Gioacchino da Fiore e il carattere meridiano del movimento francescano in Calabria 8899017093, 9788899017095

Il pensiero e l'esperienza umana di Gioacchino da Fiore vengono collocati in questo libro di Luca Parisoli nella lo

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Gioacchino da Fiore e il carattere meridiano del movimento francescano in Calabria
 8899017093, 9788899017095

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Collana

Pensatori Calabresi a cura dell’Associazione Culturale Radici nel Tempo

col patrocinio del Dipartimento di Studi Umanistici Università della Calabria

n. 3 Cod. ISSN 2421-082X

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Le ragioni di una Collana

La presente Collana di studi dedicati a pensatori calabresi (e prendendo il termine ‘pensatori’ nella sua accezione più ampia) nasce come ideale prosecuzione del lavoro avviato (e troppo presto interrotto) alcuni anni fa da Mario Alcaro, figura di spicco del panorama intellettuale calabrese e meridionale. Il quale, nel 2011, realizzò per l’Editore Rubbettino di Soveria Mannelli, col contributo di studiosi di diversa formazione e provenienza intellettuale, un importante volume sulla Storia del pensiero filosofico in Calabria da Pitagora ai giorni nostri. L’idea che sta alla base della Collana è, sostanzialmente, la stessa: non attardarsi, più o meno narcisisticamente, su vecchie ed inutili forme di chiusura municipalistica e di localismo regionalistico, ma proporre e far conoscere ad un pubblico ampio, di non addetti ai lavori, auspicabilmente giovane, luoghi, figure e vicende attraverso cui si è via via formata l’identità culturale di una comunità storica (quella calabrese) che, nei momenti più alti del suo sviluppo, è stata in grado di sintonizzarsi con gli aspetti più significativi del pensiero europeo. Da qui la convinzione dell’utilità, non solo genericamente culturale, ma più specificamente pedagogicocivile, che l’esplorazione del legame tra pensiero e 3

territorio potrebbe utilmente svolgere, soprattutto in ordine alla formazione etica delle nuove generazioni. Le pratiche simboliche e le attività concettuali (da quella filosofica a quella giuridico-politica a quella etno-antropologica a quella artistica, religiosa, ecc.) con cui gli uomini costruiscono la loro identità, infatti, non hanno connotazioni solo temporali, ma anche spaziali. O meglio: a definire la storicità delle produzioni umane non basta solo la dimensione temporale (specie quando essa venga declinata in termini solo cronologici), ma è necessaria anche quella geografico-spaziale. Solo a costo di un impoverimento ermeneutico è possibile, infatti, scorporare il tempo dallo spazio, la ‘storia’ dalla ‘geografia’ dei saperi, cioè poi dal territorio in cui gli eventi umani si dispiegano ed acquistano senso. Naturalmente, il territorio va inteso non come generico spazio fisicamente delimitato, ma piuttosto come un insieme di caratteristiche ambientali, linguistiche, tonali che fanno strettamente corpo con uno specifico stile di pensiero (R. Esposito). La Collana intende collocarsi, approfondendolo, su questo solco: contribuire alla costruzione (o ricostruzione) di quella sorta di ‘geografia mentale’ che è alla base dello stile di pensiero calabrese: un pensiero ‘mediterraneo’, che affonda le sue radici nella grande tradizione filosofica magnogreca di cui conserva, quali cifre stilistiche peculiari, la cultura (e la pratica) del dono, dell’accoglienza, dell’ospitalità.

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LUCA PARISOLI

GIOACCHINO DA FIORE E IL CARATTERE MERIDIANO DEL MOVIMENTO FRANCESCANO IN CALABRIA

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L’opera è pubblicata con un contributo del Dipartimento di Studi Umanistici – Università della Calabria PENSATORI CALABRESI 3 Collana diretta da Romeo Bufalo (Università della Calabria) COMITATO SCIENTIFICO: Pio Colonnello (Università della Calabria) Germana Ernst (Università di Roma 3) Luigi M. Lombardi Satriani (Università di Roma 1) Aniello Montano† (Università di Salerno) Raffaele Perrelli (Università della Calabria) Aldo Trione (Università di Napoli “Federico II”) Armin Wolf (Max Planck Institut für Rechtsgeschichte) I volumi pubblicati nella presente Collana sono sottoposti a peer review

2016 © - Proprietà Letteraria Riservata Associazione culturale Radici nel Tempo 88060 Davoli Marina (CZ) [email protected] www.iltesto.com Pubblicazione periodica 3° n. maggio 2016 Progetto Grafico e Impaginazione: MoleaDesign Copertina: Carta di Prospero Parisio, incisore Natale Bonifatji, 1592. ISSN 2421-082X ISBN 978-88-99017-09-5

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PREMESSA

In questo libro viene offerta al lettore una suggestione: esiste un approccio interno al pensiero cristiano che si caratterizza come collegato ad una geo-cultura meridiana, e che viene esplorato qui nella sua dimensione della regione calabrese. L’idea consiste nel mostrare la tensione che esisteva tra alcuni elementi del pensiero di Gioacchino da Fiore e la cultura dominante della sua epoca, e nel constatare poi che questa stessa tensione si sarebbe largamente attenuata se, per assurdo, la cultura messa a confronto con quella gioachimita fosse stata quella che circolava nelle terre meridiane durante la sua parabola terrena, ossia quella sensibilità greco-orientale che perdurava nel Meridione d’Italia e che invece era percepita come ampiamente centrifuga nelle geo-culture più settentrionali. L’eccedenza di significato del simbolo rispetto al linguaggio mette Gioacchino in rotta di collisione con l’ortodossia stabilita sin dal IX secolo dai Libri carolini: la teologia politica carolingia stabilisce che il significato di una figura è tutto e solo contenuto nelle didascalie che la accompagnano. E’ il prezzo che la cultura occidentale latina paga per respingere l’iconoclastia, la ripulsa per le immagini sacre. E’ anche un mezzo efficace per impedire l’esoterismo nella sua dimensione antropologica e 7

pulsionale più profonda, ossia quella di arrivare a dire quello che il linguaggio non riesce a dire, insomma dire l’indicibile. Tuttavia la posterità di Gioacchino, anche a suo dispetto, praticherà essenzialmente questa via interpretativa, messa in pratica nel fatto stesso della raccolta di immagini del Liber figurarum, e che ancora recentemente è stata catalogata da una qualificata storiografia sotto l’espressione ‘pensare per figure’. Il pensiero di Gioacchino si collega ad una delle famiglie del movimento francescano, gli Spirituali, che conoscono progressivamente una serie di problemi di ordine pubblico in relazione alla Sede apostolica. Questi problemi sono anche quelli di un approccio all’escatologia che non è quello voluto dalla Chiesa romana per secoli, un approccio che Pietro di Giovanni Olivi proporrà senza alcun successo, e che ripete le strategie ermeneutiche di Gioacchino, se non nei dettagli, certo nello schema complessivo. Il Meridione d’Italia, ed il legame con il mondo greco-cristiano, sarà una terra di rifugio per molti francescani non in sintonia con le posizioni della Sede apostolica sulla questione della povertà assoluta di Cristo e degli apostoli, destinata ad essere la pratica di vita dei francescani, senza alcun diritto sulle cose che usavano, e con un sospetto di sentirsi più perfetti di tanti altri uomini di religione proprio perché imitavano perfettamente Cristo e gli apostoli. Ecco che irrompe la figura di Angelo Clareno, modello dello Spirituale dissidente nella sua auto-rappresentazione dell’identità del frate minore rispetto a quella che voleva stabilire la Sede apostolica, ma che 8

da questa situazione lacerante non deduce mai che si debba disobbedire a Roma. E mentre i fraticelli sceglievano la strada della ribellione e del movimento sociale ereticale, Clareno e tutti i frati che lo seguirono nella cultura meridiana mettono in pratica in maniera tragica un’indicazione contenuta nella Regola francescana: se il tuo superiore ti ordina qualcosa contra la salvezza della tua anima, tu devi dissentire radicalmente, non eseguire il comando, ma non lo contesterai nella sua funzione di superiore, e gli resterai accanto. Emerge il quadro di una cultura meridiana che è recessiva rispetto al quadro della cultura dominante, scolastica e giuridica, ed infine settentrionale, e questa distinzione di geo-culture ci permette meglio di comprendere le fortune e le sfortune di percorsi di pensiero nell’interazione con il mondo culturale che li circondava. Ma questa natura recessiva è ricca di indicazioni per la nostra comprensione della storia delle idee e può giungere sino a noi con tutta la sua forza esplicativa. ******* Il materiale di questo volume è apparso in una prima versione in due miei contributi al volume curato da Mario Alcaro, Storia del pensiero filosofico in Calabria da Pitagora ai giorni nostri, Soveria Mannelli CZ 2012: si tratta di Gioacchino da Fiore, un’interazione tra approcci culturali, pp. 75-100, e di Un’anima mediterranea del francescanesimo: Angelo Clareno e dintorni, pp. 101-127. Un’altra fonte è una riflessione sul 9

simbolismo nella tradizione cristiana, materiale che da anni attende di essere pubblicato sia in versione italiana – Aspetti del simbolismo nella tradizione cristiana latina, sia in una rimaneggiata e più recente versione inglese – Interpretation and Symbolism in Medieval Thought: Joachimite’s Break since the End of XIIth Century. Tutto questo materiale è stato ulteriormente rimaneggiato e sensibilmente incrementato per dare vita a questo volume che il direttore della collana Romeo Bufalo ha voluto generosamente accogliere, grazie anche all’attenzione di tutti i membri del Comitato scientifico e dei lettori deputati a vagliarne la natura. Senza la lungimiranza del Dipartimento di Studi umanistici, diretto da Raffaele Perrelli, questa collana non avrebbe incontrato le condizioni accademiche per costituirsi, e senza il suo sostegno non avrei trovato le condizioni adeguate per compiere queste mie analisi. Un grazie a questi due miei colleghi, all’amico Pio Colonnello e al Comitato Scientifico che mi ha gratificato con questa possibilità di pubblicare un lavoro che realizza un nuovo punto in un percorso di ricerca cui tengo molto. Questa ricerca è stata favorita dalle condizioni in cui opero nella sezione dipartimentale diretta da Giuseppe Roma, al quale va il mio pensiero amichevole e la mia tensione verso progetti futuri. Dedico infine questa fatica alla mia famiglia, ai miei figli che non sempre capiscono perché il computer di casa sia occupato dalla mia scrittura piuttosto che da un videogioco, a mia moglie che mi sostiene nel mio perdermi nell’universo antico e medievale, e che mi tiene con una cordicella 10

che ricorda l’espressione di uno dei primissimi grandi commentatori del diritto canonico, Rufino, il quale parla di due cordicelle, la rettitudine della giustizia e la luce della conoscenza, di cui si potrebbe dire che reggono quello che possiamo fare nello stato adamitico. Il lettore, e mia moglie, mi concedano di compiacermi nell’indicibile nell’affidare loro l’immagine di una sola cordicella, uni quasi funiculo suspenso. Arcavacata di Rende, festa del beato Angelo da Chivasso 2015

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I PER PARTIRE: PROSPETTIVE CULTURALI IN AZIONE

La vita di Gioacchino si dipana in un arco temporale che va dalla sua nascita intorno al 1135, dal padre notaio Mauro e dalla madre Gemma, sino al giorno della sua morte, il 30 marzo 1202, e in un arco spaziale che va da Celico, dove nacque, alle mura della comunità monastica che diresse sino alla morte, a San Giovanni in Fiore, che si sviluppava in tanti altri luoghi associati, come quello di San Martino di Canale, nei pressi di Pietrafitta, dove lo colse la morte. Lo spazio vitale di questo celebre personaggio di Calabria sembra essere solo apparentemente assai limitato geograficamente, e non mancarono da parte sua numerosi viaggi nel Meridione e nel resto d’Italia, dagli studi giovanili che lo conducono alla corte di Napoli e Palermo sino ai soggiorni nell’abbazia di Casamari, con la chiave di svolta che si colloca in quello in Terrasanta, legato nella ricostruzione simbolica della sua parabola terrena alla sua rinascita spirituale ed intellettuale; eppure, la sua eredità intellettuale e spirituale ebbe un impatto geo-culturale enorme, estendendosi a tutto il mondo latino sino alle nazioni dell’Europa moderna, a partire da un territorio che nel XII secolo era ancora 13

una cerniera, a dispetto di altri territori dell’Occidente latino, tra il cristianesimo latino e quello greco-orientale. Il notaio - ed il notabile - mancato che fu Gioachino, che pure conservò sempre la capacità di trattare con la classe dirigente della sua epoca, covò nella vita eremitica i germi di un nuovo modo di guardare alla Tradizione della Chiesa cattolica ed alle pratiche interpretative che la costituiscono, ne fece oggetto di amorevole cura nella vita monastica, e li affidò alle generazioni future, essendo capace di lanciare un messaggio durevole nei secoli anche se non si indirizzò mai alla nuova società emergente nella sua epoca, quella urbana e mercantile. Il suo mondo era quello della vita povera del mondo feudale, rispetto alla quale in prima persona aveva rinunciato ai privilegi della condizione sociale e si era prodigato per mostrare come la riflessione mistica più entusiastica potesse associarsi all’interesse verso le sorti quotidiane della comunità umana. Ma il suo mondo era anche quello di una particolare comunità ideale che fece scrivere a Dante nel Paradiso (XII, 140) «il calavrese abate Giovacchino di spirito profetico dotato», un profeta con la convinzione che l’Anticristo fosse già nato mentre Gioacchino stesso redigeva le sue profezie. Gioacchino da Fiore non è certo una figura minore nella storia della cultura occidentale e l’attività di ricerca sul suo pensiero e sul suo impatto culturale, un tempo più frammentata, negli ultimi decenni si è coordinata, acquistando spessore e visibilità grazie all’attività del Centro Internazionale di Studi Gioachimiti, 14

diretto con profondo senso dell’analisi medievistica da Cosimo Damiano Fonseca - il centro ha la sua sede a San Giovanni in Fiore, ed un sito web http://www.centrostudigioachimiti.it/index2.asp che offre un’idea della ricchezza delle sue iniziative e dei suoi risultati. La complessa spiritualità che emana dagli scritti di questo monaco del XII secolo si concretizza in strategie di interpretazione del testo sacro biblico che lo impongono non come uno dei tanti interpreti della Bibbia, bensì come il capostipite di una genealogia che coniuga in maniera strettissima una puntuale riflessione sugli ultimi giorni del mondo attuale - quella che si dice tecnicamente escatologia - e una riflessione appena adombrata sulle vicende attuali delle relazioni umane e sociali, sino alla loro evoluzione prossima ventura, ossia un dispiegamento nella sfera politica del discorso interpretativo del testo sacro. Gioacchino è presto divenuto icona di una delle tante anime del cristianesimo medievale, tanto da fare fiorire tutta una letteratura dovuta a suoi partigiani culturali - i gioachimiti - che attribuiscono direttamente al loro patrono la paternità dei loro testi: il pensiero del Gioacchino da Fiore storico, l’unico rilevante per chi si occupa della sua causa di beatificazione, è forse non dico irrilevante - giudizio fuori luogo -, ma certo non tale da occupare l’avanti della scena per chi si occupa di storia delle idee, dato che l’icona gioachimita diventa il riferimento culturale forte attraverso gli ultimi secoli del Medioevo sino a tutta la Modernità, che non si preoccupa più delle stra-

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tegie esegetiche del testo sacro, ma recepisce in molti suoi esponenti la lezione di una escatologia politica. Monsignor Giuseppe Agostino, già arcivescovo metropolita di Cosenza-Bisignano, pur sotto l’enfasi di una incipiente causa di beatificazione, parla di un radicamento di Gioacchino nella sua terra in questi termini: “ho sempre visto l’abate Gioacchino come calabrese verace: uomo capace di penetrazione del profondo dell’essere e della storia; direi un contemplativo, un forte rude, com’è tipico degli uomini della nostra terra, ma di una rudezza che è forte perché è dolce e che è operante perché si esprime nella potenza più incidente che ci sia e che è la povertà dello Spirito” 1. Quasi nella stessa epoca la Calabria diede i natali a personaggi molto diversi, per esempio quel Simone da Bisignano di cui quasi nulla conosciamo della vita: sappiamo solo che insegnò diritto a Bologna negli anni ‘70 del XII secolo, e che tra il 1177 ed il 1179 compose la sua Summa2. Pietro Aimone, che ha curato l’edizione critica contemporanea della Summa, fa notare i suoi riferimenti alle chiese locali di Lanseo (oggi TermoliLarino) e di Squillace, e che fu uno dei pochi canonisti

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G. AGOSTINO, Prefazione, in Fabio TRONCARELLI, Gioacchino da Fiore: la vita, il pensiero, le opere, Roma 2002, p. 6. 2 Si veda S. KUTTNER, Repertorium der Kanonistik (11401234). Prodromus corporis glossarum, I, Vaticano 1937, p. 149. 16

provenienti dall’Italia meridionale1. Di Simone però conosciamo un commento al diritto canonico - da poco fatto nascere da un altro personaggio oscuro, quel Graziano che redasse il notissimo Decretum - che rivela una sensibilità normativista, ossia una sensibilità verso lo scheletro di norme e regole che costituiscono il mondo, che pare agli antipodi dello spirito profetico di Gioacchino. Del resto, Gioacchino considerava il fatto di dedicarsi alla scienza delle norme in contrapposizione all’immagine della scienza di Pietro, e mentre quest’ultima abbandona il mondo per verità superiori la prima (I Cor. 8, 29-31, e 9, 15), a suo parere, non può che permanere nel mondo2; non è qui in gioco l’importanza della conoscenza del diritto umano o dell’attività degli operatori giuridici - e sappiamo che Gioacchino evitò la strada già segnata di seguire le orme del padre, operatore notarile -, quella che è in gioco è la concezione proposta dal diritto canonico dell’epoca di un mondo fatto ancora prima che vi siano degli uomini sulla Terra di norme e di regole. Quella che è in gioco è l’idea, piuttosto attribuibile a Gioacchino, che la migliore comprensione del mondo possa 1

Per il lavoro di Pietro Aimone, con accesso al testo di Simone ed una raccolta della scarna bibliografia esistente, rinvio alla sua analisi depositata all’indirizzo web http://www.unifr.ch/cdc/summa_simonis_2baende/summa_simonis_BAND_II.13.0 1.2008.normal.pdf, dal titolo Summa in Decretum Simonis Bisianensis, II, Prolegomena. Indices, Fribourg 2007, pp. IV-V. 2 P. FOURNIER, Etudes sur Joachim de Flore et ses doctrines, Paris 1909, pp. 12-13. 17

fare a meno di norme e di regole, secondo un uso linguistico ancora oggi diffuso per cui una lettura profetica non contiene riferimenti a norme e regole; quella che è in gioco è l’opposizione tra due conterranei che sviluppano due piste della comprensione umana del mondo affatto alternative. Nella coppia geografica Bisignano - san Giovanni in Fiore sta forse la stessa complessità di tutta la cultura cattolica medievale, riflessa nel microcosmo calabro - anche se, come ha mostrato Pietro Dalena, Gioacchino fu tutt’altro che ‘stanziale’ su un microterritorio1 -, in oscillazione tra un normativismo rigoroso che va dalla teologia alla vita sociale e una pneumatologia escatologica in cui la parola dello Spirito Santo sembra essere il luogo dell’anomia, dell’assenza di regole e norme in favore della perfezione finalmente realizzata in ciascuna persona. Da un lato, il rigore canonistico della Sede apostolica: Manselli evoca più volte la risposta del ‘normativista’ Bonifacio VIII alla difesa degli Spirituali – il movimento dei francescani più riottosi di fronte alle direttive della Sede apostolica – da parte di Arnaldo da Villanova: «intromitte te de medicina et non de theologia et honorabimus te» - «occupati di medicina, lascia perdere la teologia, e ti rispetteremo», associata ad una visione sconsolata del millenarismo in occasione del Giubileo dell’anno 1300, «perché questi sciocchi attendono la 1

P. DALENA, I viaggi e gli itinerari di Gioacchino da Fiore nel Mezzogiorno, in C. D. FONSECA, a cura di, I luoghi di Gioacchino da Fiore, Roma 2006, pp. 67-90, con un apparato di cartine esemplificative da p. 75 a p. 90. 18

fine del mondo?»1. Dall’altro uno spirito profetico, refrattario alla precisione analitica del linguaggio delle norme, che inevitabilmente si ammanta della qualifica di luogo della perfezione, ultima per valore ma anche prossima per realizzabilità. L’immagine retorica del “calabrese verace” può soddisfare l’appagamento estetico, quella più asettica e prosaica - tuttavia analitica ed illuminante, senza nulla togliere all’aspetto devozionale che ruota intorno Gioacchino2 e di cui Simone è certo privo - del calabrese che può essere tanto partigiano della normatività quanto partigiano dell’assenza di normatività colloca la nostra analisi di una manifestazione geo-culturale al centro della stessa cultura occidentale latina del XII secolo. Simone non conoscerà mai le forme di devozione che si costituirono verso Gioacchino, di cui abbiamo testimonianza affidabile proprio perché il potere ecclesiastico ritenne opportuno regolamentarne le forme, presumibilmente nella considerazione delle potenzialità devianti di quella che sarebbe divenuta (o potuta divenire) una idolatrizzazione

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Si veda R. MANSELLI, La religiosità d’Arnaldo da Villanova, in «Bullettino dell’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo e Archivio Muratoriano», 63 (1951), pp. 1-100, a pp. 18-19 - evocato per esempio nella raccolta R. MANSELLI, Da Gioacchino da Fiore a Cristoforo Colombo. Studi sul francescanesimo spirituale, sull’ecclesiologia e sull’escatologismo medievali, Roma 1997, pp. 6, 74. 2 Su questo punto rinvio a E. GABRIELI, Una fiamma che brilla ancora. La fama sanctitatis dell’Abate Gioacchino, Marzi CS 2010. 19

della sua figura1. Ci fu certo una protesta etica nel suo discorso, e la scossa salutare che ne derivava avrà senz’altro dispiegato i suoi benefici nei secoli, ma i giudici deputati a difendere l’ordine pubblico non potevano che temerne le confusioni e le derive protestatarie2. Vale la pena di riportare l’orazione nella liturgia delle ore che i monaci dell’Ordine da lui fondato, secondo una consuetudine invalsa nel monachesimo cristiano, gli dedicavano, che Gabrieli riporta in latino ed in italiano3, e che qui riproduco: Antifona alle Lodi Il beato Gioacchino primo Abate florense, umile ed amabile, fu ammirato per cose meravigliose. V/ Il Signore lo ha ricolmato dello Spirito di Sapienza e Intelletto R/ E lo ha rivestito di una stola di gloria. Antifona ai Vespri Il beato Gioacchino di Spirito profetico dotato, decora1

L. INTRIERI, Il Culto di Gioacchino da Fiore nelle testimonianze del 1680, in «Rogerius», 11 (2008), n. 2, pp. 49-50. 2 H. MOTTU, La mémoire du futur: signification de l’Ancien Testament dans la pensée de Joachim, de Fiore, in A. CROCCO, a cura di, L’età dello Spirito e la fine dei tempi in Gioacchino da Fiore e nel gioachimismo medievale, San Giovanni in Fiore (CS) 1986, pp. 24-27, sottolinea la dimensione di protesta etica del discorso di Gioacchino, di cui parla anche FOURNIER, Etudes, per esempio, pp. 7-10. 3 E. GABRIELI, Una fiamma che brilla ancora – La fama sanctitatis dell’Abate Gioacchino, pp. 88-89. 20

to di intelligenza, lontano dagli errori di eresia, predisse gli eventi futuri. V/ Il Signore lo ha ricolmato dello Spirito di Sapienza e Intelletto. R/ E lo ha rivestito di una stola di gloria. Orazione O Dio, che sul monte Tabor hai manifestato la tua gloria ai tre Apostoli, e nello stesso luogo hai rivelato al beato Gioacchino la verità della Scrittura, ti preghiamo, per i suoi meriti e la sua intercessione, fa che ascendiamo a Colui che è via, verità e vita. Per Cristo nostro Signore. Non fu questa la sola forma di culto verso la santità di Gioacchino da Fiore1; è attestata la devozione nei suoi confronti del vescovo di Cosenza, Luca Campano2, che tributa a Gioacchino il merito di averlo libera-

1

A. ACRI, Casamari, in «La Provincia di Cosenza» – Gioacchino da Fiore “Il calavrese abate Giovacchino di Spirito Profetico dotato”, numero speciale, Cosenza 2011, pp. 34-35; A. M. ADORISIO, Recuperi florensi. Tradizioni dimenticate nelle relazioni di una visita di Giusto Biffolati, priore di Casamari, ai monasteri di San Giovanni in Fiore e di Santa Maria di Altilia nella Sila di Calabria, in «Rivista Cistercense», 17 (2000), pp. 283-303, a pp. 295-300. 2 A. STAGLIANÒ, L’abate calabrese. Fede cattolica nella trinità e pensiero teologico della storia in Gioacchino da Fiore, Vaticano 2013, p. 204. 21

to dall’impaccio nel parlare1. Ma la cultura cattolica registrò sempre la natura potenzialmente centrifuga del suo pensiero, divenuta meno scottante se non addirittura congelata nella temperie culturale che segue i lavori del Concilio Vaticano II. La stessa discussione sulla presunta ortodossia o meno delle analisi trinitarie gioachimite non deve fondarsi sulla condanna formale o meno che esse abbiano ricevuto, quanto piuttosto sul fatto che un pensatore che alla fine del XII secolo si discosti dall’approccio di Pietro Lombardo si pone rapidamente in contrasto con la più formidabile stagione di filosofia cristiana del Medioevo, la Scolastica, mossa dall’ambizione di mostrare la razionalità del deposito della fede cattolica. Gioacchino considerava questa ambizione un pericoloso orgoglio che si metteva fuori bersaglio cercando l’armonia tra fede e scienza, e leggeva Matteo 11, 25 come diretto contro lo stesso spirito della Scolastica2. Nella vita contemplativa di Gioacchino, lo stato di perfezione ultima, sembra non esservi posto per la filosofia. Piuttosto che improvvisarmi in giudice dell’ortodossia o dell’eterodossia senza avere la competenza normativa a farlo (ovviamente, però, è proprio questo il lavoro di chi ne discute la causa di beatificazione), pur dando per scontata la competenza intellettuale a farlo di cui dispongono tantissimi stu1

A. M. ADORISIO, Luca di Casamari, Arcivescovo di Cosenza, testimone e biografo di Gioacchino da Fiore, in I luoghi di Gioacchino da Fiore, pp. 91-106, a p. 97. 2 Così considera senza nessun pregiudizio P. FOURNIER, Etudes, pp. 10-11. 22

diosi, è più opportuno prendere atto che il fatto stesso delle accuse rivolte a Gioacchino, eliminate l’ipotesi di malafede ed avversione personale, mostra che il suo pensiero è passatista rispetto al fiume in piena che sfocerà da lì a poco in un modello di razionalità improntato al rigore analitico accuratamente distinto da ogni impresa esegetica del Testo Sacro1. Non possiamo ignorare che il fatto che le dispute trinitarie non vertono su quello che un autore vuole affermare esplicitamente, bensì su quello che un autore dovrebbe ammettere se fosse conseguente con le sue affermazioni: tanto è certo che Gioacchino non ha mai affermato il triteismo, quanto è certo che dei filosofi cristiani scolastici e dall’approccio analitico potevano vedere nella sua esasperazione delle dinamiche delle tre persone una confusione latente tra persona divina ed essenza divina che così si moltiplica in tre unità. Già alcuni secoli prima Giovanni Scoto Eriugena aveva incontrato seri problemi nel ripetere in lingua latina il lessico dei Padri della Chiesa greci, incontrando la censura di un mondo intellettuale latino che non poteva fare a meno della specificità del vocabolo ‘persona’. Tanto è certo che Pietro Lombardo non ha mai negato la natura trina delle persone divine in favore di una quaternità, quanto è certo che il suo insistere sull’unità dell’essenza divina senza tematizzazione sottolineata dell’economia trini1

Mi sono già espresso in questo senso in L. PARISOLI, Livelli di comprensione antropologica del messaggio cristiano: la semantica gioachimita alla luce di René Girard, in «Florensia», 18-19 (2004-2005), pp. 139-152. 23

taria personalista possa indurre teologi più inclini alla narrazione delle relazioni trinitarie piuttosto che al loro rendiconto analitico a vedervi una negazione del giusto valore da assegnare alle tre persone divine. Forse l’osservazione più pregnante è quello di Henry Mottu, che esorbita dal dominio dottrinale trinitario in senso stretto, ossia metafisico, per accedere al luogo della Trinità nell’economia generale del discorso cristiano, ossia nella storia sino alla fine dei tempi: «il rimprovero di “triteismo” dissimulerebbe allora tutt’altra intenzione, quella cioè di squalificare in partenza ogni tentativo di ripensare il mistero trinitario in termini di piano, di disegno, di perseveranza, cioè in termini storici e non metafisici» 1. Come osserva Pietro Coda nella sua Postfazione al volume di Mons. Staglianò, c’è un modo preciso per evitare questo scoglio, ossia interrogare Gioacchino alla luce di un assioma, ossia “dalla Trinità ‘alla storia’ e non viceversa”2. Certamente i censori medievali avrebbero trasecolato se avessero avuto sotto gli occhi un passaggio dalla storia alla Trinità, ma temo che sarebbero stati convinti di non riconoscere nei testi gioachimiani un passaggio dalla Trinità alla storia sufficientemente caratterizzato per il loro standard, che era normativo e non già meramente speculativo, teologico o esegetico. Si tratta della paura di trovarsi sotto la spinta, mi pare lecito osservare, delle po1

H. MOTTU, La manifestazione dello Spirito secondo Gioacchino da Fiore, Casale Monferrato 1983, p. 107. 2 P. CODA, Postfazione, in A. STAGLIANÒ, L’abate calabrese, p. 192. 24

tenzialità degenerative inerenti alla retorica dell’escatologia gioachimita, come lo stesso Mottu riconosce: «gli Spirituali distorceranno, qui come altrove, il pensiero del Maestro. Ma questo dimostra quanto reale sia la potenza implicita di disintegrazione, inerente alla sua opera»1. Il riferimento è a Gerardo da Borgo San Donnino, rappresentante dell’ala più radicale e deviante del movimento francescano degli Spirituali, quella che nell’aderire a Gioacchino più che alle sue dottrine genuine evoca una risorsa emotiva ed affettiva senza precauzioni linguistiche, lontano dall’anima degli Spirituali che si riconoscerà in Angelo Clareno sempre consapevole del bene supremo dell’obbedienza a Roma, ma un’ala radicale che si auto-rappresenta come gioachimita, secondo il risalente e sempre attuale giudizio di Antonio Frugoni che sgancia Clareno dal movimento dei fraticelli, che a sua volta travisa Gioacchino2. Altrettanto lontana dall’ala radicale che travisa il messaggio gioachimiano è la ricezione del gioachimismo in uno dei primi ministri generali dell’Ordine dei frati minori, quel Giovanni da Parma di cui solo in tempi recenti si è saputa dare una lettura che non fosse permeata di partigianeria in un senso o nell’altro, letture che rinviano sempre alla sua rinuncia alla carica di

