Giobbe 8826303541, 9788826303543


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Table of contents :
Abbreviazioni dei libri biblici
Abbreviazioni e sigle
Introduzione
Bibliografia
Le coordinate letterarie
Le coordinate teologiche
Il mistero di Dio
Il mistero dell'uomo
Il mistero del dolore
Il mistero del libro
La «tradizione-Giobbe»
Giobbe e la sapienza ortodossa
Giobbe e la sapienza eterodossa
La Bibbia e Giobbe
Il Giobbe dei Padri e dell'Islam
Giobbe in stampa
Giobbe, nostro contemporaneo
Giobbe e il teatro
Giobbe nell'arte
Il prologo (cc. 1-2)
Primo atto - Il dialogo Giobbe-amici
Prima scena (cc. 3-11)
Seconda scena (cc. 12-20)
Terza scena (cc. 21-27)
Intermezzo
Secondo atto - Il dialogo Dio-Giobbe
Prima scena (cc. 29-31)
Seconda scena - Il ciclo di Elihu (cc. 32-37)
Terza scena (cc. 38,1-42,6)
L'epilogo (c. 42,7-17)
Appendice - Giobbe ancora vivo
Indice
Venticinque anni dopo
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Giobbe
 8826303541, 9788826303543

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GIANFRANCO RAVASI

Traduzione e commento

della stessa collana

L. Alonso Schòkel ‫ ־‬J.L. Sicre Diaz I Profeti

L. Alonso Schòkel ‫ ־‬J.L. Sicre Diaz G iobbe

L. Alonso Schòkel ‫ ־‬J. Vilchez Lindez I Proverbi

Rinaldo Fabris Matteo

Rinaldo Fabris ‫ ־‬Giuseppe Barbaglio Le lettere di Paolo

Rinaldo Fabris Atti degli Apostoli

Pierre Prigent L ’A pocalisse

Gianfranco Ravasi G iobbe

J. Vilchez Lindez Sapienza

L. Alonso Schòkel I Salm i

Gilberto Marconi La lettera di G ia com o

giobbe traduzione e commento di Gianfranco Ravasi

terza edizion e

boria

© Edizioni Boria ‫ ־‬s.r.l. via delle Fornaci, 50 - 00165 Roma ISBN 88-263-0354-1

Finito di stampare dalla Tipostampa s.r.l. Via dei Tipografi, Lama di San Giustino (PG) nel m ese di Ottobre 2005

abbreviazioni dei libri della bibbia

Ab Abd Ag Am Ap At Bar CI 1 e 2Co 1 e2Cr Ct Dn Dt Eb Ef Es Esd Est Ez Fi Fm Ga Gb Gc Gd Gdc Gdt Gr Gio Gl Gn Gs Gv l,2,3Gv

Abacuc Abdia Aggeo Amos Apocalisse Atti degli Apostoli Baruc Lettera ai colossesi Lettera ai corinti Cronache (1‫ ״‬e ° libro) Cantico dei Cantici Daniele Deuteronomio Lettera agli ebrei Lettera agli efesini Esodo Esdra Ester Ezechiele Lettera ai fìlippesi Lettera a Filemone Lettera ai galati Giobbe Lettera di Giacomo Lettera di Giuda Giudici Giuditta Geremia Giona Gioele Genesi Giosuè Vangelo di Giovan­ ni Lettere di Giovanni (1·, 2· e 3·)

Is Lm Le Lv 1 e 2Mcc Me Mi Ma Mt Na Ne Nm Os Pr 1 e 2Pt Qo 1 e 2Re Ro Ru SI 1 e 2Sm Sap Sir So» Tb 1 e 2Tm 1 e 2Ts Tt Zc

Isaia Lamentazioni Vangelo di Luca Levitico Maccabei (1° e 2° libro) Vangelo di Marco Michea Malachia Vangelo di Matteo Nahum Neemia Numeri Osea Proverbi Lettere di Pietro (1- e 2°) Qoèlet (Ecclesiaste) (1° e 2° libro) Lettera ai romani Ruth Salmi Samuele (l9 e 2° libro) Sapienza Siracide (Ecclesia­ stico) Sofonia Tobia Lettere a Timoteo Lettere ai tessalonicesi Lettera a Tito Zaccaria

ABBREVIAZIONI

LXX TM Vg

Traduzione dei Settanta Testo Masoretico Vulgata

SIGLE ANET BA BASOR Bib BJRL BOr CBQ CEI CSEL DBS EvTh JBL JNES JSS PEQ PG PL RB ReallAntChr RivBib RSR RThéolPhil TZ UT VT VTS ZAW ZThK

Ancient Near Eastern Texts relating to thè Old Testament (ed. J. B. Pritchard, Princeton 19552) The Biblical Archaeologist The Bulletin of thè American Schools of Orientai Research Biblica The Bulletin of thè John Ryland’s Library Bibbia e Oriente Catholic Biblical Quarterly Versione italiana della Bibbia per l'uso litur­ gico a cura della Conferenza Episcopale Ita­ liana (Roma 1971) Corpus Scriptorum Ecclesiasticorum Latino­ rum Dictionnaire de la Bible. Supplément Evangelische Theologie Journal of Biblical Literature Journal of Near Eastern Studies Journal of Semitic Studies Palestine Exploration Quarterly Patrologia Graeca (ed. Migne) Patrologia Latina (ed. Migne) Revue Biblique Reallexikon fur Antike und Christentum (ed. Th. Klauser) Rivista Biblica Recherches de Science Religieuse Revue de Théologie et Philosophie Theologische Zeitschrift Vgaritte Textbook (ed. C. Gordon) Vetus Testamentum Supplements to Vetus Testamentum Zeitschrift fiir die alttestamentliche Wissenschaft Zeitschrift fiir Theologie und Kirche

introduzione

Se io non avessi Giobbe! Non posso spiegarvi minu­ tamente e sottilmente quale significato e quanti si­ gnificati egli abbia per me. Io non lo leggo con gli occhi come si legge un altro libro, me lo metto per così dire sul cuore e in uno stato di clairvoyattce in­ terpreto i singoli passi nella maniera più diversa. Co­ me il bambino che mette il libro sotto il cuscino per essere certo di non aver dimenticato la sua lezione quando al mattino si sveglia, così la notte mi porto a letto il libro di Giobbe. Ogni sua parola è cibo, vesti­ mento e balsamo per la mia povera anima. Ora sve­ gliandomi dal mio letargo la sua parola mi desta a una novella inquietudine, ora placa la sterile furia che è in me, mette fine a quel che di atroce vi è nei muti spasimi della passione. S. K ierkegaard, La ripresa (vers. A. Zucconi), Milano 1963, p. 117.

Introduzione

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« Spiegare Giobbe è come tentare di tenere nelle mani un'anguilla o una piccola murena: più forte la si preme, più velocemente sfugge di mano ». Le pa­ role di Gerolamo nella prefazione alla sua traduzio­ ne di questo capolavoro della letteratura biblica esprimono con limpidità l'esitazione e i com plessi di chi vuole stendere un comm ento, sia pure essenziale, a questo prodotto altissim o del genio limano e, per il credente, a questo messaggio forte e sconvolgente di Dio. Il volume, che appartiene a un processo teologicoletterario mai spento nella storia del pensiero uma­ no, presenta una struttura molto ramificata e non sempre di facile decifrazione. L'opera, infatti, è an­ che la testimonianza di un itinerario tormentato e contraddittorio dedicato alla ricerca di Dio attraver­ so la via accecante del dolore innocente. Questo cammino faticoso e libero, che si direbbe « etero­ dosso » rispetto alle tranquille e asettiche dichiara­ zioni della teologia tradizionale, non segue una mappa semplice e chiara. È per questa ragione che le letture si sono talora disperse in sentieri secon­ dari e le interpretazioni si sono incagliate su scogli invalicabili. Questo libro, infatti, è stato letto tradizionalmente come il canto del dolore: « la sofferenza invade il corpo, l’anima, la vita dell'uomo. Buddha e Giobbe segnano il punto culminante della parabola del do­ lore umano nella sua soluzione filosofica e lettera­ ria » 1. La prospettiva ermeneutica è stata, perciò, sostanzialmente antropologica. Lo testimoniava già Gregorio Magno nel titolo stesso del suo commento omiletico a Giobbe, Moralia in Job e nella relativa pagina d'apertura (I, 6). Quest'uomo, dotato di cosi anumrevoli virtù, non era conosciuto che da se stesso e oa Dio. Senza le sue prove egli ci sarebbe rimasto ig n o ti Indubbiamente la sua virtù si manifestava anche durante la vita se­ rena precedente, ma è con l'irruzione della sofferenza che il suo profumo si diffuse. Colui che, nella pace, i B. M atte ucci, in AA.W., Dio nella ricerca umana (a c u r a di G. Ricciotti), Roma 1950, p. 447.

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Introduzione conservava solo per se stesso il mistero della sua realtà, nel dolore rese percepibile a tutti il buon profumo del suo coraggio. Come un profumo non può essere odorato a distanza se non è agitato e sparso, come l'in­ censo non può sviluppare il suo aroma se non è bruciato, così il profumo esalato dalle virtù dei santi non è captato che nelle loro tribolazioni. Il grano di senape non rende percepibile ‫־‬la violenza delle sue proprietà se non è spezzato; fin quando è intatto è dolce, ma, ima volta tritato, brucia e scopre tutto l'acre sapore in esso celato. Così si considera modesta e senza valore la condotta d'un santo finché non è provato, ma appena una persecuzione lo schiac­ cia e lo spezza allora si manifesta subito il suo sa­ pore bruciante.

Quest'antica chiave di lettura è riproposta ancor oggi con intatto entusiasmo anche se con una più smaliziata strumentazione. Prendiamo, per fare un esem pio recentissimo, Job et l’excès du mal, opera di uno dei « nouveaux philosophes » francesi, Ph. Nemo. Un’ampia parte del volum e2 è dedicata a una vasta rilevazione della fenomenologia dell'angoscia in Giobbe con tutto il suo apparato sim bolico di morte, ferita, fluidità, assalto, solitudine e somatismi. Infatti, come ha intuito quello scrittore solita­ rio e incompreso che è stato Guido Morselli, « la tradizione ha voluto vedere in Giobbe il tipo deH'acquiescenza totale e fanatica, dal De patientia di Tertulliano al commento del vescovo M artini... ed è strano che autori laici e indipendenti abbiano accet­ tato a occhi chiusi l'interpretazione convenzionale. Basterà citare un Dostojevskij e il suo racconto dello stariez Sossim a nei Karamazov » 3. 2 Job et l’excès du mal, Paris 1978, pp. 33-61. Sulla dimensione psicologica della sofferenza in Giobbe gli studi sono molti. Ricordiamo in particolare I. J. G erber, A psychological approach to thè book of Job, Boston 1949; W. S . T aylor, Theology and Therapy in Job, in « Theol. Today » 12, 1955-56, 451463; A. N eher , Job: thè biblical man, in « Judaism · 13, 1964, 37-47; I. S im o n , La maladie de Job, Basilea 1966. 3 Fede e critica, Milano, 1977, p. 66. Vedi anche le note di H. A. F in e , The tradition of a patient Job, in JBL 74, 1955, 28-32 e il commento « devozionale » di J. A. B lair , Living patiently. A devotional study of thè book of Job, Neptune

Introduzione

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Questa prospettiva così tradizionale può anche es­ sere accolta in via preliminare. Perché se, come vedremo, la questione centrale del poema è di ordi­ ne teologico, è altrettanto vero che il punto di par­ tenza è antropologico. Scriveva con acutezza Tom­ maso d'Aquino nel prologo alla sua Expositio in Jo b: Questo libro ammette all’inizio che la creazione sia governata dalla Provvidenza divina. Tuttavia, ciò che sembra contraddire la Provvidenza di Dio nei con­ fronti degli uomini è l'afflizione dei giusti. Che uomini malvagi ricevano talora gioia e benessere (anche se a rima vista può sembrare irrazionale e contrario alla rowidenza) può essere giustificato attraverso la mi­ sericordia di Dio. Ma che i giusti siano provati senza motivo sembra ribaltare totalmente il principio stesso della Provvidenza.

?

È su questa base che si può ricostruire il quadro ideologico di Giobbe. Il punto d'avvìo è pessim istico e sperimentale. Si dice che Eraclito, abbandonata la gestione politica e culturale della città, si fosse riti­ rato nel tempio di Artemide Efesina, in cui proba­ bilmente non credeva, e che là giocasse a dadi coi bambini. E giocando, dice la tradizione, sussurrava: « ... Poiché il mondo è come un bambino che gioca a dadi ». Anche l'esperienza iniziale di Giobbe è di questo tipo, ma l'approdo è ben diverso. Anche Giobbe attraversa il gelido isolam ento dell‫ «׳‬atei­ smo », simbolicamente espresso come lotta e denun­ cia giudiziaria nei confronti di Dio; ma questo ateism o si rivela in realtà un’an-idolatria, meno lon­ tana da Dio di quanto sembri. Attraverso la rimo­ zione delle facili teologie o delle blasfeme razionaliz­ zazioni di Dio nasce sulle rovine delle angosce e degli interrogativi il nuovo senso della fede e della vita. È così che « l'esilio della Parola » 4 diventa alla fine un silenzio parlante. ♦ L’espressione è il titolo di un'opera di A. N eher , L'exil de la Parole, Paris 1970. Due studi hanno considerato l'aspetto positivo del silenzio di Dio: U. D evescovi, I silenzi di Jahvè,

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Introduzione

La voce di Giobbe non è, perciò, solo il grido di una supplica o di un lamento. E anche una sfida contro il diminuito prestigio degli antichi concetti di fede. È l'emancipazione del pensiero sapienziale, teologico e filosofico dagli antichi teoremi dogmatici verso ima religiosità più autentica. È anche una critica serrata e vigorosa rivolta a certe istituzioni sacrali e « ca­ noniche » e alle loro ideologie. Per questo potremm o dire con Ph. N em o 5 che « il libro di Giobbe tutto intero è il “ nome " divino ». Quel nome impronun­ ciabile, e quindi assente e solo trascendente, è ora pronunciato: trascendenza e immanenza si incon­ trano senza elidersi, uomo e Dio dialogano parlan­ dosi proprio al « crocevia del silenzio e del rifiuto » (Kierkegaard), cioè nel momento della prova m iste­ riosa e del dolore innocente. E tutto questo è attuato attraverso il linguaggio, la poesia, la parola. « Noi non percepiamo mai l'uomo separato dal linguaggio. L'uomo che troviamo nel mondo è un uomo “ parlante ”, un uomo “ parlante ” a un altro uomo e il linguaggio insegnarla definizio­ ne dell'uomo ». La dichiarazione del. notissim o lin­ guista E. B enveniste6 motiva e giustifica la fatica e l'umile pazienza con cui dovremo leggere e ascoltare il linguaggio di Giobbe con tutte le im pressionanti difficoltà che pone a livello testuale, critico, seman­ tico, stilistico: nel 1958 in una conferenza ad Har­ vard il prof. F. M. Cross Jr. aumentava il tradizio­ nale tasso di inintelligibilità del testo di Giobbe dal 30% alla quasi m età dell'intero volume! La lettura e l'ascolto diventano talora spossanti, fanno appello continuo alla ragione e all'attenzione: l'itinerario nei meandri del « castello » di Giobbe è spesso proble­ matico e mai superficialmente piacevole. Lutero con una vigorosa metafora usata anche per Paolo parla­ va di vino aspro inadatto a stomaci fragili e delicati. Eppure è in questa fedeltà puntigliosa alla pagina, è in RivBib 10, 1962, 226-239 e l’opera molto stimolante di J . H . S c a m m o n , Ij I could find God. Anguish and faith in in thè book of Job, Valley Forge 1974. 5 o .c .. p. I l i : c f r . a n c h e E. C iu ba , Job and thè God question, in « B ib le T o d a y » , 54, 1971, 376-385. * Problimes de linguistìque générale, Paris 1966, p. 259.

Introduzione

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nel divenire spiritualmente sem iti abbandonando i criteri che reggono la dinamica della nostra logica occidentale che si riesce a scoprire la grandezza del messaggio atemporale ed eterno di questa strana e originale Parola di Dio. « Se per dogmatica si in­ tende l'intelligenza della fede, bisognerebbe forse smettere di pensare che solo il linguaggio formale è “ serio ” in teologia. Idealmente, una teologia sim bo­ lica dovrebbe raccogliere in un bel discorso le refe­ renze simboliche, la riflessione speculativa e la pre­ senza del dibattito contemporaneo » 7. È appunto questo il modello di teologia che nasce dalla lettura di Giobbe. Abbiamo posto in apertura al nostro volume una frase di Kierkegaard, uno dei più sensibili e appas­ sionati lettori di Giobbe. Ricorriamo ancora a lui prima di accingerci a penetrare nel m istero d'un uomo e del suo Dio. La grandezza di Giobbe non è quindi nelle parole: « Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore! », che del resto dice ima sola volta e neanche più tardi ripete, ma in questa lotta che esaurisce tutte le lotte che l’uomo deve sostenere per giungere ai confini della fed e... Giobbe, pertanto, non è la pace che gli eroi della fede concludono, ma ima tregua... Questa categoria della prova non è né estetica né dogmatica, ma del trascendente... e mette l’uomo in personale opposizione con Dio, in una rela­ zione per cui egli non può più contentarsi di nessuna spiegazione di seconda mano 8.

Nel tentativo di seguire questa lotta che l'uomo Giobbe sostiene « ai confini della fede » dovremo, dopo una sommaria proposta bibliografica, penetra­ re innanzitutto nelle due grandi coordinate che reg­ gono il libro, quella letteraria e poetica e quella ideologica e teologica. Poi tracceremo la linea inin­ terrotta della cosiddetta Tradizione-Giobbe che, nata con le origini stesse della letteratura, giunge sino ai 7 c. Gbffjuì, Le langage thiologlqut com m i langage symboliqtte, Paris 1969, p. 96. * La ripresa cit., p. 125.

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Introduzione

nostri giorni collegandosi direttamente o indiretta­ mente all’opera o al messaggio di Giobbe. E infine, come scriveva Elias Canetti nel suo curioso zibaldo­ ne La provincia dell’uomo, cercheremo di districare nella lettura esegetica del testo i fili del « baco da seta nato dal verme del paziente Giobbe » 9.

BIBLIOGRAFIA Uno dei più noti e originali esegeti ebrei di Giobbe, N. H. Tur-Sinai (secondo il vezzo di molti sionisti d'Israele il cognome è l'ebraizzazione dell’originale Torczyner), a Geru­ salemme nel 1957 durante la presentazione del suo commento dichiarava ironicamente che l'impresa più difficile nello sten­ dere un libro su Giobbe è il badare alla bibliografia, peggio poi il suggerirla. Data la sterminata lista dei contributi ap­ parsi dal rabbinismo a tutt'oggi, è inevitabile che la selezione dei titoli appaia per alcuni versi eccessiva e per altri mi­ nima. Tentiamo lo stesso una proposta generale, evitando pe­ rò di indicare ora le analisi di singoli passi o versetti: esse saranno allegate al rispettivo commento. Anche le biblio­ grafie specifiche riguardanti questioni generali verranno ri­ mandate ai corrispondenti capitoli dell'introduzione.

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9 E. C an etti , La provincia dell’uomo, Milano 1978, p. 355. E. Canetti, ebreo bulgaro nato nel: 1905, è uno dei più significa­ tivi lappresentanti della contemporanea cultura mitteleuro­ pea.

Introduzione

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Introduzione

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LE COORDINATE LETTERARIE

Chi non considera che il significato esteriore isolandolo dall'insieme è un materialista, chi non considera che il significato interiore isolandolo dal resto è un falso mistico: ma chi unisce i due significati è un perfetto. Ah m a d al-Al a w i

Geologo o struzzo? « Il libro di Giobbe è una collezione di problemi, dalla determinazione del testo di versetti singoli fino a vaste inchieste nel campo del pensiero del poeta che l’ha composto. Le date di composizione, l'autore, la provenienza rimangono il soggetto di un ampio dibattito tra gli studiosi e sembra che si sia più. che mai lontani da un qualsiasi accordo e più ancora da una soluzione definitiva ». La frase di D. N. Freedman 1 esprime con esattezza lo stato d'animo di chi inizia a studiare questo blocco letterario a prima vista unitario che è il libro di Giobbe: al primo colpo di piccone tutto comincia a sgretolarsi. Il testo si rivela incomprensibile al 30% 2 soprattutto a cau­ sa del moltiplicarsi degli hapax, la struttura sembra quella di un w ork in progress, le coordinate cultura­ li si adattano a una pluralità di modelli offerti dalla Mezzaluna Fertile, la geologia interna è strutturata su « pacchi » di strati dovuti a mani diverse e spes­ so malamente incastrati tra loro. 1 Ortographic peculiarities in thè book of Job, in « EretzIsrael » 9, 1969, p. 35. 2 1069 stichi secondo C. D. G insburg Introduction to thè Massoretico-Critical Edition of thè Hebrew Bible, New York 1966. Cfr. G. R. D river , Problems in thè Hebrew Text of Job, in VTS 3, 1955, 72-93.

Una struttura aperta

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E non è certo decente assumere l ’atteggiam ento del­ lo struzzo, animale ritenuto da Giobbe particolar­ mente stupido « perché Dio gli ha negato la saggez­ za e non gli ha dato in sorte il discernim ento » (39, 17). Come struzzi si comportano, infatti, i fonda­ mentalisti anche recenti, come un tale J. H. Alexan­ der, autore di un (si fa per dire) Leggere e capire la Bibbia. Ecco la deliziosa spudoratezza della sua pre­ sentazione che sembra quasi una traduzione dei trattati rabbinici che immaginavano Mosè alle pre­ se con la stesura di Giobbe (Baba Bathra 14 b). Probabilmente questo è il libro più antico della Bib­ bia. Il patriarca visse certamente prima di Mosè; in­ fatti, pur conoscendo le cose divine profondamente, non fa mai allusione alla legge e al popolo di Israele. Certe indicazioni ci permettono di collocare questo racconto dopo Abramo (2, 11 e Gen 36, 11), probabil­ mente durante la schiavitù dei figli di Giacobbe in Egitto. Si può supporre che l'autore del primo libro poetico della Bibbia sia il terzo figlio di Issacar (Gen 46, 13) ... Questo libro confonde i sapienti del secolo per l'ele­ vato livello delle conoscenze scientifiche del suo autore. Pur essendo stato scritto circa quattromila anni f a ..., esso parla... della pressione barometrica (28, 24-27), della legge universale del movimento (38, 7), della eva­ porazione e della idrometria (36, 27), della rifrazione della luce (38, 12), della polvere cosmica in certe co­ stellazioni (38, 31-33), ecc.3.

Lasciamo questa fantascienza e cerchiamo più con lo stile di un geologo di penetrare nel terreno lette­ rario molto vario e polimorfo offerto dal libro di Giobbe.

Una struttura aperta « Il libro di Giobbe è come una grande città. Ci sono m olte vie di accesso, ma ci si può perdere 3 J. H. Alexander, Leggere e capire la Bibbia, ed. La Casa della Bibbia, Genova, p. 47. Anche se non datata, l'opera è uscita nel 1976!

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Una stru ttu ra aperta

come pellegrini sprovveduti in una moderna metro­ poli. Vi sono resti antichi, segni del passato e “ pez­ zi Mmodèrnissimi. Senza una guida, il visitatore fret­ toloso rischia di passarvi accanto quasi senza accor­ gersi ... Gli studiosi hanno fatto un lavoro sim ile a quello degli archeologi che fanno scavi su un teli, cioè su una di quelle collinette palestinesi che nascondono una storia di secoli. Hanno tentato di smantellare e smontare l'opera in vari pezzi o strati cercando di individuarhè l'origine e il tempo di composizione » 4. Sottoposta a radiografia letteraria l'opera di Giobbe si presenta indubbiamente come un agglomerato di porzioni e strati vincolati reciprocamente da legami talvolta piuttosto tenui. Questo d'altra parte appar­ tiene alla struttura psicologica linguistica del sem ita che, anche a livello redazionale, ama inglobare più Che strutturare logicamente parti distinte. Lo diceva molto bene quel maestro della cultura israelitica che fu lo scandinavo J. Pedersen: « Pensare per l'israe­ lita non è risolvere problemi astratti. L'israelita non ordina membro a membro e non sa costruire frasi sovra-ordinate e subordinate per trarne delle con­ clusioni. Pensare per lui è afferrare una totalità. Con­ centra la sua anima sull'essenziale, su ciò che è de­ terminante nella totalità e accoglie questa nella sua anima, che viene subito messa in m ovim ento e con­ dotta in ima determinata direzione » 5, In questo processo di formazione e di « agglutina­ m ento » possiam o distinguere due fasi, l'una geneti­ ca e l'altra statica, la prima dinamica e storica, la seconda terminale e redazionale6. * A. Bonora, Il contestatore di Dio. Giobbe, Torino 1978, pp. 10 e 37. 5 J. P edersen , Israel, its life and culture, London/Copenhagen 1926{ p. 108. 6 Gli studi dedicati alla questione sono numerosissimi. Tra l'altro ogni commento dedica al problema della Traditionsgeschichte di Giobbe almeno un capitolo introduttorio (vedi, ad es., G. F o h r e r , o .c ., pp. 29-42). In particolare ricordiamo: J. L in d b lo m , La compositìon du livre de Job, Lund 1945; J. Uste. Pomtgeschichtliche Vntersuchungen tuth Pròblem des Hiobouches, in « Wiss. Zèlt. Univ. Leipzig » 3, 1953-54, 107112; G. F o h r e r , Zur Vorgeschichte im Komposition des Buches

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La struttura genetica: l’opera in crescita L'opera di Giobbe sboccia inizialmente da un germe ridotto ma vivace: si tratta di un Volksbuch, una leggenda popolare e tradizionale, sorta forse in Hauran (Transgiordania) o Teman (Arabia) 7. Al centro v'è un protagonista, Giobbe, contornato da parenti, amici e dalla moglie. Il nome del protagonista, repe­ ribile già nel XIV sec. a. C., è associato da Ez 14, 12-13 alla triade pre-esilica m itica Noè - Danel ‫־‬ G io b b e s. Danel è un eroe classico della letteratura ugaritica, Noè lo è per la sua vicenda nella lettera­ tura biblica e mesopotamica, non resta, quindi, che riconoscere l'arcaicità dell'eroe Giobbe. D'altronde, come vedremo studiando la cosiddetta « Tradizione-Giobbe », a Harran si è scoperta una iscrizione che conteneva un racconto popolare m olto sim ile a quello di Giobbe e che faceva da cornice alla cosid­ detta « preghiera di Nabonide », nota anche a Qumran. Questo folktale (narrazione popolare) aveva, quindi, ricevuto formulazioni letterarie diver­ se. Ma gli argomenti a favore della pre-esistfenza di un racconto folkloristico non finiscono qui: Sabei e Hiob, in VT 6, 1956, 249-267; A. van H oonacker, Une question touchant la composition du livre de Job, in RB 64, 1957, 321334. N. H. S n a ith in The hook of Job: its origin and purpose, London 1968, p. 8 attribuisce l'mtera opera ad un unico au­ tore ma distingue tre successive redazioni: la prima fu condotta sulla base di un racconto popolare e conteneva solo un lungo soliloquio e un intervento divino; la seconda pre­ parò i dialoghi centrali con gli amici; la terza aggiunse Elihu e sistemò definitivamente l'insieme. Vedi anche A. G u il l a u m e , The unity of thè book of Job, in « Ann. Leeds Univ. Orientai Society » 4, 1962-63, 26-46. 7 G . F ohrer , Ueberlieferung und Wandlung der Hioblegende, in « Fest. F. Baumgartel », Erlangen 1959, 41-62; C. B ranì>w e i n , The legend of Job account to its various stages, in « Tarbiz » 35, 1965-66, 1-17; E. B . S m ic k , Mythology and thè book of Job, in « Joum. Evang. theol. Society » 13. 1970, 101-108; A. von O r elli , Hiob, Deutung eines biblischen Mythos, in « Reform » 25, 1976, 74-82. 148-158. * M . N o th , Noah, Daniel und Hiob in Ezechiel X IV , in VT 1, 1951, 251-260. Cfr. B. M a r ia n i , Danel, « il patriarca sapien­ ziali · nella Bibbia, nella tradizione, nella leggenda, Roma 1945.

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Caldei nel prologo di Giobbe (1, 15.17) sono descritti come nomadi, una notizia etnica antica e successi­ vamente superata; il trionfo numerico del 3 e del 7 rivela un tratto comune alla morfologia delle fiabe cananee e ugaritiche, come l'originale statuto socio­ giuridico della donna descritto dal racconto (1, 4 e 42, 14-15) è extra-biblico; la struttura teologica del sód, o consiglio della corona divino, è classica nella teologia ugaritica (c. 1; cfr. 1 Re 22, 13-14; Is 6); la rilevazione sociologica sul clan di Giobbe è sim ile a quella delle narrazioni patriarcali (armenti, servi: 1, 3; 42, 12); la prospettiva cultuale secondo cui il paterfamilias è il presidente della liturgia è sen­ z'altro arcaica (1, 5 e 42, 8); anche la presenza del tetragramma sacro JHWH, poi abbandonato nel poema e la probabile allusione alla categoria teolo­ gica mesopotamica del « dio personale » che stacca il suo flusso benefico nei confronti del protetto sono altrettanti indizi di arcaicità. Possiamo, perciò, affermare con buona approssima­ zione che prologo e epilogo dell'attuale volum e di Giobbe rivelano il prim o strato della genesi dell'ope­ ra. Naturalmente questo fondamento non è stato assunto acriticamente nel testo che da esso doveva svilupparsi e che su di esso doveva basarsi. Il co­ struttore successivo ha sm ussato certi spigoli orga­ nizzando una narrazione ben squadrata. Eccone il disegno finale, piuttosto raffinato (cfr. pag. 23). Soddisfatto del suo lavoro, il costruttore dell'opera successiva ha forse tentato anche un colpo di pollice a livello ideologico. Ha inserito il personaggio Sata­ na, probabilmente assente nel racconto popolare, come testim onia anche il testo di Nabonide. Egli infatti era scandalizzato dell'attribuzione diretta del­ la prova e della sofferenza aH’intervento e alla volontà stessa di Jahweh. Ma su questa ipotesi si è meno sicuri perché una figura così picaresca com e quella di Satana poteva quadrare abbastanza bene anche con la primitiva narrazione9. 9 Vedi il commento al prologo. Fohrer sostiene l'ipotesi del­ l'inserzione successiva, Terrien quella della presenza del Sa­ tana già nel Folktale.

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1,1-5 Dati iniziali: la felicità di Giobbe — primo quadro 1,6-19 Ribaltamento dei dati: l'infelicità familiare di Giobbe 1,20-22 Reazione di Giobbe: sottom issione a Jahweh (« non peccò in parole ») — secondo quadro 2,1-7 Intensificazione del ri­ baltamento: l'infelicità personale di Giobbe 2,8-10 Reazione di Giobbe: sottom issione a Jahweh (« non peccò in parole »)

I n t r o d u z io n e

2,11-13 Dati intermedi: gli am ici di Giobbe — terzo quadro 42,7-9 Giudizio negativo di Jahweh sugli amici 42,10-15 Giudizio positivo di Jahweh su Giobbe C o n c l u s i o n e 42,16-17 Dati finali: riabilitazione ■familiare e personale di Giobbe T r a n s iz io n e

A questo punto è possibile passare alla seconda fase della crescita dell'opera. Nel racconto antico (2, 11-13) la parte della « sp a lla » del protagonista era recitata dagli amici le cui parole di consolazione non erano però sviluppate ma solo abbozzate in un pic­ colo cenno. Era facile raccogliere proprio questo spunto « drammatico »: si poteva, cioè, formulare un contenuto da attribuire agli interventi dei singoli amici ridotti simbolicamente a tre. Tre possibilità di intervento per ciascuno avrebbero rispettato, tra l'altro, il modulo 3 x 3 che era presente in alcuni testi arcaici della « Tradizione-Giobbe » (l'egiziano Proteste d ’un contadino loquace che poi esam inere­ mo). Si giunge con questa espansione testuale al secondo strato, il più vasto, il vero e proprio « cor­ pus » dell'opera finale. Esso ci svela un panorama piuttosto frastagliato che comprende i discorsi degli amici intercalati da repliche di Giobbe (cc. 3-27.29-31) e un monumentale intervento finale di Dio (cc. 38-41). È naturale che in questa m assa di capitoli

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ci si possa incontrare con moduli architettonici di diffìcile e discussa collocazione nell’ambito deiredificio letterario globale. Ecco un elenco di interro­ gativi, La drammatica lamentazione iniziale del c. 3 è da considerare il primo intervento del protagoni­ sta o un'introduzione a sé stante? Detto in altri termini: la sequenza del dialogo è parola di Giobbe — risposta degli amici o parola degli amici — ri­ sposta di Giobbe? O in forma più semplice: il dibat­ tito comincia già col c. 3 pronunziato da Giobbe o col c. 4 (intervento del primo amico)? La soluzione che proporremo nel commento segue la prima pro­ posta del dilemma per cui i tre cicli (3-11; 12-20; 21-27) inglobano in sé come parte integrante il c. 3. Un altro scoglio quasi invalicabile, è rappresentato dal terzo ciclo dei discorsi (cc. 21-27) 10. Il testo è particolarmente imbrogliato e frammentario, l'im­ pressione di censure operate sul testo è abbastanza evidente, Giobbe sembra in quelle pagine allinearsi alle posizioni degli amici rinnegando quindi le sue tesi precedenti, l'intervento di Zofar manca. B iso­ gnerà perciò rischiare una ricostruzione utilizzando le macerie rimaste. E usciti da questo polverone di capitoli, bisogna affrontare una terza questione con­ cernente i cc. 29-31 la cui soluzione dipende dalla posizione attribuita al c. 3. Se il c. 3 è stato conside­ rato un'introduzione, allora i cc. 29-31 sono solo una conclusione al ciclo dei discorsi (cc. 3-27). Se invece il c. 3 costituisce il primo intervento di Giobbe, allora i cc. 29-31 sono l'inizio dell'ultimo atto del ito Vedi l'esegesi dei capitoli in questione. H. H. R ow ley (The hook, of Job and its meaning in From Moses to Qumran, London 1963, pp. 163-164) recensisce 40 ipotesi diverse di soluzione! È curioso citare, ad esempio, la proposta di A. L efèvre , Job, in DBS 4, 1948. col. 1078 che, ipotizzando la successione 26, 5-14; 2$,2-26,4; 27, 2-12; 27,13-23; 24, 18-25, spiega empiricamente l'instabilità del testo attuale con ima confusione dei fogli del manoscritto da parte dei copisti! In questa linea si era già posto Dhorme. C. W esterm ann (Primo approccio all'Antico Testamento, Torino 1977, pp. 145-146) ri­ tiene invece che l’ultimo ciclo « si componga solo del di­ scorso d’uno degli amici e della risposta di Giobbe (cc. 22-23); per i capitoli che vengono dopo (24-27) non è possibile rico­ noscere l'ordine originale: contengono solo frammenti » (p. 145).

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dramma e corrispondono a una nuova provocazione di Giobbe a cui replicano definitivamente i discorsi di Dio ». Gli stessi discorsi di Dio che sono il vertice deH'architettura dell'opera non sono esenti da difficoltà. Certamente essi appartengono al poema e ad esso sono indispensabili a meno di voler cadere in un circolo vizioso. Il secondo strato è infatti un'opera autonoma con una sua soluzione: essa non è ri­ scontrabile nei dialoghi e quindi non può essere che nei discorsi di Dio. D’altra parte la risposta di Dio era già prevista anche nell'antico racconto popolare (42, 7). Ma questo blocco, a prima vista compatto, di parole di Dio si rivela pieno di incrinature per cui bisogna probabilmente ritagliare i due grossi brani su Behemot (40, 15-24) e su Leviatan (40,25‫־‬ 41,26) dovuti a un altro architetto. In conclusione, isolando 3-27; 29-31; 38,1-40,14, abbiamo identificato approssimativamente il secondo strato del teli lette­ rario di Giobbe. Il terzo strato è, invece, ben riconoscibile e unitario. Si tratta di una serie di capitoli che portano tutti la stessa impronta e lo stesso colore: sono i discorsi di un amico inatteso, Elihu (cc. 32-37). Egli appare, parla e scompare senza lasciare altrove tracce di sé nel resto del libro. Spezza il dialogo tra Giobbe (cc. 29-31) e Dio (cc. 38-42), presenta una nuova m etodo­ logia di dibattito citando esplicitam ente le frasi di Giobbe (appartenenti al dialogo del secondo strato) . ritenute eterodosse, adotta un diverso concetto di sapienza e applica al suo discorso ~un linguaggio inedito, carico di aramaismi 12. La sua funzione è piuttosto chiara: di fronte alla delusione e all'i­ 11 Naturalmente noi optiamo per ‫׳‬la seconda possibilità sia perché consideriamo il c. 3 parte del dialogo, sia per gli ar­ gomenti che addurremo nell'esegesi del testo, u M. W agner nel suo studio Die lexikalischen und grammatikalischen im alttest. Hebràisch, Berlin 1966, pp. 142-145 nota con precisione teutonica che Giobbe ha un tasso dello 0,45% di aramaismo, mentre Elihu ne ha l'l,35%. Per un con: fronto ricordiamo che i libri più « aramaici » sono Ester (5,3%), Qohelet (3,1%) e il Cantico (2,6%). Gli aramaismi pre­ senti in Giobbe hanno fatto ipotizzare, ma senza successo, a Tur-Sinai un originale aramaico del libro.

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nefficacia delle argomentazioni addotte degli amici, un « sapiente » posteriore ha voluto puntellare la loro teologia con un nuovo appoggio ideologico più raffinato, più originale, e più deciso. A questo punto possiamo esaminare gli strati più sottili. L’inno alla sapienza del c. 28 è ormai da tempo considerato uno splendido ornamento aggiun­ to per imprimere una svolta all’andamento critico del libro: con questa celebrazione dell’insondabile sapien­ za divina si propone una sintesi anticipata della solu­ zione presente nei discorsi di Dio (cc. 3842). È que­ sto inno il quarto strato della crescita del volum e di Giobbe. Le strane ed esotiche sezioni su Behem ot e Leviatan (cc. 4041), che abbiamo già distaccato dai discorsi di Dio, possono rappresentare un quinto strato di difficile collocazione nella storia della genesi dell’in­ tera opera. Abbiamo così concluso il disegno della planimetria archeologica di Giobbe. Identificata, at­ traverso il procedimento stratigrafico, la successione relativa dei vari reperti, possiamo ora rischiare an­ che una collocazione cronologica assoluta. Ripercor­ riamo, perciò, la mappa della prospezione che ab­ biamo appena eseguito. Alla base ecco le sezioni in prosa, il pezzo più arcaico. Vicine come sono, per la scenografia del consiglio della corona divino, al racconto riguardante Michea Ben Jimla (1 Re 22,13-24), meritano una datazione pre-esilica. Come già abbiamo notato, non mancano anche in queste parti ritocchi posteriori: forse il personaggio Satana, che ebbe una certa po­ polarità, soprattutto nella letteratura post-esilica (Zc 3,1-2; 4,10; 1 Cr 21,1; SI 109,6), può es­ sere stato introdotto in quest'epoca. Anche la fra­ seologia della finale dell’epilogo (42,16-17) è redatta nel linguaggio classico della Tradizione Sacerdotale (VI sec. a. C.): « Dopo ciò Giobbe v is s e ..., vide figli e nipoti. Poi morì vecchio e sazio di giorni » Sulla » A. H u r v i t z , The date of thè prose-tale of Job linguistically reconsidered, in « Harvard Theol. Rev. » 67, 1974, 17-34. C fr. N. P avoncello, In quale epoca visse Giobbe, in RivBib 12, 1964, 285-291.

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scia della datazione attribuita all'iniziale « leggenda di Giobbe » alcuni studiosi tendono ora a retrodata­ re anche il corpus poetico dell'opera riportandolo al V II/V I sec. a. C M. Le argomentazioni addotte sono linguistiche e spesso anche tematiche. Così R. H. Pfeiffer 15; avendo collegato Is 53,3.6.9 e Gb 6,30; 16,10.17; 19,14.18 e 30,10, aveva supposto una prio­ rità di Giobbe sul Secondo Isaia (autore im media­ tamente post-esilico) : infatti, se l'autore di Giobbe avesse conosciuto l'ipotesi espressa dal profeta sul valore espiatorio e vicario della sofferenza l'avrebbe senz’altro allegata al dossier della sua discussione teologica. Tuttavia ‫ ־‬l’argomento « ex-silentio » è sempre piuttosto fragile. Inoltre la struttura ideolo­ gica di Giobbe e la sua espressione stilistica restano fortemente ancorate ai moduli sapienziali e non pro­ fetici. Anche i contatti tra Giobbe e la prima colle­ zione dei Proverbi (1-9), documentati, ad esempio, dal nesso tra Gb 5,17 e Pr 3,11-12, non permettono un giudizio molto sicuro, essendo questa collezione molto composita a livello cronologico e la più recen­ te nell’intero volume dei Provèrbi 16. Vista l'inconsistenza di queste ipotesi per la data­ zione dell'opera poetica centrale di Giobbe, tentiamo di rintracciare qualche dato più sicuro. Il terminus a quo del corpo poetico di Giobbe sembra essere il testo del profeta Geremia con il quale Giobbe ha qualche legame di dipendenza: il passo classico è la lamentazione iniziale di 3,3-11 che svolge e amplifica la più nota « confessione » di Geremia (20,14-18). C’è poi 6, 15-21 che suppone Gr 15,18, mentre Gb 6, 23 è legato a Gr 15, 21. II nesso tra Gb 19, 9-12 e le ‫ ״‬Così pensano M. Pope, o .c ., p. XXXVII, H. B a rd tk e , in Das Feme und Nàhe Wort (Fest. L. Rost), Berlin 1967, pp. 1-10, W. F. A lb r ig h t, Yahweh and thè God's of Canaan, New York 1968, p. 259 e D. N. F re e d m a n , in « Eretz Israel » 9, 1969, 43. 15 The priority of Job over Is 40-55, in JBL 46, 1927, 202-206. La tesi è criticata da S. T errien nel suo commento (pp. 23-26) e in Quelques remarques sur les affinités de Job avec le Deutéro-Esàie, in VTS 15, 1966, 295-310. Per il nesso tra Giobbe e la profezia vedi il citato H. B ardtke, Prophetische Ziige im Buche Hiob, in «Fest. L. Rost», Berlin 1967, pp. 1*10. 16 L'ipotesi fu avanzata da A. R obert, Les attaches littéraires de Prov I-IX, in R B 44, 1935, 509-511.

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Lamentazioni è, invece, di diffìcile valutazione essen­ do queste ultim e un’antologia di testi di epoca varia e incerta. Abbiamo poi una serie di indizi m icroscopi­ ci ma sempre significativi. La lista degli ufficiali reali presenti in Gb 3,14-15 sembra corrispondere alla struttura amministrativa persiana (Esd 7,28; 8,25) mentre la famosa « iscrizione » che Giobbe auspica per la conservazione del suo m essaggio (19,23-24) suppone una tecnica d'incisione documentata a Behistun nella famosa iscrizione di Dario I (516 a, C.). Inoltre m olti vocaboli del lessico di Giobbe rivelano significati in uso solo nella letteratura del­ l'epoca post-esilica 17, mentre gli aramaismi già ri­ cordati, pur non costituendo de se un argomento decisivo (esistevano forme più antiche di aramaico), riflettono per l'ampiezza della loro presenza un pe­ riodo in cui il bilinguismo era solidam ente attestato, cioè il post-esilio. Il terminus ad quem invalicabile è, invece, il 190 a. C., cioè l'epoca della stesura in ebraico del Siracide che in 49, 9 cita appunto l'opera di Giobbe. Possiamo, in conclusione, attribuire in via ipotetica al corpus poetico centrale di Giobbe una datazione che oscilla attorno al IV sec. a.C., dopo l'attività riformatrice di Esdra. Passiamo a un altro « pezzo » del libro, il c. 28. L'inno ha una struttura che rimanda a Pr 8, do­ vrebbe perciò essere frutto della sapienza piuttosto tardiva rappresentata dalla prima collezione dei Proverbi (cc. 1-9). Essa ha avuto fino in epoca m olto recente epigoni e imitatori (Sir 1 e 24; Sap 7; Bar 3-4). Di preciso, però, non possiam o dire altro. Ec­ coci, poi, allo strato ben consistente degli interventi di Elihu (cc. 32-37). Anch'esso non può ricevere una datazione assoluta precisa. È tuttavia certamente posteriore al resto dell'opera e, quindi, al 400 a. C.: infatti Elihu cita esplicitamente e contraddice asser­ ii precisi e puntuali dei discorsi di Giobbe (33,8-11 cita 13,24.27;, 34, 5-9 si riferisce a 27, 3; m entre 35, 3 riprende 7,20). Alla domanda cronologica si appaia di solito quella !7 La questione filologica riguarda vocaboli presenti in 3,7.8; 4,15;. 6^5.6.10.17.18; 7,13.12.19; 8,11.12.14; 10,8; 11,4.12; 13,14; 14,

La redazione: l’opera finita

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spaziale: dove è stato innalzato questo solenne e grandioso edificio letterario? La conoscenza dell'am* biente egiziano (9,26; 39,1 ss; 4 0 ,15-4Ì, 26) non è un argomento sufficiente per riportarlo ad Alessandria d'Egitto, la città-madre della Diaspora giudaica. L'autore, infatti, conosce altrettanto bene il mondo mesopotamico, edomita e arabo. Non si vede, perciò, il motivo per non attribuire all'opera globale una matrice palestinese. La cultura internazionale del­ l'Autore e lo spirito « ecumenico » della sapienza classica gli hanno permesso di utilizzare una leggen­ da popolare extrabiblica e di situare liberam ente l'intero racconto in un paese lontano, quasi fiabesco, esotico come l'Arabia o il territorio safaitico o l'O­ riente in genere.

La redazione: l’opera finita Abbiamo percorso finora il testo di Giobbe secondo la successione verticale dello spaccato stratigrafico e abbiamo identificato una sequenza di reperti distin­ ti: la leggenda in prosa (cc. 1-2 e 42,7-17), un dialo­ go in tre cicli di tre discorsi ciascuno (cc. 3-27) 18, un dialogo Giobbe-Jahweh (cc. 29-31 e 38,1-40,14), un'ag­ giunta pittoresca (40,1541,26), un inno (c. 28) e un grosso intervento autonomo (Elihu: cc. 32-37). Ora dobbiamo perlustrare la superficie dell'opera finita così da tracciare una mappa generale. Essa sarà anche l ’ossatura per la lettura del libro com e è oggi tra le nostre mani 19. I. P rologo (in prosa) 1-2. Tema centrale: la sofferenza, prova della fede. 18 Anche in questo intemo, come vedremo nella lettura eseetica del testo, si possono dissezionare altre aggiunte come .5-10 e 12, 7-25. 19 Vedi, oltre ai commenti, anche H . W. H e r tz b e r g , Der Aufbau des Buches Hiob, in « Fest. A. Bertholet ». Tiibingen 1950, pp. 233-258; A. H o lla n d , On thè form of thè book of Job, in « Australian Journ. Bib. Archaelogy » 2, 1972, 160-177; R. P o lz i n , The framework of thè book of Job, in « Interpre* tation », 28, 1974, 182-200; N. P . R eddy, The book of Job - A reconstruction, in ZAW 90, 1978, 59-94.

f

La redazione: l'opera finita

Sei scenette distribuite tra cielo e terra: a. 1,1-5 Ritratto di Giobbe felice b. 1,6-12 La proposta del Satana sulla prova della fede c. 1,13-22 Esecuzione della proposta con la prova d. 2,1-6 Insuccesso del Satana ed aggravamen­ to della prova e. 2,7-10 Esecuzione dell'aggravamento della prova f. 2,11-13 Entrano in scena i tre amici II.

D ia l o g o (in poesia) 3-27. Nove proteste di Giobbe e tre serie di tre interventi degli amici.

Primo ciclo (3-11) a. c. 3 Lamentazione salmica di Giobbe. Te­ ma: la sofferenza demolisce l'uomo e lo ri­ duce alla disperazione. a*, cc. 4-5 Elifaz, « il profeta », attraverso la narrazione di una visione (4,12-5,7) tenta la prima formulazione della tesi retribuzionistica: ogni sofferenza è punizione d'una col­ pa. b. cc. 6-7 Giobbe rinnova la sua protesta rifiutando la spiegazione « giudiziaria » di Elifaz. b'. c. 8 Bildad, « il giurista », appella al dirit­ to dell'alleanza, confermato dalla tradizione e dalla storia, per riaffermare il principio retributivo. c. cc. 9-10 Giobbe afferma che Dio non agisce così meccanicisticamente e sem plicistica­ mente. Innocenti e colpevoli sono m isterio­ samente colpiti (9,22-24). Perché Dio non lascia in pace l'uomo (9,25-10,22)? c \ c. 11 Zofar, « il sapiente», riferendosi alla sapienza sperimentale ed empirica, vede

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continuamente confermato il dogma della retribuzione. Secondo ciclo (cc. 12-20) a. cc. 12-14 Giobbe, riprendendo le argomen­ tazioni degli amici, ironizza sulla loro sedi­ cente sapienza: Dio non ha bisogno delle loro difese d'ufficio (13,3-12). E Giobbe au­ spica di poter discutere direttam ente con Dio (13,13-28), mentre per ora si deve accon­ tentare di un solitario lamento sul male di vivere (14,1-22). a', c. 15 Elifaz rimprovera aspramente Giobbe per la sua critica alla sapienza di Dio. b. cc. 16-17 Giobbe rifiuta tutto il dibattito finora svolto e reclama dal cielo un « difen­ sore » col quale aprire un vero e proprio processo (16,18-20). b \ c. 18 Bildad riafferma il legame peccatodolore e, senza applicarla direttam ente à Giobbe, dipinge a tinte fosche la sorte del peccatore. c. c. 19 Giobbe accusa Dio di oppressione e suggerisce agli amici di non essere alleati di un onnipotente ma piuttosto di un debole com'è l'uomo. L'esito diverso può solo veni­ re da un « difensore » celeste (19,25-27). c \ c. 20 Zofar corregge la teoria della retribu­ zione ammettendone le eccezioni che però la confermano: la felicità dell'empio può esi­ stere ma è breve e la punizione è solo diffe­ rita. Terzo ciclo (cc. 21-27) (ricostruzione ipotetica, dato il cattivo stato del testo) a. c. 21 Giobbe nega sperimentalmente gli as­ serti degli amici: · la stessa esperienza testi­ monia la duratura felicità del malvagio. a \ c. 22 Elifaz accusa Giobbe di delitti precisi soprattutto nella sfera sociale e lo invita alla conversione,

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La redazione: l’opera finita

b. 23,1-24,17.25 Giobbe ribadisce la sua convin­ zione che le prove siano distribuite in ma­ niera totalmente arbitraria e Dio rifiuta ogni discussione o citazione in giudizio. b \ 25,1-5 e 26,5-14 Bildad celebra la potenza divina e confessa la debolezza umana. c. 26,1-4 e 27,1-12 Giobbe respinge ogni argo­ mentazione: la sua conversione sarebbe fal­ sa é solo formale e, quindi, inutile. c \ 27,13-22 e 24,18-24 Zofar per un'ultima volta descrive il tragico destino del m aledetto da Dio e applica implicitamente la tipologia a Giobbe. Addizione: c. 28 La sapienza nascosta e m iste­ riosa di Dio deve proibire all'uomo di porsi domande sul mistero del male. Inno sapien­ ziale in tre strofe. III. D ia l o g o G io b b e -D i o (in poesia) 29-31 e 38-42,6 a. cc. 29-31 Giobbe, attraverso un'evocazione nostalgica del passato, un « giuramento d'innocenza » e una « confessione negativa », cita in causa Dio perché si decida a fare la sua deposizione di difesa.

L 'in s e r z io n e

di

E

l ih u

(cc. 32-37) *

Tema: La sofferenza, è educazione e purificazione dell'uomo. a. Primo discorso: Dio è giusto nei suoi castighi. Bisogna saper decifrare il suo progetto (cc. 32-33). b. Secondo discorso: Accusare Dio di ingiustizia è erroneo ed offensivo (c. 34). c. Terzo discorso: Accusare Dio di indifferenza per l'uomo è offensivo (c. 35). d. Quarto discorso: E evidente che Dio (ed Elihu) ha ragione. Lo splendore della creazione lo conferma" (cc. 36-37).

La pluralità dei generi letterari

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a \ cc. 38-39 Jahweh finalmente interviene e, anziché replicare con, un'auto-apologia, in­ terroga Giobbe sul mistero dell'essere. L'i­ gnoranza sugli enigmi del cosm o che l'uomo riconosce è ancor più grande riguardo al mistero massimo del dolore che solo Dio sa decifrare. b. 40,2-5 Giobbe riconosce la sua lim itazione nel capire l'infinito « progetto » di Dio. b \ 40,6-41,26 Jahweh interroga ancora Giobbe sulle energie cosmiche e storiche, perso­ nificate nei simboli mitici di Behem ot e Leviatan. Superiore ad esse è il dinamismo del dolore e del male che solo Dio sa controllare e pianificare. c. 42,1-6 Giobbe scopre che Jahweh non è ri­ ducibile a uno schema razionale semplificatorio. Nel suo mistero trascendente Dio giustifica e « armonizza » anche il dolore. È finito per Giobbe il « sentito dire », ora la sua fede è pura ed è centrata sul Dio « to­ talmente altro » e salvatore m isterioso. IV. E p il o g o (in prosa) 42,7-17. La giustificazione di Giobbe e il ribaltamento della situazione secondo il modulo classico dello happy end presente nell'antica narrazione folkloristica. La pluralità dei generi letterari G io b b e :

una

t r a g e d ia ?

Nel 1918 uno studioso americano, H. M. Kallen, pubblicava a New York un saggio dal titolo si­ gnificativo The book of Job as a Greek tragedy restore d : all'opera di Giobbe bisogna « assistere », pro­ prio come se si trattasse di un copione da tragedia greca opportunamente giudaizzato. L'idea non era del tutto nuova. Risalendo nel passato, un antesi­ gnano di questa proposta di lettura era stato l'an­ tiocheno Teodoro di Mopsuestia (350 ca. - 428) che,

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La pluralità dei generi letterari

polemizzando fieramente con l'esegesi allegorica alessandrina, aveva suggerito una simile interpreta· zione del genere, letterario di Giobbe (PG 66,697-698). La proposta riconosceva una qualità genuina del testo di Giobbe, cioè la sua struttura dialogica e dinamica, ma ignorava la com plessità delle singole porzioni dell'opera irriducibili a un sem plice sparti­ to drammatico. Già Claudel parlava di Giobbe come di uno scritto « polimorfo, con un ventaglio molto ampio di sfumature e accenti » 20. G io b b e :

una

t a v o la ro to n da t e o l o g ic a ?

Nell'ambiente culturale della Mezzaluna Fertile era in vigore un procedimento sapienziale che ebbe gran fortuna in Egitto durante il secolo d'oro di Ramses II (XII sec. a. C.: ANET, pp. 475-479) e che soprav­ visse fino all'era cristiana nell'ambito stoico-cinico e platonicheggiante. Si trai tava della disputa tra sag­ g i: una vera e propria tavola rotonda in cui veniva­ 20 I n f o r m a p iù e q u i l i b r a t a e in te llig e n te a n c h e L . A lonsoS c h o k e l n e l s u o Job ( M a d r id 1971) h a c o n s id e r a to il lib r o c o m e im a s a c r a r a p p r e s e n ta z io n e : P ro lo g o (c c . 1-2), P r e lu ­ d io (c . 3), I A tto (c c . 4-14), I I A tto (c c . 15-21), I I I A tto (c c . 22-27), I n t e r l u d i o d e l c o ro (c. 28), IV A tto (c c . 29-31 e 3 8 4 2 ), in s e r z io n e d 'u n o s p e t t a t o r e (c c . 32-37), E p ilo g o (42, 7-17). A n c h e n o i d a r e m o a lla o p e r a u n a b la n d a c o n n o ta z io n e d r a m m a t ic a . I n r e a l t à n o n b is o g n a d im e n tic a r e c h e in G io b b e il ta s s o d 'a z io n e s c e n ic a è m in im o , a s s o r b i t o d a l p r i m a t o in d is c u s s o d e lla p a r o la . L a s t r u t t u r a « t e a t r a l e » è, p e r c iò , a c c id e n ta le e f u n z io n a le a l d ia lo g o e a i s u o i c o n ­ t e n u t i . P e r la d is c u s s io n e s u lla q u e s tio n e s o n o f o n d a m e n ta li d u e c o n t r i b u ti . I l p r im o è lo s tu d i o p o s s ib ilis ta d i B . K u rz w e i l . Job and thè possibility of biblical tragedy, in Argom ents and Doctrines ..., F e s t. A. A. C o h e n , N e w Y o rk 1970, p p . 323-344. I l s e c o n d o è u n fa s c ic o lo m o n o g r a f ic o d e lla r i ­ v is ta « S e m e i a » (1977) c o n l 'i n t e r v e n t o d i J . W . W hedbee, The comedy of Job, p p . 1-39 e a l t r e o s s e r v a z io n i v a r ie d i D . R o b e rts o n ( p p . 41-44), L. A lo n so -S c h o k e l ( p p . 45-61), J . C r e n s h a w (p p . 63-69), J . A. M ile s ( p p . 71-126), R.. P o lz in ( p p . 127-133), J . G. W i l l ia m s ( d p . 135-145) e W . J . U rb ro c k (p p . 147-154). è s t a t o s o p r a t t u t t o J . W. W h e d b e e a s o s te n e r e c o n f o r z a , s u lla s c ia d i u n 'in tu iz io n e d i N . F r y e e d i C h. F ry , la c la s s ific a z io n e d i G io b b e n e l g e n e re d e lla c o m m e d ia . E s s a n o n e s c lu d e il tr a g ic o e d è s p e c ific a ta d a d u e q u a l i t à c h e s i r i t r o ­ v a n o a n c h e in G io b b e : l'in c o n g r u o , ir o n ic o , e la r e i n t e g r a ­ z io n e fin a le d e ll'e r o e n e lla n o r m a li t à s o c ia le .

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no posti sul tappeto gli argomenti favorevoli o con­ trari a una determinata tesi. Per la Bibbia la rap­ presentazione emblematica di questo genere lettera­ rio è la pagina di 1 Re 10 in cui Salomone, il prototipo della sapienza biblica, è in discussione con la regina di Saba, « venuta per m etterlo alla prova con enigm i.... E Salomone rispose a tutte le sue domande, nessuna ve ne fu che non avesse risposta o che restasse insolubile per Salomone ». La « disputa » era una « forma » letteraria ben definita nei suoi canoni e nelle sue articolazioni. La incontreremo a più riprese nel testo di Giobbe ma, come è ovvio, essa non può estinguere tutte le pos­ sibilità di questo libro così variegato e multiforme. G io b b e :

un

d ib a t t i m e n t o

pro cessu a le?

Giobbe ha indubbiamente il tono di un dibattito: non potrebbe avere come modello-base la discussio­ ne giudiziaria in un'aula di tribunale? Infatti, ripe­ tutamente Giobbe lancia delle citazioni processuali nei confronti del suo Avversario. Nel 1959 uscivano a Berlino gli Studien zu Hiob di H. Richter. Per la prima volta si tentava di leggere interamente il libro di Giobbe avendo per guida la trafila di un dibattimento giudiziario21. Il protago­ nista, Giobbe, s'avanza esponendo la sua situazione con una perorazione (c. 3), pronunciata dopo la lettura dell'istruttoria (cc. 1-2). Si tenta un accom o­ damento preliminare amichevole ed extra-giudiziario della questione (cc. 4-14: primo ciclo di interventi). Costatato l'insuccesso, si procede a un accomoda­ mento formale e giudiziario (cc. 15-27: secondo e terzo ciclo) che, però, sbocca ancora in uno scacco, data l'ostinazione dell'attore principale (« il giura­ mento d’innocenza » dei cc. 29-31). Si rim ette, allora, 21 Per il dibattito giudiziario vedi B. G e m s e r , The rib- or controversy-pattern in Hebrew mentality, in VTS 3, 1955, 120137 e J. H arvey, Le plaidoyer prophétique contre Israel après la rupture de Valliance, Bruges/Paris/Montréal 1967, pp. 9-30. Per la questione specifica in Giobbe: G. M any , Der Rechtsstreit m it Gott {rib) im Hiobbuch, Sangmélima (Kamerun) 1970.

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la causa a un'ulteriore istanza, quella diretta dal giudice Elihu (cc. 32-37). Accertato anche in questo caso l'insuccesso, l'accusato interpone appello presso la Suprema Cassazione: è il processo davanti a Jahweh, giudice e testimone al tempo stesso (cc. 38-41). Sentenza nel c. 42, dopo la confessione del colpevole. Per avere una critica a questa ipotesi di lettura dobbiamo esaminare una successiva possibi­ lità.

G iobbe : una lamentazione drammatizzata ?

Prevenendo Richter, C. Westermann a Tubinga nel 1956 col suo Der Aufbau des Buches H io b 22 puntava l'indice sui molti spazi del libro di Giobbe non ricopribili da una definizione giuridica. Egli, perciò, riconosceva la parziale validità della proposta che Richter aveva anticipato in qualche articolo e stava allora m ettendo a punto, ma ne faceva risaltare l’insufficienza. Per Westermann Giobbe non dev’esse­ re studiato solo secondo Giobbe, ma secondo l’ano­ nimo suo autore che ha posto nella sua creatura una forte carica tragica, a cui ha opposto la freddezza giuridica delle repliche degli amici-nemici. Ne deri­ va, allora, una conclusione piuttosto elementare: il libro di Giobbe altro non è che un'immensa supplica salmica che ha al suo esterno uno sfondo giuridico e al suo stesso interno ha l'impostazione drammatico-processuale delle simili, più ridotte composizioni del Salterio. Esse, infatti, avevano una struttura triangolare: l'orante sofferente, il nemico, Dio. Gome nel caso del babilonese Ludlul bel nemeqi, che in seguito esamineremo, Giobbe non è che un salm o di lamentazione pronunciato però da un accusato (Gebet des Angeklagten). L'ipotesi è suggestiva anche perché ingloba e valo­ rizza il contributo parziale ed esclusivo di Richter. Essa merita un approfondimento ulteriore. Lo fac22 L'opera di Westermann è stata riedita nel 1977 con un’am­ pia introduzione di J. Kegler sulla recente investigazione di Giobbe (Die neuere Hiobforschung).

Là pluralità dei generi letterari

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d a m o con uno schema essenziale a tesi, destinato a raccogliere i risultati positivi offerti dal volum e del noto esegeta di Heidelberg. a. Al centro del libro di Giobbe v'è un infelice che si esprime col genere letterario « lam ento » e attende dagli amici conforto. La consolazione gli è, però, somministrata in una forma così « professionale » e malaccorta da trasformarsi in un boomerang (vedi il tema « consolazione » in 13,4; 15,11; 16,2.5; 21,2.34; 26,2-4). Solo Dio sa dare la consolazione risolutiva, proprio com e nei salmi di supplica. b. Se Giobbe è una lamentazione drammatizzata, è naturale che il libro abbia uno svolgim ento progres­ sivo e non sia, come scriveva il Pineda, un serpente che circolarmente si morde la coda. Infatti, nel pri­ mo ciclo gli amici esortano Giobbe (5,8.17; 8,5.7.20-22; 11,12-14), ma ben presto si lasciano cade­ re le braccia (tranne forse, in 22,21-30) e passano all'attacco. All'inizio di ogni' loro intervento c'è un contraddittorio con Giobbe che diventa sempre più acre quanto maggiormente procede il dialogo (4,2-6; 8,24; 11,2-4; 15,2-13; 18,2-4; 20,2-5; 22,2-20). Parallelamente Giobbe ignora queste accuse ma al terzo ciclo del discorso esplode in un'aspra protesta (27,1-12). La lode di Dio, altro elem ento tipico dei salmi di lamentazione, nel primo ciclo affiora anche sulle labbra degli attori (Giobbe: 9,4-13; 10,8-12; 12,10-25; amici: 5,9-16.18; 11,7-11), ma in seguito scompare sotto l'incalzare delle accuse di Giobbe contro Dio. c. L'opera offre, inoltre, un campionario piuttosto ampio di vere e proprie lamentazioni, costruite se­ condo il rispettivo canone letterario e stilistico e centrate sui tre personaggi del dramma. C'è, quindi, un Lamento-Io (.Ich-Klage) in cui impera straziante il dolore, reale (6,5-7), grave (6,2-3a), intollerabile (6,11-12), universale (7,1-10; 9,25-31; 10,18-22). Una sofferenza che ha pure connotati fisici (7,3-5; 19,20.27; 30,17.30), ma che è soprattutto lo svelam en­ to della caducità radicale dell'uomo (14,1-15), che è la morte della speranza (14,7-12), che è l'inutilità del vivere (c. 3). C'è poi un lamento-Nemico (Feindklage) in cui l'avversario può avere i lineamenti degli amici che deludono come un torrente secco delude

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l'assetato (6,13-27) o di tutti gli esseri umani che abbandonano totalmente il sofferente creandogli at­ torno un muro di solitudine (19,13-19; 30,1*15). Ma il nemico può avere anche i tratti di Dio stesso (16,9-14; 19,7-12). C'è infine, un Lamento-Dio (Anklage Gottes) che si collega al precedente per il suo esito tragico. Esso conosce il perché? dell'assurdo (7,11-21), l'ostilità di Dio (3,23; 6,4), sperimenta l'odio demoniaco di Dio nei confronti dell‫׳‬uomo (9,17-23), il rifiuto nei confronti della sua creatura (c. 10). È la protesta per l'arroganza di un Dio sempre vincitore (9,2-3.14-16), è il formale atto d'accusa per il com ­ portamento insensato di Dio nei confronti dell'uomo (13,23-27), è il quadruplice augurio suicida che, pur essendo rivolto contro l'uomo Giobbe, è in realtà scagliato contro Dio. Un augurio di morte (3,11-13. 21-22; 6,8-10; 7,15), un augurio di oblìo (7,16; 10,20; 14,6.13-15; 9,34-35; 13,21-22), un augurio di confronto con Dio ad armi pari (23,3-12; 31,35-37), un augurio di giustizia (16,18-22; 17,3; 19-,23-24). d. Westermann, infine, risolve il problema dei « di­ scorsi di Dio » riducendoli anch’essi a un genere salmico, quello degli inni. Il primo è un inno al Creatore (38,4-40,7) 23, il secondo, invece, è un inno al Signore della storia (40,8-41,26), essendo Behem ot e Leviatan simboli delle forze demoniache operanti nella storia. Westermann ha offerto un contributo indispensabile per introdurre il lettore nell'atmosfera vera del libro di Giobbe. Tuttavia, l'aver captato e isolato il motivo dominante di questa grande sinfonia di dolore lo ha reso un po' unilaterale nella conclusione: l’intero libro di Giobbe dev'essere letto non come una rifles­ sione sapienziale di portata universale ma com e una lamentazione individuale che non ha, se non indiret­ tamente, valore universale. Ecco allora la necessità di un'ulteriore integrazione. È quella proposta da un altro grande studioso di Giobbe, G. Fohrer, nel suo commento a G iobbe24. 23 La struttura dell'inno sarebbe questa: Jahweh crea il mondo (38,4-15): Jahweh dirige il mondo (38,25-40,7).

Mo.c.,

p p . 51-52.

La pluralità dei generi letterari G io b b e :

un

39

a r c o b a l e n o l e t t e r a r io

Quest'immagine suggestiva proposta in un libro piuttosto stravagante di 0 . C am hy25 può forse rap­ presentare la soluzione globale presentata da Fohrer. Certo, in essa non possono confluire proprio tutte le proposte finora avanzate sul genere lettera­ rio di un libro così vario, ma almeno le più consi­ stenti e valide sia pure a livello parziale. È difficile, infatti, sistemare in questo quadro generale ipotesi piuttosto eccentriche come quella proposta dal pur eccellente studioso di Giobbe, S. Terrien, secondo la quale Giobbe sarebbe forse un dramma para-rituale per la festa semitica di Capodanno26. Fohrer fa, quindi, un censimento dei dati essenziali finora acquisiti e riconosce che l'autore ha voluto usare una tavolozza di colori molto varia secondo le varie situazioni e i vari momenti del dramma: a lamentazioni come quella del c. 3 ha giustapposto testi giuridici con sfumature salm iche (cc. 6-7; 9-10; 19-23) e a questi ultimi ha associato passi costruiti su base sapienziale ma con infiltrazioni giuridiche (cc. 4-5; 15; 18; 20-21; 26-27) ». 25 Une trilogie biblique sur le drame de la vie: un sujet, trois conceptions: Job, Qohéleth, 1saie, Paris 1973. S. T errien , Le poème de Job: drame para-rituel du Nouvel An?, in VTS 17, 1969, 220-235. L'autore si allinea, quindi, alle tes.i della scuola pancultualista scandinava o a quella inglese del Myth and Ritual. 27 Ecco una tabella riassuntiva della molteplicità dei generi letterari presenti in Giobbe. Le sigle indicano rispettivamente. S = genere sapienziale D = genere giuridico Ps = genere salmico GIOBBE e AMICI * Primo ciclo Secondo ciclo Terzo ciclo 12-14 (S+D +Ps) 3 (Ps) 21 (S) 22 (S + Ps) 4-5 (S+Ps) 15 (S) 16-17 (S+D + Ps) 23 (D + Ps) 6-7 (Ps+D) 25 (S + Ps) 8 (S+D +Ps) 18 (S) 26-27 (S) 9-10 (D+Ps) 19 (D+Ps) 11 (S+D+Ps) 20 (S) GIOBBE e DIO 38-42 (S+D + Ps) 29 (S)

30

(P s)

31

(S+D)

40

Giobbe in poesia

Giobbe è, allora, un libro a sorpresa, dalle variazioni continue che vanno dal grido d'una « speranza sra­ dicata » M all'ironia raffinata e sorniona 29, un libro che lamenta una tragedia, ma che celebra anche un trion fo30. Come scriveva N. N. Glatzer presentando Una raccolta di 32 saggi su G iobbe31, un libro che richiede un udito letterario e spirituale sempre vigi­ le e pronto a m ettersi in sintonia con questa sensi­ bilissim a e mutevole musica che è quella d'una poe­ sia vivissima e geniale.

Giobbe in poesia Prescindendo dall'antica leggenda in prosa contenu­ ta nel prologo-epilogo, Giobbe è un documénto altis­ simo della poesia ebraica. Da sempre è stata sottoli­ neata l'impossibilità pratica della resa in versione d'una poesia che, come tutta quella semitica, deve il suo. splendore al flusso cromatico e qualitativo dei suoni, al loro misterioso impasto m usicale più che alla rigida normativa d'una metrica quantitativa. Questo fattore essenziale della poetica ebraica è do­ vuto anche alla sostanziale e primordiale natura orale delle composizioni, spesso destinate innanzi­ tutto alla declamazione e al canto. La costruzione fonetica creava, allora, un'atmosfera magica ed evo­ catrice, la rima più che in clausola, cioè in finale di stico, era interiore e sbocciava in allitterazioni e assonanze delicate o intense, tim ide o esasperate che potevano creare persino godimento sensoriale o stordimento provocatorio. Tuttavia, pur nel predo­ minio qualitativo e pur nella libertà della metrica, qualche schema costante può essere identificato: co­ sì, in Giobbe sembra prevalere il metro classico 28 J . L évéqub , Job, ou l'espoìr déraciné, in « Vie Spirituelle » 125, 1971, 287-304. 29 J. V . P ix ley , La ironia antesala de la teologia de la liberaciòn: el libro de Job, in « Cuad. Teologia » 3, 1973, 57-80. 30 H. L. E lliso n , A study of Job. From tragedy to trium vh, Grand Rapids 19712; E. J ones, The triumph of Job, London 1966. 31 N. N. G latzer ed., The dimensions of Job, New York 1973.

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3 + 3. Costante è anche l'abitudine, piuttosto barocca e solenne, di finire la strofa con un verso più lungo 32. Una forte percentuale dell'irriproducibilità stilistica di Giobbe è legata anche alla sua eccezionale attitu­ dine nel saper trasporre sentimenti ed em ozioni in termini di movimento o in dati esteriori, paesaggi­ stici o naturali. L'autore possiede un talento partico­ lare nel saper oggettivare staticam ente e dinamicamente il suo panorama interiore. Un altro fenomeno che ostacola la penetrazione nella cittadella poetica di Giobbe è la ricchezza lessicale e la padronanza del vocabolario ebraico dimostrata dall’autore. Sotto l'ampia serie di hapax presenti nel libro (è il testo biblico che ne contiene di più in assoluto), sotto le accezioni inedite attribuite a vocaboli noti, sotto le polisem ie accuratamente evocate da termini più sofisticati si nascondono spesso difficoltà invalicabili per il traduttore. Nel 1950, quando le scienze lin­ guistiche iniziavano ad abbandonare i settori di alta specializzazione per diventare la disciplina vincente nel mondo delle università e dei mass-media, a New York la « American Bible Society » pubblicava una rivista destinata a proporre a livello teorico e prati­ co i problemi che il fenomeno « traduzione » susci­ ta soprattutto quando si deve affrontare un salto così radicale di sistem i com'è quello intercedente tra le lingue sem itiche e le occidentali33. A distanza di trent'anni, per Giobbe i problemi sono per m olti versi ancora aperti: non esiste, infatti, una versione che, pur con i lim iti inevitabili, abbia affrontato le questioni poste dalla sistem atica lin­ guistica, dalla semantica, dalla stilistica, dalla teoria 32 II tentativo pionieristico di studiare la metrica ebraica fu quello di A. C ondam in , Poèmes de la Bible, Paris 1933. Lo studio, ancor oggi fondamentale, di L. A lonso-S chokel , Estudios de poètica hebrea (Barcelona 1963), meriterebbe una appendice dedicata esclusivamente a Giobbe. 33 Vedi per la questione E. Nida, Principles of translation, in « Word » 1, 1944, 11-31; G. M o u n in , Teoria e stonia del­ la traduzione, Torino 1965; C. B u z z e t t i , La Parola tradotta, Brescia 1973. Si attende la versione in « lingua corrente » dell'Antico Testamento da parte dell’ABU e aell'LDC dopo la pubblicazione (1976) del Nuovo Testamento (La Parola del Signore).

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della comunicazione, dall'etnolinguistica e dalla qua­ lità morfologica delle varie parti. Il « linguaggio di riferimento » di Giobbe su cui bisogna operare non è un idolo intangibile ma neanche un dato da mani­ polare sfrontatamente. Non secondari sono anche i problemi strettam ente morfologici e sintattici posti dalla linguistica sem iti­ ca. Saper trascrivere in tutte le sue sfumature la modalità di un verbo ebraico è quasi una sfida p£r il traduttore. In esso, infatti, a differenza del verbo delle lingue occidentali, dominano aspetti non cro­ nologici, ma modali. Così le due forme basiche qatal e jiqtol non hanno una corrispondenza precisa nel nostro sistem a verbale prevalentemente temporale. Talora esse suggeriscono la distinzione tra azione perfetta, compiuta e azione imperfetta, talora hanno solo valore modale definendo la qualità dell'azione stessa. E un'azione im perfetta (jiq to l) può essere tale al passato, nel presente e pure nel futuro, per cui la gamma delle possibilità si estende. Non par­ liamo poi della successione delle varie forme in cui questi due modi basilari si possono espletare (n ifa l, pCel, hitpa'el, hofal, etc) con un ventaglio com plesso di significati o di varianti semantiche. Non parliamo neppure delle forme « inverse » weqatal e w ajjqtol che introducono ulteriori sfumature che non si pos­ sono ignorare anche perché possono ribaltare inte­ ramente la qualità del verbo K

34 Per un approccio metodologico alla questione filologica di Giobbe vedi il lavoro di L. L. C rabbe, Comparative philology and thè text of Job. A study in methodology, Missoula (Montana) 1977. Per l'aspetto comparativo della filolo­ gia, sul quale ritorneremo esaminando la « tradizione-Giobbe », si vedano: E. T. S u tc liffe , Notes on Job, textual and exegetical, in Bib 30, 1949, 66-90; W. B.- S tevenson , Criticai notes on thè Hebrew text of thè poem of Job, Aberdeen 1951: G . R. D river , Problems in thè Hebrew text of Job, V T S 3, 1955, 72-93; M. D ahood, Some Northwest-Semitic words in Job, in Bib 38, 1957, 306-320; id ., Northw est Semitic philology and Job, in The Bible in current Catholic thought, New York 1962, pp. 55-74; A. G u il l a u m e , Studies in thè book of Job with a new translation, Leiden 1968; P o l z in R. M., Biblical Structuralism. Method and subjectivity in thè study of ancient text, Philadelphia 1977.

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C'è, poi, un'ulteriore barriera quasi insorm ontabile per il traduttore moderno di Giobbe: si tratta di quel procedimento, usato anche da Giobbe, che i teorici arabi di poetica chiamano il talhin, che con­ siste nell'adottare un vocabolo che quasi infallibil­ mente evoca un omofono o quasi-omofono il cui senso completerà (anche per antitesi o per contra­ sto) il senso del primo termine usato. Si può coglie­ re, ovviamente, questo fenomeno letterario solo do­ po una lunga assuefazione col testo ebraico di Giob­ be e col lessico ebraico in genere, oltre che con la filologia comparata e la finezza dell'ascolto lettera­ rio. Per rendere il concetto in modo elementare pensiamo al collegamento esistente nelle lingue eu­ ropee tra donare e per-donare, in tedesco tra geben e ver-geben e in inglese tra give e for-give. Tentiamo ora di presentare un'esemplificazione desunta dal testo ebraico di Giobbe. 7,6: Jomaj qallu mirini-’oreg wajjikeìu be’ejes tiqwà I miei giorni scorrono più veloci della spola sono svaniti per mancanza di speranza. La versione non riesce a esprimere l'associazione fonetica tra qallu (« scorrere ») e jikelu (« spari­ re ») e soprattutto ignora l'omofonia tra due vocaboli distinti tiqwà, l'uno significante « speranza » e l'al­ tro « filo ». Essi sono entrambi evocati dal sim bolo (« spola ») e dal tema (la fragilità dell'esistenza umana) 35. Meno grave è, invece, un ultim o ostacolo a una versione poetica di Giobbe. Si tratta della suddivi­ sione strofica del testo. Diciamo che è una difficoltà 35 Se qualche lettore, che conosce l'ebraico, vuole tentare un esercizio di individuazione di questo procedimento stili­ stico molto raffinato, esamini 3. 6-7; 5,24; 9,17; 12,6; 21,13; 22,25. Vedi anche G. F ohrer , Form und Funktion in der Hiobdichtung, in « Zeit. Deutschen Morgenlàndischen 'Gesellschaft » 109, 1959, 3149 (= S tu d ie n ... cit., pp. 68-86); C. K. J ohnstone , Poetic statement in Job, in « Rev. Univ. Ottawa » 32, 1962, 45-59; R. Gordis , The book of God and Man, Chicago 1965, pp. 167-168; J . B arr, Philology and Exegesis. Some remarks with illustrations from Job, in « Ephem. Ì eneral heol. Lov. Bibl. » 33, 1974, 39-61.

