FrC 5.3 Pherekrates frr. 85 – 163 [1 ed.] 9783946317760, 9783946317746


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German Pages [377] Year 2020

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FrC 5.3 Pherekrates frr. 85 – 163 [1 ed.]
 9783946317760, 9783946317746

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Fragmenta Comica Pherekrates Krapataloi – Pseudherakles Krapataloi Persai Leroi Petale Metalles Tyrannis Metoikoi Cheiron Myrmekanthropoi Pseudherakles

Fragmenta Comica (FrC) Kommentierung der Fragmente der griechischen Komödie Projektleitung Bernhard Zimmermann Im Auftrag der Heidelberger Akademie der Wissenschaften herausgegeben von Glenn W. Most, Heinz-Günther Nesselrath, S. Douglas Olson, Antonios Rengakos, Alan H. Sommerstein und Bernhard Zimmermann

Band 5.3 · Pherekrates, Krapataloi – Pseudherakles

Enzo Franchini

Ferecrate Krapataloi – Pseudherakles (frr. 85 – 163) Introduzione, Traduzione, Commento Con la collaborazione di Michele Napolitano (fr. 155)

Vandenhoeck & Ruprecht

Dieser Band wurde im Rahmen der gemeinsamen Forschungsförderung von Bund und Ländern im Akademienprogramm mit Mitteln des Bundesministeriums für Bildung und Forschung und des Ministeriums für Wissenschaft, Forschung und Kultur des Landes Baden-Württemberg erarbeitet.

Die Bände der Reihe Fragmenta Comica sind aufgeführt unter: http://www.komfrag.uni-freiburg.de/baende_liste

Bibliografische Information der Deutschen Nationalbibliothek: Die Deutsche Nationalbibliothek verzeichnet diese Publikation in der Deutschen Nationalbibliografie; detaillierte bibliografische Daten sind im Internet über https://dnb.de abrufbar. © 2020, Vandenhoeck & Ruprecht GmbH & Co. KG, Theaterstraße 13, D-37073 Göttingen Alle Rechte vorbehalten. Das Werk und seine Teile sind urheberrechtlich geschützt. Jede Verwertung in anderen als den gesetzlich zugelassenen Fällen bedarf der vorherigen schriftlichen Einwilligung des Verlages. Umschlaggestaltung: disegno visuelle kommunikation, Wuppertal

Vandenhoeck & Ruprecht Verlage | www.vandenhoeck-ruprecht-verlage.com ISBN 978-3-946317-76-0

Sommario Premessa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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Κραπάταλοι (Krapataloi) (“Crapatali”) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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Λῆροι (Lēroi) (“Ornamenti femminili / Ciarle”) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

72

Μεταλλῆς (Metallēs) (“Minatori”) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

94

Μέτοικοι (Metoikoi) (“Meteci”) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

126

Μυρμηκάνθρωποι (Myrmēkanthrōpoi) (“Formicantropi / Uomini formica”) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

129

Πέρσαι (Persai) (“Persiani”) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

176

Πετάλη (Petalē) (“Petale”) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

204

Τυραννίς (Tyrannis) (“Tirannide”) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

226

Χείρων (Cheirōn) (“Chirone”) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

239

Ψευδηρακλῆς (Pseudēraklēs) (“Falso Ercole”) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

318

Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

325

Indici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

365

A Clementina, per aver amorevolmente permesso che la nostra casa si riempisse di libri, fotocopie, trimetri, komodoumenoi, congetture, pensieri vaganti e notti insonni

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Premessa Il presente volume racchiude il mio lavoro di analisi, commento e traduzione dei frammenti di dieci commedie di Ferecrate (Krapataloi, Lēroi, Metallēs, Metoikoi, Myrmēkanthrōpoi, Persai, Petalē, Tyrannis, Cheirōn e Pseudēraklēs) presentate secondo la numerazione e il testo stabiliti da Rudolf Kassel e Colin Austin (PCG VII). Si tratta di un progetto nato a margine della stimolante settimana di studi del workshop ‘Commenting Fragments: The Case of Ancient Comedy’ (2–7 luglio 2012), organizzato a Freiburg im Breisgau nell’alveo del progetto scientifico ‘Kommentierung der Fragmente der griechischen Komödie’ (KomFrag). Al professor Bernhard Zimmermann, direttore del progetto, desidero esprimere la mia profonda riconoscenza per aver incoraggiato e sostenuto in ogni sua fase la redazione di questo mio libro. Durante la preparazione del commento ho avuto modo di discutere gli aspetti più significativi relativi ad alcuni frammenti e all’inquadramento generale di Krapataloi e Persai nel corso del Kolloquium di KomFrag del 27/02/2014 e nei due Nachwuchs-Workshop für Italienische Mitarbeiterinnen und Mitarbeiter tenutisi a Merano nel maggio del 2016 e nell’ottobre del 2017. I miei più sentiti ringraziamenti vanno ai presenti, e in particolare, per i numerosi e preziosi spunti di riflessione che mi sono venuti da loro, ai professori Andrea Bagordo, Fausto Montana, S. Douglas Olson e Pietro Totaro e ai dottori Stylianos Chronopoulos, Christian Orth e Francesco Paolo Bianchi (verso il quale nutro da tempo un sentimento di amicizia che si è fatto via via più profondo negli anni e al quale si aggiunge, adesso, un sentimento non meno profondo di gratitudine per il contributo che ha voluto dare al progressivo miglioramento di queste mie pagine). Con Maria Federica (Mary) Metastasio ho condiviso, negli anni del suo dottorato a Cassino, giornate di studio lunghe, intense e ricche di note argutissime, filologiche e non; le sue osservazioni, inoltre, hanno spesso reso più fluente e immediato il dipanarsi del commento, e più lieti e leggeri i pomeriggi di lavoro. Verso Michele Napolitano, infine, ho contratto negli anni un debito profondo, che va ben oltre il contributo che ha voluto portare alla redazione di questo volume con il commento al fr. 155 K.–A. Lo ringrazio per aver messo a mia completa disposizione tanto le sue vaste competenze quanto la sua ricchissima biblioteca di argomento comico: non è possibile dire quanto tutto il presente commento debba alle osservazioni, alle note di lettura e agli aggiornamenti bibliografici che mi sono pervenuti da lui. Resta ovviamente soltanto mia la responsabilità di imprecisioni, sviste ed errori. Per quanto per me importantissimo, il suo contributo scientifico resta poca cosa se confrontato all’affetto e all’amicizia con cui mi ha continuamente accompagnato in questi anni. La redazione del commento ha abbracciato anni per me lunghi e faticosi, a tratti dolorosi: tutto sarebbe stato incredibilmente più difficile senza il supporto di mia madre, dei miei fratelli e della mia famiglia ‘matriarcale e allargata’. A mia moglie Clementina, per la gioia che mi ha donato in questi anni e per i sorrisi di nostra figlia Irene, il volume è dedicato: senza la sua costante e premurosa presenza tutto questo, e molto altro, non sarebbe stato possibile.

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Κραπάταλοι (Krapataloi) (“Crapatali”)

Bibliografia Runkel 1829, pp. 33–39; Bergk 1838, pp. 301–303; Meineke FCG I, pp. 84–86; Meineke FCG II.1, p. 287–296; Meineke 1847, I, pp. 102–106; Bothe 1855, pp. 96–100; Kock CAF I, pp. 167–172; Kaibel 1889, p. 45; Norwood 1931, p.  159 s.; Schmid 1946, p.  104; Edmonds 1957, pp.  236–243; Geissler 1969, p. 39; Rehrenböck 1985, pp. 54–124; Caccamo Caltabiano–Radici Colace 1987; Rehrenböck 1987b, pp.  62–65; Urios-Aparisi 1992, pp.  260–306; Storey 2011, pp. 458–467; Franchini 2015 Titolo Il fatto che la ricorrenza del lemma κραπάταλος nel fr. 86 K.–A. appaia protetta metricamente indica che la forma corretta del titolo della commedia doveva essere, appunto, κραπάταλοι (a proposito delle varianti κραπαταλοί e κραπαταλλοί si veda quanto osservo infra ad test. i). Polluce (IX 83 = test. i) attesta che nella commedia i κραπάταλοι erano parte, insieme a ψωθίαι e κίκκαβοι, del sistema monetario dell’Ade: poiché tutti e tre i termini fanno riferimento a referenti aventi di per sé scarso o nullo valore (vd. infra ad test. i), il loro utilizzo come moneta va con ogni probabilità associato (similmente a quanto avveniva nei Metallēs) al topos dell’oltretomba come un Paese di Cuccagna caratterizzato da un costo della vita straordinariamente basso (vd. infra ad fr. 86 K.–A.; per le attestazioni del topos in questione vd. K.–A. ad loc.; più in generale, sul motivo del Paese di Cuccagna nella commedia attica antica si vedano almeno Pellegrino 2000, pp. 7–36 e Farioli 2001, p. 7–26 e, per ulteriori aggiornamenti bibliografici, Pellegrino 2013, p. 16 n. 9). Per quanto la forma plurale del titolo alluda con ogni probabilità al coro della commedia (così, pur dubitativamente, già Bergk 1838, p. 131, poi ripreso da Haas 1903, p. 46 e da altri), è impossibile determinare in che termini concreti i coreuti fossero assimilati alle monete dell’Ade. Il termine non ricorre altrove in letteratura; due lemmi di Esichio (κραπαταλλοί· ἰχθύες τινές [κ 3970]; κραπαταλλός· παρὰ πολλοῖς ὁ μωρός, ἢ νόμισμα [κ 3971]) attestano, oltre al significato di ‘moneta’ (dipendente con ogni probabilità dall’uso che del lemma Ferecrate aveva fatto nell’omonima commedia), anche quello di ‘sciocco’ e quello di ‘pesce’. Secondo Kennedy 2017, p. 219 s., il primo significato potrebbe derivare, tramite una metafora, dal secondo, in considerazione della fama di stupidità che i pesci che emerge dalle fonti antiche (cfr. Plut. Mor. 64, 975b e Plat. Tim. 92b): definire un uomo κραπαταλλός, dunque, significherebbe metterne in luce la scarsa intelligenza, indicando eufemisticamente un referente tratto dal mondo animale e ritenuto altrettanto stupido. La menzione dell’alternativa μωρός / νόμισμα a κ 3971, se da un lato sembra ricondurre la glossa, in forza dell’interpretamentum νόμισμα, alla commedia di Ferecrate, dall’altro potrebbe offrire una chiave per immaginare la concreta caratterizzazione dei coreuti (degli sciocchi che parlavano a vanvera, in linea con quanto si ricava da un’ulteriore glossa esichiana? cfr. Hesych. κ 3969: κραπαταλίας· ἀνεμώδης, καὶ ἀσθενής. καὶ ἀνίσχυρα λέγων. ἄμεινον δὲ ληρώδης, stampato da Kock CAF I, p. 172, come fr. 99 [ad Crapatalos

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Pherekrates

haec pertinere adparet]). L’espressione παρὰ πολλοῖς indica, a ogni modo, che il termine doveva ricorrere anche in altri contesti (derivando forse dal linguaggio parlato attico? vd. Urios-Aparisi 1992, p. 262), il che consiglia prudenza quanto alla possibilità che l’interpretamentum μωρός sia utilizzabile in funzione dell’esegesi della commedia. Collocare all’interno del quadro appena delineato l’identificazione con una altrimenti ignota specie di pesci (vd. Thompson 1947, p. 132) risulta d’altra parte assai problematico e pone una serie di interrogativi non secondari sulla formazione e sul ruolo del coro (vd. infra). Una possibile spiegazione è avanzata da Rehrenböck, per il quale i κραπαταλλοί esichiani dovevano essere i pesci catturati nella rete ma troppo piccoli per essere mangiati e che per questo venivano rigettati in mare (vd. Rehrenböck 1987b, pp. 62–65). La ricostruzione è plausibile e rafforzerebbe il Witz comico costituito dall’attribuzione della funzione di moneta a realtà prive di concreto rilievo economico, ma non trova sufficienti riscontri nelle fonti («this is a plausible interpretation; but I think it goes a little beyond the evidence», notava già Urios-Aparisi 1992, p. 262) ed è perciò destinata a rimanere nel campo delle ipotesi. In alternativa, Urios-Aparisi proponeva di leggere in κραπαταλλός un insulto adeguato per un μωρός, analogamente a quanto avviene per ὄνος (vd. Urios-Aparisi 1992, p. 262 s., ove si cita, a proposito di ὄνος, Taillardat 1965, § 350 [p. 198]), o di considerare l’allusione al pesce come un richiamo simbolico al mondo dell’oltretomba, in accordo con le considerazioni di Caccamo Caltabiano e Radici Colace (vd. Caccamo Caltabiano–Radici Colace 1987, p. 974; in tal modo, secondo le due studiose, tutte e tre le monete citate da Polluce indicherebbero oggetti senza valore reale, alludendo allo stesso tempo alla realtà ctonia). L’ambientazione oltremondana dei Krapataloi è da presupporre per spiegare l’idea, risalente a Hemsterhuys 1743, p. 422, e ripresa più tardi con favore da Dindorf (ThGL IV, col. 969 D) e da Lobeck 1843, p. 351, che appunto ai Krapataloi sia da far risalire la voce καρκαδόνα del Lessico di Fozio (p. 132, 24 [= κ 195 Theodoridis] — Suid. κ 392 καρκαδόνα· τοῦτο λέγεται Χάροντος δάνειον, συναγόμενον ἐκ τοῦ ὀβολοῦ τοῦ συγκηδευομένου τοῖς τελευτῶσιν, οὐχ ὡς ἕνιοι πλανώμενοι βοτάνης ὄνομά φασιν εἶναι). Contenuto Se il fr. 85 K.–A. (vd. infra) fa riferimento alla ricerca di una strada per raggiungere l’oltretomba da parte di un ignoto personaggio, nella commedia doveva aver luogo una katabasis, forse almeno in parte simile a quella compiuta da Dioniso nelle Rane. La possibilità che la commedia inscenasse una discesa agli inferi, suggerita con forza dalla citata testimonianza di Polluce, fu avanzata già da Hemsterhuys in Lederlin–Hemsterhuys 1706, p. 1061, per poi essere variamente ripresa negli studi (vd. p. es. Runkel 1829, p. 33; Meineke FCG I, p. 84 s.; Bothe 1855, p. 96 s.), spesso in diretto riferimento alle Rane, delle quali i Krapataloi costituirebbero un precedente (vd. p. es. Meineke, FCG II.1, p. 290, e poi Kaibel 1889, p. 45; Kann 1909, p. 40, e Schmid 1946, p. 104 n. 11; più generico Muhl 1881, p. 87: «ein literarisches Stück von ähnlicher Tendenz wie Ar. Frösche»). I motivi, la modalità di realizzazione e gli effetti di tale katabasis restano sconosciuti: alcuni dei frammenti superstiti (cfr. frr. 85, 86 e 87 K.–A.) potrebbero tuttavia far riferimento

Κραπάταλοι

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all’interazione tra un personaggio esperto dei fatti dell’oltretomba e un secondo personaggio che se ne dimostra invece del tutto ignaro (vd. Franchini 2015, p. 4 s.). Accanto al topos comico dello Schlaraffenland, un ruolo cruciale nell’economia del dramma doveva essere rivestito da questioni attinenti a problemi di critica letteraria: sulla scena compariva come personaggio Eschilo, che, nel regno dei morti, o forse richiamato in vita dall’Ade, difendeva con orgoglio l’eccellenza della sua poesia, probabilmente nell’agone della commedia (vd. infra ad fr. 100 K.–A.). Datazione Geissler 1969, p. 39, proponeva di datare la commedia a prima del 421 sulla scorta delle corrispondenze verbali tra Ar. Pac. 749 e il fr. 100 K.–A.: «Aristophanes hat die hier dem Aischylos in den Mund gelegten Worte über seine Verdienste um die dramatische Kunst (frg. 8) im Frieden 749 entlehnt und auf sich selbst übertragen». L’argomento, assai fragile, merita comunque qualche attenzione: sempre ammesso che il rapporto tra i due passi ammetta di essere considerato in chiave di imitazione diretta, di ripresa (il che non è detto: vd. infra ad fr. 100 K.–A.), nel verso della parabasi della Pace (per il quale vd. Olson 1998, p. 220 [ad 749], ove si trova citato il frammento di Ferecrate) Aristofane approfittava forse di una metafora architettonica (quella veicolata, in Ferecrate, dal verbo ἐξοικοδομέω), già corrente, e produttiva poi, in commedia, fino almeno alle Rane (ma altrove assai più a lungo: vd. Hanink–Uhlig 2016, p. 52), a rendere la solenne potenza dell’arte del più grande dei tragici (si tratta del v. 1004, πυργώσας ῥήματα σεμνἀ, opportunamente citato da Kassel e Austin in calce al fr. 100 [PCG VII, p. 150] e da Olson 1998, p. 220; vd. inoltre Kleingünter 1933, p. 142 s. e il recente riesame fornito da Zogg 2014, pp. 175–179), trasferendola però, in modo certo originale, alla sua propria poesia? Fantasiosa, per contro, l’ipotesi, risalente a Meineke FCG II.1, p. 290 s., che nei Krapataloi l’orgogliosa rivendicazione messa in bocca a Eschilo in relazione all’eccellenza della sua arte poetica comparisse in qualche modo associata all’evocazione delle condizioni rudimentali proprie degli spettacoli comici delle origini nei termini in cui esse sembrano descritte nel fr. 199 K.–A. (inc. fab.) ὁ χορὸς δ᾽ αὐτοῖς εἶχεν δάπιδας ῥυπαρὰς καὶ στρωματὀδεσμα (Meineke FCG II.1, p. 290: Ad eandem huius fabulae scenam revocandum esse coniicio fragmentum omisso comoediae titulo servatum ab Aelio Dionysio […]. Existimo […] haec de comico antiquiorum poetarum choro intelligenda esse, quem quum sordidis stragulis indutum dicit, nescio an veterem morem innuat, quo spectatores choreutis re bene gesta vestes calceos et alia id genus praemii loco donabant; poco oltre, Meineke chiama in causa il molto simile fr. 264 K.–A. di Aristofane, segnalato anche da Kassel e Austin in calce al fr. 199 K.–A. di Ferecrate [PCG VII, p. 200]).

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Pherekrates

test. i K.–A. i Poll. IX 83 (codd. FS, CL) ὄνομα δὲ νομίσματος καὶ κραπαταλοί, εἴτε παίζων εἴτε σπουδάζων Φερεκράτης ὠνόμασεν ἐν τῷ ὁμωνύμῳ δράματι· λέγει δὲ τὸν μὲν κραπαταλὸν εἶναι ἐν ᾅδου (ἐνάδρου FS) δραχμήν, ἔχειν δ’ αὐτὸν δύο ψωθίας, τὴν δὲ ψωθίαν εἶναι τριώβολον καὶ δύνασθαι ὀκτὼ κικκάβους (κιδά- FS) 1 κραπαταλλοί C, -λούς FS (sed cf. fr. 86) 2 κραπαταλὸν SL, κραπαταλλὸν FC 3 δύο Meineke 1827, p. 37: ὀκτὼ codd. ψωθίας CL, εὐθείας FS et in marg. C ψωθίαν CL, εὐθείαν FS 4 ὀκτὼ codd., ιη΄ Kaibel, 〈τρίς〉 ὀκτὼ W. Kraus (ap. Rehrenböck 1987b, p. 57) κικκάβους CL, κιδάβους FS Anche krapataloi è un nome di moneta, del quale si serve Ferecrate nell’omonima commedia, sia che scherzasse sia che fosse serio: dice infatti che il krapatalos nell’Ade vale una dracma e corrisponde al valore di due psōthiai e che la psōthia a sua volta è pari a un triobolo e vale otto kikkaboi.

Bibliografia Meineke 1827, p. 37, Meineke FCG II.1, p. 168; Kock CAF I, p. 167; Bethe 1931, p. 170 r. 25; Edmonds 1957, p. 236 s.; Caccamo Caltabiano–Radici Colace 1987; Rehrenböck 1987b, pp. 62–68; Urios-Aparisi 1992, p. 266; Franchini 2015, pp. 4 s. Contesto Nel contesto della sezione περὶ νομισμάτων contenuta nel nono libro del suo Onomasticon, Polluce ricorda i krapataloi, che dovevano costituire, nella commedia omonima di Ferecrate, l’unità cardine (del valore di una dracma) del sistema monetario dell’Ade, i cui sottomultipli erano rappresentati dalle ψωθίαι (trioboli) e dai κίκκαβοι. Testo Il passo di Polluce pone diversi problemi, legati essenzialmente alla forma del sostantivo che dà il nome alla commedia e alla proporzionalità del sistema monetario inventato da Ferecrate. Per quanto concerne la prima questione, la forma con geminazione di -λ- (κραπαταλλοί), tramandata in parte della tradizione di Polluce e altrove, appare inaccettabile (la forma κραπάταλος, attestata nel fr. 86, è protetta metricamente). Quanto alla posizione dell’accento, nonostante l’unanime preferenza degli editori per la forma proparossitona, meriterebbe forse maggiore attenzione la testimonianza di Arcad. p. 54, 7–11 Bark. = p. 60, 21–61, 24 Schm. = test. ii K.–A. a favore dell’accentazione ossitona (τὰ ὑπὲρ τρεῖς συλλαβὰς ἐκφερόμενα παραληγόμενα τῷ α βαρύνεται … κραπαταλλός δέ, εἶδος νομίσματος, […] ὀξύνεται), difesa con buoni argomenti da Rehrenböck 1985, p. 59 s., poi ripreso in Rehrenböck 1987b, p. 64 s. (Meineke FCG II.1, p. 288, si schierava invece a favore della compresenza delle due forme). Secondo Rehrenböck, inoltre, la geminazione di -λ- avrebbe valore espressivo (per l’attestazione di questo fenomeno nell’onomastica vd. Masson 1986): «die Grundbedeutung und die drei an diverse Lallwörter gemahnenden -α- schließen […] einen ursprünglich der Kindersprache angehörenden Ausdruck nicht aus» (Rehrenböck 1985, p. 60; vd.

Κραπάταλοι (test. i)

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poi anche Rehrenböck 1987b, p. 64 s.). Beekes 2008, pp. 48–51 (ripreso poi in Beekes 2010 s. v. κραπαταλλός) riconduce invece l’alternanza -λ- / -λλ- a una radice pregreca -aly. Nell’articolazione proposta da Polluce, il sistema monetario appare sproporzionato in più punti: problematica è innanzitutto, l’equivalenza tra il κραπάταλος (del valore di una dracma) e otto ψωθίαι (ciascuna del valore di un triobolo) perché in tal modo una dracma finisce per valere 24 oboli e non 6, come avviene di norma nel sistema monetale greco, nei termini in cui è descritto dallo stesso Polluce (IX 60). La congruità del rapporto tra κραπάταλος/dracma e ψωθία/triobolo appare ripristinata dall’intervento di Meineke (accolto anche in K.–A.), che proponeva di sostituire δύο al posto del tràdito ὀκτώ (Meineke 1827, p. 37); l’intervento non risolve, però, lo squilibrio tra la ψωθία e il suo sottomultiplo κίκκαβος, che nella testimonianza di Polluce è di 1 a 8, rapporto che nella monetazione greca «è tipica non del triobolo ma dell’obolo, che si suddivide in otto chalkoi» (Caccamo Caltabiano–Radici Colace 1987, p. 977; cfr. Poll. IX 65). Nel tentativo di sanare questa seconda aporia, Walther Kraus (ap. Rehrenböck 1987b, p. 57 e n. 49) proponeva di integrare 〈τρίς〉 prima di ὀκτὼ κικκάβους, mentre appare del tutto inadeguato l’intervento di Kaibel (ap. Bethe 1931, p. 170 r. 25), il quale proponeva ιη΄ in luogo del tradito ὀκτώ: la ricostruzione di un rapporto di 1 a 18 tra il triobolo e il κίκκαβος, e dunque di 1 a 6 tra l’obolo e il κίκκαβος, appare infatti comunque difforme rispetto all’atteso rapporto di 1 a 8. Le diverse congetture proposte appaiono non del tutto convincenti e forse, in ultima analisi, non necessarie né utili: sembrerebbe un eccesso di razionalismo, infatti, pretendere una perfetta coerenza aritmetica nell’invenzione comica, laddove l’attenzione del pubblico sarà stata certamente calamitata assai più dall’effetto straniante della sostituzione delle monete reali con monete di scarso o nullo valore che non dall’eventuale incoerenza delle corrispondenze. Dello stesso avviso erano, d’altronde, anche Caccamo Caltabiano e Radici Colace, per le quali «la presenza apparentemente atipica del triobolo, multiplo e non nominale di base, nel sistema che Ferecrate immagina operante nell’Ade» spinge «a non operare interventi sul testo» e orienta «verso l’individuazione di un sistema che non rispetta la logica delle proporzioni, anche perché in questa illogicità è racchiuso l’urto comico, ma vuole, piuttosto che ‘riprodurre’, ‘alludere’ alle realtà monetali più in uso» (Caccamo Caltabiano– Radici Colace 1987, p. 978; a conclusioni sostanzialmente simili giunge anche Urios-Aparisi 1992, p. 266: «according to them [scil. Caccamo Caltabiano e Radici Colace] the Pherecratic monetary system would not be a straightforward imitation of a real one; but a parody and in some way a simplification. Partly for this simplification, I am inclined to accept their interpretation: a complicated system of parities of different coins would have been difficult to develop in a comedy»). Interpretazione I Krapataloi dovevano rappresentare l’unità base, del valore di una dracma, di un vero e proprio sistema monetario ideato da Ferecrate e i cui sottomultipli erano rappresentati dalle ψωθίαι (trioboli del valore di un ottavo di dracma) e dai κίκκαβοι (del valore di un ottavo di ψωθία). Come osservano Caccamo Caltabiano e Radici Colace, tre fattori sembrano confermare il valore

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monetario di κραπάταλοι, ψωθίαι e κίκκαβοι: l’appartenenza del passo che ne documenta il ricorrere in Ferecrate alla sezione περὶ νομισμάτων dell’Onomasticon (più nello specifico, alla sezione dedicata ai nomi di monete δοκούντων μὲν βαρβαρικῶν ὄντων δὲ Ἑλληνικῶν); l’esplicita qualificazione dei κραπάταλοι come νομίσματα, e infine l’istituzione di un sistema monetario fornito di multipli e sottomultipli assimilati a nomi di moneta realmente esistenti (vd. Caccamo Caltabiano–Radici Colace 1987, p. 973; a tal proposito si vedano anche le considerazioni di Rehrenböck 1987b, p. 62: «es wäre nämlich sehr gut möglich, daß man auf der Oberwelt zu geringwertigen Geldstücken κραπαταλοί sagte, wie wir zum Beispiel eine Ansammlung von Groschenstücken im Slang “Schotter” nennen»; nella stessa direzione anche Urios-Aparisi 1992, p. 262). D’altronde, anche le altre testimonianze relative alla commedia attribuiscono esplicitamente al κραπάταλος il ruolo di moneta corrente che gli attribuisce, pur limitatamente all’Ade, Polluce (vd. Caccamo Caltabiano–Radici Colace 1987, p. 972 s. e Franchini 2015, p. 4 s.; contrariamente a quanto ritenuto dalle due studiose, tuttavia, non mi sembra che Meineke, Kock e Babelon volessero negare in toto il valore monetario di κραπάταλοι, ψωθίαι e κίκκαβοι, considerandoli come lemmi coniati ad hoc per indicare genericamente un prezzo talmente basso da poter essere assimilato a una gratuità: le considerazioni di Kock CAF I, p. 167, quae [scil. le informazioni fornite da Polluce] non ita interpretanda sunt, tamquam poeta in orco crapatalum parem esse drachmae Atticae, psothiam triobolo dixerit, sed idem quod apud superos drachma emeretur apud inferos crapatalo venire significabat, i. e. pretio nullo, inducono semmai a credere il contrario, così come le parole di Babelon 1901 [«une menue monnaie ou une pièce sans valeur»] citate dalle due studiose a p. 973, mentre Meineke nega valore monetario a ψωθία e κραπάταλος esclusivamente in relazione al fr. 86 K.–A.). Conferendo valore monetario ai tre referenti citati (aventi di per sé scarso o nullo valore, vd. infra), Ferecrate rielaborava, come si è detto, il topos del costo della vita estremamente basso nell’Ade, espressione più specifica della più generale presentazione dell’oltretomba come Paese di Cuccagna proposta anche nei Metallēs. εἴτε παίζων εἴτε σπουδάζων «La formula εἴτε παίζων εἴτε σπουδάζων riflette bene quella categoria dello σπουδαιογέλοιον che è una caratteristica dell’atteggiamento parodico, in cui le strutture ‘serie’ di un modello, in questo caso il sistema economico della polis, vengono con detorsio ‘riempite’ di contenuti non seri» (Caccamo Caltabiano–Radici Colace 1987, p. 972; in Polluce la stessa formulazione ricorre anche a V 101 e VI 206). Mi sembra, tuttavia, che nel caso dei Kratapaloi la parodia investa e corroda anche le strutture del modello: certamente l’effetto comico sarà scaturito dalla sostituzione delle realtà monetali con elementi privi di qualsiasi valore, ma se si conserva, come mi sembra opportuno, il testo di Polluce nella forma tràdita dai manoscritti, anche le proporzioni asimmetriche del sistema monetario infero rispetto al sistema monetario reale potrebbero avere avuto un ruolo nell’allestimento dello schema parodico. In altre parole, mi sembra del tutto plausibile che la supervalutazione della dracma dell’Ade e dei suoi sottomultipli

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rispetto alle monete realmente circolanti possano aver creato un effetto di roboante amplificazione: non solo il denaro che circola nel mondo dei morti deriva da oggetti privi di valore, ma risulta anche di maggior valore rispetto al conio in metallo della vita reale. δύο ψωθίας Per quanto concerne le ψωθίαι ricordate da Polluce, si tratta evidentemente degli ψωθία citati nel fr. 86 (vd. infra) e per i quali il senso di ‘briciole’ (‘small crumb’, ‘morsel’ LSJ9) è suggerito dalla fonte stessa del frammento (Athen. XIV p. 646 C ψωθία τὰ ψαθύρια. Φερεκράτης Κραπατάλλοις· λήψει — ψωθία). Tuttavia, accanto a questo significato, la tradizione lessicografica attesta anche quello di ‘parte inferiore del pane’, quella cioè che è a contatto diretto con il piano di cottura e che appare perciò molto più cotta del resto (per questo significato, attestato in Fozio, in Eustazio e nella Suda, vd. Caccamo Caltabiano–Radici Colace 1987, p. 974 s.). Le testimonianze lessicografiche permettono di ricostruire, dunque, diversi possibili percorsi alla base dell’adozione degli ψωθία, o delle ψωθίαι, come monete dell’Ade: innanzitutto, questa scelta ripropone il «sistema agli ateniesi ben noto, dell’utilizzazione di termini afferenti alla sfera edule, quale πέλανος, per designare realtà monetali» (Caccamo Caltabiano–Radici Colace 1987, p. 975); secondariamente «l’aspetto bruno e la natura secca» attribuibili alla ψωθία in quanto parte inferiore del pane sembrano porla «in diretta relazione con la terra e quindi con il mondo ctonio ed infero» (Caccamo Caltabiano–Radici Colace 1987, p. 975; vd. anche Urios-Aparisi 1992, p. 263). ὀκτὼ κικκάβους Anche il κίκκαβος (per il quale vd. Rehrenböck 1987b, pp. 65–68, e Orth 2009, p. 85), oltre ad indicare di nuovo oggetti di nessun valore, come suggerisce la glossa esichiana κ 2648 (κικκάβιν· ἐλάχιστον, οὐδέν), sembra alludere al sistema monetario ateniese: innanzitutto, nella sua formazione il termine richiama evidentemente il κόλλυβος (piccola moneta ricordata in Ar. Pac. 1200, Eup. fr. 297, 3 K.–A. [vd. Olson 2016, p. 298 s.] e Call. fr. 192, 2 Pfeiffer) e inoltre la valenza onomatopeica (riconosciuta già anticamente: vd. Kock CAF I, p. 167, nella sezione introduttiva alla commedia) richiama il verso della civetta, simbolo di Atene riprodotto su tutte le monete battute dalla polis (vd. Caccamo Caltabiano–Radici Colace 1987, p. 975 s., che non escludono che nell’allusione al verso della civetta possa nascondersi un ulteriore riferimento al mondo ctonio). Meno cogente appare invece il parallelo con γρῦ, termine che indica onomatopeicamente il grugnito del maiale e che designa anche una moneta di scarso valore (vd. Rehrenböck 1987b, p. 67), mentre sembra del tutto da escludere un’etimologia comune con il latino ciccus come proposto, sia pure dubitativamente, da Caccamo Caltabiano–Radici Colace 1987 (vd. anche Edmonds 1957, p. 236 s.; contra vd. Rehrenböck 1987b, p. 66, e Urios-Aparisi 1992, p. 264).

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fr. 85 K.–A. (80 K.) ὦ δαιμόνιε, πύρεττε μηδὲν φροντίσας, καὶ τῶν φιβάλεων τρῶγε σύκων τοῦ θέρους, κἀμπιμπλάμενος κάθευδε τῆς μεσημβρίας, κἆιτα σφακέλιζε καὶ πέπρησο καὶ βόα 2 σύκων τρῶγε ACE: transp.  Mus. 3 κἀμπιμπλάμενος A: κἀμπιπλάμενος CE: κἀμπλήμενος Nauck 1880, p.  56 τῆς Schweighaeuser (Athen. II p.  16): τὰς ACE 4 κἇιτα σφακέλιζε CE: κατασφ- A

Caro mio, fatti venire la febbre senza dartene pensiero, e sbocconcella i fichi fibalei d’estate e, sazio, vattene a dormire a mezzogiorno e poi abbi dolori atroci, brucia di febbre e urla Athen. ΙΙΙ p. 75 Β τῶν δὲ καλουμένων φιβάλεων σύκων πολλοὶ μὲν μέμνηνται τῶν κωμωιδιοποιῶν, ἀτὰρ καὶ Φερεκράτης ἐν Κραπατάλλοις (fab. nom. om. CE)· ὦ — βόα p. 80 A ἄλλοι δέ φασιν (φησιν A) ὅτι μὴ δεῖ σῦκα προσφέρεσθαι μεσημβρίας· νοσώδη γὰρ εἶναι τότε (defic. CE), ὡς καὶ Φερεκράτης ἐν Κραπατάλλοις εἴρηκεν I cosiddetti fichi fibalei sono citati da molti tra i commediografi, tra i quali Ferecrate nei Krapataloi: caro mio — urla. p. 80 A: altri dicono che non bisogna nutrirsi di fichi a mezzogiorno: allora sarebbe infatti nocivo, come ha detto Ferecrate nei Krapataloi

Metro Trimetri giambici

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Bibliografia Schweighaeuser Athen. II, p. 16; Meineke FCG II 2, p. 287; Bothe 1855, p. 97; Kock CAF I, p. 167; Nauck 1880, p. 56; van Herwerden 1876, p. 297 s.; Desrousseaux 1942, p. 17 s.; Edmonds 1957, p. 237 s.; Rehrenböck 1985, pp. 66–68; Urios-Aparisi 1992, pp. 270–275; Storey 2011, p. 460 s.; Franchini 2015, pp. 5–7; Zanetto 2017, pp. 297–301 Contesto della citazione Il frammento è citato da Ateneo (III p. 75 B) in relazione al ricorrere dei fichi fibalei in commedia e a esso si allude evidentemente anche poco oltre (p. 80 A) per testimoniare la credenza che mangiare fichi a mezzogiorno potesse avere effetti nocivi per la salute (oltre ad alludere al frammento di Ferecrate, Ateneo cita anche, al proposito, frammenti di Aristofane, Eubulo e Nicofonte).

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Testo La trasposizione τῶν φιβάλεων τρῶγε σύκων, risalente a Musuro, sana il testo del v. 2, trasmesso dai manoscritti nella forma ametrica τῶν φιβάλεων σύκων τρῶγε. Per quanto concerne il v. 3, molti dubbi ha destato la presenza del participio presente κἀμπιμπλάμενος (vel κἀμπιπλάμενος): Nauck 1880, p. 56 e van Herwerden, 1876, p. 297 s. proponevano indipendentemente di correggere la forma tràdita con κἀμπλήμενος; Kock CAF I, p. 167, pur accogliendo a testo la variante κἀμπιπλάμενος, approvava in apparato κἀμπλήμενος (recte. nam postquam se inpleverit ficubus dormire iubetur). Il participio aoristo ἐμπλήμενος è piuttosto frequente in Aristofane (cfr. p. es. Ar. Eq. 935, Vesp. 424 e 984, Eccl. 56, Plut. 892); tuttavia potrebbe avere ragione Urios-Aparisi a ritenere che non sia forse necessario sostituire il participio presente della tradizione manoscritta con un participio aoristo per ripristinare l’esatta successione cronologica degli ordini impartiti («although it is a strange expression there are some cases of present participle instead of aorist, as in Cratin. fr. 149: ἧσθε πανημέριοι χορταζόμενοι γάλα λευκόν, / πυὸν δαινύμενοι, κἀμπιμπλάμενοι πυριάτῃ» [Urios-Aparisi 1992, p. 274]). Viene generalmente accolta, invece, la congettura τῆς di Schweighaeuser (Athen. II p. 16, poi riproposta con buoni argomenti da Rehrenböck 1985, p. 68), con l’intento di ripristinare un genitivo di tempo (τῆς μεσημβρίας); Edmonds, al contrario, preferisce conservare l’accusativo τὰς μεσημβρίας (concordemente tràdito dai manoscritti) sulla scorta di Ar. Lys. 964–966 ποῖος δ’ ὄρρος / κατατεινόμενος / καὶ μὴ βινῶν τοὺς ὄρθρους. Interpretazione Il frammento viene generalmente considerato come una sequenza di istruzioni relative a un metodo efficace per raggiungere l’Ade, sulla scorta del confronto con Ar. Ran. 117–134 (haec cum Ran. 117–134 comparanti et apud inferos scaenam esse consideranti non dubium videtur quin admoneatur nescio quis, quomodo in orcum facillime possit pervenire, notava già Kock CAF I ad loc.), e collocato, per conseguenza, nella fase iniziale della commedia (bibliografia a sostegno di questa interpretazione in Rehrenböck 1985, p. 66 s.; concordano con Kock, tra gli altri, anche Kassel e Austin e Urios-Aparisi 1992, p. 270). I quattro versi, dunque, sarebbero quanto resta di un dialogo tra due personaggi; il vocativo ὦ δαιμόνιε sarebbe da immaginare rivolto al personaggio che si appresta a scendere nell’Ade. Anche se la ricostruzione di Kock cogliesse nel segno, non appare, comunque, del tutto convincente l’ipotesi, ulteriore, avanzata da Urios-Aparisi, per il quale il frammento costituirebbe, in forza dell’utilizzo di una specifica terminologia tecnica, il responso di un medico a una richiesta di consulenza (Urios-Aparisi 1992, p. 270). A un contesto diverso pensava invece Desrousseaux (citato peraltro a torto da Urios-Aparisi a sostegno della propria tesi), secondo il quale «le tour du fragment de Phérécrate parait, au reste, indiquer, plutôt que la réponse à une consultation, la remontrance d’un mentor plus ou moins improvisé à l’endiablé qui risque ou cherche la mort sans dire pourquoi» (Desrousseaux 1942, p. 17 s.). In conclusione, come ho proposto già altrove (vd. Franchini 2015, p. 7 s.), mi sembra che si possa accogliere, e forse almeno in parte precisare, l’ipotesi di Kock: il vocativo iniziale, infatti, potrebbe indicare una situazione di contrapposizione

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o di scontro tra due personaggi, che il parlante vorrebbe risolvere indicando al suo interlocutore una via per raggiungere l’Ade. Se questa ricostruzione coglie nel segno, si può forse immaginare allora che il primo personaggio abbia precedentemente indicato metodi letali più cruenti, respinti dal secondo (similmente a quanto avviene nel dialogo tra Eracle e Dioniso ai vv. 117–136 delle Rane), e che nei versi in questione il primo personaggio prenda nuovamente la parola per proporre un tentativo di mediazione, avanzando una proposta, almeno ai suoi occhi, più allettante. In alternativa, si può ipotizzare che il personaggio parlante abbia precedentemente proposto al suo interlocutore di raggiungere l’Ade togliendosi la vita ma, davanti al suo rifiuto, stia ora tentando di convincerlo a buscarsi almeno una serie di malanni, via via più gravi. Zanetto, che recentemente è intervenuto sui versi in questione (Zanetto 2017, p. 301), preferisce avanzare un’ipotesi ricostruttiva del tutto differente: l’imperativo presente πύρεττε indicherebbe che l’interlocutore del personaggio parlante sarebbe già in preda alla febbre: «si può ricostruire allora una situazione in cui il personaggio (B) esprime disagio o rabbia o sofferenza dicendo πυρέττω e (A) gli rifà il verso esortandolo a tenersi la febbre e anzi ad aggravarla fino a farsi venire le convulsioni». Nel complesso, i versi sono costruiti, secondo accorta sensibilità retorica, per accumulo di imperativi, in climax ascendente (per l’utilizzo di καί come marcatore di climax ascendente vd. Denniston 1954, p. 293; per l’anafora di καί, amplificata dall’utilizzo in combinazione con εἶτα, vd. Spyropoulos 1974, p. 10): un espediente la cui comicità discende dal fatto che, nello svolgimento dell’enumerazione, il quadro clinico va aggravandosi in maniera sempre più netta. Non credo, invece, che il dispositivo comico in atto nei quattro versi superstiti del frammento sia da identificare nel fatto che «such a small thing as green figs can be deadly» (così Urios-Aparisi 1992, p. 270), dal momento che l’elenco dei sintomi non è certo riconducibile in toto all’assunzione dei soli fichi (vd. infra); una simile interpretazione contrasterebbe peraltro, mi sembra, con l’iterazione di καί, attraverso la quale vengono introdotti rimedi sempre meno salutari, e disturbi via via più gravi e dolorosi, ma, per così dire, in parallelo, e senza che si possa identificare in alcuno la causa scatenante degli altri. 1 ὦ δαιμόνιε ὦ δαιμόνιε saepe cum imperat. osservano K.–A. (cfr. p. es. Ar. Nub. 38, Av. 1436, Thesm. 64, Ran. 44). Anche se non sembra possibile ricondurre le attestazioni superstiti del vocativo a un’unica funzione (si vedano, per questo, le lucide osservazioni di Wendel 1929, p. 108; per Starkie, «such an address […] takes its colour from the tone of the speaker» [Starkie 1897, p. 301]; sulla stessa linea si colloca anche Dickey 1996, p. 141 s. Secondo Brunius-Nilsson, le attestazioni comiche del vocativo sono sempre riconducibili a un uso colloquiale: «I feel that δαιμόνιε, where it occurs in Aristophanes, is used in an analogous if not to say identical manner as in Homer. The familiar character of δαιμόνιε is brought out by the fact, inter alia, that as in Homer, nearly half the examples of the word are found in scenes portraying family life or in familiar dialogue between friends – or pretended friends» [Brunius-Nilsson 1955, p. 97], ma sul valore dell’invocazione in Omero si vedano le obiezioni avanzate da Verdenius 1959 e le considerazioni

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di Rehrenböck 1985, p. 67), andrà notato che in Aristofane δαιμόνιε è utilizzato in genere nel tentativo di rabbonire e di ammansire l’interlocutore (cfr. p. es. Ar. Eq. 860–863, Nub. 38 e 816), e spesso in espressioni che propongono una sorta di mediazione tra due posizioni conflittuali: è il caso, ad esempio, di Ar. Nub. 1138 s. (ὦ δαιμόνιε, τὸ μέν τι νυνὶ μὴ λάβῃς, / τὸ δ’ ἀναβαλοῦ μοι, τὸ δ’ ἄφες: Strepsiade chiede una dilazione al creditore che esige la restituzione del debito), di Thesm. 64 s. (ὦ δαιμόνιε, τοῦτον μὲν ἔα χαίρειν, σὺ δὲ / Ἀγάθωνά μοι δεῦρ’ ἐκκάλεσον πάσῃ τέχνῃ: «a conciliatory if often exasperated form of address», notano ad loc. Austin–Olson 2004, p. 73, citando a sostegno della loro esegesi anche il frammento di Ferecrate in questione; in relazione al nostro caso specifico, poco importa se l’invocazione sia diretta a un servo o a un uomo libero; ad ogni modo, sulla questione vd. Prato 2001 ad loc.) e di Ran. 44 (ὦ δαιμόνιε, πρόσελθε· δέομαι γάρ τί σου, il cui valore conciliatorio era stato notato già da Dover 1993, p. 100). Il vocativo δαιμόνιε mi pare costituire, d’altronde, una evidente spia di scambio dialogico serrato: a tal proposito, Sommerstein osservava che «an examination of its use in Aristophanes shows clearly that his characters employ this form of address in rebucking, admonishing or pleading with a respected person» (Sommerstein 1977, p. 272). Se è vero, del resto, quanto osserva Dunbar 1995, p. 542, commentando Ar. Av. 961 («this vocative […] seems regularly to accompany a polite remonstrance or protest, and may mean no more than ‘my dear sir/lady’ or, when with imper., as most often, ‘be a good fellow, and do/don’t do x’»), è altrettanto vero che a δαιμόνιε non è estraneo «a touch of pained surprise or sudden wonder» (così Stanford 1958, p. 75, ad Ar. Ran. 44, ripreso da Urios-Aparisi 1992, p. 27). In realtà, che l’invocazione abbia un valore essenzialmente amichevole, o almeno di affettuoso rimprovero, non è un dato unanimemente riconosciuto: in relazione a Ar. Nub. 38, ad esempio, Guidorizzi osserva che δαιμόνιε «comporta talvolta un tono di degnazione da parte di chi si rivolge a un interlocutore più modesto; in questo caso, sottolinea l’atteggiamento di sufficienza e compatimento dell’aristocratico figliolo nei confronti del suo rozzo genitore» (Guidorizzi 1996 p. 189; analogo valore attribuisce all’invocazione anche Del Corno 1985 a proposito di Ran. 44 [p. 159]; a favore, invece, dell’interpretazione che limita l’utilizzo solo a rapporti tra «social equals» si vedano da ultimo Austin–Olson 2004, p. 73). πύρεττε Pur essendo attestato altrove in commedia (cfr. p. es. Ar. Vesp. 284 e 813), il verbo (forse tipico del linguaggio colloquiale: vd. Biles–Olson 2015 ad Ar. Vesp. 283b–284 [p. 187]) compare all’imperativo, almeno a quanto mi risulta, solo qui (per la formazione di πυρέττω a partire dal sostantivo πυρετός vd. Schwyzer 1939, p. 725). μηδὲν φροντίσας Per μηδὲν (vel οὐδὲν) φροντίζειν con il significato di ‘stimare ben poco’ e quindi ‘non darsi pensiero’ vd. LSJ9 s. v. φροντίζω. 2–3 καὶ τῶν φιβάλεων τρῶγε σύκων τοῦ θέρους / κἀμπιμπλάμενος κάθευδε τῆς μεσημβρίας I fichi fibalei, come ricorda anche Ateneo (III p. 75 B), erano una qualità di fichi citati di frequente in commedia. Secondo lo scoliaste al v. 802 degli Acarnesi (schol. ad Ar. Ach. 802a (i), p. 105, 18–19 Wilson), il nome

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deriverebbe dalla località della quale il frutto era originario, situata in Attica o in Megaride, ma è ben possibile che lo scolio sia frutto di un autoschediasmo: che le diverse varietà di fichi fossero spesso denominate a partire da un toponimo è testimoniato dallo stesso Ateneo (nel corso del terzo libro sono ricordati, ad esempio, i fichi laconici, di Megara, di Calcide, ecc.), mentre la localizzazione geografica tra Atene e Megara potrebbe dipendere dal fatto che i fichi fibalei vengono citati nel dialogo tra Diceopoli e il Megarese. Per quanto concerne il consumo alimentare, sembra che i fichi fibalei fossero particolarmente adatti all’essiccazione (cfr. scholl. ad Ar. Ach. 802a (ii), 802b e Suid. φ 287) e che venissero generalmente serviti come dessert (cfr. Poll. VI 81). La determinazione di tempo (τοῦ θέρους), tuttavia, potrebbe suggerire un consumo del frutto fresco, un’ipotesi che sarebbe ulteriormente rafforzata qualora si accetti, con Urios-Aparisi, l’idea che i fichi in questione maturassero precocemente (vd. Urios-Aparisi 1992, p. 271 s.). Sebbene il verbo τρώγω (che indicherà qui lo ‘sbocconcellare’ piuttosto che il più generico ‘mangiare’) sia spesso associato ai frutti in generale e ai fichi in particolare (vd. LSJ9 s. v.), più raro (ma non del tutto inattestato: cfr. FGrHist 2A 81 fr. 1 [= Athen. VIII p. 334 A-B] ἢ γὰρ θαλαττοκρατεῖν ἡμᾶς φησι Πάτροκλος ἢ τῶν σύκων τρώγειν) appare l’uso di una reggenza al genitivo, con valore partitivo. Che l’ingestione di fichi a mezzogiorno comportasse dei rischi per la salute è testimoniato dai frammenti citati da Ateneo (III p. 80); l’impressione generale, tuttavia, è che si trattasse di una pratica sconsigliabile in quanto nociva alla salute, ma certo non fatale: nel frammento dallo Σφιγγοκαρίων di Eubulo (Eub. fr. 105 K.–A.) il parlante lamenta di aver sofferto dolori per aver mangiato fichi a mezzogiorno due giorni prima, ma l’utilizzo dell’imperfetto ἠσθένουν induce a credere che i dolori siano ormai superati; nel frammento proveniente dal Proagone di Aristofane (Ar. fr. 479 K.–A., per il quale vd. Pellegrino 2015, p. 279) mangiare fichi a mezzogiorno è lo stratagemma utilizzato da una figura anonima che, volendo imitare un altro personaggio già malato, desidera ammalarsi a sua volta, volontariamente e in estate (non siamo dunque certamente in presenza di volontà suicide; sulle diverse ricostruzioni avanzate circa l’identità dei due personaggi, ovvero il malato e colui che mangia fichi per ammalarsi, vd. K.–A. ad loc.), mentre nel frammento delle Sirene di Nicofonte (Nicoph. fr. 20 K.–A.: vd. Pellegrino 2013, pp. 62–65) l’ingestione di fichi freschi a mezzogiorno e il successivo sonno provocano un πυρετὸς […] οὐκ ἄξιος τριωβόλου (una febbre, cioè, per cui non vale neppure la pena pagare l’onorario del medico: vd. Edmonds 1957, p. 941 e n. b, anche se ha forse ragione Pellegrino 2013, p. 65, a sospettare che l’evocazione del triobolo potesse «sprezzantemente alludere a quella famigerata categoria ‘professionale’ [scil. quella dei sicofanti] indegna persino della paga giornaliera dei dicasti che fu elevata da Cleone appunto a tre oboli»). È interessante notare, ad ogni modo, come anche nei frammenti citati ricorrano i dettagli in gioco nel frammento di Ferecrate, e cioè, oltre ai fichi, l’ora di assunzione, la stagione, e il sonno dopo il pasto. Anche se è impossibile rintracciare l’origine della credenza relativa alla presunta nocività dei fichi, il fatto che essa appaia documentata anche nella lette-

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ratura medica (cfr. Hipp. Vict. II 55, 9 σῦκον χλωρὸν ὑγραίνει καὶ διαχωρέει καὶ θερμαίνει, ὑγραίνει μὲν, ὅτι ἔγχυλόν ἐστι, θερμαίνει δὲ διὰ τὸν γλυκὺν ὀπόν, καὶ διαχωρέει· τὰ πρῶτα τῶν σύκων κάκιστα, ὅτι εἰσὶν ὀπωδέστατα, βέλτιστα δὲ τὰ ὕστατα· τὰ ξηρὰ σῦκα καυσώδεα μέν, διαχωρητικὰ δέ) spinge a credere che si tratti di una norma dipendente da indicazioni di origine dietetiche più che espressione di una originaria matrice superstiziosa, come notava già Ehrenberg («prescriptions such as not to eat figs during the heat […], or to avoid onion and lentil soup in winter […] hardly derive from superstition, but are based on supposedly dietetic reasons which, however, it would be difficult to discover; they are, in fact, simply humorous, forbidding just the suitable sort of food»: Ehrenberg 1951, p. 262 n. 7). Fondati dubbi permangono, in realtà, a proposito dell’intrinseca comicità della prescrizione dietetica, ma è d’altronde facilmente comprensibile come, a proposito di un frutto così comune, in Attica, come i fichi, si siano potute diffondere gradualmente una serie di prescrizioni, tradizioni e superstizioni in gran parte infondate: Ateneo stesso, nei capitoli dedicati a questo frutto, ne riporta molte altre, spesso palesemente errate o in evidente contrasto tra loro (sono difficilmente digeribili o, al contrario, facilitano la digestione; secondo alcuni richiedono, dopo la loro assunzione, l’ingestione di acqua fredda, mentre secondo altri di acqua calda; mangiare fichi può nuocere alla voce, e così via). 4 κἆιτα σφακέλιζε Il verbo, formato a partire dal sostantivo σφάκελoς, indicherà nel nostro caso il patire dolori talmente lancinanti da provocare spasmi e convulsioni piuttosto che l’essere sofferente di cancrena, secondo il significato proprio del verbo (per entrambi i significati vd. LSJ9 s. v.). Alla base dell’ambiguità semantica risiede probabilmente una risemantizzazione posteriore, dove al significato proprio del verbo (evidentemente associato alla patologia cancrenosa) viene in un secondo tempo associato uno stato di salute talmente compromesso da provocare sintomi e dolori simili alla cancrena (vd. al proposito Bozzi 1982, p. 65: «è quindi ipotizzabile che il concetto di “dolore lancinante” sia da considerarsi uno sviluppo semantico secondario derivante dalla conoscenza di un fenomeno patologico ben definito nelle opere di medicina e caratterizzato da forti dolori»). καὶ πέπρησο καὶ βόα Per il significato di ‘to burn with fever’ proprio di πίμπρημι si vedano LSJ9 s. v. e le considerazioni di Rehrenböck 1985, p. 68; più in generale, nella letteratura medica il verbo descrive spesso gli esiti di un’infezione (vd. Jouanna 1983, p. 266 n. 5, con ricca bibliografia). A proposito dell’imperativo βόα, Urios-Aparisi nota che «the ending is clearly anticlimactic in the last word; for it does not refer to the symptoms of the illness, but to the reaction of the ill person (a similar enumeration with an anticlimax in the word βοή at the end is Pl. com. fr. 27, 4)» (Urios-Aparisi 1992, p. 275).

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fr. 86 K.–A. (81 K.) λήψει δ’ ἐν ᾍδου κραπάταλον {τριωβόλου} καὶ ψωθία λήψῃ Kaibel ms. ap. K.–A. κραπάταλλον τριωβόλου καὶ ψωθία A: τρ. del. Meineke 1827, p. 37 sq.: -αλον καὶ ψωθίαν van Herwerden 1855, p. 10 (prob. Rehrenböck 1987b, p. 57 sq.): -άλου καὶ -ας Kock: -άλου καὶ -ου van Herwerden 1903, p. 15 (ψωθίου iam Blaydes 1896, p. 21)

Nell’Ade riceverai un krapatalon {da tre oboli} e delle briciole Athen. XIV p. 646 C ψωθία τὰ ψαθύρια. Φερεκράτης Κραπατάλλοις· λήψει — ψωθία. Ἀπολλόδωρος δ’ ὁ Αθηναῖος (244 F 283 Jacoby) καὶ Θεόδωρος δ’ (δ’ secl. Jacoby) ἐν Ἀττικαῖς γλώσσαις (346 F 2 Jacoby) τοῦ ἄρτου τὰ ἀποθραυόμενα (-ψαυόμενα A, corr. Kaibel) ψωθία καλεῖσθαι, ἅ τινας ὀνομάζειν ἀτταράγους (vd. Paus. att. ψ 6) Psothia: le briciole. Ferecrate nei Κrapataloi: riceverai — briciole. Apollodoro di Atene e Teodoro nelle Glosse attiche sostengono che le briciole del pane, che altri chiamano attaragoi, sono chiamate psothia

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Bibliografia Meineke 1827, p. 37 s.; Runkel 1829, p. 34; Meineke FCG II.1, p. 288; Bothe 1855, p. 96 s.; van Herwerden 1855, p. 10; Kock CAF I, p. 168; Blaydes 1896, p. 21; van Herwerden 1903, p. 15; Rehrenböck 1987b, pp. 57–62; Urios-Aparisi 1992 pp. 276–278; Storey 2011, p. 460 s.; Franchini 2015, p. 7 s. Contesto della citazione Ateneo (XIV p. 646 C) riporta il frammento come testimonianza della sinonimia tra psothia e psathuria. Testo L’espunzione di τριωβόλου, proposta da Meineke 1827, p. 37 s., e generalmente accolta dagli editori successivi, è motivata dal fatto che l’equivalenza tra il triobolo e il krapatalos presupposta dal testo tràdito non trova corrispondenza nei rapporti monetari documentati da Poll. IX 83 (test. i): nam quum Pollux κραπάταλον octo vel potius duas ψωθίας continuisse, ψωθίαν autem triobolo aequivaluisse dicat, non sane intelligitur, quo modo quis trioboli dispendio κραπάταλον et ψωθία accepturus dici queat (Meineke 1827, p. 37 s.). In τριωβόλου, dunque, andrebbe ravvisata una glossa, originariamente riferita agli ψωθία (dei quali illustra, correttamente, il valore monetario) e penetrata poi nel testo per l’errore di un copista (sulla possibile genesi dell’errore si vedano le considerazioni di Rehrenböck 1987b, p. 58: «Bei Athaenaios ist τριωβόλου anscheinend als Interlinearglosse in den Text gedrungen, indem jemand zu ψωθία(ν) erklärend einen Akkusativ τριώβολον schrieb; daraus entstand später ein genetivus pretii, welcher fälschlich auf κραπαταλόν bezogen wurde, wo man eigentlich einen äquivalenten Genetiv δραχμῆς erwarten sollte. Letzteres wurde wahrscheinlich durch das Metrum veranlaßt»). Non appare, tut-

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tavia, del tutto implausibile l’ipotesi di Urios-Aparisi, il quale a difesa del testo tràdito, e dunque contro l’espunzione di τριωβόλου, notava quanto segue: «our fragment could be understood as follow: “you will buy one ‘crapatalon’ and one ‘psothia’ in exchange for one triobol”. We have to bear in mind also that Athen. XIV 646c, our source, quotes the word ψωθία or ‘bread crumbs’ as having a literal sense, the expression could sound ridiculous to an Athenian person: the price for such things is too high; but it will become clear, when the real value of this currency in Hades is explained» (Urios-Aparisi 1992, p. 276 s.; la traduzione proposta, tuttavia, presuppone l’accoglimento della congettura ψωθίαν di van Herwerden, che in realtà nelle pagine successive viene opportunamente respinta; sulla questione vd. infra). Per quanto concerne la forma al neutro plurale, è vero che essa contrasta con la testimonianza di Polluce, che tramanda il sostantivo al femminile; non sembrano condivisibili, tuttavia, i tentativi di correggere sostituendo al neutro plurale tràdito in Ateneo la corrispondente forma femminile (κραπάταλον καὶ ψωθίαν: van Herwerden 1855, p. 10, accolto da Rehrenböck 1987b, p. 57 s.) o congetturando un genitivo di prezzo (κραπατάλου καὶ ψωθίας: vd. Kock CAF I, p. 168: sed non satis est τριωβόλου eicere. Scripsit poeta λήψει δ’ ἐν ᾍδου κραπάταλου καὶ ψωθίας, i. e. vilissimo pretio apud inferos emes quod apud nos multo pluris constat; così anche van Herwerden, preceduto in realtà già da Blaydes 1896, p. 21, che interveniva per introdurre, in accordo con Kock, un genitivo di prezzo, preferendo però conservare il genere neutro del sostantivo: scribatur ψωθίου, nominativus enim est ψωθίον = ψαθύριον teste Athenaeo [van Herwerden 1903, p. 15]; per una ricostruzione dettagliata dei differenti interventi sul testo del frammento si veda Rehrenböck 1987b, p. 57 s., che discute anche diverse congetture non riportate in apparato da K.–A.): la forma al neutro plurale, infatti, non solo è garantita dal contesto in cui il frammento è citato, ma ricorre anche altrove nella tradizione erudita e lessicografica (vd. infra). Alla stessa conclusione perviene, peraltro, anche Urios-Aparisi, per il quale «the text seems to be playing on the similarity of both words, ἡ ψωθία, the coin that according to Pherecrates was used in Hades and τὰ ψωθία, bread-crumbs» (UriosAparisi 1992, p. 278). Interpretazione L’uso del futuro potrebbe indicare che il frammento sia da immaginare collocato in un momento della commedia antecedente alla discesa negli inferi; il personaggio parlante, inoltre, mostra di avere una conoscenza precisa (forse per una precedente esperienza diretta?) degli avvenimenti che accadranno nell’Ade e che prefigura al suo interlocutore (sulla questione vd. anche Franchini 2017, p. 7 s.). L’evidente contiguità verbale con la testimonianza di Poll. IX 83, triobolo compreso (che il τριωβόλου tràdito da Ateneo sia da considerare genuino oppure frutto di interpolazione non è rilevante a questo proposito), induce a credere che, nella sua descrizione del sistema monetario vigente nell’Ade, Polluce potesse avere presente proprio questo verso della commedia (lo suggeriva, pur tra le righe, van Herwerden 1855, p. 10: λήψει δ’ ἐν ᾍδου κραπάταλον καὶ ψωθίαν? quasi dicas λήψει δραχμὴν καὶ τριώβολον. Post hunc autem versum consentaneum est aliam personam quaesivisse, quid κραπάταλον et ψωθία significarent, eique dein-

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de priorem interlocutorem novorum horum numorum rationem explicasse), mentre Urios-Aparisi avanzava, come si è appena visto, la possibilità che l’ambiguità tra ψωθίον e ψωθία avrebbe potuto costituire il punto di partenza per un qualche tipo di scherzo comico. Sul topos del bassissimo costo della vita nell’Ade, presupposto dal frammento, si veda quanto osservato supra in relazione a test. i. Quanto a Phot. ο 12 Theodoridis, ὀβολοῦ χίμαιρα ἐν ᾍδου, ricondotto ai Krapataloi almeno a partire da Dobree (Dobree 1843, I, p. 604; vd. anche Meineke FCG I, p. 85 e FCG II.1, p. 296), vd. Kassel e Austin PCG VII, p. 145. λήψει Considerando i referenti citati nel frammento, sulla base della testimonianza resa da Polluce, come dotati di reale valore monetario, e introducendo a un tempo, come si è detto, due genitivi di prezzo al posto dei due accusativi tràditi (κραπάταλου καὶ ψωθίας, dunque, al posto di κραπάταλον καὶ ψωθία), Kock traduceva λήψει con emere (Kock CAF I, p. 168); ma è assai più probabile, specie ove non si accolga l’intervento di Kock sul testo tràdito, che il verbo sia qui da intendere, più genericamente, come equivalente a ‘to receive’, ‘to get’, come scelgono di fare, rispettivamente, Gulick e Olson nelle loro edizioni di Ateneo. κραπάταλον Sul κραπάταλος come ‘dracma dell’Ade’ vd. supra, ad test. i. {τριωβόλου} Sulle multiformi funzioni del triobolo ad Atene si vedano le osservazioni di Caccamo Caltabiano–Radici Colace 1987, p. 978 (le quali, giova ricordarlo, sono per conservare il tràdito τριωβόλου). ψωθία Per il valore del termine si veda quanto osservato supra, ad test. i. Nonostante il frammento in questione rappresenti l’unica attestazione di ψωθία/ ψωθίον in un testo letterario, la sua presenza in diverse fonti di tradizione lessicografica ed erudita spingono a credere che il termine dovesse avere una diffusione più ampia, probabilmente anche in relazione a un suo utilizzo nel linguaggio parlato (vd. Urios-Aparisi 1992, p. 277; alle attestazioni in ambito lessicografico riportate da Kassel e Austin in calce a Poll. IX 83 andranno aggiunte anche quelle, relative tanto al neutro ψωθίον quanto al femminile ψωθία, discusse da Caccamo Caltabiano–Radici Colace 1987, p. 974 s.). fr. 87 K.–A. (82 K.) (A.) μάχαιραν ἆρ’ ἐνέθηκας; (B.) οὔ. (A.) τί μ’ εἴργασαι; ἀμάχαιρος ἐπὶ βόεια νοστήσω κρέα, ἀνὴρ γέρων, ἀνόδοντος; 1 μαχαιρίδ’ Kaibel ἆρ’ ἐνέθηκας Porson 1812, p. 295 (qui personas dist.): ἄρ’ ἐν- L: ἀρεν- C: ἄραι ἐν- F: ἆραι ἐν- S; ἀλλ’ ἔνθες k l (‘scilicet τὴν μάχαιραν τοῖς κρέασιν’) vel 〈ὤν〉, ἀλλ’ ἐντίθει van Herwerden 1855, p. 11 sq.

(A.) Hai messo dentro il coltello, vero? (B.) No. (A.) Che cosa mi hai fatto? Andrò senza coltello alle carni di bue, io uomo vecchio, sdentato?

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[1–3] Poll. X 89 (codd. FS, CL) χρηστέον δὲ καὶ […] μαχαίρᾳ ἢ μαχαιρίῳ ἢ μαχαιρίδι. ἡ μαχαιρὶς μὲν γὰρ ὡς ἐπὶ τὸ πολὺ ἐπὶ τῆς κουρίδος· ἀλλ’ ὅταν Φερεκράτης ἐν Κραπατάλοις (Κραιπάλ- L, Κρεπατάλλοις C, ‘Κοριάννοις h. e. Κοριαννοῖ’ Meineke) φῃ μάχαιραν — ἀνόδοντος (accedunt AB) ἀπὸ (ἐπὶ Kaibel) τῆς μαχαίρας (καὶ τῷ μαχαιρίῳ add. FSB, τῶ μ. L) καὶ τῇ μαχαιρίδι χρηστέον. Bisogna utilizzare anche machaira, o machairion oppure machairis. Machairis infatti serve per lo più a designare la forbice, ma se Ferecrate nei Krapataloi dice: ‘Hai messo dentro — sdentato?’ sulla base (di questo uso) di machaira si potrà utilizzare allora (nella medesima accezione) anche machairis. [2] Phot. (b, z) α 1157 Theodoridis ἀμάχαιρος. Φερεκράτης (reliqua in marg. z)· ἀμάχαιρος — κρέα. amachairos. Ferecrate: ‘Andrò — bue’. [3] vid. fr. 79 K.–A. (Phot. [b, z] α 2017 Theodoridis = Suid. α 2547 = Lex. Bachm. p. 100, 4 [— Σb α 1442] ἀνόδοντον. Κοριαννοῖ (-oις codd.) Φερεκράτης (Φερ. Κορ. Phot. b, cfr. frr. 80, 81)· ἀνὴρ γέρων ἀνόδοντος ἀλήθει. Poll. II 96 (codd. FS, A, BC) ὁ δὲ ὀδόντα μὴ ἔχων νωδός (vd. Phryn. fr. 85) […] ἀνόδοντα δ᾽ αὐτὸν καλεῖ Φερεκράτης (ἀνόδοντος ὡς Φερ. BC) anodonton (senza denti). Ferecrate nella Koriannō: un uomo vecchio anodontos macina. Poll. II 96: chi non ha i denti nodos (…) lo chiama ‘anodonta’ Ferecrate

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Bibliografia Porson 1812, p. 295 s.; Runkel 1829, p. 38; Meineke FCG II.1, p. 292; Bothe 1855, p. 98 s.; van Herwerden 1855 p. 11 s.; Kock CAF I, p. 168; Graf 1885, pp. 72–74; Graf 1891, p. 608; Dieterich 1893, p. 25 n. 1; van Leeuwen 1901, p. 13; Rehrenböck 1985, pp. 72–77; Conti Bizzarro 1990–1993, pp. 86–88; Urios-Aparisi 1992, p. 279 s.; Storey 2011, p. 462 s.; Franchini 2015, pp. 8–10 Contesto della citazione Ciò che si evince dal frammento di Ferecrate sembra non collimare fino in fondo con il quadro proposto da Polluce: appare non chiara, innanzitutto, la ragione dell’accostamento tra la forma μάχαιραν tràdita nel frammento e l’osservazione che μαχαιρίς è usato generalmente per indicare le forbici più che il coltello. Resta dunque oscuro il motivo per cui la forma μάχαιρα utilizzata da Ferecrate renderebbe lecito anche l’utilizzo di μαχαιρίς per indicare il coltello. Nel tentativo di sanare le due aporie, Kaibel interveniva sul testo del frammento, emendando al v. 1 la forma μάχαιραν in μαχαιρίδ’, e su quello di Polluce, sostituendo ἐπὶ τῆς μαχαίρας καὶ τῆι μαχαιρίδι χρηστέον in luogo del tràdito ἀπὸ τῆς μαχαίρας καὶ τῆι μαχαιρίδι χρηστέον: Polluce osserverebbe che, per quanto gene-

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ralmente il sostantivo μαχαιρίς venga utilizzato per indicare le forbici, sulla scorta dell’uso di μαχαιρίς che sarebbe attestato, sulla base dell’emendamento proposto, nel primo verso del frammento di Ferecrate, la parola potrebbe essere utilizzata per indicare anche il coltello da tavola (per una pur cauta difesa dell’esegesi di Kaibel vd. Conti Bizzarro 1990–1993, p. 86 s.). Kassel e Austin, non saprei quanto a ragione, ritengono l’intervento di Kaibel non necessario, accogliendo l’esegesi già proposta a suo tempo da Jungermann (Jungermann 1706, p. 1261: μαχαιρίς quidem plerumque de cultro tonsorio usurpatur: sed quum Pherecrates dixerit μάχαιραν ita et de cultro mensario vel cibario, inde nobis et μαχαιρίωι et μαχαιρίδι licet itidem uti) e ripresa, più tardi, da Dindorf (De cultro usurpanda sunt μαχαίριον et μαχαιρίς. Huc scilicet ibat auctor: quamvis usus obtinuerit, ut μαχαιρίς, adde et μαχαίριον, notet novaculam, tonsorium cultrum; nihilominus tamen auctoritate Pherecratis, qui cultrum commune μάχαιραν dixit, posse adhiberi vocabulum μάχαιρα de cultro non tonsorio, sed coenatorio [Dindorf 1824, p. 1572]). Sull’attribuzione del frammento alla Koriannō (e sul conseguente intervento sul testo di Polluce) vd. infra. Testo Sulla scorta della parziale coincidenza tra il v. 3 del frammento (ἀνὴρ γέρων, ἀνόδοντος) e il fr. 79 K.–A. (ἀνὴρ γέρων ἀνόδοντος ἀλήθει), esplicitamente ricondotto alla Koriannō dalle fonti che lo tramandano (Phot. [b, z] α 2017 Theodoridis [= Suid. α 2547 = Lex. Bachm. p. 100, 4], che cita il frammento come interpretamentum della glossa ἀνόδοντον; in realtà il titolo è unanimemente tràdito nella forma ἐν Κοριάννοις, ma sull’oscillazione del numero nella forma del titolo della commedia vd. Rehrenböck 1985, p. 73 s.), Meineke (FCG II.1, p. 292) emendava il passo di Polluce fonte del fr. 87 K.–A. sostituendo ἐν Κοριάννοις (h. e. Κοριαννοῖ) al tràdito ἐν Κραπατάλοις: la pericope ἀνὴρ γέρων ἀνόδοντος ἀλήθει (fr. 79 K.–A.), dunque, proverrebbe dal medesimo contesto parzialmente preservato nel mutilo terzo verso del fr. 87 K.–A. e conserverebbe una indicazione di paternità corretta, contro la scorretta attribuzione contenuta nel passo di Polluce. Non mi sembra ragionevolmente sostenibile, tuttavia, l’ipotesi di una comune origine dei due frammenti da uno stesso passo comico: intanto, tra i due frammenti non sussiste una completa sovrapponibilità, poiché la chiusa del fr. 79 K.–A. (ἀλήθει) è del tutto inconciliabile con il contesto del fr. 87 K.–A.; i vari tentativi messi in campo per far coincidere i due frammenti rappresentano del resto un’inutile e infruttuosa violenza al testo di entrambi, i quali, in quanto tali, non presentano alcun riconoscibile problema testuale (così anche Urios-Aparisi 1992, p. 279; tra i numerosi interventi, mi limito a segnalare l’espunzione di ἀλήθει a carico del fr. 79 K.–A. proposta da Meineke FCG II.1, p. 292, che riteneva il lemma non attico [ma contra vd. Antiatt. α 46 Valente ἀλήθειν, οὐκ ἀλεῖν, ricordato già da Kassel e Austin in calce al fr. 79]; il tentativo di pur parziale completamento del v. 3 del fr. 87 K.–A. proposto da van Herwerden 1855, p. 11 s., ἀνὴρ γέρων ἀνόδοντος, ἀλλ’ ἔνθες k l [scil. τὴν μάχαιραν τοῖς κρέασιν], è a sua volta fondato sull’ἀλήθει che chiude il fr. 79 K.–A. [ἀλήθει 〉 ἀλλ’ ἔνθες]). Non mi sembrano d’altronde cogenti le considerazioni svolte a sostegno dell’attribuzione alla Koriannō da Rehrenböck, il quale, notando la tendenza di Polluce a confondere le due commedie (Krapataloi

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e Koriannō), nel quadro di una più generale e ricorrente imprecisione, nell’Onomasticon, quanto all’attribuzione dei frammenti, si dichiarava certo del fatto (tutt’altro che sicuro, invece: ma l’idea è antica almeno quanto Bergk 1838, p. 299) che un personaggio anziano dovesse ricoprire un ruolo fondamentale nell’economia drammatica della Koriannō (vd. Rehrenböck 1985, p. 74 s.; per un quadro completo della questione vd. Urios-Aparisi 1992, p. 250, le cui conclusioni [«I think that the repetition of the noun ἀνόδοντος and the similarity of the construction do not necessarily lead to the conclusion that both texts are the same one»] mi sembrano del tutto condivisibili. Sulla funzione comica della ripetizione di versi identici in differenti commedie vd. Hunter 1983, p. 175. In difesa dell’attribuzione del frammento ai Krapataloi vd. anche Graf 1855, pp. 72–74 e Graf 1891, p. 606). Interpretazione Nel frammento si allude evidentemente a un banchetto, da immaginare forse ambientato nell’Ade, a cui un personaggio anziano e ormai senza denti («probably the familiar “hero” of Old Comedy» secondo Storey 2014) si appresta a partecipare. Qualora si accolga, per νοστήσω, il significato di ‘andare’ (vd. infra), lo scambio di battute potrebbe aver avuto luogo durante i preparativi antecedenti la discesa nell’Ade (così Graf 1891, p. 608, ripreso da Urios-Aparisi 1992, p. 279). È anche possibile che il lamento del vecchio, dal tono fortemente parodico, alludesse al topos comico dell’automatos bios, ampiamente sfruttato anche altrove, da Ferecrate (ad esempio nei Metallēs: sulla presenza di temi che implicano l’automatos bios nell’oltretomba, soprattutto in ambito gastronomico, vd. Farioli 2001, pp. 197–206; a un dialogo tra un padrone e un servo pensava invece Conti Bizzarro 1990–1993, p. 87): forse, nell’Ade il coltello sarebbe risultato inutile perché la carne si sarebbe tagliata da sé; se così fosse, l’interlocutore del vecchio sarebbe da identificare, piuttosto che in un generico servo (come proposto da Graf 1891, p. 608, ripreso da Urios-Aparisi 1992, p. 279), in una figura che, al di là del suo status, doveva avere una buona conoscenza dei fatti dell’Ade (forse il medesimo personaggio che indica la strada per raggiungere l’oltretomba nel fr. 85 K.–A.?): per questa ipotesi di ricostruzione vd. Franchini 2015, pp. 8–10. μάχαιραν ἆρ’ ἐνέθηκας; Il verbo è utilizzato in senso proprio e non figurato (vd. Urios-Aparisi 1992, p. 277); la perdita del contesto, tuttavia, non permette di ricostruire a quale sede concreta il coltello fosse destinato (una bisaccia?). L’uso della particella ἆρα sembrerebbe indicare, nel nostro caso, l’aspettativa di una risposta positiva (vd. Denniston 1954, p. 46 s.); il lamento paratragico di v. 2 s. trova dunque spiegazione nell’attesa frustrata del personaggio parlante. τί μ’ εἴργασαι; L’espressione, come altre analoghe raccolte da Stevens e Collard (p. es. τί δρᾷς; [Collard 2005, p. 373] e τί πράττεις; [Stevens 1976, p. 41 = Collard 2018, p. 94 e Collard 2005, p. 363 s.), potrebbe avere valore colloquiale (così come viene generalmente osservato a proposito della forma τί ἠργάσω di fr. 76, 3 K.–A.: vd., ad esempio, Urios-Aparisi 1992, p. 247 s.). Non si può escludere, tuttavia, che la domanda fosse percepita dagli spettatori come marcatamente paratragica. Spingono in questa direzione alcune attestazioni di formulazioni sostanzialmente equivalenti a quella del nostro frammento: ad esempio Luc. Jupp. Trag.

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1, 15 σύ τ’, ὦ Προμηθεῦ, οἷά μ’ εἴργασαι κακά, la cui affinità allo stile della tragedia è riconosciuta da Coenen 1977, p. 41 («der Versschluß ist allgemein tragisch; vgl. besonders Soph. Phil. 78; Aesch. fr. 311, 2 N.; Eur. Med. 293; Hec. 1085 u. a.») e, in commedia, la patetica esclamazione che suggella Ar. Thesm. 945, οἶ’ εἴργασαι, il cui valore paratragico è messo a ragione in evidenza da Austin e Olson (vd. Austin-Olson 2004, p. 298), oltre a ricorrenze tragiche quali Soph. Phil. 1172, τί μ’ ὤλεσας; τί μ’ εἴργασαι; In tal caso, la parodia di poesia stilisticamente elevata riconosciuta in genere a partire dal verso successivo (vd. infra) andrà ritenuta attiva già in relazione alla clausola del primo verso del frammento. Per quanto concerne il tempo verbale, l’idea (segnalata da Kassel e Austin ad loc. [PCG VII, p. 145], ma che risale almeno a Kühn) che il verso potesse chiudersi in origine non con il tràdito εἴργασαι ma con l’aoristo ἠργάσω, forma che nei frammenti di Ferecrate trova due ricorrenze (frr. 76, 3 K.–A. e 173 K.–A.), la prima delle quali nel contesto di un’interrogazione (τί ἠργάσω;) in tutto simile a quella del primo verso del nostro frammento, trova obiezioni in Rehrenböck 1985, p. 76 («das überlieferte Perfektum scheint der Situation angemessener als ein Aorist εἰργάσω»). ἀμάχαιρος ἐπὶ βόεια νοστήσω κρέα Verbum ἀμάχαιρος more tragicorum compositum est ut notissima illa ἄλεκτος ἀνυμέναιος etc. (Hoffmann 1910, p. 11, ripreso da Rehrenböck 1985, p. 76; più in generale, Urios-Aparisi 1992, p. 279 nota come l’utilizzo di aggettivi con α- privativo prefissale appaia caratteristica ricorrente della lingua di Ferecrate; sulle formazioni a prefisso privativo in α- vd. almeno Chantraine 1959, pp. 47–61). Kaibel (ap. K.–A. ad loc.), citato da UriosAparisi 1992, p. 279 s., vedeva nel verso un’allusione parodica allo stile dell’epos (videtur epici carminis parodia latere). È impossibile stabilire se le carni a cui allude il personaggio parlante fossero quelle dei buoi del sole, come ipotizza Dieterich (Dieterich 1893, p. 25 n. 1); l’espressione, a ogni modo, «could make an allusion to the traditional theme of abundance in Hades […]. Beef, on the other hand, was a luxury, mainly eaten in Classical Athens at festivals, especially the Panathenaia» (Urios-Aparisi 1992, p. 280). Per quanto concerne νοστήσω, già van Leeuwen 1901, p. 13, notava che il verbo è attestato raramente in commedia, oscillando tra i significati di ‘ritornare’ e di ‘andare’: quest’ultimo, per quel poco che si può desumere dal contesto, sembra forse preferibile in relazione al nostro frammento (così già van Leeuwen). ἀνὴρ γέρων ἀνόδοντος; La figura del vecchio sdentato costituisce un personaggio ricorrente in commedia: si vedano, al proposito, i passi raccolti da Olson 2002, p. 256 (ad Ach. 713–16) e da Stama 2014, p. 361 (ad Phryn. fr. 85 K.–A. [inc. fab.]), nonché Oeri 1948, p. 9, per il ruolo giocato dal medesimo tratto nella caratterizzazione comica delle vecchie; la sua presenza, dunque, non può costituire elemento probante per l’attribuzione del frammento a una commedia diversa da quella alla quale è riferita da Polluce, ovvero, appunto, i Krapataloi (vd. Urios-Aparisi 1992, p. 250). Sulla formazione di ἀνόδοντος (hapax, così come il precedente ἀμάχαιρος) vd. Rehrenböck 1985, p. 76.

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fr. 88 K.–A. (6 Dem.) ἐβάδιζον δ’ ἀπὸ δείπνου· κνέφας δ’ ἦν ἄρτι κοὐκ ἀωρία 2 ἀωρία Papadopulos-Kerameus 1892–1893, p. 43: ἀωρί Sz: κἄτ’ (= καὶ ἔτι) ἀωρία Blaydes 1896, p. 344

Tornavo/tornavano dal banchetto: era proprio il tramonto/l’alba, e dunque non tardi/e dunque non presto Phot. (z, Sz) α 3492 Theodoridis ἀωρί, ἀωρία. Φερεκράτης Κραπατάλοις (Κραπαττ- Sz, om. z)· ἐβάδιζον — ἀωρί (om. z). λέγουσι δὲ καὶ ἀωρίαν, ὡς τὴν ὥραν (καὶ τ. ὥ. in Lex. Sabb. legit et τὸ παρὰ τ. ὥ. coniecit Papadopulos-Kerameus 1892–1893, p. 43, r. 20, δὲ {καὶ} ἀ. καὶ τ. ὥ. Theodoridis). Ἀριστοφάνης Ἀχαρνεῦσιν· (23 sq.) Aori, aoria: Ferecrate nei Krapataloi: tornavo/tornavano — presto (non tardi). Si dice anche aoria, come hora (?). Aristofane negli Acarnesi (v. 23 s.)

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Bibliografia Papadopulos-Kerameus 1892–1893, p. 43, rr. 18–21; Reinach 1892, p. 324; Blaydes 1896, p. 344; Demiańczuk 1912, p. 68; Edmonds 1957, p. 242 s.; Rehrenböck 1985, pp. 121–122; Urios-Aparisi 1992, p. 281 s.; Conti Bizzarro 1993, p. 419 s.; Storey 2011, p. 462 s. Contesto della citazione Il frammento, citato da Fozio s. v. ἀωρί, ἀωρία, si trova raccolto in Reinach 1892, p. 324, in seno a una silloge dei frammenti metrici inediti trasmessi dal Lexicon Sabbaiticum, allora appena edito per le cure di PapadopulosKerameus, e più tardi nel Supplementum comicum di Demiańczuk 1912, p. 68. Per provare a dare un senso accettabile all’enigmatico interpretamentum, PapadopulosKerameus proponeva di intervenire sulla sequenza che leggeva nel Sabbaiticum (λέγουσι δὲ καὶ ἀωρίαν καὶ τὴν ὥραν) sostituendo al tràdito καὶ τὴν ὥραν la sequenza τὸ παρὰ τὴν ὥραν; Theodoridis 1982, p. 319 s., preferisce una diversa e a mio avviso meno perspicua soluzione, ovvero λέγουσι δὲ {καὶ} ἀωρίαν καὶ τὴν ὥραν. Testo Il molto economico emendamento ἀωρία in luogo del tràdito ἀωρί, proposto da Papadopulos-Kerameus 1892–1893, p. 43, in apparato a r. 19, fu accolto già da Demiańczuk, ed è certo da preferire al più impegnativo intervento di Blaydes, κἄτ’ ἀωρία, che appare discendere, in essenza, dall’esegesi complessiva del fram-

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mento proposta dallo studioso, il quale intendeva κνέφας equivalente a crepusculum matutinum (ma κνέφας può indicare altrettanto bene il tramonto: vd. infra). Interpretazione Il frammento fa evidentemente parte del resoconto di un ritorno da un banchetto; al ritorno di un padrone accompagnato dai suoi servi pensa Urios-Aparisi 1992, p. 281. Anche se δεῖπνον indica propriamente il pasto, alcune occorrenze del termine paiono suggerire la possibilità che nell’Atene di V secolo il termine conservasse una certa ambiguità e potesse venire utilizzato anche in riferimento al momento del simposio (vd. Napolitano 2007, pp. 55–57). La tipologia della citazione rende impossibile contestualizzare, anche solo in via del tutto ipotetica, la porzione di testo superstite: in virtù di un tasso di ambiguità straordinariamente elevato, soprattutto se confrontato con la brevità del frammento, tale da investire almeno tre lemmi (κνέφας, ἄρτι e ἀωρία), a non dire di ἐβάδιζον, interpretabile formalmente tanto come prima persona singolare quanto come terza persona plurale dell’imperfetto di βαδίζω, non è in alcun modo possibile determinare chi sia il personaggio che dice di essere di ritorno dal banchetto al quale ha preso parte (o i personaggi dei quali si dice che ne tornavano, nel caso in cui si interpreti ἐβάδιζον come forma di terza persona plurale), né collocare cronologicamente il momento del ritorno (all’alba o al tramonto, vd. infra). Altrettanto impossibile è stabilire se il banchetto del quale si fa parola si fosse svolto nell’oltretomba o prima della katabasis (assai poco stringenti mi sembrano le considerazioni addotte da Rehrenböck a sostegno dello svolgimento del banchetto in un momento precedente alla discesa negli inferi: «Könnte es sich hier um den günstigsten Augenblick für einen Aufbruch in die Unterwelt handeln? Man hat sich wenigstens vorher durch eine Mahlzeit noch ein wenig gestärkt» [Rehrenböck 1985, p. 122]); sempre ammesso, naturalmente, che il δεῖπνον al quale si fa qui riferimento avesse a che fare direttamente con la vicenda messa in scena, e non sia invece da immaginare frutto di una menzione cursoria e occasionale, slegata dall’azione. 1–2 ἐβάδιζον δ’ ἀπὸ / δείπνου Il ritorno da un banchetto viene descritto in termini analoghi anche in Ar. Vesp. 1401 (Αἴσωπον ἀπὸ δείπνου βαδίζονθ’ ἑσπέρας); assai simile anche Ar. Pac. 839 s. (ἀπὸ δείπνου τινὲς / τῶν πλουσίων οὗτοι βαδίζουσ’ ἀστέρων), pur relativo a un contesto immaginifico (Trigeo evoca qui dei convitati a statuto speciale, ovvero le meteore che attraversano in fiamme il firmamento). Entrambi i passi sono, peraltro, in linea con quanto è ben noto in virtù di una pluralità di fonti, ovvero che il ritorno a casa da un banchetto si dava abitualmente a partire dal far della sera, ove non nel corso della notte (nel passo delle Vespe il tempo dell’azione è specificato fuori da ogni possibile ambiguità da ἑσπέρας; nei versi della Pace, invece, il rientro notturno è presupposto dal fatto che le anime dei morti, divenute stelle, al termine del δεῖπνον hanno bisogno di lanterne per tornare a casa). Nel nostro caso, a causa dell’ambiguità della forma verbale utilizzata da Ferecrate (prima singolare o terza plurale), è impossibile stabilire con certezza se l’evento fosse rievocato in prima persona o se la persona loquens si producesse invece nel resoconto di un evento che non la coinvolgeva

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direttamente (secondo Conti Bizzarro, ad esempio, il verso di Ferecrate evocava «un’allegra brigata di convitati di ritorno da un lauto banchetto […] sul far della sera» [Conti Bizzarro 1993, p. 420]). Per la separazione tra la preposizione e il sostantivo di riferimento in due versi consecutivi Kassel e Austin rimandano a Ar. Thesm. 386 (ὑπὸ / Εὐριπίδου), per cui si veda la nota ad loc. in Austin–Olson 2004, p. 177 (al materiale citato da Olson aggiungerei almeno Descroix 1931, pp. 288–295 [a p. 295 ulteriori casi comici di preposizione in fine di trimetro]; sul fenomeno dell’enjambement nel trimetro comico, compresi i casi di enjambement ‘forte’ determinati dal ricorrere in fine di verso di proclitiche, vd. Comentale 2015, spec. pp. 145–149). 2 κνέφας δ’ ἦν Il termine κνέφας indica la condizione di luce tenue determinata tanto dal sorgere quanto dal tramontare del sole (vd. LSJ9 s. v. κνέφας). Edmonds 1957, p. 243, Urios-Aparisi 1992, p. 281 s., Rehrenböck 1985, p. 124 (così suona la sua traduzione: «Ich ging (sie gingen) aber vom Abendessen weg. Dämmerung herrschte gerade und es war noch nicht unzeitig») e Storey 2011, p. 463 («I was [they were?] walking home from dinner – it was evening and not too late») interpretano concordemente il termine come ‘tramonto’, mentre il significato di ‘alba’ è attestato, p. es., in Ar. Eccl. 291, ove il coro ribadisce la necessità di arrivare all’assemblea sul fare dell’alba per ricevere il triobolo. L’abitudine di iniziare il δεῖπνον nel tardo pomeriggio o al tramonto (vd. Hunter 1983, p. 218 s.) non aiuta a chiarire la collocazione cronologica del ritorno, perché il seguente κοὐκ ἀωρία può indicare tanto un anticipo quanto un ritardo (vd. infra): il parlante, dunque, potrebbe descrivere un ritorno non prematuro (e dunque, per litote, molto in ritardo, e cioè all’alba), o al contrario non ritardato (e dunque, per litote, molto anticipato, cioè al tramonto). È possibile, ad ogni modo, che κνέφας dovesse essere avvertito dagli spettatori come un termine stilisticamente elevato, analogamente a quanto avveniva per il corrispondente aggettivo κνεφαῖος (vd. Rau 1967, p. 134). κοὐκ ἀωρία Il sostantivo, così come il corrispondente avverbio (ἀωρί), indica generalmente la non tempestività (cfr. p. es. Phryn. Praep. soph. p. 4, 8 de Borries: ἀωρίαν ἥκειν· οἷον παρὰ τὴν δέουσαν ὥραν e Phot. α 3493 Theodoridis: ἀωρί, ἀωρία· τὸ παρὰ τὸν προσήκοντα καιρὸν καὶ τὴν ὥραν; per ulteriori fonti lessicografiche vd. Theodoridis ad loc. [p. 320]), dovuta tanto al ritardo quanto all’anticipo (imprecise, dunque, tanto l’interpretazione di Blaydes 1896, p. 344 [ἀωρία est, nisi fallor, crepusculum matutinum; vd. anche Rehrenböck 1985, p. 122] quanto la traduzione fornita in LSJ9 s. v. ἀωρία [’midnight, dead of night’, che presuppone una forma abbreviata dell’espressione ἀωρία τῆς νυκτὸς μεσούσης]). Se nel passo di Aristofane associato già da Fozio al frammento di Ferecrate (Ar. Ach. 23 s. οὐδ’ οἱ πρυτάνεις ἥκουσιν, ἀλλ’ ἀωρίαν / ἥκοντες) il termine indica certamente un ritardo (vd. Olson 2002 ad loc. [p. 74]: «ἀωρίαν is ‘untimely’, i. e. ‘late’ as opposed to ἐν ὥρᾳ, ‘on time’»), la mancanza di tempestività dovuta a un anticipo è attestata, p. es., in Ar. Ecc. 740 s. (ἀναστήσασά μ’ εἰς ἐκκλησίαν / ἀωρὶ νύκτωρ), ove si configura un risveglio sin troppo precoce per la partecipazione all’assemblea (analogamente, in Ar. frr. 668 e 703 K.–A. il composto ἀωροθάνατος e l’aggettivo

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ἄωρος alludono evidentemente al topos della morte precoce e prematura). Il senso complessivo del frammento, dunque, presenta un’ambiguità di fondo che la perdita del contesto non permette di dirimere: dando per assodato l’inizio del banchetto nel tardo pomeriggio, è possibile immaginare, infatti, una collocazione temporale del ritorno tanto al tramonto, ove si intenda κνέφας equivalente a ‘crepuscolo’ (nel qual caso all’espressione κοὐκ ἀωρία si dovrebbe attribuire il senso di ‘presto’, ‘non troppo tardi’), quanto all’alba del giorno successivo, ove si preferisca immaginare che κνέφας indichi le prime luci del giorno (nel qual caso κοὐκ ἀωρία avrebbe il senso di ‘tardi’, ‘non troppo presto’).

fr. 89 K.–A. (84 K.) τακεροὺς ποιῆσαι τοὺς ἐρεβίνθους αὐτόθι ποιησαι Athen.1: ποιήσεις Athen.2 haeuser Athen. III, p. 352

αὐτόθι Athen.1: εὐθέως Athen.2: αὐτόθεν Schweig-

rendere i ceci teneri all’istante Athen.1 IX p. 366 D (post Ar. fr. 372 K.–A.) καὶ Φερεκράτης Κραπατάλλοις˙ τακεροὺς — ἐρεβίνθους αὐτόθι (καὶ Φ.· τακ. ἐρεβ. CE) e Ferecrate nei Krapataloi: rendere — all’istante Athen.2 epit. II p. 55 B (ἐρέβινθοι) Φερεκράτης· τακεροὺς — ἐρεβίνθους εὐθέως (ceci) Ferecrate: rendere — subito

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Bibliografia Runkel 1829, p. 36; Meineke FCG II.1, p. 287; Meineke 1847, I, p. 102; Bothe 1855, p. 97; Kock CAF I, p. 169; Edmonds 1957, p. 238 s.; Rehrenböck 1985, p. 80 s.; Urios-Aparisi 1992, p. 283 s.; Storey 2011, p. 462 s.; Franchini 2015, p. 8 Contesto della citazione Il verso ricorre due volte in Ateneo: la prima volta a documentazione della presenza di ἐρέβινθος in Ferecrate, la seconda invece come testimonianza dell’uso dell’aggettivo τακερός. Testo Il frammento è riportato nei due passi di Ateneo con differenze formali significative: la forma del verbo oscilla tra l’infinito (o imperativo, vd. infra) aoristo e il futuro indicativo, mentre in fine di verso ricorrono due avverbi differenti, seppur semanticamente analoghi (τακεροὺς ποιῆσαι τοὺς ἐρεβίνθους αὐτόθι, Athen. IX p. 366 D; τακεροὺς ποιήσεις τοὺς ἐρεβίνθους εὐθέως, epit. II p. 55 B). In favore

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di ποιῆσαι […] αὐτόθι si vedano le osservazioni di Rehrenböck 1985, p. 80 s. e di Urios-Aparisi 1992, p. 283 s.; ποιῆσαι è accolto dalla totalità degli editori (unica eccezione Edmonds 1957, p. 238, che stampa a testo la variante ποιήσεις), mentre in fine di verso Meineke oscillò tra le due forme tràdite da Ateneo, stampando prima αὐτόθι nell’editio maior e poi, nell’editio minor, εὐθέως, mentre Bothe 1855, p. 97, e Kock CAF I, p. 169 recepivano la congettura αὐτόθεν, risalente a Schweighaeuser, il quale, nella scia di Casaubon, riteneva che un originario αὐτόθεν potesse meglio spiegare l’origine delle due varianti tràdite, αὐτόθι e εὐθέως: Ibi (scil. a IX p. 366 D) pro εὐθέως legitur αὐτόθι, id est, hoc ipso loco; pro quo oportebat puto αὐτόθεν, protinus. Et sic haud dubie hic etiam scripserat Athenaeus; pro quo Epitomator, ut saepe solet, interpretamentum εὐθέως posuit (Schweighaeuser Athen. I, p. 370; vd. anche Athen. V, p. 8). Per Schweighaeuser, dunque, a IX p. 366 D il tràdito αὐτόθι, che Schweighaeuser interpreta come avverbio di luogo (hoc ipso loco), avrebbe sostituito per errore un originario αὐτόθεν, interpretato come avverbio di tempo (protinus), da immaginare in origine presente anche nella versione del frammento tràdita a epit. II p. 55 B e ivi glossata con l’avverbio temporale εὐθέως, di senso affine (εὐθέως sarebbe dunque da interpretare come glossa penetrata a testo al posto della lezione originaria). Si vedano, al proposito, le considerazioni svolte da Rehrenböck 1985, p. 81, il quale, pur obiettando, su un piano formale, alla troppo recisa distinzione operata da Schweighaeuser tra αὐτόθι locale e αὐτόθεν temporale, finisce per riconoscere validità alla trafila immaginata da quest’ultimo osservando, a ragione, come αὐτόθι sembri essersi specializzato in senso temporale solo a partire da Luciano, il che renderebbe l’osservazione relativa all’equivalenza tra αὐτόθι e αὐτόθεν che si trova in Kassel e Austin, in calce al frammento, a proposito di Ar. Ach. 116 κοὐκ ἔσθ᾽ ὅπως οὐκ εἰσὶν ἐνθένδ᾽ αὐτόθεν (PCG VII, p. 146: ‘αὐτόθεν — αὐτόθι’), assai meno stringente di quanto possa apparire a prima vista: il punto non è l’eventuale equivalenza formale di αὐτόθι e αὐτόθεν in funzione di avverbi temporali, ma la possibilità che, a livello di quinto secolo, tale equivalenza fosse già in atto, il che sembra escluso dal ricorrere di αὐτόθι temporale solo a partire dal secondo secolo d. C. («umso mehr gilt dies für die Entstehungszeit der Epitome», nota Rehrenböck 1985, p. 81, implicando che la sostituzione dell’originario αὐτόθεν con αὐτόθi sia frutto dell’attività dell’epitomatore, per il quale αὐτόθι temporale era ormai familiare). Interpretazione L’immediata preparazione del cibo, istantaneamente cotto e pronto al consumo, sembra ricondurre il frammento a un contesto di Paese di Cuccagna (vd. Franchini 2015, p. 8), anche se la povertà della pietanza e il suo ricorrente utilizzo in contesti simposiali (vd. infra) renderebbero di per sé plausibili ricostruzioni alternative, specie ove si voglia riferire il verso a un momento della commedia anteriore alla katabasis infera. Meno convincente appare invece l’ipotesi di Urios-Aparisi 1992, p. 283, che non esclude, per questo frammento, la possibilità di un’esegesi in chiave oscena: la quale, pur essendo di per sé plausibile ove si considerino le attestazioni di ἐρέβινθος in senso metaforico e osceno (vd. infra), è però resa almeno problematica dal plurale.

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τακεροὺς Per la formazione dell’aggettivo vd. Schwyzer 1939, p.  482; Chantraine DELG IV, p. 229, e Beekes 2010, p. 1477, s. v. τήκω. L’aggettivo (tradotto con ‘fondant’, ‘humide’ da Chantraine e con ‘melting in the mouth’, ‘tender’ in LSJ9) allude evidentemente alla cottura tramite bollitura, che inumidisce il legume fino a ridurlo a una morbida poltiglia (in Ar. fr. 372 K.–A. [Lemnie], Λῆμνος κυάμους τρέφουσα τακεροὺς καὶ καλούς, citato da Ateneo a IX 366 C subito prima del frammento di Ferecrate, l’aggettivo avrebbe invece, a stare almeno alla presentazione di Ateneo, il significato di τρυφερός [Athen. IX p. 366 C Ἀριστοφάνης […] ἐν Λημνίαις τὸ τακερὸν ἔταξεν ἐπὶ τοῦ τρυφεροῦ]; ‘dainty’, dunque, come traduce Olson Athenaeus IV, p. 183, non ‘teneri’ [così invece Pellegrino 2015, p. 228]). Per le altre attestazioni dell’aggettivo in commedia vd. Rehrenböck 1985, p. 80 e Urios-Aparisi 1992, p. 283. ποιῆσαι È forse preferibile intendere la forma verbale come infinito attivo che come imperativo medio, in linea con la quasi totalità degli editori. Al medio, del resto, ποιέω acquisisce un significato che appare meno adeguato al contesto (‘produce’, ‘create’, ‘make for oneself ’, LSJ9 s. v. ποιέω). τοὺς ἐρεβίνθους Per l’etimologia di ἐρέβινθος (con ogni probabilità un prestito) vd. Rehrenböck 1985, p. 80, da integrare con Beekes 2010, p. 451. L’uso alimentare del cicer arietinum è testimoniato sia in relazione a contesti simposiali, nei quali i ceci fanno la loro comparsa in qualità di τραγήματα, ad accompagnare il vino (cfr. p. es. Ar. Pac. 1136 con Olson 1998, p. 285; a una situazione analoga a quella della Pace potrebbe riferirsi anche Pherecr. fr. 170 K.–A. τρώγων ἐρεβίνθους ἀπεπνίγη πεφρυγμένους [vd. Urios-Aparisi 1992, p. 48]), sia come pietanza vera e propria (vd. p. es. Olson 2002, p. 273: «Boiled or roasted chickpeas (Cicer arietinum) are repeatedly referred to as symposium snacks […] but are sometimes treated instead as coarse, common food»; più in generale, sulla diffusione e sul consumo del cicer arietinum nella Grecia antica vd. Moisan 1990, p. 75 n. 258). Si tratta, ad ogni modo, di un cibo molto povero: i ceci, infatti, scelti dal Socrate di Platone tra gli alimenti adatti al nutrimento degli uomini della sua città ideale (cfr. Plat. Resp. 372 c-d), vengono esplicitamente giudicati dal suo interlocutore più adatti a maiali che a uomini. In commedia, i ceci ricorrono di frequente in espressioni metaforiche colloquiali di allusività oscena, a indicare il pene, come accade p. es. in Ran. 545, Pac. 1136 e Eccl. 45 (vd. Taillardat 1962, p. 72 § 92 e Henderson 1991, p. 119 § 42) o per esemplificare piccolissime quantità (vd. Taillardat 1962, p.  126 n. 2 e Willi 2003, p.  181). Non è impossibile che la menzione dei ceci contenuta nel frammento cadesse in un contesto analogo a quello rappresentato da Ar. Eccl. 605 s. (πάντα γὰρ ἕξουσιν ἅπαντες, / ἄρτους τεμάχη μάζας χλαίνας οἶνον στεφάνους ἐρεβίνθους), un passo di marca a un tempo simpotica e utopistica (i cibi che vi appaiono elencati sembrano appartenere a «un elenco da paese della Cuccagna dei poveri. L’utopia culinaria tradizionale della commedia attica prevedeva ingredienti ben più ricercati […]. Vino, corone e ceci sono l’immagine del simposio modesto, campagnolo» [Vetta 1989, p. 204]).

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fr. 90 K.–A. (85 K.) τίς τῶν λυχνείων ἡργασία; (B.) Τυρρηνική λυχνίων A: corr. Musurus

Di che manifattura di candelieri si tratta? (B.) È etrusca Athen. XV p. 700 C Φερεκράτης δὲ ἐν Κραπατάλοις (ἐν Κρ. om. CE) τὴν νῦν λυχνίαν (-είαν A) καλουμένην (om. CE) λυχνεῖον (-νίον CE) κέκληκεν (καλεῖ om. reliquis CE) διὰ τούτων· τίς — Τυρρηνική. ποικίλαι γὰρ ἦσαν αἱ παρὰ τοῖς Τυρρηνοῖς ἐργασίαι, φιλοτέχνων ὄντων τῶν Τυρρηνῶν Ferecrate nei Krapataloi chiamò lychneion quella che ora si chiama lychnia, come segue: di che — Etrusca. Essendo infatti gli Etruschi amanti delle technai, presso di loro si esercitavano manifatture di vario genere Eust. in Od. p. 1571, 19 τὴν γὰρ νῦν φασι λυχνίαν, λυχνίον ἐκάλουν ὡς Φερεκράτης Quella che ora si chiama lychnia in passato era chiamata lychnion, come in Ferecrate

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Bibliografia Runkel 1829, p. 36 s.; Meineke FCG II.1, p. 288 s.; Meineke 1847, I, p. 103; Bothe 1855, p. 97; Kock CAF I, p. 169; Edmonds 1957, p. 238 s.; Rehrenböck 1985, p. 82 s.; Urios-Aparisi 1992, p. 284 s.; Storey 2011, p. 462 s. Contesto della citazione Nell’ambito di una panoramica relativa alle attestazioni in letteratura di varie tipologie di torce e di lanterne, Ateneo ricorda l’utilizzo del termine λυχνεῖον nei Krapataloi di Ferecrate. Da Ferecrate deriva forse, oltre al passo di Eustazio, anche Phryn. 288 Fischer λυχνίαν· ἀντὶ τούτου (var. lect. τοῦ) λυχνεῖον λέγε ὡς ἡ κωμῳδία. Testo Il λυχνείων proposto da Musuro in luogo del tràdito λυχνίων, oltre a ripristinare il normale dittongamento attico -ει- (vd. Threatte 1980, p. 316 nr. 29 e Rehrenböck 1985, p. 83), ristabilisce la corretta prosodia del verso, altrimenti ametrico. Anche nel testo di Ateneo sarà da preferire, dunque, la forma λυχνεῖον di A (attestata anche da Frinico) contro λυχνίον di C ed E (trasmesso anche da Eustazio). Interpretazione La menzione di oggettistica di manifattura etrusca allude certamente a un contesto di lusso sfarzoso (vd. infra), ma la stringatezza del contesto superstite non consente di precisare le modalità, le circostanze e le finalità di tale allusione: in mancanza di dati ulteriori, la ricostruzione proposta da Urios-Aparisi 1992, p. 284, secondo il quale il frammento potrebbe essere ambientato in Ade («In a play set in Hades, at least partly, this fragment could have been a comic reference

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to the fashion in Athens as followed also in the Underworld»), appare plausibile, ma destinata a rimanere puramente ipotetica. τῶν λυχνείων ‘lampstand’, LSJ9 (cfr. Poll. X 115: λύχνιον μὲν ἐφ’ οὗ ἐντίθεται ὁ λύχνος, ἡ καλουμένη λυχνία). Il termine ricorre anche in Ar. fr. 573, 3 K.–A. (Fenicie) στίλβη θ᾽ ἥ κατὰ νύκτα μοι / φλόγ᾽ ἀνασειράζεις ἐπὶ τῷ / λυχνείῳ per il quale vd. Pellegrino 2015, p. 325 s. ἐργασία Per quanto il termine possa alludere a una pluralità di significati (vd. Urios-Aparisi 1992, p. 284 s. e Wankel 1976, p. 703), qui esso indica certamente la manifattura di provenienza dei candelieri (‘Machart, Bauweise, Design’: Rehrenböck 1985, p. 83). Τυρρηνική Sopravvivono testimonianze archeologiche di candelabri in bronzo di fattura etrusca, riccamente decorati, per i quali si veda la bibliografia citata da Urios-Aparisi 1992, p. 284; ad Atene i prodotti dell’artigianato metallurgico etrusco erano considerati oggetti di lusso e dunque di prestigio (possibile, per questo, che dietro i σανδάλια Τυρρηνικά di Cratin. fr. 139 K.–A. si celi una comicamente parossistica ostentazione di ricchezza [vd. K.–A. ad loc.]), come dimostra la lusinghiera, ammirata descrizione di Crit. fr. 2, 4–5 W2 (= fr. 1, 4–5 Gentili–Prato) Τυρσηνὴ δὲ κρατεῖ χρυσότυπος φιάλη, / καὶ πᾶς χαλκὸς ὅτις κοσμεῖ δόμον ἔν τινι χρείαι (poco importa, ai fini del nostro frammento, se l’eccellenza della produzione etrusca fosse evocata da Crizia per un interesse sofistico-eurematologico o avesse invece un intento quasi parodistico, al fine di rivendicare la preminenza del πλοῦτος contro l’esibizione di χρήματα, nell’ottica di uno scontro tra la cultura aristocratica tradizionale e quella dei ceti mercantili in ascesa; sulla questione vd. Iannucci 2002, pp. 69–77). L’alta considerazione nutrita ad Atene per l’abilità degli Etruschi in ambito metallurgico è testimoniata di frequente: nei tragici, ad esempio, compaiono trombe (cfr. p. es. Aesch. Eum. 567 s., Eur. Hcld. 830 e Phoen. 1377 s.) e campanelle (cfr. p. es. Soph. Aj. 17 e vd. Jebb 1896 ad loc. [p. 14]) di fattura etrusca. Una diffusa tradizione attribuiva ai Τυρρηνοί l’invenzione della tromba, come attestano Hesych. λ 836 (ληιστοσαλπιγκταί· οἱ Τυρρηνοί· ἐπειδὴ πρῶτοι σάλπιγγος εὑρεταὶ γεγόνασιν, cfr. Men. fr. 620 K.–A.), Poll. IV 85, Phot. λ 284 (II p. 506 Theodoridis), schol. ad Eur. Phoen. 832. Sulla questione vd. anche Finglass 2011, ad Soph. Aj. 17 (p. 142 s.).

fr. 91 K.–A. (86 K.) οὐδεὶς γὰρ ἐδέχετ’ οὐδ’ ἀνέῳγέ μοι θύραν γὰρ ἐδέχετο οὐδ’ Phot., Suid., Lex. Bachm.: δὲ Zonar. CP, om. ADLLa

nessuno infatti mi riceveva né mi apriva la porta

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Phot. (b, Sz) α 1905 Theodoridis = Suid. α 2282 (codd. AGITFSM) = Lex. Bachm. p. 92, 29 (— Σb α 1338) ἀνέῳγεν, οὐχὶ ἤνοιγεν […] Φερεκράτης Κραπατάλοις (-άλλοις Phot., Lex. Bachm.)· οὐδεὶς — θύραν aneoigen, non ēnoigen […] Ferecrate nei Krapataloi: nessuno — la porta Zonar. p. 231 = An. Par. IV p. 113, 24 s. (Orus, fr. A 6 a Alpers; codd. ADLLaCP) ἀνέῳγε χρὴ λέγειν […] Φερεκράτης· οὐδεὶς — θύραν. bisogna dire aneoige […] Ferecrate: nessuno — la porta.

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Bibliografia Porson 1812, p. 296; Runkel 1829, p. 37; Meineke FCG II.1, p. 289; Meineke 1847, I, p. 103; Bothe 1855, p. 97 s.; Kock CAF I, p. 169; Edmonds 1957, p. 238 s.; Rehrenböck 1985, p. 84 s.; Conti Bizzarro 1990–1993, p. 88 s.; UriosAparisi 1992, p. 285; Storey 2011, p. 462 s. Contesto della citazione Il frammento viene citato come testimonianza della correttezza della forma ἀνέωιγε, che in parte delle fonti viene messa esplicitamente a confronto con una forma alternativa, segnalata come scorretta, caratterizzata da aumento a carico del preverbio ἀν- (ἤνοιγεν). Phot. (b, Sz) α 1905 Theodoridis, Suid. α 2282 e Lex. Bachm. p. 92, 29 (— Σb α 1338) citano insieme al frammento di Ferecrate anche Eup. fr. 236 K.–A., Amips. fr. 14 K.–A. e un frammento di Menandro (fr. 243 K.–A.). Testo Per quanto a essere tràdita sia la forma piena ἐδέχετο, l’elisione è inevitabile per ragioni di lingua e di metro; evidentemente incompleta la versione tràdita da Zonara, οὐδεὶς ἀνέωγέ (sic) μοι θύραν secondo il testo di Tittmann 1808, p. 213 (ma in An. Par. IV p. 113, 25 il testo si trova edito nella forma οὐδεὶς δὲ ἀνέῳγέ μοι θύραν; Alpers 1981, p. 151 [fr. A 6 a] segnala opportunamente lacuna dopo οὐδεὶς, annotando in apparato: lacunam statui, desideratur γὰρ ἐδέχετο οὐ [p. 152]). Interpretazione Le scene di personaggi in attesa davanti a una porta costituiscono un motivo comico particolarmente frequente, caratterizzato da una pluralità di varianti nella concreta realizzazione scenica (le ‘scene alla porta’ in Aristofane sono raccolte da Brown 2008 [scene analoghe, ma ricorrenti esclusivamente in contesti paratragici, erano state discusse già prima da Brown 2000]; per alcune interessanti osservazioni, soprattutto in relazione agli aspetti prossemici delle ‘scene alle porta’, si veda Mauduit 2000; si veda, inoltre, la recente messa a punto complessiva offerta da Caciagli–De Sanctis–Giovannelli–Regali 2016). Il compito della prima accoglienza, che prevedeva anche, inevitabilmente, azioni di filtro e di selezione in relazione agli ospiti ritenuti indesiderati, come avviene p. es. nel Protagora platonico (cfr. Plat. Prot. 314 c 3–e 2; sul sapore comico del passo, rilevato a più riprese negli studi, si veda il materiale raccolto in Napolitano 2012, p. 72 n. 160 e p. 93 n. 219), era affidato, almeno per le abitazioni dei ceti sociali più elevati, a un

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servo che ricopriva la funzione di portiere (si veda, in tal senso, la ricca bibliografia allestita da Napolitano 2012, p. 93 n. 219). Impossibile stabilire se la porta davanti alla quale la persona loquens del nostro frammento si lamenta di avere consumato invano la sua attesa fosse quella dell’Ade (se lo chiedeva Rehrenböck 1985, p. 84: «Wurde etwa ein Ankömmling in der Unterwelt so unwirtlich behandelt?»; sulla ben documentata topicità del motivo delle ‘porte dell’Ade’ vd. Urios-Aparisi 1992, p. 285: «The topic of πύλαι Ἅιδου is very common throughout Greek Literature […]. Eur. Hipp. 56 refers to them as being opened for a person who is going to die, perhaps by chance with the same verb as here […]. In Ar. Ran. 163, 463 and 460 ἡ θύρα refers to the door of the house of Aeacus in Hades and this may be different from αἱ πύλαι of Hades»). Revermann 2006, p. 184 (vd. anche Brown 2008, p. 349) osserva come scene del genere sono generalmente collocate nelle fasi iniziali della commedia, il che rende almeno plausibile immaginare che il frammento, ove si accolga l’idea che la porta alla quale vi si fa riferimento sia quella dell’Ade, facesse parte del prologo. In tutt’altra direzione, sulla scorta di un frammento di Fenice di Colofone (fr. 2, 8 s. Powell; sul componimento si vedano le recenti sintesi fornite da Palumbo Stracca 2017 e De Stefani 2018, pp. 11–49), Conti Bizzarro 1990–1993, p. 88 s. propone di leggere nel frammento un’allusione oscena (sul valore metaforico di θύρα per genitali femminili vd. Henderson 1991, pp. 137 § 141 e 138 § 145). ἀνέῳγε Il verbo è da intendere come imperfetto di ἀνοίγω (così, d’altronde, già le fonti lessicografiche che citano il frammento, come si evince dalla sequenza oppositiva ἀνέῳγεν, οὐχὶ ἤνοιγεν), non come perfetto. Sulla questione, oltre al ricchissimo materiale antico raccolto da Alpers 1981, p. 152 s., in calce al fr. A 6 a-b di Oros, vd. Rehrenböck 1985, p. 85 («Die Form [scil. ἀνέῳγε] kann ein Imperfektum (zu ἀνοίγω, nicht -νυμι) oder ein Perfektum sein, welches jedoch im klassischen Griechisch aspiriert erscheint (ἀνέῳχα: cf. LSJ). Gegen Porsons sogar von LSJ akzeptierte Konjektur [scil. ἀνεῴγει] spricht der Kontext (Impf. ἐδέχετο), die Einwandsfreie Überlieferung (der Rahmentext ἀνέῳγεν, οὐχὶ ἤνοιγεν impliziert Impf.) und das extrem späte Auftreten von ἀνέῳγα») e il commento di Orth 2013, p. 265 s., al fr. 13 K.–A. di Amipsia (Moichoi).

fr. 92 K.–A. (87 K.) ὦ δέσποτ’ Ἀγυιεῦ, ταῦτα συμμέμνησό μοι συμμέμνησό μοι Wilamowitz ap. Fredrich–Wentzel 1896, p. 328: νῦν μέμνησό μοι Bernhardy (vd. infra): σὺ μέμνησό μου Suid.: σοὶ μέμνησό μοι Phot.

Agyieus signore, tieni a mente con me queste cose!

Κραπάταλοι (fr. 92)

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Phot. (b, z) α 277 Theodoridis = Suid. α 383 ἀγυιεύς· ὁ πρὸ τῶν αὐλείων (-λίων Phot. b ante corr., z, Suid. SM) θυρῶν κωνοειδὴς κίων, ἱερὸς Ἀπόλλωνος, καὶ αὐτὸς 〈ὁ add. Reitz.〉 θεός. Φερεκράτης Κραπατάλοις· ὦ — μοι agyieus: colonna a forma di cono sita davanti alle porte di casa, sacra ad Apollo, e il dio stesso. Ferecrate nei Krapataloi: Agyieus — cose!

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Bibliografia Runkel 1829, p. 37; Meineke FCG II.1, p. 291; Meineke 1847, I, p. 104; Bothe 1855, p. 98; Kock CAF I, p. 169; Fredrich–Wentzel 1896, p. 328; Edmonds 1957, p. 238 s.; Rehrenböck 1985, p. 86 s.; Urios-Aparisi 1992, p. 286; Storey 2011, p. 462 s. Contesto della citazione Il frammento è citato in seno all’interpretamentum del lemma ἀγυιεύς proposto da Fozio e Suida; sulla duplice accezione del sostantivo (epiclesi di Apollo in qualità di protettore delle strade e monumento sacro a Apollo) si veda la voce ‘Apollon Agyieus’ curata per il LIMC da Di Filippo Balestrazzi (LIMC II.1, 1984, p. 327). Testo Il frammento è tràdito in forma ametrica da Suida (ὦ δέσποτ’ Ἀγυιεῦ, ταῦτα σὺ μέμνησό μου: così anche in Zon. p. 20 Tittmann s. v. Ἀγυιᾶς); evidentemente corrotta è anche la sequenza σοὶ μέμνησό μοι tràdita in Fozio. Tra i tentativi di sanare il testo (raccolti da Rehrenböck 1985, p. 86), l’intervento συμμέμνησό μοι proposto da Wilamowitz ap. Fredrich–Wentzel 1896, p. 328 sulla scorta di [Dem.] 46, 2 (ταῦτα συμμέμνησθέ μοι) ha riscosso un buon successo ed è accolto, tra gli altri, da Edmonds 1957, p. 238, Theodoridis 1982, p. 35, Storey 2011, p. 462, oltre che da Kassel e Austin. Ben prima di Wilamowitz, Bernhardy aveva congetturato ταῦτα νῦν μέμνησό μοι, accolto da Meineke nell’editio minor (Meineke 1847, I, p. 104; la congettura di Bernhardy è proposta nel primo tomo della sua edizione del lessico di Suida, nell’apparato alla voce ἀγυιεύς [Bernhardy 1853, p. 81]; sebbene l’edizione sia stata pubblicata in due volumi, il primo dei quali uscito a stampa nel 1853, nel 1834 era già stato dato alle stampe e fatto circolare autonomamente il primo fascicolo dell’opera, da cui Meineke trasse la congettura accolta, nel 1847, nell’editio minor. Già nell’editio maior, però, pur figurando a testo la sequenza tràdita da Suida, ovvero ταῦτα σὺ μέμνησό μου, stampata in precedenza anche da Runkel, Meineke osservava in apparato quanto segue, dimostrando di essere a conoscenza della proposta di Bernhardy: Bernhardius ταῦτα νῦν μέμνησό μοι. Quorum prius haud dubie verum, alterum certe non necessarium [Meineke FCG II.1, p. 291], una gradazione che Meineke, poco meno di un decennio più tardi, abbandonerà, accogliendo nell’editio minor entrambi gli interventi di Bernhardy, νῦν e μοι). Interpretazione Apollo è invocato mediante un’epiclesi che allude al suo ruolo di protettore delle strade: l’agyieus, infatti, era la colonna a punta, associata tal-

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volta a un altare, che si trovava dinanzi alle porte di casa e per le vie cittadine (le attestazioni letterarie e iconografiche sono raccolte da Di Filippo Balestrazzi in LIMC s. v. ‘Apollon Agyieus’ [II.1, pp. 327–332; II 2, pp. 279–283]; in precedenza, le testimonianze iconografiche erano state raccolte, selettivamente, da Handley 1965, p. 246; per quanto riguarda le fonti letterarie, rimando inoltre ai passi e alla bibliografia raccolti da Biles–Olson 2015, ad Ar. Vesp. 875 [p. 345]). Alcuni passi comici e tragici (raccolti da Sommerstein 1996, ad Vesp. 875 [p. 209]) e un passo di Polluce (per il quale vd. Urios-Aparisi 1992, p. 286) sembrano indicare che un agyieus dovesse costituire un elemento architettonico fisso della scena teatrale. Nel complesso, l’allocuzione ad Apollo segue la struttura formale della preghiera (il che è vero non soltanto per l’epiclesi che apre il frammento, ma anche per l’imperativo che lo chiude; su struttura formale e lessico della preghiera si vedano, oltre bibliografia raccolta da Napolitano 1996, p. 66 n. 5, Kleinknecht 1937, pp. 18–20; Aubriot-Sévin 1992, pp. 199–294; Pulleyn 1997, pp. 132–156; Giordano 1999, pp. 17–25, e Burkert 2011, pp. 118–121), ma la brevità del frammento non permette di chiarire se l’invocazione facesse parte di un contesto comico ‘buffo’ o se invece ricorresse in un contesto paratragico (sulle corrispondenze tra il frammento e gli stilemi della preghiera si vedano le osservazioni di Urios-Aparisi 1991, p. 286; più in generale, sulla parodia della preghiera in contesti comici si vedano Kleinknecht 1937, pp. 20–113, e Horn 1970, pp. 33–61; quanto all’eventualità che espressioni analoghe potessero ricorrere in passi non paratragici si vedano le considerazioni e i passi paralleli raccolti da Bagordo 2013, p. 173). ὦ δέσποτ’ Ἀγυιεῦ L’allocuzione alla divinità costruita con il vocativo di δεσπότης, tipica di molti e diversi contesti di preghiera (le attestazioni del sintagma in commedia sono raccolte da Bagordo 2013, p. 173), serve bene a veicolare invocazioni caratterizzate da particolare trasporto («δέσποτα, ‘master’, is a humble form of address […], appropriate for use by an eager petitioner»: Olson 2002 ad Ar. Ach. 247–9 [p. 143]). La preghiera in tutto e per tutto simile a quella contenuta nel nostro frammento con la quale Bdelicleone invoca la protezione di Apollo Agyieus nell’imminenza della celebrazione del processo casalingo allestito per il vecchio padre (Ar. Vesp. 875 ὦ δέσποτ᾽ ἄναξ γεῖτον Ἀγυιεῦ, τοὐμοῦ προθύρου προπύλαιε) trova giustificazione nel procedimento di trasferimento all’ambito domestico, di competenza del dio, di una funzione pubblica, quella rappresentata, appunto, dal processo (Fabbro 2012, p. 223 n. 207). Che nei Krapataloi potesse darsi una situazione in qualche modo analoga a quella messa in scena da Aristofane nelle Vespe è idea che, pur plausibile in quanto tale in forza dello stringente parallelo appena citato, è destinata a rimanere nell’ambito del meramente ipotetico. συμμέμνησο Il fatto che συμμιμνήσκομαι sia attestato, almeno a quanto mi risulti, esclusivamente nel passo pseudo-demostenico citato da Wilamowitz a sostegno del suo intervento (cfr. supra) non è un buon motivo per metterlo in discussione, a tanto maggior ragione ove si consideri il fatto che συμμέμνησο, oltre a essere ineccepibile da un punto di vista formale, permette di spiegare assai agevolmente come meri errori meccanici entrambe le sequenze corrotte tràdite nelle fonti.

Κραπάταλοι (fr. 93)

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fr. 93 K.–A. (88 K.) πρὸς τῇ κεφαλῇ μου λάσανα καταθεὶς πέρδεται deposto un pitale accanto alla mia testa, scoreggia Poll. X 44 s. ὅτι δὲ οὐ μόνον ἐπὶ τοῦ ἀκινήτου ἀποπάτου τὰ λάσανα ὀνομαστέον ἀλλὰ καὶ ἐπὶ τοῦ τιθεμένου καὶ ἀναιρουμένου μαρτυροῦσιν Ἀριστοφάνης μὲν ἐν Προάγωνι εἰπὼν (seq. Ar. fr. 477 K.–A.), εἰ δὲ τοῦτο ἀμφίβολον, ἀλλὰ Φερεκράτης ἐν τοῖς Κραπατάλλοις πρὸς — πέρδεται. καὶ δίφρον δ’ ἂν εἴποις τὰ λάσανα εὐφημότερον καὶ διφρίσκον che si debba dare il nome di lasana non soltanto alla latrina fissa ma anche a quella che si appoggia e si solleva lo testimonia Aristofane nel Proagone, con le parole (Ar. fr. 477 K.–A.); ma se questa attestazione è ambigua, c’è anche Ferecrate nei Krapataloi: sistemato — scoreggia. E al posto di lasana si potrebbe dire meno volgarmente diphron e diphriskon Phot. λ 106 Theodoridis λάσανα […] καὶ ἐφ᾽ ὧν ἀπεπάτουν ἔλεγον· οὕτω Φερεκράτης (Φρικράτης gac: Φερεκράτης gpc z) lasana (…) e da questi chiamavano così anche la latrina: così Ferecrate

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Bibliografia Runkel 1829, p. 38; Meineke FCG II.1, p. 291; Meineke 1847, I, p. 104; Bothe 1855, p. 98; Kock CAF I, p. 169; Edmonds 1957, p. 238 s.; Rehrenböck 1985, p. 88; Urios-Aparisi 1992, p. 287 s.; Storey 2011, p. 462 s. Contesto della citazione Il verso è citato da Polluce, insieme al fr. 477 K.–A. di Aristofane (Proagone), a documentazione dell’uso del termine λάσανα per indicare il vaso da notte. Per quanto concerne diphron e diphriskon, sinonimi con valore eufemistico di λάσανα (vd. Caroli 2017, p. 410) i due termini sono utilizzati nel senso ricordato da Polluce solo in epoca molto più tarda (sulla questione vd. Urios-Aparisi 1992, p. 285 e Sommerstein 1987a, ad Ar. Av. 1552 [p. 299 s.]). La testimonianza di Fozio, invece, è priva di citazione e attesta solo l’uso del termine in Ferecrate. Interpretazione La menzione di flatulenze fa parte del ricco repertorio scatologico comico (sulla comicità scatologica in commedia vd. Henderson 1991, pp. 187–203, e Edwards 1991, pp. 163–168). La pluralità di contesti in cui tali menzioni ricorrono, la brevità del frammento e l’assenza di paralleli per la specifica situazione descritta rendono tuttavia assai problematica la ricostruzione del contesto del quale il verso doveva far parte. Secondo Urios-Aparisi 1992, p. 287, che cita a sostegno paralleli comici per προσπέρδεσθαι con dativo (Ar. Ran. 1074 νὴ τὸν Ἀπόλλω, καὶ προσπαρδεῖν γ᾽ εἰς τὸ στόμα τῷ θαλάμακι; Sosip. fr. 1, 12 K.–A. τοῖς λοιποῖς δὲ προσπέρδου, e Damox. fr. 2, 39 K.–A. λαβὼν / ἕκαστον αὐτῶν

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κατὰ μέρος πρόσπαρδ᾽, citato però a sproposito, considerata l’assenza di dativi a specificare i destinatari della sconcezza) insieme a una serie di passi aristofanei che attestano l’uso di καταπέρδομαι con genitivo, il personaggio parlante sembrerebbe lamentarsi di angherie simili, «with the addition of the λάσανα on his head». λάσανα Sulla presenza di vasi da notte in commedia (indicati peraltro attraverso una pluralità di nomi: λάσανα, ἀμίς, σκάφιον ecc.) vd. Henderson 1991, p. 191. L’etimologia di λάσανα è incerta (forse di origine pregreca: vd. Frisk GEW II, p. 87; Chantraine DELG III, p. 621; Beekes 2010, p. 835), sebbene appaia evidentemente in relazione con il latino lasanum / lasanus, tra le cui attestazioni, raccolte e discusse da Cavalca 2001, p. 103 s., merita un cenno quella ricorrente a Hor. Serm. I 6, 109, un passo evocato, in relazione al frammento di Ferecrate, già da Runkel 1829, p. 38. In commedia il sostantivo compare sempre al plurale (al singolare, in realtà, in Eup. fr. 240 K.–A., dove però viene generalmente accolto un intervento che mira a ripristinare la forma al plurale: sulla questione vd. Reuter 1971, p.  51 s. e Olson 2016, p.  283; le attestazioni comiche del termine sono raccolte da Pellegrino 2015 ad Ar. fr. 477 K.–A. [p. 278]), ma in altri contesti (cfr. p. es. Hippocr. Superf. 8 e AP 11, 74, 8) appare utilizzato anche il singolare. Oltre ai due significati dei quali si è detto (‘latrina fissa’; ‘latrina mobile, vaso da notte’), Polluce ricorda altrove l’uso di λάσανα nell’accezione di χυτρόποδες, i sostegni utilizzati per sospendere una pentola sul fuoco (cfr. Poll. X 99 τὸν δὲ καλούμεονον χυτροπόδα ἔστι μὲν καὶ λάσανα κεκλημένον εὑρεῖν [segue la citazione di Diocl. Com. fr. 9 K.–A. ἀπὸ λασάνων θερμὴν ἀφαιρήσω χύτραν] e inoltre Hesych. λ 352 [citato da Kassel e Austin in calce al fr. 93], nonché Ar. Pac. 893; sul doppio significato di λάσανα [‘night-stool’ e ‘pot-props’, LSJ9] vd. Morris 1985; Olson 1998, p. 241, e Olson 2016, p. 284; l’equivalenza tra λάσανα e χυτρόποδες è sottolineata dallo scoliaste al citato passo della Pace: cfr. schol. ad Ar. Pac. 893b [p.  136 Holwerda]; la polisemia del termine è analizzata da Urios-Aparisi 1992, p. 287, che propone anche una possibile esegesi dello scarto semantico). In commedia, il sostantivo indica il vaso da notte nel frammento di Aristofane citato da Polluce immediatamente prima (Ar. fr. 477 K.–A.), in Eup. fr. 240 K.–A. e forse anche in Cratin. fr. 53 K.–A., qualora si accolga la congettura λασάνοις in luogo del tradito λαχάνοις proposta da Meineke (sulla questione vd. K.–A. ad loc. e Bianchi 2016, p. 316); incerto invece il valore del sostantivo in Plat. Com. fr. 124 K.–A. (Antiatt. λ 22 Valente λάσανα· ἐφ’ ὧν ἀποπατοῦμεν. Πλάτων Ποιητῇ. μετενήνεκται δὲ ἀπὸ τούτου καὶ ἐπὶ τοὺς μαγειρικοὺς βαύνους): sulla questione vd. Pirrotta 2009, p. 256. πέρδεται Per l’etimologia del verbo vd. Frisk GEW II, p. 511 s., Chantraine DELG IV, p. 885, Beekes 2010, p. 835. In fonti letterarie, πέρδομαι è attestato solo in commedia (vd. Rehrenböck 1985, p. 88); le occorrenze (raccolte da Henderson 1991, pp. 195–199) spaziano in un ampio ventaglio di situazioni, che variano dall’espressione di disprezzo fino alla manifestazione di rusticità e rozzezza, di ilarità o di paura. L’allusione al pitale posto ‘accanto alla testa’ (πρὸς τῇ κεφαλῇ) suggerisce un contesto denigratorio, per il quale è di norma attestato l’uso dei

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composti καταπέρδεσθαι e προσπέρδεσθαι («one can express contempt by breaking wind in the direction of someone else. The terms are καταπέρδεσθαι and προσπέρδεσθαι» [Henderson 1991, p. 197]). Di estremo interesse, a chiarire il non facile senso del verso, specie per quanto attiene alla singolare precisazione contenuta nella iunctura πρὸς τῇ κεφαλῇ (generalmente intesa dagli studiosi come equivalente a ‘accanto alla testa’: vd. p. es. Bothe 1855, p. 98: ad caput meum collocato lasano pedit; Edmonds 1957, p. 239: «he put down the pot at my head and blew a broadside»; Storey 2011, p. 463: «putting a chamber pot beside my head he farted») l’idea, risalente a Wilamowitz (ap. Kassel–Austin, ad loc. [PCG VII, p. 147]), che il contesto che faceva da sfondo al frammento potesse essere di natura simposiale (inter accubantes hoc fieri statuit Wil. ms., per citare la parafrasi offerta da Kassel e Austin, loc. cit.). Se così fosse, sarebbe ragionevole immaginare che la deposizione del pitale propedeutica al peto provenisse da un simposiasta reclinato su una klinē contigua al simposiasta destinatario dell’oltraggio: un quadro che aiuta sensibilmente a immaginare come tale inconsueta sistemazione potesse darsi al livello della testa (πρὸς τῇ κεφαλῇ, appunto).

fr. 94 K.–A. (89 K.) καὶ νωτοπλῆγα μὴ ταχέως διακονεῖν μὴ codd.: μὴν Bothe 1855, p. 99: μοι Blaydes 1896, p. 21

e un pendaglio da forca non rende i suoi servigi con solerzia Phot. ν 319 Theodoridis = Suid. ν 568 νωτοπλῆγα· μαστιγίαν τὸν εἰς τὰ νῶτα τὰς (τὰς om. Phot.) πληγὰς λαμβάνοντα. Φερεκράτης Κραπατάλοις (Κραπαττ- Phot.)· καὶ — διακονεῖν nōtoplēga: un malfattore degno di frustate, che riceve colpi sulla schiena. Ferecrate nei Krapataloi: e — con solerzia

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Bibliografia Runkel 1829, p. 37; Meineke FCG II.1, p. 293; Meineke 1847, I, p. 105; Bothe 1855, p. 99; Kock CAF I, p. 170; Blaydes 1896, p. 21; Edmonds 1957, p. 240 s.; Rehrenböck 1985, p. 89; Urios-Aparisi 1992, p. 290; Storey 2011, p. 464 s. Contesto della citazione Il trimetro è citato da Fozio e da Suida (ma la voce sarebbe da far risalire, secondo Erbse 1950, p. 130, a Elio Dioniso) a documentazione dell’utilizzo del lemma νωτοπλῆγα. Quanto a Poll. II 180 = Ar. fr. 862 K.–A., τὸν δὲ μαστιγίαν Ἀριστοφάνης νωτοπλῆγα ἐκάλεσεν, non sembra indispensabile aderire

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all’opinione di Kaibel, il quale riteneva il coinvolgimento di Aristofane frutto di un’errata attribuzione e riferiva il passo a Ferecrate (sulla questione vd. infra). Testo Gli interventi di Bothe e di Blaydes, che mirano evidentemente a rendere più lineare la costruzione sintattica (vd. infra), non appaiono necessari: l’uso di μή, infatti, appare problematico solo perché, in assenza della proposizione principale, non è facile ricostruire il giro di frase originario. Rehrenböck 1985, p. 89, proponeva una possibile reggenza da ὥστε («nur weil jener Kerl nicht bereitwillig Folge leistet, verdient Er das Schimpfwort νωτοπλήξ. Das μή (statt οὐ) kann sich beispielsweise durch ein vorhergehendes ὥστε erklären»). Ma è possibile anche immaginare che νωτοπλῆγα sia da riferire all’ignoto soggetto di una infinitiva, e che, considerato il καί che apre il verso, νωτοπλῆγα fosse solo una delle qualifiche ingiuriose che gli venivano attribuite nei versi, perduti, immediatamente precedenti. Interpretazione La figura dello schiavo frustato doveva comparire frequentemente in commedia, coinvolta in situazioni e contesti legati, nel giudizio elaborato da Aristofane in un passo famoso della parabasi della Pace, a una comicità trita e banale (cfr. Ar. Pac. 741–750). Allusioni alla fustigazione di personaggi di rango servile ricorrono d’altronde, accanto a vere e proprie scene di fustigazione (per le quali vd. Kaimio 1990, pp. 66–68), anche nelle commedie di Aristofane (vd. Olson 1998, p. 121 s.: «Aristophanic masters routinely give their slaves spontaneous blows as punishment for perceived failures of service […], and real servants were beaten in similar and sometimes much more awful ways»): cfr. p. es. Eq. 1–5, Vesp. 1292–1296 (vd. Biles–Olson 2015 ad loc. [pp. 458–460]) e Ran. 632 ss., ove Eaco frusta Dioniso e Xantia con l’intenzione di estorcere loro la verità; sulla presenza di schiavi nella commedia greca si vedano almeno Lévy 1974 e gli studi raccolti in Akrigg-Tordoff 2013). Il che detto, nulla si può ricostruire, qui, del perduto contesto, né è possibile avanzare proposte quanto all’identità del personaggio al quale l’ingiurioso epiteto νωτοπλήξ era rivolto. Anche se il nostro frammento andrà immaginato proveniente da un contesto diverso (un contesto, cioè, che, data la natura apparentemente diegetica del trimetro, piuttosto che prevedere una lamentela direttamente rivolta a un servo pigro nel dare compimento agli ordini ricevuti doveva semmai descrivere la poca efficienza di un servo non necessariamente presente in scena), potrà essere opportuno segnalare, con Kassel e Austin, ad loc. (PCG VII, p. 148), Ar. Av. 1323, ὡς βλακικῶς διακονεῖς. oὐ θᾶττον ἐγκονήσεις;, la secca, brusca ingiunzione rivolta da Pisetero a un servo di scena, troppo lento nell’eseguire i suoi ordini. νωτοπλῆγα Il lemma, ove si eccettuino le fonti di taglio lessicografico ed erudito, ricorre solo in questo frammento: oltre alle fonti che citano il verso dei Krapataloi, Eustazio attesta la presenza del termine nei παλαιοὶ ῥήτορες (Eust. in Il. p. 216, 13 νωτοπλῆγα οἱ παλαιοὶ ῥήτορες τὸν μαστιγίαν φασί) e Polluce in Aristofane (Poll. II 180 τὸν δὲ μαστιγίαν Ἀριστοφάνης νωτοπλῆγα ἐκάλεσεν), una notizia che, come si è detto, fu ritenuta sospetta da Kaibel, per il quale il tràdito Ἀριστοφάνης avrebbe sostituito per errore un originario Φερεκράτης (sulla

Κραπάταλοι (fr. 95)

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questione vd. Rehrenböck 1985, p. 89, e K.–A. ad Ar. fr. 862 K.–A. [PCG III 2, p. 400], ove si ricorda come dubbi analoghi fossero stati espressi, già prima che da Kaibel, da Dindorf [Dindorf 1829, p. 235: Nisi Aristophanem pro Pherecrate nominavit, cuius ex Crapatalis Suidas in νωτοπλῆγα versum attulit]); nessun elemento cogente, tuttavia, impone di escludere che il lemma, per quanto raro, potesse ricorrere sia in Ferecrate che in Aristofane (ancor meno plausibile l’ipotesi avanzata da Edmonds 1957, p. 241 n. 1, per il quale la citata testimonianza di Polluce spingerebbe ad attribuire il frammento in questione ad Aristofane anziché a Ferecrate). Numerosi sono i composti in -πλήξ nella poesia drammatica del V secolo (vd. Urios-Aparisi 1992, p. 290); in genere tali formazioni designano, nel loro primo membro, l’agente responsabile dell’azione espressa dal membro verbale del composto (p. es. κεραυνοπλήξ, ‘colpito da un fulmine’ [Alc. Com. fr. 3 K.–A., per il quale vd. Orth 2013, p. 42] e κυματοπλήξ, ‘colpito, sbattuto dai flutti’, attestato in tutti e tre i tragici), mentre per un composto indicante nel suo primo membro la parte colpita viene generalmente ricordato αὐχενοπλῆγα di Hippon. fr. 102, 6 W.2 = fr 105, 6 Degani (vd. Degani 1991, p. 110, che in apparato traduce il termine con cuius cervix percussa est vel percuti solet). διακονεῖν Il verbo è usato in senso assoluto: vd. LSJ9 s. v. e Urios-Aparisi 1992, p. 289. fr. 95 K.–A. (90 K.) ζητῶ περιέρρων αὐτὸν ἐξ ἑωθινοῦ lo cerco dall’alba, sbattendomi di qua e di là Suid. α 3037 (hinc ε 3069 et π 1125) = Lex. Bachm. p. 118, 1 (— Σb α 1714)

ἄπερρε οὖν (οὖν om. Lex. Bachm.)· ἀποφθάρηθι. καὶ ἔρρων· φθειρόμενος. ζητῶ — ἑωθινοῦ· Κραπατάλλοις Φερεκράτης (Κρ. Φ. om. Lex. Bachm.)

aperre oyn: vai alla malora. E errōn: andando alla malora. Lo cerco — di là: Ferecrate nei Krapataloi

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Bibliografia Runkel 1829, p. 37; Meineke FCG II.1, p. 295; Meineke 1847, I, p. 105; Bothe 1855, p. 100; Kock CAF I, p. 170; Edmonds 1957, p. 240 s.; Rehrenböck 1985, p. 90 s.; Urios-Aparisi 1992, p. 289; Austin–Olson 2004, p. 52; Storey 2011, p. 464 s. Contesto della citazione Sulla genesi e sulla diffusione della glossa nella letteratura erudita vd. Adler ad Suid. α 3037. Il verso di Ferecrate, in realtà, non sembra citato del tutto perspicuamente in relazione all’interpretamentum proposto per il lemma ἔρρων (ma vd. infra).

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Interpretazione Il verso allude a una situazione che il taglio lessicografico delle fonti e la brevità della citazione non permettono di contestualizzare, neppure in via del tutto ipotetica. Restando indeterminato e non identificabile il referente di αὐτόν, mi pare destinata a rimanere poco più che un’ipotesi di lavoro la sollecitazione di Rehrenböck, che si chiedeva se il personaggio parlante non si lamentasse di aver smarrito la strada durante il viaggio per l’Ade («Hat sich etwa jemand auf dem Wege in die Unterwelt verrirt?» [Rehrenböck 1985, p. 90]). Chi accolga tale ipotesi potrà spingersi a ritenere che, insieme alla strada, la persona loquens dichiarasse di aver perduto di vista il suo compagno di viaggio, al quale non è implausibile immaginare di riferire αὐτόν; ma si tratta, appunto, di un quadro non più che ipotetico. περιέρρων Il participio non sembra avere un significato riducibile a quello della coppia sinonimica ἔρρων· φθειρόμενος allestita dalla tradizione erudita: περιέρρω avrà qui, invece, il valore di ‘wander about’ (LSJ9 s. v.; così intendono Austin e Olson, che traducono «I’ve been wandering about seeking him since dawn» [Austin–Olson 2004, p. 52]), come in Ar. Eq. 533 (ἀλλὰ γέρων ὢν περιέρρει: il soggetto del verbo è Cratino, ormai dimenticato dal pubblico ateniese), chiamato in causa a suo tempo da Kock (CAF I, p. 170), citato ancora da Kassel e Austin in calce al frammento (PCG VII, p. 148), e discusso da Urios-Aparisi 1992, p. 289 (da tenere in conto, in questa chiave, anche com. ad. fr. dub. 409 K.–A. = Hesych. π 1701 περιῆρρον· περιῄεσαν). Valckenaer 1822, p. 268, commentando il v. 973 dell’Ippolito, rendeva il verso di Ferecrate con a tempore matutino urbem perreptans ipsum quaero (ma una traduzione simile è presupposta, appena prima, da quanto nota Elmsley 1821, p. 75, in nota al verso 210 degli Eraclidi). Edmonds 1957, p. 240 n. b, proponeva di attribuire al verbo una sfumatura di significato più in linea con l’interpretamentum («if there has been no loss or confusion, Suida’s authority must have taken περιέρρω not merely as to wander, but to wander painfully»), traducendo περιέρρων con «I’ve been traipsing everywhere». ἐξ ἑωθινοῦ L’espressione («since [the time of] dawn», Austin–Olson 2004 ad Ar. Thesm. 2 [p. 52]), attestata altrove in commedia e in prosa (Urios-Aparisi 1992, p. 289), è una forma colloquiale equivalente all’avverbio ἕωθεν (si vedano in tal senso le osservazioni di Prato 2001, p. 139, e di Austin–Olson 2004, ibid.); sulla formazione dell’aggettivo ἑωθινός vd. Rehrenböck 1985, p. 91. fr. 96 K.–A. (91 K.) ὡς ἄτοπόν ἐστι μητέρ’ εἶναι καὶ γυνήν ἐστι Et. Gud.: ἐστι(ν) καὶ Et. gen., Et. magn.: om. Choerob.

come è strano essere insieme madre e moglie!

μῆτερ Et. Gud.

Κραπάταλοι (fr. 96)

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Choerob. in Theodos. can. (GrGr IV 1, p. 307, 17 Hilg.) ἱστέον δὲ ὅτι εὑρίσκεται παρὰ Φερεκράτει ἡ αἰτιατικὴ τὴν γυνήν, ὡς — γυνήν, καὶ ἡ αἰτιατικὴ τῶν πληθυντικῶν τὰς γυνάς, ἀλλ’ ὁρῶ τὰς γυνάς (fr. 206) si deve sapere che in Ferecrate si trovano l’accusativo gynēn: come — moglie! e l’accusativo plurale gynas: vedo le donne Et. gen. B (Et. Gud. p. 326, 27 Stef., Et. magn. p. 243, 24) εὕρηται δὲ παρὰ Φερεκράτ(ει) ἡ αἰτιατικὴ τὴν γυνήν, ὡς — γυνήν, καὶ ἡ αἰτ(ιατικὴ) τῶν πληθυντικῶν, ἀλλ’ ὁρῶ τὰς γυνάς in Ferecrate si trova l’accusativo gynēn: come — madre! E l’accusativo del plurale: vedo le donne Epimer. Hom. alphab. γ 25 (Anecd. Oxon. I p. 102, 11) ἔχομεν παρὰ Φερεκράτει τὴν γυνήν γενικήν (immo αἰτιαιτικήν) in Ferecrate troviamo il genitivo (leggi: l’accusativo) gynēn Antiatt. γ 1 Valente (post Philippid. fr. 2) Φερεκράτης Κραπατάλλοις τὴν γυνήν Ferecrate nei Krapataloi: tēn gynēn

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Bibliografia Runkel 1829, p. 38 s.; Meineke FCG II.1; Meineke 1847, I, p. 105 s.; Bothe 1855, p. 100; Kock CAF I, p. 170; Edmonds 1957, p. 240 s.; Rehrenböck 1985, pp. 92–94; Conti Bizzarro 1990–1993, p. 89 s.; Urios-Aparisi 1992, p. 289 s.; Storey 2011, p. 464 s. Contesto della citazione I rapporti tra le fonti che citano il frammento e l’origine del ricco materiale lessicografico a cui dobbiamo la sopravvivenza del frammento sono discussi in Rehrenböck 1985, p. 92 s. Se la testimonianza di Antiatt. γ 1 riconduce esplicitamente il frammento in questione ai Krapataloi, nulla consente di attribuire alla medesima commedia anche il frammento citato immediatamente dopo, ἀλλ’ ὁρῶ τὰς γυνάς (vd. K.–A. in calce a Pherecr. fr. 206). Testo Nonostante le fonti abbiano trasmesso sequenze corrotte, il testo pubblicato da Kassel e Austin ripristina il verso in una facies perfettamente accettabile senza che si rendano necessari interventi di più ampia portata (gli interventi proposti sul testo del frammento dagli studiosi sono raccolti e discussi in Rehrenböck 1985, p. 92 s.). Del tutto superfluo, in particolare, il κόρην congetturato, sulla base di malintese preoccupazioni puristiche, e in forza di un’esegesi complessiva francamente ingenua (mitto barbaram formam γυνήν […], sed vidistine umquam sententiam absurdiorem? Non est admomum ἄτοπον, uti arbitror, matres mulieres esse. Sed molestum est sponsae, si ante nuptias peperisse intelligitur), da Naber 1880, p. 31, poi accolto da Sicking 1883, p. 67, a sostituire in fine di trimetro il tràdito γυνήν.

