Friedrich Wilhelm Murnau. L'arte di evocare fantasmi
 8885095550, 9788885095557

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LE TORRI 12

Andrea Minuz

FRIEDRICH WILHELM MURNAU L’arte di evocare fantasmi

Le Torri Progetto ideato e diretto da Giorgio Simonelli e Luca Venzi

ISBN 978-88-85095-55-7

Copyright © 2010 by Edizioni Fondazione Ente dello Spettacolo™ Fondazione Ente dello Spettacolo Via G. Palombini, 6 – 00165 Roma tel. 06/96519200; e-mail: [email protected] Redazione: Chiara Supplizi

Senza regolare autorizzazione è vietata la riproduzione, anche parziale o a uso interno didattico, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia

Nota dell’Autore Ringrazio Rossella Catanese per i preziosi consigli e le indicazioni ricevute.

FRIEDRICH WILHELM MURNAU

L’arte di evocare fantasmi

«In quanto conferisco al volgare un alto significato, al comune un aspetto enigmatico, al noto la dignità dell’ignoto, al finito un’apparenza infinita, io lo rendo romantico» (Novalis) «Certo è che nessun’opera letteraria scritta o recitata potrà mai esprimere lo spettrale, il demoniaco e il soprannaturale al pari del cinema» (B. Balázs) «Il cinema è l’arte di evocare fantasmi» (J. Derrida)

I Il viandante sul mare di nebbia

Friedrich Wilhelm Plumpe nasce il 28 dicembre del 1888 a Bielefeld, una piccola città del Nord-Reno Westfalia situata nei pressi della foresta di Teutoburgo, da una famiglia di origini svedesi. Figlio del secondo matrimonio del commerciante di tessuti Heinrich Plumpe con Frau Ottilie, cresce assieme ai fratelli Robert e Bernhard e alle due sorelle Ida e Anna, nate dal primo matrimonio del padre. Nel 1892 la famiglia si trasferisce a Wilhelmshöhe, nelle vicinanze della città di Kassel, in Assia Settentrionale. L’infanzia trascorre nell’atmosfera felice e incontaminata di questa grande casa di campagna e, sin da questo periodo, Friedrich manifesta un forte interesse per l’arte, la letteratura e il teatro, sviluppando le proprie curiosità sotto la guida della sorella Anna. Più grande dei suoi fratelli, Anna studia pittura a Kassel e allestisce nella tenuta di Wilhelmshöhe piccole rappresentazioni teatrali che impressionano molto suo fratello Friedrich. Tra i dieci e i dodici anni il futuro regista si immerge nelle letture dei classici, soprattutto William Shakespeare, Fëdor Dostoevskij e Henrik Ibsen, e poi, più avanti negli anni, Johann Wolfgang 11

von Goethe e Edgar Allan Poe, ma anche di filosofi come Friedrich Nietzsche e Arthur Schopenhauer. A partire dal 1905 si reca spesso a Parigi e visita varie altre località dell’Europa, mentre nel frattempo decide di trasferirsi a Berlino per studiare Filologia. La Berlino che lo accoglie è una città in continuo fermento che contende a Parigi il primato di capitale dell’arte e della cultura. È in ogni caso nel corso di questo periodo denso di viaggi che adotta il nome d’arte di Friedrich Wilhelm Murnau, in onore del piccolo villaggio delle Alpi Bavaresi dove trascorre le vacanze con l’amico e poeta Hans Ehrenbaum-Degele. È qui, a Murnau, che nell’agosto del 1910 Vasilij Kandinskij redige il testo attorno a cui si raduna la Neue Künstlervereinigung München (Nuova Associazione Monacense), un gruppo in cui confluiscono differenti personalità artistiche e che comprende anche musicisti, poeti e danzatori. Grazie all’amicizia con Degele, Murnau conosce e frequenta artisti importanti come il pittore Franz Marc e la poetessa Else Lasker-Schüler, la quale con la raccolta di poesie Meine Wunder diventerà una delle principali esponenti dell’Espressionismo. Franz Marc sarà invece tra i fondatori del movimento “Der Blaue Reiter”. Nel 1910, visitando la seconda mostra dell’Associazione monacense (in cui sono esposte le opere di Kandinskij, Alexej von Jawlensky, Gabriele Münter), Marc decide di scrivere un testo in cui manifesta la propria adesione alla nuova arte, sottolineando l’importanza dell’idea di ritmo interiore della composizione pittorica, e la necessità di riuscire a «cogliere atmosfere spirituali che hanno poco a che fare con la materia della rappresentazione, ma preparano una nuova estetica spirituale». Le idee di purezza e semplicità della forma, la commistione di primitivismo e simbolismo perseguite nella ricerca artistica di Franz Marc (che mo12

rirà a trentasei anni, nella battaglia di Verdun), troveranno una fertile risonanza nell’immaginazione visiva, nel lavoro sulla figurazione e nella messa in scena del cinema di Murnau1. A partire dal 1910, dopo aver studiato Filologia a Berlino, Murnau e Degele frequentano i corsi di storia dell’arte dell’Università di Heidelberg, tenuti da Carl Neumann. Questi sviluppa le idee emergenti dello storico dell’arte Heinrich Wölfflin, secondo cui ai caratteri nazionali corrispondono altrettante fisionomie artistiche e costanti stilistiche della composizione, distribuite attorno alle coppie oppositive dei valori formali (superficie/profondità; lineare/pittorico, e così via). Il progetto perseguito da Wölfflin di una “storia dell’arte senza nomi”, da riscrivere vale a dire in base ai caratteri e alla forza delle forme messe in gioco, nonché l’idea stessa di una definizione dei valori formali specifici dell’arte germanica, diventa ben presto l’approccio dominante nelle università di Berlino e Heidelberg. È in questo quadro di rinnovamento culturale della tradizione artistica nazionale che, nel 1906, la Galleria Nazionale di Berlino organizza un’ampia retrospettiva dedicata agli ultimi cento anni della pittura tedesca, da cui emerge chiaramente la centralità dell’opera di Caspar David Friedrich. La riscoperta di Friedrich (ma anche di Albrecht Dürer, Matthias Grünewald, Hans Holbein e altri) e in generale l’emergere di un nuovo sguardo sul Romanticismo pittorico tedesco, è un fenomeno determinante per il rilancio di nuovi fermenti arti1

Cfr. F. Marc, Schriften, DuMont, Köln 1978, tr. it., Scritti (19101915), Hopefulmonster, Firenze 1987. Sull’importanza delle componenti primitiviste nello sviluppo dell’Espressionismo si veda D. Pan, Primitive Renaissance. Rethinking German Expressionism, University of Nebraska Press, Lincoln and London 2001.

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stici che culmineranno di lì a poco con la stagione dell’Espressionismo2. L’incontro determinante per la futura carriera di Murnau è senz’altro quello con il grande regista teatrale Max Reinhardt, che nel 1911 lo ammette nella sua scuola di recitazione a Berlino. I rapporti già difficili con la figura autoritaria del padre si complicano ulteriormente quando comunica il proprio desiderio di dedicarsi al teatro come attore. Tra il 1913 e il 1915 interpreta alcuni ruoli negli spettacoli messi in scena da Reinhardt al Deutsches Theater di Berlino (tra cui Il miracolo, Faust e Sogno di una notte di mezza estate). Molti anni dopo, giunto ad Hollywood come regista di fama internazionale, Murnau ricordava con queste parole il periodo trascorso con Reinhardt: «Sento per lui un’ammirazione senza limiti. Egli conosce il teatro più di chiunque altro. Non potrò mai trovare le parole adatte per spiegare quanto egli significò per me […] ci sarebbe bisogno di un Max Reinhardt del cinema»3. Sperimentatore coraggioso e abile imprenditore, in 2

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Si veda in tal senso lo studio di Angela Dalle Vacche condotto sul film Nosferatu, eine Symphonie des Grauens (1922; Nosferatu il vampiro). Essa dedica alcune pagine interessanti alla ricostruzione del contesto culturale della Berlino dei primi anni del Novecento, individuando nella mostra del 1906 alla Galleria Nazionale, e nella più generale riscoperta dell’opera di Friedrich, un momento decisivo della formazione artistica del giovane Murnau e di quelle idee visive che più tardi egli svilupperà nel cinema. Cfr. A. Dalle Vacche, F.W. Murnau’s “Nosferatu”. Romantic Painting as Horror and Desire in Expressionist Cinema, in Id., Cinema and Painting. How Art is Used in Film, University of Texas Press, Austin 1996, pp. 161-196 (vedi in particolare il paragrafo intitolato Murnau’s Education in Berlin and Heidelberg). Dichiarazioni di Murnau rilasciate nel 1926 al «Motion Picture Classic». Cit. in L. Berriatúa, Los proverbios chinos de F.W. Mur-

quegli anni Max Reinhardt radunò attorno a sé alcune delle personalità più importanti del futuro cinema tedesco (Georg Wilhelm Pabst, Fritz Lang, Ernst Lubitsch, ma anche Marlene Dietrich, e l’attrice svedese Greta Garbo, che resterà legata per tutta la vita a Murnau da un’amicizia profonda). Come scrive Lotte Eisner: «I legami che uniscono il teatro di Max Reinhardt al cinema tedesco sono evidenti sin dal 1913; in effetti, i principali attori di questi film, Wegener, Bassermann, Moissi, Theodor Loos Winterstein, Veidt, Krauss, Jannings, per citarne solo qualcuno, provengono dalla troupe di Max Reinhardt. Non bisogna dimenticare che Reinhardt, a partire dal 1907 e fino al 1919 (data in cui la rivoluzione portò in primo piano Piscator e il suo teatro costruttivista) fu una sorta di Kaiser del teatro a Berlino, e che la sua figura aveva assunto una tale importanza che i buoni borghesi avevano l’abitudine, leggendo il giornale, di “saltare” la pagina politica per leggere ciò che il famoso critico Alfred Kerr diceva dello spettacolo del giorno prima […]. Diventando un’arte era del tutto naturale che il cinema mettesse a profitto le trovate di Max Reinhardt, che utilizzasse il chiaroscuro, che mostrasse, diffuse da un’alta finestra, quelle falde di luce in un interno oscuro, come si vedevano tutte le sere al Deutsches Theater […]. Il suo teatro diventava un vasto spazio in cui turbinava il movimento e dove un’evoluzione incessante metamorfosava la vita. Pannelli in muratura e drappeggi dissimulavano in parte la curva dolce d’un Rundhorizont, un orizzonte la cui superficie concava era inondata ora dalla luce della luna, ora dai raggi di un sole sfolgorante, per essere poi subito reimmersa in un’oscurità dove si vedevano tremolare le stelle,

nau, vol. 2, Etapa Americana, Filmoteca Española, Madrid 1990, pp. 427-428.

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mentre il gioco d’una particolare lanterna magica la copriva di nubi mutevoli»4.

Nel 1915 Murnau è arruolato come soldato nel primo reggimento di guardia a Postdam. Alcuni mesi dopo entra nell’aviazione come tenente della Luftwaffe5. Durante il periodo della guerra si reca a Berlino per sottoporsi a un’operazione in seguito alla quale gli viene rigorosamente proibito di bere e fumare. Per tutta la sua esistenza, Murnau si atterrà a questo regime di vita sana che lo terrà lontano dall’alcool. Il 28 luglio Hans EhrenbaumDegele muore sul fronte russo. La scomparsa dell’amico lascia una ferita profonda in Murnau. Nell’aprile del 1917, in seguito a un atterraggio di fortuna in Svizzera, 4

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L. Eisner, L’ecran démoniaque. Les influences de Max Reinhardt et de l’expressionnisme, Le Terrain Vague, Paris 1965, tr. it. Lo schermo demoniaco. Le influenze di Max Reinhardt e dell’espressionismo, Editori Riuniti, Roma 1983, pp. 47-48. Robert Plumpe, fratello di Murnau, riporta queste impressioni del maggiore Wolfgang Schramm, compagno di armi di Murnau: «Era il 1917 e il nostro reggimento d’aviatori era di stanza nei pressi di Verdun, in un bel castello dall’aria malinconica che era stato abbandonato dai suoi proprietari. Murnau era allora un giovane attore del teatro di Max Reinhardt. Era molto alto, assai magro. I suoi occhi bruni erano pieni di vita. Lo vedevamo partecipare a tutte le manovre ma sempre con un’aria un po’ trasognata. C’era in lui un curioso mescolarsi di eleganza naturale ed erranza bohémien. La camera dove egli alloggiava nel castello era la più grande, arredata con un gusto perfetto. Quando lo si andava a trovare era come dimenticare per un istante la guerra, immergendosi in questo ambiente di forme eleganti […] era facile intuire che un personaggio del genere avrebbe fatto strada». In L. Eisner, F.W. Murnau (con testi aggiuntivi di Robert Plumpe e Robert Herlth), Ramsay, Paris 1987 (1964), p. 16.

Murnau viene internato nelle pensione Felsberg di Andermatt, nei pressi di Lucerna. In questo periodo di degenza compone alcune sceneggiature e drammi teatrali. Nel frattempo, eventi politici interni cambiano radicalmente il volto della Germania. Il 9 novembre Guglielmo II accetta di abdicare e fugge mentre viene proclamata la Repubblica da parte di Philipp Scheidemann. L’11 novembre del 1918 viene firmato l’armistizio, mentre il 13 febbraio 1919, Scheidemann viene nominato Cancelliere dall’Assemblea Nazionale riunita a Weimar (si dimetterà pochi mesi dopo, in contrasto con il trattamento riservato alla Germania dal Trattato di Versailles). Nel frattempo, nel gennaio del 1919, il tentativo rivoluzionario della Spartakusbund (Lega Spartachista) veniva duramente represso con l’omicidio di molti suoi membri tra i quali Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht (uno dei fondatori del Partito Socialdemocratico). Pur frequentando ambienti artistici legati alla sinistra e al Partito Comunista, Murnau resta sostanzialmente estraneo agli eventi tumultuosi che accompagnano la nascita della Repubblica di Weimar. In seguito, dichiarerà che appena terminata la guerra aveva realizzato alcuni film di propaganda pacifista. Non si ha tuttavia alcuna notizia di questo presunto materiale. Di fatto l’ingresso nel mondo del cinema avviene tramite l’amicizia con gli attori Ernst Hofmann e Conrad Veidt. Con Ernst Hofmann nelle vesti di attore e produttore, Murnau realizza nel 1919 il suo primo film, Der Knabe in Blau [Il ragazzo in blu], i cui esterni vengono girati a Vischering, una località poco distante da Bielefeld, suo luogo di nascita. Tra il 1919 e il 1920 Murnau realizza otto lungometraggi. Il 28 giugno del 1919 termina Der Knabe in Blau, mentre prima della fine dello stesso anno, all’incirca a ottobre, conclude le riprese del più ambizioso Satanas 17

[Satana], film storico-mitologico in tre episodi con la supervisione artistica di Robert Wiene che ne sigla anche la sceneggiatura. Nel 1920 dirige quindi sei film, nell’ordine: Der Bucklige un die Tänzerin [Il gobbo e la ballerina], Der Januskopf [La testa di Giano], un adattamento del Dr. Jekyll and Mr. Hyde (Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde) di Robert Louis Stevenson, Abend-NachtMorgen [Sera.. notte… mattino], Der Gang in die Nacht [Il cammino nella notte] e infine Marizza, genannt die Schmugglermadonna (Marizza, detta la signora dei contrabbandieri)6. Sono film assai diversi tra loro per generi e temi affrontati, rappresentativi tuttavia dell’ecletticità del cinema tedesco a cavallo tra gli anni Dieci e Venti. Per 6

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Il film è importato in Italia nel 1920. Si tratta di una rarità rispetto al quadro complessivo dei film di Murnau e di altri grandi registi del cinema di Weimar che, all’epoca della loro uscita, non ebbero quasi alcuna circolazione nel nostro paese. Tra i numerosi film di produzione tedesca che uscirono in Italia, ben pochi titoli rientrano nel novero dei capolavori del cinema muto di Weimar. Come ricorda Vittorio Martinelli: «Tra il 1921 e il 1930, l’Italia venne inondata da una marea di film provenienti dalla Germania, in media due alla settimana, ma non vi sono, se non eccezionalmente e passati quasi clandestinamente, i titoli riportati dalle storie del cinema: la quasi totalità dei film dell’Espressionismo, del Kammerspiel, Della Neue Sachlichkeit, non sono mai giunti all’epoca. Li abbiamo conosciuti venti, trenta, alcuni cinquanta anni dopo, grazie ai cine-club, alle retrospettive, alle “Giornate di Pordenone” o al “Cinema ritrovato” di Bologna». V. Martinelli, Dal Dott. Calligari a Lola-Lola. Il cinema tedesco degli anni Venti e la critica italiana, La Cineteca del Friuli, Udine 2001, p. 7. Si tratta di un aspetto spesso ignorato nella manualistica di storia del cinema che, nel caso in questione, dimentica come per il pubblico dell’epoca (italiano, ma non solo) il cinema tedesco fosse soprattutto sinonimo di film d’operetta, polizieschi e film di montagna (una specialità cinematografica tutta germanica).

Murnau sono altrettante occasioni per mettere a punto il suo stile visivo, sperimentando inedite soluzioni luministiche apprese nell’esperienza con Reinhardt, ma debitrici anche del cinema scandinavo degli anni Dieci (dei film di Mauritz Stiller e Victor Sjöström, soprattutto). Proprio in riferimento all’impiego dell’illuminazione naturale e all’uso delle figurazioni del paesaggio in chiave drammatica si intravede già, oltre alla sicurezza con cui dirige gli attori, quel sentimento della natura che a partire da un film chiave come Nosferatu, eine Symphonie des Grauens (1922; Nosferatu il vampiro), avrà un ruolo determinante nell’opera più matura di Murnau, trovando la propria apoteosi nel suo ultimo film Tabu (1931; Tabù). In ogni caso di tutti questi primi film si è conservato a tutt’oggi il solo Der Gang in die Nacht. In generale, a proposito della prima fase della carriera di Murnau, abbiamo informazioni contrastanti. Secondo alcune testimonianze, almeno i primi due film sarebbero stati prodotti da una società fondata da Murnau e Conrad Veidt, assieme ad altri amici provenienti dalla scuola di Reinhardt, dal nome “Murnau Veidt Filmgesellschaft”. D’altro canto, così come attesta la filmografia stilata da Erika Ulbrich e Werner Zurbuch per il libro di Lotte Eisner, il produttore risulta invece essere il noto attore – nonché amico di Murnau – Ernst Hofmann (protagonista nel ruolo di Thomas von Weerth in Der Knabe in Blau). Altri film del primo periodo di Murnau sono prodotti da case come “Helios Film”, “Goron Film”, “Lipow Film”, nonché dalla “DeclaBioscop” e infine dalla celebre “Prana” di Albin Grau, l’ideatore del progetto di Nosferatu che prenderà forma nel 19227. 7

Cfr. L. Berriatúa, Los proverbios chinos de F.W. Murnau, vol I. Etapa alemana, Filmoteca Española, Madrid 1990, pp. 83-84.

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È già in questo periodo, in ogni caso, che Murnau si lega allo sceneggiatore Carl Mayer e all’operatore Karl Freund, avviando una collaborazione che si rivelerà tra le più importanti per la storia del cinema. Questo è d’altronde un periodo decisivo per lo sviluppo del cinema tedesco. Nel corso degli anni Dieci il successo dei film stranieri, soprattutto danesi e svedesi, teneva in una condizione subalterna la produzione locale. La situazione inizia a cambiare verso la fine della guerra per molteplici ragioni. Da un lato il fermento intellettuale e artistico dell’immediato dopoguerra conduce verso esperienze radicalmente innovative, come il celebre Das Cabinet des Dr. Caligari (1920; Il gabinetto del Dottor Caligari) il film di Robert Wiene, scritto da Carl Mayer e Hans Janowitz, con cui l’arte espressionista tedesca irrompe negli schermi cinematografici di tutto il mondo per affermare in modo dirompente l’idea di un cinema artistico, costruito su violenti contrasti luministici e scenari deformanti; ma i rapporti tra il cinema muto tedesco e l’Espressionismo sono solo uno dei caratteri di rinnovamento di questo periodo fervido e gran parte dello sviluppo dell’industria nazionale del cinema è dovuto in realtà alla diffusione di generi più popolari o a grandi film in costume come Madame DuBarry (1919; Id.) di Ernst Lubitsch, con Pola Negri e Emil Jannings, il cui enorme successo di pubblico negli Stati Uniti, oltreché in patria8, sarà determinante al fine di rimuovere l’embargo economico nei confronti della Germania. Dall’altro lato, la riorganizzazione dell’industria cinematografica tedesca che aveva condotto già nel 1917 alla nascita dell’UFA (Universum Film Aktiengesellschaft),

compie in questo periodo un altro passo decisivo per il proprio sviluppo, incrementando il suo patrimonio con un investimento economico attraverso cui passa nel giro di poco tempo da un capitale di venticinque milioni di marchi a oltre duecento milioni (fondamentale sarà in tal senso, oltre l’acquisizione della casa di produzione “Decla-Bioscop”, la strategia messa in atto da Erich Pommer, responsabile dell’UFA tra il 1924 e il 1926)9. È in ogni caso attorno al clamore e alla diffusione di un gusto espressionista che il cinema tedesco si afferma progressivamente in tutto il mondo, diffondendo i suoi canoni di riferimento per temi trattati (il doppio, il demoniaco e l’Unheimlich che Sigmund Freud indaga nel noto saggio del 1919)10 e soluzioni di messa in scena (recitazione allucinata, illuminazione e profilmico fortemente stilizzati). Nel 1920 Murnau si trasferisce nella grande casa nel quartiere di Grunewald a Berlino, che Mary EhrenbaumDegele, madre del suo defunto amico Hans, ha deciso di lascargli in eredità. A partire dalla morte della donna, nel 1921, Murnau ci abita assieme al suo compagno Walter

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Il film fu proiettato in occasione dell’inaugurazione dell’UFA Palast am Zoo, la più grande sala cinematografica di Berlino, il 18 settembre 1919.

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Scrive Thomas Elsaesser: «Per realizzare la sua visione di un cinema di qualità artistica che potesse competere sul piano commerciale con le grandi produzioni americane, Pommer fu promotore di una politica innovativa che lasciava grandi libertà creative ai registi posti sotto contratto i quali lavoravano senza supervisioni o interferenze. Ciò da un lato poteva costituire un grande rischio economico, ma dall’altro costitutiva un efficace principio di differenziazione produttiva». T. Elsaesser, Weimar Cinema and After. Germany’s Historical Imaginary, Routledge, New York 2000, p. 119. Vedi anche T. Elsaesser (a cura di) A Second Life: German Cinema’s First Decade, Amsterdam University Press, Amsterdam 1996. S. Freud, Das Unheimliche, in «Imago», vol. V, 1919, tr. it., Il perturbante, raccolto in Id., Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio, Bollati Boringhieri, Torino 1969.

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Spies, un giovane pittore cresciuto in Russia e come molti altri rifugiatosi in Germania in seguito agli eventi della rivoluzione d’Ottobre. In questa casa arredata interamente con preziosi mobili italiani, nello studio dove Murnau è solito lavorare, Spies dipinge le pareti con delle miniature indiane. Artista vicino alla corrente del primitivismo, è membro del cosiddetto Novembergruppe, un gruppo di artisti collocati nell’estrema sinistra che aveva tra i suoi obiettivi il rinnovamento radicale del rapporto tra arte e pubblico, e le cui premesse confluiranno in gran parte nell’esperienza del “Bauhaus” di Walter Gropius. Tra febbraio e marzo del 1921, Murnau gira Schloss Vogelöd [Il castello di Vogelod] film con cui ha inizio la collaborazione con il produttore Erich Pommer. Ad agosto cominciano le riprese di Nosferatu che lo condurranno sino in Slovacchia, nel castello di Orava, per alcuni dei numerosi esterni di cui è composto il film. Non sono poche le leggende che avvolgono questo celebre capolavoro della storia del cinema, a cominciare dai legami con la tradizione occultista dello scenografo (e ideatore dell’operazione) Albin Grau e dalla misteriosa scomparsa dell’attore Max Schreck interprete di Orlok/Nosferatu (ricordando anche che Schreck in tedesco vuol dire “terrore”)11. Anche 11

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Produttore e ideatore del film, nonché autore dei costumi e delle scenografie, Albin Grau fu un noto occultista e seguace di Aleister Crowley. Secondo alcuni morì nel campo di concentramento di Buchenwald, mentre secondo altri da lì sarebbe scappato e morto poi nel 1971 a Berlino. Aspetti questi che sono al centro di un recente film americano, per la regia di E. Elias Merhige, che è un tributo “fantastico” alla creazione e alla lavorazione di Nosferatu dal titolo, Shadow of the Vampire (2000; L’ombra del vampiro). La “Prana Film”, casa di produzione di Grau, fa inoltre riferimento nel nome al cosiddetto “soffio della vita” nella tradizione esoterica – ricerche storiche hanno infatti

per questi motivi il film sarà ben presto adottato dai surrealisti francesi. Ben più concrete furono invece le travagliate vicende legali del film, per via dei diritti d’autore reclamati dagli eredi di Bram Stoker, autore di Dracula (1897; Id.), da cui era tratta la sceneggiatura di Henrik Galeen. Il film esce il 4 marzo quasi in contemporanea a Der brennende Acker [La terra che brucia] un dramma rurale che Murnau ha girato nel febbraio del 1922. Successivamente egli realizza Die Austreibung [1923; L’espulsione] anch’esso perduto, Die Finanzen des Grossherzogs (1924; Le finanze del Granduca) e Phantom (1922; Fantasma) tutti film tratti da sceneggiature di Thea von Harbou. Quest’ultimo è commissionato a Murnau in occasione dei festeggiamenti per il sessantesimo compleanno dello scrittore Gerhart Hauptmann. Viene proiettato il 20 novembre 1922 a Breslavia, alla presenza di Murnau, Fritz Lang, Thea von Harbou, Alfred Kerr e Thomas Mann. Il 1924 è un anno decisivo per la carriera di Murnau. Tra marzo e ottobre gira Der letze Mann (L’ultimo uomo) su uno scenario di Carl Mayer. Il film è uno dei progetti di punta dell’UFA di Erich Pommer, con cui la casa di produzione tedesca mira a conquistare il mercato americano. Con un’abile strategia pubblicitaria l’UFA dà grande eco alla lavorazione di questo film mentre d’altra parte tiene segrete le tecniche innovative messe a punto durante le riprese. Il film esce negli Stati Uniti il 5 dicembre con il ticonfermato l’appartenenza di Grau all’Ordine dei Templari Orientali, una delle sette che si rifà alla tradizione paracelsiana e dei Rosa-Croce. Ma anche Henrik Galeen, lo sceneggiatore del film – che tra l’altro realizzò il primo Der Golem, wie er in die Welt kam [1920; Golem] – fu vicino alla setta del Loto. La “Prana Film” realizzò anche Schatten - Eine nächtliche Halluzination di Arthur Robinson (1923; Ombre) sempre da un soggetto di Albin Grau che anche in questo caso curò le scenografie.

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tolo di The Last Laugh, in un’anteprima al cinema Criterion di New York, alla presenza di Murnau e Pommer. La critica americana è entusiasta del film, salutato come una tappa fondamentale nello sviluppo del linguaggio cinematografico. Ma gran parte del successo di L’ultimo uomo si deve anche alla prova del grande attore Emil Jannings, indubbiamente un veicolo determinante nella carriera di Murnau. Pommer inizia le negoziazioni con la MetroGoldwyn-Mayer per la coproduzione del film Faust - Eine deutsche Volkssage (1926; Faust). Dopo L’ultimo uomo, è questo il film che Murnau avrebbe dovuto girare; un progetto cui di fatto aveva già iniziato a lavorare tempo prima. Le cose vanno tuttavia diversamente. Sin dal 1923 Richard Oswald aveva suggerito a Carl Mayer la possibilità di adattare per il cinema la pièce di Molière, Tartuffe ou l’imposteur (1664; Tartufo), tuttavia l’UFA non si decideva a produrre la pellicola. Determinante è pertanto l’interessamento in prima persona di Emil Jannings, desideroso di lavorare su questa sceneggiatura tratta da Molière, anche per via della sua passione di recitare nei film in costume. Jannings era in quel momento uno degli attori di punta del cinema tedesco, un investimento dal risultato sicuro e un patrimonio prezioso per l’UFA, così Erich Pommer decide di produrre la pellicola le cui riprese sono annunciate per il novembre del 1924. Il tournage di Herr Tartüff (Tartufo) inizia nel febbraio del 1925, nello Studio 1 dell’UFA a Tempelhof. Murnau viene pertanto coinvolto nell’operazione anche nel tentativo di replicare il successo che il terzetto composto da lui, Jannings e Mayer aveva ottenuto con L’ultimo uomo e, anche se un po’ recalcitrante, il regista decide di accettare abbandonando per il momento il progetto del Faust, le cui riprese iniziano invece il 10 settembre. Appena due settimane dopo si inizia a girare Metropolis (Id.) per la regia di Fritz Lang. I due 24

film rappresentano l’apice tecnologico e il punto più alto degli sforzi produttivi messi in atto dall’UFA di Erich Pommer per far concorrenza all’industria del cinema americano. Parallelamente essi sono il frutto di un periodo decisivo per l’UFA che tra il 1925 e il 1927 avvia una grande ristrutturazione economica godendo di nuovi afflussi di capitali e di un accordo commerciale siglato con la Paramount e la MGM. Le riprese di Faust impegnano Murnau fino alla fine di aprile del 1926. Il 14 ottobre dello stesso anno, il film esce nelle sale di Berlino, mentre il 5 dicembre fa il suo esordio negli Stati Uniti, a New York. Il successo di Murnau oltreoceano attira ben presto l’interesse dei produttori di Hollywood, desiderosi soprattutto di avvalersi di quelle brillanti soluzioni di regia che ormai vengono associate al suo stile visivo, come nel caso degli innovativi movimenti di macchina orchestrati per il film L’ultimo uomo. Il cinema americano degli anni Venti, nonostante la codificazione dei generi, la divisione gerarchica delle competenze e dei ruoli e un modello di produzione fortemente standardizzato è certo sensibile al richiamo delle suggestioni europee, all’idea del cinema come forma d’arte. La sua efficacia narrativa e il rapporto con lo spettacolo non escludono a priori la ricerca sulla visualità e lo sviluppo delle componenti specifiche dell’immagine filmica. D’altronde è proprio in virtù di questo processo di assimilazione e fusione di tecniche produttive che i grandi registi stranieri, soprattutto legati al cinema tedesco, vengono chiamati a lavorare negli studios (come avviene per Lubitsch, Pabst e Lang). I primi contatti tra la Fox e Murnau risalgono alla fine del 1925. In un primo accordo si prevedeva che egli avrebbe girato un film dal titolo Down to Earth (come testimonia un inserto pubblicitario comparso il 18 febbraio 1926). Ma su «Variety» del 4 giugno 1926 compare l’an25

nuncio che Murnau girerà A Trip to Tilsit [Viaggio a Tilsit] con Margaret Livingston e George O’Brien. Il titolo (preso dal racconto Die Reise nach Tilsit di Hermann Sudermann, da cui è tratta la sceneggiatura di Carl Mayer) verrà cambiato dallo stesso Murnau in Sunrise: A Song of Two Humans (Aurora. La canzone di due esseri umani). Il 22 giugno del 1926, a Brunnen, Murnau si imbarca a bordo del “Columbus”, diretto negli Stati Uniti per l’inizio di una nuova carriera che si annuncia trionfale. Tra i suoi compagni di viaggio ci sono Rochus Gliese, Carl Mayer e Julius Assenberg (Direttore Generale della Fox Europa). William Fox presenta il suo sodalizio con Murnau attraverso una grande campagna pubblicitaria. Murnau è considerato il più grande regista europeo in circolazione, una personalità artistica il cui genio visivo rivoluzionerà il cinema americano. I bollettini della stampa corporativa scrivono in proposito:

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«Murnau avrà a disposizione la propria squadra di tecnici e operatori così come disporrà dei grandi impianti degli studi della Fox. È un genio riconosciuto del cinema, che numerosi critici considerano all’apice della sua carriera, ed è sicuro che le sue innovazioni nel campo del cinema contribuiranno al prestigio della Fox ma disserrano nuovi codici stilistici per tutto il cinema americano»12.

Cit. in J. Bergstrom, Murnau in America: Chronicle of Lost Films, in «Film History», n. 3-4, 2002, p. 430. Come scrive Richard Koszarski: «I risultati disastrosi di L’ultimo uomo al box-office americano non scoraggiarono la Fox: non soltanto si lasciò mano libera a Murnau per Aurora, ma si incoraggiarono gli altri registi sotto contratto a studiare lo stile di Murnau. I risultati furono dei brillanti amalgama stilistici germano-americani come 7th Heaven (1927; Settimo cielo, Frank Borzage), Street Angel (1928; L’angelo della strada, F. Borzage), The Red Dance (1928; La

Di fatto Aurora, nonostante alcune perplessità legate ai costi elevati della sua lavorazione, viene accolto sin da subito come un capolavoro e tale viene considerato ancora oggi in molte delle classifiche compilate dai critici per decretare il “film più bello della storia del cinema”. Nell’ambito della prima edizione degli Oscar che si svolge il 18 febbraio del 1929, ad Aurora vanno i premi per la miglior attrice protagonista (Janet Gaynor) e la fotografia (Charles Rosher e Karl Struss), nonché uno per il carattere “unico e artistico” del film. Rochus Gliese riceve una nomination per la migliore scenografia. L’accoglienza del pubblico americano tuttavia non è altrettanto entusiasta e la libertà creativa pressoché assoluta (nonché l’ampio budget a disposizione) di cui Murnau gode sul set di Aurora vengono drasticamente ridimensionati nel caso dei suoi due successivi film americani girati per la Fox, 4 Devils [1928; I quattro diavoli] un film sul mondo del circo, andato perduto, manomesso in ogni caso dalla produzione che ne cambia il finale tragico, e Our Daily Bread [Il nostro pane quotidiano] un altro melodramma rurale sulla scia di Aurora strutturato sul conflitto tra città e campagna, poi uscito con il titolo City Girl [1930; Ragazza di citdanzatrice rossa, Raoul Walsh), Hangman’s House (1928; La casa del boia, John Ford), The River (1929; Il fiume, F. Borzage)». Cfr. R. Koszarski, An Evening’s Entertainment: The Age of the Silent Feature Picture 1915-1928, University of California Press, Berkeley 1990, pp. 85-86. Più in generale, infatti, a proposito degli scambi artistici tra cultura europea e americana che informano i primi decenni del XX secolo, bisogna ricordare che «l’idea, che la critica americana metteva bene in luce, era di usare, adoperare, citare le ricerche artistiche delle avanguardie europee, e pertanto queste dovevano diventare oggetto di studio e riflessione». Vedi anche M. Passaro, L’arte espressionista. Teoria e storia, Einaudi, Torino 2009, p. 166.

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tà]. Gran parte delle incomprensioni con gli studios, tuttavia, sono dovute alla nuova riconfigurazione tecnologica del cinema che si avvia a diventare interamente sonoro. Già Aurora era stato realizzato con una banda sonora sincronizzata (fu il primo film uscito nelle sale con il sistema di registrazione sonora “Movietone” brevettato dalla Fox) e il 6 ottobre del 1927 era apparso sugli schermi The Jazz Singer (Il cantante di Jazz, di Alan Crosland) considerato dagli storici come il film da cui prende avvio l’era del cinema sonoro. Così, ad esempio, Our Daily Bread viene sonorizzato dalla produzione (rigirando integralmente alcune scene a cui vengono aggiunti i dialoghi in sostituzione degli intertitoli) in assenza di Murnau il quale, ormai, rescisso il contratto con la Fox, si trovava già a Tahiti per lavorare con il documentarista Robert J. Flaherty. Esiste tuttavia una copia muta del film, destinata al mercato straniero, che è stata poi ritrovata nel 1970 negli archivi della Fox. In generale i tre anni di permanenza di Murnau ad Hollywood coincidono fatalmente con un periodo di grande concorrenza tra gli studios, impegnati ad adeguare in fretta il loro assetto produttivo con le nuove tecnologie del cinema sonoro. È un momento di ricambio radicale e di decentramento delle competenze che coinvolge pressoché tutte le parti in gioco nell’industria del cinema. Il talento visivo del regista, tanto più di un regista artistico come Murnau, non è più quel valore aggiunto da collocare al centro del progetto di un film ambizioso, e ciò appare con evidenza soprattutto nei primi anni di assestamento del cinema sonoro:

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«La destabilizzazione tecnica dei primi anni del sonoro è accentuata dalla decisione di realizzare i primi esperimenti, invece che a Hollywood, nei dintorni di

New York, luogo deputato della tecnologia del suono. Per restare vicina agli ingegneri del suono e alle vedettes di Broadway, la Warner gira i suoi primi cortometraggi sonori in un teatro di posa allestito nell’opera di Manhattan. Poco più tardi la Paramount riesuma i propri studi di Astoria, per girarvi fino al trenta per cento delle proprie produzioni annuali. Altri si installano a Camden (New Jersey) presso gli uffici della RCA, o nella stessa New York, all’ombra dei laboratori Bell/Western Electric. A partire dall’estate 1928 quasi tutti gli studios possiedono una succursale newyorchese: Metro-Goldwyn-Mayer, First National, Warner, Universal, RKO, Fox, Paramount. E il soggiorno sulla Costa Orientale sconvolge i rapporti tra tecnici. Del sistema di produzione stabilizzatosi intorno al 1925-26 non resta più nulla qualche anno più tardi quando, gradualmente, gli studios riportano a Hollywood le produzioni sonore»13.