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meno grave perché attorno ad essa esiste un totale dissenso tra gli studiosi e, perciò, al livello attuale, è meglio sospendere ogni frazionamento troppo radi­ cale del testo poetico di Giobbe. Per alcuni esegeti, in fa tti36, l'intero volume di Giobbe è costruito su una strofica così rigorosa e regolare da trasformare in glosse posteriori tutte le righe che non quadrano con essa. Altri, invece, come il Fohrer e Irwin, pro­ spettano una strofica libera, strutturata su unità semantiche e non su porzioni ritmiche. Altri ancora come il Terrien, ammettono una sequenza di strofe irregolari, equilibrate dal senso generale del brano 37. Noi preferiamo accostare ai capitoli più esplicitam en­ te divisi in strofe la lettura di altre parti secondo unità semantiche. *

★ *

Dalla questione teorica della versione di Giobbe pas­ siamo alle realizzazioni tentate attraverso i secoli. Non vogliamo tracciare una storia delle traduzioni, ma semplicemente offrire qualche campione si­ gnificativo. Mettendo tra parentesi le improbabili ipotesi di Tur-Sinai e di Guillaume secondo le quali Giobbe sarebbe già di per sé una versione in ebraico da un originale aramaico o proto-arabo, la prima fatica in assoluto per tradurre Giobbe fu compiuta dai Settanta con la loro coraggiosa impresa di ver­ sione della Bibbia intera nella lingua intem azionale di allora, il greco. Sembra che gli anonimi traduttori abbiano lavorato su un originale più breve di quello che oggi possediamo. Anzi, in alcuni casi, si ha il sospetto che essi abbiano censurato o abbreviato certe parti eccessivamente scandalose o provocatrici a livello teologico (cfr. 12,21; 13,19-20; 19,28; 20,34; Così P eters , K issa n e e in particolare P. W. S keh a n , Strophic pattem s in thè hook of Job, in CBQ 23, 1961, 125-143. 37 Per spiegare l'idea esaminiamo il primo discorso di Elifaz (cc. 4-5). La struttura strofica sarebbe la seguente: a. 4, 2-6 /7-11 b. 4, 12-16/17-21 c. 5, 1-7: è il centro di gravità dell'intero carme con Una chiave tematica e stilistica nel v. 7 d . 5, 8-17/18-27.

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21,15.23; 22,13-16; 31,35; 40,2). In altri casi i tradutto­ ri hanno semplificato il testo per obiettive difficoltà 0 per reali incomprensioni. La maggior strage di versetti è perpetrata nei cc. 29-37 dove cadono ·ben 77 versetti. I discorsi di Dio (cc. 38-41) sono invece resi in modo molto terso e a tten to 38. Per rilevanza storica e per resa generale la traduzione della Vul­ gata di Gerolamo è solo cronologicamente seconda ai LXX. A ragione questo grande studioso della Bib­ bia aveva descritto la situazione del testo latino di Giobbe precedentemente alla sua versione con un'im­ magine vigorosa ma realistica: « Giobbe presso 1 Latini è ancora sul letamaio, coperto dai vermi dell'errore » (PL 29,63-64). Veniamo ora alle versioni in lingua italiana. Le tra­ duzioni offerte finora dalle varie edizioni della Bib­ bia non si sono poste il problema estetico e lettera­ rio del testo di Giobbe e si accontentano di versioni materialmente esatte. Il primo tentativo di ripro­ durre nella metrica italiana le pagine poetiche di Giobbe è da attribuire all'abate G. Ceruti, Il libro di Giobbe recato dal testo ebreo in versi italiani (Roma, 18732). La sua trovata più originale fu quella di porre la versione intercalata al testo ebraico per farne risaltare la fedeltà. Ma, pur nell'acutezza di qualche scelta, l'opera risulta un esercizio retorico piuttosto scialbo, stemperato in un'atmosfera carica di romanticismo. Successivamente si provò in un'im­ presa colossale P. B. Silorata che pubblicò nien­ temeno che La Sacra Bibbia tradotta in versi italia­ n i 39, una serie di volumi noteyoli solo per l'anti­ quariato e per la sconfinata pazienza del rimatore. L'unico esperim ento che merita di essere discusso è quello di Guido Ceronetti, uno dei nostri poeti e scrittori più outsider, autore già di due precedenti M J. Z iegler , Der textkritische Wert der Septuaginta des Buches Job, in « Miscellanea Biblica », II, Roma 1934, pp. 277-296; H. O r l in s k i , Studies in thè Septuagint of thè book of Job. in « Hebrew Union Coll. Ann. » 28, 1957, 53-74; 29, 1958, 2Ì9-271; 30, 1959, 153-167; 32, 1961, 239-268; 33, 1962, 119151; 35, 1964, 57-78; 36, 1965, 37-47. Notiamo anche che nel­ l'attuale testo masoretico si riconoscono almeno 120 piccole glosse. · 39 Roma 1876-1880. Giobbe si trova nel I voi., pp. 299-409.

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versioni dei Salmi (1967) e di Qohelet (1970). Il suo Libro di Giobbe, pubblicato a Milano nel 1972, è indubbiamente una riproposizione lampeggiante di Giobbe: il lettore è trascinato nel gorgo poetico dell'opera biblica dal ritmo, dalla finissima' selezione delle figure e dei vocaboli, dal balenare degli echi e delle allusioni. A caso scegliamo la resa di una pagina, Gb 19,5ss. 5 Ma voi che m’insultate Rinfacciandomi la mia vergogna 6 Sappiate È Dio che pecca contro di me E mi soffoca nella sua rete 7 VIOLENZA io grido E nessuno risponde Io imploro una giustizia che non c’è 8 La sua mano mi sbarra la strada Perché non passi Fa nei miei vicoli il buio 9 Di ogni mia gloria mi ha spogliato Dalla testa mi ha tolto la corona 10* Pezzo per pezzo mi demolisce La mia speranza come un albero Ha sradicato 11 Contro di me si è acceso il suo furore Mi tratta come suo nemico 12 Le sue falangi mi piombano addosso Lungo linee fissate per colpirmi E bivaccano intorno alla mia tenda...

La scelta dell'equivalenza formale rispetto a una più pedestre equivalenza materiale fa sì che il fascino irriproducibile della pagina originale riesca a brilla­ re ancora qua e là e riesca anche ad abbacinare il lettore. Purtroppo Ceronetti avrebbe dovuto aver accanto uno o più specialisti (e non solo un ebreo pur colto come A, Segre, il consulente del preceden­ te Qohelet einaudiano) che gli avrebbero presentato m odestamente ma correttamente le m olteplici difficoltà, incertezze e sfumature del testo ebraico. Sarebbero state evitate, allora, sviste di traduzione, semplificazioni o invenzioni spericolate. Tuttavia ri­ conosciamo al lavoro del poeta torinese un indiscu­ tibile primato letterario. Ciò di cui non gli siamo

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m olto grati, invece, è la postilla stravagante apposta alla versione. In essa il grande spreco di intelligen­ za, di fantasia e di pirotecnia letteraria più che a svelare o illuminare il messaggio antico e la sua eterna provocazione serve a creare una cortina neb­ biosa che sa in qualche punto di esercitazione ba­ rocca, di eccitazione oracolare e persino di fum iste­ ria. Ecco, ad esempio, la finale della « Postilla a Giobbe »: . Senza parola, né testa, né piaghe allo scoperto, non si distingue più Giobbe da un movimento qualsiasi del­ l'energia vitale. Adesso lo si direbbe un soffio sboc­ cato, con fili di ferro molto robusti per stare su, col­ legati a un filo invisibile che tenga una mano spen­ zolata, senza nervi né corpo, in alto. Pietoso regista, la sua crudeltà verso Giobbe non è che un gioco. — Non avrete Giobbe né vivo né morto, perché ve lo mangereste —. Cancellandolo tutto, l'ha amato. L'Odiato-da-Dio seguiterà, nel suo buio, a cre­ dersi amato amato amato40.

Una menzione a parte nel campo delle lingue stra­ niere vorremmo riservare all'agostiniano spagnolo Fray Luis de Leon (1528-1591), una delle personalità più alte del siglo de oro spagnolo. Docente all'uni­ versità di Salamanca, conoscitore dell'ebraico e del greco, finissimo cultore di poesia, dotato di alta sensibilità letteraria, riuscì nelle sue versioni bibli­ che a conservare miracolosamente intatto il sapore e il fascino dell'originale. Oltre al Cantico di cui ha lasciato una mirabile versione, Fray Luis non poteva non essere tentato dallo splendore di Giobbe. Ecco come nel prologo al suo Job delinea la m etodologia seguita nello stendere le due versioni, quella m ate­ riale-letterale e quella poetica in terzine: Tre sono le vie che seguo: la prima, tradotto il testo del libro nelle sue parole, conservando in esse, per quanto è possibile, il senso latino e il ritmo ebraico 40 G. C eronetti, Il libro di Giobbe, Milano 1972, p. 274. C fr. C. C avalieri , Il Giobbe di Ceronetti, in « Studi Cattolici », 17, 1973, 299-300.

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Il risultato raggiunto è eccezionale, considerate an­ che le scarse disponibilità filologiche di allora. La versione « materiale-letterale » è, a nostro avviso, la più originale e sa cogliere il respiro della poesia ebraica e il brillare dei sim bolism i biblici con una sobrietà e una pertinenza sorprendenti41. Anche se talvolta filologicamente non ineccepibile, una vera scoperta è la versione di André Choura­ q u i i2, posta nella successione di traduzioni bibliche che l’autore, sindaco-aggiunto di Gerusalemme du­ rante la Guerra dei Sei Giorni, ecumenista, poeta e letterato israelita, sta da anni conducendo. Ed es­ sendo Giobbe per l'ebreo e per il credente non solo un alimento spirituale d'occasione, ma, come diceva Neher, la fibra permanente della sua storia e del suo m istero d'esistere, Chouraqui tenta di trascinare il suo francese fino ai limiti delle possibilità espressi­ ve. Ci si meraviglia come nell'arditezza delle, in­ venzioni e nella fedeltà delle trasposizioni, il m es­ saggio biblico si conservi intatto. Ci si stupisce spesso dell'equilibrio tra la struttura ebraica dello stile e la nuova parola occidentale e moderna, tra la passione del credente e l'acutezza del letterato. Si può dire che testo originale e testo moderno sono spesso presenti in filigrana l'uno con l’altro in que­ sta versione palpitante e intensa. Il risultato è rag­ giunto forse anche per merito della fede di Chouraqui nella Bibbia e nei valori permanenti dell‫׳‬ebraismo religioso, una fede testim oniata anche dallo spirito 41 Sulla scia di questo capolavoro anche il biblista spagnolo L. Alonso Schokel, in collaborazione col poeta messicano José Luz Ojeda e col letterato spagnolo José Maria Vaiverde, ha riproposto una nuova versione poetica di Giobbe, attenta anche ai recenti contributi della filologia comparata ugaritica e cananea (Job, Madrid 1971. Vedi le pp. 207-225 dedicate a Fray Luis de Leon). Vedi anche J. B a r u z i , Luis de Leon, interprète du livre de Job, Paris 1966. 42 Livre de Job, Desclée 1974.

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non-sionista della sua aljà in Israele, cioè del suo ritorno alle sorgenti della sua umanità. Giobbe, però, resta sempre un capolavoro inesauribi‫־‬. le e mai del tutto conquistabile. Scriveva il critico letterario Francesco Flora: « A paragone di questa lirica del dolore dell'uomo ogni lirica posteriore sembra cadere e talvolta appare una pallida oleo­ grafia » 43.

43 L a p o e s ia d e lla B ib b ia , M ila n o 1959.

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Chi siamo noi per dirGli quello che deve fare e quando farlo? Solo ieri tu dicevi che più gli astronomi pon­ derano e misurano le stelle, più grandi esse diventano. Dicevi che molte di loro sono più grandi del sole. Dunque, come possono delle creature insignificanti co­ me noi, con il cervello meschino che abbiamo, com­ prendere quello che Lui fa? ( I . B . S inger , Shosha, Milano 1978, p p . 154-155).

Se l'opera di Giobbe assomiglia più a un terreno stratificato che a una superficie compatta, è naturale che la teologia emergente dal volume non può essere esaminata se non secondo angolature e livelli diffe­ renti*. Se, come ha scritto S.' E. Stockhammer, l'o­ biettivo teologico dell'opera nella sua integralità è puntato sulla collisione tra fede e ragione è però necessario anche esaminare questo dossier di rifles­ * Stamm C., Das Problem Hiobs und seine Losung, in « Zeit. System. Theologie » 24, 1955, 342-355. K n ig h t H ., Job, considered as a contribution to Hebrew theology, in « Scottish Journ. Theology » 9, 1956, 63-76. R ichter H ., Erwàgungen zum Hiobprobiem, in E v T h 18, 1958, 202-224.

Rowley Η. H., The book of Job and its meaning, in BJRL 41, 1958, 167-207. H em pe l J., Das theologische Problem des Hiobs, i n Apozysmata, B e r lin 1961, pp. 114-173. F ohrer G., Das Hiobprobiem und seine Losung, in « Wissenschaftliche Zeit. Univ. Halle » 12, 1963, 249-258. A nat M., The book of Job - The purpose of thè book and thè personality of thè author, in « Beth Mikra » 38, 1969, 23-35. Me K eating H., The centrai issue of thè book of Job, in « Exp. Times » 82, 1970/71 244-247. J ohnson L. D., Out of thè whirlwind. The major message of Job, Nashville 1971. Laurin R., The theological structure of Job, in ZAW 84, 1972, 86-89. R oberts J. J. M‫ ״‬Job and thè Israelite religious tradition, in ZAW 89, 1977, 107-114. A ttinger D., Linguaggi di morte, di vita, di amore (Rifles­ sioni sul libro di Giobbe), in « S e r v itiu m » 13, 1979, 119-128. S icari A., Chiamati per nome. La vocazione nella Scrittura; Milano 1979, pp. 81-104.

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sioni sia in sincronia, nel suo esito globale, sia nella sequenza diacronica del suo sviluppo genetico. È ciò che vogliamo fare ora cercando di procedere con­ temporaneamente lungo le due direttrici, quella del­ l'opera finita e quella delle singole stratificazioni. I risultati di quest’analisi possono essere così schem a­ tizzati. 1. La « leggenda-Giobbe » iniziale è ideologicamente piuttosto primitiva: in sette giorni dalla giòia all'in­ felicità. Tutto ciò avviene indipendentem ente dal­ l'uomo che resta giusto negli atti e negli atteggia­ menti, ma tutto avviene dipendentemente da Jahweh, istigato dal Satana. Il tema dominante è, quin­ di, l ’apparente assurdità della prova. 2. Davanti agli amici l'attitudine interiore di Giobbe subisce una metamorfosi. Il suo lamento (c. 3) non è consolato e liberato, ma colpito e giudicato. Esso si trasforma, allora, in rimprovero (cc. 6-7) e in attacco contro Dio (cc. 9-10). 3. La teologia a freddo degli amici si sviluppa su tre piani paralleli: per Elifaz è la fragilità creaturale e mortale la spiegazione del caso di Giobbe (cc. 4-5); per Bildad è la fragilità peccatrice a livello inconscio (c. 8), per Zofar è la fragilità peccatrice conscia (c. 11). Il teorema retributivo delitto-castigo è, perciò, formulato fin dal primo ciclo di dialoghi. 4. Dobbiamo ora esaminare la progressione teologi­ ca del secondo ciclo di interventi di Giobbe. La dichiarazione di fondo è la proclamazione dell'inno cenza davanti a un Dio che dovrebbe accettare un'istruttoria sulla questione (cc. 12-14), che dovrebbe essere vendicatore dell'ingiustizia (cc. 16-17), che dovrebbe porsi come avvocato del perseguitato (c. 19). In pratica Giobbe appella a Dio contro Dio stesso. 5. Ecco ora la progressione teologica degli amici nel secondo ciclo di interventi. La dichiarazione di fon­ do è ormai formalizzata: Giobbe è un peccatore. Si delinea, perciò, una fenomenologia etica del peccatoi S. E. S tockhammer , Job’s problem: faith and reason, in R. G ordis ed., Essays in Judaism, New York 1973, pp. 54-60.

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re descritto nel suo destino (Elifaz: c. 15), nella sua realtà generale (Bildad: c. 18); nella sua'realtà spe­ cifica, sperimentabile in Giobbe (Zofar: c. 20). 6. Ecco, invece, la progressione teologica di Giobbe nel terzo ciclo di interventi. Giobbe si muove lungo due versanti polemici. Polemizza contro gli amici ribaltando le loro tesi: l'empio è benedetto e felice, il giusto è colpito e abbandonato (c. 21). Polemizza contro Dio protestando contro la sua assenza e il suo silenzio (cc. 23-24) che ignorano la reiterata supplica dell'innocente (26,1-4; 27,1-6.11-12). 7. Parallelamente assistiam o a una progressione teo­ logica degli amici nello stesso terzo ciclo di discorsi. Anche essi si muovono in un ambito polemico, ma ovviamente orientato contro Giobbe. Elifaz specifica i peccati di Giobbe (c. 22), Bildad loda osten tam en e l'agire di Dio accusando im plicitam ente Giobbe (c. 25), Zofar, adottando l'ipotesi del giudizio di Dio sull'empio, smantella la precedente polemica di Giobbe sulla felicità dell'ingiusto (27,13-23; 24,18-24). 8. Il dialogo, ormai seriale, dev’essere spezzato. Solo un intervento personale di Dio potrebbe ricucirlo e risolverlo. Appare, allora, la manovra redazionale posteriore che introduce l'attuale c. 28. Cosciente dello scacco subito dalla teologia tradizionale, il re­ dattore ricorre a una soluzione di fede: è un inno alla sapienza insondabile di Dio la cui logica è accet­ tabile e comprensibile solo a livello di « timor di Dio », cioè di fede. 9. La trama dell'opera aveva, però un suo sbocco teologico indipendente rispetto al c. 28. È il dialogo che Giobbe apre nei cc. 29-31 e che indirizza al grande Assente, Dio. Il « giuramento d'innocenza » fa scattare il meccanismo automatico ed efficace dell'ordalia a cui Dio dovrebbe rispondere. 10. Il libretto di Elihu (cc. 32-37) è un'altra irruzione teologica dovuta alla corrente dei nouveaux sages insoddisfatti delle proposte ecclesiastiche ufficiali ma sempre ansiosi di salvaguardare il quadro teolo­ gico tradizionale. La sofferenza è pedagogia pu­ rificante ed esaltante l'uomo: questa è la nuova tesi avanzata da Elihu. Rinunciando a esaminare la radi­

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ce causale della sofferenza, si analizza piuttosto la sua finalità ottenendone una razionalizzazione non m olto più convincente di quella suggerita dagli ami­ ci precedenti. 11. La risposta di Jahweh (cc. 38-41) è per l'autore del dialogo la chiave di volta dell'opera e della suà ideologia. Dio mette concretamente sotto gli occhi di Giobbe un ordine del mondo, un ordine, però, mi­ sterioso e non decrittabile razionalmente. Il dolore, m assim o dei misteri cosmici, non può spiegarsi che in questo ordine superiore. Si aprono così due pos­ sibilità: o accettare nella fede quest'ordine e la sua oscurità, dato che è il Giusto per eccellenza che l'ha progettato, o sostituirsi a Dio, rifiutando in blocco il piano e tentando di disegnarne uno alternativo. In questa seconda via del dilemma Giobbe sarebbe coinvolto in una aporia perché dovrebbe giudicare se stesso e condannarsi: infatti è essenziale a un Dio giudicare e condannare il superbo che nella fattispe­ cie sarebbe proprio Giobbe stesso-uomo (40,11-14). 12. Un'espansione ulteriore nella soluzione ideologi­ ca del dramma sarébbe il secondo discorso di Dio (40,15-41,26), probabile aggiunta nella linea del primo intervento divino. La celebrazione della superiorità assolutamente insindacabile del progetto di Jahweh sulla storia e sul cosmo verrebbe qui confermata su un fronte di stampo più m itico e sim bolico. Dio con­ trolla e sottom ette Behemot e Leviatan, le due mas­ sime espressioni del nulla e dell'anti-creazione o del­ le superpotenze ribelli. A maggior ragione può con­ trollare e pianificare il m istero del male e della sofferenza. 13. Di fronte al dilemma fede-hybris Giobbe sceglie la prima via nell'adesione al m isterioso agire di Dio e nell'invocazione (40,3-5; 42,1-6). Accetta di convive­ re con la sua sofferenza in un mondo retto non da un titano-uomo ma da un Dio potente e m isterioso. La presenza di Jahweh, che il dolore gli ha permes­ so di sperimentare, rende accessorio il resto. La regìa assolutistica di Dio nel dibattito filosofico-teologico razionale sembrava solo arbitraria e demonia­ ca, la regìa misteriosa di Dio appare nella fede

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garantita da una meta-razionalità che la presenza ri­ velatrice divina ha fatto balenare. 14. La « leggenda-Giobbe » si chiude dopo‫ ׳‬la « grande interpolazione » dell'opera poetica centrale ed è un allegro happy end successivo alla prova. Certo, questa finale preesistente al corpo centrale allenta la tensione dell'intero scritto, ma è solo confrontandolo alla gioia che il dolore riesce a sve­ lare i suoi bagliori. Possiamo ora, dopo questa lettura teologica diacro­ nica e sincronica al tempo stesso, tentare un quadro sincronico più ampio. Sapendo che l’opera si presen­ ta come un sistema triangolare di relazioni al cui centro c'è l'uomo che s'interroga, dobbiamo passare in rassegna i tre vertici del triangolo, Dio, l'uomo e il dolore. Il mistero di Dio * Come chi, messosi in mare, su di una piccola barca, viene preso da un'immensa angoscia nell'affidare una minuscola imbarcazione all'immensità delle onde, così anche noi soffriamo mentre osiamo inoltrarci in un così vasto mare di misteri. (O rigene ,

In Genesim Homiliae 9,1; PG 12, 210).

* H awthorne R. H ., Jobine Theology, in « Bibliotheca Sacra » 101, 1944, 64-75. 173-186. 290-303. 417-433; 102, 1945, 37-54. P rado J ., La creaciòn, conservaciòn y gubiemo del universo en el libro de Job, in « Sefarad » 11, 1951, 259-288. S charbert J ., Die Vorwiirfe der alttestamentlichen Frommen an Goti, in « Bibel und Liturgie » 22, 1954-55, 259-264. T ournay R ., Le procès de Job ou l’innocent devant Dieu, in « V ie S p ir itu e lle » 95/2, 1956, 339-354. S tockhammer M., Das Buch Hiob. Versuch einer Theodizee, Wien 1963. Gordis R ., The book of God and Man, Chicago 1966. L évéQUE J., Job et son Dieu, Paris 1970 (2 voli.). Many G., Der Rechtsstreit m it Goti (,rib) in Hiobbuch, Miinchen 1970. H aag H ., Ijobs Fragen an Gott, Stuttgart 1972. H arris R. L., The book of Job and its doctrine of God, in « Grace Journal » 13/3, 1972, 3-33. Ausin S., La providencia divina en ■el libro de Job, in « Scrip­ ta Theologica » 8, 1976, 477-490. Ewing W. B., Job. A vision of God, New York 1976.

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In una recente intervista lo scrittore Sergio Quinzio, esponente d'una letteratura religiosa a tendenza « apocalittica », dichiarava: « C'è una fede quieta e soddisfatta che trova tutto pacificamente chiaro ed è subito pronta a scorgere una mancanza di fede là dove la fede si fa tesa, ardua. Non è quello che gli amici rimproverano a Giobbe e che i benpensanti aborrivano in Geremia? » 2. Giobbe, infatti, vuole proporre un’immagine di Dio autentica e non con­ venzionale, è « il Dio m isconosciuto dall'uomo vec­ chio » 3. Per questo dobbiamo subito dichiarare (e il dato sarà confermato nella lettura dell'opera) l'in­ sufficienza di una lettura unicamente « antropologi­ ca » o « antropocentrica » di Giobbe. Se è pure esat­ to accogliere come punto di partenza e come stru­ mento di analisi la drammatica e com plessa vicenda del protagonista, non si deve dimenticare che essa è funzionale rispetto all'indagme più propriamente « teologica ». E questo può essere rilevato a un duplice livello. Innanzitutto da un punto di vista letterario ed estrinseco. Dio è presente sempre nell'opera come atteso, come interlocutore desiderato anche se as­ sente, anche come parte in causa di uno scontro giudiziario: « Oh, potessi sapere dove trovarlo, po­ tessi arrivare fino al suo trono! Esporrei davanti a lui la mia causa e avrei piene le labbra di ragio­ ni! » (23,3-4).. Si può dire che Giobbe vive la sua prova « come una domanda su Dio ed è solo a Dio che vuole porla » 4. La stessa struttura del libro rive­ la questa tensione di fondo: la teofania e i discorsi di Jahweh finali sono la conseguenza logica e l’esito risolutivo del dialogo e della sfida che l’uomo-Giobbe lancia nel c. 31. Ma la centralità di Dio e della « teo­ logia » si rivela soprattutto dal punto di vista del­ l'organizzazione tematica e interna del libro. Infatti, come si vedrà, il suo significato non appare tanto quello di rendere ragione del m istero del dolore in 2 Nei teatri a parlare del « Dio che ritorna », in « Famiglia Cristiana » 17-12-1978, p. 52. 3 D. B arthélem y , Dio e la sua immagine, Milano 1975, p. 33. 4 J. L évéque , Sofferenza e metamorfosi. Una lettura del libro di Giobbe, in « Communio » n. 33, 1977, 4-16.

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sé preso quanto piuttosto quello di dire « cose ret­ te » (42,7) su Dio stesso di cui è m essa in gioco la credibilità. Il motivo teologico è l'ossatura che dona unità alle singole parti. In altri termini, la questione centrale dell'opera non è il « male di vivere », ma il come poter credere e in quale Dio credere nonostante l'assurdo della vita 5. Ciò non significa che Giobbe sia la canonizzazione d'una nuova discussione teolo­ gica e d'una nuova dogmatica, anzi gli attacchi più feroci sono riservati proprio alle sistematizzazioni e agli stereotipi della teologia ufficiale incarnata dagli amici. Questa rinuncia al « trattato » teologico on­ nicomprensivo non impedisce, però, a Giobbe di offrire una proposta teologica libera, nata dalla ri­ cerca e non dalla convenzione, dalla verità e non dall‫׳‬artificio 6. Infatti, come ha osservato giustamen­ te R. E. M urphy7, l'ambito di questa nuova pro­ posta non è tanto quello del dogma di fede quanto quello della « religiosità » esistenziale e dell'ortoprassi. Cerchiamo di seguire più concretam ente lo snodarsi di questo motivo teologico. Il racconto-cornice in prosa verte sulla verifica dell'esistenza in Giobbe d'una fede pura e totale. Il centro logico è nel versetto 1,9: « Forse che Giobbe tem e Dio per nul­ la? ». Il Dio m esso in scena da questo racconto popolare è un Dio che « scom m ette » sull'uomo, convinto di trovare in lui anche amore e gratuità e non solo una bieca religiosità d'interesse, e quindi, magica. Tuttavia questa interessante prospettiva è ancora inceppata nei meccanismi sorpassati della‘ teoria della retribuzione, il canone teologico fondamentale precedente alla crisi dell'esilio (VI sec.). Nell'ambito di questa crisi si colloca la successiva sezione poetica del volume. 5 Cfr. H. M cK eating , a.c., pp. 246-247 e R. L a u r in , a.c., p. 89. 6 Vedi W. V isc h e r , God's truth and m an’s lie, in « Interpretation » 15, 1961, 131-146; G. L arue , The book of Job: on thè futility of theological discussion, in « The personalist » 45, 1964, 72-79. 1 La littérature sapientielle de l'A.T., in « Concilium » 1/10, 1965, 1Ì1-112, in particolare p. 116.

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È noto che la logica sottesa a questa parte dell’opera non è né sistematica né « occidentale »: ad acquisi­ zioni apparentemente raggiunte si succedono in Giobbe nuovi momenti di vuoto e di sconforto; an­ che le argomentazioni degli amici perdono progres­ sivamente di lucidità immergendosi in affannose ri­ petizioni. In questa foresta di capitoli il discorso su Dio riceve due antitetiche formulazioni, quella degli amici teologi, cioè (per l’A.) quella dell'im plicita criti­ ca alla concezione tradizionale, e quella di Giobbe fondata sul suo particolarissimo e personale rapporto con Dio. Il punto di partenza di entrambe le analisi è fenomenico (e, in questo senso, antropologico): l'au­ tore parte dall'« uomo in quanto uomo » 8, ma lo studia per scoprire il senso radicale, senso che è teologico perché ricercato e racchiuso solo in Dio. La problematicità dell'esistenza della creatura è lega­ ta al problema di Dio. La teologia formulata dagli amici si riduce di fronte a questo quesito fondamentale a un sem plice « ra­ zionalismo etico ». La traduzione e l'osservazione sa­ pienziale delle realtà ci permettono, secondo tale prospettiva, di ricavare quelle regole di fondo neces­ sarie a spiegare il senso dell'esistere. Nasce, così, un « razionalismo teologico » dedotto dalla precedente analisi etica e proclamato sim bolicam ente nel do­ gma della retribuzione. Questo razionalismo è, però, m esso radicalmente in crisi daH'aporia della realtà stessa, dalla sua frequente, irrefrenabile e inspiega­ bile « irrazionalità ». I malvagi, infatti, sono felici e prosperano, « le loro case sono tranquille e senza timori; il bastone di Dio non pesa su di loro » (21,9). Salta allora la « razionale » interpretazione delle sofferenze di Giobbe: essa non può essere conside­ rata tranquillamente una « dossologia del giudizio divino » 9, né una mirabile paideia purificatrice ed elevante, come voleva il più sofisticato Elihu. È a questo punto che subentra l'attacco preciso di Giobbe. Egli rifiuta il teism o razionalistico e prepelagiano degli amici fortemente preoccupato di salvafi S. T erribn , 9 G. von R ad,

Job, N e u c h à te l 1963, p . 37. Là sapienza, in Israele, Torino 1975, p. 192.

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re la giustizia umana (4,17ss; 7,20; 9,2-3; 14,4; 15,14ss; 21,2; 25,4ss; 33,8-9; 35,5; 36,9; 40,4-5; 42,6) e appella all'assoluta libertà e giustizia di Dio 10, supe­ riori agli schemi in cui l'uomo cerca di ricondurle. Ed ecco, allora, l'esperienza teologica che Giobbe propone. Essa è autenticamente dialettica: celebra con passione il teocentrismo trascendentale a cui tutto deve essere convogliato, ma anche l'esaltante m istica del dialogo e della comunione ‫ ״‬. In Giobbe si manifesta un continuo alternarsi del desiderio di dialogo con il terrore del medesimo, l'attacco contro Dio può trasformarsi in preghiera (10,8). Attraverso questa fusione tra fascinosum e trem endum Giobbe trova « il modo giusto di parlare di Dio » e quindi il modo di impostare correttamente il rapporto con Lui. Per gli amici della sapienza classica si trattava solo di una questione di « leggi », di regole da indi­ viduare nel mondo e nella storia. Per Giobbe — che fa duplice riferimento all'esperienza della sua giovi­ nezza e alla visione di Dio mediata dal culto — il problema è quello della relazione personale con un Dio personale. Il problema è quello del comporre la dualità apparentemente dicotomica di un Dio che si scaglia su di lui e di uno stesso Dio benigno, protet­ tore del suo « autunno » sereno. L'esito finale di questi interrogativi e di questa im­ postazione della questione teologica appare nella 10 Terrien parla, perciò, nel suo commento (pp. 40-49) di ce­ lebrazione della sola gratia forse con un eccessivo salto er­ meneutico. Tuttavia l'esaltazione della giustizia libera di Dio è senz’altro un punto nodale della teologia di Giobbe. Per tutta la questione vedi P. H um bert , Le m odem ism e de Job, in VTS 3, 1955, 156-159; F . F estorazzi , L a sapienza e la storia della salvezza, in RivBib 15, 1967, 152-153; Id., Modelli inter­ pretativi della salvezza nella Bibbia, in RivBib 25, 1977, 251.

11 Non è del tutto esatto dire, come fa N. H. S n a it h (The book of Job. Its origin and purpose, London 1968, pp. 92-99) che il tema ultimo del libro è solo la trascendenza di Dio e l’assoluta impossibilità di contatto tra Dio e creatura. In­ fatti, questa proclamazione assolutamente vera è fatta pro­ prio attraverso il dialogo con Dio degli ultimi capitoli. Dio non resta per l'uomo un vuoto appellativo o un nome im­ pronunciabile o un Essere supremo da venerare ma anche si svela come colui che ha un 'esà, un « piano » preciso e salvifico sulla storia (38,2).

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grande teofania finale (cc. 38-41). Jahweh non giu­ stifica legalmente Giobbe ma lo am mette all'intimità del dialogo. Non è, perciò, la giustificazione di una teoria o di una prassi valida, ma il trionfo della fede nello spogliamento di sé e di ogni autogiustificazio­ ne. Dio parla all'uomo — in un m om ento in cui il riferimento alla storia della salvezza « qualificata » non aveva più la forza teologica di un tem po — attraverso il richiamo alla creazione che rimanda all'amore, alla sapienza e alla trascendenza di Dio. È una creazione che non si colloca però in una sfera astorica e generica; dall’esilio in avanti (Secondo Isaia) Israele considera infatti l’atto creativo come il primo gesto salvifico di Dio nei confronti deH’umamta. Attraverso questa via Giobbe riesce a identificare i tratti minimi ma salvanti del vero volto di Dio. Ed è solo in questa acquistata luce di fede che lo scanda­ lo del dolore può avere una collocazione non sem­ plicistica e banale come nelle riduzioni teologiche degli amici. La Gottesfrage di Giobbe è, perciò, da un lato la critici al teismo fondamentalmente ateo degli amici, è il rifiuto di una visione m oralistica della salvezza in cui non c'è posto alcuno per la grazia e dove l'amore di Dio è sostituito dal bisogno di garanzia e di sicurezza personale. Questa critica alla hybris metafisica che riduce la giustizia divina a una pro­ spettiva antropocentrica ci ricorda c h e . « la morale non può mai essere usata come la avenue epistem o­ logica della teologia » 12. Nasce allora, d’altro canto nella teologia di Giobbe una nuova visione di Dio di cui è celebrata innanzitutto la libertà, cioè la radica­ le misteriosità-alterità. Dio si rivela realmente al­ l'uomo nella teofania, ma non si consegna esaustivamente. Egli non si mostra per schiacciare, come 12 S. T errien , o.c., p. 46. « Agli interrogativi della creatura Dio risponde sempre con i diritti inalienabili della sua na­ tura e della sua potenza e quindi con quella sovrana li­ bertà con la quale crea e sconvolge il mondo » (G . L aur e n t in i , Giobbe, in Ultimi storici, Salmi, Sapienziali, Bolo­ gna 1978, p. 368; cfr. J. B ew er - E. G. K raeling , Literature of O.T., New York 1962, p. 335).

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supporrà poi Bloch, ma nemmeno abdica al suo essere Dio, chiamando l'uomo a una esperienza di dialogo ma solo attraverso il rischio della fede. Dio ha, perciò, un « primato » indiscutibile, ma non è un primato di « eccellenza » glaciale e distaccato. È una trascendenza carica di « sim-patia » nei con­ fronti della creatura. In questa luce si intuisce il valore del tema « mediatore » (go’el) che, come ve­ dremo, tanta parte occupa ·nella ricerca di Giobbe (9,32ss; 16,19-21; 19,25-26); l'uomo non può essere pontifex-go'el di se stesso. Deve attendere l'iniziativa dell'unico go’el, Dio, per pronunciare la parola riso­ lutiva e accogliere la salvezza offerta per grazia: Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono (42,5) 13. Proprio per la sua irriducibilità a schema teologico il Dio di Giobbe rivela una m olteplice variazione di rappresentazioni. Vorremmo scegliere un solo esem ­ pio piuttosto elementare, desunto dall‫׳‬onom astica teologica dell'opera per dimostrare questa varietà di approcci al mistero inesauribile di Dio. Sapendo che per l'orientale il nome divino costituisce un vero e proprio compendio cifrato di teologia, la pluralità dell'onomastica divina ha fatto sospettare agli esege­ ti la presenza di una pluralità teologica e non solo meramente stilistica e redazionale. M ettendo tra pa­ rentesi le rilevazioni statistiche dettagliate e le ana­ lisi genetiche dei vari titoli divini attraverso la sto­ ria della loro form ulazione14, elenchiamo subito il lessico « teologico » presente in Giobbe. Si tratta di nomi divini noti e rari, popolari e poetici. Elohim

: tipico del prologo, è raro nel poema (solo sei volte) El :ricorre solo nel poema Eloah :ricorre solo nel poema Sha.dd.aj :ricorre solo nel poema 13 Vedi A. von R ohr S auer, Salvation by grace: thè heart of Job’s theology, in « Concordia Theol. Monthly » 37, 1966, 259-270.

14 Un'ampia e particolareggiata analisi in J. L évéque , o.c., pp. 146-179.

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Jahweh : è presente solo nel prologo-epilogo e nel dialogo poetico finale Jahweh-Giobbe (38,1; 40,1.3.6; 42,1) 'Adonaj : ricorre solo nell’inno alla sapienza del c. 28 (v. 28) Kabbir («potente» o «antico»): è presente in 34,17 e 36,5 ’Ehad («unico»): è presente in 31,15 (e forse in 14,4) 'Eli («altissimo»): secondo im‫׳‬ipotetica ricostruzione di M. Dahood sarebbe presente in 7,20; 29,4; 36,30 Le’ («vincitore»): sempre secondo Dahood, ricorrereb­ be in 13,15; 14,4; 27,19; 33,14; 36,5.

Di fronte a questo elenco il lettore di Giobbe si sorprenderà innanzitutto per la rigorosa esclusione del nome specifico Jahweh dal corpus poetico cen­ trale. Una prima giustificazione del fenom eno può venire dalla stessa letteratura sapienziale che si propone come una riflessione generale sull’uomo se­ condo una prospettiva sostanzialmente « ecumenico-universalistica ». L'antropologia sapienziale, la questione del male, la stessa problematica teologica sono dati essenziali della riflessione di ogni uomo che vive sotto ogni cielo e non è m onopolio esclusi­ vo della teologia jahwistica. D'altra parte la stessa osm osi culturale con i circoli internazionali dei sa­ pienti, favorita da ricerche tematiche comuni e da moduli letterari paralleli, spiega ulteriorm ente que­ sta tendenza a evitare un'eccessiva specificità teolo­ gica. A ciò si aggiunge la scarsa presenza del nome di Jahweh nell’arco della letteratura biblica post-esilica: è assente in Ester e, in pratica, anche in Qohelet e nel Cantico, è sistem aticam ente soppresso nel « salterio elohistico » (SI 42-83), è in flessione nel­ l'opera storica cronachistica. Non bisogna poi esclu­ dere una sottile esitazione dovuta a scrupolo teolo­ gico, data l'arditezza quasi blasfem a di m olte espressioni usate da Giobbe. Il tetragramma sacro non doveva essere esposto alla valanga di accuse e di proteste che Giobbe scagliava contro il suo Dio irraggiungibile e muto. Altri interrogativi nascono, invece, dalla m olteplicità degli altri appellativi divini usati nel volume. I ten­ tativi per spiegare questo fenom eno sono stati m ol­ teplici e, talora, stravaganti. Così, per A. P. Drucker il libro di Giobbe non sarebbe che la dram m atizzazio­

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ne di una lotta intra-divina che avrebbe visto fronteg­ giarsi Jahweh e gli altri tre dèi sem itici, El, Eloah e Shaddaj, con vittoria finale « jahwistica » 1S. Basan­ dosi su Gb 40,1-2, ove Jahweh dice a Giobbe: « Il censore vorrà contendere con Sh addaj? L'accu­ satore di Eloah risponda! », e ignorando l’evidente parallelismo sinonimico del testo, B. D. Eerdmans ha distinto, invece, oltre a Jahweh. un Dio creatore El e un Dio tutelare e personale, Shaddaj 16. Per il norvegese T. Boman Jahweh è il Dio dell'amore, mentre Elohim /Eloah è il Dio arbitrario dalle com­ ponenti sataniche 17. J. Morgenstern ipotizza la pre­ senza nel mondo semitico nord-occidentale di una « sacra triade » composta da El-Eljon-Shaddaj (Nm 24,16) riedita da Giobbe nel trinomio El-Eloah-Shaddaj, nonostante il veto precedente della ri­ forma deuteronomistica che aveva imposto il solo Dio nazionale Jahweh. In questo caso Giobbe testimonierebbe un intenzionale arcaismo teologico erudito e folkloristico 18. Naturalmente queste e altre ipotesi non resistono a un accurato studio del testo di Giobbe e a una precisa sinossi delle applicazioni. Da una simile ana­ lisi balza evidente, al di là delle stratificazioni delle fonti che possono giustificare certe variazioni specifi­ che, un'estrema libertà nel celebrare la ricchezza del mistero divino proprio attraverso il pluralismo onomastico. Scrive giustamente G. von Rad: « Il nome di Jahweh ricorre nell'A.T. circa 6700 volte; ma Israele invocò spesso il suo Dio con l'appellativo Elohim (circa 2500 volte). Tale duplicità diede spun­ to, sin dai tempi antichi, a speculazioni teologiche di ogni genere. Certo, il nome di Jahweh implicava in sé la rivelazione salvifica; ma dal momento che Israele si rivolse spesso a quello stesso Jahweh con l'invocazione di Elohim, è affatto im possibile sfrut!5 A. P. Drucker, The book of Job, in « The Open Court » 49, 1935, 65-78. 16 B . D. E e rd m a n s , Studies in Job, Leiden 1939, pp. 16 e 24. 17 T. B om an , Jobs-problemet i lys av Guds navnene, in « Norsk Teologish Tijdskrift » 46, 1945, 92-112. 18 J. M orgenstern , El, Eloah, Shaddaj. Divine triade in biblical mitholo%y, in JBL 64, 1945, 15-37.

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tare sotto il profilo teologico ogni uso del nome proprio e dell'appellativo. I testi, inoltre, provengo­ no spesso (senza subire un'opera unificatrice sistem a­ tica) da cicli di tradizioni assai diverse, caratterizza­ ti da usi diversi, di cui ignoriamo le ragioni. Solo l'esegesi può decidere caso per c a s o ... In genere, là dove ignoriamo le ragioni dell'alternanza, conviene essere molto cauti nel giudizio » 19.

Il mistero dell’uomo * Senza nutrire l'irragionevole ambizione di salvare l’uo­ mo, noi per lo meno teniamo a servirlo. (A. C a m u s , Combat).

L'esperienza devastante del dolore e quella esaltante dell'incontro di fede con Dio sono le vie privilegiate attraverso le quali questo libro svela la sua antropo­ logia. È naturale, perciò, che il miglior ritratto del 19 G. von Rad, Teologia dell’Antico Testamento, I, Brescia 1972, p. 218. * De Pury R., Job ou l’homme révolté, Genève 1955 (trad. it. Giobbe, l'uomo in rivolta, ed. Claudiana). T h elen M. F., Job and thè biblical doctrine of man, in « Journ. Bible Religion » 27, 1959, 201-205. M ay H. G., Individuai responsibility and retribution, in « Hebrew Union Coll. Ann. » 32, 1961, 107-120. C arstensen R. N., Job. Defense o/ honor, New York 1963. B onnard P. E., Job ou l'homme enfin extasié, in « Lum. Vie » 13, 1964, 15-33. B ecker J ., Gottesfurcht im A. T., R o m 1965, p p . 242-249. Biò M., Le juste et l'impie dans le livre de Job, in VTS 15 1966, 33-43. Gordis R., The book of God and man, Chicago 1966. W ood J., Job and human situation, London 1966. Z im m e r l i W., Der Mensch und seine Hoffnung im A.T., Gòttingen 1968. D erousseaux L., La crainte de Dieu dans l'A. T., Paris 1970, pp. 328-337. F aur J., Reflections on Job and situation morality, in « Judaism » 19, 1970, 219-225. M aston T. B., Ethical content in Job, in « Southwestern Journ. Theol.» 14, 1971, 43-56.

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Job, thè biblica! m a n 20, sia da rintracciare proprio nella lettura del testo secondo queste due direttrici. Noi tracciamo ora solo un bilancio provvisorio senza entrare nei dettagli, senza tentare una comparazione col bagaglio precedente della speculazione antropologica della Bibbia e dell'Antico O riente21 e senza anticipare ·il discorso più specifico che svolgeremo sul m istero del dolore. G io b b e ,

la s t o r ia

d'u n

uomo

Se l'autoritratto più vivo dell'uomo Giobbe è da ricercare nei cc. 29 e 3 1 22 che hanno proprio lo stile del disegno etico di una personalità, è facile rin­ tracciare nel resto dell'opera un abbondante m ate­ riale antropologico dal quale è possibile estrarre anche schemi rappresentativi globali. Le aree simbo­ liche fondamentali sono sostanzialmente tre e sono profondamente connesse tra loro così da costituire delle vere e proprie costellazioni simboliche. La prima sfera è dominata dai sim bolism i « me­ tafisici » della fragilità: « L'uomo, nato di donna, è breve di giorni e sazio di inquietudine » (14,1). A questo settore appartengono le splendide metafore « edilizie » dell'argilla (« abita case di fango e nella polvere ha fondamento » 4,19; cfr. 10,9), quelle « ve­ getali » del « fiore che spunta e avvizzisce » (14,2), quelle zoomorfe del « verme » (« l'uomo, questo 20 L'espressione è il titolo di un articolo di A. Neher, Job, thè biblical man, in « Judaism * 19, 1970, 325-338. 21 Per una breve sintesi generale vedi A. G e l in , L'homme selon la Bible, Paris 1962 e H. W. W olff , Antropologia del­ l'Antico Testamento, Brescia 1975. Per l'Antico Oriente ve­ di G. P ettinato , Das altorientalische Menschenbild und die sumerischen und akkadischen Schópfungsmythen, Heidelberg 1971; L. C a g n i . Creazione e destinazione dell'uomo secondo i Sumeri e gli Assiro-babilonesi, in L'uomo nella Bibbia e nelle culture ad essa contemporanee, Brescia 1975, pp. 9-25; G. G a r b in i , L’uomo nell'Antico Oriente: semantica di un modo di esistere, ibid., pp. 27-34. 22 Cfr. A. Caquot, Traits royawc dans le personnage de Job, in Maqqél Shaqqédh, Montpellier 1960, pp. 32-45; G. F ohrer , The righteous man in Job 31, in Essays in O.T. ethics, New York 1974, pp. 1-22.

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verme, l'essere umano, questo bruco », 25,6; cfr. 17,14; 21,26). La seconda zona è riservata ai sim bolism i « etici » della corruzione: « Può il mortale essere giusto da­ vanti a Dio, innocente l'uòmo davanti al suo creato­ re? » (4,17). Le categorie qui usate sono meno pitto­ resche ma più « tecniche ». L'uomo è definito « na­ to di donna » (15,14; 25,4), espressione che è certa­ mente orientata verso il tema della caducità (Sir 10,18) ma che evoca un'impurità m isteriosa, come suggerisce nei due passi il nesso con l'aggettivo « puro ». L'uomo è « immondo »: « chi può trarre il puro dall'immondo? Nessuno » (14,4). L'uomo è nit'ab e ne’elà (15,16). I due aggettivi evocano due simboli piuttosto realistici: il p rim o23 sottintende la reazione istintiva psico-fisica di fronte a qualcosa di ripugnante e disgustoso, il secondo, invece, letteral­ mente significa « acido », « alterato » (SI 14,2; 53,4) e indica perciò una sopravvenuta corruzione o de­ formazione. Il terzo campo simbolico è tipico della letteratura semitica ed è di tipo « comparativo ». Esso si svi­ luppa secondo uno stilema abbastanza costante: a un interrogativo retorico viene accompagnato un ar­ gomento a fortiori. Vediamo tre esempi estrem am en­ te significativi. 4, 17-19 interrogativo

argomento a fortiori

17 Può il mortale essere giusto da­ vanti a Dio o innocente l'uomo davanti al suo creatore? 18 Ecco, dei suoi servi egli non si fida e ai suoi angeli imputa difetti; 19 quanto più a chi abita case di fango, che nella polvere hanno il loro fondamento!

23 P. H u m bert , Le substantif to'ebà et le verbe t'b dans l'A.T., in ZAW 72, 1960, 217-237. Cfr. anche R. L ack, L’image symbolique littéraire dans la Bible, in Symbolisme et théologie, « Sacramentum » n. 2, Roma 1974, pp. 137-149; AA.VV-., Le symbole. Colloque International du 4 au 8 fevrier 1974 Université des Sciences humaines de Strasbourg, in « Rev. Sciences Rei. » 49, 1975, nn. 1-2. Il simbolismo nell'A.T. è esa­ minato da Th. C hary (pp. 87-100).

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15, 14-16 interrogativo

14 Che cos'è l'uomo perché si ri­ tenga puro, perché si dica giusto un nato di donna?

argomento a fortiori

15 Ecco, neppure dei suoi sànti egli ha fiducia e i cieli non sono puri ai suoi occhi; 16 quanto meno un essere abomine­ vole e corrotto, l'uomo che beve come acqua l’iniquità. 4 Come può giustificarsi un uomo davanti a Dio e apparire puro un nato di don­ na?

25,4-6

interrogativo

5 Ecco, la luna stessa manca di chiarore e le stelle non sono pure ai suoi occhi; 6 quanto meno l’uomo, questo ver­ me, l'essere umano, questo bruco!

argomento a fortiori

G io b b e ,

la

s t o r ia

d'u n

credente

Un tratto nella fisionomia di Giobbe è così limpido da rasentare l'evidenza: egli è un credente in ogni istante della sua storia drammatica. La definizione « servo di Dio » col suo valore biblico di adesione e di amore è la sintesi efficace del personaggio (1,8; 2,3; 42,7-8). Giobbe non può abbandonare mai, anche nell'abisso della desolazione, il parametro di giudizio della fede. Egli è cosciente che l'uomo col suo m istero non è all'origine di se stesso, non è capace di « autoporsi » né di tenere tra le mani la sua vita perché subito gli sfuggirebbe (7,6). È solo Dio che « ha in mano l'a­ nima di ogni vivente e il soffio di ogni carne uma­ na ... Se egli demolisce, non si può ricostruire, se imprigiona, non ci si può liberare. Se trattiene le acque, tutto si secca, se le lascia andare, devastano la terra » (12,10.14-15). Perciò Giobbe è affascinato dalla m isteriosità e per­ sino dalla gratuità del creato: egli non può neppure sapere « quando figliano le camosce » (39,1), come

Il mistero dell'uomo

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potrà allora decifrare il senso della intera, immensa massa di misteri che la realtà contiene? . In Giobbe c'è, quindi, una « giustizia » nei confronti di Dio che è una proclamazione serena o disperata di sudditan: za. « Nudo uscii dal seno di mia madre e nudo vi farò ritorno. Il Signore ha dato, il Signore ha tolto: sia benedetto il nome del Signore » (1,21). È la co­ scienza di essere alla radice una creatura amata, di non essere solo frutto di un'azione divina esauribile nello schema « causa-effetto », ma di essere una realtà viva contrassegnata da un particolare rappor­ to d'amore col Creatore. « Le tue mani mi hanno fatto e plasmato integro in ogni parte ... Come argil­ la mi hai plasm ato... M'hai colato come latte, m'hai fatto coagulare come cacio. Di pelle e di carne mi hai rivestito, d'ossa e di nervi mi hai intessuto. Vita e benevolenza mi ha concesso e la tua premura ha custodito il mio spirito » (10,8-12). « Dio dona al­ l'uomo assieme alla vita il hesed, cioè la possibilità di avere con Lui un'intimità meravigliosa, la quale sola può portare la vita umana alla sua pienezza » 24. Da questa convinzione nasce il contrasto stridente della situazione reale ultima di Giobbe: come conci­ liare questa indiscutibile « benevolenza » di Dio col dolore che ha invece il sapore dell'odio e del di­ sprezzo? Perché Dio instaura con l'uomo un rappor­ to di hesed per poi infrangerlo con un rapporto di persecuzione? La domanda è prettamente teologica ma ha un risvolto intensamente antropologico: si tratta di ricomprendere l'uomo alla luce di una ricomprensione di Dio e la creatura umana sarà spiegata solo dalla esplicazione del suo rapporto con Dio. E la dialettica dell'opera sarà proprio quella di ritrovare questa spiegazione senza ricorrere ai ‘ trucchi ‫ ׳‬presuntuosi degli amici. Convinto che Dio è sempre « giusto » in quanto il fondamento della giustizia è solo in Lui, Giobbe sente il bisogno di ricomprendere il proprio concetto di giustizia, m es­ so in crisi dalla prova, così da adeguarlo a quello divino. E qui si nota l’originalità della soluzione di Giobbe ** J. Lévéque, o.c., p. 316.

Il m istero dell'uomo

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rispetto a quella degli amici. Entrambi sono concor­ di su un punto: la creaturalità umana presuppone Una differenza « ontologica » tra la creatura e il Creatore, Dio e uomo sono qualitativamente diversi. « Davanti al Creatore la creatura stessa sta a mani vuote. Non basta: quando l'uomo viene a trovarsi veramente al cospetto della santità di Dio, proprio allora si sente schiacciato dalla coscienza d'essere insufficiente e colp evole... La sublimità assoluta di Dio santo si eleva sopra tutti gli altri esseri, e la distanza incolm abile che lo separa da questi è tanto grande che neppure gli angeli che stanno al suo servizio sono così puri e incensurabili da poter godere la sua fiducia illim ita­ ta » Ma da questa base comune si hanno esiti ben diffe­ renziati. Per gli amici di Giobbe l'uomo è intrinse­ camente cattivo, peccatore quasi per natura, per cui è assurda la sua pretesa di essere giusto davanti a Dio. Giobbe invece, pur ammettendo l'incapacità « naturale » dell'uomo di rapportarsi correttamente a Dio, riconosce però che per « grazia » questo è possibile. Infatti, « quando Giobbe insiste nella sua giustizia e nell'integrità del suo rapporto con Dio, non si ritiene certamente senza peccato (14,4; 9,2); presuppone solo un rapporto di condiscendenza di grazia da parte di Dio verso l'uomo, che da parte sua egli non ha troncato con un rifiuto » 26. Agli amici Giobbe rinfaccia che se l'uomo vuole salvarsi non deve cercare di « salvare » Dio e di giustificarlo costringendolo entro schemi che sono solo umani e irrispettosi del mistero. Devé invece accettare se stesso e accettare Dio nella rispettiva autenticità pro­ fonda.

G io b b e ,

la s t o r ia

di u n

so fferen te

Con quest'ultimo fondamentale aspetto entriamo in una dimensione decisiva dell'opera, una dimensione A. W e ise r , Giobbe, Brescia 1975, p . 77. “ G. von R ad, Teologia dell'A.T. cit., I, p. 466.

25

Il mistero del dolore

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che meriterà di essere esaminata in modo a sé stante. La sofferenza dell'uomo di Uz va al di là di un fenomeno psico-fisiologico pur rilevante: essa è soprattutto espressione dell'uomo ridotto alla sua essenzialità, definito nella sua umanità limitata, essa è provocazione e tentazione per l'assurdo e la dispe­ razione. In essa è messa in gioco la schiettezza della fede, ma essa è anche il rischio positivo, la via privilegiata in cui si scopre Dio in una forma più libera e meno « economica ». Giobbe da questa provocazione uscirà vincitore. In­ vitato a fare l ’esperienza del mistero di Dio proprio attraverso quella « radicalità dell'essere uomini che è il dolore » (D. Bonhoeffer), Giobbe recupera il sen­ so autentico di Dio e il senso stesso della sua soffe­ renza, cioè della sua umanità. Alla fine Giobbe può riconoscere la « sensatezza » dell'amore di Dio an­ che nella via impervia del dolore, anzi, soprattutto nella via dell'uomo ridotto alla sua essenziale purez­ za com'è l'uomo sofferente. E allora a chi vorrebbe educarlo alla fede in un Dio che ha troppi tratti umani Giobbe proclama che « la stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini e che la debolezza di Dio è più forte degli uom ini» (1 Co 1,25).

Il mistero del dolore Il dolore si potrebbe definirlo ignobile, se vi fosse qualcuno che ne avesse la responsabilità. S. F reud

« La sofferenza sorge come enigma quando non può più essere inglobata dall'esigenza di giustizia; questo enigma è il prodotto della stessa teologia etica; è per questo che la virulenza di Giobbe non ha equi­ valente in nessuna cultura; il lamento di Giobbe suppone la piena maturità d'una visione etica di Dio; più Dio diviene chiaro come legislatore, più

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Il mistero del dolore

diventa oscuro come creatore; l'irrazionalità della potenza compensa la razionalizzazione etica della santità; ecco che diventa possibile riversare l'accusa contro Dio, il Dio etico dell’accusa; allora si scopre il compito insensato di giustificare Dio: è nata la teodicea ». Le parole di R icoeur27 centrano una questione fondamentale: la riflessione sul m istero del dolore nasce con la nozione di un Dio « etico ». Anzi, la crisi teologica che scaturisce dall'esperienza del dolore spesso (è anche il caso di Giobbe) non mette in causa la fede in Dio quanto piuttosto la concezione della sua giustizia. Ora, l'eticizzazione di Dio e dell‫׳‬uomo in Israele era avvenuta con l'acqui­ sizione della categoria « alleanza ». È per questo che Giobbe attacca la teologia tradizionale ufficiale per­ ché essa era fondata sulla fedeltà e sulla giustizia di Dio, cioè sui dati « etici » che nella questione della sofferenza vengono m essi in discussione e saltano o s'incrinano paurosamente. Prima di entrare nel vivo della proposta di soluzio­ ne, o meglio, della nuova impostazione avanzata da Giobbe, vorremmo però tentare un quadro delle vie percorse dal pensiero umano, filosofico e teologico, e dalle varie religioni per cercare di « giustificare Dio » e di difendere l'uomo da questo ordigno esplo­ sivo che è il mistero del male. Condurremo sostan­ zialmente tre inchieste, ovviamente m olto ridotte e forse solo indicative: la prima, più teorica, cercherà di isolare le strutture più o meno costanti del pen­ siero umano; la seconda, direttamente biblica, com­ pirà qualche sondaggio significativo nell'arco della rivelazione ebraico-cristiana; la terza darà origine a un intero capitolo, quello conclusivo, col quale definiremo la posizione e la funzione esercitata da questa collezione di « canti della notte », come H. M. King ha definito Giobbe u. Naturalmente il m iste­ ro del dolore è da considerare continuamente come il trait-d'union tra i due m isteri già enunciati, quelli di Dio e dell'uomo. 27 P. R icoeur , La symbolique du mal, Paris 1960, p p . 292-293. 28 H. M. K in g , Songs of thè night. A study of thè book of Job, Gerrards Cross 1968.

Il mistero del dolore R

if l e s s io n e

umana

71 e

d o lo r e

*

Il dolore è il banco di prova della fiducia in Dio e nella vita. Affiora subito la domanda: che Dio in­ comprensibile, insensibile è questo Dio che, tenen­ dosi al di sopra della sofferenza umana lascia che l'uomo si dibatta, lotti, protesti, perisca o semplicemente si rassegni e muoia? Scriveva J. Cotureau: « Non credo in Dio. Se Dio esistesse, sarebbe il male in persona. Preferisco negarlo piuttosto che addossargli la responsabilità del male ». I. Bashevis

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Il m istero del dolore

Singer, il Nobel 1978 della letteratura, m assim o esponente della letteratura jiddish moderna, così descrive la formazione culturale e religiosa del suo Mago di Lublino: Per tre anni aveva studiato con i suoi maestri le opere cabalistiche; sapeva già che il male era soltanto Dio il quale diminuiva se stesso per creare il mondo, affinché potesse essere chiamato Creatore e avere com­ passione delle sue creature. Come un re non può fare a meno di avere sudditi, così un Creatore deve creare, un benefattore deve avere beneficati. Entro uesti limiti, il Signore dell'universo doveva dipenere dai suoi figli29.

S

Di fronte alla propria vecchiaia, Sim one de Beau­ voir, la compagna di Sartre, chiude il terzo volume di memorie La -forza delle cose (1963) con uno sguardo retrospettivo sulla vita da essa appassiona­ tamente accettata: Eppure, come sempre, detesto annientarmi. Penso con malinconia a tutti i libri letti, ai luoghi visitati, al sapere che ho accumulato e che non sarà più. Tutta la musica, tutta la pittura, tanti luoghi, e aH'improvviso, niente... Se almeno fosse servito ad arricchire la terra; se avesse generato... che cosa? un razzo? Ma no. Non succederà nulla. Rivedo la siepe di noccioli che il vento cullava e le promesse di cui ardeva il mio cuore quando contemplavo ai miei piedi questa miniera d'oro: tutta una vita da vivere. Le promesse sono state mantenute. Eppure volgendo uno sguardo incredulo su quella credula adolescenza, posso ren­ dermi conto, stupita, fino a che punto sono stata de­ fraudata.

Siamo allora tutti dei defraudati? O c'è un senso, non soltanto per la giovinezza, ma anche per la vecchiaia, non soltanto per i tempi felici ma anche per quelli oscuri e oppressi dalla sofferenza? Il tentativo di rispondere a questi e a sim ili interro­ gativi, cioè la teodicea, è con ogni probabilità la 29 I. B. S inger , Il mago di Lublino, Milano 19794, p. 193.

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prima forma di teologia. Lo sforzo di comporre il male e Dio in un'armonia razionale è uno dei primi stim oli che spinge la riflessione teologica e filosofica a costruirsi un sistema, come testim onia la docu­ mentazione letteraria della « tradizione-Giobbe » egiziana e mesopotamica che in seguito esamineremo. Lo status quaestionis è posto con eccezionale ma scettica lucidità da Epicuro in un frammento con­ servato da Lattanzio nel suo De Ira Dei (c. 13; PL 7,121): Deus aut vult tollere mala et non po test aut potest et non vult aut et vult et potest. Si vult et non potest, imbecillis est, si potest et non vult, invidus, si neque vult neque potest, et invidus et imbe­ cillis est, si vult et potest, quod solum Deo convenit, unde ergo sunt mala? Aut cur illa non tollit? In sintesi: se Dio vuole togliere il male e non può, è debole; se può e non vuole, è ostile nei confronti dell'uomo; se non vuole e non può, è ostile e debole; se vuole e può, perché esiste il male e perché esso non viene eliminato da Dio? Di fronte all'ultimo dilemma, l'unico proponibile in una corretta conce­ zione di Dio, quali soluzioni ha proposto la storia del pensiero teologico e filosofico ?Tentiamo di trac­ ciare un abbozzo di questo drammatico itinerario percorso dall'uomo. La grande tentazione dualistica Per la sua forte carica semplificatrice questa tenta­ zione è quasi una costante nella speculazione sul m istero del m ale30. Nasce a livello popolare dove ha trovato e trova un humus fertilissim o che le per­ mette di allignare e di trasformarsi in un sottobosco » J. B owker , « Dualism, duality and thè unification of experience », in o.c., pp. 269-291.

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Il mistero del dolore

lussureggiante. Il male sarebbe prodotto da energie negative, spesso personificate, che si oppongono con successo al piano delle divinità maggiori. Queste forze negative possono essere controllate e persino neutralizzate attraverso esorcismi, rituali apotropai­ ci, procedure magiche, culti espiatori. Una massa di documenti in questo senso ci proviene dai rituali mesopotamici Maqlù e Shurpu, dalle parallele cele­ brazioni magiche ed escatologiche egiziane (Il libro dei Morti) 31, dall'attuale revival del neo-demonismo e delle sette magico-misteriche e apocalittiche32. La proposta dualistica viene formalizzata a livello colto da alcuni fenomeni religiosi qualificati. La reli­ gione mesopotamica ufficiale introduce spesso, ac­ canto a divinità prevalenti positive (ad es. Marduk), divinità negative responsabili del male come Nergal o Irra. La storia resta così spartita tra due sfere d'influenza contrastanti, dominate rispettivamente da due poli teistici opposti. La celebrazione più alta e sofisticata del dualismo metafisico si realizza col parsismo persiano di Zaratustra: la storia è un campo di lotta tra Ahriman, dio del Male, e Ahura Mazda, il Dio del Bene 13. La categoria dualistica riappare nell'era cristiana con quel complesso feno­ 31 Vedi G. R. C astellino , Testi sumerici ed accadici, Torino 1977, pp. 331-378; 519-725; S. D onadoni, Testi egizi, Torino 1970, pp. 213-216; 347-364; 545-552; J. N ougayrol, « La religione ba­ bilonese », in Storia delle religioni a cura di H. Ch. Puech, II. Bari 1977, pp. 31-34. 32 Si pensi che nel 1961 un ricercatore austriaco registrava in un suo Dizionario delle Chiese e delle sette cristiane 2659 for­ mazioni comunitarie o settarie, senza tener conto del numero incalcolabile di movimenti analoghi che si sono spenti du­ rante i vari secoli del Cristianesimo. Nella linea dualistica si collocano anche certe impostazioni della « questione dia­ bolica »: vedi H. Haag, La credenza nel diavolo, Milano 1976 con ampia sintesi dei vari problemi posti dalla discussa credenza nel diavolo. 33 Vedi J. D uchesne -G u il l e m in , La religion de l’Iran ancien, Paris 1962 (con bibliografia). Ovviamente diverso è il « dua­ lismo giovanneo » o quello di Qumran, impostato non a li­ vello metafisico ma soteriologico. Il rigido monoteismo bibli­ co fungeva da forte deterrente per una scelta dualistica me­ tafisica. Cfr. P. von der O sten -S ackern, Gott und Belial. Traditionsgeschichtliche Untersuchungen zum Dualismus in den Texten aus Qumran, G o ttin g e n 1969.

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meno gnosticheggiante che fu il Manicheismo, legato al personaggio quasi mitico di Mani il Vivente, nato nel 216 e « crocifisso », cioè martirizzato tra il 274 e il 277M. Il Dio cattivo dell'Antico Testamento ha il suo bifronte positivo in Cristo, Dio buono della Nuova Alleanza. Il fascino esercitato dal manicheismo anche su inteilettuali come Tertulliano e Agostino, sia pure sotto forme degenerate come quella marcionita o montanista, testimonia l'intensità del suo influsso culturale. Seguire le sopravvivenze e le rifioriture del dualismo non è facile a causa delle ramificazioni allegorico-simboliche sotto cui si è spesso celato per evitare i rigori dell'ortodossia cristiana: si pensi ai mazdakiti iraniani, ai pauliciani armeni e bizantini, ai bogomili bulgari e a quell'importante sistem a cuiturale che fu il Catarismo coi suoi derivati (Patarini, Albigesi, Gioacchino da Fiore, etc.). Il retribuzionismo Collocata a livello più etico e antropologico che teologico, la teoria della retribuzione che tanta fortuna avrà nella tradizione biblica, è in pratica una tecnologia morale: « la giustizia della retribuzione è un meccanismo azionato in modo che la somma “ algebrica '‫ ׳‬dei piaceri e delle pene ritorni, dopo un giro di ruota, a zero » 35. In altri termini, potremo dire che il binomio negativo peccato-dolore (male) e quello positivo giustizia-felicità, verificabili già nell'ambito terrestre o demandati a quello escatologico, sono l'asse attorno a cui si snoda il senso della ripartizione della gioia e del dolore, del bene e del male. Accettato da quasi tutte le religioni « morali », il dogma della retribuzione entra trionfalmente nel mondo semitico agli inizi del secondo m illennio con la cultura babilonese ed egiziana (Impero Medio) 36. 3* H. Ch. PUECH, « Il manicheismo », in Storia delle religioni, voi. V ili, Bari 1977, pp. 161-277 (con ampia bibliografia). 35 P h . N e m o , Job et l’excès du mal, Paris 1978, p. 86. 36 G. M en sc h in g , Vergeltung, in « Die Religion in Geschichte

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Il mistero del‫ ־‬dolore

Suscettibile di una serie di modificazioni e di perfe­ zionamenti, passa dalla forma « collettiva », per cui gli innocenti soffrono per solidarietà corporativa col popolo peccatore, a quella « pedagogica » espressa nel libro di Giobbe da Elihu, da quella « ritardata », per cui l ’equilibrio dei binomi già indicati può esse­ re dilazionato (Gb 20; 27,13-23), a quella escatologica (Sapienza). Nella Bibbia il retribuzionismo è un pat­ tern della teologia sapienziale classica a cui offre un'interpretazione dell'azione divina nel mondo e nella storia: i Proverbi ne sono la testim onianza più viva, mentre Giobbe e Qohelet ne sono la critica più violenta e serrata37 e gli amici di Giobbe la perfetta e ostinata riproposizione canonica38. Una riproposi­ zione che durerà fino all'era cristiana: emblematica è la frase dei discepoli davanti al caso del cieco nato « Chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché egli nascesse cieco? » (Gv 9,2). Anzi, la soluzione retribuzionista è presente persino nell'ambito delle Upanishad induiste. Nella più anti­ ca Brihad-aranyaka Upanishad (4,4,5) si legge: « Secondo come agisce, secondo come si comporta l’uomo realizza il suo destino. Chi agisce bene diventa bene, chi agisce male diventa male. Si diventa virtuosi con virtuose azioni, cattivi con cattive azioni... La vo­ lontà è fatta secondo il desiderio, l’azione (karma) secondo la volontà ». und Gegenwart », III ed., VI, 1341-1346; J. J. S t a m m , Das Leiden Unschuldigen in Babylon und Israel Ziirich 1946; J. P ir e n n e , La religion et la morale dans l'Égypte ancienne, Neuchàtel-Paris 1965. 37 Vedi K . K o ch , Gibt es ein V ergeltungsdogma im A.T.?, in ZThK, 52, 1955, 142; J. S c h a r b e r t, Das Verbum PQD in der Theologie des A.T., in « Biblische Zeitschrift » 4, 1960, 209-226; E. P a x , Studien zum V ergeltungsproblem der Psalmen, in Stud. Francisc. Liber Annuus » 11, 1960-61, 56‫־‬ 112; F. H o r s t, Gottes Rechi, Miinchen 1961, pp. 286 ss.; G. F o h r e r e U. W ilc k e n s , Sophia, in « Theol. Wòrt. N.T. » 7, Ì964, 465-529; R. L a p o in te , Foi et verifiabilité dans le langage sapientiel de rétribution, in Bib 51, 1970, 349-368; E. W u r th w e i n - H . P r e is k e n , Misthós, in « Grande Lessico del N.T. » 7, 1971, 353-444; P. P . Z e ra fa , Rétribution in thè O.T., in « Angelicum » 50, 1973, 464-494. 38 T. H. R obinson , Job and its friends, London 1954; B. U lanov . Job and his conforters, in « The Bridge » 3, 1958, 234-268; H . P . Muller, H iob u n d scine Freunde, Z U ric h 1970.

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Ora il concetto di karma (« azione », dalla radice kri, « fare », « costruire ») è il risultato logico di un nesso causa-effetto e ciò vale anche neH’ambito mo­ rale per cui anche per l’Induismo la retribuzione è un dato indispensabile39. Il pessim ismo integrale Nel Mito di Sisifo Camus scriveva: « C'è un solo problema véramente importante per la filosofia, il suicidio. Decidere cioè se valga la pena di vivere o no ». La radicale proposta di Camus ha un suo sbocco negativo in molte correnti di pensiero che, semplificando uno dei termini del problema (il be­ ne), ne eliminano la stessa ragion d'essere. La tesi di fondo del pessimismo integrale è minimalista: la realtà di sua natura è male. Le ragioni invocate dai miti pessim istici sono m olteplici e spesso sug­ gestive. Per i miti babilonesi cosm ogonici (Enuma Elish) l'essere umano e cosmico è originato dal dio malvagio (Tiamat o Qingu) sconfitto durante un con­ flitto intradivino. Per la preistoria indo-europea e per la teogonia ca­ nanea il mondo nasce da un mostro vinto che conti­ nua a dibattersi e a operare. Per certe correnti del platonismo e del neoplatonismo la materia è m e­ tafisicamente cattiva e le anime sono in essa impri­ gionate per debolezza o leggerezza (som a - sèma, « corpo - tomba »). Per la religiosità greca antica e popolare e per quella romana il mondo e la storia sono un groviglio inestricabile di contraddizioni e un gioco irresponsabile dell’Ananke-Fato 40. Per il Buddismo tradizionale del « piccolo veicolo » il tra­ gico « velo di Maya » imposto alla realtà la rende apparentemente negativa: il tema sarà ripreso dalla filosofia di Schopenhauer 41. Vedi G. M e n s c h in g , Die Bedeutung des Leides im Buddhismus und Christentum, 19302; G. P a r r in d e r , Le Upanishad, la Gita e la Bibbia, Roma 1964, pp. 99-109; J. B o w k e r, o .c ., pp. 193-236. 40 H . D ie ls , Der antike Pessimismus, Berlin 1921. « Vedi J. B owker , o . c ., pp. 237-268. Per Schopenhauer, H. KONG, Dio esiste?, Milano 1979, pp. 399 ss. 39

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Spesso il pessimismo integrale nasce da un edoni­ smo deluso. Significativo è il caso dell'epicureismo popolare: partendo da ima ricerca sistem atica del piacere e imbattendosi nel dolore, realtà inelimina­ bile, l'epicureo piomba nella delusione più estrem i­ sta. L’ottim ism o integrale Sotto segno opposto si colloca la soluzione che vede nel male un non-essere e come tale un dato solo concettuale ma inesistente nella realtà. Se si ha il coraggio di eliminare questo pseudo-essere squar­ ciandone il velo solo apparentemente palpabile e scoprendone l'inconsistenza, allora si vedrà che la vera realtà è solo la pace olimpica della divinità in cui siamo immersi. In questa linea si collocano ne­ cessariamente le religioni e le ideologie a matrice panteista come lo stoicism o42 o il Brahamanesimo per il quale il mondo è illusione, maya, in cui il dolore altro non è che l'esperienza stessa dell'esistere personalmente. In questo caso il m istero del male è cancellato dalla presa di coscienza dell’unità pro­ fonda con l'Assoluto, Yadvaita43. E l'atteggiamento sotteso anche a certe preghiere del m isticism o gno­ stico esem plate sul modello Tu sei Io, sigla di iden­ tificazione tra creatura e divinità. Con una certa riduzione possiamo porre in questa prospettiva anche Nietzsche: per il celebre e discus­ so filosofo tedesco la questione del male appartiene ancora e soltanto alla « morale degli schiavi », al di là della quale e contro la quale si staglia il godim en­ to intatto del Super-uomo. Le soluzioni evoluzioniste È stato ancora Nietzsche a definire l'uomo « un animale non ancora completo ». In questa luce il c M. P o h len z , Die Stoa, Gòttingen 1955-59 (vers. it. Firenze 1979). 43 Vedi J. V arenne , « La religione vedica », e A. M . E snoul / « L'induismo », in Storia delle religioni cit., voi. 13, Ban 1978.

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dolore che colpisce l'uomo appare come il residuato inevitabile di un mondo in costruzione e di un uomo ancora bambino e in crescita, quindi fragile, acerbo e malato. Dio ha creato il mondo imperfetto. 0 , se si vuole, la realtà si autopone in una forma fetale e immatura che dev'essere superata e completata at­ traverso la dinamica evolutiva del progresso umano e delle energie cosmiche. Sarà questo sviluppo lo strumento progressivo di eliminazione del male. Le varianti in cui si manifesta questa visione del pro­ blema del male offrono una gamma differenziata di sfumature che vanno dall'umanesimo contempora­ neo ateo alle teorie psicanalitiche, dai sistem i dialet­ tici idealisti (il male è solo « antitesi ») fino‫ ־‬alla proposta marxista m essianicamente protesa verso il grande sbocco finale della storia. In queste prospettive diverse il male può essere visto come un in con scio. ancestrale alogico e pre­ umano cancellato dall'autocoscienza oppure può rappresentare lo stadio intermedio in cui è immersa la società, stadio destinato a essere liquidato dalla dialettica materialistica e dalla lotta di classe. O ancora può essere l'oscurantismo o l'ignoranza, il­ luminati dalla progressiva forza dello spirito, della ragione e della scienza. Nell'umanesimo secolaristico il male può anche essere l'occasione fondamentale della coscientizzazione: è la morte che dà alla vita tutto il suo premio e il suo valore; la qualità perfet­ ta e affascinante del nostro essere uom ini è proprio la nostra assurdità che spinge ad affrontare la no­ stra avventura con impegno e decisione senza aspet­ tare premi e castighi oltremondani. Il nostro è il migliore dei mondi possibili perché un mondo senza sforzo e pena non meriterebbe di essere abitato da uomini. L’esistenzialismo La visione umanistica precedentemente descritta sfocia inevitabilmente in una delle tante proposizio­ ni dell'esistenzialismo moderno. Pur coscienti di operare un’eccessiva semplificazione ideologica, siamo tentati di ricondurre il fenomeno

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letterario, filosofico e teologico dell’esistenzialism o a due campi quasi antitetici. Da un lato ci incontria­ mo còn la sfera dell'esistenzialismo credente inaugu­ rato idealmente da Kierkegaard e vigorosamente riproposto da Barth: l ’uomo è un essere per la fede. E la fede è l ’accesso all'unica, autentica forma di esistenza (Barth); è solo accettando il rischio positi­ vo della fede che l’uomo riesce a decifrare e a superare il mistero del dolore. L’uomo è un essere che si realizza attraverso l’adesione a un Tu assoluto che trascende il male e che, quindi, lo fa trascende­ re anche all'uomo (Marcel, Lavelle, Buber). « L'uo­ mo supera il male aderendo al mistero, — scriveva Berdiaev, spiritualista russo morto nel 1948 — trova la sua risurrezione e viene recuperato da Dio ». Sull'altro versante ci incontriamo con l'esistenzia­ lismo ateo variamente diversificato: l'uomo è un essere per la morte (Heidegger), per il naufragio e per lo scacco (Jaspers) ed è perciò nella coraggiosa coscienza della sua miserabile qualità che egli si può realizzare come uomo. L'uomo è passione inutile (Sartre), è esistenza assurda (Camus), nessun cielo si squarcia per lui, nessuna pace illusoria lo può cullare ed è solo in questa coscienza del suo male che scopre la sua identità umana. *

*

*

Questa breve carrellata nella storia del pensiero umano crea indubbiamente un'impressione globale significativa: l'uomo in tutti i tempi ha tentato di assediare la roccaforte imprendibile del dolore e del male, ha aperto alcune brecce ma ha anche applica­ to spesso tattiche sbagliate se non autolesionistiche. Il bollettino di vittoria è scritto da alcuni, ma smen­ tito da altri. Probabilmente l’assedio continuerà fino a quando l’uomo apparirà sulla faccia della terra. Tutte le piccole conquiste sono preziose anche se nel loro interno si cela magari una battaglia perdu­ ta. Fuori metafora, tutti i sistem i di pensiero, anche se perdenti o intrinsecamente deboli, hanno fram­ menti preziosi di verità sul m istero del male. Ma il dolore resta sostanzialmente una rocca per ora im-

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prendibile, anche se parzialmente smantellata, resta, appunto, un mistero. È ciò che anche la Bibbia riconoscerà e Giobbe scoprirà con intensità insupe­ rabile. Un m istero, però, che è anche un rischio positivo. Come avverrà per Giobbe. Un rischio che può essere certamente fonte di disperazione e di morte, ma che può generare anche redenzione e vita. Questa duali­ tà, conosciuta anche da Giobbe, è espressa efficace­ mente da una pagina autobiografica della scrittrice ebrea francese Simone Weil. Rinchiusa in una cella di un campo di concentramento nazista così angusta da impedirle qualsiasi estensione completa del cor­ po, ella sapeva che v'erano altri detenuti nelle celle che precedevano e seguivano la sua, ma un muro solidissim o impediva ogni contatto. Contro quel muro Simone cominciò a battere i piedi per dispe­ razione. E in un istante di pausa, ecco daH‫׳‬altra parte, soffusi e attenuati, i colpi di risposta del suo vicino. Era ormai iniziata una comunicazione pro­ prio attraverso quello schermo che doveva essere lo strumento permanente di isolamento. Questo muro del dolore è il rischio che può alienare da Dio e dagli uomini, ma che, come dimostrerà Giobbe, può essere anche un m isterioso strumento di comunica­ zione con l'Assoluto.

