141 102 665KB
Italian Pages 82 Year 2014
COLLANA SAGGI PER L’ANIMA
Salvatore Brizzi
GUERRIERI METROPOLITANI Combattere fuori per vincere dentro La filosofia degli sport da combattimento
Anima Edizioni
© Anima Edizioni. Milano, 2014 © Salvatore Brizzi, 2014 © Copertina: hirko - Fotolia.com
I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche), sono riservati per tutti i paesi. Per i diritti di utilizzo contattare l’editore.
Direzione: Timoteo Falcone Redazione: Sabrina Lescio Progetto editoriale: Jonathan Falcone
ANIMA s.r.l. Gall. Unione, 1 – 20122 Milano Tel. 02 72080619 e-mail: [email protected] www.animaedizioni.it
Prima edizione: novembre 2014 Ristampe:
Tipografia Italgrafica Via Verbano, 146 28100 Novara
ISBN: 978-88-6365-268-0
Io dunque corro, ma non come chi è senza meta; faccio il pugilato, ma non come chi batte l'aria; anzi tratto duramente il mio corpo e lo trascino in schiavitù perché non succeda che dopo avere predicato agli altri, venga io stesso squalificato. San Paolo, I lettera ai Corinzi 9,26
Non si tratta di sferrare un colpo, ma di non ostacolare un colpo che sta già andando verso il suo destino. Draco Daatson
INDICE
Intro PARTE PRIMA Il colpo perfetto Il desiderio di vincere L’atleta ideale La massima prestazione L’allenatore Intervista a un campione di Muay Thai 7 domande a Mathias Gallo La morte come scopo PARTE SECONDA L’inganno di Cronos Futuro e passato La salvezza nel Qui-e-Ora La sconfitta di Cronos Esco Bibliografia
INTRO
Prima di pensare a cambiare il mondo, fare le rivoluzioni, meditare nuove costituzioni, stabilire un nuovo ordine… scendete prima di tutto nel vostro cuore, fatevi regnare l’ordine, l’armonia e la pace. Soltanto dopo, cercate delle anime che vi assomigliano e passate all’azione. Platone La nazione che insiste nel tirare una netta linea di demarcazione tra l’uomo che combatte e l’uomo che pensa, rischia che le sue lotte siano condotte da folli e i suoi pensieri siano formulati da codardi. William Francis Butler Sostiene Draco Daatson che proprio oggi – più che al tempo dei Samurai, dei Ninja o dei Templari – è indispensabile che emergano dalle macerie della civiltà occidentale nuovi monaci-guerrieri. Si deve infatti costituire una forma di “resistenza interiore” – basata quindi su solidi principi prima ancora che sull’azione – il cui scopo è “tenere le posizioni”, ossia non piegarsi all’assenza di spirito dell’epoca moderna, non corrompersi, non arrendersi nonostante ogni comportamento intorno a noi sembri folle e, soprattutto, paia muoversi in direzione contraria all’evoluzione spirituale. Servono “pilastri spirituali” capaci di reggere l’onda d’urto del Fuoco che ogni giorno di più si riversa su questo pianeta allo scopo di purificarlo. Nei prossimi anni assisteremo a un incendio della personalità in favore della liberazione dell’anima: per gli schiavi
significherà perdere tutto ed entrare in un cammino di sofferenza, per i guerrieri sarà il momento dell’affrancamento e del sollievo. Sostiene infatti Draco Daatson – e non è consigliabile contraddirlo – che non può essere concessa a nessuno una libertà esteriore maggiore di quanto ognuno non abbia saputo conquistarla interiormente. Questo libro si sarebbe anche potuto intitolare Manuale di rivoluzione sociale destinato a monaci-guerrieri, se non addirittura, in maniera più radicale, Tecnica del colpo di stato, come recita il titolo di un noto libro di Curzio Malaparte. Un’autentica rivoluzione – che sia cioè risolutiva – deve infatti essere promossa e portata avanti da autentici monaci-guerrieri, ossia uomini e donne che vivono focalizzati nel Qui-e-Ora, con il Cuore aperto e senza più paure derivanti dall’identifica- zione con un corpo e una mente. Uomini e donne che hanno realizzato di non avere più niente da perdere. Uomini e donne i cui obiettivi di vita non concernono più il soddisfacimento dei bisogni animali, in quanto sono andati “oltre se stessi”. Nessuna rivoluzione può avere successo in maniera definitiva se non viene sostenuta da uomini e donne superiori. Lo scopo di questo libro è fornire indicazioni riguardo la formazione di tali individui superiori. Faceva notare il filosofo Plutarco che “Chi sa maneggiare bene la spada è in grado di discutere meglio circa i confini della sua terra!”. Possiamo tradurre queste sue parole in termini moderni affermando che una civiltà allo sfacelo non può venire salvata dalle campagne promosse su internet o dalle proteste portate avanti su facebook, ma solo dall’animo risoluto di monaci-guerrieri addestrati a morire con onore. Sostiene Draco Daatson che chi non è pronto a morire non è pronto per la libertà. Di fronte alla morte la Fiamma del Cuore arde con la massima intensità; circostanza che non si può verificare mentre si è seduti davanti alla televisione. L’arma da impugnare è quella del Cuore, ma questo genere d’arma emerge dall’essere umano solo se viene educata, tutti i
giorni, sotto differen- ti punti di vista. Un aspetto è sicuramente quello più filosofico: la filosofia del monaco-guerriero implica che egli non senta più di essere lui l’autore delle sue azioni, in quanto “qualcosa” di superiore agisce attraverso di lui. Un altro aspetto è quello emotivo: la rabbia viene sostituita dall’impeto guerriero, l’odio dalla determinazione a combattere, la competitività nei confronti dell’avversario dalla bellezza del gesto atletico in sé. Il terzo aspetto, essenziale quanto gli altri due, è quello corporeo: addestrandosi a conoscere e gestire le sue energie fisiche il guerriero entra in contatto con Dio, che pervade il suo corpo non meno della sua anima. Risulta piuttosto evidente anche a un osservatore poco attento che l’attuale sistema scolastico depriva i bambini della sensibilità verso il loro corpo. Infatti, secondo un’interpretazione moderna piuttosto inquietante di cosa dovrebbe essere l’educazione, la scuola ha smesso di formare l’individuo a trecentosessanta gradi e si limita a prepararlo al lavoro d’ufficio. In altre parole, si va a scuola per poi trovare un lavoro e diventare dipendenti, non per comprendere come funziona il mondo. Questo slittamento verso il basso del concetto educativo porta ad assuefare i bambini e gli adolescenti all’immobilità corporea, la stessa che dovranno in seguito tollerare per otto ore in un ufficio davanti a un computer. La conoscenza viene indirizzata verso la specializzazione in un’unica attività, così che nel sistema lavorativo ognuno possa docilmente andare a ricoprire un ruolo specifico, senza nulla conoscere di tutto il resto… come formiche in un formicaio… come se il singolo non potesse più permettersi di avere come scopo la conoscenza del mondo in cui si trova, perché tutte le sue energie si devono indirizzare al mantenimento ordinato del sistema stesso. Sostiene Draco Daatson – e non c’è motivo di dubitarne – che nessun uomo e nessuna nazione sono realmente in pace se questa pace origina dalla paura di farsi male, dal timore della reazione dell’altro o dall’aggressività repressa. Non può infatti dirsi in pace chi non è capace di combattere. Possono trattare la pace solo i guerrieri, non gli schiavi.
In un mondo dove lavori per comprarti la macchina per andare al lavoro, in un mondo dove ti danno le ferie solo per riposarti affinché tu possa produrre sempre allo stesso livello, in un mondo dove l’aggressività accumulata tutti i giorni sul luogo di lavoro ha oramai come unico canale di sfogo i commenti sui social network… non puoi definirti davvero un essere umano libero… e forse nemmeno un essere umano. Un indottrinamento quotidiano che comincia già in giovane età, basato sulla “difesa della libertà e della democrazia”, fa sì che ognuno di noi dia per scontato di godere di tali principi, senza più preoccuparsi di doverli conquistare. Secondo questa forma mentis dominante, libertà e democrazia non dobbiamo ottenerle, ma solo mantenerle, in quanto già presenti nelle nostre vite. Un bel trucco davvero, poiché nessuno lotta per ottenere qualcosa che pensa di possedere già. Dirò di più… non solo pensiamo di essere liberi e democratici, ma ci adoperiamo per esportare libertà e democrazia anche in quei paesi “sfortunati” che ancora non le hanno! ΩΩΩ C’è una cosa più forte di tutti gli eserciti del mondo – sentenziava Victor Hugo – e questa è un’idea il cui momento è ormai giunto. L’intorpidita coscienza della folla è stata spinta a forza, da una cultura che oramai ha superato da tempo i suoi momenti più fulgidi, verso la filosofia del pacifismo a tutti i costi. Il combattente – uomo o donna che sia – viene spesso inteso come un’anacronistica figura appartenente “ai tempi che furono” e che non va più d’accordo con il buonismo di facciata di cui siamo rimasti prigionieri. Già… perché un’aggressività repressa che serpeggia negli uffici e nelle fabbriche e dilaga a macchia d’olio tra le fibre di una società ipocrita, può condurre solo a situazioni patologiche, soprattutto quando la paura delle reazioni dell’altro viene mascherata da perbenismo e buonismo. Il pacifismo ci viene gettato in faccia dalle cattedre delle scuole e dalle trasmissioni televisive, mentre nella realtà il numero di conflitti
armati, sostenuti direttamente o indirettamente dagli stati occidentali, è sempre in aumento. In verità non si vuole un vero pacifismo, perché a questo sistema economico non conviene, ma si vuole fare in modo che se ne stia “pacifico” solo qualcuno. La lotta deve sembrare qualcosa di moralmente sconveniente per i cittadini, non per gli eserciti… che continuano a esportare democrazia e libertà all’estero, in quanto, evidentemente, ne hanno un sovrappiù in casa propria! La contrapposizione tra pacifista e guerriero (non guerrafondaio) – come tutte le contrapposizioni – è finta. Si può essere guerrieri e avere la pace dentro. Dirò di più: sostiene Draco Daatson che si può essere davvero monaci-guerrieri solo quando si ha la pace dentro, quando il rispetto per l’altro essere umano è acquisito nel confronto diretto e non nella fuga. Tutto il resto è soldataglia ancora ferma alle espressioni del proprio mondo astrale. Per questo motivo il divenire monaciguerrieri concerne solo in parte l’apprendimento di tecniche di combattimento, mentre per il resto riguarda un percorso emotivo, mentale e, soprattutto, spirituale; dove si vanno a toccare profondità dell’anima che (oggi) non ci si aspetterebbe come risultato d’un’attività fisica. Come dice Daniele Bolelli (autore da me scoperto solo recentemente) nell’introduzione al suo ottimo Per un Cuore da Guerriero: “Geni della scienza che non sanno massaggiare una fanciulla. Artisti che non sanno correre tra le montagne. Uomini d’affari che non hanno idea di come giocare con i bambini. Casalinghe incapaci di tirare con l’arco”. Eppure la rivoluzione è già in atto: un prepotente ritorno degli sport da combattimento fra giovanissimi, giovani e anche tanti molto meno giovani. Si registra un costante incremento di iscrizioni nelle arti marziali classiche (karate, aikido, kung fu, jeet kune do) e una vera esplosione di kick boxing e muay thai (boxe thailandese). E dove tuona un fatto, statene pur certi che prima ha lampeggiato un’idea. L’idea del guerriero e della guerriera – e dei monaci-guerrieri in
particolare – sono lampi che hanno da sempre accompagnato l’evoluzione umana e impedito – o almeno ritardato fino a oggi – il definitivo compiersi del suo asservimento. Combattere fuori per vincere dentro. Questa frase non vi ricorda nulla? Ma credete davvero che Il Signore degli Anelli sia opera di fantasia e non preciso ricordo delle magie che abbiamo compiuto e delle battaglie che abbiamo combattuto, voi e io, all’epoca atlantidea, quando ancora potevamo dirci esseri umani e non codici fiscali o materiale da ufficio? Ai governi non piacciono né gli artisti né i guerrieri; vogliono rendere prigionieri i corpi agendo sulle menti, tenendole lontane dalla carne, connesse a una rete informatica, occupate a produrre il niente anziché oggetti reali. Ma l’idea del guerriero e della guerriera che agiscono dal Cuore e non si arrendono alle difficoltà della Vita ha attraversato i millenni, sopravvive ai singoli esseri umani. Come ha affermato il magistrato Giovanni Falcone: “Gli uomini passano ma le idee restano, e continuano a camminare attraverso le gambe di altri uomini”. La novità è questa: una generazione di monaciguerrieri s’è incarnata per riportare l’ordine. Battagliavamo già sotto le mura di Troia e abbiamo donato i nostri corpi alle Termopili; ci siamo distinti con onore alternativamente tra le fila degli eserciti di Enki ed Enlil, ancor prima che Babilonia fosse; la Città dalle Porto d’Oro che reggeva Atlantide è stata difesa per secoli dalla nostra mano armata di spada. Chi dunque oserà arrestare il nostro passo oggi? Fin dal principio gli Oscuri si opposero… fin dal principio Noi vincemmo. ΩΩΩ
Sostiene Draco Daatson che le donne sono mentalmente più forti e determinate degli uomini. Non ci fornisce nessuna spiegazione riguardo questa sua affermazione. È certo però che non si tratta d’un’affermazione buttata lì per caso o d’un modo di dire politically correct, in quanto io stesso ho potuto constatare questo fatto sia all’interno del mondo dello sport agonistico – quando praticavo l’atletica leggera – che negli eventi di tutti i giorni. Le donne sono superiori. Le donne messe sotto pressione tirano fuori il meglio di loro stesse; gli uomini rischiano il tracollo psicologico, diventano inutilmente aggressivi oppure si piangono addosso perdendo concen- trazione e determinazione. Statisticamente nel mondo le donne si suicidano ben quattro volte meno degli uomini… è una differenza enorme… e questo potrebbe significare qualcosa.
PARTE PRIMA
IL COLPO PERFETTO
Ogni giorno qualcosa di meno, non qualcosa di più: sbarazzati di ciò che non è essenziale. Bruce Lee Nessuno deve spingere l’acqua del fiume affinché fluisca verso il mare. Lao Tse Sostiene Draco Daatson che il colpo perfetto non può essere sferrato da “qualcuno”. E con questo vuole dire che, affinché tale colpo sia perfetto, non deve essere presente un “io” che vuole colpire. L’individuo che vuole colpire e che vuole vincere crea un ostacolo, un attrito… che altrimenti, in assenza di tale desiderio, non sarebbe presente. È la Vita stessa a sferrare il colpo e andare a bersaglio, perché la Vita è Volontà Pura e non necessita della nostra piccola volontà di individui. La nostra volontà di vincere s’inframmezza fra il colpo e il bersaglio e lo “sporca”, lo appesantisce, lo fa deviare dalla rotta perfetta. Chi tira il pugno? Chi sferra il low kick (calcio basso della Muay Thai)? Chi spara con la carabina o colpisce con la racchetta da tennis? Chi tira il rigore o prova il canestro da tre punti? Questo l’atleta deve chiedersi, perché più c’è qualcuno che vuole tirare, che vuole indirizzare il colpo, più questo colpo sarà “trattenuto”; e risulterà trattenuto proprio dall’eccesso di volontà di colui che vuole vincere a tutti i costi.