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Interpretazione Secondo Kock (CAF I, p. 170) il verso sarebbe pronunciato nell’Ade da Giocasta (γυνὴ καὶ μήτηρ maxima pars mulierum est. Matrem et (postea) uxorem se facta essem vix ulla praeter Iocastam dicere poterat. Itaque haec quoque apud inferos pronuntiari videntur; nella stessa linea si colloca anche Conti Bizzarro 1990–1993, p. 90, per il quale nel frammento di Ferecrate sarebbe da riconoscere una parodia del cenno a Giocasta contenuto in Soph. Ant. 53 ἔπειτα μήτηρ καὶ γυνή, διπλοῦν ἔπος). Se così fosse, saremmo in presenza di un contesto paratragico; l’allusione alla saga edipica potrebbe inoltre fornire un elemento utile alla datazione della commedia, che sarebbe andata in scena negli anni immediatamente successivi alla rappresentazione dell’Edipo Re (vd. Edmonds 1957, p. 240 s.). In alternativa, Urios-Aparisi 1992, p. 289, mette in relazione l’eventuale presenza in scena di Giocasta con il passo della Nekyia odissiaca in cui Odisseo incontra e interroga numerose figure mitologiche del mito, tra le quali la stessa Giocasta (Epicasta nell’episodio omerico: cfr. Od. XI 271 ss.; i riferimenti alla figura di Giocasta in ambito letterario sono raccolti da I. Krauskopf in LIMC V 1, 1990, pp. 682–686, s. v. ‘Iokaste’). Per quanto l’identificazione con Giocasta del personaggio parlante non possa essere giudicata sicura, l’idea che il verso desse voce al lamento di una donna costretta ad accudire contemporaneamente il marito e i figli, secondo quanto proposto da Kaibel ap. K.–A. (PCG VII, p. 148: sententia fort. haec incommodum est simul mariti ac filii curam agere), pur in quanto tale ragionevole, si scontra forse con la difficoltà posta dal dover presupporre ἄτοπον equivalente a ‘faticoso’, ‘penoso’, e simm. (vd. infra). ὡς Per il valore esclamativo di ὡς basti il rimando a LSJ9 s. v. D, e a Rehrenböck 1985, p. 94. Meno probabile, ma tale da non potersi escludere in modo troppo reciso, considerata la mancanza del contesto immediatamente precedente, la possibilità che ὡς sia da intendere diversamente: come dichiarativo, ad esempio, secondo quanto suggerito, ad esempio, da Edmonds 1957, p. 240 n. c, in alternativa alla traduzione proposta a fronte del frammento («that it is odd, etc.»). ἄτοπόν ἐστι […] εἶναι Per la costruzione di ἄτοπόν ἐστι seguitο da infinito (segnalata in LSJ9 s. v. ἄτοπος) cfr. Eub. fr. 122, 1 K.–A. (ἄτοπόν γε τὸν μὲν οἶνον εὐδοκιμεῖν ἀεὶ: vd. Hunter 1983, p. 223); molto vicino anche Men. Asp. 160, ἴσως μὲν ἄτοπον καὶ λέγειν, per il quale vd. Austin 1970, p. 17 s. L’aggettivo ἄτοπος rimarca in genere l’inusualità di una persona o di una situazione: a questa sfera lessicale afferiscono, grosso modo, tutti i passi citati in LSJ9; nella stessa direzione sembrano andare anche le attestazioni aristofanee (p. es. Av. 276 e 1208, Eccl. 956; l’aggettivo ha un significato probabilmente analogo anche nel citato verso di Eubulo, per quanto la perdita del contesto non permetta di trarre conclusioni definitive: si vedano, in tal senso, le prudenti osservazioni di Hunter 1983, p. 223). Il valore eufemistico per κακός o ἀνόητος che ἄτοπος acquisisce a partire dal tardo V sec., e sempre più diffusamente nel corso del IV sec. (vd. Arnott 1964, pp. 120–122), non serve, credo, a conferire fondatezza all’ipotesi di Kaibel ricordata sopra.

Κραπάταλοι (fr. 97)

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γυνήν Il metaplasmo del sostantivo, attratto nel sistema di prima declinazione, è attestato esclusivamente in commedia e sembra da ricondursi a fenomeni di colloquialismo (vd. Rehrenböck 1985, p. 94 e Urios-Aparisi 1992, p. 545). Quanto all’alternanza, nella flessione di γυνή, di forme riferibili alla prima declinazione e di forme alternative riferibili alla terza, si rimanda al ricco materiale raccolto da Orth 2013, p. 136 s.

fr. 97 K.–A. (92 K.) ὥς τοι κακὸν ὄζει †ΤΑΝΑΜΗΔΥΝ ἀλλὰ γλυκύ ὥς τοι codd.: ὥστ’ οὐ dub. Dobree 1820, p. 128; Cobet 1877, p. 174 ΤΑΝΑΜΗΔΥΝ RM: ΤΑΝΑΜEΔΥΝ V: ὥς τοι κακὸν ὄζει τἀμά. :: μή τί γ᾽ ἀλλὰ γλυκύ Scaliger (cfr. Rosellini 2015, p. 63); van Putschen 1605, col. 1191; Krehl 1820, p. 224: θαἰμάτιά γ’ Dobree 1820, p. 128: τἀμά. :: μὰ Δί’ Toeppel 1851, p. 60; Toeppel 1857, p. 19: ὥς τοι κακὸν ὄζει. :: πάνυ μὲν οὖν ἀλλὰ γλυκύ Urios-Aparisi 1992, p. 291

che cattivo odore ha †… ma dolce Priscian. Inst. gramm. XVIII 242 s. (GrL III p. 328, 22 = pp. 62, 5–63, 2 Rosellini) Attici multa per ellipsin proferunt vel pleonasmon […]. Φερεκράτης Κραπατάλλοις· ὥς — γλυκύ. Terentius in Adelphis (117): olet unguenta de meo. Iuvenalis in I (5, 87 s.): olebit lanternam gli autori attici dicono molte cose attraverso l’ellissi o il pleonasmo […]. Ferecrate nei Krapataloi: che — dolce. Terenzio negli Adelphoe: profuma di unguenti grazie al mio denaro. Giovenale nel primo libro (5, 87 s.): odorerà di lanterna

Metro Trimetro giambico (?)

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Bibliografia van Putschen 1605, col. 1191; Krehl 1820, p. 224; Dobree 1820, p. 128; Spengel 1826, p. 619; Runkel 1829, p. 39; Meineke FCG II.1, p. 292 s.; Meineke 1847, I, p. 104; Toeppel 1851, p. 60; Bothe 1855, p. 99; Toeppel 1857, p. 19; Cobet 1877, p. 174; Kock CAF I, p. 170; Edmonds 1957, p. 240 s.; Rehrenböck 1985, pp. 97–99; Urios-Aparisi 1992, p. 290 s.; Storey 2011, p. 464 s. Contesto della citazione Il verso di Ferecrate è citato da Prisciano, insieme ad altre porzioni testuali, a documentazione dell’uso di ellissi e pleonasmi negli autori attici; l’esteso guasto testuale non consente però di ripristinare l’assetto originario del testo (nonostante i molti tentativi esperiti dagli studiosi per sanare il frammento, si è tuttora costretti a dare ragione a Kaibel [ap. K.–A.]: verba nondum emendata) e per conseguenza di verificare in che termini il verso esemplificasse l’uso linguistico per il quale è chiamato in causa. Per la medesima ragione non sono inoltre più identificabili le analogie (che pure dovevano essere significative) tra il

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frammento e i passi di Terenzio e di Giovenale che nel testo di Prisciano lo seguono immediatamente. Quanto al parallelo tra ὄζω e oleo vd. Spangenberg Yanes 2017, p. 293: «La corrispondenza semantica di ὄζω e oleo è attestata anche nei glossari bilingui […] e in Idiom. cas. GL IV 572, 7–8 oleo unguentum et unguento ὄζω μύρου, πνέω μύρου, dove la costruzione di oleo con l’accusativo è affiancata a quella di ὄζω con il genitivo, a rilevare la diversa sintassi del verbo latino rispetto a quello greco, mentre Prisciano accosta il costrutto latino a quello analogo in greco, ὄζει con il neutro avverbiale». L’attribuzione del frammento alla Petalē, fondata sulla lezione ἐν πετἀλοις stampata nell’edizione priscianea di van Putschen 1605, col. 1191, da cui trae origine, ancora nel 1820, la sequenza ἐν Πετάλῃ congetturata da Krehl (Krehl 1820, p. 224), fortunata fino ai primi decenni dell’Ottocento, lasciò posto all’attribuzione ai Krapataloi, da allora in poi non più messa in discussione dagli editori di Ferecrate, in forza dei nuovi dati offerti, appena a valle dell’edizione Krehl, da Spengel 1826, p. 619 (già Runkel, tre anni dopo, riferisce il frammento ai Krapataloi appunto sulla base delle novità messe in luce da Spengel). Testo Il testo è tràdito in forma estesamente corrotta. Come si è già detto, nonostante i numerosi tentativi di sanare il passo (alcuni dei quali raccolti sopra, nell’apparato al frammento; vd. anche Rehrenböck 1985, p. 97), nessuna tra le soluzioni proposte risulta pienamente convincente. Tra gli interventi riportati in apparato da Kassel e Austin, ὥστ’ οὐ κακὸν ὄζει θαἰμάτιά γ’ ἀλλὰ γλυκύ e (A) ὥστ’ οὐ κακὸν ὄζει τἀμά. (B) μὰ Δί’ ἀλλὰ γλυκύ, proposti rispettivamente da Dobree 1820, p. 128 (ove si trovano espressi dubbi, a mio parere non del tutto giustificati, circa il metro: numeris non optimis, sed qui forsan defendi possint; a favore di ὥστ’ οὐ contro il tràdito ὥς τοι si vedano le fini osservazioni argomentate da Spangenberg Yanes 2017, p. 294), e da Cobet 1877, p. 174 (ma τἀμά è già in van Putschen 1605, col. 1191, mentre la sequenza τἀμά. :: μὰ Δι᾽ con cambio di interlocuzione dopo τἀμά era stata proposta, prima che da Cobet, da Toeppel). Per quanto concerne il primo intervento, è ovvio che θαἰμάτια è da considerare come crasi di τὰ ἱμάτια piuttosto che da τὰ αἱμάτια, come intende, singolarmente, Rehrenböck 1985, p. 97, notando peraltro come il sostantivo αἱμάτιον non ricorra in testi letterari. Per quanto sia impossibile, naturalmente, immaginare alcunché del contesto del quale il frammento faceva in origine parte, un possibile parallelo a sostegno della sistemazione complessiva del trimetro proposta da Dobree può forse ravvisarsi, invece, in un verso di Aristofane, Vesp. 1058 s. ὑμῖν δι᾽ ἔτους τῶν ἱματίων / ὀζήσει δεξιότητος, nel quale ὄζειν impersonale regge un genitivo ‘descrittivo’, δεξιότητος, e uno di origine, τῶν ἱματίων (vd. l’ottima nota di MacDowell 1971 ad loc. [p. 269]): come i mantelli degli spettatori sono destinati a ‘spandere odore di intelligenza per tutto l’anno’ ove i loro proprietari si dispongano a seguire i consigli impartiti loro dal coro, così, su un piano forse più prosaico, e certo meno immaginifico, i mantelli dei quali è parola nel nostro frammento non puzzano, ma odorano, al contrario, di buono. Quanto a τἀμά, per il quale un buon parallelo aristofaneo, segnalato a suo tempo da Toeppel 1851, p. 60, è costituito da Eccl. 393, andrà osservato che l’intervento avrebbe il merito di ripristinare un’ellissi sintattica

Κραπάταλοι (fr. 98)

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in linea con la presentazione di Prisciano e, insieme, una palmare analogia con il verso terenziano, dal momento che in entrambi i casi si avrebbe un aggettivo possessivo sostantivato, restando inespresso il sostantivo di riferimento (vd. UriosAparisi 1992, p. 291; nell’espressione di Giovenale olebit lanternam, per la quale si veda Santorelli 2013, p. 125, a essere sottinteso è oleum). La sequenza πάνυ μὲν οὖν ἀλλὰ γλυκύ proposta da Urios-Aparisi 1992, p. 291 ([A] ὥς τοι κακὸν ὄζει. [B] πάνυ μὲν οὖν ἀλλὰ γλυκύ: «it would be a dialogue in which one character accepts the other’s opinion about this smell; and at the same time regards it as sweet from another point of view»), appare invece fondata paleograficamente, ma presenta problemi sul piano della sintassi, come riconosce lo stesso Urios-Aparisi. Tutto considerato, appare dunque perfettamente ragionevole la scelta operata da Kassel e Austin, i quali stampano il testo del frammento ponendo tra cruces l’intera sequenza ΤΑΝΑΜΗΔΥΝ, in relazione alla quale si potrà però almeno ipotizzare, con Spangenberg Yanes 2017, p. 294, «che -ΗΔΥ- rappresenti un ἡδύ in qualche modo coordinato al successivo γλυκύ». Interpretazione A causa del pessimo stato del testo non è possibile proporre alcuna contestualizzazione del frammento; sebbene il cattivo odore dell’alito venga spesso coinvolto in funzione di scherzi comici (anche in Ferecrate: cfr. Pherecr. fr. 73, 5 K.–A.), nel nostro caso non è possibile trarre alcuna conclusione in tal senso; la ricostruzione avanzata da Rehrenböck 1985, p. 98 s. («Die Frage würde dann wohl von einer Frau vorgerbracht (bei Mundgeruch geht es bei den Komikern in der Regel um Frauen), welcher jemand energisch widerspricht – wahrscheinlich gleichfalls eine Dame!»), è destinata a rimanere su un piano del tutto ipotetico, a cominciare, ovviamente, dal fatto che non è in alcun modo certo che qui il riferimento fosse all’alito (ma se davvero si trattava di alito cattivo, il parallelo plautino portato da Toeppel 1857, p. 19, ovvero Asin. 982 s., sarebbe da ritenersi più che mai pertinente). ὡς Per il valore esclamativo di ὡς vd. supra, ad fr. 96 K.–A. ὄζει In commedia ὄζειν appare utilizzato, prevalentemente con reggenza al genitivo, sia in senso proprio che in senso metaforico, anche se talvolta i due campi tendono a sovrapporsi (vd. Henderson 1987a, p. 151, ad 616–624; più in generale, sull’uso del verbo in commedia, vd. Napolitano 2012, p. 164, ad Eup. fr. 176, 1 K.–A., ove la valenza metaforica del verbo è impiegata per evidenziare comicamente l’omosessualità passiva del personaggio che vi era preso di mira); per l’uso metaforico del verbo si vedano gli esempi ricordati da Taillardat 1965, p. 437 n. 3, e da Imperio 2004, p. 301. fr. 98 K.–A. (93 K.) (A.) τί δαί; τί σαυτὸν ἀποτίνειν τῷδ’ ἀξιοῖς; φράσον μοι. (B.) ἀπαρτὶ δήπου προσλαβεῖν παρὰ τοῦδ’ ἔγωγε μᾶλλον.

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Pherekrates

1 τί σαυτὸν Lobeck 1820, p. 21: τίς αὐτὸν Lex. Bachm.: τοσοῦτον Kaibel ἀποτίνειν τῶιδ’ Lobeck 1820, p. 21: ἀποτείνει τό δ’ Lex. Bachm. 2 δήπου Lex. Bachm., Schol. VE, Suid.: δὴ ποῦ Schol. Θ Barb: δὴ τοῦ Schol. R, Tzetz.: δῆτα Dobree 1820, p. 47 προσλαβεῖν Lex. Bachm.: προλ- Schol. RE Θ Barb, Suid., Tzetz.: προλαβὼν Schol. V ἔγωγε μᾶλλον Lex. Bachm.: ἔγωγ᾽ ἔμελλον Dobree 1820, p. 47

(A.) Allora? Pensi di dovere tu qualcosa a lui? Dimmi! (B.) Tutt’altro! Penso invece di dover avere qualcosa da lui! Lex. Bachm. p. 114, 3 — Σb 1637 ἀπαρτί· παρ’ Ἡροδότῳ σημαίνει τὸ ἀπηρτισμένως καὶ ἀκριβῶς (II.158, 4, cf. Telecl. fr. 39) […] παρὰ δὲ τοῖς κωμικοῖς τὸ ἐκ τοῦ ἐναντίου. Φερεκράτης Κραπατάλλοις· τί — μᾶλλον (sequuntur fr. 77, Plat. fr. 59, Telecl. fr. 39) aparti: in Erodoto significa ‘precisamente’ ed ‘esattamente’ […] Nei poeti comici, invece, significa ‘al contrario’. Ferecrate nei Krapataloi: allora? — da lui! Schol. (RVEΘ Barb) Ar. Plut. 338 Chantry (Suid. α 2928, Tzetz. Schol. Ar. IV 1 p. 101a 5) ἀπαρτί· ἐπίρρημα δέ ἐστιν […] κέχρηται δὲ αὐτῶι Ἡρόδοτος […] καὶ Φερεκράτης Κραπατάλοις· φράσον — προλαβεῖν aparti: è un avverbio […] lo utilizza Erodoto […] anche Ferecrate nei nei Krapataloi: dimmi! — dover avere

Metro Tetrametri giambici catalettici

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Bibliografia Lobeck 1820, p.  21; Dobree 1820, p.  47; Runkel 1829, p.  37 s.; Meineke FCG II.1, p. 289; Meineke 1847, I, p. 103; Bothe 1855, p. 98; Kock CAF I, p. 170 s.; Edmonds 1957, p. 240 s.; Perusino 1968, p. 108; Rehrenböck 1985, pp. 100–102; Urios-Aparisi 1992, p. 292 s.; Storey 2011, p. 464 s. Contesto della citazione Il frammento è trasmesso da due distinti filoni di tradizione: in Lex. Bachm. p. 114, 3 — Σb 1637 p. 634 Cunningham i due versi sono riportati integralmente come testimonianza del diverso significato di ἀπαρτί in Erodoto e nei poeti comici (per un’analisi dell’occorrenza del termine nella tradizione scoliastica ed erudita vd. Bagordo 2013, p. 188 s.), mentre la tradizione che fa capo al materiale scoliastico (sulla cui origine e diffusione vd. Rehrenböck 1985, p. 100) cita una porzione di testo ridotta in funzione di un interesse prettamente grammaticale. Testo Kassel e Austin accolgono per il primo verso i due interventi di Lobeck 1820, p. 21 (interventi che, a stare a quanto ne scrive Meineke [FCG II.1, p. 289: Correxit Lobeckius primum in libello academico a. 1816 edito, tum ad Phryn. p. 21], risalirebbero però al 1816), mentre ignorano, a ragione, i due interventi proposti da Dobree 1820, p. 47, per il secondo verso.

Κραπάταλοι (fr. 98)

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Interpretazione Secondo la ricostruzione formulata da Gelzer 1960, p. 185, i due tetrametri giambici del frammento potrebbero aver fatto parte dell’epirrema dell’agone, mentre il fr. 100 K.–A., in tetrametri anapestici, avrebbe potuto appartenere in origine all’antepirrema del medesimo agone. L’ipotesi di Gelzer è ripresa, oltre che da Kassel e Austin ad loc. (PCG VII, p. 149), da Perusino 1968, p. 108, Rehrenböck 1985, p. 101, e da Urios-Aparisi 1992, p. 292, il quale notava tuttavia come l’assetto metrico dei due versi non sia in grado di fornire certezze assolute quanto alla collocazione originaria del frammento («The meter, iambic tetrameter catalectic, can be found in different parts of a comedy, e. g. Ar. Thesm. 533–572; but as Gelzer […] suggests, this fragment could be part of an agon in which the epirrhema is in iambic meter as here, while the antepirrhema in anapaestic tetrameters as fr. 100 […]. The contrary distribution: epirrhema in anapaestic tetrameters and antepirrhema in iambic ones is also found»). Per quanto concerne il significato globale del testo superstite, i due personaggi sembrano discutere di un debito contratto da uno dei due nei confronti di una ignota terza persona. Tutto ciò che si può dire di questi due versi è che il personaggio A ritiene che il personaggio B debba qualcosa a una terza persona per una prestazione i concreti contorni della quale sono destinati a rimanere del tutto oscuri, e che il personaggio B smentisce con decisione il suo interlocutore dicendogli che è lui, al contrario, a essere in credito con l’ignota terza persona con la quale ha contrattato le condizioni dello scambio. Quanto alla provenienza del debito, l’idea che esso traesse origine da una compravendita, scartata da Rehrenböck 1985, p. 101, con argomenti forse troppo sottili («Die heftige Erwiderung v. 2 spricht eindeutig gegen eine Kaufhandlung: Dialogpartner B will von vornherein nichts zahlen, im Gegenteil von seinem Kontrahenten (zu allem bisher Geleisteten) noch weiteres verlangen»; troppo recise, in Rehrenböck, ibid., appaiono anche le argomentazioni svolte contro l’idea che il debito potesse originare da una scommessa: «Da B freilich von jener Person bereits vorher etwas empfangen und sich in den Augen von A insofern schuldig gemacht hat, wird man ἀποτίνειν ebenso wenig von einer verlorenen Wette […] verstehen dürfen»), è sostenuta invece con favore da Urios-Aparisi 1992, p. 292 («I would not reject a ‘Kaufhandlung’ for an unsatisfactory purchase […]; above all, if we take into account that coins had an important role in this play»); altre proposte esegetiche hanno cercato di legare i due versi al contesto infero, immaginandoli allusivi, sulla scorta delle Rane, all’obolo dovuto a Caronte per l’attraversamento della palude infera o a una scena di ‘Totengericht’ (vd. Schmid 1946, p. 104 n. 14, con le obiezioni di Rehrenböck 1985, p. 101). τί δαί; Il costrutto, dal forte sapore colloquiale (vd. Stama 2016 ad Phryn. fr. 6 [Konnos], p. 80) è frequentemente attestato in commedia (cfr. p. es. Ar. Eq. 171, 493b; Nub. 491, 656b, 1091, 1275b; Av. 64b, 225c, fr. 209.1) sembra possedere qui una coloritura enfatica; in alternativa l’espressione può avere, più semplicemente, una funzione puramente connettiva (vd. Denniston 1954, pp. 261–263; sul valore colloquiale di δαί vd. anche LSJ 9).

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Pherekrates

τί σαυτὸν ἀποτίνειν τῷδ’ ἀξιοῖς Sulla costruzione del periodo vd. Rehrenböck 1985, p. 102 (che cita come parallelo Ar. Eq. 182 οὐκ ἀξιῶ ’γὼ ’μαυτὸν ἰσχύειν μέγα) e Urios-Aparisi 1992, p. 293. Il verbo ἀποτίνειν può ben rimandare a un contesto monetario, come avviene, solo per fare un esempio, in Ar. Vesp. 1255 e 1263. ἀπαρτὶ Sulla formazione, sul significato e sulle attestazioni dell’avverbio in commedia vd. Pirrotta 2009, p. 149 s. e Bagordo 2013, p. 188 s. δήπου La particella, frequentemente utilizzata in prosa e in commedia, ha perduto ben presto l’originario valore dubitativo acquisendo un valore decisamente assertivo (vd. Denniston 1954, p. 267 s. e LSJ9 s. v. δήπου). Non necessario, a ogni modo, il δῆτα proposto da Dobree 1820, p. 47. προσλαβεῖν παρὰ τοῦδ’ ἔγωγε μᾶλλον Per la costruzione dell’infinito in dipendenza dal sottinteso ἀξιῶ (facilmente ricavabile dal verso precedente) vd. Kock CAF I, p. 171, il quale approvava l’interpretazione proposta da Lobeck 1820, p. 21 (Huic quid solvere velim, rogas? Immo aliquid insuper ab eo accipere me aequum est).

fr. 99 K.–A. (83 K.) ταῦτ’ ἔχων ἐν ταῖς ὁδοῖς ἁρπαζέτω τὰς ἐγκρίδας ταῦτ’ codd.: σπυρίδ’ Kock CAF I, p. 168 (dub.)

con queste, che acchiappi per strada le enkrides! Athen. XIV p. 645 E E ἐγκρίδες· πεμμάτιον ἑψόμενον ἐν ἐλαίωι καὶ μετὰ τοῦτο μελιτούμενον (cf. Hesych. ε 261; sequuntur Stesich. fr. 179 a PMG, Epich. fr. 46, Nicoph. fr. 10, Ar. fr. 269) […] Φερεκράτης δ’ ἐν Κραπατάλλοις· ταῦτ’ — ἐγκρίδας enkrides: pasticcino cotto nell’olio e poi ricoperto di miele. Ferecrate nei Krapataloi: con — enkrides!

Metro Tetrametro trocaico catalettico

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Bibliografia Toup 1775, p. 20; Runkel 1829, p. 36; Meineke FCG II.1, p. 287 s.; Meineke 1847, I, p. 102; Bothe 1855, p. 97; Kock CAF I, p. 168; Edmonds 1957, p. 238 s.; Rehrenböck 1985, p. 78 s.; Urios-Aparisi 1992, p. 292 s.; Storey 2011, p. 464 s. Contesto della citazione Il frammento è tràdito da Ateneo insieme a frammenti di Stesicoro, Epicarmo, Nicofonte e Aristofane nel contesto di un elenco di prodotti dolciari a documentare il ricorrere del lemma enkrides, frittelle dolci ricoperte di miele.

Κραπάταλοι (fr. 99)

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Testo La congettura σπυρίδ’ di Kock in luogo del tràdito ταῦτ(α), funzionale, oltre che a chiarire il senso generale del frammento, ad articolare il testo tràdito secondo un assetto giambico (σπυρίδ᾽ ἔχων / ἐν ταῖς ὁδοῖς ἁρπαζέτω τὰς ἐγκρίδας, ma la medesima ripartizione in trimetri, pur con ταῦτ᾽ al suo posto, risale almeno a Toup 1775, p. 20 [= Toup 1881, p. 176]), non è in alcun modo necessaria (per l’uso dei tetrametri trocaici in commedia di quinto secolo vd. White 1912, pp. 99–104 [§§ 244–259]). Interpretazione Non è possibile ricostruire il contesto in cui doveva cadere l’invito a sgraffignare le frittelle. Incerto, intanto, se le strade a cui si allude siano da immaginare collocate ad Atene o nell’Ade (vd. infra): alla prima possibilità pensava evidentemente Urios-Aparisi 1992, p. 293 s., per il quale il verso, sulla scorta di Ar. Plut. 595–597 (φησὶ γὰρ αὕτη [scil. Ecate] / τοὺς μὲν ἔχοντας καὶ πλουτοῦντας δεῖπνον κατὰ μῆν᾽ ἀποπέμπειν / τοὺς δὲ πένητας τῶν ἀνθρώπων ἁρπάζειν πρὶν καταθεῖναι), alluderebbe al topos comico del furto delle offerte dedicate a Ecate nei trivii (l’idea che i dolci venissero sottratti da offerte sacre era però stata proposta già da Edmonds 1957, p. 239 n. a [«as ἁρπάζειν implies stealing, the buns are perh. sacrificial, offered at the effigies of Apollo or Hermes outside front-doors at a festival»], e si trova discussa anche in Rehrenböck 1985, p. 79), mentre Rehrenböck notava come allusioni a strade ricorrano in frammenti comici riferibili a contesti di Schlaraffenland (vd. infra). ταῦτ’ ἔχων L’idea di Schweighaeuser Athen. VII, p. 543 s., per il quale ταῦτ(α) potrebbe equivalere a διὰ ταῦτ(α) (utrum […] hic verba ista ταῦτ᾽ ἔχων intelligenda sint, cum haec habeat, an ταῦτ᾽ pro διὰ ταῦτ᾽ ponatur, participium ἔχων vero pleonastica illa ratione accipiendum sit, qua saepius utuntur Graeci scriptores, in tam abrupto fragmento haud facile definias), e quella, solo in parte alternativa, di Bothe 1855, p. 97, per il quale il sintagma andrebbe inteso come equivalente a sic se habens, quum adeo esuriat, sono forse troppo frettolosamente liquidate da Rehrenböck 1985, p. 79. Secondo Edmonds 1957, p. 239, gli oggetti a cui allude il pronome sarebbero da identificare in «something sharp-pointed, e. g. a pair of spears (or a spear to pick them up with and a shield to use as a basket for them)»: una ricostruzione (reminiscente forse dei versi della Pace di Aristofane [1210 ss.] in cui Trigeo, ricevendo la visita del mercante d’armi, tenta comicamente di trovare nuove destinazioni d’uso per le armi rese inutili dalla fine delle ostilità?) che è frutto esclusivo di invenzione (si veda, al proposito, il secco giudizio di Rehrenböck 1985, p. 79: «aber wer vermag Edmonds’ phantasiereiche Spekulationen ernstzunehmen?»). ἐν ταῖς ὁδοῖς Secondo Rehrenböck 1985, p.  79, anche se l’allusione alle strade ricorre a più riprese in contesti di Paese di Cuccagna, anche in Ferecrate (cfr. Pherecr. frr. 137, 3 e 113, 4 K.–A., e inoltre Nicoph. fr. 21, 3 K.–A., per cui vd. Pellegrino 2013, p. 69), ἁρπάζειν si adatterebbe male a un’ambientazione del genere: «Eine Assoziation an die Straßen in gewissen Schlaraffenlandfragmenten liegt nahe […], doch wäre in solchem Zusammenhang wenig sinnvoll».

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Pherekrates

ἁρπαζέτω ‘snatch away’, ‘carry off ’ (LSJ9); il verbo ricorre, sempre all’imperativo, anche in Pherecr. fr. 8 K.–A., πρὶν άνακυκῆσαι τὰς ἀπίους ἁρπάζετε, in un contesto che, per quanto nebuloso, potrebbe essere simile, considerato il comune ricorrere del verbo ἁρπάζω, a quello del nostro frammento. τὰς ἐγκρίδας Le attestazioni di ἐγκρίς sono raccolte da Pellegrino 2013, p. 52 (con bibliografia). L’etimologia del sostantivo è incerta: sulle differenti ipotesi si veda Urios-Aparisi 1992, p. 294, ma la connessione con i verbi ἐγκεραννύναι e ἐγκρίνειν, ritenuta plausibile da Urios-Aparisi, è ora esclusa da Beekes 2010, p. 371 s.

fr. 100 K.–A. (94 K.) ὅστις 〈γ’〉 αὐτοῖς παρέδωκα τέχνην μεγάλην ἐξοικοδομήσας γ’ add. Porson 1802, p. xlviii: παρέδωκα Porson 1802, ibid.: παρέδωκε codd.

io che, costruita una grande arte, la consegnai a loro Schol. vet. (VΓ) et Tricl. (Lh) Ar. Pac. Holwerda (ἐπόησε τέχνην μεγάλην ἠμῖν κἀπύργωσ’ οἰκοδομήσας) ταῦτα (τοῦτο ΓLh, ταὐτὸ Schoell 1870, p.  41) καὶ Φερεκράτης ἐποίησε τὸν Αἰσχύλον (test. 123 Radt) λέγοντα ἐν τοῖς Κραπατάλοις· ὅστις — ἐξοικοδομήσας fece dire a Eschilo cose di questo genere anche Ferecrate nei Krapataloi: io che — consegnai

Metro Tetrametro anapestico catalettico

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Bibliografia Porson 1802, p. xlviii; Meineke 1827, p. 28; Dindorf 1829, p. 25; Runkel 1829, p. 34; Meineke FCG II.1, p. 290; Meineke 1847, I, p. 103 s.; Bothe 1855, p. 97; Kock CAF I, p. 171; Edmonds 1957, p. 240 s.; Taillardat 1965, p. 438 s. (§ 750); Rehrenböck 1985, pp. 103–105; Urios-Aparisi 1992, p. 296 s.; Conti Bizzarro 1999, pp. 119–125; Storey 2011, p. 464 s.; Hanink–Uhlig 2016, p. 52 Contesto della citazione Le marcate, evidenti analogie tra il v. 749 della Pace di Aristofane e il verso di Ferecrate, che si deve appunto alla tradizione scoliastica relativa al citato luogo aristofaneo, hanno spinto parte della critica a ritenere che i due passi siano legati da dinamiche di imitazione diretta. Per quanto la critica assegni in genere il primato della formulazione a Ferecrate (vd. p. es. Geissler 1969, p. 39: «Aristophanes hat die hier [scil. nei Krapataloi] dem Aischylos in den Mund gelegten Worte über seine Verdienste um die dramatische Kunst (frg. 8) im Frieden 749 entlehnt und auf sich selbst übertragen»; la questione è ben riassunta in Rehrenböck 1985, p. 103; dubbi in Edmonds 1957, p. 241 n. d; vd. inoltre quanto osservo supra nella sezione dell’introduzione generale alla commedia dedicata alla datazione), l’assenza totale di dati quanto alla datazione dei

Κραπάταλοι (fr. 100)

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Krapataloi consiglia di svolgere con la massima cautela qualsiasi ragionamento di natura cronologica. Va peraltro osservato che le pur innegabili analogie che legano il verso di Ferecrate a quello di Aristofane non costringono a ritenere che uno dei due passi sia imitazione diretta dell’altro. Taillardat 1965, pp. 26 s. e 438 s. (§ 750), nota a ragione come la metafora del poeta architetto (sulla quale vd. anche Conti Bizzarro 1999, p. 120; bibliografia recente in merito è raccolta da Imperio 2004, p. 202 n. 49) sia talmente bene attestata da costituire una sorta di cliché: «Il suffit de réunir en un même chapitre toutes les images qui font du poète un architecte et du poème un édifice pour constater qu’elles sont très courantes et qu’en conséquence il n’est pas sûr que l’un des deux poètes imite l’autre; il est même beaucoup plus vraisemblable que la rencontre d’expression n’est due qu’au hasard, cette image étant un cliché» (Taillardat 1965, p. 27; ma idee almeno entro certi limiti simili, a depotenziare l’idea di una dipendenza diretta tra i due versi, già in Cobet 1840, p. 64: Sed quis monendus est, quo pacto uterque plagii possit absolvi? Nisi quis malit credere nobili Attico poëtae usque adeo exaruisse venam, ut voculas et dictiones clam alii sublegeret). Non c’è motivo di dubitare, invece, della notizia relativa al fatto che il verso era pronunciato in scena da Eschilo (Φερεκράτης ἐποίησε τὸν Αἰσχύλον λέγοντα ἐν τοῖς Κραπατάλοις· ὅστις — ἐξοικοδομήσας; per altri casi del genere cfr., p. es., Cratin. fr. 246 K.–A. [Chironi], in relazione al quale la fonte, Diog. Laert. I 62, attesta che a pronunciare i due trimetri era Solone, e Eup. fr. 110 K.–A. [Demi], pronunciato, a stare alla fonte [Plut. Per. 24, 10], da Pericle). La notizia è di estrema importanza in funzione della ricostruzione della trama della commedia, che, nel promuovere Eschilo a dramatis persona, potrebbe confermare, a un tempo, l’ambientazione infera di almeno parte della commedia, in linea con i dati noti al proposito da altre fonti (sempre ammesso, naturalmente, che Eschilo facesse la sua comparsa in scena, nel corso della commedia, nell’Ade, come nelle Rane, e non invece ad Atene, dopo essere stato di lì richiamato, come voleva Meineke FCG II.1, p. 290: Aeschylum in hac fabula ex inferis excitatum et merita sua de poesi tragica praedicantem induxerat Pherecrates [ma in precedenza Meineke propendeva per un’ambientazione infera: Apud inferos scenam fuisse docet etiam versus a Schol. Aristoph. Pac. 747. servatus [Meineke 1827, p. 38, ripreso in Historia critica [1839], p. 85; nella scia di Meineke 1827 si colloca anche Runkel 1829, p. 33: scena fabulae apud inferos fuit]). Testo Il παρέδωκα congetturato da Porson per il tràdito παρέδωκε nel primo verso del frammento, accolto da tutti i principali editori, mira a restituire un testo in accordo con la testimonianza dello scolio, la cui formulazione impone di ritenere che il verso fosse pronunciato da Eschilo in prima persona. Quanto all’ulteriore intervento di Porson, γ(ε) tra ὅστις e αὐτοῖς all’inizio del primo dei due versi del frammento, a garantire la regolarità del flusso anapestico, va segnalata la proposta alternativa di Nauck 1866, p. 734: ὃς τοῖς ἀστοῖς, forse non necessaria, ma certo molto elegante («Auch bei Pherecr. Com. 2 p. 289 […] möchte ich gegen das von Porson eingefügte γε protestiren, nicht als ob diese Partikel hier unmöglich wäre, sondern weil es ein weit einfacheres Mittel gab zur Herstellung des Metrum, ὃς

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Pherekrates

τοῖς ἀστοῖς παρέδωκα τέχνην μεγάλην ἐξοικοδομήσας. Denn αὐτός und ἀστός lassen sich in den meisten Handschriften kaum unterscheiden und werden daher beständig verwechselt»). Interpretazione La forma metrica del verso, un tetrametro anapestico catalettico, insieme al fatto che esso era pronunciato da un personaggio della commedia, suggeriscono che esso dovesse appartenere a una sezione dell’agone della commedia, nel quale Eschilo doveva rivendicare le virtù della sua arte poetica (vd. Rehrenböck 1985, p. 103; Urios-Aparisi 1992, p. 296 e Conti Bizzarro 1999, p. 119 s., per il quale l’elogio andrebbe specificatamente riferito alle innovazioni scenografiche e orchestiche promosse da Eschilo; sull’utilizzo dei tetrametri anapestici in commedia vd. White 1912, pp. 121–130; l’esplicita attribuzione della battuta a Eschilo rende assai improbabile il collocamento del verso in un contesto parabatico, come proposto da Imperio 2004, p. 101 n. 229: vd. Farmer 2017, p. 19). Accanto a motivi legati alla possibile rappresentazione in Ade, del repertorio tematico dei Krapataloi dovevano dunque far parte motivi attinenti all’ambito della critica letteraria: un assetto, tipico della cosiddetta Literaturkomödie, che gli studiosi hanno letto tenendo presente, inevitabilmente, il modello costituito dalle Rane (così già Porson 1802, p. xlviii, in relazione al nostro frammento: Verba sunt Aeschyli de se loquentis eodem fere modo, quo loquitur apud Aristophanem Ran. 1045. et seq.; per Kaibel 1889, p. 45, Aristofane avrebbe preso in prestito la ‘Grundidee’ delle sue Rane direttamente dai Krapataloi; vd. anche Becker 1915, p. 9, e, molto di recente, Rosenbloom 2018, p. 54 s.). L’assimilazione del poeta a un architetto e dell’opera poetica a un edificio è attestata più volte già in Pindaro (p. es. Pyth. 3, 113) e in commedia ricorre, oltre che nella Pace, anche nelle Rane (si tratta del già ricordato v. 1004, ἀλλ’ ὦ πρῶτος τῶν Ἑλλήνων πυργώσας ῥήματα σεμνὰ, pronunciato dal corifeo appunto in relazione alla poesia di Eschilo; sul passo si vedano le osservazioni di Dover 1997, p. 188), in Cratino (fr. 70, 2 K.–A. [Eumenidi] τέκτονες εὐπαλάμων ὕμνων) e altrove (le attestazioni comiche sono raccolte da Taillardat 1965, p. 438 [§ 749]; la fortuna della metafora, originatasi in contesto indeuropeo e ricorrente anche nella letteratura latina, è ricostruita, a partire dalla lirica arcaica, da Imperio 2004, p. 201 s.; vd. anche Wright 2012, pp. 116–120 [§ 4.3]. ὅστις 〈γ’〉 Per ὅστις a introduzione di Adjektivsätze vd. K-G II 2, p. 399 s.; per il nesso ὅστις γε vd. LSJ9 s. v. ὅστις; per la costruzione del pronome relativo con γε con valore causale/limitativo vd. Denniston 1954, p. 141 s. e Conti Bizzarro 1999, p. 123 s. (a una relativa causale pensava Rehrenböck 1985, p. 105: «ὅστις] verallgemeinerndes Relativpronomen zur Einleitung eines kausalen Relativsatzes (= quippe qui)»). αὐτοῖς Difficile dire se il pronome indichi qui i poeti tragici successivi a Eschilo, come pensano, tra gli altri, Taillardat 1965, p. 439 § 750 («Eschyle se glorifiat ‘d’avoir transmis à ses successeurs le grand art qu’il avait édifié’») e Olson 1998 ad Ar. Pac. 749, p. 220, o più generalmente il pubblico ateniese, come voleva già Nauck (questa, ovviamente, la condizione presupposta per la già segnalata congettura proposta per l’inizio del primo verso del frammento, ἀστοῖς per il tràdito

Κραπάταλοι (fr. 101)

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αὐτοῖς). Se è vera la prima ipotesi, è possibile, anche se non certo, che Eschilo pronunciasse il verso per prendere di mira la decadenza della poesia tragica a lui successiva nel tempo («Pherekrates’ Aeschylus implies that his heirs failed to maintain the standard he established» [Rosenbloom 2018, p. 55]). ἐξοικοδομήσας Per la formazione del verbo (generalmente utilizzato in riferimento alla costruzione di edifici sacri: vd. Conti Bizzarro 1999, p. 124) vd. Rehrenböck 1985, p. 105.

fr. 101 K.–A. (95.194 K.) τῶν θεατῶν δ’, οἷστισι δίψ’ ᾖ, λεπαστὴν λαψαμένοις μεστὴν ἐκχαρυβδίσαι 1–2 τῶν θεατῶν δ’, οἷστισι δίψ’ / ᾖ Bergk 1838, p. 301: τῶν δὲ θεατῶν ὅσοις ἂν δίψος ᾖ Kock CAF I, p. 171: τῶν θεατῶν δ’ ὅστις 〈ἂν〉 / διψῇ Kaibel 1890, p. 69: τῶν θεατῶν δ’ ὅστις διψῇ ACE 2–3 λεπαστὴν λαψαμένοις / μεστὴν ἐκχαρυβδίσαι Bergk 1838, p. 301: λεπαστὴν ἐμπλησαμένοις μεστὴν ἐκχαρυβδίσαι Kock CAF I, p. 171: λεπαστὴν λαψάμενος μεστὴν ἐκκαρυβδίσαι ACE

tra gli spettatori, a quanti venga sete, lappando una lepastē colma fino all’orlo, 〈dico〉 di tracannarla come una Cariddi Athen. XI p. 485 D D Ἀμερίας (Hoffmann 1906, p. 10) δέ φησι τὴν οἰνοχόην λεπαστὴν καλεῖσθαι. Ἀριστοφάνης δὲ (fr. 411 Sl.) καὶ Ἀπολλόδωρος (244 F 258 Jac.) γένος εἶναι κύλικος. Φερεκράτης Κραπατάλλοις· τῶν θεατῶν δ’ ὅστις διψῇ λεπαστὴν λαψάμενος μεστὴν ἐκκαρυβδίσαι Ameria dice che l’oinochoē si chiama lepastē. Aristofane e Apollodoro invece dicono che sia un tipo di kylix. Ferecrate nei Krapataloi: tra — Cariddi

Metro 2 dimetri coriambici B chiusi da un dimetro coriambico catalettico

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Bibliografia Schweighaeuser Athen. VI, p. 200; Runkel 1829, p. 35 s.; Hanow 1830, p. 139; Bergk 1838, p. 301; Meineke FCG II.1, p. 294 s.; Meineke 1847, I, p. 105; Bothe 1855, p. 99 s.; Fritzsche 1855, p. 13; Kock CAF I, p. 171; Nauck 1888, p. 223; van Herwerden 1893, p. 152; Blaydes 1896, p. 21; Wilamowitz 1921, p. 227 e n. 1; Wilamowitz 1927, p. 182; Edmonds 1957, pp. 240–243; Rehrenböck 1985, pp. 110–113; Urios-Aparisi 1992, p. 298–311; Storey 2011, p. 466 s.

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Contesto della citazione La pericope è citata da Ateneo in relazione a una discussione sull’etimologia e sul significato del termine lepastē. Alcuni studiosi, a partire da Runkel 1829, p. 35 s. (così, tra gli altri, Kock CAF I, p. 171; Rehrenböck 1985, p. 110, Urios-Aparisi 1992, p. 298), ritengono che al frammento in questione alludesse l’atticista Filocoro in un passo riportato da Ateneo (XI p. 464 F = 328 F 171 Jacoby: vd. Pickard-Cambridge 1968, p. 272) relativo all’usanza di consumare vino accompagnato da τραγήματα prima e durante gli agoni dionisiaci: un’usanza, che, a stare a Filocoro, avrebbe coinvolto, insieme agli spettatori, i cori, ai quali sarebbe stato offerto da bere prima e dopo le rappresentazioni. Tale usanza sarebbe sopravvissuta almeno fino ai tempi di Ferecrate: μαρτυρεῖν δὲ τούτοις καὶ Φερεκράτη τὸν κωμικόν, ὅτι μέχρι τῆς καθ’ ἑαυτὸν ἡλικίας οὐκ ἀσίτους οὐδ’ ἀπότους εἶναι τοὺς θεωροῦντας (il passo, assente tra i testimonia, è riportato da Kassel e Austin in calce al fr. 101; Kock lo stampava a parte, come fr. 194 [CAF I, p. 202]). Il legame tra il frammento e il passo di Filocoro appare però, per diverse ragioni, del tutto labile. Innanzitutto, nel frammento non si fa riferimento al cibo, ma solo al vino: ipotizzare che nel contesto perduto che precedeva e seguiva immediatamente la porzione di testo conservata potesse ricorrere un cenno ai τραγήματα dei quali si fa parola in Filocoro sembra improbabile. In secondo luogo, la pericope οὐδ’ ἀπότους è frutto di un tentativo di integrazione operato da Kaibel. Il frammento, infine, più che riferirsi a concrete pratiche conviviali, sembra afferire al topos dei beni, spesso cibi o bevande particolarmente raffinati, scherzosamente promessi dal poeta comico agli spettatori al fine di ingraziarseli in funzione della vittoria agonale (cfr. infra). Testo Il testo del frammento è trasmesso da Ateneo in una forma, ametrica, che lascia spazio a diverse possibili sistemazioni. Nella loro edizione, Kassel e Austin selezionano tre alternative (per una discussione dettagliata delle quali rinvio, oltre che all’apparato ad loc. in K.–A. [PCG VII, p. 150 s.], a Rehrenböck 1985, p. 110 s.). La prima, che articola la sequenza tràdita in dimetri coriambici, proposta da Bergk 1838, p. 301 (ma una ripartizione in dimetri coriambici è presupposta già dal testo pur lacunosamente stampato da Runkel), mi sembra preferibile alle altre due, risalenti a Kock CAF I, p. 171, e a Kaibel 1890, p. 69, nell’apparato ad loc., che ripartivano la pericope il primo in eupolidei, assegnando il frammento alla parabasi (ma a una possibile ripartizione della sequenza in eupolidei credevano, già prima di Kock, Dindorf, Runkel e Bothe, e poi, dopo Kock, Zieliński 1931, p. 91, il quale, sulla base di Ar. Lys. 209, λάζυσθε πᾶσαι τῆς κύλικος, ὦ Λαμπιτοῖ, proponeva, per l’attacco del secondo eupolideo, una diversa soluzione, ovvero τῆς λεπαστῆς λαζυμένοις; per due eupolidei parabatici anche Fritzsche 1855, p. 13, ove il testo è sistemato come segue: τῶν θεατῶν δ᾽ ὅστις ἐδίψη, 〈παρῆν οἴνου πιεῖν〉 / 〈καὶ〉 λεπαστὴν λαψαμένοις μεστὴν ἐκχαρυβδίσαι; per bibliografia sull’eupolideo in commedia vd. Napolitano 2014, p. 156 n. 388), il secondo in un sistema di dimetri trocaici lirici. Qui di seguito, per maggiore chiarezza, le tre proposte: Bergk 1838, p. 301 τῶν θεατῶν δ’, οἷστισι δίψ’ / ἦι, λεπαστὴν λαψαμένοις / μεστὴν ἐκχαρυβδίσαι;

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Kock CAF I, p. 171 τῶν δὲ θεατῶν ὅσοις ἂν δίψος ἦι / λεπαστὴν ἐμπλησαμένοις μεστὴν ἐκχαρυβδίσαι; Kaibel 1890, p. 69 τῶν θεατῶν δ᾽ ὅστις ἂν δι- / ψῆι, λεπαστὴν ἐγχεάμενον / ἔστιν ἐκχαρυβδίσαι (ma 〈ἂν〉 risale a Toup 1778, p. 241). Le ragioni di tale preferenza, che mi spinge a promuovere la sistemazione di Bergk a testo, per quanto exempli gratia, sono legate essenzialmente alla tipologia degli interventi testuali e a considerazioni di ordine stilistico: per quanto riguarda il primo punto, gli interventi di Bergk hanno il pregio di essere meno pervasivi e più rispettosi del testo tràdito rispetto a quelli proposti da Kock e da Kaibel (che considerava il λαψάμενος di Ateneo come conseguenza di una corruttela generatasi dalla penetrazione a testo di λάψαι, ritenuto glossa per ἐκχαρυβδίσαι). Non appaiono cogenti, d’altronde, le critiche mosse agli interventi di Bergk: a sostegno della forma οἷστισι (considerata inaccettabile da Nauck 1888, p. 223, «da die Formen οὗτινος ᾧτινι ὧντινων οἷστισι […] in der Attischen Poesie fast unerhört sind und wahrscheinlich auch in der Attischen Prosa nur auf Schreibfehlern beruhen») Kassel e Austin citano Ar. Pac. 1279 ἀλλὰ τί δῆτ᾽ ᾄδω; σὺ γὰρ εἰπέ μοι οἷστισι χαίρεις (in relazione al quale, però, e più specificamente quanto alla forma οἷστισι, Nauck esprime perplessità non del tutto trascurabili: vd. Nauck 1888, p. 223 n. 58, e, già prima, Nauck 1862, p. 36 n. 2, ove si proponeva, contestualmente, una diversa sistemazione del testo del verso), mentre λαψαμένοις, contestato a più riprese a causa della diatesi media (vd. p. es. Kock CAF I, p. 171: verbi λάπτω aoristus non est ἐλαψάμην, sed ἔλαψα, e Kaibel 1890, p. 69, in apparato; da qui interventi ulteriori, quali il πλησαμένοις proposto da van Herwerden 1893, p. 152, a parziale, espressa rettifica dell’ἐμπλησαμένοις di Kock, e il λουσαμένοις di Blaydes 1896, p. 21), trova un parallelo in Ar. Pac. 885 τὸν ζωμὸν αὐτῆς προσπεσὼν καὶ ἐκλάψεται, come segnalano Kassel e Austin nell’apparato al v. 1 del frammento, rimandando, per la questione dell’alternanza tra diatesi, a Dover 1968, p. 198 (ad 810). Sul piano stilistico, d’altronde, le sistemazioni alternative alle proposte di Bergk appaiono piuttosto deboli, perché entrambe sembrano svilire la struttura retorica del frammento, come notava già Sifakis a proposito degli interventi di Kock («Kock’s reconstruction involves major changes and in fact does away with the image of the monster lapping with its tongue. Rather than lose the forceful metaphor I would lose the fragment from the parabasis»). Quanto infine all’ἐκχαρυβδίσαι (vel ἐγχαρυβδίσαι) proposto, per il tràdito ἐκκαρυβδίσαι, da Dobree 1820 (addenda, p. 113) e poco più tardi, a quanto sembra indipendentemente, da Dindorf ad loc. (Dindorf 1827, II, p. 1088), si vedano le considerazioni di Rehrenböck 1985, p. 110 e di Urios-Aparisi 1992, p. 300). Interpretazione L’offerta di cibi o bevande agli spettatori ricorre piuttosto spesso in contesti di parabasi o nei finali di commedia: si tratta dunque di un topos ben attestato, mediante il quale il poeta mira ad acquisire il consenso degli spettatori e quindi, indirettamente e per estensione, dei giudici dell’agone («The fact that the plays are produced in a competition is never far from the poet’s mind. In most cases it is in his best interest to assume that there is no difference of opinion possible

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between the audience as a whole and the judges whose votes actually determine the prizes at the competitions» [Slater 2002, p. 19]; i passi comici in cui vengono illustrati i benefici che il poeta promette di rendere agli spettatori sono raccolti da Slater 2002 p. 244 n. 65, mentre quelli più specificatamente legati alla tematica delle offerte e dell’invito a pranzo sono discussi da Imperio 2004, p. 78 [sulle attestazioni in contesti parabatici vd. anche Totaro 1999, p. 11 n. 31]). L’implicita perorazione rivolta al pubblico si rispecchia nell’esplicita richiesta rivolta ai giudici di μὴ ’πιορκεῖν μηδ’ ἀδίκως κρίνειν contenuta nel fr. 102 K.–A., osservazione in forza della quale Bergk 1838, p. 301, e altri dopo di lui, tra i quali Rehrenböck 1985, p. 111, pur assegnando i versi a sezioni distinte della commedia (rispettivamente allo pnigos della parabasi e all’esodo), hanno immaginato che i due frammenti, da entrambi ripartiti in dimetri coriambici, conservino porzioni di testo consecutive (per Bergk, l’ordine originario avrebbe previsto prima i dimetri del fr. 102 K.–A., poi, a seguire, quelli del fr. 101 K.–A., con l’infinito ἐκχαρυβδίσαι dipendente, come gli infiniti (ἐ)πιορκεῖν e κρίνειν di fr. 102, 3–4 K.–A., dal λέγω di fr. 102, 2 K.–A.; a dimetri coriambici da assegnare alla sezione finale della commedia pensava anche Wilamowitz 1921, p. 227 n. 1: «Es ist eine Anrede an die Richter und das Publikum, dem eine Weinspende vesprochen wird, vielleicht so neckish wie in den letzten trochäischen Liedern der Lysistrate. Das wird auch hier gegen Ende der Komödie gestanden haben»; vd. anche Wilamowitz 1927a, p. 182). τῶν θεατῶν Sulle promesse di benefici, spesso collegati alle identità sceniche del coro e connotati da iperbole comica, che il poeta dichiara di voler elargire agli spettatori in cambio della loro benevolenza, vd. Imperio 2004, pp. 77–79. λαψαμένοις Il verbo non ha parentela etimologica con λεπαστή, come vorrebbe Ateneo (Athen. XI 485 A: λεπαστή […] ἀφ’ ἧς ἐστι λάψαι, τουτέστιν ἁθρόως πιεῖν), ma ha invece un’origine onomatopeica (vd. Beekes 2010 s. v. [p. 834]; vd. anche Tichy 1983, p. 113 e n. 103); usato propriamente a proposito di animali, il verbo ricorre frequentemente in commedia con valenza metaforica (vd. Taillardat 1962, p. 93 §150; le attestazioni comiche sono raccolte da Urios-Aparisi 1992, p. 300). λεπαστὴν Il termine indica una grossa coppa utilizzata per bere vino, descritta da Ateneo a p. XI 485 A (per ulteriori attestazioni del termine nella letteratura lessicografica ed erudita vd. Bagordo 2013, p. 151; la derivazione del sostantivo da λαφύκτης proposta da Ateneo ha una chiara origine paretimologica: sull’etimologia corretta, da λεπάς, ‘patella’, vd. Beekes 2010 s. v. λεπάς). ἐκχαρυβδίσαι Formalmente il verbo (hapax ferecrateo) sarà da intendersi, con Bergk, come un infinito retto da un verbum dicendi in deissi. La figura mitica di Cariddi, che ingurgita repentinamente grandi quantità d’acqua, ben si presta alla creazione di metafore comiche, specie in relazione al consumo smodato di vino o cibo: sono presenti attestazioni già a partire dalla lirica arcaica, e poi in commedia (se ne veda la raccolta allestita da Urios-Aparisi 1992, p. 301; sull’immagine si vedano inoltre le osservazioni di Taillardat 1962, p. 91 § 150).

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fr. 102 K.–A. (96 K.) τοῖς δὲ κριταῖς τοῖς νυνὶ κρίνουσι λέγω, μὴ ’πιορκεῖν μηδ’ ἀδίκως κρίνειν, ἢ νὴ τὸν φίλιον μῦθον εἰς ὑμᾶς ἕτερον Φερεκράτης λέξει πολὺ τούτου κακηγορίστερον 2 κρίνουσι Suid.: -ουσιν Phot.: -οῦσι van Herwerden 1903, p.  15 6 Φερεκράτης Grotius 1626, p. 969: Φιλο- codd. 7 κακηγορίστερον Elmsley 1830, p. 83: -ιστότερον Phot.: -ητότερον Suid. M ante corr.: -ικώτερον M post corr., G: -ητέον V

ma ai giudici che ora giudicano dico di non essere spergiuri e di non giudicare ingiustamente, altrimenti, per Zeus philios, un altro discorso per voi farà Ferecrate, di molto più maldicente di questo! [1–7] Phot. φ 175 Theodoridis = Et. gen. B (Et. magn. p. 793, 43) = Suid. φ 342 Φίλιος Ζεύς (Ζεύς om. Suid.)· ὁ τὰ περὶ τὰς (τῆς Et., Suid. A) φιλίας ἐπισκοπῶν (deficit Et.) […] Φερεκράτης Κραπατάλοις (-άλλοις Phot., Suid. A)· τοῖς — κακ. Zeus Philios: il protettore della philia […] Ferecrate nei Krapataloi: ma — questo! [7] Poll. II 127 (codd. FS, A) κακηγορίστερος παρὰ Φερεκράτει (-κάτη A) kakēgoristeros si trova in Ferecrate

Metro 6 dimetri coriambici B, il primo incompleto, chiusi da un dimetro coriambico catalettico

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Bibliografia Grotius 1626, p.  969; Porson apud Gaisford 1810, p.  355 n. 2; Meineke 1814, p.  41; Runkel 1829, p.  34 s.; Elmsley 1830, p.  83; Bergk 1838, p. 301 s.; Meineke FCG II.1, p. 293 s.; Meineke 1847, I, p. 105; Bothe 1855, p. 99; Kock CAF I, p. 171 s.; van Herwerden 1903, p. 15; Wilamowitz 1921, p. 227 e n. 1; Wilamowitz 1927a, p. 182; Norwood 1931, p. 160; Whittaker 1935, p. 189; Edmonds 1957, p. 242 s.; Gelzer 1960, p. 124 n. 5; Gelzer 1969, p. 124; Sifakis 1971, pp. 34, 40; Rehrenböck 1985, pp. 114–117; Urios-Aparisi 1992, pp. 301–305; Imperio 2004, pp. 25, 77–79; Olson 2007, pp. 78, 112, 429; Conti Bizzarro 1999, pp. 125–130; Storey 2011, p. 466 s.; Farmer 2017, pp. 20–22 Contesto della citazione Le fonti lessicografiche che lo tramandano, dipendenti con ogni probabilità da una tradizione comune, non forniscono notizie di sorta quanto al perduto contesto del frammento. La testimonianza di Polluce relativa all’uso del comparativo κακηγορίστερος si è rivelata però decisiva a sanare il testo dell’ultimo verso del frammento, che nella tradizione manoscritta oscilla tra diverse varianti, tutte più o meno evidentemente corrotte. Testo Il confronto tra le fonti che riportano integralmente il frammento consente di ricostruire un testo ragionevolmente soddisfacente. Il Φερεκράτης di v. 6 in luogo del tràdito Φιλοκράτης si deve a una brillante intuizione di Grozio, mentre al v. 7 κακηγορίστερον è non meno brillante congettura di Elmsley, fondata su Poll. II 127 κακηγορίστερος παρὰ Φερεκράτει. I due interventi sono generalmente accolti dagli editori recenti, anche se a proposito della correzione di Φιλοκράτης in Φερεκράτης Urios-Aparisi 1992, p. 305, si mostra cauto, ipotizzando che il nome di Filocrate (un nome, peraltro, piuttosto comune e ben documentato ad Atene [vd. p. es. PA 14568 ss., LGPN II s. v., RE XIX 2, 1938, coll. 2495–2500; un Filocrate politico ateniese di IV secolo è ricordato in Dem. 19, 150], ricorre in un frammento di Eubulo, per il quale vd. Hunter 1983, p. 217, e in Ar. Av. 14 e 1077), unanimemente tràdito nelle fonti, potesse essere quello del corifeo, il quale avrebbe difeso e sostenuto in prima persona il poeta in funzione della vittoria agonale («Maybe the reading transmitted by the manuscripts could be kept, if we understand this passage as an eulogy of the poet, made by the chorus-leader on his behalf. The name Philokrates could be that of the chorus-leader in his dramatic character»). Un’ipotesi che, pur in astratto plausibile, manca di paralleli: ben altro fenomeno è, infatti, il ricorrere di apostrofi nominali a singoli coreuti da parte del coro, apostrofi che, pur ben attestate, non sono in alcun modo funzionali a processi di caratterizzazione a carico di singoli membri del coro, men che meno del corifeo presupposto fondamentale per immaginare che il corifeo potesse indicare sé stesso utilizzando il proprio nome per rivolgersi agli spettatori in un momento metateatrale del dramma (sarebbe, semmai, da chiedersi se casi di menzione del nome del corifeo in termini simili a quelli immaginati da Urios-Aparisi per il nostro frammento potessero darsi nel contesto di commedie caratterizzate dalla presenza di cori ‘individualizzati’, secondo la formulazione di Wilson 1977; ma si tratta, appunto, di non molto più che un’ipotesi). Se è vero, per converso, che anche chi accolga il Φερεκράτης di Grozio deve fare i conti con l’assenza di paralleli

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stringenti, è altrettanto vero che in regime di parabasi non mancano, in Aristofane, passi nei quali il poeta viene evocato per il tramite di indicazioni che alludono al suo ruolo nella rappresentazione (ὁ ποιητής [Ach. 633]; ὁ διδάσκαλος [Pac. 738]; ὁ κωμῳδοδιδάσκαλος [Eq. 307]); particolarmente significativo è il caso rappresentato da Pac. 771–774 φέρε τῷ φαλακρῷ, δὸς τῷ φαλακρῷ / τῶν τρωγαλίων, καὶ μὴ ᾽φαίρει / γενναιοτάτου τῶν ποιητῶν / ἀνδρὸς τὸ μέτωπον ἔχοντος, versi nei quali il coro chiede per il suo poeta, il ‘calvo’ per antonomasia, il medesimo favore che Ferecrate chiedeva per sé, da parte dei giudici, nei dimetri del nostro frammento. Del tutto superfluo, infine, oltre che ingenuamente razionalistico, il κρινοῦσι proposto da van Herwerden 1903, p. 15, per il v. 2 al posto del tràdito κρίνουσι (Manifesto sententia postulat futurum κρινοῦσι, nam peractis demum fabulis fiebat iudicium). Interpretazione L’apostrofe ai giudici dell’agone e l’invito a valutare con giustizia costituiscono un motivo che rientra nella topica parabatica della ‘eulogia e apologia del poeta’ (la formulazione è in Imperio 2004, p. 23; i temi ricorrenti nelle parabasi comiche sono raccolti da Sifakis 1971, pp. 37–44 e Hubbard 1991, pp. 16–40); dal momento che tale motivo ricorre soprattutto nelle sezioni astrofiche di parabasi, considerato l’assetto metrico del frammento, che esclude in partenza la possibilità di un’attribuzione alla parabasi ‘vera e propria’, esso è stato spesso ricondotto dagli studiosi alla sua sezione di chiusa, lo pnigos: così già Bergk 1838, p. 301 s. (per il quale i frr. 101 K.–A. e 102 K.–A., immaginati contigui, costituirebbero l’intero pnigos della parabasi dei Krapataloi), seguito, tra gli altri, da Whittaker 1935, p. 189, Sifakis 1971, pp. 34 e 50, e Conti Bizzarro 1999, p. 125 s. In alternativa, il passo in questione è stato riferito al finale della commedia da Wilamowitz 1921, p. 227 n. 1 e Wilamowitz 1927a, p. 182; Gelzer 1960, p. 124 n. 5 (ripreso da Gelzer 1969, p. 124), e Rehrenböck 1985, p. 115 s. (ove pure, come ricorda Imperio 2004, p. 25, non si esclude la possibilità che il frammento provenga dalla seconda parabasi della commedia). L’ostacolo principale all’attribuzione del frammento allo pnigos parabatico è la sua struttura metrica del frammento, essendo l’unica ‘parabasi vera e propria’ in eupolidei, quella delle Nuvole, priva di pnigos (difficile stabilire se, come vorrebbe Sifakis 1971, p. 34, un parallelo per lo pnigos di una parabasi ‘vera e propria’ in eupolidei possa essere costituito dal papiraceo fr. 322 K.–A. di Aristofane, ricondotto nell’editio princeps a un contesto parabatico, ma per il quale non mancano ipotesi alternative e, forse, più convincenti: sulla questione vd. Imperio 2004, p. 388 s. e Pellegrino 2015, p. 201 s.). Un possibile parallelo a sostegno della possibilità, alternativa, che il frammento provenga dal finale della commedia è costituito da un passo del finale delle Ecclesiazuse (Eccl. 1154–1162), nel quale l’apostrofe ai giudici era peraltro preceduta da uno scherzoso invito a pranzo rivolto a spettatori e giudici (vv. 1141–1148) per certi versi assimilabile all’offerta di vino contenuta nel fr. 101 K.–A. (cfr. supra). 1 τοῖς δὲ κριταῖς Sulle modalità di selezione dei giudici degli agoni (sembra che il collegio fosse composto da dieci membri, ma erano soltanto cinque i voti che determinavano il vincitore) e i criteri adottati per il giudizio le fonti sono

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discordi; frequente doveva essere, a ogni modo, l’esercizio di pressioni sui giudici per influenzare l’esito del concorso (per una trattazione esaustiva delle problematiche relative alle dinamiche che determinavano il vincitore degli agoni rimando a Pickard-Cambridge 1968, pp. 95–99; l’evidente, concreta allusione al contesto agonale contenuta nel frammento si lascia armonizzare con le opinioni argomentate di recente da Farmer 2017, p. 20, per il quale nella commedia «we can see Pherecrates creating a neat parallel between Aeschylus boasting of his importance among tragedians within the fiction of the play, and the chorus boasting of the comic powers of Pherecrates in this metadramatic passage»). 2–4 λέγω / μὴ ’πιορκεῖν μηδ’ ἀδίκως / κρίνειν Analoga espressione in Ar. Eccl. 1160 (μὴ ’πιορκεῖν ἀλλὰ κρίνειν τοὺς χοροὺς ὀρθῶς ἀεί): secondo Sommerstein, si tratta di un riecheggimaneto dela rituale formula di giuramento dei giudici dell’agone (vd. Sommerstein in Sommerstein–Bayliss 2013, p. 118). nella formulazione di Ferecrate, il secondo invito specifica e chiarisce il significato del primo (vd. Olson 2007, p. 112, che inoltre raccoglie i numerosi paralleli aristofanei). Il verbo λέγω con reggenza all’infinito potrebbe assumere il significato di iubere (vd. Conti Bizzarro 1999, p. 127). Il verbo ἐπιορκεῖν indicherà qui l’azione di chi rompe il giuramento prestato, piuttosto che quella di chi giura il falso (così Rehrenböck 1985, p. 116, e Urios-Aparisi 1992, p. 303). 4 ἢ «‘or (else)’, i. e. if they fail to follow this advice» (Olson 2007, p. 112; un buon paralallelo aristofaneo è offerto da Pac. 1315, come segnalato da Kassel e Austin ad loc. [PCG VII, p. 152]) νὴ τὸν φίλιον Zeus philios (protettore dell’amicizia) viene invocato spesso, ad Atene, in contesti simposiali (vd. LIMC VIII.1, 1997, p. 310 s., s. v. ‘Zeus’, e Burkert 2011, pp. 168 e 190; in Diod. fr. 2, 5 K.–A., Zeus philios è considerato l’antesignano di tutti i parassiti: vd. Belardinelli 1998, p. 277 s.; più in generale, per il culto di Zeus philios si veda la bibliografia raccolta in Burkert 2011, p. 168 n. 83); oltre che in testi in prosa, soprattutto Platone (vd. Urios-Aparisi 1992, p. 303), invocazioni a Zeus philios ricorrono di frequente anche in commedia (raccolta di passi in Olson 2002, p. 259). Per quanto non si possa escludere che, data la sua alta frequenza, l’invocazione avesse finito per desemantizzarsi (in questa direzione le osservazioni di Urios-Aparisi 1992, p. 303), nel caso del nostro frammento il coinvolgimento di Zeus philios dipende forse dal contesto nel quale l’invocazione si trova a essere formulata (così, ad esempio, in Ar. Ach. 730, dove un’analoga invocazione, ναὶ τὸν φίλιον, «reflects the speaker’s warm feelings for the place he is seeing again after so long» [Olson 2002, p. 259]). Qui, un riferimento alla divinità tutelare dei legami di amicizia si adatterebbe bene a un contesto, palesemente metateatrale, in cui il poeta, nell’ingiungere ai giudici di far bene il loro lavoro, giudicando rettamente, fa leva, per quanto implicitamente, sui sentimenti di mutua corresponsione che lo legano al suo pubblico (secondo Olson 2007, p. 112, invece, «the phrasing of the threat in 5–7 makes it clear that these remarks were preceded by hostile comments about the judges at a previous festival (in contrast to τοῖς δέ κριταῖς / τοῖς νυνὶ κρίνουσι, ‘the judges judging now’ […]), at which Pherecrates failed to take the

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prize»). Secondo Conti Bizzarro 1999, p. 130, il richiamo alla philia sarebbe da leggere invece come un indizio della volontà di Ferecrate di evitare la violenza verbale tipica di altri commediografi («il comico dichiara programmaticamente di voler evitare, come ha fatto finora, la maldicenza e la blasfemia di Archiloco/Cratino, ma minaccia i giudici dell’agone, perché pronunzino un verdetto equanime, e non lo costringano a recedere dal suo stile pacato»). 5 μῦθον Dei due significati isolati per μῦθος in commedia da Urios-Aparisi 1992, p. 304 (‘speech’ e, più di frequente, ‘story, fiction, fable’), qui è in gioco senza dubbio il primo: il sostantivo sarà da intendere equivalente a ‘parole, discorso’. Per μῦθον λέξαι, ἀντιλέξαι Kassel e Austin segnalano Ar. Lys. 781 e 806. 7 κακηγορίστερον L’aggettivo (le cui rare attestazioni sono raccolte da Urios-Aparisi 1992, p. 303) conserva qui forse qualcosa della sua connotazione giuridica (vd. Urios-Aparisi 1992, p. 69); per la formazione del comparativo (il corrispondente superlativo, κακηγορίστατος, in Ecphant. fr. 6 K.–A., per il quale vd. Bagordo 2014a, p. 97 s.) vd. Rehrenböck 1985, p. 117.

fr. 103 K.–A. (97 K.) Poll. VII 152 (codd. FS, A) σῦκα δὲ τῶν διφόρων ἐν Κραπατάλοις (κραπατάλλοις A, καραπ- FS) Φερεκράτης (εἴρηκεν) Ferecrate nei Krapataloi cita i fichi della qualità dal duplice raccolto

Metro Incerto Bibliografia Runkel 1829, p. 38; Meineke FCG II.1, p. 291; Meineke 1847, I, p. 104; Bothe 1855, p. 98; Kock CAF I, p. 172; Edmonds 1957, p. 242 s.; Rehrenböck 1985, p. 118; Henderson 1991, p. 117 s.; Urios-Aparisi 1992, p. 306; Storey 2011, p. 466 s. Contesto della citazione La citazione nei Krapataloi della varietà di fichi che produce un doppio raccolto annuo ricorre nella sezione dell’Onomasticon di Polluce dedicata alla nomenclatura delle piante e al lessico della frutticultura. Il frammento in questione segue e precede due frammenti tratti entrambi dalle Lēmniai di Aristofane (Ar. frr. 389 K.–A. e 390 K.–A.: vd. Pellegrino 2015, p. 234), nei quali si ricordavano rispettivamente primizie e polloni di altre varietà di fichi. Interpretazione Una varietà di fico δίφορος è menzionata anche da Ateneo (Athen. III p.  77 D), ove si trovano citati Ar. Eccl. 707 s. (ὑμᾶς δὲ τέως θρῖα λαβόντας / διφόρου συκῆς) e Antiph. fr. 196 K.–A. (ἔστιν παρ’ αὐτὴν τὴν δίφορον συκῆν κάτω). Nel passo di Aristofane, come forse anche nel frammento di Antifane (vd. Vetta 1989, p. 212, e Olson 1998, p. 318), la δίφορος συκῆ indica certamente i genitali maschili («an obscene double-entendre: the two “figs” are the testicles, and the addressees are being told to masturbate»: Olson Athenaeus I, p. 433; sulla

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Pherekrates

metafora si vedano inoltre Vetta 1989, p. 212, e Sommerstein 2007, p. 201, nonché Henderson 1991, p. 118: «δίφορος συκῆ […] means the branch from which the twin fruit hang»; quanto a Stratt. fr. 3, 2 K.–A., dove ricorre il verbo συκάζω, vd. Orth 2009, p. 66, e Fiorentini 2017, p. 63 s.). La brevità del frammento non consente, tuttavia, di affermare con sicurezza che un’allusività oscena fosse attiva anche nel perduto contesto di Ferecrate, analogamente a quanto accade, più in generale, ove si diano menzioni del frutto del fico, la cui valenza in contesti comici non si esaurisce certo in modo esclusivo in allusioni ai genitali, tanto maschili quanto femminili («σῦκον […] does not have an obscene sense anywhere else in Old Comedy»: Olson 1998, p. 318; sull’ambivalenza di συκῆ e σῦκον per indicare i genitali maschili e femminili vd. Henderson 1991, p. 117; per un inquadramento generale sul ruolo del fico nell’alimentazione attica vd. almeno Garcia Soler 2001, pp. 111–115). Non credo si possa escludere, ad esempio, che il doppio raccolto annuale dei fichi potesse alludere alla condizione di benessere e di abbondanza tipica dello Schlaraffenland comico, anche oltremondano: una condizione che, come si è detto più volte, doveva far parte del repertorio di motivi ricorrenti della commedia (in questa prospettiva, potrà forse essere opportuno ricordare che fioritura e fruttificazione precoce sono elementi che descrivono il benessere del regno di Filippo II di Macedonia in un frammento di Teopompo di Chio [FGrHist 115 F 273a] citato da Ateneo immediatamente dopo il frammento ferecrateo).

fr. 104 K.–A. (98 K.) Antiatt. δ 36 Valente δυσημερεῖν· Φερεκράτης Κραπατάλλοις ‘avere cattiva fortuna’: Ferecrate nei Krapataloi Metro Incerto Bibliografia Runkel 1829, p. 39; Meineke FCG II.1, p. 296; Meineke 1847, I, p. 106; Bothe 1855, p. 100; Kock CAF I, p. 172; Edmonds 1957, p. 242 s.; Rehrenböck 1985, p. 119; Kassel–Austin PCG VII, p. 210 (ad fr. 245); Urios-Aparisi 1992, p. 565; Storey 2011, p. 467 Contesto della citazione Antiatt. δ 36 Valente.

Il lemma è tràdito, senza ulteriori specificazioni, in

Interpretazione Kassel e Austin rimandano, in calce al frammento, al fr. 245 K.–A. (inc. fab.) dello stesso Ferecrate, una glossa di Fozio (Phot. ε 2172 Theodoridis εὐημερίαν· τὴν εὐδαιμονίαν. καὶ Ξενοφῶν ἐν τοῖς Ἑλληνικοῖς [II 4, 2] καὶ Φερεκράτης) che documenta l’uso di εὐημερία, antonimo del lemma δυσημερία / δυσαμερία, ‘cattiva sorte’ (quest’ultimo attestato, oltre che in prosa, in tragedia: cfr. Aesch. fr. 236 Radt Σφίγγα δυσαμεριᾶν πρύτανιν κύνα; fr. 591, 4–6 Radt βόσκει δὲ τοὺς μὲν μοῖρα δυσαμερίας / τοὺς δ᾽ ὄλβος ἡμῶν, τοὺς δὲ δουλει- /

Κραπάταλοι (fr. 104)

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ας ζυγὸν ἔσχεν ἀνάγκας): per εὐημερία vd. Diggle 1970, p. 111 (ad 91), e Arnott 1996, p. 483. Il fatto che per εὐημερία siano documentate due distinte accezioni, ovvero ‘bella giornata’, ‘giornata di sole’, da un lato, e, dall’altro, ‘buona sorte’ (cfr. Phryn. Praep. soph. p. 67, 12 de Borries εὐημερία δύο σημαίνει· τάττουσι μὲν οἱ ἀρχαιότεροι ἐπὶ τῆς καθαρᾶς καὶ εὐηλίου καὶ φαιδρᾶς ἡμέρας, χρῶνται δ᾽ αὐτῷ καὶ ἐπὶ τῆς εὐπραγίας), porta a non escludere che lo stesso potesse essere, almeno in astratto, per l’antonimo δυσημερία, che però non è attestato, se vedo bene, in accezioni diverse da quella equivalente a ‘cattiva sorte’ della quale si è detto sopra. Diverso, a ogni modo, il discorso quanto alla coppia εὐημερέω / δυσημερέω, che, in assenza di attestazioni alternative, sembra da ricondurre al significato, esclusivo, di ‘avere buona/cattiva sorte’. C’è semmai da chiedersi se passi tragici come quelli citati sopra a documentare l’uso di δυσημερία/δυσαμερία possano far pensare che il verbo corrispondente, δυσημερέω, potesse essere utilizzato, in commedia, in contesti paratragici, il che potrebbe essere, a rigore, anche del nostro frammento: un’ipotesi destinata, ovviamente, a rimanere tale.

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Λῆροι (Lēroi)

(“Ornamenti femminili / Ciarle”) Bibliografia Runkel 1829, p.  40 s.; Bergk 1838, p.  131; Meineke FCG II.1, pp. 296–299; Meineke 1847, I, p. 106 s.; Bothe 1855, p. 100 s.; Kock CAF I, p. 172– 174; Edmonds 1957, pp. 242–245; Urios-Aparisi 1992, pp. 307–319; Quaglia 2001, pp. 348–352; Storey 2011, pp. 466–469; Franchini 2017 Titolo Per quanto la forma plurale del titolo alluda con ogni probabilità ai coreuti, sulla concreta composizione del coro non si possono avanzare che ipotesi (nella discussione che segue ripropongo, in forma rivista e ampliata, quanto ho già discusso in Franchini 2017): quella che attualmente gode di maggior credito è stata formulata a suo tempo da Bergk, il quale immaginava un coro di donne con un abbigliamento caratterizzato da ornamenti eccessivamente vistosi (manifesto inde traxit appellationem, quod chorus mulierum nimiis ornamentis et quasi nugis quibusdam instructus in orchestram procedebat [Bergk 1838, p. 131]). L’idea di Bergk, accolta a vario titolo, tra gli altri, da Kock (CAF I, p. 72), Meineke (FCG II.1, p. 296), Kassel–Austin (PCG VII, p. 152), Urios-Aparisi (Urios-Aparisi 1992, p. 307 s.), Quaglia (Quaglia 2001, p. 352) e Storey (Storey 2011, p. 467) trova riscontro nelle testimonianze lessicografiche fornite da Hesych. λ 95 (ληροί· τὰ περὶ τοῖς γυνακείοις χιτῶσι κεχρυσωμένα) e Phot. λ 280 Theodoridis (λῆροι· κόσμος γυναικεῖος χρυσοῦς; il testo stampato da Theodoridis ripristina la forma λῆροι, unanimemente tràdita dai manoscritti, contro il congetturato ληροί, accolto sulla scorta della variante ossitona trasmessa da Esichio); l’utilizzo del sostantivo in contesti comici, d’altronde, è ricordato da Polluce (Poll. V 101 καὶ ἄλλους δέ τινας κόσμους ὀνομάζουσιν οἱ κωμῳδοδιδάσκαλοι, λῆρον, ὀχθοίβους, κτλ.). Il significato di ‘ornamento femminile’, ad ogni modo, non è l’unico attestato: in commedia, infatti, la parola λῆρος ricorre frequentemente con il significato di ‘chiacchiera sterile’, ‘ciarla’, ‘nonsense’, e deriva da una radice, ricostruita da Beekes (Beekes 2010 s. v. λῆρος 1, p. 858) a partire da una radice onomatopeica */leh2-/ (‘urlo’), che risulta peraltro particolarmente produttiva (cfr. p. es. i sostantivi ληρώδης, ληρωδία, ληρώδημα e i verbi ληρέω e ληρωδέω. Frisk [GEW II, s. v. λῆρος 1, p. 118], Chantraine [DELG III s. v. λῆρος 1, p. 637 s.] e il già citato Beekes ritengono peraltro possibile una connessione con la radice *lā-, a cui può essere ricondotto un gruppo piuttosto nutrito di parole diffuse in numerose lingue indeuropee). L’oscillazione tra le forme di accentazione properispomena e ossitona non è indicativa di uno slittamento semantico, come sostenuto da Urios-Aparisi 1992, p. 307 s. (ma prima di lui già da Chandler 1881, p. 280): ληρός costituisce infatti una variante della forma rubricata da Beekes come λῆρος 2 (‘golden ornament on women’s clothes’), mentre nel caso in cui il sostantivo designi la chiacchiera a vanvera, o comunque qualcosa di roboante o vistoso, ma privo di reale efficacia (‘trash, trumpery, of what is showly but useless’, LSJ9, o meglio ancora ‘vains bavardages’, come traduce Chantraine, DELG III s. v. λῆρος 1; appare dunque non necessaria, per inciso, la congettura τραγικὸν ληρόν di Radermacher in luogo del tràdito

Λῆροι

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τραγικὸν λῆρον di Ar. Ran. 1005: Aristofane avrebbe potuto benissimo alludere al ‘tragico’ ornamento utilizzando la forma λῆρον. Per una disamina del passo e delle sue possibili interpretazioni vd. Del Corno 1985 ad loc., p. 216, Dover 1993, p. 317 s. [ad 1004 s.] e Beta 2004, p. 168 s.), l’accentazione è sempre properispomena. L’oscillazione di accento tra le forme properispomena e ossitona del sostantivo attestata nelle fonti riguarda dunque in maniera esclusiva il secondo significato, che non sembra avere punti di contatto con il primo sul piano etimologico. L’alternanza tra le due forme diversamente accentate non sembra rispondere neppure a variabili cronologiche e nessuna univoca conclusione può essere tratta in tal senso: anche se alcune attestazioni più tarde (Esichio e AP VI 92, 2) presentano la forma ληρός, Fozio (cfr. supra) e Luc. Lex. 9 (con il relativo scolio, p. 198, 20 Rabe) conservano l’accentazione properispomena. In quest’ultimo significato, ad ogni modo, il sostantivo è talmente diffuso da rendere superflua la menzione di loci paralleli (una rassegna critica delle occorrenze più significative è offerta da Kidd 2014, p. 20 n. 18); è opportuno, piuttosto, notare che il suo utilizzo appare particolarmente pregnante in contesti comici (del tutto condivisibili appaiono, in tal senso, le lucide osservazioni di Beta 2004, pp. 135, 141 e 168 s., a proposito di Ar. Nub. 359 e Ran. 923 s. e 1482–1490; sul valore del termine si veda anche Lech 2012). Il che detto, tanto λῆρος quanto ληρός possono essere ritenuti adeguati a evocare le prerogative proprie dei componenti di un coro comico. Ove si accolga la derivazione dal sostantivo indicizzato da Beekes come λῆρος 1 si potrà immaginare un coro composto da coreuti che dovevano impersonare, più verosimilmente per via di metafora, referenti incorporei e astratti, oltre che vani e fumosi, in termini forse simili a quelli che servono a caratterizzare il coro delle Nuvole di Aristofane. Accogliendo l’ipotesi di Bergk, invece, i λῆροι a cui il titolo della commedia alluderebbe saranno da identificare con gli ornamenti di vesti femminili attestati, oltre che nei passi letterari già citati, anche in un’iscrizione di Delfi (IG VII 2421, in cui compare la forma beotica λειρος; vd. Frisk GEW II, s. v. λῆρος 2, p. 118, Chantraine DELG III s. v. λῆρος 2, p. 637 s. e Beekes 2010 s. v. λῆρος 2, p. 858; l’ipotesi di una diretta derivazione di λῆρος ‘ornamento’ da λῆρος ‘ciarla’, avanzata da Frisk e Chantraine, è ritenuta, credo giustamente, «rather improbable» da Beekes). In relazione alle due possibilità evidenziate, non mi pare condivisibile la scelta di Edmonds che traduce il titolo della commedia come ‘stuff and nonsense’, sdoppiando il plurale greco in due singolari e proponendo poi in nota la traduzione alternativa ‘tinsel’ (Edmonds 1957, p. 244). Resta impossibile stabilire, inoltre, se i Lēroi costituissero il possibile modello delle perdute Nugae di Plauto, come sembrerebbe suggerire una testimonianza di Nonio (Non. 144,30 nugivendos Plautus dici voluit omnes eos qui aliquid mulieribus vendant. Nam omnia quibus matronae utuntur nugas voluit appellari; il composto nugivendus è stato talora utilizzato per correggere lo hapax plautino nugigerulis di Aul. 525: vd. PCG V, p. 153). I due significati di λῆρος non esauriscono, ad ogni modo, il campo dei possibili riferimenti utili per l’identificazione dei coreuti della commedia: mi sembra che siano sinora sfuggite, infatti, le attestazioni di λῆρος aggettivo, affioranti anche in

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Pherekrates

parte della tradizione erudita e lessicografica. L’aggettivo λῆρος, infatti, è attestato da Esichio (Hesych. λ 96: λῆρος· μάταιος, γλύαρος, ψεύστης), in Lex. Bachm. p. 290, 15 = Synag. λ 92 Cunningham (λῆρος· γλύαρος, ματαιόφημος) e in Suid. λ 469: un’attestazione, quest’ultima, complicata dal fatto che, subito oltre il consueto interpretamentum sinonimico (λῆρος· γλύαρος, ματαιόφημος), il testo procede con una sequenza, πολλὰ γάρ μοι ταῦτα καὶ ἐκ μειρακίων ἐδόκει λῆροί τε καὶ φλήναφοι, che, pur difficile da intendere, doveva però evidentemente servire a testimoniare l’occorrenza non della forma aggettivale, ma di quella sostantivale. La stessa sequenza testuale ricorre anche in Suid. χ 480, dove però, rispetto al testo di λ 469, al posto di πολλὰ γάρ compare πάλαι γάρ (χρηματίζεσθαι· πλοῦτειν. οὐδὲ χρηματίζομαι· πάλαι γάρ μοι ταῦτα καὶ ἐκ μειρακίων ἐδόκει λῆροί τε καὶ φλήναφοι). La pericope di testo in questione costituiva, secondo Hercher, la continuazione di una porzione di testo di Eliano citato da Suid. θ 472 (Aelian. fr. 27 Hercher = fr. 30 Domingo-Forasté), mentre Domingo-Forasté preferisce attribuire a Eliano solo il materiale tràdito nell’interpretamentum di Suid. θ 472, tralasciando quindi il passo che contiene l’attestazione di λῆρος. Oltre che nei lessicografi, inoltre, l’aggettivo è attestato anche in Luc. Gall. 6, dove Omero è definito λῆρον ἐκεῖνον ποιητήν e negli scolii lucianei a Ap. 10 (p. 236, 13 Rabe). In conclusione, dalla tradizione lessicografica ed erudita emerge un quadro piuttosto complesso che, in mancanza di ulteriori indicazioni non consente di raggiungere conclusioni certe a proposito della fisionomia complessiva della commedia (i frammenti superstiti non appaiono, in tal senso, significativi, né la vaga e generica attinenza a tematiche inerenti al lusso e alla sua ostentazione riscontrata in alcuni di essi può essere considerata elemento dirimente: vd. Urios-Aparisi 1992, p. 307 s. e Storey 2011, p.  467). In particolare, per quanto concerne il coro, non è possibile ricostruirne la composizione, anche se l’idea che esso fosse composto da ‘uomini che parlano a vanvera’ (analogamente a quanto avveniva, forse, nei Krapataloi: vd. supra) non può essere esclusa. Contenuto Non possediamo indicazioni che consentano di ricostruire la trama della commedia: la menzione di profumi (fr. 105 K.–A.), elenchi di indumenti e ornamenti femminili (fr. 106 K.–A.) e allusioni al cibo (frr. 107 e 109 K.–A.) ricorrono spesso in contesti comici e sono perciò poco utili in tal senso. Datazione I frammenti superstiti non conservano elementi utili per la datazione della commedia. fr. 105 K.–A. (101 K.) ἔστην δὲ κἀκέλευον † ἐγχέασθαι νῷν μύρον † βρένθειον, ἵνα τοῖς εἰσιοῦσιν ἐγχέῃ 1 ἔστην δὲ καὶ / ἐκέλευον 〈αὐτὸν〉 Dobree 1843, II, p.  353: ἔστη Bothe 1855, p. 101 ενχεασθαι νων μὺρον A: ἐγχέασθε νῶιν Meineke FCG II.1, p. 298: ἐγχέασθε

Λῆροι (fr. 105)

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νῶιν {μύρον} Meineke 1847, I, p. 106 s.: ἐγχέαι τι νῷν aut ἐγχέαι τινά aut potius ἐγχέαι μύρον Blaydes 1896, p. 286 (ἐγχέαι μύρον Blaydes 1896, p. 22) 2 βρένθιον A: corr. Dobree 1843, II, p. 353 ἐγχέῃ A: ἐγχέω, μύρον FCG II.1, p. 298: ἐγχέω Meineke 1847, I, p. 106: ἐγγυῶ Bothe 1855, p. 101: εἰσιοῦσι μεταδιδῶ Kock CAF I, p. 173

Dritto in piedi ordinavo †di versare per noi due del profumo† brentheion, affinché lo versasse su coloro che entravano Athen. XV p. 690 D βρενθείου δὲ μύρου μνημονεύει Φερεκράτης (defic. CE) ἐν Λήροις οὕτως· ἔστην — ἐγχέῃ del profumo brentheion fa menzione Ferecrate nei Lēroi in questo modo: dritto — entravano.

Metro Trimetro giambico (v. 1 corrotto)

llkl klk|†l klllkl† llkkk llkl klkl

Bibliografia Runkel 1829, p. 40 (fr. IV); Meineke FCG II.1, p. 298; Dobree 1843, II, p. 353; Meineke 1847, I, p. 106 s.; Bothe 1855 p. 100 s.; Kock CAF I, p. 173; Blaydes 1896, p. 286; Edmonds 1957, p. 244 s.; Conti Bizzarro 1988–1989, p. 286 s.; Urios-Aparisi 1992, pp. 309–311; Quaglia 2001, pp. 352–356; Storey 2011, p. 466 s. Contesto della citazione Nella sezione dei Deipnosofisti dedicata ai profumi (Athen. XV pp. 686 C - 692 F, con elencazione dei diversi nomi di profumi in 690 A–691 C), Ateneo riporta come attestazione del profumo brentheion il frammento di Ferecrate e una citazione da Saffo, riconducibile al fr. 94, 19–20 V., ove assieme al brentheion è menzionato anche un altro tipo di profumo, il basileion (per il quale, subito prima, Ateneo aveva addotto anche Cratet. fr. 2 K.–A. [Geitones]); i due passi di Ferecrate e di Saffo costituiscono le più antiche attestazioni superstiti del termine. Testo Il testo del frammento è trasmesso da Ateneo in una forma problematica sia sul piano prosodico sia, più in generale, in relazione alla costruzione e alla struttura sintattica: indizio di corruttela è la mancanza nei codici dell’accentazione in ενχεασθαι νων (cfr. Arnott 2000, p. 44 con bibliografia); più nel complesso, le difficoltà di interpretazione sembrano spia di uno o più guasti testuali pervasivi e profondi. Ad ogni modo, nessuna delle congetture proposte a sanare il testo risulta pienamente efficace e convincente. Per quanto concerne il metro, il frammento presenta un assetto, tendenzialmente giambico, che ha in genere spinto gli studiosi che se ne sono occupati a restaurare, ove possibile, due trimetri consecutivi, con l’unica eccezione di Dindorf (v. infra), il quale stampava invece un testo continuo proponendone in apparato, pur dubitativamente, un’articolazione in tetrametri (fortasse tetrametri fuerunt); 1) Jacobs 1809, p. 363: ἔστην δὲ κἀκέλευον ἐγχεῖσθαι μύρον / νῷν βρένθιον ἵνα τοῖς ἰοῦσιν ἐγχέῃ;

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2) Dindorf 1827, p. 1538: ἔστην δὲ κἀκέλευον ἐγχέασθαι / νῷν βρένθιον μύρον, ἵνα τοῖς ἰοῦσιν ἐγχέῃ τις; 3) Dobree 1843, II, p. 353: καὶ / ἐκέλευον (αὐτὸν) ἐγχέασθαι νῷν μύρον / βρένθειον, ἵνα τοῖς εἰσιοῦσιν ἐγχέῃ; 4) Meineke FCG II.1, p. 298 (ove tanto il restauro di Jacobs quanto quello di Dindorf vengono espressamente scartati): ἔστην δὲ κἀκέλευον, ἐγχέασθε νῷν / βρένθειον, ἵνα τοῖς εἰσιοῦσιν ἐγχέω, μύρον; Meineke 1847, I, p. 106: ἔστην δὲ κἀκέλευον ἐγχέασθε νῷν / βρένθειον, ἵνα τοῖς εισιοῦσιν ἐγχέω. Nella prima edizione, dunque, lo studioso spostava μύρον alla fine del frammento, una scelta, questa, ripresa più tardi in Meineke 1867, p. 337, ma non del tutto chiara (μύρον compare stampato senza soluzione di continuità dopo ἐγχέω, sullo stesso rigo), che Kassel e Austin (PCG VII, p. 153) interpretano intendendo μύρον come la parola iniziale del terzo trimetro (Meineke […] μύρον in init. tertii versus transposuerat); nella seconda, invece, μύρον viene considerato alla stregua di una glossa e espunto; 5) Blaydes 1896, p. 22: ἔστην δὲ κἀκέλευον ἐγχέαι (vel αἴρειν μοι) μύρον; ibid. p. 286 ἔστην δὲ κἀκέλευον ἐγχέαι τι νῷν aut ἐγχέαι τινά aut potius ἐγχέαι μύρον. Sul piano del senso, inoltre, crea una certa difficoltà il brusco passaggio dalla prima persona singolare dell’imperfetto alla terza singolare del congiuntivo nel secondo verso, perché non appare immediatamente comprensibile la circostanza per cui qualcuno possa ordinare di versare per sé e per un suo accompagnatore il profumo affinché qualcun altro lo versi, a sua volta, τοῖς εἰσιοῦσιν: Meineke (FCG II.1, p. 298 e 1847, I, p. 106) tentava di aggirare il problema mutando il tràdito ἐγχέῃ in ἐγχέω, mentre le congetture ἐγγυῶ di Bothe 1855, p. 101, e εἰσιοῦσι μεταδιδῶ di Kock CAF I, p. 173, mirano evidentemente a evitare la ripetizione (a mio parere per nulla problematica, invece) del verbo ἐγχέω all’interno dello stesso giro di frase; in tal senso, non mi paiono condivisibili le obiezioni di Urios-Aparisi 1992, p. 310, perché una simile ripetizione ricorre anche in Ar. Vesp. 616 s., dove le attestazioni del verbo ricorrono entrambe al medio, sebbene nella prima venga conservato il significato assoluto (cfr. infra ἐγχέῃ). Interpretazione La persona loquens del frammento fa riferimento a se stessa, al fatto di stare in piedi (ἔστην) e di aver ordinato (κἀκέλευον) a qualcuno (?) di versare del profumo βρένθειον, pur restando incerto il senso della sequenza racchiusa tra cruces al termine del primo verso, così come il legame con la proposizione finale del secondo verso (ἵνα τοῖς εἰσιοῦσιν ἐγχέῃ) in cui appare esservi un cambio del soggetto di non ovvia comprensione (cfr. supra Testo); la brevità del frammento e i guasti testuali non consentono di ricostruire, neanche per via di ipotesi, il contesto da cui il passo proviene, né tantomeno di stabilire chi fossero i personaggi chiamati in causa e il luogo al quale accedevano gli εἰσιόντες di v. 2. Come già notato da Urios-Aparisi 1992, p. 309, l’utilizzo di profumi trova riscontro in numerosi momenti della vita quotidiana greca in generale e ateniese in particolare, ma per quanto concerne la commedia il prevalente contesto di utilizzo è il simposio. Non è del resto da escludere che lo sfondo del frammento sia da intravvedere in una bottega di profumeria presentata, topicamente, come un

Λῆροι (fr. 105)

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luogo simbolico di «moral decadence»: così Urios-Aparisi (ibid.), il quale rimanda a due ulteriori frammenti di Ferecrate, il fr. 2 K.–A. e il fr. 70 K.–A. (ma Aristofane presenta almeno un luogo, Eq. 1375 s., τὰ μειράκια ταυτὶ λέγω τἀν τῷ μύρῳ, / ἃ τοιαδὶ στωμύλλεται καθήμενα, che è, da questo punto di vista, esemplare; cfr. anche Ar. Eccl. 302 s. Palesemente errata, sia detto en passant, la traduzione proposta da Urios-Aparisi 1992, p. 310, per l’incipit del frammento: «and he ordered us to pour Brentheian perfume for both of us in a jar», una svista già presente in Bothe 1855, p. 100, ove il sintagma si presenta tradotto con stabatque imperans). Sulla presenza di profumi e aromi in commedia vd. anche Squillace 2014, pp. 43–49. μύρον Di etimo incerto, forse connesso con σμύρνα (GEW, DELG, Beekes 2010 s. v.), in generale il sostantivo può identificare tanto il profumo, come certamente nel caso del nostro frammento, quanto la bottega del profumiere: per il primo significato cfr. p. es. Ar. Lys. 946 e Eccl. 524, mentre il secondo ricorre p. es. in Ar. Eq. 1375 e Pherecr. fr. 2 K.–A. (vd. Urios-Aparisi 1992, p. 78). Per μύρον in commedia si veda inoltre la nota di Papachrysostomou 2016, p. 72, a Amph. fr. 9, 4 K.–A. βρένθειον L’origine floreale del brentheion mi pare garantita dall’evidente legame etimologico con il βρένθον ricordato da Hesych. β 1099 (βρένθον· μύρον τι 〈τῶν παχέων〉, ὡς βάκκαρις. οἱ δὲ ἄνθινον μύρον. καὶ ὄρνεον βρένθος, ὅπερ ἔνιοι κόσσυφον λέγουσιν; sulla polisemicità che emerge dalla glossa esichiana e sulla ricorrenza di altri sostantivi corradicali si vedano le osservazioni di Beekes 2010 s. v. βρένθον) ed è attestata anche dallo scoliasta a Clem. Alex. Paed. II 64 βρένθιον ἀπὸ τινος ἄνθους ἡδέος, vd. anche Urios-Aparisi 1992, p. 310 («probably it had some relationship with βρενθινά ‘roots used by women to make face-paint (LSJ)’») e Quaglia 2001, p. 356. In relazione all’attestazione in Saffo fr. 94, 19–20 V., si è molto discusso se il termine debba essere considerato un aggettivo (‘costly’, LSJ9) o un nome proprio indicante una particolare qualità di profumo, vd. Lobel–Page 1955, p. 75, Page 1955, p. 79, e Degani–Burzacchini 2005, p. 161. La seconda ipotesi, tuttavia, appare più plausibile e maggiormente in linea con il contesto della presentazione fornita da Ateneo: mi sembra più probabile, infatti, immaginare che quest’ultimo abbia inteso inserire all’interno della sezione in cui sono elencate varie e diverse tipologie di profumi (smyrna, bakkaris, sagdas, ecc.), piuttosto che un cenno a un generico profumo ‘prezioso’, un ulteriore esempio di profumo definito e ben identificabile (così anche Urios-Aparisi 1992, p. 310). In questa direzione spingono, inoltre, diverse attestazioni di βρένθειον / βρένθιον nelle fonti di carattere erudito: cfr. p. es. Phot. Bibl. p. 532a, 41 Bekker (γέγονε δὲ ἀπὸ τοῦ βρένθιον, ὅ ἐστι μύρον· οἱ γὰρ ἀλαζονευόμενοι καὶ βρενθυνόμενοι μύρῳ χρῆσθαι εἰώθεσαν, una evidente paretimologia per spiegare la polisemicità della radice βρένθ-, cfr. supra) e Eust. in Il. II, 521 (ἐξ οὗ τὸ βρένθειον, μῦρόν τι ἐκεῖνο περιᾳδόμενον). τοῖς εἰσιοῦσιν Il verbo ha il valore generico di ‘entrare’ in un luogo (LSJ9 s. v., DGE s. v.). Il fatto, notato da Urios-Aparisi 1992, p. 310 s., che il participio del verbo assuma specifiche valenze sulla base del contesto (teatrale, giudiziario)

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in cui ricorre («it is a formula that designates special occasions: ‘to come on stage’ of a chorus or an actor (cf. Pl. Resp. 580b), ‘to come into the assembly’ or ‘to come before the court’») non aiuta in alcun modo a ricostruire il perduto contesto del nostro frammento. ἐγχέῃ Utilizzato al medio e in senso proprio, il verbo può conservare il significato assoluto di ‘versare’ in un recipiente, ‘pour in’ (LSJ9 s. v.) o acquisire una sfumatura di interesse, vd. LSJ9, DGE s. v. ἐγχέω. Attivo e medio sono documentati in Ar. Vesp. 616 s. in due versi consecutivi: κἂν οἶνόν μοι μὴ ‘γχῇς σὺ πιεῖν, τὸν ὄνον τόνδ’ ἐσκεκόμισμαι / οἴνου μεστόν, κᾆτ’ ἐγχέομαι κλίνας· οὗτος δὲ κεχηνὼς, un passo, per il quale vd. Biles–Olson 2015, p. 281, che dovrebbe sconsigliare dall’intervenire sul pur corrotto testo tràdito per eliminare la ripetizione del verbo (vd. Conti Bizzarro 1988–1989, p. 287).

fr. 106 K.–A. (100 K.) μίτραν ἁλουργῆ, στρόφιον, ὄχθοιβον, κτένα mitra di porpora, fascia per il seno, frangia, pettine Phot. ο 743 Theodoridis ὄχθοιβος· λῶμα. Φερεκράτης Λήροις· μίτραν — κτένα

ochthoibos: frangia. Ferecrate nei Lēroi: mitra — pettine Metro Trimetro giambico

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Bibliografia Runkel 1829, p. 41; Meineke FCG II.1, p. 296; Meineke 1847, I, p. 106; Bothe 1855, p. 100; Kock CAF I, p. 172 s.; Edmonds 1957, p. 242 s.; UriosAparisi 1992, pp. 311–313; Quaglia 2001, pp. 356–358; Storey 2011, p. 468 s. Contesto della citazione Il frammento è citato a documentazione dell’uso di ὄχθοιβος, ‘frangia’; la citazione del frammento dei Lēroi è conservata dal solo Fozio, mentre il lemma compare in altre raccolte lessicografiche, oltre che in Polluce (V 101 e VII 95), che fa riferimento, in entrambi i passi (richiamati da Theodoridis 2013, p. 133 come paralleli per la glossa di Fozio), alla ricorrenza di ὄχθοιβος in Ar. fr. 332, 2 K.–A. (Thesmophoriazousai b, su cui vd. Pellegrino 2015, p. 206 s.); cfr. anche Phot. ο 744 Theodoridis ὀχθοίβους∙ τὰ λώματα. ἔστι δὲ περὶ το στῆθος τοῦ χιτῶνος ἀλουργὲς πρόσραμμα, con cui vengono raffrontati ad es. Hesych. ο 233 ὄχθοιβοι· περιάπτειν τινὰ εἰώθασι περὶ τοὺς χιτῶνας, ἃ καλοῦσιν ὀχθοίβους· εἰσὶ δὲ τὰ λεγόμενα λώματα, Et. gen. AB s. v. ὄχθοβος∙ τὸ λῶμα τὸ γυναικεῖον ὑπὸ Ἀττικῶν ὄχθοβος λέγεται, cfr. Thedoridis 2013, p. 133 (in apparato a Phot. ο 744).

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Interpretazione Il verso presenta un’accumulazione asindetica composta da quattro elementi (sul ruolo dell’accumulazione in commedia Spyropoulos 1974, spec. p. 112 s. e Silk 2000, passim): i primi tre sono capi di vestiario femminile, mentre l’ultimo (il pettine) potrebbe nascondere un’allusione oscena (vd. infra ad κτένα); Meineke FCG II.1, p. 296, numerava il frammento come il primo della commedia, perché a suo avviso esso fabulae titulum explicare videbatur. Difficile stabilire se l’accumulazione si esaurisse nella pericope di testo conservata o se invece il frammento conservi solo una sezione di un elenco più lungo; il parallelo più vicino al frammento in questione sembra essere il lungo frammento delle Tesmoforiazuse seconde di Aristofane (Ar. fr. 332 K.–A.) conservato da Poll. VII 95 (cfr. supra Contesto della citazione) e da Clem. Alex. paed. II.124, 1, nel quale appaiono citati, tra gli altri elementi, ὀχθοίβους, μίτρας e στρόφον: cfr. su questo frammento Pellegrino 2015, pp. 206–208 e Austin–Olson 2004, p. LXXVIII s. (per una bibliografia recente sulla commedia, insieme alla traduzione dei frammenti superstiti). Analogo sembra anche Nicostr. fr. 32 K.–A. (inc. fab.) citato da Clem. Alex. paed. II.123, 3 (poco prima, quindi, del fr. 332 K.–A. di Aristofane [vd. supra], e nel medesimo contesto), cfr. Kassel–Austin PCG VII, p. 91 e, per altri esempi di elenchi in commedia, vd. i casi e le differenti categorie di oggetti citati da Urios-Aparisi 1992, p. 311, il quale rileva che «the comic effect was not only in the quantity of different elements mentioned, but also in their disposition throughout the lines»; più in dettaglio, Arnott 1996, p. 224 s. (con riferimenti bibliografici). μίτραν ἁλουργῆ Il sostantivo μίτρα (forse connesso con una radice sanscrita e con l’analogo nome del dio Mitra, v. GEW, DELG s. v.), attestato sin da Omero, indica oggetti di vestiario diversi a seconda del contesto cronologico di riferimento, cfr. Beekes 2010 s. v. μίτρα, p. 959. In età classica la mitra era un copricapo formato da diverse bende o da una lunga fascia che copriva quasi completamente la capigliatura (vd. Prato 2001, p. 207, e Austin-Olson 2004, p. 111, con ricca bibliografia, sulla forma e sul suo impiego); utilizzato prevalentemente da donne (costituisce, infatti, un elemento chiave del travestimento femminile in Ar. Thesm. 257 e 941) e comune tra i popoli orientali (Hdt. I 95; VII 62, 90; Eur. Hec. 924; Bacch. 833) era un chiaro segno di effeminatezza, come si evince dai già citati passi delle Tesmoforiazuse, ma ricorre tuttavia anche in relazione ad atleti vincitori o in contesti simposiali, cfr. Urios-Aparisi 1992, p. 311 s. (con bibliografia). ἁλουργῆ ‘Genuine purple dye’ (LSJ 9 s. v.). Secondo la descrizione di Plat. Tim. 68c, ἐρυθρὸν δὲ μέλανι λευκῷ τε κραθὲν ἁλουργὸν; in Arst. de sensu 40 è considerato uno dei colori dell’arcobaleno e annoverato tra gli ἥδιστα τῶν χρωμάτων, cfr. in part. André 1949, p. 13. Nei poemi omerici è associato al color porpora come connotazione di nobiltà (Θ 221) e tale valore permane anche in epoca classica e si deve, verisimilmente, alla particolare laboriosità della sua produzione, v. Blümner 1912, pp. 224–227, Urios-Aparisi 1992, p. 312. στρόφιον Morfologicamente diminutivo di στρόφος, indica «a broad band of cloth worn by women (…) to provide support for the breasts, rather like the

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modern bra», Austin-Olson 2004, p. 102; su forma e utilizzo dell’ornamento vd. anche Quaglia 2001, p. 357 s. Per l’impiego, frequente, di diminutivi in Ferecrate, vd. Quaglia 2003b, p. 264; più in generale, sull’utilizzo di diminutivi in commedia vd. Willi 2003, pp. 171, 187 e 219 (le cui conclusioni sono riprese in Willi 2010, p. 484, § 10.1). Il sostantivo στρόφιον ricorre frequentemente in Aristofane, cfr. Thesm. 139, 251, 255 e 638 (secondo Prato 2001, p. 206, nelle attestazioni dei vv. 251 e 255 il termine potrebbe indicare più genericamente una fascia di tessuto; mi sembra interessante notare, tuttavia, che nel passo in questione lo στρόφιον è citato, come nel nostro frammento, contestualmente alla mitra), Lys. 931, fr. 664 K.–A. ὄχθοιβον Il sostantivo ricorre in passi letterari solamente in questa attestazione di Ferecrate e in Ar. fr. 332, 2 K.–A. (Thesmoforiazousai b), ma è ben documentato nella tradizione lessicografica, dalla quale dipendono anche le due occorrenze comiche, cfr. supra Contesto della citazione; la parola è attestata anche in un’iscrizione attica IG I3 387, 35 ὄχθοιβοι χρυσία ἔχοντες, dove tuttavia sembra avere un significato diverso, ‘neckband’, LSJ9 s. v., vd. Kretschmer in KretschmerKroll-Nehring 1928, p. 169 e Beekes 2010 s. v. ὄχθοιβος, p. 1137. Il sostantivo ha forse un’origine pre-ellenica (DGE, DELG, Beekes 2010 s. v. ὄχθοιβος, p. 1137) ed è definito, nell’interpretamentum più esaustivo, una frangia che decorava il chitone femminile all’altezza del petto: Phot. ο 744 Theodoridis ὀχθοίβους· τὰ λώματα· ἔστι δὲ περὶ τὸ στῆθoς τοῦ χιτῶνος ἁλουργὲς πρόσραμμα; le altre attestazioni in ambito lessicografico relegano con più chiarezza l’ὄχθοιβος alla sfera femminile del vestiario, cfr. supra Contesto della citazione. La colorazione di porpora prova che la frangia costituiva, come la mitra citata a inizio verso, un ornamento di lusso. κτένα Il pettine non è propriamente né un indumento né un articolo di lusso, ma la sua presenza non è certamente fuori luogo in un elenco di oggetti attinenti alla sfera femminile. La posizione di κτένα in fine di verso (e forse, se la lista di oggetti doveva esaurirsi nel verso tràdito, in fine di accumulazione) sembra rispondere a un criterio retorico definito da Spyropoulos 1972, p. 132 s. εὐτελισμός: l’elemento finale banale e insignificante parrebbe infatti stridere fortemente con gli oggetti lussuosi che erano stati precedentemente elencati; in alternativa, κτείς potrebbe essere funzionale a una chiusura per aprosdoketon dell’accumulazione. Meno convincente appare invece l’ipotesi che κτένα possa indicare i genitali femminili come propone Urios-Aparisi 1992, p. 133 (cfr. Henderson 1991, p. 132 n. 130 per le attestazioni di κτείς con valenza oscena, nessuna delle quali, ad ogni modo, ricorre in contesto comico).

Λῆροι (fr. 107)

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fr. 107 K.–A. (102 K.) ὡς οὐχὶ τουτὶ ῥύγχος ἀτεχνῶς ἐσθ’ ὑός che/perché questa cosa qui non è affatto un muso di porco Athen. III p. 95 D (ῥύγχος) Φερεκράτης Λήροις· ὡς — ὑός

(rhynchos) Ferecrate nei Lēroi: che — porco Metro Trimetro giambico

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Bibliografia Runkel 1829, p. 40; Meineke FCG II.1, p. 296; Meineke 1847, I, p. 106; Bothe 1855, p. 100; Kock CAF I, p. 173; van Leeuwen 1901, p. 126; Edmonds 1957 p. 243 s.; Conti Bizzarro 1988–1989, p. 287; Urios-Aparisi 1992, pp. 311–313; Quaglia 2001, pp. 358–360; Olson 2002, p. 262; Storey 2011, p. 468 s. Contesto della citazione In Athen. III p. 94 C vengono introdotti sulla tavola una serie di differenti piatti di carne, il che dà luogo a una discussione sulle diverse parti delle carni animali; il verso di Ferecrate è riportato da Ateneo all’interno di un lungo dossier di attestazioni della parola ῥύγχος. Nella pericope di testo che adduce il frammento in questione (dedicata all’uso proprio del sostantivo, che indica il muso del maiale: l’uso metaforico e traslato è discusso invece a III p. 95 E), Ateneo cita o allude a molti altri frammenti, in buona parte tratti da autori comici: Alex. fr. 115 K.–A. (Krateia ē Pharmakopōlē, per il quale rimando a Stama 2016, pp. 230–234), Teophil. fr. 8 K.–A. (Pankratiastēs), Anaxil. frr. 11 (Mageiroi), 13 (Kirkē) e 19 K.–A. (Kalypsō), Axion. fr. 8 K.–A. (Chalkidikos) e Ar. fr. 478 K.–A. (Proagōn; qui il muso del maiale compare in una probabile parodia del Tieste euripideo, vd. Pellegrino 2015, p. 278 s.). Interpretazione La brevità del frammento e il taglio della citazione, non coincidente con le pause logiche del testo, non consentono di ricostruire con certezza il contesto del verso e incerto è anche il valore di ὡς incipitario, inteso in modi di volta in volta differenti: secondo Kock CAF I, p. 173 la subordinata avrebbe un valore dichiarativo, mentre Edmonds 1957, p. 244, traduce il frammento con «for this is simply not a porker’s snout» (analogamente anche Storey 2011, p. 469 «since this is definitely not the snout of a pig»); diversamente, Conti Bizzarro 1988–1989, p. 287, corregge, a mio avviso senza necessità, in πῶς il tràdito ὡς e propone un’interpunzione πῶς δ᾽ οὐχί; κτλ., cfr. infra per l’esegesi del verso. Per quanto concerne, invece, l’interpretazione del frammento, sono state avanzate ipotesi differenti. Proponendo un parallelo con Ar. Ach. 768 ss., Kock CAF I, p. 173, riteneva che il frammento appartenesse a una scena analoga all’episodio della vendita delle figlie-scrofe da parte del Megarese, mentre secondo van Leeuwen 1901, p. 126 (ad Ach. 744), versus dapum Thyestearum fortasse habet

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parodiam, ma, come osserva anche Quaglia 2001, p. 359, nessun elemento del verso incoraggia una lettura in chiave paratragica. Riprendendo un’ipotesi di Conti Bizzarro 1988–1989, p. 287 («si tratta verosimilmente di una facezia sul πρόσωπον di qualche attore»), da ultimo Urios-Aparisi 1992, p. 313 s. propone di cogliere nell’espressione ῥύγχος ὑός «an ironical remark about a human nose […]. In our case someone would defend his own or someone’s else nose from this ridicolous comparison». Rispetto a entrambe le ipotesi va però notato il fatto che Ateneo inserisce esplicitamente il nostro frammento nella sezione dedicata alle attestazioni di ῥύγχος in senso proprio, raccogliendo invece successivamente le attestazioni dell’uso metaforico: cfr. Athen. III p. 95 E (ὅτι δὲ κυρίως λέγεται ῥύγχος ἐπὶ τῶν συῶν προείρεται. ὅτι δὲ καὶ ἐπ’ ἄλλων ζῴων Ἄρχιππος Ἀμφιτρύωνι δευτέρῳ κατὰ παιδιὰν εἴρηκε καὶ ἐπὶ τοῦ προσώπου οὕτως κτλ.); per l’uso metaforico di ῥύγχος si veda anche Taillardat 1962 (§79, p. 68), Imperio 1998a (p. 204), Miccolis 2017 (p. 40 s. ad Archipp. fr. 1 K.–A. [Amphitryōn a b]); più in generale, sulle connotazioni che il maiale assume in contesti comici vd. Taillardat 1962, §451, p. 254 (ignoranza) e Henderson 1991, p. 132 § 114. Non mi pare da escludere, dunque, che la menzione del ῥύγχος ὑός debba essere interpretata, qui, in chiave culinaria (cfr. infra), anche tenendo conto del fatto che il muso del maiale ricorre talvolta in elenchi comici di cibi serviti a banchetto: vd. Olson 2002, p. 262 ad Ar. Ach. 744, p. 262 che riconduce (credo giustamente) a tale contesto anche il frammento in questione. ὡς οὐχί A inizio verso, cfr. Ar. Pac. 1315 ὡς οὐχὶ πᾶσαν ἡμέραν (versi giambici, cfr. Olson 1998, p. 311) e Eubul. fr. 42, v. 4 K.–A. (Kampyliōn) ὡς οὐχὶ μικροῖς ἥδεται ποτηρίοις. τουτί Sull’utilizzo e la funzione dello -ί deittico in commedia, che implica in genere un’indicazione con un gesto e si considera, normalmente, un colloquialismo (lo mostrano le numerose attestazioni in commedia e negli oratori e, di contro, la rarità nelle iscrizioni e la totale assenza in tragedia), si vedano Martín de Lucas 1996; Threatte 1996, p. 411 s.; Konstantakos 2000, p. 133 s.; López Eire 1996, p. 111 s.; Willi 2002, p. 117 s.; Willi 2003, p. 244 s.; Miccolis 2017, p. 43 ad Archipp. fr. 1 K.–A. (Kampyliōn); Stama 2017, ad Phryn. fr. 2 K.–A. (Epialtēs), p. 62, Orth 2018. ἀτεχνῶς L’avverbio è di impiego quasi esclusivamente comico, soprattutto in Aristofane (16x: cfr. ad es. Ach. 37, su cui v. Olson 2002, p. 80: «‘simply put’ […] presumably colloquial», Nub. 408, 425 ecc.; cfr. anche Eup. fr. 304 K.–A. [Chrysoun genos] ἀτεχνῶς μὲν οὖν τὸ λεγόμενον σκύτη, su cui vd. Olson 2016, p. 481); nella mesē e nella nea l’unica occorrenza è quella di Philem. fr. 147, v. 2 K.–A. (inc. fab.), altrove è documentato solamente in Platone, vd. ad es. Apol. 17d, Crat. 395e, Phaed. 82e, Phaedr. 230c, mai in passi di oratori o di storici. Su questo avverbio e il suo utilizzo vd. in part. Dover 1970, p. 19 (= 1987, p. 322 s.), Bagordo 2014a, p. 43 ad Chion. fr. 1 K.–A. (Hērōes), dove per il tràdito ἀτεχνῶς è, però, preferita la lezione ἀτενῶς.

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ῥύγχος … ὑός Morfologicamente, il lessema ῥύγχος può essere ricondotto alla radice onomatopeica indeuropea *srungh-, vd. DGE, DELG, Beekes 2010 s. v. ῥύγχος, p. 1293. Il sostantivo (su cui v. in gen. Headlam 1922, p. 248) può designare il muso dei quadrupedi (Arst. part. an. 685b 30, Thphr. char. IV 17), il becco di animali (v. ad es. Ar. Av. 364, 672, Arst. part. an. 694a 25, Poll. II 47) o la bocca di un pesce (Arst. part. an. 696b 33); secondo la testimonianza di Ateneo, III 95 p. E κυρίως λέγεται ῥύγχος ἐπὶ τῶν συῶν […] καὶ ἐπ᾽ ἄλλων ζῴων (cfr. supra Interpretazione); l’uso in riferimento al maiale è documentato anche in schol. Ar. Ach. 744b ῥύγχος κυρίως ἐπὶ χοίρου λέγεται, ῥάμφος δὲ ἐπὶ ἀετοῦ καὶ τῶν τοιούτων, τῶν ἐχόντων ἐπικύφους τὰς ῥῖνας e il frammento di Ferecrate, così come Anaxil. fr. 11 K.–A. (Mageiroi) ῥύγχος φορῶν ὕειον ᾐσθόμην τότε e 13 (Kirkē) δεινὸν μὲν γὰρ ἔχονθ’ ὑὸς / ῥύγχος, ὦ φίλε, κνησιᾶν, ne documenta la iunctura specifica con ὗς. Cfr. Miccolis 2017, p. 43 ad Archipp. fr. 1 K.–A. (Amphitryōn a, b). Per la ricorrenza del muso del maiale in elenchi comici di cibi serviti a banchetto, v. supra Interpretazione. fr. 108 K.–A. (103 K.) τὸ δ’ ὄνομά μοι κάτειπε τί σε χρῆσται καλεῖν χρῆσθαι Phot. ante corr., Suid. A

dimmi il nome con cui bisognerà chiamarti Phot. (z) ined. = Suid. χ 471 (codd. ArSGFM) χρή […] λέγουσι δέ ποτε καὶ χρήσται (καὶ χρῆσθαι Suid. ArF, κεχρῆσθαι Phot.) ἀντὶ τοῦ δεῖ. Φερεκράτης Λήροις· τὸ — καλεῖν chrē […] e dicono a volte anche chrēstai invece di deî. Ferecrate nei Lēroi: dimmi — chiamarti

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Bibliografia Runkel 1829, p. 41; Meineke FCG II.1, p. 296; Meineke 1847, I, p. 107; Bothe 1855, p. 101; Kock CAF I, p. 173; van Leeuwen 1901, p. 126; Edmonds 1957, p. 243; Urios-Aparisi 1992, p. 314; Olson 1998, p. 105; Quaglia 2001, p. 360 s.; Storey 2011, p. 468 s. Contesto della citazione Nell’interpretamentum del lemma sono raccolti quattro frammenti comici e un passo di Platone dall’Eutifrone tutti relativi alla forma χρή: nella sezione iniziale si discute dell’accentazione della forma (χρή∙ ὀξυτόνως δεῖ. χρῇ δὲ περισπωμένως) in relazione alla quale viene addotto Eupol. fr. 11 K.–A. (Aiges) ἐγὼ τελῶ τὸν μισθὸν ὅντιν’ ἂν χρῇ; di seguito viene, invece, considerata l’equivalenza χρήσται = δεῖ per la quale vengono citati, nell’ordine, il frammento

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di Ferecrate qui in questione e Ar. fr. 377 K.–A. (Lēmniai) ἦ καρδιώττεις; ἀλλὰ πῶς χρῆσται ποιεῖν; Nella sezione conclusiva, infine, sono prese in esame le forme χρῇς (χρῇς δὲ τὸ χρῄζεις, καὶ δέῃ) e χρείη (χρείη δὲ τὸ δεῖ) e sono riportati, per la prima, Cratin. fr. 134 K.–A. (Nomoi) νῦν γὰρ δή σοι πάρα μὲν θεσμοί / τῶν ἡμετέρων, πάρα δ’ ἄλλ’ ὅ τι χρῆς e per la seconda Plat. Euthyphr. 4c πευσόμενον τοῦ ἐξηγητοῦ ὅτι χρείη ποιεῖν. Testo Meineke FCG II.1, p. 296 preferiva conservare il tràdito χρῆσθαι sulla scorta di Eust. in Il. pp. 655, 10 e 718, 3, che attesta l’assenza nei grammatici di testimonianze sicure di χρῆσται, mentre la forma χρῆσται (più verisimile per formazione, v. infra al lemma) è accolta a testo, oltre che da Kassel e Austin (PCG VII, p. 154), anche da Kock CAF I, p. 173, Bothe 1855, p. 101, ed Edmonds 1957 p. 243. Interpretazione La richiesta del nome è una prassi drammaturgica piuttosto frequente. Kassel e Austin (PCG VII, p. 154) citano come loci paralleli Ar. Pac. 189 εἰ μὴ κατερεῖς μοι τοὔνομ’ ὅ τι ποτ’ ἔστι σοι e Eur. Ion. 259 ὄνομα τί σε καλεῖν ἡμᾶς χρεών;, ai quali andrà aggiunto almeno Eur. Cycl. 548 σὺ, δ’ ὦ ξέν’, εἰπὲ τοὔνομ’ ὅτι σε χρὴ καλεῖν, per il quale vd. Napolitano 2003, p. 143. Il taglio strettamente grammaticale della citazione limita di molto la possibilità di ricostruzione del contesto, ma alcuni elementi sembrano suggerire che il verso dovesse giocare un ruolo nella costruzione di uno scherzo comico: secondo Urios-Aparisi 1992, p. 312, «the word ὄνομα with the article is in a predominant place and seems to be the important word of this sentence» ed è pοssibile che la risposta al verso in questione contenesse uno scherzo comico per noi irrimediabilmente perduto (così anche Quaglia 2001, p. 361), come accade in Ar. Av. 1203 ὄνομα δέ σοι τί ἐστι πλοῖον ἢ κυνῆ (vd. Dunbar 1995, p. 615 s.) e Thesm. 1200 ὄνομα δέ σοι τί ἐστι; Ἀρτεμισία (vd. Austin–Olson 2004, p. 345 s.), e anche in Cratin. fr. 145 K.–A. (Odyssēs) τῆ νῦν τόδε πῖθι λαβὼν ἤδη καὶ τοὔνομά μ᾽ εὐθὺς ἐρώτα, che contiene «un comico rovesciamento di un importante elemento narratologico del racconto omerico (la richiesta del nome), dal momento che, nell’Odissea, era Polifemo a chiedere allo sventurato ospite un’altra coppa di vino e il nome» (Mastromarco 1998, p. 37). τὸ δ’ ὄνομά Per la prolessi di τὸ δ’ ὄνομα, un colloquialismo piuttosto frequente anche in testi letterari, vd. Olson 1998, p. 105, secondo il quale proprio la posizione prolettica del sostantivo motiverebbe l’uso dell’articolo, anche se non mancano tuttavia attestazioni di ὄνομα che ricorre in prolessi senza articolo: cfr. p. es. Eur. Ion. 259 ὄνομα τί σε καλεῖν ἡμᾶς χρεών, vd. Interpretazione. χρῆσται Forma verbale al futuro dell’espressione impersonale χρή, molto probabilmente conglutinatum ex χρὴ ἔσται (Kock CAF I, p. 173); vd. anche Quaglia 2001, p. 360 («prodotto della contrazione χρὴ ἔσται») e in generale Schwyzer I, 1939, p. 402. Oltre alle attestazioni in Ferecrate e in Aristofane (vd. supra Contesto della citazione), χρῆσται ricorre anche in Soph. OC 504 e fr. 599 Radt (Triptolemos) = schol. ad OC 504, 32, 6 De Marco, mentre è incerta l’occorrenza in Phryn. fr. 35 K.–A. (Mousai) κἀν ὀξυβάφῳ †χρεῖσθαι† τρεῖς χοίνικας ἢ δύ’ ἀλεύρων, cfr. Stama 2014, p. 215 s.

Λῆροι (fr. 109)

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μοι κάτειπε Come notato già da Kassel e Austin (PCG VII, p. 154), l’ordine usuale delle parole è invertito, dal momento che, normale, è κάτειπε μοι (ad es. Ar. Nub. 155, 170, 224, 478, Pac. 657 ecc.); non facile individuare una spiegazione, che certo non va però trovata dove la trovava Quaglia 2001, p. 361 («la metrica non consente […] di invertire la collocazione dei termini nel passo di Ferecrate»). Per il significato ‘dire’ del verbo vd. LSJ9, DGE s. v. κατεῖπον e Urios-Aparisi 1996, p. 314 (che richiama le occorrenze esemplificative in commedia di Nub. 155 ποῖον; ἀντιβολῶ, κάτειπέ μοι., Pac. 20 ὑμῶν δέ γ’ εἴ τις οἶδέ μοι κατειπάτω, Plut. 86 τουτὶ δὲ τὸ κακὸν πῶς ἔπαθες; κάτειπέ μοι.).

fr. 109 K.–A. (104 K.) ἀφύας φαγεῖν

ἀπὸ τηγάνου τ’ἔφασκεν

e dalla padella diceva di mangiare la frittura di pesce Athen. VI p. 228 E E τήγανον δέ […] εἴρηκεν ἐν μὲν Λήροις (μενδεροις Α, corr. Casaubon) Φερεκράτης οὕτως· ἀπὸ — φαγεῖν (sequitur fr. 133) il tēganon è citato anche nei Lēroi da Ferecrate come segue: e dalla padella — frittura di pesce Eust. in Od. p. 1862, 19 (post Eub. fr. 108, 3 K.–A.) καὶ· ἀπὸ — φαγεῖν anche: e dalla padella — frittura di pesce

Metro Incerto

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Bibliografia Dindorf 1827, p. 499; Runkel 1829, p. 40; Meineke FCG II. 1, p. 297; Meineke 1847, I, p. 106; Bothe 1855, p. 100; Kock CAF I, p. 173; Tucker 1908, p. 191 s.; Edmonds 1957, p. 244 s.; Conti Bizzarro 1990–1993, p. 90 s.; Urios-Aparisi 1992, pp. 314–316; Quaglia 2001, pp. 362–364; Storey 2011, p. 468 s. Contesto della citazione Nei Deipnosofisti, in risposta a un dubbio sollevato da Ulpiano sull’occorrenza della forma τήγανον in luogo di τάγηνον (sull’oscillazione delle forme vd. infra τηγάνου), il frammento è citato da Emiliano insieme ad altre attestazioni di τήγανον: il fr. 109 K.–A. di Ferecrate è seguito da Pherecr. fr. 133 K.–A. (Persai), Philon. fr. 2 K.–A. (Kothornoi), Eub. fr. 75, 7 s. K.–A. (Orthannē) e 1 s., Eub. fr. 108 K.–A. (Titanes), Phryn. fr. 60 K.–A. (Tragōidoi ē Apeleutheroi), Pherecr. fr. 128 K.–A. (Myrmēkanthrōpoi) e da una notizia di Egesandro di Delfi: Ἡγήσανδρος δ’ ὁ Δελφὸς (fr. 38 [FHG IV, p. 420]) Συρακοσίους φησὶ τὴν μὲν

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λοπάδα τήγανον καλεῖν, τὸ δὲ τήγανον ξηροτήγανον· διὸ καὶ Θεοδωρίδαν (SH 742) φάναι ἔν τινι ποιηματίῳ· τήγανον εὖ ἥψησεν ἐν ὀψητῆρι κολύμβῳ. τὴν λοπάδα τήγανον προσαγορεύων. χωρὶς δὲ τοῦ ‘τ’ στοιχείου Ἴωνες ἤγανον λέγουσιν, ὡς Ἀνακρέων (fr. 90 Gentili = 91 [436] Page)· ‘χεῖρά τ’ ἐν ἠγάνῳ βαλεῖν’. La menzione del frammento in Eustazio dipende da Ateneo (sull’epitome di Ateneo come fonte di Eustazio vd. in part. van der Valk I [1971], p. XVI s.) ed è adespota e anepigrafa, analogamente al precedente Eubul. fr. 108 K.–A. (Titanes), del quale Eustazio riporta solamente il verso 3, mentre in Ateneo sono presenti i vv. 1–3 e l’indicazione di autore e opera. Testo Il testo sembra presentare un andamento giambico, ma così come è tràdito risulta ametrico. La sistemazione in due tetrametri giambici catalettici incompleti, la parte finale del v. 1 e l’incipit del secondo, accolta anche da Kassel e Austin (PCG IV, p. 154), è stata proposta a suo tempo da Meineke FCG II.1, p. 297 (la proposta di Marzullo apud Conti Bizzarro 1990–1993, p. 91, consistente nel correggere il tràdito ἀπό in κἀπό sulla base di καὶ ἀπὸ κτλ. di Eustazio [vd. supra], non confligge con la sistemazione proposta da Meineke). Le possibilità alternative tendono, invece, a ripristinare un trimetro giambico: 1) Dindorf apud Meineke FCG II.1, p. 297: ἀπὸ τηγάνου τ’ἔφασκεν ἀφύας ἂν φαγεῖν; 2) Bothe 1855, p. 100: ἀπὸ τηγάνου τ’ἔφασκεν 〈τὰς〉 ἀφύας φαγεῖν; 3) Tucker 1908, p. 191: ἀπὸ τηγάνου τ’ἔφασκε 〈κἂν〉 ἀφύας φαγεῖν; 4) Edmonds 1957, p. 244: ἀπὸ τηγάνου τ’ἔφασκεν ἀφύας 〈ἐμ〉φαγεῖν Interpretazione La struttura diegetica del frammento, che colloca l’azione che vi è evocata nel passato (ἔφασκεν), potrebbe far pensare a una sua collocazione originaria nel contesto di un resoconto di banchetto; l’espressione ἀπὸ τηγάνου (vd. infra) sembra a ogni modo far riferimento alla voracità del soggetto della frase. Urios-Aparisi 1992, p. 314 s. rileva che delle possibili sistemazioni del frammento (v. supra) la più economica appare quella di Meineke, notando però a un tempo come l’inserzione di ἄν proposta da Dindorf potrebbe essere «also possibile since the particle ἄν plus an iterative imperfect is common to denote a customary action (cf. Goodwin 1889, p. 56), although ἔφασκον had already lost its iterative sense». ἀπὸ τηγάνου L’espressione pare indicare, più che la modalità di cottura del cibo (così lascia intendere la traduzione di Gulick III, p. 29 «he said too that he had eaten anchovies au teganon» [corsivo dell’autore]), l’azione di nutrirsi direttamente dalla padella: vd. Edmonds 1957, p. 245, Olson 2008, p. 35 e il bel parallelo fornito da Nicostr. fr. 6 K.–A. οὔποτ’ αὖθις / σηπίαν ἀπὸ τηγάνου / τολμήσομαι, isolato da Conti Bizzarro 1990–1993, p. 90; si tratta evidentemente di un sintomo di smaccata ghiottoneria, vd. Urios-Aparisi 1992, p. 315, o, in alternativa, come pensa Conti Bizzarro 1990–1993, p. 90, di un furto di cibo. Il τήγανον (cfr. Contesto della citazione per altre occorrenze del termine e vd. anche Urios-Aparisi 1992, p. 315), è una padella senza coperchio, utilizzata per cuocere prevalentemente il pesce sul fuoco vivo, vd. Sparkes 1962, p. 129,

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Sparkes–Talcott 1970, p. 228 s., fig. 17, tav. 96 e n. 1983, Arnott 1996, p. 319 e Olson 2014, p. 103 (con bibliografia). L’interesse per l’alternanza tra le forme τήγανον e τάγηνον (al quale dobbiamo la citazione del frammento da parte di Ateneo) emerge già nelle fonti grammaticali ed erudite antiche, che generalmente identificano τάγηνον come forma attica e τήγανον come forma ionica o dorica (vd. Urios-Aparisi 1992, p. 315 e Hunter 1983, p. 168), sebbene entrambe compaiano frequentemente nella letteratura attica di V e IV secolo (le attestazioni delle due forme in commedia sono ora raccolte in Bagordo 2013, p. 109): «attic poets found it convenient to use the Ionic form τήγανον as well as the Attic τάγηνον» (Hunter 1983, p. 168). Urios-Aparisi nota, forse a ragione, che «the choice of the form may be due to metrical reasons» (Urios-Aparisi 1992, p. 315). Secondo Beekes 2010, s. v. τάγηνον, p. 1443, il termine sarebbe «a technical word without etymology» (o, in alternativa, un parola di origine pre-ellenica): «Of the two different forms, τάγηνον is probably original […] then τήγανον underwent metathesis after the frequent instrument names in -ανον». ἀφύας Il sostantivo, sulla cui etimologia vd. Thompson 1947, p. 22 (che non esclude un’origine non ellenica, forse egiziana) e Bekkes 2010 s. v. ἀφύη, p. 180 (che considera ‘folk etymology’ l’antica ricostruzione a partire da ἀ- privativo e φύω), ricorre generalmente al plurale, cfr. Phot. α 3407 Theodoridis ἀφύας πληθυντικῶς λέγουσι, σπανιώτατα δὲ ἀφύην e Hesych. α 104, ἀφύων τιμή· τὸ ἔλαιον, ἐπεὶ ὲν τούτῷ ἕψονται. λέγουσι δὲ Ἀττικοὶ πληθυντικῶς τὰς ἀφύας, ἑνικῶς δὲ οὐδέποτε (vd. anche Theodoridis 1982, p. 311, in apparato a Phot. α 3407 per altre analoghe attestazioni nella tradizione erudita e lessicografica); ἀφύη è attestato, come ‘collective singular’ in Archestr. fr. 11, 1 Olson–Sens (vd. Olson–Sens 2000, p. 54). Il termine indica il pescato di individui giovani appartenenti a varie specie (le più frequenti sono ricordate da Thompson 1947, pp. 21–23), mentre secondo Strömberg 1943, p. 135 e Gallant 1985, p. 50 s., designerebbe le acciughe; nelle fonti antiche (raccolte in Thompson 1947, p. 22), questi pesci sarebbero generati dalla schiuma del mare o dal fango alluvionale e non avrebbero bisogno di sostentamento esterno (ma in realtà si nutrono di plancton). Come alimento, le ἀφύαι erano consumate generalmente fritte (vd. ad es. Ar. Ach. 648, Hesych. α 8814, Suid. α 4460, Phot. α 3407 Theodoridis) o altrimenti cotte nel latte o conservate sott’olio (sulle modalità di cottura vd. Thompson 1947, pp. 21–23 e Olson–Sens 2000, p. 59); si trattava, ad ogni modo, di una pietanza economica e molto diffusa, frequentemente inclusa negli elenchi (soprattutto comici) delle portate di banchetti (le testimonianze più significative sono raccolte da Olson–Sens 2000, p. 54). Le ἀφύαι ateniesi, pescate al Falero, erano rinomate per la loro qualità, vd. Olson–Sens 2000, p. 56.

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fr. 110 K.–A. (105 K.) λαβοῦσα μὲν τῆς χοίνικος τὸν πύνδακ’ εἰσέκρουσεν λαβοῦσα codd.: λαθοῦσα Meineke FCG II.1, p. 298: μέντοι χοίνικα / τὸν Dobree 1843, I, p. 578

afferrata la chenice, si mise a battere sul fondo Poll. X 79 (codd. FS, CL) τὸν δὲ πυθμένα καὶ πύνδακα ἄλλοι τε καὶ Φερεκράτης ἐν Λήροις (λύροις L; poetae verba om. CL)· λαβοῦσα — εἰσέκρουσεν. usano pythmena e pyndaka, insieme ad altri, Ferecrate nei Lēroi: afferrata — fondo.

Metro Tetrametro giambico catalettico

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Bibliografia Runkel 1829, p. 40 s.; Meineke FCG II. 1, p. 298; Meineke 1847, I, p. 107; Bothe 1855 p. 101; Kock CAF I, p. 173 s.; Edmonds 1957, p. 244 s.; UriosAparisi 1992, p. 316 s.; Quaglia 2001, pp. 365–367; Storey 2011, p. 468 s. Contesto della citazione All’interno del libro X, dedicato agli σκεύη τὰ κατ᾽ οἰκίαν χρήσιμα καὶ κατ᾽ ἀγροὺς ἢ τέχνας (X 10), a partire da X 68 sono discussi vari tipi di contenitori (per bere, soprattutto, ma non solo); in X 79 vengono considerati i termini che indicano il fondo (ὑπόθημα) dei contenitori e, per questo, è citato prima δ 31 χρύσεα δέ σφ’ ὑπὸ κύκλα ἑκάστῳ πυθμένι θῆκεν, dove ricorre il termine πυθμήν, quindi come testimonianza della sinonimia tra πυθμήν e πύνδαξ (τὸν δὲ πυθμένα καὶ πύνδακα) sono riportati prima il frammento ferecrateo, quindi Ar. fr. 281 K.–A. (Dramata ē Kentauros) ἐκκρουσαμένους τοὺς πύνδακας. Per quanto riguarda il nesso di Polluce ἄλλοι τε καὶ Φερεκράτης, si rileva che esso ricorre ancora in II 93 (dove ci si riferisce a Arst. hist. an. I 501a 24) e in V 68 (in cui ci si riferisce a un’attestazione in Cratino: cfr. fr. 434 K.–A. [inc. fab.]) a proposito della quale Olson–Seaberg 2018, p. 264 rendono ἄλλοι τε καὶ Κρατῖνος con “various authorities, including Cratinus”.

Testo Così come trasmesso da Polluce, il testo risulta di non ovvia interpre-

tazione; desta perplessità, infatti, il nesso λαβοῦσα μὲν τῆς χοίνικος, nel quale il genitivo difficilmente potrà dipendere dal verbo λαμβάνω (vd. LSJ 9 s. v. A1 per occorrenze del verbo con il genitivo, ma i casi sono senz’altro differenti). La scelta di Kassel e Austin (PCG VII, p. 154) di conservare la forma tràdita può essere difesa immaginando che fortasse antecedebat accusativus unde genitivus pendebat (Kock CAF I, p. 174). Si esprime in favore della conservazione del testo tràdito anche Quaglia 2001, p. 365, il quale ritiene «che si possa semplicemente considerare τῆς χοίνικος il complemento di specificazione dipendente da τὸν πύνδακ’ e che nel frammento fosse espressa, per mezzo di un indicativo in unione con un participio

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congiunto, un’unica azione. Si può obiettare che a rigore prima si sarebbe afferrato il chenice [sic] nel suo insieme e successivamente se ne sarebbe percossa una parte, ma poiché il fondo del recipiente era l’oggetto di una battuta, credo che la forzatura potesse essere intenzionale». Esiste, peraltro, la possibilità che λαβοῦσα sia da intendere nei termini del cosiddetto λαβών ‘pleonastico’, il che permetterebbe di immaginare che l’oggetto del participio fosse desumibile dal genitivo immediatamente successivo e eliminirebbe il problema della reggenza: così, se intendo bene, Urios-Aparisi 1992, p. 316 («χοῖνιξ could be a unit of measure and the vessel that cointained such amount. The object of λαβοῦσα would be understood from the genitive which follows»; per λαβών ‘pleonastico’ rimando al materiale raccolto in Kühner–Gerth II, p. 87 e in Stinton 1975, p. 84 n. 4). Diversamente, nel tentativo di risolvere l’anomalia Meineke FCG II.1, p. 298, in luogo del tràdito λαβοῦσα, congetturava λαθοῦσα, che con reggenza al genitivo acquisterebbe senso causativo, vd. LSJ9 s. v. λανθάνω B; contra si vedano però le osservazioni di Urios-Aparisi 1992, p. 316, il quale nota, opportunamente, che «according to LSJ this construction with a simple form of the verb is only found in epic poetry». In alternativa, Dobree 1843, I, p. 578 proponeva un intervento più ampio, μέντοι χοίνικα / τὸν, mediante il quale la porzione di testo superstite verrebbe articolata in due trimetri. Per quanto riguarda la proposta di Bothe 1855, p. 101 di correggere il tràdito εἰσέκρουσεν in ἐξέκρουσεν (fortasse recte: Quaglia 2001, p. 365), si può richiamare l’occorrenza di Ar. fr. 281 K.–A. (Dramata ē Kentauros) ἐκκρουσαμένους τοὺς πύνδακας, ma in Theophr. Char. XXX 11 τὸν πύνδακα εἰσκεκρουμένῳ μετρεῖν, εἰσκεκρ-, per quanto correzione di Casaubon rispetto al tràdito ἐκκρε-, si può conservare proprio sulla base del parallelo ferecrateo, mentre il passo aristofaneo rimane di dubbia esegesi, come rileva Diggle 2004, p. 513: «it is better to replace ἐκκεκρουμένῳ […] with εἰσκ- […] in the light of Pherecr. 110 […]. There ἐξέκρουσεν (Bothe) is needless and improbable: χοῖνιξ is a measuring vessel and it serves no obvious purpose to knock out its bottom, whereas there can be good reason (this passage suggests what it is) for knocking it in. By contrast, the reading must remain uncertain in Ar. fr. 281 […] since vessel and context are unknown». Interpretazione Sulla scorta di Theophr. Char. XXX 11 τὸν πύνδακα εἰσκεκρουμένῳ μετρεῖν (su cui vd. Pasquali 1979, p. 52, e Diggle 2004, p. 512 s.) il frammento in questione sarà probabilmente da riferirsi al tentativo (evidentemente da parte di una donna, come indica λαβοῦσα in incipit di verso) di imbrogliare durante una misurazione di un prodotto, probabilmente grano o altri cereali (vd. infra). Il passo di Teofrasto è chiamato in causa già da Urios-Aparisi 1992, p. 315, il quale propone due diversi contesti ai quali l’azione evocata nel frammento potrebbe riferirsi: una scena di compravendita («this fragment refers to a woman who is cheating with grain») oppure il tentativo di una padrona di risparmiare sul vitto dello schiavo, («this sentence could be the complaint of a slave about the meanness of the mistress»), come avviene nei Caratteri; sulla stessa linea anche Quaglia 2001,

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p. 366 s., secondo il quale «la situazione descritta da Ferecrate […] avrebbe potuto alludere a chi modificava il fondo di un recipiente alzandolo dall’interno». τῆς χοίνικος La χοῖνιξ (il termine è etimologicamente riconducibile a un’origine pre-ellenica: DGE, DELG, Beekes 2010, p. 1640; sulla quantità della sillaba centrale di χοίνικος vd. Slater 1986 ad Ar. Byz. fr. 346 [p. 118 s.]) era un’unità di misura equivalente a quattro κοτύλαι, all’incirca poco più di un litro, utilizzata generalmente per il grano e corrispondente alla razione quotidiana di uno schiavo o di un soldato (cfr. ad es. Ar. Eccl. 424), vd. in part. RE III 2, 1889, s. v. coll. 2356–2358 (F. Hultsch) e F. Hultsch, Griechische und Römern Metrologie, Berlin 1882, pp. 82–84; le fonti antiche e la bibliografia sulla χοῖνιξ sono raccolte da UriosAparisi 1992, p. 137, ma i passi ivi citati (Ar. Vesp. 718 e fr. 481 K.–A. [Proagōn]) per sostenere l’utilizzo dell’unità per misurare, oltre che grano e cereali, anche i fichi non appaiono perspicui. πύνδακ᾽ «Boden eines Gefäßes […] Bildung wie κάμαξ, πίναξ, στύραξ usw.; sonst an das gleichbedeutende lat. fundus erinnernd und sich damit auch an πυθμήν […] anschließend» (GEW s. v., cfr. DELG, Beekes 2010 s. v.); il valore del termine come sinonimo di πυθμήν è documentato da Polluce, testimone, proprio in relazione a questo aspetto, del frammento ferecrateo (vd. Contesto della citazione); accanto a questi due passi e a Theophr. Char. XXX 11 πύνδαξ non presenta altre occorrenze, ma si può rilevare la presenza di ὀξυπύνδακα in Eubul. fr. 56, 4 Kassel–Austin (Kybeutai), su cui vd. Hunter 1983, p. 144: «this may mean no more than ‘tapering off near the base’ but, as the cup is a very special one, the possibility of a novel base cannot be excluded».

fr. 111 K.–A. (106 K.) ἔπειθ’ ἕτερα τούτων ποιοῦντα πολλὰ κυντερώτερα ποιοῦντα cod.: πονοῦντα Meineke FCG V 1, p.  27: παθόντα Kock CAF I, p.  174 κυντετώτερα codd.

poi altre cose che ne causano molte altre più svergognate di queste / poi facendo (lui) molte altre cose più svergognate di queste Antiatt. κ 18 Valente = Phot. κ 1223 Theodoridis κυντερώτατα καὶ κυντατώτατα λέγουσιν. Εὔβουλος Παρμενίσκῳ∙ (fr. 83 K.–A.). Φερεκράτης Λήροις· ἔπειτα — κυντερώτερα. καὶ Αἰσχύλος (fr. 432 R. [inc. fab.]) Dicono kynterōtata e kyntatōtata. Eubulo nel Parmeniskos: (fr. 83 K.–A.). Ferecrate nei Lēroi: poi — di queste. Ed Eschilo (fr. 432 R. [inc. fab.])