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*

Anche la riflessione biblica sul m istero del male si rivela un vero e proprio m icrocosm o le cui compo­ nenti sono vincolate da legami invisibili o persino Das Problem des Leidens in der israelitisch-jiidischen Religion, in Eucharisterion fiir H. Gunkel, ■Gottingen 1923, pp. 214-260. S c h m id t H., Goti und das Leid im A.T., Tiibingen 1926. F eu illet A., L’énigme de la souffrance et la réponse de Dieu, in « Dieu Vivant » 17, 1950, 77-91. R obinson H. W., The cross in thè O.T., London 1955 (in part. pp. 11-54). S anders J . A ., Suffering as divine discipline in thè O.T. and post-biblical Judaism, Rochester-New York 1955.

* B alla E .,

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tendono talora all'opposizione e alla dissociazione. E questo è naturale essendo la rivelazione biblica progressiva e distribuita lungo la dinamica della storia. Proponiamo allora solo qualche sondaggio significativo nel mondo della Bibbia seguendo i principali « sistem i » in esso emergenti. La proposta storiografica Sotto questa denominazione raccogliamo il materiale piuttosto eterogeneo delle tradizioni Jahwista, Elohista, Sacerdotale e l'operazione storiografica deuteronomistica documentata dai libri di Giosuè, dei Giudici, di Samuele-Re. Secondo questa prospettiva il male non ha origine cosmologica o metafisica come nei miti extrabiblici ma storica. Infatti il giu­ dizio sulla creatura è il « molto buono » (cioè il « perfetto ») di Genesi 1,31. Anche se quest'ultimo passo è a matrice sapienziale, è pur sempre il prolo­ go dell'intera interpretazione della storia fatta dalla Tradizione Sacerdotale. La stessa osservazione vale per il parallelo prologo solenne dello Jahwista, Gn

S charbert

173-180).

J., Der Schmerz im A.T., Bonn 1955 (in part. pp.

E. F., Providence and suffering in Old and New Testament, Edinburgh 1955. Go l d sm it h R. H., The healing. A study in suffering and meaning, in « Interpretation » 17, 1963, 271-279. von S oden W., Die Fragen nach der Gerechtigkeit Gottes im A.T., in « Mittelungen Deutschen Orient Gesellschaft » 96, 1965, 41-59. B ertrangs A., Il dolore nella Bibbia, B a r i 1967. S ch lier H., Thlibó, in Grande Lessico del N.T., IV, Brescia 1968 515-542. G rundm ann W., Kakòs, ibidem IV, 1401-1438. L ip in s k i E ., Le juste souffrant, in « F o i et Temps » 1, 1968, 329-342. B ultm a n n R., Lypè, in Grande Lessico NT cit. VI, 1970, 843-847. C renshaw J . L ., Popular questioning of thè justice of God in Ancient Israel, in ZAW 82, 1970, 380-395. F e d r iz z i P., Giobbe, Torino 1972 (in part. pp. 15-60). R uppert L., Der leidende Gerechte. Eine motivgeschichtliche Untersuchung zum A.T. und zwischentestamentlichen Judaism, Wùrzburg 1972. M ich a elis W ., Paskó, in Grande Lessico del N.T., IX, 1974, S u tc liffe

985-1092.

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2-3. In questo dittico di capitoli si contrappongono due quadri antitetici. Gn 2 è il progetto di Dio sull'essere, un'ipotesi che implica ima sequenza di armonie: uomo-Dio (creazione), uomo-uomo (la cop­ pia), uomo-cosmo (il dominio sugli animali). A que­ sto piano l'uomo ne oppone uno alternativo: è il quadro fosco del capitolo 3, una mappa del male e degli squilibri tra Dio-uomo (espulsione dall'Eden), uomo-uomo (la violenza sessuale e, successivam ente, l'ondata di odio sociale in Caino, L am ec...), uomocosm o (il lavoro alienante). Secondo la metodologia qui adottata dell'eziologia, « Adamo è la. nostra per­ sonale situazione esistenziale che il mito personalizza in un uomo primordiale. Adamo è sia nostro padre che nostro figlio » 44. È in questa luce che il male, prima che essere un appello al m istero dell'agire di Dio, deve trasformarsi in un atto di auto-ac­ cusa che l'uomo lancia contro il suo agire. Un'ampia porzione del male diffuso nel mondo è, quindi, riconducibile a noi stessi, alle nostre ingiu­ stizie e l'Uomo e la Donna di tutti i tem pi debbono proclamare la loro pubblica confessione di colpa (Gn 39,9; Gr 7,24; 9,13-14), aggredendo il male a una radice molto vicina e accessibile. In questo senso si intuisce anche il valore dello schema in­ terpretativo offerto dalla storiografia deuteronomistica in Gdc 2,11-13: esso non fa che ribadire il nesso profondo che intercede tra decisione libera dell'uomo e peccato, fonte di ingiustizie e di dolore. Tuttavia bisogna riconoscere che esiste una fascia di male e di dolore che prescinde da qualsiasi riferi­ mento alla responsabilità umana e che si affonda nella tenebra del mistero. Sorgono così, anche nella Bibbia altri tentativi di interpretazione. La proposta sapienziale A più riprese ci interesseremo della letteratura sa­ pienziale, l'ambito entro cui nasce lo stesso GiobM . M ic h e l , Le péché originel, question herméneutique, in « Rev. Sciences Rei. » 48, 1974, 130. Si veda anche la nostra Introduzione all’analisi biblica del peccato, Milano 1975, pp. 14-28.

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be, e in particolare ci occuperemo di uno degli as­ serti fondamentali della sua Wéltanschauung teo­ logica, la teoria della retribuzione secondo cui ogni sofferenza è sanzione di peccati personali45. Come si è detto, è questa una tesi che sopraw iverà nell’epoca neotestamentaria (vedi, ad esem pio, Le 13,1-5) e che acquisterà forme e dimensioni diffe­ renti anche nella stessa Bibbia: retribuzione terrenista e personale per la quasi totalità della let­ teratura sapienziale proverbiale (Pr 11,21.31; 19,17; Gb 1,9; 22,2) e per testi letterariamente diversi ma ideologicamente affini (Gn 18,23-32 J; Nm 16,22 P; 2 Sm 24,17; Gr 15,10ss; Ez 18), retribuzione colletti­ va per altre pagine sapienziali (Sir 11,20-28; Qo 9,5) e storiche (Es 20,5; 34,7; Gdc 3,7-8; 2 Sm 24,15-16), re­ tribuzione solitamente immediata e istantanea, re­ tribuzione altre volte differita, persino fino alle so­ glie della morte (SI 37,10; 49,17; 73,18-19; Gb 8,8ss; Sir 11,26-28), retribuzione escatologica per il libro della Sapienza (c. 3). Ma per la sapienza la sofferenza non è solo indizio di culpabilité, è anche spia della finitude della crea­ tura. Essa nasce dalla fragilità e dal lim ite insiti all'uomo (Gb 4-5), è uno degli ingredienti naturali dell’esistenza umana (Qo 3,4; Pr 14,13) e il saggio deve rassegnarsi a vivere all'ombra di una minaccia che sempre gli incombe (Sir 31,21ss; 38,18ss; Pr 31,6-7; Qo 9,7; 10,19; SI 34; 37; 73). Per la sapienza la sofferenza non è solo indizio della finitude umana, è anche segno dell’infinità divina a cui dev'essere collegata. Ecco una breve antologia di testi dal di­ verso Sitz-im-Leben ma dal comune colore sapienziale. · Gb 2,10 Pr 16,4

: Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremmo accettare il male? : Il Signore ha fatto tutto per un fine,

45 Vedi pp. 112-127 e bibliografia ivi indicata. La prospettiva retribuzionistica viene ripresa in ima forma più raffinata dal tardo Giudaismo del Siracide e del libro della Sapienza: C. L archer . Etudes sur le livre de la Sagesse, Paris 1969; G. M e ie r , Mensch und freier Wille nach den judischen Religionsparteien zwischen Ben Sira und Paulus, Tubingen 1971; G. L. P rato, Il problema della teodicea in Ben Sira, Roma 1975.

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Am 3,6b Is 45,6b-7 Lam 3,38

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ha fatto anche l’empio per il giorno della sventura. : Avviene forse nella città una sventura che non sia causata dal Signore? : Io sono il Signore e non v'è alcun altro. Io formo la luce e creo le tenebre, faccio il bene e provoco la sciagura; io, il Signore, compio tutto questo. : Dalla bocca dell’Altissimo non procedono forse le sventure e il bene?

Anzi, il male può diventare paradossalmente uno strumento positivo nelle mani di Dio che lo usa come strumento del suo giudizio e della sua giusti­ zia (Gr 6,19; 10,10; 16,10-11; Dn 4,30-31; SI 66,10ss). Il male, allora, supera la pura valenza antropologica e sconfina nel mistero, proprio perché si scopre che talvolta è direttamente controllato e agganciato a un disegno da Dio stesso. La proposta profetica La profezia è lettura teologica della storia, è iden­ tificazione della parola divina seminata negli eventi umani. Per questo essa si ricollega alla tesi « antro­ pologica » sul male che abbiamo presentato già nei libri storici, chiamati appunto dalla tradizione giu­ daica « profeti anteriori ». Ecco allora l'indice pun­ tato da Amos contro le ingiustizie, le vergogne per­ petrate dalle alte classi, contro le miserie dei deboli, le oppressioni degli onesti, la corruzione delle ma­ gistrature. Ad Amos fa eco tutta la profezia classica da Osea a Isaia, da Michea a Geremia. Ma ci si accorge che nella sofferenza c'è un quid inesplicabile a puro livello antropologico. È ciò che si verifica quando il dolore è appello concreto lan­ ciato all'uomo perché si converta (Gr 2-4; 30-31) e quando si avverte la m isteriosa fecondità nascosta nel dolore innocente. È d'obbligo, allora, riferirsi al Quarto carme del Servo di Jahweh (Is 52,13-53,12) e alla cosiddetta tesi dell‫ «׳‬espiazione vicaria ». Mentre nella prospettiva retribuzionistica chi deve confessare il piopsio peccato è proprio il sofferente,

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qui inaspettatamente sono gli spettatori che confes­ sano non il peccato dell'uomo martoriato, ma il loro peccato caduto su di lui. Il binomio finora inscindi­ bile dolore-castigo ora è spezzato, il castigo è solo nostro, il dolore è divenuto suo. E il suo dolore diviene salutare per noi, ci dà pace, genera in noi pentimento e perdono, le sue cicatrici sanguinanti ci curano. Ma la sofferenza e la morte non sono la foce definitiva verso cui corre la vita del Servo. Anzi, la morte fa fiorire il mistero di fecondità che quel dolore conteneva. Il giusto, infatti, « contempla la luce e si sazia della conoscenza di D io» (53,1 la), è cioè in comunione piena con Dio (Gv 17,3). La vi­ cenda viene così ribaltata, la sentenza condannatoria umana viene annullata dalla dichiarazione ufficiale di Dio. La sofferenza e la morte espiatrice del Servo hanno liberato gli uomini che ora saranno il bottino (53,12) del suo trionfo e della sua vittoria sul male. La sua vita, passione e morte sono state sacrificio espiatorio per noi, il suo silenzio è stato orazione esaudita, il suo dolore è stato la nostra giustificazio­ ne e riconciliazione con Dio. Questa lettura dell'espiazione vicaria è, però, negata da H. M. Orlinsky46 secondo il quale il Servo soffre sì, per il peccato del popolo ma proprio perché il popolo reagisce contro di lui, contro la sua predica­ zione e il suo ministero (e questo è appunto il peccato del popolo). Infatti, aggiunge l'esegeta, nel v. 5 del Carme si scrive: « è stato trafitto dai (min-) nostri delitti, schiacciato dalle (min-) nostre iniqui­ tà » e non: « trafitto per, in favore (be- in ebraico) dei nostri delitti ». Anche G. F ohrer47 obbietta che sono troppe le domande lasciate aperte da questa tesi espiatrice: chi sacrifica? Che cosa o chi sa­ crifica? A chi e per conto di chi espia? Che cosa e come si deve espiare? Tuttavia questi interrogativi legittim i possono essere spiegati anche per la novità assoluta e l'arditezza delle tesi avanzate dal profeta. 46 H. M. O r linsky , The so-called « Suffering Servant » in Isaiah 53, Cincinnati 1953, pp. 56 ss. Per l'esegesi del testo vedi P. E. B onnard, Le Second Isaìe, Paris 1972 e C. W esterm a n n , Isaia 40-66. Brescia 1978, pp. 305-325. *7 Theologische Grundstrukturen des A.T., Berlin 1972, p. 23.

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Il valore attribuito alla sofferenza in questa pagina è, infatti, assolutamente inedito per l ’A.T. Inoltre i w . 5 e 8-10 rispondono anticipatamente alle difficoltà di Orlinsky: per 1‫׳‬A. del Carme il dolore conduce all’esaltazione proprio attraverso il suo contenuto di rinuncia a se stessi per gli altri. La proposta deuteronomica Col Deuteronomio appare una nuova e originale in­ terpretazione del mistero del dolore: essa lascerà la sua traccia consistente anche nel libro di Giobbe con gli interventi di Elihu, l'ultimo sapiente. La sofferenza è un'espressione dell'esperimento pedago­ gico che Dio, Maestro e Padre, conduce soprattutto nel deserto per educare, purificare e far maturare il suo popolo. Attraverso l'alternanza delle umiliazioni e delle consolazioni, deH'avvilimento e della speran­ za l’uomo penetra nel mistero di Dio. Classico è il passo di Dt 8,2-6 48, paragrafo di prem essa al « canto della terra » e al comandamento per la fedeltà a Dio nella civiltà del benessere (8,7ss). 2 Ricordati di tutto il cammino che il Signore tuo Dio ti ha fatto percorrere in questi quarantanni nel de­ serto, per umiliarti e m etterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore e se tu avresti osservato o no i suoi comandamenti. 3 Egli dunque ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di man­ na, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non ave­ vano mai conosciuto, per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore. * Il tuo vestito non ti si è logorato addosso e il tuo piede non si è gonfiato durante questi quarant’anni. 5 Riconosci dunque in cuor tuo che, come un uomo corregge il figlio, così il Signore tuo Dio corregge te.

Il frutto di questa paideia di Dio nei confronti di Israele è una nuova conoscenza. « Conoscenza da parte di Dio, ma anche da parte di Israele. Mediante 44 Un altro testo significativo è Dt 30,1-14. Vedi anche Gb 33, 14-22; 34,27-33; 36, 7-11.

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la « tentazione » d'Israele nel deserto Dio cerca di conoscere « che cosa tu hai in mente: se vuoi cu­ stodire i suoi comandamenti o no » (Dt 8,2). Attra­ verso la tentazione Israele entra nella comprensione sperimentale « che non soltanto di pane vive l'uo­ mo, ma di tutto ciò che esce dalla bocca del Signo­ re » (8,3). Israele, dunque, attraverso questa divina pedagogia riconosce la sua dipendenza da Dio e dalla Parola divina creatrice di meraviglie » 49. Questa interpretazione del dolore è parzialmente presente anche nella esperienza di un profeta vicino alla teologia deuteronomica e caro all'A. di Giobbe, Geremia: non per nulla una delle « confessioni » più laceranti di Geremia (20,7-9.14-18) è diventata la base letteraria e ideale sulla quale è stato costruito il lamento iniziale di Gb 3. Certo, le confessioni di Geremia (11,18-12,3; 17,14-18; 18,18-23; 19,1-20,6) evo­ cano innanzitutto il « mistero » del dolore come derivato dal « mistero » della perversità umana. La sensibilità tipica del suo temperamento rende la percezione del dolore più acuta e più radicale. L'au­ toritratto dipinto in 8,23 ne è la testim onianza più esplicita: « Chi farà del mio capo una fonte d'ac­ qua, dei miei occhi una sorgente di lacrime, perché pianga giorno e notte? ». Tuttavia questa esistenza che ha come sintesi, dalla nascita alla morte, « to r ­ mento, dolore, vergogna » (20,18), quest’esperienza che ha come motto magor missabib (« terrore dap­ pertutto »: 6,25; 20,3; 46,5; 49,29) ha in sé un senso profondo. Se nel Servo del Signore (Is 53) il dolore si trasfor­ mava in redenzione per gli altri, celando così nel suo interno un mistero di grazia e di salvezza, la sofferenza in Geremia interiorizza la religione. Il rapporto con Dio diventa autentico, spontaneo e totale, libero da ogni artificiosità. Nasce una religio­ sità più matura e non formale. Ma la sofferenza ha un'altra funzione «pedagogica» in Geremia: essa esalta la coscienza del profeta. L'uomo sofferente si trova in meditazione con se stesso e riacquista così la sua personalità senza disperdersi nella massa. N . L o h f in k , A s c o lta , I s r a e le , B r e s c ia 1968, p . 86.

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G erem ia. non è affogato nei m iti nazionalistici dei suoi contemporanei inebriati di fantasie e illusioni. Egli, invece, sente il destino che incombe su Giuda e che si concluderà con distruzione di Gerusalemme del 586 a. C. Il dolore, quindi, ha fatto incontrare al profeta il suo Dio e il suo « io ». La proposta apocalittica Sul problema delle origini della apocalittica si fron­ teggiano da tempo due ipotesi divergenti. Secondot lo studioso britannico H. H. R ow ley50 il sistema apocalittico non sarebbe nient'altro che un'evoluzio­ ne della tradizione profetica; mentre, secondo vòn R ad S1, alla base della visione apocalittica è da porre la prospettiva astorica della letteratura sapienziale. Anche se la paternità ideale del fenomeno apocalit­ tico è da attribuire a Ezechiele, la culla entro cui cresce questa letteratura e questa vera e propria Weltanschauung è il periodo maccabaico (II sec. a. C.). La produzione letteraria divenne ben presto immensa dando il via a una proliferazione apocrifa che continuerà per tutto il periodo intertestamentario, raggiungendo per alcuni libri punte da best­ seller. Tra questi testi menzioniamo il celebre Libro di Enoc che è in realtà un'antologia di opere diver­ se, gli Oracoli Sibillini, il IV Esdra, i Giubilei, i Testamenti dei X II Patriarchi, l'Apocalisse siriaca di Baruc, l’Assunzione di Mosè etc. Nella Bibbia entre­ rà solo Daniele, opera parzialmente apocalittica (146 a. C.), mentre le cosiddette due « apocalissi di Isaia » (cc. 24-27 e 34-35) sono più vicine all'escatolo­ gia profetica post-esilica. Le caratteristiche specifiche dell'apocalittica ne rive­ 50 H. H. R owley , The relevance of Apocalyptic, New York 1963. 51 Così, ad esempio, in Teologia dell'Antico Testamento, II, Brescia 1974, pp. 356-381. Cfr. anche AA.VV., Escatologia cri­ stiana e futuro, in « La Scuola Cattolica », n. 6, 1973. Un'ot­ tima sintesi del fenomeno apocalittico in W. S c h m it h a l s , L’apocalittica, Brescia 1976 («Giornale di Teologia» n. 95). Un interessante bilancio del contributo offerto dall'apocalit­ tica e della sua persistenza anche nella cultura contempora­ nea in K . K och , Difficoltà deliapocalittica, Brescia 1977,

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lano l'autonomia rispetto all'escatologia in senso stretto e alla profezia autentica e possono essere così sintetizzate: a. L’apocalittica nutre nei confronti del presente un pessim ism o totale. Esso è visto come l’eone domina­ to dal male e deterministicamente affidato all'impero di Satana. t b. Di conseguenza l'impegno dell'uomo nell'ambito della storia non solo è nullo, ma inutile e nocivo. c. Nullo è anche l ’impegno di Dio nei confronti di questo mondo e di questa storia, strutture che de­ vono estinguersi nella grande conflagrazione finale. d. C’è quindi un dualismo tra l'oggi-profano e il regno futuro di Dio (sacro), instaurato col regno millenario (chiliasmo) del Messia. Il presente è pri­ vo di salvezza. e. C’è un dualismo antagonista tra bene e male anche nell'ambito dello stesso Israele, per cui solo alcuni eletti potranno partecipare all’eone futuro, dopo essersi salvati dal rogo immenso a cui è desti­ nato il mondo presente. Ora, in questa dualistica e spesso stravagante entità che è l'apocalittica soprattutto apocrifa il mistero dell’aberrante ripartizione del male in « questo mondo » (' olam hazzeh) viene risolto appellando a un perfetto «m ondo futuro» {, olam h a b b a ’), definitiva edizione del creato, della storia e della gioia paradisiaca52. La proposta salmica Il segno sotto cui si colloca maggiormente la pre­ ghiera biblica è proprio quello del dolore e della supplica. Nel Salterio domina il colore della miseria certamente più di quello della gioia. Infatti, almeno 36 salmi possono essere catalogati come suppliche personali e 9 come suppliche comunitarie, senza includere poi le numerose composizioni m iste in cui, J. c. Gammie, Spatial and ethical dualism in Jewish Wisdom and Apocatyptic literature, in JBL 93, 1974, 356-385; B. O t z e n , O. T. Wisaom literature and dualistic thinking in Late Judaism, in VTS 28, 1975, 146-157.

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accanto ad altri temi, emerge il lam en to53. Tuttavia, pur nel predominio del pianto sul canto, il Salterio sa mantenere una sobrietà e una compostezza igno­ rate dal mondo extrabiblico. Ciò si realizza non solo per la finale di questi salmi che è sempre aperta alla fiducia nell'esaudimento divino ma anche per la base incrollabile di fede che sostiene l'intero impianto ideologico delle composizioni. Il « nem ico » che im­ pedisce la felicità può essere una malattia grave che minaccia la vita (SI 6; 22; 38; 88; 102) o una tragedia nazionale o l’incubo di un processo che può risolversi con una condanna capitale. Questo « ne­ mico », simbolo del male, è spesso personificato e rappresentato sotto tre metafore fondamentali. La prima è di tipo bellico e presenta una città assediata da un esercito ostile: « è una m oltitudine di genti che contro me si accampano » (SI 3,7), « un eserci­ to accampato contro di me » (SI 27,3), com posto da feroci combattenti (SI 55,19), da aggressori (SI 56,2). Oppure siamo trasportati in una scena di cac­ cia in cui la preda « è inseguita, raggiunta, calpesta­ ta, trascinata nella polvere » (SI 7,6) o irretita nel laccio teso (SI 31,5; 35,7-8; 57,7). In questa linea si colloca anche la terza immagine desunta dal mondo animale secondo la quale l'orante è abbandonato alle fauci di un leone che lo vuole sbranare (SI 7,3; 22,14), a « gole spalancate » (SI 35,21), a denti che « straziano la carne » (SI 27,2). Il male ha quasi i tratti di una potenza demoniaca contro la quale il fedele non può che invocare l'in­ tervento divino. Ma il « nemico » può essere anche un peccato che separa il credente dal suo Signore facendogli sperimentare la tragedia del silenzio di Dio (SI 6; 38; 51). Nella tensione del pericolo e della propria miseria sorge, allora, l'eterna domanda che sembra spegnersi in un interrogativo senza ri­ 53 Le suppliche individuali sono i SI 3; 5-7; 13; 17; 22; 25-28;

35; 38; 39; 4143; 51; 54-57; 59; 61; 63; 64; 69; 71; 86; 88; 102; 109; 130; 140; 141; 143. Le suppliche nazionali: SI 44; 60; 74; 79; 80; 83; 85; 90; 137. Nell'immensa bibliografia suggeriamo come testo utile per il nostro scopo L. J acquet, Les Psaumes et le coeur de l'homme, Duculot (Gembloux) voi. I, 1975 (SI 141); voi. II, 1977 (SI 42-100); voi. Ili, 1979 (SI 101-150), e il nostro Libro dei Salmi, voi. I, Bologna 1981; voi. II, 1983; voi. TTT. 1984.

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sposta: «Perché?», «F ino a quando?» (SI 6,4; 13,2-3; 35,17; 42,10; 43,2; 90,13). Sembra, come in Gb, di essere in presenza di un ardito atto d'accusa contro Dio e la sua indifferenza: « Fino a quando, Signore, starai a guardare? » (SI 35,17). I Salmi sono ideologicamente vicini alla teologia dei « discorsi di Dio » presenti in Gb 38-42. Il dolore è m istero che può essere certamente sondato e scava­ to nel suo interno ma che rimane pur sempre m iste­ ro da accogliere e vivere nella pace della fede. E questo è possibile solo perché avviene un incontro, un dialogo personale con Dio generato dalla stessa sofferenza. In questa esperienza interpersonale si intuisce che Dio è talmente superiore da non poter essere considerato un « responsabile » che dev'esse­ re denunciato e giudicato, ma contemporaneamente si comprende che egli dev'essere « responsabile » in ragione del suo amore per l'uomo. I ha.ssid.im, i « pii », i « poveri » del Salterio sono coloro che possono dire alla fine di ogni supplica con Giobbe: « I miei occhi ti hanno visto ». E, affidando a Dio il m istero del loro dolore, trasformano, secondo il tito­ lo di un'opera di G. Marcel, il loro rifiuto in invoca­ zione (Du refus à l'invocatiorì). La proposta neotestamentaria Con questo paragrafo, puramente indicativo, sorpas­ siamo la sfera teologica di Giobbe cercando di co­ gliere il movimento generale e lo sbocco finale dell'A.T. Simone Weil scriveva: « La sola fonte di chia­ rezza abbastanza luminosa per illuminare il dolore è la croce di Cristo. Non importa in quale epoca, non importa in quale paese, dovunque ci sia un dolore, la croce di Cristo non è che la verità » E forse per comprendere la proposta specifica di Giobbe è pro­ prio necessario proiettare su di essa la luce della visione cristiana del dolore. II segno sotto il quale si inizia a leggere il m istero di Cristo e della sua esistenza è, fin dalle origini, proprio quello della sofferenza. Infatti il primo rac­ 54 S. W e il , Le pesanteur et la gràce, Paris 1948, p. 94.

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conto evangelico scritto presinottico è probabilmen­ te la narrazione della Passione-Morte-Risurrezione. Diversamente dalle « Vite degli Eroi », nel Cristia­ nesimo la prevalenza più che all’azione, ai discorsi, ai prodigi è riservata all'esperienza tragica della morte del Fondatore. Gesù s ’incontra col male e col dolore cancellandone talora le tracce attraverso i suoi miracoli, segno di una liberazione integrale dell'uomo. Egli rifiuta l ’applicazione meccanica e rigida della teoria della retribuzione (Gv 9,1-3; Le 13; 16,19-31; cfr. 1 Co 11,30-32)ss e accetta il dialogo salvante col male (pasto con pubblicani e peccatori, le prostitute, i lebbrosi) : « Non sono venuto per i sani ma per i malati ». Gesù sperimenta il dolore dimostrando per questa via la sua totale incarnazione. La proposta che egli fa è centrata sulla « strada stretta » (Mt 10,38-39; Me 8,34ss; Le 14,27; 17,33; Gv 12,24-25), una strada che ha in sé il germe della beatitudine (Mt 5,4; Le 24,26; Gv 16,21-22). Forse Gesù stesso aveva raccordato la sua figura alla tipologia del Servo dì Jahweh (il dei, «bisogna», di Me 8,31; 9,31; 10,38; cfr. Me 9,12; 14,21; Le 18,31 e l'idea della « sofferen­ za vicaria » nei loghia di Me 10,45; 14.24; Le 22,37). Certo è che tutte le diramazioni della teologia neotestamentaria hanno tratteggiato sotto questo schema la figura del Cristo (At 3,13.26; 4,30; 1 Co 15,3; Fi 2,6-11; Eb 7,27; 9,11-28; 13,llss; 1 Pt 2,22-25). Gesù realizza nel suo pianto per Lazzaro e per Ge­ rusalemme e soprattutto nella sua passione la vici­ nanza totale all'umanità e alla sua realtà specifica, quella del dolore. E un'esperienza condotta nella solitudine, anche degli uomini più cari (« Non siete stati capaci di vegliare una sola ora? »), nel silenzio di Dio (« Dio mio, perché mi hai abbandonato? »), nella lotta anche fisica dell'agonia (il sudore di san­ gue), nella catastrofe finale della m orte per cro­ cifissione. Era solo passando attraverso il dolore, il s Per le concezioni del tempo di Gesù sul problema del male, vedi J. A. S a n d e rs, o .c ., pp. 105-116 e J. C a rm ig n a c , La théologie de la souffrance dans les Hymnes de Qumran, in « Rev. Qumran j> 3, 1961-62, 365-386.

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male e la morte, qualità « im possibili » a Dio, che Cristo diventava veramente « uno di noi » e poteva liberare e salvare questo tragico bagaglio creaturale attraverso la sua divinità. Nel dolore e nella morte più ancora che nella nascita celebriamo il mistero pieno dell'Incamazione. È in questa luce che il cristiano deve vivere la sua umanità e il suo male senza una m istica m asochisti­ ca della sofferenza: « a voi è stata concessa la grazia non solo di credere in lui ma anche di patire per lui » (Fi 1,29; cfr. 1 Co 4,9-13) ed è « attraverso » molte tribolazioni che si entra nel regno di Dio » (At 14,22) in cui « Dio asciugherà ogni lacrima dai volti » (Ap 7,17). « Il grano di frumento deposto nella terra, se non muore, non porta frutto » (Gv 12,24). Per questo, la sofferenza nel non-credente in Cristo conserva tutta la sua incomprensibile oscurità (Mt 8,12; 13,42.50; 22,13; 24,51; 25,30.46; Ap 9,5; 14,10-11), mentre « noi affrontiamo con costanza la prova che ci è proposta, fissando i nostri occhi sul capo della nostra fede... che tollerò una croce» (Eb 12,1-2).

« Certamente uno può dire: se si guarda all‫׳‬immenso do­ lore del mondo, non si può credere che esista un Dio. Ma si può anche dire il contrario: solo se c'è un Dio si può in generale vedere questo immenso dolore del mon­ do. Pensiamo al Dio più divino: non sono proprio la vita e la sofferenza di Gesù a farci apparire Dio in una luce diversa? Nella vita e nella passione di Gesù non si è rivelata, al di là dell'incomprensibilità di Dio, sperimentata così do­ lorosamente da Giobbe, una redenzione che trasforma il dolore e la morte nella vita eterna e nell'appagamento di ogni aspirazione? Certo, il fatto della sofferenza non scompare neppure nella luce di Gesù; rimane sempre possibile un margine di dubbio. Soltanto una cosa, ma veramente fondamentale, si può dire della vita e della sofferenza di quest'Uno, che sembra vivere e soffrire senza senso: anche un vivere e soffrire umano mani­ festamente assurdo può avere un senso, può ricevere un senso. Un senso nascosto: che non sono io ad annettere alla mia vita e alla mia sofferenza, ma che posso soltanto ricevere alla luce del compiuto vivere e soffrire di quest'Uno. Non un'automatica attribuzione di senso: non si tratta di soddisfare un'aspirazione utopistica, di proclamare una trasfigurazione del dolore, di som*

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ministrare un tranquillante psichico o di procurare una facile consolazione. E piuttosto una libera offerta di senso. Anche qui io mi devo decidere. Posso rifiutare questo senso nascosto: con dispetto, cinismo o di­ sperazione. Ma posso anche accettarlo: con fede fidu­ ciosa in colui che ha conferito un senso all'assurdo soffrire e morire di Gesù. Si rivela allora l'inutilità della mia protesta, della mia indignazione, della fru­ strazione; finisce la disperazione. La fiducia in Dio, in quanto consolidamento della fiducia di fondo, rag­ giunge qui la sua profondità massima. In concreto questa offerta di senso significa che Dio mi è vicino anche quando la mia situazione si fa desolata, assurda, disperata. Posso incontrarlo, non soltanto nella luce della gioia, ma anche nell’oscurità, nella tristezza, nel dolore e nella malinconia. Ciò che Leibniz afferma e Dostojewski confusamente intuisce, viene confermato a Giobbe e diventa definitivamente manifestato e certo alla luce del Crocifisso risorto: anche il mio soffrire trova posto in Dio, anche la mia sofferenza, malgrado l'apparente abbandono da parte di Dio, può diventare luogo di incontro con Dio » 50.

La proposta della teologia cristiana Un’elaborazione continua, talora venata da incertez­ ze ed errori, contraddistingue l'analisi condotta at­ traverso i secoli dalla teologia cristiana sul m istero del m a le 57. È imbarazzante tentare una sintesi di duemila anni di pensiero e di storia. Vogliamo solo notare la presenza di due costanti che muovono dalla teologia patristica ma procedono fino ai nostri giorni, sia pure con modalità molto diversificate. Nella prima traiettoria possiamo individuare l'atteg­ giamento della teologia occidentale il cui punto cru­ ciale è rappresentato dal problema del peccato (ori­ ginale) che riveste un ruolo determinante nella spie­ gazione del male. La sintesi agostiniana eserciterà a questo proposito un influsso decisivo nella specula­ zione successiva58. Diversa è, invece, l'impostazione dell'altra direttrice iniziata da Ireneo (Adversus Haereses V,6,l; IV,39,1-2). Essa è più attenta a sottolineare la pro­ 56 H. KONG, Esiste Dio?, Milano 1979, p. 774. 57 Per un quadro più ampio vedi, ad esempio, J. H ic k , Evil and thè God of Love, London 19o6; cfr. anche J. M o ltm a n n , Il Dio crocifisso, Brescia 1975. ss J. H ic k ,

o . c .,

p p . 43-204.

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gressione della storia della salvezza verso la pienez­ za ed è perciò impostata su un asse positivo (la speranza) rispetto a quello negativo agostiniano (il peccato). La storia della salvezza è evolutiva, lineare ed « escatologica »; comprende perciò un itinerario dal meno al più attraverso fasi imperfette. In attesa che « Dio sa tutto in tutti » (1 Co 15,28), l'uomo è ancora aggrovigliato nell'oscurità del male, da solo non riesce a districarsi anche se può spezzare qual­ che legame, Dio lo redime e lo libera nel « tempo » (kairòs) della salvezza che è « già ora » iniziato ma « non ancora » compiuto. Questa linea interpretati­ va, cara ai Padri Orientali, sta riscuotendo un certo successo nella teologia contem poranea59. *

*

*

Giunti al termine di quest'ampia panoramica sulla varia e complessa proposta avanzata dalla Bibbia per circoscrivere e illuminare fin dove è possibile il m istero del male, possiamo tracciare un bilancio sommario, prima di affrontare esplicitam ente la proposta di Giobbe. a. Dobbiamo riconoscere una certa validità al nesso retribuzione e male in quanto vuole giustamente valorizzare la libertà e la responsabilità umana. Tut­ tavia si tratta di una validità parziale. Il collegam en­ to infatti non è meccanico per cui il nesso tra sofferenza e peccato personale non è mai discernibi­ le nel caso concreto che resta, perciò, sostanzial­ mente indecifrabile. Il dogma della retribuzione è, allora, solo una dichiarazione di principio: la libertà umana nell'agire fa sì che qualche peccato possa avere una ridondanza negativa nel soggetto pecca­ tore. b. La Bibbia attribuisce al dolore anche una funzio­ ne perfezionante per la persona umana. Un universo nel quale non ci sia possibilità di pena e di dolore non sarebbe un mondo nel quale la persona umana, w Cfr. W. Kern, Uebel, in Lexikon fiir Theologie und Kirche, X, Freiburg 19652, coll. 429-435; R. L ack, Tra azione e attesa, escatologia e utopia, in AA.VV., Esperienze di base, Roma J977, p p . 91-126.

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quale essa realmente esiste, possa crescere. Si trat­ terebbe al massimo di un universo possibile ma in pratica « non-umano ». c. Permane, però, anche per la Bibbia un surplus inesplicabile nel dolore: è in particolare la riparti­ zione apparentemente assurda della sofferenza o la presenza di sofferenze assolutamente inutili (e quin­ di non perfezionanti) per la persona che le porta e per gli altri. Pensiamo alla sofferenza degli alienati o a quella dei bambini. Questa componente m isteriosa sarà diffìcilmente razionalizzabile in qualsiasi siste­ ma teologico-filosofico. d. Il dolore, soprattutto nel messaggio cristiano, ha anche una dimensione sociale, un valore vicario che può far balenare la presenza di un significato anche nella sofferenza innocente. Lo postulano la teologia del Servo di Jahweh, la passione e la morte di Cristo, la coscienza dell'unità del Corpo di Cristo. e. Proprio perché l'incarnazione suppone il recupero integrale dell'umanità, Cristo doveva assumere dolo­ re e morte, che sono le qualità specifiche e tipiche dell'uomo, irradiandole con la sua fecondità libera­ trice. Questa « prossimità » di Dio all'uomo attra­ verso il dono del Figlio (Gv 15,13; 1 Gv 4,9-10) rende più accettabile e comprensibile il m istero del nostro limite. La religione biblica è realistica, non decolla dall'esistenza narcotizzando l'uomo con una soluzio­ ne mitica o rinunciataria, ma si inserisce nel dolore vivendolo con amarezza lancinante ma anche con una speranza basata sull'amore di Dio e sulla sua Incarnazione. « Le sofferenze del tempo presente non sono degne di essere paragonate alla gloria che si rivelerà in noi » (Ro 8,18). f. L'aporia di Epicuro resta, quindi, per molti versi aperta. Ma l'assedio della mente umana e della fede contro il mistero del male ha celebrato qualche trionfo. L'impossibilità di una vittoria piena è legata alla natura stessa di questo vero mistero: infatti i termini che lo sostengono sono per eccellenza « m istero », Dio e l'uomo. È a questo punto, dopo aver raccolto il bottino della storia del pensiero e della presentazione dei due « misteri » dell'uomo e di Dio, che possiamo delineare la proposta di Giob­

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be in tutta la sua completezza. E questo sarà il luminoso « mistero del libro di Giobbe ».

Il mistero del libro * Quella di Giobbe non è ovviamente una soluzione; è solo il suggerimento suH’impossibilità d'una soluzione ierché l'uomo è un frammento troppo piccolo del‫׳‬universo per poterne discernere il disegno totale. Ma in realtà nel libro di Giobbe la cosa importante non sono le risposte date quanto piuttosto il non dare risposte.

f

J . B owker ,

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Il mistero del libro

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Il poeta americano Robert Frost (1875-1963) nel poema Masque of reason, introducendo un dialogo tra Dio e Giobbe, fa dire a Jahweh: Non ho dubbi, o Giobbe, che tu stia attuando il ruolo che devi recitare, quello di rendere stolto il Deuteronomista e di cambiare il tenore del pensiero religioso 60. Infatti un esegeta ha recentemente riassunto il di­ battito centrale di Giobbe sotto il titolo « La ragio­ ne in rivolta » 61. Anche noi a questo punto, dopo aver individuato le traiettorie che sostengono il libro di Giobbe, possiamo formulare un ultim o interroga­ tivo di fondo: qual è il senso globale della « ribel­ lione » di Giobbe e quale il suo sbocco finale? Data la qualità poliedrica eppur unitaria dell’opera, l'i­ dentificazione dello scopo ultimo e sotterraneo di Giobbe è facile e impossibile al tempo stesso. È facile perché si intuisce subito una certa prospettiva di fondo che collega lo scritto alla sapienza « etero­ dossa ». Ma è anche impossibile ridurre nello stam ­ po freddo di una soluzione circoscritta ciò che di sua natura è libero, molteplice e com plesso come la vita e misterioso come Dio e l'uomo. Se volessimo un bilancio dei risultati raggiunti dalle centinaia di commenti e di saggi finora apparsi su Giobbe, ci sembra di intravedere quattro m odelli di definizione e di interpretazione di questo capolavoro Buches Hiob, in Sichtbare Kirche, Giitersloh 1974, pp. 13-21. L évèque J ., Le sens de la souffrance d’après le livre de Job, in « Rev. Théol. Louvain » 6, 1975, 438-459. M attioli A., Le ultime ragioni dell'esistenza del male e della sofferenza nel libro di Giobbe, in La sapienza della Croce oggi, III, Torino, 1976, pp. 157-187. R uprecht E.. Leiden und Gerechtigkeit bei Hiob, in ZThK 73, 1976, 425-445. L évèque J., Sofferenza e metamorfosi. Una lettura del libro di Giobbe, in « Communio » n. 33, 1977, 4*16. 60 The collected poems of Robert Frost, London 1967, p. 449. D. Cox, Reason in revolt: thè poetic dialogue in thè book of Job, in « Frane. Liber Annuus » 24, 1974, 317-328.

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letterario e ideologico. Si tratta in pratica di quattro ermeneutiche differenti dell'opera62. La prima potremmo chiamarla pragmatica. Giobbe non vuole risolvere né il problema ideologico della sofferenza innocente né quello della giustizia divina coinvolta nello scandalo del male. Egli vuole solo proporre un modello comportamentale per una si­ tuazione-limite. Westermann, ad esempio, ribadisce con insistenza che non stiamo leggendo un volume a finalità didattica, ma stiamo assistendo alla crescita poetica e umana di un lamento. Anche Fohrer, che pure dichiara il valore didattico-teorico dell'opera, riconosce però che la questione agitata è di orto­ prassi, non di ortodossia. Terrien, Pope e Lévèque sono stati, invece, gli espo­ nenti più espliciti d'una lettura fideistica del libro. Certo, l'opera si muove secondo una dinamica esi­ stenziale e sperimentale ma il suo scopo è più reli­ gioso che morale. La finalità sottesa all'intero svol­ gersi del volume è quella di condurre il lettore a quel versetto-vertice, il 42,5, in cui l'esperienza per­ sonale di Dio nella sofferenza si trasforma in espe­ rienza di fede pura. In altri termini il dolore è il luogo privilegiato della Rivelazione e della fede, cioè del dialogo Dio-uomo. Secondo una felice espressio­ ne di Rowley, il libro di Giobbe resta un libro religioso a soluzione religiosa. E questa soluzione è compendiata nei discorsi di Dio, l'ultima parola del­ l'Autore. Un'impostazione eminentemente antropologica, è in­ vece, quella avanzata da M. Tsevat e da altri secon­ do i quali Giobbe vuole porre realmente un proble­ ma intellettuale: solo il mondo umano è morale, mentre quello materiale non lo è e perciò la colli­ sione tra l'uomo e le forze immutabili della materia genera sofferenza. Giobbe deve abbandonare la vi­ sione di una Provvidenza che si preoccupa di pro­ teggere l'uomo ponendolo in una nicchia extramon­ dana, Dio non fa miracoli inutili per difendere l'uo­ 62 Cfr. J. Barr, The book of Job and its m odem interpreters, in BJRL 54, 1971-72, 28-46. Vedi anche le osservazioni sinteti­ che di R . E . M u r ph y , La littérature sapientielle de l'A.T., in « Concilium » 1/10, 1965, 116.

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mo, unico soggetto morale, dal gorgo amorale del cosmo. Riesumando uno spunto di Tsevat, potrem ­ mo dire che Giobbe vuole invitare Fuomo a non attendersi un edonismo costoso di miracoli e prodigi da parte di Dio in un mondo che non è fatto per questo fine. L'esperienza della fede serve proprio a svelare l'inconsistenza di una sim ile attesa. La piog­ gia così preziosa cade sul deserto ove non serve a nessuno e manca a chi è assetato e ciò avviene senza che Dio voglia punire l’uomo o benedire il deserto 63. I discorsi di Dio sarebbero la documentazione più limpida di questa tesi: attraverso la demitizzazione del mondo materiale l'uomo comprende perché un Dio buono permetta la sofferenza. Una lettura derivata da quella ora proposta è stata avanzata da R. Gordis: potrebbe essere definita cosmica ed è anch'essa basata soprattutto sui di­ scorsi di Dio considerati la chiave ermeneutica di G iobbe64. La bellezza miracolosa e l'ordine del co­ smo, svelati da Dio, diventano quasi i « pedagoghi » di Giobbe. Essi gli garantiscono la fede anche quan­ do egli si trova nel fondo deH'esperienza del caos, cioè nel dolore: « Come c'è ordine e armonia nel mondo naturale, anche se ciò è visto solo im perfet­ tamente dall'uomo, così c'è un ordine e un senso nell'ordine morale anche se quest’ordine e questo senso sono spesso incomprensibili all'uomo » 05. Di fronte a questa panoramica d'opinioni, che con­ tengono tutte una sfaccettatura autentica della « questione-Giobbe » 66, siamo tentati di offrire una proposta ulteriore, meno radicale ma più attenta al respiro generale di questa opera com plessa e poliva­ 63 M . T sevat , a.c., p p . 99-100. « R . Gordis , The hook of God 132-134. 65 R. G o rd is, o .c., p. 133.

and Man, C h ic a g o 1966, p p .

66 Che si tratti alcune volte di letture settoriali lo dimostra anche la selezione dei passi di Giobbe presi in considerazione. Tsevat, ad esempio, si basa quasi esclusivamente su 38, 12-15. 25-27 e 40, 2.8-14. Gordis, invece, coglie un elemento di per sé valido, ma, in quanto unilaterale, passibile di interpreta­ zione « odiosa »: la celebrazione dell’amorevole perfezione del cosmo può trasformarsi in ima crudeltà nei confronti del sofferente.

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Il mistero del libro

lente. Nel mistero del libro si ritrovano i tre m isteri sopra esaminati e si coordinano in un unico m es­ saggio. Certo, non si tratta di un'unità sistem atica a livello teoretico perché, nello spirito della tradizio­ nale sapienza classica che non aspira a conclusioni scientifiche universali, il redattore finale ha lasciato all'opera una certa pluralità di prospettive senza sommarle in un'ipotesi logica globale. Inoltre in questa ricerca del senso ultimo del « mistero-Giobbe » non si ci deve bloccare solo sul significato inteso dall'autore ma tentare di ricostruire il si­ gnificato che per noi oggi l’opera riveste. Si tratta, quindi, di operare un'ermeneutica bidim ensionale67: con un movimento centripeto bisogna risalire al senso originario del testo collocato nel suo Sitz-imLeben e con un movimento centrifugo bisogna ri­ tornare al presente, alla periferia dell'opera, quel1'« oggi » in cui il testo risuona in una nuova strut­ tura socio-culturale. Il

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La stessa pluralità letteraria e genetica del testo, che emergerà visibilmente durante la lettura ese­ getica che condurremo sul testo, richiede la for­ mulazione di un ventaglio di differenti « sensi » se­ condo i diversi strati redazionali. Il punto di parten­ za è evidentemente comune a tutte le tappe del processo di formazione dell'opera ed è la sofferenza. Su di essa, però, vengono sviluppate riflessioni di­ verse. Così, per la leggenda folkloristica del prologoepilogo la sofferenza è prova della fede, prova prov­ visoria e voluta da Jahweh. Per la teologia ufficiale degli amici essa è, invece, sempre retribuzione d'un peccato antecedente. Per il dialogo centrale, soprat­ 67 Vedi R. M arlé, Le problème théologique de l'herméneutique, Paris 1963; J. M. R o b in s o n -J. B. C obb ed., The new hermeneutic, New York 1964; H. G adamer, Verità e metodo, Milano 1972. Per tutta la questione la sintesi più completa e puntuale è senz'altro quella offerta da P. A. S eq u er i , Er­ meneutica e Filosofia (e Teologia), in Dizionario Teologico Interdisciplinare I, Torino 1977, pp. 60-73.

Il mistero del libro

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tutto nelle battute di Giobbe, la sofferenza è assurda e anziché convertire allontana da Dio. Per l'inno del c. 28 la sapienza trascendente di Dio deve interdire all’uomo di porsi interrogativi sul m istero del dolo­ re. Per Elihu la sofferenza è via preziosa per la purificazione e l’educazione dell'uomo. E, infine, per i discorsi di Dio la sofferenza è un m istero incluso nella sapienza e nella potenza di Dio: Dio è presente in essa come lo è nella creazione. Questo è il quadro elementare ed essenziale degli scopi che l'editore finale ha coordinato (forse non sempre limpidamente) nella pubblicazione di Giob­ be. La sofferenza è la via per illuminare o criticare le varie teologie della fede, della retribuzione, della realtà creaturale, della sapienza, della paideia e del mistero divino. Il merito del risultato finale, reperi­ bile a livello di opera terminale, è quello di avere con la sua « eterodossia » liquidato lo schema sem­ plicistico della teologia retribuzionistica e, quindi, di tutti gli antropomorfismi e di aver aperto la via a una serie di proposte inedite che ancor oggi inter­ pellano l'uomo. Eccoci, allora, alla seconda tappa della nostra scoperta del mistero del libro di Giob­ be.

Il

m o v im e n t o

c e n t r if u g o

Sulla scia di alcune intuizioni illuminanti del Hiob di K. B arth68 vorremmo raccogliere alcuni spunti che servano da riferimento al lettore odierno per una riflessione fedele su Giobbe. Con essi è possibile coordinare in unità anche i precedenti « misteri » di Dio, dell'uomo e del dolore. a) Giobbe nei suoi interventi e, con lui, l’uomo sofferente e credente sanno che ciò che stanno spe­ rimentando proviene da Dio anche se non conoscono come e fino a che punto la loro prova dipenda da Dio. Dio, infatti, in questa esperienza risulta in­ comprensibile e il credente contesta a Dio il diritto di 68 K.

B arth ,

Hiob, Neukirchen-Vluyn 1966.

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Il mistero del libro

manifestarsi sotto questa forma repellente69. L'inter­ rogativo di base più che sull'assurda ripartizione della sofferenza è centrato piuttosto sul mistero del­ la presenza di Dio nella sofferenza stessa. b) L'obbedienza di fede di Giobbe e del credente non è mai messa in questione (2,10; 6,10; 12,10; 19,6.21-25; 27,2; 31,28). Il problema si articola piut­ tosto sulla qualità stessa dei contenuti della fede. Infatti, avendo Dio mutato liberamente la forma della sua rivelazione nella vita di Giobbe, la sua presenza e la sua realtà diventano di fatto irricono­ scibili, almeno secondo la prospettiva di fede finora vissuta. Dio ora domanda al credente di accettare liberamente l'obbedienza della fede nella nuova e sconcertante proposta liberamente avanzata da Dio (il « per niente » di 1,9). Il mutamento della forma dell'obbedienza di fede parallela al mutamento della forma di rivelazione di Dio costituisce a nostro avvi­ so il messaggio centrale del.libro. Ortodossia e or­ toprassi si rivelano, così, fortem ente correlate tra loro. c) Giobbe intuisce questa metamorfosi di Dio e ten­ ta di bloccarla. Egli, infatti, m ette sul tappeto la sua innocenza per forzare Jahweh a ridiscutere la sua nuova decisione e a riportarsi sul cammino di fede dell‫׳‬uomo secondo lo schema antico. Ma Dio vuole che Giobbe accetti che la sua « giustizia » personale non è un bene che possa rivendicare qual­ cosa da Dio perché anch'essa è un dono, come un dono strano è anche il nuovo atteggiamento di Dio nei confronti del fedele. Dio non costringe Giobbe a confessarsi peccatore, ma lo invita a riconoscere che la sua « giustizia » e la sua fede non gli permettono di forzare l'amore misterioso di Dio e la sua supre­ ma libertà. Giobbe allora comprende che non può appellare a un « migliore Jahweh » contro lo Jah­ weh presente: l'Eloah-Elohim della sofferenza è sempre lo stesso Jahweh della gioia. In altri termini Giobbe deve intuire che il Dio contro di lui è ancora

Il mistero del libro

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il Dio per lui. Il nodo centrale dell’opera resta so­ stanzialmente quello della fede. Nota giustam ente H. K iing70: «L'uomo afflitto dalla sofferenza, dal dub­ bio, dalla disperazione trova un estremo puntello nella realistica ammissione della propria incapacità di decifrare l'enigma del dolore e del male, nella serena rinuncia alla pretesa di emettere una senten­ za, quale censore neutrale e addirittura innocente, su Dio e sul mondo, nell'energico rifiuto di ogni sia pur tenue e tacito sospetto che il Dio buono non sia veramente buono con gli uomini. Positivamente: nel suo coraggio, non confortato da valide garanzie e tuttavia liberatorio, di offrire sem plicem ente una fiducia incondizionata e totale al Dio incomprensibi­ le pur nella morsa del dubbio, della sofferenza e della c o lp a ... Ecco una fiducia di fondo veramente radicale, che non si limita a placare esteriorm ente ira e ribellione, ma le risolve in se stessa, giungendo anche a sostenere la permanente incom prensibilità di Dio ». d ) Il volto di Dio offerto dal libro di Giobbe non deve essere, poi, ridotto ad una maschera che alla fine rivela il sorriso di uno sbrigativo happy end. Dio non è mai visibile completamente. Nonostante lo stereotipo dell'apparizione nel turbine (38,1) e la frase di 42,5 (« i miei occhi ti vedono»), non c'è in senso stretto una teo-fania nel libro di Giobbe. Si tratta piuttosto di una logo-fania divina: è la Parola di Dio lo strumento decisivo dell'esperienza religio­ sa. È una parola risolutiva, superiore, carica di liber­ tà e persino di ironia. È una parola magnifica nel contenuto, è una celebrazione della libertà del crea­ tore e dell'amore del salvatore. Il libro svela, allora, un'altra sua matrice fondamentale, la scoperta della vera realtà di Dio non attraverso l'idolatria d'un volto ma attraverso la libertà inafferrabile della pa­ ro H. KtiNG, Essere cristiani, Milano 1976, p. 332. Giustamente anche Terrien (o.c., pp. 3549) pone al centro del « mistero » di Giobbe la questione della fede pura ma vi mescola al­ cuni dati che superano eccessivamente il referente iniziale, cioè la teologia del libro: la inserzione della problematica del simul iustus et peccator è completamente eterogenea alla proposta giobbica.

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rola e dell'amore. Scrive J. Lévèque71: «Giobbe, perdendosi, si ritrova, perché Dio, una volta che è stato accolto, rivela l'uomo a se stesso. Jahweh, nel momento in cui manifesta la sua prossim ità e la sua tenerezza, non abdica a nulla della sua trascendenza ed è ciò che rende così austero il messaggio del libro di Giobbe. Ma Dio ingrandisce Giobbe senza lasciarsi diminuire, come Giobbe ha magnificato Dio ricusandone le caricature. Jahweh non aggiunge nul­ la perché ormai il suo silenzio non velerà più il suo amore. Giobbe ugualmente tacerà: ha visto Dio e tutto è detto ». e) Anche nella presenza degli amici si cela un m es­ saggio per noi. Il giudizio dato dal redattore finale sulla loro parola è radicale, essa è « menzognera » (42,7-8; 13,7) nel senso biblico d'un im plicito ateismo (la negazione della « verità » di Dio). Anche Giobbe si rifiuta a più riprese di prendere in considerazione quella parola e la respinge in blocco (6,15-16; 12,2; 13,4.9-10.12; 16,2; 19,2-3; 26,2-3; 27,5). Eppure le ar­ gomentazioni degli amici sono bibliche, hanno e avranno passi paralleli in tutto l'arco veterotestam en­ tario. Le ragioni della loro condanna sono due. Essi applicano la loro teologia personale e ufficiale come se fosse la stessa parola di Dio che interpreta il caso concreto di Giobbe. Questi teologi si sentono quasi i colleghi di Jahweh, lo « capiscono », lo interpellano direttamente invece di sentirsi capiti e interpellati da lui. In secondo luogo aboliscono la storia che è l'incrocio della libertà imprevedibile di Dio e di quella dell'uomo e vi sostituiscono gli schemi rigidi dei loro meccanismi teologici necessitanti (la legge della retribuzione). Giobbe diventa così un « caso » a cui applicare determinate regole e a cui riservare alcune ricette, Dio è un « super-caso » a cui si attri­ buiscono meccaniche celesti ben identificabili. In questa apologia illuministica di Dio essi ritagliano tutto ciò che è libero e imprevedibile, e cioè tutto ciò che è autenticamente divino e umano. Il povero uomo che cade sotto le loro analisi implacabili è 71 J. Lévéque, Job, in Dictionnaire de Spiritualité ascétique et mystique, voi. VIII, Paris 1974, col. 1216.

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murato per sempre nella maledizione o nella bene­ dizione, nella disperazione o nella giustizia secondo i loro schemi interpretativi. Giobbe, invece, ribellan­ dosi e spezzando questa parete « religiosa » oppri­ mente, scopre nella sofferenza una nuova e m isterio­ sa tappa della sua storia di salvezza, una nuova m isteriosa forma della presenza di Dio all'uomo sempre amato.

LA « TRADIZIONE-GIOBBE »

Di ogni scacco subito giustamente dalla teologia il peggiore è il grido di gioia emesso dalle religioni po­ sitive di fronte alla disperazione dei non credenti. Ma­ gari a ogni negazione di Dio intonano il loro Te Deum, perché quelli hanno almeno usato il nome di Dio. T heodor

W. Adorno

A. Lods ha scritto giustamente che Giobbe « appar­ tiene al folklore internazionale » 1. Vi appartiene non sempre come presenza specifica ma più spesso come riferimento esemplare di un archetipo universale: la sofferenza umana, infatti, è un dato esistenziale co­ stante a cui l'uomo deve far fronte e contro cui deve reagire. Per questo non ci si deve stupire se qualche studioso ha cercato paralleli a Giobbe persino nella cultura indiana, sfogliando i Puràna, cioè « gli anti­ chi testi » dell'Induismo, giunti a noi in una stesura che è della prima metà' del I millennio a. C. ma che svelano fonti arcaiche per la conoscenza delle cre­ denze, dei riti e degli atteggiamenti indù. Tra quelle pagine i Markandeya Puràna con la storia edificante del re Hariscandra sembrano idealmente avvicinarsi al lontano « fratello Giobbe ». Giobbe, infatti, è quasi il compendio sim bolico del respiro di dolore che sale dall‫׳‬umanità. Il poeta ebreo triestino U. Saba nella sua lirica La capra aveva racchiuso nel lamento di questo animale che forse si torceva sull'erba negli spasimi del parto la sigla universale del dolore. Ho parlato a una capra, Era sola sul prato, era legata. i Les prophètes d'israèl et les débuts du Judàism, Paris 1969, pp. 23 e 331.

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Sazia d ’erba, bagnata dalla pioggia, belava. Quell’uguale belato era fraterno al mio dolore. Ed io risposi, prim a per celia, poi perché il dolore è eterno, ha una voce e non varia. Questa voce sentiva gemere in una capra solitaria. In una capra dal viso sem ita sentivo querelarsi ogni altro male, ogni altra vita.

Si usa così pai lare di una TRADIZIONE-GIOBBE che, come direbbe il filosofo francese G. Marcel, più che esaminare la sofferenza come problema da ri­ solvere, la vede più spesso come m istero da sondare. Questa corrente viva di riflessioni e di interrogativi, che si snoda come un fiume immenso dalle sorgenti stesse della letteratura per approdare fino alle no­ stre città, ha proprio il libro di Giobbe come spar­ tiacque ed è per questo che dal nostro protagonista assume nome e tipologia, Prima di lui e con lui si sviluppa la fase orientale « sapienziale », dopo di lui è la letteratura dell'era cristiana che ormai si rife­ risce esplicitamente a Giobbe. « Giobbe, quindi, è cresciuto non in una serra culturale, asetticam ente isolata da tutto l'ambiente circostante bensì è una pianta vigorosa ed originale che si è sviluppata in un terreno fertile » 2.

Giobbe e la sapienza ortodossa « È dall'Egitto che è uscita la sapienza per raggiun­ gere il paese in cui vivo »: così scriveva nell'XI sec. a. C. l'egiziano Wen Amon (2,20: ANET, p. 27), esule in Fenicia. Se l’Egitto è stato quindi la culla del genere letterario sapienziale con la sua quindicina di 2 A. Bonora, Il contestatore di Dio, Torino 1978, p. 31.

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« sapienze » 3, è altrettanto vero che altrove, soprat­ tutto in Mesopotamia, questa nuova disciplina è fio­ rita contemporaneamente con altri prodotti di alto liv ello 4. Una radice comune alimentava questa fiori­ tura lussureggiante: la preoccupazione piuttosto pragmatica di formare le nuove leve del potere, i delfini di corte, gli alti magistrati e gli alti gradi dell'esercito. La scrittura, apparsa almeno attorno al 3000 a Sumer, e Ye.dubba. cioè il primo sistem a scolastico, avevano rivoluzionato le tecniche di for­ mazione dei burocrati e dei boiardi di sta to 5. Di fronte al caos minaccioso dei problemi posti da un'esistenza sempre più complessa ed imprevedibile era necessario attrezzare questi funzionari al savoir faire, alle relazioni sociali, all'etichetta, all'attività politica. Per questo uno dei termini originari più significativi per definire la sapienza era l'arcaico vocabolo femminile tahbulot (Pr 1,5), la kybérnèsis greca (LXX), l’arte del governo. La metodologia didattica poteva sostanzialmente es3 Ecco una lista di « sapienze » egiziane: Istruzione di Kaires per Kagemni (2600 a.C.); Istruzione di Hordjedef, figlio di Cheope (2600 a.C.); Massime di Ptah-hotep, vizir di Isesi (2450 a.C.); Istruzione per Merikare (2100 a.C.); Istru­ zione di Amen-hemet I (1950 a.c.); Istruzione di Kheti, figlio di Duauf (1700 a.C.?); Sapienza di Amenhotep, figlio di Hapu (?); Sapienza di Any (1200 a.C.); Istruzione di Amennakhte (?); Sapienza anonima della XIX-XX dinastia (1300 a.C.); Sa­ pienza di Amen-em-ope (1000 a.C.); Sapienza del Papiro Brooklyn 47. 218.135 (VI sec. a.C.); Sapienza demotica di Co­ penhagen (Papiro Carlsberg: IV-II sec. a.C.); Papiro Insinger (epoca tolemaica); Istruzione di Oniesonky (IV sec. a.C.). 4 Ecco una lista delle « sapienze » mesopotamiche: Sapienza sumerica di Shuruppak (2400 a.C.); Sapienza accadica ano­ nima (1500 a.C.); Sapienza di Shube-awilim di Ugarit (ca­ nanea: XIII sec. a.C.); Consigli a un principe (1000 a.C.); Sapienza di Ahiqar (aramaica: V sec. a.C.). 5 Vedi J . J. A. van Dijk, La sagesse suméro-accadienne, Leiden 1953, pp. 21-27; H . G ese , Lehre und Wirklichkeit in der alten Weisheit, Tiib in g e n 1958; Y. R osengarten , Le nom et la fonction du « sage » dans les pratiques religieuses de Sum er et Akkad, in « Revue H is t. Religions » 162, 1962, 133‫־‬ 146; J. P . J. O l iv ie r , Schools and Wisdom Literature, in « Joum. N o r t h w e s t S e m itic L a n g . » 4, 1975, 49-60; P h . N el , The concepì of « Father » in thè Literature of thè Ancient Near East, in J N E S 5, 1977,53-66; H .-P . M uller , Die weisheitliche Lehrerzàhlung im A.T. und seiner Umwelt, in « D ie W e lt d e s O r ie n ts » 9, 1977, 77-98,

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sere duplice: l'uria sistematica, scientifica, a formu­ lazioni universali, a procedimenti astratti, a teoremi e tesi; l'altra empirico-gnomica, sperimentale ed in­ duttiva. La linguistica e la psicologia sem itica non potevano optare che per la seconda via. Si decideva, così, il campo della sperimentazione e da esso si estraevano sintesi globali. All’accostam ento di osser­ vazioni parallele che raccoglievano un fascio omoge­ neo di dati si accompagnava spesso il contrasto, cioè la compresenza simultanea di riflessioni o rileva­ zioni antinomiche (« parallelismo antitetico »: Pr 17,27-28; 26,4-5) così da allenare al confronto ed al discernimento critico. Iniziava in questo modo uno splendido giuoco intellettuale, un raffinato esercizio della mente, della volontà, della passione e detrazio­ ne, secondo le dimensioni del « conoscere » sem iti­ co. Come ha suggerito esattam ente B. L ang6, nasce­ va una vera e propria Gestalt del pensiero sem itico. Se uno solo dei due metodi fu quello adottato, duplice però fu l'esito a cui condusse questa prima cosciente sistematizzazione del pensiero e della cul­ tura. Una linea più ortodossa e conservatrice si accontentò di rilevare i dati dell'esperienza senza marcarne le frequenti contraddizioni e sfociò in una proposta pragmatista ed utilitarista di stampo pro­ to-borghese, intrisa di perbenismo e buonsenso. È questo sostanzialmente il caso di tutte le « sapien­ ze » che abbiamo citato. Per quelle egiziane si pensi, come ad esempio, alla Sapienza di Amen-em-ope del 1000 a. C. parzialmente confluita in Pr 22,17-23,11 7; per quelle « orientali » alla famosa Sapienza di Ahiqar, testo aramaico del V sec. a. C. noto anche alla B ibb ia8. La visipne sottesa a questi testi porta con 6 Frati Weisheit, Diisseldorf 1975. i A. B runet , Prov 22,17-24,22 et la possibilité d ’une source égyptienne, in « Sciences Eccl. » 1, 1948, 1940; E. D rioton , Proveròes et Amenemopé, in « Sacra Pagina » 1, 1958, 229241; B . C ouroyer, L'origine égyptienne de la sagesse d ’Amenemopé, in R B 70, 1963. 208-224. 8 P. G relot, Les proverbes araméens d ’Ahiqar, in RB 68, 1951, 178-194. L’opera è stata ritrovata nella biblioteca della colonia giudaica egiziana di Elefantina e ad essa si allude in Tb 1,21-22; 2,10; 11,18; 14,10-11.

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sé un ottimismo di fondo che sarà esemplificato nel celebre dogma della retribuzione testim oniato dai Proverbi e dagli amici di Giobbe. Peccato e castigo, da un lato, e giustizia e premio dall'altro, sono realtà verificabili nel giudizio che la storia dà del­ l'umanità. Ma accanto a questo sbocco idilliaco prende con­ sistenza un'altra visione più realistica, più « intellet­ tuale » e più « eterodossa » che, ribellandosi al ba­ nale ottim ism o tradizionale, fa esplodere le contrad­ dizioni del reale. Si formano così precisi atti d'accu­ sa contro una lettura semplificata deH'esperienza che ignora le contraddizioni, il grido lacerante del povero e dell'innocente sofferente. Questi attacchi radicali sono destinati a mettere in crisi il modello retribuzionistióo. È nata così la « tradizione-Giobbe » che documenteremo con ampiezza nella storia del pensiero orientale. Ma per poterne comprendere tut­ ta la potenza demistificante sarà indispensabile identificare le strutture fondamentali della « sapien­ za » in genere documentandole sulla base della lette­ ratura sapienziale biblica 9. Infatti, per orientarsi in questa foresta intricata di questioni, di interrogativi, di forme letterarie e stilistiche, di riflessioni è ne­ cessaria una mappa che tracci le direttrici e le ramificazioni principali del percorso. Alcune indi­ cazioni ulteriori saranno offerte durante la lettura del testo stesso di Giobbe, in particolare in occasio­ ne del famosi) inno alla sapienza del c. 28, altre informazioni più dettagliate potrebbero essere de­ sunte da un'immensa bibliografia di cui ora presen­ tiamo una selezione essenziale.

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Altri dati ci provengono dall’analisi comparata con le culture della Mezzaluna Fertile. La Bibbia dimo­ stra, infatti, di conoscere i centri sapienziali classici ed i loro istituti, da Babilonia (Gr 50,35; 51,57; Is 44,25; 47,10); all’Egitto (1 Re 5,10-11; Gn 41,8; Es

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7,11), da Canaan (Ez 28,3.17; 27,8; Zc 9,2) ad Edom (Gr 49,7; Gb 2,11; 1 Re 5,10; Abd 8). È con l'apertu­ ra ecumenica della politica salomonica che Israele attua un piano di intensi scambi culturali costituen­ do così una sua « sapienza » 10. È per questo che Salomone diverrà quasi l'archetipo del perfetto sa­ piente e del perfetto politico (1 Re 4,20; 5,1.4-6.9-14; 10,10-13.23.25); da lui si farà discendere una genealo­ gia di prodotti letterari: dalle collezioni dei Prover­ bi (1,1; 10,1; 25,1) a Qohelet ed alla Sapienza, opere, queste ultime, decisamente tardive ed autonome. La costituzione d'Israele in stato strutturato richiedeva la presenza di istituti di addestramento giuridicosapienziale, come nelle parallele organizzazioni stata­ li medio-orientali ‫ ״‬. Ma sarà soprattutto all'inizio del VII sec. a. C., dopo la riforma del re Ezechia (Is 5,1; 29,13-16; 30,1-5; 31,1-3) che i « saggi » diverranno una vera e propria classe dirigente ed intellettuale accanto alle tradi­ zionali stratificazioni del potere incarnate dal re, dai sacerdoti, dai profeti ufficiali e dagli anziani (Is 29,14; Mi 3,11; Gr 18,18; 2,8; 8,8-9; 9,22-23; Ez 7,26). Di questa sapienza, che è fenomeno culturale inter­ nazionale ed esperienza specifica d'Israele, cer­ chiamo allora di tracciare il quadro fondamentale, multiforme nelle sue manifestazioni ma unitario nel suo oggetto di studio, cioè l'uomo, còlto nelle sue re­ lazioni essenziali. Gli studi recenti sulla sapienza bi­ blica e su quella d'« oltre frontiera » hanno forte­ mente influito sull'evoluzione dell'interpretazione di Giobbe. Il nucleo ideologico centrale della riflessione sapien­ ziale potrebbe essere formulato con una domanda­ tesi di Qohelet (1,3): ma jitron la’adam bekol * 'amalo? H. C azelles , Les débuts de la sagesse en Israel, in ., Les Sagesses du Proche Orient, Paris 1963, pp.27-40. Le lettere di Araama (1400-1350 a.C.) e le scoperte di Ugarit rivelano la presenza a Canaan di una letteratura sapienziale autoctona. 11 Cfr. A. Alt, Die Weisheit Salomos, in « Theol. Literaturzeitung » 76, 1951,139-144; N. W. P orteous,Royal Wisdom, in VTS 3, 1955, 247-261. 1°

aa.w

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Qual è il vantaggio che l'uomo trae da ogni suo sforzo? Per un pensatore radicalmente scettico com ’è Qohelet la domanda ha il valore di una sfida ed è insisten­ temente gettata contro ogni « sforzo » umano tecni­ co, scientifico, culturale, erotico e pratico per farne risalire l'assoluta inconsistenza (2,3.11; 3,9.12; 6.11-12; 7,11.26; 8,15; 2,22; 5,15b; 6,8; 10,10-11). Con risposta positiva la domanda sta alla base anche della ricerca proverbiale: la realizzazione piena del­ l'uomo è, infatti, il centro di interesse dell'intera collezione dei Proverbi, una realizzazione fondata, più che sui doveri, sulle risorse e sulle potenzialità dell'uomo. La simbologia emblematica della sapienza è soprattutto « vitale »: l'albero della vita e la sor­ gente della vita (Pr 3,18; 11,30; 13,12; 15,4). Su questa base ideologica radicale sorge un sistem a molto articolato di cui ora indichiamo le strutture essenziali. а.

P r a g m a t is m o

La nascita della sapienza nel mondo sem itico avvie­ ne nel grembo piuttosto oscuro della magia e della mantica, come testimonia indirettamente la stessa Bibbia per la Mesopotamia (Is 47,10; Est 1,13; б,13; Dn 2,27; 4,3) e per l'Egitto (Es 7,11; Gn 41,8). In Israele, invece, la sapienza nasce già desacralizza­ ta: la sua culla è la conoscenza pratica. Potremmo dire che i due motti della sapienza ebraica sono espressi limpidamente dalle pagine sapienziali d'e­ sordio alla Bibbia stessa: Gn 1,28 (P): « Possedete la terra e dominatela! » Gn 2,15 (J): « L’uomo fu posto sulla terra per lavo­ rarla e custodirla ».

Se poi badiamo alla qualità dei due verbi usati dallo Jahvista, ci accorgiamo che essi ('bd e èmr) hanno anche una semantica teologica, essendo per eccellen­ za i verbi dell'Alleanza (« servire » e « osservare »).

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La sapienza colloca l’impegno umano e religioso nel­ l'ambito di un'alleanza cosmica e pratica. Nata con questo temperamento, era naturale che ben presto la sapienza ebraica acquistasse connotati prag­ matici ancor più definiti e specifici, trasformandosi in un atteggiamento sostanzialmente « illuministico » 12. Non si tratta certo di razionalismo occidenta­ le né di razionalismo ateo. Infatti il « conoscere » sem itico implica, oltre all'elemento intellettuale, an­ che le componenti affettive, effettive e volitive. È una esperienza globale simile a quella che intercede tra due sposi. Né d'altra parte è possibile nell'ambito biblico concepire una razionalità umana contrappo­ sta a quella di Dio, unico arbitro del senso della realtà: Jahvè è sempre il sapiente che partecipa all'uomo e al cosmo la sua razionalità proprio per la sua qualità di creatore (Pr 3,19; Is 40,13-14; Gr 10,12; 51,15; SI 104,24; cfr. Pr 21,30; Is 31,2; Gr 8,9; Dn 2,20-23). Così in Gb 9,4 di Dio si dice che è « saggio di mente » perché « in lui risiede la sapienza » (12,13). Questo razionalismo pragmatico si esplica in una valorizzazione sistem atica della cultu­ ra e delle realtà terrestri senza tentazioni dualisti­ che o integralistiche, ma con un'apertura ed un rispetto insospettabili in una comunità a struttura teocratica. Sorge così la coscienza che la tecnica è frutto della sapienza: dal commercio all'arte del fonditore, dal­ l'edilizia alla tessitura (Es 28,3; 31,6; 35,10.25; 36,1-2.8; 1 Re 7,14; Is 40,20; Gr 10,9; Sir 9,17; Ez 28,1-10; 27,8; Is 28,23ss). Superando i complessi e le esitazio­ ni pietistiche derivanti dalla teoria della retribuzio­ ne, il Siracide preciserà anche l'importanza del me­ dico nella malattia (38,1-15). La politica è ugualmen­ te posta sotto il segno della sapienza: l'uomo di stato deve saper discernere con acutezza il bene dal male, l'utile dal nocivo, il vero dal falso (Is 11; 2 Sm 14; 1 Re 3; Dt 1,13; 34,9; Gn 41,33; Esd 7,25; Is 5,21; 29,14; Gr 9,22; 18,18; Is 44,25; Gr 5D,35; 51,57; 12 Vedi H. C azelles, Bible, Sagesse, Science, in RSR 48, 1962, 40-54 e l'ottimo studio generale di R. N. W hibray , The intellectual tradition in thè O.T., Berlin/New York 1974.

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Qo 4,13; 2 Cr 1,10; 2,11). Le stesse public-relations rientrano nell’orizzonte sapienziale: etichetta, edu­ cazione, acume psicologico (2 Sm 13,3; 1 Re 2,6; Pr 10,15; 20,14; 21,14; 30,15-16.18-19). È necessario persino il galateo perché « non diventerà educato chi manca di capacità» (Sir 21,12). Tutti i valori, anche « laici », sono convocati a costruire il perfet­ to uomo e il perfetto credente ed a costituire il più qualificato omaggio a Dio. La sapienza è, quindi, l'arte del vivere (Pr 1,5; 11,14) nella povertà e nella ricchezza, nella gioia e nella tristezza; nel lavoro e nell'economia (Pr 6,6; 10,15; 12,25; 13,7-8; 14,10.13.20; 15,13.30; 16,26; 17,8; 18,16). La sapienza è, quindi, celebrazione dell'intelligenza umana. Una celebrazione che punteggia ogni pagina ed ogni aforisma sapienziale. La fisionomia dello « scriba » descritta con ammirazione e rispetto in Sir 39,1-11 è quella di un intellettuale che « si applica, medita, indaga, si dedica, conserva, penetra, s'occupa, viaggia, investiga, effonde parole di sapien­ za, dirige, brilla e sa pregare ». « Finché vive, lasce­ rà un nome più noto di mille, quando muore avrà già fatto abbastanza per sé » (v. 11). Per questo lo schema costante della proposta sapienziale è quello ‘ padre-sapiente ‫ ׳‬e ' figlio-discepolo '; per questo la sapienza è confrontata, attraverso il modulo della comparazione, con le realtà più preziose dell'univer­ so che, ad essa confrontate, si riducono ad una manciata di fango e di polvere (Pr 2,4; Sap 7,8-10). b.

A n t r o p o c e n t r is m o

Dallo sperimentalismo illuministico sopra descritto deriva una nuova figura d'uomo: non è più l'Israele ebraico ma l'Adamo universale. Certo, restano an­ cora tratti tradizionali aristocratici (Pr 14,28.35; 16,10-15; 19,12; 20,2.8.26.28), ma ormai si apre una riconsiderazione « democratica » generale dell'uomo nelle sue dimensioni fondamentali. Questo « umane­ simo integrale » affronta le questioni essenziali di ogni uomo che appaia sulla faccia della terra: dai temi filosofico-teologici (senso della vita e teodicea)

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a quelli etici (il prossimo), da quelli sociali (giustizia e politica) a quelli pratici (il nesso uomo-mondo). Si sviluppa così una riflessione sulla libertà, cara ironi­ camente anche a Qohelet, e studiata con due sim bo­ lismi originalissimi, il riso e la danza. Il sapiente guarda e « ride » (Pr 1,26) quando l'uomo insen­ sato crede di poter ignorare l'ordine del mondo: è un'esperiènza gioiosa ed ottim istica sim ile a quella con cui la sapienza opera danzando davanti a Dio (Pr 8,30-31 ove è usato il verbo della danza dei giovani). Una libertà che è armonia ed abbandono, pieno d'ebbrezza, al ritmo del mondo. Un conserva­ tore illuminato come è il Siracide scrive in 15,11-20 una lucida dichiarazione sulla grandezza dell'uomo libero, « di poco inferiore a D io» (SI 8,6). Egli può decidere non solo destini marginali (« fuoco ed ac­ qua ») ma il destino definitivo (« vita e morte »). All'uomo, come ad un sovrano, « sarà dato ciò che a lui piacerà » (15,17); perciò non potrà dire: « Mi ha sviato il Signore» (15,11-12). È la libertà che rende possibili l'equilibrio ed il criterio nel giudicare, co­ me insegna Agur in un suo loghion conservato nei Proverbi: Tieni lontano da me falsità e menzogna, non darmi né povertà né ricchezza, ma fammi avere il cibo necessario (30,8). In questa antropologia nuova ed aperta anche la visione della società muta 13. Si inizia celebrando appassionatamente l'amicizia, come fa, ad esempio, il Siracide (6,5-17): «u n amico fedele è una prote­ zione potente, chi lo trova, trova un tesoro. Per un amico fedele non c'è prezzo, non c'è peso per il suo valore. Un amico fedele è un balsamo di vita, lo troveranno quanti temono il Signore » (6,14-16). In questa luce si intuisce lo stridore che fanno gli amici di Giobbe violando questa norma della rela­ zione sociale sapienziale. Il « prossimo » indicava originariamente in Israele The social background of Wisdom Literature, in « Hebrew Union Coll. Ann. » 18, 1943-44, 77-118.