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H. MOTTU, La manifestazione dello Spirito secondo Gioacchino da Fiore, p. 100. 2 Per una sintetica rassegna delle posizioni storiografiche su Clareno, rinvio a F. ACCROCCA, Un ribelle tranquillo, Assisi 2009, pp. 194-197. 25

ministro generale nel 1247 1, e che Angelo Clareno leggerà come una parentesi positiva tra una coppia di quelle tribolazioni che colpirono ai suoi occhi l’Ordine dei frati minori. Giovanni da Parma è uno dei probabili autori di uno dei testi simbolici del movimento francescano, quel Sacrum commercium sancti Francisci cum domina paupertate che racconta le nozze spirituali di Francesco d’Assisi con la povertà, e che comunque il suo editore critico, Sergio Brufani, preferisce lasciare ad una anonima paternità2. Noi possiamo limitarci al fatto che Giovanni da Parma risente nelle sue manifestazioni pubbliche – dato che i suoi scritti pervenutici sono esigui – del messaggio gioachimiano, e che la sua biografia è segnata da una missione in Oriente, tra 1249 e 1250, che gli venne conferita da papa Innocenzo IV, di cui le fonti sia latine, sia bizantine, ci riportano che si svolse in un clima di consonanza di stile e di personalità3. La sintonia di Giovanni da Parma con il cristianesimo orientale, che si associa in lui al gioachimismo, è testimoniata dalla sua richiesta a papa 1

Rinvio al volume A. CACIOTTI, M. MELLI, a cura di, Giovanni da Parma e la grande speranza, Milano 2008. 2 L’edizione critica è apparsa per le edizioni Porziuncola di Assisi nel 1990. 3 Così C. VAIANI, Il gioachimismo di Giovanni da Parma, nel citato volume collettivo, Giovanni da Parma e la grande speranza, pp. 71-73. L’autore concorda con Henry Mottu nel fatto che il problema di una lettura razionalistica di Gioacchino, andando oltre alle sue stesse intenzioni e quindi di fatto forzandole, è di dedurre che il suo sistema non è cristocentrico (vedi p. 93). 26

Niccolò III nel 1289, ad una età che superava gli ottant’anni, di partire per la Grecia in un’ottica di riconciliazione tra il cristianesimo latino e quello greco, separati in maniera formale dalla clausola del Filioque dalla metà dell’XI secolo. Vi era in Giovanni da Parma la stessa attenzione che Gioacchino prestava al cristianesimo orientale, ma si potrebbe dire che più di una questione dottrinale, ossia di ripetizione di dottrine, si era di fronte ad un gioachimismo esistenziale, fatto di emozioni e sentimenti escatologici: inoltre, un cronista dell’epoca, Tommaso di Eccleston, considererà che una delle ragioni per cui Giovanni da Parma rinunciò alla sua carica sia stata quella di una insofferenza verso la sempre maggiore importanza dello studio universitario nella figura del frate minore, a dispetto dell’identità del francescano delle primissime origini. Forse, era anche insofferenza verso il modello dominante razionalistico della cultura latina, tanto più dominante se confrontato con la contemporanea cultura greca. Dato che il mondo culturale latino dominante poteva guardare con sospetto tutti questi fenomeni a partire dal suo atteggiamento razionalistico, si arriva ad un sospetto tanto più fomentato quanto altri esponenti nel movimento francescano, che travisavano concretamente il messaggio apocalittico gioachimiano, vengono più o meno arbitrariamente accostati a personaggi come il nostro Giovanni da Parma, oppure il commentatore della Regola Ugo di Digne 1, oppure a quell’Angelo Clareno di 1

Per un giudizio completo rinvio a F. TRONCARELLI, Magnus Joachita: Ugo di Digne e Giovanni da Parma, nel già citato 27

cui diremo più estesamente nel seguito. In particolare, su Ugo di Digne, Damien Ruiz ha fornito una tesi di dottorato (Paris X, 2005) in cui ne mostra la profonda competenza giuridica (tratto tutt’altro che gioachimiano) e definisce anche in un lavoro recente il gioachimismo di Ugo di Digne ‘indeterminato’, un gioachimismo di buon senso se commisurato al conforto che gli offriva nelle sue attese spirituali1. Ma questo carattere non doveva proprio addolcire i censori dell’epoca, piuttosto doveva avvelenarli per l’indeterminatezza dei termini della questione. E non dovettero pensare che fosse un merito di Salimbene da Parma quello di avere trascritto per conto di Giovanni da Parma un manoscritto dei Trattati sui quattro vangeli, l’opera gioachimiana che vedremo essere al centro dei suoi problemi con il cristocentrismo. Né dovettero giudicare che fosse un merito per Ugo di Digne quello di possedere la panoplia dei manoscritti gioachimiani nella biblioteca del suo convento di Hyères, località che si affaccia sul Mediterraneo nell’attuale dipartimento francese del Var, in Provenza, peraltro non lontano dalla sua natale Digne che si trova nell’entroterra alpino di Hyères. Il punto, insomma, è la trasformazione dell’intenzione di Gioacchino: essa consiste nel dimenticare che Giovanni da Parma e la grande speranza, pp. 103-152. 1 D. RUIZ, Es tu infatuatus sicut alii qui istam doctrinam secuntur? La nature du joachimisme du franciscain Hugues de Digne (ca. 1200 – ca. 1255), in Expériences religieuses et chemins de perfection dans l’Occident médiéval, Paris 2012, pp. 277-292. 28

per Gioacchino il ‘vangelo eterno’ non può identificarsi con un testo scritto, come se fosse un nuovo libro della Bibbia, o per usare il suo termine questo ‘vangelo eterno’, simbolo del trionfo finale del cristianesimo, non è circumscriptibilis, ossia non è determinabile linguisticamente1. E soprattutto consiste nel dimenticare il versetto di Giovanni, 16, 14: il Paraclito non dirà cose nuove quando verrà, ma come dice Gesù in questo versetto prenderà delle cose da Gesù e le annunzierà 2. Esisteva però un movimento storicamente accertato, e questa dimensione era la principale preoccupazione dei tribunali ecclesiastici, che comprendeva Gioacchino in senso diverso, per cui il verbo ‘evacuare’, che possiamo rendere con l’italiano ‘evacuare’, significava sopprimere: non era l’intenzione di Gioacchino, ma così era compreso. E da questo fatto prendevano le distanze i giudici, senza troppe sottigliezze ermeneutiche tese a salvare Gioacchino dai suoi ferventi partigiani traditori del suo pensiero. Ai loro occhi di giudici restava un fatto pesante come un macigno, quello per cui «in Gioacchino è l’apocalittica che spiega tutto»3. Resta il fatto che se le metafore gioachimite per esprimere la Trinità sono infelici, in quanto metafore si potrebbe dire che siano solo infelici, non già negatrici 1

H. MOTTU, La manifestazione dello Spirito secondo Gioacchino da Fiore, pp. 26-27. 2 H. MOTTU, La manifestazione dello Spirito secondo Gioacchino da Fiore, p. 175. 3 H. MOTTU, La manifestazione dello Spirito, p. 130. 29

della Trinità; infatti, per negare la Trinità, si dovrebbero prendere quelle metafore per spiegazioni analitiche, cosa che Gioacchino non avrebbe mai ammesso, né ha mai voluto (almeno a me pare prima facie). Un conflitto di paradigmi di razionalità ed un caso di incommensurabilità linguistica, e non tanto una questione di genuina deviazione dal deposito della fede: questo mi appare il dibattito trinitario rispetto a Gioacchino, molto più significativo per la storia delle idee che non per la riflessione filosofica. Tre statue d’oro sono tre ma sono anche lo stesso oro: sostituire alle statue le persone divine ed all’oro l’essenza divina, una mossa che Gioacchino compie nel suo Psalterium decem chordarum, può essere una metafora bella o brutta, alla quale si può preferire quella di san Giuseppe da Cupertino di un mantello che ha tre parti perché piegato con due linee, ma è giocoforza riconoscere che ogni metafora esula da un approccio analitico al mistero trinitario. L’ontologia formale non tollera nessuna metafora, anche se forse le metafore possono convertire molto di più della più raffinata ontologia formale. In questa prospettiva le pure opportune critiche di Manselli sull’uso da parte di Gioacchino del concetto di appropriatio1 sono tanto più valide quanto disgiunte da ogni desiderio di tribunali della storia - oggi tanto 1

R. MANSELLI, Accettazione e rifiuto della terza età, poi in R. MANSELLI, Da Gioacchino da Fiore a Cristoforo Colombo. Studi sul francescanesimo spirituale, sull’ecclesiologia e sull’escatologismo medievali, pp. 185-187. 30

imperanti nell’immaginario collettivo, specie in quello che si vuole assolutamente laico - ed invece congiunte ad un desiderio di tracciare un percorso dell’immaginario gioachimita nei secoli. Resta comunque importante sottolineare il carattere inusuale del trattamento trinitario di Gioacchino, come fa Manselli o come fa Burr parlando di Olivi esegeta apocalittico sulla scorta di Gioacchino: coloro che giudicarono Olivi lo fecero consapevoli dei pericoli che ai loro occhi si liberavano dall’esegesi oliviana. Erano agostiniani politici, credevano nella teologia politica che nasceva dalla penna di Eusebio di Cesarea che concepiva la separazione tra Chiesa e Impero come un ruolo attivo della Chiesa, istituzione destinata a governare quanto a pregare. Quando si parla di Francesco come dell’angelo del sesto sigillo in un testo agiografico (la stessa Legenda Maior di san Bonaventura), l’intento devozionale è evidente per la stessa struttura retorica del testo, ma quando Olivi fa esegesi biblica esclude che le sue conclusioni siano prese in senso lato e evocativo 1. Non si tratta di erigersi a giudice della prassi migliore, bensì di sottolineare la fonte della eventuale problematicità di accettazione delle loro proposte da parte dei contemporanei. E’ vero che la sottolineatura della dimen1

L. PARISOLI, L’attesa escatologica in Pietro di Giovanni Olivi, in C. MICELI, A. PASSANTINO, a cura di, Francescanesimo e cultura nella provincia di Messina, Palermo 2009, p. 254, ispirato al fondamentale volume D. BURR, Olivi’s Peaceable Kingdom. A Reading of Apocalypse Commentary, Philadelphia 1993. 31

sione dell’economia delle persone divine rispetto ad una unità divina quasi-logica è stata operata con finalità di apologia dell’eterodossia da parte di Buonaiuti1, ma resta il fatto che l’impressione è tutt’altro che campata in aria. Almeno Manselli caratterizza così l’innovazione semantica apportata da Gioacchino nel discorso cristiano: «l’affermazione chiara e precisa dell’esistenza di due «kairòi», di due momenti critici della storia provvidenziale, e la collocazione di una terza età che da un secondo «kairòs» è iniziata e che viene a frapporsi prima della fine dei tempi e della seconda venuta del Cristo. Mentre, infatti, Cristo era, nella concezione provvidenziale della tradizione, l’unico centro della storia, e la sua venuta era l’unico punto critico, in Gioacchino va posto, accanto a Cristo, lo Spirito Santo e accanto all’unico e solo «kairòs», l’altro, rappresentato dall’avvento dello Spirito»2. Si tratta dell’intuizione di una «storicità dell’universo, come storicità totale dal principio alla fine escatologica»: Manselli ci può aiutare a comprendere che l’escatologia gioachimita è tratteggiata come completamente immersa nella cultura monastica, di cui si rifiutano i collegamenti più

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E. BUONAIUTI, Gioacchino da Fiore. I tempi. La vita. Il messaggio, Roma 1931, ma soprattutto la sua edizione del De articulis fidei, ossia GIOACCHINO DA FIORE, De articulis fidei, Roma 1936, pp. 4-8. 2 R. MANSELLI, Accettazione e rifiuto della terza età, poi in R. MANSELLI, Da Gioacchino da Fiore a Cristoforo Colombo, p. 188. 32

distorcenti con il mondo feudale 1. Se Gioacchino riprende la «tés soterías» di Eusebio di Cesarea, uno dei padri della teologia politica cattolica 2, certo Gioacchino è uno dei primi affossatori della stessa possibilità di ogni teologia politica cattolica. Non deve sorprenderci, dunque, se sia infine proprio il terreno della teologia politica che determina la rovina medievale di Gioacchino e la sua rivalutazione diffusa post-Vaticano II: se questa osservazione è corretta, le erudite analisi di Antonio Staglianò, attuale vescovo di Noto, possono anche essere condivise nel loro sforzo estremo di salvare completamente l’ortodossia di Gioacchino3 - strategia che non deve mai implicare una ridefinizione del deposito della fede attraverso Gioacchino -, tuttavia mostrano al tempo stesso che questi argomenti gioachimiani non sono quelli percepiti dai suoi contemporanei od immediati partigiani. E non dovremmo neppure dimenticare che in un mondo dove l’ortodossia, come 1

R. MANSELLI, Il tempo escatologico (secoli XII-XIII), poi in R. MANSELLI, Da Gioacchino da Fiore a Cristoforo Colombo, p. 687. 2 Si veda l’articolo di J. P. MARTÍN, El cristiano y la espada. Varaciones hermenéuticas en los primeros siglos, in «Revista Bíblica», 49 (1987), pp. 17-52, a pp. 38-42. 3 Mons. Antonio Staglianò ha presentato la sua relazione in occasione di un convegno a san Giovanni in Fiore nel settembre 2009, con il titolo La dottrina trinitaria di Gioacchino da Fiore tra simbolismo metaforico e riflessione speculativa. Gli atti del convegno sono poi stati pubblicati in A. GHISALBERTI, a cura di, Pensare per figure, Roma 2010, con la relazione di Staglianò alle pp. 77-105. 33

assenza di eresia, è concepita in termini normativi siamo nell’epoca del trionfo del diritto canonico, Gioacchino pare concepire la stessa nozione di ortodossia in termini spirituali e non-normativi, collocandosi in un contesto culturale altro rispetto a quello dei suoi interlocutori avversari medievali 1. Il Gioacchino di Staglianò è materia di discussione teologica delle idee, ma mi pare non ve ne sia traccia sensibile in quel percorso storico che deve essere colto dallo storico delle idee: i gioachimiti storici non hanno colto il Gioacchino di Staglianò, e sono i gioachimiti ad avere impresso il loro marchio nella storia del pensiero occidentale, operando un fraintendimento culturale che è stato identificato da Robert Lerner in una fonte cristiano-orientale del pensiero di Gioacchino, il chiliasmo2. Lerner insiste sulle fonti cristiano-orientali del pensiero di Gioacchino e ne mostra l’eccentricità rispetto alla tradizione latina, che coincide però con un Gioacchino ben meno eccentrico rispetto a quella greca. Il chiliasmo, per parlare in termini espliciti, può es1

Così si esprime FOURNIER, Etudes, pp. 30-32, evocando il rifiuto delle dottrine di catari e valdesi. 2 R. E. LERNER, La via al chiliasmo di Gioacchino da Fiore, raccolto in Refrigerio dei santi. Gioacchino da Fiore e l’escatologia medievale, Roma 1995, pp. 97-116. Nello stesso volume è rilevante ai nostri fini anche il saggio che dà il titolo alla raccolta, Refrigerio dei santi: il tempo dopo l’Anticristo come tappa del progresso terreno nel pensiero medievale, pp. 19-66, specie pp. 20-21, ed infine il saggio Anticristi e Anticristo in Gioacchino da Fiore, pp. 117-135. 34

sere altrimenti detto il ritorno di un’età aurea qui-edora. Gioacchino rompeva così con la tradizione esegetica latina1 e considerava come un periodo storico identificabile e descrivibile quel periodo menzionato nell’Apocalisse che separa la fine dei disastri procurati dall’Anticristo dalla gloria finale del mondo: cessando di essere uno spazio più logico che non storico, esso poteva essere riempito di contenuti fattuali e descrittivi del presente ed aprirsi sempre più ad essere un’età trinitaria - quella dello Spirito santo -, aprendo contemporaneamente un enorme spazio per possibili movimenti ereticali di agitazione sociale. Questo impegno di azione politica fu recepito da molti eredi di Gioacchino, e grazie al trapianto di un’idea meramente spirituale, tesa ad identificare un momento chiliastico di respiro, dopo angosce orribili prima della beatitudine eterna, in un terreno pragmatico e sociale si aprono gli spazi dell’icona gioachimita come terreno fertile per movimenti sociali gnosticheggianti. Pur con tutta la sua simpatia per l’analisi gioachimita, Henry Mottu conclude la sua importante opera, La manifestazione

1

Una pista di ricerca ulteriore sulla vicinanza di Gioacchino allo spirito del cristianesimo orientale si può trovare nella questione del Filioque, che dall’XI secolo divideva formalmente le due Chiese. La lettura dominante degli interpreti va nel senso della latinità di Gioacchino, ma la discussione merita di essere approfondita e probabilmente andrebbe nel senso contrario all’opinione dominante: H. MOTTU, La manifestazione dello Spirito secondo Gioacchino da Fiore, p. 256. 35

dello Spirito secondo Gioacchino da Fiore 1, con parole che sono sostanzialmente un giudizio di eterodossia rispetto al cristianesimo2, pensato come “cristocentrico” così come si configura in maniera speciale almeno a partire da san Bonaventura3, o almeno io ve lo leggo apertamente: “risolvere il problema di questo rapporto tra Cristo e lo Spirito, la Parola salvatrice e la manifestazione del Regno, la giustificazione mediante la sola grazia e la ricerca della giustizia, significherebbe probabilmente trovare la soluzione dell’enigma della teologia di Gioacchino; ma significherebbe pure uscire dalla nostra condizione di interpreti e togliere qualcosa allo strano fascino che la sua teologia non ha cessato di esercitare fino ad oggi”. Come nota lo stesso Henry Mottu, in Gioacchino da Fiore troviamo esaltata l’umiltà di Cristo (in gran parte con accenti di comprensione monastica di questa virtù), ma vi è uno stridente silenzio sul trionfo della Croce, sulla morte che esalta Cristo perché avviene senza accettazione della 1

H. MOTTU, La manifestazione dello Spirito secondo Gioacchino da Fiore, p. 291. 2 Ben più duro il giudizio di FOURNIER, Etudes, pp. 34-35, che comunque ritiene che “Joachim était un saint homme”, ma che non può leggerlo, per ovvie ragioni, con le lenti del Concilio Vaticano II. 3 Vanno menzionate, ma mi paiono poco persuasive, le difese appassionate condotte da A. CROCCO, Genesi e significato dell’“Età dello Spirito” nell’escatologia di Gioacchino da Fiore, in Storia e messaggio in Gioacchino da Fiore, San Giovanni in Fiore (CS) 1980, pp. 195-224. 36

violenza che lo ha stroncato, tanto che si può dire che l’umiltà di Cristo occupa lo spazio dell’intera cristologia di Gioacchino. Il fascino del discorso trinitario di Gioacchino si riversa tutto nella sua teoria stadiale della storia, secondo un disegno immutabile e lineare voluto dalla Provvidenza (che pare quasi limitare l’onnipotenza divina, e mi pare di potere dire che per Gioacchino l’idea stessa di Dio che cambia il passato non ha senso), senza le tensioni dialettiche che saranno di Hegel, quasi che il corso della storia risolvesse la tensione contraddittoria della Trinità che è quei-tre (e non già una qualunque terna) che sono uno.

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II INDICAZIONI SIMBOLICHE SULLA VITA DI GIOACCHINO

Le fonti più prossime al periodo in cui Gioacchino visse e che ci raccontano la sua vita sono state raccolte da Grundmann nella sua biografia dedicata all’abate florense, e si riconducono all’opera del vescovo di Cosenza Luca1 e di un anonimo monaco a lui vicino 2. Sono poi da considerare i lavori e le acquisizioni della Commissione storica istituita in vista della procedura per la canonizzazione di Gioacchino, nell’ambito dell’Arcidiocesi di Cosenza-Bisignano. Facciamo risalire al 1135 l’anno della nascita di Gioacchino, in base alla testimonianza di un abate cistercense, Adamo di Perseigne, che nel momento in cui lo incontrò a Roma in una data tra il 1195 ed il 1198 ebbe l’impressione di incontrare un uomo di circa sessant’anni: più certo è invece il fatto che nacque a Celico, e che, dopo avere studiato a partire dai sette anni la grammatica e le ma1

H. GRUNDMANN, Gioacchino da Fiore. Vita e opere, Roma 1997, pp. 191-197. 2 H. GRUNDMANN, Gioacchino da Fiore, pp. 183-190. 39

terie umanistiche, iniziò la sua vita da adulto attraverso un’esperienza notarile, un dato significativo se associamo la pratica notarile ai mestieri degli operatori giuridici e compariamo questo dato con la sostanziale anomia del suo discorso profetico e spirituale 1. Negli anni ‘60, e già nel corso degli anni ‘50, è a Palermo come funzionario amministrativo presso la corte normanna, presta servizio presso l’arcivescovo, sino a quando verso il 1168, certamente non prima del 1167, parte per i luoghi santi del Vicino Oriente, secondo itinerari che non sono ricostruibili a partire da una documentazione insufficiente2. La vita religiosa di Gioacchino coincide con l’abbandono della pratica notarile, e la sua scelta cadrà sulla vita eremitica, un’opzione tanto più disponibile quanto la geo-cultura della Calabria e del Meridione del XII secolo risentiva di influssi e presenze del cristianesimo orientale quanto certo non si poteva dire per le regioni settentrionali dell’Italia e dell’Europa3. Non a caso, al ritorno in Sicilia si insedia 1

Il termine ‘anomia’ mi pare esprima l’analisi di P. FOURNIER, Etudes, pp. 30-32. 2 Si veda P. DALENA, I viaggi di Gioacchino e dell’abate Matteo in Oriente e in Sicilia, in Cosimo Damiano Fonseca, a cura di, Gioachimismo e profetismo in Sicilia, Roma 2007, pp. 2939, a pp. 30-31. 3 Per una recente messa a punto sintetica del quadro generale, S. LUCÀ, Note per la storia della cultura greca in Calabria, in «Archivio Storico per la Calabria e la Lucania», 74 (2007), pp. 43-101. Il rinvio d’obbligo resta quello a F. BURGARELLA, V. von FALKENHAUSEN, S. TRAMONTANA, Il Mezzogiorno dai Bizantini a Federico II, in Storia d’Italia, III, Torino 1994. Per 40

in un gruppo monastico sui costoni dell’Etna. Si era una erudizione locale non scevra di sviste, F. RUSSO, Il B. Pietro da S. Andrea, primo ministro della Provincia francescana di Calabria: appunti storico-critici sulle origini francescane in Calabria, in «Miscellanea Francescana», 38 (1938), pp. 431456, 39 (1939), pp. 471-494, 40 (1940), pp. 49-71 (racconta delle persecuzioni contro i francescani di Federico II a partire dal 1240 e di Corrado IV nel 1252, che perseguita chi non vuole rompere il sigillo sacramentale, p. 65), 42 (1942), pp. 39-64. A p. 474 osserva che il monachesimo greco si diffonde in Calabria nel VII secolo (cita da P. P. RODOTÀ, Dell’origine, progresso e stato presente del Rito greco in Italia, I-IV, Roma 1758-1763, Dei monaci basiliani, II, Roma 1760), e alle pp. 475-476 sottolinea come Leonzio Pilato fosse un basiliano calabrese, traduttore di Omero, ed era letto da Petrarca e Boccaccio. Il saggio di Padre Russo contiene anche la storia della morte di Pietro di sant’Andrea nell’aprile 1264 a Castrovillari per mano del ricco mercante ebreo Parnassio di cui convertiva la moglie (p. 42): la storia è attestata solo nel manoscritto settecentesco di De Rubeis che redige la storia della presenza in Calabria della famiglia conventuale dell’Ordine, e a difetto di essere attendibile sarebbe degno oggetto di una comprensione della sua genesi come costrutto storiografico. Ci testimonia almeno di una presenza ebraica in Calabria percepita come fonte di potenziale pericolo: a p. 45 Russo evoca delle numerose testimonianze della presenza ebraica in Calabria, con citazione da C. M. L’OCCASO, Della Topografia e Storia di Castrovillari, Napoli 1884, p. 30, che indica come si chiamassero Giudee le aree del loro insediamento, ma soprattutto (pp. 46-47) O. DITO, Gli Ebrei di Calabria e la loro importanza nella vita calabrese, Rocca S. Casciano 1913, p. 5, dove Castrovillari è detto “centro giudaico antico e importantissimo”. Il loro insediamento è fatto risalire al tempo di Federico II (così L’OCCASO e C. PEPE, Memorie di Castrovillari, Castrovillari 1880, p. 108). 41

recato quindi in Terrasanta non prima dell’anno 1167, secondo i lavori della Commissione storica istituita dall’Arcidiocesi di Cosenza, commissione che ha operato tra il 2001 e il 2005. Per l’esatta cronologia siamo di fronte ad un puzzle costituito dalle indicazioni biografiche, in cui è necessario tentare di mettere ordine: un tempo si proponeva addirittura la data alternativa del 1148 per il suo abbandono della pratica di funzionario amministrativo, ipotesi che condurrebbe a pensare che dal 1148 al 1167 abbia praticato la vita eremitica per un tempo molto lungo, e praticamente nessuna esperienza come funzionario amministrativo e notaio, sino a quella data del 1171 in cui sappiamo che entrò a far parte del monastero benedettino di Santa Maria di Corazzo, prima visitato sulla strada per la sede episcopale di Catanzaro, poi, dopo essersi recato a Rende, sede della sua assunzione dell’abito monastico. In una ipotesi, assai verosimile, si tratta di non più di tre anni di vita eremitica, nell’altra ipotesi di almeno ventitre anni di vita ermetica: questo lungo periodo in realtà non collima con le indicazioni delle fonti dirette, e metterebbe in discussione il valore delle fonti stesse, cosa che non pare affatto verosimile, anzi. Ricapitolando, prima di integrare la vita monastica, e divenire certamente abate di Corazzo nel 1177, fece senza dubbio la sua brava esperienza eremitica in una regione, le pendici dell’Etna, con presenze basiliane sufficientemente attestate. La durata della sua presenza in Terrasanta non è sicuramente determinabile: il lasso di tempo di inizio della vita eremitica siciliana oscilla da do42

po il 1168 sino verosimilmente all’esordio del nuovo decennio 1770, esperienza che proseguì recandosi a vivere in una grotta nei pressi di Cosenza, a Guarassano. Passa quindi un periodo nel monastero cistercense della Sambucina, e per un anno predica nella zona collinare di Rende. A Guarassano il racconto agiografico vuole che abbia incontrato il padre notaio e abbia rinunciato di fronte a lui a tutte le proprie ricchezze, un episodio che se da un lato sembra essere perfettamente coincidente con una figura retorica dell’agiografia dell’epoca, d’altro lato collimerebbe con le tensioni che Gioacchino stesso esprime verso la propria famiglia in una sua opera - la Concordia Novi ac veteris Testamenti (V, 8) - e di cui ci racconta la biografia del vescovo Luca1. Tra i confratelli di san Francesco d’Assisi si troveranno certo molti gioachimiti: Manselli però osserva che il francescanesimo si presenta come movimento di forte critica dello stato esistente della Chiesa cattolica prima di ogni influenza gioachimita, come mostra l’atteggiamento di sant’Antonio da Padova. Tuttavia, la presenza di un’anima «condescensiva» nell’applicazione della Regola minoritica produce un rigetto dell’innesto del gioachimismo nel tessuto francescano 2. Resta il fatto che a differenza di Francesco d’Assisi, 1

La si può vedere in traduzione italiana nel già citato volume di A. STAGLIANÒ, L’abate calabrese, pp. 197-200. 2 R. MANSELLI, Accettazione e rifiuto della terza età, poi in R. MANSELLI, Da Gioacchino da Fiore a Cristoforo Colombo, p. 189, p. 190. 43

Gioacchino rifiuta una collocazione nel nuovo mondo urbano non già francescanamente per continuare a vivere in quel mondo pur esonerandosi dalle sue regole, bensì per rientrare apparentemente nell’universo della tradizione monastica che era e resterà tanto più legato all’universo del mondo feudale, oramai avviato al tramonto nell’Europa tutta, per sopravvivere a lungo solo nelle sue periferie, tra cui il Meridione d’Italia. Gioacchino transita quindi per il clero secolare - lo abbiamo già visto ricevere gli ordini minori dal vescovo di Catanzaro transitando al monastero di Corazzo -, si dà alla predicazione su quelle colline che danno sulla valle del Crati, magari proprio all’altezza del torrente Surdo. Questa predicazione è in qualche modo collegata al suo contatto con l’ambiente monastico dell’abbazia della Sambucina, ma la sua vita religiosa per ora si integra nella comunità benedettina di Santa Maria del Corazzo, dove diviene rapidamente priore e dove alla rinuncia dell’abate Colombano segue la sua elezione da parte dei monaci nel 1177: cercò di consolidare lo statuto dei possedimenti di questa abbazia, rivolgendosi al mondo cistercense, prima alla comunità della Sambucina, da lui già esperita nel passato, poi alla comunità laziale di Casamari, ma in entrambi i casi ottenne risposte negative, legate alla geopolitica di quei monasteri. Se dobbiamo prestare fede alle lamentele dei suoi compagni di comunità di Santa Maria del Corazzo, cui il Papa diede ascolto nel 1188 affiliando questa comunità all’Abbazia di Fossanova, una comunità cistercense collocata nell’attuale provincia di Lati44

na, queste peregrinazioni di Gioacchino sembrano dirette più ad affrancarsi dai suoi doveri politici di abate che al rafforzamento del ruolo del monastero di Corazzo. Certo è che durante il suo soggiorno a Casamari, dove conobbe anche il suo biografo Luca Campano, poi vescovo di Cosenza, si consacrò alla sua opera di scrittore ed interprete delle Scritture, in cui poté immergersi totalmente con soddisfazione sua e dei suoi confratelli di Corazzo quando le loro strade si separarono appunto nel 1188, una volta che Gioacchino si ritira insieme ad alcuni discepoli a Pietralata, che preferisce chiamare Petra Olei, e la comunità ex-benedettina di Corazzo entra nella costellazione cistercense, come filiazione del già citato monastero di Fossanova. La sua vocazione eremitica, che è in ultima analisi un rifiuto del mondo urbano associato al rifiuto anche del mondo feudale, lo conduce a cercare l’isolamento sull’altopiano silano, dove in una località ora indicata nella memoria storica come Jure Vetere1 fonda appunto nell’autunno del 1188 l’abbazia florense, dove si insedierà l’anno successivo, più precisamente il protomonastero di Fiore Vetere, nucleo di riferimento geografico, almeno sino all’incendio che lo devasterà nel 1214, di quella che diverrà la località di San Giovanni 1

Si può vedere una mappa dei luoghi gioachimiani in Sila in G. BERTELLI, D. ROUBIS, F. SOGLIANI, I siti florensi della Sila: la scoperta della prima fondazione monastica di Gioacchino da Fiore a Jure Vetere (S. Giovanni in Fiore), in I luoghi di Gioacchino da Fiore, pp. 119-145, a p. 138. 45

in Fiore. Suggestivo è considerare che la parola ‘fiore’ venne individuata da Gioacchino credendo di tradurre dall’ebraico la parola Nazareth, con significati escatologici e geografici che sono l’ordito con cui è tessuta la trama cristiana del suo discorso, un ordito capace di evocare un cristianesimo simbolico e emblematico che male si adatta alla razionalità del diritto canonico o della teologia scolastica 1. In ogni caso, non prima del 1194 sarà chiarita la situazione feudale dei possedimenti dell’insediamento monastico di Jure Vetere, passato dalla forma originaria di eremiti isolati a quella di eremiti raggruppati in forma cenobitica 2, ossia comunitaria, con il consueto intreccio di privilegi legati ai prodotti della terra, non prima cioè di un intervento esplicito di Enrico VI, dopo anni di confusione politica e giuridica. Le testimonianze esprimono una forma di vita religiosa gioachimita, che il successore di Gioacchino, l’abate Matteo, intende preservare e fare sviluppare, nella galassia della famiglia benedettina. Il destino dei monaci florensi venne separato dai pontefici da ogni eventuale rigore contro la dottrina trinitaria del loro fondatore, mostrando quindi l’assenza di ogni ac1

