Guai ai baci. Così grande, così lontano: ritratto di mio padre 8820053675, 9788820053673

"Tutti conoscono Monicelli regista, ma nessuno sa nulla di lui come uomo, perché non si è mai lasciato conoscere, f

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Italian Pages 180 [157] Year 2013

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Table of contents :
Copertina
L’immagine
Il libro
L’autrice
Guai ai baci
E che ti aspettavi?
L’inizio
La separazione
La casa
Gelosia
In viaggio
Doveri paterni
Famiglia
Amici
Isolamento
Confusione
Anarchia
Città
Maestro
L’incidente
Convalescenza
La lettera
Una carezza
Riunioni
Tramonto e alba
Sorelle
Incontro
Adulti
Gli altri
Confessioni
Tregua
Rosa
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Ricovero
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Guai ai baci. Così grande, così lontano: ritratto di mio padre
 8820053675, 9788820053673

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Il libro

«T

           M           ,   nessuno sa nulla di lui come uomo, perché non si è mai lasciato conoscere, fedele alla sua idea che i sentimenti

non si manifestano.» Persino in casa baci e carezze erano vietati come fastidiosi segni di debolezza. Ottavia era bambina quando il padre se n’è andato, e per anni si è sforzata di superare la barriera che lui aveva eretto: lo ha accompagnato da Otello, la storica trattoria dove si riunivano attori e registi, ha incontrato la nuova famiglia, gli ha mostrato i suoi primi articoli in cerca di approvazione. Inutilmente. L’avvicinamento, pudico e inatteso, è arrivato quando lei, ormai donna, ha conosciuto la depressione e lui, nalmente presente, ha provato a modo suo a starle vicino. Ottavia Monicelli mette a nudo un rapporto sofferto e sfuggente, fatto di lunghi silenzi e slanci inaspettati, di abbracci mancati e aspettative deluse, perché in nome del cinema lui era pronto a sacri care ogni altro rapporto. Emerge il ritratto in chiaroscuro di un intellettuale acuto e generoso, animato da una incrollabile passione civile, curioso no all’ultimo, coerente persino nella morte, ma piccolo e fragile di fronte agli affetti. Eppure di questo grande regista che non sapeva essere padre lei è sempre stata innamorata, e ora che tutto si è compiuto resta il rimpianto di un’assenza incolmabile e il ricordo di un uomo che negava la tenerezza a se stesso ancora prima che agli altri.

L’autrice

Ottavia Monicelli, seconda

glia del regista Mario, è autrice di

programmi radiofonici e di un documentario. Cura il sito dedicato al padre. Questo è il suo primo libro.

OTTAVIA MONICELLI

GUAI AI BACI

Ai miei figli Vasco e Fiore e a Peter loro padre

L’uomo smania sempre più di far qualcosa proprio quando non gli resta più niente da fare. PHILIP ROTH , Pastorale americana Mi sei svanita via in una notte d’acqua ed io rimango dove ogni cosa manca non dormo non penso è diverso adesso nella solitudine dell’universo mi do due giorni per calmarmi limito i danni mi sono fatto morbido negli anni niente più parole cene colazioni insieme perché mi lascio andare a chi mi lascerà cadere? e se mi spingo nella notte in là perché mi chiedo cosa faccio qua? la pioggia non perdona fa paura gente dura sotto botta diventa strana ero un lupo in agguato a guardia di luci lontane ora conosco il prezzo di un ritardo e vedo te passare. ASSALTI FRONTALI , Notte d’acqua

E che ti aspettavi?

NONOSTANTE avessi fatto sempre di testa mia e, come normale, mi fossi spesso scontrata con ciò che garbatamente si de nisce errore, mio padre mi aveva accompagnata in ogni mia scelta, osservandomi come si scruta, al parco, seduti su una panchina, un bambino sconosciuto giocare. È sempre rimasto in disparte a guardare ciò che, per causa ed effetto, mi accadeva; spesso, ascoltando i miei racconti, rideva di sottecchi mentre, sconfortata, gli con davo le mie vicissitudini: «E che ti aspettavi?» mi diceva. E io, dall’altro capo del telefono, rispondevo tremante dalla rabbia: «Niente papà, niente». Effettivamente era vero: non mi aspettavo niente e così chiudevo le telefonate con un laconico e irritato «Ci sentiamo», sprofondando, ovunque mi trovassi, in una trance di ricordi. Una luce abbagliante era il sole che ci accompagnava all’Ara Pacis, io piccola, forse sei o sette anni, lui bello, alto, forte e atletico, perché mio padre da giovane era stato anche un ginnasta. I baffi a coprire le sue labbra sottili, sempre vestito in modo sobrio ed elegante − anche se non ha mai comprato nulla per sé, neppure un paio di calzini, la sua guardarobiera era mia madre. Camminava con passo lento e leggero, eretto, la mia piccola mano avvolta dalla sua grande e protettiva, procedevamo piano e di solito ci appoggiavamo sulla ringhiera di fronte a quella grande scatola, mentre lui mi raccontava la storia del mausoleo, di Augusto, dell’amata sorella Ottavia, che era stata sepolta in quel giardino rotondo che circumnavigavamo intanto che mi parlava. A volte la passeggiata niva lì, di fronte alle incomprensibili scritte incise sul anco del monumento, che lui mi leggeva

traducendole come se il latino fosse la sua seconda lingua. Io non capivo bene le parole, né tutta quella poesia, ma rimanevo ad ascoltarlo come intontita dai suoni che fuoriuscivano dalla sua bocca, e mentre la voce mi incantava, speravo che la sua mano non mi lasciasse mai. Spesso, dopo le nostre telefonate, mi sentivo circondata da mille pensieri che in quel momento non riuscivo a dipanare con chiarezza. Restavo seduta, immobile, a contemplare il vuoto che nella mia vita per lungo tempo aveva spodestato e spiazzato tutti gli altri sentimenti. Vuoto dentro di me, vuoto intorno a me, eppure quelle brevi telefonate mi davano coraggio, illuminavano per un istante il mio cammino no ad allora buio e come sempre deserto. Mio padre non mi diceva mai: «Hai sbagliato», né sosteneva una mia scelta, neanche quando sembrava giusta, ma era sempre lì, arbitro super partes ad ascoltarmi. A volte avrei voluto dirglielo io quel «Che ti aspettavi?» ma era ovvio che tanto non lo avrei sorpreso, avrebbe avuto come sempre la risposta pronta e io sarei nita, senza eccezione, come dopo ogni telefonata, a contemplare il mio vuoto chiedendomene il perché.

L’inizio

MIO padre era così, un uomo calmissimo e senza legami apparenti: si era saputo tirar fuori da due matrimoni e una lunga convivenza, nello stesso modo in cui un illusionista riesce a scon ggere le catene che lo immobilizzano, e lo ha fatto sempre con una certa eleganza: niente foto, niente giornali, nessun gossip, come si dice oggi. Della sua prima moglie, che a dire di mia madre lui amò molto, non ci ha mai raccontato niente. Per me è sempre stata un mistero. Ne conosco solo il nome, Gabriella. Dopo il divorzio, si sposò con un sico nucleare leggermente claudicante, che mio padre chiamava per scherzo lo «zoppetto atomico». Non so nient’altro di lei, se non che morì di un male incurabile dovuto al suo cuore e forse provocato dal grande dolore che papà le aveva causato lasciandola. Quando incontrò mia madre, dopo la separazione dalla prima moglie, lui viveva a via di Porta Pinciana, a Roma. Era, a suo dire, una piccola casa, squallidissima, ma aveva un enorme terrazzo totalmente vuoto, che si affacciava su una bellissima vista. All’epoca stava da solo, tranne che per la presenza di una governante, Maria, che lavorava anche all’Hotel Excelsior e si occupava di lui in maniera maniacale. Di lei ci raccontava che era incomprensibile come riuscisse a cucinare: non c’era mai una pentola sul fuoco, né un tegamino o una padella, ma il pranzo era sempre pronto, fumante ed elegantemente apparecchiato sulla tavola. Maria detestava tutte le donne che entravano in quell’appartamento e quando capì che mia madre non era di passaggio si licenziò in tronco.

I miei si erano conosciuti da Otello, un ristorante nel centro di Roma, dove erano soliti andare registi, giornalisti, scrittori, pittori, ma anche attrici e indossatrici. Anche mia madre era un’indossatrice e all’epoca in cui incontrò mio padre era una ragazza stupenda. Per mantenersi faceva la mannequin per Roberto Capucci e molti altri sarti di allora, aveva classe ed era richiesta per s late e servizi fotogra ci. Viveva un po’ alla giornata, perché le modelle non guadagnavano come oggi, e per risparmiare divideva la casa con alcune colleghe. Bella com’era, ogni giorno riusciva comunque a rimediare un pranzo o una cena, ed era felicissima di poter riempire l’enorme buco lasciato dalla fame. Era talmente affascinante che mentre lavorava da uno stilista di nome Zecca fu notata da Fellini il quale, nel pieno dei preparativi per La dolce vita, la rincorse un po’ da tutte le parti perché voleva assolutamente darle un ruolo nel lm, ma a lei il cinema non interessava e congedò il maestro con garbo. Come tutte le modelle, aveva gambe chilometriche e capelli che cambiavano spesso colore: rossi, biondi o neri, restavano comunque belli e vaporosi e le davano quel tocco di stravaganza che la rendeva ancora più intrigante. Era sempre vestita in modo raffinato: tacchi alti e abiti superchic. Fu questo, credo, che colpì mio padre: la sua bellezza prima di tutto, ma anche la sua simpatia, perché sapeva essere molto spiritosa. Era il 1962, e all’epoca era danzata, anzi si può dire che le partecipazioni erano già fatte. I suoi genitori, due borghesissimi conservatori orentini, erano quanto mai felici, ma lei di colpo cambiò idea e decise che l’uomo della sua vita doveva essere un altro: mio padre. La faccenda era complicata: se mia madre era quasi pronta per la chiesa, lui stava da lungo tempo con una donna, con cui però non conviveva. I due innamorati erano costretti a incontrarsi in segreto in luoghi assurdi come un caffè che esisteva allora, il Luau. Papà mi raccontava che là servivano una strana bevanda, chiamata la «vergine viziosa». Rideva mentre ricordava questi episodi del passato e io pendevo dalle

sue labbra, come una bambina che ascolta una favola. Forse l’ho sempre ascoltato in quel modo perché da piccola non mi ha mai intrattenuto con abe o racconti: era come se non ci fosse tempo, o se il tempo fosse scandito da abitudini prestabilite con cura e dettate dal distacco. Un giorno, all’inizio della loro relazione clandestina, i miei genitori decisero di fare un lungo weekend e di partire, nonostante fosse inverno, per Porto Santo Stefano. Papà si fece dare una stanza gelata all’albergo San Filippo che era praticamente chiuso: la loro fuga era proprio quella classica di due amanti freschi d’amore, che non davano importanza al freddo perché volevano solo stare insieme. Passeggiavano sulla spiaggia, giravano per trattorie, no a che una mattina a pranzo si fermarono in un ristorante. Quando entrarono c’era una grande tavolata, dove sedevano tutti i fratelli e le sorelle di mio nonno e mia nonna che, stranamente, quel giorno erano assenti. Mamma fu costretta ad andare a salutare, e uno zio le chiese con freddezza: «Antonella, ma chi è quel vecchio?» Lei, imbarazzata, non sapeva che dire e farfugliò qualcosa di vago. «Ma perché non me li presenti?» insisteva papà, molto divertito. Ma mamma, che conosceva la mentalità bigotta e retrograda degli zii, non volle sentire ragioni e se ne andarono. Continuarono a vedersi di nascosto, e intanto lei chiarì e chiuse con il danzato, scatenando le ire dei genitori. Papà, invece, esitava ad affrontare la sua situazione. Fu la sua ormai ex compagna a risolverla: avendo saputo della tresca, si presentò a casa di Otello e della moglie Nora, i proprietari del ristorante dove si erano conosciuti, per avere spiegazioni dal babbo. Così nì la loro storia, con un’imbarazzante confessione di mio padre che ammise di avere da tempo un’altra relazione. Ormai liberi, i miei andarono a vivere in una piccola casa a piazza del Teatro di Pompeo. Mia nonna Irina, la madre di mia madre, venne informata dall’ex compagna di papà e si precipitò da Firenze a Roma con intenzioni bellicose. Papà, che era molto curioso di conoscere i genitori della mamma, fu nalmente accontentato. I due si videro una volta sola e, al termine del breve colloquio, mia nonna si avvicinò a mia

madre e sibilò: «Non mi piace, stai attenta, non mi do, ha le labbra troppo sottili!» Evidentemente ci aveva visto lungo. Quando mia madre restò incinta, si trasferirono in una casa un po’ più grande, a via Garibaldi. L’arrivo di Martina fu una grande felicità perché papà desiderava tantissimo una glia femmina. Nacque il 7 aprile 1966, il giorno della prima al cinema Barberini dell’Armata Brancaleone, in un momento e in un anno baciati dalla fortuna del lm. Appena arrivò il divorzio nel 1974, i miei genitori, con dodici testimoni ognuno, si sposarono in comune. Martina aveva già otto anni e papà desiderava un secondo glio che non arrivava. Furono consultati molti medici, inutilmente, e mamma si dette pace. Lui invece no, continuava a dire: «Voglio una sorella per Martina!» Aveva deciso che sarebbe stata senza alcun dubbio una femmina e che l’avrebbe chiamata Ottavia, un nome romano che gli aveva suggerito Suso Cecchi D’Amico. Così, quando durante una vacanza sulla barca di Sergio Leone, la Gamba di legno, mamma diede l’annuncio che era incinta, fu una festa. Papà era felicissimo, mi raccontava mia madre che s’incazzava solo se qualcuno gli ventilava la possibilità che fosse un maschio: «Per carità, non voglio un maschio! Quando cresce gli vengono i peli e gli cambia la voce. Voglio avere solo glie femmine».

La separazione

QUANDO mio padre, nel ore dei suoi anni e credo del suo successo, durante o subito dopo il bellissimo Caro Michele, se ne andò, io ero piccola, avevo all’incirca due anni. In età più matura pretesi di sapere da mia madre in maniera dettagliata il perché e il per come della separazione. Lei fu molto recalcitrante, forse quel ricordo le faceva ancora male, ma mi disse di aver scoperto che papà aveva diverse relazioni. Di certo non brillava per discrezione, perché i suoi tradimenti, e i relativi smascheramenti, divennero quasi leggendari. Un giorno, per esempio, squillò il telefono e rispose lei. «C’è Mario?» chiese una voce femminile. «Chi è?» «Sono la danzata!» disse la signorina all’altro capo. E mia madre: «Bene, io sono la moglie, qui ci sono sedici camicie da stirare. Se vuole venire facciamo a metà!» L’ultima goccia fu talmente plateale che vale la pena raccontarla. Un pomeriggio, alzando la cornetta di uno dei telefoni di casa, mia madre sentì mio padre dire frasi sconnesse ma certamente d’amore. Alla ne della conversazione, andò da lui e gli domandò con chi stesse parlando. «Con nessuno», rispose. Mamma si sentì offesa nella sua intelligenza e insistette: «A chi dicevi: ‘Non posso vivere un minuto senza di te’?»

E lui: «A Furio Scarpelli». Mia madre non poté fare altro che infuriarsi e papà capì che era meglio raccontare tutta la verità. Il giorno dopo lei gli disse chiaramente che doveva andarsene. La partenza però non avveniva mai: papà sosteneva che non trovava una sistemazione. Allora ci pensò lei: gli preparò le valigie con tutto quello che possedeva, affittò un appartamento in un residence a nome «Mario Monicelli» e ci trasferì le sue cose. Nonostante la separazione, e tutto quello che avvenne dopo, tra mia madre e mio padre ci fu sempre, no all’ultimo suo giorno di vita, un grande amore, una profonda amicizia, un immenso rispetto e un’assoluta complicità. Addirittura, mio padre un giorno mi confessò che ancora non aveva capito il perché si fossero separati, addossando a lei la colpa: era stata la sua poca pazienza a causare il loro distacco, e la pazienza non era certo, a suo dire, una delle virtù di mamma.

La casa

DELLA casa in cui avevamo vissuto tutti insieme, no ad allora gioiosamente, ricordo ogni particolare: era nel centro di Roma, in via del Babuino, grande, arredata in modo semplice ma curato. Era disposta su due piani, uniti da una bella e ampia scala: sopra c’erano le camere da letto − la mia, quella di mia sorella e una terza per i miei genitori − e al piano di sotto c’erano la cucina, un vasto salotto pieno di specchi, la veranda in cui si mangiava quando avevamo ospiti. In ne lo studio di papà, un luogo per lui sacro: le pareti erano ricolme di libri e dischi, c’era un grande divano di velluto verde, così come verdi erano le librerie, e un tavolo con tante sedie dove mio padre amava stare da solo o in compagnia dei suoi collaboratori. Lui in persona teneva in perfetto ordine una scrivania trasparente, mi pare di plastica o plexiglass, che nessun altro poteva toccare, nemmeno per spolverarla. Nello studio stava chiuso ore a lavorare, ci mangiava anche, raramente gradiva la nostra compagnia. Era molto pigro, passava intere giornate in vestaglia e pantofole. Mi ripeteva sempre che, se fosse stato per lui, i lm li avrebbe girati volentieri dal letto perché amava dormire e stare a riposo, e si lamentava di non farlo mai abbastanza. A suo dire, dormiva tre o quattro ore per notte, ma sapevamo tutti che non era così ed era regola che, prima di coricarsi, si mettesse persino i tappi di cera nelle orecchie. Del giorno in cui mio padre se ne andò, ho inciso nella mente l’immagine della casa com’era, l’arredamento e la disposizione dei mobili, e in particolare un corridoio che portava alla camera da letto dei miei genitori, tappezzato con

una stoffa beige a spighe bianche. Ricordo che ssavo il guardaroba di papà, e i cassetti delle sue camicie, che erano vuoti; rivedo, come se fosse ieri, il colore dei divani e delle pareti, e le valigie ordinatamente appoggiate all’ingresso. L’unica cosa di cui non ho memoria sono i saluti, perché non ce ne furono, né addio, né arrivederci, e di quello che stava succedendo non mi venne data alcuna spiegazione. Allora pensai che papà e mamma avessero stipulato un tacito accordo per non avere sensi di colpa l’uno e per non soffrire l’altra. Papà andò via e nessuno disse niente, ed è stato sempre così nella nostra famiglia, nelle nostre vite: ogni cosa avveniva senza che le si potesse dare un nome. Dopo la separazione, mio padre si trasferì in una piccola ma graziosa casetta a vicolo del Curato, vicino a via di Panico, nei pressi di Castel Sant’Angelo; era nel centro di Roma, ma un centro diverso da quello che è diventato oggi. Lui lo amava perché allora era autentico, fatto di aschetterie, piccoli artigiani, botteghe con ogni genere di chincaglieria. A me rimase la casa da esplorare: il veto che aleggiava quando ci viveva lui − di non parlare, di non fare baccano, di non urlare, di non giocare ad acchiapparella o a nascondino − era stato scon tto dalla sua partenza. Prima di allora, quando lui era chiuso nello studio, non mi era permesso varcare la soglia della mia stanza: giocavo e mangiavo in camera, sempre rigorosamente da sola. Mia sorella invece no, a lei era consentito pranzare in cucina purché non facesse rumore. Entrambe ci aggiravamo, come piccoli fantasmi, all’interno dell’appartamento, mentre nello studio papà ascoltava musica classica a tutto volume, oppure era impegnato a leggere quotidiani o a scrivere sceneggiature con i suoi amici. Di solito c’erano i collaboratori di lunga data, Age, Scarpelli, Leo Benvenuti e Piero De Bernardi, ai quali si aggiungevano attori e attrici, come Monica Vitti, Paolo Villaggio, o grandi scrittori come Vincenzo Cerami, Alberto Moravia, Italo Calvino e tanti altri.

Fra tutti, il preferito del babbo era Pier Paolo Pasolini: erano grandi amici, insieme si divertivano pazzamente a giocare a calcio, e passavano molto tempo con Laura Betti. Conservo ancora un libro di Pasolini, con una dedica a mio padre che, letta e riletta, mi ha messo la curiosità di conoscere le parole che i due si scambiarono e si con darono: «A Mariuccio, con tutto il mio amore». A quei tempi, ogni tanto, senza farmi scoprire, sgattaiolavo da una porta secondaria del salotto e mi accucciavo dietro una poltrona tra il soggiorno e lo studio. Ero molto curiosa, avrei dato qualsiasi cosa per poter stare sulle ginocchia di papà ad ascoltare quello che quei signori si dicevano, ma non successe mai. Comunque là dietro, dal mio nascondiglio, li sentivo fare un sacco di cose: parlare, ridere, gridare. Le urla di Furio e Age mi facevano paura, pensavo che si picchiassero, ma subito dopo una risata fragorosa mi tranquillizzava. Poi: «No Mario! Ma che dici!» E papà: «È una stronzata, ’sta cosa non la scrivo!» E giù litigate e poi risate, pugni che sbattevano sul tavolo e applausi. Era evidente il rapporto profondo che intercorreva tra papà e i suoi collaboratori. S’incontravano quasi ogni giorno, instancabili, spesso dal mattino no a sera, a casa di uno o dell’altro, uniti dalla stima e dall’amicizia. Nonostante lui fosse così legato al gruppo e il gruppo a lui, nessuno sa quanto gli pesasse stare ore e ore a trafficare, discutere, fumare e baccagliare, lui che ha sempre preferito la regia alla scrittura. Durante quegli incontri, ricordo che andavano e venivano dalla cucina molte bottiglie di vino, che sicuramente tenevano alto il morale. La mamma qualche volta preparava vassoi colmi di tazze fumanti di tè, e piatti con pasticcini che Furio e Age apprezzavano molto. Mio padre, invece, li snobbava: amava il tè ma odiava i dolci. Capitava di sentirlo gridare dallo studio: «Tata, questo tè sa di stracci!» e tata Tina, la nostra tuttofare, che aveva il terrore di papà, correva subito a farne dell’altro. Addirittura, quando stirava le camicie del babbo, a cui lui teneva moltissimo, diceva a noi sorelle: «Non mi disturbate,

bambine, sto stirando le camicie di vostro padre!» e noi buone buone aspettavamo la ne del sacro rituale. Per un periodo della mia vita ho creduto che mio padre fosse innamorato della Suso. A casa sua gravitavano solo grandi artisti e scrittori, come Ennio Flaiano, Renzo Vespignani, Renato Castellani, Enrico Medioli e Nino Rota, che secondo mio padre era capace di fare qualsiasi musica gli si proponesse. Dalla Suso papà andava spesso, non solo per lavorare, ma a cena, a pranzo, a prendere il caffè e passava con lei brevi vacanze a Castiglioncello. Spesso lo sentivo prendere le chiavi del nostro appartamento annunciando che sarebbe passato da lei e che sarebbe tornato tardi, e io, che andavo a letto presto come tutti i bambini, non vedendolo rientrare mi interrogavo su quella situazione ambigua. Dopo la separazione, spessissimo, quando veniva a colazione da noi per vedere me e mia sorella, alla ne si alzava e ci diceva: «Be’, è ora che vada». E io: «No papà, resta ancora…» «Ottavia, devo andare dalla Suso, mi aspetta», chiudeva lui. Non mi diceva che ci andava per lavorare, e io mi ero costruita un castello immaginario ed ero convinta che fosse sempre là perché ne era innamorato. Ne ero sicura e me lo confermava anche la mamma, che ne parlava così bene, e naturalmente papà che la descriveva come un idolo: non esistevano donne che la potessero eguagliare, sosteneva. Così quando la conobbi, rimasi un po’ delusa. Era indubbiamente una donna bella e di grandissimo fascino, ma per me fu una vera sorpresa scoprire che non era una giovinetta di procace aspetto. Lei era tutto tranne quello che mi ero sempre immaginata: aveva un’aria quasi regale, era alta, con i capelli corti e leggermente mossi, occhi grandi, pungenti e curiosi. Era elegante ma di un’eleganza senza eccessi, e indossava gioielli come se fossero bigiotteria. Si vestiva spesso con larghi abiti bianchi, forse per nascondere le sue forme da donna grande e di incommensurabile presenza.

Non dimenticherò mai la sua bocca che sembrava sorridesse anche quando era molto seria, il modo di rivolgersi a noi bambine che non era mai retorico, mai che ci chiedesse come andava la scuola. Ci trattava come due persone adulte, era parca di complimenti e smancerie, e in questo assomigliava molto a mio padre, ma al contrario di lui era legatissima ai suoi gli Masolino, Silvia e Caterina, e con loro e con noi sapeva essere molto dolce. Adorava ricamare e nella sua bellissima casa di via Paisiello spiccava un magni co divano, tutto ri nito e lavorato che, mi disse, aveva ornato lei stessa con la tecnica del piccolo punto per mesi e mesi. A mia sorella regalò un canovaccio con ori di calle che Martina ricamò alla bell’e meglio, lo fece incorniciare, e lo regalò a sua volta a Suso. Lei ne rimase commossa e io ne fui gelosissima.

Gelosia

NON si davano baci, non si davano carezze, non si davano abbracci, mai effusioni, vietato piangere, proibito mostrare segni di debolezza, bisognava essere forti, guardare avanti, non arrendersi e lasciarsi trasportare dalla sua voce, profonda, burbera e fredda. Come di regola, anche mia madre, dopo la separazione, non diede mai un cenno di cedimento o tristezza. Mio padre veniva a trovare noi, le sue glie, una volta alla settimana, solitamente il venerdì; citofonava, faceva le scale a piedi, cinque piani, e io lo aspettavo con la porta aperta, saltellando. «È papà! È papà! Martina corri! È arrivato papà», gridavo gioiosa dal pianerottolo, quando lo vedevo apparire nel suo blazer blu. Lo abbracciavo forte alle gambe perché non arrivavo più su. Ricordo ancora la morbidezza dei pantaloni di velluto sulle mie guance, mentre lui restava immobile, imbarazzato. Aspettava che io mi staccassi e mi metteva una mano leggera sulla testa, null’altro. Mia sorella scendeva con calma, sempre un po’ in ritardo. Era bellissima con il suo nasino perfetto e i capelli neri e ricci; io invece brutta, magrissima, con i capelli lisci color topo, gli occhi grandi e sgranati che guardavano adoranti papà seduto sul divano, le gambe accavallate ad aprire quintali di posta che la tata aveva diligentemente messo da parte. Ci diceva, con tono cupo e sarcastico, mentre scartabellava le lettere: «Questa è per te! Vai, vai a questa mostra!» Oppure: «Ti interessa il concerto dell’ultimo dell’anno al Campidoglio?» Io non capivo lo scherzo, Martina invece sì e rideva. Insieme,

loro due mi prendevano in giro: erano già allora compagni affiatati. Sono sempre stata gelosa del rapporto tra mio padre e mia sorella. Lei è nata sotto la buona stella dell’Armata Brancaleone e ha vissuto con papà un sacco di cose: hanno fatto viaggi, sono stati insieme a Berlino quando ancora c’era il Muro, lo ha accompagnato a ricevere qualche premio, era presente alle nozze dei nostri genitori. Nella fotogra a si vede che era grande, e dall’espressione sembrava emozionata e contenta. Papà aveva anche portato Martina, con mia grande invidia, a cena da Sandro Pertini, quando era presidente della Repubblica, e mia madre le aveva comprato un vestito apposta per l’occasione. Insomma, mi sembrava che si conoscessero meglio, e che tra loro ci fosse un’intimità che io con papà non avevo. O meglio, ce n’era un’altra. La nostra vita ha dato luogo a un rapporto lontano caratterizzato, per quanto riguardava mio padre, da molte aspettative che io ero ben consapevole di aver deluso, perché non ero stata all’altezza, o perché l’intenzione che mi aveva animato si era spenta nel tempo. Per questo lui provava per me sentimenti contrastanti, e la maggior parte delle volte il suo atteggiamento era duro, sarcastico, severo. Per mia sorella le cose erano diverse. A unirli c’era anche il cinema, per cui entrambi avevano dimostrato un grande interesse n da giovanissimi. Martina, dopo il liceo, non aveva voluto continuare gli studi iniziando subito a lavorare. Aveva cominciato dal basso, dai ruoli più modesti e, da brava glia di suo padre, come lui aveva fatto una lunga gavetta che l’ha portata a essere una delle migliori segretarie di edizione del cinema italiano e ad assistere i più grandi registi, come Mauro Bolognini, Ettore Scola, Carlo Verdone, Enrico e Carlo Vanzina, Citto Maselli, Lina Wertmüller e tantissimi altri. Credo che dietro il primo lavoro ci fosse lo zampino di papà, comunque la piccoletta dimostrò di essere un bulldozer, forse proprio perché non voleva in nessun modo sembrare una raccomandata. Era più o meno la tuttofare, mi pare per un lm dell’amico Claudio Risi. Ricordo che volevo tanto andarla a

trovare sul set, e quando nalmente mi accontentò, fu un’esperienza a dir poco barbosa. Martina non poteva stare con me, correva da una parte all’altra, e ogni tanto veniva a chiedermi se mi stessi divertendo. Io, per non dispiacerle e deluderla, rispondevo di sì, ma in cuor mio avrei voluto scappare per la noia. Lei intanto si dava un gran da fare, mi portò il «cestino» con il pranzo per la troupe − che all’epoca non avevo mai mangiato e che, al contrario di quello che mi avevano detto, a me sembrò buonissimo − andava di qua e di là, senza tregua, senza mai mostrare un segno di stanchezza. Arrivava alle sei del mattino e alle otto di sera, quando tutti erano andati via, dopo aver preparato l’ordine del giorno e averlo distribuito, restava per pulire il set con la scopa. Per mio padre, l’amore per il cinema era iniziato tra i quindici e i sedici anni, poi crescendo si era appassionato sempre di più. Condivideva questo interesse con gli amici del GUF, il Gruppo Universitario Fascista che frequentava a Milano, tra cui Riccardo Freda, Renato Castellani, Alberto Lattuada e Alberto Mondadori. Con Mondadori, che era anche suo cugino, aveva fondato un giornale, Camminare, dove si occupava di critica, divertendosi ad attaccare i lm italiani, che sentiva tutti fasulli e di maniera. Esaltava invece i francesi − René Clair, Jean Renoir, Julien Duvivier, Marcel Carné, Jacques Feyder − che amava tantissimo, ma il regime non apprezzava questa estero lia decadente e la rivista, troppo politica, troppo di sinistra, fu chiusa poco dopo. La sua primissima pellicola, del 1934, fu girata con gli inseparabili amici Alberto Mondadori e Alberto Lattuada. Era un cortometraggio di una decina di minuti, dal titolo Cuore rivelatore, tratto da un racconto di Edgar Allan Poe, con il quale speravano di farsi notare ai Littoriali. Invece fu un vero asco. La grande svolta avvenne l’anno dopo, quando decisero di fare un lm di lunghezza normale, cioè un’ora e mezzo. Si intitolava I ragazzi della via Paal ed era in 16 mm, muto, senza didascalie perché tutto doveva essere comunque comprensibile.