Metro Tetrametro giambico acataletto

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Λῆροι (fr. 111)

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Bibliografia Porson 1823, p. 163; Runkel 1829, p. 41; Meineke FCG II.1, p. 297; Dobree 1843, I, p. 597; Meineke 1847, I, p. 106; Bothe 1855, p. 100; Meineke FCG V 1, p. 27; Kock CAF I, p. 174; Edmonds 1957, p. 244 s.; Urios-Aparisi 1992, p. 318 s.; Quaglia 2001, pp. 367–369; Storey 2011, p. 268 s. Contesto della citazione Il frammento è citato nel lessico Antiatticista, da cui dipende Fozio (come segnalato già da Theodoridis 1998, p. 461, vd. ora Valente 2015, p. 191), per le attestazioni di κυντερώτατα e κυντατώτατα; il superlativo è il primo a essere esemplificato con Eub. fr. 83 K.–A. (ἀπὸ τῶν ἐκείνου καὶ τὰ κυντατώτατα), al quale segue il frammento di Ferecrate per il comparativo, mentre di Eschilo, chiamato in causa subito dopo, non sopravvivono attestazioni, il che rende impossibile determinare quale delle due forme il tragediografo utilizzasse (entrambe, in alternativa, sono stampate da Radt come fr. 432 di Eschilo). Testo Nonostante il verso ponga problemi di ordine metrico e sintattico, la scelta di Kassel e Austin (PCG VII, p. 155) di conservare il testo tràdito, fatta eccezione per il palmare intervento κυντερώτερα per il tràdito κυντετώτερα, appare del tutto condivisibile; da un punto di vista prosodico, infatti, l’utilizzo del tetrametro giambico acataletto è certamente molto raro, ma non del tutto inattestato nella poesia drammatica e i due paralleli offerti dagli stessi Kassel e Austin (ibid.), Soph. fr. 314, 298–328 (Ichneutai) e Ion 19 F 20 Snell–Kannicht (Omphalē), entrambi provenienti da drammi satireschi, possono offrire un termine di confronto per l’occorrenza ferecratea. D’altra parte, non risultano pienamente convincenti le congetture di Porson 1823, p. 163 (ἔπειτα 〈καὶ〉 ἕτερα) e di Dobree 1843, I, p. 597 (εἶθ’ ἕτερα), che intervenivano sul testo in modo da stabilire un’articolazione rispettivamente in trimetri giambici (ἔπειτα 〈καὶ〉 ἕτερα (= κἄτερα?) / τούτων κτλ.) e in un tetrametro trocaico catalettico; d’altronde, qualora faccia eccessiva difficoltà la presenza di un tetrametro giambico acataletto, mi pare ragionevole accettare la sistemazione del testo in due dimetri giambici lirici proposta da Meineke FCG V 1, p. 27, che non necessita di alcun intervento sul testo e potrebbe far intendere il verso come parte di uno pnigos, cfr. ad es. Ar. Nub. 1443–1451 e le osservazioni di Urios-Aparisi 1992, p. 318. Per la prosodia di ποῐοῦντα, cfr. i casi analoghi di consonantizzazione di ι in ποίεω ad es. in Ar. Vesp. 263, 1130, Lys. 1006, Eccl. 563. Sul fenomeno vd. Radermacher 1929; Threatte 1980, p. 413; Kapsomenos 1990; Willi 2003 p. 236 s. Interpretazione Come rileva Urios-Aparisi 1992, p. 318, il verso ha due possibili interpretazioni: si può intendere ἕτερα come soggetto, τούτων come genitivo dipendente dal soggetto (forse partitivo, vd. Poultney 1936, pp. 54–76) e quindi attribuire a ποιέω il significato di ‘to cause, to bring about’ (LSJ9 s. v. ποιέω A II) o in alternativa, direi più verosimilmente, si possono considerare ἕτερα e κυντερώτερα come accusativi del participio ποιοῦντα (con πολλὰ avverbiale in nesso con il comparativo?), il cui referente («either masculine ot neuter plural», precisa UriosAparisi: ma che sia da pensare a un maschile appare assai più probabile) ricorreva nella porzione di testo non superstite. Non è, invece, in alcun modo dimostrabile

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Pherekrates

l’ipotesi di Quaglia 2001, p. 369, secondo cui «il riferimento alla svergognatezza del cane … permette di riferire il frammento alla sfera sessuale». κυντερώτερα Il comparativo κύντερος e il superlativo κύντατος sono di uso comune sin da Omero (p. es. Il. VIII 483; Od. VII 216, XI 427, XX 18 [comp.]; Il. X 503; cfr. anche Apoll. Rod. III 192; Arst. fr. 77). Le due forme, percepite in seguito come aggettivi di grado positivo, sono alla base del comparativo κυντερώτερος e del superlativo κυντατώτατος: vd. Quaglia 2001, p. 369 e nn. 69–70. Vd. anche Urios-Aparisi 1992, p. 318 s. e Hunter 1983, p. 177 (ad Eub. fr. 83 K.–A.).

fr. 112 K.–A. (107 K.) Poll. VI 105 (codd. FS, A) τὰ δ’ἀγγεῖα τῶν μύρων λήκυθος μυρηρά καὶ ἀλάβαστρος· Φερεκράτης δ’ ἐν Λήροις (λύροι FS, μύροις Α) εἴρηκε καὶ κ υ ά θ ι ο ν ἀ ρ γ υ ρ ο ῦ ν, ᾧ τὸ μύρον ἐγχέομεν. sono recipienti di profumi la lēkythos, myrēra e l’alabastros; Ferecrate nei Lēroi ha usato anche ‘kyathion d’argento’ per un vaso nel quale si versa il profumo Athen. X p. 424 B (κύαθος) Φερεκράτης δ’ἐν Λήροις ἀ ρ γ υ ρ ο ῦ ν κ ύ α θ ο ν ὠνόμασε

(kyathos) Ferecrate nei Lēroi lo chiama ‘kyathon d’argento’ Metro Incerto κυάθιον ἀργυροῦν: kkkklkl ἀργυροῦν κύαθον: lklkkl (?) Bibliografia Runkel 1829, p. 40; Meineke FCG II.1, p. 298; Meineke 1847, I, p. 198; Bothe 1855, p. 101; Kock CAF I, p. 174; Edmonds 1957, p. 244 s.; UriosAparisi 1992, p. 319; Quaglia 2001, pp. 369–371; Storey 2011, p. 268 s. Contesto della citazione Nel libro sesto di Polluce, dedicato al simposio e a tutto ciò che a esso pertiene (VI 7), a VI 104 viene introdotta la sezione relativa ai profumi (ἔτι δὲ καὶ μύρων ἐν τοῖς συμποσίοις ἐπιμνηστέον); nel successivo paragrafo 105 si discute dei tipi di contenitori di profumo. La citazione in Ateneo fa parte di una discussione su alcune coppe di vino che inizia a 423 C e, più in particolare, delle attestazioni di κύαθος in luogo di ἀντλητήρ, per cui vengono citati, in ordine, Plat. com. fr. 192 K.–A. (Phaōn), fr. 128 K.–A. (Presbeis), Archipp. fr. 21 K.–A. (Ichthyes), Ar. Pac. 541 s. e, di seguito, Xen. Cyr. I 3 9, Cratin. fr. 464 K.–A. (inc. fab.), un numero non precisato, ma significativo, di attestazioni in Aristofane (Ἀριστοφάνης πολλαχοῦ) e, infine, Eubul. fr. 79 K.–A. (Orthannē) a cui segue il richiamo a Ferecrate. Difficile stabilire se, in entrambi i casi, la porzione di testo citato da Polluce riproduca per ipsissima verba un passo dei Lēroi oppure se ne costituisca invece una rielaborazione adattata al contesto in cui è inserita; da ultimi, Kassel–Austin

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PCG VII, p. 155 scelgono lo spaziato per entrambe le citazioni, lasciando aperta la questione, mentre già Meineke FCG II.1, p. 298,? accoglieva come testo genuino di Ferecrate la pericope citata da Polluce, correggendo κυάθιον in κύαθον sulla base di Ateneo (difficile, comunque, ritenere, sulla base del confronto tra i due testimoni, che la pericope ᾧ τὸ μύρον ἐγχέομεν, tràdita dal solo Polluce, appartenesse anch’essa a Ferecrate, come vorrebbe Edmonds 1957, p. 244) Interpretazione Piuttosto problematico appare il confronto tra il dettato di Polluce e la testimonianza di Ateneo, sia per quanto riguarda le due forme del sostantivo proposte (κυάθιον e κύαθος), sia in relazione al liquido contenuto; per quanto riguarda il primo punto, κυάθιον sembra preferibile in quanto lectio difficilior (v. infra a κυάθιον/κύαθον), mentre più complesso è il secondo: Polluce cita il frammento in relazione a contenitori per profumo, mentre in Ateneo il contesto è senza dubbio relativo a coppe per il vino, come mostrano i passi citati nel medesimo contesto (v. supra Contesto della citazione e vd. da ultimi, Olson–Seaberg 2018, p. 297 ad Cratin. fr. 464 K.–A.). Un uso in relazione a unguenti profumati, tuttavia, sembra presupposto da Ar. Ach. 1053, in cui il paraninfo prega Diceopoli di versargli εἰς τὸν ἀλάβαστον κύαθον εἰρήνης ἕνα (che la pace costituisca un unguento, è chiarito dalle ‘prescrizioni’ per il suo utilizzo descritte al v. 1065 s., vd. Urios-Aparisi 1992, p. 319: «the wine-treaty becomes a perfum […]. It is easy to understand this transformation if we bear in mind the fact that the same word could be used in both contexts»; vd. anche Quaglia 2001, p. 371). È, infine, possibile che la presenza del κύαθος rimandi qui all’utilizzo del profumo in un contesto conviviale (sulla presenza e sul ruolo dei profumi durante i banchetti vd. supra ad fr. 105 K.–A.); l’utilizzo dell’aggettivo ἀργυροῦς presuppone inoltre una connotazione di lusso (vd. infra κυάθιον/κύαθον; «in our case the fact of being made of silver suggests also the luxury that has been depicted in other passages»: Urios-Aparisi 1992, p. 319, con il richiamo al fr. 135 K.–A. [Persai]). κυάθιον/κύαθον Probabilmente una parola pregreca, vd. GEW, DELG, Beekes 2010 s. v. κύαθος, p. 792 («the sequence -υα- is also typical of ‘foreign’ (ie. Pre-GreeK.) words»); il diminutivo in -ιον costituisce senza dubbio lectio difficilior rispetto alla forma κύαθον ricordata da Ateneo (l’unica altra occorrenza, oltre a quella ferecratea, è in Hesych. β 593 che lo impiega come glossa: βιάτωρ· κυάθιον μικρόν, ἤγουν κοχλιάριον). Si tratta di un contenitore di bronzo, metallo o legno, vd. RE XI 2, 1922, coll. 2242–2245 s. v. kyathos 1 (Leonard); Hill 1942, pp. 42–45; Sparkes 1975, p. 135 e fig. XVIIf; ma anche di argento, come oggetto di lusso (cfr. Interpretazione), vd. Crosby 1943, in part. pp. 209–213. In altri e diversi contesti κύαθος può indicare, per verosimile metonimia, un rimedio per le occhiaie (ad es. Ar. Pac. 541 s.; Apolloph. fr. 3 K.–A. [Iphigerōn], cfr. Orth 2013, p. 369) o una misura per vari liquidi (ad es. Ar. Ach. 1051–3; Crobyl. fr. 5, v. 4 K.–A. [Pseudobolimaios] ecc.). Sul κύαθος, cfr. anche Miccolis 2017, p. 147 ad Archipp. fr. 21 K.–A. (Ichthyes) e Olson–Seaberg 2018, p. 297 ad Cratin. fr. 464 K.–A. (inc. fab.).

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Μεταλλῆς (Metallēs) (“Minatori”)

Bibliografia Runkel 1829, pp. 42–46; Bergk 1838, pp. 288–294; Meineke FCG I, p. 69 s.; FCG II.1, pp. 299–309; Bailey 1840, pp. 18–24; Meineke 1847, I, pp. 107– 109; Bothe 1855, pp. 101–103; Kock CAF I, pp. 174–178; Graf 1885, pp. 71, 79 s.; Norwood 1931, p. 162; Zieliński 1931, p. 38 s.; Kaibel 1889, p. 44; Hoffmann 1910, p. 25 s.; Körte 1938, coll. 1988, 52–1989, 27; Schmid 1946, p. 105; Baldry 1953, p. 55 s.; Edmonds 1957, pp. 246–249; Langerbeck 1963, p. 198 s.; Geissler 1969, pp. xiv, 40 s.; Rehrenböck 1985, pp. 125–183; Rehrenböck 1987a; Bertelli 1989, pp. 109–114; Urios-Aparisi 1992, pp. 320–363; Melero Bellido 2000; Pellegrino 2000, pp. 85–109; Farioli 2001, pp. 94–103; Storey 2011, pp. 470–475 Titolo I minatori ai quali il titolo allude, con ovvio riferimento alla composizione del coro della commedia, sono con ogni probabilità da identificare con gli schiavi utilizzati come forza lavoro nelle miniere d’argento del Laurion: così già Meineke FCG II.1, p. 301 (figmenti opportunitatem praebuisse videntur metallifodinae Laurioticae), e in seguito, tra gli altri, Kock CAF I, p. 174; Norwood 1931, p. 162; Heberlein 1980, p. 21; Rehrenböck 1985, p. 130 s.; Rehrenböck 1987a, p. 18; Bertelli 1989, p. 109; Urios-Aparisi 1992, p. 322; Wilkins 2000, pp. 104, 127, e Pellegrino 2000, p. 89 s.; di altro segno l’ipotesi formulata da Farioli 2001, p. 101 s., secondo la quale il coro sarebbe stato invece composto da cittadini ateniesi che, avuta notizia delle meraviglie che vi albergavano, si sarebbero improvvisati minatori per raggiungere l’oltretomba. Le durissime condizioni di vita e di lavoro dei minatori del Laurion, costretti a lavorare incatenati, in luoghi malsani, esposti ai fumi letali che si sprigionavano durante le procedure di fusione dell’argento, emergono con chiara evidenza dalle fonti antiche (cfr. p. es. Strab. III 2, 8; Plut. Nic. 4, 2 e Comp. Nic. Crass. 1, 1; vd. Ehrenberg 1957, p. 259; Lauffer 1979, p. 55 s., e Paradiso 1991, p. 106 s.; secondo Posidonio [FGrHist. 87 F 35, citato da Athen. VI p. 272 E], tra il 102 e il 99 a. C. l’estrema durezza delle condizioni di vita portò a una rivolta dei minatori, che uccisero i loro sorveglianti e saccheggiarono l’Attica). Contenuto Il fr. 113 K.–A. fornisce una serie di indicazioni funzionali alla ricostruzione della trama della commedia: una donna, tornata dall’Ade, riferisce dettagliatamente i ricchi manicaretti disponibili nell’oltretomba, secondo il tipico motivo dell’automatos bios. Anche se l’identità della donna resta imprecisabile, la sua conoscenza dei fatti dell’Ade induce a credere che essa sia una defunta ritornata al mondo dei vivi o quantomeno un personaggio che ha avuto libero accesso all’Ade e che ha ancora la facoltà di ritornarvi. Nello svolgimento del dramma, dunque, avrà trovato posto la commistione di due diversi topoi comici, entrambi legati all’oltretomba: il mondo infero come Paese di Cuccagna (il medesimo tema doveva giocare un ruolo cruciale anche nei Krapataloi: vd. supra, nella sezione introduttiva alla commedia; per un’analisi specifica del motivo in relazione ai Metallēs vd. Melero Bellido 2000; più in generale, sul filone delle commedie am-

Μεταλλῆς

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bientate nell’Ade, rimando alla bibliografia raccolta da Pellegrino 2005, p. 112) e l’ἀνάστασις dall’Ade (vd. Rehrenböck 1985, p. 43; Rehrenböck 1987a, p. 24). Se, come pare plausibile, i minatori che componevano il coro sono da identificare con gli schiavi che lavoravano nelle miniere del Laurion, allora il contrasto stridente tra le delizie disponibili nel Tartaro e l’estrema miseria in cui versavano i componenti del coro avrà certamente costituito un potente motore comico per lo sviluppo delle vicende drammatiche. Plausibile, anche se non verificabile, appare la ricostruzione di Farioli 2001, pp. 99–101, per la quale l’incontro tra gli abitanti dei due diversi mondi e lo sgomento reciproco, le aspettative della scoperta e le scelte di inclusione o di esclusione di determinati personaggi e categorie sociali dovevano ricoprire un ruolo importante nell’economia generale della commedia. Non sono pienamente convincenti, invece, i tentativi di rapportare la localizzazione dello Schlaraffenland nell’oltretomba a specifiche istanze filosofiche o religiose: in tempi diversi, ad esempio, Graf 1885, p. 79 s., Baldry 1953, p. 56, e Mainoldi 1989, p. 257 hanno ipotizzato che la commedia potesse contenere un attacco rivolto contro le promesse di felicità ultraterrena configurate dalle dottrine orfiche e pitagoriche (ma contra sembrano condivisibili le perplessità espresse da Rehrenböck 1985, p. 45: «Ob auf die Orphiker überhaupt angespielt wurde, wissen wir jar nicht, – und wenn, dann eher nebenbei»; a una eco parodica della vicenda di Orfeo ed Euridice pensa ancora Farioli 2001, p. 101, che tuttavia rifiuta l’ipotesi di una commedia interamente incentrata sulla satira filosofico-religiosa [p. 103]), mentre secondo Schmid la parodia comica avrebbe coinvolto i filosofi che propagandavano il suicidio come mezzo per sfuggire ai dolori della vita, contrapposti alle gioie ultraterrene (vd. Schmid 1946, p. 105; piuttosto superficiali mi sembrano anche le analogie contenutistiche che secondo Conti Bizzaro 1990–1993, p. 91 s., legherebbero il fr. 133 K.–A. a una sezione del mito platonico di Er [Plat. Resp. 614 d-e]). Quanto resta della commedia sembra spingere maggiormente verso una «‘carnevalesca’ elusione dalla durezza del lavoro» (così Pellegrino 2000, p. 90, a proposito del fr. 113) e forse la qualità dei cibi elencati nel fr. 113 K.–A. potrebbe alludere al «rovesciamento […] del precetto secondo il quale è vietato mangiare il cibo dei morti, pena l’impossibilità di tornare alla luce: al contrario gli Ateniesi sarebbero certo stati contenti di rimanere nell’Ade a quelle condizioni» (Farioli 2001, p. 102; mi sembrano molto interessanti, in questa prospettiva, le osservazioni di Ceccarelli 1996, p. 125, che si chiede quali fossero i motivi che avranno impedito al coro e ai personaggi di scendere in massa nell’oltretomba: o il Tartaro, in seconda battuta, sarà parso assai meno accogliente rispetto alle prime impressioni, o il coro e i personaggi avranno scelto di non abbandonare la superficie e di trasportarvi invece quanto di buono era presente nell’oltretomba). Una trama articolata a partire da paradigmi di evasione utopica sembra più probabile rispetto a ricostruzioni che prevedano spunti di polemica religiosa, filosofica o persino sociale: certamente la commedia non propugnava un miglioramento sostanziale delle condizioni di vita della manodopera schiavile, anche se è possibile che in essa fossero presi di mira i ricchi appaltatori delle miniere e i loro eventuali abusi, tanto nei confronti della

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polis quanto a danno degli stessi schiavi (che la commedia potesse includere elementi di polemica sociale è stato proposto da Langerbeck 1963, pp. 194–200 e poi da Giannini 1967, pp. 101–132 [ma contra vd. Bertelli 1982, p. 574, e Bertelli 1983, p. 229 n. 45], da Cantarella 1969, pp. 331–336, e da Ghidini Tortorelli 1976–1978, pp. 91–121; sulla questione vd. ora anche Farioli 2001, p. 100 n. 181). È anche possibile che, come proposto da Edmonds 1957, p. 247 n. a, Nicia stesso, in quanto appaltatore delle miniere del Laurion (le fonti antiche, pur concordando sul ruolo di primo piano di Nicia nello sfruttamento delle miniere, non concordano sulle modalità – sfruttamento diretto o affitto di manovalanze – attraverso le quali si realizzava nel concreto la gestione dell’appalto: per una recente, utile messa a punto della questione vd. Faraguna 2006), comparisse in scena, magari come «vittima di una comica, ‘carnevalesca’ degradazione sociale» (così Pellegrino 2000, p. 89 n. 6). Il che detto, quel che resta della commedia è purtroppo troppo poco perché si sia in grado di formulare ipotesi attendibili quanto ai personaggi che vi agivano in scena: così, nonostante le molte ipotesi di lavoro, sono destinate a rimanere imprecisate tanto l’identità del personaggio femminile a cui è affidata la lunga descrizione contenuta nel fr. 113 K.–A. quanto quella dei suoi interlocutori. Tra le varie possibilità (nessuna delle quali, tuttavia, mi sembra pienamente persuasiva) mi limiterei a segnalare le ricostruzioni di Kock CAF I, p. 174 (mortuorum felicitatem prae vivorum condicione poeta praedicat atque ita rem instituit, ut mulier quae ad inferos descenderat in terram remissa cum aliis mulierculis de ea re confabuletur), e Zieliński 1931, p. 38 («Einer alten Frau war es vergönnt, in die Wunderstadt der Metallier – vielleicht im Traum – hinabzusteigen; sie erzählt das Gesehene einer neidischen Gevatterin»), i quali pensavano che il personaggio femminile al quale è affidata la recitazione del fr. 133 K.–A. si rivolgesse ad altre donne; di Norwood 1931, p. 162, per il quale gli interlocutori sarebbero da identificare con i minatori, caduti per caso nel Tartaro; di Edmonds 1957, p. 247 n. e, che identificava i personaggi parlanti con Proserpina e Ermes; di Rehrenböck 1985, p. 130 s., e 1987a, p. 18, per il quale la donna sarebbe stata riportata indietro dall’oltretomba dai minatori, oppure sarebbe lì discesa al loro seguito, e di Bertelli 1989, p. 109, il quale riteneva che la precisione con la quale la donna descrive le pietanze potrebbe suggerire che si trattasse di una taverniera. Datazione Gli unici elementi utili per la datazione della commedia derivano dall’ordine cronologico che disciplina la citazione dei frammenti comici nella sezione περὶ τοῦ ἀρχαίου βίου di Ateneo (Athen. VI pp.  267 E–270 A; che la successione dei testi raccolti rispecchi le date di rappresentazione delle commedie è esplicitamente affermato a VI 268 E, un dato in relazione al quale appare eccessivo lo scetticismo di Urios-Aparisi 1992, p. 320, per il quale «this order is possible, although we might doubt whether it is based on real evidence or just a fairly general idea and used here as a rhetorical device by the speaker»). Dal passo di Ateneo, dunque, si evince che i Metallēs furono portati in scena dopo gli Anfizioni di Teleclide e prima dei Tagēnistai di Aristofane, ma la datazione di entrambe le commedie è incerta: gli Anfizioni, infatti, furono verosimilmente

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composti tra il 431 e il 427 (le diverse ipotesi avanzate dagli studiosi sono raccolte da Pellegrino 2000, p. 72 n. 1; sulla questione si veda anche Bagordo 2013 pp. 43 e 46 s. A stare alla cronologia relativa tràdita da Ateneo, dopo i Metallēs e prima dei Tagēnistai furono portati in scena i Persai, per i quali non possediamo tuttavia elementi utili alla datazione [cfr. infra]), mentre per i Tagēnistai viene in genere accolta la datazione post 415 proposta da Geissler 1969, p. 40 s., anche se non sono mancate ipotesi diverse, che collocano la commedia in un lasso di tempo che va dal 422 al 405: sulla questione vd. Pellegrino 2000, p. 142 n. 3). Come ipotizzato da Körte 1938, col. 1987, 30–32, i Metallēs saranno dunque stati verosimilmente messi in scena tra il 431 e il 416; meno convincenti appaiono i tentativi di fissare la cronologia della rappresentazione ai primi anni della guerra del Peloponneso (Geissler 1969, p. 40), oppure intorno al 430 (Schmid 1946, p. 101), tra il 431 e il 425 (Bertelli 1989, p. 114 n. 53), o addirittura di datare la commedia in termini di cronologia assoluta (il 425 secondo Langerbeck 1963, p. 198; le Dionisie del 431 secondo Edmonds 1957, p. 246 n. a).

test. i K.–A. Harp. p. 203, 8 Dindorf = p. 174 Keaney μεταλλεῖς· Λυσίας ἐν τῷ πρὸς Διοχάρη, εἰ γνήσιος (fr. 89 S.). οἱ τὰ μέταλλα ἐργαζόμενοι μεταλλεῖς ὀνομάζονται. ἔστι δὲ καὶ δρᾶμα Φερεκράτους Μεταλλεῖς, ὅπερ Νικόμαχόν φησι πεποιηκέναι Ἐρατοσθένης ἐν ζ´ περὶ τῆς ἀρχαίας κωμῳδίας (fr. 93 Str. = F 5 Bagordo) metalleis: Lisia nell’orazione Contro Diocare (fr. 89 S.), se è genuina. Coloro che scavano nelle miniere sono detti metalleis. C’è anche una commedia di Ferecrate intitolata Metalleis, che Eratostene nel settimo libro del trattato Sulla commedia afferma essere stata composta da Nicomaco

Bibliografia Runkel 1829, p. 42; Meineke FCG I, p. 76 s.; Bothe 1855, p. 101; Kock CAF I, p. 174; Kaibel 1889, p. 44; Hoffmann 1910, p. 25 n. 9; Norwood 1931, p. 162; Edmonds 1957, p. 246 s.; Geissler 1969, p. 40 s.; Rehrenböck 1985, p. 144; Urios-Aparisi 1992, p. 320 s.; Bagordo 1998, p. 38; Tosi 1998, pp. 328–330; Pellegrino 2000, p. 87 n. 1; Farioli 2001, p. 91 n. 162; Storey 2011, p. 470 s.; Sonnino 2014, p. 181 s. Contesto Pur nella stringatezza determinata dal taglio lessicografico della fonte, l’interpretamentum riporta i dati essenziali del dibattito critico antico sulla paternità dei Metallēs, per il quale rimando al commento a test. iii e a quello al fr. 116 K.–A.

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test. ii K.–A. Phot. ε 2203 Theodoridis (= Pherecr. fr. 116 K.–A.) εὐθὺ Λυκείου· τὸ εἰς Λύκειον. ὅθεν Ἐρατοσθένης (fr. 46 Str.) καὶ διὰ τοῦτο ὐποπτεύει τοὺς Μεταλλεῖς. καὶ Εὐριπίδης (Hipp. 1197) οὐκ ὀρθῶς· τὴν εὐθὺς Ἄργους καὶ Ἐπιδαυρίας ὁδόν euthy Lykeiou: verso il Liceo. Eratostene (fr. 46 Str.) anche per questa ragione nutre sospetti quanto alla paternità dei Metallēs. Anche Euripide, non correttamente, dice: la strada verso [euthys] Argo e Epidauro

Bibliografia

Vd. infra ad fr. 116 K.–A.

Contesto La glossa di Fozio, che informa sul corretto uso attico di εὐθύ con genitivo nel senso di ‘dritto verso’, documentando, a un tempo, l’uso scorretto di εὐθύς locale con genitivo in Ferecrate e in Euripide, discende con ogni probabilità da un lessico platonico (vd. infra ad fr. 116 K.–A.). Interpretazione Sulle problematiche interpretative poste dalla glossa di Fozio e sui dubbi di Eratostene vd. infra ad fr. 116 K.–A.

test. iii K.–A. Athen. XV p. 685 A Φερεκράτης δὲ ἢ ὁ πεποιηκὼς τὸ δρᾶμα τοὺς Πέρσας (fr. 138) […] ὁ δὲ πεποιηκὼς τοὺς εἰς αὐτὸν ἀναφερομένους Μεταλλεῖς (fr. 114) Ferecrate, o chiunque sia l’autore della commedia Persiani (fr. 138) […] e colui che ha composto i Metallēs attribuiti a Ferecrate (fr. 114)

Bibliografia

Vd. infra ad fr. 114 K.–A.

Contesto Il passo fa parte della sezione del quindicesimo libro dei Deipnosofisti dedicata ai differenti tipi di corone e ai fiori utilizzati per il loro allestimento. Interpretazione Per i dubbi sulla paternità dei Metallēs vd. anche infra ad fr. 116 K.–A.; sull’attribuzione dei Persai a Ferecrate vd. infra ad loc. Per quanto concerne le discrepanze che emergono dalle fonti antiche quanto alla paternità ferecratea della commedia, Meineke riteneva che, a poca distanza dalla rappresentazione e dalla registrazione nelle didascalie, Nicomaco (la cui attività Meineke collocava verso la fine del V secolo, ma che è in realtà di molto complessa identificazione: vd. Sonnino 2014, p. 181 n. 48) ne avesse realizzato un rifacimento, mantenendo inalterato il titolo originale; tale rifacimento avrebbe a poco a poco determinato la perdita della versione originale della commedia e, una volta pervenuto ad Alessandria, avrebbe attirato l’attenzione di Eratostene, che lo giudicò spurio. Il diverso comportamento di Ateneo nei tre luoghi in cui cita versi dai Metallēs, ora esprimendo dubbi sulla loro paternità (XV p. 685 A), ora invece accogliendola sen-

Testimonianze (test. iii)

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za problemi (VI p. 268 D; cfr. anche III p. 96 A), sarebbe da spiegare, per Meineke, immaginando che, nel primo caso, Ateneo avesse tenuto presente la condanna formulata da Eratostene, mentre nel secondo si sarebbe fondato sull’autorità di grammatici più antichi, presso i quali la paternità ferecratea della commedia non era revocata in dubbio (Meineke FCG II.1, p. 308 s.: Docuit revera Pherecrates fabulam Μεταλλῆς inscriptam, ex quo consequens est eandem in didascaliis fuisse consignatam. Ex didascaliis eius rei notitia deinceps in grammaticorum scripta, ex quibus Athenaeus suam de fabularum temporibus scientiam derivavit, translata est. Sed eandem Pherecratis fabulam quum postea Nicomachus retractasset novaque incude diffinxisset, prioris fabulae editio, ut fieri solet, paullatim ex usu et memoria hominum elapsa est. Ita igitur factum videtur, ut Athenaeus eo quem diximus loco grammaticorum fidem sequutus genuinam Pherecratis fabula manibus se tenere censeret, immemor ille tum quidem Eratosthenis, cuius crisin altero loco sibi sequendam putaverat. Qualis sive inconstantiae sive negligentiae exempla in illo scriptore non pauca reperiuntur). In relazione al problema dell’attribuzione della commedia, Meineke non esitava a fare ricorso ad argomenti di ordine stilistico (Meineke FCG II.1, p. 307: Hoc certe negari non potest in paucis huius fabulae fragmentis, praesertim in longiore illo quod primo loco exhibui [scil. nel fr. 113 K.–A.], plurima reperiri, quae dictioni, qua veteres comici usi sunt, vehementer repugnant) che erano già stati coinvolti, prima di Meineke, da Bergk 1838, pp. 288–294, per quanto in funzione di conclusioni di segno del tutto diverso (contrariamente a Meineke, infatti, Bergk riteneva che le commedie di dubbia paternità, Μεταλλῆς compresi, dovessero essere attribuite a Ferecrate: Illud quidem apparet, Pherecratem, qui esset festivo et lepido ingenio, qui nova plerumque et ab aliis intacta argumenta eligeret eaque magna libertate tractaret, formam quoque externamque speciem argumenti novitati adaptavisse, itaque non mirum, si saepius a communi Attici sermonis consuetudine recesserit, alia obsoleta et vetustatis situ obsita restituerit, alia novarit. Quae si vel in iis fabulis, quae in nullam vocari possunt disceptationem, plurima reperiuntur, nequaquam eo argumento uti debemus, ut fabulas aliquot elegantissimas Pherecrati abrogemus; nam qui accuratius has reliquias examinaverit, is animadvertet non potuisse talia ab alio quam antiquae comoediae poeta scribi: Nicomachus igitur iste, quem Eratosthenes voluit, facessat. Nam haec sunt tam germana, tam Attica, tam festiva denique et lepida, ut nisi a Pherecrate poeta lepidissimo non videantur componi potuisse [Bergk 1838, p. 297 s.]). La ricostruzione di Meineke, a ogni modo, ha costituito a lungo l’orientamento critico prevalente ed è stata accolta, tra gli altri, da Kock CAF I, p. 174; Kaibel 1889, p. 44 (che tuttavia notava come simili prassi compositive, pur essendo non del tutto inattestate in fasi più antiche, fanno riferimento a dinamiche pienamente affermatesi solo a partire dalla commedia di mezzo); Hoffmann 1910, p. 25 n. 9; Norwood 1931, p. 162; Schmid 1946, p. 101, e Geissler 1969, p. 40 s. L’autenticità ferecratea dei Metallēs ha però trovato di recente sostenitori convinti in Rehrenböck 1985, p. 144, che osserva, tra l’altro, come il fr. 113 K.–A. «wird in den Quellen nirgends angezweifelt, vielmehr von der Hauptquelle Athenaios als ein Prunkstück des Ἀττικώτατος Φερεκράτης zitiert»

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(osservazioni analoghe in Rehrenböck 1987a, p. 20); Urios-Aparisi 1992, p. 320 s.; Pellegrino 2000, p. 87 n. 1, e Farioli 2001, p. 91 n. 162. fr. 113 K.–A. (108 K.)

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πλούτῳ δ’ ἐκεῖν’ ἦν πάντα συμπεφυρμένα, ἐν πᾶσιν ἀγαθοῖς πάντα τρόπον εἰργασμένα· ποταμοὶ μὲν ἀθάρης καὶ μέλανος ζωμοῦ πλέῳ διὰ τῶν στενωπῶν τονθολυγοῦντες ἔρρεον αὐταῖσι μυστίλαισι, καὶ ναστῶν τρύφη, ὥστ’ εὐμαρῆ γε καὐτομάτην τὴν ἔνθεσιν χωρεῖν λιπαρὰν κατὰ τοῦ λάρυγγος τοῖς νεκροῖς. φύσκαι δὲ καὶ ζέοντες ἀλλάντων τόμοι παρὰ τοῖς ποταμοῖς σίζοντ’ ἐκέχυτ’ ἀντ’ ὀστράκων. καὶ μὴν παρῆν τεμάχη μὲν ἐξωπτημένα καταχυσματίοισι παντοδαποῖσιν εὐτρεπῆ, τεύτλοισί τ’ ἐγχέλεια συγκεκαλυμμένα. σχελίδες δ’ ὁλόκνημοι πλησίον τακερώταται ἐπὶ πινακίσκοις, καὶ δίεφθ’ ἀκροκώλια ἥδιστον ἀτμίζοντα, καὶ χόλικες βοός, καὶ πλευρὰ δελφάκει’ ἐπεξανθισμένα χναυρότατα παρέκειτ’ ἐπ’ ἀμύλοις καθήμενα. παρῆν δὲ χόνδρος γάλακτι κατανενιμμένος ἐν καταχύτλοις λεκάναισι καὶ πυοῦ τόμοι. (B.) οἴμ’ ὡς ἀπολεῖς μ’ ἐνταῦθα διατρίβουσ’ ἔτι παρὸν κολυμβᾶν ὡς ἔχετ’ ἐς τὸν Τάρταρον. (A.) τί δῆτα λέξεις, τἀπίλοιπ’ ἤνπερ πύθῃ; ὀπταὶ κίχλαι γὰρ εἰς ἀνάβραστ’ ἠρτυμέναι περὶ τὸ στόμ’ ἐπέτοντ’ ἀντιβολοῦσαι καταπιεῖν, ὑπὸ μυρρίναισι κἀνεμώναις κεχύμεναι. τὰ δὲ μῆλ’ ἐκρέματο, τὰ καλὰ τῶν καλῶν ἰδεῖν, ὑπὲρ κεφαλῆς, ἐξ οὐδενὸς πεφυκότα. κόραι δ’ ἐν ἀμπεχόναις τριχάπτοις, ἀρτίως ἡβυλλιῶσαι καὶ τὰ ῥόδα κεκαρμέναι, πλήρεις κύλικας οἴνου μέλανος ἀνθοσμίου ἤντλουν διὰ χώνης τοῖσι βουλομένοις πιεῖν. καὶ τῶνδ’ ἑκάστοτ’ εἰ φάγοι τις ἢ πίοι, διπλάσι’ ἐγίγνετ’εὐθὺς ἐξ ἀρχῆς πάλιν

1 ἐκειν’ Athen.: ἐκεῖ γ’ Schweighaeuser Athen. III, p. 581 2 om. CE εἰργασμένα A: ὠργ- Bergk 1838, p.  291: ἠρτυμένα van Herwerden 1855, p.  12: ᾠκισμένοις Kock CAF I, p.  176 3 πλέῳ Dindorf 1827, I, p.  582: πλέοι Athen., Eust.: πλέον Poll. 4 τονθολυγοῦντες Athen., Eust.: τονθορυγ- Poll. FS: θορυβ- Poll. A:

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πομφολυγ- Athen. cod. B (ex coniect.) 5–7 om. Poll. 6 εὐμαρῆ γε Dindorf 1827, I, p. 582 (praeeunte Casaub., qui εὐμαρῆ τε): -η ἦγεν Α: om. CE καὐτομάτην Casaub.: αὐτόματ’ εἰς A: om. CE 8 φύσκαι δὲ Athen.: φ- τε Poll. FA: φάσκεται Poll. S ζέοντες codd.: σίζοντες Pierson ap.  Dobree 1843, II, p.  313 9 τοῖς ποταμοῖς σίζοντα ἐκέχυτ᾽ Poll. FS: τοῖς -οῖς -τες -υτ᾽ Poll. A: τοῖς -οῖς -τες -υντ᾽ Athen.: τοῖς -οῖσιν vel τοῖσι -οῖς έξεκέχυντ᾽ (praeeunte Pierson ap. Porson 1815, p. 281) vel ἐξέκειντ᾽ Dobree 1843, II, p.  313 11 εὐτρεπῆ Athen., Poll. A: εὐπρεπῆ Hemsterhuys 1743, p. 316 12 om. Athen. ἐγχέλεια Pierson ap. Porson 1815, p. 281: -λυα SA: -λίας F: -λύδι’ (ἐγκ-) van Herwerden 1855, p. 13 13 σχελίδες Athen., Poll.1 FS, Poll.3 A: σκελ- Poll.2 (et Poll.3 FSBC): σχολ- Poll.1 A 15 ἀτμίζοντα codd.: ἀπατμ- Dindorf 1827, I, p. 582 18 γάλακτι codd.: γάλατι Dindorf 1829, p. 231: -κι Gulick Athenaeus III, p. 208 κατανενιμμένος Athen.: καταμεμιγμ- Poll. F: μεμιγμ- AS 19 καὶ πύου τόμοι Villebrune 1789, II, p. 511 s.: καὶ πυοτομοι Athen. A: κἀμύλου τόμοι Poll. FA: ἀμιλλοῦ ταίμοι Poll. S: om. Athen. CE 20–22 om. Athen. CE, Poll. 21 ἔχετ᾽ εἰς A: ἔχω ᾽ς Bothe 1855, p. 102 22 ὡς ἔχετ’ Athen. Α, ὡς ἔχω, ’ς τὸν Bothe 1855, p. 102 (ὡς ἔχομεν εἰς vel ὡς ἔχω ’ς τὸν Meineke 1867, p. 118) 23 εἰς ἀνάβραστ’ Meineke 1847, I, p. 108 s.: εἰς ἀναβρασεις· ἀναβράσεις. ἀναβραστ’ Athen. A ἐπὶ τοῖσδ’ ἀνάβραστ’ Poll. F: ἐπὶ τοῖσδ’ ἀνάβροιστ’ Poll. A: ἀνάβραστ’ Poll. S: -στοι Athen. CE: άναβράσει τ᾽ Marx 1905, p. 319 (ad 978) 25 ὑπὸ ACE: ἐπὶ Meineke 1867, p. 118 κεχυμέναι ACE: -μένους Meineke 1847, I, p. 109: -μένοις vel -μένους Meineke 1867, p. 118: -μένας Kock CAF I, p. 176 26 ἐκρέματο Morelius 1553, p. 107: -ντο Athen. ACE 27 οὐδενὸς Dindorf 1827, I, p. 583: οὐθ- Athen. ACE 29 καὶ τὰ ῥόδα ACE: τὰ ῥόδα καὶ Kock CAF I, p. 176: τὰ ῥόδα κατα- van Herwerden 1903, p. 16: καὶ ῥόδον Dobree 1843, II, p. 234 32 καὶ τῶν δ᾽ ACE: τούτων δ᾽ van Herwerden 1903, p. 16 ἑκαστότ’ εἰ Jacobs 1809, p. 160: ἕκαστος εἰ ACE: ἑκάστων εἰ Meineke: ἕκασθ᾽ ὅσ᾽ ἢ Dobree 1843, II, p. 313 33 ἐγινετ’ ACE: corr. Dindorf 1827, I, p. 583

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Tutti quei cibi erano stati mescolati senza parsimonia, preparati in ogni modo possibile e con ogni dovizia: fiumi pieni di polenta e di brodo nero borbottando scorrevano attraverso stretti passaggi insieme a molliche di pane, e pezzi di focaccia, cosicché facilmente e da solo il boccone scivolava, ben unto, giù per la gola dei morti. Budella farcite e pezzi di salsiccia bollita si erano arenate sfrigolanti sulle rive dei fiumi, a guisa di conchiglie. E c’erano anche filetti di pesce in salamoia ben cotti preparati con ogni tipo di intingoletto, pezzi di anguilla avvolti nelle bietole. E accanto c’erano cosciotti interi tenerissimi disposti su piccoli taglieri, e stinchi e testine bollite spiranti un soave profumo, e interiora di bue, e gustosissime costatine di maiale dorate giacevano adagiate, impiattate su focacce di frumento. C’erano poi spelta inzuppata nel latte in brocche e fette di formaggio di colostro.

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(B.) Ahimé, mi farai morire se indugi in questi discorsi, mentre potreste saltar giù subito nel Tartaro! (A.) E che dirai quando saprai il resto? Infatti tordi abbrustoliti, pronti ad accompagnare i bolliti, volavano intorno alla bocca pregando che li si divorasse in un sol boccone, dopo essere discesi da corone di mirto e da anemoni. E poi mele, le più belle tra le belle a vedersi, penzolavano sul nostro capo, spuntate fuori dal nulla. E poi fanciulle avvolte in veli raffinati, proprio nel fiore dell’età, con le parti intime depilate, riempivano coppe di vino rosso profumato: le colmavano con un imbuto fino all’orlo per chi volesse bere. E ogni volta che qualcuno mangiava o beveva una di queste cose, subito ne spuntava fuori il doppio di quanto ce n’era all’inizio

[1–33] Athen.1 VI pp. 267 E–269 C oἱ δὲ τῆς ἀρχαίας κωμῳδίας ποιηταὶ περὶ τοῦ ἀρχαίου βίου διαλεγόμενοι ὅτι οὐκ ἧν τότε δούλων χρεία τοιάδε ἐκτίθενται […]. ἐγὼ δ’ ἐπειδὴ ὥσπερ λαμπάδιον κατασείσαντος τοῦ θαυμασιωτάτου Κρατίνου τὰ προκείμενα ἔπη (fr. 176) καὶ {ὡς} οἱ (καλῶς οἱ Madvig 1884, p. 58) μετ’ αὐτὸν γενόμενοι μιμησάμενοι ἐπεξειργάσαντο, ἐχρησάμην τῇ τάξει τῶν δραμάτων ὡς ἐδιδάχθη. καὶ εἰ μὴ ἐνοχλῶ τι ὑμῖν […], ἀπομνημονεύσω κατὰ τὴν τάξιν καὶ τὰ τοῖς ἄλλοις εἰρημένα ποιηταῖς· ὧν εἷς ἐστιν ὁ ἀττικώτατος Φερεκράτης, ὃς ἐν μὲν τοῖς Μεταλλεῦσι φησιν· πλούτῳ — πάλιν i poeti della commedia antica, parlando della vita dei tempi antichi, citano questi versi a prova del fatto che allora non c’era bisogno di schiavi […]. E io, dopo che il meraviglioso Cratino diede il segnale agitando i versi sopra citati come una piccola torcia, e quelli che vennero dopo di lui avendolo ben presente completarono l’opera imitandolo, ho citato i drammi secondo l’ordine cronologico di rappresentazione. E se non vi annoio troppo […], reciterò in ordine anche le cose dette dagli altri poeti: tra questi il primo è l’atticissimo Ferecrate, che nei Metallēs dice: tutti — all’inizio [3–24] Poll.1 VI 58 (codd. FS, A) οὐ φαῦλον δ’ ἴσως παραθέσθαι καὶ τὴν Φερεκράτους λέξιν· ποταμοὶ — καταπιεῖν non è forse inutile riportare anche un passo di Ferecrate: fiumi — divorati in un sol boccone [3–4] Eust. in Il. p. 1095, 18 κωμικῶς (λέγεται) τονθολυγεῖν καὶ κοχυδεῖν (fr. 137, 4) ὡς αἱ παρὰ τῷ Ἀθηναίῳ χρήσεις δηλοῦσιν, οἷον ποταμοὶ — ἔρρεον, ἤγουν ποιὸν ἦχον ἀποτελοῦντες, ὅθεν ἴσως καὶ τὸ τονθορύζειν in commedia vengono utilizzati tontholygein e kochydein (fr. 137, 4) come mostrano le occorrenze dei due verbi in Ateneo, come ad esempio fiumi — scorrevano, a rendere il tipo di frastuono che facevano, da cui, forse, anche il verbo tonthoryzein

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[13–14] Athen.2 III p. 96 A (ἀκροκώλια) Φερεκράτης δ’ ἐν Μεταλλεῦσι· σχελίδες — ἀκροκώλια (akrokōlia) Ferecrate nei Metallēs: cosciotti — testine

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Poll.2 II 191

σκελίδες ὁλόκνημοι ἐν τῇ κωμῳδίᾳ, Poll.3 VI 52 (codd. FS, A, BC) σκελίδες ὁλόκνημοι αἱ πέρναι. Hesych. ο 610 ὁλόκνημοι· ὁλομελεῖς [30–31]

Poll.3 X 75 (codd. FS, CL; οἴνου ἀγγεῖα) ἐκ δὲ τούτων καὶ ἡ χώνη, ὅταν εἴπῃ Φερεκράτης ἐν Μεταλλεῦσι (πετάλλη S, πετάλη FCL, corr. Falckenburg)· κύλικα — χώνης (contenitori per il vino) tra questi c’è anche la chōnē, che Ferecrate nomina nei Metallēs: coppa — imbuto

Metro Trimetri giambici

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Bibliografia Morelius 1553, pp. 106–108; Hemsterhuys 1743, p. 316; Villebrune 1789, II, pp. 510–512; Schweighaeuser Athen. III, p. 581; Jacobs 1809, p. 160; Porson 1815, p. 281 s.; Bernhardy 1822, p. 231; Dindorf 1827, I, p. 582 s.; Meineke 1827, p. 33; Dindorf 1829, p. 231; Runkel 1829, pp. 43–46; Elmsley 1830, p. 77; Pierson 1830, p. 169 s.; Bergk 1838, pp. 290–294; Meineke FCG II.1, pp. 299–305; Bailey 1840, pp. 18–24; Dobree 1843, II, pp. 234, 313; Meineke 1847, I, pp. 107– 109; van Herwerden 1855, pp. 12–14; Bothe 1855, p. 101 s.; Meineke 1867, p. 117 s.; Kock CAF I, pp. 174–177; Graf 1885, pp. 71, 79 s.; Blaydes 1890, pp. 20 s., 208; Blaydes 1896, pp. 22, 286; Marx 1905, p. 319; van Herwerden 1903, p. 15 s.; Hoffmann 1910, p. 25; Gulick Athenaeus III, pp. 206–211; Norwood 1931, p. 162; Zieliński 1931, p. 38 s.; Körte 1938, col. 1988, 55–63; Schmid 1946, p. 105; Baldry 1953, p. 56; Edmonds 1957, pp. 246–249; Langerbeck 1963, p. 198 s.; Dohm 1964, pp. 61–63; Tichy 1983, pp. 215 n. 15, 324–326; Rehrenböck 1985, pp. 132–171; Conti Bizzarro 1990–1993, pp. 91–101; Paradiso 1991, p. 61 n. 21; Urios-Aparisi 1992, pp. 324–355; Ceccarelli 1996, p. 125 s.; Melero Bellido 2000; Pellegrino 2000, pp. 85–109; Wilkins 2000, pp. 112–114; Farioli 2001, pp. 92–103; Olson Athenaeus III, pp. 236–239; Storey 2011, pp. 472–475 Contesto della citazione La pluralità di fonti che riportano sezioni più o meno ampie del testo di questo straordinario frammento dimostra la fortuna di cui esso dovette godere nell’antichità: una fortuna ulteriormente confermata da un grappolo di fonti ulteriori, che, pur non citando espressamente Ferecrate, sono con ogni evidenza da riportare a questo frammento (si tratta di due passi di Polluce e di un lemma di Esichio riferibili al v. 13: rispettivamente, Poll. II 191 σκελίδες ὁλόκνημοι ἐν τῇ κωμῳδίᾳ, Poll. VI 52 σκελίδες ὁλόκνημοι αἱ πέρναι e Hesych. ο 610 ὁλοκνημοι· ὁλομελεῖς, oltre a un ulteriore passo di Polluce riferibile al medesimo verso, ovvero Poll. VI 52 πλευρὰ δελφάκια). Nel complesso, i versi, per come sono tràditi, pongono di fronte a un numero notevole di problemi: da qui, i molti sforzi compiuti dagli studiosi per restituire al testo del frammento una facies testuale accettabile. L’unico teste che riporti il frammento nella sua interezza è Athen. VI pp. 268 E–269 C, ove la sequenza ferecratea si trova citata nel contesto della ricca raccolta di passi comici coinvolti a documentare l’inutilità della forza

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lavoro servile ai tempi dell’ἀρχαῖος βίος (sui rapporti che legano il frammento di Ferecrate agli altri passi comici citati da Ateneo si vedano ora Bagordo 2013, p. 64 s., e Pellegrino 2013, p. 42). La densa antologia raccolta da Ateneo non pare, tuttavia, pienamente in linea con i propositi espressi: innanzitutto, «il riferimento all’archaios bios [non] va inteso alla lettera, poiché la ripresa del tema dei Saturnia regna non comporta un’effettiva ambientazione nel passato mitico» (Farioli 2001, p. 29); in secondo luogo, i frammenti citati da Ateneo sono accomunati dal ricorrervi dei tratti più tipici del Paese di Cuccagna nella sua versione comica, con riferimenti puntuali all’abbondanza di cibo, mentre l’assenza di servi è un dato che emerge in maniera piuttosto marginale. Quest’ultima considerazione, tuttavia, non va forse enfatizzata: la scelta dei frammenti, infatti, avrà potuto dipendere, almeno in parte, dall’interesse prevalentemente gastronomico che informa l’opera di Ateneo nel suo complesso, e comunque la disponibilità ‘automatica’ di cibo gratuito e abbondante implica con ogni evidenza una realtà che non necessita di lavoro, compreso il lavoro servile (a ragione Pellegrino 2000, p. 23, osserva che in generale «la rappresentazione dell’automatos bios è un motivo tipicamente favoloso che si risolve nell’illusione della spontanea generazione o dell’automatico movimento di oggetti, di norma, privi di vita autonoma»; del tutto condivisibili appaiono, in tal senso, anche le conclusioni di Farioli 2001, pp. 10 e 30). Testo Come si è detto, il testo tràdito risulta in diversi luoghi problematico, al punto che non sempre il prolungato sforzo esegetico compiuto dagli studiosi è riuscito a pervenire a risultati che possano considerarsi pienamente soddisfacenti. Il dibattito antico sulla paternità della commedia ha del resto influenzato in modo significativo la critica moderna, come dimostra la tendenza a intervenire con frequenza sul testo tràdito anche nei casi in cui esso appaia esente da corruttele evidenti, allo scopo di restituire un testo almeno in apparenza più in linea con la fama di autore ‘atticissimo’ che Ateneo predica in relazione a Ferecrate. L’apparato proposto in calce al frammento è, di necessità, una selezione del tutto parziale e incompleta, che privilegia i casi più evidenti di corruttela, le varianti testuali maggiormente significative e, insieme, una serie piuttosto nutrita di interventi moderni scelti tra i più rilevanti in relazione alla storia dell’esegesi del frammento. La congettura di Schweighaeuser al primo verso rappresenta in modo emblematico l’atteggiamento di sfiducia di parte degli studiosi nei confronti del testo tràdito: sebbene infatti la correzione di ἐκεῖν’ in ἐκεῖ γ’ sia del tutto superflua (cfr. infra, ad loc.; si vedano anche, in tal senso, le conclusioni di Pellegrino 2000, p. 91, che riprende le analoghe osservazioni di Rehrenböck 1985, pp. 132–137, e di Kassel e Austin in apparato [PCG VII, p. 156]), essa ha goduto comunque di un discreto successo, essendo stata accolta da Bothe 1855, p. 101, da van Herwerden 1855, p. 12, e da ultimo da Conti Bizzarro 1990–1993, p. 93. Talvolta il confronto tra le varianti della tradizione e le rispettive fonti consente di ricostruire il dettato originale: al v. 4, ad esempio, la variante πομφολυγοῦντες trasmessa da parte della tradizione di Ateneo si deve verosimilmente alla penetrazione a testo di una ‘alte Marginalnotiz’ a glossa di τονθολυγοῦντες (così Rehrenböck 1985, p. 148, sulla

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scia di Schweighaeuser Athen. III, p. 581 [πομφολυγοῦντες fortasse a docto quopiam viro orae libri sui inscriptum erat, ut verbum similis significationis], e contro Bergk 1838, p. 292, la cui difesa di merita a ogni modo di essere ricordata per il coinvolgimento, certo pertinente, anche se forse non decisivo, di Ar. Ran. 247–249 ἔνυδρον ἐν βυθῷ χορείαν / αἰόλαν ἐφθεγξάμεσθα / πομφολυγοπαφλάσμασιν), che è a sua volta da preferire alla variante τονθορυγοῦντες, come sembra suggerire la testimonianza di Eustazio citata sopra (κωμικῶς [λέγεται] τονθολυγεῖν καὶ κοχυδεῖν ὡς αἱ παρὰ τῷ Ἀθηναίῳ χρήσεις δηλοῦσιν; il τονθορυγοῦντες tràdito da Polluce sarà da spiegare con Tichy 1983, p. 215 n. 15: «durch Verwechslung beider Onomatopoetika kam die f. l. τονθορυγοῦντες Poll. 6, 58 zustande»; vd. inoltre Rehrenböck 1985, p. 148, e Pellegrino 2000, p. 94). Non mancano, tuttavia, casi in cui il raffronto delle varianti evidenzia corruttele che possono essere sanate solamente per congettura: è il caso, solo per fare un esempio, del v. 23, ove l’intervento εἰς ἀνάβραστ’ di Meineke prova a sanare una sequenza molto gravemente compromessa. Alcuni interventi si sono resi necessari per garantire la correttezza metrica dei versi: è il caso, ad esempio, dei vv. 26 e 33, dove ἐκρέματο e ἐγίγνετ’ sono metricamente indispensabili. Altrove, intervenire si è reso invece necessario per ragioni di ordine linguistico: così per il πλέοι tràdito a v. 3 da Ateneo e da Eustazio (il restauro di πλέῳ, risalente a Dindorf, mirava a restituire la corretta forma attica; vd. Rehrenböck 1985, p. 147: «nur diese Form ist attisch zulässig») e per l’οὐδενὸς restituito, ancora una volta, da Dindorf al v. 27 per il tràdito οὐθενὸς. Interpretazione La lunga descrizione di gustose vivande che spontaneamente si offrono a chiunque voglia consumarle costituisce uno dei più significativi motivi del repertorio tematico caratteristico degli scenari comici di Schlaraffenland. Il contesto che incorniciava la narrazione, così come il suo ruolo nell’economia generale della commedia, resistono a tentativi di inquadramento troppo circostanziati; le ricostruzioni proposte, delle quali si è detto sopra, nella sezione di introduzione generale alla commedia, sono destinate a rimanere su un piano ipotetico, né aiutano, in questo senso, le pur molto numerose scene di Paese di Cuccagna che ricorrono in commedia, costituendo esse un panorama articolato e multiforme, non riconducibile a coordinate unitarie. Se, infatti, il cibo rimane il nucleo fondante della funzione ‘carnevalizzante’ di tali scene (sull’applicazione all’interpretazione delle culture antiche del concetto di ‘carnevalizzazione della letteratura’ elaborato da Bachtin soprattutto in relazione a Rabelais la letteratura è, come è noto, sterminata: i contributi più significativi sono raccolti e discussi da Pellegrino 2000 e Farioli 2001; per quanto concerne la commedia attica, si vedano le lucide osservazioni di Zimmermann 1991 e Pellegrino 2006, pp. 177–183, a cui rimando anche per un ricco aggiornamento bibliografico [vd. spec. p. 81 n. 5]), altre suggestioni di volta in volta arricchiscono e completano le singole ricorrenze del tema: l’allusione a motivi culturali, etici e politici è frequente, anche se in un’ottica talmente distorta e avulsa da costituire piuttosto occasione di evasione, di fuga dalla realtà, che strumento di critica organica (un elemento, quest’ultimo, che sembra però difficile mettere del tutto tra parentesi: condivisibile, ad esempio,

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l’approccio messo in campo da Ceccarelli 1996, p. 125 s., la quale proponeva di leggere nelle scene comiche di utopia gastronomica e ‘carnevalesca’ la rielaborazione in chiave parodica del tema propagandistico pericleo dell’abbondanza di beni che la talassocrazia avrebbe garantito agli Ateniesi). Quanto alla portata ‘carnevalesca’ dei frammenti comici citati da Ateneo nel già più volte ricordato passo del sesto libro dei Deipnosofisti, compreso, ovviamente, il lungo frammento dei Metallēs qui in discussione, la migliore messa a punto resta quella fornita da Pellegrino 2000, p. 35 s., ove si insiste, da un lato, sul fatto che il basso indice di produzione di beni alimentari tipico del territorio greco nel suo complesso faceva sì che gran parte della popolazione subisse le conseguenze di un vitto insufficiente, con frequenti episodi di carestie, e, dall’altro, sul peso della guerra, che ad Atene produsse condizioni di sempre più grave disagio: un dato, quest’ultimo, al quale in relazione ai Metallēs, andati in scena con buona probabilità dopo lo scoppio delle ostilità (cfr. supra), dovrà essere attribuito il giusto peso. Da qui, le conclusioni, pienamente condivisibili, che Pellegrino formula a p. 36: «A fronte della quotidianità di una dieta alimentare estremamente deficitaria, e, soprattutto, in concomitanza di eventi bellici tanto sconvolgenti e dolorosi, non sembrerebbe dunque inverosimile che, nell’immaginario collettivo degli spettatori ateniesi, i frammenti περὶ τοῦ ἀρχαίου βίου, con le loro fantasmagoriche descrizioni edifagetiche, le suggestive fughe in tempi e spazi favolosi, e la forza liberatoria del riso, tradissero tutto il loro vivace carattere di comica, ‘carnevalesca’ evasione dalla realtà» (sull’intrinseca comicità dell’evocazione del cibo sulla scena comica vd. anche Heath 20035, p. 13 s.). Merita, infine, un cenno l’elaborata, raffinata struttura argomentativa del frammento, che si mostra articolato attraverso una fitta rete di corrispondenze sintattiche e retoriche: enumerazioni; polisindeti; termini onomatopeici; pleonasmi; giustapposizioni di espressioni colloquiali a termini stilisticamente più elevati o rari, e così via (per una buona analisi retorica e stilistica del frammento vd. Urios-Aparisi 1992, p. 326 s.). 1 πλούτῳ Sull’ipotesi che il termine alluda qui al dio della ricchezza (che sarebbe perfettamente al suo posto nell’oltretomba in virtù della compenetrazione tra Pluto e Plutone, ben attestata nel dramma attico: cfr. Soph. frr. 273 e 283 Radt, Ar. Plut. 727 e fr. 504, 1 K.–A., e inoltre Austin–Olson 2004, p. 151 s.) si veda ora Pellegrino 2000, p. 90 s. συμπεφυρμένα L’uso del participio perfetto ricorre a più riprese nel frammento (cfr. εἰργασμένα, v. 2; ἐξωπτημένα, v. 10; συγκεκαλυμμένα, v. 12; ἐπεξανθισμένα, v. 16; κατανενιμμένος, v. 18; ἠρτυμέναι, v. 23; κεχυμέναι, v. 25; πεφυκότα, v. 27; κεκαρμέναι, v. 29; osservazioni analoghe, come segnalato da Kassel e Austin in apparato [PCG VII, p. 156], già in Porson 1812, p. 105 s.); secondo Rehrenböck 1985, p. 146, «die Vollendung des Perfektums erweist die Vollendung des Schlaraffenlandes». Il verbo συμφύρω, non attestato altrove in commedia, allude al disordine generato dalla giustapposizione sovrabbondante di cibi e pietanze; secondo Conti Bizzarro 1990–1993, p. 93 s., esso sarebbe da riferire al caos che precede la nascita della civiltà. Non è comunque in alcun modo necessario pensare che l’immagine di disordine veicolata da συμφύρω trovasse

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di nuovo espressione nel verso successivo, come parve invece a Bergk, il quale intervenne sul tràdito εἰργασμένα, proponendo in alternativa ὠργασμένα, con l’intenzione dichiarata di garantire, appunto, continuazione all’idea di disordine introdotta, al verso precedente, da συμπεφυρμένα (Bergk 1838, p. 291: at vero scripserat Pherecrates ὠργασμένα, quod cum praecedenti vocabulo συμπεφυρμένα optime congruit: ὀργάζειν enim idem fere quod φύρειν est, Atticorum autem sermone satis tritum; ma si vedano già le obiezioni di Meineke FCG II.1, p. 301: Th. Bergkius […] ingeniose scripsit ὠργασμένα, quamquam id ipsum etiam insolentiae crimine laboraret, quum ὀργάζειν apud Atticos nisi de luto similive materia subigenda vix dictum esse reperiatur). 1–2 ἐκεῖν’ ἦν πάντα … / ἐν πᾶσιν ἀγαθοῖς πάντα τρόπον Il poliptoto preannuncia e rispecchia la straripante ricchezza di cibi e bevande che sta per essere descritta (vd. anche Gygli-Wyss 1966, p. 46, la quale in questo poliptoto ferecrateo proponeva di vedere un riflesso parodico del linguaggio filosofico). Il sapore proverbiale della iunctura ἐν πᾶσιν ἀγαθοῖς è sottolineato già in Meineke FCG II.1, p. 301 (ἐν πᾶσιν ἀγαθοῖς proverbialem colorem habet); quanto a πάντα τρόπον, si vedano le osservazioni di Pellegrino 2000, p. 91 s. (che raccoglie le attestazioni comiche del nesso) e di Urios-Aparisi 1992, p. 332. 3 ποταμοὶ La presenza di fiumi è un elemento tradizionale della geografia dell’oltretomba a partire almeno da Hes. Theog. 736–738. L’immagine del fiume nel cui alveo scorrono liquidi commestibili invece dell’acqua, attestata anche in tragedia (cfr. Eur. Bacch. 706–710), costituisce probabilmente lo sviluppo del concetto per cui un corso d’acqua, irrigando e fertilizzando i campi, apporta ricchezza al territorio che lo circonda (vd. Wilkins 2000, pp. 119–121). Descrizioni di fiumi di cibi e bevande ricorrono spesso in commedia in contesti di Paese di Cuccagna: cfr. Telecl. fr. 1, 8 K.–A. (vd. Bagordo 2013, p. 64 s.); Metag. fr. 6 K.–A. (vd. Pellegrino 1998, pp.  307–320; Pellegrino 2000, pp.  136–140, e Orth 2014, pp.  415–426); Nicoph. fr. 21, 3 K.–A. (vd. Pellegrino 2013, p. 69). μὲν Considerato il fatto che un δέ non ricorre prima di v. 8 (φύσκαι δὲ καὶ ζέοντες καὶ ἀλλάντων τόμοι), non è forse da escludere l’idea che questo μέν sia da considerare un μέν solitarium incettivo (Denniston 1954, pp. 382–384), a inaugurare il lungo elenco di delizie che segue. ἀθάρης Si tratta di una polenta preparata a partire dal frumento bollito, citata spesso nei comici (vd. p. es. Ar. Pl. 672–695, Nicoph. fr. 6, 1 K.–A. e Cratet. fr. 11 K.–A.) e ben nota anche alle fonti erudite e lessicografiche, che prestano sempre particolare attenzione a distinguere tra ἀθάρη e ἔτνος (preparato, quest’ultimo, con farina di legumi e non di cereali). Le fonti lessicografiche sono raccolte e analizzate da Pellegrino 2000, p. 93, e Pellegrino 2013, p. 39; sulla differenza tra ἀθάρη e ἔτνος vedi anche Bonanno 1972, p. 76. Quanto all’oscillazione tra ἀθάρης (Athen., Eust.) e ἀθάρας (Poll.), e l’opportuna preferenza accordata dagli editori alla prima delle due forme tràdite, resta fondamentale la nota di Pierson 1830, p. 169 s., a Moer. θ 6 Hansen (θοίνη Ἀττικοί· θοῖνα Ἕλληνες); ἀθάρη, di etimologia incerta, presuppone forse *ἀθάρϝα (vd. Beekes 2010, p. 28, s. v.).

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μέλανος ζωμοῦ In genere il brodo nero evocato nel frammento viene identificato dagli studiosi con il piatto tradizionale laconico, a tal punto legato alle abitudini alimentari degli Spartani che il suo consumo costituì, secondo Plutarco (Alc. 23, 3), un segno inequivocabile dell’avvicinamento di Alcibiade a Sparta. Altrove, in Grecia, la pietanza (a base di carne di maiale cucinata in una salsa di sale, aceto e sangue: vd. Pellegrino 2000, p. 119; secondo Arnott 1996, p. 425 s., invece, la ricetta originale conteneva farina di ceci al posto della carne di maiale) non era tuttavia considerata affatto un cibo prelibato, come si desume, tra l’altro, da due aneddoti simili riferiti da Plutarco a proposito di assaggi sperimentati da Dionigi di Siracusa (Plut. Mor. 236 F = Inst. Lac. 2) e da un anonimo re del Ponto (Lyc. 12). Per quanto la menzione di una pietanza di poco pregio potrebbe doversi al fatto che lo Schlaraffenland comico prevede che sia «ribaltato e ricomposto in forme caleidoscopiche ogni codice alimentare, senza alcun ordine, privilegiando il cibo ‘ricco’, ma anche il cibo ‘povero’ e ‘copioso’» (Paradiso 1991, p. 61 n. 21), va tuttavia osservato che il brodo nero non compare altrove, come pure è stato affermato, nelle descrizioni comiche di cuccagna, con la sola eccezione di Pherecr. fr. 137, 4 K.–A. (nelle altre occorrenze comiche solitamente citate, ovvero Telecl. fr. 1, 8 K.–A. e Nicoph. fr. 1, 23 K.–A., ζωμός non è accompagnato dall’aggettivo μέλας: in tali casi il termine designerà verosimilmente in maniera generica un brodo di carne o di pesce [vd. in tal senso, LSJ9 s. v. ζωμός e Bagordo 2013, p. 64 s.]). Di certo il brodo nero, che sia o meno da identificare con il piatto spartano (che si tratti di due differenti preparazioni è ipotesi avanzata da Garcia Soler 2001, p. 36), doveva godere di una certa fortuna anche ad Atene: in Euphron. fr. 1, 8 K.–A. al cuoco Lampria (citato anche in un’iscrizione risalente alla fine del IV secolo: SIG3 vol. III, 1261 r. 15 [p. 386 s.]) viene iperbolicamente attribuita l’invenzione del μέλας ζωμός. 4 διὰ τῶν στενωπῶν Se in Soph. fr. 832 Radt στενωπὸς ᾍδου indica verosimilmente le porte dell’Ade (vd. Urios-Aparisi 1992, p. 334; Conti Bizzarro 1990–1993, p. 94 n. 21, e Pellegrino 2000, p. 93), il plurale dovrebbe qui forse orientare in altra direzione; non escluderei che in questo caso il termine, in un’accezione molto vicina a quella di ‘stretto’ marino (vd. LSJ9 s. v., II, ove però l’occorrenza ferecratea si trova tradotta con ‘lane, alley’), possa indicare, più semplicemente, restringimenti del letto dei fiumi di polenta e di brodo, e dunque le turbinose ‘rapide’ della corrente, come pare suggerire l’appena successivo τονθολυγοῦντες. τονθολυγοῦντες Il verbo descrive onomatopeicamente il fragore del fiume (sul valore dell’onomatopea vd. Tichy 1983, p. 324 s.; ulteriore bibliografia è raccolta in Pellegrino 2000, p. 94); sulle varianti attestate in relazione al participio vd. supra. 5 αὐταῖσι μυστίλαισι Propriamente μυστίλη indica un pezzo di pane concavo, utilizzato come cucchiaio per mangiare cibi liquidi o semiliquidi come polenta o brodo (cfr. Poll. VI 87, Hesych. μ 1975 e Suid. μ 1488); sulla problematica etimologia del termine si veda ora (oltre a Frisk GEW, p. 278 e a Chantraine DELG III, p. 727) Beekes 2010, p. 986. Sul dativus sociativus con αὐτός si vedano le osservazioni di Rehrenböck 1985, p. 149.

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ναστῶν τρύφη Il nesso non compare altrove in commedia, ma ricorre in AP VI 105, 3 e in Luc. Fug. 31. Il ναστός è un prodotto da forno che ricorre spesso in contesti comici (le attestazioni sono raccolte da Pellegrino 1998, p. 311 s., e Pellegrino 2000, p. 137), la cui precisa identificazione era discussa già in antico, come attesta Athen. III p. 111 C (per Polemarco e Artemidoro si trattava di una pagnotta, mentre per Eracleone di una focaccia; la medesima ambiguità è registrata anche in Suid. ν 44, mentre per Polluce [VI 78] si tratta di un dolce farcito con uva passa e mandorle; sulla questione si vedano Dalby 1996, p. 91, e Garcia Soler 2001, pp. 93 s. e 287); considerato il fatto che «a ναστός, whatever its precise nature and content, is agreed by ancient sources to be μέγας» (Dunbar 1995, p. 261), è probabile che a renderlo idoneo a essere coinvolto nel contesto di rappresentazioni comiche del Paese di Cuccagna sia stata proprio la sua mole considerevole (cfr. Pherecr. fr. 137, 7 K.–A. e Metag. fr. 6, 3 K.–A.). L’apparente assenza di un verbo al quale riferire la iunctura ναστῶν τρύφη è tra le ragioni che spinsero Kock (CAF I, p. 176) a immaginare, per i vv. 5–12 del frammento, una diversa sistemazione: vd. però Rehrenböck 1985, p. 150 s. 6–7 καὐτομάτην τὴν ἔνθεσιν / χωρεῖν Il boccone che provvede da sé a farsi ingerire richiama comicamente il topos dell’automatos bios, per il quale (soprattutto in relazione alle occorrenze in commedia) rimando a quanto osservato sopra nella sezione introduttiva alla commedia e a proposito dei Krapataloi. Il verbo χωρεῖν è utilizzato in Eur. Med. 410 e in Plat. Phaed. 113 a-b per indicare lo scorrere di un fiume e potrebbe quindi leggersi, secondo Conti Bizzarro, come una ripresa della metafora fluviale (vd. Conti Bizzarro 1990–1993, p. 95; il verbo ricorre in connessione con λιπαρός anche in Ar. Eccl. 652 e Plut. 616). 8 φύσκαι Il termine indica un insaccato adatto a una pluralità di preparazioni e ricette (vd. Garcia Soler 2001, p. 239, e Bagordo 2017, p. 89); in commedia, compare di frequente in elenchi di pietanze (cfr. p. es. Ar. frr. 264, 2 K.–A. e 702 K.–A.; Anaxandr. fr. 42, 40 K.–A.; Eub. fr. 63, 6 K.–A.; Mnesim. 4, 15 K.–A.; Philem. fr. 63, 2 K.–A.). ἀλλάντων Salume realizzato con budella farcite di carne, sangue, grasso e spezie (vd. la bibliografia raccolta da Orth 2014, p. 424), frequentemente citato in commedia (cfr. p. es. Cratet. fr. 19, 4 K.–A.; Metag. fr. 6, 7 K.–A.; Eub. frr. 14, 7 e 63, 7 K.–A.; Antiph. fr. 72 K.–A.; Axion. fr. 8, 4 K.–A.; Mnesim. fr. 4, 14 K.–A.; in Aristofane [Ach. 146] sono ricordati gli ἀλλᾶντες consumati in occasione delle Apaturie, ed è appena il caso di ricordare l’ἀλλαντοπώλης dei Cavalieri). L’insaccato, menzionato già in Hippon. fr. 84, 17 W2, era dunque forse specialità originaria dell’Asia minore ionica (vd. Fraenkel 1960, p. 410 = Fraenkel 2007, p. 399). τόμοι Come nota Rehrenböck 1985, p. 150, la presenza di cibo già diviso in porzioni risparmia ai suoi fruitori persino lo sforzo di tagliarlo o spezzarlo. 9 σίζοντ’ Il verbo, già omerico (cfr. Od. IX 394), esprime onomatopeicamente il sibilo del metallo ardente a contatto con un liquido (vd. Tichy 1983, p. 123 s., e Conti Bizzarro 1990–1993, p. 97).

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ἀντ’ ὀστράκων ‘Just like shells’ (Gulick Athenaeus III, p. 209), ‘like oystershells’ (Olson Athenaeus III, p. 237); meno convincenti i molti altri tentativi di interpretazione, per i quali rimando all’ordinato elenco allestito da Pellegrino 2000, p. 97. Quanto, in particolare, alla resa ‘wie Tonscherben’, proposta da Tichy 1983, p. 124, si vedano le lucide osservazioni di Rehrenböck 1985, p. 154. 10 καὶ μὴν Sul valore di congiunzione enfatica di καὶ μήν all’interno delle enumerazioni vd. Denniston 1954, p. 351 s. παρῆν Il verbo παρεῖναι compare di frequente negli elenchi di cibi in scene di Paese di Cuccagna o di cucina: le attestazioni sono ora raccolte da Bagordo 2013, p. 67. τεμάχη Il plurale del sostantivo, frequente in elenchi comici di cibo, indica genericamente ‘filetti di pesce’ (vd. Rehrenböck 1985, p. 154; Arnott 1996, p. 561; Olson–Sens 2000, p. 161, e Orth 2014, p. 425). 11 καταχυσματίοισι Il diminutivo di κατάχυσμα è attestato solo qui e in Poll. VI 68 (dove è ricordato insieme ad altre salse di condimento; sul κατάχυσμα vd. Dunbar 1995, p. 367 s.; Pellegrino 2000, p. 98, e Olson–Sens 2000, p. 212; per il diminutivo, Petersen 1910, p. 83). 12 τεύτλοισί τ’ ἐγχέλεια συγκεκαλυμμένα L’usanza di cuocere le anguille avvolte in foglie di bietole è ricordata da Ateneo (VII p. 300 B), il quale, a conferma della diffusione della pietanza in ambito comico, cita tre frammenti di Eubulo (frr. 34 K.–A., 36 K.–A. e 64 K.–A.; cfr. anche Ar. Ach. 891–894, per cui vd. Olson 2002, p. 296 s., e Pac. 1014). 13 σχελίδες δ’ ὁλόκνημοι Usualmente σχελίς indica le costolette dell’animale: cfr. schol. ad Ar. Eq. 362 a Jones (σχελίδας· βοὸς πλευρά· ἢ ἁπλῶς τὰ πλευρικὰ τῶν κρεῶν), Hesych. σ 908 Hansen (σκελίς· τὸ ἀπὸ τῆς ῥάχεως ἕως τοῦ ὑπογαστρίου) e σ 2974 Hansen (σχελίδες· χρέα ἐπιμήκη τετμημένα. οἱ δὲ πλευρίδες). La presenza di ὁλόκνημος, tuttavia, rende certi del fatto che il termine indichi qui, piuttosto che le costolette, le cosce dell’animale (vd. Chantraine DELG IV, p. 1080; l’aggettivo ὁλόκνημος, non attestato altrove [se non in ambito lessicografico, in dipendenza probabilmente dal passo in questione: vd. contesto], sembra «a hapax of Pherecrates, probably invented in accordance with the pseudo-poetic tone of the passage»: Urios-Aparisi 1992, p. 340): lo slittamento sarebbe più facilmente spiegabile qualora si accolga il problematico legame etimologico tra σχελίς e σκέλος, per il quale rimando a Rehrenböck 1985, p. 156 (con bibliografia), e a Beekes 2010, p. 1436. L’oscillazione tra σκελίς e σχελίς è registrata anche da Esichio: la forma non aspirata, sebbene minoritaria per quanto concerne le attestazioni letterarie, trova riscontro in documenti papiracei. 14 ἐπὶ πινακίσκοις Le tavolette di legno utilizzate per servire in tavola il cibo ricorrono piuttosto frequentemente in commedia (cfr. p. es. Ar. Plut. 813, con van Leeuwen 1904a, p. 120, e fr. 547 K.–A.; Lync. fr. 1, 6 K.–A.); sulla formazione del diminutivo vd. Rehrenböck 1985, p. 156 s. ἀκροκώλια Dell’utilizzo in ambito culinario degli ἀκροκώλια (le estremità dell’animale: muso, orecchie, zampe) Ateneo parla diffusamente (III pp. 94 C–96

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C). In commedia gli ἀκροκώλια compaiono spesso in elenchi di leccornie (i passi sono raccolti da Bagordo 2013, p. 249). 15 ἀτμίζοντα Piuttosto che alludere parodicamente, come vorrebbe Conti Bizzarro 1990–1993, p. 97, alla dottrina materialistica dell’esalazione, come formulata da Anassimandro, il verbo descriverà più semplicemente il fumo che si spande dalle vivande calde (del tutto convincenti, in tal senso, mi sembrano le considerazioni svolte da Pellegrino 2000, p. 100; sul problema prosodico posto dal participio vd. Rehrenböck 1985, p. 157). χόλικες βοός Le interiora di bue erano un piatto particolarmente prelibato: cfr. p. es. Ar. Vesp. 1144; Pac. 715–717; fr. 83 K.–A., e Eub. fr. 63, 4 K.–A. 16 πλευρὰ δελφάκει(α) Le costolette di maiale erano forse importate ad Atene direttamente dalla Tessaglia (cfr. Hermipp. fr. 63, 6 K.–A. con il commento di Comentale 2017, p. 264); oltre a essere considerate un cibo ricercato e lussuoso (cfr. Pherecr. fr. 50, 5 K.–A., Hermipp. fr. 46, 2 K.–A.; vd. anche Garcia Soler 2001, p. 231), rientravano tra le parti dell’animale sacrificato da riservare agli dei e ai sacerdoti (cfr. Amips. fr. 7 K.–A. con Totaro 1998, p. 155 s., e Orth 2013, p. 227). ἐπεξανθισμένα Il verbo, inattestato altrove, potrebbe essere un conio ferecrateo: la preposizione ἐπί evidenzia il carattere superficiale dell’indoramento prodotto dalla cottura e serve dunque a rendere il gusto croccante della carne arrostita (vd. Rehrenböck 1985, p. 158, e Meineke FCG II.1, p. 302; le numerose attestazioni della radice ξανθ- per indicare la doratura dei cibi arrostiti sono raccolte da van Leeuwen 1901, p. 170, per il quale il verbo ξανθίζω è da considerare stilisticamente elevato). 17 χναυρότατα L’hapax ferecrateo deriva dal verbo χναύω e quindi è etimologicamente legato a χναυμάτιον, che ricorre in analogo contesto in Teleclide (fr. 1, 14 K.–A.; vd. Pellegrino 2000, p. 101; Garcia Soler 2001, p. 80 s., e Bagordo 2013, p. 72 s.). Secondo Urios-Aparisi 1992, p. 341 (ove si riprende un’ipotesi risalente a Schmid), l’aggettivo non sarebbe da considerare un neologismo di Ferecrate, ma un termine proveniente dal lessico popolare ateniese. ἐπ’ ἀμύλοις καθήμενα L’ἄμυλος è una focaccia di farina fine di grano non macinata, consumata in genere con miele o formaggio (cfr. schol. ad Theocr. 9, 21 Wendel e Hesych. α 3843; vedi anche Garcia Soler 2001, p. 381, e Olson 2002, p. 336, con bibliografia; per l’etimologia di ἄμυλος vd. Beekes 2010, p. 93). Si tratta, ancora una volta, di un alimento particolarmente ricercato, citato in commedia in relazione a banchetti di lusso (cfr. Ar. Ach. 1092 e Pac. 1195) oltre che in elenchi di cibarie (cfr. p. es. Teleclid. fr. 34, 2 K.–A.; Plat. Com. fr. 188, 8 K.–A., ed Eub. fr. 35, 2 K.–A.; per le stringenti analogie che legano il frammento di Teleclide a quello di Ferecrate, oltre che per una raccolta ragionata delle principali occorrenze di ἄμυλος, non solo in ambito comico, rimando a Bagordo 2013, p. 170 s.). 18 χόνδρος γάλακτι κατανενιμμένος Il χόνδρος era una farina a base di spelta, ma composta anche da altre varietà di frumento (l’etimologia di χόνδρος è incerta e forse di origine pregreca: vd. Beekes 2010, p. 1643), apprezzata per le presunte virtù medicinali e soprattutto per l’elevato valore nutritivo (dunque

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particolarmente indicata per la dieta di anziani e malati: sulle caratteristiche e sull’utilizzo di questo prodotto si veda l’ampia bibliografia raccolta da Pellegrino 2000, p. 209; per quanto concerne Atene, il χόνδρος era considerato un prodotto di importazione). Una zuppa di spelta e latte (latte d’oca: variazione del ‘latte di uccelli’, che indica proverbialmente referenti allusivi a una situazione di massimo agio e benessere: si vedano per questo almeno Taillardat 1965 p. 320 § 551; Tosi 1991, p. 341, e Dunbar 1995, p. 460; ulteriore bibliografia, anche meno recente, è raccolta da Pellegrino 2000, p. 101) è citata anche da Eubulo (fr. 89, 4 K.–A.): secondo Hunter 1983, p. 182, sia in Ferecrate che in Eubulo il piatto proposto non rifletterebbe ricette reali, ma solo una simbolica allusione a un tenore di vita ostentatamente sfarzoso. Per quanto concerne il participio κατανενιμμένος, sono state proposte due differenti interpretazioni: Meineke, Doehring 1916, p. 113, e Kaibel (apud K.–A. [PCG VII, p. 158]) lo considerano participio perfetto di κατανίφω (rendendo γάλακτι κατανενιμμένος con ‘lacte tanquam nive sparsus’ [Meineke 1867, p. 118]), mentre Rehrenböck 1985, p. 160, Conti Bizzarro 1990–1993, p. 98, e Urios-Aparisi 1990, p. 343 propendono per una derivazione da κατανίζω (così anche LSJ9, s. v. κατανίζω). In favore di quest’ultima ipotesi (accolta anche in traduzione) mi sembrano convincenti le considerazioni di Pellegrino 2000, p. 101 s., per il quale il confronto con il citato frammento di Eubulo induce a immaginare la presenza di un verbum humectandi anche nel passo di Ferecrate qui in esame. Quanto infine alla scansione γάλᾰκτι, cfr. Antiph. fr. 55, 4 K.–A. (γαλᾰκτοθρέμμονα) e la dottrina prosodica antica raccolta, al proposito, da Kassel e Austin in calce al frammento (PCG VII, p. 158). 19 ἐν καταχύτλοις λεκάναις Per la giustapposizione asindetica di diversi recipienti in contesti comici cfr. p. es. Cratin. fr. 252 K.–A. (ἐξ ἀσαμίνθου κύλικος), Cratet. fr. 13 K.–A. (ἁλτῆρσι θυλάκοισι), Phryn. fr. 42 K.–A. (κύλικ’ ἀρύστικον); per ulteriori esempi vd. Meineke FCG II.1, p. 157 s. Kassel e Austin ad loc. Tra i due contenitori citati, il più comune (cfr. p. es. Alex. fr. 129, 5 K.–A.; Stratt. fr. 65, 2 K.–A.; Theop. frr. 41, 1 K.–A. e 83 K.–A.; Cratin. fr. 271, 2 K.–A.; Ar. Nub. 907, Vesp. 600, Av. 840, 1143 e 1146, frr. 383 e 402, 6 K.–A.) è senz’altro la λεκάνη, un bacile poco profondo, privo di coperchio e fornito di manici (vd. Dunbar 1995, p. 338; Arnott 1996, p. 369, e Bagordo 2013, p. 68); per il κατάχυτλον cfr. Hesych. κ 1526 (κατάχυτλον· τὸ βαλανευτικὸν σκαφίον) e vd. Urios-Aparisi 1992, p. 344. πυοῦ τόμοι Il πυός, latte di prima mungitura (cfr. schol. ad Ar. Vesp. 710 a Koster e vd. MacDowell 1971, p. 299; come nota Farioli 2001, p. 93 n. 166, che il colostro assumesse una consistenza solida è ricordato anche da Plinio il Vecchio, Nat. Hist. XI 41, 96 e XXVIII 9, 32), è un piatto ambito, una pietanza tipica di banchetti raffinati (anche in Aristofane: cfr. Vesp. 710, Pac. 1150 e fr. 333, 5 K.–A.). 20 οἴμ’ ὡς ἀπολεῖς μ’ ἐνταῦθα διατρίβουσ’ ἔτι L’interpretazione più corretta dei due versi mi sembra essere quella proposta da Kock CAF I, p. 176, e ripresa da Kassel e Austin in apparato (ad fabulosam orci descriptionem altera mulier acerba cum inrisione respondet: ‘quid igitur mihi hic diutius remanens taedium adfers, cum tibi tuisque liceat confestim in Tartarum desilire, i. e. in malam crucem abire?’;

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in merito si vedano anche le considerazioni di Rehrenböck 1985, p. 161; un buon parallelo per l’espressione è Ar. Vesp. 849 οἴμοι διατρίβεις κἀπολεῖς τριψημερῶν, citato da Kassel e Austin in calce al frammento); per interpretazioni alternative (che prevedono, a ogni modo, interventi sul testo) vd. infra. Di estremo interesse quanto osservava Dohm nel suo importante libro sulla figura del cuoco comico in relazione all’interruzione operata dai vv. 21–22 sul flusso della narrazione: un’interruzione nella quale Dohm segnalava l’antecendente di un tratto formale tipico delle scene di commedia più tarda nelle quali i mageiroi si presentano al pubblico per elencare pietanze e manicaretti: «Die Frau, die hier die Unterweltsschilderung bestreitet, darf 19 Verse lang ununterbrochen schnattern, aber dann versucht ihr verzweifelter […] Gesprächspartner, sie zu unterbrechen. Das ist für sie jedoch kein Hindernis, sondern sie legt jetzt erst richtig los. Dieses Bauprinzip finden wir auch mehrmals als Mittel, die endlosen Ergüsse des Kochs zu gliedern» (Dohm 1964, p. 63). 21 κολυμβᾶν ἐς τὸν Τάρταρον L’espressione, più che alludere alla rappresentazione dell’Ade come una sterminata distesa d’acqua, allude alla localizzazione infera dell’oltretomba (il verbo indica l’azione di calarsi in un pozzo in Plat. Lach. 193 c e Prot. 350 a; le due ipotesi sono proposte, rispettivamente, da Rehrenböck 1985, p. 161, che a sostegno della sua ipotesi cita Anacr. fr. 376 PMG = fr. 94, 2 Gentili ἐς πολιὸν κῦμα κολυμβέω, e da Pellegrino 2000, p. 103). ὡς ἔχετ(ε) Sul valore dell’espressione vd. Urios-Aparisi 1992, p. 346. Il testo tràdito non necessita di correzioni: le congetture proposte (per le quali rinvio a Conti Bizzarro 1990–1993, p. 98 s.) dipendono da scelte interpretative più che da reali aporie testuali. Intervenire sulla persona del verbo volgendolo alla prima persona (singolare o plurale) permetterebbe di leggere l’intervento del personaggio B come la manifestazione di una irrefrenabile voglia di partecipare alle delizie dell’Ade: ma si tratta, appunto, di una scelta che non trova giustificazione nello stato del testo. 22 τί δῆτα λέξεις; Interrogative retoriche introdotte dalla particella δῆτα (che «denotes that the question springs out of something which another person […] has just said»: Denniston 1954, p. 269) sono molto frequenti in contesti comici: cfr. p. es. Ar. Ach. 1011 s. (dove l’espressione marca la continuazione di un elenco di cibi la cui ripresa comincia, come in Ferecrate, dai tordi arrosto), Nub. 154 s., Lys. 399 e Thesm. 773 s. (buona raccolta di passi in Henderson 1987a, p. 120). 23 ὀπταὶ κίχλαι γὰρ εἰς ἀνάβαστ’ ἠρτυμέναι Conservando a testo, con Kassel e Austin, una delle due varianti trasmesse dal codice A di Ateneo (il codice A reca, per la verità, εἰς ἀναβρασεις· αναβράσεις ἀναβραστ’, da cui la scelta di Meineke, accolta da Kassel e Austin, di stampare a testo εἰς ἀνάβραστ’; sulle varianti e sulle congetture proposte al verso vd. Conti Bizzarro 1990–1993, p. 99) seguo nella traduzione l’interpretazione di Pellegrino: «tordi arrosto approntati per accompagnare altre carni (forse deliziosa selvaggina) bollite» (Pellegrino 2000, p. 103, che nota come la mistione di carni arrosto e bollite sia una costante nelle descrizioni gastronomiche dei Paesi di Cuccagna). La menzione dei tordi, ricordati spesso in commedia come cibo particolarmente ghiotto e appetitoso (vd.

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Pellegrino 2000, p. 183, a cui rimando anche per una ricca raccolta bibliografica, alla quale andrà aggiunto, adesso, Arnott 2007, p. 140 s., s. v. ‘Kichlē, Kichla, Kichēla’), compare spesso in contesti di Paese di Cuccagna (cfr. p. es. Telecl. fr. 1, 12 K.–A. e Pherecr. fr. 137 K.–A.). 24 περὶ τὸ στόμ’ ἐπέτοντ’ ἀντιβολοῦσαι καταπιεῖν Il verso è molto vicino a Telecl. fr. 1, 10 K.–A. (vd. Bagordo 2013, p. 70). 25 ὑπὸ μυρρίναισι Il mirto, la cui menzione ricorre a più riprese, in poesia lirica, nelle descrizioni di giardini ideali (vd. Urios-Aparisi 1992, p. 324, ove si propone il confronto con Stesich. fr. 187, 2 Davies e Ibyc. fr. 315, 1 Davies) è tradizionalmente legato (oltre che al culto di Afrodite) al mondo ctonio sia per il suo impiego nelle cerimonie funebri sia in funzione cultuale (vd. Blech 1982, pp. 87–89, e Pellegrino 2000, p. 104 s.; sull’uso di corone di mirto a banchetto e a simposio vd. Blech 1982, p. 80). κἀνεμώναις Gli anemoni sono impiegati per la realizzazione delle corone dei dissoluti membri del coro dei Malthakoi di Cratino (cfr. fr. 105, 3 K.–A.). Per l’etimologia del vocabolo, connesso a ἄνεμος, vd. Beekes 2010, p. 102. 26–27 τὰ δὲ μῆλ(α) […] / ἐξ οὐδενὸς πεφυκότα μήλον, oltre a indicare propriamente la mela, genericamente può estendersi a tutti i frutti commestibili dotati di buccia (Olson–Sens 1999, p. 139; ulteriore bibliografia è citata da Pellegrino 2000, p. 220). A stare alle testimonianze superstiti, le mele sembrano costituire un cibo molto gradito, seppur diffuso e a buon mercato (vd. Olson 1998, p. 261; le fonti comiche e le ricorrenze in ambito di poesia gastronomica sono raccolte da Pellegrino 2000, p. 221). La generazione spontanea dei frutti costituisce una variatio del tema dell’automatos bios (vd. Rehrenböck 1985, p. 166). τὰ καλὰ τῶν καλῶν La iunctura è registrata tra gli ausdrucksverstärkende Polyptota da Gygli-Wyss 1966, p. 28 s. 28 κόραι Come notato da ultimo da Conti Bizzarro 1990–1993, p. 101, e da Pellegrino 2000, p. 106 (ma la contiguità tra il verso e il passo delle Rane era stata notata almeno a partire da Meineke FCG II.1, p. 303; altre ipotesi interpretative [‘servette’, come voleva Baldry 1953, p. 50 s., oppure generiche ‘fanciulle’ da riferire a un quadro di parodia mitologica] paiono meno probabili), le fanciulle in questione sembrano avere numerosi punti di contatto con le ballerine che, ai vv. 515–516 delle Rane, Persefone ingaggia per allietare il festino (sul ruolo di ballerine e flautiste nell’intrattenimento simposiale si veda la ricca bibliografia raccolta da Pellegrino 2000, p. 303). ἐν ἀμπεχόναις τριχάπτοις L’espressione non è del tutto chiara, né sono di particolare aiuto le fonti lessicografiche antiche. Per τρίχαπτος è infatti attestato il solo uso al neutro sostantivato, che acquista un’ampia gamma di significati: da ‘treccia di capelli’ a ‘tessuto da annodare sul capo’ a ‘tessuto con fili policromi’ (cfr. rispettivamente Poll. II 24 e X 32 e Hesych. τ 1462 Alpers–Cunningham τριχαπτόν· τὸ βαμβύκινον ὕφασμα ὑπὲρ τῶν τριχῶν τῆς κεφαλῆς ἁπτόμενον, ἢ πολύτιμον, ove si accolga il πολύμιτον di Salmasius per il tràdito πολύτιμον; vd. Pellegrino 2000, p. 107 s.), e quindi ‘veste di gran pregio’ (cfr. Suid. τ 1035 τρίχαπτον· τὸ βαμβύκινον

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ὕφασμα, ἱμάτιον πολυτίμητον; l’interpretamentum ricorre anche in Phot. τ 489 Theodoridis, An. Gr. I 390, 18 s. Bachmann = Synag. τ 260 Cunningham, e Et. magn. s. v. τρίχαπτον [p. 768, 32 s. Gaisford]). Per quanto concerne il sostantivo ἀμπεχόνη si veda invece Gow 1952, II, p. 273 («smart female garments»). 29 ἡβυλλιῶσαι Al di fuori del frammento di Ferecrate il verbo (denominale, a partire da ἥβη: si veda la bibliografia raccolta da Pellegrino 2000, p. 107, alla quale è adesso da aggiungere Beekes 2010, p. 507 s.) è attestato solo nel passo delle Rane citato sopra (Ar. Ran. 516). τὰ ῥόδα κεκαρμέναι Sembra del tutto probabile che qui le rose indichino i genitali femminili: anche se non sopravvivono allusioni esplicite e inequivocabili in tal senso (ma cfr. Hesych. ῥ 403 Hansen ῥόδον· Μιτυληναῖοι τὸ τῆς γυναικός. καὶ τὸ σύνηθες; da segnalare che, in relazione alla prima parte dell’interpretamentum, Hansen rimanda espressamente al frammento ferecrateo), alcuni casi comici sembrano confermare la sostituzione eufemistica (si vedano, in tal senso, i passi raccolti da Henderson 1991, p. 135; sugli eufemismi di ambito sessuale in commedia rimando ai materiali raccolti e discussi da Sommerstein 1999, pp. 196–208, e, in chiave più generale, da Caroli 2017, pp. 337–406 [per ῥόδον p. 370 s.; per ῥόδον nel nostro frammento p. 371 n. 88, ove si afferma con decisione il «palese significato sessuale» dell’allusione, con rimando a Cratin. fr. 116 K.–A.]). Sull’usanza, diffusa presso le donne ateniesi, di depilarsi il pube e i genitali si vedano almeno Henderson 1987a, p. 78, e Beta 1992, p. 98 s. (parimenti depilate sono anche le ballerine a disposizione di Eracle nelle Rane). 30 οἴνου μέλανος ἀνθοσμίου L’οἶνος ἀνθοσμίας era una varietà di vino particolarmente pregiato e apprezzato (cfr. p. es. Xen. HG VI 2, 6 e Ar. Plut. 807), che pare avesse anche la peculiarità di non condurre fino all’ebbrezza (cfr. Ar. Ran. 1150 con il relativo scolio; vd. anche Taillardat 1965, p. 272 § 484). Secondo Eustazio (Eust. in Od. 1449, rr. 9–12) sarebbe da identificare con il σαπρίας, vino rinomato per il profumo e per l’aroma floreale descritto in Hermipp. fr. 77, 6–10 K.–A. (per il quale rimando a Comentale 2017, p. 318). 31 διὰ χώνης Sull’utilizzo dell’imbuto per versare il vino si vedano le fonti e la bibliografia raccolta da Pellegrino 2000, p. 108 s.; poco convincente appare l’ipotesi di Rehrenböck 1985, p. 166 s., per il quale le fanciulle che tentano di riempire le coppe di vino costituirebbero una parodia comica del mito delle Danaidi, condannate nell’Ade ad attingere acqua con recipienti forati. 32–33 καὶ τῶνδ(ε) […] / ἐγίγνετ’ εὐθὺς ἐξ ἀρχῆς πάλιν La moltiplicazione del cibo e delle bevande che si consumano è particolarmente adatto a un contesto di Paese di Cuccagna, ma è attestato altrove anche come fenomeno legato a singoli oggetti magici, in contesto aneddotico, mitico o favolistico: si vedano, in tal senso, le occorrenze raccolte da Pellegrino 2000, p. 109 (ma qualche dubbio sussiste nel caso del Ciclope euripideo, in cui la menzione di un otre che contiene il doppio rispetto alla sua capacità si trova a ridosso di una lacuna e potrebbe alludere all’abitudine di diluire il vino: sulla questione vd. Napolitano 2003, p. 109 s.) e Conti Bizzarro 1990–1993, p. 101 n. 31.

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fr. 114 K.–A. (109 K.) ὑπ’ ἀναδενδράδων ἁπαλὰς ἀσπαλάθους πατοῦντες ἐν λειμῶνι λωτοφόρῳ κύπειρόν τε δροσώδη κἀνθρύσκου μαλακῶν τ’ ἴων λείμακα καὶ τριφύλλου 1 ἀναδενδράδων A: -άιδων Wilamowitz 1907, p. 12 ἁπαλὰς ἀσπαλάθους A: ἁπαλῶν ἀσπ- vel ἀταλοὺς ἀσπ- van Herwerden 1855, p. 14: πετάλοις ἀσπ- Kock CAF I, p. 177: οὺς ἀσφοδέλους Blaydes 1896, p. 23 πατοῦντες A: πατῶν τις Hermann 1816, p. 575 s. 3 λείμακα Canter 1566, p. 164 (15713, p. 225): λι- A κἄνθρυσκον, μαλακόν τ᾽ ἴον, μίλακα καὶ τρίφυλλον Salmasius 1629, II, p. 1043 A

sotto viti rampicanti calpestando teneri aspalati in un prato fiorito, e cipero rugiadoso e un giardino di antrisco e di tenere viole e di trifoglio Athen. XV p. 685 Α ὁ Φερεκράτης δὲ ἢ ὁ πεποιηκὼς τὸ δρᾶμα τοὺς Πέρσας […] φησιν· (fr. 138) […] ὁ δὲ πεποιηκὼς τοὺς εἰς αὐτὸν ἀναφερομένους Μεταλλεῖς φησιν· ὑπ’ — τριφύλλου. ἐν τούτοις ζητῶ τί τὸ τρίφυλλον Ferecrate o chiunque abbia composto la commedia intitolata Persai […] dice: (fr. 138) […] L’autore dei Metallēs attribuiti a Ferecrate dice: sotto — trifoglio. Mi chiedo cosa sia il trifoglio

Metro Tre versi composti rispettivamente da dimetro coriambico B e aristofanio, dimetro coriambico B e ferecrateo, gliconeo e aristofanio:

kkklklkkl lkklkll lllklkkl kllkkll lllkklkl lkklkll

Bibliografia Canter 1566, p.  164 (15713, p.  225); Daléchamps 1583, p.  510; Salmasius 1629, II, p. 1043; Hermann 1816, p. 575 s.; Runkel 1829, p. 43; Bergk 1838, p. 290; Meineke FCG II.1, p. 305 s.; Meineke 1847, I, p. 109; Bothe 1855, p. 102 s.; van Herwerden 1855, p. 14; Kock CAF I, p. 171; Kaibel 1890, p. 79; Blaydes 1896, p. 23; Wilamowitz 1907, p. 12; Hoffmann 1910, p. 26; Edmonds 1957, p. 248 s.; Rehrenböck 1985, pp. 110–113; Urios-Aparisi 1992, pp. 298–311; Conti Bizzarro 1990–1993, pp. 101–103; Martinelli 1997, p. 252 s.; Storey 2011, p. 474 s.; Sofia 2016, p. 119 s. Contesto della citazione Il frammento viene citato da Ateneo in relazione al ricorrere, in Ferecrate, di fiori adatti al confezionamento di corone. Testo Fatto salvo l’intervento di Canter per il v. 3, ovvero λείμακα per il tràdito λίμακα (un intervento, splendido, che trovò però obiezioni in Salmasius 1629, II, p. 1043), il testo stampato da Kassel e Austin presenta il frammento nei ter-

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mini in cui è trasmesso (a proposito di ἀναδενδρᾴδων proposto da Wilamowitz 1907, p. 12, per il tràdito ἀναδενδράδων, e per il problema prosodico posto dalla quantità dell’alpha finale e per conseguenza dall’accentazione della parola, ossitona o perispomena, si vedano, oltre al materiale raccolto da Kassel e Austin in calce al frammento [PCG VII, p. 160], le considerazioni di Rehrenböck 1985, p.  174). Qualche problema sembra porre, tuttavia, la presenza dell’aggettivo ἁπαλὰς concordato con ἀσπαλάθους: intanto, per quanto ἀσπάλαθος sia attestato frequentemente anche come femminile, in Ar. fr. 783 K.–A. il sostantivo è di genere maschile (vd. Rehrenböck 1985, p. 175; il problema era presente alla dottrina grammaticale antica, come attesta Phryn. Praep. soph. p. 14, 8 de Borries ἀσπάλαθος· ἀκανθῶδες φυτόν. Κλέανδρος θηλυκῶς, Ἀριστοφάνης ἀρσενικῶς); inoltre, anche se l’esatta identificazione della pianta non si lascia precisare con certezza (vd. infra, ad loc.), si tratta certamente di un arbusto spinoso, al quale dunque difficilmente può adattarsi l’epiteto ἀπαλός (‘soft to the touch’, ‘tender’: LSJ9). Nel tentativo di risolvere le difficoltà si è tentato di intervenire sull’aggettivo, concordandolo con ἀναδενδράδων (così van Herwerden 1855, p. 14: ὑπ᾽ ἀναδενδράδων ἁπαλῶν ἀσπαλάθους πατοῦντες, i. e. sub teneris vitibus, un intervento al quale van Herwerden affianca, però, una seconda proposta che sembra, singolarmente, non tenere conto della difficoltà, quella rappresentata dalla spinosità della pianta, messa in evidenza appena prima, ovvero ἀταλοὺς ἀσπαλάθους, i. e. teneros aspalathos), o eliminando per congettura ἁπαλός (ὑπ’ ἀναδενδράδων πετάλοις, sub arbustorum foliis: così Kock CAF I, p. 177), oppure sostituendo l’aspalato con piante più adatte ad accompagnarsi all’aggettivo ἀπαλός (così Blaydes 1896, p. 23: ἁπαλοὺς ἀσφοδέλους, ma già Daléchamps 1583, p. 510 e n. b in margine, pensava di sostituire ἀσπαράγους a ἀσπαλάθους). Nel complesso, tuttavia, tutte le soluzioni proposte risultano problematiche: intervenendo sull’aggettivo, infatti, resterebbe comunque da spiegare la presenza di una pianta spinosa e dunque sgradevole nella descrizione di un locus amoenus, mentre sembra difficilmente immaginabile che la presenza a testo dell’aspalato si debba a un guasto testuale. In assenza di indicazioni risolutive, dunque, mi sembra preferibile conservare il testo tràdito, immaginando, magari, con Hoffmann 1910, p. 26 (vd. anche Conti Bizzarro 1990–1993, p. 101 s.), che la tenerezza associata all’aspalato possa in qualche modo spiegarsi tenendo conto del contesto infero (ἀσπάλαθος videtur ideo dici ‘mollis’ quia in Orco naturam suam mutavit, nam mutare talia libidinis est), oppure che l’accostamento di ἁπαλὰς e ἀσπαλάθους miri a creare un effetto di sorpresa nello spettatore, come pensano Edmonds 1957, p. 249 n. b («soft thorns are substituded for asphodel») e Urios-Aparisi 1992, p. 359 («The similarity of the two words seems to convey a poetic surprising effect, because ἀσπάλαθοι are not ἁπαλαί, soft, tender»); vd. anche Farioli 2001, p. 104, per la quale «forse i morti erano ritenuti dal poeta immuni dai disagi fisici dei vivi, oppure, più semplicemente, la menzione dell’aspalato è solo una stravaganza descrittiva utile a sottolineare lo scarto tra la geografia dell’aldilà e quella terrena». Dal punto di vista metrico il testo si presenta articolato in una serie stichica di dicola polischematici eolo-coriambici, con un

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uso intercambiabile di dimetro coriambico e gliconeo e di aristofanio e ferecrateo (West 1982, p. 96; Martinelli 1997, p. 252 s.); un buon parallelo, in Ferecrate, è offerto dal fr. 138 K.–A. Interpretazione La struttura metrica del frammento potrebbe ricondurlo a un contesto parabatico (vd. Urios-Aparisi 1992, p. 356), ma nulla esclude, considerato quanto è noto dalle commedie superstiti di Aristofane e da altra evidenza disponibile in relazione alla ricorrenza di strutture simili a quella rappresentata dal nostro frammento, che esso potesse trovare collocazione altrove. Con ogni probabilità i tre versi descrivono il paesaggio dell’aldilà, tipicamente rappresentato secondo i canoni del locus amoenus (esempi di rappresentazioni dell’oltretomba come giardino fiorito sono citati da Farioli 2001, p. 103 n. 189; frequenti le allusioni a un paesaggio ricco di piante e fiori nelle Rane di Aristofane [i passi sono raccolti da Kassel e Austin in calce al frammento]). Urios-Aparisi 1992, p. 356 s., riporta la descrizione contenuta in questi versi all’ambito della «comic fantasy», definito a suo tempo da Silk in relazione ad alcune sezioni liriche di Aristofane (vd. Silk 1980, p. 137), allargando, a un tempo, il quadro di riferimento dal quale è verosimile pensare che Ferecrate abbia tratto spunto per la configurazione del paesaggio evocato nel frammento alle rappresentazioni, già epiche e liriche (un buon esempio è il locus amoenus descritto in Sapph. fr. 2 V), di luoghi destinati a fare da sfondo a epifanie divine. 1 ὑπ’ ἀναδενδράδων Il sostantivo indica la vite coltivata come rampicante di un albero ad alto fusto (la crescita come rampicante era il metodo usuale di coltivazione: sulla questione vd. Urios-Aparisi 1992, p. 357); in commedia, oltre che in questo frammento, esso ricorre esclusivamente in Alessi (fr. 11 K.–A.: vd. Stama 2016, p. 69). Il termine, che pure ricorre, oltre che nei due passi comici citati, anche in Demostene (53, 15), era considerato un solecismo dall’erudizione di stampo atticistico (cfr. Antiatt. α 110 Valente con Arnott 1996, p. 81 s., il quale ritiene che a ἀναδενδράς, registrata come forma di koiné, gli atticisti opponessero, come forma ‘corretta’, ἀμάμαξυς; Sicking 1883, p. 39, suggerisce l’idea, interessante, che la parola fosse ritenuta problematica in forza dell’oscillazione tra accentuazione ossitona e accentuazione perispomena, della quale si è detto sopra). ἀσπαλάθους «The word seems to denote more than one kind of thorny plant or shrub […] not easily identifiable» (Gow 1952, II, p. 89, ad Theocr. 4, 57, ove si proponeva, pur cautamente, l’identificazione dell’ἀσπάλαθος con la Genista acanthoclada; si veda anche la recente, densa messa a punto offerta da Bagordo 2017, p. 218 s.; per l’etimologia vd. Beekes 2010, p. 153). Sulle caratteristiche farmacologiche dell’ἀσπάλαθος si veda Urios-Aparisi 1992, p. 358, il quale insiste sul nesso che legherebbe la pianta al contesto oltretombale che sembra fare da sfondo al frammento attraverso il confronto con Theogn. 1193 s. (ἀσπάλαθοι δὲ τάπησιν ὁμοῖον στρῶμα θανόντι / τῷ ξυνόν, σκληρὸν γίνεται ἦ μαλακόν) e un passo della Repubblica di Platone (Plat. Resp. 615e–616a) nel quale l’aspalato compare utilizzato come strumento di tortura per frustare i tiranni rinchiusi nel Tartaro. Condivisibile il bilancio stilato da Bagordo, 2017, p. 219, il quale, pur

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isolando a ragione la spinosità dell’aspalato come sua caratteristica principe, non esclude la possibilità che la pianta fosse sentita legata in modo non episodico al mondo dei morti («daß Tod und Totenwelt dabei eine Rolle gespielt haben mögen, wie von den Theognis-, Pherekrates- und Platonstellen suggeriert, ist eine weitere Möglichkeit, welche mit dem Charakter des Dornigen gewiß nicht inkompatibel ist»). 2 λωτοφόρῳ L’aggettivo è hapax ferecrateo; il sostantivo λωτός indica genericamente i fiori, senza alludere a una specie botanica precisa: cfr. Hesych. λ 1527 (λωτός· τράγημά τι […] καὶ πᾶν ἄνθος) con Garcia Soler 2001, p. 117 s. κυπειρόν Il cipero (Cyperus longus) è una pianta erbacea che può raggiungere dimensioni considerevoli (Gow 1952, II, p. 24, ad Theocr. 1, 106). Benché in Omero sia attestato come nutrimento per il bestiame (insieme al loto in hymn. Herm. 107), la pianta era nota anche per le sue virtù aromatiche (cfr. Theophr. HP 9, 7, 3 e Hdt. IV 71). L’etimologia del sostantivo è ricondotta da Beekes a una radice pregreca (vd. Beekes 2010, p. 804; vd. anche Sofia 2016, p. 120). δροσώδη L’aggettivo ricorre nell’idilliaca descrizione del Citerone nelle Baccanti di Euripide (704). Attestato raramente in commedia (cfr. Antiph. fr. 53, 13 K.–A. e Alex. fr. 129, 12 K.–A.), deriva forse dal linguaggio tecnico medico (vd. Urios-Aparisi 1992, p. 361). 3 κἀνθρύσκου Cfr. Pherecr. fr. 14, 1 s. K.–A. ἐνθρύσκοισι καὶ βρακάνοις / καὶ στραβήλοις ζῆν. Sull’alternanza tra le forme ἄνθρυσκον e ἔνθρυσκον vd. Rehrenböck 1985, p. 176, e Urios-Aparisi 1992, p. 358. ἴων La presenza delle viole nella descrizione di prati fioriti è topica: le attestazioni più significative sono raccolte da Urios-Aparisi 1992, p. 362. λείμακα Inattestato altrove in commedia, il sostantivo può costituire un sinonimo di λειμών oppure indicare un’aiuola fiorita (vd. LSJ9 s. v. λεῖμαξ: per quanto per il nostro frammento venga in genere privilegiata la seconda accezione, il contesto non sembra fornire elementi dirimenti al proposito: vd. Rehrenböck 1985, p. 176, e Urios-Aparisi 1992, p. 362). τριφύλλου Normalmente τρίφυλλον indica il Trifolium fragiferum, ma come notava già Rehrenböck 1985, p. 176, l’incertezza di Ateneo sembra suggerire la possibilità che il nome identificasse specie diverse di piante.

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fr. 115 K.–A. (111 K.) Erot. α 34 (codd. A, HLMO) ἁρμῷ· ἡσυχῇ, μικρῷ (μ. om. HLMO, fort. recte: Nachmanson 1918, p. 34), ὡς καὶ Φερεκράτης ἐν Μεταλλεῦσιν harmōi: piano, un po’, come attesta anche Ferecrate nei Metallēs

Metro Incerto (ll) Bibliografia Bernhardy 1822, p. 230 s.; Meineke 1827, p. 33; Runkel 1829, p. 42 s.; Bergk 1838, p. 289 s.; Meineke FCG II.1, pp. 306–309; Meineke 1847, I, p. 109; Bothe 1855, p. 103; Kock CAF I, p. 178; Aly 1906, p. 53; Nachmanson 1917, p. 309; Edmonds 1957, p. 248 s.; Sommerstein 1981, p. 172 s.; Rehrenböck 1985, p. 180 s.; Urios-Aparisi 1992, p. 115; Storey 2011, p. 475 Contesto della citazione Il lemma, tràdito da Erotiano (α 34 Nachmanson) nella sua raccolta di voci ippocratiche e riportato esplicitamente, dalla fonte, ai Metallēs, è glossato con due avverbi, ἡσυχῇ e μικρῷ. Interpretazione Dall’interpretamentum, o almeno dal primo dei due lemmi che lo compongono, ovvero ἡσυχῇ (del secondo, μικρῷ, è difficile dire se rappresenti una semplice reduplicazione del primo o se non orienti invece in altra e diversa direzione; Nachmanson 1918, p. 34, in apparato alla glossa, si dichiarava, pur cautamente, favorevole all’espunzione di μικρῷ, come, già prima, in Nachmanson 1917, p. 45: «bei 44, 5 ἁρμῷ· ἡσυχῇ, μικρῷ κτλ., wo μικρῷ auslässt, liesse sich vielleicht fragen, ob nicht das blasse, nichtssagende μικρῷ unnötiger, m. a. W. unursprünglicher Zusatz sei»), parrebbe di poter evincere che nei Metallēs l’avverbio fosse utilizzato in un’accezione (‘piano’) diversa tanto rispetto al senso che esso ha in ambito medico, dove sembra veicolare l’idea di chiusura, in relazione, ad esempio, a vasi sanguigni (per Aly 1906, p. 53, nei passi ippocratici che ne documentano l’uso l’avverbio significat „aliquo modo clausum esse”, quam significationem localem principalem esse consentaneum est), quanto rispetto a quella più ampiamente attestata nella tradizione lessicografica, che generalmente gli attribuisce valore di tempo (‘da poco’, o anche ‘subito’: Hesych. α 7329 ἁρμῷ· ἀρτίως; 7320 ἁρμῷ· ἀρτίως. ἡσυχῇ. ἐξαίφνης. προσφάτως; Suid. α 3981 ἁρμοῖ που· ἀρτίως, νεωστί; cfr. anche Et. magn. p. 144, 47; Eust. in Il. p. 140, 15): un valore che l’avverbio sembra avere acquisito, in letteratura, a partire dalla prima età ellenistica, come provano passi quali Call. frr. 274, 1 e 383, 4 Pfeiffer e Theocr. 4, 51 (sulla complessa semantica dell’avverbio è di notevole utilità la messa a punto offerta da Persson 1921–1922, pp. 82–90, il quale isola, per ἁρμῷ, i seguenti significati: ‘eng, dicht’; ‘soeben, jüngst’; ‘sogleich, sofort’, e infine ‘ein wenig’ [p. 90]). La questione, resa estremamente complessa anche in virtù dell’oscillazione tra forme diverse (ἀρμῷ/ἁρμῷ; ἀρμοῖ/ἁρμοῖ), si è intrecciata a lungo, in relazione ai Metallēs, con il problema costituito dall’autenticità della commedia: l’avverbio, considerato non attico, e ricondotto a un ambito dorico, ove non specificamente siracusano (così

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già Valckenaer in un passo della Epistola a Matthias Roever, raccolta in Valckenaer 1808, p. 365; ma l’idea, pur precisata attraverso l’opportuno richiamo alle ricorrenze ippocratiche dell’avverbio, è viva ancora in Gow 1952, II, p. 88, ad Theocr. 4, 51: «ἁρμοῖ = ἀρτίως. According to Et. M. 144, 50 ἁρμοῖ is the Syracusan form of ἁρμῷ […]. It occurs not only in Aeschylus (Prom. 615) and Pindar (fr. 10), who might have acquired it in Sicily, but with some frequency also in Hippocrates, so that the word, however it should be spelt, is not exclusively Doric»), è parso a molti un argomento forte contro l’autenticità ferecratea dei Metallēs (vd. Bernhardy 1822, p. 230 s., seguito da Meineke 1827, p. 33; vd. poi anche Meineke FCG II.1, p. 306 s.). In realtà l’avverbio, per quanto piuttosto raro, trova però attestazioni in documenti letterari attici: oltre che in Ferecrate, in Aesch. Prom. 615 e, forse, in Ar. Ach. 393, dove è stato restituito per congettura da Robertson (in un inedito, come desumo da Sommerstein 1981, p. 173) e, indipendemente, da Lloyd-Jones 1958, p. 14, con buona bibliografia sul valore dell’avverbio (per il passo degli Acarnesi si vedano Sommerstein 1981, p. 172 s., e Olson 2002, p. 176). Nella tragedia di Eschilo l’avverbio compare nella forma ἁρμοῖ (comune, poi, nella poesia alessandrina), interpretata come locativo di ἁρμός (vd. Rehrenböck 1985, p. 181; l’interpretazione dell’avverbio come locativo è accolta da ultimo anche da Beekes 2010, p. 135), mentre altrove è attestata anche la forma ἁρμῷ (soprattutto in Ippocrate, ma, a stare almeno a Erotiano, anche in Ferecrate); ma è ovvio che, in sede di tradizione manoscritta, le due forme possono essersi scambiate con estrema facilità, a rendere ancora più spinoso il problema della loro distribuzione (lo notava, a ragione, Nachmanson 1917, p. 309: «Die Hss. schwanken zwischen ἁρμοῖ und ἁρμῷ: sie sind natürlich in derartigen Sache unverbindlich»; nulla fa dunque certi del fatto che non possa avere ragione chi, come Kaibel, ha ritenuto che anche in Ferecrate ricorresse la forma ἁρμοῖ [PCG VII, p. 160: ἁρμοῖ … etiam Pherecratem dixisse pro certo habet Kaibel]). Vista l’esiguità delle informazioni e il carattere assai poco perspicuo dell’interpretamentum, non si potrà fare molto altro, in relazione a Ferecrate, che confermare lo scetticismo espresso a suo tempo da Aly 1906, p. 53, e ribadito più di recente da Rehrenböck 1985, p. 181 («Bedeutet ein dorisches Adverb ein Argument gegen den Ἀττικώτατος Φερεκράτης? War es Tragiker-Parodie […]? Soll ein dorischer Sprecher imitiert werden? – Non liquet!»). Sconsigliabile, soprattutto, costruire ipotesi destinate a restare prive di fondamento, come quella argomentata da Bergk 1838, p. 290, il quale, sulla scorta del citato passo del Prometeo, proponeva di leggere l’uso di in Ferecrate come possibile spia di paratragedia (Verum cum Aeschylus quoque hanc vocem usurpaverit, Atticis non sane prorsus inaudita fuit, ita ut comico quoque poetae licuerit eandem adhibere: ususque erat Pherecrates fortasse ita, ut tragici alicuius orationem in suum usum converteret).

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fr. 116 K.–A. (110 K.) Phot. ε 2203 Theodoridis εὐθὺ Λυκείου· τὸ εἰς Λύκειον. ὅθεν Ἐρατοσθένης (fr. 46 Str.) καὶ διὰ τοῦτο ὐποπτεύει τοὺς Μεταλλεῖς. καὶ Εὐριπίδης (Hipp. 1197) οὐκ ὀρθῶς· τὴν εὐθὺς Ἂργους καὶ Ἐπιδαυρίας ὁδόν euthy Lykeiou: verso il Liceo. Eratostene (fr. 46 Str.) anche per questa ragione nutre sospetti quanto alla paternità dei Metallēs. Anche Euripide, non correttamente, dice: la strada verso [euthys] Argo e Epidauro

Metro Incerto Bibliografia Ruhnken 1789, p. 126 s.; Lobeck 1820, p. 144 s.; Bernhardy 1822, p. 230; Meineke 1827, p. 33; Runkel 1829, p. 42; Bergk 1838, p. 288 s.; Meineke FCG I, p. 69; Meineke FCG II.1, p. 306; Bothe 1855, p. 103; Cobet 1862, p. 388 s.; Kock CAF I, p. 174; Strecker 1884, p. 16 s.; Kaibel 1889, p. 44; Hoffmann 1910, p. 25 n. 9; Norwood 1931, p. 162; Edmonds 1957, p. 246 s.; Geissler 1969, p. 40 s.; Slater 1976, p. 234; Rehrenböck 1985, pp. 177–179; Urios-Aparisi 1992, p. 362 s.; Tosi 1994, p. 169; Tosi 1997, p. 174 s.; Tosi 1998, pp. 328–330; Pellegrino 2000, p. 87 n. 1.; Farioli 2001, p. 91 n. 162; Martinelli Tempesta in Trabattoni–Martinelli Tempesta 2003, p. 232 s.; Storey 2011, p. 470 s. Interpretazione Il problema è riassunto efficacemente da Martinelli Tempesta in Trabattoni–Martinelli Tempesta 2003, p. 232: «La forma attica normale per ‘dritto verso’ (con genitivo: cfr. Schwyzer, II, p. 549; LSJ 9 s. v. I) è senza -ς» (per εὐθύ con genitivo in Aristofane si veda Poultney 1937, p. 202). Poiché Fozio riporta un interpretamentum desunto con ogni probabilità da un lessico platonico (vd. Cohn 1884, p. 795, e Slater 1976, p. 234: «The gloss comes originally from a Plato Lexicon»; cfr. anche Tim. Lex. Plat. ε 57 Valente εὐθὺ Λυκείου· ἐπ’ εὐθείας εἰς Λύκειον· τόπος δέ ἐστιν Ἀθήνησιν; il materiale tràdito da Timeo e da Fozio è da ricondurre a Boeto: vd. Cobet 1862, p. 388 s., e da ultimo Martinelli Tempesta, ibid.), la iunctura rappresentata nel lemma, εὐθὺ Λυκείου, è da ricondurre non a Ferecrate, ma a Platone, nel quale, peraltro, essa ricorre a più riprese (cfr. p. es. Lys. 203 a-b; Symp. 223 d, ecc.). Secondo Tosi 1998, pp. 328–330, la testimonianza di Fozio conserva, in forma mutila, epitomata e decurtata (così già Ruhnken 1789, p. 127, e Bernhardy 1822, p. 230), i dati essenziali del dibattito critico antico sulla paternità dei Metallēs: l’uso anomalo di εὐθύς seguito dal genitivo con valore spaziale al posto del corretto εὐθύ avrebbe condotto Eratostene a sottrarre la commedia a Ferecrate attribuendola a un comico, Nicomaco, di collocazione cronologica più tarda (non sarebbe in gioco qui, dunque, la dottrina che attribuiva valore esclusivamente temporale a εὐθύς e valore esclusivamente locale a εὐθύ: una dottrina che ricorre in una nutrita serie di fonti grammaticali ed erudite di stampo atticistico, discusse a fondo in Slater 1976; vd. anche Slater 1986, p. 135 s.; Alpers 1981, p. 221 s., in apparato a fr. B 71, e poi Tosi 1994, p. 169 e n. 47, e Tosi 1998, p. 328 e n. 5). In seguito, però, altre autorità, riconducibili forse ad Aristofane di

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Bisanzio, sarebbero intervenute osservando come tale uso trovasse un parallelo anche in Euripide, e per conseguenza «traendo la conclusione che l’uso anomalo di εὐθύς non era indizio sufficiente per contestare l’attribuzione dell’opera ad un autore del quinto secolo» (Tosi 1998, p. 329): nella formulazione definitiva della glossa il giudizio di condanna che precede la citazione del verso dell’Ippolito (οὐκ ὀρθῶς) tradirebbe dunque un giudizio di stampo atticistico che, per Tosi, era assente nelle versioni più antiche della glossa. Come che sia, se la iunctura esemplata nel lemma di Fozio (εὐθὺ Λυκείου), desunta direttamente da Platone, è corretta, ne discende per inevitabile conseguenza che intervenire sul lemma, trasformandolo in εὐθὺς Λυκείου, non ha alcun senso (così, invece, Meineke 1827, p. 33 [ove la correzione del tràdito εὐθύ in εὐθύς nel lemma è ricondotta a Lobeck 1820, p. 144: forse a torto, se vedo bene], seguito da Bergk 1829, p. 288; vd. poi anche Meineke FCG I, p. 69; FCG II.1, p. 306; ancora meno senso, ovviamente, ha immaginare che la glossa di Fozio autorizzi a ritenere che in Ferecrate fosse attestata la iunctura εὐθὺς Λυκείου [così Martinelli Tempesta, loc. cit.]; speciosi gli argomenti addotti da Slater 1976, p. 234, a difesa dell’intervento di Meineke, dal momento che εὐθύς per εὐθύ nei codici del Liside di Platone potrà essere penetrato nel corso della tradizione manoscritta del dialogo per via di banalizzazione quando l’uso attico ‘antico’ era ormai finito fuori corso [«Meineke … read εὐθύς since + εὐθύ gen. would not call for comment, whereas εὐθύς + gen. was considered a solecism by the grammarians; since the manuscripts of Plato Lysis 203a still have mostly εὐθύς, Meineke will be right against Naber»]): la glossa foziana, nella versione che ci è pervenuta, conserva la citazione euripidea, ma non anche quella ferecratea, che è dunque da considerare irrimediabilmente perduta (così anche Tosi 1998, p. 329 n. 6; vd. anche Tosi 1997, p. 174 n. 12). Fozio segnalava nel lemma l’uso corretto, ovvero εὐθύ con genitivo, desumendolo da Platone, per poi documentare due casi di scostamento dalla norma, l’unico dei quali a essere sopravvissuto è quello euripideo. Lucidissima, al proposito, la nota manoscritta di Kaibel riportata in calce al frammento da Kassel e Austin (PCG VII, p. 161): Meinekius εὐθὺς Λυκείου corrigebat, ut hoc a Pherecrate dictum putaret, unde Eratosthenem criminandi causam repetiisse. Sed εὐθὺ Λυκείου Platonis verba sunt […]. Itaque nihil aliud colligi potest nisi hoc, etiam Pherecratem εὐθύς dixisse ubi εὐθύ oporteret; ma in un contesto, appunto, perduto. Se infine è vero, considerato il ricorrere, in Omero, di iuncturae quali ἰθὺς νηός o ἰθὺς πόλιος, che nel verso dell’Ippolito euripideo citato da Fozio εὐθύς con genitivo può essere interpretato come un «mild epicism» (Barrett 1964, p. 381 s.; vd. anche Rehrenböck 1985, p. 177 s., e Urios-Aparisi 1992, p. 362 s.), non si può escludere che anche il pur perduto esempio ferecrateo sia da intendere nella medesima chiave, ovvero come un epicismo. Quanto alla questione dell’autenticità ferecratea della commedia, vale per εὐθύς + genitivo con valore locale quanto si è già detto per ἁρμῷ, ovvero che si tratta di argomento del tutto insufficiente per mettere in dubbio il fatto che i Metallēs fossero di Ferecrate: così già Bergk 1838, p. 288 s., seguito da Kaibel 1889, p. 44, e più recentemente da Rehrenböck 1985, p. 179.

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Merita infine appena un cenno l’idea, risalente a Meineke FCG II.1, p. 309, che sia da annoverare tra i frammenti dei Metallēs il lemma esichiano τ 205 Alpers– Cunningham ταρρός· κώπη. […] καὶ λίθος ὁ κάτω τιθέμενος ἐν τῷ ἰπνῷ ἐν τοῖς μεταλ〈λ〉εῦσιν: una proposta, avanzata in termini assai dubitativi già dallo stesso Meineke (nec tamen a veritatis specie abhorrere videtur, eandem fabulam significari ab Hesychio […]. Nisi forte pro μεταλλεῦσι scribendum μετάλλοις), che non ha avuto fortuna (assente nell’editio minor, presente ancora in Bothe 1855, p. 103, come fr. 5, il lemma esichiano non ha più fatto la sua comparsa tra i frammenti dei Metallēs a partire dall’edizione di Kock, con la sola eccezione, se vedo bene, di Edmonds 1957, p. 248 s.).

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Μέτοικοι (Metoikoi) (“Meteci”)

Bibliografia Meineke 1826, p. 28; Meineke 1827, p. 34; Meineke FCG I, pp. 64, 70, 175; Meineke FCG II.1, p. 309; Meineke 1847, I, p. 109; Bothe 1855, p. 103; Kock CAF I, p. 178; Körte 1938, col. 1986, rr. 2–21; Edmonds 1957, p. 248 s.; Rehrenböck 1985, p. 245; Urios-Aparisi 1992, p. 364 s.; Quaglia 2005, p. 103; Storey 2011, pp. 474–477 Titoli analoghi ricorrono nel catalogo dei titoli conservati di due altri commediografi dell’archaia: 1) Cratete, PCG IV, p. 98 s., fr. 26 K.–A. (tràdito in Et. gen. AB [Et. magn. p. 698, 8], Et. Sym. CV); 2) Platone comico, PCG VII, pp. 466–468, frr. 80–83 K.–A. (fr. 80: Phot. α 2867 Theodoridis; fr. 81: Poll. X 24; fr. 82: Phot. α 1386 Theodoridis, schol. vet. Γ Ar. Ach. 22; fr. 83: Apoll. Dysc. pron., GrGr II.1.1, p. 69, rr. 18–20 Schneider). Nella mesē e nella nea è documentato due volte il singolare Μέτοικος: 3) Antifane, PCG II, p. 393, fr. 150 K.–A. (Athen. IV p. 170d); 4) Filemone, PCG VII, p. 250, fr. 44 K.–A. (Zenob. Ath. I 74). Delle tre commedie dell’archaia, l’unica di cui siano conservati con certezza alcuni versi è quella di Platone comico (cfr. Pirrotta 2009, pp. 184–190), mentre è assai discussa la paternità delle altre due: 1) nel caso di Cratete, il dubbio viene dal fatto che l’unica testimonianza di un dramma recante il titolo Metoikoi di paternità cratetea è conservata nell’Etymologicum genuinum (vd. supra) mentre il titolo di questa commedia non ricorre nell’elenco di Suid. κ 2339 = PCG IV, test. 1 K.–A. (ma per quest’ultimo punto si deve rilevare che non sempre gli elenchi della Suda si presentano completi di tutti i titoli noti: cfr. in part. Arnott 1991, pp. 328–330). Meineke 1826, p. 28, riteneva che in questo passo pro Κράτης legendum […] Pherecrates, cuius Μέτοικοι frequentissime a grammaticis commemorantur, «affermazione inesatta, essendo quella del grammatico Apollonio […] l’unica testimonianza in proposito» (Bonanno 1972, p. 163 n. 2). In FCG I, p. 64, Meineke replicava, precisandola, l’opinione espressa in precedenza in relazione a Cratete (Μέτοικοι denique ab uno laudata Etymol. M. p. 698, 10 rectius assignari videtur ab Apollonio Pron. p. 404 B), argomentando però, più avanti, a p. 70 e poi di nuovo a p. 175, la possibilità che Apollonio avesse confuso Ferecrate con Platone comico, mentre in FCG II.1 registrava il titolo Metoikoi sia per Cratete (p. 242) che per Ferecrate (p. 309), rimandando in entrambi i casi alle argomentazioni sviluppate nella Historia critica. Come rilevava Bonanno 1972, p. 163, la possibilità che Cratete abbia composto i Metoikoi «non si può certo escludere a priori […] ma la eventualità di un errore nella tradizione […] o di un error memoriae del testimone ci sembra si possa ragionevolmente ipotizzare»; per inevitabile conseguenza, «la collocazione del frammento tra gli ἀμφισβητήσιμα» era giudicata come «la migliore soluzione». Cfr. anche, già prima, Schmid 1946, p. 91 n. 14 e Körte 1922, s. v. ‘Krates’ col. 1624, 48 (entrambi citati dalla stessa Bonanno 1972, p. 163 s.; considerata la portata dei dubbi relativi alla paternità della commedia, davvero non pare opportuno discorrere di una possibile datazione per

Μέτοικοι

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i Metoikoi di Cratete, come fa invece, con la consueta disinvoltura, Edmonds 1957, p. 163 n. c, il quale, ascritta con certezza la commedia a Cratete, proponeva come data il 426 a. C., «when the escaped Plataeans were given the citizenship»). D’altra parte, è possibile che si sia verificato uno scambio tra i nomi Κράτης e Φερεκράτης, testimoniato con certezza nel caso di fr. 14 K.–A. (Hērōes), ove la situazione dei manoscritti della fonte del frammento (Poll. IX 90) si presenta come segue: ἐκράτησεν (F), Φερεκράτης ἐν (S) Ἥρωσιν εἶπεν (già nella princeps la correzione in Κράτης, resa inevitabile dalla circostanza che, tra gli autori noti di commedie dal titolo Ἥρωες, Cratete è il solo a recare un nome che si può ipotizzare con ragionevolezza all’origine della confusione con Ferecrate). Analoga confusione potrebbe essere chiamata in causa anche a proposito del fr. 17, 1 K.–A. (Thēria), trasmesso da Athen. VI p. 268 A (che ne riporta complessivamente sette versi; sul fr. vd. Perrone 2019, pp. 108–115) ἀλλ᾽ ἀντίθες τοι∙ ᾽γὼ γὰρ αὖ τραπέμπαλιν. Per la fine del verso il codice A reca la lezione αὐτὰ πάμπαλιν; la sequenza αὖ τραπέμπαλιν scelta dagli ultimi editori del frammento si legge in Meineke 1867, p. 117, ma è certo più antica (Meineke la attribuiva a un anonimo predecessore: αὖ τραπέμπαλιν nescio quis); per essa si può richiamare una glossa foziana, ovvero Phot. τ 418 Theodoridis τραπέμπαλιν∙ ἐπ᾽ ἀριστερά∙ οὕτως Φερεκράτης (cfr. Hesych. τ 1261 Alpers–Cunningham τραπέμπαλιν∙ ἐνηλλαγμένως, ἢ παρηλλαγμένως). Kassel e Austin (PCG VII, p. 217 [fr. 274]) registrano il frammento tra quelli incertae fabulae di Ferecrate (seguiti da Theodoridis 2013, p. 478), ma in precedenza, in PCG IV, p. 94, nell’apparato di commento a Cratet. fr. 17, 1, avanzavano pur in via ipotetica la possibilità che nel lemma di Fozio al posto del tràdito Φερεκράτης fosse da leggere Κράτης (an Κράτης?), immaginando che il locus classicus del lemma fosse, appunto, la parte finale del primo verso del fr. 17 K.–A. di Cratete e che Φερεκράτης si fosse introdotto nel lemma per via di confusione tra i due nomi. Il tutto resta, a ogni modo, assai incerto (sulla questione vd. Bonanno 1972, p. 93 s.). 2) Per quanto riguarda Ferecrate, l’unica testimonianza relativa a una commedia dal titolo Metoikoi ricorre in un passo di Apollonio Discolo: discorrendo della forma ἐμαυτός in luogo di ἐγὼ αὐτός Apollonio richiama l’uso di Platone comico nei Metoikoi (Pron., GrGr II.1, 1, p. 69, rr. 18–20 Schneider εὐθείας ἀμοιρεῖ ἡ προκειμένη γεννικἠ [scil. ἐμαυτοῦ]· οὐ γὰρ εἰ ἅπαξ εἴρηται, καὶ ταῦτα ὑπὸ κωμικῆς ἀδείας, ὡς ἐν Μετοίκοις Πλάτωνος, τοῦτο κανών ἐστι τῆς κατὰ φύσιν εὐθείας σιγηθείσης), ma più avanti (Pron., GrGr II.1, 1, p. 113, rr. 17–20), di nuovo in relazione all’uso scorretto del nominativo ἐμαυτός per ἐγὼ αὐτός, scrive: τῆς ἐμαυτοῦ πλαγίου καὶ ἔτι τῶν ὑπολειπομένων οὔτε ῥητὴ ἡ εὐθεῖα οὔτε συστατή. καὶ ὅτι οὐ ῥητή, τουτέστιν οὐ συνήθης, συμφανές, χωρὶς εἰ μὴ ἐν Μετοίκοις Φερεκράτους ἅπαξ ἐστὶν εἰρημένη, καὶ ἴσως ἕνεκα τοῦ γελοίου. Come commenta Pirrotta 2009, p.  170: «Apollonios Dyskolos begeht eindeutig einen Fehler und verwechselt Platon mit Pherekrates, zumal er kurz davor (69.18) in demselben Zusammenhang die Komödie Platon zuschreibt» (vd. anche p. 190: «Der Fehler ist entweder auf Apollonios selbst oder auf einen Kopisten zurückzuführen»).

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Sulla base di queste considerazioni, potrebbe essere corretta l’ipotesi, già adombrata a suo tempo da Meineke, che le fonti facciano confusione nell’ascrizione della commedia e che una commedia dal titolo Metoikoi sia da essere attribuita al solo Platone comico, l’unico per il quale siano a disposizione testimonianze sicure (con citazioni di versi); per questa possibilità vd. anche Kock CAF I, pp. 137 e 178; Kaibel apud Kassel–Austin (PCG VII, p. 466: neque […] Pherecrates Metoecos scripsit nec Crates); Rehrenböck 1985, p. 245; Storey 2011, pp. 474–477. Si vedano anche Urios-Aparisi 1992, p. 364 s., e Quaglia 2005, p. 103. Il plurale Μέτοικοι faceva senza dubbio riferimento ai componenti del coro, come accade di norma con forme analoghe di titoli per l’archaia: si vedano ad esempio, le osservazioni di Sommerstein 2002, p. 11, e quanto nota Bianchi 2016, p. 13 s., in relazione al plurale Archilochoi del titolo della commedia di Cratino. Per il significato del sostantivo μέτοικος, «ursprünglich jemand, der umgezogen ist und seinen οἶκος gewechselt hat» (Pirrotta 2009, p. 184), le sue possibili radici etimologiche (μετά = ‘con’ e quindi ‘concittadino’, più specificamente ‘straniero che conviva con gli Ateniesi e ne condivida alcuni diritti’, vd. Clerc 1893, p. 9; H. Hommel in RE XV, 2, 1932, s. v. ‘Metoikoi’, coll. 1413–1458, in part. 1413; Gauthier 1972, p. 108 s.; ovvero μετά = ‘cambiare’, come ad es. in μεταβαίνω o μεταβάλλω, a significare qualcuno che ha cambiato residenza) e le implicazioni di un titolo del genere in relazione al contenuto di un dramma, vd. in part. Whitehead 1977, p. 39 s., e Pirrotta 2009, pp. 184–186 (ulteriore ricca bibliografia in Hildebrandt 2006, p. 202 n. 1580).

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Μυρμηκάνθρωποι (Myrmēkanthrōpoi) (“Formicantropi / Uomini formica”)

Bibliografia Runkel 1829, pp. 47–49; Meineke FCG II.1, pp. 310–315; Meineke 1847, I, pp. 110–112; Bothe 1855, pp. 103–105; Kock CAF I, pp. 178–181; Norwood 1931, p. 161 s.; Oeri 1948, p. 12 s.; Edmonds 1957, pp. 250–252; Urios-Aparisi 1992, pp. 366–385; Quaglia 2001, pp. 371–414; Quaglia 2003a; Rusten 2011, p. 159; Storey 2011, pp. 476–481 Titolo Il composto μυρμηκάνθρωπος, probabile conio ferecrateo, qui certo da riferire ai componenti del coro, come di norma i titoli plurali nell’archaia (vd. supra ad metoikoi), sarà da immaginare riferito a coreuti caratterizzati dalla duplice natura di uomo e di formica: «un conio del genere, infatti, viene generalmente impiegato per designare chi presenta le caratteristiche di due ‘specie’ diverse: così sono da intendere i vocaboli βοάνθρωπος (che indica il Minotauro in Tzetz. Hist. I 489); il più diffuso λυκάνθρωπος (Marc. Sid. ap. Gal. XIX 719; Aët. Med. VI 11; Paul. Aeg. III.16); ἱππάνθρωπος (che designa i centauri in Gal. Us. part. III.1; Eust. In Od. p. 1909, 53) e il fantasioso composto βουτραγοταυράνθρωπος, che rappresenta, in Tzetz. Hist. VII 484, un mostruoso incrocio tra un uomo, un bue, un capro e un toro» (Quaglia 2001, p. 371). Per quanto non siano attestati titoli analoghi, si possono richiamare tre tipi di confronti: 1) le commedie Μύρμηκες di Cantaro (PCG IV, p. 59, vd. Bagordo 2014a, p. 233) e di Platone comico (PCG VII, p. 468, vd. Pirotta 2009, p. 191) e il Μύρμηξ di Posidippo (PCG VII, frr. 19–20 K.–A.; in questo caso, però potrebbe trattarsi di un nome proprio, come riteneva Meineke FCG I, p. 483, forse quello dell’eroe attico Myrmēx del quale è notizia in Hesych. μ 1904 = Phot. μ 606 Theodoridis, vd. Kassel–Austin PCG VII, p. 570); 2) i drammi che presentino un titolo composto da due elementi uno dei quali sia ἄνθρωπος, vale a dire l’Ἀνθρωπορέστης di Strattis (PCG VII, frr. 1–2 K.–A., vd. Orth 2009, pp. 43–49 e Fiorentini 2017, pp. 45–47) e l’Ἀνθρωφηρακλῆς di Ferecrate, sempre ammesso che Ἀνθρωφηρακλῆς e Ψευδηρακλῆς non siano due titoli distinti per una sola commedia (vd. infra ad loc). In entrambi i casi si noterà, comunque, che ἄνθρωπ- è il primo membro della formazione e non il secondo, come in Μυρμηκάνθρωποι e nei composti citati da Quaglia (vd. infra ad loc.); 3) commedie i cui titoli siano composti da una giustapposizione di due elementi nominali: Αἰολοσίκων (Aristofane), ∆ημοσάτυροι (Timocle), ∆ημοτυνδάρεως (Polizelo), ∆ιονυσαλέξανδρος (Cratino), Θουριοπέρσαι (Metagene), Κωμῳδοτραγῳδία (Alceo comico, Anassandride), Μανέκτωρ (Menecrate), ᾽Ορεσταυτοκλείδης (Timocle), Σφιγγοκαρίων (Eubulo), Τιτανόπανες (Mirtilo); vd. altri esempi in Meyer 1923, p. 176 s., Caroli 2007, p. 247 s. n. 836, Fiorentini 2017, p. 46. In simili casi si può verificare sia che il primo nome indichi chi viene imitato e il secondo chi imita (ad es. nell’Aiolosikōn il cuoco Sicone faceva la parte

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di Eolo, vd. Orth 2017, pp. 9–14), sia il caso opposto, come ad es. nei Thouriopersai, Thurii Persarum more luxuriae dediti (Kock CAF I, p. 706). Per quanto riguarda l’associazione tra uomini e formiche nell’antichità, è da ricordare, intanto, il fatto che l’organizzazione delle formiche (giudicata esemplare, vd. West 1978, p. 355 ad Hes. Op. 778) era considerata analoga a quella umana (Davies–Kathirithamby 1986, pp. 38–41). Il mito offre la vicenda dell’origine dei Mirmidoni dalle formiche per ripopolare l’isola di Egina (v. infra Contenuto), nonché il racconto della metamorfosi di Zeus in formica per giacere con Eurimedusa, figlia di Cletore, cfr. Clem. Alex. protr. II 39.6 e Cook 1914, p. 523 s. n. 12. Sono da ricordare anche gli esseri mitologici di nome Μύρμηκες che vivevano in Persia a stare al racconto di Hdt. III 102 (οὗτοι ὦν οἱ μύρμηκες ποιεύμενοι οἴκησιν ὑπὸ γῆν ἀναφέρουσι [τὴν] ψάμμον κατά περ οἱ ἐν τοῖσι Ἕλλησι μύρμηκες κατὰ τὸν αὐτὸν τρόπον, εἰσὶ δὲ καὶ τὸ εἶδος ὁμοιότατοι· ἡ δὲ ψάμμος ἡ ἀναφερομένη ἐστὶ χρυσῖτις) e le favole esopiche in cui le formiche compaiono associate agli uomini (294 Hausrath μύρμηξ ὁ νῦν τὸ παλαιὸν ἄνθρωπος ἦν) o ad altri animali, ad es. il κάνθαρος (295 Hausrath), la περιστερά (296 Hausrath.) ecc. Come ha osservato Urios-Aparisi 1992, p. 366, «this word (scil. μυρμηκάνθρωποι) seems to have been invented by Pherecrates following two traditions: on one hand that of the animal choruses like Frogs, Wasps or Birds of Aristophanes and, on the other, that of mythical beings, half human, half animals, like Centaurs, Satyrs, Sirens, etc.». Sulle modalità attraverso le quali si manifestava l’associazione di uomini e formiche nel dramma di Ferecrate (i frammenti superstiti non forniscono elementi in tal senso) sono state avanzate diverse ipotesi: secondo Bothe 1855, p. 103, che traduceva il titolo con ‘Formic-homines’, il coro sarebbe stato composto da elementi di bassissima estrazione sociale, innalzati dal regime pericleo fino alle massime cariche dello stato (quaerendum […] argumentum comoediae in mediis tum rebus, Periclis demagogia et aucta plebis potentia, qua evenit ut ignobili loco nati muneribus fungerentur ducum, praetorum, legatorum, itaque velut e formicis fierent homines), ma la maggior parte della critica (Meineke FCG II.1, p. 310; Kock CAF I, p. 178; Kaibel apud Kassel–Austin PCG VII, p. 161; Edmonds 1957, p. 251; Urios-Aparisi 1992, pp. 366–368; Storey 2011, p. 477) ha ritenuto che il sostantivo alludesse a formiche trasformate in uomini, come nel mito del ripopolamento dell’isola di Egina In relazione alla commedia di Ferecrate viene invece considerata generalmente meno attendibile la testimonianza di Eust. Opusc. p. 194, 49 s., che usa μυρμηκάνθρωπος per evocare un uomo di piccola statura; per i dubbi sulla reale conoscenza dell’opera di Ferecrate da parte di Eustazio vd. Meineke FCG II.1, p. 310 e Quaglia 2001, p. 373 s. Da rilevare, d’altro canto, che Kaibel, pur considerando plausibile una ricostruzione della commedia fondata sul contesto mitico offerto dalla vicenda dell’origine dei Mirmidoni (vd. supra), avanzava a un tempo l’ipotesi che i Myrmēkanthrōpoi potessero essere, invece, homines formicinae brevitatis, registrando il dato presente in Eustazio.

Μυρμηκάνθρωποι

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Contenuto Generalmente si ritiene che la commedia fosse costruita su una trama di tipo mitico, a partire dalle vicende di Eaco, sotto il cui regno l’isola di Egina si spopolò a causa di un avvelenamento delle acque voluto da Era: per ripopolare l’isola, Zeus avrebbe trasformato le formiche in uomini, dando così origine alla stirpe dei Mirmidoni. La più antica attestazione del mito risale a Esiodo (fr. 205 M.-W.); sulle attestazioni iconografiche e letterarie della figura di Eaco vd. Boardman 1981, p. 311 s. Il fatto che tra i personaggi in scena dovesse verosimilmente comparire Deucalione (a cui è rivolta l’allocuzione del fr. 125 K.–A., a meno che non si tratti di un Witz, di un’allocuzione scherzosa a un anonimo personaggio, il che, però, non sembra probabile, vd. infra ad loc.; tra i personaggi della commedia deve essere annoverato anche un personaggio femminile, come suggerisce l’invocazione τὼ θεώ del fr. 117 K.–A., vd. infra ad loc.) suggeriva a Kock CAF I, p. 178 l’ipotesi che nel dramma le vicende di Eaco confluissero e si intrecciassero con il mito del diluvio (sulla figura di Deucalione e, in generale, sul mito del diluvio vd. Linant de Bellefonts 1985, p. 384, Caduff 1986 e la bibliografia citata nel commento al fr. 125 K.–A. in relazione a ὦ Δευκαλίων). Sui possibili punti di contatto tra questi due episodi, vd. Quaglia 2001, pp. 374–376 (ripreso in Quaglia 2003a, pp. 265–269), la cui argomentazione può essere riassunta nei seguenti tre punti: 1) «Entrambi (scil. i miti di Eaco e di Deucalione) finirebbero per narrare le sorti di chi sopravvisse ad una catastrofe e dei loro sforzi per ripopolare la Terra»; e in nota: «Analogie tra i due miti, sia per la presenza di una operazione di ripopolamento della terra, sia perché tanto Eaco quanto Deucalione erano figli di un dio e di una ninfa, vengono riscontrate anche da M. L. West, The Hesiodic Catalogue of Women, Oxford 1985, p. 55. Entrambi i miti comparivano nel Catalogo esiodeo; secondo West, tuttavia, è improbabile che Esiodo avesse incluso nella propria trattazione del mito di Deucalione anche le vicende del diluvio: il corpus esiodeo, dunque, non potrebbe essere annoverato tra le fonti di Ferecrate» (Quaglia 2001, p. 374 e n. 22); 2) Paus. I 44, 9 ἐπὶ δὲ τοῦ ὄρους τῇ ἄκρᾳ Διός ἐστιν Ἀφεσίου καλουμένου ναός· φασὶ δὲ ἐπὶ τοῦ συμβάντος ποτὲ τοῖς Ἕλλησιν αὐχμοῦ θύσαντος Αἰακοῦ κατά τι δὴ λόγιον τῷ Πανελληνίῳ Διὶ ἐν Αἰγίνῃ † κομίσαντα δὲ ἀφεῖναι καὶ διὰ τοῦτο Ἀφέσιον καλεῖσθαι τὸν Δία “in vetta al monte c’è un tempio di Zeus detto Aphesios; dicono che, durante la famosa siccità che colpì un tempo la Grecia, Eaco sacrificò nell’isola di Egina a Zeus Panhellenios secondo un oracolo … (?) Zeus allora portò e lasciò andar giù la pioggia e per questo egli è chiamato Aphesios” (trad. Musti in Beschi–Musti 1982, p. 243). Secondo la tradizione qui riportata, Eaco sarebbe stato interlocutore privilegiato di Zeus nel salvare la Grecia dalla siccità; il riferimento alla pioggia mandata da Zeus, «di per sé […] un debole rimando al diluvio del mito di Deucalione» (Quaglia 2001, p. 375), potrebbe però essere messo in connessione con un passo di Arriano in cui il culto di Zeus Aphesios è collegato con Deucalione;

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3) Arrian. FGrHist 156 F 16 εἴρηται δὲ ὅτι Δευκαλίων τοῦ κατακλυσμοῦ γενομένου διαφυγὼν καὶ εἰς τὴν ἄκραν τὴν Ἄργους διασωθεὶς ἱδρύσατο βωμὸν Ἀφεσίου Διός, ὅτι ἀφείθη ἐκ τοῦ κατακλυσμοῦ; «il culto di Zeus Aphesios, dunque, veniva collegato, genericamente, ai miti il cui protagonista era scampato ad un cataclisma di portata cosmica, che portava ad una sorta di assimilazione tra alcuni aspetti del mito di Eaco e quello di Deucalione. Se è ben vero che nessuna delle testimonianze a nostra disposizione collega i due eroi esplicitamente, è però verosimile che, grazie all’analogia di fondo tra le due vicende, tale collegamento potesse essere stato istituito da Ferecrate e che l’interpretazione proposta a suo tempo da Kock si riveli non troppo azzardata» (Quaglia 2001, p. 375). Sulle tradizioni relative all’istituzione di sacrifici da parte di Deucalione dopo il diluvio vd. Fowler 2013, p. 116 e n. 11 (con ulteriore bibliografia); sul difficile passo di Arriano vd. anche Dowden 1989, p. 228 n. 40. L’ipotesi di una assimilazione tra le vicende di Deucalione e quelle di Eaco è stata accolta anche da Edmonds 1957 e da Dover 1966, p. 41, ma contra si vedano le osservazioni di Urios-Aparisi 1992, p. 367 s.: «the connexion of both myths may have been ingenious and it suits the implications of test. 2 [PCG VII, test. 2 K.–A.] about Pherecrates’ innovations in the plot […]; but it is, nonetheless, uncertain. It is true that a storm may have been narrated or staged (cf. fr. 118) and that some kind of joke between the name for the distaff and the mast of a ship was made (cf. fr. 119); but it all could be said about someone who happen to suffer the same circumstances as the hero and not necessarily the myth was staged». Le vicende di Deucalione e Pirra erano ben familiari al pubblico attico. Il mito del diluvio, infatti, era molto diffuso ad Atene, dove ne era stata elaborata una versione epicorica (attestata dal Marmor Parium: cfr. FGrHist 239 A 2–4): Deucalione, re di Licorea, al primo addensarsi delle nubi avrebbe trovato scampo nei pressi di Atene, sul Cranao, dove al termine del diluvio avrebbe fondato il tempio di Zeus Olimpio, celebrato sacrifici di ringraziamento e fondato infine un nuovo regno. Ancora ai tempi di Pausania (cfr. I 18, 7–8) gli Ateniesi mostravano agli stranieri la tomba di Deucalione, situata a poca distanza dal santuario di Zeus Olimpio, nella valle dell’Ilisso; alla vicenda del diluvio e del successivo ripopolamento della terra erano dedicate le cerimonie del terzo giorno delle Antesterie, nelle quali avveniva la commemorazione dei defunti durante il cataclisma e la celebrazione della nascita della nuova stirpe umana, vd. Deubner 1932, p. 113 e Parke 1977, p. 117 s. A Deucalione erano, infine, intitolate quattro commedie, composte da Epicarmo (PCG I, frr. 113–120 K.–A. Pyrrha kai Promatheus sive Deukaliōn vel Leukariōn), Ofelione (PCG VII, p. 97, non vi sono frammenti; vd. Caroli 2014, pp. 189–191), Antifane (PCG II, frr. 78–79 K.–A.) ed Eubulo (PCG V, fr. 23 K.–A., vd. Hunter 1983, p. 115 s.), mentre è incerto che un titolo Δευκαλίων possa essere ascritto al comico Dinoloco in un elenco papiraceo di commedie del II sec. d.C. (POxy XXXIII 2659, fr. 1, col. II r. 15) dove le letture possibili sono Λ̣ευ[κα]ρ̣[ίων] o Δ̣ευκαλ̣ίων, vd. Caroli 2014, p. 189: per nessuna di esse, tuttavia, siamo in grado di ricostruire, sia pur in forma ipotetica, la trama.