Murnau capisce che in queste condizioni e assai difficile per lui continuare a portare avanti la propria ricerca stilistica fondata sul simbolismo delle immagini e la costruzione di una visualità pura. Ne approfitta per realizzare un proprio sogno: compra uno yacht e si reca nei Mari del Sud alla ricerca del suo amico Walter Spies, partito per Bali dalla Germania nel 1923. Nel marzo del 1929 Murnau incontra il documentarista Robert J. Flaherty che ha lavorato per la Fox e gli propone di creare assieme una società di produzione cinematografica per lavorare in totale autonomia artistica. Il 22 giugno 1929 Murnau arriva a Bali e, mentre aspetta l’arrivo di Flaherty, si reca in visita sulla tomba del pittore Paul Gauguin. Murnau si stabi13

R. Altman, Le son contre l’image ou la bataille des technicians, in A. Masson (sous la dir. de), Hollywood, 1927-1941. La propaganda par les rêves ou le triomphe du modèle américain, Autrement, Paris 1991, p. 75.

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lisce nell’isola, e vive in una grande casa fattasi costruire sulla riva del mare; esistono delle fotografie che lo ritraggono assieme al pittore Henri Matisse, giunto a Tahiti qualche mese dopo l’arrivo di Murnau a Bali. Durante questo periodo di riposo Murnau scatta molte fotografie dell’isola che ritraggono i suoi favolosi panorami o i rituali indigeni e le scene quotidiane di pesca. Nell’ottobre del 1929 Murnau inizia la preparazione di un film prodotto dalla “Color Art” che dovrebbe intitolarsi Turia, ma la crisi finanziaria mondiale del 1929 costringe la casa di produzione a ritirare la sua troupe dall’isola. Murnau decide così di girare e autofinanziare il film Tabù. Matahi, un giovane pescatore balinese, e Anne Chevalier (nel ruolo di Reri) saranno i protagonisti di questo melodramma esotico che diventerà anche uno degli ultimi grandi film del cinema muto. A quasi dieci anni di distanza da Nosferatu, Murnau riprende l’idea della coppia esposta ai sortilegi di una forza malefica, sullo sfondo di una natura insondabile. Il film segna infatti anche il trionfo di quel sentimento della natura che pervade tutto il suo cinema, l’approdo a quella semplicità primitiva della forma esplorata lungo tutta la sua carriera di regista. Inizialmente Murnau, che ha scritto la storia, decide di affidare la regia a Flaherty. Tuttavia ingaggia ben presto l’operatore Floyd Crosby che dovrà aiutare Flaherty nelle riprese del film. Alla fine Flaherty non girerà che qualche inquadratura di contorno mentre è a Crosby, diretto da Murnau, che si devono la maggior parte delle riprese. Sono infatti forti i dissidi tra le due personalità dei registi, e ben presto Flaherty, che voleva realizzare in realtà un documentario sulla condizione degli indigeni sull’isola, abbandona il set. Non pochi storici del cinema hanno voluto leggere in questa lite il contrasto stesso tra le due opposte concezioni dell’immagine filmica, tra l’autenticità 30

dell’immagine documentaristica (Flaherty) e la rifigurazione delle forme del reale attraverso il lavoro simbolico della messa in scena (Murnau). Murnau vende Tabù alla Paramount e il film viene sonorizzato negli studi “TecArt”. Il compositore Hugo Riesenfeld, fedele collaboratore di Murnau, combina dei temi musicali di Aurora con altro materiale di repertorio, mentre, nel dicembre del 1930, Murnau termina di montare il film a Hollywood. La Paramount nel frattempo prepara la campagna pubblicitaria per l’anteprima del film a New York, ma una settimana prima dell’uscita di Tabù, Murnau è vittima di un incidente stradale in una strada nei pressi di Santa Barbara, in California. Muore l’11 marzo del 1931, nell’ospedale di Santa Monica, all’età di 42 anni. Una settimana dopo, si tiene la “prima” del film a New York, mentre il 19 marzo si svolgono i funerali a Hollywood, celebrati alla presenza delle più grandi personalità della storia del cinema. L’attrice Greta Garbo fa realizzare una maschera mortuaria da un calco in gesso del volto di Murnau. La salma viene riportata in Europa e il 12 aprile viene sepolta nel cimitero di Berlino. Il 25 novembre, a Bielefeld, la sua città natale, ha inizio una settimana di commemorazioni in suo onore. Poco prima dell’incidente avrebbe dovuto firmare un contratto con la Paramount per la realizzazione di cinque film sonori che sarebbero stati girati tra Bali e le isole dei Mari del Sud.

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II Il sentimento della forma

2.1 Murnau e il cinema di Weimar

Nel suo celebre libro Lo schermo demoniaco, Lotte Eisner individuava nell’opera del regista teatrale Max Reinhardt – come dichiarato in modo programmatico sin dal sottotitolo – uno dei poli di riferimento dello sviluppo del grande cinema muto tedesco degli anni Venti. Da un lato le radici del Romanticismo, gli “inni alla notte”, la fascinazione per l’oscuro e le tenebre. Dall’altro, la fluidità del sogno e l’atmosfera incantata delle sontuose messe in scena di Reinhardt. Così, mentre «l’anima faustiana del nordico si abbandona agli spazi brumosi, Reinhardt dà forma al suo mondo magico con la luce, l’oscurità fungendo solo da contrappunto. È questa» – concludeva Eisner – «la doppia eredità del cinema tedesco»1. Eisner non si limita qui a richiamare due diverse soluzioni luministiche, ma appunto intende definire i due principali orizzonti di ri-

1

L. Eisner, Lo schermo demoniaco. Le influenze di Max Reinhardt e dell’espressionismo, cit., p. 52.

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ferimento delle molteplici forme che si configurano nel cinema muto tedesco degli anni Venti. Da questo punto di vista l’opera di Murnau – il «più grande regista che i tedeschi abbiano mai avuto», nelle parole della stessa Eisner – è forse la migliore esemplificazione di una tale duplicità. Nell’eterogeneità della sua filmografia e nella difficoltà di ridurre attorno a un unico denominatore un percorso artistico così variegato ed eclettico, risuona quella stessa complessità di stili, forme e generi che attraversa il cosiddetto cinema di Weimar, vale a dire uno tra i periodi più affascinanti dell’intera storia del cinema, la cui lettura è stata a lungo viziata e condizionata dalla sola dominante espressionista. Se da un lato gli studi più avanzati hanno ormai evidenziato l’impossibilità di ridurre le molteplici componenti del cinema muto tedesco sotto l’egida dell’Espressionismo (mettendo in dubbio, in alcuni casi, l’opportunità stessa di adottare il termine all’interno della storia del cinema), dall’altro è la più ampia prospettiva avanzata nelle analisi di impostazione culturalista o nelle interpretazioni proposte dalla cosiddetta «storia sociale», ad aver mostrato come l’immaginario dell’epoca di Weimar fosse un caleidoscopio di contaminazioni visive e stimoli eterogenei in cui confluivano tanto il modernismo e le suggestioni delle avanguardie artistiche che le nuove forme di cultura di massa e la pubblicità, il design razionalista del “Bauhaus” e il primitivismo, la fascinazione per l’esotico e lo Jugendstil, le “cineserie”, e molto altro ancora. In questa fusione tra i valori dell’arte, le sperimentazioni, la ripresa di motivi della cultura popolare e le nuove configurazioni dell’immaginario metropolitano, il cinema – assieme e più di altri media – si configurava innanzitutto come un nuovo spazio negoziale per ridefinire i rapporti gerarchici tra “alto” e “basso” nel consumo culturale. Per questo motivo 34

anche l’impiego dello stesso termine «Espressionismo» (a lungo richiamato con eccessiva disinvoltura per definire l’intero cinema tedesco degli anni Venti e percorsi artistici assai diversi tra loro) è stato collocato al centro di un ampio dibattito critico che, pressoché ciclicamente, chiama gli studiosi di cinema a interrogarsi sul suo uso. Concetto vago e instabile, che tuttavia nulla ha perduto della sua potenza evocativa, l’Espressionismo è ancora oggi tra le categorie che, ben più di altre, si presta a letture così divergenti, quando non apertamente in contrasto, tra loro (letture che negano sia mai esistito un “cinema espressionista”, che lo concentrano in un corpus esiguo di film o addirittura nel solo Caligari di Robert Wiene o che, infine, lo estendono per così dire al cinema di David Lynch e Tim Burton)2. 2

Oltre al testo fondativo di Rudolf Kurtz, Expressionism und film (pubblicato nel 1926), i due libri che più a lungo hanno influenzato la critica e la storiografia del cinema sono stati com’è noto il citato lavoro di Lotte Eisner e quello di Sigfried Kracauer (From Caligari to Hitler. A Psychological History of the German Film, Princeton University Press, Princeton 1947, tr. it., Da Caligari a Hitler. Una storia psicologica del cinema tedesco, Lindau, Torino 2007). Successivamente si è tentato di storicizzare queste due dominanti interpretative del cinema tedesco; ovvero sia quella formalista (proposta da Eisner) sia l’interpretazione culturale incentrata però sul solo orizzonte tematico dei film, avanzata da Kracauer. Si è innanzitutto messo in evidenza come entrambe le letture siano state sviluppate in una condizione di esilio (in Francia nel caso di Eisner, e negli Stati Uniti per Kracauer) e dunque sulla scia della necessità di esorcizzare il senso di colpa della cultura tedesca e il suo trauma generato dagli orrori del nazismo. Un lavoro più attento di modelli di linguaggio attivati nel cinema tedesco degli anni Venti si trova in M. Henry, Le cinéma espressioniste allemand: un langage métaphorique, Éditions du Signe, Fribourg 1971. Opzioni interpretative significativamente

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Il caso di Murnau è in tal senso esemplare. Come ha recentemente ricordato Paolo Bertetto in un saggio sul cinema espressionista, «il caso di Murnau ha persino aspetti paradossali. Da un lato Nosferatu è stato interpretato come il film espressionista per eccellenza. Dall’altro Bazin considerava Murnau – non si sa proprio perché – come un autore realista nell’epoca del muto al pari di Flaherty o Stroheim. La posizione di Bazin è palesemente assurda. Ma anche la collocazione di Murnau nell’area espressionista è fortemente discutibile»3.

3

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distanti dalle ipotesi di Eisner e Kracauer sono poi discusse in B. Salt, From Caligari to Who?, in «Sight and Sound», vol. 48, 1979, pp. 119-23 e K. Thompson, Dr. Caligari at the Folies-Bergere, in M. Budd (ed.), The Cabinet of Dr. Caligari: Text, Contexts, Rutgers University Press, New Brunswick 1990. Bisogna inoltre ricordare oltre alla componente romantica dell’Espressionismo, l’influenza che ebbe il cinema scandinavo (soprattutto danese e svedese) degli anni Dieci con il suo «sviluppo di nuovi metodi nelle tecniche di illuminazione, nel posizionamento della macchina da presa e nell’organizzazione delle scenografie». Vedi P. Cherchi Usai, Cinema muto nei paesi nordici, in G.P. Brunetta (a cura di), Storia del cinema mondiale, vol III. L’Europa. Le cinematografie nazionali, Einaudi, Torino 2000, p. 197. Tra i lavori più recenti che rileggono la tradizione di studi sul cinema espressionista vedi almeno, T. Elsaesser, Weimar Cinema and After. Germany’s Historical Imaginary, cit.; D. Scheunemann (ed.), Expressionist Film. New Perspectives, Camden House, New York 2003, J. Aumont - B. Benoliel (sous la dir. de), Le Cinéma espressioniste. De Caligari à Tim Burton, La Cinémathèque Française, Presses Universitaire de Rennes, 2008. P. Bertetto, Il cinema espressionista e la forma dell’immaginario, in P. Bertetto - S. Toffetti (a cura di) Incontro ai fantasmi. Il cinema espressionista, catalogo della retrospettiva (Roma, Cinema Trevi, 26 marzo-5 aprile), Fondazione Centro Sperimentale di Cinematografia, Roma 2008, pp. 40-45.

Una distinzione terminologica – richiamata da Thomas Elsaesser – tra un cinema di Weimar e uno stile, o meglio un design espressionista, può essere utile ad arginare simili fraintendimenti: «Ciò che nei film viene identificato come espressionismo è un’illuminazione inusuale, la stilizzazione del set e della recitazione, il materiale gotico e i motivi provenienti dalla fiaba popolare, gli esterni distorti e gli interni claustrofobici, e soprattutto un eccesso di pathos “tipicamente germanico”. Le letture politico-ideologiche abbandonano l’intrinseco formalismo di questa etichetta preferendogli il termine cinema di Weimar, al fine di distinguere un periodo e uno stile espressionista all’interno di una più ampia analisi della mentalità e delle congiunture politiche identificabili con quel fenomeno affascinante, compreso tra il 1918 e il 1933, che chiamiamo “cultura di Weimar”. Una tale distinzione ci invita a rileggere la versione canonica, e forse a decostruirla pur senza abbandonarla del tutto, e piuttosto provare a identificare il terreno su cui entrambi i termini possono trovare un posto nuovo nella storia del cinema»4.

In tal senso con il termine Espressionismo si avvicinano modelli stilistici anche contrastanti tra loro, ma che indubbiamente partecipano di quella più ampia cultura visuale in cui si definirono le forme di un’interpretazione weimariana della modernità5, e che come tale non è ridu4 5

T. Elsaesser, Weimar Cinema and After. Germany’s Historical Imaginary, cit., p. 20. In questo senso vedi la proposta interpretativa di Anton Kaes che, prendendo le mosse da una critica a Kracauer e alla sua lettura sintomatologica del cinema tedesco come prefigurazione dell’incubo nazista, guarda alla cultura di Weimar come a un insieme di reazioni al trauma della modernità. Cfr. A. Kaes, Shell

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cibile ad un solo movimento artistico. Tuttavia esso non indica solo un particolare design con cui confezionare visivamente film assai differenti. L’Espressionismo circolò infatti come una parola particolarmente alla moda, assai efficace nell’evocare immediatamente una specificità tedesca all’interno della produzione cinematografica internazionale. Nella fattispecie, ebbe innanzitutto la funzione di dissociare il film dalla sua natura di intrattenimento industriale per collegarlo piuttosto ai valori dell’arte; funzionò insomma come ciò che oggi chiameremmo un «brand», qualcosa in grado di identificare immediatamente un prodotto (e il tipo di esperienza che promette) e differenziarlo parallelamente dagli altri6. L’UFA, vale a dire la più grande casa di produzione cinematografica europea dell’epoca e l’unica in grado di far concorrenza ad Hollywood, adottò pertanto una precisa strategia d’esportazione che faceva leva sull’intrinseco coefficiente 6

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Shock Cinema. Weimar Culture and the Wound of War, Princeton University Press, Princeton 2009. Come ricorda Leonardo Quaresima: «dopo il successo del Caligari si moltiplicano i tentativi, anche da parte di piccole case di produzione, di muoversi nella stessa direzione e molte valutazioni retrospettive che, riferendosi a quegli anni, parlano di una “psicosi da Caligari” confermano l’ampiezza del fenomeno. Le stesse procedure dell’organizzazione della visione del pubblico si adeguano alla nuova situazione. Si aprono sale cinematografiche “espressioniste” o si ristrutturano in base ai medesimi criteri locali già esistenti. Vengono rivoluzionate, inoltre, le strategie promozionali. Per mesi la grafica delle pubblicità cinematografiche adotta le forme dell’espressionismo – anche quando i film non hanno nulla a che vedere con la nuova tendenza». L. Quaresima, Cinema Tedesco: gli anni di Weimar, in G.P. Brunetta (a cura di), Storia del cinema mondiale, vol. III, cit., p. 86. Vedi anche G. Grignaffini - L. Quaresima, Cultura e cinema nella Repubblica di Weimar, Marsilio, Venezia 1978.

artistico del film espressionista e che, come tale, divenne ben presto sinonimo intercambiabile di “tedesco”. Mentre il cinema destinato al mercato interno restava imperniato sui generi più popolari e sui divi, l’adozione e la diffusione di un design espressionista permetteva di avventurarsi in grandi produzioni (il cosiddetto Großfilme), destinate a competere con Hollywood, promuovendo film in cui la natura industriale e commerciale dell’opera risultava per così dire attenuata dalla sua associazione al campo dell’arte europea d’avanguardia7. Insomma

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«se collochiamo Fritz Lang, Ernst Lubitsch e Friedrich Wilhelm Murnau nella mappa mentale della Berlino degli anni Venti, patria del modernismo e dell’avanguardia più vitale dell’epoca, allora con il cinema espressionista si evoca un’invenzione artistica ribelle e spregiudicata. Se invece vediamo i loro film come frutto dei

In questo senso anche la moda del film fantastico e la ripresa di motivi gotici e romantici nel cinema di Weimar viene letta nel contesto di una più ampia legittimazione culturale del nuovo mezzo presso la borghesia, ma anche nell’ambito di una competizione di mercato internazionale, poiché si trattava di un genere che ben si prestava allo sviluppo di inedite tecniche di ripresa e allestimento di effetti speciali. In tal senso il film espressionista può essere considerato da un lato come l’eccezione artistica nell’ambito di una più ampia produzione di generi popolari, dall’altro e allo stesso modo, come la punta avanzata di una precisa strategia culturale. Non è un caso che sin dai primi anni Venti, alcuni film vengano di fatto prodotti per inaugurare i nuovi prestigiosi palazzi del cinema a Berlino. Grandi produzioni come Die Nibelungen (I Nibelunghi) o Metropolis di Fritz Lang, che rafforzano vicendevolmente il prestigio dell’istituzione cinematografica tedesca. Cfr. T. Elsaesser, Weimar Cinema, Mobile Selves, and Anxious Males: Kracauer and Eisner Revisited, in D. Scheunemann (ed.), Expressionist Film. New Perspectives, cit., pp. 33-110.

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grandi studi dell’UFA, allora quest’epoca d’oro del film muto si definisce piuttosto come la punta avanzata di una grande industria del cinema che non dell’arte»8.

Murnau riuscì (assieme ad altri grandi autori come Lang e Lubitsch, appunto) a trovare una perfetta sintesi tra questi due paradigmi, a ricondurre insomma le straordinarie possibilità produttive dell’UFA verso una concezione altamente personale del cinema e della messa in scena. Elementi provenienti dal clima delle avanguardie artistiche, ma soprattutto dalla cultura romantica tedesca, vengono così rilanciati all’interno di inedite soluzioni visive rese possibili dall’alta tecnologia degli studi UFA. Gli effetti speciali allestiti per Faust, le innovative tecniche di ripresa di L’ultimo uomo, testimoniano al contempo sia una delle vette tecnologiche del cinema degli anni Venti, sia il personale universo figurativo di uno degli autori più prestigiosi del cinema tedesco. Tutto ciò era d’altronde parte integrante della più ampia strategia messa in piedi dal produttore Erich Pommer. L’alto spessore professionale dei tecnici UFA doveva infatti magnificare tanto il livello e l’indubbia competitività raggiunte dal cinema tedesco, che essere messo al servizio di un’idea di arte cinematografica che si esprimeva poi nello stile e nella poetica individuale e fortemente riconoscibile di autori come Lang, Murnau, Lubitsch e Pabst. La centralità che Murnau rivestì nelle strategie di mercato dell’UFA – che gli affidò tre delle sue più importanti grandi produzioni (Tartufo, Faust, L’ultimo uomo) – è, se vogliamo, un’ulteriore conferma della sua sostanziale estraneità rispetto a un movimento di tumultuosa conte8

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T. Elsaesser, Weimar Cinema and After. Germany’s Historical Imaginary, cit., p. 3.

stazione e di radicale mutamento dell’uomo e dell’arte quale fu l’Espressionismo. Resta tuttavia il fatto che è difficile rimuovere dallo spettro di associazioni visive evocate dal richiamo all’Espressionismo, alcune immagini del cinema di Murnau, tra le quali soprattutto l’ombra minacciosa di Nosferatu che si staglia sui muri. Di fronte ad un immaginario così consolidato, le precisazioni storiografiche e le riconsiderazioni estetiche possono ben poco. Tuttavia è bene ricordare che i doppi, i vampiri e le creature artificiali non sono in sé motivi del movimento espressionista. Come alcuni studiosi hanno avuto modo di sottolineare, questi temi, che appartengono al bagaglio del Romanticismo9, vengono semmai ripresi nel cinema tedesco a cavallo tra gli anni Dieci e Venti in quanto considerati serbatoi narrativi ideali per sviluppare esperienze visive radicalmente innovative e che solo i mezzi del cinema potevano rendere (finalmente) possibili. Appoggiandosi a queste storie di doppi, di fantasmi e di creature inquietanti, il cinema scopre la possibilità di indagare aspetti strutturali dell’immagine, delle sue varie potenzialità espressive e manipolatorie, facendo sì che l’esperienza filmica si offra come reviviscenza dell’esperienza stessa del perturbante, luogo di evocazione dell’invisibile, del fantasma. È pertanto a questo revival del racconto gotico e del fantastico che va ricondotto un film come Nosferatu. 9

Cfr. A. Webber, The Doppelgänger. Double Visions in German Literature, Clarendon Press, Oxford 1996; J. Mayne, Dracula in the Twilight: Murnau’s Nosferatu, in E. Rentschler (ed.), German Film and Literature: Adaptations and Transformations, Methuen, New York-London 1986, pp. 26-51. Vedi anche D. Scheunemann, Activating the Differences: Expressionist Film and Early Weimar Cinema, in Id. (ed.), Expressionist Film. New Perspectives, cit., pp.1-31.

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Sia Eisner, che in modo ancora più incisivo Eric Rohmer, avevano d’altronde già messo in rilievo la complessità delle fonti visive del cinema di Murnau, sottolineando la sua anomala collocazione all’interno di un orizzonte già di per sé incerto quale quello del cinema espressionista. Aprendo il suo lavoro di analisi del Faust, il regista della Nouvelle Vague scriveva: «Cogliamo l’occasione per dire una volta per tutte quanto poco l’influenza della pittura espressionista sia riscontrabile in Murnau, non solo in Faust, ma in tutti i suoi altri film. Anche da questo punto di vista – plastico – Murnau è il cineasta tedesco meno espressionista. Gli eccessi che possiamo rivelare nella interpretazione degli attori, le loro smorfie, si riallacciano a una remota tradizione del grottesco, antica e medievale, lontana dalla visione parossistica e urlata di Kirchner, Beckmann, Kokoschka o dello stesso Nolde, autore di un Faust inciso su legno»10.

Ma ancora di più che dall’estetica, è soprattutto dall’ideologia di fondo del movimento espressionista11 che Murnau si discosta radicalmente. Anche il filosofo Gilles 10

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E. Rohmer, L’organisation de l’espace dans le Faust de Murnau, Petite bibliotèque des Cahiers du Cinéma, Union Général d’Éditions, Paris 1977, tr. it., L’organizzazione dello spazio nel «Faust» di Murnau, Marsilio, Venezia 1991, p. 30. Come scrive Jacques Aumont, non si trattò di «un movimento di pittori, né in fondo di un movimento esclusivamente artistico, ma di un movimento sociale e ideologico ambizioso, che mirava niente di meno che a rivoluzionare la vita o in ogni caso a creare le condizioni intellettuali e soprattutto spirituali di una tale rivoluzione». Vedi J. Aumont, Où commence, où finit l’expressionisme?, in J. Aumont - B. Benoliel (sous la dir. de), Le Cinéma espressioniste. De Caligari à Tim Burton, cit., p. 16.

Deleuze – che pure nei suoi lavori sul cinema impiega il termine con una certa disinvoltura, inserendo Murnau nell’alveo dei cineasti espressionisti – rilevava come egli «fra tutti gli espressionisti, è il più vicino al romanticismo: ne conserva un individualismo e un “sensualismo” che si manifesteranno sempre più liberamente nel suo periodo americano, con Aurora e soprattutto Tabù»12. Un sensualismo che, appunto, appare più debitore di certe atmosfere romantiche o dello Jugendstil e della concezione reinhardtiana dell’arte, che non della radicale rivoluzione dello spirito promulgata dall’Espressionismo. Rispetto a quest’ultima, le idee visive di Murnau «riflettono un gusto figurativo e un’opzione di messa in scena segnata da una volontà compositiva rigorosa, ma più tradizionale, volta a ripensare il visibile come iconografia, ma a legare l’iconografia alla tradizione pittorica e non alle rotture delle avanguardie»13. Il cinema di Murnau evoca paesaggi interiori, lavora su corrispondenze invisibili e analogie visive cercando un rapporto organico tra le forme, e in un certo senso ambendo a sviluppare ciò che potremmo definire come una sintesi naturalista tra tutte le componenti del quadro e della messa in scena. Al posto della stilizzazione geometrica del cinema di Lang o della deformazione radicale del profilmico ascrivibile seppur in modo generico all’area espressionista, Murnau opera semmai nell’orizzonte di una trasfigurazione del reale, di una restituzione sulfurea dell’atto di visione e dell’evocazione di una dimensione impalpabile e intima delle forme configurate 12 13

G. Deleuze, L’image-mouvement, Minuit, Paris 1983, tr. it., L’immagine-movimento, Ubulibri, Milano 1985, p. 71. P. Bertetto, Il cinema espressionista e la forma dell’immaginario, cit., p. 45.

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nel lavoro di messa in scena. La sua opera va innanzitutto interpretata alla luce di un orizzonte complesso e variegato di influenze figurative. Vi confluiscono – oltre all’esperienza con Reinhardt e le sue innovative soluzioni luministiche – un ampio quanto sicuro patrimonio figurativo legato alla storia dell’arte (e in particolare alla pittura romantica tedesca), ma anche le atmosfere rarefatte del cosiddetto Naturalismo cinematografico scandinavo, ricomposte sullo sfondo di una più generale malinconia della natura14 che, in Murnau, si tinge di aspetti magicoesoterici e rimanda alla poesia elegiaca di Novalis o alle correnti spiritualiste dell’arte (Kandinskij, Franz Marc). Ovvero, «Murnau impregna il visibile dell’atmosfera fluida del mondo descritto. Da un lato, la strutturazione del visibile riflette una volontà di comporre un quadro figurativo coerente e lo spazio diventa una componente attiva nella ricomposizione dell’insieme. Dall’altro, lo spazio e la presenza antropomorfica sono proposti in un’unità, in una condizione di interazione e di corrispondenze che creano un rapporto organico e naturale tra tutte le componenti dell’universo»15.

Proprio nell’idea di una composizione totalizzante, non frantumata, di una visione che aspira a fondersi con il tutto cogliendo il senso intimo delle cose e le loro “riso14

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La malinconia, come sentimento prevalente che circola nell’opera di Murnau, è al centro della recente monografia di Hans Helmut Prinzler, Friedrich Wilhelm Murnau: ein Melancholiker des Films, Bertz, Berlin 2003, pubblicata in occasione della retrospettiva organizzata dal Festival del Cinema di Berlino. P. Bertetto, Il riflesso, la lacrima, il nero, in G. Carluccio - F. Villa, La post-analisi. Intorno e oltre l’analisi del film, Kaplan, Torino 2005, p. 66.

nanze interne”, si può avvertire l’influenza delle idee sull’arte promulgate dal movimento del “Blaue Reiter” – idee che tra l’altro vennero formalizzate nella cittadina bavarese da cui Murnau prese il proprio nome d’arte – e in particolar modo dal suo amico Franz Marc, tra i più sensibili, nel circolo della prima avanguardia, alle suggestioni mistiche e al rapporto tra astrazione e forme della natura16. Recensendo il film Nosferatu per «Der Tag», Béla Balázs scriveva che con questo film Murnau ci mostra come «il più forte presentimento del sovrannaturale sia ricavabile dalla natura»17. O ancora, come osservava sempre Eric Rohmer, «Se Nosferatu ci spaventa, è per l’intensità della sua presenza, non per il mistero della sua assenza»18. Proprio uno sguardo ravvicinato al caso di Nosferatu, cioè al film che più di altri legherebbe Murnau all’Espressionismo, appare in tal senso emblematico. Anche se risulta difficile separare quest’opera dall’immaginario del film espressionista e da alcuni suoi temi e simboli prediletti (l’esperienza del doppio, l’ombra, l’allucinazione e così via) esso se ne distanzia tuttavia su più piani. Innanzitutto, come abbiamo già detto, da un punto di vista tematico il film va ricondotto, più che al milieu espressionista, a quella riscoperta del gotico e delle fiabe popolari già manifestatasi nella cultura romantica e inaugurata nel cinema tedesco con Der Student von Prag (1913; Lo studente di Praga) di Stellan Rye e Paul Wegener – un film-chiave per 16 17 18

Cfr. I. Pittiglio, Franz Marc. Intuire l’invisibile, Atheneum, Firenze 2000. B. Balázs, in «Der Tag», 3 marzo 1922, cit. in L. Quaresima, Introduzione, in B. Balázs, Der sichtbare Mensch oder die Kultur des films (1924), tr. it. L’uomo visibile, Lindau, Torino 2008, p. 20 E. Rohmer, L’organizzazione dello spazio nel «Faust» di Murnau, cit., p.35.

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comprendere i mutamenti del cinema tedesco degli anni Dieci, il cui successo di pubblico fu decisivo nella diffusione della moda del film fantastico e delle storie inquietanti. Ma ancora più determinante appare il ruolo rivestito dagli esterni, dal paesaggio – e più in generale da quel sentimento della natura che percorre il cinema scandinavo degli anni Dieci – in Nosferatu, un film che da questo punto di vista si offre come una perfetta sintesi tra il Naturalismo del cinema svedese e (soprattutto) danese, le suggestioni tardo-romantiche e le fantasie gotiche della cultura popolare germanica19. Nessuna distorsione prospettica, nessuna sostanziale astrazione, procedimenti irrealizzanti o ricostruzioni radicali del profilmico; il demoniaco in Nosferatu penetra come un “soffio che si espande nella natura”. Le procedure compositive e il lavoro di messa in scena operano in una riduzione all’essenzialità, in un’evocazione del perturbante nel quotidiano e nel cuore stesso della natura. Così anche il vampirismo, lungi dal rivelarsi come una mostruosità, si radica nell’orizzonte della natura e alimenta il gioco di frantu19

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Sul piano della figurazione è utile riprendere qui alcune osservazioni di Eisner sul chiaroscuro, così specifico del cinema tedesco: «Diventando un’arte, era del tutto naturale che il cinema mettesse a profitto le trovate di Max Reinhardt, che utilizzasse il chiaroscuro, che mostrasse, diffuse da un’altra finestra, quelle falde di luce in un interno oscuro, come si vedevano tutte le sere al Deutsches Theater. Questo famoso chiaroscuro del cinema tedesco non ha origine solo nel teatro di Max Reinhardt. Non dobbiamo trascurare l’apporto dei cineasti nordici, e soprattutto danesi, che invasero gli studi tedeschi, quali Stellan Rye, Holger-Madsen o [Robert] Dinesen. Essi vi introdussero, prima ancora che lo stile espressionista si definisse, il loro amore della natura e il loro senso del chiaroscuro». L. Eisner, Lo schermo demoniaco. Le influenze di Max Reinhardt e dell’espressionismo, cit., 48.

mazione dell’identità dei personaggi. Se certo il film risente del clima espressionista, da intendere qui come «spirito dell’epoca» (più che come modo di figurazione), è pur vero che in esso non si esibisce il sogno dell’arte come antiphysis, ma semmai l’idea conturbante di una filosofia della natura – quella di Goethe, di Friedrich Schelling – aggiornata, per così dire, nella Weltanschauung irrazionalista dell’Espressionismo. Tra gli ultimi critici ad aver insistito su questo punto, Emmanuel Siety indica un legame profondo tra l’idea di movimento e mobilità delle forme, così specifica della figurazione di Murnau, e il principio della variazione universale, della natura naturans: «la mobilità, ovvero la fluidità del mondo, l’alchimia dei sentimenti e la fluidità dei corpi, la trasformazione reciproca delle forze della natura in forze dello spirito, la straordinaria reversibilità del positivo e del negativo»20. Certo il lavoro di Murnau è indissociabile dalla sua collaborazione con Carl Mayer, Karl Freund o Emil Jannings, vale a dire alcune delle figure chiave nella diffusione dell’immaginario del cinema espressionista (ricordando poi anche i suoi rapporti con Robert Wiene e l’attore Conrad Veidt nel contesto della prima fase della sua carriera). Soprattutto il sodalizio con Carl Mayer, colui che a partire dal successo di Caligari ebbe un ruolo guida nello sviluppo del cinema tedesco degli anni Venti, non può essere posto in secondo piano rispetto alle creazioni artistiche di Murnau. D’altronde fu sulla scia del successo che la “moda dell’Espressionismo tedesco” riscuoteva in tutto il mondo – ovvero di una forma visiva in grado di definire 20

E. Siety, Quel «isme» pour Murnau?, in J. Aumont - B. Benoliel (sous la dir. de), Le Cinéma espressioniste. De Caligari à Tim Burton, cit., p. 94.

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e diffondere all’estero una specifica fisionomia nazionale – che Murnau fu chiamato ad Hollywood e osannato come uno tra i più grandi registi del cinema muto europeo. Posto tutto questo, non c’è altro cinema che possa essere visto come diretta emanazione di quel clima culturale ma che, allo stesso tempo e in modo altrettanto evidente, lavori attorno a quelle forme in modo cangiante, mutevole ed eclettico, fino a creare un universo visivo-cinetico assolutamente personale e per certi versi fuori dal (suo) tempo. La complessità e la ricchezza della sua opera va ben al di là dei luoghi comuni, peraltro fortemente discutibili, cui è spesso ridotta nei grandi quadri proposti dai manuali di storia del cinema, che fanno di Nosferatu il primo classico del cinema horror, di L’ultimo uomo un film che apre alla corrente realista del cinema tedesco degli anni Venti, e di Aurora l’apoteosi del percorso eclettico ma instabile di un autore che da lì in poi perde il controllo della sua opera, schiacciato dai meccanismi dell’industria cinematografica hollywoodiana. Proprio attorno a questi tre film, indubbiamente i più noti di Murnau presso il grande pubblico, condurremo pertanto il lavoro di analisi affidato al terzo capitolo. Uno sguardo più attento ai valori del testo (sviluppato sulla scia dei contributi più significativi della peraltro non vasta letteratura su Murnau) permetterà di intravedere le possibilità interpretative e la ricchezza di un’opera che non smetterà mai di sorprenderci. 2.2 I film perduti

Ogni interpretazione complessiva del cinema di Murnau, volta ad evidenziare tematiche costanti e ricorrenze stilistiche, si confronta con una filmografia da cui a tut48

t’oggi mancano nove titoli, vale a dire quasi la metà della sua opera. Film di cui si è persa ogni copia o di cui non restano che alcuni frammenti o bobine. Una perdita che colpisce particolarmente la prima parte dell’attività cinematografica di Murnau; ma anche per ciò che concerne il periodo americano, il solo Aurora (come avremo modo di vedere) può considerarsi un suo film a tutti gli effetti. Grazie ad una prima filmografia compilata da Theodore Huff nel 194821, e soprattutto al lavoro di ricerca sulle fonti svolto da Lotte Eisner (e Henri Langlois) prima, e da Luciano Berriatúa poi, siamo ormai in grado di sviluppare delle ipotesi attendibili sulla portata complessiva di questa prima fase della carriera di Murnau, a partire dallo studio dei materiali e delle varie testimonianze relative ai suoi film perduti. Già a un primo sguardo si imprime quell’idea di molteplicità e assoluta eterogeneità che contraddistingue l’eclettismo della sua filmografia, ma che tuttavia fornisce anche una prova ulteriore della varietà di temi e atmosfere che circolavano nel cinema tedesco tra la fine degli anni Dieci e gli anni Venti. Trovano posto tradizioni popolari consolidate, come il mito romantico del castello in rovina preda di una antica maledizione, sui cui è costruita la trama di Der Knabe in Blau, oppure il magniloquente racconto storico ad episodi ricalcato sul modello di D.W. Griffith, dove il tema di fondo si sviluppa nel corso dei secoli (Satanas)22, o an21 22

Cfr. T. Huff, An Index to the Films of Murnau, in «Sight and Sound», n. 15, 1948. Ancora più esplicito potrebbe essere il riferimento al secondo film di Carl Theodor Dreyer, Blade af Satans bog (Pagine dal libro di Satana), un film a episodi «girato nel 1919 a partire da un feuilleton di Marie Corelli ma uscito solo nel 1921, ed evidentemente derivato dalla struttura quadripartita di Intolerance. In esso, Satana compie un viaggio nel tempo allo scopo di semina-

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cora il poliziesco di Abend-Nacht-Morgen, un cosiddetto «Detektivfilme», genere assai di moda nel cinema tedesco di quegli anni in cui era specializzato il produttore Erich Pommer, e su cui si eserciteranno anche Dupont e Lang. Ma c’è spazio anche per il sensualismo esotico di Der Bucklige und die Tänzerin e per il melodramma, sviluppato quest’ultimo sia nell’orizzonte del decadentismo di Sehnsucht [1920; Nostalgia], che trattato nell’orizzonte dell’ambientazione rurale di Marizza, detta la signora dei contrabbandieri (su scenario di Hans Janowitz) o in quello del paesaggio innevato di Die Austreibung (film del 1923 su scenario di Thea von Harbou realizzato a partire dal dramma teatrale di Carl Hauptmann, fratello di Gerhardt). Grande rilievo, nel contesto dell’opera perduta di Murnau, viene dato a Der Januskopf soprattutto per la comparsa del motivo del doppio – qui ripreso dal Dr. Jekyll di Stevenson, alla base della sceneggiatura di Hans Janowitz – che rappresenta evidentemente sia una radice tematica che Murnau svilupperà anche nei suoi film successivi, sia lo stimolo espressionista più lampante che sia rintracciabile in questa fase remota della sua attività23. Figura

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re discordia e tradimento tra i popoli; a differenza di Griffith, Dreyer racconta le quattro storie in ordine cronologico (il tradimento di Cristo, l’Inquisizione, la Rivoluzione francese del 1789 e la guerra russo-finlandese del 1918) e il ritmo ne risente». P. Cherchi Usai, Cinema muto nei paesi nordici, cit., pp. 162-163. Il carattere (eccessivamente) inaugurale di questo film perduto di Murnau è sottolineato ad esempio da Pier Giorgio Tone, il quale scrive che «in questa congerie di materiali tematici, un nodo significativo sembra però rappresentato dalla problematica di Der Januskopf. Qui il motivo del doppio, coinvolgendo contemporaneamente la tipologia del personaggio e il cinema in quanto duplicazione illusoria del reale, si situa in una dimensione culturale complessa, dove gli stimoli espressionistici

ricorrente in molti di questi film è d’altronde l’attore Conrad Veidt (interprete assieme a Bela Lugosi di Der Januskopf) la cui figura e lo stile di recitazione richiamano inevitabilmente il Cesare di Il gabinetto del dottor Caligari (soprattutto in Abend-Nacht-Morgen, dove per tutto il film indossa un vestito completamente nero). Ma, al di là di Der Januskopf, letto un po’ forzatamente come una sorta di prova generale per Nosferatu, i motivi di interesse nello studio di questi materiali frammentari (scenari, fotografie di scena, programmi di sala, recensioni dell’epoca, locandine e in certi casi alcuni metri di pellicola) non mancano di certo – tralasciando il fatto che, secondo quanto riportato da Eisner, Murnau ritenesse i suoi primi film «insopportabili». Già con il suo esordio, Der Knabe in Blau, Murnau mette in risalto il suo amore per l’arte e l’influenza esplicita che la pittura avrà sul suo modello di messa in scena e sul lavoro di figurazione delle immagini. Tra le fonti pittoriche di questo film (desumibili dalle fotografie e dai disegni che si sono conservati) c’è il famoso ritratto Blue Boy di Thomas Gainsborough (il cui modello è interpretato nel film da Ernst Hofmann) un’opera che entra come citazione esplicita e determinante anche ai fini dello sviluppo narrativo dell’intreccio. Satanas, da uno scenario di Robert Wiene con la fotografia di Karl Freund, presenta invece una interessante (ribaditi dalle acquisizioni psicoanalitiche largamente diffuse nei gruppi intellettuali tedeschi degli anni Venti) si saldano alle suggestioni delle Stimmungen notturne di Novalis e Hölderlin, alle atmosfere romantiche di Lenau e, soprattutto, all’ipotesi nietzschiana dell’incombenza dell’Urgrund dionisiaco sul versante manifesto, apollineo dell’esistere, inaugurando uno schema destinato a proseguire in Schloss Vogelöd e Nosferatu fino a Tartüff e Faust». Vedi P.G. Tone, F.W. Murnau, La Nuova Italia, Firenze 1976, p. 13.

