FrC 5.2 Pherekrates frr. 43-84 [1 ed.]
 9783949189890, 9783949189876

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Fragmenta Comica Pherekrates Doulodidaskalos – Korianno Doulodidaskalos Epilesmon e Thalatta Ipnos e Pannychis Korianno

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Fragmenta Comica (FrC) Kommentierung der Fragmente der griechischen Komödie Projektleitung Bernhard Zimmermann Im Auftrag der Heidelberger Akademie der Wissenschaften herausgegeben von Glenn W. Most, Heinz-Günther Nesselrath, S. Douglas Olson, Antonios Rengakos, Alan H. Sommerstein und Bernhard Zimmermann

Band 5.2 · Pherekrates, Doulodidaskalos – Korianno

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Andrea Pellettieri

Ferecrate Doulodidaskalos – Korianno (frr. 43–84) Traduzione e commento

Verlag Antike

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Dieser Band wurde im Rahmen der gemeinsamen Forschungsförderung von Bund und Ländern im Akademienprogramm mit Mitteln des Bundesministeriums für Bildung und Forschung und des Ministeriums für Wissenschaft, Forschung und Kultur des Landes Baden-Württemberg erarbeitet.

Die Bände der Reihe Fragmenta Comica sind aufgeführt unter: http://www.komfrag.uni-freiburg.de/baende_liste Bibliografische Information der Deutschen Nationalbibliothek: Die Deutsche Nationalbibliothek verzeichnet diese Publikation in der Deutschen Nationalbibliografie; detaillierte bibliografische Daten sind im Internet über https://dnb.de abrufbar. © 2024 Verlag Antike, Robert-Bosch-Breite 10, D-37079 Göttingen, ein Imprint der Brill-Gruppe (Koninklijke Brill NV, Leiden, Niederlande; Brill USA Inc., Boston MA, USA; Brill Asia Pte Ltd, Singapore; Brill Deutschland GmbH, Paderborn, Deutschland; Brill Österreich GmbH, Wien, Österreich) Koninklijke Brill NV umfasst die Imprints Brill, Brill Nijhoff, Brill Schöningh, Brill Fink, Brill mentis, Brill Wageningen Academic, Vandenhoeck & Ruprecht, Böhlau, Verlag Antike und V&R unipress. Alle Rechte vorbehalten. Das Werk und seine Teile sind urheberrechtlich geschützt. Jede Verwertung in anderen als den gesetzlich zugelassenen Fällen bedarf der vorherigen schriftlichen Einwilligung des Verlages. Umschlaggestaltung: disegno visuelle kommunikation, Wuppertal Vandenhoeck & Ruprecht Verlage | www.vandenhoeck-ruprecht-verlage.com ISBN 978-3-949189-89-0

Alla memoria di mia sorella Claudia

Sommario Ringraziamenti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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Δουλοδιδάσκαλος (Doulodidaskalos) (“L’ istruttore di schiavi”) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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Ἐπιλήσμων ἢ Θάλαττα (Epilēsmōn ē Thalatta) (“Lo smemorato o Thalatta”) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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Ἰπνὸς ἢ Παννυχίς (Ipnos ē Pannychis) (“La cucina o Pannychis/La festa notturna”) . . . . . . . . . . . . . . . . 100 Κοριαννώ (Koriannō) (“Coriannò”) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 131 Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 168 Indices . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 189

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Ringraziamenti Al Prof. Bernhard Zimmermann, che ha voluto accogliere il presente commento nella serie dei Fragmenta Comica, sono particolarmente grato, tanto più che egli, con umana condiscendenza, mi ha concesso un supplemento di tempo quando il mio lavoro ha dovuto di necessità subire un rallentamento. Parimenti, ringrazio il mio maestro Emanuele Dettori per avermi incoraggiato a intraprendere gli studi comici, nonché per i tanti e sempre preziosi suggerimenti. Durante i colloqui organizzati nell’ambito del progetto KomFrag, ho potuto fare tesoro delle osservazioni di diversi studiosi, tra i quali ricordo in particolare Andreas Bagordo, Francesco Paolo Bianchi, Mattia De Poli, Michele Napolitano, Christian Orth, Athina Papachrysostomou, Felice Stama e Andreas Willi. Sono tuttavia il solo responsabile degli errori e delle inesattezze che il lettore troverà nelle pagine seguenti.

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Δουλοδιδάσκαλος (Doulodidaskalos) (“L’ istruttore di schiavi”)

Bibliografia Bergk 1838, pp. 298–299; Meineke FCG I, p. 82; Kock CAF I, p. 155; Geissler 1969, pp. XI, 22–23; Schmid 1946, p. 104; Urios-Aparisi 1992, pp. 173–176; Urios-Aparisi 1996–1997, p. 79; Quaglia 2001, pp. 236–241; Sells 2013, pp. 102–103 Titolo Il titolo consiste di un composto determinativo endocentrico il cui primo membro δουλο- va inteso, per ragioni legate al contenuto della commedia (vd. infra), come specificazione del determinato -διδάσκαλος1, che qui ha probabilmente il significato di ‘istruttore’, ‘insegnante’ di una technē o di una disciplina2. Il composto occorre di nuovo soltanto in Procop. Hist. Secr. 15.16 in riferimento a Teodora: in questo caso, tuttavia, il suo significato è figurato e -διδάσκαλος va inteso in senso generico3. Una commedia dal titolo Ἀσωτοδιδάσκαλος è attribuita ad Alessi4 in Ath. 8.366d-f: probabilmente qui -διδάσκαλος non ha valore tecnico di ‘istruttore’, ‘insegnante’ ma è da intendere in senso metaforico, come sembra indicare la tirata edonistica di un servo nell’ unico fr. pervenutoci (25), quasi una ‘lezione’ di asōtia tenuta davanti ad alcuni conservi5. Se si tralasciano i composti con secondo elemento -διδάσκαλος riferiti all’ attività poetica e ‘musicale’, gli unici paragonabili formalmente e, grosso modo, cronologicamente al titolo ferecrateo sono τυραννοδιδάσκαλος (Pl. Thg. 125a) e γεροντοδιδάσκαλος (Pl. Euthd. 272c). Essi si riferiscono infatti a categorie umane che, per ragioni sociali e culturali, è sconveniente accostare a un didaskalos o, comunque, a un qualche tipo di didaskalia; il loro effetto deve dunque essere straniante. Essi possono anzi essere considerati espressivi e connotati in senso ironico6: è proprio l’ uso di γεροντοδιδάσκαλος a darci un’ indicazione in questo senso. Socrate, infatti, dichiara in Euthd. 272c di 1

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Sarebbe possibile altrimenti interpretare il composto come un dvandva e tradurre ‘che è al contempo doulos e didaskalos’. Non tutte le fonti tramandano il titolo nella forma di un composto al singolare: vd. δούλῳ διδασκάλῳ in Et.Gen. AB s. v. Θήσειον ap. Miller 1868, p. 159 (fr. 46), Σb α 1415 (fr. 51) e Su. α 2141 (fr. 52); Δουλοδιδασκάλοις in Σb α 2269 (fr. 48). Vd. ad es. Xen. Mem. 4.2.2 e cfr. Westermann 1914, p. 306. Procopio intende infatti dire che lo Stato è ridotto in schiavitù e ciò è responsabilità di Teodora, che è stata ‘maestra’ in tal senso. Sui problemi di attribuzione vd. Arnott 1996, pp. 819–830, con bibliografia. Sul termine asōtia cfr. ad es. Cozzo 1991, pp. 47–49. Joyal 2000, p. 234 ritiene che «τυραννοδιδάσκαλος is employed by Libanius […] in his defence of Socrates against the charge that he taught Critias to be a tyrant; the word may therefore have appeared originally in Policrates’ κατηγορία as part of the defamation of Socrates himself». In realtà, quella di Libanio potrebbe essere solamente una citazione platonica; la tesi di Joyal, ad ogni modo, non toglie che tyrannodidaskalos possa essere un termine espressivo, sebbene usato in contesto giudiziario.

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Pherekrates

apprendere l’ arte della cetra da un maestro di nome Conno, pur essendo ormai anziano; gli altri allievi, fanciulli, sono mossi al riso a tale spettacolo e chiamano Conno, appunto, γεροντοδιδάσκαλος. I passi platonici citati, dunque, ci permettono di comprendere la vena ironica che si nasconde dietro al titolo ferecrateo; ciò non vuol dire però che esso non possa indicare un vero e proprio mestiere, sia pure raro e non convenzionale, vd. infra. Contenuto Bergk credeva, invero senza solidi argomenti, che il Doulodidaskalos fosse affine a quelle commedie ferecratee che portavano in scena lo stato dell’ umanità in un’ età aurea priva di distinzioni e vincoli sociali. Più precisamente, egli riteneva che il poeta «repraesentavit […] eam vitae humanae conditionem, cum prisca felicitate et simplicitate iam evanescente, mortales aliorum opera indigerent. Itaque induxit aliquem, qui servos variis disciplinis atque artibus instrueret» (Bergk 1838, p. 298). Simili conclusioni non sono però ricavabili da testimonianze come Poll. 3.80, in cui è improbabile che la parola εὔδουλος possa essere attribuita al Doulodidaskalos (vd. infra, comm. ad test. ii); il fr. 50, poi, un’ abbondante lista di pietanze del tipo di quelle che saranno frequenti anche nella mesē, potrebbe essere un espediente comico tradizionale piuttosto che la descrizione di un paese di cuccagna del tipo di quelli che Ferecrate immagina altrove (ma vd. infra). Meno fuorvianti le indicazioni di Meineke FCG I, p. 82, che valorizza la testimonianza di Ateneo (vd. infra, test. i). Qui il personaggio parlante, Democrito, si stupisce dell’ impassibilità dei servi nei confronti dei lauti manicaretti che essi hanno sempre davanti agli occhi. Ciò non è dovuto alla paura di una punizione, né tantomeno a un particolare insegnamento del tipo di quelli impartiti ai servi nel Doulodidaskalos ferecrateo: l’ abitudine stessa, infatti, può essere maestra anche di chi non ha alcuna virtù morale che, per natura, gli consenta di essere continente. Dal ragionamento di Democrito possiamo dedurre, con Forbes 1955, p. 325 che «the slave-teacher trained slaves not in ethics and codes of moral behavior, for example to keep them from petty thievery, but in the performance of their skilled or semi-skilled task». La cosa non stupisce, anche alla luce di un passo che potrebbe essere importante nell’ interpretazione della commedia di Ferecrate, Aristot. Pol. 1255b 22: ἐπιστήμη δ’ ἂν εἴη καὶ δεσποτικὴ καὶ δουλική, δουλικὴ μὲν οἵαν περ ὁ ἐν Συρακούσαις ἐπαίδευεν· ἐκεῖ γὰρ λαμβάνων τις μισθὸν ἐδίδασκε τὰ ἐγκύκλια διακονήματα τοὺς παῖδας. Aristotele parla di schiavi istruiti in quelli che, con Schütrumpf, possiamo chiamare «übliche Dienstleistungen»7, probabilmente gli stessi che gli schiavi ferecratei erano chiamati ad apprendere sotto la guida del doulodidaskalos. Certo, va ricordato che non era infrequente, in età antica, far apprendere un mestiere o una technē ai propri schiavi: numerosi sono gli esempi a partire dall’ età ellenistica, cfr. Forbes 1955 e Wrenhaven 2015. I frr. conservati, tuttavia, sembrano fare in alcuni casi riferimento ad attività che non richiedevano una particolare specializzazione: ciò potrebbe farci pensare che l’ istruttore 7

Schütrumpf 1991, p. 295.

Δουλοδιδάσκαλος

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di schiavi non insegnasse i rudimenti di un mestiere o di un’ arte (eccetto quella culinaria, probabilmente), bensì quale fosse il modo più raffinato di compiere i gesti e i servizi all’ apparenza più banali per un servo, vd. fr. 45. In quest’ ultimo fr., tra l’ altro, un personaggio (forse proprio il doulodidaskalos) chiede a un altro (uno schiavo, presumibilmente) di svolgere un certo compito: è almeno possibile pensare che nella commedia fossero previsti ‘interrogazioni’ ed ‘esami’ per gli schiavi – cose, queste, quanto mai adatte a far scattare i meccanismi del comico, cfr. anche fr. 50 e vd. infra8. Basandosi su Ateneo (test. i), Urios-Aparisi 1996–1997, p. 79 ritiene che il tema centrale della commedia dovesse essere il cibo e che i servi fossero istruiti «by “eating”»; i riferimenti a pietanze e a banchetti, tuttavia, sono così frequenti nella commedia antica che è rischioso trarre simili conclusioni. In ogni caso, il tema del cibo e della buona tavola potrebbe aver avuto una funzione particolare nel Doulodidaskalos, vd. infra. Potremmo supporre, anche sulla base del passo aristotelico sopra riportato, che il doulodidaskalos ferecrateo percepisse un compenso per i suoi insegnamenti: ciò potrebbe aver offerto l’ occasione per mettere comicamente in rilievo la mancanza di scrupoli e l’ attaccamento al denaro di quello che doveva essere il personaggiochiave dell’ intera commedia. Del resto, in riferimento alla testimonianza aristotelica, Schütrumpf 1991, p. 295 ricorda opportunamente che un compenso era percepito anche dai sofisti in cambio delle loro lezioni. Il confronto implicito proposto dallo studioso potrebbe darsi anche nel nostro caso: il tema dell’ istruzione venale, sia pur deformato e riadattato all’ istruzione di schiavi, potrebbe aver avuto un ruolo nella commedia ferecratea (ma è impossibile andare oltre tale congettura)9. Proprio il passo aristotelico, ad ogni modo, ci suggerisce che lo spunto di Ferecrate non dovesse essere frutto di fantasia. Che poi Aristotele ricavasse la notizia da una testimonianza diretta di Platone, come suppone Forbes 1955, p. 325, non può dirsi con certezza; l’ uso dei verbi al passato potrebbe suggerire che Aristotele facesse riferimento a un costume già diffuso in età precedente. Come già accennato, la commedia di Ferecrate avrà deriso i modi e le finezze dei servizi che i servi, debitamente istruiti, avrebbero dovuto offrire: l’ insegnamento impartito dal doulodidaskalos, insomma, non avrebbe avuto finalità pratiche se non quelle di educare gli schiavi a svolgere in maniera raffinata anche i più elementari servizi domestici10. Gli schiavi, in altre parole, non sarebbero stati avviati a una

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Un esame per lo schiavo era previsto in alcuni contratti di apprendistato molto più tardi, cfr. Westermann 1914, p. 308. Qualcosa di simile è già in Urios-Aparisi 1992, p. 174, che ipotizza un parallelo tra il pensatoio di Ar. Nu. e una scuola per schiavi nella commedia ferecratea. Il fatto che l’ educazione degli schiavi domestici fosse solitamente demandata alle donne padrone di casa, ha fatto ritenere che il doulodidaskalos ferecrateo potesse essere appunto una donna, cfr. Urios-Aparisi 1992, p. 175 e Henderson 2000, p. 138 (secondo cui la commedia «portrayed a matron and her female staff»; tale ipotesi è forse dovuta alla

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Pherekrates

mansione remunerativa per il loro padrone. In questo senso, essi potrebbero essere stati considerati come una sorta di bene di prestigio e presi a simbolo di un lusso fine a sé stesso, secondo una concezione della ricchezza contraria, ad esempio, ai principi espressi da Pericle nel discorso tucidideo11. Potremmo insomma pensare che l’ ingaggio di un doulodidaskalos fosse un segno di tryphē12. Se la figura dell’ istruttore di schiavi doveva avere un ruolo centrale nella commedia (secondo una caratteristica che sembra evincersi da alcuni titoli ferecratei)13, importanti saranno stati anche gli schiavi: in ciò si è vista un’ anticipazione del ruolo che essi avrebbero poi avuto nella commedia di mezzo e nuova14; ipotesi significativa questa, se si pensa che Ferecrate portò spesso in scena, forse da protagoniste, quelle etère che sarebbero divenute personaggi tipici della commedia di età successiva15. Come già accennato, possiamo ipotizzare che, nel corso dell’ azione, degli schiavi venissero messi alla prova o, per lo meno, ricevessero diversi ordini: ciò avrà dato modo di inscenare molte situazioni comiche in cui a frustrare le velleità del padrone e dell’ istruttore saranno stati probabilmente schiavi maldestri, scontrosi e pigri. È pertanto verisimile che molteplici imprecazioni contro i servi venissero pronunciate, del tipo di quella che troviamo in fr. 94 (cfr. Ar. Av. 1323 e vd. Franchini 2020, pp. 46–47); del resto, che il trattamento riservato allo schiavo manchevole non fosse tenero potrebbe essere testimoniato dal fr. 55. Già Kock CAF I, p. 155 riteneva che il coro fosse composto da donne sulla base del fr. 51, un tetrametro anapestico recitato forse da una delle donne che partecipavano alla fabbricazione del peplo in occasione delle Panatenee (se è valida la connessione tra fr. 51 e schol. (M) Eur. Hec. 467 Schwartz τᾶς καλλιδίφρου Ἀθαναίας· οὐ μόνον γὰρ παρθένοι ὕφαινον […] ἀλλὰ καὶ τέλειαι γυναῖκες, ὡς Φερεκράτης ἐν Δουλοδιδασκάλῳ, vd. comm. ad loc.). Un intervento del corifeo

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possibilità di riconoscere un coro femminile, vd. infra); tuttavia, l’ istruttore di schiavi portato in scena doveva apparire una figura di eccezione agli occhi del pubblico; se poi l’ analogia con gli istruttori salariati di cui parla Aristotele (vd. supra) coglie nel segno, dovremmo a maggior ragione abbandonare l’ ipotesi che fosse un membro dell’ oikos a occuparsi dell’ istruzione degli schiavi, cfr. Quaglia 2001, p. 237 n. 6. Thuc. 2.40.1, cfr. ad es. Musti 1981, pp. 102–104. Ciò, a rigore, non escluderebbe l’ ipotesi appena accennata da Quaglia 2001, pp. 237– 238, secondo cui il Doulodidaskalos potrebbe mettere in scena una polemica contro «l’ eccessiva attenzione che gli schiavi ricevevano in certi ambienti “progressisti” della fine del V sec.», ipotesi in verità molto incerta: l’ autore pensa infatti a Antipho Soph. VS 87 B 44B col. II, passo problematico che probabilmente non allude a una presunta naturale uguaglianza tra liberi e schiavi (peraltro non menzionati) e per il quale basti qui rimandare a CPF I.1*, pp. 187–192; Pendrick 2002, pp. 351–366, comm. ad F. 44(b). Cfr. Zimmermann 2011, p. 737. Vd. Hasper 1877; Zimmermann 2011, pp. 738–739. Per lo sviluppo del ruolo dello schiavo nella commedia cfr. Nesselrath 1990, pp. 283–296. Cfr. Nesselrath 1990, pp. 318–324.

Δουλοδιδάσκαλος (test. i)

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sembra riconoscersi, infine, in fr. 50.1: qui un personaggio ne interroga un altro a proposito di un deipnon, vd. comm. ad loc. Datazione La datazione è incerta; Schmid 1946, p. 104 n. 4 suggerisce il 445 a.C. come terminus post quem per la rappresentazione della commedia: ciò sulla base di fr. 52 (κἀναψηφίσασθ’ ἀποδοῦναι πάλιν τὰ χρυσία), confrontabile, come pensava già Meineke, con Cratin. fr. 76 [Thrāttai] (ὅτι τοὺς κόρακας τἀξ Αἰγύπτου χρυσία κλέπτοντας ἔπαυσαν), che farebbe infatti riferimento alla donazione di Psammetico avvenuta nel 445/4. Geissler 1969, p. 22, pur notando che la donazione di Psammetico era in grano, non in oro, data la commedia di Ferecrate al 435–430 proprio sulla base della somiglianza del fr. 52 col citato Cratin. fr. 76. È però possibile che il fr. 52 facesse riferimento ad altre donazioni, come ad esempio quella di Paapis testimoniata in Leucone fr. 1 (dai Phrateres, risalenti al 421 a.C.). Tali confronti, tuttavia, non sono affatto decisivi e altre strade potrebbero tentarsi, vd. comm. ad fr. 52. Altamente ipotetico rimane anche il terminus ante quem del 411 (data della messa in scena della Lisistrata aristofanea), da me suggerito nel comm. ad fr. 55, sulla base di una laconica glossa dell’ Antiatticista. Quaglia 2001, pp. 275–276, tenendo presente la datazione proposta da Geissler e credendo che il fr. 51 sia pronunciato da un coro composto di Ergastinai incaricate di tessere il peplo in occasione delle Grandi Panatenee (vd. infra), suggerisce il 434/33 e il 430/29 come possibili anni per la rappresentazione del Doulodidaskalos16. Contro tale ipotesi si dovrà notare innanzitutto che la datazione proposta da Geissler posa, come già ricordato, su basi incertissime. Inoltre, nel fr. 51 il riferimento sembra alla filatura delle lane da usare per il peplo, non alla tessitura dello stesso, vd. comm. ad loc.: semmai, dunque, si potrebbe pensare che la commedia fosse rappresentata nell’ anno precedente rispetto a uno degli anni in cui, nella seconda metà del V sec., caddero le Grandi Panatenee – ma va detto che i tempi di lavorazione del peplo, soprattutto nelle fasi preliminari alla effettiva tessitura, non sono ricostruibili con sicurezza, cfr. Wesenberg 2015, p. 111.

test. i Ath. 6.262b ἀεί ποτε ἐγώ […] τεθαύμακα τὸ τῶν δούλων γένος ὥς ἐστιν ἐγκρατὲς τοσαύταις ἐγκαλινδούμενον λιχνείαις. ταύτας γὰρ ὑπερορῶσιν οὐ μόνον διὰ φόβον ἀλλὰ καὶ κατὰ διδασκαλίαν, οὐ τὴν ἐν Δουλοδιδασκάλῳ Φερεκράτους, ἀλλὰ ἐθισθέντες.

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Quaglia ricorda infatti che «l’ unico accenno al peplo presente in Aristofane, è contenuto in una commedia, gli Uccelli (v. 827), che andarono in scena in un anno in cui la festa fu effettivamente celebrata».

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Pherekrates Mi sono sempre stupito […] di come la genia dei servi sappia controllarsi pur se circondata da cotante prelibatezze. Le ignorano, evidentemente, non solo per paura, ma anche per un’ istruzione che non è quella de L’ istruttore di schiavi di Ferecrate – piuttosto, sono abituati.

Contesto della citazione

Vd. supra, Introduzione. test. ii

Poll. 3.80 (codd. FS, A, BC) εὔδουλος δὲ (δὲ om. B) ὁ τοῖς δούλοις εὖ (εὖ post ὁ C, om. B) χρώμενος παρὰ Φερεκράτει (fr. 244) (παρὰ δὲ Φ. οὗ FS), καὶ τὸ δρᾶμα Δουλοδιδάσκαλος (οὗ καὶ τὸ δρᾶμα ὁ διδ- FS, καὶ τὸ δρ. Δ. om. BC) (Vi è) poi eudoulos, ‘colui che tratta bene i servi’ in Ferecrate (fr. 244), e anche la commedia Doulodidaskalos.

Contesto della citazione Polluce dà una lista di composti formati a partire dal sostantivo δοῦλος. εὔδουλος e Δουλοδιδάσκαλος si trovano vicini perché entrambi testimoniati da Ferecrate, ma non è affatto detto che l’ aggettivo εὔδουλος ricorresse nel Doulodidaskalos: dalla testimonianza di Polluce, dunque, non possiamo ricavare alcuna informazione sul contenuto della commedia17. Cfr. tuttavia Kaibel ap. Kassel–Austin VII, p. 210 s. fr. 244: «proclivis est sed incerta coniectura poetam in Δουλοδιδάσκαλος vocabulo εὔδουλος usum esse».

fr. 43 (39 K.) κίθαρος γεγενῆσθαι κἀγοράζειν κίθαρος ὤν. (B.) ἀγαθόν γ’ ὁ κίθαρος καὶ πρὸς Ἀπόλλωνος πάνυ. (A.) ἐκεῖνο θράττει μ’, ὅτι λέγουσιν, ὦ ‘γαθή· ἔνεστιν ἐν κιθάρῳ τι κακόν 1 κίθαρος – ὤν A : om. CE 2 ἀγαθόν Schweighäuser : ὡς ἀγ- ACE γε ὁ CE : γ’ εο ὁ A 3 ἐκεῖνο 〈δὲ〉 Kock 1875, p. 412 ὅτι, λέγουσιν («i. e. ὡς λέγουσιν, i.q. φασίν») Blaydes («possis etiam ὅ γε λέγουσιν» van Herwerden2) ὦγαθὴ A : om. CE 4 ἔνεστιν ἐν ACE : -ι κἀν Gesner : 〈ἐνίοτ’〉 -ιν ἐν Kock τι 〈καὶ〉 Meineke, Kock

(…) essere diventato un pesce Cetra e da pesce Cetra frequentare l’ agorà. (B.) Buona cosa, il pesce Cetra, e proprio apollinea! (A.) Mi turba quel che dicono, mia cara: ‘nel pesce Cetra v’ è del male’. 17

Cfr. Quaglia 2001, p. 239.

Δουλοδιδάσκαλος (fr. 43)

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Ath. 7.305f-306b κίθαρος. Ἀριστοτέλης ἐν τῷ περὶ ζῴων ἢ περὶ ἰχθύων (fr. 210 Gigon = 319 Rose) «ὁ κίθαρος», φησί, «καρχαρόδους, μονήρης, φυκοφάγος, τὴν γλῶτταν ἀπολελυμένος, καρδίαν λευκὴν ἔχων καὶ πλατεῖαν». Φερεκράτης Δουλοδιδασκάλῳ (om. CE)· «κίθαρος – κακόν». Ἐπίχαρμος Ἥβας γάμῳ (fr. 58)· «ἦν δ’ ὑαινίδες 〈τε〉 βούγλωσσοί τε καὶ κίθαρος ἐνῆς». ὅτι δὲ διὰ τὸ ὄνομα ἱερὸς εἶναι νενόμισται τοῦ Ἀπόλλωνος εἴρηκεν Ἀπολλόδωρος (FGrHist 244 F 109b). Καλλίας (fr. 6.1) δ’ ἢ Διοκλῆς Κύκλωψι· «κίθαρος ὀπτὸς καὶ βατὶς θύννου τε κεφάλαιον τοδί». ὁ δ’ Ἀρχέστρατος ἐν τῇ Ἡδυπαθείᾳ (fr. 32 Olson–Sens = SH 162)· «κίθαρον δὲ κελεύω, / ἂν μὲν λευκὸς ἔῃ 〈….〉 στερεός τε πεφύκῃ, / ἕψειν εἰς ἅλμην καθαρὰν βαιὰ φύλλα καθέντα· / ἂν δ’ ᾖ πυρρὸς ἰδεῖν καὶ μὴ λίαν μέγας, ὀπτᾶν / ὀρθῇ κεντήσαντα δέμας νεοθῆγι μαχαίρᾳ. / καὶ πολλῷ τυρῷ καὶ ἐλαίῳ τοῦτον ἄλειφε· / χαίρει γὰρ δαπανῶντας ὁρῶν, ἐστὶν δ’ ἀκόλαστος». Kitharos. Aristotele, nel trattato Sugli animali o Sui pesci (fr. 210 Gigon = 319 Rose), dice «il kitharos ha i denti aguzzi, è solitario, si nutre di alghe, ha la lingua non fissa, ha un cuore bianco e largo». Ferecrate nel Doulodidaskalos: «essere diventato – male». Epicarmo nelle Nozze di Ebe (fr. 58): «c’ erano puntazzi e sogliole e c’ era anche il kitharos». Secondo Apollodoro (FGrHist 244 F 109b), è considerato sacro ad Apollo per via del nome. Callia (fr. 6.1) o Diocle nei Ciclopi: «un kitharos arrostito, una razza e questa testa di tonno qui». Archestrato nella Hēdypatheia (fr. 32 Olson–Sens = SH 162): «quanto al kitharos, ti esorto, / se è bianco 〈…〉 ed è duro, / a lessarlo aggiungendo qualche foglia alla salamoia pura; / se invece è d’ aspetto rossastro e non troppo grande, arrostiscilo / dopo averne punzecchiato il corpo con la punta di un coltellaccio appena affilato. / Poi condiscilo con molto formaggio e olio: / gli piace vedere gente che spende: è sfrenato»

Metro Trimetri giambici

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Bibliografia Gesner 1558, p. 271; Meineke FCG II.1, p. 270; van Herwerden 1868, pp. 25–26; Wilamowitz 1873, pp. 146–147; Kock 1875, pp. 411–412; Kock CAF I, p. 156; Blaydes 1896, p. 19; van Herwerden 1903, p. 14; Urios-Aparisi 1992, pp. 177–179; Quaglia 2001, pp. 241–247; Olson 2007, pp. 375–376 Contesto della citazione Ateneo menziona il kitharos nell’ ambito di un catalogo – in gran parte alfabetico – di pesci (7.277e-330b, vd. Dumont 1988). Al frammento di Ferecrate vengono giustapposte altre testimonianze, comiche e non; tra queste ultime, la più significativa ai fini dell’ interpretazione del nostro frammento è forse quella di Apollodoro. Secondo l’ erudito ateniese, infatti, il kitharos è sacro ad Apollo per via del suo nome (che rimanda alla kithara, vd. Interpretazione). Ora, il personaggio che pronuncia il v. 2 del nostro frammento dà per scontata l’ associazione tra kitharos e Apollo: tale associazione, molto probabilmente, ha basi ‘etimologiche’. Non è impossibile, considerato l’ interesse di Apollodoro per la commedia, che questi avesse presente proprio il frammento di Ferecrate: a tale

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proposito, mi permetto di rimandare alle considerazioni da me svolte in Pellettieri 2021, pp. 419–423. Testo Al v. 3 l’ integrazione 〈δὲ〉 proposta da Kock 1875 è appetibile: la particella avversativa introdurrebbe in modo adeguato un’ interpretazione del sogno alternativa a quella già espressa nel v. 2; si tratta però di un’ integrazione non indispensabile e, con Kassel–Austin, il testo tràdito può essere conservato. Al v. 4 si sarebbe tentati, sulla scia di Gesner 1558, p. 271, di scrivere κἀν anziché ἐν, cfr. infatti lo stesso proverbio come riportato in Ar. fr. 591.60–61 (= CLGP 28 fr. C+D+E col. I, ll. 12–13) e vd. i formalmente affini Greg. Cypr. III.8 e Apost. VIII.25. Non è invece necessario integrare καὶ dopo τι, come volevano Meineke e Kock18. Similmente si può dire dell’ integrazione proposta da Kock a inizio verso, 〈ἐνίοτ’〉: secondo lo studioso il v. 4 significa che il kitharos era considerato per lo più un buon segno, ma talvolta (di qui l’ integrazione) poteva indicare qualcosa di negativo; a mio avviso, però, il senso del proverbio è un altro (il pesce ha allo stesso tempo caratteristiche positive e negative, vd. infra) e l’ integrazione non va accettata, anche alla luce del frammento aristofaneo già ricordato19. Meineke interpungeva ἀγαθόν γ’ ὁ κίθαρος· καὶ πρὸς Ἀπόλλωνος πάνυ / ἐκεῖνο θράττει μ’ κτλ., assegnando i vv. 2–4 a un unico parlante. Ma vd. Wilamowitz 1873, p. 147 e Kock 1875, pp. 411–412. Interpretazione Meineke per primo osservò che il personaggio A doveva narrare un sogno a una donna; così anche Wilamowitz 1873, p. 146, che pensava a una vecchia oniromante. Il confronto proposto da questi studiosi è Ar. V. 13–53; ma i sogni (e le loro interpretazioni) erano spesso descritti sulla scena, sia in tragedia che in commedia (abbondante, in proposito, è la letteratura: basti qui rimandare a Arnott 1996, p. 765; Bagordo 2014a, p. 101; Orth 2014, pp. 233–235, Stama 2016, pp. 484–485). Si può solo immaginare che il personaggio B, una donna (vd. infatti v. 3 ὦ ‘γαθή), sia un’ indovina in cerca di un pur modesto guadagno (cfr. Ar. V. 52, secondo cui la paga di un oniromante era di due oboli), vd. ad es. Del Corno 1975, p. XXII; Guidorizzi 1988, pp. XIX-XX; Diggle 2004, p. 368. Ad ogni modo, è possibile che Ferecrate avesse un preciso bersaglio comico. Si pensi all’ Antifonte autore di un Περὶ κρίσεως ὀνείρων, che doveva interpretare i sogni basandosi su «operazioni logiche e linguistiche volta per volta fondate sull’analogia o sull’ antitesi sia del significante che del significato»20. È proprio questo il metodo che sembra affiorare nella battuta del personaggio A: egli, diffidando della semplice e compiacente interpretazione del sogno data dall’ indovina, ricerca in un proverbio un possibile significato negativo, dimostrando una vena ‘antilogica’, o per lo meno un interesse all’ aspetto ‘verbale’ della visione simile a quello che doveva

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Cfr. già le osservazioni di Wilamowitz 1873, p. 146 n. 2. Esso, pubblicato nel 1908, era ignoto a Kock. Del Corno 1975, p. XXIII.