Μυρμηκάνθρωποι (fr. 117)

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Datazione Non possediamo alcun elemento utile per ancorare la cronologia della commedia; nulla suffraga dunque l’ipotesi di Edmonds 1957, p. 251, per il quale la morìa degli uomini di Egina e il successivo ripopolamento dell’isola doveva in qualche modo rispecchiare gli eventi della peste di Atene, da cui una proposta di datazione del dramma al 428 a.C.

fr. 117 K.–A. (113 K.) (Α.) τί ληρεῖς; ἀλλὰ φωνὴν οὐκ ἔχειν ἰχθύν γε φασὶ τὸ παράπαν. (Β.) νὴ τὼ θεώ, οὐκ ἔστιν ἰχθὺς ἄλλος οὐδεὶς ἢ βόαξ 1–2 om. Et. gen. B et (usque ad παράπαν) Athen. E 1 ἀλλὰ Et.: ἄλλον Athen. φωνὴν Et., Athen. A: φη(σὶν) Athen. C ἔχειν Athen.: ἔχει Et. gen. (utrumque Et. magn., ut vid.) 2 γε Et.: om. Athen. φασὶ τὸ παράπαν om. etiam Athen. C τὼ θεώ Athen. E: τῷ θεῷ AC 3 οὐκ Et. gen. B, Et. Sym., Athen.: κοὐκ Et. gen. A, Et. magn. ἰχθὺς ἄλλος οὐδεὶς ἢ Et. gen. A, Et. magn.: ἄλλος ϊχθῦς οὐδὲ εἰς ἢ Athen.: ἰχθὺς ἄλλος ἢ Et. gen. B: οὐδεὶς ἄλλος ἢ Et. Sym.: οὐκ ἔσχεν ἰχθὺς ἄλλος οὐδεὶς ἢ vel οὐκ ἔστιν ὅστις ἄλλος οὐδεὶς ἢ Kaibel apud Kassel–Austin.: alii alia βόαξ codd.: init. vers. sequentis φωνεῖν δυνάμενος add. Blomfield 1814, p. 162; λάλος CAF I, p. 113

(Α.) Che sciocchezze dici? Ma se si dice che i pesci non hanno voce affatto! (Β.) Certo, per le due Dee, nessun altro pesce ne ha, eccetto la boga… Et. gen. β 308 (ΑΒ; Et. magn. p. 218,24, Et. Sym. β 270) βῶξ· εἶδος ἰχθύος […] Ἡρωδιανὸς δέ (I p. 396, 10–21 L.) φησι καὶ δισυλλάβως λέγεσθαι. Ἀριστοφάνης∙ (seq. fr. 491 K.–A. [Skēnas katalambanousai]) καὶ Φερεκράτης· τί — βόαξ (deficit B). Ἀριστοτέλης (fr. 301 R.3 = 288 Gigon) δὲ ὅτι φωνὴν προΐεται καὶ διὰ τοῦτο ὀνομάσθη boga: un tipo di pesce […] Erodiano attesta anche la forma bisillabica […] Aristofane (fr. 491 K.–A. [Skēnas katalambanousai]) e Ferecrate: che — boga. Aristotele (dice) che emette suoni e che per questo ricevette il nome che porta Athen. VII p. 287 A (286 f βῶκες) ὠνομάσθη δὲ παρὰ τὴν βοήν. διὸ καὶ Ἑρμοῦ ἱερὸν εἶναι λόγος τὸν ἰχθύν, ὡς τὸν κίθαρον Ἁπόλλωνος. Φερεκράτης δ’ ἐν Μυρμηκανθρώποις εἰπὼν ἀλλὰ φωνὴν — παραπάν, ἐπιφέρει νὴ — βόαξ. (boghe) la boga fu chiamata così dal suo verso. Per questa ragione si dice che questo pesce sia sacro ad Ermes, come il rombo (kitharos) ad Apollo. Ferecrate nei Myrmēkanthrōpoi dopo aver detto: ma se si dice — affatto, aggiunge certo — boga

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Phot. β 182 Theodoridis βόακας, οὐ βῶκας τοὺς ἰχθύας καλοῦσιν. οὕτω Φερεκράτης chiamano i pesci boakas, non bōkas. Così Ferecrate

Metro Trimetri giambici 〈xl〉kl l|lkl

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Bibliografia Runkel 1829, p.  47; Meineke FCG II.1, p.  311; Meineke 1847, I, p. 110; Bothe 1855, p. 104; Kock CAF I, p. 178 Reitzenstein 1897, p. 372 s.; Edmonds 1957, p. 250 s.; Urios-Aparisi 1992, p. 369 s.; Quaglia 2001, pp. 377–381; Quaglia 2003a, pp. 269–271; Storey 2011, p. 476 s. Contesto della citazione La tradizione etimologica trasmette il frammento a testimonianza dell’utilizzo della forma non contratta βόαξ accanto a quella contratta (βῶξ): sono citati tre versi esplicitamente attribuiti a Ferecrate senza indicazione della commedia di provenienza. La medesima tradizione coinvolge un luogo di Erodiano, incluso da Lentz nella sua edizione del περὶ καθολικῆς προσῳδίας (I p. 396, 10–21 L.) ma per il quale Reitzenstein 1897, p. 372 s. aveva pensato, piuttosto, al Symposion dello stesso Erodiano sulla base del confronto con altri luoghi del grammatico che ricorrono simili in Ateneo, come nel caso del frammento di Ferecrate: vd. in gen. Reitzenstein 1897, pp. 371–375 e Thedoridis 1982, p. 336 (ad Phot. β 182, apparato). Nel passo di Ateneo, invece, viene riportata una pericope di testo più breve, priva dell’incipitario τί ληρεῖς, ma esplicitamente ricondotta ai Myrmēkanthrōpoi: i versi sono citati nella sezione dedicata alle boghe (VII pp. 286 E–287 B) e in relazione all’etimologia del nome del pesce, connessa da Ateneo a βοή (cfr. infra βόαξ). Sono riportate, in realtà, due distinte porzioni di testo, introdotte la prima da εἰπών, la seconda da ἐπιφέρει, ma che esse siano in immediata successione è reso certo dal confronto con la pericope tràdita dall’Etymologicum genuinum. Per un analogo impiego di εἰπών … ἐπιφέρει nei Deipnosofisti, cfr. VIII p. 344 E, fonte di Cratin. fr. 62 K.–A. (Drapetides), con le osservazioni di Bianchi 2016, p. 363 s. Plausibile la dipendenza da questo passo di Ferecrate di Phot. β 182 Theodoridis, considerata la relativa rarità del lemma e il fatto che nel passo, che costituisce l’unica attestazione di βόαξ in Ferecrate, la forma non contratta, esplicitamente ricondotta al comico da Fozio, è garantita metricamente. Secondo Kassel–Austin PCG VII, p. 162, infine, è riconducibile al frammento di Ferecrate anche la testimonianza di Ioann. Philop. De accent. 7, 20 Dindorf, καὶ ἔτι τὸ βῶξ, ἐπεὶ καὶ ἐντελέστερόν φασι τὸ βόαξ· μόνον (-ων cod.) γὰρ τῶν ἰχθύων φωνὴν ἀφιέναι, dove tuttavia la forma βόαξ ricorre citata senza espliciti riferimenti ad attestazioni letterarie (possibile, però, che la sequenza μόνον γὰρ τῶν ἰχθύων φωνὴν ἀφιέναι sia da interpretare come una sorta di parafrasi direttamente dipendente dal dettato di Ferecrate).

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Testo Le fonti antiche tramandano i versi in questione in una forma scorretta e spesso mutila; soprattutto Ateneo riporta un testo deteriore rispetto a quello degli etimologici in più di un punto: 1) al v. 1, senz’altro incompleto perché privo dei primi due elementi del primo metron giambico, è corretta la lezione ἀλλά degli etimologici e non ἄλλον dei codici di Ateneo (AC), che presenta un’impossibile lunga in sede pari; giusto, al contrario, in fine di verso, rispetto all’ἔχει degli etimologici, l’ἔχειν di Ateneo, infinito dipendente dal successivo φασί (v. 2); 2) analogamente, al v. 2 gli etimologici tramandano un testo sano, mentre in Ateneo sono omessi γε e l’intera pericope φασι τὸ παράπαν (nel solo C), mentre il duale τὼ θεώ a fine verso si presenta corrotto in un dativo, senz’altro una lectio facilior (τῷ θεῷ in AC, τῶ θεῶ in E). Più complesso lo stato della trasmissione per quanto attiene all’ultimo verso: a) il nesso iniziale è οὐκ/κοὐκ ἔστιν; οὐκ è prevalente, ricorrendo κοὐκ solamente in Et. gen. A e Et. magn.; per quanto entrambe le lezioni siano in quanto tali difendibili, a favore di οὐκ milita forse il frequente ricorrere, in commedia, di attacchi di verso con οὐκ ἔστιν (vd. infra οὐκ ἔστιν); b) la sequenza successiva, ἰχθὺς ἄλλος οὐδεὶς ἢ, è tràdita correttamente in Et. gen. A e Et. magn., mentre ἄλλος ἰχθῦς οὐδὲ εἷς ἢ di Ateneo, oltre che impossibile metri causa, offre in ἰχθῦς un’accentazione anomala; decurtate di una o più parole sono le altre lezioni: ἰχθὺς ἄλλος ἢ di Et. gen. B e οὐδεὶς ἄλλος ἢ di Et. Sym. Meineke FCG II.1, p. 311, proponeva quanto segue: nescio tamen an scribendum sit ἄλλος οὐδὲ εἷς βόαξ, accogliendo in parte quanto tràdito nei codici di Ateneo ma anteponendo ἰχθύς a ἄλλος; per questa sistemazione del testo anche Bothe 1855, p. 104. Non arrivano a garantire un testo migliore di quello che emerge dal confronto delle varianti di tradizione, e appaiono dunque superflue, le sistemazioni del verso proposte da: 1) Blaydes 1896, p. 23: κοὐκ ἔστιν ἰχθὺς ἐλλὸς οὐδὲ εἶς βόαξ; 2) Edmonds 1957, p. 250: κοὐκ ἔστιν ἰχθὺς ἄλλος αὐδῆς ἢ βόαξ; 3) Kaibel apud Kassel–Austin PCG VII, p. 162: οὐκ ἔσχεν ἰχθὺς ἄλλος οὐδεὶς ἢ βόαξ vel οὐκ ἔστιν ὅστις ἄλλος οὐδεὶς ἢ βόαξ. Infine, anche se la conclusione dell’enunciato di B può essere ricostruita senza sforzo, il taglio della citazione alla fine del terzo verso lascia l’ultima frase mutila: solo exempli gratia possono essere accolte le congetture proposte, per l’attacco del trimetro successivo, da Blomfield, φωνεῖν δυνάμενος (C. J. Blomfield, Aeschyli Persae. Ad fidem manuscriptorum emendavit notas et glossarium adjecit C.J.B., Cambridge 18141, p. 162 = 18182, p. 164, ad v. 583) e da Kock CAF I, p. 178: fort. nihil deest nisi λάλος. Interpretazione Il frammento conserva uno scambio di battute tra due personaggi. Nella sezione che precedeva il frammento qualcuno, con ogni probabilità il personaggio indicato da Kassel e Austin con B, doveva aver affermato di aver udito il verso di un pesce e, al rimprovero del suo interlocutore (A), B, quasi senz’altro una donna, perché tipicamente femminile era il giuramento νὴ τὼ θεώ

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(mulierem fuisse docent verba νὴ τὼ θεώ: Meineke FCG II.1, p. 311), ricordava l’esistenza del pesce boga, capace di produrre versi. È impossibile, tuttavia, ricostruire con certezza il contesto più generale: secondo Bothe 1855, p. 104, per il quale i Myrmēkanthrōpoi appartenevano al filone politico della commedia antica, Ferecrate ridicule dicit oratorem, significans, ni fallor, Periclem eloquentissimum βόακα; sulla possibilità che la boga indichi un demagogo attraverso un Witz comico con il quale sarebbe indicato «un cattivo oratore o un molesto chiacchierone», vd. Quaglia 2001, p. 380 (da cui proviene la citazione riportata), poi ripreso in Quaglia 2003a, p. 270 s., e Pirrotta 2009, p. 121 s. Secondo Norwood 1931, p. 161, che propendeva per una trama mitica del dramma, i due personaggi starebbero invece discutendo sui pesci che nuotavano intorno all’arca costruita da Deucalione; come annota Quaglia 2001, p. 381, «in tal caso appare probabile che essa (scil. il personaggio contrassegnato con la lettera B) debba essere identificata con Pirra, moglie dell’eroe Deucalione, salvata con lui dal disastro delle acque. Anche in questo caso, peraltro, il doppio senso sulla «boga» non sarebbe escluso: un pesce loquace avrebbe potuto offrire il destro per una battuta su un maldestro oratore chiamato in causa con un intervento metateatrale». 1 τί ληρεῖς; L’espressione è un colloquialismo dal tono aspro e scortese, frequente in contesti comici, cfr. p. es. Ar. Nub. 500, 829, 1273; Vesp. 767, 1370; Lys. 744; Eup. fr. 171, 1 K.–A. (Kolakes), ma anche in contesti dialogici prosastici (cfr. ad es. Plat. Phaedr. 260 d 5 τί ποτ’, ὦ θαυμάσιοι, ληρεῖτε;) e cfr. anche Achill. Tat. II 6, 3 (τί ληρεῖς); sull’espressione si vedano le osservazioni di Napolitano 2012, p. 239 (n. 655) e di Olson 2016, p. 83. Per l’unica attestazione di ληρέω in contesto tragico (Soph. Trach. 435 νοσοῦντι ληρεῖν ἀνδρὸς οὐχὶ σώφρονος) rimando alle considerazioni di Kamerbeek 1959, p. 109, Davies 1991, ad loc. e Collard 2005, p. 379. Più in generale, sull’utilizzo del verbo ληρεῖν in commedia si veda Beta 2004, pp. 167–171. Sulla radice del verbo e sui termini corradicali si veda quanto osservato nella sezione introduttiva ai Lēroi. ἀλλὰ […] γε Per il nesso, fortemente asseverativo, si veda Denniston 1954, pp. 12 s. e 119. οὐκ ἔχειν Per nessi analoghi in chiusa di trimetro giambico cfr. p. es. Ar. Ach. 785 οὐκ ἔχει, Lys. 916 e 933 οὐκ ἔχεις, Thesm. 640 οὐκ ἔχει, Aesch. Prom. 474 οὐκ ἔχεις, Eur. Med. 618 οὐκ ἔχει, Suppl. 915 οὐκ ἔχει, Eur. TrGF V 1, fr. 22, 3 Kannicht (Aiolos) οὐκ ἔχει, TrGF V 2 fr. 978, 5 (inc. fab.) οὐκ ἔχει, 1039 (inc. fab.) οὐκ ἔχει. 2 τὸ παράπαν Avverbio derivato da παρὰ πᾶν (LSJ9, GEW s. v.) ricorrente per lo più, come in questo caso di Ferecrate, in contesti in cui si nega qualcosa con estrema decisione, cfr. p. es. Ar. Eccl. 183 s. ἐκκλησίαισιν ἦν ὅτ’ οὐκ ἐχρώμεθα / οὐδὲν τὸ παράπαν, Plut. 17 καὶ ταῦτ’ ἀποκρινόμενος τὸ παράπαν οὐδὲ γρῦ, 1183 θύει τὸ παράπαν οὐδὲν οὐδ’ εἰσέρχεται; cfr. anche Ar. Vesp. 478 s. νὴ Δί’ ἦ μοι κρεῖττον ἐκστῆναι τὸ παράπαν τοῦ πατρὸς / μᾶλλον ἢ κακοῖς τοσούτοις ναυμαχεῖν ὁσημέραι, Plut. 351 ἢν δὲ σφαλῶμεν, ἐπιτετρῖφθαι τὸ παράπαν e 961 ἢ τῆς ὁδοῦ τὸ παράπαν ἡμαρτήκαμεν; cfr. inoltre Plat. Ap. 26 c οὐκ εἰμὶ τὸ παράπαν ἄθεος e Theet. 187 a μὴ ζητεῖν αὐτὴν […] τὸ παράπαν.

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νὴ τὼ θεώ L’espressione è prettamente femminile («Danach gilt νὴ τὼ θεώ als charakteristisch für Frauen wie νὴ τὸν Ἀπόλλω für Männer»: Werres 1936, p. 44) e più che costituire una formula di giuramento, afferisce qui (come altrove in commedia: vd. infra) alla categoria degli «assertive idioms» (secondo la definizione utilizzata da Willi 2003, p. 13 a proposito di espressioni come νὴ Δία e μὰ τὸν Ἀπόλλω). Le due dee a cui si allude sono Demetra e Persefone (vd. infra Phot. μ 147 Theodoridis) e secondo una testimonianza di Phryn. 166 Fischer (vd. Rutherford 1881, p. 281 n. CLXXI) νὴ τὼ θεώ non poteva che essere pronunciato da donne: νὴ τὼ θεώ∙ ὄρκος γυναικός, οὐ μὴ ἀνὴρ ὀμεῖται εἰ μὴ γυναικίζοιτο, cfr. Phot. μ 147 Theodoridis μὰ τὼ θεώ (Ar. Eccl. 155)∙ γυναικεῖος ὄρκος. δυϊκῶς δὲ ὀμνύουσι τὴν Κόρην καὶ τὴν Δήμητραν. ἀνδράσι δὲ οὐ πρέπει τοῦτον ὀμνύναι (su questa glossa vd. Theodoridis 1998, p. 544). La documentazione superstite conferma questa informazione: cfr. Ar. Lys. 51 (Calonice), 112 (Calonice), 148 (Lisistrata), 452 (Lisistrata), 682 (semicoro delle vecchie), 731 (donna 1), Thesm. 875 (donna 2), 916 (donna 2), Eccl. 155 (donna 1), Plut. 1006 (vecchia), Men. Dysk. 878 (Simiche), Georg. 24 (Filinna); femminili sono con tutta probabilità anche le personae loquentes di Pherecr. fr. 75, 3 K.–A. (Koriannō, vd. Kaibel apud Kassel–Austin PCG VII, p. 138: colloquitur Corianno e balneo reversa cum Glyce nutrice) e di Alex. fr. 172, 2 K.–A. (Orchēstris), vd. Arnott 1996, p. 505 e Stama 2016, p. 330. Da rilevare che la forma dorica ναὶ τὼ σιώ era, invece, riferita ai Dioscuri, e viene utilizzata da Hermes in Ar. Pac. 214 (vd. Olson 1998, p. 110 s.) e nella Lisistrata di Aristofane 8 volte da Lampito (vv. 81b, 86, 90, 142, 1095, 1105, 1174, 1180) e una volta dall’araldo (v. 983); infine, la medesima esclamazione ναὶ τὼ σιώ pronunciata dal Beota in Ar. Ach. 905 allude a Amfione e Zeto, i mitici fondatori di Tebe, vd. Olson 2002, p. 299. Vd. anche Rutherford 1881, p. 281. Qui νὴ τὼ θεώ equivale a una risposta affermativa (‘Certo, hai ragione! I pesci sono muti!’), che però il locutore provvede subito dopo a rettificare, citando un’eccezione (la boga, che, in deroga alla regola che vuole i pesci muti, emette suoni). Per formule di giuramento in risposte resta utilissima l’ampia casistica citata e discussa in Werres 1936, pp. 16–29. 3 οὐκ ἔστιν Nell’archaia οὐκ ἔστιν è ampiamente documentato in Aristofane a inizio di trimetro: cfr. Ach. 1032; Eq. 1359; Nub. 827; Vesp. 654, 1241; Pac. 260, 965; Av. 628, 1343; Lys. 212, 213, 524; Ran. 1217, il che, pur entro certi limiti, potrebbe avvalorare l’ipotesi che questa e non κοὐκ ἔστιν (presente in archaia solamente a Ar. Vesp. 352 πάντα πέφαρκται κοὐκ ἔστιν ὀπῆς οὐδ’ εἰ σέρφῳ διαδῦναι, in un tetrametro anapestico catalettico e non a inizio verso; in un trimetro giambico solo in Philem. fr. 10, 5 K.–A. [Apokarterōn]) sia la lezione da preferire. βόαξ La boga (Boops Boops, L.) è un pesce tipicamente mediterraneo, della famiglia degli Sparidae, caratterizzato da un corpo color argento con striature dorate (Ἀριστοτέλης […] νωτόγραπτα φησί, λέγεται βῶξ [Athen. VII p. 286 F = Arst. fr. 297 R.3 = fr. 195 G.]) e da grossi occhi (cfr. infra), vd. in part. Strömberg 1943, pp. 63–66; Thompson 1947, p. 36 s.; Palombi–Santarelli 1969, p. 113; Gallant 1985, p. 54 (con ulteriore bibliografia e una buona raccolta delle fonti antiche);

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Lythgoe 1991, pp. 117 e 121; García Soler 2001, p. 181; Davidson 2002, p. 83; Miccolis 2018, p. 123. In commedia la boga compare citata in Ar. fr. 491 K.–A. (Skēnas katalambanousai), dove una donna riferisce di averne fatta una scorpacciata; in Plat. com. fr. 44 K.–A. (Eurōpē), nel quale una boga appena pescata viene rigettata in mare perché di poco valore, vd. Pirrotta 2009, p. 121 s.; in Archipp. fr. 16, 1 K.–A. (Ichthyes), nel ruolo di araldo del governo dei pesci, il che implica che il commediografo accoglieva l’etimologia da βοή (vd. infra); e, ancora, in Nicomach. fr. 1, 23 K.–A. (Eileithyia) e Polioch. fr. 1, 2 K.–A. (Korinthiastēs). Athen. VII p. 287 A attesta per il pesce in questione due differenti etimologie: la prima collega βόαξ a βοή (ὠνομάσθη δὲ παρὰ τὴν βοήν), riconducendo quindi il nome del pesce al verso che esso, insieme alla σάλπη, produrrebbe, vd. Thompson 1947, p. 36 (per la tradizionale idea dei pesci muti cfr. Luc. pisc. 51 γελοῖός εἶμι ἀναγκάζων ἰχθὺν λαλεῖν∙ ἄφωνοι γὰρ οὗτοι γε e le fonti raccolte da Pfeiffer 1949, I, p. 385 ad Call. fr. 533 inc. sed. πουλὺ θαλασσαίων μυνδότεροι νεπόδων); subito di seguito Ateneo afferma: διὸ καὶ Ἑρμοῦ ἱερὸν εἶναι λόγος τὸν ἰχθὺν, ὡς τὸν κίθαρον Ἀπόλλωνος, ossia che il fatto di avere voce rendeva la boga sacra a Hermes ‘sc. as god of messengers and heralds’, il che contribuisce anche a spiegare il già citato frammento di Archippo (vd. supra), in cui a questo pesce è conferita la funzione di araldo (su questo vd. adesso Miccolis 2018, pp. 121–123). La seconda etimologia (Athen. VII p. 287 B), che viene, però, discussa e rigettata, fa capo ad Aristofane di Bisanzio (fr. 409 Slater), che preferiva per il pesce in questione il nome βόωψ, da mettere in correlazione con i grandi occhi di cui era dotato: Ἀριστοφάνης δ’ ὁ Βυζάντιος κακῶς φησιν ἡμᾶς λέγειν τὸν ἰχθὺν βῶκα δέον βόωπα, ἐπεὶ μικρὸς ὑπάρχων μεγάλους ὦπας ἔχει· εἴη ἂν οὖν ὁ βόωψ βοὸς ὀφθαλμοὺς ἔχων. Per l’alternanza βόαξ/βοώψ vd. ora Beekes 2011, p. 223; per le due forme βόαξ/ βῶξ (per le quali cfr. anche Phot. β 182 Theodoridis, vd. Contesto della citazione), la prima è attestata comunemente nella commedia attica, nelle occorrenze già citate (vd. supra), mentre la seconda è presente in Epich. fr. 53, 1 K.–A. (Hēbas gamos) e in Arst. hist. an. 610b 4 e fr. 297 R.3 = 195 G.

fr. 118 K.–A. (117 K.) οἴμοι κακοδαίμων, αἰγὶς αἰγὶς ἔρχεται αἰγὶς αἰγὶς Suid. AFVM: αἰγὶς Phot., Suid. GIT

O me poveretto, una bufera, una bufera arriva! Phot. (b, z) α 525 Theodoridis = Suid. αι 61 αἰγίς· καταιγίς. Φερεκράτης Μυρμηκανθρώποις· οἴμοι — ἔρχεται aigis: tempesta. Ferecrate nei Myrmēkanthrōpoi: o me poveretto — arriva!

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Metro Trimetro giambico

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Bibliografia Runkel 1829, p. 49; Meineke FCG II.1, p. 314; Meineke 1847, I, p. 111; Bothe 1855, p. 105; Kock CAF I, p. 179; Whittaker 1935, p. 182; Edmonds 1957, p. 250 s.; Urios-Aparisi 1992, p. 370; Quaglia 2001, p. 383 s.; Quaglia 2003a, p. 271 s.; Storey 2011, p. 478 s. Contesto della citazione Il frammento è trasmesso da Fozio e dalla Suda, riconducibili per il loro accordo alla Synagōgē (Theodoridis 1982, p. 61), a esemplificazione dell’equivalenza αἰγίς/καταιγίς: l’egida indica per metonimia la conseguenza del suo scuotimento, cioè una bufera. Sulla metonimia egida/bufera cfr. anche Hesych. α 1723 αἰγίς∙ ὀξεῖα πνοή, θ 829 θύελλα· ἀνέμου συστροφή καὶ ὁρμή, ἢ καταιγίς, κ 1122 καταιγίς· ἐπιφορὰ ἀνέμου σφοδροῦ καὶ ἡ τῶν ὑδάτων ζάλη, λ 135 λαίλαψ· καταιγίς, ἀνέμου συστροφὴ μετὰ ὑετοῦ, Σb α 491 = Phot. α 510 Theodoridis αἰγίς∙ […] καὶ ἀνέμου συστροφή, ἥν καὶ καταιγίδα καλοῦσιν, Et. magn. p. 28, 20 Gaisford αἰγίς∙ ἡ κατάιξ, καὶ ἡ ὀξεῖα πνοή. Testo La duplicazione di αἰγίς, presente in parte dei manoscritti di Suida, offre un verso completo; Meineke FCG II.1, p. 314 (seguito poi dal solo Bothe 1855, p. 105), prendendo a torto la ripetizione di αἰγίς per una congettura di Fritzsche (Fritzsche 1838, p. 30, ad v. 100) e rigettandola (id ex eo coniecturarum genere est, quas nec refellere argumentis nec demonstrare licet), proponeva, sia pur dubitanter, di completare il verso con βαβαί vel simile quid, il che, però, non è in alcun modo necessario (una ripetizione per certi versi analoga è peraltro documentata in Aristofane, vd. infra Interpretazione e vd. Quaglia 2001, p. 383). Interpretazione Il frammento apre a due possibilità interpretative, sulla scorta del valore attribuito a αἰγίς, come rilevato già da Meineke FCG II.1, p. 314: dubium est utrum tempestas an turbulentus homo tempestatis instar ingruere dicatur (a un uso metaforico aveva pensato, già prima di Meineke, Fritzsche 1838, p. 30: Myrmex ipse turbo, procella appellari videtur). Se, infatti, si conferisce al sostantivo un valore proprio, è possibile che la tempesta a cui si accenna fosse quella che precedeva e causava il diluvio (cfr. supra Contenuto), come proposto già da Kock CAF I, p. 179 (significatur tempestas ingruens, quam sine dubio diluvies sequebatur); in tal caso, sarebbe possibile immaginare che il frammento appartenesse in origine al prologo della commedia (vd. in part. Whittaker 1935, p. 182), ove si accolga l’idea che appunto nel prologo «Deucalione avrebbe organizzato la costruzione dell’arca, come appare probabile anche sulla base del fr. 119» (Quaglia 2001, p. 383 s., ripreso in Quaglia 2003a, p. 271 s.). Secondo Norwood 1931, p. 161, invece, sarebbe qui paventato da parte dei sopravvissuti al diluvio l’avvento di una nuova tempesta, mentre per Edmonds 1957, p. 250 s., l’esclamazione sarebbe stata pronunciata da Deucalione. Sulla scorta di Ar. Ran. 847 s. ἄρν’ ἄρνα μέλανα παῖδες ἐξενέγκατε· / τυφὼς γὰρ ἐκβαίνειν παρασκευάζεται (dove l’anafora ricorre nel contesto di un passo di concitazione paragonabile a quella esemplata dal frammento ferecrateo) l’espres-

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sione potrebbe avere, tuttavia, valore metaforico (l’uragano che incombe, nel passo delle Rane, è ovviamente l’ira di Eschilo nei confronti di Euripide, vd. Dover 1993, p. 298; a un uomo assimilato a una tempesta, come avviene nel passo di Aristofane, pensavano già Fritzsche e Meineke, cfr. supra, e vd. Quaglia 2001, p. 383). οἴμοι κακοδαίμων La stessa esclamazione iniziale ricorre anche in Ar. Eq. 234 οἴμοι κακοδαίμων, ὁ Παφλαγὼν ἐξέρχεται e, forse, in Ar. fr. 290, 1 K.–A. (Dramata ē Niobos) οἴμοι κακοδαίμων ὁ λύχνος ἡμῶν οἴχεται, dove tuttavia il testo è incerto (tràdito è κακόδαιμον, accolto in un primo momento da Kassel–Austin PCG III 2, p. 164, mentre in PCG V, p. 639 si stampa κακοδαίμων di Henderson 2007, p. 246, vd. Pellegrino 2015, p. 185 s.): simile è anche, peraltro, la collocazione del verbo di moto in fine di verso e cfr. anche Pherecr. fr 56, 3 K.–A. (Epilēsmōn ē Thalatta) “οἴμοι τάλας”, φησίν, “χαράδρα κατελήλυθεν”, molto vicino al fr. 118. Per altre occorrenze del nesso οἴμοι κακοδαίμων in commedia, sempre a inizio verso, cfr. Ar. Ach. 105, οἴμοι κακοδαίμων ὡς σαφῶς, 473 oἴμοι κακοδαίμων, ὡς ἀπόλωλ’, 1036 oἴμοι κακοδαίμων τοῖν γεωργοῖν βοιδίοιν, 1081 oἴμοι κακοδαίμων, καταγελᾷς ἤδη σύ μου, Eq. 752 oἴμοι κακοδαίμων, ὡς ἀπόλωλ’, 1206 oἴμοι κακοδαίμων, ὑπεραναιδευθήσομαι, 1243 oἴμοι κακοδαίμων· οὐκέτ’ οὐδέν εἰμ’ ἐγώ, Nub. 504 οἴμοι κακοδαίμων, ἡμιθνὴς γενήσομαι, 1324 οἴμοι κακοδαίμων τῆς κεφαλῆς καὶ τῆς γνάθου, Vesp. 207 οἴμοι κακοδαίμων· στροῦθος ἁνὴρ γίγνεται, 1417 οἴμοι κακοδαίμων. προσκαλοῦμαί σ’, ὦ γέρον, Av. 86 oἴμοι κακοδαίμων, χὠ κολοιός μοἴχεται, 1019 oἴμοι κακοδαίμων, 1051 oἴμοι κακοδαίμων, καὶ σὺ γὰρ ἐνταῦθ’ ἦσθ’ ἔτι; Lys. 449 oἴμοι κακοδαίμων· ἐπιλέλοιφ’ ὁ τοξότης, 845 oἴμοι κακοδαίμων, οἷος ὁ σπασμός μ’ ἔχει, Thesm. 232 oἴμοι κακοδαίμων, ψιλὸς οὖν στρατεύσομαι, 237 oἴμοι κακοδαίμων, δελφάκιον γενήσομαι, 1004 οἴμοι κακοδαίμων, μᾶλλον ἐπικρούεις σύ γε, Ran. 33 oἴμοι κακοδαίμων· τί γὰρ ἐγὼ οὐκ ἐναυμάχουν; 196 oἴμοι κακοδαίμων, τῷ ξυνέτυχον ἐξιών; Eccl. 323 οἴμοι κακοδαίμων, ὅτι γέρων ὢν ἠγόμην, 1093 οἴμοι κακοδαίμων· ἐγγὺς ἤδη τῆς θύρας, Plut. 850 oἴμοι κακοδαίμων, ὡς ἀπόλωλα δείλαιος, fr. 339 K.–A. (Thesmophoriazousai b) οἴμοι κακοδαίμων τῆς τόθ’ ἡμέρας, ὅτε. Quelle elencate sono le attestazioni dell’archaia, mentre nella commedia successiva sono documentate solamente altre tre occorrenze: Antiph. fr. 277 K.–A. (inc. fab.) oἴμοι κακοδαίμων, τὸν τράχηλον ὡς ἔχω, Timocl. fr. 10, 1 K.–A. (Epistolai) οἴμοι κακοδαίμων, ὡς ἐρῶ. μὰ τοὺς θεούς, Men. Dysk. 205 οἴμοι, κακοδαίμων. παῦε θρηνῶν, Σώστρατε. αἰγὶς αἰγὶς «Eine mytische Wunderwaffe der Götter, die man sich wohl am besten als Ziegenfell vorzustellen hat, das gelegentlich die Funktion eines Schildes erfüllt» (LfgrE I s. v. αἰγίς, col. 254); l’etimologia è in genere connessa con αἴξ ‘capra’ (cfr. Eur. Cycl. 360 δασυμάλλῳ ἐν αἰγίδι) unito al suffisso -ίς come nei simili ἀρνακίς e νεβρίς; altri ha proposto, invece, una derivazione da una radice αιγ- con il valore di ‘quercia’, cfr. LfgrE I s. v. αἰγίς, col. 253 (con ulteriore bibliografia), GEW, DELG, Beekes 2010 s. v. L’egida, il cui scuotimento genera tempesta, in Omero è prerogativa di Zeus, Atena o Apollo (Il. IV 167, XVII 591–96) o di altre divinità (Atena: Il. V 738; Apollo: Il. XV 229), vd. Fowler 1988 (in part. p. 99 ss. sulla connessione tra egida

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e navigazione) e Urios-Aparisi 1992, p. 370, il quale rileva che l’associazione con la tempesta deriva dall’immagine di Zeus come «god of weather, who moved it standing on the top of Ida when he wanted to provoke in his anger a storm (cf. Il. 17. 591–5)». Con il valore di ‘tempesta’ αἰγίς è attestato soltanto in Aesch. Choeph. 592 s. κἀνεμόεντ᾽ ἂν / αἰγίδων φράσαι κότον e nell’oratoria tarda (Ael. Aristid. Or. IX 36; Liban. Or. XVIII 268): potrebbe dunque avere ragione Urios-Aparisi 1992, p. 370 a riconoscere nell’utilizzo del sostantivo un elemento di stilizzazione letteraria ‘alta’, perfettamente funzionale al contenuto concitato e patetico del trimetro.

fr. 119 K.–A. (114 K.) ἀλλ’ ὡς τάχιστα τὸν γέρονθ’ ἱστὸν ποίει Forza, fai quanto prima di quel fuso un albero della nave! Poll. VII 73 τὸ δὲ ἐργαλεῖον καθ’οὗ ἔκλωθον ἐξαρτῶντες τὰ στυππεῖα, γέρων ἐκαλεῖτο· ἦν δὲ ξύλου πεποιημένον κιόνιον, χεῖρας Ἑρμοῦ τετραγώνου ἔχον, ᾧ γέροντος ἐπῆν πρόσωπον, ἀφ’οὗ καὶ τοὔνομα. Φερεκράτης δέ φησιν ἐν Μυρμηκανθρώποις· ἀλλ’ — ποίει, ἐφ’οὗ (ἀφ’οὗ ed. pr.) τὸ λίνον ἦν L’utensile del quale si servivano per filare appendendovi le fibre di lino si chiamava gerōn: era una colonnetta fatta di legno, dotata di mani simili a quelle dello Hermes tetragōnos, che aveva il volto di un vecchio (gerōn); da qui il nome. Ferecrate nei Myrmēkanthrōpoi dice: forza — nave! All’utensile era (sospeso) il lino.

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Per la prosodia οῐ in ποίει, cfr. i casi analoghi di consonantizzazione di ι in ποιέω ad es. in Ar. Vesp. 263, 1130, Lys. 1006, Eccl. 563. Sul fenomeno vd. Radermacher 1929; Threatte 1980, p. 413; Kapsomenos 1990; Willi 2003, p. 236 s. Bibliografia Runkel 1829, p. 48; Meineke FCG II.1, p. 312; Meineke 1847, I, p. 110; Bothe 1855, p. 104; Kock CAF I, p. 179; Zieliński 1931, pp. 39–41; Whittaker 1935, p. 182; Edmonds 1957, p. 250 s.; Rehrenböck 1985, p. 246 s.; Urios-Aparisi 1992, p. 371 s.; Kassel–Austin PCG VIII, p. 170 (adesp. com. *585 K.–A.); Quaglia 2001, pp. 384–387; Quaglia 2003a, p. 273 s.; Quaglia 2003c, p. 269 s.; Storey 2011, p. 478 s. Contesto della citazione Il frammento è trasmesso da Polluce nel contesto della sezione περὶ λινῶν ἐσθήτων καὶ ἀμοργίνων del libro settimo (περὶ τεχνῶν ἀγοραίων) a esemplificare l’uso di γέρων, sezione superiore del telaio, dalla quale pendevano le fibre da filare. Non ricorrono in Polluce ulteriori citazioni, precedenti (immediatamente prima in VII 72 si parla della κάνναβις […] ὅμοιον […] λίνῳ) o

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successive (subito dopo è riportato Sapph. fr. 100 V. ἀμφὶ δ᾽ ἄβροις᾽ 〈〉 λασίοις᾽ εὖ 〈𝘍 ’〉 ἐπύκασσεν, dove è menzionato il λάσιον, sul quale si concentra la discussione che segue), a documentazione dell’impiego di questo termine, sulle cui occorrenze vd. infra τὸν γέρονθ(α). Testo Problematica, e molto discussa, risulta l’individuazione del confine tra la citazione e il testo di Polluce. L’ipotesi accolta in Kassel–Austin PCG VII, p. 163, secondo la quale il frammento di Ferecrate terminerebbe con ποίει, formando così un trimetro giambico completo, al termine del quale riprenderebbe la spiegazione di Polluce, si deve almeno già a Toup 1790, p. 521 ed è stata ripresa e sostenuta, tra gli altri, da Rehrenböck 1985, p. 246 s. («Jedenfalls ist es bei diesem Lexikographen nicht ungewöhnlich, daß nach einem Dicherzitat noch eine Bemerkung angefügt oder überhaupt die Satzkonstruktion fortgeführt wird (cf. e. g. 2, 173; 10, 74). Das Imperfekt ἦν stimmt keinesfalls zu der hastigen, in großer Bedrängnis erfolgten Aufforderung ὡς τάχιστα … ποίει») e Urios-Aparisi 1992, p. 371. Più folta appare la schiera di quanti hanno attribuito a Ferecrate anche il prosieguo, talvolta emendando per congettura il testo tràdito: Meineke FCG II.1, p. 312,  proponeva per il presunto secondo verso ἀφ’ οὗ τὸ λίνον ἦν (pur notando, in apparato: sed haec verba num cum Pherecratis versu coniungenda sint dubitare licet), mentre Bothe 1855, p. 104 stampava ἐφ’ οὗ τὸ λίνον ᾖ, traducendo l’intero frammento con sed quam citissime senem statue jugum textorium, / cui insint fila; nella medesima linea anche Quaglia 2003c, p. 269 s. (ἐφ’ οὗ τὸ λίνον ἦν, «l’inizio di un trimetro con tribraco in seconda sede»). Più prudentemente Kock CAF I, p. 179 poneva a testo [ἀφ’ οὗ τὸ λίνον ἦν] notando in apparato verba quae uncis inclusi Pherecratis sint an Pollucis dubitatur; si veda anche la proposta di Kaibel ap. Kassel–Austin PCG VII, p. 163 (ἀφ’ οὗ τὸ λίνον ἦν 〈ἐξηρτημένον〉). Poco soddisfacente, infine, la soluzione di Edmonds 1957, p. 250, la cui congettura ἀφ’ οὗ τὸ λίνον νῇς non sembra pienamente convincente, vd. Rehrenböck 1985, p. 247 («Edmonds Konjektur […] sieht zwar paläographisch geglückt aus, scheint jedoch der augenblicklichen Situation, in der man für unnötige Worte keine Zeit mehr übrig hat, gewiß nicht angemessen; weiters dürfte Pyrrha angesichts der bedrohlichen Überschwemmung kaum mehr mit dieser häuslichen Aufgabe beschäftigt sein») e Quaglia 2003c, p. 269. Interpretazione Qualcuno impartisce a una seconda persona l’ordine (ποίει) di trasformare quanto prima (ὡς τάχιστα) un utensile per la filatura, il γέρων, in un albero di nave (ἱστόν); l’ordine impartito viene articolato attraverso una struttura (ἀλλά incipitario seguito da ὡς τάχιστα e da un imperativo) frequentissima in commedia, cfr. p. es. Ar. Pac. 8 (ἀλλ’ ὡς τάχιστα τρῖβε πολλὰς καὶ πυκνάς), Ach. 1094 (ἀλλ’ ὡς τάχιστα σπεῦδε) e Lys. 1009 (ἀλλ’ ὡς τάχιστα φράζε περὶ διαλλαγῶν). Editori e commentatori moderni, a partire almeno da Kock CAF I, p.  179 (Deucalioni Pyrrha ingruente eluvione suadere videtur, ut fuso utatur pro malo) e da ultimi Kassel e Austin PCG VII, p. 163 (ove Kock si trova citato), attribuiscono in maniera sostanzialmente unanime il verso a Pirra, che con l’approssimarsi del

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diluvio, esorterebbe Deucalione a trasformare il fuso di cui ella si serve in un albero maestro, allestendo quindi una zattera con mezzi di fortuna, a portata di mano (una scena, dunque, per certi versi analoga all’istituzione del tribunale casalingo nelle Vespe di Aristofane [vv. 764–890]). Sulla scorta di tale interpretazione Whittaker 1935, p. 182 ipotizzava una collocazione del frammento nel prologo della commedia, come nel caso del precedente frammento 118 K.–A. (vd. supra ad loc.). Secondo Edmonds 1957, p. 251, il locutore sarebbe invece Deucalione e il destinatario Pirra; per quanto abbia forse ragione Rehrenböck 1985, p. 247 a osservare «daß ein solch rettender Gedanke von der Frau ausginge», non si può escludere troppo recisamente che fosse Deucalione a invitare Pirra a utilizzare uno strumento tipicamente femminile per aiutarlo a costruire un’imbarcazione di fortuna. Diversamente, Urios-Aparisi 1992, p. 371, immagina che il gioco comico coinvolgesse anche un personaggio anziano presente sulla scena, sulla base di una possibile ambiguità di cui potrebbe essere portatore il termine γέρονθ᾽: «It is possible to speculate that this line refers to a kind of stage business, if we understand τὸν γέροντα not only as distaff, but in its literal meaning, the old man […]. That is to say, the use of this word can be purposeful to create an ambiguity: one speaker can be meaning the ‘distaff ’ and the other the ‘old man’ to be placed instead of the distaff as mast (cf. the proverb γέρων στύπιννος, in fr. adesp. 855K [= *585 K–A, cfr. PCG VIII (1995), p. 170] and Apost. XVII 59, Diogen. VIII.14 which means ‘feeble old person’ from στυππεῖον ‘the coarse fibre of flax or tremp’)». Poco convincente, infine, l’ipotesi di Bothe 1855, p. 104: Pseudoaspasiae fortasse verba, opus faciendum imperantis ancillae, che si fonda su un’interpretazione complessiva della commedia di Ferecrate secondo la quale essa, sotto il travestimento mitico, avrebbe alluso a fatti dell’Atene contemporanea, vd. supra Contenuto del dramma e vd. anche Rehrenböck 1985, p. 247. ἀλλ(ά) […] ποίει Sul valore esortativo di ἀλλά incipitario seguito dall’imperativo, il quale «breaks off the discussion and introduces a demand for action» (Olson 1998, p. 69), vd. in part. Denniston 1954, pp. 13–16. τὸν γέροντ(α) Oltre a quella di Ferecrate documentata dal passo di Polluce, l’unica altra attestazione letteraria di γέρων per indicare la parte finale del fuso è Herond. XII.1–3 ἢ χαλκέην μοι μυῖαν ἢ κύθρην παίζει / ἢ τῆισι μηλάνθηισιν ἄμματ’ ἐξάπτων / τοῦ κεσκίου μοι τὸν γέροντα λωβᾶται (su cui vd. Di Gregorio 2004, p. 403); il termine ricorre poi in Eust. in Od. p. 1923, 63 Παυσανίας δὲ λέγει ὅτι γέρων (γέρον Eust., corr. Meineke FCG II.1, p. 312) ξύλον στυλίδι παραπλήσιον ἔχον κεφαλὴν γεροντοειδῆ πλαστὴν (ἢ add. Meineke FCG II.1, p. 312) γλυπτὴν, καὶ χεῖρας ὡς Ἑρμοῦ τετραγώνου, ἐξ ὧν ἐκρέματό, φησι, τὰ νηθόμενα στυππεῖα). Quanto a Phryn. Praep. soph. p. 59, 7 de Borries γέρων στύππινος, vd. Kaibel 1899, p. 24 (γέρων teste Polluce vocabatur τὸ ἐργαλεῖον καθ’ οὗ ἔκλωθον ἐξαρτῶντες τὰ στυππεῖα, idque ipsa stupa iniecta senis speciem prae se ferens, v. Pherecr. fr. 114 K. recte igitur γέρων στύππινος ille dicebatur, neque male homo senex et decrepitus cum tomento stoppario comparari potuit); vd. Kassel–Austin PCG VIII, p. 170, ove la voce del lessicografo è registrata come adespoto comico incerto (fr. *585).

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Il nome deriva dalla forma che il pezzo assumeva, una forma umana stilizzata, come avveniva appunto nell’iconografia del cosiddetto Hermes τετράγωνος; per la forma del γέρων vd. Zieliński 1931, p. 40: «der ‘Alte’ ist nun, wie Pollux sagt, eine hölzerne Stange, viereckig, wie eine Herme, mit dem Kopfe eines alten Mannes drauf, von der herab die Spinnerinnen das Werg herabspannen». Sull’iconografia di Hermes τετράγωνος rimando, oltre che alla bibliografia proposta da Kassel– Austin PCG VII, p. 163, a Johnston–Mulroy 2004, p. 4 s. Più in generale sulle differenti forme delle Erme si veda Wrede 1985, pp. 3–5. ἱστόν Il termine indica, originariamente e genericamente, ‘anything set upright’ (LSJ9 s. v. ἱστός) e sin da Omero può designare tanto l’albero della nave (p. es. Od. II 424 = XXI 289), quanto il fuso (ad es. Od. I 357 = XXI 351, II.109 = XXIV 145); è possibile, dunque, che la scelta di ἱστός fosse funzionale a preservare una certa carica di ambiguità. Secondo Quaglia 2001, p. 386 (ripreso in Quaglia 2003, p. 273 s.), una simile ambiguità sarebbe da rintracciare anche in λίνον, ‘filo’ ricavato dalla fibra tessile ma anche ‘vela’; ma sulla riconducibilità a Ferecrate della pericope ἐφ᾽ οὗ τὸ λίνον ἦν si veda supra Testo.

fr. 120 K.–A. (115 K.) γελῶντα καὶ χαίροντα καὶ τεθολωμένον Che ride e gioisce ed è stravolto Phot. τ 108 Theodoridis = Et. gen. AB (Et. magn. p. 750, 10) = Suid. τ 236 τεθολωμένος. καὶ ἐπὶ χαρᾶς, Φερεκράτης Μυρμηκανθρώποις· γελῶντα — τεθολωμένον, καὶ ἐπὶ λύπης· ὑπὸ τῆς ἀνίας ἀνεθολοῦθ’ ἡ καρδία (fr. 284 K.–A.)

tetholōmenos (stravolto). Sia per la gioia, (come in) Ferecrate nei Myrmēkanthrōpoi: che ride — è stravolto, sia per il dolore: dal dispiacere era sconvolto il cuore (fr. 284 K.–A.) Metro Trimetro giambico

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Bibliografia Runkel 1829, p. 48; Meineke FCG II.1, p. 313 s.; Meineke 1847, I, p. 111; Bothe 1855, p. 104 s.; Kock CAF I, p. 179; Edmonds 1957, p. 250 s.; UriosAparisi 1992, p. 372 s.; Quaglia 2001, p. 387 s.; Quaglia 2003a, p. 274 s.; Parker 2007, p. 263; Storey 2011, p. 478 s. Contesto della citazione La tradizione lessicografica attesta l’uso metaforico del verbo θολόω (‘intorbidire’, vd. infra τεθολωμένον), come vox media, indicante il turbamento interiore determinato tanto da una gioia quanto da un dolore: come esempio del primo è riportato il fr. 120 K.–A. di Ferecrate, esplicitamente riferito ai Myrmēkanthrōpoi, mentre per il secondo caso è citato un altro frammento di

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Ferecrate, il fr. 284 K.–A., senza ulteriori precisazioni quanto alla commedia di provenienza (ma sulla paternità del frammento vd. Testo). Testo La tradizione manoscritta dei lessicografi fornisce, almeno per il fr. 120, un testo coerente e corretto, che non richiede alcun intervento; molto più complessa è invece la questione relativa al fr. 284 K.–A. ὑπὸ τῆς ἀνίας ἀνεθολοῦθ’ ἡ καρδία, inserito da Kassel e Austin (PCG VII, p. 219) tra i dubia, ma in genere ricondotto ai Myrmēkanthrōpoi dagli editori precedenti. Già Meineke FCG II.1. p. 313 s., pur stampando di seguito i due versi, sosteneva: alterum versum […] Pherecratis esse pro certo affirmari non potest; l’organizzazione dell’interpretamentum, infatti, non rende affatto certo che la paternità di Ferecrate sia da estendersi anche al fr. 284 K.–A., che anzi, come osservano Kassel e Austin, fortasse ne comici quidem est. Quasi certamente corretta è, infatti, rispetto alla lezione ἀνοίας (Et. gen. A., Et. magn. R) ‘stoltezza, sconsideratezza, follia’, la lezione ἀνίας (Phot., Suid.) ‘dispiacere, afflizione, molestia’, che sembra adattarsi meglio al valore di ἀνεθολοῦθ’, glossato in Hesych. α 4801 ἀνεθολοῦτο· ἀνεταράσσετο (vd. Theodoridis 2013, p. 450, ad τ 108). Tale lezione è accolta da tutti gli editori: oltre al già citato Meineke, vd. Bothe 1855, p. 105 (che, però, nel commento riteneva preferibile la lezione ἀνοίας resa con ‘temulentiam’, ‘insaniam’: sin ἀνίας, quod minus probo, haec fuerint verba alicujus, amico narrantis, sibi tunc taedio fuisse convivium longius productum); Kock CAF I, p. 179, Edmonds 1957, p. 250. Quanto notano Kassel e Austin a proposito di ἀνία in PCG VII, p. 219 (ἀνία saltem a comoedia alienum vocabulum; vd. anche Quaglia 2001, p. 388 e Quaglia 2003a, p. 274 s.) va almeno in parte rettificato tenendo conto di Epich. fr. 97, 4 K.–A. (Odysseus automolos) τί, ᾠζύρ᾽, ἀνιῇς; che, attestando l’uso di ἀνιάω in contesto comico, rende del tutto verosimile supporre che anche il sostantivo ἀνία potesse avere cittadinanza in commedia. Così, il confronto con Eur. Alc. 1067 θολοῖ δὲ καρδίαν (ibid.), più che parlare a favore della possibilità che il verso sia da ricondurre a un ambito tragico, può ben essere letto come spia della sua provenienza da un contesto comico di carattere paratragico. Interpretazione Il verso è costruito tramite l’accumulazione di tre participi, dipendenti in origine forse da un perduto verbo di percezione, come proposto da Quaglia 2001, p. 387 s. che richiama il confronto con Ar. Ach. 371 τοὺς τῶν ἀγροίκων οἶδα χαίροντας σφόδρα e altri passi analoghi: Ar. Ach. 344 οὐχ ὁρᾷς σειόμενον;, Nub. ἐπεὶ δικαστὰς οὐχ ὁρῶ καθημένους, Vesp. 1268 s. οὗτος ὅν γ’ ἐγώ ποτ’ εἶδον / ἀντὶ μήλου καὶ ῥοᾶς δειπ-/νοῦντα μετὰ Λεωγόρου, Pac. 545 ἐκεινονὶ γοῦν τὸν λοφοποιὸν οὐχ ὁρᾷς τίλλονθ’ ἑαυτόν, Plut. 332 s. καὶ μὴν ὁρῶ καὶ Βλεψίδημον τουτονὶ / προσιόντα; lo stesso Quaglia (ibid., poi ripreso in Quaglia 2003a, p. 274 s.) ritiene che il verso vada collocato in un contesto diegetico, che «costituisca parte di un racconto». Non è dimostrabile, ma neppure da escludere, l’ipotesi che i tre membri siano stati estrapolati da un’accumulazione in origine più ampia, vd. Urios-Aparisi 1992, p. 372 s. (sull’accumulazione verbale in relazione al sentimento di gioia si vedano le considerazioni e gli esempi raccolti da Spyropoulos 1974, p. 75), secondo il quale

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«the enumeration in its context was intended to be comical, perhaps it was part of a larger one in which the speaker expressed excessive happiness adding as many adjectives and participles as possibile and more and more absurd ones, or perhaps it was an inversion of a tragic intention to give a melodramatic tone with the use of this word (scil. θολόω). If the subject of this play was related to the flood and the myth of Deucalion, this word would be suitable as a ‘para prosdokian’ that could be interpreted as a reference to the person as ‘being muddy with happiness’». Meineke FCG II.1, p. 314 (ripreso, da ultimo, da Kassel–Austin PCG VII, p. 163), accostava al frammento in questione Hor. carm. II.19, 6 turbidum laetatur. γελῶντα καὶ χαίροντα I due verbi sono ampiamente utilizzati in commedia: per γελάω e i suoi composti (ad es. Ar. Nub. 560, 623 per il semplice, καταγελάω in Ar. Ach. 1081, Eq. 161 ecc.), vd. in part. Sommerstein 2000 (p. 67 per un elenco di attestazioni delle forme verbali), per χαίρω vd. ad es. Ar. Ach. 200, 371, Eq. 39, 235 ecc.; da segnalare l’occorrenza di Alex. fr. 103, 22 K.–A. (Isostasion) ἂν δὲ μὴ χαίρῃ γελῶσα, dove i due verbi ricorrono insieme, cfr. anche Ar. Nub. 560 ὅστις οὖν τούτοισι γελᾷ, τοῖς ἐμοῖς μὴ χαιρέτω. τεθολωμένον Il verbo θολόω è connesso con il sostantivo θολός ‘Schlamm, Schmutz, der dunkle Saft des Tintenfisches’ (GEW s. v., cfr. DELG s. v., Beekes 2010, s. v.) e ha propriamente il valore di ‘intorbidire l’acqua’, cfr. p. es. Antiph. XVII 2 (detto della seppia), Arst. fr. 311 R.3 = 198 G. (detto di un pescatore); l’utilizzo metaforico è molto raro e, a parte i due luoghi comici qui in discussione, ricorre in epoca classica solamente ancora in Eur. Alc. 1067 θολοῖ δὲ καρδίαν, ἐκ δ’ ὀμμάτων / πηγαὶ κατερρώγασιν in cui «the metaphor conveys forcefully Admetus’ feeling of emotional bewilderment […] the adjective θολερός too is used to convey the idea of mental darkness and confusion. At Aj. 206, Ajax lies θολερῷ … χειμῶνι νοσήσας. See also PV 855» (Parker 2007, p. 264). Una più tarda occorrenza con il medesimo valore è in Philostr. Apoll. VIII 7. Per l’ipotesi di Urios-Aparisi 1992, p. 372 s., che l’impiego di θολόω dopo i due verbi di livello colloquiale γελῶντα καὶ χαίροντα rappresenti qui «an inversion of a tragic intention to give a melodramatic tone with the use of the word», vd. supra Interpretazione. fr. 121 K.–A. (118 K.) ὕστερον ἀρᾶται κἀπιθεάζει τῷ πατρί ὕστερον ἀρᾶται κἀπιθεάζει om. Phot. καὶ ἐπιθεάζει Eust.: κἀπιθει- Suid., Σb κἀπιθειάζει πατρί Meineke FCG V 1, p. 28

Dopo maledice e invoca gli dei contro il padre Σb α 2091 = Phot. (z) α 2766 Theodoridis = Suid. α 3743 = Lex. Bachm. p. 147, 15 ἀρᾶται· εὔχεται, ἢ καταρᾶται (hucusque = Lex. Boys. p. XXII — Hesych. α 6985), ἢ ἐπιθειάζει. Φερεκράτης Μυρμηκανθρώποις (om. Phot., Lex. Bachm.)· ὕστερον — πατρί

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arātai: euchetai, oppure katarātai, oppure epitheiazei. Ferecrate nei Myrmēkanthrōpoi: dopo — padre Eust. in Od. p. 1438, 36 s. σημείωσαι καὶ ὅτι τὸ Ἐριννῦς ἀρήσεται (β 135), ἢ ὅλως θεόν τινα, ἐπιθεάζειν ἔλεγον οἱ παλαιοί, ἀντὶ τοῦ καταρᾶσθαι, προφέροντες καὶ χρῆσιν Φερεκράτους ταύτην· ὕστερον — πατρί nota bene anche che l’espressione «invocherà le Erinni» (β 135), o in generale una qualche divinità, era resa dagli antichi utilizzando il verbo epitheazein invece di katarāsthai, portando a esempio anche il seguente uso in Ferecrate: dopo — padre Schol. (D) β 135 τοῦτο ἔλεγον ἐπιθεάζειν τῷ δεῖνι οἱ ὕστερον, ὡς παρὰ Φερεκράτει gli autori successivi dicevano epitheazein contro qualcuno, come in Ferecrate

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Bibliografia Runkel 1829, p. 49; Meineke FCG II.1, p. 314; Meineke FCG V 1, p. 28; Meineke 1847, I, p. 111; Bothe 1855, p. 103.; Kock CAF I, p. 179 s.; Norwood 1931, p. 161 s.; Edmonds 1957, p. 250 s.; Urios-Aparisi 1992, p. 373 s.; Quaglia 2001, pp. 389–391; Quaglia 2003a, p. 276 s.; Storey 2011, p. 478 s. Contesto della citazione Le voci di Fozio e della Suda derivano da una delle versioni della Synagōgē (Σ´´ e Σ´´´´, vd. Cunningham 2003, p. 38). Secondo Theodoridis 1982 p. 253, il passo di Eustazio potrebbe dipendere e vetere et pleniore scholio ad β 135, in seguito epitomato nella forma attuale; a parere, inoltre, di Quaglia 2001 p. 389 (ripreso in Quaglia 2003a, p. 276 s.) «Eustazio, pur senza riferire il titolo della commedia, attesta che l’espressione (in particolare l’uso del verbo καταρᾶσθαι) e il suo autore dovevano essere ben noti: l’affermazione ἔλεγον οἱ παλαιοί, ἀντὶ τοῦ καταρᾶσθαι, προφέροντες χρῆσιν Φερεκράτους ταύτην, decisamente più elaborata rispetto alle formule con cui, normalmente, Eustazio introduce una citazione, potrebbe indicare che tra «gli antichi» il ricorso all’espressione di Ferecrate era abituale». Per l’utilizzo in Schol. (D) β 135 di τῷ δεῖνι vd. Dickey 2007, p. 120 (4.1.39): «The expression ὁ δεῖνα is used for “someone” to designate an indeterminate person when giving examples; its meaning partially overlaps with that of τις» (vd. anche p. 231). Testo La tradizione oscilla nei quattro testimoni: 1) in Fozio sono omesse le tre parole iniziali ὕστερον ἀρᾶται κἀπιθεάζει; 2) nella Synagōgē e nel lessico della Suda il secondo verbo è tràdito nella forma κἀπιθειάζει; 3) in Eustazio κἀπιθεάζει si presenta sciolto, καὶ ἐπιθεάζει, contro le ragioni del metro.

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Il fatto che ἐπιθεάζειν, ‘invocare gli dèi imprecando’, sia più raro rispetto a ἐπιθειάζειν, ‘chiamare gli dèi a testimoni’ (vd. infra κἀπιθεάζει), e sia quindi da considerare lectio difficilior, sembra militare in favore della lezione tràdita da Eustazio, fatta salva l’assenza di crasi. Nella stessa direzione anche il contesto generale del passo di Eustazio, che, glossando la sequenza Ἐριννῦς ἀρήσεται contenuta nel v. 135 del secondo libro dell’Odissea, glossa ἀρήσεται con ἐπιθεάζειν. La forma κἀπιθεάζει è del resto quella comunemente accolta nelle edizioni a partire da Meineke (ma vd. infra), v. da ultimi Kassel– Austin PCG VII, p. 164 poi seguiti senza eccezioni (vd. supra Bibliografia). Meineke, il quale in un primo momento stampava, come si è detto, κἀπιθεάζει (FCG II.1, p. 314 e 1847, I, p. 111), negli Addenda et Corrigenda del volume V 1 (1847), p.  28, proponeva una diversa soluzione: malim nunc ὕστερον ἀρᾶται κἀπιθειάζει πατρί, accogliendo dunque, senza ulteriori precisazioni, la forma κἀπιθειάζει della Synagōgē e della Suda ed espungendo per ragioni metriche l’articolo τῷ. Un intervento che sembra provenire, più che da preoccupazioni di ordine testuale, da criteri di natura interpretativa: accogliendola, infatti, il personaggio parlante chiamerebbe a testimoniare (dunque nell’ambito di un giuramento) il proprio padre (un padre di natura divina, evidentemente, considerato il significato del verbo), ma vd. Interpretazione. Interpretazione Il verso è costruito mediante la successione in polisindeto di due verbi, con il secondo (ἐπιθεάζει) che completa e specifica il senso del primo (ἀρᾶται); il dativo finale τῷ πατρί può essere inteso in relazione o al solo secondo verbo o anche al precedente ἀρᾶται, nel qual caso non si può escludere che il verso possedesse una coloritura paratragica (cfr. anche infra) considerato il frequente ricorrere in tragedia della costruzione ἀραόμαι + dativo, cfr. p. es. Aesch. Sept. 632 s. πόλει / οἵας ἀρᾶται καὶ κατεύχεται τύχας, Soph. Aj. 509 θεοῖς ἀρᾶται, Eur. Phoen. 67 ἀρὰς ἀρᾶται παισίν. L’esegesi dipende, fondamentalmente, dalla forma verbale che si accoglie: ἐπιθεάζω vale, come si è detto, ‘invocare gli dei imprecando’, mentre ἐπιθειάζω significa ‘chiamare gli dei a testimoni, giurare in nome degli dei’. Il primo, preferibile per le ragioni già discusse sopra (vd. supra Testo), trova le sue due uniche ricorrenze in poesia in due passi tragici, entrambe le volte in crasi con καί (vd. infra κἀπιθεάζει), il che potrebbe essere un ulteriore indizio a favore di una coloritura paratragica del verso (vd. supra; un possibile valore paratragico è sostenuto anche da Quaglia 2001, p. 391, il quale correttamente nota il ricorrere di ἀράομαι + dativo in tragedia, pur negando la presenza, in tragedia, di attestazioni di ἐπιθεάζειν [cfr. infra κἀπιθεάζει]: «La costruzione di ἀρᾶσθαι con il dativo, nota ai tragici, e la rarità del verbo ἐπιθεάζειν, non attestato nella tragedia, ma che certamente non è un vocabolo tipicamente comico, potrebbero far sospettare la presenza di uno spunto paratragico»); significativo, nella stessa direzione, anche il nesso con ἀρᾶται, già in Omero relegato quasi esclusivamente all’ambito della maledizione (vd. infra ἀρᾶται).

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Se κἀπιθεάζει va dunque preferito, ricostruire l’identità del personaggio parlante resta però impresa disperata. Appare a ogni modo interessante una delle ipotesi avanzate da Urios-Aparisi 1992, p. 374 (in alternativa a quelle formulate da Kock e da Edmonds, vd. infra), secondo il quale saremmo in presenza di uno scherzo comico per cui «someone is ‘cursing and invoking the gods against his father’ who may be a god himself or other variations of this joke if the words were said by a god or a hero (in this sense it could be a modification of the relation between son and father […], although there is no clear evidence for this”)»; lo stesso Urios-Aparisi 1992 (p. 373) propone che «the construction of our fragment could be similar to the absolute form in Eur. Alc. 714 ἀρᾷ γονεῦσιν οὐδὲν ἔκδικον παθών». Edmonds 1957, p.  251, riteneva, invece, che il verso potesse essere stato pronunciato da Deucalione in riferimento a Prometeo, suo padre. Come nota, inoltre, Quaglia 2001, p. 390 s. «se si accoglie καπιθεάζει è improbabile che πατρί si riferisca a Zeus, a meno di non supporre una violenta deformazione comica non facilmente dimostrabile: si avrebbe infatti un personaggio che invoca gli dèi contro il sovrano dell’Olimpo stesso. Occorre semmai sottolineare un altro aspetto: il verso in questione apparteneva verosimilmente ad un racconto; meno probabile che ci si riferisca a fatti che avvenivano sulla scena in quel momento perché nella commedia si descrive di norma soltanto ciò che richiede uno sforzo di immaginazione nel pubblico. I tempi devono dunque essere presenti storici. […] il presente storico potrebbe «drammatizzare» il racconto nella sua parte più concitata, come accade ad esempio nelle parole dei messi in Eur. Her. Fur. 966 ss. o Hipp. 1215 ss., ecc., ove si osserva il passaggio dai tempi storici al presente appunto. La presenza di una narrazione nella commedia, tra l’altro, permetterebbe di collegare più facilmente i miti di Eaco e Deucalione, in quanto uno dei due personaggi avrebbe potuto essere menzionato dall’altro». Differenti, invece, le interpretazioni del verso che, pur accogliendo la forma ἐπιθεάζειν preferiscono attribuire al verbo un valore sostanzialmente positivo, ‘pregare’ qualcuno o ‘pregare in favore di’ qualcuno, il che, però, è un argumentum ex silentio: così Bothe 1855, p. 103, traduceva il frammento con postea precatur atque obtestatur patrem, non escludendo, coerentemente con la sua interpretazione politica della commedia, che in τῷ πατρί fosse celata un’allusione a Pericle; mentre secondo Kock CAF I, p. 179 s. (seguito, poi, da Norwood 1931, p. 161 s.) intellegendus est Aeacus, qui civibus amissis Iovem patrem precatur ut alios sibi det quoquo modo creatos. ἀρᾶται In tragedia «ἀράομαι et ἀρά sont […] exceptionnels pour des demandes de faveurs aux dieux, que ce soit pour autrui ou pour l’orant lui-même; ils se spécialisent presque exclusivement dans la malédiction» (Corlu 1966, p. 288). Per le modalità della maledizione in Grecia vd. in generale Giordano 1999. Per il frequente ricorrere di ἀράομαι con il dativo in tragedia, vd. Interpretazione. κἀπιθεάζει Il verbo è di impiego molto raro. Nella documentazione a nostra disposizione ricorre solamente in tre passi: Aesch. Choeph. 856 τάδ’ ἐπευχομένη κἀπιθεάζουσ’; Eur. Med. 1409 τάδε καὶ θρηνῶ κἀπιθεάζω, Plat. Phaedr. 241 b 6

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ὁ δὲ ἀναγκάζεται διώκειν ἀγανακτῶν καὶ ἐπιθεάζων. In ciascuno di questi passi ἐπιθεάζω è utilizzato in maniera assoluta, il che rende unico il caso ferecrateo in cui è connesso al dativo; notevole anche il fatto che nei due luoghi tragici il verbo si presenti, come nel verso di Ferecrate, in crasi con καί. Tanto in Aesch. Choeph. 856 quanto in Eur. Med. 1409, la tradizione manoscritta ha come varia lectio il verbo ἐπιθοάζω (mi pare opportuna la notazione di Quaglia 2001, p. 390 n. 73, a proposito del passo platonico: «La lezione di Plat. Phaedr. 241 b è certa: anche in Siriano 90, 18, ove si cita il medesimo passo, la forma impiegata è la stessa: ἐπιθεάζων»), ma ἐπιθεάζω pare garantito, almeno nel caso della Medea, dallo scolio ad loc. (II, p. 213 Schwartz [1410]) che glossa con ἀναβοῶν τοὺς θεοὺς καὶ ἐπικαλούμενος, una esegesi che corrisponde al valore di ἐπιθεάζω fornito da Hsch. ε 4792 = Phot. ε 1552 Theodoridis ἐπιθεάζει∙ θεοὺς ἐπικαλεῖται, vd. Garvie 1986, p. 281 (per Eschilo) e Page 1938, p. 180 (per Euripide).

fr. 122 K.–A. (119 K.) ξένη γυνὴ γραῦς ἀρτίως ἀφιγμένη Una donna straniera, una vecchia appena arrivata Σb α 2172 (pars altera) = Phot. (z) α 2904 Theodoridis = Suid. α 4045 (pars altera) ἀρτίως (om. Suid., Σb)· οὐ μόνον (δὲ add. Σb) † ἄρτι· τὸ πρὸ ὀλίγου. Φερεκράτης (Φ. in marg. Phot.) Μυρμηκανθρώποις (-κανοῖς Σb)· ξένη — ἀφιγμένη (Μυρμηκανθρώποις — ἀφιγμένη om. Phot.) artiōs: non soltanto arti: da poco. Ferecrate nei Myrmēkanthrōpoi: una — arrivata

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Bibliografia Runkel 1829, p. 49; Meineke FCG II.1, p. 315; Meineke 1847, I, p. 111 s.; Bothe 1855, p. 103 s.; Kock CAF I, p. 180; Norwood 1931, p. 161; Edmonds 1957, p. 250 s.; Urios-Aparisi 1992, p. 374 s.; Quaglia 2001, pp. 391–393; Quaglia 2003a, pp. 277–280; Storey 2011, p. 122 s. Contesto della citazione Il verso è citato da fonti lessicografiche in relazione all’uso di ἀρτίως (vd. infra). La pubblicazione del Lexicon di Fozio allestita da Theodoridis con il fondamentale contributo dello Zavordensis 95 mostrò che il testo tanto di Σb α 2172 quanto di Suid. α 4045 si presentava in Fozio suddiviso in due glosse distinte: prima della sezione in cui è riportato il verso di Ferecrate entrambe le raccolte presentano infatti un ulteriore lemma: Σb α 2172 (pars prior) = Σα 974 = Suid. α 4045 (pars prior) ἀρτίως· τελείως, ὑγιῶς. La pericope ἀρτίως· τελείως, ὑγιῶς corrisponde nell’edizione di Theodoridis a Phot. α 2903 Theodoridis, a fedele riproduzione della distinzione tra le due glosse (α 2093 ἀρτίως· τελείως,

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ὑγιῶς e α 2904 ἀρτίως∙ οὐ μόνον κτλ.) osservabile nello Zavordensis 95. Nella Synagōgē e nella Suda a ὑγιῶς segue immediatamente οὐ μόνον κτλ. ed è quindi omesso il secondo ἀρτίως, presente, invece, come lemma tanto in Phot. α 2903 Theodoridis quanto in Phot. α 2904 Theodoridis. D’altra parte, in Fozio l’indicazione Φερεκράτης è presente solamente nel margine (unde apparet scribam cod. z gl. genuinam decurtasse [Thedoridis 1982, p. 268]) ed è assente tutta la pericope Μυρμηκανθρώποις κτλ. con la relativa citazione del verso, che si supplisce sulla base degli altri testimoni. Le voci di Fozio e della Suda derivano da una delle versioni ‘intermedie’ della Synagōgē, contrassegnate da Cunningham con Σ´´ e Σ´´´´ (Cunningham 2003, p. 38); la glossa può inoltre essere fatta risalire all’attività degli atticisti (Cunningham 2003, p. 670, che appone la dicitura ‘Att’ in margine alla glossa), forse a Elio Dioniso, come propone Theodoridis 1982, p. 268 (dictio Ael. Dion. sapit, cui gl. attribuerim). Problematicο è l’interpretamentum di ἀρτίως in relazione al verso ferecrateo; per questo motivo si è scelto, analogamente a quanto fa Edmonds 1957, p. 250 e n. 10 (vd. infra), di apporre una crux dopo la pericope οὐ μόνον (δέ). Poiché, infatti, l’interpretamentum afferma che ἀρτίως non corrisponde solamente a ἄρτι, glossato a sua volta con τὸ πρὸ ὀλίγου, il verso di Ferecrate citato nell’immediato seguito dovrebbe servire a esemplificare l’utilizzo di ἀρτίως in un’accezione diversa, appunto, da ἄρτι, πρὸ ὀλίγου. Dal momento, però, che nel verso di Ferecrate ἀρτίως sembra non poter significare altro che ‘or ora’ (cfr. Interpretazione), va presa in considerazione la possibilità che, nella forma in cui ci è pervenuto, l’interpretamentum sia corrotto. Sono possibili due spiegazioni: 1) la spiegazione è corretta, ma il verso di Ferecrate è citato in maniera erronea. Per questa eventualità Quaglia 2001, p. 392, cita due casi in cui «i brani scelti [non] si adattano perfettamente al contesto da illustrare», ossia i frr. 51 (ex Σb α 1415 = Phot. α 1965 Theodoridis) e 53 (ex Phot. α 1508 Theodoridis) K.–A. del Doulodidaskalos dello stesso Ferecrate, ma i due casi appaiono differenti perché si tratta di versi incompleti sintatticamente o metricamente (ciò che il medesimo Quaglia ibid. rileva), non di versi citati in maniera non pertinente alla spiegazione proposta. Si potrebbe, al limite, richiamare il caso di Cratin. fr. 7 K.–A. (Archilochoi), tràdito in Phot. δ 659 Theodoridis = Suid. δ 1213 = Apost. VI 20, in cui non soltanto il lemma Διὸς ψῆφος non ricorre nel verso di Cratino chiamato in causa, ma l’intero interpretamentum sembra non avere nulla a che fare con esso, vd. Bianchi 2016, pp. 72–77; 2) il verso di Ferecrate è citato correttamente e, in questo caso, si dovrà immaginare una corruzione della pericope οὐ μόνον (δὲ add. Σb) ἄρτι· τὸ πρὸ ὀλίγου dei testimoni. In questa direzione, Edmonds 1957, stampando a testo οὐ μόνον δὲ † ἄρτι, proponeva in nota (p. 250 n. 10) οὐ μόνον δὲ 〈ἀλλὰ καὶ〉; analogamente, Quaglia 2001, p. 392 οὐ μόνον δὲ τοῦτο 〈ἀλλὰ καὶ〉. Il riferimento sarebbe così all’accezione τελείως, ὑγιῶς di ἀρτίως riportata in Phot. α 2093 Theodoridis e nella prima sezione delle glosse della Synagōgē e della Suda (Σb α 2172 [pars prior = Σα 974] = Suid. α 4045 [pars prior]). Se le cose stessero così, la glossa, attestando per

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ἀρτίως due distinte accezioni, ovvero a) τελείως, ὑγιῶς e b) ἄρτι, chiamerebbe in causa il verso di Ferecrate come esempio dell’utilizzo di ἀρτίως per ἄρτι, πρὸ ὀλίγου. Una ipotesi di questo genere presuppone che la glossa sia nata unitaria e si sia ripartita in due glosse distinte, nei termini in cui si presenta in Fozio, solo secondariamente. Interpretazione Il verso descrive una donna (γυνή) le cui caratteristiche sono l’essere straniera (ξένη) e vecchia (γρᾶυς) e della quale si dice che è giunta da poco (ἀρτίως ἀφιγμένη). A proposito di quest’ultimo nesso, i differenti casi di impiego di ἀρτίως + verbo a fine trimetro giambico nella medesima posizione metrica (vd. infra ἀρτίως) spingono con forza a ritenere che ἀρτίως modificasse ἀφιγμένη; non avrebbe molto senso, d’altra parte, immaginare un eventuale nesso dell’avverbio con il precedente γραῦς, a meno che non si voglia intendere ἀρτίως equivalente a ‘del tutto’, ‘davvero’ (cenni al problema in Quaglia 2001, p. 392 n. 86). Il verso è accostato da Kassel–Austin PCG VII, p. 164 (così anche UriosAparisi 1992, p. 374 e Quaglia 2001, p. 392) ad Ar. Ran. 433 ξένω γάρ ἐσμεν ἀρτίως ἀφιγμένω (Dioniso si rivolge ai coreuti parlando di sé stesso e di Xantia), ma per la formulazione molto vicino appare anche un passo tragico, Eur. Troad. 490 δούλη γυνὴ γραῦς Ἑλλάδ’ εἰσαφίξομαι (Ecuba che parla del proprio destino nel monologo dei vv. 466–510): a tal punto vicino, anzi, che non mi sentirei di escludere in modo troppo reciso la possibilità che il verso di Ferecrate vi alludesse parodicamente. Il frammento potrebbe costituire quanto resta di una didascalia scenica interna o essere stato estrapolato da un contesto diegetico nel quale l’uso del verbo ἀφικνέομαι non indica necessariamente che il punto di arrivo della donna di cui si parla debba coincidere con il luogo in cui si trova la persona loquens, vd. UriosAparisi 1992, p. 374 che richiama il confronto con Ar. Pac. 130 (μόνος πετηνῶν εἰς θεοὺς ἀφιγμένος). Nella figura della vecchia straniera sarebbe da cogliere, secondo Bothe 1855, p. 103 s. un’allusione ad Aspasia, mentre Kock CAF I, p. 180 (seguito da Edmonds 1957, p. 251 n. d) riteneva possibile un riferimento a Pirra, forse appena sbarcata dall’arca; più genericamente, Norwood 1931, p. 161, riteneva che il frammento facesse riferimento allo sbarco dei superstiti successivo al diluvio; vd. infine Quaglia 2001, p. 393 e n. 88: «Che si trattasse dell’incontro di Deucalione e Pirra con Eaco? Ma perché si annuncerebbe soltanto la donna?»; per Quaglia si potrebbe supporre che «Ferecrate, con comica deformazione, avesse scelto di rappresentare la donna come una vecchia, o anche soltanto di farla definire così dall’anonima persona loquens di questo frammento». Il participio ἀφιγμένη, ad ogni modo, indica generalmente un arrivo e non necessariamente lo sbarco da una nave: sul contesto generale del frammento, di conseguenza, non possono essere avanzate che mere ipotesi. ἀρτίως L’avverbio ἄρτι, di cui ἀρτίως è corradicale, è probabilmente connesso al verbo ἀραρίσκω e locativo di un tema ἀρ-τ- (vd. GEW, DELG, Beekes 2010 s. v.). In tragedia e in commedia ἀρτίως è ben documentato sempre nel valore di ‘or ora’, ‘da poco’; con quella ferecratea si possono confrontare le occorrenze nella

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stessa posizione metrica dopo la cesura pentemimere e in connessione con un verbo (più frequentemente) o un aggettivo, un sostantivo o altro: Soph. Trach. 864 ἀρτίως ὁρμωμένου, 1130 ἀρτίως νεοσφαγής; Ai. 25 ἀρτίως εὑρίσκομεν, 787 ἀρτίως πεπαυμένην, 898 ἀρτίως νεοσφαγὴς; OT 251 ἀρτίως ἠρασάμην; El. 480 ἀρτίως ὀνειράτων; Phil. 764 ἀρτίως, ἕως ἀνῇ; Eur. Alc. 531 ἀρτίως μεμνήμεθα; El. 793 ἀρτίως ἡγνίσμεθα; fr. 818c, 4 Kannicht (Phrixos a) ἀρτίως δεδεγμένον; Ar. Ach. 337 ἀρτίως ἠκούσατε, 1170 ἀρτίως κεχεσμένον; Nub. 1149 ἀρτίως εἰσήγαγες; Vesp. 913 ἀρτίως ἐνήρυγεν; Av. 81b ἀρτίως νὴ τὸν Δία; Ran. 433 ἀρτίως ἀφιγμένω; Antiph. fr. 92 K.–A. (Epidaurios) ἀρτίως τοῖς ἀστρίχοις. γυνὴ γραῦς Un nesso analogo ricorre in tragedia e nella stessa posizione metrica in Eur. Tr. 490 γυνὴ γραῦς (vd. Interpretazione); in commedia è simile Ar. Thesm. 345 ἢ δῶρά τις δίδωσι μοιχῷ γραῦς γυνή: per γραῦς «treated as an adj. with γυνή» v. Austin–Olson 2004, p. 165 (ad Ar. Thesm. 345). «It is probably meant to distinguish the feminine from a possible masculine form ὁ γραῦς (cf. Ar. Thesm. 1214) or as an element of respect, as γραῦς could have had a certain pejorative sense […]; perhaps in relation to the other meaning of γραῦς or ‘scum’ of boiled milk […], as also γέρων has» (Urios-Aparisi 1992, p. 374 s.; i rimandi indicati per il secondo significato di γρᾶυς sono ad Ar. Plut. 1204 s., LSJ9 s. v., Taillardat 1965, p. 99 § 167). Sulla rappresentazione della vecchiaia femminile in commedia vd. Henderson 1987b (per il valore dispregiativo di γραῦς vd. in particolare p. 110) e, più specificatamente in relazione al frammento di Ferecrate, Quaglia 2003a, pp. 278–280. Sul tipo della vecchia in commedia vd. infine Oeri 1948.

fr. 123 Κ.–A. (7 Dem.) ἔχω δὲ πάντως ἱμάτιον· ἀμφέξομαι ἱμάτιον Theodoridis 1982, p. 135: ἱμάτον z

A ogni modo un mantello ce l’ho: lo indosserò! Phot. (b, z) α 1295 Theodoridis ἀμφέξομαι· τὸ αμφιέσομαι. Φερεκράτης (Αφερ- b, A rubrum) Μυρμηκανθρώποις (-κανοῖς b, z)· ἔχω — ἀμφέξομαι (poetae verba om. b) amphexomai: indosserò. Ferecrate nei Myrmēkanthrōpoi: a ogni modo — indosserò

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Bibliografia Reitzenstein 1907, p. 98; Demiańczuk 1912, p. 68; Edmonds 1957, p. 252 s.; Theodoridis 1982, p. 135; Tsantsanoglou 1984, p. 137; Conti Bizzarro

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1986–1987, p. 92; Urios-Aparisi 1992, p. 375; Quaglia 2001, pp. 393–395; Quaglia 2003a, p. 280 s.; Storey 2011, p. 478 s. Contesto della citazione Il frammento è tràdito da Fozio (peraltro in forma certamente corrotta, vd. infra Testo) a documentazione della forma di futuro ἀμφέξομαι da ἀμφιέννυμι (glossata con quella più comune ἀμφιέσομαι, vd. infra al lemma), con una corrotta indicazione del titolo del dramma, Μυρμηκανοῖς, quod e compendio Μυρμηκαν(θρώπ)οις ortum est (Theodoridis 1982, p. 135): il manoscritto di Berlino, infatti, omette la citazione del verso («one of the very few cases of omission in the Berlin manuscript of Photius»: Tsantsanoglou 1984, p. 137) e dunque permette di ricondurre ai Myrmēkanthrōpoi il solo ἀμφέξομαι. Testo In luogo del corrotto ἵματον tràdito in z, Kassel–Austin PCG VII, p. 164 accolgono a testo la soluzione più economica, accogliendo in parte una delle due sistemazioni del testo del frammento proposte da Tsantsanoglou 1984, p. 137: ἐγὼ δὲ πάντως ἱμάτιον ἀμφέξομαι, rispetto alla quale si preferisce ritenere la forma verbale tràdita, ἔχω, e, di conseguenza, per dare senso compiuto al verso, si interpunge dopo ἱμάτιον, a separare le due distinte azioni espresse dai due verbi. La seconda ipotesi di Tsantsanoglou (ibid.), ἔχω δὲ πάντως εἵμαθ’ ὧν, invece, presta il fianco a diverse obiezioni: innanzitutto, ἀμφιέννυμι regge regolarmente l’accusativo o il dativo e comunque mai il genitivo nei poeti comici (cfr. Ar. Vesp. 1172, Thesm. 92, Eccl. 332, 374, e vd. Kühner–Gerth I, pp. 324 s., 327 A. 7); secondariamente εἷμα è attestato in commedia meno frequentemente rispetto al suo diminutivo ἱμάτιον, che in genere ricorre nella forma θοἰμάτιον con crasi dell’articolo, vd. Conti Bizzarro 1986–1987, p. 92, e Quaglia 2001, p. 394 (ripreso in Quaglia 2003a, p. 281). Considerate le numerose occorrenze comiche del semplice ἱμάτιον, non appare, però, necessaria la correzione θοἰμάτιον proposta dallo stesso Conti Bizzarro (ibid.): cfr. Ar. Av. 973; Thesm. 250; Eccl. 333, 410, 535 e Plut. 983, 991 (così Quaglia 2001, p. 394 s., poi in Quaglia 2003a, p. 281). Interpretazione La persona loquens, di identità e di sesso ignoti (l’ἱμάτιον era un indumento comune a uomini e donne, vd. infra al lemma), riferisce di possedere un mantello e di volerlo indossare; secondo Quaglia 2001, p. 395 «il personaggio di Ferecrate stava probabilmente valutando le uniche ricchezze a sua disposizione: il passo è certamente da collegare al frammento successivo, il 124 K.–A., dove l’indumento di cui si parla è ancor più scadente. Il fr. 123 poteva forse precedere il lamento contenuto nel 124, ed era affidato ad una voce differente: se il personaggio di quel passo non aveva a disposizione che «un mantellino povero, tale da aver freddo […], chi parlava qui commentava quell’affermazione dicendo invece di avere, per lo meno, un mantello tutto intero con cui coprirsi. […] i personaggi venivano a confronto con un’improvvisa ondata di freddo, forse collegata all’αἰγίς che incombeva al fr. 118». Questa ipotesi è senz’altro ragionevole, ma il metro differente dei due frammenti (rispettivamente trimetro giambico e tetrametro trocaico catalettico) impedisce una collocazione consecutiva dei due frammenti e, più in generale, impone una certa cautela nell’ipotizzare il riferimento a uno

Μυρμηκάνθρωποι (fr. 123)

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stesso contesto. Di diverso avviso, invece, Tsantsanoglou 1984, p. 138, che nel commento al proprio fr. 180 (= 124 K.–A.) ipotizzava che anche il precedente frammento 179 (= 123 K.–A.) fosse non un trimetro giambico, ma un tetrametro trocaico catalettico, trasmesso in forma acefala dalla tradizione di Fozio: «the different metre is not an obstacle. That line [i. e. fr. 179 = 123 K.–A.] might have begun with a cretic (lkl)». Kassel–Austin ad loc. (PCG VII, p. 164) nell’apparato di commento indicano come passo parallelo Ar. Thesm. 851 πάντως 〈δ᾽〉 ὑπάρχει μοι γυναικεία στολή (il Parente, vestito da donna, si dichiara pronto a impersonare Elena). Per quanto il parallelo sia certo calzante, va comunque osservato che il Parente, nel momento in cui pronuncia il verso, è già vestito da donna (lo stesso vale per le catene evocate al v. 1012 s. πάντως δε μοι / τὰ δέσμ᾽ ὑπάρχει: il Parente, nell’acconciarsi a entrare nella parte di Andromeda, è già in ceppi da un pezzo), mentre nel caso del nostro verso il futuro ἀμφέξομαι indica che lo ἱμάτιον deve ancora essere indossato. πάντως «πάντως is a word of many meanings: ‘in every way’, ‘at all costs’, but also ‘in any case’, even ‘admittedly’ (Ach. 956)» (Dover 1968, p. 251, ad 1352); vd. anche Olson 2002, p. 167 (ad 347–9): «πάντως simply intensifies the vb.; ‘at all events, whatever happens’». In assenza di contesto, la traduzione per la quale si è optato, ‘a ogni modo’, è però non molto più che indicativa. ἱμάτιον Diminutivo di εἶμα, a sua volta connesso con il verbo ἕννυμι da una radice 𝘍εσ-, ie. ṷes- (‘vestire’), vd. GEW, DELG, Beekes 2010 s. v.; «The himation was a large, rectangular outer garment, usually made of wool and worn during cooler times of year […] by men and women of all social stations, either draped casually over the shoulders or more fastidiously arranged over the left shoulder only» (Biles–Olson 2015 ad Ar. Vesp. 408 ἀλλὰ θαἰμάτια λαβόντες ὡς τάχιστα, παιδία, con i rimandi bibliografici a Stone 1977, pp. 155–160 e Pekridou-Gorecki 1989, pp. 87–90). Si tratta di un capo ricordato spesso in contesti comici: cfr. p. es. Ar. Lys. 1093, Eccl. 333, Plut. 983 ecc.; per il fatto che fosse impiegato anche da donne (oltreché da uomini, come nei passi già ricordati), cfr. in part. Hdt. I 9, 2. Sul mantello come ingrediente della comicità di V secolo vd. Loscalzo 2006. ἀμφέξομαι Questa forma del futuro di ἀμφιέννυμι è attestata anche in Philaeter. fr. 18, 2 K.–A. (inc. fab.) ἀμφιβάλλου † στέρνοις φᾶρος † οὐ καθήσεις, τάλαν / μηδ᾽ ἀγροίκως ἄνω γόνατος ἀμφέξῃ, ricorre in contesti epigrafici ed era probabilmente comune nel parlato, vd. Kühner–Gerth I, p. 277, e Threatte 1980, p. 456.

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fr. 124 K.–A. (adesp. 10 Dem.) καὶ τριβώνιον πονηρὸν οἷον ἐνριγισκάνειν E un mantelluccio sdrucito da congelare Phot. (z) ε 1015 Theodoridis ἐνριγισκάνειν· ἐνριγοῦν (= Hesych. ε 3286). Φερεκράτης Μυρμηκανθρώποις· καὶ — ἐνριγισκάνειν (poetae verba om. z, suppl. Sz) enrigiskanein: congelare. Ferecrate nei Myrmēkanthrōpoi: e — congelare

Metro Tetrametro trocaico catalettico

lklk lklk| lkll lkl

Bibliografia Papadopulos-Kerameus 1892–1893, p. 60, r. 11 s.; Kock 1893, p. 590; van Herwerden 1903, p. 218; Demiańczuk 1912, p. 93 (adesp. fr. 10); Theodoridis 1982, p. 103; Tsantsanoglou 1984, p. 138; Conti Bizzarro 1986–1987, p. 259; UriosAparisi 1992, p. 376; Quaglia 2001, p. 396 s.; Quaglia 2003a, p. 281 s.; Storey 2011, p. 478 s. Contesto della citazione Il verso è tràdito in Fozio per documentare la forma ἐνριγισκάνειν, glossata con ἐνριγοῦν; autore e titolo della commedia sono indicati nella tradizione di Fozio da z e Sz, mentre gli ipsissima verba di Ferecrate sono tràditi dal solo Sz. Lemma e interpretamentum (ἐνριγισκάνειν· ἐνριγοῦν) erano noti, già prima della pubblicazione del Sabbaiticum, in virtù di Hsch. ε 3286, il che permise a Papadopulos-Kerameus di integrare la voce del Supplementum, limitata al trimetro, con il relativo lemma. La presenza del lemma in Esichio rende verisimile ritenere che esso sia da ricondurre a Diogeniano (vd. Thedoridis 1998, p. 103 e Latte 1953, p. X s. per Diogeniano come fonte di Esichio). Prima della pubblicazione del Supplementum zavordense il frammento era noto grazie al Lexicon Sabbaiticum (p. 60, r. 11 s. Papadopulos-Kerameus), nel quale però era assente, come si è detto, il lemma, supplito da Papadopoulos-Kerameus sulla base del già citato Hsch. ε 3826. Nel Sabbaiticum la citazione ricorreva in forma adespota e anepigrafa; Kock 1893, p. 590, la aveva genericamente ricondotta a un contesto comico, mentre van Herwerden 1903, p. 218 la aveva attribuita ad Aristofane sulla scorta del confronto con Ar. Plut. 842–846 (ΚΑ.) τὸ τριβώνιον δὲ τί δύναται, πρὸς τῶν θεῶν, / ὃ φέρει μετὰ σοῦ τὸ παιδάριον τουτί; φράσον. / (ΔΙ.) καὶ τοῦτ’ ἀναθήσων ἔρχομαι πρὸς τὸν θεόν. / (ΚΑ.) μῶν οὖν ἐμυήθης δῆτ’ ἐν αὐτῷ τὰ μεγάλα; / (ΔΙ.) οὔκ, ἀλλ’ ἐνερρίγωσ’ ἔτη τριακαίδεκα. Dopo la pubblicazione del Supplementum zavordense l’attribuzione a Ferecrate non è più stata messa in discussione. Interpretazione Il verso fa riferimento al topos comico del povero che soffre il freddo perché non ha vestiti a sufficienza per coprirsi, vd. Urios-Aparisi 1992, p. 376; Quaglia 2001, p. 396 s. e Quaglia 2003a, p. 281 s.; il parallelo più vicino

Μυρμηκάνθρωποι (fr. 124)

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sono certamente i versi del Pluto precedentemente ricordati (vd. Contesto della citazione): il personaggio in questione, dopo la guarigione di Pluto, può finalmente dedicare alla divinità il piccolo mantello in cui ha sofferto il freddo per tredici anni. Più in generale, per la connessione tra povertà e mancanza di vesti adeguate al freddo si vedano Hippon. fr. 32 W.2 e Ar. Av. 933–935, Lys. 280 e Plut. 713–715. La menzione di uno ἱμάτιον nel fr. 123 K.–A. ha indotto talora a mettere in relazione i due frammenti. Secondo Tsantsanoglou 1984, p. 138, il problema costituito dal diverso metro in cui i due frammenti si presentano – il fr. 123 K.–A. è un trimetro giambico, il fr. 124 K.–A. un tetrametro trocaico catalettico – può essere risolto immaginando che anche il fr. 123 K.–A. fosse un tetrametro trocaico catalettico, mancante, nello stato in cui è trasmesso, dei primi tre elementi del primo metron (vd. supra fr. 123 K.–A. Interpretazione); se così fosse, come ipotizza Quaglia 2001, p. 396 (= Quaglia 2003a, p. 282), «entrambi i passi si riferivano probabilmente alla stessa scena, in cui il freddo costringeva i personaggi a coprirsi, evidenziando l’estrema indigenza di alcuni» (il τριβώνιον era un mantello indossato da poveri o da asceti, vd. infra al lemma, e il cui cambio con uno ἱμάτιον o una χλαῖνα era indizio di miglioramento sociale e economico, cfr. Ar. Eccl. 848–50; Pl. 842, 881 s., 897, 935 s., e Vaio 1971, p. 335 s.). τριβώνιον πονηρὸν Connesso con il verbo τρίβω nel valore di ‘consumare’ e, quindi, con un significato di base di ‘(abgenutzter) einfacher Mantel’ (GEW s. v. τρίβω, vd. DELG, Beekes 2010 s. v.), il τρίβων (p. es. Ar. Ach. 184; Nub. 869; Vesp. 131 ecc.) o τριβώνιον al diminutivo (p. es. Ar. Vesp. 33, 116; Lys. 278; Plut. 714, 842) è un corto mantello che compare frequentemente in commedia come capo di vestiario di personaggi di bassa estrazione sociale, poveri e schiavi (cfr. p. es. Ar. Eccl. 850, Plut. 842–846, 882) o di persone dall’apparenza misera e sciatta (cfr. p. es. Ar. Vesp. 116 e Ar. Lys. 278; in quest’ultimo passo compare in relazione agli Spartani: si vedano le osservazioni di Henderson 1987a, p. 103); nelle Nuvole di Aristofane (870) e in Platone (Prot. 335 d, Symp. 219 b, 220 b) è attributo tipico di Socrate; nella commedia più tarda (Aristopho frr. 9, 3 e 12, 9 K.–A. [entrambi dal Pythagoristēs], Men. fr. 114, 1 K.–A. [Didymai], Phoenicid. fr. 4, 16–17 K.–A. [inc. fab.]), nonché in Luciano, «questo indumento continuerà a rappresentare lo status symbol dei filosofi miserabili, in particolare dei pitagorici e dei cinici» (Totaro 1998, p. 162, ad Amips. fr. 9 K.–A. [Konnos], in part. v. 2, ove è citata una χλαῖνα; vd. anche sullo stesso passo Orth 2013, p. 241, con il rimando a Nesselrath 1985, p. 459 e al commento di Kassel–Austin PCG VII, p. 392 al citato Phoenicid. fr. 4, 16–17 [inc. fab.] per ulteriori passi paralleli, ai quali Totaro aggiunge Alciphr. III.19, 9). Per τρίβων/τριβώνιον, vd. Stone 1977, p. 162 s., MacDowell 1971, p. 132, Henderson 1987a, p. 103 e Austin–Olson 2004, p. 124 s., ad Ar. Thesm. 213 s. Sulla possibile funzione deteriorativa del suffisso diminutivo in casi come quello rappresentato da τριβώνιον (qui certo intensificata dal fatto che il sostantivo si presenta in nesso con l’aggettivo πονηρός) vd. Petersen 1910, pp. 96, 129 s., 168. Per l’impiego di πονηρός nel significato di ‘logoro’, ‘liso’ in relazione a stoffe e vestiti (valore raro ma non privo di documentazione) si vedano gli esempi di

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Pherekrates

Ar. Ran. 725, Plut. 220 e Plat. Prot. 313a ricordati da Conti Bizzarro 1986–1987, p. 259 n. 2. ἐνριγισκάνειν Il verbo, forma frequentativa di ἐνριγόω (a sua volta un denominativo), è uno hapax letterario, cfr. Schwyzer I, p. 709 n. 4.

fr. 125 K.–A. (120 K.) μηδέποτ’ ἰχθύν, ὦ Δευκαλίων, μηδ’ ἢν αἰτῶ παραθῇς μοι ἢν Jacobs 1809, p. 182: ἂν ACE, Eust.

μοι om. Eust.

Non imbandirmi mai più del pesce, o Deucalione, neppure se te lo chiedessi! Athen. VIII p. 335 A A δι’ ὑμᾶς δὲ καὶ τῷ παιδὶ παρακελεύσομαι κατὰ τοὺς Φερεκράτους Μυρμηκανθρώπους (nom. fab. om. CE, poet. et fab. Eust. in Od. p. 1720,46) μηδέποτ’ — μοι Per colpa vostra raccomanderò anche allo schiavo, per dirla come nei Myrmēkanthrōpoi di Ferecrate: non — chiedessi!

Metro Tetrametro anapestico catalettico

lkkll llkkl | llll kkll

Bibliografia Jacobs 1809, p. 182; Runkel 1829, p. 47; Meineke FCG II.1, p. 311; Meineke 1847, I, p. 110; Bothe 1855, p. 105; Kock CAF I, p. 180; Norwood 1931, p. 161 s.; Ehrenberg 1951, p. 131; Edmonds 1957, p. 252 s.; Gelzer 1960, p. 185; Urios-Aparisi 1992, p. 376; Quaglia 2001, pp. 397–399; Quaglia 2003a, pp. 282– 285; Storey 2011, p. 478 s.; Rusten 2011, p. 159 Contesto della citazione Il verso di Ferecrate conclude scherzosamente un lunghissimo e dotto elenco dedicato a varie specie di pesci. All’inizio del libro VIII (p. 331 C) viene ricordata la lunga discussione sui pesci appena conclusasi e sottolineato il fatto che, a causa della lunghezza della discussione, Cinulco fosse molto irritato («because eating was constantly deferred in favor of more talk» [Olson Athenaeus IV, p. 5 n. 7]): πολλῶν δὲ λεχθέντων ἐπὶ τοῖς ἰχθύσι λόγων δῆλος μὲν ἦν ἀχθόμενος ὁ Κύνουλκος; subito dopo, però, il tentativo di interruzione dello stesso Cinulco è frustrato da Democrito, che inizia una nuova ampia digressione sui pesci (καὶ ὁ καλὸς Δημόκριτος αὐτὸν προφθάσας ἔφη κτλ.) che si prolunga, appunto, fino a p. 335 A, quando si decide di abbandonare l’argomento (καὶ ταῦτα μὲν ταύτῃ), il che avviene, appunto, con la citazione del verso ferecrateo, nel quale la persona loquens dichiara al suo interlocutore di non voler più avere imbandito del pesce nemmeno dietro esplicita richiesta (vd. infra Interpretazione).

Μυρμηκάνθρωποι (fr. 125)

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Il verso è citato senza indicazione di autore e dramma (e con l’omissione di μοι finale, vd. infra Testo) anche in Eust. in Od. p. 1720, 46, ad XII 252 ἰχθύσι τοῖς ὀλίγοισι δόλον κατὰ εἴδατα βάλλων (sull’epitome di Ateneo come fonte di Eustazio vd. in part. van der Valk I [1971], p. XVI s.), coinvolto per esemplificare le possibili parole di un φιλόκρεως ἀνήρ (καὶ ὅτι φιλόκρεως ἀνὴρ εἴποι ἂν τὸ μηδέ ποτ᾽ ἰχθὺν κτλ.). Testo La citazione completa, con indicazione di autore e titolo del dramma, è presente solo nel codice A di Ateneo, mentre i due manoscritti che conservano la versione epitomata (CE) hanno solo il verso, adespoto e anepigrafo; lo stesso avviene in Eustazio che utilizza il testo dell’epitome (vd. supra Contesto della citazione) e riporta il tetrametro ferecrateo in forma del tutto anonima e con l’ulteriore omissione del monosillabo conclusivo μοι. La tradizione è invece concorde nel presentare ἄν, metricamente impossibile; la correzione in ἤν, attribuita a Dindorf (Athenaeus 1827, II, p. 735) dagli editori precedenti, è fatta correttamente risalire già a Jacobs 1809, p. 182 (ne metrum claudicet) da Kassel–Austin, PCG VII, p. 165; una possibilità alternativa è μηδ᾽ ἐάν di Bothe 1855, p. 105. Interpretazione La persona loquens si rivolge al suo interlocutore, Deucalione, menzionato esplicitamente con un’epiclesi al vocativo, per esortarlo a non offrirgli mai più del pesce, nemmeno dietro sua esplicita richiesta. La menzione di Deucalione rende ragionevolmente probabile la presenza del mitologico progenitore della stirpe umana tra i personaggi della commedia, mentre a proposito dell’identità del personaggio che pronunciava la battuta non sono possibili altro che ipotesi: la moglie Pirra secondo Edmonds 1950, p. 252 n. a, e Ehrenberg 1951, p. 131 («The wish uttered by Deukalion’s wife after the deluge: ‘Never again offer fish to me, even if I ask for it’, was a good joke because, if expressed in earnest, it would have been incomprehensible to any Athenian»); un superstite del diluvio secondo Norwood 1931, p. 161 s. Assai poco plausibile appare invece, in assenza di riscontri cogenti, l’ipotesi di Bothe 1855, p. 105, per il quale Deucalione sarebbe stato un servo (Deucalion servi nomen est, ut Trojani cujusdam Iliad. 20, 478): un’ipotesi che appare assai più motivata dalla volontà di escludere ogni possibile riferimento mitico dalla trama (nell’ottica di una ricostruzione puramente ‘politica’ della trama della commedia, vd. supra Contenuto della commedia) che su elementi concreti; opportunamente Kock CAF I, p. 180, rilevava: pessime Bothius Deucalion servum esse opinabatur, quippe qui numquam tali nomine vocentur («il personaggio del passo dell’Iliade è sì diverso dal più noto eroe mitico, ma è comunque un guerriero, menzionato tra altri feriti da Achille» [Quaglia 2001, p. 398]). Urios-Aparisi 1992, p. 376, pur non rigettando la possibilità che la persona loquens fosse Pirra, eccede forse in prudenza nell’ipotizzare che nel Deucalione evocato nel frammento sia da vedere non il Deucalione del mito ma un anonimo personaggio chiamato Deucalione per scherzo («the words would suit Pyrrha […] addressing Deucalion, but still it can be referred to someone called Deucalion as a joke, maybe criticising the excess of fish in the Athenian diet»).

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Per quanto concerne la collocazione originaria del frammento, il solo Jacobs 1809, p. 182, ripartiva il testo tràdito in due dimetri anapestici, il secondo dei quali catalettico, una disposizione che, pur in assenza, nella porzione superstite di testo, di segnali espliciti in tal senso, non può fare escludere una resa lirica, mentre gli editori moderni preferiscono considerare il frammento come un tetrametro anapestico catalettico (sull’utilizzo di dimetri e tetrametri anapestici in commedia vd. White 1912, §§ 270–304, pp. 108–121). Sulla base di questa seconda interpretazione, Gelzer 1960, p. 185, riteneva che il verso provenisse dall’agone epirrematico, mentre appare più complessa (e, in definitiva, non verificabile) la ricostruzione proposta da Quaglia 2001, p. 399 (poi ripresa in Quaglia 2003a, p. 283 s.), per il quale potremmo trovarci in presenza di un verso tratto dalla parodo: «l’espressione con cui Ateneo introduce il passo, κατὰ τοὺς Φερεκράτους Μυρμηκανθρώπους, potrebbe suggerire che a pronunciare il frammento fossero stati gli stessi uominiformica del coro. Democrito, il personaggio di Ateneo, potrebbe cioè aver inteso dire «…esorterò alla maniera dei Myrmekanthropoi», cioè come facevano essi stessi nella commedia. I verbi al singolare farebbero peraltro pensare ad un passo eseguito dal solo corifeo, ma questo particolare non permette, da solo, di giungere a conclusioni sicure. Mi domando piuttosto se il frammento non possa provenire da una parodo […]. Mentre gli uomini-formica che componevano il coro entravano in scena a cantare (avanzando al ritmo del tetrametro anapestico), Deucalione pensava già a come li avrebbe sfamati. Alla richiesta di unirsi al banchetto, il personaggio che pronunciava il fr. 125 lo implorava, in qualità di bomolochos, di non servire più pesce, venuto in uggia a tutti». Ma che la pericope κατὰ τοὺς Φερεκράτους Μυρμηκανθρώπους possa significare ‘alla maniera degli uomini-formica di Ferecrate’ appare improbabile; quanto ai singolari αἰτῶ […] μοι, basterà il rimando a Kaimio 1970, passim, per escludere ancor più recisamente di quanto faccia Quaglia la possibilità che in essi sia da vedere una spia di esecuzione delegata al solo corifeo. μηδέποτ(ε) […] μηδ(έ) La stessa doppia negazione ricorre in Ar. Ran. 1522– 1523 (μηδέποτ’ εἰς τὸν θᾶκον τὸν ἐμὸν / μηδ’ἄκων ἐγκαθεδεῖται: anche in questo caso, come nel frammento di Ferecrate, una sequenza anapestica) ed è abbastanza frequentemente impiegata nella prosa di V e IV sec. a.C., cfr. ad es. Plat. Epin. 991 d 4; epist. 326 d 5; Leg. 693 c 7, 674 a 5, 816 e 7, 898 b 5, 935 b 5, 942 a 6, 966 d 1; Lys. 214 c 8; Parm. 146 a 4; Pol. 300 c 3; Theet. 155 a 3; Dem. XIX 83, 5; XXIV 84, 6; Isocr. I 16, 1; IV 62, 1; V 35, 2; XII.147, 2. Sul valore enfatico e iperbolico di μηδ’ ἄκων (‘not even by accident’, Dover 1993, p. 383 [ad Ar. Ran. 1523]) si vedano le osservazioni di van Leeuwen 1896, p. 218 (ad Ar. Ran. 1522–23). Sul fenomeno della ripetizione e dell’accumulo di negazioni vd. Moorhouse 1959, p. 132 s. ἰχθύν Vocabolo indoeuropeo che indica generalmente il pesce, comparabile, però, soltanto con l’armeno ju-kn e il lituano žuvìs, le uniche lingue oltre al greco che presentino formazioni dall’analoga radice: vd. in part. GEW s. v. Per il pesce e la sua importanza nella cultura greca, vd. Miccolis 2018, p. 92 s., nella sezione introduttiva alla commedia Ichthyes di Archippo (PCG II, frr. 14–34 K.–A.).

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ὦ Δευκαλίων Secondo Hes. fr. 2 M.-W. Deucalione era figlio di Prometeo e di Pandora, anche se le fonti sono divise nell’individuazione della madre, dal momento che, a differenza di quanto avviene nel frammento appena citato, un secondo frammento esiodeo fornisce una notizia diversa, per quanto problematica sul piano testuale (fr. 4 M.-W., ex schol. Hom. κ 2, II p. 444, rr. 8–11 Dindorf [Δευκαλίων] μητρὸς δὲ πλεῖστοι λέγουσι Κλυμένης, ὡς δὲ Ἡσίοδος † Πρυνείης: vd. Fowler 2013, p. 113 s.), aggiungendo, subito di seguito, che Acusilao (FGrHist 2 F 34) la identificava, invece, con Esione (analogamente avviene in Aesch. Prom. 560). Come ha rilevato Gantz 1993, p. 165, nonostante le incertezze relative a genealogia e parentele, «Deukalion and Pyrrha, though at times preceded by shadowy predecessors, do emerge as the first named man and woman in Greek myth» (entrambi i nomi sono, del resto, attestati già nelle tavolette in lineare B). Secondo il racconto presente in Apollod. I 7, che sintetizza la complessa tradizione precedente (una delle versioni più antiche è in Pind. Ol. IX, 42–46, su cui vd. Giannini in Gentili 2013, p. 534 s.), quando Zeus decise di eliminare la stirpe di bronzo degli uomini inviò un grande diluvio, ma Deucalione, avvertito dal padre Prometeo, costruì un’arca, la riempì di provviste e si imbarcò; “per nove giorni e nove notti Deucalione è trascinato sul mare dentro l’arca, poi approda al Parnaso e qui, poiché le piogge erano cessate, sbarca e offre sacrifici a Zeus Fixio. Zeus gli manda Ermes, invitandolo a scegliere ciò che desidera. Deucalione sceglie di far nascere da lui una generazione di uomini. Zeus allora gli disse di raccogliere le pietre e gettarle sopra la testa: Deucalione lo fece, e dalle pietre che scagliò lui stesso nacquero uomini, da quelle che scagliò Pirra nacquero le donne” (Apollod. I 7, trad. Ciani in Scarpi 1998, p. 32 s.). Sul mito di Deucalione e le sue fonti vd. in part. Weizsäcker in Roscher I 1 (1889), s. v. ‘Deukalion’ coll. 994, 2–997, 43; Tümpel in RE V 1 (1903), s. v. ‘Deukalion’ coll. 261, 22–276, 24; Gantz 1993, pp. 164–166 (e 167 s. per la discendenza di Deucalione); Reinhardt 2011, p. 46 n. 170 (con ampia bibliografia); Fowler 2013, pp. 113–121. παραθῇς Il verbo indica tecnicamente il servire cibi durante un banchetto, cfr. p. es. Ar. Eq. 57 αὐτὸς παρέθηκε τὴν ὑπ’ ἐμοῦ μεμαγμένην, Pherecr. fr. 60 K.–A. (Epilēsmōn ē Thalatta) ὅστις παρέθηκε κρανί᾽ ἢ 〈τραχήλια 〉; cfr. anche Xen. Anab. IV 5, 31; Plat. Resp. 372 d, ecc. fr. 126 K.–A. (121 K.) ἆρά ποθ’ ὑμεῖς 〈 〉 καὶ τῆς ὀροφῆς τὸν χοῦν κατὰ τῆς κεφαλῆς καταμήσονται λαγαριζόμενοι 1 ἆρά Meineke FCG II.1, p. 313, ἄρα V ποθ’ ὑμεῖς V: ποθ’ ὑμῖν (recepit Kaibel) vel ποθ’ ὑμᾶς vel προθύμως Meineke FCG II.1, p. 313 (recepit Kock CAF I, p. 180): ἆρά ποθ’ ἡμᾶς 〈κατορύξουσιν / οὗτοι〉 Quaglia 2001, p. 404: 〈κατορύττουσιν / οὗτοι〉 Quaglia 2003,

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p. 271 post ὑμεῖς suppl. ἐνθυμεῖσθ’ ὡς Edmonds 1932, p. 10; 1957, p. 252 2 in. οὖτοι suppl. Kaibel ap. K.–A. (recepit Quaglia 2001) post χοῦν add. ὑμῶν Meineke FCG II.1, p. 313 (recepit Edmonds 1957): ἡμῶν Kock CAF I, p. 180 3 καταμήσονται 4 λαγαριζόμενοι Dindorf 1827, Meineke FCG I, p. 8638; II.1, p. 313: κατακοιμήσ- V III, p. 418: λαγυριζ- V

Voi, una buona volta 〈 〉 e il cumulo di terra del soffitto ammucchieranno sulla testa scavando Schol. (VΓ) Ar. Vesp. 674c Koster τὸ δὲ λαγαρίζεσθαι (λαγαρίζ- V, λαγαρύζ- Γ) ἕτερόν τι ἔοικεν ἐμφαίνειν. Φερεκράτης Μυρμηκανθρώποις (deficit Γ) ἀντὶ τοῦ σκαλεύειν (σιδαλεύην V, corr. Meineke)· ἄρα — λαγαριζόμενοι lagarizesthai sembra indicare anche qualcos’altro. Ferecrate nei Myrmēkanthrōpoi lo usa al posto di scavare: voi, una buona volta — scavando

Metro Dimetri anapestici lkkll 〈 〉 ll kklll

kklkkl kklll kklkkl

Bibliografia Dindorf 1827, III p. 418; Runkel 1829, p. 49; Meineke FCG I, p. 8638; II.1, p.  313; Meineke 1847, I, p.  111; Bothe 1855, p.  105; Kock CAF I, p.  180; Edmonds 1932, p. 10; Edmonds 1957, p. 252 s.; Urios-Aparisi 1992, pp. 377–382; Quaglia 2001, pp. 399–403; Quaglia 2003a, pp. 285–287; Quaglia 2003c, p. 271 s.; Imperio 2004, p. 77 n. 180; Rusten 2011, p. 159; Storey 2011, p. 480 s. Contesto della citazione Il frammento è trasmesso in uno scolio (VΓ) al v. 674 delle Vespe di Aristofane (ἐκ κηθαρίου λαγαριζόμενον καὶ τραγαλίζοντα τὸ μηδέν, ‘ti arrangi con quel che ricavi dall’urna, senza concederti nessuna leccornia’ [trad. Mastromarco 1983, p. 499]) a proposito del significato del verbo λαγαρίζω, che nel passo di Aristofane è usato in un’accezione differente da quella testimoniata nel frammento di Ferecrate, come sembra indicare l’espressione ἕτερόν τι ἔοικεν ἐμφαίνειν dello scoliaste (vd. infra λαγαριζόμενοι). L’equivalenza di λαγαρίζεσθαι a σκαλεύειν rende verisimile che a questo stesso passo faccia riferimento anche la glossa di Hesych. λ 37 = Phot. λ 15 Theodoridis λαγαριζόμενοι· σκαλεύοντες, τὰς λαγόνας τύπτοντες, forse riconducibile a Diogeniano (“D”, Thedoridis 1998, p. 478), per la cui opera (il Περιεργοπένητες), fonte di Esichio e a sua volta riconducibile ai lessici di Zopirione e Pamfilo (I sec. d.C.), vd. Nesselrath 2010, p. 425 n. 6.

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Testo Il frammento è tramandato in una forma evidentemente corrotta: il testo, certamente articolato in anapesti (dimetri o tetrametri: vd. infra), è scorretto e lacunoso e numerosi sono stati i tentativi di integrazione ed emendamento. Per quanto riguarda i vv. 1–2, il testo stampato da Kassel e Austin (PCG VII, p. 165) propone una sola lacuna che si estende dall’intero secondo metron anapestico del v. 1 al primo anapesto del primo metron del v. 2; questa sistemazione del testo si differenzia dalle precedenti, che identificavano due lacune, rispettivamente alla fine del primo verso e del secondo verso, proponendo differenti integrazioni e intendendo la pericope καὶ τῆς ὀροφῆς τὸν χοῦν come l’inizio del v. 2: 1) Meineke FCG II.1, p. 313 (— Meineke 1847, I, p. 111): ἆρά ποθ’ ὑμεῖς * * * * / καὶ τῆς ὀροφῆς τὸν χοῦν [ὑμῶν]. Praeterea pro ὑμεῖς, quod ferri non posse apertum est, aut ὑμῖν aut ὑμᾶς scribendum est, id ut a verbo quod excidit regi statuatur. In luogo di ποθ᾽ ὑμῖν o ποθ᾽ ὑμᾶς, nell’editio minor Meineke optava per una differente soluzione, προθύμως, poi accolta da Kock (vd. infra); al contrario Kaibel apud Kassel–Austin PCG VII, p. 165, accoglieva ποθ᾽ ὑμῖν; 2) Kock CAF I, p. 180: ἆρα προθύμως * * * * / καὶ τῆς ὀροφῆς τὸν χοῦν ἡμῶν; 3) Edmonds 1932, p. 10 = Edmonds 1957 ad loc. (p. 252): ἆρά ποθ’ ὑμεῖς 〈ἐνθυμεῖσθ᾽ ὡς〉/ καὶ τῆς ὀροφῆς τὸν χοῦν 〈ὑμῶν〉. L’integrazione 〈ἐνθυμεῖσθ᾽ ὡς〉 è fondata da Edmonds sul confronto con Cratin. iun. fr. 1, 1 K.–A. (Gigantes) 〈xlk〉 ἐνθυμεῖ δὲ τῆς γῆς ὡς γλυκύ, su cui vd. Caroli 2014, p. 76 (anche per la tradizione e altre possibili letture di ἐνθυμεῖ incipitario, tràdito dal solo cod. A di Ateneo, testimone del frammento, come ἐνθυμει δὲ, con la forma verbale priva di accento). Se si riconosce la lacuna tra la fine del primo verso e l’inizio del secondo non è necessario mutare in dativo o in accusativo il nominativo di seconda persona plurale ὑμεῖς (vd. supra per le ipotesi di Meineke), che costituirebbe, invece, il soggetto di un verbo caduto. Tra i vari tentativi di colmare tale presunta lacuna, Kaibel, oltre ad accogliere il ποθ᾽ ὑμῖν di Meineke (vd. supra), lasciava senza integrazioni la parte rimanente del v. 1 e inseriva a inizio di v. 2 il pronome 〈οὗτοι〉; differenti, invece, le soluzioni avanzate da Edmonds, 〈ἐνθυμεῖσθ᾽ ὡς〉 e ὑμῶν alla fine di v. 2 (vd. supra), e Quaglia 2001, p. 404, e Quaglia 2003c, p. 271 ἆρά ποθ’ ἡμᾶς 〈κατορύξουσιν / oὗτοι 〉 καὶ τῆς ὀροφῆς τὸν χοῦν («il verbo mancante […] non avrebbe dovuto discostarsi troppo dal significato di quello conservato nel testo. […] La voce verbale κατορύξουσιν è naturalmente soltanto una possibilità, ma completerebbe l’idea della sepoltura implicita nell’azione di ricoprire le teste di terra; il verbo in sé, inoltre, è attestato in Pherecr. Agr. fr. 5, 2 K.–A.»), che conducono a esiti molto differenti sul piano formale e del senso. Meno economica appare la ricostruzione di Urios-Aparisi 1992, p. 378, che interviene sul testo tràdito proponendo ἆρά προθυμεῖσθ’ ὑμεῖς κἀκ τῆς / ὀροφῆς τὸν χοῦν κατὰ τῆς κεφαλῆς / καταμήσεσθαι λαγαριζόμενοι; («The first line is a variation on Edmonds’ proposal, […] but it is possibile as a haplography. The only major

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change would be the form καταμήσεσθαι instead of καταμήσονται which could be the ending corrupted from ΕΣΘΑΙ into ΟΝΤΑΙ. Otherwise the disposition of the verses does not need any addition as ὑμῶν or ἡμῶν in the second line»). Questa linea di intervento, fondata sull’interpretazione generale del frammento fornita da Urios-Aparisi, il quale, nella scia di Zieliński, pensava che il frammento contenesse un’allocuzione del coro al pubblico o ai giudici (vd. infra Interpretazione), appare complessivamente assai debole; in particolare, la sostituzione della terza plurale, pur tràdita nella forma κατακοιμήσονται (vd. infra), con l’infinito καταμήσεσθαι, anche a non dire della debolezza delle ragioni paleografiche addotte a motivarla (vd. supra), sembra non trovare altre ragioni che quella di rintracciare un infinito per il congetturato προθυμεῖσθ’. Al di là degli interventi di sistemazione generale dei versi del frammento dei quali si è detto finora, sono da segnalare una serie di interventi più circoscritti, necessari per sanare il testo nella forma in cui è tràdito: a) al v. 1, l’ἆρά ποθ᾽ di Meineke per il tràdito ἄρα ποθ᾽ (FCG II.1, p. 313), evidentemente volto a restituire corretta facies anapestica alla sequenza incipitaria del frammento, trova buoni paralleli in commedia: Ar. Pac. 1087 ἆρα φενακίζων ποτ’ Ἀθηναίους ἔτι παύσει; e soprattutto Thesm. 1 ὦ Ζεῦ, χελιδὼν ἆρά ποτε φανήσεται; dove ἆρα in luogo di ἄρα della tradizione manoscritta è garantito metri causa (vd. Prato 2001, p. 138, e Austin–Olson 2004, p. 52); pure, fermo restando il problema metrico, che però, in presenza di un contesto così danneggiato, va affrontato con cautela, Ar. Nub. 465 s., ἆρἀ γε τοῦτ᾽ ἄρ᾽ ἐγώ ποτ᾽ ὄψομαι, per quanto la combinazione ἆρἀ γε […] ἄρα […] ποτε sia «unparalleled» (Dover 1968, p. 160, ad 466), consiglia almeno un briciolo di prudenza, come anche i casi in cui a presentarsi in combinazione con ποτε è ἄρα, non ἆρα (p. es. Ar. Pac. 1045, 1048); b) al v. 3, inevitabile appare la correzione καταμήσονται, che sana il κατακοιμήσονται di V, ametrico e privo di senso (vd. infra al lemma per il valore del verbo). L’intervento si deve a Meineke: la proposta è discussa in Meineke FCG I, p. 86 n. 38, e poi accolta a testo in Meineke FCG II.1, p. 313; c) al v. 4, infine, la congettura λαγαριζόμενοι di Dindorf 1827, III, p. 418 si basa sul confronto con la glossa di Hesych. λ 37 = Phot. λ 15 Theodoridis λαγαριζόμενοι· σκαλεύοντες, vd. Contesto della citazione e infra al lemma per il valore del verbo. Interpretazione Seguendo il testo tràdito, lacunoso, chi parla si rivolge inizialmente a qualcuno (ὑμεῖς), sia pure in termini non agevolmente ricostruibili; quindi afferma che alcuni (di identità ignota) ammucchieranno scavando (καταμήσονται / λαγαριζόμενοι) sulla testa (κατὰ τῆς κεφαλῆς: quella degli ὑμεῖς ai quali il parlante si rivolge all’inizio?) un cumulo di terra del soffitto (τῆς ὀροφῆς τὸν χοῦν). La sistemazione del testo tràdito in dimetri anapestici, generalmente accolta dagli editori moderni (il solo Bothe 1844, p. 105, pensava a una scansione in tetrametri), lascia spazio a diverse ipotesi sul possibile significato e sulla collocazione originale di questi versi. Secondo Zieliński 1931, p. 69, sulla base del confronto con Ar. Av. 1114–1117, il frammento apparterrebbe allo pnigos della parabasi vera e propria e conterrebbe una scherzosa minaccia, rivolta dal coro agli spettatori,

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in caso di mancata vittoria agli agoni; secondo Whittaker 1935, p. 183 s., invece, il frammento proverrebbe da uno pnigos situato a metà della parodo, mentre da ultimo Quaglia 2001, p. 403 s. (ripreso in Quaglia 2003a, p. 285 s.) ipotizza una collocazione nella sezione finale di un epirrema agonale. Più articolata l’ipotesi formulata da Urios-Aparisi 1992, p. 378: «I tend to think that the speaker is the chorus or the chorus-leader speaking in their dramatic character as ants, but one cannot rule out that the speaker is a character of the play who takes the image of the ants for his argument. […] The speaker, having been speaking or criticizing other poets or the social or political situation of the city (common subjects of this kind of speeches), develops or perhaps follows the image of the ants digging and building their house, while from the roof the soil with which they are building it, heaps all over their heads. The image would recall an idea of working in vain or work that implies more effort than necessary». 1 ἆρά ποθ’ Su ἆρα interrogativo si veda Denniston 1954, p. 48 s.; sul valore fortemente espressivo di ἆρά ποτε si veda Prato 2001, p. 138. 2 ὀροφῆς Connesso con il verbo ἐρέφω ‘überdecken, überdachen’ (GEW s. v. ἐρέφω; vd. anche DELG, Beekes 2010 s. v. ἐρέφω), il sostantivo è impiegato in commedia, sia, come in questo caso, al femminile (ὀροφή: cfr. Ar. Nub. 173, Vesp. 1215), sia al maschile (ὄροφος: cfr. Ar. Lys. 229); ὄροφος è equivalente in significato a ὀροφή secondo LSJ9 s. v. ὄροφος, ma come nota Dover 1968, p. 117, ad Ar. Nub. 173 (ἀπὸ τῆς ὀροφῆς νύκτωρ γαλεώτης κατέχεσεν): «‘Ceiling’ in V. 1215, where the scene imagined is indoors; but Socrates must go outside to look at the moon, and in Th. iv. 48. 2 ἀναβάντες ἐπὶ τὸ τέγος καὶ διελόντες τὴν ὀροφὴν ἔβαλλον τῷ κεράμῳ the ὀροφή seems to be that side of the covering of the house which is exposed to the sky (The articles ὀροφή and ὄροφος in LSJ need reorganization; in particular, ὄροφος in Lys. 229 f. is ‘ceiling’, looked at from inside the house, not ‘roof ’ looked at from outside». τὸν χοῦν Connesso al verbo χόω, il sostantivo χοῦς ‘soil excavated or heaped up’ (LSJ9 s. v., vd. anche GEW s. v.) è impiegato in commedia solamente in questo passo e si può mettere in connessione con la glossa di Hesych. χ 657 Alpers– Cunningham χοῦς· τὸ ἐπιβαλλόμενον τῷ ὀρόφῳ χῶμα, «suitable here due to the mention of ὀροφῆς before, and if we are to imagine a house with a roof made of turves» (Urios-Aparisi 1992, p. 380). Per altre occorrenze del termine cfr. p. es. Hdt. II.150 (ὁ χοῦς ὁ ἐξορυχθείς), VII 23 (τὸν αἰεὶ ἐξορυσσόμενον χοῦν); cfr. anche I 185, VIII 28, Thuc. II 76, IV 90 ecc. 3 κατὰ τῆς κεφαλῆς Un’espressione analoga ricorre a Ar. Eq. 1094 s. εἶτα κατασπένδειν κατὰ τῆς κεφαλῆς ἀρυβάλλῳ / ἀμβροσίαν κατὰ σοῦ, κατὰ τούτου δὲ σκοροδάλμην. καταμήσονται La forma verbale, «unusal poetic form that indicates ‘scrape up, heap up’ […]. The commoner form is ἐπαμάομαι (cf. Heubeck et al. ad Od. 4. 482)» (Urios-Aparisi 1992, p. 380; per il rimando, vd. Hainsworth in Odissea II, p. 181), è congettura di Meineke FCG II.1, p. 313, per il tràdito κατακοιμήσονται (vd. Testo) ed è attestata con certezza solamente in Il. XXIV 165 τήν ῥα κυλινδόμενος

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καταμήσατο χερσὶν ἑῇσι, anche se potrebbe ricorrere anche in Soph. Ant. 601 κατ᾽ αὖ νιν φοινία / θεῶν τῶν νερτέρων ἀμᾷ κόνις, su cui vd. Griffith 1999, p. 226 (anche per altre considerazioni sui possibili significati del verbo). 4 λαγαριζόμενοι Il participio è correzione di Dindorf 1827, III, p. 418 (vd. Testo) per il tràdito λαγυριζόμενοι, una lectio nihili. Il verbo ha una sola altra attestazione in Ar. Vesp. 674 ἐκ κηθαρίου λαγαριζόμενον καὶ τραγαλίζοντα τὸ μηδέν, a proposito del quale MacDowell 1971, p. 224, annota che il verbo sembra costituire «a comic substitution for τρεφόμενον»; in merito a λαγαρίζω nel frammento di Ferecrate MacDowell (ibid.) nota quanto segue: «‘getting thin’ … is obviously the meaning required here, and -ιζ- is obviously the correct form to express this meaning. In Pherekrates … a different meaning seems to be required, and so possibly the form too may be different there; the ingenuity of ΣV in searching for a single explanation to cover both passages is misplaced»; per un’ipotesi analoga vd. già Taillardat 1965, pp. 82–84 (§ 130) e vd. poi Urios-Aparisi 1992, p. 381 e, da ultimi, Biles–Olson 2015, p. 296: «The vb. must be cognate with λαγαρός (‘thin, sunken’), so perhaps the idea is that the jurors are on a starvation diet. At Pherecr. fr. 126. 4 (cited by ΣV; lacunose and obscure, and emended by Dindorf from the paradosis λαγυρ-, but the only other attestation of the word outside the lexicographers), on the other hand, the meaning is apparently ‘scrape’ (cf. Hsch. λ 37); so the point may be instead that the jurors get by on scraps of food left in the bottoms of dishes (cf. 672 περιτρώγων)».

fr. 127 K.–A. (122 K.) Poll. X 91 καὶ κανοῦν δὲ ἀρτοφόρον. εἴποις ἂν καὶ κίστην ὀψοφόρον, ὅθεν καὶ (seq. Hom. Od. VI 76) καὶ που καὶ κοίτην, ὡς ἔν τε τοῖς Βάπταις Εὐπόλιδος (fr. 86 K.–A.) καὶ ἐν Φερεκράτους Μυρμηκανθρώποις ἀ λ λ ὰ κ α ὶ τ ὰ ς κ ύ τ α ς ο ἱ ἐ ν ἐ μ ο ῖ ν ἀ π ο β α ν θ ’ ἃ μέλλομεν ἀριστῆσιν E un canestro (kanoun) per portare il pane. Si potrebbe dire anche cesta (kistē) per trasportare il cibo, da cui anche (seq. Hom. Od. VI 76) e forse anche koitē, come nei Baptai di Eupoli (fr. 86 K.–A.) e nei Myrmēkanthrōpoi di Ferecrate † … †

Metro Incerto Bibliografia Hemsterhuis in Lederlin–Hemsterhuis 1706, p. 1263; Bentley 1825, p. 274 (ma 1708); Meineke 1827, p. 38; Runkel 1829, p. 112; Meineke FCG II.1, p. 312 s.; Meineke 1847, I, p. 110 s.; Bothe 1855, p. 104 s.; Kock 1875, p. 414 s.; Kock CAF I, p. 180 s.; Whittaker 1935, p. 188; Edmonds 1957, p. 252 s.; Sifakis 1971, pp. 34, 39, 50; Urios-Aparisi 1992, p. 382 s.; Quaglia 2001, pp. 404–408; Quaglia 2003a, pp. 287–290; Imperio 2004, p. 48; Storey 2011, p. 480 s.

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Contesto della citazione In Polluce, all’interno di una discussione sul lessico riguardante in generale la tavola, che inizia a X 80 ed è parte della generale discussione sugli σκεύη tema del libro decimo (cfr. X 2), a X 90 inizia una sezione dedicata ai contenitori di cibo (X 90–92). Nel corso del § 91 si menziona prima un cesto (κανοῦν) per portare il pane (ἀρτόφορον), quindi un termine equivalente, κίστη, associato all’epiteto ὀψόφορος, per il quale viene addotto un passo dell’Odissea (ζ 76); di seguito si riporta l’informazione che un ulteriore sostantivo è κοίτη, esemplificato prima con un verso di Eupoli (fr. 86 K.–A.) quindi con una citazione, irrecuperabilmente corrotta, di Ferecrate, nella quale è del tutto verosimile immaginare che il lemma κοίτη fosse presente. Nello stesso contesto, a X 90, a proposito dei sostantivi κανᾶ, κάνης, κανήτιον e κανίσκια è citato Cratet. fr. 14 K.–A. (Hērōes) ὁ κάνης δὲ τῆς κοίτης ὑπερέχειν μοι δοκεῖ, erroneamente ascritto a Ferecrate (vd. Kassel–Austin PCG IV, p. 90), nel quale compare anche il sostantivo κοίτη (su questo frammento vd. Bonanno 1972, pp. 81–83). Testo Il testo tràdito è trasmesso in forma corrotta, ametrica e priva di senso logico; il contesto della citazione ci assicura del fatto che nel frammento dovesse comparire il termine κοίτη (meno probabile κίστη proposto da Kock, vd. infra), lo stesso per il quale è citato subito prima il frammento di Eupoli, e, verosimilmente celato dietro il corrotto τὰς κύτας, il quale si deve con ogni probabilità a un errore di itacismo. Per quanto concerne i tentativi di sanare il passo, 1) Hemsterhuis in Lederlin– Hemsterhuis 1706, p. 1263, proponeva ἀλλὰ καὶ ἐν κοίταις ταῖς ἐμοὶ ἀποκεῖθ᾽ ἃ μέλλομεν ἀριστήσειν, una sistemazione alla quale Bentley reagì, scrivendo a Hemsterhuis nel giugno del 1708, proponendo a sua volta, pur tra molti dubbi, ἀλλ᾽ ἐν κοίταις ἔνι γ᾽, οὔτ᾽ ἀπόβληθ᾽, ἃ μέλλομεν ἀριστήσειν, che traduceva con sed in arcis insunt, non spernenda quidem, quae eramus pransuri (Bentley in Friedemann 1825, p. 274). Sulla scorta della ricostruzione offerta da Hemsterhuis, e dopo aver proposto, in Meineke 1827, p. 38, la sequenza ἀλλὰ κἀν κοίταισιν ἐμαῖσιν ἀποκεῖνθ᾽ ἃ μέλλομεν / ἀριστήσειν (nella cui scia Runkel 1829, p. 48: ἀλλὰ κἀν κοίταισιν ἐμοὶ — ἀποκεῖνθ᾽ ἃ μέλλομεν / ἀριστήσειν), 2) Meineke FCG II.1, p. 312 s., scriveva, immaginando Eupolidei metri vestigia, ἀλλὰ καὶ κοίταις ἐν ἐμαῖσιν ἀπόκειθ’ ἃ μέλλομεν / ἀριστήσειν (la sequenza ταῖς ἐμοὶ di Hemsterhuis era bollata con un sic), che traduceva con etiam in mea cista insunt quae pransuri sumus; per la sola pericope οἱ ἐν ἐμοῖν ἀποβάνθ᾽ 3) Κaibel (apud Kassel–Austin PCG VII, p. 166) ipotizzava ἐν ἐμαῖς ἀποκέκλῃθ’, mentre per l’intera sequenza 4) Bothe 1855, p.  104 s., stampava ἀλλὰ καὶ κοίτας ἐς ἐμὰς ἔστ’ ἀποβάνθ’, ἃ μέλλομεν / ἀριστήσειν (etiam sunt, quae in meas cistas descenderunt, prandenda nobis. Più recentemente, 5) Quaglia 2001, p. 407 s. propone una ricostruzione del tutto diversa: ritenendo che nell’evidentemente corrotto ἀποβανθ’ sia da riconoscere non un verbo ma il sostantivo da cui dipende la proposizione relativa, propone di emendare il frammento in ἀλλ’ ἐν κοίταις ἐστιν ἐμοὶ τἀπόβαθρ’ ἅ μέλλομεν / ἀριστήσειν, una sequenza dalla quale dipende un’esegesi della quale si dirà più avanti (vd. infra Interpretazione).

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Differente da quelle già elencate è, invece, la proposta di Kock 1875, p. 414 s., poi ripresa in CAF I, p. 180 s., consistente nello scrivere non κοίτη, ma κίστη, tanto in Eupoli quanto nel corrotto passo di Ferecrate, il cui testo è riscritto, quindi, come segue: ἀλλὰ καὶ κίσταις ἐν ἐμαῖς ἀποκεῖθ᾽ ἃ μέλλομεν ἀριστήσειν. Tale proposta si basa sulla considerazione che κοίτη vale comunemente ‘letto’: Polluce avrebbe dunque commesso un errore, del quale una spia potrebbe essere anche l’utilizzo di που (καί που καὶ κοίτην) ad indicare un significato non del tutto sicuro. Si deve tuttavia rilevare che una sinonimia κοίτη/κίστη è fornita in Hesych. κ 3724 κοίτη∙ κίστη, ἐν ᾗ τὰ βρώματα ἔφερον (e la fonte potrebbe essere la medesima di Polluce, il lessico di Zopirione e Pamfilo della fine del I sec. d. C., vd. Nesselrath 2010, p. 425 n. 6) — Phot. κ 864 Theodoridis κοίτη∙ πλεκτὴ κίστη, ἐν ἧ τὰ βρώματα τιθένται; la documentazione epigrafica conferma tale utilizzo di κοίτη, vd. in part. Olson 2017, p. 266 s.: «inscriptional evidence supports the notion that κοίτη could also be used of a storage box or the like (LSJ s. v. VI; e. g. IG I3 387.15 (from the accounts of the Eleusinian epistatai, 407/6 BCE); 421.184, 186 (from the lists of the household goods sold at public auction of the men caught up in the religious scandals of 415 BCE; the price of less than 5 drachmas leaves little doubt that these are storage containers rather than beds); II2 120.37–40 (40 bronze κοῖται, one lacking a lid; from a decree and inventory of the Chalcotheke, 362/1 BCE); 1408.14–15 (30 empty bronze κοῖται, one lacking a lid; from the accounts of the treasurers of Athena, shortly after 385/4 BCE); Hesperia 7 (1938) 272 #7.4 (from an inventory of the Opisthodomus, late 5th century BCE), as probably also at Men. Dysc. 448 […]; Epitr. 381 (used to store birth-tokens) […]; cf. D. 18.260 κοιτοφόρος (“koitê-bearer”; one of the titles supposedly enjoyed by Aeschines as a participant in his mother’s celebrations of mystery cults when he was a boy)». La lettura κίστη in luogo di κοίτη proposta da Kock non appare quindi necessaria. Interpretazione Il testo, fortemente corrotto, ha suggerito di riconoscere nel frammento resti di un assetto metrico originario in eupolidei, da collocare dunque verosimilmente nella parabasi vera e propria della commedia; a favore di una ricostruzione in eupolidei si vedano le considerazioni di Quaglia 2001, p. 406 s. (ripreso in Quaglia 2003a, p. 287 s.). Sulla base delle ricostruzioni proposte variano anche le ipotesi di collocazione del frammento: secondo Meineke FCG II.1, p. 312 s., Ferecrate alluderebbe in contesto di parabasi ‘propria’ al topos comico del banchetto come metafora metapoetica per indicare la propria produzione letteraria (sulla questione si veda anche Quaglia 2001, p. 407); la stessa idea, giudicata a ragione «tutt’altro che sicura» da Imperio 2004, p. 48, fu ripresa da Kock CAF I, p. 181 (versus Eupolideus ex parabasi excerptus, in qua poeta figurate de suae artis copia dicebat), e si ritrova più tardi ribadita da Whittaker 1935, p. 188, e da Sifakis 1971, pp. 34, 39, 50, mentre Kaibel (apud Kassel–Austin PCG VII, p. 166) propendeva per un’interpretazione letterale del passo (cibaria nostra cistis adservata ab aquae impetu secura sunt). Simile a quella di Kaibel l’esegesi avanzata da Quaglia 2001 pp. 406–408, ripresa in Quaglia 2003a, pp. 287–290, secondo il quale il frammento andrebbe collocato in un momento successivo al diluvio; sulla base

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della ricostruzione testuale della quale si è detto (vd. supra Testo), la κοίτη sarebbe il contenitore utilizzato per trasportare gli elementi necessari per un sacrificio, mentre ἀπόβαθρα, reso con ‘la carne dei riti di sbarco’, alluderebbe ai sacrifici da compiersi dopo lo sbarco. Per Urios-Aparisi 1992, p. 382, invece, il frammento «could be understood in literal sense as a reference to the custom of throwing figs and other dried fruits to the audience in order to win its support».

fr. 128 K.–A. (123 K.) σὺ δ’ ἀποτηγανίζεις e tu (tu invece) friggi/arrostisci/mangi frittura (mangi arrosto dalla padella) Athen. VI p. 229 A (p. 228 E τήγανον δὲ, ὦ βέλτιστε, εἴρηκεν ἐν μὲν Λήροις Φερεκράτης οὕτως [fr. 109 K.–A.]) […] καὶ Φερεκράτης ἐν Μυρμηκανθρώποις φησί· σὺ δ’ἀποτηγανίζεις (e tēganon [padella], carissimo, disse Ferecrate nei Lēroi nel modo che segue [fr. 109 K.–A.]) […] Anche Ferecrate nei Myrmēkanthrōpoi dice: tu — padella

Metro Incerto (kkklkll) Bibliografia Runkel 1829, p. 47; Meineke FCG II.1, p. 310; Meineke 1847, p. 110; Bothe 1855, p. 104; Kock CAF I, p. 180; Edmonds 1957, p. 252 s.; Urios-Aparisi 1992, p. 383 s.; Quaglia 2001, p. 408 s.; Quaglia 2003a, p. 289 s.; Storey 2011, p. 480 s. Contesto della citazione Il frammento è citato da Ateneo all’interno di una raccolta di attestazioni del termine τήγανον: la prima di esse è Pherecr. fr. 109 K.–A. (Lēroi), seguito da Pherecr. fr. 133 K.–A. (Persai), Philon. fr. 2 K.–A. (Kothornoi), Eub. fr. 75, 7 s. e 75, 1 s. K.–A. (Orthannē), Eub. fr. 108 K.–A. (Titanes), Phryn. fr. 60 K.–A. (Tragōidoi ē Apeleutheroi). Interpretazione Chi parla si rivolge a qualcuno e sostiene che questi arrostisce o frigge, ovvero mangia frittura o arrosto dalla padella; ciascuno di questi significati di ἀποτηγανίζω (vd. infra per i valori del verbo) è infatti possibile qui, in assenza del contesto, a differenza di quanto avviene in Phryn. fr. 60 K.–A. (Tragōidoi ē Apeleutheroi) ἡδὺ δ᾽ ἀποτηγανίζειν ἄνευ συμβολῶν, nel quale la persona loquens, probabilmente un parassita, «esprime tutto il suo compiacimento nel fatto di prendere parte a un convito, senza contribuire alle spese comuni» (Stama 2014, p. 293): una situazione che non lascia troppi dubbi sul fatto che, in Frinico, ἀποτηγανίζειν equivalesse a ‘mangiare la frittura direttamente dalla padella’, segno di straordinaria ghiottoneria (si veda il molto simile Pherecr. fr. 109 K.–A. (Lēroi) ἀπὸ τηγάνου τ᾽ ἔφασκεν / ἀφύας φαγεῖν). Secondo Quaglia 2001, p. 408 «è verosimile […] che

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il breve frammento provenga dalla sezione della commedia in cui Deucalione insisteva a cucinarne (scil. del pesce) per i sopravvissuti al diluvio. L’avversativa δέ potrebbe anche far supporre che chi parla sottolineasse come, nonostante le preghiere di cambiare dieta, Deucalione continuasse a preparare pesce (i.e: [‘io ti chiedo di non farne più] ma tu cuoci alla griglia…’)», con l’ulteriore supposizione, alla n. 138, che ciò potesse rinviare a una presentazione di Deucalione nel ruolo di cuoco. L’assenza di contesto non permette, tuttavia, di escludere che δέ potesse avere qui una funzione non avversativa, ma connettiva (Denniston 1954, pp. 162–177) e consiglia, a ogni modo, maggiore prudenza. Per quanto riguarda il valore del verbo ἀποτηγανίζω, vd. il commento di Stama 2014, p. 293, al citato fr. 60 K.–A. di Frinico (vd. supra): «il verbo ricorre quasi esclusivamente in commedia: oltre a Frinico, cfr. Pherecr. fr. 128 K.–A.; Alex. fr. 178, 11 K.–A. (ἀποταγηνιῶ); Sotad. Com. fr. 1, 1 K.–A. (ἀπεταγήνισα [ἀπετηγάνισα cod.: corr. Meineke 1814, p. 50]); vd. inoltre Macho 421 G. Fuori dalla poesia comica è attestato in autori tardi: cfr. Lxx, Je. 36, 22; Origenes MPG XI, p. 64, 6; XIII, p. 780, 31). Si tratta di un composto di τηγανίζω (“friggere”, “arrostire”; cfr. LSJ 9, s. v., p. 1780: «fry»), denominale da τήγανον […], e, a seconda del contesto, può significare “friggere”, “arrostire (in una padella)” (così, per es., nei citati passi di Alexis e di Sotade e, forse, in Macone; vd. Phryn. Praep. soph. p. 16, 15 de Borries: ἀποταγηνίσαι· ἀντὶ τοῦ ταγηνὶσαι), ovvero “mangiare (frittura o arrosto) direttamente dalla padella” («eat from the pan»: così, a giudizio di Gow [1965, p. 131], il verbo va inteso «in Phryn. Com. fr. 57 [= 60] and perhaps in Pherecr. fr. 123 [= 128]»; contrario a questa distinzione semantica si è mostrato ora Arnott [1996, p. 530]), con riferimento cioè al τήγανον/τάγηνον, che, in alcuni casi «functioned as a serving vessel as well» (Olson–Sens 2000, p. 60). D’uso piuttosto tardo è il valore ‘causativo’ di “far arrostire (qualcuno)” (come tortura: una simile accezione va individuata, per es., in Lxx, Je. 36, 22; Origenes MPG XI, p. 64, 6; XIII, p. 780, 31)». Per l’oscillazione tra τήγανον e τάγηνον vd. Stama 2014, p. 293 n. 322.

fr. 129 K.–A. (124 K.) ἢ τρὶς ἓξ ἢ τρεῖς κύβοι (-oυς) κύβοι Zenob., Schol. Plat. (item Poll. IX 95 ceterique proverbii testes): κύβους Kaibel, Bühler 1982 p. 227

o tre volte sei o tre volte uno ai dadi Zenob. vulg. IV 23 = Zenob. Ath. II 29 = Schol. (AO) Plat. Leg. XII p. 968e (p. 379 Greene) ἢ τρὶς ἓξ ἢ τρεῖς κύβοι. κεῖται (om. schol.) ἡ παροιμία παρὰ Φερεκράτει ἐν τοῖς Μυρμηκανθρώποις o tre volte sei o tre volte uno ai dadi. Il proverbio è attestato in Ferecrate nei Myrmēkanthrōpoi

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Diogen. Vind. II 85 (CPG II, p. 33 Leutsch) ἢ τρὶς ἓξ ἢ τρεῖς κύβοι∙ ἡ παροιμία παρὰ Φερεκράτει o tre volte sei o tre volte uno ai dadi: il proverbio in Ferecrate

Metro Incerto (lklllkl) Bibliografia Runkel 1829, p. 49; Meineke FCG II.1, p. 315; Meineke 1847, p. 112; Bothe 1855, p. 105; Kock CAF I, p. 181; Edmonds 1957, p. 252 s.; Urios-Aparisi 1992, p. 384; Quaglia 2001, pp. 409–411; Quaglia 2003a, p. 290 s.; Storey 2011, p. 480 s. Contesto della citazione Zenobio e uno scolio alle Leggi di Platone (in cui il proverbio viene utilizzato: vd. infra Testo) riportano come lemma l’espressione ἢ τρὶς ἓξ ἢ τρεῖς κύβοι, ne spiegano il significato e ne ricordano l’attestazione nei Myrmēkanthrōpoi di Ferecrate; in Diogeniano, invece, è ricordata genericamente l’occorrenza in Ferecrate, ma il fatto che il riferimento sia al medesimo proverbio rende pressoché certo che il richiamo sia allo stesso passo dei Myrmēkanthrōpoi. Per quanto riguarda, invece, l’esegesi dell’espressione, la versione ‘Athoa’ di Zenobio risulta compendiata rispetto alla versione ‘vulgata’ e allo scolio platonico; in Diogen. Vind. II 85 e nelle altre raccolte paremiografiche (Zenob. Ath. II 29; Apost. VIII 72, Mant. Prov. I 34; Arsen. 280) la citazione è adespota e anepigrafa, come anche nelle fonti lessicografiche che riportano il proverbio: Hesych. τ 1427, Poll. IX 95, Suid. η 635, 934; τ 1005–6; vd. Quaglia 2001, p. 411 e Quaglia 2003a, p. 290. Testo Nelle fonti che tramandano il proverbio facendo espresso riferimento a Ferecrate e nella parte maggiore delle altre fonti (vd. Contesto della citazione) ricorre concordemente il nominativo κύβοι. Kaibel (apud Kassel–Austin PCG VII, p. 167) e Bühler 1982, p. 227, proponevano però di modificare la forma tràdita in κύβους sulla base del confronto con tre fonti nelle quali il proverbio ricorre con il sostantivo κύβους all’accusativo: 1) Plat. Leg. 968e καὶ εἴπερ κινδυνεύειν περὶ τῆς πολιτείας ἐθέλομεν συμπάσης, ἢ τρὶς ἕξ, φασίν, ἢ τρεῖς κύβους βάλλοντες; 2) Eust. in Od. p. 1397, 16–18 καὶ ὅτι ἐχρῶντο οἱ παλαιοὶ τρισὶ κύβοις καὶ οὐχ ὥσπερ οἱ νῦν, δυσί. ὅθεν καὶ παροιμία ἐπὶ τῶν μηδὲν διὰ μέσου κινδυνευόντων, τὸ ἢ τρὶς ἓξ ἢ τρεῖς κύβους. ἀπὸ τοῦ μεγίστου καὶ ἐλαχίστου ἀριθμοῦ ἧς μέμνηται Πλάτων ἐν Νόμοις. εἰπών ἢ τρεῖς κύβους βάλλοντες. τουτέστι τρεῖς μονάδας. κύβον γάρ, φασι, διχῶς ἔλεγον (questo passo di Eustazio è ricondotto da Taillardat 1967 al περὶ παιδιῶν di Svetonio [1, 5–7, p. 65]); 3) Eust. in Il. 1083, 64 s., III p. 922 van der Valk ὄθεν καὶ παροιμία φησὶν ἐπὶ τῶν μηδὲν διὰ μέσου κινδυνευόντων τὸ ἢ τρὶς ἓξ ἢ τρεῖς κύβους. Così anche gi ultimi editori del frammento, che stampano ἢ τρὶς ἕξ ἢ τρεῖς κύβους (PCG VII, p. 166).