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anticipazione che ritroveremo più tardi nel Faust. Secondo Eisner, Murnau modificò in alcuni passaggi la sceneggiatura abbastanza convenzionale di Wiene, mostrando la sua particolare attenzione per la composizione luministica della scena e per i valori plastici dell’immagine. Soprattutto però troviamo l’aggiunta di una sorta di “prologo celeste” «alla maniera di Goethe», con il confronto tra Dio e Lucifero, l’angelo caduto, da cui poi prende avvio la vicenda che si sviluppa in tre distinte parti lungo i secoli24. Alcuni brevi frammenti di pellicola di questo film, giunti sino ai giorni nostri (tra cui una sensuale scena d’amore tra Fritz Kortner e Sadjah Gezza), rivelano inoltre una particolare sensibilità nei confronti del lavoro di figurazione del corpo, un altro motivo che percorre in modo sotterraneo l’opera di Murnau e che troverà la propria sintesi suprema nell’ultimo film, Tabù. L’ambientazione dell’antico Egitto del primo capitolo di Satanas (intitolato Il tiranno) da cui è estratto questo breve segmento, lascia spazio all’evocazione di un imprecisato esotismo dell’anima, a un erotismo conturbante che avvolge i due corpi seminudi qui trattati come fossero un’unica, pura materia sensibile in movimento25. Questa immagine filmica di una potenza evocativa straordinaria (che è dunque tra le prime immagini in movimento che si con24 25

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Cfr. L. Eisner, F.W. Murnau, cit., p. 135. Come ricorda Elsaesser, a proposito del lavoro sulla luce compiuto dai grandi direttori della fotografia del cinema di Weimar (Freund, Fritz Arno Wagner, Carl Hoffmann), questa speciale luminosità tattile che immette nel film i valori della percezione pittorica «non si applica solo agli oggetti: anche i personaggi del cinema di Murnau, ad esempio, spesso sono trattati in modo non differente dalle altre forme modellate dalla luce e della profondità». T. Elsaesser, Weimar Cinema and After. Germany’s Historical Imaginary, cit., p. 251.

servino del cinema di Murnau)26 esprime assai bene, pur nei suoi pochi secondi, quel sensualismo romantico di cui parla Deleuze a proposito della personale rielaborazione delle figure e dei temi di area espressionista da parte di Murnau. Oppure, come ancora riporta un critico del «Film Kurier» discutendo del lavoro di regia a proposito del film Der Bucklige und die Tänzerin: «non ho mai visto una messa in scena che sembra avvolgere i personaggi in un’atmosfera che emana qualcosa di psichico, qualcosa che ricorda gli antichi profumi giavanesi»27 (profumi, elisir e diamanti provenienti dall’isola di Giava sono d’altronde al centro della trama del film). I materiali conservati per il film Marizza rivelano invece, oltre all’attenzione per la composizione in chiaroscuro, una messa in scena che impiega la costruzione del quadro in profondità di campo, che secondo Eisner è un altro dei tratti stilistici specifici nell’opera del primo Murnau. 2.3 L’arte di evocare fantasmi. Temi, figure, motivi

Nosferatu fu tra i primi grandi successi di Murnau e ancora oggi possiamo considerarlo come il suo film più celebre, un’opera il cui fascino indiscusso si rinnova presso il pubblico di ogni epoca. È soprattutto in seguito all’“adozione” di questo film (e via via di tutta l’opera di Murnau) da parte del gruppo dei giovani critici dei «Cahiers du Cinéma» che, a partire dagli anni Cinquanta, il suo cinema entra in una feconda fase di riscoperta critica

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Questo frammento è visibile nel bel documentario di Luciano Berriatúa, Die Sprache der Schatten. Friedrich Wilhelm Murnau und Seine Filme (Il linguaggio dell’ombra. F.W. Murnau e i suoi film). Cit. in L. Eisner, F.W. Murnau, cit., p. 138.

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e rivisitazione storiografica dopo che, con la sua morte, era sostanzialmente caduto nell’oblio28. In Nosferatu d’altronde sono presenti alcuni temi che, pure in una filmografia così refrattaria a una lettura omogenea, sono considerabili come delle costanti del cinema di Murnau. Troviamo qui sviluppati innanzitutto l’elaborazione di un modello di figurazione e un lavoro sulla costruzione degli spazi che segnano in modo decisivo la sua idea di messa in scena, così come si realizzerà poi nei più ambiziosi progetti concretizzati per l’UFA o a Hollywood. Ma anche l’attenzione al motivo dello sguardo e ai modi di soggettivazione delle immagini, emergono già in tutta la loro importanza nell’economia complessiva della messa in scena. Come ricorda Eisner: «Le storie del cinema non cessano di ripeterci che Dupont è stato l’unico in Varieté, a essere capace di filmare una scena come se fosse vista dall’attore, collocando la macchina da presa sopra la sua spalla. Però Murnau non ha avuto nessun bisogno della lezione di Dupont: già in Nosferatu la macchina da presa, e quindi lo spettatore, vede con gli occhi del folle che si aggrappa al tetto le piccole forme fluttuanti che si agitano per il vicolo»29.

Il libero adattamento dal Dracula di Bram Stoker diventa inoltre l’occasione per rileggere il tema del doppio e le atmosfere oscure e minacciose care al cinema tedesco di quegli anni, alla luce di un orizzonte figurativo più

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Vedi gli interventi di Jean Domarchi (Présence de F.W. Murnau in «Cahiers du Cinéma», n. 18, 1953), Alexandre Astruc (Le feu et la glace in «Cahiers du Cinéma», n. 8, 1952») e Maurice Schérer – pseudonimo di Eric Rohmer (La revanche de l’occident, in «Cahiers du Cinéma», n. 18, 1953). L. Eisner, Lo schermo demoniaco. Le influenze di Max Reinhardt e dell’espressionismo, cit., p. 200.

complesso in cui confluiscono le soluzioni luministiche del cinema scandinavo e le suggestioni della pittura romantica di Caspar David Friedrich. Tuttavia gran parte di questi aspetti, ampiamente sottolineati dalla letteratura critica su Murnau, sono già rintracciabili in Der Gang in die Nacht, che è il primo, in ordine di tempo, tra i film che si sono conservati sino ai giorni nostri. Lo scenario di Carl Mayer, desunto da un romanzo d’appendice della scrittrice danese Harriet Bloch (Der Sieger) ruota attorno ad una torbida storia d’amore in cui sono coinvolti i tre protagonisti principali, un medico oculista di nome Eigil Börne, Lily, una ballerina, e un giovane pittore cieco (interpretato da Conrad Veidt). Invaghitosi di Lily, il medico lascia la sua fidanzata per sposare la ballerina mentre quest’ultima, nel frattempo, si innamora del pittore cui il professor Börne restituirà la vista. In questo melodramma a tinte fosche costruito secondo le atmosfere e il décor tipici di quel decadentismo in cui andavano immerse storie del genere, scopriamo un Murnau fortemente influenzato dalle soluzioni visive del cinema nordico e, in particolar modo, dal film danese. D’altronde, come ricorda Eisner, alla base del film vi era uno dei numerosi scenari che la “Nordisk Film”, all’epoca nella sua fase di declino, aveva immesso nel più fiorente mercato tedesco30. Nei suoi passaggi chiave l’intensità drammatica della vicenda appare quindi filtrata dall’osservazione del paesaggio che si offre come il correlativo oggettivo degli stati d’animo dei personaggi. In tal senso è esemplare il lavoro di figurazione condotto sullo scatenamento della tempesta che, «sintonizzandosi con la rottura della coppia, esalta i legami occulti, le corrispondenze sotterranee esistenti tra l’indecifrabilità delle 30

Cfr. L. Eisner, F.W. Murnau, cit.

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forze naturali e il mondo delle tenebre, la dimensione impenetrabile in cui è immerso il pittore cieco»31. Allo stesso tempo possiamo osservare il gioco di scambi e i rispettivi prestiti semantici che coinvolgono la composizione plastica del quadro e alcuni motivi ricorrenti della pittura romantica. Luciano Berriatúa individua, ad esempio, l’influenza di un quadro di Johan Christian Clausen Dahl (Wolkenstudie, 1832) conservato presso il Museo Nazionale di Berlino – uno scorcio di paesaggio alberato sovrastato da nubi minacciose – che sarebbe alla base di alcune inquadrature in particolare ma, più in generale, di quel sentimento della natura che in Murnau fa da contrappunto all’azione drammatica e alla costruzione o alla rivelazione della soggettività dei personaggi. Ritroviamo pertanto anche i riferimenti al celebre Die Toteninsel (1880; L’isola dei morti) di Arnold Böcklin (che ritorneranno in Nosferatu) o ancora una citazione esplicita da un quadro di Karl Friedrich Schinkel del 1820, da cui Murnau riprende la composizione dell’inquadratura tagliata da un arco (funzionante qui come una sorta di iris) che oscura la parte superiore dell’immagine e crea un senso di minacciosa incombenza nel paesaggio – nel momento in cui il pittore è a bordo di un’imbarcazione32. Nella natura, nei paesaggi rarefatti e nelle tempeste di Der Gang in die Nacht prendono insomma già forma i presagi, le forze occulte e le risonanze misteriose che, come in una tragedia classica, sembrano avere la meglio sulla volontà dei personaggi e sulle loro azioni – un aspetto questo che percorre tutta l’opera di Murnau, e che ritroviamo in modo esemplare in film come Nosferatu, Aurora, Tabù. Ma questo film contiene anche numerose inquadra-

ture che Murnau recupererà poi, più o meno esplicitamente, in Nosferatu. Simili sono appunto le raffigurazioni dei paesaggi in tempesta. Ma anche alcune pose estatiche dei corpi – come nel caso della morte di Lily, raffigurata con la mano tesa e pallida (in un’inquadratura che lascia il resto del corpo fuoricampo), ritratta cioè in una postura che ritroveremo in occasione del sacrificio di Ellen al cospetto del vampiro. Di tutte queste similitudini con il più noto Nosferatu, la più interessante riguarda però la messa a punto di quel sistema di congiunzione virtuale degli spazi che prende forma attraverso un uso anomalo dei raccordi. Una soluzione che Berriatúa ha definito come «il metodo del pensiero-realizzato» e che consiste nell’impiego di forme di montaggio che, nel corso della stessa scena, mettono in connessione spazi tra loro distanti. Si crea così una continuità visiva tra elementi e personaggi che nella diegesi filmica occupano luoghi diversi, spesso attraverso l’attivazione di raccordi “impossibili” che si incaricano di figurare le visioni interiori, i desideri o gli oscuri presentimenti degli stessi personaggi. È il caso del celebre raccordo che in Nosferatu unisce i due spazi della casa di Wisborg, dove si trova Ellen, e la stanza del castello del conte Orlok, dove il vampiro nel frattempo sta per gettarsi su Hutter33. Una soluzione di montaggio del tutto simile era quindi già stata sperimentata in Der Gang in die Nacht. L’attrazione tra Lily e il pittore cieco è sottolineata con la creazione di un falso spazio diegetico che raccorda, sulla linea dello sguardo dei due personaggi coinvolti, i diversi ambienti dove si trovano rispettivamente. Ovvero, vediamo la donna, tra le braccia del medico, che rivolge il proprio sguardo in un punto fuoricampo a destra

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P.G. Tone, F.W. Murnau, cit., p. 15. Ivi, pp. 104-109.

Rimandiamo il lettore all’analisi di questo segmento contenuta nel primo paragrafo del terzo capitolo del libro.

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del quadro e di seguito, con uno stacco, ci viene mostrato lo spazio della casa del pittore in cui egli, seduto di fronte alla vetrata della sua finestra, sta guardando nella direzione opposta (ossia verso la destra dell’inquadratura). Si genera dunque l’impressione che i due si stiano guardando anche se ovviamente non possono vedersi. Come ha osservato lo stesso Berriatúa, questa sorta di corrispondenza degli spazi, costruita sulla scia di un contatto sublime o di una visione interiore dei personaggi, non è certo un’invenzione di Murnau, e in tal senso si tratta di una soluzione che è già presente in Griffith. Tuttavia in Murnau essa si tinge di aspetti drammaturgici profondi e complessi, costruendosi come il processo di figurazione di una impalpabile corrispondenza visiva dei luoghi e degli stati d’animo. Una soluzione di montaggio attraverso cui si esprimono quelle forze invisibili – o quell’arte di evocare i fantasmi – in cui anche le vicende di ambientazione più naturalistica del cinema di Murnau sembrano immerse. Secondo Janet Bergstrom questa ambiguità costitutiva del montaggio, così in contrasto con la chiarezza espositiva del cinema classico, non può essere tuttavia ricondotta all’idea di una violazione delle sue regole compositive (come, ad esempio, la costruzione omogenea di uno spazio a 180°) perché il cinema di Weimar – soprattutto per ciò che riguarda la sua produzione artistica – si basa su altre convenzioni. Ellissi improbabili, punti di vista anomali, e incoerenze spaziali sono insomma, secondo Bergstrom, non tanto delle trasgressioni stilistiche che incrinano l’esperienza cognitiva dello spettatore, quanto delle soluzioni condivise e specifiche di una certa libertà artistica del cinema tedesco degli anni Venti34. Per 34

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Cfr. J. Bergstrom, Sexuality at a Loss. The Films of F.W. Murnau, in «Poetics Today», vol. 6, n. 1-2, pp. 185-203.

Thomas Elsaesser invece l’impatto del cinema di Griffith (e specialmente di Intolerance, uscito in Germania nel 1920) non può essere sottostimato. I modelli di montaggio del cinema di Weimar, anche per ciò che riguarda i film espressionisti, sono pertanto variazioni più o meno personali del modello ideato da Griffith e, tra coloro che nel corso degli anni Venti proseguono la lezione del regista e sviluppano le sue idee sul montaggio, Murnau è da considerarsi tra gli interpreti più originali. Tuttavia, soprattutto in Nosferatu, la giustapposizione degli spazi e delle linee narrative è sviluppata attraverso un richiamo al sovrannaturale e alle forze psichiche attivate che prende forma innanzitutto nell’uso libero e (verrebbe da dire) trascendentale dello spazio fuoricampo35. Ciò che in ogni 35

T. Elsaesser, Weimar Cinema and After. Germany’s Historical Imaginary, cit. (vedi oltre al capitolo su Murnau – Nosferatu, Tartuffe and Faust: Secret Affinities in Friedrich Wilhelm Murnau, pp. 223258 – anche Fritz Lang’s Traps for the Mind and Eye: Dr. Mabuse the Gambler and Others Disguise Artists, pp.145-194). Secondo Elsaesser l’anomalo sviluppo di più linee narrative in Murnau (e in particolare in Nosferatu) dimostra una consapevole variazione attorno al modello griffithiano. D’altronde, proprio in riferimento a Intolerance e alla sua visione simultaneista della Storia, si parla di un modello di racconto che implica una propria logica di sovversione del canone. Ovvero, come afferma Giulia Carluccio, «il carattere discorsivo, intellettuale o mentale del film, la sua forza violentemente anticlassica, e il suo fascino di opera aperta, straniante, risiedono pure (e, verrebbe da dire in via suggestiva e garbatamente provocatoria, soprattutto) nelle architetture locali, parziali, delle singole inquadrature […] in una logica di sovversione del centramento e della continuità previste dalla propedeutica del découpage classico, e in una sorta di esasperazione manierista e deformante del canone acquisito». Vedi G. Carluccio, Storia e storie. Architetture della visione e geometrie non euclidee in “Intolerance”, in M. Bertozzi (a cura di), Il cinema, l’architettura, la città, Dedalo, Roma 2001, p. 37.

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caso, e in entrambe le ipotesi, può essere evidenziato è la personale rielaborazione da parte di Murnau di quelle pulsioni oscure che abitano il cinema e più ampiamente la cultura espressionista – il doppio, l’allucinazione e la proiezione fantasmatica, l’intreccio delle dinamiche intersoggettive, il rovesciamento dei corpi in ombre. Potremmo qui richiamare in proposito – pensando a un’associazione tra la rappresentazione discontinua degli oggetti nel quadro e quelle della soggettività nella costruzione diegetica, la descrizione di un quadro di Gabriele Münter riportata da Kandinskij nel suo saggio Sulla questione della forma:

sere una trama in cui la verità si disgrega in mille rivoli per poi riapparire e ricomporsi come gioco di maschere e apparenze. È proprio nel segno della maschera e dell’inganno che Murnau attinge qui – non senza ironia e distacco – all’idioma culturale dell’Espressionismo, e in particolare al suo orizzonte nietzschiano. Per ciò che concerne i rapporti tra Nietzsche e il cinema espressionista, e la comune indagine sulla disgregazione del reale, Paolo Bertetto nota che: «La crisi della verità, il carattere soggettivo della visione e dell’interpretazione, la disparizione del mondo vero e la sua sostituzione con il mondo apparente, che sembra esso stesso destinato a scomparire, il dissolvimento del soggetto nel gioco delle maschere che finiscono per occupare tutta la scena intersoggettiva (e quella psichica) sono tutte determinazioni discorsive, elementi analitici di interpretazione che dal testo nietzschiano si diffondono nella cultura espressionista, ed in particolare nell’immaginario e nella visione del cinema espressionista, costituendone non solo l’atmosfera, il clima diffuso, ma in fondo le stesse coordinate implicite della invenzione linguistica»37

«La natura morta di Münter dimostra che la trasposizione non uniforme, discontinua, degli oggetti in uno stesso quadro non soltanto non è dannosa, ma può creare, se rettamente applicata, una forte e complessa risonanza interiore. Lo stesso accordo che all’esterno produce un effetto disarmonico promuove, in questo caso, l’effetto armonico interiore»36.

Realizzato nel 1921, Schloss Vogelöd, anch’esso su scenario di Carl Mayer come Der Gang in die Nacht, fu prodotto da Erich Pommer per la “Decla-Bioscop” poco prima che questa fosse integrata nell’operazione che condusse alla nascita dell’UFA. Il film fonde abilmente le atmosfere visive del racconto fantastico con la struttura narrativa di un giallo costruito su indizi tortuosi e false piste. L’omicidio del conte Peter Paul Oetsch, e i sospetti infondati sul conte Johann, suo fratello (ovvero l’evento scatenante dell’intreccio) diventano l’occasione per tes36

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W. Kandinskij, Sulla questione della forma, in W. Kandinskij - F. Marc, Der Blaue Reiter, Piper, München 1912, tr. it., L’almanacco del cavaliere azzurro, SE, Milano 1998, p. 125.

In questo senso la proverbiale risoluzione dell’enigma dell’intreccio di Schloss Vogelöd, secondo i canoni del genere, non deve trarci in inganno. L’ambiguità del sogno e gli scenari allucinati del castello invadono l’azione narrativa facendo dei personaggi (siano essi i colpevoli o gli innocenti) delle maschere che agiscono in preda a 37

P. Bertetto, L’ombra, l’apparenza, la maschera. Nietzsche e il cinema espressionista, in AA.VV. Nietzsche e la cultura contemporanea, Arsenale, Venezia 1982, pp. 145-146. Su questi temi vedi il classico G. Vattimo, Il soggetto e la maschera. Nietzsche e il problema della liberazione, Bompiani, Milano 2003.

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motivazioni e ossessioni insondabili. Assieme alla regia di Murnau, che si segnala qui per un uso intensivo di ampie inquadrature d’ambiente costruite in profondità di campo, fondamentale appare il lavoro dello scenografo Hermann Warm, che opera nella restituzione di uno spazio riscritto integralmente come struttura metaforica di fondo dello slittamento incessante della verità e dell’identità dei personaggi. L’universo del castello, la configurazione claustrofobica delle sue sale e dei suoi corridoi definiscono tanto la tensione narrativa – il vicolo cieco delle indagini, la ragnatela degli eventi, le svolte improvvise – che l’idea di una prigione esistenziale, ovvero il «ritorno del protagonista su se stesso, secondo una dinamica tipica del personaggio-doppio»38 (il conte Oetsch/il frate Faramund). A differenza che in Nosferatu (o in Der Gang in die Nacht), in Schloss Vogelöd sono quindi gli interni a svolgere il ruolo di contrappunto drammatico dell’azione e a evocare la psicologia dei personaggi mentre la natura resta estranea, indifferente potremmo dire, al gioco della moltiplicazione delle maschere, degli specchi, delle apparenze, del perturbante. Le proiezioni materializzate del doppio e del desiderio si ridefiniscono quindi dentro la struttura del genere, così come dentro gli spazi del castello, e

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«inteso come territorio delle ombre, come organizzazione stilistica di un’apparenza che è altro dal mondo, il film infrange la presunta continuità del reale, cogliendo l’aldilà dei fatti e delle convenzioni; individua, oltre la maschera dell’ipocrisia sociale e la coesione superficiale egli eventi, la spettralità del disordine quotidiano della vita»39. P.G. Tone, F.W. Murnau, cit., p. 28. Ibid., p. 33.

In tal senso Schloss Vogelöd recupera sul piano della letteratura popolare (Thea von Harbou trae lo scenario da un popolare racconto dell’epoca) un tema che Murnau affronterà poi con Tartufo, cioè nel contesto di una drammaturgia “alta”, messa al servizio di un film che è anch’esso costruito attorno al dispositivo dello smascheramento delle apparenze. In Nosferatu, dunque, l’orizzonte allucinatorio e inquieto dell’Espressionismo si fonde invece con le figurazioni del paesaggio e il sentimento conturbante della natura. È allora attorno a questa duplicità (l’ombra e il doppio da un lato, l’infinita mutevolezza della natura, dall’altro) che si può rintracciare uno dei primi motivi di fondo del cinema di Murnau. Sul conflitto definibile un po’ semplicisticamente come l’opposizione tra Naturalismo e Espressionismo, è interamente costruito secondo Dudley Andrew un film come Aurora, un’opera in cui tutti gli elementi (dalla costruzione narrativa, alla messa in scena, dall’illuminazione alla recitazione degli attori) concorrono a sviluppare questa dicotomia, come il motivo stesso della struttura drammaturgica del testo che si presenta nella coabitazione di due stili di regia e due modelli di cinema40. Ed è attorno all’idea di uno stile molteplice, o sarebbe più corretto dire scisso nel suo doppio, che può essere anche ricondotto Nosferatu. Nosferatu, vale a dire, non è soltanto una delle più importanti opere del cinema tedesco degli anni Venti, o il primo film sui vampiri della storia del cinema cui ancora oggi si guarda come all’archetipo di ogni adattamento cinematografico del Dracula di Bram Stoker. Esso è anche una delle più evidenti dimostrazioni dell’eclettismo stilistico di Murnau e della sua 40

Cfr. D. Andrew, The Gravity of «Sunrise», in «Quarterly Review of Film Studies», n. 2, 1977, pp. 356-379.

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capacità di raccontare storie sospese tra il reale e il fantastico rielaborando in modo personale sia la lezione del Naturalismo scandinavo che le suggestioni dell’Espressionismo, entrambi riletti infine alla luce di una sensibilità visiva impregnata di elementi romantici e di fascinazione per il sovrannaturale, in cui l’eco della pittura di Friedrich o di Böcklin si fonde con gli accenti mistici del Romanticismo di Novalis o di Franz Marc. Un film, come recita la pubblicità dell’epoca, «erotico, occultista, spiritista e metafisico». Il lavoro sulla messa in scena allestita da Grau e Murnau, compone immagini attraverso cui il piano del reale si riorganizza nelle forme simboliche per lo più provenienti dalla pittura, ma in generale guardando a quell’orizzonte fantasmatico e allucinatorio che si realizza nella natura. Senza cioè che l’artificio, la deformazione del visibile o vari processi irrealizzanti intenzionalmente esibiti nella messa in scena, abbiano il sopravvento sulla dimensione indexicale dell’immagine filmica41. Si veda ad esempio l’uso della pellicola in negativo nel segmento in cui, come una presenza spettrale, compare la carrozza che attraversa la foresta. Pur evidenziando il carattere di traccia fantasmatica dell’immagine filmica, questo processo non implica qui nessuna disgregazione della forma, nessuna distorsione degli oggetti cara al principio della stilizzazione espressionista. È un cambiamento della luce in cui scivolano le immagini, i corpi, le forme, e semmai una iscrizione del tema del doppio e del volto nascosto delle cose, 41

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Ovvero, «un’ombra in Murnau assorbe e cattura la figura; e anziché connotare la presenza oppressiva del Doppelgänger, si pone – è il caso delle celebri silhouette di Nosferatu o Tartuff – come la registrazione di una traccia, di un’assenza fisica, di un differimento temporale». Vedi T. Elsaesser, Nosferatu, Tartuffe and Faust: Secret Affinities in Friedrich Wilhelm Murnau, in Id., Weimar Cinema and After. Germany’s Historical Imaginary, cit., p. 237.

all’interno del processo di registrazione del visibile dell’immagine filmica42. Proprio il discorso relativo a Nosferatu ci permette di chiarire meglio questo punto richiamandoci esplicitamente – con Jean Douchet – all’idea di un reale vampirizzato: «Murnau fu certamente il maestro del vampirismo. E questo non è forse al cuore stesso del meccanismo cinematografico? La ripresa raccoglie e cattura la luce del giorno, che la proiezione rimanda in luce notturna. Il reale vampirizzato dalla pellicola non è più che un fantasma sullo schermo. Questa riflessione sull’arte, che si manifesta in Murnau a partire dai primi film, trova compimen-

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Il cinema tedesco degli anni Venti è nel suo complesso la sintesi delle più significative soluzioni visive e dei modi di produzione dell’immagine filmica sino a quel momento sperimentate. Vale la pena di riprendere in tal senso questo passaggio di Eisner sul fondamentale contributo degli operatori tedeschi (Karl Freund, Fritz Arno Wagner, Carl Hoffmann e molti altri): «Può darsi che la fantasia romantica dei film tedeschi non avrebbe mai raggiunto questo apice dell’irreale poetico senza le sovrimpressioni, gli sfumati, le distorsioni e altri trucchi sapienti dovuti agli operatori del tempo. Evidentemente, ben prima di loro, il grande Méliès ne conosceva giù tutti i segreti, e l’avanguardia francese degli anni venti ha fondato su di essi tutte le sue visioni suggestive. Indubbiamente il cinema scandinavo si è servito della magia bianca, delle apparizioni spettrali e di un chiaroscuro affascinante. Ma il cinema tedesco si impadronisce di tutti i trucchi, apprende dai cineasti tedeschi e svedesi che lavorano negli studi intorno a Berlino, la portata del chiaroscuro che i suoi operatori sanno unire alla padronanza del dosaggio di ombre e luci insegnato dalle regie di Max Reinhardt, o dallo choc dell’illuminazione espressionista». Vedi L. Eisner, Lo schermo demoniaco. Le influenze di Max Reinhardt e dell’espressionismo, cit., p. 234 (da un articolo originariamente pubblicato nella «Revue des Belles Lettres», janvier-février, 1955).

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to nell’adattamento di Dracula. Nosferatu rivela e libera le fonti d’ispirazione del cineasta: il romanticismo tedesco sempre vivo, la paura interiore e occulta di una forza estranea, parassitaria, che si sente prendere possesso dell’essere e nutrirsene (specificatamente, per Murnau, il profondo senso di colpa per la sua omosessualità); e infine l’esteriorizzazione di questa paura»43.

Non è un caso che alcuni critici abbiano interpretato Nosferatu in una prospettiva metalinguistica, vale a dire nei termini di un film sul potere perturbante del cinema. Sulla scia del Dracula di Stoker, metafora della paura dei cambiamenti legati alla modernità, anche la lotta dell’ombra e della luce in Nosferatu, e la stessa impalpabile figura del Principe delle Tenebre, incrociano il processo di reificazione della tecnica. Le inquietudini più recondite dell’uomo diventano insomma lo specchio e l’allegoria della sua alienazione contemporanea44. In modo simile l’idea di vampirismo di cui parla Douchet rimanda dunque al lavoro che la macchina da presa compie nei confronti del profilmico, sia che esso venga allestito in studio, sia che si configuri nelle forme del paesaggio e nella natura delle riprese in esterno. In seconda battuta il vampirismo assume le forme vicarie di precisi personaggi all’interno del mondo diegetico costruito e sviluppato dal racconto del film. Il conte Orlok in Nosferatu, Tartufo che 43

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J. Douchet, La ville tentaculaire, in AA.VV., Cités-Cines, Ramsay, Paris 1987, tr. it. in O. Caldiron - S. Lucci - L. Marzo (a cura di), Cineamerica 1919-1929. Alle fonti del mito, Merdiana, Roma 1991, p. 101. Cfr. T. Elsaesser, Nosferatu, Tartuffe and Faust: Secret Affinities in Friedrich Wilhelm Murnau, in Id., Weimar Cinema and After. Germany’s Historical Imaginary, cit., pp. 223-258; A. Dalle Vacche, F.W. Murnau’s Nosferatu. Romantic Paintings as Horror and Desire in Expressionist Cinema, cit., 1996.

“vampirizza” Orgone, Mefistofele in Faust o la “donna di città” in Aurora, per citare i casi più emblematici. Ma anche – sempre pensando a Nosferatu – il vampirismo è un fenomeno interno alla natura e non fuori dal suo orizzonte; non è una mostruosità che la natura esclude, ma un fenomeno che essa porta dentro di sé. Pensiamo alla celebre sequenza, costruita nel modo di un interludio autonomo nel film, in cui il professore paracelsiano sottolinea come nello stato di natura siano presenti delle pratiche non lontane dall’orizzonte dei vampiri e dei fantasmi (mentre il film ci mostra le immagini ravvicinate di un polipo etereo, quasi fantasmatico nella sua trasparenza, e soprattutto la conturbante pianta carnivora definita nel commento «una pianta che agisce come un vampiro»). Questo stesso ruolo, in modo altrettanto esplicito, può essere svolto dagli spazi della metropoli. Può cioè identificarsi con il progresso, con il ritmo frenetico e alienante della vita urbana e dei suoi spietati ingranaggi, come ci mostrano sia Fantasma che L’ultimo uomo, o in maniera esemplare i film americani di Murnau costruiti sul conflitto città-campagna come Aurora e City Girl. Conflitto che spesso viene rifigurato nelle forme dell’attraversamento, dello scorrere di uno spazio nell’altro. Il viaggio compiuto dal giovane Hutter fino ai Carpazi, nel castello del conte Orlok, per concludere l’atto di compravendita con cui quest’ultimo verrà ad abitare in una casa nel paese di Wisborg, è quasi l’archetipo di quei passaggi su cui sono costruiti molti film di Murnau (dalla città alla campagna, dalle tenebre alla luce, dai luoghi familiari all’inquietante estraneità della terra dei fantasmi). Questi confini vengono continuamente incrinati, scivolano gradualmente uno nell’altro secondo un sistema di produzione illusiva altamente formalizzato che trova, nel sistema delle congiunzioni virtuali degli spazi che abbiamo visto 67

prima, una sua prima importante soluzione di regia. Ma anche la composizione luministica della scena che scolpisce i volumi plastici del quadro e il lavoro di montaggio nel senso più ampio della sua capacità organizzativa degli spazi, risentono di questa volontà di sfumare il confine tra percezione, immaginazione e visione interiore, cosicché in Murnau, e specificatamente in Nosferatu, «tutte le componenti visive sono immerse in un’atmosfera cromatica, segnata da un lento, graduale chiaroscuro, un trascolorare dal nero alle tonalità del grigio. E il montaggio opera nella prospettiva del potenziamento della visione, della rivelazione e della contemplazione delle configurazioni visive. Favorendo semmai una dilatazione del visibile che permetta una percezione prolungata del quadro»45.

Questa duplicità che lega inquietudine espressionista e Naturalismo è rafforzata dal fatto che, nello stesso anno di Nosferatu, Murnau realizza un film come Der brennende Acker 46 – scritto da Willy Haas, Thea von Harbou e Arthur Rosen – passando così, con estrema disinvoltura, dalle inquietanti atmosfere gotiche a un melodramma rurale che avvicina temi e questioni sociali. Johannes Rog (interpretato dall’attore russo Vladimir Gajdarov, formatosi nel teatro di Konstantin S. Stanislavskij) è il personaggio centrale di questa storia che prende avvio dalla morte di suo padre, un vecchio contadino, segretario del conte Rudenburg. Ereditata assieme a suo fratello Peter 45 46

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P. Bertetto, Il cinema espressionista e la forma dell’immaginario, cit., p. 45. A lungo creduto perduto (eccezion fatta per una copia nitrato con didascalie in polacco, in pessimo stato e incompleta), il film è stato fortuitamente ritrovato nel 1978 alla Cineteca di Milano.

la fattoria paterna, Johannes punta in realtà ad impossessarsi dei beni del conte, e in particolare della cosiddetta terra del diavolo, luogo di un ricco giacimento di petrolio. Per raggiungere il suo scopo, Johannes tenta dapprima di sedurre senza successo Gerda, figlia del conte, poi, alla morte di quest’ultimo, sposa la sua seconda moglie, Helga. Accortasi dell’opportunismo dell’uomo, Helga vende il terreno mandando su tutte le furie Johannes che la uccide gettandola in un torrente. Per vendicare la donna, Gerda dà alle fiamme il pozzo di petrolio restando tuttavia anche lei uccisa nell’incendio. A questo punto Johannes rinuncia a tutto e fa ritorno alla sua fattoria, dove lo attende Maria, una ragazza semplice che da sempre è innamorata di lui. Un melodramma in piena regola, dunque, costruito attorno alla cieca ambizione di Johannes e alle fatali distruzioni che questa lascia dietro di sé. Il contrasto tra le classi sociali viene così riscritto anche nei termini del conflitto tra i falsi miti della modernità e i valori di una vita semplice nella fattoria, ovvero attorno a quella dicotomia che oppone i due spazi, della città da un lato, e della campagna dall’altro, e che si offre come un motivo strutturale del melodramma degli anni Venti, sviluppato da Murnau nell’orizzonte del tema dell’“innocenza perduta”. Si tratta di un aspetto che sarà condotto sino alle estreme conseguenze in Tabù dove, radicalizzandosi, assumerà le forme vere e proprie di una redenzione nella natura, mentre per ora, in Der brennende Acker, il discorso riguarda ancora una presa di posizione morale sui conflitti sociali e un’esaltazione dei valori rurali portata avanti con accenti sostanzialmente conservatori e antimoderni, cari alla sceneggiatrice Thea von Harbou47. 47

Thomas Koebner attribuisce il conservatorismo di questo film di Murnau all’influenza di Thea von Harbou e alla “Duelig

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Secondo Luciano Berriatúa la messa in scena sviluppata da Murnau in questo film – soprattutto in riferimento al modo in cui si alternano i campi totali dei paesaggi innevati con le scene d’interni e i primi piani usati in chiave psicologica – mostrerebbe, più che in altri casi, una precisa influenza del cinema di Griffith; in particolar modo, lo storico spagnolo si riferisce qui a un celebre melodramma del 1920, intitolato Way Down East (Agonia sui ghiacci), tra i film più costosi, ma anche tra i più grandi successi commerciali della carriera di Griffith. Anche in quest’opera – in cui sin dal titolo si evidenzia il ruolo centrale delle aree rurali degli Stati Uniti (in particolare l’estremità del Maine, a nord est di Boston) – sia i numerosi colpi di scena e le improvvise sferzate di tono, che le varie figure femminili, ruotano attorno ad un personaggio negativo e, tuttavia, non così cattivo come vorrebbero le regole del genere. D’altronde, secondo un attento interprete dell’opera di Griffith quale Paolo Cherchi Usai, è proprio per questo motivo che Agonia sui ghiacci si distaccherebbe dal melodramma nella sua forma classica, in cui la figura del cattivo si incarica di ordire le sue macchinazioni per distruggere la felicità della coppia. Lennox Sanderson (protagonista del film di Griffith), invece, «non corrisponde a questo identikit del farabutto da romanzo d’appendice. Lennox è un ragazzotto irresponsabile e senza scrupoli, marcio nell’anima; mette in scena un finto matrimonio a proprio vantaggio; volta le

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Film”, una casa di produzione che sin dalla sua fondazione si era proposta un preciso programma di riqualificazione dei valori rurali della Germania. Cfr. T. Koebner, Murnau – On Film History as Intellectual History, in D. Scheunemann (ed.), Expressionist Film. New Perspectives, cit., pp. 111-123.

spalle all’amante dopo aver ottenuto quel che voleva: ce n’è abbastanza per odiarlo, ma la sua azione distruttrice si ferma qui»48.