La Vita sferra solo colpi perfetti. L’atleta deve evitare d’intervenire con la sua volontà per non rovinare tutto. L’atleta in quanto “io” che desidera, deve togliersi di mezzo e provvedere a offrire il suo corpo allenato al meglio. L’atleta deve limitarsi a osservare il suo apparato psicofisico che combatte, corre o nuota guidato dalla Vita. Ricorda che il colpo non arriva a bersaglio perché tu glielo vuoi mandare con tutte le tue forze, ma unicamente perché quello è il suo destino! Il colpo perfetto non è quello di cui tu sei direttamente l’autore, bensì un colpo che viene mandato a segno dalla Vita attraverso il tuo apparato psicofisico, il quale per l’occasione deve trovarsi in uno stato molto particolare, che adesso andremo a descrivere. Innanzitutto il corpo è privo di tensioni, rilassato, ma allo stesso tempo pronto a colpire; la sua può essere definita una “rilassatezza attiva”, o una “tensione rilassata”, uno stato dal quale potrebbe scaturire in qualunque istante, fulmineo, un movimento di attacco o difesa. È lo stato in cui si trova l’atleta sui blocchi di partenza di una gara di 100 metri. Se in lui sono presenti resistenze muscolari, partirà inevitabilmente in ritardo. Il sistema nervoso è in realtà teso come una corda di violino, ma non subisce lo stress che potrebbe derivare da tale situazione, in quanto non si tratta d’una tensione emotiva, ma solo fisica, uno stato di allerta – lo stato tipico di qualunque felino prima di saltare o colpire – che non prevede sforzo, agitazione o ansia. Si tratta d’una tensione fisica pura, non sporcata da una tensione mentale ed emotiva. Le emozioni sono in uno stato di quiete. Il guerriero o la guerriera non possono produrre movimenti perfetti se il loro stato emotivo è alterato. Non c’è esaltazione e non c’è paura. Non c’è aggressività e non c’è remissività. Ogni emozione crea un attrito psicologico che ha delle ripercussioni sull’efficienza del sistema nervoso e quindi sulla capacità reattiva dei muscoli: se colpisci in maniera aggressiva il movimento diviene più lento e più impreciso, ossia il contrario di
quanto normalmente si tende a credere. Il colpo non si sferra con rabbia, ma si esegue così come si esegue un brano musicale al violino. Nello sport in generale e negli sport da combattimento in particolare si deve pretendere la stessa precisione e la stessa attitudine mentale necessaria per l’esecuzione di una coreografia di danza classica. Non è certamente un caso che per definire la boxe si utilizzi l’espressione “nobile arte” e che per fare un complimento a un pugile gli si dica che si muove come un ballerino. La mente è assente. Sostiene Draco Daatson che la mente riflessiva è uno strumento che durante la battaglia può solo portare guai, ossia attrito e lentezza. L’unica sfera utile della mente in questi frangenti è rappresentata da quella parte “meccanica” che durante l’incontro o la gara ricorderà la coordinazione dei movimenti senza alcun bisogno di starci a pensare. La mente è strutturata in differenti settori: l’unico che ci è utile è lo stesso che entra in gioco quando guidiamo la macchina nel traffico di città conversando al contempo con il passeggero che si trova al nostro fianco. Anche se non ci dobbiamo pensare coscientemente, il braccio sa come passare dalla seconda marcia alla terza mentre un’altra parte della mente ammira le prostitute al lato della strada. Il corpo è rilassato e reattivo se durante la performance sportiva le emozioni sono assenti. Le emozioni sono assenti se ci siamo educati in precedenza attraverso la pratica del Qui-e-Ora, ossia l’antica abitudine di restare sempre nel momento presente. Quando siamo sul ring o in campo, oramai è troppo tardi; non è infatti possibile ottenere questo genere di serenità se non c’è stato un previo addestramento. Una pratica inerente il Qui-e-Ora comporta l’utilizzo controllato della mente, alla quale viene impedito di vagare tra i ricordi e le paure del passato e le preoccupazioni per il futuro. Non puoi controllare il passato, non puoi controllare il futuro, ma puoi controllare il presente. E l’unico modo che hai di controllare il presente non consiste nel tentare di modificarlo secondo i tuoi desideri e le tue aspettative, ma nel viverlo Qui-e-Ora, istante dopo istante, senza mai pensare a cosa succederà nell’istante successivo,
il quale ancora non esiste, non è mai esistito e, per quanto ne sappiamo, potrebbe non esistere mai. Torneremo più avanti su questo argomento. Il corpo sferrato senza intenzione e senza riflettere rende leggero un atto colmo di forza, oppure, detto in altri termini, rende estremamente potente un colpo portato con la leggerezza tipica dell’assenza d’intenzione, come un fulmine che scarica facilmente a terra tutta la sua energia… pur senza volerlo fare… semplicemente perché rientra nella sua natura farlo. Questo atto puro, anche nella sua terribile potenza, risulta pervaso d’incalcolabile Bellezza. Fra l’attacco dell’avversario e la vostra reazione non si deve frapporre alcun pensiero. La mente non va fermata in alcun luogo e su alcun oggetto, interni o esterni che siano. La paura di essere colpito… il desiderio di colpire utilizzando una certa tecnica… costituiscono entrambi degli ostacoli alla realizzazione del colpo perfetto. Fate combattere la Vita stessa e non intromettetevi. Immaginate di “ballare” sul ring, di fronte a un avversario, senza dover pensare alla vittoria, senza sentirvi in dovere di sconfiggere l’altro atleta a tutti i costi, ma in uno stato di non-mente del tutto privo di aspettative, il quale porta all’esecuzione d’una boxe perfetta, la vostra boxe, la vostra massima prestazione. Lasciate tutto il resto nelle mani del destino. Il vero fine è il gesto perfetto, puro, compiuto in quello stato miracoloso che gli orientali chiamano wu wei, l’azione senza azione, la “trance agonistica”, l’azione priva d’intenzionalità. Il vero fine si compie prima che il colpo vada a bersaglio, perché perfezione e bellezza si sono già espresse prima del risultato finale, e se non c’erano già prima non sarà il fatto di aver comunque segnato un punto a farle apparire. Se un gesto è brutto, resta brutto anche se ha contribuito alla vittoria. Il noto augurio “vinca il migliore” si riferisce all’eventualità che fra tutti i contendenti prevalga quello ha espresso la performance
migliore. Vinca il migliore non equivale a dire “vinca il più furbo”o “vinca chi lo desidera di più”, bensì colui che manifesta l’eccellenza.
IL DESIDERIO DI VINCERE
Non ci sono competizioni nell’Arte della Guerra. Un vero guerriero è invincibile perché non compete contro nulla. Vincere significa sconfiggere la mente conflittuale che si annida dentro di noi. Morihei Ueshiba Qualsiasi cosa possa accaderti era stata preparata per te da tutta l’eternità, e fin dall’eternità l’implicazione delle cause tesse la trama del tuo destino. Marco Aurelio Sostiene Draco Daatson che il desiderio di vincere è sinonimo di paura. Pensateci bene: perché un uomo dovrebbe voler vincere un incontro di arti marziali piuttosto che una gara di atletica leggera? Cosa ha messo in gioco di suo, di così importante, da fargli desiderare la vittoria e temere la sconfitta? Perché quasi nessuno considera sullo stesso piano la vittoria e la sconfitta? Lo sport ha assunto valenze di rivalsa psicologica e di occasione economica in un periodo storico relativamente recente. Ma esso in verità origina come imitazione delle attività di sopravvivenza dell’umanità degli albori: la corsa, il salto, il lancio del giavellotto, il tiro con l’arco, la lotta grecoromana, le arti marziali… fino alla boxe occidentale. L’unica intenzione che dimorava alla base di tutte queste attività era un naturale desiderio di sopravvivenza. Oggi non è più così: non si corre in pista e non si affronta un altro uomo sul ring con lo scopo di procurarsi da mangiare e
sopravvivere. In genere lo si fa in base a una motivazione che concerne la sfera della psiche: dimostrare qualcosa a se stessi e agli altri. Quando vinco sono contento perché posso finalmente essere qualcuno. La vittoria è una conferma di chi sono o di chi posso essere. Ma questo significa anche che, di fondo, ho una fottuta paura di non essere nessuno. Ho paura di perdere un match perché tale eventualità mette in crisi la mia fragile identità. Nessuno che accetti di salire su un ring ha veramente paura di farsi male fisicamente. Sono persone che solitamente hanno già superato questo primo livello di paura o in ogni caso lo sanno gestire sufficientemente bene. Quello che voglio dire è che la paura di farsi male fisicamente, anche quando è presente, non è comunque di ostacolo alla prestazione sportiva, mentre lo è molto di più la paura di non riuscire a dare il meglio, di fare brutta figura… di venire sconfitti e quindi colpiti nell’orgoglio. Investire tutto nel desiderio di vittoria sta a indicare una grande paura di affidarsi alla Vita, un bisogno estremo di doversi in qualche modo affermare. Il confine che separa la voglia di vincere dalla paura di perdere in verità è sempre stato labile. Paradossalmente, teme la sconfitta chi dentro di sé ha già un senso di sconfitta che non vuole vedere e che vorrebbe occultare attraverso una vittoria esteriore. Ma il problema è dentro, non fuori. “Se vinco vuol dire che sono qualcuno”, crede, almeno inconsciamente, l’atleta di questo genere. Il punto è che se desidera così tanto vincere esteriormente è proprio perché non è qualcuno (o meglio, crede di non esserlo); ossia non è rilassato riguardo il suo valore profondo, non è sicuro di sé. Ma se non è sicuro di sé non può vincere… e così via, in un perverso circolo vizioso, dove più l’atleta tiene alla vittoria, più significa che non possiede stima di sé, più la vittoria si allontana. Il presente libro è dedicato in maniera particolare a questo genere d’atleta, tuttavia la lettura ri- sulterà utile anche ai praticanti appartenenti alle due categorie cui adesso accenneremo, sempre
che sentano il bisogno d’impegnarsi al fine di migliorare le loro prestazioni sportive e la loro vita come esseri umani. Per esempio, c’è chi sale sul ring o si allena per ore su una pista solo perché vuole sfogare la sua rabbia e tutta l’energia sessuale in eccesso. Di norma questa tipologia d’atleta non è molto interessata alla vittoria o alla sconfitta; infatti sale sul ring in maniera più rilassata, perché non sta mettendo in gioco niente di psicologico; non deve far vedere quanto vale, ma solo picchiarsi con qualcuno oppure correre o nuotare fino a sfinirsi. A questo genere d’atleta di norma non interessa inanellare vittorie e diventare un campione, non interessa la vittoria ai punti che fa comunque palmarès, ma solo lo scontro per lo scontro, per le sensazioni che questo può dare e che possono diventare quasi droganti. Negli sport da combattimento è uno che ama il dolore e il ko, quando li infligge all’avversario ma al limite anche quando li subisce, perché a un certo punto diventa quasi uguale, producono la stessa scarica di adrenalina. Con un avversario che presenta anche lui questi tratti psicologici si crea una sottile, inconscia complicità, dove entrambi sanno che sono lì per farsi male e sanno che questo è ciò che vogliono. Nei casi in cui negli anni riesce ad acquisire anche sufficiente esperienza e disciplina, questo è il genere d’atleta che può diventare un buon allenatore. Gli atleti appartenenti al primo genere invece solitamente non lo sono in quanto restano pervasi da un senso di inadeguatezza; uno dei rischi consiste infatti nella possibilità che trasferiscano sui propri allievi le frustrazioni personali, a meno che nel frattempo non abbiano compiuto un balzo in avanti dal punto di vista psicologico. Infine esiste una terza tipologia: il campione, ossia il predestinato. Anche se coscientemente manifesta dubbi simili agli altri atleti, in verità, su un piano più profondo, lui sa che vincerà e che diventerà un campione. Non è così importante che diventi campione nazionale o campione mondiale; ciò di cui stiamo parlando è un genere di approccio psicologico alla competizione, non un titolo in particolare. In ogni sport ci sono esempi di campioni che non hanno mai vinto
titoli a livello mondiale. Restano meno famosi e con gli anni nessuno li ricorda più, ma si comportano da campioni e fungono da esempio per molti di coloro che li hanno conosciuti. Il campione ha la mentalità del campione e la sicurezza del campione. Intendiamoci, anche gli appartenenti alle due precedenti categorie posso- no giungere a vincere un titolo mondiale, ma compiendo un percorso differente rispetto al campione. Nel primo caso (l’atleta che deve dimostrare qualcosa) è un sentiero psicologicamente più sofferto, costellato di dubbi sul proprio valore e di relativi drammi personali; nel secondo esempio (l’atleta che sfoga la sua aggressività) si arriva a un titolo quasi per caso, senza averlo desiderato con particolare intensità, senza fare grandi programmi, preparando solo un match alla volta, divertendosi a picchiare e a essere picchiati lungo il cammino. Il campione – talvolta solo inconsciamente, su un livello a cui lui stesso non ha accesso – si sente invece predestinato. La sua anima non sta usando la competizione sportiva per guarire psicologicamente o per sfogare dell’energia in eccesso, ma perché lui è destinato a ricoprire il ruolo sociale del campione. Sa di essere il migliore, per cui non sale su un ring per dimostrare qualcosa a qualcuno. Va semplicemente a far vedere chi è. Lui vince perché è già un vincente, e anche quando perde, resta un vincente; anzi, dimostra di essere un vincente utilizzando anche gli episodi di sconfitta. Per un atleta del primo genere descritto, invece, la sconfitta si trasforma ogni volta in un dramma. Ogni battuta d’arresto fa emergere in lui profondi dubbi sul suo valore come sportivo e come persona; ogni volta nel suo inconscio si riattualizza il suo rapporto difficile con la figura paterna. E in questo caso l’elaborazione psicologica prende il posto del divertimento. Chi non si distacca dal desiderio di vittoria – sostiene Draco Daatson – corre incontro al proprio fallimento. La paura di perdere è l’altra faccia della voglia di vincere. Chi ha paura vuole esorcizzarla attraverso la vittoria. Chi nella vita è sicuro di sé non necessita di vittorie. Intendiamoci, anche chi ha paura di perdere può vincere un
incontro sul piano esteriore, ma sarebbe comunque una sconfitta interiore, in quanto tale vittoria non farebbe che confermare l’illusione che “più si vuole, più si ottiene”, andando a ingigantire un “io” fasullo, che in verità non ha alcun reale potere sulle manifestazioni della Vita, e con il quale prima o poi l’atleta dovrà fare i conti lungo la sua esistenza. La Vita compie in maniera naturale le sue azioni – così come la pioggia cade verso il basso senza che nessuno la spinga – e un piccolo “io” subito dopo se ne attribuisce il merito o il demerito. Spera di ottenere il successo e ha paura di subire il fallimento. In queste condizioni non ci può essere serenità interiore e sicurezza. Se per un qualunque individuo si tratta d’un’ipotesi di evoluzione personale, per un atleta è imperativo che l’inconsistenza e la dannosità di questo “io agente” emerga allo scoperto. Un atleta - un guerriero - non si può permettere di possedere la stessa psicologia basata sull’ego che possiede un uomo comune. Lo scopo non è vincere, bensì essere sereni. Se la mia serenità interiore dipende dalla vittoria allora non è una reale serenità, ma solo la sua mostruosa facciata, che prima o poi mi si rivolterà contro. Se infatti la serenità è un effetto della vittoria, allora non ci sarà negli altri momenti della mia vita e, soprattutto, non ci sarà quando verrò sconfitto. Il che è assurdo. La serenità è la causa della vittoria, non il suo effetto. Non sono sereno se vincerò, ma vincerò se saprò restare sereno. E visto che oramai ho raggiunto la serenità, la vittoria non sarà più una questione d’importanza capitale. Sostiene Draco Daatson che un guerriero intelligente non si può permettere di portare sul campo di battaglia (noi potremmo dire: su un ring, su una pista di atletica, in mezzo a un campo di calcio o in azienda) la sua serenità come posta in gioco, perché è una posta tremendamente alta. La serenità di un uomo o di una donna non può essere messa in gioco in un evento sportivo o di qualunque altro genere. Il monaco-guerriero deve essere capace di diventare una persona serena indipendentemente dalle vittorie e dalle sconfitte,
così che la sua prestazione diventi una rilassata performance artistica e non una questione di vitale importanza per la sua reputazione.