13 R . Gordis ,

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chi aveva un legame di sangue o di tipo tribale con un altro membro della comunità israelitica. La lette­ ratura sapienziale rompe questo cerchio eccessiva­ mente ristretto ed assegna alla parola un significato più vasto, 1‫ «׳‬altro » (Pr 6,1.3.29; 22,17; 25,9), a* prendo così la strada aH'allargamento definitivo che Cristo opererà includendo nel concetto gli stessi nemici (Mt 5,43ss). Un esempio di questa nuova società e delle sue relazioni è offerto dalla pagina di Pr 3,27ss. L'avvio della pericope è significativo per delineare l'impegno « orizzontale » del creden­ te: Non negare un beneficio a chi ne ha bisogno, se è in tuo potere il farlo. Non dire al tuo prossimo: Va’, ripassa, te lo darò domani, se tu hai ciò che ti chiede (3,27-28). Questo impegno dev'essere continuamente ricordato dalla liturgia se non si vuole che essa si riduca, come insegnava ripetutamente la teologia profetica (1 Sm 15,22; Os 6,6; Am 5,21-25; Mi 6,6-8; Is 1; Gr 6,20; 7,21-23), a magia. Così il Siracide, che pure ama la liturgia ebraica come testimoniano gli inni da lui raccolti (c. 36) e l’esaltazione del rituale ebraico nelle figure dei sacerdoti Aronne (45,6-22) e Simone (c. 50), nel c. 35 si appassiona nel richiamare l’im­ pegno di giustizia e di carità che deve animare il culto. Anzi, la stessa pratica della Legge e delle esigenze sociali è già opera cultuale. Il senso comunitario ed « ecclesiale » è fondamenta­ le nella concezione antropologica biblica. La tenda della famiglia, prima, e del Tempio, poi, è il luogo in cui Israele si presenta a Dio e celebra il memoriale della Pasqua. La ramificazione del singolo nella so­ cietà e la costruzione del nucleo familiare creano, perciò, un interesse vivissimo anche nella pedagogia dei sapienti. Se, come spesso succede ancor oggi, nei detti popolari affiorano punte evidenti di misoginia, al cui sviluppo in Israele contribuì la prostituzione sacra dei culti cananei della fertilità (Pr 5 e 7), è altrettanto vero che alcuni brani sulla donna deli­

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neano con rigore ed amore un ideale femminile molto alto. La parità dei sessi è celebrata nel primo canto d'amore di Gn 2,23: «Q uesta volta essa è carne dalla mia carne ed osso dalle mie ossa ». L'intelligenza, il fascino e lo stile della donna sono cantati da Sir 26, mentre l'ultima pagina dei Prover­ bi (c. 31) accoglie un inno alfabetico che abbozza un ritratto femminile fortemente responsabilizzato nelle decisioni economiche, sociali ed educative della fa­ miglia. Anche quello strumento essenziale della comunica­ zione sociale che è la parola è ristudiato, talora con finissime notazioni psicologiche. Essa è creatrice di dialogo e di comunione (Sir 27) ma può essere un fuoco o una fonte di acqua velenosa (Gc 3,1-12). Lo insegna, accanto a molteplici testi proverbiali, anche il discorso d'apertura che Sap 1 pone in bocca a Salomone e che è costruito su un campionario di termini inerenti a questo « piccolo membro »: lab­ bra, voce, mormorazione, calunnia, suono, pronun­ ciare, calcolo, sussurro, parole, eco, bocca, menzo­ gna ... c. L'ortoprassi

La criteriologia sapienziale e l'antropologia che ne deriva producono una visione etica preoccupata, più che dell'ortodossia teorica, dell'ortoprassi: « sapien­ te » e « giusto », « stolto » ed « empio » diventano in pratica sinonimi (Pr 4,11; 12,8; 15,21; SI 37,30; 19,8; 119,98). L'equazione « la sapienza migliore è il timore di Dio » (Pr 1,7) può essere anche reversi­ bile (Os 4,6; Is 11,2; Gr 8,9; 9,11.22-23; Dt 4,6; Is 33,6; SI 19,8; 37,30-31; 107,43). Il tob (« bene ») sapienziale è innanzitutto la realizzazione dell'uomo: ciò che è tob per l'uomo è l'oggetto primario della ricerca morale prima ancora di ciò che è tob « agli occhi di Jahweh » (Pr 3,14; 8,11.19; 12,9; 15,16-17; 16,8.16; 17,1; 19,1.22; 21,9.19; 25,7.24; 27,5.10). La teoria della retribuzione, che farà da supporto teorico a tutta la speculazione sapienziale tradizio­ nale (gli amici di Giobbe), rende la morale sapien­

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ziale sostanzialmente immanente. Così la morte non è letta come esperienza umana universale, ma come evento a funzione morale destinato a equilibrare la tormentata e sghemba storia terrestre. Infatti, nella collezione più recente dei Proverbi (cc. 1-9) essa è il prodotto del peccato comm esso con la donna « straniera » o adultera (2,18; 5,5.23; 7,27); altrove, invece, piomba sull'uomo in seguito all'abbandono della sapienza (Pr 8,36; 13,14; 15,10; 19,16) o della giustizia e del timor di Dio (Pr 12,28; 14,27). Tutto l'arco della vicenda etica dell'uomo è racchiuso, quindi, entro due poli, il grembo della madre e il grembo della terra: l'unico stadio in cui l'uomo svolge la sua gara, l'unico tempo calcolato per il successo, l'unica ricchezza da investire sono raccolti in questo arco (Pr 2,19; 3,2.16; 4,10; 5,6; 6,23; 9,11; 10,17; 15,24). Nonostante qualche esitazione e qual­ che intuizione ancora simbolica ed acritica 14 la Mor­ te, e non l'immortalità, è il grande Giudice. I novis­ simi (‫׳‬aharit) del sapiente e dello stolto sono ammi­ nistrati da questa potenza che Dio scatena sull'em­ pio ed allontana dal giusto. Su questo tema si po­ trebbe preparare un'intera antologia proverbiale!s. Le stesse metafore sono significative: la morte è un «essere sradicati» (Pr 2,22; 10,31; 23,18; 24,14), un « togliere di mezzo », un « rovinare » (Pr 1,19; 6,32; 8,36), un masochismo suicida (29,24). Alla base di questa visione retribuzionistica vige un ottimismo incrollabile che si sforza di codificare una realtà che è invece magmatica ed enigmatica. Si comprendono, allora, quelle che Eliot ha felicem ente chiamato le « insurrezioni dell'esistenza » contro la teoria. È il caso della già menzionata sapienza « ete­ rodossa » che tenta di sondare con più coraggio ed autonomia il mistero della relazione Dio-uomo met­ tendo in crisi l'ottimismo retribuzionistico. Se, come « Si tratta di Pr 11,7; 12,28; 14,32; 15,24; 23,17-18. Ma il testo non è sempre limpido e si deve ricorrere, come fa il Dahood, alla filologia comparata. Inoltre il colpo di pollice decisivo in senso immortalistico è in genere offerto dai LXX. is Pr 1,26-27.33; 3,25; 4,19; 5,4.11; 6,15; 10,14.18.30; 11,5.14.28; 12,3; 13,3; 14,12-13; 16,4.18.25; 17,20; 20,21; 22,1425; 23,18.27.32; 24,1426; 25,8; 2627; 28,10.14.18; 29,1.25.

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vedremo, Giobbe e Qohelet sono i rappresentanti classici di questa ventata di originalità e di « uma­ nità » della Parola di Dio, l'esigenza di una revisione degli schemi troppo sem plicistici e coartanti emerge persino nei prodotti sapienziali più moderati com e i Proverbi ed il Siracide che, pur riconoscendo la giustizia immanente della storia e delle realtà ter­ restri, cominciano a sospettare che la ricchezza più che segno di benedizione divina può essere spesso indizio di perversità umana, di sfruttam ento e radi­ ce di presunzione (vedi soprattutto Pr 28-29, in particolare 28,6.8.11.16.22; 29,4.13.24.26; cfr. Sir 5,1-8; SI 49 e 73). Così essi s'accorgono che anche l'espe­ rienza più consolidata può cedere di fronte alla libertà m isteriosa del Creatore (Pr 10,22; 16,9.11; 16,33; 21,30-31). Dio non può essere incluso neppure in un sistem a così « sapiente » com ’è quello sapien­ ziale: « Molte sono le idee nella mente dell'uomo, ma solo il disegno del Signore resta saldo » (Pr 19,21; cfr. 21,30). Tuttavia, pur con queste riserve, per la sapienza classica, la scala dei valori è ben radicata nell'essere e nella storia per cui, pur essendo incrinato, il si­ stema morale e metafisico sapienziale è sempre re­ staurato e tenuto in piedi. d.

La

t e o l o g ia

La precedente impostazione cosmologica ed antropologica riesce facilmente a rivelare la concezione teo­ logica sottesa. Dio è in contatto diretto con la realtà nella sua qualità di Creatore e di garante del m ec­ canismo retributivo16. La teologia derivante potreb­ be essere definita in senso lato an-jahvista. Infatti la teologia ebraica classica è penetrata inte­ ramente dalla coscienza dell'elezione d'Israele (Dt 14,2). I Proverbi, invece, non mettono mai in scena Israele, il popolo dell'Alleanza, ma l'Adamo-Uomo (45 volte) ed ignorano il termine berit (« patto ») 16 Vedi Gb 28 ed il relativo commento. Cfr. anche Pr 3,19; 8; 21,30; Gb 9,4; 12,12-10, etc.

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che è presente solo in Pr 2,17 ove però designa il contratto matrimoniale. La teologia ebraica classica è strutturata sul Credo storico, cioè sugli interventi salvifici che Dio opera nella trama della storia. La sapienza, invece, è protesa sull'analisi dell'esistenza quotidiana comune, costante e quasi atemporale. La teologia ebraica classica proclama nella Torà e nei Profeti la « Parola di Jahweh » (ne’um-Jahweh, « oracolo di Jahweh »: 24 volte in Isaia, 170 in Geremia, 85 in Ezechiele, 21 volte in Amos ...). La sapienza ignora l'espressione e non si autopresenta mai come Rivelazione. La teologia ebraica classica si propone come norma­ tiva ed è costellata da imperativi apodittici o da norme circostanziali che esigono obbedienza. La sa­ pienza proverbiale ha, sì, le sue torot (Pr 1,8; 3,1; 4,2; 6,20.23; 7,2; 13,14; 28,4.7.9; 29,18; 31,26) ma sono sempre e solo « insegnamento », proposta concreta della sapienza e mai torà divina. La sapienza prover­ biale ha, sì, le sue miswot, « precetti » (Pr 2,1; 3,1; 4,4; 6,23, etc.) ma sono solo frutto dell'esperienza del sapiente. La sapienza proverbiale ha, sì, il richiamo al leqah, a « ciò che si deve accogliere », (1,5; 4,2; 9,9; 16,21.23), all'« orecchio-ascolto » (15,31; 25,12, etc.), ma il vocabolo tipico che specifica quasi a livello tecnico l'insegnamento sapienziale è ,esà « consiglio », « proposta » (8,14; 12,15; 20,5; 21,30, etc.). La sapienza, quindi, non cerca l'obbedienza, ma la tebunà, la « comprensione » (Pr 2,2.3; 3,19; 10,23; 15,21; 17,27; 20,5; 21,30; 24,3), la da'at, il « sa­ pere » (Pr 8,9.10; 10,14; 11,9; 18,15; 22,19; 29,7) 17. Sulla base di quanto si è detto è interessante ap­ paiare proibizioni i cui contenuti sono presenti an­ che nella Torà per farne risaltare la diversità d'ac­ centi. 17 Alcuni proverbi sembrano contraddire questa attitudine generale ma, ad un esame più accurato, si rivelano come im: perativi apparenti (10,1; 14,7; 20,13.16.22; 22,6.10). Oppure si tratta di « proverbi-guza », cioè accompagnati da una moti­ vazione esplicativa che giustifica e « razionalizza » l'impera­ tivo precedente (23,26-27; 24,14-15.19-20). Gli unici imperativi autentici nei Proverbi sono al massimo una dozzina (19,18. 20.27; 25,6.10.16.17.21.22; 26,4-5; 27,1.10.11).

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Giobbe e la sapienza ortodossa Pr 20,10 Doppio peso e doppia m i­ sura sono due cose in abominio al Signore.

Dt 25,13-15 Non avrai nel tuo sacco due pesi diversi, uno gran­ de e uno piccolo. Non avrai in casa due tipi di efa. Terrai un peso com­ pleto e giusto, terrai una efa completa e giusta.

Pr 25,18 Mazza, spada e freccia acuta è colui che depone il falso contro il suo pros­ simo.

Es 20,16 Non pronunciare falsa te­ stimonianza contro il tuo prossimo 18.

La teologia sapienziale, più ecumenica nell‫׳‬osm osi con le culture profane, è quindi un tentativo corag­ gioso di formulare un nuovo linguaggio teologico e di filtrare il messaggio ebraico alla luce di una nuova esperienza e di una diversa ideologia. Si pensi al processo intrapreso dal libro della Sapienza per mediare al contesto ellenistico la proposta ed i valo­ ri biblici. L'esperienza stessa, umana e religiosa, di Giobbe non è specifica, israelitica, ma universale, non è il patrimonio di un popolo, né è vincolata a confini o dogane: « Giobbe era di U z ..., un figlio d'O riente... » (1,1.3). e.

P l u r a l it à

del m o d ello

s a p ie n z ia l e

Il discorso sapienziale si attesta in m olti territori della letteratura biblica attraverso una penetrazione com plessa ed articolata 19 che non sempre si attua con un'esplicita adesione al m odello sapienziale (si pensi a Gn 1 e 2-3). Vogliamo ricordare tre settori entro i cui confini si può incontrare, magari mime­ 18 Anche nelle proibizioni apparentemente simili la costru­ zione sintattica è differente. Così, nel caso del rispetto dei confini agricoli, D t 19,14 usa la negazione assoluta lo', men­ tre Pr 22,28 quella relativa, ‫׳‬al e lo iussivo. w Vedi A. M. D ubarle, Les sages d’Israel, Paris 1946; R . E . M u r ph y , Seven books of Wisdom, Milwaukee 1960; I. F ranSe n , Les scribes inspirés, Tournai 1966; L. G. P erdue , Wisdom and cult, Missoula (Montana) 1977.

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tizzata, l’impronta sapienziale. La sfera giuridica in­ nanzitutto. Possiamo partire da una costatazione ambientale e sociologica: il processo nell'Israele antico si svolgeva en plein air, alla porta-municipio della città, davanti al consiglio degli anziani e senza una rigorosa proce­ dura giuridica. In questo contesto paesano era facile che la vittoria nella causa potesse essere conquistata con una sortita felice. Infatti, chi sapeva, anche con una buona dose d'istrionismo, piazzare un aforisma o uno sketch adatto poteva ridurre al silenzio l'avver­ sario 20. Così, ad esempio, se si esaminano le prescri­ zioni « quotidiane » raccolte nel c. 19 del Levitico, ci si accorge che la sequenza delle norme di stampo decalogico è inframmezzata da numerosi mesalim sapienziali. Anche nel Deuteronomio si trovano ele­ menti dipendenti dai Proverbi: la normativa, già citata sui pesi e le misure di Dt 25,13-16 sembra derivata e rielaborata da Pr 11,1 e 20,10.23. L'associazione tra la sapienza e la vita quotidiana e politica di Israele è documentata anche dai due apologhi arcaici di Jotam e Joas. Il primo, narrato in Gdc 9,8-15, è di chiaro sapore antimonarchico e riesce con la sua brillante trovata del rovo, re degli alberi, a bloccare in Israele un mutamento istituzio­ nale. Il secondo, attribuito al re d'Israele, Joas, in 2 Re 14,9 e carico anch'esso di ironia, tenta di frenare le velleità espansionistiche del re di Giuda Amasia ricordando l’incombere del comune pericolo assiro: « Il cardo del Libano mandò a dire al cedro del Libano: Da' in moglie tua figlia a mio figlio. Ora passò una bestia selvatica del Libano e calpestò il cardo ». Un secondo ambito su cui la sapienza influisce è quello profetico, un ambito m olto impegnativo per­ ché abbraccia molte pagine della letteratura profeti­ ca basate su forme o stilemi sapienziali21. Il Salte­ B. G e m se r , Motive clauses in thè O.T. lavo, in VTS 1, 1953, 50-66: l'A. offre una serie di esempi interessanti nelle pp. 64-66. 21 Am 3,3-6; 5,3.19; 6,12; Os 8,7; 10,1.12-13; Is 1,3; 2,22; 3,10-11; 10,15; 28,23-28; 32,5-8; Gr 13,23; 17,5-8; Ab 2,8... Cfr. J. Lindblom , Wisdom in thè O.T. prophets, in VTS 3, 1960, 192-204. 20

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rio, infine, accoglie nel suo interno un genere lette­ rario definito dal Gunkel in avanti salmi sapienziali (SI 1; 37; 49; 73; 91; 112; 119; 127; 128; 133 e 139) Il SI 1 è una rielaborazione scolastica del tema, classico nei Proverbi, delle « due vie »; nei SI 127 e 133 si riesce ad intravvedere costantem ente lo stile proverbiale, mentre nei SI 112 e 128 esso emerge solo in alcune strofe: si tratta sempre di aforismi brevi, parallelistici, incisivi. Altre volte (SI 37; 49 e 73) l'angoscioso problema della sofferenza dell'inno­ cente e del trionfo del malvagio dà origine a piccoli trattati di teodicea, tentativi di giustificazione dell'agire m isterioso di Dio nella storia sim ili a quelli di Giobbe. Oppure la meditazione sapienziale si espan­ de in elogio appassionato e com m osso della Torà, luce per il cammino terreno dell'uomo. È il caso dei cosiddetti « salmi della Legge » tra cui domina il monumentale SI 119. La sapienza è, quindi, una costante che accompagna l'Israele biblico dalle origini della sua storia alle soglie dell'era cristiana. È una costante dotata di un suo « itinerario costituzionale » 23 che ha un pa­ rallelo in tutta l'area culturale medio-orientale ed ha un suo specifico ebraico. In sintesi potremmo dire che essa è essenzialmente collezione di esperienze e di « conoscenze » sulle difficoltà fondamentali in cui si imbatte e si impiglia l'esistenza umana. La sua qualità radicale (e il suo valore) è proprio quella di porsi come ricerca aperta a nuovi contributi e non come verità definitivamente sigillata. La sua tenden­ za irresistibile è, però, quella che la conduce a tra­ sformarsi in « metafisica » e, quindi, in sapienza extra-temporale e dogmatica. A questo punto, allora, sia in Egitto, sia in Mesopotamia o in Israele, si produce una crisi che tenta di riportare la sapienza tradizionale sul suo terreno proprio, quello della rilevazione sperimentale diretta. Questa crisi condu­ ce la sapienza ad un approfondimento e la invita ad S. M o w in ck el , Psalms and Wisdom, in VTS 3, 1960, 205-224. A. C aquot, Sur la sagesse israélite, in « Positions Lutliériennes » 24, 1976, 130-140. Cfr. G. von R ad, Die altere Weisheit Israels, in « Kerygma und Dogma » 2, 1956, 54-72. 22 23

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integrare nel sistema anche quelle difficoltà che prima venivano ignorate o venivano sbrigativamente depotenziate dalla loro carica dirompente. Era nata la sapienza « eterodossa » che si rivelava come un indispensabile elemento di correzione alla sapienza ortodossa tradizionale 24. Nell'ambito di queste due correnti Giobbe ha trova­ to l’humus dal quale fiorire ed alimentarsi. Anzi, gli studi moderni, da quelli del Richter e del Kuhl fino alla citata e recente opera dì Zerafa25, hanno sottolineato la necessità della definizione del quadro ge­ nerale sapienziale per far risaltare l'originalità e la continuità della proposta di Giobbe. Egli, infatti, sulla base della sua malcelata « avversione nei con­ fronti dell'autogiustificazione legalistica del post-esi­ lio che, secondo gli antichi principi delle scuole sapienziali, attribuiva la salvezza e la restaurazione alla propria integrità » 26, proclama nell'inno alla sa­ pienza del c. 28 e nei « discorsi di Dio » il primato m isterioso e non « razionalizzabile » di Jahweh. In questa linea acquista una nuova luce anche la di­ chiarazione di Elifaz sull’esclusività della sapienza divina di cui nessun mortale può vantare l'appro­ priazione o il monopolio (15,7-8: « Hai forse avuto accesso ai segreti di Dio e ti sei appropriato tu solo della sapienza? »). Collocato Giobbe nel contesto della sapienza genera­ le « ortodossa », diventa ora necessario confrontarlo con l'ambito più specifico, quello contestatore della sapienza « eterodossa ». Ed è appunto in questo ambito che ora iniziamo un vero e proprio « viaggio testuale ». 24 Η . H. S c h m id , o.c., pp. 74-78; 131-140; 173-195. 25 C. K u h l , N euere hit. cit., in « Theol.Rundschau » 21, 1953, 163-205; 257-317; V o m H iobbuch und seinen P roblem en, ibid., 22, 1954, 261-316; H. R i c h t e r , E rw àgungen zu m H io b p ro b lem , in EvTh 18, 1958, 202-224; P. P. Z e ra fa , o.c., p p . 185-263. 26 P. P. Z er afa , o.c., p. 266. L'inno del c. 28, pur essendo allogeno nell’opera, centra un’idea importante dell’intero volume. Gli altri passi di Giobbe che mettono a tema la riflessione sulla sapienza, oltre a 15,7-8, sono meno rilevanti. In 11,6 si proclama ancora la sapienza irraggiungibile di Dio, mentre in 9,4; 12,13; 32,8 e 37,16 la sapienza è vista come una qualità specifica di Dio, dispiegata soprattutto nel con­ testo cosmico (26,12).

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Giobbe e la sapienza eterodossa Il territorio più ristretto della sapienza contestatri­ ce, nel quale troviamo anche Giobbe, rivela in realtà una immagine più completa del mondo. In essa viene integrato anche quel surplus dell'esperienza che l'ottimismo retribuzionistico tradizionale aveva finto di ignorare o aveva piegato ai m eccanism i del­ l'ideologia 27. È un territorio che sarà esplorato dal­ l'orante del SI 73 e da Qohelet, è un settore già percorso dalla stessa tradizione Jahvista col suo quadro simbolico sull'Abele innocente elim inato dal Caino omicida, dalla storiografia deuteronom istica con le scene esemplari di Uria e di Nabot. Un cenno particolare vorremmo riservare a Qohelet. Sotto questo pseudonimo (1,1) si cela una delle per­ sonalità più affascinanti e scomode della sapienza eterodossa biblica. Egli affronta con estrema origi­ nalità e spregiudicatezza tutta la com plessa proble­ matica che collega Dio, mondo e uomo in un cer­ chio di rapporti misteriosi e paradossali. Mentre la sapienza tradizionale si gettava felice sulla vita pre­ sente e si abbandonava all'ordine sapiente del cosm o creato da Dio, Qohelet insorge scrutando nella vita terrena, identica per stolto e sapiente, più il colore della miseria che quello della fortuna. Egli ormai ha smarrito la pace della sapienza proverbiale e non riesce a scoprire un solido argomento per ritrovarla. Sotto la scorza ironica e limpida del suo linguaggio si nasconde un'ansia profonda come quella di Giob­ be. Ma mentre il suo precedessore vedeva il mondo come popolato anche da una folla di felici, Qohelet vede l'intero mondo come infinito vuoto, nulla, vani­ tà assurda, hebel, termine prediletto che racchiude in una grande inclusione tutta la complessa struttu­ ra del suo volumetto (1,2 e 12,8). È inutile, perciò, di fronte a questo enigma che coinvolge tutta la realtà e la conduce secondo leggi incomprensibili verso un destino di morte, inebriarsi di speculazioni nom inali­ stiche, è sufficiente, invece, raccogliere con sobrio 27 H. H.

R ow ley , The book of Job and its meaning, in From Moses to Qumran, London 1963, pp. 171-172.

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realismo, in questo universo spezzato e senza centro, le piccole e'sem p lici gioie che Dio vi dissemina (2,24-26; 5,17; 8,15; 9,7). La poesia tutta cose dell’Ecclesiaste va diretta alla radice dei problemi sen­ za lirismi gratuiti. Il realismo disincantato e mai disperato fanno di questo libretto, appartenente agli inizi del II sec. a. C., una testimonianza indim enti­ cabile della nuova sapienza ebraica a cui appartiene anche Giobbe Tuttavia questi « nuovi sapienti » si inserivano in un filone letterario che già da millenni aveva dato prodotti fondamentali nell'Antico Oriente. Sono gli àntenati ideali di Giobbe e la loro voce prepara, più che nei dettagli, nello spirito il messaggio e la con­ testazione del grande credente b ib lico 29. Per l'appro­ fondimento di questo contesto sapienziale pre-giobbico apriamo ima parentesi bibliografica essenziale. Data l'immensità degli studi, ci accontentiamo di segnalare alcune opere fondamentali o più direttamente legate al nostro tema, rimandando ai singoli paragrafi per la bibliografia specifica.

Per le edizioni dei testi vedi: Pritchard J. B. ed., Ancient Near Eastern Texts (ANET), Princeton 19552, pp. 405-440. Lambert W. G., Babylonian Wisdom Literature, Oxford 1960, pp. 1-90. L abat R . e altri, Les religions du Proche-Orient asiatique (Textes babyloniens, ougaritiques, hittites), Paris 1970. Come studi generali vedi invece: F ichtner J ., Die altorientalische Weisheit in ihrer israelitischen Auspragung, Giessen 1933. AA.VV., Wisdom in Israel and in Ancient Near East, Leiden 1955. Vedi E. G lasser, Le procès du bonheur par Qohelet. Paris 1970; A. M aillot, La contestation. Commentane de l'Ecclésiaste, Lyon 1971; P. S acchi, Ecclesiaste, Roma 1971 e l’ottimo studio di H. P. MO ller, Neige der althebràischen « Weisheit ». Zum Denken Qohàlàts, in ZAW 90, 1978, 238-264. 29 Tutti i commenti dedicano ampio spazio alla questione comparativistica Giobbe-letterature semitiche. Cfr., ad es., M. H. P o p e , o .c ., p. L-LXVI.

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J., Theodicy in thè Ancient Near East, in « Can­ terbury Journ. Theol. » 2, 1956, 14-26. C ook Μ. B. - E liot S. A., Tracing Job's story, in « Hibbert Joum. » 60, 1962, 323-329. AA.VV., Les Sagesses du Proche-Orient ancien, Paris 1963. B randon S. G. F., The book of Job, its significance for thè history of religions, in Religion in ancient history, New York 1969, pp. 180-192. G ray J ., The book of Job in thè context of Near Eastern Literature, in ZAW 82, 1970, 251-269. M aillot A., Job, livre pa'ien, in « Foi Vie » 69,5-6, 1970, 2-15. Cox D., The triumph of impotence. Job and thè tradition of absurd, Roma 1978. W il l ia m s P .

I l G io b b e

e g iz i a n o

*

Un'immensa letteratura da secoli accompagna la co­ noscenza delle ideologie e delle credenze che si sono sviluppate sulla terra del Nilo lungo il filo sinusoida­ le delle successioni dinastico-imperiali. Lo stesso A. di Giobbe era stato affascinato da questo mondo esotico e nella sua opera aveva introdotto simboli, quadretti, evocazioni del passaggio egiziano: le di­ stese di loto (40,21-22), il papiro (8,11), il giunco utilizzato per la costruzione dei vascelli (9,26), lo strano ibis (38,36), le miniere del Sinai (c. 28). Anche i due mostri mitologici Behemot e Leviatan sono * E rman A.,

1927.

The literature of thè ancient Egyptians, London

Recherches sur les sources égyptiennes de la littérature sapientiale d'Israél, Neuchàtel 1929, pp. 75-106. B onnet H ., Reallexikon der agyptischen Religionsgeschichte, B e r lin 1952. M o r e n z S., Untersuchungen zur Rolle des Schicksals in der agyptischen Religion, Berlin 1960. WOr t h w e in E ., Die Weisheit Aegyptens und das A.T., Marburg 1960. H ornung E ., Licht und Finsternis in der Vorstellungswelt Altàgyptens, in « Studium generale » 18, 1965, 73-83. J e s i F., Note sul pessimismo egizio, in « Aegyptus » 48, 1968, 19-30. B resciani E ., Letteratura e poesia nell'antico Egitto, Torino 1969. A ssm a n n J ., Zeit und Ewigkeit im Alten Aegypten, Heidel­ berg 1974. D ercain P h ., La religione egizia, in Storia delle religioni a cura di H. Ch. Puech, I, Bari 1976, pp. 59-135. H um bert P.,

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dipinti con tratti simili rispettivamente all'ippopo­ tamo e al coccodrillo (40,15; 41,26). In Egitto con la stessa nascita della letteratura sor­ ge anche l'ansia di decifrare il mistero « uomo » Questa ricerca condotta nel pianeta interiore dei desideri e delle miserie latenti sfocia in una serie di prodotti letterari pessim istici. Nasce, così, un Giob­ be egiziano ante litteram. Alcune volte questi testi hanno i toni generali di una protesta contro lo scandalo dell'ingiustizia: è il caso delle Ammonizioni di I p u w e r ì0 che denunciano con sdegno gli squilibri sociali, le violazioni sacrileghe delle necropoli farao­ niche, l'abbandono dei cadaveri dei poveri senza onoranze funebri, l'assurda distribuzione dei be­ ni. Due opere invece si collocano direttamente tra gli antenati del Giobbe biblico della cui proto-tradizione segnano l'avvio ufficiale. La prima ha ricevuto dagli studiosi titoli drammatici DIALOGO DI UN SUICI­ DA CON SE STESSO o « Dialogo di un disperato con la sua anima » o, più semplicemente, « Il sui­ cida » e, in tedesco, Lebensmiide, « taedium vitae » 31. Si tratta di 156 linee tracciate su un papiro noto come « papiro di Berlino 3024 », veicolo di trasmissione di questa meditazione composta nel lon­ tano 2200 a. C. La struttura è piuttosto elementare e, nella sostanza, sorprendentemente simile a quella di Giobbe: un prologo ed un epilogo in prosa inqua­ drano un corpo centrale quadripartito organizzato nello stile di un soliloquio poetico. Eccone lo svilup­ po narrativo e tematico. Il protagonista descrive innanzitutto l’incubo intol­ lerabile della sua vita e sogna il suicidio attraverso il fuoco (linee 14; 42; 149). Il suo ba, cioè la sua anima, intavola con lui un dibattito apologetico in A. E r m a n , o.c., pp. 92 ss. 31 La miglior edizione del « Dialogo » è quella di W. B a r ta , 30

Das Gesprdch eines M annes m it seinem B A (P apyrus B erlin

3024), Berlin 1969. Il testo è tradotto in inglese in ANET, pp. 405-407 e da W. K e ll y S im p so n in The L iterature o f A ncient E g yp t, New Haven/London 19732, pp. 201-209. Brani in ita­ liano sono citati in due scritti del nostro maggior egittologo, S .D o n ad o n i, La letteratura egizia, Milano 1967, pp. 69-74 e T esti religiosi egizi, Torino 1970, pp. 192-194.

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difesa della vita sulla base di tre argomenti: il coraggio virile del vivere (linee 31-32), il. tentativo, quasi qoheletico, di godere l'istante nei suoi minimi frammenti di felicità (linea 68), il controllo e la moderazione dei desideri come fonte di serenità e di pace (linee 81-86). È a questo punto che l'aspirante suicida avvia la sua requisitoria centrale basata su quattro argomentazioni. Prima argomentazione. Cedere alla dissuasione del­ l’anima comporta la perdita di ogni reputazione: « il mio nome (la fama) puzzerà più dell'odore del guano nei giorni d'estate, quando il cielo brucia » (linea 87). Seconda argomentazione. La consolazione proposta dall'anima è inconsistente perché la società in cui si è inseriti è malvagia e rende im possibile ogni forma di edonismo: « I fratelli sono malvagi: ci si fida del peggior nemico perché il fratello col quale si lavora­ va è diventato un nem ico» (linea 114). «A chi parlerò oggi? Non c’è più un amico intimo; è a uno sconosciuto che si deve esprimere il proprio lamen­ to » (linea 124). Terza argomentazione. Solo la morte è la grande liberatrice della miseria dell'esistere: « La morte è davanti a me oggi come la guarigione per un malato, come la liberazione dopo una prigione. La morte è davanti a me oggi come il profumo della mirra, come il piacere di sdraiarsi sotto un parasole in un giorno di brezza » (linee 131-133). Quarta argomentazione. Sulla base della visione immortalistica egiziana la speranza di una vita futu­ ra con gli dei diventa l'ultimo motivo decisivo per affrontare il passaggio oscuro della morte: « Sì, certo, colui che è nell'aldilà è un uomo sapiente che potrà parlare al dio Ra quando lo vorrà » (linea 148). Questo è l’argomento fondamentale. L’anima allora non rigetta più l’idea del suicidio e, nell’epilo­ go in prosa, dichiara la sua disponibilità a condivi­ dere qualsiasi decisione del protagonista: « Sia che io resti qui perché tu hai rinunciato al soggiorno dei morti, sia che tu ti incammini verso il soggiorno dei morti, io troverò riposo e faremo dimora insiem e » (linee 151-153).

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La questione filosofica del male riceve in quest’opera una trattazione estremamente semplificata: la vita non merita di essere vissuta e il male è un destino invincibile. Esso ha una delle sue più esplosive ma­ nifestazioni nella cattiveria umana e nell’assenza d'amore e di fedeltà negli amici proprio come dovrà costatare Giobbe nel suo dibattito: « Gli amici di oggi non sanno amare » (linea 103). Un altro punto di contatto con Giobbe è adombrato in una frase curiosa del testo egiziano: « Sarebbe bello poter ottenere un dio come difensore del m istero che è nascosto in me » (linee 29-30). La tesi del dio-difensore giocherà, infatti, una parte importante nei cc. 16 e 19 di Giobbe. La soluzione ad ogni impasse è, per « il suicida » egiziano solo nella speranza della vita eterna, che è considerata indipendente dal valo­ re morale del suicidio. Siamo così al secondo testo, un’opera del 2000 a. C. che potremmo titolare PROTESTE DI UN FELLAH LOQUACE. Il « fellah » è l’odierno contadino egizia­ no, è, forse meglio, un oasita che lavora una terra la cui acqua fecondatrice viene solo dal terreno (Nilo e sorgenti) e mai dal cielo 32. Il parallelismo struttura­ le con Giobbe è ancor più significativo: una cornice in prosa fatta di un prologo e di un epilogo inqua­ dra nove appelli in prosa ritmata secondo il modello 3 x 3 presente anche nel dibattito di Giobbe con gli amici. « C’era un uomo che si chiamava Khu-en-Anup. Era un abitante dell’oasi del Sale. Sua moglie si chiama­ va Merit ». Questo prologo dal tono favolistico sim i­ le a quello di Giobbe mette in scena un fellah di Wadi Natrun, un'oasi a 95 km dall’attuale Cairo, ora divenuta un monumentale complesso monastico copto. Egli decide d'avviarsi verso Eracleopoli por­ tando sul dorso dei suoi asini i prodotti dell’oa­ si. Ma, in un punto nei pressi del Nilo, la pista & La prima edizione è stata quella curata da F. V o g e ls a n g A. H. G a rd in e r, Die Klagen des B auern, Leipzig 1908. V e d i an­ che ANET, pp. 407410. In italiano brani in S. DONADONI, La let­ teratura egizia cit., pp. 85-92; cfr. anche W. K e l l y S i m p s o n , o.c., pp. 31-49.

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si riduce ad una stretta lingua di sabbia posta tra il fiume e i campi di proprietà privata sui quali non è possibile passare (I, 1-45). Compare, allora, un funzionario prefettizio (è un ufficiale del capo del « nomo »), Thut-nakht, che escogita un sistem a per estorcere un balzello al contadino senza però in­ frangere la legge. Stende un lenzuolo tra il Nilo ed il campo cosicché il fellah non abbia comunque scel­ ta: o passare sul lenzuolo privato, steso sulla pista, o sul campo privato. Ed infatti, attraversando il campo, un asino del contadino bruca qualche spiga e il funzionario automaticamente subentra seque­ strando il carico e consegnando alle verghe il misero oasita (I, 46-50; II, 1-36). Non resta a Khu-en-Anup altra possibilità che quella di denunciare l'abuso al prefetto, il capo del nomo Rensi che deferisce la questione al faraone stesso Neb-kau-Re. Costui propone al fellah un accomoda­ mento sulla base di una compensazione in viveri (II, 72-99). Ma il contadino non demorde, desidera giu­ stizia legale e perfetta: « Forse che la bilancia s'in­ ganna? Forse che s'inchina da un alto? Thot stesso si sta indebolendo e piegando? » (II, 148-150). Ed allora per la seconda volta il misero fellah è con­ dannato alla fustigazione. Ma neppure questo insuc­ cesso lo piega ed allora egli inizia una lunga prote­ sta articolata appunto in nove appelli che si snoda­ no in crescendo verso un'esigenza assoluta di giusti­ zia, libera da qualsiasi compromesso. Rendi la giustizia per amore della giustizia in se [ stessa, la giustizia di colui che è giusto. Tu, stilo, papiro e tavoletta di Toth, evita l’ingiusti[zia! È bene, veramente bene che tu sia giusto. La giustizia vale per tutta l’eternità, essa cala nel sepolcro con chi l'ha praticata. Quando costui viene sepolto, il suo nome non è cancellato dalla faccia della terra, ma ricordato a causa della sua g iu stizia... Sia io o sia un altro che ncorra a te tu devi darci una risposta.

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Non accòglierci col silenzio e non attaccare colui che non può difendersi. (II, 304-316).

A questo punto il contadino decide di ricorrere in appello alla stessa divinità, il dio Anubis (III, 115). Il prefetto del nomo, Rensi, è costretto, allora, a patrocinare il povero oasita condannando l'abuso di Thut-nakht a cui saranno confiscati i beni per essere versati al fellah. Queste pagine egiziane contengono, a livello narrati­ vo, una riflessione abbastanza articolata sul proble­ ma del male: esso ha la sua radice neH'ingiustizia sociale. La struttura ideologica elementare è la stes­ sa di quella dell’opera terminale di Giobbe: felicità infelicità - lamento - felicità. « La teologia tradizio­ nale d'Egitto, rafforzata da una lucidissim a morale, attenua e corregge l'impressione deprimente prodot­ ta dalla realtà sociale. Il pessim ism o era una malat­ tia che l'anima egiziana non poteva permettersi » 33. In sostanza, però, il dibattito contenuto nella pro­ testa di Khu-en-Anup, non offre un serio approfondi­ mento del mistero del male. È presente, perciò solo il clima esteriore di Giobbe non l'anima autentica della sua ricerca. I l G iobbe mesopotamico *

Hiob in Sum er: così H. Schmòkel intitolava la sua presentazione di un testo sumerico del 2000 a. C. e noto tra gli studiosi come L'UOMO E IL SUO DIO & J . L évéque,

o.c., p . 69.

J.‫ ׳‬Das Leiden des Unschuldigen in Babylon und Israel, Ziirich 1946. van D ij k J. J. A., La sapesse suméro-akkadienne, Leiden 1953. K uschke A., Altbabylomsche Texte zum Thema « Der leidende Gerechte », in « Theol. Literaturzeitung » 81, 1956, 69-76. D avid M ., Travaux et Service dans l'Epopée de Gilgamesh et le lìvre de Job, in « Rev. Philosophique », 147, 1957, 341-349. K ramer S . N ., L'histoire commence à Sumer, Paris 1957. * S t a m m J.

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(o « L'individuo e il suo dio personale ») 34. L'opera emerge dal complesso mondo teologico m esopotamico, un mondo contrassegnato da tre direttrici fon­ damentali di pensiero. Innanzitutto il destino del­ l'uomo e della storia è regolato da un determ inism o assoluto. Tuttavia — e questa è la seconda tesi — nell'ambito del pantheon le relazioni tra gli dèi so­ no regolate da polarismi dialettici, cioè da tensioni sistem atiche per la conquista del primato che relati­ vizzano il precedente determinismo. Le due catego­ rie del fato (I tesi) e della « gelosia » (II tesi) condizionano l'antropologia che risulta fortem ente semplificata. La libertà umana è, infatti, una specie di « responsabilità irresponsabile » controllata dalla « responsabilità irresponsabile » degli stessi dei. È questa la terza direttrice del sistem a ideologico me· sopotamico. L'uomo è, quindi, dominato dall'impero del dio supremo ma è anche un protetto e tutelato dal suo « dio personale » che gli permette un mini­ mo di autonomia e di esplicazione. In questo sfondo possiamo collocare ora i testi della « tradizione-Giobbe » sumerica e babilonese. L ’uomo e il suo dio ci è giunto in 131 linee spesso spezzate così da rendere ardua la lettura dettagliata dell'ope-

G a rc ìa de l a F u e n te 0 . , La prosperidad del m alvado en el

libro de Job y en los poém as babilónicos del « ju s to paciente », in « Estudios Eccl. » 34, 1960, 603-616. L a m b e rt W. C., Babylonian W isdom L iterature, Oxford 1960. C o u t u r ie r G ., Sagesse babylonienne et sagesse israélite, in « S c ie n c e s E c c l. » 14, 1962, 40-54. R in a ld i G., Le letterature antiche del V icino O riente,

Milano 1968, pp. 135-139. C a s t e l l i n o G. R., T e sti sum erici ed accadici, Torino 1977. J e s t i n R., I x l religione dei Su m eri, in H. C h . P u e c h ed., Storia delle religioni, II, Bari 1977, pp. 155-202. N o u g a y ro l J ., La religione babilonese, ib id e m , p p . 3-48. 34 H. S c h m ò x e l, H iob in S u m er, in « Forseh. Forschritte » .30, 1956, 74-76. La prima edizione del testo fu curata da S. N. K r a m e r , M an and his God, in VTS 3, 1955, 170-182. Un'ottima edizione con presentazione in J. J. A. v a n Dijk, o . c . , pp. 122127. Versione italiana a cura di G. R. C a s te llin o , o . c . pp. 473477. Le ultime quattro linee del testo e la rubrica finale sono state scoperte successivamente a Nippur e pubblicate da E. L G ordon in « BibJiotheka Orientalis » 17. 1960. 149-1.50.

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ra. Al centro della scena c'è un uomo che si lamenta aspramente della sua miseria causata dall'inspiegabile irritazione del suo dio protettore « pastore » ed « amico ». Il « dio personale » era una figura tipica della religione mesopotamica, intermediaria tra l'uomo ed il pantheon celeste.

Quando entrai in casa l'animo mi si fece pesante e triste. Quando uscii sulla strada il mio cuore restò abbat­ tuto. Il mio pastore, infatti, si è irritato e m i guarda con occhio ostile. Il mio pastore, che mai era stato mio nemico, ha sollevato contro me forze avversarie. Il mio amico non mi parla con sincerità. Il mio amico considera menzogne le mie parole veritiere La persona falsa si trova d ’accordo con lui nel co­ spirare contro me e, tu, mio dio, non ribatti (linee 31-38).

Nel frammento si nota un tentativo di descrivere la fenomenologia della sofferenza anche nei suoi tratti psicologici. « O mio dio, il giorno, splende sulla terra, ma per me il giorno è tenebra » (1. 68). « Mio dio, tu mi hai generato, degnati di guardarm i... Fino a quando non vorrai far caso a me e lasciarmi senza protezione? » (linee 96.98). Egli, diversamente da Giobbe, è pronto a confessare i suoi peccati ricono­ scendosi quindi colpevole: « alla porta dell'assem­ blea confesserò i peccati dimenticati e quelli tuttora ricordati» (1. 113). Il lamento ha, alla fine, un esito positivo: « il lamento amaro, il pianto di queirindi­ viduo il suo dio lo udì » (1. 118) e « il dio accolse le parole veritiere e pronunciate con sincerità » (1. 120). Il demone che opprimeva l'orante è esorcizzato (1. 124) e « per quel giovane la afflizione si m utò in gioia» (1. 127). E l'uomo può concludere il suo la­

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mento con un ringraziamento: « potè celebrare la grandezza del suo dio in termini sinceri, la grazia ricevuta rese manifesta e la fece conoscere » (linee 130-131). Il parallelo più studiato tra questo scritto sumerico e Giobbe riguarda la questione del « dio persona­ le », avvocato del sofferente presso l ’assem blea dei grandi dèi. Egli avrebbe dei connotati simili al go’el che Giobbe si augura di veder apparire al suo oriz­ zonte (9, 33; 16,19.21; 19,25-27), anche se ben diverso è l'impianto teologico generale. Anche la struttura dolore-liberazione-ringraziamento è costante nel ge­ nere letterario delle suppliche bibliche. La liberazio­ ne, poi, è possibile perché la prova è voluta dal dio stesso per un suo imperscrutabile disegno, più o meno come avviene anche in Giobbe. Tuttavia l’ope­ ra sumerica si muove sostanzialmente nell'ottica retribuzionistica rifiutata esplicitam ente da Giobbe: il dolore è indizio di un peccato occulto e cosciente, il perdono è conseguentemente radice di gioia e di salvezza. Giobbe non accetterà mai di entrare in questa logica semplificata e, nel suo caso, immorale. Nel 1911 un semitista, S. Landerdorsfer, nel titolo stesso di un suo volume pubblicato a Freiburg im Br. avanzava l'ipotesi di aver identificato eine babylonische Quelle (« fonte ») fur das Buch Hiob. Questo « Giobbe babilonese » era un canto di rin­ graziamento per il dono della liberazione da un male. Esso è chiamato ancor oggi col suo primo versetto LUDLUL BEL NEMEQI (« Voglio celebrare il signore della sapienza »). Si tratta di un poem etto babilonese del 1500 a. C. e forse anche prima, giunto a noi in una redazione del VII sec. a. C. Delle origi­ narie 500 linee ne sono restati i 4/5 in 26 frammenti diversi provenienti da ambienti differenti (Ninive, Assur, Babel, Sippar): recentemente O. R. Gurney ha ritrovato un frammento anche a Sultan-tepe in Si­ ria 35. 35 II testo, oltre che in ANET, pp. 434-437, è stato pubblicato in un'edizione molto accurata aa W. G. L ambert , Babylonvan Wisdom Lit. cit., pp. 21-64. In italiano vedi G. R. C astellino , o.c., pp. 478492 che offre anche una buona presentazione.

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Il poema appartiene a quel genere definito « pre­ ghiera a mano alzata » comprendente la prom essa di un voto da adempiere nel caso di esaudimento, co­ me spesso avviene anche nelle suppliche del Salte­ rio. Vediamone ora il tracciato tematico. Un perso­ naggio di alto rango, Shub§i-mesré-Sakkan, apparte­ nente all'aristocrazia terriera, è all'improvviso colpi­ to dalla disgrazia ed abbandonato dagli dei: II mio dio mi ha abbandonato ed è scomparso, la mia dea si è disinteressata di me, se ne sta in [disparte. Il mio genio benefico che camminava al mio fianco si è allontanato, il mio angelo protettore è fuggito e cerca altri. Il mio vigore è sparito, la mia fisionomia si è fatta tenebrosa. La mia dignità mi è stata strappata, la mia sicurezza è svanita. Presagi funesti mi assediano, sono cacciato da casa mia e vago errabondo fuori. (I, 43-50).

Gli amici d'un tempo, compreso il sovrano, lo attac­ cano e lo perseguitano (I, 55-104), le malattie lo assalgono colpendolo senza pietà (II, 49-120). Nei suoi sogni gli appaiono tre figure m isteriose, due giovani ed una donna (III, 9-45): essi sono stati inviati a lui da amici benevoli lontani per guarir­ lo attraverso la tecnica degli incantesimi. ShubSi-mesrè-§akkan accoglie i loro interventi magici che lo riconciliano col dio-principe del pantheon babilone­ se, Marduk, che lo libera da ogni malattia (III, 46-60). Sulle labbra del fedele salvato nasce, allora, una lunga e solenne azione di grazia in onore di Marduk (IV, 1-14.25-48.76-101). Al centro dell'opera non sembra essere tanto il mi­ stero del male quanto piuttosto gli incomprensibili progetti degli dei. Gli uomini piombano, così, nella miseria per colpe inconsapevoli e generalmente di tipo rituale. Significativo è un passo della II tavolet­

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ta: « Ciò che è buono e giusto per se stessi è talvolta offesa per il dio, ciò che per la propria coscienza è una cattiva azione riesce invece gradito al dio. Chi può mai sapere il pensiero degli dei del cielo? Il progetto di un dio dell'Oceano abissale chi 10 può penetrare? Dove mai i mortali possono comprendere il comportamento di un dio? » (II, 34-38). La sinossi del testo babilonese con Giobbe rivela alcuni paralleli indiscutibili. Scrive il Castellino: « Il poemetto è stato avvicinato a quello biblico di Giobbe in quanto la vicenda ed il problema che esso implica sono indubbiamente simili » 36, malgrado le forti differenze di prospettiva. Anche nei dettagli i paralleli sono interessanti. Basti un'esemplificazione desunta dal materiale simbolico. La mia forte voce è ridotta al silenzio, la mia fronte alta si è piegata a terra, 11 mio cuore robusto è stato infiacchito dal terrore (I, 72-74). Quando i miei conoscenti mi incontrano, si spostano dall'altra parte della via, la mia famiglia mi tratta come un estraneo. Il pozzo (cioè l'Ade) sta spalancato per chi parla bene di me, mentre chi mi diffama è prom osso a capo. Chi proferisce calunnie contro di me è aiutato da un dio. (I, 91-95). Di giorno sono tutto sospiri e di notte lamenti il mese è per me gemiti e l'anno, tenebre. (I, 105-106). Ora che sono esausto una tem pesta s ‫׳‬è impossessata di me. Una malattia spossante s ’è abbattuta su di me, un vento maligno soffiò dall’orizzonte. (II, 49-50). Questi mali hanno abbattuto la mia alta statura co­ me una muraglia, * o.c., p. 479.

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la mia membratura vigorosa l'hanno buttata giù come se fossero canne. (II, 68-69). Il tormentatore mi tortura tutto il giorno nemmeno di notte mi lascia un istante. A forza di torcerli i miei tendini sono strappati, le mie membra sono slogate e gettate in un muc­ chio. Passo le notti nei miei escrementi come un bue e mi rotolo nella mia sporcizia come un montone (II, 102-107). Un parallelo spesso citato riguarda il nesso tra il sofferente e il suo dio protettore che, ancora una volta, avrebbe un riferimento nel famoso go’el di Gb 19,25. Ecco il testo babilonese piuttosto oscuro e discusso: Ma io so il giorno di tutta la mia famiglia; quando in mezzo ai conoscenti, il loro dio di giusti­ zia avrà pietà. (II, 119-120).

Globalmente possiamo considerare Ludlul bel nemeqi come un precedente significativo della « tradizione-Giobbe » per quanto concerne il patrimonio ideo­ logico generale e l'apparato simbolico. Tuttavia esi­ stono marcate differenze. Innanzitutto a livello lette­ rario: il testo mesopotamico è strutturato su un monologo poetico appartenente al genere del lamen­ to sapienziale. A livello teorico le divergenze sono ancor più consistenti. L’eroe babilonese è tratteggiato secondo i canoni di un’etica rituale e magica, men­ tre Giobbe emerge nella grandezza della sua co­ scienza morale. L'equazione tradizionale dolore-casti­ go non è messa in discussione dalla teologia del te­ sto babilonese, né v'è la possibilità quasi blasfema, presente in Giobbe, di accusare esplicitam ente la divinità partendo dalla coscienza della propria mo­ ralità.

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Dall’area teologica babilonese proviene anche un do­ cumento chiamato da B. Landsberger TEODICEA BABILONESE37 o anche « Dialogo sulla miseria umana ». È un poema acrostico di 27 strofe ciascuna di 11 versi raggruppati in 5 distici più un verso soprannumerario di posizione libera nella strofa. Composto alla fine dell‫׳‬época cassita (XVIII-XII sec. a. C.), può essere datato col Lambert attorno all’anno 1000 a. C. Il testo, purtroppo incom pleto e mal conservato, è pervenuto in 16 tavole, provenienti dalla biblioteca di Assurbanipal a Ninive e da altre località mesopotamiche (Assur, Babel, Sippar), che ci permettono di ricostruire le 297 linee con una buona approssimazione. L'acrostico su cui il poemetto è costruito dice: « Io, Saggil-kinam-ubbib, il sacerdote degli incantesimi, so­ no un fedele del dio e del re ». Questa è anche la firma crittografica dell'A. La struttura dell'operetta è dialogica: il sofferente, solo nella vita perché nato da genitori già avanzati in età, si rivolge ad un amico a cui indirizza la descrizione della sua mise­ ria. Il primo mistero della sua sofferenza (I strofa) è nel suo essere nato per ultimo e quindi destinato a non avere eredità e a vivere in povertà. L'amico replica sostenendo che questa è la sorte comune della umanità. Solo la pietà verso gli dei ristabilisce l'equilibrio della sorte (II strofa): questa è la posi­ zione tradizionale sulla quale si apre il dibattito. Il paziente, infatti, obietta sulla inconsistenza dell'in­ tervento degli dei per il riequilibrio dei destini, mentre l'amico, simile in questo agli amici di Giob­ be, replica reiterando la sua teoria retribuzionista (III-IV strofa). Il sofferente, allora, avanza una serie di esemplificazioni concrete desunte dalla natura e dalla storia, cioè dagli animali e dalla società, dalle quali risulta l'indifferenza degli dei nei confronti del bene e del male (V strofa). L'amico risponde correg­ gendo il tiro e appella al m istero insondabile dei progetti divini ed alla possibilità di una retribuzione 37 Die Babylonische Theodizee, in « Zeit. Assyriologie » 43, 1936, 32-76. Edizioni in ANET, pp. 438-440; in W. G. L a m b e rt, o.c., pp. 63-91 e, in italiano, in G. R. C a s te llin o , o .c ., pp. 493-500.

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differita per giusto ed empio (VI strofa). La reazione del paziente è amara: la vita onesta è di fatto senza ricompensa (VII strofa). L'amico considera blasfem a questa affermazione e riprende il tema della sapien­ za m isteriosa degli dei come argomento supremo: « Non bestemmiare e non pretendere di sondare le deliberazioni degli dei » (VIII strofa). Le strofe IX-XI sono notevolmente lesionate e di im possibile ricostruzione nel loro contenuto. L'ami­ co riprende il filo del discorso nella XII strofa nella quale descrive le gioie della vita pia, sem plice, sere­ na, dedicata agli altri. L'uomo provato sostiene, al contrario, che per essere felici bisogna staccarsi dal­ la società e condurre una vita errante e libera (XIII strofa). Seguono altre strofe (XIV-XIX) ugualmente lesionate. L'amico continua a sostenere che la pietà paga (XX strofa) mentre il sofferente replica che è solo operando senza scrupoli morali che si riesce ad arricchire e ad avere successo (XXI strofa). L'amico teologo ripropone con l'ostinazione tipica degli amici di Giobbe la tesi della retribuzione differita ma è costretto a fare una prima, pericolosa concessione: i giusti non morranno mai di fame, anche se non avranno fortuna e prosperità come i loro oppressori (XXII strofa). Anche l'uomo provato ripropone l'ar­ gomento iniziale dell'ingiustizia dei privilegi dei primogeniti e conclude amaramente che la vera radi­ ce di ogni miseria è proprio nella fedeltà al bene ed alla giustizia (XXIII strofa). La replica dell'amico sulla questione specifica è artificiosamente com ples­ sa: i primogeniti hanrto, sì, maggior fortuna a causa dell'eredità, ma sono fisicamente inferiori rispetto ai loro fratelli minori, pareggiando così la sorte di tutti i membri di una famiglia (XXIV strofa). Il sofferente sembra accontentarsi di questo escamota­ ge ma propone un nuovo dato indiscutibile: i ricchi possono schiacciare impunemente i poveri nelle cau­ se processuali (XXV strofa). L'amico fa una seconda concessione ammettendo la validità dell'argomentazione: menzogna e falsa testimonianza giudiziaria sono qualità inerenti alla natura umana quale gli dei l'hanno creata (XXVI strofa). Il pessim ism o me­

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tafisico mesopotamico emerge con forza in questa antropologia deterministica. Il sofferente ha, quindi, riportato una vittoria, sia pure parziale. Conclude, allora, il dialogo auspicando che l'amico comprenda la realtà pesante della sua miseria e che gli dei ritornino a proteggerlo (XXVII strofa): Porga aiuto il dio che m'ha abbandonato, mi conceda pietà la dea che mi ha dimenticato. Shamas pastore guida gli uomini divinamente (linee 295-297). La conclusione è piuttosto sorprendente. L'amico teologo, fedele alla religione tradizionale, ha perso una parte della sua fede e del suo ottim ism o. Am­ m ettere che gli dei hanno fatto del male una com­ ponente « ontologica » dell'essere umano è, certo, una soluzione al problema, ma mal si accorda con le premesse che supponevano essere gli dei i garanti assoluti della giustizia. Comunque, l'opera nel suo insieme si presenta come una teodicea che « mira a difendere gli dei dall'accusa di ingiustizia o noncu­ ranza quando permettono che un giusto sia travaglia­ to dai mali e disgrazie, in flagrante contrasto con la dottrina comune » 38. Anche lo sfondo ideologico è quello tradizionale mesopotamico: il m istero della volontà irrazionale degli dei, il loro cinism o e la loro lontananza, l'assurdità degli scom pensi sociali, l'ar­ bitrarietà del destino umano, la conversione, fonte di liberazione dalla prova fìsica. Non per nulla sembra che questo acrostico fosse diffuso successi­ vamente come esercizio scolastico. Ma la Teodicea babilonese rivela anche una certa parentela col posteriore prodotto ebraico di Giobbe. In verità E. Ebeling, pubblicando integralmente il testo nel 1924, aveva pensato piuttosto a ein babytonischer Kohelet. Fu E. Dhorme a supporre per pri­ mo un parallelismo con G iobbe39 sia pure a livello x G. R. C a s t e l l i n o , o .c ., p . 494. * Ecclésiaste ou Job?, in RJ3 30, 1923, 5-23.

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esclusivamente letterario (i « tratti esteriori » della struttura dialogica). In realtà i punti di contatto sono maggiori pur nell'evidente distanza dei due si­ stemi globali. Pensiamo alla reiterata dichiarazione dell'amico a favore della teoria retribuzionistica: « Chi fa bene avrà bene, chi fa male avrà male ... Chi onora gli dei è dagli dei sostenuto, difeso e prem iato... Il devoto della sua dea ammucchia prosperità ». Pensiamo anche alla tesi della dilazione della retribuzione o alla costatazione della qualità effimera della felicità dell'empio, dottrine sostenute pure dagli amici di Giobbe. Anche nella Teodicea appare la presenza del dio protettore: « Chi spia continuamente la faccia del suo dio, costui ottiene Uno spirito protettore » (1. 21). La malattia è descrit­ ta vivacemente nei suoi effetti psico-biologici, come in Giobbe: II mio corpo è pieno di croste, la consunzione mi scolora; la mia fortuna se n’è andata, il mio prestigio è passato. La mia forza s'è indebolita, è venuta meno la mia prosperità. Ansia e dolore hanno rese nere le mie fattezze (linee 27-30). Come nel poema ebraico anche qui il regno animale viene introdotto per una riflessione sul m istero del­ l'uomo. L’onagro, l'asino selvatico che si riempie di erba al garante della volontà degli dei presta forse atten­ zione? Il leone furente che si divora carne scelta ha forse portato offerte di fior di farina per placare l'ira della dea? (linee 48-51). Il ribaltamento delle sorti che rende un padrone schiavo ed i suoi subordinati oppressori è un'altra co m p o n en te parallela alla p ro testa di Giobbe.

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Uno storpio è sopra di me, un povero di cervello" davanti a me; un farabutto mi è stato preferito, m entre io fui retrocesso (linee 76-77; cfr. 181-187). L'ironia con cui il protagonista attacca l’apparente sapienza dell'interlocutore è un altro dato comune, anche se nel testo mesopotamico non si raggiunge mai la tensione durissima che c'è in Giobbe tra gli attori 40. O saggio, o intelligente, che dom ini la scienza, nella tua mente maligna bestem m i la divinità (linee 254-255). Notiamo, infine, che nella XXVI strofa i due interlo­ cutori si accordano nell’ammissione della realtà del male come parte integrante del progetto della crea­ zione. Ora ci si può chiedere se Giobbe non voglia implicitamente replicare a questa concezione quan­ do nei discorsi di Dio dei cc. 38-41 insiste fortem en­ te sulla sapienza e sulla giustizia della creazione in sé presa. Ecco, invece, l'opinione della Teodicea. Narru ( = Enlil), re degli dei, creatore dell’umanità, e il nobile Zulummar ( = Ea) che ha raccolto l'argil­ la per plasmarli, la regina Marni che li ha plasm ati dotarono la razza umana della parola perversa, della menzogna e della falsità per sempre. Con magniloquenza difendono il ricco: È un re — dicono — la ricchezza gli cammina al fianco. Calunniano invece il povero come se fosse un la­ dro, 40 « Nella discussione l'amico rispetta il paziente, né gli muo­ ve accuse generiche (a differenza di quanto avviene in Giob­ be) e non forza gli argomenti, mentre il paziente si profonde in espressioni di rispetto e di deferenza verso l'amico » (G. R. C a s t e l l in o , o . c ., p . 495).

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abbondano in maldicenze, ne complottano l’assassi­ nio. Come a un criminale gli fanno sperimentare ogni male perché non ha protettore, in modo terribile lo conducono alla rovina e lo spengono come una fiamma (linee 276-286).

Con maggior esitazione si può allegare alla « tradizione-Giobbe » assiro-babilonese un testo dal tono piuttosto sfuggente trovato a Babel e ad Assur ed intitolato dai sem itisti DIALOGO PESSIMISTICO 41.. Giunto a noi in una versione dell'inizio del primo millennio a. C., quest’operetta composta da dieci scenette di lunghezza diseguale ha subito negli ulti­ mi decenni un radicale ribaltamento ermeneutico. Considerata una drammatica testimonianza dello scetticism o e del vuoto a cui era approdata la filo­ sofia mesopotamica, letta come la voce di un prede­ cessore di Qohelet nell'interpretazione dell'assurdità dell'esistenza e della storia, essa è stata recentem en­ te riproposta da alcuni studiosi (F. M. Th. Bòhl e E. A. Speiser) su un'altra lunghezza d'onda, quella del pezzo umoristico e satirico, forse di un mimo da rappresentare nei « saturnali » babilonesi per la fe­ sta del Nuovo Anno. In questa luce il « nero pessi­ mismo » (Dhorme) si trasforma in una satira feroce sull'obbedienza perinde ac cadaver (C. Kuhl). I due protagonisti sono, infatti, un padrone ed un servo descritti con la levità d'una commedia goldo­ niana sia pure nell'apparente tragicità delle rifles­ sioni. Dei loro rapporti esiste solo la vivacità imme­ diata del dialogo che serve a definire le due fisiono­ mie: il padrone è un capitalista aristocratico celibe e desideroso di vivere, lo schiavo è un anziano sma­ liziato, il negativo del padrone, quasi il suo alter ego Edizioni in ANET, pp. 437-438 e W. G. L a m b e rt, o .c ., pp. 139-149. Presentazione e traduzione italiana in G. R. C a s te l­ l i n o , o.c., pp. 501-508. Vedi anche G. B o tté ro , Le « Dialogue pessimiste » et la transcendance, in RThéolPhil 99, 1966, 7-24; G. B u c c e l l a t i , Tre saggi sulla sapienza mesopotamica, II. Il dialogo del pessimismo: la scienza degli opposti come ideale sapienziale, in « Oriens Antiquus » 11, 1972, 81-100. 41

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disincantato e pessimista. Dal suo osservatorio, pe­ rò, non vuole condizionare o frenare le scelte entu­ siastiche del suo padrone, anzi, con una buona dose di indifferenza, è pronto ad accettare, a lodare, a sostenere ogni ipotesi o scelta, fermamente convin­ to del radicale relativismo di ogni decisione e di ogni azione. I bozzetti del dialogo sono un ritratto piuttosto amaro e critico della società e delle cre­ denze del tempo. Ma in questo asettico divertissemeni non è da escludere una sottintesa moralità: essa balena in modo esplicito nella decima strofa allorché il servo dimostra una « sua » volontà ed (ma sua ideologia. E forse qui, pur nel generale cinismo dello scritto, appare un'ansia morale. Il padrone pone la questione ultima se non sia conve­ niente scegliere la morte, dato che non esiste nulla che possa far decidere una scelta assoluta per la vita. — Schiavo, fam m i un favore! — Eccomi, signore, eccomi! — Che cosa in fondo è bene? Rom pere il mio collo e il tuo ed essere buttato nel fiume: ecco il bene!

Alla questione il servo risponde a sua volta con un doppio interrogativo retorico che svela la sua perso­ nale filosofia: al mondo nessuno può rispondere del senso della vita perché esso fa parte dei tanti eni­ gmi che l'universo riserva all'uomo. — Chi è tanto lungo da salire in cielo? Chi è tanto largo da abbracciare totalm ente l'Ade?

Con questi due interrogativi l'originale autore di questo spaccato critico e satirico della società e della vita babilonese si è collocato nell'alveo pessi­ m istico della tradizionale religione mesopotamica per la quale la realtà è indecifrabile e non-sense per l'uomo, decifrabile e sensata forse per gli dei. La

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certezza che altri conosce il senso dell'essere è sufficiente a tranquillizzarci? Forse per la m ente realistica e scettica del servo babilonese questo può bastare. E forse questa è l'attitudine metafìsica e teologica della concezione m esopotamica per certi versi comparabile con quella di Giobbe ma da essa superata. Presentando nel 1952 la tavoletta cuneiforme AO 4462 di proprietà del Museo del Louvre e databile del XIX sec. a. C., J. Nougayrol riteneva di aver isolato un'altra pagina della « tradizione-Giobbe » sul giusto sofferente42. La trama, se di trama si può parlare in un frammento così esiguo, potrebbe esse­ re così delineata. Un « amico », che espleta quasi le funzioni di avvocato presso la divinità, eleva una supplica al dio perché risolva lo scandalo della sofferenza immotivata dell'ignoto protagonista. Che tu gli possa apparire e fargli risplendere il cuore! Guardalo e sia ristabilita la sua salute!

Il dio esaudisce e, probabilmente, seguiva nel testo la descrizione del ritorno alla prosperità. L'eccessiva piccolezza del frammento non permette, però, di attribuire alla tavoletta un particolare valore 43. I l G iobbe ugaritico *

Dalla scoperta avvenuta nel 1929 ad opera dell'archeologo francese C. Schaeffer sulla costa setten­ trionale della Siria, Ugarit è divenuto uno dei refe­ ancienne du « ju s t e so u ffra n t », in RB 59‫׳‬, 1952, 239-250. 43 Lo stesso giudizio vale per i frammenti del 1500 a.C. ubblicati da v a n Dijk, o .c., pp. 128-133 ed apparsi già nelle ublications o f thè B abylonian S ectio n I2 del Museo del­ l'Università della Pennsylvania di Philadelphia a cui appar­ tengono. 42 Une version

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renti principali per l'analisi filologica comparata dei testi biblici, soprattutto arcaici. In questa operazio­ ne di comparativismo si è distinto uno studioso americano docente al Pontificio Istituto Biblico di Roma, M. Dahood, che con la sua scuola ha vagliato a livello lessicografico, grammatologico, filologico e stilistico i nessi tra la letteratura di Ugarit e quella biblica. Talora, come è avvenuto in passato per le scoperte mesopotamiche, certe venature integralisti­ che hanno dato l'impressione di inclinare la ricerca verso un esagerato pan-ugaritismo. Alla base del lavoro di Dahood c'è, però, una convinzione senz'al­ tro valida: il nesso tra il mondo ebraico e quello cananeo e del semitismo nord-occidentale è indub­ biamente rea le44. Proprio per questo contatto di fondo è possibile talora spiegare con la letteratura ugaritica hapax di Giobbe per altra via indecifrabili. Perciò, col progres­ so di questi studi filologici ed etim ologici è possibile cancellare molte correzioni che gli studiosi avevano

Some Northwest semitic words in Job, i n B ib 38, 1957, 306-320. S arna N . H ., Epic substratum in thè prose of Job, in J B L 76, 1957, 13-25. A lbright W. F ., Some Canaanite-Phoenician sources of Hebrew wisdom, in VTS 3, 1960, 1-15. J acob E., Ras Shamra et l'A.T., Neuchàtel 1960. D ahood M., Northwest semitic philology and Job, in J. L. Me K e n z ie e d ., The Bible in thè current catholic thought, N e w York 1962, p p . 55-74. I d., Hebrew-Ugaritte Lexicography: voci che Dahood va pub­ blicando su Bib dal 1963 in avanti. M ic h e l W., The Ugaritic texts and thè mythological expressions in thè book of Job, Diss. Univ. Wisconsin 1970, pp. 582 (con bilancio del materiale simbolico parallelo tra Ugarit e Giobbe). L évéque J., Job et son Dieu, Paris 1970, pp. 37-51. B lommerde A. C. M ., Northwest semitic grammar and Job, Rome 1972. P ope M., La decifrazione delle scritture scomparse, Roma 1978, pp. 158-164. * D ahood M .,

+* Per ima « moderata » impostazione metodologica della que­ stione filologica posta dal libro di Giobbe, vedi L. L. C rabbe , Comparative philology and thè text of Job. A study in methodology, Missoula (Montana) 1977.

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finora apportato al testo sulla base di congetture: esse diventano inutili a causa dei vocaboli paralleli ugaritici identificati. I commentatori prima del 1950 arrivavano fino ad un migliaio di emendamenti sul testo di Giobbe; nel suo commento del 1963 il Fohrer introduceva, invece, solo 183 correzioni di cui 66 nei soli discorsi di Elihu. Negli ultim i anni una buona metà di tali emendamenti si è rivelata inutile, sempre per merito della filologia comparata, anche se non sempre si è risolto il senso del testo in questione. Per quanto concerne il materiale sim bolico, m itolo­ gico e teologico esistono indubbiamente altri punti di contatto tra Giobbe ed Ugarit, come è stato sottolineato , forse eccessivamente, dal comm ento di M. Pope e come indicheremo nella lettura del testo. Si tratta, però, di collegamenti generali soprattutto a livello cosmologico. In alcuni casi, poi, si può ricor­ rere ad un archetipo pan-semitico precedente: pen­ siamo al dualismo dinamico tra Yam (Mare-nulla), il riemico acquatico, e Baal, l'Essere, un m odello m ito­ logico demitizzato dalla Bibbia (Gn 1) ma presente in modo proteiforme in quasi tutte le cosm ologie orientali. Qualche nesso settoriale è ugualmente at­ testato. Così il tema della sapienza inaccessibile (28,13-14) ha un parallelo vigoroso nel poema ugaritico di ‘Anat (3-9); il senso dell'impegno sociale che Giobbe sottolinea nel suo giuramento del c. 31 (w . 16-17) è presentato, sia pure in negativo, anche nella leggenda di Keret (2 K VI,39-54). Nel 1968 J. Nougayrol, pubblicando due tavolette di Ugarit, ha ritenuto di aggiungere un altro anello alla catena della « tradizione-Giobbe » 45. La prima tavo letta, numerata 25460 e datata attorno al 1300 a. C. contiene 46 linee di un monologo in cui un individuo eleva il suo lamento agli dei per la sua tragica condizione. Tre sono i momenti del dramma: l'inno, cente è stato abbandonato dagli dei, sofferenze in­ dicibili si sono impadronite della sua vita, ma la sua fedeltà incrollabile in Marduk gli perm ette di

45 Ugaritica V, Paris 1968, pp. 265-273.

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rivedere la gioia e la salute: L'operetta si chiudeva‫׳‬ probabilmente con un inno di ringraziamento a Marduk. Pur nello stato frammentario del testo, è abbastanza riconoscibile il carattere di riedizione del Ludlul bel nemeqi che era quasi certamente la ma­ trice originaria del testo. In questo caso non abbia­ mo, allora, che un'edizione ugaritica di un probabile best-seller del mondo semitico. Allo stesso risultato si giunge esaminando anche la seconda tavoletta, la 25130, di 45 linee, costituita da un centone di proverbi. I temi sono quelli del pes­ simismo sociale e filosofico tipico del Sitz-im-Leben babilonese: miseria come costante della esistenza, schiavitù e fatalismo, inutilità della vita piena di dolore sono dati generici che possono inquadrare solo in senso lato la problematica di Giobbe. Anche in questo caso, poi sembra che si debba intravedere nello sfondo del testo un prototipo m esopotam ico, la Teodicea babilonese.

I l G iobbe di Q umran

A Qumran Giobbe è stato innanzitutto tradotto in aramaico con un Targum molto prezioso per iden­ tificare l'originale ebraico usato da quei monaci e per rilevare le caratteristiche ermeneutiche in vigore nell'ambito giudaico attorno al I sec. dell'era cri­ stiana. Il testo è stato scoperto nell'XI grotta e porta la sigla convenzionale di 11 Q Tg Job*6. 46 Per un approfondimento delle questioni riguardanti que­ sto Targum vedi: A. C aquot. Un écrit sectaire de Qoumràn: Le « Targum de Job », in « Rev. Histoire Phil. Rei. » 185, 1974 9-27; J . G ray, The Massoretic Text of thè book of Job, thè Targum and thè LX X version in thè tight of thè Qumran Targum (11 Q tg Job), in ZAW 86, 1974, 331-350; J . A. F it z m y e r , Some observations on thè Targum of Job from Qumran Cave 11, in C B Q 36, 1974, 503-524; B. J ongeling , Een aramees Boek Job (11 Q tg Job), Amsterdam 1974; M . S okoloff, The Targum of Job from Qumran Cave X I, Ramat-Gan 1974. Per un'inqua­ dratura generale su Qumran, vedi: L. M oraldi, I manoscritti di Qumran, Torino 1971 con ampia documentazione; J. A. S oggin , I manoscritti del Mar Morto Roma 1978; F . G io ia , La comunità di Qumran. Proposte educative, Roma 1979.

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Nella biblioteca di questa « Montecassino ebraica », come l'aveva definita un inviato speciale del « Cor­ riere della Sera » di allora, un testo ha attirato subito l'attenzione degli studiosi di Giobbe. Si tratta della cosiddetta PREGHIERA di NABONIDE (4 Q Or Nab), di origine aramaica, databile attorno al V sec. a.C. Essa fu inserita direttamente nella « tradizione-Giobbe » da G. Fohrer, mentre J. J. Milik l'a­ veva collegata al ciclo apocalittico di Daniele (3,314,3) 47. Il personaggio che dà nome alla supplica è Nabonide, ultimo re dell'impero neobabilonese, in­ coronato nel 555 a.C. e sconfitto da Ciro nel 539 a.C. Nel 1956 a Harran S. D. Rice scopriva un'iscri­ zione di Nabonide (H2) del V sec. a.C. che, tradot­ t a 48, rivelava un'indiscutibile collegamento col fram­ mento di Qumran. Infatti si presentava com e la sintesi di una storia di prosperità ormai passata a cui erano uniti un sogno teofanico e un voto per l'edificazione d'un tempio. Il testo di Qumran suona­ va così: Parole della preghiera innalzata da Nabonide, re di Assiria e di Babilonia, il gran re, quando fu colpito da una infiammazione maligna per disposizione del Dio Altissimo, a Teman. « Da un’infiammazione maligna fui colpito per sette anni e lungi dagli uomini fui relegato; ma quando con­ fessai i miei peccati e le mie colpe, Dio mi concesse un esorcista. Era un uomo ebreo, uno degli esiliati di Babilonia, il quale diede la sua spiegazione e comandò con uno scritto di rendere onore, lode e gloria al no­ me del Dio Altissimo. E scrisse questo: Allorché tu eri colpito da un'infiammazione maligna nella città di Teman per disposizione del Dio Altissimo, per sette 47 J. J. M i l i k ,

« Prière de N abonide » et a u tres écrits d ’un cycle de Daniel, in RB 65, 1956, 407-415; G. F o h r e r, 4 Q OrNab, 11 Q tg Job u n d die H ioblegende , in ZAW 75, 1963, 93-97.

Edizione e studio fondamentali della « Preghiera » in R. M e y e r, Das G ebet des N abonids, Berlin 1962 e nuovo tenta­ tivo di restauro testuale di P. G r e lo t, La prière de N a bonide (4 Q Or Nab), in « Rev. Qumran » 9, 1978, 483495. Vedi anche J. C a rm ig n a c , La théologie de la souffrance dans les H ym nea de Q um ran, in « Rev. Qumran » 3, 1961, 365-386. 48 In inglese: G. J. Gadd, The H arran inscription o f Nabon idus, in « Anatolian Studies » 8, 1958, 35-92; in latino: E. Vogt, N ovae inscriptiones N abom di, in Bib 40, 1959, 88-102.

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Giobbe e la sapienza eterodossa anni hai pregato tutti gli dei d'argento e d'oro, di bronzo, di ferro, di legno, d’argilla, pensando che fos­ sero gli dei ... » 49.

Il testo si ferma qui. Ma se tentiamo una composi­ zione con l'iscrizione della stele di Harran, vediamo configurarsi una leggenda che ha indiscutibili rife­ rimenti con quella che lo strato arcaico di Giobbe suppone. Nabonide, innocente, viene colpito come Giobbe (2,7) da un'infiammazione maligna che lo isola da tutto il suo popolo. Egli si trova nell'oasi di Teman, una località significativa anche per Giobbe perché ad essa appartiene uno dei suoi interlocutori, Elifaz, il Temanita. Disperato il sovrano innalza in­ vano la sua supplica a tutti gli dei in cui crede. Ma sarà solo un veggente ebreo ad indicargli la via della salvezza, l'invocazione di E1 Eljon, il Dio Altissimo. Ed ecco che il dio gli appare in un sogno teofanico e lo libera dalle piaghe che gli hanno causato sette anni di sofferenza. Gli chiede anche di adempiere ad un voto, la costruzione d'un tempio, e lo riporta trionfalmente sul trono. La limitatezza della narra­ zione di Nabonide non può far pensare ad una fonte diretta per il racconto primitivo di Giobbe, può però far sospettare l'esistenza di una « forma » letteraria comune attestata a livello sia folkloristico sia colto. I l G iobbe arabo

Recentemente un orientalista, H. Zafrani, in una sua ricerca etnologico-letteraria nell'ambito dell'ebraismo sefardita marocchino ha identificato una « sto­ ria di Giobbe » giudaico-araba 50. Questo filone tradi­ zionale arabo su Giobbe ripropone retrospettiva­ mente un'ipotesi sostenuta soprattutto da A. Guil­ laume, patrocinatore del substrato proto-arabo del testo di Giobbe. w L. M oraldi, o.c., pp. 675-676. 50 Une histoire de Job en judéo-arabe du. Maroc, in « Bustan » 9, 1968, 279*315.

