By these remarks I wish to conclude these lectures. What I could give you here was only a very brief survey of the fundamental principles of Greek thought. I know very well that such a survey is insufficient and very inadequate[,] but I hope that I might have succeeded in arousing your interest in the problems treated in these lectures and that you will come to a better and more profound understanding by studying the sources themselves. And for me it was of great interest[,] and it gave me a real pleasure to have this opportunity to speak to young American students. I thank you most cordially for your attention and I am grateful for the perseverance and patience with which you have followed these lectures.

CONCLUSIONE

Con queste osservazioni desidero concludere queste lezioni. Purtroppo, ho potuto fornirvi soltanto una panoramica piuttosto breve dei princìpi fondamentali del pensiero greco. So bene che una tale rassegna è insufficiente e davvero inadeguata, ma spero di essere riuscito a suscitare il vostro interesse per i problemi affrontati in queste lezioni e spero anche che voi possiate giungere a una comprensione migliore e più approfondita attraverso lo studio delle fonti stesse. E per me è stato di grande interesse e mi ha fatto molto piacere aver avuto l’opportunità di parlare a voi giovani studenti americani. Vi ringrazio cordialmente per la vostra attenzione e vi sono grato per la perseveranza e la pazienza con cui avete seguito queste lezioni.

NOTE DI CRITICA DEL TESTO INGLESE

Manoscritto del gruppo Gen. 98, Box 36, folder 691. Yale 1942. La numerazione va da p. 1 in ms 41. 2 “renaissance” in ms 5. 3 Parola illeggibile in ms 8. 4 “incomparibly” in ms 12a. 5 Cassirer, in ms 12b, non fornisce alcun dato bibliografico. 6 “We have to begin with the state; for it is here that human nature is, as it were, written in” eliminato in ms 18. 7 “When” cancellato nel manoscritto e “If” aggiunto a matita in ms 20. 8 Aggiunto a matita in ms 20. 9 “speak” al posto di “speaking” in ms 20. 10 “vanished” eliminato in ms 20. 11 “maestro di color chi sanno” in ms 23. 12 In ms 24 Cassirer scrive erroneamente Pisa. Il filosofo in questione è Cesare Cremonini, la cui famosa espressione riportata da Paolo Gualdo in una missiva indirizzata a Galileo così recita: «[…] quel mirare per quegli occhiali m’imbalordiscon la testa: basta, non ne voglio saper altro», P. Gualdo, Lettera a Galileo Galilei, 29 luglio 1611, in G. Galilei, Le opere, sotto la direzione di A. Favaro, vol. 11, Barbera, Firenze 1901, p. 165. 13 Cassirer non fornisce alcun dato bibliografico. 14 “for the solution of a special historical problem” eliminato in ms 26. 15 In ms 27 erroneamente “Shakespeare”, ma aggiunto a matita “Voltaire”. 16 “These conditions will be emphasized in the whole course of these lectures” eliminato in ms 29. 17 “For the moment” eliminato in ms 33. 18 Resto di p. 34 eliminato. 19 “become apt” eliminato in ms 36. 20 Parola illeggibile in ms 36. 21 Sottolineato in ms 38. 22 Parola illeggibile in ms 40. 23 “and most indispensable” cancellato in ms 40. 1

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NOTE DI CRITICA DEL TESTO INGLESE

24 Manoscritto del gruppo Gen. 98, Box 36, folder 692. Yale, lunedì 13 luglio 1942. La numerazione va da p. 42a in ms 53. 25 Sottolineato in ms 40e. 26 Sottolineato in ms 40g. 27 “its” al posto di “the” in ms 40k. 28 “the” eliminato in ms 40k. 29 “of mythical thought” eliminato in ms 40k. 30 Sottolineato in ms 41l. 31 In ms 40m “Every single man” eliminato. 32 In ms 40n “special” al posto di “certain”. 33 In ms 40o “a religion that we call Theriomorphism” eliminato. 34 Sottolineato in ms 40o. 35 Sottolineato in ms 40p. 36 Sottolineato in ms 40p. 37 In ms 40p “the Gods of Homer” eliminato. 38 Sottolineato in ms 40r. 39 Qui finisce p. 40s, il cui brano Cassirer collega in ms 40t. Circa metà di p. 40t è stata eliminata. 40 In ms 40t “have no” al posto di “does not”. 41 Sottolineato in ms 40t. 42 In ms 40u “ailments” al posto di “disease”. 43 In ms 40u “here we must find with our own theoretical scientific concept of medicine” eliminato. 44 Da qui in poi p. 41 e una prima versione di p. 42 del manoscritto sono state eliminate. 45 Da qui in poi inizia la seconda versione di p. 42 del manoscritto. 46 In ms 42 “Hyppocrates and his pupils performed this great intellectual task” eliminato. 47 Da qui in poi, la fine di p. 43 e p. 44 sono state eliminate. Dopo p. 44 è presente un’altra versione di p. 43 interamente eliminata. Il manoscritto continua con p. 44a. 48 Il resto di p. 51 del manoscritto è stato eliminato, così come una prima versione di p. 52. 49 Inizio della seconda versione di p. 52 del manoscritto. 50 A seguire un manoscritto che va da pagina 40a a 40o. Non lo riportiamo in quanto si tratta di uno schema riassuntivo o sintesi di quanto già riportato in questa seconda lezione. Tra le altre cose, questa restante parte del manoscritto si interrompe bruscamente. 51 Questo manoscritto fa parte del gruppo Gen. 98, Box 36, fol-

NOTE 24-71

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der 680. La numerazione va da 1 a 32i. Il manoscritto è preceduto da una lettera di W. D. Geoghegan indirizzata a Cassirer: “Prof. Cassirer: Here is the remainder of the Herakleitus lecture. As you check it over you will find three or four blank spaces. Since I could not decipher these words, you had better fill the blanks with them”. La lettera non reca alcuna data. 52 Sottolineato in ms 3. 53 Sottolineato in ms 4. 54 Cassirer, in ms 5, accenna al seguente dato bibliografico: “Jowett edit. IV, 232”. Probabilmente egli fa riferimento alla traduzione di Benjamin Jowett. 55 “tell” in ms 6. 56 “school-traditions” in ms 7. 57 “Burnett’s” in ms 7. 58 Sottolineato in ms 7. 59 In ms 7 “world” (mondo) invece di “word” (parola). 60 Questo brano di p. 10 si interrompe. È una prima versione eliminata da Cassirer. La trattazione va da p. 9a. 61 Questo brano, posto tra parentesi quadre e situato in ms 9a, è una seconda versione eliminata da Cassirer. 62 Sottolineato in ms 9a (nella numerazione del manoscritto, la pagina 9a compare due volte). 63 Sottolineato in ms 9c. 64 Sottolineato in ms 9f. 65 “what” in ms 9e. 66 Sottolineato in ms 9e. 67 Sottolineato in ms 9f. 68 Non è chiaro se Cassirer intendesse eliminare il brano seguente (da noi posto tra parentesi quadre e situato in ms 9g). Lo riportiamo in nota per non appesantire la lettura: “First of all it must not contain any supernatural elements – it must not appeal to any will power, any spiritual powers like the power of a God, a demon, a hero or super-Man or wizard, but it must depend on physical causes – Moreover the reasons alleged [“alledged” nel manoscritto p. 9g – NdT] by such a theory must be empirical reasons – in a broad and general sense – They must be verifiable even now, in our empirical world, in our common experiences – Obviously that is not the case]”. 69 Qui termina p. 9k. 70 “has” in ms 9l. 71 Sottolineato in ms 9l.

922

NOTE DI CRITICA DEL TESTO INGLESE

Sottolineato in ms 9l. Sottolineato in ms 9l. 74 Sottolineato in ms 9m. 75 Sottolineato in ms 9n. 76 Il brano seguente (da noi posto tra parentesi quadre e situato in ms 9o) è stato eliminato da Cassirer. Lo riportiamo in nota per non appesantire la lettura: “it admits of a “Logos” instead of a “Mythos”[,] that means of a rational explanation. But there is still another even more important difference between mythical explanation of the origin of things and a rational, a philosophic or scientific explanation”. 77 Sottolineato in ms 9o. 78 Sottolineato in ms 9o. 79 Sottolineato in ms 9o. 80 A questo punto Cassirer salta direttamente a pagina 26 del manoscritto, omettendo il testo delle pagine 11-24. 81 Sottolineato in ms 26. 82 Sottolineato in ms 26. 83 “Ionian” in ms 27. 84 “unvariable” in ms 27. 85 Da qui in poi riportiamo le pp. 11-24. 86 “beginnings” in ms 12. 87 “so called” in ms 13. 88 Sottolineato in ms 13. 89 “thesis” in ms 14. 90 “well known” in ms 14. 91 Parola illeggibile in ms 14. 92 “Levy Bruhl” in ms 16. 93 “Levy Bruhl” in ms 16. 94 “Levy-Bruhl” in ms 17. 95 “can not” in ms 18. 96 “characters” in ms 21. 97 Non si capisce se Cassirer intendesse eliminare questo brano di pagina 22 del manoscritto, che poniamo tra parentesi quadre. Alla fine del brano tra parentesi quadre il testo continua nella pagina successiva, la cui numerazione è sempre 22. 98 “can not” in ms 22. 99 “far fetched” in ms 23. 100 Sottolineato in ms 23. 101 Qui terminano le pagine 11-24 del manoscritto che Cassirer 72

73

NOTE 72-122

923

aveva saltato, iniziando nuovamente da p. 26. 102 Sottolineato in ms 26. 103 Sottolineato in ms 26. 104 “unvariable” in ms 27. 105 “hold” in ms 28. 106 Bronisław Malinoswki morì infatti il 16 maggio del 1942 a New Haven. 107 “bring into world” in ms 29. 108 Qui termina p. 29. Il testo continua con p. 30 e con metà di p. 31. Non si capisce se Cassirer intendesse eliminare questo brano, posto tra parentesi quadre. 109 “Trobian” in ms 31. 110 “Trobian” in ms 31. 111 “grand-mother” in ms 31. 112 Sottolineato in ms 31. 113 Non si capisce se Cassirer intendesse eliminare questo brano, da noi posto tra parentesi quadre e situato in ms 32. In ogni caso, Cassirer rimanda in ms 32a. 114 “Hylo-zoism” in ms 32c. Sottolineato. 115 “dispute” in ms 32d. 116 Sottolineato in ms 32d. 117 Sottolineato in ms 32d. 118 Sottolineato in ms 32e. 119 “Burnet” in ms 32g. 120 “can not” in ms 32h. 121 Parte di p. 35 del manoscritto eliminata. Riportiamo il brano tra parentesti quadre e in inglese, giacché la parte iniziale è mancante ed il resto è già presente in corpo più grande: [world the one has a privilege over the other. None of these empirical things is absolute, indipendent, primary – of all them are effetcs, and causes. The real cause, the true substantial origin must be sought in something which has not yet got a special quality or property – but is before all the special qualities. That is the ἄπειρον, the boundless, undifferentiated background that precedes all the later differetiations – all the divisions into single elements, water air, and so on. But what is more important to us is another thought of Anaximander. I must give it in the words of Anaximander himself – although these words are very difficult to translate and at a first glance seem to be rather obscure]. 122 Manoscritto del gruppo Gen. 98, Box 36, folder 681. La numerazione va da p. 33 a p. 102.

924

NOTE DI CRITICA DEL TESTO INGLESE

“this” nel manoscritto p. 33. Corsivo nostro. 125 “perplexion” in ms 36. 126 La seconda metà di p. 36 e p. 37 apparentemente eliminate. Abbiamo posto il brano tra parentesi quadre. 127 “Delphian” in ms 36. 128 “purposively” in ms 37. 129 fragm., ed. Bywater; Burnet, Early Greek Philosophy, no. 11. Nota di Cassirer in ms 37. Qui termina la parte apparentemente elimitata di p. 37. 130 “unaccesible” in ms 40 131 “book” in ms 43. 132 Sottolineato in ms 44. 133 Sottolineato in ms 44. 134 “thing” in ms 46. 135 “things” in ms 47. 136 Citazione sottolineata in ms 47. 137 “sense experience” in ms 50. 138 “barbarian” in ms 51. 139 “Homerian” in ms 54. 140 “roods” in ms 54. 141 “university” in ms 60. 142 “harken” in ms 61. 143 “Sybyl” in ms 62. 144 “mistify” in ms 62. 145 “if” in ms 64. 146 “uncapability” in ms 64. 147 “the tables in” in ms 65. 148 “jist” in ms 65. 149 “95” in ms 66. 150 “92” in ms 67. 151 Sottolineato in ms 67. 152 “life” in ms 67. 153 Qui Cassirer rimanda direttamente da p. 68 in ms 71. Le pp. 69-70 sono assenti. 154 “a” in ms 71. 155 “text books” in ms 71. 156 “do” in ms 72. 157 “we are” in ms 72. 158 Sottolineato in ms 76. 123 124