L’ATLETA IDEALE
Allora, se qualcuno possiede bravura e pronto coraggio, si presenti e sollevi le braccia coi pugni fasciati. [… … …] Gli si cerca un rivale; nessuno di tanta folla osa incontrare quell’uomo e applicare i cesti alle mani. Virgilio, Eneide Alla fine dovete dimenticarvi delle tecniche. Più progredite, minori sono gli insegnamenti. Il Grande Sentiero è realmente un non-Sentiero. Morihei Ueshiba Sostiene Draco Daatson che l’autentico guerriero (o guerriera), paradossalmente, non desidera vincere, perché non ne ha più bisogno. Non deve dimostrare di essere qualcuno ai propri occhi o agli occhi del mondo. Non deve guadagnare soldi a tutti i costi o fregiarsi d’un titolo importante. La vittoria dell’atleta ideale si manifesta come eventuale effetto collaterale d’una prestazione perfetta. E la prestazione perfetta, sostiene Draco Daatson, è quella dove il guerriero è totalmente presente nel Qui-e-Ora. La sua coscienza vive solo un istante dopo l’altro, senza soffermarsi sul passato e senza anticipare il futuro. Solo in questo stato “di grazia” può manifestarsi l’assoluta Bellezza del gesto atletico, che è il vero fine cui deve tendere il guerriero… o almeno così sostiene Draco Daatson.
L’atleta è così assorto sul momento presente che tutto il resto viene dimenticato: lo spazio e il tempo collassano per cedere il posto a un eterno Qui-e-Ora. L’azione si compie come da sola, senza necessità d’intervento volontario da parte di un “io” caratterizzato da una “spinta a volere”. I singoli gesti non vengono eseguiti da “qualcuno”, bensì si verificano spontaneamente nella coscienza dell’atleta come determinati da una forza superiore che possiede il suo corpo e lo manovra. Così come un felino istintivamente attacca o si difende… il corpo danza sul ring, con la stessa assenza di volontà determinante. Il pugno o la schivata, il low kick o il block (parata di gamba nella Muay Thai) scaturiscono dall’atleta prima che lui stesso lo sappia coscientemente, prima che possa rifletterci. Sostiene Draco Daatson che la vittoria non può venire conquistata da mani rapaci, in quanto essa si offre già spontaneamente a chi sa manifestare la Bellezza del gesto senza pretendere nulla come ricompensa, se non la straordinaria possibilità di contemplare da testimone imparziale quella stessa Bellezza. Ciò a cui l’atleta deve tendere è la massima prestazione, la Bellezza assoluta; e non la sconfitta dell’avversario. Per cui, non cercate la vittoria, bensì restate ancorati al momento presente e godetevi unicamente questo; assaporate l’istante e il punto, ossia un tempo senza durata e uno spazio senza dimensioni. Chi non diventa un Figlio del Momento, chi non impara a vivere nell’istante presente, resta uno straniero sia nella terra che sta attraversando sia in quella cui è diretto. Vivere in funzione del giorno in cui vincerete, significa non vivere pienamente né il presente né il futuro. È necessario assaporare ogni singolo giorno, ora e minuto del vostro allenamento, oggi, adesso. Questo significa vivere. La vita in attesa d’un risultato futuro – che potrebbe benissimo non arrivare mai – è solo una scusa per non provare gioia di vivere oggi. L’atleta perfetto non desidera più la vittoria e non ha più paura della sconfitta perché dalla sua prospettiva rivestono un valore
paritario. Solo l’ottenimento della massima prestazione rappresenta per lui un fatto rilevante. E la massima prestazione non ha nulla da spartire con l’aver sconfitto o meno un avversario. Dove finisce il desiderio di vincere inizia la Vita e si dischiude la Bellezza. Allora la prestazione sportiva viene pervasa d’una tale forza espressiva da poter essere paragonata a una scultura, un quadro, una sinfonia. La rimonta di Pietro Mennea in ottava corsia nella finale dei 200 a Mosca; il salto “spaziale” di Bob Beamon all’Olimpiade di Città del Messico; Earl Strickland che nel 1996 in un torneo di biliardo chiude consecutivamente 10 triangoli di palla 9 (1 probabilità su 7,8 milioni!); Ayrton Senna, su McLaren, che al Gran Premio del Giappone del 1988 recupera dal 14esimo posto e vince; Valentina Vezzali che a Londra 2012 vince la medaglia di bronzo dopo aver recuperato sull’avversaria mettendo a segno 5 stoccate negli ultimi 13 secondi e ribaltando un 8-12 con un 13-12; la gara di Jessica Rossi, la “cecchina” del tiro a volo italiano, medaglia d’oro a Londra 2012 e record del mondo con 99 piattelli colpiti su 100 (!!!), una donna che potrebbe riscrivere Lo Zen e l’arte del tiro con l’arco; la nazionale italiana di pallavolo che nelle qualificazioni per le Olimpiadi di Pechino, contro la squadra giapponese, su un punteggio di 17-24 annulla 11 match point e vince (35-33) portando a termine una delle più incredibili rimonte della storia della pallavolo; un incontro di Muay Thai di Ramon Dekkers, un match di boxe di Muhammad Alì, di Julio Cesar Chavez o del contemporaneo Manny Pacquiao; le discese di Alberto Tomba; l’intera vita di Bruce Lee … Tutto questo non può essere definito in maniera esaustiva dalla parola “sport”. Questi sono episodi artistici. Sostiene Draco Daatson che il miglioramento della prestazione rappresenta l’autentica vittoria. È più importante che un centometrista di alto livello ottenga un record del mondo o che vinca le Olimpiadi? Nell’ottenere un record personale un atleta compie un lavoro utile all’evoluzione della sua anima in quanto spingendo l’apparato psicofisico oltre i suoi stessi limiti esplora delle zone di sé non ancora venute alla luce. E l’anima, che osserva in silenzio, apprende nuove qualità. Tutto ciò vale ancora di più per un record
del mondo, dove è l’intera umanità a superare i suoi limiti per mezzo dell’atleta, qualunque sia la disciplina in questione. Le coppe, le medaglie, le onorificenze e il denaro vanno a chi vince, ma l’evoluzione interiore è indipendente da questi fattori, poiché concerne la possibilità di spingersi oltre i propri confini e produrre Bellezza attraverso la prestazione. L’atleta che voglia davvero dirsi tale, lotta per esprimere un’opera d’arte attraverso il suo gesto, non per battere degli sconosciuti con i quali non ha mai avuto alcun rapporto personale. Ma ogni creazione artistica acquisisce un valore assoluto, e non più solo personale, unicamente nella misura in cui l’Io dell’atleta scompare per lasciare il posto allo scorrere della Vita nell’istante presente. L’Io e il suo desiderio di vincere, accompagnato dal timore di perdere o fare una brutta figura, devono cedere il posto a uno stato di coscienza dove non esiste più un “me stesso” che si attribuisce la paternità dell’azione. L’essere umano di norma crede che si possa verificare solo ciò che egli intensamente vuole. “Le cose non accadono da sole – egli pensa, – il mio “io” non decidere di fare, l’azione non può compiersi”. Ed egli crede questo nonostante la quotidianità smentisca incessantemente tale teoria, poiché a un uomo accadono mille cose che egli non ha né voluto né previsto, mentre non c’è verso di farne accadere altre nonostante egli le persegua con tutto il suo desiderio. Infatti solo raramente avviene che ciò che egli desidera coincida con ciò che poi la Vita gli offre. E questa non è né filosofia né religione, ma esperien- za quotidiana di chiunque sia in grado di osservare anche solo superficialmente lo svolgersi della sua vita. Già prima della maggiore età un qualunque ragazzo può realizzare – in maniera un po’ seccante – che se la sua compagna di classe, nonostante il suo ardente desiderio, proprio “non gliela vuole dare”, non c’è verso di mutare la situazione, a meno di eventi apocalittici, quale può essere uno spostamento dell’asse terrestre che la faccia scivolare repentinamente fra le sue braccia. Tale prima irritante esperienza dovrebbe condurlo a due importanti conclusioni:
a) nonostante le ingannevoli apparenze, il reale potere in questa società è detenuto dalle donne; b) la possibilità che si verifichi un evento non è direttamente proporzionale al desiderio e alla volontà espressi dall’“io” d’un uomo. Già solo questi due concetti varrebbero una vita di meditazioni (in particolare il primo!). A questo punto – stando a quanto sostiene Draco Daatson – resta da chiedersi se quando vogliamo qualcosa e la otteniamo, il nostro desiderio non sia altro che l’effetto del naturale scorrere della Vita in quella direzione. In altre parole, siamo noi che col nostro desiderio muoviamo la Vita o è la Vita che indirizza già a monte i nostri desideri? E qual è il risultato dell’accettare la se- conda ipotesi? Significa divenire rinunciatari oppure, al contrario, entrare in un flusso più potente dove il piccolo “io” con le sue paranoie non fa più da ostacolo allo scorrere del Vril – della Forza – dentro di noi? Sostiene Draco Daatson che solo rinunciando a credere di essere lui a provocare gli accadimenti, il monaco-guerriero si “libera di sé”, ossia del peso del suo stesso “io”. Ciò che allora rimane è unicamente una tensione attiva del corpo e di una mente priva di reale intenzione, il terreno ideale per lo scorrere potente del Vril, per il verificarsi dell’atto eroico/artistico.
LA MASSIMA PRESTAZIONE
Qualsiasi azione motivata dalla furia è un’azione votata al fallimento. Gengis Khan Ascolta il suono muto, e osserva la forma informe. Con uno sguardo, leggi la mente del tuo avversario, e consegui la vittoria senza contrasto. Sokaku Takeda La vittoria – e questo, ricordiamo, lo sostiene Draco Daatson – è una conseguenza della propria massima prestazione sportiva, non il fine ultimo cui tendere quando si combatte una battaglia o si pratica uno sport, così come quando si apre un’attività commerciale o si decide di andare a vivere insieme al proprio partner. In ognuno di questi casi, come andrà a finire non è nelle nostre mani, ciò che invece possiamo fare è concentrarci per restare presenti a noi stessi istante dopo istante affinché la nostra prestazione risulti perfetta e, soprattutto, bella a vedersi. Un atto poetico. Paradossalmente, quando l’evento della vittoria per noi perde d’importanza, la prestazione perfetta fa sì che la vittoria si verifichi. In verità, quando colpisci il pallone, in quel momento è già scritto se sarà un gol oppure no. Se hai calciato in maniera perfetta – ossia da uno stato di coscienza centrato nel Qui-e-Ora, in assenza di tensione volitiva – allora il vento, i difensori avversari e il portiere non potranno fare nulla. Il pallone andrà verso il suo destino. Allo stesso
modo, lo stato di coscienza con il quale sali sul ring ha già determinato la tua vittoria o la tua sconfitta. Durante l’incontro in verità non accade nulla di decisivo, l’incontro è solo la rappresentazione finale d’un verdetto che è già stato deciso dentro di te. Un uomo sale sul ring da vincente e un altro da perdente. In attesa che il verdetto venga emesso… si fa spettacolo. Tutto qui. Si racconta che gli antichi maestri di Muay Thai, osservando come i due contendenti eseguivano la Ram Muay (la danza rituale che precede i combattimenti e che viene eseguita ancora oggi) fossero in grado di stabilire quale dei due avesse più possibilità di vincere. Il fighter che ha diffi- coltà a concentrarsi totalmente nello svolgimento della danza, poiché pensieri sull’imminente incontro gli affollano la mente, avrà difficoltà a vincere, perché non ha ancora vinto se stesso. Il fighter che vive solo instante per istante sarà così concentrato nell’esecuzione della sua danza da dimenticare tutto il resto. Lo stadio, gli spettatori, gli uomini all’angolo, il suo avversario… tutto scompare, tutto collassa in un cristallino Qui-eOra. Il tempo si dilata all’infinito e la gioia per ciò che sta facendo nella danza – anziché la tensione per l’incontro – prende posto nel suo Cuore. In questo stato “di grazia” i colpi partono da soli, sono rapidi, leggeri e precisi. La percezione diviene ovattata, tutto accade come in un sogno e l’atleta ha la sensazione di osservarsi dall’esterno. Le aspettative riguardo il risultato scompaiono e l’incontro assume i connotati d’una bellissima danza dove i due avversari sono in realtà due complici che si sostengono a vicenda per ottenere il massimo. Il concetto di sforzo scompare e la prestazione atletica assume gli stessi connotati della crescita dei capelli: non sono io con la mia volontà a farla accadere, perché essa accade già da sé; e se io mi sforzassi di farla avvenire produrrei una fatica inutile ed entrerei in uno stato dannoso di tensione sia mentale che fisica. Chi si preoccupa della vittoria o della sconfitta, si perde il meglio dell’esperienza; per cui in realtà è già stato sconfitto, in quanto sente di non valere abbastanza e di dover vincere per valere qualcosa.