Per il punto ‘etimologico’, S. E. WESSLEY, The Role of the Holy Land for the Early Followers of Joachim of Fiore, in R. N. SWANSON, edited by, The Holy Land, Holy Lands, and Christian History, Rochester 2000, p. 185. 2 G. ANDENNA, Il monachesimo florense ed il papato sino alla metà del Duecento, in Cosimo Damiano Fonseca, a cura di, L’esperienza monastica florense e la Puglia, Roma 2007, pp. 29-60, a pp. 31-32. 46

canimento nella politica ecclesiastica contro l’istituzione florense, pure in presenza di un intervento censorio in materia di ortodossia dottrinale1. Ma il loro destino è pur sempre breve2: forse più che le fratture interne, in piena evoluzione e consolidamento a partire dai primi anni della seconda metà del XIII secolo, sarà forse la loro eccentricità rispetto al modello dominante ecclesiologico latino a condannarli alla marginalità, esemplificata nella loro scelta tra eremo e cenobio in stridente contrasto rispetto al modello dilagante urbano degli Ordini mendicanti. E’ comunque negli ultimi anni della vita di Gioacchino che la vocazione alla scrittura, coltivata anche grazie alle concessioni pontificie che lo esoneravano dal carico consueto di preoccupazioni amministrative di un abate, si traduce nella sua opera esegetica e teologica, ma che non potremmo certo definire filosofica in senso stretto. Ed è negli ultimi anni della sua vita, se non in quelli immediatamente successivi, che si consolida la raccolta di figure del Liber figurarum, in cui le

1

G. ANDENNA, Il monachesimo florense ed il papato sino alla metà del Duecento, pp. 40-41. 2 Per una panoramica efficace rinvio a M. SALERNO, “Fra cielo e terra”. Gioacchino e i Florensi tra vita religiosa e pratiche economiche, in A. VACCARO, a cura di, Storia, religione e società tra Oriente e Occidente (sec. IX-XIX), Lecce 2013, pp. 113-135. 47

didascalie possono per alcuni essere soppiantate dalle figure stesse1. Occorre, per evitare ogni fraintendimento ed equivoco, chiedersi perché il ricorso sistematico al simbolico, al ‘pensare per figure’, come lo si è voluto chiamare, da parte di Gioacchino possa avergli procurato un posto disagevole nella cultura medievale dominante. La chiave di volta per comprendere il luogo del simbolo nella cultura medievale dominante sono i Libri carolini, che disponiamo in una edizione critica recente2: di fronte ad una più che esitante traduzione latina di un passo del Secondo concilio niceno del 787, traduzione che suggeriva la liceità dell’adorazione dell’immagine, superando la venerazione ad esse dovuta e allargando l’esclusiva adorazione dovuta a Dio, Carlo Magno assume in pieno la sua funzione di campione 1

A. STAGLIANÒ, L’abate calabrese, p. 62, cita il contributo di Fabio Troncarelli che considera l’opera pienamente gioachimita, e che solo per distorsione divenne gioachimista, ossia tradimento del pensiero del maestro e forma standard, però, nella cultura occidentale, di leggerlo o di ‘vederlo’. 2 Opus Caroli regi contra synodum (Libri carolini), ed. A. Freeman, with P. Meyvaert (Monumenta Germaniae Historica, Concilia, 2, suppl. 1), Hannover 1998. L’editrice critica ha inaugurato l’interesse per quest’opera nella seconda metà del XX secolo con il suo studio seminale A. FREEMAN, Theodulf of Orleans and the Libri Carolini, «Speculum», 32 (1957), pp. 663–705, sino agli esiti raccolti in A. FREEMAN, Theodulf of Orléans: Charlemagne’s Spokesman Against the Second Council of Nicaea, Aldershot 2003. 48

della teologia politica ed affida ad un membro della sua curia, Teodolfo di Orleans, di smentire quel proposito ritenuto deviante. Ecco che nel 793 sono composti i Libri carolini, che fissano una volta per tutte nel mondo latino cristiano - all’interno della teologia politica dominante - lo statuto dell’immagine, che non è mai oggetto di adorazione, bensì di venerazione, e che deve essere accompagnata dalle opportune strutture ermeneutiche per garantirne l’ortodossia. Maria Bettetini ha fornito un contributo estremamente utile per chi voglia accedere a questa fonte capitale per la geocultura latina medievale del sacro, un contributo che oppone la ‘silenziosa decorazione’ alla ‘fonte dello spirito’1: l’immagine contiene un surplus di significato irriducibile alle operazioni linguistiche che si possono condurre introno ad essa, ossia l’immagine è una silenziosa decorazione, quindi incapace di dire qualcosa, quando non sia associata alle opportune didascalie (tituli)2 e ad 1

M. BETTETINI, Lo statuto dell’immagine, silenziosa decorazione o fonte dello spirito. Percorsi dall’epoca carolingia a Gioacchino, in A. GHISALBERTI, a cura di, Pensare per figure, pp. 9-31. 2 Nell’opera di un prestigioso intellettuale dell’epoca carolingia, Rabano Mauro, Liber de laudibus Sanctae Crucis, le figure sono accompagnate dalla declaratio figurae, l’inevitabile didascalia. Per di più, le stesse figure sono immerse in un mare di lettere che ne è lo sfondo, ed il testo che fa da sfondo è ritrascritto a seguito della figura, per sottolineare il primato del linguaggio e delimitare saldamente la possibile pulsione verso l’indicibile. La monografia di riferimento è quella di M. C. FERRARI, Il ‘Liber sanctae crucis’ di Rabano Mauro, Bern 49

una impalcatura ermeneutica, oppure l’immagine contiene questo surplus di significato e si rivela così una fonte, di fatto gerarchicamente sovraordinata al linguaggio, dello Spirito santo1? Mentre la risposta di Gioacchino mostra numerosi spunti in questa seconda direzione, e certo alcuni suoi interpreti nei secoli hanno voluto vedere nelle immagini - grafiche e/o linguistiche - che ci offre un eccesso di significato rispetto al linguaggio stesso, ed anche se è sempre possibile leggerlo in direzione alternativa perché nel senso della silenziosa immagine, la risposta dei Libri carolini è perentoria, così come è perentoria la messa al servizio della civiltà dell’interpretazione che Carlo Magno opera con la sua teologia politica. Considerata chiusa la fase della Rivelazione, considerato determinato dalla Tradizione - riconosciuta dalla Sede apostolica - il patrimonio della fede, Carlo Magno si considera uno dei termini dello schema ternario, che coinvolge papa, imperatore e Dio, in cui il Terzo divino investe il potere imperiale come legittimo grazie al ruolo di mediatore 1999, ma si può vedere una bella riproduzione delle immagini tratte da un manoscritto vaticano nell’edizione critica nel Corpus Christianorum Continuatio Mediaevalis, 100-100A, Turnhoult 2000. Sebbene non contenga tutte le immagini, in rete si trovano riprodotte a colori le immagini di un manoscritto conservato a Berna, all’indirizzo http://www.ecodices.unifr.ch/it/thumbs/bbb/0009. 1 Si veda C. CHAZELLE, Not in Painting But in Writing: Augustine and the Supremacy of the World in the Libri Carolini, in Reading and Wisdom: The De doctrina christiana of Augustine in the Middle Ages, Notre Dame 1995, pp. 1-22. 50

del pontefice romano: il primato della parola è sancito sull’immagine, per il semplice fatto che oggetto di interpretazione, l’arte in cui eccelse la civiltà romana grazie al monumento giuridico che seppe produrre, è il linguaggio, e non già uno stato di cose. Se è vero che Giovanni Scoto Eriugena, sulla falsariga del neoplatonismo, toglie l’uso della parola ‘simbolo’ dalla sola espressione symbolum fidei - il deposito della fede - per estenderlo a tutte una serie di espressioni semantiche che stiracchiano le ordinarie operazioni linguistiche di significanza 1, è altrettanto vero che non esce dal paradigma tracciato dai Libri carolini, che condannano piuttosto ogni approccio gnosticheggiante all’immagine che ne voglia fare una pietra miliare di un percorso iniziatico. Non mi situo sulla stessa falsariga dell’analisi di Maria Bettetini, anche ciò che ella afferma non è scorretto: dopo i Libri carolini, «le immagini non potevano più essere buone o cattive, ma diventavano solo utili o inutili e, soprattutto, belle o brutte. Così come la cultura occidentale le ha poi considerate nei tredici se1

F. PAPARELLA, Le teorie neoplatoniche del simbolo. Il caso di Giovanni Eriugena, Milano 2008, pp. 144-147: in queste pagine è mostrata la differenza tra simbolo ed allegoria, il primo apertura sulle verità metafisiche ultime (metafora fondamentale), la seconda strumento ermeneutico di livello meno primario. Esaltazione del simbolo, certo, ma in una stretta dipendenza dal linguaggio, così come mostra tutta l’accurata tassonomia offerta da Paparella. A proposito di Eriugena, Paparella evoca la «dialettica di nascondimento e di rivelazione del simbolo» (p. 153), che è equivalente al dire l’indicibile della contemporanea antropologia psicoanalitica di Jacques Lacan. 51

coli successivi»1. Forse farei meglio a dire che non avrei scritto quest’ultima frase nello stesso modo, poiché Bettetini dice chiaramente quello che per me è il fulcro dei Libri carolini: ciò che li sostiene è «l’esegesi delle Scritture come unica fonte di verità» 2, tesi fondamentale del De doctrina christiana agostiniano. Prima della secolarizzazione moderna, finché l’identità dogmatica cristiana era percepita in modo sensibile, così come lo era quella musulmana nei territori islamici, o quella ebraica nelle comunità giudaiche, le immagini erano soprattutto percepite come segni nonlinguistici, da cui l’interesse di Scoto Eriugena per una loro tassografia, incapaci di analisi ermeneutica senza l’ausilio di una struttura linguistica associata. Questo era il luogo coerente delle immagini in una civiltà dell’interpretazione, fondata su due corpi testuali, quello giuridico e quello religioso. In assenza di tale struttura, le immagini sono oggetto di commento e di uso, belle o brutte, utili e inutili: l’autonomia dell’arte è l’esito del rifiuto di operazioni semantiche di tipo esoterico o iniziatico, ma si associa anche alla rimozione della valenza inconscia del simbolo e dell’emblema, e questa valenza ritornerà a fare sentire la sua voce silente, lasciando sempre aperta, a dispetto di ogni inten1

M. BETTETINI, Lo statuto dell’immagine, silenziosa decorazione o fonte dello spirito, p. 11. 2 M. BETTETINI, Lo statuto dell’immagine, silenziosa decorazione o fonte dello spirito, p. 13. 52

zione, la porta a strategie alternative di tipo esoterico o iniziatico. In fondo è l’interazione tra diritto romano e religione cristiana che ha evitato sia il rifiuto, sia l’esaltazione delle immagini: è tutt’altro che un caso il fatto che nel contesto musulmano l’immagine sia solo geometrica nei luoghi di culto, e che la tradizione giudaica arrivi a non volere neppure pronunciare il nome del Dio unico, od ancora che il protestantesimo abbia impoverito drasticamente le decorazioni dei luoghi di culto. Le prime due tradizioni sono sempre rimaste impermeabili all’eredità giuridica romanistica, la terza è un cristianesimo che nasce dall’atto di Lutero di bruciare in piazza la Summa angelica, testo di riflessione filosofica sulle basi del diritto canonico, ossia l’evacuazione dell’eredità romanistica dal corpo cattolico, rinnegano il percorso che da Eusebio di Cesarea passa per papa Gelasio I ed arriva a Carlo Magno. Se ora pensiamo ai disegni gioachimiani che tratteggiano diverse concezioni della Trinità 1, e li pensia1

Rinvio a E. HONÉE, Symbolik und Kontext von Joachim von Fiores “antilombardischen Figuren”: Zur Interpretation von Tafel XXVI in der Faksimile-Ausgabe des Liber Figurarum, Pensare per figure, A. Ghisalberti, a cura di, pp. 137-157; poi, J. DEVRIENDT, Du triangle au Psaltérion: l’apport de Joachim de Flore à l’une des représentations majeures de la Trinité, Pensare per figure, pp. 187-202. Vale la pena di notare che per Gioacchino sembra che la conformazione geometrica del disegno con il quale rappresenta la Trinità sia capace di esprimere la concezione ortodossa, la sua, 53

mo al di là di una mera funzione euristica, allora diventa chiaro che Gioacchino è uscito dalla teologia politica latina dominante, per la quale «un affresco di Cristo in croce ricorderà l’evento storico della morte di Cristo, senza nulla aggiungere riguardo alla persona e alle due nature»1. Questa fuoriuscita dalla teologia politica latina carolingia non è sinonimo di esoterismo, se pensiamo al fatto che nel cristianesimo bizantino le icone si scrivono, un modo di esprimersi che non è solo proprio del discorso colto, quanto della lingua ordinaria della fede cristiana orientale. Il rettore di un seminario di rito cattolico orientale, come quello che opera nella città di Cosenza, può dire nel linguaggio ordinario di oggi che un’icona è stata scritta da un sacerdote del suo territorio. Questo modo di esprimersi non implica nessun esoterismo e nessuna tendenza iniziatica, anche se esclude la teologia politica carolingia: se pensiamo l’ermeneutica del testo giochiamiano in questa chiave, lo possiamo pensare altro dalla cultura cristiana latina dominante solo in quanto appartenente al discorso di un’altra geocultura cristiana, e non per altro. Resta il fatto che nella cultura latina l’espressione ‘pensare per figure’ è forse la cifra del fascino esercitato da contro quella deviante, sostenuta da Pietro Lombardo. Se questo fosse fondato, Gioacchino sarebbe completamente fuori dal paradigma ermeneutico del mondo latino occidentale marcato dal diritto romano, dall’epoca carolingia e dalla Scolastica. 1 M. BETTETINI, Lo statuto dell’immagine, silenziosa decorazione o fonte dello spirito, p. 15. 54

Gioacchino da Fiore senza alcuna evocazione bizantineggiante, un fascino sulle cui derive sempre in agguato ha giustamente ammonito il cardinale de Lubac1. E’ certo la cifra dell’incompatibilità di Gioacchino stesso con la civiltà latina dell’interpretazione, i cui due monumenti sono le glosse al corpo giuridico, sia esso canonico oppure romanistico, e le glosse alla Vulgata, il Testo sacro del cattolicesimo. Non si tratta qui di evocare per l’ennesima volta vicende processuali, quanto di prendere atto della refrattarietà del mondo latino cristiano al “pensare per figure”, ma non all’importanza della figura, che non è solo immagine anche alla portata degli analfabeti, ma è anche simbolo ed emblema della psicologia profonda dell’uomo, una dimensione che è stata scoperta dalla psicoanalisi nel contesto di una cultura novecentesca più che secolarizzata, ma che i Padri della chiesa, latini o greci che fossero, avevano già maneggiato in lungo ed in largo per una semplice ragione: il loro scopo principale non era costruire un discorso razionalizzato sul cristianesimo, bensì quello di costruire un discorso devozionale persuasivo, dato 1

H. de LUBAC, La posterité spirituelle de Joachim de Flore, III, Paris 1978-1980. Può essere utile vedere la lunga recensione di P. DEGHAYE, Henri de Lubac et Joachim de Flore, in «Journal for the Study of Western Esotericism», 3 (1986) pp. 25-40. Il problema che il cardinale de Lubac solleva sin da Exégèse médiévale, Paris 1959, è la teologia scritturale che presiede all’esegesi gioachimita: anche se l’espressione non vi ricorre, sotto accusa è proprio il “pensare per figure”. 55

che volevano evangelizzare i loro interlocutori, convertirli alla fede cristiana. Tante volte ci imbattiamo in lunghe accumulazioni di percorsi per cui un simbolo cristiano è stato ripreso e/o copiato da un uso religioso pre-esistente. Il punto è che non c’è discorso devozionale di sorta senza simboli ed emblemi, e questi due elementi non sono pertinenza di un culto o di una rivelazione, essi sono espressione delle invarianti umane, o se si preferisce dell’inconscio, o come altro lo si voglia chiamare; anche se poi quei simboli ed emblemi nella tradizione cattolica latina non sono ritenuti capaci di significare senza l’ausilio del Testo sacro, ed anche se poi la Scolastica coltiverà il razionalismo sino a poter pensare di fare a meno di simboli che non fossero del tutto riducibili ad una formulazione linguistica 1. Forse un’esasperazione di un rigoroso approccio filosofico analitico, forse anche un mutamento di prospettiva rispetto alla Patristica: lo scopo della Scolastica non è evangelizzare, bensì è mostrare a chi già crede (e quindi poter dare per scontati simboli ed emblemi) che ciò in cui crede è razionale - comunque, non si può negare 1

Anche se la Scolastica è segnata dall’aristotelismo, contiene tracce anche profonde del platonismo in quasi tutte le sue anime. Gioacchino era impermeabile alle categorie del neoplatonismo, ed in questo non segue i Padri della Chiesa greci, ma non segue neppure lo spirito filosofico che oramai dominava nel mondo latino a lui contemporaneo. Così, H. MOTTU, La manifestazione dello Spirito, p. 106. La sua esegesi non solo è separata dalla filosofia, sembra disdegnarla. 56

la tendenza a mettere almeno tra parentesi l’Enigma nel culmine del razionalismo ermeneutico della filosofia cristiana insegnata nelle università tra XIII e XIV secolo1. Che cosa stonava nelle analisi trinitarie gioachimite agli orecchi di un esponente della cultura dominante latina nel XIII secolo? Lo abbiamo già detto, lasciamo perdere la ricognizione delle analisi presunte o reali che promanano dai tribunali dell’epoca: i giudici medievali che si interrogano sulla conformità di un autore al deposito della fede, non fanno tanto opera di intellettualismo teologico, quanto opera di normatività sociale. Resta il fatto che collidere alla fine del XII secolo con l’approccio di Pietro Lombardo significa collidere con la massima espressione della filosofia cristiana del Medioevo, l’incipiente Scolastica. La Trinità, con la sua formidabile sfida al principio di contraddizione, si erige in terreno privilegiato per chi voglia dire l’indici1

Non si può però evitare di osservare che quando gli approcci all’immagine che hanno comunanza di famiglia con quello gioachimita sono intesi come ‘teologia figurativa’, un elemento di gnosticismo cristiano emerge con decisione e chiarezza, cosa che colloca questa chiave di lettura nella dimensione assolutamente centrifuga che ha avuto lo gnosticismo rispetto al paradigma dominante cristiano, quello gnosticismo così lucidamente tracciato da Eric Voegelin. Per la nozione di ‘teologia figurativa’, che è esplicitamente non solo storiografica bensì anche teoretica, M. RAININI, Disegni dei tempi. Il “Liber figurarum” e la teologia figurativa di Gioacchino da Fiore, Roma 2006. 57

bile: ogni ermeneutica trinitaria oscilla fra il rispetto linguistico del divieto di contraddizione e la banalizzazione della Trinità stessa - “in un senso sono tre, in un altro uno” -, da un lato, e dall’altro il superamento della contraddizione per parlarne solo in termini simbolici, usando un linguaggio che non è più il linguaggio 1. La Scolastica scelse di praticare la prima strategia: non-banalizzazione del dogma trinitario e razionalizzazione attraverso l’ermeneutica del linguaggio. Il ‘pensare per figure’ si colloca sulla riva opposta, ed affida all’emblema la custodia del significato trinitario: l’emblema però non ammette una normalizzazione delle interpretazione che lo riguardano, poiché esprime l’indicibile e l’indicibile non è normalizzabile. Se Legendre ha caratterizzato il periodo scolastico nel tentativo di suscitare l’amore verso i censori, i custodi dell’architettura dogmatica della società 2, diviene chiaro come porre l’emblema al centro del deposito della fede sia una minaccia terribile all’esistenza stessa del 1

Vi è un’altra alternativa, quella della logica paraconsistente, che permette di permanere in un razionalismo che non è quella della filosofia moderna seicentesca oppure settecentesca. Ma questa via non concede al simbolo uno statuto diverso dal razionalismo della logica classica. 2 Sono censori, non nel senso contemporaneo di censura solo morale, quanto nel senso con cui si poneva l’apposizione “il Censore” al nome del romano Catone, difensore dell’ordine tradizionale. Sono garanti della normatività sociale, ossia della sua struttura dogmatica. Rinvio a P. LEGENDRE, L’amour du censeur, Paris 1974. 58

discorso colto religioso. La teologia politica carolingia non può fare a meno dei simboli, ma non si può disegnare la Trinità e pretendere che questo simbolo così vergato sia la verità della Trinità; se le figure di Gioacchino avessero solo valore euristico, ossia “questo disegno rappresenta la mia spiegazione della Trinità e quest’altro disegno rappresenta la tua, che non mi piace”, avremmo solo un Gioacchino in rotta di collisione con le coordinate della filosofia cristiana dominante. Ma se avessero ragione quegli interpreti che vedono in quelle figure la verità stessa della Trinità, ossia figure che sono emblemi e simboli, come da noi definiti, con pretesa di discriminare il vero dal falso, allora Gioacchino sarebbe in rotta di collisione non solo con la Scolastica, bensì con la stessa geo-cultura cristiana dell’Occidente latino. Può essere un eccellente motivo per amarlo oppure per detestarlo, e la sua propensione per lo stile eremitico è indicativa del luogo da lui occupato nel flusso della cultura latina dominante. La scelta eremitica di Gioacchino è ribadita dal suo rifiuto di associare la sua comunità a un qualche monastero da rivitalizzare, come gli proponevano le istituzioni politiche dell’epoca: egli preferisce dare vita ad una nuova comunità, distinta simbolicamente dalle comunità religiose già esistenti, non disdegnando di entrare in conflitti di matrice giuridico-feudale sull’uso delle terre con altre comunità religiose, conflitti normativi che dissimulavano anche conflitti culturali e di 59

sensibilità religiosa. Fu papa Celestino III ad approvare l’istituzione di una nuova comunità monastica, la Congregazione florense, nell’agosto del 1196, una comunità spinta dallo specifico afflato escatologico del suo fondatore che la diresse sino all’anno della sua morte, il 30 marzo 1202, in località San Martino di Canale presso Pietrafitta, comunità che sotto il suo successore Matteo conobbe una proliferazione di possedimenti nell’Italia meridionale ed in altre parti d’Europa che sembrano indicare una normalizzazione rispetto alla tensione eremitica di Gioacchino, tanto che nel 1570 la congregazione perse ogni autonomia per riconfluire nella galassia cistercense da cui il fondatore aveva voluto differenziarla: Russo racconta con enfasi come il nostro abate del monastero divenuto cistercense di Corazzo insieme al suo confratello Raniero da Ponza nel 1189 si rifugia prima a Petralata, poi in Sila, ad Albaneto sulla confluenza del fiume Albo con il fiume Neto, da cui poi l’Archicenobio a S. Giovanni in Fiore. A dispetto della preferenza di papa Innocenzo III verso i Florensi nelle dispute normative che li opponevano contro comunità Basiliane e Cistercensi, resta il fatto che l’Ordine fu sempre osteggiato dalle realtà locali, come si esprime un interprete “in quel fervore di rinascita basiliana che, trascorsi i primi eccessi di latinizzazione, seguirono immediatamente alla conquista nor-

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manna”, sino alla sua scomparsa di fatto due secoli dopo che precede quella giuridica1.

1

F. RUSSO, L’eredità di Gioacchino da Fiore. La Congregazione florense, in «Archivio Storico per la Calabria e la Lucania», 21 (1952), pp. 131-144, p. 137. Sui monasteri basiliani, a titolo di esempio, A. BASILE, I Conventi Basiliani ad Aulinas sul M. S. Elia e di S. Elia Nuovo e S. Filareto nel territorio di Seminara, in «Archivio Storico per la Calabria e la Lucania», 14 (1945), pp. 19-36, 143-158, 261-278, con l’affermazione riportata nel testo che si colloca nel periodo storico di Gioacchino, a p. 36. 61

III L’INCONTRO CON LE PERSONE DIVINE

Che cosa accadde in Terrasanta a Gioacchino, che cosa accadde sul monte Tabor? Nel resoconto che si è voluto immaginare di questa esperienza, cronologicamente avvenuta o meno poco rileva, si gioca molto a livello simbolico dell’interpretazione che si voglia annettere al suo pensiero, un pensiero che alcuni apologeti contemporanei dell’abate si trovano a voler contestualizzare rigidamente nella sua epoca, per evitare di dare corpo a quella genealogia filosofica che il cardinale Henri de Lubac ha tracciato da Gioacchino alle utopie politiche ottocentesche 1. Sono emblematiche le parole di Fabio Troncarelli, che difende Gioacchino dal rimprovero di avere “generato Hegel o Marx”, un’osservazione del tutto pregnante, e che sfonda una porta aperta, dato che una genealogia di pensiero non è una genealogia generazionale; meno convincente è affermare che de Lubac sia fuori bersaglio quando attribuisce a Gioacchino un ruolo di capostipite in una li1

Si tratta di un’opera magistrale, anche se non può certo dirsi apologetica - H. DE LUBAC, La postérité spirituelle de Joachim de Flore, Paris 1981. 63

nea di pensiero, che non è una dottrina, bensì una famiglia di dottrine1, con l’argomento per cui ogni pensatore è un capostipite2, un argomento che taglia le gambe ad ogni tentativo di storia delle idee nonatomistico. L’idea che lo scritto trinitario anti-lombardiano sia l’espressione di una riflessione teologica immatura è difesa da Manselli, «una più precisa sensibilità teologica ... avrebbe dovuto far notare come Gioacchino rimanga sempre al limite, del resto difficile a precisarsi, fra ortodossia ed eterodossia»3. Il resoconto che ci viene dato della sua esperienza sul monte Tabor è importante perché ci permette di comprendere se Gioacchino sia assimilato dal narratore a quelli che nel XVII secolo saranno chiamati “illuminati”: ancora di più che ad analisi di contestualizzazione storica di un determinato pensatore, mi piace rimandare all’analisi della percezione simpatetica che si produce dell’idea di illuminati, dato che questa livello è quello pertinente per comprendere l’icona gioachimita attraverso i secoli4. La particolarità di un “illuminato” sta nel fatto di 1

Rinvio al volume di C. O’REGAN, Gnostic Return in Modernity, Albany N.Y. 2001, di cui si può scorrere l’indice dei nomi per l’icona gioachimita. 2 F. TRONCARELLI, Gioacchino da Fiore, pp. 57-58. 3 R. MANSELLI, Rassegna di studi gioachimiti, in «Archivio Storico per la Calabria e la Lucania», 28 (1959), pp. 117-123, poi raccolto in R. MANSELLI, Da Gioacchino da Fiore a Cristoforo Colombo, pp. 19-20. 4 Un libro fondamentale in questo senso è P.-A. TAGUIEFF, La foire aux Illuminés. Esotérisme, théorie du complot, extrémisme, Paris 2005, in particolare alle pp. 109-186. 64

avere ricevuto in un tempo cronologicamente ristretto una notte, pochi istanti in una certa notte - una rivelazione privata da parte di Dio che gli permette poi di ricomprendere le sacre scritture senza avere ricorso ad alcuna mediazione, né normativa, né epistemologica. Bohme - dalla prolissità ‘tsunamica’ -1 oppure Swedenborg - al di là della notorietà che Kant conferisce a Swedenborg analizzando i suoi sogni di visionario, può essere interessante vedere quella specie di catechismo di un cristianesimo non-trinitario, e molto altro, che ci ha offerto2 - sono dei classici esempi di illuminati, campioni del pensiero esoterico e di una rilettura del

1

Rinvio a F. CUNIBERTO, Jakob Böhme, Brescia 2000, e pure a C. O’REGAN, Gnostic Apocalypse. Jacob Boehmes’s haunted narrative, Albany N.Y. 2002. Per dare un’idea concreta della sua prolissità esorbitante tipica di un ‘illuminato’, il commento del libro della Genesi dovuto a Bohme occupa 854 pagine fittamente stampate nella traduzione inglese del 1924, poi ristampata anastaticamente come J. BOEHME, Mysterium Magnum. An Exposition of the First Book of Moses called Genesis, Cambridge 2002. 2 Rinvio a J. WILLIAMS-HOGAN, Swedenborg e le Chiese swedenborgiane, Torino 2004. La traduzione inglese del suo ‘catechismo’ è E. SWEDENBORG, The True Christian Religion, containing the Universal Theology of the New Chrurch, foretold by the Lord in Daniel VII. 13, 14; and in Revelation XXI. 1, 2, Philadelphia 1887, e nell’originale latino suona Vera Cristiana religio, continens universam theologiam Novae Ecclesiae a Domino apud Danielem cap. VII: 13-14, et in Apocalypsi cap. XXI: 1, 2 praedicatae, Amsterdam 1771. 65

cristianesimo che non è né cattolica, né protestante1. Chi ci racconta la vita di Gioacchino, nei vari secoli che seguono la sua morte, ci parla di un contatto con Dio sul Monte Tabor, ma ci parla anche di successive illuminazioni e visioni che costellano la sua vita: se la retorica del narratore pone sullo stesso livello le varie visioni, siamo di fronte al resoconto di un’esperienza mistica non dissimile da tante che vengono narrate nell’agiografia medievale; al contrario, se la retorica del narratore insiste sulla preminenza di una visione che può essere detta non solo una illuminazione, bensì l’Illuminazione, allora siamo di fronte ad una occorrenza del paradigma degli illuminati seicenteschi. Con questo linguaggio simbolico, che non è una dottrina particolare, bensì una cornice di possibili dottrine, si gioca l’appartenenza di Gioacchino al cristianesimo essoterico, con le sfumature sue proprie che lo differenziano da altri pensatori cattolici oppure protestanti, oppure la sua appartenenza al cristianesimo esoterico, quello che Voegelin per il Medioevo (ed oltre) chiama lo gnosticismo politico, all’interno di una visione della storia che rifiuta l’immanenza a favore della trascen-

1

Anche se potrebbe dirsi cristo-musulmana: rinvio a A. DONINELLI, In attesa della ‘Terza Età dello Spirito’. Confluenza di temi gioachimiti e tradizione islamica tramite Jakob Böhme nel millenarismo esoterico tra ‘800 e ‘900, in «Florensia», 18-19 (2004-2005), pp. 59-67, e a H. CORBIN, “Mundus imaginalis”, e “Herméneutique spirituelle comparée”, in Face de Dieu, face de l’homme, Paris 1984. 66

denza del Dio trinitario 1. E tutto questo senza cedere alle troppe ovvie suggestioni di vedere nelle profezie gioachimite un impulso alla devozione popolare, come avrebbe voluto Tondelli per il movimento dei flagellanti del 1260, tesi ricondotta nella sua dimensione meramente suggestiva da Manselli2, che peraltro rifugge dall’idea che la Terza Età dello Spirito sia una nuova Rivelazione, tesi fatta propria in senso apologetico dal modernismo cattolico, quanto piuttosto l’età del trionfo del monachesimo rinnovato3. Tutto mi pare si giochi intorno a questa dimensione dell’Illuminazione o delle illuminazioni, anche il rifiuto appassionato del dantista Michele Barbi di vedere in Dante influenze gioachimite 4, di quella drammatizza1