NOTE 123-190

925

“refuge to” in ms 79. “sense experience” in ms 81. 161 “Burnett” in ms 82. 162 “ask” in ms 84. 163 “perduring” in ms 84. 164 Sottolineato in ms 85. 165 Sottolineato in ms 85. 166 “cosmical” in ms 86. 167 “cosmical” in ms 86. 168 Sottolineato in ms 85. 169 “cosmical” in ms 87. 170 Sottolineato in ms 88. 171 “Burnett” in ms 90. 172 “souls” in ms 91. 173 “live” in ms 91. 174 “loose” in ms 91. 175 “73” in ms 91. 176 “74” in ms 91. 177 “121” in ms 93. 178 “Burnett” in ms 93. 179 Sottolineato in ms 96. 180 “chordes” in ms 99. 181 “45” in ms 100. 182 “I hope I have” in ms 101. Probabilmente Cassirer intendeva eliminare “I have”. 183 Manoscritto del gruppo Gen. 98, Box 36, folder 682. Questa è una prima versione del capitolo iniziale su Pitagora e i pitagorici ed è situata a pp. 1-9 del manoscritto. 184 Sottolineato in ms 4. 185 Sottolineato in ms 6. 186 Sottolineato in ms 6. 187 Qui finisce questa prima parte del capitolo dedicato a Pitagora e ai pitagorici. Segue invece la versione definitiva. I paragrafi sono di Cassirer e la numerazione va da p. 1 in ms 57a. Nella prima pagina leggiamo quanto segue: “Chapter III – Pythagoras and the Pythagoreans – § 1: The Sources”. Per ragioni editoriali abbiamo eliminato questa scritta. 188 “instruction” in ms 4. 189 “whenever” in ms 7. 190 “assemblances” in ms 8. 159 160

926

NOTE DI CRITICA DEL TESTO INGLESE

“Epamenondas” in ms 9. “Kebes” in ms 9. 193 “well known” in ms 9. 194 “Tarent” in ms 9. 195 Sottolineato in ms 11. 196 “Dyonisian” in ms 11. 197 Sottolineato in ms 13. 198 “wheel of things” in ms 14. Probabilmente Cassirer intendeva scrivere “wheel of birth” (ruota della nascita) invece di “wheel of things” (ruota delle cose). 199 “Raise” in ms 16. 200 “is no real” in ms 17. 201 “show” in ms 17. 202 Sottolineato in ms 18. 203 “thought” in ms 19. 204 “Burnett” in ms 23. 205 cf. Burnet, Greek Philosophy, Part I: Thales to Plato, p. 42. Nota di Cassirer. 206 Qui termina p. 23. La prima metà di pagina 24 eliminata da Cassirer. 207 “boundary posts” in ms 24. 208 La sezione successiva, posta tra parentesi quadre, sembra apparentemente eliminata. In effetti questo aneddoto riportato da Cassirer compare già all’inizio del manoscritto dedicato a Pitagora. Questa sezione parte dalla fine di p. 25 fino aìp. 27 del manoscritto. Abbiamo posto il brano tra parentesi quadre. 209 “so called” in ms 26. 210 Fine della sezione apparentemente eliminata in ms 27. 211 Il brano successivo, che va da pagina 28 fino a p. 29 del manoscritto, è stato posto tra parentesi quadre da Cassirer. 212 Sottolineato in ms 31. 213 Sottolineato in ms 31. 214 Sottolineato in ms 32. 215 Il brano successivo, situato in ms 34, è stato posto tra parentesi quadre da Cassirer. 216 Sottolineato in ms 34. 217 Cassirer (p. 36) non segnala questo omissis. 218 Sottolineato in ms 37. 219 Sottolineato in ms 37. 220 Sottolineato in ms 38. 191 192

NOTE 191-239

927

La fine di p. 42 e il primo rigo di p. 43 eliminati da Cassirer. “begin” in ms 43. 223 A questo punto (p. 45) Cassirer rimanda direttamente in ms 46, la cui prima metà è stata eliminata. Ecco il testo: “Aristotle speaks of these Pythagorean constructions with an unmistakeable irony. The Pythagoreans – he says – «have collected and fitted together any points of agreement they could discover between the numbers and harmonies on the one side and the parts of heaven on the other». [«]And if there was a gap anywhere, they readily made additions so as to make their whole theory coherent. F. i. as the number 10 is thought to be perfect and to comprise the whole nature of numbers they say that the bodies which move through the heaven are ten, but as the visible bodies are only nine to meet this they invent a tenth – the counter earth[»] (Aristotle, Metaphys. A5, 986a). 224 “round” in ms 47. 225 Omissis non indicato da Cassirer. 226 Parentesi quadre in ms 48. 227 Parentesi quadre in ms 49. 228 Parentesi quadre in ms 50. 229 Parentesi quadre in ms 50. 230 “But it has exerted a deep influence even upon the development of modern mind. «All beauty is truth» – that is a maxim that still was upheld by one of the founders of our modern Aesthetics, – by the English philosopher Shaftesbury, one of the most eminent thinkers of the 18th century, who become one of the founders of our modern Aesthetics” eliminato a pp 57-57a del manoscritto. 231 Manoscritto del gruppo Gen. 98, Box 36, folder 683. La numerazione delle pagine va da 52 a 120. Cassirer, nel manoscritto, indica questa parte come capitolo III. Per ragioni redazionali abbiamo invece ritenuto più opportuno presentarlo come capitolo IV. 232 Paragrafo redazionale. 233 “Pythagorean” in ms 52. 234 “with” in ms 54. 235 “Metaphysics” in ms 55. 236 “Platon” in ms 57. 237 Sottolineato in ms 58. 238 All’inizio di p. 59 la seguente nota di Cassirer: “J. Burnet, p. 114”. Il frammento di Senofane viene infatti ripreso da Burnet, Early Greek Philosophy, p. 114. 239 “Heracleitos” in ms 60. 221 222

928

NOTE DI CRITICA DEL TESTO INGLESE

“perfects” in ms 64. Omissis non indicato da Cassirer (p. 68). 242 Sottolineato in ms 68. 243 “play” in ms 70. 244 “confutate” in ms 71. 245 Sottolineato in ms 71. 246 “Will o’ the wisp” in ms 76. 247 Sottolineato in ms 77. 248 Sottolineato in ms 78. 249 Sottolineato in ms 79. 250 Sottolineato in ms 79. 251 Sottolineato in ms 79. 252 Corsivo nostro. 253 Il resto di p. 81 eliminato da Cassirer. 254 Sottolineato in ms 81b. 255 Sottolineato in ms 81b. 256 Corsivo nostro. 257 P. 82 del manoscritto e la prima metà di p. 83 eliminate. La citazione inizia nella seconda metà di p. 83. 258 “or” in ms 84. 259 Questa parte della citazione in ms 84 eliminata da Cassirer: “Our judgment thereon depends on this: ‘Is it or is it not?’”. 260 “part” in ms 84. 261 Cassirer cita da Burnet, p. 174. La seconda metà di p. 84 e la prima metà di p. 85 eliminate da Cassirer. 262 L’ultimo rigo di p. 85 e l’inizio di p. 86 eliminati da Cassirer: “And even Xenophanes had drawn the conclusion that there is a true identity between God and the Universe”. Ultima parte di p. 87 eliminata. 263 Gran parte di p. 88 eliminata. Il testo continua dal quartultimo rigo. 264 Sottolineato in ms 90. 265 Sottolineato in ms 90. 266 “inquiring” in ms 94. 267 “two faced” in ms 94. 268 “born” in ms 94. 269 “with” nel manoscritto p. 96. 270 Sottolineato in ms 98. 271 “their” in ms 100. 272 “worth” in ms 101. 240 241

NOTE 240-308

929

“this” in ms 102. “ease” in ms 104. 275 “a” in ms 105. 276 “text book” nel manoscritto pp. 107-108. 277 Sottolineato in ms 108. 278 Sottolineato in ms 108. 279 Prima metà di p. 109a eliminata. 280 “is” in ms 109a. 281 “not” in ms 109a. 282 “in” in ms 109e. 283 Sottolineato in ms 109e. 284 Sottolineato in ms 109e. 285 Sottolineato in ms 109f. 286 Sottolineato in ms 109g. 287 “shakened” in ms 190g. 288 “a” in ms 110. 289 “Platon” in ms 110a. 290 Questo disegno si trova in ms 111 291 “design” in ms 112. 292 “Acoustic” in ms 112. 293 Sottolineato in ms 113. 294 Sottolineato in ms 113. 295 “litterary” in ms 114. 296 Sottolineato in ms 115. 297 Sottolineato in ms 115. 298 “Eleats” in ms 120. 299 Manoscritto del gruppo Gen. 98, Box 36, folder 684. La numerazione va da p. 121 in ms 189. Yale 1942. Cassirer indica questa parte come “chapter IV”, ma per ovvie ragioni editoriali viene indicato come capitolo V. 300 “and that change is an impossible and self-contradictory concept” eliminato in ms 121. 301 “Greek” in ms 122. 302 “one” in ms 124. 303 “can not” in ms 124. 304 Sottolineato in ms 127. 305 Sottolineato in ms 127. 306 “fact” in ms 127. 307 Sottolineato in ms 127. 308 “hand” in ms 129. 273 274

930

NOTE DI CRITICA DEL TESTO INGLESE

Sottolineato in ms 132. Sottolineato in ms 132. 311 “excel” in ms 132. 312 Sottolineato in ms 133. 313 “well known” in ms 133. 314 Sottolineato in ms 134. 315 “latin” in ms 135. 316 Sottolineato in ms 135. 317 “Herman” in ms 135. 318 “classic” in ms 135. 319 “latin” in ms 135. 320 Corsivo nostro. 321 Sottolineato in ms 137. 322 Sottolineato in ms 138. 323 Sottolineato in ms 139. 324 Sottolineato in ms 139. 325 Sottolineato in ms 139. 326 Sottolineato in ms 139. 327 “11” in ms 142. 328 Sottolineato in ms 143. 329 “Xenophanes” in ms 145. 330 “Burnett’s” in ms 146. 331 “page” in ms 146. 332 Sottolineato in ms 147. In ms 147, proprio sopra il titolo del paragrafo, Cassirer scrive: “147-174: Anaxagoras. This chapter may, perhaps, be omitted”. 333 “example” in ms 149. 334 “himself” in ms 150. 335 Sottolineato in ms 154. 336 “to” in ms 156. 337 “Anaximenes” in ms 157. 338 In ms 159a segue uno schema che riportiamo in nota a pié di pagina: “Theories of Matter. A) Macro-theory. Empedokles. Macro-Elements: Fire, Water, Earth, Air. B) Micro-Theory. 1) Atomistic Theory (Quantitative elements). 2) Anaxagoras (Qualitative elements). The theory of the seeds”. 339 Sottolineati in ms 164. 340 “irreductible” in ms 165. 341 “cosmical” in ms 167. 342 Sottolineato in ms 167. 309 310

NOTE 309-373

931

“seed” in ms 168. Sottolineato in ms 169. 345 “Anaximander” in ms 169. 346 “Anaximander” in ms 170. 347 “cosmical” in ms 171. 348 “Anaximander” in ms 172. 349 “Anaximandrean” in ms 172. 350 “Anaximander” in ms 173. 351 “Platon” in ms 173. 352 “Platon” in ms 174. 353 Sottolineato in ms 175. 354 Sottolineato in ms 176. 355 Cassirer, in ms 178, omette una parola. Riteniamo la parola “nesso” quella più probabile. 356 “to” in ms 178. 357 Le pagine successive, ovvero pp. 179-184, purtroppo sono mancanti. Il manoscritto inizia con p. 185. 358 “the” in ms 185. 359 Sottolineato in ms 186. 360 Sottolineato in ms 186. 361 Sottolineato in ms 187. 362 Sottolineato in ms 187. 363 Cassirer, in ms 187, indica “Burn”. Probabilmente ciò sta a indicare il volume di Burnet. 364 Questo manoscritto fa parte del gruppo Gen. 98, Box 36, folder 685. La paginazione va da p. 1 a 32. Nella copertina del quaderno troviamo scritto: “Cassirer. Ancient Philosophy”. Chapter V: The Sophists. Chapter VI: Sokrates”. Per ragioni redazionali indichiamo tali capitoli come capp. VI e VII. 365 La numerazione è di Cassirer, ma mancano i titoli dei paragrafi, che pertanto sono tutti redazionali. 366 “and masters in every possible art” eliminato in ms 4. 367 “they may be described as Jack-of-all-trades” eliminato in ms 4. 368 “Synonymes” in ms 5. 369 “at the spur of the moment” in ms 5. 370 “means” in ms 11. 371 “integrant” in ms 13. 372 Sottolineato in ms 13. 373 Sottolineato in ms 13. 343 344

932

NOTE DI CRITICA DEL TESTO INGLESE

“sophist” in ms 13. “the” in ms 13. 376 “sophist” in ms 15. 377 “simple” in ms 16. 378 “revert” in ms 17. 379 “judgments” in ms 19. 380 “laying” in ms 21. 381 “Phaidros” in ms 21. In realtà colui che sveglia Socrate nel dialogo Protagora è il giovane Ippocrate figlio di Apollodoro. 382 “heavens” in ms 21. 383 “Phaidros” in ms 21. 384 “Phaidros” in ms 21. 385 Parola illeggibile in ms 21. Visto il contesto riteniamo adatta la parola “cerchia”. 386 “Phaidros” in ms 21. 387 “sophist” in ms 22. 388 “a” in ms 22. 389 Sotolineato in ms 22. 390 “controverted” in ms 23. 391 “struck” in ms 25. 392 “struck” in ms 25. 393 “Platon” in ms 26. 394 Sottolineato in ms 26. 395 Sottolineato in ms 27. 396 Sottolineato in ms 31. 397 Sottolineato in ms 31. 398 “so called” in ms 31. 399 “thesis” in ms 32. 400 Manoscritto del gruppo Gen. 98, Box 36, folder 686. La numerazione va da p. 33 in ms 74. Alla fine del manoscritto vi sono anche quattro pagine non numerate. Yale 1942. 401 “he can hear his voice” eliminato in ms 34. 402 Sottolineato in ms 34. 403 “idiosyncrasy” in ms 35. 404 “idiosyncrasies” in ms 35. 405 “judgment” in ms 36. 406 “beings” in ms 36. 407 “under the spell” in ms 37. 408 “on” in ms 38. 409 “benumbes” in ms 38. 374 375