Quello dei due che si preoccupa meno di vincere è l’atleta più forte. Chi non si preoccupa, fluisce totalmente in uno stato di assenza della mente pensante e vive un fenomeno di risveglio della coscienza, dove tutte le barriere crollano e la percezione della realtà diviene finalmente autentica. La vecchia scuola degli allenatori sportivi puntava quasi tutto sullo stimolare forza di volontà e aggressività nell’atleta, in modo particolare quando si trattava di discipline da combattimento. Ci si doveva allenare con aggressività e, soprattutto, si doveva essere aggressivi nel corso della prestazione sportiva: l’avversario andava schiacciato, annientato, distrutto. L’atleta sul ring veniva paragonato al toro o al leone. Ricordo quanto mi aveva impressionato la frase rilasciata da un pugile che avevo ascoltato quando ero un ragazzino: “Io non voglio semplicemente sconfiggere il mio avversario, voglio fare in modo che dopo aver combattuto con me decida di non salire mai più su un ring”. Questi atteggiamenti, oltre a non fare bene agli atleti, non facevano bene alla boxe in generale, la quale sta uscendo solo ultimamente da un lungo periodo di crisi, causato, fra le altre cose, da un fraintendimento da parte del pubblico circa i fini altamente educativi che si propone questo sport. Sostiene infatti Draco Daatson che la rabbia è un combustibile che quando si esaurisce lascia intatta la nostra insoddisfazione interiore. E a un periodo di rabbia segue sempre implacabilmente una fase di frustrazione interiore, fosse anche solo alla fine della carriera agonistica. Beh… sappiate che la moderna psicologia dello sport non si muove più in questa direzione. I consigli che i trainer più avanzati e aggiornati danno ai loro atleti sono più simili allo zen che alle frasi di Rambo. Non più aggressività, bensì disciplina monacale per quanto concerne l’allenamento e poi concentrazione sull’istante presente e sull’assenza di aspettative, sia prima che durante la prestazione.
Il calciatore che si butta di proposito per farsi dare il fallo (oramai, pratica tristemente comune nelle partite di calcio), il colpo sporco nella boxe, il sotterfugio, l’utilizzo di cavilli del regolamento a svantaggio dell’altro… e, più in generale, lo sperare che l’avversario perda per poter conquistare noi la vittoria… non fanno parte del codice del guerriero, ossia dell’atleta ideale, non per una questione morale, ma per il motivo più ovvio del mondo: io valgo se sono stato bravo, non perché un altro ha perso. Io ho bisogno di essere soddisfatto di me stesso per la mia prestazione superlativa, e il fatto che come conseguenza di questa prestazione il mio avversario abbia perso non mi rende affatto migliore. La sfida è sempre con me stesso, per cui se anche perdo ma sono in pace con me stesso in virtù della mia ottima performance, l’essere stato battuto da un’altra persona non sottrae nulla alla mia soddisfazione. C’è un modo sicuro per vincere spesso: affrontare avversarsi più deboli ed evitare gli avversari che potrebbero metterci in difficoltà costringendoci a uscire dalla nostra “zona di conforto”. Ma gli allenatori e gli atleti che hanno imparato ad associare la vittoria al progresso personale, al diventare capaci di dare il massimo in gara, all’essere belli nello stile, al non perdere mai due volte per lo stesso errore… beh… a questo genere di persone non interessa più battere qualcuno. La figura stessa dell’avversario esterno perde d’importanza. Sostiene Draco Daatson che la debolezza del nostro avversario non ci rende più forti. Approfittare dell’infortunio d’un altro giocatore per infierire e portare a casa la vittoria, non aggiunge nulla al nostro valore come atleti. Tutt’altro. Non dimentichiamo mai che i nostri avversari non sono nostri nemici e non esiste alcun motivo per odiarli. Al contrario, ci sono ottimi motivi per rispettare qualcuno che accetta di confrontarsi con noi. Ricordiamoci che il nostro avversario acconsente d’incrociare i guantoni con noi, correndo dei rischi, vincendo la sua naturale paura, per aiutarci a crescere come atleti e come persone. Per questo motivo va sempre considerato come un nostro complice e mai come un nemico, per quanto cattivo e intenzionato a spaccarci la testa possa sembrare.
D’altronde gli avversari cosa ci stanno a fare se non possono batterci? Il bello del gioco sta proprio nel fatto che di fronte a noi o nella corsia a fianco alla nostra c’è qualcuno il cui intento è batterci… e potrebbe farlo proprio oggi. Tutti i più grandi campioni di qualunque disciplina prima o dopo sono stati battuti, alcuni di più all’inizio della loro carriera, alcuni di più verso la fine. Come è giusto che sia, come è normale che sia affinché veniamo sempre spronati dai nostri antagonisti, in modo che la nostra prestazione possa sempre tendere verso il massimo… all’infinito.
L’ALLENATORE
A mio padre devo la vita; al mio maestro una vita che vale la pena essere vissuta. Alessandro Magno I campioni non si fanno nelle palestre. I campioni si fanno con qualcosa che hanno nel loro profondo: un desiderio, un sogno, una visione. Muhammad Ali Sostiene Draco Daatson che la figura dell’allenatore non può andar disgiunta da quella del maestro spirituale, pena la creazione di soldati anziché di monaci-guerrieri. E mentre il soldato si limita ad eseguire ordini, il guerriero si sottopone a una dura disciplina affinché possa imparare a seguire il suo Cuore, che è lo scopo finale. Senza che i sociologi se ne stiano accorgendo – impegnati come sono a tenere a bada manualmente la loro energia genitale – la figura dell’alle- natore sta diventando sempre più centrale nell’educazione dei nostri giovani, molto più che il professore di scuola. Non è un caso che a molti allenatori di team di successo venga proposto di tenere corsi nell’ambito militare, universitario e in quello manageriale (anche se pochi accettano perché il compenso non è quasi mai all’altezza dei loro standard, in particolare se provengono dal calcio). Lo sport – e le discipline da combattimento in particolare – deve fornire gli strumenti che consentono a un essere umano di vivere la
propria vita a testa alta, all’interno e al di fuori della palestra, durante e dopo gli anni di attività agonistica. Il gioco del calcio è noto in quanto al termine dell’attività agonistica consegna alla società, nella grande maggioranza dei casi, migliaia di ex atleti, anche famosi, che sono rimasti bambini interiormente. Questo in futuro non deve più accadere. Un autentico allenatore deve svolgere il ruolo di educatore del giovane che gli è stato affidato. Poiché l’istituzione scolastica ha abdicato al ruolo realmente educativo che in passato gli era caratteristico, per trasformarsi in luogo dove vengono dispensate informazioni da ritenere a memoria, allora l’allenatore sportivo deve sopperire a ciò che la scuola non fa più. Per cui il suo fine non può limitarsi all’edificazione d’un atleta in grado di offrire massime prestazioni in gara, ma anche consegnare alla società uomini e donne completi, liberi, imprenditori di se stessi, monaci-guerrieri che non devono più mendicare nulla dallo Stato. Mi spingo ad affermare che il compito più importante dell’allenatore consiste nel far comprendere all’atleta che l’attività sportiva – agonistica o meno – è sempre una metafora di quanto dovrà vivere nella sua vita quotidiana. Lo preparerà allora mentalmente e spiritualmente a non essere un perdente anche quando vivrà episodi di sconfitta. Perché sul ring così come nella vita non potrà vincere sempre, ma potrà sempre assumere una psicologia da vincente che non lo farà cedere sotto i colpi del destino. Diverrà un monaco-guerriero, indipendentemente dal fatto che nella sua vita abbia vinto tanto o perso tanto. Questo è il più grande insegnamento che si può ricavare dall’attività sportiva. Ramon Dekkers, uno dei più grandi Muay Thai fighters della storia, nel corso della sua carriera è stato sconfitto ben 35 volte. Ma tutti lo ricordano come un grande guerriero, per il suo carattere, il suo carisma e la sua correttezza. I 35 incontri persi sembrano non scalfire minimamente la sua fama, perché vengono oscurati dalla grandezza generale dell’atleta. Lui stesso considerava le sue sconfitte dei banali “inciampi” sulla strada che lo ha condotto per
anni a passeggio fra le vette più alte; episodi che gli hanno consentito di conoscersi meglio e diventare più forte. Mentre, d’altro canto, ci sono atleti così identificati col loro piccolo “io” da vivere la sconfitta come un crollo della loro intera identità. Se il sistema scolastico confeziona non più uomini, ma codici a barre organici da incastonare docilmente nel sistema produttivo, allora è lo sport che deve assumersi il compito di creare monaciguerrieri, uomini e donne capaci di lottare e gestire virilmente (=vrilmente), in maniera attiva e non passiva, le contrarietà della loro vita. Ricordiamoci che il bambino viene condotto a scuola obbligatoriamente, mentre a calcio, a danza o ad arti marziali, sebbene inizialmente possa essere stato portato da un genitore, con il tempo decide egli stesso se vuole proseguire o meno, assecondando quella che nel frattempo può essere diventata una sua passione. Stando a quanto sostiene Draco Daatson, l’allenatore – che lo sappia o no, che lo voglia o no, che ne sia degno o no – incarna l’archetipo del guru, il maestro spirituale. Per l’atleta è sempre comunque una guida. Ancor più per il fatto che di norma si rivolge a persone giovani, talvolta adolescenti e bambini, sui quali può esercitare un ascendente molto forte, che condiziona la loro maturazione e il loro futuro modo di vedere la vita. L’autentico allenatore ispirato, non si limita a plasmare la carne, fa molto di più: forgia lo spirito. Fornisce una visione del mondo che aiuterà l’atleta per il resto della sua esistenza. Capite quindi quanto sono folli alcuni allenatori (fortunatamente una minoranza) che fondano in larga misura la preparazione psicologica del giovane atleta sullo sfogo delle pulsioni aggressive: istinto di lotta, volontà di dominio, difesa del territorio, umiliazione della squadra avversaria, ecc. Quale bagaglio trasferisce nella sua vita un ragazzo che è stato addestrato per anni in questo modo? I preparatori più illuminati, un tempo come adesso, hanno invece sempre tenuto in massimo rispetto la formazione umana e psicologica dell’atleta, specie se
molto giovane, trasferendogli valori che poi lo hanno accompagnato anche fuori dallo sport. Per un adolescente è più semplice rapportarsi con una diversa figura di leader piuttosto che con quella del genitore. E se ha un problema con la ragazza, trova molto più immediato confidarsi con l’allenatore o con il capo scout piuttosto che con un professore a scuola. L’allenatore che abbia una buona capacità di osservazione ha la possibilità di rilevare tratti caratteriali del giovane atleta che nemmeno i genitori conoscono; e anche questo fa sì che egli possa rivestire un ruolo importante nella sua educazione. Sostiene Draco Daatson che l’allenatore, per poter fungere anche da guida spirituale, deve mettere da parte il suo ego e lavorare unicamente in funzione del massimo bene per l’allievo. Sebbene egli non possa sapere sul piano mentale quale è il massimo bene per ogni giovane atleta che ha di fronte, questo non è un problema, poiché in ogni caso ciò su cui deve focalizzarsi è la presenza nel Qui-e-Ora … e tutto il resto verrà da sé. Quali discorsi tenere, quali termini usare, a quale strategia affidarsi per motivarlo o per tranquillizzarlo, quali processi psicologici favorire e quali no… sarà tutto più chiaro nella misura in cui l’allenatore avrà intrapreso egli stesso un percorso di crescita interiore, ossia nella misura in cui sarà riuscito a vivere egli stesso Qui-e-Ora, fuori dal chiacchiericcio della mente, dalle sue ansie e dai suoi dubbi. Un allenatore che ha ancora bisogno di strutturare la sua identità, di dimostrare qualcosa a se stesso o agli altri (magari perché è un ex atleta frustrato) potrà forse essere un buon preparatore dal punto di vista sportivo, ma non potrà fungere anche da guida. L’autentico “maestro” ha annullato se stesso e le sue preoccupazioni in funzione dell’ideale di perfezione del gesto e della visione della Bellezza. L’opera è sempre più importante dei problemi personali dell’artista. Antoine de Saint-Exupéry, nel suo libro Il piccolo principe dice: “Se vuoi costruire una nave non radunare uomini solo per raccogliere
legna e distribuire i compiti, ma trasmetti loro la nostalgia per il mare vasto e infinito”. Questo è un valido esempio di ciò che dovrebbe fare un buon allenatore: trasmettere passione più che insegnare tecniche. La vera motivazione infatti non nasce dal senso del dovere verso qualcuno né dal bisogno di guadagnare soldi. La vera motivazione nasce perché credi in un principio, un valore, un sogno. Sostiene Draco Daatson che il vero leader è riuscito a sacrificare (=rendere sacro) se stesso in nome d’un principio (per esempio quello del monaco-guerriero). È divenuto canale di qualcosa di più grande. Ma si può essere canali unicamente nella misura in cui ci si toglie di mezzo in quanto “io”. Fino a quando l’allenatore deve mantenere in piedi la sua identità egoica – finché affronta la vita credendo di avere qualcosa da perdere – non si può creare lo spazio necessario perché si manifesti qualcosa di superiore. Gli atleti – così come i guerrieri – non devono obbedirti, ma si devono innamorare di ciò di cui tu stesso sei innamorato; allora non si limiteranno a seguirti per senso del dovere, ma sgomiteranno per precederti lungo la Via che tu stesso hai indicato. Questo risultato non è dovuto a te, bensì alla forza del principio che ti passa attraverso e alla misura con cui lo incarni nella vita quotidiana. Le persone giungono spesso a perdere la vita per un principio, ma quasi mai lo fanno unicamente per soddisfare la propria fame. Non puoi motivare un esercito a combattere contro un’altra nazione semplicemente promettendo ai soldati una buona paga. Ma se dici loro che combattono per la futura libertà dei loro figli, allora daranno la propria vita. Il popolo non fa la rivoluzione nemmeno se è affamato, ma se arriva qualcuno a promettergli diritti, uguaglianza e democrazia, allora comincia a costruire le barricate per strada. E questo dovrebbe far pensare.