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Collegandosi con la leggenda di Nabonide, lo studio­ so aveva sostenuto nei suoi Studies in thè book of Job 51 che durante il regno di quel sovrano (VI sec. a.C.) un contingente di Ebrei era giunto nell'oasi araba di Teman. Tra costoro c'era l'autore del rac­ conto originario di Giobbe. In esso si immaginava che il protagonista fosse emigrato a Teman dopo il crollo di Samaria del 722 a.C. o quello di Gerusa­ lemme del 587 a. C. Fatto schiavo e privato di tutti i suoi beni, questo Giobbe era stato restaurato nella sua dignità primigenia proprio a Teman, per merito dei suoi correligionari ebrei. Infatti, scrive Guillau« me a sostegno della sua quasi fantascientifica rico struzione, « era impossibile che una persona potesse scrivere con una tale conoscenza dell'arabo com e fa il nostro autore e dimostrare familiarità con la flora e la fauna del deserto e con i costum i della regione e fosse pratico della via verso l'Egitto attraverso la costa del Mar Rosso, senza che fosse vissuto a lungo nella regione ». In realtà dei 41 arabismi che il Guillaume identifica la quasi totalità è riconducibile alla matrice semitica di fondo, mentre l'ambiente arabo in cui sarebbe immersa l'opera di Giobbe è da riportare più semplicemente all'atmosfera esotica in cui indubbiamente la vicenda è calata. 1 risultati ottenuti da un'analisi comparata col mon­ do arabo ci indirizzano, quindi, solo verso una sua dipendenza da Giobbe e non di Giobbe, com e ve­ dremo nel Corano e nelle successive leggende mu­ sulmane 52. I l G iobbe greco *

Nel 1773 uno studioso umanista, il Lichtenstein, ten­ tava di stabilire una serie di punti di contatto tra il 51 Leiden 1968, pp. 7-14. Dello stesso A., T he arabic back­ ground o f thè book of Job, in « Fest. S. H. Hooke », Edin­ burgh 1963, pp. 106-127, ripreso poi negli S tu d ie s citati. 2 Vedi la voce Ayyub, in A. J e f f e r y , E ncyclopédie de l'Isla m , Leyde 1960, p. 819. * P a u l u s J . , Le thème du juste souffrant dans la pensée grecque et hébraique, in

18-66.

« R ev .

H is t o i r e

R e lig . » 121,

1940,

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m ondo dei poemi omerici e quello di Giobbe. Questo tentativo è stato l'inizio di una continua verifica per sondare l'esistenza o meno di un ponte di comunica­ zione, tra la ricerca della teodicea greca e quella biblica. I poemi omerici, in verità, offrono una teo­ logia molto esile, ancorata ai modelli della religiosi­ tà popolare 53. La pianificazione della storia è sostan­ zialmente regolata da una serie di meccanismi im­ personali (Moira) o semi-personali (daimon), rara­ mente da un dio-persona (Zeus e il pantheon). L'uomo è colpito da un'aie, diremmo quasi da « un sequestro della sua mente » da parte di questi m ec­ canismi che lo costringono alla labilità ed alla colpa. Questa impostazione sostanzialmente deterministica e pessim istica permane, sia pure sotto terminologia e schemi diversi (Ananke, Heimarmene, Moira, Thanatos) nella teologia sottesa all'antica poesia greca da Esiodo a Pindaro e soprattutto alla tragedia clas­ sica. Un esempio splendido di questa radicale sfidu­ cia nella vita è presente nel terzo stasim o delYEdipo a Colono (w . 1220ss) di Sofocle: Un cadere lungo di giorni aumenta il dolore... Alla fine viene la morte, quella che tutto libera, tutto egua­ glia, tutto chiude: l'Ade senza canti, senza lira, senza danze: smemorato abisso. Non nascere: è il mio pensiero più dolce. Oppure, nati una volta, è poco male riandarsene subito dove eravamo. Quando la gioventù vaga d’inganni è scom­ parsa, quale tormento sfugge all’esistere? Quale scia­ gura resta lontana? Discordia, odio, guerra, strage, sangue 5*. P o h le n z M., La tragedia greca, Brescia 1961, 2 voli. R o d rìg u e z A drados F., E l heroe tragico y el filosofo platònico,

Madrid 1962. R., La letteratura greca classica, Milano 1967. V ia n F., La religione greca, in H. Ch. Puech ed., Sto ria delle religioni III, Bari 1976, pp. 3-117. 53 J. N e y r a n d , Le livre de Job et les po èm es d'H om ère, in « Etudes » 59, 1922, 129-151. Come si è visto, Teodoro di Mopsuestia riteneva che Giobbe fosse una tragedia ebraica modellata su quella greca e R. Lowth, pur giungendo ad un risultato negativo, aveva confrontato in parallelo Giobbe ed il ciclo di Edipo di Sofocle, mentre l’americano Kallen con­ cludeva la stessa comparazione con un risultato positivo. 5♦ Versione di E. C e tra n g o lo , in II teatro greco. T u tte le tragedie, Firenze 1970, p. 375. C fr. J. De C o m illy , L'évolution du p a th étiq u e d ’E schyle à E uripide, Paris 1961. C a n ta re lla

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A questo punto è ovvio esaminare il parallelo tra Giobbe e la mitologia prometeica, uno degli schemi ideologico-poetici costanti nel corso della specula­ zione tragica, platonica, ermetica e magica. L'inter­ pretazione popolare vede in Prometeo l’archetipo dell'uomo che fonda la sua speranza neU'emancipazione e nella libertà da ogni im posizione estrinseca divina, morale ed umana. Marx nella introduzione alla sua tesi di laurea definiva Prometeo « il più nobile santo e martire del calendario filosofico » 55. In realtà la mitologia prometeica è m olto più com ­ plessa Sb. Alla sua base v'è innanzitutto una marcata assenza di prospettive soteriologiche: essa, infatti, si innesta su una visione « olimpica » dei rapporti Dio-uomo per cui v'è netta opposizione e differenza di natura e sorte tra « alto » e « basso », tra uomini e dei. Prometeo con la sua impresa mirante a cancellare questo iato in realtà non fa che sottolineare la radi­ cale divaricazione tra la sfera divina e quella umana senza proporre nessuno sbocco liberatorio. La mito­ logia prometeica classica con la sua proposta piut­ tosto sconsolata è testimoniata innanzitutto da Esiodo nelle Opere e i Giorni e nella Teogonia. Pro­ 55 M a rx -E n g e ls, W erke, Berlin 1968, I, p. 262. In questa luce si colloca anche la globale reinterpretazione del mito pro­ meteico operata da Nietzsche. Sulla scia dell'Ode a P rom eteo, scritta da Goethe nel 1774, P. B. Shelley dichiarava: « Il solo essere immaginario che assomigli in qualche modo a Pro­ meteo è Satana, ma Prometeo, a mio parere, è più poetico di Satana » (P rom etheus V nbound, Seattle 1969, p. 35). Un’ori­ ginale interpretazione di Prometeo nell’ambito della tragedia greca è avanzata da J. K o t t , M angiare Dio, Milano 1977, pp. 35-76 ( « L’asse verticale o le ambiguità di Prometeo »). L'im­ presa di Prometeo è assunta da D. S. Landes in uno dei classici della storiografia contemporanea, P rom eteo liberato (Torino 1978) a simbolo della più straordinaria avventura che l’umanità abbia conosciuto nel corso della sua storia, cioè il passaggio da una società tradizionale ad un mondo dominato dalle cadenze della scienza e della tecnica, scosso da una spirale vorticosa di continue trasformazioni. Ma Prometeo ha offerto un dono pericoloso perché capace di produrre tan­ to il bene quanto il male: il cambiamento « è come un demone — scrive Landes — crea, ma in pari tempo di­ strugge ».

56 K . K e r e n y i, Prom eteus. Die M enschliche E x iste n z in grie-

chischen D eutung, Hamburg 1959.

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m eteo è la « struttura fredda » che separa dei ed uomini: infatti, in seguito al suo peccato di hybris, gli dei diventano più dei ed « olimpici » e gli uom ini più uomini e mortali. Il mito del furto del fuoco, esclusiva divina, ha un suo parallelo amaro in quello del vaso di Pandora: persino ì'elpìs, la spe­ ranza umana contenuta in quell’anfora, è fonte di mali per l'umanità. E gli uomini vengono ributtati nella loro tragica situazione che è il contrario di quella degli dei « che vivono facilmente ». Ma è soprattutto col PROMETEO INCATENATO di Eschilo che la formulazione del mito diventa più lucida e com pleta57. Lo schema della tragedia è fa­ m osissim o. L'eroe semidivino Prometeo è incatenato ad una roccia ed abbandonato all’infierire dell'aquila di Zeus che gli divora il fegato: la sua colpa è quella di avere offerto agli uomini il fuoco, proprie­ tà privata degli dei. Per essere liberato da questa terribile sofferenza Prometeo supplica di essere pre­ cipitato negli inferi. Si accostano a lui gli amici-con­ solatori, Oceano e le Ninfe, che gli consigliano insi­ stentem ente di implorare il perdono di Zeus. Ma il rifiuto di Prometeo è totale: è Zeus, invece, che deve chiedergli perdono. Anche Hermes tenta invano di mutare il cuore ostinato dell’eroe che inesorabil­ mente rifiuta ed anzi raddoppia ed intensifica le sue grida blasfeme contro Zeus. E alla fine la terra lo inghiottisce mentre egli lancia il suo ultimo, dispe­ rato ed eroico rifiuto alla divinità. P. Mazon, il curatore di Eschilo per Les Belles Lettres sostiene che, in realtà, la trilogia originaria del grande tragico greco era centrata sul tema della giustizia che si deve progressivamente trasformare in clemenza sia per gli dei sia per gli uomini. E questa metamorfosi avveniva nella terza pièce anda­ ta perduta: in essa Zeus, di nuovo clem ente, libera­ va Prometeo che accettava di riconciliarsi con lui restaurando così la primitiva syngèneia (« connatu­ ri R . C antarella, Eschilo, Firenze 1941; I. T h . S heppard , Aeschylus and Sophocles, their work and influence, New York 1963. Per una versione italiana della tragedia vedi O. L ongo, Prometeo, Roma 1959 ed E. M andruzzato in II teatro greco cit., pp. 86-110.

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ralità ») che lo legava alla divinità. Prometeo da un lato è il pantechnos, il fondatore filantropico di tutte le tecniche umane (simbolizzate nel fuoco) che rendono possibile e fruttuosa la vita. Ma d'altra parte il titano ha anche la coscienza dell'inutilità del suo dono: egli non ha dato un bene agli uomini, ha fatto solo dimenticare un male, la morte. Infatti, nel pessim ism o senza sbocco della teologica greca egli esclama: « Ho posto in essi cieche speranze » (v. 520). L'accostamento tra Prometeo e Giobbe ripetutamen­ te ten tato58 non dev'essere certo condotto per repe­ rire un'eventuale fonte del libro biblico quanto piut­ tosto per intravedere qualche parallelo sul piano del pensiero religioso generale. Giobbe e il titano di per sé incarnano due versioni profondamente diverse dell'atteggiamento umano nei confronti di Dio, quel­ lo « religioso » e quello « irreligioso » 59. L'autopro* clamazione della propria innocenza è il dato di base com une ma su di esso fiorisce una ben diversa ideologia. L'uomo Prometeo è la celebrazione illumi­ nistica deH'intelligenza e del sapere umano, l'uomo Giobbe è creatura fermamente cosciente dei limiti deH'intelligenza umana (28,12-13.20-21) e ricusa i sistem i razionalistici della sapienza proposti dagli amici. Il dio prometeico è un despota geloso, cinico ed arbitrario la cui maestà e potenza traballano e s'incrinano, il Dio di Giobbe è sempre un mistero, scandaloso magari, ma trascendente ed irriducibile ad un dato patologico della storia. 58 J. L in d b lo m , Job and Prom etheus. A com parative s tu d y , in « Acta Instituti Romani Regni Sueciae » Series altera I, Lund 1939, pp. 280-287; W. A. I r v in , P ro m eth eu s and Job, in « Journal of Religion » 30, 1950, 90-108; H. G. M ay, P rom e­ theus and J o b : thè p roblem of thè god o f p o w er and thè m an o f w o rth , in « Anglican Theol. Rev. » 34, 1952, 240-246. A. J. F e s tu g ih r e nella sua opera La S a in te té (Paris 1942, pp.

51-54) aveva allegato alla letteratura sul tema del « giusto sofferente » anche YHeracles di Euripide. 59 A. A. de M ira n d a , Job y Prom eteo, o religiòn y irreligiòn, in « Anthologica Annua » 2, 1954, 206-237. Scriveva J. S. L asso, de V ega: « Prometeo e Giobbe sono due prototipi di due atteggi ‫»־‬menti religiosi diametralmente opposti » (E roe greco e sante cristiano, Brescia 1968, p. 95).

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La religiosità di Prometeo è solo dialettica. Il titano non potrà mai supplicare o « temere » Zeus perché è indegno dell'uomo cedere al ricatto della violenza cieca: « odio tutti gli dei » grida Prometeo nel m o­ mento più tragico del suo dolore. Giobbe, invece, pur nella libertà e nell'ardire della sua ricerca, si muove sempre in un quadro jahvistico e la sua impazienza nasce proprio da un autentico sentim en­ to religioso. La mancata attuazione della giustizia divina è dolore superiore a quello delle sue piaghe. L'etica prometeica, come quella ellenica, manca del senso del peccato, la giustizia è dovuta all'uomo, l'etica è solo antropologica. Giobbe, invece, cerca di elevarsi ad una concezione più alta della retribuzio­ ne divina che salvi la giustizia di Dio apparentemen­ te compromessa dal castigo dell'innocente: il pro­ blema etico è, dunque, teologico. Il cosmo di Prometeo non è oggetto di passiva contemplazione bensì di attiva correzione. L'uomo prometeico vede la natura come opera difettosa ed in rivolta (vv. 88-92) e se stesso come il creatore ed il perfezionatore. La cultura e la tecnica sono l'in­ tervento creatore umano che corregge e salva la carente creazione naturale, opera di un deus otiosus. I discorsi di Dio in Giobbe celebrano, invece, l'onni­ potenza e la provvidenza divina e determinano nel­ l'uomo la coscienza della sua inferiorità ed ignoran­ za, dandogli nei confronti di Dio un atteggiamento discepolare. *

*

*

Al termine di questo « viaggio testuale » nella prei­ storia della « tradizione-Giobbe » possiam o tentare un primo bilancio provvisorio. I paralleli esam inati non possono essere considerati fonti dirette dell'o­ pera biblica ma ne costituiscono quasi la paleonto­ logia. Sul piano della struttura essi ci rivelano che il monologo ed il dialogo sul problema della sofferenza datano in pratica dagli esordi stessi della scrittura

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(circa 3000 a.C. a Sumer ed in Egitto). Ci m ostrano anche che già dagli inizi è in vigore la possibilità di uno sviluppo poetico tra un prologo ed un epilogo stesi in prosa e che esiste lo schema ternario dei nove interventi. Questi paralleli conoscono anche l'utilizzazione dialettica di un trio d'amici o per lo meno di un interlocutore-obiettore e solitam ente introducono una presenza divina finale e risolutrice. Considerati i legami internazionali della sapienza, i paralleli extrabiblici sono rilevanti anche a livello ideologico. Appaiono, infatti, i primi sistem i di solu­ zione che, ridotti a tesi, possiam o così formulare: — il male proviene dal peccato soprattutto sociale ed è sottoposto ad una rigida retribuzione individua­ le; — il male è intrinseco all'essere creato e fa parte del destino umano; — la felicità ed il benessere dei perversi e degli ingiusti avranno una retribuzione differita; — la vita dopo la morte è la forma perfettam ente equilibratrice di retribuzione differita; — la sapienza divina è troppo trascendente ed in­ comprensibile perché l'uomo la possa criticare o giu­ dicare. Ma la « tradizione-Giobbe » nella sua fase pre-giobbica ci permette anche di far risaltare l'originalità dell'opera biblica. Essa pone il problema unicamente sul piano morale e teologico e non su quello rituale o magico. Essa rifiuta l'alibi di una soluzione di sopravvivenza dopo la morte che ignori l'effettiva oscurità presente. La teofania finale non è introdotta per una guarigione magica né per escogitare il deus ex machina risolutore, come nel racconto popolare­ sco precedente, ma è proposta per stimolare la fede, la ricerca del vero volto di Dio e il dialogo con lui. Giobbe, perciò, è, sì, in compagnia in m olti che conoscono il suo linguaggio, ma — come diceva Torrance60 — è anche solitario ed unico rispetto alla sua genealogia. J. B. T orrance, Why does God lei men suffer? A sermon on Job, in « Interpretation » 15, 1961, 157-163.

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La Bibbia e Giobbe Se è vero, come scrive A. de M usset61, che les plus désespérés soni les chants les plus beaux, possiam o dire senza esitazione che la Bibbia è spesso attra­ versata da questa bellezza tragica. Infatti la linea della « tradizione-Giobbe » percorre m olte pagine bibliche e lo fa secondo due vie, quella dell'assonan­ za delle idee e delle problematiche e quella del riferimento testuale preciso. La prima è una regione molto vaga da esplorare: in essa il dialogo Dio-uomo svela il suo aspetto più sconcertante. Tentiamo di dam e solo qualche sem ­ plificazione emblematica. La

v ia

d e l l 'a ss o n a n z a

In questo itinerario dovremmo assegnare un posto fondamentale a Qohelet sulla cui « eterodossia » siamo già intervenuti. Vogliamo invece riservare un cenno particolare al dramma di certe suppliche del Salterio: non dobbiamo dimenticare che un terzo della collezione dei Salmi è posto sotto il segno del dolore e sotto il colore della miseria e, parallelamen­ te, dobbiamo ricordare che molte pagine di Giobbe sono stese con l'occhio rivolto al genere letterario delle « lamentazioni » salmiche. Come testi significa­ tivi abbiamo pensato al SI 88 e al SI 22. Dubarle definiva il SI 88 « un lungo grido di deso­ lazione alla maniera di quello di Giobbe ma che, all'opposto di quest'ultimo, resta senza risposta » 01. F. Delitzsch, invece, lo chiamava « la più cupa e tenebrosa di tutte le lamentazioni salmiche ». È il grido lacerante di un disperato schiacciato sotto il peso di sventure insopportabili, trascinato all'orlo della tomba (v. 4), anzi già ridotto ad essere uno spettro, abbandonato alle tenebre degli inferi (vv. 61 La nuit de Mai, ed. Seuil, p. 152. 62 Les sages d'Israel cit., p. 136. Per la bibliografia sul salmo e la relativa esegesi vedi G. R avasi, Il Libro dei salmi cit., voi. II, pp. 803-819.

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5.7), colpito dallo sdegno di Dio che su di lui senza tregua si accanisce (v. 8), solitario ed emarginato (w . 9.19), chiuso in un carcere invalicabile (v. 9), respinto continuamente da Dio pur invocato sino allo stremo (v. 15), legato ad un'esistenza tutta posta sotto il segno dell'infelicità sin dall'infanzia, tortura­ to anche psicologicamente da incubi, terrori e debo­ lezze (v. 16), annientato dagli spaventi che il Signore gli semina attorno come un oceano che inonda di­ struggendo (vv. 17-18). Quest'uomo « sazio di sven­ ture » (v. 4) sa solo « gridare aiuto giorno e notte » (vv. 3.14). È forse questa l'unica supplica del Salterio in cui non appaia almeno un filo di luce e di speran­ za all'orizzonte. Ascoltiamola quindi come una te­ stimonianza vivissima della sincerità della preghiera e della ricerca biblica. Essa è un documento libero e spontaneo di tutto l'essere e Dio accoglie questa sincerità drammatica senza giudicarla e senza con­ dannarla. Il mistero del dolore è troppo accecante per l'uomo. Solo attraverso un terribile deserto si può intuire qualche soluzione e un senso superiore. È questa, perciò, la storia di Giobbe, è questa la storia delle « confessioni » di Geremia (c. 20), è questa anche l'esperienza del Cristo stesso che im­ plora il Padre di « allontanare il calice » della soffe­ renza, ed è questa la storia interiore anche dell'oran­ te anonimo del SI 88. 2 Signore, Dio della mia salvezza, davanti a te grido giorno e notte. 3 Giunga fino a te la mia preghiera, tendi l’orecchio al mio lamento. 4Io sono colmo di sventure, la mia vita è vicina alla tomba. 5 Sono annoverato tra quelli che scendono nel[la fossa, sono come un uomo ormai privo di forza. 6È tra i morti il mio giaciglio, sono come gli uccisi stesi nel sepolcro, dei quali tu non conservi il ricordo e che la tua mano ha abbandonato. 1Mi hai gettato nella fossa profonda, nelle tenebre e nell’om bra di morte.

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8 Pesa su di me il tuo sdegno e con tutti i tuoi flutti mi sommergi. 9 Hai allontanato da me i miei compagni mi hai reso per loro un orrore. Sono prigioniero senza scam po; 10si consumano i miei occhi nel patire. Tutto il giorno ti chiamo, Signore, verso di te protendo le mie mani. 11 Compi forse prodigi per i m o rti? 0 sorgono le ombre a darti lode? 12Si celebra forse la tua bontà nel sepolcro, la tua fedeltà negli inferi? u Nelle tenebre si conoscono forse i tuoi pròidigi, la tua giustizia nel paese dell’oblio? MMa io a te, Signore, grido aiuto, e al mattino giunge a te la mia preghiera. 15Perché, Signore, mi respingi, perché mi nascondi il tuo volto? 16 Sono infelice e morente dall’infanzia, sono sfinito, oppresso dai tuoi terrori. 11Sopra di me è passata la tua ira, 1 tuoi spaventi mi hanno annientato, 18 m i circondano come acqua tutto il giorno, tutti insieme mi avvolgono. 19Hai allontanato da me amici e conoscenti, mi sono compagne solo le tenebre.

Nel lamento ininterrotto ed angosciante di questo ebreo c'è una piccola certezza: Dio, il Signore della vita e della morte, può fermare i passi del suo fedele che sta piombando verso il baratro della mor­ te. Quell'estuario terribile della vita, ormai vicino ai passi stanchi del sofferente come un vortice che tutto risucchia, potrebbe da Dio essere allontanato. Nella visione ancora esitante dell'Antico Testamento i morti sono fuori dell'area salvifica di Dio, per essi non c'è più speranza. E per questo che la morte è vista solo con terrore e senza un barlume di fiducia. Dio si disinteressa dei defunti che, ridotti a larve, non hanno più voce per essere ascoltati da Dio (w .

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11-13). È la dichiarazione dei re Ezechia, appena guarito dalla malattia che l'aveva gravemente colpito: « Non gli inferi ti lodano, o S i g n o r e i l vivente, il vivente ti rende grazie! » (Is 38,18.19). « Hai allonta­ nato da me amici e conoscenti, mi sono solo com ­ pagne le tenebre » (v. 19): Dio muto ed ostile, gli amici freddi e distaccati, la solitudine tragica del dolore sono le stesse coordinate dell'esperienza di Giobbe, di questo anonimo orante e di tutti i soffe­ renti della storia. La stessa prospettiva emerge anche da un classico del Salterio, il SI 22 che nella rilettura cristiana diverrà, come Giobbe, una tipologia del Christus patiens et triumphans 63. Il grido di Gesù agonizzante (Mt 27,46) nasce pro­ prio dall'inizio in aramaico di questo salmo che, d'altra parte, sarà anche la filigrana di interpreta­ zione dell'intera passione di Gesù secondo il Nuovo Testamento (Mt 27,35.39-42; Gv 19,28; Eb 2,11). Questa « supplica con forti grida e lacrime » (Eb 5,7) si fonda su una situazione esemplare, il soffe­ rente è quasi il paradigma di ogni dolore umano: disagio sociale, sofferenza fisica, solitudine e silenzio di Dio. La radice del dolore e della morte è una sola, l'abbandono da parte di Dio per cui la lotta diventa vana e disperata, l'orizzonte vuoto e oscuro. Ma, come Giobbe, dopo il suo torturato interrogarsi e il suo torrenziale lamento, trova in Dio un'illumi­ nazione liberatrice, così anche l'orante del salmo, abbandonata ogni soluzione razionalistica o velleita­ ria allo scandalo del dolore innocente, affida solo alle mani di Dio il suo interrogativo. Ed è nella 63 Vedi G. R a v a si, o.c., I, pp. 395424; J . A. S o g g in , A p­ p u n ti p e r l'esegesi cristiana della prim a p a rte del Sai 22, in « Bibbia Oriente » 7, 1965, 105-116; H. G ese, P s 22 und das N. T., in ZThK 65, 1968, 1-22; J. H. R e u m a n n , Psalm 22 and thè cross, in « Interpretation » 28, 1974, 39-58. Il

poeta brasiliano E. C a rd e n a l ha fatto una commossa tra­ scrizione moderna del SI 22 nei suoi S a lm i politici. Illumi­ nante per un riferimento globale tematico a Giobbe è anche il SI 73 che accosteremo a Giobbe nel punto culminante del testo, i discorsi divini (cc. 3841; cfr. L. J a c q u e t, o.c., II, pp. 431461).

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maggiore ed irraggiungibile logica divina che egli può placare la sua ansia lacerante (v. 25). Due sono gli atti fondamentali di questo dramma: il presente, dominato da gravi malattie e persecuzioni (vv. 2-22) e il futuro in cui la disperazione sarà cancellata dalla liberazione che il Signore farà bale­ nare, davanti agli occhi del suo fedele (vv. 23-32). Un salmo, quindi, di immensa amarezza e desolazione, ma anche di attesa fiduciosa. È questo filo di luce finale che rende, sulle labbra di Gesù, il salmo una preghiera anche « pasquale ». La supplica si apre con una drammatica invocazione (vv. 2-3) centrata sul violento contrasto tra il ripetuto aggettivo possessivo « mio » ed i verbi del silenzio di Dio (« abbandonare », « essere lontano », « non rispondere »). Come nel libro di Giobbe, Dio è chia­ mato, con un'insistenza carica d'angoscia, a deporre, a giustificarsi. Anzi, nei vv. 4-6 Dio sembra essere visto quasi ironicamente come un re assente, disin­ teressato, assiso pacificamente sul trono del suo regno, distante dal turbinare delle nostre vicende. L'orante tenta, quindi, di provocare Dio ad interve­ nire contrapponendo la serenità del passato, abban­ donato all'intimità e alla pace, allo squallore attuale, circondato da ostilità e miserie che riducono l'essere umano ad « un verme » (v. 7). La dignità umana del fedele è totalmente calpestata. In una scena dalle tinte barocche (vv. 13-22) i nemici sono tratteggiati come animali feroci ed implacabili, incarnazione storica di forze quasi demoniache. L'orante, insegui­ to come in un quadro .di caccia da battitori e da cani, è una preda già ferita, ansimante e quasi rag­ giunta (v. 17). Ormai egli è come un moribondo giunto alle soglie della sepoltura, le cui vesti vengo­ no divise e distribuite dato che non gli serviranno più (vv. 18-22). Ma col v. 23 si apre la zona di luce e di speranza del salmo. Dopo un invito gioioso alla lode (vv. 24-25), l'inno si espande nella certezza del futuro felice in cui il fedele scioglierà il suo voto nell'assemblea liturgica (vv. 26-27). Dio non agisce secondo gli schemi umani e « mondani », si schiera con le vit­ time, coi poveri, con chi non ha altro difensore che

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il Signore stesso. Ed allora la bilancia degli eventi si squilibra in favore del povero perché in suo soccor­ so è intervenuto un tale difensore. Questa è la « poli­ tica » del re dell'universo. E il salmo si conclude col frammento, forse aggiunto posteriormente, di un in­ no alla regalità del Signore (w . 28-32).

L a v ia d e l r i f e r i m e n t o

Il riferimento esplicito che la Bibbia stessa fa ad uno dei suoi personaggi più originali e sconvolgenti è senz'altro limitato ma pur sempre significativo. Per Ezechiele (14,14.20), come si è detto, Giobbe è il modello dell'intercessore, accanto a Noè e Danel, sul­ la base della notizia riportata dall'antico versetto del­ l'epilogo in prosa: « il mio servo Giobbe pregherà per voi affinché io, per riguardo a lui, non vi punisca ... ». Su questo spunto anche il Siracide (II sec. a. C.) nel­ la galleria di ritratti con cui conclude il suo volume traccia un abbozzo indiretto di Giobbe che risulta così nel testo originale ebraico restaurato dopo le scoperte del Cairo, di Qumran e di Masada: Ezechiele ebbe una visione, rivelò gli aspetti del [carro c ricordò Giobbe cne seguì le vie d i r i tt e M. Anche quel pio prodotto del Giudaismo osservante che è il libro di Tobia nel testo della versione della Vulgata sviluppa nei tratti del protagonista Tobi (2,10-23) i lineamenti di un « Giobbe paziente » se­ condo un'interpretazione del sapiente biblico che avrà grande fortuna successivamente tanto da essere formalizzata in Gc 5,11. Ma neH'originale di Tobia ci sono anche due riferimenti espliciti a Giobbe. In 12,12 si dice che l'attestato della preghiera dell'uomo 6* Il testo greco, confondendo 'Ijob (Giobbe) con 'ojeb («nemico»), traduce invece: Si ricordò dei nemici nel vati­ cinio dell'uragano, beneficò quanti camminavano nella retta via.

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è presentato al Signore da un angelo (Raffaele). Questo corrisponde all'insegnamento di Elihu sulla funzione dell'angelo intercessore (Gb 33,23-24). Il canto di ringraziamento finale di Tobi proclama che « nulla sfugge alla mano di Dio » (13,2): si tratta di una citazione del ben più drammatico grido di Giobbe « nessuno mi può liberare dalla tua mano ». ÀBbiamo visto che il Salterio offre col genere lette­ rario della supplica o lamentazione un m odello pre­ sente in molte pagine di Giobbe. C'è, invece, un salmo sapienziale, il grandioso ed ottim istico SI 119, inno solenne alla Torà, che fa sospettare qua e là la lettura di Giobbe. « Le tue mani mi hanno fatto e plasmato » dice l'orante nel v. 73 evocando la frase di Gb 10,8: « le tue mani mi hanno plasmato e mi hanno fatto integro in ogni parte ». Ora, però « sono come un otre esposto al fumo » (v. 83), proprio come per « la pelle annerita » di Giobbe che si sta staccando dalla carne (30,30). Dio « fa freme­ re di spavento la carne » dell'orante (v. 120), com e il fremito che atterrisce e spaventa Elifaz nella sua visione notturna (Gb 4,14-15). Ed Elihu, l'ultimo ed inatteso amico di Giobbe, « giovane d'anni » ma sapiente (32,6-7), è simile all'autore del SI 119 che nella sintetica autobiografia del v. 100 dice come Elihu: « Ho più senno degli anziani ». Anche nel libro della Sapienza, finissimo documento deH'Ellenismo alessandrino del I sec. a. C., la trama delle allusioni a Giobbe è abbastanza estesa. Certo, in alcuni passi si tratta di un collegamento basato su formule stereotipe nell'A.T. Così, « tu conduci alle porte degli inferi e fai risalire » (16,13) è vicino a Gb 38,17 in cui si dichiara che solo Dio può vedere « le porte degli inferi », ma è anche un'e­ spressione generale presente nel Cantico di Anna (2 Sm 2,6). Anche lo schema comparativo per cui la sapienza in Sap 7,9 viene confrontata con le realtà più preziose (oro e argento) e ad esse dichiarata superiore è presente nell'inno alla sapienza di Gb 28 (v. 15), ma è anche un dato tradizionale (Pr 2,4; 3,13-15; 8,19; 16,16; 20,15; Sir 29,11-12). Più stret­ ti, invece, sono i legami nel settore dell'antropologia proposta dai due libri. « Dieci mesi sono stato con­

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solidato nel sangue, frutto del seme dell'uomo » dice il Salomone della Sapienza; « mi hai colato come latte e fatto cagliare come cacio », aveva detto più vigorosamente Giobbe (10,10). Dell'uomo, còlto nella fragilità della sua realtà, Gb 4,19 dice che « abi­ ta in case di argilla ». La Sapienza con una sfumatu­ ra platonicheggiante parla della nostra « tenda d'ar­ gilla che grava la mente » (9,15). E questo m isterioso impasto di grandezza e di miseria che è l'uomo non può che far « mettere la mano sulla bocca » per lo stupore sia a Giobbe (29,9) che all'anonimo pseudoSalomone di Sap 8,12. Eccoci così al Nuovo Testamento in cui, tranne l'esplicita celebrazione di Gc 5,11, la presenza di Giobbe è piuttosto esile e sbiadita. Per il testo giu­ deo-cristiano della lettera di Giacomo Giobbe è l'emblema della pazienza: « Avete udito parlare del­ la pazienza di Giobbe e conoscete la sorte finale che gli riserbò il Signore ». Forse il loghion di Gesù « Questo è im possibile agli uomini, ma a Dio tutto è possibile » (Me 10,27; Mt 19,26) può sintetizzare idealmente i discorsi di Dio dei cc. 38-41. Anche il riconoscimento di un Dio che « rovescia i potenti dai troni ed innalza gli umili » (Le 1,52) è ammesso pure da Giobbe ma in chiave ironica. Ap 9,6 (« cercheranno la morte ma non la troveranno ») probabilmente riflette Gb 3,21, « aspet­ tano la morte e non viene, la cercano ... ». Si tratta, però, di allusioni molto sottili e sfocate. Diverso è il caso dell'epistolario paolino. Se in 1 Ts 5,22 « astenersi da ogni specie di male » è solo un'eco del ritratto ideale di Giobbe steso dal prologo (1,1.8 e 2,3), in 1 Co 3,19 a suffragare la tesi paolina della vanità della sapienza di questo mondo davanti a Dio si allega esplicitamente Gb 5,13: « Dio prende i sapienti per mezzo della loro astuzia ». Così, in Fi 1,19 l'Apostolo cita Gb 13,16 nella versione dei LXX (« questo servirà alla mia salvezza ») ed in 2 Ts 2,8 Paolo è certo che Gesù « distruggerà l'empio con il soffio della sua bocca » sperando come Elifaz che « a un soffio di Dio gli empi periscano » (4,9; cfr. Is H,4). Giobbe, però, entra nella letteratura cristiana ben

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presto con una forte presenza. Ma non sarà letto come una grande testimonianza sul m istero di Dio e del suo agire nei confronti dell'uomo. Egli sarà ama­ to dai lettori cristiani soprattutto per le sue pagine grondanti lacrime, per il suo lamento acre e quasi disperato. Più che un libro di alta teologia diverrà un testo di antropologia religiosa e di psicologia della prova.

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Se è facile per il pensiero cristiano scontrarsi fin dagli inizi con la problematica agitata da Giobbe, più esitante è l'uso di questa « anguilla » come Ge­ rolamo chiamava quest'opera così libera e provoca­ trice. Giobbe nella letteratura cristiana degli esordi (I e II sec.) è poco conosciuto se si escludono alcuni riferimenti presenti nella Lettera ai Corinti di Cle­ mente Romano e nel Dialogo con Trifone (46,32; 79,4; 103,5) di Giustino, riferimenti, tra l'altro, ri­ guardanti quasi esclusivamente il prologo in prosa 65. Un cenno più sviluppato merita, però, la Lettera di Clemente considerata « uno dei capolavori che da soli potrebbero costituire gli elementi di una teolo­ gia completa dell'epoca » 66. Clemente cita 12 volte il libro di Giobbe ma solo due volte in modo esplicito 65 Per l'analisi della presenza del libro di Giobbe nella pri­ ma tradizione patristica ed in quella giudaica sono molto uti­ li tre saggi: A. R avenna , Il caso di Giobbe e la tradizióne talmudica, in RivBib 7, 1959, 61-63; A. T. H anson , Job in Early Christianity and Rabbinic Judaism, in « Church Quart. Rev. » 2, 1969-1970, 147-151; N. N. G latzer , Judischen JjobDeutungen in den ersten christlicher Jahrhunderten, in « Freib, Rund. » 26, 1974, 31-34. Un buon profilo sintetico sulla letteratura patristica a cura di Ch. K an nengiesser , Job chez les Pères, in Dictionnaire de Spiritualité Ascétique et Mystique V ili, Paris 1974, 1218-1225. 66 A. Q uacquarflli, I Padri Apostolici, Roma 1976, p. 43. Per un'edizione della « Lettera » vedi Clément de Rome, Epltre aux Corinthiens a cura di A. Jaubert, Paris 1971. Secondo Dionigi di Corinto, citato da Eusebio nella sua Storia Ec­ clesiastica (IV, 23, I), la lettera era proclamata nella li­ turgia domenicale ed ebbe ben presto una traduzione latina circolante tra il 150 ed il 230 e scoperta nel 1893.

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(17,3-4 e 26,3), le altre volte solo allusivamente (39,3-9; 56,6; 59,3; 30,5; 20,7; 20,10 ...). Vista la relati­ va brevità dello scritto, la quantità dei riferimenti indica che il libro di Giobbe era molto assimilato dal pensiero dem entino. Inoltre, secondo l'uso clas­ sico, il citare implicitamente significava riferirsi al­ l'autorità del testo e della figura richiamandone glo­ balmente il messaggio al di là del singolo versetto citato. La prima citazione esplicita è inserita nel capitolo dedicato ai santi pazienti e si colloca nella linea tradizionale inaugurata dalla lettera di Giaco­ mo. Il secondo riferimento, invece, citando il celebre e discusso passo di Gb 19,26, lo interpreta in chiave resurrezionistica ed escatologica, iniziando così una tradizione che, appoggiandosi alla lettura dei LXX, avrà una grande fortuna soprattutto nella teologia dei Novissimi, nella liturgia funebre e nell'arte suc­ cessiva, come in seguito vedremo. Con Clemente Alessandrino (morto nel 215) il rife­ rimento a Giobbe diventa più consistente. Celebran­ do negli Stromata la purezza della vera gnosi e il mistero della discesa agli Inferi del Cristo, Clemente si appoggia in una quindicina di paragrafi a citazio­ ni, fraseologia, immagini desunte da una dozzina di capitoli di Giobbe. Il passo antropologico della « tessitura » dell'essere umano nel grembo della madre (Gb 10,11) è presente, invece, nel Protrettico (X, 98,2), mentre la cosmologia dell'alessandrino si avvale del canto del mare presente in Gb 38,8-11 (I, 5,1). Tre lezioni ci offre Giobbe — dice, invece, Cipriano nel c. I l i del suo Liber testimoniorum ad Quirinum del 250: una lezione di umiltà (il prologo: Gb 1,21-22), una lezione di generosità (l'autobiografia del c. 29), una lezione sulla fragilità umana (il limite temporale: 14,4-5). Il sondaggio finora condotto nei Padri ci ha impedito di identificare una vera e pro­ pria lettura organica di Giobbe. Ma dalla seconda metà del III sec. in avanti emergono alcune linee di interpretazione ben definite. Ci sembra possibile, co­ sì, identificare tre strutture ermeneutiche fondamen­ tali: quella alessandrina e il suo antipodo antioche­

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no, quella agostiniana e, infine, quella m oralistica gregoriana che durerà fino all'epoca moderna. Le scuole alessandrina e antiochena

È il grande Origene, morto nel 254, ad inaugurare una nuova fase negli studi su Giobbe con un com­ mento dettagliato, purtroppo perduto, con un com ­ mento globale sintetico a noi giunto (PG 12,1031-1050; 17,57-106) e con frequenti citazioni (300 circa). Conquistato fo r ^ inconsciamente dalle ar­ gomentazioni di Elihu e dall’antico racconto in pro­ sa del prologo-epilogo, Origene vede in Giobbe la prova vivente della funzione pedagogica del dolore: la foce di questo fiume di dolore, per usare una sua espressione, è infatti la ricompensa al centuplo (epi­ logo). La speculazione origeniana non si accontenta, però, di questa impostazione piuttosto sbrigativa. Ricorre allora ad un'interpretazione più rischiosa e platonicheggiante: il mistero del male viene spiegato ricorrendo alla teoria della preesistenza delle anime e al mito della loro caduta primordiale. Per questo agli occhi di Origene, contrariamente ad una solida tradizione patristica ed iconografica, Giobbe non può essere il prototipo del Cristo sofferente, in cui non è peccato alcuno, ma solo dei martiri cristiani. Nell'agosto del 1941 nelle grotte di Tura, divenuto ormai un sobborgo a sud del Cairo, veniva alla luce un quaderno di papiri: erano le note che un gruppo di monaci prendeva durante le conferenze spiritua­ li tenute da Didimo il Cieco, morto nel 398, e finora conosciute solo a brandelli nelle Catene medievali di citazioni (PG 39,1119-1154). Ora il commento di que­ sto maestro di spiritualità è leggibile nella sua completezza sino a Gb 16,2 67. Da queste pagine affio­ ra un mondo esoterico in cui fede ed angelologia, conoscenza mistica e Satana, pre-esistenza delle anime e misteri cosmici si annodano e si colorano di sotterranee evocazioni ed allusioni. È questo lo sboc57 Edizione integrale in A. H e in r ic h s , U. H agedorn, L. K oenen , Commentar zu Hiob, Bonn-Kòln 1968, 3 voli.

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co a cui doveva pervenire un’esegesi eccessivam ente « spontaneista » e metaforica, com ’era stata quella alessandrina. Agli antipodi di questa lettura spregiudicata si col­ loca l’esegesi antiochena, più dettagliata e « lettera­ le ». Il maestro, Giovanni Crisostomo, morto nel 407, ci ha lasciato un'ampia omelia su Giobbe (PG 63,477-486) ed a lui è attribuito un commentario apocrifo frammentario noto ormai come lo Pseu­ do-Crisostomo (PG 64,506-656). La figura di Giobbe che emerge da queste pagine è soprattutto quella dì un filosofo e moralista: come testimonia la biografia del prologo e dei cc. 29 e 31, egli è uno specchio di tutte le virtù, dalla pazienza alla carità, dall'umiltà alla castità, dalla modestia alla vigilanza e alla fidu­ cia, anticipando così il sistema delle virtù evangeli­ che. Si opera, allora, sul libro di Giobbe un duplice processo, di laicizzazione (le virtù stoiche) e di cri­ stianizzazione. Il Crisostomo, in polemica con le so­ luzioni fataliste del mistero del male, pone vigoro­ samente l'accento sull'uomo, sulla sua autonomia e libertà.

L a scuola latina agostiniana

La riflessione cristiana latina raggiunge il suo apo­ geo con Agostino che condiziona anche il pensiero di Ambrogio. La sua esegesi di stampo alessandrino è molto libera, allegorica e talora spregiudicata. È il caso delle Adnotation.es in Job (PL 34,825-886; CSEL 28/2, pp. 509-628) in cui, oltre alla ripresa della questione angelologica già agitata da Origene, si trasforma Giobbe nientemeno che in testim one antipelagiano dell'universalità del peccato. Ormai il te­ sto biblico è solo « funzione » della teologia cristia­ na e perciò la scelta delle pagine di Giobbe è molto parziale: su 400 citazioni ben 185 riguardano solo il prologo. Pronta fu, allora, la replica dell'acerrimo av­ versario di Agostino, Giuliano d'Eclano, morto nel 454, con la sua Expositio libri Job, una serie di

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scholia più che un commento vero e proprio68. Ov­ viamente la linea esegetica adottata dal vescovo campano è antitetica a quella di Agostino: egli ap­ pella, infatti, al senso letterale e storico secondo i canoni antiocheni. Ne deriva facilm ente il rifiuto dell'allegorizzazione neotestamentaria di Giobbe in­ trodotta da Agostino e, conseguentemente, l'inutilità di allegare Giobbe al dossier della polem ica pelagiana. Già il titolo,· De interpellatione Job et de hominis infirmitate (PL 14,793-850; CSEL 32,211-296), svela la prospettiva filo-agostinìana, pastorale e catechetica dello scritto di Ambrogio. Selezionando alcuni testi in cui appare la figura di Giobbe come vir sanctus, giusto, fedele, timorato di Dio, il vescovo di Milano entra nel cuore del problema del male e della liber­ tà umana. Sofferenza del giusto e prosperità del malvagio sono il nodo in cui si impiglia la teologia e che invano gli amici cercano di sciogliere con la tesi semplificatoria della retribuzione per i peccati commessi. È a questo punto che Ambrogio ha un'in­ tuizione felice che centra la questione fondamentale di Giobbe. Il crollo della ragione umana davanti al m istero del male deve indurci a scoprire in forma più profonda la realtà dell'agire di Dio. Se la sa­ pienza umana conosce solo il fallimento di fronte al male, la fede porta a conoscere una possibilità di speranza, dato che la sapienza di Dio è superiore a quella dell'uomo e quindi può dare al male una collocazione inedita per i criteri dell^ sapienza uma­ na. Giobbe diventa così il modello del credente e del vero sapiente. E Ambrogio conclude: Perciò dobbiamo cercare la sapienza p er camminare sulla giusta via. Ma colui che cerca la sapienza, non la ricerchi né nell’abisso né nel mare. La sapienza è là dove c’è la tranquillità della mente e la pace che è superiore ad ogni conoscenza 69. 68 Edizione in « Spicilegium Cassinense » voi. III( pars I, 1897, pp. 333-417. V e d i P. V accari, Un commento a Giobbe di Giu­ liano d’Eclano, Roma 1915. 69 Nell'ambito della patristica latina un posto di rilievo me­ rita anche Gerolamo con le sue traduzioni latine e le relative

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Gregorio M agno e la lettura esistenziale di G iobbe

È difficile riassumere in poche righe i 35 libri di Moralia in Job che Gregorio stese tra il 579 ed il 585 (PL 75 e 76). Alla base di questo scritto, dedicato a Leandro di Siviglia, ci sono le omelie che Gregorio teneva ai monaci del convento di cui era ospite a Costantinopoli dove espletava le funzioni di Legato pontificio. Queste omelie, rielaborate, costituiscono la nervatura dell'opera finale impostata secondo la metodologia esegetica alessandrina e, quindi, secon­ do un'attualizzazione morale ed esistenziale che te­ neva presente l'uditorio a cui si indirizzava. A no­ stro avviso si possono identificare cinque direttrici che sostengono l'intera architettura del commento gregoriano. La lettura è innanzitutto comandata dalla teologia spirituale e dall’incidenza che il messaggio di Giob­ be può avere nell'esperienza interiore. Da questo ambito intimistico si passa poi alla teologia della Chiesa nella storia: le debolezze, gli splendori, gli ardori di fede e le eresie sono lette alla luce della vicenda di Giobbe e, reciprocamente, spiegano il senso del libro di Giobbe. Una terza costante, piut­ tosto classica nell'esegesi patristica, è la lettura del­ la Bibbia con la Bibbia: in questo scritto di Grego­ rio sono state contate ben 3730 citazioni bibliche di cui 700 evangeliche e 600 salmiche. Una quarta linea interpretativa è, invece, squisitamente etica: se Dio è l'emblema perfetto dell'amore paterno che attende senza impazienze la conversione dell'uomo, Giobbe è il modello della perfezione morale perché riesce, dopo la sua travagliata tentazione, a cantare « l'a­ zione di grazie anche nella sofferenza » (prefazione dei Moralia). La stessa prefazione ci suggerisce un'ultima direttrice di lettura, ugualmente tipica nella letteratura patristica: « Giobbe predica i misteri della passione del Cristo profetizzandola non solo prefazioni dedicate a Giobbe. A Gerolamo è attribuito anche un commento, opera del discepolo Filippo e perciò indicato come lo Pseudo-Gerolamo. La monografia più completa su Gregorio Magno è quella di C. D agens, Saint Grégoire le Grand. Culture et expérience chrétiennes, Paris 1977.

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coi suoi discorsi ma anche coi suoi torm enti ». Egli diventa così il paradigma « prolettico » del Cristo paziente e della Chiesa sofferente. La lettura spirituale, ecclesiale, biblica, morale, cri­ stologica di Gregorio avrà tanta fortuna da permeare di sé anche i successivi commenti, da quello di Odone di Cluny del X sec. (PL 133) a quello di Ruperto di Deutz del XII sec. (PL 168), daìYExpositio in Job di Bruno d'Asti (PL 164) fin ad Alberto Magno (ed. Weiss 1904) e alle Moralitates in Job di Giacomo di Losanna, morto nel 1322. Più autonomo e più sobrio il commento di Tommaso d’Aquino (ed. di Parma 14,1-147). La tradizione « gregoriana » con­ tinua fino ai grandi predicatori e moralisti del Quattrocento, del Rinascimento e dell'om iletica ba­ rocca. Per tutti citiamo Gerolamo Savonarola (1452-1498) che nella Quaresima del 1495 tenne 47 prediche di cui 38 dedicate esplicitam ente a Gb 1-12 70. Giobbe nelle mani del ·coraggioso domenicano fiorentino diventa un libro scottante e stimolante.. Nella XXV predica, commentando Gb 9, Savonarola esclama: « Questo libro della Scrittura è un libro di guerra! » 71. E, per finire, un cenno sulla presenza di Giobbe nel dibattito strettamente teologico. Sempre nella scia di Gregorio, Giobbe appare come l'emblema della questione del dolore innocente e del male. È, ad esempio, il caso del celebre e discusso teologo lova70 Le rimanenti prediche sono riservate ai testi biblici della liturgia pasquale. A Gb 1 sono dedicate tre prediche (nn. 3-5), una (n. 6) a Gb 2, quattro a Gb 3 (nn. 7-10), due (nn. 11-12) a Gb 4 e a Gb 5 (nn. 13-14), tre a Gb 6 (nn. 15-17), due sia a Gb 7 (nn. 18-19) sia a Gb 8 (nn. 20-21). Ben nove sermoni hanno per tema Gb 9 (nn. 24-32), tre Gb 10 (nn. 33-35) e Gb 11 (nn. 36-38) e, infine, quattro Gb 12 (nn. 39-42). L'edizione critica è stata curata da R . R id o l fi , Prediche sopra Giobbe, Roma 1957, 2 voli. Nel 1471 D e n is le C hartreux aveva compo­ sto una serie di Enarrationes in Job (Montreuil 1897). 71 Oltre alla Glossa Ordinaria (PL 113), preziosi per l'analisi dell’uso di Giobbe nella letteratura cristiana sono senz'altro uei florilegi detti Catenae Patrum. Per Giobbe citiamo la atena in B. Job di P. Comitoli, pubblicata a Venezia nel 1587 e comprendente 24 autori greci e latini e la Catena graecorum Patrum in B. Job, raccolta dall’inglese P. Junius (Young) a Londra nel 1637 (cfr. PG 64, 505-635).

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niense Michele Baio (1513-1589), erede radicale del pessim ism o agostiniano ed antipelagiano ed antici­ patore del rigorismo giansenista. Nel 1567 con la bolla Ex omnibus afflictionibus Pio V condannò 76 (secondo altri 79) proposizioni del teologo. La LXIX (o LXXII) suonava così: « Tutte le sofferenze dei giusti sono punizioni dei loro peccati: perciò quello che Giobbe ed i martiri hanno sofferto, l'hanno sofferto per i loro peccati » 72. La condanna della tesi, molto simile a quella retribuzionistica degli amici di Giobbe e rivelatrice di un profondo deprezzamento della natura umana, fu confermata nel 1580 da Gregorio XIII con la Bolla Provisionis nostrae. Giobbe rientrò nel dibattito teologico con la que­ stione Michele Molinos. Questo teologo e m istico spagnolo fu l’iniziatore di una scuola spirituale « quietista » che alla fine sfociò in forme eterodosse e persino libertine. Innocenzo XI nel 1687 con la costituzione Coelestis Pater condannò le tesi di Mo­ linos tra le quali, riferendosi erroneamente a Gb 16,18 (Haec passus sum absque iniquitate manus meae, cum haberem mundas ad Deum preces), una sosteneva che « Giobbe per la violenza del demonio si macchiava con le sue mani nello stesso m omento in cui levava a Dio preghiere pure » e per questa ragione non era responsabile del peccato com m es­ so 73. G iobbe e l 'Oriente

Un interesse particolare ha accolto in Italia la pub­ blicazione della vita, della dottrina e degli scritti di un oscuro monaco del monte Athos, il russo Silva72 Omnes omnino iustorum afflictiones sunt ultiones peccaforum ipsorum: unde et Job et martyres, quae passi sunt, propter peccata sua passi sunt: D en zin g er -S c h o n m etzer , Enchiridion symbolorum definitionum et declarationum, 1963, n. 1972. Cfr. G. F ouroure, Les chàtiments divins, Toumai 1959, pp. 42-75. 73 Job ex violentia daemonis se propriis manibus polluebat eodem tempore, quo mundas habebat ad Deum preces, sic interpretando locum ex c. XV I Iob: D e n z in g e r, o . c ., n. 2249.

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no 74. Vissuto nello sfondo dell'indimenticabile « re­ pubblica monastica » della penisola Calcidica, questo monaco ha lasciato una testimonianza viva e con­ temporanea della tradizione m istica orientale. L'ar­ chimandrita Sofronio che gli è stato accanto nella vita monastica ne ha tracciato un profilo appassio­ nato sia della vita (nato nel 1866, Silvano è morto nell'Athos nel 1938) che del pensiero. E spesso nelle pagine di Sofronio e di Silvano la ricerca di Giobbe appare come un simbolo della loro stessa ricerca perché « altro è credere che Dio esista, altro è conoscere Dio » (p. 320). All'inizio di questo cammino interiore c'è la stessa domanda di Giobbe: « Dove si trova la luce d'amo­ re del Padre se noi, come Giobbe, quando giungiamo al termine della nostra vita dobbiamo riconoscere con amarezza: I miei giorni sono passati, svaniti i miei progetti ed i voti del mio c u o r e ... La tomba è la mia c a sa ... E la mia speranza dov'è? Il mio benessere chi lo vedrà? (Gb 17,11-15)?... Perché dunque ci è stata data una vita così assurda? » (p. 35). Inizia allora un percorso aspro che non può essere condotto con la sola capacità razionale del­ l'uomo. Infatti l'uomo che giunge ai « confini tra la luce e le tenebre (Gb 26,10) contempla la profondità e la bellezza del suo in telletto..., contempla una luce, ma non la “ Vera luce ‫ ״‬nella quale non ci sono tenebre » (p. 165). La via per giungere a questa pienezza di intuizione è quella della prova, la luce è scoperta paradossalmente attraverso la tenebra. In­ fatti, « l'esperienza millenaria trasm essa di genera­ zione in generazione, ci insegna che quando Dio vuole la fedeltà dell'anima di un asceta, come volle quella di Giobbe, conduce questa negli a b is s i... Più la fedeltà dell'asceta e la sua fiducia in Dio sono incrollabili, più grande sarà la prova e più completa, quindi, la sua esperienza che si estenderà fino ai Silvano del Monte Athos. La vita, la dottrina, gli scritti, Torino 1978. Gli scritti di Silvano sono preceduti da un’ampia biografia stesa appunto dal monaco Sofronio. Le pagine citate indicano sia le opere stesse di Silvano che la biografia premessa, raccolte entrambe nello stesso volume curato neH'edizione_ italiana da E. Bianchi.

w A rchim andrita S ofronio ,

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confini estremi cui può giungere un uomo » (p. 197). Perciò, la concezione pedagogica della sofferenza viene corretta dalla visione più generale del m istero dell'amore di Dio che sta attirando a sé l ’uomo. Certo, talvolta emerge la teologia un po’ riduttiva di Elihu: « Le disgrazie spirituali vengono a noi dal­ l’orgoglio; quelle fisiche sono permesse da Dio per il Suo amore verso noi, come accadde aH'infelicissimo Giobbe » (p. 399). O anche una certa ingenuità tipi­ camente « orientale »: « Adamo era perfetto nel­ l’amore di Dio e conosceva ogni dolcezza del Paradi­ so, ma era ancora inesperto. Non respinse le tenta­ zioni di Èva, contrariamente a Giobbe che seppe, in mezzo a tutte le sue prove, respingere quella di sua moglie (Gb 2,9-10) » (p. 297). Ma è attraverso la prova e l’umiltà dell’ascolto di Dio che l’uomo, come Giobbe, raggiunge la pienezza della pace. Allora non gli è più rilevante la miseria personale e la gioia altrui perché vede nel gioco dei destini il piano misterioso del Creatore. « Quando nell’anima giunge la pace di Cristo, essa è soddisfat­ ta, come Giobbe, di essere seduta sul letame e si rallegra di vedere gli altri nella gloria » (p. 280). Ed allora « la lamentazione di Adamo », che è il bel titolo di uno scritto dello staretz Silvano, si tra­ sforma nel canto di ringraziamento del beato: « L’anima mia si ricorda di te, Signore, tutto il giorno e tutta la notte, e ti cerca incessantem ente. Il tuo spirito mi induce a cercarti; e al tuo ricordo il mio spirito si rallegra. La mia anima ti ha amato; ed è contenta che tu sia il mio Signore e il mio Dio ed io languisco per te fino alle lacrime » (p. 445). Dietro le spalle di Silvano del Monte Athos c’è, però, una lunga catena di studi, di meditazioni, di rifles­ sioni sulla Bibbia e in particolare su Giobbe snoda­ tasi nell’ambito della teologia cristiana orientale. La difficoltà principale per la conoscenza di questa « scuola » è legata alla questione psico-linguistica. La patristica siriaca ha avuto un rappresentante di alto livello in Efrem Siro che appunto ci ha lasciato un commento a G iobbe75. Ma anche Isodad di Merev 75 Opera Syriaca, II, Romae 1740, pp. 1-20.

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(IX sec.) e Bar Hebraeus (XIII sec.) hanno condot­ to letture spirituali ed esegetiche su Giobbe. La chiesa armena, invece, ha tra i suoi prodotti di teologia biblica l'Esegesi di Giobbe di Stefano di Siunia (V ili sec.). I l G iobbe dell’I slam

Come altri personaggi biblici, Giobbe è entrato an­ che nella letteratura islamica a partire proprio dallo stesso Corano. Anzi, come si è detto, alcuni studiosi moderni, come il Guillaume, il Margoliouth ed il Foster, hanno tentato di collegare Giobbe al mondo proto-arabo ed hanno pensato, in verità con scarsa fortuna, di risolverne le innumerevoli difficoltà te­ stuali sulla base della filologia comparata araba. Resta vero, comunque, che per il Corano Giobbe è per eccellenza un « servo di Allah », cioè, nel signi­ ficato autentico dell'attributo, un personaggio fondamentale nella rivelazione che Dio rivolge all'umani­ tà. Citiamo due passi significativi. Il primo è tratto dalla « sura dei profeti » (21,83-84). Ricordati di Giobbe quando gridò al suo Signore: « Il male mi ha colpito, ma tu sei il più misericor­ dioso dei misericordiosi ». Lo esaudimmo e rimovemmo il male che gli incom­ beva e gli restituimmo la sua famiglia e altrettante persone con essa per la nostra misericordia e per avvertimento ai servi (di Allah). Il secondo testo appartiene alla « sura della lettera s » (38,40-44). Ricorda il nostro servo Giobbe quando gridò al suo Signore: « Satana mi ha colpito con la calamità e dolore ». Gli dicemmo: « Percuoti la terra col tuo piede ». L’acqua che sgorgò era adatta alle abluzioni, fresca e potabile. Gli ridonammo la famiglia con altrettante persone per la nostra misericordia e per am monim ento ai dotati di sapienza.

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Gli dicemmo: « Prendi in mano un fascio d ’erbe, battiti e non peccare ». E lo trovammo paziente. Quale servo eccellente! Sem pre si volgeva pentito.

Il prologo e l'epilogo arcaici sono alla base delle due allusioni ·a cui si aggiungono dati leggendari rituali come quello dell'acqua lustrale miracolosa. Esi­ stono, però, anche punti di contatto col poema. Per fare un esempio, pensiamo al nesso tra la fragilità della speranza dell'empio descritta in Gb 8,13-14 ed una frase del Corano (29,40). Bildad esclama: la sicurezza del malvagio è come una tela di ragno. Maometto scrive: « La più debole delle abitazioni è l'abitazione del ragno: se lo sapessero! » 76. Dal Corano nasce una complessa tradizione m usul­ mana che celebra la figura di Giobbe attingendo, oltre che aH'originale biblico, al commento haggadico giudaico (ad esempio, l'apocrifo Testam ento di Giobbe) e al Targum. E come sempre, nel gusto per l'arabesco fantasioso, per il dettaglio perlustrato con acutezza quasi maniacale, si tenta di scavare nel passato di Giobbe. Si ricerca il suo albero genealo­ gico che giungerebbe sino ad Esaù, si vorrebbe di­ pingere il suo ritratto fisico, descrivere i suoi in­ contri con l'angelo Gabriele, ci si sfoga con velenose puntate antifemministe nei confronti della moglie di Giobbe, lo si trasforma in un ardente predicatore e missionario del monoteismo islamico. Sempre nel­ l'ambito di queste curiosità arabe possiam o ricorda­ re un'estrosa tradizione. Tutto il mondo si è recen­ temente interessato al salvataggio dei m onumenti di Abu Simbel in Nubia, opera del celebre faraone Ramses II. Ben pochi, però, sanno che il grande colosso raffigurante il faraone è chiamato dai mu­ sulmani sakhrat Aijub, « la pietra di Giobbe ». Certamente ben diverso è l'approccio che stabilisce con Giobbe il settore più m istico ed intellettuale Vedi H. A. R. Gibb-J. H. K ra m e rs , Shorter Encyclopaedia of Islam, Leiden 19742, voce Aiyub, pp. 26-27.

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dell'Islam, destinato a sfociare nel sufismo. Così Al-Ghazali, pensatore e mistico nato a Tus in Iran nel 1058 e morto nel 1111, rivela in m olte pagine pessim istiche del suo capolavoro Al-khauf w a ‫״‬r-ragià, (« La paura e la speranza ») l'eco della ricerca ansiosa ma anche fiduciosa di G iobbe77. Anche Mosè Maimonide (1135-1204), finissimo filosofo ebreo che scriveva in arabo, che coniugava la Bibbia col pen­ siero greco e registrava le nuove istanze della cultu­ ra e della scienza medievali, non trascurò Giobbe nella sua opera di mediazione culturale tra il mondo ebraico, arabo e latino. Il personaggio biblico diven­ tava ai suoi occhi il rappresentante dell'anima uni­ versale e misteriosa di ogni filosofia che ricerca il senso ultimo e la sostanza delle c o s e 78. Giobbe in stampa A Magonza, dal 1449 al 1456, si accese la prima stella di quella che sarebbe diventata nei secoli successivi la « galassia Gutenberg » secondo la felice espres­ sione di M. Me Luhan. Come aveva scritto lo stesso stampatore, la celebre « Bibbia delle 42 linee » « aveva sciolto i legacci alla verità » e, quindi, aveva aperto anche le pagine di Giobbe ad un numero sempre maggiore di lettori. Iniziava da quel momen­ to un'avventura culturale assolutamente « inedita ». Noi vorremmo seguirla, almeno nelle sue tappe es­ senziali, lungo la direttrice-Giobbe, una linea di diffu­ sione a prima vista arida e fatta quasi di catalo­ ghi, ma significativa per lo studio della storia del­ l'interpretazione di Giobbe. La prima Bibbia in volgare italiano con piccole didascalie anche per Giobbe apparve a Venezia nel 1541 e fu la Bibbia Vulgare nuovamente stam pata et n La paura e la speranza è edita in italiano a cura di L. Veccia Vaglieri e R. Rubinacci in Al Ghazali: Scritti scelti, Torino 1970, pp. 389-490. Vedi in particolare lo studio di M. Asin Palacios, La espiritualidad de Algazal y su sentido cristiano, Madrid 1934-1941, III, pp. 283-285. 78 H. J. L aks , The enigma of Job: Maimonides and thè Moderns, in JBL 83, 1964, 345-364.

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coreta di N. Malermi: in volgare era già apparsa qualche Bibbia, questa fu la prima ad offrire un pri­ mo tentativo di commento, successivam ente amplia­ to e rielaborato da L. Guerra nel 1773. Seguì quasi subito la Bibbia Tradotta in Lingua Toscana, di lin­ gua Hebrea, quanto al Testamento Vecchio, et di lingua Greca quanto al Nuovo, pubblicata ancora a Venezia nel 1545 e curata da S. Marmochi. A Lione intanto apparivano i tre volumi della famosa « glos­ sa » latina alla Bibbia di Nicola da Lyra: Bibliorum Sacrorum tres tomi cum Glossa Ordinaria et Postil­ la (Lugduni 1495). In questo periodo un cenno a sé stante merita anche una rarità tipografica. Nel Missale Pataviense curato dallo stampatore viennese Johannes Winterburger nel 1509, si trova nientem e­ no che una « Missa de beato Job contra morbum gallicum ». Infatti il poeta comico GiovanniDroyn di Amiens nel poema erotico-satirico De la grosse v ir o ­ le, pubblicato a Lione nel 1512, scriveva: Principe, sappiate che Giobbe fu virtuoso ma se fu rognoso e scabbioso noi lo preghiamo perché ci protegga e consoli. È per correggere i mondani lussuriosi che è stata generata questa orribile sifìlide.

Il primo vero commento a Giobbe è da identificare nei Commentarii in librum Job del Card. Caietano (Tommaso da Vio), pubblicati a Roma nel 1535 ed a Lione nel 1539. In campo protestante dominano i Sermons sur le livre de Job di Calvino, apparsi nel 155479. Ma la maggior fortuna toccò allo sterminato in folio dello spagnolo J. de Pineda, Commentariorum in Job libri X I I I 60. Con fine ironia il maggior rappresentante del « siglo de oro » spagnolo, il poe­ ta Luis Gòngora (1561-1627) disse del Pineda che il 79 Calvini Opera, volumi nn. 33 e 34, Brunsvigae 1887. 80 Madrid 1597-1601. Per estensione affine al Pineda - è il po­ steriore Commentarius litteralis in omnes libros Veteris et Novi Testamenti di A. Calmet (Lucae 1732).

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suo commento aveva tentato la pazienza di Giobbe m olto più delle sue sofferenze fisiche. Ma il Pineda ebbe una serie foltissim a di discepoli ed imitatori, dallo Steuco al Sanctius, da Bolducius a Codurcus e al Corderius 81. Prima di questi commenti ci si accontentava sola­ mente di « sumari » posti in prefazione ai singoli libri. È il caso di La Bibbia la quale in sé contiene i sacrosanti libri del Vecchio e del Nuovo Testam ento, apparsa a Venezia nel 1547. Le restrizioni imposte dall'« Indice », emanato dal Concilio di Trento sotto Pio IV nel 1563, resero scarse e difficoltose le edi­ zioni in volgare della Bibbia che divenne così un settore d'attività tipico dei Riformati. È per questa ragione che il primo commento italiano con prefa­ zione, sommari e note in calce fu quello, ormai famoso, del calvinista G. Diodati, La Sacra Bibbia tradotta in lingua italiana, apparso a Ginevra nel 1603 e rinnovato nel 1641. In campo cattolico si doveva attendere il 1769, anno in cui a Torino, l'ar­ civescovo di Firenze, mons. A. Martini, iniziò la pubblicazione della sua Sacra Bibbia che fu comple­ tata nel 1781 e che da allora è stata ripetutamente proposta al pubblico italiano. Contemporaneamente l'editoria italiana, allora come oggi, guardava anche ad Oltralpe e traduceva La Sacra Scrittura, giusta la Volgata in lingua latina e volgare con la spiegazione del senso letterale e del senso spirituale tratta dai S. Padri e dagli autori ecclesiastici dal Signor Le Mai­ tre de Sacy (Venezia 1775-1785). La prima mono­ grafia in italiano su Giobbe è da ascrivere a G. B de' Rossi, Il libro di Giobbe tradotto dal testo origi­ nale (Milano 1812) ed è molto povera esegeticamente e letterariamente. Gli ebrei italiani avranno invece un interessante studio nel Giobbe di G. D. Luzzatto, pubblicato a Trieste nel 1853, mentre per i prote­ stanti usciva nel 1918 il Giobbe tradotto dall'ebraico 81 A. S teuco , Enarrationes in librum Job, Parisiis 1578; C. S a n c tiu s , Commentarius in Job, Lugduni 1625; J. B olducius , Commentarla in librum Job, Parisiis 1638; Ph. C odurcus , Scholia in Iobum ad sermonem sacrum adornata, Parisiis 1651; B . C orderius , Job elucidatus, Antwerpiae 1655.

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ed annotato di G. Luzzi 82. Si entrava così nell’esegesi contemporanea.

Giobbe, nostro contemporaneo Con questo titolo, già adottato da un volume di H. H. Kent 83, penetriamo nel delta della « tradizioneGiobbe »: dopo il percorso abbastanza lineare e « fluviale » dei predecessori sem itici e dei successori cristiani di Giobbe, il fiume della tradizione ora si disperde in affluenti e ram ificazioni34. Uno dei mag­ giori esegeti norvegesi A. S. Kapelrud poneva a base di un suo studio su Giobbe l'idea che « i problemi di Giobbe sono problemi del passato e di oggi » 85. Scrive, infatti, E. Schillebeeckx: « Rappresentazioni e attese di salvezza e felicità umana sono sempre progettate in base a esperienze e riflessioni concrete di disgrazia, sofferenza, miseria e alienazione, all'accumulazione di esperienze negative durante una se­ colare storia di passione attraversata da qualche lampo di esperienze promettenti di felicità, espe­ rienze parziali di salvezza in una lunga storia di attese non realizzate, di colpa e di male: il proble­ ma di Giobbe della nostra storia umana » 80. Giobbe diventa per ogni epoca il paradigma di una esperienza universale, la tipologia classica d'una ri­ cerca che non conosce frontiere culturali o razziali. I « quattro volti » di Giobbe, « poeta dell'esisten­ za » 87 riassumono i quattro punti cardinali della sto­ ria umana. Secondo il suggestivo dilemma proposto 82 Firenze 1918. Sempre a Firenze nel 1897 D. C astelli aveva pubblicato II poema semitico del pessimismo. 83 H. H. K e n t , Job our contemporary, Grand Rapids 1968. 84 L'immagine è di J. D. L evenson , The hook of Job in its time and in thè Twentieth Century, London/Cambridge (Mass.) 1972. 85 A. S. K apelrud , Job, hans problem- i fortid og i dag, Oslo 1976. 86 E. S chillebeeckx , Gesù, la storia di un vivente, Brescia 1976, pp. 11-12. 87 J. D a n iélou , Les quatre visages de Job, in « Etudes » sept. 1955, 145-156; S. T errien , Job, poet of existence, Indianapolis 1957.

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dall'Opera Godot oder H io b 88 di H. Beckmann, la cultura contemporanea pone l'uomo davanti a un bivio da cui si snodano due strade, la via del Godot beckettiano, via senza esito, attorcigliata nella ripe­ tizione dell'assurdo, e la via di Giobbe, percorso amaro ma con un orizzonte possibile. È per questo che con accenti ed in forme diverse Giobbe resta una « stella polare » nel pensiero, nella poesia e nell'immaginazione moderna e contem poranea39. Naturalmente l'identificazione della « tradizione-Giobbe » nell'arco della letteratura mondiale è un'impresa che può essere condotta solo per sondag­ gi e mai in modo esaustivo, data l'estensione quasi illimitata della ricerca. Questa esplorazione può es­ sere effettuata secondo due piani m etodologici. Il primo è il più superficiale e il più generico possibi­ le: si tratta di collezionare gli echi, le risonanze, le emozioni che i problemi e i temi di Giobbe susci­ tano universalmente nell'ambito della cultura e del­ l'esperienza umana. Ovviamente in questo caso ci troveremmo in presenza solo di « universali » psico­ logici, simbolici e linguistici, incarnati in un'infinità di modelli concreti90. Anche se questo quasi im pos­ sibile lavoro di documentazione non ci interessa direttamente, vogliamo lo stesso offrire una piccola antologia sui temi principali. Sceglieremo perciò al­ cune strutture tematiche tipiche e ad ognuna acco­ steremo uno dei mille documenti letterari possibili. L a via degli universali giobbici

Pensiamo innanzitutto alla costante tematica silen­ zio di Dio, visualizzata, ad esempio, dalla cinem ato­ grafia bergmaniana. Si tratta di un silenzio che « era già scritto »: 88 H.

B eck m a n n , Godot oder Hiob. Glaubensfragen in der m odem en Literatur, Hamburg 1965. 89 Vedi N. A. F rancisco , Job in World Literature, in aa.w ., The book of Job, Louisville 1971, pp. 521-533; D. L. B erry , Scripture and imaginative literature focus on Job, in « Journal of General Education » 19/2, 1967, 119-131. 90 Cfr. C. B rooks, Tragic themes in Western Literature, New Haven 1960.

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Ecco, vengono giorni — oracolo del Signore Jahweh — in cui manderò la fame sul paese: non fame di pane né sete di acqua, ma di udire la parola di Jahweh. Si trascineranno barcollando da un mare all’altro e da nord fino a est; erreranno a cercare la parola di Jahweh ma non la troveranno (Amos 8,11-12).

In una strofa aggiunta al poema Monte degli Ulivi il poeta francese A. de Vigny ha toni sim ili a quelli di Giobbe: Muto, cieco e sordo al grido delle creature, se il cielo ci lascia come un mondo abortito, il giusto opporrà lo sdegno all’assenza e non risponderà che con un freddo silenzio al silenzio eterno della divinità. (Oeuvres complètes, Seuil, p. 105).

E, in coordinate spazio-culturali diversissim e, il poa ta indù Tukaram nel suo ideale « Salmo 58 », paral­ lelo al terribile testo biblico, si domanda: Dove ti nascondi? Dormi, o mio Dio? Dove ti nascondi? Le mie debolezze, i miei difetti potrebbero forse provocare la tua collera o Padrone del destino?

Un silenzio che è anche un rischio positivo come nel caso di Giobbe. La teologia dell'Assenza di Dio sfo­ cia nella teologia della Presenza e della Parola, la notte da oscura diventa mistica, come scrive E. Stein nella sua La Science de la Croix: « E siste una

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dolce luminosità notturna dello spirito che si libera, si distende, si raccoglie per immergersi nei rapporti che lo legano alla Notte ». Pensiamo anche al simbolismo dell‫׳‬itinerario-ricerca, dell 'Homo viator di G. Marcel (Torino 1965), presen­ te in Giobbe nella scena della carovana che si perde nelle piste del deserto (6,18-20), un'immagine ripresa da A. de St. Exupéry nella sua Cittadelle (1948, p. 397) per descrivere la carovana di quegli « eterni nomadi » che sono gli uomini, « i tristi viaggiatori sulla terra oscura », secondo l'espressione usata da Goethe nel Westòstlicher Diwan. Come un pescatore di perle, o anima mia, affonda in profondità! Affonda ancor più profondamente e cerca! Come un pescatore di perle, o anima mia, senza stancarti, persisti e persisti ancora, affonda in profondità, sem pre più in profondità e cerca! Coloro che non sanno il segreto ti derideranno ma tu non scoraggiarti, o pescatore di perle, o ani­ ma mia!

Sono le parole d'un poema mistico sulla ricerca di Dio scritto da un poeta indù dell' '800, S. Paramànanda. Nasce, allora, la certezza dell’ascolto, un modulo che, secondo Jung, è essenziale anche alle preghiere più disperate e che è ininterrottamente sotteso al lamento di Giobbe. È un tema che ha ispirato a Lamartine questa magnifica strofa: Possa il suo orecchio ascoltare la mia bocca, l’umile balbettio dei nostri cuori, Lui che, dal seno dei suoi splendori, sente il battito d'ali della mosca che nuota nel calice dei fiori! 91. 91 I n

Jocelyn, Q uatrièm e E poque, e d . P lè ia d e , p . 645.

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E a Claudel ha suggerito questa invocazione a sfondo biblico: « Ti piaccia usare i tuoi orecchi per ascol­ tarmi, la tua Intelligenza per comprendermi, la tua attenzione a questo spostamento d'aria che fa la mia preghiera, o mio Dio! ». Si stabilisce, così, tra Dio e l'uomo, un rapporto di vicinanza-lontananza, di amore-odio che è la tensione costante tra infinità e creaturalità, come ha lasciato scritto G. Bem anos nella sua Agenda del 23-1-1948: « Che dolcezza pensare che, anche offendendolo, noi non cessiamo affatto di desiderare ciò che Egli desi­ dera nel più profondo santuario dell'anima ». Ma Giobbe resta sostanzialmente il libro del dramma umano. Per questo è facile accostargli alcuni leit­ motiv del pessimismo. La disperazione come tenta­ zione. Difficilmente superabile per essenzialità è il verso di J. Racine in Bajazet (Atto I, Scena IV, v. 336): La mia unica speranza è nella mia disperazione.

0 ancora il lamento di Péguy nel Porche du m ystère de la deuxième Vertu: È sperare la cosa difficile — a voce bassa e vergognosamente. E la cosa facile è disperare ed è la grande tentazione (ed. de la Plèiade, p. 538).

Unica consolazione, allora, è il grido contro Dio. Goethe nel Torquato Tasso: Le lacrime ci sono state date dalla natura, il grido di dolore, quando l’uomo, alla fine non sopporta p i ù ... E se nel suo tormento, l’uomo è ridotto al silenzio, a me un Dio concesse di dire ciò che io soffro!

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Unico sbocco è, allora, come per Giobbe sofferente, la morte. È ancora Lamartine nel Désespotr: Eredi dei dolori, vittim e della vita, no, no, non sperate che la sua rabbia saziata addorm enti l’infelicità! Finché la Morte, aprendo la sua ala immensa, inghiottisca per sempre nell'eterno silenzio l’eterno dolore (ed. de la Plèiade, p. 24).

Alla radice di tutto v'è la continua, eterna scoperta del lim ite umano, dell'intrinseca fragilità della crea­ tura. Una debolezza espressa spesso attraverso il simbolismo fisiologico, come in queste righe di P. de Ronsard (1524-1585) che sembrano quasi una para­ frasi di Gb 19,26 e 30,30: Non ho che le ossa, uno scheletro io sembro, scarnito, snervato, demuscolato, spolpato. Il mio corpo sta discendendo là dove tutto si disso­ cia.

Una fragilità espressa spesso anche attraverso il simbolismo vegetale come in Gb 14,1-2. Per un paral­ lelismo si può ricorrere persino all'antica letteratura pre-azteca del Messico che così canta la condizione terrestre, incerta e transitoria dell'uomo: Si nasce e si vive sulla terra. Per poco, si ottiene la gloria di Colui per il quale tutto vive (il sole) ... In erba primaverile siamo stati trasformati. È lussureggiante, è coperto di germogli, il nostro cuore; il fiore del nostro corpo apre qualche corolla ed è subito appassito! 92. 92 L. S éjourné , La pensée des anciens Mexicains, Paris 1966, p. 67.

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Nei Doveri del cuore un celebre m istico giudeo del­ l'anno Mille, Bahja Ibn Paquda, così vede la storia dell'uomo: Feto informe simile al verme, non ha che te r r o r i... viene dalle tenebre e nelle tenebre se ne v a ... Vita e morte sono sorelle che abitano insieme, l'una attaccata all’altra, si allacciano, mai si separano abbracciate alle due estremità del ponte fatale sul quale si snoda la carovana del mondo. Suo ingresso è la vita, sua uscita è la morte. La vita costruisce, la m orte distrugge, la vita semina, la morte miete, la vita pianta, la morte sradica, la vita unisce, la morte se p a ra ...

Se già l'uomo è uno sconosciuto a se stesso, ancor di più lo è il mondo che i discorsi di Dio presentano a Giobbe come un ammasso inestricabile di enigmi che solo Dio sa decifrare. I m isteri cosmici sono da sempre un'altissima occasione poetica. Scegliamo una strofa di Nondum, opera del poeta inglese J. Hopkins (1844-1889). Vediamo le glorie della terra ma non la mano che le ha fatte: La notte partorisce miriadi di mondi, pure come una vuota sala illuminata senza ospiti alla porta o al focolare spaventano le luci della deserta creazione.