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aver caratterizzato l’ opera dello stesso Antifonte21. È però molto difficile capire quale potesse essere il significato di questa scena ai fini dell’ azione drammatica. Innanzitutto, non possiamo avere certezze sull’ identità del personaggio A: sulla base di passi comici come ad es. Ar. V. 13–53, in cui sono degli schiavi a esporre i propri sogni e a tentarne un’ interpretazione22, potremmo ipotizzare che egli sia di condizione servile, anche se il verbo ἀγοράζειν al v. 1 non è affatto decisivo in tal senso (vd. infra). Se anche l’ ipotesi fosse giusta, resterebbe comunque da capire quali fossero le conseguenze del sogno: lo schiavo cercava delucidazioni sul suo futuro? È possibile che l’ indovina volesse convincere il suo interlocutore che il kitharos, riferimento alla kithara e dunque ad Apollo, avesse un legame con la kitharōdia e con la figura del kitharōdos; in tal senso va almeno ricordato che Ar. Ec. 739 usa kitharōdos in riferimento, probabilmente, a una mola la cui ‘melodia’, quando essa venga usata dagli schiavi, sveglia tutti al mattino23 (un’ immagine, questa della mola come strumento musicale, non estranea allo stesso Ferecrate, cfr. fr. 10). Insomma, un pesce che ai più ricordava il nome di uno strumento musicale potrebbe essere stato, per uno schiavo della commedia, un vago richiamo ad attività servili. È dunque possibile, anche se si tratta di una mera ipotesi, che la scena continuasse a giocarsi su vari doppi sensi generati dal nome kitharos. 1 κίθαρος L’ identificazione del kitharos, così chiamato probabilmente a causa della sua forma, non è certa: si tende a confrontare le sue caratteristiche, così come descritteci dagli antichi, con quelle della famiglia dei Rhinobatidae, cfr. Strömberg 1943, p. 38; Thompson 1947, s.v.; Olson–Sens 2000, p. 12924. Altri pesci, probabilmente non identificabili col kitharos di Ferecrate, traggono il nome dalla forma della cetra, vd. Str. 17.823c (dove il kitharos è un pesce egiziano) e Ael. NA 11.23 (il pesce kitharōdos, cfr. Thompson 1947, s. v.). γεγενῆσθαι κἀγοράζειν I due infiniti presuppongono un verbo reggente come ἐδόκουν o simili, se coglie nel segno l’ ipotesi secondo cui il personaggio A descrive un sogno, cfr. già Meineke FCG II.1, p. 270. Come appare da Artemid. 1.50, le metamorfosi avevano significato diverso a seconda della valenza onirica dell’ animale sognato: per una possibile connotazione negativa del kitharos, vd. infra.

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Questi, stando a Antipho T9 Pendrick (Gnomol. Vindob. 50, p. 14 Wachsmuth = Gnomol. Vat. 71, p. 33 Sternbach = VS A 9), avrebbe definito la mantica come ἀνθρώπου φρονίμου εἰκασμός e avrebbe tentato una razionalizzazione della stessa, cfr. Del Corno 1969, pp. 129–132; per l’ opera di Antifonte sui sogni, vd. da ultimo Pendrick 2002, pp. 49–53, con bibliografia. Sui sogni degli schiavi, cfr. Kudlien 1991, pp. 68–81. Cfr. i comm. ad loc. di Blaydes 1881; van Leeuwen 1905; Ussher 1973; Vetta–Del Corno 1989. La traduzione ‘pesce Cetra’ (un nome volgare usato per indicare pesci della famiglia dei Citharinidae, vd. GRADIT, s. v. Cetra2), senza la pretesa di identificare la specie cui appartiene il kitharos, tenta di riprodurre il gioco di parole implicito nel v. 2 (vd. infra).

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Il verbo ἀγοράζειν è qui usato in senso assoluto ed è probabile che chi parla intenda ‘frequentare l’ agorà’ come luogo dove trascorrere del tempo, come suggeriscono Kassel–Austin in app. citando Cratin. fr. 257.2 e come avviene ad es. in Ar. Eq. 1373. In alternativa, si può pensare che il riferimento sia all’ agorà come sede del mercato, dunque a un’ attività di compera (vd. DGE, s. v. ἀγοράζω 1). La seconda ipotesi sarebbe particolarmente appetibile se il personaggio A fosse uno schiavo. Per l’ agorà nell’ onirocritica, cfr. Artemid. 3.62. 2 γε Ha qui valore esclamativo, cfr. Denniston 1954, p. 126: ciò è frequente quando la particella sia preceduta da un aggettivo o da un avverbio (spesso con elisione del verbo essere), come in questo caso. πρὸς Ἀπόλλωνος Secondo Kock 1875, p. 412 il senso del sintagma è deo optime convenire, cfr. Schwyzer–Debrunner, p. 515; Fraenkel 1950, II, p. 295; vd. anche Olson 2007, p. 375 (che traduce «“very closely connected to Apollo”» e rimanda a LSJ, s. v. πρός A.III). Quaglia 2001, pp. 244–245, come già Meineke FCG II.1, p. 270, intende invece l’ espressione come esclamativa, considerandola di conseguenza «un’ interiezione che spezza l’ andamento sintattico», ma vd. lemma πάνυ. C’ è però anche la possibilità, già presa in considerazione da van Herwerden 1868, p. 26, che esso vada confrontato con sintagmi del tipo πρὸς Διός in Il. 1.239, Od. 6.207 e che significhi dunque ‘mandato da Apollo’, ‘che dipende da / fa capo ad Apollo’25. Il kitharos non può che rimandare alla kithara e quindi ad Apollo (cfr. Ar. Th. 315, col comm. di Austin–Olson 2004, p. 156), secondo il personaggio B, che applica in effetti un metodo ‘etimologico’ tipico dell’ onirocritica (vd. ad es. Artemid. 4.23)26, anche se la sua interpretazione potrebbe non essere affatto un ridicolo autoschediasmo. Per il kitharos come sacro ad Apollo, infatti, vd. anche Ath. 7.287a e 7.306a: qui viene citata una spiegazione ‘etimologica’ di Apollodoro di Atene (nell’ opera Sugli Dei, vd. FGrHist 244 F 109b); tale spiegazione non deve essere necessariamente il frutto di mera speculazione, dal momento che esistono altri casi simili, cfr. Dölger 1922, p. 317 e A. Marchiori in Ateneo II, p. 792 n. 3. Per la possibilità che Apollodoro avesse presente il passo di Ferecrate in esame o che dipendesse proprio da esso, vd. Contesto della citazione. Giochi etimologici simili, testimoniati altrove nell’ opera di Ferecrate (si pensi al gioco di parole tra boax, nome proprio di pesce, e boē nel fr. 117, su cui vd. Franchini 2020, pp. 133–138; Pellettieri 2021, p. 421), continuano ad avere fortuna nella commedia di età successiva, cfr. Antiph. fr. 27.15–18: qui il kitharos è presentato come il pesce preferito da Misgola, eminente cittadino ateniese (vd. IG II2 2825) cui si attribuiva una grande passione per i citaredi (vd. Ath. 8.339b-c e cfr. Arnott 1996, p. 63). 25 26

Cfr. Schwyzer–Debrunner, p. 515; Garvie 1994, p. 134. Per il legame di Apollo col mondo del sogno, vd. ad es. Guidorizzi 1988, p. XXXV n. 36.

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πάνυ Rinforza il sintagma preposizionale πρὸς Ἀπόλλωνος, vd. Thesleff 1954, p. 70, che cita Ar. V. 1181 πάνυ κατ’ οἰκία; Hp. Art. 37 (4.164.4 Littré) πάνυ ἐν τῷ ἔμπροσθεν; Xen. Hier. 9.1 αἱ μὲν πάνυ πρὸς ἔχθραν ἄγειν, αἱ δὲ πάνυ διὰ χαρίτων εἶναι; An. 3.1.39 (vd. anche Cyr. 5.1.17) πάνυ ἐν καιρῷ; Cyr. 6.1.19 πάνυ ἐν τάχει; Pl. Prm. 135b πάνυ γάρ μοι κατὰ νοῦν λέγεις; Isae. 6.34 διὰ ταχέων πάνυ. Sulla posizione di πάνυ (dopo la parola o il sintagma di cui si vuole rinforzare il significato) vd. Dover 1985, pp. 332–335 (il nostro frammento è riportato alle pp. 333–334). A mio avviso, dunque, è in errore Quaglia 2001, p. 245 che, interpretando πρὸς Ἀπόλλωνος come una «interiezione che spezza l’ andamento sintattico», traduce «cosa buona, il rombo, e tanto, per Apollo!» (corsivo mio; vd. lemma πρὸς Ἀπόλλωνος). Non è certo che l’ uso di πάνυ sia colloquiale, vd. Collard 2018, pp. 54–55; tuttavia si può affermare con Dover 1985, pp. 341, che esso «was almost exclusively Attic and – to judge from its great rarity in Tragedy – felt by Athenian poets to be prosaic»; tale affermazione è precisata ultimamente da Dettori 2016, p. 196, che spiega le problematiche occorrenze tragiche di πάνυ: «in generale possiamo dire che le rare occorrenze tragiche, che sarebbero da considerare stilisticamente contraddittorie, si giustificano per una determinata intenzione enfatica». 3 θράττει Per il verbo in un contesto simile, vd. Kassel–Austin ad loc., che citano opportunamente Cratin. fr. 331 θράττει με τοὐνύπνιον. Il verbo θράττειν, corradicale di ταράσσειν (< *d hreh2gh-, vd. Frisk GEW, s. v. ταράσσω; Tichy 1983, pp. 171–172; Beekes 2010, s. v. θράσσω)27, ricorre per la prima volta in Pindaro (O. 6.97 [con.]; I. 7.39); è attestato più volte in tragedia (Soph. frr. 177.1, 1055; [Aesch.] Pr. 628; [Eur.] Rh. 863; Critias TrGF 43 F 14) e in commedia (oltre all’ occorrenza ferecratea e al citato Cratin. fr. 331, vd. Mnesim. fr. 4.57), ma non è estraneo alla prosa filosofica (Pl. Phd. 86e; Tht. 187d; Prm. 130d; Phdr. 242c; Aristot. Rh. 1412a35; vd. inoltre Hp. Mul. 70 [8.146.23 Littré]), cfr. Olson–Seaberg 2018, p. 90. ὦ ‘γαθή L’ apostrofe, qui come altrove, introduce un’ obiezione, una protesta rispetto a quanto detto precedentemente da un interlocutore, vd. Olson 2002, p. 156 ad Ar. Ach. 296, Orth 2014, p. 395 ad Metag. fr. 2.1 e cfr. ad es. Ar. Ach. 305, Eq. 188, 722, 843, Nu. 675, 726, V. 415. Dal punto di vista della pragmatica linguistica, 27

θράττειν è riportato nei lessici atticisti come l’ equivalente attico di ταράσσειν (vd. Phryn. PS 75.6–7 θράττει· οἷον ταράττει, κατὰ συγκοπὴν καὶ τροπὴν γεγενημένον; Moer. θ 14 θράττει Ἀττικοί· ταράσσει Ἕλληνες). Tale equivalenza, secondo Mastellari 2020, p. 435, probabilmente «si riferisce a una fase avanzata dell’ evoluzione della lingua, dal momento che ταράσσω è largamente sfruttato dagli autori attici». Vd. già Pearson 1917, p. 148 ad Soph. fr. 1055: «ταράσσω became universal later, as is shown by Moeris’ mistaken θράττει Ἀττικοί· ταράσσει Ἕλληνες». Tuttavia, Meride potrebbe aver raccomandato una forma ‘marcata’ (cfr. ad es. Favi 2021) rispetto all’ usuale e diffusissimo ταράσσω, che poteva inoltre essere sentito come morfologicamente ‘regolare’ (tanto che Frinico fa derivare θράττω da ταράττω per via di sincope e mutamento fonetico). Mi ripropongo di tornare sulla questione in una futura voce della Digital Encyclopedia of Atticism diretta da Olga Tribulato.

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implica una certa familiarità o anche un senso di superiorità nei confronti dell’ interlocutore, cfr. i comm. ad loc. di Urios-Aparisi 1992 e Quaglia 2001 e vd. Dickey 1996 che, a proposito dei dialoghi platonici, scrive «it seems that mild FTs [sc. ‘friendship terms’] like ἀγαθέ can be used at any time by the character dominating the argument, but at moments where this domination is particularly emphasized, a stronger FT is used» (p. 113); in Aristofane, poi, «ἀγαθέ seems to have no especially friendly or unfriendly connotations; sometimes, but not always, this FT seems to indicate the speaker’ s superiority as in Plato (Lys. 1166, Av. 91, 846, 1577, Ran. 1235, Ach. 305)» (p. 119); in Menandro «ἀγαθέ always occurs in contexts where the speaker is in a position of dominance» (p. 139). Questa allocuzione, frequente in commedia e nei dialoghi platonici, è probabilmente tipica della lingua d’ uso (cfr. Orth 2014, p. 395; le occorrenze eschilee [fr. **78a.23 e **78c.54] appartengono a un drama satiresco, i Theōroi). 4 ἔνεστιν ἐν κιθάρῳ τι κακόν Il proverbio è attestato anche in Ar. fr. 591.60–61 (ὁρᾷς ἄρ’ ὡς ἐνῆν τι κἀν κιθ[ά- / -ρῳ κακόν). Il confronto solitamente proposto è con Zenob. III.70, Greg. Cypr. M III.8, Macar. III.81 e Apost. VII.18 (ἔνεστι κἀν μύρμηκι χολή; in schol. Ar. V. 352b, schol. Ar. Av. 82b e Su. σ 256 si trova una versione più ampia: ἔνεστι κἀν μύρμηκι κἀν σέρφῳ χολή)28; esso è però valido soprattutto dal punto di vista formale, dal momento che il proverbio, nelle spiegazioni dei paremiografi, sembra un invito a non sottovalutare le cose all’ apparenza più piccole e disprezzabili. In verità, il commento contenuto in P. Flor. II 112 fr. C col. I, ll. 63–64 (= Ar. fr. 591.63–64 = CLGP 28 fr. C+D+E col. I, ll. 15–16), parafrasa così il verso aristofaneo sopra citato: ὁρῶ / ὡς ἐνῆν τι, espressione che ha la connotazione negativa dell’ italiano ‘c’ è sotto qualcosa’29. Più adatto mi sembra dunque il riferimento a Plu. Mor. 15b-c πουλύποδος κεφαλῇ ἔνι μὲν κακὸν ἐν δὲ καὶ ἐσθλόν, ὅτι βρωθῆναι μέν ἐστιν ἥδιστος, δυσόνειρον δ’ ὕπνον ποιεῖ, φαντασίας ταραχώδεις καὶ ἀλλοκότους δεχόμενον, ὡς λέγουσιν; vd. anche Diogenian. VII.76 con la nota ad loc. di Leutsch in CPG I, p. 299. Questo proverbio sembra esprimere lo stesso concetto significato dal verso di Ferecrate: una cosa può avere, al contempo, lati positivi e negativi; ciò che è vantaggioso o buono a prima vista, può rivelarsi deleterio. Il personaggio A, insomma, teme che dietro al suo sogno ‘apollineo’ si nasconda qualche cattivo presagio. Del resto, se il kitharos è da annoverare tra i pesci piatti (vd. supra), va notato che, secondo Artemid. 2.14 essi «preannunciano pericoli a causa della loro ferocia, inoltre trame ostili»30. Non è però escluso (anzi, il confronto con il passo plutarcheo sopra citato ci autorizza a ritenere probabile) che il proverbio facesse riferimento alle caratteristiche alimentari del kitharos e potesse dunque prestarsi a valutazioni mediche, come suggerisce già Bagordo 2016, p. 36, che cita Xenocr. Aphr. 27 (I, p. 124 Ideler): qui il kitharos

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Cfr. Leutsch 1848, p. 571; Leutsch in CPG II, p. 111 n. 8. Per τι eufemistico, cfr. LSJ, s. v. τις, τι II.3. Trad. di D. Del Corno.

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è detto appunto κακόχυμος, δύσφθαρτος e εὐέκκριτος. Per le interpretazioni mediche dei sogni, vd. anche Hermipp. fr. 63.16 e Orth 2014, p. 235. I proverbi trovavano ampio spazio in commedia31 e lo stesso Ferecrate deve averne più volte fatto uso, cfr. frr. 16, 76.5 (vd. comm. ad loc.) e 287. Essi potevano subire, a fini comici, una detorsio dei significanti32 oppure essere risemantizzati e applicati a un contesto inconsueto: quest’ ultimo dovrebbe essere il caso del nostro frammento, in cui il proverbio diviene addirittura il mezzo per interpretare un sogno (vd. supra). Sui proverbi in commedia, cfr. ultimamente Tosi 2017.

fr. 44 (40 K.) ἄνυσόν ποτ’ ἐξελθών, σκότος γὰρ γίγνεται, καὶ τὸν λυχνοῦχον ἔκφερ’ ἐνθεὶς τὸν λύχνον 1 ἄνυσόν  – γίγνεται A : om. CE σκότος Schweigäuser («clare legitur» Cobet ap. Peppink 1936, p. 93) : ..ότος A : κρότος Kaibel γιγνε|νετ…. A 2 ..ὶ τὸν A : τὸν CE φερ’ ἐνθεὶς τὸν λύ nunc evanida in A (vd. Schöll 1870, p. 167)

Sbrigati a uscire, ché si fa buio, e porta fuori la lanterna dopo averci messo il lume Ath. 15.699f ὅτι δὲ λυχνοῦχοι οἱ νῦν καλούμενοι φανοὶ ὠνομάζοντο Ἀριστοφάνης ἐν Αἰολοσίκωνι παρίστησιν […] Φερεκράτης Δουλοδιδασκάλῳ· «ἄνυσον – λύχνον». Che quelli che ora vengono detti phanoi venivano chiamati lychnouchoi, lo mostra Aristofane nell’ Eolosicone […] Ferecrate nel Doulodidaskalos: «sbrigati – lume».

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Bibliografia Bergk 1838, p. 299; Meineke FCG I, p. 82; Kock CAF I, p. 156; Urios-Aparisi 1992, p. 180; Quaglia 2001, pp. 248–250 Contesto della citazione Nell’ ambito di una dotta tirata sui nomi delle torce (in verità una «drammatizzazione di una serie sinonimica del tipo di quelle di Polluce»)33, Ateneo porta a confronto il frammento di Ferecrate e altri passi (per lo

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Cfr. Tosi 1988, pp. 206–207; Tosi 1994, pp. 181–183; Lelli 2010; Schirru 2010a; Schirru 2010b, pp. 215–223. Cfr. Tosi 1988, p. 206; Lelli 2010, pp. 152–154. Dettori 2019, p. 297.

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più comici) al fine di dimostrare che i phanoi (‘lanterne’) erano un tempo chiamati lychnouchoi (cfr. Poll. 6.103; Ptol. Diff. voc. 390.34 Palmieri; Moer. λ 5; Hsch. φ 145). Testo Diverse lettere nel ms. A sono illeggibili. Kaibel suppliva la lacuna al v. 1 scrivendo κρότος (‘rumore’); si è tuttavia imposto σκότος di Schweighäuser, accettato dagli editori successivi e di chiara lettura secondo Cobet in Peppink 1936, p. 93. Interpretazione Un personaggio esorta un altro a entrare in scena (cfr. infra) portando con sé una lucerna. Secondo Bergk, Meineke e Kock, a parlare potrebbe essere il doulodidaskalos, intento a istruire un servo; tuttavia, Quaglia 2001, p. 249 sostiene che l’ ordine potrebbe essere impartito per «controllare qualche avvenimento imprevisto». Ciò che possiamo ragionevolmente affermare è poco: la scena è ambientata all’ esterno di una casa (come suggeriscono i verbi ἐξελθών e ἔκφερ’, nonché l’uso del lychnouchos, vd. infra) e la parentetica σκότος γὰρ γίγνεται sembra essere una didascalia scenica con la funzione di indicare il tempo in cui si svolge l’ azione (sempre che l’ integrazione σκότος proposta da Schweighäuser colga nel segno)34. Si può anche pensare – ma è un’ ipotesi non dimostrabile – che la notazione σκότος γὰρ γίγνεται alluda effettivamente all’ imbrunire e che la scena fosse dunque collocata verso la fine della commedia. Come nota Urios-Aparisi 1992, p. 180, uno dei compiti dei servi era quello di portare la torcia per fare luce al padrone quando fosse terminato un simposio (cfr. Ar. V. 219): si può solo ipotizzare un simile contesto per la presente scena. ἄνυσόν ποτ’ ἐξελθών ποτε con imperativo «expresses immediacy and impatience»35, cfr. Ar. V. 1161, 1168; Soph. Ph. 816, 1041. Il verbo ἀνύω, insieme a un participio predicativo (come nel nostro caso), significa ‘affrettarsi a fare qualcosa’, cfr. Ar. V. 1168 ἅνυσόν ποθ’ ὑποδησάμενος, Av. 241 ἁνύσατε πετόμενα, Pl. 413 ἀλλ’ ἅνυε πράττων ἕν γέ τι. Più spesso ricorre, con lo stesso significato, il participio di ἀνύω con un verbo di modo finito (sovente all’ imperativo); talvolta, tuttavia, ἀνύω nel senso di ‘sbrigati’ può essere usato assolutamente, cfr. Orth 2017, p. 45 ad Ar. fr. 2. τὸν λυχνοῦχον ἔκφερ’ ἐνθεὶς τὸν λύχνον Sebbene Quaglia 2001, p. 249 sostenga che la distinzione tra lychnos e lychnouchos «è probabilmente dettata da eccessiva pignoleria», Phryn. PS 87.1 testimonia che, nell’ uso attico, «λυχνοῦχος is the lantern into which the terracotta lamp (λύχνος) was placed for outdoor use», come nota opportunamente Arnott 1996, p. 291 ad Alex. fr. 107 (ἐξελὼν ἐκ τοῦ λυχνούχου τὸν λύχνον). Su lychnouchos = ‘lanterna’, cfr. il commento di Kassel–Austin ad Ar. fr. 8, Dettori 2019, pp. 299–300 e vd. la bibliografia citata in Arnott 1996, p. 291. 34 35

Sulle didascalie sceniche indicanti l’ ora del giorno, cfr. ultimamente Casanova 2017, pp. 39–42. Biles–Olson 2015, p. 425.

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fr. 45 (41 K.) νυνὶ δ’ ἀπονίζειν τὴν κύλικα δώσων πιεῖν, ἔγχει τ’ ἐπιθεὶς τὸν ἠθμόν 1 ἀπονίζειν A, prob. Bothe, Kock («infinitivus pro imperativo») : ἀπόνιζε Bergk (habet iam Chishull) : ἀπονίζων Musurus, Dobree ap. Rose : ἀπονίζου Conti Bizzarro δώσων πιεῖν A : δὸς ἐμπιεῖν Dobree ap. Rose : δὸς τ’ ἐμπιεῖν Kock 2 τ’ A : δ’ Kock ἠθμόν scripsi : ηθμόν A : ἡθμόν edd. omnes, praeeunte Chishull

Ora lava la coppa per dare da bere, e versa dopo aver messo sopra il colino Ath. 11.480b κύλιξ. Φερεκράτης Δουλοδιδασκάλῳ· νυνὶ – ἠθμόν. ταῦτα δ’ ἐστὶ κεράμεα ποτήρια καὶ λέγεται ἀπὸ τοῦ κυλίεσθαι τῷ τροχῷ Kylix. Ferecrate nel Doulodidaskalos: «ora – colino». Si tratta di coppe di ceramica e si chiamano così perché vengono fatte girare (kyliesthai) sulla ruota del vasaio.

Metro Trimetri giambici

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Bibliografia Chishull 1728, p. 36 n. 19; Dobree ap. Rose 1825, p. 9; Bergk 1838, p. 299; Meineke FCG I, p. 82; Kock CAF I, p. 156; Conti Bizzarro 1988–1989, pp. 268–269; Urios-Aparisi 1992, pp. 181–182; Quaglia 2001, pp. 251–253 Contesto della citazione Nell’ ambito di un vasto catalogo alfabetico di coppe potorie, Ateneo spiega la natura della kylix illustrandola dapprima con la citazione tratta da Ferecrate. Testo ἀπονίζειν di A, già forse corretto da Musuro in un participio ἀπονίζων36 poi accolto da Dobree37, è difeso da Kock come infinito iussivo, frequente in Omero, dove si trova spesso accompagnato a un imperativo (conseguentemente, Kock scrive δὸς τ’ ἐμπιεῖν in luogo del tràdito δώσων πιεῖν). A ciò si potrebbe obiettare che gli infiniti iussivi in commedia sono «highly formal» e compaiono «in the context of announcing an official decision»38, cfr. Ar. Ach. 172–3, 1001 (portato a confronto già da Kock); Pax 551; Av. 448–50: in questi passi sono per lo più degli 36

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Il testo dell’ Ateneo di Manuzio è però, in questo punto, poco attendibile. Esso recita infatti così: νυνὶ δὲ ἀπονίζων τὴν κύλικα δῶσων (sic) πιεῖν ἔγχυτα ἐπιθεὶς γονηθμόν (sic). Vd. anche Bergk 1838, p. 299: «δὸς ἐμπιεῖν Dobraeus scripsit pro codicum lectione δώσων πιεῖν, ἀπονίζων autem a correctore videtur profectum esse». Olson 2002, p. 125.

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araldi a parlare, comunicando delle deliberazioni autorevoli. Tuttavia, è prudente mantenere la distinzione raccomandata da Willi 2003, p. 33 tra infiniti iussivi usati in contesti formali (vd. i passi aristofanei appena riportati) e «imperatival infinitives» il cui «addressee» è il soggetto dell’ infinitiva stessa. In particolare, cfr. Ar. Ach. 257 πρόβαινε, κἀν τὤχλῳ φυλάττεσθαι σφόδρα; Eq. 1187 ἔχε καὶ πιεῖν κεκραμένον τρία καὶ δύο; Pax 1153 ὧν ἔνεγκ’, ὦ παῖ, τρί’ ἡμῖν, ἓν δὲ δοῦναι τῷ πατρί, in cui compaiono di seguito un imperativo e un infinito con valore imperativo e il tono sembra colloquiale39: proprio questi versi aristofanei potrebbero costituire una difesa della lezione tràdita, che mi sembra dunque prudente mantenere a testo. D’ altro canto, non è decisivo l’ argomento secondo cui ἀπόνιζε di Bergk (accolto da Kassel e Austin) permetterebbe un parallelismo con ἔγχει del v. successivo. Il v. 1, così come tràdito, presenterebbe anche difficoltà semantiche, secondo Conti Bizzarro 1988–1989, p. 268: infatti, ἀπονίζειν non andrebbe riferito a τὴν κύλικα, dal momento che esso «è sempre usato con riferimento a lavaggi corporali, e in particolare delle mani: farebbe eccezione questo unico luogo comico». In effetti, stando alla nostra documentazione, il composto di νίζειν più appropriato a descrivere il lavaggio di recipienti sembrerebbe διανίζειν, cfr. ad es. Cratet. fr. 16.7 ποὖσθ’ ἡ κύλιξ; διάνιζ’ ἰοῦσα σαυτήν (Dindorf : λίανοζουσα. σεαυτήν A : νίζε σεαυτήν CE); Ar. fr. 139 ὑδρίαν διανίζειν; Poll. 6.95 οἱ δὲ οἰνοχόοι τὰ ἐκπώματα ἐκπλυνόντων τε καὶ διανιπτόντων κτλ.; Moer. ψ 13 […] ἔστι δὲ ὁ ψυκτὴρ σκεῦος ἐν ᾧ διανίζουσι τὰ ποτήρια. Lo studioso propone dunque di leggere ἀπονίζου seguìto da un segno di punteggiatura. Farebbe propendere per la proposta di Conti Bizzarro l’ uso di lavarsi le mani a fine pasto, prima del simposio: vd. Ath. 9.408e-f Ἀριστοφάνης δὲ ὁ γραμματικὸς ἐν τοῖς πρὸς τοὺς Καλλιμάχου πίνακας (fr. 368 Slater) χλευάζει τοὺς οὐκ εἰδότας τὴν διαφορὰν τοῦ τε κατὰ χειρὸς καὶ τοῦ ἀπονίψασθαι. παρὰ γὰρ τοῖς παλαιοῖς τὸ μὲν πρὸ ἀρίστου καὶ δείπνου λέγεσθαι κατὰ χειρός, τὸ δὲ μετὰ ταῦτα ἀπονίψασθαι. ἔοικε δ’ ὁ γραμματικὸς τοῦτο πεφυλαχέναι παρὰ τοῖς Ἀττικοῖς κτλ. Una simile distinzione non è sempre valida, ma è corroborata da diversi luoghi comici, vd. ad es. Ar. V. 1216–7 ὕδωρ κατὰ χειρός· τὰς τραπέζας εἰσφέρειν· / δειπνοῦμεν· ἀπονενίμμεθ’· ἤδη σπένδομεν e cfr. Orth 2020, p. 449 ad Dromon. fr. 2.3, con bibliografia. Secondo l’ ipotesi di Conti Bizzarro, τὴν κύλικα sarebbe dunque retto da δώσων πιεῖν: per espressioni simili, cfr. ad es. Il. 4.346, 8.232; Critias fr. B 6.2 West2 = 4.2 Gentili–Prato; Ephipp. fr. 3.11 (= Eub. fr. *150.8); Alex. fr. 116. In verità, quella ferecratea non sarebbe, come vuole Conti Bizzarro, l’ unica eccezione all’ uso di ἀπονίζειν in riferimento a lavaggi corporali; tuttavia, le testimonianze che possiamo portare a confronto sono tarde, vd. in particolare Cyr. Al. MPG 74.613.7–9 καὶ ποτηρίου μὲν καὶ πίνακος ἀπονίζουσι τὸ ἔξω, λόγος δὲ αὐτοῖς παντελῶς οὐδεὶς τῆς ἔνδον ἀκαθαρσίας. Anche LXX 3 Ki. 22.38 ἀπένιψαν τὸ ἅρμα ἐπὶ τὴν κρήνην Σαμαρείας mostra un uso di ἀπονίζειν in riferimento a

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Cfr. Olson 1998, p. 288; vd. Kühner–Gerth II, pp. 20–21.