In assenza di mezzi, lo stile era, come ricordava mio padre, «realistico per forza di cose». Avevano trovato un operatore estremamente bravo, un ebreo di nome Cesare Civita, che aveva già lavorato tra l’altro a un documentario, a dire di papà bellissimo. Civita era un grande appassionato di fotogra a e aveva una modernissima cinepresa 16 mm che faceva proprio al caso loro. Così, con quattro cose e qualche attore trovato per strada, una volta terminata, mandarono la pellicola al Festival di Venezia e vinsero il premio per il miglior lm a passo ridotto. Della medaglia papà non sapeva proprio che farsene, il premio vero era la possibilità di andare su un set cinematogra co a lavorare. Finì a fare il ciacchista, cioè l’ultimo degli assistenti, per Ballerine di Gustav Machatý, un regista cecoslovacco all’epoca famosissimo perché l’anno precedente aveva vinto a Venezia con lo scandaloso Estasi, dove si vedeva per la prima volta una donna nuda. Papà raccontò storie esilaranti di quell’esperienza: questo presunto genio si rivelò un pazzo che vestiva in modo stravagante, urlava e strillava per atteggiarsi ad artista. A volte veniva colto da crisi e ordinava di spegnere le luci del set: tutti dovevano stare in silenzio, una cinquantina di persone al buio, ad aspettare che lui, concentrato sulla sua poltrona, ritrovasse l’ispirazione. Di questo passo terminavano poche inquadrature al giorno, ma erano frutto di un tale rimuginamento che papà credeva di assistere alla nascita di un capolavoro. E invece quando lo vide al cinema si rivelò una sciocchezza assoluta. Dopo si ritrovò a fare da ciacchista per un lm di propaganda, Squadrone bianco, affidato ad Augusto Genina, un regista di successo il quale di solito lavorava con i divi che mio padre più disprezzava. Il modo di fare di Genina gli sembrò cialtronesco, ma alla ne gli toccò ricredersi e da lui imparò a capire l’importanza di certi elementi tecnici, della concretezza senza pretese, e del mestiere. Nel 1935, a causa della guerra in Abissinia, la Società delle Nazioni aveva applicato sanzioni economiche all’Italia e ordinato agli Stati membri di interrompere i rapporti

commerciali. Il governo rispose con l’autarchia, in tutti i settori. Dall’estero arrivavano pochi lm e questa, mi raccontò mio padre, fu la fortuna del cinema italiano, che prima non esisteva e fu inventato quasi dal nulla. In quella situazione, chiunque avesse un minimo di competenza tecnica veniva reclutato e lui, che aveva già qualche esperienza professionale alle spalle, ebbe modo di inserirsi. Continuò per parecchio tempo a fare l’aiuto dell’aiuto dell’aiuto e, appassionato com’era, si impratichì dei set e delle varie fasi di lavorazione. Come Martina, a un certo punto ricevette una piccola raccomandazione. Infatti fu grazie all’amico Giacomo Forzano, glio del commediografo Giovacchino Forzano, che ottenne un lavoro e da quel momento non smise mai più di darsi da fare. Fu in quel periodo, nei famosi studi di Tirrenia, che conobbe e divenne amico di Giacomo Gentilomo che lo chiamò quando gli fu affidata la direzione dei lm La granduchessa si diverte e Cortocircuito, girati in tempo di guerra. Di entrambi mio padre fu, per la prima volta, sia aiutoregista sia sceneggiatore. Sempre da Gentilomo, che di formazione era montatore, capì l’importanza del montaggio, insegnamento prezioso che lo accompagnò durante la sua carriera. Il resto è storia: l’incontro con Steno, la loro affinità di spirito, l’amicizia di una vita. Quando si conobbero, Steno aveva già scritto sceneggiature per Rascel e Macario, mentre mio padre non aveva altrettanta esperienza in ambito comico, ma il successo dei primi lm insieme li rese una delle coppie inossidabili del cinema. Li chiamavano dappertutto, tanto che non riuscivano a stare dietro alle richieste. Una sera, davanti a un bel piatto di maccheroni alla pajata, mio padre mi raccontò che erano stati costretti a impiegare dei «negri», cioè degli scribacchini che reclutavano nei vari giornali umoristici dell’epoca e buttavano giù gag, battute e idee, ma non rmavano le sceneggiature. Un po’ per caso, un po’ per fortuna, scovarono in realtà ottimi sceneggiatori, che diventarono poi collaboratori di lunga, lunghissima data: Age, Scarpelli, Leo Benvenuti, Ennio De Concini, Sandro Continenza.

A quei tempi il cinema era un’industria molto fertile, ogni anno si sfornavano lm su lm, che spesso ruotavano intorno ai nomi di grande richiamo, come Totò. Lui per contratto doveva fare tre o quattro pellicole all’anno e per i suoi soggettisti era un incubo trovare una storia sempre diversa. Forse fu per quello che per mio padre la sceneggiatura è sempre stata un lavoro di squadra: servivano tante teste per inventare ogni volta l’idea giusta. O forse era per il piacere di discutere, confrontarsi, litigare con quelli che, in fondo, erano i suoi veri amici.

In viaggio

MIO padre guidava raramente la macchina. La prima se l’era comprata a quarant’anni, di seconda mano. Per muoversi preferiva l’autobus: andava girando ovunque con i mezzi pubblici, era così ssato che conosceva ogni linea. Non prendeva neppure l’ascensore: preferiva fare le scale a piedi, diceva che in quel modo si teneva in forma. Amava profondamente Roma, che dopo tanti anni sentiva ormai la sua città, e allontanarsi per più di qualche giorno gli pesava, forse anche per la sua pigrizia. Ma, per lavoro o per amicizia, qualche volta gli toccava. Ricordo ancora le tante piccole avventure e disavventure che capitavano a lui e ai suoi compagni, sempre buffe e divertenti e, al ritorno, noi che stavamo ad ascoltarlo in religioso silenzio mentre ce le raccontava. Ogni sua parola era una perla, almeno per me che lo vedevo sempre troppo poco. Una volta stava battendo la Sicilia in auto per alcuni sopralluoghi. Non so con chi, aveva percorso chilometri di strade polverose e bollenti sotto un cielo giallo, caldo e accecante, quando incontrò un contadino. Portava i calzoni stretti in vita da un legaccio, forse un cordone, era piccolo e nero, a torso nudo, il corpo bruciato dal sole. L’omino li guardò, vanga in mano, e appena la macchina si accostò per chiedere informazioni, lui, senza neppure lasciarli parlare, gridò con una voce che squarciò il silenzio di quel luogo torrido e desolato: «Vogghio viaggiari!» Un’altra volta si era avventurato con Tullio Pinelli, Piero De Bernardi e Leo Benvenuti per la campagna toscana. Erano

diretti a Montiano, vicino a Grosseto, a casa di un loro amico famoso per i pranzi sontuosi. Mio padre, che era alla guida, si era spinto su strade sempre più secondarie e polverose. Gli amici cominciarono a dubitare del percorso e Pinelli chiese timidamente: «Mario, sei sicuro che sia la strada giusta?» Papà, scocciato, gli rispose: «Certo che sì, sono stato in cavalleria io!» E così venne fuori che era stato ufficiale, cosa che nessuno sapeva, e il suo senso dell’orientamento lo confermava: alla ne, districandosi con disinvoltura fra quelle viuzze sperdute, li condusse a destinazione, e quasi in orario. Diceva che camminare lo ispirava: guardare i volti dei passanti, percorrere strade brulicanti o solitarie, passeggiare sotto il cielo terso o scuro di Roma lo faceva sentire bene, parte di un tutto che non conosceva e per il quale provava grande curiosità. Capitava spesso che, con il suo sguardo aperto, trovasse fra la gente comune i compagni di viaggio per i suoi lm. Una volta lo stavo accompagnando con la mia Cinquecento a un appuntamento con un produttore e fui costretta a fermarmi per far benzina. Era il 2006 e lui preparava quella che fu la sua ultima pellicola, Le rose del deserto. Mentre armeggiavo con il tappo della benzina che non voleva saperne di svitarsi, lui si sporse dal nestrino e gridò con la sua voce che sembrava sempre pronta a un rimprovero: «Ehi tu… sì, tu! Vieni un po’ qua!» Mi voltai a guardare e capii che si rivolgeva al giovane benzinaio che mi stava aiutando ad aprire il maledetto serbatoio. «Dica, dotto’», rispose il ragazzetto. E mio padre: «Ma tu l’hai mai fatto l’attore?» «Ma chi, io? Ma se ho fatto la quinta elementare, dotto’! Lavoro da quando c’ho sette anni!» «Be’, allora chiamami, che c’ho da farti una proposta!» e gli scrisse il numero di casa su un foglietto.

Quello, dall’agitazione, non fu più capace di aprire il tappo e ce ne andammo con la Cinquecento in riserva. Alla ne il benzinaio fu preso per una parte nel lm mentre io, dopo aver lasciato papà al suo appuntamento, rimasi a secco e incazzata nera. Il neorealismo era per lui proprio questo: carpire dal mondo personaggi ed episodi che si trasformavano in elementi da cui trarre una storia. Certo, dirigendo i grandi del cinema – Totò, Mastroianni, Tognazzi, Sordi o Gassman – questo tipo di lavoro era più facile perché attraverso i loro volti e la loro straordinaria espressività mio padre riusciva a raccontare vicende vere, ispirate ai tempi che viveva. E infatti nei suoi lm tornavano le esperienze che avevano segnato il suo passato e il suo presente, come la guerra, il fascismo, la povertà, l’emancipazione femminile. La sua versatilità era l’occhio curioso e trasversale che aveva sulla realtà, le persone, gli artisti. Era anche prendere un’attrice come Monica Vitti, che no ad allora aveva recitato soprattutto nei lm impegnati di Michelangelo Antonioni, e farla diventare l’attrice comica della Ragazza con la pistola. Per lui era una scommessa e un gioco. A Vittorio Gassman, dopo che per anni aveva interpretato ruoli drammatici o la parte di seduttore impunito, aveva proposto il personaggio di Brancaleone, anche se, come diceva mio padre, nella vita non era assolutamente così, anzi. Però conoscendolo e frequentandolo di persona, a casa, nelle loro leggendarie tavolate, aveva colto la sua naturale vis comica e aveva voluto portarla al cinema. Lui era così: non convenzionale e interessato a tutto. Divorava i libri, non vedeva l’ora di conoscere i ragazzi che facevano cinema, di parlare con i giornalisti; aveva quella che si chiama sete di sapere, di vedere, di raccontare. Non ha mai smesso di inventare, di pensare, di creare: era questo il suo segreto, era questo che lo faceva sentire vivo e che probabilmente lo ha fatto vivere così a lungo.

Negli ultimi tempi ripeteva di voler fare un lm sulle badanti, le tate che vengono da Paesi lontani e lasciano i gli per accudire i nostri, all’interno di famiglie sconosciute. Si chiedeva cosa facessero quelle donne e quegli uomini nei loro momenti di libertà, avrebbe voluto raccontarlo, ma era alla ne e non c’è riuscito. Diceva che era troppo vecchio e stanco. Sono sicura, invece, che se fosse riuscito a scriverlo e a girarlo sarebbe stato un capolavoro perché, come sempre, nasceva da un’idea geniale.

Doveri paterni

SONO nata nel 1974, in una gelida giornata di febbraio, mentre papà stava girando a Torino lo splendido Romanzo popolare. Quando misi piede su questa parte di Terra, mamma diceva che ero bruttissima perché ero rossa e lunga come un’aragosta; papà, invece, che era tornato dal set per vedermi, sosteneva che ero bella e avevo i lineamenti di una miniatura. Chissà chi dei due aveva ragione. Crescendo sono diventata una bambina buona, mite e gentile. Solo, ero troppo magra, ma secondo i pediatri era un fatto congenito. Quando papà ci lasciò, però, il mio peso divenne un problema enorme perché smisi di mangiare. Naturalmente nessuno glielo disse, per non tediarlo e non distrarlo dalle sue faccende. Di me si preoccupò la tata, che trovò uno stratagemma per nutrirmi: preparava dei papponi che versava nel biberon, poi allargava i buchi del ciuccio e, di notte, mentre dormivo, mi veniva data la pappa a mia insaputa; è per questa abitudine lontana che sono tuttora una night eater. Dopo la separazione, mi sentivo devastata dalla paura e dal senso di abbandono, che ancora oggi mi tengono legata e mi portano a cercare, a chiedere sempre conferme affettive. Papà mi aveva tenuto per mano troppo poco, e io avevo bisogno di lui per tante ragioni. Da piccolissima, da adolescente e da adulta, no a quando è stato possibile, ho cercato il suo amore. Lo adoravo ma non venivo corrisposta, almeno non nel modo in cui avrei voluto, che era semplice e consueto.

Invece non c’è mai stato tra di noi, neppure quando ero bambina, un vero rapporto padre- glia: il suo affetto si manifestava in modo freddo e disadorno, niente fronzoli, niente orpelli sentimentali, nessuna emotività. Non ho mai preso l’abitudine di con darmi con lui, e le poche volte che l’ho fatto, me ne sono pentita. Tutto l’amore che uno si potrebbe aspettare da un padre è stato scandito dal uire di un rapporto distaccato e gelido, nel quale mancavano i piccoli e i grandi gesti quotidiani. Mio padre non è mai venuto a prendermi a scuola, non era con me il primo giorno delle elementari, non mi ha mai fatto una foto, non mi ha insegnato a nuotare né ad andare in bicicletta, non mi ha mai portato un regalo di compleanno che non fosse stato comprato da mia madre, che tanto lui non sapeva sceglierli, e non è mai venuto a vedermi alle recite di classe, né alle gare di nuoto alle quali di solito arrivavo prima. Ricordo, però, come una delle mie poche soddisfazioni, quando gli raccontai dell’esame di maturità. Avevo deciso di portare le materie che per me erano più ostiche, loso a e francese. Quel giorno, nonostante il panico che aleggiava dentro la mia testa e trasudava dalle mie mani umide e mollicce, feci un bellissimo orale. «Brava, sei stata molto brava, non me lo aspettavo!» disse lui, per una volta piacevolmente stupito dal fatto che fossi riuscita a combinare qualcosa in ambito scolastico, che era poi quello dove mi trovavo peggio. La separazione dei miei la pagai con un senso di estraneità anche a scuola. A quell’epoca, il divorzio era una cosa inusuale, che mi faceva sentire un’aliena di fronte alle mie coetanee. Avevo un padre famosissimo, che però non era un vero padre, provvedeva a tutte le mie necessità materiali ma non si preoccupava d’altro: se stavo bene, se stavo male; che avessi la febbre, il morbillo o la lebbra per lui era indifferente. Godevo di una libertà maggiore rispetto alle mie amiche, i miei genitori non mi stavano addosso, non venivo rimproverata, fumavo, non studiavo, facevo quello che mi pareva. Avevo danzatini a cui mi attaccavo in modo morboso,

perché in mancanza di una famiglia mia speravo di farmi adottare. Volevo che la loro intimità diventasse la mia, mi pareva che vivessero in famiglie stupende all’interno delle quali c’era sempre un papà che ai miei occhi era speciale. Negli anni del liceo un po’ imparai ad appro ttare di questa situazione. A scuola non ero molto brillante, reagivo al disinteresse dei professori con la mia svogliataggine: erano così poco appassionati al loro lavoro, alla politica, che li vedevo come dei disperati e li trattavo da tali. Non mi impegnavo in nessun modo, tanto il loro metodo era sbagliato e speravo capissero che era ora di sperimentare qualcosa d’altro. Naturalmente della scuola a mio padre non glien’è mai importato nulla, e questo mi ha sempre dato molta sicurezza, perché potevo fare e disfare come più mi piaceva. Anzi, lui aveva sempre denigrato il nostro sistema educativo, anche se fu un allievo straordinario, colto, curioso, ricettivo. Traduceva il latino come un professore e conosceva benissimo la storia, la sapeva leggere, elaborando interpretazioni che ci lasciavano a bocca aperta per il particolare, personalissimo guizzo. Per esempio, di Garibaldi diceva chiaramente che per lui era un cretino, anzi un ingenuo, e che il Risorgimento italiano era sopravvalutato. Papà Mario era sempre così, metteva la sua indipendenza sopra a tutto, e quando provavo a entrarci, avevo la netta sensazione di non essere la benvenuta. Quanto a lui, mi guardava o mi frequentava ma, al contrario di quello che avrebbe dovuto fare, stava accuratamente lontano dalla mia vita e, per quello che ne so io, da quella di Martina e di Rosa, la sorellina che nacque in seguito. Si vedeva e si capiva che gli davamo fastidio. A Monicelli i bambini non piacevano: erano rumorosi, pedanti e avevano bisogno di troppe cose, facevano troppe domande ed erano noiosi. Anche i suoi. La famiglia stessa era qualcosa che lui non amava, al suo interno si sentiva imprigionato. Non so neppure perché abbia voluto dei gli: c’erano i doveri di padre che lui ha ignorato, i compleanni da ricordare che di anno in anno dimenticava, l’educazione che trovava inutile perché, diceva: «Ognuno deve

fare ciò che vuole», e c’erano, almeno nelle case dei miei coetanei, tutta una serie di convenzioni e rituali che lui denigrava e riteneva prestabiliti, vecchi e borghesi. Di noi glie non si è neppure mai parlato. Tutti conoscono Monicelli regista, molti hanno scritto libri, o hanno fatto ritratti e interviste, ma nessuno sa nulla di lui come padre, come uomo, perché non si è mai lasciato conoscere, fedele alla sua idea che i sentimenti non si manifestano. Appariva, a me e agli altri, duro, sicuro di sé, poco o niente avvezzo all’amore. Solo ora capisco il signi cato del tipo di educazione che elargiva: nella vita bisogna imparare che più si è sentimentali, più si è deboli e si soffre, e lui era così perché aveva una grande paura del dolore, anche di quello degli altri.

Famiglia

DELLA sua famiglia e di quelle a cui aveva dato origine, di tutte noi e di tutti loro, a papà non importava più di tanto perché il cinema, il suo ego, la sua vita venivano sempre prima del resto. Non ha mai fatto nulla affinché io o mia sorella frequentassimo i nostri parenti, non ho mai capito perché; percepivo però che voleva restasse solo la sua famiglia. I fratelli erano i suoi legami, facevano parte dei suoi ricordi, erano di sua proprietà. Giorgio era il maggiore, nato dalla precedente relazione del padre con l’attrice Elisa Severi; di lui ci raccontava che faceva il traduttore dall’inglese pur senza averlo mai studiato. Lo zio Franco, anch’egli più grande, era stato editore; lo zio Mino, giornalista, era stato estromesso dall’albo perché troppo rivoluzionario per quei tempi; lo zio Furio, invece, era stato scrittore e insegnante al conservatorio di Milano e raggiunse la celebrità con il romanzo Il gesuita perfetto dal quale nel 2007 Saverio Costanzo ha tratto il bel lm In memoria di me. La più giovane era la zia Giovanna, a cui mio padre era profondamente legato. Amava pure l’altra sorella, illegittima, Silvana, anche se non aveva vissuto con loro e non portò mai il cognome Monicelli. Non ricordo di aver passato del tempo con gli zii e i cugini, e chi aveva la necessità di scambiarsi qualcosa, come succede normalmente fra consanguinei, doveva farlo in autonomia, senza contare su mio padre. Per questo ho dovuto provvedere da sola a tessere i miei rapporti con la famiglia paterna e mi pare di esserci quasi riuscita. Sento sempre al telefono la zia Giovanna, con la quale chiacchiero per ore e che mi riempie di allegria con le sue risate. Vedevo spesso lo zio Mino, anche se

ancora soffro al pensiero di non averlo potuto accompagnare quando è morto. La famiglia per Monicelli era un’appendice lontana. Forse qualche remota ragione la si può trovare nelle sue origini, nella sua vita di bimbo. Mio padre ha sempre detto di essere nato per caso a Viareggio il 16 maggio 1915, ma c’erano parecchie cose dubbie nella sua affermazione. Si divertiva a ripetere che non sapeva bene se fosse nato il 15 del ’16 o il 16 del ’15 e, quanto a Viareggio, forse era più una città di elezione che faceva parte della sua personale mitologia. Nessuno ha mai voluto contraddirlo, me compresa, perché si sarebbe infuriato. Quando decisi di costruire il sito che porta il suo nome, con l’aiuto del mio amico Fabio, arrivò addirittura a imporci di scrivere quel luogo e quella data di nascita, se no niente sito. Mi faceva ridere la sua faccia che voleva essere seria e invece era tutt’altro; ma pur di nire e andare online, abbiamo obbedito e una volta in più abbiamo avallato la storia della sua «toscanità». A mio padre piaceva esibirla, si riconosceva nella vena burbera e nell’ironia distruttiva e tagliente di cui si faceva vanto. Mario Monicelli veniva da Ostiglia, un piccolo paese alle porte di Mantova. Il padre, Tomaso Monicelli (1883-1946), aveva origini modeste, ma fu uomo di grande cultura e intelligenza ed ebbe una vita straordinaria. Già da giovanissimo decise di lasciare gli studi per dedicarsi al movimento operaio e pochi anni dopo fu tra i fondatori del giornale Avanti!, di cui fu anche direttore. Durante il suo periodo milanese, collaborò a lungo con la stampa rivoluzionaria e frequentò politici e intellettuali socialisti. Perché si fosse allontanato da quell’ambiente, non lo so bene. Quando mio padre era bambino, Tomaso era diventato un sostenitore del primo fascismo, forse seguendo il percorso di Mussolini, che come lui veniva dalle le socialiste e da un’analoga esperienza all’Avanti!, o forse perché condivideva le posizioni antigiolittiane e irriverenti del movimento. Soprattutto era un nazionalista: aveva scritto articoli

irredentisti, nel 1916 si era arruolato e aveva combattuto sul fronte del Carso come sottotenente. Nel frattempo si era trasferito nella capitale, dove fu nominato direttore del Tempo. Nel 1922, dalla casa dei D’Amico, amici di famiglia, mio padre assistette alla Marcia su Roma: se la ricordava bene, la descriveva come un chiassoso corteo nelle vie della città, giovani che cantavano Giovinezza, suonavano e gridavano slogan. La gente di passaggio si univa, quasi fosse un’allegra s lata. Nel 1923 mio nonno fu chiamato a Bologna per dirigere Il Resto del Carlino. Rimase fedele al fascismo no al delitto Matteotti, poi cambiò tutto. Dalle colonne del giornale scrisse articoli infuocati contro Mussolini e i suoi, e fu licenziato in tronco. Solo grazie alla casa editrice Bottai gli fu garantito un impiego per vivere dignitosamente. La famiglia si spostò di nuovo, questa volta a Viareggio: mio padre fece lì il liceo e forse acquisì la toscanità di cui andava tanto ero. Nonno veniva descritto da mio padre come un uomo dolce, buono e paziente. Mi raccontava che spesso incantava i gli con i suoi racconti un po’ veri, un po’ romanzati, in cui loro non sapevano distinguere il vero dal falso. La nonna, Maria Carreri, era invece di tutt’altro stampo: molto dura, molto intelligente, almeno a dire di mio padre, che di lei aveva grande stima. Impartì ai gli un’educazione rigidissima. Un giorno, tutti ben vestiti e pronti per uscire, si erano attardati a giocare in strada sporcandosi e lei li aveva picchiati in malo modo. Ma si sa, a quei tempi era così: i genitori davano legnate e minestra, c’era poco spazio per le smancerie. Forse per questo, da piccolo, Mario Monicelli era buonissimo, e combinava guai solo quando veniva istigato dall’adorato fratello Franco. Nonna Maria l’ho conosciuta. Se non ricordo male, abitava nel quartiere romano della Balduina e per andare da lei dovevamo prendere la macchina. Imboccavamo la panoramica, una strada tutta curve e tornanti; mio padre, per farci divertire, tagliava le curve come un pazzo e a ogni sterzata volavo su mia

sorella Martina e ridevamo a crepapelle. Una volta arrivati nella modesta casetta, la nonna ci offriva ogni ben di dio. Solo che non era proprio fresco, bensì avanzato da giorni. Io non mangiavo mai perché non avevo fame; invece mia sorella, che era una buona forchetta, si sedeva al tavolo della cucina e spazzolava grandi quantità di baccalà o polpette dall’odore disgustoso. «Sei il mio più intimo amico e, credo, quello a cui voglio più bene», scriveva mio padre nel 1945 ad Alberto Mondadori, con insolito, esplicito affetto. Ogni volta, in questi anni, che ci siamo incontrati, anche fuggevolmente, sentivo nascere in me un’improvvisa tenerezza, un senso nostalgico di infanzia ritrovata, di accordo profondo… E rammento che i nostri rapporti sono stati, segretamente, sotto quel segno, quasi ci fosse fra noi due una massoneria segreta, quasi scoccasse un contatto invisibile, non palesato ma reale.

Le due famiglie erano imparentate. Prima che scoppiasse la guerra, Arnoldo Mondadori aveva impiantato una tipogra a a Ostiglia, che prosperò perché, trovandosi nelle retrovie del fronte, stampava grandi quantità di materiale per i soldati. Con l’aiuto di Tomaso, che era già un intellettuale di peso, fondò La Sociale, da cui poi nacque la casa editrice che avrebbe portato il suo nome. Soprattutto, a furia di frequentare mio nonno, si innamorò della sorella Andreina, e la sposò nel 1913. Mio padre legò bene con due dei cugini, Giorgio e Alberto, che frequentò molto durante il suo periodo milanese, dopo il liceo. Di Alberto, in particolare, diceva che avrebbe avuto la stoffa del regista, se il padre non lo avesse costretto a rientrare nell’attività di famiglia. Le lettere che si erano scambiati ai tempi dei loro esperimenti cinematogra ci sono piene di entusiasmo, sogni, progetti. Dopo il premio a Venezia per I ragazzi della via Paal, mio padre scriveva: «Naturalmente abbiamo vinto, come faremo sempre da ora in poi! Andiamo avanti allora per questo inverno, facciamo, lavoriamo, perché noi abbiamo bisogno e vogliamo lavorare nel cinema».