NOTE 374-445

933

“literaly” in ms 38. Sottolineato in ms 39. 412 Sottolineato in ms 39. 413 “well known” in ms 39. 414 Sottolineato in ms 39. 415 “Platon” in ms 40. 416 “assertions” in ms 41. 417 Sottolineato in ms 42. 418 Sottolineato in ms 42. 419 Sottolineato in ms 42. 420 “makrokosm” in ms 45. 421 Sottolineato in ms 46. 422 Sottolineato in ms 46. 423 Sottolineato in ms 46. 424 Sottolineato in ms 46. 425 “words” in ms 47. 426 Sottolineato in ms 47. 427 Sottolineato in ms 47. 428 Sottolineato in ms 48. 429 Sottolineato in ms 49. 430 “design” nel manoscritto p. 51. 431 “What is new; what is revolutionary in his thought?” eliminato in ms 52. 432 Corsivo nostro. 433 Sottolineato in ms 54. 434 Sottolineato in ms 56. 435 Sottolineato in ms 57. 436 Sottolineato in ms 57. 437 “Greek” in ms 58. 438 In ms 60 Cassirer scrive: “He was not in possession of a higher wisdom but he, at least, what he had to ask and in what direction he had to seek”. Dato il senso della frase, probabilmente Cassirer intendeva scrivere “but he knew, at least” ecc. 439 Sottolineato in ms 61. 440 Sottolineato in ms 61. 441 “so called” in ms 65. 442 “this” in ms 65. 443 “can not” in ms 67. 444 “learn” in ms 68. 445 “to” in ms 71. 410 411

934

NOTE DI CRITICA DEL TESTO INGLESE

Sottolineato in ms 71. Sottolineato in ms 71. 448 Il manoscritto si conclude in ms 74. A seguire 4 pagine manoscritte e non numerate, che abbiamo preferito lasciare in questo capitolo, giacché fungono da ottimo ponte di collegamento con le lezioni dedicate a Platone. Il brano è posto tra parentesi quadre. 449 Sottolineato nella prima pagina del manoscritto. 450 Qui termina la seconda pagina. 451 Manoscritto del gruppo Gen. 98, Box 36, folder 958. Lecture-notes, Oxford 1935. La numerazione va da p. 1 in ms 6. 452 “Platon’s” in ms 6. 453 “Anaxagos” in ms 6. 454 Manoscritto del gruppo Gen. 98, Box 36, folder 959. Oxford 1935. La numerazione va da p. 1 in ms 50. 455 Paragrafo redazionale. 456 “Metaphysic” in ms 2. 457 “Polato’s” in ms 3. 458 “Platon” in ms 4. 459 “Metaphysic” in ms 5. 460 “characteristical” in ms 6. 461 “once for all” in ms 6. 462 “founder” in ms 6. 463 “polemics” in ms 7. 464 “polemics” in ms 7. 465 Paragrafo redazionale. 466 “Plato’s idealism” in ms 9 eliminato. 467 “a thinker that” in ms 11. 468 “Augustin” in ms 11. Sottolineato 469 “Metaphysic” in ms 11. 470 “Augustin” in ms 11. 471 “Augustin” in ms 12. 472 “Augustin” in ms 12. 473 “the thought the philosophy of Plato” nel manoscritto pp. 1213. 474 Questo paragrafo, senza titolo, viene da Cassirer indicato come §1, ma per ragioni editoriali lo indichiamo come §3. 475 Sottolineato in ms 16. 476 Sottolineato in ms 17. 477 Sottolineato in ms 17. 478 Eliminato da Cassirer in ms 20. 446 447

NOTE 446-512

935

Tra parentesi quadre in ms 21. “has no substantiality whatsoever” eliminato in ms 21. 481 In realtà 183B. 482 In realtà Platone, Theat. 152D e 183B. 483 “to this first guiding principle of dialectic” eliminato in ms 479 480

24.

Sottolineato in ms 24. “are always what they are” in ms 25. 486 Paragrafo redazionale. 487 “Metaphysic” in ms 26. 488 Tagliato in ms 26. Non è chiaro se Cassirer intendesse eliminare questo brano da noi posto tra parentesi quadre. 489 Sottolineato in ms 24. 490 “Proposition” eliminato in ms 26. 491 “Unvariable” in ms 26a. 492 Tra parentesi quadre in ms 27. 493 In ms 27: “Phaidon 99B”. In realtà 99D-E. 494 Sottolineato in ms 29. 495 Sottolineato in ms 29. 496 Sottolineato in ms 29. 497 Le pp. 32-34 del manoscritto eliminate. Il manoscritto inizia con p. 35. 498 “Relevation” in ms 35. 499 “Platon” in ms 36. 500 Pagina 37 del manoscritto è stata eliminata. La trattazione riprende dalla fine di pagina 37 fino a pagina 38. Le pagine 39, 40, 41, 42, 44 e 45 sono state eliminate. La trattazione continua in pagine non numerate e poste a sinistra di quelle numerate. 501 Paragrafo redazionale. 502 Sottolineato in ms 38. 503 Sottolineato in ms 38. 504 Sottolineato in ms 38. 505 “be” in ms 38. 506 Pagina 39 eliminata. Il testo continia da p. 39 to p. 40. 507 “d.” nel manoscritto. 508 Sottolineato nella pagina accanto in ms 39. 509 Sottolineato nella pagina accanto in ms 39. 510 Sottolineato nella pagina accanto in ms 40. 511 “sign” nel manoscritto. 512 “K.” nel manoscritto. 484 485

936

NOTE DI CRITICA DEL TESTO INGLESE

513 Nel dattiloscritto in ms 15: “Hera (?)”. In realtà nel manoscritto, a margine di p. 40, c’è scritto “Herakleitos”. 514 Le pp. 40-42 eliminate. 515 Sottolineato in ms 41. 516 “Pl.” nel manoscritto. 517 Il testo continua a margine di p. 42. 518 Sottolineato a margine di p. 42. 519 Parte di p. 42 eliminata. Da qui inizia quella parte di testo che si collega in ms 43. 520 “more empirical objects are worthy” a margine. 521 Sottolineato in ms 43. 522 Sottolineato in ms 43. 523 Parte di p. 43 e p. 44 eliminata. 524 Sottolineato a margine di p. 44. 525 Sottolineato a margine di p. 44. 526 Sottolineato a margine di p. 45. 527 “Pl.” nel manoscritto. 528 Sottolineato a margine di p. 45. 529 Cassirer, nel manoscritto a margine di p. 45, indica come continuazione pagina 53, ma in realtà il manoscritto continua nella pagina successiva, ossia p. 46. La frase successiva in ms 46 manca della parte iniziale; pertanto, non si capisce il senso complessivo del ragionamento di Cassirer. Riportiamo, per correttezza filologica, il brano originale: “other predicates of that sort we stamp, as Plato says in a passage of his Phaidon (75D), the fleeting phenomena with the same essence in the dialectical process both when we ask and when we answer the questions”. 530 Sottolineato in ms 47. 531 “Metaphysic” in ms 48. 532 “once for all” in ms 48. 533 Il manoscritto inizia con p. 51. Questa parte appartiene al gruppo Gen. 98, Box 48, folder 960. La paginazione va da p. 51 in ms 95 and tra p. 52 e p. 53 è presente anche un manoscritto di 11 pagine. 534 “Athen” nel manoscritto p. 52. 535 In ms 52 si legge: “the very device of Platonism”. Probabilmente Cassirer intendeva utilizzare il termine “advice”, ossia consiglio. Abbiamo però preferito tradurre con “precetto”. 536 Alla fine di p. 52 è presente il manoscritto di 11 pagine. 537 Sottolineato in ms 1.

NOTE 513-573

937

Sottolineato in ms 4. Sottolineato in ms 4. 540 Sottolineato in ms 5. 541 Sottolineato in ms 5. 542 “be” in ms 7. 543 Sottolineato in ms 7. 544 Sottolineato in ms 7. 545 “the property” eliminato in ms 8. 546 “hearer” nel manoscritto p. 8. Cassirer probabilmente intendeva scrivere la parola “talker” e non “hearer”, che possiede invece lo stesso valore semantico di “listener”. 547 Sottolineato in ms 9. 548 Sottolineato in ms 9. 549 “design” in ms 10. 550 Sottolineato in ms 10. 551 Qui termina l’inserto di 11 pagine. Il manoscritto continua con p. 53. 552 “instead of giving us” eliminato in ms 53. 553 “Scepticism” in ms 53. 554 Nota a margine: “Phaed 76 Aff., Theat. 155 E (p. 91C). 555 “require and” eliminato in ms 55. 556 “and” eliminato in ms 55. 557 Sottolineato in ms 55. 558 Brano apparentemente eliminato in ms 56. 559 Sottolineato in ms 56. 560 Marginalia: “construction form a mere physical production” in ms 57. 561 Sottolineato in ms 57. 562 Sottolineato in ms 57. 563 “once for all” in ms 57. 564 “one” in ms 58. 565 “woods” in ms 58. 566 Marginalia: “Phaed. 75A, B (C p. 101). 567 “unequality” in ms 59. 568 “belong” in ms 59. 569 “of” in ms 60. 570 Sottolineato in ms 62. 571 “uneradicable” in ms 63. 572 Sottolineato in ms 64. 573 Sottolineato in ms 64. 538 539

938

NOTE DI CRITICA DEL TESTO INGLESE

“emp.” in ms 64. Paragrafo redazionale. 576 Brano posto a margine di p. 66 e che abbiamo riprodotto tra parentesi quadre. 577 “have” in ms 67. 578 “have” nel manoscritto s p. 67. 579 Nota a margine: “Phaed. 75A, B”. 580 “Platon” in ms 67. 581 Tra p. 67 e p. 67a si trova un passo già citato del Fedone. 582 “Platon” in ms 68. 583 Sottolineato a matita in ms 68. 584 Sottolineato in ms 68. 585 Nota a margine in ms 70: “Phaed. 75E, 76D, Phaidr. 247C, 250A, Menon”. 586 “At the one hand” in ms 71. 587 Sottolineato in ms 72. 588 Sottolineato in ms 74. 589 “recollection” eliminato in ms 76. 590 “can not” in ms 77. 591 Pagina 79 e l’inizio di p. 80 eliminate. 592 Sottolineato in ms 82. 593 Cassirer, in ms 83, riprende un brano tratto da Teeteto 183 già citato. 594 Nota a margine in ms 83: “Phaed. 65Bff., 66D (C104)”. 595 “can not” in ms 84. 596 Marginalia in ms 87. 597 Eliminata parte finale di ms 87. 598 “can not” in ms 89. 599 In ms 89 le parole “support” e “basis” eliminate. 600 Sottolineato in ms 90. 601 Theaitetos 184C-D. Cassirer, a pp. 90-91, non fornisce alcun dato bibliografico. 602 Paragrafo redazionale. 603 “her” in ms 94. 604 Nota a margine in ms 95: “Übers. Campbell Theait.-Ausg., Anm., p. 159”. Probabilmente Cassirer allude alla traduzione (Übersetzung) del Teeteto a cura di Lewis Campbell, uscita nel 1883. 605 Il manoscritto si interrompe in ms 95 e continua nel manoscritto di 88 pagine facente parte del gruppo Gen. 98, Box 48, folder 961. La numerazione va da p. 96 in ms 157. 574 575

NOTE 574-634

939

“uneradicable” in ms 97. Nota a margine in ms 99 che riportiamo tra parentesi quadre. 608 Paragrafo redazionale. 609 “once for all” in ms 100. 610 Nota a margine in ms 103: “28/842”. 611 Nota a margine in ms 104: “Theaet. 176a” e a seguire una parola illeggibile. 612 “once for all” in ms 104. 613 “a sensual need or a sensual” eliminato nel manoscitto in ms 104. 614 Nota a margine in ms 105: “198, 219”. 615 Nota a margine illeggibile in ms 107. 616 “their” in ms 110. 617 “fails short” in ms 111. 618 Due pagine eliminate. Il manoscritto continua con la seconda metà di p. 118. 619 “it” in ms 119. 620 Nota illeggibile in ms 119. 621 Paragrafo redazionale 622 Sottolineato in ms 119a. 623 “is was” in ms 119b. 624 “gave to it a new wide application” eliminato in ms 119b. 625 “is” in ms 119c. 626 “of social and political problems” eliminato in ms 119e. 627 “play-ground” in ms 119f. 628 Sottolineato in ms 119h. 629 Qui il brano s’interrompe in quanto p. 120 del manoscritto è stata eliminata. Tuttavia, e ciò lo si evince dal brano successivo, Cassirer cita la parte finale di un brano del Timeo, che noi riportiamo per intero. 630 Non è chiaro se Cassirer intendesse eliminare il brano successivo, da noi posto tra parentesi quadre. 631 Paragrafo redazionale. 632 “Plotinos” in ms 123. 633 Cassirer utilizza la seguente edizione: Plotinus, An Essay on the Beautiful, transl. by Thomas Taylor, J. M. Watkins, London 1917. 634 Cassirer cita dall’edizione di K. S. Guthrie, senza tuttavia fornire ulteriori indicazioni bibliografiche (probabilmente, quella della casa editrice G. Bell Publisher, California 1918): Plotinus, Enneades, in Works of Plotinus, ed. by Guthrie, vol. II. 606 607