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un oggetto inanimato40. Ma la sistemazione del testo proposta da Conti Bizzarro fa difficoltà soprattutto dal punto di vista contenutistico. Il nostro frammento, infatti, consiste di ordini impartiti a un servo – probabilmente un oinochoos, tra i cui compiti c’ era quello di lavare i recipienti potori (vd. Interpretazione); lavarsi le mani a fine pasto era invece prerogativa dei commensali. Anche l’ espressione δώσων πιεῖν è problematica – in questo caso da un punto di vista sintattico. Per lo più, infatti, il participio futuro con valore finale «findet bei den Verben des Gehens, Kommens, Schickens statt» (Kühner–Gerth II, p. 86; cfr. anche p. 61). A mio avviso, Le proposte di Dobree ap. Rose 1825, p. 9 (δὸς ἐμπιεῖν) e di Kock (δὸς τ’ ἐμπιεῖν) hanno il difetto di introdurre nel testo un verbo, ἐμπιεῖν, che significa «drink one’s fill» (LSJ, s. v. ἐμπίνω) e si riferisce dunque a una modalità del bere connotata rispetto al semplice πίνω (il suo perfetto significa «be drunk», vd. ad es. Ar. Ec. 142, Cratin. fr. 301 e cfr. Olson–Sens 2000, p. 230)41; esso, inoltre, sembra adattarsi per lo più alla prospettiva di colui che beve (cfr. Theogn. 1128 ἐμπίομαι, πενίης θυμοφθόρου οὐ μελεδαίνων; Epich. fr. 32.7–8 κἤπειτα πολλὰ καταφαγών, πόλλ’ ἐμπιὼν / ἄπειμι; Ar. Pax 1143 ἐμπιεῖν ἔμοιγ’ ἀρέσκει τοῦ θεοῦ δρῶντος καλῶς, 1156 ὡς ἂν ἐμπίῃ μεθ’ ἡμῶν; Alex. fr. 25.4 πίνωμεν, ἐμπίνωμεν, ὦ Σίκων, Σίκων). Per tali motivi, ἐμπιεῖν risulta poco adatto a descrivere ‘obiettivamente’ l’ azione del dare da bere: non è dunque prudente metterlo a testo – tanto più che, ignorando il contesto, non sappiamo se il servo dovesse versare da bere a simposiasti ‘comuni’ o, al contrario, a ospiti di riguardo e raffinati (il v. 2, in cui chi parla ingiunge allo schiavo di versare da bere usando l’ ēthmos come filtro, non è necessariamente significativo in tal senso, cfr. Interpretazione) e per i quali, dunque, l’ enfatico ἐμπιεῖν sarebbe stato forse inappropriato42. Il verbo ἐμπίνω, insomma, ha un significato pregnante, sebbene tale pregnanza tenda a perdersi nelle attestazioni di età imperiale, cfr. Olson–Seaberg 2018, p. 27: gli studiosi ricordano che il verbo «is absent from tragic poetry and lyric; found in prose at Hdt. 3.11.3; 4.64.1 (both ugly passages referring to drinking the blood of one’ s enemies); in satyr play at E. Cyc. 336; in comedy at Epich. fr. 32.7; Ar. Pax 1143, 1156; Ec. 142; Alex. fr. 25.4; and in mock-didactic at Archestr. fr. 60.6 […]. The word is eventually 40

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Segnalo inoltre che nella Historia Ecclesiastica di Niceforo Callisto Xanthopoulos (XIIIXIV sec.) si trova καὶ ἀπένιζε κύλικα· καὶ τἄλλα πάντα δεξιῶς ἔπραττεν ὅσα ἔργα δούλων καὶ θεραπαινίδων εἰσί (12.42.22–24). Anche altrove ἐμπιεῖν è soluzione adottata da editori e studiosi per risolvere problemi testuali: vd. Musgrave, che corregge in τοὐμπιεῖν il tràdito τοῦ πιεῖν in Eur. Cyc. 336; Porson (in Porson–Dobree 1820, p. 165 [secunda paginarum series] ad Ar. Pax 1143), dal canto suo, corregge in ἢ ’ μπιεῖν il tràdito μὴ πιεῖν in com. adesp. fr. *120.2 = Soph. fr. 763.2. Cfr. inoltre i dubbi su Alex. fr. 25.4 πίνωμεν, ἐμπίνωμεν espressi da Arnott 1996, pp. 824–825. Xen. Cyr. 7.1.1, τῷ δὲ Κύρῳ καὶ τοῖς ἀμφ’ αὐτὸν προσήνεγκαν οἱ θεράποντες ἐμφαγεῖν καὶ πιεῖν (V corr. : ἐμφαγεῖν καὶ ἐμπιεῖν WDF [ἐμποιεῖν D] : ἐμπιεῖν καὶ φαγεῖν HAG) ἔτι οὖσιν ἀμφὶ τὰ ἱερά risulta di difficile valutazione a causa delle variae lectiones offerte dai mss.

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picked up by a number of Second Sophistic authors (e. g. Plu. Cim. 1.4; Luc. Nigr. 22; Merc.Cond. 18; Ael. Ep. 15), suggesting that in the Roman period it was taken to be a 5th-/4th-century colloquialism». Scartate dunque le ipotesi di emendamento formulate da Dobree e Kock, si potrebbe tentare un’ altra via, sia pure del tutto ipotetica. Il tràdito δώσων πιεῖν potrebbe nascondere ad esempio un proposito (δώσω πιεῖν, come già pensato da Fiorillo 1803, p. 34, vd. Pherecr. fr. 75.2) o meglio un interrogativo (δῶ σοι πιεῖν;)43 posto da un secondo personaggio (uno schiavo) che cerca di anticipare le intenzioni del primo (il doulodidaskalos?); ne risulterebbe dunque un movimentato scambio di battute tra due personaggi (uno dei quali è un servo), come avviene anche in Pherecr. fr. 75.1–2 ἐκ τοῦ βαλανεῖου γὰρ δίεφθος ἔρχομαι, / ξηρὰν ἔχουσα τὴν φάρυγα. (B.) δώσω πιεῖν (dove il personaggio B è, verosimilmente, di condizione servile). Accettato un simile intervento, dovremmo considerare δώσω πιεῖν / δῶ σοι πιεῖν; come un inserto che non turba il discorso iniziato dal primo personaggio al v. 1: vd. infatti τ’ del v. 2, che potrebbe ricollegarsi al primo ordine (ἀπονίζειν τὴν κύλικα). In alternativa, si potrebbe pensare a γ’ in luogo del tràdito τ’, dal momento che la particella γε è usata per dare maggior forza ai comandi (se si accompagna all’ imperativo, vd. Denniston 1954, p. 125) oppure per rinforzare e/o qualificare meglio una risposta (vd. Denniston 1954, pp. 130–137, in particolare p. 133, dove si ricorda che γε occorre spesso «in affirmative answers to questions or statements, adding something to the bare affirmation, which is not expressed or implied. This form of ellipse is exceedingly common in tragic and comic dialogue, especially in stichomythia, where economy of space is an important consideration»). Riassumendo, non mi sembra destituita di fondamento l’ ipotesi che il presente frammento si dovesse presentare originariamente in una veste simile alla seguente: νυνὶ δ’ ἀπονίζειν τὴν κύλικα. (B) δῶ σοι πιεῖν; / (A) ἔγχει γ’ ἐπιθεὶς τὸν ἠθμόν. Al v. 2, la proposta di Kock CAF I, p. 156 di correggere il tràdito τ’ in δ’ si basa su una argomentazione speciosa («is qui loquitur se ipse corrigit. “noli autem nobis prius vinum dare, quam colo superinposito vinum liquaveris”») e non ha avuto séguito. ἠθμόν, privo dello spirito in A, è solitamente stampato con lo spirito aspro, sulla scorta di IG I3 1508 (Sigeo, ca. 550 a.C.) hεθμον (la cosiddetta stele di Fanodico, vd. infra) e schol. Ap. Rh. 1.1294–95 (p. 117.6–10 Wendel = [Hdn.] GG III.1, p. 543.23) […] Ἡρωδιανὸς […] φησίν, ὅτι τὰ εἰς ος λήγοντα οὐδέτερα δισύλλαβα, ἀρχόμενα ἀπὸ φύσει μακρᾶς, ψιλοῦται· αἶσχος ἦθος εὖρος εἶδος. οὕτως οὖν καὶ τὸ ἦδος. τὸ δὲ ἡθμὸς δασύνεται καίτοι τὸ η ἔχον πρὸ τοῦ θ τῇ ἐννοίᾳ, τοῦ ἥσω μέλλοντος δασυνομένου. Tuttavia, cfr. Clay 1968, p. 16: «ultimately […] our authority for the aspiration of hēthmós is not Herodian ipsissimus, but the scholiast to Apollonius of Rhodes, who, it appears, has ineptly added hēthmós as an exception to Herodian’ s

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Per la forma δῶ in frasi interrogative, cfr. ad es. Ar. Eq. 706 τί σοι δῶ καταφαγεῖν; fr. 213 φέρ’ ἴδω, τί σοι δῶ τῶν μύρων;.

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‘canon’ […] that disyllabic neuter nouns beginning with a vowel long by nature and ending in -os, are unaspirated» (cfr. [Hdn.] GG III.1, p. 537.11). Peraltro, lo stesso Erodiano, in altri luoghi, ha ἠθμός, senza aspirazione: sarebbe ben strano, nota Clay 1968, p. 16, se il grammatico avesse scelto proprio questa parola come eccezione alla regola sopra menzionata. Per quanto riguarda invece la prima attestazione di hēthmós (la stele di Fanodico), se Meisterhans–Schwyzer 1900, p. 87 pensavano a un caso di anticipazione dell’ aspirata interna, Clay 1968, pp. 17–18 pensa all’ ipercorrettismo di un parlante di un dialetto psilotico che cercava di riprodurre la pronuncia attica (la stele è infatti redatta sia in ionico orientale che in attico: in ionico, ovviamente, la forma attestata è ēthmós). Minon 2009, p. 102 crede poco alla possibilità di un ipercorrettismo e ritiene piuttosto che la scrittura hεθμον nel testo attico possa essere dovuta a un fatto ‘grafico’44. Da ultimo, Threatte 2015, p. 118 crede che hεθμον «probably shows aspirate assimilation as in hέχω, hαριθμός, etc., common in this period in Attic inscriptions» (vd. Threatte 1980, pp. 457–458, 462). Nell’ incertezza, preferisco la scrittura ἠθμόν, pur ammettendo che in attico la parola potesse essere pronunciata, nel V sec., con l’ aspirazione iniziale. In questo caso, tuttavia, rimarrebbe da capire se ēthmos > hēthmos fosse un fatto sporadico oppure generalizzato (solo in quest’ ultimo caso saremmo pienamente autorizzati a restituire la forma ἡθμόν in Ferecrate)45. Interpretazione Se la correzione di Conti Bizzarro coglie nel segno (vd. supra, Testo), si deve supporre che la scena rappresentasse, o per lo meno descrivesse, il simposio che seguiva il pasto. La kylix di cui parla Ferecrate potrebbe allora essere il metaniptron, cfr. Ath. 11.486f-487a μετάνιπτρον. ἡ μετὰ τὸ δεῖπνον ἐπὴν ἀπονίψωνται διδομένη κύλιξ […] ἔνιοι δὲ τὴν μετὰ τὸ νίψασθαι πόσιν, ὡς Σέλευκος (fr. 59 Müller) ἐν Γλώσσαις; vd. anche Poll. 6.10046. Tuttavia, vd. le obiezioni agli argomenti di Conti Bizzarro riportate supra.

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«À mon sens, l’ aspirée hypercorrecte de hεθμόν […] s’ explique par l’ influence de l’ inscription A, où le mot est orthographié avec H comme notation du /ε:/ initial, d’ où ἠθμόν. Cela a conduit le graveur attique à employer la même lettre à l’ initiale de la forme attique, dans son système orthographique où cette lettre notait encore l’aspiration initiale; de sorte qu’ il l’ a fait suivre d’ un epsilon, sa propre notation de /ε:/». Per una scelta editoriale confrontabile, vd. Cassio 1977, p. 60 ad Ar. fr. 216 ἠλιαστής: «scrivo ἠλιαστής e non ἡλ- perché le iscrizioni attiche del V secolo non presentano mai segno di aspirazione davanti a ἠλιαία» (corsivo mio). Cfr. anche Stama 2014, p. 328, ad Phryn. Com. fr. 70.2 ἠλιάζομαι: «Kassel / Austin […], tuttavia, diversamente da Kaibel (e da Hermann), hanno preferito editare il verbo nella forma con spirito dolce (ἠλ-), sulla base del dato epigrafico per cui, nelle iscrizioni attiche di quinto secolo, il segno di aspirazione 〈H〉 non compare mai per il sostantivo ἡλιαία» (corsivo mio). Sulla metaniptris e sul simposio del dopo-pasto, vd. Bagordo 2014a, pp. 158–161, ad Call. Com. fr. 9. Sulla rappresentazione dei simposi nella commedia, vd. Konstantakos 2005a.

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Si può ragionevolmente affermare che gli ordini impartiti nel nostro frammento siano rivolti a uno schiavo, forse quello detto oinochoos, vd. Poll. 6.95 οἱ δὲ οἰνοχόοι τὰ ἐκπώματα ἐκπλυνόντων τε καὶ διανιπτόντων καὶ κλυζόντων καὶ καθαιρόντων, καὶ τὰς φιάλας ἐπὶ τῶν δακτύλων ἄκρων ὀχείτωσαν, προσφέροντες τοῖς συμπόταις εὐλαβῶς. A parlare potrebbe essere il doulodidaskalos, impegnato a far sì che lo schiavo da lui istruito si comporti, poniamo, alla stessa maniera di Sacas, il coppiere di Astiage, in Xen. Cyr. 1.3.9–10: οὐχ ὁρᾷς […] ὡς καλῶς οἰνοχοεῖ καὶ εὐσχημόνως; οἱ δὲ τῶν βασιλέων τούτων οἰνοχόοι κομψῶς τε οἰνοχοοῦσι καὶ καθαρείως ἐγχέουσι καὶ διδόασι τοῖς τρισὶ δακτύλοις ὀχοῦντες τὴν φιάλην καὶ προσφέρουσιν ὡς ἂν ἐνδοῖεν τὸ ἔκπωμα εὐληπτότατα τῷ μέλλοντι πίνειν. Si tratta però di una mera supposizione. Per l’ uso di pulire le coppe prima del simposio, cfr., oltre al già citato Poll. 6.95, AP 7.339.7–8 (anon.) λοιπόν μοι τὸ κύπελλον ἀποστίλβωσον, ἑταῖρε, / καὶ λύπης λήθην τὸν Βρόμιον πάρεχε47. 1 δώσων πιεῖν Per quest’ espressione, cfr. Pherecr. fr. 73.1–2 〈ἔκ〉φερε, / […] κἀντραγεῖν; 75.2 δώσω πιεῖν; Ar. Pax 49 ἀλλ’ εἰσιὼν τῷ κανθάρῳ δώσω πιεῖν; Ec. 306–7 φέρων πιεῖν; Cratin. fr. 132 χρυσίδι σπένδων †γέγραφε† τοῖς ὄφεσι πιεῖν διδούς; Hermipp. fr. 44.2 δὸς πιεῖν ἅπαξ μόνον; Men. fr. 302 †τὸ μὴ τὰς τρίχας αἴρων καὶ τὸν ῥύπον διδοὺς / πιεῖν ἀνηδαξᾶτο ὥστε μὴ πιεῖν†, fr. 335.1 ἂν ἔτι πιεῖν μοι δῷ τις; Hdt. 4.172.4 ἐκ τῆς χειρὸς διδοῖ πιεῖν; Xen. Cyr. 1.3.9 καλῶς σοι πιεῖν ἐγκέας. 2 ἐπιθεὶς τὸν ἠθμόν Il servo pone sopra la kylix uno ēthmos, un colino, per filtrare il vino eliminandone il corpo di fondo, cfr. Eur. fr. 374, Epilyc. fr. 7, Poll. 10.108 e vd. la bibliografia in Orth 2014, p. 280. Questa operazione era difficilmente evitabile in antichità; tuttavia, il gesto prescritto nel nostro frammento potrebbe significare un simposio ‘raffinato’, elegantemente offerto a persone di riguardo, se il colino a cui si accenna fosse di materiale prezioso, come avviene in Epig. fr. 5.4 ἡδυποτίδας τρεῖς, ἡθμὸν (Meineke : ηθμόν A) ἀργυροῦν; cfr. anche Plu. Mor. 692b-693e, in cui il sofista Nigro critica il fasto del simposio a cui si trova a prendere parte: in particolare, τὸν οἶνον οὐκ ἔφη δεῖν ἐγχεῖσθαι 〈δι〉ηθημένον, ἀλλ’, ὥσπερ Ἡσίοδος ἐκέλευσεν, ἀπὸ τοῦ πίθου πίνεσθαι τὴν σύμφυτον ἔχοντα ῥώμην καὶ δύναμιν (692b).

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Alex. fr. 124, citato da Quaglia, parla di un kratēr e il paragone col nostro frammento non sembra dunque perfettamente calzante.

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fr. 46 (49 K.) μἀλλ’ αἰσχρὸν ἐν τῷ Θησέῳ καθήμενος μἀλλ’ αἰσχρὸν susp. Willi per litteras, recepi : μάλ’ αἰσχρὸν B : μάλλον (ον per compend.) αἰσχρὸν A : Κάλλαισχρον Dübner ap. Miller θησεω B: θησέως A καθήμενος AB : -ον Gomperz (vel Κάλλαισχρος … -ος)

Anzi, (è) turpe, seduto nel tempio di Teseo… Et.Gen. AB, s. v. Θήσειον (ap. Miller 1868, p. 159) Θήσειον […] εὕρηται δὲ καὶ χωρὶς τοῦ ι, ὡς παρὰ Φερεκράτει ἐν Δουλοδιδασκάλῳ (δουλῳ διδ- AB) οἷον «μἀλλ’ (μάλ’ B : μάλλον A) αἰσχρὸν – καθήμενος». Thēseion […] si trova anche senza ι, come in Ferecrate, nel Doulodidaskalos: «anzi […] Teseo». Antiatt. θ 13 Θησέῳ· ἀντὶ τοῦ Θησείῳ. Φερεκράτης Δουλοδιδασκάλῳ (Θησέω … Θησείω cod., corr. Dindorf in ThGL IV, col. 380 D). Thēseōi: invece di Thēseiōi. Ferecrate nel Doulodidaskalos.

Metro Trimetro giambico

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Bibliografia Meineke FCG II.1, p. 273; Miller 1868, p. 462; Kock CAF I, p. 159; Gomperz 1912, p. 227; Conti Bizzarro 1990–1993, pp. 84–85; Urios-Aparisi 1992, pp. 183–184; Quaglia 2001, pp. 253–256 Contesto della citazione Il ‘fuoco’ della citazione contenuta in Et.Gen. è la forma Θησέῳ, alternativa a Θησείῳ. È possibile, vista la voce dell’ Antiatticista risalente al frammento ferecrateo, che la forma senza il secondo elemento del dittongo fosse oggetto di dibattito in ambito atticista. Testo il testo tràdito da AB può mantenersi con il semplice intervento suggeritomi da Andreas Willi. In effetti, μἀλλά si presta spesso a divenire μάλα vel simm., vd. i passi aristofanei citati infra e cfr. anche la dottrina di Timachida in schol. Ar. Ra. 611a-b (= Timachidas fr. 22 Matijašić)48 μάλ’ E / μἀλλ’ VΘBarb: Τιμαχίδας βραχέως ἀξιοῖ προφέρεσθαι. VEΘBarb(Ald). b (contra 611a): οὐ πιθανῶς, συναλοιφῆς οὔσης ἐκ τῆς “μὴ” καὶ “ἀλλά”· ὅτι γὰρ VEΘBarb(Ald) τῷ “μὴ” πολλαχῆ ἀντὶ τῆς “οὐ” χρῶνται, RVEΘBarb(Ald) πολλάκις εἴρηται. VEΘBarb(Ald). μἀλλά è di tono colloquiale (cfr. Stevens 1945, p. 100; Garvie 1986, p. 298 ad Aesch. Ch. 918) e ricorre più volte in commedia, oltre che nei dialoghi platonici; si usa, per lo più nelle risposte, «contradicting, or substituting a stronger 48

Cfr. Matijašić 2014, pp. 169–170.

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form of expression» (Denniston 1954, p. 5) ed è «indicador de una oposición de qualidad (“no, sino, por el contrario”) o de grado (“mucho más que eso”) al juicio expresado por el interlocutor» (López Eire 1996, p. 188–189). Ciò significa che, nel caso del nostro frammento, dobbiamo probabilmente immaginare una precedente domanda cui un personaggio replica affermando con maggiore enfasi quanto è stato esposto in via dubitativa dall’ interlocutore; cfr. Ar. Ach. 458 ΕΥ. ἄπελθέ νύν μοι. ΔΙ. μἀλλά (Bentley : μή, ἀλλά d) μοι δὸς ἓν μόνον; Ra. 103 ΗΡ. σὲ δὲ ταῦτ’ ἀρέσκει; ΔΙ. μἀλλὰ (colligi potest e ΣVE Su. σ 187 : μᾶλλα V : μάλα R Su. α 3827 : καὶ μάλα AK) πλεῖν ἢ μαίνομαι; 610–1 ΔΙ. εἶτ’ οὐχὶ δεινὰ ταῦτα, τύπτειν τουτονὶ / κλέπτοντα πρὸς τἀλλότρια; ΑΙΑ. μἀλλ’ (ΣV [lemma] : μᾶλλ’ ΣV ad 607 : μάλλ’ R : μάλ’ AK) ὑπερφυᾶ; 745 ΞΑ. χαίρεις, ἱκετεύω; / ΟΙ. μἀλλ’ (R : μάλλ’ A ΣE : μάλ’ V ΣRVE [lemma] : μάλα K) ἐποπτεύειν δοκῶ; 750–1 ΞΑ. ὁμόγνιε Ζεῦ· καὶ παρακούων δεσποτῶν / ἅττ’ ἂν λαλῶσι; ΟΙ. μἀλλὰ (Bentley : μᾶλλα R : μάλα VK : καὶ μάλα A) πλεῖν ἢ μαίνομαι. La struttura sintattica del nostro frammento potrebbe essere simile a, e. g., Ar. fr. 616 αἰσχρὸν νέᾳ γυναικὶ πρεσβύτης ἀνήρ. Per una simile costruzione (soggetto maschile o femminile con aggettivo predicativo neutro e, talvolta, ellissi del verbo essere), cfr. Kühner–Gerth I, pp. 58–59, con numerosi esempi. In alternativa, si potrebbe pensare ad αἰσχρόν come neutro in funzione avverbiale. Non cogente è l’ argomentazione di Conti Bizzarro 1990–1993, che accoglie μάλ’ αἰσχρὸν e καθήμενος del ms. B. Egli porta a confronto Pherecr. fr. 152.3 ἀλλὰ μάλ’ εὔκηλος τέρπου φρένα τέρπε τ’ ἐκεῖνον; Ar. Lys. 465–6 καὶ μάλα / πολλήν (sc. χολήν); Th. 644 καὶ μάλ’ εὔχρων; Ra. 410 καὶ μάλ’ εὐπροσώπου. In questi passi, tuttavia, μάλα è riferito ad aggettivi che non hanno la stessa funzione di αἰσχρόν nel presente frammento. Va notato, inoltre, che due dei passi portati a confronto dallo studioso, Pherecr. fr. 152.3 e Ar. Lys. 465–6, sono composti con materiale omerico49. Κάλλαισχρον in luogo di μάλ’ αἰσχρὸν / μάλλον αἰσχρὸν dei mss. è congettura di Dübner ap. Miller 1868, p. 462 accettata da Gomperz 1912, p. 227 e Kassel– Austin; tale soluzione, non necessaria (essa, peraltro, costringe a un ulteriore intervento per concordare il nome proprio con il participio a fine verso), deve essere stata suggerita dall’ omonimo titolo di due pièces comiche, rispettivamente ascritte a Teopompo e a Ofelione. Chi fosse il Callescro portato in scena dai due commediografi, tuttavia, non è possibile sapere. Si è pensato anche a un nome parlante, come credeva Kock; ma ciò è incertissimo, tanto più che Callescro è nome piuttosto comune: LGPN II riporta, per l’ Attica, nove occorrenze del nome Callescro (senza contare, ovviamente, la presunta occorrenza del nome nel nostro frammento, né il Callescro di Teopompo e Ofelione) tra il VI e la fine del V sec. a.C. Tra questi sono l’ architetto vissuto all’ epoca dei Pisistratidi (Vitruv. 7.15) e diversi esponenti della famiglia di Crizia, vd. Davies 1971, pp. 326–329; Kassel–

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Per il verso di Ferecrate cfr. Il. 1.553.

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Austin VII, p. 718; Quaglia 2001, pp. 254–255. Kassel–Austin VII, p. 125, in sede di commento al nostro frammento, rimandano dubitativamente al Callescro che dà il titolo a un’ orazione frammentaria di Lisia: «dolendum quod nesciamus quis in Lysiae oratione ὑπὲρ Καλλαίσχρου […] describatur μετ’ ἀβακίου καὶ τραπεζίου πωλῶν ἑαυτόν». Interpretazione Stando alla ricostruzione del testo da me proposta, il frammento potrebbe costituire la risposta affermativa ed enfatica a un precedente interrogativo (vd. Testo). Le parole superstiti si riferiscono forse a uno schiavo effettivamente rifugiatosi nel tempio di Teseo (e magari in attesa di essere comprato da un nuovo padrone, cfr. Ar. frr. 475 e 577, citati infra, lemma Θησέῳ); tuttavia il Thēseion, a quanto sappiamo da Filocoro e Plutarco, era luogo di rifugio non solo per gli schiavi, ma per i supplici in genere (vd. infra, lemma Θησέῳ). C’ è però la possibilità che il personaggio parlante stia facendo una considerazione moraleggiante su una possibile azione riprovevole (vd. infra, lemma μἀλλ’ αἰσχρόν). In ogni caso, non capiamo se chi parla consideri αἰσχρόν l’ azione stessa di rifugiarsi nel Thēseion (non in sé, ma in quanto compiuta da qualche categoria sociale screditata [vd. infra] oppure in particolari circostanze ritenute riprovevoli) ovvero qualche altro comportamento messo in atto da un personaggio (uno schiavo?) ivi seduto come supplice (vd. infra, lemma καθήμενος). Date queste premesse, non possiamo in alcun modo stabilire chi fosse a pronunciare queste parole: il doulodidaskalos adirato nei confronti di uno schiavo riluttante ai suoi insegnamenti? Un padrone desideroso di punire un servo fuggitivo? Ad ogni modo, bisogna tenere presente che proprio il drapetēs era oggetto di un severo giudizio morale e «schon früh war er zu einem veritablen “sozialen Typenbegriff ” […] geworden», tanto che «der flüchtige Sklave de facto in die Nähe des Räubers, des Überläufers, jenes Typs von “Hoffnungslosen und Verderbten” […] rückte» (Kudlien 1988, p. 248, con diversi esempi da autori greci e latini). Un’ ipotesi possibile ma a mio avviso indimostrabile è che la scena rappresenti un Verfahren di natura giuridica e che il parlante si rivolga a (ovvero sia egli stesso un) sacerdote incaricato di giudicare le ragioni del rifugiato. In effetti, non mancano testimonianze di sacerdoti investiti di un simile compito (vd. soprattutto IG V.1 1390.82–4 [Andania, 92/91 a.C.] ὁ δὲ ἱερεὺς ἐπικρινέτω περὶ τῶν δραπετικῶν, ὅσοι κα ἧνται ἐκ τᾶς ἁμετέρας πόλεος, καὶ ὅσους κα κατακρίνει, παραδότω τοῖς κυρίοις· ἂν δὲ μὴ παραδιδῷ ἐξέ̣σ̣τω τῷ κυρίῳ ἀποτρέχειν ἔχοντι e cfr. Christensen 1984, pp. 26–28; Chaniotis 1996, pp. 79–83); tuttavia, esse sono «too late to be relevant for classical Athens», come nota Gottesman 2014, p. 162; cfr. Thür 2003, pp. 32–33, che conclude così: «die Frage läßt sich für Athen nicht klären». μἀλλ’ αἰσχρόν La lezione μἀλλ’ αἰσχρόν, sempreché sia quella da accogliere, lascia pensare che il parlante volesse introdurre considerazioni gnomiche o precetti morali. In Aristofane, quando αἰσχρόν introduce una frase dai contenuti moraleggianti o sapienziali, si è per lo più in presenza di una ripresa parodica di versi tragici (in particolare euripidei, come avviene in Lys. 713 = Eur. fr. 883 ἀλλ’

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αἰσχρὸν εἰπεῖν καὶ σιωπῆσαι βαρύ e, quasi certamente, in fr. 616 αἰσχρὸν νέᾳ γυναικὶ πρεσβύτης ἀνήρ)50 oppure di una allocuzione al pubblico (Av. 757 εἰ γὰρ ἐνθάδ’ ἐστὶν αἰσχρὸν τὸν πατέρα τύπτειν νόμῳ; Ra. 693–4 καὶ γὰρ αἰσχρόν ἐστι τοὺς μὲν ναυμαχήσαντας μίαν / καὶ Πλαταιᾶς εὐθὺς εἶναι κἀντὶ δούλων δεσπότας; cfr. anche V. 1048 τοῦτο μὲν οὖν ἐσθ’ ὑμῖν αἰσχρὸν τοῖς μὴ γνοῦσιν παραχρῆμα)51. Ci si può dunque chiedere se il nostro frammento non possa essere testimonianza di una parodia di un modulo frequente nella poesia gnomica e tragica, soprattutto euripidea (solo a titolo di esempio, si pensi a Il. 2.298 αἰσχρόν τοι δηρόν τε μένειν κενεόν τε νέεσθαι; Theogn. 1.627 αἰσχρόν τοι μεθύοντα παρ’ ἀνδράσι νήφοσιν εἶναι, 1.888–9 ἀλλ’ αἰσχρὸν παρεόντα καὶ ὠκυπόδων ἐπιβάντα / ἵππων μὴ πόλεμον δακρυόεντ’ ἐσιδεῖν; [Aesch.] Pr. 1039 σοφῷ γὰρ αἰσχρὸν ἐξαμαρτάνειν; Soph. Ai. 473 αἰσχρὸν γὰρ ἄνδρα τοῦ μακροῦ χρῄζειν βίου, Ant. 511 οὐδὲν γὰρ αἰσχρὸν τοὺς ὁμοσπλάγχνους σέβειν, El. 989 ζῆν αἰσχρὸν αἰσχρῶς τοῖς καλῶς πεφυκόσιν, Ph. 108 οὐκ αἰσχρὸν ἡγῇ δῆτα τὸ ψευδῆ λέγειν, OC 1422–3 αἰσχρὸν τὸ φεύγειν, καὶ τὸ πρεσβεύοντ’ ἐμὲ / οὕτω γελᾶσθαι τοῦ κασιγνήτου πάρα; Eur. Alc. 542 αἰσχρόν 〈γε〉 παρὰ κλαίουσι θοινᾶσθαι ξένους, Andr. 662 ἅψασθαι γὰρ οὐκ αἰσχρὸν λόγου, El. 343–4 γυναικί τοι / αἰσχρὸν μετ’ ἀνδρῶν ἑστάναι νεανιῶν, 932–3 καίτοι τόδ’ αἰσχρόν, προστατεῖν γε δωμάτων / γυναῖκα, Or. 106 αἰσχρόν γε μέντοι προσπόλους φέρειν τάδε, IT 674 αἰσχρὸν θανόντος σοῦ βλέπειν ἡμᾶς φάος, Hel. 922–3 αἰσχρὸν τὰ μέν σε θεῖα πάντ’ ἐξειδέναι / […] τὰ δὲ δίκαια μή, IA 830 αἰσχρὸν δέ μοι γυναιξὶ συμβάλλειν λόγους, Ba. 365 γέροντε δ’ αἰσχρὸν δύο πεσεῖν; trag. adesp. fr. 447 ὡς αἰσχρόν ἐστι †μὴ καλῶν† ἀπ’ ὀμμάτων / κλᾶον πρόσωπον καὶ δακρυρροοῦν ὁρᾶν)52. Θησέῳ Per la forma usata da Ferecrate, vd. Threatte 1980, pp. 312–318. Il Thēseion offriva asilo e rifugio agli schiavi, ma non solo, vd. Philoch. FGrHist 328 F 177 (= EM 451.40) Θήσειον· τέμενός ἐστι τῷ Θησεῖ, ὃ τοῖς οἰκέταις ἄσυλον ἦν (ἐλέγοντο δὲ δίκαι ἐνταῦθα), ἢ ναὸς τοῦ Θησέως, ἐφ᾽ ὃν οἱ ἀποδιδράσκοντες δοῦλοι προσέφευγον. Φιλόχορος δὲ οὐ μόνον τοὺς οἰκέτας τὸ παλαιόν φησι καταφεύγειν εἰς τὸ Θήσειον ἀλλὰ καὶ τοὺς ὁπωσοῦν ἱκετεύοντας; cfr. Plu. Thes. 36.4 ἔστι δὲ φύξιμον οἰκέταις καὶ πᾶσι τοῖς ταπεινοτέροις καὶ δεδιόσι κρείττονας, ὡς καὶ τοῦ Θησέως προστατικοῦ τινος καὶ βοηθητικοῦ γενομένου καὶ προσδεχομένου φιλανθρώπως τὰς τῶν ταπεινοτέρων δεήσεις. Posizione e data di fondazione del Thēseion rimangono incerti, ma esso doveva trovarsi vicino all’ agorà , cfr. Plu. Thes. 36.2; Paus. 1.17.2; vd. Thompson–Wycherley 1972, pp. 124–126; Bugh 1990, pp. 21–22; Jones 2016 ad Philoch. FGrHist 328 F 177. 50 51

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Cfr. Bagordo 2016, pp. 125–126. Cfr. anche com. adesp. fr. 139 αἰσχρὸν δὲ κρίνειν τὰ καλὰ τῷ πολλῶν ψόφῳ, che potrebbe avere carattere meta-teatrale, cfr. il comm. ad loc. di Kassel–Austin VIII, p. 149 e Roselli 2011, p. 57. Questi passi, in cui αἰσχρόν introduce per lo più un’ infinitiva, rendono attraente, nel nostro testo, la congettura καθήμενον in luogo di καθήμενος dei mss. AB: ma si tratterebbe di un intervento niente affatto necessario, vd. supra, Testo.