Rinvio al mio L. PARISOLI, Eric Voegelin e la categoria storiografica dello gnosticismo politico, in «Palomar», 8 (2008), pp. 81-93. Per usare l’immagine usata da Isaiah Berlin della volpe e del porcospino, Voegelin resta comunque un porcospino, un erudito che afferma di sapere una sola cosa l’opposizione nel cristianesimo tra visione gnostica e nongnostica - e si oppone alle mille cose che sa la volpe, perché spesso sono furbate. 2 R. MANSELLI, L’anno 1260 fu anno gioachimitico?, raccolto in R. MANSELLI, Da Gioacchino da Fiore a Cristoforo Colombo, pp. 34-35. 3 R. MANSELLI, L’attesa dell’età nuova ed il gioachimismo, poi raccolto in R. MANSELLI, Da Gioacchino da Fiore a Cristoforo Colombo, pp. 38-40. 4 Rinvio ai rilievi critici di R. MANSELLI, Dante e l’«Ecclesia Spiritualis», poi raccolto in R. MANSELLI, Da Gioacchino da Fiore a Cristoforo Colombo, p. 69. Nello stesso volume, si ve67

zione oliviana tra la vera Ecclesia spiritualis, anomica, e la secolare Ecclesia carnalis, normativista e calata nel mondo1. Non si deve comunque sottostimare che se la Terza Età può essere letta come una nuova Rivelazione, e certamente le letture in tal senso sono quelle che più sollecitano l’immaginario dell’uditorio, altrettanto è lecito negare che si tratti di una nuova Rivelazione, sino a identificare con Maria la Terza Età, alla quale compete un ruolo sponsale con cui sintetizza e sublima il ruolo della Chiesa sposa 2. In questa contrapposizione concettuale, che quest’ultima sia o no la lettura meglio calata storicamente nell’esegesi dei testi di Gioacchino, in fondo non è rilevante: la stessa lettura alternativa della Terza Età come nuova Rivelazione è ben più debitrice della farina del sacco degli interpreti che non dello stesso Gioacchino, cosa che mi pare autorizzi un confronto interpretativo nel meta-linguaggio dell’interprete piuttosto che nel linguaggio oggetto dell’autore. Resta il fatto che un paio di generazioni dopo Gioacchino da Fiore, san Bonaventura, ministro generale da anche R. MANSELLI, A proposito del cristianesimo di Dante: Gioacchino da Fiore, gioachimismo, spiritualismo francescano, e l’altro contributo Dante e gli spirituali francescani. 1 R. MANSELLI, Firenze nel Trecento: Santa Croce e la cultura francescana, in «Clio», 9 (1973), pp. 325-342, poi in R. MANSELLI, Da Gioacchino da Fiore a Cristoforo Colombo, pp. 257-273, a p. 261. 2 Così evoca G. SILVESTRE, Sacramento delle nozze e nuova evangelizzazione, Cosenza 2005, p. 95. 68

dell’Ordine dei frati minori, esalterà il cristocentrismo sino ad affermare esplicitamente che senza Cristo non ci si può occupare né di matematica, né di diritto, e che la logica senza Cristo è la scienza per eccellenza del demonio - così afferma in una delle sue ultime analisi, un discorso pronunciato di fronte ai suoi confratelli, raccolto tra le Collationes in Hexameron come il primo di questi discorsi. Angelo Clareno vedrà in san Bonaventura un aggressore dei gioachimiti all’interno dell’Ordine, in particolare Giovanni da Parma. Resta il fatto che se questo bonaventuriano è certo un discorso cristocentrico radicale, la Tradizione cristiana si forma attraverso san Bonaventura. Ma in Gioacchino vi è almeno un cristocentrismo standard rispetto alla tradizione cristiana? Henry Mottu, che pure si sforza di offrire un ritratto apologetico dell’abate calabrese, non può che rispondere no, come abbiamo già visto. Se cercassimo una risoluzione razionalista al problema del rapporto tra il Figlio Incarnato e la terza persona trinitaria, le parole della rivelazione e la concretizzazione nella storia della fede cristiana, ed ancora tra la dimensione paradossale della gratuità della grazia e del perdono nella dimensione della giustizia divina da un lato, e la inevitabile proceduralità ricorsiva della giustizia umana dall’altro, forse potremmo diradare le nebbie sulla teologia gioachimita, ma al tempo stesso mineremmo quel fascino impalpabile che il suo discorso, al di fuori esattamente di questo tentativo razionalistico,

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ha esercitato per secoli. A ciascuno poi il giudizio della accettabilità di questo fascino impalpabile 1. Altri interpreti filo-gioachimiti preferiscono trattare altri temi piuttosto che negare il docetismo gioachimita 2: riprendiamo ancora Henry Mottu, in Gioacchino da Fiore troviamo esaltata l’umiltà di Cristo, perché “è innanzi tutto nella sua ermeneutica che Gioacchino non è cristocentrico”3, in un quadro per cui “la Chiesa spirituale dell’avvenire è una Chiesa senza Scrittura” 4. “Non sono al centro del pensiero gioachimita né la risurrezione, né l’esaltazione e neppure la Croce, in quanto la crocifissione di Cristo è la realizzazione unica, definitiva e piena della salvezza ... la riflessione di Gioacchino si limita all’umiliazione di Cristo e sembra ignorare il suo dominio su tutte le cose” 5. In termini esegetici, i riferimenti alla lettera paolina ai Filippesi, 2, 6-7, 1

Parafraso così H. MOTTU, La manifestazione dello Spirito secondo Gioacchino da Fiore, Casale Monferrato 1983, p. 291, la cui conclusione del suo volume ho citato letteralmente in precedenza. 2 Devo la suggestione della questione del docetismo come rilevante e strategica per comprendere le analisi di Gioacchino da Fiore a Filippo Burgarella, con il quale ho spesso discusso sulla presenza tutt’altro che trascurabile di influenze cristianoorientali in Gioacchino. 3 H. MOTTU, La manifestazione dello Spirito, p. 86. Il giudizio, risalente a Morton Bloomfield sin dal 1957, pare difficilmente contestabile, semmai se ne possono contestare le conseguenze che se ne fanno derivare. 4 H. MOTTU, La manifestazione dello Spirito, p. 87. 5 H. MOTTU, La manifestazione dello Spirito, p. 171. 70

sono compiuti senza prendere in considerazione anche i successivi versetti 8-11: la prospettiva agostiniana di Cristo come nodo centrale della storia non è più proponibile nell’universo del discorso di Gioacchino. L’omissione è inquietante perché anche la vergine Ifigenia è umile nell’accettare la sua sorte di capro espiatorio al fine di permettere che i venti soffino per smuovere la flotta greca, ma la Redenzione si compie nell’istante della morte, prima è preparata, con cura certo attraverso lo svelamento delle cose nascoste dall’origine del mondo, e con il trionfo della Croce si dischiude. Non è l’esaltazione dell’umiltà di Cristo che è originale nell’analisi del suo messaggio, essa si ritrova in tanti altri autori, lo è invece il silenzio sul compimento che avviene sulla Croce. Questo permette di dare più forza storica all’idea di un’età successiva a quella di Cristo, l’età del Paraclito, ma lascia irrisolto il nodo del circolo mimetico, che nella lettura di René Girard sarebbe invece caratterizzato come intollerabile dal messaggio cristiano. La sola umiltà, per quanto grandissima e grandiosa, non è capace di opporsi al circolo mimetico: l’umiltà predispone alla misericordia divina, misura della remunerazione divina. L’idea che la giustizia divina si amministri in base alla misericordia, non già sulla falsariga di rigide regole di giustizia, anticipa la filosofia dell’amore divino francescana, tuttavia Gioacchino sottolinea che questo vale soprattutto per il giusto, mentre il malvagio si auto-condanna1. 1

GIOACCHINO DA FIORE, Dialoghi sulla prescienza, edizione bilingue a cura di G.-L. Potestà, Roma 2001, pp. 44-45. Nella 71

Ora, al capro espiatorio la logica del circolo mimetico chiede proprio l’umiltà di accettare che uno solo muoia per il bene di tutti. In Gioacchino cade la complessità cristologica che si ritrova in tanti Padri della Chiesa: Lattanzio, per esempio, nella sua Epitome esalta l’umiltà di Cristo, osservando che nella morte di Croce non si conserva nessuna dignità, Cristo muore miseramente perché tutti gli umili possano seguirlo nella sua morte, e la Croce lo innalza (46, 1-7). In Lattanzio humilissumus riecheggia ancora la discriminazione sociale di fronte ai tribunali, per cui l’uomo humilissimus si oppone all’uomo honestius, i quali, indipendentemente dalle loro qualità morali personali, per il fatto della nascita e dell’appartenenza alle classi sociali, saranno soggetti a diverse regole giuridiche 1. In Gioacchino la dimensione dell’umiltà è schiettamente morale, con una valenza monastica non facilmente fissabile al di fuori di un qualche riferimento alle inclinazioni docetiste del mondo cristiano bizantino, sino ad annullare la valenza normativa di una condotta del Cristo che rifiuta radicalmente le regole del circolo mimetico, ossia rifiuta sia di essere vittima, sia di essere persecutore. Come dice Lattanzio, il segno della Passione è capace di cacciare i demoni. E quando in Gioacchino l’umiltà filosofia francescana Dio può salvare Giuda e dannare Pietro: una rivoluzione concettuale si opera a partire da fermenti della spiritualità cristiana. 1 Per queste indicazioni si vedano le note di Michel Perrin che ha curato per le Sources chrétiennes (n° 335) l’Epitomé des Institutions divines, Paris 1987, pp. 182-183. 72

non ha una dimensione schiettamente morale 1, l’umiliato è colui che soffre oggettivamente la persecuzione a causa di un altro, è per esempio un povero involontario (per usare categorie marxiane, ma anche presenti nei commentari al Decreto di Graziano o nel movimento francescano), ma questo basta per predestinarlo agli occhi di Dio. Tuttavia, mentre nelle categorie marxiane il povero dotato della sufficiente coscienza di classe è un potenziale eroe della rivoluzione (senza tale coscienza, è un povero traditore), nelle categorie medievali, analizzate dallo storico delle idee Brian Tierney con efficacia, il povero volontario raggiunge uno stato di valore morale, quello involontario uno stato di potenziale disvalore morale, dato che la mancanza di beni non accettata genera l’avidità (in latino, rapacitas) - ovviamente, il povero involontario che accetta la sua mancanza di beni non è toccato da nessun disvalore morale. Questa lettura “oggettivistica” degli ultimi che saranno i primi non poteva mancare di favorire degli spiriti che si accollavano il compito di realizzare sulla Terra la giustizia divina, e rendere con le armi in pugno gli ultimi primi. Anche questo è la perpetuazione del circolo mimetico, anche se gli “umili” di Gioacchino attribuiscono ogni cosa buona che fanno al Creatore2. Sino a qui non si può dire che Gioacchino abbia negato il trionfo della Croce, bensì che nell’economia del suo discorso esso risulti omesso: non lo si può considerare per questo eterodosso, ma certo diverso da 1 2

Per esempio, Dialoghi sulla prescienza, pp. 44-47. Dialoghi sulla prescienza, pp. 58-59. 73

tanti altri pensatori cristiani. Non si può dire che egli abbia fatto l’apologia del capro espiatorio, ma nel suo esame della parabola terrena di Cristo manca l’atto finale della condanna di ogni capro espiatorio.

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IV SLITTAMENTI DI SIGNIFICATO OPERATI SUL MESSAGGIO GIOACHIMIANO

Il mito dell’Evangelo eterno è stato studiato quale nota caratteristica della presenza di Gioacchino da Fiore nella cultura europea 1: cosa ha affascinato pensatori tanto diversi quali i filosofi del Romanticismo Tedesco e un poeta come Yeats, tutti analizzati da Reeves e da Gould? Penso che la cosa più ovvia sia di passare a leggere direttamente l’opera appena citata in nota, ma io vorrei suggerire una chiave di lettura che si aggiunge alle poderose analisi di Reeves e Gould. Vediamo l’essenziale del materiale gioachimita che permette di fabbricare il mito dell’Evangelo eterno: lo svolgimento della storia porta impresso il segno della Trinità che vi agisce senza sosta, in omaggio all’idea anti-gnostica per cui Dio opera nella storia; Dio si rivela nella storia - e la Rivelazione è uno dei tre pilastri di un’epistemologia conforme al deposito della fede cattolico (gli altri 1

Rinvio a M. REEVES, W. GOULD, Gioacchino da Fiore e il mito dell’Evangelo eterno nella cultura europea, Roma 2000; per la presenza di Gioacchino nel mondo contemporaneo si veda anche G. L. POTESTÀ, a cura di, Gioacchino da Fiore nella cultura contemporanea, Roma 2005. 75

sono il Magistero e la Tradizione) - e questo avviene secondo tre status, tre stadi che sono anche condizioni diverse, ognuno dei quali è associato ad una delle persone trinitarie, in una progressione che passa dall’età del Padre (pre-evangelica), a quella del Figlio (evangelica), sino a quella dello Spirito Santo (post-evangelica); l’età dello Spirito Santo deve ancora venire, ma un punto delicato - reso spinoso dal linguaggio per figure e non-analitico di Gioacchino - consiste nello stabilire se le età si succedano per superamento oppure per integrazione. Di primo acchito, sembra che esse siano semplicemente strettissimamente correlate, in omaggio alla stessa economia trinitaria, tanto da potere parlare della futura età dello Spirito Santo in base ai dati delle due età precedenti - questo non implica affatto un’idea di Evangelo eterno come di una nuova Scrittura oppure di un superamento della rivelazione dell’età del Figlio, ossia dei vangeli; Gioacchino conferisce all’intellectus spiritualis il compito di stabilire questo passaggio semantico dall’età del Padre - veterotestamentaria - e dall’età del Figlio - neo-testamentaria - all’età dello Spirito Santo. Quello che è problematico è che nel suo commento ai Vangeli gli uomini spirituali appaiono come i soli e veri rappresentanti di Cristo, mentre i chierici, i dottori, i maestri della Chiesa ufficiale appaiono come usurpatori quando spendono il nome di Cristo, ragione ultima della loro scomparsa a favore dei primi1. Non è un giudizio specifico su una 1

H. MOTTU, La manifestazione dello Spirito, p. 260, p. 280. Il riferimento è al Tractatus, 189, 28 - 190, 4, secondo la pagina76

singola posizione di questo chierico, è un giudizio onnicomprensivo; sarebbe stato curioso che la Scolastica osannasse Gioacchino. Al tempo stesso, la teoria stadiale, con le sue ambiguità ad un occhio razionalista e normativo, risulta affascinante per chi razionalista non è e neppure affascinato dalla normatività. Tutto si gioca intorno all’alternativa tra lettura allegorica e lettura esoterica basata sui simboli: se le tre età gioachimite sono lette in chiave allegorica, allora l’allegoria ci fa conoscere in maniera efficace ciò che possiamo conoscere in altro modo, muovendoci sullo stesso piano, per esempio possiamo conoscere linguisticamente e razionalmente; se invece esse sono suscettibili solo di lettura esoterica basata sui simboli, allora tutto cambia, poiché il simbolo esoterico, secondo una linea che va da Guénon a Corbin e oltre - peraltro segnata dalla fascinazione verso l’esoterismo musulmano -, annuncia un nuovo livello di coscienza diverso dall’evidenza razionale, ossia vuole dire l’indicibile, vuole con le parole, ed in ultima istanze con le figure, dire ciò che il linguaggio non può dire. Prendiamo un testo celebre del Tractatus gioachimiano: «secondo l’intelletto spirituale, possiamo assegnare gli stessi quattro Vangeli a quattro periodi. Nel Vangelo di Matteo, che incomincia da Abramo, ritroviamo tutta la divina pagina dell’Antico Testamento, la quale annunciava che il salvatore del mondo sarebbe nato dal seme di David e di Abramo secondo la carne; nel Vangelo di Luca, che tratta zione della vecchia edizione Buonaiuti del 1930. Per la traduzione italiana da me citata, Trattati sui quattro Vangeli, p. 142. 77

dell’infanzia e della crescita di Cristo fino ai dodici anni, ritroviamo la dottrina della Chiesa appena nata, la quale, muovendo da Giovanni Battista, come per intervalli di tempo, andò accrescendosi fino ai nostri tempi, secondo il passo di Daniele, ‘molti passeranno e la scienza aumenterà’ (Dn. 12, 4); nel Vangelo di Marco, nel quale si tratta della piena maturità di Cristo, cioè del tempo della sua predicazione, ritroviamo la dottrina spirituale, di cui dice l’Apostolo, ‘parliamo della sapienza tra i perfetti’ (1 Cor. 2, 6), la quale dottrina spirituale, cominciando nel tempo in cui sarà prossimo Elia, permarrà sino alla fine dei tempi; nel Vangelo di Giovanni ritroviamo quella sapienza ineffabile, che sarà nel tempo a venire, quando lo vedremo così come Egli è secondo quanto dice Paolo, ‘in questo momento vediamo attraverso uno specchio in enigma, allora vedremo faccia a faccia’ (1 Cor 13, 12)»1. Se la lettura è allegorica, senza nessuna pretesa di soppiantare gli schemi razionali della lettura esegetica consolidata, nessun problema; ma se si è mosso da un intento più o meno esoterico di cogliere significati indicibili nel discorso razionale, allora possono emergere punti problematici e fortemente originali: l’origine del cristiane1

Ho dato la traduzione italiana proposta in GIOACCHINO DA FIORE, Trattati sui quattro Vangeli, Roma 1999, pp. 5-6. Henry Mottu procedeva sull’edizione critica di Buonaiuti del 1930, questa traduzione italiana usa la nuova edizione di Francesco Santi del 1996. Nonostante ciò, la traduzione francese di Mottu, resa in italiano, conserva la sua vitalità concettuale: H. MOTTU, La manifestazione dello Spirito, p. 132. 78

simo potrebbe essere intesa in Giovanni Battista; Cristo sembra distinguersi in un’epoca in cui è bambino e in un’altra e successiva epoca in cui è pienamente maturo, quasi ci fosse un Cristo in divenire. Non ci dice Gioacchino come vada letto il suo testo, non ci fornisce le istruzioni per l’uso, è comunque certo che molti hanno preteso e voluto usarlo in senso esoterico, con conseguente devianza (voluta) dal deposito della fede cattolica. La lettura spirituale di un testo non può essere considerata problematica in un contesto cattolico, basti pensare all’opposizione tra l’uomo spirituale e l’uomo carnale, e tuttavia lo può divenire se la lettura spirituale è intesa in senso anomico, ossia contrapposta ad una lettura normativista, quindi tale da mettere in discussione l’identità dogmatica della Sede apostolica. Gioacchino procede piuttosto con una profonda ispirazione verso le parole di Gesù che non supera la legge antica, bensì la porta a compimento: l’autorità del testo biblico non viene alterata, solo che attraverso la comprensione spirituale che da essi procede il loro significato sarà pienamente realizzato nella nuova età. Escludendo la possibilità di un nuovo corpus sacro ad integrare il canonico, Gioacchino incarna la figura di un «rivoluzionario conservatore»1 che assegna agli ordini monastici contemplativi il ruolo di condurre la Chiesa verso la sua età finale. Se si fosse dato ascolto a questa idea, in un mondo medievale in cui già con Papa Innocenzo III 1

M. REEVES, W. GOULD, Gioacchino da Fiore e il mito dell’Evangelo eterno nella cultura europea, p. 8. 79

ci si getta alle spalle lo slancio degli ordini monastici militari e si apre rapidamente agli ordini mendicanti tipicamente urbani, il valore profetico del pensiero gioachimita non si sarebbe impelagato nelle more della previsione storica. Dico le more della previsione storica poiché nella Tradizione cristiana - almeno quella pre-riformata - la profezia non può essere assimilata ad una previsione storica, forma di devianza ereticale poiché la contingenza radicale del mondo esclude ogni previsione storica determinata, esattamente come esclude la liceità dell’astrologia: Thomas Münzer alla guida della rivolta dei contadini romperà con questa tradizione, facendo della lettura dell’Antico Testamento una descrizione degli avvenimenti del futuro immediato, ma non bisogna dimenticare che nello stesso pensiero riformato Münzer, trascinatore della rivolta dei contadini nel 1524 sino al massacro finale, non godette dei favori di Lutero proprio perché negatore di ogni forma di teologia politica non-secolarizzata. Engels inaugurerà il filone marxiano che vedrà nella guerra dei contadini e nel suo apostolo Münzer l’epopea di una nuova escatologia politica secolarizzata, che per ironia della storia verrà radicata nel chiliasmo di Gioacchino1: «Gioacchino è il teste esemplare della resistenza secolare dell’apocalittica ad ogni opera di riduzione del futuro all’‘aldilà’»2. Ed ancora Mottu, «il grande enigma storico dell’opera autentica di Gioac1

H. MOTTU, La manifestazione dello Spirito, p. 34, pp. 268272. 2 H. MOTTU, La manifestazione dello Spirito, p. 242. 80

chino sta nel saper perché questo ‘sistema’, così medievale e monastico, abbia potuto servire da cauzione a movimenti protestatari così diversi nella storia. Dopo la ventata gioachimita infatti, il mondo occidentale non diverrà un immenso monastero, come se la storia potesse tornare indietro, ma prenderà invece sempre più coscienza della sua storicità. La speranza concreta di Gioacchino non stette al passo della sua teologia della storia e, mentre egli poneva la sua riforma all’insegna di un ritorno all’eremitismo primitivo, il suo ‘nuovo sistema profetico’ doveva invece provocare gli spiriti, le mentalità e le istituzioni a anticipare il futuro»1. Il tempo dello Spirito si manifesterà in una trascendenza ideologica rispetto ad ogni previsione concreta, detto altrimenti forgerà un apparato inossidabile rivolto verso il futuro. Insomma, l’impeto profetico di Gioacchino venne trasmesso dimenticando il suo apparato conservatore, ed ecco che l’elemento rivoluzionario, non più contenuto dall’aggancio solido al presente per produrre una semantica edificante - e non già proteso ad una aleatoria previsione del futuro -, dilaga sino a configurare l’Evangelo eterno come nuovo corpus produttore di significato salvifico. Gerardo di Borgo San Donnino è la figura storica che si fa carico però di una icona dello spirito: egli attende un nuovo testo sacro, con una nuova rivelazione, e sta così per tutti i futuri cristiani anomisti, e fornisce loro un materiale gioachimita, a di1

H. MOTTU, La manifestazione dello Spirito, p. 272. 81

spetto delle intenzioni di Gioacchino stesso. Senza dimenticare il fondamentale commento In Hieremiam, liberamente ispirato all’opera di Gioacchino, che ne esaspera però drasticamente l’aggancio alla contemporaneità storica, usando parole molto più esplicite per esaltare il ruolo dei monaci nella Terza età, inserendovi la figura dei nuovi Ordini mendicanti, ed i francescani in particolari - Gioacchino era già morto quando l’Ordine minoritico nacque -, e la dannazione della memoria di Federico II, assimilata alla via verso l’Anticristo. Hames in questo contesto mostra l’esistenza di una presenza culturale ebraica in Calabria senza i voli pindarici di padre Russo: il kabbalista Abraham Abulafia gioca un ruolo non trascurabile nella formazione dell’icona gioachimita attraverso la lettura anomistica degli Spirituali francescani, e se non è necessario ipotizzare un’influenza del misticismo ebraico su Gioacchino, Hames mostra che nella geo-cultura calabrese gioachimismo e kabbalismo si coniugano come nel caso di Abraham Abulafia, in una dialettica che non passa attraverso i casi di ebrei convertiti al cristianesimo come il celebre Pietro Alfonsi, che ebbe contatti con Gioacchino stesso1. L’opera In Hieremiam che configura l’icona deviante gioachimita viene perfezionata nell’ambiente cistercense-florense e nell’ambiente francescano calabresi, a partire dall’originale del 1244 sino all’impiego del testo da parte di Salimbene da 1

H. J. HAMES, Like Angels on Jacob’s Ladder, Albany NY 2007, pp. 18-19. Si vedano almeno le conclusioni alle pp. 102107. 82

Parma negli anni ‘80 del XIII secolo, quel Salimbene da Parma cronachista che ci è prezioso perché dipinge la sua stessa parabola come quella di un gioachimita pentito. Moynihan sottolinea come la versione lunga di origine francescana mostra le più pesanti modifiche rispetto a quello che poteva essere il nucleo di Gioacchino stesso1. Il fatto che il gioachimismo dissidente si forgia con scritti liberamente ispirati a Gioacchino, e forgiati da francescani del movimento degli Spirituali installati in Calabria, mostra che si dà una specificità geo-culturale nello scontro più generale tra anime del francescanesimo che è in corso in quegli anni. E questa specificità si arricchisce anche delle pulsioni esoteriche di tecniche di origine kabbalistica come la decifrazione del significato recondito delle singole lettere dei nomi, una pulsione che si traduce nello scritto pseudogioachimita De semina scripturarum, scritto che Arnaldo da Villanova riterrà della mano di Gioacchino ed a cui apporrà una sua introduzione 2, e che userà come fonte principale anche per la sua Allocutio super signi-

1

R. MOYNIHAN, The Development of the ‘Pseudo-Joachim’ Commentary ‘Super Hieremiam’: New Manuscript Evidence, in «Mélanges de l’Ecole Française de Rome, Moyen Age Temps Modernes», 98 (1986), pp. 109-142; M. REEVES, The Influence of Prophecy in the Later Middle Ages, Oxford 1969, pp. 149-159, in particolare pp. 156-158; B. TÖPFER, Das kommende Reich des Friedens, Berlin 1964, pp. 108-115, tradotto come Il regno futuro della libertà, Genova 1992. 2 R. MANSELLI, La religiosità d’Arnaldo da Villanova, poi in Da Gioacchino da Fiore a Cristoforo Colombo, pp. 15-16. 83

ficatione nominis tetragammaton1 dal sapore inequivocabilmente kabbalistico. In fondo, tutti gli autori analizzati da Reeves e Gould hanno la stessa cosa in comune con Gerardo e gli Spirituali francescani, sono degli anomisti. Cosa intendo dire? Se la Rivelazione si presenta come un corpus di testi sintattici, la Tradizione ed il Magistero si presenta come testi prodotti a partire da operazioni di interpretazione sui testi della Rivelazione: il racconto delle tre età trinitarie di Gioacchino non è problematico per l’identità stessa della chiesa cattolica nella misura in cui non mette in discussione il fatto che qualunque operazione interpretativa deve partire da quei testi codificati e canonici. Non è solo questo un requisito per riconoscersi nell’identità cattolica, poiché la formazione della Tradizione e del Magistero è un processo di discriminazione tra interpretazioni accettabili, interpretazioni inaccettabili ed infine interpretazioni esclusive di altre. Sostenere che le Scritture sono soggette ad interpretazione privata significa rinunciare al Magistero ed alla Tradizione, un’operazione tipica non tanto del pensiero riformato, quanto della forma parcellizzata che lo stesso pensiero riformato a volte assume; ma sostenere che la Rivelazione è aperta, che c’è lo spazio per aprire un Evangelo eterno, questa è un’opzione incompatibile con un’identità dogmatica costituita a partire da un testo dato, proprio perché se il testo non è 1

Entrambi i lavori di Arnaldo di Villanova risalgono ad un periodo tra il 1280 e il 1290 quando si trovava a Montpellier. 84

dato una volta per tutte - ed è invece variabile - il dinamismo del significato non è offerto dalle operazioni interpretative - che operano sempre sullo stesso testo bensì dal mutamento del testo. Se ha ragione Pierre Legendre, ossia se la civiltà latina occidentale è un monumento romano-canonico, ossia una civiltà dell’interpretazione, la lettura di Gioacchino, deviante rispetto al paradigma dominante, diviene iconica per tutti i contestatori della natura normativista della civiltà latina occidentale. Non è tanto in specifiche operazioni esegetiche sul Testo sacro, quanto in questa struttura mentale che si cela l’interesse per il pensiero gioachimita: mentre le prime in fondo sollecitano l’interesse di chi presta una qualche fede al deposito della fede cristiano, la seconda è una matrice di una cultura e di una civiltà in generale. L’Evangelo eterno è un tradimento delle intenzioni di Gioacchino, ma dietro l’affabulazione intorno alle età trinitarie della storia vi è la tentazione anomica rispetto alla tradizione normativa che congiunge l’eredità romanistica e quella giudaico-cristiana.