940

NOTE DI CRITICA DEL TESTO INGLESE

“Augustin” in ms 128. Nel dattiloscritto in ms 46, si trova scritto “astricted to”, un verbo inesistente. In realtà Cassirer in ms 129 scrive correttamente “ascribed to”. 637 “once for all” in ms 129. 638 In ms 47 del dattiloscritto si segnala come non chiaro l’inizio della citazione di questo brano di Plotino. In realtà la citazione è corretta. 639 Non è chiaro se Cassirer intendesse eliminare il passo successivo, da noi posto tra parentesi quadre. 640 Questa pagina (non numerata e a margine di p. 137) è stata eliminata. 641 Nota illeggibile a margine di p. 139. 642 “Any one” in ms 141. 643 “Ennead VI” in ms 141. 644 “enthusiastical” in ms 141. 645 “Platon” in ms 141. 646 “once for all” in ms 143. 647 “evalenscence” in ms 144. 648 Paragrafo redazionale. 649 Cassirer, nel manoscritto, indica la connessione con p. 148, che nel quaderno è posta accanto in ms 145. 650 Parola illeggibile e poi la seguente nota in ms 145: “I, 572”. 651 Nota a margine in ms 148: “The Works of Augustine, A new translation, edit. Engl. Ubers. by M. Dods, Edinb. 1871, I, 310”. 652 “Augustin” in ms 148. 653 “Augustin” in ms 148. 654 “Augustin” in ms 149. 655 Qui Cassirer indica che il testo del manoscritto continua nella pagina successiva, ossia pagina 153. Non è chiaro se egli intendeva includere od eliminare il resto di pagina 150. 656 Qui termina p. 150. 657 “Sapentia” nel manoscritto a margine di p. 151. 658 “sapentia” nel manoscritto a margine di p. 151. 659 “be” nel manoscritto. 660 Pagina 151 eliminata. 661 Pagina 152 eliminata, come anche la prima metà di p. 153. 662 Il manoscritto continua alla fine di p. 154. 663 “Augustin” in ms 156. 664 “donce” in ms 156. 635 636

NOTE 635-681

941

“terrestrian” in ms 156. “celestian” in ms 156. 667 Qui il box 48, folder 961 si interrompe e continua nel documento Plato, appartenente al gruppo Gen. 98, Box 48, folder 962. Si tratta di un manoscritto di 61 pagine del 1935. La numerazione va da p. 158 in ms 211. 668 “phaenomena” in ms 160. 669 Nota a margine in ms 161: “Gebraucht: transl. by Cleveland 2204c2, Soliloquia 3805 df1 Augustinus, Civ. dei transl. by Dods, Confessiones, De civitate Dei engl. Übersetzung, Contra academicos, Aug., Confessiones 2282a2”, 2. Vol., London 1912, engl. Übersetzung De vera religione, De divinatione (diligendo Deum) de ess. Divinitate, De ideis 2004e, De libero arbitrio, De vera religione. Ph. Schaff, Select Library of the Nicene and Post-Nicene Fathers”. 670 Non si capisce bene se Cassirer intendesse eliminare il brano successivo (p. 161), che riportiamo tra parentesi quadre. 671 “Augustin” in ms 163. 672 “intelligi” in ms 163. 673 Nota illeggibile in ms 164. 674 Nota a margine in ms 167: “engl. Übers.”. 675 “Augustin” in ms 171. 676 Paragrafo redazionale. 677 Nel dattiloscritto p. 172 del manoscritto viene segnalata come mancante. In realtà la pagina è presente e corrisponde al brano posto tra parentesi quadre. 678 “Augustin” in ms 175. 679 Brano posto a margine di p. 175 del manoscritto: “After having dealt in the former lecture with that type of Platonism that is involved in medieval thought and in the thought of the first centuries of the Renaissance I wish, in this last lecture, to give you a brief account of the Platonism of those thinkers who may claim to the first and true founders of mofern Science, of the Platonism of Kepler and Galileo. What makes the essential difference between Kepler and Galilei, on the one hand, Augutitine and Ficinus on the other hand[,] is the fact that by both of them the stess[…]”. Il brano si interrompe qui. 680 “to” in ms 179. 681 Nota a margine di ms 182: “Augustin, Werke, IV. Antipelagian Works 1. De peccat. meritis 2. De spiritu et littera 3. De natura 665 666

942

NOTE DI CRITICA DEL TESTO INGLESE

et gratia 4. De perfectione justitiae hominis 5. De gestis Pelagii ad Aurelium episcopum XII Vol. 2 On the Grace of Christ and Original sin, Of marriage and concupiscence, On the soul and its origin XV Vol. 3 De gratia et libero arbitrio, On rebuke and Grace, On the predestination of the Saints, On the gift of perseverance, III On Baptism, against the Donatists VII De trinitate IX On Christ. doctrine, the Eucharist, on Catechising on Faith and the Creed”. 682 “objects” in ms 182. 683 “Platon” in ms 183. 684 Nota a margine di p. 185: “Timaeus 51B (Gr. Phil 122)”. 685 “self existent” in ms 186. 686 “material” in ms 188. 687 “sense perception” in ms 188. 688 “trys” in ms 188. 689 “figure” in ms 190. 690 “Arithmetics” in ms 195. 691 “anorganic” in ms 197. 692 “Arithmetics” in ms 200. 693 “whings” in ms 200. 694 Sottolineato in ms 202. 695 “unvariable” in ms 206. 696 “unvariable” in ms 207. 697 “once for all” nel manoscritto p. 211. Il successivo insieme di manoscritti appartiene al gruppo Gen. 98, Box 48, folder 963. Si tratta del “Plato-Seminar” New Haven 1943-1944, del “Plato-Seminar”, Yale University 1943-1944, 17 pp., del Plato-Seminar 26XI-1943, 7 pp., ed infine di un manoscritto datato 10-10-43, 14 pp. Non abbiamo riportato questo gruppo di scritti in quanto, come già segnalato nell’introduzione, trattasi soltanto di brevi appunti e citazioni tratte principalmente dalle opere di Platone e Aristotele. 698 Manoscritto appartenente al gruppo Gen. 98, Box 36, folder 690. Yale 1942. La numerazione va da p. 1 in ms 120. 699 Paragrafo redazionale. 700 Sottolineato in ms 1. 701 Sottolineato in ms 1. 702 “Convito” in ms 1. 703 Sottolineato in ms 3. 704 Sottolineato in ms 4. 705 “elements” in ms 4. 706 Sottolineato in ms 4.

NOTE 682-736

943

Sottolineato in ms 5. Cassirer probabilmente cita da G. Grote, Aristotle, vol. I, edited by A. Bain and G. Croom Robertson, John Murray, London 1872. 709 Sottolineato in ms 5. 710 Sottolineato in ms 6. 711 Il testo di Cuvier si trova nella Histoire des Sciences naturelles, vol. I, Fortin-Masson Libraire, Paris 1841, p. 146, ma Cassirer cita dal volume di G. H. Lewes, Aristotle. A Chapter from the History of Science, Smith Elder and Co., London 1864. La citazione non si trova in ms 270 ma in ms 269. 712 Sottolineato in ms 6. 713 Cassirer probabilmente cita dalla seguente edizione: C. Darwin, Life and Letters, 3 vols., edited by Francis Darwin, John Murray, London 1887. 714 “Plato’s” in ms 6. 715 Sottolineato in ms 7. 716 Sottolineato in ms 9. 717 “it regards the conception of knowledge and truth” eliminato in ms 10. 718 “or apriorist” eliminato in ms 10. 719 Sottolineato in ms 10. 720 “a very inadequate one” eliminato in ms 10. 721 Sottolineato in ms 11. 722 Sottolineato in ms 11. 723 Sottolineato in ms 11. 724 “highest” eliminato in ms 11. 725 Sottolineato in ms 12. 726 “or theory” eliminato in ms 12. 727 Sottolineato in ms 12. 728 Sottolineato in ms 12. 729 Sottolineato in ms 12. 730 Sottolineato in ms 12. 731 “and truth” eliminato in ms 13. 732 “can not” in ms 13. 733 Sottolineato in ms 13. 734 “of any special restricted province or kind of being” eliminato in ms 13. 735 Sottolineato in ms 14. 736 “lecture notes he had prepared” eliminato in ms 14. 707 708

944

NOTE DI CRITICA DEL TESTO INGLESE

737 “These lecture-notes had a very[;] After the death of Aristotle, these manuscripts were bequeathed[;] These lecture-notes were in the possession of Theophrastus, his pupil and successor, who bequeathed them to Neleus of Scepsis, a friend and pupil” eliminato in ms 14. 738 “better and more correct” eliminato in ms 15. 739 Sottolineato in ms 16. 740 “treatise” eliminato in ms 16. 741 “or knowledge” eliminato in ms 16. 742 “first philosophy or” eliminato in ms 17. 743 “we find” eliminato in ms 21. 744 Sottolineato in ms 22. 745 Sottolineato in ms 22. 746 Sottolineato in ms 22. 747 Sottolineato in ms 22. 748 Sottolineato in ms 22. 749 “be on our guard against” eliminato in ms 24. 750 “so called” in ms 24. 751 “once for all” in ms 25. 752 Sottolineato in ms 25. 753 Prima versione di p. 26 eliminata da Cassirer: “It is a rather remarkable fact that even the term “organic” was not used before the time of Aristotle”. [eliminato: “he seems to be the first inventor of this term. As it seems it first appears in his treatise “de anima”, he was the first to use it in our modern scientific sense. The best definition is given in Aristotle’s De Anima – On the soul. Here the soul itself is defined as “the first entelechy of an organic physical body” [citazione]. That sounds rather obscure – but it is not difficult to find the right interpretation if we look at the facts of organic life. Whatever is destined to live must, first of all, have a bodily structure apt for this purpose. It must have “organs” – that means: instruments or implements of life. We speak of sense-organs; but they are only a special case. An organ, in a general sense, every bodily instrument than in any sense helps to preserve the life of an organism. The higher we ascend”. 754 Sottolineato in ms 26. 755 “different means and” eliminato in ms 27. 756 Sottolineato in ms 27. 757 “fundamental” eliminato in ms 28. 758 “is the” eliminato in ms 28. 759 “possibility” eliminato in ms 28.

NOTE 737-793

945

Sottolineato in ms 28. Sottolineato in ms 29. 762 Sottolineato in ms 29. 763 “divid” in ms 29. 764 “Aristole’s” in ms 30. 765 Sottolineato in ms 30. 766 “her” in ms 31. 767 “her” in ms 31. 768 “her” in ms 31. 769 “her” in ms 31. 770 “her” in ms 31. 771 “she” in ms 31. 772 “she” in ms 31. 773 “she” in ms 32. 774 Sottolineato in ms 32. 775 “she” in ms 32. 776 “she” in ms 32. 777 Fine di p. 32. Il manoscritto continua con p. 32a. La prima metà di questa pagina eliminate da Cassirer. 778 Sottolineato in ms 32b. 779 Sottolineato in ms 32c. 780 Eliminato da Cassirer in ms 32c: “and by those Presocratic schools that upheld the doctrine that the soul and the body are two radically separated substances which are only accidentally and temporarily united during the life of a man”. 781 Sottolineato in ms 32c. 782 Sottolineato in ms 32c. 783 Cassirer non indica alcun ommissis. Probabilmente cita da W. D. Ross (ed.), Aristotle Selections, Oxford University Press, Oxford 1927, pp. 201-202. 784 Sottolineato in ms 33. 785 Sottolineato in ms 35. 786 Parola illeggibile in ms 35. 787 Sottolineato in ms 36. 788 Sottolineato in ms 37. 789 Sottolineato in ms 39. 790 “and harmonizes” eliminato in ms 39. 791 Sottolineato in ms 41. 792 “can not” in ms 41. 793 Sottolineato in ms 41. 760 761

946

NOTE DI CRITICA DEL TESTO INGLESE

794 Cassirer probabilmente cita da W. D. Ross (ed.), Aristotle Selections, p. 31. 795 Sottolineato in ms 42. 796 Sottolineato in ms 42. 797 Sottolineato in ms 43. 798 Sottolineato in ms 46. 799 “Each of them has a motion of its own – a specific form of motion” eliminato in ms 47. 800 Sottolineato in ms 47. 801 Sottolineato in ms 47. 802 Sottolineato in ms 47. 803 Sottolineato in ms 49. 804 Tra p. 49 e p. 50 manca una parola. Riteniamo probabile la parola “activity”. 805 Fine di p. 52. All’inizio di p. 53 il seguente passo viene eliminato da Cassirer: “After this general survey of Aristotle’s psychological and biological principles”. 806 “of Plato’s” in ms 53. 807 Questo brano tra parentesi quadre si trova in nota nel manoscritto (p. 54), ma Cassirer lascia intendere che avrebbe voluto posizionarlo in questa parte del testo. 808 Sottolineato in ms 54a. 809 Sottolineato in ms 54a. 810 Sottolineato in ms 54c. 811 Sottolineato in ms 54c. 812 Sottolineato in ms 54c. 813 Sottolineato in ms 54c. 814 Sottolineato in ms 54c. 815 Sottolineato in ms 54d. 816 Sottolineato in ms 54d. 817 Sottolineato in ms 55. 818 Sottolineato in ms 55. 819 Un’altra versione di p. 55 eliminata. 820 Sottolineato in ms 57. 821 “must be very careful not” eliminato in ms 59. 822 “water” in ms 60. 823 “every movement comes to rest after a certain” eliminato in ms 61. 824 “moves” in ms 61. 825 “Aristotle’s” in ms 63. 826 “de Caelo” in ms 63.