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Interpretazione In forma estesa l’interpretamentum del proverbio ἢ τρὶς ἓξ ἢ τρεῖς κύβοι (-oυς) è fornito dai due testimoni del frammento ferecrateo, Zenobio e lo scolio alle Leggi di Platone: κεῖται δὲ ἐπὶ τῶν ἀποκινδυνευόντων. τὸ μὲν γὰρ τρὶς ἓξ τὴν παντελῆ νίκην δηλοῖ, τὸ δὲ τρεῖς κύβοι τὴν ἦτταν. πάλαι γὰρ τρισὶν ἐχρῶντο πρὸς τὰς παιδιὰς κύβοις καὶ οὐχ ὡς οἱ νῦν δύο. ἔστι δὲ ὁμωνυμία. κύβον γὰρ ἔλεγον ἰδίως αὐτὸν τὸν ῥιπτούμενον, ὅτε πλήρης ἐστὶ καὶ μὴ. L’espressione viene, quindi, ricordata in relazione a un contesto di grave rischio, che può parimenti condurre al peggiore e al migliore risultato possibile, rappresentati rispettivamente dal punteggio più alto e da quello più basso realizzabile con un lancio di dadi. A questo proposito, si fornisce la notizia che un tempo si giocava con tre dadi e non due, il che spiega perché il risultato peggiore equivalesse a ‘tre volte uno’. La doppia valenza di κύβος, ‘dado’, ma anche ‘punteggio peggiore conseguibile’, è data in Poll. IX 95: καὶ μάλιστα ἥ γε μονὰς ἡ ἐν αὐτοῖς ὄνομα εἶχε κύβος καλεῖσθαι, καθάπερ καὶ ὁ παροιμιώδης λόγος μηνύειν ἔοικεν ‘ἢ τρὶς ἓξ ἢ τρεῖς κύβοι’ e in Eust. in Od. p. 1397, 16–18 (v. supra Testo), vd. anche Olson 2014, p. 100 ad Eupol. fr. 372 K.–A. (inc. fab.), dove ricorre l’espressione δύο κύβω καὶ τέτταρα Allo stesso proverbio si allude anche in Aesch. Agam. 33 τρὶς ἓξ βαλούσης τῆσδέ μοι φρυκτωρίας, dove il segnale che annuncia la caduta di Troia è paragonato all’aver ottenuto τρὶς ἕξ, ‘tre volte sei’ al lancio dei dadi: su questo passo vd. Fraenkel 1950, II p. 21 s., Medda 2017, II p. 31 s. Le citazioni contenute nello scolio alle Leggi e in Zenobio inducono a credere che anche nel nostro frammento l’espressione avesse valore proverbiale, anche se è ovvio, già soltanto a tener conto del passo dell’Agamennone, che l’origine prima del valore paremiografico dell’espressione è certo da immaginare più antica di Ferecrate. Tanto in commedia quanto in tragedia sono piuttosto frequenti allusioni al lancio dei dadi: in Ar. Ran. 1400 e in Eup. fr. 372 K.–A. (inc. fab.), ad esempio, viene citata la combinazione di un quattro e due uno; per altri passi, cfr., p. es., Cratin. fr. 208, 2 K.–A. (Pytinē); Hermipp. fr. 27 K.–A. (Theoi) con Comentale 2017, p. 120 s.; Ar. Vesp. 74–76 con Biles–Olson 2015, p. 109; Eccl. 672; Plut. 243; Theop. fr. 63, 1 K.–A. (Phineus); le commedie dal titolo Kybeutai di Alessi (fr. 123 K.–A., vd. Arnott 1996, p. 347 s., Stama 2016, p. 244); Amfide (fr. 25 K.–A., vd. Papachrysostomou 2016, pp. 160–162); Antifane (fr. 128 K.–A.) ed Eubulo (frr. 56–59 K.–A., vd. Hunter 1983, pp. 54–55, 142–146) e vd. in part. Bühler 1982, p. 227, Urios-Aparisi 1992, p. 384, Fittà 1998, pp. 110–119, Quaglia 2001, p. 411, Campagner 2005 e l’ulteriore bibliografia cit. in Olson 2014, p. 100 e Stama 2016, p. 244. La menzione dei dadi in questo frammento, di una schiava nel successivo fr. 130 K.–A. e di riferimenti sparsi al cibo in altri frammenti superstiti della commedia (ad es. nei frr. 125 e 128 K.–A.) fece pensare a Bothe 1855, p. 104, che essa potesse inscenare un banchetto (Cetera pertinent ad epulas, quibus indulsisse videntur isti Μυρμηκάνθρωποι, et ad conjuncta fere cum illis, ebrietatem, aleam, rixas). Quaglia 2001, p. 411 rileva però che sarebbe «più probabile […] immaginare un uso traslato dell’espressione in questione. Se la si fosse usata in senso proprio, per

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descrivere realmente una partita ai dadi, non avrebbe avuto senso il passaggio in proverbio, con cui ci si riferiva piuttosto a qualsiasi situazione in cui si è sottoposti all’alea della sorte».

fr. 130 K.–A. (125 K.) Μανία θρεπτή Mania servetta di casa Poll. VII 17 (codd. FS, A, BC) τὴν δὲ θεραπαινίδα καὶ θρεπτὴν ἐρεῖ (ἐρεῖ om. FS) ὅστις βούλοιτο (-εται Α) ἕπεσθαι (ὅ. β. ἕπ. om. BC) Φερεκράτει (ὠς Φερεκράτης BC om. reliquis) εἰπόντι ἐν Μυρμηκανθρώποις· Μανία θρεπτή Chiamerà la servetta anche threptē chiunque voglia seguire Ferecrate, che nei Myrmēkanthrōpoi dice: Mania servetta di casa (threptē)

Metro Incerto (lklll) Bibliografia Runkel 1829, p. 48 s.; Meineke FCG II.1, p. 315; Meineke 1847, p. 112; Bothe 1855, p. 104; Kock CAF I, p. 181; Edmonds 1957, p. 252 s.; UriosAparisi 1992, p. 384 s.; Quaglia 2001, pp. 411–413; Quaglia 2003a, p. 291 s.; Storey 2011, p. 480 s. Contesto della citazione Il frammento è trasmesso da Polluce come testimonianza dell’utilizzo di θρεπτή, ‘servetta’, in Ferecrate. Alla citazione tratta dai Myrmēkanthrōpoi segue la notizia che il sostantivo sarebbe stato utilizzato anche in un’orazione di Lisia (la πρὸς Πυθόδημον ὑπὲρ ἀποστασίου secondo il titolo di Polluce, mutilo a parere di Carey 2007, p. 454: fort. nomen rei latet πρὸς Πυθόδημον ὑπὲρ 〈…〉 ἀποστασίου), della quale tuttavia sopravvivono due soli frammenti, 267 e 268 C., il primo dei quali è quello dedotto dal passo di Polluce, mentre il secondo è desunto da Arpocrazione (τ 12 Keaney). Interpretazione Mania era un nome piuttosto diffuso tra le schiave ateniesi (vd. infra), vd. LGPN I, p. 297 e II, p. 431, Zgusta 1964, pp. 287–290, 293 s., Quaglia 2001, pp. 411–413, Quaglia 2003a, p. 291 s., Kanavou 2011, p. 169 s., Orth 2013, p. 195; si tratta forse di un corrispettivo al femminile dell’altrettanto diffuso maschile Μανῆς, attestato anche in Ferecrate (Pherecr. fr. 10, 1 K.–A. [Agrioi]), e di origine microasiatica (frigia secondo Mach. 190–192, come risulta anche da Xen. Hell. III.1, 10 e Strab. VII 3, 12). Sui rapporti tra i due nomi e sulla diffusione di Μανῆς si veda Gow 1965, p. 97, Sommerstein 1990, p. 202 (ad Ar. Lys. 908), Dover 1993, p. 313 (ad Ar. Ran. 965), Olson 1998, p. 287 (ad Ar. Pac. 1146). A proposito dell’origine e dell’etimologia del nome (probabilmente dal dio anatolico Manes, che si potrebbe identificare con ΜΑ(Σ)NHS, antico re della Lidia [Hdt. I 94, III 4,

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45.3] o anche primo re della Lidia, figlio di Zeus [Dion. Hal. Ant. I 27, 2]) rimando alle ipotesi e ai dati raccolti da Dunbar 1995, p. 360 (ad Ar. Av. 523). In commedia ricorre spesso come nome di serve: cfr. Ar. Thesm. 728, 739 e 754, Ran. 1345 (dove è coinvolto in un gioco di parole tra Μᾱνία e μᾰνία, vd. Del Corno 1985, p. 237) e Ameips. fr. 2 K.–A. (Apokottabizontes, dove sembra sottinteso uno scherzo comico che coinvolge il μάνης del cottabo, vd. Totaro 1998, p. 143, e Orth 2013, p. 195). Per quanto concerne θρεπτή (propriamente aggettivo verbale di τρέφω), il termine, che nella letteratura del quinto secolo ricorre esclusivamente nei due passi citati da Polluce (il sostantivo ricorre, invece, più frequentemente in iscrizioni e in papiri più tardi, vd. LSJ 9 s. v. θρεπτός, θρεπτή e Quaglia 2001, p. 412 n. 144), indica la schiava allevata in casa (cfr. Hesych. θ 720 θρεπτός· τρόφιμος, ὑπὸ τῶν τρεφουσῶν e ο 266 e 267 (οἰκότριψ· οἰκογενὴς δοῦλος e οἰκότριψ ὁ θρεπτός δοῦλος) e dunque generalmente adibita a mansioni domestiche, vd. Urios-Aparisi 1992, p. 384.

fr. 131 K.–A. (8 Dem.) Phot. (b, sz) α 1833 Theodoridis ἀ ν ε λ ε ύ θ ε ρ ο ν σ ῶ μ α· Φερεκράτης Μυρμηκανθρώποις (-κανοῖς) ἔφη a n e l e y t h e r o n s ō m a: lo disse Ferecrate nei Myrmēkanthrōpoi

Metro Incerto (kklkllk) Bibliografia Reitzenstein 1907, p. 131; Naber ap. van Leeuwen 1907, p. 268; Demiańczuk 1912, p. 68; Edmonds 1957, p. 252 s.; Renehan 1976, p. 81 s.; UriosAparisi 1992, p. 385; Quaglia 2001, p. 414; Quaglia 2003a, p. 292; Storey 2011, p. 480 s. Contesto della citazione Il frammento è trasmesso da Fozio a testimonianza dell’espressione citata e senza ulteriori informazioni; Reitzenstein 1907, p. 131, proponeva dubitanter Frinico come possibile fonte della glossa, ipotesi ripresa in Theodoridis 1982, p. 180. Secondo Renehan 1976, p. 82, il sintagma sarebbe stato lemmatizzato perché stilisticamente elevato, in contrapposizione alle forme più comuni ἐλεύθερον σῶμα e δοῦλον σῶμα (vd. Interpretazione). Interpretazione L’espressione testimonia probabilmente lo sviluppo semantico di σῶμα da ‘corpo’ a ‘persona’, ben attestato anche in età classica (per documentazione, cfr. LSJ 9 s. v. II. 1.2): tra i numerosi esempi riportati da Renehan 1976, p. 81 s., Kassel e Austin (PCG VII, p. 167) in apparato citano Xen. Hell. II, 1, 19 ἐλεύθερα σώματα e Soph. fr. 940 R. (inc. fab.) εἰ σῶμα δοῦλον, ἀλλ’ὁ νοῦς ἐλεύθερος, anche se nel frammento di Sofocle σῶμα, come commenta lo stesso Renehan, sembra conservare il significato originale e, in ogni caso, «this rigid division into two distinct meanings of σῶμα is an artificial one which was hardly

Μυρμηκάνθρωποι (fr. 131)

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present to native Greeks» (p. 182); resta quindi incerto se in Ferecrate l’espressione indichi letteralmente un ‘corpo’ non libero ovvero una ‘persona’ nella medesima condizione. In alternativa, Quaglia 2001, p. 414 (poi in Quaglia 2003a, p. 192) segnala che ἀνελεύθερος potrebbe avere anche qui il significato di ‘avaro’, come in Ar. Plut. 591 (dove è sinonimo di φιλοκερδής), mentre in Ar. fr. 706 K.–A. (inc. fab.) l’aggettivo, riferito a διάλεκτος, ha il significato di ‘rude’, ‘rozzo’ («ἀνελεύθερος, comme lat. illiberalis, signifie indigne d’un homme libre, d’où bas, vulgaire» chiosa Taillardat 1965, p. 13 n. 1, con numerosi esempi; l’intero frammento aristofaneo è discusso alle pp. 12–14 [§6]; vd. anche Pellegrino 2015, p. 404; Bagordo 2017, pp. 86–93). Molto meno convincente appare la correzione στόμα in luogo del tràdito σῶμα, proposta da Naber (apud van Leeuwen 1907, p. 268 [ad 131, 19]) sulla base di un analogo intervento di Cobet 1858, p. 428, a Soph. fr. 744 R. (inc. fab.), dove ἀκόλαστον σῶμα veniva corretto in ἀκόλαστον στόμα (vd. poi van Leeuwen 1907, p. 259 [ad 62, 2]). L’intervento è registrato da Demiańczuk 1912, p. 68, in apparato al fr. 8, e discusso da Urios-Aparisi 1992, p. 385, che richiama, come già Demiańczuk, Phot. α 1835 Theodoridis ἀνελεύθερος· ὁ μικρολόγος, senza però schierarsi a favore di στόμα. Contro l’intervento (non ricordato in apparato da Kassel e Austin) mi sembrano determinanti le osservazioni di Renehan 1976, p. 81 s., che evidenzia l’errore metodologico di sostenere una congettura sulla base di un’altra congettura, specialmente laddove il testo tràdito appaia corretto e per nulla problematico.

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Πέρσαι (Persai) (“Persiani”)

Bibliografia Ritter 1828, p. 76; Runkel 1829, pp. 50–53; Bergk 1838, pp. 294–295; Meineke FCG I, p. 70; Meineke FCG II.1, pp. 315–321; Bailey 1840, pp. 25–28; Meineke 1847, pp. 112–114; Bothe 1855, pp. 105–107; Brentano 1871, p. 140 n. 2; Kock CAF I, pp. 181–184; Graf 1885, pp. 60–61, 69; Helm 1906, p. 188 n. 3; Zieliński 1931, p. 41; Norwood 1931, pp. 162–163; Körte 1938, col. 1987, 19–31; Colonna 1940–1941; Bignone 1942; Schmid 1946, pp. 105–106; Colonna 1947; Baldry 1953, pp. 56–57; Seeger–Weinreich 1953, p. 403; Edmonds 1957, pp. 252– 257; Langerbeck 1963, pp. 199–200; Giannini 1967, pp. 123–124; Geissler 1969, pp. 41–42; Kenner 1970, pp. 72–73; Ghidini Tortorelli 1976–1978, pp. 114–118; Carrièere 1979, pp. 268–269; Rehrenböck 1985, pp. 184–233; Rehrenböck 1988; Bertelli 1989, p. 109; Urios-Aparisi 1992, pp. 386–409; Urios-Aparisi 1996–1997, p. 81; Pellegrino 2000, pp. 111–126; Farioli 2001, pp. 104–115; Pellegrino 2006, pp. 185–190; Zimmermann 2011a, p. 737 Titolo La forma plurale del titolo allude ai componenti del coro del dramma (si vedano, in tal senso, le osservazioni di Sifakis 1971, p. 78). Commedie dal titolo analogo composero anche Epicarmo (Persai), Chionide (Persai ē Assyroi), Metagene (Thouriopersai) e Teopompo (Mēdos); per i dubbi sulla paternità della commedia vd. infra, ad fr. 134 K.–A. Contenuto I frammenti superstiti non conservano indicazioni utili alla ricostruzione della trama della commedia (largamente ipotetico appare il quadro proposto da Farioli 2001, p. 109 s., per la quale l’evocazione delle mirabolanti ricchezze orientali avrebbe indotto i cittadini ateniesi ad emigrare in Persia): i pochi elementi desumibili con certezza dai frammenti superstiti permettono di ritenere che la commedia contenesse la descrizione di un banchetto e quella di uno scenario di Schlaraffenland (cfr. rispettivamente frr. 134 e 137 K.–A.). La ricchezza, lo sfarzo e la vorace ghiottoneria dei Persiani sono topoi comici ricorrenti (cfr. p. es. Ar. Ach. 73–89 e Antiph. fr. 170 K.–A.), topoi che dovevano ricoprire un ruolo cruciale anche nei Thouriopersai di Metagene (sui quali si vedano, da ultimo, Pellegrino 2000, p. 134 s. e Orth 2014, pp. 408–415; della commedia restano solo quattro frammenti e nessuna indicazione precisa circa la trama; l’ambientazione alle rive del Crati [fr. 6, 1 K.–A.] rende però certo almeno il coinvolgimento di Turii, suggerito già dal titolo della commedia; più che plausibile immaginare che l’identificazione tra gli abitanti di Turii e i Persiani si fondasse, nella commedia, sulla fama di ricchezza e di dissolutezza associata, ad Atene, ai Persiani) e che affondano le radici nella fama di straordinaria abbondanza e disponibilità di mezzi di cui la Persia godeva nel mondo greco (i passi letterari, e più specificatamente comici, che illustrano il ruolo della Persia nell’immaginario greco sono raccolti e commentati da Pellegrino 2006, pp. 186–194; fondamentale, in chiave più generale, Miller 1997). A rigore, il titolo non implica necessariamente la collocazione dello Schlaraffenland in Persia:

Πέρσαι

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per parte della critica, anzi (a partire almeno da Schmid 1946, p. 105 n. 12, recentemente ripreso da Farioli 2001, p. 105 s.), esso alluderebbe a membri del coro rappresentati metaforicamente e per antonomasia come ghiottoni dediti a una vita di dissipazione (l’ipotesi è accolta anche da Baldry 1953, p. 57, e in Seeger– Weinreich 1953, p. 403). Tra chi ha invece ritenuto più probabile un’allusione diretta al contesto persiano, alcuni hanno immaginato un dramma afferente al filone ‘politico’, in cui la rappresentazione delle ricchezze persiane poteva essere posta in relazione con le velleità di espansione e di conquista ateniesi (così Ritter 1828, p. 76, e poi, tra gli altri, Runkel 1829, p. 50, e Langerbeck 1963, p. 50; ma a questa linea interpretativa fanno riferimento, sia pure con diverse sfumature, i principali editori dei frammenti comici: vd. Meineke FCG II.1, p. 316 s.; Bothe 1855, p. 106; Kock CAF I, p. 181; Edmonds 1957, p. 255 n. b); chi invece ha preferito ricondurre il dramma al filone comico ‘tradizionale’ ritiene che le ricchezze persiane potessero fornire, in un contesto completamente slegato dalla realtà politica ateniese, un paradigma generalmente utopico da contrapporre, in chiave carnevalesca, alla generale povertà ateniese (l’ipotesi, avanzata da Graf 1885, p. 69, è discussa da Kenner 1970, p. 72 s.; Ghidini Tortorelli 1976–1978, pp. 114–118; Rehrenböck 1985, p. 188; Bertelli 1989, p. 109; Pellegrino 2000, pp. 112–114, e Pellegrino 2006, pp. 185–190). Sulla base di precise corrispondenze tra il fr. 137 K.–A. e Ar. Plut. 804–814 (per le quali vd. infra, ad loc.), Ritter riteneva che i versi del frammento in questione fossero pronunciati da Pluto nell’ambito di un agone che lo vedeva contrapposto alla povertà. Contro questa ricostruzione, che pure ha generalmente ricevuto ampi consensi (l’ipotesi è stata ripresa e accolta, tra gli altri, da Meineke FCG II.1, p. 316 s.; Bothe 1855, p. 106; Kock CAF I, p. 183; Norwood 1931, p. 163 n. 1; Edmonds 1957, p. 255 n. b, e Ghidini Tortorelli 1976–1978, p. 116), si vedano però le osservazioni di Carrière, il quale, pur accogliendo come valido il parallelo con il passo del Pluto («manifestement le fragment de Phérécrate répond, par l’annonce d’un nouvel “âge d’or”, à une objection du même genre» [Carrière 1979, p. 269]), notava come analoghe corrispondenze siano individuabili anche con passi di Euripide (frr. 20 e 54 Kannicht) e di Platone (Resp. IV 420 e–422 a): i punti di contatto tra le due commedie sarebbero dunque dovuti alla trattazione, in entrambe, di tematiche più ampiamente comuni alla letteratura, non solo comica, della fine del V secolo e dell’inizio del secolo successivo più che a diretti ed esclusivi rapporti di dipendenza intertestuale. Sulla scorta di tali considerazioni, Rehrenböck 1985, p. 197 s., mettendo in rilievo la distanza cronologica che separa i Persai dal Pluto e escludendo un rapporto diretto tra i due poeti comici, evidenziava come il tema del Paese di Cuccagna fosse stato trattato da Ferecrate, oltre che nei Persai, nei Metallēs, riconoscendo nei passi citati da Carrière il riflesso del milieu sofistico contemporaneo. Datazione Per la datazione della commedia non disponiamo di elementi cronologici sicuri. La possibilità di una datazione alla seconda metà degli anni venti non mi pare adeguatamente sostenuta né dagli argomenti di Langerbeck 1963, p. 199, per il quale il contenuto della commedia rispecchierebbe le entu-

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Pherekrates

siastiche aspettative nutrite allora ad Atene in forza della spregiudicatezza delle contemporanee politiche imperialistiche («Die Πέρσαι gehören in die Zeit der trunkensten Siegeserwartungen Athens des durch Alkibiades systematisch aufgeputschten Demos. Die satirische Aktualität spielt ohne Zweifel die Hauptrolle. Zukunftserwartungen des Demos übersteigerten sich in Vorstellungen einer imperialistischen Allmacht Athens, die nur verdeutlicht werden konnte durch Vergleich mit dem traditionellen Land des Reichtums, dem Perserreich. Dann werden sich auch alle ökonomischen und wirtschaftlichen Schwierigkeiten der Gegenwart von selbst lösen»; il coinvolgimento di Alcibiade, che esordì sulla scena politica ateniese verso la fine degli anni venti, non si accorda bene, però, con il lasso temporale suggerito da Langerbeck per la datazione della commedia, ovvero gli anni tra il 425 e il 420 a.C.) né dalle analogie tra il fr. 138 K.–A. e il fr. 176 K.–A. dei Kolakēs di Eupoli, andati in scena alle Dionisie del 421 a.C. (l’ipotesi è stata avanzata, a vario titolo, da Muhl 1881, p. 85; Hoffmann 1910, p. 39 s., e, in termini particolarmente perentori, da Geissler 1969, p. 41: «Πέρσαι 2 ist eine notorische Eupolisnachahmung, wie ein Vergleich mit Fragment 17 der Κόλακες lehrt; der Nachahmer hat die Beschreibung des Stutzers, die er bei Eupolis vorfand, zugleich verbreitert und vergröbert. Die Πέρσαι gehören also hinter 421, das Jahr der Κόλακες»; contra vd. però Rehrenböck 1988, p. 53 s., e Napolitano 2012, p. 166 n. 426). La notizia, peraltro problematica, relativa al fatto che nei Persai Ferecrate avrebbe parodiato un verso dell’Elettra di Sofocle (cfr. infra ad fr. 140 K.–A.), d’altronde, non appare dirimente, sia perché la datazione dell’Elettra è incerta, sia perché la parodia potrebbe aver riguardato una tragedia messa in scena anche diversi anni addietro. Ad ogni modo, l’ordine cronologico che Ateneo dichiara di rispettare nella raccolta antologica dei passi relativi all’automatos bios colloca la messa in scena della commedia tra il 430 e il 415 a.C.; qualsiasi tentativo di ridurre ulteriormente l’arco temporale (a un lasso di tempo compreso tra il 425 e il 420 pensa ad esempio Sofia 2016, p. 121) sembra destinato a rimanere su un piano meramente ipotetico (le principali ipotesi di datazione della commedia sono discusse in Rehrenböck 1988, pp. 48–50; per una ricca bibliografia ragionata sulle ipotesi di datazione della commedia rimando inoltre a Pellegrino 2000, p. 112 n. 1. Non mi sembrano cogenti, d’altra parte, le osservazioni di Farioli 2001, p. 115, secondo la quale, contrariamente a quanto esplicitamente affermato da Ateneo, la citazione consecutiva delle due commedie di Ferecrate potrebbe essere stata determinata dalla comune paternità e non da ragioni cronologiche). Isolata, infine, la posizione di Ritter 1828, p. 73 s., il quale, nel contesto di un’esegesi complessiva della quale si dirà meglio più avanti, riteneva che i Persai fossero stati scritti a imitazione del Pluto da un anonimo comico di archaia (Sed quisquis ille Persarum scriptor fuit, haud dubie, ut ex fragmentis elegantissimis apparet, antiquae comoediae poetis annumerandus est, atque Aristophanis Plutum imitandam ille sibi proposuit; Aristophanem enim illius imitatorem esse tum per se parum verisimile videtur, tum propterea statui non potest, quod in largissima scholiorum collectione nullum huius rei indicium invenitur).

Πέρσαι (fr. 132)

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fr. 132 K.–A. (126 K.) τὸ παιδίον τὸ πολλαγόρασον κἀπὸ πολλῶν τηλιῶν lo schiavetto che molto compra e da molti banchi di fornai Poll. VII 15 (codd. FS, A) τὸν δὲ πολλὰ ὠνούμενον ἔξεστιν εἰπεῖν πολλαγόρασον, εἰ καὶ φαῦλον τοὔνομα, ἀλλ’ ὅτι Φερεκράτης εἴρηκεν ἐν Πέρσαις· τὸ — τηλιῶν chi fa molti acquisti si può chiamare pollagorasos, anche se è un termine basso, ma lo utilizza Ferecrate nei Persai: lo schiavetto — fornai

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Bibliografia Meineke 1827, p. 34; Runkel 1829, p. 53; Meineke FCG II.1, p. 320 s.; Meineke 1847, p. 113 s.; Bothe 1855, p. 107; Kock CAF I, p. 181 s.; Edmonds 1957, p. 252 s.; Rehrenböck 1985, p. 191; Urios-Aparisi 1992, p. 390; Storey 2011, p. 484 s. Contesto della citazione L’interesse lessicografico che ha determinato la citazione del frammento rende del tutto plausibile la forma τὸ πολλαγόρασον, malgrado i dubbi di Edmonds 1957, p. 252 s., e di Kaibel ap. K.–A. (non video cur noluerit poeta dicere quod commodius poterat τὸ πόλλ’ ἀγοράζον [PCG VII, p. 168]); in difesa del testo tràdito si vedano anche le osservazioni di Rehrenböck 1985, p. 191. Interpretazione Se il παιδίον in questione fosse uno schiavo, il frammento potrebbe alludere al topos comico del servo inviato per fare spese al mercato, per il quale vd. Urios-Aparisi 1992, p. 390. Il termine, tuttavia, in commedia come altrove, potrebbe indicare anche, più genericamente, un bambino o un figlio (vd. LSJ 9 s. v. παιδίον). 2 τὸ πολλαγόρασον Il composto, non attestato altrove, è costruito per analogia con gli appellativi in -σος ricavati dai verbi in -ζω: per la formazione si vedano Lobeck 1820, p. 436; Brugmann 1899 (per πολλαγόρασος vd. p. 183); Schwyzer 1939, p. 516, e Rehrenböck 1985, p. 191; sul frequente utilizzo di composti nelle commedie di Ferecrate vd. Quaglia 2003b, p. 264. τηλιῶν Le τηλίαι erano propriamente tavoli dai bordi rialzati usati, oltre che nel gioco dei dadi e per i combattimenti dei galli, per impastare il pane; per estensione il termine passa quindi ad indicare i banchi del mercato dei fornai, come notava già lo scoliasta al Pluto aristofaneo (Schol. ad Ar. Plut. 1037); su forma e funzione delle τηλίαι vd. Sonnino 1997, p. 50 s.

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Pherekrates

fr. 133 K.–A. (127 K.) ἐπὶ τηγάνοις καθίσανθ’ ὑφάπτειν τοῦ φλέω φλέω Meineke FCG II.1, p. 320: φλέως A

sedendo vicino ai tegami accende(re) il fuoco sotto al giunco Athen. VI p. 228 E τήγανον δέ […] εἴρηκεν ἐν μὲν Λήροις (μενδεροις Α, corr. Casaubon) Φερεκράτης οὕτως· (sequitur fr. 109). καὶ ἐν Πέρσαις ὁ αὐτός· ἐπὶ — φλέω il tēganon è citato anche nei Lēroi da Ferecrate come segue (segue fr. 109). Lo stesso poeta nei Persai dice: sedendo — giunco

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Bibliografia Runkel 1829, p. 50; Meineke FCG II.1, p. 320; Meineke 1847, p. 113; Bothe 1855, p. 107; Kock CAF I, p. 182; Edmonds 1957, p. 254 s.; Rehrenböck 1985, p. 192; Urios-Aparisi 1992, p. 391; Storey 2011, p. 484 s. Contesto della citazione

Cfr. supra ad fr. 109 K.–A.

Testo L’intervento di Meineke FCG II.1, p. 320 (φλέω per il tràdito φλέως; così già Schweighaeuser Athen. III [1802], p. 322: fortasse φλέω malles) restituisce una forma di genitivo parallela a quella tràdita dai manoscritti in Ar. Ran. 244 (ma sulla questione vd. Schweighaeuser Athen. III [1802], p. 322 s., e Rehrenböck 1985, p. 192). Non è necessario ritenere, con Bothe 1855, p. 107, che il tràdito φλέως sia da ricondurre a un originario φλέῳ, da interpretare come dativo mediale (Bothe stampa τῷ φλέῳ e traduce succende phleo). Interpretazione In mancanza del contesto di riferimento, il senso del frammento resta oscuro: secondo Edmonds 1957, p. 254 n. a, l’uso del verbo καθίζω presupporrebbe «a comic frying scene with the actors in the pan», secondo un procedimento metaforico analogo all’immagine del grande mortaio che pesta le città predisposto da Aristofane in Pac. 228–231 (l’immagine del fuoco potrebbe peraltro alludere all’azione di suscitare o accrescere collera, propria o altrui: vd. Taillardat 1965, pp. 186–194 [§§ 348–353]). La presenza dell’infinito, tuttavia, mi pare accordarsi con maggiore probabilità a un contesto diegetico (simile peraltro a quello dei versi della Pace evocati da Edmonds, versi che presuppongono un assetto scenico che non prevede la concreta presenza in scena di mortai, mentre qui, ove la ricostruzione di Edmonds cogliesse nel segno, si sarebbe invece costretti a immaginare in scena una o più padelle di grandi dimensioni); altrimenti, si potrà pensare, con Kock CAF I, p. 182, che l’infinito dipendesse a verbo iubendi. Per quanto concerne invece l’espressione ἐπὶ τηγάνοις καθίζω, se si esclude che l’immagine del sedersi su una padella accendendo contemporaneamente il fuoco

Πέρσαι (fr. 134)

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potesse indicare, per quanto per via di metafora, un’azione di carattere autolesionistico, bisognerà presupporre o che il verbo avesse qui non il più comune significato di ‘make to sit down, set’ ma quello di ‘set, place’ (vd. LSJ9 s. v. καθίζω I 2 e Urios-Aparisi 1992, p. 391) oppure che ἐπί sia da tradurre con ‘beside’ (vd. LSJ9 s. v. ἐπί B I 1; così Olson 2008, p. 35: ‘sitting beside tēgana and setting fire to the reed’). Secondo Urios-Aparisi 1992, p. 391, il frammento «could be a cook’s speech or someone in this function». τηγάνοις Cfr. supra ad fr. 109 K.–A. ὑφάπτειν Per la reggenza al genitivo del verbo (genitivo partitivo oppure dipendente dal preverbio) vd. Urios-Aparisi 1992, p. 396. τοῦ φλέω L’Erianthus ravennae ricorre in due distinti passi delle Rane: è ricordato insieme al cipero in Ran. 243 s. come pianta palustre, mentre il fr. 24 K.–A. (Amphiaraos) sembra contenere una comica allusione alle sue proprietà astringenti (vd. Pellegrino 2015, p. 51; sulle caratteristiche della pianta cfr. anche Theophr. Hist. Plant. IV 10, 6).

fr. 134 K.–A. (128 K.) στεφάνους τε πᾶσι κὠμφαλωτὰς χρυσίδας a tutti corone e chrysides d’oro ombelicate Athen. XI p. 502 A Φερεκράτης δὲ ἢ ὁ πεποιηκὼς τοὺς εἰς αὐτὸν ἀναφερομένους Πέρσας φησί· στεφάνους — χρυσίδας Ferecrate o l’autore dei Persai a lui attribuiti dice: a tutti — ombelicate

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Bibliografia Runkel 1829; Meineke FCG II.1; Meineke 1847; Bothe 1855; Kock CAF I; Colonna 1940–1941, p. 195; Gomme 1945, p. 105 n. 2; Edmonds 1957, p.  256 s.; Geisller 1969, p. 41 s.; Rehrenböck 1985, pp. 53 e 196 s., Rehrenböck 1988, pp. 50–54; Urios-Aparisi 1992, p. 388; Storey 2011 Contesto della citazione Il frammento viene citato in relazione alle diverse tipologie di phialai. Dubbi sulla paternità della commedia sono espressi da Ateneo, oltre che nel passo in questione, anche a XV p. 685 A e a III p. 78 D (ma è probabile che ai medesimi problemi di paternità facesse riferimento anche lo scoliasta al v. 362 delle Rane aristofanee: cfr. infra ad fr. 140 K.–A.), ma i frammenti e le testimonianze superstiti non ci consentono di delineare con chiarezza il contesto che dovette generare l’incerta attribuzione: l’ipotesi secondo la quale la posizione di Ateneo rifletterebbe la confusione generata dalla circolazione, accanto all’originale

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Pherekrates

di Ferecrate, di un rifacimento del dramma risalente al IV secolo (vd. Geissler 1969, p. 41 s.: l’ipotesi, formulata da Geissler già nella prima edizione della sua monografia, risalente al 1925, fu ripresa, tra gli altri, da Edmonds 1957, p. 257 n. b) è stata messa decisamente in dubbio da Colonna 1940–1941, p. 195, e da UriosAparisi 1992, p. 388. Non paiono dirimenti, d’altronde, le osservazioni di Gomme 1945, p. 105 n. 2, per il quale non era plausibile immaginare che Ferecrate avesse proposto, a pochi anni di distanza, una commedia molto simile, per temi e motivi, ai Metallēs: per quanto l’accostamento tra le due commedie operato da Ateneo nell’ambito della sezione dedicata alla fortuna dell’automatos bios nell’archaia lasci pochi dubbi sul fatto che entrambe dovessero afferire a una medesima tipologia, quella della commedia utopica, la trama di Metallēs e Persai non è ricostruibile se non su un piano puramente ipotetico, né è possibile ricostruire le circostanze, le modalità e gli obiettivi per cui tale topos veniva portato sulla scena nei due drammi, che, al di là della vicinanza tematica, avranno ben potuto distinguersi l’uno dall’altro in forza di impianti scenici nettamente diversi. D’altronde, anche qualora le due commedie fossero state, come è perfettamente possibile, «of the same tenor» (Gomme 1945, p. 105 n. 2), le argomentazioni svolte da Gomme risulterebbero non solo deboli, ma reversibili: secondo Rehrenböck, ad esempio (vd. Rehrenböck 1985, pp. 53 e 196 s., ripreso poi in Rehrenböck 1988, pp. 50–54), la contiguità tematica in un lasso cronologico ristretto potrebbe provare che i due drammi sarebbero stati composti da un unico poeta. Interpretazione Secondo Urios-Aparisi 1992, p.  392, il frammento sarebbe da riferirsi alla descrizione di un ricco banchetto, da localizzare forse in Persia. L’associazione tra corone e phialai (per la corrispondenza tra φιάλη e χρυσίς cfr. infra) potrebbe comunque ricondurre il verso a un momento simposiale o a un contesto religioso (una χρυσίς è donata da Trigeo a Ermes per la libagione propiziatoria che precede la liberazione di Pace a Ar. Pac. 423 ss.); φιάλαι e στέφανοι compaiono anche nell’elenco dei beni di lusso estorti alle città alleate dai demagoghi ateniesi di Ar. Vesp. 676 s. στεφάνους Sui vari utilizzi, nel mondo greco antico, delle corone (che potevano essere allestite con foglie e fiori, oppure nel caso dei cittadini più ricchi, forgiate a partire da metalli preziosi: vd. MacDowell 1971, p. 225) si veda Blech 1982 (spec. pp. 63–74 in relazione all’utilizzo nei simposi e pp. 269–312 per le attestazioni in contesti cultuali); per l’utilizzo delle corone nei simposi si veda anche Olson 2002, p. 217. κὠμφαλωτὰς χρυσίδας La φιάλη («a broad, stemless drinking- and libationbowl with a hollow central boss»: Olson 1998, p. 164; in Omero, invece, la parola indicava un grande calderone: cfr. Athen. XI p. 501 A) poteva essere realizzata, ad Atene, anche in oro (χρυσίς) o in argento (ἀργυρίς): cfr. p. es. Athen. XI p. 502 A–Β (Ἀθηναῖοι δὲ τὰς μὲν ἀργυρᾶς φιάλας ἀργυρίδας λέγουσι, χρυσίδας δὲ τὰς χρυσᾶς); Poll. VI 98; Hesych. χ 788 e χ 791 Hansen–Cunningham (ai quali rimando per la raccolta sistematica delle fonti nella tradizione lessicografica ed erudita); Suid. χ 570; Moer. χ 27 Hansen; per la ἀργυρίς cfr. inoltre supra ad fr. 134 K.–A.

Πέρσαι (fr. 135)

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La χρυσίς è oggetto ricorrente, in commedia: tra i vari paralleli generalmente citati (cfr. p. es. Cratin. fr. 132 K.–A., Hermipp. fr. 38 K.–A., Ar. Pac. 425), particolarmente interessante mi sembra il confronto con Ar. Ach. 73–75, dove agli ambasciatori ateniesi ricevuti alla corte persiana viene offerto ἐξ ὑαλίνων ἐκπωμάτων καὶ χρυσίδων / ἄκρατον οἶνον ἡδύν (la connessione tra χρυσίς e mondo persiano è sottolineata da Olson, che nel commento ai versi in questione notava: «archaeological evidence suggests that the form was well known to the Persian elite» [Olson 2002, p. 94]; sull’uso diffuso, in Persia, di vasellame in metalli preziosi e sulle influenze dei modelli persiani in ambito attico si veda Miller 1997, pp. 135–141). Sulla forma della coppa, designata tramite l’aggettivo ὡμφαλωτός, si vedano anche le osservazioni di Urios-Aparisi 1992, p. 392.

fr. 135 K.–A. (128 K.) οὗτος σύ, ποῖ τὴν ἀργυρίδα τηνδὶ φέρεις; Ehi tu! Dove porti questa argyris? Athen. XI p. 502 A–B Ἀθηναῖοι δὲ τὰς μὲν ἀργυρᾶς φιάλας ἀργυρίδας λέγουσι, χρυσίδας δὲ τὰς χρυσᾶς. τῆς δὲ ἀργυρίδος {φιάλης del. Meineke} Φερεκράτης μὲν ἐν Πέρσαις οὕτως μνημονεύει· οὗτος — φέρεις; gli Ateniesi chiamano argyrides le phialai d’argento, chrysides quelle d’oro […]. Ferecrate nei Persai menziona la argyris come segue: ehi tu! — argyris?

Metro Trimetro giambico

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Bibliografia Runkel 1829, p. 52; Meineke FCG II.1, p. 320; Meineke 1847, p. 113; Bothe 1855, p. 107; Meineke 1867, p. 231; Kock CAF I, p. 182; Edmonds 1957, p. 254 s.; Rehrenböck 1985, p. 194; Urios-Aparisi 1992, p. 393; Storey 2011, p. 484 s. Contesto della citazione Vd. supra ad fr. 134 K.–A. Per l’espunzione di φιάλης vd. Meineke 1867, p. 231. Interpretazione Il contesto del frammento non è ricostruibile; tuttavia, la rudezza della domanda (cfr. infra) e la preziosità dell’oggetto potrebbero indurre a collocare il verso all’interno del topos comico del furto realizzato a banchetto o a simposio (cfr. p. es. Eup. fr. 395 K.–A., forse proveniente dai Kolakes: vd. Napolitano 2012, pp. 28–30, e Olson 2014, p. 157 s.; sul motivo comico del furto parassitico a banchetto vd. Napolitano 2012, pp. 30–33). In alternativa, il verso potrebbe costituire un’allocuzione spazientita rivolta a un servo incapace di eseguire gli ordini a dovere.

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Pherekrates

οὗτος σύ, ποῖ […] φέρεις; Già Kassel e Austin, in calce al frammento, proponevano il parallelo con οὗτος σύ, ποῖ θεῖς frequentemente attestato in commedia (cfr. Ar. Ach. 564; Vesp. 854; Thesm. 224). Il pronome οὗτος come vocativo denota in genere un’apostrofe brusca e sgarbata e, in Aristofane, accompagna di solito una breve domanda o un ordine generato da sorpresa, indignazione o impazienza (sulle varie possibili sfumature del colloquiale οὗτος, accompagnato o meno da σύ, vd. Stevens 1976, p. 37 [= Collard 2018, p. 86]; Moorhouse 1982, p. 31; Dickey 1996, pp. 154–158; López Eire 1996, p. 112; Collard 2005, p. 363, e Olson 2016, pp. 159 s. e 250). L’omissione dell’interiezione ὦ e l’utilizzo del pronome personale di seconda persona rendono la richiesta particolarmente aspra e scortese («this abruptness is another indication that the word was used primarily to get the addressee to turn around» [Dickey 1996, p. 154]). ἀργυρίς La ἀργυρίς è una φιάλη realizzata in argento; le attestazioni erudite e lessicografiche del termine (in parte già citate in relazione alla χρυσίς: cfr. supra ad fr. 134 K.–A.) sono raccolte da Valente 2012, p. 108, in calce a Tim. Soph. α 66.

fr. 136 Κ.–A. ἀποκυβιστᾷς τὴν δόσιν davanti al dono fai marcia indietro Phot. (z) α 2533 Theodoridis ἀποκυβιστᾶν· οἷον ἀποπηδᾶν καὶ στρέφεσθαι, οἱ γὰρ κυβιστῶντες στρέφονται, ἢ ἀπαρνεῖσθαι (ἀπαρνεύειν Conti Bizzarro 1986–1987, p. 88). Φερεκράτης Πέρσαις· ἀποκυβιστᾷς — δόσιν, οἷον ἀποπεδᾷς καὶ ἀπαρνῇ (ἀπαρνεύεις Conti Bizzarro 1986–1987, p. 88) τὴν δόσιν apokybistān: come balzar via e volgersi indietro, infatti oi kybistōntes si volgono indietro, oppure rifiutare. Ferecrate nei Persai: davanti — indietro, come a dire balzi via e rifiuti il dono

Metro Incerto (trimetro giambico?)

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Bibliografia Rehrenböck 1985, p. 231 s.; Conti Bizzarro 1986–1987, p. 88; UriosAparisi 1992, p. 394 s.; Storey 2011, p. 484 s. Contesto della citazione Il frammento è tràdito dal Fozio zavordense; gli interventi proposti da Conti Bizzarro sul testo di Fozio mirano a restaurare un glossema sinonimico rispetto al lemma ἀποκυβιστᾶν (dal momento che «κυβιστάω e ἀρνεύω risultano interfungibili», anche ἀπαρνεύειν finirebbe per essere sovrapponibile a ἀποκυβιστᾶν: vd. Conti Bizzarro 1986–1987, p. 88; contra Urios-Aparisi 1992, p. 394 s.).

Πέρσαι (fr. 137)

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Interpretazione Il frammento di Ferecrate testimonia l’unica occorrenza superstite del verbo ἀποκυβιστᾶν usato transitivamente. L’interpretamentum di Fozio chiarisce l’uso metaforico del verbo: si tratta del gesto di chi «fa una capriola dinanzi a un dono, gli volta le spalle, in altre parole lo rifiuta» (Conti Bizzarro 1986–1987, p. 88, per il quale il frammento costituirebbe una ripresa parodica di materiale epico, anche in relazione all’aulico δόσις [p. 89]; per il significato proprio del verbo si vedano i materiali lessicografici raccolti e commentati da Rehrenböck 1985, p. 231 s.).

fr. 137 K.–A. (130 K.)

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τίς δ’ ἔσθ’ ἡμῖν τῶν σῶν ἀροτῶν ἢ ζυγοποιῶν ἔτι χρεία, ἢ δρεπανουργῶν ἢ χαλκοτύπων ἢ σπέρματος ἢ χαρακισμοῦ; αὐτόματοι γὰρ διὰ τῶν τριόδων ποταμοὶ λιπαροῖς ἐπιπάστοις ζωμοῦ μέλανος καὶ Ἀχιλλείοις μάζαις κοχυδοῦντες ἐπιβλὺξ ἀπὸ τῶν πηγῶν τῶν τοῦ Πλούτου ῥεύσονται, σφῶν ἀρύτεσθαι. ὁ Ζεὺς δ’ ὕων οἴνῳ καπνίᾳ κατὰ τοῦ κεράμου βαλανεύσει, ἀπὸ τῶν δὲ τεγῶν ὀχετοὶ βοτρύων μετὰ ναστίσκων πολυτύρων ὀχετεύσονται θερμῷ σὺν ἔτνει καὶ λειριοπολφανεμώναις. τὰ δὲ δὴ δένδρη τἀν τοῖς ὄρεσιν χορδαῖς ὀπταῖς ἐριφείοις φυλλοροήσει, καὶ τευθιδίοις ἁπαλοῖσι κίχλαις τ’ ἀναβράστοις  

1–2 om. CE 3 γὰρ om. CE, Eust. 4 μάζαις CE, Eust.: μάχαις A 5 ῥεύσονται CE: -ας A σφῶν A: σφῶν αὐτῶν CE 7 τῶν δὲ Mus.: τῶνδε A: δὲ τῶν CE μετ’ ἀμητίσκων καὶ ACE (ex Telecl. fr. 1, 12) ναστίσκων CE: νατ- A 8 ὀχετεύσονται CE: -ας A θερμῷ Villebrune: -οὶ ACE καὶ λειρ. om. CE 9 δὴ Epimer.: om. Athen., Eust. δένδρα Epimer. ὄρεσιν Athen. A, -ι CE, Eust.: ὄρνεσι Epimer. 10 ἀπαλοῖσι Dobree 1843, II, p. 313: -ς ACE

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Che bisogno abbiamo ormai dei tuoi aratori o dei fabbricanti di gioghi, o di fabbricanti di falci, o di fabbri, o di semi, o di un palo per vigneti? Senza alcuno sforzo da parte nostra, infatti, per gli incroci delle strade fiumi di brodo nero fluendo in abbondanza e a fiotti con unte schiacciatine[e con focacce di prima scelta dalle sorgenti di Pluto scorreranno così che vi si possa attingere. Poi Zeus facendo piovere farà colare dal tetto vino affumicato e dalle tegole ruscelli di grappoli d’uva affogati nel vino insieme a focaccette colme di [formaggio fluiranno con zuppa calda e pasticci di anemoni e gigli. E inoltre gli alberi sui monti saranno carichi di salsicce di capretto arrostite e anche di teneri calamaretti e tordi bolliti

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[1–10] Athen. VI p. 269 C (post fr. 113 K.–A.) κἀν τοῖς Πέρσαις δέ φησιν· τίς — ἀναβράστοις E nei Persai (scil. Ferecrate) dice: che — bolliti [3–4] Eust. in Il. p. 1095, 18 κωμικῶς (λέγεται) τονθολυγεῖν καὶ κοχυδεῖν, ὡς αἱ παρὰ τῷ Ἀθηναίῳ χρήσεις δηλοῦσιν, οἷον αὐτόματοι — ἐπιβλύξ in commedia si usano anche tontholygein e kochydein, come mostrano le occorrenze in Ateneo: senza alcuno sforzo — in abbondanza [9–10] Eust. in Od. p. 1433, 48 δένδρεα δένδρη παρὰ τῷ Ἀθηναίῳ ἐν τῷ τὰ — τευθιδίοις, καὶ ἑξῆς in Ateneo troviamo dendrē per dendrea, nel passo e inoltre gli alberi — calamaretti, con quel che segue [9] Epimer. Hom. alphab. μ 64 (Anecd. Oxon. I p. 277, 13) παρὰ Ποσιδίππῳ (fr. 37 K.–A.) τὸ τῆς ἐλαίας δένδρος, και πάλιν παρὰ Ἀριστοφάνει τὰ — ὄρνεσι in Posidippo si trova l’espressione to tēs elaias dendros e di nuovo in Aristofane: gli alberi — monti

Metro Tetrametro anapestico catalettico

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Bibliografia Casaubon 1600, p. 291; Casaubon 1621, coll. 463–464; Heringa 1749, p. 176; Schweighaeuser Athen. III (1802), pp. 586–589; Ritter 1828, pp. 73–75; Runkel 1829, pp. 50–52; Bergk 1838, pp. 294–295; Meineke FCG II.1, pp. 315–318; Meineke 1847, pp. 112–113; Bothe 1855, pp. 105–106; Kock CAF I, pp. 182–183; Blaydes 1890, p. 22; Blaydes 1996, p. 23; Norwood 1931, p. 163; Whittaker 1935, p. 187; Schmid 1946, p. 105; Baldry 1953, pp. 56–57; Edmonds 1957, pp. 254–255; Gelzer 1960, p. 185; Langerbeck 1963, p. 199; Rehrenböck 1985, pp. 195–206;

Πέρσαι (fr. 137)

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Urios-Aparisi 1992, pp. 395–403; Ceccarelli 1996, pp. 126–127; Pellegrino 2000, pp. 111–126; Farioli 2001, pp. 108–111; Melero Bellido 2006; Pellegrino 2006, pp. 183–202; Olson 2007, pp. 103–105; Storey 2011, pp. 484–487 Contesto della citazione Nei Deipnosofisti la citazione del frammento cade nella sezione dedicata all’archaios bios nella commedia antica: sulla breve antologia allestita da Ateneo (che costituisce anche la fonte di Eustazio per il frammento) si veda supra ad fr. 113 K.–A. Non sono sicuro del fatto che nell’errata attribuzione del v. 9 ad Aristofane negli Epimerismi sia da ravvisare un riflesso dei dubbi relativi alla paternità dei Persai (così, invece, Pellegrino 2000, p. 112 n. 1), potendosi immaginare, in alternativa, che l’anonimo compilatore abbia confuso i due comici, o abbia erroneamente assegnato ad Aristofane un verso comico di cui ignorava l’autore. Testo Il testo, così come tràdito dalle fonti, non pone, nel complesso, particolari problemi formali: per un’analisi puntuale delle varianti di tradizione e degli interventi proposti dagli studiosi moderni rimando comunque a Rehrenböck 1985, p. 195 s.; ottimo, inoltre, tanto per le questioni di ordine testuale quanto per gli aspetti di contenuto, il commento allestito da Pellegrino 2000, pp. 111–126. Per quanto concerne in particolare il v. 7, è probabile che la forma ametrica trasmessa dalla tradizione di Ateneo (μετ’ ἀμητίσκων καὶ ναστίσκων vel νατίσκων) si sia determinata per via della penetrazione a testo di una variante, o di una glossa, derivante da Telecl. fr. 1, 12 K.–A., ὀπταὶ δὲ κίχλαι μετ᾽ ἀμητίσκων εἰς τὸν φάρυγ᾽ εἰσεπέτοντο, citato da Ateneo immediatamente prima dei due frammenti di Ferecrate (frr. 113 e 137 K.–A.). Così già Heringa 1749, p. 176: Verba illa καὶ νασίσκων exercuerunt Casaubonum aliosque; sed non esse ista a Poeta metrum evincit: et versus et sententia constabunt si spuriis illis eiectis legas, ἀπὸ τῶν δὲ τεγῶν ὄχετοι (sic) βοτρύων μετ᾽ ἀμητίσκων πολυτύρων / ὀχετεύσονται θερμοὶ σὺν ἔτνει. Si iam quaerat quis, undenam ea irrepserint, certi nihil quod respondeam habeo: suspicor tamen ex varia lectione orta, quod nempe nonnulli legebant, μετὰ ναστίσκων πολυτύρων, vel simile quid. Interpretazione Il frammento, caratterizzato da uno stile elevato (frequente il ricorso a figure retoriche) e da una scelta lessicale particolarmente ricercata, viene generalmente ricondotto a un contesto parabatico (così Schmid 1946, p. 105) o agonale: quest’ultima ipotesi, risalente almeno a Whittaker 1935, p. 187, è accolta anche da Kassel e Austin, i quali, nella scia di Gelzer 1960, p. 185, riconoscono nel τῶν σῶν di v. 1 un certaminis indicium (PCG VII, p. 170). Sulla base del confronto con Ar. Plut. 804–814, Ritter 1828, pp. 73–75, immaginava che i versi in questione costituissero la piccata risposta di un anonimo personaggio che, nella commedia, doveva contrapporsi alla Povertà personificata (una tesi che ha avuto qualche fortuna: vd. ad esempio Kock CAF I, p. 183): Alloquitur aliquis, ut probabiliter coniicere licet, Πενίαν, quae cum haec fere dixisset, per ipsam aratores, iugorum falciumque artifices, fabros aerarios atque frumenti satores ad laborem sustinendum impelli, quod secus futurum esset, si Plutus se omnibus dedisset, haec igitur cum Paupertas dixisset: eius adversarius respondet: quid nobis opus est aratoribus

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tuis? con quel che segue, a parafrasi del fr. 137 K.–A. La presenza del pronome di prima persona plurale all’inizio del frammento (ἡμῖν) sembra far riferimento ad una collettività che non è possibile determinare con certezza (un gruppo di personaggi secondo Rehrenböck 1985, p. 197; forse il coro, secondo Urios-Aparisi 1992, p. 396), e che però sembra contrapporsi, nel suo rigetto delle fatiche legate al lavoro nei campi, a un interlocutore che, appena prima, doveva essersi prodotto in un elogio dell’agricoltura (così Olson 2007, p. 103: «Someone has just praised agriculture and the craftsmen that make it possible (1–2). But getting food that way involves hard work, and the speaker of this fragment describes instead a world of spontaneous natural abundance»). Nel complesso, il frammento si può suddividere retoricamente in due blocchi di testo (sull’articolazione retorica del frammento vd. Urios-Aparisi 1992, p. 395 s.): il primo, che include i primi due versi, è formato da un’accumulazione comica inerente alla coltivazione dei campi (si vedano, in tal senso, le osservazioni di Ceccarelli 1996, p. 126 s., la quale vede attivo, nella predilezione per il mondo agricolo, un «lien polémique avec la politique thalassocratique athénienne» in chiave di «revalorisation des laboureurs», in una prospettiva, dunque, non lontana da quella della Pace e dei Georgoi), inserita in una proposizione interrogativa diretta, che termina con un brusco passaggio dalle persone (i mestieri riferibili all’agricoltura) agli strumenti (sementi e pali). La seconda parte del frammento (vv. 3–10), invece, è occupata da una lunga, dettagliata descrizione del Paese di Cuccagna, che si muove, diversamente da quanto avviene nel frammento omologo dei Metallēs (vd. supra ad fr. 113, 28 s. K.–A.) esclusivamente nell’ambito dei piaceri di ordine gastronomico, senza alcun riferimento alla sfera della sessualità (sull’intreccio tra le due sfere nei frammenti comici di contenuto utopico trovo buone osservazioni in Melero Bellido 2006). 1 τίς […] χρεία; Il verso è caratterizzato da un ritmo sostenuto, impresso dalle tre sequenze spondaiche iniziali. La tessitura retorica ed espressiva è particolarmente raffinata: l’iperbato τίς … χρεία incornicia il verso, costruito attraverso la giustapposizione del pronome e dell’aggettivo personale (ἡμῖν … σῶν) e dall’utilizzo dei termini rari ἀρότης e ζυγοποιός (cfr. infra). ἀροτῶν Il termine, non attestato altrove in commedia, rispecchia la ricercatezza stilistica che caratterizza l’intero passo: altrove viene infatti utilizzato in senso metaforico in contesti poetici stilisticamente elaborati e solenni (cfr. p. es. Pind. Nem. 6, 32 Πιερίδων ἀρόταις e Call. fr. 572 Pf. ἀρότας κύματος). ζυγοποιῶν Il sostantivo è uno hapax, ma nella prima versione del Pluto di Aristofane è attestato il verbo ζυγοποιεῖν (fr. 464 K.–A.). ἔτι l’avverbio suggerisce che nella commedia «esisteva un punto di frattura tra un prima – la vita consueta degli uomini – e un dopo – il Paese di Cuccagna» (Farioli 2001, p. 110). χρεία Nel Pluto la Povertà si proclama insieme a χρεία artefice dello sviluppo della tecnica manuale (Ar. Plut. 532–534 έγὼ γὰρ / τὸν χειροτέχνην ὥσπερ δέσποιν’ ἐπαναγκάζουσα κάθημαι / διὰ τὴν χρείαν καὶ τὴν πενίαν ζητεῖν ὁπόθεν βίον ἕξει). Più in generale, sul topos della necessità che insegna a diventare saggi

Πέρσαι (fr. 137)

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si veda Urios-Aparisi 1992, p. 396 s. (con esempi comici e tragici) e Pellegrino 2000, p. 196. 2 ἢ δρεπανουργῶν ἢ χαλκοτύπων La giustapposizione di due sostantivi quadrisillabi sostiene e amplifica l’effetto dell’attacco anapestico. Il termine δρεπανουργός indicherà più verosimilmente un fabbro specializzato nella fabbricazione di attrezzi agricoli (vd. Blümner 1886, p. 363; Baldry 1953, p. 56 n. 3, e Rehrenböck 1985, p. 197; così, d’altronde, già Meineke FCG II.1, p. 316: ‘artifex falcium’, e Bothe 1855, p. 106: ‘falcarius’) e non un fabbro armaiolo (così LSJ9 s. v. δρεπανουργός): in questa direzione spinge, oltre al contesto agricolo dell’occorrenza in Ferecrate, anche l’attestazione in Ar. Pac. 548, dove il δρεπανουργός (‘sickle-maker’: Olson 1998, p. 189) rappresenta il doppio antitetico del fabbricante di lance (δορυξός). χαρακισμοῦ Il sostantivo è uno hapax, generalmente interpretato come ‘steccato’ (così, ad esempio, Bothe 1855, p. 106; vd. anche LSJ9 s. v. χαρακισμός, ‘palisading’, ‘fencing’) o come sinonimo di χάραξ, ‘palo di sostegno’ per viti (Pellegrino 2000, p. 117; piuttosto numerose sono le attestazioni di χάραξ in contesti comici: cfr. p. es. Ar. Ach. 986 e 1178; Vesp. 1201 s. e Pac. 1263; nelle Vespe il termine ricorre in contesto parabatico in un’espressione proverbiale utilizzata da Aristofane per chiarire i rapporti con Cleone: per l’esegesi del passo si veda Totaro 2000, pp. 179–195); nel primo caso sarebbe da cogliere un’allusione al topos utopico (anche comico) dell’abolizione della proprietà privata (così Heberlein 1980, p. 20; sul motivo comico e filosofico dell’utopica abolizione della proprietà privata rimando alla bibliografia raccolta da Pellegrino 2000, p. 117 s.), mentre nel secondo caso il sostantivo alluderebbe alla viticultura. Quest’ultima possibilità mi pare preferibile per due ordini di motivi: da un punto di vista stilistico l’accumulazione dei mestieri sarebbe interrotta da una coppia di sostantivi che allude metonimicamente a due pratiche agricole (coltivazione e viticultura), mentre da un punto di vista contenutistico all’inutilità della semente e del palo per la vite corrisponderebbe, poco più avanti, la possibilità di avere senza sforzo e senza limitazione farinacei (v. 4 ss.) e prodotti viticoli (v. 6 s.). 3 ἐπιπάστοις Al v. 1089 dei Cavalieri gli ἐπίπαστα (prodotti da forno serviti in accompagnamento al vino e conditi con salse o passato di legumi: cfr. Schol. ad Ar. Eq. 103a Jones; vd. anche Urios-Aparisi 1992, p. 397 s., e Pellegrino 2000, p. 118) costituiscono una leccornia da porre in relazione con il mondo persiano: quando, grazie al Salsicciaio, Demo giudicherà le cause ad Ecbatana, lo farà λείχων ἐπίπαστα. διὰ τῶν τριόδων Sul nesso, sinistro, che lega le τρίοδοι al mondo infero vd. Melero Bellido 2006, pp. 137–139, nel contesto di una lettura complessiva del frammento che, sottolineando il carattere straniante, ove non tout court assurdo, del quadro utopico che vi è configurato (un quadro in relazione al quale si parla, a p. 141, di «naturaleza […] subvertida»), insiste a lungo sulla categoria di parodia, tanto in relazione alle commedie di contenuto utopico quanto rispetto alle contemporanee idee sofistiche in tema di religione, fino all’efficace sintesi di p. 144:

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«los Persas de Ferécrate se burlaria tanto de las representaciones tradicionales y cómicas de la utopía, como de su contropartida ideológica, producida por algunos intelectuales de la época, sobre la religión como un instrumento beneficioso para la humanidad, en cuanto legitimadora y motor del πόνος». 4 ζωμοῦ μέλανος Sul brodo nero cfr. supra ad fr. 113, 3 K.–A. Ἀχιλλείοις μάζαις Le ‘focacce di Achille’ preparate con orzo di prima qualità (cfr. Teophr. Hist. Plant. VIII.10, 2 e Athen. III p. 114 EF), forse importato dal Ponto Eusino, come ipotizzava Pearson 1917, II, p. 190, sulla base della menzione delle Ἀχίλλειοι μᾶζαι in un passo degli Sciti di Sofocle [fr. 551 R.]). Si trattava, verosimilmente, di un prodotto da forno di pregio particolare (oltre che dotato di presunte proprietà medicinali: cfr. Hipp. Morb. III.17), come lascia pensare il fatto che fossero servite a chi usufruiva del diritto onorario di ospitalità nel Pritaneo (cfr. Schol. ad Ar. Eq. 819b Jones, a glossa di un passo nel quale il Salsicciaio è accusato di utilizzare briciole di Ἀχίλλειοι μᾶζαι per pulirsi le mani: vd. Wilamowitz 1927b, p. 298; cfr. anche Suid. α 4697); secondo Pearson 1917, II, p. 191, invece, il ‘dolce di Achille’ «was honoured as a survival of the primitive diet rather than prized as a luxury», il che aiuterebbe a spiegare Anecd. Bekk. I, p. 474, 14 ᾽Αχίλλειοι κριθαί· αἱ εὐτελεῖς. κοχυδοῦντες Per il significato di κοχυδεῖν cfr. Hesych. κ 3885 κοχυδεῖν· ὑπερχέειν. Secondo Frisk (GEW I, p. 937) e Chantraine (DELG II, p. 575) il verbo costituirebbe una forma reduplicata con valore intensivo dell’avverbio χύδην, ma contra si vedano le osservazioni di Beekes 2011, p. 765 s. («reduplication from an adverb seems very strange in Greek»). ἐπιβλύξ Nella traduzione seguo l’interpretazione proposta da Tichy 1983, p. 141, e accolta da Rehrenböck 1985, p. 201, che connetteva l’avverbio a (ἐπι) βλύζειν, ‘zampillare’ (sulla stessa linea anche Urios-Aparisi 1992, p. 398, e Pellegrino 2000, p. 120). Il lemma ricorre in Esichio (Hesych. ε 4657 Schmidt = 4644 Latte), ove al posto del tràdito ἐπίβληξ· συννεφής si accolga l’intervento di Latte, ἐπιβλύξ· συνεχής (già Lobeck 1837, p. 105 n. 38, proponeva ἐπιβλύξ· συνεχῶς sulla scorta di Hesych. β 476 βλίξ· συνεχῶς; in difesa del testo tràdito Kaibel ap. K.–A. [PCG VII, p. 170, ad loc.] segnalava però un ulteriore passo esichiano: ε 4640 ἐπιβλάς· συννεφὲς νιφετῷ). 5 Πλούτου Il dio della ricchezza, oltre a costituire il fulcro della vicenda comica dei Pluti di Cratino e del Pluto di Aristofane, è citato a Ar. Thesm. 299; Amph. fr. 23, 1 K.–A. (Kouris), dove si allude al topos della cecità del dio (per il quale vd. Papachrysostomou 2016, p. 153 s.), e forse anche nei Metallēs di Ferecrate (fr. 113, 1 K.–A.: vd. supra, ad loc.); sulla presenza di Pluto in commedia si vedano anche le osservazioni di Newiger 1957, pp. 165–167, e di MacDowell 1995, pp. 329–331. Diversamente da quanto sostenuto da Rehrenböck 1985, p. 201 (accolto anche da Pellegrino 2000, p. 120 s.), contenuto e prerogative tematiche del frammento non mi sembrano poter suggerire, qui, una identità tra Pluto e Plutone: anche se una certa sovrapposizione tra le due divinità è attestata occasionalmente a partire già dal V secolo (sul culto di Pluto nel V secolo si vedano i materiali e la bibliografia

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raccolti da Austin–Olson 2004, p. 151 s. [ad Ar. Thesm. 299]), il solo confronto con lo scenario oltretombale che fa da sfondo al citato frammento dei Metallēs mi sembra argomento troppo debole per sostenere tale ipotesi, in relazione, peraltro, a un contesto, quello presupposto dal frammento qui in questione, al quale, ove si eccettui, forse, il coinvolgimento delle τρίοδοι (cfr. supra ad 3), sembrano in buona sostanza estranei riferimenti all’Ade. σφῶν ἀρύτεσθαι Infinito epesegetico (Olson 2007, p. 104). Per la dipendenza del genitivo dal verbo ἀρύτειν si vedano gli esempi raccolti da van Leeuwen 1898, p. 54 (ad Ar. Nub. 272). Il pronome σφῶν può essere interpretato come una forma anaforica da riferire a πηγῶν o come riflessivo indiretto relativo al ποταμοί di v. 3 (per le due possibilità si vedano rispettivamente Carrière 1979, p. 269, e Rehrenböck 1985, p. 201). 6 ὁ Ζεὺς δ᾽ ὕων L’uso personale del verbo ὕειν potrebbe essere funzionale a uno scherzo comico determinato dal verbo βαλανεύω (cfr. infra). Tale uso, riflesso di una concezione religiosa arcaica, è attestato in Omero (cfr. p. es. Il. XII 25 e Od. XIV 457), in Esiodo (Op. 552, dove il soggetto di ὕω è, eccezionalmente, ἀήρ: vd. West 1978, p. 297), nel celebre incipit del fr. 338 V di Alceo, ma anche in commedia: cfr. Cratin. fr. 131 K.–A. (Nomoi) ὁ δὲ Ζεὺς ὀσταφίσιν ὕσει τάχα, ma anche Ar. Nub. 368 s. (diverso il caso di Nicopho fr. 21, 1–2 K.–A., dove νείφω, ψακάζω e ὕω sono usati impersonalmente). οἴνῳ καπνίᾳ Il vino καπνίας (menzionato, in commedia, anche in Plat. Com. fr. 274 K.–A. e Anax. 42, 70 s. K.–A.) prendeva il nome dal colore particolarmente scuro dei chicchi d’uva da cui era prodotto, o forse dal suo peculiare sapore, ottenuto tramite affumicatura (le due differenti possibili origini del nome sono documentate rispettivamente in Theophr. Hist. Plant. II 3, 2 e Arst. Meteor. IV 10 388 b 5–8; i passi antichi sono raccolti e discussi da García Soler 1999, p. 397 s., e da Pellegrino 2000, p. 122 s.; limitatamente alla connessione con il processo di affumicatura vd. anche Millis 2015, p. 237). Sembra far riferimento a entrambe le possibilità anche Hesych. κ 716 (Καπνίας· Ἐκφαντίδης ὁ τῆς κωμῳδίας ποιητὴς Καπνίας ἐπεκαλεῖτο διὰ τὸ μηδὲν λαμπρὸν γράφειν [Ecphant. test. 5 K.–A.]. καὶ οἶνος δὲ καπνίας λέγεται ὁ κεκαπνισμένος. καὶ κάπνιος ἄμπελος ἡ μέλαινα). κατὰ τοῦ κεράμου La sineddoche (κέραμος per ‘tetto’) è attestata, in commedia, anche in Aristofane (cfr. Nub. 1127 e fr. 363, 2 K.–A.; vd. Pellegrino 2000, p. 122). L’espressione viene generalmente interpretata o come equivalente a ‘sul tetto (di casa)’ (così, tra gli altri, Bothe 1855, p. 106 [domum impluens]; Zieliński 1931, p. 41 [‘auf die Ziegel der Dächer’]; Edmonds 1957, p. 255 [‘And the Sky-God will douse the tiles of our house’]; Langerbeck 1963, p. 199 [‘auf die Dachziegel unserer Häuser’]; Carrière 1979, p. 268 [‘Zeus baignera nos tuiles’], e Storey 2011, p. 487 [‘Zeus will bathe the roof tiles’]) oppure ‘giù dal tetto’ (si vedano, ad esempio, Kock CAF I, p. 183 [de tecto aedium], e Rehrenböck 1985, pp. 202 e 233 [‘vom Dach herab’]). In favore della seconda ipotesi mi sembrano ragionevoli le osservazioni di Pellegrino 2000, p. 123 (vd. poi anche Pellegrino 2014, pp. 30–37), per il quale «questa interpretazione sembra […] più congruente dal punto di vista logico […]:

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Zeus farebbe piovere vino fumoso […] sul tetto delle case, sì da determinare il successivo grondare dalle tegole […] di ruscelli di grappoli d’uva». In altra sede, tuttavia, Pellegrino ha proposto, in alternativa, di considerare κέραμος come un’allusione ai πίθοι da cui Zeus versa gioie e disgrazie per gli uomini (cfr. Il. XXIV 525–533): «A me pare dunque possibile che Ferecrate, sul fondamento di questa particolare valenza semantica di κέραμος (“terraglia”, e, più specificamente, “vaso di terracotta”), abbia ‘carnevalescamente’ ribaltato la dolente, pessimistica immagine dei πίθοι di memoria omerica, proponendo un utopico scenario di opulenza in cui, per la gioia del lontano popolo persiano, Zeus avrebbe fatto piovere vino fumoso, versandolo giù dal suo orcio (κατὰ τοῦ κεράμου)» (Pellegrino 2006, p. 198). βαλανεύσει Il verbo indica l’azione di ‘fair couler’ (Taillardat 1965, p. 96 n. 4) come in Ar. Pac. 1103 (cfr. il relativo scolio [1103b Holwerda]). Secondo Pellegrino 2000, p. 122 s., la scelta lessicale potrebbe veicolare una degradazione comica di Zeus in virtù della corradicalità tra βαλανεύειν e il sostantivo βαλανεύς: «degradare la somma divinità preposta al controllo della pioggia […] al ruolo di un semplice, volgare ‘bagnino’ […] avrà […] verosimilmente prodotto un irresistibile effetto comico» (Pellegrino 2000, p. 122 s.: un’idea, del tutto convincente, che ha trovato ulteriore sviluppo in Melero Bellido 2006, pp. 139–141). 7–8 ὀχετοὶ βοτρύων […] ὀχετεύσονται La figura etimologica è costruita su derivativi del verbo ὀχέω (vd. Beekes 2011, p. 1136 s.); in un analogo contesto di Paese di Cuccagna ὀχετός è inoltre attestato in Telecl. fr. 1, 9 K.–A. (vd. Bagordo 2013, p. 67). I torrenti di uva che scendono dal tetto fanno probabilmente riferimento all’usanza di conservare l’uva da tavola affogata nel vino, attestata in due frammenti comici (Pherecr. fr. 158, 1 K.–A., per il quale cfr. infra, e Eub. fr. 48, 1 K.–A.), entrambi citati da Ateneo (XIV p. 653 E). Più in generale, sul valore e sull’importanza dell’uva da tavola nell’alimentazione ateniese si veda Pellegrino 2000, p. 180. 7 ναστίσκων πολυτύρων ναστίσκος è un diminutivo (non attestato altrove) di ναστός, un prodotto da forno per il quale cfr. supra, ad fr. 113, 5. 8 θερμῷ σὺν ἔτνει Sull’ἔτνος vd. Pellegrino 2013, p. 68: si tratta di un piatto tradizionale ateniese, realizzato a partire da un passato di legumi citato frequentemente da Aristofane (cfr. p. es. Ach. 245 s.; Av. 78; Lys. 1061; Eccl. 845; Ran. 63; secondo Henderson 1991, p. 145, in alcuni dei passi aristofanei la menzione dell’alimento potrebbe nascondere un’allusione oscena) e più in generale in commedia (cfr. p. es. Cratet. fr. 11, 1 K.–A. e vd. Perrone 2019, p. 89; Call. Com. fr. 26 K.–A.; Nicoph. fr. 21, 2 K.–A.). Sulla differenza tra ἀθάρη (piatto di cereali) e ἔτνος vd. supra ad fr. 113, 3. λειριοπολφανεμώναις Il conio ferecrateo, di difficile interpretazione, potrebbe far riferimento a un «compound of three things, lilies, a sort of rice pudding or macaroni, and anemones» (Edmonds 1957, p. 257 n. d); per Olson 2007, p. 105, il composto metterebbe insieme «fancy cakes of a perhaps imaginary kind». Il composto, in effetti, è assemblato a partire da tre termini: il primo sembra far riferimento al fiore del giglio (λείριον), oppure, secondo Meineke FCG II.1, p. 318

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(ac probabile est etiam λείριον mazae nomen fuisse; ma contra vd. K.–A. ad loc. [PCG VII, p. 170]: satis audacter), potrebbe alludere a una particolare tipologia di focaccia, analogamente a quanto avviene con ἀνεμώνη (vd. infra). La seconda parte, invece, sembra riferirsi al πολφός, ‘a sort of farinaceous food eaten with porridge’ (LSJ9 s. v. πολφός). La coda dello hapax, invece, potrebbe chiamare in causa nuovamente dei fiori (l’anemone) o un tipo di focaccia (cfr. Hesych. α 4882 ἀνεμώνη· μάζης εἶδος, e Poll. VI 76; sul fiore cfr. supra ad fr. 113, 25; secondo Rehrenböck 1985, p. 204, in un contesto di Paese di Cuccagna la menzione di fiori, qui giglio e anemone, sia pure generalmente considerati non commestibili, non sarebbe di necessità da escludere). Secondo Kaibel ap. K.–A. il composto potrebbe riferirsi al candidus color e al dulcis odor della pietanza che designava (cfr. Suid. λ 394 λειριόεντα· ἁπαλά. παρὰ τὴν λειότητα. λείριον γὰρ τὸ ἄνθος· προσηνῆ, τερπνά, ἡδέα). 9 δένδρη «Einzige gesicherte ionische Form bei Pherekrates»: così Rehrenböck 1985, p. 204, con rimando a Schmid 1946, p. 106 n. 6, dove si trovano elencate altre due forme catalogate come ioniche, ὀκλάξ (fr. 80 K.–A.) e ληκούμεσθα (fr. 253 K.–A.), la cui assegnazione a Ferecrate è però forse da rifiutare (vd. Kassel e Austin ad loc. [PCG VII, p. 212]: apparet tuto quidem nil Pherecrati tribui posse nisi verbum ληκῆσαι i. e. πλησιάσαι). χορδαῖς ὀπταῖς ἐριφείοις Sulla χορδή (un salume realizzato dall’insaccamento delle budella di animali) si vedano Arnott 1996, p. 322 (che ne raccoglie anche le numerose attestazioni comiche), e García Soler 2001, p. 238; χορδαί di capretto sono citate anche da Antiph. fr. 221 K.–A. 10 φυλλοροήσει Negli Uccelli di Aristofane Cleonimo viene descritto come un albero che τοῦ δὲ χειμῶνος πάλιν τὰς / ἀσπίδας φυλλορροεῖ (v. 1480 s.; sull’immagine vedi Cuniberti 2012, p. 115 s.). Secondo Rehrenböck, la reggenza può essere variamente spiegata: ‘gli alberi generano come foglie pezzetti di salsiccia’, oppure ‘gli alberi perdono come foglie pezzi di salsiccia’, oppure ancora ‘dalle foglie degli alberi nascono pezzi di salsiccia’, o infine ‘tra le foglie degli alberi nascono pezzi di salsiccia’ (in favore di quest’ultima interpretazione vd. Pellegrino 2000, p. 125). τευθιδίοις Ι calamari costituivano un cibo particolarmente ricercato e prelibato: le numerose attestazioni comiche sono raccolte da Conti Bizzarro 1988–1989, p. 270 n. 23. ἁπαλοῖσι κίχλαις τ’ ἀναβράστοις Sulla presenza dei tordi in contesti di Paese di Cuccagna vd. supra ad fr. 113, 23 K.–A.

fr. 138 K.–A. (131 K.) ὦ μαλάχας μὲν ἐξερῶν, ἀναπνέων δ’ ὑάκινθον, καὶ μελιλώτινον λαλῶν καὶ ῥόδα προσσεσηρώς· ὦ φιλῶν μὲν ἀμάρακον, προσκινῶν δὲ σέλινα,

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γελῶν δ’ ἱπποσέλινα καὶ κοσμοσάνδαλα βαίνων, ἔγχει κἀπιβόα τρίτον παιῶν’, ὡς νόμος ἐστίν 5 τρίτον om. CE

παιῶν᾽ Schweighaeuser Athen. VIII (1805), p. 175: παιὼν A: παίων CE

O tu che malve rutti e aliti giacinto, ed emani chiacchiere di meliloto e sorrisi di rose; o tu che spiri maggiorana quando baci, e sedano quando sbatti, e ipposedano quando ridi, e sai di speronella quando ti dimeni, versa il vino e intona tre volte il peana, com’è costume Athen. XV p. 685 A A καὶ ὁ Φερεκράτης δὲ ἢ ὁ πεποιηκὼς τὸ δρᾶμα τοὺς Πέρσας μνημονεύων καὶ αὐτὸς ἀνθῶν τινων στεφανωτικῶν φησιν· ὦ μαλάχας — νόμος ἐστίν Ferecrate, o l’autore della commedia Persai a lui attribuita, ricordando anche lui alcuni tipi di fiori adatti alle corone dice: o tu che malve — com’è costume

Metro Sistema kata stichon di versi formati da un dimetro coriambico di tipo A o da un gliconeo uniti a un ferecrateo o a un aristofanio (per la struttura metrica del frammento vd. Hermann 1796, pp. 374–376; West 1982, p. 96; Parker 1988, p. 119; Martinelli 1997, p. 252 s.).

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Bibliografia Hermann 1796, pp. 374–376; Schweighaeuser Athen. VIII (1805), pp. 173–175; Porson 1812, p. 145; Hermann 1816, p. 575; Hermann 1818, p. 205; Lobeck 1820, p. 64; Ritter 1828, pp. 75–76; Runkel 1829, pp. 52–53; Meineke FCG II.1, pp. 318–319; Meineke 1847, p. 113; Bothe 1855, pp. 106–107; Kock CAF I, pp. 183–184; Blaydes 1890, p. 22; Blaydes 1996, p. 23; Norwood 1931, pp. 163–164; Edmonds 1957, pp. 254–257; Rehrenböck 1985, pp. 207–216; Henderson 1991, pp. 151–152; Urios-Aparisi 1992, pp. 403a–408; Martinelli 1997, pp. 252–253; Farioli 2001, pp. 111–113; Storey 2011, pp. 486–487; Sofia 2016, pp. 121–122 Contesto della citazione Il frammento è citato nel quindicesimo libro dei Deipnosofisti di Ateneo, insieme a un frammento dei Metallēs (vd. supra ad fr. 114), per la presenza di fiori utilizzati per il confezionamento di corone. Sui problemi di paternità posti dai Persai, affioranti, come altrove, anche nel passo di Ateneo fonte del frammento, vd. supra ad fr. 134 K.–A. Testo Per quanto difficile sul piano dell’esegesi, il frammento non sembrerebbe porre particolari problemi sul piano del testo. Eppure, proprio a causa delle difficoltà di ordine interpretativo, molti sono stati i tentativi di intervento: general-

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mente infelici, spesso peggiorativi rispetto al testo tràdito, mai davvero necessari, né mai risolutivi sul piano dell’esegesi, e dunque tali da poter essere serenamente trascurati. A puro fine di informazione, se ne elencano qui di seguito tre, scelti tra i più significativi (per un elenco più completo vd. Rehrenböck 1985, p. 207): a) per lo ἐξερῶν di v. 1 sono stati stati proposti ἐξορῶν (Daléchamp 1583, p. 510 [intueris], approvato da Casaubon e poi da Hermann 1816, p. 575; Runkel 1829, p. 52; Blaydes 1890, p. 22, e Norwood 1931, p. 164) e ἐξεμῶν (Porson 1812, p. 145): ma si veda, a difesa del testo tràdito, Lobeck 1820, p. 64 (accolto da Meineke FCG II.1, p. 319, e poi regolarmente dagli editori successivi); b) per il certo difficile προσκινῶν di v. 3 (cfr. infra) ha avuto notevole fortuna προσκυνῶν (Hermann 1796, p. 375, anche se più tardi lo stesso Hermann optò per προσκινῶν [Hermann 1816, p. 575]; va segnalato il fatto che προσκυνῶν, prima che congettura moderna, è lezione di CE, corretta in προσκινῶν): vd. Rehrenböck 1985, p. 207, il quale più oltre (pp. 213–215) offre una esauriente discussione delle proposte di intervento (προσκυνῶν e altro ancora), per difendere però infine, direi a ragione, il testo tràdito; c) il παιῶν᾽ di v. 3 per i tràditi παιὼν (A) e παίων (CE) si deve a Schweighaeuser Athen. VIII (1805), p. 175 (παιᾶν᾽ Blomfield 1823, p. 178). Interpretazione Il frammento è costruito attraverso una tessitura retorica e stilistica particolarmente studiata, oltre che a tratti parodicamente elevata (vd. UriosAparisi 1992, p. 403a s.). Persino straordinaria, per densità allusiva e inventiva linguistica, la trama delle immagini e delle metafore che contrappuntano da cima a fondo il frammento: una prerogativa, sottolineata di frequente, che trova forse la sua più chiara e riuscita esplicitazione critica in Meineke FCG II.1, p. 319 (Totum hoc fragmentum admirabili imaginum varietate et ingeniosissimo ambiguae dictionis lusu conspicuum est). L’anonimo parlante, probabilmente il corifeo (così Kock CAF I, p. 184: adloquitur chorus ut videtur hominem aliquem divitiis Persarum regi parem, Calliam similemve eius), si rivolge a un ignoto personaggio, tutto pervaso di mollezza orientale: forse un giovane servo (così Bothe 1855, p. 106: His nescio quis compellat servum a cyathis venustulum et cinaedum, e Kaibel apud Kassel e Austin [PCG VII, p. 171]), o un ospite di banchetto, apostrofato per il tramite di una serie di otto invocazioni formulate attraverso costruzioni participiali simmetriche, sapientemente collocate a riempire ognuno degli otto cola componenti i primi quattro versi del frammento (isolata, perché dipendente dal rapporto istituito col Pluto di Aristofane del quale si è detto più sopra, la ricostruzione argomentata da Ritter 1828, p. 76, per il quale bersaglio dei versi del frammento sarebbe, appunto, Pluto: Deus ille, omnium bonorum auctor, malvas evomit, h. e. defluunt malvae eius ex ore, con quel che segue). Se avesse ragione chi, come Kock, ritiene che i versi del frammento fossero destinati all’esecuzione del corifeo, non sarebbe impossibile immaginare che l’attitudine spregiativa che si è usi leggere dietro la fitta trama di immagini che si accumula nei primi quattro versi del frammento fosse in realtà involontaria; il corifeo si sarebbe rivolto a un personaggio di prerogative simili a quelle che dovevano caratterizzare il coro: da qui la comicità della situazione, che, se le cose stavano così, doveva scaturire dallo scarto tra l’atteggiamento compli-

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mentoso tenuto dal corifeo nei confronti del suo interlocutore e i termini in cui tali ‘complimenti’ saranno stati recepiti dagli spettatori (interessante, in questa prospettiva, quanto nota Norwood 1931, p. 163 s., il quale, pur prendendo indebitamente sul serio il ritratto contenuto nel frammento, nell’accostarlo al Cantico dei Cantici vi individua con acume movenze che avrebbero potuto serenamente veicolare incanto al posto di scherno, ove si immagini che la prospettiva del parlante fosse solidale con quella del destinatario; vd anche p. 165: «those beautiful, if somewhat richly perfumed lines»). A cominciare almeno da Maineke FCG II.1, p. 319 (Mihi illa de homine Calliae Eupolidei […] haud dissimili et in Persicam mollitiem effuso intelligenda videbantur), ma certo già prima, per quanto forse in modo più episodico e cursorio (vd. ad esempio Schweighaeuser Athen. VIII [1805], p. 174), il frammento è comparso spesso accostato negli studi, oltre che a un frammento del Maricante di Eupoli (fr. 204 K.–A. ἔχοντα τὴν σφραγῖδα καὶ ψάγδαν ἐρυγγάνοντα, interessante, ai fini del nostro frammento, soprattutto per il ruolo che, nel Maricante, giocava il mondo persiano: vd. Cassio 1985), a un frammento dei Kolakes dello stesso Eupoli (fr. 176 K.–A.), in cui a un ignoto personaggio, generalmente identificato con Callia, vengono riferite prerogative analoghe a quelle attribuite all’anonimo bersaglio del nostro frammento (per Eup. fr. 176 K.–A. vd. Napolitano 2012, pp. 163–171, e Olson 2016, pp. 104–107). Come si è ricordato più sopra, l’accostamento, in quanto tale perfettamente sensato, ha però determinato in passato (vd. spec. Geissler 1969, p. 41) una proposta di fissazione al 421 a.C. (l’anno di messa in scena dei Kolakes) del terminus post quem per la datazione dei Persai fondata sull’idea, destituita invece di ogni fondamento, che il frammento di Ferecrate sia da considerare sicura imitazione di quello di Eupoli, mentre si tratta, molto più semplicemente, di due diversi ritratti comici di effeminati, del tutto indipendenti l’uno dall’altro, almeno a quanto è dato di vedere da ciò che ne resta. 1 ὦ μαλάχας La pianta è identificata con la Malva silvestris (vd. Rehrenböck 1985, p. 212, e Urios-Aparisi 1992, p. 404) o con altre specie selvatiche di malva (vd. Sofia 2016, p. 121); l’etimologia della parola è preellenica, probabilmente di origine semitica (Beekes 2001, p. 896). ἐξερῶν ‘vomitare’ o ‘ruttare’ (vd. LSJ9 s. v. ἐξεράω I e II); il primo significato (da correlare al verbo ἐξερυγγάνειν) è accolto da Urios-Aparisi 1992, p. 404. ἀναπνέων Il verbo non ha altre attestazioni comiche. Un’immagine analoga ricorre però in Ar. Ran. 1016, dove Eschilo si vanta di aver reso i cittadini ateniesi πνέοντας δόρυ καὶ λόγχας καὶ λευκολόφους κτλ. ὑάκινθον Attestato in fonti letterarie già in Omero (Il. XIV 348), il fiore (di colore blu) non è identificato con certezza (vd. Gow 1950, II, p. 208 s.); per l’etimologia del termine (non ellenica, e presumibilmente di origine mediterranea) vd. Beekes 2001, p. 1523. 2 μελιλώτινον λαλῶν Secondo LSJ9 s. v. μελιλώτινος l’aggettivo andrebbe interpretato come un neutro dal valore avverbiale; non si può escludere, tuttavia, che esso costituisca invece un complemento oggetto interno del verbo, come

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cautamente proposto da Rehrenböck 1985, p. 212 s. Secondo Urios-Aparisi 1992, p. 405, l’espressione «implies softness and banality». ῥόδα προσσεσηρώς Sul possibile senso osceno di ῥόδα cfr. supra ad fr. 113, 29 K.–A.; il verbo προσσαίρω non è attestato altrove in commedia, ma è ricordato da Polluce (VI 123) a proposito della gestualità tipica degli adulatori. 3 ὦ φιλῶν μὲν ἀμάρακον A partire almeno da Schweighaeuser il verbo viene tradotto con ‘baciare’ (così, tra gli altri, Meineke FCG II.1, p. 319, e Edmonds 1957, p. 257). Per l’etimologia di ἀμάρακον vd. Beekes 2001, p. 82. προσκινῶν δὲ σέλινα L’espressione è oscura: se infatti è probabile che la menzione del sedano alluda oscenamente ai genitali femminili (cfr. Cratin. fr. 116, 3 K.–A. e Hesych. σ 384 σέλινον· τὸ γυνακεῖον; la metafora è discussa anche in Henderson 1991, pp. 136 [§ 137], 144 [§ 169] e 151, dove si trova citato il nostro verso; più in generale sulla ricca trama di allusioni oscene contenute nel frammento vd. Farioli 2001, p. 111 s.), la forma attiva del verbo non è mai attestata altrove, mentre la diatesi passiva (προσκινεῖσθαι) è utilizzata in riferimento al ruolo passivo assunto dalle donne nel compimento dell’atto sessuale (cfr. p. es. Ar. Pac. 903 e Eccl. 256). Per Henderson 1991, p. 151, nel nostro verso «a word meaning “cunt” is the direct object»: non necessariamente, ove si immagini un uso assoluto e intransitivo del verbo in diatesi attiva (‘sbattere’, ‘scopare’) con σέλινα = ‘organo genitale femminile’ da intendere come neutro plurale in funzione di avverbio o come complemento oggetto interno; il vero problema consiste, semmai, nel fatto che chi difenda προσκινῶν deve fare i conti con l’evocazione di un ruolo sessualmente attivo, e in direzione eterosessuale, all’interno di un ritratto che insiste tutto sulla molle effeminatezza del personaggio preso di mira. Come si è detto sopra, nonostante le innegabili difficoltà esegetiche poste dal verbo, i tentativi di correggere il testo tràdito non appaiono né convincenti né fondati. Splendida, e infatti citata a più riprese, la traduzione del v. 3 offerta da Schweighaeuser: cuius oscula amaracum olent, concubitus apium. 4 γελῶν δ’ ἱπποσέλινα Il sintagma, costruito di nuovo con un accusativo interno, potrebbe contenere anch’esso un’allusione oscena, come accade con quanto lo precede e lo segue, ove si accolga l’interpretazione di Meineke FCG II.1, p. 319, per il quale l’espressione equivarrebbe a γελῶν ἱπποπορνικῶς: l’anonimo personaggio, dunque, continuerebbe ad essere assimilato a una donna lasciva. Lo ἱπποσέλινον corrisponde al macerone (Smyrnium olusatrum), al quale erano attribuite virtù medicinali (cfr. Theophr. Hist. plant. II 2, 4 e Diosc. III 67). La scelta, in traduzione, di ‘ipposedano’ cerca di rendere, per il tramite di un lemma di invenzione, l’assonanza σέλινα […] ἱπποσέλινα dell’originale. κοσμοσάνδαλα βαίνων Per l’allusione oscena veicolata, in questo contesto, dal verbo βαίνω (raccolta anche da Henderson 1991, p. 136 [§ 312]) cfr. Eup. fr. 176, 2 K.–A. con Napolitano 2012, p. 165 s.; la speronella (Delphinium Ajacis) compare anche in Pherecr. fr. 2, 3 K.–A. e in Cratin. fr. 105 K.–A.: vd. Sofia 2016, p. 122.

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5 κἀπιβόα Il verbo ἐπιβοάω è utilizzato nel senso di ‘intonare’ anche in Ar. Av. 896 e Aesch. Pers. 1054. τρίτον παιῶν’ L’anonimo personaggio evocato nei versi del frammento andrà identificato con un ospite del banchetto o con un servo: il terzo peana, infatti, era intonato in occasione della terza libagione di vino puro, dedicata a Zeus sotēr, celebrata immediatamente prima di iniziare il simposio (vd. Urios-Aparisi 1992, p. 407 s.; che la descrizione sia da riferire a un personaggio reale è ipotesi avanzata da Farioli 2001, p. 113).

fr. 139 K.–A. (132 K.) ἢν δ᾽ ἡμῶν σῦκόν τις ἴδῃ διὰ χρόνου νέον ποτέ, τὠφθαλμὼ τούτῳ περιμάττομεν 〈τὼ〉 τῶν παιδίων 2 τούτῳ περιμάττομεν Hermann 1816, p. 581

τὼ add. Erfurdt 1812, p. 443

se una buona volta qualcuno di noi vede un fico fresco, con quello astergiamo gli occhi dei bambini Athen. III p. 78 D Φερεκράτης δὲ ἢ ὁ πεποιηκὼς τοὺς Πέρσας φησίν· ἢν — παιδίων, ὡς καὶ ἰάματος οὐ τοῦ τυχόντος τῶν σύκων ὑπαρχόντων Ferecrate o l’autore dei Persai dice: se — bambini, poiché i fichi arrecano anche un rimedio medico efficace

Metro Eupolidei

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Bibliografia Erfurdt 1812, p. 443; Hermann 1816, p. 581; Runkel 1829, p. 50; Meineke FCG II.1, p. 319 s.; Meineke 1847, p. 113; Bothe 1855, p. 107; Fritzsche 1855, pp. 4–5; Kock CAF I, p. 184; Edmonds 1957, pp. 256–257; Sifakis 1971, p. 117 n. 49; Rehrenböck 1985, pp. 217–218; Urios-Aparisi 1992, p. 408; Imperio 2004, p. 53; Storey 2011, pp. 486–487 Testo Il secondo verso è tràdito in forma certamente corrotta: gli interventi di Erfurdt e di Hermann ripristinano il verso in una forma metrica accettabile e sono accolti da tutti gli editori moderni. Contesto della citazione Il frammento è tràdito da Ateneo nella sezione dedicata ai fichi a testimonianza delle virtù medicinali del frutto. Sui problemi di paternità posti dalla commedia vd. supra ad fr. 134 K.–A.

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Interpretazione In virtù del suo assetto metrico (si tratta di eupolidei) il frammento è stato generalmente assegnato alla parabasi della commedia: così, tra gli altri, Fritzsche 1855, p. 5; Kock CAF I, p. 184; Rehrenböck 1985, p. 217 s.; Sifakis 1971, p. 117 n. 49; Imperio 2004, p. 53. Se così fosse, resterebbe comunque possibile, nonostante l’opinione contraria di Fritzsche, loc. cit. (Certe quum Persarum parabasis Eupolideo metro constiterit, ut patet ex Athenaeo III p. 78, d: superior Persarum locus [scil. il fr. 138 K.–A.] ad parabasin revocari non potest; ma vd. Kock, loc. cit.: quomodo talis sententia parabasi conveniat quamquam difficile est dicere (Fritzsch. Fragm. v. Eup. 13), dubitari non potest quin ex ea petita sit), ritenere parabatico anche il fr. 138 K.–A. assegnando il fr. 139 K.–A. alla parabasi ‘propria’, sulla scorta del ben noto esempio fornito dalla parabasi ‘propria’ delle nostre Nuvole, e il fr. 138 K.–A. alla sezione epirrematica della medesima parabasi. Se le cose stavano davvero così, il fr. 139 K.–A., diversamente dal fr. 138 K.–A., che andrà immaginato eseguito dal corifeo ‘in parte’, andrebbe collocato in una sezione riferibile non alle prerogative sceniche del coro ma a un discorso, di natura politica, letteraria, o di altro contenuto ancora, riconducibile alla figura dell’autore, al quale il coro avrebbe dato voce, come spesso accade in regime di ἁπλᾶ parabatici (dunque ἡμῶν = ‘noi Ateniesi’?). Sul valore di διὰ χρόνου, aliquando, vd. van Leeuwen 1893, p. 135 s. (ad 1252).

fr. 140 K.–A. (133 K.) Schol. (VEΘBarbAld) Ar. Ran. 362a Chantry ἢ τἀπόρρητ’ ἀποπέμπει· πρὸς τοὺς ποιήσαντας † † τοὺς Φερεκράτους Πέρσας o esporta merce proibita (vel o rivela i segreti): contro gli autori † † dei Persiani di Ferecrate Schol. (R) Ar. Ran. 362b Chantry τἀπόρρητ’· τὰ τῆς πόλεως μυστήρια taporrēta: i misteri della città Schol. (VEΘBarb) Ar. Ran. 362c Chantry τὰ ἀπόρρητα †ἥκουσιν† ὡς νῦν (νοῦν V) ἡμῖν ἔθος κτλ. taporrēta † … † secondo il nostro uso di adesso Schol. (VEΘBarb) Ar. Ran. 362d Chantry ἀπόρρητα ἔλεγον τὰ ἀπειρημένα ἐξάγεσθαι chiamavano aporrēta ciò che era proibito esportare

Bibliografia Runkel 1829, p. 53; Bergk 1838, p. 294; Meineke FCG II.1, p. 321; Meineke 1847, p. 114; Bothe 1855, p. 107; Kock CAF I, p. 184; Roemer 1902, p. 91; Edmonds 1957, pp. 256–257; Mastromarco–Totaro 2006, p. 598 n. 60; Rehrenböck 1985, p. 223; Urios-Aparisi 1992, pp. 408–409; Storey 2011, pp. 488–489

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Pherekrates

Contesto della citazione Lo scolio commenta l’attacco rivolto dal coro di iniziati delle Rane contro Toricione, accusato di esportare merce proibita, nello specifico attrezzature navali, da Egina a Epidauro (Ar. Ran. 362–364 ἢ τἀπόρρητ᾽ ἀποπέμπει / ἐξ Αἰγίνης Θωρυκίων ὢν εἰκοστολόγος κακοδαίμων, / ἀσκώματα καὶ λίνα καὶ πίτταν διαπέμπων εἰς Ἐπίδαυρον; vd. Dover 1993, p. 241, e su Toricione PA 7419, LGPN II s. v., n. 2, e PAA 519145). L’intero passo, di molto complessa comprensione, è tràdito in forma largamente corrotta (per una disamina degli interventi meno recenti sul testo mi limito a rimandare a Rehrenböck 1985, p. 219; dubbi sull’assetto generale del testo sono espressi anche da Edmonds 1957, p. 256 s., e da Urios-Aparisi 1992, p. 409). Diversamente da Chantry, il quale, come di consueto, nella sua edizione, ripartisce lo scolio in più sezioni distinte, Kassel e Austin, seguendo Dindorf, presentano il testo unitario dello scolio come tràdito nei codici V, E, Θ e Barb., ovvero (ἢ τἀπόρρητ᾽ ἀποπέμπει) πρὸς τοὺς ποιήσαντας τοὺς Φερεκράτους Πέρσας. τὰ γὰρ ἀπόρρητα ἤκουσαν (ἥκουσιν codd., corr. Dindorf) ὡς νῦν ἡμῖν ἔθος (ἡμῖν ἐκ τῶν μυστηρίων ἔθος Θ). […] ἀπόρρητα δὲ ἔλεγον τὰ ἀπειρημένα ἐξάγεσθαι. Interpretazione Il riferimento ai Persai andrebbe interpretato, secondo Meineke FCG II.1, p. 321, in relazione all’uso di ἀπόρρητα in Ferecrate: Itaque hoc dicit scholiasta, ἀπόρρητα, quae Aristophanes de rebus vetitis dixit, Persarum auctorem de mysteriis dixisse (con ἀπόρρητα Aristofane designa i riti segreti dei misteri a Eccl. 442 e le merci per le quali era vietata l’esportazione a Eq. 282, oltre che nel passo delle Rane qui in questione, ma non anche in fr. 633 K.–A., come invece vorrebbe Urios-Aparisi 1992, p. 409). Il resto del materiale scoliastico farebbe riferimento alla comica ambiguità che l’espressione avrebbe acquisito in bocca agli iniziati delle Rane in relazione al tradimento di Toricione (così Totaro in Mastromarco–Totaro 2006, p. 598 n. 60: nella messa al bando di Toricione sarebbe da vedere un «riferimento ad un caso di esportazione di aporrheta (‘merce proibita’), un contrabbando commerciale tanto più illecito per un coro di Iniziati in virtù del significato anche religioso del termine, che correntemente designa i riti segreti, non divulgabili, dei misteri»): ἀπόρρητα ha infatti il valore di ‘merci esportate di contrabbando’, ma nella finzione scenica agli iniziati del coro si sarebbe adattato benissimo l’altro significato del termine, utilizzato, come si è detto, anche per indicare i riti segreti e non divulgabili delle cerimonie misteriche. Importante, al riguardo, anche in relazione alla pericope ὡς νῦν ἡμῖν ἔθος presente nello scolio al verso delle Rane, lo scolio ad Ar. Thesm. 363 a Regtuit (τἀπόρρητα) δηλοῖ ἐνταῦθα ὅτι λέγουσιν καὶ ὁμοίως ἡμῖν τὰ ἀπόρρητα, οὐ μόνον 〈ἐπ᾽〉 ἀπηγορευμένων, segnalato da Kock CAF I, p. 184, e ancora da Kassel e Austin in calce al frammento (PCG VII, p. 172). Sebbene l’esegesi avanzata da Meineke sia stata accolta con favore dalla critica, da Kock a Kassel e Austin, che riproducono le parole di Meineke in calce all’edizione del frammento, le difficoltà interpretative determinate dallo stato disperato del testo dello scolio hanno aperto la strada ora alla configurazione di quadri che, pur dipendenti dalla stringata intuizione di Meineke, ne eccedono i limiti, ora invece a ipotesi del tutto alternative. Rehrenböck 1985, pp. 219–223, sostanzialmente

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in linea con Meineke, ma riprendendo e facendo propri, sviluppandoli, i termini in cui lo scolio era stato discusso da Roemer 1902, p. 91, immagina che esso si riferisca a una tarda rielaborazione dei Persai, in seno alla quale Toricione sarebbe stato attaccato, a sproposito, non per quanto aveva davvero commesso, ovvero per esportazione illegale di merce di contrabbando (ciò di cui lo accusa invece, correttamente, Aristofane nel passo delle Rane), ma per la divulgazione dei riti segreti dei misteri: un errore, causato dall’ambiguità semantica di τὰ ἀπόρρητα, che non sarebbe spiegabile, per Rehrenböck, pensando che lo scoliaste si riferisse alla commedia originale di Ferecrate, e che sarebbe invece perfettamente ipotizzabile nel contesto di un rifacimento sensibilmente più tardo («der Scholientext ist in dieser Form entstellt, scheint aber auszudrücken, daß die bereits in der Antike angefochtenen “Persai” des Pherekrates denselben Thorykion wie einst Aristophanes verhöhnten, dabei aber τἀπόρρητα bei Aristophanes mißverstanden. Dies läßt einen Neubearbeiter der pherekrateischen “Persai” – sei es anläßlich einer Wiederaufführung, sei es auch für ein bloßes “Buchdrama” – im vierten Jahrhundert vermuten»; l’idea di un rifacimento tardo dei Persai è del resto già in Geissler 1969, p. 41 s., citato da Rehrenböck con ovvio favore a p. 221). Del tutto alternativa a Meineke, invece, la soluzione proposta da Chantry, il quale ritiene che la pericope πρὸς τοὺς ποιήσαντας τοὺς Φερεκράτους Πέρσας possa nascondere una lacuna e in apparato propone di sanare il testo tràdito con πρὸς τοὺς ποιήσαντας 〈ἃ ποιῆσαί φασι〉 τοὺς Φερεκράτους Πέρσας (i. e. ad eos adludit qui sicut Persae in Pherecratis fabula haec fecisse dicuntur: lo scoliaste farebbe dunque riferimento ai membri del coro e non al titolo della commedia). Tuttavia, anche se altrove in Ateneo (III p. 78 D; XI p. 502 A e XV p. 185 A) il dubbio sull’attribuzione dei Persai viene esplicitato, come si è visto, tramite l’espressione Φερεκράτης δὲ ἢ ὁ πεποιηκὼς τοὺς Πέρσας, l’utilizzo del participio aoristo sostantivato di ποιέω in forma plurale (οἱ ποιήσαντες) per ‘gli autori’ (un uso che Chantry doveva evidentemente considerare sospetto) non appare del tutto isolato. Infatti, un parallelo a sostegno dell’interpretazione di Meineke è certamente rintracciabile in Schol. (vet.) ad Ar. Vesp. 506c Koster–Holwerda (= Telecl. fr. 12 K.–A. [Apseudeis]) ζῆν βίον γενναῖον· πρὸς τοὺς τοὺς (τὸ τοὺς V, τοὺς ΓAld, corr. Dindorf) Ἀψευδεῖς ποιήσαντας (τὸν τοὺς … -τα Meineke), ὅτι (τι VΓAld, corr. Dindorf) τὸν Μόρυχον τῶν πολιτικῶν †πεποίηκε πραγμάτων† (sic codd. Ald: πεποιήκασι 〈μετέχοντα〉 πρ. Dindorf, -ασιν {πρ.} Holwerda) ἀγνοήσαντες (VΓ: -ας Ald, Meineke), ὅτι 〈ὡς〉 (suppl. Holwerda) τρυφερὸς καὶ ἡδύβιος κωμῳδεῖται· ἢ καὶ νῦν ἐν εἰρωνείᾳ VΓAld, dove a proposito del βίος γενναῖος attribuito (con ironia non recepita dallo scoliaste) a Morico, viene evidenziata la differente valutazione del personaggio formulata negli Apseudeis da Teleclide, o dall’ignoto autore della commedia (anche per gli Apseudeis, come per i Persai, vigevano dubbi di paternità) attraverso l’espressione πρὸς τοὺς τοὺς (τὸ τοὺς V, τοὺς ΓAld, corr. Dindorf; πρὸς τὸν τοὺς Ἀψευδεῖς ποιήσαντα Meineke FCG V, p. 30) Ἀψευδεῖς ποιήσαντας (ricco commento al frammento in Bagordo 2013, pp. 110–113). Mi sembra dunque almeno possibile, considerato anche il fatto che la paternità di

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entrambe le commedie coinvolte nei due scolii era sottoposta a dubbi, che, come nello scolio delle Vespe, anche in quello delle Rane la formulazione dello scoliaste mirasse a notare un diverso, e meno corretto, inquadramento di un personaggio (Morico, in Teleclide; Toricione, in Ferecrate) rispetto alla presentazione fornitane da Aristofane, pur senza di necessità immaginare, né in un caso né nell’altro, che tale rilievo fosse mosso a rifacimenti o a rielaborazioni tarde. La funzione di rilievi di questo tipo, che sembrano prendere Aristofane a unità di misura e ogni deviazione da Aristofane come indizio di inautenticità, avrà ben potuto essere funzionale alla discussione relativa alla paternità delle commedie di volta in volta prese in esame: quel che Bagordo 2013, p. 110, osserva in relazione al frammento degli Apseudeis («Diese Komödie wird anscheinend auch hier, wie in fr. 58, für unecht gehalten: nicht nur Phrynichos, der Zitatträger von fr. 58, muß also die Echtheit der Apseudeis in Frage gestellt haben, sondern wahrscheinlich bereits frühere Aristophanes-Kommentatoren, deren Kenntnisse auf die alexandrinischen Philologen zurückgegangen sein dürften») può valere anche per il nostro scolio, che del resto si trova stampato da Strecker 1884, p. 26 s., tra i frammenti di Eratostene (ma sui limiti dell’edizione di Strecker, specie per quanto attiene all’attribuzione a Eratostene di frammenti che potrebbero risalire ad altri, vd. Tosi 1994, p. 168 n. 46). [Desidero qui ringraziare vivamente Andrea Bagordo, al quale devo la segnalazione dello scolio alle Vespe, Fausto Montana, per gli utilissimi suggerimenti, sia nel merito del commento che per l’organizzazione redazionale del materiale citato, e Christian Orth; con loro ho discusso il passo in questione a margine del seminario di KomFrag tenutosi a Merano il 5 e il 6 ottobre 2017: a tutti e tre va la mia gratitudine per le lucide osservazioni proposte in quella sede]

fr. 141 K.–A. (193 K.) Schol. (LV) Soph. El. 86d Xenis (ὦ φάος ἁγνὸν καὶ γῆς ἰσόμοιρ’ ἀήρ) καὶ ταῦτα δὲ (καὶ et δὲ om. V) Φερεκράτης παρῴδηκεν ἐν Πέρσαις (ἐν Πέρσαις om. L). Ferecrate nei Persai ha parodiato questo verso (scil. Soph. El. 86)

Bibliografia Peppink 1933–1934, p.  76; Colonna 1940–1941; Bignone 1942; Gallavotti 1942; Colonna 1947; Benedetti 1967; Rehrenböck 1985, pp. 224–230; Rehrenböck 1988, pp. 54–57; Urios-Aparisi 1992, p. 409; Farioli 2001, p. 114 s.; Storey 2011, pp. 488–489 Contesto della citazione L’attribuzione del frammento ai Persai risale a tempi piuttosto recenti: il testimone L degli scolii, su cui si fonda l’edizione di Papageorgios, presenta infatti un testo privo del titolo della commedia, restaurato da Peppink 1933–1934, p. 76, sulla base del testimone V. Prima di Xenis 2010, lo scolio è stato edito in forma completa da Colonna 1940–1941, che pure riteneva

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che il testo tràdito fosse da correggere, sulla base, peraltro, di un fraintendimento radicale del testo complessivo dello scolio (sulla questione vd. Bignone 1942, p. 176 s., e Gallavotti 1942; un tentativo di palinodia in Colonna 1947), e poi da Benedetti 1967, p. 139, il quale, partendo dalle indicazioni di Peppink, aveva curato un’edizione degli scolii all’Elettra presenti nei testimoni VW e assenti in GMR. La pericope di testo che nello scolio segue la menzione dei Persai (τοῦ δὲ ἀήρ τὸ α συνέστειλεν διὰ ῥυθμὸν ἢ μέτρον), da riferire con tutta evidenza al verso sofocleo glossato, non a Ferecrate (come invece ipotizzato da Colonna), fornisce un’interpretazione prosodica per un verso avvertito come problematico sul piano del metro (vd. Rehrenböck 1985, pp. 224–230, le cui conclusioni sono riprese in Rehrenböck 1988, pp. 54–56; nel verso dell’Elettra, a ogni modo, gli editori moderni preferiscono accogliere a testo una congettura di Porson, ora attestata anche in parte della tradizione manoscritta: sulla questione si veda Finglass 2007, p. 125). Interpretazione La notizia trasmessa dallo scoliaste non fornisce informazioni utili né sulla trama della commedia né sulla sua datazione: l’espressione parodiata è un’invocazione all’alba e non è possibile determinare né il contenuto né la forma della parodia di Ferecrate (vd. Urios-Aparisi 1992, p. 409, e Farioli 2001, p. 115; a una detorsio comica di matrice filosofica pensava invece Bignone 1942, p. 176 s.).

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Πετάλη (Petalē) (“Petale”)

Bibliografia Runkel 1828, pp. 54–55; Meineke FCG I, p. 86; Meineke FCG II.1, pp. 321–326; Meineke 1847, pp. 114–115; Bothe 1855, pp. 107–108; Kock CAF I, pp. 184–186; Breitenbach 1908, pp. 116–117; Geissler 1969, p. 34 (Addenda, p. xiii); Edmonds 1957, pp. 256–259; Urios-Aparisi 1992, pp. 410–420; Quaglia 2001, pp. 410–420; Auhagen 2009, pp. 52–53; Rusten 2011, pp. 160–161; Storey 2011, pp. 488–491 Titolo La commedia prende il titolo da un nome proprio femminile attestato sia in fonti letterarie che in documenti epigrafici (vd. LGPN I 371; II 367; III A 361 s. v. Πετάλη; PA 11816; PAA 772905–15). Secondo gran parte della critica (così, tra gli altri, Meineke FCG I, p. 86, Bothe 1855, p. 107, Kock CAF I, p. 184, Breitenbach 1908, p. 116 s. e Edmonds 1957, p. 257 n. d), la donna protagonista della commedia sarebbe un’etèra, come il nome Πετάλη sembra indicare: sono etère, infatti, le omonime fanciulle che compaiono nelle epistole di Alcifrone e di Aristeneto (Alciphr. IV 13, 3 e IV 14, 2; Πετάλη è, inoltre, il nome della protagonista delle epistole VIII e IX; Aristaenet. I 25). Un elenco di commedie che derivano i propri titoli da nomi di etère è fornito da Athen. XIII p. 567 C-D καὶ ἄλλα δὲ πολλά, ὦναιδές, δράματα ἀπὸ ἑταιρῶν ἔσχε τὰς ἐπιγραφάς, Θάλαττα Διοκλέους (PCG V, testt. i-ii, fr. 6 K.–A.), Φερεκράτους Κοριαννώ, Εὐνίκου ἢ Φιλυλλίου Ἄντεια (PCG V, testt. i-ii, fr. 1 K.–A.), Μενάνδρου δὲ Θαὶς καὶ Φάνιον (PCG VI 1, testt. i-x, frr. 163–169 K.–A.; frr. 388–393 K.–A.), Ἀλέξιδος Ὀπώρα (PCG II, frr. 169*170 K.–A.), Εὐβούλου Κλεψύδρα (PCG V, fr. 54 K.–A.). Come è stato rilevato, «il passo riunisce alla rinfusa titoli di testi appartenenti a fasi diverse della Commedia attica, e non in tutti si riconosce con sicurezza qualcuno dei “nomi di battaglia” delle etère del V-IV sec., come nel caso di Antea e Opora […], mentre è certo che sono nomi di etère i titoli di molte altre commedie citate da Ateneo nel libro XIII e altrove, ma qui non ricordati» (Gambato in Ateneo III, p. 1437 n. 1, con il rimando a Nesselrath 1990, p. 319 n. 97, per una lista di drammi con nomi di etère, nella quale per l’archaia sono menzionate l’Ipnos ē Pannychis dello stesso Ferecrate [frr. 64–72 K.–A.], la Antilais di Cefisodoro [conservato solo il titolo: vd. Orth 2014, p. 316 s.], la Nemea di Teopompo [fr. 33 K.–A.], la Palaistra di Alceo comico [frr. 22–25 K.–A.: vd. Orth 2013, pp. 107–119], la Philinna di Egemone). Per il passo di Ateneo vd. Arnott 1996, pp. 497–500 (Alex. Opōra), Orth 2014, p. 206 s. (Diocl. Thalatta), Stama 2016, p. 324 (Alex. Opōra), e vd. anche Auhagen 2009, pp. 49–58 per le etère nell’archaia. Il nome Πετάλη è attestato anche in un epigramma di Antifane (AP IX 245, 1 s.), in Erodiano (III 944,15, dove è citato in relazione all’accento) e forse anche in Esichio (π 2040 Hansen) πέταλα∙ ὀνόματα θήλεια. καὶ βοῦς, qualora in luogo del testo tràdito si accetti l’intervento di Meineke FCG I, p. 86 n. 39, πετάλη· ὄνομα θηλείας; etimologicamente sembra connesso al sostantivo πέταλον (‘leaf ’, LSJ9 s. v.) e come nome comune in sostituzione di πέταλον è utilizzato in AP ΙΧ

Πετάλη (fr. 141)

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226. Secondo Sondag 1905, p. 49, potius ad adiectivum πέταλος redit […] quod pateat designatur […] sed dubium est, utrum per iocum muliercula, quae omnibus pateat, significetur; ma l’aggettivo è, in realtà, πέτηλος ‘outspread, stretched’ (LSJ9 s. v.), non πέταλος, come vuole Sondag, e benché esso sia corradicale di πέταλον – entrambi si ricollegano al verbo πετάννυμι, vd. GEW, DELG, Beekes 2001 s. v. πετάννυμι – la presenza di [η] in πέτηλος sembra rendere più difficile immaginare un legame di Πετάλη con l’aggettivo e più immediato, per contro, il valore di ‘foglia’, sebbene la comune provenienza da πετάννυμι non escluda che in Πετάλη potesse effettivamente cogliersi in qualche modo il valore indicato da Sondag. Contenuto Anche se il titolo induce verosimilmente a credere che la trama della commedia coinvolgesse in qualche modo un’etèra (similmente a quanto pare avvenisse nella Koriannō, nella Thalatta e, forse, anche nell’Ipnos ē Pannuchis; sulle commedie incentrate sulle figure di etère vd. Henderson 2000, Souto Delibes 2002 e Hartwig 2014, p. 210 s.), i frammenti superstiti non consentono di ricostruire, neppure a grandi linee, la trama della commedia. Nel fr. 142 K.–A. è presente un dialogo tra due personaggi nel quale sono menzionate le due località attiche di nome Colono (accanto all’agorà e presso il tempio di Poseidone), il che, in genere, si intende come una possibile allusione a Sofocle (ma cfr. infra ad fr. 142 Interpretazione); nel fr. 143 K.–A. è verosimile un riferimento a Clistene (per la lettura Κλεισθένει rispetto al tràdito Καλλισθένει, impossibile metri causa, cfr. infra ad fr. 143 K.–A., Testo), il quale era assimilato a una colombella e, quindi, deriso per la sua omosessualità passiva; il fr. 145 K.–A., che gioca sulla sinonimia tra i verbi προσαίρειν e προσφέρειν, potrebbe contenere un attacco ad alcune riflessioni contemporanee di carattere linguistico (forse alla dottrina sulla ὀρθοέπεια di Prodico di Ceo), ma non è escluso, invece, che si tratti di un più generico contesto sacrificale. Alcuni riferimenti al vino (fr. 147 K.–A.), al cibo (fr. 148 K.–A.) e forse a un profumo (fr. 149 K.–A.) potrebbero provenire dal resoconto di un banchetto, mentre impossibili da contestualizzare, per la loro esiguità, sono i frr. 144 K.–A. (una serie asindetica di cinque infiniti) e 146 K.–A., nel quale si fa riferimento a un’invocazione a un dio, talora intesa come possibile parodia di un verso sofocleo (cfr. infra ad fr. 146 K.–A. Interpretazione). Secondo Quaglia 2001 (p. 414 n. 9) la commedia avrebbe potuto portare in scena «la storia di un’etèra innamorata con uno spunto che preluderebbe […] agli intrecci della commedia nuova», ma l’ipotesi rimane indimostrabile, anche se a un contesto erotico sembra riferirsi il fr. 143 K.–A. Datazione I frammenti superstiti non forniscono dettagli utili per la datazione della commedia. Secondo Edmonds 1957, p. 257 n. d, la menzione di Citera nel fr. 143 K.–A. permetterebbe di collocare la commedia dopo il 424 a.C., anno in cui l’isola fu conquistata dagli Ateniesi: nel frammento, tuttavia, essa era verosimilmente nominata per ragioni cultuali (cfr. infra ad loc.) e comunque senza alcun riferimento alle vicende belliche, sebbene una allusione del genere non si possa escludere in mancanza di un più ampio contesto. Nello stesso frammento, neanche il riferimento a Clistene (se era davvero lui il personaggio oggetto di onomastì

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Pherekrates

komodein: cfr. infra ad loc.) consente di datare la commedia con precisione: il personaggio, infatti, viene fatto oggetto di derisione da Aristofane lungo l’intero arco della sua produzione superstite, dagli Acarnesi alle Rane (cfr. ad es. Nub. 335; Av. 831; Lys. 621 e 1092; Thesm. 235 e 571–674; Ran. 48 e 47; vd. Urios-Aparisi 1992, p. 410). Secondo Geissler 1969, p. 34 (Addenda, p. xiii), la commedia andrebbe datata poco dopo il 421 a.C., in quanto, nell’elenco di drammi in cui veniva attaccato il poeta Melanzio (Athen. VIII p. 343 C = fr. 148 K.–A.), la Petalē è citata dopo i Phrateres di Leucone e la Pace di Aristofane (entrambe rappresentate alle Dionisie del 421 a.C.: cfr. arg. A 3 Ar. Pac.); questa ipotesi è accolta anche da Quaglia 2001, p. 414 s., che pure nota come gli elenchi di opere citati da Ateneo non rispecchino sistematicamente l’ordine cronologico e, anche se questo fosse il caso, ciò non implica, comunque, un’immediata contiguità temporale con i due altri drammi: «il ricorso a fonti corredate di riferimenti cronologici non è probabilmente abituale in Ateneo , ma il passo di VIII 343 c prosegue con la menzione degli Ichthyes di Archippo, andati in scena dopo il 403: ciò avvalora l’ipotesi che la posizione della Petale nella successione Phrateres-Pace-Petale-Ichthyes rispecchi l’ordine di rappresentazione, senza naturalmente che derivi da ciò una datazione necessariamente contigua a quella della Pace di Aristofane».

fr. 142 K.–A. (134 K.) (A.) οὗτος, πόθεν ἥκεις; (B.) ἐς Κολωνὸν ἱέμην, οὐ τὸν ἀγοραῖον, ἀλλὰ τὸν τῶν ἱππέων 1 πόθεν ἥκεις Harp.: ποτ’εἰσήλθετ’ Argum. Soph. ἐς Harp.: εἰς Argum. Soph. Meineke 1818, p. 23: ἦμην Harp.: ᾠχόμην Argum. Soph.

ἱέμην

(Α.) Ehi tu, da dove vieni? (B.) Andavo a Colono, non quello della piazza, ma quello dei cavalieri Harp. pp. 181, 17–182, 9 Dindorf = p. 154 Keaney […] τοὺς μισθωτοὺς Κολωνέτας ὠνόμαζον, ἐπειδὴ παρὰ τῷ Κολωνῷ εἱστήκεσαν, ὅς ἐστι πλησίον τῆς ἀγορᾶς, ἔνθα τὸ Ἡφαιστεῖον καὶ τὸ Εὐρυσάκειόν ἐστιν· ἐκαλεῖτο δὲ ὁ Κολωνὸς οὗτος ἀγοραῖος. ἦν δὲ καὶ ἕτερος Κολωνὸς πρὸς τὸ τοῦ Ποσειδῶνος ἱερὸν […] οὗτος δ’ ἂν εἴη ὁ τῶν ἱππέων. Φερεκράτης Πετάλῃ· οὗτος — ἱππέων I lavoratori a giornata li chiamavano Coloneti, poiché si radunavano a Colono, che si trova accanto all’agorà, dove ci sono anche i templi di Efesto e di Eurisace: perciò si chiamava Colono agoraios. C’era anche un altro Colono, presso il tempio di Poseidone … questo sarebbe il Colono ‘dei cavalieri’. Ferecrate nella Petalē: ehi tu — dei cavalieri Arg. II Soph. OC (p. 2, 16 de Marco) μνημονεύει τῶν δυεῖν Κολωνῶν Φερεκράτης ἐν Πετάλῃ διὰ τούτων· οὗτος — ἱππέων Menziona i due Colono Ferecrate nella Petalē nel modo che segue: ehi tu — dei cavalieri

Πετάλη (fr. 142)

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Bibliografia Meineke 1818, p.  23; Runkel 1829, p.  55; Meineke FCG II.1, pp. 321–322; Meineke 1847, p. 114; Bothe 1855, p. 107; Kock CAF I, pp. 184–185; Edmonds 1957, pp. 256–257; Fuks 1951, p. 173; Kirsten 1973, pp. 13–15; Conti Bizzarro 1988–1989, pp. 287–288; Urios-Aparisi 1992, pp. 411–412; Quaglia 2001, pp. 415–418; Rusten 2011, p. 160; Storey 2011), pp. 488–489 Contesto della citazione Il frammento è tràdito da entrambe le fonti come testimonianza dell’esistenza di due differenti località ateniesi di nome Colono. In Arpocrazione, dopo il verso di Ferecrate, è aggiunta la notazione: περὶ Κολωνῶν Διόδωρός τε ὁ περιηγητὴς (372 F 7 Jacoby) καὶ Φιλόχορος ἐν γ᾽ Ἀθτίδος (328 F 26 Jacoby) διεξῆλθεν, il che rimanda a un’antica trattazione sui due toponimi; l’argumentum dell’Edipo a Colono, invece, subito prima della citazione ferecratea offre la seguente spiegazione: ἐπὶ δὲ τῷ λεγομένῳ ἱππίῳ Κολωνῷ τὸ δρᾶμα κεῖται· ἔστι γὰρ καὶ ἕτερος Κολωνὸς ἀγοραῖος πρὸς τῷ Εὐρυσακείῳ, πρὸς ᾧ οἱ μισθαρνοῦντες προεστήκεισαν, 〈ὥστε〉 καὶ τὴν παροιμίαν ἐπὶ τοῖς καθυστερίζουσι τῶν καιρῶν διαδοθῆναι∙ ὄψ’ ἦλθες, ἀλλ’ εἰς τὸν Κολωνὸν ἵεσο. Il proverbio qui addotto, ὄψ’ ἦλθες, ἀλλ’ εἰς τὸν Κολωνὸν ἵεσο, è registrato in CPG I App. prov. IV 49, p. 444 Leutsch–Schneidewin seguito dall’ interpretamentum ἐπὶ τῶν καθυστεριζόντων καὶ βραδέως ἐρχομένων, παρόσον τῶν μισθωτῶν τοὺς ὀψὲ ἐλθόντας πάλιν ἀπέλυον ἐπὶ τὸ μισθωτήριον∙ τὸ δὲ ἦν ἐπὶ τῶν Κολωνῶν, vd. Urios-Aparisi 1992, p. 411 s. per documentazione bibliografica sul proverbio e Conti Bizzarro 1988–1989, p. 288 per le altre attestazioni antiche dell’espressione. Testo La pericope iniziale di v. 1 è tràdita correttamente in Arpocrazione che ha οὗτος, πόθεν ἥκεις;, una lezione che può essere serenamente accolta, anche a tener conto del ricorrere di πόθεν ἥκεις; in altri passi di commedia (cfr. infra πόθεν ἥκεις). Sulla base, invece, 1) del testo dell’argumentum all’Edipo a Colono, nel quale si legge οὗτος, ποτ᾽ εἰσήλθετ᾽, impossibile metri causa e 2) del citato proverbio ὄψ’ ἦλθες, ἀλλ’ εἰς τὸν Κολωνὸν ἵεσο, Meineke FCG II.1, p. 321 s., Kock CAF I, p. 184 s., e Edmonds 1957, p. 256 s., proponevano πόθεν ἦλθες (non accolto da Bothe 1855, p. 107, che stampa il testo di Arpocrazione), mentre senz’altro più deciso è l’intervento di van Herwerden 1882, p. 72: ὄψ᾽ ἦλθες, οὗτος (proverbio accomodans: Kassel–Austin PCG IV, p. 173). Se quest’ultima ipotesi altera in maniera eccessiva il testo tràdito, πόθεν ἦλθες avvicinerebbe il dettato ferecrateo a quello del proverbio, ma a fronte del testo tràdito in Arpocrazione, un testo in relazione al quale non si vedono ragioni di dubbio, il solo argomento della somiglianza con il proverbio, la cui relazione con il verso di Ferecrate non è, per altro, dimostrabile, non appare motivo sufficiente per intervenire. Per la fine del verso 1, invece, ἦμην di Arpocrazione è metricamente impossibile, mentre corretto potrebbe essere ᾠχόμην dell’argumentum all’Edipo a Colono, possibilità questa accolta da Bothe 1855, p. 107; prevale, però, l’ipotesi di accogliere

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la congettura ἱέμην di Meineke 1818, p. 23 (poi anche in FCG II.1, p. 321 s.), vd. Kock CAF I, p. 184 s., Edmonds 1957, p. 256, e, da ultimi, Kassel–Austin PCG VII, p. 142 (al cui testo si uniformano Urios-Aparisi 1992, p. 411 s., Quaglia 2001, p. 415 s., Rusten 2011, p. 160, Storey 2011, p. 488 s.), la quale è certamente plausibile ove si pensi a un errore di itacismo (identità dei suoni [η] e [ι], che avrebbe poi portato alla caduta di [ε] in *ηεμην, lectio nihili, e quindi alla forma tràdita, ἦμην). Per quanto concerne infine, sempre a v. 1, la variante εἰς/ἐς, qui metricamente adiafora, in favore della prima forma (tràdita dall’argumentum e accolta dai precedenti editori) e contro la seconda (tràdita da Arpocrazione e preferita da Kassel–Austin PCG VII, p. 142) si vedano le argomentazioni di Quaglia 2001, p. 417, per il quale «Ferecrate […] sembra impiegare normalmente εἰς, tranne in due casi in cui il ricorso ad ἐς pare giustificato dall’elevatezza del linguaggio, che assume una patina epica»; vd. anche Willi 2003, p. 234 s., e Olson 2016, p. 464. Va però osservato che si tratta di argomento non decisivo, a tanto maggior ragione ove si consideri il fatto che, tenuto in conto l’immediatamente precedente ἥκεις, l’εἰς di Arpocrazione potrebbe spiegarsi senza sforzo come un banale caso di dittografia (ἥκεις ἐς 〉 ἥκεις εἰς). Interpretazione Il disallineamento tra la domanda di A (che chiede da dove B provenga) e la risposta di B (che risponde indicando la sua direzione iniziale) rende plausibile immaginare che il racconto di B dovesse proseguire nei versi successivi (interrogatus unde veniat respondet ille ita ut altius repetita narratione prius quo iturus fuerit exponat: Kaibel apud Kassel–Austin PCG VII, p. 173). Generalmente si ritiene che la risposta di B e la menzione dei due Colono potesse alludere comicamente a Sofocle, in considerazione del fatto che la tradizione è incerta su quale delle due località abbia dato i natali al poeta tragico, vd. Conti Bizzarro 1988–1989, p. 288, e Quaglia 2001, p. 418 («L’incertezza poteva riguardare tutti coloro che avevano qualche relazione con uno dei due luoghi e il passo avrebbe potuto alludere anche a Sofocle, dato che rimaneva incerto dove il poeta tragico fosse nato»); tuttavia, come in parte rilevato già da Quaglia (ibid.), l’allusione poteva riguardare chiunque avesse avuto un legame con una delle due località di nome Colono, e comunque non esistono ragioni cogenti che spingano a pensare al tragediografo. Mi chiedo piuttosto, pur con ogni cautela, se l’attacco di B non potesse risultare comico per gli spettatori in virtù di una marcata connotazione sociale del personaggio: avrebbe certamente provocato il riso degli spettatori un personaggio evidentemente povero e male in arnese che dichiarava di essersi avviato in direzione di Colono, precisando però immediatamente dopo, contro ogni attesa, che la località in questione non era il punto di raccolta dei lavoratori salariati, ma il luogo di incontro degli Ateniesi più ricchi. In questa direzione sembrano andare le osservazioni di Fuks 1951, p. 173: «The character of Pherekrates’ play wants to stress, evidently, that he has nothing to do with the ‘low-brow’ Kolonos of the labourers, he is hurrying to the ‘high-brow’ Kolonos». οὗτος «Used as a vocative, sometimes to attract the attention of somebody at a distance, more often to call attention to a surprised or indignant question or an

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impatient command: “You there”: “I say”: also ὦ οὗτος, οὗτος σύ, the latter being possibly somewhat more brusque or urgent»: Stevens 1976, p. 37 (= Collard 2018, p. 86), ove si trovano citati, tra altri passi, Ar. Ach. 564 οὗτος σὺ, ποῖ θεῖς;, Nub. 723 οὗτος τί ποιεῖς; οὐχὶ φροντίζεις;, Vesp. 1 οὗτος, τί πάσχεις; ὦ κακόδαιμον Ξανθία, 395 οὗτος, ἐγείρου, 1364 ὦ οὗτος οὗτος, τυφεδανὲ καὶ χοιρόθλιψ; vd. anche LSJ9 s. v. οὗτος («voc. mostly implies anger, impatience and scorn») e Humbert 1960, p. 31, entrambi segnalati da Urios-Aparisi 1992, p. 411; vd. inoltre Collard 2005, p. 363, e Bianchi 2016, p. 330 ad Cratin. fr. 55 K.–A. (Drapetides) οὗτος καθεύδεις; οὐκ ἀναστήσει † βοτων. πόθεν ἥκεις; Cfr. Ar. Eccl. 376 ἀτὰρ πόθεν ἥκεις; e 520 αὕτη, πόθεν ἥκεις; e cfr. anche Plut. 83 s. πόθεν οὖν, φράσον, / αὐχμῶν βαδίζεις;. οὐ τὸν ἀγοραῖον La località (non un demo) detta Κολωνὸς ἀγοραῖος e anche μίσθιος o ἐργατικός era situata su un rilievo a ovest dell’agorà ed era il luogo di incontro tra i lavoratori salariati (assunti e pagati a giornata) in cerca di ingaggio e i possidenti in cerca di manodopera: cfr. Poll. VII 132, entrambe le fonti del frammento ferecrateo (che trasmettono la medesima notizia) e, più in particolare, vd. Fuks 1951, e Whitehead 1986, p. 330 n. 19; vd. anche Urios-Aparisi 1992, p. 412. τὸν τῶν ἱππέων Il demo Κολωνός era situato in «the N.W.N. from the Dipylon gate at Athens» (Jebb 1907, p. XXX) ed era chiamato τῶν ἱππέων (o ἵππιος o ἱππεύς: cfr. Kassel–Austin PCG VII, p. 173) in virtù di un altare ivi ubicato dedicato a Poseidone hippios; era un punto di ritrovo degli appartenenti alla classe dei cavalieri: là fu preparato, ad esempio, il colpo di stato oligarchico del 411 (Thuc. VIII 67, 2), vd. in part. Campbell 1906, p. 3 s.; Urios-Aparisi 1992, p. 412 («it was a place in which probably the rich members of the ἱππῆς lived and met») e Quaglia 2001, p. 418. Secondo Kirsten 1973, pp. 13–15, «als jüngerer Zeitgenosse des Aristophanes hat der Komödiendichter Pherekrates […] den Namen des Hügels mit den Hippeis, der ursprünglich (von der Absonderung der Pentakosiomedimnoi) einzigen bevorrechtigten Schicht der attischen Gesellschaft verbunden, die Aristophanes in seinen „Hippeis“ gefeiert hat». Sul vd. almeno Judeich 1931, pp. 45 n. 4 e 172; ulteriore bibliografia è segnalata da Quaglia 2011, p. 418 n. 24.

fr. 143 K.–A. (135 K.) ἀλλ’ ὦ περιστέριον ὁμοῖον Κλεισθένει, πέτου, κόμισον δέ μ’ ἐς Κύθηρα καὶ Κύπρον 1 καλλισθένει A: corr. Porson 1812, p. 113, Elmsley 1830, p. 19: ὀμοῦ Καλλισθένει Bothe 1855, p. 108: ὀμοῦ Κινησίᾳ Conti Bizzarro 1988–1989, p. 288 s.

Forza, o colombella simile a Clistene, Vola, portami a Citera e a Cipro!

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Athen. IX p. 395 A-C Ἀττικοὶ δὲ ἀρσενικῶς περιστερὸν καλοῦσιν […] Φερεκράτης […] ἐν δὲ Πετάλῃ· ἀλλ’ — Κύπρον Gli Attici dicono peristeros al maschile. Ferecrate […] nella Petalē: Forza — Cipro!

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Bibliografia Porson 1812, p.  113; Runkel 1829, p.  54; Elmsley 1830, p.  19; Meineke FCG II.1, p. 322; Meineke 1847, p. 114; Bothe 1855, p. 108; Kock CAF I, p. 185; Edmonds 1957, pp. 256–257; Conti Bizzarro 1988–1989, pp. 288–289; Urios-Aparisi 1992, pp. 412–415; Quaglia 2001, pp. 418–421; Rusten 2011, p. 161; Storey 2011, pp. 490–491 Contesto della citazione Il frammento è tràdito da Ateneo all’interno della sezione del libro nono dedicata alle φάσσαι (393 F–395 C), i ‘colombacci’, una delle cui cinque varietà è la περιστερά, ‘piccione’ (Athen. IX p. 393 F Ἀριστοτέλης [fr. 263 R.] φησὶ περιστερῶν μὲν εἶναι ἓν γένος, εἴδη δὲ πέντε, γράφων οὕτως “περιστερά, οἰνάς, φάψ, φάσσα, τρυγών”). A partire da p. 394 A la discussione si focalizza in particolare sulla περιστερά; a 395 B-C sono fornite informazioni relative all’utilizzo di questo sostantivo al genere maschile negli scrittori attici; come esemplificazione sono riportati due passi di Alessi, fr. 217 K.–A. (Syntrechontes), in cui si ha περιστερός al maschile, e fr. 58 K.–A. (Dorkis ē Poppyzousa), in cui, invece, si ha la forma femminile (su questi due frammenti vd. Arnott 1996, pp. 618–620 e 181; Stama 2016, pp. 403 s. e 142); seguono, come ulteriori attestazioni del maschile, Pherecr. fr. 38 K.–A. (Graēs) e, infine, i due versi dalla Petalē, ove in realtà a comparire è il neutro περιστέριον. Per le due forme al femminile e al maschile, quest’ultima condannata come non attica in Luc. Sol. 7, vd. Arnott 1996, p. 619 (ad Alex. fr. 217, 1 K.–A. [Syntrechontes]). Testo Il tràdito Καλλισθένει fu corretto da Porson 1812, p. 113 e Elmsley 1830, p. 19 (a quanto sembra indipendentemente) in Κλεισθένει (per Clistene, personaggio oggetto di onomastì komodein in molte commedie di Aristofane per la sua presunta effeminatezza, cfr. infra). La congettura è accolta da Meineke FCG II.1, p. 322; Kock CAF I, p. 185, ed Edmonds 1957, p. 256, mentre Bothe 1855, p. 108 preferiva conservare a testo il nome Callistene, intervenendo però sul lemma precedente e proponendo ὀμοῦ Καλλισθένει. Secondo Conti Bizzarro 1988–1989, p. 288, «il testo di Athen. IX 395bc […] ha un improbabile Καλλισθένει, conservato dal solo Bothe (PCGF 108: ὁμοῦ Καλλισθένει: an Κινησίᾳ Conti Bizz., coll. Aristoph. Av. 1373ss., Ran. 1437)»; se così fosse, nel verso a essere paragonato a una colomba sarebbe il ben noto ditirambografo, il quale, in virtù della aerea inconsistenza della sua poesia, si trova associato al volo anche in Ar. Av. 1372–1374 e Ran. 1437 (si vedano le osservazioni di Totaro in Mastromarco–Totaro 2006, p. 262 s. nn. 289–290). Quaglia 2001, p. 420, pur ascrivendo per errore a Conti

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Bizzaro una lettura ὁμοῖον Κινησίᾳ, del resto impossibile metri causa (dal contesto emerge con chiarezza che Conti Bizzarro aveva in mente, invece, la sequenza ὁμοῦ Κινησίᾳ), avanza obiezioni che appaiono nel complesso sensate, ovvero «la difficoltà paleografica e il fatto che si trascuri il riferimento alla sfera amorosa, che doveva essere invece la chiave del paragone» (cfr. Interpretazione). Da segnalare, infine, una possibile differente interpunzione del testo, proposta da Kaibel apud Kassel–Austin PCG VII, p. 173: ἀλλ’ ὦ περιστέριον, ὁμοῖον Κλεισθένει / πέτου ‘forza, o colombella, simile a Clistene vola’ ecc.: «il paragone, cioè, non sarebbe stato istituito tra la colomba e personaggio in tutti i suoi aspetti, ma avrebbe riguardato soltanto quello del volo» (Quaglia 2001, p. 420). Interpretazione Secondo Kock CAF I, p. 185, i due versi in questione sarebbero stati pronunciati da Afrodite o da una fanciulla (Venus aut puellula loqui videtur quae, ut Trygaeus cantharo, columba vehi volebat), forse la stessa Petale, come ipotizzava Kaibel (apud Kassel–Austin PCG VII, p. 173), all’indirizzo di una colomba mossa dalla μηχανή, in una scena che doveva presentare punti di contatto con quella iniziale della Pace, in cui Trigeo viene trasportato in cielo da uno scarabeo. A favore di tale ricostruzione sembrano spingere anche le analogie tra il dettato del frammento e Ar. Pac. 76 s. (ὦ Πηγάσειον, φησί, γενναῖον πτερόν, / ὅπως πετήσει μ’ εὐθὺ τοῦ Διὸς λαβών), isolate da Conti Bizzarro 1988–1989, p. 289: «il confronto […] si rivela decisivo: analoga è l’invocazione: ὦ Πηγάσειον — ὦ περιστέριον, nonché il verbo πετήσει — πέτου». Secondo Meineke FCG II.1, p. 322, invece, il personaggio parlante sarebbe Cinesias aliquis aut Leotrophides, levissimi homo ponderis: il riferimento sarebbe, in questo caso, ai due poeti derisi negli Uccelli di Aristofane per la loro ‘leggerezza’, ma il contesto generale del frammento si lascia più facilmente ricondurre a tematiche erotiche che a questioni di polemica letteraria: alla sfera erotica rimandano, infatti, la menzione di Citera e di Cipro, tradizionalmente legate ad Afrodite, così come quella del περιστέριον, che poteva alludere alla dea, a cui erano sacre le colombe bianche (cfr. Alex. fr. 217, 1 K.–A. [Syntrechontes] λευκὸς Ἀφροδίτης εἰμὶ γὰρ περιστερός con Arnott 1996, p. 619); vd. anche Urios-Aparisi 1992, p. 413, e Quaglia 2001, p. 420. Poco convincente appare la ricostruzione proposta da Bothe 1855, p. 108, il quale, accogliendo, come si è visto, il tràdito Καλλισθένει (cfr. supra), collocava il frammento all’interno di una scena in cui il personaggio parlante avrebbe espresso il desiderio di essere trasportato a Citera e a Cipro insieme a un tale Callistene, in una scena che avrebbe alluso al mito di Ganimede. Più recentemente, UriosAparisi 1992, p. 420, ha proposto di leggere il frammento come la descrizione dell’invio di un messaggio d’amore: «the speaker is sending a letter to a beloved person with a pigeon […]. The speaker is asking the pigeon to accomplish his or her wishes by using in a metaphorical sense the flight to any of the islands devoted to Aphrodite». ἀλλ(ά) Sul valore esortativo di ἀλλά incipitario seguito dall’imperativo cfr. supra ad fr. 119 K.–A.