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Per le attestazioni epigrafiche e letterarie del Thēseion, vd. Wycherley 1957, pp. 113–119, numm. 339–362; in commedia, vd. Ar. Eq. 1312 (citato infra, lemma καθήμενος); Et.Gen. AB s. v. θησειότριψ (unde EM 451.52; = Su. θ 369)· ὁ ἐν τῷ Θησείῳ διατρίψας. Ἀριστοφάνης Πολυΐδῳ (fr. 475). καὶ θησ〈ει〉ομύζων δὲ ἐν τῷ αὐτῷ λέγει (vel λέγεται, comp. inc.). Ὦρος ὁ Μιλήσιος; Ar. fr. 577 ἐμοί κράτιστον ἐς τὸ Θησεῖον δραμεῖν, / ἐκεῖ δ’ ἕως ἂν πρᾶσιν εὕρωμαι μένειν53. καθήμενος Anche altrove vale ‘sedere in un tempio, in un santuario (come supplice)’, vd. Ar. Eq. 1311–2 καθῆσθαί μοι δοκῶ / εἰς τὸ Θησεῖον πλεούσας ἢ ’ πὶ τῶν Σεμνῶν θεῶν e cfr. Hdt. 5.63.1, 7.140.1 (orac.).

fr. 47 (42 K.) οὐκ ἀπολιβάξεις καὶ τριγώνους καὶ λύρας; ἀπολιβάξεις Meineke : ἀπολιβάζω Σ, prob. Bothe

Ma fa’ un po’ sparire sia trigoni che lire! Σb α 1890 (= Phot. α 2546 [ad Λιβύην]; ∼ Phot. α 2545) ἀπολιβάξαι· τὸ ἐκρυῆναι, ἀπὸ τῆς λιβάδος. ἄλλοι δὲ τὸ πόρρω ἀπελθεῖν, παρὰ τὴν Λιβύην· πόρρω γὰρ ἡ Λιβύη. οἱ δὲ ἀπορρῖψαι καὶ ἀποφθείρειν. Φερεκράτης Δουλοδιδασκάλῳ· «οὐκ – λύρας». Εὔπολις Πόλεσιν (fr. 223)· «ὁ Φίλιννος οὗτος, τί ἄρα πρὸς ταύτην βλέπεις; οὐκ ἀπολιβάξεις (Fritzsche : ἀπολιβάζεις Σb) εἰς ἀποικίαν τινά;». Apolibaxai: ‘scorrere via’, da libas, ‘corrente’. Altri (intendono) ‘andarsene lontano’, da Libyē, ‘Libia’: è lontana, infatti, la Libia. Alcuni, poi, (intendono) ‘gettare via’ e ‘distruggere’. Ferecrate nel Doulodidaskalos: «ma – lire!». Eupoli nelle Poleis (fr. 223): «ehi tu, Filinno, perché dunque la fissi? Perché non te la squagli in qualche colonia?».

Metro Trimetro giambico

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Bibliografia Meineke FCG II.1, p. 272; Bothe 1855, p. 91; Urios-Aparisi 1992, pp. 185–186; Quaglia 2001, pp. 256–260 Contesto della citazione Secondo Olson 2016, p. 249, la voce in Σb, risalente all’ espansione Σ’’’ della Synagogē (cfr. infatti Phot. α 2545 ἀπολιβάξαι· ἀπορρῖψαι. καὶ ἀπολιβάζειν· ἀποφθείρειν. Φερεκράτης), era originariamente una nota ad Ar. Av. 1467 οὐκ ἀπολιβάξεις. Probabilmente la citazione da Ferecrate viene introdotta a dimostrazione del significato transitivo del verbo ἀπολιβάξαι. Per il significato transitivo, cfr. anche Et.Sym. α 1260 ἀπολιβάζω· […] ἢ τὸ ἀπορρίπτω. L’attestazione 53

Vd. Bagordo 2020, pp. 185–187; cfr. anche Eup. fr. 229 κακὰ τοιάδε / πάσχουσιν, οὐδὲ πρᾶσιν αἰτῶ, col commento di Olson 2016, pp. 262–265.

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eupolidea (fr. 223.2) che segue il nostro frammento vale invece come illustrazione del significato intransitivo di ἀπολιβάξαι. Testo Bothe mantiene il tràdito ἀπολιβάζω e propone di leggere κατὰ in luogo del primo καί; la sua traduzione è dunque «non abeo trigonorum et lyrae sono audito». Questa soluzione, tuttavia, non tiene in conto che, nel frammento ferecrateo, il verbo ha quasi certamente significato transitivo (vd. Contesto della citazione). Si è dunque imposta la correzione dubitativa di Meineke; essa risponde a un uso della lingua parlata (vd. infra, lemma οὐκ ἀπολιβάξεις); cfr. poi Ar. Av. 1467 οὐκ ἀπολιβάξεις e Eup. fr. 223.2 οὐκ ἀπολιβάξεις (Fritzsche : ἀπολιβάζεις Σb), che tuttavia testimoniano un uso intransitivo del verbo. Interpretazione Secondo Urios-Aparisi 1992, p. 185, il parlante intima a qualcuno di non distruggere la musica tradizionale e quella moderna, che sarebbero rispettivamente rappresentate dalla lyra e dal trigōnos. In effetti, quest’ ultimo potrebbe avere una connotazione negativa ed essere legato alla ‘nuova musica’ (vd. infra), mentre il kitharizein (verbo che può significare anche suonare la lyra, vd. Beekes 2010, s. v. κιθάρα) era uno dei capisaldi della buona educazione, vd. Ar. V. 959, 989 (con il comm. di Biles–Olson 2015, p. 365) e Phryn. Com. fr. 2 (con il comm. di Stama 2014, pp. 60–63); cfr. West 1992, p. 26. Tuttavia, la parola lyra rimane problematica: essa può designare infatti quello strumento più piccolo e facile da suonare rispetto alla kithara (tanto che molti, anche non musicisti, sono in grado di suonarlo: cfr. ultimamente Pautasso 2014, p. 250), ma può anche avere un significato generico (vd. infra, lemma λύρας). Non sarebbe dunque prudente concludere che nel nostro frammento la lyra sia sicuramente simbolo della musica (e dell’ educazione) tradizionale, tanto più se si pensa ad alcuni tipi di lyra che potrebbero essere definiti polychorda e polyarmonia alla stessa stregua del trigōnos (vd. lemma τριγώνους): vd. ad es. il famoso frammento del Cheirōn (commedia attribuita perlopiù a Ferecrate)54 in cui la Musica denuncia le ‘violenze’ subite da parte di musici come Melanippide; questi, lamenta la Musica, ἀνῆκέ με / χαλαρωτέραν τ ἐποίησε χορδαῖς δώδεκα (fr. 155. 4–5)55. Si consideri poi Ar. fr. 232 [Banchettanti] ὅστις αὐλοῖς καὶ λύραισι κατατέτριμμαι χρώμενος / εἶτά με σκάπτειν κελεύεις;, in cui probabilmente il figlio ‘cattivo’ risponde alle minacce paterne rivendicando, tra le altre doti di un’istruzione di marca sofistica, la capacità di suonare sia l’ aulos che la lyra, forse al fine di riprodurre le composizioni musicali ‘di moda’ (vd. Cassio 1977, p. 74). Un contesto simile potrebbe darsi anche in Phryn. Com. fr. 2 οὐ τουτονὶ μέντοι σὺ κιθαρίζειν ποτὲ / αὐλεῖν τ’ ἐδίδαξας;, su cui cfr. Stama 2014, p. 62: «viene da chiedersi se anche i trimetri di Frinico non possano contenere una velata allusione alla detta polemica contro la musica ‘mo54 55

Alcune fonti attribuiscono il Cheirōn a un Nicomaco Rhythmikos: sulla questione, vd. ora Franchini 2020, pp. 239–241. sui problemi esegetici suscitati da questo fr., vd. da ultimo il dettagliatissimo comm. di Napolitano in Franchini 2020, pp. 242–294, con ampia bibliografia.

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derna’ e contro il suo insegnamento». Simili parole, credo, possono valere anche per il nostro frammento. Già di per sé, del resto, l’ipotesi di Urios-Aparisi, secondo cui il parlante ingiungerebbe a qualcuno di smettere di suonare per evitare di distruggere sia la musica tradizionale che quella nuova, desta qualche perplessità. Di solito, infatti, nella commedia si usa contrapporre i musici antichi a quelli moderni, sovente nell’ ottica di una polemica generazionale non priva di accenti politici: vd., oltre ai passi citati supra, Ar. Nu. 966–72, 1355–79, fr. 467; Eup. frr. 148 (citato infra), 326, 398; Pl. Com. fr. 138; cfr. Dover 1968, pp. 252–253; Souto Delibes 1999 (in particolare pp. 96–101). Se dubbi sussistono nel caso della lyra, la menzione del trigōnos/trigōnon – strumento spesso screditato sia per la sua origine ‘orientale’ che per l’ estrazione sociale dei suoi suonatori (vd. infra, lemma τριγώνους) – è invece più immediatamente collegabile alla musica ‘nuova’ e al decadimento morale che essa porterebbe con sé, stando ai suoi detrattori: cfr. in particolare Eup. fr. 148 τὰ Στησιχόρου τε καὶ Ἀλκμᾶνος Σιμωνίδου τε / ἀρχαῖον ἀεῖσαι, ὁ δὲ Γνήσιππος ἔστ’ ἀκούειν, / ὃς νυκτερίν’ ηὗρε †μοιχοῖς† ἀείσματ’ ἐκκαλεῖσθαι / γυναῖκας ἔχοντας ἰαμβύκην τε καὶ τρίγωνον56, dove lo strumento è associato agli ‘innovatori’ nell’ ambito di un lamento «over an alleged decline in musical tastes, most likely at symposia […] but perhaps in the contemporary city generally» (Olson 2016, p. 16). Riassumendo, c’ è la possibilità che trigōnos e lyra nel frammento ferecrateo non siano da interpretare come rappresentanti di due poli opposti (musica ‘nuova’ e musica antica, rispettivamente), ma come strumenti che in eguale misura concorrono alle creazioni dei musici innovatori. Detto altrimenti, anche qui potrebbe darsi quella polemica ferecratea contro la musica ‘nuova’ che vediamo espressa in fr. 155 (sempre che il Cheirōn vada attribuito a Ferecrate) e, forse, in fr. 6 (A. φέρ’ ἴδω, κιθαρῳδὸς τὶς κάκιστος ἐγένετο; / B. 〈ὁ〉 Πεισίου Μέλης. μετὰ 〈τὸν〉 Μέλητα 〈δ’〉 ἦν / A. ἔχ’ ἀτρέμ’, ἐγᾦδα, Χαῖρις). οὐκ ἀπολιβάξεις οὐκ + indicativo futuro è costrutto della lingua parlata, frequente in commedia; viene usato per esprimere un comando, cfr. Kühner–Gerth I, pp. 176–177. Per il verbo ἀπολιβάζω, cfr. Ar. Av. 1467; Eup. fr. 223 e vd. Taillardat 1965, p. 112 (§ 220), che lo considera «métaphore populaire». Per l’ uso transitivo del verbo, vd. Contesto della citazione; per il resto, cfr. Hsch. α 6441 ἀπολιβάξαι· ἀπολεῖψαι. ἐκνοτίσαι. ἄλλοι πορρωτέρω ἀπελθεῖν; Hsch. α 6445 ἀπολιβάσαι· ἀποπεσεῖν; schol. Ar. Av. 1467 οὐκ ENeap ἀπολιβάξεις;· RENeap λιβὰς ἡ σταγών, ἧς οὐδὲν ταχύτερον ἐν τῷ πίπτειν. ἢ οὐκ ἐς κόρακας καὶ Λιβύην ἀποφθερεῖ RVENeapM; Et.Gen. A α 1044 ~ EM 127.1–6 ἀπολιβάζω· ἀπέλθω, ἀποδράμω· παρὰ τὴν λιβάδα· καὶ γὰρ λιβάς ἐστι ῥευμάτιόν τι, ἵν’ ᾖ κυρίως ἀπορρεύσω. ἢ εἰς τὴν Λιβύην ἀπελεύσῃ, ὅμοιον τὸ εἰς κόρακας, ἀντὶ τοῦ ἐν ἀγνοίᾳ. ἢ παρὰ τὸ λι, τὸ σημαῖνον τὸ λίαν, καὶ τὸ βαδίσαι, τὸ ταχέως ἀπελθεῖν ἐκδεχόμεθα; Phot. 56

Cito il testo così come stabilito da Olson 2016, a cui rimando anche per il comm. ad loc. (pp. 15–19).

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α 2546 ἀπολιβάξαι· τὸ ἐκρυῆναι, ἀπὸ τῆς λιβάδος. ἄλλοι δὲ τὸ πόρρω ἀπελθεῖν, παρὰ τὴν Λιβύην. καὶ τριγώνους καὶ λύρας καὶ … καί esprime una corresponsione, con il primo καί «normally […] preparatory, the second connective: ‘both … and’», vd. Denniston 1954, pp. 323–325. τριγώνους Il trigōnos/trigōnon era uno strumento a corde, una «sorta di arpa triangolare» (Di Giglio 2000, p. 133) condannato da Platone insieme ad altri strumenti polychorda e polyarmonia (R. 399c)57. Diversi autori ne segnalano l’ origine ‘orientale’: secondo Sofocle (frr. 239, 412.1), esso è frigio, per Juba FGrHist 275 F 15 è siriaco; Fozio (α 2956–7) ne attribuisce l’ invenzione al lidio Tirreno. Diog. Trag. TrGF 45 F 1.9, poi, nomina il trigōnos insieme alla pēktis in un contesto lidio58. Secondo Aristosseno (Ath. 4.182f = fr. 97 Wehrli = III 3 35 Kaiser) il trigōnos si doveva annoverare tra gli ekphyla organa. Inoltre, in Eup. fr. 148.4 il trigōnos è associato alla iambykē come strumento adatto alle serenate degli adulteri escogitate dai campioni della nuova musica59; dal canto suo, Pl. Com. fr. 71.13 introduce una fanciulla che, al suono di un trigōnos, intona un melos iōnikon, «that is, a sexually provocative one»60. In tal senso, vd. anche Eup. fr. 88 [Baptai] ὃς καλῶς μὲν τυμπανίζεις / καὶ διαψάλλεις τριγώνοις / κἀπικινεῖ ταῖς κοχώναις / καὶ †πείθεις† ἄνω σκέλη, «a nominally appreciative but actually quite hostile description of the male musician and dancer to whom the remark is addressed, and who is most economically taken to be one of Kotytô’ s celebrants» (Olson 2017, p. 272; Kassel–Austin V, p. 339 rimandano a Hdt. 1.155.4, in cui Creso suggerisce a Ciro di assoggettare i Lidi rendendoli effeminati: πρόειπε δ’ αὐτοῖσι κιθαρίζειν τε καὶ ψάλλειν). In base a queste evidenze, Cassio 1977, p. 91 ritiene che nei Banchettanti (Ar. fr. 255) il trigōnos fosse strumento «apprezzato soprattutto dal figlio ‘cattivo’». λύρας non sappiamo esattamente a quale strumento a corda faccia riferimento Ferecrate con il termine lyra, visto che già in antichità esso si sovrappone nell’ uso a kithara, kitharis, chelys, barbitos e phorminx, vd. Maas–McIntosh Snyder 1989, pp. 26–27, 30–31, 34–36, 39–40; West 1992, pp. 50–51; Quaglia 2001, pp. 258–260.

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Per una discussione sulle raffigurazioni vascolari del trigōnos/trigōnon, vd. Mathiesen 1999, pp. 275–278: non è di secondaria importanza che a suonare questo strumento siano sempre delle donne (talvolta una delle Muse), almeno stando alla documentazione superstite, vd. anche infra. Vd. Maas–McIntosh Snyder 1989, pp. 150–151; West 1992, pp. 72, 73, 76–77; Mathiesen 1999, pp. 276–277. Cfr. Olson 2016, p. 19. L’ associazione trigōnos - iambykē è frequente, vd. West 1992, p. 76 n. 127. West 1992, p. 349; cfr. Pirrotta 2009, p. 175.

Δουλοδιδάσκαλος (fr. 48)

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fr. 48 (43 K.) ἀντ’ ἀστραγάλων κονδύλοισι παίζεται τοῖς post ἀστραγάλων Bekker, δὲ Fritzsche, δὲ vel γὰρ vel οὖν Kock, νυν Blaydes cod. : παίζετε Bekker, prob. Meineke, Kock, Edmonds

παίζεται

Anziché con gli astragali si gioca… con le nocche! Σb α 2269 (= Phot. α 3018; Su. α 4250) ἀστραγάλους δὲ οἱ Ἀττικοί· τὸ γὰρ θηλυκὸν Ἰακόν. καὶ παρ’ Ὁμήρῳ τινὲς θηλυκῶς οἷον (Il. 23.88)· «νήπιος, οὐκ ἐθέλων, ἀμφ’ ἀστραγάλοισι χολωθείς». Φερεκράτης Δουλοδιδασκάλῳ (-οις cod.)· «ἀντ’ – παίζεται». Πλάτων Λυσίδι (206e)· «ἠρτίαζον ἀστραγάλοις παμπόλλοις». λέγουσι δὲ καὶ ἀστρίχους. Ἀντιφάνης Ἐπιδαυρίῳ (fr. 92)· «ἐπαίζομεν μὲν ἀρτίως τοῖς ἀστρίχοις». Gli Attici (dicono) astragaloi: il femminile è infatti ionico. Anche in Omero alcuni (lo intendono) al femminile, come in (Il. 23.88): «stolto, senza volerlo, irato per il gioco degli astragali». Ferecrate nel Doulodidaskalos: «anziché – nocche». Platone nel Liside (206e): «giocavano a pari e dispari con moltissimi astragali». Dicono anche astrichoi (‘aliossi’). Antifane nell’ Epidaurios (fr. 92): «or ora giocavamo con gli aliossi».

Metro Si tratta di un eupolideo (〈 metro giambico (llkkl 〈x〉lkl

l〉llkkllklklkl) oppure di un triklkl)

Bibliografia Meineke FCG II.1, p. 272; Kock CAF I, p. 157; Blaydes 1890, p. 17; Kassel–Austin VII, p. 126; Urios-Aparisi 1992, p. 187; Quaglia 2001, pp. 260–262 Contesto della citazione Ferecrate e Platone comico vengono citati nella fonte atticista di Σb α 2269 (verosimilmente Elio Dionisio [α 190], a sua volta dipendente da Panfilo/Diogeniano, cfr. Eust. in Il. 4.690.4–8 e Poll. 9.99) come esempi dell’ uso attico di declinare ἀστράγαλος al maschile; nel dialetto ionico si trova il femminile, secondo schol. A Il. 23.88a1 (Did.) ἀμφ’ ἀστραγάλοισι χολωθείς: αἱ πλείους τῶν κατὰ ἄνδρα «ἀμφ’ ἀστραγάλῃσιν ἐρίσσας». καὶ ἔστιν Ἰωνικώτερον· «ἀστραγάλαι δ’ Ἔρωτός εἰσι〈ν〉 / μανίαι τε καὶ κυδοιμοί», Ἀνακρέων (PMG 398). Testo Il testo pone un problema metrico: ricostruendo un eupolideo, potremmo pensare con Meineke a un verso tratto dalla parabasi (cfr. Ar. Nu. 518–562) e vedere nelle parole conservate una possibile, anche se indefinibile, polemica extrascenica. Quaglia 2001, p. 262 n. 88 preferisce pensare a un trimetro lacunoso, dal momento che le altre citazioni ferecratee in Σ contengono solo trimetri giambici: l’ argomento, tuttavia, non è decisivo, anche se diversi sono stati i tentativi di integrazione volti a formare un trimetro giambico. Con Kassel e Austin, mantengo il tràdito παίζεται: esso andrà inteso come un verbo impersonale (non ho trovato paralleli se non imperfetti, cfr. ad es. Ar. Th. 1227 ἀλλὰ πέπαισται μετρίως ἡμίν) oppure come il predicato di un soggetto

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Pherekrates

del tipo παιδιά vel simm. (cfr. ThGL VI, col. 38D). παίζετε di Bekker, accettato da alcuni editori, è suggerito dal confronto con Antiph. fr. 92 ἐπαίζομεν μὲν ἀρτίως τοῖς ἀστρίχοις; vd. anche Od. 6.100 σφαίρῃ ταὶ δ’ ἄρ’ ἔπαιζον; Emp. VS 31 B 100.8–9 παῖς κλεψύδρῃ παίζουσα; Ctes. FGrHist 688 F 16.36, p. 473, l. 5 κύβοις ἐπὶ συνθήκαις παίξασα; Plu. Alc. 2.2 ἔπαιζεν ἀστραγάλοις. Interpretazione Il Witz è basato sull’ analogia tra astragaloi (‘astragali’) e kondyloi (‘nocche’): entrambi sono ossi, ma gli astragaloi venivano usati come dadi da gioco, mentre la parola kondyloi era ambigua, perché poteva significare anche i ‘pugni’. Dunque il parlante deve riferirsi ironicamente a una scena concitata – una rissa? Una punizione inferta a uno schiavo (vd. infra le occorrenze aristofanee di kondylos = ‘pugno’)? –, ma nulla di più sembra potersi evincere. ἀντ’ ἀστραγάλων costruzione ‘ellittica’ secondo Kassel–Austin, che intendono ἀντὶ τοῦ ἀστραγάλοις παίζεσθαι; essi portano a confronto Soph. Ph. 369–70 ἀντ’ ἐμοῦ τινι / δοῦναι61. Gli astragali erano ossi che venivano usati come dadi in diversi tipi di gioco (vd. già Il. 23.88), cfr. Mau 1896; Lamer 1927, coll. 1933–1935. κονδύλοισι il dativo, con il verbo παίζειν, indica il gioco a cui si gioca, vd. supra, Testo; con questa stessa funzione è altrove attestato l’ accusativo (Attico more, secondo Estienne in ThGL, s. v. παίζω). Kondylos poteva significare sia ‘nocca’ che ‘pugno’; in questa seconda accezione compare ad es. in Ar. Eq. 411, 1236, V. 254, 1503, Pax 123, 256, Lys. 366.

fr. 49 (44 K.) γαλαθήν’ ἔκλεπτον, οὐ τέλεα τέλεα A : τέλεια Bothe

Rubavo/rubavano quelli da latte, non quelli adulti Ath. 9.396c γαλαθηνῶν δὲ χοίρων ποτὲ περιενεχθέντων καὶ περὶ τούτων ἐζήτησαν οἱ δαιταλεῖς εἰ τὸ ὄνομα εἴρηται. καί τις ἔφη· Φερεκράτης Δουλοδιδασκάλῳ «γαλαθήν’ – τέλεα». E poiché a un certo momento furono serviti dei porcellini da latte (galathēnoi), i banchettanti cominciarono a indagare anche intorno a questi, se la parola sia attestata. E qualcuno disse: Ferecrate nel Doulodidaskalos (dice): «ho – adulti».

Metro Trimetro giambico

kklkl k|lkkk 〈xlku〉

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Vd. Kamerbeek 1980, p. 76, secondo cui l’ espressione sofoclea è «comparable with the genitive of comparison = ἢ followed by dative».

Δουλοδιδάσκαλος (fr. 49)

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Bibliografia Kassel–Austin VII, p. 126; Urios-Aparisi 1992, p. 188; Quaglia 2001, pp. 263–264 Contesto della citazione Il frammento ferecrateo è il primo di una serie di passi (tra cui anche Pherecr. fr. 33 οὐ γαλαθηνὸν ἄρ’ ὗν θύειν μέλλεις) riportati da Ateneo che attestano l’ uso dell’ aggettivo galathēnos, ‘da latte’, riferibile non solo ad animali, ma anche a esseri umani: per quanto riguarda le occorrenze poetiche, vd., nell’ ordine attestato in Ateneo, Alc. Com. fr. 22.2 (γαλαθηνοῦ μυός [ὑός Porson ap. Toup (ὑός iam Musurus)])62; Antiph. fr. 214 (κρωμακίσκος / […] γαλαθηνός); Henioch. fr. 2.2 (γαλαθηνὸν […] χοῖρον); Anacr. PMG 408.1–2 (νεβρὸν […] / γαλαθηνόν); Cratet. fr. 1.2–3 (γαλαθηνῶν […] / χοίρων); Simon. PMG 543.7–9 (ὦ τέκος, οἷον ἔχω πόνον· / σὺ δ’ ἀωτεῖς, γαλαθηνῷ / δ’ ἤθει κνοώσσεις), PMG 553.2 (γαλαθηνὸν τέκος)63; Od. 4.336 (νεβροὺς […] γαλαθηνούς). Non possiamo essere del tutto sicuri, quindi, che Ferecrate intenda riferirsi, nel nostro frammento, a porcellini da latte e non ad altri animali, ma vd. infra. Testo La correzione τέλεια proposta da Bothe non è affatto necessaria. Per la forma τέλεα, vd. infatti Willi 2003, p. 236: «prevocalic αι, ει, and οι often lose their ι in classical Attic orthography (even when originally the ι was followed by * ). Presumably the second element of these diphthongs was not always pronounced […]. This is certain when the quantity of the ‘diphthong’ syllable is affected» (cfr. Threatte 1980, p. 312). Interpretazione Secondo Kaibel ap. Kassel–Austin VII, p. 126, «excusat aliquis furtum»; ciò è molto probabile, anche se non possiamo essere certi che ἔκλεπτον sia una prima persona singolare e che dunque il parlante sia l’ autore del furto. Rimane incerto anche l’ aspetto del verbo: l’ imperfetto potrebbe infatti avere valore conativo (‘stavo rubando’, ‘cercavo di rubare’, cfr. Kühner–Gerth I, pp. 140–141) e ciò non ci permette di capire se il ladro fosse stato colto in flagrante o scoperto a furto consumato. Non siamo sicuri che gli animali di cui si parla siano porcellini da latte; se così fosse, qualche altra considerazione potrebbe farsi. Infatti, i porcellini da latte, meno costosi dei maiali adulti, venivano frequentemente usati come vittime sacrificali (specialmente in onore di Demetra)64 e non è escluso che il furto in questione sia legato, appunto, a un contesto sacrificale: vd. Ar. Ach. 747 e 764, Pax 374 (dove si dice che un maialino sacrificale costa tre dracme, vd. il comm. ad loc. di Olson 1998, pp. 148–149); Henioch. fr. 2. Il parlante potrebbe essere uno schiavo, secondo Urios-Aparisi 1992, p. 188: egli ritiene infatti che il frammento «could refer to the topic of a slave stealing food» e cita Ar. Pax 14 e Pl. 320, 1139–43

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Per la difesa del testo tràdito, vd. Orth 2013, p. 113, che intende μυός come «ein Aprosdoketon anstelle des […] zu erwartenden ὑός». Riferito a Ofelte/Archemoro, figlio del re di Nemea, ucciso involontariamente da Ipsipile. Cfr. Burkert 1972, pp. 283–286 e il comm. di Olson 2016, p. 477 ad Eup. fr. 301.

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(in quest’ ultimo passo, Hermes cerca di convincere un servo a portargli del cibo rubando pietanze destinate a un sacrificio domestico). Quaglia 2001, p. 263 sostiene che «la situazione potrebbe essere parodistica se i χοίροι avessero avuto nel passo di Ferecrate un doppio senso sessuale, designando l’ organo femminile, come in Ar. Ach. 764 ss. Accusato di aver rubato degli animali sacrificali l’ ignoto personaggio (uno schiavo goloso?) poteva forse cercare di cavarsela con una battuta, sostenendo di aver avuto altre mire…». Tale ipotesi resta però indimostrabile, anche perché non possiamo essere del tutto certi che qui Ferecrate parli di choiroi e non di altri animali. Una seconda ipotesi formulata da Quaglia non è più probabile della prima: egli, basandosi su un altro possibile doppio senso di galathēnos choiros (che si ricaverebbe dal paragone tra giovani amasii e galathēnoi choiroi nel problematico Cratet. fr. 1, vd. Perrone 2019, pp. 68–69), arriva a proporre, sia pure dubbiosamente, la correzione di τέλεα in θήλεα (sulla falsariga dell’ opposizione tra θήλεα e παιδικά in Eur. Cyc. 583–4). γαλαθήν’ Per l’ aggettivo, riferibile a diversi tipi di animali nonché a esseri umani, vd. Contesto della citazione. Il neutro plurale (vd. il successivo τέλεα) potrebbe essere riferito a un perduto χοιρίδια, χοιρία vel simm., ammesso che siano proprio i porcellini da latte gli animali di cui si parla. Sull’ opposizione γαλαθηνά e τέλεα, vd. ad es. Hdt. 1.183.2.

fr. 50 (45 K.) †ὡς παρασκευάζεται δεῖπνον πῶς ἂν εἴπαθ’ ἡμῖν.† (B.) καὶ δῆθ’ ὑπάρχει τέμαχος ἐγχέλειον ὑμῖν, τευθίς, ἄρνειον κρέας, φύσκης τόμος, ποὺς ἑφθός, ἧπαρ, πλευρόν, ὀρνίθεια πλήθει πολλά, τυρὸς ἐν μέλιτι, μερὶς κρεῶν 1 ὡς – ἡμῖν cruc. Kassel–Austin : ἕως (ὅπως Bergk : πῶς οὖν Wilamowitz ap. Kaibel in ed. Ath.) παρασκ. τὸ δεῖπνον εἴπαθ’ ἡμῖν Elmsley : καὶ πῶς παρασκ. πεινῶσιν εἴ ποθ’ ἡμῖν; dub. Kaibel ap. Kassel–Austin : ἕως παρασκ. δεῖπνον πόσον εἴπαθ’ ἡμῖν Desrousseaux εἴπαθ’ A : εἴπας Bothe 2–4 ἐγχέλιον … ἀρνίον A : corr. Schweighäuser 5–6 ὀρνίθια A : corr. Elmsley 7 ἐν A : σὺν Bergk μερὶς κρεῶν A, def. Kaibel ap. Kassel–Austin («velut ματτύη […], cf. Ath. 14.664b sqq.») : μετ’ ἰτρίων Kock : περιστέριον Bothe : χωρὶς κρεῶν Conti Bizzarro : cruc. Edmonds

†ὡς παρασκευάζεται δεῖπνον πῶς ἂν εἴπαθ’ ἡμῖν.† B. Ebbene, c’ è per voi un filetto di anguilla, un calamaro, carne d’ agnello, un pezzo di salsiccia,

Δουλοδιδάσκαλος (fr. 50)

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una zampa bollita, fegato, costata, uccellame in abbondanza, formaggio nel miele, una porzione di carne Ath. 3.96b τῶν δ’ ἐφθῶν ποδῶν μνημονεύει Φερεκράτης ἐν Δουλοδιδασκάλῳ· «†ὡς – κρεῶν». Delle zampe bollite fa menzione Ferecrate nel Doulodidaskalos: «†ὡς – carne».