Per concludere dovremmo ritornare al cuore di tutti i misteri, al cuore dello stesso poema di Giobbe, il bipolarismo Dio-male. Per un parallelo scegliamo, quasi a caso, una pagina del recente best-seller Uc­ celli di rovo della scrittrice australiana C. Me Cullough. È la saga di una famiglia cattolica irlandese stanziata in Australia. Sono due battute di un dialo­

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go tra due personaggi centrali, la donna, Meggie, ed il prete amato, ora Card. Ralph de Bricassart: — È questo che non capisco. La sofferenza — Le sbirciò la mano posata con tanta dolcezza sul suo braccio e che pure lo faceva soffrire in modo cosi intollerabile. — Perché la sofferenza, Meggie? — — Domandalo a Dio, Ralph, disse Meggie. È lui l’esperto in fatto di dolore, no? È stato Lui a fare di noi quello che siamo. Ha creato l'universo. Pei conseguenza ha creato anche il dolore93.

il tema, allora, si restringe ancor di più e si rattrapisce in una sola domanda continuamente presente sulle labbra di Giobbe, « Dio dove sei? ». Una do­ manda testimoniata anche dallo scrittore tedesco W. Borchert nel romanzo Fuori, davanti alla p o r t a 9*. — Beckmann: « Ma quando sei mai stato buono, tu, buon Dio? Sei forse stato buono quando hai per­ messo che una bomba scoppiasse e facesse a pezzi il mio bambino di appena un anno, il mio bambino fatto a pezzi da una bomba? Sei stato buono forse quando hai permesso che il mio bambino venisse assassinato, buon Dio, tu? » — Dio: « Io non l’ho fatto uccidere ». — Beckmann: « No, è vero. Tu lo hai solo permesso. Tu non hai ascoltato quando egli gridava e le bombe scoppiavano. Ma dove eri, Dio, buon Dio, quando scoppiavano le bombe? O forse sei stato buono quando dalla mia pattuglia mancavano un­ dici uomini? Undici uomini mancavano, buon Dio, e tu non eri presente, non c'eri, buon Dio. Certo que­ gli undici uomini hanno gridato ed urlato nel bosco solitario ma tu non ceri, non eri presente, buon Dio. Sei stato buono a Stalingrado, buon Dio, sei stato buono lì a Stalingrado, eh? Sì? Ma quando mai sei stato buono, Dio, quando? Ma quando ma’ tu ti sei preoccupato di noi, Dio? ».

Una domanda che può spegnersi in un'unità ancor più piccola, quasi un soffio della voce, il perché? di m olte pagine di Giobbe e del Salterio. Come nel pensiero del protagonista del Ponte di S. Luis Rey, romanzo pubblicato nel 1928 dal drammaturgo e narratore americano Thornton Wilder. Quel ponte 93 94

Uccelli di rovo, Milano 1977, p. 398. Draussen vor der Tiir, Reinbeck 19734, pp. 41-43.

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era crollato un istante prima che il protagonista l'attraversasse: ma perché le altre cinque persone morte nel crollo non erano state così fortunate? « Chiunque altro avrebbe detto con segreto sollie­ vo· “ Cinque minuti più tardi e anch'io ... ‫״‬. Ma non fu questo il pensiero di fratello Ginepro. “ Perché è capitato proprio a questi cinque? ‫ '׳‬si chiese. Se esisteva un ordine nell'universo, se l'esistenza uma­ na avesse un significato qualsiasi, certo dovrebbe es­ sere possibile, anche se l'ordine fosse segreto e na­ scosto, scoprirlo nell'esistenza così improvvisamente stroncata di questi cinque. O noi viviamo per caso e per caso moriamo oppure noi viviamo o moriamo secondo un piano stabilito » 95. In forma ancor più essenziale si tratta dello stesso interrogativo presente nella Morte di Danton del drammaturgo tedesco Georg Buchner (1813-1837), noto soprattutto per il suo postum o Woyzeck (1879): Perché soffro? Questa è la roccia dell’ateism o 96. * *

*

« Leggo la Bibbia dal principio, di seguito, e adesso sono arrivato a Giobbe che amo molto ». Le paro­ le di D. Bonhoeffer in Resistenza e resa possono introdurre il secondo metodo di esplorazione aila ricerca della moderna « tradizione-Giobbe ». Giobbe non è solo un autore classico a cui rifarsi per una dotta esegesi, ma è una voce viva e problematica che ha ancor molto da dire alla giovane generazione che continua ad apparire all'orizzonte della storia. Naturalmente sulle impronte che Giobbe ha lasciato nella letteratura e nella cultura moderna non po­ tremo che costruire un'antologia. Essa, accanto a capitoli più sviluppati, allineerà una sequenza di allu­ sioni frammentarie, di riferimenti, di spunti deri­ vanti dal libro e dal personaggio Giobbe. 95 Tr. it. di L. de Bosis, Milano 1965, p. 12. L'A. è nato nel 1897. 96 Opere, M ila n o 1963, p . 50.

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m ondo

a n g lo sa sso n e

c l a s s ic o

Sotto questa etichetta semplificatrice racchiudiamo il Rinascimento mitteleuropeo ed il suo sviluppo in una serie di veri e propri secoli d'oro per la lettera­ tura e le scienze umane. Scegliamo per illuminare la figura di Giobbe alcune testimonianze quasi sconta­ te. Innanzitutto W. S h a k e s p e a r e (1564-1616) col suo Re Lear del 1606, costruito sulla base storica offerta dall'antica (1140 ca.) Historia Regum Britanniae di Geoffroy de Monmouth. La trama, celebre, è artico­ lata attorno a due serie di personaggi e al ribalta­ mento dei loro atteggiamenti umani e morali. Da­ vanti al protagonista Lear si dividono, infatti, due modelli di figlie: Gonerilla e Regana affettuosissim e e delicate e, dall’altra parte, Cordelia discreta ed affettuosa nei confronti del padre « solo quanto il dovere comanda ». Donato il regno solo alle prime due, Lear assiste al ribaltamento dei modelli: cac­ ciato dal palazzo, accecato da un figlio illegittim o, Lear si aggira solo con l’unica fedele Cordelia per le lande desolate della Britannia mentre imperversa la tempesta. Cordelia gli è uccisa e Lear muore dispe­ rato. Shakespeare ha disperso nel testo molte allu­ sioni alla tragedia di Giobbe senza però condivider­ ne l'esito positivo. L'unica « lezione » che il grande drammaturgo ci lascia è quella di Elihu. Nell'atto V, scena II, c'è infatti questa formula sintetica: L'uomo deve accettare l’ora della sua dipartita come quella della sua nascita: tutto deve giungere a m atu­ rità 97.

Accanto a Shakespeare un altro celebre poeta in­ glese, J. M il t o n (1608-1674), stempera nel suo mo­ numentale poema biblico II Paradiso perduto, edito Tr. di U. Dettore, Milano 1951. « Men must endure their going hence, even and their coming hither: ripeness is all ».

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in dieci canti nel 1667 e in dodici nel 1674, una fitta rete di riferimenti a Giobbe ed alla sua tematica. La stessa struttura globale dell'opera, ribellione degli angeli — creazione — caduta primordiale — caccia­ ta dall'Eden, sottintende il progetto di delineare il mistero del male seminato nella storia umana. Anche il filosofo Th. H o b b e s (1588-1679), che sotto il simbolo giobbico del Leviathan (1651) aveva rac­ chiuso una lunga riflessione sul potere della legge come frutto di accordo sociale per disciplinare la barbarie umana, nel c. XV dei suoi Elementi filosofici sul cittadino consacra un intero paragrafo a Giob­ b e 98. Il problema è quello tradizionale, il male del­ l’uomo e il mondo; la soluzione è la stessa di Giob­ be, ma non è molto approfondita: è necessario risa­ lire alla potenza di Dio per impostare correttamente la questione del male. Nella stessa area culturale si muove anche B. S p i n o z a (1632-1677) che, come ebreo, rivela spesso un ampio retroterra biblico. Giobbe è senz'altro un testo studiato dal pensatore olandese, come si nota dalle frequenti citazioni. Ma è soprattutto nel Trattato teoiogico-politico che egli, affrontando persino le questioni di critica letteraria sulla stratificazione del libro, tenta di formalizzare la qualità e la finalità di Giobbe riducendolo ad uno scritto squisitamente « filosofico » ". Se ovviamente in quest'epoca Giobbe non poteva quadrare con l'ottimismo della Teodicea leibniziana, se non per l'esito finale dell'epilogo, è strana invece la riduzione che P a s c a l opera su Giobbe nella sua meditazione sulla Bibbia. Nel « Pensiero 169 » lo accosta idealmente a Salomone-Qohelet come illu­ strazione della miseria umana: Salomone e meglio più felice, esperienza mali.

e Giobbe hanno conosciuto meglio di tutti parlato della miseria dell'uomo: l’uno il l'altro il più infelice; l'uno conoscendo per la vanità dei piaceri, l'altro la realtà dei

98 T h . H obbes Opere politiche, a c u r a d i N . B o b b i o , T o r i n o 19592, p . 292. D e llo s t e s s o f ilo s o f o u s c i r à p o s t u m o ( n e l 18091) u n B eh em o t, t r a t t a z i o n e s t o r i c a s u l P a r l a m e n t o . 99 B . S p in o z a , E tica e tra tta to teoio gico-politico, a c u r a d i R . C a n t o n i e F . F e r g n a n i , T o r i n o 1972, p p . 436; 577-578.

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Nel « Pensiero 538 », citando la Vulgata di Gb 19,23-25, rilegge la figura di Giobbe in chiave profetico-cristologica: I due libri più antichi del mondo sono Mosè e Giobbe, l'uno ebreo, l’altro pagano e tutti e due considerano Gesù Cristo come il centro comuhe e il loro oggetto: Mosè riferendo le promesse di Dio ad Abramo, Gia­ cobbe, eccetera e le sue profezie; e Giobbe: Quis mihi det ut, eccetera. Scio enim quod re d em p to r m eus v ivit, eccetera 100.

Ed infine, nell'ambito della cultura anglosassone una menzione dev'essere necessariamente riservata al Faust di J. W. G o e t h e (1749-1832) 101. L'ipotetica base storica rimanderebbe al Faust reale vissuto tra il 1480 ed il 1540, ma il personaggio è ormai assurto a simbolo universale della demonizzazione dell'uomo assetato di piacere e di potere. La serie delle impre­ se criminali dell'uomo-demonio sono famose: sedu­ zione ed abbandono di Margherita, infanticidio, pri­ gione, morte di Margherita. Famosa è anche la serie delle imprese scientifiche, amatorie e tecniche com ­ piute da Faust. Ma per la lettura ideologica della trama è decisivo il prologo in cielo (Prolog in Himmel), modellato su quello di Giobbe. Di fronte al­ l'Onnipotente e alla corte celeste gli arcangeli cele­ brano le meraviglie del creato. Mefistofele esprime a Dio alcune sue considerazioni, ironiche e negative, sul genere umano. Il Signore gli parla di Faust, « mio servo » (vedi Gb 1), e lo autorizza a tentarlo. Il dramma dell'uomo nasce, quindi, da una sfida tra Satana e Dio, il primo convinto di fare dell'uomo un bruto, il secondo di farne un eroe 102. L'inferno, 100 B. P a s c a l, Pensieri, Opuscoli, L ettere, a cura di A. Bausola e R. Tapella, Milano 1978. 101 La complessa vicenda redazionale del F aust potrebbe essere così sintetizzata: 1775, U rfaust· 1790, Faust, ein Fragm ent; 1808, Faust I Parte; dal 1825, F aust II parte, pubbli-, cato postumo nel 1832. Vedi l'ottima edizione con testo te­ desco a fronte curato da F. Fortini in Faust, Milano 1970, con ampia introduzione e cronologia. Per il rapporto tra il Faust e Giobbe vedi il confronto dei testi operato da C. Z h itlo w s k y , Job and Faust, Leiden 1966. 1(0 A. Boito nel suo M efistofele (ed. Ricordi, Milano, pp. 5*10) ha imitato Ù F aust aprendo l'opera con un « prologo in

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alla fine, perderà i suoi diritti, ma l’impianto genera­ le dell'opera resta lontano da quello di Giobbe. In­ fatti solo il quadro esteriore è conservato, ma la fede è perduta. Da una redazione all'altra Goethe ha accentuato le proteste umane di Faust, di Margheri­ ta ed anche di Mefistole nello spirito della teodicea leibniziana secondo la quale l'uomo esige che Dio giustifichi il suo modo d'agire. Nel libro di Giobbe, invece, è l'uomo che deve lasciarsi spiegare e giudi­ care da Dio. K

ie r k e g a a r d o i l

V angelo

delle

so fferen ze

Nel suo Diario S. K ie r k e g a a r d (1813-1855) 103 aveva suggerito per le Memorie di Chateaubriand un m ot­ to desunto da tre passi di Giobbe (30,15; 9,25; 8,9): Sicut n u b e s ... quasi n a v e s... velut umbra. Noi po­ tremmo dire che l'intero libro di Giobbe può essere la sigla biblica più vicina alla ricerca lacerante del grande maestro e credente danese. È diffìcile, perciò, ricondurre ad una sintesi organica il suo riferimento a Giobbe perché esso costituisce uno sfondo, un alimento necessario per interi capitoli di riflessioni, come succede spesso nel Vangelo delle sofferenze. « C'è inquietudine nel mondo, ma soprattutto c'è inquietudine nell'anima dell'uomo, quando in essa non c'è l'Eterno ed egli è sazio solo di inquietudi­ ne » 104. Giobbe agli occhi di Kierkegaard è il segno della fede e della speranza più pure ed assolute che solo nella sofferenza possono brillare in tutta la loro « autenticità ». Dal punto di vista umano la moglie di Giobbe in un certo senso aveva ragione (Job 2,9). Poiché per l'uomo è veramente un peso molto grave dover soffrire tanto, eppure seguitare a credere che Dio nondimeno è amo­ re. È cosa da far perdere la ragione: e per un uomo è molto più facile disperare, rare il punto e basta {Diario I, 887). cielo ». Importante per la simbologia « faustiana » è anche il celebre Doktor Faustus di Thomas Mann. Diario, a cura di C. Fabro, Brescia 1962, Voi. I, p. 733. !04 Vangelo delle sofferenze, a cura di C. Fabro, Fossano 1971, p. 139. Vedi le pp. 172-177 interamente dedicate a Giobbe. Cfr. H. E hrenberg , Hiob der Existentialist, Heidelberg 1952.

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La categoria fondamentale sotto la quale leggere Giobbe è quella della prova come verifica della fede autentica: « L'amore è tentato perché si m ostri se amiamo Dio o possiamo fare a meno di lui » (Diario, II, 195). Per questo Kierkegaard si stupisce dell'intepretazione tradizionale che accentua l'esito posi­ tivo dell'epilogo. Quando si predica su Giobbe, non si vede l'ora di giungere alla conclusione, di dire cioè che egli riebbe tutti i suoi beni raddoppiati (Job 42,12). Ma a me sembra strano che si debba insistere su questo. E poi non è vero: ima volta che tu abbia recuperato il per­ duto, puoi facilmente cavartela da solo, accettando la nuova sorte. Ecco, per questo io preferisco insistere sul tempo di prima (quello della prova) (Diario I, 708).

Nasce, allora, dal crogiuolo della prova, il GiobbeAbramo che si appoggia solo alla prom essa e non al suo « aver ragione ». È questo per Kierkegaard an­ che il contenuto principale del Vangelo delle soffe­ renze. Da questo scaturisce la famosa allergia di Kierkegaard per le dogmatiche tradizionali così si­ mili a quelle degli altri amici di Giobbe. « Giobbe sopportò tutto: soltanto quando vennero i suoi ami­ ci per consolarlo perdette la pazienza (Gb 6,lss) » {Diario I, 829). « Il colmo del tragico consiste senza dubbio nell'essere “ fraintesi ‫ ״‬... Di qui il tragico della sofferenza di Giobbe (circondato dagli amici che lo fraintendevano e da una moglie che lo canzo­ nava, Gb 2,9-11) » (Diario I, 179). Ed ecco allora una nuova definizione del libro di Giobbe in chiave po­ lemica: Il libro di Giobbe. Scopo di questo libro è di mostra­ re la crudeltà che commettiamo noi uomini quando consideriamo che l'essere infelice dipenda da una col­ pa, da un delitto. Questo viene dall‫׳‬amor proprio del­ l’uomo che desidera sbarazzarsi daH'impressione, dalla grave e commovente impressione della sofferenza, di tutte le sciagure che possono capitare a un uomo in questa vita. Per premunirsi contro questo, si spiega la sofferenza come conseguenza della colpa affermando che dipende da una propria colpa. Oh, crudeltà degli uomini!

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C iò c h e p r e m e a G io b b e è d 'a v e r r a g i o n e , i n u n c e r t o s e n s o , a n c h e c o n t r o D io ; m a a n z i t u t t o c o n t r o i s u o i a m i c i i q u a l i , in v e c e d i c o n s o l a r l o , lo t o r m e n t a v a n o s o s t e n e n d o la t e s i c h e e g li s o f f r i v a p e r c h é c o l p e v o le (.Diario I I , 269-270).

Anche il giovane teologo Elihu riceve una feroce liquidazione: Il libro di Giobbe. Quando i tre amici (erano uomini maturi) quasi si sono stancati di rispondere a Giobbe o hanno perso la bussola al suo cospetto e non sono molto lungi dal dargli ragione, allora comincia il gio­ vane Elihu (Job 3, 1 ss). Questo si può interpretare così: l'idealità della fede è rappresentata in un certo senso più vero, cioè più ideale, dal giovane, che non ha ancora esperienza. L'uomo maturo, sperimentato ..., ahimè, a lui succede troppo facilmente di vedere che la fede ha qualche piccola avaria; egli perciò è più disposto a concedere, a ribassare un po . Ma la gio­ ventù vive ancora nella pura idealità (D iario II, 230).

Un cenno a parte merita La Ripresa del 1843 in cui Kierkegaard sotto lo pseudonimo di Costantino Costantius narra un brano della sua storia personale, la rottura con la fidanzata Regina Olsen. Costantius deve spezzare definitivamente l'amore che lo lega a una donna. Si reca allora a Berlino « alla ricerca del tempo perduto » per poter quasi « riprender­ ne » o « ripeterne » le decisioni ormai passate. Là riceve da un amico alcune lettere che gli commen­ tano il libro di Giobbe. Sulla base di questo com­ mentario egli instaura la sua personale discussione con Dio e finalmente comprende che solo Dio può « ridargli » il passato, solo Dio può produrre « ri­ prese » del tempo svanito, solo Dio può « ricreare » la realtà. Ed è solo in Dio che egli « ri-trova » la sua fidanzata. Questo originalissimo « commento a Giobbe » ha lasciato una traccia profonda non solo nella letteratura moderna ma nella stessa esegesi: Kierkegaard ha intuito il carattere di « esperien­ za », di « esistenzialità » del libro ed ha invitato ogni lettore di Giobbe a passare dalla ricerca teorica sul « problema del male » all'approfondimento teologico e vitale del « mistero del male » tentandone il supe­ ramento, la « ripresa » nella fede.

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MELVrLLE E DOSTOJEVSKIJ 0 LA MOSTRUOSITÀ DEL MALE

Il romanzo Moby Dick fu pubblicato da Herman M e l v i l l e (1819-1891) a New York nel 1851. In aper­ tura c'era questa frase di Gb 41,24: Il Leviatano fa luccicare un sentiero dietro di sé, direste che il mare profondo è canuto.

In epilogo v'era invece il ritornello delle disgrazie di Gb 1: E sono scampato io solo per informartene.

È abbastanza scontato collegare la celebre pittura del Leviatan di Gb 41 con le violente descrizioni del capodoglio e della balena bianca che Melville disse­ mina nelle sue pagine. Basti come esem pio la cita­ zione di Gb 41,7.26-29 dedicata ad un capodoglio ferito, chiamato appunto Leviatano. È questa la bestia di cui fu detto una volta trionfal­ mente: Puoi riempirgli la pelle di ferri dentati, o la testa di fiocine. La spada di colui che gli mena non fa presa, né la lancia o il giavellotto o l’alabarda: per lui il ferro è paglia, il dardo non lo fa fuggire; le frecce sono come stoppie, egli ride a chi brandisce una lancia? i°5.

Il ricorso alla simbologia teriomorfa di Giobbe è d'altra parte una costante della letteratura fanta­ scientifica : secondo D. Defoe alcuni « leviatani » nel 1716 disturbavano i soldati intenti a costruire una strada attorno al famoso lago del m ostro di Loch Ness 106. 105 Moby Dick, tr. it. di N. d'Agostino, Milano 1966, p. 342. 106 Defoe narra il fatto nel suo Tour through thè whole island o/ Great Britain. Vedi anche R. G o u ld , The Loch Ness monster and others, London 1934 e P. C o s t e l l o , In search of lake monsters, London 1974. P. H a w i n g nell’opera Antichi misteri (Milano 1978), dopo aver parlato dei mostri leviata-

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Naturalmente il nesso dell’opera di Melville con Giob­ be è molto più profondo e « metafìsico ». Al centro del romanzo domina la figura m isteriosa e violenta del capitano Acab, mutilato in seguito ad una lotta con un’altrettanto m isteriosa balena bianca, Moby Dick. La vita di quest'uomo e della sua nave non ha che uno scopo, ingaggiare un duello estrem o col m o­ stro che appare e scompare, quasi ironico, nella diste­ sa degli Oceani. Inizia così ima partita disperata, un'affannosa ricerca da parte dell'uomo di questo Al­ tro terribile ed impietoso. E la cifra simbolica del ro­ manzo a poco a poco si svela. Sotto la vernice di una caccia vendicatrice si nasconde tutto il risentim ento dell'uomo sofferente nei confronti di Dio. Il processo contro Dio acquista i contorni d'una rivolta titanica, ma disperata. L'avventura si concluderà con un naufragio che ha le movenze di una catastrofe co­ smica. La fede di Giobbe è assente, è restata solo la sua ansia di confronto con Dio, l'unico vero termine del discorso sul mistero del nostro esistere. Ed è in questa prospettiva generale che a Melville si associa F. D o s t o j e v s k i j (1821-1881) 107. « Aveva caro il libro di Giobbe » dice il grande scrittore russo di Grigorij Vasiljevic, il servo anziano di Fjodor Karam azov108: se volessimo penetrare più ampiamente nel « sottosuolo » dell'opera letteraria di Dostojev­ skij ci accorgeremo che anch'egli « aveva caro il libro di Giobbe ». Vogliamo, però, fissare la nostra attenzione solo sui Fratelli Karamazov, opera com ­ posta tra il 1879 ed il 1880, e particolarmente sulla lunga discussione tra Ivan l'incredulo ed il fratello Alioscia, il monaco. Lo spunto del dibattito è offerto da un episodio di cronaca. Un bambino aveva ferite accidentalmente il cane prediletto di un vecchio ge­ nerale: costui senza esitazioni aveva lanciato in pa­ sto a cani feroci il piccolo sotto gli occhi disperati nici (pp. 181-205), sostiene anche che in Gb 38 sarebbe avan­ zata nientemeno che la tesi fantascientifica della « terra ca­ va » (p. 13) ! 107 M. F redman , The m odem Job: on Melville, Dostoievsky and Kafka, in « Judaism » 12, 1963, 436-455. M8 I fratelli Karamazov, tr. it. di A. Poliedro, Milano 197215 p. 113.

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della madre. La'domanda chè scaturisce è radicale: la donna, come cristiana, doveva perdonare? Natu­ ralmente sotto il simbolismo della narrazione si cela ancóra una volta lo scandalo m ostruoso del male e della sofferenza dell'innocente, permesso da Dio. « L'astratta universalità e là logica ottim istica delle teodicee non reggono al confronto dell'oscuro para­ dosso del dolore personale concreto. Non sono in grado di impedire la ribellione di Ivan Karamazov » 109. E nello spirito di questo amaro interrogativo posto da Dostojevskij possiamo collocare il grido di Ivan Il'ic morente, il protagonista di un eccezionale rac­ conto di T olstoj. E sso sembra quasi una sintesi del lungo lamento di Giobbe, un lamento che qui non ha, però, soluzioni. Piangeva sul suo abbandono, sulla sua terribile soli­ tudine, sulla crudeltà degli uomini, sulla crudeltà di Dio, sul fatto che Dio non esisteva. Perché tutto questo? Perché m’hai Tu menato qui? Perché, perché mi tormenti così orribilmente? Non s’aspettava risposta e piangeva perché risposta non c’era e non poteva esserci. Il dolore riprese, ma lui non si mosse, non chiamò. Su ancora — diceva tra sé — su, colpisci! Ma perché? Che cosa T’ho fatto, perché? 11o.

J ung

r is p o n d e

a

G io b b e

Figlio d'un pastore protestante svizzero, K. G. Jung svela più dell'altro padre della psicologia analitica, Freud, la sua matrice religiosa. E lo fa in forma assolutamente originale e provocatrice nella sua 109 H. Kung, Dio e il dolore, Brescia 1968, p. 41. Per uno svi­ luppo ulteriore della riflessione su Dostojevskij, utili sono le note di J. S te in m a n n , Le livre de Job, Paris 1955, pp. 353358; 389-392, l’articolo citato di M. F re d m a n ed i due studi di J. Im b a c h : D ostojew ski und die G ottesfrage in der heutigen Theologie, Rom 1973 e D otsojew skis E influss a u f C am usl in TZ 30, 1974, 285-293 ove si delinea il nesso tra questi due autori così significativi per la moderna « tradizioneGiobbe ». L. N. T o ls to i, La m o rte di Iva n I l ’ic (tr. it. di T . Landolfi), Milano 1976, p. 79.

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Risposta a Giobbe (Antwort auf Hiob), pubblicata a Zurigo nel 1952 m. È un'opera che si presta a letture secondo prospetti­ ve diverse pur non essendo in sé ambigua. A livèllo umano essa è anche una sofferta e liberatrice ritrat­ tazione di certi giudizi equivoci sfuggiti a Jung a proposito della satanica avventura nazista. Anche l'atroce storia di Giobbe nasce da una scom m essa alla quale Jahweh si lascia « satanicamente » tenta­ re: Satana si insinua in Dio come « un pensiero di dubbio » che scatena ima tragedia sul capo dell'uomo fedele. Da medico provetto, Jung isola la zona del proprio intervento, anestetizza tutte le dirama­ zioni che potrebbero disturbare le credenze religio­ se o le incredulità laiche di chi legge. E narra, con gli antefatti e le conseguenze, il romanzo cosm ico e teologico, dell’evoluzione di Jahweh, del Dio Padre, dal momento in cui Egli è costretto a costatare che la Sua onniscienza non sa o non cura di essere incosciente, amorale. È il cauto, paziente Giobbe, dal suo letto di cenere e di dolore, a suscitare in lui il senso di responsabilità, il movente dell'opera di Re­ denzione. Giobbe, infatti, si rivela moralmente superiore a Dio perché sa mantenersi fedele ai patti stipulati. Divie­ ne superiore anche intellettuJm ente, nel mom ento in cui s'accorge che in Dio è presente una dualità, un'antinomia: Jahweh da un lato schiaccia senza il minimo scrupolo la felicità e la vita umana, ma dall'altra si rende conto di aver bisogno dell'uomo, dell'unico suo partner possibile. Divenuto cosciente della sua ingiustizia, Jahweh, il tutore della giustizia deve espiare. Superato dalla sua stessa creatura, deve rinnovarsi. Dalla sua collisione con l'uomo na­ sce in Dio il desiderio di farsi uomo: l'incarnazione e la sofferenza del Cristo diventano allora la vera « risposta a Giobbe ». in K a r l G u s ta v J u n g , R isposta a Giobbe (tr. it. di A. Vig), Milano 1965. Per un’analisi critica dell’opera vedi E. M ichaM lis, Le livre de Job interprété par C. G. Jung, in RThéolPhil 3, 1953, 182-195; H. L. P h ilp , Jung and thè p ro b le m o f evil, Lon­ don 1958, pp. 133-171.

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L'influsso di Satana su Jahweh resta così neutralizza­ to dal Cristo e Dio diventa un Padre amoroso. Quando sente la tentazione di ritornare a sfidare l’uomo, Dio è bloccato dal Cristo che gli ricorda di « non indursi in tentazione ma di liberarsi dal ma­ le ». La selvaggia durezza di Jahweh apparirà anco­ ra, come testimonia l'Apocalisse, il Giobbe neote­ stamentario; ma d’ora innanzi si potrà sempre spe­ rare che Jahweh sappia riconquistare la Sofia vera che nel Figlio si è incarnata e possa quindi bandire dal suo cielo il suo alter ego satanico. Jung ha studiato il testo di Giobbe secondo una prospettiva puramente fondamentalistica, senza cu­ rarsi delle reali questioni letterarie e teologiche ma orientandolo sul suo asse psicoanalitico. Il suo Giob­ be resta, perciò, un romanzo teologico-psicologico nuovo, più vicino al Prometeo greco, centrato sulla progressiva ominizzazione di Dio. Il libro diventa allora il canto della evoluzione di Dio e la celebra­ zione di un più corretto concetto -teologico, nato nel momento in cui Dio (e il teologo) è costretto ad ammettere che la sua onniscienza « non sa e non cura di essere incosciente ed amorale ». La vera redenzione che il Cristo opera è soprattutto quella del Padre 2‫״‬. Tuttavia, secondo alcuni interpreti del pensiero junghiano, il mito del Dio riscattato dal­ l’uomo non sarebbe nient’altro chè un’allegoria del lavoro psicoterapeutico 113. Una simile, violenta riduzione di Jahweh ad un Dio carnefice era stata tentata già da F.W. N i e t z s c h e (1844-1900), il disperato cantore del Requiem aeterV. W h ite , Jung et son livre su r Job, in « Vie Spirit. Suppl. » 37, 1956, 199-209. 113 L'opera di Jung ha stimolato altre letture psicoanalitiche di Giobbe. Citiamo le principali: I. J. G e rb e r, The psychology o f suffering m in d , New York 1951; W. S . T a y lo r, Theology and therapy in Job, in « Theol. Today » 12, 1955-56, 451-463; 112

K . T h o m p so n j r . , O ut o f thè w hirlw ind. A s tu d y o f alienation in thè book o f Job, in « Interpretation » 14, 1960, 51-63; S. A. R ied , T he book o f Job, in « Psychoanalytic Review » 60, 1973. 373-391; J. K a h n - H. S o lo m o n , Job's illn ess: loss, grief and

integration. A psychological in terpretation, Oxford/New York

1975.

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nam Deo. Riprendendo alcune immagini del « Dio arciere » presenti in Gb 16,7-17 (cfr. 6,4; 19,6-12.21-22; 23), i Ditirambi di Dioniso (1884-1888) fanno pronun­ ciare ad Arianna una lamentazione contro il terribile cacciatore che sta dietro le nuvole, un dio innomi­ nabile, velato, terribile, sadico, geloso, sfacciato ed amorale. Da' a me — te nemico crudelissimo, anzi arrenditi a m e ! . . . È andato! Ecco anche lui fuggì il mio unico compagno, il mio grande nemico, il mio sconosciuto, il mio dio carnefice. Egli è il dio della sofferenza infinita e sempre risor­ gente che tutto carpisce all'uomo, eppure l'uomo non se ne sa distaccare proprio come il Giobbe biblico. No! Torna indietro! Con tutte le tue torture! Tutte le lacrime mie corrono a te e l’ultima fiamma del mio cuore s'accende per te. Oh, torna indietro, mio dio sconosciuto! dolore mio! felicità mia ultima! . . . 4‫״‬. Il canto di Arianna è, sì, la lode della volontà pro­ meteica del superuomo ateo, ma è anche l ’inno di una nostalgia repressa, eppure divorante, per un Dio sconosciuto, rigettato e ritenuto nemico. 114 In 52 s s .

Opere di Friedrich Nietzsche, VI/4, Milano 1970, pp.

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I l G iobbe del ghetto ebraico È un errore molto grave credere che Giobbe possa servire da modello per la risposta religiosa ebraica ad Auschwitz. La maggior parte dei teologi ebrei contem­ poranei insiste nell’affermare che l'ebreo post-Auschwitz è un esemplare contemporaneo di Giobbe. È di­ mostrato che siamo stati crudelmente provati. Siamo esortati a mantenere una fede giobbica nella bene­ ficenza ultima di Dio, nonostante Auschwitz. Io non sono d’accordo. Si può discutere di Giobbe solo quan­ do c’è un Giobbe. Orrendamente afflitto, Giobbe, se­ deva sul suo mucchio di letame. Per quanto terri­ bile fosse la sua condizione, egli era tutte le volte riconosciuto come una persona da Dio e dall’uomo. Ad Auschwitz l’ebreo non sedeva sul mucchio di le­ tame. Divenne meno del mucchio di letame. Se non altro il mucchio di letame ha la capacità di dilatare la forza datrice di vita della terra. Nessun « tu » fu ri­ volto all’ebreo di Auschwitz da Dio o dall'uomo. L’e­ breo divenne una noii-persona nel più profondo senso della parola. Né la sua vita né la sua morte contavano. Non c’era alcun problema, perché non c ’era alcun Giobbe. Giobbe se ne andava in fumo. E il suo pro­ blema con lui.

Le terribili parole dello psicologo e rabbino ameri­ cano R. L. R ubenstein‫״‬s ci aprono le porte del ghetto mitteleuropeo, la cui tragedia non può essere dimenticata da alcuna coscienza civile. In questo microcosmo degli Ostjuden, Giobbe è forse una del­ le figure bibliche più vive e presenti. A lui fa riferi­ mento una narrativa che si è espressa soprattutto nello jiddish, il patois alto-tedesco ibridato di voca­ boli ebraici e slavi parlato dagli ebrei polacchi e tedeschi, che ha dato in passato scrittori di rilievo come M. Mochel-Sforim, I. Lerb-PereZ, Scholem Aleichem, Scholem Ash, D. Bergelson etc. Questa let­ teratura è lo specchio della civiltà dello shtetl, la « piccola città », il ghetto. Un mondo colmo di stu­ pore come nelle tenere e balenanti tele di M. Chagall, un mondo in cui la cronaca è epos di spiriti celesti e di passioni sublimi terrestri, un mondo così 115 r . l . R u b e n s te in , L ’im m aginazione religiosa, R o m a 1974,

p. 13. C fr. A. N e h e r , L'existence juive, so litu d e e t affrontem e n ts, P a r is 1962, c. 5; M . S u s m a n , Das B u ch H iob u n d das Schicksal des ju d isc h e n V olkes, F r e i b u r g 1968.

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spesso sconvolto dalla persecuzione dei pogrom ep­ pure silenzioso e nobilmente contenuto nel dolore e nel pianto. In questo mondo così sospeso tra cieJo e terra una prima voce a risuonare è senz'altro quella di Joseph R o t h , nato nel 1894 e scomparso nel 1939, poco prima di assistere alla tragica « soluzione finale ». La sua figura di scrittore eccezionali‫ ־‬è comprensibi­ le solo nello sfondo del mosaico vivace e sofferente che abbiamo prima disegnato. Roth ha « montato » su una trascrizione moderna di Giobbe uno dei suoi romanzi più noti, Hiob. Roman eines einfachen Mannes 116, scritto nel 1930. L’opera ci conduce pro­ prio in quel mondo ebraico-orientale che spesso in Roth è un discreto paesaggio dell'anima, uno sfondo simbolico contro il quale il narratore proietta in controluce la sua saga dell'esilio e dello sradicamen­ to moderno. Fiabesco e realistico il romanzo racconta la storia di Mendel Singer, un pio ebreo galiziano che vive in uno di questi arcaici borghi dell'Europa orientale nei quali l'ebraismo si era conservato nella sua im­ mobile miseria ma anche nella sua intatta integrità umana e religiosa. Come il personaggio biblico da cui prende il nome, Mendel Singer viene percosso dalle sventure: la grave minorazione di un figlio, l'estraniazione degli altri che si allontanano in di­ versi modi dall'ebraismo, ossia dalla « pietas » fami­ liare ed umana, l'una attraverso una sessualità sfre­ nata che giungerà alla follia, l'altro attraverso l'in­ tegrazione nella società americana che significa la perdita dell'identità individuale. L’assimilazione ebraica che giunge al culmine con l'emigrazione di Mendel Singer e della sua famiglia né Giobbe. R om anzo di un uom o sem plice ( t r . it. d i L. T e r r e ­ n i), M ila n o 1977. P e r c o n o s c e r e l 'o p e r a d i R o th è in d is p e n s a ­ b ile il m ir a b ile s a g g io d i C. M a g ris , L o ntano da dove (T o ­ r in o 1971). V ed i a n c h e p e r la l e t t e r a t u r a e la c u l t u r a j i d d i s h F . P a l m ie r i , La letteratura della Terza D iaspora, R a v e n n a 1973 e L. R o s te in , The jo y s o f Y d d ish , N e w Y oi‫־‬k 19735. I l r o m a n z o d i R o th h a u n a o r ig in a le r ie d iz io n e n e l r a c c r a t o « I p ic c o li c ia b a ttin i » d i I . B . S in g e r ( in G im pel l’idiota, M ila n o 19783, p p . 70-90), a u t o r e c h e c o n s id e r e r e m o s u c c e s ­ s iv a m e n te . U n a tr a s c r iz io n e d i G io b b e in s tile m id r a s h ic o

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negli Stati Uniti, viene vista come la parabola di un'umanità che, staccandosi dalle proprie matrici e dalla totalità universale della Legge, perde la pro­ pria autonomia individuale e viene appiattita in un'amorfa personalità eterodiretta, indifesa dinanzi alla brutale aggressione dell'anonima società indu­ striale. A resistere è solo Mendel Singer per il quale la « religio » significa fedeltà a se stesso, alla pro­ pria natura, ai propri gusti, al proprio vecchio caffettano. Quando la moglie in America, gli rim­ provera di compoi tarsi «com e un ebreo ru sso», egli risponde di essere un ebreo russo, rinsaldando così l'unità di persona e di comportamento. Ai debo­ li figli integrati nel mondo moderno e da esso strito­ lati Roth contrappone l'incrollabile figura di « paterfamilias » ebraico, intimamente sempre illesa. Quando Mendel, nel dolore, si ribella a Dio, la « re­ ligio » non lo abbandona neppure nella bestem m ia perché dimora nel suo corpo, è ormai parte costitu­ tiva del suo essere. Anche quando la deriva della disperazione e dell'annebbiamenio lo porta verso un appassire inesorabile, anche quando a chi gli ricorda il Giobbe biblico replica accusando Dio di essere un isprawnik, cioè un capo poliziotto, Mendel resta co­ me il Giobbe originario legato disperatamente al suo Dio. Ci sono nel romanzo grandi pagine epiche che raffigurano l'intatta ed umanissima vitalità di questa « pietas » divenuta forza biologica: la tragica ma ferma sicurezza con la quale Mendel Singer speri­ menta, un mattino, il distacco fisico dal corpo in­ vecchiato della moglie. Ma il romanzo riesce talora forzato nell'ottirnistica conclusione, artificioso o regressivo nella non riuscita fusione tra il piano realistico e quello della favola. Un miracolo — la guarigione razionalmente inspiegabile del figlio — restituisce a Mendel Singer la fede, il senso della vita e deH'unità del mondo. Ma questo miracolo non è poeticam ente credibile, oscilla tra la fede e la favola, non con l'ambiguità della poesia ma con m o d e r n o è s t a t a r e c e n te m e n te t e n t a t a a n c h e d a G . L im e n ­ I l g r a n d e s e d u to , M ila n o 1979.

t a n i,

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l’incertezza dell'opera che sta a metà tra la restaura­ zione del romanzo tradizionale e la stilizzazione del­ la parabola, tra la sem plicità ed il sem plicism o. È la stessa dissonanza che si. avverte tra il corpus di Giobbe e l'epilogo antico del c. 42 (vv. 7ss): Mendel, come Giobbe, ripagato di tante sciagure, può ad­ dormentarsi consolato « dal peso della felicità e dalla grandezza dei miracoli ». * * * Accanto a Roth potremmo evocare anche il galiziano J. S. A g n o n (1888-1970), premio Nobel per la Lettera­ tura nel 1966 assieme ad un'altra scrittrice ebreo­ orientale, Nelly Sachs: nei suoi racconti o nei suoi brevi romanzi, tutti intessuti di amore hassidico per la Bibbia, Giobbe è talora presente come il lievito dell’oscurità nella pace della fede (così nel racconto Un ospite sosta per la notte). Dovremmo ricordare anche l'isolato ed irraggiungibile praghese F. K a fk a (1883-1924). Nel 1976 Rudolf Suter aveva pubblicato un intero saggio comparativo tra Giobbe e il Proces­ so 117. Questo romanzo postum o (è stato pubblicato nel 1925), variamente e discordemente interpretato dalla critica — di volta in volta in termini esisten­ zialisti, psicoanalitici, marxistici e spiritualistici — è la parabola di un uomo, Joseph K., specchio auto­ biografico dell'A. Si tratta, perciò, della trascrizione simbolica di una concezione nichilista del vivere in cui il mondo reale perde i suoi significati tradiziona­ li e dove l'uomo, nella im possibilità di capire le ragioni della sua esistenza, colpevole all'atto stesso del nascere, smarrisce ogni certezza per divenire segno di una imperscrutabile condanna. Figlio di certe pagine amare di Giobbe, il lamento di Kafka ne è la sistematica radicalizzazione senza l'anima di fede che mai abbandona il sapiente antico. Infatti « il principio divino al quale Kafka si rivolge è talmente· nascosto che non si sa più se esiste anco­ ra; forse esso è soltanto la direzione nella quale l'uomo lancia il proprio grido » 118. 117 R .

S uter ,

Kafkas « Prozess » im Lichte des « Buches

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A Roth dovremmo accostare tutta la letteratura nata come lamentazione corale sulla tragedia vergognosa del nazismo. È la voce prestata al pianto segreto di milioni di vittime. « Non so come si possa, dopo Auschwitz, lodare il Signore e cantare il suo nome nel mondo », ha detto Dorothee Sòlle, una scrittrice che in seguito incontreremo. Mentre il romanziere tedesco Ernst Wiechert faceva dire a un suo perso­ naggio: « Tormentare un animale per un’ora è catti­ vo, ma tormentare un uomo, migliaia di uomini, non per un'ora, ma per anni, per una vita intera, non è cattivo, è infame e diabolico, sì, così diabolico che un Dio non potrebbe assistervi a meno che sia un pazzo o il Signore di tutti i diavoli » 119. A queste voci ribelli si deve però avvicinare la costante disperata speranza che, come Giobbe, l’ebreo continua a riporre nel suo Dio. Una testimonianza originale potrebbe essere quel­ la della scrittrice israelita parigina Sim one W eil (1909-1943), figura vivacissima di m ilitante politica (nella guerra di Spagna), sociale (fu operaia), cultu­ rale (fu anche docente), mistica (gli scritti religiosi) e sociologica (La condition ouvrière). Nell'opera La pesanteur et la g rà c e 120 scriveva: « Fra i personaggi dei racconti dell'A.T. soltanto Abele, Enoc, Mosè, Melchisedec, Giobbe e Daniele sono puri ». E la loro purezza scaturisce dal loro distacco, un distacco duramente sperim entato dal­ l'ebreo. « La rinuncia esige da noi che si passi attraverso angosce equivalenti a quelle che provo­ cherebbe la perdita di tutte le persone care e di tutti i b e n i. . . E tutto ciò non dobbiamo toglierlo noi stessi, bensì perderlo, come Giobbe » (p. 81). « Solo il distacco perfetto permette di vedere le cose nude, fuor della nebbia di valori bugiardi. Per questo ci sono volute le ulcere ed il letame perché a Giobbe fosse rivelata la bellezza del mondo. Perché H iob », Bem/Frankfurt am Main 1976. Per un’edizione it. vedi II Processo, tr. di A. Spaini, Milano 1971. _ 118 J . Im b a c h , N ella letteratura rinasce la teologia del silen­ zio, in « Città di Vita » 26, 1971, 470. 119 La Signora, Milano 1936, p. 44. 120

Opera postuma (1947), tradotta in italiano da F.Fortini,

L ’om bra e la grazia, MUano 1951, p. 198.

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non c'è distacco senza dolore » (p. 96). Sarà soprat­ tutto nell'opera più famosa, Attesa di Dio, che quest'ebrea alle soglie del Cristianesimo stenderà un eccezionale profilo di Giobbe. La sventura ha costretto un giusto a imprecare con­ tro Dio, un giusto perfetto nella misura consentita alla natura solamente umana, e forse anche di più, se Giobbe è meno un personaggio storico che una figura­ zione di Cristo. « Egli si fa gioco della sventura degli innocenti » non è una bestemmia, è un autentico gri­ do strappato al dolore. Il libro di Giobbe è da cima a fondo un puro miracolo di verità e di autenticità. A proposito di sventura tutto ciò che si stacca da quell'esempio è, più o meno, tinto di menzogna. La sventura rende Dio completamente assente, più as­ sente di un morto, più assente della luce in un sot­ terraneo completamente oscuro ... Bisogna che l’anima continui ad amare a vuoto, o almeno sussista la vo­ lontà di amare, sia pure con una parte infinitesimale di se stessa. Allora viene il giorno in cui Dio in per­ sona si mostra a lei e le rivela la bellezza del mondo come avvenne per Giobbe. ... Se Giobbe proclama la sua innocenza con quell'ac­ cento di disperazione è perché lui stesso non riesce a credervi e nel fondo del cuore egli parteggia per i suoi amici; egli implora la testimonianza di Dio stesso perché non sente più quella della propria coscienza che è per lui null’altro che un ricordo astratto e morto 12*. *

*

*

« Felice è l'uomo che può rinnovare se stesso in­ sieme al creato. Che mondo meraviglioso, un mondo terribile e splendido, quello di Isaac Bashevis Sin­ g e r , Dio lo benedica! Non si sa bene da dove comin­ ciare, non si sa se cantare, danzare o gridare ». Le parole di Henry Miller esprimono con entusiasm o un omaggio sincero al massimo scrittore di jiddish vivente, Premio Nobel 1978 per la Letteratura, I. B. Singer. Nato in Polonia nel 1904, emigrato negli USA nel 1935, Singer non ha mai abbandonato il vernaco­ lo del ghetto polacco: le sue opere, infatti, sono uscite solitamente a puntate nel Jewish Daily Forward, il quotidiano jiddish di New York e solo S. Weil, Attesa di Dio, tr. it. di N. D’Avanzo Puoti, Roma 1954, pp. 152-154. 121

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successivamente sono state tradotte in inglese. La lingua difende l’integra purezza della fede e del mondo ebraico; la vasta costellazione di opere 122 gli permette invece di toccare tutte le regioni della geografia spirituale dell'ebreo del Novecento. Ne nasce una meditazione metafisica sul m istero di Dio e dell'uomo, orchestrata però nel tessuto quotidiano e realistico dell'esistenza quotidiana. Uno stupore continuo ed un tremore sincero colpiscono l'anima del lettore che passa attraverso queste città invisibi­ li dello spirito. Nel mistero del destino umano e del male Singer s'addentra con pertinacia e con corag­ gio fin dal suo primo scritto, anzi, come egli s'tesso annota in quella sua deliziosa autobiografia giovanile che è Un giorno di felicità, fin da quando abitava nella assoluta povertà col padre rabbino in via Krochmalna 10 a Varsavia. Egli stesso in un'intervista al « New York Times » ha confessato che in questo itinerario verso le frontiere del m istero Giobbe è staio uno dei suoi compagni più amati. Anzi, in alcune pagine di Singer sembra persino di assistere ad una rielaborazione fantastica della vicenda di Giobbe. Pensiamo al racconto « Gioia » di Gimpel l’idiota (pp. 91-99) i cui elementi strutturali sono gli stessi di quelli dell'opera biblica: la prova durissima del pio rabbino Bainish, la moglie sarcastica ed incredula, il grido muto contro Dio, le proteste contro Dio pronunciate davanti aH'amico, la libera­ zione finale. « Se Giobbe aveva potuto sopportarlo, 122 Le opere tradotte in italiano di Singer sono: Satana a Goray, Milano 1960; Lo schiavo, Milano 1964; I due bugiardi, Mi­ lano 1965; Z lateh la capra, Milano 1970; Alla corte di m io pa­ dre, Milano 1970; M azel e Shlim azel, Milano 1971; La fortezza, Milano 1972; La proprietà, Milano 1973; Un am ico di K afka, Milano 1974; N em ici, una storia d'am ore. Milano 1974; La Fam iglia M oskat, Milano 19785; G im pel l'idiota, Milano 19783; Shosha, Milano 1978; Un giorno di felicità, Milano 19782; Il m ago di Lublino, Milano 19794; P assioni, Milano 1979. Le

nostre citazioni seguono le edizioni ora elencate. Per uno studio della figura di Singer, oltre ai saggi già indicati di C. Magris e F. Palmieri, vedi E. M o rta ra di V e r o li, Dal vec­ chio al nuovo m ondo: Isaac B ashevis Singer, in « Studi Americani» 17, 1971, 291-341; C. M a g ris , La v ita e la legge, in « Nuovi Argomenti », luglio-dicembre 1976, nn. 51-52, pp. 76-90.

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il dolore, doveva sopportarlo anche il rabbino » (p. 94). Anche la storia di Yasha, il Mago di Lublino, il funambolo, illusionista ed ipnotizzatore, che si farà murare, dopo tante avventure, in una stanza per scontare i suoi peccati, ha un tracciato vicino a quella di Giobbe: « La catastrofe aveva colpito lui come Giobbe. Un solo passo falso e aveva perduto tutto . . . tutto . . . » (p. 179). Inizia allora una via di dolore e di oscurità. « Giunse in una strada che aveva nome Bolesc (“ dolore ”)· Così dovrebbero chiamarsi tutte le strade. Il mondo intero non è che una enorme sofferenza » (p. 176). Ma alla fine del tunnel di dolore, ecco Dio: « Aveva veduto la mano di Dio. Era giunto al termine del cammino » (p. 187). Il canto di dolore' resta, perciò, I’elemento-base del confronto con Giobbe. Un personaggio della saga della Famiglia Moskat, Nyunie « resta seduto su un basso sgabello, ai piedi un paio di pantofole di panno, leggendo dei passi del libro di Giobbe. Ma le lamentazioni di Giobbe e le parole di conforto dei suoi amici gli diventarono ben presto u g g io se . . . » (p. 338). Giobbe si ripresenta spesso così, come nella valle di Sodoma ove si riproduce in eterno la soffe­ renza dell'umanità e « Giobbe si gratta ancora il corpo coperto di piaghe » (Gimpel l’idiota, p. 67). Nel dolore massimo i personaggi di Singer, come Ester di Gimpel, prendono la Bibbia e l'aprono al libro di Giobbe: « piangendo leggono le parole di Giobbe e dei suoi compagni » (p. 164) E talora la lamentazione è amara come quella di Giobbe: « Da­ to che Dio non risponde, perché rivolgerglisi? » (Il mago di Lublino, p. 22). Le pagine più laceranti sorgono proprio da questo vuoto disperato. La fa­ miglia Moskat finisce con quella famosa, tragica epigrafe: « Il Messia arriverà p r e sto . . . La m orte è il Messia. Questa è la verità » (p. 583). Sim ile è anche questo dialogo presente in Shosha (p. 218): — Parlo con i morti, con i vivi, con Dio — se Egli esi­ ste — e con Satana, che certamente esiste. Chiedo loro: Che bisogno c’era di tutto ciò? e aspetto una risposta. Cosa ne pensi, Tsutsik, esiste da qualche parte una risposta, o no? — No, nessuna risposta. — Perché?

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Giobbe, nostro contemporaneo — Non può esserci risposta per la sofferenza... non per chi soffre.

Un'altra testimonianza im pressionante è quella di Un amico di Kafka, un racconto che apre e dà il titolo ad un volume di racconti. È un ritratto anima­ to, anzi una piccola recita di un personaggio bizzar­ ro, Jacques Kohn, ex-attore del teatro jiddish, cadu­ to in miseria e sofferente.' Fra i suoi illustri amici di un tempo c'è stato, come egli racconta, Franz Kaf­ ka? Forse; comunque, intorno a questa amicizia l'attore ricama con estro sconsolato le sue ironie sul m istero della vita. « Tutti giochiamo a scacchi con il Destino per compagno. Lui fa una mossa; noi un'altra. Lui tenta di darci scacco matto in tre mosse; noi cerchiamo di im pedirglielo. . . Perché mai Giobbe continuava a vivere ed a soffrire? . . . Sai che ti dico? Lo faceva per stare al gioco ». Il lamen­ to diventa, allora, ribellione ed automaledizione co­ me in Gb 3. Dal « Diario di un non-nato »: « Io, l'autore di queste righe, fui benedetto da una fortu­ na che tocca solo a un individuo su mille: ero non­ nato ». {Gimpel, p. 100). Dall'ultima opera di Singer, Shosha (p. 213): In lui s'era risvegliato il retaggio di generazioni e sca­ gliava zolfo e lapilli contro l'Onnipotente; al tempo stesso le sue parole avvampavano di fuoco religioso. Lo criticava per tutti i Suoi peccati fino dalla Creazione. Sosteneva ancora che tutto l'universo è un giuoco ma questo giuoco lo aveva elevato fino a farlo diventare divino... La sostanza delle sue parole era che dal momento che Dio sta eternamente in silenzio, noi non Gli dobbiamo nulla.

La rassegnazione è più rara ed è espressa con le parole del Giobbe del prologo: « Com'era quel ver­ setto di Giobbe? Nudo sono uscito dal seno di mia madre e nudo tornerò nel seno della terra » (Moskat, p. 182). Nel dolore il giusto Abba esclama: « Il Signore ha dato, il Signore ha tolto . . . » (Gimpel, p. 101) perché « è dovere dell’uomo benedire Dio sia per il bene sia per il m ale» (M oskat, p. 580). Ma il centro ultimo della questione dell'esistere e del soffrire resta il mistero di Dio.

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— Che pensi di Dio in questo momento, dimmi! — Che penso io di Dio? Sei tu quello che passa tutto il tempo a fare i conti con Lui. — Lui crea facilmente e distrugge facilmente. Ha il suo laboratorio (M oskat, p. 573).

È il Dio creatore libero e m isterioso dei « discorsi di Dio » della finale di Giobbe. Alludendo a Gb 40,29 in Gimpel (p. 64) è scritto: « Dio stesso è gioviale. Passa il tempo tirando il Leviatano per la coda e facendosi leccare da Behemoth ». Il Mago di Lublino s'accorge che Dio dispiega nella creazione la gasino sconfinata della sua fantasia, come lo aveva svelato Gb 38-39. Oh Dio Onnipotente, sei tu il mago, non io! Far na­ scere piante, fiori e colori da una zolla di terra scura! Ma come accadeva tutto ciò? Come conoscevano gli steli della segala, il segreto di dare grano? E come conosceva, il frumento, il segreto di riprodursi? N o ... non lo conoscevano. Facevano tutte queste cose per istinto. Ma qualcuno doveva sapere (p. 57) 123. I l G io b b e

a t eo d i

C a m u s , B loch

e

S olle

La tragedia di Giobbe si verifica per Albert C a m u s quasi aH'esterno di se stesso: è la morte straziante di un bimbo innocente descritta nel romanzo La peste del 1947. Una simile morte diventa feconda occasione di con­ fronto tra due personaggi del romanzo: il padre gesuita Paneloux e il medico Rieux. Il padre gesuita di fronte al morbo che sconvolge le povere membra del fanciullo non sa far altro che esclamare: « Mio Dio, salvate questo bambino »: anche per lui infatti è difficile credere alla vista del dolore innocente. Per il dottore Rieux che sa che « quello almeno era inno­ cente » la sofferenza di quel bambino diventa un !23 Numerosi sono anche i riferimenti specifici a passi d\ Giobbe. Ad esempio, in Gimpel, p. 264 si cita senza riferi­ mento Gb 38,7: « Felice l'uomo che può rinnovarsi insieme alla creazione quando tutte le stelle del mattino cantano in coro ». A p. 69, invece, si parla del Leviatan di Giobbe: « La creazione è forse il serpente primevo che striscia con i/ male » (vedi anche sul Leviatan, Una giornata di felicità p. 45).

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motivo in più per « rifiutare sino alla fine di ama­ re questa creazione dove i bambini sono tortu­ rati ». Se la posizione del medico nasconde il pensiero di Camus, dobbiamo porci allora la seguente domanda: è corretto dire che il male e il dolore sono la causa dell'ateismo di Camus oppure il suo ateism o va interpretato diversamente? Camus nasce a Mondovì in Algeria nel 1913 da fa­ miglia poyera e resta orfano di padre all'età di un anno 124. La sua giovinezza è contrassegnata dal « romanticismo della felicità », testim oniata da Noces, un'opera carica di sensibilità. Ma presto aH'orizzonte della sua vita si prepara l’invasione dell'assur­ do. Colpito da una malattia nel 1937-1942, in lui si inten­ sifica il senso della morte e del male. Nel 1943 scrive Caligola: « se nulla ha senso, tutto è permesso » esclama Caligola e si butta nel potere politico con­ vinto che « la propria libertà non ha confini ». An­ che Sisifo ne II mito di Sisifo (1942) può superare l’assurdo della sua pena solo « se si sente felice », è l’unica illusione lasciata all’uomo. Nasce in questa luce una « morale della quantità » incarnata ideal­ mente dall'impiegato di banca de Lo straniero (1942) la cui vita è fatta solo di bagni, di cinema, d'amore. Al termine della seconda guerra mondiale Camus avverte sempre più drammaticamente la problema­ tica del male. È il momento del suo capolavoro, La peste del 1947. Sotto la veste del romanzo Camus fa la ‘ cronaca ’ di una generazione che ha vissuto il periodo bellico 1939-1945. Ha la percezione di ‘ essere chiamato ' ad essere un cronista scrupoloso ed appassionato del­ l'immenso dolore che ha sommerso il mondo in quei lunghi anni. Soprattutto si sente spinto a denunciare la sofferenza degli altri: la sua è una protesta con­ tro ogni violenza; il suo non è più un dolore perso­ nale ma il dolore del mondo. 124 L a b io g r a f ia p iù c o m p le ta d i C a m u s è q u e lla , r e c e n tis ­ s im a , d i H . R . L o ttm a n , P a r is 1978; v e d i a n c h e R . D e L uppé, Albert Camus, T o r in o 1970 e J. I m b a c h - G . G i u n t i , Scrittori di fronte alla sofferenza, in « C ittà d i v i t a » 27, 1972, 553-566.

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La Peste viene allora a significare diverse realtà: è l'epidemia che infierisce ad Orano; colpisce a caso, aumenta spaventosamente e poi, quasi improvvisa­ mente, scompare. La Peste è la guerra, l'occupazione, l'invasione: i duecentomila uomini in quarantena diventano il simbolo di due milioni di prigionieri. La Peste è però anche il simbolo del male e della sofferenza presenti nel mondo. La morte di un bam­ bino incarna emblematicamente il silenzio di Dio. Anche i personaggi del romanzo incarnano dei sim ­ boli, sono « emblemi di umanità » (Lottman). C'è Cottard, il delinquente ricercato. La Peste per lui significa ‘ salvezza ' dalla pena. Attraverso que­ st’uomo Camus sembra voler dire che i disordini, le guerre, il male sono per qualcuno eventi attesi, qua­ si momenti di salvezza. C’è il ‘ nobile ' Tarrou, figlio di un fam oso penalista: ha vissuto gli anni della giovinezza ‘ nell’innocenza '. Ma è stata una breve stagione. Il giorno in cui incominciò a riflettere si accorse che gli uomini vivono nella violenza cercando di combattersi a vi­ cenda. E il male-violenza è una catena alla quale nessuno può sottrarsi in qualsiasi luogo o tem po si trovi. L’unica possibilità che rimane all'uomo è quel­ la di compiere il meno male possibile, cercando una santità senza Dio. Tarrou, m essosi dalla parte delle vittime, muore, senza credere in Dio ma col sorriso sulle labbra. C'è poi la popolazione di Orano che non cerca altro se non di consumare la vita in piccoli m om enti di felicità egoistica. Ma c'è anche il giornalista Rambert. Venuto ad Ora­ no per un servizio speciale è sorpreso dalla peste. La sua vita allietata dall'amore di una donna sembra naufragare: per questo vorrebbe sfuggire alla morsa dell'epidemia in nome di una sua personale felicità. Ma si accorge che « ci può essere vergogna nell'essere felici da soli » e decide di rimanere per essere di aiuto a chi soffre. Simile al giornalista Rambert è il dottore Rieux. Anch'egli si occupa della sofferenza del mondo ma senza quel sentimento di colpevolezza che contras­

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segna la figura di Tarrou. La sua professione è lo scopo della sua vita: vorrebbe far felici gli altri. Ed è proprio per questo motivo che rimane ad Orano, lasciando sola la moglie che vive altrove: sarebbe per lui troppo disonesto abbandonare gli appestati per la moglie, verrebbe meno al suo ‘ dovere ‫׳‬. La sua lotta è indirizzata non alla salvezza degli altri — rifiuta un simile termine — ma alla salute degli uomini, alle loro piccole felicità. L'azione di Rieux è contrassegnata da Camus non con la parola ‘ carità ' ma ‘ tenerezza ': salute, onestà, tenerezza sono gli aspetti della felicità per l'autore de La peste. Tarrou è martire della colpevolezza, Rieux della solidarietà: sono i martiri laici della religione della felicità. C'è un ultimo personaggio che merita di essere ri­ cordato, il padre Paneloux. Predicatore geniale, rap­ presenta nella città appestata la speranza di una vita futura. La sua predicazione nella cattedrale di Orano manifesta il passaggio da una fede entusia­ sta ad una fede disperata. Dapprima legge nella peste il segno di un castigo di Dio per la conversio­ ne: « Adesso voi sapete che cosa sia il peccato, come lo hanno saputo Caino e i suoi figli, quelli prima del Diluvio, quelli di Sodoma e di Gomorra, Faraone e Giobbe e anche tutti i m aledetti » 125. Poi, però, di fronte all'agonia dei bambini, non sa che scorgervi lo scandalo del dolore innocente e la sua parola diventa un richiamo alla fede cieca ed assolu­ ta. Ma la sua morte, definita dal punto di vista medi­ co *caso dubbio lascia dubbi anche riguardo alla fede: muore quasi come un disperato aggrappato ad una fede squallida e ‘ morbosa '. Camus e Giobbe si pongono, quindi, gli stessi pro­ blemi: perché esiste il male e perché il giusto soffre. Entrambi vivono una profonda crisi esistenziale causata dall'irruzione di questo coefficiente m isterio­ so. Perciò le loro domande sono radicali e concer­ nono l'uomo, il suo destino e Dio stesso m. Ma la medesima crisi è vissuta da Camus e da !25 La peste, tr. it. di B.. Dal Fabbro, Milano 1976, p. 81. i26 Osservazioni molto fini sull'aspetto « esistenziale » del li­ bro di Giobbe in S. T errien , Job, poet of existence, India­ napolis 1957,

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Giobbe con due atteggiamenti profondamente divergenti: Giobbe imposta la questione sempre da eredente, Camus da ateo. Diversa è quindi anche la soluzione della crisi: Giobbe nella sua disperata sofferenza riscopre un volto di Dio diverso da quello che aveva sempre « creduto » di conoscere; scopre che è veramente « Altro »: « Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono (Gb 42,5). Camus invece trova nel problema del male e nella crisi esistenziale da esso causata un ulteriore motivo per la negazione di Dio, un motivo in più per affermare l'assurdità della vita: davvero l'esistenza urnana è paragonabile allo sforzo inutile di Sisifo che sospinge su un pendio un macigno inesorabilm ente destinato a precipitare a valle. Forse è possibile paragonare la posizione di Camus con quella degli amici di Giobbe. Essi hanno in comune di voler « capire » in modo razionalistico Dio e il male: i primi lo fanno attraverso la semplifìcazione della teoria retribuzionistica, Camus attraverso la semplificazione di uno dei due poli della questione, Dio. * * * Uno dei punti di riferimento imprescindibili della lettura contemporanea di Giobbe è senz'altro l'opera di Ernst B l o c h , nato in Germania nel 1885 e morto nel 1977. Dopo un soggiorno in Svizzera, ove compose la sua prima opera di rilievo dal titolo significativo di Gèist der Utopie (1918: « Lo spirito dell'utopia »), ritornò in Germania ma fu ben presto costretto dal nazismo a rifugiarsi in America ove preparò l'organigramma generale del suo pensiero. Nel 1949 gli venne offerta una cattedra a Lipsia. Dal 1954 al 1959 preparò il suo capolavoro Das Prinzip Hoffnung (« Il principio speranza »). Duramente attaccato dagli ideologi del partito per il suo marxismo eterodosso, viene costretto all’isolamento ed esonerato dall'insegnamento. Le accuse principali sono di revisionismo, idealismo e spiritualismo « re­

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ligioso ». Nel 1961 Bloch decide di stabilirsi nella Repubblica Federale e viene accolto com e « profes­ sore ospite » nell'università di Tubinga. Tra le opere di questo periodo emerge l'Ateismo nel Cristianesi­ mo. Per la religione dell'Esodo e del Regno, pubbli­ cato nel 1968 127. Bloch propone una sua lettura della Bibbia originale e provocante, in cui l’interpretazione di Giobbe ri­ veste un ruolo non indifferente. L'interesse per il dato biblico è dovuto al suo impegno di rilettura positiva del fenomeno religioso, tale da superare il giudizio radicalmente negativo di Marx (la religione !27 L 'o p e r a c o m p le ta d i B lo c h è in c o r s o d i p u b b lic a z io n e p r e s s o la c a s a e d itr ic e S u h r k a m p d i F r a n c o f o r te . L'Atheismus im Christentum è s t a t o t r a d o t t o in i t a l i a n o d a F . C o p p e llo tti, Ateismo nel Cristianesimo, M ila n o 1970. S ig n ific a tiv a è a n c h e l a ‫ ׳‬r a c c o lta d i s c r i t t i Religione in eredità, B r e s c ia 1979. P e r la r e in t e r p r e t a z i o n e b io c h ia n a d e lla fig u r a d i G io b b e s o n o r ile ­ v a n ti a n c h e i s u o i Studien zum Buche Hiob, in « M. S u s m a n F e s t. », D a r m s ta d t 1964. P e r u n a b ib lio g r a f ia g e n e ra le d e g li s c r i t t i d i B lo c h (fin o a l 1969) e d e i sa g g i c r itic i s u l s u o p e n s ie ­ r o si v e d a q u e lla c u r a t a d a S. Z e c c h i in « A u t- A u t» , n . 125, 1971, 83-103. U tili in f o r m a z io n i b io g r a f ic h e n e l l ’o t tim a i n t r o ­ d u z io n e d i R . B o d e i a lla e d . it. d e l v o lu m e d i B lo c h , Karl Marx, B o lo g n a 1972. D e ll'in te r e s s e « te o lo g ic o » p e r la filo ­ so fia b io c h ia n a è s t a t a p r e s e n t a t a u n a r a s s e g n a d a p a r t e di G. B . M o n d in , La teologia della speranza, in « S c u o la C a tt. » 98, 1970, 125*-146*, m e n t r e lo s tu d i o p iù r ile v a n te r e s t a q u e llo d i P . A. ìjEQUERI, Escatologia e Teologia, V e n e g o n o I n f . (V a r e s e ) 1975, p p . 89-142. V e d i in o ltr e : J. D a n ié lo u , Espoirs humains et espérance chrétienne, in « E t u d e s » n . 287, 1955, 145-155; K . R a h n e r , Utopia marxista e avvenire cristiano del­ l'uomo, in Nuovi saggi I, R o m a 1968, p p . 119-134; J. P iep er, Speranza e storia, B r e s c ia 1969; G. B o rto la s o , Speranza eà escatologia, in « C iv iltà C a tt. » 122, 1971, IV , 227-234; L. B . G illo n , La joyeuse espérance du « chrétien athée » selon E. Bloch, in « A n g e lic u m » 48, 1971, 490-508; G. M o rra , E. Bloch : la « docta spes » come ateismo cristiano, in « E t h ic a » 10, 1971, 203-222; G. S e g a lla e d ., Ateismo nel Cristianesimo o Cristianesimo nell'ateismo?, in « S t u d i a P a ta v in a » 1, 1972, 54 .7 4 ; N . G o n z a le s-C a m in e ro , E. Bloch, in « G r e g o r ia n u m » 54, 1973, 131-177; G. F e r r e t t i - F. F e s to r a z z i, Bibbia e speranza.

Dialogo sull'interpretazione biblica di E. Bloch, in Chiesa per il mondo II, B o lo g n a 1974, p p . 611-661. P e r l 'i n t e r p r e t a z i o n e

b i o c h i a n a d i G io b b e e p e r u n a e v e n tu a le c r itic a , o ltr e a l g ià c i t a t o s t u d io d i G . F e r r e t t i e F . F e s to r a z z i e a l l a s u p e rf ic ia le i n t r o d u z i o n e d i F . S . P ig n a g n o li a J. S te in m a n n , Giobbe, te- ‫׳‬ stimone di Dio nella sofferenza, F o s s a n o 1972, p p . 3 7 4 4 , è d a r i c o r d a r e H . M o ttij, Txi figure de Job chez Bloch, in R T h é o lP h il 27, 1977, 307-320.

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« oppio del popolo »). Intento di Bloch è quello di trarre dalla tradizione biblica m otivo di ispirazione « per un marxismo umanistico più corrispondente alla realtà dell'uomo e per stim olare i cristiani a scoprire, nel cuore stesso del cristianesim o, le istan­ ze liberatrici del marxismo » 128. Ora, « le tesi di fondo dell'irterpretazione biochiana della religione si possono sinteticam ente formulare così: a) la “ religione ‫ '׳‬è nella sua essenza autentica “ speranza '' ed ha storicamente trovato la sua espressione più matura nella tensione escatologicomessianica della tradizione ebraico-cristiana; b) la speranza religiosa ha ormai nella speranza atea di derivazione marxiana il suo logico e necessario sviluppo » 129. Bloch è convinto che la Scrittura nasconda una enorme forza utopico-rivoluzionaria che deve essere liberata mediante l'uso radicale del principio erme­ neutico della « deteocratizzazione » (Enttheokratisierung). Bisogna eliminare dalla Bibbia tutto ciò che ci presenta Dio come il Dio del culto, del terro­ re, identificato con il Dio creatore e trascendente, distinto e altro dall'uomo. È questo Dio che si rivela solidale con ogni forma di schiavitù che permette un uso della Bibbia « contro il popolo ». Ciò che invece deve essere riportato alla luce è l'altro aspetto biblico di Dio, quello che ce lo offre come il Dio del futuro, sostegno della lotta dei poveri, profondamente solidale con ogni anelito del­ l’uomo alla liberazione e per ciò stesso plausibile giustificazione di un uso della Bibbia « per il popo­ lo ». L'impegno di Bloch si esaurisce nel tentativo di riscoprire e di portare in superficie quel « filo ros­ so » che serpeggia nelle pagine del testo sacro per­ ché finalmente la Scrittura ritrovi la sua funzione di Biblia Pauperum, impegnata nella « eliminazione di tutti i rapporti in cui l'uomo appare solo come 12* F e r r e t ti - F e s t o r a z z i , a .c., p. 129 P. A. S equeri , o.c., p. 92.

611. D'ora innanzi con At.Cr. inten­ diamo Ateismo nel Cristianesimo di Bloch nella versione italiana di Coppellotti già indicata.

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essere oppresso, spregevole, annientato », secondo l ’espressione di Marx. Alla luce di questo principio ermeneutico Bloch leg­ ge l'Antico Testamento facendo emergere quelle che chiama « le più antiche immagini esplosive »: il serpente, la lotta di Giacobbe, la torre di Babele, la morte di Mosè (queste ultime due soprattutto nella tradizione delYhaggadà) che rappresentano episodi di rivolta contro il Dio-immagine di una teocrazia inumana e sanguinaria. In questo contesto, Giobbe rappresenta, per Bloch, l ’apice della deteocratizzazione dell'immagine di Dio. Infatti, « un uomo buono che agisce onestam ente è ben disposto a confidare negli altri; ma se lo si inganna violentemente, allora d'improvviso gli si aprono gli occhi, e guarda lontano. Giobbe si trova in questo caso e dubita e nega che Dio sia giusto » (At. Cr., p. 146). Di fronte all'incalzare delle domande di Giobbe, Jahweh è costretto a difendersi: la sua giustizia è messa in discussione. Secondo il filosofo tedesco « proprio nel libro di Giobbe comincia lo straordinario rovesciamento dei valori, la scoperta della possibilità utopica all'interno della sfera reli­ giosa: l'uomo può essere migliore, può comportarsi meglio del suo dio. Giobbe non è uscito solo dal culto ma anche dalla comunità: noi ci troviamo dinanzi ad un attacco pubblico » (At. Cr., p. 148). Né i motivi stantìi della speranza tradizionale rie­ scono a placare Giobbe ed a ridurlo al silenzio. « L'uomo freme contro Dio e la rivolta gli schiuma alla bocca, è la fine della pazienza, la critica del Dio tradizionale del diritto » {At. Cr., p. 148). Più degli strumenti teologici degli amici, Giobbe ha con sé un'arma fortissima per sostenere il confronto con Jahweh, la propria coscienza morale. « Un uo­ mo supera, anzi risplende sopra il suo dio: questa è e resta la logica del libro di Giobbe, nonostante l'evidente resa finale » (At. Cr., p. 149). Il Giobbe di Bloch è dunque l'uomo che finalmente si è sbarazza­ to del dio-despota; egli è ormai completam ente deteocratizzato: « la categoria originaria dell'Esodo continua ad operare qui nella più potente delle sue trasformazioni. Dopo l'Esodo d’Israele dall’Egitto, di

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Jahvè da Israele, avviene ora un esodo di Giobbe da Jahvè » (ibid.). Ed a questo Giobbe che domanda ragioni Jahweh risponde contrapponendo domanda a domanda. Blo­ ch non manca di far notare come in questo singola­ re dibattimento, la figura di Jahweh finisca per im­ pallidire di fronte alla dignità morale del suo inter­ locutore. Egli infatti « risponde con enigmi continui che ricava dalla parte non mediata della natura e della potenza naturale dell'esistenza, da un settore perciò che Giobbe, nonostante il tono della critica, non voleva intendere nelle sue domande, e non toc­ cava nelle sue accuse » (At. Cr., p. 150). Dove Giobbe pone moralità, Jahweh contrappone natura, in ma­ niera tale, fra l'altro, che le sue domande, « che come tali non sono nulla più che questioni di scien­ za naturale, non hanno in sé l'eternità che in altri scritti è propria della Parola di Dio » (ibid.). « Jahvè risponde a domande morali con domande fisiche » (At. Cr., p. 151). È ovvio, perciò, che nella « profon­ dità della sua ribellione » Giobbe non possa, nel c. 19, invocare in Dio un go'el, un « difensore » per se stesso, come suppone la Vulgata: « l'amico che Giobbe cerca, il parente, il vendicatore non può es­ sere lo stesso Jahvè, contro cui Giobbe chiama il vendicatore » (At. Cr., p. 154). Bloch attacca decisamente l'esegesi tradizionale, degna della disposizione di spirito degli amici di Giobbe, ad opera della quale « su Giobbe e sul suo atteggiamento così inequivocabile si continua ad operare con costanza un rovesciamento di significati che è per noi un segno, divenuto così m ostruoso dopo Auschwitz, di come esso sia necessario alla rassegnazione alla volontà divina » (ibid.). È la rilet­ tura ecclesiastica del « Giobbe paziente », clerica!izzato, banalizzato, la cui bocca è serrata da una pia museruola (At. Cr., p. 156). « L'apparizione di Jahvè e le sue parole confermano appunto che Giobbe non crede nella divina giustizia; esse sono, invece che rivelazione del Dio del diritto, qualcosa come l'a­ teism o di un Dio anche nella considerazione e nel­ l'oblio dell'etica » (At. Cr., p. 157). Per B loch , on n ip oten za e bontà di D io so n o in c o n c i­

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liabili se egli permette Satana: « Egli può essere solo onnipotente ed anche malvagio, ovvero buono e debole » (At. Cr., p. 158). A risolvere il dilemma non basta la teodicea, che è « una disonestà », né l'a­ teismo illuministico che non spiega la natura crude­ le, la malattia, il disordine, la morte. Si profila allora l'alternativa di Bloch. « La risposta alle domande di Giobbe, alle sue disperazioni com e alle sue speranze di un mutamento del suo essere, viene data nel regno del vendicatore, che è congiunto con la pro­ pria buona coscienza; solo là ed altrimenti in nessun altro luogo » (At. Cr., p. 155). In quel regno si attua il nuovo esodo che conduce nella speranza ad un nuovo essere. Giobbe si muove, così, verso il futuro e 1'« utopia ». Egli è sostenuto dalla molla segreta del « principio speranza » che, contrariamente agli amici protesi alla pura giustificazione del pre­ sente nel mondo, lo apre verso un originale umane­ simo escatologico in cui l'esistenza umana si avvia verso un compimento « futuro » e « nuovo ». I l Dio di cui si parla in Giobbe, conosciuto dai suoi frutti, domina e schiaccia col suo strapotere e la sua grandezza e lo fronteggiai dal Cielo solo come un Fa­ raone; tuttavia Giobbe è religioso proprio perché non crede. Non crede in nulla, meno che nell’esodo e nel fatto che umanamente l'ultima parola non è stata an­ cora pronunciata da colui che viene per vendicare il sangue e per fermarlo, in breve dal figlio dell’uomo stesso, invece che dal gran signore. Una parola da cui ora non vi è più esodo, ma che introduce senza alcun terrore nell’atto negato e conservato (A t. Cr., p. 161). *

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L'esegesi biblica di Bloch è in stretto rapporto con la sua proposta filosofica che costituisce la pre­ comprensione con la quale egli abborda il dato bi­ blico. Infatti « l'intera riflessione di E. Bloch è, si può dire, dominata dalla questione del futuro, e meglio ancora dalla problematica di quella tensione verso il futuro che è l’anima dell'umana speranza, il princi­ pio stesso della vita, e del suo vario ed inesaustivo dinamismo » 130. Su questa « pietra angolare » che è 130 p . A. S e q u e ri, o.c., p . 90.