Se le analogie nella conduzione dei caratteri e nella strutturazione dell’intreccio non mancano, è però soprattutto il ruolo decisivo che il paesaggio riveste nel film di Griffith ad aver probabilmente attirato l’attenzione di Murnau. Uno dei momenti visivamente più intensi di Agonia sui ghiacci è la sequenza della violenta tormenta di neve, girata in esterni, che conduce al finale del film. Oltre al fondamentale apporto della natura e del paesaggio nel cuore stesso del dramma, Murnau deve aver pensato a queste immagini nella costruzione visiva della scena in cui divampa l’incendio nel pozzo di petrolio. In questo senso, in Der brennende Acker, risulta fondamentale l’incontro con lo scenografo Rochus Gliese che, alcuni anni dopo sarà al fianco di Murnau ad Hollywood per curare le scenografie di Aurora, i cui interni dell’ambiente contadino dove vive la coppia, richiamano da vicino le atmosfere di questo Kammerspiel rurale. In Fantasma è invece la strada a mettersi in scena come spazio del perturbante, dell’ossessione, del desiderio. Anche se distante dalle produzioni visive di irrealtà, Fantasma guarda alla strada secondo i motivi propri dell’Espressionismo, vale a dire come al luogo di concrezioni simboliche in cui prendono forma i fantasmi dell’io. A lungo ritenuto perduto, è solo in tempi recenti che questo film ha attirato l’attenzione degli storici del cinema mostrando elementi decisivi per uno studio complessivo dello stile visivo di Murnau. La materia letteraria di Gerhart 48

P. Cherchi Usai, David Wark Griffith, Il Castoro, Milano 2008, p. 350.

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Hauptmann, adattata fedelmente da Thea von Harbou, viene messa in scena da Murnau guardando alla configurazione visuale di quei meccanismi profondi – il doppio, il desiderio impossibile – che la animano. La vicenda ruota attorno all’ossessione di Lorenz Lubota (Alfred Abel, il cinico industriale di Metropolis), un piccolo impiegato con velleità letterarie, per Veronika Harlan, una giovane e bellissima dama, interpretata da Lya De Putti, incontrata per caso per la strada (la donna lo investe accidentalmente con la sua carrozza). L’amour fou dunque assume sin da subito le forme dell’allucinazione, di un investimento fantasmatico che si rivelerà irrealizzabile. Prendiamo il segmento dell’incontro fortuito con la donna. In campo totale vediamo Lorenz investito dalla carrozza di Veronika. La dama scende e assieme ad altri passanti si accerta delle condizioni dell’uomo. Attraverso una dinamica di sguardi resa esplicita dai primi piani di Lorenz raccordati con quelli di Veronika, capiamo che l’uomo è rimasto colpito ben più dalla sua apparizione che dallo scontro con il calesse. Questa scena tornerà difatti a ossessionarlo più avanti, in uno scenario onirico che trasfigura la piazza della città, teatro dell’incontro, in un impalpabile fondale solcato dall’attraversamento di un calesse fantasma, trainato da due cavalli bianchi che spiccano nella tintura blu delle immagini (e che richiamano in tal senso il controluce impiegato in una scena simile per Nosferatu). In linea con un certo canone gotico-romantico materializzato dal celebre film di Victor Sjöström, Körkarlen (1920; Il carretto fantasma), la logica di produzione del fantasma e le visualizzazioni dell’inconscio di Lorenz si realizzano attraverso un marcato ricorso alla sovrimpressione e, in generale, a quelle soluzioni (controluce e angolazioni anomale) che richiamano la subordinazione della diegesi alle proiezioni interiori dei personaggi; d’altronde «nel desiderio, se72

condo i principi canonici dell’espressionismo, si incontrano la realtà e l’altro, il calesse che investe Lorenz e l’immaginario che travolge la sua psiche, sovvertendo la concatenazione logica, la successione consueta dei gesti e degli avvenimenti»49. Un desiderio che agisce come un’ipnosi, insomma, e che trasforma Lorenz in uno di quei sonnambuli e fantasmi che animano il cinema espressionista tedesco50. Questa fluidità dell’immagine e di una vicenda in cui via via immaginario e realtà si fondono l’uno nell’altro, sottende tuttavia una struttura narrativa che avanza per opposizioni nette e ben definite. Alla realtà piccolo-borghese di Lorenz si oppone la sua evasione nella poesia, la fuga dal bisogno e dalle necessità economiche, il desiderio irrealizzabile per una donna di un’altra classe sociale. Tuttavia, anche qui come in Nosferatu, le opposizioni della struttura narrativa assumono innanzitutto le forme di un doppio stile in cui si alternano il naturalismo degli ambienti e le figurazioni dell’inconscio. Così alla ricostruzione dell’ambiente patetico-familiare di Lorenz e del suo microcosmo domestico (la casa dove vive con la madre e Melanie, la sorella minore) si sovrappongono le sue proiezioni fantasmatiche e la messa in scena di un desiderio che assume le forme di una soggettivazione radicale dell’esperienza, come reso evidente dalla temporalità tutta interiore del racconto. D’altronde, secondo un procedimento caro all’Espressionismo, il film svela sin da subito il suo procedimento narrativo e il meccanismo della finzione con una sequenza d’apertura in cui vediamo Lorenz accingersi a scrivere le memorie della sua vita. 49 50

P.G. Tone, F.W. Murnau, cit., p. 59. Cfr. M. Henry, Phantom. L’extase et l’agonie, in «Positif», n. 523, 2004, pp. 83-85.

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Certo, il doppio stile della messa in scena di Fantasma esibisce anche il motivo specifico del Doppelgänger, riletto tuttavia qui in una chiave psicologica, anziché fantastica. Il doppio, difatti, assume le forme di un’altra donna attraverso cui soddisfare il desiderio impossibile per Veronika, ritrovata in una volgare cocotte che assomiglia incredibilmente alla donna amata (Melitta, interpretata dalla stessa attrice, Lya De Putti) e che come tale rende possibile il transfert – visualizzato attraverso la sovrapposizione dei tratti di Veronika che emergono nel volto di Melitta. In realtà l’impossibile appagamento attiva il meccanismo della caduta agli inferi, della degradazione irreversibile di Lorenz, che lo vedrà coinvolto in un disegno criminoso (l’uccisione della vecchia usuraria Schawbe) per il quale sarà condannato alla prigione. Ma l’importanza delle dinamiche dello sguardo e dei movimenti di macchina nella regia di Fantasma, vengono ricondotti da Murnau attorno alle variazioni figurative di un preciso motivo visivo. Certo va ricordato che qui è evidente (come sottolineato da Berriatúa) l’influenza della pittrice e scultrice tedesca Käthe Kollwitz, e in particolare dei suoi disegni di ambientazione umile e popolare pubblicati sulla rivista progressista «Simplicissimus» (cui la Kollwitz collaborò per un periodo)51. Ma, come si diceva, a colpire l’attenzione è soprattutto l’ostinato ricorso al motivo della spirale in cui si esprime il senso della vertigine di Lorenz, della sua caduta e dell’impossibilità di sottrarsi alla forza illusiva dei suoi fantasmi. Un simbolo visivo che percorre il film a vari livelli dunque, come nell’insistita inquadratura dall’alto, all’interno del palazzo, che mostra la tromba circolare delle scale, o in uno 51

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Cfr. L. Berriatúa, Los proverbios chinos de F.W. Murnau, vol. I., cit., pp. 196-203.

dei segmenti più intensi del film, la scena del ballo nel ristorante. Lorenz e Melitta sono seduti a un tavolo del locale. Con uno stacco, la macchina da presa li inquadra dall’alto e inizia un movimento a salire, suggerendo la caduta morale dell’uomo come un lento inabissarsi verso i gradini più bassi dell’esistenza. L’operatore Hermann Warm costruisce qui un dispositivo complesso attraverso cui lo spazio scenico dove si trovano i due attori viene lentamente calato in una botola, dando invece l’impressione che sia la macchina da presa ad allontanarsi. Il tavolo tondo e i motivi circolari che decorano i piatti duplicano, dall’interno del profilmico, il motivo della vertigine che coglie lo sguardo di fronte a quest’immagine. In un’altra inquadratura, del tutto emblematica della visionarietà qui adottata da Murnau, vediamo poi Lorenz e Melitta collocati al centro di una serie di progressivi cerchi concentrici sulla cui superficie corre l’ombra di un ciclista. Ed è d’altronde proprio nel corso del ballo che lo stato di alterazione di Lorenz viene reso da Murnau attraverso il ricorso a una serie di panoramiche circolari che esprimono lo sguardo in soggettiva dell’uomo, e che di nuovo sembrano imprigionarlo in un movimento vertiginoso. Murnau, in generale, sperimenta qui per la prima volta quelle tecniche che liberano la macchina da presa permettendo la produzione di riprese inedite, e che saranno alla base nel fondamentale lavoro sui movimenti di macchina realizzato in L’ultimo uomo dall’operatore Kark Freund. La ricorrenza formale di questo motivo “a spirale” che compare tanto nel profilmico che nell’orchestrazione dei movimenti di macchina, suggerisce infine il richiamo a un altro celebre film della storia del cinema costruito sul meccanismo del doppio femminile e delle derive allucinatorie dell’amour fou, quale appunto Vertigo (1958; La 75

donna che visse due volte) di Alfred Hitchcock, un film che sin dagli splendidi titoli di testa di Saul Bass, appare disegnato e pensato attorno al motivo della spirale (ricordando anche qui un’altra ingegnosa soluzione di regia, ossia il celebre connubio di zoom e carrello per creare l’effetto visivo delle alterazioni percettive e delle vertigini di cui soffre Scottie, il detective impersonato da James Stewart). Ciò che Nosferatu afferma dall’interno dei meccanismi del fantastico, Fantasma lo ribadisce pertanto nel solco del decadentismo sentimentale che informa il racconto di Hauptmann. Ovvero l’assoggettarsi dell’uomo ai suoi demoni più intimi, ai suoi fantasmi, fino a che essi non s’impossessano di tutta la sua realtà, vanificando la possibilità di poter tornare indietro. Il cinema di Murnau mette in scena ossessivamente questa soglia in grado di riscrivere i confini tra reale e immaginario; come recita d’altronde la celebre didascalia di Nosferatu, «oltrepassato il ponte, i fantasmi gli vennero incontro…». In tal senso Le finanze del Granduca viene considerata come un’opera di transizione tra il cinema del primo Murnau e i grandi successi internazionali che realizzerà con l’UFA. Questa commedia leggera in cui si intravede quasi il verso al cosiddetto “Lubitsch Touch”, viene archiviata da Lotte Eisner come un esercizio di stile su un canovaccio narrativo sterile e pretestuoso. In una località d’invenzione della costa mediterranea, il Granduca Ramon XX si rifiuta di sottostare alle indicazioni del suo segretario che, al fine di riassestare le sue finanze, lo implora di vendere un terreno su cui ha messo gli occhi un affarista locale. Da questo spunto prendono avvio una serie di trattative ed equivoci che si consumano sullo sfondo di una possibile insurrezione civile. Un film a metà tra la commedia e l’operetta, dunque, realizzato anch’esso su sceneggiatura di Thea von Harbou a partire da un roman76

zo di Franz Heller del 1915. Possiamo tuttavia guardare a questo film anche come al tentativo riuscito, da parte di Murnau, di mostrare a Erich Pommer che egli era in grado di realizzare film commerciali per il grande pubblico così da poter essere preso in considerazione per operazioni produttive più grandi come, di fatto, avverrà già a partire da L’ultimo uomo. Tuttavia, se da un lato lo stesso Murnau riteneva questo film del tutto dimenticabile, dall’altro gli storici del cinema ne hanno progressivamente messo in rilievo alcune pregevoli soluzioni stilistiche. Così, ad esempio, Berriatúa, ci invita a leggere il film come una meditazione sul confronto estetico tra lo spazio cinematografico e lo spazio teatrale. L’inquadratura e i suoi limiti, il rapporto tra campo e fuoricampo, si promuovono cioè in una tessitura di movimenti degli attori che intrecciano l’illusione percettiva del film con la disambiguazione dello spazio filmico52. È in tal senso che qui «Murnau opera una sorta di divertita demitizzazione non solo della pratica del cinema, ma anche dei luoghi comuni e delle situazioni consuete del racconto cinematografico, denunciando la falsità dichiarata dei clichés espressivi e mostrando quanto il cinema sia diverso – altro radicalmente – dal livello superficiale delle cose e degli eventi»53.

Con questo film dunque si chiude il primo ciclo della carriera cinematografica di Murnau. Nell’arco di quattro anni (vale a dire dal 1919 di Der Knabe in Blau, al 1923, anno in cui termina le riprese di Le finanze del Granduca) si definisce tuttavia uno stile filmico che ha già trovato nella pittoricità della composizione, nella dimensione 52 53

Ibid., pp. 228-233. P.G. Tone, F.W. Murnau, cit., p. 71.

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plastica del quadro e nell’importanza del movimento (sia della macchina da presa, che più genericamente della forma) quei motivi strutturali che diventeranno anche i principali paradigmi critici con cui leggere e analizzare la sua opera54. Prescindendo dai materiali letterari di partenza (siano essi provenienti da Stevenson, Stocker, Hauptmann o da romanzi d’appendice) la componente narrativa del film viene riscritta in forme simboliche che affermano la totale indipendenza del cinema sia nei confronti dei modelli teatrali, che dell’orizzonte stesso dell’esistente. Ma è nel corso della collaborazione con l’UFA che Murnau potrà dispiegare la sua immaginazione in tutta la sua visionarietà, attraverso nuove, inedite potenzialità che riguarderanno innanzitutto l’ampliamento dei mezzi produttivi a disposizione. 2.4 Splendore dell’UFA

I tre film che Murnau realizza per l’UFA tra il 1924 e il 1926 (L’ultimo uomo, Tartufo e Faust) sono anche le opere cui deve la sua affermazione sul piano internazionale. Tre capolavori della sua filmografia in cui Murnau manifesta un’assoluta padronanza e controllo su tutti i materiali della messa in scena che, all’epoca, funzionarono inoltre come altrettanti veicoli del prestigio tecnico e produttivo raggiunto dall’UFA. Mai come in questo momento storico la casa di produzione tedesca sentì di poter sfidare Hollywood sul suo stesso terreno, a cominciare dalla spe54

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Dudley Andrew mette in evidenza il funzionamento di questi paradigmi sin nell’analisi delle prime quattro inquadrature di Aurora. Vedi D. Andrew, The Gravity of «Sunrise», cit., pp. 356379.

rimentazione di nuove tecnologie. Lotte Eisner definisce la storia raccontata in L’ultimo uomo come una tragedia tedesca per eccellenza: «Mayer e Murnau si confrontano con questa tragicommedia che è il destino di un portiere d’albergo fiero della sua livrea gallonata, ammirato dalla famiglia e dai vicini di cortile come un generale. Divenuto troppo vecchio per portare bagagli pesanti, messo in pensione, viene fatto custode delle toilette per signori: gli tocca perciò scambiare il suo costume d’apparato con una semplice giacca bianca. La sua famiglia si sente disonorata ed egli diventa lo zimbello dei vicini che prendono così la loro rivincita dopo l’adulazione che gli avevano un tempo prodigata. Ecco una tragedia tedesca per eccellenza, che non è comprensibile se non in un paese dove l’uniforme è sovrana, è Dio. Uno spirito latino stenta a concepire la portata tragica»55.

Ma non è per la portata tragica della storia (incrinata peraltro dal diverso finale del film nella versione americana)56, né per una rilettura in chiave sociale del tema della “maschera” (caro a Mayer e Murnau) qui ispirato a Il cappotto di Nikolaj Gogol, che L’ultimo uomo occupa un posto di primo piano nella storia del cinema. Questa vicenda intimista si converte semmai in una delle più celebri tappe dell’evoluzione delle forme cinematografiche, 55 56

L. Eisner, Lo schermo demoniaco. Le influenze di Max Reinhardt e dell’espressionismo, cit. p. 141. Un happy end (una improvvisa eredità trasforma l’ex-portiere in un milionario, cliente dello stesso albergo) che fu aggiunto su pressione di Jannings e Pommer, e che tuttavia, proprio per la sua estraneità rispetto alla vicenda del film, sembra amplificarne paradossalmente l’amarezza risuonando appunto come un “improbabile epilogo”.

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una tra le più riuscite sperimentazioni sul linguaggio del film messe in atto dal cinema tedesco che destò ammirazione e stupore in tutto il mondo. L’ultimo uomo è innanzitutto il trionfo delle strategie attivate dall’UFA con la sua politica delle grandi produzioni. I cospicui budget messi a disposizione per il Großfilme – come il milione di marchi e oltre investito in L’ultimo uomo – avevano lo scopo di incrementare l’apparato tecnologico del film, migliorando l’equipaggiamento tecnico e rendendo più competitive le infrastrutture del cinema tedesco sul piano della concorrenza internazionale. Tutto venne pianificato nei minimi dettagli, attraverso un accurato lavoro sui disegni preparatori che descrivevano non soltanto gli ambienti del film e il tipo di inquadratura, ma anche i movimenti che avrebbe compiuto la macchina da presa. La scommessa produttiva dell’UFA in questo caso passava innanzitutto per le rivoluzionarie tecniche di ripresa impiegate nel film. Quando lavorava ancora per la “Decla Bioscop”, lo stesso Murnau fantasticava sulle inedite potenzialità espressive che sarebbero derivate da un uso più libero della macchina da presa. In un articolo scritto tra il 1922 e il 1923 egli affermava che:

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«Soltanto con questo strumento essenziale si conseguiranno nuove possibilità, di cui una delle più promettenti è quella del film “architettonico”. Si tratta in questo caso dell’architettura fluida dei corpi il cui sangue pulserà nelle vene, attraverso uno spazio mobile; si tratta del gioco delle linee che salgono e scendono, si dissolvono; dell’urto delle superfici, dell’eccitazione e del suo contrario – la quiete –, della costruzione e del suo crollo, della formazione e della distruzione di una vita che finora è stata appena sospettata; si tratta così di una sinfonia nata dalla melodia dei corpi e dal ritmo dello spazio; è il gioco del movimento puro che scorre e zampilla.

Potremmo creare tutto questo con una cinepresa finalmente smaterializzata»57.

Una visione siffatta trova la sua forma compiuta proprio in L’ultimo uomo e nella nota «Entfesselte Kamera», la cosiddetta “camera scatenata”. Assieme alla portentosa recitazione di Jannings, il nuovo metodo di ripresa messo a punto per questo film fu uno dei motivi di maggior successo di un’opera per certi versi inclassificabile: Großfilme prodotto allo scopo di magnificare l’eccezionale livello tecnico-artistico raggiunto dall’UFA, capolavoro del Kammerspielfilm per cui Murnau sarebbe stato inoltre associato alla corrente del realismo sociale58 e, infine, film-laboratorio per sperimentare nuove idee di regia nell’ambito di una stilizzazione radicale dei materiali visivi. In ogni caso la centralità del movimento e la configurazione di una nuova sensibilità percettiva dello spazio è ribadita anche nella pubblicità dell’epoca che invitava lo spettatore a vedere un film in cui, per la prima volta, avrebbe avuto la netta sensazione di muoversi accanto all’attore, di accompagnarlo nei suoi spostamenti per la strada o di penetrare con lui negli ambienti. I movimenti di macchina messi a punto dall’operatore Karl Freund, anche grazie all’impiego di agili piattaforme mobili, rap57

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L. Eisner, F.W. Murnau, cit., p. 92. Eisner cita questi appunti personali di Murnau ritrovati in alcuni fogli di lavoro della “Decla Bioscop” (e verosimilmente destinati a una rivista tedesca di cinema) per riequilibrare le affermazioni di Karl Freund e Carl Mayer (o anche di Emil Jannings) che si attribuivano la paternità delle invenzioni visive e delle sperimentazioni del film L’ultimo uomo. Vedi soprattutto la lettura di Raymond Borde, Freddy Buache e Francis Courtade nel loro assai discutibile Le Cinéma réaliste allemand, Serdoc, Lyon 1965.

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presentano infatti una rivoluzione radicale per l’epoca. Utilizzando una macchina da presa “Stachow”, del peso di soli otto chilogrammi, indossata direttamente sul corpo attraverso un sistema di imbrigliamento, Freund riusciva a muoversi pressoché liberamente seguendo, precedendo o semplicemente restando continuamente in prossimità del corpo di Jannings e dei suoi movimenti sulla scena (con un dispositivo considerabile per certi versi come una steadycam primitiva). Gli effetti ottenuti sono tanto più sorprendenti se si tiene conto delle difficoltà legate al fatto di non poter controllare le proporzioni e la qualità dell’inquadratura durante la ripresa – e in tal senso il lavoro svolto da Karl Freund, al di là delle note dispute sulla paternità artistica del film e delle sue invenzioni visive, resta assolutamente decisivo. Tutti gli attori in gioco, infatti, da Carl Mayer a Murnau, da Emil Jannings a Karl Freund, fino a Erich Pommer, vollero in seguito rivendicare la centralità del proprio ruolo perché avevano capito di aver preso parte a una produzione che avrebbe cambiato la storia del cinema59. Anche se non è possibile soppesare i rispettivi meriti nella creazione del film (un dilemma su cui si sono esercitati gli storici almeno a partire dal lavoro di Eisner, che ha raccolto varie testimonianze in merito), può essere interessante riprendere qui le idee che proprio in quegli anni va maturando il teorico del cinema Béla Balázs. Egli individua nel lavoro dell’operato59

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«Il film» – scrive Berriatúa – «era così sorprendente e formalmente rivoluzionario, e i tecnici erano talmente convinti che avrebbe marcato una tappa fondamentale nella storia del cinema, che quasi tutti coloro che vi presero parte tentarono di dimostrare la paternità di qualche invenzione. Lo stesso Pommer, anni dopo, si attribuirà il merito di aver suggerito alcune determinate soluzioni tecniche». Vedi L. Berriatúa, Los proverbios chinos de F.W. Murnau, vol. I, p. 250.

re il fulcro compositivo del film, di contro alla centralità assegnata al montaggio e, in un intervento pronunciato al “Club degli operatori tedeschi” nel 1926 (poi confluito in un articolo intitolato Arte cinematografica produttiva e riproduttiva), in cui si riferisce esplicitamente a L’ultimo uomo, afferma: «Il cinema potrebbe diventare un’opera d’arte, nel senso più alto, se invece che fotografato in modo riproduttivo lo fosse in modo produttivo, se l’ultima e decisiva espressione creativa della mente, dell’anima e del sentimento scaturisse non dalla recitazione e dalla scenografia, ma proprio dalle immagini stesse attraverso la ripresa, se l’operatore, che in ultima analisi è colui che realizza il film, fosse il centro della creazione spirituale, il poeta dell’opera […] ma fin quando l’operatore sarà “l’ultimo degli uomini”, il cinema sarà l’ultima delle arti»60.

Sin dalle prime tre inquadrature, il film si pone come una celebrazione delle nuove possibilità di ripresa messe a punto da Karl Freund. La macchina da presa, collocata sul tetto dell’ascensore dell’albergo, scende assieme a questo svelando in un unico movimento lo spazio dell’ingresso, fino ad avvicinarsi poi alle porte girevoli dietro le quali c’è il portiere indaffarato per l’arrivo e la partenza dei clienti. Questo primo segmento del film è un vero e proprio inno al movimento e al dinamismo, intesi qui come orizzonte di significazione della metropoli moderna e del cinema; come scrive Eisner «il carosello della 60

B. Balázs, L’uomo visibile, cit., p. 318. L’idea di una centralità del tournage, manifestata in questo intervento, diede inoltre avvio a una celebre polemica con Sergej M. Ejzenštejn ricostruita in questa nuova edizione di L’uomo visibile, curata da Leonardo Quaresima, che colma finalmente una grave lacuna nell’editoria italiana degli studi sul cinema.

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porta girevole, il cui movimento il portiere è così fiero di dominare dirigendo le entrate e le uscite, diventa il turbine della vita in cui entrano ed escono gli uomini» 61. Gli effetti del movimento sono qui esaltati dalla costruzione in falsa prospettiva collocata di fronte all’albergo. Il trucco di tutti gli elementi visibili in gioco è costruito calibrando ogni componente dell’immagine. In primo piano vediamo passare delle grandi automobili mentre, dietro di esse, passano vetture più piccole guidate da bambini. Infine sullo sfondo dell’inquadratura, delle figure umane disegnate sono manovrate a distanza (per simulare i passanti che si affollano nella strada) attraverso un complesso sistema di binari che si trovano sotto la costruzione della strada. L’illusione di profondità e la percezione di un movimento incessante dell’insieme della composizione è straordinaria. Ma il dispiego di effetti visivi del film è assai eterogeneo e si appoggia anche, come nella scena del sogno del portiere ad esempio, a forme più vicine alle distorsioni percettive del cinema espressionista. Il sogno è un amalgama di impressioni visive e sovrimpressioni deformanti in cui movimento, visione e soggettivazione dell’esperienza si intrecciano per evocare lo stato d’animo del portiere umiliato che proietta all’esterno le proprie fantasie e frustrazioni. L’ultimo uomo è anche uno degli esempi migliori di quella visualità pura perseguita dalle ricerche più avanzate del cinema muto degli anni Venti, e tedesco in particolar modo. La rinuncia alle didascalie, sentite come un elemento informativo ridondante che contrasta con le specificità dell’immagine filmica, riflette una posizione estetica assai radicata in quegli anni, di cui il film di Murnau 61

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L. Eisner, Lo schermo demoniaco. Le influenze di Max Reinhardt e dell’espressionismo, cit., p. 142.

da un lato, e il libro L’uomo visibile di Balázs dall’altro (entrambi del 1924), possono essere considerati la summa. Qui Balázs affermava perentoriamente la nascita, grazie al cinema, di una nuova era fondata sulla visibilità anziché sulla parola; visibilità dell’immagine, dei gesti e della mimica del corpo, da opporre alla cultura della parola, centrata sulla mediazione della comunicazione scritta 62. Ancora oggi L’ultimo uomo è utilizzato nelle scuole americane di sceneggiatura come esempio di scrittura visiva, cioè di comunicazione di idee e concetti attraverso le sole immagini anziché con i dialoghi. La scena del bottone che si stacca dalla divisa di cui il portiere viene privato è in tal senso esemplare. Questo dettaglio valorizzato dalla costruzione della scena svolge infatti una doppia funzione. Nell’economia della narrazione è l’elemento che, al 62

In tal senso il mito della riscrittura di una lingua universale (un’idea cardine dei discorsi sul cinema sviluppati tra gli anni Dieci e Venti) va, nel caso di L’ultimo uomo, messo in relazione con un più preciso contesto culturale di cui traccia i contorni Leonardo Quaresima nella sua recente introduzione a L’uomo visibile: « […] è il panorama comunicativo e della vera e propria industria della comunicazione degli anni ‘20 ad accogliere l’ipotesi di Balázs come naturale, coerente componente interna. Come hanno evidenziato recenti ricostruzioni si assiste nel dopoguerra in Germania a una rapidissima variazione degli standard e dei riferimenti visivi rispetto a quelli letterari. Trecento sono le riviste illustrate pubblicate. A Berlino solo la Postdamer Platz e Lipziger Platz si trovano una cinquantina di edicole. La figura umana è oggetto di una utilizzazione intensiva da parte della pubblicità. Più in generale è un gigantesco, generalizzato processo di visualizzazione del pensiero che ha luogo. In questo quadro si inserisce ulteriormente un intenso, ramificato processo di valorizzazione della cultura del corpo, che trova manifestazione nei vari movimenti e tendenze della danza moderna». L. Quaresima, Introduzione, in B. Balázs, L’uomo visibile, cit., p. 23.

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termine del sogno, ricorderà al portiere l’umiliazione subita (accorgendosi della sua mancanza dalla divisa). Ma da un punto di vista simbolico rimanda al senso stesso della caduta, della discesa agli ultimi gradini della società, equiparata alla frantumazione di una soggettività costruitasi in funzione dello sguardo degli altri. Emil Jannings fu indubbiamente uno degli artefici del successo di questo film63, ma più in generale fu un veicolo determinante per lo sviluppo internazionale della carriera cinematografica di Murnau. Jannings, come abbiamo visto, fu anche al centro delle trattative che portarono alla realizzazione di Tartufo, un film che, lungi dall’essere un semplice adattamento cinematografico di Molière, rientra piuttosto nella autocelebrazione del mito germanico portata avanti in quel periodo dall’UFA. La sceneggiatura che Mayer scrive per il film Tartufo elimina molte situazioni e personaggi originali. Essa è una libera trasposizione del motivo principale della pièce – l’ipocrisia che si cela dietro una falsa maschera – riletta come spunto di partenza per la trama di un film. Questa distanza è ulteriormente rimarcata attraverso l’aggiunta di un prologo e un epilogo di ambientazione contemporanea che restituiscono la vicenda di Elmira, Orgone e Tartufo nella cornice del film nel film. Un’avida governante alle dipendenze di un anziano trama alle sue spalle per riuscire a entrare in possesso della sua eredità. Il giovane nipote dell’uomo decide di intrufolarsi in casa, travestito da impresario del cinema ambulante, per proiettare un film, ovvero la “Commedia del Signor Orgone e del suo carissimo amico”. Nell’epilogo, al termine della proiezione, il 63

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Jannings, all’epoca del film quarantenne, poté interpretare il ruolo del vecchio portiere d’albergo grazie al meticoloso lavoro svolto dal truccatore Waldemar Jabs.

nipote scopre che la governante sta lentamente avvelenando suo nonno e la caccia di casa. Il gioco di specchi e la metafora di un film all’interno di un film si rivelarono particolarmente indicati per l’occasione della “prima” di Tartufo. Come spesso avveniva nel corso degli anni Venti, la presentazione del film coincise con l’inaugurazione del “Gloria Palast”, una delle più lussuose e moderne sale cinematografiche di Berlino. La visione del film fu ulteriormente incorniciata da uno spettacolo dal vivo con l’attrice Lil Dagover (interprete di Elmira) e un corpo di ballo. Al pubblico intervenuto per l’occasione furono inoltre distribuiti dei gadget, fabbricati in serie limitata, che riproducevano i personaggi del film in altrettante statuette di porcellana. A proposito di questi aspetti, cioè delle strategie di promozione adottate dall’UFA, Thomas Elsaesser afferma: «il peculiare carattere performativo che legava le grandi produzioni UFA alla cultura metropolitana, così come le strategie multimediali messe in atto per il mercato interno o per l’esportazione, sono un ottimo indizio della raggiunta consapevolezza dei propri mezzi da parte dell’industria del cinema tedesca»64.

L’UFA d’altronde rappresentava se stessa come la grande industria in grado di competere con il cinema americano, scendendo sul suo stesso piano per ciò che riguarda la tecnica, gli effetti speciali o lo star system, ma esaltando tuttavia i valori e le tradizioni specifiche della cultura tedesca – come farà poi in modo eloquente con le grandi produzioni di Die Nibelunghen (1922-24; I Nibelunghi) di Fritz Lang e del Faust di Murnau. Nonostante fos64

T. Elsaesser, Weimar Cinema and After. Germany’s Historical Imaginary, cit. p. 241.

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se per Murnau un progetto meno sentito di altri, Tartufo offre tuttavia numerosi motivi di interesse. Prologo ed ambientazione moderni – oltre ad attualizzare la vicenda (ma potremmo dire anche a tentare di renderla universale sul modello di quanto Mayer e Murnau faranno con la trasposizione del romanzo di Hermann Sudermann in Aurora) diventano anche l’occasione per ulteriori sperimentazioni visive, seppure condotte in un film calibrato e costruito sulla dialettica e il gioco di rimandi che si instaura tra il décor e la recitazione. In un’intervista rilasciata a «Close Up» nel 1928, Karl Freund afferma: «Per quanto riguarda il ruolo della macchina da presa, Tartuff era abbastanza interessante. Ho girato il prologo e l’epilogo in uno stile moderno, vietando ogni trucco agli attori e adoperando angolazioni di ripresa inaspettate, mentre l’azione trattata da un capo all’altro con una “sfocatura artistica” appare come velata di garza»65.

Tra gli esempi più evidenti di tali “angolazioni inaspettate” ricordiamo in particolare un’inquadratura del prologo. Il momento in cui la governante esce dalla sua stanza e si avvia nel corridoio è filmato collocando la macchina da presa sul pavimento, di fronte ad un paio di scarpe poggiate a terra. La composizione visiva dell’inquadratura è assolutamente anomala non solo per la scelta del punto di vista ma anche per l’inversione delle proporzioni che si viene a creare tra le enormi scarpe in primo piano e la piccola figura della governante sullo sfondo (il 65

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K. Freund cit. in L. Eisner, Lo schermo demoniaco. Le influenze di Max Reinhardt e dell’espressionismo, cit., p. 181. Secondo Eisner tale procedimento di sfumatura dell’immagine messo a punto in Tartufo è alla base di quella “nuova plasticità” del quadro che Murnau metterà a punto in Faust.

lavoro sulla profondità è qui d’altronde amplificato dal ricorso alla falsa prospettiva). Ma, come si confà a ogni film costruito attorno alla personalità di un grande attore, Tartufo presenta anche un uso intensivo del primo piano: «Per Murnau, come in seguito per il Pabst di Lulù, il viso di un attore diviene una sorta di paesaggio che l’occhio inquisitore dell’obiettivo esplora instancabilmente, fino nei suoi angoli più reconditi, scoprendo ogni volta nuovi punti di vista, inaspettati e sorprendenti, nuove superfici da illuminare. La macchina da presa di Karl Freund scruta per lui ogni sinuosità e sporgenza dei visi senza trucco, ogni ruga, increspatura di labbra o scintillio di occhi, svelando, con le efelidi e i denti guasti, i vizi nascosti: monti e abissi alla superficie di un viso assumono rilievo nella penombra, mentre la luce plasma le curve e gli spigoli»66.

Nella sua composizione degli spazi il film gioca sul continuo andirivieni tra volti, oggetti ripresi in dettaglio e ampie inquadrature d’ambiente, rivelando qui la preoccupazione ossessiva di Murnau per il particolare, di cui dà conto la testimonianza dell’attrice Lil Dagover che molti anni dopo raccontò a Alexandre Astruc la sua esperienza sul set di Tartufo, ricordando proprio l’attenzione maniacale di Murnau per i dettagli di scena67. Questa volontà di modellare i volti attraverso la luce e il taglio ravvicinato dell’inquadratura coinvolge anche l’uso del décor. Le scale e le ringhiere sinuose del palazzo e tutti gli elementi d’arredo sembrano inscritti nell’immagine in termini di volume, luce e movimento della forma. Se il movimento in L’ultimo uomo si impone soprattutto come la celebrazione della tecnica e di un nuovo modo di im66 67

Ibidem. Cfr. A. Astruc, Le feu et la glace, cit.

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piegare la macchina da presa, in Tartufo il dinamismo delle inquadrature è restituito attraverso un minuzioso lavoro di gestione del movimento degli attori preparato da Murnau in ogni dettaglio (cui vanno aggiunti i micromovimenti delle espressioni facciali esaltate nei numerosi primi piani di Jannings). Anche il lavoro sulla falsa prospettiva compiuto dagli scenografi, sia nei fondali del castello che nella creazione degli interni, è davvero formidabile e raggiunge gli stessi livelli già ottenuti in L’ultimo uomo (nella sequenza finale ambientata nel ristorante). Nella scena in cui Orgone e Tartufo fanno colazione all’aperto, l’effetto di profondità del fondale con il castello dipinto è accuratamente sottolineato da un appena percettibile movimento delle piante poste in prossimità del piano, che contrasta così con la fissità dello sfondo. L’ambiente di Tartufo si esibisce insomma come spazio del gioco, della maschera, e della finzione. Poiché, come sempre in Murnau, «è solo in quanto diviene altro dal reale, o meglio solo perché reinventa il mondo nella trascendentalità della scrittura, che il cinema può investigare (spiare, chiarificare e, al limite, redimere) la fenomenicità inautentica, magari sciogliendo come avviene esemplarmente in Tartufo, il tono dell’apologo gioioso e trasformandosi nella metafora di una condizione socio-esistenziale capovolta, insostenibile»68.