NOTE 794-862

947

“movement” in ms 64. Omissis non segnalato in ms 64. 829 Omissis non segnalato in ms 65. 830 Sottolineato in ms 66. 831 Sottolineato in ms 69. 832 “was” in ms 69. 833 “star” in ms 69. 834 Sottolineato in ms 71. 835 Sottolineato in ms 72. 836 Sottolineato in ms 73. 837 “these both” in ms 74. 838 “medieval” eliminato in ms 75. 839 Omissis non segnalato in ms 76. 840 Omissis non segnalato in ms 76. 841 Sottolineato in ms 76. 842 “must choose” eliminato in ms 78. 843 Sottolineato in ms 81. 844 Sottolineato in ms 82. 845 “into touch” in ms 86. 846 “heapiness” in ms 83. 847 Sottolineato in ms 83. 848 “Gods” in ms 84. 849 “Divina Comedia” in ms 84. 850 “we must bear in mind” eliminato in ms 85. 851 Sottolineato in ms 86. 852 Probabilmente Cassirer cita da: W. T. Stace, A Critical History of Greek Philosophy, Macmillan and Co., London 1920. 853 Omissis non segnalato in ms 87. 854 Sottolineato in ms 87. 855 Sottolineato in ms 87. 856 Sottolineato in ms 88. 857 Sottolineato in ms 88. 858 Cassirer allude a H. Bergson, L’Évolution créatrice, Félix Alcan, Paris 1907. 859 Paragrafo inserito da Cassirer in ms 90. 860 Sottolineato in ms 92. 861 Sottolineato in ms 93. 862 Cassirer probabilmente allude a Jean de La Bruyére, Les Caractères ou Les Mœurs de ce Siècle (1688), che conteneva in appendice una versione francese del già citato scritto di Teofrasto. 827 828

948

NOTE DI CRITICA DEL TESTO INGLESE

Sottolineato in ms 93. “a sort of” eliminato in ms 95. 865 Sottolineato in ms 95. 866 “it is their ‘ratio essendi’ and their ‘ratio cognoscendi’” eliminato in ms 96. 867 “is” in ms 96. 868 Sottolineato in ms 96. 869 Sottolineato in ms 98. 870 Parola illeggibile in ms 99. 871 “In Politics” eliminato in ms 100. 872 “never was a radical” eliminato in ms 100. 873 “subject matter” in ms 102. 874 La citazione si trova in realtà in ms 285 e in ms 288. 875 “exactements” in ms 107. 876 Sottolineato in ms 108. 877 Sottolineato in ms 108. 878 “of the Platonic Academy” eliminato in ms 108. 879 Nel dattiloscritto, in ms 43, questo passo (p. 110 del manoscritto) non viene riportato o probabilmente ritenuto illeggibile. Il passo – che qui riportiamo – è in realtà perfettamente leggibile: “a translation that, as far as I can see, has been adopted in the best english versions” 880 “Litterary” in ms 110. 881 “wide-spread” in ms 111. 882 Tutti gli omissis – pp. 113-114 del manoscritto – non segnalati da Cassirer. 883 “ophthalmonia” in ms 115. 884 Sottolineato in ms 116. 885 Sottolineato in ms 118. 886 Sottolineato in ms 119. 887 Sottolineato in ms 120. 888 Fine di p. 120. Segue una pagina non numerata. 889 Sottolineato nella pagina non numerata. 890 “and I hope that most of you will have an opportunity to study the subject in the courses given by Mr. Fitch and Mr. Beardsley. So I wish to employ the few hours that we are left for giving you”, eliminato nella pagina non numerata. I colleghi menzionati da Cassirer sono Frederic Fitch e Monroe Beardsley con i quali – come egli stesso precisa nella prefazione a An Essay on Man – aveva tenuto dei seminari congiunti di filosofia della storia, filosofia della scienza 863 864

NOTE 863-921

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e teoria della conoscenza (assieme a Charles Hendel, Hajo Holborn, Filmer Stuart Cuckow Northrop, Henri Margenau e Charles Stevenson). Cfr. E. Cassirer, Gesammelte Werke, Band 23: An Essay on Man. An Introduction to a Philosophy of Human Culture, Herausgegeben von M. Lukay, Meiner Verlag, Hamburg 2006, p. 3. 891 Manoscritto appartenente al gruppo Gen. 98, Box 36, folder 687. La numerazione va da p. 1 in ms 27. Yale 1942. 892 Paragrafo redazionale. 893 Sottolineato in ms 1. 894 “Epiktetus” in ms 1. 895 Paragrafo redazionale. 896 Sottolineato in ms 3. 897 Sottolineato in ms 3. 898 Sottolineato in ms 3. 899 Sottolineato in ms 4. 900 “is was” in ms 5. 901 Sottolineato in ms 7. 902 Sottolineato in ms 7. 903 Cassirer non fornisce alcun dettaglio bibliografico. Probabilmente cita da G. Murray, The Stoic Philosophy, Conway Memorial Lecture, delivered at South Place Institute, March 16, 1915, G. P. Putnam’s Sons, New York-London 1915, p. 37 e non p. 32. 904 “consists” in ms 10. 905 Sottolineato in ms 10. 906 Sottolineato in ms 10. 907 “integrant” in ms 10. 908 “thing” in ms 11. 909 “his” in ms 13. 910 “of” in ms 14. 911 “complety” in ms 14. 912 “of” in ms 14. 913 “paradoxically” in ms 15. 914 “distinction” in ms 16. 915 Sottolineato in ms 17. 916 Sottolineato in ms 18. 917 “of” in ms 18. 918 Sottolineato in ms 18. 919 “book” in ms 24. 920 “as a” in ms 25. Sottolineato. 921 Omissis non segnalato da Cassirer. “V, 15” e non “V, 14, 15”.

950

NOTE DI CRITICA DEL TESTO INGLESE

Omissis non segnalato da Cassirer. “here” in ms 26. 924 “there who are two” in ms 26. 925 Questa parte tra parentesi quadre non corrisponde alla versione di R. C. Haines (p. 71). Ecco la versione di Haines: «One, that objective things do not lay hold of the soul, but stand quiescent without; while disturbances are but the outcome of that opinion which is within us. A second, that all this visible world changes in a moment, and will be no more; and continually be – think thee to the changes of how many things thou hast already been a witness. ‘The Universe-mutation: Life-opinion». 926 Manoscritto appartenente al gruppo Gen. 98, Box 36, folder 688. Yale 1942. La numerazione va da p. 28 in ms 42. Paragrafo redazionale. 927 “ineradicable” in ms 31. 928 Sottolineato in ms 31. 929 Sottolineato in ms 31. 930 “means” in ms 32. 931 Sottolineato in ms 33. 932 Sottolineato in ms 33. 933 Sottolineato in ms 33. 934 “of” in ms 38. 935 “once for all” in ms 39. 936 “belief” in ms 40. 937 Cassirer, probabilmente, cita da E. Taylor, Epicurus, Constable & Company Ltd., London 1911, p. 77. 938 Cassirer, in ms 42, non segnala l’omissis. 939 Cassirer, in ms 42, non segnala l’omissis. 940 Manoscritto appartenente al gruppo Gen. 98, Box 36, folder 689. Manoscritto di 8 pp. Contiene anche un inserto non numerato di 6 pp. dedicato ad Aristotele che non riportiamo per diverse ragioni. In primo luogo, viene affrontato il problema della democrazia in Aristotele, già trattato nel capitolo IX; in secondo luogo il manoscritto si interrompe bruscamente. 941 Paragrafo redazionale. 942 Probabilmente Cassirer cita da E. Zeller, Outlines of the History of Greek Philosophy, Routledge & Keagan, London 1931, p. 291. 943 Paragrafo redazionale. 944 Sottolinato in ms 3. 922 923

NOTE 922-956

951

Corsivo nostro. “her” in ms 3. 947 Sottolineato in ms 5. 948 Sottolineato in ms 5. 949 Sottolineato in ms 6. 950 “world soul” in ms 6. 951 “this” in ms 6. 952 Sottolineato in ms 6. 953 “worlds” in ms 7. 954 “sense-phenomena” in ms 8. 955 Fine di p. 8. Nota di Cassirer: “124”. A seguire il già citato manoscritto su Aristotele (contrassegnato da lettere e non da numeri – dalla lettera “a” alla lettera “e”). Due pagine numerate (189 e 190) ed infine una conclusione con la quale Cassirer ringrazia i suoi studenti americani (cfr. la conclusione). 956 Questa pagina non numerata, come già accennato, si trova nel Box 36, folder 689. 945 946

NOTE ALLA TRADUZIONE ITALIANA

In realtà nella Critica della ragion pura non v’è traccia del brano citato da Cassirer. Esso si trova in una nota di I. Kant, Über eine Entdeckung, nach der alle neue Kritik der reinen Vernunft durch eine ältere entbehrlich gemacht werden soll (1790), in Id., Gesammelte Werke, Akademieausgabe, Abteilung 1, vol. VIII: Abhandlungen nach 1781, Walter de Gruyter, Berlin-Leipzig 1923, p. 218 n.: «es gibt keinen klassischen Autor der Philosophie». 2 La frase di Descartes alla qualle allude Cassirer è la seguente: «Il buon senso è al mondo la cosa meglio distribuita», R. Descartes, Discorso sul metodo, in Id., Opere 1637-1649, a cura di G. Bel­ gioioso, Bompiani, Milano 2012, p. 25. 3 F. Bacone, Nuovo Organo, a cura di M. Marchetto, Rusconi, Milano 1998, pp. 157-159. 4 Cfr. Id., Il parto mascolino del tempo o l’interpretazione della natura, in Id., Opere filosofiche, vol. 1, a cura di E. De Mas, Laterza, Roma-Bari 1965, p. 41: «Si chiami ora alla sbarra Platone, sofista sfacciato, gonfio di poesia, tutto preso da folli questioni teologiche». 5 Non sappiamo chi guidò Cassirer nella visita al laboratorio di Huygens, poiché in merito non disponiamo di notizie sufficienti; ma diverse fonti ci informano che, nel marzo 1935, Ernst effettuò un ciclo di conferenze a Den Haag, Amsterdam e Utrecht. Alle conferenze di Amsterdam era stato invitato dal fenomenologo Hendrik J. Pos. Cfr. T. Cassirer, Mein Leben mit Ernst Cassirer, cit., p. 170 e H. Paetzold, Ernst Cassirer – Von Marburg nach New York. Eine philosophische Biographie, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1995, p. 109. Si vedano anche le seguenti missive indirizzate a Pos: Ernst Cassirer an Hendrik Josephus Pos, 22. Januar 1935 e Ernst Cassirer an Hendrik Josephus Pos, 2. März 1935, entrambe in Id., Nachgelassene Manuskripte und Texte, Band 18: Ausgewählter wissenschaftlicher Briefwechsel, Hrsg. von John Michael Krois unter Mitarbeit von Marion Lauschke, Claus Rosenkranz und Marcel Simon-Gadhof, Begründet von Klaus Christian Köhnke, John Michael Krois und Oswald Schwemmer, Hamburg 2009, DVD, Lettera n. 976 e n. 990. 6 Cfr. G. Murray, The Classical Tradition in Poetry, Oxford University Press, Oxford 1927. 1

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NOTE ALLA TRADUZIONE ITALIANA

7 G. Galilei, Lettera a Kepler, Padova, 19 agosto 1610, in Id., Le opere, sotto la direzione di A. Favaro, vol. 10, G. Barbera, Firenze 1900, p. 423. 8 Cfr. J. Locke, Saggio sull’intelletto umano, a cura di M. e N. Abbagnano, U.T.E.T., Torino 1996, p. 62. 9 Cfr. W. James, The varieties of religious experience. A study in human nature, Longman Green and Co., New York-London-Bombay 1902. 10 Erodoto, Storie, Libro II, 53, a cura di A. Colonna e F. Bevilacqua, vol. I, UTET, Torino 1998. Cassirer non fornisce alcuna indicazione bibliografica, ma molto probabilmente ha ripreso la citazione da G. Murray, Five Stages of Greek Religion, Oxford University Press, London 1925, p. 64. 11 Eraclito, fr. 12, in Tutti i frammenti, trad. it di B. Salucci, Le Monnier, Firenze 1967. Cassirer non virgoletta questo frammento di Eraclito. 12 Il testo al quale fa riferimento Cassirer è costituito da una serie di lezioni che Gilbert Murray tenne alla Columbia University nell’aprile del 1912: cfr. G. Murray, Four Stages of Greek Religion, Columbia University Press, New York 1912. 13 Id., Four Stages of Greek Religion, cit., p. 69. 14 Platone, Teeteto 174B. Cassirer non virgoletta il brano. 15 L’opera in questione è J. Burnet, Early Greek Philosophy, A. and C. Black, London-Edinburgh 1892. Non sappiamo, in mancanza di riferimenti bibliografici, se Cassirer faccia riferimento a questa prima edizione o a edizioni successive. 16 Yggdrasill è termine di origine nordica che in tedesco viene reso con Weltesche. Nella mitologia nordica esso indica per l’appunto il frassino (Esche) che si trova al centro del mondo (Welt). Cassirer nel manoscritto usa la parola World-Ash, “Frassino cosmico”, traduzione letterale di Weltesche. 17 Corsivo nostro. 18 Bronisław Malinoswki morì il 16 maggio 1942 a New Haven. 19 Cassirer menziona il racconto, ma non riporta il brano all’interno del manoscritto. Probabilmente il filosofo delle forme simboliche alludeva alle seguenti pagine dello scritto The Foundations of Faith and Morals del 1936: «The very existence of the other world and its place beneath the surface of the earth, in a different dimension, so to speak, is established by the story which might be called the Trobriand “myth of myths” about the first arrival of human be-