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la questione della speranza, Bloch edifica il suo sistema concettuale che assegna alle categorie del « possibile » e del « nuovo » il ruolo di dimensioni costitutive dell'essere. Si tratta, in altri termini, di portare sino alla consapevolezza di una vera e pro­ pria filosofia il dinamismo della speranza indissolu­ bilmente inerente alla stessa condizione umana. Il compito diventa allora quello di elaborare una vera e propria « filosofia della speranza », che trova una sistemazione definitiva nell'opera matura deJ nostro autore. Infatti, all'intera proposta biochiana soggiace una ben precisa ontologia in forza della quale l'essere è concepito come « non-ancora-essere » (noch-nicht-Seirì) . La realtà è concepita, nella sua totalità, come pro­ cesso: nulla può essere pensato come posto nella dimensione dell'assoluto, pena la sua immediata au­ tocontraddittorietà. Ogni differenza ontologica tra es­ sere ed ente è cancellata sussistendo solamente, nel­ l’identificazione tra ontologia e storia, una differenza di tipo escatologico. L'unica alterità trascendente ammessa da Bloch è infatti quella tra l'uomo esi­ stente attualmente ed il suo futuro. In questa prospettiva è inconcepibile la posizione teista che pone un essere coi caratteri dell'assolu­ tezza fuori del dinamismo della storia, staticam ente definito e determinato. L'unica vera realtà è, invece, questo « trascendere senza trascendenza » nel quale l'uomo è impegnato a costruire la propria identità profonda (homo absconditus) che si rivelerà nel fu­ turo, la vera « patria dell'identità » dell'essere. Bloch vuole tracciare un'alternativa tra il teism o metafisico e l'ateismo negativo: è la terza via del1’« ateismo nel cristianesimo » per cui paradossal­ mente « solo un ateo può essere un buon cristiano e solo un cristiano può essere un buon ateo » (At. Cr., p. 32), dato che il cristianesimo è la celebrazione dell‫ «׳‬utopia », del superamento per il futuro, realtà costitutiva dell'uomo. Non si può fare a meno di notare, però, che l'erme­ neutica biochiana dei testi biblici si avvale di una prospettiva metodologica piuttosto singolare e senza

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reali agganci sul piano storico-critico. Per queste pregiudiziali il Dio biblico risulta solo minaccioso, oppressivo, creatore in senso statico e ad esso Bloch oppone un Dio « storico ed esodico ». Ora, la rivela­ zione biblica non conosce questa dicotomìa: per Israele il Dio onnipotente della storia è lo stesso Dio creatore e la creazione stessa è l'inizio della storia e la storia non è che una creazione continua (Is 42,5-6; 44,24-28; 45,12-13; 51,9-10). La creazione biblica non è assolutamente un atto remoto, produttore di un evento staticò e compiuto come nel caso dell'opera del dio Ptah, il creatore della mitologia egiziana. Non è possibile concepire nella Bibbia un « duali­ smo in cui il concetto di cosa creata è totalm ente diverso dal concetto di cosa salvata » (A t. Cr., p. 69). In realtà, anche per il N.T., Bloch, più che un erme­ neuta biblico in senso stretto, vuole essere uno sto­ rico interessato agli appelli che la problematica con­ temporanea gli lancia. Però la sua proposta filo­ sofica è sostanzialmente provocatoria e profetica, ma non è uno strumento irreprensibile e valido di lettura del testo biblico nel suo messaggio globale. Dobbiamo, perciò, accettarla per quanto essa è sti­ molo e provocazione ad una considerazione più completa su certi settori meno attesi dall'esegesi classica, senza per questo ignorare che essa non esaurisce la carica del messaggio biblico. Il libro di Giobbe è nella sua sostanza finale la scoperta di un Dio che resta trascendente ma che d'altra parte dialoga con l'uomo chiamandolo ad una comprensione nella fede. Ora, è proprio l'afferma­ zione netta di questo Dio tanto trascendente quanto vicino all'uomo che permette alla speranza umana di non essere vana. L'uomo può coltivare un’autentica speranza (l'espérance), e quindi non rimanere soffo­ cato tra le maglie delle caduche ed illusorie speran­ ze umane (espoirs), in quanto ha la fede in un Altro assoluto che è in grado di aprirgli un futuro assolu­ to. Giobbe, contrariamente all'uomo intensivus sed absconditus di Bloch, ci rivela che non è possibile « fondare la realizzabilità storica concreta del futu­ ro utopico umano sulle semplici forze finite e mute-

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voli dell'uomo storico presente che, proprio come tali, non possono portare in sé una potenzialità in finita » 131. L'uomo da solo non può proiettare nel futuro che la propria contraddittorietà. Nella Bibbia è, invece, fondamentale l'annuncio dell'ingresso sal­ vifico di Dio nella storia umana assiem e all’impossibilità dell'uomo di autosalvarsi. Il Dio che fa ammutolire ·Giobbe spianandogli di­ nanzi le meraviglie della creazione, è lo stesso Dio che ha sradicato Abramo dalla sua terra con la forza della promessa, che ha liberato Israele dalla schiavi­ tù dell'Egitto, che infine chiama ogni uomo alla comunione con Sé in Cristo Gesù. È un Dio quindi che è appassionato della sorte dell'uomo, che Egli ha creato « a sua immagine e somiglianza ». Giobbe che tace finalmente di fronte alla m anifesta­ zione dell'onnipotenza di Jahweh non è sim bolo del­ l'uomo schiacciato ed oppresso dalla tirannia di un despota, bensì l'uomo che, nella piena consapevolezza dei suoi limiti, riconosce l'insondabilità ultim a del mistero di un Dio che rimane, nella sua libertà, incomprensibile per l'intelletto e per il cuore uma­ no. Giobbe, nel riconoscimento di questa alterità, compie l'atto più profondamente umano che un uo­ mo possa compiere: l'atto di fede in Dio. Solo que sto gli permette di affermare: « Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono » (Gb 42,5). Lungi dall'essere una menomazione della sua umani­ tà, la fede costituisce l'uomo nella sua autentica dignità. Infatti solo la coscienza di essere amati e voluti da un Altro, che crediamo Padre, ci permette di vivere nella storia spe e re d i, capaci di affrontare ogni realtà perché consapevoli che il senso della storia ci è stato disvelato in questo Dio-per-noi. « La fede-speranza biblica (e perciò la religione bi­ blica) non è spazio di Dio sottratto all’uomo, al contrario è aumento (divinizzazione) dello spazio dell’uomo all’interno dello spazio di Dio » 132. i3i F e r r e t t i - F e s t o r a z z i , a .c., p . 655. '32 F e r r e t t i - F e s t o r a z z i , a.c., p . 658.

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Sulla scia di Bloch si colloca anche Dorothee S òlle, nata a Colonia nel 1929, docente di germanistica, esponente della teologia radicale e politica tedesca, fortemente influenzata, oltre che da Bloch, anche da Heidegger e Habermas 133. « Giobbe è più forte di Dio » è il titolo del capitolo di Sofferenza dedicato a Giobbe, l'unico uomo che « non aderisce al modello dispotico della prova dove il potente impone le condizioni all'inerme » (p. 160). Seguendo la linea tracciata da Bloch, Sòlle contrappone a questo tiranno arbitrario, a questo giocatore invincibile ed invisibile il Dio dell'Esodo, il difensore degli schiavi, il nemico dei despoti, il Dio dell'amore e non della onnipotenza. È questo il Dio che Giobbe cerca. « Di fronte al Dio assassino che inLrange la giustizia, Giobbe si appella ad un Dio diverso . . . Giobbe ha fiducia nel Dio che fece uscire il popolo dalle sofferenze dell'Egitto: quel Dio del quale egli ha esperienza è soltanto un altro faraone » (p. 167). L'ateismo di Giobbe è, perciò, il m assim o della fede autentica. Per questo, « il grido di Giobbe che invoca un difensore, un redentore, un rivendicatore e pacificatore, può essere inteso soltanto come il grido senza risposta del mondo precristiano che trova la sua risposta in Cristo. Giobbe è p ii forte del vecchio Dio. Non colui che fa soffrire, ma soltanto colui che soffre può dare una risposta a Ciobbe. Non il cacciatore ma la preda » (pp. 167-168). In realtà questa dualizzazione del volto di Dio è una visione manichea che può essere superata solo nell'accettazione della trascendenza ed immanenza del Dio di Giobbe: egli è l'unico che sa rispondere agli interrogativi ‫י‬3‫ ג‬In Italia sono stati pubblicati Rappresentanza (Brescia 1970), Fantasia ed obbedienza (Brescia 1970), Teologia politica (Brescia 1973), Sofferenza (Brescia 1976) con un saggio di G. Penzo a cui si deve anche lo studio Pensare heideggeriano e problematica teologica. Sviluppi dell‫ ל׳‬teologia radicale in Germania, Brescia 1970. Sofferenza ‫׳‬Iella Sòlle ha influenzato considerevolmente il commento-meditazione di E. Z enger - R. B oswald , Durchkreutz.es Leben. Besinnung auf Hiob, Freiburg 1976.

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dell'essere ma è anche colui che si rende presente accanto al suo fedele svelandogli?! « non per sentito dire », ma « a faccia a faccia ». I l G iobbe credente di sar

B arth, J aspers e von B altha­

Messa in crisi dalla prima guerra mondiale, la teolo­ gia ottimista del protes>tan+esimo liberale ha dovuto cedere il passo ad un'impostazione teologica più dialettica che ha trryato in Karl B arth (1886-1968), venuto dai ranghi del pastorato parrocchiale svizze­ ro, la più alta espressione sistematica. Non è nostro scopo tracciare il q: ladro di questo pensiero che ha segnato una tappa irreversibile nell'ambito della teo­ logia cristiana. I tredici volumi della K irchlicht Dogmatik hanno scandito dal 1932 in avanti le fasi di una vera e propria riabilitazione della dogmatica in chiave cristologica 134. Secondo i principi della teologica dialettica la specu­ lazione è messa al servizio della predicazione prepa­ rando così la proclamazione attualizzata della Parola di Dio. È una speculazione teologica m essa al servi­ zio della Chiesa senza distinzioni istituzionali o con­ fessionali cercando di abbattere fin dove è possibile gli steccati ecclesiastici ed ideologici. È una specula­ zione messa al servizio dell'uomo che viene chiama­ to in Cristo alla libertà. Nasce così un'autentica antropologia cristiana. È proprio nella celebrazione della signoria m isterio­ sa di Dio, nella teologia della creazione e nell'antro­ pologia che Giobbe diventa per Barth un testo privi­ legiato: è ciò che noteremo spesse volte nel com­ mento a Giobbe allegando osservazioni e spunti barthiani. Anzi, a Giobbe il teologo svizzero dedicherà un'ampia porzione del quarto libro della sua Kirchliche Dogmatik. (IV, 3, 1), ora pubblicato in estratto con un'accurata presentazione del noto teologo proIn italiano ne esiste solo una selezione antologica curata da H. Gollwitzer presentata da un ampio saggio eli I. M anci­ n i , Dogmatica ecclesiale, Bologna 1968. Vedi anche K. B arth , Antologia a cura di E. Riverso, Milano 1964.

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testante Helmut Gollwitzer 135: Come brano di lettura preferiamo, però, presentare una sintesi dell'esperienza religiosa di Giobbe stesa da Barth nell'opera che gli aprì le porte della notorietà nel campo teologico e filosofico, L'Epistola ai Romani, pubblicata nel 1919. L'uomo può realmente conoscere gli strali che si con­ ficcano in lu i... i terrori che si schierano contro di lui (Gb 6,4). Egli può realmente sapere che la sua vita è una milizia e che i suoi giorni sono quelli di un operaio a giornata (Gb 7,1). Egli può realmente gri­ dare: « Sono forse io il mare o un mostro marino, che tu ponga intorno a me una-guardia? » (Gb 7,12). Egli può realmente trovarsi di fronte a Uno, al di sopra del quale non conosce alcun arbitro che « possa posare la mano su entrambi» (Gb 9,33). Egli può es­ sere realmente l’uomo la cui via è oscura e che Dio ha stretto in un cerchio‫( ־‬Gb 3,23) ... Ma appunto a que­ sta realtà egli deve necessariamente non arrendersi, con rassegnazione, fatalismo o consolazione religiosa, ma abbandonarsi esistenzialmente col sospiro ineffabile dello Spirito: « Io so che il mio Redentore è viven­ te! » (Gb 19,29). Allora l'uomo ama Dio, non prima o dopo ... L'amore verso Dio è il luogo invisibile ed eterno ove il capovolgimento di tutte le cose è già compiuto. Giob­ be che protesta senza riguardi in faccia al Dio sco­ nosciuto « ha parlato di me secondo la verità ». Perciò Dio lo stima e gli rende il dopt>io di quello che aveva posseduto (Gb 42,7-10). A differenza dei suoi anche troppo religiosi amici ha raggiunto il punto vivo in cui l'uomo e il suo mondo non stanno più soltanto nella notte ma stanno parimenti nel riflesso del gior­ no veniente della gloria in cui Dio si rivela come il grande sconosciuto ed il mistero del cosmo si rivela come creazione di Dio IJ6. ·k

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Il filosofo Karl J aspers (1883-1969), il più amaro degli esistenzialisti tedeschi, fermo assertore del naufragio della esistenza umana, si è incontrato idealmente con Giobbe sin dall'inizio della sua ricer­ 135 K. B arth , Hiob, herausgegeben und eingeleitet von Helmut Gollwitzer, Neukirchen/Vluvn 1966. Per un’interpretazione del pensiero barthiano su Giobbe vedi il saggio di H. S c h u l w e is . Karl Barth's Job, in « Jewish Quart. Re’r > 65, 1975. 156-167. 136 K. B arth , Epistola ai Romani (tr. it. di G. Miegge), Milano 1974, pp. 300-302.

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ca. La coscienza dello scacco continuo a cui l'umani­ tà è votata non poteva divenire in Jaspers che « consonanza » e « simpatia » con Giobbe come lo stesso filosofo scriveva in un contributo per il Féstchrift in onore di G. Kriiger, contributo intitolato semplicemente H io b i31. Nel ciclo tragico in cui è imprigionato, l'uomo svolge la sua storia come se fosse un giro senza fine, una « lamentazione cine­ se ». Anche Giobbe per Jaspers non ha nessun esito se non nel naufragio, la sua vicenda è un'altalena di ascese e di discese senza risultati. Ecco le parole di Jaspers in Fede filosofica di fronte alla rivelazione: I grandi atteggiamenti fondamentali della storia sono contrassegnati dal loro movimento infinito: la lamen­ tazione cinese priva di accusa, la tragedia greca e quel­ la di Shakespeare, il naufragio di Giobbe nella sua lotta con Dio. Sono moti di pensiero dell'imperfet­ tibile. I passi compiuti su questa via sono momenti dell'accertamento, ma non sono la verità stessa colta nella forma chiusa di un edificio di pensiero o di una figurazione poetica. La lamentazione cinese non si completa in nessuna conoscenza. Le tragedie di Sha­ kespeare mirano al di là di tutte le sue figurazioni. II « Libro di Giobbe » non ha alcun risultato ... La religione biblica, nei suoi supremi momenti storici, è costantemente in discesa ed in ascesa come una ca­ tena di vette della veridicità dell'uomo cui si mostra ciò che è, ora in Geremia, ora nel poeta di Giobbe, ora in Gesù 138.

Ma a questo punto è lecito domandarsi: perché abbiamo collegato la riflessione di Jaspers alla matri­ ce religiosa del Novecento filosofico-teologico? La risposta ci viene da un'altra pagina della stessa ope­ ra in cui, dopo una lunga analisi del libro di Giobbe, Jaspers rivela la sua iniziale, profonda base cristiana che gli impedisce talora lo sbocco totalmente dispe­ rato nell'assurdo. Se il Dio personale è la fonte del destino, allora il corso delle cose e la mia vita non seguono una po­ tenza cieca, ima necessità, un accadere speculativamen­ 137 K. J aspers , Hiob, in Einsichten, Frankfurt 1962, pp. 86-106. Per il pensiero e l'opera di Jaspers vedi Filosofia, a cura di A. Galimberti, Torino 1978. 138 K . J aspers , La fede filosofica di fronte alla rivelazione, Milano 1970, pp. 519 e 693.

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Giobbe, nostro contemporaneo te pensato, un meccanismo automatico, il caso. Solo adesso si possono presentare le domande che trovano e non trovano risposta in Giobbe e nell’idea della pre­ destinazione 1^9. ‫־*־‬



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Proveniente dallo stesso ambito etnico e non privo di contatti con Barth, Hans Urs von B althasar si colloca però in una posizione ben diversa (e non solo per ragioni confessionali) dalla più alta e più rigorosa riflessione del collega protestante. Erede di una sensibilità quasi « orientale » ed agostiniana, attento alla dimensione « estetica » del pensiero ed a quella veritativa dell’arte e della letteratura, von Balthasar si staglia piuttosto solitario nel panorama teologico contemporaneo soprattutto per la m etodo­ logia adottata nella sua ormai famosa Herrlichkeit, la cui traduzione italiana è ancora in corso 140. Di quest’opera noi ci interessiamo solo settorialm ente, cioè per l’interpretazione della figura di Giobbe. La chiave di lettura è, per von Balthasar, la tesi del « Dio presente sotto forma di assenza » M1. Essa emerge limpidamente nei « testi di abbandono », cioè i dialoghi poetici in cui la « realtà dell’assenza » è paradossalmente palpabile. Ma per individuare nel­ l’assenza il germe della presenza bisogna integrare questi dialoghi nell’arco di due com plessi più vasti. Il primo è l’opera terminale di Giobbe, considerata nel suo stadio redazionale finale. In essa troviamo due svolte decisive, il prologo e il c. 28. Nel prologo Giobbe appare come colui che ha detto il sì integrale a Dio: è questo dato di comunicazione perfetta tra Dio e Giobbe l’inizio assoluto del libro a cui si 139 L’analisi della figura di Giobbe è nelle pp. 445471 dell’o.c. Il testo qui riferito è a p. 483. 140 Herrlichkeit, 3 voli. Einsiedeln 1961-1967; tr. it. Gloria, Milano 1975 in avanti. !41 Ci riferiamo alla traduzione francese La Gioire et la Croix, 3. Théologie, I. Ancienne Alliance, Paris 1974, pp. 241-249. La tesi sopra enunciata è presente a p. 243. Nelle citazioni ci rife­ riamo sempre alla versione francese indicata. La versione ita­ liana è A n tic o P a tto (voi. VI di G loria), Milano 1980.

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devono riferire anche i dialoghi. È in base a questo inizio che bisogna valutare « l'oscurità spirituale interiore » successiva di Giobbe. N ell’inno alla sa­ pienza del c. 28 si ha invece il fine assoluto dell'ope­ ra: è qui che il silenzio di Dio acquista il suo vero senso. Von Balthasar non attribuisce, quindi, molta rilevanza alla confessione finale di Giobbe (42,6). Essa è semplicemente una ritrattazione dei dialoghi, è solo « una bella parola che vela e non rivela la vera situazione » (p. 249). Il secondo complesso in cui dev'essere collocato Giobbe per una sua esatta ermeneutica è l'intera rivelazione biblica assunta nella sua globalità di uni­ co discorso di Dio. Ed in questo ambito si possono avanzare due ipotesi risolutive. Giobbe, innanzitutto, non è ebreo: è, perciò, il tipo della sem plice éd umana riflessione pagana « ridotta a formarsi un'immagine di Dio riflettendo sem plicisticam ente sull’esistenza » (p. 248). L'estuario di questa ricerca non può essere che lo scacco e la notte. Questa impostazione avanzata da von Balthasar è piuttosto discutibile non solo per il suo ovvio integrismo ma anche perché va contro la stessa intenzione della letteratura sapienziale biblica e dello stesso libro di Giobbe. Infatti c'è una rivelazione possibile anche nella « semplice e pagana riflessione » dell’uom o e Dio stesso la integra nella sua specifica rivelazione biblica. Una seconda ipotesi considera Giobbe come testo divenuto ormai ebraico ma com prensibile e spiegabile (come Qohelet) solo nel dinamismo della rivelazione che procede verso la pienezza del Cristo. In questo senso Giobbe rappresenta una tappa cru­ ciale del processo. L’Alleanza, categoria pre-esilica, puntualizzata nella teologia ufficiale degli amici, si rivela nella riflessione di Giobbe e dei « nuovi sa­ pienti » insufficiente e sorpassata. Attraverso il suo insuccesso si apre l’esperienza di un « aldilà impe­ netrabile ». È una notte che non si cancellerà se non con l’aurora eristica. A nostro avviso, pur nella vali­ dità della lettura teologica globale della Bibbia, questa interpretazione, se radicalizzata, esautora l’intero Antico Testamento « dualizzandolo » rispet­ to al Nuovo. Già nella « notte giobbica » ci sono

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lampi di luce, già nella ricerca del sapiente antico c'è una Parola di Dio eterna. Essa è una particella o una battuta di quel dialogo a cui Cristo darà la parola definitiva e conclusiva. I l G iobbe suicida di G uido M orselli

Guido Morselli è stato un caso letterario che ha fatto sobbalzare il sonnolento panorama letterario italiano degli anni Settanta. Nato nel 1912 e morto suicida nel 1973 dopo un lungo e solitario travaglio interiore, quest'uomo di vasta cultura ha scritto per tutta la vita ma i suoi prodotti sono stati sistem a­ ticamente respinti dall'industria culturale. Solo dopo la morte i suoi manoscritti, romanzi come Roma senza papa o II comunista o Un amore borghese o come lo splendido e funereo Dissipatio H. G., o anche saggi come Fede e Critica, hanno visto la luce presso l'editore milanese Adslphi e sono stati accolti con stupore e favore da pubblico e critica. In una ricerca così angosciata, personale e solitaria non poteva mancare la voce di Giobbe. È appunto al libro di Giobbe che è dedicato l'intero n capitolo delle riflessioni teologico-filosofiche raccolte nel sag­ gio Fede e Critica 142. Il centro dell'analisi di Morselli è il tradizionale problema del contrasto tra male e Dio, questione, come egli avverte molto acutamente, non solo filosofìco-teologica, ma anche m istica (p. 49). Ora, essenziale alla teologia non è tanto il m o­ noteism o — sostiene Morselli — quanto piuttosto la consapevolezza che Dio dev'essere esente da arbitrio. « Il livello progredito della coscienza religiosa si ha quando si avverte il bisogno di stabilire, come fatto­ re di condotta della divinità verso le creature, la giustizia » (p. 72). In questa prospettiva, che è indi­ zio di maturità teologica, il dolore può essere spie­ gato sulla base di tre criteri. Il primo è quello retributivo: è la posizione degli amici di Giobbe, « tre visitatori critici che conclamano la flagrante 142 G. M orski.lt, Fede e critica, Milano 1977, pp. 49-67. Vedi an­ che le pp. 73-79 e 109-110.

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irreligiosità in nome di una gelida ortodossia » (p. 63). « Guardiamoci dal metterci coi difensori d’ufficio della divinità, contro i nostri sim ili che pian­ gono, giacché oltretutto ci attireremmo la collera celeste » (p. 65; cfr. p. 109). La tesi degli amici si compendia in « un duplice asserto: l’uomo, dotato di libera volontà, si stacca da Dio comm ettendo il peccato; il suo travaglio terreno ne rappresenta il castigo » (p. 72). Secondo criterio è quello correttivo o m edicinale: « le sventure di cui soffriamo non avrebbero sempre funzione di castigo; qualche volta servirebbero più specificamente a far ravvedere il peccatore ed a risparmiargli così pene maggiori » (p. 51). È la posi­ zione di Elihu (pp. 50-60, n. 6). Terzo criterio è quello p erfettivo: « le sventure sono inviate non al colpevole ma all'innocente, per saggiare o accrescere la sua virtù » (p. 51). Giobbe, invece, imposta la sua ricerca su un altro livello molto più autentico ed è per questo che il suo messaggio è universale, « diviene sostanza in­ tegralmente u ma n a . . . Con una fedeltà da far sgo­ mento questo racconto è per molta parte la nostra biografia ideale, colta nella sua crisi risolutiva. Gli eroi eponimi dell'umanità, Ulisse, Faust o Amleto, per quanto eloquenti e significativi, sono labili ombre a paragone di questo oscuro personaggio biblico che soffre con un'anima simile alla nostra e dice cose che anche noi ci siamo detti, le uniche cose vera­ mente essenziali per tutti » (p. 54). « Giobbe non è l’antesignano dei moderni critici di Dio e suoi aspi­ ranti sostituti: ma altrettanto poco assomiglia al paziente imperturbato che in lui ha veduto la tradi­ zione . . . La storia di Giobbe è ben altro che l’e­ dificante “ storia di un'anima '' o la vicenda a lieto fine dell'innocenza conculcata e premiata » (pp. 56-57). « Risulta chiaro che l'autore inclina a vedere nel male qualcosa la cui origine non si inserisce nel gioco ristretto delle cause umane, e tanto meno nell'ambito dell'azione e delle volontà individuali » (p. 60). L'obiezione di Giobbe è questa: « in sede morale la nostra scelta non è im pregiudicata. . . , la libertà individuale è circoscritta, limitata e preca­

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ria ». Questo è dimostrato dalla nostra « diretta dipendenza dalla volontà del creatore (10,3.8; 14,16) e dall'influsso genealogico e sociale » (p. 76). A que­ sto punto « Giobbe si rende conto che ciò che revo­ ca in dubbio la bontà e la giustizia di Dio (e quindi Dio medesimo) è l'irrazionalità di questo mondo e null'altro. Ben poco giova la prospettiva di un com ­ penso ultraterreno quando non si possa giustificare il male che regna quaggiù, conciliandone la realtà con la presenza di un superbo e giusto reggitore. Se il male è immotivato, se nasce dall’arbitrio o dal caso, nessun premio concesso postumam ente alle creature varrà a salvare Dìo dalla loro accusa » (p. 62-63). Ora « nel racconto si potrebbe riconoscere una la­ cuna. Vi è descritta la contrizione di Giobbe; manca la sua confutazione. Osservando meglio ci si accorge che nell'apparente lacuna risiede il significato essen­ ziale del libro. Il Cielo non condanna le nostre rea­ zioni alla sventura, non si vendica nemmeno se rompiamo in aperta rivolta. Una cosa il Signore non tollera, di chiarire all'uomo la propria condotta. Egli non dice che Giobbe abbia torto; afferma di essere l'onnipotente e l'invitto, di aver diritto all'incondi­ zionato ossequio della creatura; altro non dice » (p. 64). « Elifaz e gli altri sbagliano incolpandolo di ignora­ re Dio, perché non vedono che negare è cosa diversa dall'ignorare, che la negazione appassionata è una testimonianza, più valida della compunta devozio­ n e . . . Coloro che “ scusano Dio " per imputare se stessi sono talvolta i medesimi che aprono la strada ai cosiddetti umanesimi, divinizzatori dell'Uomo. Giobbe è di ben diversa tempra; nemmeno per un attimo egli, pensa di poter disgiungere le sciagure che lo colpiscono dalla sovrana volontà del suo Signo­ re, come mai gli è avvenuto di attribuire il bene ad altra cadsa: alle proprie virtù, per esem pio » (p. 67). « Nell'epilogo del *Libro di Giobbe, Jahweh non in­ tende assurdamente smentire coloro che asseriscono la sua giustizia, ma quelli che non ne vedono il carattere m isterioso » (p. 78). Non è il tentativo di

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invalidare l'intera teologia ma solo una sua imposta­ zione metodologica insufficiente. I l G iobbe crocifisso di Coccioli, B erto e Q uinzio

Commentando il Vere tu es Deus absconditus di Isaia, il famoso mistico ebreo-americano J. Heschel, scriveva: « Dio singhiozza: Mi sono nascosto, ma nessuno mi cerca; vorrei tornare, ma nessuno m ’a­ spetta » M3. In questa frase è espressa in forma emo­ tiva e leggermente retorica la teologia della croce: « soltanto il Dio sofferente e sconfìtto può venire in aiuto », diceva Bonhòffer. In questa luce anche Giobbe diventa l’emblema della croce veterotesta­ mentaria, ben diversa da quella del Cristo ma alla radice pur sempre « croce ». La fisionomia di Giob­ be come il rivelatore del mistero del dolore in forme differenti ha suscitato l'attenzione di alcuni scrittori italiani provenienti da esperienze umane diverse. Carlo Coccioli, nato a Livorno nel 1920, trasferitosi a Parigi nel 1949 e nel 1953 a Città del Messico e divenuto così scrittore perfettamente trilingue, si è m osso quasi fin dagli inizi della sua produzione letteraria in questa direzione. La fama in Italia gli è giunta soprattutto col suo Davide (Milano 1976), un insolito romanzo autobiografico del grande re bibli­ co tutto fondato sul rapporto drammatico tra il Dio m isterioso e l'uomo solitario. Ma più significativo per penetrare la storia umana dell'A., una storia gonfia di amori, di dolori, di ansietà (l'om osessuali­ tà), di ardore mistico è Documento 127, pubblicato a Firenze nel 1970, itinerario di un'inattesa conversio­ ne dal Cristianesimo all'Ebraismo, religione nella quale ora Coccioli milita con passione ed entusia­ smo. Lo sdegno di Coccioli, e quindi quello dei suoi personaggi, cioè di Davide, di Racover, di Giobbe, etc., è lanciato verso un Dio che non soffre con l'uomo sofferente ed innocente. Giobbe è, allora, la protesta e l'attesa: la protesta per l'indifferenza di­ vina e l'attesa che Dio finalmente « si incarni » 1« Per la teologia della « sofferenza di Dio » vedi la sintesi di K . K ita m o r i , Teologia del dolore di Dio, Brescia 1975.

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soffrendo. In un racconto del 1968 144 un ebreo sefardita, Simone Cochel, assiste disperato all'assas­ sinio, perpetrato dai nazisti, della sua ragazza Sarah. « Urlò a Dio la sua protesta, ritrovando d'istinto le sdegnate parole di Giobbe: Prendi forse piacere a far soccombere sotto il Tuo peso, a respingere l’ope­ ra delle Tue mani, mentre con la Tua luce favorisci i malvagi? Hai occhi di carne? Vedi nello stesso modo con cui vedono gli uomini? Sono i Tuoi giorni come i giorni degli uomini? » (p. 43). E quando Simone perde anche il cane, l’ultimo residuato della sua vita d'affetti, la protesta contro Dio si formalizza. « Io, Simon Cochel, da questa poltrona di carissima stoffa grido a Te come Giobbe sul letamaio. Prendi forse piacere a far soccombere sotto il Tuo peso, a re­ spingere l’opera delle Tue mani? Io, Simon Cochel, protesto, ed ho protestato durante più di vent'anni e continuerò a protestare » (p. 51). Naturalmente un Dio che non ha mandato il suo Figlio a soffrire con l'uomo non può capire questa protesta né la può raccogliere. Ed allora l'uomo « piega la testa nell'oscurità, umilmente, santamente ed anche saggiamente s'aggrappa alla risposta del libro di Giobbe del non sappiamo e del non siamo, protesta in termini di profonda commozione la sua fede e la sua fiducia nel Dio, ciononostante, infini­ tamente grande, giusto e misericordioso » 14S. Escla­ ma, allora, Davide-Coccioli: « Non ho amato mai nulla e nessuno quanto Te, neppure Gionata dall'a­ nima attaccata alla mia, Saul le cui crisi placavo con musica e canto, Betsabea carne di giglio, neppure il mio Assalonne appeso all'albero come un bove dal macellaio, perché “ dall'alto Egli stende la mano " per prendermi: per amore ». *

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All’esito sostanzialmente mistico e positivo di Coccioli Giuseppe B erto, uno scrittore veneto nato nel !44 La riconciliazione, in AA.VV., Racconti italiani 1969, Milano 1968. i4£ G. S om m avilla , Carlo Coccioli: una via di Damasco a rovescio, in «Letture» n. 343, gennaio 1978, p. 13.

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1914 e morto nel 1978, noto soprattutto per II cielo è rosso (1948), Il male oscuro (1964), La cosa buffa (1966) ed Anonimo Veneziano, contrappone nel suo ultimo romanzo La gloria (Milano 1978) un risultato decisamente negativo e senza speranza. La tesi di questa requisitoria autobiografica di Giuda Iscariota è originale: era indispensabile, affinché sul Golgota si verificasse il più prezioso avvenimento della storia umana, che uno dei discepoli di Gesù, il più colto e il più « impegnato », Giuda, « l'uomo più solo di tutta l'umanità » (p. 158), tradisse il Figlio dell'Uo­ mo. Egli nell'economia della redenzione doveva compiere questa missione di perdizione. Il libro di­ venta allora la giustificazione straziata di Giuda che presenta e giustifica il suo prestabilito gesto, il suo inesorabile patto. Il volume, che si è trasformato per la morte dell'A. nel suo testam ento, si apre proprio con un detto di Giobbe, tratto dai discorsi di Dio: « Vuoi tu annullare il mio giudizio, incolpa­ re me per giustificare te stesso? ». E prosegue coi lancinanti interrogativi di un uomo che è posto al massimo crocevia del mistero e del dolore: « Per­ ché la sofferenza, l’ignoranza, il dubbio? E l'impa­ zienza? » (p. 16). « Abissi sono le sentenze di Ado­ nai, impenetrabile il suo agire (p. 20) . . . O la tua voce è il silenzio? » (p. 21). Giuda cita anche Camus che « parecchi secoli dopo meditando sulla terribile agonia che scegliesti per T e . . . ebbe l'idea che la vera ragione di quella scelta fosse che Tu sapevi di non essere completamente innocente a proposito degli innocenti sgozzati. “ Egli non era uomo da poterli dimenticare ‫ — '׳‬scrisse lo scrittore — e la tristezza che s'indovina in tutti i suoi atti non era che l'inguaribile malinconia di colui che di notte sentiva la voce di Rachele gemere sui piccoli e rifiutare il conforto? Il lamento saliva nella notte, Rachele chiamava i suoi figli morti e lui era vivo » (p. 34). « All'origine dei prodigi c'era sempre il male: ma perché il male? Troppe domande e l'Eterno non rispondeva » (p. 70). Ma ecco lo sbocco finale di questo destino di vita unico. È uno sbocco terribile: Dio non risponde né a Giuda nc a Gesù restando silenzioso nel suo cielo

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lontano. Per Giuda alla fine c'è solo il grido finale disperato del suo diario: « O Eterno, io grido a te da luoghi troppo profondi: Signore, non ascoltare la mia voce! » (p. 194). Gesù aveva salito il Calvario, fiducioso di trovare il Padre al termine del suo immane soffrire. Ma il Padre non c'era! Allora gli affiora sulle labbra quel lamento: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? E di fronte al vuoto di una risposta mancata, « con un urlo rende lo spiri­ to ». *

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Nel riconoscimento cristiano della croce di Cristo come luogo di comprensione della storia di ogni Giobbe ha centrato, invece, il suo pensiero Sergio Q u in zio , autore di saggi filosofico-teologici (Diario profetico) e di un Commento alla Bibbia in 4 voli. Rifiutando una teologia della gloria trionfalistica, Quinzio sceglie la via di Giobbe per conoscere Dio, la via della « kenosis, dello spogliamento e deH’umiliazione di Gesù. È solo confidando nel Dio debole crocifisso che il cristiano può sperare pur contro ogni speranza . . . Data l'esistenza del male, perfetta onnipotenza e perfetta pietà divine non possono coesistere. Sacrificare la sua pietà è bestemmia, sa­ crificare la sua onnipotenza è farsi veri adoratori della croce » 146. Questa tesi è sostenuta in un capitolo (« Male e dolore ») di una serie di saggi sui temi maggiori del Cristianesimo 147. Di fronte al mistero del male « ci sono due vie possibili: ricondurre la sofferenza alla colpa come sua conseguenza. . . , oppure, all'opposto, ricondurre la colpa alla sofferenza, come qualcosa in cui si finisce per cadere quando si tenta di uscire da una condizione di pena o di mancanza » (Fede sepol­ ta, p. 77). La prima via è quella del karma indiano e della Bibbia tradizionale, la seconda è quella di Freud. Ma la soluzione avanzata da Quinzio parte proprio dall’impostazione di Giobbe ed è radicale 146 Intervista alla rivista « Jesus » 1, gennaio 1979, p. 50. 147 La fede sepolta, Milano 1978, pp. 77-82.

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(Gb 14,1). « Il male è lo scandalo di una frattura all'interno di Dio: esige Dio e, insieme, implica una contraddizione che lacera Dio » (p. 78). Ritorna, al­ lora, l'idea della sofferenza di Dio come unica ri­ sposta (anche se problematica) alla protesta di Giobbe e di ogni sofferente. Se riconduciamo la colpa alla sofferenza, allora il male è male solo per chi ne patisce lo scandalo, e perché il male sia davvero male, perché possa esserlo cioè agli occhi di Dio, bisogna che Dio soffra. E infatti il Dio biblico conosce la sofferenza, fin dalle ripetute imma­ gini veterotestamentarie di Dio come marito abban­ donato dalla sposa infedele, come padre deluso dal figlio. Il Signore non è scandalizzato dalle prostitute e dai pubblicani, dal mancato compimento degli atti dovuti, come sono scandalizzati gli scribi, ma dalla miseria del popolo schiavo della lebbra e della morte: « vide una gran folla e ne ebbe pietà e guarì i loro malati » (Mt 14,14). Sono gli scribi che inorridiscono dinnanzi alla colpa d'un uomo e passano tranquilla­ mente recitando il breviario sotto l'ospedale dei bam­ bini, che pensano a condannare l’assassino per rein­ tegrare la giustizia violata anziché piangere sulla vit­ tima che non può essere reintegrata... La salvezza non è in rapporto alla colpa, ma al dolore: sarebbe una meschina salvezza giudiziaria quella che consistesse nel non infliggere le pene meritate, sarebbe una salvez­ za che non ha senso, o ha un senso mostruoso, acqui­ stare al prezzo dei tormenti del Giusto ... Nella pro­ spettiva biblica il male si aggruma in realissima soffe­ renza (pp. 78-80). I l G io b b e r is o r t o d i B a c c h e l l i e d i T u r o l d o

Nato a Bologna nel 1891, B a c c h e l l i già da vivente è entrato nella storia della letteratura italiana soprat­ tutto col Diavolo al Pontelungo (1927) e con la saga Il mulino del Po (1938-1940) a cui si aggiungono decine di altri romanzi. Il Bacchelli che a noi inte­ ressa è quello, considerato minore, del Coccio di terracotta, opera apparsa nel 1966. La nota editoriale che accompagnava la pubblicazione definiva il volu­ me « un'ardita invenzione della seconda vita di Giobbe restituito e compensato dopo l'eroica prova della prima volta ». Ma in questa « risurrezione » c'è, tra quelle subite, una perdita senza com penso e senza rimedio, la morte dei primi suoi figli. Proprio per questo la seconda paternità di Giobbe assum e e

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rinnova, in una lunga e varia vicenda di eventi e di sentimenti, di dolori e di gioie, la prima. È il dram­ ma quotidiano e terrestre della storicità umana che conduce alla quiete dell'ultima ora, « sazio di gior­ ni », l'eroe dell’antica e sublime tragedia teologica. Il coccio di terracotta è l'oggetto sim bolico del pas­ sato trascorso nel dolore sul letamaio (Gb 2,8). Giobbe lo conserva per tutto il resto della sua vita ormai prospera e felice. Questa nuova vita sembre­ rebbe non interessare più, essendo la cronaca di una lunga felicità. Invece Bacchelli tenta di scavare nella coscienza di questo Giobbe risorto. E scopre che essa ha nel suo interno lacerazioni ancora vive. Giobbe salvato ha la nostalgia dell'esperienza del colloquio tra lui e Dio, un colloquio genuino soprat­ tutto nel momento, ormai passato, della prova. Giobbe salvato non è un essere confermato in gra­ zia, insensibile al dolore, alla passione, alla tentazio­ ne, incapace di errore, ma è sempre un uomo reale e concreto. Attorno a lui riappaiono alcuni superstiti della prima vicenda come la moglie, il quarto interlo­ cutore Elihu ed altri personaggi di invenzione bacchelliana. Il secondo Giobbe sa vedere i loro dram­ mi precedenti in una luce diversa e distaccata. Qua­ le era lo stato d’animo della moglie quando nella sventura gli gridò: « Benedici Dio e muori »? È riuscita a pentirsi ed a ottenere il perdono? Elihu che da Dio non fu né confutato né approvato, ma semplicem ente ignorato, perché ebbe tale sorte? L'esperienza del dolore e del dialogo con Dio per­ m ette a Giobbe di essere ben diverso nei confronti della peccaminosità umana che ancora adesso si accumula attorno alla sua esistenza. In lui ormai si va delineando la fede nella paternità divina, egli si sta avviando verso il nuovo Testamento. Ma ciò non significa che egli sia un m istico sognatore. Ama i beni terreni duplicati con accresciuto sapore. Quan­ do nella sua curiosità si spinge verso paesi remoti, è soddisfatto di essere entrato nella leggenda. Ma in lui c'è sempre un'incrinatura. È la cognizione dell’ir­ rimediabile, dell'impossibilità della « ripresa » kierkegaardiana: « niente e nessuno può far sì che quello che è avvenuto una volta non sia avvenuto ».

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« Il perché di ciò che avviene nell'uomo appartiene a Dio e non all'uomo »: questa costatazione che durante la prova lo sconvolgeva e lo disperava, di­ venta ora sorgente di pace. Infatti Dio è amore e tutto ciò che opera lo fa per amore: « Dio ha d a t o . . . , Dio ha tolto, Dio ha decuplicato ». Ma a questo amore immenso e provvidenziale una cosa sola è impossibile, fare in modo che quello che è stato non .sia. Perciò il Giobbe risorto resterà sem ­ pre tentato dalla nostalgia e dal passato. *

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Friulano, sacerdote servita, notissim o scrittore e giornalista 14*, David Maria T u r o l d o , nato nel 1916, ha offerto anche una lunga ed intensa testim onianza poetica da Io non ho mani (1948) a La terra non sarà distrutta (1951), da Udii una voce e Lamenta­ zioni sulla città - Come una barca di canne (in cui è visibile l'eco di Gb 9,26), entrambe del 1952, alle Poesie del 1971, dalla raffinata resa dei Salmi (1973) alla raccolta II sesto angelo (1976). Ma a Giobbe Turoldo ha consacrato un intero volume, Da una casa di fango. Job (Brescia 1951), che vuole essere un commento libero ed attualizzato al testo biblico, presentato nella versione di P. Vaccari. Già dal titolo si può intuire la prospettiva di lettu­ ra: la vicenda di Giobbe è l'eterna storia di colui che « abita case di fango », come Èlifaz (Gb 4,19) definisce l'uomo. L'itinerario sim bolico di Giobbe lascia lo spazio aN’itinerario dell’esistenza di ogni uomo. Prima o poi l'esperienza umana, pur affasci­ nante e gioiosa, è aggredita dal dolore e dalla morte e, se già di per sé la vita trascende ogni potere dell'uomo, dolore e morte trascendono in una ma­ niera ancor più radicale e totale le capacità umane. È di fronte a questa frontiera che si pongono le parole di Giobbe sintetizzabili in tre asserti elem en­ tari: il dolore tocca la « pelle », cioè tutto l'esistere; la ragione da sola si arresta, im potente a fornire una ricetta risolutiva; l'esistenza ed il dolore si tra­ 148 Vedi Alla porta del bene e del male, Milano 1978.

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sformano allora in un appello all'identificazione di una giustificazione superiore. Su queste tre rivela­ zioni si svolge l'opera di Giobbe. Il dolore è un dato di fatto che si impone nella vita con forza tragica (cc. 1-2). È un dato che l'uomo tenta di decifrare. Per Turoldo i tre amici dei cc. 3-27 incarnano altrettanti ambiti diversi nei quali l'uomo escogita una soluzione: quello della ragione (Elifaz), quello della tradizione (Bildad) e quello della morale (Sofar). Essi sono l'emblema della sa­ pienza umana che, partendo da principi astratti, si illude di coartare la mutevolezza m isteriosa della vita. Ma astrazione ed esistenza corrono su binari paralleli, il dialogo è impossibile, la ragione è co­ stretta al silenzio. Il fallimento del tentativo razio­ nale spinge a rischiare un'altra carta, quella della religione. È Elihu, personaggio m isterioso e presente, secondo Turoldo, fin dall'inizio del dibattito anche se in silenzio, ad incarnare questo nuovo ambito (cc. 32-37). La voce della religione sussiste accanto al dialogo logico, ma non può essere percepita fin quando la logica ha qualcosa da dire. Il discorso religioso, però, non è « altro » dalla sapienza uma­ na, anzi si nutre di essa, solo è diversa l'accentua­ zione, la struttura. Alla luce della religione la vita da ipotesi da discuterò si trasforma in dono da accetta­ re. Con umiltà e con amore. Giobbe, diventato allora homo religiosus, rientra nella sua coscienza e là si accorge della voce di Dio. Ora egli non ha più bisogno di cercare altrove per­ ché Dio stesso gli viene incontro (cc. 38-41). Que­ st'ultimo incontro ristabilisce il senso delle propor­ zioni e dà alla realtà una nuova motivazione. Non tutti « risorgeranno » materialmente e socialm ente come Giobbe (c. 42), ma tutti « risorgeranno » esi­ stenzialmente nella speranza e nella fiducia. P hilippe N emo e B ernard-H enri L évy, due « nouveaux PHILOSOPHES » INTERROGANO GIOBBE

Non sorprende che tra i filosofi che si sono interes­ sati a Giobbe ed al suo messaggio cì sia un pensato­ re rigorosamente cattolico come Jacques M a r i t a i n .

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Nelle sue opere si trovano spesso dei veri e propri collages di passi desunti da Giobbe: si leggano, ad esempio, le pp. 466-467 di Les Degrés du s a v o ir 149 e si vedrà che Maritain allinea Gb 7,17-19; 10,8; 13,3; 31,31-36; 38,1-3 per celebrare lo splendore del dialogo m istico in cui 1‫ «׳‬inflessibile infinito » si curva « verso di me povero uomo . . . sigillando su di me la luce del suo viso ». Più sorprendente, invece, è il fatto che uno dei più brillanti « nouveaux philosophes », Ph. Nemo, nato nel 1949, autore di un fortunato H om m e structural (Paris 1975), abbia tentato un'originale rilettura di Giobbe, vedendolo come il libro sulle origini e sullo statuto del male e della sto r ia 1S0. Il suo non è un commento regolare e sistem atico ma una lettura diagonale dei cc. 3-27 e 29-31 in cui però (e l'A. lo nota con puntigliosa soddisfazione) ogni versetto è almeno citato una volta. Perciò, in questo tentativo di restituire un Giobbe « secondo l'ordine delle ra­ gioni » più che secondo l'ordine drammatico e lette­ rario, i 696 versetti dei capitoli in questione sono tutti allegati al dossier ideologico che Giobbe offre sull'« eccesso del male » IS1. L'opera prende lo spunto da una serie di trasm is­ sioni effettuate per France-Culture nel 1976, intitola­ te « Giobbe l'iconoclasta », che avevano visto come interlocutori Michel de Certeau, Olivier Clément, Georges Durand e Jean Lévèque. A questa base si so­ no aggiunti anche tre studi dell‫׳‬A., due pubblicati su « Tel Quel » ed un terzo nell'opera collettiva La confession de la foi 152. Che cosa dice Giobbe? Il contrario, secondo Nemo, di ciò che dicono da sempre i politici. Il contrario di ciò che credono i tecnocrati della sofferenza umana, impersonati dagli amici di Giobbe. E cioè: Giobbe rifiuta la concezio­ 149 Ed. Desclée, Bruges 19637. 150 Ph. Nemo, Job et l'excès du mal, Paris 1978. Per un giu­ dizio sull’opera di Nemo vedi G. Lafont, L'Excès du malheur et la reconnaissance de Dieu, in « Nouv. Rev. Théol. » 101, 1979, 724-739. isi Vedi le pp. 237-238. 152 Ph. N e m o , Job et le mal radicai I e II, in « Tel Quel » nn. 70 e 71-73; C. B r u a ir e éd.. La confession de la foi, Paris 1977.

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ne di un Male insito nell'ordine, obbediente ad una legge, capace di far senso col mondo, per cui è sempre possibile giustificarlo e santificarlo. Per Giobbe, invece, il Male è insensato, rigorosamente fuori della legge, è una frattura nell'ordine delle cose, è una radicalità oscura che rivela un aldilà del mondo. « Eccesso del Male », dunque, o più « lai­ camente », « eccesso del Tragico ». Ma il riconosci­ mento di questo «eccesso » diventa sovversivo, è lo scandalo di affermare la nullità di un mondo in cui si iscrive, come cifra di necessità, la « realtà » del Male. È per questo che il libro in pratica ignora i discorsi di Dio e la ritrattazione di Giobbe definita piuttosto sbrigativamente con le parole di E. Wiesel, « una confessione troppo totale e rapida per essere sincera, sim ile perciò a quella degli accusati dei grandi processi di Mosca » (p. 225). Ciò non toglie che, pur nella riduzione del testo di Giobbe, consi­ derato solo come la scoperta dell’Il-légal, dell'« Al­ tro » (p. 13), ci siano pagine felicissim e come nella descrizione della fenomenologia dell'angoscia di Giobbe o nella ricerca dell'« intenzionalità » della vicenda Giobbe (pp. 149-198). La conclusione resta, comunque, sostanzialmente tradizionale. « Ciò che di Dio è uguale alla Legge non è Dio, è uguale al mondo. Ciò che eccede il mondo è Dio, ed è: il male in quanto esso “ insiste ” al di là di tutto ciò di cui può prendere ragione il pensiero tecnico (la teologia) ; il bene in quanto è memoria d'una appartenenza originale, di cui il mondo non può rendere ragio­ n e ... Il male, Dio e l'uomo sono i dati di una stessa rivelazione, le “ ricadute ‫ ״‬d'uno stesso evento origi­ nale » (pp. 201 e 205).

*

*

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A Nemo possiamo accostare un altro notissim o nouveau philosophe, B e r n a r d - H e n r i L é v y , nato nel 1948,

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autore di un volume dal successo folgorante, La barbarie dal volto umano (Venezia 1977). Nella ri­ presa delle radici ebraiche della sua esperienza uma­ na e culturale Lévy ha catalizzato il suo pensiero at­ torno ad una curiosa anche se discutibile riproposi­ zione della Bibbia nell'opera II Testamento di Dio che ha suscitato polemiche aspre ed adesioni entusiastiche. « Il fatto che la Bibbia sia il libro della resi­ stenza del nostro tempo vuol dire che la principale contraddizione entro cui questa nostra epoca si an­ noda e si m ette in gioco è quella tra paganesimo e m onoteism o... Il monoteismo — afferma Lévy — è il pensiero di resistenza della nostra epoca perché propone una definizione del male, una dottrina del­ la giustizia, un'etica e una metafisica del tempo ». In questo recupero della Bibbia non poteva mancare, e non solo nell'ambito della discussione sull'« ordine del Male », la presenza di Giobbe 153. Egli viene letto piuttosto tradizionalmente come l'emblema del « de­ portato » e dell'ebreo che nella diaspora ha perso non solo la disponibilità del suo spazio ma anche quella del suo tempo 154. Ma c'è un’altra « lezione assai più vera data dal vecchio Giobbe che, al posto di un significante divino da cui certi « esseri per la morte » attendevano con calma il verdetto, vede una profondità invisibile e criptica, un insorgente assillo di orrore che si accanisce, mentre sono ancora vivi, a far crollare, a « demolire completam ente », a in­ vadere di « tenebre » e di « marciume » gli « inutili ripari che questi « esseri contro la morte » s'adopera­ no a innalzare lungo i « sentieri del tempo » (Gb 19, 8.10.20). Positività senza dio, negatività senza teologia, la mia morte non è tragica ma atroce: riferita a quel che l'ha preceduta, lo rende insensato e non ir­ rimediabile » lss. Naturalmente una tale lettura di Giobbe prescinde dallo sbocco finale proposto dal­ l'opera biblica.

153 B. - H. 264.

L év y ,

II Testamento di Dio, Milano 1979, pp. 245-

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G io b b e , u n u o m o p e r t u t t e l e s t a g io n i

Nella letteratura contemporanea Giobbe è entrato, direttamente o marginalmente come un sim bolo a più facce. La feroce ironia che egli sa sfoggiare anche nella tragedia156 l'ha reso antesignano del ge­ nere polemico. Così il Giobbe, serena concezione di Marco Balossardi (1882), opera di due radicali del1800' ‫׳‬, Olindo Guerrini e C. Ricci, è una parabola destinata ad illuminare l'inesauribile vena protesta­ ria dell'uomo nei confronti dell'ortodossia morale (Dio) e della palude culturale dell'intellighenzia in­ carnata dagli amici. La rielaborazione della storia di Giobbe si trasforma, allora, in una satira di costum e che lancia i suoi strali contro l'ambiente politi­ co-culturale italiano di fine Ottocento. Ironico sarà naturalmente anche il Giobbe del noto attore e re­ gista comico Woody Alien che, come indicheremo nella lettura del testo, beffeggia la narrazione del prologo e dell'epilogo di Giobbe. Giobbe, però, resta per la cultura del Novecento un appello alla scoperta tremenda ed affascinante del mistero di Dio. Per il Nobel del 1951, il romanziere e poeta svedese Par Fabian Lagerkvist (1891-1974), i versetti citati dal testo di Giobbe nelle opere a sfondo biblico e « pietista », come il famoso Barab­ ba™, la Morte di Assuero, la Terra Santa, Marianna, ci riportano al problema dell'inafferrabilità o del­ l'imperscrutabilità di un Dio che è buono e cattivo ad un tempo, che è luce e tenebre, senza senso e razionale. L'uomo non può conoscerlo, eppure non può astenersi dall'interrogarló. È la stessa vicenda, proposta però in chiave totalmente negativa, dell'Aspettando Godot (1953) di Samuel Beckett: per i due protagonisti, Wladimir ed Estragon, i due vaga­ bondi dell'esistenza, è irraggiungibile un Dio « fuori del tempo e dello spazio, dall’alto della sua divina apatia »158. 156 Vedi E. M. G ood, Irony in thè O.T., London 1965, pp. 196240. 157 L'opera è stata recentemente riproposta al pubblico ita­ liano (Reggio Emilia 1978). !58 S. B eckett , Teatro, Torino 19684, pp. 48-49.

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In questa luce torna in scena l'eterno problema del male. Già nell'Ottocento il Giobbe di Mario Rapisardi (1884-1912), riflettendo il pessim ism o cosm ico del suo autore, un poeta e docente universitario catanese, ripropone un po' retoricamente la questione. Il sapiente biblico diventa nella trilogia storica in cui è divisa l'opera il prototipo piuttosto tradizionale del­ le sventure umane, un vero e proprio concentrato di ogni tragedia e di ogni miseria. Così aveva inteso Giobbe anche A. Fogazzaro (1842-1911). Elena, un personaggio del Daniele Cortis, nella sua esistenza drammatica « traduceva il taedet animam meam vitae di Giobbe » 159. Paul Claudel, a cui dobbiamo anche un Livre de Job, commento un po' preziosistico e crepuscolare alla vicenda di Giobbe 160, scriveva: « Al problema terribile del dolore, il più antico dell'umanità, Giobbe ha dato una forma quasi ufficiale e liturgica e Dio solo, da lui interpellato direttamente e messo in causa, era in grado di rispondere, ma l'interrogativo era così enorme che solo il Verbo poteva risolverlo, non fornendo una spiegazione ma una presenza, secondo questa parola del Vangelo: Non sono venuto a spiegare, a dissipa­ re i dubbi con una spiegazione, ma ad adempiere, cioè a sostituire con la mia presenza il bisogno stesso di una spiegazione (cfr. Mt 5,17) » 161. Per questa via si può andare, però, anche verso le letture radicali del problema di Giobbe. William Hamilton, un esponente della teologia della morte di Dio, scriveva appunto: « Non sono le scienze positi­ ve a minacciare la fede in Dio, bensì l'insolubile problema del male » 162. In questa luce Giobbe diven­ ta quasi il compendio simbolico della cosiddetta Triimmerliteratur, la «letteratura delle m acerie» post-belliche, egli è il modello archetipo dell'homme >59 a. F og azzaro , Daniele Cortis, Milano 1951, p. 40. Vedi per una lettura originale della storia della letteratura come se­ greto e verità arcana decifrabile solo nella realtà ed in Dio, P. C i t a t i , I l velo nero, Milano 1979. >60 p . C laudel, Le livre de Job, Paris 1946. >61 P. C l a u d e l , Toi, qui es-tu? Paris 1936, pp. 112-113; cfr. J . S t e i n m a n n , Job, tém oin de la souffrance h um aine, Paris 1969. 162 The new essence of C h ristia n ity , New York 1961, pp. 44-45.

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révolté e contestatore dei nostri giorni 163. Un ante­ signano di questa protesta era stato il poeta inglese Herbert George Wells, nato nel Kent nel 1866 e morto a Londra nel 1946. Nella sua sterminata pro­ duzione, spesso a sfondo autobiografico, Wells aveva toccato quasi tutti i settori della ricerca umana. Giornalista, aveva scritto romanzi um oristici. Lau­ reatosi in scienze, aveva steso narrazioni a base scientifica. Politico, aveva affrontato problemi so­ cio-politici su una matrice sociale fabiana. Ma è nella poesia che egli si accosta a Giobbe. In The undying fìre (« Il fuoco immortale »), pubblicato a New York nel 1919, Giobbe diventa il testim one delle lacerazioni interiori dell’uomo che usciva dal­ l’esperienza traumatica della prima guerra mondiale. Ma è soprattutto nella cultura tedesca, attonita di fronte alla vergogna nazista, che il lamento giobbico acquista una forza dirompente. Abbiamo già citato il disperato dialogo di Draussen, vor der Tur di W. B orchert164: il dramma veniva rappresentato ad Amburgo per la prima volta nell'anno della pubbli­ cazione della Peste di Camus (1947) e l'A. era morto il giorno prima a soli 26 anni. Dalle macerie del campo nazista di Buchenwald emergono le spettrali e parallele pagine del romanziere tedesco Ernst Wiechert (1887-1950). Già ne La vita semplice (1939) egli aveva lanciato il suo atto d'accusa contro il « Dio muto, pieno d'indifferenza, il quale non ri­ sponde ». Ma è soprattutto dopo la tragedia finale che il suo processo a Dio acquista i toni più accesi di certe pagine di Giobbe a cui l'A. si riferisce. In Die Jerominkinder il pastore, im potente di fronte all’epidemia che investe il suo villaggio e m iete vit­ time innocenti tra i bambini, urla contro il Cristo crocifisso: « Vieni qua, assassino di bambini! Mo­ stra le tue mani sanguinanti, mostrale da vicino,

163 p .

Job révolté, Paris 1973. Cfr. anche H. LamDos Buch der Anfechtung, Stuttgart 19622 e M . F r ie d Problematic rebel. An image of m odem man, New York 1963. 164 Vedi p. 192. M id e l e t ,

pa r t e r , man,

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perché io possa asciugarle! Non ti bastano i primo­ geniti d'Egitto e gli innocenti di Betlemme? » 165. Alla Triimmerliteratur, che annovererà tra i suoi esponenti i massimi nomi della letteratura tedesca contemporanea, come H. Boll e G. Grass, appartiene anche Peter Weiss col suo celebre oratorio laico L’istruttoria del 1965 e col suo Come il Signor Mockim pott fu liberato dai suoi torm enti m, rielaborazio­ ne allegorica della storia di Giobbe, narrata sul tono di un Moritat, cioè di un cantastorie. Il risultato, ben diverso da quello del poema biblico, è totalmente negativo: non c'è Dio che si curi delle ingiustizie perpetrate sulla terra, l'uomo deve cavarsela da sé. Da questa battagliera reinterpretazione di Giobbe era altrettanto facile che il personaggio biblico di­ venisse simile ad una quercia sulla quale si è abbat­ tuto il fulmine dell'uragano ma che, inesorabile, continua a slanciarsi verso il cielo nella sua secchez­ za e nella sua solitudine. È significativa in questo senso una pagina del romanzo Gli dei torneranno di Carlo Sgorlon, autore udinese, nato nel 1930, molto legato alle radici della sua cultura friulana. Alla ricerca di queste radici ritorna anche il protagoni­ sta, Simone, dopo la lunga parentesi deH’emigrazione in America Latina. Ed in questo recupero è deci­ siva la figura di un vecchio solitario, Geremia. « Si recava ogni tanto dal vecchio. Gli pareva che andar­ lo a trovare fosse una specie di necessità, una tappa obbligata del suo percorso e del suo compito. Pen­ sava che chi scavava nel sottosuolo, dove il popolo seppelliva le sue memorie, doveva finire per imbat­ tersi anche nella storia del vecchio Giobbe friulano, con cui il diavolo aveva vinta la sua scomm essa. !65 Die Je ro m in k in d er , Miinchen 1954, p. 220, !66 Versione italiana nella rivista « Sipario »,- nn. 7/8, 1973. Accanto a Weiss si può collocare anche il discusso Vicario di Rolf Hochhuth (1963). Il quinto atto del dramma (noto so­ prattutto per le polemiche suscitate a livello storico-politico) è intitolato molto radicalmente « Auschwitz ovvero la que­ stione di Dio », un titolo emblematico per tutta la lettera­ tura tedesca post-nazista. *67 C. S g o r lo n , Gli dei torneranno, M il a n o 1977, p . 215. A l t r e o p e r e d i S g o r lo n s o n o il Trono di legno (1973), La regina di Saba (1975) e La carrozza di ram e (1979).

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Fece qualche tentativo per aprire uno spiraglio nel vecchio, per farlo uscire dalla sua disperata e selva­ tica solitudine, ma non ci riuscì » 167. Anche il Giobbe di Luigi Santucci, scrittore milanese nato nel 1918 e fortunato autore de II velocifero (1963), Orfeo in Paradiso (1967), Volete andarvene anche voi? (1969), Il mandragolo (1979), è una cele­ brazione dell‫ «׳‬eterno Adamo » nell'effimera e tragica realtà della sua « calpestazione ». In Poesia e preghie­ ra della Bibbia (Torino 1979) Santucci costruisce una succinta antologia delle parole dell'« uomo di molte bocche », Giobbe, sulla base della versione di G. Ce­ ronetti cercando di « scremare i temi di un poema che, come una sinfonia, appunto in temi sembra svolgersi: con ritorni e variazioni » (p. 55). L'azione del dramma di Giobbe è inesistente, mentre « onniviaggiante » è la sua parola. E la vera vittoria (o re­ surrezione) di Giobbe sarà in 42,7, nella giustificazione di Dio: « Questa squalifica al tartufismo degli amici dal cuore freddo e dalla melensa arroganza, questa paradossale riabilitazione del reprobo come colui che “ ha parlato con fondamento ”, sono l'autentico riscatto di Giobbe » (p. 66). Ma Giobbe resta costantemente l'emblema sociale dell'emarginato e dello sfruttato sulla cui schiena passano e s'appoggiano le potenze militari, econom i­ che e politiche. Ne L'ospite di Giobbe, opera di uno dei più noti scrittori della « primavera portoghese », José Cardoso Pines, nato nel 1925 168, Giobbe incarna i contadini portoghesi di Cimadas, costretti ad « ospitare » le manovre militari americane. Il romanzo si snoda su un'alternanza continua tra la penosa esistenza a cui è sacrificato il contadino (Giobbe) e la presenza fittizia ma violenta delle esercitazioni militari. In questa prospettiva piuttosto elementare che delinea Giobbe come l'uomo della solitudine e della sofferenza si muove anche il Giobbe, uomo solo dello scrittore milanese Giovanni Battista An­ gioletti (1896-1961), pubblicato nel 1955. « In questa libera rielaborazione del dettato della Scrittura, l’A. racconta la storia di un uomo del nostro tempo abbandonato e solo a lottare contro le forze della le a ltà , quasi toccato

da u n ’irrevocab ile

condan na

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che è anche una delle ragioni più vere e più attuali della sua esistenza terrena » 169. Più tardi questo problema riecheggerà in chiave più filosofica nella « lettura autobiografica » di Giobbe presente nelle pagine del Diario di un metafisico (Roma 1976) dello scrittore siciliano Fortunato Pasqualino. Nella letteratura contemporanea si assiste, però, an­ che alla ripresa di un'antica ermeneutica di Giobbe, quella inaugurata dalla lettera di Giacomo e divenu­ ta classica nella tradizione cristiana: Giobbe è il simbolo della rassegnazione. È ciò che sta alla base del confronto tra l'uomo-Giobbe e Dio nello scritto Giobbe parla con Dio del gesuita tedesco Peter Lippert, morto nel 1936 0‫״‬. Il libro riflette la spiritualità di questo maestro spirituale piuttosto esuberante e creativo: « Padre, Signore mio! Devo rivelare la tua bontà, accendere il tuo amore nel gelo del mondo, portare il tuo sorriso ed il tuo raggio nell'univèrso denso di tenebre » (p. 70). Sulla « Frankfurter Zeitung » (16-1-1935) K. Pfleger definì l'opera « un libro terribile, il libro deH'amore e dell’ira, il Canto del dolore ». In realtà lo scritto è molto più scontato ed in alcune parti persino banale. La fama dell’A., pri­ ma altissima, andò progressivamente spegnendosi e quest'opera, come altre, finì quasi dimenticata. Per certe affinità sotterranee dovremmo accostare il commento di A. von Speyr, figura m istica valorizzata soprattutto da U. von Balthasar171, o il volume Job le prédestiné di Emile Baumann (1868-1941) pubbli­ cato nel 1922. Baumann era stato uno dei rappresen­ tanti (non certo del livello di un Bernanos, di un

168 J.

C ardoso

Pines, L ’o sp ite di G iobbe, Milano 1963.

I, Fi­ renze 1973, p. 63. 170 L’opera Der M ensch Job redet m it G ott fu pubblicata a Miinchen nel 1934. Traduzione italiana: G iobbe parla con Dio, Roma 1964. 171 Von Speyr era nata in Svizzera nel 1902 e morirà nel 1967. A cura di von Balthasar fu pubblicato a Einsiedeln nel 1972 il suo Job. Lo stesso teologo ha preparato un saggio, forse eccessivamente encomiastico, sulla scrittrice spirituale, pubblicato anche in italiano con un’antologia degli scritti della stessa A., M istica oggettiva, Milano 1975. 169 D izionario della lettera tu ra italiana contem poranea

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Bloy o di un Mauriac) del romanzo francese d'ispi­ razione cattolica. Il nostro itinerario attraverso la « tradizione-Giobbe » potrebbe continuare anche in sentieri seconda­ ri, attraverso spunti o illuminazioni, attraverso ri­ ghe, brani o capitoli di opere diverse. Lasciamo aperto questo itinerario per le pagine che abbiamo ignorate e per quelle che appariranno nei prossimi decenni. Perché, come scriveva Claudel, Giobbe è sempre vivo in qualche regióne abbandonata dell'u­ manità o dello spirito. Abbandoniamo questo cam­ mino con le parole di un autore, Ferruccio Parazzoli, recentemente rivelatosi con II giro del mondo (1977) e con Le nozze (1978), due storie delicate e dolenti. « Non conosco altra forza che induca l'uomo a scri­ vere se non il dolore: il tentativo di esorcizzare il m a le . . . ». Tuttavia l'uomo non si dà per vinto: « L'uomo è la sola creatura che si rifiuti di essere ciò che è » ha scritto Camus ... Ha inventato l'utopia, il suo « essere altrove ». Ma talvolta una voce colma di dolore ci raggiunge attraverso i secoli, spoglia di ogni illusorietà, allora quell'uomo è presente a noi così com'era presente a se stesso, la sua staticità è dinamica, il rifiuto alla fuga lo ha reso eterno: è la voce di Giobbe che rifiuta ogni consolazione, l'osti­ nata negazione di ogni disegno utopico fosse pure quello religioso. Nella sua aderenza alla realtà, Giobbe rifiuta proprio quella consolazione che i suoi religiosi confutatori vorrebbero imporgli. « Non sa­ rò mai un homo religiosus » scriverà D. Bonhòffer alle soglie del patibolo nazista. « Se l'anima è orien­ tata verso l'amore — sono parole di Simone Weil — quanto più da vicino si contempla la necessità, quanto più strettamente la si tiene a sé, dura e fredda come metallo sulla pelle nuda, tanto più ci si avvicina alla bellezza del creato. È quel che prova Giobbe. Dio scese verso di lui e gli rivelò la bellezza del creato, proprio perché era stato così onesto nella sofferenza, perché aveva respinto ogni pensiero che potesse alterarne la verità » m . « E ora, anche se ti 172 F . P a r a z z o l i ,

Dall'utopia al silenzio,

59, 1976, n . 4, p p . 52-53.

in « V ita e P e n s ie ro »

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sarà di magro conforto nel momento presente delle tue tribolazioni, prendi le Scritture e rileggiti il libro di Giobbe » 173.

Giobbe e il teatro In un'intervista ad un quotidiano il regista bergamasco Ermanno Olmi, autore de II posto, I fidanzati e, recentemente, de L’albero degli zoccoli (Palma d'Oro al Festival di Cannes 1978) dichiarava tempo fa di avere in cantiere un film per la televisione dedicato a Giobbe su soggetto dello scrittore Fortunato Pasqualino. E aggiungeva: Giobbe è uno dei personaggi chiave della Bibbia, il più vicino all’uomo di tutti i tempi. È il grande interrogatore, colui che si rivolge a Dio con violenza per chiedergli dov’è, che risponda, dica perché tanti malvagi prosperano, tanti innocenti soffrono e pagano, tanti bambini muoiono. Giobbe è un uomo che non si accontenta più, che si rivolge a Dio con delle domande di sangue, che chiede gli stessi chiarimenti che inquietano il mondo religioso di oggi. È un uomo moderno che non ha né paura, né abitudini e che sente suo dovere discutere tutto. È l'uomo dell’anno zero, come noi 174.

L'idea del film, a quanto pare, dev'essere fallita. È stata ripresa ora dal noto regista tedesco Rainer W. Fassbinder nel film Berlin Alexanderplatz, tratto dall'omonimo romanzo di A. Doeblin. In esso, infatti, il protagonista Biberkopf si identifica con Giobbe e il suo interlocutore principale con Satana. Giobbe è restato, soprattutto per la sua struttura dialogica, un testo che ha sollecitato spesso riprese drammatiche. Come abbiamo già notato, fin dal iv sec. l'antiocheno Teodoro di Mopsuestia aveva pensato a Giobbe come a una tragedia greca, seguito mille anni dopo dall'umanista e biblista calvinista Teodoro Beza, mentre Milton giudicava l’opera un 173 A.

B u r g h ss,

174" c .

S t a ja n o ,

L’uomo di Nazareth, Milano 1978, p. 140. La Milano neocapitalista rivelata dai pubblicitari, in « Avvenire 19.1.1969 ‫מ‬, p. 9.

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poema epico-drammatico e, nel '900, Kallen ritorna­ va alla proposta di Teodoro, Rowley all'idea del parallelo con l'epica omerica e Whedbee all'idea d'una composizione a « commedia ». La blanda struttura teatrale, che anche il nostro commento cercherà di valorizzare, può spingere a qualche imitazione, rie­ laborazione o invenzione teatrale del testo di Giob­ be. Di queste riprese ne citiamo tre di qualità e finalità differenti, interessanti però per la loro capa­ cità di rivitalizzazione di un'opera antica. La prima pièce che presentiamo è J. B. A play in verse, un dramma in versi scritto nel 1956 da Archibald Me L e is h , poeta americano nato nel 1892, le cui Poesie raccolte 1917-1952 costituiscono l'opera mag­ giore. I due atti di J.B. (è il nome dell'eroe secondo la moda in vigore negli address economico-finanziari) furono rappresentati per la prima volta a Yale nel 1958 175 ed ottennero il premio Pulitzer per il teatro del 1959. Scrive l'A. nella prefazione al dramma: « Ho costruito un testo moderno nell'interno dell'antica maestà del libro di Giobbe come i Beduini, trent'anni fa, usavano costruire con le ro­ vine fortificate di Paimira le loro capanne coperte dalle lamiere dei contenitori di petrolio ». I due personaggi di sfondo, due attori ormai finiti, sono convinti di recitare la storia antica di Giobbe e di impersonare rispettivamente Dio e Satana. In realtà il protagonista della vicenda è un Giobbe moderno, appunto J.B., uno dei tanti businessmen americani della jet society che, avendo tutto, sono fermamente convinti di essere nel diritto di avere tutto, ivi compreso Dio schierato dalla loro parte. Ma ecco, improvviso ed ingiustificato, il tracollo; ecco il lamento sull'ingiustizia presente nell'universo; ecco la voce nella tempesta di Dio che, anziché risponde­ re, fa tacere il lamento e le domande in esso conte­ nute. Ed ecco, altrettanto improvviso ed inatteso, il ritorno alla vita. Ma ora si tratta di un J.B. diverso che accetta di vivere di nuovo nonostante tutto 175 Vedi l'edizione del testo presso Samuel French Inc., London-New York-Toronto con un’ampia introduzione dell’A. (pp. 6-10).

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quanto ormai conosce della vita e di se stesso, per­ ché ora egli ama la vita malgrado la vita stessa. J.B., come Giobbe, copre la bocca con le mani e ricomin­ cia da capo la sua vita. « . . . Ancora vìvere . . . Anco­ ra amare ». Di tono decisamente ironico con sferzate spesso sar­ castiche è il God's Favorite (« Il favorito di Dio ») di Neil S i m o n 176, rappresentato per la prima volta ril-121974‫ ־‬a New York. Simon è uno dei più brillan­ ti e popolari commediografi di Broadway dove, dal 1966, ha presentato i suoi testi più fam osi in cartel­ lone in tutto il mondo, da Sweet Charity ad Una strana coppia, dal Plaza Suite a Due passi nel parco, al Prigioniero della Seconda Avenue, spesso trascrit­ ti anche per il piccolo e grande schermo. Nell'autobiografico « Portrait of a writer as a schizophrenic », steso per un'antologia delle sue opere, Simon si è definito « una persona seduta in un angolo che osserva tutt j ». Al centro dei due atti dei God’s Favorite c'è la famiglia Benjamin di Long Island il cui capo è un altro prospero businessman, Joe. Su di essa si ab­ batte una tempesta di sventure in un crescendo umoristico: le emorroidi del protagonista e l'incen­ dio del lussuoso appartamento sono i due mali ul­ timi e maggiori. Gli amici ed i familiari circondano Joe con convenzionali preghiere ed esortazioni. finché Dio stesso compare in scena con la sua voce benedicente. Ma in realtà questa voce non è che un trucco di Sidney Lipton, uno strano individuo, per­ sonificazione del Satana biblico. Sarà ancora lui a chiudere la scena chiedendo: « Indovina: chi è as­ solutamente pazzo di te? ». Un dio demoniaco ed in pratica inesistente se non come giocatore follem ente impegnato a tormentare l'uomo, è, quindi, l’amara e sarcastica scoperta fatta al termine della storia da questo Giobbe americano. Agli antipodi dell'opera di Simon si pone, invece, un dramma ancora inedito di Paolo Tertulliano L o m b a r ­ d i , Azione drammatica per un giusto, già rappresen!76 N. Simon, God’s Favorite. A new comedy, Samuel In c., 1975.

F re n c h

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tato negli ultimi anni a Milano. Il testo nasce da un accostamento parallelistico tra il libro di Giobbe e la narrazione della passione di Cristo 177, introducen­ do così una fine rilettura cristologica della vicenda di Giobbe. Le parole messe in bocca ai protagonisti sono esclusivamente desunte dal testo biblico, m en­ tre la figura di Giobbe acquista, quasi in dissolven­ za, i tratti di quella di Gesù processato e torturato. L'inno alla sapienza del c. 28 è giustamente fatto recitare da un coro come meditazione d'intermezzo. « La scena a mano a mano si oscura, comincia a cadere la pioggia, si scatena una tempesta, finché il cielo si squarcia e l'azzurro annunzia il manifestarsi del Signore di cui si ode solo la voce ». Queste note di scena desunte dal copione introducono la « risur­ rezione » di Giobbe a cui si accompagna in finale la proclamazione da parte del coro del quarto Carme del Servo di Jahweh (Is 53). Giobbe nell’arte 4

Questa ricerca nel campo dell'iconografia cristiana vuole solo presentarsi come un contributo per iden* V e n t u r i A., Storia dell’arte W i l p e r t J., Roma sotterranea

italiana, M ilan o , 1901-1940. - Pitture catacombali (2 voli.)

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B ud de

Jahwes Entgegnung an Ijob. Eine Deutung von Ijob 38-41 vor dem Hintergrund der zeitgenossischen Bildkunst,

K e e l O .,

G ò ttin g e n 1978. 177 II s o tto tito lo , in fa tti, definisce l'o p e ra u n a « e la b o ra z io n e del lib ro b ib lic o di G iobbe e della P a ssio n e e v a n g elica ». P e r

Giobbe nell’arte

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tificare alcune strutture iconologiche fondamentali sotto le quali la figura di Giobbe è stata presentata ed interpretata. È noto, d'altronde, che l'arte pittori­ ca e plastica soprattutto nell'antichità cristiana si è sviluppata come una vera e propria erm eneutica del dato biblico 178. G io b b e

s im b o l o

d i r is u r r e z io n e

Il primo autore cristiano che cita Giobbe è, come abbiamo detto, Clemente Romano. Nella ·sua Lettera ai Corinti 26,3, riferendo Gb 19,26 secondo un testo difforme dai l x x , inizia quell'interpretazione « resurrezionistica » del passo che avrà nei secoli suc­ cessivi grande popolarità: « tu farai risorgere questa mia carne ». Nel contesto il vescovo di Roma appellava alla leggenda della Fenice che diverrà in seguito un simbolo classico della risurrezione. La tradizione patristica latina sarà poi accompagnata in questa interpretazione di Gb 19,26 da una costante prassi liturgica funeraria che ha la sua matrice nelì'Ordo commendationis animae m. Con questo sfondo letterario e catechetico la figura di Giobbe è ben presto divenuta anche nell’arte un segno di resurre­ zione. « Tenendo presenti i grandi patim enti coi quali Dio visitò Giobbe e dai quali poi lo liberò, la pietas cristiana vi vide figurata l'anima del defunto liberata da Dio dalle pene eterne » 1S0. Si tratta, quindi, non solo di una rilettura escatologica ma l'interpretazione « cristologica » di Giobbe vedi A. R.

K in g ,

The problem of evil. C hristian concepì and thè book of Job, New York 1952 e W. V i s c h e r , Job, un tém o in de Jésus C hrist, Genève 1959.

178 In appendice aggiungeremo anche un indice iconografico cronologico: non è certamente esaustivo ma vuole offrire alcuni dati per una eventuale rielaborazione probabilmente preziosa anche per la storia dell'esegesi di Giobbe. Le note presenti si basano anche su un'esercitazione da noi diretta nella Facoltà Teologica di Milano ed eseguita da S. Baroni. 179 Cfr. L. A. M u r a t o r i , Liturgia R om ana V etu s, Venetiis 1748, t. I, p. 751. H. Leclercq sottolinea il fatto che la lettera di Clemente è stata quasi certamente il trait d 'union tra il rituale giudaico e YOrdo co m m endationis anim ae (o.c., 435). 180 Cfr. J. W i l p e r t , R om a sotterranea cit., p. 351 e Josi, E n c i­ clopedia Cattolica VI, 414. Entrambi gli autori si riferiscono al De fide resurrectionis di Ambrogio.