Ma qual è la metafora che dovremmo scorgere in Tartufo, al di là della “morale della favola”? Il tema di fondo del film non è tanto l’ipocrisia, quanto semmai la religione come repressione sessuale. O almeno si può dire che Murnau forzi questa chiave di lettura assai più che Mo-

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P.G. Tone, F.W. Murnau, cit., pp. 93-94.

lière e Carl Mayer. Questo è un tema che d’altronde egli svilupperà, sondandolo nei suoi aspetti archetipici e rituali, anche in Tabù, e in ogni caso si tratta di un’ipotesi rafforzata dai numerosi tagli di censura che colpirono la versione americana del film69. Non è difficile ricondurre questa scelta alla difficile condizione di omosessuale che Murnau viveva nel suo tempo, e l’ipocrisia che circola in Tartufo diventa l’allegoria di un più preciso atteggiamento falso di una società che lo costringeva a dover nascondere le sue inclinazioni sessuali (se non un più esplicito atto d’accusa al tristemente celebre «paragrafo 175», l’articolo del codice penale tedesco entrato in vigore nel 1871 che considerava un crimine l’atto omosessuale). Anche per questo Murnau converte Tartufo in un film sul desiderio sessuale, che qui funziona come il motore che alimenta la vicenda e rilegge le soggettività in gioco, così come le relazioni degli sguardi tra i personaggi. Con la realizzazione del Faust, subito dopo Tartufo, siamo di fronte ancora una volta all’eclettica capacità di Murnau di padroneggiare materiali estremamente diversi tra loro, riuniti sotto il dominio e il controllo della forma filmica e del set. Faust è innanzitutto assieme a I Nibelunghi e Metropolis (1926; Id.) di Fritz Lang, una delle più grandi celebrazioni dello stile monumentale dell’UFA e della sua idea di spettacolo in cui si fondono l’esaltazione dell’identità e della tradizione nazionale. Assieme a questi film, Faust rientra nell’elogio dei valori della tradizione e dell’identità germanica, trattandosi appunto di una leggenda popolare tedesca, come recita la didascalia iniziale del film. Parallelamente, il film è anche pensato come il 69

Per un’analisi comparata delle versioni di Tartufo e dei vari tagli operati dalla censura vedi L. Berriatúa, Los proverbios chinos de F.W. Murnau, vol. 1, cit., pp. 275-294.

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veicolo di un’affermazione e consacrazione internazionale del cinema tedesco, guardando in particolare al mercato americano. Ciò si evidenzia sin dal cast degli attori. Di nuovo Emil Jannings (nel ruolo di Mefistofele), l’attore svedese Gösta Ekman nei panni di Faust, e Yvette Guilbert, scelta per interpretare Marta e facilitare così la diffusione del film sul mercato francese. Grazie a un accordo economico tra l’UFA e la Metro-Goldwyn-Mayer, poi saltato, il ruolo di Margherita doveva inizialmente essere affidato all’attrice americana Lillian Gish (sarà invece interpretato dall’attrice all’epoca diciassettenne Camilla Horn, già impiegata da Murnau come controfigura per Tartufo). Ma gli oltre due milioni di marchi investiti in questa superproduzione (di cui ne saranno recuperati meno della metà) sono apertamente esibiti nella tecnica e negli effetti speciali del film allestiti da Murnau assieme al direttore della fotografia Carl Hoffmann e allo scenografo Robert Herlth. Nazionalismo da un lato, ed esibizione dello spettacolare più avanzato della tecnologia del film dall’altro, fanno insomma di Faust il veicolo di una sorta di pangermanesimo mediale. L’aspirazione a unificare in una grande opera le componenti più importanti della tradizione culturale nazionale si intreccia qui con l’idea del cinema come grande Gesamtkunstwerk, sintesi delle arti sceniche, della musica, della pittura e della letteratura. Tentazione infinita della cultura tedesca, il mito di Faust, è dunque raccontato essenzialmente come riorganizzazione in chiave spettacolare dei suoi materiali narrativi. Un kolossal, appunto, il cui lavoro sugli effetti speciali risulta ancora oggi sbalorditivo e di cui, come ricorda Elsaesser, alcune ingegnose soluzioni furono superate solo, quasi cinquant’anni dopo, da 2001: A Space Odyssey (1968; 2001: Odissea nello spazio) di Stanley Kubrick. La celebre sequenza del volo del giovane Faust che compie un giro per il mondo a 92

cavallo del tappeto magico assieme a Mefistofele, è in tal senso esemplare. L’allestimento dettagliato dello scenografo Robert Herlth, sotto la supervisione di Murnau, di questo paesaggio fantastico in miniatura è pensato in funzione dei complessi movimenti compiuti dalla macchina da presa che ne svela progressivamente lo spazio. In questa che è probabilmente tra le sequenze più belle della storia del cinema, il viaggio aereo e la fantasticheria si pongono apertamente come un rimando all’esperienza filmica e alla riflessione sul falso e sull’illusione. Per quanto costruiti in modo dettagliato, questi modellini non intendono infatti ingannare lo spettatore ma esibire semmai la produzione falsificante e illusoria della macchinacinema70. L’orizzonte della simulazione da un lato, e quello del jardin-paysage, cioè di un grande travelogue visivo sviluppato come una sorta di percorso tattile per l’occhio, dall’altro – ovvero i due grandi paradigmi della risignificazione dell’esistente e della rilocazione dell’esperienza del viaggio realizzati dal cinema71– confluiscono pertanto 70

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Come ha scritto Rohmer nell’analisi di questa sequenza: «Qui, in quest’opera fiabesca, non solo non cadiamo mai nell’inganno, ma il modellino si espone alla nostra ammirazione in quanto tale, e cioè come un’opera d’arte scolpita a immagine della realtà. Non ci stanchiamo di apprezzare la qualità e la finitezza dell’imitazione: “Che bella imitazione” siamo tentati di dire, come se fossimo di fronte a un giocattolo o a un esemplare in scala ridotta. In questo consiste la parte più infantile del nostro piacere». E. Rohmer, L’organizzazione dello spazio nel «Faust» di Murnau, cit., p. 49. Una riflessione decisiva sui rapporti tra la cultura del viaggio, le arti visive, l’emergere dell’esperienza filmica e dell’idea del cinema come “grande mappatura del mondo” è stata condotta da Giuliana Bruno nel suo Atlas of Emotion. Journeys in Art, Architecture, and Film, Verso, New York 2002, tr. it., Atlante delle emozioni. In viaggio tra arte, architettura e cinema, Mondadori, Milano 2006.

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in un discorso che, nell’idea dell’arte come illusione, intreccia il mito del cinema con il mito di Faust. Come ha avuto modo di notare Eric Rohmer nel suo fondamentale studio sul film, con Faust ci troviamo di fronte a due film in uno. Da un lato la galleria spettacolare degli effetti speciali, la glorificazione dell’industria cinematografica tedesca e delle possibilità degli studi UFA, dall’altro, e contemporaneamente, c’è il film modernista che rilegge in chiave di spazio, forme, volumi, movimento e luce, le questioni metafisiche sottese al mito del Faust. In modo programmatico Rohmer affermava che «Murnau nei suoi film e in particolare in Faust, mostra una reale e profonda cultura pittorica. È uno dei rari cineasti – con Ejzenštejn e Dreyer – la cui concezione fotografica deve più alla pittura dei musei che alle illustrazioni popolari»72. È indubbio che il recupero della pittura in Faust svolge un ruolo di primo piano nel lavoro della messa in scena, tuttavia si tratta di uno tra gli elementi che caratterizzano un prodotto culturale così complesso e multiforme. Lungi dal porsi come un’affermazione del cinema come forma d’arte, potremmo dire che più in generale “alto” e “basso” si intrecciano in modo talmente fitto nel Faust che il film è considerabile nei termini di una riflessione sull’interdipendenza di kitsch e spettacolare nell’industria del cinema, condotta a vari livelli. Innanzitutto si tratta di un aspetto che riguarda il lavoro sulle fonti letterarie di riferimento. La sceneggiatura scritta da Hans Kyser non rielabora soltanto i materiali di Goethe e (soprattutto) di Christopher Marlowe, ma recupera anche le fiabe popolari, il Volksbuch, e in particolare un manoscritto di Ludwig Berger intitolato Das verlorene

Paradies73. In questo senso il film è strutturato da un lato nell’orizzonte del motivo, così specifico del cinema di Weimar, del Doppelänger (il giovane Faust che scopre se stesso vecchio riflesso nello specchio) mentre, dall’altro, la storia d’amore che coinvolge Faust e Margherita si configura come un melodramma (sulla scia degli adattamenti di Charles Gounod e Hector Berlioz certo, ma soprattutto nel più paradigmatico stile del melodramma hollywoodiano). Alla semplificazione sentimentale del Faust costruita nella sceneggiatura di Kyser fa eco la ridondanza letteraria delle didascalie scritte in versi da Gerhart Hauptmann. Allo stesso modo, accanto alle fonti della tradizione pittorica più aulica, trova posto l’iconografia popolare delle miniature, ma più in generale quello che è stato definito come l’immaginario turistico di una Germania medievale, specificatamente evocata guardando al mercato internazionale e soprattutto al pubblico americano. Questo discorso può essere rafforzato considerando l’uso che qui Murnau fa del bagaglio di soluzioni visuali specifico dell’Espressionismo. Faust è infatti anche la dimostrazione del carattere ormai stereotipato e perfettamente integrabile nella grande industria cinematografica di un certo uso della luce, della recitazione allucinata e del set stilizzato. I moduli espressionisti entrano cioè in Faust come cliché, ovvero come una tradizione già codificata in “repertorio” e pertanto passabile di citazione, persino di parodia (l’Espressionismo come stereotipo e moda culturale che veicola il cinema tedesco nel mondo). Il film pertanto

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E. Rohmer, L’organizzazione dello spazio nel «Faust» di Murnau, cit., p. 21.

Cfr. H. Schanze, On Murnau’s Faust: A Generic Gesamtkunstwerk?, in D. Scheunemann (ed.), Expressionist Film, cit., pp. 223-236.

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«cita continuamente ambienti canonici e oggetti tipici del décor espressionista; secondo le norme del déjà vu, appare come un universo cinematografico casuale, caotico, ma in realtà è rigorosamente determinato da un’intenzione registica che stabilisce distanze, costruisce tracciati emotivi, riduce a forma e a equilibrio un materiale profilmico fatto di scale, di polverosi studi di alchimista, di case dai tetti scoscesi, di viuzze incassate, di cittadine medievali»74.

Pertanto anche l’Espressionismo viene coinvolto in questo pastiche di citazioni, di recupero dell’arte alta e dello sviluppo degli stereotipi della tradizione letteraria e delle leggende popolari. Non è tuttavia nella sola forma della citazione che in Faust “alto” e “basso” convergono e si intrecciano in modo inestricabile. Ne è un ottimo esempio la scena della schermaglia amorosa tra Faust e Margherita, che, «ambientata sullo sfondo di un idilliaco giardino intessuto di fiori e di giochi infantili, dovrebbe segnare il vertice della tensione lirico-emotiva del film, finisce smitizzata dalla connotazione volgare della coppia Mefistofele-Marta, la quale – in un controcanto burlesco, ritmato sulla meccanica scontata dell’inseguimento e della sottrazione, dell’offerta e della ripulsa – contamina l’aulico con il prosaico, il raffinato con il plebeo, in un gioco volutamente dissacrante dove i termini in questione si riprendono e si castigano a vicenda»75.

Questi dunque gli aspetti che fanno di Faust un complesso melodramma visivo, una Gesamtkunstwerk in cui confluiscono media e registri di stile differenti, facendone 74 75

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P.G. Tone, F.W. Murnau, cit., p. 96. Ibid., pp.100-101.

uno dei film più rappresentativi, non soltanto della padronanza del lavoro di regia raggiunta da Murnau, ma anche delle aspirazioni e delle contraddizioni stesse dell’UFA. Come abbiamo visto, infatti, i tre film realizzati da Murnau con Emil Jannings, possono considerarsi anche l’occasione di una serie di sperimentazioni e ricerche sul linguaggio del cinema con cui la casa di produzione tedesca cercò – dietro il paravento della celebrazione dell’identità e della tradizione culturale nazionale – di puntare al mercato internazionale e di concorrere con Hollywood sul piano stesso dello sviluppo produttivo e delle innovazioni tecniche. Il passo successivo di una carriera come quella di Murnau, non poteva a questo punto che essere il confronto diretto con le stesse strutture produttive hollywoodiane. 2.5 L’invenzione della tradizione

A proposito della prima sequenza del Faust, Lotte Eisner affermava che: «l’inizio di questo film offre ciò che il chiaroscuro tedesco ha creato di più notevole, di più sorprendente: la densità caotica delle prime immagini, questa luce che nasce nelle brume, questi raggi che traffiggono l’aria opaca, questa fuga orchestrata visivamente come da organi che risuonano per tutta la distesa del vasto cielo, ci tolgono il fiato»76.

È uno degli atti inaugurali da cui prenderà avvio un’interpretazione del cinema di Murnau nel solco di analisi comparate tra il suo cinema e i numerosi riferi76

L. Eisner, Lo schermo demoniaco. Le influenze di Max Reinhardt e dell’espressionismo, cit., p. 197.

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menti alla storia della pittura, da Rembrandt a Franz Marc e Kokoschka, passando per la grande tradizione figurativa del Romanticismo tedesco. Lotte Eisner, prima, e Eric Rohmer, Luciano Berriatúa e via via molti altri poi, hanno insistito su una lettura del lavoro di figurazione messo in atto da Murnau in relazione all’aspetto iconografico e alle citazioni pittoriche replicata nella messa in quadro, dando l’avvio a una tradizione di studi sulla sua opera che è indubbiamente tra le più note e consolidate. Attenzione alla composizione luministica dell’inquadratura e una particolare sensibilità per i valori formali del movimento, fanno d’altronde del cinema di Murnau un luogo ideale per esercitazioni interpretative volte a indagare o ripensare il binomio cinema e pittura. Numerosi sono i riferimenti individuati da Eric Rohmer – Rembrandt e soprattutto Caravaggio per l’uso del chiaroscuro, ma anche Albrecht Altdorfer per il lavoro e l’importanza assegnati al movimento e la prevalenza di forme circolari. Più in generale, così come l’opera di Caravaggio rappresenterebbe agli occhi di Rohmer il punto di congiunzione tra visione fotografica e pittura – ovvero come egli stesso afferma, «ciò che il caravaggismo e la fotografia hanno in comune, non è tanto il realismo ordinario quanto proprio l’irrealismo di certi effetti»77– l’opera di Murnau lavorerebbe in direzione di una corrispondenza sincretica tra visione pittorica e cinema. Bisogna pertanto ricordare che l’idea di Rohmer non muove tanto nella direzione di un semplice “accostamento” (la citazione più o meno esplicita di questo o quel quadro) quanto semmai nella sottolineatura dei valori plastici dell’inquadratura, della luce e insomma del lavoro compiuto sulla figurazione: 77

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E. Rohmer, L’organizzazione dello spazio nel «Faust» di Murnau, cit., p. 25.

«L’accostamento che tentiamo tra la sua opera e quella di certi pittori, per noi, non è un fine, ma un mezzo, il solo mezzo per porre in evidenza quel potere che difficilmente viene riconosciuto a un cineasta, ma che lui, invece, sicuramente possiede e che noi abbiamo definito “il disegno”. Che faccia pensare a X o a Y, o persino che un tale raffronto abbia o non abbia senso, non è questo il punto. Ma il fatto è che se Murnau assomiglia a un dato pittore per qualcosa di più di una comune preferenza verso una certa materia aneddotica, oppure formale, allora deve essere per lo stile, per il disegno, la cui esistenza in un’opera fotografica non è evidente e va dunque provata»78.

L’idea di un’opera, qual è quella di Murnau, in cui la forma viene subordinata alla luce, conduce Eric Rohmer a definire ad esempio il Faust nei termini di un film il cui soggetto stesso non è tanto il motivo goethiano del patto col diavolo, quanto la lotta tra l’ombra e la luce. Ma i riferimenti e le allusioni alla pittura nel cinema di Murnau possono essere letti anche nella prospettiva di un rafforzamento dell’aura di prestigio artistico del cinema di Weimar, così come dell’affermazione di un’identità nazionale tedesca che, sulla scia della teoria dell’arte di Heinrich Wölfflin e del binomio forma-costanti stilistiche nazionali79, passa per il recupero e la celebrazione di una precisa tradizione pittorica all’interno di quel nuovo mezzo popolare che è il cinema. Anche in questa direzione andrebbe letto – come sostiene Angela Dalle Vacche nella sua accurata analisi iconologica di Nosferatu – il recupero della pittura di Böcklin e (soprattutto) di Friedrich nell’opera di Murnau. Così: 78 79

Ivi. Cfr. H. Wölfflin, Concetti fondamentali di storia dell’arte (1915), Neri Pozza, Vicenza 1999.

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«nonostante una sicura conoscenza della storia dell’arte che egli avrebbe dispiegato nel Faust, Murnau resiste qui alla tentazione di includere troppe ed eclettiche allusioni ad altre tradizioni pittoriche proprio perché, in Nosferatu, una delle sue preoccupazioni di fondo, era di carattere wölffliniano, ovvero fare un film tedesco utilizzando delle fonti tedesche»80.

Da questo punto di vista i paesaggi romantici di Caspar David Friedrich si rivelano perfetti per quello stile soggettivo della visione, per quel gusto simbolico e elegiaco, che caratterizza nel suo complesso il lavoro di figurazione di un film come Nosferatu. La sublime malinconia e l’angoscia esistenziale dell’uomo di fronte ai misteri arcani della natura che attraversano i paesaggi di Friedrich, erano d’altronde una sorta di trasposizione pittorica delle affermazioni di Friedrich Schiller quando, in un saggio del 1794, affermava che nonostante la loro collocazione minore, la pittura e la poesia di paesaggio, non più concepite in termini statici e descrittivi, avrebbero dovuto essere poste all’altezza delle arti maggiori. In modo simile il recupero esplicito della pittura alta nell’ambito di un racconto fantastico, proposto da Murnau con Nosferatu, era anch’esso un’affermazione dell’appartenenza del cinema al sistema delle arti maggiori. Nell’opera di Murnau le acquisizioni simboliche della pittura travalicano tuttavia il piano della citazione colta, e si pongono apertamente come un discorso sulla forma che va al di là del gioco comparatistico che avvolge il cinema e la pittura. Ad esempio è anche la dimensione autoreferenziale della pittura di Friedrich che Nosferatu riscrive al suo interno, guardando cioè al paesaggio come a una me80

A. Dalle Vacche, F.W. Murnau’s “Nosferatu”. Romantic Painting as Horror and Desire in Expressionist Cinema, cit., p. 171.

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ditazione sulla visione, una riflessione in cui prende forma l’intreccio di sguardo e desiderio. In tal senso è interessante il richiamo ad una sorta di rilocazione filmica della Rückenfigur tipica della pittura romantica e dell’opera di Friedrich in particolare81. Con questo termine si indica l’inclusione di una figura umana, ripresa di spalle, nel contesto di un paesaggio. Essa si offre quindi allo sguardo come un doppio dell’osservatore, vale a dire la replica di un punto di vista riscritto all’interno dell’immagine secondo un procedimento di mise en abyme dell’atto di visione. Diversi sono i quadri di Friedrich costruiti con questa tecnica compositiva. Tuttavia Murnau non si limita alla sola citazione (come ad esempio nella celebre inquadratura che ci mostra Ellen, ripresa di spalle, sulla cima di una scogliera di fronte al mare aperto mentre attende il ritorno di Hutter). Il raddoppiamento dello sguardo all’interno dell’immagine si inscrive anche come motivo formale della figurazione complessiva dell’inquadratura. Secondo Michel Bouvier e Jean-Louis Leutrat, in Nosferatu, quest’effetto si costruisce attraverso un uso intensivo dell’iride e della maschera. Questi motivi grafici non si limiterebbero a circoscrivere o demarcare l’immagine, ma si proporrebbero in un rinvio sia alla pulsione scopica, sia alla configurazione di uno sguardo impossibile, perturbante, incrinando così tanto la concezione dell’inquadratura come finestra, che l’idea di una visione riconducibile ad un soggetto stabile. Questi motivi grafici sarebbero infine la traduzione filmica di una tensione voyeuristica implicita nella composizione di alcune 81

Aspetto evidenziato soprattutto nell’analisi di Angela Dalle Vacche (cit., cfr. pp. 171-178) e, seppur su un piano differente, richiamato anche in M. Bouvier - J.-L. Leutrat, Nosferatu, Gallimard-Cahiers du Cinéma, Paris 1981.

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tele di Friedrich (come nelle Die Kreidefelsen auf Rügen, 1818; Le scogliere di gesso di Rügen, in cui lo scorcio di paesaggio che vediamo è ritagliato tra le cime degli alberi e il manto erboso, per mezzo di una sorta di cornice interna che disegna una penombra circolare attorno al mare e alla scogliera che occupano il centro della tela). L’enfasi sul rapporto tra la fissità della visione e la mobilità del paesaggio espressa nella Rückenfigur, non funziona pertanto nei soli termini dell’omaggio o della citazione ma è trasferita all’interno della dialettica degli sguardi che in Nosferatu scandisce i rapporti tra Hutter, Ellen e il vampiro. Ciò che nella Rückenfigur rimanda all’idea romantica di contemplazione, viene in generale convertito nella messa in scena di Murnau, e in Nosferatu in particolare, nei termini del desiderio e del suo dislocamento nelle architetture degli sguardi tra i personaggi. Anche per questo – come ha osservato Janet Bergstrom – il sistema del doppio si converte spesso in Murnau nei modi di un meccanismo di triangolazione, in cui un personaggio (qui, ad esempio, Hutter o, secondo un’altra interpretazione che fa leva sulla latenza del desiderio omosessuale, Ellen) funziona come mediatore del desiderio degli altri due82. Allo stesso modo è possibile leggere i circuiti del desiderio che attraversano le triangolazioni di Tartufo, Orgone ed Elmira in Tartufo, Mefistofele, Faust e Margherita in Faust, l’“uomo”, “sua moglie” e la “donna di città” in Aurora, o ancora Matahi, Hitu e Reri in Tabù. La dialettica oppositiva del giorno e della notte, del regno delle tenebre e della luce, assume inoltre in Nosferatu le sembianze dei due diversi modelli di messa in scena e di configurazione dello spazio del castello da un lato, e della casa di Hutter dall’altro. In quest’ultima lo stile 82

Cfr. J. Bergstrom, Sexuality at a Loss. The Films of F.W. Murnau, cit.

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Biedermeier allestito da Albin Grau, serve a sottolineare l’atmosfera sentimentale e il côte delle convenzioni borghesi degli Hutter, per contrasto con il paesaggio inquietante e minaccioso del castello. Ma qui troviamo precisamente l’intreccio indissociabile delle due facce della modernità, quella familiare e rassicurante del confortevole ambiente domestico, e quella minacciosa, perturbante, associata alla smaterializzazione dell’esperienza e al carattere spettrale della stessa immagine filmica (intesa qui come allegoria della modernizzazione) cioè a Nosferatu. Un procedimento per certi versi speculare a quello che metterà in scena Alfred Hitchcock in Psycho (1960; Psyco) nell’opposizione tra i due spazi antistanti del Bates Motel e della lugubre casa in stile vittoriano dove è nascosta la salma della madre di Norman. Il lavoro sulla forma, il nodo cinema-pittura, la costruzione delle scenografie, in Murnau assumono tuttavia aspetti poliedrici. Possiamo vedere un altro esempio di germanizzazione artistica nella rielaborazione delle scene di Tartufo. Questa commedia così specifica della cultura e dell’umorismo francesi viene riletta sullo sfondo della cultura tedesca, ma più in particolare della Prussia di Federico il Grande. Il segno più evidente di questa riscrittura passa proprio per il lavoro sul décor. La residenza di Orgone e Elmira in cui si insinua Tartufo è modellata sul noto Palazzo d’Estate voluto da Federico il Grande, il cosiddetto castello “Sanssouci”, a Postdam, appena fuori Berlino, il maggior esemplare di una via squisitamente prussiana al Rococò. Ma anche il lavoro sugli interni di Tartufo realizzato da Robert Herlth e Walter Röhrig mantiene questo modello di riferimento. Nel cinema di Murnau, l’iscrizione della messa in scena e della figurazione in una tradizione germanica si riflette tuttavia in modi decisamente eterogenei, quanto 103

personali. La valorizzazione e il ricorso alla superficie dei vetri (come nel caso più evidente del motivo della finestra) rispetto agli specchi è ad esempio un’ulteriore affermazione dell’anomala collocazione del cinema di Murnau nell’alveo espressionista (il cui ricorso alle superfici riflettenti rientra nel più ampio lavoro di strutturazione del doppio, dell’ambiguo, dell’illusivo e del falso). È un aspetto richiamato da Lotte Esiner, la quale così si esprime a proposito di L’ultimo uomo: «Murnau predilige questa superficie levigata dei vetri, che tanto frequentemente sostituisce, per i registi tedeschi, un’altra superficie levigata, quella degli specchi. La sua macchina da presa si diletta di queste superfici opalescenti, sfavillanti di riflessi, di pioggia o di luce: vetri d’automobile, battenti vetrati di porte a tamburo che riflettono la sagoma del portiere rivestito di un’incerata luccicante, masse scure di edifici dalle finestre illuminate, lastricati bagnati, pozzanghere come specchi d’acqua. È una maniera quasi “impressionista” di evocare l’atmosfera»83.

Ci sembra interessante richiamare qui una delle fonti decisive nella formazione degli artisti del “Blaue Reiter” che potrebbe funzionare come un ulteriore tassello del vasto orizzonte di riferimenti pittorici che attraversano l’opera di Murnau. Si tratta delle cosiddette Bayerische Glasbilder ovvero delle pitture contadine su vetro, uno tra i motivi dell’arte popolare tedesca che ebbero una grande influenza in pittori come Kandinskij, Franz Marc e August Macke, i quali predicavano un ritorno alla semplicità dell’artigianato e alla purezza di modelli tradizionali e 83

L. Eisner, Lo schermo demoniaco. Le influenze di Max Reinhardt e dell’espressionismo, cit., p. 145.

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genuini, ma dall’alto valore spirituale. Proprio Murnau, la cittadina bavarese, fu tra i luoghi protagonisti di questa tendenza: «Gli artisti della cerchia non lavorano nella grande metropoli ma nella campagna, a Sindeldorf, a Murnau, dove non era scomparso ancora l’artigianato, raramente specializzato, che ignora la tecnica raffinata e si mescola all’attività del tempo libero. […] Così la piccola comunità, frequentando le botteghe dei vecchi maestri, poteva ancora acquisire la tecnica di questo antico mestiere. E infatti Kandinskij, Gabriele Münter, August Macke realizzarono in quegli anni numerosi dipinti su vetro. Un’arte, questa, che apriva su un mondo dell’immagine che non aveva mai avuto come modello la realtà esterna, ma si era da sempre nutrita a un’altra sorgente: al misticismo, alle fiabe, ai miti, alla vita religiosa del popolo. […] L’attività del Blaue Reiter in questi anni testimonia come l’arte contadina su vetro non fosse considerata un’arte minore ma occupasse lo stesso spazio dell’arte colta»84.

Si tratta di una chiave di lettura ulteriore, sia per qualificare l’“atmosfera impressionista” del lavoro di figurazione di Murnau dall’interno di una matrice squisitamente tedesca, sia per comprendere la sua propensione ad una riduzione dei materiali della messa in scena secondo un’idea di semplicità che oscilla ambiguamente tra l’orizzonte tecnologicamente più avanzato del cinema da un lato, e la sua dimensione artistica che lo ricollega alle forme più arcaiche della creazione di immagini, dall’altro. Poiché, come affermava egli stesso, «la vera arte è semplice, ma la semplicità esige un’arte grandissima». 84

M. Passaro, L’arte espressionista. Teoria e storia, cit., pp. 43-44. Vedi anche D. Plan, Primitive Renaissance. Rethinking German Expressionism, cit.

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2.6 Murnau e Fox

L’assorbimento della cultura di Weimar da parte della società e della cultura americana – un fenomeno sviluppatosi tra la fine degli anni Venti e intensificatosi poi nel corso degli anni Trenta soprattutto in seguito all’avvento del nazismo – è uno dei capitoli fondamentali della storia culturale del XX secolo. Non si tratta soltanto di ciò che si può definire un’influenza o un gioco di scambi; più in generale, infatti, «l’operazione si mostrava come una vera e propria sfida alla supremazia dell’intera Europa. D’altra parte l’obiettivo doveva essere la definizione di un nuovo modello di arte in cui fosse possibile riconoscere lo spirito della cultura artistica americana»85. Assieme ai musei, alle gallerie, alle riviste, proprio il cinema si configurava come uno spazio negoziale decisivo per una riscrittura americana dei valori artistici che definivano l’identità della cultura europea. È in questo quadro che deve essere collocato l’arrivo ad Hollywood di Murnau (e di altri celebri registi europei). In virtù del suo intrinseco coefficiente di artisticità, il cinema di Weimar divenne insomma l’interlocutore privilegiato per passare da una mera diffusione dell’arte europea negli Stati Uniti, al tentativo di mettere in piedi produzioni che mostrassero di aver assorbito e rielaborato la lezione dell’arte d’avanguardia del Vecchio Continente. Ad esempio, tra le innovazioni tecniche sperimentate dall’UFA, furono proprio i movimenti di macchina resi possibili dalla cosiddetta camera scatenata impiegata in L’ultimo uomo, a destare una grande impressione a Hol85

M. Passaro, L’arte espressionista, cit. pp. 181-82. Su questi temi vedi anche M. Cerisuelo (sous la dir. de), Vienne et Berlin à Hollywood, PUF, Paris 2006.

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lywood. Nonostante uno scarso successo di pubblico, l’entusiasmo di critici e addetti ai lavori per le inedite soluzioni di regia elaborate da Murnau, Freund e Mayer in questo film, furono alla base della volontà da parte della Fox di immettere sul mercato film americani realizzati con tecniche tedesche, a cominciare dal design complessivo del film. Così si può affermare che le principali innovazioni che, attraverso Murnau, penetrano a Hollywood, sono soprattutto una maggiore attenzione ai movimenti di macchina sofisticati, l’impiego espressivo dell’illuminazione in chiave bassa, e l’uso di scene costruite con la falsa prospettiva. Aurora, il primo film realizzato da Murnau negli Stati Uniti è in tal senso del tutto esemplare, e può essere ritenuto uno dei frutti più alti di questo transfert culturale tra Weimar e Hollywood. Considerato pressoché unanimemente dalla critica come uno dei migliori film di tutti i tempi86, Aurora deve, infatti, gran parte del proprio fascino al suo carattere ibrido di film eurohollywoodiano. L’idea del film come ricerca artistica portata avanti nel cinema di Weimar, da un lato, e la forma della narrazione classica hollywoodiana, dall’altro, sono qui intrecciate in una sorta di sintesi irripetibile nella storia del cinema. In un importante studio in cui analizzano a fondo e ricostruiscono il quadro storico-culturale della produzione di Aurora, Douglas Gomery e Robert C. Allen 86

L’atto inaugurale della lunga serie di elogi a Aurora può essere considerata l’affermazione di John Ford quando, nel febbraio del 1927, dichiarò alla stampa che considerava Aurora come il più grande film mai prodotto sino ad allora, e che a suo avviso sarebbe rimasto tale ancora a lungo. Questo giudizio assumerà la forma di un’esplicita influenza di Murnau sul cinema di Ford particolarmente evidente nel film Four Sons (1928; L’ultima gioia, 1928). Cfr. T. Gallagher, Ford et Murnau, in «Positif», n. 523, 2004, pp. 90-94.

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rilevano il ruolo decisivo che vi giocò la volontà del produttore William Fox di realizzare – con l’ingaggio di uno dei più celebri registi del cinema di Weimar – un film culturalmente elevato. Un’opera di prestigio che, nelle sue stesse parole, doveva risultare agli occhi del pubblico come un film «completamente europeo»87. Quest’idea rientrava in una più ampia strategia attraverso cui la casa di produzione hollywoodiana intendeva risalire la sua posizione sia sotto il profilo del prestigio culturale che, evidentemente, sotto quello economico. Murnau, dal canto suo, accettò l’offerta di Hollywood per misurarsi con un nuovo, diverso contesto produttivo che gli avrebbe dato l’opportunità di sviluppare il suo stile in direzioni inesplorate. Così, da un lato egli metteva la sua creatività artistica al servizio di Hollywood e, dall’altro, Hollywood metteva i suoi mezzi e la sua straordinaria macchina produttiva a completa disposizione del grande regista tedesco. Il risultato portò dunque alla creazione di uno dei più bei film di tutti i tempi, ma anche a un insuccesso commerciale. Per questo motivo nei due successivi film americani, Murnau non poté disporre né degli stessi mezzi né della stessa libertà creativa, facendo sì che Aurora restasse una sorta di esperimento unico, reso possibile dalle particolari condizioni in cui fu realizzato. La singolarità di quest’opera è ulteriormente sottolineata dal fatto che si tratta di un film che al tempo stesso simboleggia sia la perfezione raggiunta dal linguaggio gestuale e visionario del cinema muto, sia di uno dei primi film sincronizzati con una colonna sonora musicale registrata. Le 87

Cfr. R.C. Allen - D. Gomery, Film History. Theory and Practice, Knopf, New York 1985, pp. 91-108. Le dichiarazioni di William Fox e Murnau sono riportate da Eisner (Cfr. L. Eisner, F.W. Murnau, cit., pp. 167-168).

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testimonianze dell’epoca raccontano infatti di una grossa impressione generata sul pubblico da alcuni temi musicali in particolare88, come nel caso della passeggiata notturna che conduce l’uomo all’incontro segreto con la donna di città – commentata dall’ossessiva ripetizione di due sole note, sul modello del celebre, quanto inquietante tema che molti anni dopo il compositore John Williams avrebbe elaborato per il film di Steven Spielberg Jaws (1975; Lo squalo). Per questo suo costitutivo carattere ibrido Aurora può essere ricondotto all’orizzonte di un fenomeno che studiosi come Miriam Hansen e James Naremore hanno definito «vernacular modernism», termine con cui – seppur in modi diversi – indicano il superamento della dicotomia tra pratiche alte e basse, tra le forme di produzione della cultura europea e quella americana, mostrando la capacità di quest’ultima di assorbire e rilanciare le tensioni artistiche proprie del modernismo, su un piano più popolare e industrializzato. Ciò è alla base di un eclettismo stilistico che, nel caso del cinema, può esercitarsi, ad esempio, con l’introduzione di tecniche e sperimentazioni visive dell’“Art Film” all’interno del racconto hollywoodiano e del cinema di genere (come nel caso del film noir, il genere per eccellenza più “europeo” del sistema del cinema classico hollywoodiano) oppure evidenziando il lavoro di quelle strategie dell’eccesso sottese al modello di messa in scena, solo apparentemente neutro e linguisticamente trasparente, del film classico89. 88 89

Cfr. L. Fisher, Sunrise. A Song of Two Humans, BFI, London 1998. Cfr., M. Hansen, The Mass Production of the Senses: Classical Cinema as Vernacular Modernism, in «Modernism/Modernity», n. 6, 1999, pp. 59-77, tr. it., La produzione di massa dei sensi. Il cinema classico come modernismo vernacolare, in «La Valle dell’Eden», n. 4, 2000, pp. 17-37. J. Naremore, More Than Night. Film Noir in Its Contexts, University of California Press, Berkeley 1998.

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In modo simile Bernard Eisenschitz (nel suo film, Traversées. Genèse de «L’Aurore»90) mette in rilievo l’assoluto eclettismo iconografico di Aurora, leggendolo come un film che guarda sia ai modelli pittorici cari a Murnau (la tradizione dell’arte romantica) che all’immaginario della pubblicità degli anni Venti, così specifico della cultura visiva americana (vedi ad esempio alcune immagini iniziali del film e la sequenza del luna park). Ma è soprattutto per quel che riguarda il lavoro sulla tecnica e la sperimentazione linguistica sul cinema, compiuta in particolare nei film prodotti dall’UFA, che Aurora può considerarsi come la sintesi del lavoro sul set e della padronanza dei materiali della messa in scena. Il lavoro svolto dallo scenografo Rochus Gliese per l’allestimento delle mirabolanti costruzioni in falsa prospettiva è in tal senso fondamentale. Gran parte dell’impatto visivo e della forza drammatica del film deriva dalla creazione dei due spazi della campagna e della città che vengono evocati come altrettante proiezioni degli stati d’animo dei personaggi. Con Aurora Murnau recupera tutti i suoi temi prediletti all’interno di una storia il cui punto di partenza (il racconto “naturalistico” di Hermann Sudermann, Die Reise nach Tilsit) è ricondotto da Carl Mayer alla sua struttura essenziale, ovvero a quella stilizzazione narrativa che ben si adatta alla trasformazione atemporale di un racconto mitico, la “storia di due esseri umani” appunto, come recita il sottotitolo del film. Ancora una volta, anche in Aurora, il tema del doppio è filtrato e riscritto nella struttura triangolare (l’uomo, sua moglie, la donna di città) e il potenziale eversivo del desiderio ricondotto alla pulsione omicida e alla disgregazione del soggetto, così come, allo stesso tempo, l’opposizione tra la luce e le te90

Il film di Bernard Eisenschitz è uscito in DVD in Francia nel 2005.