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V TENSIONI STRUTTURALI NEL DISCORSO SIMBOLICO

Gioacchino da Fiore avanza in coppia con Rabano Mauro nel IV canto del Paradiso di Dante1: secondo una lettura assai persuasiva che devo a Giulio d’Onofrio, ciò che li accomuna nella semantica poetica di Dante è il loro parlare per figure, il loro strabismo per un discorso del simbolo e dell’allegoria, che per Rabano, uomo dell’epoca carolingia ed autore del celebre inno Veni Creator, culmina nel Liber de laudibus Sanctae Crucis, da lui offerto al regnante Ludovico il Pio. Si veda la celebre iconografia associata nella vecchia edizione della Patrologia Latina; l’opera è costituita da figure in cui su uno sfondo di lettere che configurano un testo si disegna un’immagine geometrica oppure figurativa, e poi dalla spiegazione della figura cui segue una lunga didascalia in cui si separa il testo di lettere in 1

Sulla consolidata presenza dell’insegnamento degli spirituali a Firenze, grazie a Pietro di Giovanni Olivi, rinvio a R. MANSELLI, Firenze nel Trecento: Santa Croce e la cultura francescana, poi in R. MANSELLI, Da Gioacchino da Fiore a Cristoforo Colombo, specie pp. 260-263. 87

continuo che fa da sfondo, ed una spiegazione dell’immagine1. Ludovico il Pio, rappresentato come miles christianus, è in piedi con una croce nella destra e uno scudo nella sinistra, sotto la corazza pettorale porta un chitone che arriva fino alle ginocchia, e sul nimbo la serie di lettere, che si inscrivono in esso, forma la frase: «Tu Cristo, incorona Luigi», mentre quelle che si inscrivono nella croce formano la frase: «Nel segno della tua Croce regni, o Cristo, che sei la vittoria e la vera salvezza secondo l’ordine». Eppure qualcosa mi sembra anche dividerli: certo ha ragione d’Onofrio quando sottolinea la loro propensione al parlare per figure, ma la normatività simbolica non è la stessa cosa dell’anomia simbolica, anche se sempre di un discorso per figure si tratta. Rabano Mauro fu una delle teste pensanti che legittimarono la teologia politica di Carlo Magno, innervata su una profonda tensione verso l’azione nomotetica in campo liturgico, quindi Rabano Mauro fu uomo del Mistero e del Simbolo, termini chiave del sacramento eucaristico, ma fu anche uomo della normatività che li fa manifestare nello spazio liturgico della messa. Possiamo dire altrettanto di Gio1

Lo si può vedere nella vecchia Patrologia latina, vol. 107, coll. 133-294, in particolare alle colonne 141-142 per l’immagine di Ludovico il Pio, e per la spiegazione di questa immagine colonne 143-146. Ma nell’edizione critica apparsa nel CCCM 100-100A, Turnhoult 2000, si trovano, come abbiamo già detto, le riproduzioni a colori delle immagini versificate tratte da un manoscritto conservato nella Biblioteca Vaticana. 88

acchino da Fiore? A me pare di no, data la cattiva stampa di cui oggi gode la teologia politica è forse solo un motivo di merito sottolineare che Gioacchino sembra non averne alcuna; ma per lo storico delle idee è giocoforza osservare che tra Rabano Mauro e Gioacchino da Fiore vi è un divario di clima geo-culturale enorme. Si pensi ad una figura come quella di Barlaam Calabro ancora nel XIV secolo, troppo latino per i teologi bizantini, troppo greco per i teologici latini scolastici, segno vivente di una geo-cultura specifica della Calabria - su questa falsariga si può comprendere la sua polemica contro gli esicasti, connotati come dediti a “pratiche del più dozzinale realismo” e ad un “detestabile materialismo”, mostrando una lontananza dall’idea di una pratica razionalizzabile dell’esperienza mistico-religioso, ed in senso inverso le accuse a Barlaam di preferire Platone ed Aristotele ai Padri della Chiesa, ossia la filosofia al deposito della fede che i Padri consolidano nella dimensione della Tradizione: “egli nacque scismatico e vi restò fino al 1342, cioè fino a quando si convertì alla Chiesa Cattolica. Abiurò una sola volta e soltanto i principi scismatici” 1. Dobbiamo peraltro considerare che nel secolo XIII, quello successivo alla morte di Gioacchino, la teologia politica cattolica raggiungerà le sue derivazioni più radicali, non solo nelle pagine teocratiche di canonisti come En1

G. SCHIRÒ, Un documento inedito sulla fede di Barlaam Calabro, in «Archivio Storico per la Calabria e la Lucania», 8 (1938), pp. 155-166, a p. 166: Barlaam appare come uomo schiacciato tra due mondi (p. 157). 89

rico di Susa, cardinale di Ostia, ma pure nel sogno teocratico di Bonifacio VIII, un papa che Agostino Paravicini Bagliani ha riscattato da una ingiusta leggenda nera1, alimentata proprio dal poeta Dante. Mi pare difficile che Dante, le cui posizioni politiche sono state ben inquadrate da Gilson in pagine dense ed efficaci 2, potesse simpatizzare per il Rabano Mauro della teologia politica carolingia: più probabile è che l’andare a braccetto con Gioacchino fornisca quarti di nobiltà a quest’ultimo, senza però che Dante defletta dalla sua ammirazione per chi non amò mai il diritto canonico ed eventualmente deprecasse ogni implicazione della Sede apostolica nella produzione di diritto. Se vogliamo cercare di tirare le fila sulla dimensione del simbolo che si pone come alternativa alla capacità significante del linguaggio, il punto su cui si gioca la problematicità del pensiero gioachimita, dobbiamo cercare di porre il problema in termini concettuali minimamente lineari. Il simbolo occupa un posto di rilievo nella tradizione latina cristiana, ed in senso generale gli si deve assegnare quella funzione che Pierre Legendre, sulla scorta di Lacan, attribuisce all’emblema3, 1

A. PARAVACINI BAGLIANI, Boniface VIII, Paris 2003. E. GILSON, Le metamorfosi della Città di Dio, Firenze 2010: il testo originale francese deriva dalle lezioni che Gilson tenne all’Université de Louvain nel 1952. 3 P. LEGENDRE, Le désir politique de Dieu, Paris 1988, p. 86: l’etimologia rinvia al gettare all’interno, ossia «l’emblématique met sur le devant de la scène le sujet rempli de signes et pose la question d’un remplissage de l’identité», tanto che le formula2

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termine calcato dal greco emballô, e che trova il corrispettivo nell’uso latino, soprattutto a partire dal IX secolo con Giovanni Scoto Eriugena, di un’altra parola greca, il simbolo - i symbola, ossia le due metà di un osso oppure di una moneta che in mano a due persone distinte permettono loro di riconoscersi quando si incontrano1. Per comprendere la problematica gioachimiana occorre integrare e superare la prospettiva tradizionale2, per accedere ad una prospettiva di antropologia lacaniana attraverso la quale intendere il simbolizioni del diritto che disciplina una società, mediante le procedure ermeneutiche che lo costituiscono, implicano un quadro di riferimento emblematico, a dispetto di ogni razionalismo che tende a farlo scomparire dalla scena dell’analisi linguistica. Come ricorda Bruno Pinchard in un suo articolo che evoca la lettura da parte di Henri de Lubac di Gioacchino da Fiore - B. PINCHARD, Sujet théologique, sujet initiatique: l’interprétation du joachimisme par Henri de Lubac et la figure de Dante, in «Les Etudes philosophiques», 2 (1995), pp. 247-267, a p. 247 il nome che gli inglesi hanno dato al razionalismo pratico è ‘secolarismo’ (la frase è attribuita a Alexander Erdan, l’autore de La France mystique. Tableau des excentricités religieuses de ce temps, Amsterdam 1858). 1 P. LEGENDRE, Le désir politique de Dieu, p. 89: si veda anche P. LEGENDRE, La 901e conclusion, Paris 1998, p. 245, che esprime l’idea dell’umano come simbolo vivente. La radice greca comune delle due parole è nel verbo ballô (P. LEGENDRE, Le désir politique de Dieu, p. 149). L’emblema è inciso sul legno, marchiato sul ferro: «les théories nous entrent dans la peau». 2 Una sola citazione: G. LADNER, Medieval and Modern Understanding of Symbolism. A Comparaison, in «Speculum», 54 (1979), pp. 223-256. 91

smo prima come ausilio di significato, ed è la prospettiva tradizionale, poi come immagine o evocazione nel linguaggio capace di fare a meno di ogni spiegazione linguistica. Un uso forte del simbolo: sulla scorta del grande storico medievale Georges Duby, ci avvicineremmo così all’analisi della natura deviante e marginale dell’amore cortese, alla complessa regolamentazione dei comportamenti sessuali (al di fuori di ogni riduzionismo fisiologico), al ricco immaginario nei racconti apparentemente - fantastici degli animali, nemici e mediatori1. Emblemi e simboli: il loro scopo ultimo è dire l’indicibile, ossia di porsi al di fuori del linguaggio e della sua limitazione semantica costituita dal principio di contraddizione, senza però rinunciare ad essere carichi di significato2, per esplorare quella parte costitutiva della natura umana che Pierre Legendre in una prospettiva lacaniana chiama l’Abisso3, il nostro inconscio, sino ad approdare a concezioni per cui il simbolo o 1

P. LEGENDRE, L’empire de la vérité, Paris 2001, p. 216. P. LEGENDRE, La 901e conclusion, p. 224: l’indicibile copre la parte più spaventosa e selvatica di ogni uomo, eppure ineliminabile - p. 248: l’indicibile è connaturato alla razionalità prima dell’uomo, cercare di sradicare l’indicibile è ritorcere la ragione contro la ragione stessa. 3 Rinvio per una sintesi ed una utile comparazione nel contesto genealogico a F. TALAHITE, L’engendrement chez Luc Boltanski et Pierre Legendre: lectures croisées, in «Enfance, Famille, Générations», 14 (2011), pp. 113-138, disponibile sul sito dell’omonima rivista, http://www.efg.inrs.ca/index.php/EFG. 2

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l’emblema manifestano quel significato che il linguaggio non riesce ad esprimere. Infatti, il simbolismo è un rapporto con il vuoto, con la differenza costitutiva, come nel quadro di Magritte - La lunette d’approche in cui una finestra con un’anta appena aperta mostra un cielo pieno di nuvole sulle due ante (e non solo su quella accostata) e un nero oscuro nell’apertura tra le due stesse ante. Abisso, enigma, simbolo, differenziazione, linguaggio e costituzione del soggetto umano sono in questa pittura che dice tutto questo perché non usa il linguaggio, è un simbolo, è un emblema, è lo svelamento di ciò che resterà velato. In questo senso proprio, un tentativo di dire l’indicibile è più di una qualche forma di teologia negativa, esso è esattamente dire (non-linguisticamente, con o senza il linguaggio) ciò che il linguaggio non può dire. Se in un’ottica razionalista questo approccio all’emblema può essere qualificato come potenzialmente pericoloso per le relazioni ordinate tra gli esseri umani1, per altro verso è semplicemente inevitabile, 1

Jacques Chiffoleau ha mostrato la stretta correlazione che sussiste tra la procedura straordinaria del processo inquisitorio, che dagli inizi del XIV pretende che l’imputato confessi tutto, esattamente tutto, quello che c’è da dire, e la necessità di sradicare i crimini indicibili, l’eresia e la lesa maestà (J. CHIFFOLEAU, Dire l’indicible. Remarques sur la categorie du nefandum du XIIe au XVe siècle, in «Annales. Economies, Sociétès, Civilizations», 45 (1990), pp. 289-324). Nonostante che il crimine sia indicibile, l’ansia della sua manipolazione razionale 93

qualunque sia poi il nostro giudizio di valore, politico, morale, sociale: l’Enigma è il non-conosciuto, il nonconoscibile, su cui si fonda la possibilità stessa della sfera umana.

Prendiamo un esempio concreto, formulato da Pierre Legendre, una tavola estratto dal volume Physica curiosa (1667) del gesuita Kaspar Schott, in cui appare un ragazzo con la testa cornuta ed una bocca enorme, con una coda che si innesta sull’ombelico: se si afferma che Schott è un testimone interessante nella storia fantasmatica dei mostri, nulla ci sconvolge, restiamo nel registro della razionalità, senza entrare nell’emblematico della figura. Se però racconto che da ragazzino ero un cane e che quell’amore mi ha salvato, allora la perplessità degli ascoltatori colpirà il parlante. Eppure, l’immagine nel contesto giuridico-politico conduce dall’orrore verso la sodomia alla repressione di una larga serie di peccati indicibili come attentati alla legittimità dell’ordinamento, attraverso una trasformazione della procedura penale poiché la verità non deve essere attestata dai testimoni - il crimine è secretum, poiché indicibile - quanto dall’imputato stesso - e nella confessione l’indicibile diviene iper-dettagliato. Alla fine, si svela «une chose que on pourrait donc paradoxalement imaginer vide et que nous avons cru pouvoir appeler ici à la suite des juristes romains et des canonistes la Majestas» (p. 316). Chi si colloca in un’identità dogmatica, constata nel significato fondamentale la pienezza della verità; chi se ne colloca fuori, constata piuttosto un guscio vuoto. 94

riprodotta da Schott ci parla proprio di questo: se messa in parole logicamente ordinate, rinunciando ad ogni metafora ed allusione, mostra la sua natura di indicibile1. L’enigma è qualcosa che non può essere detto, l’indicibile, dal verbo greco ainissomai, ma può essere evocato sebbene solo e soltanto oscuramente2. Non si tratta di un punto marginale, al contrario: non è neppure necessario evocare la storia di Edipo e dell’enigma della Sfinge, da sphiggô, stringere3 - metafora4 dell’enigma che ci soffoca, seppure essa sia così importante nella comprensione dell’uomo. Scava, scava, si arriva al desiderio incestuoso, ed alla barriera contro di esso, in cui l’enigma gioca un ruolo costitutivo. Non è in gioco una pratica 1

P. LEGENDRE, L’empire de la vérité, p. 217. Nel mondo contemporaneo, dove il registro della razionalità erode costantemente la barriera che divide gli uomini dagli animali, risuonano come battaglia di retroguardia le parole di un guaritore normanno citate da Legendre: la differenza tra noi e gli animali, è la cristianità (p. 219, e P. LEGENDRE, La différence entre eux et nous, in «La Critique», 1978, pp. 848-863). Anche il mio nonno paterno, Elia, quando doveva esprimere la pienezza dell’essere umano, usava sempre lo stesso termine: “cristiano”. Non è qui in gioco la specificità dell’identità dogmatica cristiana, è in gioco la differenza tra una qualunque identità dogmatica (ebraica, musulmana, shintoista, ..) e l’anomia del relativismo contemporaneo (anche se parla di diritti degli animali). 2 P. LEGENDRE, Le désir politique de Dieu, p. 134. 3 P. LEGENDRE, Le désir politique de Dieu, pp. 170-171. 4 Il greco metapherô corrisponde al latino translatio, il passaggio verso un nuovo significato, un trasloco dice Legendre. 95

sessuale, è in gioco l’identità del soggetto umano: nel discorso culturale medievale dominante, Dio era il garante dell’enigma, del suo esserci sempre 1. Sebbene sia un’inclinazione dell’animo umano quella di conoscere la soluzione il più rapidamente possibile, anche senza farsi porre neppure la domanda - così Sancio Panza nel Don Quixote, che da sempliciotto svela le perversioni che gli astuti ammantano di razionalità -, Legendre ci ammonisce che assecondare questa inclinazione è la cura principale dei regimi totalitari, che forniscono così la perversa illusione di un enigma di cui si viene a capo senza sapere come2.

In quest’ottica l’approccio alle dispute filosofiche cambia di segno: sotto il razionalismo della disputa sugli universali si cela, secondo Legendre, una «guerra di emblemi», ossia la costituzione stessa del soggetto umano 3, poiché «dire ce que sont les mots tout comme dire ce que sont les images - touche aux entrailles humaines»4. Ecco che la posizione nominalista di Ockham, ma anche quella realista alternativa di san Tommaso, diventano in questa prospettiva una cifra della Modernità occidentale, ossia quella di separare il discorso sul potere dal discorso sulle manifestazioni del potere: sebbene tra loro distinte 1

P. LEGENDRE, Le désir politique de Dieu, p. 177. P. LEGENDRE, Le désir politique de Dieu, p. 134. 3 P. LEGENDRE, Le désir politique de Dieu, p. 149. 4 P. LEGENDRE, Le désir politique de Dieu, p. 148. 2

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nel discorso colto, sono ancora più distinte (e tra loro omogenee) se comparate ad altre geo-culture, quella cinese per esempio, in cui la ritualità emblematica è una via di accesso necessaria alla comprensione del potere sociale. Insomma, dire cosa sono le parole e le immagini è anche un discorso primario che struttura il soggetto umano, dando luogo a contesti culturali alternativi: la nozione di imago dei, che per un pubblico specializzato evoca la dimensione personale nell’insegnamento di sant’Agostino, ha una valenza antropologica formidabile che il razionalismo non può adombrare. Se la persona è imago dei, allora in una persona vediamo Dio sia come immagine, sia come specchio, in una logica estetica che conduce Albrecht Dürer a tracciare sulla veronica che ha asciugato il viso di Gesù non già le sembianze divine, bensì quelle di lui stesso in un autoritratto1. L’immagine che rappresenta il Terzo divino, il nostro aggancio fuori di noi che ci consente di essere noi stessi, permette anche al Terzo di vedere noi che lo guardiamo. Le dispute teologiche e filosofiche hanno come posta ultima l’istituzione sociale «en ce sens qu’ils fonctionnent emblématiquement pour signifier politiquement»2: sotto l’apparenza puramente intellettuale, i grandi dibattiti sono la materia mitologica dell’intellettualismo occidentale, pri1 2

P. LEGENDRE, Dieu au miroir, Paris 1994, pp. 59-60. P. LEGENDRE, Le désir politique de Dieu, p. 162. 97

ma nel contesto che riconosce il valore normativo della cultura, poi anche in quel relativismo che offre l’illusione di una cultura anomica 1. Esistono ovviamente infinite sfumature di questa dimensione del simbolo, il quale ha necessariamente a che fare con il linguaggio, poiché anche chi ne affermi la radicale natura extra-linguistica non può che farlo affermandolo con la lingua 2: al capo opposto, il simbolo eucaristico è al cuore della liturgia cattolica, ma specie dopo il Concilio Vaticano II, sebbene in buona misura anche prima, il canone della consacrazione eucaristica è un testo normativo scritto, e l’epiclesi liturgica avviene attraverso le parole, accompagnate e non sostituibili dai gesti. Vi sono simboli che sono nelle parole, fatte per essere viste: la massima medievale secondo la quale l’imperatore, poi il papa, hanno il diritto nel loro petto - omnia iura habet in scrinio pectoris sui - sono per Legendre degli «argomenti emblematici», non dimostrazioni nel senso moderno della razionalità, bensì una «pa1

P. LEGENDRE, Le désir politique de Dieu, p. 163. Mi pare questa la chiave di lettura di tante correnti di pensiero che lambiscono e penetrano (non ufficialmente) il cristianesimo, con una opzione esoterica più o meno esplicita. Per una di queste storie, C. MORESCHINI, Storia dell’ermetismo cristiano, Brescia 2000: non è quanto propone Moreschini, ma a me pare che la chiave di lettura più feconda sia nei termini di un’antropologia psicoanalitica lacaniana. 2

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role articulée pour être vue»1, una parola che ci viene da dentro perché viene da fuori, da quello che chiamiamo Terzo. Se si dà l’inevitabilità del discorso simbolico e il suo rapporto ingarbugliato con la razionalità, quest’ultima cerca di occultare la natura emblematica di questo fondamento2. Sono gli stessi glossatori giuridici a tradire questa forza dirompente di una proposizione che si percepisce come metafora fondatrice, quando cercano di smontarne il rinvio all’Altro assoluto, all’indicibile: Cino da Pistoia, elencato da Kantorowicz nella sua minuziosa analisi delle analisi dei glossatori sul tema 3, invita a non comprendere la massima alla lettera - ossia a collocarla nell’ermeneutica linguistica - ed a comprendere che il petto del principe contiene tutti gli esperti di diritto, e la bocca del principe manifesta la voce di questi. Lettura rassicurante, tesa a togliere ogni dimensione angosciante e dirompente alla massima 1

P. LEGENDRE, Le désir politique de Dieu, p. 224. P. LEGENDRE, Les enfants du texte, Paris 1992, p. 117. Un esempio per tutti: la ricerca di buone ragioni per una norma, sino alla teoria tommasiana per cui una legge ingiusta non è una legge, adombra la natura ultima del normativo, quella di essere l’immotivato puro (P. LEGENDRE, La 901e conclusion, p. 128). Questo è manifestato, non già dimostrato, nel libro di Giobbe: questo libro fa parte della tradizione giudaico-cristiana e manifesta una metafora fondamentale di due identità, l’ebraica e la cristiana. 3 E. KANTOROWICZ, The King’s Two Body, Princeton 1957, p. 154. 2

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simbolica, per anestetizzarla in una stenografia mnemonica. All’interno di una civiltà dell’interpretazione, il simbolo irriducibile al linguaggio o è tollerato, oppure è relegato alla periferia del discorso, dove la marginalità e la devianza tendono a confondersi, che è la cifra della condanna dell’esoterismo da parte della cultura dominante latina. I Testi sacri non sono ipso facto l’Emblema assoluto: questo è solo un fraintendimento, poiché i Testi sacri, si chiamino Torah, Evangeli oppure Corano - ma anche Corpus iuris1 -, manifestano un modo della presenza della metafora fondamentale, e questo modo è il Simbolo assoluto2. La ritualità spontanea deve essere disciplinata dal razionalismo della Scolastica medievale: la pittura va valuta come se fosse una lezione orale (De consecratione, d. 3, c. 27); la danza viene ripetutamente condannata (concilio di Rouen, 1231, c. 14); Giovanni XXII nella Docta sanctorum del 1234 traccia una tassonomia della musica. La scienza del diritto pone il legale e l’illegale nelle manifestazioni rituali3: chiunque ritenga che il simbolo abbia una dimensione extra-linguistica, tale da sfuggire al po1

P. LEGENDRE, Les enfants du texte, p. 131. P. LEGENDRE, Les enfants du texte, p. 202. L’illusione dell’iper-razionalismo è il controllo totale della metafora fondamentale: se lo fosse, non sarebbe la metafora fondamentale. Un mito cessa di essere operativo, ossia di produrre i suoi effetti nor-mativi, se sa di essere un mito (p. 68). 3 P. LEGENDRE, Le désir politique de Dieu, p. 405. 2

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tere di regolamentazione del discorso colto, non può che essere deviante. E la scienza del diritto è l’altra cifra, insieme alla filosofia cristiana, della razionalità latina: è un canone di Graziano che oppone la circoncisione al battesimo (C. 26, q. 2, c. 9), cosa ovvia in molti sensi, ma che diventa nella razionalizzazione normativa l’opposizione tra l’emblema iscritto nella carne - secondo la sua etimologia - ed il simbolo iscritto nel canone linguistico - secondo la versione della civiltà dell’interpretazione medievale. Il simbolo, quindi: sia esso linguistico, sia esso extra-linguistico, si tratti del canone della consacrazione eucaristica, oppure della torsione linguistica che cerca di mettere in proposizioni quello che le proposizioni non possono fare - ciò che è detto, è dicibile, quindi dire l’indicibile con il linguaggio è quella che convengo di chiamare una torsione linguistica, altrimenti detto la fecondità del contraddittorio -, il simbolo percorre tutto il pensiero latino cristiano intorno al sacro. Attingendo a piene mani dal serbatoio della tradizione neo-platonica, in cui si rincorrono e si confondono, si raggiungono e si differenziano il platonismo cristianeggiante ed il cristianesimo platoneggiante, il pensiero cristiano pur nella sua risoluta scelta non-esoterica - che spinge l’esoterismo ad essere un fiume carsico, non più visibile in superficie ma dalla sorgente inesauribile non può assolutamente prescindere dal simbolo: è il 101

caso di Giovanni Scoto Eriugena, uno dei protagonisti intellettuali della stagione politica carolingia 1 che è per molti versi l’apologia della razionalità giuridica, anche al servizio della liturgia sacra, e non già della razionalità simbolica, quella che mette in contatto il finito e l’infinito come le due parti di un oggetto unitario spezzato; è il caso di Gioacchino da Fiore, di cui si è voluto dire che praticasse il pensare per figure e che certamente è stato così percepito dai suoi immediati contemporanei che ne hanno deprecato la strategia retorica. I suoi contemporanei collocati al di fuori della geo-cultura meridionale avrebbero anche potuto pensare che la prosa di Gioacchino esprimesse una sensibilità cristiana assai vicina al mondo bizantino, e proprio per questo l’avrebbero ancora deprecata; i nostri contemporanei, salvo lodevoli eccezioni, per esempio il già citato Robert Lerner, tendono a sottovalutare questa dimensione della prosa gioachimiana, e quando evocano il pensare per figure gravitano più in una dimensione gnosticheggiante e esoterica piuttosto che nella dimensione del docetismo orientale. 1

Nel già citato F. PAPARELLA, Le teorie neoplatoniche del simbolo, opportunamente Paparella inserisce nel titolo del secondo capitolo l’espressione ‘le fonti del dire traslato’, che pure in grammatica si chiamano figure retoriche. Mentre il termine ‘figura’ può evocare letture difformi dal razionalismo della tradizione latina, il dire traslato evoca una simbologia ontologicamente seconda rispetto al linguaggio, secondo una tradizione neo-platonica che forma le basi del discorso cristiano. 102

Si nutre poi anche del discorso non-colto, devozionale e pulsionale, che viene dal serbatoio delle plurime immagini del primo cristianesimo, in cui la necessità di parlare per codici linguisticamente nonespliciti incontra felicemente la pulsione profonda di manifestazione del mistero sacrale, e produce un nuovo simbolismo del regno animale che integra e trasforma il simbolismo dell’epoca classica greca1. Per quanto enorme, questo spettro semantico non copre tutta la latinità cristiana: il rigore analitico della scolastica, con la sua tensione verso lo stile analitico, rifiuta il simbolo nella sua dimensione più voluttuosa, per confinarla nell’inconscio da cui però non potrà mai essere espulso, oppure alla manifestazione del mistero che si celebra nella liturgia, regno 1

Un’opera fondamentale su questa dimensione specifica della grammatica del sacro nella tradizione cristiana è quella di L. CHARBONNEAU-LASSAY, Le bestiaire du Christ, Paris 2006, un’opera pubblicata per la prima volta nel 1943 praticamente senza alcuna diffusione e poi riedita in diverse ristampe dai contorni iniziatici e dai costi esorbitanti, certo legate ad una libera ermeneutica della personalità dell’autore, legato alle riviste del pensiero tradizionale guénoniano (Etudes traditionnelles, ma non solo), e che citava tra le sue fonti il gruppo ermetico ed iniziatico de l’Estoile internelle. E’ inutile un approccio razionalista a questa grande enciclopedia dell’emblema e del simbolo: se si considerano le immagini riportate come descritte dal testo scritto, se ne può lamentare l’origine spesso indeterminata o nebulosa; se però le immagini sono considerate come emblemi e simboli, esse valgano in quanto tali. 103

della performatività deontica, in cui la parola produce effetti; la razionalità del diritto romano medievale e di quello canonico non assumono il simbolo nella loro retorica di comunicazione, anche se forgiano norme simboliche e mettono il nuovo diritto al servizio del mistero del deposito della fede cattolica, tanto che alla fine del Medioevo il giurista Alciati redigerà un testo di tavole simboliche che mostrano il discorso morale delle virtù. Molta strada è stata percorsa da quando Rufino, uno dei primissimi commentatori del Decretum di Graziano, descriveva la funzione del potere nello stato adamitico come duobus quasi funiculis suspensa1, ponendo al cuore del diritto deposito della fede ed emblema, ma anche avviando un percorso che quel fondamento indicibile cercherà di adombrare, e così Legendre può commentare «la poésie, notamment sous ses formulations picturales et musicales offertes au grand nombre, se trouve dans la position structurale d’exercer la fonction mythologique en rappellant nos attaches imparlables, ces ficelles de fiction ... par lesquelles les institutions tiennent debout»2. Se si è dentro all’identità dogmatica, in questo caso cristiana, il nostro sostegno indicibile è percepito come assoluta1

RUFINUS, Summa decretorum, ed. H. Singer, Paderborn 1902, p. 4: questi due fili sono la rettitudine della giustizia e la luce della conoscenza. 2 P. LEGENDRE, Le désir politique de Dieu, p. 124. 104

mente reale; se si è all’esterno di tale identità, lo si percepisce come fittizio: il punto inescapabile è che quei fili, qualunque sia il materiale che li componga, ci devono essere, altrimenti non c’è il soggetto umano. Il razionalismo può adombrare l’emblema, giammai eliminarlo, poiché senza simboli non vi sarebbe nessun uomo a desiderare la razionalità. E vi è poi lo spazio dell’esoterismo, in cui il simbolo non convive più, non desidera più convivere con il dicibile, dato che l’indicibile è tutto ciò che conta e niente più 1. L’esoterismo si caratterizza in questi termini come un’impresa deontica alternativa a quella di un’identità religiosa dogmatica, per esempio quella cattolica: l’esoterismo in questa prospettiva è refrattario all’approccio positivista verso il simbolismo, perché lo rubrica come folklore, come superstizione, come inconscio collettivo. Al contrario, chi si colloca in una prospettiva di identità dogmatica, conferisce al suo discorso un valore veritativo, e non già meramente descrittivo: così René Guénon può tuonare in termini apocalittici contro l’approccio psicoanalitico al simbolismo 2, non poi troppo differentemente da quanti in ambito cattolico diffidano dalla psicoanalisi. Non già perché l’approccio al simbolo sia condot1

Questo è l’esito che affascina molti in R. GUÉNON, Symboles fondamentaux de la Science sacrée, Paris 1962, poi tradotto in italiano, Simboli della Scienza sacra, Milano 1990. 2 R. GUÉNON, Tradition et «inconscient», in «Etudes tradtionnelles» (1949), poi in Simboli della Scienza sacra, pp. 46-49. 105

to in maniera fallace, quanto perché, sia per chi ricerca la Tradizione nascosta alla maggioranza degli uomini, sia per chi ricerca la razionalità totale del trascendente, l’antropologia dogmatica osserva dall’esterno la costituzione del soggetto umano che le diverse strategie intraprendono senza assumere la necessità di una difesa partigiana di quel discorso lì, e lo fa essenzialmente con la ricognizione delle immagini, poiché «l’esthétique nous enseigne que l’institution du sujet suppose la mise en scène sociale d’un miroir de l’indicible de l’amour»1. Al di là delle fondamentali motivazioni personali, si può dire che la conversione di Guénon al credo musulmano manifesti la sua vana ricerca di una concezione del simbolo sufficientemente protesa verso l’Enigma nel contesto cattolico, cosa non sorprendente se seguiamo le analisi di Legendre sul razionalismo della teologia colta scolastica che impoverisce e depaupera la dimensione simbolica. E l’antropologia psicoanalitica, in versione junghiana, non poteva confortarlo, vista la sua negazione della verofunzionalità fondamentale dell’Enigma. Guénon aveva compreso che il simbolo e l’emblema, estraniati da un discorso identitario forte, restano gingilli e ninnoli, inchiostro e pietra, materia assemblata nella mera sfera empiri-

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P. LEGENDRE, Les enfants du texte, p. 56. 106

ca1. Questo resta come un monito per evitare fraintendimenti grossolani: se calati nel relativismo culturale, i simboli e gli emblemi possono essere solo fraintesi, e divenire oggetti di discorsi culturali tipo New Age. L’alternativa non è l’obbligo di scegliere un’identità dogmatica, bensì quella di comprenderli al meglio cercando di cogliere i meccanismi che rendono inevitabile - a dispetto di ogni illusione iper-razionalista ed empiricizzante - la ricerca umana, attraverso i simboli, dell’enigma e dell’abisso. Per dire l’indicibile, sempre ai recessi della psiche umana occorre fare riferimento, anche se solo implicito per perseguire una reiezione (la rimozione di un significato fondamentale) che prima o poi presenterà il suo conto. Se possiamo comprendere il conto che presentava la cultura dominante del XIII secolo a Gioacchino, possiamo anche comprendere il conto che i simboli e gli emblemi di Gioacchino presentano ad ogni forma di razionalità scolastica.