INTERVISTA A UN CAMPIONE DI MUAY THAI
Chi non controlla le proprie emozioni è come chi naviga su un vascello senza timone e che quindi è destinato a infrangersi in mille pezzi non appena incontrerà il primo scoglio. Mahatma Gandhi L’uomo guerriero in tempo di pace combatte se stesso. Caio Giulio Cesare Massimiliano Randolfi è un personaggio anomalo che ha frequentato i Corsi di Risveglio; è diplomato naturopata, insegnante di pugilato F.P.I. dal 2001 … e ha combattuto in Thailandia Muay Thai! Questa è l’intervista che lui ha fatto nel 2014 al giovane (classe 1992) campione di Muay Thai Mathias Gallo Cassarino (nome di combattimento Sitsongpeenong), che pur essendo originario della provincia di Torino, vive da anni in Thailandia. L’intervista è preceduta da un’interessante introduzione: Perché fare un’intervista a Mathias? L’ho visto entrare alla Thai Boxing School di Torino a circa 10 anni e come tutti i bambini che vengono correttamente indirizzati nelle arti marziali, aveva già compreso che il gioco non era basato sulla violenza o sulla forza, ma era, appunto, un gioco. Come i cuccioli di leone, che giocando imparano, ma non sono spinti dal bisogno di cacciare una preda o difendere il territorio. La nostra cultura non sempre comprende appieno gli sport da combattimento e le arti marziali; la dimostrazione è data dal fatto che
sono rarissimi i professionisti del ring che vivono della loro passione e delle loro capacità in Italia. C’è ancora un’idea falsata e distorta degli sport da ring e questo fa sì che molti entrino in palestra unicamente per imparare a picchiare o difendersi. Solo una parte di questi ragazzi, con la pratica, trascende le “ottave basse”, ossia gli aspetti appartenenti alla personalità che li hanno portati ad allenarsi… e si innamorano di ciò che fanno, dello stato di grazia che si vive durante il match, imparando ad amare l’azione. Mathias Gallo era già un passo avanti rispetto agli altri: il suo viso durante lo sparring con i ragazzi della sua età, non lasciava intravedere emozioni basse o di paura per un colpo preso, era lì e gli piaceva quello che faceva. A 12 anni ha vinto in Thailandia il suo primo match da professionista (consentito l’uso dei gomiti), evento raro per un farang (straniero in terra thailandese) e unico per un ragazzo italiano, ma la stampa nazionale non ha sicuramente enfatizzato l’evento e Mathias da parte sua non si è montato la testa. Sembra che da allora non sia cambiato nulla nel suo atteggiamento sul quadrato: appare come un danzatore che si muove nel suo ambiente in compagnia del suo avversario, che diventa specchio e complice del momento. Quando si è davanti all’antagonista, sul ring, non si ha più tempo e spazio per pensare, si può solo eseguire la tecnica. Se ti sei allenato bene e hai acquisito gli automatismi giusti, il corpo farà da solo, basta “togliersi di mezzo”, annullare la mente. Non puoi vedere il bersaglio, mirare e colpire, ma puoi solo sentire mentre porti il colpo, utilizzando qualcosa che va oltre i 5 sensi. Non puoi riflettere sulla strategia, puoi solo attuarla! E per fare tutto ciò, per farlo appieno, devi Essere ciò che fai, “togliere di mezzo” il superfluo e semplificare. Mathias Gallo Cassarino fa il combattente di Muay Thai di professione, come migliaia di uomini nel mondo. Vive semplicemente il suo sogno, rimanendo se stesso, facendo
esperienza, con l’unica differenza di scegliere l’azione invece che pensarla ma restare fermo. Un grande guerriero non lo si vede dai titoli accumulati, dai riconoscimenti o dalla fama, ma lo si scorge dalla profondità del suo sguardo e dalla purezza del suo cuore. Così, se vogliamo integrare l’archetipo del guerriero, abbiamo a disposizione una strada per tornare a giocare, a combattere: sviluppando il piano fisico con l’allenamento, imparando a riconoscere gli stati emotivi che ci ostacolano, rallentando la mente quando accelera il cuore. Auguro a ciascuno di noi di trovare la pace in se stesso, utilizzando la vita come scenario per forgiarsi, seguendo il proprio sogno con leggerezza e armonia. 7 DOMANDE A MATHIAS GALLO Ciao Mathias, scusa se ti ho fatto aspettare, ma intervistare non è il mio mestiere e quindi devo improvvisare e chiedere lumi di tanto in tanto. Comunque, io ho vissuto per oltre un anno in camp in Thailandia, mi sono allenato a lungo a Chiang Mai, e anche Koh Phangan, Koh Tao e ho combattuto qua e là in Thailandia (proprio poco prima che un talentuoso ragazzino italiano di 12 anni facesse il suo primo combattimento a Koh Samui nell’Agosto 2005). Quindi un pò di cose le conosco, ma molti degli interlocutori a cui ci rivolgeremo non sanno neanche cos’è un camp d’allenamento e come si svolge la vita d’un atleta, che per quanto ricca di soddisfazioni è anche fatta di sacrifici e rinunce, oltre che di duri allenamenti e colpi sul ring. Lo scrittore che la pubblicherà (spero) nel suo prossimo libro è Salvatore Brizzi, puoi trovarlo su youtube … Passiamo alle domande: 1) Com’è iniziata la tua attività sportiva, dove e a quale età? Intanto grazie a te, all’autore del libro e ai futuri lettori per l’opportunità.
Ho iniziato ad allenarmi di Muay Thai per gioco a circa 8 anni o forse anche prima. Sempre verso quell’età ho disputato il mio primo incontro, anche se era solamente un “gioco” a una festa di paese che consisteva, in poche parole, nel combattere bendati. Sia io che il bimbo thailandese eravamo alle prime armi, ma è stata comunque una bella esperienza formativa e devo dire che ho finito abbastanza acciaccato. Il mio primo incontro vero è stato all’età di 12 anni allo stadio di Lamai - Koh Samui, Thailandia. 2) Hai cominciato a combattere da bambino grazie a tuo padre, ma a che punto della tua vita c’è stato il momento nel quale hai preso la decisione – come una vocazione – di continuare a combattere solo per tua volontà? Sì, mio padre è stato quello che mi ha avvicinato allo sport, anche se sono sempre salito sul ring di mia volontà, sin dal primo match. Parlando invece della decisione di diventare professionista a tutti gli effetti, diciamo che l’ho presa circa 3 anni fa, all’età di 18 anni, quando ho finito le scuole. 3) Com’è la tua giornata tipo (mattino, pomeriggio, sera), e in quale contesto vivi? La mia giornata tipo durante la preparazione agli incontri è abbastanza semplice da spiegare. La mattina sveglia alle 5:30 per andare a correre e in seguito allenamento al camp per circa 2 o 3 ore. Dopodiché si mangia tutti insieme e si va a dormire o riposare, così da avere energie per l’allenamento pomeridiano. Verso ora di pranzo alle volte si mangia qualcosa o alle volte si rimane a letto a dormire fino 14:30. Il secondo allenamento della giornata inizia alle 15:00 del pomeriggio e dura circa 3 ore; dopo allenamento si cena tutti insieme al camp, un po’ di svago e verso le 21:30 a letto. 4) Il ring è un palcoscenico o un campo di battaglia? Mentre combatti provi emozioni quali rabbia o aggressività oppure emozioni diverse? Quali sono le emozioni che senti di poter descrivere?
Il ring per me è più che altro un palcoscenico. Combattere raramente mi fa provare emozioni come rabbia o aggressività; il più delle volte mi sento solamente in una sfida di tenacia, tecnica e forza mentale. 5) Prima degli incontri esegui la danza rituale, ma il tuo rapporto con la divinità (non religione, ma qualcosa di intangibile, più sottile) prosegue anche fuori dal ring, cioè vivi anche nella tua vita quotidiana una sorta di spiritualità? Sì, prima di combattere effettuo la classica Wai Khru, una danza rituale per ringraziare il maestro e, per chi ci crede, scacciare gli spiriti maligni; però al di fuori del ring non ho dei rituali spirituali, anche se si può dire che vivere qua in Thailandia porta ad affrontare la vita in modo più spirituale quasi senza rendersene conto. 6) Credi che la tua attività abbia plasmato il tuo carattere e le tue relazioni con gli altri? La disciplina della Muay Thai mi ha insegnato tanto anche fuori dal ring, nella vita di tutti i giorni, mi ha aiutato soprattutto a capire e a migliorare le relazioni con i Thailandesi. 7) Come vivi la vigilia di un match importante e come ti mantieni saldo, concentrato, tranquillo? Solitamente la vigilia di un match importante è tranquilla, ma spesso molto stressante per via della perdita del peso in vista della pesatura ufficiale, questo però mi aiuta a rimanere concentrato. Ma ciò che mi aiuta di più è la consapevolezza di essermi allenato al meglio e di sapere a cosa vado incontro, questo mi mantiene con l’assetto mentale giusto. Blog di Mathias Gallo: http://www.galloboxe.com/ Organizzazione di pacchetti allenamento): http://7muaythai.com/it
completi
(viaggio,
alloggio,
Mail di Massimiliano Randolfi, che tiene corsi e lezioni personalizzate di boxe e Muay Thai a Torino:[email protected]
LA MORTE COME SCOPO
È bello morire per ciò in cui si crede. Chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta sola. Paolo Borsellino Perché chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà. Mt 16,25 Sostiene Draco Daatson che lo scopo della vita d’un monacoguerriero è morire in maniera onorevole. La sua intera esistenza è un addestramento e una ricerca di questo genere di morte. Nella cultura tradizionale dei guerrieri di tutte le epoche – da Atlantide a oggi – morire di vecchiaia viene considerata un’eventualità, non disonorevole se non è cercata dal guerriero stesso, ma sicuramente meno fortunata del morire in battaglia. Se, nonostante il guerriero abbia combattuto cento battaglie gettandosi con coraggio contro migliaia di nemici, il Destino ha voluto portare il suo corpo sino alla vecchiaia, egli sa che non ne ha colpa e si predispone ad accettare con serenità la volontà della Vita, trasmettendo fino al suo ultimo respiro i valori del monaco-guerriero ai giovani che gli si avvicinano spontaneamente. Nell’attuale cultura – deviata e invertita – la morte del corpo viene oltremodo temuta, rifiutata ed evitata con ogni mezzo medico e tecnologico a disposizione. Per qualche ragione a me incomprensibile, nella nostra civiltà, a una morte onorevole in
battaglia viene preferita una vecchiaia fatta di invalidità, malattia, incontinenza e demenza senile, dove il decadimento dell’apparato psicofisico viene portato come esempio di “giusta fine” agli occhi dei giovani. In un’epoca senza valori, la quantità assurge automaticamente al ruolo di valore. Morire a 20 anni viene universalmente considerato peggiore che morire a 40, che è a sua volta peggiore di morire a 70… e così via, in un “delirio quantitativo” dove principi come qualità, intensità, eroismo… cedono il posto alla mera legge del numero. Il fatto che la morte in generale – e in guerra in particolare – venga ritenuta una disgrazia a priori, è principalmente dovuto all’incapacità dell’uomo attuale di percepirsi in quanto anima immortale che occupa un corpo, anziché un corpo mortale e perituro che crede nell’esistenza dell’anima. Esistenza dell’anima che quasi mai viene realizzata nella pratica, ma al più creduta o sperata. Ancora una volta l’educazione impartita nelle scuole va a condizionare il nostro atteggiamento di vita e quindi ciò che temiamo e ciò in cui speriamo. Una madre la quale auspica che i suoi figli concludano la loro incarnazione terrena dentro un ospizio, trascinandosi a ogni passo una flebo mentre armeggiano con il catetere, anziché spirando su un campo di battaglia trafitti da altri guerrieri, sta a indicare in maniera evidente che a un certo punto qualcosa nella storia dell’umanità è andato storto. La madre d’un samurai o d’un guerriero apache mai avrebbero voluto questa fine terrena per i loro figli; piuttosto sarebbero state disposte a ucciderli esse stesse. L’immortalamento è l’atto del rendersi immortali attraverso la morte in battaglia. Emerge dagli studi di Julius Evola che secondo la tradizione romana (dove si parla chiaramente di mors triumphalis), così come secondo quella islamica, i guerrieri morti con onore in battaglia non sono mai morti. La spinta che li spinge allo sprezzo del pe- ricolo e al sacrificio è infatti la stessa forza trasmutativa che
“fabbrica alchemicamente” la loro anima rendendoli capaci di sopravvivere coscientemente alla morte dell’apparato psicofisico. Paradossalmente, solo accettando totalmente la propria fine e facendo pace con la propria morte è possibile percepire l’immortalità e raggiungere la serenità interiore. Se questo genere di accettazione non accade nel monaco-guerriero già durante la sua incarnazione terrena, avverrà comunque al momento della sua morte, poiché chi giunge a un livello tale di non-attaccamento alla propria vita da trovare il coraggio di affrontare una morte sicura pur di restare fedele ai propri principi e alla propria missione (vedi storia del magistrato Paolo Borsellino, citato a inizio capitolo), significa che ha già “fabbricato” un’anima immortale dentro di sé e per lui la morte rappresenterà solo uno “slittamento di piano”. Sostiene Draco Daatson che il non-attaccamento alla vita è causa ed effetto dell’immortalità sottostante. L’attaccamento alla vita e la mancata accettazione del decadimento fisico sono invece aberrazioni moderne. La pratica della presenza nel Qui-e-Ora ci permetterà un giorno di guardare in faccia la morte senza temerla. D’altronde, sostiene Draco Daatson, il Fuoco interiore emerge in maniera prepotente solo quando la mente si sente vicino alla sua fine. L’autentica energia vitale è percepita in una situazione estrema. Il corpo, le emozioni e la mente vacillano mentre il Centro si rafforza fino a esplodere in tutto il suo potere. Questo nuovo atteggiamento va a condizionare tutte le manifestazioni della nostra vita. L’accettazione della morte apre dei preziosi spiragli di Bellezza nella quotidianità. Si muore quando si viene abbandonati dal proprio partner e si muore quando si viene licenziati. Più in generale, si muore quando si viene rifiutati, quando le cose non vanno come vorremmo noi. In questi frangenti difficilmente ci comportiamo da monaci-guerrieri, perché non veniamo educati a farlo, non veniamo educati a morire a noi stessi. Affrontare le difficoltà “cavalcando la tigre” ci permettebbe di vivere delle vere e proprie morti iniziatiche, mentre noi ci dibattiamo per
sopravvivere a tutti i costi… con il solo risultato d’incrementare la nostra sofferenza. Siamo abituati a fare ciò che abbiamo voglia di fare e non quello che c’è da fare. Questo è l’opposto dello spirito dell’atleta e del guerriero. Veniamo indotti ad aspirare alla comodità anziché alla lotta orientata a vincere i nostri meccanismi e a far morire vecchie parti di noi divenute oramai zavorra. Ma la comodità, mentre da una parte consente all’apparato psicofisico di continuare a sopravvivere, dall’altra rappresenta l’anticamera della morte animica, l’annullamento dell’evoluzione spirituale; infatti solo dentro una bara potremo davvero riposare e non dovremo più fare i conti con il nostro senso del possesso e le nostre paure. L’uomo moderno che aspira a sopravvivere sempre più a lungo, in realtà si preserva all’esterno ma sta morendo all’interno. “Puoi abbandonare il tuo corpo, ma devi preservare l’onore. Non perdere mai la Via”, dice Miyamoto Musashi nel Dokkodo. Abbandonare il corpo rappresenta infatti ben poca cosa se raffrontata con un comportamento disonorevole, il quale marchia l’anima in maniera tale per cui molto dovrà soffrire quell’individuo in questa incarnazione o nelle successive al fine di recuperare l’onore perduto. I principi che meglio rappresentano una vita onorevole sono i cosiddetti Valori del FUOCO: Fedeltà, Umiltà, Onestà, Coraggio, Onore. Il significato di questi termini non è così scontato. La Fedeltà è la capacità di avere fede nell’esistenza d’un’Intelligenza Superiore che regola le nostre vite, il che equivale ad affermare che abbiamo fede nel fatto che qualunque evento accada nella nostra vita è il meglio che ci possa accadere ai fini della nostra evoluzione. La Fedeltà è quindi una fiducia granitica nella Perfezione. L’Umiltà è la conseguenza della completa realizzazione del proprio valore. Infatti solo una persona che sa bene quanto vale è capace di essere umile. Chi ha una bassa autostima tenderà a comportarsi con
superbia, a ostentare le sue capacità, in quanto ha paura di essere visto nella sua pochezza. L’Onestà è la capacità di vedersi e di vedere gli altri al di là della personalità mortale e delle sue apparenze. Quando vediamo una persona per quello che realmente è – oltre i gusci esterni rappresentati da mente, emozioni e corpo – siamo in grado di essere pienamente onesti con lei, ossia di pronunciare le parole giuste e compiere le azioni giuste. L’autentico maestro/allenatore è qualcuno che si comporta onestamente con i suoi allievi, ossia sa vedere ciò che veramente sono e li sa indirizzare, senza farsi influenzare dalla sua personalità e senza assecondare il soddisfacimento dei bisogni egoici, né suoi né dei suoi allievi. Il Coraggio indica letteralmente l’abilità di agire con il Cuore, in dispregio della morte della personalità. Ha coraggio colui che pone un valore al di sopra della sua sopravvivenza fisica o mentale (dimostra infatti coraggio anche chi riesce a uccidere le sue vecchie idee in favore di idee nuove). Parafrasando le parole dell’allenatore di boxe Cus D’Amato, chi esprime coraggio prova paura come chi è codardo, ma è quello che il coraggioso fa a renderlo coraggioso, e quello che il codardo non fa a renderlo codardo. L’Onore è la capacità di agire secondo i dettami della propria anima, anche quando questi vanno in contrasto con gli interessi egoici della personalità. È un “uomo d’onore” non colui che protegge la rispettabilità del proprio apparato psicofisico agli occhi della società, seguendo dettami morali di dubbia sensatezza, bensì colui che fa ciò che c’è da fare anziché ciò che a lui piacerebbe fare. I Valori del FUOCO torneranno a essere insegnati nelle scuole del futuro come già accadeva nelle antiche scuole che nel passato forgiavano guerrieri e guerriere. Una scuola che trasmette solo sterili nozioni tecniche, fabbrica in serie giovani senza futuro. Uno Stato non può insegnarti che “sei nato a caso” e “non c’è niente oltre la materia” e allo stesso tempo pretendere che tu cresca pieno di fiducia nella vita, sicuro e intraprendente. Una massa di giovani depressi e allo sbando è l’ovvia conseguenza d’un’educazione priva
di fondamenti metafisici, per la quale tutto ciò che conta è sopravvivere a tutti i costi il più a lungo possibile.