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nebre è sviluppata come motivo della discesa agli inferi e riscoperta di una possibile “nuova alba del mondo”. Come ogni mito che si rispetti la struttura narrativa di Aurora si sviluppa in tre grandi atti in cui l’eroe passa attraverso la tentazione (1), la prova centrale (2) e il riscatto finale (3), il tutto nel quadro di un intreccio tra la rottura e la ricomposizione della coppia e del conflitto tra il sentimento della natura contrapposto all’inautenticità della vita metropolitana (un’opposizione radicale che assume le sembianze della spregiudicata donna di città, la vamp che rimanda ad una pulsione erotico/distruttiva, da un lato, e della angelica donna del focolare, dall’altro). È tuttavia significativa l’inversione che proprio in questo film subisce lo spazio della città. Se la visione della metropoli evocata dalla donna di città funziona come motore della tentazione iniziale dell’uomo, sarà lo spazio concreto della città, attraversata come in un viaggio iniziatico, a siglare una ritrovata armonia tra l’uomo e sua moglie. Comunque in entrambi i casi ci troviamo di fronte a una proiezione dello spazio urbano, esplicitamente richiamata come desiderio fantasmatico nella conclusione della sequenza dell’incontro notturno tra la donna di città e l’uomo, in cui entrambi si stendono al suolo mentre sul lago di fronte a loro prendono forma le immagini del caos urbano. È, invece, nel caso della lunga traversata dei luoghi della metropoli dell’uomo e di sua moglie, che il mondo urbano si offe come spazio concreto di un’esperienza. Qui, infatti, «la coppia scopre non la città (l’universo caoticogrottesco di un vivere sociale capovolto, la totalità reificata che, secondo la situazione canonica di Fantasma, secerne la disumanizzazione del soggetto) ma piuttosto la sua città l’immagine mitica della fantasmagoria urbana, uno spettacolo luccicante da fruire, attraverso un capil-

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lare edonismo, nelle sue componenti più macroscopiche: il caffè di lusso, il parrucchiere chic, lo studio del fotografo, e soprattutto il Luna-park»91.

Non c’è insomma un reale da contrapporre all’immaginario metropolitano, cioè del cinema ancora una volta usato come il doppio stesso della modernità. Anche l’armonia della coppia si ritrova nell’orizzonte dell’inautentico e dell’illusione, ma si rinsalda definitivamente soltanto dopo la prova della tempesta e del naufragio in cui la donna rischia di morire. Gli elementi della natura (su tutti dovremmo ricordare la luna, motivo che il cinema di Murnau sviluppa in ognuna delle sue componenti simboliche) sanciscono quindi il sorgere di uno spazio primordiale, fluido e incontaminato. Un’aurora che è il simbolo della potenza trasfigurante del cinema sull’inautenticità del reale. Tuttavia è proprio questo eccesso di stilizzazione simbolica una delle ragioni del sostanziale insuccesso del film presso il pubblico americano. Assieme all’imminente riconfigurazione tecnologica del cinema sonoro, si tratta di un aspetto decisivo per comprendere le difficoltà incontrate da Murnau nei suoi due film successivi, 4 Devils e City Girl. Del suo periodo americano, 4 Devils è l’unico film che non è giunto sino a noi92. Gran parte delle notizie su questa ulteriore opera fantasma di Murnau si devono al lavoro di ricerca compiuto dalla storica del cinema Janet Bergstrom, che ha condotto poi alla realizzazione di un 91 92

P.G. Tone, F.W. Murnau, cit., pp. 109-110. Nel 2007, un frequentatore del forum della Criterion annunciò che un negativo del film era stato trovato a Tacoma, Washington. Tuttavia nessuna prova evidente del ritrovamento è comparsa in seguito a rafforzare la notizia, che è stata archiviata come uno scherzo.

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film-documentario da lei stessa curato, intitolato Murnau’s 4 Devils: Traces of a Lost Film (2003). Janet Gaynor, Mary Duncan e Charles Morton sono gli attori principali di questo dramma ambientato nel mondo del circo sul modello del celebre Varieté (1925) di Ewald André Dupont, film cui fu subito paragonato. Il film ruota attorno alle vicende di quattro orfanelli allevati nel circo “Cecchi” sotto la protezione del clown Walker i quali, cresciuti e divenuti acrobati, si esibiscono come “i quattro diavoli” specializzandosi nel pericoloso numero del “salto della morte”. Su questo sfondo si inserisce il triangolo amoroso che coinvolge i due acrobati Marion (Janet Gaynor) e Charles (Charles Morton) e una donna dell’alta società (l’attrice Mary Duncan) che si invaghisce del ragazzo. Quest’ultimo si abbandona progressivamente al fascino della ricca signora, mentre Marion si dispera. La disgregazione della coppia conduce al tragico finale in cui i due trovano la morte nel corso del pericoloso numero aereo. Dopo le anteprime per la stampa fu girata una nuova versione del finale. Invece della coppia che cade nel vuoto e muore, è la sola Marion che, per la disperazione, lascia la presa del trapezio nel corso del numero aereo; ma anche se all’inizio la donna sembra morta, in realtà rinviene e dichiara il proprio amore a Charles che si pente. È dunque con questo finale che 4 Devils fu visto alla prima del film al “Gate Theatre” di New York, nell’ottobre del 1928, con l’integrazione di una banda sonora sincronizzata. Paradossalmente fu però proprio questo improbabile happy end ad essere al centro delle critiche al film su diversi giornali. Ma 4 Devils, che Murnau aveva girato come un film muto, fu ulteriormente modificato dalla Fox che ne produsse anche una versione sonora, rigirando alcune scene, per distribuirlo come un film par113

lato. Il film ebbe così due anteprime a otto mesi di distanza una dall’altra, e la versione sonora debuttò a Los Angeles, il 10 giugno 1929. Nuove riprese e dialoghi diversi (oltre al finale cambiato) lo resero un film assai diverso dalle intenzioni di Murnau, il quale più che al plot era interessato alla bellezza dinamica delle acrobazie. Dalle prime tre stesure della sceneggiatura da lui redatte (e conservate presso gli archivi della Fox) emerge chiaramente la logica visiva del film costruita su cambiamenti veloci, con una grande attenzione ai movimenti di macchina e a punti di vista anomali. Dai disegni di produzione, ad esempio, risulta che il soffitto del carrozzone “Circus Cecchi” era costruito come una piattaforma mobile per permettere diversi movimenti della macchina da presa nelle riprese degli interni. Attraverso l’analisi dei disegni di produzione, delle fotografie di scena e delle recensioni dell’epoca (oltre che delle varianti di sceneggiatura) Bergstrom ha inoltre ricostruito alcune sequenze particolarmente interessanti dal punto di vista delle dinamiche di messa in scena. Siamo nel circo di Parigi, nel dietro le quinte. Animali e artisti entrano ed escono nell’arena che si vede sullo sfondo. I quattro diavoli sono la maggiore attrazione del circo e il pubblico attende il loro numero aereo, il più importante dello spettacolo. Come ricorda la studiosa americana, entusiastiche recensioni dell’epoca raccontano dello spettacolare ingresso in pista dei quattro acrobati in piedi su cavalli bianchi, fino a che, giunti sotto i trapezi si tolgono i mantelli e volteggiano in aria. La loro ascesa era filmata collocando la macchina da presa sulla sommità della tenda del circo, per aumentare il senso di dinamismo complessivo della scena. Lo stesso Murnau, nel corso della preparazione di 4 Devils, e in particolare a proposito delle riprese dei numeri acrobatici, disse che la macchina da presa avrebbe dovuto «ga114

loppare con i cavalli»93 in modo da rendere, attraverso un punto di vista anomalo, la tensione della scena – così come, per orchestrare complessi movimenti di macchina, avrebbe usufruito di una specie di gru-mobile con una piattaforma in cima al braccio per la cinepresa. Sono dichiarazioni apparse in un articolo scritto da Murnau per «McCall’s Magazine», uscito nel settembre del 1928 e intitolato The Film of the Future, in cui egli entra nello specifico della sua idea della costruzione drammatica del punto di vista: «Non filmo delle scene da una posizione anomala della macchina da presa solo per provocare un effetto fine a se stesso. Per me l’occhio della camera rappresenta quello della persona attraverso il cui spirito lo spettatore vede gli avvenimenti rappresentati sullo schermo. La camera a volte deve seguire i personaggi in passaggi difficili: è il caso, per esempio, di Aurora, con la macchina da presa che passa attraverso la boscaglia e segue l’uomo mentre si reca al suo appuntamento con la donna di città. La camera deve girare, spiare, spostarsi da una parte all’altra con la stessa rapidità del pensiero, quando per lo spettatore è necessario entrare nello stato d’animo che domina il personaggio in quel momento. Penso che i film del futuro faranno sempre più uso di queste riprese, o come preferisco chiamarle io di queste angolazioni drammatiche. Esse aiutano a fotografare il pensiero»94.

93 94

A proposito di questi passaggi, nella sceneggiatura del film (scritta da Carl Mayer, Berthold Viertel e Marion Orth) si legge infatti «cinepresa fissata sulla testa del cavallo». F.W. Murnau, The Films of the Future, in «McCall’s Magazine» (1928) poi in «Positif», n. 523, 2004, p. 65. In 4 Devils vi sono altre soluzioni che ricordano il lavoro svolto su Aurora, come ad esempio l’impiego di sequenze di montaggio realizzate attraverso un caleidoscopio di sovrimpressioni (che richiamano

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In una lettera indirizzata a William Fox, il 28 dicembre del 1927, Murnau scriveva: «Questa estate, vorrei girare un film sul grano, sul carattere sacro del pane, sull’alienazione della metropoli moderna e sulla sua ignoranza circa le sorgenti essenziali della natura»95. Sono i temi attorno ai quali avrebbe dovuto ruotare il suo terzo film americano che egli pensa (e gira) di nuovo come un film muto dal titolo Our Daily Bread e che, in seguito alle manipolazioni della Fox, diventerà invece un film parlato intitolato City Girl. Come già accennato nel primo capitolo, nel 1970 fu tuttavia ritrovata negli archivi della casa di produzione la versione muta del film destinata al mercato straniero, una versione cioè precedente all’intervento di sonorizzazione operato dalla Fox. Nonostante questo ritrovamento, City Girl/Our Daily Bread è ancora oggi tra i film meno studiati dell’opera di Murnau, probabilmente perché a lungo viziato dal giudizio negativo espresso da Lotte Eisner nel suo libro, che in ogni caso si riferiva alla sola versione sonorizzata del film. La versione muta – nonostante il fatto che alcune scene siano state probabilmente girate da alcuni assistenti di Murnau, che era assente al momento del montaggio finale – manifesta infatti una coerenza interna, tanto del trattamento narrativo e della direzione degli attori che della forma complessiva

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l’evocazione della metropoli nella scena notturna dell’incontro tra l’uomo e la vamp). Si veda questo passaggio di sceneggiatura analizzato da Bergstrom nel suo documentario sul film: «SOVRIMPRESSIONE. Mentre piroettano insieme. È sera. Una grande città innevata, dove giungono illuminando, turbinando, roteando le loro torce la cui luce vediamo su soffitti e facciate. Insegne in costruzione, nomi di alberghi, luoghi di divertimento, dove appaiono le scritte: “I QUATTRO….”; “SENSAZIONALE”; “Il GIRO DELLA MORTE”; “OGGI AL CIRCO”». Cit. in L. Eisner, F.W. Murnau, cit., p. 188.

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del film, invitandoci a guardarlo come a un’opera di Murnau a tutti gli effetti (e che alcuni critici considerano oggi come decisivo per la sua poetica)96. Scrive Berriatúa: «Senza dubbio uno dei film che più ha influenzato il cinema americano degli anni Trenta, e che ci aiuta a comprendere il senso che il termine espressionismo ha avuto nella cultura americana. L’impiego drammatico della luce e le inquadrature, rispondono esattamente a ciò che anni dopo si chiamerà espressionismo americano. Tutto è in questo film»97.

Alla base del progetto per Our Daily Bread c’è una pièce di Elliott Lester, The Mud Turtle, messa in scena nei teatri americani nel 1925 (mentre il primo adattamento con découpage del film è datato 7 luglio 1928). Il film può essere diviso in due grandi segmenti che corrispondono agli spazi urbani di Chicago (ricostruiti in studio) della prima parte del film, e della campagna dell’Oregon (con le riprese esterne qui realizzate). Con una significativa inversione rispetto al trattamento dell’opposizione spazio metropolitano-mondo rurale, affrontata nella stilizzazione di Aurora o, nei modi del Kammerspiel, in Der brennende Acker, Murnau esibisce in modo del tutto problematico la negatività del mondo contadino, ovvero l’impossibilità di sfuggire alle dinamiche spietate della modernità che producono, esse stesse, il falso mito di un ritorno alla natura incontaminata. La storia dell’amore tra Lem Tustine (Charles 96

97

Cfr. S. Goudet, City Girl. Corps étranger, in «Positif», n. 523, 2004, pp. 98-100. Vedi anche Janet Bergstrom che lo considera «il film più moderno di Murnau e quello in grado di toccare più direttamente il pubblico contemporaneo». J. Bergstrom, Murnau in America. Chronicle of Lost Films, cit., p. 431. L. Berriatúa, Los proverbios chinos de F.W. Murnau, vol II, cit., p. 550.

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Farrell) e Kate (Mary Duncan), la donna incontrata a Chicago che egli decide di sposare per andare a vivere assieme nella sua fattoria, si muove pertanto sullo sfondo di una campagna «dominata dalla stessa logica del guadagno che vive nell’ambiente cittadino»98. La stessa idea del “carattere sacro del pane”, espressa inizialmente nella lettera di Murnau, si perde del tutto di fronte a un film in cui il grano e la sua trasformazione in pane sono raccontati per esprimere l’idea della catena di montaggio industriale di cui comunque anch’esso è parte integrante. Così Murnau, «si incarica di mostrare che nella campagna, come nella grande città, la presenza fisica del grano lascia il posto a una astrazione disumanizzante, che uccide quel piacere magnificamente espresso dal lungo carrello che insegue la corsa della giovane coppia attraverso i campi»99. Questa è una delle sequenze-simbolo di City Girl – un film che peraltro rinuncia a quell’orchestrazione di movimenti di macchina complessi che caratterizzava Aurora e 4 Devils. Si tratta di un travelling articolato che segue l’arrivo in campagna di Lem e Kate e li accompagna mentre corrono come due bambini negli immensi spazi dilatati dei campi di grano. Il contrasto tra i loro due mondi, la minaccia che grava sulla loro unione appare tuttavia nello spazio della fattoria che emerge sullo sfondo come una presenza sinistra, raccordata a un’inquadratura in cui cogliamo lo sguardo preoccupato del giovane. Si intuisce insomma l’arrivo in uno spazio rurale che, dietro l’incontaminato estendersi dei suoi campi, prepara il dramma del film. Già nel suo segmento d’apertura, d’altronde, il film mostra di voler giocare con i cliché esibiti nella struttura narrativa di Aurora, con la vamp che tenta di sedurre 98 99

P.G. Tone, F.W. Murnau, cit., p. 117. J. Bergstrom, Murnau in America. Chronicle of Lost Films, cit., p. 454.

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il giovane Lem mentre si sta recando in città con il treno per vendere il grano del padre. Qui, tuttavia, il vampirismo della metropoli non assumerà le forme della corruzione morale o della tentazione sessuale, manifestandosi invece in una maggiore ambiguità-complessità dei conflitti. Se in Aurora lo spazio urbano della metropoli diventava paradossalmente il luogo di riunificazione della coppia, in City Girl, la fattoria dei Tustine e i campi sterminati dell’Oregon si configurano come lo spazio della sua disgregazione. Se alla base dell’insuccesso di Aurora è ascrivibile un’eccessiva opera di astrazione dei personaggi e degli spazi in gioco (in cui ancora è forte la componente stilizzante dell’Espressionismo), City Girl può essere invece considerato come il più americano dei film di Murnau realizzati ad Hollywood, proprio perché si muove con maggiore ambiguità nella creazione dei personaggi, dei luoghi e dei contrasti drammatici. Gli elementi di maggior continuità con Aurora, e con il cinema tedesco di Murnau, sono rintracciabili nel lavoro sull’illuminazione compiuto dal direttore della fotografia Ernest Palmer. È soprattutto attraverso i tagli di luce drammatici e l’impiego simbolico delle ombre, che lo spazio della casa dei Tustine si manifesta come un luogo ostile e minaccioso per Kate. L’angustia degli interni contrasta dunque con la bellezza dei campi intorno alla casa e con il sentimento di libertà che emanano. D’altronde è lo stesso paesaggio dell’Oregon, simbolo dei vasti spazi dell’America rurale, uno dei protagonisti effettivi del film, tanto che nelle difficoltà che Kate incontra per essere accettata nella famiglia e nell’ambiente rurale di Lem, è possibile scorgere quelle provate dallo stesso Murnau per entrare in contatto con l’identità culturale americana100. 100

Cfr. S. Goudet, City Girl. Corps étranger, cit.

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2.7 Una sinfonia della natura

Bisogna resistere alla tentazione semplicistica di vedere in Tabù il film “primitivista”101 con cui, Murnau, si ribella alla logica di Hollywood, si avvale di attori tahitiani non professionisti e rifiuta la nuova riconfigurazione del cinema sonoro che compromette il primato dell’immagine e della ricerca sulla forma visiva. Indubbiamente è attraverso tale operazione che il regista tedesco emigrato a Hollywood cercò di ritrovare quel controllo assoluto del film, perso in seguito all’insuccesso commerciale di Aurora; tuttavia i suoi problemi con il cinema sonoro, ad esempio, non dipendevano affatto da un rifiuto a priori dello sviluppo tecnologico del cinema, quanto dalla difficoltà di continuare a portare avanti un modello di regia nel contesto della pratica dell’epoca, un contesto cioè in cui il film veniva girato in una doppia versione, e in cui la realizzazione di quella “parzialmente parlata” era spesso affidata a una troupe diversa (e ad altri sceneggiatori che in questi casi non si limitavano a tradurre le didascalie in dialoghi, ma a cambiare e riscrivere intere scene). Più in generale, come scrive Janet Bergstrom:

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«Murnau era troppo intelligente per opporsi eternamente al dialogo. In più le nuove possibilità tecnologiche del cinema lo affascinavano. Prova ne è la sua preoccupazione costante per l’immagine, come ad esempio il suo interesse per il 70mm in sperimentazione alla Fox, che prevedeva di inaugurare con la bellezza epica degli immensi campi di Our Daily Bread. In una lettera a William Fox, egli accenna inoltre ad un procedimento per realizzare film a colori messo a punto in Danimarca:

Vedi ad esempio A. Oksiloff, Shot on the Spot: Primitive Film, in «South Central Review», vol. 16, n. 2-3, 1999, pp. 16-33.

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“Da qualche tempo mi interesso personalmente a questa invenzione e confido nelle sue possibilità, soprattutto per via della semplicità del metodo di ripresa e di proiezione”. Così contava di filmare Tabù in Technicolor (nella prima versione a due negativi) fino al momento in cui la Colorart, la società di produzione che sosteneva il progetto e che aveva promesso materiali e operatori, si rivela incapace di finanziare il film»102.

Il contesto cui deve essere ricondotto il sentimento della natura e la fascinazione per l’incontaminato che sottende Tabù è dunque un altro. Innanzitutto potremmo dire che qui, come in Nosferatu, si manifesta quella “doppia spinta”, così specifica della cultura tedesca del XX secolo, attraverso cui il regime della modernità e del progresso convive con un’insopprimibile fascinazione per il mito e per il dionisiaco. Seppur in modi diversi, ad esempio, tanto in Sigmund Freud che in Nietzsche, l’arte e il mito si producono in una manifestazione delle forze oscure della natura, attualizzando i conflitti che esse generano nell’esperienza umana. Gran parte dell’ambiguità dei rapporti che intercorrono tra la modernità e l’Espressionismo, d’altronde, possono essere interpretati alla luce delle influenze che su quest’ultimo hanno le riletture del primitivo (in Freud) e del dionisiaco (in Nietzsche), letture che, com’è noto, si muovono in aperto contrasto con le epistemologie forti del Positivismo o con la teleologia del progresso103. La radicalità di queste proposte, come dell’arte di alcune avanguardie tra cui l’Espressionismo tedesco, sta appunto nel recupero del primitivo non già come puro esotismo e fuga nell’altrove, ma come inclusione delle spinte primordiali del mito nel cuore della modernità. Al102

103

J. Bergstrom, Murnau in America. Chronicle of Lost Films, cit., p. 458. Su questi aspetti vedi D. Pan, Primitive Renaissance, cit.,

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lo stesso modo la sfida di Tabù non sta nell’opporsi ai meccanismi dell’immaginario cinematografico per ritrovare un’arte pura e incontaminata. Essa consiste, piuttosto, nel portare nel cuore della natura quel modello altamente stilizzato di messa in scena elaborato e perfezionato nei grandi studi dell’UFA, così come nell’esperienza ad Hollywood. Lo stesso Murnau ripeteva alla sua troupe (stando a quanto ricorda Robert Herlth) che tutto ciò che essi realizzavano in una scenografia artificiale, un giorno lo avrebbero fatto in una scenografia naturale104. In questa affermazione si esprime in modo limpido l’idea di una ricerca sulla forma che è certo assai distante dalle intenzioni documentaristiche di Flaherty. Allo stesso tempo si manifesta quell’intenzione di condurre la spinta della modernità (cioè il cinema) sin dentro il mito e la natura, senza per questo abbandonare né la tecnica, né il patrimonio figurativo di riferimento della cultura occidentale. Si prenda il caso della prima immagine del film, un indigeno ripreso in figura intera, nell’atto del tiro della lancia da pesca. La posa in cui esso è ritratto richiama in modo esplicito l’armonia compositiva delle sculture greche, assai più che i modelli di figurazione dell’arte primitiva. Questa immagine, circolata anche in alcune locandine del film, è dunque del tutto emblematica delle forme simboliche che si attivano in Tabù, un’opera in cui, soprattutto per ciò che concerne la dimensione plastica del corpo, si manifesta, come notato tra gli altri da Eric Rohmer, «un felice connubio tra lo spirito delle isole del Pacifico e l’arte classica occidentale»105. In tal senso il film di Murnau getta un ponte ideale con la celebrazione estetica del corpo e dei 104 105

Cfr. L. Eisner, F.W. Murnau, cit. E. Rohmer, On est toujours dans l’image (intervista di N. Herpe), in «Positif», Dossier Murnau, n. 523, 2004, p. 81.

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suoi movimenti, realizzata qualche anno dopo da Leni Riefenstahl nel dittico Olympia 1. Teil - Fest der Völker e Olympia 2. Teil - Fest der Schönheit (1938; Olympia: Festa dei popoli, Olympia: Festa della bellezza), il documentario commissionato dal Comitato Olimpico Internazionale in occasione delle Olimpiadi di Berlino 1936, che diventa il pretesto per scrivere una delle più pagine più vibranti della storia delle forme filmiche. Anche qui, insomma, l’orizzonte di espansione tecnologica delle possibilità del cinema (nuovi modelli di ripresa e soluzioni di montaggio, angolazioni anomale e sperimentali etc.) coincide con la ricerca di una stilizzazione dei valori plastici del corpo e dei suoi modelli di figurazione messi a punto dall’arte greca. Anche qui, infine, si potrebbe dire che il cinema diventa quell’orizzonte in cui i valori della “Zivilisation” non sono radicalmente rifiutati – come nel solco della netta contrapposizione con l’idea di “Kultur”, ossia di quel patrimonio dei valori dell’arte e dello spirito cari al Romanticismo e all’idealismo tedeschi – quanto rielaborati come una nuova possibilità di unità della forma e del pensiero che non esclude il progresso tecnico e l’artificio. Certo, in Tabù la dimensione della bellezza dei corpi incrocia apertamente la circolazione del desiderio, rendendo palese, secondo alcuni critici, l’elaborazione di un sottotesto omosessuale106. D’altronde lì dove in film come Nosferatu o Aurora, l’erotismo veniva trasfigurato nei meccanismi del genere o di una palese stilizzazione dei corpi trattati come figure, in Tabù esso si manifesta in tutta la sua evidenza estatica. Il corpo, la danza, il movimento, diventano altrettanti luoghi di fascinazione dello sguardo che si sviluppano poi come autonomi segmenti 106

Vedi soprattutto R. Wood, Murnau. Midnight and Sunrise, in «Film Comment», n. 12, 1976, pp. 4-9.

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del motivo profondo del film, ossia del conflitto tra desiderio e religione, tra norma e tabù. Sulla scelta di Reri come vergine consacrata, pesa infatti la maledizione della morte per chi, nonostante ciò, continuerà a desiderarla. Come di fatto accadrà a Matahi, il suo giovane innamorato, il meccanismo pulsionale incrocia in termini costitutivi il desiderio e l’incantesimo, l’amore e la morte, intrecciando così la dimensione dell’esotico di Tabù con quella dell’esoterico sviluppata in Nosferatu (una relazione che, attraverso la figurazione dell’entrata in campo del veliero, costruita in modo simile in entrambi i casi, prende le forme di un preciso scambio semantico tra i due film, in cui la superficie fluida dell’acqua si offre come luogo di passaggio e circolazione della minaccia). A questo conflitto corrisponde anche la divisione del film in due grandi parti, intitolate rispettivamente Il paradiso e Il paradiso perduto. Se la prima appare dominata dalla superba bellezza di una natura incontaminata, dalla luminosità piena e armoniosa di un idillio atemporale, la seconda parte del film si sviluppa, in termini opposti, nell’orizzonte notturno e crepuscolare della minaccia, in cui emergono i simboli cari al cinema di Murnau, l’ombra, la notte, la luna piena. Si vede bene come, nonostante la dimensione esotica del film, e nonostante il racconto sia elaborato nel contesto culturale delle leggende polinesiane, ciò che viene messo in scena in Tabù è ancora una volta l’eterna lotta delle tenebre e della luce, quel contrasto violento e irriducibile che trova nel prologo del Faust uno dei suoi esiti più visionari, ma che informa certo tutta l’opera di Murnau (e ovviamente l’orizzonte del cinema espressionista). D’altronde anche in Tabù ancora una volta il conflitto drammatico è rielaborato nella struttura ternaria in cui si dispongono i personaggi; così alle dinamiche e alle forze oscure che intrecciano Ellen, Hutter e Orlok/Nosferatu, corrispondo124

no qui le sinistre maledizioni che, tramite il grande sacerdote Hitu, gravano sulla coppia Reri-Matahi. Qui tuttavia viene rimosso lo spazio della redenzione e del sacrificio che sottende il racconto di Nosferatu o, infine, quello di una riunione della coppia che troviamo sviluppato in Aurora. Nella natura incontaminata di Tabù, il male si offre come una forza misteriosa, insondabile, e soprattutto invincibile. Anche per questo motivo Tabù è un film del tutto significativo di quella reversibilità che informa i rapporti tra “natura” e “studio” nel modello di regia di Murnau107. Quella verso i Mari del Sud, dunque, non è una fuga alla ricerca di altri modi di produzione dell’arte e di configurazione dell’immagine filmica. Semmai possiamo vedere in Tabù la summa delle invenzioni figurative di Murnau, ciò che lo rende, oltre che uno dei capolavori dell’ultimo periodo del muto, l’opera in cui tutto il suo cinema viene ripercorso e rielaborato come una sinfonia della natura. Riprendendo la celebre distinzione schilleriana tra la poesia ingenua e quella sentimentale («il poeta o è natura o la cercherà. Nel primo caso si ha il poeta ingenuo, nel secondo il sentimentale»108), attraverso cui si intravede la differenza tra la classicità, intesa come integrità armonica, e la modernità, in cui prevale il sentimento dell’assenza e una malinconica aspirazione alla totalità, si può affermare che la natura di Tabù non si configura come l’approdo definitivo di un motivo insito nel cinema di Murnau, ma come il suo rilancio infinito nelle forme di una melanconia specifica della modernità. 107

108

«Nell’opera di Murnau il rapporto tra la natura e lo studio non è pensabile nella forma di una semplice opposizione ma nel modo della metamorfosi, dell’ibridazione e della reversibilità». Vedi E. Siety, Quel «isme» pour Murnau?, cit., p. 99. F. Schiller, Über naive und sentimentalische Dichtung (1795), tr. it., Sulla poesia ingenua e sentimentale, SE, Milano 2005, p. 37.

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III Tre sequenze

3.1 La produzione del fantasma e le congiunzioni virtuali

Come abbiamo visto, l’idea di una continuità tra la concezione romantica dell’arte e la volontà irrealizzante propria dell’Espressionismo, di un’organicità della natura e di un continuo divenire che unisce e avvolge tutte le cose, filtrato nell’infinita sfida delle ombre e della luce del film espressionista, è una delle principali linee interpretative messe in atto dai numerosi commentatori del cinema di Weimar (da Lotte Eisner a Gilles Deleuze e oltre naturalmente). Proprio pensando alla ripresa dei temi e delle ossessioni del Romanticismo, più che al suo patrimonio figurativo, Deleuze ha definito la concezione dell’immagine filmica fatta propria dall’Espressionismo come antidialettica. Una concezione vale a dire che si distanzierebbe sia dalle soluzioni narrative di Griffith, che dagli esperimenti formalisti delle avanguardie del cinema sovietico. Da questo punto di vista – secondo una lettura filtrata dalla personale rielaborazione di Baruch Spinoza e Nietzsche che il filosofo francese fornisce dell’Espres127

sionismo – con esso si invocherebbe «un’oscura vita paludosa in cui tutte le cose affondano, sia lacerate dalle ombre, sia sommerse nelle foschie. La vita non-organica delle cose, una vita terribile che ignora il senno e i limiti dell’organismo, tale è il primo principio dell’espressionismo, valido per l’intera Natura»1. Deleuze, che in tal senso riconduce i modelli di montaggio messi a punto dal cinema degli anni Venti ad altrettanti sistemi di pensiero filosofico, guarda così all’Espressionismo come alla manifestazione dell’idea di sublime dinamico nella filosofia kantiana, orizzonte in cui si definisce una forma di montaggio che egli chiama intensivo-spirituale. Abbiamo già avuto modo di vedere come l’appartenenza di Nosferatu all’Espressionismo sia stata fortemente messa in dubbio da alcuni critici a causa dell’uso degli esterni e del ruolo indubbiamente decisivo che il paesaggio naturale riveste nell’economia della messa in scena e dei significati complessivi del film. Tuttavia è proprio nella riorganizzazione dei materiali figurativi e nelle soluzioni di montaggio che il film può essere anche ricondotto a quel principio dell’Espressionismo indicato da Gilles Deleuze come la totalità di un «universo spirituale che genera le proprie forme astratte, i propri esseri di luce, i propri raccordi che sembrano falsi agli occhi del sensibile»2. 1

2

G. Deleuze, L’immagine-movimento, cit. p. 69. Tuttavia, lì dove Eisner rintraccia una continuità artistica tra Romanticismo ed Espressionismo, Deleuze mette in risalto una profonda differenza sul piano filosofico, poiché con l’Espressionismo «non si tratta più, come nel romanticismo di una riconciliazione della Natura e dello Spirito, dello Spirito quale esso è alienato nella Natura, e dello spirito quale esso si riconquista in sé: questa concezione implicava qualcosa come lo sviluppo dialettico di una totalità ancora organica» (p. 72). Ivi.

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È un aspetto che vale la pena di approfondire sulla scia di quelle congiunzioni virtuali degli spazi che abbiamo già evocato nel secondo capitolo. Uno sguardo al lavoro del montaggio, e specificatamente alle forme di raccordo attivate in Nosferatu, ci permetterà di precisare meglio questo discorso. Prenderemo in considerazione un’ampia sequenza del secondo atto del film. Si tratta di uno snodo narrativo fondamentale del racconto in cui le due linee principali dell’azione sviluppate sin qui parallelamente – la storia d’amore tra Ellen e Hutter e la missione di quest’ultimo presso il misterioso castello abitato dal conte Orlok – vengono a sovrapporsi. Come vedremo, Ellen, Hutter e Nosferatu diventano i tre poli principali di una sorta di perverso melodramma che si risolverà soltanto con il sacrificio finale della donna. La sequenza ha una durata complessiva di poco inferiore ai sette minuti ed è composta di quarantasette inquadrature più undici didascalie. Significativamente essa si apre e chiude su due esterni – una cupa e suggestiva immagine di un cielo notturno solcato dalle nuvole. Il primo gruppo di inquadrature (inqq. 1-12) ci mostra il conte Orlok, seduto a un tavolo di fronte a Hutter, mentre si appresta a firmare il contratto con cui viene siglato l’acquisto della casa situata di fronte all’abitazione degli Hutter. Un particolare tuttavia attira la sua attenzione: la fotografia di Ellen racchiusa nel ciondolo che Hutter porta con sé, di cui Orlok nota – come recita la didascalia che segue al raccordo di sguardo con l’oggetto inquadrato – «il collo magnifico». Dopo questo prologo, prende avvio il segmento cen129

trale della sequenza, ovvero l’aggressione notturna di Nosferatu a Hutter (inqq. 13-30). L’azione si sposta quindi nella stanza del castello dove è alloggiato il giovane. Lo vediamo sfogliare qualche pagina del libro sui vampiri che ha con sé, mentre un macabro orologio rintocca la mezzanotte. Colto dallo spavento, Hutter si dirige verso la porta della stanza e guarda fuori. A questo punto – in quella che è certo una tra le inquadrature più celebri del cinema di Weimar – vediamo Nosferatu, con la sua figura immobile e ritta in piedi, ripreso in profondità di campo all’estremità della sala (inq. 21). Hutter, spaventato, cerca in qualche modo riparo (qui troviamo un altro inserto esterno della sequenza, ossia la vista del precipizio davanti alla finestra aperta da Hutter nell’inutile tentativo di fuggire).

Ormai in trappola, il giovane cade tremante nel suo letto mentre Nosferatu penetra nella stanza (inqq. 25-30). Contemporaneamente – introdotta da una didascalia che recita «in quel momento…» – l’azione si sposta nella stanza di Ellen, dove vediamo la donna alzarsi improvvi130

samente dal letto. Ha così inizio l’ultimo segmento della sequenza (inqq. 32-57) che intreccia parallelamente le due azioni, Hutter-Nosferatu nel castello del conte Orlok in Transilvania, e Ellen nella casa di Wisborg. Sonnambula, la donna si dirige verso la finestra aperta e sale in piedi sulla balaustra. Mentre percorre pericolosamente l’estremità della balconata, viene soccorsa all’ultimo istante da Harding che intima a sua moglie Ruth di chiamare un dottore (inq. 43). Torniamo pertanto nel castello,

di nuovo sull’immagine di Hutter svenuto nel suo letto. Ora vediamo emergere l’ombra minacciosa di Nosferatu proiettata sul muro alle spalle del giovane. Con uno stacco l’immagine ci mostra quindi Ellen – sdraiata al letto, attorniata da Harding, sua moglie e il dottore – che, in preda a un delirio, tende le braccia in avanti e, con lo sguardo allucinato diretto fuoricampo, invoca il nome di suo marito. Nosferatu, ormai vicinissimo al corpo di Hutter, improvvisamente si ferma. Si volta ed esce dalla stanza. Ellen sviene nel letto. Dopo la didascalia con il resoconto del narratore, la sequenza si chiude sull’immagine – assai simile a quella con cui si era aperta – di un cielo minaccioso e cupo che si intravede oltre gli alberi che circondano il castello di Orlok (inq. 58). Da un punto di vista narrativo, e più specificatamente per il modo in cui intreccia i differenti piani dell’azione risolvendoli peral131

to, ma la natura precisa del pericolo, la sua forma, il suo posto nello spazio restano tutti da scoprire»4.

tro in un insperato salvataggio, questa sequenza mostra un uso quasi parossistico della tecnica del montaggio alternato e del cosiddetto last minute rescue, ereditato dalla lezione di Griffith. Tuttavia, da un punto di vista formale, e cioè per quanto riguarda la configurazione dello spazio e l’uso dei raccordi, Murnau elabora qui un discorso profondamente diverso. Innanzitutto egli guarda all’assemblaggio delle inquadrature privilegiando, più che la linearità narrativa, le loro consonanze e affinità sotterranee. Ad esempio, come afferma Charles Jameux, possiamo notare quanto in Nosferatu il montaggio sia «fondamentalmente poetico e visionario. Unisce realtà distanti. Rompe l’illusione temporale e ci spinge sin dentro l’idea della durata interiore di un paesaggio mentale»3. E, in modo più preciso, gli fa eco Rohmer:

3

«Ciò che Murnau postula, attraverso il montaggio, è, più ancora del realismo dello spazio, l’affermazione della sua supremazia. Nei suoi film, le relazioni spaziali sono predominanti rispetto a quelle temporali, cosicché non possiamo immaginare in anticipo, come avviene per altri film, la figura dell’avvenimento sperato o temuto. Nessun pericolo dal volto conosciuto, il cui momento di apparizione viene protratto a piacimento da un effetto di suspense: spesso, al contrario, il momento ci è no-

C. Jameux, F.W. Murnau, Éditions Universitaire, Paris 1965, p. 43.

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Questa fluidità degli spazi è d’altronde il fulcro del lavoro compiuto sull’illuminazione, oltre che nell’allestimento delle scene, dallo stesso ideatore del film Albin Grau. Nel film la luce tende infatti a dematerializzare gli oggetti, a investirli di un’atmosfera quasi impalpabile, più che a deformarli secondo lo stile espressionista. Questo modo di evocare una transizione continua tra il visibile e l’invisibile è certo uno dei tratti del film (e complessivamente dell’intelligenza visiva di Murnau) che più direttamente appare debitore della lezione della grande pittura romantica – e in particolare di Caspar David Friedrich5. Più che del gioco di corrispondenze, affinità e prestiti semantici tra il film e i suoi (numerosi) riferimenti pittorici, ciò che qui si esprime è quel preciso sottofondo sovrannaturale che pervade, oltre va da sé il racconto, tutte le componenti della messa in scena. Attraverso un uso del tutto anomalo dei raccordi e la sovrapposizione tra i due spazi, il collegamento psichico tra Nosferatu ed Ellen non viene soltanto evocato con l’alternanza dell’azione, quanto iscritto nel tessuto visivo della scena e della sua architettura formale disegnata dal montaggio. 4 5

E. Rohmer, L’organizzazione dello spazio nel «Faust» di Murnau, cit., p. 81. Angela Dalle Vacche – in uno tra i più dettagliati studi su Nosferatu che maggiormente evidenziano il debito visivo del film nei confronti della pittura romantica e di Friedrich in particolare – afferma che il principio di riferimento del montaggio nel film è l’empatia, anziché la narrazione. Esso cioè lavora per corrispondenze e affinità segrete traducendo anche sul piano narrativo, oltre che visivo, l’idea di paesaggio interiore propria della pittura romantica. Cfr. A. Dalle Vacche, F.W. Murnau’s Nosferatu: Romantic Painting as Horror and Desire in Expressionist Cinema, cit.