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Questo non esclude che ci siano prospettive esoteriche più concilianti con la Modernità, che rifiutano l’atemporalismo guénoniano pur volendo perseguire in un’antropologia esoterica, e che non hanno problemi con le prospettive junghiane. Un rappresentante illustre ne è Gerhard Wehr, per cui rimando a P. DEGHAYE, Un ésotériste chrétien: Gerhard Wehr, in «Journal for the Study of Western Esotericism», 11 (1990), pp. 46-56. 107

VI IL FRANCESCANESIMO NELL’ALVEO MERIDIANO: ANGELO CLARENO E LO SGUARDO VERSO ORIENTE

Non voglio solo delineare brevemente la figura di Angelo Clareno, un francescano che ha vissuto a cavallo tra la fine del XIII e gli inizi del XIV secolo, ossia nel periodo più lacerante della storia delle divisioni all’interno dell’Ordine dei frati minori e delle opposizioni nei confronti di altri gruppi religiosi. Alla morte di Clareno, nel 1337, il Papa aveva scomunicato da otto anni i francescani dissidenti che si erano rifugiati nei territori germanici dell’imperatore Ludovico il Bavaro, quei fraticelli de opinione lontani dai fraticelli de paupere vita cui Clareno era più prossimo come mentalità religiosa, anche se la sua obbedienza a Roma restò sempre granitica1. In passato, per esempio Salimbene di Adam in pieno medioevo, si usarono le stesse paro1

Annota infatti la von Auw, in ANGELI CLARENI, Opera I. Epistole, a cura di L. von Auw, Roma 1980, sottolineando il rispetto di Clareno verso la gerarchia ecclesiastica, p. LXXXIII, con una forte contrapposizione all’altro Spirituale Ubertino di Casale, a p. LXXXVIII: «à la fois indocile et soumis, écartelé entre deux exigences contraires, Angelo a beaucoup soffert. On l’a accusé de duplicité, mais son être même était déchiré». 109

le, ricavate dalla Lettera ai Romani 10, 2, per prendere le distanze, senza indulgere in accuse gravi, sia da Gioacchino da Fiore, sia da Angelo Clareno: aveva certamente dello zelo, ma non diretto dalla scienza, disse Alvaro Pelagio, il penitenziere del papa Giovanni XXII, papa d’Avignone, riferendosi a Clareno, e lo stesso tenore usò Salimbene verso Gioacchino. Qui non è in questione la scienza, è in questione una scienza normativamente fondata che modella lo zelo: era però in entrambi i casi lo zelo della santità, e la scienza che mancò ai due fu semmai la conformità normativa al controllore politico della scienza. In ogni caso, nessuno dei due può dirsi disobbediente, nella misura in cui si disobbedisce ad un comando, a qualcosa che venga contestato, ma non si dice propriamente che si disobbedisce ad una elucubrazione, foss’anche fondata, dell’interprete delle nostre parole. E dico questo senza nessuna pretesa di una superiore neutralità storiografica, che pure è una virtù tipica della più recente e migliore storiografia, quella dei Potestà e degli Accrocca. Lo dico all’interno del mio paradigma interpretativo, che si fissa sulla natura costitutiva delle identità all’interno del movimento francescano e nell’area geoculturale del Meridione d’Italia. Clareno fu al tempo stesso un membro a parte intera di un’anima all’interno dell’Ordine francescano, usualmente detta degli Spirituali perché desiderosi di rifarsi sempre alle intenzioni del Santo fondatore, san Francesco, piuttosto che alle interpretazioni dei testi normativi accumulati dalla Sede apostolica e dai dirigenti dell’Ordine minoritico; ma 110

fu anche separato da ogni tentazione fraticellesca, nome convenzionale con cui si designano i frati francescani che entrano in disobbedienza attiva contro la Sede apostolica. L’elemento geo-culturale ha un peso notevole nella storia di Clareno per chi voglia interrogarsi su una specificità mediterranea: egli scelse la strada dell’esilio verso la Grecia quando si trovò in conflitto con il papato nel passaggio dal governo di Celestino V a quello di Bonifacio VIII, la stessa via praticata dalla congregazione dei celestiniani 1, ma anche una scelta naturale per lui che era stato delegato pontificio per una missione di evangelizzazione in Armenia molti anni prima - dopo essere uscito di prigione nel 1289. La vicenda è narrata da un illustre calabrese, Felice Tocco: dopo i dettagli sulla spedizione in Armenia, Tocco evoca anche la fuga dei celestiniani nel 1295 in Grecia, nell’isola di Acaja, sotto Tommaso III Stromancourts, senza però il veemente Iacopone da Todi e senza Corrado da Offida, uno dei pochi rappresentanti della scelta eremitica nelle file francescane, che si rivelò per lui però una forma di esilio in patria. Inseguiti dalle pressioni del pontefice, recepite dal patriarca di Costantinopoli, riparano in Tessaglia nel 12982. Questa 1

Una efficace messa a punto è quella di P. HERDE, Celestino V e Bonifacio VIII di fronte all’eremitismo francescano, in Eremitismo nel francescanesimo medievale, Perugia 1991, pp. 95127. 2 Fortunato Maria Cacciatore si è occupato di questo pensatore, nel volume curato da Mario Alcaro, Storia del pensiero filosofico in Calabria da Pitagora ai giorni nostri, Soveria Mannelli 111

missione in Armenia contraddistingue e segna un legame di una parte del francescanesimo con il cristianesimo orientale forse iniziato già all’epoca della formazione culturale di Francesco d’Assisi: Manselli racconta come i frati conventuali di Cipro osteggiassero la missione di confratelli che percepivano come dissidenti, anche se ricoperti di un mandato ufficiale 1. Anche se l’opposizione radicale tra due icone pontificali, lo spirituale Celestino e il normativista Bonifacio, è stata drammatizzata da numerose leggende nere, resta tuttavia che Celestino rappresenta un eremitismo alieno dalla cultura dell’interpretazione del Testo, biblico o giuridico che sia; opportunamente, però, Herde sottolinea che Celestino V cercasse di accogliere gli Spirituali dissidenti nella sua congregazione, ma con inviti ripetuti all’obbedienza, ossia senza assecondare il loro radicalismo. E di fatto le carte che documentavano tale processo di integrazione erano talmente confuse che il giurista Bonifacio VIII non poté che considerarle nulle2. Al contrario, Bonifacio non è solo pienamente inCZ 2012. Per i riferimenti che ho fatto rimando a F. TOCCO, Studii Francescani, Napoli 1909, pp. 243-244, pp. 248-249, p. 250. 1 R. MANSELLI, Spirituali missionari: l’azione in Armenia e in Grecia. Angelo Clareno, in Espansione del francescanesimo tra Occidente e Oriente nel secolo XIII, Assisi 1979 (Società Internazionale di Studi Francescani. Convegni VI), pp. 271291. 2 P. HERDE, Celestino V e Bonifacio VIII di fronte all’eremitismo francescano, in Eremitismo nel francescanesimo medievale, pp. 117-119, p. 124, p. 125, p. 126. 112

serito nella tradizione teologico-giuridica del suo tempo, ma è anche stato uno dei pochi teorici di una teocrazia nel mondo latino cristiano. La differenza culturale era notevole, e ripete delle differenze all’interno degli stessi francescani. Un francescano come Ubertino da Casale soffiò sulla brace di un conflitto tra Celestino V abdicante e Bonifacio VIII: Herde racconta della fuga di Celestino V e dei celestiniani dissidenti verso il ducato di Atene, della simpatia iniziale di Bonifacio VIII , e di come i dubbi sulla legalità della sua abdicazione non provenissero dalla cerchia dei celestiniani, dato che lo stesso Celestino si era consultato con il collegio cardinalizio ed aveva seguito i consigli di Benedetto Caietani. La polemica nasce da Ubertino da Casale e dalla veemenza del poeta Iacopone da Todi che si unisce ai Colonna, gli avversari politici del Papa. Bonifacio VIII destituisce il ministro generale dei francescani Raimondo Goffredi e viene eletto Giovanni da Morrovalle nella primavera 1296, scelta che premia un giudice del processo contro Olivi nel 1283. Nei mesi successivi, Liberato e Angelo Clareno passano in Grecia, dove saranno raggiunti solo verso la fine del 1299 dalla longa manus pontificia1. In questa mappa degli animi e delle tensioni, Angelo Clareno trovò nella geo-cultura calabrese un conforto e un riparo: il suo epistolario ci fornisce delle indicazioni sulla specificità calabrese nel flusso verso il Sud dell’Italia dei 1

P. HERDE, Celestino V e Bonifacio VIII di fronte all’eremitismo francescano, in Eremitismo nel francescanesimo medievale, pp. 121-123, 113

francescani appartenenti al movimento degli Spirituali. Dal 1325 al 1331, molti Spirituali siciliani si rifugiarono in Calabria, dato che a dispetto della protezione di Federico III d’Aragona la pressione ecclesiastica per una loro consegna alle autorità dell’Ordine era costante. Altri fuggirono a Tunisi e nell’isola di Djerba. Vi furono forti pressioni di Giovanni XXII su Roberto il Saggio, re di Sicilia, sotto il segno della Gloriosam ecclesiam, costituzione apostolica che dettaglia la vicinanza degli Spirituali con movimenti ereticali come valdesi, nella comunanza con il rifiuto delle istituzioni giuridiche, oppure come manichei - nella declinazione marcionita, ossia nella comunanza con il rifiuto della validità dell’Antico Testamento; ed ancora sul suo successore Roberto e su Carlo, duca di Calabria, dove il papa parla di beghini, ossia di laici religiosi guardati con sospetto dall’autorità ecclesiastica 1. Nonostante

1

ANGELI CLARENI, Opera I. Epistole, lettre 59 (LXIII), p. 279 e seguenti: Bullarium Franciscanum, V, n. 565, 4 febbraio 1325, Roma 1898, p. 282: «contra nonnullos illid fratribus, qui se Spirituales nominant, adhaerentes eorumque doctrinam sequentes pestiferam» - invia una costituzione che può essere una delle tante che concepì per limitare l’azione di politica ecclesiastica e sociale dei francescani - la Quia quorundam, n. 554, 10 novembre 1324, pp. 271-280, la Cum inter nonnullos, n. 518, 12 novembre 1323, pp. 256-259, oppure più probabilmente la Gloriosam ecclesiam, n. 302, 23 gennaio 1318, pp. 137142 – in cui ricorda il loro arrivo, a p. 139, sotto il dissidente attivo Enrico di Ceva, e, a p. 141, come il papa avesse invitato il re di Sicilia Federico III ad espellerli dalle sue terre, n. 256, 114

questo, la natura selvatica, ossia non segnata dalla mano dell’uomo, del territorio calabrese li protesse, anche perché gli eccessi operativi del gruppo dissidente di Enrico di Ceva erano riprovati dallo stesso Angelo; e questa protezione era più efficace che non in Sicilia, dove operava anche un ambiente esoterico, quindi sempre verso la soglia che portava fuori dalla fedeltà alla Sede apostolica, tra medicina e alchimia, che era vicino ai francescani Spirituali. Insomma, questa geocultura toccata dalla tradizione greco-cristiana sarà per Clareno conforto alle pene della situazione ecclesiastica che lo mantenne nella fedeltà a Roma, una scelta eremitica ripensata rispetto alla tradizione patristica, ossia una scelta che permette di vivere l’identità francescana senza condizionamenti esterni, foss’anche quelli del Papa. Questo fa dire a Manselli, dopo avere esaminato il resoconto che Clareno fa della sua missione in Armenia, che lo convince a scegliere lo stile eremitico, che «riteniamo vada riconosciuta una prima influenza di spiritualità monastica d’Oriente»1. Insomma, forse un paradossale anomista-normativista, più serenamente un uomo profondamente umano, fecondamente contradittorio.

15 marzo 1317, pp. 110-111. Poi ancora, Bullarium Franciscanum, V, n. 571, 10 maggio 1325, p. 285. 1 R. MANSELLI, Spirituali missionari: l’azione in Armenia e in Grecia. Angelo Clareno, in Espansione del francescanesimo tra Occidente e Oriente nel secolo XIII, pp. 282-283. 115

VII L’OBBEDIENZA DI FRONTE ALLE NORME

Vorrei insomma inserire le mie analisi nel quadro di un’ipotesi storiografica che mi pare un’idea feconda, ossia quella di distinguere una specifica anima mediterranea del francescanesimo, che si distingue da un’anima settentrionale del francescanesimo, che potremmo anche dire meno impegnativamente un’anima nonmediterranea. Per il lettore abituato all’affermazione delle grandi unità culturali e storiche può già essere difficile accedere all’idea che la cristianità medievale era composta da anime distinte, ed in alcuni contesti concorrenti: isolato il nucleo duro del deposito della fede, quello che delinea l’identità dogmatica del cattolico che si riconosce nella Sede apostolica, il pensiero cristiano medievale esprime una grande varietà di sensibilità, che nel campo filosofico, per sua natura meglio analizzabile in senso tecnico, producono strategie di spiegazione filosofica alternative. Il lettore si rende conto se accede ad un numero sufficientemente vasto di letture che la filosofia di Duns Scoto non è omogenea a quella di san Tommaso, e sebbene ambedue si riconoscano nello stesso deposito della fede le loro ar117

gomentazioni filosofiche sono spesso genuinamente alternative, tanto che l’una esclude l’altra o viceversa. Ma questa pluralità nell’identità dogmatica non si limita alla sola filosofia in senso tecnico: la distinzione tra normativismo ed anomismo, che ho proposto in miei lavori precedenti, ha certo un impatto sulla filosofia pratica, ma determina pure un diverso contesto culturale in cui la fede cattolica si muove in una certa comunità umana, e questa distinzione si può rintracciare all’interno di una stessa famiglia religiosa, come accade nel caso dei francescani, anche se poi la distinzione percorre tutto il pensiero cattolico e cristiano in genere. Insomma, il lettore dovrebbe prendere in considerazione la lettura della Riforma come uno scisma politico che connota in senso filo-Sede apostolica oppure in senso avverso alla stessa Sede apostolica modi di sentire, approcci geo-culturali, dottrine filosofiche che nei secoli precedenti al XVI erano in realtà elementi del pensiero cattolico, che restava cattolico (e non già cattolico e cristiano non-cattolico) perché tutte queste anime si riconoscevano nell’identità dogmatica della Sede apostolica. Ho quindi evocato una tipica categoria weberiana per cercare di comprendere la dialettica tra le anime del francescanesimo: nella frase di David Burr «he could be the saint patron of those who refused to put their trust in institutions»1, ossia potrebbe essere il patrono di tutti coloro che non hanno fiducia nelle istitu1

D. BURR, Olivi’s Peaceable Kingdom. A Reading of the Apocalypse Commentary, p. 263. 118

zioni, è colta in maniera efficace la dimensione anomica del pensiero di Olivi, che conduce alla inevitabile delegittimizzazione delle istituzioni esistenti. Non si tratta tanto di una boutade, quella del santo protettore di tutti i contestatori delle istituzioni esistenti, quanto di una profonda comprensione del ruolo di Olivi nel pensiero politico non solo dei decenni che seguirono la sua morte, ma soprattutto dei secoli che seguiranno sino ad oggi. Del resto, l’escatologia è la forma religiosa della filosofia della storia, e il cardinale de Lubac lo ha mostrato molto bene nelle sue opere sul pensiero gioachimita e sull’esegesi biblica medievale 1. La filosofia della storia e l’escatologia non vertono su ciò che è stato o su ciò che potrebbe essere, bensì su ciò che doveva essere e su ciò che dovrà essere: tuttavia nella Tradizione esegetica della Chiesa cattolica, e nel discorso dominante nel medioevo della sua teologia politica, la profezia è un discorso che parla in senso nonasimmetrico tanto del passato e del presente, quanto del futuro, ma senza mai potersi intendere in senso annalistico o cronachistico, come giudizio su questa particolare persona o su questa specifica situazione cronologicamente e geograficamente determinata. David Burr mostra molto bene che l’escatologia di Olivi, che mostra certo influenze gioachimite ma che è soprattutto di Olivi stesso, è in rottura con le pratiche di esegesi apocalittiche che precedono il XIII secolo, e che sarà 1

H. de LUBAC, La postérité spirituelle de Joachim de Flore, III, Paris 1979-1981; H. de LUBAC, Exégèse médiévale: les quatre sens de l’écriture, 5 tomi, Paris 1993. 119

abbandonata già a partire dal secondo quarto del XIV secolo, un arco di tempo che vede la nascita e produzione letteraria di Olivi sino alla sua condanna postuma. Comprendere questa valenza del pensiero oliviano permette di capire come egli sia divenuto l’icona del movimento degli Spirituali, anche se personalmente e direttamente non gli si può attribuire una scelta deliberata ed esplicita in tal senso. La storia delle idee ci insegna che i concetti elaborati non sono più nelle mani di chi li ha pensati, bensì di chi intende avvalersene, e la sfiducia che Olivi mostra nelle istituzioni quali fenomeni normativi è un ottimo suggerimento per fare un uso anomico del suo pensiero. Io credo sia utile contrapporre un’anima normativista e un’anima anomica nel movimento francescano. Gli anomisti saranno coloro che ritengono che una configurazione sociale ideale possa fare a meno della funzione direttiva delle norme, e in questo senso ogni istituzione umana è guardata con sfiducia poiché ogni istituzione umana è per sua natura normativa. Nella configurazione semantica del pensiero francescano, l’approccio anomico significa che nello stato di natura incorrotta - che precede la Caduta a causa del peccato originale - non vi sono norme, tanto che la legge d’amore è una legge senza norme. Olivi, coerentemente con questo afflato spirituale, nello scritto Quid ponat ius vel dominium esprimerà un nominalismo giuridico

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semplice e lineare1: la predicazione di qualunque proprietà giuridica che grava sulle cose non aggiunge nulla alla realtà, ossia qualsivoglia norma può essere eliminata dal, oppure aggiunta al, nostro universo sociale senza modificare in nulla l’insieme delle cose reali. Al contrario, i normativisti sono coloro che ritengono che nessuna configurazione sociale possa fare a meno della funzione direttiva delle norme, e in questo senso la presenza stessa delle istituzioni umane è guardata con fiducia poiché esse sono le depositarie della funzione normativa (male o bene esercitata che sia). L’approccio normativista significa nel discorso cattolico che nello stato di natura incorrotta vi era almeno una norma - la norma la cui violazione comportò la Caduta stessa e la rottura della sfera del diritto naturale- e in genere in ogni stato che comprenda oltre al Creatore almeno una creatura vi deve essere anche una norma il primo angelo è caduto perché ha violato una norma, dato che come sant’Anselmo dice efficacemente nel De casu diaboli Lucifero ha voluto quello che Dio non voleva egli volesse in quel momento2. Normativisti come Scoto sono dei realisti giuridici, le norme sono vere oppure false, quando sono identiche oppure no a stati di cose reali, e il fondamento ontologico delle norme sono le volizioni divine, oppure le volizioni 1

F. DELORME, Question de P.J. Olivi “Quid ponat ius vel dominium” ou encore “De signis voluntariis”, in «Antonianum», 20 (1945), pp. 309-330. 2 ANSELMO D’AOSTA, La caduta del diavolo, c. 4, c. 6, Milano 2004. 121

umane del nomoteta abilitato. Il gioco tra anomia e normativismo coglie anche quello che Eric Voegelin chiama lo gnosticismo politico, che nel Medioevo si concretizza nei movimenti ereticali sociali che dai catari in poi scuotono la società latina del XII e XIII secolo1, e che anche Giorgio Agamben tematizza efficacemente nel suo percorso di revisione critica e profonda della biopolitica in svariate opere, tra cui quella che analizza l’economia trinitaria e la forma dell’obbligo politico2. Il giudizio che Voegelin formula intorno a Gioacchino da Fiore può apparire assai severo, ma per lui non si tratta di indagare il significato oggi delle opere certamente autentiche di Gioacchino, quanto di indagare il significato nei secoli di quel Gioacchino, anche se costituito di opere redatte dai suoi discepoli post-mortem, ed abbiamo già evocato il capitale In 1

E. VOEGELIN, History of Political Ideas, I. Hellenism, Rome, and Early Christianity, II. The Middle Ages to Aquinas, III. The Later Middle Ages, IV. Renaissance and Reformation, V. Religion and the Rise of Modernity, VI. Revolution and the New Science, VII. The New Order and Last Orientation, VIII. Crisis and the Apocalypse of Man, in Collected Works of Eric Voegelin, Columbia and London, University of Missouri Press, 19971999, numerati dal n. 19 al n. 26. 2 G. AGAMBEN, Il Regno e la Gloria, Vicenza 2006. Una premessa fondamentale per comprendere l’inevitabilità normativa dello stato di eccezione, che Agamben studia nel contesto della cultura normativa romana - e che andrebbe tematizzato con lo stesso rilievo per la concezione volontarista dell’onnipotenza divina -, è il volume G. AGAMBEN, Lo stato di eccezione, Torino 2003. 122

Hieremiam, un Gioacchino che per Voegelin si riassume nella nozione di evangelo eterno 1, in modo senz’altro ingeneroso. Gli elementi che Voegelin individua nella posizione di Gioacchino, anche se possono essere dissociati dall’individuo Gioacchino, non possono essere dissociati dai movimenti contestatori che a lui si richiamarono; ed anche se gli Spirituali francescani nel Meridione d’Italia si aggregarono anche per altre variabili culturali che non avevano a che fare con la sfera politica, nondimeno questa sfera politica letta in chiave gnosticheggiante merita la nostra attenzione perché è una cifra del gioachimismo. Voegelin la caratterizza come un rifiuto della concezione agostiniana della società nel momento in cui si applica nonmetaforicamente la divisione trinitaria alle epoche storiche: il dettaglio comprende quattro simboli fondamentali. Il primo è la concezione sequenziale e ottimista della storia, in tre macro-epoche, che estremizza sotto la sensibilità dell’interprete - gli schematismi trinitari che si riscontrano nettamente nella storia almeno a partire da Ruperto di Deutz, De sancta trinitate et operibus eius (circa 1110)2; il secondo è il simbolo del capo carismatico, e qui gli Spirituali videro un’incarnazione nel loro san Francesco; il terzo simbolo è la 1

E. VOEGELIN, The New Science of Politics, in The Collected Works of Eric Voegelin, vol. 5 Modernity without Restarint, Columbia 2000, p. 201. 2 E. VOEGELIN, History of Political Ideas, II. The Middle Ages to Aquinas, vol. 20, p. 127; per l’ottimismo, che attenua la forza euristica del peccato originale, pp. 130-131. 123

necessità di un profeta della nuova epoca; il quarto simbolo è la fratellanza di persone autonome 1. Il fatto che questo schematismo simbolico ci appaia attraente dipende dal fatto che esso viene assunto dal pensiero politico moderno dominante, nella forma di un’immanenza del discorso politico che non tralascia il riferimento alla trascendenza, per poi immanentizzarsi completamente nel corso del XX secolo 2. In questo quadro concettuale ci sono certo elementi del movimento degli Spirituali, ed ancora più di tanti pensatori politici ottocenteschi, ma il movimento degli Spirituali è anche un Angelo Clareno che pur in dissidenza con Roma, pur con un’obbedienza alla Sede apostolica che gli costa una fatica ed una sofferenza immani, non entra mai in conflitto aperto sul piano della politica sociale e del rifiuto della legittimità della gerarchia ecclesiastica. Quando Clareno parla dell’obbedienza nel primo capitolo del suo commento alla Regola francescana, usa immagini molto forti tratte dalla tradizione monastica: una storia narra di un monaco che aveva imparato la vera obbedienza, e che per istruire altri monaci in questo senso prendeva delle vipere e le 1

E. VOEGELIN, The New Science of Politics, in The Collected Works of Eric Voegelin, vol. 5, pp. 178-180. Si veda anche l’esposizione parallela in Science, Politics, and Gnosticism, part II, Ersatz Religion: The Gnostic Mass Movement of Our Time, in in The Collected Works of Eric Voegelin, vol. 5, pp. 300-304. 2 E. VOEGELIN, The New Science of Politics, in The Collected Works of Eric Voegelin, vol. 5, pp. 183-185. 124

schiacciava sui loro occhi uccidendole - l’obbedienza li avrebbe resi immuni da quel veleno1. Ma vi aggiunge anche un commento che non si ritrova nelle fonti, forse tratto da qualche altro testo, forse farina dell’esperienza spirituale ed intellettuale di Clareno: «l’obbedienza è la salvezza di ogni fedele, è la madre di ogni virtù, è indicazione sicura per il regno dei cieli»2. Altrove afferma il suo riconoscimento del primato assoluto del papa, per esempio quando, pur nell’esaltazione della perfezione spirituale dei francescani, afferma che solo il papa può autorizzare una nuova forma di vita religiosa3. E dopo avere descritto l’obbedienza verso il papa, afferma che la pienezza di tale obbedienza realizza l’integrità della mente e del corpo, la salvezza e la vita, mentre nella mancanza di tale obbedienza si realizza il disprezzo, l’errore e la morte4, un’obbedienza che ogni singolo frate deve quindi e-

1

L’episodio è tratto dalle Vitae Patrum, VI, 3, 11, in PL 73, 1002, e si ritrova anche in Patrum spirituale, c. 18, PG 87, 2866. 2 E’ edita da Livarius Oliger come ANGELO CLARENO, Expositio Regulae Fratrum Minorum, Quaracchi 1912, p. 42. Senza più riferirla alla tradizione monastica di un singolo episodio, l’elencazione in questione - che ho tradotto solo in parte - è riprodotta in un contesto ulteriormente ampliato al c. II, p. 62. 3 ANGELO CLARENO, Expositio Regulae Fratrum Minorum, p. 33. 4 ANGELO CLARENO, Expositio Regulae Fratrum Minorum, p. 44. 125

sprimere verso la Santa Romana Chiesa 1. Tuttavia, già in questi contesti Clareno ripete una tesi - tipica del movimento degli Spirituali - che la Sede apostolica non avrebbe mai approvato, ossia che il rispetto di ogni singola parte del Vangelo, consiglio o norma quindi, facesse parte del voto pronunciato dal frate minore 2, con la conseguenza che la violazione anche di un consiglio evangelico, non già di una norma, produceva nel frate minore la situazione di peccato mortale - ogni violazione del voto di religione era all’epoca considerata un peccato mortale. Clareno compie un’operazione concettuale che in lui non porta nessuna tensione verso la disobbedienza, ma che in altri poteva farlo: quando nel capitolo X del suo commento alla Regola analizza a lungo i modi e i limiti dell’obbedienza, pone una tesi problematica, ossia che la Regola francescana non sia sottoposta al vaglio normativo e interpretativo della Sede apostolica, e che abbia così lo stesso valore, o quasi, delle parole di Cristo3. Sin dalle origini del monachesimo, cristallizzate nelle parole di san Basilio, l’obbedienza, che per molti versi a noi contemporanei appare spesso come ‘cieca’ in quelle antiche pagine, trova un limite certo, ossia nessuno deve compiere atti contro la salvezza eterna della sua persona. Clareno ri1

ANGELO CLARENO, Expositio Regulae Fratrum Minorum, p. 81. 2 ANGELO CLARENO, Expositio Regulae Fratrum Minorum, p. 33; in precedenza, p. 15. 3 ANGELO CLARENO, Expositio Regulae Fratrum Minorum, pp. 200-207, in particolare p. 201. 126

pete queste parole, le unisce a quelle più recenti di san Bernardo di Chiaravalle, agita lo spettro di un’obbedienza in malum (una clausola più estesa di quella che si concentra su azioni contro la salvezza eterna), costruisce un tenore che sembra estendere ad una potenziale pluralità di casi in cui sia lecito e doveroso disobbedire1, una pluralità di casi che contrasta con la parsimonia assoluta di san Basilio o di san Bernardo. Clareno evoca le numerose e amare tribolazioni in cui incorreranno coloro che vogliono osservare la Regola con fedeltà e senza interpretazioni tendenziose 2. E’ anche significativo che il ruolo del frate lassista, quello che nelle fonti ostenta ossequio formale al rispetto rigoroso della Regola, ma poi chiede eccezioni personali, viene ripreso da Clareno come un frate tedesco, un’espressione di uno spirito anti-meridiano3. Ma alla fine dei conti Clareno si situa nella stessa linea dei suoi predecessori nella Tradizione cristiana. Ed è proprio a questo punto che i fraticelli prendono invece un’altra strada, quella che consiste nel constatare, secondo il proprio giudizio autonomo, una serie di situazioni in cui obbedire sarebbe obbedire illecitamente in malum.

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ANGELO CLARENO, Expositio Regulae Fratrum Minorum, pp. 201-203. 2 ANGELO CLARENO, Expositio Regulae Fratrum Minorum, p. 206. 3 ANGELO CLARENO, Expositio Regulae Fratrum Minorum, pp. 206-207. 127

Ci furono senz’altro dei fraticelli, come movimento ereticale di contestazione sociale, nel Meridione d’Italia, ma ci fu anche la dissidenza non-conflittuale degli Spirituali che cercavano la cifra di un’altra cultura cristiana, senza accettare la modalità dell’eversione dei rapporti politici e sociali in atto alla loro epoca. Voegelin denuncia il perfettismo dello schematismo simbolico applicato alla storia da lui enunciato a partire da Gioacchino: derivi o no da Gioacchino, questo perfettismo è tipico dei movimenti ereticali sociali gnosticheggianti, come i catari. Voegelin individua chiaramente il carattere elitario di un movimento che può apparire egalitario solo ad uno sguardo ingenuo, ed è invece aristocratico - un’aristocrazia della perfezione spirituale - e utopistico nel negare ogni spazio alle debolezze umane1. Senza negare una realtà precisa a movimenti storici che sono catturati dalle categorie proposte da Voegelin - i catari, Thomas Münzer che guida frange protestanti durante la guerra contro i contadini in pieno fenomeno cinquecentesco della Riforma -, il movimento degli Spirituali che si installarono nel sud d’Italia e si riconoscevano nello spirito di Angelo Clareno non può essere assimilato a queste categorie. Forse accusato di averne favorito la successiva manifestazione, ma certo esonerato dal giudizio di averle incarnate.

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E. VOEGELIN, History of Political Ideas, II. The Middle Ages to Aquinas, vol. 20, p. 134. 128

Nella terra di Gioacchino da Fiore, nella terra della preservazione di un numero non trascurabile di elementi dell’approccio tipico del cristianesimo orientale al fatto teologico, gli Spirituali ebbero terreno assai fertile, accolti da regnanti sinceramente simpatetici alla loro spiritualità, e nella vicina Sicilia il millenarismo non-compiuto degli Spirituali trovò terreno non meno fertile anche grazie a dei dissidenti francescani che vi giunsero dalla Toscana. Il linguaggio della Chiesa d’Oriente non aveva conosciuto l’evoluzione che la cultura giuridica romana prima, Pipino e suo figlio Carlo Magno poi, impressero alla teologia latina: il cristocentrismo ha senso nella prospettiva personalista latina, ma già Scoto Eriugena che parla della Trinità nel IX secolo come un orientale è malamente compreso dai suoi contemporanei. Lo gnosticismo politico teorizzato da Eric Voegelin e ripreso da Giorgio Agamben producono nel XIII secolo uno scontro ancora più specifico tra partigiani della teologia politica normativista (nato con l’esaltazione del potere amministrativo dei vescovi con Eusebio di Cesarea, cantore dell’imperatore Costantino) e nominalisti giuridici che vedono nello stato pre-Caduta l’assenza totale di norme, sviluppando il paradigma della chiesa alessandrina del III secolo che vedeva nel vescovo un maestro di vita piuttosto che un detentore di potere amministrativo. Il concetto di gerarchia si biforca nella storia del pensiero latino occidentale, in una dualità dialettica che non si pone come alternativa bensì come complementare. Alla classica gerarchia sociale che si traduce 129

negli honores e nelle dignitates, legata all’epoca d’oro della società feudale e del suo ideale imperiale romanizzante, si aggiunge la gerarchia come concetto politico che esprime la necessità di un governo essenzialmente verticale, e ancora prima di una legittimità gerarchica, della società. Sant’Anselmo d’Aosta, con la sua apologia dell’obbedienza come madre di tutte le virtù - secondo temi cari a sant’Agostino e san Gregorio Magno -, prepara il terreno filosofico a quell’evoluzione plurisecolare nel pensiero cristiano che dalle differenze tra la scuola di Alessandria ed Eusebio di Cesarea sul ruolo politico del vescovo conduce al prevalere definitivo di san Pier Damiani su Umberto di Silvacandida sull’amministrazione dei sacramenti da parte di un sacerdote indegno. L’abilitazione gerarchica si impone sulla disposizione sostanziale nel ministrante, e così l’indegno può impartire il sacramento validamente. L’idea non è nuova, si aggira già nella teologia politica di san Paolo1, si esprime nella decisione di considerare validi i battesimi impartiti da vescovi eretici nei primi secoli dell’era cristiana. Tuttavia, essa si pone in divergenza rispetto al tessuto concettuale del mondo feudale, contro il quale la Chiesa cattolica parte in lotta a partire dalle paci e dalle tregue di

1

Cfr. l’eccellente studio di J. TAUBES, La teologia politica di San Paolo, Milano 1997. 130

Dio1, e di cui Gregorio VII farà la propria agenda politica. E’ questa concezione della gerarchia, ampiamente teorizzata e messa in pratica nel contesto della plenitudo potestatis, che permette al pauperismo francescano, per tanti versi debitore di concezioni orientali - a mo’ di esempio di tesi forte, lo stato di perfezione di un frate minore è superiore anche a quello del Papa, perché il papa governa nella sfera mondana, mentre il francescano è ritornato allo stato adamitico 2 -, di differenziarsi dai movimenti pauperistici ereticali che pullula-

1

Si può vedere in merito, tra gli altri, un autore che ha proficuamente lavorato su questo plesso temporale, D. BARTHÉLEMY, L’an mil et la paix de Dieu: La France chrétienne et féodale, 980-1060, Paris 1999; D. BARTHÉLEMY, Le règlement des conflits au Moyen Age. Actes du XXXIè Congrès de la SHMESP, Paris 2001; e sopratutto l’opera collettiva D. BARTHÉLEMY, La vengeance 400-1200, Roma 2006. Per una visione d’insieme sulla vendetta nel pensiero occidentale, è d’obbligo R. VER-DIER, J.-P. POLY, B. COURTOIS, La vengeance. Vengeance dans la pensée occidentale, IV, Paris 1985, che si può completare con l’altro tomo della medesima opera collettiva La vengeance. Vengeance, pouvoirs et idéologies dans quelques civilisations de l’Antiquité, III, Paris 1985. 2 Mi riferisco ad un’opera di contestata attribuzione a Duns Scoto, il De perfectione statuum, ma che qui m’interessa come documento della polemica ecclesiologica che investe i rapporti tra movimento francescano e Sede apostolica nel primo quarto del XIV secolo. 131

vano agli esordi del XIII secolo1. Con un pizzico di provocazione, è stato scritto che la povertà francescana è una povertà per i ricchi2, che non mette in gioco lo status quo, pur non rifugiandosi in una mera spiritualità della povertà, bensì presentandola come una condizione che coinvolge tutta la sfera umana.