NOTE 7-19

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ings on earth. Humanity, once upon a time, led an existence similar to that which the spirits now lead underground, in a shadowy world different from the present one. From thence they ascended to earth by crawling out through places of emergence, “holes” or “houses” as they are called. The fact of broken existence, that is, the fact of death and continuance afterwards, is embodied in a tale of original immortality, of its loss, and of its partial retention in the survival after death. Originally everyone was able to rejuvenate by the process now observed in snakes and other reptiles, by sloughing the skin. This might have continued up to the present, but for an original error or lapse of an innocent girl. It happened in the village of Bwadela. An old woman who dwelt there with her daughter and granddaugthter went out one day for her regular rejuvenation trick. She took off her skin and threw it on the waters of a tidal creek, which, however, did not carry it away, as it was caught on a bush and stuck there. Rejuvenated, she came back as a young girl and joined her granddaughter, who was sitting at a distance. But the girl, instead of welcoming her grandmother, failed to recognize her, was frightened, and drove her away – a very serious insult among Trobrianders. The old woman, hurt and angry, went to the creek, picked up her old skin, donned it again and came back in her wrinkled and decrepit form. From that moment, and in the fulfilment of the curse which the old woman put on her daughter and granddaughter, the rejuvenation process was lost once and for ever. […] This story obviously receives its full significance only when we place it within the context of belief about death, immortality, and the communion between the living and the dead. On this last point the story is supplemented by another myth. For, though human beings lost immortality and eventually died, yet the ghosts remained in the villages and took part in ordinary life, even as these spirits now do on their annual return after harvest. It was only when one of the poor invisible ghosts, sneaking in at mealtime and snatching the crumbs of the living, was scalded with hot broth, that a new crisis arrived. After the spirit has expostulated, she, for it again was a woman, was told by her daughter, “Oh, I thought you were away, I thought you were only returning after harvest”. The old woman, with insult and mortification added to injury, retorted, “Good, I shall go to Tuma and live in the underworld”. From that time on, the spirits have dwelt in their own realm and returned only once a year. There is another set of beliefs, essential to our understanding of the Trobrianders’

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NOTE ALLA TRADUZIONE ITALIANA

attitude towards life and death and survival. These natives might be said hardly to recognize death as an inevitable event, inextricably bound up with the process of life and setting a natural term to it. Although they will admit that some people might die of old age or of an accident, yet in the course of my inquiries I never came across a single concrete case of “natural death”. Every form of disease was conceived as the result of witchcraft. An old man may be more susceptible to witchcraft, but the real cause of his death is always a specific act of sorcery, to which also are attributed all the fatal accidents», B. Malinowski, The Foundations of Faith and Morals, Oxford University Press, London 1936, pp. 16-18. 20 Nix, nella mitologia nordica, indica appunto uno spirito d’acqua capace di assumere anche forma umana. 21 Cassirer cita dall’opera di J. Burnet, op. cit., p. 52. Cfr. Simplicio, Phys., 24, 13, in I Presocratici. Testimonianze e frammenti, frammento B 1, tomo primo, a cura di G. Giannantoni, Mondadori, Milano 2009. 22 Cassirer fa riferimento al verso di Orazio “le membra sparse del poeta”, tratto da Satire, 1, IV 62 (cfr. l’ed. a cura di T. Colamarino-D. Bo, UTET, Torino 2002). 23 Eraclito, fr. 31. Per i frammenti eraclitei cfr. Eraclito, Tutti i frammenti, trad. it di B. Salucci, Le Monnier, Firenze 1967. Ovviamente la numerazione dei frammenti di questa edizione non corrisponde a quella utilizzata da Cassirer. 24 Cfr. Demetrio, Lo stile, § 12, a cura di N. Marini, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2007. 25 Eraclito, fr. 13. 26 Id., fr. 15. 27 Id., fr. 34. 28 Id., fr. 78. 29 Id., fr. 80. 30 Id., fr. 37. 31 Id., fr. 39. 32 Id., fr. 1. 33 Id., fr. 12. 34 Id., fr. 21. 35 Id., fr. 22. 36 L’affermazione di Cassirer non è del tutto corretta. Aristotele nella sua Retorica riporta un altro frammento di Eraclito e non quello citato da Cassirer: «Mettere la punteggiatura a uno scritto di Era-

NOTE 20-64

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clito è un’impresa difficile perché non è chiaro se un termine debba essere collegato con il termine precedente o con quello seguente, come accade all’inizio stesso del trattato. Dice infatti: “Di questa ragione che esiste sempre ignoranti sono gli uomini”» (Aristotele, Retorica 3, 1407b, trad. it. di M. Dorati, Mondadori, Milano 1996). 37 Eraclito, fr. 50. 38 Id., fr. 31 e 30. 39 Id., fr. 78. 40 Id., fr. 1. 41 Id., fr. 46. 42 Id., fr. 45. 43 Id., fr. 48. 44 Id., fr. 60. 45 Platone, Teeteto 152 D. 46 Eraclito, fr. 91. 47 Id., fr. 92. 48 Id., fr. 94. 49 Id., fr. 82. 50 Id., fr. 85. 51 Id., fr. 42. 52 Id., fr. 102. 53 Id., fr. 115. 54 Id., fr. 117. 55 Eraclito, fr. 73. 56 Id., fr. 58. 57 Cfr. Id., fr. 74. 58 Id., fr. 71. 59 Id., fr. 66. 60 Id., fr. 104. 61 Cassirer cita da Empedokles, fragm. 129 in J. Burnet, Early Greek Philosophy, cit., p. 224. Cfr. Empedocle, fr. 133, in Id., Frammenti e testimonianze, a cura di A. Tonelli, Bompiani, Milano 2002. 62 L’opera del tedesco Rohde uscì in due volumi tra il 1890 e il 1894: cfr. E. Rohde, Psyche. Seelencult und Unsterblichkeitsglaube der Griechen, 2 Bände, Mohr, Freiburg 1890-1894. 63 Cfr. D. Laerzio, Vite e dottrine dei più celebri filosofi, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2006, p. 973. 64 È Proclo che, nel suo commento a Euclide, riporta questo frammento di Eudemo. Bisogna tuttavia precisare che l’espressione esatta non è quella di “scienza libera” (free science, come scrive

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NOTE ALLA TRADUZIONE ITALIANA

Cassirer a p. 7 del manoscritto) ma quella di “educazione libera” (ἐλεύθερα παιδεία). 65 La “ruota della nascita” indica morte e rinascita e viene designata come κύκλος ἀνάγκη (ruota della necessità). 66 Eraclito, fr. 13. 67 Empedocle, fr. 133. 68 Cfr. D. Laerzio, Vite dei filosofi, vol. I, Libro ottavo, capitolo 1, cit. 69 Cfr. Id., Vite e dottrine dei più celebri filosofi, cit., p. 949: «Era solito [Pitagora] assimilare la vita a una festa con le gare: come, infatti, alcuni vi partecipano per prendere parte alle competizioni, altri per fare commercio, altri invece, i migliori, come spettatori, così nella vita, a suo avviso, gli uni si rivelano schiavi, quelli che vanno a caccia di fama e di guadagno, gli altri invece, i filosofi, che vanno a caccia della verità. E così stanno le cose». 70 T. Gomperz, Greek Thinkers. A History of Ancient Philosophy, vol. I, John Murray, London 1901, pp. 102-103. 71 Cassirer allude a G. F. Gauss, Sartorius von Walterhausen: Gauss zum Gedächtniss, S. Hirzel, Leipzig 1856, p. 79: «Mathematik ist die Königin von Wissenschaften und Arithmetik die Königin von Mathematik». 72 Aristotele, Metafisica, 896b-987a. 73 Filolao, fr. 145, in Pitagorici antichi. Testimonianze e frammenti, a cura di M. Timpanaro Cardini, Bompiani, Milano 2010. 74 A questo punto (p. 45) Cassirer rimanda direttamente a p. 46, la cui prima metà è stata eliminata. Ecco il testo: “Aristotle speaks of these Pythagorean constructions with an unmistakeable irony. The Pythagoreans – he says – «have collected and fitted together any points of agreement they could discover between the numbers and harmonies on the one side and the parts of heaven on the other». [«]And if there was a gap anywhere, they readily made additions so as to make their whole theory coherent. F. i. as the number 10 is thought to be perfect and to comprise the whole nature of numbers they say that the bodies which move through the heaven are ten, but as the visible bodies are only nine to meet this they invent a tenth – the counter earth[»] (Aristotle, Metaphys. A5, 986a). 75 T. Gomperz, Greek Thinkers, vol. I, cit., pp. 116-117 e non 117. 76 Senofane, fr. 8, in I Presocratici. Testimonianze e frammenti, tomo I, cit. 77 Id., fr. 15.

NOTE 65-96

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Aristotele, Metafisica, 986b. Senofane, fr. 24-25. 80 Parmenide, fr. 2, in Id., Poema sulla natura, a cura di C. Cerri, Fabbri Editori, Bergamo 1999. 81 Id., fr. 7-8. 82 Ibidem. 83 Eraclito, fr. 94. 84 Id., fr. 63. 85 Id., fr. 66. 86 Parmenide, fr. 6. 87 Platone, Parmenide, 128A-E. 88 Cfr. P. Tannery, Pour l’histoire de la science hellène. De Thalès a Empédocle, Félix Alcan, Paris 1887. 89 Platone, Parmenide, 128A-E. 90 Platone, Teeteto, 183 E. 91 Empedocle, fr. 6. 92 Id., fr. 22. 93 Id., fr. 31. 94 Id., fr. 71. 95 Cfr. Aristotele, Protreptico, fr. 11, in Id., Opere, vol. 11, Laterza, Roma-Bari 1993: «E si dice che Anassagora, essendogli stato richiesto per quale ragione uno sceglierebbe di essere generato e di vivere, abbia risposto alla domanda: “per contemplare il cielo, gli astri che sono in esso, il sole e la luna”». Tuttavia, l’aneddoto concernente il “patrimonio” si trova non in Aristotele ma in Diogene Laerzio, Vite e dottrine dei più celebri filosofi, cit., p. 151: «Anassagora si distingueva per la nobiltà di stirpe e per la ricchezza, ma anche per la magnanimità, dato che cedette il suo patrimonio ai familiari». 96 Cassirer, con ogni probabilità, fa riferimento al frammento 910 di Euripide, i cui versi vengono generalmente attribuiti alla tragedia – andata perduta – Antiope. Uno dei primi ad aver richiamato l’attenzione su di esso è stato Burnet col suo volume Early Greek Philosophy, cit., p. 28. Una prima ricostruzione dell’Antiope di Euripide è stata curata dal grande filologo classico tedesco Johann August Nauck, autore della nota raccolta Tragicorum Graecorum Fragmenta. Il frammento 910 (ed. Nauck) così recita: «felice chi possiede la scienza della ricerca scientifica e non reca danno ai cittadini, né spinge ad azioni ingiuste, ma contempla l’ordine senza tempo della physis immortale [ὄλβιος ὅστις τῆς ἱστορίας ἔσχε μάθησιν μήτε πολιτῶν ἐπὶ πημοσύνη μήτ’εἰς ἀδίκους πράξεις 78 79

960

NOTE ALLA TRADUZIONE ITALIANA

ὁρμῶν, ἀλλ’ ἀθανάτου καθορῶν φύσεως κόσμον ἀγήρων]» (Euripide, Fr. 910, in J. A. Nauck, Tragicorum Graecorum Fragmenta, Teubner, Leipzig 1888, p. 654). 97 Anassagora, fr. 17, in I Presocratici. Testimonianze e frammenti, cit. 98 Id., fr. 5. 99 Empedocle, fr. 1. 100 Anassagora, fr. 3. 101 Id., fr. 1 e 4. 102 Id., fr. 8. 103 Id., fr. 12. 104 Platone, Fedone, 98 B-C. 105 Leucippo, fr. 2, in Atomisti antichi. Testimonianze e frammenti, a cura di M. Andolfo, Rusconi, Milano 1999. 106 Eraclito, fr. 15. 107 Platone, Protagora, 318 E-319 A e non 318 E come segnala Cassirer a p. 7 del manoscritto. 108 Questo passo, virgolettato da Cassirer ma privo di ogni riferimento bibliografico, viene citato da Aristotele nella sua Retorica: cfr. Aristotele, Retorica, 1402a 23, a cura di M. Dorati, Mondadori, Milano 1996. 109 Scrive infatti Aristotele (Confutazioni sofistiche, 1, 165a, 2025, in Id., Opere, vol. 2, Laterza, Roma-Bari 1973): «la sofistica è infatti una sapienza apparente ma non reale, ed il sofista è un individuo che cerca di trarre un guadagno da una sapienza apparente ma non reale». 110 D. Laerzio, Vite e dottrine dei più celebri filosofi, cit., p. 949. 111 Senofane, fr. 2, in Id., Testimonianze e frammenti, a cura di M. Untersteiner, La Nuova Italia, Firenze 1956. 112 Platone, Protagora, 310 B. 113 Con ogni probabilità, Cassirer fa riferimento al seguente brano di W. Jaeger, Paideia, vol. III, trad. it. di A. Setti, La Nuova Italia, Firenze 1967, p. 81: «Questi [i Sofisti] erano già morti e per metà dimenticati, quando Platone scriveva; il secolo era di quelli che vanno in fretta, e non ci voleva meno della grande arte di Platone per evocar dalle ombre quelle celebrità del passato e ridarle vive, operanti con tutto il loro mondo. Quando Platone disegnava le caricature di quei maestri […] un’altra generazione ne aveva preso il posto: e son questi nuovi che Platone vuol colpire insieme ai vecchi».