PARTE SECONDA
L’INGANNO DI CRONOS
Cosa eri prima che nascessero tua madre e tuo padre? Koan zen Cronos era il dio del tempo e regnava sul creato insieme alla sua sposa Rea. Sotto il regno di Cronos la terra conobbe un’età dell’oro, ma la sua tranquillità fu minata da un triste vaticinio: gli fu infatti predetto che il suo regno avrebbe avuto fine per mano del suo figlio più forte. Terrorizzato, per tentare di ingannare il destino iniziò a divorare i figli che partoriva Rea non appena nascevano, tenendoli così prigionieri nelle sue viscere. Rea, disperata, chiese aiuto ai genitori per cercare di salvare i propri figli. Fu così che dopo aver fatto nascere il suo ultimogenito, Zeus, Rea si recò dal suo sposo e anziché presentargli il figlio, gli consegnò un masso avvolto nelle fasce, che Cronos ingoiò senza sospettare nulla. Zeus, che era stato nascosto dalla madre in una caverna del monte Ida nell’isola di Creta, quando fu grande a sufficienza salì in cielo e con l’inganno fece bere a Cronos una speciale bevanda preparata da Metis (dea della saggezza) che gli fece vomitare i figli che aveva divorato. Dopo di ciò dichiarò guerra al padre e lo vinse. Alcuni studiosi – fortunatamente non tutti – credono che il tempo sia oggettivo, credono cioè si trovi fuori dalla loro coscienza e che scorrerebbe comunque, indipendentemente dalla loro presenza. Credono dunque che il tempo appartenga al mondo anziché a loro e
che se loro dovessero morire… in qualche modo i parenti arriverebbero tranquillamente fino a sera, anche in loro assenza, come se il mondo e la loro coscienza del mondo fossero due cose separate. Sostiene Draco Daatson che questa è follia, in quanto il mondo è personale, non oggettivo. Tutto ciò che esiste, può esistere solo nella coscienza di ciascuno di noi ed è creato da noi… compresa la sensazione dello scorrere del tempo. Provate a dimostrarmi l’esistenza di qualcosa capace di esistere oggettivamente, cioè al di fuori della mia coscienza. Ciò è impossibile, poiché qualunque cosa percepisco è dentro di me. Nessun filosofo è mai riuscito a dimostrare l’esistenza d’un mondo esterno alla coscienza e la scienza è sempre più vicina a dimostrare proprio il contrario: non si può parlare di un mondo “esterno”. Tempo e spazio sono relativi a ciascuno di noi. E non serve essere geni per arrivare a queste conclusioni, è sufficiente osservare la quotidianità per accorgersi che ogni individuo percepisce il tempo in maniera differente, e lo stesso individuo lo percepisce in modo differente in diversi momenti della sua giornata. Ma allora il “tempo in sé” che valore ha? Chi può percepire il vero tempo oggettivo? Come possiamo percepirlo se ognuno è capace di percepire solo ciò che esiste all’interno della sua coscienza? E in che senso possiamo dire che “esiste” un tempo oggettivo, se nessuno lo potrà mai percepire, perché tutti percepiscono sempre e solo il “loro” tempo? Qualcuno potrebbe non essere d’accordo e affermare che il tempo può essere misurato oggettivamente dall’orologio, e questa misura è sicuramente uguale per tutti, quindi, anche se ognuno di noi percepisce il tempo in maniera personale, tuttavia l’orologio sembra scandire un tempo oggettivo. Vorrei gentilmente ma fermamente far notare che un orologio è unicamente un ingranaggio che procede secondo determinate leggi fisiche, ma non misura proprio niente di oggettivo. Un orologio ci dice quante volte una lancetta ha compiuto un giro di 360 gradi,
oppure, nel caso d’un orolo- gio atomico, misura le oscillazioni della radiazione emessa da un atomo durante una transizione di stato. Ma tutto questo non equivale a scoprire quanto tempo è passato! Il tempo fisico non esiste. Ci sono dei corpi che si muovono secondo la loro natura, ma questo movimento non definisce mai il tempo. Una lancetta si muove da un punto all’altro, ma non ci sta dicendo quanto tempo è passato, perché “quanto tempo è passato” è una sensazione psicologica e non è misurabile a partire da un fenomeno fisico, si tratta di due ambiti completamente differenti. Nel tempo in cui una lancetta compie un giro, se intervistiamo dieci persone diverse, per ognuna sarà passato un tempo diverso, a seconda del suo stato d’animo e dell’ambiente in cui si trova. Esistono studi molto approfonditi riguardo questo aspetto. La lancetta ha indubbiamente compiuto un giro, ma l’espressione “è passata un’ora” non significa nulla, si sta solo dando un nome convenzionale a un determinato movimento della lancetta, ma non si dà una misura del tempo che è trascorso. Sostiene Draco Daatson che il Sole sorge e poi tramonta, ma non ci dice “in quanto tempo” lo ha fatto. Non c’è alcun rapporto tra il movimento del Sole e il tempo che è effettivamente trascorso. Vi sembra un concetto filosofico troppo astratto? Vi assicuro che non è così difficile da comprendere. Una lancetta compie un giro completo e noi affermiamo che “è passata un’ora”, ma quanto tempo è effettivamente trascorso resta una sensazione soggettiva, interna alla coscienza del singolo, per il semplice motivo che quello è l’unico luogo dove si trova il tempo. L’orologio non misura un tempo assoluto, è solo una convenzione sociale che ci è utile per non arrivare in ritardo agli appuntamenti, ma non descrive una realtà oggettiva. Per un albero “non c’è tempo”, ma per noi che lo osserviamo crescere sì, in quanto la coscienza spaziotemporale è una caratteristica delle specie più evolute. È come chiedersi se esiste il suono in maniera oggettiva? Esiste il suono su un pianeta che non è abitato da animali?
D’altronde il concetto di relatività non lo stiamo certo scoprendo noi oggi. La realtà spaziotemporale non possiede quindi un valore assoluto, non esiste “di per sé”, ma solo nelle differenti percezioni delle varie specie animali e di ogni singolo individuo all’interno della sua specie. Ognuno costruisce il suo mondo nella sua mente e ci vive dentro. Ognuno è circondato dalla prigione che si è edificato. Possiamo condividere percezioni simili solo nella misura in cui sono simili i corpi attraverso cui osserviamo. Fra noi e una zanzara esiste una differenza enorme nel percepire i colori, i suoni, le forme… e il tempo. Nell’universo della zanzara io non esisto in quanto individuo, sono solo una serie di vibrazioni, una temperatura cui avvicinarsi, una superficie su cui posarsi, un liquido da assimilare… ma non sono uomo o donna, bianco o nero, grasso o magro, ingegnere o avvocato… queste categorie nella coscienza della zanzara non esistono. Il mondo della zanzara è forse meno reale del mio perché nella sua realtà non esistono i libri e la televisione? Non è meno reale né più reale… lei proietta il suo universo e io il mio, e l’universo cambia a seconda del sistema nervoso – la finestra – attraverso cui lo si guarda. Ma esiste qualcosa di oggettivo, uguale per tutti, che si colloca al di là di tutte queste finestre e su cui tutte queste finestre danno? La separazione fra me e il mondo è un’illusione. Sostiene Draco Daatson che non esiste un mondo là fuori che può agire su di me dall’esterno. Questo non significa che non esista un mondo, ma solo che non è la fuori. L’illusorietà di questo universo si alimenta grazie al tempo. Per cui, se voglio liberarmi, se voglio accedere a uno stato di serenità costante, devo uscire dalla trappola del tempo. Mi sono prima soffermato a spie- garvi la soggettività del tempo perché se esso fosse veramente qualcosa di oggettivo, capace di esistere “là fuori” indipendentemente da noi, allora non ci sarebbe modo di sfuggirgli. Sarebbe inutile compiere qualunque tentativo. Potremmo smettere d’incontrarci e iniziare a impiegare in modo più proficuo le nostre serate bevendo birra in un pub o tentando goffamente di riprodurci con il partner di turno.
Invece vi deve essere chiaro che il tempo non è un mostro che si trova là fuori, non è un dio invincibile; esso si trova dentro ognuno di noi e questo fa sì che possa essere ingannato, proprio come è accaduto al dio Cronos. Ciò che vale per il tempo vale per ogni altro aspetto. Il denaro, per esempio, è anch’esso dentro di me e quindi la mia ricchezza dipende dallo stato della mia coscienza. Questo non vi dà sollievo? Non vi libera da un peso enorme sapere che la vostra ricchezza in realtà non dipende dai capricci del caso ma esclusivamente da ciò che accade al vostro interno? Più lavorate per sconfiggere il tempo ancorandovi al Qui-e-Ora, più potete realizzarvi nella vita e circondarvi di cose belle.
FUTURO E PASSATO
Il tempo non esiste, è solo una dimensione dell’anima. Il passato non esiste in quanto non è più, il futuro non esiste in quanto deve ancora essere, e il presente è solo un istante inesistente di separazione fra passato e futuro. Sant’Agostino Possiamo forse affermare che esiste qualcosa chiamato “futuro”? Di norma consideriamo il futuro come una “cosa” che esiste già e che ci aspetta lì da qualche parte fra un’ora, un giorno o un anno. Per esempio, sapete già che stasera a una certa ora, presumibilmente dopo cena, vi spoglierete e andrete a letto. Nella vostra testa “stasera” è un luogo che esiste già e che vi aspetta. Per la mente comune il futuro è infatti un luogo che esiste indipendentemente dal fatto che ci arriviamo o meno. La sensazione è che noi ci spostiamo verso un tempo – il futuro – che sta lì ad aspettarci e possiede quindi una sua esistenza oggettiva. Sostiene invece Draco Daatson che il futuro non esiste nella maniera più assoluta. E questa affermazione è inconfutabile. Non esiste nulla oltre questo istante e il prossimo istante potrebbe non arrivare mai. Mentre siamo sul posto di lavoro immaginiamo già la nostra casetta che ci attende per quando torneremo questa sera. Invece la nostra casetta non è lì ad attenderci e se nel frattempo si verifica un terremoto ne possiamo avere la conferma. Noi facciamo progetti dando per scontato che esista un futuro in qualche modo “sicuro”, quando invece l’esistenza fa letteralmente quello che vuole.