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περιστέριον «Forma diminutivale in -ιον di περιστερά» (Stama 2014, p. 277; per l’impiego dei diminutivi in commedia vd. López Eire 1996, pp. 138–145; Willi 2003, pp. 171, 187, 219; Willi 2010, p. 484), documentata in quattro passi di poeti comici citati da Athen. XIV p. 654 B, proprio per la peculiarità di questa forma: περιστέριον. οὕτως ἔστιν εὑρεῖν εἰρημένον παρὰ Μενάνδρῳ ἐν Παλλακῇ (fr. 280 K.–A.) […] ὁμοίως Νικόστρατος Ἅβρᾳ (fr. 2 K.–A.) […] Ἀναξανδρίδης ἐν Ἀντέρωτι (fr. 7 K.–A.) […] Φρύνιχος Τραγῳδοῖς (fr. 53 K.–A.). L’unica ulteriore attestazione di περιστέριον è quella contenuta in questo frammento di Ferecrate, dove il diminutivo, considerato il contesto, ha una chiara funzione ipocoristica (Petersen 1910, p. 176: ‘dear little dove’). Questo nome identificava due specie di volatili della famiglia delle Columbidae, la colomba selvatica (Columba livia Gmelin) e quella domestica (Columba livia domestica Gmelin). Si tratta di un uccello forse allevato per la prima volta a Babilonia (Thompson 1936, p. 242), la cui varietà bianca giunse in Grecia probabilmente prima delle guerre Persiane (Charon FGrHist 262 F 3a-b), e generalmente associato ad Afrodite nella dimensione cultuale (IG II2 659, 23f [287/6 a.C.], cfr. Athen. IX pp. 394 F–395 A), artistica (Farnell 1896, II, tavole xli, a-c) e letteraria (ad es. Alex. fr. 217, 1 K.–A. [Syntrechontes; cfr. supra Interpretazione], Ap. Rh. III 541–544, Plut. mor. 379d; per il particolare legame della colomba bianca con la dea cfr. Hdt. I 138, Catull. 29, 8, Tibull. I 7,18, Ov. Fast. I 451 s.); vd. in generale Thompson 1936, pp. 238–247; Dunbar 1995, p. 205 (ad Ar. Av. 302); Arnott 1996, p. 619 (con ulteriore ampia bibliografia e documentazione); Arnott 2007, p. 177. Κλεισθένει Se l’intervento di Porson e Elmsey sul tràdito Καλλισθένει è corretto, il paragone di Clistene con una colomba alluderà evidentemente alla sua fama di omosessuale passivo, frequentemente attestata in commedia (per Clistene vd. PA 8525; LGPN II s. v. n. 2; PAA 575540–575545): una delle varietà della colomba (quella bianca) era infatti particolarmente sacra ad Afrodite (cfr. supra περιστέριον) e il colorito candido della pelle era tradizionalmente attribuito alle donne e quindi anche a uomini molli e effeminati: vd. Henderson 1991 (p. 211 [§ 465]); Totaro 1991, p. 155 s.; Belardinelli 1994, p. 170, e Imperio 1998a, p. 220 s. Clistene è oggetto di onomastì komodein in quasi tutte le commedie superstiti di Aristofane: cfr. Ach. 117–121; Eq. 1373 s.; Nub. 355; Thesm. 235 e 574–654 (al v. 574 significativa è l’apostrofe di Clistene alle donne del coro come ξυγγενεῖς τοὐμοῦ τρόπου); Av. 829–831; Lys. 1091 s.; Ran. 57 e 422–424 (cfr. anche Cratin. fr. 208, 2 s. K.–A. [Hōrai]; è possibile che Clistene comparisse anche in un ulteriore contesto frammentario aristofaneo, quello rappresentato dal fr. 422 K.–A. [Olkades] παῖδες ἀγένειοι, Στράτων, dal momento che Stratone, noto effeminato, era, di Clistene, inseparabile amico e potrebbe, quindi, essere stato uno dei παῖδες ἀγένειοι chiamati in causa insieme a Stratone nel seguito perduto dell’elenco: vd. da ultimo Pellegrino 2015, p. 250). L’attacco comico si concentra soprattutto sul suo aspetto glabro e femmineo, forse effetto di una qualche disfunzione ormonale: vd. Olson 2002, p. 109, e Austin–Olson 2004, p. 131; la costanza degli attacchi induce

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a credere che il personaggio fosse una figura di spicco della politica ateniese tra la fine del V e l’inizio del IV secolo. Per quanto attiene all’identità del personaggio, in Ar. Ach. 118 (Κλεισθένης ὁ Σιβυρτίου) Clistene è detto ‘figlio di Siburzio’ (PA 12646; LGPN II s. v. n. 2; PAA 819450–819455), il quale, a stare ad Antifane (fr. 66 K.–A.), era il proprietario di una palestra; come ha sottolineato Olson 2002, p. 109 s., «the identification of Kleisthenes as ὁ Σιβυρτίου […] is most likely not a simple patronymic but either a nasty joke mocking someone whose physical appearance suggested anything but a generic association with traditional manly vigour or an assertion that Kleisthenes was Siburtios’ passive sexual partner». L’identificazione proposta da Olson è con Clistene figlio di Autocrate della tribù Eretteide (PA 8524; LGPN II s. v. n. 6; PAA 575550), corego in un periodo compreso tra il 430 e il 405 a.C. (IG I3 965, 1) e quindi di condizione sufficientemente agiata da avergli potuto permettere di svolgere un ruolo di un certo rilievo nella politica ateniese, vd. anche Totaro in Mastromarco–Totaro 2006, p. 488 s. n. 94 (ad Ar. Thesm. 574). Κύθηρα καὶ Κύπρον Sulla connessione delle isole di Cipro e Citera al culto di Afrodite, attestata già in Omero (cfr. p. es. Il. V 330 e Od. VIII 362) e in Esiodo (cfr. Theog. 199), vd. Urios-Aparisi 1992, p. 414 s.

fr. 144 K.–A. (136 K.) παίειν με, τύπτειν, λακπατεῖν ὠθεῖν δάκνειν λάκπαπτειν/λάκπάπτειν cod.: corr. Alberti 1746–1766, II, p. 418 n. 26

picchiarmi, colpirmi, calpestarmi, spingermi, mordermi Phot. λ 54 Theodoridis λακπατεῖν. Φερεκράτης Πετάλῃ· παίειν με — δάκνειν lakpatein. Ferecrate nella Petalē: picchiarmi — mordermi

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Bibliografia Runkel 1829, p. 55; Meineke FCG II.1, p. 323; Meineke 1847, p. 114; Kock CAF I, p. 185; Edmonds 1957, pp. 258–259; Urios-Aparisi 1992, p. 415; Quaglia 2001, pp. 421–422; Storey 2011, pp. 490–491 Contesto della citazione Il frammento è tràdito da Fozio in forma lievemente corrotta quanto al verbo λακπατεῖν; le lezioni λάκπαπτειν/λάκπάπτειν sono però facilmente sanabili anche in virtù del confronto con Hesych. λ 216 (λακπατῆσαι· λακτίσαι, καταπατῆσαι. ἀνατρέψαι); cfr. anche Hesych. λ 183 λακκατήσας∙

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πατήσας (‘λακπατήσας cf. gl. 216’, Latte 1956, p. 567) e vd. Theodoridis 1998, p. 482 (cfr. infra λακπατεῖν). Interpretazione La serie di cinque infiniti (forse collocati in climax ascendente: vd. Urios-Aparisi 1992, p. 415) poteva dipendere da un verbo principale collocato nel verso precedente (così Kock CAF I, p. 185), ovvero l’espressione aveva un valore iussivo, come propone Edmonds 1957, p. 258 s. e n. a, ove si traducono entrambe le possibilità: «punch me, beat me, trample me, push me, bite me» oppure «to punch me, etc.». Analoghe serie di forme verbali all’infinito in accumulazione asindetica ricorrono, nello stesso Ferecrate, nel fr. 197 K.–A. (inc. fab.) νῦν δ’ ἐπιχεῖσθαι τὰς κριθὰς δεῖ, πτίττειν, φρύγειν, ἀναβράττειν / ἁνεῖν, ἀλέσαι, μᾶξαι, 〈πέψαι〉, τὸ τελευταῖον παραθεῖναι (ascritto prudentemente da Quaglia 2001, p. 284, al Doulodidaskalos) e, inoltre, in Ar. Eq. 495 s. μέμνησό νυν / δάκνειν, διαβάλλειν, τοὺς λόφους κατεσθίειν e altrove; per ulteriori serie di accumulazioni verbali vd. ad es. Cratin. fr. 341 K.–A. σφάττε δεῖρε κόπτε su cui vd. Olson–Seaberg 2018, pp. 115–117; anche in polisindeto: Ar. Eq. 692 ὠθῶν κολόκυμα καὶ ταράττων καὶ κυκῶν, Pac. 320 ὡς κυκάτω καὶ πατείτω πάντα καὶ ταραττέτω, ecc. vd. Spyropoulos 1974, p. 93, per una raccolta di analoghe serie comiche (ad es. Ar. Eq. 495, 688, 696 ecc.) in contesti di aggressione fisica (per le accumulazioni di infiniti in commedia vd., più in generale, Spyropoulos 1974, pp. 187 e 204 s., e Quaglia 2001, p. 422). λακπατεῖν Mentre gli altri verbi della serie ricorrono spesso in commedia, λακπατεῖν è attestato soltanto in forma non univerbata in Aesch. Cho. 644 λὰξ πέδοι πατουμένας e Eum. 110 καὶ πάντα ταῦτα λὰξ ὁρῶ πατούμενα; inoltre, in Soph. Ant. 1272 ricorre l’aggettivo λακπάτητος (οἴμοι, λακπάτητον ἀντρέπων χαράν: vd. Griffith 1999, p. 347); cfr. anche fr. Soph. 683, 1–3 R. οὐ γάρ ποτ᾽ ἂν γένοιτ᾽ ἂν ἀσφαλὴς πόλις / ἐν ᾗ τὰ μὲν δίκαια καὶ τὰ σώφρονα / λάγδην πατεῖται. Per l’utilizzo e il valore di πατεῖν in contesti comici vd. Taillardat 1965, pp. 362 (§ 632) e 448 (§ 771).

fr. 145 K.–A. (137 K.) πρόσαιρε τὸ κανοῦν, εἰ δὲ βούλει, πρόσφερε porta il canestro, o se preferisci, trasportalo Phot. (b, z) α 648 Theodoridis = Suid. αι 299 = Lex. Bachm. p. 46, 17 αἴρειν καὶ τὸ προσφέρειν δηλοῖ (καὶ τὸ παρατιθέναι add. Phot. b ex Phot. α 690) [seq. Ar. Pac. 1]. καὶ μετὰ τῆς 〈πρός add. Naber ap. van Leeuwen 1907, p. 258〉 προθέσεως Φερεκράτης Πετάλῃ (Πετάλοις Phot.)· πρόσαιρε — πρόσφερε il verbo airein indica anche l’azione di prospherein (e quella di paratithenai) [seq. Ar. Pac. 1]. anche con il preverbo pros: Ferecrate nella Petalē: porta — trasportalo

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Bibliografia Runkel 1829, p. 55; Meineke FCG II.1, pp. 323–324; Meineke 1847, p. 115; Bothe 1855, p. 108; Kock CAF I, p. 183; Edmonds 1957, pp. 258–259; Conti Bizzarro 1988–1989, pp. 289–290; Urios-Aparisi 1992, pp. 415–417; Quaglia 2001, pp. 422–424; Storey 2011, p. 490 s. Contesto della citazione Il frammento di Ferecrate è riportato per indicare una sinonimia tra αἴρειν e προσφέρειν; per questo stesso motivo vengono citati, subito prima, Ar. Pac. 1 (cfr. infra) e, di seguito, Men. fr. 209 K.–A. (Kekryphalos) εἶτ’ εὐθὺς οὕτω τὰς τραπέζας αἴρετε· / μύρα, στεφάνους ἑτοίμασον, σπονδὰς ποίει e fr. 335 K.–A. (Synaristōsai) ἂν ἔτι πιεῖν μοι δῷ τις. ἀλλ’ ἡ βάρβαρος / ἅμα τῇ τραπέζῃ καὶ τὸν οἶνον ᾤχετο / ἄρασα ἀφ’ ἡμῶν. La glossa risulta molto vicina, per contenuto e forma, a un’ulteriore glossa di Fozio, ovvero Phot. α 690 Theodoridis αἴρειν· τράπεζαν παρατιθέναι. δηλοῖ καὶ τὸ προσφέρειν· αἶρ’ αἶρε μᾶζαν ὡς τάχος τῷ κανθάρῳ. Ἀριστοφάνης [Pac. 1]. καὶ μετὰ τῆς πρός προθέσεως ‘πρόσαιρε’. καὶ ἐπὶ τοῦ παρακειμένην ἀφελεῖν τὴν τράπεζαν, dove però è parso problematico il fatto che Fozio «proponga come sinonimo di προσαίρειν non il semplice παρατιθέναι, ma l’espressione τράπεζαν παρατιθέναι». Così Quaglia 2001, p. 423 n. 41, che continua come segue: «La costruzione […] è ben diversa da quella richiesta da προσαίρειν — προσφέρειν, e certamente τράπεζαν παρατιθέναι non può voler dire ‘offrire come cibo’». A parere di Conti Bizzarro 1988–1989, p. 290 (citato da Quaglia), «la glossa [scil. Phot. α 690 Theodoridis], probabilmente, fa confusione: αἴρειν∙ τράπεζαν παρατιθέναι è contraddittorio: il verbo va inteso, infatti, nel senso di ‘levare la mensa’». Un problema che Marzullo (apud Conti Bizzarro 1988–1989, p. 290 n. 80) aveva creduto di risolvere sostituendo παρατιθέναι con ἀποτιθέναι. Ma Hesych. α 2067 αἴρειν τραπέζας· παρατιθέναι, nel quale Quaglia (ibid.) proponeva di individuare la possibile origine dell’errore («il confronto con Hesych. α 2067, ove si propone αἴρειν τράπεζαν [sic]∙ παρατιθέναι può forse far pensare che Fozio attingesse alla medesima fonte e si sia semplicemente confuso l’ordine delle parole»), non fa invece che confermare la bontà di entrambe le glosse di Fozio nel documentare l’equivalenza di (προσ)αίρειν a προσφέρειν e a παρατιθέναι nel nesso αἴρειν τράπεζαν/τραπέζας, in una varietà di significati tutti però molto simili tra loro; così, ben a ragione Taillardat–Roesch 1966, p. 73 s.: ‘apporter’ una portata, o, appunto, una tavola, come, tra altri passi, in Eub. fr. 111, 3 K.–A. ᾔρετο τράπεζα (vd. Hunter 1983, p. 212: «ᾔρετο in v. 3 is […] here used for εἰσῄρετο (cf. Ar. Frogs 518), although αἴρειν τράπεζαν normally refers to the removal of the first course»), o anche ‘servir un aliment’. Come che sia, è verosimile ritenere che anche Phot. α 690 Theodoridis proceda da Ferecrate, pur registrando, senza ulteriori indicazioni di sorta, il solo πρόσαιρε: vd. Theodoridis 1982, p. 77, che aggiunge tra parentesi tonde “(Pherecr. fr. 137 K.)” dopo il verbo πρόσαιρε, e Quaglia 2001, p. 423 («l’affermazione che προσαίρειν era utilizzato come sinonimo di προσφέρειν potrebbe essere stata dedotta dalla stessa testimo-

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nianza ferecratea, ove i due verbi compaiono insieme»), al quale rimando anche per le reciproche influenze delle due glosse e per la loro fortuna nella tradizione erudita e grammaticale. Testo Rispetto al tràdito βούλει, Kaibel apud Kassel–Austin PCG VII, p. 174 proponeva βούλῃ, ma βούλει è buona forma attica e, quindi, senza dubbio da preferire (vd. Quaglia 2001, p. 423: ‘βούλῃ Kaibel, nulla necessitate’): vd. Kühner–Gerth I, p. 536; Schwzyer I, p. 668; Threatte 1980, p. 380. Interpretazione Meineke FCG II.1, p. 323 s. (seguito poi da Bothe 1855, p. 108, e da Kock CAF I, p. 183) citava come parallelo Ar. Ran. 1159 χρῆσον σὺ μάκτραν, εἰ δὲ βούλει, κάρδοπον: dopo aver ascoltato Euripide accusare Eschilo di ridondanza nella formulazione dei suoi versi (vv. 1152 ss.), Dioniso compone il verso appena citato imitandone lo stile pleonastico; vd. anche Conti Bizzarro 1988–1989, p. 289. Il verso delle Rane presenta evidenti punti di contatto con il frammento di Ferecrate: in entrambi i casi viene utilizzata la stessa formula di cortesia (εἰ δὲ βούλει), ma in Aristofane viene proposto un pleonasmo sostantivale (μάκτραν/ κάρδοπον) e non verbale. Resta comunque impossibile stabilire con certezza se con tale formulazione Ferecrate intendesse irridere le contemporanee riflessioni di stampo sofistico sul linguaggio, magari attaccando specificatamente la dottrina della ὀρθοέπεια di Prodico di Ceo (come proposto da Edmonds 1957, p. 257 n. b, ripreso anche da Conti Bizzarro 1988–1989, p. 289 n. 79 e da Conti Bizzarro 1999, p. 25), già bersaglio anche di Aristofane: vd. Ambrose 1983 e Farioli 1998, nonché Quaglia 2001, p. 424 n. 43. La menzione del canestro, ad ogni modo, potrebbe far riferimento a un contesto sacrificale, come, ad esempio, in Ar. Av. 43, 850; Pac. 948; Ran. 518; Plat. Com. fr. 98 K.–A. (Paidaraion); Men. Sam. 222; in tal caso προσφέρειν sarebbe impiegato con valore tecnico (cfr. Men. fr. 1001, 2 K.–A. θυσίαν προσφέρων e vd. LSJ9 s. v. προσφέρω) e potrebbe essere funzionale a integrare e rettificare il più generico αἴρειν: «il primo invito, genericamente espresso nel passo di Ferecrate con προσαίρειν, veniva forse precisato con il ricorso ad un’espressione più adeguata: ‘porta il canestro, anzi, presentalo per il sacrificio’» (Quaglia 2001, p. 424). Entrambe le spiegazioni – pleonasmo forse con valore ironico o contesto sacrificale – sono presentate come alternativamente possibili da Urios-Aparisi 1992, p. 416: «I think that there are two possible explanations: the word πρόσφερε is very vague and could provoke a confusion which could be developed in the following lines or the speaker uses πρόσαιρε alongside πρόσφερε within a religious context where the last verb is more appropriate». πρόσαιρε «The simple form αἶρε and its compounds are frequently found in Aristophanes with the same meaning as Pherecrates and they seem to be colloquial expressions» (Urios-Aparisi 1992, p. 416), cfr. ad es. Ar. Pac. 1, Av. 850 (παῖ παῖ, τὸ κανοῦν αἴρεσθε καὶ τὴν χέρνιβα, molto simile alla formulazione di Ferecrate), Thesm. 255 (su cui vd. in part. Austin–Olson 2004 ad loc., p. 137). τὸ κανοῦν «Kανοῦν was used especially of the basket or maund containing the sacred barley at a sacrifice» (Edmonds 1957, p. 257 n. b), ma più genericamente

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il termine può indicare anche il cestino utilizzato per portare pane e altri cibi, vd. Urios-Aparisi 1992, p. 416 s., che cita la descrizione che ne dà F. Humborg in RE suppl. IV (1924), col. 867 (in gen. 867–875): «ein flacher, breiter, offener und wenig tiefer Korb […]; er begegnet häufig auf den Bildwerken und den mannigfaltigen, oft zeitlichen Formen einer runden oder auch ovalen Platte, Schale oder Schlüssel».

fr. 146 K.–A. (9 Dem.) τί δ’ αὖτε λίαν ὧδε λιπαρεῖς θεόν; τί δ’ Wilamowitz ap. Reitzenstein 1891–1892, p. 12: τήνδ’ Urios-Aparisi 1992, p. 417: τὴ δ’ cod. αὖτε Urios-Aparisi 1992, p. 417: αὐτῶ cod.: αὐτὸ Wilamowitz ap. Reitzenstein 1891–1892: δῆτα Nauck 1894, p. 69: 〈x l〉 τὶ οὖν δῆθ’ ὧδε λιπαρεῖς θεόν con. Quaglia 2001, p. 425 s., coll. Ar. Nub. 791

perché di nuovo invochi così in eccesso il dio? Et. gen. (A) λ 180 Alp.  λιπαρεῖν· σημαίνει τὸ παρακαλεῖν. ὡς παρὰ Φερεκράτει ἐν Πετάλῃ τὴ δ’ — θεόν, παρὰ τὸ λίαν παρεῖναι Liparein: significa parakalein (invocare). Come presso Ferecrate nella Petalē: perché — il dio?, da lian pareinai (‘incombere, star troppo addosso’)

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Bibliografia Reitzenstein 1891–1892, p. 12; Nauck 1894, p. 69; Demiańczuk 1912, p. 68; Urios-Aparisi 1992, pp. 417–418; Quaglia 2001, pp. 425–426; Quaglia 2003a, pp. 272–273; Storey 2011, p. 490 s. Contesto della citazione Il frammento è tràdito a documentazione dell’utilizzo di λιπαρεῖν per indicare l’atto di chi prega con troppa insistenza (cfr. infra λιπαρεῖς). Come notano Kassel–Austin PCG VII, p. 174 la fonte può essere ravvisata nel περὶ ὀρθογραφίας di Giorgio Cherobosco (Anecd. Oxon. II, p. 234, 27 Cramer), al quale si può ricondurre, tramite il passaggio intermedio di Σ, anche la glossa analoga, ma priva di un locus esemplificativo, di Phot. λ 333 Theodoridis = Suid. λ 579 (— Hesych. λ 1089) λιπαρεῖ∙ παρακαλεῖ. Più ampia, e fornita della medesima indicazione paretimologica contenuta nella voce dell’Etymologicum genuinum fonte del nostro frammento (λιπαρεῖν […] παρὰ τὸ λίαν παρεῖναι), è Phot. λ 334 Theodoridis λιπαρεῖν∙ τὸ σφόδρα προσκαρτερεῖν καὶ δεῖσθαι∙ ἀπὸ τοῦ λίαν παρεῖναι καὶ ἀξιοῦν (materiale analogo, compreso il citato passo del de orthographia di Cherobosco, si trova raccolto in Theodoridis 1998, p. 510 [ad 334]).

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Testo Il testo della glossa presenta la citazione di Ferecrate in forma evidentemente corrotta. Mi distacco qui dall’edizione di Kassel e Austin, i quali, riproponendo il testo stampato da Demiańczuk 1912, p. 68, accoglievano per l’inizio del verso due congetture di Wilamowitz (apud Reitzenstein 1891–1892, p. 12): τί δ’ e αὐτό; mentre accolgo τί δ’, per il tràdito, e certamente corrotto, αὐτῶ alla proposta di Wilamowitz preferisco, pur con qualche dubbio, l’αὖτε di Urios-Aparisi (cfr. infra); stampo quindi τί δ᾽ αὖτε. L’incipitario τί δ᾽ per il tràdito τὴ δ᾽ appare la soluzione più semplice, imputabile a un banale errore di itacismo, e sembra preferibile al τήνδ᾽ proposto da Urios-Aparisi 1992, p. 417, il quale non manca, d’altra parte, di notare una certa durezza nella sintassi: «it [scil. τήνδ(ε)] would depend on θεόν at the end of the line and perhaps the only difficulty would be the distance of this demonstrative adjective from its name and that the noun is usually accompanied by the article, but it could be elided in poetry». L’emendamento αὐτὸ di Wilamowitz per il tràdito αὐτῶ, del resto, inserirebbe nel testo del frammento una costruzione di λιπαρεῖν con doppio accusativo che non trova altre attestazioni, né la durezza della costruzione risulterebbe appianata intendendo αὐτό come una forma avverbiale: si vedano, in tal senso, le obiezioni di Urios-Aparisi 1992, p. 417, e Quaglia 2001, p. 425, per i quali si tratterebbe di una soluzione sostanzialmente priva di paralleli significativi. Sono possibili due soluzioni: 1) αὖτε (Urios-Aparisi 1992, p. 417), forse preferibile sul piano paleografico al pur splendido δῆτα di Nauck (cfr. infra); la particella αὖτε trova paralleli in commedia, cfr. ad es. Ar. Vesp. 1015 (vd. Biles–Olson 2015, p. 380), Pac. 1270, Lys. 66; Metag. fr. 4, 2 K.–A. (Aurai ē Mammakythos; vd. Orth 2014, p. 403), mentre incerte sono le occorrenze rappresentate da Cratin. fr. 182, 1 K.–A., dove αὐθ᾽ ἡμεῖς di parte della tradizione non è accolto da Kassel e Austin (PCG IV, p. 214), e da Hermipp. fr. 63, 6 K.–A., su cui vd. Comentale 2017, p. 255; 2) τί δῆτα (Nauck 1894, p. 69). Questa soluzione è accolta da Quaglia 2001, p. 425, che cita una serie di occorrenze a sostegno del fatto che si tratta di un nesso di comune impiego in commedia: Ar. Eq. 439; Nub. 753, 1105, 1273, 1290, 1456; Pac. 230, 1214; Av. 1147, 1152; Lys. 181, 753; Thesm. 618; Ran. 654, 768; Eccl. 1002, 1028, 1151; Plut. 39; fr. 104, 1 K.–A. (Geōrgoi); fr. 661, 1 K.–A. (inc. fab.). In fine di verso risulta problematico, infine, θεόν privo di articolo né ulteriormente determinato: Urios-Aparisi, come si è visto, interviene supplendo a inizio verso un pronome dimostrativo da concordare con il sostantivo, mentre Quaglia (2001, p. 425 s., poi ripreso in Quaglia 2003a, p. 272 s.) ipotizza un guasto testuale assai più pervasivo, scaturito dalla penetrazione nel testo di λίαν, inteso come glossa sinonimica di ὧδε. Quaglia ipotizza, quindi, 〈x l〉 τὶ οὖν δῆθ’ ὧδε λιπαρεῖς θεόν, confrontando per τὶ οὖν δῆθ’ Ar. Nub. 791 οἴμοι. τί οὖν δῆθ’ ὁ κακοδαίμων πείσομαι; e proponendo, inoltre, che il bisillabo iniziale mancante possa essere integrato, exempli causa, con τοῦτον.

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Interpretazione Impossibile risalire dal poco che resta al contesto del quale il verso faceva in origine parte. Secondo Urios-Aparisi 1992, p. 417, la sequenza τί δ᾽ αὖτε, ove correttamente congetturata, potrebbe spingere a supporre un fatto di parodia epica (αὖτε, «unusual in comedy, […] is nonetheless found in a context of epic parody»: seguono i passi citati sopra [cfr. supra Testo]), né sarebbe da escludere un’eco dell’incipit omerico τὸν δ᾽ αὖτε: «in this case the text could be interpreted as follows: ‘again do you importune so in vain the goddes’» (p. 418). Quaglia 2001, p. 425 n. 49, considera per contro «poco giustificato» il ragionamento di Urios-Aparisi, specie per quanto attiene alla possibilità di scorgere nel verso di Ferecrate un caso di parodia epica: «il confronto con i passi indicati mostra il contrario: Vesp. 1015 è addirittura l’inizio della parabasi vera e propria». Più probabile, per Quaglia, ravvisarvi una formulazione paratragica, ipotizzando una possibile parodia di Soph. OT 1435 καὶ τοῦ με χρείας ὧδε λιπαρεῖς τυχεῖν. λιπαρεῖς Di etimologia incerta, forse legato al verbo λίπτω ‘desiderare’, mentre certamente falsa è la derivazione antica ἀπὸ τοῦ λίαν παρεῖναι (cfr. Contesto della citazione); «éventuellement dénominatif d’un *λῑπαρός, éliminé par la quasihomonymie de λιπαρός ‘gras’» (DELG s. v.; vd. anche GEW s. v. e Beekes 2010 s. v.). «Found not only in tragedy ([A.] PV 520, 1004; S. OT 1435; OC 776, 1201; not in E.), but in prose (e. g. Hdt. iii 51.1; Pl. Ion 541e) and comedy (Telecl. fr. 40.1 (corrupt); Men. Epitr. 271), and thus not obviously paratragic» (Olson 2002, p. 192 [ad 450–2]). Sul possibile valore paratragico del verbo si vedano le osservazioni di Bagordo 2013, p. 193, ad Telecl. fr. 40 K.–A. (inc. fab.) ξυγγενέσθαι διὰ χρόνου † λιπαρείτω μου / δρυπεπέσι μάζαις καὶ διασκανδικίσαι †; contro l’opinione di Kock CAF I, p.  218, che proponeva di espungere λιπαρεῖν dal corrotto passo di Teleclide (verbum comicis poetis est inusitatum: exstat Aristoph. Ach. 452 in versu tragici coloris), Bagordo rileva: «das Vokabular von Ar. Ach. 451–3 (νῦν δὴ γενοῦ / γλίσχρος προσαιτῶν λιπαρῶν τ’. Εὐριπίδη, / δός μοι σπυρίδιον διακεκαυμένον λύχνῳ) ist jedoch nicht sonderlich (para)tragisch […]. Zwar gehört das Verb auch der tragischen Sprache an, doch klingen die fraglichen Passagen – wohl mit der Ausnahme von Aesch. PV 1004–6 (καὶ λιπαρήσω τὸν μέγα στυγούμενον / γυναικομίμοις ὑπτιάσμασιν χερῶν / λῦσαί με δεσμῶν τῶνδε) – eher geläufig: vgl. PV 520 (τοῦτ’ οὐκέτ’ ἂν πύθοιο, μηδὲ λιπάρει), Soph. OT 1435 (καὶ τοῦ με χρείας ὧδε λιπαρεῖς τυχεῖν;), OC 776 (ὥσπερ τις εἴ σοι λιπαροῦντι μὲν τυχεῖν). Seine Präsenz in der Komödie ist ferner um das Kock noch nicht bekannte und auch später unberücksichtigt gebliebene Pher. fr. 146 […] zu erweitern […], dessen Tonfall recht gängig ist. In dieselbe Richtung weist Men. Epitr. 272 (λιπαροῦντι καὶ πείθοντί με / ὑπεσχόμην), wo das Verb stilistisch keine Abweichung vom kolloquialen Ton der ganzen Periode darstellt (vgl. auch Men. Sam. 721–2 ἀφείσθω· καταλελιπαρήκατε / δεόμενοί μου)».

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fr. 147 K.–A. (138 K.) κἀκ πιθῶνος ἤρυσαν ἄκρατον ἤρυσαν Meineke FCG II.1, p. 323: possis igitur ἤρυσεν, Kassel–Austin PCG VII, p. 174: εἴρυσαν C: εἴρυσεν A: εἴρησεν FS

E dalla cantina spillarono vino puro Poll. VII 163 (codd. FS, A, C) ἀπὸ δὲ τῶν πίθων ὁ πιθών, Φερεκράτους εἰπόντος ἐν Πετάλῃ· κἀκ — ἄκρατον. καὶ μέντοι καὶ Εὔπολις ἐν τοὶς Δήμοις ἔφη (fr. 122 K.–A. = 26 Telò) Dai pithoi (si dice) pithōn, come capita di dire a Ferecrate nella Petalē: e dalla — vino puro. E anche Eupoli nei Demoi disse (fr. 122 K.–A. = 26 Telò)

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Bibliografia Runkel 1829, p. 54; Meineke FCG II.1, p. 323; Meineke 1847, p. 115; Bothe 1855, p. 108; Kock CAF I, p. 185; Edmonds 1957, pp. 258–259; Conti Bizzarro 1988–1989, p. 290; Urios-Aparisi 1992, pp. 418–419; Quaglia 2001, pp. 426–428; Storey 2011, pp. 490–491 Contesto della citazione All’interno del libro settimo dell’Onomasticon di Polluce, περὶ τεχνῶν ἀγοραίων, a partire dal paragrafo 159 il discorso si volge πάλιν ἐπὶ τὰς εἰρηνικωτέρας τῶν τεχνῶν (Poll. VII.159); dal § 161 prende avvio una sezione nella quale si trovano elencati una serie di termini collegati alla professione del κεραμεύς, al cui interno (§§ 163–164) si menziona dapprima il proverbio ἐν πίθῳ τὴν κεραμείαν μανθάνειν (cfr. Plat. Lach. 187b con il relativo scolio [p. 117 Greene = 13, pp. 177 s. Cufalo]; cfr. anche Zenobio, III 65 = CPG I, p. 73), che «si riferisce a coloro che trascurano i primi rudimenti di una disciplina per dedicarsi immediatamente ad attività più complesse, al pari di chi, intraprendendo l’arte della ceramica, si accinge subito a modellare una giara» (Pellegrino 2015, p. 281, ad Ar. fr. 485 K.–A. [Proagōn]); quindi, a partire dalla citazione del πίθων, Polluce prosegue annotando ἀπὸ δὲ τῶν πίθων ὁ πιθών, sostantivo, quest’ultimo, in relazione al quale vengono citati a documentazione il frammento di Ferecrate e poi Eup. fr. 122 K.–A. = 26 Telò (Demoi) ἐνταῦθα τοίνυν ἦν ἐκείνοισιν πιθών. Testo La tradizione manoscritta di Polluce documenta due forme dell’aoristo del verbo ἐρύω, la terza persona plurale εἴρυσαν (C) e la terza singolare εἴρυσεν (A), mentre lectio nihili dovuta a identità di pronuncia itacistica è εἴρησεν di FS. Un primo problema è quello della scelta della persona, terza singolare o terza plurale: quest’ultima è l’ipotesi prevalente sulla base di una proposta di Meineke

Πετάλη (fr. 147)

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FCG II.1, p. 323, il quale, ritenendo a torto che l’unica lezione tràdita dai codici di Polluce fosse εἴρυσαν, si limitava a rettificarla in ἤρυσαν, cfr. infra. In realtà i manoscritti di Polluce tramandano però entrambe le forme, il che rende necessario, e problematico, scegliere tra le due alternative. Non mi pare cogente, sotto questo aspetto, il confronto con Eupol. fr. 122 K.–A. (= fr. 26 Telò) ἐνταῦθα τοίνυν ἦν ἐκείνοισιν πιθών ‘a quanto pare, là quelli avevano una cantina’ (trad. Telò 2007, p. 654), perché il riferimento a una pluralità di persone nel frammento di Eupoli (ἐκείνοισιν) non ha alcuna influenza sulla determinazione del numero in quello di Ferecrate, essendo l’impiego di πιθών l’unico punto di contatto tra i due frammenti (vd. anche Quaglia 2001, p. 427, che parla, a ragione, di «una situazione scenica completamente diversa»). Per quanto riguarda il verbo in sé, ho scelto di mantenere la forma stampata da Meineke FCG II.1, p. 323, ἤρυσαν, accolta, da ultimi, da Kassel–Austin PCG VII, p. 174 (e in precedenza anche da Kock CAF I, p. 185, vd. Conti Bizzarro 1988–1989, p. 290), pur considerando perfettamente possibile anche ἤρυσεν, come, d’altronde, gli stessi Kassel e Austin (ibid.: possis igitur ἤρυσεν). Il verbo ἀρύω vale ‘attingere’ (LSJ9 s. v., DGE s. v.) sebbene forse, come notava già Bothe 1855, p. 108, esso disconvenit τῷ πιθῶνι; vd. Quaglia 2001, p. 428: «non si adatta perfettamente all’idea di «spillare»: cfr. Xen. Cyr. I 9, 3: ἀρύσαντες ἀπ᾽ αὐτῆς [τῆς φιάλης]) dove si parla di un recipiente, non di un luogo». Il tràdito ἐρύω ‘tirare fuori, trarre’ (cfr. LSJ9 s. v., DGE s. v.) è di uso quasi esclusivamente epico ed è conservato da Bothe 1855, p. 108, e da Edmonds 1957, p. 258; se si accettasse una delle due forme tràdite dell’aoristo di ἐρύω, si potrebbe pensare con Urios-Aparisi 1992, p. 419, che «perhaps the manuscripts’ reading could be suitable to a parody of the grandiose tone of an epic passage, for instance Od. 2.389 where Athena alone εἴρυσε ships to the coast». Infine, Marzullo (apud Conti Bizzarro 1988–1989, p.  290) proponeva ἠρύσαν〈το〉 vel ἠρύσαν〈τ’〉, adducendo a confronto Il. I 466 e Ar. Thesm. 393 e 557; ma nel passo omerico (lo rileva, a ragione, Quaglia 2001, p. 428) è presente ἐρύειν, non ἀρύειν (ὤπτησάν τε περιφραδέως, ἐρύσαντό τε πάντα), mentre i due passi aristofanei «non hanno alcuna attinenza con il problema» (Quaglia ibid.). Interpretazione Il frammento fa riferimento a qualcuno, un singolo o più persone a seconda del numero, singolare o plurale, per il quale si opti in relazione alla forma verbale (cfr. Testo), che tira fuori da una cantina del vino puro, non mescolato (ἄκρατον); poiché il vino era di norma conservato puro e diluito subito prima di essere consumato, non credo che il frammento alludesse al motivo, pur frequentemente attestato in commedia (cfr. p. es. Ar. Ach. 75 e 1229; Eq. 87; Vesp. 525 e Eccl. 1123), del consumo di vino non diluito in occasione di simposi o banchetti sfrenati (vd. Olson 2002, p. 94 s.) perché l’azione di cui qui si parla (tirare fuori il vino) potrebbe essere semplicemente anteriore da un punto di vista cronologico a quella, successiva, di diluirlo prima della consumazione. Sulla scorta del confronto con Pherecr. frr. 75 e 76 (Koriannō) e 152 K.–A. (Tyrannis, cfr. infra ad loc.) e, inoltre, di quello con Ar. Lys. 196 ss., Thesm. 738 ss., fr. 364

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K.–A. (Kokalos, vd. ora la bibliografia raccolta da Pellegrino 2015, p. 209 s.), che attestano un analogo motivo, Quaglia 2001, p. 427 ritiene che il frammento faccia riferimento al topos comico della passione delle donne per il vino. πιθῶνος «Large, mostly earthen vessel for storing wine, which is open at the top», Beekes 2010, s. v., che richiama anche la forma micenea qe-to e sulla base dell’alternanza vocalica documentata da questa forma e di quella consonantica in alcune varianti inizianti con φιδ- in luogo di πιθ- pensa a una parola pre-greca (ibid.; vd. anche GEW s. v., DELG s. v., Hellmann 1994, p. 143). Il termine è attestato in àmbito letterario nelle due occorrenze elencate da Polluce e, nella forma πιθεών in età ellenistica, ad. es. Diod. XIII 83, 3; AP IX 403, 5 e per via epigrafica, vd. Conti Bizzarro 1988–1989, p. 290, e Telò 2007, p. 589. ἄκρατον «The Greeks normally drank their wine mixed with water […], and taking it neat is occasionally referred to as barbarian behaviour (Hdt. vi. 84; PL Lg. 637d-e; cf. Anacr. PMG 356b. 3). The attractions of undiluted wine were well known (Olson on Pax 300), however, and avoidance of it was clearly not universal (e. g. 1229; PI. Com. fr. 205. 3–4) and seems to have had more to do with fear of a hangover (Alex. frr. 9; 257; Clearch. fr. 3. 1–3) or of growing outrageously drunk too fast (Alex. fr. 246; adesp. com. fr. 101. 13; cf. Anaxandr. fr. 3) than with any broad cultural taboo» (Olson 2002, p. 94 s., ad Ar. Ach. 75 ἄκρατον οἶνον ἡδύν). Per altre attestazioni di ἄκρατος in commedia cfr. ad es. Ar. Ach. 1129; Eq. 85, 87, 105, 354; Vesp. 525; Eccl. 1123 ecc.

fr. 148 K.–A. (139 K.) Athen. VIII p. 343 C Μέλανθιος (23 T 2 Snell–Kannicht) ἦν ὁ τῆς τραγῳδίας ποιητής. ἔγραψε δὲ καὶ ἐλεγεῖα. κωμῳδοῦσι δ’αὐτὸν ἐπὶ ὀψοφαγίᾳ Λεύκων ἐν Φράτηρσιν (fr. 3 K.–A.), Ἀριστοφάνης ἐν Εἰρήνῃ (804), Φερεκράτης ἐν Πετάλῃ. ἐν δὲ τοῖς Ἰχθύσιν Ἄρχιππος τῷ δράματι (fr. 28 K.–A.) ὡς ὀψοφάγον δήσας παραδίδωσι τοῖς ἰχθύσιν ἀντιβρωθησόμενον Melanzio era un poeta tragico. Scrisse anche elegie. Lo deridono per la sua ghiottoneria Leucone nei Phrateres, Aristofane nella Pace e Ferecrate nella Petalē. E negli Ichthyes (fr. 28 K.–A.) Archippo, in quanto ghiottone, lo fa consegnare in catene ai pesci per essere a sua volta divorato

Bibliografia Runkel 1829, p. 54; Meineke FCG II.1, p. 322; Meineke 1847, p. 114; Bothe 1855, p. 108; Kock CAF I, p. 185; Edmonds 1957, pp. 258–259; Urios-Aparisi 1992, pp. 419–420; Quaglia 2001, pp. 428–429; Storey 2011, pp. 490–491 Contesto della citazione Il frammento è tràdito da Ateneo all’interno di una lunga sezione dedicata agli ὀψόφαγοι e alla ὀψοφαγία (VIII pp. 337 B–347 C; su questi due termini vd. Wilkins 1993, pp. 197–199; Olson 1998, p. 92; Davidson 2002, pp. 42–47 e 168–171, Dalby 2003, p. 212 s.). La mancata citazione di porzioni effettive di testo induce Quaglia (2001, p. 429, n. 58) a credere che Ateneo non

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avesse consultato direttamente le commedie che cita, ma si fosse limitato in questo caso a riportare un elenco di passi comici tratto da una fonte intermedia, verosimilmente una lista di kōmōdoumenoi (Steinhausen 1910, p. 59). Vale comunque la pena notare l’evidente diversità di status che intercorre tra le prime tre commedie citate e la menzione degli Ichthyes (per la commedia di Archippo rimando a Farioli 2001, p. 166 s. e a Miccolis 2017, pp. 190–194), a proposito dei quali Ateneo non si limita alla sola menzione del titolo della commedia, ma aggiunge dettagli che riguardano l’economia generale del dramma, il che rende verosimile immaginare, come notava Steinhausen 1910, p. 59, che la pericope relativa ad Archippo avesse un’origine differente da quelle immediatamente precedenti. Se anche questo fosse vero, non esistono, a ogni modo, ragioni che possano far pensare che la fonte di Ateneo abbia ordinato le commedie secondo criteri cronologici (cfr. supra Datazione). Interpretazione Il poeta tragico Melanzio (PA 9767; PAA 638275; LGPN II, s. v. Μελάνθιος [3]; TrGF I 23) è oggetto di diffuso e continuato onomastì komodein nelle commedie databili tra gli ultimi decenni del quinto secolo e l’inizio del quarto (vd. Molitor 1969, pp. 229–231; Storey 1988, p. 380 s.; Urios-Aparisi 1992, p. 419 s.; Imperio 1998a, pp. 219–222; Pirrotta 2009, p. 279 s.; Napolitano 2012, p. 18 [con ampia bibliografia], Bagordo 2014b, p. 28 s., Olson 2016, p. 108, Miccolis 2017, p. 193 s.): gli attacchi sono collocabili all’incirca tra l’ultimo quarto del quinto secolo (almeno dal 421, anno di rappresentazione di Phrateres, Pace e Kolakes) e il primo decennio del IV secolo (probabile datazione delle Skeuai di Platone, alle quali appartiene il fr. 140 K.–A.). La lunga durata e l’ampia diffusione inducono a credere che gli attacchi contro Melanzio fossero divenuti con il tempo un vero e proprio topos comico, forse progressivamente sempre meno dipendente da polemiche di carattere culturale e letterario (tematiche verso le quali, peraltro, Ferecrate manifesta evidente interesse): sulla questione vd. Quaglia 2001, p. 428 s. Tutte e tre le commedie rappresentate alle Dionisie del 421 contengono attacchi rivolti contro Melanzio: sia nei Phrateres (cfr. supra) che nella Pace (dove è descritto ai vv. 799–818, insieme al fratello Morsimo, come un ghiottone dai tratti mostruosi e vorace di pesci, vd. Pellegrino 2000, p. 168; sulla sua ghiottoneria si insiste nuovamente poco più avanti, ai vv. 1009–1014) ricorre l’accusa di ὀψοφαγία, per la quale il poeta era attaccato anche in Eup. fr. 43 K.–A. (Astrateutoi), vd. Olson 2017, p. 174. Nei Kolakes, invece, il poeta era deriso, oltre che, ancora una volta, per la sua ingordigia, per la sua μαλακία e come κίναιδος e κόλαξ (cfr. 178 K.–A.), vd. Napolitano 2012, p. 18 s., e Olson 2016, p. 108. Viene attaccato inoltre per la sua λαλιά in un frammento di Platone comico (cfr. Plat. Com. fr. 140 K.–A. [Skeuai], vd. Pirrotta 2009, p. 280 anche per l’accusa comica di λαλιά, generalmente mossa a demagoghi e sofisti) e infine in quanto vittima di una deturpante malattia della pelle in Ar. Av. 150 s. e con tutta probabilità anche in Call. fr. 14 K.–A. (Pedētai), dove è definito λευκόπρωκτος: che l’hapax alluda qui a una «di quelle affezioni cutanee relativamente benigne e curabili […] che venivano considerate una deformità, un difetto estetico» è ipotesi di Imperio 1998a, p. 221 s.; contra vd.

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Bagordo 2014a, p. 170. Infine per la menzione di Melanzio in Archipp. fr. 28 K.–A. (Ichthyes) e per il riferimento a questo passo comico e al poeta tragico presente in Eust. in Il. 1201, 3–8, vol. IV p. 384, 5–10 van der Valk, vd. Miccolis 2017, p. 191 s.

fr. 149 K.–A. (140 K.) Athen. XV p. 690 F ὡς καὶ τὸ Μεγάλλειον· ὠνομάσθη γὰρ καὶ τοῦτο ἀπὸ Μεγάλλου τοῦ Σικελιώτου· οἳ δ᾽ Ἀθηναῖόν φασιν εἶναι τὸν Μέγαλλον. μνημονεύει δ᾽ αὐτοῦ Ἀριστοφάνης ἐν Τελεμησσεῦσι (fr. 549 K.–A.) καὶ Φερεκράτης ἐν Πετάλῃ, Στράττις δ᾽ ἐν Μηδείᾳ (fr. 34, 2 K.–A.) (come il plangonion da Plangon) così anche il profumo detto megalleion trae il suo nome dal siceliota Megallo, anche se alcuni dicono che Megallo fosse ateniese; lo citano Aristofane nei Telmessii, Ferecrate nella Petalē e Strattis nella Medea Hesych. μ 1011 Μετάλλειον μύρον· […]  Μέταλλος γάρ τις Σικελιώτης τὴν τοῦ Μεταλλείου μύρου κατασκευὴν εὗρεν. μνημονεύει δὲ καὶ Φερεκράτης ἐν τῇ Πετάλῃ Profumo metalleion: […] infatti, un certo Metallo siceliota inventò la preparazione di questo profumo. Lo ricorda anche Ferecrate nella Petalē

Bibliografia Runkel 1829, p. 54; Meineke FCG II.1, pp. 322–323; Meineke 1847, p. 114; Bothe 1855, p. 108; Kock CAF I, p. 186; Edmonds 1957, pp. 258–259; UriosAparisi 1992, p. 420; Quaglia 2001, pp. 429–430; Storey 2011, pp. 490–491 Contesto della citazione Nella sezione dei Deipnosofisti dedicata ai profumi (XV pp. 686 B–692 C) Ateneo elenca una serie di passi comici relativi al profumo detto megalleion: prima di Ferecrate è ricordato Aristofane (fr. 549 K.–A. [Telemēssēs]) con il solo titolo delle rispettive commedie, mentre subito dopo sono menzionati Strattis (fr. 34, 2 K.–A. Mēdeia), Anfide (fr. 27, 2 K.–A. Odysseus) e Anassandride (fr. 47, 2 K.–A. Tēreus) dei quali vengono citati versi. Secondo Quaglia 2001, p. 430 n. 60, il duplice trattamento riservato da Ateneo ai comici da lui citati (prima viene presentato tutto il materiale attinente alla commedia antica, poi quello proveniente dalla commedia di mezzo, con Strattis sulla linea di confine, per così dire) dipenderebbe dall’utilizzo di due distinte fonti, l’una collettore di materiale proveniente dall’archaia, l’altra invece dalla mesē (più specificatamente, sulle attestazioni del megalleion nella commedia di mezzo, provenienti esclusivamente da drammi con trame incentrate su paradigmi mitici, si vedano le considerazioni di Orth 2009, p. 169). Allo stesso profumo e al suo inventore fa riferimento, con tutta probabilità, anche la glossa esichiana: sulla questione, insieme alle osservazioni di Latte in apparato, si veda in part. Renehan 1969, p. 13, oltre agli editori del frammento: Meineke FCG II.1, p. 322 s.; Bothe 1855, p. 108; Kock CAF I, p. 186; Edmonds 1957, p. 258 s.

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Interpretazione Non è possibile stabilire il contesto in cui Ferecrate menzionava il megalleion né se a essere citato fosse l’unguento in sé o il suo inventore. Kassel–Austin PCG VII, p. 175, spaziando nel testo di Ateneo il nome di Megallo, sembrano pensare che a essere ricordato in Ferecrate fosse l’inventore del profumo e non il profumo stesso, vd. anche Quaglia 2001, p. 430; ciò sarebbe coerente con il fatto che nella prima citazione dopo quelle di Aristofane e Ferecrate, i quattro versi della Mēdeia di Strattis, è presente, a v. 2, il nome proprio Μέγαλλος (ma nelle due successive a ricorrere è invece il nome del profumo, il che rende la questione problematica). Il gran numero di fonti comiche citate, alle quali bisogna aggiungere Eub. fr. 89 K.–A., (Prokris), testimonia la diffusione del profumo, dall’aroma particolarmente intenso, molto ricercato e costoso, la cui menzione sembra funzionale all’evocazione di un contesto lussuoso e sfarzoso; per la preparazione cfr. Thphr. Odor. 29 ἔτι δ’ ἐκ πλειόνων τούτου τὸ μεγαλεῖον· καὶ γὰρ ἐκ κιναμώμου […] καὶ ἐκ τῆς σμύρνης κοπτομένης ἔλαιον ῥεῖ; 42 κεφαλαλγῆ δὲ τῶν μὲν πολυτελῶν τὸ ἀμαράκινον καὶ τὸ νάρδινον καὶ μεγαλεῖον, τῶν δ’ εὐτελῶν ὅλως μὲν τὰ πλεῖστα μάλιστα δὲ τὸ δάφνινον, Plin. NH XIII.13 s. postea successit propter gloriam appellatum megalium, ex oleo balanino, calamo, iunco, xylobalsamo, casia, resina. huius proprietas ut ventiletur in coquendo, donec desinat olere; rursus refrigeratum odorem suum capit. Sul passo di Plinio vd. in part. Fiorentini 2017, p. 146: «(Plinio) ne colloca la moda dopo i tempi di Menandro (postea). Se ciò sia un fatto storicamente attendibile non è dato sapere: la documentazione ne attesta la presenza in testi comici anteriori all’esperienza della nea, ma non si può escludere che Plinio si rifaccia a materiale diverso da quello della commedia, né che la moderna percezione sia deviata dal naufragio del materiale cui Plinio attingeva». Sul megalleion si vedano anche Millis 2015, p. 252; Papachrysostomou 2016, p. 175 (che raccoglie le fonti antiche inerenti preparazione e utilizzo del profumo); Squillace 2010, pp. 152–153, 178–179; 2014, pp. 44–46.

Τυραννίς (Tyrannis) (“Tirannide”)

Bibliografia Runkel 1829, pp. 56–57; Meineke FCG II.1, pp. 324–326; Meineke 1847, pp. 115–116; Bothe 1855, pp. 108–109; Kock CAF I, pp. 186–187; Hoffmann 1910, p. 34; Körte 1938, col. 1988, 41–46; Schmid 1946, p. 105 n. 10; Geissler 1969, p. 26; Edmonds 1957, pp. 258–261; Urios-Aparisi 1992, pp. 421–429; UriosAparisi 1996–1997, p. 79; Quaglia 2001, pp. 431–434; Storey 2011, pp. 492–495; Zimmermann 2011a, pp. 736–737 Titolo Diversamente da quanto avviene in tragedia (dove le attestazioni mostrano una più ampia sfumatura di significati: vd. Parker 1998, pp. 158–161; utili osservazioni al proposito, in relazione all’uso di rex e tyrannus in teatro latino arcaico, specialmente in Plauto, nel confronto con gli usi comici greci, in Russo 2017 [la Tyrannis compare ricordata a p. 92]), in contesti comici i sostantivi τυραννίς e τύραννος implicano in genere un tono inequivocabilmente derogatorio e sono utilizzati quasi esclusivamente in riferimento a un potere assoluto, contrario alle leggi e privo di limitazioni. Frequente il rinvio, implicito o esplicito, alla tirannide di Pisistrato e dei Pisistratidi, chiamata in causa, il più delle volte, con l’obiettivo di formulare le consuete accuse rivolte ai cittadini politicamente più attivi di voler sovvertire la costituzione (cfr. p. es. Ar. Vesp. 486 ss. con le osservazioni di Quaglia 2001, p. 432 n. 2; a tal proposito si vedano anche i passi raccolti da MacDowell 1971, p. 180 [ad Vesp. 345]), oppure compaiono in relazione al predominio esercitato da Pericle sulla vita politica ateniese (sull’immagine di Pericle τύραννος vd. ora Bianchi 2016, p. 229). Una solo apparente eccezione alla regola è costituita dal ricorrere dei termini τυραννίς e τύραννος in relazione alla sfera divina: per quanto, infatti, in Ar. Av. 1605 e Plut. 124 τυραννίς indichi specificatamente la potestà assoluta che Zeus esercita su uomini e dèi, il fatto che negli Uccelli a Pisetero, acquisite, a fine commedia, le prerogative proprie di Zeus (cfr. v. 1708), venga riservato il titolo di τύραννος non è cosa che ammetta di essere letta in chiave positiva. Quanto al ruolo che il titolo della commedia ha giocato in relazione ai tentativi di ricostruzione della trama cfr. infra Contenuto. Contenuto In assenza di testimonianze indirette, il problema relativo al contenuto della commedia può essere affrontato esclusivamente sulla base dei frammenti superstiti, che però non consentono di trarre elementi certi né quanto alla trama né quanto ai personaggi che vi agivano in scena. Le diverse ipotesi di ricostruzione avanzate dagli studiosi si fondano dunque soprattutto sul titolo, che però lascia a sua volta aperta la strada a interpretazioni di segno diverso. Sulla scorta del fr. 152 K.–A., in cui viene evocata la sagace invenzione messa a punto da un non meglio definito gruppo di donne per bere liberamente vino in abbondanza, costringendo invece gli uomini a una assoluta sobrietà (cfr. infra), prima Runkel 1828, p. 56 (Vel nomen mulieris est, vel tyrannis mulierum, γυναικοκράτεια […], in hac fabula descripta erat, quae imperiosae in viros vitae luxuriosae sese dederant), poi Kock CAF

Τυραννίς

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I, p. 186 (fortasse γυναικοκρατία quaedam intellegenda est, qualem in Ecclesiazusis finxit Aristophanes), poi ancora Körte 1938, col. 1988, 41–46 («In der Τυραννίς dreht er [scil. Ferecrate] als Vorläufer von Aristophanes’ Ekklesiazusen das Verhältnis der Geschlechter um, die Weiber herrschen und geben den Männern nur ganz flache Trinkgefäße, während sie selbst ganz tiefe, wahre Lastschiffe, gebrauchen»), immaginavano uno scenario simile a quello delle Ecclesiazuse di Aristofane; nella medesima linea, più tardi, Edmonds 1957, p. 259 n. d, e Quaglia 2001, p. 432 s.; così anche Urios-Aparisi 1996–1997, p. 79 («One of the subjects of Τυραννίς (Tyranny) is women attaining the power and establishing a free-drinking society (fr. 152). It could have represented a political fantasy, perhaps similar to that of Aristophanes’ The Assembly Women»), che però nel commento aveva argomentato la questione in termini assai più cauti e problematici (Urios-Aparisi 1992, p. 421; cfr. anche infra). Quanto al topos comico costituito dalla conquista del potere da parte delle donne si vedano almeno le osservazioni di Arnott 1996, p. 151 s., e di Farioli 2001, pp. 139–147; una bibliografia ragionata è inoltre raccolta da Stama 2014, p. 119. Ferecrate, dunque, avrebbe messo in scena la conquista del potere da parte delle donne, in linea con un motivo comico attestato nelle Ecclesiazuse e prima ancora nella Lisistrata, e sviluppato più tardi, a quanto è dato di vedere, anche da Anfide e da Alessi, entrambi autori di commedie intitolate Γυναικοκρατία (sulle due commedie si vedano rispettivamente le considerazioni di Papachrysostomou 2016, p. 61, e di Stama 2014, p. 119). A proposito della commedia di Anfide, tuttavia, non si può escludere che il dominio delle donne a cui allude il titolo si esercitasse nella sfera privata dei cittadini, senza mettere in scena un vero e proprio cambiamento di regime politico (vd. Papachrysostomou 2016, p. 61). Così, Hoffmann 1910, p. 34, riteneva che anche il titolo Tyrannis potesse alludere con comica deformazione alle eccessive ingerenze delle donne ateniesi negli affari privati e domestici (Kockius collato titulo collegit γυναικοκρατίαν quandam intellegendam esse. Quod nobis non probatur, nam in hoc fragmento (scil. fr. 152 K.–A.) de mulierum vinositate et mendaciis agitur, queri videntur viri, quod mulieres fraudibus regno quasi domus re vera potitae sint. Ideo titulus τυραννίς non de constituenda re publica muliebri, sed de paresenti earum dominatione intellegendus est); un’ipotesi che, ove cogliesse nel segno, sposterebbe il contenuto della commedia dalla sfera pubblica e politica a quella tipica della commedia di costume (così anche Zimmermann 2011a, p. 736 s.: «In der Tyrannis […] könnte es um Frauenherrschaft gegangen sein, wenn das Stück denn nicht auch eine Hetärenkomödie ist, jedoch nicht wie in den aristophanischen Ekklesiazusen um einen Staatsreich, der zur Gynaikokratie führte, sondern um den schon herrschenden Zustand, in dem die Frauen das Sagen haben, nach Belieben schalten und walten und ihren Begierden wie der Trunksucht unverblümt nachgehen»; contro l’ipotesi che la commedia fosse un γυναικεῖον δρᾶμα vd. però Sommerstein 1990, p. 224). Ancora diversa l’idea di Bothe 1855, p. 108 (ma si è visto sopra che Runkel avanzava un’ipotesi simile già ben prima), il quale proponeva di riconoscere nel titolo della commedia un nomen […] mulieris nuptae […]. τυραννὶς pro ἡ τύραννος appellata fuerit femina imperio-

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sa, res pro persona: la protagonista della commedia avrebbe esercitato un dispotico dominio in virtù della ricca dote di cui era fornita (ibid.). Secondo Henderson 2000, p. 142, e Storey 2011, p. 493, il titolo della commedia potrebbe derivare dal nome di un’etèra, mentre per Urios-Aparisi 1992, p. 421, la τυραννίς del titolo della commedia sarebbe da identificare con la personificazione del potere di Zeus (analogamente a quanto avviene, negli Uccelli, con il personaggio di Basileia), la quale, scesa dall’Olimpo, compariva sulla scena per riportare l’ordine sulla terra: una ricostruzione che mette insieme, espressamente, elementi desunti, insieme, dagli Uccelli e dalla Pace. Datazione La data di rappresentazione della commedia è sconosciuta. Le ipotesi di datazione avanzate da Geissler 1969, p. 26 (post 430 ca.), e da Edmonds 1957, p. 259 (410), sono molto deboli e inoltre si fondano sull’attribuzione alla commedia di Pherecr. fr. 207 K.–A. (inc. fab.), un frammento, riferito alla Tyrannis sulla base di generiche osservazioni contenutistiche, che forse non contiene neanche materiale originariamente ferecrateo, e sembrerebbe costituire invece un dotto divertissement letterario di Eustazio realizzato a partire dal fr. 152 K.–A. (si vedano, in tal senso, le lucide osservazioni di Lorenzoni 1989, pp. 19–21, poi riprese in Lorenzoni 1998, p. 72 s.). fr. 150 K.–A. (141 K.) κἄπειθ’ ἵνα μὴ πρὸς τοῖσι βωμοῖς πανταχοῦ ἀεὶ λοχῶντες βωμολόχοι καλώμεθα, ἐποίησεν ὁ Ζεὺς καπνοδόκην μεγάλην πάνυ E poi, affinché ovunque presso gli altari, tendendo sempre imboscate, non fossimo chiamati bōmolochoi, Zeus costruì una cappa enorme davvero Harp. p. 76, 9–15 Dindorf = p. 60 Keaney

βωμολοχεύεσθαι· κυρίως ἐλέγοντο βωμολόχοι οἱ ἐπὶ τῶν θυσιῶν ὑπὸ τοὺς βωμοὺς καθίζοντες καὶ μετὰ κολακείας προσαιτοῦντες, ἔτι δὲ καὶ οἱ παραλαμβανόμενοι ταῖς θυσίαις αὐληταί τε καὶ μάντεις. Φερεκράτης Τυραννίδι· κἄπειθ’ ἵνα — πάνυ Bōmolocheuesthai: in senso proprio erano chiamati bōmolochoi quelli che durante i sacrifici stavano presso gli altari mendicando con petulante adulazione, ma anche coloro che erano chiamati per i sacrifici in qualità di auleti o indovini. Ferecrate nella Tyrannis: e poi — davvero

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Τυραννίς (fr. 150)

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Bibliografia Runkel 1829, p.  57; Dobree 1843, I, p.  586; Meineke FCG II.1, p. 324; Bothe 1855, p. 109; Kock CAF I, p. 186; Edmonds 1957, pp. 258–259; Conti Bizzarro 1988–1989, pp. 291–292; Urios-Aparisi 1992, p. 423; Wilkins 2000, p. 88; Quaglia 2001, pp. 434–437; Farioli 2001, pp. 149–150; Storey 2011, pp. 492–493 Contesto della citazione Il frammento di Ferecrate è citato da Arpocrazione a documentare l’uso del termine βωμολόχος in senso proprio, interpretato come ‘colui che tende agguati vicino gli altari’ (da βωμός e λοχᾶν). Nella pericope immediatamente successiva, invece, il fr. 171 K.–A. di Aristofane attesta l’utilizzo metaforico di βωμολοχεύω, a rendere l’agire di ‘individui che tentano di acquisire un guadagno tramite lo scherno e il motteggio’ (Caciagli 2014, p. 90; vd. anche, in relazione al frammento, l’informato commento di Pellegrino 2015, p. 122 s.). È verosimile che, come proposto da Caciagli, i versi di Ferecrate costituissero il locus classicus per l’attestazione del senso proprio del termine non solo per le fonti di Arpocrazione, ma anche per la tradizione scoliastica ad Aristofane e per quella lessicale, dove per βωμολόχος è attestata la medesima etimologia, sia pure senza esplicito riferimento ai versi di Ferecrate (vd. Caciagli 2014, pp. 88–90; le attestazioni dell’etimologia nella scoliastica e nella lessicografia sono discusse a p. 89 s.). Interpretazione A partire da Dobree 1843, I, p. 586 (ipotesi simili anche in Meineke FCG II.1, p. 324; Kock CAF I, p. 186; Farioli 2001, p. 149 e Storey 2011, p.  493; Edmonds 1957, p.  259 n. e, riteneva che il personaggio parlante fosse Hermes), gran parte della critica ha ritenuto che i versi fossero pronunciati da un dio che lodava l’invenzione del cielo: una grande cappa che convogliava in alto il fumo dei sacrifici permetteva agli dei di giovarsi dei sacrifici senza affannarsi intorno agli altari, evitando così la fama di βωμολόχοι. Secondo una nota manoscritta di Kaibel, riportata con pur cauto favore da Kassel e Austin (PCG VII, p. 176: veremur ut recte), il frammento conterrebbe invece una parasiti alicuius cosmologia: una comica riscrittura del mito dell’origine del mondo, svolta in chiave evidentemente tutt’altro che imparziale, in forma forse analoga a quella proposta da Pisetero negli Uccelli (vv. 471 ss.). La raffigurazione del cielo come cappa di un camino costituiva verosimilmente una parodia delle nuove idee filosofiche e scientifiche che si andavano affermando in seno alle élites politiche e culturali ateniesi contemporanee: l’immagine potrebbe alludere alle teorie di Ippone di Reggio (derise anche da Aristofane in Nub. 96–97 e Av. 1001), che paragonava il cielo a un forno e gli uomini ai carboni che ardono sotto la sua volta (sugli attacchi comici a Ippone di Reggio vd. Conti Bizzarro 1988–1989, p. 291; Dunbar 1995, p. 555 s., e Quaglia 2001, p. 436 n. 25). 1–2 πανταχοῦ […] ἀεὶ L’espressione ricorre anche in Ar. Eq. 568. 2 βωμολόχοι La radice βωμολόχ- rimanda a un’ampia costellazione di significati, in origine legati specificatamente al contesto comico, ma il cui valore si amplia e si arricchisce progressivamente: la tradizione grammaticale ed erudita conserva tracce evidenti della stratificazione semantica nell’utilizzo letterario (sulla questione vd. Caciagli 2014, pp. 88–90). Le occorrenze di βωμολόχος e dei termini corradicali in Aristofane (raccolte da Borowski 2013, p. 63 s.) si collocano intorno a

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due poli distinti e solo in parte sovrapponibili: su un piano metapoetico (un piano per il quale gli studiosi moderni hanno a più riprese ipotizzato una possibile afferenza del termine a un registro linguistico propriamente tecnico, anche in senso drammaturgico: per un’analisi circostanziata delle occorrenze da Aristofane fino a Plutarco rimando a Caciagli–Corradi–Giovanelli–Regali 2014 [i contributi di Caciagli, Corradi e Regali sono riproposti ora in Caciagli–Corradi–Regali 2016]), il termine fa riferimento a una volgarità triviale, fondata su «temi semplici, come la miseria, la fame, le percosse, che coinvolgono personaggi di poco conto come gli schiavi» (Regali 2014, p. 77), ma può designare anche, in chiave di insulto, o almeno di scomma, fatti, comportamenti e personaggi inseriti in contesti che prevedano il perseguimento con l’inganno del proprio utile, senza specifici legami diretti con situazioni di ordine scenico (si vedano, per questo, le lucide osservazioni di Lauriola 2005, in parte riprese e approfondite in Lauriola 2010, pp. 32–55; a partire da Zieliński 1885, p. 116, e fino ancora almeno a Borowski 2013, la critica ha tentato di identificare nel βωμολόχος una maschera fissa della commedia: le varie ipotesi sono raccolte da Regali 2014, pp. 85–87, per il quale «pur legittima quale strumento per l’esegesi, la categoria interpretativa impiegata dalla critica non sembra coincidere con il significato dei termini legati al tema bomoloch- in Aristofane» [p. 87]). Per quanto concerne la derivazione dell’aggettivo da βωμός e λοχᾶν, la trafila ricostruita da Ferecrate, accolta da Arpocrazione (ma anche da buona parte della critica moderna, ancora fino a tempi recenti: così, tra gli altri, Wilkins 2000, p. 88, e Beekes 2010, p. 251 [s. v. βωμός]), appare sospetta: come osserva, a ragione, Kidd 2012, p. 243, riprendendo un’osservazione di Fontaine 2010, p.  174, «Pherecrates was a comedian, not a lexicographer, and it seems beyond question that these lines consist of a pun, not a serious lexical definition» (vd. anche Caciagli in Caciagli–Corradi–Regali 2016, p. 136); le paretimologie, d’altronde, erano uno strumento tanto consueto quanto efficace nelle mani dei comici a promuovere il riso negli spettatori: si vedano, in tal senso, le osservazioni di Dunbar 1995 p. 703). 3 ὁ Ζεὺς La degradatio delle divinità, le cui azioni sono il prodotto di istinti bassi e grevi, è un topos comico, massimamente applicato nei confronti di Eracle (per il quale rinvio a quanto osservo infra a proposito dello Pseudēraklēs) ma comune anche nei confronti di Zeus: si vedano, in tal senso, le occorrenze raccolte da Quaglia 2001, p. 436 n. 26.

fr. 151 K.–A. (142 K.) ἆρ’ ἀράχνι’ ὥσπερ ταῖς σιπύαισι ταῖς κεναῖς; σικυαῖσι V, συκ- cett.: corr. Valckenaer 1767, p. 169 C

forse ragnatele come nelle credenze vuote?

Τυραννίς (fr. 151)

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Suid. α 3750 ἀράχνη· θηλυκῶς τὸ ὕφασμα. […] Φερεκράτης Τυραννίδι· ἆρ’ ἀράχνι’ — κεναῖς; arachnē: al femminile, la ragnatela. Ferecrate nella Tyrannis: forse — vuote?

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Bibliografia Valckenaer 1767, p. 169 C; Runkel 1829, p. 57; Meineke FCG II.1, pp. 325–326; Meineke 1847, p. 116; Bothe 1855, p. 109; Kock CAF I, pp. 186–187; Edmonds 1957, pp. 260–261; Urios-Aparisi 1992, pp. 423–424; Quaglia 2001, pp. 437–440; Storey 2011, pp. 492–493 Contesto della citazione Il frammento di Ferecrate è citato da Suida, insieme a Nicoph. fr. 3 K.–A. (per il quale vd. Pellegrino 2013, p. 32 s.) e a Cratin. fr. 202 K.–A., nel contesto di una glossa dedicata alla radice arachn-, a documentare l’uso del neutro ἀράχνιον per designare la tela del ragno (sulle modalità della citazione e sulle fonti dell’interpretamentum vd. Quaglia 2001, p. 437 n. 27). Testo Il testo tràdito viene generalmente ritenuto inammissibile sul piano del senso: pur attestato altrove in commedia, infatti, il termine σικύα «does not make any sense within the following words» (Urios-Aparisi 1992, p. 424). L’intervento di Valckenaer 1767, p. 169 C (dove però, evidentemente per un refuso, si legge σιπυαῖσι; la correzione dell’accento si deve a Meineke FCG II.1, p. 325 s.), unanimemente accolto dagli editori (Meineke FCG II.1, p. 325 s.; Bothe 1855, p. 109; Kock CAF I, p. 186 s.; Edmonds 1957, p. 260 s., e in ultimo anche Storey 2011, p. 492 s.), introduce nel frammento il riferimento a un’immagine ricorrente nella letteratura greca (vd. infra Interpretazione). Interpretazione L’immagine della ragnatela che compare in luoghi desolatamente vuoti ricorre in tutta la letteratura greca, da Omero fino a Nonno (ottima raccolta di passi in Pellegrino 2013, p. 32 s.), oltre che nei due frammenti comici citati contestualmente dalla fonte; per quanto concerne i dativi (ταῖς σιπύαισι ταῖς κεναῖς), è verosimile immaginare la reggenza da un verbo nel contesto immediatamente precedente, o successivo. Impossibile dire altro, però: l’ipotesi formulata da Quaglia 2001, p. 440 («Dopo aver saputo che gli dèi erano rimasti a digiuno quando sulla terra si era instaurata la tirannide delle donne, qualcuno si informava su quanto rimanesse dei banchetti divini e commentava facendo ricorso ad una immagine abituale: la pancia degli dei era ormai piena di ragnatele»), attiene all’ambito del fantastico.

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fr. 152 K.–A. (143 K.)

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εἶτ’ ἐκεραμεύσαντο τοῖς μὲν ἀνδράσιν ποτήρια πλατέα, τοίχους οὐκ ἔχοντ’ ἀλλ’ αὐτὸ τοὔδαφος μόνον, κοὐχὶ χωροῦντ’ οὐδὲ κόγχην, ἐμφερῆ γευστηρίοις· σφίσι δέ 〈γ’〉 αὐταῖσιν βαθείας κύλικας ὥσπερ ὁλκάδας οἰναγωγούς, περιφερεῖς, λεπτάς, μέσας, γαστροιίδας, οὐκ ἀβούλως, ἀλλὰ πόρρωθεν κατεσκευασμέναι αὔθ’, ὅπως ἀνεκλογίστως πλεῖστος οἶνος ἐκποθῇ. εἶθ᾽ ὅταν τὸν οἶνον αὐτὰς αἰτιώμεθ’ ἐκπιεῖν, λοιδοροῦνται κὠμνύουσι μὴ πιεῖν ἀλλ’ ἢ μίαν. ἡ δὲ κρείττων ἡ μί’ ἐστὶ χιλίων ποτηρίων

1 εἶτ’ ἐκεραμεύσαντο Bergk ap.  Meineke FCG II.1, p.  324: εἶτα κεραμεύσαντα A: κεραμεύεσθαι CE μὲν CE: om. A 3 χωροῦντ’ Casaubon 1600, p.  505, 42: δωρ- A 4 σφίσι δέ γ’αὐταῖσιν Bergk ap. Meineke FCG II.1, p. 324: φασὶ δ’ αὐταῖσι A: ταῖς δὲ γυναιξὶ CE, Eust. 5 λεπτάς, μέσας A: λεπτάς μεστάς CE, Eust.: στρεβλάς (sive λευράς), μέσας Kock CAF I, p. 187: Peppink 1936, p. 66: ἐκτεταμένας Kaibel in ed. Athen. γαστροιϊδας A: om. CE, Eust.: ἐγγάστριδας Porson 1812, p. 127: δὲ γάστριδας Bothe 1844, p. 14: γαστροίδεας Meineke FCG II.1, p. 324 s.: -δέας Meineke 1867, p. 224: -ώιδεας Emperius 1847, p. 350: -ώνιδας Kock CAF I, p. 187: μεγιστογάστριδας Palmer 1883, p. 335: μεσογαστροζωνίδας Kaibel ms. (ap. K.–A. PCG VII, p. 177) 6 om. CE, Eust. 7 spurium putant Wilamowitz (ap. Kaibel 1890, p. 59) et Kaibel ms. ap. K.–A.: αὔθ’ om. CE, Eust. 9 μὴ πιεῖν CE, Eust.: μὴ κ’ πιεῖν A

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Poi fecero fabbricare per i loro mariti coppe piatte, senza bordi, ma con il fondo soltanto: e non contenevano neppure un goccio, simili a tazzine per l’assaggio. Per loro stesse, invece, coppe profonde come navi da carico per il trasporto del vino, tondeggianti, sottili e panciute al centro, non improvvisando, ma avendo progettato da molto tempo il piano, per bere vino in abbondanza senza tenere il conto. Se poi le accusiamo di scolarsi il vino ci insultano e giurano di aver bevuto soltanto una coppa: ma quella vale da sola più di mille coppe!

[1–10] Athen. XI p. 481 B (post fr. 75) ὅτι δὲ μεγάλοις ποτηρίοις αἱ γυναῖκες ἐχρῶντο ὁ αὐτὸς εἴρηκε Φερεκράτης ἐν Τυραννίδι διὰ τούτων · εἶτ’ ἐκεραμεύσαντο — ποτηρίων che le donne si servissero di coppe grandi lo afferma lo stesso Ferecrate nella Tyrannis nei versi seguenti: poi fecero fabbricare — coppe

Τυραννίς (fr. 152)

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Athen. l. l. Epit. (CE) Φερεκράτης δὲ παίζων φησί· τοῖς μὲν ἀνδράσι κεραμεύεσθαι — ποτηρίων (hinc [4–10] Eust. in Od. p. 1632, 30) Ferecrate scherzando afferma: per i loro mariti — coppe [10] Athen. XI p. 460 C (ποτήρια) καὶ Φερεκράτης ἐν Τυραννίδι· κρείττων — ποτηρίων e Ferecrate nella Tyrannis: vale da sola — coppe

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Bibliografia Casaubon 1600, p. 505; Porson 1812, p. 127; Runkel 1829; Meineke FCG II.1, pp. 324–325; Emperius 1847, p. 350; Meineke 1847, pp. 115–116; Bothe 1855, pp. 108–109; Meineke 1867, p. 224; Kock CAF I, p. 187; Palmer 1883, p. 335; Oeri 1948, p. 15; Edmonds 1957, pp. 260–261; Urios-Aparisi 1992, pp. 424–428; Quaglia 2001, pp. 440–448; O’Higgins 2003, p. 214 n. 133; Storey 2011, pp. 492–495 Contesto della citazione Il frammento è citato da Ateneo a XII p. 481 B, mentre un altro passo dei Deipnosofisti (XI p. 460 C) tramanda il solo v. 10. Il testo del frammento risulta in più punti corrotto e le lezioni proposte dall’epitomatore di Ateneo (dal quale dipende la citazione di Eustazio nel commento all’Odissea) sembrano spesso frutto di tentativi di sistemazione di un testo evidentemente avvertito come problematico. Testo Per quanto concerne il primo verso, in luogo del corrotto κεραμεύσαντα (che forse destava perplessità già nell’epitomatore, visto il κεραμεύεσθαι di CE) Kassel e Austin accolgono a testo la congettura εἶτ’ ἐκεραμεύσαντο di Bergk, che interpretava l’aoristo medio con valore causativo (h. e. mulieres confici iusserunt). Del tutto plausibile appare anche, al v. 3, l’economico intervento di Casaubon, che correggeva in χωροῦντ(α) il tràdito δωροῦντ(α). Ancora a Bergk si deve, per il v. 4, l’ottima congettura σφίσι δέ γ’ αὐταῖσιν, che sana un passo in cui la tradizione manoscritta trasmette un testo palesemente errato (φασὶ δ’ αὐταῖσι in A) o banalizzato (ταῖς δὲ γυναιξὶ nei codici dell’epitome e in Eustazio). Per quanto concerne il

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v. 5, il secondo emistichio, così come trasmesso dal manoscritto A (λεπτάς, μέσας γαστροιϊδας) desta qualche perplessità, riflessa anche nel testo dell’epitome, che omette γαστροιϊδας e presenta, in luogo di μέσας, μεστάς. Kassel e Austin conservano a testo la lezione γαστροιίδας (così, dopo Kassel e Austin, anche Storey 2011, p. 492), pur considerandola sospetta sulla base di Eust. in Od. 1684, 27 εὕρηται παρὰ τοῖς παλαιοῖς καὶ ἰσχιοίδης ὁ μεγάλα ἰσχία ἔχων, οὕτω δὲ καὶ γαστροοίδης (-ροίδης Meineke) τις καλεῖται ὑπὸ τῶν Ἀττικῶν, καὶ ὠμοίδης δὲ ὁ τοὺς ὤμους ἐξοιδηθείς, καὶ πεοίδης ὁ τὸ πἐος ὅ ἐστι τὸ αἰδοῖον (cfr. anche Hesych. γ 202 γαστροοίδης· προγάστωρ. καὶ γαστροπίων, dove però la la forma tràdita per il lemma è γαστροείδης). Non sembra d’altronde pienamente convincente nessuno dei molti tentativi di intervento elencati in apparato, interventi che hanno interessato ora l’ultima parte del verso ora l’intero secondo emistichio. Da segnalare, semmai, lo στρεβλάς (sive λευράς) proposto da Kock al posto del tràdito λεπτάς, con γαστρώνιδας a riempire la parte finale del verso (CAF I, p. 187; γαστρώνιδας sarebbe per Kock da interpretare come una forma femminile comicamente coniata a partire da γάστρων). Qualche difficoltà ha posto anche la costruzione sintattica del v. 7, interpretato da Meineke FCG II.1, p. 325 (ripreso da Kock CAF I, p. 187) come equivalente a ex longinquo rem (αὐτό) ita instruentes ut plurimum vini bibere possint. Il verso fu ritenuto spurio da Wilamowitz ap. Kaibel 1890, p. 59, e da Kaibel stesso, per il quale sicuri segni di grave corruttela o di interpolazione erano da scorgersi nell’utilizzo del solo αὐτό (peraltro omesso nell’epitome) dove sembrerebbe richiesto αὐτὸ τοῦτο o αὐτὸ μόνον (ma in Aristofane non mancano casi del solo αὐτό concordato a senso con ciò che precede: si vedano, per questo, gli esempi raccolti da Quaglia 2001, p. 446 n. 58; qualche dubbio desta, semmai, la posizione del pronome, isolato a inizio verso, e infatti Kaibel 1890, p. 59, preferiva una diversa interpunzione; del tutto inverosimile la proposta avanzata da Urios-Aparisi 1992, p. 428, il quale suggeriva di intendere αὔθ᾽ come forma elisa di αὺτὰ [scil. ποτήρια]); l’utilizzo dell’aoristo passivo ἐκποθῇ (che ricorre, oltre che qui, solo in epoca assai più tarda) e l’avverbio ἀνεκλογίστως inattestato altrove ma sospettato di essere recentioris fabricae vocabulum. Al v. 9, infine, Kassel e Austin accolgono la variante μὴ πιεῖν trasmessa dai manoscritti dell’epitome e da Eustazio, sanando la corrotta sequenza μὴ κ’ πιεῖν del manoscritto A di Ateneo (sulla successione di un verbo composto seguito dal corradicale semplice cfr. infra). Interpretazione Nonostante i versi in questione abbiano indotto diversi studiosi a immaginare che durante la commedia venisse messa in scena la conquista del potere da parte delle donne, il contenuto del frammento è diegetico: l’ignoto parlante illustrava una realtà non attuale e resta impossibile stabilire quale fosse la funzione del racconto rispetto a ciò che accadeva sulla scena. Anche se l’articolazione in tetrametri trocaici catalettici rende plausibile una collocazione del frammento in contesto di parodo o nelle sezioni epirrematiche della parabasi (per l’utilizzo del tetrametro trocaico catalettico in ambito di parodo e negli epirremi parabatici vd. White 1912, p. 99 [§§ 245–246], e Kanz 1913, pp. 49–51; a una collocazione parabatica del frammento pensava anche Quaglia 2001, p. 448, per il quale «il coro

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avrebbe conservato il proprio ruolo mimetico di uomini dominati dalla tirannide delle donne, rivolgendosi al pubblico per sottolineare gli eccessi di quel regime»), mancano riscontri a favore dell’ipotesi di Storey, per il quale il coro della commedia si sarebbe diviso in due semicori (uno composto da uomini e l’altro da donne) “each complaining about the other”, analogamente a quanto avviene in Ar. Lys. 614–705 (vd. Storey 2011, p. 492). Sul topos comico della passione smodata delle donne per il vino cfr. supra ad fr. 147 K.–A. 1 εἶτ’ ἐκεραμεύσαντο L’avverbio iniziale indica che verosimilmente l’inizio del frammento non coincide con l’inizio della narrazione; sul valore causativo del verbo vd. supra, nella sezione dedicata alla costituzione del testo. 1–2 ποτήρια πλατέα Il riferimento a coppe di grandi dimensioni che alludono a un consumo sregolato di vino ricorre anche in Ar. Lys. 200, Eub. fr. 42 K.–A., Epig. fr. 4 K.–A. (dove un ignoto personaggio rimpiange gli ampi contenitori del passato, confrontati con quelli assai più piccoli che ha a disposizione), Ar. fr. 364 K.–A.; l’iperbole comica che caratterizza la descrizione di Ferecrate è in linea con la costruzione retorica del frammento, caratterizzato da «a comical touch of excessive rhetoric» (Urios-Aparisi 1992, p. 424). 3 κόγχην Il termine è utilizzato genericamente in riferimento alla conchiglia bivalve, privata del suo mollusco (vd. Thompson 1947, p. 118, s. v. κόγχη, ma il termine è attestato anche al maschile: vd. Stama 2014, p. 268 s.); dal significato originario il termine passa poi a indicare una piccola quantità di liquido (vd. Beekes 2011, p. 728). ἐμφερῆ L’aggettivo è attestato anche in Aristofane (Vesp. 1102, Nub. 502 e fr. 67, 1 K.–A.). γευστηρίοις Si tratta di un contenitore piatto utilizzato soprattutto per assaggiare il vino (cfr. Poll. VI 99; X 75 e X 172); su forma e funzioni rimando a Toscano in LVG III, 2001, pp. 95–97. 4 ὁλκάδας Sulla ὁλκάς (nave da trasporto merci priva di remi, di solito condotta al traino) vd. Morrison–Williams 1968, p. 244 s. 5 οἰναγωγούς, περιφερεῖς, λεπτάς, μέσας γαστροιίδας L’intero verso è occupato da una roboante accumulazione asindetica; per quanto concerne il primo membro, «l’aggettivo οἰναγωγός, utilizzato solo dai comici, potrebbe essere stato ricalcato su σιταγωγός normalmente usato come definizione tecnica per indicare le navi di una flotta militare destinate al trasporto delle vettovaglie» (Quaglia 2001, p. 444). Quanto a λεπτάς, il fatto che l’aggettivo non si riferisca immediatamente alla capacità delle coppe non mi sembra una buona ragione per sospettare corruttele: all’interno della descrizione di questi manufatti straordinari non pare irragionevole l’inserimento di riferimenti alle loro caratteristiche estetiche (del tutto ragionevoli, in tal senso, le considerazioni svolte al proposito da Urios-Aparisi 1992, p. 426). La parte finale del verso è interpretata da Meineke FCG II.1, p. 324, come equivalente a media parte in immanem ventrem patentes: secondo Urios-Aparisi 1992, p. 427 s., γαστροιίδης sarebbe un conio composto ferecrateo costruito, in comica dissonanza, su una radice colloquiale e un «delicate feminine poetical ending -ιιδας».

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6 πόρρωθεν L’avverbio non è attestato altrove in commedia, ma ricorre con valore temporale anche in Plat. Charm. 155. Per l’esegesi del v. 6 s. si veda quanto osservato sopra nella sezione relativa alla costituzione del testo. 8–9 ἐκπιεῖν […] μὴ πιεῖν Sulla successione di due verbi corradicali, il primo dei quali composto, vd. Fraenkel 1964, pp. 440–442; Watkins 1967, p. 115 («the iteration of a compound verb in a succeeding clause or sentence by the simple verb alone, but with the semantic force of the compound»); Wölke 1978, p. 265; Diggle 1981, p. 18, e Sommerstein 1987b, pp. 235–240. 10 ἡ δὲ […] ποτηρίων Il frammento si chiude con una iperbole che, secondo Urios-Aparisi 1992, p. 428, avrebbe un effetto di climax. Secondo Quaglia 2001, p. 448, i due versi finali «avrebbero rotto l’illusione scenica per rivolgersi a tutti gli uomini presenti in teatro e lamentare insieme a loro i difetti delle donne in generale, non soltanto di quelle rappresentate sulla scena».

fr. 153 K.–A. (10 Dem.) ὥστ’ ἀνέρρωγεν τὸ φώνημ’ εὐθὺς ὀξὺ καὶ μέγα in modo che la voce eruppe di botto acuta e forte Phot. (b, z) α1871 Theodoridis ἀνέρρωγε. Φερεκράτης Τυραννίδι· ὥστ’ — μέγα anerrōge. Ferecrate nella Tyrannis: in modo che — forte

Metro Tetrametro trocaico catalettico

lkll lkll | lklk lkl

Bibliografia Reitzenstein 1907, p. 133, 26 s.; Demiańczuk 1912, p. 68; Edmonds 1957, pp. 260–261; Urios-Aparisi 1992, p. 429; Quaglia 2001, pp. 448–449; Storey 2011, pp. 492–493 Contesto della citazione Nella glossa di Fozio il frammento di Ferecrate documenta il perfetto del verbo ἀναρρήγνυμι. Interpretazione Almeno a partire da Demiańczuk 1912, p. 68, il frammento è stato accostato ad Ar. Eq. 626 (ἐλασίβροντ’ ἀναρρηγνὺς ἔπη: il soggetto è Cleone). Secondo la troppo fantasiosa ricostruzione proposta da Edmonds 1957, p. 260 n. e, il verso sarebbe da riferire a un qualche sistema inventato dalle donne per rendere i propri ordini più facilmente comprensibili. ἀνέρρωγεν La forma semplice del verbo è attestata in relazione alla voce anche nelle Nuvole di Aristofane (vv. 357 e 960); sulla metafora delle parole ‘tonanti’ (generalmente collegata alla comica rappresentazione del demagogo nelle vesti di Zeus) vd. Taillardat 1965, p. 406 (§ 698), e Urios-Aparisi 1992, p. 429.

Τυραννίς (fr. 154)

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ὀξὺ In commedia l’aggettivo è utilizzato in riferimento alla voce anche in Ar. Ach. 804 (ulteriori attestazioni, a partire da Omero, sono raccolte da Quaglia 2001, p. 449).

fr. 154 K.–A. (144 K.) Hesych. γ 1004 γυμνῷ φυλακὴν ἐπιτάττειν (γυμνοφυλακεῖν cod.)· παροιμία ἐπὶ τῶν 〈μὴ〉 (add. Schrevelius, praeeunte Erasmo Adag. 1876) δεομένων προστάξεως, διὰ τὸ ἀναγκαίως καὶ χωρὶς ἐπικελεύσεως τοῦτο πράττειν. Φερεκράτης Τυραννίδι (-σι cod.) ordinare di montare la guardia a un uomo nudo: è un proverbio relativo a chi non ha bisogno di un ordine, essendo costretto a eseguire ciò che gli è stato ordinato per necessità e senza esortazioni. (Lo impiega) Ferecrate nella Tyrannis

Metro Incerto Bibliografia Runkel 1829, p. 57; Meineke FCG II.1, p. 326.; Meineke 1847, I, p. 116; Bothe 1855, p. 109; Kock CAF I, p. 187; Edmonds 1957, pp. 260–261; UriosAparisi 1992, p. 429; Quaglia 2001, pp. 449–451; Storey 2011 Contesto della citazione Il proverbio è registrato, oltre che in Esichio, anche in Prov. Coisl. 91, p. 129 FG Gaisford (= Diogen. III 75), dove viene proposta una spiegazione analoga. Al contrario Suid. γ 493 (da cui dipende, verosimilmente, Zenob. vulg. II 98) ricorda il detto proponendone un’esegesi parzialmente differente (cfr. infra). Interpretazione Secondo Esichio, il proverbio (ricordato anche da Filemone [fr. 11 K.–A.]) si riferisce a un ordine superfluo, impartito a chi per necessità agirebbe allo stesso modo anche senza imposizioni esterne. In Suid. γ 493, invece, il detto è riferito a chi si trova impossibilitato a compiere ciò che gli è stato ordinato (ἐπὶ τῶν ἀδυνάτως ἐχόντων τὰ προστεταγμένα πληροῦν). Per quanto concerne la critica moderna, l’esegesi fornita da Suida era ritenuta più plausibile da Meineke 1823, p. 361 (qui enim fieri potest, ut miles nudus et inermis custodiae munus obeat? [vd. poi Meineke FCG II.1, p. 326]) e da Bothe 1855, p. 109, mentre Kock CAF I, p. 187, partendo da una diversa interpretazione di φυλακή, preferiva la spiegazione di Esichio (φυλακή non solum est custodia, sed etiam circumspectio, quam nudo imperare non opus est, quia sua ipse condicione ea uti cogitur). In Prov. Coisl. 91, p. 129 FG Gaisford l’origine del detto viene ricondotta a un episodio successivo alla battaglia delle Arginuse, quando Eteonico impose agli Spartani fuggiti dalla battaglia a nuoto e rimasti nudi di predisporre sentinelle senza lasciar loro alcun vestito, così che il freddo impedisse loro il sonno. Nonostante le considerazioni di Crusius 1889, p. 42 s. (ripreso più tardi da Edmonds 1957, p. 261), il racconto era ritenuto inaffidabile da Kaibel ms. ap. K.–A. (PCG VII, p. 178), il quale leggeva nel proverbio il ridicolo invito a star di guardia rivolto a qualcuno che non ha né uno

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spazio idoneo a mettere al sicuro beni preziosi né alcunché da custodire (ridicule ei qui nihil habet quod custodiat vel nihil quo se custodiat custodia addi iubetur vel ut custodiam agat imperatur).

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Χείρων (Cheirōn) (“Chirone”)

Bibliografia Runkel 1829, pp.  58–64; Meineke FCG I, pp.  77–80; FCG II.1, pp. 326–340; Bothe 1855, pp. 109–113; Kock CAF I, pp. 187–193; Wilamowitz 1903, p. 74 n. 4; Schmid 1946, pp. 106–107; Edmonds 1957, pp. 262–269; Süß 1967; Geissler 1969, p. 42; Nesselrath 1990, p. 249 s.; Urios-Aparisi 1992, pp. 430–432; Urios-Aparisi 1998, p. 80; Quaglia 2005, pp. 99–101; Nesselrath 2010, pp. 447–448; Storey 2011, pp. 494–505; Zimmermann 2011a, p. 738; Sonnino 2014, pp. 181–182 Titolo Nella tradizione culturale greca il centauro Chirone (M. Gisler-Huwiler, ‘Chiron’, LIMC III.1, 1986, pp. 237–248) «è per eccellenza un iniziatore di giovani e un educatore di eroi» (García Soler 2012, p. 311; sulla figura emblematica di Chirone in ambito paideutico vd. anche Kurke 1990, p. 92 s.); la raccolta di precetti sapienziali a lui ascritti costituisce un genere letterario autonomo, a partire dalle Χείρωνος ὑποθῆκαι attribuite a Esiodo (cfr. frr. 283–285 M.-W. e vd. West 1978, pp. 23–25 e 34 s.; Cingano 2009, p. 128 s.; Stamatopoulou 2017, p. 9. Sulle ὑποθῆκαι come categoria letteraria, estendibile anche a opere appartenenti a diversi generi letterari vd. Friedländer 1913, le cui conclusioni sono riprese e discusse da Kurke 1990, spec. pp. 90–93). La notevole fortuna della figura di Chirone in commedia è testimoniata, oltre che dal Cheirōn di Ferecrate e dall’omonimo dramma di Cratino il Giovane, dai Cheirōnes di Cratino e dalle numerose commedie intitolate Kentauros (per la commedia di Cratino il Giovane vd. Caroli 2014, pp. 128–140; sui Cheirōnes di Cratino e sui possibili punti di contatto con la commedia di Ferecrate vd. Urios-Aparisi 1992, p. 431 s. e García Soler 2011, pp. 311–323; per le commedie intitolate Kentauros vd. Caroli 2013, p. 223). Contenuto I frammenti superstiti della commedia, per quanto piuttosto numerosi e di lunghezza superiore alla media, non conservano elementi sufficienti a definire una sia pur sommaria ricostruzione della trama. Ad ogni modo, motivi di polemica letteraria e musicale dovevano certamente costituire un elemento cruciale nello sviluppo del dramma: nel fr. 155 K.–A., infatti, la musica personificata espone alla personificazione della giustizia le violenze commesse nei suoi confronti dai fautori delle innovazioni musicali che avevano iniziato a diffondersi ad Atene alla fine del quinto secolo (sulla personificazione di concetti astratti in personaggi femminili in commedia vd. Hall 2000). In tal senso, la posizione di Ferecrate non è certo isolata e anzi gli attacchi agli esponenti della ‘nuova’ musica in contesti comici sono ricorrenti: cfr. p. es. Ar. Pac. 827–831, Av. 227–262 e 1383–1390, Plat. Com. fr. 184 K.–A. (i passi sono discussi da Restani 1983, pp. 149–151 e 157; sulle novità introdotte dai fautori della ‘nuova’ musica si vedano almeno Zimmermann 1988; Anderson 1994, pp. 126–136; Meriani 2003, pp. 74–81, e Csapo 2004; bibliografia più antica in Restani 1983). Nonostante l’accesa opposizione testimoniata dalla commedia, le innovazioni musicali dovettero incontrare il favore del pubblico, se a distanza di una generazione appena i cambiamenti contro i quali i commediografi,

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ma anche i filosofi, polemizzavano appaiono ormai consolidati nella prassi compositiva (sulla questione vd. Meriani 2003a, pp. 21–23; secondo Dobrov il Cheirōn, pur proponendo critiche alle singole innovazioni proposte dai musicisti, doveva in qualche modo riflettere e anche assecondare le dinamiche di rinnovamento che si andavano affermando: vd. Dobrov 1997, pp. 63–72). Secondo Pianko 1963, p. 57, le recriminazioni argomentate dalla persona loquens del fr. 155 K.–A. andrebbero collocate all’inizio della commedia (in tal senso si era già espresso anche Schmid 1946, p. 106 s.): in seguito alle lagnanze della Musica, la Giustizia avrebbe indetto un agone, sotto l’arbitrato di Chirone, tra un rappresentante della musica tradizionale e un esponente della musica ‘nuova’, forse Timoteo, al termine del quale, al prevalere dei valori tradizionali, sarebbe stato messo in scena un banchetto. La ricostruzione, di per sé plausibile, non appare tuttavia sufficientemente sostenuta dalle scarne indicazioni fornite dai frammenti superstiti: non resta traccia, in particolare, dell’agone ipotizzato da Pianko, né si può escludere che, a partire da questioni prettamente letterarie, la commedia abbracciasse, polemicamente, tematiche più generalmente culturali, forse in chiave di contrasto generazionale (si vedano, in tal senso, le osservazioni di Urios-Aparisi 1992, p. 431 s., poi riprese anche in Dobrov–Urios-Aparisi 1995, p. 143 s.). È anche possibile che la commedia rappresentasse una ripresa parodica di materiale mitologico, analogamente a quanto avveniva nei Myrmēkanthrōpoi (vd. Dobrov–Urios-Aparisi 1995, p. 143 s.), anche se la parodia di Hom. Il. IX 270 s. conservata dal fr. 159 K.–A. non pare indizio sufficientemente solido per ipotizzare la presenza di Achille e Odisseo tra i personaggi della commedia (sulla questione cfr. infra, ad loc.). Per quanto riguarda invece la possibile conclusione del dramma, anche se i frr. 157 K.–A., 158 K.–A. e 162 K.–A. vengono generalmente considerati attinenti a un banchetto (vd. Pianko 1963, p. 61, Urios-Aparisi 1992, p. 432 e Dobrov–Urios-Aparisi 1995, p. 145), non mi pare che in essi sia possibile rintracciare allusioni sicure a eventi concreti e realizzati sulla scena. Non molto è possibile dire sulla composizione del coro: ben difficilmente le sette fanciulle di Lesbo menzionate nel fr. 159 K.–A. avranno fatto parte del coro, mentre non è verificabile l’ipotesi che i coreuti impersonassero «centauri, compagni e amici di Chirone» (entrambe le proposte in Pianko 1963, p. 57). Per quanto concerne la figura del centauro, il titolo della commedia sembra garantire che anche Chirone, oltre alle due personificazioni del fr. 155 K.–A., comparisse sulla scena: è tuttavia impossibile stabilire la sua funzione nell’economia generale della commedia. Datazione Se i vv. 26–28 del frammento 155 K.–A. (= Philox. test. 33b Fongoni) non sono frutto di un’interpolazione e descrivono le novità introdotte in ambito musicale da Filosseno di Citera (ma dal momento che il nome di Filosseno non compare nel frammento e gli ultimi tre versi presentano problemi di attribuzione, parte della critica [vd. p. es. Olson 2007, p. 158 e Pöhlmann 2011, p. 122] preferisce ascrivere a Timoteo le innovazioni ivi descritte: sulla questione vd. infra, ad loc.), il periodo di attività del musicista, che visse tra il 435 e il 380 (cfr. Marmor Parium A. 1. 2; la tradizione antica ne collocava nel 398 l’akme: cfr. Diod. Sic. XIV 46)

Χείρων

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costituirebbe un punto di riferimento sicuro per la datazione del Cheirōn. Il lasso di tempo, comunque significativo, che separerebbe l’anno della messa in scena del Cheirōn da quello della prima vittoria dionisiaca di Ferecrate (nel 437: cfr. IG II2 2325, 56 = IRDF 2325C, 22 = test. 5 K.–A. e Proleg. de comoed. III 29, p. 8 Koster = test. 2a 6 K.–A., ove si accolga l’intervento proposto a suo tempo da Dobree [Θεοδώρου per il tràdito, e certamente corrotto, θεάτρου: Dobree 1843, II, p. 129]) è tra le ragioni che hanno spinto gli editori moderni a mettere in dubbio la paternità ferecratea della commedia (sulla questione dell’autenticità si vedano le osservazioni di Wilamowitz 1903, p. 74 n. 4; Geissler 1969, p. 42; Nesselrath 1990, p. 250 n. 22 e Nesselrath 2010, p. 447 s. nn. 77–79, nonché Conti Bizzarro 1999, pp. 132–134). La paternità del dramma, d’altronde, era in dubbio già presso gli antichi (cfr. p. es. Athen. IX p. 368 B e Schol. ad Ar. Ran. 1308b Chantry: vd. Sonnino 2014, pp. 181–184). Ateneo (IX p. 364 A, fonte del fr. 162 K.–A.) segnala come possibile autore alternativo del Cheirōn un Nicomaco ῥυθμικός, verosimilmente lo stesso Nicomaco a cui Eratostene attribuiva anche i Metallēs (sull’identità di Nicomaco si veda ora Sonnino 2014, p. 181 s. n. 48). Plausibile, dunque, immaginare che anche l’attribuzione del Cheirōn a Nicomaco potesse far capo a Eratostene (così Meineke FCG I, p. 77 e, da ultimo, anche Tosi 1998, p. 330 s. e Sonnino 2014, p. 181 s. n. 48); in tal caso, però, il giudizio di Eratostene sarà probabilmente dipeso da considerazioni di stampo linguistico più che di ordine cronologico (si vedano, in tal senso, le riflessioni di Tosi 1998, p. 331). A ogni modo, la maggior parte della critica più recente è incline a credere alla paternità ferecratea della commedia, collocando il Cheirōn verso la fine della produzione del poeta: l’esempio di Aristofane (la cui carriera drammaturgica si sviluppa su un arco di circa quarant’anni) consente di ipotizzare che l’attività di Ferecrate sia stata abbastanza lunga da coincidere, verso la sua conclusione, con quella di Filosseno (il quale, peraltro, potrebbe essere stato chiamato in causa come komodoumenos anche nelle fasi iniziali della sua carriera: vd. p. es. Körte 1938, col. 1989; UriosAparisi 1992, p. 430 s.; Dobrov–Urios-Aparisi 1995, p. 142 s.; Ieranò 1997, p. 208 n. 7; Fongoni 2009, p. 172; secondo Quaglia 2005, p. 100 la presenza nelle commedie di Ferecrate di temi che ricorrono anche nella nea sarebbe un indizio del prolungarsi dell’attività compositiva del poeta fino alla fine del V sec.). Tale ipotesi, tra l’altro, riceverebbe un’ulteriore conferma se si accettasse di identificare con il poeta comico il Ferecrate citato nell’elenco di caduti (databile tra il 410 e il 400) di IG I3 1192, 150 = Agora XVII 22, 150 (vd. da ultimo Olson 2010).

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fr. 155 K.–A. (145 K.)*

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(Μ.) λέξω μὲν οὐκ ἄκουσα· σοί τε γὰρ κλυεῖν ἐμοί τε λέξαι θυμὸς ἡδονὴν ἔχει. ἐμοὶ γὰρ ἦρξε τῶν κακῶν Μελανιππίδης, ἐν τοῖσι πρῶτος ὃς λαβὼν ἀνῆκέ με χαλαρωτέραν τ’ ἐποίησε χορδαῖς δώδεκα. ἀλλ’ οὖν ὅμως οὗτος μὲν ἦν ἀποχρῶν ἀνὴρ ἔμοιγε l a l k πρὸς τὰ νῦν κακά. Κινησίας δέ 〈μ’〉 ὁ κατάρατος Ἀττικός, ἐξαρμονίους καμπὰς ποιῶν ἐν ταῖς στροφαῖς   ἀπολώλεχ’ οὕτως, ὥστε τῆς ποιήσεως τῶν διθυράμβων, καθάπερ ἐν ταῖς ἀσπίσιν, ἀριστέρ’ αὐτοῦ φαίνεται τὰ δεξιά. ἀλλ’ οὐν ἀνεκτὸς οὗτος ἦν ὅμως ἐμοί. Φρῦνις δ’ ἴδιον στρόβιλον ἐμβαλών τινα, κάμπτων με καὶ στρέφων ὅλην διέφθορεν, ἐν πέντε χορδαῖς δώδεχ’ ἁρμονίας ἔχων. ἀλλ’ οὖν ἔμοιγε χοὗτος ἦν ἀποχρῶν ἀνήρ· εἰ γάρ τι κἀξήμαρτεν, αὖτις ἀνέλαβεν. ὁ δὲ Τιμόθεός μ’, ὦ φιλτάτη, κατορώρυχε καὶ διακέκναικ’ αἴσχιστα. (Δ.) ποῖος οὑτοσὶ 〈ὁ〉Τιμόθεος; (Μ.) Μιλήσιός τις πυρρίας. κακά μοι παρέσχεν οὗτος, ἅπαντας οὓς λέγω παρελήλυθεν, ἄγων ἐκτραπέλους μυρμηκιάς. κἂν ἐντύχῃ πού μοι βαδιζούσῃ μόνῃ, ἀπέδυσε κἀνέλυσε χορδαῖς δώδεκα *** ἐξαρμονίους ὑπερβολαίους τ’ ἀνοσίους καὶ νιγλάρους, ὥσπερ τε τὰς ῥαφάνους ὅλην καμπῶν με κατεμέστωσε

1 κλύειν codd.: corr. Schulze 1888, p. 240 4 πρῶτος Meineke FCG II.1, p. 328: πρώτοις codd. 5 δώδεκα codd.: ἐννέα Weil-Reinach 1900, p.  119: (-σιν) δέκα Volkmann 1856, p. 124 6–7 ἦν, 〈νὴ τὸν Δία〉, / ἀποχρῶν ἀνὴρ ἔμοιγε Hanow 1830, p. 39: post * [Il commento al fr. 155 K.–A. è a cura di Michele Napolitano. Considerata la straordinaria fortuna della quale il frammento ha goduto negli studi sul De musica, in quelli di argomento musicale e, ovviamente, in quelli relativi a Ferecrate e alla commedia di V secolo, la bibliografia che segue, pur certo molto densa di titoli, deve essere considerata non molto più che indicativa. Per la stessa ragione si è deciso di limitare al minimo le tre sezioni introduttive al commento salvo che per il molto spinoso problema costituito dagli ultimi tre versi del frammento, che si trova diffusamente trattato nella sezione Testo; il resto è nel commento ai singoli versi, o gruppi di versi]

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ἔμοιγε lacunam statuit Meineke 1847, I, p.  116 (ἀφορώσῃ νὴ Δία e. g. suppl. Kaibel apud K.–A. [PCG VII, p. 180]), post κακὰ Brunck 1783, p. 171 (Addenda et emendanda in fragmentis ex incertis comoediis), ante ἔμοιγε Runkel 1829, p. 61 〈εἰς τὴν τέχνην〉 ἔμοιγε πρὸς τὰ νῦν κακά Kock CAF I, p. 189: ἔμοιγε πρὸς τὰ νῦν 〈παρόντα μοι〉 κακά Herwerden 1855, p. 16 8–13 post 18 transp. Meineke FCG II.1, p. 334 8 μ᾽ add. Meineke 10 ἀπολώλεχ’ οὕτως Meineke FCG II.1, p. 328: -λεκέ με οὕτως codd.: οὕτως μ᾽ ἀπολώλεχ᾽ Hanow 1830, p. 50 13 οὖν Wyttenbach 1800, p. 442: οὐκ codd. ἀνεκτὸς Emperius 1847, p. 49: ἂν εἴποις codd. χοὗτος Meineke FCG II.1, p. 334 (sed οὗτος Meineke 1847, I, p. 117, cum codd.) ὅμως ἐμοί Wyttenbach: ὅμως ὅμως codd.: ὅμως ἀνήρ Kaibel ἂν εἴποις, οὗτος ἦν ἁπλοῦς ὅμως Hanow 1830, p. 50 16 πέντε χορδαῖς a2 A2 Barb: πενταχόρδαις vel -χορδαῖς vel -χόρδοις cett.: ἑπτὰ χορδαῖς Burette 1735, p. 396: ἐννέα χ. Ulrici 1835, p. 605 n. 104 18 εἰ Barb: om Reg., ἢν vel ἦν cett. 21 ὁ add. Meineke 1822, p. 12 22 :: κακά σοι Westphal 1865, p. 23 παρέσχεν οὗτος ἅπαντας codd.: -χε χοὗτος; :: ἅπ- Westphal: -χεν οἷς ἅπ- Wilamowitz 1903, p. 74 n. 4: -χεν ὥσθ᾽ ἅπKaibel: παρέχων ἅπ- οὗτος Kock CAF I, p. 189 23 ἄγων codd.: ἀγαγὼν Edmonds 1957, p. 264: ᾄδων Fritzsche 1838, p. 29 s.: ἀγαπῶν Kock CAF I, p. 189: ἐσάγων Weil-Reinach 1900, p. 124: ἀνάγων Kaibel apud Kassel-Austin (PCG VII, p. 181): ἐπάγων Burges 1820, p. 278: εὑρὼν Nauck 1894, p. 69 25 ἀπέδυσε Wyttenbach: -λυσε codd. κἀνέλυσε codd.: -δυσε Wyttenbach 26–28 passim mutatos versui 25 subiunxit Brunck 1783, p. 180, integros post 23 transp. Bergk ap. Meineke FCG II.1, p. 332 s. 28 καμπῶν Elmsley 1830, p. 64: κάμπτων codd. praeter π2 (κάμπων) et s (om.) fin. ποικιλώτατα add. Bergk, κἀλυμήνατο Kock CAF I, p. 189

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[Musica] Parlerò ben volentieri: il tuo cuore ha piacere ad ascoltare e il mio a parlare. L’inizio dei miei mali fu Melanippide: lui che, tra tutti il primo, mi afferrò e mi allentò e mi rammollì con dodici corde. Ma certo lui mi sarebbe bastato, se penso 〈…〉 ai mali che mi toccano adesso. Cinesia, quel maledetto di un attico, compiendo giravolte da un’armonia a un’altra, nelle strofe, mi sconvolse a tal punto che, nelle sue composizioni ditirambiche, come avviene a chi guardi negli scudi, sembrano a sinistra le cose che invece sono a destra. E tuttavia per me costui era ancora sopportabile. Ma Frinide, violandomi con la sua chiave, torcendomi e girandomi mi rovinò completamente, tirando fuori ben dodici armonie da cinque corde appena. Ma persino costui mi sarebbe bastato: perché se sbagliò, poi pose anche rimedio. Timoteo, invece, o carissima, mi ha sepolto e mi ha fatto a pezzi nel modo più turpe. [Giustizia] Ma chi è questo Timoteo? [Musica] Un pel di carota di Mileto. Costui mi arrecò mali, andò oltre tutti coloro dei quali ti ho detto finora, tracciando sentieri di formiche;

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e quando mi sorprende in giro da sola, mi spoglia e mi disarticola in dodici… note. *** 〈note?〉 fuori armonia, più alte ed empie, e trilli: come i cavoli, tutta mi ha riempita di… bruchi

[Plut.] De mus. 30, 1141 C–1142 A (pp. 24, 20 - 26, 18 Ziegler) ὁμοίως δὲ καὶ Μελανιππίδης ὁ μελοποιὸς ἐπιγενόμενος οὐκ ἐνέμεινε τῇ προϋπαρχούσῃ μουσικῇ, ἀλλ᾽ οὐδὲ Φιλόξενος οὐδὲ Τιμόθεος· οὗτος γάρ, ἑπταφθόγγου τῆς λύρας ὑπαρχούσης ἕως εἰς Τέρπανδρον τὸν Ἀντισσαῖον, διέρριψεν εἰς πλείονας φθόγγους. ἀλλὰ γὰρ καὶ 〈ἡ add. Ziegler〉 αὐλητικὴ ἀφ᾽ ἁπλουστέρας εἰς ποικιλωτέραν μεταβέβηκε μουσικήν· τὸ γὰρ παλαιόν, ἕως εἰς Μελανιππίδην τὸν τῶν διθυράμβων ποιητήν, συμβεβήκει τοὺς αὐλητὰς παρὰ τῶν ποιητῶν λαμβάνειν τοὺς μισθούς, πρωταγωνιστούσης δηλονότι τῆς ποιήσεως, τῶν δ᾽ αὐλητῶν ὑπηρετούντων τοῖς διδασκάλοις· ὕστερον δὲ καὶ τοῦτο διεφθάρη ὡς καὶ Φερεκράτη (var. lect. -ην) τὸν κωμικὸν εἰσαγαγεῖν τὴν Μουσικὴν ἐν γυναικείῳ σχήματι, ὅλην (ὅλον Hanow 1830, p. 36) κατῃκισμένην τὸ σῶμα· ποιεῖ δὲ τὴν Δικαιοσύνην διαπυνθανομένην τὴν αἰτίαν τῆς λώβης καὶ τὴν Ποίησιν (τὴν Μουσικὴν Valgulius, ἐκείνην Weil-Reinach 1900, p. 118; Kaibel) λέγουσαν [1–25] λέξω — δώδεκα. καὶ Ἀριστοφάνης ὁ κωμικὸς (fr. 953 K.–A.) μνημονεύει Φιλοξένου (fr. A 15 del Grande = T 10 Sutton = test. 33 a-b Fongoni) καί φησιν ὅτι εἰς τοὺς κυκλίους χοροὺς *** μέλη εἰσηνέγκατο. ἡ δὲ Μουσικὴ λέγει ταῦτα (περὶ τούτου Runkel 1829, p. 64; ἡ δὲ Μουσικὴ λέγει ταῦτα ante καὶ Ἀριστοφάνης transp. Brunck 1783, p. 171 [Addenda et emendanda in fragmentis ex incertis comoediis]; secl. Bergk apud Meineke [FCG II.1, p. 333]) [26–28] ἐξαρμονίους — κατεμέστωσε. καὶ ἄλλοι δὲ κωμῳδοποιοὶ (fr. adesp. 747 K.–A.) ἔδειξαν τὴν ἀτοπίαν τῶν μετὰ ταῦτα τὴν μουσικὴν κατακεκερματικότων. [14–16] Schol. Ar. Nub. 971 a α, p. 188, 4–7 Holwerda (Φρῦνις) οἱ κωμικοὶ πολλάκις αὐτοῦ μεμνημένοι ἐφ᾽ οἷς ἐκαινούργησε κλάσας τὴν ᾠδὴν παρὰ τὸ ἀρχαῖον ἔθος, ὡς Ἀριστοφάνης φησὶ καὶ Φερεκράτης (ἀριστοκρ- E, corr. Burges 1820, p. 280) Excerpta ex Nicom. Geras. 4 p. 274, 5–10 Jan (codd. BM) Τιμόθεος ὁ Μιλήσιος τὴν ἑνδεκάτην (χορδὴν προσκαθῆψε) καὶ ἐφεξῆς ἄλλοι. ἔπειτ᾽ εἰς ὀκτωκαιδεκάτην ἀνήχθη χορδὴν τὸ πλῆθος παρ᾽ αὐτῶν. ὥσπερ καὶ Φερεκράτης ὁ κωμικὸς ἐν τῷ ἐπιγραφομένῳ Χείρωνι καταμεμφόμενος αὐτῶν (-οι -ῶν B, -ος -ὸν M) τῆς περὶ τὰ μέλη ῥᾳδιουργίας φαίνεται A: Allo stesso modo anche il poeta lirico Melanippide, venuto più tardi, non rimase nei limiti della musica preesistente, come non vi rimasero né Filosseno né Timoteo. Melanippide, infatti, avendo avuto la lira fino ai tempi di Terpandro di Antissa sette corde, ne frazionò le note in più intervalli. Del resto anche l’auletica passò da uno stile musicale più semplice a uno più vario e complesso: in antico, infatti, e fino ai tempi del ditirambografo Melanippide, gli auleti ricevevano i compensi di loro spettanza dai poeti, essendo chiaro il fatto che il ruolo più importante toccava alla poesia e che gli auleti erano in una posizione subordinata rispetto ai loro istruttori. Ma in seguito anche quest’uso finì per corrompersi, al punto che il poeta comico Ferecrate portò sulla scena la Musica abbigliata come una donna, con il corpo tutto ricoperto di segni di violenza: presenta la Giustizia che domanda alla Musica la causa della sua disgrazia, e la Poesia che risponde [1–25]: ‘Parlerò — in dodici note’. Anche

Χείρων (fr. 155)

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il poeta comico Aristofane ricorda Filosseno e dice che introdusse canti *** nei cori ciclici. La Musica infatti dice queste cose [26–28]: ‘〈note?〉 fuori armonia — di… bruchi’ [14–16] Schol. Ar. Nub. 971 a α, p. 188, 4–7 Holwerda Di lui (scil. Frinide) i comici hanno fatto menzione spesso in relazione alle innovazioni con le quali, in deroga all’uso antico, fiaccò il canto, come dicono Aristofane e Ferecrate Excerpta ex Nicom. Geras. 4 p. 274, 5–10 Jan Timoteo di Mileto aggiunse alla lira l’undicesima corda, e poi altri dopo di lui. In seguito, la quantità delle corde fu da loro incrementata fino a raggiungere il numero di diciotto. La loro temerità nel comporre canti appare essere stata biasimata, tra gli altri, da Ferecrate comico nella commedia intitolata Chirone

Metro Trimetri giambici

5

10

15

20

25

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Bibliografia Valgulio 1507, [cVIv], [cVIIr], [cVIIv]; Amyot 1572, p. 665; Estienne 1572, pp. 527–528 (ripropone la traduzione latina di Valgulio, con interventi); Xylander 1592, pp. 564–565; Gandini 1625, p. 143; Burette 1735, pp. 378–404 (= Burette 1743, pp. 330–356); Marpurg 1759, pp. 214–215; Brunck 1783, p. 170; Forkel 1788, p. 301; Wyttenbach 1800, pp. 441–443; Heinrich 1801, pp. 188–200; Jacobs 1817, pp. 375–378; Burges 1820, pp. 277–282; Meineke 1822, p. 12; Runkel 1829, pp. 61–63; Hanow 1830, pp. 54–56; Ulrici 1835, p. 591 ss.; Meineke FCG II.1, pp. 326–335; Dübner 1841, pp. 1395–1396; Bippart 1843, passim; Fritzsche 1845, pp. 309–310; Meineke 1847, I, pp. 116–118; Bothe 1855, pp. 109–111; Volkmann 1856, pp. 34–36 e 123–125; Westphal 1865, pp. 22–23; Gevaert 1875, pp. 355–356; Kock CAF I, pp. 188–190; Gevaert 1881, pp. 260–268 e 482–497; Zieliński 1885, pp. 267–268; Bernardakis 1895, pp. 515–516; Weil-Reinach 1900, pp. 118–127; Sandys 1903, p. 55; Wilamowitz 1903, p. 74 n. 4; Sachs 1924, pp. 293–294; Norwood 1931, p. 164; Körte 1938, coll. 1989–1990; Schönewolf 1938, pp. 50–51 e 63–69; Gombosi 1939, pp. 17–18; 55 n. 1 e 65–66; 75; Düring 1945; Schmid 1946, p. 106; Wegner 1949, pp. 162–163; Lawler 1950; Lasserre 1954, pp. 172–174; Süß 1954, pp.  118–122; Winnington-Ingram 1956, p.  171; Ziegler 1960, pp.  1124–1127; Pianko 1963; Privitera 1965, pp. 82 e 97; Taillardat 1965, p. 458 (§ 785); Ziegler 1966, pp. 25–26; Einarson - de Lacy 1967, pp. 420–425; Borthwick 1968; Richter 1968, pp. 8–9; Neubecker 1977, pp. 15 e 49; Gamberini 1979, pp. 252–256; Turato 1979, p. 99; Lloyd-Jones 1981, p. 25; Restani 1983; Barker 1984, pp. 236–238; Restani 1984; Gentili 1988, pp. 10 e 15 n. 33; Zimmermann 1988, p. 200; Janssen 1989, pp. 141–143 e 149–150; Nesselrath 1990, pp. 249–250; Relihan 1990, p. 187; Comotti 1991, pp. 37–39 e 144–145; Savino 1991, pp. 54–55; Maas 1992, pp. 77–78; UriosAparisi 1992, pp. 433–458; West 1992a, pp. 356–366; West 1992b, pp. 28–29; Conti Bizzarro 1993, pp. 98–104; Anderson 1994, pp. 127–134; Dobrov–Urios-Aparisi 1995; Gilula 1995, p. 8 e n. 10; Kugelmeier 1996, pp. 243–246 e 251–253; UriosAparisi 1996–1997, p. 80; Dobrov 1997; Ieranò 1997, pp. 208–213; Ceccarelli 1998, pp. 43–44; Imperio 1998b, pp. 79–81; Conti Bizzarro 1999, pp. 130–171; Landels 1999, pp. 59–60 e 102; Mathiesen 1999, pp. 66–67; Visconti 1999, p. 115; Ballerio 2000, pp. 90–97; Hall 2000, pp. 414–415; Henderson 2000, pp. 142–143; Richter 2000, pp. 141–143; Hordern 2002, pp. 33–35 e 230; Martin 2003, p. 165; Wallace 2003, pp. 91–92; Austin-Olson 2004, pp. 74–75 e 85–86; De Simone 2004; García López - Morales Ortiz 2004, pp. 105–109; Prauscello 2004, p. 337; Gentili 2006, pp. 52–54; Hall 2006, pp. 181–183; Olson 2007, pp. 182–186; Power 2007, p. 186 e n. 27; Sirski 2008, passim; Zimmermann 2008, pp. 120–121; Beta 2009, pp. 162–165; Fongoni 2009; Pelosi 2010, pp. 38–39 e 133; Storey 2010, p. 200; D’Angour 2011, pp. 200–201; Pöhlmann 2011; Roselli 2011, p. 188; Rusten 2011, pp. 161–163; Storey 2011, pp. 500–501; Zimmermann 2011b, p. 249; Soares - Rocha 2012, pp. 198–200; Franklin 2013, pp. 229–230; Griffith 2013, p. 147; Barker 2014, p. 101; Fongoni 2014, pp. 25–27; Bélis 2015; Solez 2015, pp. 93–96; Gurd 2016, pp. 114–115; Austa 2017, pp. 6–8; Pisani - Citelli 2017, pp. 2218–2219 (testo e trad.); 2999–3000 (note); Calero 2018, p. 18; Di Virgilio 2018, p. 76 n. 2; Lynch 2018; Weiss 2018, p. 157 n. 49.

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Contesto della citazione Il lungo, per molti versi straordinario frammento è citato nel De Musica pseudo-plutarcheo (§ 30, pp. 25, 9 - 26, 16 Ziegler) a testimonianza delle innovazioni introdotte nella citarodia da Melanippide, Cinesia, Frinide e Timoteo (per il complessivo assetto scenico-drammaturgico del frammento, ricostruibile, almeno entro certi limiti, sulla base di alcune preziose indicazioni contenute nella fonte, cfr. infra, Interpretazione). Dopo i primi venticinque versi la citazione si interrompe e riprende dopo una lacuna di estensione imprecisata con altri due versi e mezzo, che descrivono, a quanto sembra di potersi evincere dalla presentazione della fonte, la prassi compositiva di Filosseno (ma sulla questione cfr. infra, Testo). Sull’intricatissima questione delle fonti del De Musica e sulla natura delle posizioni critico-musicali che vi si trovano sostenute si veda, tra molto altro, la recente, felice sintesi fornita da Meriani 2003, pp. 74–81. Testo Il frammento è composto da due blocchi di trimetri giambici di molto diseguale lunghezza. Mentre i primi venticinque versi sono esplicitamente ricondotti dalla fonte alla commedia di Ferecrate, i tre ultimi versi (a voler essere precisi, due trimetri completi seguiti dalla prima parte di un terzo trimetro) sono attribuiti ad Aristofane nei termini che seguono: καὶ Ἀριστοφάνης ὁ κωμικὸς (fr. 953 K.–A.) μνημονεύει Φιλοξένου (fr. A 15 del Grande = T 10 Sutton = test. 33 a-b Fongoni) καί φησιν ὅτι εἰς τοὺς κυκλίους χοροὺς *** μέλη εἰσηνέγκατο. ἡ δὲ Μουσικὴ λέγει ταῦτα. Un passo, problematico, lungamente tentato dagli editori: non necessario il περὶ τούτου (scilicet de Philoxeno) proposto da Runkel 1829, p. 64, per il tràdito ταῦτα; degna di attenzione, invece, anche se, direi, non risolutiva, la trasposizione, operata da Brunck 1783, a p. 171 della sezione Addenda et emendanda in fragmentis ex incertis comoediis, della sequenza ἡ δὲ Μουσικὴ λέγει ταῦτα a inizio pericope, prima di καὶ Ἀριστοφάνης e subito dopo il verso finale del frammento, che Brunck stampa per intero, senza soluzione di continuità tra i primi venticinque versi e gli ultimi tre. Bergk (apud Meineke FCG II.1, p. 333) preferiva invece espungere ἡ δὲ Μουσικὴ λέγει ταῦτα, sistemando i tre versi nel corpo del frammento e riferendoli non a Filosseno ma a Timoteo (cfr. infra): Iam cum hi tres versus suo essent loco deturbati, librarius aliquis, qui scite animadvertit ea ad Musicae orationem pertinere, illa ἡ δὲ Μουσικὴ ταῦτα λέγει adscripsit, quae iam sunt exturbanda. Piuttosto numerosi, infine, gli interventi messi in opera nel tentativo di sanare la sequenza εἰς τοὺς κυκλίους χοροὺς μέλη εἰσηνέγκατο: deesse videtur adjectivum, quale ἄμουσα vel ἄτοπα vel περίεργα (Fritzsche 1845, p. 310); 〈μονῳδικὰ〉 μέλη (Westphal 1865, p. 23); 〈προβατίων αἰγῶν τε〉 μέλη (Weil-Reinach 1900, p. 126, i quali, ritenendo il passo della fonte relativo alla parodia del Ciclope di Filosseno operata da Aristofane nel Pluto, desumevano l’integrazione da Plut. 293–294 βληχώμενοί τε προβατίων / αἰγῶν τε κιναβρώντων μέλη [Weil-Reinach 1900, p. 127, ad § 314]); 〈τοιαῦτα〉 (Einarson - de Lacy 1967, p. 424 e n. 1); 〈κρουματικὰ〉 μέλη vel 〈κρούματά τε καὶ〉 μέλη (Conti Bizzarro 1993, p. 104, ripreso più tardi in Conti Bizzarro 1999, p. 137). Non ha tuttavia forse torto Fongoni 2009, p. 173, a difendere il testo tràdito (vd. poi anche Fongoni 2014, p. 26: «Nonostante che, tra le congetture registrate in apparato, μονῳδικά di Westphal sembri interpretare al

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meglio il pensiero di Aristofane riguardo alla produzione filossenica, tuttavia dalla menzione dei cori ciclici, canti corali e strofici, si può evincere che il termine μέλη sia di per sé espressione di canti monodici e astrofici, anche senza l’integrazione di un aggettivo che lo specifichi»). A partire da Brunck 1783, p. 170, i tre versi, in forza, soprattutto, dell’innegabile contiguità di lessico e di contenuto che li apparenta al resto del frammento, sono stati ricondotti al Cheirōn, senza quasi eccezioni, dagli editori dei frammenti di Ferecrate, compresi, da ultimo, Kassel e Austin (i quali, però, nel volume dei PCG contenente i frammenti di Aristofane, uscito prima di quello comprendente i resti di Ferecrate, includono il passo introduttivo alla citazione tra i dubia aristofanei [fr. 953 K.–A.], rinunciando però a farlo seguire dai tre versi): buona sintesi della questione in Restani 1983, p. 186 n. 179, e in Conti Bizzarro 1999, p. 137 s.; si vedano, inoltre, Fongoni 2009, pp. 171–173, e Fongoni 2014, pp. 25–27. Così Runkel 1829, p. 64; Meineke FGC II.1, p. 332; Kock CAF I, p. 190; Edmonds 1957, p. 264 s.; Storey 2011, p. 500 s. Tra le eccezioni, dopo Fritzsche 1836, p. 24, il quale ipotizzava che i tre versi potessero provenire dalla Ποίησις di Aristofane, e Meineke, FCG I, p. 90, che pensava, invece, al Gerytades, segnalerei l’idea, invero bizzarra, di Bothe 1855, p. 111, ove l’attribuzione dei tre versi ad Aristofane si accompagna all’ipotesi che la commedia di provenienza del frammento fosse una non meglio nota pièce dal titolo Μουσική, o Ποίησις καὶ Μουσική (Quare ponamus, correcto mendo non infrequente, ἐν δὲ Μουσικῇ, intelligentes Aristophanis fabulam, alias non commemoratam, quae inscripta fuerit Μουσική et fortasse propter cognationem harum artium Ποίησις καὶ Μουσική, quarum illa aliunde nota est, una commedia che Bothe immaginava di argomento simile a quello trattato da Ferecrate nel Chirone; si veda, al proposito, il giudizio, lapidario, formulato da Volkmann 1856, p. 125: Quae Bothius de Aristophanis fabula Μουσικοί [recte: Μουσική] inscripta ariolatus est, prorsus vana sunt). Fortunata la sistemazione del testo adottata, da ultimo, da Kassel e Austin, che stampano gli ultimi tre versi dopo aver saltato un rigo, suggerendo una lacuna di ampiezza imprecisata dopo il v. 25, nella quale sarebbe da immaginare la prima menzione, perduta, di Filosseno (forse nei termini configurati da Kaibel [apud Kassel-Austin, PCG VII, p. 181 s.]: Philoxenum, qui nullo modo praetermitti poterat, quamquam a Timotheo maximam sibi iniuriam factam Musica queritur, tamen apparet gravioribus etiam criminationibus exagitatum esse: Timotheus enim expilavit mulierem, Philoxenus vero pediculorum sordibus totum eius corpus inquinavit. itaque apud Plutarchum intercidisse nonnulla existimo in talem fere sententiam sed sordidius etiam et impudentius queritur Musica a Philoxeno se contrectari, quem alii quoque fuerunt qui nequissimum musicae depravationis auctorem esse clamarent, 〈ὥσπερ〉 καὶ Ἀριστοφάνης κτλ.). In alternativa a tale sistemazione, Bergk (apud Meineke FCG II.1, p. 332 s.) proponeva, come si è già detto sopra, di collocare i tre versi attribuiti dalla fonte ad Aristofane dopo il v. 23, ritenendoli dunque relativi a Timoteo: una soluzione che, antica già almeno quanto Valgulio (lo ricordano, p. es., Westphal 1865, p. 8, e Weil-Reinach 1900, p. 124 [ad § 313]), ha goduto, dopo Bergk, di una fortuna non trascurabile (si veda, per

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questo, la bibliografia allestita da Fongoni 2009, p. 172 n. 3, alla quale aggiungerei almeno Volkmann 1856, pp. 36 e 124). Da segnalare, in relazione alla trasposizione dei tre versi dopo il v. 23, almeno due tentativi di completamento del mutilo verso finale: καμπῶν με κατεμέστωσε 〈ποικιλώτατα〉 sive 〈ποικιλωτάτων〉 (Bergk apud Meineke FCG II.1, p. 333) e καμπῶν με κατεμέστωσε 〈κἀλυμήνατο〉 (Kock CAF I, p. 189). Per chi sia convinto, come lo sono anch’io, della paternità ferecratea dei tre versi, non è facilissimo da chiarire nelle sue ragioni genetiche il processo che ha portato all’inserzione, nella fonte, della pericope relativa a Aristofane tra il primo e il secondo blocco di versi del frammento. Bergk, come si è visto, provava a spiegarla come conseguenza della dislocazione dei tre versi finali del frammento: da qui l’inserzione della pericope ἡ δὲ Μουσικὴ λέγει ταῦτα, avvertita come necessaria da un librarius aliquis che si era accorto della paternità ferecratea dei tre versi fuori posto. Hanow 1830, p. 54 s., convinto anch’egli della paternità ferecratea degli ultimi tre versi del frammento, pensò invece che la pericope relativa ad Aristofane, desunta in modo maldestro da un grappolo di scolii al v. 290 del Pluto (scholl. ad Ar. Plut. 290 c α [p. 65 Chantry] e 290 e α-β [p. 66 Chantry]) e riferita a Aristofane, sarebbe poi stata altrettanto maldestramente inserita dopo il v. 25 del frammento a prezzo dell’eliminazione di alcuni versi; la sequenza ἡ δὲ Μουσικὴ λέγει ταῦτα sarebbe stata infine inserita vinciendae orationis causa (p. 55), a introdurre la citazione dell’ultima, breve serie di versi del frammento. Per i problemi di datazione posti dalla possibilità che la rhesis di Musica coinvolgesse nella sua parte finale Filosseno cfr., infine, supra, Datazione. Quanto ai rimanenti, piuttosto numerosi, problemi di testo, tutti puntualmente documentati nell’apparato, considerata anche la lunghezza fuori dell’ordinario del frammento, si è preferito collocarne la discussione nelle singole note di commento, alle quali qui si rimanda. Qui solo un cenno alla incongruenza tra due passi contigui della sezione introduttiva al frammento nella fonte, nella quale l’entità personificata che pronuncia la rhesis è qualificata prima come Μουσική, poi come Ποίησις (qui di seguito il passo nell’edizione Ziegler [p. 25, 4–7]: ὡς καὶ Φερεκράτη τὸν κωμικὸν εἰσαγαγεῖν τὴν Μουσικὴν ἐν γυναικείῳ σχήματι, ὅλην κατῃκισμένην τὸ σῶμα· ποιεῖ δὲ τὴν Δικαιοσύνην διαπυνθανομένην τὴν αἰτίαν τῆς λώβης καὶ τὴν Ποίησιν λέγουσαν ‘λέξω μὲν οὐκ ἄκουσα’ κτλ.). Tale incongruenza, avvertita come problematica, e per conseguenza a più riprese rettificata per via di intervento (p. es.: τὴν Μουσικὴν Valgulius; τὴν [Ποίησιν], ovvero τὴν pro ταύτην, i. e. τὴν Μουσικήν Bothe 1855, p. 110; καὶ τὴν 〈Μουσικὴν τὴν〉 Ποίησιν scil. αἰτίαν εἶναι Bernardakis 1895, p. 515; ἐκείνην WeilReinach 1900, p. 118, e Kaibel apud Kassel-Austin; καὶ τὴν 〈Μουσικὴν τοιαύτην τὴν〉 ποίησιν Lasserre 1954, p. 124; la crux stampata da Ziegler dimostra che anche per quest’ultimo il testo è da considerarsi corrotto: vd. infatti Ziegler 1960, p. 1124), è però soltanto apparente, essendo μουσική e ποίησις categorie in buona sostanza coincidenti (vd. Wilamowitz 1903, p. 74 n. 4: «ποιεῖν ist ja dichten so gut wie komponieren»). Se il testo di Plutarco andrà dunque accolto nei termini in cui è tradito, il dilemma relativo alla precisa identità della personificazione in Ferecrate (Μουσική o Ποίησις) è destinato, per le ragioni che si sono dette, a non

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potersi risolvere in modo incontrovertibile, né importa poi molto risolverlo, in fondo. Quel che è certo, invece, è che la fonte non lascia dubbi sul fatto, assai più importante, che tale personificazione fosse introdotta in scena come personaggio in condizioni di evidente miseria (Φερεκράτη […] εἰσαγαγεῖν τὴν Μουσικὴν ἐν γυναικείῳ σχήματι, ὅλην κατῃκισμένην τὸ σῶμα; è ovvio che, in casi come questo, il contesto toglie ogni dubbio sul fatto che εἰσάγειν sia da intendere equivalente non a un semplice ‘menzionare’, ma a ‘introdurre’, ‘portare in scena’: sulla questione vd. Napolitano 2012, pp. 109–112; Olson 2016, p. 29, e Olson 2017, p. 463 s.): un quadro perfettamente in linea con il contenuto del lungo ‘lamento’ che le è affidato. Interpretazione Il lungo frammento, nel quale si sono volute vedere attive le prerogative retoriche tipiche della Priamel (Race 1982, p. 86; Urios-Aparisi 1992, p. 434; LeVen 2014, p. 76: «the passage […] plays with the priamel form to present a comically distorted version of musical history entirely focused on strings music»), proviene forse dal prologo della commedia (vd. p. es. Schmid 1946, p. 106: «Was die Schrift de musica von dem Inhalt des Chiron wiedergibt und durch Anführung einer Stelle aus einem Dialog zwischen Ποίησις (oder Μουσική, wie man verbessert) und Δικαιοσύνη belegt, dürfte aus dem Anfang der Komödie entnommen sein», e Pianko 1963, p. 57). In una scena dialogica tra due personificazioni, la Musica riferisce alla Giustizia i torti subiti da parte dei fautori della cosiddetta musica ‘nuova’ (per la quale, considerata la straordinaria ricchezza del dibattito scientifico che la riguarda, in incremento costante negli anni, devo limitarmi qui a rinviare alle dense raccolte bibliografiche allestite da Meriani 2003a, p. 21 n. 20, e da De Simone 2008, p. 479 n. 1, rispetto alle quali aggiungerei almeno D’Angour 2011 e il fondamentale studio di LeVen 2014, passim). Le lamentele di Musica si articolano attraverso una ricca e insistita ambivalenza lessicale costituita da «doppi sensi osceno-musicali ora riferiti alla Musica in quanto personaggio femminile, oggetto di piacere, ora in quanto fenomeno artistico, oggetto di ammirazione» (Restani 1983, p. 143; per questo aspetto si vedano soprattutto Dobrov–UriosAparisi 1995, e Dobrov 1997; vd. inoltre Conti Bizzarro 1999, p. 135). L’ostilità di Ferecrate nei confronti delle innovazioni musicali che, nei decenni finali del V secolo, trovarono crescente fortuna e diffusione ad Atene non rappresenta certo una posizione isolata: considerazioni analoghe sono espresse a più riprese, come è ben noto, anche da altri autori comici (sul giudizio complessivo di Aristofane e dei comici nei confronti delle novità formali introdotte nel ditirambo negli ultimi decenni del V secolo vd. almeno Dobrov–Urios-Aparisi 1995, pp. 164–174; Dobrov 1997, pp. 63–70; Zimmermann 1993 e Zimmermann 2008, pp. 116–133; sui riflessi politici dei quali è carica la denuncia delle innovazioni musicali vd. Csapo 2004). Le accuse mosse ai singoli musici e poeti, elencati secondo l’ordine di successione maestro-allievo (vd. Düring 1945, p. 179 s.), sono articolate per il tramite di una tessitura retoricamente sapiente, resa omogenea da una fitta trama di richiami sintattici e lessicali (per un inquadramento formale del frammento si vedano, p. es., Restani 1983, p. 142 s., e Urios-Aparisi 1992, p. 434 s.): alla sempre

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più dirompente incisività delle innovazioni corrisponde un grado crescente di destabilizzazione delle norme tradizionali. Da qui, verso dopo verso, il progressivo inasprirsi della condanna di Musica. 1–2 λέξω […] ἔχει I due primi versi del frammento, nei quali è senza dubbio da vedere un inizio di rhesis (il μέν solitarium che segue il λέξω di esordio è da interpretare come incettivo: vd. Denniston 1954, pp. 382–384; quanto a λέξω, il futuro esprime volontà, intenzione immediata: vd. Kühner-Gerth I, pp. 173–176 [§ 387.5]; Schwyzer-Debrunner II, p. 290 s.), si caratterizzano nel complesso per un «livello stilistico rigidamente formalizzato (litote iniziale οὐκ ἄκουσα v. 1, anafora tra l’inizio dei due versi successivi ἐμοί τε λέξαι … / ἐμοὶ γὰρ ἦρξε, complicata da un poliptoto a partire dalla metà del verso iniziale σοί τε γὰρ κλυεῖν / ἐμοί τε λέξαι ed arricchita da un parallelismo strutturale: pronomi - congiunzione - verbo all’infinito)» (Restani 1983, p. 142 s.). In questo attacco si è voluto vedere, direi a ragione, un colorito paratragico: così a partire almeno da Runkel 1829, p. 62, il quale credeva però, forse a torto, alla possibilità che i versi potessero provenire da una specifica tragedia (Hos versus e tragoedia quadam desumptos credo, omnino enim tragicus color in iis est agnoscendus; così anche Hanow 1830, p. 37: initium […] ipsum fortasse ex tragico quodam petitum, e ancora Edmonds 1957, p. 263: «prob. a tragic citation»; più generico, a ragione, Kock CAF I, p. 189: versus 1 et 2 tragicam gravitatem imitantur), e fino a Urios-Aparisi 1992, p. 439, e a Conti Bizzarro 1999, p. 141 s. (di ‘mock formality’ parlano, in termini più vaghi, Dobrov– Urios-Aparisi 1995, p. 147; vd. anche Urios-Aparisi 1996–1997, p. 80: «The tone is para-tragic [sic] and Music is portrayed as a very pompous character by means of rhetorical repetitions», mentre Dobrov 1997, p. 51, parla, per l’attacco del discorso di Musica, di «tragic exordium»). Utili, sotto questo rispetto, i loci paralleli sofoclei e euripidei raccolti da Kassel e Austin ad loc. (PCG VII, p. 179); ma per λέξω come segnale fatico di inizio di rhesis cfr. già Aesch. Prom. 445 λέξω δὲ μέμψιν οὔτιν᾽ ἀνθρώποις ἔχων, con il quale Prometeo, dopo alcune brevi considerazioni preliminari, inaugura il suo lungo discorso alle Oceanine del coro (cfr. anche Eum. 657, pur non in attacco assoluto di rhesis: καὶ τοῦτο λέξω, καὶ μάθ᾽ ὡς ὀρθῶς ἐρῶ). Buoni esempi offre anche Sofocle: p. es. El. 560 (vd. Finglass 2007, p. 265); Phil. 1324 ὅμως δὲ λέξω, e soprattutto 1418 καὶ πρῶτα μέν σοι τὰς ἐμὰς λέξω τύχας, il verso con il quale, dopo gli anapesti di ingresso, Eracle attacca la sua rhesis (per futuri ‘volontativi’ in Sofocle vd. Moorhouse 1982, p. 203 [§ 27]). Lievemente diverso, perché più sfumato, ma funzionale anch’esso a marcare inizio di rhesis in tragedia, λέγοιμ᾽ ἄν, per il quale vd. Fraenkel 1950, II, p. 386 s., e Lloyd 1992, p. 25 n. 27 (ricca raccolta di segnali fatici di inizio di rhesis in tragedia in Encinas Reguero 2008, pp. 403–406; per le formule conclusive fondamentale invece Ercolani 2000). Anche per la litote οὐκ ἄκουσα sono segnalabili paralleli tragici: vd. Lasserre 1954, p. 172, il quale nota, inoltre, come κλύειν, «abondant chez les tragiques», sia per contro «absolument inconnu de la comédie» (ibid.; cfr. infra, ad κλυεῖν). Quanto alla litote si veda anche Conti Bizzarro 1999, p. 141 s. (nutro però più di qualche dubbio sulla possibilità che qui sia da scorgere una «parodia della Schadenfreude

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tragica», e soprattutto che la ripetizione λέξω […] λέξαι sia da intendere come allusiva al «potere magico della parola» e possa per conseguenza essere interpretata come riflesso delle teorie gorgiane del λόγος). A proposito di Soph. El. 286 ὅσον μοι θυμὸς ἡδονὴν φέρει, che figura tra i passi segnalati da Kassel e Austin in relazione al v. 2 del nostro frammento, vd. l’ottima nota ad loc. in Finglass 2007, p. 185, ove il verso di Ferecrate compare citato. Per λέξω 'volontativo' in commedia cfr. p. es. Ar. Ach. 369, 501; Nub. 961; Telecl. fr. 1, 1 K.-A. οὐκ ἄκουσα La litote contribuisce al carattere formale, se non addirittura solenne, dell’attacco. Forme di ἀέκων con negazione ricorrono già a più riprese in Omero, p. es. nella clausola formulare τὼ δ᾽ οὐκ ἀέκοντε πετέσθεν (Il. 5, 366 e 768; 8, 45; 10, 530; 11, 281 e 519; 22, 400; Od. 3, 484 e 494); per il femminile cfr. Od. 19, 374 s. ἐμὲ δ᾽ οὐκ ἀέκουσαν ἄνωγε / κούρη Ἰκαρίοιο, περίφρων Πηνελόπεια; ulteriori esempi in Pindaro (Nem. 4, 21 οὐκ ἀέκοντες; fr. 169a, 52 Snell - Maehler στρατὸς οὐκ ἀέκ[ων) e poi in tragedia (p. es. Aesch. Prom. 277 οὐκ ἀκούσαις ἐπεθώυξας / τοῦτο, Προμηθεῦ; Suppl. 857 s. ἄκουε δή νυν· καὶ γὰρ οὐκ ἄκοντί μοι / δίδως ἔπαινον; Bacch. 437). Quanto alla commedia, segnalerei soprattutto i vv. 936–937 degli Uccelli, τόδε μὲν οὐκ ἀέκουσα φίλα / Μοῦσα τὸ δῶρον δέχεται, affidati al Poeta e dunque certo parodici dello stile della lirica corale. Qui, però, piuttosto che a parodia di lirica ‘alta’ o a paratragedia, è forse possibile che la litote, in nesso con λέξω, sia da riferire al gergo tecnico dell’oratoria giudiziaria, al quale è stato espressamente ricondotto il tipo ἑκὼν ἑκοῦσι (vd. Seaford 1988, p. 154 [ad 258]), del quale formule come Soph. Phil. 771 ἑκόντα μήτ᾽ ἄκοντα o Eur. Heracl. 530 s. ἥδε γὰρ ψυχὴ πάρα / ἑκοῦσα κοὐκ ἄκουσα possono essere considerate varianti. Per lo statuto retorico e il carattere rafforzativo della litote si veda Köhnken 1976 (per il tipo οὐκ ἀέκουσα = ‘gern bereit’ vd. p. 62 e n. 2); per οὐκ ἀέκων = ‘recht gern’ vd. anche Schwyzer - Debrunner II, p. 599. κλυεῖν Per il tràdito κλύειν è preferibile stampare l’aoristo κλυεῖν: vd. Schulze 1888, p. 240, ove si sottolinea, in una serie di passi omerici e tragici, ma anche in relazione al verso di Ferecrate qui in questione, il carattere stilisticamente elevato (‘erhaben’) delle forme aoristiche di κλύω. Vd. anche Lautensach 1911, p. 35 s., ove si nota come l’uso di forme aoristiche di κλύω sia limitato, in Aristofane, a due soli passi, entrambi paratragici (Eq. 813; Plut. 601). Si veda, infine, la ricca trattazione del problema offerta, più di recente, da West 1984, pp. 172–180 (a p. 174 l’aoristo κλυεῖν, preferito anche da West per il passo di Ferecrate qui in questione, è a ragione messo in relazione con il λέξαι del verso immediatamente successivo). Coglie peraltro nel segno LeVen 2014, p. 77, nel mettere in evidenza il carattere ‘arcaizzante’ della scelta di κλυεῖν per il più ovvio ἀκούειν: un tratto che contribuisce anch’esso al tenore sostenuto dell’attacco di Musica (per il quale, del resto, la stessa LeVen parla, nel medesimo contesto, di «aristocratic frame»). θυμός Ιl tràdito θυμός è stato fatto oggetto di due interventi, entrambi non necessari. Weil - Reinach 1900, p. 118 s., stampavano σοί τε γὰρ κλύειν / ἐμοί τε λέξαι μῦθος ἡδονὴν ἔχει, ‘mon récit t’amusera à entendre, comme moi à le faire’ (una soluzione accolta da Schönewolf 1938, p. 66 s: ‘die Rede / macht dir zu hören

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Freude ja wie mir / sie zu erzählen’). Ma già prima Kock (Kock 1875, p. 400 s.; vd. poi CAF I, p. 189) aveva proposto μῦθον, notando a) che ἡδονή non equivale a ἐπιθυμία (si dicere volebat [scil. Ferecrate] animum teneri cupiditate dicendi, quoniam ἡδονή voluptas est, non cupiditas, dicendum erat θυμὸς ἐπιθυμίαν ἔχει vel ἐπιθυμεῖ λέξαι) e b) che se Ferecrate avesse voluto far dire a Musica che era presa dal desiderio di parlare, glielo avrebbe fatto dire diversamente, dal momento che in greco la costruzione ἡδονὴν ἔχειν + infinito non ricorre (sin autem significaturus erat animum voluptate teneri in dicendo, participio opus erat θυμὸς ἡδονὴν ἔχει κλυούσῃ-λεγούσῃ neque vero omnino Graeci dicunt θυμὸς ἡδονὴν ἔχει τι ποιεῖν). Ma c’è il già citato passo dell’Elettra (286 οὐδὲ γὰρ κλαῦσαι πάρα / τοσόνδ᾽ ὅσον μοι θυμὸς ἡδονὴν φέρει), del quale Kock, per provare a sdrammatizzarne il peso, fornisce un’esegesi che è difficile ritenere convincente (Sophoclis autem versus […] in summa similitudinis specie Pherecratei dissimillimus est: queritur enim Electra quod coram matre sibi non tantum flere liceat, quantum si fleverit (ὅσον κλαυσάσῃ), animus expleta cupiditate satiatus sibi voluptatem adferat). A difesa del testo tràdito, prima di Kassel e Austin, Lasserre 1954, p 172; vd. poi anche Ziegler 1960, p. 1124, e Conti Bizzarro 1999, p. 143. Di diverso avviso, invece, Düring 1945, p. 179, il quale, accogliendo il μῦθον di Kock, qualificava il passo dell’Elettra come «no relevant parallel», segnalando la frequente confusione, nei manoscritti, tra θυμός e μῦθος e intendendo il costrutto ἡδονὴν ἔχει come ‘absolute’. Nella medesima direzione, già ben prima, Nauck 1894, p. 69, il quale però, pur giudicando ‘ansprechend’ l’intervento di Kock, non escludeva la possibilità che il citato passo dell’Elettra potesse servire a difendere il testo tràdito, ovvero θυμός. 3 ἐμοὶ […] ἦρξε τῶν κακῶν Anche qui, in continuità con i due versi di attacco della rhesis, è da riconoscere operante, in chiave parodica, un tipico motivo tragico, «the familiar tragic motif of the ἀρχὴ κακῶν» (Davies 1991, p. 206 [ad 871–872 ὦ παῖδες, ὡς ἄρ᾽ ἡμὶν οὐ σμικρῶν κακῶν / ἦρξεν τὸ δῶρον Ἡρακλεῖ τὸ πόμπιμον]): un motivo che trova le sue origini nell’epica (cfr. Hom. Il. 5, 62–64, ove si trovano evocate le νῆες ἀρχέκακοι costruite da Fereclo per Paride: ὃς [scil. Fereclo] καὶ Ἀλεξάνδρῳ τεκτήνατο νῆας ἐΐσας / ἀρχεκάκους, αἳ πᾶσι κακὸν Τρώεσσι γένοντο / οἷ τ᾽ αὐτῷ, ἐπεὶ οὔ τι θεῶν ἐκ θέσφατα ᾔδη) e poi ampio sviluppo, appunto, in tragedia, specialmente, anche se non esclusivamente, in Euripide: vd. Kannicht 1969, II, p. 80 (ad 229–31). Un buon parallelo comico è costituito da Ar. Ach. 821 τοῦτ᾽ ἐκεῖν᾽· ἵκει πάλιν / ὅθενπερ ἁρχὰ τῶν κακῶν ἁμίν γ᾽ ἔφυ, nel quale Olson 2002, p. 277, notando l’assenza di soluzioni e portando a confronto Eur. Hipp. 272 οὐδ᾽ ἥτις ἀρχὴ τῶνδε πημάτων ἔφυ, vede, a ragione, un «tragic tone» (ma il passo degli Acarnesi è registrato come paratragico già in Rau 1967, p. 187). Una variante del medesimo motivo tragico sembra chiaramente in gioco anche nel pur corrotto v. 605 della Pace, πρῶτα μὲν γὰρ †αὐτῆς ἦρξε† Φειδίας πράξας κακῶς: una considerazione che toglie forza a ogni tentativo di restauro che punti a sostituire i tràditi ἦρξε/ ἤρξατ(ο) con verbi diversi da ἄρχω (di diverso avviso Olson 1998, p. 196, il quale, incomprensibilmente, trova «intolerably awkward» una cosa, invece, comunissima

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in greco, ovvero il fatto che una forma di ἄρχω abbia potuto far seguito al πρῶτα μέν di inizio verso). Μελανιππίδης Per i resti della produzione di Melanippide e le fonti antiche a lui relative si vedano Del Grande 1946, pp. 53–57; PMG 757–766; Sutton 1989, pp. 43–47; Ieranò 1997, p. 371 s.; LeVen 2014, p. 43 (Table 4); vd., inoltre, Maas 1931; Schönewolf 1938, p. 27; Pickard-Cambridge 1962, pp. 39–41; Richter 1968, p. 12 s.; Privitera 1979, p. 316; Restani 1983, p. 143 n. 10; Barker 1984, p. 93 s.; West 1992a, p. 357 s.; Conti Bizzarro 1999, pp. 143–145; Wilson 1999, pp. 63–66; Wallace 2003, p. 83; Zimmermann 2008, pp. 120–126; Pöhlmann 2011, p. 118, e Fongoni 2016. La valutazione recisamente negativa formulata qui da Ferecrate non fa che confermare il giudizio altrettanto severo espresso dalla fonte nel passo che introduce alla citazione del frammento (de mus. 1141 C-D, § 30, pp. 24, 20 - 25, 4 Ziegler ὁμοίως δὲ καὶ Μελανιππίδης ὁ μελοποιὸς ἐπιγενόμενος οὐκ ἐνέμεινε τῇ προϋπαρχούσῃ μουσικῇ […]· οὗτος γάρ, ἑπταφθόγγου τῆς λύρας ὑπαρχούσης ἕως εἰς Τέρπανδρον τὸν Ἀντισσαῖον, διέρριψεν εἰς πλείονας φθόγγους. ἀλλὰ γὰρ καὶ 〈ἡ〉 αὐλητικὴ ἀφ᾽ ἁπλουστέρας εἰς ποικιλωτέραν μεταβέβηκε μουσικήν· τὸ γὰρ παλαιόν, ἕως εἰς Μελανιππίδην τὸν τῶν διθυράμβων ποιητήν, συμβεβήκει τοὺς αὐλητὰς παρὰ τῶν ποιητῶν λαμβάνειν τοὺς μισθούς, πρωταγωνιστούσης δηλονότι τῆς ποιήσεως, τῶν δ᾽ αὐλητῶν ὑπηρετούντων τοῖς διδασκάλοις· ὕστερον δὲ καὶ τοῦτο διεφθάρη), ove proprio a Melanippide è attribuita la responsabilità prima della corruzione della buona musica antica, tanto in relazione ai componimenti destinati all’accompagnamento della lira quanto rispetto a quelli pensati per l’aulos, in merito ai quali si sottolinea l’indebita prevalenza assegnata alla componente musicale rispetto alle ragioni della ποίησις, ovvero della partitura verbale della composizione: ragioni che fino appunto a Melanippide sarebbero state opportunamente rispettate (sul passo, molto discusso, si veda, di recente, LeVen 2014, pp. 81 e 86). Se questo è vero, merita però di essere segnalato il giudizio invece largamente positivo espresso da Aristodemo nei Memorabili di Senofonte (I 4, 3 = 18 T 4 Sutton), sia pure all’inizio di uno scambio con Socrate destinato a chiudersi con una radicale messa in discussione, da parte di quest’ultimo, delle posizioni argomentate in partenza dal suo interlocutore (da rettificare, dunque, quanto scrive Ieranò 1997, p. 317, il quale vede nel passo una testimonianza della «stima di Socrate per Melanippide»): un passo nel quale gli esiti dell’arte di Melanippide nel ditirambo sono accostati a quelli raggiunti da Omero nell’ epica, da Sofocle nella tragedia, da Policleto nella scultura e da Zeusi nella pittura (ἐπὶ μὲν τοίνυν ἐπῶν ποιήσει Ὅμηρον ἔγωγε μάλιστα τεθαύμακα, ἐπὶ δὲ διθυράμβῳ Μελανιππίδην, ἐπὶ δὲ τραγῳδίᾳ Σοφοκλέα, ἐπὶ δὲ ἀνδριαντοποιίᾳ Πολύκλειτον, ἐπὶ δὲ ζωγραφίᾳ Ζεῦξιν). Secondo una nota testimonianza aristotelica (Rhet. III 9, 1409 b 26–27 = 18 T 3 Sutton = test. 159b Ieranò), Melanippide avrebbe utilizzato nei suoi ditirambi, in aperta rottura rispetto alla tradizione, proemi in forma astrofica (ἀναβολαί), per i quali cfr. infra. 4 ἐν τοῖσι πρῶτος Così stampano gli ultimi editori del frammento, raccogliendo, a ragione, un intervento risalente a Meineke (FCG II.1, p. 328). Per ἐν

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τοῖσ(ι) con superlativi = omnium, oltre a Kühner-Gerth I, p. 28 s. (citato da Kassel e Austin), e Schwyzer-Debrunner II, p. 185, si veda, ben prima, l’ampia, puntuale discussione di Reiz 1791, pp. 17–23, con le preziose integrazioni di Wolf a p. 21 n. 12. Si vedano inoltre Thesleff 1954, p. 119 (§ 168) e Thesleff 1955, pp. 109–111 (§ 131). Come nota, a ragione, Janssen 1989, p. 149 n. 1, πρῶτος è «essential in this and comparable catalogues» (quanto al fatto che, dopo ἦρξε, πρῶτος possa risultare «slightly redundant» rimando a quanto ho osservato sopra ad 3 in relazione a Ar. Pac. 605). Un πρῶτος catalogico, dunque: di inaugurazione al catalogo, meglio, piuttosto che un πρῶτος eurematologico, come sembra averlo inteso, invece, Kleingünther 1933, p. 142 n. 112. 4–5 ὃς λαβὼν ἀνῆκέ με / χαλαρωτέραν τ᾽ ἐποίησε χορδαῖς δώδεκα A lungo si è ritenuto che l’evocazione delle ‘dodici corde’ della lira di Melanippide, confliggendo apertamente con quanto è noto dalle fonti antiche in relazione all’identità dei poeti e musici responsabili del progressivo aumento nel tempo delle corde della lira, fosse da considerare inattendibile e che fosse per conseguenza necessario intervenire sul numerale tràdito. Così, ad esempio, Weil-Reinach 1900, p. 119: «Phérécrate est le seul auteur qui attribue à Mélanippidès l’addition de cordes à la lyre; il fut le premier […] à entrer dans cette voie. Comme le chiffre normal, fixé depuis Simonide, était 8 […], c’est donc la 9e corde que Mélanippidès introduisit»: sulla base di queste considerazioni l’ἐννέα stampato a testo al posto del tràdito δώδεκα. Ma già prima Volkmann 1856, p. 124, aveva proposto χορδαῖσιν δέκα per la clausola di v. 5, prestando fede, pur senza dichiararlo espressamente, a tradizioni diverse (l’addizione della nona corda è attribuita da Nicomaco di Gerasa e da Boezio all’altrimenti ignoto Profrasto di Pieria, da Plinio, invece, a Timoteo: da qui, evidentemente, l’idea che a Melanippide fosse attribuita da Ferecrate l’aggiunta non della nona, ma della decima corda; δέκα per δώδεκα, peraltro, è già in Ulrici 1835, p. 605 n. 104). Né sono mancati interventi di taglio ancor più radicale: penso, ad esempio, a Schönewolf 1938, p. 66, il quale, nel quadro di una risistemazione complessiva dei vv. 5–7, arrivava a espungere χορδαῖς δώδεκα per sostituirlo con la sequenza πρὸς τὰ νῦν κακά di v. 7. A partire almeno da Düring 1945 si è però affacciato negli studi un approccio diverso, certo più sensato: il numerale δώδεκα sarebbe da intendere non alla lettera, ma come indicazione, comicamente iperbolica, di una quantità genericamente sovrabbondante di corde, e dunque di note («a great mass of notes»: così Düring 1945, p. 182), allo stesso modo che negli altri due casi in cui ricorre nel corso del frammento (vv. 16 e 25: il numerale sarebbe ribadito tre volte «in order to underline the accusation: a great register was regarded as something especially characteristic of the new music, whereas the ancient had acquiesced in tunes of a comparatively moderate compass» [Düring 1945, ibid.]). L’ipotesi di Düring è brillantemente adeguata tanto a sdrammatizzare, insieme alle considerazioni che avevano portato a intervenire sul numerale, l’assoluta rarità di attestazioni, letterarie o iconografiche, relative alla concreta esistenza di lire a dodici corde (non totale assenza, però: si vedano i due casi elencati da West 1992a, p. 63 tab.