2óG

Giobbe nell’arte

anche esistenziale. Il Buon Pastore, così tipico nelle raffigurazioni catacombali del in e iv sec., non la­ scia piombare nell'oscurità della m orte colui che durante la vita è stato fedele e giusto. L'anima del defunto alle soglie della morte, eleva la sua invoca­ zione come Giobbe al Dio redentore e liberatore. Perciò, nei grandi cicli catacombali dell'arte funera­ ria cristiana il simbolo giobbico è dominato dall'idea delia salvezza eterna ed il defunto credente è il centro ideale e spaziale attorno a cui ruota ogni interpretazione. È il caso degli affreschi del cimitero romano dei SS. Pietro e Marcellino (in sec.), delta volta del cubicolo in delle catacombe di Domitilla, del cubicolo ix dei SS. Pietro e Marcellino (iv sec.), è il caso anche del frontone della cripta di Susanna al Coemeterium majus di Roma. In questi cicli l'ap­ parente ripetizione di emblemi resurrezionistici (Mosè, Daniele, Lazzaro, Noè‫ ״‬Buon Pastore, Giobbe) non è tanto un'accumulazione retorica di simboli ad identica significazione quanto piuttosto il tentativo di tracciare l'intero piano di salvezza che Dio ha steso nei confronti dell'umanità. È in questa dinami­ ca generale che bisogna collocare anche la citazione della figura di Giobbe. Dal punto di vista formale essa appare come quella di un giovane vestito di una corta tunica, seduto in atteggiamento dolente e meditabondo. Sono assenti le piaghe ed il letamaio, i dettagli sono così esili da rendere incerta talora la stessa identificazione: « se si è riusciti ad identi­ ficarlo è stato solo grazie a certe similitudini coi sarcofagi del iv sec. in cui si nota la moglie di Giobbe che gli offre da mangiare con la punta d'un bastone » J8J. Il fatto che il grande sofferente sia rappresentato giovane potrebbe essere il segno del­ l'assimilazione alla figura del Cristo o della tipologia che l'autore aveva in mente a proposito dello stato paradisiaco. Tuttavia questa ed altre « trasmigra­ zioni di forme » (da Giobbe a Cristo o ad Apollo) devono essere ipotizzate con molta cautela. 181 H. L ec l er c q , o.c., 2556. La notazione del fetore del corpo presente nei sarcofagi ha un probabile riferimento non al te­ sto di Giobbe ma alla putrefazione del cadavere in essi contenuto.

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Il processo di esplicitazione totale in chiave resurrezionistica, superando la semplice allusività dei primi cicli catacombali, avverrà in seguito alla diffusione della Vulgata e continuerà fino al Medioevo. La let­ tura letterale « profetica » della resurrezione in Gb 19, confermata anche autorevolmente da Gregorio Magno (Ex verbìs Job resurrectio probatur, PL 75,1079), appare per la prima volta nell'epitaffio di Flaviano, vescovo di Vercelli, morto nel 555. Anche l'immagine del letamaio viene recuperata in questo processo di allegorizzazione come simbolo della fra­ gilità e della mortalità del corpo umano. Il riferi­ mento può essere quello di Gb 4,19 in cui gli uomini sono definiti « abitatori di case di argilla ». È ancora Gregorio che scrive: « Giobbe poneva il suo corpo nel letamaio perché anche attraverso il fetore del luogo comprendesse che il corpo deve presto ridursi al fetore » (PL 75,602). L'allegorizzazione resurrezionistica di Giobbe avrà il successo più duraturo nella liturgia fino ai nostri giorni. Nella liturgia ambro­ siana, ad esempio, le letture del Mattutino del­ l'Ufficio dei Defunti sono quasi una lectio continua di Giobbe 1«2. G io b b e ,

uomo

d ’a m m i r e v o l e

p a z ie n z a

Ad.mirand.ae patientiae vir è la definizione di Giobbe offerta dal Martirologio Romano sulla scia della let­ tera di Giacomo (5,11), espressione di una tradizione forse già viva nell’ambito giudaico e rabbinico (« Il testam ento di Giobbe » apocrifo). Anche Clemente Romano (Lettera ai Corinti 17,3-4) colloca Giobbe 182 Le otto letture sono rispettivamente desunte da Gb 7; 10; 10; 13; 14; 14; 17; 19. L'antifona doppia per il « Miserere » è mutuata da Gb 19: R e d e m p to r m eus v iv it et in no vissim o m e renovabit. R e n o v a b u n tu r denuo ossa m ea et in carne m ea videbo D o m in u m D eum .

« Il mio redentore è vivo e alla fine mi rinnoverà. Si rinnoveranno le mie ossa e nella mia carne vedrò il Signore Dio ». Il testo della liturgia funebre risale alla riforma di S. Carlo Borromeo. Vedi Ordo ad funera ducenda aliaque officia m o rtu is praestanda, Mediolani 1894.

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nella galleria dei santi esemplari per pazienza ed umiltà. Ancor più significativa è la testim oniam a del De Patientia di Tertulliano (PL 1,1250-1271) a cui si può allegare anche quella dello Pseudo-Origene (PG 17,575). La tipologia è, però, stranamente assente nell'arte paleocristiana se si esclude la testimonianza indiret­ ta di Paolino da Nola che nel Poema x x v n i, descri­ vendo gli affreschi della sua chiesa, pone anche la raffigurazione di Giobbe « vulneribus tem ptatus » (PL 61,663): accanto a Giobbe era dipinto — dice ancora Paolino — Tobit, un simbolo classico della pazienza. L’accento su questo aspetto di Giobbe fu riproposto vigorosamente nel iv sec. da Ambrogio nel De interpellatione Job et David dove la tipologia della pazienza si collega a quella della resurrezione attra­ verso il nesso della speranza. Giobbe è il « bonus athleta » che nello sforzo e nella tensione della sofferenza attende e merita il premio della risurre­ zione. « Atleta » era la definizione del martire e Gregorio dichiarerà esplicitamente che Giobbe è un martire « ante litteram » (PL 75,602). In questa linea nei sarcofagi della Gallia Giobbe appare come un atleta e, quindi, forse come un martire. La seconda orazione « post pedes lavatos » della Liturgia Mozarabica Vetus suona così: « Sia il loro animo pronto all’obbedienza, mansueto davanti alle cose umili, largo di misericordia. Se­ guano con la fede le gloriose vestigia di Abramo, imitino l’inespugnabile pazienza di Giobbe, appren­ dano l'imitabile misericordia di Tobia ». La triade Abramo-Giobbe-Tobia introduce probabil­ mente la triade delle virtù teologali fede-speranzacarità e Giobbe diventa il segno della speranza. Tuttavia questo filone, pur sottolineato a livello let­ terario, non ha avuto una grande espansione nell'iconografia successiva. E non perché esso fosse as­ sente nelle raffigurazioni di Giobbe, anzi fu molto popolare, ma solo funzionale ed in sim biosi con quello prevalente della risurrezione. La fede nella gloria del Cristo risorto e del fedele a lui unito

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trasformava la pazienza, virtù umana di Giobbe, in speranza, virtù escatologica e teologica.

G io b b e ,

im m a g in e

di

C r is t o

Job, fratres carissimi, Christi imaginem praeferebat: così S. Zeno di Verona nel iv sec. (PL 11,439-443) iniziava a tracciare il suo ritratto di Giobbe, visto come « prefigurazione », o « prototipo » del Cristo. Anzi Zeno traccia ben tredici parallelismi che avranno fortuna nell'iconografia dei cicli medievali 183. A Zeno di Verona si associano, sempre nel iv sec., Gerolamo (diximus typum Christi Job -ferre, PL 23,621) e Agostino che nelle sue Adnotationes in Job confronta Giobbe ed il Salvatore (PL 34, 826). Da dove sia nato questo modello ermeneutico è difficile dire, non sembra dai Greci. Forse le radici di questo modo di rapportarsi alla Scrittura sono da ricercarsi in un'evoluzione esegetica che tende a sottolineare la connessione tra i due T estam enti1S4. Ad aumentare la forza e l'autorità di questa interpretazione si ag­ giungerà Gregorio: « Il beato Giobbe col suo corpo suggerisce un “ tipo ‫ ״‬del Redentore »: PL 75,525). Giobbe, perciò, si allinea nella teoria di figure vete­ rotestamentarie lette in chiave « tipica », cioè di prefigurazione cristologica. Fra il Padre e Satana il 183 Ecco i tredici parallelismi zenoniani (lib. Il, tract. XV): Giobbe il giusto Mt 4,2 Giobbe il veritiero Gv 14,6 Giobbe il ricco Sai 22,1 Giobbe e la triplice tentazione Mt 4 Giobbe perde tutti i beni Cristo si fa povero Giobbe perde i figli Uccisione dei profeti Giobbe coperto di piaghe Incarnazione Giobbe spinto dalla moglie Cristo espulso dalla sina­ a peccare goga Giobbe schernito dagli amici Cristo deriso dai giudei Giobbe sul letamaio Cristo nel mondo Risurrezione Giobbe restaurato nei beni Apostoli Giobbe restaurato nei figli Cristo nella gloria eterna. Giobbe beato riposa nella pace 184 Cfr. H. De L u b a c , Esegesi medievale, Roma 1962, I, pp. 549-550.

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termine della contesa è ora Gesù, gli amici sono i Giudei. Anzi, la rilettura di Giobbe diventa persino ecclesiologica: « Cristo non è persona isolata, è an­ che il capo del Corpo che è la Chiesa, suo prolun­ gamento nel tempo e nello spazio. Anch’essa diviene a sua volta oggetto di contesa tra Dio e Satana. Gli amici sono gli eretici, i falsi cristiani, gli ipocriti », continua a scrivere Gregorio. Perciò, « quello che vale per Giobbe, per Cristo e per la Chiesa vale anche per il singolo cristiano »; c'è una sfida tra Dio e Satana sulla fedeltà e sulla salvezza di ciascuno. Nasce così l'interpretazione morale, ultima tappa di questa ermeneutica cristologica. Su questa base ideologica tutta l'iconografia sembra quasi congelarsi attorno ad un costante modulo figurativo. Sarà, infatti, il testo dei Moralia di‫ ־‬Gre­ gorio a dettare l'ispirazione che animerà il linguag­ gio iconico dal 500 al 1200, fino, cioè, alla dissoluzio­ ne della teologia monastica. L'attenzione alla tradi­ zione funeraria non si spegne, ma ormai l'interpre­ tazione di Giobbe è tutta assorbita nell'analogia con il Cristo sofferente. Dopo l'anno Mille appare anche Satana, visto come tentatore secondo un'ampia gamma di connotazioni: Giobbe che resiste a Satana e Cristo che replica al demonio diventano figure della vittoria del bene pa­ ziente sul male. In questa luce è da leggere anche la vetrata della Cattedrale di Chalons-sur-Marne del 1155 in cui Giobbe è ritratto mentre assiste alla cattura del Leviatan. Il mostro m itologico, come dimostreremo nell'esegesi di Giobbe e come è intui­ bile anche nella recezione del simbolo da parte del­ l'iconografia (vedi S. Pietro al Monte di Civate), è il simbolo dell'anti-creazione, del nulla, del male e, quindi, dell'Anticristo. Emerge in questa rilettura anche la figura della moglie di Giobbe. Essa è per eccellenza il senso carnale, cioè la sapienza della carne contrapposta a quella dello Spirito. Tutti i commentatori medievali si muovono in questa direzione, sottolineandola con un filo di misoginia. Già lo Pseudo-Gerolamo la ve­ deva come typum carnalìum in Ecclesia (PL 23,1468), ricalcato in questo da Ruperto di Deutz (PL

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265

168,974), mentre Tommaso d’Aquino la accostava ad Èva nella linea dei frammenti origeniani delle Catenae medievali, accostamento documentato dai vetri romanici di Neuss presso C olonia185. Ma l'influenza decisiva per l’interpretazione « carnale » e teologica della moglie di Giobbe è da attribuire all'Epitome moralium in Job di Odone di Cluny (PL 133). La sua esegesi, divenuta classica per la vastità della sua teoria ermeneutica (otto « sensi »!), era improntata anche ad una spiritualità monastica rigorista per cui la donna di Giobbe diventava senza esitazioni un parallelo di Satana e di tutti i carnali ancor presenti nella Chiesa. Anche il letamaio diventa segno dei pensieri e dei desideri illeciti. Se pensiamo che i cluniacensi furono committenti, ispiratori, esecutori di quei capitelli divenuti quasi la loro cifra stilistica, possiamo comprendere quale influsso ebbe nell’arte medievale e nelle miniature la tesi del fam oso abate Odone. Dalla metà del Duecento in avanti, sulla spinta della « Devotio Moderna » e dei fermenti francescani, l'i­ conografia privilegia il riferimento strettam ente cri­ stologico, cioè l’accostamento delle sofferenze di Giobbe al Christus patiens. Ed è nella Toscana, in cui Giunta da Pisa oppone il « Cristo sofferente » della Porziuncola al Crocifisso trionfatore bizantino, è nella Toscana, in cui uomini in saio predicano la « conformitate » al Cristo paziente, che fioriscono i grandi cicli a fresco con Giobbe di Taddeo Gaddi a Pisa e di Bartolomeo di Fredi nella Collegiata di S. Gimignano. La meditazione sul Cristo sofferente, a cui si assoceranno anche i rilievi dei portali delle cattedrali francesi, sembra assorbire la figura di Giob­ be. E tutto questo avviene sulla spinta dell’ondata francescana: « nelle cattedrali francesi del x m sec. la figura del Cristo cambia dove appare anche la figura del poverello di Assisi e la spiritualità da lui diffusa » 186. I parallelismi tra Giobbe ed il Cristo sofferente di­ 185 H. L ec lerc q , a.c., c o l. 2563. A n c h e il S a v o n a r o l a s v i­ l u p p a q u e s t o p a r a l l e l i s m o E v a - m o g li e d i G io b b e , m u t u a n ­ d o lo d a S . T o m m a s o . i** V a n D o r n i c , S . F rancesco, A s s is i 1976, p . 103.

266

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ventano di dettaglio. Così, ad esempio, nella Biblia pauperum la derisione della moglie di Giobbe è letta come la flagellazione di Gesù (« flagellatio linguae ») e Giobbe sul letamaio con le mani abbassate sembra evocare il Cristo percosso e umiliato 187. Così sarà anche per le xilografie e le rappresentazioni popolari del primo Rinascimento. Pensiamo agli stalli della cattedrale di Amiens o a quelli della cattedrale di Champeaux (1522) dove tutta la vicenda di Giobbe è in parallelo a quella di Gesù. Anche se con nuove e più complesse allegorie e con la tendenza ad una progressiva de-teologizzazione, l'interesse cristologi­ co sul tema « Giobbe » continua per tutto il Rina­ scimento, in particolare in quello veneziano. Sorge l'ospedale di S. Giobbe a Venezia, Bellini esegue due opere molto articolate di cui Giobbe è una compo­ nente non secondaria, Carpaccio finisce la sua « Meditazione sopra la Passione » dove Giobbe è tipologia del Cristo paziente. Vediamo in dettaglio questi fenomeni. Innanzitutto il Carpaccio (1455-1526), discepolo del Bellini ed autore della « Meditazione sopra la Pas­ sione », una complessa allegoria sulla « Morte-Re­ surrezione » 188. È curioso notare che sullo schienale del trono di pietra è scritto in caratteri ebraici la frase « Questo è il mio Redentore vivente », le cui lettere indicano il numero 19 relativo al capitolo del libro di Giobbe citato. Anche nel « Compianto sul Cristo morto » il pittore veneto ha evocato nella figura seduta dietro Gesù la rappresentazione del grande sofferente. Sul Carpaccio un influsso decisivo per questa interpretazione di Giobbe era stato eser­ citato senz'altro dai Sermones di S. Lorenzo Giu­ stiniani e dai Dialoghi sull’Amor di Dio del beato Paolo Giustiniani 189. Tuttavia negli stessi anni a Ve­ nezia si pubblicava un illustre comm ento a Giobbe, nato dal quaresimale tenuto a Firenze nel 1495 da fra Gerolamo da Volterra, domenicano 190. Ora, il 187 Vedi R. B u d d e , a.c., p. 414. 188 H a r t t , Carpaccio's m e d ita tio n on thè Passion, in « Art Bulletin 1940 ,22 ‫״‬. >89 C a n g o n i -P erocco , Carpaccio, Milano 1976, p. 49. 130 L 'e d i z i o n e

del

B a s c a rin i

di

V e n e z ia

(1545)

afferm a

di

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Savonarola in quelle prediche diceva esplicitam ente che Giobbe « rappresenta la persona di Christo e di tutti i martiri » 191, mentre l'intero libro era un am­ monimento divino alla penitenza rivolto ai « sapien­ ti di questo mondo ». L'iconografia veneta, piuttosto sofisticata ed intellettuale può aver rielaborato gli spunti offerti dai testi savonaroliani inglobandoli in un vasto sistema di allusioni figurative. Ma, prima del Carpaccio, il Bellini (1430-1506) aveva rappresentato Giobbe nella « Sacra allegoria » degli Uffizi (1490-1500), uno dei dipinti più affascinanti del Quattrocento italiano non solo per la sua qualità formale ma anche per il mistero del suo significato. Ad essa si deve associare la pala di S. Giobbe, la cui datazione varia tra il 1480 ed il 1500, che Bellini eseguì per la chiesa di S. Giobbe di Venezia. Dall'arte veneziana in avanti si apre una spaccatura nella iconografia giobbica: da un lato perdura una tradizione nobile, raffinata e persino preziosistica, dall'altro canto si sviluppa, anche grazie al progres­ so dell'incisione, una vigorosa e sanguigna produzio­ ne popolare, non priva di una sua grazia e di una gustosa spontaneità di contenuti e di linguaggio. È il caso della vetrata della chiesa di S. Patrizio a Rouen (xv sec.) ove viene riprodotta didascalicamente una scena del Mystère de Job con questa scritta: Satan réduit le boti Job en grande misère et sa femme en sa colóre insuite méchamment à sa sim plicité 192. Nasce in questa linea l'allusione um oristica ad un Giobbe martirizzato più dalla moglie linguacciuta che dalle piaghe di Satana. È il tema del robusto « Giobbe deriso dagli amici » della scuola di Bosch, rife rirs i a m a n o s c ritti ta c h ig r a f ia r e p e riti p r o p rio a V e­ n e z ia . D ’a l t r o n d e l a c o r n i m i t a v e n e z i a n a d i S . M a r c o e r a i n s t r e t t a r e l a z i o n e c o n q u e l l a d i F ir e n z e , ìsi Opere e d . n a z i o n a l e c i t . a c u r a d i R . R id o lf i, I I , 25, 69; c f r . I l i , 43, 11-15. .. , i*2 « S a t a n a r i d u c e i n g r a n m i s e r i a i l b u o n G io b b e e s u a m o g li e i n c o l l e r a i n s u l t a c r u d e l m e n t e l a s u a s e m p l i c i t à ».

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che si trova ora a Douai, e dell'anta della pala di Jabach (1505) in cui Diirer ha rappresentato la gio­ vane moglie di Giobbe che rovescia sul santo ve­ gliardo un mastello d'acqua. Da questo periodo in avanti l'iconografia di Giobbe viene progressivamente smitizzata e soprattutto spogliata dai riferimenti teologici. Come già abbia­ mo indicato, il diffondersi di una nuova e terribile malattia importata dalle Americhe assiem e all'oro indio farà parlare in Francia del mal de monsieur Job, mentre una notizia ferale in tedesco verrà chiamata H iobspost o Hiobsbotschaft. Giobbe diven­ ta il patrono di sifilitici e lebbrosi, a lui sono dedi­ cati ospedali e lazzaretti, come testim oniano gli ospizi di S. Giobbe costruiti a Venezia ed a Utre­ cht. È chiaro che questi « patronati » danno origine ad un'intensa attività figurativa dal gusto popolare­ sco, folkloristico e persino picaresco. Si pensi ad esempio che già dal 1612 i menestrelli ed i m usici di Bruxelles, basandosi su Gb 30,31 (« la mia cetra serve per i lamenti, il mio flauto per la voce di chi piange »), consideravano Giobbe quale loro patrono specifico 193. La loro corporazione incaricherà Rubens di preparare un polittico per la chiesa di S. Nicola. L'opera ebbe varie peripezie, fu smembrata nel 1695 con l'attacco di Bruxelles condotto dal maresciallo Villeroy ed una parte finì al Louvre. In quest'ulti­ mo frammento il modello iconologico per ritrar­ re Giobbe è quello del gruppo classico di Laocoonte: un demone sotto forma di serpente assale e avvinghia Giobbe nelle sue spire. G io b b e

e g l i a m ic i

e r e t ic i

Agostino nel suo commento al SI 72 (PL 37,1732) aveva cercato di tipizzare la figura di Giobbe fino a renderla una sintesi di tutta la categoria dei giusti. 193 I I p i ù a m p i o s t u d i o s u l t e m a è q u e l l o d i V . D e n is , S a in t Job patro n des m usiciens, i n « R e v . B e lg e d 'A r c h é o lo g ie e t d 'H i s t o i r e d e l 'A r t » 21, 1952, 253-298 ( c o n ic o n o g ra fic a e b ib lio g ra fic a ).

d o c u m e n ta z io n e

Giobbe nell'arte

269

Si sviluppava, così, una tendenza che in Gregorio avrebbe avuto una significativa espansione, la ten­ denza alla rilettura ecclesiale dell’opera e della figu­ ra del grande paziente veterotestamentario. Egli di­ venta non solo segno del « Sommo Giusto », Gesù Cristo, ma anche « tipo » dei giusti e dell'assemblea dei giusti che è la Chiesa. In questa prospettiva gli amici che si oppongono a Giobbe si trasformano in modelli di ingiustizia e di eresia, come suggerisce per primo lo Pseudo-Gerolamo (PL 23,1411). Si chiude così il cerchio dell’interpretazione ecclesiale di Giobbe: egli è il simbolo dei giusti, la moglie rap­ presenta, come si è detto, i « carnali », i sette figli sono l'emblema dei sette doni dello Spirito, gli amici incarnano l'eresia, mentre la restaurazione di Giob­ be diventa l’anticipazione del trionfo escatologico di Cristo e della Chiesa in aeternum regnantes (PL 75,256b). Le miniature sono una viva testimonianza di questo processo di reinterpretazione globale. Seguendo lo Pseudo-Gerolamo, Gregorio vede negli amici la figura degli eretici (PL 75,126), ma nel te­ sto di Gb 42,7-9 ne vede anche la resipiscenza e la conversione: « Nella riconciliazione degli amici di Giobbe è figurata la conversione degli eretici » (PL 75,226). Si fissa così un ulteriore stilem a del­ l’ermeneutica e dell’iconografia medievale. Infatti il dialogo con gli amici viene presentato come una disputatio, un vero e proprio dibattito teologico: Giobbe è seduto piuttosto solennem ente quasi fosse in cattedra, il letamaio è spesso sostituito da un seggio elegante e gli interlocutori o lo stesso Giobbe hanno una mano alzata in atteggiamento « retori­ co ». È la sapienza della fede e della Chiesa, è la coscienza cristiana che discute con nemici e ribelli demolendone le argomentazioni. In questa tipologia si muovono quasi tutte le miniature ed i bassorilievi dei sarcofagi. Su di essa sono centrati anche alcuni capitelli francesi e soprattutto gli affreschi di Tad­ deo Gaddi (xiv sec.), discepolo di Giotto, conservati al Camposanto di Pisa (1371), e di Bartolomeo di Fredi, presenti nella Collegiata di San Gimignano (1356). Dal Rinascimento in avanti, invece, si tenteranno

Giobbe nell'arte

270

‫׳‬nodulazioni dei tre personaggi sulla base dei loro abiti. Jean Forquet nel ciclo sulle « Opere degli antichi cavalieri » di Chantilly (1450) raffigura gli amici di Giobbe rispettivamente come un umanista, un prelato ed un arabo qualificandoli come simboli deH'Umanesimo, della Scolastica e dell'Averroismo. Ma essi non sono che la sapienza del mondo incapa­ ce di dire, di fronte al mistero del dolore e di Dio, « cose rette come il mio servo Giobbe » (42,8). I n d ic e

ic o n o g r a f ic o

In appendice vogliamo stendere questo indice desti­ nato a chi vuole avere una panoramica cronologica dettagliata dell'iconologia « giobbica ». Data la difficoltà di censimento nell'ambito dell'arte del No­ vecento, ci arrestiamo alla documentazione specifica ottocentesca senza per questo pretendere di essere esaurienti. Giobbe, d'altra parte, ha interessato an­ che l'arte contemporanea. Per fare un paio d'esempi, citiamo la litografia « Apostasia di Giobbe » di P. Rossetti (Milano 1977) o il finissimo « Giobbe » di M. Chagall (1975): « i bianchi e gli azzurri si fondo­ no in una sinfonia delicata dove il rosso vivace di una tonaca e gli altri colori si armonizzano perfet­ tamente, dando al fruitore un godimento di alto valore » 194. Ecco invece il catalogo dell'iconografia di Giobbe precedente al '900.

m

G. A n d ris a n i, M o tiv i

r e lig io s i

n e lla

p ittu r a

in « L'Osservatore Romano », 13-1-1979.



C h a g a ll,

DATA

1

Giobbe sul letamaio (affresco)

2

Giobbe tormentato dalla moglie (affresco)

III sec.

3

Giobbe (volta d'arcosolio)

I li sec.

4

Giobbe (affresco - cubicolo 33)

I li sec.

5

Giobbe (distrutto)

I li sec.

6

Giobbe (volta del cubicolo IX)

IV sec.

7

Giobbe (frontone d’arcosolio)

IV sec.

8

Giobbe (volta arcosolio dei Magi)

IV sec.

9

IV sec.

11

Giobbe (parete sinistra - XII arcosolio dei Magi) Giobbe e la moglie (cassetta di sarcofago, vetro dorato) Giobbe (laterale di sarcofago)

12

Giobbe e amici (?), sarcofago

13

Giobbe (sarcofago)

14

Giobbe sul letamaio (sarcofago di Junius Bassus)

10

240

epoca romana epoca romana epoca romana epoca romana IV sec.

LOCALITÀ Sinagoga di Dura Europos Cimitero dei SS. Pietro e Marcellino Roma Catac. di Domitilla Roma Cimitero dei SS. Pietro e Marcellino Roma Ipogeo della Via Appia - Roma SS. Pietro e Marcellino - Roma Cripta di Susanna ‫־‬ Coemeterium majus - Roma Coemeterium màjus Roma Coemeterium majus ‫־‬ Roma Colonia

Giobbe nell'arte

SOGGETTO

Brescia Museo Archeologico Lione Museo Pio Lateranense - Roma Grotte Vaticane

NJ

V

AUTORE

SOGGETTO

DATA

LOCALITÀ M u se i V a tic a n i

G io b b e ( s a r c o f a g o )

epoca ro m a n a V sec.

16



17



18



19 20

— —

G io b b e ( f r o n t o n e d 'a r c o s o l i o - C a p p e l l a d e i sei s a n ti) G io b b e e l e f ig lie (? ) - d i s e g n o a p e n n a I B 18 f . 4 v e r s o G io b b e ( d i s e g n o a p e n n a i n m a n o s c r i t t o s i r i a c o 436 f . 46 r e t r o ) C ic lo d i G i o b b e ( d a l l a « C a t e n a ») C ic lo d i G io b b e ( O m e l i a r i o d i G r e g o r i o d i

21 22

— —

23



24 25 26

— — *‫־‬ —

27



28



29



C ic lo d i G io b b e ( d a l l a « C a t e n a ») P r o s p e r i t à d i G io b b e ( m i n i a t u r a d e l l a B i b ­ b ia d i F a r fa ) G io b b e a s s i s t e a l l a c a t t u r a d i L e v i a t a n ( V e t r a t a d e l la C r o c if is s io n e ) G io b b e s u l l e t a m a i o ( c a p i t e l l o ) C ic lo d i G io b b e ( i n « M o r a l i a i n J o b » d i G r e g o r i o M .) G io b b e s u l l e t a m a i o (« M o r a l i a i n J o b » d e l l 'a b b a z i a d i M a r c h ie n n e s ) C ic lo d i G io b b e ( « M o r a l i a i n J o b » m s . 122 f o l. 5) G io b b e m a r t i r i z z a t o d a l d e m o n e ( B i b b i a d i S o u v ig n y ) G io b b e s u l l e t a m a i o ( B i b b i a d i A d m o n t)

30



C ic lo d i G i o b b e ( c a p i t e l l o a q u a t t r o f a c c e )

X II se c .

31



C ic lo d i G io b b e ( c a p i t e l l o a m e d a g l i o n i d a l C h io s tro d i D a u ra d e )

X II sec.

V II-V III

sec.

V II-V III

sec.

V I sec. IX s e c .

d Z la U Z O J

905 X I sec. 1155

C a ta c o m b e d i D o m itilla ‫ ־‬R o m a B ib lio te c a N a z io n a le - N a p o li B i b l. N a t i o n a l e P a rig i S in a i (m s . n . 3) B i b l. N a t i o n a l e P a rig i V e n e z ia ( m s . n . 538) B ib lio te c a V a tic a n a

X II se c .

C a tte d ra le d i C h a lo n s -s u r-M a m e S . A n d r e a - V ie n n e B i b l. N a t i o n a l e P a rig i B i b l. d i D o u a i

X II se c .

B i b l. d i S a i n t - O m e r

X II se c .

M u s e o d i M o u li n s

1130-1150

S ta a ts b ib lio th e k V ie n n a C h io s tr o d e lla C a tte d ra le d i P a m p lo n a M u sé e d e s A u g u s tin s T o lo s a

1152 X II se c .

n e l l 'a r t e



G iobbe

15

— Ciclo

XIII sec.

Ciclo di Giobbe (quadrifoglio di basamen­ to del portale delle Calende) — Giobbe sul letamaio (bassorilievo del Por­ tai du Jugement) — Ciclo di Giobbe (timpano del portale di S. Sisto) F r e d i Ciclo di Giobbe (affreschi)

XIII sec.

Cattedrale di Chartres Cattedrale di Rouen

33

XIII sec.

Notre Dame - Parigi

XIII sec.

Cattedrale di Reims

1356

Collegiata di San Gimignano British Museum Londra Camposanto di Pisa Chantilly



34 35 36 B a r t o l o m e o d i

di Giobbe (affreschi da St. Etienne ‫־‬ — Ciclo Westminster)

37

Ciclo di Giobbe (affreschi) Giobbe sul letamaio (« Opere di antichi cavalieri ») Sacra Allegoria Sacra Conversazione Ciclo di Giobbe

38 T a d d e o G a d d i 39 J e a n F o r q u e t 40 G io v a n n i B e lli n i 41 G io v a n n i B e lli n i 42 M a e s tr o d e l l a L eggenda d i B a rb a ra

S.

43 44 45 C a r p a c c io 46 C a r p a c c io 47 A. D iir e r

— —

Ciclo di Giobbe (cofanetto d'avorio) Ciclo di Giobbe (vetrata) Meditazione sulla Passione Compianto sul Cristo morto Giobbe e moglie (anta della pala di Jabach)

1356 1371 1450 1490-1500 1495-1500 XV sec.

Uffìzi ‫ ־‬Firenze Uffìzi - Firenze Museo di Colonia

XV sec. 1500 1500 1500 1505

Museo di Cluny Cattedrale di Troyes Boston Berlino Staedelsches Kunstinstitut Francoforte Museo di Bruxelles

48 Bernard van Orley 49 —

Ciclo di Giobbe (trittico)

1521

Ciclo di Giobbe (stalli)

1522

50 Simon de Colines

Giobbe sul letamaio (incisione in « Petites Heures ») Le prove di Giobbe

1543

51 Peter Hugo o Jan Mandyn

XVI sec.

Collegiata di Champeaux — Museo di Douai

Giobbe nell'arte

di Giobbe (timpano del portale Nord)

32

AUTORE

SOGGETTO

DATA

Giobbe sul letamaio (tavola del convento della Trinità) Ciclo di Giobbe (stalli) Ciclo di Giobbe (vetrata) Giobbe deriso dagli amici

XVI sec.

Museo di Douai

XVI sec. XVI sec. XVI sec.

Cattedrale di Amiens S. Andrea di Rouen Museo di Douai

XVI sec.

57 Rubens

Sciagura di Giobbe (ancona in legno scol­ pito) Ciclo di Giobbe (Pala e portelli Confra­ ternita Musicisti)

58 J. Livens 59 J. Bendt

Giobbe tormentato dalla moglie Giobbe deriso dagli amici

Schonbroeck (Belgio) S. Nicola di Bruxelles (distrutta)

60 J. Callot

XVII sec.

61 J. Ribera 62 J. K. Loth 63 II Calabrese

Giobbe sul letamaio («Vite dei santi») Giobbe sul letamaio Giobbe deriso dagli amici Giobbe deriso dagli amici

64 Luca Giordano

Giobbe sul letamaio

XVII sec.

65 George de la Tour 66 Lattanzio Querena 67 A. Decamps

Giobbe tormentato dalla moglie Giobbe sul letamaio

XVII sec. XVIII sec.

Giobbe deriso dagli amici

XIX sec.

68 William Blake

Ciclo di Giobbe (tre acquarelli preparatori d’incisione) Giobbe sul letamaio

1820-1823

52 Peter Hugo (Huys) 53 — 54 . — 55 J. Bosch (scuola) 56 —

69 Léon Bonnat

1612 1613 1641

XVII sec. XVII sec. XVII sec.

XIX sec.

LOCALITÀ

---

Ospedale di San Giobbe - Utrecht — Pinacoteca di Parma Galleria di Dresda Pinacoteca di Anversa Sagrestia de l 'Escoriai Museo d’Epinal Chiesa di San Giobbe - Venezia Institute of Arts Minneapolis — Museo del Lussemburgo Parigi

IL PROLOGO

(cc. 1-2)

Capitoli 1-2

277

... S a t a n a h a p o t u t o d i r e a D io : « V ita p e r v ita , l 'u o m o s i r a s s e g n a a p e r d e r e , t u t t o p u r d i s a l v a r e l a p e l le . T o c c a il t u o s e r v o n e l s u o s t e s s o c o r p o e v e d r a i c o m e t i b e n e d i r à ». I n e f f e t t i , c h e t u t t e l e c o s e c i s f u g ­ g a n o è a n c o ra p o c o , p e rc h é p o s s ia m o p u r s e m p re im ­ m a g i n a r c i c h e p o t r a n n o r i t o r n a r e . C iò c h e è v e r a m e n t e t e r r i b i l e , p e r n o i, è i l d o v e r s f u g g i r e a l l e c o s e p e r u n a in te r io r e e in e s o ra b ile e s te n u a z io n e d e l n o s tr o e s s e re .

T eilhard de C hardin

1 C’era una volta nel paese di Uz un uomo di nome Giobbe. Era una persona perfetta e retta, amava Dio ed era nemico del male. 2 Sette figli e tre figlie aveva generato, 3 settemila pecore, tremila cammelli, cinque­ cento paia di buoi, cinquecento asine erano in suo possesso e numerosa era la sua servi­ tù. Questo personaggio era il più prestigioso di tutti i figli dell’Oriente. *Ora, i suoi figli si recavano a turno a ban­ chettare nelle residenze di ciascuno e man­ davano inviti anche alle tre sorelle perché pranzassero con loro. 5 Concluso un ciclo di visite e banchetti, Giobbe li convocava per purificarli. Levatosi all'alba, immolava un olocausto per ognuno di loro. Giobbe, infatti, ragionava: « Forse i miei figli hanno peccato e hanno m aledetto Dio nel segreto della loro coscienza ». Così faceva Giobbe ogni volta. 6 Un giorno i Figli di Dio si presentarono in udienza da Jahweh. Tra loro c’era anche il satana. 7Domandò Jahweh al satana: « Da dove vieni? ». Gli rispose:

Capitoli 1-2

« Da un giro d'ispezione sulla terra ». 8 Continuò Jahweh: « Hai notato il mio servo Giobbe? Sulla faccia della terra nessuno è come lui, persona perfetta e retta, fedele a Dio e nemico del male ». 9 II satana replicò: « Forse che per nulla Giobbe crede in Dio? 10 Non hai forse circondato con un baluar­ do protettivo lui, la sua casa, i suoi pos­ sedimenti? Non hai benedetto le sue imprese? Il paese pullula dei suoi armenti. 11 Prova un po' a stendere la mano e a danneggiare i suoi possedimenti: scom m et­ to che ti scaglierà in faccia maledizioni! ». 12 Disse allora Jahweh al satana: « Bene! Metto nelle tue mani tutto ciò che egli possiede. Però lui non me lo devi toccare! ». E il satana si ritirò dalla presenza di Jahweh. 13 Un giorno i figli e le figlie di Giobbe stavano mangiando e bevendo nella residenza del fra­ tello maggiore. 14 Ed ecco irrompere da Giobbe un messagge­ ro: « I buoi aravano, accanto ad essi pascola­ vano le asine. 15Ma all’improvviso sono piom bati i Sabei, hanno razziato tutto ed hanno massacrato i guardiani. Solo io sono scampato e così ti comunico la notizia ». 16Non aveva finito di parlare quand'ecco pre­ cipitarsi un altro a dire: « Un fulmine è piom bato dal cielo, si è propagato tra le greggi e i pastori e li ha arsi vivi. Solo io sono scampato e così ti comunico la notizia ».

Capitoli 1-2

279

17Non aveva finito di parlare quand’ecco pre­ cipitarsi un altro a dire: « I Caldei si sono organizzati in tre ban­ de, sono piombati sui cammelli, li hanno razziati ed hanno massacrato i guardiani. Solo io sono scampato e così ti comunico la notizia ». 18 Non aveva finito di parlare quand’ecco pre­ cipitarsi un altro a dire: « I tuoi figli e le tue figlie stavano man­ giando e bevendo nella residenza del fra­ tello maggiore. 19 All’improvviso un uragano, scatenatosi da oltre il deserto, ha investito i quattro an­ goli della casa. Essa si è sfasciata rovi­ nando su questi giovani e li ha uccisi. Solo io sono scampato e così ti comunico la notizia ». 20 Giobbe si levò. Si lacerò il manto. Si rase la capigliatura. Piombò a terra e, prostrato, 21 gridò: « Nudo dal grembo di mia madre uscii, nudo ad esso ritornerò. Jahweh ha dato, Jahweh ha strappato. Benedetto sia il nome di Jahweh! ». 22 In tutta questa vicenda Giobbe non peccò né mai lanciò attacchi contro Dio.

2 1 Un giorno i Figli di Dio si presentarono in udienza da Jahweh. Tra loro c ’era anche il satana. 2 Domandò Jahweh al satana: « Da dove vieni? ». Gli rispose: « Da un giro d ’ispezione sulla terra ». 3 Continuò Jahweh: « Hai notato il mio servo Giobbe?

Capitoli 1-2

Sulla faccia della terra nessuno è come lui, persona perfetta e retta, fedele a Dio e nemico del male. Tu m i hai incitato contro di lui per liqui­ darlo. Ma senza risultato: egli, infatti, persiste nella sua perfezione ». 4 Replicò il satana: « Pelle per pelle! Per salvarsi la vita l’uomo è pronto a mollare tutto. 5 Perciò, prova un po' a stendere la tua mano e a colpirlo nelle ossa e nella carne: scom m etto che ti scaglierà in faccia male­ dizioni! ». 6Jahweh allora disse al satana: « Ecco, te lo m etto nelle mani. Però la sua vita non me la devi toccare! ». 1Il satana si ritirò dalla presenza di Jahweh. Colpì Giobbe con un’infezione maligna che lo avvolse dalla pianta dei piedi fino al cranio. 8 Giobbe afferrò un coccio per grattarsi e si sedette in mezzo all’immondizia. 9 Sua moglie gli gridò: « Continui a persistere nella tua integri­ tà? Maledici Dio e crepa! ». 10£ Giobbe a lei: « Parli come una folle. Se da Dio accettiamo i beni, perché non dobbiamo accettare i mali? ». Anche in tutta questa vicenda Giobbe non peccò con le sue labbra. 11Tre amici appresero la notizia della tragedia piom bata su Giobbe. Si misero, allora, in viaggio dai loro rispettivi paesi: erano Elifaz di Teman, Bildad di Shuah e Zofar di Naamà. Si riunirono per compatire la sua pena e p er confortarlo. 12Da lontano lo intravidero ma non lo rico­ noscevano. Scoppiarono allora in pianto e in grida, si

Capitoli 1-2

281

squarciarono i mantelli e lanciarono polvere sul loro capo e al cielo. 13 Poi, per sette giorni e sette n otti rimasero seduti accanto a lui per terra. Nessuno di loro osava rivolgere a Giobbe una parola ve­ dendo l'atrocità della sua sofferenza.

« Sta per cominciare il dramma. Nel teatro si fa silenzio. II telone però non si apre. Esce fuori un presentatore e, a tela chiusa, legge il prologo. Presenta all'uditorio, nel nostro caso al lettore, il problema che sarà svolto e approfondito nel dram­ ma imminente, il problema concreto della vita di un uomo e del suo destino » 1. Questo quadro introdutto­ rio, composto da 45 versetti, offre in sei scene es­ senziali stese in un linguaggio conciso tutti i dati attorno ai quali si snoderà il dramma. Con l’epilogo, racchiuso in 42,7-17, il prologo costituisce lo strato più antico del volume. È quasi il terreno dal quale è germogliato l’albero gigantesco e ramificato del ca­ polavoro di Giobbe. Questo racconto popolare in prosa voleva essere « un’affermazione un po' inge­ nua della credenza secondo la quale la sofferenza immeritata è una prova di virtù im posta dalla divi­ nità; il superamento della prova è premiato con un compenso che consiste nel doppio di ciò che si possedeva in precedenza (epilogo ») 2. Il nucleo te­ matico centrale della cornice narrativa arcaica non è, perciò, di per sé il problema del male, ma una questione di ortoprassi, l'analisi del comportam ento del giusto nella prova di fede. La fede, infatti, nel dolore sperimenta la sua agonia più lacerante. Il 1 C . M e s t e r s , Dio dove sei?, B r e s c i a 1972, p . 129. A l p r o l o g o so n o s ta ti d e d ic a ti d a s e m p re sp a z i a m p lis s im i s ia n e i c o m ­ m e n t i s i a i n m o n o g r a f ie . L o s t u d i o s p e c if ic o p i ù c o m p l e t o e r ia s s u n tiv o è, p u r tr o p p o , in e b ra ic o m o d e r n o : M . w e is s , Job 1-2, J e r u s a l e m 1969. V e d i a n c h e J . J . O w e n s T he prologue and thè epilogue, i n A A .V V ., The Book of Job, L o u is v il le 1971, p p . 457-467. 2 J . L . M e K e n z ie , Teologia dell'A.T., B r e s c i a 1978, p . 170. C f r . G . von R ad, Teologia dell'A.T., I , B r e s c i a 1972, p . 460.

282

Capitoli 1-2

poema sorto da questa base trasformerà il quesito in una ricerca non più etica, ma squisitam ente teo­ logica: l'ortoprassi nella prova diverrà la via per cogliere l'ortodossia della fede. Tuttavia se si dovesse sottoporre ad un'analisi di Redaktionsgeschichte questo racconto-quadro, esso rivelerebbe una stratificazione ulteriore e piuttosto complessa e una fattura letteraria non uniforme né totalmente omogenea. Tre sono i punti nei quali la radiografia letteraria rivela una perturbazione del testo e, quindi, una probabile operazione redaziona­ le. Innanzitutto, secondo alcuni esegeti, l'inserzione di quelli che con terminologia tedesca si usano chia­ mare i Satanstucke, cioè i due passi (1,6-12; 2 ,l7 ‫־‬a) in cui è in scena la figura del satana. Si può anche intuire la finalità di questa ipotetica inserzione: il lettore jahvista, ansioso per l'attribuzione a Jahweh di una causalità diretta nella tentazione, ha cer­ cato di dirottare la responsabilità sul satana. Lo stesso scrupolo teologico è condiviso, come è no­ to, dal Cronista che, diversamente dallo storico deuteronomista (2 Sm 24,1), si premura di attri­ buire a satana la tentazione di Davide per l'in­ dizione del censimento (1 Cr 21,1) 3. Il secondo in­ tervento operato sul testo arcaico del prologo è quello dell'introduzione di un altro personaggio ne­ 3 II p ro b le m a teo lo g ico e r a s e n tito a n c o ra n ei p rim i se c o li del C ristia n e sim o , p u r co n il rip ieg o d e ll‫׳‬in s e rz io n e del p e rso n a g g io « s a ta n ic o ». N ella Vita Àntonii si legge: « Se q u a lc u n o , ric o rd a n d o ciò ch e c a p itò a G iobbe, d icesse: « P e r­ ch é m ai a llo ra , il diavolo a n d a n d o via fece t u t to q u e llo ch e av ev a p e n s a to c o n tro G iobbe, gli to lse og n i av e re , p o i u ccise i figli e lo p e rc o sse co n u n a g rav e f e rita ? » , a n c o ra u n a v o lta deve s a p e re c h e n o n e ra la fo rz a del d iav o lo — il q u a le n o n e ra p o te n te — m a Dio ch e c o n se g n ò G iobbe a lu i p e rc h é lo t e n t a s s e ... E p e rc h é ci d o b b ia m o m e ra v ig lia re se n o n riu s c ì a n u lla c o n tro G iobbe q u a n d o n o n a v re b b e f a tto n u lla n e m m e n o c o n tro il su o b e s tia m e se il S ig n o re n o n glielo av e sse p e rm e s s o ? » (Vita Antonii, ed. G. J. M. B a rte lin k , 29, 1.4; tr . P. C ita ti e S. L illa, M ilano 1974, p. 67). È c o m u n q u e m o lto a le a to rio in q u e s ta id en tificaz io n e degli s t r a t i ip o tiz z a re l'e s is te n z a d i p iù d o c u m e n ti o tra d iz io n i. L 'ip o te s i p iù n o ta in q u e s to sen so è q u ella di J. L in d b lo m ch e p a r la di u n a « s to ria e d o m ita » a n c o ra iso lab ile in 1,1:5.13-22; 2,11-13, su c ­ ce ssiv a m e n te « isra e liz z a ta » (La com position du livre de Job, L u n d 1945, p p . 10.12.20-25).

1,1-5

283

gativo, la moglie di Giobbe, descritta con la tradi­ zionale misoginia sapienziale e popolare (2,9-10). La sua presenza è così fragile da sparire nell'epilogo, che pure rimette in scena tutti gli altri attori del prologo. Due pallidi cenni del dialogo (19,17; 31,10) sono tutto ciò che resta di lei dopo il prologo. Già i LXX erano riusciti dopo 2,9 a m etterle in bocca una lunga tirata contro il marito, mentre il m id ra l giu­ daico intitolato Testamento di Giobbe (i sec. a.C.) riesce anche a darle un nome, Sitis. Un'ultima operazione condotta sul prologo introdus­ se i personaggi indispensabili per la recita del dialo­ go successivo, i tre amici (2,11-13). Pur con una sutura piuttosto abile (2,11), il piccolo brano a loro dedicato rivela una mano diversa, più impacciata nello scrivere (ripete per tre volte il verbo « veni­ re », come nell'epilogo ripeterà quattro volte il nome di Jahweh e l'espressione « il mio servo Giobbe »). Siamo quindi in presenza di *un testo che ha subito interventi, che è stato affinato o espanso, che non è frutto solo di una leggenda arcaica e na'ive, ma anche di una edizione finale abbastanza rigoro­ sa. Dalla periferia entriamo ora nel cuore del testo così come oggi ci si presenta strutturato in sei scene stese imitando le narrazioni patriarcali (benedizione e benessere, prova e rovina).

Prima scena (1,1-5): Prologo in terra Il quadro è occupato dal primo ritratto, vivissim o ed essenziale, di Giobbe felice. È da appaiare a quel­ lo nostalgico del c. 29 e all'autobiografia etica del c. 31 così da costituire un trittico di immagini secondo profili diversi. Vediamo innanzitutto la scheda ana­ grafica del protagonista. I l n o m e : Giobbe o più esattamente ,Ijjób, un nome quasi ignoto alla Bibbia. Infatti è citato solo da Ez 14,14.20 in trilogia con altri due nomi « eroici » ed esotici, Noè e Danel, quest'ultimo è forse il leggen­ dario re ugaritico Darìil. Un po' c o n f u s a m e n t e lo

284

1,1-5

menziona anche l’originale ebraico del Siracide (49,9) che lo fa dipendere dalla memoria di Ezechie­ le) (« Ezechiele ebbe una visione, rivelò gli aspetti del carro e ricordò Giobbe che seguì le vie diritte »). E la Vulgata paragonerà la pazienza di Tobia a quella di Giobbe (Tb 2,12) collegandosi ad una tradizione pietistica che ha cercato di neutralizzare un personaggio così scomodo, così battagliero ed « impaziente ». Come si è visto, lo scritto neotesta­ mentario giudeo-cristiano noto come « Lettera di Giacomo » afferma: « Avete udito parlare della pa­ zienza di Giobbe e conoscete la sorte finale che gli riserbò il Signore, perché il Signore è ricco di mi­ sericordia e di compassione » (5,11). Se il nome di Giobbe, che tra l'altro i LXX identifiche­ ranno (42,17b) con quello di Jobab, re di Edom, citato in Gn 36,33, è assente dall'onomastica biblica, la sua presenza nei documenti della « Mezzaluna Fertile » è, invece, indiscutibile. Dal xx al xiv sec. a.C. nelle principali città-stato del Medio Oriente il nome è registrato: a Mari troviamo H a - a - y a - a b u -u m , ad Alalak c'è A - y a - b u , ad Ugarit tra i funzionari di corte c'è un Hy'abu, ed una lettera di El-Amarna, numerata 256 e databile attorno al 1350 a.C., è indirizzata ad un vassallo del faraone di nome Aya-ab, residente in Transgiordania (BaSan). Un no­ me extrabiblico piuttosto comune, quindi, il cui si­ gnificato più probabile è « Dov'è mio padre? » (Ayya,abumì), con un riferimento teoforico al dio persona­ le che teneva i contatti tra il fedele e il pantheon celeste. In altri termini un nome che racchiudeva in sé un'invocazione al « santo protettore ed interces­ sore »: « dov'è il dio che mi protegge? » 4. L a r e s i d e n z a : la terra di Uz. Si tratta di un enigma topografico che ha creato due veri e propri partiti 4 N o n è d a e s c lu d e re a n c h e u n a s f u m a t u r a d i « o s ti lità » in q u e s t o n o m e d a t a l ’a s s o n a n z a c o n l a r a d i c a l e ’o jeb , « n e m i ­ c o ». Q u e s t a a s s o n a n z a h a c r e a t o c o n f u s i o n e a n c h e a l t r a ­ d u t t o r e g r e c o d e i S i r a c i d e c h e h a p r o b a b i l m e n t e s c a m b i a t o in 49,9 il n o m e p r o p r i o « G io b b e » c o n « n e m i c i ». A lle q u e s t i o n i f ilo lo g ic h e i n e r e n t i l ’o n o m a s t i c a d e l l i b r o d i G io b b e s i è d e ­ d i c a t a f in t r o p p a a t t e n z i o n e c o l r i s c h i o d i p e r d e r e n e l l e m i ­ n u z i e il s e n s o g e n e r a le d e l q u a d r o n a r r a t i v o o p o e t i c o .

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tra i filologi e gli esegeti affetti dal morbo dell’erudizione preziosistica. Il partito filo-aramaico, fondato da Giuseppe Flavio (Ant. Jud. 1,6,4), identifica Uz con la regione aramaica di Hauran, basandosi su Gn 10,23; 22,21; 1 Cr 1,17 (ove è nome di p erson a)5. Il partito filo-edomita, che è più potente perché in pra­ tica sostenuto dagli stessi amici di Giobbe che por­ tano nomi edomiti, identifica invece Uz nel territorio del tradizionale nemico di Israele, Edom-Esaù, basan­ dosi su Gn 36,28 e su due glosse di Gr 25,20 e Lm 4,21. A qualsiasi soluzione ci si iscriva, il risultato è pur sempre significativo: le coordinate personali e spaziali di Giobbe non sono riconducibili all'ambiente palestinese. L'esperienza di Giobbe non è specificamente ebraica, è umana, universale, senza esclusi­ vismi razziali, culturali e religiosi. Anzi un uomo con un nome paganeggiante ed idolatra, con conno­ tati razziali non specificamente ebraici ma solo blandamente semitici (« figlio d'oriente » v. 3), con una nazionalità straniera discutibilissim a ed ostile (Edom!) diventa un « tipo », un emblema per Israe­ le. Come Agur e Lemuel di Massa che hanno lasciato frammenti dei loro scritti nei Proverbi (cc. 30-31), anche questo estraneo ha una lezione da offrire ad 5 A n c h e re c e n te m e n te p e r H a u r a n si è d ic h ia r a to u n o s tu ­ d i o s o i s r a e l i a n o in u n a r t i c o l o i n e b r a i c o m o d e r n o il c u i ti t o l o , t r a d o t t o , s u o n a c o s ì Hauran era il luogo di nascita di Giobbe?, in « B e t h M i d r a s h » 1 8 /2 , 1972-1973, 228-229. J . A. S o g g in , in v e c e , s o s t i e n e E d o m a n c h e p e r « l 'u s o f r e q u e n t i s ­ s i m o d i 'eloah in v e c e d i 'elohim, t i t o l o c h e l 'a n t i c o S a l m o c o n t e n u t o i n A b 3 m e t t e i n r e l a z i o n e c o n Teman, r e g i o n e s i t u a t a p r o b a b i l m e n t e o n e l l 'A r a b i a n o r d - o c c i d e n t a l e o n e l l 'a t ­ t u a l e J e m e n » ( Introduzione all'A.T., B r e s c i a 1974, p . 511). I n r e a l t à , p e r ò , n e l p r o lo g o a p p a r e il n o m e s a c r o J a h w e h , n o m e a s s e n t e n e l r e s t o d e f i 'o p e r a p o e t i c a ( t r a n n e il d i s c u t i b i l e 12,9). A n c h e l a m o n a c a s p a g n o l a E t e r i a n e l s u o D i a r i o d i v ia g g io i n P a l e s t i n a ( Peregrinatio Etheriae) c e r c a d i v i s i t a r e la « c i t t à d i G io b b e » i d e n t i f i c a n d o l a c o n « C a r n e a s , c i t t à p r e c e d e n t e m e n t e c h i a m a t a D e n n a b a , n e l t e r r i t o r i o d e ll'A u s it i d e , n e i c o n f in i d e H ’I d u m e a e d e l l 'A r a b i a » (13,1-2: c f r . Ethérie, Journal de voyage, e d . H . P é t r é , Sources Chrétiennes, P a r i s 19712, p p . 46-48; 146-147). L a m o n a c a d è i I V s e c . h a m i r a b i l m e n t e m e s c o l a t o le d u e t r a d i z i o n i c o n f e z i o n a n d o u n p r o d o t t o g e o g r a f i c a m e n t e i m p o s s i b i l e : C a m e a s - D e n n a b a è in J T r a n s g io r a a n ia s e t t e n t r i o n a l e m e n t r e l 'I d u m e a è a S u d , v e r ­ s o l'A r a b ia .

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Israele e a tutta l'umanità. Perché, come aveva ben intuito già il rabbinismo (Talmud, Baba’ batra' 15a; Beresit rabbà’ 57), non è tanto la storicità fenom e­ nica legata a date e località che conta in Giobbe quanto la sua storicità assoluta legata all'esistenza e alla vicenda umana. In questa luce si ‫׳‬capisce anche l'avvio narrativo del « prologo in terra » (v. 1) steso secondo la morfologia della fiaba: ’is hajah, « c'era una volta un uomo », proprio come nell'esordio della parabola di Natan (2 Sm 12,1) o come nella storia esemplare di Mardocheo (Est 2,5). Al centro non c'è una informazione etnica o geografica o culturale, ma una persona e la sua storia. R e l i g i o n e : tam, jasar, jerè' Elohim, sar mera' (v. 1). La proliferazione dei termini non è casuale, queste quattro componenti etiche (Pr 2,21; 29,10; SI 25,21; 37,37) sono associate solo nella letteratura sapienzia­ le e raccolgono la completezza di una personalità religiosa come i quattro punti cardinali indicano lo spazio intero 6. Esaminiamo brevemente ognuno di questi lineamenti. Il primo aggettivo definisce Noè (Gn 6,9), Abramo (Gn 17,1) e Giacobbe (Gn 25,27) e Giobbe stesso se lo rivendicherà a più riprese (9,20-22; 12,4; 27,5; 31,6). Per sintetizzarne il si­ gnificato dovremmo dire che la radicale tm m è qua­ si un tema per variazioni (e non una variazione su un tema). Infatti, mentre gli attributi coi quali soli­ tamente si presenta il fedele sono varianti descritti­ ve della sua radicale giustizia, tam esprime invece la perfezione di fondo che può essere analizzata suc­ cessivamente secondo le sue varie· sfaccettature. In­ dica, perciò, qualcosa di circolare, di chiuso in se stesso, di completo come un giorno concluso (Gs 10,13) o un anno definito (Lv 25,30). Giobbe è l'uo­ mo perfetto nella sua integralità morale ed ideologi­ ca (Pr 29,10), modello di equilibrio umano e reli­ gioso. Jasar si oppone alla circolarità dell'aggettivo prece­ dente perché allude semanticamente ad una retta 6 L. L e lo ir , Lectio divina: Job 1,1-5. Sainteté juive et sainteté chrétienne. in « C ollect. C ister. » 32, 1970, 268-288; C. L in d h agen, The Servant m otif in thè O.T., U p p sa la 1950.

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verticale permettendo così la bivalenza del significa­ to di « d iritto » e di «retta-retto» (Ez 1,23; SI 11,7; 107,7; Mi 7,2-4). La verticalità suggerisce il riferim en­ to a Dio, alla sua legge rivelata, ad una norma oggettiva (Pr 20,11; 29,27; SI 19,9; 33,4; 37,14; Dt 8,6.25). Questa prima coppia di attributi, presente anche in Pr 25,21, è seguita da una seconda cop­ pia. La Bibbia, libro della fede, non ha un vocabolo che ricopra esattamente l'area del nostro termine « religione », ricorre perciò ad un ventaglio di paro­ le. Tra queste la più vicina al nostro « la religione » è « temere Elohim » (jerè’ Elohim) che con « fug­ gire il male » (sar mera') compone i due versanti dell'atteggiamento religioso, il positivo ed il negati­ vo, ripetutamente appaiati nella letteratura sapienziae (Pr 3,7; 14,16; 16,6). L'inno che chiude il dialo­ go del primo atto del libro finisce con questa anti­ fona ritornello: « Temere Dio, questo è sapienza/ fuggire il male, questo è intelligenza » (Gb 28,28). Il Signore, sigillando con la sua approvazione questo profilo nella seconda scena (1,8), aggiungerà una quinta definizione piuttosto riassuntiva: Giobbe è 'abdì, « mio servo ». Il titolo, che non ha connotati di umiliazione, ma di prestigio e di solennità, è stato attribuito ai patriarchi (Dt 9,27), a Mosè (Nm 12,7; Dt 34,5; Gs 1,1.2), a Giosuè (Gs 24,29; Gdc 2,8), a Davide (2 Sm 7,5.8.), alla figura m isteriosa del Servo di Jahweh (I s 42,1-4; 49,1-6; 50,4-9; 52,13-53,12), cioè a tutti coloro che hanno avuto il compito di far pro­ seguire la linea della storia della salvezza tracciata da Dio. Giobbe si colloca nella linea di questi testim o­ ni di Dio, lui « il giusto perfetto » (saddiq tamim, 12,4), la cui parola amara e terribile sarà una tappa fon­ damentale nella ricerca di Dio da parte dell'uomo e nella ricerca dell'uomo da parte di Dio. Un ultimo tratto della religiosità di Giobbe è dise­ gnato nel v. 5 ed è dedicato all'aspetto lfturgico e rituale della fede: « Giobbe mandava a chiamare i suoi figli per purificarli; si alzava di buon mattino ed offriva olocausti secondo il numero di tutti loro. Giobbe infatti pensava: Forse i m iei figli hanno peccato ed hanno maledetto Dio nel loro cuore ». La struttura cultuale entro cui è collocato Giobbe

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sembra essere quella pre-sinaitica ed extrabiblica secondo la quale il padre di famiglia è anche sacer­ dote. Due sono gli atti liturgici di Giobbe sacerdote. Innanzitutto la « purificazione » imposta ai figli. Il vocabolo che esprime questa azione liturgica è il comunissimo qidd.eS che, oltre alla convocazione del­ l'assemblea, comprende una purificazione-consacra­ zione che introduce in pienézza nella sfera del sacro cultuale (qd$). Nonostante che il rito sia presentato spesso nella Bibbia (Es 19,10.14; Gs 7,13; 1 Sm 16,5; So 1,7) l'atmosfera che lo avvolge nel racconto dei prologo è più esotica soprattutto perché sullo sfon­ do si odono gli ultimi echi dei sontuosi banchetti orientali celebrati dall'intero clan di Giobbe (w . 4-5a). Seconda azione liturgica, l'olocausto m attuti­ no. Secondo un’abitudine ancestrale l'alba è il m o­ mento dell‫ «׳‬ascolto » di Dio (Gn 22,3; Es 32,6; Nm 22,41; 2 Re 3,20; 16,15; Am 4,4); il sacrificio sembra evocare antichi rituali come quello di Mosè al Sinai (Es 24,5), di Aronne (Es 32,6), o di Gedeone (Gdc 6,25), rituali destinati a ristabilire i legami di alleanza e di sangue tra la tribù e il Dio protettore del clan, offeso dai peccati dei vari membri. Infatti Giobbe m ette un'intenzione ai suoi olocausti: « Forse i miei figli hanno peccato ed hanno male­ detto Dio nel loro cuore » (v. 5) o, come dice l'eufe­ mismo deH'originale, « hanno benedetto (brk) Dio », per evitare il nesso blasfemo tra il nome divino e un verbo negativo. Essendo il « cuore » il simbolo della coscienza, Giobbe viene presentato nella sua sensibi­ lità morale quasi come la coscienza dei suoi stessi figli. P r o f e s s io n e e s t a t o s o c ia l e : sceicco (w . 2 4). Lo status sym bol di Giobbe è disegnato secondo il m o­ dulo tradizionale della benedizione-fecondità. Lo schema familiare è perfetto: sette è il numero em­ blematico della discendenza maschile (Gr 15,5; 1 Sm 2,5) e tre per quella femminile così da costitui­ re secondo il valore simbolico dei numeri (la gematria) il dieci della globalità. La prima ricchezza non è calcolata secondo parametri strettam ente finanzia­ ri o in beni immobili ma secondo la « fecondità del grembo ‫( ״‬SI 127,3; 128,8) nello stile delle benedi­

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zioni patriarcali. La seconda ricchezza è nella fecon­ dità animale e nella fertilità del terreno (v. 3). Oltre che coi patriarchi (Gn 26,13-14) anche con Salomo­ ne sembra essere confrontato questo potente sceicco tutte le volte che contempla la sua im mensa pro­ prietà di bestiame. È la figura tipica del seminomade che ha anche delle case (1,4.18-19), che pratica anche l'agricoltura (1,14; 31,8.12.38.40) ma che vive soprat­ tutto in tende (secondo l'immagine prevalente nel poema: 5,24; 8,22; 11,14; 15,34; 18,6.14.15; 19,12; 21,28; 22,23; 29,4; 31,31) e transuma a primavera coi suoi greggi e coi suoi cammelli alla ricerca di nuovi pascoli. Egli porta il manto degli sceicchi, il me'il (1,20; 2,12) e durante le fasi di stanziamento fisso espleta anche le funzioni di sindaco e giudice del villaggio (c. 29). Giobbe, infatti, può presentare a tutti, oltre al pre­ stigio personale, il successo economico e l'armonia familiare esemplificata attraverso il sim bolo del « banchetto quotidiano » a rotazione. Il pranzo è segno di dialogo e di comunione ed esprime col suo susseguirsi standard (« in casa di ognuno, ciascuno nel suo giorno, invitando le sorelle » v. 4; « il turno dei giorni del banchetto », v. 5) la continuità della felicità e dell'accordo nell'ambito del clan. Accordo sigillato dal rito presieduto dal capofamiglia (v. 5; cfr. Lv 23,36; Nm 29,35;.2 Cr 7,9) 7. Ed ecco l'annotazione finale che riassume con una punta di esotism o per lo stesso lettore ebreo la scheda anagrafica di Giobbe: « Era l'uomo più ricco (lett. grande) di tutti i figli d'Oriente » (v. 3). Se il celebre racconto egiziano di Sinuhe nel secondo m il­ lennio a.C. identifica l'Oriente con tutta la estensione ad est di Byblos, dai confini vaghi, popolata di se­ minomadi, « i figli d'Oriente » nella letteratura suc­ cessiva vengono sempre più specificati e circoscritti.

7 L a s o t t o l i n e a t u r a d e lla r e s i d e n z a p r i v a t a ( v . 4 ) d e i « g io v a ­ n i » fig li (1,19) è d o v u t a a i c a n o n i s o c ia l i d e l le a l t e c l a s s i o r i e n t a l i . I p r i n c i p i d e lle d i n a s t i e t r i b a l i a v e v a n o d o m i c i l i o i n p a la z z i p e rs o n a li a n c h e p r im a d e l m a tr im o n io c o m e è te s ti­ m o n i a t o n e l c a s o d e i d u e fig li d i D a v id e , A m n o n e A s s a l o n n e (2 S m 13,7; 14,28).

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In Gn 29,1 sono gli Aramei, per Isaia (11,14) gli Edomiti, i Moabiti e gli Ammoniti, ma durante la conquista babilonese Geremia (49,28) ed Ezechiele (25,4.10) li identificavano con i Madianiti e gli Ama· leciti. Agli occhi del lettore ebreo « i figli d'Oriente » erano l'esotico mondo al di là della frontiera orientale della Palestina; un mondo fatto di tribù diverse seminomadiche vaganti nel territorio safaitico (Gn 25,6; Gdc 6,3.33; 7,12; 8,10) i cui raids ful­ minei nel territorio israelitico erano spesso un incu­ bo ma la cui sapienza rivaleggiava con quella egizia­ na (1 Re 5,10 = 4,30). A questo punto, quasi in dissolvenza, la scena son­ tuosamente allestita su uno sfondo carico di colori orientali scompare. Il prologo in terra è chiuso.

Seconda scena (1,6-12): Prologo in cielo Sulla proporzione e l'armonia della scena precedente sta per abbattersi la tempesta della prova. L'obbiettivo del narratore si sposta ora nella sfera celeste. In apertura cerchiamo di tracciare la sceneggiatura essenziale della sequenza narrativa, poi entreremo nelle singole linee del racconto, nei loro dettagli e nei materiali d'allestimento. Ecco l'abbozzo della scena divenuta celebre anche nella letteratura: si pensi al « prologo in cielo * del Faust di Goethe ed a quello del Mefistofele di Boito. Il mondo celeste è delineato secondo uno schema caratteristico della teologia extrabiblica e biblica: il Signore come un sovrano è assiso al centro del suo consiglio della corona composto dai vari vizir che nella visione politeistica sono le divinità inferiori del pantheon e per la Bibbia sono gli angeli. Tra questi ministri ha una posizione di rilievo il satana (nel­ l'ebraico ha l'articolo perché non indica una creatu­ ra specifica ma un ufficio di corte), 1'« avversario », pubblico ministero che ha la funzione di difendere i diritti divini e di verificare l’autenticità dell'obbe­ dienza dei sudditi che nella fattispecie ò la fede. La

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chiave della verifica e della discussione è il v. 9: « Giobbe crede in Dio per nulla? ». Il dibattito del libro non verterà, quindi, sul m istero del dolore, che è solo l'occasione, ma sulla gratuità della fede. Il satana con acuta ironia rivela che la benedizione rende la religione facile e il dialogo di fede scontato e « razionale », mentre uno dei due termini è per eccellenza trascendente e m isterioso. È interessante notare che, contro la posizione pessim istica e sar­ castica del satana, si oppone l’ottim ism o divino che dà credito alla bontà dell'uomo (vv. 11-12). Tracciato il profilo generale della scena quasi come preparazione allo spettacolo o « programma di sa­ la », cerchiamo di perlustrare i dettagli dell’azione e dei personaggi. I l t e m p o : « un giorno » (v. 6 ). La fantasia teologica del rabbinismo non ha lasciato cadere nel vuoto questo particolare puramente narrativo e stereotipo e l’ha raccordato con la seconda scena celeste che pure si svolge in «u n giorno ». Il Targum ha così distinto due sedute dell'assise celeste, la prima si svolge a Capodanno (Ros - ha - sana), il giorno del giudizio preliminare in cui si affrontano i primi ruoli del « libro della vita » con le iscrizioni su due colonne dei giusti e degli empi. La seconda seduta si svolge il giorno del Kippur in cui, effettuate le even­ tuali contestazioni e correzioni sulla base delle con­ versioni, si pronuncia la sentenza definitiva sull'u­ m an ità8. Al di là della evidente allegorizzazione, il Targum di Gerusalemme, ora confermato dal prezio­ so frammento di Qumran, ci permette di gettare uno sguardo sul retroterra della trasm issione del

8 C o m e s i è d e t t o , n e l 1956 la g r o t t a 11 d i Q u m r a n h a riv e la to u n f r a m m e n to p iu tt o s to e s te s o d e l T a r g u m r ig u a r d a n t e G b 3 7 ,1042,11 e d a l t r i m i n o r i d i s t r i b u i t i s u p a r t i c e l l e d i G b 17,14-36,33 e d i n d i c a t i g l o b a l m e n t e c o n l a s i g l a 11 Q tg Job. A p p a r t e n e n t i p r o b a b i l m e n t e a l I s e c . d e l l 'e r a c r i s t i a n a , t r a ­ s m e tto n o u n te s to c h e p o tr e b b e r is a lir e a lla s e c o n d a m e tà d e l I I s e c . a .C . L 'e d iz io n e d e i f r a m m e n t i è c u r a t a d a l l a Sàchsische Akademie der Wissenschaften d i L ip s ia . P e r l a m e t o d o l o g i a e s e g e t i c a t a r g u m i c a , v e d i R . L b D é a u t, Un phé·

nomène spontane de l'herméneutique juive ancienne: le « targumisme », i n B i b 52, 1971, 505-525.

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testo di Giobbe e sulla « passione » esegetica con cui è stato scavato utilizzando i materiali e gli strumenti interpretativi allora a disposizione. La vi­ cenda di Giobbe nella prospettiva targumica è un'esperienza universale in cui ogni credente si rico­ nosce interpellato da Dio e giudicato. I l l u o g o : la corte celeste. Lo schema monarchico sotto cui si delinea la sfera divina è un'analogia diffusa nella teologia di Ugarit ove il termine sód indica appunto il consiglio deila corona presieduto dal dio-re E1 o Baal circondato dai suoi principi-dei inferiori in rango e dignità9. Nella Bibbia l'idea è accolta e fa da sfondo a molte apparizioni di Dio (1 Re 22,19). Il volume di Isaia la testim onia in due casi di « vocazione », quella dell'Isaia classico (Is 6) e quella del Secondo Isaia (c. 40): in entrambi i casi il profeta immagina di aver ricevuto il suo incarico ed il suo messaggio partecipando ad una seduta del consiglio della corona celeste 10. Ma è soprattutto nella letteratura cultica che lo schema ottiene il successo più ampio, dall'antichissimo SI 29,1-2 a matrice cananea al post-esilico SI 77,14, dalla so­ lenne meditazione sull'alleanza del SI 89 (w . 6-9), all'inno processionale delle Capanne (SI 95,3), ai salmi di regno di Dio (SI 96,4; 97,7), alla lode mattutina del SI 148 (v. 2). Per tutti citiam o il SI 82 che in modo raffinato contrappone le corti umane e terrestri alla corte celeste: « Dio si alza nell'as­ semblea divina, giudica in mezzo agli dei » (v. 1). I p e r s o n a g g i : Jahweh, i bene’ Elohim e il satana. Al centro campeggia la figura di Jahweh, l'arbitro asso­ luto di questa corte trascendente. Attorno al suo trono siedono i suoi ministri chiamati con termino­ logia arcaica « figli di Dio » (bene’ Elohim cfr. Gn

9 V e d i i t e s t i i n C. G ordon, Ug. Textbook, 2,17.34; 17, 7; 107, 3, 128, I I , 7.11 e t c . U n ’a m p i a d o c u m e n t a z i o n e c o n b i b l i o g r a f ì a i n M . H . P ope , El in thè Ugaritte Texts, L e i d e n 1955 e i n G . C ook, The Sons of (thè) Godts), in Z A W 76, 1964, 22-48. L o s c h e m a è p r e s e n te a n c h e a B y b lo s (is c r iz io n e d i Y e h im ilk , li­ n e a 4) e a B a b i l o n i a ( il puhur ilàni d e l l 'e p o p e a d i G ilg a m e S ) . 10 C fr. F . M . C ross , The Council of Jahweh in Second Isaiah, i n J N E S 12, 1953, 274-277.

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6,2.4; SI 29,1), proprio come nella m itologia ugariti* ca e cananea (b n - ilm in UT, 51, III, 14). Come si è detto, nella teologia politeistica questi vizir celesti erano le divinità inferiori del pantheon. La Bibbia con un evidente processo di demitizzazione li ha ridotti al rango di esseri creati, superiori all'uomo senza essere divini e chiamati dalla versione dei LXX angheloi, « angeli » ‫ ״‬. In alcuni passi biblici ed ex­ trabiblici furono identificati con le stelle, conside­ rate divinità nell'ambito panteistico orientale, ma semplici creature ordinate in « esercito » secondo la visione biblica. Da qui l'evoluzione cosm ica del tito­ lo militare « Signore degli eserciti », da qui la raffigurazione di Dio come un generale che guida la sua armata astrale in Is 40,26, da qui deriva anche l'augurio inciso in un'iscrizione punica scoperta nel­ la città etnisca di Pyrgi (l'attuale S. Severa) nel 1964: « Possano essere i suoi anni come le stelle di E1 ». Eccellente è la sintesi dei due temi paralleli nella frase del primo discorso di Dio: « Gioivano in coro le stelle del mattino e plaudivano tutti i figli di Dio » (Gb 38,7) « Di questi alti funzionari della corte celeste si usa anche un termine tecnico per indicare la loro con­ vocazione per il consiglio dei ministri di Dio: è il verbo hitjasseb tipico dei cortigiani ritti in piedi davanti al re (Pr 22,29 e 1 Sm 16,21 per Davide davanti a Saul). Il vocabolo equivalente in accadico è sinonimo di alto ufficiale reale. In mezzo a questa parata di « figli di Dio » se ne distingue uno, il terzo personaggio della scena, il satana (hassatan). Il no­

11 C f r . S I 89,7; 103,21. O l t r e a l l 'a r t i c o l o g ià c i t a t o ( n . 9) d i C o o k , v e d i T . K u u s e r , Engel, i n R e a l l A n t C h r 5, 1960, 53‫־‬ 322; J . Coppens e L . D equeker , Le Fils de l'Homme et les Saints du Très-Haut, B r u g e s 19612; m . F . L acan, « Coeli coelorumque v irtu ies... », i n R S R 51, 1963, 241-246; C . H . W . B rekelm ans , The Saints of thè Most High and their Kingdom, i n « O u d t e s t . S t u d i e n » 14, 1965, 305-329. 12 II c o l l e g a m e n t o « s t e l l e » - « fig li d i D io » è s t a t o s o s t e n u t o p e r l a p r i m a v o l t a d a W . F . Au sr ig h t , From thè Stone Age to Christianity , N e w Y o r k 1957, p . 296. P e r l 'a s p e t t o b i b l i c o , v e d i P . D . M iijler , The Divine Council and thè prophetic cali to war, i n V T 18, 1968, 100-107.

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me è sempre citato con l'articolo anche in altri passi biblici come il noto Zc 3,1-2 o come nella serie degli altri testi generici (Nm 22,22.32; 1 Sm 29,4; 1 Re 5,18; SI 106,6 etc.). Si tratta, quindi, più di una funzione che di un nome proprio di persona, come si verificherà invece in epoca tardiva nel famoso caso del censimento ispirato a Davide da Satana (1 Cr 21,1). Là, come nella tradizione giudaica e cri­ stiana successiva, Satana avrà esplicitam ente conno­ tati « diabolici ». Per presentare questo strano per­ sonaggio del consiglio della corona celeste dobbiamo accontentarci di alcuni dati essenziali, avendo que­ sta figura già sufficientemente esercitato il suo fa­ scino su molti studiosi 13. Come è ovvio, la nostra analisi non si interessa dell'arco vastissim o della demonologia, né di quello più ridotto del demoniacodiabolico, ma si limita al settore più specificamente « satanico ». Tre sono le caratteristiche del satana che presen­ tiamo: il nome, la sua genesi e la funzione espletata. Il nome deriva dal verbo satan che significa « essere avversario », « stare all'opposizione » (SI 38,24; 109,29), « accusare » (SI 35,21; 109,4.20), « minac­ ciare » (SI 71,13). Sarebbe quindi da rendere con « Avversario », il grande « Accusatore »: la sua pre­

13 è u n ’i m p r e s a d i s t r i c a r s i n e l lo s t e r m i n a t o i m p e r o i n t e r d i ­ s c i p l i n a r e d e g li s t u d i d e m o n o lo g ic i, d e m o n i a c i e s a t a n i c i so r a t t u t t o i n s e g u i t o a l r e c e n t e revival te o l o g i c o e s o c io lo g ic o , im ita n d o c i a l c a m p o b ib lic o , in d ic h ia m o u n tito lo p e r o g n i t i p o d i a p p r o c c i o a l p r o b l e m a . P e r .g li a r t i c o l i d i d i z i o n a r i : W. F oerster - K . S chaferdieck , Satands, i n Grande Lessico del N.T., X I, B r e s c i a 1977, c o ll. 1397-1434. P e r g li excursus n e i c o m m e n t i a G io b b e : N . H . T ur -S in a i , The book of Job, J e r u s a l e m 1967, p p . 39-45. P e r i s a g g i s u G io b b e : J . L évéque , Job et son Dieu, P a r i s 1970, p p . 179-190. P e r i s a g g i i n g e n e r e : E . D h o r m e , La démonologie biblique, i n Hommage à W. Fi­ scher, M o n t p e l l i e r 1960, p p . 46-54. P e r l 'a s p e t t o t e o lo g ic o : D. Z ahringer , I demoni, i n Mysterium salutis IV , B r e s c i a 1970, p p . 789-816. P e r l 'a s p e t t o e r m e n e u t i c o : H . H aag, La credenza nel diavolo, M ila n o 1976. P e r u n o s t u d i o s i n t e t i c o i n o r i g i n a l e i t a l i a n o : L . R a n d ellin i , Satana nell’A.T., i n B O r 5, 1963, 127132. I n t e r e s s a n t e è a n c h e l a r i f l e s s i o n e c h e il f ilo s o f o t e d e s c o S c h e l lin g f a s u l l a p r e s e n z a d e l l a f i g u r a d i S a t a n a n e l p r o l o g o d i G io b b e : v e d i F . G . G . S chelling , Filosofia della Rivelazione, B o l o g n a 1972, v o i. I I , p p . 334-336 e 347.

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senza nel racconto, più che un'affermazione teologi­ ca della sua realtà, è la concretizzazione di un ele­ mento dialettico indispensabile al dramma. Alla troppo perfetta integrità di Giobbe manca una di­ mensione molto umana, la prova, l'accusa. Da quale humus culturale, da quale ambito è nato il satana? A questa domanda sulla genesi della catego­ ria (più che persona) in questione si è risposto con quattro ipotesi che possiamo così semplificare. L'i­ potesi babilonese: il satana è una riedizione della nozione del dio protettore e dell'accusatore persona­ le attribuiti ad ogni uomo dalla concezione teologica mesopotamica 14. L'ipotesi persiana: come nell'impe­ ro persiano di Dario esisteva un corpo di polizia segreta denominata « L'occhio e l'orecchio del Re », così il satana sarebbe una sorta di prefetto della polizia divina, « l'occhio e l'orecchio di Dio » 15. L'i­ potesi psicoanalitica: il satana non sarebbe che uno sdoppiamento di Jahweh di 'cui personificherebbe Valter ego, la parte oscura, inquietante, « incon­ scia » di Dio, la collera distruttrice 1