Se tutte le sere torniamo a casa e troviamo il nostro partner ad aspettarci a braccia aperte mentre svolazza tra i fornelli, diamo per scontato che quel medesimo futuro sia lì in attesa anche stasera. Se invece questa sera troviamo nostra moglie sdraiata sul letto e i giocatori della nazionale americana di pallacanestro che fanno la fila per passare una mezzora di divertimento con lei… oppure sorprendiamo lui che massaggia la giocatrici della nazionale italiana femminile di pallavolo (riserve comprese)… questo ci dovrebbe riportare bruscamente alla consapevolezza che il futuro non c’è, non è mai esistito e non esisterà mai. C’è solo questo momento presente, il resto è un’invenzione della nostra mente, la quale non riesce a stare ferma nel Qui-e-Ora. «Ogni istante si affaccia sull’abisso», sostiene Draco Daatson. E mai fu pronunciata verità più vera. Se ci ragioniamo un po’ su possiamo facilmente comprendere che da quando siamo venuti al mondo fino a oggi abbiamo fatto esperienza sempre solo dell’istante presente. Non abbiamo mai sperimentato fisicamente il futuro, né mai potremo farlo, essendo esso unicamente una proiezione della nostra mente e non qualcosa di realmente tangibile. Per quanto concerne il passato vale lo stesso discorso: non esiste e non può esistere una cosa chiamata passato. Tale concetto risulta più difficile da comprendere in quanto le persone di norma hanno registrato ricordi (delle immagini mentali) riguardo il passato, mentre non ne hanno registrato riguardo il futuro. Ma le immagini sono, per l’appunto, solo immagini, che non rendono più concreto il passato rispetto al futuro. Il passato inteso come un ente o un luogo fisico che si trova “più indietro nel tempo” e a cui facciamo continuamente riferimento, non può esistere, esattamente come il futuro. Le persone credono che il passato sia reale perché ha comunque il potere di influenzare il nostro presente. Ma non è il passato a influenzarci, bensì i traumi che sono rimasti cristallizzati nel nostro subconscio, come vecchie ferite non ancora rimarginate. O meglio, episodi della vita che noi abbiamo vissuto come traumi e che adesso influenzano i nostri comportamenti. Ma questi traumi esistono oggi,
non nel passato. E quando abbiamo subito quelle ferite il passato non era passato, era presente, esattamente come oggi. Mentre oggi c’è solo l’oggi. Se oggi ci capita un episodio – per esempio veniamo sconfitti in un incontro di boxe thailandese – che noi viviamo come un trauma a causa della nostra congenita incapacità di accettare tutto quanto la vita ci offre nel momento presente, tale episodio rimane registrato nelle nostre cellule. A partire da adesso i nostri comportamenti saranno modificati a causa non dell’episodio in sé, ma della registrazione che persiste nel nostro apparato psicofisico. In questo strano periodo storico, in cui la psicologia ha preso il posto della spiritualità, le persone tentano di liberarsi dalle conseguenze indesiderate dei loro traumi andando a cercare e poi rivivere tali traumi. Anziché slanciarsi verso il Cielo rovistano sottoterra, ossia nell’inconscio. Cominciano allora a frequentare uno psicanalista piuttosto che un counselor nella speranza che qualcosa nel futuro possa guarire il loro passato. Si affidano al futuro per riparare il passato, quando entrambi non esistono! Sostiene Draco Daatson che non è importante il significato del trauma né la sua antica causa, bensì solo il fatto che nel presente (che è tutto ciò che esiste) dobbiamo fare i conti con un’interferenza, un blocco, un disturbo, una dissonanza… che vogliamo risolvere. Ma se smettiamo di fare riferimento al passato e al futuro, in quanto inesistenti, allora l’unico momento utile alla guarigione resta quello presente. Nel momento in cui comprendiamo profondamente che futuro e passato non hanno alcuna esistenza reale, il momento presente, che prima non percepivamo nemmeno, si espande e prende il loro posto. Il Qui-e-Ora diviene allora padrone in casa propria. Ciò che ci tiene prigionieri di Cronos è l’illusione che esistano il passato e il futuro. Questa illusione ci fa credere che lo scorrere del tempo sia qualcosa di reale: è esistita la giornata di ieri, esisterà
quella di domani, quindi io mi sto muovendo tra il passato e il futuro. Invece non è così. Questo è il grande inganno di Cronos. L’eterno presente lo stiamo già vivendo… e non potremo mai raggiungerlo. È frustrante ma è così. L’eterno presente lo stiamo vivendo in quanto esiste solo questo, mentre è proprio il tempo con le sue ansie a non esistere. Il tempo è illusorio e c’è solo il Qui-eOra. Noi invece diamo credito al tempo, ci lasciamo imprigionare dalle sue maglie e poi vogliamo uscirne utilizzando un processo temporale! Col solo fatto di volerlo eliminare gli forniamo un’esistenza che non merita, perché il tempo non c’è e non c’è mai stato e ogni attività volta a trascenderlo ottiene l’effetto contrario: imprigionarci nell’illusione che possa esistere una cosa chiamata tempo. Per quanto riguarda il futuro il discorso risulta piuttosto semplice, perché è chiaro per tutti che il futuro non esiste ancora. Qualunque cosa noi immaginiamo sul futuro è, per l’appunto, solo una nostra immaginazione e niente di più. Noi proiettiamo il futuro ma non lo viviamo mai, viviamo solo il presente. In questo momento presente possiamo avere un’immagine che riguarda il futuro, ma non stiamo in nessun caso vivendo il futuro. Che esista il futuro è solo una supposizione, perché noi viviamo solo istante dopo istante e per quanto ne sappiamo ogni istante potrebbe essere l’ultimo dell’intera esistenza. Per quanto concerne il passato invece l’illusione è più forte. Vi faccio un esempio. Dieci minuti fa B. si è alzata dalla sedia ed è andata in bagno, poi è tornata. Avete tutti nella vostra mente il ricordo di B. che torna dal bagno e riprende il suo posto, vero? Ok. È un ricordo, cioè una serie d’immagini dentro la mente. Siamo nel momento presente e in questo momento percepiamo un’immagine di B. che torna dal bagno. Questo è tutto ciò che sta accadendo. Da questo fatto noi supponiamo che “nel passato”, cioè in un fantomatico istante che non è questo, si sia verificato ciò che è rappresentato in quell’immagine. Ma il ricordo è un’esperienza presente e io posso vedere solo adesso quell’immagine.
Siamo convinti che il ricordo ci consenta di conoscere il passato, un passato reale. Ma già l’espressione “passato reale” è una contraddizione in termini. Infatti se voi, ricordando B. che torna dal bagno, provate a chiamarla, a fermarla, a dirle di non sedersi nel suo solito posto… non vi è possibile farlo. Il passato è fatto di immagini, non di realtà, per cui non abbiamo mai una reale consapevolezza d’un passato effettivo. Mai. È incredibile che tutti noi consideriamo esistente con un grado di sicurezza così elevato un qualcosa che in realtà nessuno può mai toccare con mano. Nessuno ne ha mai consapevolezza, ma tutti non hanno dubbi che esista. Sostiene Draco Daatson che nel supporre reali il passato e il futuro facciamo sì che il presente diventi effimero, quasi inesistente. Rendiamo reali le illusioni del passato e quelle del futuro a tal punto che l’unica vera realtà, il Qui-e-Ora, scompare schiacciata fra questi due mostri. Infatti nessuno saprebbe definire l’istante presente, ma tutti sono certi di cosa è successo due minuti fa… e questo è assurdo. Il presente viene vissuto come un’esperienza sfuggente, mentre il passato è ritenuto una sicurezza. Ma se in questo istante voi fate un esercizio e vi sforzate di percepire tutto ciò che riguarda il passato e il futuro come immagini prodottesi adesso, immagini che nascono e muoiono adesso, allora tutto viene riassorbito nel presente, in un eterno presente. La consapevolezza eterna viene improvvisamente liberata dai confini imposti da passato e futuro.Io divento allora lo spettatore dalla coscienza infinita e non vivo più trascinato in catene dal passato verso il futuro, come sopraffatto dalla furia d’un fiume, schiavo di Cronos, bensì resto fermo, dominatore del mio presente, nel quale possono apparire unicamente immagini di qualcosa che non ho mai vissuto in un momento diverso da questo. Intendiamoci, non è che una certa azione non sia mai avvenuta, ma di certo non è avvenuta nel passato, perché non esiste un tempo diverso da quello che stiamo vivendo ora. E di questo sono totalmente sicuro… e un giorno ne sarete sicuri anche voi al di là d’ogni dubbio. Abbiamo tutti una certa immagine nella nostra mente,
l’immagine è reale, ma sarebbe folle dedurre che quella scena si è realmente svolta in un tempo che non è il presente. Non esiste e non è mai esistito un tempo che non sia il Qui-e-Ora. Non esiste nessun tempo! Se mentre leggete queste parole vi sentite confusi o disturbati è solo perché dentro di voi si sta verificando un’intuizione di quanto vi racconto. Lo state almeno in parte vivendo, altrimenti le mie parole non vi farebbero nessun effetto; semplicemente le liquidereste dicendo “Ci credo” oppure “Non ci credo” e tornereste a dormire tranquilli. Invece, se non siete indifferenti, se i vostri corpi reagiscono, lottano, è perché vi sta accadendo qualcosa d’importante. Il senso di nausea e di vertigine che si prova di fronte a una verità che sentiamo essere nostra ma che la mente non riesce ad accettare rappresenta il collasso della mente spaziotemporale… questo è il risveglio che state cercando… ma quando lo avete a portata di mano, fuggite… perché il vero risveglio fa terribilmente paura. È decisamente più comodo e rassicurante fare venti minuti di meditazione ogni giorno!
LA SALVEZZA NEL QUI-E-ORA
Quando ogni uomo avrà raggiunto la felicità, il tempo non ci sarà più. I demoni, Fedor Dostoevskij Sostiene Draco Daatson che il Qui-e-Ora deve diventare il centro della vostra esistenza, lo scopo principale per cui vivere. Rimanere focalizzati ventiquattr’ore su ventiquattro sullo scopo della vostra vita – qualunque esso sia – vi fornisce un centro interiore molto saldo e questo fa sì che irradiate una forza intorno a voi che vi rende carismatici; potreste persino diventare trascinatori di folle. Per fortuna sul pianeta ci sono sempre più individui che possiedono questa “centratura”, l’integrità dell’obiettivo; sono ancora relativamente pochi, tuttavia crescono ogni giorno in ogni campo: dall’arte, alla scienza, all’industria. Se non fosse così, non ci sarebbe progresso, non ci sarebbero azioni eroiche, né conquiste, né grandi innovazioni. Quando il nostro obiettivo è il Qui-e-Ora, termina l’identificazione con la mente e la nostra coscienza diviene sovra-mentale. In altre parole, la nostra coscienza smette di identificarsi con la mente, ne viene come sbalzata fuori e torna a essere pura consapevolezza. Questo è ciò che accade quando non siamo più soggetti al tempo. La mente perde i suoi punti di riferimento principali: passato e futuro. Fino a quando siamo prigionieri del tempo siamo anche prigionieri della mente, totalmente identificati con questo strumento che appartiene alla macchina biologica. Tale identificazione ci costringe a trascorrere l’esistenza immaginando il futuro e ricordando il passato.
Questa è la nostra prigione mentale. L’attività mentale e lo scorrere del tempo fanno parte d’un’unica illusione. L’illusione che esistano un passato e un futuro tiene in vita l’attività frenetica e caotica della mente. Non siamo mai nel famoso Qui-e-Ora di cui parlano tutti gli insegnamenti. La mente è fatta di tempo, esiste grazie al tempo, si ciba di tempo. Se noi ci identifichiamo con essa, lei ci fa credere che esista un domani di cui preoccuparsi o nel quale sperare, e al contempo che esistita un passato sul quale recriminare o del quale avere nostalgia. Ma questi sono, appunto, solo infantili inganni della mente, perché quando ci si libera ci si accorge – si realizza – che esiste solo l’istante presente. Il passato non c’è, e quando c’era, era sempre il presente di quel momento. L’attività ordinaria della mente, quando non si trova in uno stato di concentrazione, è costituita di anticipazioni, fantasticherie e ricordi – quello che abbiamo definito in questi anni come “dialogo interno”, cioè l’inutile rumore quotidiano della mente. Il che non ha nulla a che vedere con il vero pensiero: le attività in cui s’impegnano l’artista, lo scienziato, lo studioso, il mago. Mentre leggete queste righe state adoperando il vero pensiero, il pensiero focalizzato, mentre ciò che occupa di norma le vostre giornate è solo uno stupido rumore fatto di mille preoccupazioni. La mente ci tiene occupati in ogni sorta d’immaginazione negativa… e così si assicura il suo cibo, si assicura la sopravvivenza. Noi siamo identificati con la mente – crediamo di essere questa sua attività meccanica – e quindi restiamo presi nella trappola. Ma se riusciamo a ingannare il tempo… beh… allora cambia tutto… allora prendiamo noi il comando. Se infatti la mente non ha più cibo… ciò che è oltre la mente emerge di conseguenza. La mente per sua stessa natura è attività, è frenesia, è tempo, per cui se le viene sottratto il suo consueto lavorìo giornaliero… muore. Ciò che resta accanto al suo cadavere… siamo noi, cioè la pura coscienza, che è oltre il tempo e oltre la mente.
Vi è tutto chiaro fino a questo punto? È semplice: la mente è fatta di tempo – ricordi, progetti e preoccupazioni – pertanto se io in qualche modo riesco a uscire dal tempo, mi ritrovo anche fuori dall’attività meccanica della mente. Manca ancora una parte per completare il nostro ragionamento. La mente è anche responsabile del nostro senso di separazione rispetto al mondo. Fino a quando restiamo identificati con la mente e con lo scorrere del tempo a essa associato, ci sentiamo “qualcuno” che vive dentro un corpo, occupa un determinato spazio e si protrae per un certo tempo. Se ci sentiamo “qualcuno”, ossia individui specifici incastonati nello spaziotempo, non possiamo essere anche il Tutto, non possiamo essere l’Uno… e le nostre azioni non risulteranno fluide, sia dentro che fuori dal ring. La visione a cui ci costringe la mente è questa: io sono “qualcuno” che vive dentro il corpo, mentre fuori c’è l’universo. Questa è la dualità all’origine di tutte le dualità, la separazione all’origine di tutte le separazioni successive. Io dentro il corpo e il mondo fuori dal corpo. Sostiene Draco Daatson che fino a quando restiamo identificati con una mente che è all’origine del senso di separazione, non potremo mai sentire davvero che il mondo è dentro di noi e siamo noi a crearlo. Certo… lo potremo sempre pensare sul piano intellettuale – ciò che fa la maggior parte degli intellettuali e degli studiosi di esoterismo – ma non potremo sentirlo, ossia realizzarlo pienamente. Se restiamo identificati con la mente, noi siamo dentro l’universo e l’universo ci ha creato. Se usciamo dalla mente, l’universo è dentro di noi e noi lo stiamo creando. Finché rimaniamo identificati con la mente l’idea che siamo noi i creatori dell’universo nel quale siamo nati non è nemmeno concepibile, è l’idea d’un pazzo. Come posso infatti essere io il creatore dell’universo se io sono nato da mia madre e quando lei mi ha partorito io non c’ero ancora? Sul piano logico non ha nessun senso, ed è giusto che sia così.
Perché questa affermazione possa avere senso dobbiamo utilizzare il Qui-e-Ora come portale per uscire dallo stato di coscienza ordinario, spaziotemporale, ed entrare nella coscienza pura, nell’Uno. In questo diverso stato è l’idea che un universo esterno possa avermi creato a essere completamente folle. L’idea che esista un universo “fuori da me” è pura follia. Come può esistere “qualcosa” fuori dalla mia coscienza? Non si tratta di accettare il concetto sul piano logico, perché a livello logico è indimostrabile, ma di cambiare il punto di osservazione, allora la realtà emergerà in maniera evidente. Vi assicuro che è più semplice di quanto non sembri.