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3.1, ai quali sono adesso da aggiungere gli ulteriori due esempi segnalati da Lynch 2018, p. 302 n. 46; vd. anche Creese 2010, p. 45 s.) quanto a rendere in fondo secondario il problema costituito dall’ambiguità semantica di χορδή (‘corda’, ma anche ‘suono’ o ‘nota’: vd. p. es. Gombosi 1939, pp. 17–19; Winnington-Ingram 1956, p. 171 n. 3; Maas 1992, passim; Urios-Aparisi 1992, p. 442; Anderson 1994, p. 128 s.; Dobrov–Urios-Aparisi 1995, p. 155; Hagel 2009, pp. 61 n. 21 e 87 n. 97), spiegando, a un tempo, il poco perspicuo cenno alle dodici χορδαί in termini perfettamente adatti al contesto, ovvero come iperbole comica (ma lo stesso vale anche per l’insistita iterazione del numerale, che sarebbe altrettanto in linea con le coordinate stilistiche e retoriche del genere comico [lucidissimo, per questo aspetto, Düring 1945, p. 182: «The repetition is in itself a well-known feature of the style of comedy»]; un dato a volte curiosamente frainteso, ad esempio da Ulrici 1835, p. 605 n. 104: «Die stets wiederkehrende Zahl zwölf ist wenigstens gewiß fehlerhaft und nur durch die Abschreiber entstanden, da es ganz überflüssig gewesen wäre, die Zahl stets zu wiederholen, sobald sie immer dieselbe blieb»; LeVen 2014, p. 77, sottolinea invece a ragione il carattere «quasi-formulaic» dei versi che servono a introdurre Melanippide, Cinesia e Frinide). Essa è stata accolta, o almeno giudicata con favore, tra gli altri, da Süß 1954, p. 121 («Seltsam ist die Zahl zwölf, die selbstverständlich wieder im Sinne von „Gott weiß, wieviel” als runde Zahl für ein Dutzend zu verstehen ist», il che Süß pensa [p. 119] anche in relazione alle ‘dodici harmoniai’ di Frinide evocate a v. 16 [cfr. infra]); Anderson 1966, p. 228 n. 41; Restani 1983, p. 143 s. e n. 14; Gentili 1988, p. 15 n. 33 («il numero dodici […] va inteso nel senso generico di ‘molte corde’»); West 1992a, p. 357 e n. 4 («At two or three points she [scil. Musica] speaks of ‘twelve chordai’, though the number should probably not be taken too literally. ‘A dozen’ may be a better rendering»; a p. 358 West parla di «extra notes besides those of the plain old scales»); West 1992b, p. 28 n. 46 («a loose hyperbole»); Zimmermann 1993, p. 41 (vd. anche Zimmermann 2008, p. 121 n. 28); Maas 1992, p. 78 («In the passages on Melanippides and Timotheos the word chordais need not be translated as “strings”, especially since no particular instrument is named. Chorde also means note, and in both cases chordais dodeka may simply be translated as “with many notes”»). È appena il caso di notare che, se le cose stessero così, l’esigenza di intervenire sul numerale tràdito per sostituirlo con uno diverso da δώδεκα perderebbe ogni urgenza. LeVen 2011, p. 249 s., pur non scartando l’idea di un uso genericamente iperbolico del numerale δώδεκα, argomenta a favore della possibilità che esso, nelle sue tre ricorrenze, sia da intendere «as a form of technical sounding language» (si veda anche la formulazione, più elaborata e circostanziata, argomentata in LeVen 2014, p. 76 n. 17: «in the three instances in which it occurs in Pherecrates, the expression χορδαὶ δώδεκα seems to be used as a form of metrical and rhythmical stopgap, used to “fake” the language of musical experts rather than to describe any musical reality»), notando peraltro come l’iterazione del medesimo numerale in relazione all’attività di tre diversi poeti (prima Melanippide, poi Frinide, infine

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Timoteo) metta in crisi il quadro di decadenza progressiva e crescente dell’arte musicale che si è soliti vedere nel frammento (vd. anche LeVen 2014, p. 76 s.: «The repetition of some expressions in particular (χορδαὶ δώδεκα and variations on ἀλλ᾽ οὖν ἀνεκτὸς οὗτος ἦν ὅμως ἐμοί) is in tension with the crescendo of the priamel intended to build toward the innovations of Timotheus: there is no clear indication of musical evolution, but rather repetition and a great degree of self-absorption»). Quanto al secondo problema, LeVen 2011, p. 249 s., individua una soluzione (in aperta discontinuità rispetto all’esegesi tradizionale del frammento, che vede in quest’ultimo una sorta di parodia della sphragis dei Persiani di Timoteo) immaginando, sulla scorta di Power 2001, pp. 198–200, che in essa fosse invece Timoteo a prendere a prestito, pur mutandone polarmente il segno (non più in chiave di censura, cioè, ma di orgogliosa, rivendicativa autocelebrazione), il procedere catalogico di Ferecrate per sostituire al quadro di «musical stagnation or of uniformity between the different musicians» una presentazione dei fatti pensata per correggere «the stagnant view of lyric history offered by Pherecrates», rimpiazzandola con una «history of lyric practice that proceeds by slight incremental additions and transformations of a tradition», fino appunto a Timoteo, culmine e acme del processo (LeVen 2011, p. 250; il confronto tra i due cataloghi, quello scommatico di Ferecrate e quello autocelebrativo di Timoteo, è luogo comune, negli studi: vd., p. es., Janssen 1989, p. 149, e Hordern 2002, p. 230). Ma si tratta forse di un problema più apparente che reale, dal momento che, a parte il ricorrere del numerale δώδεκα, i ritratti dei tre poeti e musicisti ai quali il numerale è associato si distinguono per una serie di particolari e di dettagli che rendono del tutto verisimile ritenere che il procedere ‘ascendente’ dell’enumerazione, dal meno dannoso al più rovinoso, oltre a essere ciò che Ferecrate aveva in mente, potesse risultare ben chiaro al pubblico della commedia. L’idea che nel numerale δώδεκα sia da intuire un colorito tecnico, e che i versi dedicati a Melanippide possano avere a bersaglio, più specificamente, la pratica della frammentazione dei toni in semitoni cromatici o in quarti di tono, è idea ben radicata negli studi, ove la si trova spesso argomentata in relazione al peculiare uso, nei due versi, dell’aggettivo χαλαρός e del verbo ἀνίημι, entrambi metaforicamente, e polemicamente, allusivi a una condizione, deteriore, di rilassamento e di illanguidimento: si veda, ad esempio, Restani 1983, p. 143 s. («Il comico mette verosimilmente in relazione χαλαρός con la musica dei semitoni cromatici e dei quarti di tono, costituita appunto da intervalli minimi e divisa in χορδαὶ δώδεκα, dove questo ‘round number’ […] indica la frammentarizzazione del tono»; sul sistema cromatico, che si afferma in termini sempre più decisi a partire dagli ultimi decenni del quinto secolo, vd. da ultimo Hagel 2009, pp. 44–51), ma anche, già prima, Lasserre 1954, p. 172 s. (opportunamente citato da Restani 1983, p. 143 n. 14), importante anche per quanto attiene al falso problema costituito dal numerale δώδεκα: «Mélanippide […] aurait étendu la tessiture de la lyre […] ou de la cithare vers le bas: reproche de panharmonie et non de polycordie. S’il faut huit cordes pour une octave où le pycnon enharmonique ou cromatique figure au clavier,

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les quatre cordes supplémentaires […] permettent de descendre à l’octave de la mèse. Il n’y a donc pas de raison de corriger le chiffre indiqué, qui correspond à l’idée exprimée par χαλαρωτέραν aussi bien acoustiquement qu’éthiquement […]: l’erreur de tous les correcteurs modernes provient de ce qu’ils ont voulu établir d’un musicien à l’autre une sorte de progression dans le nombre des cordes, alors que l’auteur du Chiron joue sur les deux tableaux de la panharmonie et de la polyphonie où le nombre des cordes n’est pas déterminant» (l’idea che l’innovazione imputata qui a Melanippide consistesse in un abbassamento della tessitura della lira torna anche altrove, in genere in relazione a χαλαρωτέραν; vd. p. es. Gombosi 1939, p. 66: «Abspannen und schlaff machen bezieht sich auf die tiefe Saite»; Landels 1999, p. 102: Melanippide avrebbe abbassato «the pitch of some of the notes in the scales which he was using», o si sarebbe servito di «scales with a low tonos»). Vd. inoltre D’Angour 2011, p. 201 («The ‘loosening up’ of the Muse refers to techniques that increased the range of melodic expression») e Baltieri 2016, p. 214, la quale, in relazione all’effetto prodotto dalla lira a dodici corde di Melanippide, parla di una «articolazione della musica in microtoni». Assai di recente è stata avanzata una proposta di esegesi complessiva del frammento, quella di Lynch 2018, che spinge l’approccio tecnico del quale ho appena detto a limiti molto avanzati. Lynch, prendendo le mosse dal già citato passo che, nella fonte, serve a preparare e a introdurre la citazione del frammento, e individuando la sostanza profonda del meccanismo di progressiva corruzione della musica tradizionale nel sempre più spinto trasferimento all’ambito della musica accompagnata da strumenti a corde della spericolata polyphonia che, dopo gli esperimenti, più antichi, di precursori come Laso e Pratina, si era imposta con crescente successo negli ultimi decenni del secolo in quello dell’auletica, ritiene che l’inedita polychordia caratteristica degli strumenti dei novatori sia da leggere come un tentativo di trasferire alla lira una prerogativa fino ad allora esclusivamente riservata ai suonatori di aulos, ovvero «the ability to modulate seamlessly between Dorian, Phrygian and Lydian on one and the same instrument» (Lynch 2018, p. 300; sulla polychordia si veda la bibliografia citata da Lynch 2018, p. 295 n. 17, alla quale aggiungerei almeno Maas 1992 e Valerio 2013, p. 98 s.; per la probabile matrice aristossenica della costellazione formata dai lemmi ὀλιγοχορδία, πολυχορδία e ποικιλία vd. Borthwick 1967, p. 146). Questo il bilancio tracciato dalla Lynch in chiusa di articolo: «By multiplying the number of the kithara strings, the New Musicians succedeed in emulating the harmonic flexibility of the aulos, and this process went hand in hand with the development of a harmonic theory that could make sense of such a complex system of modulations and incorporate them within the formal constraints of lyre tunings. Combining an auletic, tonosbased approach […] with a lyre-based approach that conceived lyre harmoniai as different ‘forms’ (eide) or ‘arrangements’ (schemata) of the octave, the New Musicians managed to make the kithara once again ‘the most polychord instrument’, matching and perhaps surpassing the aulos’ astounding polyphonia». Le dodici corde attribuite qui allo strumento di Melanippide sarebbero da spiegare

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tenendo presenti le estensioni di ottava tipiche, sulla lira, delle tre harmoniai in questione, dorica, frigia e lidia, e più in particolare il diverso disporsi, nelle tre harmoniai, di toni e semitoni intorno alla mese, essa stessa diversamente posizionata, nella scala, di harmonia in harmonia (Lynch 2018, p. 301 fig. 4): «the number of strings required to produce all these modes on the same instrument is twelve, that is to say precisely the number of strings that Pherecrates attributes to Melanippides’ tuning» (Lynch 2018, p. 302). È infine verosimile immaginare, come si è dato del resto di continuo negli studi, che l’evocazione delle dodici χορδαί fosse portatrice di una carica allusiva oscena. Più di uno studioso ha coinvolto, in questa chiave, l’accusa, mossa da Eschilo a Euripide nelle Rane di Aristofane (vv. 1325–1328 τοιαυτὶ μέντοι σὺ ποιῶν / τολμᾷς τἀμὰ μέλη ψέγειν, / ἀνὰ τὸ δωδεκαμήχανον / Κυρήνης μελοποιῶν;), di avere introdotto nella composizione dei canti il δωδεκαμήχανον della prostituta Cirene. Vd. Süß 1954, p. 119 (il quale, però, evocava il δωδεκαμήχανον di Cirene in relazione non alle dodici corde dello strumento di Melanippide ma alle dodici harmoniai di Frinide [cfr. infra], equiparando lo strobilos di sua invenzione, sia pure non expressis verbis, al membro virile e le dodici harmoniai a altrettante figurae coeundi, in chiave esplicitamente oscena); Taillardat 1965, p. 458 n. 4: «χορδαῖς δώδεκα est une plaisanterie παρὰ προσδοκίαν (on attendait μηχαναῖς ou τρόποις δώδεκα)», con rinvio ai citati vv. 1325–1330 delle Rane, da Taillardat trattati in precedenza (p. 428 [§ 734]; di ‘surprise’ parla anche Olson 2007, p. 183); Borthwick 1968, p. 68 s.: «But although the musical part of the meaning of this line doubtless refers (even if imprecisely) to the elaborate fingerings of this master of modulation, I suspect that the main purport of its place here lies in a current joke about σχήματα συνουσίας which we meet again in Ar. Ran. 1327–8 ἀνὰ τὸ δωδεκαμήχανον Κυρήνης μελοποιῶν»; Maas 1992, p.  78; Urios-Aparisi 1992, p. 443 (ove, accanto alla riproposizione dell’ipotesi che il numerale δώδεκα possa contenere un’allusione alle dodici posizioni di Cirene, vengono evocati i certamente osceni νεῦρα di Plat. Com. fr. 189, 20 K.–A. [vd. Pirrotta 2009, p. 365], ipotizzando che le χορδαί di Ferecrate potessero contenere un’allusione in qualche modo simile [= membrum virile]), e Griffith 2013, p. 147 (ove il richiamo ai versi delle Rane, coinvolti da Griffith in relazione non a Melanippide, ma alle dodici corde della lira di Timoteo, serve a suggerire l’idea che la caratterizzazione dei poeti chiamati in causa da Ferecrate, oltre a colpire la «multistring instrumentation», le «quick modulations» e la «technical versatility» della musica da loro prodotta, avesse a bersaglio anche la loro «sexual promiscuity»). Cfr. anche Plat. Com. fr. 143 K.–A. Ξενοκλῆς ὁ δωδεκαμήχανος / ὁ Καρκίνου παῖς τοῦ θαλαττίου con il commento ad loc. di Pirrotta 2009, p. 286. Quanto alla seconda delle due ipotesi affacciate da Urios-Aparisi, in base alla quale, come si è detto, χορδή potrebbe avere qui il significato di membrum virile, in analogia con quanto attestato per νεῦρον (vd. Taillardat 1965, 73 [§ 99]; Henderson 1991, p. 116 [§ 23]; Bagordo 2002, p. 321), essa ha trovato sviluppo prima in Dobrov–Urios-Aparisi 1995, p. 155 e n. 58 (le dodici χορδαί di Melanippide e di Timoteo, intese nell’accezione di ‘sausages’,

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finirebbero per alludere a qualcosa di assimilabile a multae fututiones; vd. anche Dobrov 1997, p. 56 s.), poi, ancora più diffusamente, in Pöhlmann 2011, p. 124 s. Alla probabile allusività, tra l’erotico e l’osceno, del passo contribuiscono tanto l’aggettivo χαλαρός quanto il verbo ἀνίημι, entrambi attestati in senso metaforico, e in termini che fanno pensare, almeno a livello di quarto secolo, a una specializzazione ormai al limite del tecnico, a indicare, in ambito musicale, prerogative deteriori di mollezza e di languore, specie in relazione a specifiche harmoniai, bollate come svigorite o effeminate; per χαλαρός basterà citare Plat. Resp. III 398 e 9–10: - τίνες οὖν μαλακαί τε καὶ συμποτικαὶ τῶν ἁρμονιῶν; - ἰαστί, ἦ δ᾽ ὅς, καὶ λυδιστὶ αὖ τινες χαλαραὶ καλοῦνται, e rimandare, tra i lavori recenti, almeno a Rocconi 2003, pp. 59–61 (si veda anche la voce χαλαρός nel glossario che chiude il volume [p. 146]; molto simile μαλακός, per il quale, oltre che Rocconi 2003, p. 137 s. v., si veda Borthwick 1970, p. 330); quanto a ἀνίημι, inevitabile il rinvio all’opposizione polare tra armonie ‘rilassate’ (ἀνειμέναι) e armonie ‘tese’, qualificate, di volta in volta, da aggettivi quali σύντονος o ἔντονος, o anche da participi di composti di τείνω (ἐντείνω, ma anche ἐπιτείνω): si veda, per questo, il ricco materiale raccolto da Conti Bizzarro 1999, pp. 145–149, da integrare con Rocconi 2003, p. 128, e, per τάσις/ἄνεσις nei trattatisti musicali, con il recentissimo studio di Raffaele 2017. Ma «the obscene meaning of χαλάω/χαλαρός is a commonplace in comic poetry» (Prauscello 2004, p. 337 n. 27; materiale comico in Henderson 1991, p. 177 [§ 342]), ed è appunto su questo ‘commonplace’ che si fonda la battuta di Musica, ambiguamente sospesa sul crinale tra metafora etico-musicale e puntuta allusione oscena (il discorso vale ovviamente anche per ἀνίημι: lo vedeva bene, ad esempio, Lasserre 1954, p. 172, per il quale ἀνῆκε sarebbe da intendere allusivo, oltre che «aux cordes détendues de la lyre», «à la ceinture détachée» di Musica; vd. anche Olson 2007, p. 183: «‘relaxed me’, in reference to both Melanippides’ freeing Music from traditional constraints and tunings […] and the physical ‘loosening up’ she got from taking him as her first lover»). Sulla valenza non meno oscena di λαβών (‘prendere con violenza’, dunque ‘stuprare’) vd. infine Henderson 1991, p. 156 (§ 236) e n. 25; Conti Bizzarro 1999, p. 145; LeVen 2014, p. 130. 6–7 I due versi, lacunosi, sono stati variamente integrati. Per circoscrivere, intanto, il campo alle proposte elencate sopra in apparato: ἦν, 〈νὴ τὸν Δία〉, / ἀποχρῶν ἀνὴρ ἔμοιγε Hanow 1830, p. 39; ἔμοιγε πρὸς τὰ νῦν 〈παρόντα μοι〉 κακά Herwerden 1855, p. 16; 〈εἰς τὴν τέχνην〉 ἔμοιγε πρὸς τὰ νῦν κακά Kock CAF I, p. 189; ἔμοιγ᾽ 〈ἀφορώσῃ νὴ Δία〉 πρὸς τὰ νῦν κακά Kaibel apud K.–A. (PCG VII, p. 180). Segnalo qui, inoltre, i tentativi, francamente assai poco riusciti, di Bothe 1855, p. 110: 〈πρὶν ἕνδεκ᾽ οὐσῶν〉· ἀλλ᾽ ὅμως οὗτος μὲν ἦν / ἀποχρῶν ἀνὴρ ἔμοιγε πρὸς τὰ νῦν κακά, e di Edmonds 1957, p. 262: 〈ἐμοὶ δοκεῖν〉 ἔμοιγε, πρὸς τὰ νῦν κακά. Insostenibile, direi, anche l’ἔμοιγε 〈φαίνεται〉 k πρὸς τὰ νῦν κακά avanzato da Lynch 2018, p. 325, che non vedo, tra l’altro, come possa quadrare con il verso precedente. Spesso gli studiosi si sono limitati a indicare lacuna, in sedi di volta in volta diverse, senza però arrivare a proporre integrazioni: se ad esempio in FCG II.1, p. 326, Meineke preferiva stampare il v. 7 incompleto, senza ulteriori

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indicazioni, ricorrendo a triplice asterisco dopo κακά solo a p. 334 (una soluzione che trova almeno due precedenti: in Brunck 1783, p. 171 [Addenda et emendanda in fragmentis ex incertis comoediis] e in Wyttenbach 1800, p. 441; pongono lacuna dopo κακά, come Brunck, Wyttenbach e Meineke, anche Volkmann 1856, p. 35, e Westphal 1865, p. 22), nell’editio minor (Meineke 1847, I, p. 116) segnava lacuna tra ἔμοιγε e πρὸς, la medesima soluzione adottata da Kassel e Austin (ma così anche Storey 2011, p. 498), oltre che da alcuni editori del De musica (Weil-Reinach; Bernardakis; Ziegler); Runkel 1829, p. 61, immaginava invece la lacuna prima di ἔμοιγε. Non più che fantasiosa la ricostruzione fornita da Burges 1820, p. 278, il quale non esitava a inventare di sana pianta un verso desumendolo da una glossa foziana fonte di un frammento dei Λῆροι (fr. 111 K.–A.): ἔμοιγε· πρὸς τοῖς νῦν δὲ κάκ᾽ ἐστι χἅτερα / ἀπὸ τῶν ποιούντων πολλὰ κυντερώτερα. Meritano, infine, una menzione gli interventi di Jacobs apud Heinrich 1801, p. 196 (ἔμοιγε πρὸς τὰ νῦν κακῶς εἰργασμένα) e di Schönewolf 1938, p. 66, il quale spostava la pericope πρὸς τὰ νῦν κακά a clausola di v. 5, espungendo χορδαῖς δώδεκα, e conservava così come tràdito il verso successivo legandolo direttamente al v. 8, espungendo ἔμοιγε. 6 ἀλλ᾽ οὖν «In continous speech, a speaker countering his own words. More emphatic than the commoner καίτοι» (Denniston 1954, p. 442, ove il passo di Ferecrate si trova citato al nr. 2); dunque ingl. ‘still’, ‘eppure’ (‘but the fact is, but actually’: Olson 2007, p. 183). οὗτος μὲν ἦν ἀποχρῶν ἀνὴρ L’espressione, non del tutto perspicua, e per la quale non saprei indicare paralleli davvero calzanti, si ripete identica a v. 17 e deve significare qualcosa di molto simile a ciò che si trova detto, più chiaramente, a v. 13, ἀλλ᾽ οὖν ἀνεκτὸς οὗτος ἦν ὅμως ἐμοί. La iunctura, più ancora che implicare un giudizio non troppo negativo quanto alle innovazioni introdotte da Melanippide, serve, come più avanti, a deplorare la portata dei mali causati dalle innovazioni di chi è venuto dopo ed è dunque perfettamente funzionale all’impostazione in crescendo del catalogo. Melanippide, intende dire Musica, ‘mi sarebbe stato sufficiente’, ‘mi sarebbe bastato’, rispetto ai mali che le toccano adesso (πρὸς τὰ νῦν κακά): «jeder einzelne ihrer Verunstalter hätte genügt, sie zugrunde zu richten, nun aber haben vier Leute zusammengewirkt» (Schmid 1946, p. 106). Rese di ἀποχρῶν quali ‘sopportabile’, o ‘tollerabile’ (così già Amyot: ‘Mais il estoit encore supportable / Au pris du mal qui maintenant m’accable’, seguito da molti), se appaiono soddisfacenti sul piano del senso, e complessivamente accoglibili, sono però forse eccessivamente condizionate dall’ἀνεκτός di v. 13. Non mi sembra invece che si possa affermare che Melanippide «did not effeminate music totally, but kept it still within the limits of morality» (Urios-Aparisi 1992, p. 443), ipotizzando che ἀποχρῶν sia qui usato, quasi a guisa di complimento, come equivalente a ‘man enough’ (così, invece, Urios-Aparisi, ibid.), in termini almeno in parte simili, se vedo bene, a quelli che caratterizzano le rese di Weil-Reinach 1900, p. 121 (‘un homme passable’), di Schönewolf 1938, p. 67 n. 3 (‘noch nicht ganz unzulänglich, noch genügend’), e di Olson 2007, p. 183 («‘sufficient’, i. e. ‘not too bad’»). Ancora meno plausibili, sia detto per inciso, le ulteriori possibilità di esegesi affacciate da

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Urios-Aparisi appena oltre: a) ἀποχράω = ἀποχράομαι, ‘to misuse, to abuse’; b) ἀποχρῶν = ‘convenient’, sulla base del confronto, tutt’altro che cogente, con Plat. Alc. II.145 c: dunque, ‘Melanippides was still a man convenient for me’, un’esegesi che ha trovato ulteriore sviluppo in Dobrov–Urios-Aparisi 1995, p. 157, ove, appunto sulla base dell’uso di ἀποχρῶν e ἀνεκτός, nel cui ribadito ricorrere sarebbe da scorgere una sfumatura di «condescension», si avanza l’ipotesi che Musica fosse presentata nelle vesti di etèra e i poeti e musici del catalogo in quelle di ‘clienti’ (su questo aspetto cfr. anche infra): «The curious attitude towards inconvenience and trouble – a mixture of outrage and professional resignation (ἀνεκτός implies a necessary evil) – is best understood […] as belonging to the world of Athenian courtesans and their comic representation» (vd. anche Dobrov 1997, p. 58 s.). 8–13 Meineke (FCG II.1, p. 333 s.), seguito da Volkmann 1856, p. 35, e poi da Edmonds 1957, p. 262, proponeva di trasporre i versi dedicati a Cinesia (8–13) dopo quelli che prendono di mira Frinide (14–18), giudicando evidentemente il primo più adatto a seguire il secondo nel processo di progressiva corruzione lamentato da Musica nel frammento in forza della pur tardiva resipiscenza della quale è parola, appunto in relazione a Frinide, ai vv. 17–18 (ἀλλ᾽ οὖν ἔμοιγε χοὗτος ἦν ἀποχρῶν ἀνήρ· / εἰ γάρ τι κἀξήμαρτεν, αὖτις ἀνέλαβεν), versi sui quali Meineke si sofferma a p. 329 s. (Discimus autem ex hoc loco, Phrynin postea ad saniorem artis rationem rediisse). La misura, oltre che non necessaria, è persino dannosa, dal momento che sovverte la linea maestro-allievo scelta da Ferecrate per il suo catalogo (vd., per questo aspetto, Düring 1945, p. 179 s., e Anderson 1994, p. 128). 8 Κινησίας Per i resti della produzione del ditirambografo ateniese Cinesia (PA 8438; LGPN II s. v. Κινησίας 2; PAA 569985) e le fonti antiche a lui relative si vedano Del Grande 1946, pp. 58–63; PMG 774–776; Sutton 1989, pp. 49–53; LeVen 2014, p. 45 (Table 4); vd., inoltre, Holden 1902, p. 852 s.; Maas 1921; Schönewolf 1938, p. 31 s.; Lawler 1950; Pickard-Cambridge 1962, p. 44 s.; Lawler 1964, pp. 18–20; Richter 1968, p.  13; Molitor 1969, pp.  91–94; Restani 1983, p.  157; Barker 1984, p. 94; Urios-Aparisi 1992, p. 444 s.; West 1992a, p. 359; Kugelmeier 1996, pp. 208–248; Conti Bizzarro 1999, pp. 151–153; Orth 2009, p. 100 s.; Pöhlmann 2011, p. 119; Fiorentini 2017, pp. 90–94; Franklin 2017, e adesso l’ottimo quadro d’insieme fornito da Hadjimichael 2019; sulle innovazioni introdotte da Cinesia in ambito musicale vd. anche Fiorentini 2009. Cinesia è frequente oggetto di attacco da parte dei comici (per Cinesia in commedia si vedano Ieranò 1997, pp. 309–312, e l’ampio riesame fornito da Imperio 1998b, pp. 81–91; vd. inoltre Zimmermann 2008, pp. 117–121; Fiorentini 2010, e Baltieri 2016, pp. 229–231): in Platone comico (fr. 200 K.–A. [inc. fab.] μετὰ ταῦτα δὲ / † Εὐαγόρου ὁ παῖς ἐκ πλευρίτιδος Κινησίας † / σκελετός, ἄπυγος, καλάμινα σκέλη φορῶν, / φθόης προφήτης, ἐσχάρας κεκαυμένος / πλείστας ὑπ᾽ Εὐρυφῶντος ἐν τῷ σώματι) e, a più riprese, in Aristofane: negli Uccelli (nei quali, come è ben noto, Cinesia compare in scena come personaggio: cfr. vv. 1372–1409 e vd. Restani 1983, p. 150; Zimmermann 1993, pp. 41–43, e Dunbar 1995, p. 660 s.); nelle Ecclesiazuse (vv. 327–330), e ai vv. 152–153 e 1437 delle Rane (per i quali vd. Dover 1993, pp. 209

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s. e 376; ma è possibile che a lui si alluda anche a v. 366: vd. Dover 1993, p. 241 s.); cfr. anche fr. 156, 10 K.–A. (vd. Pellegrino 2015, p. 114 s.); Strattis gli intitolò una commedia (frr. 14–22 K.–A.), per la quale si vedano Meriani 1995; Orth 2009, pp. 100–129, e Fiorentini 2017, pp. 90–114. Oltre che per le sue posizioni in ambito poetico-musicale e religioso, alle quali doveva, verosimilmente, le accuse di empietà che gli furono rivolte (per le quali cfr. p. es. Stratt. fr. 18 K.–A. e l’ottima discussione contenuta in Fiorentini 2017, pp. 91–93), Cinesia è irriso, secondo un tipico cliché comico (Imperio 1998b, p. 109 s.), per la sua costituzione gracile e malaticcia, contraltare metaforico dell’esilità dei suoi canti, e per problemi fisici di varia natura (soprattutto problemi intestinali, tradizionalmente associati in commedia, specie per quanto attiene alla diarrea, a pratiche omosessuali di segno passivo: un riferimento a ‘pathic lechery’ è ravvisato da Henderson 1991, p. 212 [§ 467], nell’epiteto ἄπυγος affibbiato a Cinesia in Plat. Com. fr. 200, 3 K.–A.). 〈μ᾽〉 L’integrazione, necessaria metri causa, risale a Meineke (FCG II.1, p. 328, pronomine v. 10 repetito), il quale in precedenza aveva però proposto una soluzione diversa (Meineke 1822, p. 12: Κινησίας δ᾽ ὁ τρὶς κατάρατος Ἀττικός), contestata da Hanow 1830, p. 48, il quale propose a sua volta Κινησίας δέ γ᾽ ὁ κατάρατος Ἀττικός. Ancora più antico il tentativo avanzato da Brunck 1783, p. 171: Κινησίας γὰρ ὁ κατάρατος Ἀττικός. Va inoltre segnalato, per puro amore di completezza, l’intervento alternativo avanzato dallo stesso Meineke in FCG II.1, ovvero Κινησίας δ᾽ ὁ λακκατάρατος Ἀττικός, poi ripreso, in versione lievemente variata, da Bothe 1855, p. 110 (Κινησίας γὰρ ὁ λακατάρατος Ἀττικός). L’inserzione per congettura del pronome personale a v. 8 spinse Meineke, per evitarne la ripetizione a due versi di distanza (una preoccupazione, peraltro, non cogente: vd. Düring 1945, p. 182), a preferire alla sistemazione proposta da Hanow 1830, p. 50, per il v. 10 (οὕτως μ᾽ ἀπολώλεχ᾽ per il tràdito ἀπολώλεκέ με οὕτως) un assetto diverso, ἀπολώλεχ᾽ οὕτως, prescelto anche dagli ultimi editori del frammento. Molto di recente, Lynch 2018, p. 325 propone, invece, Κινησίας δέ 〈γ᾽〉. ὁ κατάρατος Ἀττικός L’uso di κατάρατος non è confinato alla commedia: l’epiteto emerge in Bacchilide (fr. 20 A, 10 Sn.-Maehl.: vd. Dolfi 2010, p. 158) e, pur assente in Eschilo e attestato una sola volta in Sofocle (OR 1345), conta un buon numero di ricorrenze in Euripide, ove il suo coinvolgimento sembra funzionare in termini simili a quelli che caratterizzano il ricorrere, nello stesso Euripide, di κακοδαίμων: un epiteto, quest’ultimo, verosimilmente scivolato, nel tempo, in direzione di livelli colloquiali di lingua, come suggerisce il suo uso assai frequente in commedia, che Euripide, contando sul contesto tragico, avrebbe inteso riportare al suo senso originario (‘ill-starred’), mai del tutto obliterato, ripristinandone, a un tempo, l’originario livello (parafraso qui l’ottima trattazione di Stevens 1976, p. 14 s., generalmente sfuggita, se vedo bene, negli studi relativi all’uso di κακοδαίμων e κατάρατος in commedia). Così, forse, anche per κατάρατος, slittato anch’esso nel tempo dal suo senso etimologico originario, ‘vittima di maledizione’, all’accezione, più debolmente caratterizzata, e colloquiale, di ‘maledetto’, da intendere come insulto generico, per quanto violento (Stevens 1976, p. 15; vd. anche Battezzato

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2018, p. 168 s. [«κατάρατος was probably an insult in everyday language»], nonché la recentissima discussione di Collard 2018, p. 48). Così esso si presenta, in genere, nelle poco meno di venti occorrenze comiche superstiti, tra Aristofane e frammenti (tra i quali Pherecr. fr. 76, 3 K.–A. [Κοριαννώ]), per le quali rimando a Papachrysostomou 2016, p. 198 s. Se ciò è vero, non si può escludere, d’altra parte, che in questo specifico caso, considerato il frequente ricorrere, in commedia e altrove, di accuse di asebeia a carico di Cinesia (si veda, per questo, Hadjimichael 2019), l’epiteto conservasse il suo senso etimologico, come del resto anche altrove, in commedia: cfr. p. es. Ar. Thesm. 1047a–1048a ἰώ μοι μοίρας / ἃν ἔτικτε δαίμων. / ὢ κατάρατος ἐγώ, per i quali vd. Austin-Olson 2004, p. 320 («The adj. […] often functions simply as a form of abuse […]. But 1047a-b leave no doubt that Inlaw is actually presenting himself as ‘subject to a curse’»), e per il nostro passo Imperio 1998a, p. 86: «non si può certo escludere che pure nell’ingiurioso ὁ κατάρατος, ‘il maledetto’, con cui viene presentato dalla Musica nel frammento […] del Chirone di Ferecrate (fr. 155, 8 K.–A.), sia da ravvisare la condanna del commediografo nei confronti dell’‘empio’ musicista» (ma già Burette 1735, p. 390, rendeva κατάρατος con ‘maudit, éxécrable’; vd. anche Dobrov–Urios-Aparisi 1995, p. 148; Wilson 1999, p. 64 n. 21 [‘that accursed Attic’], e Franklin 2017, p. 180 e n. 71; molto simile quanto si verifica in Eup. fr. 157, 2 K.–A. [Κόλακες] per l’uso di ἀλιτήριος, anch’esso passato a insulto generico, ma non nel caso del frammento di Eupoli, dove compare, associato a Protagora, carico ancora di tutta la sua forza etimologica: vd. Napolitano 2012, pp. 101–104). Quanto a Ἀττικός, è possibile che anche la menzione della provenienza dall’Attica possa avere un tono derogatorio, come proposto da Düring 1945, p. 182, sulla scorta di Plat. Leg. I 626 d ὦ ξένε Ἀθηναῖε – οὐ γάρ σε Ἀττικὸν ἐθέλοιμ᾽ ἂν προσαγορεύειν· δοκεῖς γάρ μοι τῆς θεοῦ ἐπωνυμίας ἄξιος εἶναι μᾶλλον έπονομάζεσθαι (non più che un’inferenza, però, l’idea che Ἀττικός fosse «an autochthonic name used of persons born in Attica, but non Athenian citizens» [così Urios-Aparisi 1992, p. 445]). Da segnalare altre due possibilità: a) Atticum […] dixit Cinesiam, non ut hunc Cinesiam ab alio Cinesia, quem Thebanum esse volunt, distingueret [così, invece, Hanow 1830, p. 48], sed ut Cinesiam reliquis poetis, Melanippidae Phrynidi et Timotheo, genere peregrinis, opponeret (Meineke, FCG II.1, p. 328; così, molto più di recente, anche Olson 2007, p. 183: «Of all the poets referred to in Music’s speech, he is the only Athenian, hence the specification ὁ … Ἀττικός»); b) per Kaibel (apud Kassel-Austin), la specificazione si dovrebbe invece al fatto che la commedia apud Chironem agi fingitur (lontano dall’Attica, dunque). 9 ἐξαρμονίους καμπὰς ποιῶν ἐν ταῖς στροφαῖς L’aggettivo ἐξαρμόνιος trova nelle due ricorrenze di questo frammento le sue uniche attestazioni superstiti. Gli studiosi si sono divisi tra due distinte esegesi, una più generica e vaga, l’altra più marcatamente tecnica (una alternativa già perfettamente chiara a Hanow 1830, p. 49: Versiones […] ἐξαρμόνιοι aut eae esse possunt, quae non ad harmoniam accomodatae essent, sed ad aliud genus, velut chromaticum, aut eae, quibus harmonia, universe dicta, corrumpitur): ‘discordante’, ‘disarmonico’, ‘cacofonico’, nel

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primo caso; ‘deviante rispetto alla harmonia dominante’, ‘modulante in direzione di harmoniai estranee a quella di base’, nel secondo, anche se spesso le due accezioni finiscono per sovrapporsi. Il senso generico affiora a partire dalle traduzioni più antiche del passo: contra harmoniam (Xylander); ‘hors d’Harmonie’ (Amyot); ‘infléxions de voix, dépourvûes de toute harmonie’ (Burette 1735, p. 391; vd. anche p. 392: «Elle l’accuse d’avoir fait entrer dans les strophes, ou stances diverses, qui composoient ses dithyrambes, des infléxions de voix, des chûtes ou des cadences de chant tout-à-fait discordantes & contraires aux lois, aux règles de l’harmonie commune»); Wyttenbach 1800, p. 442 (contra harmoniam). Vd. poi anche Ulrici 1835, p. 594 (‘durch seine außerharmonischen Wendungen und Krümmungen’); Bothe 1855, p. 110 (immodulas faciens flexiones); Volkmann 1856, p. 35 (contra harmoniam); Westphal 1865, p. 54 (‘unharmonisch’); Schönewolf 1938, p. 67 (‘unpassend Triller setzend’); Lawler 1950, p. 86 (‘inharmonious twists and turns’); Lasserre 1954, p. 145 (‘vocalises extravagantes’); Pickard-Cambridge 1962, p. 44 (‘unharmonious twists’); Pianko 1963, p. 59 (‘svolte disarmoniche’); Neubecker 1977, p. 49 (‘unharmonisch’); Gamberini 1979, p. 253 (‘vocalizzi stravaganti’, calco della traduzione di Lasserre); Olson 2007 (‘discordant changes of (musical) direction’); Pisani in Lelli-Pisani 2017, p. 2219 (‘fuori armonia’). Per Anderson 1966, p. 228 n. 41, infine, «the epithet exharmonios […] is the antonym of enharmonios in the sense of “melodious”» (dal che, per contrasto, ἐξαρμόνιος = ‘cacofonico’; diversa, però, perché più decisamente tecnica, la resa ‘extra-modal’ che cade a p. 50). Weil-Reinach 1900, p. 121, rendono kampai con ‘modulations discordantes’, ma a p. 122 glossano il passo parlando di «abus de modulations», esplicitando una categoria, quella di modulazione, o μεταβολή, che sposta l’esegesi su un versante più specificamente tecnico. Secondo Restani 1983, p. 162, ἐξαρμόνιος indicherebbe «passaggi esterni all’ἁρμονία» ottenuti appunto per via di modulazione, ovvero di μεταβολή (mutamento di tonos, di harmonia, di genere, di tetracordo: tra le molte discussioni esistenti del concetto di μεταβολή, non solo in ambito musicale, una delle migliori continua a essere quella prodotta da Restani 1983, pp. 166–179; vd. però anche Fongoni 2009, p. 176): «Risulta naturale che Ferecrate censuri con tale espressione [scil. ἐξαρμόνιος] i passaggi continui al genere cromatico, il più usato dai ‘rivoluzionari’ musici o forse, in generale, i passaggi di genere in genere, considerati la peggiore depravazione della musica contemporanea». Punto di partenza, per la Restani, erano le pagine dedicate alla questione da Düring 1945 (183–185), per il quale la pericope ἐξαρμονίους καμπὰς ποιῶν ἐν ταῖς στροφαῖς implicherebbe «a criticism of his [scil. di Cinesia] modulations, which, viewed from a conservative point of view, were loathsome and abortive» (p. 183). Subito oltre Düring aggiunge che tali modulazioni sarebbero da intendere come passaggi «from one harmonia to another as well as from one genus (diatonic, chromatic, enharmonic) to another». Quanto a ἐξαρμόνιος, dopo aver chiarito che l’aggettivo è da considerare costruito in termini simili non ai composti del tipo ἐξώλης, con ἐκ-/ ἐξ- rafforzativo, ma a quelli nei quali ἐκ-/ἐξ- esprime separazione, o deviazione, o distacco (il tipo ἔξωρος, ἔξηβος, ἔξυπνος), Düring torna al punto di partenza per

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ribadire una volta di più il concetto espresso in precedenza: «By the expression ἐξαρμονίους καμπὰς ποιεῖν Pherecrates censures the frequent modulations from mode to mode and from diatonic to chromatic genus, which he regarded as the outstanding depravity of the contemporary music» (p. 185). Per esegesi in tutto o in parte simili si vedano, p. es., Landels 1979, p. 132 («Surely exharmonios kampe means, not ‘discordant sudden change’ but a ‘deviation’ or ‘excursion’ outside the notes of the harmonia»); Barker 1984, p. 94 n. 6 (per il quale ἐξαρμόνιος è da intendere «fairly certainly in the sense ‘going outside the prevailing harmonia’, rather than just vaguely ‘unmusical’»; vd. anche p. 237 n. 200); Urios-Aparisi 1992, p. 446 s.; Anderson 1994, p. 129 s. («As for the accusation, if kampai, literally “twists or bends”, refers here to modulations, then exharmonious simply defines what these must have been by their very nature. To go “outside” the harmonia was their function»); Dobrov–Urios-Aparisi 1995, p. 156 («The modulations of Cinesias (mode to mode, diatonic to chromatic) involve “exharmonic twists inside the strophes”»); Conti Bizzarro 1999, p. 153 («l’aggettivo è una ‘trovata’ di Ferecrate, che intendeva probabilmente censurare i passaggi disarmonici, attuati con la μεταβολή. […] Il comico condannava i nuovi ditirambografi per le frequenti modulazioni da un modo all’altro e dal genere diatonico al cromatico»); Ballerio 2000, p. 93 (‘curve melodiche che sconfinano da un’harmonía all’altra’; vd. anche p. 92 n. 196); Fongoni 2009, p. 175 («[ἐξαρμόνιος] fu coniato per indicare i passaggi esterni all’armonia, quelli con metabole»); Storey 2011, p. 498 («off-key modulations»); Fongoni 2014, p. 27. Lievemente diversa la proposta interpretativa avanzata da Pöhlmann 2011, p. 125, il quale, più che a fatti di vera e propria modulazione, sembra credere a un fenomeno di sostituzione (il genere cromatico al posto dell’enarmonico: «Coined in opposition to “enharmonic” it [scil. ἐξαρμόνιος] might mean the chromatic instead of the enharmonic genus»), come, già prima, West 1992a, il quale, a p. 359, si limita a rendere la pericope con ‘making exharmonic bends in his strophes’, ma a p. 196 prende posizione a favore dell’equivalenza ‘esarmonico’ = ‘cromatico’, intendendo però ‘cromatico’ in termini più vicini all’uso moderno che a quello antico della categoria di cromatismo e facendo, a un tempo, più esplicito riferimento alla categoria di modulazione di quanto non avvenga in Pöhlmann («the use of semitone or other intervals that are extraneous to the key or scale in which a piece is written, for ornamental or expressive effects»; nella scia di West Kugelmeier 1996, p. 212). Lynch 2018, infine, propone per ἐξαρμόνιος, qui e a proposito dell’ulteriore ricorrenza dell’aggettivo in relazione alle sperimentazioni di Filosseno (v. 26), ma coinvolgendo anche i versi dedicati a Frinide, nei quali però ἐξαρμόνιος non compare, un’interpretazione in linea con l’architettura complessiva della sua lettura del frammento: a) nel caso di Cinesia, come in quello di Frinide, le καμπαί alle quali entrambi hanno sottoposto Musica fino a condurla a rovina sarebbero ‘esarmoniche’ nella misura in cui «they venture ‘out of ’ the central boundaries of the lyre harmonia and produce a new note that is significant in many respects» (Lynch 2018, p. 310 s.); mentre nel caso di Frinide la nota ‘fuori armonia’ sarebbe

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stata prodotta in virtù dell’applicazione alla lira di una sorta di capotasto, o di spirale (lo στρόβιλος del quale si fa parola a v. 14: ‘twister’, nella resa della Lynch), responsabile dell’innalzamento di un semitono della nota centrale dell’ottava, nel caso di Cinesia l’irregolarità delle καμπαί proprie dei suoi componimenti sarebbe invece da ravvisare in «exharmonic tricks […] performed (by the aulete?) between strophes», ovvero ai confini di strofe, tra strofe e strofe (un’interpretazione, inedita, del nesso ἐν ταῖς στροφαῖς basata sul confronto con Xen. Eq. 7, 15–17, ove ἐν ταῖς στροφαῖς significa ‘al punto di svolta del circuito’: un passo nei ‘military overtones’ del quale la Lynch vede una possibile chiave di lettura anche per il problematico cenno agli scudi di v. 11 [Lynch 2018, p. 311 n. 64]): così stando le cose, «the links between different sections of his [scil. di Cinesia] compositions would have sounded weird and confusing to a conservative audience, blurring the boundaries between the individual parts of each piece» (Lynch 2018, p. 310 n. 64); b) quanto a Filosseno, i suoi ‘hyperbolic trills’ sarebbero da intendere esarmonici per il loro eccedere «the upper boundary of the lyre harmonia», ovvero la nota superiore dell’ottava (Lynch 2018, p. 319). Quanto al sostantivo καμπή, l’assenza di ricorrenze nella trattatistica musicale antica, oltre a suggerire con evidenza l’idea che si tratti di un lemma privo di qualsivoglia valenza tecnica, determina la difficoltà di collegare il termine a un referente preciso. Se è chiaro, in particolare, che καμπή, come il corradicale κάμπτω, servono, in commedia, a evocare per via di metafora, e in spirito polemico, la tortuosità delle innovazioni prodotte dai campioni della musica ‘nuova’, non altrettanto chiaro è se l’immagine sia da riferire a fenomeni strumentali, a fatti di natura vocale, o, anche, a prerogative attinenti alla dimensione orchestica: un punto sul quale gli studiosi si dividono da sempre. Frequente, negli studi, l’idea che καμπή/κάμπτω potessero alludere, più che a una generica tortuosità melodica, al fenomeno, armonico, della modulazione, o μεταβολή. Tra le molto numerose messe a punto dei problemi legati alla definizione del campo semantico di καμπή, una delle più complete, a valle dell’ampia, documentata discussione di Restani 1983, pp. 157–164, è quella fornita, più di recente, da Imperio 1998b, p. 88: «Il termine καμπή, letteralmente ‘curva’, che in ambito musicale doveva corrispondere al moderno concetto di ‘modulazione’ – in riferimento ai gorgheggi dei cantanti ovvero ai virtuosismi degli strumentisti – usato anche da Ferecrate, nel frammento del Chirone, a proposito dei continui mutamenti di armonia che si producevano nella musica di Cinesia […] e di Frinide […], rende appieno il senso di quella ποικιλία ricercata dai musicisti ‘moderni’, i quali aumentavano il numero delle scale e delle corde, accentuavano gli effetti mimetici, introducevano cromatismi e facevano modulazioni da una armonia ad un’altra, producendo in tal modo originali misture armoniche, arricchendo le loro composizioni con arie di coloratura e realizzando continue μεταβολαί, repentini mutamenti nei modi e nei ritmi». Per καμπή e affini si vedano inoltre almeno Heinrich 1801, p. 197 («In die cyclischen Chöre gehören die Strophen, deren reinen Satz die modernen Musiker durch ihre künstlischen Melismen und Passaggien verfälschten»); Weil-Reinach 1900, p. 121

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(‘modulations’); Schönewolf 1938, p. 21 s. (per il quale con καμπή e affini i comici prenderebbero di mira «die Art des Singens […], also die Koloratur»); Düring 1945, p. 184 s.; Lasserre 1954, p. 173 («modulations vocalisées de la mélodie»); Pickard-Cambridge 1962, p. 43 s.; Taillardat 1965, p. 456 s. § 784 («les courbes capricieuses d’un air ou les inflexions de la voix»); Borthwick 1968, p. 67; Restani 1983, p. 158 («una variante minore e più rapida di metabolé», ovvero [p. 162] un «artificio della pratica strumentale, piuttosto che vocale […] che permetteva all’artista di esibirsi con maggiore libertà: di realizzare, quindi, passaggi rapidissimi da un genere, tono, tetracordo, ad un altro»); Barker 1984, pp. 94 e n. 5 (ove si avanza l’idea che καμπή potesse essere «close to being a technical term» già a livello di V secolo, e che potesse essere utilizzato in questi termini dagli stessi compositori) e 237 e n. 200; Urios-Aparisi 1992, p. 447 s.; West 1992a, p. 356 («it seems likely that they [scil. le kampai] are the same as what are later called metabolai, i. e. modulations»); Zimmermann 1993, p. 41; Kugelmeier 1996, pp. 212–216; Ieranò 1997, pp. 210 s. e 312; Conti Bizzarro 1999, pp. 153–156; Hordern 2002, p. 35 («‘exharmonic’ modulations […] within strophes»); Zimmermann 2008, p. 121 s. e n. 29; Fongoni 2009, pp. 180–182 (un «fenomeno complesso che coinvolse l’esecuzione ditirambica sotto ogni aspetto, musicale, vocale e orchestico» [p. 181; sulla questione vd. anche Fiorentini 2009, pp. 168–170]); Hagel 2010, p. 269 s.; D’Angour 2011, p. 201 (ove kampai, ‘bends’, è interpretato come equivalente a ‘modulation between modes’); Pöhlmann 2011, p. 125 (il quale, più che a fenomeni di modulazione, pensa piuttosto, come altri prima di lui, a fatti di virtuosismo vocale: «The catchword καμπή might point to the increasing propensity of the modernists for a more melismatic style of composition instead of the syllabic style of Old Music»); Franklin 2013, passim; LeVen 2014, p. 75 s.; Lynch 2018, pp. 302 s. e 310 s. A fatti di virtuosismo canoro pensa, per καμπή, anche Andrisano 1988–1989. Da segnalare quanto proposto di recente da Franklin 2013, p. 229 s., sulla base di un passo della Retorica di Aristotele (III.1409 a 24–34; b 22–27 τὴν δὲ λέξιν ἀνάγκη εἶναι ἢ εἰρομένην καὶ τῷ συνδέσμῳ μίαν, ὥσπερ αἱ ἐν τοῖς διθυράμβοις ἀναβολαί, ἢ κατεστραμμένην καὶ ὁμοίαν ταῖς τῶν ἀρχαίων ποιητῶν ἀντιστρόφοις. ἡ μὲν οὖν εἰρομένη λέξις ἡ ἀρχαία ἐστίν (ταύτῃ γὰρ πρότερον μὲν ἅπαντες, νῦν δὲ οὐ πολλοὶ χρῶνται)· λέγω δὲ εἰρομένην ἣ οὐδὲν ἔχει τέλος καθ᾽ αὑτήν, ἂν μὴ τὸ πρᾶγμα λεγόμενον τελειωθῇ. ἔστι δὲ ἀηδὴς διὰ τὸ ἄπειρον· τὸ γὰρ τέλος πάντες βούλονται καθορᾶν· διόπερ ἐπὶ τοῖς καμπτῆρσιν ἐκπνέουσι καὶ ἐκλύονται· προορῶντες γὰρ τὸ πέρας οὐ κάμνουσι πρότερον. […] τὰ δὲ μακρὰ ἀπολείπεσθαι ποιεῖ, ὥσπερ οἱ ἐξωτέρω ἀποκάμπτοντες τοῦ τέρματος· ἀπολείπουσι γὰρ καὶ οὗτοι τοὺς συμπεριπατοῦντας, ὁμοίως δὲ καὶ αἱ περίοδοι αἱ μακραὶ οὖσαι λόγος γίνεται καὶ ἀναβολῇ ὅμοιον, ὥστε γίνεται ὃ ἐσκωψεν Δημόκριτος ὁ Χῖος εἰς Μελανιππίδην ποιήσαντα ἀντὶ τῶν ἀντιστρόφων ἀναβολάς) che accosta per via di similitudine il procedere continuo, in linea retta, per così dire, proprio della λέξις εἰρομένη alle anabolai dei ditirambi e quello proprio della λέξις κατεστραμμένη alle ἀντίστροφοι dei ‘poeti antichi’, e di uno scolio al ben noto verso delle Nuvole aristofanee (333) nel quale, a qualificare i poeti ‘di cori ciclici’, ovvero i poeti ditirambici, ricor-

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re il composto ᾀσματοκάμπται, ‘torcitori di canti’ (Schol. Ar. Nub. 333c [p. 83, 19–21 Holwerda] καμπὰς ἔχουσι πλείονας, ἃς οἱ μουσικοὶ καλοῦσι στροφὰς καὶ ἀντιστρόφους καὶ ἐπῳδούς: un testo nel quale καμπή serve a designare «the principal articulations of strophic composition» [Franklin 2013, p. 227]). Ove si voglia prendere per buona, come è certo possibile, specie in virtù del passo aristotelico (Franklin 2013, p. 227 s.), l’idea che un uso tecnico-metaforico di καμπή e simili (καμπτήρ, ἀποκάμπτω) fosse attivo già a livello di V secolo non solo in ambito retorico, ma anche in ambito musicale, sarebbe, credo, accoglibile la proposta, conseguente, di intendere la pericope ἐξαρμονίους καμπὰς […] ἐν ταῖς στροφαῖς come equivalente a «bends ‘within the strophes’, that is not at the strophic boundary», una pratica che «would yield kampai (modulations) within kampai (strophes, antistrophes, epodes)» (Franklin 2013, p. 229 s.). La ‘devianza’ delle kampai di Cinesia risiederebbe, insomma, nel loro sistemarsi fuori della posizione attesa, ovvero non alla sutura tra unità strofiche, ma al loro interno. Una proposta, come si vede, alternativa a quella avanzata dalla Lynch, in particolare per il fatto che, mentre quest’ultima colloca le ‘deviazioni’ nei punti di passaggio tra strofe e strofe, Franklin le immagina interne alle singole unità strofiche (interessante notare, en passant, come Barker 1984, p. 94, presenti come possibili entrambe le ipotesi: «in his strophes (or perhaps between them)»; vd. anche p. 237 n. 200). Se entrambe le esegesi meritano di essere prese in seria considerazione, è evidente che, in entrambi i casi, l’idea è che la iunctura ἐν ταῖς στροφαῖς sia da intendere qui allusiva a composizioni di carattere strofico: monostrofiche, se intendo bene, nel caso della Lynch, mentre è fuori discussione, in forza del citato scolio aristofaneo, che non avrebbe avuto senso, altrimenti, chiamare in causa, che Franklin pensi a composizioni di struttura triadica. Il che, se è certo possibile, metterebbe però in crisi l’ipotesi, avanzata a più riprese in relazione a questi versi, e certo non irragionevole, che a essere prese di mira fossero qui, per contro, le anabolai astrofiche che le fonti indicano a più riprese come prerogativa tipica dello stile compositivo ditirambico, Cinesia compreso: si vedano, per questo aspetto, almeno Schönewolf 1938, pp. 19–22; Düring 1945, p. 183 s.; Borthwick 1968, pp. 65–67; Restani 1983, pp. 150–152; Urios-Aparisi 1992, p. 445 s.; Dobrov 1997, p. 55, e LeVen 2014, p. 76 (per le anabolai ditirambiche in generale si vedano, tra molto altro, Pickard-Cambridge 1962, p. 40 s.; Restani 1983, pp. 152–156; Comotti 1989, pp. 111–115; West 1992a, p. 357 s.; Ieranò 1997, pp. 289–297; Kugelmeier 1996, pp. 224–227; Zimmermann 2008, p. 24); cfr. anche infra, ad 10–12. Il passo del terzo libro della Retorica aristotelica sul quale si fonda la proposta interpretativa avanzata da Franklin potrebbe forse orientare, per quanto in modo estremamente induttivo, in direzione di una struttura strofica, in forza, soprattutto, del paragone istituito tra la λέξις κατεστραμμένη, lo stile ‘periodico’, e le ἀντίστροφοι dei poeti (che sono però ricondotte da Aristotele, si badi, ai ‘poeti antichi’, non ai novatori) e insieme - al negativo, per così dire - dal fatto che Aristotele assimili l’indefinito procedere in linea retta proprio della λέξις εἰρομένη, ‘paratattica’, o ‘continua’, a ciò che si verifica a chi giri attorno al punto di svolta troppo tardi (ὥσπερ οἱ

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ἐξωτέρω ἀποκάμπτοντες τοῦ τέρματος), lasciando indietro i suoi compagni di passeggiata (τοὺς συμπεριπατοῦντας). Ma le cose, nel passo della Retorica, stanno davvero così? Se intendo bene la proposta di Franklin, il collegamento tra Ferecrate, Aristotele e lo scolio al verso delle Nuvole funziona davvero soltanto ove si vogliano intendere i due riferimenti al κάμπτειν contenuti nel passo della Retorica nei termini in cui sono intesi in traduzioni quali, ad esempio, quella di Silvia Gastaldi (‘Definisco coordinato il linguaggio che non ha una fine di per sé, a meno che l’argomento trattato non sia giunto a conclusione. Tale linguaggio non è piacevole per il fatto di essere indeterminato: tutti infatti vogliono vedere la conclusione. Per questa ragione i corridori, quando sono giunti alla curva del percorso, ansimano e sono spossati: prima, vedendo davanti a sé il traguardo, non sentono la fatica. […] I membri lunghi fanno sì che l’ascoltatore sia lasciato indietro, come coloro che girano indietro dopo aver superato il limite, e anche costoro abbandonano i loro compagni di passeggiata; allo stesso modo i periodi lunghi diventano discorsi e sono simili a un preludio dei ditirambi’ [Gastaldi 2014, pp. 297–299]): traduzioni che, in entrambi i casi, interpretano il dettato aristotelico come riferibile a un ‘tornare indietro’ attorno a un ‘punto di svolta’, καμπτήρ o τέρμα che sia. Il che è forse possibile nel caso del secondo passo, che però insiste, a ben vedere, soprattutto sul ritardo col quale il passeggiatore che si allunga oltre il τέρμα si gira in direzione dei compagni di passeggiata, a replicare, in relazione alle μακραὶ περίοδοι, l’idea del moto continuo in linea retta che Aristotele aveva associato, nel passo precedente, alla λέξις corrispondente alle μακραὶ περίοδοι, ovvero la εἰρομένη, individuandovi, più ancora che una prerogativa, un limite, il medesimo proprio delle anabolai astrofiche del ditirambo. Nel caso del primo dei due passi, però, chi legga la traduzione di Cope e Sandys insieme alla corrispondente esegesi dovrà, credo, rinunciare all’idea che in esso si faccia riferimento a movimenti di ‘svolta’ e di ‘ritorno’: «‘And this is why it is only at the goal that (the runners) pant (or gasp) and become faint, because whilst they are looking forward to the limit of the race they don’t flag before that (i. e. before they have reached the goal)’. This […] seems the explanation of the illustration which is required by the application of it and by the context. The sight of the goal before them, the term of their labour, keeps up the racers’ spirits and stimulate their exertions, so that they neither faint nor fail till they reach it: then ἐκπνέουσι καὶ ἐκλύονται, they breathe hard, and their exertions being over, their sinews are relaxed, they slacken and grow languid. This interpretation […] makes the καμπτήρ, which is properly the turning-point of the δίαυλος – whence its name – here the goal of the στάδιον or single race, in a straight line: the καμπτήρ of the δίαυλος being in fact the πέρας of the στάδιον. If the καμπτήρ were intended here for the turning-point, the statement made of it could not be true, for in that case the runners would not come in sight of the goal until they had passed the καμπτήρ» (Cope - Sandys 1877, III, p. 93; i corsivi sono nel testo originale). Se il καμπτήρ è da intendere qui, come inclino a credere anch’io, corrispondente non al ‘punto di svolta’ del δίαυλος ma alla mèta, al traguardo dello στάδιον, secondo quanto suggeriscono Cope e Sandys,

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il passo deve essere inteso, in termini ben più chiari e inequivoci che nel caso di quello successivo, come funzionale all’illustrazione del moto continuo in linea retta proprio, a un tempo, della λέξις εἰρομένη e delle anabolai ditirambiche, senza riferimento alcuno a movimenti di ‘svolta’, o di ‘ritorno’. Come che sia, è ovvio, a ogni modo, che, ben al di là dei problemi di esegesi che il difficile passo aristotelico continua a porre, la proposta di Franklin potrà essere accolta solo da chi sia pronto a credere non soltanto che, già in Ferecrate, καμπή possieda una valenza almeno auroralmente tecnica, ma che tale valenza tecnica sia assimilabile, più ancora che all’uso aristotelico di καμπτήρ e ἀποκάμπτω nel passo della Retorica, a quello testimoniato nello scolio aristofaneo (καμπή = ‘unità di composizione strofica’): il che, se è possibile, sembra a me però molto più difficile, non solo per l’oggettiva distanza che separa i due testi, ma anche perché forse il passo della Retorica di Aristotele non ammette di essere considerato quel punto di snodo e di raccordo che vi vede, invece, Franklin (da questo punto di vista pone problemi, del resto, anche il lemma στροφή: si veda quanto osserva Barker 1984, p. 237 nn. 200–201, a proposito delle difficoltà poste dall’interpretazione di στροφαί appunto nel nesso ἐν ταῖς στροφαῖς di v. 9: ‘turns’/‘melodic twists’? oppure ‘strophes’? Per στροφή in Aristofane e in commedia vd. anche Taillardat 1965, p. 296 [§ 516]). Aggiungerei che ἐν ταῖς στροφαῖς non obbliga in alcun modo a propendere per la stroficità dei componimenti di Cinesia qui messi all’indice. Lo suggerisce un passo del prologo delle Tesmoforiazuse spesso chiamato in causa in relazione al nostro frammento, i versi (66–69) nei quali il Parente, rispondendo all’invito appena rivoltogli da Euripide, replica annunciando l’arrivo imminente di Agatone nel modo che segue: μηδὲν ἱκέτευ᾽· αὐτὸς γὰρ ἔξεισιν τάχα. / καὶ γὰρ μελοποιεῖν ἄρχεται· χειμῶνος οὖν / ὄντος κατακάμπτειν τὰς στροφὰς οὐ ῥᾴδιον, / ἢν μὴ προίῃ θύρασι πρὸς τὸν ἥλιον. Ai fini dell’esegesi della iunctura ἐν ταῖς στροφαῖς il passo è interessante per almeno quattro ragioni: a) si tratta, intanto, della più antica attestazione superstite di στροφή come «technical term for choral lyric» (così Austin-Olson 2004, p. 74, ove, come ulteriore esempio, si trova citato il verso 9 del fr. 155 K.–A. di Ferecrate); b) κατακάμπτειν τὰς στροφάς costituisce, come si è appena detto, un parallelo significativo per καμπὰς ποιῶν ἐν ταῖς στροφαῖς; c) in entrambi i passi στροφή ricorre al plurale ed è accompagnato dall’articolo; d) il passo delle Tesmoforiazuse annuncia un canto, quello che Agatone, una volta entrato in scena, è destinato a eseguire di lì a poco, a partire da v. 101, che è, come è ben noto, un assolo citarodico astrofico: un canto le cui prerogative (monodicità; astroficità; accompagnamento di strumento a corde) nulla vieta di ritenere in tutto o in parte coincidenti con quelle dei canti di Cinesia presi qui di mira da Ferecrate (vd. Borthwick 1968, p. 67: «One may conclude […] that the prevailing fashion for musical innovation influenced Cinesias and his anabolai, and Agathon and his tragic monodies, in similar fashion; and a comparison of the references to the two poets by Aristophanes and Pherecrates confirms this» [segue la citazione di Thesm. 67–69]; sulla monodia di Agatone si veda l’ottimo studio di Di Virgilio 2018, con ricca discussione degli studi). C’è da chiedersi, peraltro, se, ove avesse inteso fare

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riferimento, per Cinesia, non a anabolai astrofiche ma a composizioni strofiche, se non addirittura triadiche, Ferecrate, invece di ricorrere alla iunctura ἐν ταῖς στροφαῖς, non avrebbe deciso di optare per un’espressione diversa: servendosi, ad esempio, del lemma ἀντίστροφοι, come si verifica nel citato passo del terzo libro della Retorica aristotelica (1409 a 27 s. ταῖς τῶν ἀρχαίων ποιητῶν ἀντιστρόφοις) e altrove (p. es. in [Arst.] Probl. 19, 918 b 18–20 διὸ καὶ οἱ διθύραμβοι, ἐπειδὴ μιμητικοὶ ἐγένοντο, οὐκέτι ἔχουσιν ἀντιστρόφους, πρότερον δὲ εἶχον). In ultima analisi, è dunque forse nel giusto LeVen 2014, p. 76, a parlare, in relazione al risultato delle innovazioni di Cinesia prese qui di mira, di «destruction of the strophes». Va aggiunto, infine, che anche per καμπή è stata proposta la possibilità di una valenza oscena: vd. Henderson 1991, p. 175 (§ 329). 10–12 ὥστε τῆς ποιήσεως / τῶν διθυράμβων, καθάπερ ἐν ταῖς ἀσπίσιν, / ἀριστέρ’ αὐτοῦ φαίνεται τὰ δεξιά È verosimile ritenere che il molto problematico riferimento agli scudi, e, soprattutto, l’idea che nei suoi componimenti destra e sinistra finivano per scambiarsi di posto, costituisca un’allusione alla confusione che la prassi compositiva di Cinesia doveva produrre nel suo pubblico (una confusione che, sia detto per inciso, trova corrispondenza, per via di puntuta allusione comica, nel faticoso, contorto ordo verborum dei vv. 10–12, con il suo cumulo di iperbati: non peregrina, dunque, l’esigenza, avvertita da Kock, CAF I, p. 190, di sciogliere la difficoltà ricostruendo nell’apparato al verso, in via meramente esplicativa, l’ordine normale delle parole). «In his dithyrambic songs, everything is seen as an image reflected by a mirror, just as in glittering shields, for all is perverted»: questa la resa del passo in Düring 1945, p. 182. L’idea che la confusione tra destra e sinistra sia da spiegare immaginando che scudi ben lucidati posseggano le medesime proprietà riflessive degli specchi va però fatta risalire almeno a Jacobs 1817, p. 376 (ea idem videntur significare, quod ὡς ἐν κατόπτροις, quia in scutis laevigatis atque politis, tamquam in speculis, in dextra parte videntur, quae in sinistra sunt); vd. poi anche Zieliński 1885, p. 267 n. 2, il quale rinviava, per questo, a Ar. Ach. 1128 s. ἐν τῷ χαλκίῳ / ἐνορῶ γέροντα δειλίας φευξούμενον (per il quale vd. Olson 2002, p. 344); così anche Weil-Reinach 1900, p. 122: «Cinésias a mis le dithyrambe ‘sens dessus dessous’, comme si on le regardait dans le miroir d’un bouclier», e molti tra i traduttori del frammento (p. es. Barker 1984, p. 237: ‘like a reflection in a shield’, accolto da Zimmermann 1993, p. 40, e da LeVen 2014, p. 75; vd. anche Olson 2007, p. 184). Di diverso segno l’esegesi, a dire il vero non del tutto perspicua, proposta da Lasserre 1954, p. 173: ἐν ταῖς ἀσπίσιν, più che fare riferimento all’«image renversée» riflessa da scudi ben lucidati, sarebbe da spiegare come allusivo «à l’envers […] d’une figure en ronde bosse», intendendo ἐν equivalente a ‘à l’intérieur de’. Non molto più che una curiosità, infine, il tentativo di esegesi messo in atto da Bélis 2015, p. 5 s., la quale ritiene di poter trovare soluzione al problema immaginando di stampare Ἀσπίσιν, intendendo ἐν τοῖς Ἀσπίσιν come un rinvio al titolo di una specifica composizione ditirambica di Cinesia. La menzione degli scudi, a lungo interpretata come un riferimento di natura militare, magari allusivo alla viltà di Cinesia (vd., p. es., Hanow 1830, p. 49: ἀσπίδες

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[…] ordines militum sunt […]. In ordinibus autem militum nullius dextra pars sinistra potest videri, ubi frontem ordinum aspicis, nisi si quis tergum vertit; itaque simul ignaviam Cinesiae poeta cavillatur; Meineke, FCG II.1, p. 329; Westphal 1865, p. 54 [‘wie einst im Kriegesheer’]; Kock, CAF I, p. 190; Edmonds 1957, p. 264 s. n. b [ἐν ταῖς ἀσπίσιν= ‘under arms’, ‘on parade-drill’]; Pianko 1963, p. 59 [‘come nelle file dei soldati’]; una specifica connotazione bellica è stata sostenuta, peraltro, anche in relazione all’opposizione δεξιά/ἀριστερά di v. 12 [cfr. infra]: vd. Borthwick 1968, p. 64, il quale, partendo da Il. 7, 237–241 e dall’esegesi antica relativa al passo, riteneva verosimile immaginare che «the Pyrrhic dance featured stereotyped movements of the shield to right or left indicating aspects of offence and defence» e che appunto a questi movimenti di scudo facesse riferimento Ferecrate; già Burette, però, chiamava in causa il medesimo passo iliadico coinvolto da Borthwick, anche se in una chiave diversa [Burette 1735, p. 393: l’opposizione destra/sinistra in Ferecrate «pourroit convenir à l’usage des boucliers, en ce que, dans les combats, on faisoit passer du côté gauche au côté droit cette arme défensive, pour parer les coups: & c’étoit une adresse dont les guerriers tiroient vanité»]), è stata spiegata da Borthwick 1968, pp. 63–67, tenendo conto del legame tra Cinesia e la danza pirrica, espressamente documentato, in commedia, da Ar. Ran. 152–153 νὴ τοὺς θεοὺς ἐχρῆν γε πρὸς τούτοισι κεἰ / τὴν πυρρίχην τις ἔμαθε τὴν Κινησίου (sul passo si veda da ultimo Bliquez 2008, che vi scorge, non so con quanto successo, un pun scatologico): per Borthwick, ἐν ταῖς ἀσπίσιν va reso, dunque, con «‘in his shields’, i. e. in the shield movements of his Pyrrhic dance» (Borthwick 1968, p. 65); nel seguito, Borthwick avanza l’idea che Cinesia si fosse reso responsabile di una sorta di contaminazione tra pirrica e danza ditirambica, corrompendola (p. 65 s.: il contenuto di fondo delle accuse rivolte da Musica a Cinesia consisterebbe nel fatto che quest’ultimo «had corrupted its traditional form [scil. della danza ditirambica] from this alien source [scil. la pirrica]»). Queste le conclusioni di Borthwick: «Pherecrates’ criticism of Cinesias is directed at the medley of separate styles of music and dance which he has jumbled together» (Borthwick 1968, p. 67). Già Lawler 1950, p. 85, osservava del resto, a proposito dei citati versi delle Rane, che «the poet’s point in calling Cinesias’ cyclic dance a “Pyrrhic” is that his dance is frequently too brisk, too active, too full of sharp, even contorted, gestures and postures, to be appropriate for the dignified dithyramb» (vd. anche Lawler 1964, pp. 18–20). Sulla costellazione Cinesia - ditirambo - pirrica si vedano inoltre, in relazione al nostro passo e al problema costituito da ἐν ταῖς ἀσπίσιν, Restani 1983, pp. 150–152; Urios-Aparisi 1992, p. 448 s.; Dobrov–Urios-Aparisi 1995, p. 147 n. 26; Dobrov 1997, p. 55 («Cinesias appears to receive special censure for his innovations in dance […]. On the other hand, the prepositional phrase ἐν ταῖς ἀσπίσιν may mean “(like) a reflection in a shield” […], the point of which would be to lament the destruction of strophic symmetry of the dithyramb and its performance»); Ceccarelli 1998, pp. 42–44 (p. 44: «i due tipi di danza, ditirambo e pirrica, sono ormai confusi, e di conseguenza pervertiti. Il ditirambo (κύκλιος χορός) aveva una formazione circolare; Cinesia potrebbe aver abbandonato la

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formazione ciclica propria del ditirambo») e 221; Conti Bizzarro 1999, p. 156 s.; Ceccarelli 2004, p. 107. Merita di essere segnalato il fatto che a fenomeni di corruzione relativi alla dimensione orchestica aveva pensato, in funzione dell’esegesi di questi difficili versi, già Hanow 1830, p. 49, un passo, tuttora ricco di spunti, che potrebbe forse servire a sdrammatizzare il peso di quanto osservato, non a torto, da Pöhlmann 2011, p. 126, a proposito dell’esegesi di Borthwick («while it is possible to outline the role of the shields in this dance with armour, there is no obvious connection with Cinesias’ “exharmonic bends”»; a meno che non vedesse bene, appunto, Hanow, loc. cit.: versionibus stropharum ἐξαρμονίοις declarari arbitror saltationem chori cyclii, non congruentem illam neque cum modo tibiarum vel lyrae neque cum cantu. Itaque factum videtur in Cinesiae dithyrambi, ut chorus versiones faceret, antequam tibiis significarentur; quare, ubi secundum musices rationem dextra debebat parte chorus collocatus esse, sinistra conspiciebatur et invicem). L’opposizione δεξιός/ἀριστερός, da parte sua, sembra giocare anch’essa su più livelli: se la denuncia del sovvertimento delle regole tradizionali, e anzi, dell’ordine stesso delle cose, avrà suscitato, nel pubblico, reazioni di divertito, ma pur sempre generico, rigetto, soprattutto in forza del divario che separava le pretese di partenza dai risultati («that which in the opinion of Cinesias was meant to appear δεξιά, clever, impressive, comes to nothing and seems ridiculous»: Düring 1945, p. 186), non è fuori luogo ritenere che anche lo scambio di posizione tra destra e sinistra potesse fare riferimento a dettagli specifici dell’arte ditirambica di Cinesia, e in particolare, come si è già detto, ai movimenti orchestici del coro. Basti qui tornare a citare Borthwick, per il quale la sequenza ἀριστέρ’ αὐτοῦ φαίνεται τὰ δεξιά di v. 12 «alludes to a notorious association of Cinesias with the tendency in the contemporary dithyramb to abandon the regular triadic structure […] with its appropriate dance steps, in favour of the ἀναβολαί which Aristophanes satirizes in the Peace and the Birds, and the mimetic ‘durchkomponiert’ manner which effected a musical revolution of lasting influence» (Borthwick 1968, p. 66). 13 Il verso, che pure, replicando, sul piano della funzione, i vv. 6–7, non pone problemi di sorta quanto al contenuto, ha avuto bisogno di plurimi interventi per arrivare a essere fissato in una forma testualmente sensata. Più in particolare, a Wyttenbach 1800, p. 442, si devono οὖν e ὅμως ἐμοί per i tràditi οὐκ e ὅμως ὅμως (ὅμως ἀνήρ Kaibel apud Kassel-Austin). A uno splendido intervento di Emperius si deve invece ἀνεκτός (Emperius 1847, p. 49). Segnalo qui di seguito alcuni ulteriori, meno felici, restauri: ἀλλ᾽ οὐκ ἂν εἴποις. ὠμὸς οὕτως ἦν ἐμοί Brunck 1783, p. 171, con due ulteriori proposte alternative alla pagina successiva, sulle quali si veda il divertito scetticismo di Wyttenbach (loc. cit.); ἂν εἴποις, οὖτος ἦν ἁπλοῦς ὅμως Hanow 1830, p. 50; χοὗτος per il tràdito οὗτος Meineke FCG II.1, p. 334 (ma più tardi, nell’editio minor, οὗτος [Meineke 1847, I, p. 117]). 14 Φρῦνις Frinide di Mitilene, irriso anche da Aristofane in versi famosi delle Nuvole (969–972 εἰ δέ τις αὐτῶν βωμολοχεύσαιτ᾽ ἢ κάμψειέν τινα καμπὴν / οἵας οἱ νῦν, τὰς κατὰ Φρῦνιν ταύτας τὰς δυσκολοκάμπτους, / ἐπετρίβετο τυπτόμενος πολλὰς ὡς τὰς Μούσας ἀφανίζων: vd. Dover 1968, p. 216, e Andrisano

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1988–1989), fu attivo nel campo del nomos citarodico (non anche in quello del ditirambo: vd. Zimmermann 2008, p. 120 n. 26); secondo le fonti antiche, avrebbe aumentato da sette a nove il numero delle corde della kithara e avrebbe innovato il genere citarodico componendo nomoi in metri lirici mescolati a esametri dattilici. Il composto ἰωνοκάμπτης con il quale Frinide è qualificato in un famoso frammento di Timoteo (802 Page = 802 Hordern μακάριος ἦσθα, Τιμόθε᾽, ὅτε κᾶρυξ / εἶπε· νικᾷ Τιμόθεος / Μιλήσιος τὸν Κάμωνος τὸν ἰωνοκάμπταν) mette insieme, nei due membri che lo compongono, l’idea del ‘torcere’, κάμπτειν, della quale si è detto ampiamente sopra (in linea, dunque, con il lessico scommatico comico testimoniato da Aristofane e Ferecrate, che qui ricorre però applicato a Frinide non da un poeta comico, ma da un collega e rivale di genere, dunque, per così dire, dall’interno: vd. LeVen 2014, p. 95 n. 58), e quella della lasciva, languida mollezza ionica del canto (si veda per questo, da ultimo, l’ottima discussione di Ercoles 2017, pp. 135–137; vd. anche Kugelmeier 1996, pp. 249–251). Per Frinide vd. Del Grande 1946, pp. 64–66; Sutton 1989, p. 54; Urios-Aparisi 1992, p. 449; West 1992a, p. 360 s.; Anderson 1994, pp. 130–132; Ieranò 1997, pp. 210–212; Conti Bizzarro 1999, p. 158 s.; Hagel 2010, p. 270 s.; D’Angour 2011, p. 201; Pöhlmann 2011, p. 119; LeVen 2014, p. 47 (Table 4); vd., inoltre, Holden 1902, p. 943; Huchzermeyer 1931, p. 62; Grieser 1937, pp. 11–13 (nrr. 77–82 a-b; 83 b-c) e 60; Schönewolf 1938, p. 27 s.; Riemschneider 1941; Pickard-Cambridge 1962, p. 43; Richter 1968, p. 12; Molitor 1969, p. 293 s.; Privitera 1979, p. 318; Restani 1983, pp. 159 e 164 s.; Barker 1984, p. 94; Kugelmeier 1996, pp. 249–255; Lynch 2018, pp. 302–313. Le fonti letterarie che costituiscono lo scarno dossier relativo a Frinide vanno integrate con una testimonianza iconografica molto studiata, e certo del massimo interesse, un cratere pestano del pittore Asteas (Salerno, Museo Provinciale Pc 1812), collocabile alla metà del quarto secolo, che raffigura «due personaggi provvisti ciascuno di nome proprio: un citaredo (ΦΡΥΝΙΣ) e un vecchio con barba, chioma bianca e bastone, dal tipico aspetto di ἄγροικος (ΠΥΡΩΝΙΔΗΣ)» (Telò 2007, p. 28), nel quale in molti, a partire da Taplin 1993, p. 42, hanno creduto, con buoni argomenti, di poter riconoscere il Pironide protagonista dei Demi di Eupoli (una identificazione che ha spinto gli esegeti dei Demi a ravvisare in Pironide la persona loquens del fr. 121 K.–A. della commedia e in Frinide - in forza, anche, del lemma νιγλαρεύω, che richiama i νίγλαροι associati, in Ferecrate, a Filosseno - il referente della sequenza νιγλαρεύων κρούματα che chiude il trimetro: si veda, per questo, l’ampia discussione di Telò 2007, pp. 287–290; vd. anche Csapo 2004, p. 244 s., e Fongoni 2009, p. 178 s.). ἴδιον στρόβιλον ἐμβαλών L’utilizzo del verbo ἐμβάλλω spinge intanto, ancora una volta, in direzione di un’interpretazione oscena: in commedia i composti di βάλλω sono sistematicamente associati alla penetrazione o all’aggressione sessuale (vd. Henderson 1991, p. 170 [§ 301], che però si spinge troppo oltre, credo, nel proporre l’equazione στρόβιλος = ‘phallus’; vd. anche Borthwick 1968, p. 67 s.; Dobrov–Urios-Aparisi 1995, p. 156: «The word ἐμβαλών would […] sharpen the erotic force of βάλλω to make the phallic imagery more concrete and wild», e

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Conti Bizzarro 1999, p. 160). Quanto allo στρόβιλος, gli studiosi si sono divisi, in linea di massima, tra chi ha ritenuto di poter sostenere un’interpretazione metaforica del sostantivo e chi ha invece preferito immaginare che esso faccia riferimento a un referente concreto, ora generico (p. es. ‘trottola’: vd. Westphal 1865, p. 54 [‘Kreisel’], o anche ‘perno’, ‘cuneo’, ‘caviglia’: spesso ‘Zapfen’, nelle traduzioni tedesche [p. es. Schönewolf 1938, p. 67; Süß 1954, p. 119]), ora, invece, in chiave prettamente tecnico-musicale, immaginando che Frinide avrebbe applicato alla lira un dispositivo di sua invenzione per alterarne a piacimento l’accordatura in pause dell’esecuzione, o anche in corso di esecuzione. La prima delle due linee esegetiche può contare su Phryn. praep. soph. p. 110, 3–6 de Borries στρόβιλος· τὴν τοῦ ἀνέμου συστροφήν […]. Πλάτων (fr. 285 K.–A.) καὶ μεταφορικῶς κέχρηται ἐπὶ ᾠδῆς κιθαρῳδικῆς, πολὺν ἐχούσης τὸν τάραχον, significativo, in relazione a Ferecrate, tanto per il coinvolgimento di un testo comico di quinto secolo quanto per il fatto che in tale testo στρόβιλος era utilizzato metaforicamente a prendere di mira il ‘frastuono’ (τάραχος) prodotto da un componimento citarodico (non a caso, Kaibel [apud Kassel-Austin, PCG VII, p. 543] riteneva che Frinico avesse confuso il nome di Ferecrate con quello di Platone, producendosi in una falsa attribuzione, mentre Meineke [FCG I, p. 75 s.] avanzava l’ipotesi che, tra i poeti ai quali il Chirone era stato attribuito in antico, doveva enumerarsi, appunto in forza della testimonianza di Frinico, anche Platone Comico). L’esegesi metaforica, fortunata fin dalle più antiche traduzioni del De musica (‘son tourbillon’ [Amyot 1572, p. 665]; peculiarem immittens turbinem [Xylander 1592, p. 565]), rilanciata più tardi da Burette («στρόβιλος signifie un tourbillon de vent, une toupie ou un sabot, que les enfants font piroutter à coups de fouet; une sorte de danse lascive, selon Pollux, ou de pirouettement: & c’est en cette dernière signification que l’on doit prendre ici ce terme, en le transportant de la danse dithyrambique de Phrynis à l’espèce de Musique dont il se servoit pour animer ses danseurs, & dont la modulation imitoit le mouvement & l’impétuosité d’un tourbillon, répondant parfaitement au caractère de la Poësie & de la danse» [Burette 1735, p. 395]) e sostenuta a più riprese dagli editori del frammento e dagli editori e commentatori del De musica (p. es. Runkel 1829, p. 63: στρόβιλος est proprie συστροφὴ ἀελλώδης […]. inde ad cantum translatum […], id quod nos Wirbel, Triller dicimus; Meineke, FCG I, p. 76: in his στρόβιλον figurato sensu de artificiosis tremulorum sonorum quasi vorticibus dixisse videtur; Bothe 1855, p. 111; Kock, CAF I, p. 190; Weil-Reinach 1900, p. 123; Edmonds 1957, p. 263: ‘whirlwind’, come poi Storey 2011, p. 501; vd. anche, più di recente, Olson 2007, p. 184), ha trovato l’autorevole sostegno di Borthwick e di West. Per il primo, στρόβιλος «referred to an innovation in the dithyrambic ἀγωγή, melodic, rhythmic and orchestic, and to an irregular rotatory motion, reflected in the text and music as well as the dance, which disturbed the prevailing pattern of the κύκλιος χορός with a violent whirling» (Borthwick 1968, p. 68, ripreso, in pieno consenso, da Restani 1983, p. 164 s.; vd. anche Calero 2018, p. 18; a movimenti di danza pensava anche Taillardat 1965, pp. 462–465 [§ 792], in relazione alle ‘trottole’ [στρόβιλοι] di Carcino, ovvero i Carciniti, evocate a

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Ar. Pac. 860–867, un passo che, però, nonostante l’opinione contraria di Kassel e Austin ad loc., credo contribuisca poco alla retta comprensione del nostro verso; poco decisiva anche la glossa εἶδος ὀρχήσεως apposta a στρόβιλος nel margine di un codice cartaceo napoletano del XV secolo [Neap. III C1, siglato con Ni da Ziegler], meritoriamente edita da Conti Bizzarro 1993, p. 98 s. [vd. poi anche Conti Bizzarro 1999, p. 160]; per στρόβιλος = ‘movimento circolare di danza’, ‘piroetta’, resta fondamentale Roos 1951, pp. 97–100 [vd. anche lo Exkurs I, ‘Die Karkiniten als στρόβιλοι und γυλιαύχενες’, pp. 205–209]). Quanto a West, στρόβιλος andrebbe inteso equivalente a ‘a wild flurry of notes’ (West 1992a, p. 360 e n. 19). L’idea di individuare in στρόβιλος, per contro, non una metafora ma un’allusione a un referente concreto, pur affiorante anche altrove, negli studi (vd., p. es., Sachs 1924, p. 293 s.; Schönewolf 1938, p. 67 n. 4 [ove, elencata ogni possibile resa, si prende però posizione, alla fine, per un significato equivalente a quello di κόλλοψ: una scelta, in direzione decisamente tecnico-musicale, che trova sviluppo in ciò che Schönewolf afferma nella nota immediatamente successiva]; Riemschneider 1941, col. 927 [il quale, pur rendendo στρόβιλος con ‘Wirbel’, non lascia dubbi, appena oltre, quanto alla concretezza tecnica dell’esegesi da lui proposta: «die Erfindung eines besonderen Wirbels […], der ein schnelles Umstimmen ermöglicht»]; Lasserre 1954, p. 173; vd. anche, più di recente, Maas - McIntosh Snyder 1989, p. 62: ‘tuning pin’; Maas 1992, p. 77: ‘[string-]twister’; Rocconi 2003, pp. 40 n. 216 e 142 s. v.; Gentili 2006, p. 53 [«una specie di capotasto, atto a modificare l’intonazione della cetra»]; in termini più generici, a un qualche tipo di oggetto pensa anche Anderson 1994, p. 132, per il quale «the actor who played Mousike could have produced from the tatters of his robe a stage prop, so the reference would pass muster»: un oggetto, «something unusual, perhaps ridicolous», adeguato a veicolare una specifica allusività erotica [ibid.: «a sexual meaning is obviously intended for the present passage, possibly through the resemblance to an olisbos»]; tra i traduttori italiani vd. p. es. Comotti 1991, p. 144: ‘un suo particolare arnese’; Ballerio 2000, p. 93: ‘una spirale di sua invenzione’, e Pisani in Pisani-Citelli 2017, p. 2219: ‘un suo bischero’), è stata sostenuta con particolare vigore da Düring 1945, p. 186 s.: «It [scil. lo στρόβιλος] must be a device of some sort, intended to enable a quick retuning of individual strings […]. Let us […] imagine a small conically shaped staff, carefully carved so that it provides the player with a number of protruding blocks, parallel in the direction of the staff ’s lenght. This staff was inserted (ἐμβάλλειν) under the strings near the string-holder; it could easily be turned», in modo da modificare, in ogni posizione, «the tuning of one or more strings, thus serving as a sort of primitive capotasto» (Düring pensava, forse, a qualcosa di simile al ‘block’ riprodotto in Schlesinger 1939, p. 145 s.). L’idea di Düring ha trovato di recente sviluppi di notevole interesse in Pöhlmann 2011 e in Lynch 2018, anche sulla base di significativi rinvenimenti archeologici. Secondo Pöhlmann, lo στρόβιλος andrebbe identificato con una chiave per accordatura (‘tuning-peg’) inventata da Frinide, un ‘turnable device’ (per il quale Pöhlmann, nel 2011, era in grado, peraltro, di indicare non più solo modelli

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ellenistici e imperiali, come gli era accaduto in precedenza [vd. Pöhlmann-Tichy 1982, p. 310 s.], ma referenti contemporanei a Ferecrate e a Frinide, in forza del rinvenimento, a Leucade, di due ‘tuning pegs’ in osso, l’uno contenuto in un sarcofago in pietra calcarea rinvenuto in una necropoli, l’altro «at another place in the ancient town», entrambi databili al V secolo [Pöhlmann 2011, p. 128 s. e Plate 1]) che gli avrebbe consentito di ampliare a piacimento il raggio delle possibili modulazioni realizzabili sullo strumento da lui utilizzato («Phrynis would have been equipped with an instrument ‘having up to five harmoniai’ by using his “strobiloi” for retuning the movable steps in any tetrachord in order to present different tonalities» [Pöhlmann 2011, p. 130: una conclusione che presuppone l’accoglimento dell’intervento proposto da West per il v. 16, per il quale cfr. infra]). Prendendo le mosse dal lavoro di Pöhlmann, Lynch 2018, pp. 302–313, identificando lo στρόβιλος di Frinide in un dettaglio dello strumento imbracciato dal personaggio identificato con la legenda ΦΡΥΝΙΣ nel già ricordato cratere di Asteas, ritiene che il dispositivo inventato da Frinide, piuttosto che in ‘tuning-pegs’ a supporto delle singole corde della lira, sia da individuare in un qualche tipo di «modulating key that passed through the instrument yoke», ovvero attraverso la traversa orizzontale superiore dello strumento (Lynch 2018, p. 308): «hence, the string would not have been secured to the strobilos itself but could have been looped around its shaft before being fixed to the half-ring: in this way, the string’s tension could have been altered by rotating the strobilos, holding it by its flat head» (ibid.). E poco oltre (p. 310): lo στρόβιλος (‘twister’) sarebbe da identificare in un «modulating key that raised the pitch of a single string by approximately a semitone». L’alterazione, a carico, dunque, non dell’intero set di corde dello strumento, ma di una corda soltanto, avrebbe consentito a Frinide di alterare il modo ionico «‘bending’ one of its notes in order to produce a fifth harmonia» (ibid.; anche la Lynch, come Pöhlmann, accoglie l’intervento di West per il v. 16: cfr. infra, ad 16). Al di là di ogni considerazione di ordine tecnico, credo che l’esegesi che punta a un referente concreto, tecnico o meno che sia, sia da preferire a quella metaforica in forza, soprattutto, di una considerazione che, per quanto in apparenza piuttosto ovvia, trovo esplicitamente argomentata, salvo errore, solo in Andrisano 1988–1989, p. 191 n. 9, la quale osserva, ben a ragione, come l’interpretazione metaforica di στρόβιλος sia «compromessa dalla presenza di ἴδιος, non giustificabile a sancire la singolarità o la paternità di un ciclone, ma funzionale a designare la specificità di un ‘piccolo strumento’». Un’osservazione la cui indiscutibile validità si misura ponendo mente a traduzioni quali ‘personal whirlwind’ (West 1992a, p. 360). Quanto a ἴδιος, se è fuori discussione che sia da intendere come equivalente a ‘singolare’, ‘strano’, ‘inusuale’, ‘eccezionale’ (vd. Conti Bizzarro 1999, p. 159), è altrettanto evidente che esso serva a sottolineare l’assoluta novità dell’invenzione di Frinide e sia dunque da intendere come equivalente, anche, a ‘peculiare’, ‘inedito’ (dunque, ‘mai visto prima’, come già nell’ottima traduzione di Valgulio [strobilo quodam / non ante cognito]).

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15 κάμπτων με καὶ στρέφων Per il significato di καμπή cfr. supra, ad 9. Quanto alla valenza oscena di στρέφω vd. Henderson 1987a, p. 175; Henderson 1991, pp. 176 (§ 338) e 180 (§ 361; non però anche, direi, in Amphis fr. 20, 4 K.–A., pace Papachrysostomou 2016, p. 136). Sulla valenza oscena del passo insistono, in particolare, Süß 1954, p. 119; Borthwick 1968, p. 67 s., e Dobrov–Urios-Aparisi 1995, p. 156 s. (vd. anche Dobrov 1997, p. 57). Se inoltre στρόβιλος, come è ragionevole supporre, era sentito legato etimologicamente a στρέφω, pur «in spite of the different labial» (Beekes 2010, p. 1412 [s. v. στρεβλός]), la scelta del verbo sarà stata funzionale anche a innescare un comico gioco (par)etimologico. 16 ἐν πέντε χορδαῖς δώδεχ’ ἁρμονίας ἔχων Come nel caso dei vv. 5 e 25, anche qui il numerale δώδεκα associato alle corde dello strumento ha creato problemi agli studiosi. Quanto alla natura del problema, basti qui il rimando alla lucida formulazione di West: «The next two lines [scil. i vv. 15–16] obviously refer to modulation between different scales. But if the number of strings is to be mentioned, one certainly expects them to be more than the standard seven, not less» (West 1992a, p. 360 s.). Tra le soluzioni adottate dagli studiosi, qui come negli altri due casi in cui, nel frammento, ricorre il numerale δώδεκα, l’intervento congetturale, a sostituire il numerale ritenuto ‘difficile’ con uno considerato più ‘normale’: così, solo per fare qualche esempio, ἐν ἑπτὰ χορδαῖς, o in alternativa ἐν ἑπταχόρδοις (Burette 1735, p. 396; per ἐν ἑπτὰ χορδαῖς, nella scia di Burette, anche Hanow 1830, p. 50 s.; Meineke, FCG II.1, p. 329, e Kock, CAF I, p. 188); ἐν ἐννέα χορδαῖς (Ulrici 1835, p. 605 n. 104; così anche Volkmann 1856, pp. 35 e 124), o anche il più pervasivo ἐν ἕνδεκα χορδαῖς τέτταρας ἁρμονίας ἔχων di Weil-Reinach 1900, p. 123. Lasserre 1954, p. 125, opta per la lezione πενταχόρδοις, che a p. 173 viene glossata come segue: «Il faut […] donner à pentacorde le même sens qu’à tétracorde: sa lyre [scil. di Frinide] se compose de deux pentacordes conjoints totalisant neuf cordes». Partendo dalla medesima scelta testuale, Chailley 1956, p. 150, individua nella sequenza ἐν πενταχόρδοις δώδεχ᾽ ἁρμονίας «une exagération comique», traducendola con ‘il a mis douze échelles de 7 notes dans des intervalles de quinte’, che presuppone l’equivalenza ἁρμονία = ‘heptacorde’. Ma il pur tràdito πενταχόρδοις deve essere scartato: vd., al proposito, Anderson 1994, p. 131 («the terms pentachordos (adjective) and pentachordon (noun) occur only in late writers, as technical jargon»). Una soluzione ingegnosa, anche in virtù della natura assai economica dell’intervento, è stata proposta da West (West 1992a, p. 360 s.; vd. anche, già prima, West 1992b, p. 28 s.): εἰς (ἐν codd.) πέντε χορδαῖς δώδεχ᾽ ἁρμονίας ἔχων, da intendere equivalente a ‘having up to five harmoniai in a dozen strings’; un intervento accolto, di recente, da Pöhlmann 2011, il quale pure non manca di sottolineare il ‘daring Hyperbaton’ (p. 129) che risulterebbe dall’assetto testuale del verso nella sistemazione proposta da West, mentre assai meno stringenti appaiono le obiezioni argomentate da Hagel 2010, p. 270 n. 30: «West’s proposal […] leaves an awkward bare dative to be construed with ἔχων (“holding up to five harmonies with twelve strings?” In order to enable the decoding of such a metaphorical usage, one should

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at least expect the instrumental dative to reference a recognised fact - and not also new information - indicated by the definite article ταῖς χορδαῖς, “with his twelve strings”)», un rilievo che, a non volerne dire altro, non si vede perché non dovrebbe valere anche per gli altri due passi, entrambi altrettanto metaforicamente codificati che il v. 16, in cui, nel frammento, ricorre il cenno alle dodici corde: in entrambi i casi, peraltro, senza articolo. L’intervento di West, accolto da ultimo anche da Lynch 2018, avrebbe il pregio, indiscutibile, di risolvere il problema costituito dal numero troppo basso di corde (πέντε, per chi segua la ricostruzione di West, concorderebbe con ἁρμονίας, non con χορδαῖς), consentendo, a un tempo, di associare anche qui, come altrove nel frammento, il numerale δώδεκα, comunque lo si voglia intendere (cfr. supra, ad 4–5), alle corde della lira (un punto importante, questo, in relazione al quale non mi sento di concordare con quanto affermato da Hagel 2010, p. 270 [«three mentions of “a dozen strings” within not more than two dozen verses do not really add to the effect of the passage»]). Negli studi precedenti a West, o in quelli a lui successivi che non accolgano la sua proposta, vige a ogni modo concordia quanto al fatto che la sproporzione tra basso numero di corde e alto numero di harmoniai alluda alle nuove possibilità esecutive aperte dall’uso sempre più libero e sfrenato della modulazione, o μεταβολή: così, ad esempio, Restani 1983, p. 165 s. Come Düring 1945, p. 181, anche Anderson 1994, p. 129, tratta il numerale ‘cinque’ alla stregua del numerale ‘dodici’, come ‘round number’ («pente, ‘five’, may stand for ‘a few’»; vd. anche p. 131, pur con qualche dubbio [«the interpretation of pente as “a few” is tempting but lacks parallels»]; nella scia di Düring anche Maas 1992, p. 78): un’idea, che coglie forse nel segno, che renderebbe ovviamente superfluo, per chi la consideri valida, ogni intervento sul testo tràdito. Lo stesso dicasi per chi voglia aderire alla proposta esegetica avanzata da Hagel 2010, p. 270 s., per il quale Frinide, pur avendo a disposizione uno strumento dotato di un set di corde non inferiore a quello degli strumenti dei suoi predecessori, sarebbe stato in grado, in virtù di una straordinaria abilità nell’arte della modulazione, di produrre, da vero virtuoso, un numero considerevole di harmoniai partendo da un ‘subset’ circoscritto a cinque corde («it is not necessary to take “five” as Phrynis’ total number of strings. Since everyone knew that Phrynis employed at least as many notes as his predecessors, the text must be understood as “even in a subset of five khordaí he had twelve harmonies” (the consequences for his full tonal material to be extrapolated). […] the “five notes” allude to the surprisingly restricted pitch range within which the exuberant modulations of Phrynis’ style took place. In this case, the ‘harmoníai’ here are not entire octave tunings, but mutually exclusive tone constellations»). La molto discussa, e nei fatti misteriosa, ‘unione di corde a cinque bastoncini’ (o comunque si voglia tradurre la nebulosa sequenza πενταρράβδῳ χορδᾶν ἀρθμῷ) evocata da Teleste nell’unico frammento superstite del ditirambo Ὑμέναιος (PMG 808, 3) colpisce, a prima vista, per il collegamento che vi si istituisce tra le corde della magadis e il numerale ‘cinque’; ma il contesto è troppo oscuro perché se ne possa ricavare qualcosa in relazione a Frinide (come parve possibile, invece, a

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Düring 1945, pp. 188–190), a non dire del fatto che sembra del tutto convincente la proposta, avanzata da Barker 1998, di interpretare la problematica iunctura come allusiva non al numero di corde dello strumento, ma alle dita della mano di chi era chiamato a suonarlo (Barker 1998, p. 77). Segnalo, infine, LeVen 2014, p. 76 n. 17, la quale, difendendo la bontà del tràdito ἐν πέντε χορδαῖς, evoca, pur con cautela, «the theory of a pentatonic tuning of a few-stringed lyre, which would allow for the possibility of creating a variety of notes by stopping or strumming the strings - and thus creating “a dozen harmoniai” – on a simple instrument» (ma in LeVen 2011, p. 249 n. 20, l’intervento di West era rifiutato in forza di considerazioni, non meno stimolanti, di segno diverso rispetto alle posizioni argomentate poco più tardi nel libro: «I suggest that it is part of the comic rewriting and appropriation of technical language that twelve harmoniae on five strings might be musically impossible, but that they precisely contribute to the impression of fake expert discourse, using the buzzwords of the time»). 17 ἀλλ᾽ οὖν ἔμοιγε χοὗτος ἦν ἀποχρῶν ἀνήρ Cfr. supra, ad 6–7. 18 εἰ γάρ τι κἀξήμαρτεν, αὖτις ἀνέλαβεν Come notano, con la consueta chiarezza, Kassel e Austin ad loc., ἀναλαμβάνω può significare tanto ‘correggere’ quanto ‘rimettere in sesto’, ‘recuperare a salute’, ‘risanare’; nel primo caso, si dovrà immaginare, come complemento oggetto sottinteso, facilmente recuperabile in virtù del subito precedente ἐξήμαρτεν o ἁμαρτίαν (cfr. Soph. Phil. 1248 s. τὴν ἁμαρτίαν / αἰσχρὰν ἁμαρτὼν ἀναλαβεῖν πειράσομαι) o ἁμαρτίας (cfr. Eur. Ion. 426 τὰς πρὶν ἀναλαβεῖν ἁμαρτίας), mentre nel secondo si dovrà sottintendere με (così, p. es., Kock, CAF I, p. 190: ἀνέλαβεν i. e. me refecit, vires mihi reddidit). Si veda, più ampiamente, l’ottima discussione fornita, al proposito, da Conti Bizzarro 1999, p. 162, il quale sottolinea inoltre, a ragione, lo «spessore tragico» di ἐξαμαρτάνω (ibid.): un rilievo che leggerei però, più che in chiave di detorsio comica (così, invece, Conti Bizzarro), come un’ulteriore spia dell’assetto (para)tragico del lamento di Musica, così evidente, come si è detto sopra, nel solenne incipit che lo inaugura. In altra, inedita direzione l’esegesi del passo discussa da Dobrov–Urios-Aparisi 1995, p. 158 e n. 66, per i quali ἀνέλαβεν andrebbe inteso, sottintendendo με, come equivalente a ‘received (me) back again’, ‘took up (with me) again’, se non addirittura a ‘won me over’. Così, «the nonchalant εἰ γάρ τι κἀξήμαρτεν, αὖτις ἀνέλαβεν […] suggests a potentially lasting reciprocity»: una lettura che, ritraendo il rapporto tra Musica e Frinide come una «tumultuous mixture of trouble and reconciliation», ben si accorderebbe con l’idea, centrale nell’articolo in questione, e più tardi in Dobrov 1997, pp. 56–63, che il rapporto tra Musica e i suoi maltrattatori sia configurato da Ferecrate in termini simili a quelli che legavano le etère ai loro clienti (cfr. anche supra, ad 6): un’idea, certo non priva di originalità (ma altrettanto certamente non nuova: si veda, solo per fare un esempio, già Ulrici 1835, p. 591 [«(Pherekrates), der in einer seiner Komödieen die Musik in Gestalt einer Attischen Hetäre, übel zugerichtet von ihren Liebhabern einführte»]; vd., da ultimo, Storey 2011, p. 495: «In this Fragment Music is presented as a highclass hetaera, who takes one lover at a time»), che qui mostra però decisamente

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la corda. Il contesto, chiarissimo già a Jacobs 1817, p. 375 (lepidus est locus, in quo musica de citharoedis novatoribus ita loquitur, ut de protervis hominibus agi existimes, qui in matronam honestam tamquam in scortum infimae conditionis bacchati sint: dunque, semmai, una donna di nobili costumi trattata da prostituta da una teoria di violentatori privi di freni, come, assai più di recente, in Csapo 2004, p. 238, ove il doloroso tragitto percorso da Musica è descritto, con molta efficacia, come «a loss of innocence after a series of violent rapes»), ha trovato di recente un inquadramento di rara sensibilità e intelligenza in Henderson 2000, p. 143, il quale, pur non scartando in modo troppo reciso la possibilità che il ritratto ferecrateo di Musica presenti tratti di ricercata, voluta ambiguità, associa al personaggio prerogative di dignitosa, persino austera rispettabilità (il ritratto di Musica, così Henderson, «suggests less the hetaira or prostitute than the oncerespectable woman who has fallen on hard times. And that is surely Pherekrates’ point: that Music used to be dignified and respectable, but was then progressively spoiled and degraded by the new poets»). αὖτις Per αὖτις/αὖθις vd. Gomme - Sandbach 1973, p. 286 s., e Beekes 2010, p. 169 (s. v. αὖθι). 19–21 ὁ δὲ Τιμόθεός […] / (Δικ.) ποῖος οὑτοσὶ / 〈ὁ〉 Τιμόθεος; Nato intorno al 450 a. C. a Mileto, Timoteo, all’epoca della rappresentazione della commedia, era forse, almeno ad Atene, non ancora altrettanto noto che i suoi predecessori e colleghi, sempre ammesso che questo sia il senso da conferire alla domanda che Giustizia rivolge a Musica a v. 20 s. (perfettamente possibile, però, e anzi, ben più plausibile, immaginare che la battuta sia, per contro, da spiegare come una «malignità comica» rivolta contro un personaggio fin troppo noto [così Conti Bizzarro 1999, p. 165]: una malignità che l’assetto vivacemente colloquiale dello scambio avrà peraltro reso ancora più brusca e puntuta [per ποῖος…; «used when a word of the previous speaker is repeated with disdain or indignation» vd. Collard 2018, pp. 87–89, e, per la commedia, López Eire 1996, p. 114 s.; per l’ancor più secco e colloquiale ὁ ποῖος; «asking in surprise or urgently for clearer information» vd. p. 83]). Il deittico non porta acqua al mulino di chi ha ritenuto che Timoteo fosse personaggio della commedia (p. es. Pianko 1963), né implica che Timoteo dovesse essere presente in scena, o essere sul punto di farvi il suo ingresso, nel momento in cui Giustizia pronuncia la sua battuta (così, invece, Conti Bizzarro 1999, p. 165): vd. Urios-Aparisi 1992, p. 452; per deittici relativi a persone e a oggetti non presenti in scena nei testi drammatici greci si veda, inoltre, il materiale riunito e discusso da Belardinelli 1994, p. 109 s. Della molto ricca letteratura su Timoteo mi limito a segnalare quanto segue: Wilamowitz 1903; Del Grande 1946, pp. 83–125; PMG 777–804; Janssen 1989; Sutton 1989, pp. 61–68; Hordern 2002; vd., inoltre, Huchzermeyer 1931, p. 63 s.; Grieser 1937, pp. 12–15 (nrr. 83–92) e 60; Maas 1937; Schönewolf 1938, pp. 28–30; Pickard-Cambridge 1962, pp. 48–51; Anderson 1966, pp. 50–53; Richter 1968, pp. 14–17; Privitera 1979, pp. 318–320; Restani 1983, pp. 177–179; Barker 1984, pp. 95–98; Maas 1992, p. 78 s.; Maas 1992a; Urios-Aparisi 1992, p.  451; West 1992a, pp.  361–364; Anderson 1994,

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p. 132 s.; Ieranò 1997, pp. 164 s., 207 s., 212; Conti Bizzarro 1999, p. 163; Csapo 2004, passim; Wilson 2004, pp. 304–306; Olson 2007, p. 184 s.; Csapo-Wilson 2009; Levin 2009, p. 93 n. 7; D’Angour 2011, pp. 201–206; LeVen 2011; Pöhlmann 2011, pp. 119 e 130 s.; Zimmermann 2011b, p. 252; Ieranò 2013, passim; LeVen 2014, p. 45 (Table 4) e passim; Austa 2017; Ercoles 2017, pp. 135–138; Lynch 2018, pp. 313–318. 19–20 κατορώρυχε / καὶ διακέκναικ᾽ αἴσχιστα κατορώρυχεν nove dictum est fodiendo perdidit, corrupit (Meineke, FCG II.1, p. 330; vd. anche Kock, CAF I, p. 190: sepeliit i. e. occidit; Süß 1954, p. 121); d’altronde, «words for “digging” are a popular source of double entendres» (Henderson 1991, p. 168 [§ 292]; a n. 80 si portano a confronto fodere e effodere). Quanto a διακναίω, si veda Conti Bizzarro 1999, p. 164 (il quale si spinge però forse troppo oltre nell’individuare, nella coppia di verbi, un’allusione a «due momenti della performance di Timoteo, collegati con elegante hysteron proteron», il primo corrispondente al θεῖον χρῆμα, ovvero al coito, il secondo al cunnilingus, come già in precedenza suggerito, per διακναίω, da Henderson 1991, p. 174 [§ 322]; ma vd. Meriani 2002, p. 417 n. 45), e inoltre, in relazione al διέκναισ᾽ di Strattis fr. 1, 3 K.–A., Meriani 2002, p. 416 s.; Orth 2009, p. 52; Fiorentini 2017, p. 50 s. 21 Μιλήσιός τις πυρρίας L’epiteto, ‘dai capelli rossi’, è attestato come nome proprio di schiavi (come accade di frequente con aggettivi relativi a prerogative fisiche: molto vicino Xantia, anch’esso allusivo al colore dei capelli) tanto in fonti letterarie quanto in iscrizioni (ma ad Atene, come sicuro nome di schiavo, una volta soltanto: Fragiadakis 1986, p. 367 [nr. 652] = LGPN II, p. 389 s. v. Πυρρίας 8 = Osborne-Byrne 1996, p.  351 [nr. 7975]); verosimile che si trattasse di un nome associato soprattutto a schiavi traci: «πυρρός hair […] was regarded as characteristic of Thracians» (Dover 1993, p. 283, con inevitabile rinvio a Xenoph. fr. B16 Diels-Kranz Αἰθίοπές τε 〈θεοὺς σφετέρους〉 σιμοὺς μέλανάς τε / Θρῇκές τε γλαυκοὺς καὶ πυρρούς 〈φασι πέλεσθαι〉); come è ovvio, sopravvivono ulteriori attestazioni dell’antroponimo, in Attica e altrove, nessuna delle quali associabile però con certezza, salva l’eccezione della quale si è detto sopra, a status servile (per Atene e l’Attica vd. LGPN II, p. 389 s. v. Πυρρίας 1–7 e 9–10 e Osborne - Byrne 1996, pp. 92 [nrr. 2160–2162], 109 [nrr. 2570–2573], 114 [nr. 2669], 293 [nr. 6866]), mentre alcune altre ricorrenze si lasciano, per contro, ricondurre a personaggi di condizione rilevata (un elenco piuttosto ricco in Gilula 1995, p. 8). Per Πυρρίας vd. Lambertz 1907, p. 56; Copalle 1908, p. 52 s.; Schmid 1946, p. 504 n. 3; Fragiadakis 1986, p. 367 (nrr. 652–658), e Vlassopoulos 2010, p. 123 (vd. anche p. 141), ove, tanto per Πυρρίας quanto per Ξανθίας, si avanza l’idea che, considerata, almeno ad Atene, l’assoluta rarità di attestazioni extraletterarie (per Xantia, in realtà, nessuna), sia stata appunto la commedia a promuovere e a consolidare la popolarità di entrambi gli antroponimi come nomi di schiavi («Although […] in reality blond hair hardly distinguished slave from free and names like Ξανθίας were hardly common for slaves, comedy turns, with the help of the mask, blond and red hair into characteristic slave features and names referring to these features into cha-

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racteristic slave names»). In commedia Πυρρίας ricorre come nome di personaggi di ceto servile solo in Menandro (Dyskolos; Sicioni, e forse anche Perinthia: vd. Gomme-Sandbach 1973, pp. 534–536; nell’Andria di Terenzio Byrrhia è il servo di Carino); il servo Πυρρίης è, inoltre, tra i personaggi del quinto Mimiambo di Eroda (vd. Headlam - Knox 1966, p. 234), e Πυρρίας compare insieme ad altri due nomi di servi, Δρόμων e Τίβειος, in Luc. Tim. 22 (I p. 319, 5 MacLeod), per il quale vd. Tomassi 2011, p. 337 (in Luciano Πυρρίας come nome di servo anche a Philops. 24 [II p. 190, 25 s. MacLeod] e in Merc. cond. 23 [II p. 225, 16 MacLeod]; in Necyom. 15 [II p. 271, 5 MacLeod] si tratta di un μάγειρος); uno status servile, infine, sarà forse da associare anche al pastore Πυρρίας di Alciphr. II 39, 1 (p. 56, 8 Schepers). Se è vero che in commedia di V secolo il nome Πυρρίας non affiora, è altrettanto vero che Aristofane fornisce un parallelo molto significativo per il nostro passo, ovvero Ran. 730–732 τοῖς δὲ χαλκοῖς καὶ ξένοις καὶ πυρρίαις / καὶ πονηροῖς κἀκ πονηρῶν εἰς ἅπαντα χρώμεθα / ὑστάτοις ἀφιγμένοισιν: un passo nel quale lo spregiativo epiteto πυρρίας (vd. Barroso de Albuquerque 1968 [per Ferecrate vd. p. 149], e Lévy 1974, p. 35 e n. 11, i quali concordano, a ragione, nel far risiedere il tono spregiativo dell’epiteto nella sua diffusa associazione a servitù e origine ‘barbara’), considerato il contesto, ovvero l’associazione di πυρρίαις, al plurale, a altri tre epiteti in identico regime sintattico (χαλκοῖς, ξένοις, πονηροῖς), è ovviamente da considerare aggettivo, non nome proprio, esattamente come nel nostro verso (giusta, dunque, la scelta operata da Kassel e Austin, i quali stampano πυρρίας con l’iniziale minuscola, diversamente da come si è fatto a lungo, in passato [vd. Wyttenbach 1800, p. 442; Heinrich 1801, p. 189; Jacobs 1817, p. 376; Runkel 1829, p. 61; Meineke, FCG II.1, p. 327; Bothe 1855, p. 110; Volkmann 1856, p. 36; Westphal 1865, p. 23; Kock, CAF I, p. 188; Bernardakis 1895, p. 516]). A ulteriore conferma della densità anche politica della rhesis di Musica, allo stupratore Timoteo, apice e culmine dei suoi mali, vengono dunque associate qui, per il tramite dell’epiteto πυρρίας, prerogative (origini barbare; status servile; propensione alla violenza) che la commedia di V secolo associa, in genere, ai demagoghi: vd. Lind 1990, pp. 245–249 (il che vale anche per il citato passo della parabasi delle Rane, nel quale si parla appunto di leadership politica [Dover 1993, p. 283]). 22–23 κακά μοι παρέσχεν οὗτος, ἅπαντας οὓς λέγω / παρελήλυθεν, ἄγων ἐκτραπέλους μυρμηκιάς I due versi, pur molto tentati in passato, ammettono di essere stampati come tràditi, come fanno, da ultimo, Kassel e Austin. Non insormontabile intanto, come nota, a ragione, Düring 1945, p. 195, il problema costituito dalla sequenza asindetica παρέσχεν […] παρελήλυθεν, nonostante gli sforzi posti dagli studiosi per obliterarla (κακά μοι παρέσχεν οὗτος, πάντας, οὓς λέγω, / παρελήλυθεν Jacobs 1800, p. 451, subito seguito da Heinrich 1801, p. 199; ma Jacobs tornò però più tardi sui suoi passi proprio a causa dell’asindeto: Dubitari nequit, distinguendum esse post Πυρρίας, quo facto verba κακά μοι παρέσχεν male pendent. Non suffecerit distinxisse: κακά μοι παρέσχεν οὗτος, ἅπαντας… quum sic oriatur asyndeton minime ferendum. Quare scripsi: κακά μοι παρέσχεν ὅσ῾ οὗτος! Quamvis malim versum sic exhiberi: ὅσα μοι παρέσχεν οὗτος! [Jacobs 1817,

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p. 377 s.]; Μιλήσιός τις Πυρρίας / κακά μοι παρέσχεν. οὗτος ἅπαντας οὓς λέγω / παρελήλυθ(ε) Meineke 1822, p. 12, il quale seguì però più tardi Jacobs nell’interpungere dopo Πυρρίας, ma non anche nel tentativo di eliminare l’asindeto, optando, in FCG II.1, p. 334 s., per il testo tràdito [non senza tentennamenti, però: Sive enim coniungas ut vulgo fit, Μιλήσιός τις Πυρρίας κακά μοι παρέσχεν. οὗτος ἅπαντας etc. sive cum Bergkio distinguas ita Μιλήσιός τις Πυρρίας· κακά μοι παρέσχεν οὗτος - ἅπαντας etc. oratione post οὗτος aliquantisper suspensa, neutrum magnam ab elegantia commendationem habet; vd. anche, già prima, Runkel 1829, p. 63: tota […] periodus laborat incohaerentia quadam]; vd. poi anche, in rapida selezione: [Δικ.] κακά σοι παρέσχε χοὗτος; (Μουσ.) ἅπαντας Westphal 1865, p. 23; κακά μοι παρέσχεν οἷς ἅπαντας Wilamowitz 1903, p. 74 n. 4; κακά μοι παρέσχεν ὥσθ᾽ ἅπαντας Kaibel apud Kassel-Austin; κακά μοι παρέχων ἅπαντας οὗτος Kock, CAF I, p. 189). Quanto a ἄγων, anch’esso lungamente al centro di ingiustificati sospetti e di altrettanto ingiustificati, e spesso assai infelici, tentativi di intervento (a quanto elencato supra in apparato si aggiunga Süß 1954, p. 121 n. 5: παρελήλυθ᾽, ἐνάγων ἐκτραπέλους μυρμηκιάς), si veda la convincente difesa (convincente, pace Renehan 1976, p. 89, anche in relazione al problema metrico costituito dal tribraco in seconda sede -λυθεν, ἄ-, con il longum soluto ‘spezzato’ tra due parole distinte in corrispondenza di pausa sintattica: duro, ma non privo di paralleli; vd. anche Düring 1945, p. 195) argomentata da De Simone 2004, pp. 123–125, la quale interpreta il participio non intransitivamente, a guisa di verbo di movimento (‘andando per’, ‘percorrendo’, ‘muovendosi’, come fanno molti esegeti e traduttori del passo), ma ponendolo «in regime con un με deducibile da μοι del v. 22, intendendo ἐκτραπέλους μυρμηκιάς come accusativo di direzione», da cui la traduzione ‘conducendomi per sentieri di formica’: «L’attenzione verrebbe in questo modo indirizzata non già su Timoteo ‘soggetto’ del tortuoso percorrere, quanto piuttosto sulla Musica ‘oggetto’ dei capricci del compositore, condotta su stravaganti sentieri» (p. 125; così, più tardi, anche Olson 2007, p. 185). L’associazione tra le linee melodiche tipiche della ‘nuova’ musica e i sentieri di formiche è topica (i passi sono raccolti e discussi da Austin-Olson 2004, p. 85 s., ad Ar. Thesm. 100, μύρμηκος ἀτραποὺς ἢ τί διαμινύρεται; un parallelo, relativo a Agatone, regolarmente citato in relazione all’immagine scelta da Ferecrate per evocare i sentieri ‘sviati’, ‘devianti’, ‘tortuosi’, ‘intricati’ delle melodie di Timoteo insieme all’altrettanto nota testimonianza contenuta nella voce Φιλόξενος della Suda [φ 393 = T 3 Sutton] in base alla quale Filosseno si era guadagnato l’appellativo di ‘Formica’, Μύρμηξ; vd. anche almeno Düring 1945, p. 195 [«The expression ἐκτραπέλους μυρμηκίας in the sense of μύρμηκος ἀτραπούς seems to have been in vogue as a catchword»]; Borthwick 1968, p. 69 s.; Ieranò 1997, p. 212, e Hagel 2010, pp. 269 n. 26 e 271 n. 31, ove si avanza l’idea che le ἐκτράπελοι μυρμηκιαί di Ferecrate siano da intendere come un pun allusivo per assonanza, dato il ricorrere, in ἐκτραπέλους come in ἀτραπούς, della sequenza -τραπ-, alla «established metaphor» sfruttata da Aristofane in relazione ad Agatone e ai suoi ‘sentieri di formica’; per l’immagine vd. Davies–Kathirithamby 1986, p. 42, Beavis 1988, p. 202

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[§ 3.2.] e Berrens 2018, pp. 387–390). La metafora è in genere interpretata come riferibile a pratiche inedite, ‘spinte’, di cromatismo, per il tramite di un’applicazione altrettanto abnorme dell’artificio della modulazione: vd. p. es. Düring 1945, p. 196 («tunes of a chromatic character»; dubbi in Anderson 1994, p. 133 n. 38); Anderson 1966, p. 50 (il quale rende ἐκτραπέλους μυρμηκιάς con ‘erratic, extra-modal ant tracks’ e procede come segue: «The noun used means properly an ant’s nest; the figurative plural here refers to the antlike scurryings this way and that of a melody which is forever changing direction - ektrapelous, “erratic”, is literally “turned out of the regular course”. That these changes of direction were modulations follows from Pherecrates’ description of them as “extra-modal” or “inharmonious”», un’esegesi che presuppone però come sicura l’associazione a Timoteo dei vv. 26–28, ovvero un dato che è, invece, problematico); Borthwick 1968, pp. 69–71; Restani 1983, p. 178 s.; Urios-Aparisi 1992, p. 453; Conti Bizzarro 1999, pp. 166–168; De Simone 2004, p. 125 s. («Musicalmente, l’espressione è oggi concordemente interpretata come un riferimento alla melodia articolata in microintervalli cromatici, i passi ‘piccoli’ e ‘irregolari’ delle formiche»; poco oltre si afferma che a Timoteo sarebbe qui rimproverato il fatto di avere introdotto «linee melodiche tortuose, che procedono per suoni posti a distanza microtonale, rappresentate attraverso l’immagine icastica dei “sentieri di formica”»); Pöhlmann 2011, p. 130 («chromatic melismatic figures»); Lynch 2018, pp. 313–318 (la quale ritiene che Timoteo fosse pervenuto a un inedito «peak of musical transgression» applicando il dispositivo messo a punto da Frinide per modulare «between Dorian and Mixolydian» [p. 315]; vd. anche p. 317: «by altering the Dorian mode, Timotheus produced ‘deviant’ (ἐκτραπέλους, fr. 155.23) and intricate melodies which not only disrupted the essential structure of the traditional lyre harmonia, but actually reproduced on his twelve-stringed kithara the pair of modes that Aristoxenus presents as the very essence of tragedy: Dorian and Mixolydian, a perfect blend of magnificence and pathos»). Più generica Maas 1992, p. 78: «Timotheos is accused, in words that may also be plays on musical terminology, of having introduced an intricate kind of music that we might suppose required performance with an instrument of many strings». Su pratica del cromatismo e arte sofisticata della modulazione insiste anche Hagel 2010, pp. 258–271, muovendo da una capillare analisi dei resti di notazione contenuti in Pap. Ashm. Inv. 89B/29–33 (DAGM 5–6) e del Peana Delfico di Ateneo (DAGM 20): documenti di pratiche musicali «heavily modulating» nelle quali Hagel scorge la prosecuzione della ‘maniera’ tipica della «late classical avantgarde composition» (Hagel 2010, p. 263). A p. 269 s. Hagel trae le sue conclusioni in merito al passo qui in esame, estendendola agli ultimi tre versi del frammento: «When comedy entertains the images of ant paths and vegetable full of caterpillars for the compositions of avant-garde poets such as Timotheus and Agathon, there is little doubt that a similar style is meant. The intricate melodic figures within a small tonal space are not unfittingly compared with the confusing movements of crawlings or squirming insects. […] kampaí […] combines the notion of modulation […] with that of the frequent change of melodic direction that is inevitable

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in melodies which are confined within a narrow compass». Fermo restando il fatto che non esistono, come ho detto, motivi cogenti che obblighino a intervenire sul tràdito ἄγων (men che mai sostituendolo con ᾄδων, come proposto da Fritzsche 1838, p. 29 s., seguito da Meineke, FCG II.1, p. 330 [sed ἄγων praeeunte Fritzschio mutandum in ᾄδων, quo recepto μυρμηκιάς de vario et tortuoso tremulorum sonorum flexu interpretari licet, metaphora a perplexis formicularum meatibus ducta] e da Volkmann 1856, pp. 36 e 125: «das würde das Bild aufheben», notava, a ragione, Wilamowitz 1903, p. 75 n. 4, approvato da Düring 1945, p. 195, e da Conti Bizzarro 1999, p. 167), che è invece del tutto adeguato al contesto, considerati passi quali Pratin. 708, 5 PMG οἷά τε κύκνον ἄγοντα ποικιλόπτερον μέλος e Las. 702, 2 PMG μελιβόαν ὕμνον ἀναγνέων (segnalati, insieme ad altro materiale, da Borthwick 1971, p. 318 s., ove si osserva che, nel caso di Ferecrate, ἄγειν «does double business both in the sense of vocal performance and in that of ἄγειν ὁδόν»; a determinare la scelta del verbo, aggiunge Renehan 1976, p. 89, sarebbe stato dunque l’epiteto ἐκτραπέλους, ferma restando però, a un tempo, la perfetta idoneità di ἄγω a rendere per via di metafora l’idea del ‘condurre’ canti), chi osservi i diagrammi di notazione ricavati da Hagel 2010, pp. 265–269, a partire dai frustuli musicali dell’Ashmolean e dai resti del Peana di Ateneo, e consideri, insieme, la linea di continuità ivi tracciata, come si è detto, tra questi documenti musicali e la maniera propria della ‘late classical avant-garde’, ovvero degli alfieri della musica ‘nuova’, non potrà sfuggire alla tentazione di ipotizzare che, con l’immagine delle ἐκτράπελοι μυρμηκιαί, fantasiosa, certo, ma altrettanto certamente vicina alla sensibilità del grosso del pubblico («since the average Athenian had considerable experience working the land (and thus occasionally digging up anthills), the image will have been more natural for Ar.’s audience than it is for us» [così Austin-Olson 2004, p. 86, a proposito dei μύρμηκος ἀτραποί di Agatone]), Ferecrate potesse mirare ad alludere non solo, metaforicamente, ai tortuosi ‘sentieri di formica’ tipici delle linee melodiche dei canti di Timoteo, ma anche, forse, all’intricato reticolo delle notazioni alle quali Timoteo avrà fatto ricorso, in modo quanto si voglia rudimentale, per fissarle in scrittura. Un’idea del genere era stata affacciata a suo tempo da Borthwick, sia pure in relazione non direttamente al passo di Ferecrate qui in esame ma a un distico di un epigramma di Lucillio dedicato al pugile Apollofane (Anth. Pal. 11, 78, 3–4 ὄντως μυρμήκων τρυπήματα λοξὰ καὶ ὀρθά / γράμματα τῶν λυρικῶν Λύδια καὶ Φρύγια) che mette però in gioco con certezza, in virtù soprattutto della iunctura μυρμήκων τρυπήματα e dell’ambiguità semantica di μύρμηκες (‘guanti da pugilato’, ‘cesti’, ma anche, ovviamente, ‘formiche’), un’immagine molto simile a quella attiva qui in relazione a Timoteo («The musical reference here appears to conflate the actual sound of the sinuous music, which originally gave rise to the ‘synaesthetic’ image of the μύρμηκος ἀτραποί, with the written musical notation of the period: that is, I take λοξὰ καὶ ὀρθά to refer not only to the τρυπήματα but to the γράμματα, the alphabetic notation either in the upright or oblique position (according to the degree of the appropriate scale, the latter making a chromatic or enharmonic diesis with the former) for which the

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terms ὀρθός, πλάγιος are used in Alypius» [Borthwick 1968, p. 70]). Credo che l’intuizione di Borthwick (un’intuizione, estremamente affascinante, che ha goduto, singolarmente, di poca o nulla fortuna, negli studi successivi sul frammento: trovo cenni, peraltro cursorii, all’epigramma di Lucillio, in relazione a Ferecrate, solo in Restani 1983, p. 179 n. 154, e in Fongoni 2009, p. 182), messa in discussione, quanto al senso da conferire a γράμματα nell’epigramma di Lucillio, prima da Cassio 1975, p. 141 s., poi da Floridi 2014, p. 140 s. (entrambi per γράμματα = ‘opere letterarie’, ‘libri’), possa essere trasferita con maggior profitto proprio ai versi di Ferecrate qui in esame (la pur problematica cronologia della commedia, fissata dagli studiosi che ne accolgono la paternità ferecratea in un arco di tempo coincidente con gli ultimi dieci, quindici anni del V secolo [cfr. supra, Cronologia], non confliggerebbe con la collocazione cronologica che gli studiosi tendono in genere a presumere per le prime e più antiche forme di notazione musicale scritta, ovvero la seconda metà del V secolo, con un probabile décalage temporale tra notazione strumentale, più antica, e notazione vocale, più recente [vd. p. es. Prauscello 2006, p. 40 n. 120, e Pernigotti 2014, p. 766 e n. 30]; considerate le prerogative di sofisticata complessità associate dalle fonti alle loro composizioni, sarebbe del resto inverosimile immaginare che i rappresentanti dell’avanguardia musicale di fine V secolo potessero operare senza servirsi di forme pur aurorali di notazione scritta). Ove la mia proposta cogliesse nel segno, ἄγω potrebbe allora essere inteso senza sforzo nell’accezione, molto ben documentata, di ‘tracciare’, ‘disegnare’ e simili (LSJ9 s. v. ἄγω III), da intendere in senso proprio e in senso metaforico a un tempo: ‘tracciando erratici intrichi di sentieri’ (quelli dei formicai e, insieme, quelli delle complesse, ramificate, labirintiche melodie di Timoteo, in relazione tanto al loro presentarsi all’occhio in forma di intricata notazione quanto al loro porgersi all’udito degli ascoltatori). Quanto, infine, a ἐκτράπελος, il conio τριβολεκτράπελα di Ar. Nub. 1002 s. ἀλλ᾽ οὖν λιπαρός γε καὶ εὐανθὴς ἐν γυμνασίοις διατρίψεις, / οὐ στωμύλλων κατὰ τὴν ἀγορὰν τριβολεκτράπελ᾽, οἷάπερ οἱ νῦν, molto opportunamente segnalato da Kassel e Austin (vd. Taillardat 1965, p. 295 s. [§ 515]), suggerisce con forza che l’idea che la categoria di ‘sviamento’ veicolata da ἐκτρέπω fosse tra le parole d’ordine che la polemica misoneistica comica applicava ai suoi bersagli, musicisti ‘nuovi’ compresi (vd. Conti Bizzarro 1999, p. 167 s.). 24–25 κἂν ἐντύχῃ πού μοι βαδιζούσῃ μόνῃ / ἀπέδυσε κἀνέλυσε χορδαῖς δώδεκα Sulla vexatissima quaestio cresciuta intorno alla coppia verbale che apre il v. 25 non posso che rimandare alla densa, intelligente discussione di De Simone 2004, la quale, diversamente dagli ultimi editori del frammento, prende partito, credo a ragione, per la sequenza tràdita, ovvero ἀπέλυσε κἀνέλυσε, documentando la natura tecnico-musicale dei due lessemi all’interno della trattatistica scientificomusicale e grammaticale di età ellenistica e romana; ipotizzando, in particolare per ἀναλύω, un primo, aurorale abbozzo di specializzazione in senso tecnico già a livello di V secolo (p. 133: «Proprio l’attestazione ferecratea può essere intesa come testimonianza di una già avvenuta specializzazione tecnica dei termini, oppure di

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una fase di passaggio, funzionale al loro impiego in riferimento a fenomeni tipici della ‘nuova’ musica […], verso un uso concettuale e specialistico attestato dai trattati scientifico-musicali»); identificando, nella scia di Lasserre 1954, p. 174 (il quale intendeva i due verbi relativi a «opérations successives encore que presque identiques d’un déshabillage»), l’ambiguità oscena dei due verbi, indispensabile a garantire continuità all’allusività ‘maculata’ attiva, nel frammento, fin dal suo inizio. Da questi presupposti la traduzione fornita dalla De Simone in chiusa di articolo: ‘Costui (Timoteo), superati tutti gli altri di cui ti ho parlato, mi procurò pene infinite, conducendomi per sentieri di formica (attraverso linee melodiche tortuose): mi incontrò da sola per strada, mi liberò delle vesti (dai vincoli della responsione) e mi distrusse con dodici corde (mi scompose in dodici suoni)’ (De Simone 2004, p. 135). Rispetto al quadro tracciato dalla De Simone ho solo due ordini di osservazioni. a) Per quanto sia anche io convinto, come ho detto, che il frammento possa alludere alla pratica delle anabolai, almeno nei versi dedicati a Cinesia, se non anche altrove, confesso che non mi riesce di vedere un riferimento del genere nascosto tra le pieghe dell’immagine contenuta a v. 24, κἂν ἐντύχῃ πού μοι βαδιζούσῃ μόνῃ. Così, invece, De Simone 2004, p. 125 s., la quale, riprendendo e variando un suggerimento di Düring 1945, p. 197 («The two last verses refer to kitharistic preludes and interludes. When the music is heard solo, its characteristic qualities stand out with especial clarity. But to the poet and the audience the obscene under-meaning was perhaps most important»: che i versi ai quali Düring si riferisce siano i vv. 24–25 appare sufficientemente chiaro dall’immediato seguito, nel quale si parla di ἀπέλυσε; vd. però anche Schmid 1946, p. 504 n. 5: «Damit ist wohl Instrumentalmusik ohne Gesang gemeint», in esplicito riferimento a μόνῃ, e più di recente Anderson 1994, p. 134 [«Where music is concerned, it must refer to preludes and interludes on the kithara»]; l’idea è però assai più antica: ne trovo traccia già in Burette 1735, p. 400 [«La Musique marchant seule (μόνη βαδίζουσα) est ici la symphonie des instrumens, qui se fait entendre seule, & sans servir d’accompagnament à la Poësie chantante»] e poi in Heinrich 1801, p. 200, ove il verso è inquadrato all’interno di una prospettiva storico-musicale che riprende la sostanza della presentazione con la quale la fonte introduce al frammento, specie per quanto attiene al sovvertimento del rapporto tradizionale tra parola e musica operato dai novatori [«So lange der Componist noch mit dem Dichter nach einer gegebenen Vorschrift arbeitete, besaß er nicht völlige Freyheit, mit der Musik nach eigener Willkühr zu schalten. So bald aber diese Herren, vom Dichter unabhängig, es mit der Musik allein zu thun hatten, überließen sie sich bloß ihrer Laune und der Sucht, durch neue Erfindungen Aufsehn zu machen. Die Musik beklagt sich daher hier, daß sie am allermeisten entnervt werde, wenn Neuerer, wie Timotheus, sie irgend einmahl allein unter ihre Hände bekämen», un’idea ripresa, più brevemente, da Meineke, FCG II.1, p. 331: Iam enim eo perventum erat ut musici in modulandis carminibus nullis poetarum praeceptis regerentur, sed suo omnia arbitrio agerent]), propone di vedere nel solitario ‘andare a passeggio’ di Musica «un’allusione ai canti monodici astrofici, il cui

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progressivo affermarsi nelle composizioni dell’avanguardia musicale è testimoniato, ad esempio, dalla loro diffusione nel teatro tragico ‘sperimentale’»; e appena oltre: «μόνῃ dovrebbe […] riferirsi a componimenti liberi da responsione strofica» (vd. anche, già prima, Urios-Aparisi 1992, p. 453 [«‘solo’ compositions»]). Credo che vedere in questo verso una specifica allusività di segno musicale sia andare troppo oltre, mentre è perfettamente ragionevole, per una volta, prenderlo a valore facciale e scorgervi non molto più che l’ennesima denuncia delle violenze perpetrate a danno di Musica dai suoi ‘violentatori’, qui, ormai, in una forma che si avvicina propriamente allo stupro: una denuncia tanto più significativa e efficace, per tornare all’idea di Dobrov e Urios-Aparisi già ampiamente discussa in precedenza, quanto più si sia pronti a vedere in Musica non un’etèra, o peggio una prostituta, ma una donna di costumi rispettabili (tanto κἂν ἐντύχῃ quanto που suggeriscono d’altronde con una certa decisione che il fatto di andare a passeggio da sola sia, per Musica, non una pratica abituale, ma un’eccezione, pace Anderson 1994, p. 134 [«The one new point at the end is the picture of Mousike being caught while walking alone, something that respectable Greek women did not risk»: una circostanza che Anderson spiega suggerendo, del tutto inverosimilmente, che, nel frattempo, Musica «has become a prostitute»], accolto da Pöhlmann 2011, p. 131). b) La seconda osservazione riguarda l’inquadramento sintattico dei due aoristi di v. 25 rispetto alla proposizione ipotetica contenuta al verso precedente: una questione, trascurata dai commentatori, che i traduttori del frammento risolvono spesso in termini non soddisfacenti, rendendo il periodo ora come se fosse relativo a un fatto isolato e puntuale, collocato nel passato, ora invece come se Musica intendesse raccontare di essere stata vittima, anche in questo caso nel passato, di episodi seriali di violenza. Solo per portare qualche esempio, partendo da lontano: ‘Si par chemin seule il me rencontroit, / De mes habits il me desaccoustroit’ (Amyot 1572, p. 665); ‘S’il lui arrivoit de me rencontrer en quelque lieu marchant seule, il me relâchoit aussi-tôt, il me démontoit & me partageoit en douze cordes’ (Burette 1735, p. 397); Is solam ubi ambulantem me nactus fuit, / bis sex me nervis laxiorem reddidit (Volkmann 1856, p. 36); ‘Und als ich einst allein ging, übermannt’ er mich, / entblösste mich und band mich mit zwölf Saiten’ (Westphal 1865, p. 54); ‘Et quand il me rencontrait par hasard me promenant seule, il me déshabillait et me mettait en pièces avec douze cordes’ (Weil-Reinach 1900, pp. 125–127); ‘Et s’il venait à me rencontrer me promenant toute seule, il me déliait et m’enlevait ma ceinture … en douze cordes’ (Lasserre 1954, p. 145); ‘E se gli capitava di incontrarmi a passeggio soletta, mi slacciava, mi stracciava la cintura … in dodici corde’ (Gamberini 1979, p. 255); ‘And when he found me out for a walk by myself, he untied me and undid me with his twelve strings’ (Barker 1984, p. 237); ‘E se mi trovava sola per strada, mi spogliava e mi lasciava nuda, lui con le sue dodici corde’ (Comotti 1991, p. 145); ‘E quando mi ha incontrata da sola per strada, mi ha spogliata e mi ha sciolta con dodici corde’ (Conti Bizzarro 1999, p. 131); ‘Quando mi incontrò sola per strada, mi slacciò e mi spogliò con le sue dodici corde’ (Ballerio 2000, p. 95); ‘Mi vide un giorno mentre camminavo da sola per la strada, mi

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slacciò i vestiti e mi spogliò con le sue dodici corde’ (Beta 2009, p. 165). È del tutto evidente, invece, che i due versi vanno tradotti più o meno come segue: ‘E quando per caso gli capiti di incontrarmi mentre vado a passeggio da sola, mi spoglia e mi usa violenza’, a rendere l’idea di episodi ricorrenti, per quanto forse non troppo frequenti. Bene, così, la traduzione latina di Valgulio (Sicubi sit nactus gradientem solam / Solvit, dispescit in duodenos nervos) e la splendida resa di Gandini 1627, p. 143: ‘Costui se in strada gir mi trova sola, / Con due volte sei corde egli mi sbrana’. Vd. poi anche, p. es., Bothe 1855, p. 110 (et si quando mihi ambulanti soli occurrit, / me mergit rursusque extollit chordis duodecim); Einarson - de Lacy 1967, p. 423 (‘And when he finds me on a walk alone / He tears and breaks me with his dozen strings’); Maas 1992, p. 78 (‘and if he chances upon me somewhere as I’m walking alone, he pulls me down and undoes me with twelve [strings or notes]’); Anderson 1994, p. 127 (‘and if he happens on me when I’m out walking by myself […], he strips me and undoes me with his dozen notes’); Olson 2007, p. 439 (‘And if he meets me somewhere, when I’m walking alone, he strips me and undoes me with a dozen strings’); Storey 2011, p. 501 (‘If he meets me when I am out walking by myself, he has me stripped and undone on twelve strings’); Pisani in PisaniCitelli 2017, p. 2219 (‘E se gli capita di trovarmi sola a passeggio, / mi slaccia e mi straccia con le sue dodici corde’). Per quanto si tratti di un fenomeno molto ben descritto nei lavori di riferimento (vd. Kühner-Gerth I, pp. 158–161, § 386.7 [spec. p. 160 s.]: «Wahrheiten und allgemeine Urteile […] sowie Erscheinungen, welche in der Vergangenheit öfters wahrgenommen sind, werden von den Griechen häufig durch den Indikativ des Aorist als etwas einfach Geschehenes, als etwas, das sich einmal in der Vergangenheit ereignete, ausgesprochen» [p. 158 s.], una formulazione che, se vale per i cosiddetti ‘aoristi gnomici’, vale anche per indicativi aoristi che puntino a esprimere non verità generali, ma, come nel nostro caso, fatti esperiti come ricorrenti, a rendere i quali indicativo presente e indicativo aoristo si palesano, in greco, intercambiabili; vd. anche Schwyzer-Debrunner II, p. 282 s. [B IV.4 c γ 5–6]), l’impressione è che l’equivoco sia nato, in coloro che hanno reso il passo in modo scorretto, da una fallace interpretazione dei due aoristi, che qui non ammettono di essere tradotti con un tempo storico, dal momento che esprimono, invece, un’azione a un tempo bruscamente puntuale (si tratta pur sempre di un atto di violenza) e periodica, già datasi in passato e destinata a ripetersi in futuro, ogni volta che si realizzino le condizioni poste nella proposizione secondaria, che spesso, in casi del genere, si presenta, come anche qui, nella forma di proposizione ipotetica (κἂν ἐντύχῃ πού μοι βαδιζούσῃ μόνῃ = ‘tutte le volte che mi incontra mentre sono da sola mi spoglia’ ecc.: come è già successo in passato, come tornerà a succedere in futuro, ove torni a incontrarmi da sola). 26–28 ἐξαρμονίους […] κατεμέστωσε Sui problemi posti dagli ultimi tre versi del frammento in ordine alla loro paternità e al personaggio che vi è preso di mira cfr. supra, Testo. Qui di seguito qualche breve nota di dettaglio che presuppone il puntuale lavoro di analisi svolto da Fongoni 2009, alla quale rimando (vd. anche Fongoni 2014, pp. 25–27).