Per un po’ coltivarono anche l’idea di avviare una rivista dedicata al cinema, che naturalmente avrebbe stampato Arnoldo. Papà era combattuto: da un lato un lavoro certo come vicedirettore e il rinsaldarsi di una vecchia amicizia, dall’altro i vari impieghi sui set romani e la vaga prospettiva di poter, prima o poi, dirigere un lm suo. Alla ne non se la sentì di lasciare tutto per tornare a Milano e l’intero progetto naufragò. Dei loro rapporti so in realtà molto poco, papà come sempre era schivo, raccontava e non raccontava. Qualcosa di più si trova nel loro epistolario, Un inesprimibile sentimento di fraternità, da poco pubblicato. In una lettera del 1945, con la guerra alle spalle da appena qualche mese, Alberto Mondadori commentava il loro rapporto: In quanto a me, quello che tu sentivi pensandomi è quello che io sentivo ogni qual volta, ed è spesso, mi vien fatto di riandare con il pensiero a te, ai nostri lontani anni giovanili, alle nostre esperienze di Tirrenia e a quelli che li precedettero; e tutto ciò in un semplice ed inesprimibile sentimento di fraternità che per nessun altro ho mai più provato. I nostri rapporti sono veramente nati e vissuti in una segretezza d’animo e una sua purezza che né lontananza, né diversità di strade percorse hanno mai potuto offuscare. Direi anzi, che la nostalgia che nasceva in me della tua intelligenza, della tua sensibilità e della tua cultura, si acuiva per farsi a volte inconsolabile a causa appunto di questa lontananza e di questa diversità.

Con i Mondadori, e forse proprio grazie a loro, mio padre frequentò molti intellettuali, come il poeta Vittorio Sereni e il losofo Remo Cantoni, e poi Lattuada, Freda e gli altri che rimasero suoi amici anche dopo. L’università, che teoricamente doveva frequentare, da quanto raccontava fu poca cosa: all’epoca bastava presentarsi in divisa e recitare qualcosa all’esame per avere l’«inutile attestato di laurea», come diceva lui. Mio padre lo ottenne così, e non si preoccupò mai di controllare, uscito dall’esercito, se fosse davvero un titolo valido.

Durante la guerra, non si è mai capito bene che cosa avesse combinato. Nel libro-intervista di Sebastiano Mondadori, La commedia umana, raccontò di essere stato inizialmente destinato alla fanteria, ma al momento del reclutamento, dal nulla sbucò un uomo che chiese se c’era qualcuno che sapesse andare a cavallo. «Io», disse mio padre, che a malapena ne aveva visto uno. Però gli sembrava una buona idea per risparmiarsi le marce. A me raccontò che venne fatto prigioniero in Jugoslavia, poi fu liberato all’arrivo degli americani. In altre fonti biogra che risulta invece che la sua principale preoccupazione no al 1943 fu di non essere trasferito in Russia o in Africa. Per due volte rischiò di essere mandato a Tripoli o Bengasi e pur di non farsi imbarcare – temeva di essere bombardato nel viaggio – si diede da fare nei depositi, così il responsabile per due volte lo fece depennare dalla lista dei soldati in partenza. Poi la caduta di Mussolini sembrò imminente, e poco prima del 25 luglio mio padre decise di abbandonare la divisa, si vestì in borghese e seguendo i binari si fece a piedi da Napoli a Roma. La famiglia Monicelli visse nell’agio, o almeno serena, no alla ne della guerra. Il 25 maggio 1946, Tomaso si sparò un colpo in bocca, credo per la vergogna di essersi piegato alla dittatura fascista quando invece la pensava in tutt’altro modo. Mio padre era a casa, sentì lo sparo, corse a vedere e trovò il corpo esanime. È stato così che ha conosciuto per la prima volta il dolore. Né mio padre, né i suoi fratelli – almeno quelli che ho potuto incontrare – amavano affrontare quell’episodio, troppo sofferto, troppo inspiegabile. Ma qualcosa nel tempo riaffiorava. Una volta, quando papà era prossimo alla morte e stava male, e noi gli facevamo coraggio dicendogli che mancava poco e sarebbe tornato a casa, lui rispose: «Anche poco è troppo», come a dire che quando si sta male a un certo punto non rimane che andarsene e non soffrire più. In un’altra occasione, mentre mi parlava del nonno Tomaso, pronunciò una frase terribile: «Ottavia, non sempre la vita vale la pena di

essere vissuta no alla ne». A ripensarci oggi, con tutto quello che è avvenuto, mi fa ancora paura.

Amici

TUTTI i cinematografari erano soliti incontrarsi nella trattoria Otello alla Concordia, nel centro di Roma, a via della Croce, la stessa dove si erano conosciuti i miei genitori. C’era un grande tavolo, detto «il tavolone», dove i clienti più intimi avevano sempre un posto riservato, così potevano mangiare in compagnia anche se arrivavano da soli o il ristorante era pieno. Papà ci andava di frequente proprio per stare in mezzo ai suoi amici. Monica Vitti, Tonino Delli Colli, Vittorio Gassman, Piero De Bernardi, Marcello Mastroianni, Ettore Scola, Furio Scarpelli erano fra i tanti clienti abituali. Era come una magia vederli tutti insieme a mangiare, bere e chiacchierare; la gente andava lì per prendersi una carbonara e si trovava accanto questi mostri sacri che ridevano e scherzavano, discutevano di cinema e letteratura, di lavoro o di politica. Tra un bicchiere e l’altro, i toni salivano e gli avventori rimanevano a guardarli attoniti, chiedendosi se davvero fossero loro, questi che urlavano e si sbracciavano, o se per caso ci fosse un errore. Il tempo passava impalpabile e spassoso, era bellissimo per me stare con loro, sotto lo sguardo divertito e severo di mio padre. Attraverso di lui, ho avuto la grande fortuna e il grande privilegio di conoscere tutti coloro con i quali ha lavorato, e di alcuni sono diventata quasi intima. C’erano gli attori italiani di quegli anni, tra cui uomini dal carisma straordinario: quando parlavano mi incantavano e mi trasportavano in quella che era la loro quotidianità, fatta ai miei occhi di avventure ed esperienze eccezionali. In altri contesti ho incontrato anche attori stranieri, alcuni considerati sex symbol, come Harvey Keitel, Bernard Blier,

Gérard Depardieu, Philippe Noiret, Matt Dillon, Tom Cruise. Qualcuno mi ha corteggiata, sempre senza successo, perché non ho mai subìto il fascino delle persone famose. Ero talmente abituata a starci in mezzo che non mi lusingava se mi invitavano a cena. Da Otello andavo spesso a mangiare anche da sola, tanto sapevo che avrei trovato di sicuro qualcuno con cui stare in compagnia, come faceva mio padre. Oppure accompagnavo lui e mi sedevo con i suoi amici. Una volta mi ritrovai a tavola con Tonino Delli Colli. Tonino aveva pochi anni in meno di papà, aveva iniziato a lavorare nel cinema più o meno nello stesso periodo ed era stato il direttore della fotogra a di quasi tutti i suoi lm. Si conoscevano da una vita e aveva condiviso un lunghissimo percorso. A tavola, quel giorno, parlavano solo loro, tto tto che quasi non riuscivo a sentire. Ogni tanto però carpivo qualche parola e intuii, dal loro discorso segreto, che commentavano gli errori commessi mentre giravano. Era tutto un susseguirsi di «Ti ricordi quando…» «Ti ricordi quello…» «E quell’altro?» Alla ne, stizzita e curiosa, feci notare che c’ero anch’io e non era carino escludermi dalla conversazione. Tonino mi guardò, poi si voltò verso mio padre: «A Mario», disse, «ma tu ja co’ tutti ’sti orecchini, sai che je ce vorrebbe? ’na guera, ma grande però!» e scoppiarono a ridere. Capitava spesso che, dopo il pranzo, i commensali si fermassero mentre il ristorante si svuotava, per chiacchierare o per giocare a carte. Otello stesso, il proprietario, era un grande appassionato. Un pomeriggio organizzò lì per lì uno scopone scienti co con Giorgio Arlorio e Franco Solinas. Visto che mancava il quarto, chiese a mio padre, ma ancora non erano in con denza e gli diede del lei: «Dotto’, sa giocare a scopone?» «Meglio di lei!» rispose il sor Mario. «Allora famose ‘sta partita!» lo invitò Otello. I due si ritrovarono a giocare in coppia. Papà calò un sette, che prese Arlorio; Otello aveva in mano il sette di denari e suppose, a rigor di logica, che l’ultimo dovesse averlo papà.

Buttò trionfante il suo settebello sul tavolo, solo che lo prese Franco Solinas. Primiera secca degli avversari. A quel punto Otello si alzò in piedi inferocito. Il suo naso, già molto prominente, era diventato rosso come un semaforo. «A Monice’, gli posso dare der tu?» chiese. «Ma certo, tante volte te l’ho detto!» rispose ossequioso papà. «A Mario, sai che te dico? Ma vaffanculo!» Scese un silenzio di gelo, poi il quartetto scoppiò a ridere. Da allora papà, che già era un cliente abituale, diventò anche un buon amico e con Otello presero a frequentarsi fuori dal ristorante. Con qualche altro avventore talvolta andavano insieme fuori, per una gita o un viaggio di piacere. Mio padre amava raccontare di quando partirono con Franco Solinas per la Sardegna, sulla piccola isola di Santa Maria, dove lui aveva una vecchia casa un po’ malandata. Gliela teneva un pastore, che ci viveva con il suo gregge. I tre lasciarono Roma, muniti di fucili e tutto l’armamentario, pronti per un’epica giornata di caccia. Arrivati a destinazione, si organizzarono per la battuta dell’indomani, ma scoprirono presto di essere una squadra anomala: papà considerava il fucile un puro elemento ornamentale e non lo usava proprio; Otello almeno sparava ma sbagliava il tiro perché gli faceva pena uccidere gli animali; mentre Franco, l’unico vero cacciatore, in quella compagnia diventava inetto anche lui! Il giorno dopo si incamminarono comunque. Appena il primo fagiano si sollevò goffamente in volo, il cane corse dietro a Otello, pronto a scattare al rimbombo del colpo. Otello lo mancò. Si alzò un secondo fagiano: papà lo guardò volare, Franco e Otello spararono, ma ancora niente. Il cane li osservava stupito e fremente, era palese che si chiedeva cosa stesse succedendo. Spuntò un terzo fagiano, che mancarono di nuovo, e si allontanò indisturbato. Il cane, furioso, tornò sui propri passi e corse verso casa; per il resto della vacanza non

degnò neppure di uno sguardo quell’indegna combriccola di cacciatori incapaci.

Isolamento

PAPÀ si era liberato di tutto. A un certo punto della sua vita, era riuscito a togliersi quei sassolini nelle scarpe che erano mia madre, la nuova compagna Chiara, me, Martina e Rosa, la bambina avuta da Chiara. Mogli, danzate, glie, nipoti: è come se avesse mandato tutti a quel paese con un sonoro vaffanculo e avesse tirato un bel sospiro di sollievo. Era rimasto felicemente solo. Era evidente per tutti ma lo era ancora di più per me. Percepivo chiaramente che si era ritrovato, in conclusione della sua vita, alle porte dei novant’anni, padrone del suo presente e della sua esistenza, ed era nalmente libero da ogni responsabilità. Addirittura gli dava fastidio anche la donnina delle pulizie che veniva a sistemargli casa una volta ogni tanto: «Mi sposta le cose, poi non le ritrovo più», bofonchiava. Abitava al primo piano di un palazzetto a via dei Serpenti, nel quartiere Monti. Adorava la sua casetta di appena una stanza, il salotto con una poltrona comoda comoda con a anco la radio e davanti la tv. C’era un piccolo divano di fronte a un tavolino sempre pieno zeppo di carte, copioni, libri sulla rivoluzione, su Stalin, tutti disposti in un ordine maniacale. Sulla sua scrivania c’erano, unici segni di noi, le nostre foto: la mamma negli anni Settanta durante una manifestazione; Rosa da piccola e Chiara; Martina e suo glio Tommaso e in ne Vasco e Fiore, i miei due bambini. La mia foto no, non c’era. Il suo Leone d’oro che, come diceva lui, aveva solo la funzione di fermacarte, stava lì sopra muto a svolgere il proprio compito. Un divisorio nascondeva la zona notte e il letto. A

completare quell’appartamentino c’era un corridoio d’ingresso, con la sua cucinetta e un frigo sempre vuoto ma con tante bottiglie di vino. Sempre, quando dovevamo andare a cena da qualcuno, arrivavo in anticipo e salivo, un po’ per farmi i fatti suoi, un po’ perché mi piaceva stare da sola con lui, sbracata sulla sua poltrona. Di solito non mi prestava attenzione ed era di poche parole, preso com’era a prepararsi. Odiava talmente essere in ritardo che se avevamo una cena alle nove, si doveva essere tutti pronti e agghindati alle sette. Spesso, mentre bighellonavo nel salotto tra le sue cose, mi apostrofava con voce brusca: «Ottavia, prendi una bottiglia di vino!» E io: «Ma quale prendo, papà? Ce ne so’ ducento!» «Prendine una qualsiasi, tanto so’ tutte bone!» Se faceva freddo, prima di uscire, calcava in testa il cappello con la falda o la coppola, si metteva la sciarpa in un modo che non ho mai visto fare a nessun altro, si faceva aiutare da me a in lare il cappotto e prendeva il bastone, ma più per vezzo che per necessità. Per cento volte controllava e si accertava di aver preso le chiavi. «Che te frega… Se le lasci a casa vai a dormire da Chiara!» gli dicevo io, sadica. E lui: «Ma che sei matta! Già che son riuscito a levarmela dai piedi, che faccio, ritorno indietro?» Ridevamo insieme, anche perché sapevamo benissimo tutti e due quanto fosse legato a lei. Poi scendevamo le scale del suo palazzetto, poche rampe, e ci avviavamo con la mia vecchia Cinquecento verso la nostra destinazione. Certo, non dimenticava che mogli, compagne e glie erano sempre in agguato, ma sapeva come tenerle a bada. Era vietato affacciarsi nella sua casa senza essere stati invitati, e gli inviti capitavano di rado, almeno per quanto mi riguardava. Le poche volte in cui mi sono presentata inattesa, mi ha lasciato fuori senza alcuna pietà, perché non ero la benvenuta.

«Adesso ho da fare», mi diceva bruscamente, «ti chiamo più tardi», e io rimanevo davanti al portone, senza sapere che fare. Ogni volta restavo sbigottita di fronte al suo ri uto, mi rattristava moltissimo e mi faceva sentire marginale, ma accettavo con dignità e celavo il disappunto. Rivivevo lo stesso sgomento, la stessa delusione – lo ricordo come se fossi ieri – che avevo provato quando, ancora ragazzina, scoprii da un giornale di avere una sorellina. Il titolo della rivista recitava, nero su bianco: «Monicelli a 74 anni papà!» Rimasi senza parole. Nascosi subito il giornale, per paura che mia madre o mia sorella potessero vederlo, e corsi dal mio punto di riferimento: la tata, l’unica che non mentiva, l’unica che era sempre pronta ad accogliermi, a parlarmi. Con la sua saggezza semplice e pratica, non si stancava mai di spiegarmi le cose, quelle facili come quelle difficili. Quella notizia rientrava nel gruppo delle questioni difficili, quindi le parlai con cautela, temevo che anche lei sarebbe stata investita dal mio stesso panico. Le feci vedere le pagine che raccontavano la nascita di Rosa, e lei, per nulla sorpresa, mi abbracciò forte e con voce calda e amorevole, teneramente mi disse che era una bellissima notizia. Lo credevo anch’io, ne ero contenta, ma mi domandavo e le domandavo perché papà non me lo avesse detto, e neppure mamma o Martina. Forse neanche loro sapevano. Avrei dovuto dare io l’annuncio, decisi, con grazia e tatto, così non ci sarebbero rimaste male, anche se ero sicura che, come me, ne sarebbero state felici. Tata mi consigliò di andare da mamma, che di certo mi avrebbe spiegato, e così feci, ma nella mia mente di ragazzina pensavo fosse papà quello che doveva spiegare. Perché non era lì a dirmi qualcosa? Non c’era, e non si sarebbe palesato per parecchi giorni. Mia madre mantenne lo stesso oscuro silenzio, solo Martina mi fece sapere che ne era al corrente e mi disse che avevano taciuto per proteggermi. Ma proteggermi da cosa? mi chiesi; per me non c’era niente di male, anzi ero contenta di avere una sorellina con la quale nalmente avrei potuto giocare, visto che l’altra era sempre pronta a scacciarmi,

canzonarmi o picchiarmi. Quell’episodio, se così si può de nire l’arrivo di Rosa, per me era importantissimo e pieno di signi cato, eppure anche quella volta restai delusa. Mio padre rimase assente e lontano per lungo tempo, come spesso succedeva, e quando nalmente venne a mangiare a casa nostra, a tavola regnò il silenzio. Nessuno toccò l’argomento, così parlai io. Con una vocina bassa bassa chiesi: «Papà, quando ci porti la sorellina?» Lui non rispose, neppure mia madre aprì bocca. Martina ssò il piatto. Il pranzo nì come era iniziato, senza una risposta, come usava nella nostra non-famiglia.

Confusione

IO , mia madre e mia sorella eravamo come una gura geometrica, e si sa che la geometria è contro ogni unione e ogni cambiamento. Un triangolo può cambiare la sua forma, ma i punti e i lati restano sempre gli stessi. Così era facile per mio padre tenersi fuori dal nostro trittico. Non volle mai che ci trasformassimo in un cerchio, la cui estensione è in nita e ingloba tutto. Io avrei tanto voluto che insieme, anche con Chiara e Rosa, diventissimo una sfera perfetta che si muove in un verso e nell’altro, ma rimane sempre unita, sempre uguale, sempre in equilibrio. Non avveniva e ne soffrivo molto. Per carattere, però, tenevo il mio male nascosto. Sembravo una ragazzina come le altre, facevo ciò che facevano i miei coetanei, non mi piaceva studiare, ma a chi piaceva? L’unica cosa che mi riusciva bene era nuotare: gli istruttori mi dicevano che scivolavo nell’acqua come un pesce, mi muovevo veloce e uida, planavo a stile libero come una piccola campionessa. Il nuoto mi riusciva bene perché lo amavo. Mi incantava vedere sotto e intorno a me quel colore azzurro che mi rilassava. Nell’acqua non sentivo, non pensavo, abbandonavo ogni ri essione, e anche me stessa, in quel senso di pace e sospensione. Il caos tornava appena uscita dalla vasca: gli strilli degli altri bambini, le urla degli allenatori, i ton dei tuffi. I rumori riaffioravano in un solo momento, per me orrendo rispetto a quell’ora silenziosa passata sott’acqua.

Non ho particolari ricordi delle elementari, solo che a un certo punto ero diventata una bambina triste, tristissima. Alle medie ero anche più assente, non partecipavo a nulla. Mia madre ricavò da una stanza degli ospiti uno studio per me. Lo sistemò con tutto ciò che mi piaceva: un divano, lo stereo, la tv, i libri, i dischi. All’epoca ero ssata con le cose vecchie – sedie, tavoli, lampade – e con la mamma andavo spesso a Porta Portese a rovistare e cercare oggetti. Nella camera ne nirono molti, le applique di cristallo, i fregi indiani che avevamo scovato in giro. L’unica cosa che continuava a mancare era la voglia di studiare e superai l’esame delle medie per il rotto della cuffia. Di fronte a quel «mediocre», mi sentii ancora più fallita, e anche il mio salottino-studio, con le sbarre che davano sulla terrazza, cominciò a sembrarmi una prigione. L’inquietudine si fece più prepotente al liceo e il mio comportamento strillava al mondo che volevo scappare da quella situazione borghese che non mi apparteneva. Mi vestivo di nero, ascoltavo musica gotica, fumavo – e non solo sigarette – andavo ai concerti nei centri sociali, ballavo musica techno assordante, partecipavo ai rave che tanto mi piacevano. Non ricordo neppure di avere avuto amici, se non qualche danzato che mi ha rubato gli anni migliori perché in lui cercavo il padre che non avevo. Adesso mi accorgo di aver perso tempo, e invece di legarmi a un ragazzo o a un altro, avrei dovuto imparare a stare sola, a farmi degli amici, o magari scappare davvero e partire. Invece cadevo sempre di più nel baratro della solitudine e dell’incomprensione. Leggevo Marx mentre gli altri erano in discoteca, conoscevo a memoria le canzoni di Vasco quando tutti ascoltavano Baglioni, andavo da sola al concerto di Al Di Meola che i miei compagni nemmeno sapevano chi fosse. Coltivavo i miei interessi – la radio, la musica e i libri, ma solo quello che piaceva a me – del resto mi importava poco o niente. Mi ero distaccata da tutto e tutti, perché di me e dei miei problemi nessuno s’interessava. Il primo anno al liceo fu un disastro, mia madre sperò che bastasse iscrivermi a una

scuola più facile e ma non ci furono miglioramenti e venni rimandata diverse volte. Del perché io non funzionassi, nessuno chiese o disse mai niente. Ora so bene che dipendeva solo da me, delle mie scelte papà e mamma non avevano responsabilità. All’epoca però neppure prendevo in considerazione il fatto che si potesse prescindere dall’amore ricevuto. Delle mie incapacità davo la colpa un po’ a tutti, a quell’affetto, a quelle conferme che non mi erano state date. Sui muri della mia cameretta scrivevo versi di canzoni o poesie con le quali esprimevo tutta la mia tristezza e la mia rabbia. Non so se mia madre abbia mai letto quelle frasi disperate, ma credo proprio che in questo assomigliasse a mio padre e non abbia voluto farci caso. Non era solo il malessere dell’adolescenza che mi tormentava, confusamente sentivo che c’era qualcosa di strano in me. Iniziai molto presto a pensare al suicidio: non aveva senso vivere così, a metà, mi ripetevo, con una sorella che non mi aveva mai dimostrato amore e un’altra, Rosa, che non potevo neppure frequentare; una madre che provava a farmi sorridere senza alcun successo e un padre che desideravo più della mia stessa vita ma che viveva con un’altra donna e un’altra glia. La preferenza che accordava alla seconda famiglia trasformava il mio amore profondo in un odio altrettanto profondo. Mi sembrava giunto il momento di dare un taglio netto a tutto il dolore e piani cavo con freddezza come togliermi la vita. A volte andavo in bagno e prendevo i rasoi che avevo previdentemente comprato e nascosto. Se non ho portato a termine l’idea, non fu per papà, Martina o Chiara, che anzi desideravo punire con quel gesto, ma per mia madre, l’unica buona e comprensiva, e per Rosa, che non aveva colpa della nostra lontananza. Non lo potevo sapere, né gli altri lo vedevano, ma era l’inizio della depressione, il male che mi ha accompagnato tutta la vita, anche oggi che scrivo questo libro. Come mi ha detto

un giorno una psicologa, corre parallela a fasi alterne al binario della mia esistenza. Adesso che ho due gli, che ho pagato con la sofferenza i miei debiti con la famiglia, una parte di me pensa ancora che sarebbe stato giusto andare no in fondo, che avrei fatto bene, perché l’angoscia è stata troppa e troppo forte, e io non la meritavo, non la sopportavo. Anche se ai tempi non mi sembrava affatto, papà era affascinato da me, forse perché ero così snob nei confronti degli attori e attorucoli bellocci che mi corteggiavano. Rispetto alle altre adolescenti, spiccavo per i miei gusti: nonostante l’età, avevo una parlantina incredibile, leggevo moltissimo e mi interessavo di politica, quindi avevo sempre argomenti con cui stupire e irretire l’interlocutore. Mio padre, che per anni era stato severo e altezzoso nei miei confronti, sembrava essere molto ero di me, soprattutto dopo che, tra la ne del liceo e l’inizio dell’università, cominciai a scrivere. So per certo che si emozionò quando lo zio Mino, che aveva letto alcune mie poesie, lo chiamò dicendogli che sua glia, quella che non sapeva far niente, la pelandrona, la scansafatiche, era per lui una magni ca scrittrice e aveva doti che avrebbero potuto aprirle le porte della scrittura. Incoraggiata dallo zio e facilitata dal mio cognome, cominciai a collaborare con alcuni giornali. All’inizio mi aiutava un’amica straordinaria e simpaticissima, Federica, con la quale stesi articoli molto elaborati ed eleganti; sentendomi più sicura, osai prendere la mia strada e ci separammo. Mi proposi come freelance ad alcune testate e, visto che avevo parenti all’interno della redazione, mi rmavo con il cognome di mia madre, Salerni, per evitare con itti di interesse. La stessa sorte, molti anni prima, era toccata anche a mio padre, che aveva utilizzato lo pseudonimo Michele Badiek per la regia del suo primo lm in 35 mm, Pioggia d’estate. Forse il cognome ungherese doveva dare più prestigio e credibilità a quella che era una produzione casalinga, poco più di un gioco tra amici. L’idea era stata di Ermete Zacconi, che mio padre

conosceva bene perché all’epoca, nel 1936, era amico dei tre gli Beppe, Luciano ed Ernes, e vivevano tutti a Viareggio. Il regime fascista imponeva alle case di distribuzione di produrre lm italiani per avere in cambio la possibilità di importare quelli stranieri, molto più richiesti. Zacconi aveva bisogno di fare un lm per ottenere due «buoni del doppiaggio» e commissionò a mio padre, considerato ormai un esperto dopo la sua esperienza di ciacchista per Machatý, di girare la storiella di una passione estiva consumata al mare. La protagonista era Ernes, bellissima e bravissima, che in seguito diventò una famosa attrice di teatro, mentre il protagonista era Raniero Barsanti, che possedeva uno stabilimento balneare e vantava come unico titolo per la parte la prestanza sica. Gli altri furono coinvolti come comparse e comprimari, la scenogra a fu affidata a un amico pittore, e un amico appassionato di fotogra a diventò l’operatore. Mio padre fece il resto, regia e sceneggiatura comprese, ovviamente. Nonostante fosse un lmetto artigianale e senza pretese, diceva sempre che gli aveva insegnato tanto: imparò a scrivere, a girare, a gestire gli attori. E soprattutto si accorse della grande differenza che corre tra quello che si vuole mettere in scena e quello che si ottiene. «Il risultato nale non corrisponde alle aspettative», spiegava. È così, penso io, anche quando si fanno i gli. Di fatto lui aveva messo al mondo una bambina traballante e indifesa, che era l’esatto contrario di quello che avrebbe voluto. Il timore di deludere non mi abbandonava mai. Anche quando dovevo mandare qualche articolo, mi assaliva l’insicurezza e chiamavo papà per avere conferme. Intercorrevano telefonate interminabili, in cui lo obbligavo a sentire ciò che avevo scritto. Lui non faceva mai correzioni, né mi diceva se c’era qualcosa che non andava bene per evitare che mi dilungassi, poi, come sempre, mi liquidava con un: «Sì, va bene, mi sembra buono. Adesso ho da fare». Un giorno andai a casa sua perché a mio avviso l’articolo richiedeva più attenzione del solito. Lui mi ascoltò per un po’ e d’un tratto mi interruppe: «Ma scusa, la politica a te non interessa?»

«Certo che sì», risposi io, «sono di sinistra, frequento i centri sociali e…» Lui mi zittì bruscamente: «Non basta!» e capii molto dopo le sue parole. Mio padre è sempre stato un vero uomo di sinistra. Lo è stato perché durante tutta la sua vita è rimasto un uomo integerrimo, ha vissuto rispettando le leggi di questo Stato anche se non gli piaceva, almeno negli ultimi anni. Per non parlare del suo rapporto con il denaro: di tutti i registi italiani, lui è stato il più povero, non ha mai chiesto più di quanto gli è stato offerto e ha sempre pagato le tasse no all’ultimo centesimo. Certe volte pagava anche di più perché era distratto e si affidava a commercialisti ancora più distratti di lui. Aveva una vera e propria ssazione per le ricevute scali, ricordo persino una scenata in un ristorante perché non gliel’avevano data! E poi il suo risentimento verso il popolo italiano, il suo non darsi pace mentre prendeva atto che sembravamo tutti nati per sottostare a regole di un potere oligarchico e fascista, costruito da pochi potenti che assoggettano culturalmente, economicamente e impudentemente una moltitudine inerme e priva di ideali. Ci lasciano credere che la speranza è l’unico appiglio possibile per risolvere le cose, ma lui diceva: «Mai avere la speranza, la speranza è una cosa infame inventata da chi comanda!» perché è vero, nché c’è la speranza nessuno fa niente. Lo urlò e lo ribadì in televisione, da Michele Santoro, a Rai per una notte, e il giorno dopo il suo exploit mi arrivarono centinaia di email attraverso il sito. Gente comune, sconosciuti che ringraziavano mio padre e affermavano di essere d’accordo con lui. Mi emozionai di fronte a quella sollevazione unanime e telefonai a papà, che subito s’invitò a cena da me perché voleva che gli leggessi i messaggi. Quella sera lui mi abbracciò: credo che sia stata l’unica volta nella mia vita. Naturalmente non fu un abbraccio di quelli comuni, normali; fu più che altro un braccio appoggiato sulle

spalle e una leggera stretta. Mi scansai di getto perché non ero abituata a questi suoi slanci e poi perché detesto le effusioni siche. Papà non ci fece caso e guardandomi negli occhi mi ringraziò del lavoro che avevo fatto per il sito. Molti gliene avevano parlato bene, mi disse, e chiese di vederlo. Fino a quel giorno non se ne era mai interessato.