NOTE 97-124

961

114 Il passo aristotelico al quale fa riferimento Cassirer è il seguente (Aristotele, Metafisica, III, 998a): «Le linee sensibili non corrispondono alle definizioni del geometra, perché nessuna cosa sensibile è retta o curva nel senso della geometria, e infatti il regolo tocca il cerchio non in un solo punto, ma nel modo al quale si riferiva Protagora confutando i geometri». 115 Scrive Hume, Trattato sulla natura umana, a cura di P. Guglielmoni, Bompiani, Milano 2005, p. 161: «[…] la geometria, ossia l’arte con cui stabiliamo le proporzioni delle figure, supera in universalità ed esattezza i vaghi giudizi dei sensi e dell’immaginazione; e che, tuttavia, non raggiunge mai una precisione perfetta. I suoi princìpi primi sono sempre ricavati dall’apparenza generale degli oggetti; e questa, prendendo in considerazione la prodigiosa minutezza di cui è capace la natura, non può in nessun modo rassicurarci. Le nostre idee sembrano assicurarci che due linee rette non possano mai avere un segmento in comune; ma, se consideriamo queste idee, troveremo sempre che in realtà esse presuppongono sempre un’inclinazione sensibile delle due linee, e che, dovunque l’angolo che esse formano sia particolarmente piccolo, non abbiamo alcun modello di linea retta tanto preciso da assicurarci della verità di una tale proposizione». 116 Platone, Simposio, 215 C-D. Cassirer virgoletta il brano ma non fornisce alcun dato bibliografico. 117 Id., Menone, 80 A-B e non 79 E, come segnala Cassirer a p. 39 del manoscritto. 118 Cassirer fa evidentemente riferimento a Cicerone, Discussioni tusculane, Libro V, 4, § 10 (in Id., Opere politiche e filosofiche, vol. II, a cura di N. Marinone, U.T.E.T., Torino 1955, p. 445): «Socrate fu il primo che fece scendere la filosofia dal cielo, la trasferì nelle città» (Socrates autem primus philosophiam devocavit e caelo et in urbibus collocavit). 119 Platone, Fedro, 230 D. Cassirer non fornisce alcun dato bibliografico. 120 Eraclito, fr. 117. 121 Empedocle, fr. 71. 122 Platone, Protagora 345 E. Cassirer virgoletta il brano ma non fornisce alcun dato bibliografico. 123 Cfr. D. Erasmus, Colloquia familiaria et encomium moriae, Ottonis Holtze, Lipsiae 1892, p. 126. 124 Ricordiamo che questo passo attribuito a Protagora, viene citato da Aristotele nella sua Retorica: cfr. Aristotele, Retorica,

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NOTE ALLA TRADUZIONE ITALIANA

1042a 23, ma è presente anche in Aristofane, Le nuvole, a cura di A. Grilli, Rizzoli, Milano 2010. 125 Platone, Repubblica, VII, 518 C. 126 Id., Teeteto, 150 D. 127 Id., Apologia di Socrate, 38 A. 128 Cfr. M. Ficino, Della religione christiana, Giunti, Firenze 1568. 129 Cfr. F. Schleiermacher, Über die Philosophie Platons: Die Einleitungen zur Übersetzung des Platon (1804-1828). Geschichte der Philosophie. Vorlesungen über Sokrates und Platon (zwischen 1819 und 1823), Herausgegeben von Peter M. Steiner, Andreas Arndt, Jörg Jantzen, Meiner Verlag, Hamburg 2013. 130 Cfr. R. H. Lotze, Logik, Drittes Bruch: Vom Erkennen, Herausgegeben von G. Gabriel, Meiner Verlag, Hamburg 1989, p. 42. 131 E. Zeller, Platonische Studien, C. F. Osiander, Tübingen 1839. 132 P. Natorp, Platons Ideenlehre (1903), Meiner Verlag, Hamburg 2004. 133 Platone, Sofista, 242 C-244 B. 134 Il riferimento a Platone a p. 23 del manoscritto non è del tutto corretto: in realtà il passo platonico si trova in 152 D e 183 B. 135 In realtà 184B. 136 Id., Teeteto, 152 D-183 B. 137 Id., Fedone, 99 D-E. 138 Id., Teeteto, 157 B. 139 Id., Cratilo, 438 D. 140 Platone, Fedone, 74 A-C. 141 Id., Filebo, 62 A-C. 142 Id., Fedone, 75 A-E. 143 Id., Fedro, 245 D (non 245 C come indica Cassirer nel manoscritto). 144 Cassirer allude al seguente brano (Platone, Teeteto, 183 B): «se tutto si muove, ogni risposta, su qualunque argomento si risponda, è del pari corretta, dire sia che è così, sia che non è così, e, se vuoi, che diviene così o non così, per non fermare con la parola proprio loro». 145 Id., Teeteto, 184 D. 146 Id., Teeteto, 184 C-D. A pp. 90-91 del manoscritto non viene riportata la paginazione del dialogo. 147 Id., Fedone, 65 B, 66 E. Nel manoscritto a p. 93 Cassirer indica erroneamente 65 D, 66 D.

NOTE 125-171

963

148 Id., Teeteto, 185 C, 185 E. Cassirer erroneamente indica Tee­ teto, 185 D. 149 Id., Repubblica, VI, 505 A-E, 509 A-C. 150 Id., Teeteto, 176 A-B. 151 Id., Repubblica, 500 C (non 500 B come segnala Cassirer a p. 105 del manoscritto). 152 Ibid., 519 D. 153 Id., Fedone 98 C-E e 99 A (e non 98 C come segnala Cassirer). 154 Ibid., 99 B. 155 Cassirer, a p. 113 del manoscritto, scrive: “the phenomena, aim at being some other thing, but fall short of, and cannot be that other thing but remain always inferior”. Questo passo corrisponde quasi letteralmente al seguente brano del Fedone: «the object aims at being some other thing, but falls short of, and cannot attain to it», Plato, Phaedo, 74 E, in Id., Dialogues, vol. I, edited by B. Jowett, Clarendon Press, Oxford 1861. Cfr. trad. it: «questa che io ora vedo è qualche cosa che vuole essere come un’altra, cioè come uno degli esseri che sono per sé, ma rispetto ad esso è manchevole e non riesce ad essere come quello ed è inferiore a quello». 156 Id., Timeo, 59 C. 157 Ibid., 47 A-C, e non 47 C come segnala Cassirer. 158 Ibid., 90 D. 159 Plotino, Enneadi, I, 6, 2-3, a cura di G. Faggin, Bompiani, Milano 2014. Non Enneadi I, 6, 2 come segnala Cassirer. 160 Id., Enneadi, II 9, 16, e non II 9, 6 come segnala Cassirer. 161 Id., Enneadi, V 1, 3. 162 Id., Enneadi, IV 8, 3. 163 Id., Enneadi, IV 8, 5. 164 Id., Enneadi, III 1, 10 e III 1, 9. 165 Id., Enneadi, IV, 8, 1. 166 Cfr. Id.., Enneadi, VI 9, 11 e non II 9, 11 come segnala Cassirer. Edizione Guthrie: I, 169. 167 Cfr. Platone, Fedro, 265E e non 265 D come segnala Cassirer. 168 Id., 266 B e non 265 D come segnala Cassirer. 169 Id., Simposio, 202 D-E e 203 A. 170 Agostino, La città di Dio, Libro VIII, 4, a cura di L. Alici, Bompiani, Milano 2001, p. 386. 171 Il passo di Agostino al quale Cassirer fa riferimento, ma che non cita, è il seguente (ibid., p. 387): «Visto però che egli [Platone]

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NOTE ALLA TRADUZIONE ITALIANA

intende chiaramente mantenere il notissimo comportamento, che a lui piace, del maestro Socrate, interlocutore nelle sue opere, il quale dissimula sempre il proprio sapere o la propria opinione, risulta difficile individuare anche il pensiero di Platone sui grandi problemi». 172 Agostino, La città di Dio, Libro X, 23. 173 Id., Sermo, 118. 174 Id., Soliloqui, I, 2,7 e non I, 7 come segnala Cassirer. Cfr. Id., Soliloqui, a cura di O. Grassi, Bompiani, Milano 2002. 175 Id., Confessioni, Libro I, 1, a cura di A. Landi, Edizioni Paoline, Milano 1987, p. 39. Non sappiamo quale edizione abbia utilizzato Cassirer; a p. 157 del manoscritto, subito dopo la citazione, vengono riportati soltanto i seguenti dati: Confession. B. V, chap. 4, sect. 7. 176 Id., La trinità, trad. it. di G. Beschin, Città Nuova, Roma 1987, p. 257. 177 Ibid., p. 258. 178 Id., La città di Dio, Libro XI, 10, cit., p. 530. 179 In realtà Solil., 1, 6.12. 180 In realtà questo passo si trova in Fedone 66 B. 181 Id., Il libero abitrio, a cura di R. Melillo, Città Nuova, Roma 2011, p. 172. 182 Id., La vera religione, a cura di A. Pieretti, Città Nuova, Roma 1992, pp. 125-126. 183 Id., Il libero abitrio, cit., Libro II, 42. 184 Id., La vera religione, cit., cap. 30, § 56. 185 In realtà, fu il medioplatonico Numenio di Apamea ad aver per primo definito Platone “Mosè attico”. 186 Platone, Filebo, 16 D-E e 17 A. Non 16 A come segnala Cassirer. 187 Platone, Timeo, 51 C-52 A, e non 51 B come segnala Cassirer. 188 Citiamo dalla seconda edizione: Kepler, Mysterium Cosmographicum (1596), Recusus Typis Erasmi Kempferi 1621, p. 36. Cassirer ha tratto la citazione dal primo volume del suo Das Erkenntnisproblem, p. 334. 189 G. Galilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi, Tip. di F. Vigo, Livorno 1874, p. 214. Questo brano non viene posto da Cassirer tra virgolette e inoltre non sappiamo a quale edizione inglese faccia riferimento. 190 Id., Il Saggiatore, G. Mascardi, Roma 1623, p. 72. Cassirer riporta il brano originale di Galileo e una sua traduzione in inglese,

NOTE 172-207

965

ma non cita la fonte. Abbiamo notato alcuni errori di trascrizione del brano galileiano. 191 Id., Dialogo sopra i due massimi sistemi, cit., p. 475. Cassirer riportando il dato bibliografico: “Dial. IV (Alb. I, 497, Erkprobl. I, 389)”, con ogni probailità rimanda sia al primo volume dell’edizione delle opere di Galileo diretta da Eugenio Albèri (tomo I, 1842) sia al primo volume del suo Das Erkenntnisproblem riedito nel 1922, p. 389. 192 Ibid., p. 162. 193 D. Alighieri, Il convivio, a cura di F. Chiappelli e E. Fenzi, in Id., Opere minori, vol. II, UTET, Torino 1997, p. 232. Non sappiamo da quale edizione inglese Cassirer abbia tratto la citazione. 194 Id., La divina commedia, Inferno, IV, 132, a cura di S. A. Chimenz, UTET, Torino 2003. 195 In realtà Inferno IV 133. 196 I. Kant, Prefazione alla seconda edizione della Critica della ragion pura (1787), in Id., Critica della ragion pura, a cura di C. Esposito, Bompiani, Milano 2012, p. 25. Il brano citato da Cassirer non è virgolettato; non sappiamo da quale edizione inglese sia stata tratta la citazione. 197 Cfr. G. E. Lessing, Drammaturgia di Amburgo, a cura di P. Chiarini, Laterza, Bari 1975, pp. 432-433. 198 G. Grote, Aristotle, vol. I, edited by A. Bain and C. Croom Robertson, John Murray, London 1872, S. 4. 199 La citazione di Cuvier si trova in Histoire des Sciences naturelles, Bd. I, Fortin-Masson Libraire, Paris 1841, p. 146, ma Cassirer cita da G. H. Lewes, Aristotle. A Chapter from the History of Science, Smith Elder and Co., London 1864. La citazione non si trova a p. 270 ma a p. 269. 200 C. Darwin, Life and Letters, vol. 3, edited by Francis Darwin, John Murray, London 1887, p. 152. 201 Aristotele, Metafisica, 981b. 202 Id., Metafisica, 1026a. 203 Id., Metafisica, 1003b. 204 Id., Metafisica, 1076a-1077a-b. 205 Id., Dell’anima, II 3, 414b 20, trad. it di R. Laurenti, in Id., Opere, vol. 4, Laterza, Bari 2007. Cassirer virgoletta questo passo di Aristotele ma non cita la fonte. 206 Id., Dell’anima, II 1, 412b 20. 207 Ibid., II 1, 412b-413a.