Metro Tetrametro giambico catalettico (?); dimetri giambici

†lklllkllllklkll† llkl lkkkl klkl llkl llkl llkl llkl llkl klkl llkl klkkk klkl

Bibliografia Schweighäuser 1801–1805, II, p. 144; Elmsley 1811, p. 88; Bergk 1838, pp. 298–299; Meineke FCG II.1, p. 269; Bothe 1855, p. 90; Kock CAF I, pp. 157–158; Desrousseaux 1942, pp. 27–28; Conti Bizzarro 1988–1989, pp. 269–270; Kassel–Austin VII, p. 127; Urios-Aparisi 1992, pp. 189–192; Pellegrino 2000, pp. 227–236; Quaglia 2001, pp. 265–272 Contesto della citazione In Ath. 3.94c vengono servite diverse varietà di carne bollita; ciò dà luogo a una discussione sulle parti animali edibili (per lo più mascelle, interiora, zampe, teste, orecchie) e sulle loro occorrenze letterarie (3.94c-96e; tra i passi citati, è Pherecr. fr. 107, cfr. Franchini 2020, pp. 81–83). Il nostro frammento occorre in una sezione in cui si citano diversi passi comici riguardanti gli akrokōlia, le ‘estremità’ dell’ animale, di cui parla anche Pherecr. fr. 113.14 (vd. Franchini 2020, pp. 111–112) e che sono spesso nominate in commedia, cfr. Bagordo 2013, p. 249. Tra gli akrokōlia va appunto considerato il ποὺς ἑφθός del v. 5. Un riferimento alle zampe animali come vivanda si trova anche in altri passi citati da Ateneo dopo il nostro frammento: si tratta di Ecphantid. fr. 1; Mnesith. Ath. fr. 40 Bertier; Demon. FGrHist 327 F 1 (= Or. Delph. L79 Fontenrose). Testo Gli studiosi concordano nel riconoscere nel primo verso un tetrametro giambico catalettico: «pas de doute […] est un tétramètre ïambique catalectique dont le texte est altéré, puisqu’ il apparait 1° incomplet du début, 2° métriquement faux dans sa seconde partie» (Desrousseaux 1942, p. 28); vd. anche Perusino 1968, p. 108, secondo cui verosimilmente «ci troviamo di fronte alla fine di un epirrema giambico seguito dal πνῖγος». In effetti, i tetrametri giambici sono talvolta seguiti, in Aristofane, da successioni giambiche (vd. Interpretazione); questo è anche il caso del nostro frammento, i cui vv. 2–7 Dindorf (nella sua edizione di Ateneo)

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dispose in modo tale da formare dei dimetri giambici (non ostanti i dubbi di Meineke FCG II.1, p. 269: «versus ad Dindofii mentem distinxi, melius fortasse facturus si in duos omnia versus distinxissem iambicos hexametros»). Tuttavia, nessuno degli interventi proposti per sanare il testo sembra veramente risolutivo, né si potrebbe facilmente circoscrivere la corruttela, sebbene l’ attenzione degli studiosi si sia concentrata sull’ inizio del verso e sul problematico πῶς ἂν: appare dunque a mio avviso giustificata la scelta di Kassel e Austin di porre l’ intero verso tra cruces. Il tentativo di Elmsley (ἕως παρασκευάζεται τὸ δεῖπνον εἴπαθ’ ἡμῖν, che trovò poi d’ accordo Bergk 1838 – sia pure con ὅπως in luogo di ἕως – nell’ eliminare il tràdito πῶς ἂν), non è facilmente giustificabile dal punto di vista paleografico e non risponde a saldi criteri metodologici: «raccomodage étranger à toute préoccupation de méthode» e «sans aucune liaison logique avec la suite», lo ritiene Desrousseaux 1942, p. 28. Appena più accorto pare, in tal senso, il πῶς οὖν di Wilamowitz (ap. Kaibel in ed. Ath.) in luogo del tràdito ὡς: si tratta di una congettura che cerca di spiegare πῶς ἂν di A e, al tempo stesso, di preparare la risposta del personaggio che elenca il ricco menu nei vv. successivi. Non più che un’ipotesi di lavoro deve essere considerato καὶ πῶς παρασκευάζεται πεινῶσιν εἴ ποθ’ ἡμῖν; di Kaibel ap. Kassel–Austin VII, p. 127, tentativo opportunamente introdotto da un eloquente «temptari multa possunt»; evidentemente, Kaibel credeva che il problema testuale nella seconda parte del verso potesse non essere circoscritto a πῶς ἂν. La sistemazione di Desrousseaux (ἕως παρασκευάζεται δεῖπνον πόσον εἴπαθ’ ἡμῖν) si basa invece su un argomento specioso (p. 28): «la demande à laquelle il est répondu ici avec volonté de précision […] porte moins sur le menu ou le mode de préparation d’ un repas, que sur la quantité de mets divers promis à l’ appétit des interrogateurs»; in verità, proprio a causa dei problemi testuali in questione, non possiamo in alcun modo sapere se la domanda espressa al v. 1 da un parlante a noi ignoto riguardasse la consistenza del menu o la quantità delle vivande (ammesso che si possano distinguere nettamente i due aspetti); né può esserci di alcun aiuto ὀρ- / -νίθεια πλήθει πολλά dei vv. 5–6 (a cui pure Desrousseaux si appella). Dunque il πόσον congetturato dallo studioso (che non porta a confronto nessun parallelo) in luogo di πῶς ἂν, pur apprezzabile dal punto di vista paleografico, è destinato a rimanere altamente ipotetico. A renderci cauti, ad ogni modo, è la possibilità che il testo del primo verso sia il risultato di una conflatio in unum. Il sospetto – sia pure inverificabile – è alimentato da πῶς ἄν, che non deve necessariamente essere corrotto. Se si ammette la bontà della lezione tràdita, si può infatti pensare che πῶς ἄν costituisca un’ interrogativa ellittica seguìta da un’ esortazione all’ imperativo (εἴπαθ’ ἡμῖν). D’ altro canto, non conosco paralleli per πῶς ἄν;, mentre è frequente l’ interrogativa ellittica καὶ πῶς ἄν; (diversi ess. in Platone), usata per ribattere brevemente a un’ affermazione o a una domanda (in Platone pressoché sempre retorica) il cui contenuto è ritenuto impossibile: il superstite πῶς ἄν, dunque, potrebbe essere spia di un cambio di

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battuta. Per il primo verso del nostro frammento si potrebbe allora pensare e. g. alla conflatio di due tetrametri giambici catalettici di cui il secondo diviso in due da una antilabē dopo la quarta arsi (come ad es. in Ar. Eq. 340, 870, Nu. 1052, 1379, 1444 ecc., cfr. Perusino 1968, p. 82): 〈xlkl xlkl :: καὶ〉 πῶς ἄν; εἴπαθ’ ἡμῖν. Il primo verso, tuttavia, presenta un’ ulteriore difficoltà: se εἴπαθ’ di A è lezione genuina, dobbiamo ammettere che ciascun parlante si rivolga all’ altro usando il plurale (vd. infatti v. 3): uno dei due personaggi può essere il corifeo, ma non si spiegherebbe facilmente il plurale riferito all’ altro (vd. Interpretazione); di qui la congettura εἴπας di Bothe. Se cogliesse nel segno l’ ipotesi appena discussa di una conflatio, si potrebbe forse tentare anche εἴπ’ ἄγ’ ἡμῖν (cfr. Il. 9.673; 10.544; Theoc. 4.58; [Theoc.] 25.177). Al v. 7 Bergk 1838, p. 298 correggeva ἐν in σὺν, «ut mel una cum caseo afferri dicatur», e portava a confronto Philoxen. PMG 836b.37–8 ὁμοσύζυγα δὲ ξανθόν τ’ ἐπεισῆλθεν μέλι καὶ γάλα σύμπακτον, τό κε τυρὸν ἅπας τις / ἦμεν ἔφασχ’ ἁπαλόν, κἠγὼν ἐφάμαν (forse si può confrontare anche Oribas. 3.29.12 νεοπαγὴς τυρὸς μετὰ μέλιτος). La correzione, laconicamente rifiutata da Meineke («quo vix opus est»), non è stata accolta da nessun editore e anche in questa sede preferisco stampare il testo tràdito, vd. infra, lemma τυ- / -ρὸς ἐν μέλιτι. μερὶς κρεῶν di A sembra introdurre una ripetizione rispetto ai vv. precedenti e per questo era già sospetto a Bergk 1838, p. 299; tale sospetto è stato condiviso da diversi studiosi che hanno tentato congetture non particolarmente felici. μετ’ ἰτρίων di Kock è dettato dal tentativo di restituire un certo ordine di presentazione alla lista delle vivande (che evidentemente doveva concludersi, per Kock, con un τράγημα; vd. Papachrysostomou 2021, p. 101 ad Ephipp. fr. 8.3a: «ἴτριον was a kind of dessert […]. Specifically, it was a thin pastry made with sesame and honey»). περιστέριον di Bothe sembra il frutto di un tentativo del tutto estemporaneo e non è confortato da alcun argomento. Conti Bizzarro 1988–1989, p. 270, da ultimo, ha tentato di emendare il testo basandosi sul seguente ragionamento: «il cuoco ha elencato dal principio esclusivamente portate a base di carne, alla fine nomina separatim il formaggio col miele: quindi occorrerà leggere forse χωρὶς κρεῶν, eliminando la virgola dopo μέλιτι». Tuttavia, Conti Bizzarro non fornisce paralleli significativi e, per χωρίς col significato di «seorsum, separatim», cita Ar. Pax 1060 (= Av. 1705) ἡ γλῶττα χωρὶς τέμνεται, in cui χωρίς è avverbio e non preposizione come nel sintagma χωρὶς κρεῶν65; inoltre, non è affatto detto che formaggio e miele (dizione comunque problematica, vd. il commento al lemma τυρὸς ἐν μέλιτι) debbano essere nominati separatim all’ interno di una lista di vivande che punta sull’ effetto di rapido accumulo tipico di uno pnigos (vd. Interpretazione). Lascio quindi dubitativamente a testo la lezione di A senza considerarla locus desperatus 65

In schol. Ar. Eq. 137c ὁ δὲ κύκλος Ἀθήνησίν ἐστι, καθάπερ μάκελλος ἐκ τῆς κατασκευῆς τὴν προσηγορίαν λαβών. ἔνθα δὴ πιπράσκεται χωρὶς κρεῶν τὰ ἄλλα ὤνια, non citato da Conti Bizzarro, χωρίς significa «independently of, without reckoning», vd. LSJ, s. v. χωρίς II.3.

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come fa Edmonds: vd. infatti il commento al lemma μερὶς κρεῶν, per i tentativi di giustificare il testo tràdito. Interpretazione La metrica può darci una prima indicazione, vd. Perusino 1968, p. 108: ammesso che il v. 1 sia un tetrametro giambico, «ci troviamo di fronte alla fine di un epirrema giambico seguito dal πνῖγος: è tipico del πνῖγος l’accavallarsi dei termini in un crescendo finale (cfr. ad es. Aristoph. Av. 523 sgg. [an.])». Effettivamente, «successioni giambiche, articolate per lo più in cola dimetrici in sinafia (spesso anche verbale) tra di loro fino alla catalessi finale» appaiono soprattutto alla fine di epirremi di agoni (vd. Ar. Eq. 367–81; 441–56; 911–40; Nu. 1089–104; 1386–90; 1445–51; Ra. 971–91), anche se in Ar. Lys. 382–6 si trovano alla fine della parodo (Martinelli 1997, p. 151). Entrambe le possibilità vanno prese in considerazione per il nostro frammento, benché le descrizioni culinarie spesso compaiano, almeno in Aristofane, «in der zweiten Hälfte seiner Stücke» (Dohm 1964, p. 31). Vale soprattutto dal punto di vista contenutistico il confronto, proposto da Urios-Aparisi 1992, p. 189, con Ar. Ec. 1169–75 in cui si descrivono, con un’ unica parola-monstre, le vivande di un banchetto. Uno degli interlocutori del nostro frammento è con ogni probabilità il corifeo, vd. l’ uso dei pronomi plurali ἡμῖν (v. 1) e ὑμῖν (v. 3). Ciò rende fortemente dubbio quanto sostiene Quaglia 2001, p. 272, secondo cui «i due contendenti in lizza avrebbero potuto essere due cuochi» (va inoltre detto che nella commedia di mezzo e nuova non ci sono precisi paralleli di un dialogo tra cuochi che si svolga in modo simile: vd. Dohm 1964, pp. 125–137). Semmai si può pensare, con lo studioso, che a esporre la lista dei cibi sia uno schiavo (educato dal doulodidaskalos?), forse un cuoco (figura che sarebbe divenuta tipica della commedia di mezzo e nuova)66 che dialoga col suo Auftraggeber (anche in questo caso, tuttavia, lo sviluppo delle scene di dialogo tra cuoco e committente nella commedia di mezzo e nuova non sembra immediatamente confrontabile con il nostro frammento, vd. Dohm 1964, pp. 137–203). Rimane tuttavia il problema di εἴπαθ’ al v. 1 che, se veramente pronunciato dal corifeo (vd. supra), difficilmente potrà essere rivolto a un altro rappresentante di una pluralità: la questione può essere risolta o accettando la congettura εἴπας di Bothe (e comunque tenendo a mente che il guasto presente al v. 1 non è facilmente determinabile, vd. supra, Testo) oppure ipotizzando una (poco probabile) forma di pluralis maiestatis. Ma forme di plurale riferite a un soggetto singolare, rare in commedia, vengono usate per lo più dal parlante in riferimento alla propria persona (vd. Schwyzer–Debrunner, p. 243): un’ apostrofe al plurale a chi recita i vv. contenenti il catalogo di cibi – forse uno schiavo – sembra dunque improbabile. Ad ogni modo, se i versi superstiti appartenessero davvero a un agone epirrematico, mi sembrerebbe prudente assegnare lo pnigos a un personaggio che non sia il corifeo, cfr. Gelzer 1960, p. 116: «die Pnigen in den epirrhematischen 66

Oltre ai classici Dohm 1964 e Nesselrath 1990, cfr. Pellegrino 2000, p. 20 n. 29, con bibliografia.

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Agon sind immer Sache der Schauspieler, nie des Chors oder des Chorführers. Sie werden entweder als virtuoser Monolog gesprochen oder als Schnelldialogs». È possibile ma non verificabile l’ ipotesi di Quaglia secondo cui «uno dei contendenti avrebbe potuto essere il Doulodidaskalos in persona»; cfr. già Bothe 1855, p. 90, secondo cui il primo verso è pronunciato dai servi che chiedono al doulodidaskalos come si prepari un deipnon e i versi seguenti dal maestro che risponde «digito mostrans singula, ut nominat». Quanto ipotizzato da Bothe implica la presenza di un coro di schiavi; tuttavia, alcuni indizi ci fanno pensare che il coro del Doulodidaskalos fosse composto da donne libere, vd. comm. ad fr. 51. Anche in Pherecr. fr. 113 vengono citate alcune delle vivande presenti nel nostro frammento (vd. comm. ai singoli lemmi), ma i contesti sembrano ben differenti67: mentre in fr. 113 viene descritto l’ automatos bios tipico di uno Schlaraffenland, nel nostro caso i cibi elencati costituiscono il menu di un deipnon. Tuttavia, è incerto se tale deipnon venga effettivamente preparato o se l’ enumerazione delle vivande sia una dimostrazione di savoir-faire da parte dell’ ignoto personaggio che recita lo pnigos: a farci propendere per la prima ipotesi è soprattutto la presenza di ὑπάρχει … ὑμῖν ai vv. 2–3, quasi il personaggio B volesse presentare all’ altro i cibi già preparati (vd. infatti τέμαχος, τόμος, ἑφθός). È difficile, però, stabilire se l’ elenco delle vivande segua un ordine preciso; il problema è strettamente collegato a quello testuale riguardante la bontà o meno della lezione μερὶς κρεῶν (vd. Testo e comm. al lemma), cfr. Urios-Aparisi 1992, p. 191: «the enumeration is possibly given in a certain order: first of all, two fish meals, afterwards six meat courses, one dessert, and finally another meat course, although the reading is suspect for it breaks the order». Impossibile da provare, infine, è l’ ipotesi di Bergk 1838, p. 299, secondo cui Pherecr. fr. 190 ραφανίς τ’ ἄπλυτος ὑπάρχει, / καὶ θερμὰ λουτρὰ καὶ ταρίχη πνικτὰ καὶ †κάρυα può essere messo in relazione al nostro frammento. 1 παρασκευάζεται δεῖπνον Cfr. Pherecr. fr. 183 δεῖπνον παρασκεύαζε, σὺ δὲ καθίζανε. Sul verbo παρασκευάζω in ambito culinario, cfr. Orth 2020, p. 70, ad Aristophon. fr. 7.2: «παρασκευάζω bezeichnet […] in kulinarischem Zusammenhang das Decken des Tischs (vgl. Cratet. fr. 16,6, Ar. Eccl. 839), die Vorbereitung eines Gastmahls insgesamt (Pherecr. fr. 50,1 und 183, Ar. Ach. 1089, Men. Dysk. 554), die bereitgestellten (?) Trinkgefäße (Philippid. fr. 28), die Vorbereitung oder Bereitstellung von Schnee zum Trinken (Alex. fr. 145,10)». δεῖπνον Si tratta del pasto principale della giornata per gli Ateniesi del V sec.68 Esso aveva luogo di sera, normalmente, vd. ad es. Ar. Ec. 651–2 σοὶ δὲ 67

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Non concordo con Pellegrino 2000, p. 229 che, citando Urios-Aparisi 1992, p. 189, sostiene che il banchetto descritto nel nostro fr. «si può ben a ragione configurare come “an istance of bountiful αὐτόματος βίος”». Per il deipnon omerico, vd. invece la discussione Ath. in 1.11d e cfr. DGE, s.v. δεῖπνον I.1. Un interesse per i pasti dell’ età eroica è in Aesch. fr. *182 καὶ ταξιάρχας †καὶ στρατάρχας καὶ ἑκατοντάρχας† / ἔταξα, σῖτον δ’ εἰδέναι διώρισα, / ἄριστα, δεῖπνα δόρπα θ’ αἱρεῖσθαι

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μελήσει, / ὅταν ᾖ δεκάπουν τὸ στοιχεῖον, λιπαρὸν χωρεῖν ἐπὶ δεῖπνον, con il comm. ad loc. di Ussher 1973: «earlier […] and later times are also mentioned»; vd. infatti Ar. fr. 695 ἑπτάπους γοῦν ἡ σκιά ‘στιν / †ἡ ‘πὶ τὸ δεῖπνον· ὡς ἤδη καλεῖ μ’ / ὁ χορὸς ὁ φιλοτήσιος (cfr. Bagordo 2017, p. 58); Eub. fr. 117.5–8 […] κληθέντ’ ἐπὶ δεῖπνον […] / […] ὁπηνίκ’ ἂν / εἴκοσι ποδῶν μετροῦντι τὸ στοιχεῖον ἦ, / ἥκειν (cfr. Hunter 1983, pp. 218–219). L’ ora del deipnon poteva forse essere oggetto di comiche discussioni, stando ad Ar. fr. 360 [Kōkalos] ἀλλ’ ἐστίν, ὦ πάτερ, κομιδῇ μεσημβρία, / ἡνίκα γε τοὺς νεωτέρους δειπνεῖν χρεών, cfr. Bagordo 2017, p. 57 «relevant für den frühzeitigen Beginn eines deipnon ist Ar. fr. 360 […], mit Bezug auf die Sitte der zeitgenössischen Jugend» (vd. anche Pellegrino 2015, p. 222 ad loc.: «forse un’ allusione alla vita gaudente dei Siciliani»). 2 καὶ δῆθ’ Usato frequentemente nella lingua colloquiale, «it closely resembles καὶ δή and καὶ δὴ καί in force, but is more lively and picturesque», secondo Denniston 1954, p. 278; lo studioso aggiunge che, nel nostro frammento, «καί is not, as elsewhere, connective, and καὶ δῆτα is used like καὶ δή»: si pensi in particolare all’ uso di καὶ δή non connettivo, di solito posto a inizio frase, «in response to a definite command» (Denniston 1954, p. 251; va detto, tuttavia, che Denniston accoglie, al primo verso, il testo ὅπως παρασκευάζεται τὸ δεῖπνον εἴπαθ’ ἡμῖν, vd. Testo). ὑπάρχει Sulla funzione ‘scenica’ del verbo, vd. supra, Interpretazione; analogo significato in Pherecr. fr. 190.1 ραφανίς τ’ ἄπλυτος ὑπάρχει. 2–3 τέμαχος ἐγ- / -χέλειον Il sostantivo τέμαχος (derivato dalla radice di τέμνω, vd. Chantraine DELG e Frisk GEW, s. v. τέμνω), quand’anche occorra senza ulteriori specificazioni (come in Ar. Ach. 1100, Eq. 282–3, 1177, Ra. 517, Ec. 606, 842, Pl. 894, Stratt. fr. 11.1–2, Dionys. Com. fr. 3.10, Antiph. fr. 188.6, Nicostr. Com. frr. 1.3 e 5) indica ‘fette’ o ‘filetti’ di pesce, vd. Orth 2014, p. 425 ad Metag. fr. 6.9 e Orth 2020, p. 232 ad Axionic. fr. 6.14 (con ampia lista dei pesci cui il sostantivo è associato in commedia; vd. in particolare Ar. Ach. 881 e Stratt. fr. 45.3, con riferimento all’ anguilla, come nel nostro frammento); cfr. anche Urios-Aparisi 1992, p. 190; Arnott 1996, p. 561; Pellegrino 2000, p. 140; Olson–Sens 2000, p. 161. Per quanto riguarda Ferecrate, vd. fr. 113.10 καὶ μὴν παρῆν τεμάχη μὲν ἐξωπτημένα, con i comm. ad loc. di Rehrenböck 1985, p. 154 e Franchini 2020, p. 111. ἐγχέλειον è aggettivo derivato dal sostantivo ἔγχελυς, indicante la Anguilla anguilla L., cfr. Thompson 1947, pp. 58–61; Olson–Sens 2000, p. 49 ad Archestr. fr. 10.1. L’ anguilla, spesso menzionata in commedia (vd. Pellegrino 2000, pp. 229–230; Stama 2015, p. 267 n. 19; Mastellari 2020, pp. 427–428), era considerata dagli Ateniesi una pietanza prelibata (Anaxandr. fr. 40.6 la ritiene τῶν ὄψων μέγιστον παρὰ πολύ, Diceopoli la accoglie con toni paratragici in Ar. Ach. 881–94

τρίτα, secondo cui il deipnon è il pasto di mezzogiorno. Sui pasti omerici confrontati con quelli ‘moderni’ nella tradizione esegetica e grammaticale antica, mi permetto di rimandare a Pellettieri 2020, pp. 303–305, con bibliografia.

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ed è ambita da diversi ghiottoni in Ar. Pax 1005–9). Era dunque costosa (vd. Olson 2002, p. 308 ad Ar. Ach. 962) e si addiceva a banchetti ricchi, tanto da essere compresa in elenchi di raffinate vivande, vd. Cratin. fr. 171.50, Antiph. frr. 221.4 e 233.5, Pl. Com. fr. 146, Men. fr. 224.5, 13. Per quanto riguarda Ferecrate, vd. fr. 113.12 [Metallēs] τεύτλοισί τ’ ἐγχέλεια συγκεκαλυμμένα, che testimonia l’ uso di avvolgerla in foglie di bietola e arrostirla (così anche in Ar. Ach. 891–4, 1043–5, Pax 1014, Eub. frr. 34, 36.3–4, 64.1, Antiph. fr. 104), cfr. Pellegrino 2000, p. 230; Franchini 2020, p. 111. Particolarmente rinomate erano le anguille del lago Copaide in Beozia, del fiume Strimone in Macedonia e dello Stretto di Messina, vd. Pellegrino 2000, p. 230 e Stama 2015, p. 267 n. 19, con elenco delle testimonianze antiche e ulteriore bibliografia. 3 τευθίς Si tratta del calamaro, Loligo vulgaris L., vd. Thompson 1947, pp. 260–261. Per un elenco dei passi, comici e non, in cui compare la τευθίς, vd. Conti Bizzarro 1988–1989, p. 270 n. 23; cfr. anche Pellegrino 2000, pp. 230–231 e Mastellari 2020, p. 424, con bibliografia. Il calamaro era considerato un cibo particolarmente pregiato (spesso, in commedia, compare in elenchi di cibi raffinati: vd. Epich. fr. 54, Ar. fr. 333.3, Anaxandr. fr. 42.46, Antiph. fr. 130.3, Ephipp. fr. 3.9, Mnesim. fr. 4.41 [con Mastellari 2020, p. 424], Alex. fr. 84.1 [con Arnott 1996, pp. 225–227], Anaxipp. fr. *1.33), tanto da essere ritenuto degno di un paese di cuccagna: vd. infatti Pherecr. fr. 137.10 e Metag. fr. 6.6 (con Orth 2014, p. 423). Poteva essere cucinato fritto o ripieno e stufato, cfr. Dohm 1964, p. 111–112; Olson–Sens 2000, p. 204 ad Archestr. fr. 55.1; Pellegrino 2000, pp. 230–231. 3–4 ἄρ- / -νειον κρέας La carne di agnello, come quella di ogni animale da latte, è pietanza raffinata e come tale è presentata in commedia: vd. Ar. fr. 449 (teste), Antiph. frr. 170.569 e 181.4, Eub. frr. 63.5 (teste), 75.5 (interiora) e 148.4 (∼ Ephipp. fr. 3.7, στηθύνια70), Mnesim. fr. 4.47, Diph. fr. 90.2 (agnello farcito); cfr. Conti Bizzarro 1988–1989, p. 270 n. 23; Pellegrino 2000, p. 231; Pellegrino 2015, p. 261; Mastellari 2020, p. 429 ad Mnesim. fr. 4.47, con bibliografia. 4 φύσκης τόμος Le φύσκαι erano budelli (cfr. Ael. Dion. φ 20 φύσκη· τὸ παχὺ ἔντερον) riempiti di farina di frumento e carne (schol. Ar. Eq. 364a ~ Su. φ 865) oppure di farina d’ orzo, grasso e sangue (EM 802.56–7; cfr. anche Hsch. τ 1211). Ferecrate ne fa una delle prelibatezze dello Schlaraffenland descritto nei suoi Metallēs (vd. fr. 113.8 con Franchini 2020, p. 110), ma esse sono spesso incluse in cataloghi di vivande, per lo più insieme ad altri tipi di salsicce, Pellegrino 2000, p. 231; Millis 2015, p. 221 ad Anaxandr. fr. 42.40; Bagordo 2017, p. 78 ad Ar. fr. 702; Mastellari 2020, p. 404 ad Mnesim. fr. 4.15. Su τόμος, cfr. Mastellari 2020, pp. 403–404 ad Mnesim. fr. 4.13.

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Qui forse il riferimento è alla dieta di un Persiano o di un Lidio, vd. Nesselrath 1990, p. 233 n. 147. Papachrysostomou 2021: «Regarding the term’ s meaning within Ephippus’ present fragment, little breasts is the accurate translation».

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5 ποὺς ἑφθός Le zampe (soprattutto quelle di maiale) vengono citate, in commedia e altrove, come prelibatezza, vd. Ecphantid. fr. 1 (con Bagordo 2014a, p. 87), Alex. fr. 115.15, Anaxil. 19.4 (con Tartaglia 2019, p. 107), Anaxipp. fr. 1.38, e Theoph. fr. 8.2–3, a cui si può forse aggiungere Antiph. fr. 183.1–2 (χοιρίων / σκέλη; citato da Ath. 3.96b dopo il nostro frammento); vd. anche Mnesith. Ath. fr. 40 Bertier, Demon. FGrHist 327 F 1 (= Or. Delph. L79 Fontenrose) e cfr. Pellegrino 2000, pp. 231–232. Simili carni si consumavano per lo più bollite, vd. Pellegrino 2000, p. 231 e Tartaglia 2019, p. 107. Su ἑφθός, aggettivo verbale da ἕψειν, ‘far cuocere, bollire’, cfr. Bagordo 2014a, p. 87 ad Ecphantid. fr. 1 (πόδας […] ἑφθοὺς ὑός) e vd. Pherecr. fr. 113.14 (δίεφθ’ ἀκροκώλια), Telecl. fr. 51 (ἀκροκώλια δίεφθα), Ar. fr. 4.1 (ἀκροκώλιά γε σοι τέτταρα / ἥψησα τακερά), Anaxil. fr. 19.4 (ἀκροκώλι’ ἕψειν lkl ῥύγχη, πόδας), Matr. fr. 1.93–4 Olson–Sens (ἀκροκώλιά θ’ ἑφθά). ἧπαρ Numerose testimonianze sul fegato come vivanda sono raccolte in Ath. 3.106e-108a, vd. Ar. frr. 333.5 (ἧπαρ κάπρου) e 520.4 (ἡπάτιον); Alc. Com. fr. 25 (ἡπάτιον); Aristophon. fr. 2.1 (ἡπάτια); Eub. frr. 23 (ἡπάτια) e 63.3 (ἧπάρ τε κάπρου); Crobyl. fr. 7.2 (ἧπαρ καπρίσκου, vd. Mastellari 2020, pp. 173–174); Alex. frr. 27.7 (ἡπάτιον ὀπτόν) e 115.16 (ἡπάτιον ἐγκεκαλυμμένον, vd. Arnott 1996, p. 322). A partire dai passi citati si può concludere, con Orth 2013, p. 119 ad Alc. Com. fr. 25, che «die Deminutivform wurde für diese (oft gebraten verzehrte) Delikatesse wohl ganz regulär verwendet, während die einfache Form ἧπαρ in kulinarischem Kontext mehrfach die Wildschweinleber bezeichnet». πλευρόν Il sostantivo indica la ‘costata’, in genere suina o bovina; si tratta di un cibo «ricercato e lussuoso» (Franchini 2020, p. 112), vd. Pherecr. fr. 113.16 (πλευρὰ δελφάκεια, uno dei cibi dello Schlaraffenland descritto nei Metallēs); Ar. fr. 520.5; Hermipp. frr. 46.2 (πλευρὸν ὕειον) e 63.6 (πλευρὰ βόεια, vd. Comentale 2017, p. 264 ad loc.); Amips. fr. 7.2 (qui il πλευρόν è menzionato tra gli ἱερώσυνα nell’ ambito di un’ offerta sacrificale, vd. Orth 2013, p. 227 ad loc.); cfr. Pellegrino 2000, p. 232. 5–6 ὀρ- / -νίθεια πλήθει πολλά Spesso in commedia gli uccelli sono descritti come un cibo prelibato (vd. ad es. Ar. Av. 1579–90, Ra. 510) e degno di un paese di cuccagna, cfr. Pellegrino 2000, pp. 232–233 e vd. Pherecr. frr. 113.23 (con Franchini 2020, pp. 114–115) e 137.10; Telecl. fr. 1.12 (con Bagordo 2013, p. 70)71; cfr. anche Ar. fr. 581.3 (con Pellegrino 2000, p. 183). Per l’ espressione enfatica πλήθει πολλά, vd. Thesleff 1954, p. 174 (§ 309) e cfr. ad es. Hdt. 2.96.21 ἔστι δέ σφι τὰ πλοῖα ταῦτα πλήθει πολλά; 4.191.16–192.1 ἄλλα πλήθει πολλὰ θηρία; Pl. Phd. 111a πολλὰ πλήθει καὶ μεγάλα; Aristot. HA 581a 5 πλήθει πολλοί. L’ espressione sembra prosastica; farebbero tuttavia eccezione Soph. Ph. 721–2 πλήθει πολλῶν μηνῶν (lyr.) e Posidipp. 16.3 Austin–Bastianini πλήθεϊ

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Sul rapporto tra i Metallēs di Ferecrate e gli Amphiktyones di Teleclide, cfr. Bagordo 2013, pp. 46–47 e 53–54; Franchini 2020, pp. 96–97.