Anarchia

UN giorno papà, in un pomeriggio d’estate, le persiane socchiuse per far ltrare quel tanto di luce che serviva a scoprire le nostre ombre, mi disse di essere addolorato per questo mondo, per questo Paese. Pensava che gli italiani vivessero da sempre nella stessa scomoda posizione di chi non si è mai saputo ribellare e si lamenta pigramente in attesa che qualcosa cambi. Era convinto, e aveva ragione, che nulla sarebbe cambiato senza una rivoluzione. Per questo aveva grande ducia nel movimento studentesco, nei gruppi no global, addirittura appoggiava e sosteneva, a livello intellettuale, i black bloc, gli anarchici che si oppongono alla sopraffazione di uno Stato repressivo. Secondo lui, persino il Dalai Lama avrebbe sostenuto una ribellione violenta se fosse stata necessaria. Aveva le idee chiare mio padre, soprattutto negli ultimi anni. Anni bui e cupi per la nostra politica e la nostra società, ma per lui erano rosso scarlatto, a volte accompagnati da una falce e un martello. Dei protagonisti dall’altra parte della barricata diceva che erano solo faccendieri, portaborse, banchieri, capitalisti senza scrupoli, politici meschini, incapaci, indifferenti ai cittadini e concentrati solo sul loro tornaconto e sulla loro disgustosa brama di denaro e potere. Mario Monicelli non aveva paura di denunciare tutto questo e di sostenere la sinistra antagonista, quella dei centri sociali, quella delle proteste e delle manifestazioni, anche le più violente.

Era stato a Genova durante il G8 del 2001 e ne era tornato stravolto, traumatizzato dalla morte di Carlo Giuliani e dall’inaudita violenza delle forze dell’ordine durante l’irruzione alla scuola Diaz. Aveva urlato il suo sdegno contro le divise, ignoranti, manesche e impunite, e aveva abbracciato i gruppi che denunciavano ingiustizie sociali e orrori politici. Partecipava più che poteva alle loro manifestazioni e credeva nella rivolta dell’estrema sinistra giovanile. All’età di novant’anni era come un ragazzo di venti, amareggiato e arrabbiato, pronto a mettersi un casco e a impugnare un bastone per sfasciare tutto, per mostrare e far sentire la propria rabbia, la contrarietà e l’avversione nei confronti di uno Stato imbastardito dal denaro e dall’establishment. Ce l’aveva anche con i cittadini, quelli che vivono di stenti e fanno la la per comprare un iPad, vanno in vacanza a vedere i calciatori, e hanno come unica ambizione assomigliare ai ricchi, ai potenti, agli ignoranti. Questi erano, ai suoi occhi, le vere vittime degli stereotipi televisivi, e i portatori del peggior periodo di malcostume e di sottocultura degli anni dopo il fascismo. Per queste ragioni, gli italiani amarono mio padre. Ancora oggi molti, quando capiscono di chi sono glia, mi abbracciano o mi stringono la mano, mi dicono no a che punto Monicelli sia stato per loro un’icona di etica e sobrietà. Era un antieroe, come i protagonisti dei suoi lm, feroce nella vita quanto, allo stesso modo, era piccolo e pavido di fronte ai sentimenti e all’incompiutezza della natura umana. Avvertiva una sorta di opposizione antropologica tra il suo modo di essere e quello degli altri, della gente comune, che osservava con curiosità e dubbioso distacco. Tornava normale ed espansivo solo con chi rientrava all’interno del suo giudizio morale, con coloro che riteneva validi e intelligenti, o con le persone attraverso le quali poteva ritrovare una parte di sé o scoprire qualcosa di nuovo.

Fu così, per esempio, che si ritrovò accanto a Federico Raponi, autore e regista di un meraviglioso programma di cinema su Radio Onda Rossa, dal titolo Visionari. Per lui mio padre accettò di fare il cronista dall’estero. Dall’Iran o da un festival in Cile, dalla Russia o dalla Cina, da Los Angeles o dall’India, più Monicelli partiva, più il contatto telefonico con Federico si intensi cava. Dovunque si trovasse, cascasse il mondo, il mercoledì alle 14.00 era in diretta e raccontava i lm, le persone che aveva incontrato e i luoghi. La sua voce c’è ancora, si può ascoltare in streaming sul sito della radio, e sono documenti straordinari che tutti gli estimatori di mio padre dovrebbero conoscere. La prima volta che ho sentito la trasmissione, mi sono emozionata: papà sembrava un ragazzino. Credo sia stata per lui un’esperienza ricca e bellissima. Dopo, non ho più avuto il coraggio di riascoltare le conversazioni, forse per paura di mettermi a piangere, e questo, si sa, non può succedere a una Monicelli.

Città

A VOLTE , qualche amico del quartiere Monti, mi diceva di aver visto mio padre seduto solo soletto al tavolo di un vinaio, a leggere o a scartabellare qualcosa. Me lo raccontava con un’aria un po’ preoccupata e con il tatto di chi non vuole essere invadente ma ritiene suo dovere parlare. Anche dopo la sua morte, qualcuno ha insinuato che era un uomo abbandonato. Chi ha parlato così, chi per reale premura, chi per malignità, non conosceva mio padre. Lui non è mai stato solo: oltre a noi – moglie, compagna e glie – ha sempre avuto tanti interessi e una moltitudine di amici eccezionali, con i quali creava, faceva progetti, inventava, si divertiva, rideva. Dopo avere perso tutti i suoi più fedeli compagni di lavoro, anziché arrendersi ai cambiamenti, era stato capace di trovarne altri più giovani di lui di quarant’anni. Aveva la capacità straordinaria di legare con chi voleva e di mantenersi senza sforzo al passo con i tempi, e mai sembrava di avere a che fare con un vecchio. Quando non era in compagnia era per sua precisa scelta. Mario Monicelli venerava la solitudine, amava girare da solo, andare a mangiare in trattoria da solo. Gli piaceva anche bere, però in quel frangente era spesso con qualcuno. La solitudine per lui era qualcosa di molto importante, una necessità quasi. Ora che ci penso, pure quando eravamo insieme a scrivere o a passeggiare, tra noi c’era sempre un velo sottile a separarci, come se mio padre facesse parte di un altro mondo, come se fosse vicino in apparenza, ma in realtà distante, in una dimensione diversa. Quel velo sottile era lì a proteggere il suo

spazio, che io avrei tanto voluto invadere, e continuavo a provarci senza mai riuscirci. Anche i suoi gesti erano quelli di una persona che amava la solitudine: quando veniva a trovarci a casa, entrava, si toglieva con cura la giacca, la appoggiava con delicatezza sul bracciolo del divano e poi, con il suo tono al solito un po’ brusco, diceva: «Tina, il vino!» e di corsa la tata arrivava con un bel bicchiere di bianco o rosso a seconda della stagione. Lui si muoveva come se intorno non ci fosse nessuno, come se lo spazio che lo circondava fosse dilatato e per nulla compresso in quella casa abitata da altri. Non c’era che lui, e la presenza silenziosa e data della tata. In fondo mio padre stava bene così, amava stare tra le sue cose, nella sua casa ordinatissima, a sentire la radio, a leggere il giornale o un libro o, come diceva lui, adorava ascoltare il suono della città, il sottofondo urbano dei tram e delle saracinesche che si aprivano o si chiudevano, lo scalpiccio notturno, l’andirivieni delle automobili; tutto, insomma, anche quello che di solito le persone normali odiano di una città. Spesso mi parlava di Roma, di come era quando ci si era trasferito: «Una Roma vuota…» diceva. «Camminavi per le strade la sera, la notte, e sentivi solo il rimbombo dei tuoi passi. Di macchine non ce n’erano come adesso, e quelli che oggi chiamiamo ‘rumori’ allora erano sonorità quasi musicali.» Quando era arrivato, mi raccontò, per lavorare, giovanissimo, aveva preso una stanza a piazza di Trevi. Di notte lo scrosciare incessante dell’acqua gli impediva di dormire, così se ne era andato perché non ne poteva più. Oggi, dopo una certa ora, la fontana viene chiusa e nella piazza, passandoci a notte tarda, c’è un silenzio più assordante dello sciabordio che lo faceva impazzire. Non solo Roma: mio padre amava molto la città in generale, diceva che non ne avrebbe potuto fare a meno. La campagna lo annoiava: il primo giorno stava bene, il secondo giorno non sapeva che fare, il terzo giorno si deprimeva e il quarto di solito partiva. La montagna e il mare neanche a parlarne: li detestava, e detestava anche chi s’imbarcava in viaggi esotici. Faceva

un’eccezione solo per chi andava a Cuba: loro sì che potevano andare, quello era un bel viaggio! Più di tutto amava uscire: a comprare il giornale, a fare la spesa, a mangiare fuori. A vedere una mostra invece no, perché mi diceva: «Odio le arti gurative!» e neppure per andare al cinema. Quando capitava, abbandonava la sala dopo mezz’ora, capiva subito se un lm gli piaceva o no, diceva di avere un intuito innato, perché dopo pochi minuti sapeva come si sarebbe svolto. Il teatro era diverso: gli piaceva andarci, spesso lo accompagnavo, era una delle cose che amava fare con noi glie, come mangiare fuori. Ancora di più voleva uscire con i suoi «giovani» amici: Alessandro Haber, Wilma Labate, Giacomo Campiotti e tanti altri. Proprio Wilma Labate mi raccontò che nel 2001 erano stati insieme a girare in Palestina. Il momento era caldo e mentre stavano lì scoppiò una bomba vicino al quartier generale di Arafat. Lei e mio padre corsero a rifugiarsi in hotel: un alberghetto modesto che portava i segni della recente tensione. Alle pareti delle loro stanze c’erano i buchi provocati dalle granate o dalle pallottole; attraverso i fori, di notte, si vedevano le luci della città e alle sei penetrava il bagliore dell’alba. Il primo mattino Wilma, stordita e insonne, uscita dalla stanza, vide mio padre in piedi sul pianerottolo, con un calzino in mano. Non capiva cosa stesse facendo. «È pulito», le spiegò lui, «mettilo nel buco. Forse impedirà alla luce di entrare.» Fu in quei giorni che mio padre incontrò Yasser Arafat. Per lui era un punto di riferimento, un mito, se così si può dire, eppure non sembrò soddisfatto quanto Wilma si sarebbe aspettata. A suo giudizio, papà era felice, persino commosso, ma lo pungeva il rimpianto di un’occasione perduta, perché avrebbe voluto parlargli più da vicino e più a lungo. Per come lo conoscevo io, credo che Wilma avesse ragione. Sempre Wilma fu testimone di un altro episodio che racchiude l’essenza di papà. Nel 2000 Wilma stava dirigendo Domenica, la storia di un’insolita amicizia tra un commissario disilluso, Claudio Amendola, e una bambina abbandonata a se

stessa, Domenica Giuliano. Tra le attrici, c’era Annabella Sciorra, un’americana che aveva imparato dalla nonna a parlare un italiano un po’ «broccolino», contaminato com’era dalla cadenza e dall’inglese di Brooklyn. Durante la lavorazione, Annabella disse a Wilma che le sarebbe piaciuto fare un remake di Risate di gioia. Già la richiesta era strana: è fra le pellicole più trascurate di mio padre. Era la storia di una mediocre comparsa di Cinecittà, interpretata da Anna Magnani, che viene coinvolta a sua insaputa nei progetti di furto di due ladruncoli, Totò e Ben Gazzara. Per quest’ultimo si prende una cotta, tanto da non voler vedere che è soltanto un piccolo delinquente. Ovviamente sarà lei a pagare le conseguenze e a nire in carcere; all’uscita, ad aspettarla, c’è solo Totò. Mio padre si era innamorato della sceneggiatura, che gli aveva passato la Suso dopo che Comencini l’aveva ri utata. Forse il lm era nato sotto una cattiva stella, fatto sta che tutti gli sconsigliavano di girarlo: aveva appena vinto il Leone d’oro per La grande guerra, e si aspettavano da lui un’opera più alta, più ambiziosa. In particolare De Laurentiis, che insisteva per fargli girare un altro lm molto simile a quello premiato. Mio padre non ci voleva sentire, e contro tutto e tutti, ottenne il suo Risate di gioia. Gli piaceva anche l’idea di lavorare con la Magnani, ma dall’inizio alla ne fu difficile. Lei lo adorava, però non voleva che nel lm ci fosse Totò perché a suo dire abbassava il livello e faticarono molto a convincerla. Come attrice, la prova non fu eccezionale: secondo mio padre, era bravissima a interpretare se stessa, portava la sua grinta sullo schermo, ma appena le si chiedeva di uscire dal solito personaggio, non riusciva. Forse la vera rivelazione del lm fu Ben Gazzara, che papà aveva chiamato a Roma apposta per quella parte, dopo averlo visto in un lm americano. Lo considerava il suo piccolo apporto al cinema italiano, insieme con la valorizzazione della vena comica di Gassman e della Vitti.

Comunque sia, si trattava di un lm difficile, che non aveva sbancato al momento dell’uscita e quarant’anni dopo aveva ben poco richiamo, se non nessuno. Wilma cercò di scoraggiare la Sciorra: sarebbe stato difficile trovare attori del calibro di Totò e della Magnani, e poi la storia stessa, che si svolgeva quasi per intero nell’arco di una notte, non si prestava agli adattamenti. Lei era comunque convinta e nel 2003 non esitò a tornare a Roma quando le capitò l’occasione di conoscere Monicelli. Mangiarono tutti insieme in una di quelle trattorie che piacevano a papà, a Monti, e a un certo punto lui disse a Wilma: «Non credo sia facile acchiappare i diritti di Risate di gioia, ma se li trovi e li vuoi, io li cedo a te». Un atto generoso e disinteressato che commosse Wilma.

Maestro

MOLTI ricordi di mio padre mi vengono anche da chi lo ha frequentato e conosciuto per lavoro. Come Carlo Vanzina, il glio di Steno, con il quale ho avuto occasione di parlare a lungo. «Tutto quello che so del mio mestiere l’ho imparato da mio padre, e dal tuo», mi ha raccontato. «È stato un grande maestro di cinema, e soprattutto di vita. Quando nii la scuola, chiesi a mio padre di parlare con Mario. Ho sempre ammirato i suoi lm perché riuscivano a essere popolari e allo stesso tempo poetici, di spessore, incentrati sulla critica sociale e l’approfondimento della condizione umana. Volevo fargli da assistente e così, con To’, è morta la nonna! approdai negli uffici di Franco Cristaldi. Mario si mostrò subito durissimo. Non voleva fare favoritismi a un ‘ glio di papà’ e mi riservò una gavetta severa. Il suo atteggiamento taciturno e autoritario mi intimoriva. Quante lacrime versai, ma tenni duro e lo conquistai con la tenacia, l’entusiasmo e la professionalità.» Con mio padre ha condiviso sette lm tra il 1968 e il 1975, un periodo che fu per lui importante per la sua formazione e, in fondo, anche divertente. Una volta a Stresa, mentre giravano alcuni esterni, cominciò a piovere tto, e lui e mio padre si ripararono in macchina. Erano ormai le cinque del pomeriggio e la pioggia non accennava a smettere, ma papà non si muoveva da quel sedile, né si preoccupava di trovare un programma sostitutivo. Dopo un paio d’ore di assoluto silenzio, nalmente parlò: «Ricordati che in questo lavoro meno ti arrangi, più ti pagano», poi tornò a ssare il vuoto.

«E ho scoperto presto quanto avesse ragione», ha confessato Carlo. Il secondo lm a cui lavorarono insieme fu Le coppie, con Monica Vitti ed Enzo Jannacci: «Una lavorazione difficile, che si svolse quasi tutta di notte. Mentre cercavo di allontanare la folla dal set nel mercato di Porta Palazzo, per poco non sono stato accoltellato. I girati giornalieri li vedevamo direttamente nella saletta cinema della Fiat messa a disposizione dall’avvocato Agnelli in persona.» Mi ha raccontato che Monica non voleva girare perché non le piaceva la parrucca rossa tutta boccoli che le aveva preparato Giulio Coltellacci, lo scenografo del lm. Dopo un quarto d’ora d’attesa, mio padre entrò nel suo camerino, lanciò due urli e nel giro di pochi minuti lei apparve sul set con la sua bella parrucca in testa. «Mario era temutissimo dagli attori», mi ha spiegato Carlo, «non osavano contraddirlo.» Un episodio analogo avvenne anche durante la lavorazione del successivo Brancaleone alle crociate che stavano girando nel Sahara. Da più di tre giorni il vento e il brutto tempo li tenevano bloccati e Gassman osò proporre a mio padre di tornare a Roma e nire il lm con qualche espediente in Italia. Non l’avesse mai fatto. Lui diventò una furia e ridusse «Brancaleone» un pizzico: «Cos’è, Vittorio, ti manca il Bolognese di piazza del Popolo?» gli disse. Neppure Tognazzi si azzardava a contraddirlo. Con lui girò tre lm di seguito – Vogliamo i colonnelli, Romanzo popolare e Amici miei – tra sghignazzate, goliardate e soprattutto grandi mangiate. «Ormai Mario si dava di me, tanto da affidarmi uno dei compiti più importanti del set: la scelta del ristorante nell’ora di pausa. Anzi, del ristorante tout court, perché spesso la pausa non c’era. Mario infatti sapeva talmente bene quello che voleva che niva la lavorazione quasi sempre entro le due, così si andava a mangiare rilassati senza dover tornare sul set dopo pranzo. La troupe era entusiasta di quegli orari, anche se si doveva iniziare molto presto: il primo ciak non arrivava mai

più tardi delle nove. Lui, abilissimo, faceva molti piani sequenza e così la scena si risolveva facilmente. Per concludere la giornata, gli piaceva ripetere saluti diventati famosi tra i suoi collaboratori: ‘Ringraziate!’ oppure: ‘È mezzanotte, l’ora delle streghe… Tutti a casa, tutti a letto!’» A volte, invece del ristorante, Tognazzi si offriva di cucinare per tutti, con risultati spesso disastrosi, come quando preparò la pasta con la ricotta «stagionata»: «Tre giorni di mal di pancia fulminante!» La domenica, quando erano in trasferta, mio padre non usciva dalla stanza d’albergo, anzi sosteneva addirittura che non alzava mai le serrande per tutta la permanenza. Il giorno di festa lo dedicava al digiuno completo, solo acqua e tisane leggerissime: «Sono come un samurai che deve prepararsi alla s da», diceva, e la mattina dopo sul set si vantava di essere «pulito come un schietto!» «Mario era educato senza affettazione», ha ricordato Carlo, «sensibile nonostante quel suo aspetto apparentemente ruvido. Non era un donnaiolo e non ci provava mai con le attrici. La sua scuola è stata fondamentale per me. Ho seguito anche la fase di edizione di tutti i lm ai quali ho collaborato, vale a dire montaggio, doppiaggio, mixage, così ho capito il suo modo di girare, la maestria nel raccontare per immagini un copione già perfetto nella scrittura. Da lui ho imparato a non sottolineare, non enfatizzare: a volte è più efficace raccontare qualcosa di struggente in campo lungo che con i primi piani. Averlo avuto accanto negli anni di formazione è stato fondamentale, ma soprattutto Mario mi ha insegnato, come e più di un padre, ad affrontare la vita, con le sue gioie, le delusioni, le soddisfazioni, le sofferenze.» È strano a pensarci: sono proprio i ricordi dei suoi amici a restituirmi quello che a me è mancato di papà, e a riempire il vuoto che ho avuto e che sempre avrò a causa della sua presenza evanescente.

L’incidente

ERA il 19 aprile 1988, avevo quattordici anni. Mio padre aveva appena nito di girare I picari ed era partito in auto per alcuni sopralluoghi fuori Roma, verso Bracciano. Era solo. Chissà a cosa stava pensando. Improvvisamente mentre era alla guida, la macchina sbandò, si schiantò contro un pino e si accartocciò su se stessa. Era sera o quasi notte. Sarebbe potuto restare là no al mattino successivo, invece un contadino vide l’incidente e corse a controllare se, fra le lamiere ripiegate, ci fosse qualcuno ancora vivo. Sentì un rantolo, una voce che chiedeva aiuto. Quest’uomo fu la fortuna di papà, perché ebbe la prontezza di chiamare i soccorsi. Il ricovero fu immediato. Alle undici di sera a casa squillò il telefono. Era la Suso, che chiamava mia madre affinché la raggiungesse immediatamente all’ospedale di Bracciano. Lei e mia sorella partirono subito, il cuore in gola per l’angoscia. In clinica trovarono la Suso e Silvia, sua glia. C’era naturalmente anche Chiara, e uno dei più fedeli collaboratori di mio padre, Amanzio Todini, detto Cucci. Io no, non c’ero, non mi avevano portata anche se avevo l’età giusta per stargli vicino in quel momento drammatico. Prima di uscire, mia madre era passata in camera mia – ricordo che stavo ascoltando la musica – e mi aveva detto: «Papà ha avuto un incidente molto grave. Vado da lui. Martina viene con me». Non mi aveva neppure contemplata. Dovevo stare tranquilla, mi avrebbero fatto sapere loro, e aveva chiuso la porta.

Ero rimasta raggelata e sbigottita. Mi ero accesa una sigaretta, non sapevo che altro fare. Continuai a fumare, una sigaretta dopo l’altra, nché terminai il pacchetto. Poi passai al vino: per smaltire l’ansia, buttai giù un’intera bottiglia. Pensai che se papà fosse morto avrei almeno brindato come avrebbe fatto lui di fronte alla morte di un amico. Per tutta la notte restai sveglia, con l’orecchio teso. Nessuno mi chiamò, nessuno mi disse niente. Le ore scorrevano lentamente: le due, le tre, le quattro. A un certo punto scesi in cucina. Anche la tata era sveglia, immobile, in silenzio, con le mani appoggiate sul tavolo, una tazza accanto e una grossa caffettiera. Verso le sette mi chiese se volevo mangiare qualcosa e fare colazione, era quasi ora di andare a scuola. Mi veniva da vomitare al solo pensiero, non so se per il vino o per l’ansia. Continuavo a non avere notizie. All’epoca non esistevano i cellulari e dentro di me pensavo: Chissà, mamma non avrà gettoni, o il telefono dell’ospedale magari è rotto, è solo per questo che non chiama. Ingurgitai un poco di caffè con il latte. Salii nella mia stanza. Ero stanchissima e mi addormentai all’istante, tutta vestita e con le scarpe. Volevo essere pronta se fosse servito, se me lo avessero chiesto, per raggiungere papà. Ero preparata. Non avevo paura, sapevo che mio padre era forte e non avevo idea di quanto fosse grave la situazione. Avevo promesso a me stessa di non piangere, ce l’avrei fatta a controllarmi. Nella mia testa i pensieri si affastellavano, si rincorrevano, si scontravano, erano molto confusi. Cosa avrei dovuto fare? Cosa avrei potuto fare? Perché non ero potuta andare con la mamma e Martina? Perché non mi avevano voluta? In fondo avevo quattordici anni, ero grande, sapevo affrontare tutte le situazioni, o almeno così credevo. La tata mi svegliò dopo poco che mi ero addormentata. «Amore, ma sei andata a letto tutta vestita?» mi disse dolcemente. «Ahhh, la mia piccolina. Su, su, alzati o arrivi tardi.» Non avendo ricevuto altre istruzioni, mi impose di

andare comunque a scuola. Io volevo aspettare di sapere qualcosa, ma mamma e Martina non telefonavano e sembrava che non tornassero mai. Avevo già lo zaino sulle spalle, pronta per uscire, quando nalmente il telefono squillò. Non feci in tempo a prendere la cornetta che la tata me la strappò di mano. Avvicinai l’orecchio, ma non riuscivo a sentire niente. La tata rispondeva a monosillabi: «Sì… Ok… Va bene… Sì, stia tranquilla, Ottavia sta bene, sta andando a scuola». Riattaccò, io la guardai terrorizzata. «Che ti ha detto?» «Stai tranquilla, è tutto sotto controllo. Ci fanno sapere fra un po’. Tu vai a scuola che qua ci penso io. Se so qualcosa, telefono in segreteria e ti vengo a prendere, piccolina.» Di sotto controllo invece non c’era un bel niente. Andai in classe dove, per colpa della nottata in bianco, dormii per cinque ore sul banco e presi pure una nota. Solo in seguito, una volta tornata a casa, seppi che mio padre era gravissimo. Si era fratturato tutte e due le braccia, e tutti e due i femori, aveva costole rotte che gli impedivano di respirare, e la testa fracassata. Quando mi descrissero le sue condizioni, mi sentii mancare, stavo quasi per svenire. Non ho mai avuto paura dei malati o delle malattie, non mi impressiono facilmente e non ho alcuna avversione per gli ospedali, ma il mio stato d’animo in quel momento era piuttosto precario. Mamma e Martina, invece, continuavano ad avere l’aplomb che ha sempre caratterizzato la mia famiglia, e io mi sforzavo di essere come loro. Mi ero un po’ rotta i coglioni della regola del non dire e del non chiedere: volevo sapere, andare anch’io, stare vicino a papà, eppure, come era successo in tante altre occasioni, in quel frangente tutti continuavano a proteggermi dal dolore, e neppure si accorgevano di farmi ancora più male. Solo più tardi, mia madre mi raccontò che in ospedale erano arrivati i corazzieri del presidente della Repubblica, allora era Francesco Cossiga, per consegnarle un biglietto

scritto da lui personalmente. Oltre alle frasi convenzionali di auguri, c’era un numero accompagnato da una semplice frase: «Mi chiami per qualunque ragione». Vedendo che papà continuava a peggiorare e che l’ospedale non gli poteva fornire cure adeguate, mamma si era fatta coraggio e, con un po’ di imbarazzo e un po’ di vergogna, aveva telefonato. Aveva risposto direttamente Cossiga. Lei gli aveva spiegato la gravità della situazione e il presidente aveva risposto perentorio: «Signora Monicelli, sta partendo un elicottero da Foggia per venire a prendere suo marito e portarlo al policlinico Gemelli». Poche ore dopo era arrivato l’elicottero e si era trovato il modo di farlo atterrare in un campo vicino all’ospedale. L’abitacolo era stato sgomberato per fare spazio al letto, perché il paziente non poteva assolutamente essere mosso. Papà si era avvinghiato alla mano della mamma e l’aveva supplicata di non lasciarlo. Lei aveva però preferito mandare con lui il rianimatore, e si era precipitata a Roma con Martina. Al Gemelli avevano saputo che Monicelli si trovava in rianimazione e furono indirizzate verso una stanza isolata e protetta da un vetro. Non potevano neppure entrare. Da fuori avevano visto una gura fasciata dalla testa ai piedi e intubata. Il panico le aveva assalite. Persino Martina era scoppiata in un pianto disperato. Invece quel poveretto, per fortuna, non era mio padre. Si trovava sì, anche lui in rianimazione, ma in un’altra camera singola, addirittura quella che era stata del papa. Era coperto di fasciature e pieno di li, aghi e tubi. Era vietato l’ingresso. Lo si poteva osservare da fuori, impotenti, cercando di cogliere, tra le ebo e le bende, un segno qualunque. Il vetro di separazione era oscurato per gran parte della giornata e le tende restavano aperte solo per poche ore. Mamma era l’unica che poteva entrare per qualche minuto. A dir suo, papà era lucido, vigile e molto arrabbiato, perché avrebbe voluto che lei rimanesse giorno e notte sempre lì,

anche se non era consentito. In quel luogo asettico e silenzioso, lui aveva comunque bisogno di qualcosa che lo tenesse vivo: in mancanza di alternative, aveva ripiegato su un orologio digitale gigantesco che gli aveva comprato mia madre perché potesse almeno controllare il tempo. Ogni mattina chiedevamo se c’era qualche miglioramento, ma le prospettive non erano rassicuranti. Lentamente, giorno dopo giorno, la forza combattiva che mio padre aveva sempre avuto tornò ad affiorare e un mese più tardi poté lasciare il reparto di rianimazione per essere operato ai femori. Dopo l’intervento, tornò nel solito reparto dove rimase per un lungo periodo, in attesa di essere operato anche alle braccia. Intanto il rischio maggiore – che i polmoni restassero schiacciati a causa della frattura delle costole – era stato scongiurato e papà riprese a respirare, con il solo aiuto di una maschera di ossigeno. Nel lungo periodo di degenza fu un paziente modello: tranquillo, senza smanie, non chiamava mai le infermiere anche quando soffriva. Gli era venuta la ssa che non voleva essere toccato dalle donne, solo infermieri per lui, e questo era il suo unico e continuo motivo di lagnanza. Di tutt’altro genere era invece l’atteggiamento verso le suore: era sempre stato ateo e gli intonacati non gli garbavano, ma durante la convalescenza iniziò ad apprezzare l’efficienza delle suorine. «E chi se lo aspettava!» diceva. Quando lo prese in cura un caro amico di mia madre, il professor Gennaro Nuzzo, mio padre si rilassò. «Questo sì che è un medico che gira con lo stetoscopio al collo. Medici così non se ne vedono più! Mi dà molta ducia», ripeteva quasi contento. Che stesse meglio si capiva dal tenore delle battute che faceva, intrise del solito sarcasmo. Verso giugno, mi pare, venne a trovarlo Luigi Comencini, che era ormai piuttosto anziano. Quando se ne andò, mio padre bofonchiò: «Non l’ho visto mica tanto bene, fate ricoverare anche lui!»