LA SCONFITTA DI CRONOS
Perduto è tutto il tempo che in amor non si spende. Aminta, Torquato Tasso Sostiene Draco Daatson che per sconfiggere Cronos è sufficiente vivere nell’istante presente. Non esiste una tecnica elaborata per riuscirci. Non può esistere una tecnica per imparare a essere dove siamo sempre stati e dove saremo sempre, ossia Qui-e-Ora. Non esiste un cammino spirituale che ci porti dove siamo già! È sufficiente che restiamo dove siamo. In realtà noi siamo sempre liberi, ma ciò che accade di norma è che viviamo sbalzati fuori dal Qui-e-Ora, fuori dalla libertà, che invece è la nostra condizione naturale. A causa dell’identificazione con la mente smettiamo di vivere nel presente senza tempo, in ciò che veramente siamo, in ciò che veramente è reale. In questo modo siamo sempre “fuori di noi”, sempre all’esterno, risucchiati dal tempo. Il lavoro di rein- tegrazione non consiste nel cambiare qualcosa o nel realizzare qualcosa. Nel vero lavoro di reintegrazione non ci può essere spostamento, ma solo rimanere saldi dove si è e ciò che si è. Dovete solo ricordarvelo. Tutto il lavoro alla fine consiste nel ricordarsi di non uscire fuori da sé per farsi risucchiare nella mente, ma rimanere ciò che si è. Questo è il vero “ricordo”. E in effetti questa è la parte più difficile, ma ne parleremo più avanti. Per adesso voglio sia chiaro che uscire dal tempo significa restare nell’unico luogo che non è influenzato dal tempo, cioè l’istante presente. L’istante presente ha una profondità infinita, è il luogo dove si nasconde Dio… e la serenità. Non riusciamo a trovare la serenità
proprio perché si nasconde sotto il nostro naso, dimora Qui e Adesso. Noi la cerchiamo all’orizzonte, vaghiamo per decenni alla ricerca di uno “stato alterato di coscienza”, una ricerca che prosegue per intere incarnazioni… e invece la serenità è sempre stata qui. Quindi per raggiungerla dovete smettere di cercarla, per esserla dovete smettere di volerla realizzare. La mente non può farlo. La mente è terrorizzata dall’idea che voi possiate restare nell’istante presente – divinamente sereni e sicuri di voi stessi – senza più preoccuparvi di cosa accadrà in futuro e senza più perdere ore nel rielaborare il passato. Perché la mente è fatta proprio di queste stupidaggini. La mente è come un talk show televisivo: si parla di tutto ma non si dice mai niente, si esprimono solo opinioni, non verità. Ci si incontra, ognuno dice la sua su un dato argomento e poi si torna a casa, ignoranti come prima. La mente è la stessa cosa, è uno stupido animale sempre al lavoro, non riposa mai, ha sempre qualcosa da pensare, un parere da esprimere, perché questo continuo dialogo interno la mantiene in vita, ma allo stesso tempo non sta facendo niente di utile per nessuno. Non sta pensando genialità artistiche o scientifiche, questo sarebbe il vero pensiero, l’autentico Intelletto, ma questo genere di pensiero appartiene al Cuore, all’anima – l’“Intelletto d’Amore” di cui parla Dante – non alla mente associativa di cui è succube l’umanità. La mente associativa non pensa: si sta semplicemente masturbando ventiquattrore su ventiquattro, anche la notte. Il corpo è diverso. Sostiene Draco Daaton che il corpo vive nell’istante e agisce sempre a partire dall’istante. Il corpo non si preoccupa, non vive di ricordi, non si masturba, è la mente che lo fa. Sto parlando anche della masturbazione fisica, non è il corpo che decide di farlo, ma è la mente che ne ha bisogno. Con questo non sto parlando male della masturbazione, talvolta riveste anche una funzione terapeutica, ma è evidente come spesso si tratti di un’esigenza mentale, non fisica. La mente schiavizza il corpo, abusa di lui, lo costringe a vivere male, così lo indebolisce e lo fa ammalare. Ogni vizio e ogni cattiva abitudine appartengono alla mente e si ripercuotono in un secondo tempo sul corpo.
Vivere nel corpo significa vivere nell’istante presente, mentre vivere nella mente significa vivere nel tempo, nel passato e nel futuro. Portare l’attenzione al corpo istante dopo istante significa non lasciarsi catturare dal tempo. Il ricordo di noi stessi porta come conseguenza a una maggiore consapevolezza del corpo, che finalmente cominciamo a percepire come qualcosa di realmente vivo. Di norma dimentichiamo di avere un corpo e viviamo solo dentro la mente. Il corpo diventa così un’appendice della mente, una protuberanza sconosciuta che vive al di sotto del collo. Il corpo è invece ciò che di più autentico abbiamo nella nostra esistenza. Il corpo è tutto, ed è dal corpo che s’iniziano a fabbricare quelle sostanze che portano alla costruzione dei veicoli più sottili, compreso il «corpo di gloria». Il corpo è la pietra su cui possiamo edificare la nostra “chiesa”. L’istante presente è una “singolarità”, come si dice in termini scientifici e filosofici, cioè un nonluogo nel quale non sono più valide le leggi ordinarie. Per esempio, un buco nero nello spazio viene definito come una singolarità, e lo stesso vale per il Big Bang, anche quell’istante rappresenta una singolarità dal punto di vista scientifico. Dire che qualcosa è una singolarità significa ammettere che non sappiamo cosa diavolo c’è in quel punto dello spazio e del tempo. È qualcosa di incomprensibile per la mente spaziotemporale, per cui, o si entra in uno stato di coscienza sovramentale, oppure resta per sempre un mistero insondabile. E nessuna definizione filosofica o matematica ci può portare a una reale comprensione della singolarità. Aggrapparsi all’istante presente significa stabilirsi nell’occhio del ciclone. Sapete che in un ciclone i venti normalmente aumentano verso l’interno in direzione del centro, ma nell’occhio del ciclone, per un diametro di circa cinque chilometri… regna la calma. La natura ci offre sempre delle metafore splendide. Quando me lo hanno spiegato per la prima volta sono rimasto affascinato da questo fenomeno. Più ci si avvicina al centro del ciclone, più aumenta il caos ed esso diventa sempre più pericoloso, tanto che i venti
superano i 100 Km/h; ma se ipoteticamente un individuo si trovasse proprio nell’occhio del ciclone, sarebbe al sicuro. Quando restiamo nell’istante presente entriamo in una singolarità, qualcosa che non era stato previsto dalla nostra mente. Allora corriamo, saltiamo, combattiamo, mangiamo, camminiamo, guidiamo… restando nel presente, evitando di vagare con la mente da un’associazione all’altra. Evitando cioè di pensare a cosa faremo quando saliremo sul ring, a cosa faremo sul lavoro, a cosa diremo a quella persona, a come sarà il locale che apriremo quando avremo guadagnato i soldi, a quanto sono state belle le vacanze passate, a quanto saranno belle le prossime vacanze… e così via… in un delirio di inutilità. Sostiene Draco Daatson che ogni singolo istante è tutto. Cercare qualcos’altro è follia. Cercare “nel tempo” la soluzione ai propri problemi – fisici, economici, sessuali o sentimentali che siano – significa essere entrati nella follia. Questa società è folle perché vive fuori dal Qui-e-Ora e quando un individuo ha un problema, invece che rifugiarsi nel Qui-e-Ora, dove c’è tutto, vaga nel tempo, dove non c’è nulla. Sostiene Draco Daatson che più è grande la difficoltà nella quale ci troviamo, più dobbiamo evitare di pensare, concentrandoci invece sull’istante presente. Nel corso d’una prestazione sportiva – e di un combattimento in particolare – pensare non può che essere controproducente. Tutti gli sportivi di qualunque disciplina sanno che il pensiero rallenta i muscoli, mentre il vuoto mentale è una benedizione. Fare congetture mentali sul passato e sul futuro non aiuta la soluzione di alcun problema, mentre è indispensabile restare aggrappati al Qui-e- Ora, istante dopo istante. Questo istante infatti è stracolmo di preziose intuizioni, al contrario della mente, che è in realtà un involucro vuoto dove la società mette quello che vuole. Agiamo e restiamo col nostro agire. Nulla più. L’identificazione con la mente è la barriera che c’impedisce di vivere nella realtà, nel Qui-
e-Ora, nel corpo. Per aggirare la mente dobbiamo rimanere in uno stato di presenza istantanea. La concentrazione sul Qui-e-Ora conduce al vuoto mentale e alla serenità che ne consegue. L’azione che origina dal vuoto è un’azione perfetta, un gesto atletico perfetto, predestinato. Se riuscite a produrre le vostre azioni partendo dal vuoto, ossia dal Qui-e-Ora, questo cambierà tante cose dentro di voi e, come conseguenza, cominceranno a cambiare delle cose nella vostra vita quotidiana. Allora il gesto diventa eterno, cioè a-temporale. Non sto scherzando, vi sto parlando di qualcosa di reale, di provato. Un atto di questo genere incide in maniera sostanziale sulla realtà circostante, mentre un atto che proviene dalla mente o dalla sfera emotiva non può che essere privo di forza. Per questo motivo quando vi ricordate di essere consapevoli dell’istante presente, iniziate anche a conoscere nuove persone, frequentare nuovi posti, incontrare nuove occasioni. Chi si ricorda di sé comincia a irradiare un’energia diversa che influenza l’ambiente circostante e lo costringe a mutare. A un certo punto potrete combattere su un ring, giocare a tennis, guidare nel traffico o a badare ai vostri figli… ma in uno stato di pace e beatitudine, con un senso di pienezza e soddisfazione interiori che spesso sfoceranno nella Gioia. E tutto questo non potete provarlo fino a quando restate infognati nel tempo, servi di Cronos.
ESCO
Ogni cosa è pronta, se anche i nostri cuori lo sono. Shakespeare, Enrico V Rallenta, e ciò che stai inseguendo si avvicinerà e ti prenderà. Detto zen Sostiene Draco Daatson che niente potrebbe adattarsi meglio ai nostri bisogni di ciò che sta accadendo in questo istante. Potrà anche apparire strano, ma la mente egoica, ossia il nostro piccolo ego, si alimenta grazie alla non accettazione della realtà così com’è. Generando una differenza fra la realtà così com’è e la sua idea di come tale realtà dovrebbe essere, la nostra mente produce un senso di esistere come entità separata che si “mette di traverso” rispetto alla realtà dei fatti. Questo curioso senso di esistere è ciò che noi siamo e che chiamiamo ego. In altre parole, immaginare avvenimenti differenti rispetto a quelli che abbiamo sotto gli occhi in questo preciso momento significa considerare la realtà del momento presente come un nemico da combattere. Questo atteggiamento dà origine a un’interferenza, un attrito, che corrisponde a una sofferenza. Ogni mancata accettazione di ciò che accade nel presente rappresenta, in fondo, una più o meno grande sofferenza. Si va dal non accettare che oggi piove o che la coda allo sportello delle Poste procede secondo tempi geologici, fino a non accettare una separazione o la morte d’un figlio.
È importante comprendere che il nostro stesso senso di esistere è, per forza di cose, costituito di attrito, cioè di sofferenza. Se non facessimo attrito con lo scorrere della Vita non proveremmo la sensazione di essere separati e quindi di esserci. Per cui è importante dal punto di vista evolutivo che questo accada, anche a costo di soffrire, altrimenti saremmo semplicemente creature inconsapevoli come gli alberi, i ragni o i giornalisti sportivi. Sicuramente non avremmo più problemi, ma non saremmo nemmeno consapevoli di noi. Sostiene Draco Daatson che nella Via di ritorno a casa del Padre non è necessario “eliminare” l’ego, perché così elimineremmo anche la nostra sensazione di esistere come creature separate, perdendoci in un nulla indefinito, il che, se avete una quarta di seno e un bel sedere… sarebbe un bello spreco. È invece necessario, sostiene Draco Daatson, che ci immergiamo sempre più consapevolmente in questo ego, nel nostro esserci, fino a diventarlo. Si tratta di identificarsi con la coscienza, non di perderla. Per cui, al fine di sottrarci a questa imbarazzante situazione evolutiva – dove siamo costretti ad arrabbiarci quando ci tagliano la strada in auto o a pretendere l’esclusività sessuale dal nostro partner – non è consigliabile ripercorrere il processo a ritroso fino a reimmergerci nell’inconsapevolezza primeva della Fonte; dobbiamo invece andare avanti, cavalcare la tigre ed entrare nella sofferenza, nel senso di esistere, nella coscienza – ciò che viene chiamato Presenza nel Qui-e-Ora o Ricordo di Sé – e al contempo accettare, anziché combattere, tutto ciò che ci accade istante dopo istante. Il paradosso, sostiene Draco Daatson, è che, stiamo parlando d’uno stato di coscienza fuori dallo spazio e fuori dal tempo, per cui è tecnicamente impossibile raggiungerlo e ottenerlo. Per sua stessa natura non lo si può realizzare secondo le modalità con cui si realizza un qualunque altro obiettivo spaziotemporale. Nello spazio e nel tempo – e grazie a essi – posso ottenere una laurea o avviare un’azienda, ma non posso realizzare il Qui-e-Ora. Non posso raggiungere la fottuta Illuminazione!
Il tempo e lo spazio, che apparentemente possono sembrare dei ponti che ci consentono di raggiungere l’altra sponda, ossia di passare dallo stato attuale al tanto agognato stato di non-mente, sono in verità due ostacoli. Quando pensiamo: “Adesso mediterò o farò esercizi di Ricordo di Sé affinché un giorno possa ottenere l’illuminazione” il presupposto è che spazio e tempo siano nostri alleati, ma invece sono i fautori della nostra disfatta. Spazio e tempo appaiono davanti a noi come ponti molto invitanti, quasi fossero miraggi, esortandoci ad attraversarli; ma è solo un inganno perpetrato dalla mente affinché non sprofondiamo nel Qui-e-Ora proprio in questo istante e proprio in questo luogo. Non possiamo sfruttare il tempo per entrare nell’eternità né contare su più spazio per accedere all’infinito. Non possiamo illuminarci nel futuro. Tutti si aggrappano al futuro, ma il futuro è un pozzo senza fondo che sposta sempre più in là il nostro Qui-e-Ora. Accade come nei sogni: corri per raggiungere qualcosa, ma non ti riesce mai di afferrarla… e questo ti causa angoscia. Poi improvvisamente ti svegli madido di sudore e realizzi che era solo un sogno: non stavi andando da nessuna parte e non dovevi raggiungere nulla di così importante. Sei sempre stato fermo nel tuo letto. Mi piacerebbe lasciarvi con una tecnica o una nuova meditazione inventate da me; potrei anche invitarvi a venire a un mio seminario dove imponendovi le mani sul settimo chakra questo si spalancherebbe in virtù della mia “divina energia”, risparmiandovi anni da “ricercatori spirituali”, un’attività che gerarchicamente si colloca una tacca al di sotto dei pulitori di sperma nelle cabine dei sexy show. Ma non voglio prendervi per il sedere – o almeno non troppo – per cui ribadirò che non avete bisogno di più futuro per aggiustare il vostro passato e non basterà qualche giorno in più per liberarsi dal concetto di tempo. Non potete fare niente per diventare ciò che davvero siete. Non potete ottenere più Gioia di quella che avete a disposizione adesso… e che non sentite perché non state fermi.
Non esiste un punto nello spazio e nel tempo dove troverete più Pace rispetto a dove siete adesso… ma dovete restare in ascolto per sentire questa Pace. Se non la trovate Qui – mentre siete seduti a leggere questo stupido libro – non la troverete nemmeno da un’altra parte. Non solo questa è la soluzione più semplice, ma in verità non c’è altra soluzione.
Tu sei un’anima che s’è addormentata come un timoniere stanco sulla sua imbarcazione. SvegliaLo. La Disciplina è Forza, il Giusto Pensiero è Magia, la Calma è Potere. Victoria Ignis
BIBLIOGRAFIA
Herrigel Eugen, Lo zen e il tiro con l’arco (tit. or.: Zen in der Kunst des Bogenschiessens, 1948), Adelphi, 1975. Tolle Echkart, Il potere di Adesso (tit. or.: The power of Now, 1997), My Life Edizioni, 2013.
Trovate tutti i video-corsi di Salvatore Brizzi su: www.nonsoloanima.tv