1

R. MANSELLI, Il secolo XII: religione popolare ed eresia, Roma 1995. 2 Cfr. lo studio di K. B. WOLF, The Poverty of Riches: St. Francis Reconsidered, Oxford 2005. 132

VIII PARTICOLARITÀ DEL COMMENTO ALLA REGOLA DI CLARENO

Disponiamo di commentari alla Regola francescana molto diversi, da quello detto dei Quattro maestri, puro prodotto della tradizione giuridica occidentale1, a quello di Angelo Clareno, il solo che citi autorità dedotte dalla tradizione cristiana orientale. La riflessione sull’impatto della tradizione orientale sul pauperismo francescano può permettere di meglio comprendere l’una e l’altra tradizione, e ritrovare un ruolo giocato dalla gerarchia come legittimità del potere nella stessa tradizione bizantina, per concludere sulla dimensione globale giocata dal pauperismo nei due mondi che conoscono una diversa cronologia della storia urbana, e tuttavia sotto una apparente impermeabilità continuano a comunicare per percorsi più o meno carsici. Nell’ottica di una prevalenza marcata della tradizione latina si situa il testo di riferimento di Gian Luca Pote1

Cfr. H. BERMAN, Law and Revolution: The Formation of the Western Legal Tradition, Cambridge Mass. 1983; H. BERMAN, Law and Revolution, II, The Impact of the Protestant Reformations on the Western Legal Tradition, Cambridge Mass. 2006. 133

stà1, in cui il capitolo 7 è dedicato al commento della Regola redatto da Clareno, con il titolo Expositio Regulae2: interrogandosi sulle radici della tradizione francescana che ne emergono3, Potestà sviluppa un discorso di comparazione tra due edizioni critiche dei manoscritti disponibili delle lettere scambiate da Clareno, tra l’edizione a stampa della von Auw e quella di Musto, come tesi di dottorato4, discorso che gli consente di chiarire la portata dell’originalità di Clareno tra i vari commentatori della regola francescana tra XIII e XIV secolo. Clareno riprende Pietro Giovanni Olivi nel primo capitolo del suo commento: nella tradizione culturale dominante - intendo dire, non solo interna all’Ordine francescano od alla Chiesa cristiana - era spontaneo vedere nella Regola di un ordine religioso un oggetto ermeneutico giuridico e morale, mentre nella tradizione Spirituale di francescani come Olivi e Clareno riecheggia il tema di una forma di vita 5, di qualcosa che non può essere delimitato per regole di 1

G. L. POTESTÀ, Angelo Clareno. Dai poveri eremiti ai fraticelli, Roma 1990. 2 Così l’editore critico Livarius Oliger la pubblica, Expositio Regulae Fratrum Minorum. 3 G. L. POTESTÀ, Angelo Clareno, pp. 152-167. 4 R. G. MUSTO, The Letters of Angelo Clareno (c. 1250-1337), Ph. D. Columbia University NY 1977, University Microfilms, Ann Arbor Michigan. Un paragone metodologico svolge POTESTÀ, Gli studi su Angelo Clareno: dal ritrovamento della raccolta epistolare alle recenti edizioni, in «Rivista di storia e letteratura religiosa», 25 (1989), pp. 111-143. 5 G. L. POTESTÀ, Angelo Clareno, pp. 155-156. 134

interpretazione e che coinvolge la totalità della personalità di chi si sottopone a quell’insieme di norme speciali che valgono per ogni istante ed ogni dominio futuri della sua vita. Il Papa per Clareno avrebbe compreso che Francesco aveva assunto come norma («pro regula postulavit») la perfezione e la vita di Cristo descritte nei Vangeli, concedendo e confermando un testo, la Regola stessa, che in maniera sintetica si indirizzava a chi voleva vivere secondo l’intenzione ed il voto francescani. Si tratta per Clareno di una forma di vita secondo l’esempio di Cristo, di una guida retta che insegna la vita retta senza errore 1. Clareno non esita a riferirsi alla natura semantica della lingua greca per avvalorare la sua esasperazione del tema della forma di vita rispetto al più ovvio ed immediato tema per un latino della normatività disciplinare espresso da un insieme di canoni: questa vita non è quella vegetativa ed animale espressa dal vocabolo ‘çoi’, bensì quella relazionalità (conversatione) virtuosa dei santi, il ‘vios’2. E per rinforzare la sua lettura, cita un episodio della vita di san Francesco attestato in un filone che rinvia direttamente alla sola lettura da parte degli Spirituali del messaggio di Francesco stesso3. La fonte del discorso è 1

ANGELO CLARENO, Expositio Regulae Fratrum Minorum, p. 15. 2 ANGELO CLARENO, Expositio Regulae Fratrum Minorum, p. 15. 3 ANGELO CLARENO, Expositio Regulae Fratrum Minorum, p. 16: gli editori critici rinviano all’Intentio Regulae, il cui testo è in L. LEMMENS, Documenta Antiqua Franciscana, pars I, Qua135

frate Leone, testimonianza diretta e spesso agitata dalla sensibilità degli Spirituali contro le presunte distorsioni operare da chi volle clericalizzare l’Ordine minoritico, ossia san Bonaventura e i suoi partigiani. Clareno ripete qui un discorso che giungerà sino al suo contemporaneo Ubertino da Casale, anche lui in rotta con il potere della Sede apostolica e con tanti suoi confratelli, almeno sino a quando, differenziandosi alquanto dalla scelta di vita di Clareno, Ubertino sceglierà la via della fuoriuscita dall’Ordine dei frati minori. In quell’occasione Francesco disse che l’Ordine e la vita dei frati minori assomigliano a un piccolo gregge, che il Figlio di Dio, richiese al suo Padre celeste. Nel formulare la sua richiesta al Padre, il Figlio sottolineò di volere una nuova e umile comunità, tale da essere dissimile per umiltà e povertà da tutte quelle che l’hanno preceduta, e che fosse contenta di possedere solo Gesù. E il Padre glielo concesse pienamente e senza sfumature. Sempre Francesco che Dio volle e rivelò a lui che i frati si chiamassero ‘minori’, perché questo indica chi è povero e umile, secondo il desiderio che il Figlio espresse al Padre suo. In questo genere di testi apologetici, che evocano passi evangelici come Mt. 25, 40, Francesco racchi 1901, 83-99. Si tratta di una raccolta che ha conosciuto una sostanziosa circolazione e che rientra in quelle raccolte di parole di san Francesco che emanano dalla famiglia più radicale degli Spirituali - per la quale lo Speculum perfectionis è un testo simbolico, se ne veda il c. 26 -, contraria alla clericalizzazione dell’Ordine ed all’autorità della Legenda maior redatta dal Ministro Generale dell’Ordine san Bonaventura. 136

si mostra consapevole di come Dio alludesse a tutti i poveri in spirito, ma in modo particolare predicesse che sarebbe venuta nella sua Chiesa la schiera dei fratelli minori. L’estensore della fonte apologetica può quindi considerare che perciò come fu rivelato a Francesco che il suo dovesse chiamarsi Ordine dei frati minori, così fece scrivere nella prima Regola, che egli portò a papa Innocenzo III, il quale l’approvò e la concesse pubblicamente. Clareno cerca di ritrovare un fondamento nella tradizione cattolica che cortocircuiti il Magistero di Giovanni XXII, il quale in nome della scienza giuridica dominante rifiuta la pretesa dei francescani di usare le cose senza avere alcun diritto su di esse, e in nome dell’obbedienza rigorosa ai vescovi ed al papa rifiuta quelle che ai suoi occhi sono le intemperanze degli Spirituali, i quali pretendono di ispirarsi direttamente e senza mediazioni formali ai Vangeli, mentre per Giovanni XXII imitano pericolosamente i tanti movimenti ereticali sociali che pullulano a partire dalla fine del XII secolo. La tensione escatologica di Clareno è come soffocata dall’atteggiamento canonistico che sempre riconduce all’ordine pubblico le manifestazioni di vita all’interno della Chiesa. Egli connota così nel capitolo 12 del suo commento alla Regola il profetismo oliviano, percepito come gioachimita, lanciato verso una dimensione al di fuori dell’Ordine minoritico, che oramai non può più assicurare ai suoi occhi la realizza137

zione delle promesse di san Francesco 1; si tratta di un approccio che giustifica la sua marginalità nel mondo latino, in rotta con la netta separazione tra profezia e descrizione dei fatti storici, ma che non destava nessuna preoccupazione in un mondo greco, per di più legata alla vocazione eremitica monastica, e su territori governati da sovrani con forti simpatie millenaristiche, quella terra di Calabria dove Clareno trova comprensione per le sue paure verso la deformazione prodotta dall’impatto della teologia politica cattolica sul messaggio di san Francesco2. Questi elementi spingono Potestà a rinvenire i precedenti dell’evangelismo francescano nella Chiesa orientale 3, senza che questo divenga per lui un tema dominante, ma che nella nostra prospettiva di ricognizione di una geo-cultura attraverso la spia della spiritualità francescana acquista uno spessore primario. In Clareno non ritroviamo solo la scelta intellettuale di rifarsi alla patristica greca a preferenza di altre fonti ed altre prospettive 4, l’evocazione 1

G. L. POTESTÀ, Angelo Clareno, p. 162. Annota la von Auw in ANGELI CLARENI, Opera I. Epistole, p. LXXIX: «la Grèce a été d’ailleurs un refuge pour les proscrits religieux de tout genre au moyen âge. Au XVe siècle, une véritable église de fraticelles y était constituée et envoyait des missionaires en Italie». Cf. L. OLIGER, Documenta inedita ad historiam fraticellorum spectantia, in «Archivum Franciscanum Historicum», 6 (1913), pp. 515 -530, alle pp. 529-30. 3 G. L. POTESTÀ, Angelo Clareno, pp. 163-167. 4 Per definire il monaco, ricorre solo a padri greci - ANGELO CLARENO, Expositio Regulae Fratrum Minorum, pp. 31-32 dopo avere affermato nella pagina precedente che la definizio2

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della tradizione orientale è resa vivida ed ‘oculare’ potremmo dire - quando evoca i luoghi stessi del monachesimo1. Questo legame è ancora più sottolineato dallo studioso francese Gribomont, che ne sottolinea la profonda conoscenza delle letterature greca 2, e che chiude la sua ampia analisi del radicamento nella Patristica greca dell’argomentario di Clareno con l’affermazione che per lui «Basile est un alter Franciscus». Ma anche un lettore che non sia immerso nell’erudizione degli studiosi che ho citato nota subito qualcosa di particolare nell’armamentario concettuale di Clareno, una presenza di riferimenti ai padri della chiesa greci che non si ritrova in nessun altro commentatore della Regola francescana. Per dare un esempio, quando esamine del monaco data dai padri conviene perfettamente ai frati minori del suo tempo - ANGELO CLARENO, Expositio Regulae Fratrum Minorum, p. 30. La distinzione tra clero secolare e uomini di religione, tema dibattuto nel XIII secolo e fonte di dispute anche astiose tra sacerdoti parrocchiali e frati mendicanti, viene fatto risalire da Clareno sino a san Basilio, quasi non ci fosse nulla da aggiungere alle sue analisi nel contesto tardo-antico - ANGELO CLARENO, Expositio Regulae Fratrum Minorum, p. 154. 1 Penso per esempio al passaggio in ANGELO CLARENO, Expositio Regulae Fratrum Minorum, p. 27. 2 J. GRIBOMONT, L’Expositio d’Ange Clareno sur la Règle des frères mineurs et la tradition monastique primitive, in G. CARADAROPOLI, M. CONTI, a cura di, Lettura delle fonti francescane attraverso i secoli: il 1400, Roma 1981, pp. 389-424, p. 419. Si tratta dell’approccio condiviso pure dalla biografa di Clareno, Lydia VON AUW, Angelo Clareno et les Spirituels italiens, Roma 1979, p. 245. 139

na il cap. 2 della Regola, e commenta la povertà dell’abito, la giudica in consonanza con la tradizione dei padri1, una considerazione che altri commentatori francescani non formulano, quasi non fosse pertinente. Oppure su un altro piano, quando cita la celebre decretale pseudoisidoriana Dilectissimis, quella che venne raccolta nel Decretum di Graziano, C. 12, q. 1, c. 2, e che venne usata ampiamente dai frati francescani per mostrare che solo dopo il peccato originale vennero nel mondo i concetti di ‘mio’ e di ‘tuo’, ossia la divisione delle cose per possesso, ebbene in questo caso Clareno non si rifà alla ricezione di questo testo in una raccolta normativa. Preferisce dettagliarne la collocazione nell’opera di Isidoro Mercatore, lo Pseudo-Isidoro, raccolta oggi nella Patrologia Latina 130, e la indica come la quarta epistola di papa Clemente. Poco importa l’errore materiale - si tratta della quinta epistola attribuita a papa Clemente2 -, Clareno mostra di volere dettagliare la fonte dei suoi riferimenti, ma senza passare per le raccolte di diritto canonico che sono invece ampiamente utilizzate da tanti suoi confratelli. Un poco cita alla lettera, poi parafrasa il testo3, e si dà il caso che in questo testo ci sia un riferimento implicito a Socrate, indi1

ANGELO CLARENO, Expositio Regulae Fratrum Minorum, p. 63. 2 Si trova questo testo dello Pseudo-Clemente nella PL 130, 57, oppure nella PG 1, 505 (qui come testo direttamente e falsamente attribuito al suo supposto autore). 3 ANGELO CLARENO, Expositio Regulae Fratrum Minorum, pp. 134-135. 140

cato come greco assai sapiente, che nella Repubblica di Platone sostiene che tra persone che sono amici (nel senso greco della philia) tutto deve essere in comune ma Clareno omette il riferimento alla comunanza dei coniugi, che pure c’è nel testo della pseudo-clementina. Non è certo la spiritualità cristiano-orientale che è qui in gioco, ma riportare il riferimento platonico alla comunanza dei beni mi pare metta in gioco l’amore di Clareno per le lettere classiche. Sicuramente questo riferimento platonico non è funzionale alla difesa della povertà francescana. Non è tanto san Basilio di Cesarea ad avere massicciamente influenzato massicciamente i frati minori, quanto il fatto che la sua influenza è profonda e puntuale in frati minori che scelgono di entrare in dissidio con l’approccio dominante latino, e trovano conforto alla loro scelta in un mondo latino-greco che vede in loro non tanto un dissidio ecclesiastico contemporaneo quanto un ritorno alle origini del monachesimo. Il caso esemplare è quello di Clareno, suo traduttore: per le sue fatiche di traduzioni dal greco, specie di san Basilio, il rinvio è al manoscritto conservato a Subiaco, S. Scolastica 227. Il nostro autore stesso parla esplicitamente con commozione della sua attività di traduttore basiliano nella Lettera 42: tradusse anche Gregorio di Nazianzio e almeno in parte Dionigi l’Aeropagita1. Gribomont osserva che Clareno era attratto da quello stile di vita descritto da Climmaco come modello per 1

G. L. POTESTÀ, Angelo Clareno, pp. 315-323. 141

la dissidenza francescana 1. La vita eremitica, percepita come una forma di invito-punizione-reclusione nel mondo latino e certamente così utilizzata nei confronti dei francescani dissidenti, è invece ancora rivestita di tutta la sua nobiltà in una geo-cultura aperta alla tradizione patristica greca. Perarnau ne delinea le caratteristiche divenute rapidamente marginali, se non apertamente assimilate alla punizione, nel movimento francescano dell’eremitismo, sebbene nei suoi scritti Francesco d’Assisi ne ammettesse la pratica: Herde sottolinea non tanto la diffidenza della concezione dominante del papato verso il fenomeno eremitico, quanto l’ostilità della famiglia conventuale francescana verso i confratelli che esercitavano tale opzione 2. E’ su questa falsariga che vorrei proporre l’esistenza di una manifestazione mediterranea dell’ideale di vita religiosa francescano, tale da produrre prossimità 1

Un altro testo importante dello stesso autore è J. GRIBOMONT, La Scala Paradisi, Jean de Raïthou et Ange Clareno, in «Studia Monastica», 2 (1960), pp. 345-358, p. 356: nel testo a stampa della Patrologia Greca 88, all’opera di Giovanni Climmaco seguono degli Scholia di autore ignoto, che non è Giovanni di Raithu. Potrebbero essere del traduttore in latino, ossia di Angelo Clareno, il cui testo è stato poi arricchito dal commento di Dionigi il Certosino. 2 E’ utile l’articolo di J. PERARNAU, Francescanesimo ed eremitismo nell’area catalana, in Eremitismo nel francescanesimo medievale, pp. 165-185; altrettanto vale per P. HERDE, Celestino V e Bonifacio VIII di fronte all’eremitismo francescano, in Eremitismo nel francescanesimo medievale, p. 127. 142

ed affinità con altre geo-culture mediterranee che non abbracciano l’ideale di vita religiosa francescano, anche se il legame dogmatico profondo lega questa manifestazione mediterranea alle manifestazioni nonmediterranee di quell’ideale di vita. Si può fare riferimento a questo stile che certo agli occhi di uno Spirituale appare lassista citando le Determinationes quaestionum circa Regulam Fratrum Minorum, tradizionalmente attribuite a san Bonaventura 1 e tradizionalmente fonte dell’accusa nei suoi confronti di avere un atteggiamento formalistico nei confronti dell’applicazione della regola di vita francescana, ossia di farsi velo della legalità giuridica per darne una lettura snaturante sul piano del messaggio sostanziale. In effetti, in questo insieme di chiarimenti intorno alla regola francescana si possono individuare parecchie argomentazioni che sembrano più furbizie volpine che non spiritualità sincera: mi pare gustosa per un polemista la discussione in cui l’autore spiega come il frate minore debba preferire la compagnia dei ricchi a quella dei poveri, anche se i primi non sono migliori dei secondi2, cosa che potrebbe fare sorridere amaro; oppure, con più moderazione, l’accorata perorazione in favore del fatto che i frati debbano avere abitazioni grandi e spaziose3, o frequentare la mensa dei ricchi a preferenza di

1

Sono apparse nel tomo VIII dell’Opera omnia edita dai Frati di Quaracchi. 2 Determinationes, I, q. 23. 3 Determinationes, I, q. 6. 143

quella dei poveri1. Qualunque sia la propria reazione a questo tipo di argomenti, certo non rientrano nella prospettiva radicale della povertà evangelica propugnata dagli Spirituali; a dire il vero, sono pure in contrasto con altre posizioni di san Bonaventura, che se non fu tenero verso la dissidenza all’interno dell’Ordine, non perorò mai in favore del lassismo e non praticò mai la via del pragmatismo politico tipica dell’ermeneutica formalistica. Una polemica sorta a proposito della paternità del commentario principale alla Regola francescana usualmente attribuito a san Bonaventura ci soccorre per situare il contesto geo-culturale di questo formalismo ermeneutico che è estraneo all’anima mediterranea del francescanesimo: Ignatius Brady ritenne che anche le Determinationes quaestionum circa Regulam Fratrum Minorum non fossero di san Bonaventura, e seppure senza entrare in una argomentazione analitica osserva che il vocabolario latino utilizzato rimanda ad un’area geografica tedesca, per di più non del XIII secolo - momento storico della vita di san Bonaventura -, bensì del XIV secolo2. Ecco un testo che 1

Determinationes, I, q. 22. I. BRADY, The Writings of Saint Bonaventure regarding the Franciscan Order, in A. POMPEI, a cura di, San Bonaventura Maestro di vita Francescana e di sapienza Cristiana, I, Roma 1976, pp. 89-112, a p. 107. Per esempio, vi appare il vocabolo plebanus, p. I, q. 2, che non viene mai utilizzato da san Bonaventura, che dice invece sacerdos parochialis in Commentaria in quatuor libros Sententiarum, IV, d. 17, p. 3, a. 1, q. 2. 2

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si dota di grande autorità, attribuendosi a san Bonaventura come mostra di credere san Giovanni da Capestrano (che opera in area germanica e slava nella prima metà del XV secolo), ed esprime un francescanesimo settentrionale divergente da quello mediterraneo. In quest’opera vi sono infatti affermazioni che un rigorista troverebbe lassiste: ne abbiamo già visto qualche esempio, ma il cosiddetto lassista si definirebbe piuttosto un pragmatista, mentre più che di cosiddetti interlocutori rigoristi egli parlerebbe di portatori di un discorso integralista. Sono due atteggiamenti dell’animo umano che si manifestano nella storia delle divisioni all’interno della rappresentazione consapevole dell’identità del frate minore, e che si saldano anche su una distinzione geografica. Questa distinzione tra un francescanesimo di tipo più settentrionale e di un francescanesimo meridiano non pretende nessuna rigidità di sorta: essa ha senso solo nel fatto che si può ritrovare una nota dominante nel francescanesimo meridiano che non è quella che si ritrova in quello non-meridiano, anche se poi è vero che di fatto in ogni contesto geografico si possono ritrovare le varie anime del francescanesimo. Nessun determinismo alla Montesquieu, quindi, ma certo la consapevolezza che la dislocazione dei vari pensatori francescani in un contesto di forti scontri identitari manifesta una pluralità di geo-culture, e la geo-cultura meridiana a cavallo tra XIII e XIV secolo, con la sua compenetrazione di elementi latini e greci nel contesto cristiano meglio si presta ad acco-

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gliere l’anima Spirituale, rigorista e anti-lassista del francescanesimo. Reso in maniera esplicita, lo schema ruota intorno alla coppia anomia e normativismo, che se esasperata produce una rottura d’identità tra chi si riconosce nei due capi opposti, e intorno all’identità religiosa del francescano, un’identità non-naturale (poiché si entra nella vita religiosa per un atto di volontà), un’identità che lega indissolubilmente ogni manifestazione culturale di questa identità, a meno che la fedeltà alla forma di manifestazione non prevalga sull’adesione all’identità stessa, ed allora il francescano cessa di essere un francescano. A me pare che questo schema - con un andamento indubbiamente definitorio e stipulativo - sia persuasivo nella misura in cui permette di cogliere la specificità della presenza di francescani nel Sud d’Europa, con forti manifestazioni in Sicilia ed in Calabria. In questa direzione mi pare pertinente un’osservazione di Felice Tocco che all’interno del movimento laicale religioso che scuote il XIII e il XIV secolo distingue tra due famiglie di beghini 1: la prima è quella dei beghini della povertà (con elementi di bizochi, a tendenza panteista), in maggioranza terziari francescani, che si auto-identificavano in genere come fratelli poveri della penitenza; la seconda è quella dei be-

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F. TOCCO, Studii Francescani, Napoli 1909, pp. 227, 232. 146

gardi, o fratelli del Libero Spirito1, decisamente e radicalmente panteisti - non si tratta qui di dottrine sofisticate, bensì di manifestazione di una certa pietà popolare -2, e soprattutto perfettisti anomisti, condannati da papa Clemente V nel concilio di Vienne nel 1311 3. 1

R. E. LERNER, Heresy of the Free Spirit in the Later Middle Ages, Berkeley 1972, poi rivista ed apparsa a Notre Dame 1991. 2 Rinvio a A. JUNDT, Histoire du pantéisme populaire au moyen âge et au 16e siècle, Paris 1875, che a p. 48 rinvia ai nomi di David de Dinant e Amaury de Bennes, noti per essere stati condannati successivamente a livello provinciale nel 1210 e poi a livello pontificio nel 1215 nel concilio Laterano IV. 3 Il testo è nella raccolta di decretali Clementinas, 5, 3 De haereticis, 3 Ad nostrum. La Glossa ordinaria a questa raccolta normativa, quando papa Clemente condanna la tesi dell’assunta impeccabilità secondo i begardi che permette loro di fare qualunque cosa senza commettere peccato, precisa v. Impeccabilis, che se lo si considera de potentia absoluta questa tesi sarebbe cattolica: lo gnosticismo dei begardi lo pone invece secundum legem communem, e quando rimprovera loro di rifiutare di obbedire alle istituzioni, la Glossa v. obedientiae, commenta che tale condotta paganitatem incurrit. Ancora, alla v. Septimo, quod mulieris osculum, rifiuta l’idea che ciò cui la natura non inclina è peccato mortale, concesso che l’amplesso non sia naturale (la Glossa ha già precisato che senza intenzione libidinosa non è peccato). Altrimenti, credere nella Trinità, oppure digiunare, sarebbe peccato mortale, il che è insano. Si oppone qui ai begardi il normativismo rispetto al loro anomismo. La questione delle beghine era già stata affrontata dallo stesso papa in un testo che confluì in Clementinas, 3, 11 De religiosis domibus, 1 Cum de quibusdam, dove condanna non già lo stile di vita penitenziale, bensì la creazione spontanea di comunità pe147

Dopo avere ricordato che il carmelitano Guido Terreni è una sorta di braccio pensante nella lotta contro ogni disobbedienza condotta da Giovanni XXII, Tocco considera che mentre il laicato a vocazione religiosa dei beghini si consolida nel meridione di Spagna, Francia, Italia, quello a più forte vocazione panteistica e anomica si radica nella Francia del Nord, in Belgio e in Germania. Mentre permane la divisione tra anomisti e normativisti, vediamo qui porsi una distinzione all’interno dei movimenti laicali di rinnovamento spirituale, con tendenze centrifughe rispetto al deposito della fede cattolico più forti nell’Europa settentrionale che nell’area mediterranea, dove la disobbedienza politica si coniuga anche ad una stretta sottomissione dottrinale, come nel caso di Angelo Clareno che di fatto disapprovò anche le più minute manifestazioni di contestazione nonmeramente verbale della gerarchia ecclesiastica. L’obbedienza di Clareno alla Chiesa permette di concedere a dei suoi stretti compagni come Giovanni della Valle e Paolo dei Trinici un’indulgenza di trattamento che era invece problematica per Spirituali precedenti come fu il caso di frate Liberato, in precedenza Pietro da nitenziali fisicamente locate; Giovanni XXII lo affronterà in Extravagantes, 7 de religiosis domibus, 1 Sancta Romana. Una glossa a v. Insula Siciliensi, precisa che la Sicilia faceva parte del patrimonio del beato Pietro: Giovanni XXII contesta il fatto che se anche vi fosse stato un privilegio da parte di Celestino V, lui non possa revocarlo, ed in ogni caso non risulta che Bonifacio VIII lo abbia approvato: la Glossa, v. non morentur, in riferimento ai rapporti con i francescani precisa che Giovanni XXII non attacca la veram regulam ordinis. 148

Macerata, morto nel 1307 in dissenso con Roma. Il punto è che chi riconosceva la successione apostolica era dentro alla Chiesa, gli altri fraticelli no1. Se si può mostrare che si danno tratti peculiari del francescanesimo meridionale - una natura marginale rispetto alla forma dominante della vita religiosa francescana, fatta di contestazione dell’autorità centrale romana e di nessi culturali non-latini con un mondo greco-cristiano assai più vivido nel meridione d’Italia, una marginalità dell’elemento giuridico-canonico nel francescanesimo meridionale -, allora diviene sensato introdurre tale distinzione all’interno della più generale distinzione di un pensiero meridiano rispetto ad uno non-meridiano - idea cara a Mario Alcaro, alle cui idee direttrici si ispira la collana che ospita questo mio scritto - e si apre una stimolante prospettiva. Dato che questi francescani ‘meridiani’ non sono tanto frati mi1

F. TOCCO, Studii Francescani, p. 292: per alcuni documenti che riguardano questo movimento che si identifica in un approccio simile a quello degli Spirituali, ma associato ad una disobbedienza verso la Sede apostolica, rinvio alle edizioni di Livarius Oliger, che ha pubblicato il trattato di Andrea Ricci contro i fraticelli, Documenta inedita ad historiam fraticellorum spectantia, in «Archiviun Franciscanum Historicum», 3 (1910), pp. 253-272, pp. 505-529, pp. 680-699; l’articolo prosegue nelle annate seguenti, 4 (1911), pp. 3-23, pp. 688-712, e in quest’ultima contiene un’apologia in volgare dei fraticelli databile fra il 1379 e il 1382, a Perugia. L’articolo si completa con documenti vari riprodotti nelle successive annate 5 (1912) e 6 (1913). 149

nori siciliani o calabresi quanto dei frati o dei laici vicini al mondo francescano che si trovano più a loro agio - e se del caso cercano rifugio - nella geo-cultura meridionale, si apre l’indagine sulle condizioni non già meramente politiche - inevitabilmente contingenti nella loro caducità di lotta fra partigiani - bensì culturali che hanno spinto coloro che esprimevano un’anima anomica e non-dominante dell’ideale di vita francescano a trovare conforto nelle terre di Sicilia e di Calabria. Il mio è uno spunto ed una suggestione per un progetto di rilettura con nuove lenti di ciò che già conosciamo, ed isolando alcuni concetti sto cercando di mostrare le condizioni, tutte essenzialmente legate alla ben più forte presenza dell’influenza greco-cristiana tra Sicilia e Calabria rispetto ad un Nord Europa completamente latinizzata dalla teologia politica carolingia, che hanno fornito la manifestazione geografica di un’anima culturale del francescanesimo. Ogni nuova evidenza documentale fornirebbe fieno in cascina a questa prospettiva, ma mi pare che vi sia già una quantità non trascurabile di fieno.