Per uno strano scherzo del caso, in quello stesso periodo anche Pupi Avati era ricoverato al Gemelli. Al pomeriggio, dal reparto di cardiologia, Pupi saliva in camera da papà, avvolto in un’elegante vestaglia di seta a righe blu e rosse. Restavano per ore a chiacchierare, prendendosi in giro e vantandosi su chi dei due fosse meglio accudito e riverito. Biglietti, lettere, telegrammi e messaggi a casa non si contavano: arrivavano ogni giorno, per fare gli auguri e dare conforto. Toccava a me controllarli, e fra i tanti, mi ricordo quello di Lucio Dalla, che mi era piaciuto particolarmente. Diceva solo: «Abbasso la forestale!»

Convalescenza

DELLE condizioni di papà mi teneva aggiornata un po’ la mamma, che però era sempre in ospedale; un po’, come i comuni mortali, avevo notizie dai telegiornali. Non so cosa mi fosse preso: se prima desideravo a tutti i costi stargli vicino, dopo non volevo neppure andarlo a trovare. Sicuramente la mia riluttanza era dovuta a qualcosa di molto cinico. Dentro di me sentivo che dovevo punire qualcuno: me stessa, mia madre che mi aveva trattata come un paria, come quella che non sapeva fare, che non sapeva dire, che non era all’altezza delle situazioni. Questa era la spiegazione che mi davo per giusti care la mia indifferenza. Ma la ragione predominante, vera, era che mio padre per anni aveva fatto nta che non esistessi. Lui, che non mi aveva abbracciata, non mi aveva baciata, non si era occupato di me, adesso si aspettava che corressi al suo capezzale. No, non volevo, ecco tutto. Ero molto in ansia, cercavo sempre di sapere come stava, ma la mia freddezza restava tale. Per me era come un estraneo, lontano, in un letto di ospedale, uno sconosciuto che si aspettava attenzioni senza averne mai date. Mi voleva? Chiedeva di me? Si domandava perché non fossi ogni giorno lì con lui? Non credo, aveva già abbastanza persone che lo accudivano, lo circondavano, lo assistevano. Mia madre addirittura, siccome non gli piaceva il vitto dell’ospedale, preparava a casa zuppe, polpettoni, carcio fritti e tutto quanto papà ordinasse.

Martina andava spesso a trovarlo. Nei suoi confronti era sempre stata aperta, disponibile, pronta più che con chiunque altro, e in questa situazione aveva tirato fuori tutta la sua forza e la sua energia. Infaticabile, inarrestabile, si prestava e rimaneva a tenergli compagnia per ore. Al contrario di me, che in giugno non avevo ancora varcato la soglia dell’ospedale. Mia madre iniziò a inquietarsi, chiedeva con insistenza che cosa avessi, perché non volessi andare. Non trovavo risposte, non potevo dire quello che davvero pensavo: Perché è uno stronzo; non ho un padre che mi ama e non ho un padre che amo, almeno non più. Quella situazione di incertezza aveva tirato fuori anni di rabbia, frustrazione e ri uto; i troppi silenzi che avevano vuotato la mia infanzia si sfogavano ora in una vendetta che rodeva me per prima. In quel momento così drammatico mi sentivo distratta e distaccata: in fondo, pensavo, non c’è davvero bisogno di me, come sempre del resto, e mi tenevo in disparte. Non lo dissi, non ebbi il coraggio di spiegarlo a mia madre: ne sarebbe morta, lei che aveva fatto tanto perché, nonostante la separazione, ci volessimo bene come una famiglia normale. Di quella famiglia per me non c’era traccia; io vedevo solo dolore, che ci univa tutti nella sua ombra ma che nessuno, io per prima, voleva riconoscere. Per non darle quel dispiacere, alla ne fui obbligata ad andare. L’odore della stanza bastava a muovermi la nausea. A papà non osavo avvicinarmi, perché mi faceva impressione, ferito sul volto e pieno di lividi. Avevo paura di toccarlo, fragile com’era. Per timore di fargli male, non gli diedi neppure un bacio. Ma questa in fondo era la nostra regola, no? Seduta accanto al letto, gli chiedevo solo come si sentisse. Lui mi rispondeva tossendo: «Bene, bene, respiro male però». Poi toccava di nuovo a me domandargli se stesse comodo con le gambe tenute così in su, e lui ribatteva che sì, andava bene. Lui non mi diceva mai niente, e così dopo un po’ esaurivo i miei argomenti, guardavo la mamma e lei capiva che era arrivato il momento di andarmene. Mi alzavo, lo salutavo e me

ne tornavo sui miei passi, sotto il sole, ad aspettare l’autobus che mi riportava a casa. In quel periodo era come se mia madre non vivesse con noi: non ricordo pranzi o cene in sua compagnia. Se anche c’era, era comunque assente, completamente votata a mio padre, viveva per lui e lui viveva grazie a lei. Finché c’era mia sorella mangiavo in cucina con lei, e quando se ne andò di casa, mi ritrovai sola, nella stessa cucina. A me non restò che tata Tina e un appartamento vuoto. Papà aveva una bra fortissima e la sua volontà ebbe il sopravvento su tutto e tutti. A luglio uscì dall’ospedale sulle sue gambe e si rifugiò da Bernardino Zapponi, un grande sceneggiatore suo amico, che aveva una casa con piscina a Zagarolo. Lì poteva nuotare, fare esercizio in acqua e seguire la sioterapia. Un grande aiuto, prezioso e determinante, venne da Enrico Vanzina, che gli voleva molto bene. All’affetto si mischiava un intreccio complesso di sentimenti: l’ammirazione, una quasi totale comunanza di vedute sulla loro professione, ma soprattutto, mi disse, una curiosa forma di amicizia tra persone di generazioni diverse. «Mario è stato il migliore amico di mio padre Steno, il suo primo collaboratore», mi ha raccontato di recente. «Fu il maestro di mio fratello Carlo, che accettò, con ruvida durezza, come suo aiutoregista. È stato centrale nei percorsi importanti della mia vita. Però non era facile essergli amico.» Non ci si poteva inoltrare con lui sulla via dei ricordi, perché Monicelli era sempre proiettato verso il futuro. Esternargli ammirazione era praticamente impossibile: troncava subito qualsiasi conversazione che lo riguardasse, e se si trattava di lodi o complimenti, erano guai. Né si poteva parlare di lavoro, perché papà detestava fare teoria sul cinema. Sempre e comunque, si proteggeva dai sentimenti e dalle emozioni con una corazza impenetrabile. Dopo l’incidente, molti avevano dato mio padre per nito. L’età, le fratture, la fragilità: non sarebbe più tornato dietro la

macchina da presa. La Suso, concreta e intuitiva come sempre, disse a Enrico: «Dobbiamo subito far lavorare Mario, solo il lavoro lo guarirà», e lui accettò senza esitazione. Andò a trovare mio padre quando era ancora in ospedale, e gli parlò del suo ultimo progetto: «Facciamo una serie televisiva tratta da racconti famosi della letteratura italiana. Proponimene uno e lo giriamo appena esci da qui». «Mi piacerebbe qualcosa di Achille Campanile», rispose lui di getto. Si strinsero la mano e l’accordo fu suggellato. «Era una pazzia totale», mi ha con dato Enrico: papà non si muoveva, aveva s orato la morte ed era evidente che avrebbe avuto bisogno di una lunghissima convalescenza. Invece pochi mesi dopo era già fuori che urlava: «Azione» sul set di un lm tratto da un racconto di Achille Campanile, che si rivelò un piccolo gioiello di grazia e umorismo. Il giorno della proiezione del primo montato, dopo la visione, mio padre prese Enrico da parte. «Grazie. Non dimenticherò mai quello che hai fatto per me. Ti devo qualcosa di molto importante», gli disse con la sua voce ferma. E quelle non erano parole che Mario Monicelli pronunciava spesso. Papà mantenne la promessa: «Da quel giorno mi diede attenzione, spesso mi volle con sé in giro per l’Italia, a parlare del passato – come Proust, l’aveva ritrovato – emozionandosi ogni volta che ricordava Steno, il suo piccolo grande amico scomparso anni prima». Ma soprattutto, gli regalò la sensazione certa di essergli stato amico, di un’amicizia questa volta diversa, condivisa con il cuore e con la mente.

La lettera

DOPO l’incidente, il rapporto con mio padre restò lettera morta. Lo sentivo di rado e non lo vidi praticamente mai: era troppo occupato a prendersi cura di se stesso e a prepararsi per il nuovo lm. Non ho ricordi di visite o incontri, era come se fossimo lontani mille miglia. Lo rividi nel 1990 mentre girava Il male oscuro. Ormai stava bene, si vedeva che era perfettamente guarito, se non per una mano che gli dava ancora fastidio. La muoveva male perché aveva i chiodi, diceva, e gli seccava farseli levare. Con medici e ospedali non voleva più avere a che fare. Era tornato alla sua solita loso a: secondo lui, l’aspirina guariva tutto, dalla febbre alla peste, e ne prendeva in gran quantità per qualsiasi malanno. Fu per noi un periodo strano, complesso. Mamma, dopo aver dato al babbo tutto quell’amore, quasi per reazione, si era molto distaccata da lui. Spesso si faceva negare al telefono e toccava a me inventare bugie, e ogni tanto raccontare le solite banalità, mentre lui, dall’altra parte, lo sentivo bene, non vedeva l’ora di agganciare. Le poche volte che le chiesi la ragione di questo atteggiamento, mi rispose durissima: «Sono affari miei». Con il tempo ho compreso, senza che nessuno lo dicesse apertamente, che era arrabbiata perché papà ci dedicava troppo poco tempo, e non capiva come mai la sua compagna non l’aiutasse. Nella mente di mia madre, i gli dovevano essere il pensiero dominante per un genitore, e venire prima di tutto, sempre e comunque. Che papà non trovasse mai il modo di fare un

viaggio con noi glie la faceva infuriare, e ancora di più che stesse così tanto con Chiara e così poco con noi. Papà amava moltissimo Chiara e per lei faceva di tutto. A ogni sua mostra, lui era sempre presente, si prestava agli scatti dei fotogra , felici di immortalare Monicelli e la «moglie» artista. In realtà i miei non avevano mai chiesto la separazione, era stato lui a opporsi, ma evidentemente i giornalisti non facevano caso a queste sottigliezze. Un giorno, a pranzo, papà mi disse che era molto rattristato per questo improvviso distacco. Era sempre stato legatissimo alla mamma e non sapeva spiegarsi l’origine della sua freddezza. Arrivò a chiedere a me se fossi a conoscenza dei motivi. No, non ne sapevo niente, risposi. Volevo starne fuori e per la stessa ragione preferii non raccontare niente di quella conversazione neppure a lei. Allora mio padre, stufo del lungo silenzio, le scrisse una lettera che con il tempo mitigò gli animi e i dissapori. Sono rimasto molto male, Antonella, e molto dispiaciuto nel leggere la lettera che mi hai lasciato l’altro ieri a casa. Non pensavo che la mia presenza ti provocasse le amarezze e le contrarietà che mi hai rivelato. Io ti ho sempre visto e parlato in via del Babuino o altrove con molta gioia e ti assicuro che il pensiero che non ci si debba vedere mai più mi rattrista molto, ma molto. Con il mio solito egoismo ritenevo che i nostri rapporti fossero nalmente divenuti tranquilli e sereni. Vedo con morti cazione che non è così e non te ne faccio certamente una colpa, perché capisco perfettamente il tuo stato d’animo, dato che non è la prima volta che me lo esprimi, e lo rispetto. Permettimi di sperare però che non sia de nitivo e che forse fra qualche tempo la mia presenza non ti sia così traumatica. Del resto penso che non sarai costretta a vedermi ancora a lungo: non mi restano tantissimi anni da vivere. A parte quest’ultima frase, forse un po’ troppo patetica, scusami se continuo a non capirti, come faccio da decenni a causa del mio egocentrismo, ma credimi che ti voglio bene e non posso immaginare di non vederti mai più. Lascia che ti abbracci Mario

P.S. Ho scritto questa pagina così com’è venuta e non la rileggo perché ri ette veramente quello che sento.

Questa lettera non fu la sola. I miei si scrivevano spesso, ma alcune cose è giusto che restino così come sono nate: cose loro, private.

Una carezza

NEL 1996 papà doveva scrivere un episodio per il lm Esercizi di stile, ispirato all’omonimo libro di Raymond Queneau. L’idea era semplice: ogni episodio raccontava la stessa storia – l’incontro tra un uomo e una donna, interpretati da Massimo Wertmüller ed Elena So a Ricci – secondo i canoni di un genere cinematogra co diverso. A lui era toccato Un idillio edile, che voleva impostare come una commedia muta alla Charlot, del tipo «torte in faccia». Lo affiancava il bravissimo e coltissimo Sera no Murri. Il progetto era partito piuttosto male: la scena dell’incontro tra il protagonista e la bella glia del capocantiere edile dove lui lavora doveva essere molto comica, ma mio padre e Murri erano a corto di idee e avevano via via scartato le due o tre ipotesi con le quali si barcamenavano. Stavano lavorando a casa di papà a Monti, quando all’improvviso lui disse: «Senti, ma tu ce l’hai il lm dove Charlot lavora nel cantiere? Non mi ricordo come si chiama, dimmelo tu che fai il critico…» «Giorno di paga. Sì, ce l’ho in cassetta.» «Bene, allora vallo a prendere e riscriviamo la scena dell’incontro», ordinò lui senza battere ciglio. Sera no ci rimase male. «La riscriviamo?» «Ma sì, pari pari, così com’è. Come pensi che abbia fatto a scrivere una quarantina di lm, tirandoli fuori dal nulla? Nessuno si inventa niente, l’importante è come le fai, le cose, l’idea da dove viene viene. Meglio se viene da un genio!»

Murri rimase molto stupito dal metodo di mio padre, ma poi gli venne in mente un aforisma attribuito al grande poeta T.S. Eliot: «I poeti mediocri copiano, i grandi poeti rubano». Quindi corse a prendere il motorino – abitava anche lui a Monti – e dopo un quarto d’ora era di nuovo da mio padre con la videocassetta di Charlot. Guardarono insieme la scena, con papà impassibile e Sera no che tratteneva le risate per paura di sembrare poco serio. «È già tutto lì: il protagonista e il montacarichi. Dai, veloce, buttami giù la scena», lo esortò papà, e si allontanò per bere un bicchiere d’acqua in cucina. «Sono sicuro di averlo sentito ridere», mi ha raccontato Sera no. Continuarono a lavorare per qualche ora nel silenzio della casa, nché furono interrotti da un gran chiasso. Qualcuno aveva messo le chiavi nella toppa e stava entrando. Sera no, sempre più stupito, chiese cosa stava succedendo, ma mio padre era in una fase che non ammetteva interruzioni. «Dai, che questo è il passaggio più importante», disse ignorando completamente i rumori provenienti dall’altra stanza. Continuava ad annotare a margine dei fogli e alla confusione reagiva come di fronte al ronzio di una mosca: una piccola alzata di sopracciglio. A un certo punto entrò una signora e Sera no sollevò gli occhi per salutarla, ma vide che mio padre non distoglieva lo sguardo dal lavoro. Subito dopo corse dentro una bimbetta di neanche dieci anni che si gettò al collo di papà. Lui rispose all’abbraccio, la guardò, le accarezzò la testa e la bambina, soddisfatta, se ne andò via pimpante, come se ci fosse stato un patto silenzioso tra loro. La signora chiese se volevano qualcosa da bere. «Scusa, ma non lo vedi che stiamo lavorando?» rispose mio padre, alzando nalmente gli occhi. «Se vogliamo una cosa da bere ce l’andiamo a prendere da soli, siamo due adulti.»

«Allora io vado», ribatté lei. «Va bene, vai», e vedendo che restava immobile, aggiunse: «Vai, vai. Saluti!» La donna uscì e lanciò un mezzo sguardo a Murri, come a manifestare il suo disappunto per gli scrupoli inutili che si era fatta. Sera no chiese a papà chi fosse la bambina. «Mia glia piccola. E quell’altra è sua madre.» È stato Murri a raccontarmi questo episodio. Nei modi spicci riconosco mio padre, tale e quale è sempre stato, eppure non posso fare a meno di pensare che almeno Rosa ha ricevuto carezze e abbracci che a me sono stati negati. In tutti quegli anni ci ho provato ad avere un gesto d’affetto. Addirittura, dopo un grave incidente in moto che mi aveva portato a guardare la morte in faccia, gli domandai se potevo trasferirmi a casa sua e di Chiara. Mi servì un coraggio da leoni per avanzare la richiesta. Papà esitò: «Ci penso», mi disse, poi mi fece sapere che la risposta era no, Chiara non era d’accordo. Chissà. Forse gli aveva detto che non si voleva prendere la responsabilità di un’adolescente ribelle, disturbata e senza freni, e probabilmente aveva ragione, ma io cercavo solo amore e di nuovo mi sentii respinta. Anche oggi che sono madre e so quanto possa essere difficile fare il genitore, continuo a condannare mio padre per non essere riuscito a darmi neppure un quarto dell’affetto che ha dato a Rosa e a Martina. Eravamo forse diverse? Io ero la glia di serie B? O non mi sentiva abbastanza sua? Se questi dubbi mi tormentavano all’epoca, ora almeno sono sicura che a modo suo mi ha amata. In una maniera antica, ancestrale, mi ha riservato quell’educazione che si dava ai ragazzini del dopoguerra, pane e calci in culo e qualche volta una carezza. Solo che io non ero una ragazzina del dopoguerra, ero una ragazzina e basta, innamorata del proprio padre, delle sue coppole, delle sue sciarpe, dei suoi occhiali, che tirava su

arricciando il naso. Era lui il mio amore e io ero un amore di bambina, un amore di adolescente, un amore di ragazza e di donna che ha vissuto di dissimulazioni affettive per tutta la vita.

Riunioni

POCO dopo la mia maturità, nel giugno del 1994, nacque con parto cesareo il mio primo e unico nipote, Tommaso. Era di una bellezza sconvolgente, uguale alla madre, ma ancora più incantevole. Io guardavo Martina, abbracciata a quella piccola perfezione, affascinata e intenerita. Invece papà rimase indifferente: i neonati erano inutili, ripeteva sempre. «Che disgrazia, un maschio!» si limitò a commentare. «Sarebbe stata meglio una femmina.» Le sue parole brusche e sgarbate non scossero la felicità di mia sorella di fronte a quello splendore di pupetto. Come primo nipote, Tommaso cresceva tra mille attenzioni. Mia madre si era persino trasferita con la tata a vivere nella casa di Martina e del suo compagno a Mazzano Romano. E nonostante l’ostentato cinismo, anche papà era molto più coinvolto di quanto volesse dare a vedere: il sabato o la domenica, veniva prelevato e raggiungeva il suo maschietto quasi peloso per spupazzarselo di coccole, regali e baci. Il piccoletto era lì e basta, fatto per essere preso in braccio e subire ogni tanto qualche frase stupida, tipo: «Che dici cuccioletto? Che gli vuoi dire, al nonno?» Al contrario di quello che sbandierava, i bambini piccoli non gli dispiacevano affatto. O forse gli piacevano perché non erano i suoi e non doveva insegnare niente, non doveva educarli e poteva goderseli. Complice l’età, con Tommaso sembrava pieno di amore e comprensione, e il ruolo di nonno gli dava molta più gioia di quello di padre.

In quei giorni ebbi l’impressione che fossimo di nuovo una famiglia. Il miracolo cresciuto nella pancia di mia sorella aveva dato luogo a un altro miracolo: riunire tutti noi. Papà amava venire in campagna anche se non restava mai più di un giorno. Si divertiva con Emilio, il compagno di Martina, perché era simpaticissimo; con mamma poi si davano baci e abbracci meravigliosi, tanto che sembravano sposi novelli. Solo con me rimaneva distaccato, freddo e severo. Ogni tanto mi chiedeva cosa stessi facendo e io inventavo storie surreali sull’università, dove davo esami sporadici. Dopo un’esperienza fallimentare a Firenze al corso di Storia dell’arte, mi ero da poco iscritta a Roma al dipartimento di Studi orientali con la speranza di laurearmi in Storia dell’India. Quando ne parlavo, papà si pronunciava sarcastico: «Brava, utilissimo. Leggo sempre sul Sole 24 Ore annunci di lavoro che ricercano laureati in Storia dell’India!» Mi guardavo bene dal cadere nella provocazione e spiegavo che avrei seguito la carriera universitaria, e lui, sempre cattivo: «Ah certo. Se vai avanti così velocemente, verso i cinquant’anni ti sarai laureata e sarai un’assistente perfetta!» In quei momenti lo detestavo: perché tutto quell’amore verso gli altri, e quel rancore per me? Cosa avevo che non andava? Non ero una scheggia all’università, certo, ma avevo un sacco di altre qualità. Che il mio difetto fosse non fare cinema? In questo invidiavo Martina, che sapeva sempre di cosa parlare con papà. Da lui aveva ereditato il rigore nel lavoro, la serietà negli impegni, l’umiltà, la forza nell’affrontare la vita, e un certo disinteresse per la mondanità: nonostante la sua professione, mia sorella non ha mai frequentato registi e non ha amici attori. Solo il rapporto con i collaboratori sfuggiva a tante naturali affinità: lei mantiene le distanze, mentre papà amava condividere e si circondava di un gruppo affiatato che si ritrovava a ogni lm per rmare un’opera di solito perfetta. Mio padre e mia sorella erano legati da uno spontaneo cameratismo: durante le loro conversazioni, restavo un po’ in

disparte, assente e distratta perché non avevo niente da dire. Avevo i miei interessi – leggevo, scrivevo, ascoltavo tanta musica, adoravo la radio come papà, amavo il cinema da spettatrice – ma questo non bastava a farmi entrare nel cerchio della loro intimità. Mi sentivo un’intrusa che sperava inutilmente di essere presa per mano e portata ovunque loro volessero. Eppure dentro di me sentivo di avere delle qualità, altre e diverse forse, ma pur sempre valide. Però neppure io sapevo dire quali. Solo molto tempo dopo ho capito che il primo ad accorgersene, a credere che ci fosse qualcosa di buono nella mia testa, era stato proprio mio padre. Lo aveva compreso ancora meglio di mia madre e non ci stava, non poteva accettare che sua glia perdesse tempo a divertirsi, sentire musica e cazzeggiare senza trovare una direzione. Solo che mi spronava a modo suo, con frasi che a me suonavano come insulti: «Vedremo di cosa sei capace», «Non so se ci riuscirai», «Non credo sia possibile», «Sei sicura?» «Non mi sembra una buona scelta». Non ha mai detto l’unica cosa di cui avrei avuto davvero bisogno, «Ti voglio bene», né mi ha rivolto un incoraggiamento che contenesse qualcosa di simile a un’espressione di affetto. Non è stato facile, ma una delle cose che mi rendono più orgogliosa è non aver ceduto alle sue provocazioni e aver continuato ad amarlo durante tutta la mia vita, durante tutta la sua vita.

Tramonto e alba

«SEI sicura? Sei pronta?» mi chiese solo mio padre. «Sì», risposi convinta e ci stringemmo la mano, come fanno due persone che si incontrano per la prima volta. Avevo nito il liceo e stavo partendo con un treno alla volta di Trieste, dove avrei poi preso un pullman per raggiungere la Croazia. In Jugoslavia la guerra si dispiegava feroce e violenta, e le persone che l’abitavano avevano bisogno di tutto. Mi ero offerta come volontaria del Servizio civile internazionale e al contrario di quello che avevo detto, ero terrorizzata. Avevo paura del lunghissimo viaggio che mi aspettava, sentivo freddo e quasi tremavo. I miei genitori mi avevano accompagnato alla stazione e mentre mia madre faticava a trattenere le lacrime, io mi ngevo forte, e mi proiettavo con vigore nel futuro. Durante la notte insonne passata in treno, cercai tra una pagina e l’altra del mio diario di ricordare qualcos’altro tra me e papà, un gesto d’affetto qualsiasi, oltre quella stretta di mano, ma non mi venne in mente niente. Pudicizia, zero sentimentalismi e guai ai baci: il virus monicelliano aveva contagiato anche me. Poco dopo il mio ritorno dalla Jugoslavia, mi spostai a Firenze. C’era appena stato l’attentato all’Accademia dei Georgo li nel maggio 1993 e, sempre da volontaria, andai per rimettere insieme le carte di valore spazzate via dalle bombe. Mio padre, di nuovo, osservava e non commentava, non mi faceva né critiche né complimenti, però le sue telefonate non mancavano. Chiamava e si informava su cosa stessi facendo, con chi, come. Sembrava curioso, tutto qua. Se lo animassero

altri sentimenti – apprensione, orgoglio, stima o semplice desiderio di comprendere – non l’ho mai capito, né lui ha cercato di farmelo sapere. In quegli anni entrava nella mia vita come un cane randagio entra in una macchina. Era forastico e diffidente, indeciso se pensare bene di me o no. Si accertava, questo lo so con sicurezza, che non combinassi guai, e a ragione, perché di guai invece ne combinai parecchi. All’apparenza vivevo la mia vita di quasi donna, convinta delle mie scelte: dopo la maturità, avevo bruciato le tappe e deciso di andare via di casa. Mi ero iscritta all’università, avevo dato qualche esame e intanto mi mantenevo con i lavoretti più disparati. Vivevo in una casetta alla Piramide, un quartiere romano vicino a San Saba, con Cristiano, un amico meraviglioso con cui ho trascorso anni indimenticabili. Eravamo io e lui, e nessun altro. Di questa mia indipendenza, del fatto che non chiedessi soldi, mio padre era molto ero. Mia madre invece assai meno. Un giorno mi venne a trovare per vedere dove mi ero sistemata. Non varcò neppure la soglia. «Ma tuo padre ha visto dove vivi?» mi chiese. E io: «Perché? È bellissimo qui, e io ci sto ‘na crema!» Lei alzò i tacchi e senza dire una parola mi lasciò impalata sull’uscio, mentre il caffè che le volevo offrire traboccava in cucina. Me lo andai a bere da sola, autosufficiente e serena. All’epoca ero un’anarchica, «regole zero» era la mia regola, disprezzavo le leggi e l’invadenza di uno Stato che per me non aveva nessuna valenza. Ero diventata un’accanita fumatrice di hashish e amavo la mia vita confusa, che non accettava orari e convenzioni. La notte lavoravo e passavo il giorno a dormire, a fumare, sentire musica, spostare e rispostare le cose nella mia stanza. Tentai persino di ridipingere la casetta in cui vivevo, ma combinai un tale disastro che Cristiano fu costretto a rimetterci mano. Ero felice, mi sembrava tutto facile, soprattutto ero orgogliosa di essermi sganciata da ogni legame famigliare,

come mi aveva insegnato mio padre. Non capivo che ero soltanto allo sbando. All’improvviso la consapevolezza mi piombò addosso come una nube nera pronta ad avvolgermi. Sola, senza direzione, senza riparo, mi trovai di fronte a un lato buio di me che ancora non conoscevo. Era arrivato il tempo di fare i conti con quel senso di vuoto che mi perseguitava dall’infanzia e che mi avrebbe accompagnato ancora per lunghissimo tempo. Iniziò un periodo oscuro e triste. Non ce la facevo più: non era stato l’hashish o una vita un po’ fuori dalle righe a farmi sentire inutile e triste, era qualcosa di profondo, radicato con ostinazione nella mia anima. Qualcosa che si chiamava depressione. Cristiano mi vedeva sempre più malinconica e triste e non sapeva che fare. Alla ne, preoccupato, chiamò mia madre che venne in soccorso e mi strappò da quella casa. La separazione mise ne a un’amicizia durata anni. Anche tutti gli affetti, tutte le conoscenze che avevo costruito, rimasero tra quelle pareti, non mi cercarono né io cercai loro, e mi ritrovai sola. Tornai a vivere a Monti, a casa di mia madre. Trascorrevo le giornate senza mai uscire, rintanata davanti alla televisione a guardare programmi che non provavo neppure a seguire, o a letto, con la radio sempre accesa a farmi compagnia. Non parlavo, mangiavo poco o niente, dormivo, vegetavo, mi facevo qualche canna. Tenevo la mia camera sempre in penombra, detestavo la luce e mi faceva orrore solo l’idea di uscire per strada. Mia madre aveva paura, io facevo paura. Non ero più la stessa e, più grave ancora, non sapevo chi ero diventata. Ero in uno stato di depressione grave e profonda che non mi avrebbe mai abbandonato completamente. Mia madre, che aveva sempre risolto tutto da sola e spesso aveva risolto anche la vita degli altri, si sentì incapace e, per la prima volta, chiese aiuto. Non so con quali speranze, chiamò mio padre che inaspettatamente corse da me e si diede da fare.