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πολλὴν βῶλον. Per quanto riguarda Sofocle, già Stevens 1945, p. 97 notava che nel Filottete si riscontrano diversi colloquialismi (cfr. anche Collard 2018, pp. 39 n. 58, 187–188) ma non citava il passo in esame, portato invece come esempio dell’ uso enfatico di πλῆθος da Thesleff; nel caso di Posidippo, invece, l’ intensificazione πλήθεϊ πολλὴν βῶλον mira forse a enfatizzare la grande disponibilità in natura del cristallo di rocca, pietra «paradigmatica proprio per il suo assoluto “anonimato”»72. 6–7 τυ- / -ρὸς ἐν μέλιτι Abbiamo numerose testimonianze di formaggio servito assieme al miele (vd. ad es. Od. 20.69; Xenoph. fr. 1.10 Gentili–Prato; Ar. V. 676; Anaxandr. fr. 42.44 [con Millis 2015, p. 223]; Ephipp. fr. 13.3; Alex. fr. 178.11–2; Men. fr. 224.5; Philem. fr. 113.2; com. adesp. fr. 1073.11–3)73, ma il sintagma τυρὸς ἐν μέλιτι è attestato solo qui, tanto che Bergk 1838, p. 298 propose di correggere in σὺν il tràdito ἐν portando a confronto Philoxen. PMG 836b.37–8 (vd. supra, Testo). Per Biles–Olson 2015, p. 298 il problematico τυρὸς ἐν μέλιτι ferecrateo indica formaggio «drenched in honey and thus presumably hot off the fire». Sull’ importanza del formaggio e del miele nella dieta greca, vd. Pellegrino 2000, pp. 233–235, con bibliografia (sul formaggio, cfr. anche Olson–Sens 2000, p. 72 ad Archestr. fr. 14.5 e, da ultima, Papachrysostomou 2021, p. 56 ad Ephipp. fr. 3.5; sul miele, vd. anche Olson 2002, p. 326 ad Ar. Ach. 1040–1, con bibliografia). μερὶς κρεῶν Per il sintagma μερὶς κρεῶν cfr. [Dem.] 43.82 τὴν μερίδα τῶν κρεῶν; Heraclid. fr. 2.42 Müller μερίδας ποιήσαντες τῶν κρεῶν; Poll. 6.55 αἱ μέντοι τῶν κρεῶν μερίδες ἰδέαι καλοῦνται. κρέας indica qualsiasi carne ad esclusione del pesce; al plurale, già nei poemi omerici, significa «’ Fleischstücken’», cfr. Bagordo 2013, p. 66 ad Telecl. fr. 1.8. La lezione tràdita (per i tentativi di emendamento, vd. Testo) è difesa da Kaibel ap. Kassel–Austin VII, p. 127: «velut ματτύη, quae extremum in cena locum tenebat, cf. Ath. 14.664b sqq.»; in verità, non sappiamo se nell’ Atene del V sec. a.C. esistesse qualcosa di simile alla ματτύη (un piatto a base di varie pietanze servito come dessert): secondo Doroteo di Ascalona (ap. Ath. 14.662f-3a), peraltro, l’ uso di servire la ματτύη come dessert giunse ad Atene ai tempi della dominazione macedone, dunque dopo la battaglia di Cheronea (338 a.C.), vd. Arnott 1996, p. 599; Orth 2020, pp. 293–29474. Secondo Pellegrino 2000, p. 235 il tràdito μερὶς κρεῶν non è che «un ‘finale in bellezza’, ché, come è noto, la carne (soprattutto bovina e suina) compariva di rado sulle mense dei cittadini ateniesi del V sec. a.C. ed era consumata in grandi quantità solo in occasione di solenni festività religiose». 72 73 74

Belloni 2016, p. 9. Da confrontare è anche il πλακοῦντος τυρόνωτον […] κύκλον di Ar. Ach. 1125, su cui, al v. 1130, Diceopoli ordina di versare del miele: vd. Olson 2002, pp. 343–344 ad loc. Vd. anche Orth 2020, p. 294 n. 636: «Ein deutlich früheres Bekanntwerden der ματτύη in Athen schon im 5. Jh. v. Chr. ergibt sich, wenn bei Ar. Nub. 451 Bentleys ματτυoλοιχός (und nach dem Apparat von Wilson schon im Harleianus 5725) anstelle des überlieferten ματιολοιχός richtig ist. Aber das ist eher unwahrscheinlich», cfr. Dover 1968, p. 158 ad loc.

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A giudizio di Pellegrino è invece «‘macchinosa’» l’ ipotesi di Urios-Aparisi 1992, p. 192, secondo cui μερὶς κρεῶν sarebbe una «more abstract formula» rispetto a ciò che precede e nasconderebbe un’ allusione «to an essential ‘course’ of a Greek banquet: the αὐλητρίδες»; cfr. anche le korai menzionate nello Schlaraffenland desritto in Pherecr. fr. 113.28. L’ ipotesi di Urios-Aparisi prende le mosse da alcuni doppi sensi osceni in Aristofane individuati da Henderson 1991 pp. 129 e 14475: vd. Ach. 795–6 καὶ γίνεταί γα τᾶνδε τᾶν χοίρων τὸ κρῆς / ἅδιστον ἂν τὸν ὀδελὸν ἀμπεπαρμένον; Pax 715–7 ὦ μακαρία βουλὴ σὺ τῆς Θεωρίας / […] / ὅσας δὲ κατέδει χόλικας ἑφθὰς καὶ κρέα76. Tuttavia, per quanto riguarda Ach. 795–6, tutta la scena è basata sull’ ambiguità della parola χοῖρος e ciò permette un proliferare di doppi sensi; in Pax 715–7, poi, «nothing suggests that any of the vocab. here is to be taken in a sexual sense (pace Henderson […])» (Olson 1998, p. 214). Gli esempi aristofanei, dunque, non bastano a corroborare l’ ipotesi di un doppio senso che, nel contesto di una lunga lista di cibi, parrebbe estemporaneo, non preparato da una precedente ambiguità (come accade invece in Ar. Ach. 795–6) e dunque difficile da cogliere (a meno che il parlante non rendesse esplicita la sua allusione con mezzi non verbali, ad es. pronunciando le parole μερὶς κρεῶν e al contempo indicando un personaggio femminile presente in scena). Lo stesso vale a maggior ragione per una seconda ipotesi formulata da Urios-Aparisi 1992, p. 192, secondo cui μερίς potrebbe alludere all’ organo sessuale maschile (questo poteva essere detto μέρος, secondo lo studioso; egli si limita a rimandare a Adams 1982, p. 45, che tuttavia riporta come esempio solo il tardo Soran. p. 188.17 Rose τὰ μέρη, al plurale; più diffuso, ma a partire dall’ età imperiale, è μόριον, usato soprattutto al plurale e indicante sia i genitali maschili che quelli femminili, vd. LSJ, s. v. μόριον II.2).

fr. 51 (46 K.) ταχὺ τῶν ἐρίων καὶ τῶν ἀνθῶν τῶν παντοδαπῶν κατάγωμεν κατάγωμεν Meineke1 : κατάγομεν B ταχὺ {τῶν ἐρίων καὶ} τῶν ἀνθῶν τῶν παντοδαπῶν 〈τὸ κάταγμα καλῶς〉 κατάγωμεν Kock : ταχὺ {τῶν ἐρίων καὶ} τῶν ἀνθῶν τῶν παντοδαπῶν 〈τιν’ ἀφ’ ἱστοπόδων〉 κατάγωμεν Edmonds

Presto, filiamo della lana e delle tinte di ogni tipo

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Ma Henderson 1991, p. 129 scrive «κρέας, meat, appears only in homosexual context» e cita Ar. Eq. 428, 484 e fr. 128.3. Urios-Aparisi chiama in causa anche Taillardat 1965, pp. 59–60 (§ 65), non pertinente. In Lys. 1063, pure citato da Henderson 1991, p. 144, κρέα è «intrusive gloss» secondo lo stesso Henderson 1987, p. 191.

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Σb α 1415 (= Phot. α 1965)  ἄνθος· τὸ χρῶμα καὶ τὸ βάμμα τοῦ ἐρίου. Φερεκράτης Δουλοδιδασκάλῳ (δούλῳ διδασκάλῳ B)· «ταχὺ – κατάγωμεν (κατάγομεν B)». Anthos: il colore e la tinta della lana. Ferecrate nel Doulodidaskalos: «presto – tipo».

Metro Tetrametro anapestico catalettico

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Bibliografia Meineke 1814, p. 11; Meineke FCG II.1, p. 271; Bothe 1855, p. 91; Kock CAF I, p. 158; Edmonds FAC I, p. 224; Kassel–Austin VII, p. 127; UriosAparisi 1992, pp. 193–195; Quaglia 2001, pp. 272–276 Contesto della citazione Il frammento ferecrateo è tratto dalla voce ἄνθος della versio codicis B della Synagogē; dal momento che la stessa voce compare nel lessico di Fozio, essa doveva appartenere alla redazione della Synagogē indicata da Cunningham con la sigla Σ’’’, cfr. Cunningham 2003, pp. 13, 50. Il ‘fuoco’ della citazione è il particolare significato che ἄνθος assume in Ferecrate. È possibile, tuttavia, che la dizione τὸ χρῶμα καὶ τὸ βάμμα τοῦ ἐρίου non sia sinonimica: χρῶμα potrebbe indicare genericamente il ‘colore’ (come ad es. nel caso di [Aesch.] Pr. 23 χροιᾶς ἄνθος), mentre βάμμα τοῦ ἐρίου sembra essere una particolare accezione illustrata proprio dalla citazione ferecratea (in tal senso, si può pensare che il testo sia da intendere così: ἄνθος· τὸ χρῶμα· καὶ τὸ βάμμα τοῦ ἐρίου κτλ., dove καί significherà ‘anche’). È ipotizzabile, dato anche il riferimento al comico ateniese, che il lemma possa risalire a una fonte atticista, cfr. Cunningham 2003, pp. 46–47, 53, 55. Testo κατάγωμεν è stato reintrodotto da Meineke 1814, p. 11 metri causa in luogo di κατάγομεν di B. Nonostante ciò, il testo è apparso problematico per più di un motivo (vd. anche Kaibel ap. Kassel–Austin VII, p. 127: «verba integra esse non spondeo»): innanzitutto, non ci sono altre attestazioni del verbo κατάγω con gen. partitivo; inoltre, non è immediatamente chiara la distinzione tra ἐρίων e ἀνθῶν. Ciò ha portato Kock a suggerire l’ improbabile ταχὺ {τῶν ἐρίων καὶ} τῶν ἀνθῶν τῶν παντοδαπῶν 〈τὸ κάταγμα καλῶς〉 κατάγωμεν: l’ espressione κάταγμα κατάγειν è priva di confronti, senza contare che καλῶς ha il sapore di un mero riempitivo. Inoltre, l’ espunzione di τῶν ἐρίων, considerato come glossa di τῶν ἀνθῶν penetrata nel frammento a partire dal contesto (e legata tramite καί al resto del verso), non è affatto sicura: mi sembra anzi che ἐρίων e ἀνθῶν possano essere difesi, vd. infra, lemma καὶ τῶν ἀνθῶν τῶν παντοδαπῶν. Sulla scorta di Kock, Edmonds (che pone una crux non perspicua dopo παντοδαπῶν) ha tentato la seguente soluzione: ταχὺ {τῶν ἐρίων καὶ} τῶν ἀνθῶν τῶν παντοδαπῶν 〈τιν’ ἀφ’ ἱστοπόδων〉 κατάγωμεν. Tuttavia, il riferimento alle travi del telaio (ἱστοπόδων) non sembra essere adeguato al contesto, dal momento che κατάγωμεν deve riferirsi all’ operazione della filatura, non a quella della tessitura (vd. infra, Interpretazione e lemma κατάγωμεν; Edmonds sospetta invece, senza

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addurre prove, che il verbo κατάγω significhi qui «“taking down” the completed web from the weaver’ s beam»). Interpretazione Kock CAF I, p. 155 riteneva, sulla base di questo frammento, che il coro potesse essere stato composto da donne (ma vd. già Mineke FCG II.1, p. 272: «dici haec videntur a muliere servas ut Minervae operentur cohortante»). Il verso era recitato forse da una tessitrice del peplo fabbricato in occasione delle Panatenee77, se coglie nel segno la connessione tra il nostro frammento e schol. (M) Eur. Hec. 467 Schwartz (= Apollod. Hist. FGrHist 244 F 105 = BNJ 244 F 105a) τᾶς καλλιδίφρου Ἀθαναίας· οὐ μόνον γὰρ παρθένοι ὕφαινον, ὥς φησιν ’Απολλόδωρος ἐν τῷ Περὶ θεῶν †αὐλῆς (cruc. Jacoby : ἐν τῷ Περὶ θεῶν [αὐλῆς] Cobet, Schwartz : ἐν τῇ Περὶ θεῶν πρώτῃ Meineke : ἐν τῷ Περὶ θεῶν στολῆς Polak : ἐν τῇ τοῦ Παρθενῶνος αὐλῇ Kock), ἀλλὰ καὶ τέλειαι γυναῖκες, ὡς Φερεκράτης (corr. Matthiae : Φιλοκράτης M) ἐν Δουλοδιδασκάλῳ. ὅτι δὲ κρόκινός ἐστι καὶ ὑακίνθινος καὶ τοὺς Γίγαντας ἐμπεποίκιλται, δηλοῖ Στράττις (fr. 73). τοῦτον δ᾽ ἀνιέρουν διὰ πενταετηρίδος ἐν τοῖς Παναθηναίοις. Va però notato che, a differenza dello scolio appena citato, il nostro frammento non parla della tessitura (quella del peplo di Atena cominciava nove mesi prima delle Panatenee, in occasione dei Chalkeia78), ma di un’ operazione precedente (la filatura, vd. infra, lemma κατάγωμεν). Si può allora tentare un’ analogia con l’ iscrizione IG II2 1034.7–8 (Attica, 103/2 a.C.) τῶν παρθένων / [τῶν ἠργ]ασμένων τῇ Ἀθηνᾷ τὰ ἔρια τὰ [εἰς τὸ]ν πέπλον, su cui vd. il commento di Wesenberg 2015, p. 106: «die Parthenoi […] haben nicht den Peplos gewebt, sind also im Sinne der panathenäischen Terminologie keine Ergastinen. Sie haben vielmehr die Wolle für den Peplos bearbeitet, d. h. die Rohwolle zu dem gesponnenen Garn verarbeitet, aus dem der Peplos später gewebt wurde»; cfr. anche Robertson 2004, p. 141: «“working wool” can refer to any of the stages in the manufacture of woollen clothing: carding, spinning, weaving. This is granted, and it should be granted too that each is essential»79.

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Secondo Urios-Aparisi 1992, p. 193 e Quaglia 2001, p. 275 il coro potrebbe essere composto dalle Ergastinai – così erano forse dette coloro che si occupavano della tessitura del peplo. Ma gli studiosi sono divisi sul ruolo e l’ identità delle donne coinvolte nella tessitura del peplo, nonché sulle funzioni svolte da Ergastinai e Arrēphoroi: vd. almeno Mansfield 1985, pp. 277–281; Robertson 2004, p. 143; Sourvinou-Inwood 2011, pp. 268–269 e n. 27; Williams 2018 ad Apollod. Hist. BNJ 244 F 105a, con bibliografia. Per l’ età delle donne coinvolte, vd. anche le riflessioni svolte infra in relazione allo scolio euripideo. Vd. ultimamente Clements 2017, pp. 36–48, con bibliografia. Riferimenti alle fasi preliminari di lavorazione del peplo panatenaico sono stati scorti anche in Ar. Av. 827 τῷ ξανοῦμεν τὸν πέπλον;. Il significato contestuale del verbo ξανοῦμεν, tuttavia, non è chiaro: propriamente, esso indica l’ attività della cardatura, ma l’ accostamento a un complemento oggetto come τὸν πέπλον desta perplessità, cfr. Dunbar 1995, p. 496; Lambert in Aleshire–Lambert 2003, p. 76; Wesenberg 2015, p. 112 n. 59.

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Ad ogni modo, rimane problematico accostare IG II2 1034.7–8 (nonché IG II 1036.11–12 [Attica, 108/7 a.C.], in cui si può ricostruire lo stesso testo) al nostro frammento: la notizia di schol. (M) Eur. Hec. 467, secondo cui Ferecrate avrebbe rappresentato, come impegnate nella produzione del peplo, anche donne adulte, difficilmente si accorda con la menzione di sole parthenoi nell’ iscrizione (e, apparentemente, in Apollodoro), come nota già Lambert in Aleshire–Lambert 2003, p. 77 (cfr. anche p. 85: «the term parthenoi would normally imply pre-marital age»). Altrove, ho ipotizzato che Apollodoro possa riferirsi a un rituale diverso rispetto a quello del V sec. oppure che la testimonianza dello scolio euripideo sia epitomata e/o ‘montata’ in modo tale che pare di scorgere una contraddizione tra Ferecrate e la dottrina di Apollodoro (rimando a Pellettieri 2021, pp. 423–425 per l’ argomentazione). Come nota Quaglia 2001, p. 275, il frammento potrebbe essere parte di un epirrema anapestico; secondo lo studioso (p. 275 n. 149), «si può forse aggiungere che il passo poteva riferirsi ad una specie di autopresentazione del coro che, entrando, si dirigeva al Partenone per tessere il peplo: in tal caso il verso avrebbe potuto far parte della parodo». Ma, come notato supra, il verbo κατάγωμεν nel nostro frammento si riferisce alla filatura della lana, non alla tessitura del peplo. Il riferimento al Partenone, poi, potrebbe essere dettato dalla congettura di Kock ad schol. (M) Eur. Hec. 467, vd. supra; inoltre in Ar. Nu. 263–74, 291–7, portati a confronto metri causa, sono Strepsiade e Socrate a parlare, non il coro. Secondo Urios-Aparisi 1992, p. 195 è possibile che il verbo κατάγωμεν abbia un «metaphorical sense» (ma lo studioso non specifica quale) e che, dunque, il frammento potesse appartenere alla parabasi. Un’ altra possibilità è che esso sia tratto dalla scena finale80: tetrametri anapestici pronunciati dal corifeo in questa sezione della commedia sono infatti testimoniati in Ar. Eq. 1316–34. τῶν ἐρίων Il plurale ἔρια occorre spesso in luogo del singolare, vd. Bagordo 2017, p. 151. Non è affatto detto che ἐρίων e ἀνθῶν siano equivalenti – e che quindi possa essere accettata l’ ipotesi secondo cui τῶν ἐρίων è glossa finita nel testo (vd. supra, Testo). Secondo Urios-Aparisi 1992, p. 194, «on the one hand ἀνθῶν τῶν παντοδαπῶν could mean “dyed wool” and, on the other, τῶν ἐρίων would be a general partitive noun at the beginning to indicate all kinds of wool included undyed wool», ma vd. infra, lemma καὶ τῶν ἀνθῶν τῶν παντοδαπῶν. Il genitivo potrebbe essere partitivo, così come ipotizzato da Meineke: vd. infra, al lemma κατάγωμεν. καὶ τῶν ἀνθῶν τῶν παντοδαπῶν Qui, secondo la nostra fonte, ἄνθος indica il colore, la tinta, come avviene anche altrove, vd. Blümner 1912, I, pp. 167, 231; Gow 1952, II, p. 296 ad Theoc. 15.116. La lana veniva di norma colorata dopo la cardatura e prima della filatura (operazione, quest’ ultima, a cui si riferisce il verbo 2

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Uso la dizione ‘scena finale’ anziché quella, «insoddisfacente sul piano morfologico e funzionale», di ‘esodo’, vd. Di Bari 2013, pp. 11–13 e cfr. Napolitano 2015, pp. 561–562.

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κατάγωμεν, vd. infra), cfr. ad es. Od. 6.306 (ἠλάκατα στρωφῶσ’ ἁλιπόρφυρα) e vd. Blümner 1912, I, pp. 112, 23081. Tuttavia, ἄνθος = ‘colore, tinta’, desta qualche difficoltà: il verbo κατάγωμεν, infatti, sembra richiedere un sostantivo indicante un oggetto concreto (come il precedente ἐρίων). Il tardo Triphiod. 346 κλωστοῖσι κατέπλεκον ἄνθεσιν ἵππον82 sembra suggerire che ἄνθος possa indicare non solo il colore ma, per sineddoche, anche il materiale colorato; del resto, lo stesso κλωστοῖσι di Triphiod. 346 è forse assimilabile a κατάγωμεν del nostro frammento: in entrambi i casi, infatti, si tratterebbe di ἄνθη che possono essere soggetti alla filatura. Nel nostro frammento, insomma, ἄνθος potrebbe significare ‘(lana) colorata’: ma una tale accezione non è testimoniata altrove e la fonte del nostro frammento non ci aiuta in tal senso, come già detto (senza contare che, in ogni caso, rimarrebbe il problema della distinzione tra ἐρίων e ἀνθῶν). Si può allora portare a confronto Ar. Byz. Epit. 2.474.1–11 ἐν Ἰνδοῖς ταπίδες γίνονται κάλλισται καὶ ποικιλώταται ἐκ τῶν ἐρίων […]. καὶ οὐ βέβαπται· παντοδαπὰ δὲ ἄνθη τῶν ἐρίων φύουσιν αἱ κ〈άμη〉λοι αἱ Ἰνδικαὶ πλὴν πορφυροειδοῦς καὶ πρασίνου καὶ φοι〈νι〉κίνου, τὰ δ’ ἄλλα ἔχουσιν ἐρίων χρώματα αὐτοφυῆ αἱ κάμ〈ηλοι.〉 […] ὡς δὲ τὸ σύμπαν εἰπεῖν, ἔρια παντοδαπὰ φύουσιν Ἰνδικαὶ κάμηλοι πλὴν τῶν εἰρημένων χρωμάτων. ἐκ τούτων οὖν τῶν ἐρίων καὶ χρωμάτων ποιοῦσι τὰς ταπίδας, καὶ οὐ βάπτουσι τὰ ἔρια. Qui già il sintagma παντοδαπὰ δὲ ἄνθη τῶν ἐρίων richiama da vicino il dettato del nostro frammento; ma ancor più calzante è l’ espressione ἐκ τούτων οὖν τῶν ἐρίων καὶ χρωμάτων ποιοῦσι τὰς ταπίδας, in cui τῶν ἐρίων καὶ χρωμάτων, dato il contesto, significherà ‘lane colorate’. È dunque probabile che nel nostro frammento τῶν ἐρίων καὶ τῶν ἀνθῶν τῶν παντοδαπῶν possa essere una endiadi significante ‘lana di ogni colore’. Non è peregrina l’ ipotesi che i filati di vari colori di cui parla Ferecrate potessero servire alla decorazione del peplo panatenaico, vd. supra, Interpretazione e cfr. ad es. Eur. Hec. 466–72 ἢ Παλλάδος ἐν πόλει / τὰς καλλιδίφρους Ἀθα- / -ναίας ἐν κροκέῳ πέπλῳ / ζεύξομαι ἆρα πώ- / -λους ἐν δαιδαλέαισι ποι- / -κίλλουσ’ ἀνθοκρόκοισι πή- / -ναις ἢ Τιτάνων γενεάν; Stratt. fr. 73 (= schol. (M) Eur. Hec. 467) ὅτι δὲ κρόκινός ἐστι καὶ ὑακίνθινος (ἀκάν- M) καὶ τοὺς Γίγαντας ἐμπεποίκιλται, δηλοῖ Στράττις; [Verg.] Cir. 31 horrida sanguineo pinguntur proelia cocco (A2p : socco AR) (sui diversi colori del peplo, vd. ad es. Mansfield 1985, pp. 64–65; Shear 2001, p. 176; Orth 2009, pp. 274). Per παντοδαπός in riferimento ai fiori, vd. H. Cer. 401–2; Timae. FGrHist 566 F 164.28; Diod. Sic. 3.69.3 ecc., dove l’ aggettivo indica la varietà delle specie; nel

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Quaglia 2001, p. 275 afferma che «la tintura avveniva certamente dopo aver ottenuto il filo dalla stoppa» e cita in nota Urios-Aparisi 1992, p. 193; quest’ ultimo, tuttavia, non fa alcuna menzione delle antiche tecniche di tintura. Ma vd. anche Triphiod. 96 col comm. ad loc. di Miguélez-Cavero 2013, p. 184: «96 ἄνθεσι and 346 ἄνθεσιν refer to vividly-coloured items».

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nostro caso, invece, è decisivo il confronto con il già citato Ar. Byz. Epit. 2.474.3–4 παντοδαπὰ δὲ ἄνθη τῶν ἐρίων φύουσιν αἱ κ〈άμη〉λοι αἱ Ἰνδικαί. κατάγωμεν Nel contesto della lavorazione della lana, κατάγω è termine tecnico con il significato di ‘filare’, cfr. Blümner 1912, I, p. 126 n. 4. In commedia, vd. anche Epig. fr. 7 τρεῖς μόνους ἔχω (FS : om. A) / σκώληκας ἔτι· τούτους μ’ ἔασον καταγαγεῖν, dove σκώληκας indicherebbe, secondo LSJ, «thread twisted from the distaff», cioè il risultato della filatura; ma a mio avviso, se consideriamo che il personaggio parlante ha già a disposizione (ἔχω) tre σκώληκας da filare, il significato di σκώληκας potrebbe essere piuttosto ‘nastri di lana (cardata)’, ‘Vorgarn’ (vd. Blümner 1912, I, pp. 113–115; cfr. Kroll 1924, coll. 600–601) ovvero «fluffy, sausage-shaped rolls for easy spinning», vd. Barber 1992, p. 106; anche Rotroff– Lamberton 2006, p. 34 ricordano che «the wool is […] combed and worked into large sausage-shaped rolls» prima della filatura. In altre parole, nel caso di Epigene l’ uso di καταγαγεῖν è forse leggermente diverso da quello riscontrabile in espressioni come στήμονα o κρόκην κατάγειν (cfr. il latino filum deducere), in cui il complemento si riferisce all’ oggetto risultante dall’ azione di filare. Proprio il fr. di Epigene, se interpretato come ho proposto, ci permette più facilmente di pensare ai genitivi del nostro frammento come partitivi indicanti il materiale disponibile ma ancora da lavorare (nonostante Kock CAF I, p. 158: «genetivus partitivus […] hic locum non habet»), senza dover necessariamente supporre un complemento oggetto come στήμονα o κρόκην. Va però detto che non abbiamo altre attestazioni di κατάγω con gen. partitivo: con Meineke CFG II.1, p. 271, possiamo semmai portare a confronto Ar. fr. 735 ἔξαινε δὲ τῶν ἐρίων (vd. Bagordo 2017, p. 151) e Crates Theb. SH 349.1–2 καὶ μὴν Μίκυλον εἰσεῖδον 〈 〉 / τῶν ἐρίων ξαίνοντα, γυναῖκά τε συγξαίνουσαν (vd. anche Schwyzer–Debrunner, pp. 102–103); sul genitivo partitivo come oggetto di verbi, vd. inoltre Poultney 1936, pp. 77–80, con numerosi esempi aristofanei. In alternativa, come detto, si può supporre che al v. successivo vi fosse un complemento oggetto determinato dai superstiti genitivi. La prima persona plurale ci suggerisce che a parlare possa essere il corifeo, vd. supra. fr. 52 (47 K.) κἀναψηφίσασθ’ ἀποδοῦναι πάλιν τὰ χρυσία κἀναψηφίσασθ’ Su. (FS) : -σας δ’ Su. (AGITM) : -σαστ’ Phot.

E votate nuovamente che ridia(no) indietro gli ori Phot. α 1733 (= Su. α 2141) ἀναψηφίσασθαι· τὸ μεταψηφίσασθαι. Φερεκράτης Δουλοδιδασκάλῳ· «κἀναψηφίσασθ’ – χρυσία». Anapsēphisasthai: il ‘votare nuovamente’. Ferecrate nel Doulodidaskalos: «e votate nuovamente – ori».

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Metro Eupolideo

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Bibliografia Meineke FCG II.1, p. 271; Kock CAF I, p. 158; Brandes 1886, pp. 21–22; Schmid 1946, p. 104; Edmonds FAC I, p. 227; Geissler 1969, pp. 22–23; Kassel–Austin VII, p. 128; Urios-Aparisi 1992, p. 196; Quaglia 2001, pp. 276–278 Contesto della citazione Il frammento ferecrateo viene citato da Phot. α 1733 (= Su. α 2141) come testimonianza del verbo ἀναψηφίσασθαι col significato di μεταψηφίσασθαι. Si può almeno ipotizzare, dato l’ accordo tra Fozio e la Suda e considerata la citazione ferecratea, che la fonte ultima dei nostri testimoni sia un lessico atticista (cfr. Theodoridis 1982–2013, I, p. LXXIII). Testo La forma κἀναψηφίσασθ’ è resa pressoché sicura dal lemma ἀναψηφίσασθαι: esso garantisce che la voce in discussione è quella media (sul significato della voce attiva, vd. lemma κἀναψηφίσασθ’); va dunque considerata corruttela la lezione κἀναψηφίσας δ’ dei mss. AGITM. Interpretazione Secondo Meineke FCG II.1, p. 271, il personaggio «dicere videtur aurea vasa ab Aegyptiis populo Atheniensium dono missa, sed ab improbis civibus surrepta» e il frammento sarebbe confrontabile con Cratin. fr. 76 [Thrāttai] (ὅτι τοὺς κόρακας τἀξ Αἰγύπτου χρυσία κλέπτοντας ἔπαυσαν). Quest’ ultimo farebbe riferimento, secondo Bergk 1838, pp. 105–106 (cfr. Kassel–Austin IV, p. 161), alla donazione di Psammetico avvenuta nel 445/4 (cfr. Philoch. FGrHist 328 F 119); di qui la proposta di Schmid 1946, p. 104 n. 4, che suggerisce il 445 a.C. come terminus post quem per la rappresentazione del Doulodidaskalos. Tuttavia, la donazione di Psammetico non era in oro, bensì in grano, come giustamente ha notato Geissler 1969, p. 22 (cfr. Jones 2016 ad FGrHist 328 F 119). Questi, nondimeno, datava la commedia di Ferecrate al 435–430 proprio sulla base della somiglianza del nostro frammento con Cratin. fr. 76. Kaibel ap. Kassel–Austin IV, p. 161 e Edmonds CAF I, p. 227 n. a, preceduti da Muhl 1881, p. 88 e Brandes 1886, p. 21, pensavano piuttosto alla donazione di Paapis (un Egiziano, probabilmente) testimoniata in Leucon. fr. 1 [Phrateres] (ἀτάρ, ὦ Μεγάκλεες, οἶσθά που Παάπιδος / Ὑπέρβολος τἀκπώμαθ’ ἃ κατεδήδοκε)83. Ora, i Phrateres risalgono al 421 a.C.; una data simile dovrebbe dunque ricavarsi per la commedia di Ferecrate una volta che si accetti la connessione col frammento di Leucone (Brandes 1886, p. 22 ipotizzava, sia pure con molta prudenza, che il doulodidaskalos potesse essere Iperbolo, oggetto degli strali comici di Leucone). In verità, né il confronto con Cratino né quello con Leucone sono decisivi, come già riconosceva Urios-Aparisi 1992, p. 173: il motivo del furto e del possesso fraudolento di donazioni e oggetti preziosi sembra infatti topico e potrebbe aver costituito un’ accusa frequente in commedia, cfr. Bagordo 2014b, pp. 23–24. 83

Potrebbe trattarsi dello stesso Paapis la cui donazione è testimoniata da IG I3 341.6 (Attica, 406/5?). Cfr. Berti 2002, p. 108 n. 72; Bagordo 2014b, pp. 23–27.