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IX SIMPATIE MERIDIANE VERSO LA DISSIDENZA

Uno studio fondamentale per comprendere la generosa accoglienza allo spirito del francescanesimo più vicino all’esplosione escatologica è quello di Pou y Martí1, che seppure si attardi sulla situazione catalana nello stesso tempo mostra efficacemente gli intrecci con la situazione di Sicilia e Calabria, con un legame assicurato innanzitutto dai sovrani regnanti, poi dall’affinità di approccio religioso, ma anche da annotazioni come quella che riguarda Nicola di Calabria, compagno di Angelo Clareno nel suo periodo meridiano sino alla morte nel nord della Calabria. Ebbene, questo Nicola nel 1352 predica a Barcellona su temi escatologici e pneumatologici2, mostrando quindi la capacità di collante di trasmissione culturale di tematiche escatologiche e sociali svolto dalla casa regnante aragonese: molti dissidenti francescani della Francia meridionale, tra Beziers e Narbonne, in un’area culturalmente omogenea alla Catalogna, si ricongiunsero ai 1

J. M. POU Y MARTÍ, Visionarios, beguinos y fraticelos catalanes: (siglos XIII-XV), Vich 1930. 2 J. M. POU Y MARTÍ, Visionarios, beguinos y fraticelos catalanes, p. 32. 151

fraticelli in Puglia grazie alla protezione di Filippo di Maiorca e di re Roberto1. Ampio spazio è dedicato ad Arnaldo di Villanova, figura carismatica di laico religioso e celebre medico alchimista, che funge da filtro diplomatico dei frati Spirituali con i governanti dei territori di Sicilia e Calabria 2, compreso Federico d’Aragona, re di Sicilia3. Pou y Martí si riferisce ad un documento episcopale, emanante da un concilio tenuto a Tarragona nel febbraio 1317 4, che mira a contenere la eventuale pastorale dei seguaci di Arnoldo 5, illecita in 1

Così racconta un anonimo pubblicato da F. TOCCO, Studii Francescani, p. 520, tratto dal codice Magliabechiano XXXIV, 76, 111b. In questa raccolta del calabrese Tocco si vedano in particolare Due documenti intorno ai beghini d’Italia, pp. 227238 (1888); I fraticelli o poveri eremiti di Celestino, secondo nuovi documenti, pp. 239-310 (1895); L’eresia dei fraticelli e una lettera inedita del beato Giovanni delle Celle, pp. 406-546 (1906). 2 Su Arnaldo in Sicilia, si veda anche R. MANSELLI, Spirituali e beghini in Provenza, Roma 1959, pp. 55-80. 3 J. M. POU Y MARTÍ, Visionarios, beguinos y fraticelos catalanes, c. 2, “Arnaldo de Vilanova y Fradríque, rey de Sicilia”, pp. 34-110. 4 J. M. POU Y MARTÍ, Visionarios, beguinos y fraticelos catalanes, pp. 100-101. 5 Alcuni passi sono evocati in J. M. POU Y MARTÍ, Visionarios, beguinos y fraticelos catalanes, pp. 42, 47-48: «non ex timore legalis oppressionis aut miracolorum evidentia, quae sensibilem dat notitiam veritatis divine et allicit vehementer ad cultum Dei (nam tunc propter vicinitatem Antichristi cessabunt miracula), sed amor ad vitam spiritualem et devotio ad Christum solum ex puritate vel sinceritate et interiori gratia Spiritus San152

quanto non disciplinata dai vescovi territoriali, e dottrinalmente pericolosa a partire dallo stile escatologico della Expositio che riprende la fattualità tipica degli scritti apocalittici post-Gioacchino. Arnaldo fu capo di un’ambasciata mandatata da Giacomo II e Federico III tra fine 1309 ed inizio 1310: dopo avere avuto in cura Carlo II d’Angiò, Arnaldo lo convinse a scrivere al provinciale dei Minori Gonzales di Balboa lamentando le vessazioni subite dagli Spirituali. Sta di fatto che Clemente V convocò i capi degli Spirituali nell’aprile del 1310 per ascoltare le loro ragioni (Bullarium Franciscanum, V, n. 158, pp. 65-68). Arnaldo conosceva personalmente molti cardinali, ma questo non gli evitò di cadere vittima di una abile opera di disinformazione che lo fece cadere in disgrazia presso Giacomo II, che mirava al controllo di Sardegna e Corsica, ma non al rinnovamento cristiano, come era invece per il fratello Federico III. Nel 1311 Arnaldo morirà in Sicilia, elemento fondamentale del tassello geo-culturale che cerchiamo di tratteggiare.

cti habebunt ortum, nec etiam ex doctorum sapientiali facundia». L’opera è oggi in edizione critica in ARNAU DE VILANOVA, Opera omnia scripta Spiritualia, I, Expositio super Apocalypsim, Barcelona 1971: per una completa rassegna bibliografica, si veda P. EVANGELISTI, I Francescani e la costruzione di uno Stato, Milano 2006, di cui si vedano anche sezioni come “Francesc Eiximensis e Matteo d’Agrigento, protagonisti della costruzione dell’identità catalano-aragonese”, pp. 162-175. 153

Vi è un’oscillazione tra escatologia fatta pratica sociale e volontarismo politico1, una dialettica che non era atta a rassicurare giudici ecclesiastici preoccupati soprattutto dell’ordine pubblico amministrato dall’organizzazione gerarchica delle istituzioni: se è sempre possibile esasperare l’elemento utopico di questa famiglia di pensatori, non bisogna dimenticare che l’utopia è anche pesantemente normativa quando viene presa sul serio e non anestetizzata come puro misticismo. Per esempio, Paolo Evangelisti legge un passo del sermone De paradiso di Matteo d’Agrigento2, rappresentante quattrocentesco dell’eredità escatologica degli Spirituali, in senso utopico – «la comunità caritativa e paradisiaca del cives viene presentata come una patria dove esiste un’unica volontà, ove vi è la perfetta identificazione tra ciò che Dio vuole per se stesso e ciò che questi cives vogliono per la comunità»3. L’influenza della 1

R. MANSELLI, Arnaldo da Villanova e i papi del suo tempo tra religione e politica, in «Studi romani», 7 (1959), pp. 149161, poi raccolto in R. MANSELLI, Da Gioacchino da Fiore a Cristoforo Colombo, p. 7, in cui si evoca il sopravvenuto antitomismo di Arnaldo studiato da F. EHRLE, Arnaldo de Villanova ed i «Thomatiste», in «Gregorianum», 1 (1920), pp. 475501. 2 MATTEO D’AGRIGENTO, Sermones varii, Roma 1960, p. 136. 3 P. EVANGELISTI, I Francescani e la costruzione di uno Stato, p. 178. La lunga analisi di Evangelisti si chiude a p. 307, sottolineando tra le tante cose come una comunità determinata da una identità dogmatica non-cattolica (i musulmani, p. 254; i giudei, pp. 258-260) non sia ammissibile nel progetto di utilità sociale fondato sulla fiducia pubblica agitato da questi epigoni 154

civiltà urbana oramai massicciamente diffusa, in cui il mendicante è un pericolo per l’ordine pubblico, è difficilmente compatibile con una nostalgia del Francesco dipinto dagli Spirituali che prescrive la mendicità a preferenza del lavoro, manuale o intellettuale. A me non pare che il testo del predicatore siciliano sia descrittivo - e mistico-utopico, bensì utopico-prescrittivo: se l’uomo volesse ciò che Dio vuole lui voglia, allora tutto sarebbe realizzabile 1. Ma questo non è di per sé gnosticismo politico, ossia rifiuto del ruolo di mediazione della Sede apostolica, è la tesi di sant’Anselmo sulla caduta di Lucifero applicata al contesto sociale: Matteo afferma solo che la comunità può tutto se e solo se obbedisce in ogni istante a Dio.

quattrocenteschi del movimento Spirituale. Va riconosciuto che un elemento utopico si presenta in Eximensis, peraltro a mio parere contrario alla sua stessa identità dogmatica francescana, se, come nota Evangelisti a p. 257, il “viure ociosament” sia un danno alla cosa pública, tanto da preconizzare una segregazione urbana per gli oziosi. Per il riformatore francescano Eximensis, si veda anche J. M. POU Y MARTÍ, Visionarios, beguinos y fraticelos catalanes, c. 11, “Francisco Eximensis, Patriarca de Jerusalén”, pp. 397-415, con l’annotazione di un suo penchant per l’alchimia (p. 414), punto che lo avvicina all’universo mentale di Arnaldo di Villanova ed in generale del sapere medico medievale che circolava nella geo-cultura dell’Italia meridionale. 1 MATTEO D’AGRIGENTO, Sermones varii, p. 136: «nam sicut Deo potest quod vult se ipsum, ita poterunt illi quod volent quod ille ita volet, quid illi volent et quid ille volle non poterint non esse». 155

In ogni caso, l’escatologia arnaldiana si associa ad una afflato di riforma sociale 1, come mostra un suo testo di polemica contro il lusso sociale che sfocia in un’apologia della povertà2: l’elemento dell’illuminazione personale è presente in lui, dato che afferma di avere composto per ispirazione divina la sua Philosophia catholica, in una lettera del 29 agosto 1302 3. In questo documento vi sono anche attacchi impliciti, ma forti, contro papa Bonifacio VIII per la sua azione contro i clareniani4, rafforzando la comunanza spirituale con Angelo Clareno, anche se quest’ultimo si trattenne sempre dal ricoprire un ruolo carismatico nella sfera dell’azione politica concreta, e preferisse il silenzio alla ribellione contro la Sede apostolica. L’influenza politica di Arnaldo di Villanova, invece, si esercitava anche attraverso il suo sapere esoterico di interpretazione

1

J. M. POU Y MARTÍ, Visionarios, beguinos y fraticelos catalanes, p. 55. 2 J. M. POU Y MARTÍ, Visionarios, beguinos y fraticelos catalanes, pp. 55-56. 3 J. M. POU Y MARTÍ, Visionarios, beguinos y fraticelos catalanes, p. 61: disponiamo di un’edizione critica a cura di J. Perarnau di questo lavoro, Ars Catholicae Philosophiae sive Philosophia Catholica et Divina Tradens Artem Annihilandi Versutias Maximi Antichristi, in «Arxiu de Textos Catalana Antics», 10 (1991), pp. 57-162. 4 J. M. POU Y MARTÍ, Visionarios, beguinos y fraticelos catalanes, p. 62: «ex quibus patet quam efficaciter illus misterium iniquitatis jam operetur quod secundum Apostolum ad Thessalonicenses aditum preparat maximo Antichristo» (Tess., II, 7). 156

dei sogni, che esercitava alla corte di Federico III 1: Pou y Martí dedica ampio spazio al ruolo che i regnanti aragonesi ricoprono nella difesa degli Spirituali contro lo sguardo disapprovante di Giovanni XXII 2, negli anni di quella disputa sulla povertà francescana che oppose la Sede apostolica a due anime dissidenti del movimento francescana, quella più istituzionale, tra cui il filosofo Guglielmo di Ockham, che difendeva una nuova concezione del diritto soggettivo, e quella spirituale che difendeva la possibilità concreta di vivere poveri come Cristo e gli Apostoli senza nessun compromesso con il mondo sociale che li circondava. Tuttavia, nella percezione dei protagonisti meridionali dell’epoca la distinzione tra fraticelli de opinione e fraticelli de paupere vita non è rilevante, dato che il preteso soffocamento dell’intenzione di Francesco da parte della Sede apostolica appare dominante. Per la presenza di Spirituali radicali, ossia i fraticelli, in Calabria, padre Russo fornisce numerosi elementi: tuttavia, egli è mosso come sempre da intenti apologetici che lo conducono a negare nei primi decenni di vita dell’Ordine 1

J. M. POU Y MARTÍ, Visionarios, beguinos y fraticelos catalanes, p. 67, pp. 68-84: il sogno di Giacomo II e del padre Federico III sono letti secondo uno schema riportato in latino ed in catalano, Interpretatio (1308) e Rahonament (1309). 2 J. M. POU Y MARTÍ, Visionarios, beguinos y fraticelos catalanes, cap. 3, pp. 111-153. Per queste vicende, si veda la Chronica XXIV Generalium, un testo che si voleva essere dovuto allo stesso Arnaldo di Villanova per la sua esplicita simpatia verso gli Spirituali, edita in Analecta Franciscana III, alle pp. 508510. 157

la presenza di Spirituali in Calabria per scopi puramente retorici di purezza dell’eredità gioachimita senza contaminazioni rispetto alla famiglia francescana conventuale - anche se poi ne riconosce la presenza, ma non indigeni, bensì provenienti dal Nord - che è poi l’area mediterranea un poco più a Nord -, senza chiedersi come mai il movimento si trasferisse proprio in Calabria e non altrove. Resta il fatto che il lavoro di Russo contiene una serie di riferimenti storici e di informazioni sui fraticelli calabresi (con una specificità: non indaga i fraticelli in Calabria, ma solo quelli nati in Calabria, un criterio fuorviante per chi voglia comprendere una geo-cultura) che rappresentano la pur scarna testimonianza di una presenza discreta e ritirata, che però sul piano delle manifestazioni culturali ha lasciato segni ben più vistosi1. Si consideri che il re Roberto di Sicilia intervenne nella consultazione indetta da Giovanni XXII con un proprio testo2 in cui difendeva l’idea che Cristo e gli Apostoli non avessero posseduto nulla, né in proprio, né in comune, una posizione irrazionale agli occhi del giurista Giovanni XXII: la gran parte dei partecipanti alla consultazione erano 1

Si veda F. RUSSO, I fraticelli in Calabria nel secolo XIV. Fatti e personaggi, in «Miscellanea Francescana», 65 (1965), pp. 349-368, a p. 351, p. 352. 2 J. M. POU Y MARTÍ, Visionarios, beguinos y fraticelos catalanes, p. 130: il documento venne pubblicato con lezione incerta prima da G. B. SIRAGUSA, L’ingegno, il sapere e gl’intendimenti di Roberto d’Angiò, con nuovi documenti, Palermo-Torino 1891, poi in parte da F. TOCCO, La quistione della povertà, Napoli 1910, p. 284 e ss. 158

cardinali, meno che mai laici pervasi di afflato mistico, che non faceva certo difetto alla regina Sancia, sposa di Roberto, re di Gerusalemme e di Sicilia, e madre di Carlo duca di Calabria, la quale in una lettera del 15 marzo 1329 indirizzata da Napoli, sede della Corte, si rivolge al capitolo generale dei frati riunito a Parigi per trovare un successore al deposto Michele da Cesena, ministro generale scomunicato da Giovanni XXII, in cui ella esprime un afflato degno degli Spirituali, esasperando il tema del fondamento puramente divino della Regola francescana, senza mediazioni di legittimazione normativa da parte della Sede apostolica, e senza possibile intervento normativo della stessa Sede apostolica sulla sua impalcatura, cosa che suonava terribilmente in controtendenza rispetto alla esaltazione della pienezza del potere normativo del Papa 1. La regina non apprezzò quello che avvenne, ossia l’elezione di Geraldo Odoni, uomo colto ma, ai suoi occhi di partigiana degli Spirituali, lassista in tema di povertà. La regina Sancia aveva scritto un memoriale a Giovanni XXII difendendo la tesi della povertà assoluta apostolica, di cui abbiamo la risposta di Giovanni XXII 2, in cui il pontefice ribadisce senza fronzoli la sua tesi e riafferma il potere pontificio di revocare le decisioni di 1

J. M. POU Y MARTÍ, Visionarios, beguinos y fraticelos catalanes, pp. 131-132: «talia regula fundata super tali fundamento, scilicet Evangelio sancto, et signata talibus signis, scilicet plagis Domini nostri Jesu Christi, impressis in persona dicti Patris communis, nullus potuit nec potest nec poterit eam frangere». 2 Bullarium Franciscanum, V, n. 923, 10 agosto 1331, p. 504. 159

un suo qualunque predecessore, e per completare la sua azione, evidentemente convito della sordità di Sancia al suo pragmatismo politico, si premura di scrivere anche a suo marito Roberto1, per raccomandargli di favorire l’azione di Geraldo Odone sul territorio2. Ma Sancia non demorde, e si rivolge il 18 aprile a Geraldo Odoni, in occasione del capitolo di Perpignan del 1331, supplicandolo di non modificare il rigore della povertà, paragonando allo stesso livello l’autorevolezza di Regola e Vangelo, ed affermando che il Ministro Generale che volesse modificare la Regola sarebbe non già un pastore, bensì un mercenario. E per completare il tutto, in barba ad ogni prudenza politica, si autoproclama poi protettrice dell’Ordine3: va osservato che a Napoli due fraticelli influenzavano particolarmente Sancia, Andrea di Galiano - collegato al processo contro Andrea di Galiano, viene menzionato un certo frate Roberto da Macchia, già ministro provinciale della Calabria, testimonianza del collegamento stretto fra i francescani Spirituali intorno a Napoli ed in Calabria, uniti anche dal collante di una dinastia regnante filoSpirituale e filo-fraticelli -4 e Pietro di Cadeneto, ambedue caduti sotto l’attenzione giudiziaria di Giovanni XXII. La presenza coeva di fraticelli in Calabria, ossia 1

Bullarium Franciscanum, V, n. 924, 19 agosto 1331, p. 504. J. M. POU Y MARTÍ, Visionarios, beguinos y fraticelos catalanes, p. 133. 3 J. M. POU Y MARTÍ, Visionarios, beguinos y fraticelos catalanes, p. 133-134. 4 F. RUSSO, I fraticelli in Calabria nel secolo XIV, pp. 362-363. 2

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di Spirituali in rotta con l’obbedienza a Roma, è segnalata da una lettera datata 7 marzo 1327 e indirizzata al provinciale Nicola da Reggio menziona il laico Roberto di Mileto, menzionato anche da padre Russo, e questo laico ricevette due lettere da Clareno: il papa racconta di un frate Tommaso, fraticello, che lievitò mentre pregava in piedi con una gamba sulla tibia, accompagnato per mano da Maria 1. La contesa giuridicopolitica si giocava intanto a Napoli: il fratello di Sancia, l’Infante Filippo di Maiorca, in un discorso tenuto il 6 dicembre 1329 accusa Giovanni XXII di avere autorizzato un processo iniquo2. Questi scrive al padre re

1

F. EHRLE, Die Spiritualen, ihr Verhältniss zum Franciscanenorder und zu den Fraticellen, in «Archiv für Litteratur und Kirchengeschichte des Mittelalters», IV (1887), p. 64: per Roberto di Mileto, si veda F. RUSSO, I fraticelli in Calabria nel secolo XIV, pp. 364-366. Sugli stessi fatti, si veda anche F. TOCCO, Studii francescani, pp. 290-291: i fatti sui miracoli clareniani coinvolgono in un caso Nicola di Calabria, e sono in Bullarium Franciscanum, III, Supplementum, Roma 1780, p. 16; questi voleva andare a rendere visita al sepolcro di san Francesco, e senza parlare Clareno gli risponde, connotando la terra calabrese di una speciale eredità francescana esclusiva di altre geo-culture, di “revertere ad cellam tuam et sta in pace tua. Bene ibis in Assisium sed non modo, post mortem meam ibis; et sic factum est”. Simile è l’episodio di Petruccio di Rocca di Monte Dragone, che è preoccupato di non potere riparare un libro greco perché non dispone di un ago sufficientemente piccolo, e Clareno ne legge il pensiero offrendogli conforto. 2 J. M. POU Y MARTÍ, Visionarios, beguinos y fraticelos catalanes, p. 136. Per il processo contro Andrea, Bullarium Franci161

Roberto per mettere un freno a queste manifestazioni pubbliche a lui ostili, e si limita ad evocare la presenza di uomini pestiferi da estirpare 1. Giovanni XXII aveva già deplorato il misticismo filo-spirituale di Filippo di Maiorca2 in una lettera del 26 gennaio 1331 3, dopo avere ricevuto una supplica 4 di questo protettore dei clareniani che eccede in zelo le intenzioni dello stesso Clareno. Infatti, dopo avere ribadito i topoi degli Spirituali di una Regola francescana concessa direttamente da Dio e della necessità di non interpretarla in nessun modo, Filippo cita il Testamento di Francesco, che non ha valore normativo rispetto alla Regola, ma per gli Spirituali vale quasi più della Regola, ed evoca senza fare il nome la fuoriuscita volontaria dall’Ordine verso scanum, VI, Roma 1902, appendix I, pp. 597-638: emerge il suo rapporto sensibile con i regnanti, pp. 598, 609, 613. 1 Bullarium Franciscanum, V, n. 891, p. 486. 2 Su di lui J. M. VIDAL, Un ascète de sang royal: Philippe de Majorque, in «Revue de questions historiques», 44 (1910), pp. 361-403, e W. GOETZ, König Robert von Neapel. Seine Persönlichkeit und sein Verhaltnis und Humanismus, Tübingen 1910, specie p. 25 e ss. per il suo misticismo 3 J. M. POU Y MARTÍ, Visionarios, beguinos y fraticelos catalanes, p. 137. 4 Bullarium Franciscanum, V, n. 890, p. 490, e per la versione in catalano J. M. POU Y MARTÍ, Visionarios, beguinos y fraticelos catalanes, pp. 125-127: la supplica si chiude con queste parole «et sicut a Spiritu sancto est via perfectionis christianae quam postulo, sic a spiritu maligno esse denegationem eius non dubitant fidei catholicae vitam et genera extimentes. Si denegatur, ergo quid restat? Audient certe coeli, quae loquor, audiet et terra verba oris meis». 162

i Cistercensi del frate minore Ubertino da Casale, dissidente sino alle estreme conseguenze, polemizzando direttamente con il Papa, che non si infuria solo per ragioni diplomatiche, e certo lo considerava un poco spostato di mente. In questo clima non vi potevano essere che delle pessime relazioni della regina Sancia con Geraldo Odoni1, tanto che la frustrazione di questa di fronte all’ottusità del mondo la condusse alla morte del marito nel 1343 a ritirarsi in esilio volontario nel monastero di Santa Chiara sino alla morte avvenuta nel luglio 13452. Con la sua morte, muore anche l’illusione di una religiosità che spinge l’ideale dell’altissima povertà nel cuore della deliberazione politica, ma non cessa affatto l’avventura culturale di un mondo cristiano greco-latino che affonda la sua specificità non tanto nel chiliasmo dell’agitazione sociale quanto in una visione radicale dell’afflato religioso, capace di saldarsi in una tradizione giudaico-cristiana3.

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J. M. POU Y MARTÍ, Visionarios, beguinos y fraticelos catalanes, pp. 140-141. 2 J. M. POU Y MARTÍ, Visionarios, beguinos y fraticelos catalanes, pp. 143-144. 3 Mi pare fondamentale il già citato studio di H. J. HAMES, Like Angels on Jacob’s Ladder, che mostra le connessioni dottrinali profonde, e non meramente sociologiche, tra un’anima del cristianesimo e il giudaismo kabbalistico. 163

Indice dei nomi (a cura di Matteo Scozia) Abramo 77 Abulafia A. 82 Accrocca F. 25n Acri A. 21n Adamo di Perseigne 39 Adorisio M. A. 21n Agamben G. 122, 129 Agostino d’Ippona, santo 97, 130 Agostino G. 16 Aimone P. 16 Alcaro M. 3, 9, 111n, 149 Alciati (o Alciato), Giovanni Andrea 104 Alvaro Pelagio 110 Amaury de Bennes 147n Andenna G. 46-47 Andrea di Galiano 160 Angelo Carletti (beato) 11 Angelo Clareno 8-9, 25, 27, 69, 109-110, 112-115, 124128, 133-135, 138-142, 148, 151, 156 Anselmo d’Aosta, santo 121, 130, 155 Anticristo 14, 34-35, 82 Antonio da Padova, santo 43 Aristotele 89 165

Arnaldo da Villanova 18, 83, 154n Barbi M. 67 Barlaam Calabro 89 Barthélemy D. 130n Basile A. 61n Basilio di Cesarea, san 126-127, 139n, 141 Benedetto Caietani 113 Berlin I. 67n, 83n Berman H. 133n Bernardo di Chiaravalle, san 126-127 Bertelli G. 45n Bettetini M. 49, 51-52, 54n Bloomfield M. 70n Boccaccio, Giovanni 41n Bohme J. 65 Bonaventura da Bagnoregio, san 31, 36, 68-69, 136, 143144 Bonifacio VIII, papa 18, 90, 111-113, 142n, 148n, 156 Brady I. 144 Brufani S. 26 Bufalo R. 6, 10, 179 Buonaiuti E. 31, 77-78 Burgarella F. 40n, 70n Burr D. 31, 118-119 Cacciatore F. M. 111n Caciotti A. 25n 166

Campano L. 21, 45 Caradaropoli G. 139n Carlo II d’Angiò 153 Carlo Magno 48, 50, 53, 88, 129 Carlo, duca di Calabria 114, 159 Catone, Marco Porcio (il Censore) 58n Celestino III, papa 60 Celestino V, papa 111-113, 142n, 147n, 152n Charbonneau-Lassay L. 103n Chazelle C. 50n Chiara d’Assisi, santa 163 Chiffoleau J. 93n Cino da Pistoia 99 Clemente V, papa 140, 147, 153 Climmaco, Giovanni 141-142 Coda P. 24 Colombano, abate 44 Colonna, famiglia 113 Conti M. 139n Corbin H. 66n, 77 Corrado da Offida 111 Corrado IV, di Hohenstaufen 41n Courtois B. 131n Cristo, Gesù di Nazareth 8, 21, 29, 32, 36, 54, 69-72, 74, 76, 78-79, 88, 97, 126, 135-136, 157-158, Cristoforo Colombo 19n, 30n, 32n, 43n, 64n, 67-68, 87n, 154n Crocco A. 20n, 36n 167

Cuniberto F. 65n D’Agostino S. D’Onofrio G. 87-88 Dalena P. 18, 40n Daniele, profeta 78 Dante Alighieri 14, 67-68, 87, 90-91 Davide, re d’Israele 77 David de Dinant 147n De Rubeis G. 41n Deghaye P. 55n, 107n Delorme F. 121n Devriendt J. 53n Dionigi il Certosino 142n Dionigi l’Aeropagita 141 Dito O. 41n Doninelli A. 66n Duby G. 92 Dürer A. 97 Edipo 95 Ehrle F. 154n, 161n Elia, profeta 78 Engels F. 80 Enrico di Ceva 114-115 Enrico di Susa 89 Enrico VI 46 Erdan A. 91n 168

Esposito R. 4 Eusebio di Cesarea 31, 33, 53, 129-130 Evangelisti P. 153-155 Federico d’Aragona 152 Federico II, di Hohenstaufen 40-41, 82 Federico III d’Aragona 114-115, 153, 157 Ferrari M.C. 49n Filippo di Maiorca 152, 161-162 Fonseca C. D. 15, 18n, 40n, 46n Fournier P. 17n, 20n, 22n, 34n, 36n, 40n Francesc Eiximensis 153n Francesco d’Assisi 26, 43-44, 110, 112, 123, 135-136, 138, 142, 161n Leone, frate d’Assisi 136 Freeman A. 48n Frugoni A. 25 Gabrieli E. 19-20 Gelasio I, papa 53 Gemma (madre di Gioacchino da Fiore) 13 Geraldo Odoni 159-160, 163 Gerardo da Borgo San Donnino 25, 81, 84 Ghisalberti A. 33n, 49n, 53n Giacomo II, d’Aragona (il Giusto) 153, 157n Gilson E. 90

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Gioacchino da Fiore 7-9, 13-37, 39-40, 43-47, 49-50, 5357, 59-61, 63-64, 66-73, 75-85, 87-91, 102, 107, 110, 122, 128, 153-154 Giobbe 99n Giovanni Battista, san 78-79 Giovanni da Capestrano, san 145 Giovanni da Morrovalle 113 Giovanni da Parma 25-28, 69 Giovanni della Valle 148 Giovanni di Raithu 142n Giovanni Duns Scoto 117, 131n Giovanni Scoto Eriugena 23, 51-52, 91, 102, 129 Giovanni XXII, papa 100, 110, 114, 137, 147-148, 157162 Giovanni, san (apostolo ed evangelista) 29, 78 Girard R. 23n, 71 Giuda, apostolo 72n Giuseppe da Cupertino, san 30 Goetz W. 162n Gonzales di Balboa 153 Gould W. 75, 79, 84 Graziano di Bologna 17, 73, 101, 104, 140 Gregorio di Nazianzio 141 Gregorio Magno, san 130 Gregorio VII, papa 130 Gribomont J. 139, 141-142 Grundmann H. 39 Guénon R. 77, 105-107 170

Guglielmo di Ockham 157 Hames H. J. 82, 163n Hegel G. W. F. 37, 63 Herde P. 111-113, 142 Honée E. 53n Iacopone da Todi 111, 113 Ifigenia 71 Innocenzo III, papa 60, 79, 137 Innocenzo IV, papa 26 Intrieri L. 19n Isidoro Mercatore 140 Jundt A. 147n Kant I. 65 Kantorowicz E. 99 Kuttner S. 16n L’Occaso C. M. 41n Lacan J. 51n, 90 Ladner G. 91n Lattanzio 72 Lemmens L. 136n Leonzio Pilato 41n Lerner R. 34, 102, 146n Liberato, frate (vedi Pietro da Macerata) 113, 148 171

de Lubac H. 55, 63, 91n, 119 Lucà S. 40n Luca, san (apostolo ed evangelista) 77 Luca, vescovo di Cosenza 21, 39, 43, 45 Lucifero 121, 155 Ludovico il Bavaro 109 Ludovico il Pio 87-88 Lutero, Martin 53, 80 Magritte R. 93 Manselli R. 18-19, 30-32, 43, 64, 67-68, 83n, 87n, 112, 115, 132n, 152n, 154n Marco, san (apostolo ed evangelista) 78 Maria, madre di Gesù 68, 161 Martín J. P. 33n Marx K. 63 Matteo d’Agrigento 153-155 Matteo, abate 46, 60 Matteo, san (apostolo ed evangelista) 22, 77 Mauro, notaio (padre di Gioacchino da Fiore) 13 Melli M. 25n Meyvaert P. 48n Miceli C. 31n Michele da Cesena 159 Montesquieu 145 Moreschini C. 98n Mottu H. 23-26, 29n, 35-36, 56n, 69-70, 76n, 78n, 80-81 Moynihan R. 83 172

Münzer T. 80, 128 Musto R. G. 134 Niccolò III, papa 26 Nicola da Reggio (o di Calabria) 151, 161 O’Regan C. 64-65 Oliger L. 125n, 134n, 138n, 149n Omero 41n Paolo dei Trinici 148 Paolo di Tarso, san 78, 130 Paparella F. 51n, 102n Paravicini Bagliani A. 90 Parisoli L. 23n, 31n, 67n Parnassio, mercante 41n Passantino A. 31n Pepe C. 41n Perarnau J. 142, 156n Perrin M. 72n Petrarca, Francesco 41n Petruccio di Rocca di Monte Dragone 161n Pier Damiani, san 130 Pietro Alfonsi 82 Pietro da Macerata (frate Liberato) 148 Pietro da Sant’Andrea, beato 41n Pietro di Cadeneto 160 Pietro di Giovanni Olivi 31n, 87n, 134 173

Pietro (Pier) Lombardo 22-23, 54n, 57 Pietro, san (apostolo e papa) 17, 72n, 147n Pinchard B. 91n Pipino il Breve 129 Pitagora 9, 112n Platone 89, 141 Poly J.-P. 131n Pompei A. 144n Potestà G.-L. 71n, 75n, 134, 138, 141n Pou y Martí J. M. 151-152, 155-160, 162-163 Pseudo-Isidoro 140 Rabano Mauro 49n, 87-90 Raimondo Goffredi 113 Rainini M. 57n Raniero da Ponza 60 Reeves M. 75, 79n, 83-84 Ricci A. 149n Roberto da Macchia, frate 160 Roberto di Mileto 161 Roberto di Sicilia e di Gerusalemme, re 152, 158-160, 162 Roberto il Saggio 114 Rodotà P. P. 41n Roubis D. 45n Rufino 11, 104 Ruiz D. 27-28 Ruperto di Deutz 123 174

Russo F. 41n, 60-61, 82, 157-158, 160-161 Salerno M. 47n Salimbene da Parma (o di Adam) 28, 82-83, 109-110 Sancia, regina 159-161, 163 Sancio Panza 96 Santi F. 78n Schirò G. 89n Schott K. 94-95 Silvestre G. 68n Simone da Bisignano 16, 19 Singer H. 104n Siragusa G. B. 158n Sogliani F. 45n Spirito Santo 18, 20n, 24-25, 29n, 32, 35-36, 50, 56n, 6667, 70n, 76, 78n, 80-81 Staglianò A. 24, 33-34, 43n, 48n Swanson R. N. 46n Swedenborg E. 65 Taguieff P.-A. 64n Talahite F. 92n Taubes J. 130n Teodolfo di Orleans 49 Terreni, Guido 148 Tierney B. 73 Tocco F. 111-112, 146, 148-149, 152, 158, 161 Tommaso d’Aquino, san 96, 117 175

Tommaso di Eccleston 27 Tommaso III 111 Tommaso, frate 161 Tondelli L. 67 Töpfer B. 83n Tramontana S. 40n Trinità 24, 29, 37, 53, 57-59, 75, 129, 147n Troncarelli F. 16n, 27n, 48n, 63-64 Ubertino da Casale 109n, 113, 136, 163, Ugo di Digne 27-28 Umberto di Silvacandida 130 Vaccaro A. 47n Vaiani C. 26 Verdier R. 131n Vidal J. M. 162n Voegelin E. 66-67, 122-124, 128-129 Von Auw L. 109n, 134, 138-139 Von Falkenhausen V. 40n Wehr G. 107n Wessley S. E. 46n Williams-Hogan J. 65n Wolf K. B. 132n Yeats W. B. 75

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INDICE GENERALE

Le ragioni di una Collana ……………………………..….... 3 PREMESSA.……………………………………………......... 7 I.

PER PARTIRE: PROSPETTIVE CULTURALI IN AZIONE ……………………………………………. 13

II.

INDICAZIONI SIMBOLICHE SULLA VITA DI GIOACCHINO ….……………………………………… 39

III. L’INCONTRO CON LE PERSONE DIVINE..………….. 63 IV. SLITTAMENTI DI SIGNIFICATO OPERATI SUL MESSAGGIO GIOACHIMIANO…………………….... 75 V.

TENSIONI STRUTTURALI NEL DISCORSO SIMBOLICO..…………………………………..................... 87

VI. IL FRANCESCANESIMO NELL’ALVEO MERIDIANO: ANGELO CLARENO E LO SGUARDO VERSO ORIENTE ………………………………………….... 109 VII. L’OBBEDIENZA DI FRONTE ALLE NORME .......…… 117 177

VIII. PARTICOLARITÀ DEL COMMENTO ALLA REGOLA DI CLARENO ………………………………………... 133

IX. SIMPATIE MERIDIANE VERSO LA DISSIDENZA. .… 151 Indice dei nomi ………………………………………….... 165 Indice generale…………………………………………….. 177

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PENSATORI CALABRESI Collana diretta da Romeo Bufalo (Università della Calabria). 1. Luigi M. Lombardi Satriani, La figura e l’opera di Mariano Meligrana. 2. R. Cirino, Scienza e teologia nella Calabria Moderna.

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Finito di stampare Maggio 2016 presso Grafiche Falcone - Squillace (CZ) a cura dell’Associazione Culturale Radici nel Tempo - 88060 Davoli (CZ) [email protected] www.iltesto.com

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