Telefonò a Vittorio Gassman, si fece consigliare uno psicologo e mi trascinò da lui. Purtroppo la terapia non funzionò: il medico si limitava a intontirmi di medicine, che non portarono miglioramenti né segnali di ripresa. Restavo chiusa nel mio mutismo, prigioniera inerte e passiva del mio male. L’unica cosa che desideravo era la morte. In quei giorni tristi, mio padre, l’uomo senza sentimenti, stava seduto accanto al mio letto, su una piccola seggiolina pieghevole, in silenzio ad ascoltare la radio con me, senza parlare, senza chiedere, ma nalmente presente. Lui, sempre così distaccato e pudico di fronte ai sentimenti, era diventato qualcosa di diverso. Ogni tanto i nostri sguardi si incrociavano e vedevo nei suoi occhi la paura, l’imbarazzo, la tensione e la voglia di scappar via di fronte a me che soffrivo di quel male micidiale, e che giacevo a letto con gli occhi pieni di lacrime. Mi alzavo con fatica, lui mi seguiva con lo sguardo mentre camminavo lenta verso la nestra da cui ltrava troppa luce, mi osservava mentre cercavo di chiudere le tende. Un giorno, dopo settimane di silenzi, mi chiese cosa poteva fare, se c’era chi fosse in grado di aiutarmi a stare meglio. Aveva fatto abbastanza, gli risposi, ormai non avevo più bisogno di un padre. Volevo solo che qualcuno cancellasse il mio passaggio sulla Terra una volta per sempre. Lui mi strinse forte a sé. Si sciolse in un gesto di affetto che non gli avevo mai conosciuto, e mi sussurrò qualcosa. Ma stavo troppo male per capire la grandiosità di quell’abbraccio che per tanto tempo avevo inseguito, e rimossi anche le sue parole. Continuai a soffrire per settimane, mesi, poi cominciai lentamente e con fatica a risalire la china. A tavola almeno mangiavo qualcosa e iniziai un lungo, dolorosissimo percorso di analisi. Papà abbandonò la sua seggiolina nella mia stanza e tornò a sedersi a pranzo con noi il venerdì, come faceva da anni.

I mesi passavano lenti, inesorabili e in niti. Ero sola e non volevo nessuno accanto. Ma in quella landa grigia iniziarono a ltrare piccoli spiragli e a forza di terapie e medicine, piano piano, ricominciai a uscire. Spesso era proprio papà che mi veniva a prendere. Citofonava e mi diceva di scendere per andare a bere con lui un bicchiere di vino. Facevamo tappa ssa da Barbara e Andrea, una coppia che aveva aperto una vineria vicino a casa, a via del Boschetto. Stavamo seduti a un tavolino per ore. Io magari mi portavo qualcosa da leggere per non essere obbligata a parlare, e così faceva lui, ma per lo più le sue letture venivano interrotte da avventori e amici. Passavano a salutarlo Luca, detto «il sindaco», un ragazzone ben piazzato con una voce resa roca dalle troppe sigarette, poi Giancarlo Del Re, un giornalista simpaticissimo e sempre su di giri. Tra tutti mio padre amava la compagnia di Valentino Parlato, uomo di estrema sinistra, secco secco, con un viso e occhi vispi che trasudavano cultura. Se non c’era nessuno, a farci compagnia arrivavano i proprietari della vineria: Barbara, loquace e di una bellezza sconvolgente, e Andrea che, al contrario di lei, parlava poco e solo se aveva qualcosa da dire. Attorno a noi si muovevano clienti di tutti i tipi, monticiani doc, ragazzi che venivano a bere, gente che era lì per schiamazzare e divertirsi. Noi stavamo nel nostro angoletto, certe volte seri e concentrati sulle letture, altre volte più socievoli e pronti a chiacchierare con chi capitava. Quando eravamo stu , ci alzavamo insieme e passeggiavamo un po’ per Monti, il mio sguardo basso, il suo attento un po’ alla strada e un po’ a me. Quegli anni sono stati un periodo strano: io e papà stavamo molto insieme e l’intimità che si era creata ci dava la libertà di non sentirci obbligati a parlare. Ci sentivamo comunque uniti, complici e d’accordo nel nostro silenzio. Durante le passeggiate, con il suo passo lui mi imponeva di procedere lentamente, quasi a volermi proteggere dalle macchine e dai passanti, o da qualunque cosa potesse farmi del male. Camminavamo vicini, senza toccarci, ma avevo la netta

sensazione che lui mi tenesse stretta a sé nel calore di un abbraccio immaginario.

Sorelle

AVEVO bisogno di uno psicologo. Nonostante la prima, fallimentare esperienza, sapevo che mi serviva aiuto. Dopo tante ricerche, trovai nalmente quello giusto: fu grazie a lui che mi salvai da quel periodo così nero e ripresi, seppure a fatica, l’università. Due volte a settimana raggiungevo lo studio dell’analista in autobus perché non sapevo guidare il motorino e mi spostavo solo con i mezzi pubblici. Ci vedevamo per lunghe, interminabili sedute durante le quali raccontavo spesso della mia sgangherata famiglia, anzi della mia non-famiglia. Parlavo tanto di mio padre, di quanto mi fosse mancato, dell’indifferenza di Martina di fronte al mio malessere e dell’invidia che provavo verso Chiara e Rosa, «l’altra famiglia», che si era conquistata la presenza di Monicelli. In quell’ora di terapia, precipitavo nei meandri del subconscio e tiravo fuori episodi che con tanta pazienza avevo rimosso e nascosto. Momenti della mia infanzia che erano disseminati di dolore e paura venivano sapientemente riesumati e discussi. Per troppo tempo avevo desiderato le cene, i pranzi tutti insieme, qualcuno che mi chiedesse com’era andata a scuola, e i miei tentativi si erano scontrati con ri uti per me incomprensibili che mi avevano profondamente ferita. Come quando conobbi mia sorella Rosa. Dopo aver saputo, quasi per caso, della sua nascita, fremevo per poterla incontrare. Dovetti aspettare quasi quattro anni prima che papà, nalmente, la portasse a casa nostra.

Ero così eccitata e contenta che chiesi alla mamma se potevamo comprarle un regalo e lei mi accompagnò in un negozio di giocattoli, dove scelsi, se ben ricordo, una bambola. Mia madre invece aveva fatto avere a Rosa, tramite papà, un vestitino delizioso, di quelli che indossano le bimbe delle famiglie bene nelle occasioni importanti. Anche noi, donne di casa, eravamo elegantissime, ricordo per no l’abbigliamento di ognuna: Martina portava un paio di fuseaux bianchi a pois rossi e una maglietta di una squadra di baseball bianca e blu che a me piaceva tanto; io ero stata obbligata a mettere una camicetta azzurra con le alucce e una gonna, cosa che detestavo; la mamma era bellissima come sempre sui suoi tacchi alti, fasciata in una camicia Armani e una gonna stretta stretta. La più bella però era tata, con il suo vestito a righine azzurre e sopra un grembiule bianco, inamidato e candido con i volant. Io e lei, con le nostre ali, sembravamo le fatine della casa, ci mancavano solo le bacchette magiche. Tutte aspettavamo emozionate. Persino la casa era tirata a lustro, ordinata e accogliente. Finalmente la consueta coreogra a ebbe inizio: citofono, campanello, apertura della porta, saluti, ma stavolta, invece di papà, sulla soglia mi trovai davanti una bimbetta tremante e vergognosa, ma bellissima. Aveva occhi grandi ed espressivi, la pelle liscia e chiara, e due guance che sembravano dipinte da Giovanni Bellini. Il viso era incorniciato da capelli lisci color miele e una folta frangetta. La osservai per un istante prima di salutarla: «Ciao, io sono Ottavia!» Lei non rispose e si nascose dietro le gambe di papà; per non spaventarla, evitai abbracci e baci, pensando che forse anche lei conosceva la legge dei Monicelli. Fu papà a presentarmi Rosa che però continuava a stare zitta, come fanno a volte i bambini un po’ timidi. Probabilmente non capiva quella riunione: non ci conosceva e le facevamo paura. A spaventarla ancora di più c’erano i sorrisi, le smancerie, la sequela di frasette leziose: «Come sei carina!» «Sei contenta di conoscere le sorelline?» «Hai fame? O vuoi giocare un po’ con Ottavia?»

La bimba portava il vestito che le avevamo regalato, ma si capiva che le dava noia e se lo tolse. Mia madre, che l’aveva scelto con cura, sperando di fare un gesto carino e gradito, naturalmente ci rimase male, ma cercò di non darlo a vedere; anzi, disse che aveva ragione a volerselo togliere perché faceva troppo caldo. Così Rosa rimase con una sottoveste più comoda, senza tutti quei fronzoli eleganti. Piccola com’era, sembrava addirittura minuscola nel nostro salotto grande e pieno di cose inutili. Si vedeva che era spaesata e non aveva nessuna intenzione di avvicinarsi: tutto per lei era nuovo, e forse anche noi, se non fosse stato per le mie insistenze, saremmo rimaste ancora e per sempre delle perfette sconosciute. La situazione sembrava un po’ tesa e tutti tentavamo di alleggerirla con sorrisi forzati. L’unica, ostinata nel suo mutismo diffidente, era proprio Rosa che si avvinghiò a papà. Lui, infastidito da quella inattesa timidezza, la spronò: «Vai a esplorare la casa con le tue sorelle, su, vai». Ma lei fu irremovibile e a un certo punto scoppiò in un pianto a dirotto. Non ci fu modo di farla smettere: le lacrime scendevano sulle guance rosse come le gocce di un acquazzone su un ombrello. L’unica cosa che udimmo distintamente tra i singhiozzi era che se ne voleva andare. Mia madre, che è sempre stata apprensiva, fu subito pronta ad assecondarla: rimanere sarebbe stato traumatico, disse, era meglio non insistere. Lui la guardò con occhi feroci, non replicò neppure; si limitò a prendere Rosa per la mano, aprì la porta e la sbatté con violenza dietro di sé, senza degnarci di una parola o un saluto.

Incontro

UN giorno, durante la mia lenta risalita dalla depressione, una delle tante volte in cui io e mio padre eravamo in vineria da Barbara e Andrea, si avvicinò al nostro tavolo un ragazzetto in giacca e cravatta. Era di bell’aspetto, aveva capelli neri neri e occhi profondi. In quel momento lo notai a malapena e continuai a discutere con il giornalista Valentino Parlato di un mio articolo che la redazione aveva modi cato per paura di una querela. Il ragazzetto si mise a parlottare con papà, prese una sedia e si accomodò accanto a lui. Pensavo si conoscessero e, incuriosita, gli chiesi se lo aveva già incontrato; papà fece di no con la testa. «Piuttosto mi sembra un tuo amico…» ridacchiò. «Non ho idea di chi sia», risposi scortese e mi sentii in imbarazzo per il ragazzetto, che si era seduto al nostro tavolo e, senza alcun ritegno, aveva cominciato a chiacchierare con Mario Monicelli come se fosse stato una vecchia conoscenza. Che faccia tosta, pensai. Peggio ancora quando fece per andarsene. Si accomiatò con una certa tracotanza: «Mario, stasera c’è una festa proprio qui, su una bella terrazza di Monti. Ti va di venire?» Impazzii per l’irritazione, ma non era nita. Si girò verso di me con aria di superiorità: «Se vuoi puoi venire anche tu… Io sono Peter», e mi porse la mano. «No grazie, ho altro da fare», lo liquidai, ignorando il suo gesto. In realtà da tempo non avevo più amici né vita sociale e sarei stata come tutte le sere a casa a leggere o ascoltare la

radio. Mio padre mi guardò come a sottintendere: Che stai dicendo? ma lo fulminai con lo sguardo prima che potesse sbugiardarmi. Il ragazzetto si allontanò senza commenti. Mentre lasciavo la vineria, Barbara mi mise in mano un bigliettino: era un messaggio spiritoso di Peter, con il suo numero di telefono sotto. Papà se ne accorse e sghignazzò di nascosto. Mi venne da ridere: quello s gato in giacca, cravatta e mocassini, che sembrava proprio un pariolino, ci stava provando! Appallottolai il foglietto e lo in lai distrattamente in tasca. Qualche giorno dopo, una domenica, mi ritrovai senza niente da fare e andai a cercare il numero. «Ciao sono Ottavia, che fai? Ti disturbo?» Dall’altra parte solo silenzio. Ripetei le stesse identiche parole. «Lo sapevo che mi avresti chiamato», disse lui tutto soddisfatto. «Non so che fare», lo gelai subito. «Pensavo di andare al cinema, se ti va vieni con me.» Fu così che io e Peter uscimmo per la prima volta. Nonostante la mia iniziale antipatia, fu subito evidente che ci piacevamo. Ci frequentammo per un mesetto appena, poi preparai le valigie e mi trasferii da lui, con il mio cane Cosimo al seguito. Peter viveva in un covo tutto maschile in via Nizza, con due amici, Gibo e Luigi. All’inizio storsero il naso ma con il tempo impararono a volermi bene, e io a loro: erano casinari, bislacchi e un po’ sbandati, ma molto simpatici. In quella casa avvertii che il grande serpente nero che mi avvolgeva stava allentando la presa. Tenevo di nuovo lo sguardo alto mentre camminavo, non avevo più paura di cadere perché le gambe non mi reggevano, mi alzavo dal letto con una nuova energia e avevo persino ripreso a studiare. Ero di nuovo capace di respirare, di vedere i colori del cielo, di guardare le strade e le persone. Improvvisamente con Peter mi riscoprii serena, contenta.

Adulti

CON papà, eravamo entrati in una nuova fase del nostro rapporto, perché i tempi erano abbastanza maturi per un confronto fra adulti. Ci avevano avvicinato le passeggiate insieme e le soste in vineria, i lunghi momenti condivisi e una parvenza di complicità. In quei giorni di ritiro forzato, trascorrevo molto tempo a correggere bozze e articoli, spesso a casa sua. Entravo e uscivo come una farfalla, e lui accettava la mia presenza senza lamentarsi. Non dimostrava invece la stessa pazienza nei confronti dei giornalisti: era stanco, era vecchio, diceva, e provava a sottrarsi. Un giorno che né io né lui avevamo voglia di uscire, ci mettemmo tranquilli nel suo salottino, papà a bere un bicchiere di vino e io a leggere sul suo divano un libro che avevo trovato sulla storia di Stalin. Quando squillò il telefono, lo ascoltai parlottare: capii che all’altro capo un giornalista insisteva per intervistarlo. Lui opponeva il solito ri uto: stava girando un lm ed era affaticato. Però non sapeva dire di no e alla ne cedette. Rimanemmo insieme ancora per un po’, poi mi stancai di quel libro noioso e gli chiesi se lui l’avesse letto: «Ovviamente, ed è interessantissimo. Tu non lo capisci perché sei un’ignorante», mi disse secco e io mi misi a ridere. Lo salutai con un cenno della mano, presi la giacca e mi avviai per la strada di casa. Qualche sera dopo, ero di nuovo lì, a cucinare per lui. Le nostre cenette tête à tête erano frequenti da quando avevo conosciuto Peter, che era un ottimo cuoco e mi aveva insegnato

un sacco di cose. Mentre stavo preparando, chiamò di nuovo il giornalista che aveva insistito per l’intervista. Papà rispose, ci fu un breve silenzio, poi con una voce grossa che non gli avevo mai sentito ululò: «Ma come! Lei mi tortura per avere un appuntamento, io metto a posto la casa, lavo i piatti, ramazzo e pulisco e lei mi dice che ha la febbre e che domani non se la sente di venire?» Mi feci piccola piccola, il mio cuore di fronte a quegli urlacci si strinse e diventò minuscolo come una noce. Me ne volevo quasi andare alla chetichella, sicura che dopo, infuriato com’era, papà se la sarebbe presa anche con me, ma ero troppo curiosa di sapere come sarebbe andata a nire. Mi sedetti in un angolo e mi fermai ad ascoltare. Non udii la risposta del giornalista, immagino che tentasse di placarlo: «Ma no, ma no, signor Monicelli, non volevo dire che non vengo, è solo che ho un po’ di febbre, ma domani starò bene, stia tranquillo…» Papà, che non diceva mai parolacce, lo investì: «Tranquillo un par di palle. Ho messo in ordine la casa per lei, ho pulito tutto e lei domani come da programma viene qua alle dieci e facciamo l’intervista, se no non venga per niente e la chiudiamo qui!» e mise giù. Io mi affrettai a dire: «Magari ci vediamo domani…» E lui: «Ma che domani e domani, che sei sorda? Non l’hai capito che c’ho da fare?» Mi morsi la lingua. Cazzo, pensai, che palle, dico sempre cose sbagliate nel momento sbagliato. Non gli chiesi neanche scusa: presi le mie cose e me ne andai senza salutare, tanto sapevo che non mi avrebbe risposto. Il lm che teneva impegnato mio padre era Panni sporchi. Uscì nel 1999 e fu la sua penultima pellicola. A mio parere avrebbe meritato maggior successo, perché c’erano trovate geniali, come il ragazzino satanista, e l’interpretazione straordinaria di Mariangela Melato e Gigi Proietti. La lavorazione del lm portò un nuovo cambiamento nel nostro rapporto. La fase delle passeggiate e delle cenette nì di colpo, perché lui era sempre troppo occupato e non ci

vedevamo che di rado. In compenso mi chiamava spesso per sapere come stavo e come andava l’analisi. Non erano vere e proprie telefonate di appoggio, sembrava piuttosto volesse dimostrare che si interessava a me. Io pensavo che in realtà non gliene fregasse niente e mi chiamasse solo per convenzione, così a mia volta, per convenzione e per non farlo preoccupare, rispondevo che andava tutto bene. Come al solito. Così bene invece non andava. Lui mi mancava moltissimo e la sua ritrovata evanescenza mi feriva. Al nostro rapporto altalenante si aggiunse una nuova consuetudine: le cene da me e Peter. Papà amava venire a trovarci perché si sentiva coccolato; la nostra accoglienza affettuosa lo rassicurava e alleggeriva i suoi sensi di colpa, come se leggesse nelle mie attenzioni il segno che i risentimenti di una volta si erano placati. Ad attirarlo c’erano anche i manicaretti che Peter cucinava per lui, il vino buono che gli compravo io, e la compagnia allegra di amici che sempre radunavamo. Era questa una delle principali attrattive: la possibilità di incontrare sconosciuti, di cui non gli anticipavo mai nulla. La malattia che lo animava era sempre la stessa: cercare un’ispirazione e soddisfare la sua incredibile curiosità. Quando veniva, si sedeva sul divano e io gli portavo un pezzo di formaggio e un bicchiere di vino. Mi chiedeva subito chi avessi invitato e io snocciolavo nomi: registi, scrittori, artisti o semplicemente persone comuni, con le quali scherzava, ragionava di politica, parlava di cinema con naturalezza e vivacità. Una sera gli annunciai che ci sarebbero state Alexandra e la madre Adriana Faranda. «La conosco benissimo», disse lui, «mi ha fatto delle foto con il suo compagno Gerald.» «Allora niente appuntamenti al buio questa volta», replicai, e lui rise.

Chi non ha conosciuto mio padre si sarebbe aspettato forse che la brigatista e il maestro comunista a tavola non parlassero d’altro che di politica. E invece si scambiarono ricette, commentarono la cucina e il vino in un’atmosfera famigliare e disimpegnata. Adriana aveva portato una bottiglia di Est! Est!! Est!!! e papà ci raccontò la leggenda legata al nome. Un vescovo tedesco, al seguito di Enrico V di Germania in viaggio verso Roma, usava mandare il suo coppiere in avanscoperta nelle cantine affinché assaggiasse il vino. Dove valeva la pena fermarsi, doveva scrivere sulla porta EST ovvero «c’è» in latino. Giunto a Monte ascone, il coppiere rimase così colpito dal vino locale che un semplice EST gli sembrò poco e segnò fuori dalla cantina EST ! EST !! EST !!! Durante quella cena, la politica non fu nemmeno s orata. Credo che Adriana abbia apprezzato molto quel gesto di considerazione e rispetto da parte di mio padre.

Gli altri

PAPÀ amava rapportarsi agli altri, anzi ne aveva bisogno. Da amici, colleghi, conoscenti o sconosciuti traeva ispirazione. Naturalmente c’erano anche i libri cui attingere, ma i racconti delle persone restavano per lui una fonte importantissima. Tutto per Mario Monicelli era nalizzato al lavoro, che per lui era un autentico piacere. «Sono stato fortunato», diceva, «ho fatto ciò che desideravo.» E non solo: aveva avuto la fortuna di trovare il mestiere adatto a lui, che gli aveva procurato grandi successi e soddisfazioni, e aveva passato un’intera vita a fare solo ciò che voleva. Odiava ripetersi e quando, dopo i maggiori successi, gli avevano proposto soggetti simili, aveva ri utato per il gusto di rimettersi in gioco. In questo gli somigliavo: anch’io detestavo stare ferma su una cosa, ma mentre lui si era rinnovato all’interno della stessa professione, io continuavo a cambiare. Intraprendevo un’attività e appena arrivavo a un punto secondo me morto, mollavo e ricominciavo da un’altra parte. Papà rideva come un pazzo, «Brava, brava! Così si fa!» mi diceva, e io mi sentivo alleggerita da un peso: quello di non aver mai cercato ciò che vogliono in molti, l’anelato posto sso. Dall’amore per il cinema derivava anche la sua disponibilità estrema: viaggi per andare a ricevere riconoscimenti, interviste, premiazioni a registi emergenti, partecipazioni a festival minori e sconosciuti. Anzi, li preferiva, perché sentiva il dovere, quasi l’esigenza personale, di sostenere i più deboli. Non l’ho mai sentito lamentarsi né parlare male di nessuno, era sempre entusiasta e sempre se stesso, semplice ma concreto, intelligentissimo e spesso severo, ma così fortemente giusto che

non si negava mai. Chiunque poteva intervistarlo, diceva, il suo numero era sull’elenco del telefono. Dava e imponeva il massimo rispetto a tutti. Lo imparai a mie spese nel 1991, quando lo accompagnai al Festival di Venezia per ritirare il Leone d’oro alla carriera. Avevo diciassette anni ed ero emozionatissima: non ero mai stata a una manifestazione del genere e speravo di vedere tutte le proiezioni possibili. Arrivammo insieme al Lido in motoscafo – cosa che non mi è mai più capitata – e lui mi liquidò con un vago: «Fai quello che ti pare, ci vediamo in albergo alle otto». Prima di allontanarmi, notai che una giovane hostess gli dava una borsa con un badge. Non ero molto pratica, ma intuii che era il lasciapassare per partecipare agli eventi. Timidamente aspettai in un angolo che lo intervistassero decine di giornalisti, poi quando lo vidi pronto a seguire un’elegante signora in rosa, gli chiesi con un lo di voce se mi poteva procurare un altro lasciapassare. Lui mi guardò severo e mi disse con fermezza: «Che lasciapassare e lasciapassare! Il cinema si paga, non lo sai?» Ci rimasi malissimo. Ma come? Io, la glia di Monicelli, dovevo pagare per entrare a vedere i lm! Roba da matti. Ma così feci, le comprese. Un altro esempio della disponibilità di mio padre mi è stato raccontato da Giammarco Spineo e Gianluca Martone, due giovani autori che lo avevano contattato quando lavoravano a un format televisivo con Johnny Palomba, il pungente critico delle «recinzioni» cinematogra che. I due volevano organizzare un’intervista a un personaggio di spicco, ma erano indecisi sul nome giusto, nché ebbero l’illuminazione: chi meglio di Mario Monicelli, il più grande, il maestro? Dopo un attimo di incertezza, stabilirono che il modo migliore di contattarlo era una lettera e si misero a scriverla. Come Totò e Peppino, non sapevano da dove cominciare e impiegarono ore e ore prima di compilare poche righe. Qualche giorno più tardi, mio padre li chiamò. Giammarco, che ricevette la telefonata, ricorda ancora il suo tono brusco e

spicciativo: «Pronto! Sono Mario Monicelli», e poi, quasi a presentarsi, «quello della lettera». Seguì un incontro straordinario. Johnny Palomba, Giammarco e Gianluca lo aspettavano a Cinecittà per accompagnarlo allo studio di registrazione. Dovevano attraversare un capannone buio e pieno di cavi e temevano che potesse inciampare e farsi male, ma lui camminava sicuro nel buio, senza appoggiarsi, come se sapesse esattamente dove mettere i piedi. Palomba fece un’intervista lunga e geniale. Papà si sentiva particolarmente a proprio agio, parlò liberamente spaziando anche, cosa insolita per lui, su argomenti personali. La prima volta che vidi la registrazione montata provai un po’ di commozione, soprattutto quando gli fu chiesto che ricordo avesse di suo padre. «L’odore della giacca da soldato quando tornava a casa», rispose semplicemente. Fu in quell’occasione che pronunciò come una premonizione la parola «indignati». Non poteva sapere che diversi anni dopo sarebbe diventata di uso comune per indicare il gruppo a lui più caro: i giovani senza diritti. Parlando di letteratura e di politica gli capitava spesso di essere profetico, e anche per questo era amatissimo. Fino all’ultimo è stato un cittadino, una persona comune, e chiunque si riconosceva in lui. Prima di essere un genio, era un uomo semplice che girava ancora per il suo quartiere con la busta della spesa.

Confessioni

DOPO due anni di analisi, mi ero decisamente stufata. Un po’ perché mi sembrava di ripetere sempre le stesse cose e non sapevo nemmeno a chi, visto che il professore non interveniva quasi mai; un po’ perché da quando mi ero danzata con Peter, stavo molto meglio e mi pareva di aver trovato il mio equilibrio. E poi gli incontri due volte la settimana erano diventati un onere psico sico troppo pesante: mi sentivo più forte e ritenevo inutile continuare a dissotterrare i miei mali e i miei dolori. Il dottore aveva fatto abbastanza ed ero impaziente di comunicargli che ero pronta a vivere di nuovo senza sostegni e nalmente senza di lui. Durante l’ultima seduta, anziché stendermi sul lettino, mi sedetti di fronte alla scrivania e con un leggero timore gli dissi che volevo smettere. Lo psicologo mi osservò a lungo: fra noi ci fu un momento di silenzio e, da parte mia, un grande imbarazzo perché non avevo altro da aggiungere. Alla ne mi guardò in un modo così in essibile e severo che fui costretta ad abbassare gli occhi. Dopo un’interminabile pausa, mi avvertì: «Ottavia, lei non può andare da nessuna parte. Ha trovato soltanto un equilibrio effimero e si accorgerà presto che non le servirà a niente. Deve continuare l’analisi, con me o con un altro, ma deve continuare questo percorso perché è in pericolo». Gli scoppiai a ridere in faccia. Parlava come in un lm. È attaccato ai soldi come una zecca a un cane, pensai. Le sue parole non mi spaventarono: con un bel sorriso, saldai le ultime sedute, lo rassicurai che sarebbe andato tutto bene, lo

salutai con una vigorosa stretta di mano e quella fu l’ultima volta che misi piede nel suo studio. Mi sentivo leggera come una piuma. Passai da mamma per raccontarglielo e lei non fece commenti. Disse solo che dovevo fare ciò che mi sembrava giusto. La mia testa, ormai libera da quel fardello, si riempì di sogni e speranze, i pensieri positivi avevano sostituito quanto di cattivo e buio c’era dentro di me, il vuoto era stato riempito e questa volta, ritenevo, in modo de nitivo. Con Peter andava benissimo: ci amavamo tanto e ci divertivamo molto, il rapporto era intenso e non mancava niente alla nostra felicità. Vivevamo di cinema, feste, serate in ambienti per me nuovi. Attraverso di lui conobbi persone che sarebbero diventate poi i miei più cari amici, così come incontrai un sacco di gente che non mi piaceva. Ma questo era normale e poco mi importava dei seccatori. La cosa fondamentale era che ovunque andassimo, tornavamo a casa insieme, stretti stretti in motorino, innamorati l’uno dell’altra come mai mi era successo. Una sera, mentre lui cucinava e io preparavo l’esame di Storia dell’arte dell’India, telefonò papà. Ci salutammo e ci raccontammo un po’ di tutto: quello che facevo, quanto studiavo, ma percepivo che non era di buon umore. Bofonchiava che mi doveva parlare e che era urgente. «Quando ci possiamo vedere?» chiese in ne. «Boh, papà, anche domani se vuoi.» «Va bene, vi porto a cena fuori. Venite a prendermi alle otto, poi andiamo a piedi, che il ristorante è vicino a casa e facciamo una passeggiata.» Il giorno dopo mi preparai presto, sapendo quanto odiasse i ritardi: una bella maglietta che sembrava mangiata da un topo, un paio di jeans altrettanto distrutti e i miei an bi. Peter, al mio opposto, all’epoca portava camicia, pantaloni e cravatta, ma almeno quest’ultima gli proibii di indossarla.