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Urios-Aparisi 1992, p. 196 ha tentato un parallelo tra il passo ferecrateo e Ar. Ra. 720 (τὸ καινὸν χρυσίον): «it [sc. χρυσία] may just mean “gold coins” and could refer to the minting of gold coins that took place in Athens in 407 and is mentioned in Ar. Ran. 720» (quest’ ipotesi, peraltro, implicherebbe il 407 a.C. come terminus post quem per la datazione del Doulodidaskalos). Tralasciando la problematicità del riferimento aristofaneo (su cui vd. Dover 1993, pp. 281–282; Del Corno 1992, pp. 199–200), il parallelo dipende da un’ ipotetica identità semantica tra i χρυσία del nostro frammento e il καινὸν χρυσίον aristofaneo (vd. lemma τὰ χρυσία). Tuttavia, anche ammettendo che χρυσία possa significare ‘monete d’oro’ al pari del singolare collettivo χρυσίον, non si sarebbe costretti a pensare alla monetazione aurea ateniese del 407 a.C., dal momento che il riferimento potrebbe essere a monete straniere; c’ è poi la possibilità che χρυσία si riferisca a oro non coniato o puro, vd. lemma τὰ χρυσία. Il metro eupolideo, nonché il tono allocutorio e l’ argomento probabilmente ‘politico’, fanno pensare che il frammento fosse parte della parabasi e fosse recitato dal corifeo. Tuttavia, gli eupolidei non sono una garanzia in questo senso (vd. Poultney 1979, pp. 140–141; cfr. la bibliografia in Napolitano 2012, p. 156 n. 388; vd. anche Franchini 2020, p. 199 ad Pherecr. fr. 139); inoltre, come nota UriosAparisi 1992, p. 196, «the subject can be found outside parabatic speeches (e. g. Ach. 100ff. and the references to the gold promised by the Persians in support of the Athenians or the speech of Dicaeopolis in the same play ll. 496ff.)». κἀναψηφίσασθ’ Il significato del verbo in Ferecrate è «hacer un nuevo decreto», secondo DGE, s. v. ἀναψηφίζω 2. Da confrontare è Thuc. 6.14.1, in cui il verbo compare all’ attivo, con il significato di ‘sottoporre nuovamente a voto’: καὶ σύ, ὦ πρύτανι, ταῦτα […] ἐπιψήφιζε καὶ γνώμας προτίθει αὖθις Ἀθηναίοις, νομίσας, εἰ ὀρρωδεῖς τὸ ἀναψηφίσαι, τὸ μὲν λύειν τοὺς νόμους μὴ μετὰ τοσῶνδ’ ἂν μαρτύρων αἰτίαν σχεῖν. Nel passo tucidideo citato, Nicia tenta di persuadere gli Ateniesi a cambiare il precedente psēphisma con cui avevano decretato di inviare sessanta navi in Sicilia (vd. Thuc. 6.8.2); le parole νομίσας, εἰ ὀρρωδεῖς τὸ ἀναψηφίσαι, τὸ μὲν λύειν τοὺς νόμους lasciano a tutta prima pensare che il verbo ἀναψηφίζω possa riferirsi a un’ azione illegale. Ma secondo Gomme–Andrewes–Dover 1970, p. 240 «it does not seem that *ἀναψήφισις was in itself illegal»; solamente «certain decrees include sanctions against their own reconsideration, but there is no evidence for a general law». È dunque probabile che «Nicias means “with so many witnesses, you will not be accused of abolishing (sc. by setting a precedent) our established procedure”». Le considerazioni di Gomme–Andrewes–Dover 1970 sembrano validate dalle occorrenze epigrafiche di ἀναψηφίζω: cfr. SEG 10.38b.11–4 (Paiania, Liopesi; Lex sacra, ca. 445) τὰ χσυνγεγραμμ- / ένα μὲ ε῏ναι ἀναφσεφίσα[ι] / ἐὰμ μὲ hεκατὸν παρõσιν / τõν δεμοτõν (in cui si pongono precise condizioni alla possibilità di una nuova votazione); Hatzopoulos, Macedonian Institutions II 40.18–23 (Anfipoli, 357 a.C.) ἢν δέ τις τὸ ψήφισμα / ἀναψηφίζει […] / […] τὰ χρήματ’ αὐτõ δημ- / όσια ἔστω (qui il significato è quello di «proponer la derogación de», vd. DGE s. v. ἀναψηφίζω 2).

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Con riferimento alle istituzioni romane, vd. ad es. Cass. D. 39.39.3–4 τῶν δὲ δημάρχων τούς τε καταλόγους διαλῦσαι καὶ τὰς στρατείας αὐτῶν ἀναψηφίσαι ἐπιχειρούντων ὁ μὲν Πομπήιος οὐκ ἠγανάκτει. ἀποδοῦναι πάλιν Il confronto letterario più significativo dal punto di vista formale è Ar. Av. 1626–7 τὸ σκῆπτρον ἀποδοῦναι πάλιν ψηφίζομαι τούτοις ἐγώ (cfr. Av. 1600–1 τὸ σκῆπτρον ἡμῖν τοῖσιν ὄρνισιν πάλιν / τὸν Δί’ ἀποδοῦναι); cfr. anche [Luc.] Asin. 41.25 τὸ δὲ χρυσίον τῇ πολίτιδι θεῷ πάλιν ἀπέδωκαν, su cui vd. lemma τὰ χρυσία. Altre occorrenze pressoché coeve a Ferecrate sono Eur. Hel. 871–2 νόμον δὲ τὸν ἐμὸν θεοῖσιν ἀποδοῦσαι πάλιν / ἐφέστιον φλόγ’ ἐς δόμους κομίζετε; 915–6 πότερον ὁ δαίμων χὠ θανὼν τὰ τῶν πέλας / βούλοιντ’ ἂν ἢ 〈οὐ〉 βούλοιντ’ ἂν ἀποδοῦναι πάλιν;; 972 ἐκείνους ἀπόδος ἐμψύχους πάλιν; Thuc. 4.52.3 καὶ λαβόντες δισχιλίους στατῆρας Φωκαΐτας ἀπέδοσαν πάλιν οὐδὲν ἀδικήσαντες; 8.76.5 μὴ βουλομένων σφίσι πάλιν τὴν πολιτείαν ἀποδοῦναι. τὰ χρυσία È difficile stabilire il significato del sostantivo. Al plurale, χρυσία indica quasi sempre ‘ori’, ‘gioielli’: cfr. Poll. 7.103.1 εἴρηται δέ που καὶ τὰ χρυσία παρὰ τοῖς κωμῳδοῖς ἐπὶ τῶν γυναικείων κοσμημάτων e vd. ad es. Ar. Ach. 258 μή τις λαθών σου περιτράγῃ τὰ χρυσία; Lys. 1189–90 στρωμάτων δὲ ποικίλων καὶ χλανιδίων καὶ / ξυστίδων καὶ / χρυσίων, ὅσ’ ἐστί μοι; Ec. 447 ἱμάτια, χρυσί’, ἀργύριον, ἐκπώματα; Dissoi Logoi 2.6 χρυσία περιάπτεσθαι, τῷ μὲν ἀνδρὶ αἰσχρόν, τᾷ δὲ γυναικὶ καλόν; Dem. 27.10 ἔπιπλα δὲ καὶ ἐκπώματα καὶ χρυσία καὶ ἱμάτια, τὸν κόσμον τῆς μητρός, ἄξια σύμπαντα ταῦτ’ εἰς μυρίας δραχμάς; cfr. anche IG I3 403.66 (Atene, 416/5 ca.) δ]ι ά̣ λιθον χρυσία ἔχον, 68–9 ὄχθοιβος χρυσία ἔχο- / [ν. Forse si può confrontare anche Eup. fr. 192.164 (= P.Oxy. 2741 fr. 4.7), dove τὰ χρυσία compare in una lista di «various valuable commodities» (Olson 2016, p. 169). Al frammento di Ferecrate è stato accostato da più parti (vd. supra) il problematico Cratin. fr. 76 [Thrāttai] (ὅτι τοὺς κόρακας τἀξ Αἰγύπτου χρυσία κλέπτοντας ἔπαυσαν), introdotto da Poll. 9.91 οὕτω δ’ ἂν καὶ ὁ Κρατῖνος ἐν ταῖς Θρᾴτταις εἰρηκὼς εἴη τὸν χρυσὸν χρυσία (cfr. Hsch. χ 787 χρυσία· ὁ χρυσός). Polluce sembra accreditare l’ equivalenza χρυσία = χρυσός nell’ ambito di considerazioni sul lessico numismatico: si sarebbe tentati dunque di assegnare a χρυσία in Cratino (e in Ferecrate) il significato di ‘monete d’ oro’. Ma Polluce, in verità, pone l’ equivalenza χρυσία = χρυσός in Cratino come ipotesi (ἂν […] εἰρηκὼς εἴη) frutto di un articolato ragionamento analogico. Innanzitutto, egli nota come, talvolta, negli autori attici possa darsi la forma plurale ἀργύρια in luogo dell’ abituale ἀργύριον (Poll. 9.89 ὡς δ’ ἐπὶ τῶν κερμάτων οἱ ἀρχαῖοι Ἀττικοὶ ἥκιστα τῷ ἑνικῷ ἐχρῶντο, οὕτως ἐπὶ τῷ ἀργυρίῳ τῷ πληθυντικῷ· τἀργύρια γὰρ ἐπὶ τοῦ ἀργυρίου σπανίως ἄν τις εὕροι παρ’ αὐτοῖς, ἐγὼ δ’ εὗρον ἐν ταῖς Νήσοις Ἀριστοφάνους). Se poi si considera anche Poll. 9.90 τὸν δὲ νῦν χαλκὸν οἱ Ἀττικοὶ χαλκίον εἰώθασι καλεῖν, ὡς ἀπὸ τοῦ ἀργύρου ἀργύριον καὶ ἀπὸ τοῦ χρυσοῦ χρυσίον, si comprende come Polluce arrivi a formulare l’ ipotetica ma plausibile equivalenza χρυσία = χρυσός nel senso di ‘monete d’ oro’, significato che non possiamo dunque escludere né in

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Cratino né in Ferecrate. In effetti, se è vero che per indicare le ‘monete d’ oro’ si usa normalmente il singolare collettivo χρυσίον (vd. Olson 2016, p. 64, citato infra), esistono tuttavia alcuni paralleli per χρυσία con identico significato: cfr. Sext. Emp. P. 2.31 τὰ ὑπάργυρα χρυσία (vd. anche Poll. 7.104 ὑπάργυρον δὲ τὸ κίβδηλον χρυσίον); schol. Ar. Ra. 725c χαλκία ὡς χρυσία ἔλεγον τῷ σχήματι, χαλκᾶ σκεύη; schol. rec. Ar. Pl. 131a.α τἀργύριον] ἄργυρος ἡ οὐσία τοῦ ἀργύρου, καὶ χρυσὸς ἡ οὐσία τοῦ χρυσοῦ, ὡσαύτως καὶ σίδηρος καὶ χαλκὸς καὶ τὰ τοιαῦτα. χρυσία δὲ καὶ ἀργύρια τὰ ἐκ χρυσοῦ καὶ ἀργύρου κεχαραγμένα κόμματα. Se davvero il plurale χρυσία può talvolta avere il significato di χρυσίον = ‘monete d’ oro’, si fa più pertinente l’ ipotesi di Urios-Aparisi 1992, p. 196: egli sostiene che χρυσία in Ferecrate possa significare appunto gold coins e porta a confronto Ar. Ra. 720 τὸ καινὸν χρυσίον, in cui il riferimento deve essere alla monetazione aurea ateniese del 407 a.C. (vd. supra Interpretazione). Va detto infatti che solo allora Atene coniò monete d’ oro; tuttavia non si può escludere, a mio avviso, che Ferecrate voglia qui riferirsi a monete non ateniesi, quali il darico persiano (vd. ad es. Kroll 1993, p. 283 [*1003]) o gli stateri di Cizico (vd. ad es. Kroll 1993, p. 257 [*866]), particolarmente adatte ad essere tesaurizzate (vd. Lys. 12.10–11) e talvolta, negli autori comici, legate a forme di corruzione. Significative, da questo punto di vista, sono le seguenti occorrenze di χρυσίον: cfr. Ar. Ach. 102 πέμψειν βασιλέα φησὶν ὑμῖν χρυσίον; Eq. 472–3 καὶ ταῦτά μ’ οὔτ’ ἀργύριον οὔτε χρυσίον διδοὺς ἀναπείσεις; Pax 644–5 οἱ ξένοι / χρυσίῳ τῶν ταῦτα ποιοῦντων ἐβύνουν τὸ στόμα (dove χρυσίῳ indica, secondo Olson 1998, p. 204 «in this period either Persian darics […] or Kyzikene staters»; a proposito degli ξένοι, egli aggiunge «when wealthy individuals in the allied states saw the trouble some of their number were getting into, they all began to pay off the demagogues so as to avoid grief themselves»); Eup. fr. 99.86 ἔφ]ην κελεύειν τὸν ξένον μοι χρυσίου / δοῦν]αι στατ[ῆ]ρας ἑκατόν· ἦν γὰρ πλούσιος (dove gli στατ[ῆ]ρας sono «coins of the sort a wealthy foreigner could be expected to have», secondo Olson 2017, p. 357); vd. anche Eup. fr. 123 ἔχων στατῆρας χρυσίου τρισχιλίους con Olson 2017, p. 432: «στατήρ was a generic term for a gold – i. e. electrum – coin produced by a city other than Athens, which normally minted only silver and bronze». Tuttavia, se si dà per buona l’ equivalenza χρυσία = χρυσίον, si può anche pensare che i χρυσία del nostro frammento siano riferiti all’ oro grezzo, non coniato, o all’ oro puro che poteva trovarsi in diverse forme nei tesori dei templi: vd. ad es., in Thuc. 2.13.4–5, il χρυσίον ἄσημον e i quaranta talenti di χρυσίον ἄπεφθον (quest’ ultimo facente da ornamento alla statua di Atena), che, assieme ad altri χρήματα provenienti da vari templi, costituiscono una risorsa finanziaria per la guerra (cfr. Hornblower 1991, p. 255). Il passo tucidideo, peraltro, può suggerirci un’ ulteriore considerazione. Dando per scontato che il verso ferecrateo riguardi una questione ‘di pubblico interesse’ – essa, infatti, era stata soggetta a psēphisma (vd. supra, lemma κἀναψηφίσασθ’) – si potrebbe pensare che i χρυσία cui allude Ferecrate provenissero dal tesoro di un tempio (come nel caso di IG I3 370.13–14 [Attica, 418/7–415/4 a.C.] χρυσί]ο Κυζικενõ στατερας / (…) τοῦτο τὸ χρυσίον)

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e fossero stati presi in prestito per qualche motivo (esigenze belliche?) che il poeta comico doveva disapprovare: se ne raccomandava per questo la restituzione. Possiamo invece solo chiederci, dato il contesto lacunoso, se nell’ inventario del Partenone in IG I3 355.26 (Attica, 414/3 a.C.) χρυσίο δύο, σταθμὸ- sia riferito a due oggetti simili ai χρυσία ferecratei. Merita infine qualche riflessione l’ ipotesi di Meineke FCG II.1, p. 271 secondo cui χρυσία in Ferecrate significherebbe aurea vasa (ma lo studioso si limitava a rimandare al problematico Cratin. fr. 76, già discusso supra). Si consideri τὸ χρυσίον in Eup. fr. 162 φέρουσιν, ἁρπάζουσιν ἐκ τῆς οἰκίας / τὸ χρυσίον, τἀργύρια πορθεῖται. Secondo Olson 2016, p. 64 «χρυσίον is money made of gold (e. g. frr. 99.86, 89; 123; IG I3 52.24; Ar. Ach. 102; Eq. 472; Pax 645; Ra. 720; Pl. 808 […]; E. Cyc. 161), i. e. στατῆρες (cf. fr. 270.2 n.), or on occasion mintable gold. Gold and silver vessels, by contrast, are χρυσίδες and ἀργυρίδες, respectively (e. g. IG I3 310.32–3; 325.11–12; Cratin. fr. 132; Pherecr. fr. 135; Hermipp. fr. 38; Anaxil. fr. 39)». Tuttavia, non è impossibile che τὸ χρυσίον in Eup. fr. 162 sia riferito a un vaso aureo (e che, dunque, un discorso simile valga per τἀργύρια: il sostantivo, secondo Olson, vale «silver money»; ma già Kock CAF I, p. 300 pensava che il riferimento fosse a dei vasa argentea; cfr. anche Napolitano 2012, p. 218 n. 590, secondo cui l’ ipotesi di Kock «non si può escludere troppo recisamente»): infatti, in [Luc.] Asin. 41.25 τὸ δὲ χρυσίον τῇ πολίτιδι θεῷ πάλιν ἀπέδωκαν (una formulazione molto simile a quella del nostro frammento), τὸ χρυσίον è riferito a ciò che poco sopra è detto ἀνάθημα φιάλην χρυσῆν (41.15). Stando a quanto detto, l’ ipotesi che anche in Ferecrate τὰ χρυσία si riferisca a vasi (o suppellettili) d’oro, benché indimostrabile, non è destituita di fondamento. fr. 53 (5 Demiańczuk) ῥαίνειν, ἀνακορεῖν ἀγοράς ἀνακορεῖν Reitzenstein : νακ- b : 〈κ〉ἀνακ- Conti Bizzarro

〈τὰς〉 ἀγοράς van Herwerden

Lavare, pulire per bene le agorai Phot. α 1508 ἀνακορεῖν καὶ κορεῖν· Φερεκράτης Δουλοδιδασκάλῳ· «ῥαίνειν – ἀγοράς». Anakorein e korein: Ferecrate nel Doulodidaskalos: «lavare – agorai».

Metro Incerto (vd. Testo)

llkkklkka

Bibliografia Reitzenstein 1907, p. 113; van Herwerden 1907, coll. 285–286; Demiańczuk 1912, p. 67; Kassel–Austin VII, p. 128; Conti Bizzarro 1988–1989, p. 292; Urios-Aparisi 1992, pp. 197–198; Quaglia 2001, pp. 278–279

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Contesto della citazione La citazione da Ferecrate contenuta in Phot. α 1508 può essere con buona probabilità fatta risalire a Frinico atticista sulla base di Phot. α 1511 ἀνακαλλύνειν· τὸ σαίρειν, ὅπερ καὶ ἀνακορεῖν λέγουσι (λέγεται b), καὶ εἰκότως· κάλλυντρον γὰρ καὶ κόρημα καλοῦσι τὸ σάρον. Φρύνιχος Ποαστρίαις (fr. 39)· «σὺ δ’ εἰσιοῦσα δουλικῶς ἐνσκεύασαι καὶ τἄνδον ἀνακάλλυνον», da confrontare con Phryn. PS 22.10–11 ἀνακαλλύνειν· τὸ σαίρειν, ὃ καὶ ἀνακορεῖν 〈λέγεται〉. ἐξ οὗ καὶ κάλλυντρον καὶ κόρημα τὸ σάρον (vd. da ultimo Stama 2014, p. 231; cfr. già Reitzenstein 1907, p. 113; Theodoridis 1982–2013, I, p. 155; vd. anche p. LXXIII su Frinico come fonte del lessico di Fozio). Testo Van Herwerden ha proposto di integrare l’ articolo in modo da avere l’ inizio di un trimetro giambico. Tuttavia, secondo Kassel–Austin VII, p. 128 «potest Eupolideus formae rarioris fuisse»; i due editori, che sarà prudente seguire nello stampare il testo tramandatoci, fanno riferimento a Pherecr. fr. 70.1 κᾆτα μυροπωλεῖν τί μαθόντ’ ἄνδρ’ ἐχρῆν καθήμενον e a Cratin. fr. 105.8 καὶ 〈a〉 κύτισος αὐτόματος παρὰ Μέδοντος ἔρχεται. Tuttavia, Conti Bizzarro 1988–1989, p. 292 ritiene «forse […] più funzionale» leggere ῥαίνειν 〈κ〉ἀνακορεῖν 〈τὰς〉 ἀγοράς, restituendo un dimetro anapestico. Interpretazione Secondo Urios-Aparisi 1992, p. 197, le azioni espresse nel frammento potrebbero essere state svolte da uno schiavo: egli porta a confronto Phryn. Com. fr. 39 σὺ δ’ εἰσιοῦσα δουλικῶς ἐνσκεύασαι / καὶ τἄνδον ἀνακάλλυνον 〈 〉 (cfr. il comm. di Stama 2014, pp. 230–234) e ricorda che già in Od. 20.149–50 (ἄγρειθ’, αἱ μὲν δῶμα κορήσατε ποιπνύσασαι / ῥάσσατέ τ’) il ‘ramazzare’ è considerato attività servile (cfr. anche Eup. fr. 167 τουτὶ λαβὼν τὸ κόρημα τὴν αὐλὴν κόρει, con Napolitano 2012, pp. 95–96 e Olson 2016, p. 74; trag. adesp. fr. 90 [= com. adesp. fr. 1211 K.] ἀλλὰ ξενῶνας οἶγε καὶ ῥᾶνον δόμους, / στρώννυ τε κοίτας καὶ πυρὸς φλέξον μένος, / κρατῆρά τ’ αἴρου καὶ τὸν ἥδιστον κέρα; Dem. 18.258–9 τὸ παιδαγωγεῖον κορῶν, οἰκέτου τάξιν, οὐκ ἐλευθέρου παιδὸς ἔχων). Dal momento che nel nostro frammento vengono nominate delle agorai, Urios-Aparisi pensa che le azioni di ῥαίνειν e ἀνακορεῖν possano essere svolte da servi assimilabili agli ἄνδρες κοπρολόγοι di cui si parla ad es. in Aristot. Ath. 50.2. Tuttavia, questi ultimi non vanno considerati necessariamente schiavi, tanto meno schiavi pubblici alle dipendenze degli astynomoi, come pure è stato ipotizzato: cfr. Olson 2007, p. 361: «entrepreneurs (or their slaves) known as κοπρολόγοι went door-to-door in Athens carrying baskets and collecting dung (κόπρος), which they then transported out into the countryside, dumped, and most likely sold eventually as fertilizer»; vd. anche Jacob 1928, pp. 14–15 e 18–19; Owens 1983, pp. 44–50; Bagordo 2017, p. 19 ad Ar. fr. 680. Il riferimento alle agorai (ma ignoriamo di quali si tratti, vd. infra, lemma ἀγοράς) potrebbe essere legato a un’operazione di interesse ‘pubblico’. In particolare, si potrebbe immaginare un contesto ‘festivo’ simile a quello testimoniatoci, ad es., da IG II2 380 (Attica, 320/19), in cui agli agoranomoi viene prescritto di approntare l’Agorà del Pireo e le strade in vista di una processione (vd. infra, lemma ἀγοράς).

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Infine, è indimostrabile ma non impossibile che i verbi abbiano senso metaforico: si può pensare, ad esempio, che il personaggio parlante desideri vedere le agorai finalmente ‘pulite’, prive della presenza di individui o categorie sociali che egli disprezza – in tal caso, peraltro, potremmo anche ipotizzare un contesto parabatico, tanto più che il metro potrebbe essere eupolideo. Del resto, ha forse significato metaforico un’ immagine simile a quella ferecratea, vd. Archipp. fr. 22 τὴν ἀγορὰν μυληκόρῳ, con il comm. di Miccolis 2017, p. 149: «die Agora mit einem Mühlsteinbesen zu fegen, stellte deshalb wahrscheinlich ein Aprosdoketon dar (vgl. auch die wahrscheinliche Stellung von μυληκόρῳ am Trimeterende), da dieser Besen zu klein für die Reinigung der großen Agora ist». In questo senso, si può infine portare a confronto Ar. Pax 59 κατάθου τὸ κόρημα· μὴ ‘κκόρει τὴν Ἑλλάδα, in cui il sostantivo κόρημα e il verbo ἐκκορεῖν vengono usati come metafore per dare immediata visibilità e concretezza alla devastazione portata dalla guerra (ma il verbo ἐκκορεῖν potrebbe avere qui un senso osceno, cfr. Olson 1998, p. 79). ῥαίνειν, ἀνακορεῖν I due verbi sono associati già in Od. 20.149–50 ἄγρειθ’, αἱ μὲν δῶμα κορήσατε ποιπνύσασαι / ῥάσσατέ τ’, ma ciò non implica che «per questo verso Ferecrate è senza dubbio in debito con la tradizione epica», come vuole Conti Bizzarro 1988–1989, p. 292. Atre occorrenze simili sono Timae. FGrHist 566 F 146b.9–10 ἀνελθοῦσαι λάθρα εἰς τὸ τῆς Ἀθηνᾶς ἱερόν, ἔσαιρον αὐτὸ καὶ ἔραινον; Plb. 6.33.4 τὴν γὰρ διατριβὴν ἐν ταῖς καθημερείαις οἱ πλεῖστοι τῶν Ῥωμαίων ἐν ταύτῃ ποιοῦνται τῇ πλατείᾳ· διόπερ ἀεὶ σπουδάζουσι περὶ ταύτης, ὡς ῥαίνηται καὶ καλλύνηται σφίσιν ἐπιμελῶς; Plu. Cat. Ma. 4.6 κτᾶσθαι δὲ τὰ σπειρόμενα καὶ νεμόμενα μᾶλλον ἢ τὰ ῥαινόμενα καὶ σαιρόμενα. La sequenza (asindetica o meno, vd. Testo) ῥαίνειν, ἀνακορεῖν lascia pensare a un veloce quanto dettagliato elenco di azioni, come se chi parla volesse esprimere, mediante una simile giustapposizione verbale, la necessità di ‘pulire a fondo’ le agorai. Almeno in termini di pragmatica linguistica, dunque, la sequenza è paragonabile alle serie (quasi) sinonimiche che esprimono intensità e che sono frequenti in commedia (ma non solo), vd. Thesleff 1954, p. 195 (§ 398) e cfr. ad es. Pherecr. fr. 144 παίειν με, τύπτειν, λακπατεῖν ὠθεῖν δάκνειν; Ar. Pax 291 ὡς ἥδομαι καὶ χαίρομαι κεὐφραίνομαι; Th. 381 σίγα, σιώπα, πρόσεχε τὸν νοῦν; Pl. 288 ὡς ἥδομαι καὶ τέρπομαι καὶ βούλομαι χορεῦσαι. In tal senso, si consideri anche il verbo composto ἀνακορεῖν (che trova qui la sua unica occorrenza, se si escludono le testimonianze lessicografiche). Secondo Thesleff 1954, p. 158 (§ 255): «ἀνα- is rarely completive, as in ἀναπαύω […], ἀναπίμπλημι […], and in the adjectives ἀνάμεστος […], ἀνάπλεως […]. It is nowhere really intensive». Le considerazioni di Thesleff possono essere integrate, almeno per quanto riguarda il nostro caso, partendo dal valore di ἀνά = por todas partes (DGE, s. v. ἀνά A II.1; cfr. Il. 18.562 μέλανες δ’ ἀνὰ βότρυες ἦσαν; Od. 24.343 ἔνθα δ’ ἀνὰ σταφυλαὶ παντοῖαι ἔασιν) e considerando che «dans certains adjectifs, ἀνα- “d’ un bout à l’ autre” équivaut à “complètement”» (Chantraine DELG, s. v. ἀνά): possiamo insomma supporre che nel frammento ferecrateo il verbo composto ἀνακορεῖν indichi la necessità di una pulizia ‘completa’ o meglio ‘da cima a

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fondo’. Detto altrimenti, è probabile che il senso completivo di ἀνα- possa talvolta dare luogo a un suo uso verstärkend, per dirla con Schwyzer–Debrunner, p. 440 (secondo cui tale uso potrebbe derivare da verbi come ἀνξηραίνω, ἀναπαύω). Non è dunque peregrino quanto nota Stama 2014, p. 234 a proposito di ἀνακάλλυνον in Phryn. Com. fr. 39.2: «ἀνα-, […] nel presente contesto, ha probabilmente valore intensivo: “pulire bene, a fondo”». ἀγοράς Benché il plurale possa avere diversi significati, il riferimento ferecrateo deve essere a dei luoghi fisici (considerando il significato dei due verbi ῥαίνειν e ἀνακορεῖν) che non riusciamo a determinare. Oltre all’ Agorà del Ceramico, si può pensare ad es. all’ Agorà Hippodameia del Pireo (cfr. Phot. ι 175 e vd. Longo 2014, pp. 229–231; Paus. 1.1.3 menziona due agorai nel Pireo) o a quelle di singoli demi attici (vd. ad es. IG II2 1180 [Attica, 350 a.C.])84. A tale proposito, non sarà superfluo ricordare che in IG II2 380.9 (Attica, 320/19) si ingiunge agli agoranomoi di approntare l’ Agorà del Pireo e le strade, garantendone la pulizia in occasione di una processione (ll. 20–1 ἡ πομπὴ πορεύεται / τῶι Διὶ τῷ Σωτῆ[ρι κα]ὶ τῷ Διονύσῳ; ll. 26–8 τοὺς τὸν [χ]οῦν κατα[βε]βληκότας ε- / ἰς τὰς ὁδ[ο]ὺς ταύτας [ἀ]ναι[ρ]εῖν τ[ρ]όπῳ ὅ- / τῳ ἂν ἐπίστων[τα]ι). Anche per Ferecrate si può almeno immaginare un simile contesto ‘festivo’. In alternativa, si potrebbe pensare a un plurale poetico (magari in un contesto paratragico, cfr. Willi 2003, p. 254), ma l’ unico confronto disponibile (Soph. OT 19–20 τὸ δ’ ἄλλο φῦλον ἐξεστεμμένον / ἀγοραῖσι θακεῖ) non è affatto sicuro, vd. Finglass 2018, p. 174. fr. 54 (48 K.) Poll. 10.54 (codd. FS, ABCL) καὶ ἐγκεντρίδας δέ, ἃς (Kaibel : ἃ FS : om. ABCL) τοῖς ποσὶ κατὰ τὰς πτέρνας (deficit A) οἱ ἱππεύοντες περιεδοῦντο (deficit B), Φερεκράτης εἴρηκεν ἐν Δουλοδιδασκάλῳ. Ci sono poi egkentrides, menzionate da Ferecrate nel Doulodidaskalos, che i cavalieri legavano attorno ai loro piedi, all’ altezza dei tacchi.

Bibliografia Kassel–Austin VII, p. 128; Urios-Aparisi 1992, p. 198; Quaglia 2001, pp. 279–280 84

Si possono inoltre portare a confronto gli sfuggenti Zenob. IV.30 (Θεῶν ἀγορά: […] καὶ τόπος Ἀθήνησιν ἀπὸ τοῦ συναγερθῆναι προσαγορευθείς; cfr. Hsch. α 702 ἀγορὰ θεῶν· καὶ οὗτος τόπος Ἀθήνῃσιν e vd. Giacometti 2003); Paus. Gramm. α 19 (ἀγορὰ Κερκώπων· Ἀθήνησι πλησίον τῆς Ἡλιαίας, ἐν ᾗ μάλιστα τὰ κλοπιμαῖα πιπράσκονται καὶ ὠνοῦνται. τοιούτους γὰρ καὶ τοὺς Κέρκωπας παρειλήφαμεν, κλέπτας καὶ πανούργους; altri testimoni in Wycherley 1957, pp. 201–202); Hsch. α 700 (ἀγορὰ Ἀργείων· τόπος 〈καὶ ἐν τῇ Τροάδι καὶ〉 Ἀθήνησιν οὕτω καλούμενος); Thphr. Char. 2.9 (γυναικείας ἀγορᾶς; vd. Wycherley 1957, p. 201; Diggle 2004, pp. 193–194).