966

NOTE ALLA TRADUZIONE ITALIANA

Ibid., I 3, 407b. Id., Fisica, III, I, 201a, 10, a cura di R. Radice, Bompiani, Milano 2011. 210 Id., Vita, attività e carattere degli animali: historia animalium, libri VIII, IX, a cura di A. L. Carbone, Duepunti edizioni, Palermo 2008, p. 37. Cassirer, a p. 38 del manoscritto, virgoletta il brano ma non fornisce alcun dato bibliografico. 211 Id, Analitici secondi, I (A) 31, trad. it. di G. Colli, in Id., Opere, vol. 1, Laterza, Roma-Bari 1973. 212 Ibid. 213 Id., Fisica, II (B) 15. 214 Corsivo nostro. 215 Id., Metafisica, V, 2, 1013b1. 216 Cassirer fa riferimento al seguente brano del De coelo di Aristotele (Id., Del cielo, IV, 3, 310 b, 16-19, trad. it. di O. Longo, in Id., Opere, vol. 3, Laterza, Roma-Bari 1991): «il ricercare perché il fuoco si muove verso l’alto e la terra verso il basso, equivale a chiedersi per qual motivo ciò che è soggetto a risanarsi, se si muove e si muta in quanto soggetto a risanarsi, perviene alla salute». 217 Id., Fisica, II (B) 8. 218 Id., Metafisica, 984b. 219 Id., Etica Nicomachea, I, 6, 1096b, trad. it. C. Mazzarelli, Bompiani, Milano 2000. Non 1096a come segnala Cassirer. 220 Per la precisione, Platone, Teeteto, 183 D. 221 Cfr. W. D. Ross, Aristotle, Methuen and Co., London 1923, p. 170. 222 Aristotele, Metafisica, 1041b. 223 Ibid., 1043a. 224 Id., Del cielo, I, 2, 268a-269b. 225 Id., Metafisica, II, 994a-994b. 226 Ibid., 1073b. 227 Ibid., 1072a. 228 D. Alighieri, La divina commedia, Paradiso, XXIV, 130-131. 229 Cfr. W. T. Stace, A Critical History of Greek Philosophy, Macmillan and Co., London 1920, p. 333. 230 Aristotele, Metafisica, 1072a-1073a. 231 Simplicio, fr.16, in Aristotele, Della filosofia, a cura di M. Untersteiner, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1963, p. 31. 232 Cfr. Teofrasto, I caratteri, trad. it. di G. Pasquali, Rizzoli, Milano 1979. 208 209

NOTE 208-257

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Platone, Teeteto, 176 B. Non 176 A come segnala Cassirer. Aristotele, Etica Nicomachea, I, 1094a-b. 235 Id., Metafisica, 1027b 35. 236 Id., Etica Nicomachea, VI, 4, 1140a 1. 237 Ibid. VI, 4, 1140a 15. 238 Cfr. B. Plascal, Pensieri, in Id.., Opere complete, a cura di M. V. Romeo, Bompiani, Milano 2020, p. 2625. 239 Aristotele, Politica, I(A), 5, 1254a. Non 1253b come segnala Cassirer. 240 Ibid., I(A), 1, 1252a-1253a. 241 Ibid., 1295a. 242 Ibid., III, 16, 1287a 33. 243 Cfr. Ibid., IV, 11, 1295b. 244 Id., Etica Nicomachea, X, 2, 1773a. 245 Ibid., VII, 13, 1154a. 246 Id., Etica Nicomachea, II, 6, 1106b-1107a. 247 Platone, Repubblica, X, 609 A-B. 248 Aristotele, Etica Nicomachea, X, 7, 1177a-1178b. 249 Marco Aurelio, Pensieri, Libro I, 17, in Id., Scritti, a cura di G. Cortassa, UTET, Torino 1984, pp. 241-243. Cassirer, che comunque non virgoletta il brano di Marco Aurelio, a p. 4 del manoscritto fa riferimento alla seguente edizione: Marcus Aurelius Antoninus, The Communings with himself, Libro I, 8, edited by C. R. Haines, W. Heinemann & G. P. Putnam’s Sons, London-New York 1916, p. 25. “I, 17” e non “I, 8”. 250 Lucio Anneo Seneca, Lettera 20, in Id., Lettere a Lucilio, a cura di U. Boella, UTET, Torino 1998, p. 131. Non sappiamo qual è l’edizione utilizzata da Cassirer. 251 Cfr. Id., Lettera 88, p. 609. 252 Id., Questioni naturali, VII, 25, a cura di D. Vottero, UTET, Torino 1989, pp. 709-711. Non sappiamo qual è l’edizione utilizzata da Cassirer. 253 Cfr. Id., Lettera 106, in Id., Lettere a Lucilio, cit., p. 847. 254 Aristotele, Etica Nicomachea, II, 6, 1106b 15. 255 Epicuro, Lettera a Anassarco, in Id., Opere, a cura di G. Arrighetti, Einaudi, Torino 1960, p. 384. Cassirer cita dall’edizione di Usener del 1887. 256 Id., fr. 219, in E. Usener (a cura di), Epicurea, a cura di I. Ramelli, Bompiani, Milano 2002. 257 Id., Lettera a Meneceo, in Id., Opere, cit., pp. 110-112. 233 234

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NOTE ALLA TRADUZIONE ITALIANA

Id., fr. 2, in E. Usener (a cura di), Epicurea, cit. Id., Lettera a Meneceo, in Id., Opere, cit., p. 116. 260 Cfr. Ibid., p. 112. 261 Marco Aurelio, Pensieri, III, 4, cit., p. 260. 262 Lucrezio, La natura, trad. it di B. Pinchetti, Rizzoli, Milano 1953, p. 16. 263 Epicuro, Lettera a Meneceo, in Id., Opere, cit., p. 108. 264 Ivi. 258 259

INDICE DEI NOMI Agostino di Tagaste, 515, 649, 667, 671-693, 697, 733 Albèri, Eugenio, 728, 732 Alessandro Magno (Alessan­ dro III di Macedonia), 831 Alighieri, Dante, 141, 737, 823 Ameinias, 321 Anassagora di Clazomene, 145, 377, 381-385, 401423, 427, 459, 461, 469, 503, 621, 623, 707, 777, 789, 783 Anassimandro di Mileto, 149, 179, 181, 185, 187, 195, 209, 215-219, 257, 263, 287, 321, 323, 341, 343 Anassimene di Mileto, 149, 179, 181, 185, 193, 195, 209, 217, 229, 235, 257, 287, 311341, 343, 377, 521 Andronico di Rodi, 751 Apellicone di Teo, 749, 751 Archita di Taranto, 289 Aristippo di Cirene, 847 Aristotele di Stagira, 125, 139-145, 151, 171, 187, 189, 195, 197, 209, 215, 219, 225, 243, 253, 309, 311, 315, 325, 331, 333, 385, 403, 443, 445, 457,

467, 505-509, 631, 643, 719, 723, 727, 731, 737755, 759-803, 807-811, 815-821, 825-833, 837863, 867-871, 877 Bacon, Francis, 127-133, 153, 509, 511 Bergson, Henri, 271, 827 Berkeley, George, 457 Bessarione di Trebisonda, 507 Boeckh, August, 285 Burnet, John, 181, 231, 259, 267, 269, 285, 295, 301, 303, 333, 339, 343, 389, 401, 467, 495 Callippo di Cizico, 809, 811 Cicerone, Marco Tullio, 469 Cleante di Asso, 865 Cremonini, Cesare, 141 Creso re di Lidia, 225 Crisippo di Soli, 865 Cuvier, Georges, 741 Dalton, John, 393 Darwin, Charles, 741, 799 Democrito di Abdera, 145, 149, 377, 411, 425, 427, 459, 461, 469, 471, 621, 863, 895 Descartes, René, 127, 153, 179

970

Diels, Hermann, 389 Dionisio di Siracusa, 743 Durkheim, Émile, 201

INDICE DEI NOMI

Ficino, Marsilio, 517, 693697, 733 Filolao di Crotone, 285, 289, 313 Frazer, James, 199, 201, 329

Ecateo di Mileto, 229, 231 Empedocle di Agrigento, 277, 279, 287, 293, 377, 379401, 405, 407 Epaminonda di Tebe, 289 Epicuro di Samo, 135, 847, 891-903 Epitteto di Ierapoli, 863, 887 Eraclito di Efeso, 145, 165, 223-277, 283-287, 297, 321-325, 341, 343, 349, 351, 373, 377, 379, 435, 441, 469, 471, 501, 521, 527, 545, 549, 557, 771, 863, 865, 873 Ermete Trismegisto, 697 Erodoto di Alicarnasso, 163, 181, 281, 301 Eschilo di Eleusi, 179 Esiodo di Ascra, 163, 231, 239, 327, 329 Euclide, 143, 149, 153, 281, 739 Eudemo da Rodi, 281, 297, 831 Eudosso di Cnido, 809, 811, 847 Euripide di Salamina, 293, 403, 833

James, William, 157 Jowett, Benjamin, 180, 700

Fechner, Gustav Theodor, 359, 361

Kant, Immanuel, 123, 223, 323, 451, 575, 739, 833

Galeno di Pergamo, 739 Galilei, Galileo, 133, 141, 509, 511, 693-699, 723733, 737, 807 Gauss, Carl Friedrich, 309 Gaza, Teodoro, 507 Gesù di Nazareth detto il Cristo, 167, 517, 667, 671 Giorgio di Trebisonda, 507 Gomperz, Theodor, 305, 317 Gorgia da Lentini, 433, 437 Grote, George, 741 Guthrie, Kenneth Sylvan, 646, 653, 655, 656, 661 Haines, Charles Reginald, 866, 887 Hegel, Georg Wilhelm Fried­ rich, 179, 269, 271, 825 Hume, David, 457 Huygens, Christian, 133 Ierone di Siracusa, 325 Ippia di Elide, 433, 435

INDICE DEI NOMI

Kepler, Johannes, 133, 141, 309, 319, 509, 511, 693699, 705, 707, 713-723 La Bruyère, Jean, 833 Lessing, Gotthold Ephraim, 143, 739 Leucippo di Mileto, 149, 411, 423-427, 459 Lévy-Bruhl, Lucien, 201 Lewes, George Henry, 741 Locke, John, 153, 155, 223 Lotze, Rudolf Hermann, 519 Lucrezio di Pompei, 215, 219, 381, 891, 895, 901 Malinowski, Bronisław Kasper, 211, 213 Marco Aurelio imperatore, 135, 863-867, 881, 887, 899 Maxwell, James Clerck, 429 Mosé di Goscen, 517 Murray, Gilbert, 139, 179, 293, 869 Natorp, Paul, 519 Neleo di Scepsi, 749 Newton, Isaac, 133, 393, 807 Nietzsche, Friedrich, 291, 477 Omero, 159, 163, 165, 179, 229, 231, 239, 257, 273, 327 Orazio di Venosa, 225, 291 Ovidio di Sulmona, 219, 265

971

Parmenide di Elea, 145, 233, 235, 271, 321-327, 335-355, 367, 377, 379, 387, 429, 461, 771,777, 791793, 863 Pericle di Atene, 403, 405, 439 Pitagora di Samo, 229, 231, 277-303, 307, 309, 321, 325, 369, 371, 385, 441, 445, 461, 587, 697, 765 Platone (Aristocle), 125, 129, 131, 135, 137, 145, 149, 171, 179, 181, 191, 195, 209, 225, 233, 235, 249, 253, 255, 289, 301, 313, 325, 333, 351, 353, 367, 369, 379, 423, 439, 443, 447, 451, 453, 459, 461, 465, 467, 487, 489, 493, 495, 497, 499-735, 741745, 753, 755, 759, 765, 769, 777, 779, 791-795, 809, 811, 831, 835, 839, 845, 847, 849, 851, 855, 863, 867, 869, 871, 887, 907, 913 Pletone, Gemisto, 507 Plotino di Licopoli, 125, 631, 643-653, 657, 659, 665, 669, 675, 677, 909-915 Proclo di Costantinopoli, 297 Prodico di Ceo, 433, 435 Protagora di Abdera, 323, 433, 437-441, 449-459, 563, 755

972

Rohde, Erwin, 279, 291 Ross, William David, 310, 769, 779, 781, 789 Russell, Bertrand, 367 Schleiermacher, Friedrich, 519 Scipione l’Africano, 881 Seneca, Lucio Anneo, 863, 867, 873, 887 Senofane di Colofone, 231, 321, 325-333, 337, 345, 447 Shakespeare, William, 143 Silla, Lucio Cornelio, 751 Socrate, 135, 289, 353, 379, 437, 449, 461-497, 535, 537, 557, 569-573, 601, 605, 609, 615, 617, 619, 623, 625, 635, 637, 663, 671, 701, 737, 747, 831, 837, 847, 863, 879 Spinoza, Baruch, 153, 155, 179, 223, 349, 841 Stace, Walter Terence, 825

INDICE DEI NOMI

Talete di Mileto, 149, 179185, 193-197, 209, 213217, 229, 235, 249, 257, 287, 311, 323, 341, 343, 377, 469, 521 Tannery, Paul, 367 Teeteto di Atene, 149 Teofrasto di Ereso, 151, 219, 225, 401, 749, 833 Tirannione di Samsun, 317 Tucidide di Alimo, 145 Voltaire (François-Marie Arouet), 143 Weber, Wilhelm, 359, 361 Whitehead, Alfred North, 271 Zeller, Eduard, 519, 907 Zenone d’Elea, 233, 271, 353-369, 373-377 Zenone di Cizio, 865, 867 Zoroastro (Zarathustra di Airyanem Vaejah), 697

INDICE GENERALE

Premessa di Christian Möckel

7

Prefazione di Fabio Minazzi

13

Introduzione di Giacomo Borbone Lo strano caso delle Lectures on Ancient Philosophy di Ernst Cassirer

65

Avvertenza del traduttore e ringraziamenti

91

Nota bio-bibliografica

95

Premessa, 65 Le “carte” di Cassirer, 69 Il problema della conoscenza nelle “Lectures” di Cassirer, 72

1. Nota biografica, 95 2. Indicazioni bibliografiche, 105

Bibliografia

1. Opere citate da Cassirer, 111 2. Scritti di Cassirer sulla filosofia antica, 113 3. Scritti su Cassirer e il pensiero antico, 115

111

LEZIONI SULLA FILOSOFIA ANTICA

Prima lezione introduttiva 123 Seconda lezione introduttiva 153 Cap. I. La Scuola ionica

177

Cap. II. Eraclito di Efeso

223

Cap. III. Pitagora e i Pitagorici

277

Cap. IV. La Scuola eleatica 321 Cap. V. Empedocle, Anassagora e gli Atomisti 379

974

INDICE GENERALE

Cap. VI. I Sofisti 433 Cap. VII. Socrate 461 Cap. VIII. Platone 499 Cap. IX. Aristotele 737 Cap. X. La filosofia stoica 863 Cap. XI. Il Neoplatonismo 907 Conclusione 917 Note di critica del testo inglese

919

Note alla traduzione italiana

953

Indice dei nomi

969