Prendemmo il motorino e raggiungemmo papà a Monti, dove viveva ancora con Chiara. Lo aspettammo sotto il portone di via Clementina e lui scese un po’ claudicante, perché i segni del terribile incidente di dieci anni prima avevano iniziato a farsi sentire e ogni tanto doveva aiutarsi con un bastone. Quella sera era bellissimo: aveva una camicia di cotone bianca con il collo alla coreana, giacca e pantaloni beige, e si era messo un cappello con la falda. A me sembrava sempre bello, ma quel giorno lo era ancora più del solito. Salutò Peter con un’energica stretta di mano e a me, come sempre, fece una carezza sulla testa, poi mi guardò: «Carina la tua mise. Sei molto elegante». Scoppiammo a ridere tutti e tre e ci avviammo. Era una tiepida serata romana. Camminavamo piano come piaceva a papà, che amava guardare le persone, i negozi, i bar, per no i sampietrini sotto i suoi piedi. Intanto chiacchieravamo del più e del meno: lui mi chiese com’era la casa di via Nizza dove vivevo con Peter, e io gli raccontai degli altri due inquilini e del gran casino che facevamo. Lui rideva di gusto e prendeva in giro il mio danzato: «Oh, sta attento che le donne hanno il sopravvento e in quattro e quattr’otto si piazzano che manco te ne accorgi». «Veramente Ottavia si è già piazzata e si è portata dietro tutto, comprese le foto», stava al gioco Peter. «Povero te, ti ha fregato. Be’, sei ancora in tempo a farla cacciare dagli altri abitanti della casa così tu non hai sensi di colpa e te ne liberi de nitivamente. La convivenza è letale», rispose con voce profonda e buffa. Io ascoltavo divertita: adoravo la sua ironia e mi faceva ridere che proprio lui, che si era sposato due volte e conviveva da dieci anni con Chiara, difendesse la libertà maschile. Di solito andavamo a mangiare sempre nelle stesse osterie − Valentino, la Taverna romana, Il Covo, Benito e Gilberto − e invece questa volta papà ci portò in un ristorante assurdo. La posizione era bellissima perché stava a colle Oppio proprio di

fronte al Colosseo, ma era pieno di turisti e si capiva lontano un miglio che avremmo mangiato male. Un cameriere d’altri tempi, con il tovagliolo appoggiato sull’avambraccio, un’evidente stempiatura e un buffo riporto, ci accompagnò cerimonioso a sedere e ci servì una bottiglia di vino gelato che bevemmo subito molto volentieri. Papà, una volta seduti, attaccò più volte il discorso che gli stava a cuore: «Ottavia, senti, ti devo dire…» ma qualcuno lo interrompeva sempre: una persona che si alzava e sbatteva contro la sua sedia, il cameriere che veniva a prendere le ordinazioni, gli zingarelli che suonavano la sarmonica, i cori che partivano dai tavoli vicini. Affollato com’era, quel posto sembrava un girone infernale e mio padre, che pure lo aveva scelto, si alterò alquanto. Finalmente appro ttò di uno dei rari momenti di pace, mi guardò negli occhi e disse perentorio: «Ottavia, ti devo parlare di una cosa importante». Il suo volto era così serio che smisi di mangiare. Peter, in evidente imbarazzo, chiese se era meglio che si allontanasse. «No, no», rispose lui sbrigativo, poi riprese, «ho saputo dalla mamma che hai interrotto l’analisi.» «Sì, sto meglio e non ne ho più bisogno.» «Il tuo psicologo ha chiamato preoccupato la mamma…» «E allora?» «Ha detto che sei un fantasma che cammina, che potresti suicidarti da un momento all’altro. Che è una follia smettere di farti seguire da un medico.» A queste parole si creò un gran gelo: la tensione si tagliava con il coltello. Io scoppiai a ridere: «Papà, ma che dici? Ti sembro una che si vuole suicidare?» Lui restò in silenzio. Con gli occhi ssi sul piatto ancora mezzo pieno, mi disse una cosa che mai potrò dimenticare.

«Devi sapere, Ottavia, che c’è stato un periodo della mia vita in cui sono stato molto male. Ero già famoso, avevo avuto belle soddisfazioni, premi, riconoscimenti e tutto il resto. Non so perché, ma non mi bastava più, anzi mi faceva sentire più fragile e indifeso come un bambino. Avevo paura di vivere e ho pensato seriamente di uccidermi e farla nita.» Io e Peter restammo basiti, senza parole. Mi veniva da piangere e non riuscivo neppure a deglutire. «Nella nostra famiglia», continuò lui, «c’è sempre stata una vena di depressione. Non mi riferisco solo al nonno Tomaso. Questa malattia ha accompagnato diverse generazioni di Monicelli, e anche me. Non so come me ne sono tirato fuori, suppongo grazie al lavoro, però resto legato a lei da un lo sottile. E anche nella famiglia di tua madre ci sono stati suicidi e la depressione è presente.» Peter si alzò da tavola per lasciarci soli, in mezzo a quella gente vociante che ormai non sentivamo più. Guardai papà e precipitai nel buio dei suoi occhi, mi nascosi tra le sue folte sopracciglia e non riuscii a emettere nessun suono. Non riuscivo a parlare: ero sconvolta, addolorata e sopraffatta da quella confessione. Possibile che mio padre, l’uomo di ferro, fosse invece un uomo e basta? Cosa era successo? Cosa lo aveva spinto a volersi suicidare? Mi s orò fra i tanti pensieri l’incidente di Bracciano: forse era stato proprio lì, in quel frangente, che aveva cercato la morte. Lui guidava bene, era troppo presto per un colpo di sonno e quel contadino aveva detto di non aver visto la macchina sterzare, ma andare dritta a grande velocità contro l’albero. Non era possibile, non poteva essere quello il contesto… Non ebbi il coraggio di chiedere nient’altro. Sapevo che papà avrebbe apprezzato la mia discrezione: aveva già detto molto e non credo che avesse ancora voglia di parlare. Alzai lo sguardo e incrociai il suo dietro gli occhiali. Stava leggendo il menù. «Non devi preoccuparti per me. Non farei mai qualcosa che vi farebbe soffrire. E poi sto bene, ormai sono uscita dal tunnel.

Non ho paura del futuro: dopo tutte queste difficoltà e l’analisi, non mi spaventa più niente.» Lui non commentò. Terminammo la cena scossi e di cattivo umore in un silenzio teso che si protrasse anche mentre riaccompagnavamo mio padre a casa. Fu lui stesso a congedarci lungo la strada. «Faccio due passi. Ci sentiamo nei prossimi giorni», disse lasciandoci intendere che voleva restare solo. Dopo quella conversazione, sia io sia papà ci evitammo per un po’. Da parte mia, tenevo costantemente sotto controllo il mio umore, nel timore che si avverassero le sue parole. Lui invece sembrava sentirsi a disagio, forse in colpa, per aver detto una verità scomoda. Dopo quel momento di rara vicinanza, ci allontanammo di nuovo, quasi spaventati l’uno dell’altra.

Tregua

GLI ammiratori di mio padre lo chiamavano «highlander», perché aveva una tempra straordinaria. Pur vecchio, rimaneva duro, coerente, leale, quasi che il tempo non lo scal sse. Si vantava di non essere mai andato dal dentista – «I denti sono fatti per stare in bocca!» diceva ero – e non si ammalava mai. Per dimostrare la sua prestanza, ripeteva che non aveva mai preso un raffreddore. «Sono un terminale sano!» rispondeva a chi gli chiedeva come stava. Se qualcuno invece aveva la febbre, lui sbuffava: «Siete dei fanatici, vi coprite poco per far vedere quanto siete belli! E poi eccovi lì malati e mocciolosi». Persino dopo l’incidente d’auto non si lamentò mai. Detestava chi lo faceva, odiava i malati e sopportava ancora meno quelli che continuavano a dire quanto facesse caldo d’estate e freddo d’inverno. In generale biasimava qualunque stereotipo, così come ogni forma di linguaggio scontato e prestabilito. Per questo spesso perdeva la pazienza con i giornalisti che gli facevano domande prevedibili e sempre uguali, e per scoraggiare questa pigrizia mentale, gli scambi convenzionali, i «come stai, come va», dava risposte brusche che morti cavano l’interlocutore. Si sentiva così libero nelle sue affermazioni che a novantadue anni fu denunciato per diffamazione perché durante la trasmissione Viva l’Italia in diretta dal Festival di Venezia aveva affermato che Giovanni Gronchi era corrotto visto che durante la sua presidenza aveva venduto a privati le sale cinematogra che di proprietà dello Stato. E aveva aggiunto che l’emissione del francobollo Gronchi rosa era stata una truffa bella e buona. La glia di Gronchi lo denunciò, ma mio

padre ne rise. Sogghignava di fronte a quella che per lui era una nuova avventura e diceva che alla sua veneranda età poteva dire tutto quello che voleva senza preoccuparsi delle conseguenze. Non aveva mai avuto peli sulla lingua, ma più invecchiava, meno si lasciava sfuggire occasione per fare polemica: «Ho l’età giusta nalmente. Nessuno mi può contestare, tanto pensano che dico certe cose perché mi sono rincoglionito. Invece sono l’unico che ha il coraggio di contestare, perché chi dovrebbe è troppo vittima della paura e della piaggeria». Eppure, nonostante la forza di volontà che ha sempre dimostrato, noi che gli eravamo vicini avevamo notato un cambiamento nel suo carattere. Forse a causa del decadimento sico e psichico, era diventato molto più disponibile, soprattutto con mia madre. Le chiedeva di accompagnarlo a camminare a Villa Borghese e lei si meravigliava che lui, mai propenso a parlare del passato, avesse preso invece a ripercorrere i momenti della loro vita insieme. «Ti ricordi la famosa cena a casa Agnelli a Torino?» oppure «Ti ricordi a Porta Palazzo mentre giravo Le coppie con Monica Vitti ed Enzo Jannacci? C’era anche un travestito che parlava toscano! Ti ricordi quanto era divertente?» «E quella volta che siamo tornati a casa a piazza del Teatro di Pompeo, e abbiamo trovato la porta aperta perché erano entrati i ladri? Solo che non avevano trovato niente perché tu avevi nascosto tutto come una pazza! Invece un’altra volta tu stavi a Cetona e mi hai fatto correre alla casa a via del Babuino perché erano di nuovo entrati i ladri. E lì sì che avevano rubato… Tu mi hai voluto raggiungere subito e ti fermavi in tutti gli autogrill per sapere cosa mancava. Per tranquillizzarti, ti dicevo: ‘Niente niente!’ e poi tu mi richiamavi per chiedere se c’erano le pellicce e io: ‘Ah no, quelle non ci sono più!’ ‘E l’argenteria?’ ‘Ah no, non c’è più neanche quella!’» Alla vita quotidiana si mescolavano le storie dei suoi lm: «Ti ricordi quando sei venuta a Ghardaia mentre giravo Brancaleone alle crociate e sei arrivata su un bimotore pilotato da un indigeno a piedi scalzi? Tu eri assolutamente

terrorizzata». «E quando Proietti si era vestito da morte, sempre in Brancaleone alle crociate, e Martina è scoppiata a piangere… che scema!» E così papà passava il tempo, un tempo diverso dal solito, strano, malinconico, fatto di passato e sempre meno futuro. Mamma era per lui come una concubina: la chiamava per tutto, se aveva mal di denti, se aveva un brufolo, se gli faceva male una gamba. La obbligava persino a raggiungerlo a casa sua a via dei Serpenti per aggiustare una montagnola di panni a cui mancavano bottoni, oppure erano strappati o c’era qualcosa da cucire. Poi, già che era lì, le chiedeva di cucinargli la bieta bollita perché la tatina ucraina che lo assisteva preparava solo pietanze con il maiale e gli diceva che al suo Paese la verdura non esisteva. Con lei si lamentava che io non lo chiamassi mai. Mi vedeva felice con Peter e forse si sentiva dispensato dal ruolo di padre, quindi riteneva che cercarlo fosse un dovere solo mio. «Non capisco come possa essere così impertinente da non telefonarmi nemmeno per chiedermi come sto», brontolava. Alle sue pretese, rispondevo con altrettanta ostinazione: se lui si sentiva libero di non chiamarmi, io ero altrettanto libera. Eravamo due bambini capricciosi in fuga dalle nostre responsabilità. Il malumore bizzoso non era rivolto solo alla famiglia. Negli ultimi anni si era molto incupito, era silenzioso, freddo, serio e non sopportava quasi nessuno. Una volta assistetti a una telefonata fra lui e Masolino D’Amico, che probabilmente lo aveva chiamato per chiedergli un favore. Verso il glio della Suso mi sarei aspettata un trattamento di riguardo, invece mio padre gli diede una risposta secca, si capiva che era infastidito. Quando riattaccò era furioso: «Basta! Non ne posso più di questi che chiedono continuamente cose, stanno sempre a domandare. Basta!» Non tirava buona aria e feci per andarmene. Mentre uscivo, se la prese con me: «Impara anche te! Non chiedo favori e non

faccio favori!» Certe notti, dopo esserci visti, se non riuscivo a dormire, pensavo a papà a casa da solo. Lo vedevo che si metteva il pigiama, si lavava i denti, come diceva sempre lui, «per almeno mezz’ora», poi si in lava a letto con la radio accesa. Tanto tempo fa, c’era una radio notturna locale, Chat Noir, di quelle vecchio stampo, che trasmetteva programmi no all’alba e mandava in onda le telefonate degli spettatori che, per solitudine o per insonnia, chiamavano per raccontare i fatti loro o chiacchierare sugli argomenti più disparati. Io e papà l’adoravamo: io l’ascoltavo soprattutto dopo l’incidente in moto che mi aveva immobilizzata a letto, quando non riuscivo a dormire per il dolore; evidentemente anche lui la notte aveva qualche pensiero che lo teneva sveglio no alle due e qualche volta più tardi. O semplicemente era che da vecchi, come diceva lui, si dorme poco. Un giorno gli chiesi come mai ascoltasse Radio Chat Noir. «Mi piace sentire parlare quelle persone», rispose. «Quando si salutano, quando chiacchierano del più e del meno, quando si scambiano le ricette in quel romanaccio vero, mi sento meno solo. Mi fanno compagnia. Certe volte vorrei telefonare anch’io, come uno qualsiasi, ma non ne ho mai avuto il coraggio.»

Rosa

NEL 1999, quando il rapporto con Peter si era ormai consolidato, sull’ondata dell’ottimismo, mi sembrò che tutto potesse succedere e mi spinsi a credere che avrei potuto allacciare rapporti con Chiara e Rosa. Ne parlai con papà e mi feci invitare a cena a casa loro. Rosa aveva dieci anni ed era ancora timidissima, come quando era venuta da noi in via del Babuino. Continuava a essere di pochissime parole e a tenere lo sguardo sso sui suoi piedini. Ricordo però la soddisfazione quando le porsi il regalino che le avevo portato, credo fosse un libro: mi disse grazie e mi diede un piccolo bacio sulla guancia che mi rese incredibilmente felice. Chiara disse di aver preparato l’unica cosa che sapeva cucinare, il pesce nto, un piatto strano, a forma di pesce, con i capperi al posto degli occhi. Per quel che mi riguardava sarebbero andati benissimo spaghetti e pomodoro, ma lei aveva voluto fare qualcosa di speciale. Per educazione mi sforzai di mangiare tutto nonostante dentro ci fosse il tonno, che non ho mai amato. Per fortuna Peter aveva portato una crostata che a ne cena divorai. Com’era inevitabile, eravamo tutti un po’ a disagio, tranne papà che sembrava essere sempre lo stesso: freddo, distaccato e disinteressato. Invece Chiara era molto affettuosa e attenta, con mio grande stupore, perché, per quanto la conoscessi poco, sapevo che non era da lei ostentare un eccesso di premure. Quanto a me, pagai lo scotto della tensione appena ce ne andammo: giù in strada vomitai per dieci minuti. Forse un po’

aveva contribuito il tonno, forse, ancora di più, l’invidia che avevo provato nel vederli tutti insieme. Però il mio masochismo non conosceva limite e qualche tempo dopo organizzai una seconda cena, questa volta a casa mia e di Peter (nel frattempo ci eravamo trasferiti a vivere da soli). Per Rosa avevo preparato un regalo speciale. Papà mi aveva detto che cantava nel coro delle voci bianche e che era molto brava, e le sarebbe piaciuto suonare uno strumento. Anch’io avevo avuto questa aspirazione molti anni prima, ma dopo poche lezioni del mio amico Nasco avevo capito che la musica non faceva per me. Conservavo ancora però la bella chitarra classica che mi avevano regalato, appoggiata in un angolo a impolverarsi, in attesa che qualcuno venisse a strimpellarla. Quando Rosa, il babbo e Chiara arrivarono ero pronta a fare uno show: loro entrarono e io uscii con un balzo dalla camera da letto con la chitarra in mano. L’avevo impacchettata ma la forma non lasciava dubbi. Solo Rosa, che si era un po’ spaventata, non sembrava aver capito. Si mise in salotto e seduta sul divano, con la calma che solo alcuni ragazzini hanno, scartò il regalo: quando vide il contenuto, sgranò gli occhi, guardò prima sua mamma, poi papà e in ne me e mi disse abbracciandomi: «Grazie, è stupenda». Fu il momento più bello della serata: mia sorella, la mia piccola sorellina Rosa, mi aveva abbracciata forte forte e mi aveva guardata con amore e meraviglia, proprio come avevo sempre voluto. Contrariamente alla prima volta, mio padre sembrava imbarazzato e molto diverso da quando partecipava da solo alle nostre cene. Chiara invece era entusiasta, radiosa. Ogni cosa che vedeva la faceva notare a Rosa: «Non è meraviglioso?» continuava a ripetere. A me questa sua eccitazione sembrava un po’ forzata, e vedevo che pure papà scrutava stupito il suo comportamento, pensando probabilmente che era un modo di comportarsi stravagante.

Neppure questa cena condusse però a quello che sotto sotto speravo: diventare davvero sorella di Rosa. Avrei voluto che papà e Chiara mi chiedessero di andare da loro più spesso, che mi invitassero in vacanza, che qualche volta me l’affidassero. Invece non accadde nulla di tutto questo, e mi rassegnai a fare l’ennesimo tentativo. Di nuovo chiamai papà e gli chiesi di andare a cena da loro. Lui tentennò perché «l’artista», così chiamava scherzosamente Chiara, stava preparando una mostra, ma io insistetti. Non credo che gradisse molto quella che considerava un’intromissione nella sua famiglia, ma alla ne cedette. Come sempre portai un regalo a Rosa: e Wall dei Pink Floyd. Sono convinta che la musica buona, quella giusta, quella da cui si imparano un sacco di cose, si deve iniziare ad ascoltare il più presto possibile. Lei era ancora piccola e non poteva sapere di avere in mano la più grande prova musicale di tutti i tempi. Glielo spiegai e sembrò molto contenta di aver ricevuto un «regalo da grandi», come disse Chiara. In tavola c’era il solito pesce nto, la specialità della casa. Con una punta di cattiveria mi chiesi cosa mangiassero gli altri giorni della settimana. Ecco perché papà va così spesso a mangiar fuori ed è tanto contento di venire ospite da noi, pensai. L’effetto su di me fu quello della prima volta: scese le scale, vomitai tutto. Era chiaro che la tensione aveva la meglio. Quella sera decretò la ne dei miei tentativi. Non avrei più fatto alcuna cena e non avrei accettato alcun invito, decisi. Sarei rimasta legata solo a papà, e avrei continuato a seguire Rosa da lontano. D’altro canto il fatto che nessuno mi abbia più cercato mi fece capire che loro non avevano intenzione di coltivare i rapporti. Ancora oggi mi chiedo perché papà non permise che io e Rosa ci frequentassimo. E perché Chiara, da madre, sottovalutasse quel legame basilare, indispensabile, che dovrebbe esistere tra sorelle. E soprattutto perché non potessimo essere anche noi una famiglia allargata come tante altre.

Nipoti

NEL 2001 è nato il mio primo glio, Vasco. Avevo ventisette anni e diedi alla luce una specie di Cita, una scimmia tutta olivastra con un naso da pugile e i capelli neri. Quando me lo misero accanto, mi spaventai: «No, non può essere mio! Datemi del Valium». In effetti Vasco, con tutto l’amore che si può avere per un neonato, era un mostro, e io e Peter eravamo disperati. E non solo noi: quando mio padre venne in ospedale a vederlo, mia madre lo accompagnò alla nursery e per la vergogna gli indicò un altro bambino. Lui, che non era affatto stupido, se ne accorse subito: «Antonella, quello è il numero 303. Ottavia è nella stanza 207. Suo glio è quello là… Siamo sicuri che non abbiano fatto uno scambio? È davvero un po’ racchio!» Ma per rassicurarmi, appena mi vide disse: «Brutto in fasce, bello in piazza!» «Speriamo», risposi sconfortata. Ed effettivamente ha avuto ragione lui. Per Fiore fu tutta un’altra storia. È nata tre anni dopo e quando me la misero vicino, non vidi una bambina ma una stellina tanto era bella. Anche in questo caso mio padre venne in ospedale per vedere la pupa e, seduto tra me e lei, non riusciva a distogliere lo sguardo dalla bimba. «È bellissima. Non è possibile, è di una bellezza sconvolgente. Come hai fatto!» Io sbuffavo di fronte a queste sue cattiverie, ma sotto sotto ero contenta che per una volta la pensassimo allo stesso modo.

Papà non sembrò interessarsi particolarmente ai miei gli no a quando Vasco non compì cinque anni: allora si mise a venire più spesso che poteva per vedere i nipoti. Passava quando voleva, senza momenti prestabiliti, a volte anche per tre giorni di seguito. Si presentava sempre presto, perché sapeva che i bambini andavano a letto al massimo alle nove meno un quarto. Quando arrivava, gli correvano incontro per farsi baciare, ma lui freddissimo li allontanava: «Non si baciano i vecchi!» Però prendeva Fiore in braccio e si scambiavano effusioni sottili e carezze reciproche. Lei si stendeva su di lui e riusciva a farsi coccolare, gli passava le manine sul viso e sul collo e ripeteva: «Nonno, sei tutto moscio!» Lui le toccava le braccia e le diceva: «Quanto sei morbida». Mentre Fiore era dolce e affettuosa, Vasco era tutto il contrario. Ora che è cresciuto ritengo che sia la reincarnazione di mio padre, almeno dal punto di vista caratteriale: detesta le smancerie, e quando è proprio inevitabile baciare qualcuno, si limita a porgere la guancia. Forse per questo mio padre era affascinato da lui: gli piaceva molto perché diversamente dagli altri bambini, stava in silenzio a tavola. Non era uno di quelli senza freni che intervengono nelle conversazioni di adulti compiacenti: Vasco parlava solo quando era interpellato e a ne pasto chiedeva educatamente se si poteva alzare, annoiato dalla presenza e dai discorsi dei grandi. Crescendo il suo carattere non è cambiato: ancora oggi è di pochissime parole, almeno con noi adulti, e si ritrae ogni volta che c’è il rischio di incorrere in effusioni. Insieme, lui e il nonno parlavano del più e del meno, da pari. Quando lo esortavo a dire quanto fosse bravo a scuola, mio padre mi inceneriva: «I bambini non sono scimmie, lascia che dica quello che vuole». E così continuavano i loro discorsi: Vasco raccontava di come era cascato con la bicicletta o si lamentava che non lo facessi giocare a calcio perché avevo scelto altri sport. Papà era sempre pronto a dargli ragione: avrei deciso ancora per poco, lo rassicurava, a una certa età i genitori non contano più niente, anzi non devono contare più niente.

Quando arrivava l’ora di mettere i bambini a dormire, mio padre restava a mangiare da noi. Ogni tanto avevo la sensazione che non volesse più andar via: le nostre cene non erano sbrigative come i pranzi di quando ero piccola. Anzi, si intratteneva a lungo e gli piaceva parlare di tutto, del nipotino in particolare. Fu quando i bambini furono più grandicelli – Fiore aveva circa quattro anni e Vasco sette – che iniziò a fare regali per ogni occasione, Natale e compleanno. Si faceva telefonare dai bambini che gli ordinavano il giocattolo che volevano. Nonostante mi opponessi, indicavano sempre cose costose e io pregavo papà di non comprarle perché pensavo fosse diseducativo. Ma lui faceva ciò che gli avevano chiesto e mamma lo accompagnava in negozio a scegliere. Così, quando arrivava Natale ed era il momento di scartare i regali, Vasco e Fiore trovavano il pacco del nonno e facevano salti di gioia. In qualunque parte del mondo fossimo, telefonavano per ringraziarlo al colmo dell’entusiasmo. Anche papà era felice: ci teneva molto a fare ai suoi nipoti i regali che desideravano e che io non avrei mai comprato perché, mi diceva: «Sono vecchio, fra poco morirò, e voglio che i miei nipoti si ricordino di me». Si ricordano di lui anche per questo, certo: da quando il nonno non c’è più, quei regali grandi e costosi non glieli porta più nessuno. Ma lo ricordano soprattutto perché hanno visto alcuni dei suoi lm, come I soliti ignoti che Fiore adora, e Brancaleone, di cui nei momenti più impensati cantano a squarciagola la canzone. Da piccolo Vasco imbracciava persino una spada di legno e urlava: «Io sono Brancaleone da Norcia, cedi lo passo Fiore!» Quando mio padre è morto, non ho detto niente, né a Vasco né a Fiore, ma loro hanno saputo. La sera del 29 novembre la tata mi telefonò per dirmi cosa era successo e io mi sforzai di non battere ciglio per nascondere la notizia ai miei gli. Risposi solo: «Arrivo subito. Di’ alla mamma che sto passando a prenderla».

Vasco intuì qualcosa, perché prese Fiore per mano e la portò a letto. «Vieni, ti leggo una favola.» Le parlò come se avesse capito. Scoprì cos’era accaduto, e come, a scuola, dai compagni. Al ritorno, mi domandò se era vero che il nonno si era buttato dalla nestra. Rimasi agghiacciata dalle parole crude che mio glio pronunciò. All’inizio non sapevo cosa rispondere e negai, ma Vasco è un ragazzino troppo sveglio e comprese dal tono che stavo mentendo. Si sedette a tavola a guardare in silenzio il cielo plumbeo. Fiore, invece, un giorno mi chiese: «È vero che nonno è volato via da una nestra per andare in cielo?» «Chi te lo ha detto?» le domandai sorpresa. «Vasco.» Sorrisi pensando alla tenerezza di mio glio che aveva trovato quell’immagine delicata per attenuare il suo dolore. Proprio così, confermai, Vasco le aveva detto la verità.

Ricovero

ERANO giorni di pioggia. Papà non stava bene, gli avevano messo un catetere che gli provocava infezioni, e gli infermieri dovevano intervenire quasi quotidianamente. Dopo un ricovero in clinica, seguì un breve periodo di pace e di autonomia, poi ebbe di nuovo bisogno di assistenza. Martina era sempre presente, la crocerossina che è in lei prevaricò tutti. Lo accompagnava in ospedale, gli preparava da mangiare, controllava che stesse bene e non avesse bisogno di niente. Quando timidamente le chiedevo se potevo aiutarla, lei rispondeva sdolcinata che grazie mille, avevo avuto un pensiero carino, ma no, avrebbe fatto da sola. Era la prescelta che doveva occuparsi di nostro padre, insieme a Chiara e mia madre. Papà detestava questa invasione dei suoi spazi: «Più ci si fa accudire, più si invecchia», diceva. Ma gli acciacchi ormai prevalevano sulla forza d’animo, e con gli acciacchi arrivarono le sue donnine tuttofare. Mamma, Martina, Chiara: nessuna si tirava indietro, gli stavano addosso come api sul miele. Mentre tutte queste signore energiche si aggiravano intorno a lui, io non sapevo che fare: preparavo conserve, minestroni da surgelare, pasta e ceci che, tramite la mamma o mia sorella, gli facevo avere, così non doveva cucinare. Esclusa dalla schiera delle infermiere, gli telefonavo per sapere come stava; mi rispondeva, a volte con tono brusco, che andava tutto bene, a parte quel catetere che lo infastidiva; a volte invece aveva una voce così ebile che sembrava quasi non riuscisse a parlare.