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26 ἐξαρμονίους ὑπερβολαίους τ’ ἀνοσίους L’accumulazione trimembre di aggettivi è senza dubbio alcuno da riferire a un sostantivo perduto, da immaginare nel contesto immediatamente precedente: forse φθόγγοι, o μεταβολαί, o καμπαί (vd. Fongoni 2009, p. 175, la quale mette in evidenza, opportunamente, come l’aggettivo ἐξαρμόνιος qualifichi, in un luogo precedente del frammento [v. 9], le καμπαί di Cinesia; vd. poi anche Fongoni 2014, p. 27, ove si opta più recisamente per καμπαί; diverso, ovviamente il discorso per coloro [cfr. supra, Testo] che hanno preferito inserire i tre versi nel corpo del frammento, dopo il v. 23, per riferirli, contro il dato contenuto nella fonte, non a Filosseno ma a Timoteo: nel qual caso il referente dei tre epiteti sarebbe il μυρμηκιάς che chiude v. 23). Il τε tra ὑπερβολαίους e ἀνοσίους, a coordinare «the last two units of an otherwise asyndetic series» (Denniston 1954, p. 501), è ovviamente indispensabile, oltre che perfettamente a posto, nonostante l’improvvido intervento di Brunck 1783, p. 172 (ἐξαρμονίοις, ὑπερβολαίοις, ἀνοσίοις / με νιγλάροις, ὥσπερ γε τὰς ῥαφάνους ὅλην / κάμπτων, κατεμέστωσε; espunge τε anche Bothe 1855, p. 111, pur nel quadro di una sistemazione testuale più rispettosa del testo tràdito). L’osservazione non è oziosa, come pure potrebbe apparire a prima vista, considerata la quantità di traduzioni che legano i tre epiteti di v. 26 al νιγλάρους del verso successivo: solo per restringere il campo alle traduzioni italiane più recenti del frammento, vd. Gamberini 1979, p. 255: ‘Mi ha tutta distorta e riempita di fioriture e di vocalizzi acutissimi e infami’; Savino 1991, p. 55: ‘Mi ha tutta distorta e riempito di fioriture e gorgheggi acutissimi e scellerati’ (varrà la pena di notare, però, come tanto Gamberini quanto Savino propongano, con minime varianti, versioni italiane della traduzione francese di Lasserre 1954, p. 145: ‘Il m’a toute tordue et m’a remplie de fioritures et de vocalises suraiguës, infâmes’); Ballerio 2000, p. 97: ‘Trilli acuti, blasfemi, al di fuori dell’harmonía’; Beta 2009, p. 165: ‘Trilli acuti ed empi che vanno oltre i confini dell’armonia’; Pisani in Pisani-Citelli 2017, p. 2219: ‘Trilli sovracuti, dissacranti / e fuori armonia’. Si veda anche, nella medesima direzione, Conti Bizzarro 1999, pp. 131 e 170, ove si sostiene l’idea che i tre epiteti di v. 26 intrattengano «un rapporto intimo e necessario» con νιγλάρους (davvero non si vede, però, come a fondare tale idea possa servire, come ritiene invece Conti Bizzarro, ibid., il coinvolgimento del modello di coordinazione costituito da τε […] καί, che funziona in modo molto diverso). Esemplare, invece, la resa di Restani 1983, p. 190: ‘Di suoni sovrabbondanti, extra-armonici, senza norma, e di vocalizzi all’acuto’. Una possibilità alternativa è quella discussa da Olson 2007, p. 185 s.: mentre ἐξαρμονίους sarebbe da immaginare concordato con «a lost noun in the previous line», la sequenza ὑπερβολαίους τ᾽ ἀνοσίους, coordinata alla precedente dal τε, potrebbe essere interpretata come una serie di sostantivo + aggettivo, a patto di intendere ὑπερβολαίους «as substantival (‘added (notes)’, i. e. ‘treble (notes)’)»: una proposta, problematica soprattutto a causa dell’assenza di paralleli per l’uso sostantivato di ὑπερβολαῖος al maschile, che origina però da una ben fondata preoccupazione di ordine linguistico (se Olson avesse ragione, νιγλάρους, a sua volta coordinato a quanto precede in forza del καί, non creerebbe nessun proble-

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ma a chi volesse interpretarlo come terzo elemento sostantivale, dopo il primo, perduto, concordato con ἐξαρμονίους, e il secondo, ὑπερβολαίους, concordato con ἀνοσίους). L’impressione è che anche la nota di Kaibel riportata da Kassel e Austin in calce al verso (ἀνοσίους haud dubie corruptum, requiritur substantivum cum νιγλάρους iungendum) nasca da una sollecitudine analoga: Kaibel, evidentemente, non prendendo in considerazione l’eventualità di individuare nel contesto perduto subito precedente il sostantivo al quale riferire gli epiteti di v. 26, e non sapendo come immaginare coordinati tali epiteti, stante il contesto sintattico tràdito, al νιγλάρους del verso successivo, immaginava che al posto del terzo dei tre epiteti, ἀνοσίους, avesse dovuto esserci, in origine, un sostantivo coordinato a νιγλάρους in virtù del καί che apre il v. 27. Per ἐξαρμονίους rimando al commento al v. 9. Quanto a ὑπερβολαίους, l’aggettivo, piuttosto che nell’accezione tecnica attestata più tardi nella trattatistica musicale (cfr. p. es. Nicom. Geras. Ench. 11, p. 256, 5 ss. Jan), sarà stato utilizzato da Ferecrate a indicare, in modo più generico, suoni particolarmente acuti (vd. Fongoni 2009, p. 176 s.: «‘suoni sovracuti’, cioè ‘note più acute’ suonate qua e là durante l’esecuzione di un brano»). Di avviso contrario altri, tra i quali Barker 1984, p. 238 n. 205, e Anderson 1994, p. 133. Lynch 2018, pp. 319–322, in linea con l’esegesi complessiva del frammento da lei argomentata nel resto del lavoro, avanza anche in questo caso (non per prima, del resto: vd. p. es. Barker 1984, p. 238 n. 205) un’ipotesi di taglio prettamente tecnico, in virtù della quale l’aggettivo sarebbe da riferire al tetracordo hyperbolaion dei trattatisti, «which in Aristoxenian theory is placed a fourth above the highest note of the central octave, and therefore falls ‘outside’ the range of the traditional harmonia» (p. 319). A partire da questo presupposto, Lynch immagina che le innovazioni di Filosseno siano da individuare nella configurazione di una griglia armonica a tal punto complessa da inglobare tonoi non ancora coinvolti dai predecessori, l’ipodorico e l’ipermisolidio: una griglia armonica capace di produrre una sorta di «unprecedented multiplication of notes, semitones and interval sequences» (p. 320). Una proposta sulla quale, fatto salvo il generale scetticismo che nutro quanto all’applicazione a contesti musicali di quinto secolo di approcci troppo sbilanciati in direzione di codificazioni tecniche più tarde, si potrà ben ragionare, a patto, però, di slegare ὑπερβολαίους da νιγλάρους, che la Lynch ritiene invece in rapporto di concordanza, insieme agli altri due aggettivi di v. 26, come svela la traduzione dei due versi avanzata a p. 319 e ribadita a p. 327 (‘ex-harmonic, hyperbolic and immoral whistly trills’): il che, come si è detto, è contro le ragioni della lingua. Quanto infine a ἀνόσιος, l’aggettivo implica una precisa accusa di empietà, in termini non dissimili da quanto accade in relazione a Cinesia in forza dell’epiteto κατάρατος che gli è associato a v. 8 (cfr. supra, ad loc.), a ribadire, ancora una volta, la densità anche politica delle implicazioni sottese al discorso di Musica. 27 νιγλάρους Il sostantivo (forse di origine onomatopeica: così Fongoni 2009, pp. 177–179; vd. anche Beekes 2010, p. 1020, s. v. νίγλαρος, ove però non si prende posizione quanto all’etimologia) designa al singolare ‘fischi’ o ‘sibili’ (cfr.

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p. es. Ar. Ach. 554 con la nota ad loc. in Olson 2002 [p. 218 s.]), ma ‘trilli’ o ‘gorgheggi’ al plurale, in genere in relazione a contesti musicali (vd. Fongoni 2009, p. 178 s.; quanto all’intervento di Bergk 1838, p. 375, per l’attacco, mutilo, del primo verso di Phryn. fr. 74, 1 K.–A., intervento consistente nel restauro della sequenza 〈καὶ νιγ〉λάρους per il tràdito λάρους, si veda la salutare cautela di Stama 2014, p. 338, il quale, contrariamente a Restani 1983, p. 189 e n. 195, e alla stessa Fongoni, sceglie di stampare e tradurre λάρους [vd. p. 340]). Tra le migliori trattazioni complessive a me note del lemma νίγλαρος segnalo Restani 1983, pp. 186–190; vd. poi anche Conti Bizzarro 1999, p. 170 s. e Rocconi 2003, p. 138 s. 27–28 ὥσπερ τε τὰς ῥαφάνους ὅλην / καμπῶν με κατεμέστωσε La lezione κάμπων tràdita dal codice π2 in luogo di κάμπτων, tramandato dal resto della tradizione manoscritta a eccezione del codice s, che omette il lemma, spinge a prendere in seria considerazione il καμπῶν proposto a suo tempo da Elmsley 1830, p. 64. A sostegno dell’intervento di Elmsley, Fongoni 2009, p. 179, oltre a sottolineare come il verbo μεστόω e i suoi composti si costruiscano di solito con una reggenza al genitivo, ravvisa a ragione nell’ambiguità di καμπῶν (genitivo plurale di καμπή, ma anche di κάμπη) un sapido Witz comico: «il comico gioco di parole tra καμπή (modulazione) e κάμπη (bruco), che al genitivo plurale non sono più distinguibili, doveva risultare ridicolo alle orecchie del pubblico». Se è così, la cruda immagine vegetale con la quale Musica si descrive ‘tutta riempita di bruchi, come i cavoli’ (un’immagine nella quale si è vista spesso [vd., p. es., Borthwick 1968, p. 71, e Fongoni 2009, p. 181 s., poi ripreso in Fongoni 2014, p. 27 n. 6: «L’immagine dei bruchi richiama quella dei tortuosi formicai»] una variante delle μυρμηκιαί coinvolte in relazione ai percorsi erratici e tortuosi della musica di Timoteo, in virtù del loro comune insistere sull’evocazione di fori e cavità: quelle tracciate dalle formiche nei loro nidi, nel primo caso, quelle scavate dai bruchi nel loro erodere i cavoli, nel secondo) nasconderebbe l’ennesima allusione alle distorte pratiche musicali dei novatori (per καμπή rimando al commento al v. 9). Restani 1983, p. 190, preferiva invece ritenere κάμπτων, «interpretando […] come metafora gastronomica» la sequenza ὥσπερ τε ῥαφάνους ὅλην / […] κατεμέστωσε e traducendo come segue: ‘mutandomi (facendo καμπαί), mi farcì ben bene come un cavolo’ (così, già prima Lasserre 1954, p. 174, pur dubitativamente).

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εἰκῆ μ’ ἐπῆρας ὄντα τηλικουτονὶ πολλοῖς ἐμαυτὸν ἐγκυλῖσαι πράγμασιν. ἐγὼ γάρ, ὦνδρες, ἡνίκ’ ἦν νεώτερος, ἐδόκουν μὲν ἐφρόνουν δ’ οὐδέν, ἀλλὰ πάντα μοι κατὰ χειρὸς ἦν τὰ πράγματ’ ἐνθυμουμένῳ· νῦν δ’ ἄρτι μοι τὸ γῆρας ἐντίθησι νοῦν, 〈καὶ〉 κατὰ μίτον τὰ πράγματ’ ἐκλογίζομαι

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2 πολλοῖς Frob.: πολλάκις SMA 3 ἦν SMA: ἦ Meineke 7 καὶ add. Bergk 1851, p. 275 ultimum versum prioribus adnexuit Iacobi apud Meineke FCG V 1, p. lvii

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Inutilmente mi hai spinto, alla mia età, a imbarcarmi in tanti impicci! Io infatti, miei cari, quando ero più giovane credevo di avere senno senza averne neanche un po’, ma ogni soluzione mi era a portata di mano, e giudicavo dalla prima impressione! Proprio ora, invece, la vecchiaia mi ha dato senno e, punto per punto, rifletto sui problemi

[1–6] Stob. IV 50b, 46 vol. V p. 1039 H. εἰκῆ — νοῦν inutilmente — senno [6] Priscian. Inst. Gramm. XVIII 242 (GrL III p. 328, 13) Attici multa per ellipsin proferunt vel pleonasmon. Φερεκράτης ἐν Χείρωσιν (-οσιν codd.) νῦν — νοῦν. nostri quoque ‘nunc nuper’ (Ter. Eun. 9) gli scrittori attici spesso si esprimono per ellissi e pleonasmi. Ferecrate nel Cheirōn: proprio ora — senno. Così anche gli autori latini: nunc nuper (Ter. Eun. 9) [7] Lex. Vind. p. 109, 13 κατὰ μίτον· ἀντὶ τοῦ λεπτῶς τροπικῶς. Φερεκράτης· κατὰ — ἐκλογίζομαι kata miton: allegoricamente utilizzato al posto di leptōs. Ferecrate: punto per punto — problemi

Metro Trimetro giambico

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llkl k|lk|l klkl llkl k|lkl llkl klkl k|lkl klkl kklkkk l|lkl klkl kklkl klk|l llkl llkl klk|l klkl 〈l〉kkkl klk|l klkl

Bibliografia Runkel 1829, p. 59 s.; Meineke FCG I, p. 78; Meineke FCG II.1, p. 338 s.; Meineke 1847, I, p. 119; Iacobi apud Meineke FCG V 1, p. lvii; Bergk 1851, p. 275; Bothe 1855, p. 113; Kock CAF I, p. 191; Urios-Aparisi 1992, pp. 458–462; Conti Bizzarro 1990–1993, pp. 103–107; Tammaro 1995, pp. 186–190; Storey 2011, p. 500 s.

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Contesto della citazione Nell’antologia di Stobeo, i vv. 1–6 del fr. 156 K.–A. sono citati di seguito al fr. 283 K.–A., in un’unica pericope testuale, sotto una comune indicazione di paternità (Φερεκράτους). La risistemazione della citazione di Stobeo in due eclogae distinte e separate (45 e 46), corrispondenti agli attuali frr. 156 e 283 K.–A. di Ferecrate, si deve già a Grozio ed è unanimemente accolta dagli editori moderni (vd. p. es., oltre a Kassel e Austin [ad fr. 283], Runkel 1829, p. 59 s.; Meineke FCG II.1, pp. 338 s. e 359 s.; Meineke 1847, I, p. 119; Bothe 1855, p. 113; Kock CAF I, p. 191). Se per il fr. 156 K.–A. la paternità di Ferecrate è confermata anche da Prisciano, che ne cita il v. 6 (cfr. Inst. Gramm. XVIII 242, a cui dobbiamo anche l’attribuzione al Cheirōn; sulla citazione del v. 6 del frammento nella voce di Prisciano vd. ora Spangenberg Yanes 2017, pp. 290–292), dubbi sull’attribuzione del fr. 283 K.–A. erano stati espressi già da Meineke, per il quale sententiae quidem is color est, ut mediae potius vel novae quam antiquae comoediae poetam decere videatur (FCG II.1, p. 350). Sulla stessa linea si collocano evidentemente anche Kassel e Austin, che stampano il frammento tra i dubia (PCG VII, p. 219). Tornando al fr. 156 K.–A., va notato che il v. 7 corrisponde a un trimetro giambico (tràdito peraltro in forma incompleta: cfr. infra Testo) citato in Lex. Vind. p. 109, 13. Il verso in questione, pur essendo sfuggito agli editori dei frammenti di Ferecrate, era in realtà noto già prima della pubblicazione del Lexicon Vindobonense in quanto incluso nella voce κατὰ μίτον del Dictionarium di Varino Favorino (sulla questione vd. Guida 1982, p. 266), ove si trova attribuito a Ferecrate, pur senza ulteriori indicazioni. La sua associazione in coda al frammento 156 K.–A., proposta da Iacobi (apud Meineke FCG V 1, p. lvii), appare fondata dunque essenzialmente su criteri di contiguità contenutistica, ragionevoli ma per forza di cose non del tutto decisivi (così anche Urios-Aparisi 1992, p. 462). Testo Il testo tràdito da Stobeo non pone, nel complesso, particolari problemi formali: al v. 2 già il Frobenius proponeva la palmare congettura πολλοῖς in luogo dell’ametrico πολλάκις (vd. Meineke FCG II.1, p. 338 e Kassel-Austin ad loc.), mentre in difesa del tràdito ἐγκυλῖσαι si vedano le osservazioni di Meineke FCG I, p. 78. L’integrazione di καὶ all’inizio del v. 7, risalente a Bergk 1851, p. 275, è di fatto non molto più che funzionale a consentire la sutura del verso isolato trasmesso dal Lexicon Vindobonense con i versi precedenti. Interpretazione Il topos della saggezza acquisita con il trascorrere dell’età, ricorrente nella letteratura greca a partire già da Omero (vd. Tosi 1991 p. 303 s. [§ 639]; le occorrenze di ambito tragico e filosofico sono raccolte da Conti Bizzarro 1990–1993, p. 103 s.), non gode di particolare fortuna in contesti comici, dove invece la vecchiaia è generalmente associata a contesti funzionali al riso (un buon parallelo, ma già in ambito di Nea, è costituito da Men. fr. 866 K.–A. [PCG VI 2, p. 410]: εἰ τἆλλ’ ἀφαιρεῖν ὁ πολὺς εἴωθεν χρόνος / ἡμῶν, τό γε φρονεῖν ἀσφαλέστερον ποεῖ): si veda, in tal senso, la raccolta di passi comici inerenti alla vecchiaia allestita da Tammaro 1995 (spec. pp. 186–190; le attestazioni riguardanti la saggezza degli anziani sono raccolte alla voce 2c). Sul rapporto tra saggezza e avanzare dell’età si vedano anche le considerazioni di Urios-Aparisi 1992, p. 462.

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Non è nota l’identità del parlante: mi pare debolissima l’ipotesi proposta, sia pur con cautela, da Pianko 1963, p. 60 s., il quale, sulla scorta dei vv. 14–16 del fr. 155 K.–A., proponeva di attribuire i versi del frammento a Frinide, escludendo nel contempo l’ipotesi che a parlare fosse il centauro Chirone, poiché le fonti mitografiche non mettono in relazione la sua proverbiale saggezza con il progredire dell’età. Quanto alla collocazione originaria del frammento, Urios-Aparisi 1992, p. 459, avanza due ipotesi: i versi in questione potrebbero essere «part of a speech between two characters (ἐπῆρας l. 1 in second person singular), where in a moment the speaker addresses the chorus or the audience», oppure provenire da un monologo inizialmente rivolto «to an absent personage (as in Men. Dys. 639) or to an object (as in Ar. Eccl. 1 ff.), a god, his ‘heart’ or something similar», ma poi progressivamente aperto al coro o al pubblico (ὦ ἄνδρες), in funzione espositiva o, forse, a declinare un’autopresentazione simile a quella contenuta in Phryn. fr. 19 K.–A. (Dēmotai), per il quale rinvio a Comentale 2017, pp. 135–144. 1 εἰκῆ μ’ ἐπῆρας L’attacco del frammento potrebbe avere una coloritura paratragica: si vedano, in tal senso, le attestazioni discusse da Conti Bizzarro 1990–1993, p. 105 s. (ὦ δεινὰ δράσας […] / τίς σ’ ἐπῆρε δαιμόνων; [Soph. OR 1327 s.] e οὔτοι μ’ ἐπαρεῖς [Eur. Suppl. 581]). ὄντα τηλικουτονί Il nesso ricorre anche a Ar. Eq. 881 e Nub. 819. Sul valore dello -ί deittico in commedia cfr. supra, ad fr. 107 K.–A. (Interpretazione). 2 ἐγκυλῖσαι Piuttosto frequenti in commedia sono le attestazioni di κυλίνδω/ κυλινδέω (‘to roll, turn over’: Beekes 2010 s. v. κυλίνδω) e composti (cfr. p. es. Ar. Vesp. 492 e Eccl. 208 κυλίνδεται, Av. 501 s. προκυλινδεῖσθαι […] ἐκυλινδούμην: vd. Dunbar 1995, p. 343 s.]), di solito utilizzati in senso metaforico. In Ar. Ran. 536 μετακυλίνδω è impiegato nell’allegoria della vita umana come navigazione (vd. Del Corno 1985, pp. 185–187), topos letterario ricorrente tanto in commedia (cfr. p. es. Ar. Vesp. 477 s. κακοῖς τοσούτοις ναυμαχεῖν ὁσημέραι) quanto in tragedia (vd. Breitenbach 1934, p. 149; vd. inoltre Taillardat 1965, p. 46 [§ 39]; Martínez Hernández 1978, p. 126; già in Omero κυλίνδω ricorre nel contesto di similitudini: cfr. p. es. Il. XI 307–309 e XIV 16–22). Nel verso di Ferecrate, il verbo (al pari del composto εἰσκυλίνδειν, attestato in Aristofane [Eccl. 651, 767]) sembra equivalere a un sinonimo espressivo di ἐμβάλλειν (vd. Taillardat 1965, p. 323 [§ 558]). 3 ἐγὼ […] ἦν In tragedia e in commedia, per la prima persona singolare dell’imperfetto di εἰμί sono attestate, in contesti metricamente garantiti, sia la forma ἦν (più recente e generalmente ricorrente nella tradizione dei tragici e di Aristofane), sia la forma ἦ (forma più antica, risultato della contrazione di ἦα). Laddove il metro lo consenta, generalmente gli editori moderni restaurano ἦ in luogo del tràdito ἦν. Tuttavia, in sei passi di Euripide (Alc. 655, Hipp. 1012, HF 1416, Ion 280, Hel. 992, IA 944) e in tre versi del Pluto di Aristofane (29, 695 e 822) l’attestazione di ἦν è certa metri causa. La graduale affermazione di ἦν in luogo di ἦ nella lingua del teatro attico sembra databile tra la fine del quinto e l’inizio del quarto secolo (così Barrett 1964 ad Eur. Hipp. 700 [p. 292 s.], Stevens 1971 ad Eur.

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Pherekrates

Andr. 59 [p. 101] e Fraenkel 1964, p. 429): tenendo quindi conto della datazione bassa del Cheirōn (cfr. supra, Datazione), Kassel e Austin preferiscono, forse a ragione, conservare la forma tràdita, ἦν, al restauro di ἦ proposto da Meineke (FCG II.1, p. 339). 4 ἐδόκουν μέν, ἐφρόνουν δ’ οὐδέν In traduzione accolgo l’interpretazione del verso fornita da Kock: ἐδόκουν ‘mihi videbar’ φρονεῖν δηλονότι (Kock CAF I, p. 191; così, mi pare, anche LSJ9 s. v. δοκέω I, 1, ove il verso si trova citato come esempio per il significato di ‘think, suppose, imagine’), ovvero ‘I seemed to myself to be wise, but I was not’ (Urios-Aparisi 1992, p. 460). Sull’accostamento antitetico tra δοκέω e φρονέω cfr. Soph. Aj. 942 σοὶ μὲν δοκεῖν ταῦτ’ ἔστ’, ἐμοὶ δ’ ἄγαν φρονεῖν, con il relativo commento ad loc. di Finglass 2011, p. 410. Meno convincente mi pare l’interpretazione (discussa da Urios-Aparisi 1992, loc. cit.) di δοκεῖν inteso in senso assoluto (‘have or form an opinion’: LSJ9 s. v. δοκέω I, 2) unito a φρονεῖν con il valore di ‘essere saggio’ (vd. Pope 1974, p. 108, e Urios-Aparisi 1992, p. 460): se così fosse, il verso andrebbe tradotto con ‘avevo le mie opinioni, ma non ero affatto saggio’. Diversamente, Conti Bizzarro 1990–1993, p. 104, riprendendo la traduzione di Del Grande (in Marzullo 1955, p. 31: «pure non sapendo nulla, avevo l’impressione di sapere»), intendeva ἐδόκουν μέν, ἐφρόνουν δ’ οὐδέν come «pur non capendo nulla, davo l’impressione di capire» (p. 104). 5 κατὰ χειρὸς L’espressione κατὰ χειρὸς (ὕδωρ) indica propriamente l’acqua con cui i commensali si lavano le mani prima del pasto (cfr. p. es. Ar. Vesp. 1216 e Av. 403, Alex. fr. 263, 2 K.–A.). In un frammento di Teleclide (fr. 1, 2 K.–A.), la iunctura κατὰ χειρὸς ὕδωρ ha evidentemente valore proverbiale, anche se è difficile comprendere nel dettaglio il senso della formulazione (vd. Bagordo 2013, p. 57 s.); nel frammento di Ferecrate, a ogni modo, essa sembra avere un significato analogo all’italiano ‘a portata di mano’ (‘ready to hand’ secondo UriosAparisi 1992, p. 461). 6 νῦν δ’ ἄρτι […] ἐντίθησι νοῦν Un analogo esempio di improvvisa presa di coscienza ricorre in Ar. Lys. 1008 (ἄρτι νυνὶ μανθάνω: vd. Henderson 1987a, p. 187). 7 κατὰ μίτον L’espressione (tratta dall’ambito della lingua tecnica della tessitura: Urios-Aparisi 1992, p. 462), pur non essendo registrata in raccolte paremiografiche, potrebbe possedere valenza proverbiale: cfr. Polyb. III 32, 2 (διαναγνῶναι βύβλους τετταράκοντα χαθαπερανεὶ κατὰ μίτον έξυφασμένας) e Cic. ad Att. XV 16, 3 (ut mihi κατὰ μίτον scriberet). ἐκλογίζομαι Il verbo indica la riflessione analitica che precede e indirizza l’azione: si veda, in tal senso, la discussione di Conti Bizzarro 1990–1993, p. 104 n. 37, a proposito di Hdt. III.1, 3 (ταῦτα δὴ ἐκλογιζόμενος ἐποίησε τάδε).

Χείρων (fr. 157)

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fr. 157 K.–A. (147 K.) νὴ τὸν Δί’ ὥσπερ αἱ παροψίδες τὴν αἰτίαν ἔχουσ’ ἀπὸ τῶν ἡδυσμάτων, †οὓς ὁ καλετας† ἀξιοῖ τοῦ μηδενός 1 ὡσπερ〈εὶ〉 γὰρ αἱ παροψίδες Meineke 1867, p. 162: 〈οὗτοί γ’〉 ὥσπερ Kaibel 1887, II, p. 304: 〈ὀρθῶς〉 ὥσπερ Peppink 1936, p. 55 3 αὐτοὺς δ’ ὁ καλέσας ἀξιοῖ Kaibel 1887, II, p. 304

per Zeus, come i contorni si giudicano in base agli aromi, † che … † valgono zero Athen. IX p. 38 B καὶ παρὰ τῷ τὸν Χείρωνα δὲ πεποιηκότι τὸν εἰς Φερεκράτην ἀναφερόμενον ἐπὶ ἡδύσματος ἡ παροψὶς κεῖται καὶ οὐχ, ὡς Δίδυμος ἐν τῷ περὶ παρεφθορυίας λέξεως (fr. 1 Schmidt), ἐπὶ τοῦ ἀγγείου. φησὶ γάρ· νὴ — μηδενός anche presso l’autore del Cheirōn attribuito a Ferecrate paropsis indica l’accompagnamento alle vivande e non, come sostiene Didimo nelle Alterazioni del linguaggio (fr. 1 Schmidt), le stoviglie. Dice infatti: per Zeus — zero

Metro Trimetro giambico (il primo mutilo di un piede, il terzo corrotto)

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Bibliografia Runkel 1829, p. 59; Meineke FCG II.1, p. 336 s.; Meineke 1847, I, p. 119; Meineke 1867, p. 162; Kock CAF I, p. 191; Kaibel 1887, p. 304; Peppink 1936, p. 55; Edmonds 1957, p. 266 s.; Urios-Aparisi 1992, pp. 463–466; Storey 2011, p. 502 s. Contesto della citazione I tre versi sono riportati da Ateneo nell’ambito di una lunga discussione (IX 367 B - 368 D) sul significato del termine παροψίς: ‘pietanza’ (di vario tipo: cfr. infra), ma anche ‘piatto da portata’. Il frammento di Ferecrate testimonia, insieme a Plat. Com. frr. 32 K.–A. (Heortai), 43 K.–A. (Eurōpē) e 190 K.–A. (Phaōn), Ar. fr. 191 K.–A. (Daidalos), Nicoph. fr. 22 K.–A. (Seirēnes), l’utilizzo del termine per indicare generi alimentari, mentre in altri autori (citati da Ateneo a partire da IX p. 368 B) designerebbe stoviglie utilizzate per il pasto. L’utilizzo di παροψίς nel senso di ‘piatto da portata’ è tuttavia attestato con certezza solo nel greco di koinē (vd. Urios-Aparisi 1992, p. 463 s.; Arnott 1996, p. 236 s. e Ateneo II, p. 920 n. 3) ed è ritenuto non attico da Frinico (cfr. Phryn. 147 Fischer e praep. soph. p. 103, 10–11 de Borries), Meride (Moer. π 15 Hansen) e Fozio (π 448 Theodoridis), anche se è sostenuto, oltre che da Ateneo, da Polluce (X 87 s.), forse

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Pherekrates

anche da Oro (fr. B 131 Alpers, dove il testo è corrotto ma facilmente emendabile: cfr. Alpers, 1981, p. 247) e da Esichio (λ 571 Latte e π 1001 Hansen). Sui problemi di paternità del Cheirōn si veda quanto osservato supra, nella sezione dedicata alla datazione della commedia. Testo La caduta di un piede non compromette la comprensione del primo verso. Anche se, come osservato già da Meineke (FCG II.1, p. 337), non è possibile individuare con certezza la collocazione della lacuna all’interno del verso, si è generalmente preferito intervenire subito prima o subito dopo ὥσπερ: così, tra gli altri, lo stesso Meineke (ὡσπερ〈εὶ〉 γὰρ αἱ παροψίδες: Meineke 1867, p. 162), Kaibel (〈οὗτοί γ’〉 ὥσπερ: Kaibel 1887, II, p. 304) e Peppink (〈ὀρθῶς〉 ὥσπερ: Peppink 1936, p. 55), mentre Runkel 1829, p. 59, si limitava a segnalare lacuna tra ὥσπερ e αἱ παροψίδες. Per quanto concerne il terzo verso, invece, non sembrano convincenti i vari tentativi (registrati da K.–A. in apparato) di sanare il testo tràdito: la congettura di Kaibel αὐτοὺς δ’ ὁ καλέσας ἀξιοῖ (Kaibel 1887, II, p. 304) appare la più economica tra quelle proposte (altri, più radicali, interventi sul testo tràdito sono discussi in Peppink 1936, p. 55 e in Urios-Aparisi 1992, p. 463 s.). Interpretazione La presenza di ὥσπερ suggerisce il fatto che le παροψίδες dovevano essere implicate in una similitudine. Secondo Kock il confronto avrebbe chiamato in causa i boni mores, senza i quali pulchritudo per se sola nullius pretii est (Kock CAF I, p. 19), mentre per Kaibel nei versi di Ferecrate videntur cum obsoniis parasiti comparari (Kaibel 1887, II, p. 304). Anche se entrambe le ipotesi mancano di riscontri decisivi, l’utilizzo metaforico di παροψίς è un elemento comune a molti dei frammenti citati da Ateneo: in Plat. Com. fr. 43 K.–A. (Eurōpē) le παροψίδες indicano i preliminari del rapporto sessuale (vd. Taillardat 1965, p. 104 n. 1; Henderson 1991, p. 144 [§ 172]; Pirrotta 2009, pp. 119–121, alla quale rimando anche per un’analisi complessiva del frammento, e Ingrosso 2014, p. 96 s.), mentre in Ar. fr. 191 K.–A. (Phaōn) è l’amante di una donna a essere definito una παροψίς (lo stesso valore traslato pare attestato, peraltro, anche in Plat. Com. fr. 190 K.–A.: vd. Pirrotta 2009, p. 367 e Ingrosso 2014, p. 97, n. 22). Tra i passi riportati da Ateneo a testimonianza dell’uso di παροψίς nel senso di ‘piatto da portata’ (cfr. infra), il sostantivo è utilizzato in senso figurato in Sot. Com. fr. 3 K.–A. (Paralytroumenos), probabilmente in relazione a contesti politici (vd. Kock CAF II, p. 449 s.). 1 νὴ τὸν Δί(α) L’espressione rientra nella categoria degli “assertive idioms” (Willi 2003, p. 13 s.): cfr. supra, ad fr. 117, 1 K.–A. (Myrmēkanthrōpoi). αἱ παροψίδες In senso proprio, la parola identifica genericamente un alimento di accompagnamento alla portata principale, di carne o di pesce (cfr. supra, Contesto della citazione): salse, contorni, ma anche alimenti preparati con ricette singolari e innovative, vere e proprie fantasie culinarie servite in aggiunta a cibi tradizionali (si vedano, in tal senso, le testimonianze raccolte da Pellegrino 1998, p. 332).

Χείρων (fr. 158)

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2 τὴν αἰτίαν ἔχουσ(αι) Sul valore dell’espressione (chiaro già a Casaubon 1621, p. 639, 32: αἰτίαν ἔχειν Graecis significat nonnumquam idem ac ‘dici’, ‘nominari’ et κατηγορεῖσθαι) vd. Urios-Aparisi 1992, p. 464 s. ἀπὸ τῶν ἡδυσμάτων Il sostantivo è utilizzato per indicare in modo generico spezie e aromi, sia freschi che essiccati (vd. Olson-Sens 2000, p. 101 e Wilkins 2000, p. 46). Liste di tali ingredienti sono piuttosto comuni in commedia: cfr. p. es. Antiph. fr. 140 K.–A. (Leukadios); Alex. frr. 132, 4–8 K.–A. (Lebēs) e 179, 3–10 K.–A. (Pannychis ē Erithoi) e Anaxipp. fr. 1, 7–8 K.–A. (Enkalyptomenos).

fr. 158 K.–A. (148 K.) ἀμυγδάλας καὶ μῆλα καὶ μιμαίκυλα καὶ μύρτα καὶ σέλινα κἀξ οἴνου βότρυς καὶ μυελόν mandorle e mele e corbezzoli e bacche di mirto e sedano e uva nel vino e… midollo Athen. XIV p. 653 E οἴδασιν δὲ οἱ πρὸ ἡμῶν καὶ τοὺς ἐν οἴνῳ συντιθεμένους βότρυς […] ὁ δὲ τὸν Χείρωνα πεποιηκὼς τὸν εἰς Φερεκράτην ἀναφερόμενόν φησιν˙ ἀμυγδάλας — μυελόν le generazioni precedenti alla nostra conoscevano anche l’usanza di conservare l’uva nel vino […] l’autore del Cheirōn attribuito a Ferecrate dice: mandorle — midollo

Metro Trimetri giambici

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Bibliografia Runkel 1829, p. 59; Meineke FCG II.1, p. 338; Meineke 1847, I, p. 119; Bothe 1855, p. 191 s.; Kock CAF I, p. 112 s.; Edmonds 1957, p. 266 s.; Conti Bizzarro 1990–1993, p. 107; Urios-Aparisi 1992, pp. 466–470; Storey 2011, p. 502 s. Contesto della citazione Il frammento è citato, insieme a Eub. fr. 48 K.–A. (Katakollōmenos), come testimonianza dell’antica abitudine di conservare affogati nel vino i grappoli d’uva destinati al consumo alimentare. Interpretazione Il frammento è costituito da un’enumerazione di cibi, retoricamente enfatizzata dall’utilizzo del polisindeto e dalla ripetizione anaforica della congiunzione καί. Ad eccezione del midollo (μυελόν, per il quale cfr. infra), i cibi elencati sono tutti vegetali appartenenti alla categoria dei τραγήματα, utilizzati quindi più come accompagnamento al vino durante il simposio che come portata autonoma durante il pasto (per analoghe accumulazioni comiche di τραγήματα

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Pherekrates

vd. Spyropoulos 1974, p. 88). Si tratta, ad ogni modo, di pietanze particolarmente prelibate, come dimostra la frequente attestazione di mele, corbezzoli, bacche di mirto, sedano e uva conservata nel vino in contesti comici riferibili a evocazioni del paese di Cuccagna (cfr. infra). Per alcuni dei termini citati (μῆλα, μιμαίκυλα, μύρτα e σέλινα), inoltre, è attestato l’utilizzo in chiave metaforica nella descrizione, con valenza marcatamente erotica, di parti del corpo femminile. Secondo UriosAparisi i versi in questione «could be part of a description either of a banquet or of a shopping list or scene» (Urios-Aparisi 1992, p. 466), ma mancano elementi concreti per ipotizzare collocazione e funzione del frammento all’interno del dramma. 1 ἀμυγδάλας Le mandorle (sull’etimologia e sulla prosodia di ἀµυγδάλη vd. Stama 2014, p. 310 e Bagordo 2016, p. 95) compaiono in un elenco di τραγήματα anche in Diph. fr. 80, 1 K.–A. (Telesias); altre attestazioni comiche sono invece inerenti alla proverbiale durezza del loro guscio (vd. Bagordo 2016, p. 95, ad Ar. fr. 605 K.–A. [inc. fab.], e Stama 2014, p. 336, ad Phryn. fr. 64 K.–A. [inc. fab.]). Più in generale, sull’utilizzo alimentare delle mandorle nel panorama greco vd. García Soler 2001, pp. 123–124, e Bagordo 2016, p. 95, mentre per le presunte virtù medicinali del frutto si veda Stama 2014, p. 311. μῆλα καὶ μιμαίκυλα I due frutti sono associati da Cratete comico rispettivamente ai seni e ai capezzoli femminili (cfr. fr. 43 K.–A. [inc. fab.], per il quale rimando a Bonanno 1972, p. 149; Henderson 1991, p. 148 s. [§ 200], e Perrone 2019, pp. 197–200). Sulle attestazioni comiche di μῆλον /μῆλα cfr. supra ad fr. 113, 26 K.–A. (Metallēs); sulle implicazioni erotiche del frutto in commedia vd. anche Perrone 2019, p. 199. Per quanto concerne il corbezzolo, invece, una sezione di Ateneo (II p. 53 E-F) è dedicata ai frutti e all’arbusto: tra i frammenti comici ivi citati (e discussi da García Soler 2001, p. 118), Ar. fr. 698 K.–A. (inc. fab.) sembra riconducibile a un contesto di Schlaraffenland (si vedano, in tal senso, le osservazioni di Pellegrino 2015, p. 698; le attestazioni del corbezzolo nella letteratura medica ed erudita, invece, sono raccolte e discusse da Papachrysostomou 2016, p. 244). 2 μύρτα Il mirto era largamente utilizzato, in Grecia, per la produzione di corone destinate ai più vari contesti (cfr. supra, ad fr. 113, 25 K.–A. [Metallēs], a cui rimando anche per la connessione tra pianta e mondo ctonio; sull’aspetto cultuale in relazione ad Afrodite vd. invece Pellegrino 2000, p. 188 s.; in generale vd. Blech 1982, p. 472 s. v. ‘Myrte’). Per quanto concerne l’impiego culinario, il mirto veniva utilizzato per la produzione di olii e di vini aromatizzati (per μύρσινον ἔλαιον e οἶνος μυρτίτης vd. Pellegrino 2000, p. 188), mentre le bacche sono citate come τραγήματα in Diph. fr. 80, 1 K.–A. (Telesias), dove compaiono insieme a mandorle e focacce, e in Theopomp. fr. 68 K.–A. (inc. fab.). Più in generale, il consumo alimentare delle bacche di mirto è testimoniato anche da Aristofane (cfr. Pac. 575–578 e fr. 581 K.–A. e vd. García Soler 2001, p. 118; ulteriori attestazioni in Olson 1998, p. 193 [ad Ar. Pac. 575]). Sul piano metaforico, in Ar. Lys. 1004 e in Plat. Com. fr. 188, 14 (Phaōn) il sostantivo indica i genitali femminili (sull’immagine si vedano le considerazioni di Taillardat 1965, p. 76; Henderson 1991, p. 134 s. [§ 125] e Totaro 1993, p. 560 s.).

Χείρων (fr. 159)

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σέλινα Il sedano, che compare già in Omero nelle descrizioni di giardini idealizzati (cfr. Il. II 776 e Od. V 72), era utilizzato soprattutto per la realizzazione di corone destinate a vincitori agonali, ai partecipanti di banchetti e simposi, o per ragioni cultuali (soprattutto in relazione a dèi e a defunti: vd. il materiale raccolto da Urios-Aparisi 1992, p. 468). In commedia il sedano può alludere oscenamente ai genitali femminili (cfr. supra, ad fr. 138, 3 K.–A. [Persai]), ma compare anche in elenchi di cibarie: cfr. p. es. Ar. Nub. 982 e Cratin. fr. 116, 3 K.–A. (Nemesis). In generale, tuttavia, il consumo alimentare sembra legato per lo più alle sue presunte virtù medicinali: vd. Andrews 1949, p. 99. κἀξ οἴνου βότρυς Oltre che nel frammento in questione e in quello di Eubulo contestualmente citato da Ateneo, il consumo di uva conservata nel vino sembra testimoniato anche da Pherecr. fr. 137, 6 K.–A. (cfr. supra, ad loc.). Più in generale, sull’importanza dell’uva nell’alimentazione ateniese si veda la bibliografia raccolta da Pellegrino 2000, p. 180 s. 3 μυελόν La presenza del midollo nell’enumerazione di dessert è certamente problematica (illud quomodo hic aptum sit me fateor nescire, chiosava Runkel 1829, p. 59) ma forse non del tutto fuori posto, qualora si tenga conto del sapore dolciastro dell’alimento e della fama di cibo squisito e ricercato testimoniata da Plut. Glor. Ath. 6, p. 349 A (οἱ δὲ χορηγοὶ τοῖς χορευταῖς ἐγχέλεια καὶ θρίδακα καὶ σκελίδας καὶ μυελὸν παρατιθέντες κτλ.). Il passo di Plutarco, chiamato in causa per la prima volta, almeno a quanto mi risulta, da Meineke in difesa del tràdito μυελόν contro la congettura κἄμυλον proposta da Bergk (apud Meineke FCG II.1, p. 338), è citato anche da Bothe 1855, p. 191 s., e da Kock (CAF I, p. 112 s.). Mandorle, midollo di bue e mirto sono peraltro i componenti essenziali di una ricetta menzionata in Hipp. Nat. Mul. 100 e Mul. I 34 (i passi sono discussi da Conti Bizzarro 1990–1993, p. 107). Tra gli editori moderni, il solo Edmonds 1957, p. 266 n. 3, ritiene sospetto il testo del frammento. La presenza di un prodotto animale, al termine di una elencazione che include esclusivamente frutta e ortaggi, potrebbe dipendere da una qualche forma di Witz (per esempio un aprosdoketon) per noi oscuro a causa del taglio della citazione e della conseguente perdita del contesto immediatamente successivo.

fr. 159 K.–A. (149 K.) (A.) δώσει δέ σοι γυναῖκας ἑπτά Λεσβίδας (B.) καλόν γε δῶρον, ἕπτ’ ἔχειν λαικαστρίας (A.) Darà a te sette fanciulle di Lesbo. (B.) Bel dono davvero, sette succhiatrici!

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Pherekrates

Schol. (VEΘBarb) Ar. Ran. 1308b Chantry (Tzetz. IV 3, p. 1069, 14 Koster) λεσβιάζειν δὲ τὸ παρανόμως πλησιάζειν. διεβάλλοντο γὰρ ἐπὶ τούτῳ οἱ Λέσβιοι. καὶ ἐν τῷ εἰς Φερεκράτην ἀναφερομένῳ Χείρωνι· δώσει — λαικαστρίας. lesbiazein significa accoppiarsi contro natura: di questo infatti erano accusati i Lesbii. Anche nel Cheirōn attribuito a Ferecrate si dice: darò — succhiatrici Eust. in Il. p. 741, 19 περὶ τοῦ […] λεσβιάζειν […] οὗ χρῆσις καὶ παρὰ τῷ κομικῷ (Ran. 1308) […] γράφουσιν οἱ παλαιοὶ καὶ ταῦτα (Suet. Π. βλασφ. c. 13 p. 62 s. Taillardat). εἰσὶ βλασφημίαι καὶ ἀπὸ ἐθνῶν καὶ πόλεων καὶ δήμων πολλαὶ ῥηματικῶς πεποιημέναι […] ἐκ πόλεων δέ, οἷον λεσβιάζειν, τὸ αἰσχροποιεῖν, εἶτα παραγαγόντες Φερεκράτους χρῆσιν ἐν ἰάμβῳ τὸ δώσει — Λεσβίας, ἐπάγουσιν ἀμοιβαῖον τὸ καλόν — λαικαστρίας. a proposito di […] lesbiazein […] impiegato anche da Aristofane (Ran. 1308) […] gli antichi scrivono anche quanto segue (Suet. Π. βλασφ. c. 13 p. 62 s. Taillardat): ci sono molti insulti formati da verbi tratti dagli etnici, dai nomi di città e di popolo […] un esempio di insulto tratto da nomi di città è lesbiazein, cioè compiere un atto turpe; come esempio se ne adduce l’uso che ne fa Ferecrate nel trimetro: darà — di Lesbo, aggiungendo la replica: bel — succhiatrici

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Bibliografia Runkel 1829, p. 60; Meineke FCG I, p. 77 s. e II.1, p. 339; Meineke 1847, I, p. 119 s.; Schmid 1946 p. 106 n. 3; Edmonds 1957, p. 266 s.; Gentili 1973, p. 125 s.; Jocelyn 1980, p. 14 s.; Conti Bizzarro 1990–1993, p. 107 s.; Urios-Aparisi 1992, p. 471; Storey 2011, p. 502 s.; Storey 2014, p. 109 Contesto della citazione Lo scoliaste alle Rane ed Eustazio citano il frammento in relazione al verbo λεσβιάζειν a riprova dell’associazione tra la provenienza da Lesbo e la pratica del sesso orale. Per il significato di λεσβιάζειν/λεσβίζειν prima nella lirica arcaica e poi in commedia si vedano, almeno, Goebel 1915, p. 87; Henderson 1991, p. 184 (§ 381); Dover 1978, p. 182, e Dover 1993, p. 351 s.; ulteriore bibliografia è raccolta da Orth 2008, p. 198. Analoghe formazioni verbali ricorrono frequentemente in commedia: cfr. p. es. ἐγκιλικίζειν (Pherecr. fr. 176 K.–A. [inc. fab.]: vd. Urios-Aparisi 1992, p. 495 s.) e αἰγυπτιάζειν (Cratin. fr. 53 K.–A. [inc. fab.] e Ar. Thesm. 922: vd. Sofia 2016, pp. 86–88). Più in generale, su formazione, attestazioni e valore dei verbi etnonimi in -ίζω si veda ora il materiale raccolto e discusso da Tronci 2015. Malgrado qualche minima oscillazione tra le due fonti che riportano il frammento (registrate in apparato da Kassel e Austin [PCG VII p. 184]), il testo proposto in PCG corrisponde a quello pubblicato dagli editori moderni, con la sola eccezione di Runkel 1829, p. 60. La pericope di testo attribuita da Taillardat a Svetonio era stata precedentemente ricondotta da Nauck ad Aristofane di Bisanzio (vd. Nauck 1848, pp. 178–180 = fr. 24). Interpretazione Già da Runkel (Runkel 1829, p. 60; vd. anche Meineke, FCG I, p. 77 s. e II.1, p. 339; vd. anche Storey 2011, p. 502 s.) i due versi sono stati conside-

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rati una parodia comica delle parole rivolte da Odisseo ad Achille (Il. IX 270–271 δώσει δ’ ἑπτά γυναῖκας ἀμύμονα ἔργα ἰδυίας / Λεσβίδας): le sette fanciulle sono uno dei doni promessi da Agamennone ad Achille, se tornerà a combattere contro i Troiani (più recentemente, l’ipotesi è stata accolta, a vario titolo, anche da Edmonds 1957, p. 266 s.; Urios-Aparisi 1992, p. 470; Magnelli 2004, p. 157 s., e Storey 2011, p. 495). La ripresa del materiale omerico (evento, di per sé, piuttosto frequente in commedia: cfr. i passi raccolti da Olson 2007, p. 158) non mi sembra garantire il fatto che le due battute possano essere attribuite rispettivamente a Odisseo e ad Achille: contro tale ipotesi, sostenuta da Meineke, Edmonds e Storey (oltre al già citato Storey 2011, p. 495, si veda anche Storey 2014, p. 109), Jocelyn osservava che «none of the comic personages who use them [scil. λαικάζειν, λαικαστής e λαικάστρια] is demonstrably a free-born, city-dwelling, property-owning conventionally educated male»; l’ipotesi che il secondo frammento del verso sia da ascrivere ad Achille andrebbe dunque riconsiderata, dal momento che il condottiero Mirmidone è caratterizzato nel mito da un’educazione e da un’istruzione superiori a quelle degli altri eroi achei (Jocelyn 1980, p. 14 s.; dubbi in tal senso erano stati già espressi, peraltro, da Schmid 1946, p. 106 n. 3). In realtà, a prescindere dalla connotazione socio-linguistica di λαικάστρια, mi sembra che sia piuttosto la totale mancanza di ulteriori riscontri a suggerire una certa prudenza nell’attribuzione delle battute: se la parodia di Omero è un dato assodato, il contesto in cui essa aveva luogo resta irrimediabilmente perduto e non mi pare da escludere a priori la possibilità che la marcata volgarità di λαικαστρίας potesse chiudere lo scambio di battute con un effetto di aprosdoketon rispetto alla dotta ripresa di materiale epico, o che invece il secondo verso del frammento possa essere attribuito a un Achille ridotto per detorsio comica a volgare e rozzo personaggio. 1–2 Λεσβίδας […] λαικαστρίας Oltre che per la bellezza (come emerge, tra l’altro, dai versi omerici parodiati da Ferecrate) e per la loro indipendenza e autonomia (cfr. Luc. Dial. Mer. 5), le donne di Lesbo erano note per la pratica della fellatio (vd. Goebel 1915, p. 86 s.; Dover 1993, p. 351 s.; Henderson 1991, p. 184 [§§ 381 e 383]) e dunque, più in generale, della prostituzione: «Fellatio was a service regularly provided by prostitutes», nota Olson 2002, p. 211 (ἐκ τριῶν λαικαστριῶν); sulla questione si vedano anche le considerazioni di Dover 1978, p. 182 n. 36. Le numerose attestazioni comiche di tale uso sono raccolte da Gentili 1973, p. 125 s. La connessione con Λεσβίδας, comunque, mi pare rendere certa, nel frammento, l’allusione alla pratica del sesso orale; in maniera più sfumata, invece, Urios-Aparisi osservava, a proposito di λαικαστρίας, che «the word seems to designate in general ‘prostitute’» (Urios-Aparisi 1992, p. 472). Le testimonianze antiche sul collegamento tra la provenienza da Lesbo e la pratica sessuale della fellatio sono raccolte e discusse da Orth 2009, p. 198. 2 καλόν γε La particella γε sembra imprimere una sfumatura sarcastica all’esclamazione (così già Conti Bizzarro 1990–1993, p. 108). Sul valore ironico di γε si vedano le recenti osservazioni di Venturelli 2017, p. 41 n. 12 (ancora prezioso, però, Denniston 1954, p. 198). Accanto a Eur. Cycl. 555 (citato da K.–A. in apparato

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e discusso da Urios-Aparisi 1992, p. 472), paralleli per un tale uso possono essere rintracciati, in Euripide, anche altrove: p. es. Or. 417 (vd. p. es. la nota di Biehl 1965 ad loc. [p. 49]) e Iph. Taur. 1212. fr. 160 K.–A. (150 K.) ἔξεισιν ἄκων δεῦρο πέρδικος τρόπον verrà qui controvoglia, come fa la pernice Athen. IX p. 388 F (πέρδιξ) τοῦ δὲ ὀνόματος αὐτῶν ἔνιοι συστέλλουσι τὴν μέσην συλλαβήν … πολὺ δέ ἐστι τὸ ἐκτεινόμενον παρὰ τοῖς Ἀττικοῖς … Φερεκράτης ἢ ὁ πεποιηκὼς τὸν Χείρωνα· ἔξεισιν — τρόπον (pernice) alcuni abbreviano la sillaba centrale del sostantivo […] presso gli autori attici si registra però di frequente un allungamento della sillaba […] Ferecrate, o l’autore del Cheirōn: verrà — pernice

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Bibliografia Runkel 1829, p. 59; Meineke FCG II.1, p. 337; Meineke 1847, I, p. 119; Edmonds 1957, p. 266 s.; Slater 1986 ad Ar. Byz. fr. 346, p. 118 s.; Conti Bizzarro 1990–1993, p. 109 s.; Urios-Aparisi 1992, p. 472 s.; Arnott 2007, p. 256; Storey 2011, p. 502 s. Contesto della citazione Il frammento è tramandato da Ateneo insieme a Soph. fr. 323 R., Phryn. Com. fr. 55 K.–A. e Nicoph. fr. 9 K.–A. come testimonianza dell’allungamento della sillaba centrale del tema di πέρδιξ (-δῑ-) presso gli autori attici: altrove, invece (cfr. Archil. fr. 224 W2 e Epich. fr. 73 K.–A.), essa è di norma breve (-δῐ-; sulla questione prosodica si vedano le osservazioni di Slater 1986, p. 118 s., ad Ar. Byz. fr. 346). La citazione del trimetro di Ferecrate non è però del tutto perspicua in funzione del problema del quale si occupa la fonte: nel frammento, infatti, o almeno in quanto ne resta, πέρδῑκος non appare metricamente garantito. Slater (loc. cit.) suggerisce la possibilità che tale discrasia dipenda dai termini in cui Ateneo potrebbe aver rielaborato la formulazione originaria di Aristofane di Bisanzio: «Pherecrates fr. 150 does not prove that the middle syllable is short or long; perhaps Aristophanes phrased himself negatively: i. e. there was no Attic writer who certainly used πέρδικος with a short iota» (Slater 1986, p. 119). Interpretazione Secondo Urios-Aparisi (che propone il confronto con Ar. Nub. 632 s.) il verso «seems to be a description of how someone gets on stage» (UriosAparisi 1992, p. 472). La similitudine con la pernice sembra far riferimento a un’espressione proverbiale, non registrata dalla tradizione paremiografica superstite (vd. Arnott 2007, p. 256), ma che trova fondamento nell’atteggiamento del

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volatile, che quando è minacciato da cacciatori preferisce restare a terra, tra i cespugli, piuttosto che alzarsi in volo («the reluctance to leave the nest is a marked characteristic of the partridge», chiosava Edmonds 1957, p. 266 n. 7). πέρδικος Il sostantivo identifica la pernice greca (Alectoris graeca Meisner), il cui consumo alimentare (vd. García Soler 2001, p. 259 n. 242) è attestato sia ad Atene (cfr. Antiph. fr. 295, 1 K.–A. [inc. fab.]; Eub. fr. 120, 1 K.–A. [inc. fab.]; Ephipp. fr. 15, 8 K.–A. [Homoioi ē Obeliaphoroi]) che a Roma (cfr. Mart. III 58, 15; XIII 65, 1–2 e 76, 1–2). Più in generale, per le attestazioni comiche del volatile vd. Arnott 2007, p. 255. Attributi tradizionali della pernice erano la furbizia (a cui allude l’espressione proverbiale πέρδικος σκέλος, per cui rimando a Conti Bizzarro 1990–1993, p. 110; Urios-Aparisi 1992, p. 472 s.; Kanavou 2011, p. 195; Stama 2014 ad Phryn. fr. 55 K.–A. [Tragōdoi ē Apeleutheroi], p. 282 s., e Pellegrino 2015, p. 65 ad Ar. fr. 57 K.–A. [Anagyros]), la velocità (per cui vd. da ultimo Pellegrino 2015, p. 298, ad Ar. fr. 512 K.–A. [Tagēnistai]) e la lascivia (cfr. i passi citati da Arnott 2007, p. 254). fr. 161 K.–A. (151 K.) τοῖς δέκα ταλάντοις ἄλλα προσθήσειν ἔφη 〈 〉 ἄττα πεντήκοντα 1 ἄλλα Schol.: ἀλλὰ Et. προσθήσειν Kaibel ap. K.–A.: προστίθησιν Schol.: προθῇς Et. 1–2 a l k l τοῖς δέκα ταλάντοις προστίθης {ἔφη} / ἄλλ’ ἄττα Runkel 1829, p. 60: τοῖς δέκα ταλάντοις 〈τοῖσδε〉 προστιθείς, ἔφη, / ἄλλ’ ἄττα Cobet 1858, p. 278 2 〈ὀλίγ’〉 ἄττα Kock CAF I, p. 192 s.: :: 〈πόσ’〉 ἄττα; :: dub. Kassel (PCG VII, p. 185)

Ai dieci talenti dice che ne aggiungerà altri 〈 〉 altri cinquanta Schol. (T) Plat. Soph. p. 220 A (p. 42 Gr.) (ἄττα) ἐνίοτε δὲ ἐκ τοῦ περιττοῦ προστίθεται, ὡς ἐν Χείρωνι Φερεκράτης· τοῖς — πεντήκοντα. οὐδὲν γὰρ σημαίνει ἐνταῦθα τὸ ἄττα talvolta atta è aggiunto in maniera pleonastica, come fa Ferecrate nel Cheirōn: ai dieci — cinquanta. In questo passo, infatti, atta non significa nulla Et. magn. p. 167, 40 (ἄττα) σημαίνει μὲν τὸ τινά, ψιλούμενον· δασύνεται δὲ τὸ ἅτινα […] Φερεκράτης δὲ ἐν Χείρωνι (ἐκ χειρῶν τοῖς codd.) ἐπ’ ἀριθμοῦ· τοῖς — πεντήκοντα atta senza aspirazione significa tina; con aspirazione, invece, hatina. Ferecrate nel Cheirōn, in relazione a un numero: ai dieci — cinquanta

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Bibliografia Runkel 1829, p. 60; Meineke FCG II.1, p. 339 s.; Meineke 1847, I, p. 120; Cobet 1858, p. 278; Kock CAF I, p. 151 s.; Edmonds 1957, p. 266 s.; UriosAparisi 1992, p. 473; Storey 2011, p. 502 s. Contesto della citazione In entrambe le fonti il frammento viene citato nel contesto di una discussione inerente al differente significato di ἄττα (= τινά) e ἅττα (= ἅτινα); la tradizione scoliastica di Platone, tuttavia, registra più specificatamente le parole di Ferecrate come testimonianza dell’uso pleonastico del pronome. Kassel e Austin riconducono al frammento di Ferecrate anche Phot. α 3124 Theodoridis = Suid. α 4304 = Lex. Bachm. p. 161, 15 (αττα· τινὰ ἢ ἅτινα […] τῶν δὲ κωμικῶν τις τὸ αττα ἐπὶ ἀριθμοῦ ἔταξεν). Testo Il frammento è tramandato in forma incerta e lacunosa. Il testo stabilito da Runkel 1829, p. 60 (cfr. supra, apparato), costituisce il punto di partenza degli interventi posteriori: la collocazione della lacuna all’inizio del secondo verso è accolta anche da K.–A., mentre meno convincenti appaiono la trasposizione di ἄλλα (proposta da Cobet 1858, p. 278, il quale ricostruiva il testo del frammento proponendo τοῖς δέκα ταλάντοις 〈τοῖσδε〉 προστιθείς, ἔφη, / ἄλλ’ ἄττα, «quasi dicas: Hisce talentis decem si pauxillulum addideris, nempe quinquaginta alia talenta») e l’espunzione di ἔφη, con l’attribuzione del verbo non al frammento ma alle fonti, in quanto predicato di Φερεκράτης: vd. Edmonds 1957, p. 266. Tra le possibili integrazioni raccolte da K.–A., segnalo la ricostruzione proposta in apparato da Kock (τοῖς δέκα ταλάντοις ἄλλα προστιθείς ἔφη / 〈ὀλίγ’〉 ἄττα πεντήκοντα [CAF I, p. 19 s.]) e quella di Kassel (τοῖς δέκα ταλάντοις ἄλλα προσθήσειν ἔφη / :: 〈πόσ’〉 ἄττα; :: πεντήκοντα, a sostegno della quale Urios-Aparisi 1992, p. 473, cita Ar. Ran. 172 s.), in cui tuttavia ἄττα perderebbe il valore pleonastico notato dalla tradizione scoliastica platonica. Per ulteriori interventi vd. Conti Bizzarro 1990–1993, p. 108 s. Interpretazione L’assetto testuale incerto e la perdita del contesto rendono impossibile ricostruire la collocazione originaria del frammento. La roboante cifra di cinquanta talenti («a ridiculously large number»: MacDowell 1971, p. 223 [ad Ar. Vesp. 669]) compare in Aristofane (oltre che nel citato v. 669 delle Vespe a Thesm. 811) per indicare una quantità di denaro iperbolicamente elevata, corrispondente a «25–30 times what a skilled workman might make in the course of a long lifetime, 10 times the amount Cleon is alleged to have received at Ach. 6 (…), two-andhalf times what Demosthenes was convicted of taking from Alexander’s fugitive treasurer Harpalus» (Biles-Olson 2015, p. 295).

fr. 162 K.–A. (152, 153 K.) μηδὲ σύ γ’ ἄνδρα φίλον καλέσας ἐπὶ δαῖτα θάλειαν ἄχθου ὁρῶν παρεόντα˙ κακὸς γὰρ ἀνὴρ τόδε ῥέζει˙ ἀλλὰ μάλ’ εὔκηλος τέρπου φρένα τέρπε τ’ ἐκεῖνον

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ἡμῶν δ’ ἤν τινά τις καλέσῃ θύων ἐπὶ δεῖπνον, ἀχθόμεθ’ ἢν ἔλθῃ καὶ ὑποβλέπομεν παρεόντα χὤττι τάχιστα θύραζ’ ἐξελθεῖν βουλόμεθ’ αὐτόν. εἶτα γνούς πως τοῦθ’ ὑποδεῖται, κᾆτά τις εἶπε τῶν ξυμπινόντων “ἤδη σύ; τί οὐχ ὑποπίνεις; οὐχ ὑπολύσεις αὐτόν;” ὁ δ’ ἄχθεται αὐτὸς ὁ θύων τῷ κατακωλύοντι καὶ εὐθὺς ἔλεξ’ ἐλεγεῖα˙ “μηδένα μήτ’ ἀέκοντα μένειν κατέρυκε παρ’ ἡμῖν μήθ’ εὕδοντ’ ἐπέγειρε, Σιμωνίδη.” οὐ γὰρ ἐπ’ οἴνοις τοιαυτὶ λέγομεν δειπνίζοντες φίλον ἄνδρα;

6 χὅττι A: corr. Dindorf 1827, II, p. 797 θύρας A: Cobet 1858, p. 150 s. 12 ἐποίνοις A: ἐπ’ οἴνοις Musurus 1514, p. 364: ἐν οἴνοις dub. Meineke FCG II.1, p. 336: alii alia

E tu che hai invitato un amico a un ricco banchetto non sopportare a malincuore che sia venuto: questo è un comportamento da uomo malvagio. Piuttosto stai sereno, rallegrati in cuore e festeggialo. 5

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Se qualcuno tra noi celebra un sacrificio e invita qualcuno a banchetto, ci disturbiamo se lui viene, lanciamo sguardi biechi finché rimane e desideriamo che quanto prima se ne vada. Poi se lui se ne accorge e si allaccia i sandali, e allora uno dei convitati dice: “Di già? Perché non resti a bere un altro po’ con noi? Togligli i calzari!”, colui che sta celebrando il sacrificio si infastidisce con quello che lo trattiene e subito cita un brano di elegia: “Non trattenere nessuno controvoglia perché resti tra noi e non svegliare chi dorme, Simonide”. Mentre beviamo non diciamo forse così, quando invitiamo un amico?

Athen. VIII p. 364 A ἐπὶ νοῦν οὐ λαμβάνοντες τὰ εἰρημένα ὑπὸ τοῦ τὸν Χείρωνα πεποιηκότος, εἴτε Φερεκράτης ἐστὶν εἴτε Νικόμαχος ὁ ῥυθμικὸς ἢ ὅστις δή ποτε, μηδὲ — ἐκεῖνον. νῦν δὲ τούτων μὲν οὐδ’ ὅλως μέμνηνται, τὰ δ’ ἑξῆς αὐτῶν ἐκμανθάνουσιν, ἅπερ πάντα ἐκ τῶν εἰς Ἡσίοδον ἀναφερομένων μεγάλων Ἠοίων καὶ μεγάλων Ἔργων πεπαρῴδηται (παρωίδ- A, corr. Meineke 1867, p. 161)˙ ἡμῶν — ἄνδρα non tenendo presenti le parole dell’autore del Cheirōn, sia che fosse Ferecrate o Nicomaco Ritmico o chiunque altro egli sia, e tu — lui. Al giorno d’oggi nessuno davvero si ricorda di questi versi, mentre invece si imparano a memoria questi che seguono, che sono tutti una parodia delle Grandi Eoie e delle Grandi Opere attribuite a Esiodo: se qualcuno di noi — un amico

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Bibliografia Dindorf 1827, II, p. 197; Runkel 1829, p. 58; Meineke FCG II.1, p. 335 s.; Meineke 1847, I, p. 118; Cobet 1858, p. 150 s.; Edmonds 1957, pp. 266– 269; van Groningen 1966, p. 188 s.; Urios-Aparisi 1992, pp. 473–478; Olson 2007, pp. 297 s. e 318–320; Storey 2011, pp. 502–505; Stamatopoulou 2017, p. 190–192 Contesto della citazione Nei Deipnosofisti i due gruppi di versi sono citati in relazione al declino del galateo ospitale: secondo Mirtilo, la condotta adeguata e corretta da parte dell’ospite che allestisce il banchetto, descritta nei primi tre esametri, non è più seguita dai suoi contemporanei, che invece adottano ormai un comportamento inelegante, scortese e sgarbato, esemplificato dalla citazione del secondo blocco di versi. Ad eccezione di Runkel 1829, p. 58, che stampa tra i frammenti di Ferecrate soltanto i vv. 1–3, gli editori moderni attribuiscono al Cheirōn l’intera citazione di Ateneo. Problematica l’identificazione dell’ipotesto che Ferecrate avrebbe parodiato a partire dal v. 4: nella pericope πάντα ἐκ τῶν εἰς Ἡσίοδον ἀναφερομένων μεγάλων Ἠοίων καὶ μεγάλων Ἔργων viene infatti generalmente identificato un doppio titolo esiodeo (Grandi Opere, o Grandi Eoie) altrimenti sconosciuto. Sotto il nome di Esiodo nell’antichità circolavano invece, seppur con qualche dubbio di attribuzione, due poemi distinti: le Grandi Opere e le Grandi Eoie. Poiché delle Grandi Opere sopravvivono due soli frammenti (peraltro trasmessi da fonti tarde: cfr. frr. 286–287 M.-W.), resta inverificabile l’ipotesi di Marckscheffel 1840, p. 188 s., per il quale il titolo Grandi Opere sarebbe da riferire a un’edizione unitaria di tutti i poemi didattici attribuiti ad Esiodo, incluse le Χείρωνος ὑποθῆκαι (sulla questione vd. anche, molto più di recente, Cingano 2009, p. 129): proprio a un passo dei Praecepta Chironis alluderebbe, secondo Schwartz 1960, p. 245 s., la parodia di Ferecrate. Anche per quanto concerne le Grandi Eoie (frr. 246–262 M.-W.), il quadro che emerge da fonti e frammenti è piuttosto nebuloso: «the main issue is whether the title refers to an independent poem, or else to an expanded version of the Ehoiai featuring parts that for different reasons were not included in that poem, or whether it should simply be intended as a different way to indicate the same poem» (Cingano 2009, p. 118; sulla questione, e più in generale sui problemi posti dai frammenti superstiti, vd., dopo Marckscheffel

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1840, pp. 102–112, Hirschberger 2004, pp. 27–29, e D’Alessio 2005, pp. 177–188). Si tratta, comunque, di un’opera che dovette avere presumibilmente una circolazione piuttosto limitata (del tutto condivisibili, in tal senso, mi sembrano le riflessioni di Cingano 2009, p. 119 sulle fonti dei frammenti superstiti). Ad ogni modo, l’aporia costituita dal doppio titolo esiodeo citato da Ateneo è stata variamente risolta: Dindorf 1827, II, p. 797, conserva a testo la menzione delle Grandi Eoie espungendo dal testo di Ateneo καὶ μεγάλων Ἔργων, mentre Merkelbach e West (seguiti da Olson 2007, p. 139) stampano la pericope dei Deipnosofisti tra le testimonianze delle Grandi Opere, eliminando il riferimento alle Grandi Eoie. Mi chiedo, però, se il testo di Ateneo, così come trasmesso dai codici, non nasconda invece una corruttela meno evidente, tale da far apparire come un doppio titolo quello che in origine poteva essere un riferimento a due opere distinte e separate: poiché i versi successivi costituiscono la parodia di un precetto ospitale comune e diffuso (cfr. infra, Interpretazione), non mi pare da escludere a priori l’ipotesi che i versi di Ferecrate potessero suonare, alle orecchie di Ateneo, come una «imitazione distorta con intento ironico, dissacratore» (Ateneo II, p. 911 n. 4) di due differenti passi esiodei. Vista l’esplicita testimonianza di Ateneo, mi pare meno probabile l’ipotesi che l’ipotesto della parodia dovesse essere identificato nei versi dei Praecepta Chironis, come sostenuto da Friedländer 1913, p. 571 s. e Kurke 1990, p. 102 n. 70. Poiché i primi tre versi del frammento mostrano ascendenze epiche molto più evidenti rispetto ai versi del secondo blocco (che peraltro palesano una tangibile contiguità con la precettistica parasimposiale di stampo elegiaco, resa evidente da una citazione di Teognide: cfr. infra Interpretazione), Olson avanza l’ipotesi che fossero in realtà le Grandi Eoie ad essere parodiate nei primi tre versi del frammento («it is tempting to think that Athenaeus (or the textual tradition of the Deipnosophists) has somehow got things backwards and that the first three verses rather than the final ten are adapted from a passage in Hesiod»: Olson 2007, p. 319; più prudentemente, secondo Stamatopoulou 2017, p. 192, «lines 1–3 may paraphrase closely a Hesiodic precept about hosting, which lines 4–13 then proceed to subvert»). Come che sia, la perdita del passo esiodeo chiamato in causa dalla fonte e l’assenza di altre informazioni sulla contestualizzazione del frammento e sul suo ruolo nell’economia del dramma non permettono di verificare ed eventualmente rettificare le indicazioni di Ateneo, che pure appare di per sé problematica: se davvero i vv. 4–13 dovevano costituire una parodia di versi di Esiodo, sarebbe davvero singolare che tale parodia includesse, a sua volta, la citazione di due esametri tratti dal corpus theognideum. Malgrado l’impossibilità di delinearne ulteriormente i rapporti, resta comunque certa la compresenza nello stesso frammento di materiale ascrivibile in qualche modo a Esiodo e materiale teognideo: l’accostamento può almeno in parte essere spiegato tenendo conto del fatto che le fonti utilizzano il termine ὑποθῆκαι per descrivere tanto l’opera di Esiodo quanto quella di Teognide (cfr. p. es. Isocr. 2, 43 σημεῖον δ’ ἄν τις ποιήσαιτο τὴν Ἡσιόδου καὶ Θεόγνιδος καὶ Φωκυλίδου ποίησιν […] αἱροῦνται συνδιατρίβειν ταῖς ἀλλήλων ἀνοίαις μᾶλλον ἢ ταῖς ἐκείνων ὑποθήκαις), evidentemente accomu-

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nate, almeno dalle nostre fonti, da un medesimo intento formativo-prescrittivo (sulla letteratura di stampo precettistico, in relazione alla quale la figura mitica del centauro Chirone, dalla quale la commedia prendeva il suo titolo, assume un aspetto emblematico, e sui suoi possibili influssi sul Cheirōn di Ferecrate segnalo l’interessante intervento della dottoressa Sara de Martin nell’ambito del secondo convegno internazionaleThe Forgotten Theatre, tenutosi a Torino nei giorni 28–30 novembre 2018: la ringrazio di cuore per la grande gentilezza e disponibilità con la quale mi ha permesso di utilizzare il testo del suo intervento, in attesa dell’uscita a stampa degli atti del convegno. Sull'utilizzo dell'esametro in commedia di quinto secolo segnalo inoltre che è di prossima uscita, tra i ‘Quaderni’ di «SemRom», il volume di Andrea Marcucci I frammenti esametrici dell'Archaia. Traduzione e commento). Testo La tradizione manoscritta di Ateneo trasmette il frammento in forma coerente e nel complesso corretta. Tra i principali interventi, al v. 6 sono unanimemente accolti dagli studiosi gli emendamenti χὤττι di Dindorf (in luogo del tràdito χὅττι) e θύραζ(ε) di Cobet, a sostegno del quale Kassel e Austin citano un verso di Teognide che sembra costituire il modello della formulazione di Ferecrate (Theogn. 468 μηδὲ θύραζε κέλευ’ οὐκ ἐθέλοντ’ ἰέναι, cfr. infra, χὤττι τάχιστα θύραζ’ ἐξελθεῖν βουλόμεθ’ αὐτόν). L’avverbio θύραζε («poetic vocabulary» secondo Olson 2002, p. 170, ad Eup. fr. 172, 13 [Kolakes]) è poco comune in prosa (prima di Aristotele, ricorre solo nel corpus hippocraticum) e in tragedia (presente solo in Euripide: vd. anche le osservazioni d Biles–Olson 2015, p. 107), mentre è frequente in commedia: cfr. p. es., oltre agli esempi di Kolakes e Vespe appena citati, Ar. Ach. 358; Eq. 365, 507; Vesp. 272; Nub. 632, 1384. Al v. 12, in luogo del tràdito ἐποίνοις, privo di senso, Kassel e Austin accolgono a testo la congettura ἐπ’ οἴνοις di Musuro («‘over our wine’, i. e. ‘while we are drinking’»: Olson 2007, p. 320) sulla scorta di Plat. Symp. 214 b λέγομεν ἐπὶ τῇ κύλικι. Ugualmente valida, mi sembra, è la proposta ἐν οἴνοις di Meineke: ai paralleli da quest’ultimo chiamati in causa (FCG II.1, p. 336) andrà aggiunto almeno Ar. Lys. 1227 (ἡμεῖς δ’ ἐν οἴνῳ συμπόται σοφώτατοι); ulteriori interventi, meno economici, sono raccolti da Kassel e Austin in apparato. Interpretazione La parodia di materiale esiodeo è pratica comune in commedia: cfr. p. es. Cratin. fr. 349 K.–A. (inc. fab.), per il quale vd. Olson-Seaberg 2018, p. 138 s.; Ar. Av. 693–702 (la cosiddetta ‘Teogonia degli Uccelli’: vd. Dunbar 1995, p. 437 s.) e fr. 239 K.–A. (Daitalēs), in cui viene parodiato un verso delle Χείρωνος ὑποθῆκαι (vd. Pellegrino 2015, p. 160); altri frammenti sono raccolti e discussi da Olson 2007 (i passi sono indicizzati sotto C1 [p. 125]). Nel nostro frammento la modalità di citazione, il contenuto e la sintassi sembrano indicare che i due blocchi di versi citati non fossero in origine consecutivi. I primi tre versi presentano aspetti formali e lessicali fortemente epicizzanti, il che spingeva già Meineke a ipotizzare che Ferecrate citasse Esiodo ad verbum (locum hunc […] Pherecrates fortasse ne verbo quidem mutato ex Hesiodeo carmine recepit [FCG II.1, p. 335]); in una direzione analoga anche Stamatopoulou 2017,

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p. 192, per la quale «lines 1–3 may paraphrase closely a Hesiodic precept about hosting». L’evidente scarto stilistico e contenutistico tra i primi tre versi, costruiti attraverso il reimpiego di formule epiche e una lingua fortemente epicizzante, e il seguito del frammento, che, di composizione più fluida e meno tradizionale, sembra avere come modello di riferimento esplicito piuttosto l’elegia che l’epica, ha indotto Urios-Aparisi a una distinta proposta di attribuzione di battuta: i vv. 1–3, in cui viene introdotta una norma di comportamento usuale in relazione all’invito degli ospiti a banchetto, sarebbero stati pronunciati da Chirone (così anche Olson 2007, p. 319), mentre i successivi «could be ironically said by a parasite who thinks that the fact of being rejected from banquets is due to the moral decadence» (Urios-Aparisi 1992, p. 474; sullo scarto linguistico vd. anche p. 476 e Olson 2007, p. 319). Questo secondo intervento si sviluppa inizialmente in forma quasi speculare al primo, con i versi 4 e 5 che si contrappongono antiteticamente a quanto espresso nei primi tre, proponendo un galateo simposiale deformato e scorretto, fondato però su norme e riferimenti canonici, sia pur volutamente formulati in una chiave distorta. Il padrone di casa, infatti, a forza di occhiatacce convince l’ospite invitato, ma indesiderato, ad andar via ed è pronto a frenare le obiezioni di un altro commensale citando, con qualche aggiustamento (cfr. infra, μήτ’ ἀέκοντα) una pericope desunta dalla silloge teognidea (v. 11 s.): si tratta di due esametri (Theogn. 467, 469) provenienti da distici contigui, che nella parodia di Ferecrate finiscono per presentarsi giustapposti, mancando il pentametro che in Teognide li separa. Tale omissione non si spiega esclusivamente con la necessità di adeguare materiale elegiaco a una sequenza di esametri kata stichon: l’adattamento infatti cancella un sintagma (Theogn. 468 μηδὲ θύραζε κέλευ’ οὐκ ἐθέλοντ’ ἰέναι i. e. ‘non mettere alla porta l’invitato che ancora non vuole andar via’) che descrive un comportamento simmetricamente opposto a quello tenuto dal rozzo padrone di casa evocato da Ferecrate. Mi pare ragionevole presupporre che almeno la parte più avveduta del pubblico identificasse con precisione la citazione, riconoscendo negli esametri due versi estrapolati dal corpus teognideo (anche grazie all’indicazione di Ferecrate, che riconduce esplicitamente i due versi a un contesto elegiaco: vd. infra, ἐλεγεῖα), cogliendo allo stesso tempo il Witz determinato dall’omissione del pentametro; a un livello più elementare, gli spettatori avranno di certo riconosciuto nei vv. 11–12 almeno il riutilizzo generico di materiale elegiaco metasimposiale, comicamente distorto per proporre un comportamento del tutto opposto a quanto previsto dal galateo e dal buon senso. La perdita del contesto non permette di ricostruire i motivi (se mai ve ne fossero) di ostilità tra il padrone di casa e l’ospite indesiderato: secondo Olson 2007, p. 319, «the most likely explanation is that the man is a dependent of some sort, and the repeated reference to him as a φίλος (1, 13) thus represents a pointed attempt to insist that he ought to be treated as such, despite his inferior social status, at least at dinner or a symposium». 1–2 μηδὲ σύ […] ἄχθου […] κακὸς γὰρ ἀνὴρ τόδε ῥέζει Per μηδὲ σύ in incipit di esametro cfr. Il. X 237, l’oracolo 95, 8 Parke-Wormell e Theogn. 1031 s. (μηδὲ σύ γ’ ἀπρήκτοισιν ἐπ’ ἔργμασιν ἄλγος ἀέξον / αὔχει μηδ’ αἴσχεα). Chi con-

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sideri il distico di Teognide come modello diretto della formulazione di Ferecrate (così Urios-Aparisi 1992, p.  474) accoglie a 1032 una forma di imperativo di ἄχθομαι (ἄχθου è trasmesso da parte della tradizione manoscritta): la pericope, ad ogni modo, è corrotta e la presenza dell’imperativo tutt’altro che sicura. Più generalmente, la negazione μηδέ è utilizzata frequentemente nelle Opere esiodee per introdurre prescrizioni in negativo: cfr. p. es. 744 s. μηδέ ποτ’ οἰνοχόην τιθέμεν κρητῆρος ὕπερθεν / πινόντων· ὀλοὴ γὰρ ἐπ’ αὐτῷ μοῖρα τέτυκται, e 759 μηδ’ ἐναποψύχειν· τὸ γὰρ οὔ τοι λώιόν ἐστιν, dove compare in correlazione con γάρ. Per le attestazioni di μηδέ per formulare ingiunzioni o ordini in Aristofane vd. Denniston 1954, p. 190 s. ἐπὶ δαῖτα θάλειαν In Omero e in epica arcaica δαῖτα θάλειαν è attestato in fine di esametro (Il. VII 475, Od. III 420, hymn. Herm. 480, dove ricorre anche l’aggettivo εὔκηλος, attestato nel v. 3 del nostro frammento; cfr. anche Hes. Op. 742 μηδ’ ἀπὸ πεντόζοιο θεῶν ἐν δαιτὶ θαλείῃ). Il sintagma ἐν δαιτὶ θαλείῃ ricorre peraltro a fine verso anche in Hermipp. fr. 77, 11 K.–A. (inc. fab.), in un contesto di evidente parodia epica (vd. Urios-Aparisi 1992, p. 475 e Comentale 2017, pp. 313–315). Il termine δαίς in Omero designa genericamente il banchetto, mentre qui si riferisce probabilmente a un banchetto sacrificale (cfr. θύων ai vv. 4 e 9; così anche Urios-Aparisi 1992, p. 474 s.). ἄνδρα φίλον καλέσας Sulla norma etica di invitare a banchetto gli amici tenendo lontani i nemici cfr. Hes. Op. 342 τὸν φιλέοντ’ ἐπὶ δαῖτα καλεῖν, τὸν δ’ ἐχθρὸν ἐᾶσαι, ricordato già da K.–A. ad loc., e vd. West 1978, p. 245. 2 ῥέζει In Omero il verbo ricorre spesso in fine di verso: cfr. p. es. Il. V 403 (σχέτλιος ὀβριμοεργὸς ὃς οὐκ ὄθετ’ αἴσυλα ῥέζων), XI 502 (Ἕκτωρ μὲν μετὰ τοῖσιν ὁμίλει μέρμερα ῥέζων); Od. VI 286 (καὶ δ’ ἄλλῃ νεμεσῶ, ἥ τις τοιαῦτά γε ῥέζοι), XXΙΙ 158 (καὶ φράσαι, ἤ τις ἄρ’ ἐστὶ γυναικῶν, ἣ τάδε ῥέζει). In commedia, invece, ῥέζω è attestato soltanto in Epicharm. fr. 106 K.–A. (Odysseus). 3 ἀλλὰ μάλ’ εὔκηλος τέρπου φρένα τέρπε τ’ ἐκεῖνον Sull’utilizzo di ἀλλά per esprimere una prescrizione in positivo dopo un’ingiunzione al negativo cfr. Hes. Op. 733–736 (μηδ’ αἰδοῖα γονῇ πεπαλαγμένος ἔνδοθι οἴκου / ἱστίῃ ἐμπελαδὸν παραφαινέμεν, ἀλλ’ ἀλέασθαι / μηδ’ ἀπὸ δυσφήμοιο τάφου ἀπονοστήσαντα / σπερμαίνειν γενεήν, ἀλλ’ ἀθανάτων ἀπὸ δαιτός); più in generale, per ἀλλά con imperativo vd. Denniston 1954, p. 19. L’intero esametro è costituito dalla ricombinazione di materiale epico: il primo segmento (ἀλλὰ μάλ’ εὔκηλος) costituisce un incipit di esametro già in Il. I 554 (vd. Kirk 1985, p. 111). Per l’idea di τέρπειν/ τέρπεσθαι φρένα (sintagma tipicamente omerico) cfr. p. es. Il. I 474 ὃ δὲ φρένα τέρπετ’ ἀκούων; Od. IV 102 ἄλλοτε μέν τε γόῳ φρένα τέρπομαι, ἄλλοτε δ’ αὖτε / παύομαι; hymn. Herm. 565 τὴν αὐτοῦ φρένα τέρπε (= Mimn. fr. 7, 1 W2 = Theogn. 795). 4–5 ἡμῶν δ’ ἤν τινά τις καλέσῃ […] ἐπὶ δεῖπνον / ἀχθόμεθ’ ἢν ἔλθῃ […] παρεόντα I versi 3 e 4, mentre descrivono un atteggiamento diametralmente opposto a quello descritto nel v. 1 s., ne costituiscono un evidente riecheggiamento sul piano formale e del lessico: all’espressione σύ […] καλέσας ἐπὶ δαῖτα θάλειαν

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di v. 1 corrisponde ἡμῶν […] καλέσῃ […] ἐπὶ δεῖπνον del v. 3, mentre il v. 4 ἀχθόμεθ’ ἢν ἔλθῃ […] παρεόντα riprende l’incipit del v. 2 ἄχθου ὁρῶν παρεόντα (vd. anche Olson 2007, p. 320). Non essendo nota la persona loquens, è impossibile stabilire a chi si riferisse il partitivo ἡμῶν: mi pare però poco probabile che ad essere chiamati in causa fossero i centauri compagni di Chirone (così ipotizza, invece, Stamatopoulou 2017, p. 191). ὑποβλέπομεν Il verbo, attestato in commedia anche in Ar. Thesm. 396 e Lys. 519, indica l’osservare qualcuno con ostilità o sospetto: «a way of looking with the eyes nearly closed to stare at someone more fixedly», secondo Urios-Aparisi 1992, p. 476; «‘give a narrow glance’ + acc.; normally an expression of hostility or suspicion» (Austin-Olson 2004, p. 180). 6 χὤττι τάχιστα θύραζ’ ἐξελθεῖν βουλόμεθ’ αὐτόν Kassel e Austin accostano il verso a Theogn. 468 μηδὲ θύραζε κέλευ’ οὐκ ἐθέλοντ’ ἰέναι i. e. ‘non mettere alla porta l’invitato che ancora non vuole andar via’. Il verso di Ferecrate e il pentametro di Teognide illustrano due comportamenti diametralmente opposti: screanzato e malaccorto il primo, del tutto in linea con i normali precetti di galateo simposiale il secondo. Non a caso, infatti, quando più avanti (v. 11 s.) il rozzo padrone di casa tenterà di giustificare il proprio inelegante comportamento citando a sproposito due versi di Teognide, dopo aver pronunciato Theogn. 467 passerà direttamente a 469, omettendo 468: i due esametri infatti, artatamente riferiti alla situazione descritta dal frammento, possono fornire una sorta di giustificazione al comportamento del padrone di casa; se venisse citato anche il pentametro compreso tra i due esametri, invece, diverrebbe patente la violazione del galateo appena compiuta. Nella formulazione del v. 6 il pubblico avrà certo colto immediatamente l’evocazione di una deviazione dal comune galateo ospitale; è anche possibile che il riferimento a questa esplicita violazione servisse a indirizzare l’attenzione degli spettatori verso il contesto elegiaco che stava per essere chiamato in causa; tuttavia, sarebbe sbagliato, credo, imbastire un legame troppo diretto tra i due versi, immaginando magari che la recitazione del v. 6 potesse costituire per gli spettatori un’allusione chiara e diretta a Theogn. 468. A ciò si oppone, a mio parere, un ragionamento fondato sulle modalità di fruizione del dramma antico da parte del pubblico. Innanzitutto, l’unico punto di contatto formale tra il v. 6 del frammento di Ferecrate e Theogn. 468 è l’avverbio θύραζε: si tratta di un avverbio (vd. supra, Testo) che in commedia è frequentemente attestato in una pluralità di occorrenze senza che abbia connotazioni stilistiche particolarmente significative, se si esclude una generica attinenza a contesti stilisticamente elevati. L’avverbio, inoltre, nel testo di Ferecrate è frutto di congettura. D’altra parte, immaginare che alla recitazione in scena del v. 11 s. l’attenzione del pubblico ritornasse al v. 6, notando a posteriori un’eco (in fondo flebile) del pentametro omesso, significherebbe probabilmente, a mio avviso, andare oltre i confini della verosimiglianza. 7 ὑποδεῖται Sull’utilizzo assoluto del verbo (‘slacciarsi i calzari’) cfr. Ar. Av. 492 (e vd. Dunbar 1995, p. 337). Sull’abitudine di banchettare scalzi vd. Hunter 1983, p. 123, ad Eub. fr. 29, 3 K.–A. (Dionysios).

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8 ὑποπίνεις Mentre in commedia il verbo acquista, generalmente, una valenza ironicamente eufemistica (‘ubriacarsi’, vd. Pellegrino 2013 ad Nicoph. fr. 19 K.–A. [p. 32] e cfr. p. es. Ar. Pac. 874 e Lys. 395), qui ne è evidentemente conservato il valore proprio (‘bere poco, con moderazione’: cfr. Anacr. fr. 33 Gent.), come in Ar. Av. 494. Il verbo non sembra far specificatamente riferimento a una bevuta al termine del pasto, come proposto da LSJ9 s. v.: si vedano, in tal senso, le obiezioni di Dunbar 1995, p. 339 s., che nota inoltre come il verbo sia di solito utilizzato per il bere in compagnia. 9 οὐχ ὑπολύσεις αὐτόν; La domanda sembra rivolta propriamente al padrone, ma servirà verosimilmente a chiamare in causa uno schiavo addetto al servizio degli ospiti (cfr. Plat. Symp. 213b, dove Agatone ordina ai servi di slacciare i sandali di Alcibiade: ὑπολύετε, παῖδες, Ἀλκιβιάδην; vd. anche Urios-Aparisi 1992, p. 477, e Olson 2007, p. 320); sull’utilizzo del futuro negativo interrogativo per esprimere un ordine vd. Kühner-Gerth I, p. 172 s. τῷ κατακωλύοντι In commedia, il verbo è attestato in analogo contesto anche in Ar. Ach. 1088 (δειπνεῖν κατακωλύεις πάλαι). ἐλεγεῖα Il plurale indica genericamente un brano o un passo estratto da una elegia, laddove invece il singolare ἐλεγεῖον indica specificatamente un distico elegiaco (vd. West 1974, p. 3). La menzione del genere letterario avrà aiutato il pubblico a identificare la provenienza elegiaca, e anzi teognidea, del materiale citato: un’identificazione che la configurazione integralmente esametrica del passo avrebbe potuto rendere non immediata. 11–12 μήτ’ ἀέκοντα […] μήθ’ εὕδοντ(α) I due esametri teognidei (Theogn. 467, 469) sono estrapolati da una lunga pericope (467–496, generalmente considerati come un’elegia unitaria, ma contra si vedano le osservazioni di Condello 2009, pp. 208–218) la cui paternità è discussa in virtù dell’attribuzione a Eveno di Paro del v. 472 da parte di Aristotele e Plutarco (Arst. Metaph. 1015a e Plut. Non posse 1102c; dietro il nome di Eveno potrebbero peraltro celarsi due distinti poeti, omonimi ed entrambi provenienti da Paro, forse entrambi elegiaci, come sosteneva già Eratostene: sulla questione vd. Garzya 1963, pp. 75–90 e Rotstein 2010, p. 334 n. 41). In ambito comico la questione della paternità dell’elegia non è però forse stringente: sia che i versi siano da assegnare a Eveno (così, p. es., Carrière 1975, pp. 160–162; Bowie 2012, p. 123 s.; Catenacci 2017 e Capra 2018, p. 28 s.), sia che siano da attribuire a Teognide (si vedano, in tal senso, le osservazioni di Vetta 1980, pp. 121–123; Condello 2009, p. 208 n. 54 e Colesanti 2011, pp. 102–107) la loro citazione è funzionale alla creazione di un quadro di riferimento relativo a un contesto parenetico e prescrittivo tipico del contesto elegiaco, del tutto condiviso dal pubblico e in qualche modo messo in discussione sulla scena. Da un punto di vista formale, la citazione comporta qualche lieve adattamento: al v. 11 il deittico τῶνδ(ε), che nel corpus «situe le poème en un lieu et une occasion déterminés» (van Groningen 1966, p. 189), sarebbe inappropriato in funzione dell’enunciazione di una massima di valore generale, come avviene in Ferecrate. Al v. 12, invece, «Phérécrate […] lit μήθ(ε) pour faire suite à μήτ(ε) en 467». Più in generale, l’invito

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a rispettare i desideri dell’ospite, non spingendolo ad andare via prima di quando voglia, ma senza trattenerlo nel momento in cui desidera tornare a casa, ricorre già in Omero: cfr. Od. XV 68–74 (Menelao illustra precetti di galateo ospitale a Telemaco). 12 Σιμωνίδη Se si attribuisce il verso ad Eveno di Paro, l’apostrofe potrebbe essere riferita a Simonide di Ceo (vd. Catenacci 2017 e Capra 2018, p. 28 n. 14; sulla questione vd. anche van Groningen 1966, p. 198; Vetta 1980, pp. 121–123; Molyneux 1992, pp. 106 s.). 13 τοιαυτὶ Sul valore dello -ί deittico in commedia cfr. supra, ad fr. 107 K.–A. (Interpretazione).

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Ψευδηρακλῆς (Pseudēraklēs) (“Falso Ercole”)

Bibliografia Runkel 1829, p. 65; Meineke FCG II.1, p. 340; Meineke 1847, I, p. 120; Bothe 1855, p. 113; Kock CAF I, p. 194; Edmonds 1957, pp. 254–255; UriosAparisi 1992, p. 479; Quaglia 2001, pp. 156–158; Storey 2011, pp. 504–505 Titolo Il titolo Pseudēraklēs (falso Eracle) è attestato dal solo Ateneo, che a III p. 122 E cita l’unico frammento superstite della commedia (163 K.–A. [cfr. infra]). Anche Menandro compose uno Ψευδηρακλῆς (PCG VI 2, frr. 409–416 K.–A.), mentre ad Apollodoro di Gela è attribuito uno Ψευδαίας (PCG II, fr. 5 K.–A.); altri titoli che si possono confrontare sono Ψευδολῃσταί (Tim., PCG VII, fr. 35 K.–A.), Ψευδοστιγματίας (Nicostrato, PCG VII, fr. 27 K.–A.), Ψευδυποβολιμαῖος (Cratin. iun., PCG IV, frr. 10–11 K.–A.: vd. Caroli 2014, pp. 141–156, in part. 141–145 per il titolo; Crob., PCG IV, frr. 5–7 K.–A.). Per la formazione di nomi propri con il primo elemento ψευδ-, oltre a Ψευδαίας citato sopra, vd. Ψευδαρτάβας (Ar. Ach. 91, 99), Ψευδαλέξανδρος (titolo di un dialogo di Luciano), Ψευδαντωνῖνος (Dion. Cass. LXXIX 32, 2), Ψευδομάριος (App. XV 2, 3), Ψευδονέρων (Luc. XIII 20), Ψευδόπαν (Iul. VIII 234d), Ψευδοφίλιππος (Luc. XXXI 20, Strab. VII 7, 48 e XIII 4, 2) e anche Ψευδαριστοφάνειος (falso seguace di Aristofane) in Athen. I p. 5 B; vd. Quaglia 2001, p. 156 n. 1. Kassel e Austin (PCG VII, p. 102 s., ad Pherecr. test. 3 = Proleg. de com. VIII, p. 18 r. 3 Koster) avanzano l’ipotesi che facesse riferimento allo stesso dramma anche Phot. α 2064 Theodoridis, che riporta Pherecr. fr. 21 K.–A. (=Pherecr. fr. 2 Demiańczuk [p. 67]), un trimetro giambico, attribuendolo a una altrimenti sconosciuta commedia di Ferecrate intitolata Anthrōphēraklēs (‘L’Eracle-uomo’). Tale ipotesi è discussa e, a vario titolo, accolta da Urios-Aparisi 1992, p. 479; Quaglia 2001, pp. 156–158, e Storey 2011, p. 505; Quaglia 2001, p. 156, in particolare, rileva che «l’idea di una «falsa identità» non può di per sé escludere che il travestimento fosse indossato da qualche altra divinità, ma si potrebbe credere piuttosto che chi indossava le mentite spoglie del figlio di Zeus e Alcmena fosse un mortale, cioè un «falso dio». In tal caso, anche la definizione di «uomo-Eracle» poteva essere adeguata a designarlo. È possibile, in sostanza, che Fozio indicasse con un titolo leggermente diverso una commedia di Ferecrate nota anche ad Ateneo. I due titoli dovrebbero dunque essere identificati»; cfr. anche infra fr. 163 K.–A. Contesto della citazione. Effettivamente, la somiglianza tra i due titoli pone qualche dubbio: ricondurre entrambi a un unico dramma permetterebbe di armonizzare la discrepanza sul numero di commedie attribuite a Ferecrate nelle fonti antiche: Suid. φ 212 = Pherecr. test. 1 K.–A. afferma infatti che Ferecrate fu autore di diciassette commedie, mentre l’ignoto autore dei Prolegomena de Comoedia (Proleg. de com. VIII, p. 18 r. 3 Koster = Pherecr. test. 3 K.–A.), riporta a Ferecrate diciotto commedie; la differenza potrebbe rimontare a due distinte tradizioni erudite: una avrebbe

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identificato Pseudēraklēs e Anthrophēraklēs facendone un’unica commedia, l’altra avrebbe invece classificato i due titoli come relativi a due commedie diverse. Questo quadro, tuttavia, diventa inevitabilmente più complesso qualora si consideri che la mancanza di accordo tra le fonti potrebbe dipendere anche da altri elementi, visto che, a fronte delle diciassette o diciotto commedie attribuite a Ferecrate, i titoli noti sono diciannove (almeno uno dei quali, Metoikoi, frutto però di un evidente errore di attribuzione); inoltre, la paternità ferecratea di alcune commedie (Agathoi, Metallēs, Persai e Cheirōn) era discussa da una parte della tradizione grammaticale antica, all’interno di un dibattito che rimonta con certezza già a Eratostene: vd. Quaglia 2001, p. 156 s. e quanto osservato supra nelle introduzioni ai commenti di Metallēs, Persai e Cheirōn. L’impressione generale, dunque, è che se davvero la citazione di due titoli non coincidenti in Ateneo e in Fozio è tutto ciò che ci resta di una discussione antica sulla possibile circolazione di due titoli alternativi per una sola commedia, tale discussione andrebbe contestualizzata nel più ampio quadro di incertezza che caratterizzava già in ambito alessandrino il dibattito sull’entità complessiva della produzione di Ferecrate. Non si può escludere, ad ogni modo, che i due differenti titoli nascano più semplicemente da un mero errore di citazione del titolo in una delle due fonti; se così stessero le cose, sarebbe impossibile stabilire quale fosse il titolo corretto della commedia (ma vale comunque la pena notare che Ateneo conosce lo Pseudēraklēs di Menandro, del quale cita tre frammenti [cfr. IV p. 172 A; XIII p. 587 A e XIV p. 664 D]). È altrettanto possibile, del resto, che Ferecrate abbia composto davvero due distinte commedie dal titolo simile. Più debole appare, invece, l’ipotesi che Pseudēraklēs e Anthrophēraklēs costituissero gli elementi di un originario doppio titolo del dramma: la doppia titolazione, infatti, è generalmente costruita a partire da due termini assai differenti, che illustrano aspetti distinti ma complementari dell’economia del dramma: vd. Quaglia 2001, p. 157 n. 5, e Urios-Aparisi 1992, p. 479, per il quale in alternativa il doppio titolo potrebbe dipendere dal fatto che la commedia fosse stata originariamente tramandata senza un titolo definito. Contenuto L’unico frammento superstite non offre elementi significativi per la ricostruzione della trama della commedia. Dal titolo si potrebbe desumere che la vicenda ruotasse intorno a un personaggio che si spacciava per Eracle, ma resta ovviamente impossibile stabilire in che modo ciò accadesse, quale fosse il suo obiettivo e quali vicende lo vedessero protagonista nel corso del dramma. Analizzando la formulazione della quale Ateneo si serve per introdurre il frammento (κατὰ Φερεκράτους Ψευδηρακλέα), Quaglia 2001, p. 157, ritiene che il termine Ψευδηρακλῆς identificasse non il titolo della commedia, ma il personaggio che pronunciava i tre versi superstiti (sulla questione cfr. infra, ad loc.). Nelle Rane di Aristofane il travestimento da Eracle è adottato alternativamente da Dioniso e da Xantia per assicurarsi un ritorno sicuro dall’oltretomba (sull’imitazione di Eracle da parte di Dioniso si vedano ora Habash 2002, pp. 2–5, e Gagliano 2016), ma non è possibile evidenziare punti di contatto con la commedia di Ferecrate, della quale, come si è detto, resta poco più che nulla.

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Più in generale per quanto concerne la presenza di Eracle in commedia, già in Epicarmo l’eroe viene comicamente dipinto come mangione (cfr. frr. 18 K.–A., su cui v. Olson 2007, p. 40 s., e 21 K.–A.); pur criticando l’abuso di tali topoi nelle parabasi di Vespe (v. 60, vd. Biles–Olson 2015, p. 104) e Pace (v. 741, vd. Olson 1998, p. 219), anche Aristofane se ne serve in Uccelli (vv. 567 ss. e 1574 ss., vd. Dunbar 1995, pp. 369–372), Lisistrata (v. 928, vd. Henderson 1987a, p. 181) e Rane (vv. 62 ss. e 549 ss.); vd. Lauriola 2013 per un buono sguardo di insieme su Eracle personaggio delle commedie di Aristofane. La medesima maschera comica fa la sua comparsa anche in numerosi frammenti, cfr. p. es. Cratin. fr. 346 K.–A. (inc. fab., vd. Bianchi 2017, p. 362 s.), Phryn. fr. 24 K.–A. (Monotropos, vd. Stama 2014, p. 170 s.), Alex. frr. 88 K.–A. (Hēsione) e 140 K.–A. (Linos), sui quali vd. rispettivamente Arnott 1996, pp. 233–236 e 406–415 e Stama 2016, pp. 182 s. e 274–276; altre attestazioni sono raccolte da Olson 2007, p. 40. Sulla figura di Eracle mangione nella commedia e nel dramma satiresco (con una discussione sulle testimonianze vascolari) si veda almeno Galinsky 1972, pp. 81–101; bibliografia più recente è raccolta da Lauriola 2005, p. 97 n. 11, e da Stama 2014, p. 17. Datazione Ignota

fr. 163 K.–A. (154 K.) εἴποι τις ἂν τῶν πάνυ δοκησιδεξίων· ἐγὼ δ’ ἂν ἀντείποιμι∙ μὴ πολυπραγμόνει, ἀλλ’ εἰ δοκεῖ σοι πρόσεχε τὸν νοῦν κἀκροῶ Direbbe uno dei veri saputoni; ma io risponderei: “non starci troppo a pensare: piuttosto, se ti pare, fai attenzione e stammi a sentire” Athen. III p. 122 E κατὰ γὰρ Φερεκράτους Ψευδηρακλέα εἴποι τις — κἀκροῶ Secondo (quanto si dice nello) Pseudēraklēs di Ferecrate, direbbe uno — stammi a sentire

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Bibliografia Grozio 1626, p. 514; Runkel 1829, p. 65; Meineke FCG II.1, p. 340; Meineke 1847, I, p. 120; Bothe 1855, p. 113; Kock CAF I, p. 194; Whittaker 1935, p. 182; Edmonds 1957, pp. 268–269; Conti Bizzarro 1990–1993, pp. 106–107; UriosAparisi 1992, pp. 480–482; Quaglia 2001, pp. 161–165; Storey 2011, pp. 504–505

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Contesto della citazione All’interno del libro III, al termine di una lunga discussione sui pesci, a 121 E Cinulco chiede di bere decocta (termine latino che indica l’acqua calda fatta raffreddare: cfr. ad es. Mart. XIV 116; Iuv. V 50); da qui prende avvio una sezione, che si estende fino a 125a, incentrata sull’uso del bere acqua (calda, fredda o gelata) nei simposi; il fatto che venga impiegato un termine non greco come decocta causa le proteste di Ulpiano sull’uso dei barbarismi, al che Cinulco risponde prima facendo un elenco di parole straniere di uso comune, quindi sostenendo che l’acqua decocta era nota anche agli antichi. Per dimostrarlo, cita i versi di Ferecrate con i quali esorta Ulpiano a lasciargli la possibilità di continuare a parlare per raggiungere l’obiettivo che ha in mente. La formula di presentazione della citazione è piuttosto singolare: per quanto concerne i frammenti di Ferecrate ricordati da Ateneo, la menzione del titolo della commedia introdotto da κατά con accusativo ricorre altrove soltanto a VIII p. 335 A, dove però è assai improbabile che la formulazione κατὰ τοὺς Φερεκράτους Μυρμηκανθρώπους possa alludere, come proposto da Quaglia, ai componenti del coro (‘alla maniera degli uomini-formica del coro’) piuttosto che al titolo della commedia (cfr. supra fr. 125 K.–A. Contesto della citazione). Proprio dal confronto con quest’ultimo passo, Quaglia 2001, p. 157 e n. 8, desume l’ipotesi che Pseudēraklēs indichi qui il nome del personaggio che pronunciava originariamente i versi (‘alla maniera del finto Eracle di Ferecrate’) e che quindi il termine non sia da riferire al titolo della commedia di Ferecrate: «la citazione è introdotta nei Deipnosofisti da Cinulco, colui che, tra i personaggi, incarna l’ideale del filosofo cinico. Egli usa l’espressione κατὰ (…) Φερεκράτους Ψευδηρακλέα, che non è quella abituale impiegata da Ateneo per introdurre le citazioni dirette: è possibile allora che il personaggio di Ateneo intenda semplicemente esprimersi «alla maniera del personaggio di Ferecrate». Il sostantivo Ψευδηρακλῆς, cioè, potrebbe designare il protagonista di una commedia ferecratea in cui qualcuno si travestiva da Eracle, e non il titolo preciso di quel dramma». Testo Dal momento che nel frammento non viene riportato ciò che verrebbe sostenuto dal soggetto di εἴποι […] ἂν, ovvero τις […] τῶν πάνυ δοκησιδεξίων, Kock CAF I, p. 194, ritenne che tale mancata esplicitazione avrebbe dovuto essere fatta risalire a una lacuna situata dopo il v. 1: manifestum est excidisse quod quempiam illorum qui sibi aliisve sapientes videantur dicere poeta fingit. itaque post v. 1 lacunae signum posui. Questa possibilità fu, in un primo momento, accolta anche da Kaibel nella sua edizione di Ateneo (Kaibel 1887, 280); lo stesso Kaibel, però, in una nota manoscritta riportata in Kassel–Austin PCG VII, p. 187, nell’apparato di commento al frammento, finì per allinearsi più tardi all’ipotesi di Meineke: ille quod dixit probabilius est ante quam post v. 1 a Cynulco praetermissum esse. Così, del resto, per la maggior parte degli editori: vd., dopo Meineke FCG II.1, p. 340, Bothe 1855, p. 113; Edmonds 1957, p. 268 s.; Storey 2011, p. 504 s. Entrambe le possibilità sono plausibili: in favore della lacuna dopo il primo verso cfr. Ar. Pac. 43 s., dove l’ipotetica affermazione viene collocata dopo una formula introduttiva simile a quella del frammento in questione (οὐκοῦν ἂν ἤδη τῶν

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θεατῶν τις λέγοι / νεανίας δοκησίσοφος· ‘τόδε πρᾶγμα τί;’), mentre in Cratin. fr. 342 K.–A. (τίς δὲ σύ; κομψός τις ἔροιτο θεατής / ὑπολεπτολόγος, γνωμοδιώκτης, εὐριπιδαριστοφανίζων) è attestata una struttura logica analoga a quella proposta da chi ritiene consecutivi i tre versi superstiti. Per quanto riguarda la struttura dei versi e, di conseguenza, la loro resa, vd. Bianchi 2017b, p. 122: «a) Grozio, Excerpta [= Grozio 1626] p. 514: “si quis quid dixit docti qui famam obtinet, / ego vero contra dicam, te id turbet nihil: / sed si vis, animum adverte et attende auribus”; b) Meineke FCG II, 1, p. 340: “primum versum rectius ita transferas: Ita dicat aliquis docti qui famam obtinet. Illa enim, εἴποι τις ἄν, spectant ad ea quae praecesserunt. Vs. 2 μὴ πολυπραγμόνει non est te id turbet nihil, sed potius ne turbas age”. Grozio considera insieme i versi 1 e 2 e li traduce di conseguenza; al v. 2, inoltre, rende μὴ πολυπραγμόνει con ‘te id turbet nihil’, connesso al precedente ἐγὼ δ’ ἂν ἀντέποιμι “ego vero contra dicam”. Questa traduzione è riportata e commentata in due punti da Meineke, secondo il quale: a) l’incipitario εἴποι τις ἄν e tutto il v. 1 “spectant ad ea quae praecesserunt”, da cui la proposta di un punto fermo in alto dopo il v. 1 e una conseguente traduzione: “Ita dicat aliquis docti qui famam obtinet”; b) μὴ πολυπραγμόνει vale ‘ne turbas age’ e, quindi, dopo ἀντείποιμι avrebbero inizio le parole che la persona loquens rivolge al proprio interlocutore, un’ipotesi questa generalmente accolta e che appare possibile, tra gli altri motivi, anche per la presenza della cesura eftemimere dopo ἀντείποιμι e, quindi, esattamente prima dell’inizio di queste parole». Interpretazione Kock, sulla scorta di Ar. Vesp. 74–81, riconosceva nel frammento un’allocuzione diretta agli spettatori, da collocarsi nel prologo della commedia: il personaggio prologante esorta il pubblico a non fare inutili congetture sulla trama, ascoltando invece con attenzione quanto sta per illustrare, un’ipotesi generalmente accolta dalla critica moderna (si vedano anche le osservazioni di Whittaker 1935, p. 182, e di Edmonds 1957, p. 269 n. d). È anche possibile che ad essere sollecitato sia non l’intero pubblico ma soltanto una componente più selezionata: secondo Urios-Aparisi 1992, p. 480, ad esempio, l’espressione τις ἂν τῶν πάνυ δοκησιδεξίων potrebbe alludere in particolare ai più giovani tra gli spettatori e il verbo πολυπραγμόνει (cfr. infra al lemma) «if applied to the audience in the theatre, […] could be simply understood in literal sense: to be busy in many things, that is to say, do not be distracted or ‘take no trouble about it’ (implying that the solution is going to be found soon). This order does not need to convey further sense; in the context of the prologue of the play it would suit the address to the audience in which the character promises to solve the present problem» (Urios-Aparisi 1992, p. 481 s.). Secondo Conti Bizzarro 1990–1993, p. 106, invece, nel frammento «Ferecrate ironizza sulle antilogie tipiche dei Sofisti». 1 τις […] δοκησιδεξίων L’aggettivo δοκησιδέξιος, un composto nominale di δόκησις (opposto di γνώμη nel senso di opinione, vd. Huart 1973, pp. 100 e 116) e di δεξιός («in its original meaning it is full of good omen; right-handed, boding well, hence neat, clever, witty, useful. Out of forty-one uses in Aristophanes,

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a majority have this favourable sense. But a second, minority, meaning emerges during the 420s: cunning thought, skill in the law-courts, hence moral disreputability. It is often linked with ‘kompsos’» [Carter 1986, p. 121 n. 45]), designa chi si crede sagace e intelligente, senza tuttavia esserlo («who is ‘clever according to his opinion, not real experience’» [Urios-Aparisi 1992, p. 480]). Il composto ricorre solo un’altra volta, di nuovo in commedia, ovvero in Callias fr. 34 K.–A. (inc. fab.), tràdito da Poll. IV 9: καὶ δοκησίνους, ὃν καὶ δοκησιδέξιον Καλλίας εἴρηκεν ὁ κωμικός (vd. Imperio 1998a, p. 248), il che fa pensare che possa trattarsi di una lexis comica, vd. Bagordo 2014b, p. 208: «Der Gebrauch im einzigen weiteren Beleg (Pher. fr. 163, 1 […]) legt nahe, daß es sich dabei um eine komische Lexis handele (die Frage nach der Urheberschaft muß offen bleiben; ein den Komikern gemeinsames Repertoire ist auch denkbar)». L’aggettivo potrebbe rinviare al campo semantico della sofistica: l’accezione è verosimilmente ironica e Ferecrate se ne sarà servito in maniera analoga rispetto all’utilizzo che fa Aristofane del sinonimo δοκησίσοφος nel già citato passo della Pace (43 s.), dove è impiegato «in riferimento ad un ipotetico spettatore, particolarmente saccente, del quale il servo prologante intende prevenire domande e obiezioni in merito alla trama della commedia» (Imperio 1998a, p. 248, con il richiamo alle osservazioni di Marzullo 1993, p. 462 s.; vd. anche Conti Bizzarro 1999, p. 95); l’aggettivo dunque identifica chi agisce in buona fede possedendo tuttavia un sapere che, alla prova dei fatti, si rivela fondato sull’opinione e sull’apparenza invece che sulla conoscenza. Su δοκησιδέξιος, δοκησίσοφος, δοκησίνους vd. Tribulato 2015, p. 222 s., con ottime osservazioni sui frammenti di Callia e di Ferecrate. 2 ἐγὼ δ᾽ ἂν ἀντείποιμι Per analoghe formulazioni relative a personaggi che dicono qualcosa in opposizione a ciò che è stato detto da qualcun altro cfr. Ar. Nub. 1416 s. (Fidippide) φήσεις νομίζεσθαι σὺ παιδὸς τοῦτο τοὔργον εἶναι· / ἐγὼ δέ γ’ ἀντείποιμ’ ἂν ὡς δὶς παῖδες οἱ γέροντες; cfr. anche Ran. 584 s. (Dioniso) oἶδ’ οἶδ’ ὅτι θυμοῖ, καὶ δικαίως αὐτὸ δρᾷς· / κἂν εἴ με τύπτοις, οὐκ ἂν ἀντείποιμί σοι. μὴ πολυπραγμόνει Il verbo può avere una sfumatura negativa (‘impicciarsi degli affari altrui’: cfr. p. es. Ar. Plut. 913), ma in questo contesto conserva più semplicemente il valore di ‘take no trouble about it’ (LSJ9 s. v. πολυπραγμονέω 1). Sulla sfumatura politica del verbo (che tuttavia non sembra entrare qui in gioco) rimando alle considerazioni di Urios-Aparisi 1992, p. 481 s., il quale richiama Ehrenberg 1965, pp. 468 e 481, per argomentare che «it does not always need to be understood in political sense, but in Thucydides at least […] it can be interpreted from a political point of view, either as reference to political parties […] or in Aristophanes ‘his views on πολυπραγμοσύνη centre on the issues of domestic policy, and in particular on the evils of litigation’». 3 εἰ δοκεῖ σοι La formulazione «indicates a readiness to comply with another’s wishes […] its apodosis consists of an acquiescence, variously expressed, in a contemplated action, and the construction of δοκεῖ is completed by supplying an inf. from the apodosis [con i rimandi per la costruzione sintattica a Eur. El. 77 εἴ τοι δοκεῖ σοι, στεῖχε, 420 ἀλλ’, εἰ δοκεῖ σοι, τούσδ’ ἀπαγγελῶ λόγους; Plat. symp. 175b

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ἀλλ’ οὕτω χρὴ ποιεῖν, εἰ σοὶ δοκεῖ, …]. I’ve found four passages [Antiph. fr. 197 K.–A., Skythēs vel Skythai ē Tauroi; Men. Mis. 66; Aesch. fr. 782 R., Diktyoulkoi, e il frammento di Ferecrate] where the apodosis may not be acquiescent but may suggest a course of action subject to the other’s approval, with εἰ δοκεῖ = ‘if you don’t mind’, ‘if you please’, but in each of the four either the text is fragmentary or the context is lacking, and the acquiescence cannot be excluded» (Barrett 1964, p. 253 s., ad Eur. Hipp. 507, vd. ibid. per ulteriore esemplificazione). La iunctura ricorre spesso in Aristofane per esprimere una cordiale richiesta di intesa: cfr. p. es. Ach. 338; Nub. 11; Av. 665; Thesm. 218 e Lys. 1176. πρόσεχε τὸν νοῦν L’espressione ha una connotazione colloquiale ed è comune in prosa e in commedia (cfr. p. es. Ar. Pac. 174; Thesm. 25; Plut. 113; Pherecr. fr. 84, 1 K.–A. [Korianno]), mentre è regolarmente evitata in tragedia (vd. Handley 1956, p. 209). κἀκροῶ «Il verbo […] indica un ascolto particolarmente concentrato, per il quale non basta il semplice ἀκούειν (cfr. il sostantivo ἀκροατής in Aristoph. Ran. 775 e Eup. Demoi fr. 102, 7 K.–A.). In Aristoph. Lys. 502 si presta orecchio ad un racconto; in generale ci si riferisce a letture o lezioni: Antiphont. V 4; Thuc. II 21, 3; Plat. Gorg. 499b; Xen. Symp. 3, 6» (Quaglia 2001, p. 164; vd. anche Urios-Aparisi 1992, p. 482).

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Indici Index fontium An. Par. IV p. 113, 24 s.: fr. 91 Antiatt. γ 1: fr. 96 Antiatt. δ 36: fr. 104 Antiatt. κ 18: fr. 111 Arg. II Soph. OC (p. 2, 16 de Marco): fr. 142 Athen. ΙΙΙ p. 75 Β: fr. 85 Athen. III p. 78 D: fr. 139 Athen. III p. 95 D: fr. 107 Athen. III p. 96 A: fr. 113 Athen. III p. 122 E: fr. 163 Athen. VI p. 228 E: fr. 109; fr. 133 Athen. VI p. 229 A: fr. 128 Athen. VI pp. 267 E–269 C: fr. 113; fr. 137 Athen. VII p. 287 A: fr. 117 Athen. VIII 335 A: fr. 125 Athen. VIII p. 343 C: fr. 148 Athen. VIII p. 364 A: fr. 162 Athen. IX p. 366 D: fr. 89 Athen. IX p. 368 B: fr. 157 Athen. IX p. 388 F: fr. 160 Athen. IX p. 395 A-C: fr. 143 Athen. X p. 424 B: fr. 112 Athen. XI p. 460 C: fr. 152 Athen. XI p. 481 B: fr. 152 Athen. XI p. 485 D: fr. 101 Athen. XI p. 502 AB: fr. 134; fr. 135 Athen. XIV p. 645 E: fr. 99 Athen. XIV p. 646 C: fr. 86 Athen. XIV p. 653 E: fr. 158 Athen. XV p. 685 A: Metallēs; fr. 138 Athen. XV p. 685 Α: fr. 114 Athen. XV p. 690 D: fr. 105 Athen. XV p. 690 F: fr. 149 Athen. XV p. 700 C: fr. 90 Athen. Epit. II p. 55 B: fr. 89 Choerob. in Theodos. can. (GrGr IV 1, p. 307, 17 Hilg.): fr. 96 Diogen. Vind. II 85 (CPG II, p. 33 Leutsch): fr. 129 Epimer. Hom. alphab. γ 25 (Anecd. Oxon. I p. 102, 11): fr. 96 Epimer. Hom. alphab. μ 64 (Anecd. Oxon. I p. 277, 13): fr. 137

Erot. α 34: fr. 115 Et. gen. AB (Et. magn. p. 750, 10): fr. 120 Et. gen. B (Et. Gud. p. 326, 27 Stef., Et. magn. p. 243, 24): fr. 96 Et. gen. B (Et. magn. p. 793, 43): fr. 102 Et. gen. β 308 (AB Et. magn. p. 218,24, Et. Sym. β 270): fr. 117 Et. gen. λ 180: fr. 146 Et. magn. p. 167, 40: fr. 161 Eust. in Il. p. 741, 19: fr. 159 Eust. in Il. p. 1095, 18: fr. 113 ; 137 Eust. in Od. p. 1433, 48: fr. 137 Eust. in Od. p. 1571, 19: fr. 90 Eust. in Od. p. 1862, 19: fr. 109 Excerpta ex Nicom. Geras. 4 p. 274, 5–10 Jan: fr. 155 Harp. p. 76, 9–15 Dindorf = p. 60 Keaney: fr. 150 Harp. pp. 181, 17–182, 9 Dindorf = p. 154 Keaney: fr. 142 Harp. p. 203, 8 Dindorf = p. 174 Keaney: Metallēs Hesych. γ 1004: fr. 154 Hesych. μ 1011: fr. 149 Lex. Bachm. p. 46, 17: fr. 145 Lex. Bachm. p. 92, 29 — Σb α 1338: fr. 91 Lex. Bachm. p. 114, 3 — Σb 1637: fr. 98 Lex. Bachm. p. 118, 1: fr. 95 Lex. Bachm. p. 147, 15: fr. 121 Lex. Vind. p. 109, 13: fr. 156 Phot. α 277: fr. 92 Phot. α 525: fr. 118 Phot. α 648: fr. 145 Phot. α 1157: fr. 87 Phot. α 1295: fr. 123 Phot. α 1833: fr. 131 Phot. (b, z) α 1871: fr. 153 Phot. α 1905: fr. 91 Phot. α 2017: fr. 87 Phot. (z) α 2533: fr. 136 Phot. (z) α 2766: fr. 121 Phot. (z) α 2904: fr. 122 Phot. α 3492: fr. 88 Phot. β 182: fr. 117

366

Index locorum

Phot. ε 1015: fr. 124 Phot. ε 2203: Metallēs; fr. 116 Phot. κ 1223: fr. 111 Phot. λ 54: fr. 144 Phot. λ 106: fr. 93 Phot. ν 319: fr. 94 Phot. ο 743: fr. 106 Phot. τ 108: fr. 120 Phot. φ 175: fr. 102 Phot. (z) ined.: fr. 108 [Plut.] De mus. 30, 1141 C–1142 A (pp. 24, 20–26, 18 Ziegler): fr. 155 Poll. II 127: fr. 102 Poll. II 191: fr. 113 Poll. VI 58: fr. 113 Poll. VI 105: fr. 112 Poll. VII 15: fr. 132 Poll. VII 17: fr. 130 Poll. VII 73: fr. 119 Poll. VII 152: fr. 103 Poll. VII 163: fr. 147 Poll. IX 83: Krapataloi Poll. X 44 s.: fr. 93 Poll. X 75: fr. 113 Poll. X 79: fr. 110 Poll. X 89: fr. 87 Poll. X 91: fr. 127 Priscian. Inst. Gramm. XVIII 242 (GrL III p. 328, 13): fr. 156 Priscian. Inst. Gramm. XVIII 242 s. (GrL III p. 328, 22 = pp. 62, 5–63, 2 Rosellini): fr. 97 Σb α 2091: fr. 121

Σb α 2172: fr. 122 Schol. Ar. Nub. 971 a α, p. 188, 4–7 Holwerda: fr. 155 Schol. vet. (VΓ) et Tricl. (Lh) Ar. Pac. 749 Holwerda: fr. 100 Schol. (RVEΘ Barb) Ar. Plut. 338 Chantry: fr. 98 Schol. (VEΘBarbAld) Ar. Ran. 362a–c Chantry: fr. 140 Schol. (VEΘBarb) Ar. Ran. 1308b Chantry (Tzetz. IV 3, p. 1069, 14 Koster): fr. 159 Schol. (VΓ) Ar. Vesp. 674c Koster: fr. 126 Schol. (AO) Plat. Leg. XII p. 968e: fr. 129 Schol. (T) Plat. Soph. p. 220 A (p. 42 Gr.): fr. 161 Schol. (LV) Soph. El. 86d Xenis: fr. 141 Stob. IV 50b, 46 vol. V p. 1039 H.: fr. 156 Suid. α 383: fr. 92 Suid. α 2282: fr. 91 Suid. α 3037: fr. 95 Suid. α 3743: fr. 121 Suid. α 3750: fr. 151 Suid. α 4045: fr. 122 Suid. αι 61: fr. 118 Suid. αι 299: fr. 145 Suid. ν 568: fr. 94 Suid. τ 236: fr. 120 Suid. φ 342: fr. 102 Suid. χ 471: fr. 108 Zenob. Ath. II 29: fr. 129 Zenob. vulg. IV 23: fr. 129 Zonar. p. 231: fr. 91

Index locorum Aesch. Prom. 445: 251 Anecd. Bekk. I, p. 474, 14: 190 Anecd. Oxon. II, p. 234, 27 Cramer: 217 Anth. Pal. 11, 78, 3–4: 287 s. Antiph. fr. 196 K.–A.: 69 s. Ap. Dysc. Pron., GrGr II.1, 1, p. 69, rr. 18–20: 127 Pron., GrGr II.1, 1, p. 113, rr. 17–20: 127 Arcad. p. 54, 7–11 Bark. = p. 60, 21–61, 24 Schm.: 14

Ar. Ach. 451–453: 219 Ach. 730: 68 Av. 936–937: 252 Eccl. 605 s.: 36 Eccl. 707 s.: 69 s. Eccl. 1160: 68 Lys. 209: 62 Nub. 465: 164 Nub. 1138 s.: 21 Pac. 749: 58 s.

Index locorum Pac. 1087: 164 Pac. 1279: 63 Plut. 532–534: 188 Plut. 842–846: 156 s. Ran. 44: 21 Ran. 362–364: 200 Ran. 433: 152 Ran. 847: 140 Ran. 1005: 72 s. Ran. 1159: 216 Thesm. 1: 164 Thesm. 64 s.: 21 Thesm. 345: 153 Thesm. 945: 30 Thesm. 1047a–1048a: 264 Vesp. 352: 137 Vesp. 1058 s.: 52 fr. 372 K.–A.: 36 fr. 706 K.–A.: 175 fr. 862 K.–A.: 46 s. Arist. Rhet. III.1409 a 24–34; b 22–27: 268–271 Arrian. FGrHist 156 F 16: 132 Callias fr. 34 K.–A.: 323 Cratet. fr. 13 K.–A.: 113 fr. 17 K.–A.: 127 Cratin. fr. 7 K.–A.: 151 fr. 252 K.–A.: 113 Cratin. iun. fr. 1, 1 K.–A.: 163 Et. gen. AB s. v. ὄχθοβος: 79 Eup. fr. 204 K.–A.: 196 Eur. Hipp. 1197: 123 s. Eust. in Il. 1083, 64 s., III p. 922 van der Valk: 171 in Od. p. 1397, 16–18: 171 Hdt. III 102: 130 Hesych. α 2067: 215 α 7329: 121 κ 716: 191 κ 3969: 11 s. κ 3970: 11 s. κ 3971: 11 s. λ 37: 162 λ 95: 72 λ 183: 213 s.

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λ 216: 213 λ 836: 38 λ 1089: 217 λ 1527: 120 ο 233: 79 ρ 403: 116 σ 384: 197 τ 205: 125 τ 1462: 115 χ 657: 165 Hom. Il. IX 270–271: 304 s. Ioann. Philop.  De accent. 7, 20 Dindorf: 134 Iuv. 5, 87 s.: 51 s. Lex. Bachm. p. 161, 15: 308 Luc. Jupp. Trag. 1, 15: 29 s. Men. Epitr. 272: 219 Nicoph. fr. 20 K.-A.: 22 Nicostr. fr. 6 K.–A.: 86 Non. 144, 3: 63 Paus. I 44, 9: 131 Pherecr. fr. 8 K.-A.: 58 fr. 56, 3 K.–A.: 142 fr. 79 K.–A: 28 s. fr. 170 K.–A.: 36 fr. 199 K.–A.: 13 fr. 206 K.-A.: 49 fr. 274 K.–A.: 127 fr. 283 K.–A.: 296 fr. 284 K.–A.: 145 Philaeter. fr. 18, 2 K.–A.: 155 Phot. α 690: 215 α 3124: 308 ε 2172: 70 κ 864: 168 λ 15: 162 λ 280: 72 λ 333: 217 λ 334: 217 ο 744: 79 Phryn. (gramm.) ecl. 288 Fischer: 37 praep. soph. p. 14, 8 de Borries: 118 praep. soph. p. 67, 12 de Borries: 71 Phryn. fr. 42 K.–A.: 113 fr. 60 K.–A.: 169

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Index verborum

Plat. Leg. XII 968e: 171 Plin. NH XIII.13 s.: 225 Plut. Glor. Ath. 6, p. 349 A: 303 Poll. II 24: 115 X 32: 115 Schol. Ar. Nub. 333c: 269 Soph. fr. 832 Radt: 109

Suid. α 3981: 121 α 4304: 308 λ 579: 217 τ 1035: 115 s. Telecl. fr. 40 K.–A.: 219 Ter. Adelph. 117: 51 s. Theogn. 467–496: 316 Thphr. Odor. 29: 225

Index verborum Ἀγυιεύς: 41 s. ἄγω nel senso di ‘tracciare’: 288 ἀθάρη vel ἀθάρα: 108 αἰτίαν ἔχειν: 301 ἄκρατος: 222 ἀκροάομαι: 324 ἀκροκώλια: 111 s. ἀλλά in ingiunzioni o ordini: 314 ἀλλὰ … γε con valore assertivo: 136 ἀλλᾶντες: 110 ἁλουργής: 79 ἀμάρακον: 197 ἀμάχαιρος: 30 ἀμπεχόνη: 116 ἀµυγδάλη: 302 ἄμυλος: 112 ἀμφέξομαι futuro di ἀμφιέννυμι: 154 ἀναδενδράς nella tradizione di stampo atticista: 119 ἀναλαμβάνω nel senso di ‘correggere‘ vel ‘risanare’: 281 s. ἀναλύω nel gergo scientifico-musicale: 288 s. ἀναπνέω: 196 ἀναρρήγνυμι: 236 ἀνελεύθερος: 174 s. ἀνεμώνη: 115 ἀνέῳγε imperfetto: 39 ἄνθρυσκον vel ἔνθρυσκον: 120

ἀνία: 145 ἀνόδοντος: 30 ἀνόσιος: 293 ἀπαλός: 118 ἀπολύω nel gergo scientifico-musicale: 288 s. ἀπόρρητα nel senso di ‘riti segreti dei misteri’: 200 s. ἀπόρρητα nel senso di ‘merci la cui esportazione è proibita’: 200 s. ἀποτηγανίζω: 170 ἀποχράω: 262 ἆρα interrogativo: 165 ἆρά ποτε con valore espressivo: 165 ἀράομαι: 149 ἀράχνιον: 231 ἀργυρίς: 184 ἀρμῷ vel ἁρμῷ vel ἀρμοῖ vel ἁρμοῖ ambiguità del significato: 121 ἀρμῷ vel ἁρμῷ vel ἀρμοῖ vel ἁρμοῖ non attico: 121 s. ἀρότης: 188 ἁρπάζω: 58 ἄρτι: 34 ἀρτίως: 151 ἀρύτω: 191 ἀρύω: 221 ἀσπάλαθος connessione con l’oltretomba: 119 s. ἀσπάλαθος di genere maschile o femminile: 118

Index verborum ἀτεχνῶς: 82 ἄτοπόν ἐστι con infinito: 50 ἄττα (τινά) con valore pleonastico: 308 ἀφύη/ἀφύαι: 87 Ἀχίλλειοι μᾶζαι: 190 ἀωρία: 33 s. βαίνω con valenza oscena: 197 βαλανεύω: 192 βόαξ vel βῶξ: 137 s. βότρυς: 303 βρένθειον: 77 βωμολοχεύω: 228 βωμολόχος: 229 s. γαστροιίδης sospetta corruttela dell’aggettivo: 235 γαστροιίδης significato: 235 γε con valore ironico: 304 s. γελάω con allusione oscena: 146 γέρων parte finale del fuso: 143 s. γευστήριον: 235 γυναικοκρατία: 227 γυνάς accusativo plurale di γυνή: 49 γυνὴ γραῦς: 153 γυνήν accusativo singolare di γυνή: 51 δαιμόνιος al vocativo + imperativo: 20 s. δαίς: 314 δεῖπνον: 32 δέσποτα, ὦ: 42 δήπου con valore assertivo: 55 δῆτα in interrogative retoriche: 114 διακναίω: 283 δίφορος (συκῆ): 69 s. δοκέω nel senso di ‘avere un’opinione’ δοκησιδέξιος: 322 s. δρεπανουργός: 189

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δροσώδης: 120 δυσημερέω: 71 ἐγκρίς: 58 ἐγχέλειον: 111 ἐγχέω/ἐγχέομαι: 78 εἰ δοκεῖ σοι per esprimere una cordiale richiesta di intesa: 323 s. εἰς vel ἐς: 208 εἴσειμι: 77 s. ἐκλογίζομαι: 298 ἐκτράπελος: 288 ἐκχαρυβδίζω: 64 ἐλεγεῖα: 316 ἐλεγεῖον: 316 ἐμβάλλω con valore osceno: 275 s. ἐν τοῖσ(ι) con superlativo relativo: 254 s. ἐνριγισκάνω frequentativo di ἐνριγόω: 156; 158 ἐξ ἑωθινοῦ: 48 ἐξαρμόνιος: 264–267 ἐξεράω: 196 ἐπιθεάζω: 148–150 ἐπιθειάζω: 148 ἐπίπαστα: 189 ἐργασία nel senso di ‘manifattura’: 38 ἐρέβινθος: 36 ἐρύω: 221 ἔτνος: 192 εὐημερία: 71 εὐθύ con valore esclusivamente locale: 123 εὐθύς con valore esclusivamente temporale: 123 εὐθύς considerato forma non attica di εὐθύ: 123 s. ζυγοποιός: 188 ζωμὸς μέλας: 109 ἥδυσμα: 301 ἦν vel ἦ prima persona singolare dell’imperfetto di εἰμί: 297 s. θολόω: 146

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Index verborum

θρεπτή: 174 θύραζε: 315 ἱμάτιον: 154 s. ἴον nelle descrizioni di prati fioriti: 120 ἱπποσέλινον: 197 ἱστός fuso vel albero della nave: 144 καθίζω: 180 s. καὶ μήν nelle enumerazioni: 111 κακήγoρος: 69 καμπή: 267–272 καμπῶν genitivo plurale di καμπή vel κάμπη: 294 κανοῦν: 216 s. καπνίας: 191 κατά con accusativo per introdurre una citazione: 160; 321 κατὰ χειρός nel senso di ‘a portata di mano’ κατανενιμμένος participio perfetto di κατανίφω vel κατανίζω: 113 κατάρατος: 163 s. καταχυσμάτιον: 111 κατάχυτλον: 113 κατορύσσω: 283 κίκκαβος moneta dell’Ade: 16 s. κίχλη: 114 κλύω: 252 s. κνέφας: 33 s. κόγχη: 235 κολυμβάω: 113 κοχυδέω: 190 κραπαταλλός sciocco, uomo che parla a vanvera: 11 s. κραπαταλλός pesce: 11 s. κραπαταλλός (vel κραπάταλος) moneta dell’Ade: 14–16; 24–26 κτείς: 80 κυάθιον vel κύαθος: 93 κυλίνδω/κυλινδέω in senso metaforico: 297

κύντερος/κύντατος come aggettivi di grado positivo: 92 κύπειρον: 120 λαβών pleonastico: 89 λαγαρίζω: 166 λαικάστρια: 304 λακπατέω: 214 λάσανα: 44 λεῖμαξ: 120 λειριοπολφανεμώνη: 192 s. λεκάνη: 113 λέξω ‘volontativo’: 251 s. λεπαστή: 64 λεσβιάζειν/λεσβίζειν: 302 λῆρος ciarla: 72 s. ληρός vel λῆρος ornamento femminile: 72 s. λίνον filo vel vela: 144 λιπαρέω: 219 λυχνεῖον di fattura etrusca: 38 λωτός nel significato generico di ‘fiori’: 120 μαλάχη: 196 μάχαιρα: 27 s. Μεγάλλειον: 224 μελιλώτινος: 196 μέν solitarium incettivo: 108; 251 μεταβολή: 267–272 μέτοικος: 128 μηδέ in ingiunzioni o ordini: 313 s. μηδέποτε … μηδέ: 161 μῆλον: 115; 302 μιμαίκυλον: 302 μίτρα: 79 μυελόν: 303 μυρμηκάνθρωπος: 129 μύρον: 77 μυρρίνη: 115 μύρτον: 302 μυστίλη: 109 ναστίσκος: 192 ναστός: 110

Index verborum νὴ τὼ θεώ con valore assertivo: 137 νὴ τὼ θεώ come formula di giuramento: 137 νίγλαρος: 293 s. νοστέω andare vel tornare: 30 νωτοπλήξ: 46 s. ὄζειν: 53 οἴμοι κακοδαίμων: 140 ὄνομα con articolo: 84 ὀροφή: 165 ὄροφος: 165 οὗτος vocativo: 184; 208 s. ὀχετός: 192 ὀχέω: 192 ὄχθοιβος: 80 πάντως per intensificare il significato del verbo a cui si riferisce: 155 παράπαν, τό in contesto di negazione: 136 παρατίθημι nel senso di ‘servire a tavola’: 161 πάρειμι: 111 παροψίς pietanza vel piatto da portata: 299 s. πέρδιξ: 307 πέρδομαι: 44 s. περιέρρω: 48 περιστέριον: 212 πέταλον: 204 s. πιθών: 222 πίμπρημι: 23 πινακίσκος: 111 πλευρὰ δελφάκεια: 112 πολλαγόρασος: 179 πολυπραγμονέω: 323 πόρρωθεν: 236 προσαίρω sinonimo di προσφέρω e παρατίθημι : 215 s. προσέχειν τὸν νοῦν espressione collquiale: 324 προσκινέω: 197 προσσαίρω: 197

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προσφέρω nel linguaggio tecnico del sacrificio: 216 πύνδαξ: 90 πυός: 113 πυρέττω: 20 Πυρρίας antroponimo servile: 283 s. ῥέζω: 314 ῥόδον: 116 ῥύγχος ὑός: 82 s. σέλινον: 197; 303 στρέφω con valore osceno: 279 στρόβιλος: 276–278 στρόφιον: 79 s. σφακελίζω: 23 σχελίδες δ’ ὁλόκνημοι nel senso di ‘cosce di bue’: 111 σῶμα nel senso di ‘persona’: 174 s. τεμάχη: 111 τευθίς: 193 τεῦτλον: 111 τήγανον vel τάγηνον: 87 τηλίαι: 179 τί δαί; con valore colloquiale e connettivo: 55 τί ληρεῖς; con valore colloquiale: 136 τί μ’ εἴργασαι; con valore colloquiale o paratragico: 29 s. τριβώνιον indumento dei filosofi: 157 τριβώνιον diminutivo di τρίβων con valore peggiorativo: 157 s. τρίοδοι: 189 s. τρίφυλλον: 120 τρίχαπτος: 115 τρώγω: 22 τυραννίς: 226 τύραννος: 226 ὑάκινθος: 196 ὑπερβολαῖος: 293 ὑποβλέπω nel senso di ‘guardare con ostilità’: 315

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Index rerum

ὑποπίνω nel senso di ‘bere con moderazione’: 316 s. ὕω: 191 φιάλη: 182 s. φιβάλεα σῦκα: 21–23 φιλέω nel senso di ‘baciare’: 197 φίλιος: 68 φλέος: 181 φροντίζω μηδέν / οὐδέν nel senso di ‘non darsi pensiero’: 21 φυλλοροέω: 193 φύσκαι: 110 χαίρω: 146 χαρακισμός: 189 χναυρός: 112

χοῖνιξ: 90 χόνδρος: 112 s. χορδαὶ δώδεκα osceno?: 259 s. χορδή: 193 χορδή nel senso di ‘corda’ vel ‘suono’: 256 χοῦς: 165 χρεία: 188 s. χρῆσται: 83 s. χρυσίς: 182 s. ψωθία (vel ψωθίον) moneta dell’Ade: 16 s.; 24–26 ὡς con valore esclamativo: 50 ὡς ἔχετ(ε): 114

Index rerum α privativo impiegato per la formazione di aggettivi: 30 -ί deittico in commedia: 82 accumulazione asindetica di aggettivi: 235 asindetica di recipienti: 113 asindetica di sostantivi: 79 asindetica di verbi all’infinito: 214 di iperbati: 272 di participi: 145 s. di τραγήματα in commedia: 301 s. polisindetica di sostantivi: 301 s. terminante in eutelismos: 80 trimembre di aggettivi: 292 Achille personaggio del Cheirōn: 304 s. Ade collocato nel sottosuolo: 114 come distesa d’acqua: 114 agoni drammatici pressioni sui giudici: 67 s. scelta del vincitore: 67 s. agyieus epiteto di Apollo: 41 s. sulla scena teatrale: 42 allocuzioni al pubblico: 62; 297; 322

anabolai: 269–271 anafora di ἐμοί: 251 anastrofe di κάτειπέ μοι: 85 antitesi δοκέω/φρονέω: 298 aoristo per azioni puntuali e periodiche: 291 Ateneo fonte di Eustazio: 86; 159 automatos bios in commedia: 29 s.; 94; 105; 110; 115 bomolochos personaggio comico: 230 brodo nero ricetta spartana e ricetta ateniese: 109 Cheirōn composizione del coro: 240 dubbi sulla paternità della commedia: 240 s. Chirone: 239 nei titoli di commedie: 239 personaggio del Cheirōn: 240 Cinesia ditirambografo: 262 s.; 272–274 legame con la danza pirrica: 273 s.

Index rerum Cipro in connessione al culto di Afrodite: 213 Citera in connessione al culto di Afrodite: 213 climax ascendente di infiniti verbali: 214 Clistene figlio di Autocrate: 210–213 Colono agoraios: 209 hippios: 209 Columbidae in connessione al culto di Afrodite: 212 composti in -άνθρωπος: 129; 318 s. in -πλήξ: 46 s. consonantizzazione di -ι- in ποιέω: 91 costruzioni sintattiche futuro iussivo: 316 ἄτοπόν ἐστι + infinito: 50 ὄζειν + genitivo: 53 τρώγω + genitivo: 22 ὑφάπτω + genitivo: 181 ὕω usato personalmente: 191 dativus sociativus con αὐτός: 109 decocta: 321 degradatio comica di Eracle: 320 di Zeus: 191 s.; 230 depilazione femminile: 116 Deucalione: 161 nei titoli di commedie: 131 personaggio nei Myrmēkanthrōpoi: 131; 159 Diogeniano fonte di Esichio: 156; 162 divieto di esportazione di attrezzature navali da Atene: 199–201 egida: 140 s. Eschilo personaggio nei Krapataloi: 13; 60 Esiodo Grandi Eoie: 310 s. Grandi Opere: 310 s. Praecepta Chironis: 310 s. etèra protagonista di commedie: 204 s.

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Eveno di Paro: 316 Ferecrate poeta ‘atticissimo’: 105 dubbi sulla paternità di commedie a lui ascritte: 318 s. fichi dal doppio raccolto (diphoroi): 69 s. fibalei: 21 s. mangiati a mezzogiorno: 22 prescrizioni dietetiche: 22 s. uso medicinale: 198 s. figure di ripetizione ἐκπιεῖν … μὴ πιεῖν: 236 ὀχετοὶ … ὀχετεύσονται: 192 Filocrate corifeo dei Krapataloi: 66 s. fiumi nelle descrizioni di Paese di Cuccagna: 108 formiche metafora: 285 s. modello esemplare di organizzazione sociale: 130 Frinide autore di nomoi citarodici: 274 s. generazione spontanea dei frutti in contesti di automatos bios: 115 Gerytades commedia di Aristofane: 248 Giocasta personaggio nei Krapataloi: 50 Giustizia personaggio del Cheirōn: 240 hapax legomena γαστροιίδης: 235 δυσημερέω: 71 ἐκχαρυβδίζω: 64 ἐξαρμόνιος: 264–267 ἐπιξανθίζω: 112 ζυγοποιός: 188 λειριοπολφανεμώνη: 192 s. λωτοφόρος: 120 Μυρμηκάνθρωποι: 129 s. ναστίσκος: 192 ὁλόκνημος: 111 πολλαγόρασος: 179 χαρακισμός: 189 χναυρός: 112

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Index rerum

Hermes personaggio della Tyrannis: 229 infinito epesegetico: 191 iussivo: 214 invocazioni ὦ δαιμόνιε: 20 s. ὦ δέσποτα: 42 ionismi in Ferecrate δένδρη: 193 iperbato τίς … χρεία;: 188 iperbole con effetto di climax ascendente: 236 iperbole δώδεκα: 255 kōmōdoumenoi Callistene vel Clistene: 210 s. Cinesia: 263 s. Frinide: 274 s. Melanzio: 222 s. Timoteo: 282–284 Krapataloi agone: 60 composizione del coro: 11 s. katabasis: 12 s. Literaturkomödie: 60 parabasi: 63 s.; 67 pnigos della parabasi: 67 sistema monetario dell’Ade: 11 s.; 14–17; 24–26 Lēroi composizione del coro: 73 s. pnigos della parabasi: 91 Lesbo fanciulle di: 305 lira invenzione della decima corda: 255 invenzione della nona corda: 255 litote οὐκ ἄκουσα: 251 s. locus amoenus: 118 s. Mania nome di schiava: 173 s. Megallo inventore del Megalleion: 225 Melanippide: 254 Melanzio poeta tragico: 223 s.

metafora fichi diphoroi-testicoli: 69 parole-tuoni: 236 poeta-architetto: 59 s. sentieri di formiche-melodie della musica ‘nuova’: 285 s. ἀποκυβιστάω-rifiutare: 185 θολόω-sconvolgere emotivamente: 144 καμπή-innovazioni della musica ‘nuova’: 267 κάμπτω-innovazioni della musica ‘nuova’: 267 κυλίνδω-affrontare le questioni: 297 μῆλον vel μῆλα-seno femminile: 303 μύρτον-genitali femminili: 302 s. ῥόδα-genitali femminili: 116 σέλινον-genitali femminili: 197; 303 σῦκον-genitali: 70 Metallēs anastasis: 94 s. composizione del coro: 94 s. dubbi sulla paternità della commedia: 98–100; 121–124 katabasis: 12 s.; 32; 35 parabasi: 63 s. metaplasmo nella declinazione di γυνή: 49; 51 Metoikoi problemi di attribuzione della commedia: 126–128 composizione del coro: 128 metonimia metonimia egida-bufera: 139 s. metrica eupolidei nella parabasi vera e propria: 168; 199 intercambiabilità di dimetro coriambico e gliconeo: 118 s. intercambiabilità di aristofanio e ferecrateo: 118 s. prosodia di ἀµυγδάλη: 302 prosodia di ἀναδενδράδων: 118 prosodia di γάλακτι: 113 prosodia di πέρδικος: 306 tetrametro giambico acataletto vel dimetri giambici lirici: 91; 107 trimetro giambico, tribraco in seconda sede a cavallo di pausa sintattica: 285 minatori del Laurion: 95 s.

Index rerum mito del diluvio: 131 mito della ripopolazione di Egina: 131 moltiplicazione di cibi e bevande: 116 motivi carnevaleschi in commedia: 94–96; 106 s.; 192 motivo dell’ἀρχὴ κακῶν: 252 Musica personaggio del Cheirōn: 240; 261 s.; 291; 313 musica ‘nuova’ attaccata in commedia: 239 s. innovazioni attribuite a Cinesia: 264– 274 innovazioni attribuite a Frinide: 274– 282 innovazioni attribuite a Melanippide: 254–261 innovazioni attribuite a Timoteo: 284– 291 Myrmēkanthrōpoi agone epirrematico: 160 composizione del coro: 130 fusione del mito di Eaco e Deucalione: 131 s. parabasi vera e propria: 168 s. parodo: 160 pnigos di parabasi o parodo: 164 s. Myrmēx eroe attico: 129 Nicia di Nicerato personaggio nei Metallēs: 96 Nicomaco rhythmikos, presunto autore del Cheirōn: 241 presunto autore dei Metallēs: 98 s.; 123 s. Odisseo personaggio del Cheirōn: 304 s. onomatopea λάπτω: 64 σίζω: 110 τονθολυγέω: 109 Paese di Cuccagna nei Krapataloi: 11; 16; 35 s.; 57 nei Metallēs: 94–96; 104–107; 109; 114 s. nei Persai: 176 s.; 188 nella commedia antica: 11; 104–107; 114 s.

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parabasi offerta di cibo e bevande agli spettatori: 63 s. paretimologia nella formazione di scherzi comici: 230; 279 parodie comiche di passi elegiaci: 312–316 di passi esiodei: 309–312 di passi omerici: 304–306 di passi tragici: 202 s. participio perfetto nella descrizione del Paese di Cuccagna: 107 Persai agone: 177 composizione del coro: 177; 195 s. dubbi sulla paternità della commedia: 179; 201 s. parabasi: 199 Persiani caratterizzazione in commedia: 176 s. nei titoli di commedie: 176 Petalē etimologia del nome: 204 s. personaggi: 204 s. protagonista della Petalē: 204 philios epiteto di Zeus: 68 Pirra personaggio nei Myrmēkanthrōpoi: 143; 159 pleonasmo di λαβών: 89 προσαιρέω/προσφέρω: 216 s. Pluto identificato con Plutone: 107; 114; 190 s. in commedia: 190 s. personaggio nei Persai: 177 Poiēsis commedia di Aristofane: 248 poliptoto τὰ καλὰ τῶν καλῶν: 115 πάντα … ἐν πᾶσιν: 108 σοί ... ἐμοί: 251 porte dell’Ade: 40 Povertà personaggio nei Persai: 177; 188 s.

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Index rerum

precetti di galateo ospitale: 312–314; 316 Priamel comicamente distorta: 250 profumi Megalleion: 224 s. prolessi di ὄνομα: 84 proverbi sulla pernice: 306 s. γυμνῷ φυλακὴν ἐπιτάττειν: 237 s. ἐν πίθῳ τὴν κεραμείαν μανθάνειν: 220 ἢ τρὶς ἓξ ἢ τρεῖς κύβοι vel κύβoυς: 172 κατὰ χειρὸς ὕδωρ: 298 Pseudēraklēs possibile doppio titolo: 318 scatologica, comicità: 43 s. scene comiche davanti a porta chiusa: 39 s. del servo al mercato: 179 di furto a simposio: 183 s. di furto di offerte: 57 di fustigazione: 46 di presentazione delle pietanze da parte del cuoco: 114 di richiesta del nome: 84 Schlaraffenland vd. Paese di Cuccagna Simonide di Paro: 317 sineddoche κέραμος-tetto: 191 s.

talento quantità di denaro: 308 Tartaro vd. Ade Timoteo di Mileto: 282 s. tirannide in commedia: 226 titoli di commedie al plurale: 11 s.; 73 s.; 110 composti dalla fusione di due elementi nominali: 129 composti in ψευδ-: 318 Toricione: 200 s. Tyrannis parabasi: 234 s. parodo: 234 s. uva da tavola, affogata nel vino: 192; 303 vecchiaia che reca saggezza: 296 femminile in commedia: 153 in commedia: 296 s. verbi etnonimi in -ίζω: 304 vino non diluito, bevuto in banchetti e simposi: 221