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La figurazione dell’impossibile incontro di sguardi tra Ellen e Nosferatu (inqq. 44-52) appare da questo punto di vista del tutto emblematica. Vediamola di nuovo, più in dettaglio. Mentre Hutter, inquadrato in mezza figura, è svenuto nel letto, l’ombra di Nosferatu con le braccia protese in avanti (in una posa simile a quella di Ellen, sonnambula in piedi sulla balaustra) cresce minacciosamente sul muro alle sue spalle. Uno stacco improvviso ci mostra Ellen che si desta improvvisamente. La donna guarda fuoricampo (a sinistra del quadro), mentre gli sguardi del dottore, di Harding e di sua moglie sono fissi su di lei. La donna, allucinata e di nuovo con le braccia tese in avanti, grida ancora il nome di suo marito. Dopo la didascalia, torniamo a vedere l’ombra di Nosferatu che ora sembra definitivamente calare sul corpo di Hutter. Tuttavia un altro stacco passa a inquadrare il vampiro, ora di profilo ripreso quasi in piano americano. Nosferatu inizia a voltarsi lentamente (verso la destra del quadro). Per un attimo il suo sguardo sembra incrociare quello di Ellen (mostrata, con uno stacco, nella stessa posa dell’inquadratura precedente). Poi, voltatosi definitivamente, il vampiro si avvia fuori dalla stanza. Il raccordo di movimento – Nosferatu si volta e va verso la porta che è alle sue spalle – diventa così, in un modo che appare palesemente ambiguo, anche un (impossibile) raccordo di sguardo tra Ellen e il vampiro. La continuità del regno delle ombre e della luce su cui è costruito tutto l’impianto visivo del film si riflette insomma, attraverso questo passaggio dal fascino indubbio, nella continuità degli spazi e delle corrispondenze psichiche dei personaggi, disegnando le tracce delle loro «affinità elettive»6. È una 6

Un riferimento esplicito all’opera di Goethe si trova in E. Siety, Quel «isme» pour Murnau? cit., pp. 89-102.

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continuità che d’altronde appare ulteriormente rimarcata nell’uso di un’omogenea colorazione delle due scene7. All’inizio del segmento che ha luogo a Wisborg (la scena del sonnambulismo) le immagini sono colorate in tintura verde-blu, anche per sottolineare il senso dello stacco d’ambiente rispetto alla colorazione in ocra con cui ci è mostrata l’azione che si svolge nel castello. Tuttavia, a partire dall’inquadratura quarantacinque (il secondo passaggio dell’azione nella stanza di Ellen), i due spazi dell’azione si trovano uniformati cromaticamente e mostrati allo spettatore nella stessa tintura ocra. Si tratta di un elemento della figurazione decisivo per sottolineare l’ambiguità del passaggio e suggerire quella dimensione di irrealtà evocata dal raccordo di sguardo tra Nosferatu e Ellen. Così il disorientamento dei valori spaziali, dei volumi e delle forme non è più ottenuto attraverso un intervento sulle scenografie, come in Caligari, quanto attraverso un uso del montaggio e dell’illuminazione che determinano un orizzonte di fluidità che coinvolge tanto la 7

Il ripristino delle colorazioni originali di Nosferatu è stato possibile grazie al ritrovamento da parte di Luciano Berriatúa di una copia nitrato colorata presso la Cinémathèque Française. Corrispondente alla prima versione del film distribuita in Francia, questa copia di qualità fotografica eccezionale è ritenuta dagli storici come una versione verosimilmente corrispondente a quella tedesca. L’operazione di restauro e ripristino dei colori (curata dal Filmmuseum des Münchner e dalla Cineteca di Bologna, in collaborazione con la Cinémathèque) è stata condotta seguendo da un lato le indicazioni del piano di colorazione del film presenti nella copia, dall’altro confrontando quest’ultime con le pubblicazioni d’epoca dell’Agfa in cui sono riportate le tonalità originali dei colori. Sulle questioni generali legate alle colorazioni nel cinema muto si rimanda in sintesi a M. Dall’Asta - G. Pescatore - L. Quaresima (a cura di) Il colore nel cinema muto/Colour in Silent Film, Mano Edizioni, Bologna-Udine 1996.

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narrazione quanto la costruzione dello sguardo e la configurazione degli spazi. Il raccordo di sguardo impossibile che evoca le forze in gioco tra Nosferatu ed Ellen, può essere assunto a metafora più ampia di quell’arte di evocare i fantasmi che attraversa in modo sotterraneo tutto il cinema di Murnau, un sentimento panico che sembra avvolgere le forme del reale in un unico movimento dello spirito8. Nell’analisi delle dinamiche di sguardo attivate in un segmento di Tartufo, Paolo Bertetto evidenzia un gioco di implicazioni fantasmatiche non privo di consonanze con questo passaggio di Nosferatu. Si tratta di un gruppo di inquadrature che raccordano lo sguardo di Elmire e quello di Orgone, contenuto in un ritratto:

8

«Tra lo sguardo di Elmire e quello dipinto di Orgon si stabilisce uno scambio intensivo realizzato in una sorta di campo/controcampo anomalo e particolare tra il primo piano di Elmire e il ritratto di Orgon, il volto di Elmire e il volto figurato di Orgon […]. In questa dinamica il ritratto diventa il sostituto della persona, il simulacro del soggetto, che può addirittura partecipare a uno scambio di sguardi e quindi a un modo linguistico particolare del cinema […]. Il ritratto di Orgon non guarda nessuno. Non potrebbe guardare nessuno. Eppure nella dinamica del film pare guardare esso stesso e pare guardare Elmire, in un interscambio visivo di indubbia intensità [...]. Questa capacità del cinema di produzione di uno sguardo non umano è un elemento in-

A proposito del rapporto tra il cinema di Murnau e l’opera del pittore Albrecht Altdorfer, scrive Eric Rohmer: «La visione del cineasta, come quella del pittore, è dunque cosmica. Nell’uno come nell’altro, l’azione compiuta, l’emozione provata dai personaggi, provocano un’eco che si ripercuote agli estremi limiti dell’universo». Vedi E. Rohmer, L’organizzazione dello spazio nel “Faust” di Murnau, cit., p. 11.

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novativo essenziale. Perché nell’oggettivazione dello sguardo fittizio di Orgon, Murnau coglie un altro carattere fondante del cinema, il suo attivarsi non solo come dispositivo, ma come automa riproduttivo che ci permette di sviluppare esperienze percettive, emozionali e conoscitive nuove»9.

La congiunzione virtuale dei luoghi e l’anomala composizione degli sguardi attivata nel passaggio di Nosferatu qui preso in considerazione, delinea pertanto uno spazio immaginario che sembra trascendere la giustapposizione delle due linee narrative. Potremmo dire che a differenza di quanto avviene nel montaggio invisibile (secondo la forma del découpage classico), Murnau guarda a un montaggio delle forze invisibili che animano la vicenda. Se infatti Ejzenštejn vedeva nel cinema di Griffith l’influenza della tecnica narrativa di Charles Dickens, le soluzioni di montaggio in Nosferatu possono essere ricondotte a quell’immaginazione romantica e spiritualista che Lotte Eisner individuava tra le radici dell’Espressionismo e del cinema tedesco degli anni Venti. Infine, se da un lato questa forma di montaggio configura uno spazio mentale, 9

P. Bertetto, Il riflesso, la lacrima, il nero, cit., pp. 66-67. Sui rapporti tra visione e allucinazione Bertetto torna più ampiamente in un saggio dedicato ai caratteri strutturali del cinema espressionista, in cui afferma che «La visione del cinema espressionista non implica tanto una percezione, quanto un’allucinazione, o almeno una percezione allucinata: si configura cioè come uno spazio dell’allucinazione, un prodotto fantasmatico che a sua volta richiede e produce una percezione allucinata. La visione è allora allucinazione, sguardo che trapassa i fenomeni, li investe del contenuto emozionale, dell’inconscio, dell’immaginario, del rimosso, forse. La visione è rapporto non con l’oggettività, ma con il fantasma, iniziazione al musiliano “aspetto spettrale dell’accadere”». Vedi P. Bertetto, Il cinema espressionista e la forma dell’immaginario, cit., p. 12.

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dall’altro con essa si delinea anche quel meccanismo delle identificazioni speculari che struttura tutto l’impianto del film. Come già detto in apertura, la sequenza in questione rappresenta un momento fondamentale nell’economia della narrazione degli eventi. I due piani del racconto non vengono soltanto a sovrapporsi ma anche in un certo senso a confondersi proprio a partire da qui. Il gioco del doppio e delle identificazioni speculari che coinvolge i tre personaggi principali (Orlok/Nosferatu, Hutter ed Ellen) trova infatti una prima evidente affermazione proprio nella difficoltà di assegnare, con l’avanzare del racconto, un significato univoco alle scene e al loro assemblaggio. Ad esempio, perché vediamo Ellen attendere il ritorno di suo marito all’interno di un cimitero di fronte al mare, quando la donna in realtà sa benissimo che Hutter è partito a cavallo (mentre è proprio dal mare che arriva Nosferatu, impadronitosi della nave “Empusa”)? Numerose interpretazioni in chiave psicanalitica del film10 sono state elaborate attorno all’oscura pulsione che lega Nosferatu ed Ellen e, in tal senso, lo scambio di sguardi e la congiunzione virtuale dei due spazi di Wisborg e del castello di Orlok, oltre ad anticipare l’incontro finale tra i due, manifesta esplicitamente la “vera posta in gioco” del contratto firmato da Nosferatu all’inizio della scena11. 10 11

Vedi soprattutto R. Wood, Murnau, in «Film Comment», n. 12, 1976, pp. 4-19. Cfr. T. Elsaesser, Weimar Cinema and After. Germany’s Historical Imaginary, cit.

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L’insistenza sull’immagine di Ellen incorniciata nel ciondolo che Hutter porta con sé, su questo particolare che attira l’attenzione del conte Orlok al momento della firma, simboleggia uno scambio di ruoli e l’intessersi di quell’oscuro legame tra la donna e Nosferatu che si manifesta nella scena immediatamente successiva. Così la dinamica degli sdoppiamenti dei personaggi entra anch’essa in uno stato di indecidibilità, colta in uno spettro di ulteriori rifrazioni. Nosferatu è il doppio di Orlok ma anche la parte oscura di Hutter. Da un lato Ellen è la fanciulla pura, l’eroina melodrammatica insediata dal Male, ma dall’altro, essa è il tramite verso Nosferatu, e la sua psiche e le forze cupe che albergano in Nosferatu entrano in comunicazione12. In generale si manifesta qui un tratto ulteriore della poetica di Murnau. Ovvero la rifigurazione del sistema del doppio, caro al cinema espressionista, in un sistema di triangolazioni (Hutter, Ellen e Nosferatu) in cui il ruolo del mediatore sembra essere una sorta di casella vuota, in continuo slittamento da un personaggio all’altro13. 3.2 Il gioco del movimento puro e le forme dinamiche della soggettività

In L’ultimo uomo, l’idea di una radicale soggettivazione dell’esperienza, vale a dire il presupposto cardine dell’estetica espressionista, si sviluppa in modi e processi di 12 13

Cfr. L. Quaresima, Nosferatu il vampiro (1922), in P. Bertetto - S. Toffetti (a cura di), Incontro ai fantasmi. Il cinema espressionista, cit., pp. 73-80. Sul tema del doppio riletto dal cinema di Murnau in forma di triangolazione vedi soprattutto il saggio di Janet Bergstrom, Sexuality at a Loss. The Films of F.W. Murnau, cit.

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figurazione che non mostrano più alcun debito nei confronti del teatro o della pittura (intesa come citazione o statico recupero di una dimensione pittorica dell’inquadratura). Ovvero qui essa si produce: «non solo agendo sui materiali profilmici, piegando lo spazio esterno a spazio interiore, ma sviluppando nuovi principi che portano la macchina da presa a trasformarsi in fattore originale di organizzazione dello spazio e protagonista attivo dell’azione. Caligari, rispetto a questi sviluppi, può essere considerato ancora un film del passato»14.

Per un discorso più specifico su questa inedita autonomia della macchina da presa, così specifica di questo film, possiamo prendere in considerazione la sequenza del furto della divisa, con cui ha inizio la parte centrale della pellicola. Degradato a custode della toilette, l’anziano portiere penetra di notte nell’Hotel Atlantic per riappropriarsi della divisa gallonata che è stato costretto a restituire. Essa rappresenta d’altronde il simbolo stesso del prestigio sociale raggiunto, da cui dipende la possibilità di continuare ad essere visto come una persona importante e degna di rispetto nel quartiere popolare dove vive. La sequenza è composta di diciannove inquadrature per una durata complessiva di quattro minuti e quarantacinque secondi. Ha inizio con un primo gruppo di inquadrature d’ambiente fisse (inqq. 1-3) in cui ci vengono mostrate la facciata dell’albergo in notturna e, parallelamente, il palazzo dove vive l’ex-portiere, in cui si stanno celebrando i festeggiamenti per le nozze di sua figlia. Vediamo quindi la ragazza affacciata al balcone che attende l’arrivo di suo padre, poi torniamo di fronte all’albergo. Lo spazio antistante è inquadrato con un rapido carrello 14

L. Quaresima, Cinema Tedesco: gli anni di Weimar, cit., p. 89.

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all’indietro che parte dall’ingresso. Con una lunga inquadratura (5) che segue l’ingresso del portiere nello stabile (ripreso in figura intera mentre si aggira circospetto rasente alle pareti del corridoio) entriamo nel vivo dell’azione. Le inquadrature successive (6-11) sono costruite in un gioco di campi e controcampi tra il percorso del guardiano notturno che compie la sua ronda nell’albergo e il portiere che tenta di non farsi sorprendere. Finalmente l’uomo penetra nella sala dove è custodita la sua divisa, e poi lo vediamo uscire (ripreso in campo medio). Si guarda intorno per accertarsi di non esser visto ma qualcosa fuoricampo attira il suo sguardo.

Scopriamo tre inservienti della reception, i quali però stanno dormendo profondamente appoggiati al bancone della sala. Il portiere gli passa davanti rapidamente senza svegliarli (inq. 12). Ora è fuori dall’albergo

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con la sua divisa in mano. Ansimante cerca riparo dietro l’angolo della strada. Come per assicurarsi che nessuno lo abbia seguito, si volta di nuovo in direzione dell’edificio. Questo, in un’improvvisa allucinazione visiva, sembra letteralmente crollargli addosso (inq. 15). Infine, ripresa coscienza, egli indossa la propria divisa e si avvia verso casa per unirsi ai festeggiamenti (inqq. 16-19).

15

Rispetto ai processi di soggettivazione sopra evocati, le inquadrature dodici e quindici appaiono decisive. L’eliminazione delle didascalie secondo l’estetica del «titelloser Film»15 comporta infatti non soltanto l’adozio-

Lo sceneggiatore Carl Mayer fu tra i più appassionati sostenitori della pura visualità e della rinuncia alle didascalie, secondo una linea “purista” caratteristica del dibattito degli anni Venti che alla letterarietà e alla fissità (intesa come perdita del ritmo) del cartello opponeva il dinamismo cinetico delle immagini e il ricorso a modelli narrativi fondati sulla pantomima. Come ricorda Leonardo Quaresima, la rinuncia alla didascalia è insomma vista come «forte sollecitazione a passare da una semplice dimensione romanzesco-riproduttiva a un’altra più complessa,

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ne di una mimica e di una recitazione gestuale più accentuata, quanto una maggiore compartecipazione della macchina da presa all’azione e l’impiego di soluzioni visive che permettono di riconfigurare su un piano simbolico gli stati d’animo del personaggio. Quando il portiere penetra nell’albergo (inq. 5) la macchina da presa partecipa della sua titubanza restituendo, con il suo stesso lento incedere, l’incertezza e il tremore dei passi con cui egli avanza nel corridoio cercando di non far rumore. Se la macchina da presa in questo caso accompagna il movimento di Jannings esaltandone l’intensità della mimica posturale, con la dodicesima inquadratura della sequenza, il suo sguardo si offre come un elemento autonomo del piano visivo-dinamico del film. Nel momento in cui, appena uscito dalla sala dove ha trafugato la divisa, il portiere guarda verso il fuoricampo alla sua destra, la macchina da presa sembra dare corpo al suo sguardo mimando, con un rapido movimento, la traiettoria della sua visione fino a inquadrare gli inservienti che dormono. Tuttavia, lungi dall’essere un cosiddetto movimento immotivato realizzato per attirare l’attenzione sulla macchina da presa in sé, questo passaggio sembra configurare l’idea di una coscienza corporea dello sguardo nei termini che la teoria neo-fenomenologica assegna a questa espressione; come scrive Vivian Sobchack: «La camera mobile non è solo uno strumento meccanico, un oggetto di percezione visiva e cinetica; è anche un sogbasata su componenti ritmiche, metriche. L’ultima risata è visto come sintesi avanzata di tale duplice inclinazione, naturalisticoimpressionistica e ritmico-visiva». Vedi L. Quaresima, Cinema Tedesco: gli anni di Weimar, cit., p. 102. In tal senso il Kammerspielfilm è visto come l’orizzonte di stabilizzazione delle tensioni estetiche del titelloser Film, per cui «la limitatezza di temi e situazioni drammatiche rimproverata così spesso al film senza didascalie si trasforma ora in fattore di caratterizzazione» (Ibid.).

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getto che vede, si muove, ed esprime una percezione. Essa partecipa alla coscienza della sua esistenza nel mondo animata, intenzionale e corporea»16. D’altronde è a questa dimensione antropomorfica della visione, all’idea di uno sguardo disincarnato, che allude Murnau auspicando una cinepresa «finalmente smaterializzata». In questo passaggio del film, infatti, non si tratta soltanto di aggirare il raccordo di sguardo (il portiere che guarda fuoricampo/gli inservienti che dormono) in favore di una ripresa soggettiva continua. Tecnicamente l’inquadratura non è definibile come una soggettiva (dal momento che nel corso della stessa vediamo la sagoma del portiere attraversare rapidamente il campo mentre passa di fronte al banco della reception). Si tratta piuttosto di imprimere un ritmo soggettivo allo spazio inquadrato, vale a dire di rifigurare in termini plastico-dinamici uno stato interiore (la concitazione del momento). È un’inquadratura che in tal senso rientra nell’orizzonte della cosiddetta dynamic perception, così come codificata dalla teoria sul «punto di vista» di Edward Branigan17. Percezione dinamica che ritroviamo anche nel 16

17

V. Sobchack, Toward Inhabited Space: The Semiotic Structure of Camera Movement in the Cinema, in «Semiotica», 41, 1-4, 1982, p. 318. Vedi anche Id., The Address of the Eye: A Phenomenology of Film Experience, Princeton University Press, Princeton 1991. Per una tipologia dei movimenti di macchina letti alla luce delle più avanzate teorie del film vedi E. Branigan, Projecting a Camera. Language-Games in Film Theory, Routledge, New York-London 2006. Cfr. E. Branigan, Point of View in the Cinema. A Theory of Narration and Subjectivity in Classical Film, Moutoun Pubblishers, BerlinNew York-Amsterdam 1984. Si tratta di una forma di dinamizzazione dello sguardo del personaggio (attraverso l’uso dello zoom o di movimenti di macchina) tesa a restituire lo stato d’animo di colui che guarda. In questo caso tuttavia non ci muoviamo sull’asse-visivo del personaggio e l’inquadratura si offre pertanto come un’oggettiva tesa a legare i due termini in gioco nell’azione.

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caso dell’inquadratura quindici. Il portiere, ora giunto fuori dall’albergo, si volta lentamente dietro di sé (ripreso in mezza figura). Uno stacco ci mostra la sua visione allucinata (realizzata attraverso un gioco di lenti) e improvvisamente il palazzo sembra crollargli addosso. L’inquadratura è in realtà una semi-soggettiva; vediamo cioè la nuca e un braccio del portiere alzato verso il cielo come per ripararsi dall’edificio che sembra schiacciarlo. Anche in questo caso, dunque, più che rendere l’oggetto della visione del personaggio, si tratta di investire lo spazio di un processo di simbolizzazione radicale18, di imprimere cioè al movimento e al ritmo visivo dell’immagine il carattere di un’esperienza percettiva in cui lo sguardo della macchina da presa e quello del personaggio sembrano confondersi in un solo stato di coscienza pur rimanendo scissi. Non solo la «Entfesselte Kamera», la camera scatenata, ma pressoché tutto il sistema degli sguardi configurato in L’ultimo uomo, manifesta pertanto un dinamismo interiore e una tensione tra sguardo e corpo che non appaiono riducibili alla sola idea di un cosiddetto “scavo della dimensione psicologica”. Piuttosto troviamo qui all’opera una di quelle possibilità del cinema intuita tra i primi da Edgar Morin, quando osservava che l’esperienza filmica prevede «un occhio che si stacchi dal corpo, peduncolato, e che si aggiri circolando fuori dal suo punto di congiunzione e sia tuttavia collegato ad esso»19. 18

19

Vedi ad esempio il lungo sogno del portiere realizzato come un caleidoscopio visivo in cui Freund mette in atto tutte le possibili soluzioni (gioco di lenti, carrelli e piattaforme girevoli) tese a rendere in termini puramente cinetici lo stato di coscienza alterato del portiere. E. Morin, Le Cinéma et l’homme imaginaire, Minuit, Paris 1956, tr. it., Il cinema o l’uomo immaginario. Saggio di antropologia sociologica, Feltrinelli, Milano 1982, pp. 131-132. Riprendo questo pas-

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D’altronde in L’ultimo uomo l’idea stessa di movimento è il luogo di una ricerca stilistica totalizzante che raggiunge il livello di massima concentrazione espressiva e che come tale percorre il film a vari livelli. Non soltanto con il ricorso alla camera scatenata o nei casi di dinamismo cinetico dell’immagine realizzati con i numerosi giochi di lenti che figurano le percezioni del personaggio, ma anche in occasione delle inquadrature d’ambiente realizzate di fronte all’albergo (soprattutto nell’apertura del film). Qui, nonostante la fissità del quadro, l’idea di tensione dinamica che attraversa le varie configurazioni visive assume la forma del brulichio incessante della vita metropolitana. Attraverso un uso mirabile della prospettiva forzata che esaspera la profondità dell’immagine e permette la disseminazione degli elementi mobili nel quadro, anche queste inquadrature fisse – oltre ai carrelli, ai movimenti di macchina e ai giochi di lenti (e di luci) – recuperano il gioco del movimento puro come pratica totalizzante, forza tensiva e articolazione ritmica iscritta sin nell’organizzazione e allestimento del profilmico per ricreare il dinamismo della metropoli. Proprio pensando a queste celebri inquadrature della città possiamo guardare a L’ultimo uomo come ad un “film architettonico” (nel senso che Murnau stesso attribuiva a questo termine) ossia a un’opera di stilizzazione radicale dello spazio realizzata attraverso i rapporti di movimento dell’immagine, e che, in tal modo, trascende di gran lunga le eventuali istanze morali o le coloriture realistiche legate allo scenario di Carl Mayer. Un progetto formale che insomma non può essere ridotto alla restituzione di un ambiente saggio del libro di Morin citato in M. Vernet, Figures de l’absence. De l’invisble au cinéma, Cahiers du Cinéma – Éditions de l’Etoile, Paris 1988, tr. it., Figure dell’assenza. L’invisibile al cinema, Kaplan, Torino 2008, p. 57.

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sociale ma che – proprio pensando all’avanzato lavoro di riconfigurazione del profilmico e alla radicale innovazione delle tecniche di ripresa – guarda all’asse produttività tecnologica/visualità metropolitana cara alle avanguardie degli anni Venti, alle ricerche del “Bauhaus” e, in particolare, alle sperimentazioni filmiche di László Moholy-Nagy, il cui intento «consiste nello studio e nella decostruzione del movimento, che è insieme una qualità particolare della metropoli e una componente strutturale del cinema»20. 3.3 Weimar/ Hollywood. L’intreccio di melodramma e «Art Film»

L’ibridazione tra l’idea weimariana del cinema come arte e le strutture epiche del cinema popolare americano, e in particolare del melodramma, attraversa Aurora a vari livelli. L’analisi della sequenza con cui prende avvio l’azione drammatica del film può essere sviluppata in questa direzione. Ci riferiamo all’incontro notturno nei pressi della palude tra l’uomo e la sua amante di città21, 20 21

P. Bertetto, Il cinema d’avanguardia. Teorie, poetiche, immaginazione in Id. (a cura di), Il cinema d’avanguardia. 1910-1930, Marsilio, Venezia 1983, p. 62. I personaggi di Aurora sono identificati come dei tipi universali («the man», «the wife», «the woman from the city») ovvero “l’uomo”, “sua moglie” e “la donna di città”. A differenza del romanzo di Hermann Sudermann, Die Reise nach Tilsit (Viaggio a Tilsit) da cui è tratta la sceneggiatura di Carl Mayer, in cui i protagonisti portano rispettivamente i nomi Ansa Balezus, Indra e Busza. La scelta operata da Mayer della trasformazione dei personaggi in “tipi” mostra il chiaro debito con la drammaturgia espressionista (in cui il nome proprio dei personaggi e la singolarità dell’individuo sono sovvertiti con il richiamo a categorie tipiche. Il soggetto più che ad una dimensione psicologi-

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quando quest’ultima tenta di convincerlo del progetto omicida – uccidere sua moglie simulando un annegamento e fuggire con lei nella grande metropoli. È notte, l’uomo è appena uscito di casa attirato dal segnale della donna di città che lo attende nei pressi della palude. Questo spazio evoca già l’oscuro impulso che domina l’incedere dell’uomo, il suo lento scivolare in un torbido desiderio le cui implicazioni più minacciose vengono automaticamente connotate presentando la donna di città come l’incarnazione stessa del male e del peccato (e fa ormai parte dell’epica della storia del cinema, l’idea di Murnau di mettere dei pesi di piombo nelle scarpe indossate dall’attore George O’Brien per renderne ancora più inquietante l’andatura). Mentre sua moglie siede sola e triste a tavola, due donne commentano la scena («erano come bambini spensierati, sempre felici e sorridenti», recita la didascalia). Seguono quindi alcune immagini bucoliche dei loro giorni felici, in cui vediamo la coppia immersa nella serenità della famiglia e della vita di campagna. Le donne proseguono il racconto – «ora l’uomo si sta rovinando per quella donna di città. Gli usurai si appropriano dei suoi averi». Torniamo quindi al presente, di nuovo sull’inquadratura della moglie seduta a tavola sola e sconsolata. A questo punto la donna si alza e, giunta nella stanza in cui dorme il loro ca viene ridotto ad un processo elementare di esemplarità). Cfr. P. Chiarini, Il teatro espressionista tedesco, Cappelli, Bologna 1959.

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bambino, scoppia in lacrime riversa sul letto. Da qui ha inizio il segmento di cui ci occupiamo. Esso è composto di ventidue inquadrature e otto didascalie per una durata complessiva di sei minuti e trentacinque secondi. Tuttavia, la prima inquadratura – un long take che vedremo più in dettaglio – dura da sola oltre un minuto e mezzo. Da un punto di vista narrativo è possibile dividere il segmento in tre atti, con un lungo momento centrale in cui, dopo un iniziale conflitto, l’uomo e la donna di città siglano il loro patto omicida. All’inizio vediamo l’uomo andare incontro alla donna che lo attende nascosta nella boscaglia della palude nei pressi del lago (inqq. 1-5).

Qui, nel corso del loro appuntamento amoroso, la donna gli propone di vendere la fattoria per andare a vivere con lei nella grande città. Di fronte alle perplessità dell’uomo che non sa come abbandonare sua moglie, la donna suggerisce di farla annegare nel lago simulando un incidente (inqq. 5-15). Lui ha una reazione rabbiosa e sembra quasi voler strangolare l’amante, ma poi i due si baciano, travolti dalla passione. L’uomo sembra ormai convinto. Improvvisamente scorrono di fronte a loro, sdraiati sulla riva del lago, le immagini scintillanti della vita metropolitana. La donna si alza in piedi e inizia una danza frenetica quasi suggellando un rituale incantatorio, mentre l’uomo 149

si getta ai suoi piedi (inqq. 16-24). Infine la coppia fa ritorno verso il villaggio. Nel tragitto lei gli ricorda le ultime istruzioni per realizzare il loro piano (inqq. 25-30). Questo segmento esibisce alcune delle principali dicotomie che strutturano il film e presenta elementi di indubbio interesse per ciò che riguarda il lavoro di messa in scena e i modi di figurazione attivati dal testo. Si tratta di opposizioni binarie, messe peraltro in evidenza dai numerosi commentatori di Aurora22, che si definiscono, ad esempio, attorno al contrasto tra la città e la campagna, “doppiato” per così dire attraverso la netta contrapposizione tra i due modelli di femminilità della donna angelica e asessuata, da un lato, e della vamp spregiudicata e tentatrice, dall’altro. Gran parte di queste diadi del racconto tuttavia possono essere ricondotte – come abbiamo visto – sullo sfondo dei due canoni culturali che sottendono alla stessa operazione produttiva di Aurora, in cui la libertà compositiva dell’“Art Film” europeo e gli standard narrativi hollywoodiani sembrano intrecciarsi alla perfezione. È insomma alla luce di un più ampio e continuo scambio tra cultura americana ed europea che devono essere interpretate le opposizioni strutturali su cui lavora il testo. Se da un punto di vista narrativo i contrasti e i caratteri dei personaggi possono sembrare eccessivi, realizzati e condotti “a tinte forti” – nel solco della tradizione del melodramma popolare cui il film si richiama – da un punto di vista stilistico e visivo Murnau lavora in termini assolutamente dialettici, integrando lo spirito del cinema di Weimar e delle sue conquiste formali nella grande macchina narrativa hollywoodiana. È soprattutto in riferimento alla 22

Ad esempio ogni paragrafo del libro di Lucy Fisher è dedicato a una delle coppie oppositive configurate dal racconto e dalla messa in scena del film, su cui a lungo si è esercitata la critica. Cfr. L. Fisher, Sunrise. A Song of Two Humans, cit.

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visualità e al linguaggio impiegato che si può insomma guardare a Aurora come a un film «né europeo, né americano, ma qualcosa di una qualità deliberatamente universale, che si trova in mezzo tra i due»23 (da cui discende appunto quel fascino che il film mantiene intatto presso gli spettatori e i critici di ogni epoca). Ad esempio, nella prima parte del segmento (inqq. 15) possiamo osservare, da un lato, il ricorso al montaggio alternato che esibisce il contrasto drammatico dell’azione attraverso la giustapposizione dei due stereotipi femminili – la donna di città che seduce l’uomo mentre la moglie, rimasta sola in casa con il proprio bambino, piange disperata – mentre dall’altro, l’impiego di quegli straordinari virtuosismi della macchina da presa già sperimentati in L’ultimo uomo (uno dei principali motivi che attirarono l’interesse di Hollywood per Murnau). Attraverso un complesso sistema di binari aerei montati sul soffitto dello studio, Murnau e i suoi operatori (Charles Rosher e Karl Struss) permettono alla cinepresa di seguire i passi dell’uomo con un lungo e articolato movimento di macchina, realizzando una tra le più intense riprese in long take del cinema di tutti i tempi. Si tratta dell’inquadratura, della durata di oltre un minuto e mezzo, con cui si apre il segmento. L’uomo avanza nella notte ripreso di spalle, mentre sullo sfondo della radura che si apre di fronte a lui, la luna in alto nel cielo domina la composizione del quadro. La macchina da presa ne segue lo spostamento, gli gira intorno penetrando assieme a lui nella boscaglia, fino a riprenderlo di fronte. A questo punto è l’uomo a venire incontro alla cinepresa mentre questa si sposta per entrare 23

G. Petrie, Hollywood Destinies: European Directors in America, 1922-1931, Routledge & Kegan Paul, London/Boston/Melbourne and Henley 1985, p. 41.

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tra la fitta vegetazione. Qui scorgiamo ora la donna, in piedi, che attende l’uomo. Anch’essa è presentata sotto l’immagine della luna che si specchia nel lago. La donna, intravisto l’uomo che si avvicina (ora fuoricampo), si aggiusta rapidamente il trucco. L’uomo entra in campo e i due si abbracciano appassionatamente. Con uno stacco il film ci mostra, cogliendo anch’essi in un abbraccio, la moglie e il bambino soli in casa (riprendendo l’inquadratura del segmento precedente) e di nuovo un primo piano della donna in lacrime. Poi torniamo sulla riva del lago, dove l’uomo e la donna di città si stanno baciando sotto la luce lunare. Se da una parte il montaggio alternato sottolinea il dramma associando le due linee dell’azione, è il movimento di macchina della prima inquadratura che si incarica di esprimere la tensione tragica della scena, 152

creando nello spettatore l’attesa per un incontro fatale e disegnando contemporaneamente uno spazio a spirale che lentamente avvolge l’uomo e lo spinge verso il suo destino. Murnau trasforma cioè un momento di transizione – lo spostamento di un personaggio da una parte all’altra della scena – nella figurazione di uno spazio drammatico dell’azione che esprime i moti interiori del personaggio. Capovolgendo l’ida di “punto morto” del film, Béla Balázs scriveva che, a differenza di quanto sostenuto da quei registi ancora legati ad una concezione teatrale del dramma, è negli spostamenti dei personaggi che si possono esprimere le sfumature del loro stato d’animo. Scrive Balázs: «Negli spostamenti si cela l’elemento lirico del film. Il solitario andare e venire del protagonista prima e dopo la scena principale equivale a veri e propri monologhi del personaggio, che, al cinema, non risultano mai innaturali […]. Riesco a immaginare molto bene uno stile cinematografico impressionistico, direi quasi maeterlinckiano, in cui non siano affatto le scene principali a essere rappresentate, ma solo i presentimenti e gli effetti lirici degli avvenimenti – tutto questo attraverso le immagini che presentano degli spostamenti»24.