Una sera, a causa della debolezza, mentre stava andando in cucina, cadde e non riuscì più a rialzarsi. Rimase per terra tutta la notte, no a quando la mattina arrivò la donna delle pulizie. Quando mia madre me lo disse, provai una pena immensa e capii che stava veramente male. Non seppi resistere e andai a trovarlo. Già mi aveva avvertito per telefono che era tutto acciaccato e pieno di lividi, però quel giorno mi fece davvero paura. Braccia, mani, viso erano coperti di tracce bluastre. Non mi impressiono mai, ma per la prima volta lo vidi vecchio, e questo mi fece più male che riconoscere i segni della caduta. Nel 2005, a novant’anni, papà aveva lasciato la casa di Chiara e di Rosa; nel 2006 aveva girato Le rose del deserto e nel 2008 il cortometraggio Vicino al Colosseo… c’è Monti; nel 2009 aveva partecipato al No Berlusconi Day e davanti a migliaia di persone aveva lanciato parole durissime contro il governo e i politici; nel 2010 aveva scritto e diretto, insieme a Mimmo Calopresti, La nuova armata Brancaleone per protestare contro i tagli alla cultura. Le energie non gli permettevano più di essere molto attivo nella vita pubblica, ma intellettualmente era presente, attento e vivo e non si lasciava sfuggire nulla di quanto accadeva. Anche se faticava a camminare e non vedeva bene, anche se le forze non erano abbastanza, si ostinava a uscire per comprare il giornale, che poi doveva leggere con la lente d’ingrandimento che gli aveva preso Martina. Era un modo per non arrendersi: no all’ultimo ha resistito alla malattia ed è rimasto attaccato alla vita, difendendo come poteva la sua indipendenza da tutte noi che gli proponevamo, o gli imponevamo, il nostro aiuto. Sono questi i ricordi che cerco di far affiorare alla mente oggi pensando a lui: la sua ostinazione, la sua forza, ciò che mi fa sorridere. Poi inevitabilmente arriva il pensiero di quei giorni: papà stava male, non ne poteva più, aveva perso ogni autonomia. Il suo medico di ducia non lo lasciava mai ed era pronto a raggiungerlo a qualunque ora, ma neppure lui poteva fare più niente e alla ne fu necessario il ricovero. Nessuno sospettava che sarebbe stato l’inizio della ne: anche se era sicamente stremato, conservava una perfetta

lucidità, restava forte e potente nelle parole e nei gesti. Mio padre era immortale, non poteva succedergli niente: così pensavo, e quando entrò in ospedale, i primi giorni non ebbi il coraggio di andarlo a trovare. Mi rifugiavo fra quattro mura e l’affetto della mia famiglia, trovavo scuse, impegni fantasiosi che mi impedivano di passare. Lui però mi aspettava, il cerchio si doveva chiudere. Doveva sentirsi tranquillo prima di fare quello che ha fatto. Continuai a tergiversare nché non mi sentii pronta. Quel giorno ascoltai mia madre che mi aggiornava sulla situazione, poi arrivò il momento e dovetti lasciare a casa le mie insicurezze per andare da lui.

L’addio

NON so bene da dove cominciare per raccontare la ne. Forse dall’inizio, ossia quella mattina del 29 novembre 2010, quando mia madre venne a prendermi per andare a trovare papà ricoverato al San Giovanni. Era triste, preoccupata, non parlava. Dai nestrini dell’auto disordinata e sporca, guardavo le strade rese lucide dalla pioggia. Ricordo il percorso da casa mia: Lungotevere, poi in centro, ponte Cavour, via del Corso e via Merulana. C’era tanto traffico e un rumore assordante, diverso da quello a cui ero abituata. In ospedale l’ascensore non arrivava mai al piano. Lungo il corridoio incontrai tanti medici che andavano e venivano. Immaginavo che uscissero da sale operatorie piene di sangue, luoghi con le luci forti e fredde, camici verdi e bianchi si mischiavano nel loro frettoloso passaggio; vedevo nella mente infermiere severe e devote che spostavano malati, con vigore li sollevavano nei loro letti perché mangiassero un vitto insapore e piatto come l’illuminazione che regnava nelle corsie. Mio padre si trovava al quinto piano e io non sapevo, no a quando non mi sono affacciata alla nestra, che fosse così alto. Arrivammo che non era ancora orario di visita e restammo ad aspettare in sala d’attesa, dove incontrammo Martina e Chiara. Ci raccontarono che il giorno prima le infermiere avevano trovato papà in terrazzo e quando gli avevano chiesto cosa facesse lì, aveva risposto che guardava il panorama. Strana cosa da fare per uno che non si era mai interessato al paesaggio ed era avvezzo solo ai sopralluoghi.

Martina aveva già capito tutto e ce lo disse: tanti piccoli indizi, accenni, semplici parole lasciavano indovinare che le sue intenzioni erano altre. Io rimasi impietrita, Chiara disse che no, Mario non l’avrebbe mai fatto, mia madre tacque. Ero talmente sconvolta che quando entrai nella sua stanza, mi sedetti senza neanche tentare di baciarlo, e lì rimasi, su una sedia, nché Martina e la mamma, che erano andate da un ferramenta, tornarono con un gancio per bloccare la nestra. In quelle ore che io e papà rimanemmo soli, parlammo di tutto: lui mi chiese di Vasco e Fiore, e io gli raccontai cose inventate perché non sapevo che dire. Di fronte a lui così emaciato e vecchio mi sentivo male, guardarlo mi procurava una sofferenza inaspettata, il cuore mi doleva vedendolo così fragile e le parole mi venivano fuori a fatica. Cercavo di nascondere il mio stato d’animo come potevo, parlando di continuo. S’informò sul viaggio che avrei fatto pochi giorni dopo in Costa Rica, dove quasi ogni anno vado a trovare i miei migliori amici, Michele e Giulia. Volle sapere di loro, com’erano e perché li amassi tanto, mi domandò come mai mi fossi ssata con il Costa Rica e io gli risposi che era come avere il mal d’Africa: avrei voluto viverci, la vita era più semplice e c’erano più possibilità di lavoro. Un po’ come era stata per lui l’Italia del dopoguerra, gli spiegai. Lui sorrideva ascoltando i miei discorsi super ciali e ininterrotti, come la pioggia che batteva alla nestra. Parlammo del mio lavoro di oraia, di come andava, se riuscivo a lavorare per i matrimoni o a vendere le mie composizioni. Senza un negozio era difficile, risposi, facevo la commessa da oraie bravissime che mi stavano insegnando tanto ma che mi pagavano poco, comunque ero sempre in cerca di clienti e qualcuno l’avevo anche trovato. «Fatti pagare», mi avvertì con la sua voce brusca, «che ‘ste cose hanno valore, non ti far fregare.» «Ho un brutto rapporto con l’imprenditoria», ribattei, e lui rise.

Parlammo di tutto, ridemmo insieme come un giorno qualunque. Non mi pareva particolarmente cupo o pensieroso, è vero però che sembrava cercasse rassicurazioni sulla mia vita e su come me la cavavo. Quel giorno pioveva. Aveva iniziato la mattina presto e non smise più no al giorno dopo. Ogni tanto papà guardava fuori e mi chiedeva se facesse freddo. Io gli rispondevo che no, però la pioggia aveva allagato mezza Roma. «È sempre così quando piove tanto», rispose lui distratto, e restammo tutti e due in silenzio. Papà chiuse gli occhi per qualche minuto e quando li riaprì mi parve di vedere un velo, ma non scesero lacrime. È stato l’unico momento di malinconia. Lui continuò a parlare: era stanco di stare in ospedale, lo odiava. «Sarà solo per qualche giorno, devi avere pazienza», risposi. «Fra un po’ tornerai a casa.» «Mi sento debole, non ho neanche più voglia di mangiare.» Allora gli dissi una cosa che solo dopo la sua morte capii che non avrei dovuto dire. «Te lo faccio tornare io l’appetito. Ti preparo le fettine panate, l’amatriciana e il brodo che ti piace tanto.» In un’intervista che vidi qualche tempo dopo, papà spiegava: «Non ho paura della morte, ma della vecchiaia. Quando iniziano a dirti che ti fanno un brodino è nita!» A sentire queste parole mi venne da ridere: era un classico per me dire a papà le cose sbagliate nel momento sbagliato, e anche in quell’occasione non mi ero smentita. Ai miei incoraggiamenti lui non rispose. In quel momento seppi che non ce l’avrebbe fatta a resistere in ospedale, ebbi la sensazione che stesse morendo. Allo stesso tempo mi sembrava impossibile, era lucido come un trentenne, i suoi pensieri erano chiari. Oscillavo tra il vederlo s nito e il riscoprirlo normale, come sempre.

«Ti fa male? Hai dolori?» chiesi per conversare. «No, non mi pare. Non sento più niente.» E quel dialogo, che era iniziato in modo leggero, tutt’a un tratto divenne pesante come un macigno. Martina aveva ragione, aveva previsto bene quello che sarebbe successo, e lo sapevo anch’io. Papà era un uomo disarmato di fronte all’assedio della malattia, ma non ci stava a essere scon tto e non avrebbe lasciato a lei l’ultima mossa. Guardava fuori dalla nestra il cielo pieno di nuvole nere, poi di nuovo si voltava verso di me aspettando qualcosa, forse che me ne andassi. Il silenzio tra di noi era un grido soffocato e doloroso. Lo guardavo e pensavo che avrebbe potuto vivere ancora un anno, che sarebbe tornato a stare bene. Chiusi gli occhi nello stesso momento in cui li chiuse anche lui. Ritornai indietro ai ricordi della mia infanzia e della mia vita con lui e senza di lui, rimasi ad ascoltare il rumore della pioggia, sperando che, quando li avessi riaperti, avrei visto un raggio di sole. A forza mi costrinsi davvero ad aprirli e mi trovai di fronte mio padre, sdraiato nel letto con la radio sul comodino, un bicchiere, dell’acqua, squallore e fosche immagini premonitrici. Finalmente mia madre e Martina tornarono, sfacciatamente sorridenti e menzognere, ma i loro pensieri sembravano uscire come fumetti sopra la testa: «Papà muore, Mario muore, non possiamo salvarlo dal suo anelato destino». Neanche tutto l’amore del mondo avrebbe potuto fargli cambiare idea: era troppo lucido per volere un altro epilogo. Mi alzai dalla sedia sulla quale ero come incollata. Mi sentivo pesante, avevo freddo e una forte nausea. I conati mi assalivano come quando da bambina la tata mi obbligava a mangiare la carne, che deglutivo a fatica. Guardai papà, gli dissi ciao, e gli mandai un bacio da lontano. Lui sorrise e fece un piccolo cenno con la mano. A casa, mi misi a tavola a guardare fuori dalla nestra. Anche lui stava facendo lo stesso, lo sapevo. Mi sentivo telepaticamente unita a mio padre. Quando nalmente mi

passò ogni cattivo spirito, mi misi sul letto e mi addormentai in un sonno agitato e senza sogni. Qualche ora dopo ero in piedi a preparare la cena. I miei gli erano più buoni del solito, li osservavo giocare insieme silenziosi in un angolo del salotto, mentre Peter era steso sul divano a guardare la televisione. Io mi tenevo occupata perché non volevo soffermarmi su quella giornata, mi dicevo che era quasi arrivata alla ne, che l’avevo scampata. Pensavo che Chiara avesse ragione, non volevo che le parole di Martina fossero reali. Erano le nove e qualcosa quando squillò il telefono di casa. Di solito non rispondo, ma quella sera avvicinai il ricevitore alla guancia e sentii la voce della tata, che pronunciava parole chiare tra le lacrime: «È successo, papà si è buttato». L’unica cosa che riuscii a pensare fu che tutte noi eravamo ciascuna a casa propria ad aspettare che arrivasse quel momento. Mamma lo aveva lasciato, ricostruimmo più tardi, era tornata a casa e lui pochi minuti dopo si era alzato nella sua stanza livida e grigia, si era strappato la ebo dal braccio, aveva preso una sedia, ci si era arrampicato con fatica e aveva tolto il fermo che bloccava la persiana. Probabilmente aveva imprecato e maledetto la mamma e Martina, si era quasi arreso perché non riusciva a togliere quello stupido oggetto, poi ce l’aveva fatta. Aveva sospirato sopra la sedia, le braccia lunghe e magre appoggiate sui anchi. Nel suo camice ora bagnato di sudore era sceso, aveva aperto la nestra, aveva lasciato la sedia lì dentro, fra il letto e l’uscita sul terrazzo dove, il giorno prima, ne aveva messa un’altra. Il freddo della notte lo aveva s orato toccandolo sulle braccia scoperte e sulle gambe, la pioggia gli si era appiccicata alla faccia. Anche lui da lassù vedeva come avevo visto io qualche ora prima, mentre stavo andando a trovarlo, quanto fosse scintillante la strada. Quella notte il lampione giù di sotto non faceva ombra ma si specchiava sul selciato. Un prato e una palma sotto di lui, macchine che si inseguivano come scatole di

metallo dotate di ruote, si muovevano una dietro l’altra senza alcun senso. La cupola di San Giovanni era lontana e grigia in quella notte bagnata. Lui guardò tutto questo e vide forse altro. Sicuramente, come sempre era successo nella nostra vita, abbiamo guardato cose diverse, lui si accorse di particolari che io non vidi quando mi ritrovai sola su quella terrazza. L’altezza, però, sono certa che la vedemmo entrambi. Era il quinto piano, ma sembrava molto di più, le persone giù sotto coperte dagli ombrelli parevano piccole bambolette innocue. Ci siamo affacciati e abbiamo guardato entrambi giù. Papà al contrario di me non ebbe incertezze, si lasciò cadere pensando forse che gli sarebbero spuntate le ali per volare via lontano, su paesaggi sconosciuti, verso mondi ignoti. O forse non ha pensato a niente mentre si lasciava andare all’aria, al buio, alla notte, alla pioggia, non ha pensato a nessuna di noi, ma solo a se stesso, alla sua stanchezza, alla noia. Avrà provato la gioia e la paura di liberarsi di quella esistenza ormai striminzita tra cure e ospedali, avrà pensato alla libertà che ha perseguito durante tutta la sua vita. O non ha neppure guardato giù: come sempre avrà guardato ero di fronte a sé il futuro, avrà pensato che sarebbe stato accolto dagli dei dell’olimpo, le divinità greche da cui era tanto affascinato. Si sarà lasciato cadere e avrà sentito lo stesso brivido che si prova quando sogniamo di precipitare giù. Quanto sarà durato? mi sono chiesta in piedi su quella terrazza: tre secondi, sei secondi, un’eternità, un battito di ciglia. Potrei scoprirlo se lo facessi, mi sono detta, e forse un giorno capiterà anche a me di non provare più interesse nei gli, negli amanti, nella vita. Forse anch’io mi stuferò di avere tra le mani sempre le solite cose, e andrò a cercare altro, magari volando da una nestra verso una vita diversa, non mi importerà di lasciare tutti senza ato a dire banalità su come ero e su cosa pensavo. Resteranno a parlare di me come se mi conoscessero veramente, mentre io per me sono stata un mistero tutta la vita.

Si sentiva anche mio padre avvolto da segreti inspiegabili? O forse aveva solo bisogno di andarsene verso la libertà di cui tanto parlava? Sì, sono sicura che è stato così, e non ha avuto paura.

Vuoto

ARRIVO con mia madre, parcheggio la macchina, sono calmissima. Lei al contrario è disperata, la consolo, piange senza sosta, senza freni e continua a dire che Mario no, come ha potuto. Entriamo nell’ospedale e ci accoglie un poliziotto. Che c’entra, penso io, che c’entrano quei lampeggianti? Guardo alla mia destra e vedo un piccolo lenzuolo nel buio della stradina, c’è un lampione che illumina la scena. Togliete quel lenzuolo e ridatemi mio padre. Non è niente, non è vero, sto sognando, è solo la mia immaginazione. Ma mia madre grida in preda allo smarrimento e al dolore, grida alla polizia che lo devono togliere dalla pioggia, mentre io la sorreggo perché mi sembra che possa cadere da un momento all’altro. Li supplica di portarlo da lei perché fuori è freddo e piove, e mio padre ha freddo. Continua a dimenarsi nel mio abbraccio e nalmente si libera, fa una piccola corsa per andare da lui ma viene fermata dalle guardie messe lì a veri care chissà quali oscure trame. Le prega di farla andare dal suo Mario, e pregandole cade in ginocchio, il viso tra le mani, le lacrime e la bocca che senza più forza ripete parole incomprensibili. La tiro su, le dico di calmarsi. Lei mi guarda, vede quanto sono seria e fredda, raggelata da questa notte, da quel piccolo lenzuolo bianco fradicio. Non riesco a dire niente, non riesco a piangere, riesco solo a confortare. Il mio cervello non ha pensieri, ragiona freddamente sul da farsi, senza sapere bene che cosa ci sia da fare. Finalmente arriva Martina con Tommaso. Piange anche lui disperato e lo abbraccio. Senza che una lacrima righi le mie

guance, consolo mia sorella e insieme preghiamo la polizia di non fare entrare giornalisti e fotogra , che ugualmente riusciranno a immortalare mio padre in quell’ultima immagine terribile, sotto il lenzuolo, tra l’ospedale e un’aiuola con il prato e una palma. Mia sorella e mia madre si abbracciano, restiamo almeno mezz’ora in quel fazzoletto di ospedale, loro senza riuscire a fermare le lacrime, io sola con il mio dolore, incapace di parlare e di piangere. Io e Martina andiamo a casa di papà a prendere i vestiti per il suo viaggio. Scegliamo tutto con cura e comunque, ri etto mentre agiamo d’istinto, decidiamo arbitrariamente quali indumenti prendere convinte che siano quelli giusti, quelli che avrebbe scelto lui, quelli che amava di più. Riesco solo a prendere un cappello, pensando alla sua testa spaccata: sarà utile per nascondere quello che c’è sotto. Portiamo le cose all’obitorio. Mi ricordo improvvisamente che non abbiamo preso le calze, lo dico allarmata a Martina che mi rassicura e mi dice che lo ha fatto lei. Dopo questa giornata accade tutto molto in fretta: gli accordi con i becchini, la vestizione, l’organizzazione del funerale. Ho fatto tutto quello che dovevo, penso. Il giorno del funerale la mia migliore amica, Francesca, mi viene a prendere e non mi lascia mai sola per l’intera durata delle esequie. Arriviamo insieme all’obitorio, siamo le prime. Come mio padre amo la puntualità e l’ho obbligata a venire presto per paura di trovare traffico. Ma non ce n’era e faccio ciò che non potrà fare nessun altro: saluto mio padre mentre ancora lo si può vedere nella bara. Francesca mi trattiene spaventata perché, dice, per me è troppo pesante. La rassicuro, ci abbracciamo forte e salgo da papà. Lui è lì disteso, il viso sereno, un mezzo sorriso. Di solito si dice che i morti sembrano solo addormentati; a me invece sembra decisamente morto e non provo il desiderio di svegliarlo, perché so che non servirebbe a niente. Lo s oro, tocco la giacca e mi soffermo sulla foto di Vasco e Fiore in costume da bagno che papà tiene fra le mani

appoggiate sul petto. Dico a me stessa che quei due monelli faranno un po’ di confusione durante il suo viaggio, ma anche compagnia, e di questo sarà contento. Rimango sulla sedia a guardarlo, senza pensare a niente, poi me ne vado. Non ho incertezze: so che non posso più fare niente, non c’è più niente da fare. Francesca mi aspetta all’entrata dell’obitorio, è preoccupata per me e mi chiede se sto bene. «Sì», le rispondo. Da quel momento nessuno, durante la sobria celebrazione a Monti e alla Casa del cinema, mi coglie in difficoltà. Non piango mai, chi viene per consolarmi nisce per essere consolato. È una bella festa quella alla Casa del cinema, a papà sarebbe piaciuta. Felice Laudadio, Ettore Scola e Paolo Villaggio pronunciano parole bellissime per ricordarlo, mentre io sono sempre più fredda dentro e fuori, come se stesse succedendo a qualcun altro. Martina invece piange e Rosa è confusa, spaesata e persa fra tutta quella gente, come se non sapesse che fare. Mia madre non c’è, è rimasta a casa, e così farà per diversi mesi dopo il funerale, incapace di comunicare e condividere il suo dolore. Molti vengono a dare l’ultimo saluto a mio padre, e ne sono grata e felice. Quando compare il gruppo del sindaco mi viene da ridere: nessuno della famiglia lo guarda, nessuno stringe mani. L’unica personalità politica a cui rivolgo la parola è il presidente Napolitano. Mi chiede come mai papà ha fatto quello che ha fatto. «Ha sempre scelto di vivere come gli pareva, e così ha scelto di morire. È stato coerente», rispondo, e sostengo con fermezza il suo sguardo. Durante la giornata non piove. Il cielo è scuro ma in qualche momento è illuminato da assurdi sprazzi di sole. Ricordo che alla ne, quando anche l’ultima persona se ne va, spostiamo la bara in una saletta e lasciamo papà ad aspettare di essere cremato l’indomani. Da quel momento non ho più ricordi.

Peter è partito, mi ha preceduto nel nostro viaggio in Costa Rica e io rimango a casa, sola con me stessa. Ci sono i miei fantasmi a tenermi compagnia. Dormo tanto ma il mio sonno è disturbato e lo sarà per molti mesi. Non riesco a riposare più di due ore di seguito, mi sveglio in preda a incubi terribili, chiudo gli occhi nel nulla e quando li riapro ho di fronte visioni mostruose. La sera prima della mia partenza, nel sonno mi sembra che i suoni e le voci intorno a me siano lontani, credo di essere diventata sorda. C’è solo il buio, poi l’ennesima visione lo squarcia. Spalanco gli occhi ed è come se riemergessi dopo essere stata sott’acqua troppo a lungo: sto ferma, intontita, seduta sul letto mentre respiro come se non lo avessi fatto per tanto tempo. Urlo con tutta la voce che ho, grido qualcosa che però non prende forma in parole, ed è come quello che ho sognato poco fa, un qualcosa di orribile che non riuscivo a vedere ma che percepivo e mi terrorizzava. Qualcuno cerca di rassicurarmi. È Vasco, mi sono addormentata con i miei gli accanto. Mi dice qualche parola e subito si riaddormenta sprofondando fra i suoi sogni di bambino. Tento di riscuotermi del tutto dal dormiveglia: mi alzo, vado a sciacquarmi la faccia e il collo perché, anche se è dicembre e fa freddo, sono sudata come in piena estate, la mia camicia bagnata come se fosse appena uscita da una tinozza d’acqua. Mi cambio, vado in cucina, bevo dell’acqua e poi mi accendo una sigaretta. Odio fumare al buio perché non vedo il fumo e mi sembra di non fumare affatto. Accendo le luci e tutto intorno a me prende forma. Mi stendo sul divano, chiudo gli occhi e ritorno al sogno di poco prima: non ha forma, è uno spazio senza luogo, buio. Mi ci ritrovo dentro, brancolo, non posso vedere cosa mi sta bagnando. Quel liquido che mi scende fra le scapole e sul viso è bagnato come l’acqua, copioso come il sudore, ma non ha lo stesso sapore. Arriva una luce, non so da dove, e sono in grado di vedere: è sangue. Provo una grande paura mentre vedo una porta che si apre e in fondo, steso a

terra, mio padre. Lo chiamo, lui non risponde. Mi avvicino e lo vedo: ha la testa fracassata, aperta in due, ma è vivo e mi guarda. Mi sorride. Spalanco gli occhi e mi accorgo che è di nuovo un sogno, ma lui è qua, è vicino a me. Mi chiama, non faccio in tempo a raggiungerlo, se ne sta andando mentre io mi ritrovo sola come all’inizio. La notte, però, l’abbiamo passata insieme. Mi sveglio di colpo e rimango sprofondata nel divano, inerme, a guardare il vuoto.

Ricordi

HO tanti ricordi di mio padre. Molti sono piccole cose, dettagli, soprattutto sici: il suo arricciare il naso per tirar su gli occhiali, il togliersi la coppola e guardarsi intorno per trovare il posto giusto dove poggiarla, il modo in cui rideva e si puliva la bocca elegantemente con il tovagliolo, o quando si faceva aiutare a mettere il cappotto, il suo sguardo vigile sul set, anche se l’ho accompagnato poche volte. Rivedo mia madre che lo abbracciava da dietro, lui seduto, e lo baciava con affetto. Ho nella mente il suo modo di sfogliare il giornale con le braccia un po’ rigide: sprofondato nella sua poltrona, che adesso è a casa mia, lo leggeva con gli occhiali sulla punta del naso e la lente d’ingrandimento in mano. Ricordo la sua ssazione per il bracciale di rame che portava sempre al polso; me ne regalò uno uguale perché diceva che faceva bene a chi aveva le ossa rotte come noi due. Al ristorante ordinava: «Un’insalata aspra, asprissima!» e a ne pasto una mela verde altrettanto aspra. I miei ricordi vanno a nire in una trattoria romana vicino a casa sua, dove la signora Lucia, anche se il ristorante era pieno zeppo, trovava sempre un tavolo per il maestro. Diceva che portava fortuna perché, se entrava in un ristorante o in un negozio, si riempivano subito. Mi ricordo che gli piaceva vantarsi di non avere mai bevuto acqua nella sua vita, ma solo vino! Ripenso a quando sosteneva che le colonne sonore servono solo ai lm che in fondo hanno delle falle, oppure alla polemica dopo La vita è bella di Benigni: «Ha fatto una ricostruzione storica sbagliata. Che vergogna!»

Ricordo il suo sguardo amorevole sui miei gli e il suo sguardo arrabbiato quando faticava a far le cose; ricordo le volte che gli ho portato la spesa e lui mi diceva di lasciargliela fuori dalla porta perché non riusciva a venire a prenderla velocemente o perché non voleva che lo vedessi malato. Purtroppo ricordo anche un giorno che, dopo averlo avvertito che sarei andata a trovarlo con i miei gli, mi fece salire da sola e mi disse: «Non posso sopportare la confusione, scusa», e ci lasciò tutti e tre per strada, fuori dal portone. Fiore scoppiò in un pianto disperato, mi chiedeva: «Perché? Perché?» e io e Vasco per consolarla le comprammo un grande gelato. Ora mi dispiace non aver mai fatto una foto con papà e i miei gli, perché quando veniva eravamo tutti talmente in festa, compreso lui, che ci è sempre passato di mente. Diceva che muoiono soltanto gli stronzi, e che non aveva paura della morte perché l’aldilà o non esiste o sperava che fosse un’altra bella avventura. I suoi amici li avrebbe trovati all’inferno, quelli che vanno in paradiso non gli garbavano. Come epitaffio avrebbe voluto: «Non ebbe mai un telefonino» o «Non salutò mai per secondo», cosa di cui andava molto ero. Ricordo quando da piccola mi accompagnò allo zoo e il lama gli morse il cappotto: ridemmo tutti e due tantissimo. Ricordo gli eventi mondani a cui mi portava. A me non piaceva, odiavo partecipare perché non mi sentivo a mio agio, ma non riuscivo mai a dirgli di no. Ma ricordo anche che adorava guardarmi quando mi vestivo elegante e mi presentava alle persone con un certo orgoglio, perché per lui ero bella. «Come sto?» mi chiedeva prima di entrare nei nostri luoghi «dell’alta società». «Bene papà, sei bellissimo», gli rispondevo. «Non come te però», sorrideva lui.

INSERTO FOTOGRAFICO

Papà (al centro) con i fratelli Franco e Mino.

Mio padre da giovane.

Mamma e papà insieme.

Il matrimonio: a destra, con il cappotto rosso, la zia Giovanna, e dietro di lei Furio Scarpelli. Age è in seconda fila in blu.

Mamma e papà si sposarono nel 1974. La bambina è mia sorella Martina.

Da sinistra: Pasquale Squitieri, Claudia Cardinale, papà, mamma, Tonino e Marina Cervi.

Io a pochi mesi in braccio a papà.

Sempre io da piccola, in braccio alla tata Tina.

Con papà in campagna.

L’ultimo Natale tutti insieme: papà, mamma, io e mia sorella Martina.

Papà alla mia festa di compleanno.

La lettera che mio padre scrisse a mia madre dopo l’incidente automobilistico del 1988.

Io e papà alla festa dei miei diciotto anni.

Prove di tatuaggio. © Emilio Lari

Tutta la famiglia si è riunita a casa di mia sorella Martina nella campagna romana. Da sinistra: mio padre con Tommaso, Martina, io e in piedi mia madre. © Emilio Lari

Io e papà a Fregene. © ea Apollonio

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