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B. Balázs, L’uomo visibile, cit., pp. 231-232. Da sottolineare che in questo articolo Balázs propone tra gli esempi più riusciti di

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Potremmo così parlare di un monologo che, in questo caso, non è solo affidato alla mimica dell’attore, quanto soprattutto al movimento e agli spostamenti figurati dalla macchina da presa. È insomma lo spazio filmico costruito dal lungo movimento della cinepresa, l’elemento che evoca i fantasmi dell’uomo travolto dalla propria passione. La pittoricità della composizione (la luna e il paesaggio stilizzati, le pose plastiche degli attori) e il dinamismo della figurazione (il movimento di macchina), ovvero i due tratti emblematici dello stile di Murnau25, si trovano qui perfettamente integrati con il pathos del melodramma popolare. Aurora insomma non si limita al rimando a una generica atmosfera europea in un film americano. Anzi, nel praticare questa fusione di stili si spinge fino al recupero di certe suggestioni dell’avant-garde film26. È il caso del caleidoscopico gioco di sovrimpressioni, con cui ci 25 26

questi «monologhi mimici di spostamento» la camminata solitaria di Alfred Abel in Fantasma. Questi i due tratti ricorrenti attorno a cui Dudley Andrew sviluppa l’analisi di Aurora in Film in the Aura of Art, Princeton University Press, Princeton 1984. Anche se né Eisner né Siegfried Kracauer riconoscono l’importanza dell’avanguardia nello sviluppo del cinema di Weimar, il modello di figurazione della vita metropolitana di Aurora ha ad esempio non poche consonanze con le ricerche sviluppate nel contesto della sinfonia visiva e dei modelli di figurazione della vita metropolitana. Il 23 settembre 1927 (lo stesso anno di Sunrise) si celebra al Traenenpalast di Berlino il trionfo della prima del film di Walter Ruttmann, Berlin. Die Sinfonie der Großstadt (Berlino, sinfonia di una grande città) filmato da Karl Freund, leggendario operatore di film quali Metropolis, Varieté (1925; E.A. Dupont) e L’ultimo uomo. Sui rapporti tra l’avanguardia e il cinema di Weimar vedi i saggi di D. Scheunemann, Activating the Differences: Expressionist Film and Early Weimar Cinema, pp. 1-33, W. Schobert, “Painting in Time” and “Visual Music”: On German

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viene mostrata la frenesia e il ritmo urbano della grande città, in un’altra suggestiva evocazione spettrale del desiderio. Infatti, il modello di visualizzazione della metropoli ricorda qui le ricerche sulla cosiddetta sinfonia visiva sviluppate nell’ambito delle avanguardie. La sinfonia visiva

è d’altronde uno dei motivi fondamentali della più avanzata ricerca filmica del periodo. Essa illustra l’«opzione per un’essenzialità dell’immagine cinetica come ritmo,

Avant-Garde Films of 1920s, pp. 237-250, e D. Macare, Ruttmann, Rhythm and “Reality”: A Response to Siegrfied Kracauer’s Interpretation of “Berlin. The Symphony of a Great City” (pp. 251-270) contenuti in D. Schuenemann (ed.), Expressionist Film. New Perspectives, cit. A proposito di Berlin, Paolo Bertetto scrive cha la scommessa di Ruttmann «consiste proprio nell’attraversare con differenti metodi riproduttivi tutta la gamma della vita metropolitana, per costruire una sorta di organismo ambivalente in cui alla ricchezza e alla varietà delle determinazioni metropolitane, si sovrappone una superiore intenzione di ritmo visivo-sinfonico. Non è tanto la vita di grandi masse, come nei Querschnittfilme, al centro del film, quanto la molteplicità delle impressioni, cioè la combinazione di componenti e di stimoli diversi in una medesima orchestrazione formale». Vedi P. Bertetto, Il cinema d’avanguardia. Teorie, poetiche, immaginazione, cit., p. 53. Una molteplicità di impressioni che in questo, e in altri segmenti del film, caratterizza anche la messa in scena della vita metropolitana in Aurora.

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combinazione musicale di unità linguistiche referenziali pure, che attraversa il cinema degli anni venti come un’ossessione permanente»27. Diversamente dal cinema astratto o dal cinema puro, attraverso la sinfonia visiva si fa strada l’orchestrazione di materiali prelevati dal profilmico che guardano al gioco di simbolismi tra il ritmo frenetico della metropoli e la ritmicità della percezione cinematografica in una vicendevole esaltazione del moderno per eccellenza. Non a caso Mary Ann Doane legge questo segmento come uno dei momenti più apertamente autoriflessivi del film – l’uomo e la donna come due spettatori cinematografici che guardano il film della città o appunto la sua sinfonia visiva proiettata nel cielo di fronte a loro28. Questa allegoria visiva della città (così come le due lune palesemente artificiali fatte costruire per la ripresa in long take) che rimanda dunque palesemente all’orizzonte illusivo e alla figurazione intensiva del più colto cinema di Weimar, si intreccia con il pathos della scena e si integra nell’orizzonte narrativo del film, senza affatto sovvertirne la struttura melodrammatica. Com’è noto, per tutta l’era del cinema muto, il melodramma rappresentò uno dei modelli stilistici predominanti a Hollywood. Soprattutto in questo caso per melodramma non deve intendersi un genere dai confini definiti, bensì si de27 28

P. Bertetto, Il cinema d’avanguardia. Teorie, poetiche, immaginazione, cit., p. 51. M.A. Doane, Desire in Sunrise, in «Film Reader», n. 2, 1977, pp. 71-77.

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ve fare riferimento all’inclinazione dell’epoca per l’esasperazione dei conflitti drammatici, trattati in termini rigidamente convenzionali. L’operazione portata avanti dalla Fox con l’ingaggio di uno dei più prestigiosi registi europei in circolazione, intendeva pertanto raccogliere tutta una tradizione popolare (come quella del cosiddetto melodramma rurale, ad esempio) per dimostrare che essa poteva essere trattata anche in un modo altamente sofisticato. È in questo senso che si può parlare di Aurora come della «consapevole ricapitolazione di un genere»29. Aurora si sviluppa, infatti, lungo uno dei temi portanti del cinema popolare, vale a dire l’opposizione tra la città – luogo della tentazione, del vizio e della perdita di valori – e la campagna, che incarna invece la dimensione morale messa in pericolo dal progresso e dall’industrializzazione. Un’opposizione binaria che, come abbiamo detto, viene sviluppata a forti tinte, secondo le regole del melodramma, e che ritroviamo nell’opposizione tra l’angelica e asessuata Janet Gaynor e la spregiudicata vamp di città, incarnata da Margaret Livingston, che invece rimanda ai modelli di femminilità inurbata tipici della flapper imper29

R. Koszarski, An Evening’s Entertainment. The Age of the Silent Feature Picture, 1915-1928, Scriben’s New York, New York 1990, tr. it. parz. in O. Caldiron - S. Lucci - L. Marzo (a cura di), Cineamerica, 1919-1929. Alle fonti del mito, cit., p. 83.

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sonata da attrici come Clara Bow e Joan Crawford, ma anche e più specificatamente all’erotismo trasgressivo di Weimar30. Anche per questo Eisner legge la figura della donna di città – e in particolare i suoi movimenti esasperati nel corso della danza rituale con l’uomo ai suoi piedi – come l’allegoria stessa dell’Espressionismo31. In ogni caso, se sotto l’influenza della coppia «Griffith-Dickens» i maggiori cineasti del muto portarono un contributo a 30

31

A proposito del passaggio dai modelli di femminilità del cinema degli anni Dieci alle nuove figure femminili della flapper dei Roaring Twenties, Veronica Pravadelli scrive: «Segnata dallo spirito di indipendenza e dal desiderio di autoaffermazione, perseguita anche con un uso libero del corpo e della sessualità, la nuova donna eclissa l’immagine del modello vittoriano, rappresentato sullo schermo dalle eroine deboli, sofferenti e pure del cinema di Griffith interpretate da Lillian Gish e Mary Pickford. Questa dicotomia esprime quella transizione epocale, per la condizione femminile, che gli storici hanno felicemente definito il passaggio dalla “True Womanhood” vittoriana alla “New Womanhood”», vedi Id., La grande Hollywood. Stili di vita e di regia nel cinema classico americano, Marsilio, Venezia 2007, p. 53. In tal senso Aurora gioca consapevolmente sulla coesistenza e sulla contrapposizione dei due modelli di femminilità. Tuttavia se il personaggio di Janet Gaynor aderisce perfettamente all’eroina sofferente del melodramma degli anni Dieci, nella donna di città convivono sia l’indipendenza della flapper che i modelli di erotismo perturbante e bellezza demoniaca promossi nel clima trasgressivo della Berlino di Weimar, e oltremodo stigmatizzati negativamente dalla cultura puritana americana dell’epoca. Per un discorso sui modelli di erotismo estremo promossi dalla cultura di Weimar vedi M. Gordon, Voluptuous Panic. The Erotic World of Weimar Berlin, Feral House, Los Angeles 2006. Cfr. L. Eisner, Murnau, cit. Vedi anche B. Parger, Taming Impulses: Murnau’s Sunrise and the Exorcism of Expressionism, in «Literature/Film Quarterly», n. 4, 2000, pp. 284-291.

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questa linea sviluppando il tema oppositivo in favore della campagna e dell’idea di “paradiso perduto” che vi è custodito, in Murnau l’operazione appare culturalmente più complessa. Scrive Jean Douchet: «Nella grande tradizione romantica l’attraversamento del male è necessario per la conquista del bene. La possibilità di una complicità tra città e campagna conferisce a Aurora una profondità e una ricchezza che la semplice opposizione reazionaria tra i due concetti non poteva che annullare. I due archetipi sono qui modernizzati. Con questo suo primo film hollywoodiano, Murnau si trova nella posizione dell’emigrante. Costruisce, sulle due rive del lago, la scenografia del villaggio e quella della città. Il villaggio è tipicamente tedesco, secondo la “imagerie” romantica del gotico; la città al contrario è la quintessenza della metropoli concepita come americana, così com’è vissuta dalla fantasia. Aurora è dunque una riflessione sul rapporto tra la mentalità arcaica della vecchia Europa e i valori dinamici del pensiero industriale dell’America, e sulla necessità di arricchire le due visioni una con l’altra»32

La sequenza analizzata sviluppa questa doppia visione dall’interno di precise soluzioni formali. Al di là insomma dell’andirivieni tra i due archetipi scenografici richiamati da Douchet, si deve ricordare il fatto che in Aurora il ruolo della città viene invertito da luogo di perdizione a luogo di recupero della coppia di sposi. Attraverso i richiami dell’avanguardia europea e dell’Espressionismo, gli elementi tragici e romantici – così specifici dello stile visivo di Murnau – si mescolano dunque allo spi32

J. Douchet, La ville tentaculaire, in AA.VV., Cités-Cines; Ramsey, Paris 1987, tr. it. parz. in O. Caldiron - S. Lucci - L. Marzo (a cura di), Cineamerica, 1919-1929. Alle fonti del mito, cit., p. 103.

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rito della cultura americana confermando l’assoluto eclettismo del suo cinema. Se nella sua struttura di fondo il film segue l’orizzonte della cosiddetta commedia del rimatrimonio (secondo la celebre formula di Stanley Cavell) – ossia riunire un uomo e una donna dopo una separazione – esso ne esplora anche, grazie alla sua straordinaria visionarietà che mescola sensibilità europea e spirito americano, quello sfondo universale che rimanda tanto ai suoi lati oscuri che ai suoi momenti utopici e riconcilianti33. Come recita la didascalia con cui si chiudono i titoli di testa del film, «questa canzone di un uomo e di sua moglie è di nessun luogo e di nessun luogo. La si può ascoltare ovunque in ogni momento. Perché laddove il sole sorge e tramonta nel fermento della città o sotto il cielo limpido della campagna; così è la vita, a volte amara, a volte dolce». 33

Anche se in questo caso la riconciliazione non segue il divorzio o la minaccia di divorzio, ma un tentativo di omicidio. Come afferma Cavell, «Tutte le commedie del rimatrimonio contengono un lato oscuro, momenti nei quali un mondo circostante malinconico o tragico viene a un soffio di distanza dalle risate che gli uomini e le donne protagonisti di queste commedie si concedono reciprocamente». Allo stesso tempo rimandano ad un elemento utopico, vicino a ciò che intendevano Emerson e Thoreau «quando auspicavano un nuovo giorno, una rinnovata convinzione che un autentico cambiamento è possibile, che noi non siamo destinati a volere una ripetizione senza il mutamento delle istituzioni, matrimonio in testa, che hanno prodotto la presente scena di ossessione e di assenza di gioia che la generazione precedente ci ha preparato». Vedi S. Cavell, Pursuit of Happiness: The Hollywood Comedy of Remarriage, Harvard University Press, Harvard 1981, tr. it., Alla ricerca della felicità. La commedia hollywoodiana del rimatrimonio, Einaudi, Torino 1999, p. 11.

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Filmografia Der Knabe in Blau [1919; Il ragazzo in blu]

Thomas von Weerth, ultimo discendente di una nobile famiglia, vive nel suo castello in compagnia di un servitore. L’uomo è ossessionato dal ritratto di uno dei suoi avi che gli assomiglia in modo straordinario. Nel dipinto spicca una spilla, il cosiddetto “smeraldo della morte”, su cui grava una maledizione. Dopo un sogno rivelatore, Thomas trova lo smeraldo e decide di tenerlo, nonostante l’invito del servitore a disfarsene per non incorrere nella maledizione. In seguito a un incendio, il ritratto viene consumato dalle fiamme. Thomas, ormai ammalato, ritorna alla vita grazie all’amore di una giovane attrice giunta al castello assieme a una compagnia di gitani.

Regia: F.W. Murnau; sceneggiatura: Edda Ottershausen; fotografia: Carl Hoffmann; scenografia: Willi A. Hermann; interpreti: Ernst Hofmann, Blandine Ebinger, Margit Barnay, Karl Platen, Georg John, Leonhard Haskel, Rudolf Klix, Schmidt-Verden, Marie von Bülow; produzione: Ernst Hofmann-Film; origine: Germania; durata: 85’ a 16 fps. Satanas [1919; Satana]

Tre episodi ambientanti in altrettante epoche storiche (l’Egitto dei Faraoni; la corte dei Borgia; le propagazioni 161

europee della Rivoluzione del 1917) che raccontano le sembianze assunte da Satana tra gli uomini. Gli episodi sono preceduti da un prologo in cui Dio promette a Satana la redenzione se questi, una volta sulla terra, riuscirà a dimostrare che è possibile far sorgere il bene dal male.

Regia: F.W. Murnau; soggetto e sceneggiatura: Robert Wiene; fotografia: Karl Freund; supervisione artistica: Robert Wiene; scenografia: Ernst Stern; interpreti: Conrad Veidt, Fritz Kortner, Sadjah Gezza, Ernst Hofmann, Margit Barnay, Else Berna, Jaro Fürth, Ernst Stahl-Nachbaur, Martin Wolfgang, Marija Leiko, Elsa Wagner, Max Kronert, produzione: Viktoria-Film; origine: Germania; durata: 140’ a 16 fps. Der Bucklige und die Tänzerin [1920; Il gobbo e la ballerina]

Wilton, un uomo gobbo, malato e misogino, trascorre alcuni anni nell’isola di Giava dove diventa ricco in seguito alla scoperta di una miniera di diamanti. Lì conosce la ballerina Gina, che accetta la sua corte per far ingelosire il suo compagno, Smith. Per vendicarsi del fatto che Gina decide di tornare da lui, Wilton mette un veleno nelle creme e negli elisir javanesi che offre alla donna. Il veleno uccide le persone che si avvicinano a Gina, ma non colei che li usa. Anche lui sarà contagiato.

Regia: F.W. Murnau; soggetto e sceneggiatura: Carl Mayer; fotografia: Karl Freund; scenografia: Robert Neppach; interpreti: Sascha Gura, John Gottowt, Paul Biensfeld, Anna von Palen, Henri Peters-Arnolds, Bella Polini; produttore: Erwin Rosner; produzione: Helios-Film; origine: Germania; durata: 84’ a 16 fps.

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Der Januskopf [1920; La testa di Giano]

Il Dottor Warren acquista nel negozio di un antiquario un busto che da un lato mostra il profilo di un Dio e dall’altro quello del Demonio. La sua contemplazione però gli genera inquietudine e cerca inutilmente di disfarsene. Warren capisce ben presto che la sua personalità si sta sdoppiando: di notte si trasforma nel famigerato Mr. O’Connor che, a poco a poco, prende il sopravvento sul tranquillo Dottor Warren.

Regia: F.W. Murnau; soggetto e sceneggiatura: Hans Janowitz (a partire dal romanzo di Robert Louis Stevenson, Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde); fotografia: Carl Hoffmann; Karl Freund; scenografia: Heinrich Richter; interpreti: Conrad Veidt, Magnus Stifter, Bela Lugosi, Margarete Schlegel, Willy Kaiser-Heyl, Margarete Kupfer, Danny Gürtler, Gustav Botz, Jaro Fürth, Hans LanserLudolff, Marga Reuter; produzione: Lipow-Film; distribuzione: Erich Pommer per la Decla-Bioscop; origine: Germania; durata: 121’ a fps. Sehnsucht [1920; Nostalgia]

Uno studente russo che vive a Ginevra sogna di diventare un famoso ballerino. Vuole tornare in Patria, ma non ha soldi ed entra così in contatto con un gruppo di rivoluzionari che, in cambio di una missione, promettono di aiutarlo. Scoperto dalla polizia, viene portato in carcere. Fuggito di prigione, cerca la donna amata fino a che scopre che questa è morta di crepacuore mentre lui era in prigione.

Regia: F.W. Murnau; soggetto e sceneggiatura: Carl Heinz Jarosy; fotografia: Carl Hoffmann; scenografia: Robert Neppach; 163

costumi: Charles Drecoll; interpreti: Conrad Veidt, Gussy Holl, Eugen Klöpfer, Margarete Schlegel, Paul Graetz, Danny Gürtler, Helene Gray, Albert Bennefeld, Marcela Gremo, Ellen Bolan; produzione: Lipow-Film; origine: Germania; durata: 96’ a fps. Abend-Nacht-Morgen [1920; Sera… notte… mattino]

Spinta da suo fratello Brilburn, Maud fa sì che Cheston, il suo ricco amante, le regali uno splendido collier. Cheston mostra il gioiello ai suoi amici tra i quali c’è Prince, un giocatore incallito. Nel tentativo di rubare il collier per pagare i suoi debiti, Prince uccide il suo amico Cheston e fugge simulando un suicidio. Dopo che i primi sospetti cadono su Brilburn, Prince viene incastrato dalla polizia.

Regia: F.W. Murnau; sceneggiatura: Rudolf Schneider; fotografia: Eugen Hamm; scenografia: Robert Neppach; interpreti: Gertrude Welcker, Conrad Veidt, Bruno Ziener, Otto Gebühr, Carl von Balla; produzione: Helios-Film; origine: Germania; durata: 93’ a fps. Der Gang in die Nacht [1920; Il cammino nella notte]

Per festeggiare il compleanno di Helene, la sua promessa sposa, il medico Eigil Börne la porta a vedere uno spettacolo di cabaret. Dal momento che la ballerina Lily si innamora di Börne, il medico rompe i suoi rapporti con Helene. L’armonia della nuova coppia è interrotta dall’ingresso nelle loro vite di un giovane pittore che ha perso la vista, di cui Lily si innamora perdutamente. Börne abbandona 164

il villaggio dei pescatori e torna in città. Solo il suicidio di Lily lo convince ad operare il pittore per tentare di restituirgli la vista.

Regia: F.W. Murnau; sceneggiatura: Carl Mayer (a partire dal soggetto danese Der Sieger, di Harriet Bloch); fotografia: Max Lutze; scenografia: Heinrich Richter; interpreti: Olaf Fönss [Fønss], Erna Morena, Gudrun Bruun-Steffensen, Conrad Veidt, Clementine Plessner; produzione: GoronFilm; origine: Germania; durata: 105’ a fps. Marizza, gennant die Schumugglermadonna (1920; Marizza, detta la signora dei contrabbandieri)

Marizza è vittima delle pressioni della contrabbandiera Yelina che le chiede di circuire Haslinger affinché lei e i suoi complici possano operare liberamente. La giovane si rifiuta e va a abitare dalla signora Avricolos, un’aristocratica caduta in disgrazia che vive coi suoi due figli, Antonino e Christo. Marizza inizia una relazione con Christo ma quando Antonino la scopre, fugge via. Per placare la gelosia di quest’ultimo verso Haslinger, e salvarlo dal suo furore omicida, Marizza uccide l’uomo. Del delitto si autoaccusa Antonino che va in carcere.

Regia: F.W. Murnau; sceneggiatura: Hans Janowitz (a partire dal manoscritto Grüne Augen, di Wolfgang Geiger); fotografia: Karl Freund; scenografia: Heinrich Richter; interpreti: Tzwetta Tzatschewa, Adele Sandrock, Harry Frank, Hans Heinrich von Twardowski, Leonhard Haskel, Greta Schröder, Marìa Forescu; produzione: Helios-Film; origine: Germania; durata: 96’ a fps. 165

Schloss Vogelöd [1921; Il castello di Vogelod]

Nel castello di Vogelod, un gruppo di aristocratici attende la baronessa Safferstädt. Tra questi c’è anche il conte Oetsch, che si è autoinvitato. Tutti sono convinti che, tre anni prima, il conte abbia assassinato il primo marito della baronessa, ed egli è pertanto un ospite indesiderato. Oetsch invece è deciso a restare al castello e annuncia che troverà il vero colpevole dell’omicidio. Nei panni di padre Faramund, un religioso giunto da Roma, Oetsch smaschera il barone Safferstädt, secondo marito della baronessa.

do per sconfiggere l’epidemia ed eliminare Nosferatu, è esporlo alla luce del sole. La donna si sacrifica donando il suo sangue al vampiro fino a che non giunge l’alba.

Regia: F.W. Murnau; sceneggiatura: Henrik Galeen (a partire dal romanzo Dracula di Bram Stoker); fotografia: Fritz Arno Wagner; musica: Hans Erdmann; scenografia e costumi: Albin Grau; interpreti: Max Schreck, Gustav von Wangenheim, Greta Schröder, Georg Heinrich Schnell; produzione: Prana-Film; origine: Germania; durata: 106’ a 16 fps.

Regia: F.W. Murnau; sceneggiatura: Carl Mayer (a partire da un romanzo di Rudolf Stratz); collaboratore alla sceneggiatura: Berthold Viertel; fotografia: László Schäffer, Fritz Arno Wagner; scenografia: Hermann Warm; direttore artistico: conte di Montgelas; interpreti: Arnold Korff, Lulu Kyser-Korff, Lothar Mehnert, Paul Hartmann, Paul Bildt, Olga Tschechowa, Hermann Vallentin, Julius Falkenstein, Georg Zawatzky, Robert Leffler; produzione: UcoFilm; origine: Germania; durata: 88’ a 16 fps.

Der brennende Acker [1922; La terra che brucia]

Un commerciante di terreni invia in Transilvania uno dei suoi agenti immobiliari, Hutter, per trattare la vendita di una casa al misterioso conte Orlok. Questi si rivela essere in realtà Nosferatu, il terribile vampiro oggetto delle superstizioni locali cui, inizialmente, Hutter non dà alcun credito. Nel frattempo, nella città di Wisborg, sua moglie Ellen ha inquietanti presentimenti. Dopo aver aggredito Hutter, Nosferatu arriva a Wisborg nascosto in una bara. Mentre nella città si diffonde la peste, Ellen capisce che l’unico mo-

Regia: F.W. Murnau; sceneggiatura: Willy Haas, Thea von Harbou, Arthur Rosen; fotografia: Fritz Arno Wagner, Karl Freund; musica: Alexander Schirmann; scenografia: Rochus Gliese; interpreti: Werner Krauss, Eugen Klöpfer, Vladimir Gajdarov, Eduard von Winterstein, Lya De Putti, Stella Arbenina, Alfred Abel, Grete Diercks, Elsa Wagner, Emilia Unda, Georg John, Robert Leffler, Gustav Botz; produzione: Goron-Deulig-Exclusiv-Film; origine: Germania; durata: 144’ a 16 fps.

Nosferatu, eine Symphonie des Grauens (1921; Nosferatu il vampiro)

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Rimasto orfano dopo la morte di suo padre, Peter prende in consegna la fattoria di famiglia. Suo fratello Johannes invece, ritenendosi insoddisfatto della vita rurale (e dell’amore della sua fidanzata, Maria), decide di farsi assumere come segretario dal conte Rudenberg. La sua ambizione lo porta a corteggiare Gerda, l’affascinante unica figlia del suo datore di lavoro, ma quando scopre che la seconda moglie del conte sta per ereditare un giacimento di petrolio, i suo progetti cambiano. Il suo arrivismo lo condurrà alla rovina, fino a che non farà ritorno alla campagna da cui era partito e ritroverà Maria.

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Phantom (1922; Fantasma)

Lorenz è un impiegato che coltiva sogni letterari. Un giorno, mentre si reca al lavoro, incrocia lo sguardo di una bellissima ragazza a bordo della carrozza che lo ha investito e ne resta immediatamente folgorato. Da quel momento la sua vita cambia. Ossessionato dalla donna, Lorenz entra in un vortice di perdizione morale che lo vedrà coinvolto nell’uccisione della vecchia usuraia Schawbe, omicidio per il quale sarà condannato alla reclusione.

Regia: F.W. Murnau; sceneggiatura: Thea von Harbou (a partire dal romanzo di Gerhart Hauptmann); fotografia: Axel Graatkjaer, Theophan Ouchakoff; musica: Leo Spies; scenografia: Hermann Warm, Erich Czerwonski; costumi: Vally Reinecke; interpreti: Alfred Abel, Frida Richard, Aud Egede Nissen, Hans Heinrich von Twardowski, Karl Etlinger, Lil Dagover, Grete Berger, Anton Edthofer, Lya De Putti, Adolf Klein, Olga Engl; produzione: Uco-Film/DeclaBioscop; origine: Germania; durata: 159’ a 16 fps. Die Austreibung [1923; L’espulsione]

Steyer, un uomo anziano, vive in una fattoria isolata con il figlio vedovo. Questi si risposa con Ludmilla che, in realtà, lo avvicina solo per sfuggire alla povertà e infatti lo tradisce con Lauer, un cacciatore. Ludmilla convince Steyer a vendere la fattoria per trasferirsi in città. Steyer, capito che la donna in realtà vuole soltanto stare vicina al suo amante, ben presto si pente della vendita. Scoperta definitivamente l’infedeltà di Ludmilla nel corso di una tremenda tempesta di neve, Steyer, disilluso e amareggiato, permette che la vendita sia portata a termine. 168

Regia: F.W. Murnau; sceneggiatura: Thea von Harbou (a partire dal dramma di Carl Hauptmann); fotografia: Karl Freund; musica: Hans Joseph Vieth; scenografia: Rochus Gliese, Erich Czerwonski; interpreti: Carl Goetz, Ilka Grüning, Eugen Klöpfer, Aud Egede Nissen, Lucie Mannheim, Wilhelm [William] Dieterle, Robert Leffler, Jacob Tiedke; produzione: Decla-Bioscop; origine: Germania; durata: 85’ a 16 fps. Die Finanzen des Grossherzogs (1923; Le finanze del Granduca)

Il Granduca di un immaginario paese del Mediterraneo ha quasi dilapidato del tutto la propria fortuna e il paese è sull’orlo della rivolta. Solo la vendita di un ricco giacimento di zolfo potrebbe salvarlo dalla crisi, ma l’uomo si rifiuta di ascoltare i consigli del suo segretario. L’arrivo di una misteriosa aristocratica, innamorata dell’uomo, riuscirà a riassestare la situazione.

Regia: F.W. Murnau; sceneggiatura: Thea von Harbou (a partire dal romanzo Storhertigens finanser di Frank Heller); fotografia: Karl Freund, Franz Planer; scenografia: Rochus Gliese, Erich Czerwonski; interpreti: Harry Liedtke, Mady Christians, Robert Scholz, Alfred Abel, Adolphe Engers, Hermann Vallentin, Julius Falkenstein, Guido Herzfeld, Walter Rilla; produzione: Union-UFA; origine: Germania; durata: 126’ a 16 fps. Der letze Mann (1924; L’ultimo uomo)

L’anziano portiere del prestigioso Hotel Atlantic, rispettato e riverito per il proprio ruolo nel quartiere popolare dove vive, viene declassato a sorvegliante dei bagni. Deriso e umiliato, si riscatterà soltanto grazie a una fortuita eredità. 169

Regia: F.W. Murnau; sceneggiatura: Carl Mayer; fotografia: Karl Freund; musica: Giuseppe Becce; scenografia: Robert Herlth, Walter Röhrig; trucco: Waldemar Jabs; interpreti: Emil Jannings, Maly Delschaft, Kurt [Max] Hiller, Emilie Kurz, Hans Unterkircher, Olaf Storm, Hermann Vallentin, Georg John, Emmy Wyda; produzione: UFA; origine: Germania; durata: 126’ a 16 fps. Herr Tartüff (1925; Tartufo)

Il ricco Orgone è vittima del plagio e dei raggiri di Tartufo, un finto religioso che si introduce in casa sua per approfittare dei suoi beni. Verrà tradito dall’infatuazione per Elmira, moglie di Orgone, che tenterà in ogni modo di smascherarlo. Regia: F.W. Murnau; sceneggiatura: Carl Mayer (a partire della commedia Tartufo di Molière); fotografia: Karl Freund; musica: Giuseppe Becce; scenografia e costumi: Robert Herlth, Walter Röhrig; interpreti: Emil Jannings, Werner Krauss, Lil Dagover, Lucie Höflich, André Mattoni, Rosa Valetti, Hermann Picha; produzione: UFA; origine: Germania; durata: 102’ a 16 fps. Faust - Eine deutsche Volkssage (1926; Faust)

Sceso in terra per dimostrare a Dio l’invincibilità del male, Mefistofele tenta il vecchio Mago Faust, promettendogli l’eterna giovinezza. Faust seduce Margherita, ma quando il figlio della donna muore, lei viene condannata al rogo per infanticidio. Faust si maledice e, dopo aver rinunciato alla giovinezza, sale sul rogo e sacrifica se stesso. 170

Regia: F.W. Murnau; sceneggiatura: Hans Kyeser, Gerhart Hauptmann (a partire dalle opere omonime di Johann Wolfgang Goethe e Christopher Marlowe); fotografia: Carl Hoffmann; musica: Werner Richard Heymann; scenografia e costumi: Robert Herlth, Walter Röhrig; costumi: Georges Annenkov; trucco: Waldemar Jabs; interpreti: Gösta Ekman, Emil Jannings, Camilla Horn, Yvette Guilbert, Frida Richard, Wilhelm [William] Dieterle, Eric Barclay, Hanna Ralph, Werner Fuetterer, Hans Brausewetter; produzione: UFA; origine: Germania; durata: 135’ a 16 fps. Sunrise: A Song of Two Humans (1927; Aurora)

Sedotto da una turista di città arrivata in campagna per una vacanza, un contadino medita di uccidere sua moglie per andare a vivere con la sua amante nella metropoli. Tenta di annegarla durante una scampagnata in barca, ma all’ultimo momento ci ripensa. Durante una gita in città, i due si riconciliano ma, nel tragitto di ritorno in barca, una tempesta rischia di uccidere la donna. Tutto ritorna sereno con le prime luci dell’alba.

Regia: F.W. Murnau; sceneggiatura: Carl Mayer (a partire dal racconto Die Reise nach Tilsit di Hermann Sudermann); fotografia: Charles Rosher, Karls Struss; montaggio: Harold D. Schuster; musica: Hugo Riesenfeld, Willy Schmidt-Gentner; scenografia e costumi: Rochus Gliese; effetti speciali: Frank D. Williams; interpreti: George O’ Brien, Janet Gaynor, Margaret Livingston, Bodil Rosing, J. Farrell MacDonald, Ralph Sipperly, Jane Winton, Arthur Housman, Eddie Boland, Barry Northon; produzione: Fox Film Corporation; origine: Stati Uniti; durata: 97’ a 24 fps. 171

Four 4 Devils [1928; I quattro diavoli]

Quattro fratelli orfani – Marion, Charles, Louise e Adolf – vengono affidati al direttore del circo Cecchi. Una volta cresciuti, diventano dei celebri equilibristi che si esibiscono con il nome di “Quattro diavoli”. Charles, di cui Marion è innamorata, viene sedotto da una dama del bel mondo che si invaghisce di lui nel corso di uno spettacolo. Il ragazzo si allontana così da Marion che tenta invano di riconquistarlo. Durante un pericoloso numero aereo, la donna si lascia cadere dal trapezio per la disperazione. Charles, sul punto di impazzire dal rimorso, viene tranquillizzato dai medici: Marion si salverà.

Regia: F.W. Murnau; sceneggiatura: Carl Mayer, Marion Orth, Berthold Viertel (a partire dal racconto De Fire Djævle di Herman Joachim Bang); fotografia: Ernest Palmer, L. William O’Connell; montaggio: Harold D. Schuster; musica: S.L. Rothafel; scenografia: William Darling; trucco: Chas Dudley; interpreti: Janet Gaynor, Charles Morton, Mary Duncan, J. Farrell MacDonald, Anders Randolf, Claire McDowell, Jack Parker, Philippe de Lacy, Nancy Drexel, Barry Norton; produzione: Fox Film Corporation; origine: Stati Uniti; durata: 105’ a 24 fps (durata della versione con 25% di dialoghi aggiunti uscita nel 1929: 117’ a 24 fps).

Our Daily Bread / City Girl [1929; Il nostro pane quotidiano / Ragazza di città]

Il giovane contadino Lem si reca a Chicago, su missione di suo padre Tustine, per la vendita del grano. Qui incontra Kate, una cameriera e se ne innamora. I due si sposano e vanno a vivere nella fattoria del padre di Lem. La

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donna dovrà però scontrarsi con l’aperta ostilità della famiglia di suo marito e di tutta la comunità rurale.

Regia: F.W. Murnau; sceneggiatura: Berthold Viertel, Marion Orth (a partire dalla pièce, The Mud Turtle di Elliott Lester); fotografia: Ernest Palmer; montaggio: Harold Schuster, H.H. Caldwell, Katherine Hilliker; scenografia: Harry Oliver; costumi: Sophie Wachner; interpreti: Mary Duncan, Charles Farrell, David Torrence, Edith Yorke, Tom McGuire, Pat [Patrick] Rooney, Roscoe Ates, Ed Clay, Jack Pennick, Eddie Boland; produzione: Fox Film Corporation; origine: Stati Uniti: durata: 92’ a 24 fps (versione muta), 69’ a 24 fps (versione sonorizzata con 50% di dialoghi). Tabu (1931; Tabù)

Reri, la più bella ragazza del villaggio, viene scelta per essere consacrata alla divinità locale; e come tale dovrà restare vergine. Matahi, il suo fidanzato, non accetta il verdetto del villaggio e la rapisce. I due innamorati fuggono su un’altra isola ma Hitu, il sacerdote che l’ha consacrata, convince la ragazza a tornare a casa. Matahi tenta invano di raggiungerla e riportarla indietro, ma muore annegato. Regia: F.W. Murnau; soggetto e sceneggiatura: Robert J. Flaherty e F.W. Murnau; fotografia: Floyd Crosby, Robert J. Flaherty; montaggio: Arthur A. Brooks; musica: Hugo Riesenfeld; interpreti: Anne Chevalier, Matahi, Hitu, Bill Bambridge, Jules, Fong Ah; produzione: F.W. Murnau-Robert J. Flaherty Productions; origine: Stati Uniti; durata: 81’.

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Bibliografia essenziale Scritti di F. W. Murnau

Murnau non ha rilasciato molte interviste né sono arrivati a noi molti suoi scritti, se si eccettuano alcuni articoli per riviste specializzate comparsi durante il periodo in cui lavorò per la Fox. I più celebri, e gli unici in cui Murnau si esprime sull’estetica cinematografica, sono: The Ideal Picture Needs No Titles (By Its Very Nature the Art of the Screen Should Tell a Complete Story Pictorially), in «Theatre Magazine», n. 322, january, 1928; The Film of the Future, in «McCall’s Magazine», september 1928.

Anche per quel che riguarda le interviste, la maggior parte del materiale (per lo più dichiarazioni desunte dalle presentazioni dei film) concerne soprattutto il periodo americano. Rimando ai lavori di Luciano Berriatúa che ha raccolto parte di questo materiale (di cui non si conosce la reale entità). Si veda in particolare il secondo volume di Los proverbios chinos de F.W. Murnau, (Entrevistas y articolo de Murnau, pp. 465-506). Scritti su F. W. Murnau Opere in volume

AA.VV., F.W. Murnau. Rétrospective (novembre-décembre 1986), Le Havre, Maison de la Culture, 1986. 175

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www.murnau-stiftung.de

Numeri monografici di riviste

AA.VV., Per una rilettura critica di F.W. Murnau, in «Filmcritica», n. 246, 1974. AA.VV., Dossier Murnau, in «Positif», n. 523, 2004. Volumi dedicati a singoli film

Bouvier, M. - Leutrat, J.-L., Nosferatu, Gallimard-Cahiers du Cinéma, Paris 1981. 180

181

Indice

I

II 2.1 2.2 2.3 2.4 2.5 2.6 2.7 III 3.1

3.2 3.3

Il viandante sul mare di nebbia

Il sentimento della forma Murnau e il cinema di Weimar I film perduti L’arte di evocare fantasmi. Temi, figure, motivi Splendore dell’UFA L’invenzione della tradizione Murnau e Fox Una sinfonia della natura Tre sequenze La produzione del fantasma e le congiunzioni virtuali Il gioco del movimento puro e le forme dinamiche della soggettività Weimar/Hollywood. L’intreccio di melodramma e «Art Film»

Filmografia

Bibliografia essenziale

Pag. 11

» 33 » 33 » 48 » 53 » 78 » 97 » 106 » 120 » 127 » 127

» 139

» 147

» 161

» 175

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LE TORRI

1. Alessio Scarlato, Robert Bresson. La meccanica della grazia 2. Andrea Bellavita, Luchino Visconti. Il teatro dell’immagine 3. Fabio Carlini, John Ford. Il gusto della narrazione 4. Alessia Cervini, Sergej M. Ejzensˇtejn. L’immagine estatica 5. Giorgio Simonelli, François Truffaut. La geometria delle passioni 6. Alessandro Mazzanti, Charlie Chaplin. Il tempo delle immagini 7. Daniele Dottorini, Jean Renoir. L’inquietudine del reale 8. Francesco Netto, Ingmar Bergman. Il volto e le maschere 9. Tonino Repetto, Luis Buñuel. La logica irridente dell’inconscio 10. Roberto Manassero, Alfred Hitchcock. Lo sguardo del desiderio 11. Marco Muscolino, Jacques Tati. Il suono delle immagini 12. Andrea Minuz, Friedrich Wilhelm Murnau. L’arte di evocare fantasmi DI PROSSIMA PUBBLICAZIONE 13. Alessandro Canadè, Howard Hawks. Le forme dei generi

Finito di stampare nel mese di giugno 2010 dalla Società Tipografica Romana s.r.l. Via Carpi, 19 - Pomezia (Roma)