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Pherekrates

Contesto della citazione Polluce cita Ferecrate nell’ ambito di una dissertazione sui termini relativi agli strumenti per la conduzione di carri e di animali aggiogati: in particolare, in Poll. 10.54 vengono elencati nomi di fruste e sproni. Ma l’ occorrenza ferecratea del termine ἐγκεντρίς (da postulare anche in Eust. in Il. 3.89.8–10 κέντρα δέ φαμεν, ἃ καὶ ἐγκεντρίδας οἱ παλαιοί, ἤγουν τὰ περὶ τὰς πτέρνας, οἷς, φασίν, ἐλαύνονται ἵπποι, forse dipendente da Pausania, cfr. Paus. Gramm. ε 5) viene distinta da quanto precede, in particolare dall’ accezione che tale termine ha in Platone comico (fr. 40): qui, infatti, le ἐγκεντρίδες sono strumenti usati per la conduzione di hypozygia, animali da soma (vd. Poll. 10.53–54 ἀλλὰ τοῖς μὲν ὀχήμασι ταπήτων δεῖ ἢ ἀμφιταπήτων ἢ προσκεφαλαίων ἢ στρωμάτων, ὡς καὶ τοῖς ἡνιόχοις κέντρων μαστίγων μυώπων ἐγκεντρίδων – καὶ γὰρ ἐγκεντρίδας ἐπὶ τῇ τῶν ὑποζυγίων χρήσει Πλάτων ὁ κωμικὸς εἴρηκεν ἐν Ἑορταῖς); diversamente, in Ferecrate si dicono ἐγκεντρίδες gli speroni che vanno ai piedi dei cavalieri. A marcare la differenza tra le due accezioni – e, più in generale tra la notizia su Ferecrate e ciò che precede – è la sequenza καὶ ἐγκεντρίδας δέ, per la quale basti qui rimandare a Denniston 1954, p. 199: «this is a natural enough combination, the former particle denoting that something is added, the latter that what is added is distinct from what precedes. In Homer the particles are always juxtaposed, in later Greek always separated by an intervening word or words». Interpretazione Il particolare significato che, stando alle nostre fonti, il sostantivo ἐγκεντρίδες assume nell’ occorrenza ferecratea (‘speroni’ fissati ai piedi dei cavalieri per spronare i cavalli) rende poco appetibile l’ idea che il poeta comico avesse in mente dei ‘pungoli’ metaforici (si pensi ad es. alle ἐγκεντρίδες delle Vespe aristofanee). Non abbiamo però elementi per ricostruire un sia pur vago contesto; al più, si può pensare che il riferimento ai cavalli avvenisse nell’ ambito di una rievocazione bellica (vd. ad es. Ar. Eq. 595–610). ἐγκεντρίδας Il sostantivo significa oggetti che abbiano un’ estremità acuminata, come il pungiglione (Ar. V. 427, 1073, cfr. schol. Ar. V. 427a [vet Tr] τὰς ἐγκεντρίδας] ἀντὶ τοῦ V [τὰ Lh] κέντρα. VLh), il pungolo (Pl. Com. fr. 40; Pirrotta 2009, p. 116 traduce sporn, ma vd. Contesto della citazione), i ramponi (Aristot. fr. 84); in Xen. Cyn. 6.1 designa degli speroni cuciti in cinghie usate per i cani. Dubbio rimane il significato di ‘punzone’ per scrivere su tabelle cerate, cfr. Poll. 8.16 ἐγκεντρίς, ᾗ εἷλκον τὴν γραμμήν· μακρὰ δὲ ἐκαλεῖτο ἣν καταδικάζοντες εἷλκον e Phot. ε 971 ἐγκεντρίς· μικ〈ρ〉ὸν κέντρον, 〈ᾧ〉 τὴν καταδικάζουσαν γραμμὴν 〈εἷλκον〉; vd. tuttavia MacDowell 1971, p. 192 ad Ar. V. 427: «it seems possible that Polydeukes has just made a false deduction from Wasps», opinione condivisa anche da Biles–Olson 2015, p. 223. Secondo Urios-Aparisi 1992, p. 198, potrebbe trattarsi di «a poetical or comic word» proprio per il fatto che «is applied to different things; but always denominates a sharp point»: ciò, tuttavia, non ne dimostra affatto la poeticità (considerando anche alcune delle occorrenze sopra menzionate); piuttosto, si dovrà pensare a un iperonimo utilizzabile in diversi gerghi tecnici.

Δουλοδιδάσκαλος (fr. 55)

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fr. 55 (50 K.) Antiatt. ρ 1 ῥαβδίζειν· Φερεκράτης Δουλοδιδασκάλῳ. Rabdizein (‘battere con un bastone’): Ferecrate nel Doulodidaskalos.

Bibliografia Meineke FCG II.1, p. 273; Urios-Aparisi 1992, p. 198; Quaglia 2001, pp. 280–281 Contesto della citazione Benché l’ identificazione delle fonti dell’ Antiatticista sia spesso impossibile, va tenuto presente che «the main sources of the Antiatt. are related to the works of the Alexandrian scholars» (Valente 2015, p. 31) e che «Didymus’ λέξεις κωμικαί may be taken into account for the quotations from comic poets» (Valente 2015, p. 58 n. 336). La glossa potrebbe essere compendiata al punto da contenere solo il nome dell’ autorità che attesta il verbo ῥαβδίζειν (anche se rimane possibile che l’ autore del lessico abbia strutturato alcune voci proprio secondo la struttura lemma + citazione, vd. Valente 2015, p. 51). Si può pensare che il lessicografo, probabilmente fautore di un atticismo ‘moderato’ (cfr. ad es. Valente 2015, pp. 52–60), volesse raccomandare l’uso di ῥαβδίζειν, forse censurato dagli atticisti rigorosi (perché diffuso nella lingua quotidiana e presso autori non canonici? Cfr. Act. Ap. 16.22.3; 2 Ep. Cor. 11.25.1). Interpretazione È difficile contestualizzare in maniera convincente il verbo ῥαβδίζειν. Secondo Meineke FCG II.1, p. 273, «cum hoc in dramate multa rei textoriae memoria fuerit» (vd. comm. ad fr. 52), non è improbabile che Ferecrate abbia usato ῥαβδίζειν con lo stesso significato di ἐκραβδίζειν in Ar. Lys. 574–6 (πρῶτον μὲν ἐχρῆν, ὥσπερ πόκον, ἐν βαλανείῳ / ἐκπλύναντας τὴν οἰσπώτην ἐκ τῆς πόλεως, ἐπὶ κλίνης / ἐκραβδίζειν τοὺς μοχθεροὺς καὶ τοὺς τριβόλους ἀπολέξαι), dunque con riferimento all’ operazione della battitura, necessaria a liberare la lana dalle impurità (vd. Blümner 1912, I, p. 108; per la metafora della lavorazione della lana in Ar. Lys. 574–6, cfr. Henderson 1987, pp. 141–142). È possibile, inoltre, che ῥαβδίζειν si riferisca a un’ attività servile oppure a una punizione corporale comminata a uno schiavo (vd. lemma ῥαβδίζειν) ῥαβδίζειν Il significato del verbo è ‘battere’ con un bastone (è infatti derivato di ῥάβδος), ‘scuotere’ (ad es. alberi, per farne cadere i frutti, vd. Thphr. CP 1.19.4 τὰ δένδρα λυμαίνοιτ’ ἂν ῥαβδιζόμενα; cfr. anche Thphr. CP 5.4.2 ῥαβδίζουσι τὰς ἐλάας), ‘trebbiare’ (LXX Ru. 2.17). Può tuttavia essere applicato alle persone, vd. Diod. Sic. 19.101.3 τούτους […] προαγαγὼν εἰς τὴν ἀγορὰν ῥαβδίσας ἐπελέκησε; 36.2.4 (= Posidon. fr. 192a.36 Theiler) τοὺς μὲν ἀπαιτοῦντας τὴν τιμὴν τῆς κόρης ῥαβδίσας ἐπελέκισεν. Per quanto riguarda la commedia, cfr. Ar. Lys. 576 ἐκραβδίζειν (su cui vd. Interpretazione) e 587–8 οὔκουν δεινὸν ταυτὶ ταύτας ῥαβδίζειν καὶ τολυπεύειν / αἷς οὐδὲ μετῆν πάνυ τοῦ πολέμου;, dove ῥαβδίζειν καὶ τολυπεύειν significa «speak of ῥάβδοι and τολύπαι» (Henderson 1987, p. 145).

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Ἐπιλήσμων ἢ Θάλαττα (Epilēsmōn ē Thalatta) (“Lo smemorato o Thalatta”)

Bibliografia Meineke FCG I, pp. 82–83; Kock CAF I, p. 159; Bender 1904, p. 44; Breitenbach 1908, pp. 114–116; Terzaghi 1912, pp. 26–29; Kaibel ap. Kassel–Austin VII, p. 129; Urios-Aparisi 1992, pp. 199–200; Urios-Aparisi 1996–1997, p. 79; Quaglia 2001, pp. 292–295; Auhagen 2009, pp. 53–54 Titolo Il solo titolo Epilēsmōn è attestato quattro volte (Ath. 3.111b = fr. 61, 7.308f = fr. 62, Phot. ε 910 = fr. 59 e schol. VΓ Ar. V. 968d = fr. 60, dove il testo è corrotto ma la correzione pressoché sicura), mentre due volte ricorre il plurale (schol. VΓ Ar. V. 1034a = fr. 56, schol. VΓ Ar. V. 544b = fr. 63)85; una volta Ateneo cita la commedia servendosi del doppio titolo Epilēsmōn ē Thalatta (Ath. 8.365a = fr. 57), mentre Eroziano (α 139 = fr. 58) usa il solo Thalatta. Secondo Quaglia 2001, p. 293 «certamente il titolo era Ἐπιλήσμων. Θάλαττα […] costituiva soltanto un’ aggiunta»; egli nota inoltre: «non risultando l’ esistenza di altre commedie chiamate Epilesmon, viene a cadere la possibilità che il secondo titolo servisse a distinguere questo dramma da altri omonimi» (Quaglia 2001, p. 292; ma vd. già Bender 1904, p. 44; Breitenbach 1908, pp. 114–115). Se così fosse, dovremmo anche ammettere: 1) che una simile ‘aggiunta’ avesse come scopo quello di riferirsi brevemente al contenuto della commedia indicandone uno dei personaggi principali (tuttavia, già il titolo Epilēsmōn, che dovrà designare la caratteristica saliente del protagonista, poteva ben servire a tale scopo); 2) oppure, che Thalatta servisse a creare un’ analogia con l’ omonima commedia di Diocle, autore dell’ archaia indicato da Su. δ 1155 come contemporaneo di Sannirione e Filillio (Orth 2014, p. 194 ad Diocl. test. ii: «dass das Stück bis in hellenistische Zeit erhalten war, wird zusätzlich gestützt durch Athen. 13,567c»). Che potesse esservi un rapporto tra le pièces di Ferecrate e Diocle è già stato evidenziato da Terzaghi 1912, p. 27: «è facile pensare che il titolo Ἐπ. ἢ Θάλ. sia nato per stabilire una relazione con la Θάλαττα di Diocle; se questa relazione sia stata di differenziazione o di analogia non si può dire». In effetti, potrebbero darsi spiegazioni alternative rispetto a quella riportata supra. Il titolo Epilēsmōn – non attestato altrove, come ricorda Quaglia, ma proprio per questo più ‘marcato’ rispetto all’ altro – potrebbe aver affiancato

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Per il plurale Epilēsmones attestato negli scolii alle Vespe aristofanee è possibile: 1) un errore (infatti, come osservava già Terzaghi 1912, pp. 26–27, schol. VΓ Ar. V. 968d = fr. 60 reca traccia del titolo al singolare) o, meno probabilmente, 2) che il vero titolo fosse effettivamente al plurale (come credeva Bender 1904, p. 44) e che gli ‘smemorati’ componessero il coro, oppure 3) che Ferecrate avesse composto, oltre all’ Epilēsmōn, anche un suo rifacimento (che più tardi dovette essere chiamato Thalatta per evitare confusioni) e che dunque il plurale Epilēsmones alludesse alle due commedie omonime e di uguale argomento: un caso simile potrebbe essere schol. bT Il. 13.353 Εὔπολις ἐν Αὐτολύκοις (fr. 49).

Ἐπιλήσμων ἢ Θάλαττα

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(fino a sostituirlo, in alcune fonti) il più ambiguo Thalatta proprio allo scopo di evitare confusioni con la commedia di Diocle86. Ovviamente, la questione non può essere risolta una volta per tutte, come il già citato Terzaghi notava (ma vd. infra); tuttavia, alcune considerazioni rendono plausibile l’ ipotesi di un titolo ‘originario’ Thalatta in seguito affiancato da Epilēsmōn. Infatti: 1) che il titolo Thalatta fosse posto alla commedia di Ferecrate per cercare un’ analogia con quella del più giovane Diocle, presumibilmente meno studiato rispetto al primo, sarebbe singolare: è più facile pensare che un titolo Epilēsmōn sia stato aggiunto alla commedia ferecratea per evitare ogni confusione, come si accennava poc’ anzi; 2) se davvero Ferecrate va considerato come il pioniere degli Hetärenstücke (vd. almeno Henderson 2000; Souto Delibes 2002), un titolo Thalatta – peraltro confrontabile con quello di un’ altra sua commedia ‘meretricia’, Koriannō – non stupirebbe affatto; 3) che Epilēsmōn sia attestato più volte rispetto a Thalatta non ha alcun significato ai fini dell’ argomentazione; i titoli riportati dai nostri testimoni vanno posti sullo stesso piano perché potrebbero risalire a fonti diverse. Non è dunque decisivo quanto notato da Terzaghi 1912, p. 27: «la concordanza delle fonti sul titolo Ἐπιλήσμων [fa] credere ad un processo analogico, per avvicinare, cioè, un personaggio di Ferecrate – la cortigiana Θάλαττα – ad uno di Diocle». Un’ altra possibilità – inverificabile, tuttavia – è che la commedia di Diocle sia una diaskeuē di quella ferecratea: per questa idea, cfr. già Breitenbach 1908, p. 115. A rigore, infine, si potrebbe anche pensare che Ferecrate avesse riportato in scena una diaskeuē della sua commedia Epilēsmōn rinominandola Thalatta: analogo potrebbe essere ad es. il caso di Antifane, che, stando ad Ath. 8.358d, avrebbe composto il suo Boutaliōn come diaskeuē dell’ Agroikos (o piuttosto di una di due commedie, entrambe intitolate Agroikos); altrove le fonti parlano semplicemente di Boutaliōn ē Agroikos. Per questo e per altri casi simili, vd. almeno Terzaghi 86

Che il titolo Epilēsmōn venga citato per primo non significa che sia quello ‘originale’, come già avvertiva Terzaghi 1912, p. 77: oltre al caso del Boutaliōn ē Agroikos di Antifane (citato infra), cfr. ad es. Ath. 11.496f, Δίφιλος δ’ ἐν Εὐνούχῳ ἢ Στρατιώτῃ, dove Eunouchos è forse titolo risalente a Callimaco (fr. 440 Pfeiffer; peraltro, Eunouchos è l’ unico titolo dato dall’ Antiatticista, vd. Diph. frr. 7–9), ma vd. il diverso parere di Terzaghi 1912, pp. 91–93, secondo cui Callimaco, vicino all’ età in cui fu attivo Difilo, dovette dare il titolo originale della commedia; tuttavia, non è affatto certo che i titoli dati da Callimaco fossero quelli ‘originali’, vd. il caso (ricordato anche da Terzaghi, ma non discusso a sufficienza, a mio avviso) del titolo dell’ opera di Archestrato di Gela, per cui mi permetto di rimandare a Pellettieri 2020, pp. 287–290. Cfr. poi la commedia di Alessi Dēmētrios ē Philetairos: da Ath. 14.663c sembra che il titolo Dēmētrios sia quello della diaskeuē della commedia Philetairos, vd. Arnott 1996, pp. 155–156; vd. tuttavia l’ opinione contraria di Terzaghi 1912, pp. 77–78. Lo studioso (p. 103) ipotizza invece che nel caso della commedia Philadelphoi ē Apokarterōn di Apollodoro Geloo il titolo originale fosse Apokarterōn.

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Pherekrates

1912, pp. 54–57; Hunter 1983, pp. 146–148; Konstantakos 2004, pp. 11–19, con bibliografia. Per quanto riguarda il significato dei due titoli, Epilēsmōn potrebbe essere riferito a un uomo (il febbricitante del fr. 58? vd. infra) o a una donna: nel primo caso, è interessante notare che lo Strepsiade delle Nuvole Aristofanee è più volte definito epilēsmōn e, allo stesso tempo, rozzo (agroikos) e vecchio (vd. in particolare vv. 129, 628–9, 790; la cosa potrebbe essere di qualche significato anche per la caratterizzazione del protagonista della commedia ferecratea, vd. Contenuto); nel secondo caso, «it could mean the nickname or main feature» (Urios-Aparisi 1992, p. 200) della donna che dà alla commedia il ‘secondo’ titolo, Thalatta. Quest’ ultimo fa riferimento con buona probabilità a un’ etèra, vd. Ath. 13.567c–d καὶ ἄλλα δὲ πολλά […] δράματα ἀπὸ ἑταιρῶν ἔσχε τὰς ἐπιγραφάς, Θάλαττα Διοκλέους, Φερεκράτους Κοριαννώ, Εὐνίκου ἢ Φιλυλλίου Ἄντεια, Μενάνδρου δὲ Θαῒς καὶ Φάνιον, Ἀλέξιδος Ὀπώρα, Εὐβούλου Κλεψύδρα. Come ricorda Orth 2014, p. 206, commedie che prendono il titolo dalla figura di un’ etèra sono molto diffuse nella commedia di mezzo, ma non mancano esempi già nel V sec., cfr. Nesselrath 1990, p. 319 n. 97, che cita i seguenti titoli (oltre a quelli già riportati): Ἰπνὸς ἢ Παννυχίς e Πετάλη di Ferecrate, Ἀντιλαΐς di Cefisodoro, Νεμέα di Teopompo, Παλαίστρα di Alceo e Φίλιννα di Egemone. Confrontabile è forse la commedia plautina Fretum, vd. Auhagen 2009, pp. 176–177. Se il nome (o meglio il soprannome) Thalatta fosse quello di una figura reale, non possiamo dire (cfr. Orth 2014, pp. 206–207); in ogni caso, si può pensare che esso facesse riferimento a una caratteristica dell’ etèra: non tanto la mutevolezza (cfr. la donna ἐκ θαλάσσης in Semon. fr. 7.27–42 West2), quanto la sua insaziabile avidità, (vd. Bechtel 1902, p. 113, seguito da Auhagen 2009, pp. 53–54; cfr. anche Orth 2014, p. 207 e vd. Anaxil. fr. 22.18–9 ἡ δὲ Φρύνη τὴν Χάρυβδιν οὐχὶ πόρρω που ποιεῖ, / τόν τε ναύκληρον λαβοῦσα καταπέπωκ’ αὐτῷ σκάφει; Plaut. Asin. 133–5 perlecebrae, permities, adulescentum exitium. / nam mare haud est mare, vos mare acerrumum; / nam in mari repperi, hic elavi bonis; Truc. 568–9 meretricem ego item esse reor, mare ut est: / quod des devorat 〈nec dat〉is umquam abundat). Contenuto Nulla sappiamo sulla trama e sull’ intreccio della commedia. Lo smemorato del titolo potrebbe essere tale a causa di una malattia (vd. fr. 58, forse para-tragico) e/o dell’ età avanzata (cfr. la caratterizzazione di Strepsiade come vecchio epilēsmōn in Ar. Nu. 129, 628–9, 79087 e vd. fr. 63; ma qui il probabile riferimento alla vecchiaia è troppo vago per trarne indicazioni; esso potrebbe ad 87

Cfr. già Quaglia 2001, p. 294, secondo cui la pièce ferecratea potrebbe aver contenuto una polemica anti-filosofica: «può essere [..] che, se lo smemorato del titolo era un vecchio, egli presentasse caratteristiche non dissimili da quelle di Strepsiade, forse anche in opposizione alle attitudini “filosofiche” di una o più etère: non soltanto, infatti, la polemica contro sofisti e sofismi è presente in Ferecrate come, in generale, nella commedia antica, ma le fonti sono concordi nell’ assegnare alla più celebre delle etère del V secolo, Aspasia, doti di vera e propria “filosofa”».

Ἐπιλήσμων ἢ Θάλαττα

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es. adombrare un conflitto generazionale simile a quello che pare di scorgere in Pherecr. frr. 77–9 [Koriannō], che forse mettono in scena la lotta tra un giovane e un vecchio [il padre?] per un’ etèra, vd. comm. ad locc.). Non sappiamo a chi si riferisca il fr. 59, in cui a colloquio sono forse un uomo indebitatosi per un motivo poco onorevole (come ad es. mantenere un’ etèra) e un creditore. Che uno dei personaggi fosse un rusticus parco fino all’ avarizia potrebbe ricavarsi dal fr. 62. Dato il ‘secondo’ titolo Thalatta (e considerato l’ omonimo Hetärenstück di Diocle), è assai probabile che un’ etèra fosse tra i personaggi principali (vd. supra; il nome di un’ etèra, peraltro, potrebbe nascondersi dietro al corrotto ωφελην di fr. 57.2, vd. comm. ad loc.), ma non abbiamo alcun appiglio per formulare ipotesi sulla sua funzione drammatica. Pochissimo può dirsi riguardo alla messa in scena: nel già menzionato fr. 58 è presente un personaggio febbricitante (lo smemorato che dà il nome alla commedia?) che si può immaginare sdraiato a letto – forse a imitazione di scene tragiche come quella dell’ Oreste euripideo; se tale scena prevedesse l’ uso dell’ ekkyklēma, come ipotizza Urios-Aparisi, è impossibile dire (vd. comm. ad loc.). I frr. 61 e 63, infine, lasciano pensare a contesti festivi, come avviene in alcune scene finali di commedie. Datazione Non abbiamo elementi per datare la commedia. Tuttavia, ci sono alcuni indizi che lasciano pensare a una datazione tarda: 1) innanzitutto, anche Diocle, attivo tra la fine del V e la prima metà del IV sec., compose una commedia intitolata Thalatta (vd. supra): essa potrebbe essere ispirata proprio al personaggio ferecrateo (vd. supra e cfr. Orth 2014, pp. 206–207), ma si può anche pensare che i due commediografi si riferissero indipendentemente a un’ etèra attiva grosso modo nell’ arco di tempo che coprì la maturità di Ferecrate e la giovinezza di Diocle; 2) la scena da cui è tratto il fr. 58 potrebbe dipendere dall’ Oreste Euripideo (408 a.C.), vd. comm. ad loc.: se così fosse avremmo un terminus post quem non incompatibile con quanto sappiamo della cronologia ferecratea (né con l’ ipotesi di Olson 2010, pp. 49–50, secondo cui il [Φ]ερε[κ]ράτες menzionato in una lista di caduti in guerra [IG I3 1192.150] potrebbe essere il nostro poeta)88. fr. 56 (51 K.) κἂν μὲν σιωπῶ, †φέρεται†, πνίγεται καί φησι «τὶ σιωπᾷς;» ἐὰν δέ 〈γ’〉 ἀποκριθῶ, «οἴμοι τάλας», φησίν, «χαράδρα κατελήλυθεν». 1 φέρεται codd., cruc. Kassel–Austin : δυσφορεῖ (vel ῥήγνυται) καὶ Meineke : τείρεται καὶ Kock1 : φέρε τί 〈ποιεῖ;〉 Headlam : θράττεται καὶ vel φέρετ’ ἐπ’ ὀργὴν Kaibel ap. 88

Nonostante Geissler 1969, p. 53 n. 1, secondo cui le commedie di Ferecrate a noi note sarebbero state composte «sämtlich weder vor 435 noch hinter 410».

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Pherekrates

Kassel–Austin : φύρεται καὶ Bothe : 〈‘γώ,〉 φλέγεται καὶ van Herwerden : περιφέρεται καὶ Edmonds : φθείρεται καὶ Quaglia 2 ἐὰν δέ 〈γ’〉 Meineke (rec. edd. omnes) : ἂν δ’ codd. ἀποκριθῶ codd. (prob. Taillardat) : ὑπολάβω Mervyn Jones : ἀποδικῶ Kock : cruc. Edmonds (qui in app. ἀναμύσω con.) 3 φησίν Meineke (per compend. VΓ) : φησί Ald : φήσ’ ἄν Bothe

E se taccio, †pheretai† soffoca e dice «perché taci?», se invece ribatto, «ahimè, sventurato», dice, «è sceso giù un torrente». Schol. VΓLhAld Ar. V. 1034a (vet Tr) φωνὴν δ’ εἶχεν χαράδρας (lemma habent ΓAld : om. VLh): ἐπειδὴ πλέον τι τοῦ χειμάρρου εἰς τραχύτητα καὶ ἀνωμαλίαν ἔχει (VΓ : εἶχεν LhAld). Φερεκράτης ἐν Ἐπιλήσμονι (Koster : ἐπιλήσμοσι codd., Ald)· «κἂν – κατελήλυθεν». E aveva voce di charadra (‘torrente’): poiché ha qualcosa in più del cheimarros (‘fiume in piena’) per violenza e irregolarità. Ferecrate nell’ Epilēsmon: «e – torrente».

Metro Trimetri giambici

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Bibliografia Meineke FCG II.1, p. 275; Bothe 1855, p. 92; Kock 1875, p. 403; Kock CAF I, p. 159; van Herwerden 1882, p. 71; Blaydes 1890, p. 17; Headlam 1899, p. 5; Edmonds FAC I, p. 226; Mervyn Jones 1958, p. 238; Taillardat 1959, pp. 66–67; Kassel–Austin VII, p. 129; Urios-Aparisi 1992, pp. 201–202; Quaglia 2001, pp. 295–299 Contesto della citazione Il frammento è citato in uno scolio ad Ar. V. 1034 per via dell’ utilizzo, comune a Ferecrate e ad Aristofane, del termine χαράδρα riferito metaforicamente a uno spiacevole eloquio (vd. lemma χαράδρα; in Aristofane, il termine qualifica la voce di Cleone). Secondo il nostro scolio, χαράδρα sarebbe più efficace rispetto a χείμαρρος, in quanto designerebbe un torrente impetuoso e dal corso irregolare (così credo che debbano intendersi le parole dello scolio; tuttavia, non mi risulta che altre fonti adottino un’ analoga distinzione tra χαράδρα e χείμαρρος, che potrebbe essere autoschediastica). Testo Diversi sono stati i tentativi di emendare il tràdito φέρεται, ma nessuno è decisivo, tanto che la scelta di Kassel–Austin di porre il verbo tra cruces pare la più prudente. Secondo Meineke, «requiritur tale quid, κἂν μὲν σιωπῶ, δυσφορεῖ καὶ πνίγεται, vel ῥήγνυται καὶ πνίγεται», soluzioni che possono valere exempli gratia (su δυσφορέω, vd. Ar. Th. 73 τί δυσφορεῖς;, Ra. 922 τί σκορδινᾷ καὶ δυσφορεῖς; e cfr. Austin–Olson 2004, p. 76; Kassel–Austin VII, p. 220 ad Pherecr. fr. *286.1 δυσφορ[εῖ). Altrettanto può dirsi per θράττεται καὶ e φέρετ’ ἐπ’ ὀργήν, congetture di Kaibel ap. Kassel–Austin VII, p. 129 (ma il verbo θράττειν ha una semantica

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che non pare accordarsi pienamente con il contesto del nostro frammento: vd. comm. ad fr. 43.3 e cfr. Quaglia 2001, p. 297: «il significato normalmente attestato è quello di “tremare di paura”, difficilmente collegabile con πνίγεται»). φύρεται di Bothe, se trova giustificazione dal punto di vista paleografico, non è altrettanto raccomandabile dal punto di vista semantico: il verbo, infatti, dovrebbe avere qui il significato metaforico di ‘conturbatur’ (vd. Bothe 1855, p. 92), ma non ci sono paralleli significativi che permettano di accogliere la congettura89. τείρεται proposto da Kock 1875, p. 403 è probabilmente «epicis tragicisque relinquendum», come notava van Herwerden 1882, p. 71. Questi suggeriva dubbiosamente κἂν μὲν σιωπῶ 〈‘γώ,〉 φλέγεται καὶ πνίγεται: ma il pronome personale sembra piuttosto un riempitivo che una soluzione probabile; φλέγεται, inoltre è più adatto a un registro elevato (vd. Austin–Olson 2004, p. 242 ad Ar. Th. 680) che al tono colloquiale del nostro frammento. Neanche la congettura di Headlam φέρε τί 〈ποιεῖ;〉 πνίγεται convince, nonostante il sapore colloquiale dell’ espressione, usata spesso in Demostene con una triplice funzione: 1) sottolineare un passaggio ‘narrativo’ o argomentativo; 2) tenere desta l’ attenzione dell’ uditorio; 3) mettere in evidenza le responsabilità (ovvero le colpe) di chi agisce in un determinato modo (vd. ad es. Dem. 9.16; 9.17; 21.30; 21.86; 23.171; 27.38; 31.3; 39.38; 57.55; [Dem.] 35.22). Da scartare è poi περιφέρεται καὶ di Edmonds, per il quale l’ editore è costretto a postulare un significato ‘to fidget’ che non collima con quello di altre attestazioni90; inoltre, la scansione metrica del verso, pressoché inusitata, desterebbe perplessità (vd. ad es. Martinelli 1997, p. 110). Non risolve i problemi, infine, lo φθείρεται proposto da Quaglia 2001, p. 297, che non trova adeguati paralleli (tanto meno nell’ esclamazione φθείρου di Ar. Ach. 640 e Pl. 610, citata dallo studioso) e non è certo giustificato dalla «evidente iperbole comica» e dalla possibile «climax inversa con l’ ultimo verbo». Al v. 2, ἐὰν δέ 〈γ’〉 di Meineke in luogo del tràdito ἂν δ’ è stato accolto dagli editori successivi. La bontà del tràdito ἀποκριθῶ è stata posta in dubbio sulla base di Phryn. Ecl. 78 ἀποκριθῆναι· διττὸν ἁμάρτημα, ἔδει γὰρ λέγειν ἀποκρίνασθαι, καὶ εἰδέναι, ὅτι τὸ διαχωρισθῆναι σημαίνει, ὡσπεροῦν καὶ τὸ ἐναντίον αὐτοῦ, τὸ

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Sul significato metaforico di φύρω, vd. LSJ, s. v. φύρω II; Quaglia 2001, p. 296 porta a confronto Pi. Pae. 2.73, dove φύρσει significa «confound», secondo LSJ s. v. φύρω II.3, mentre lo schol. ad loc. glossa ἀποκτενεῖ (Rutherford 2001, p. 262 sceglie invece la traduzione «defile»); Eur. Supp. 201 πεφυρμένον, anch’ esso citato da Quaglia, ha il significato di ‘confuso’ e si trova in un contesto non paragonabile al nostro. In Plu. Caes. 32, citato da Edmonds, il verbo è al passivo e significa «to be turned giddy», secondo LSJ, s. v. περιφέρω I.8; in Aem. 27, anch’ esso citato da Edmonds, il verbo è riferito a un concetto astratto [εἱμαρμένη] e non può essere portato a confronto; cfr. anche Mervyn Jones 1958, p. 238 «the parallels from Plutarch seem scarcely adequate». Taillardat 1959, p. 67 trova «seduisante» la congettura di Edmonds, a patto di intenderla come «il se promène de long en large», sulla scorta di Eup. fr. 220.3 περιτρέχων: ma il confronto, non altrimenti corroborato, mi sembra arbitrario.

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συγκριθῆναι, 〈τὸ〉 εἰς ἓν καὶ ταὐτὸν ἐλθεῖν. εἰδὼς οὖν τοῦτο ἐπὶ μὲν τοῦ ἀποδοῦναι τὴν ἐρώτησιν ἀποκρίνασθαι λέγε, ἐπὶ δὲ τοῦ διαχωρισθῆναι ἀποκριθῆναι; l’ unica altra attestazione attica dell’ aoristo passivo ἀπεκρίθη con lo stesso valore di ἀπεκρίνατο è [Pl.] Alc. 2 149b, a cui può forse aggiungersi Xen. An. 2.1.22, dove ἀπεκρίθη col significato di ‘rispondere’ è attestato dai codd. CBAE (ma Marchant stampa ἀπεκρίνατο dei deteriores). Per tali motivi, Kock tentò una congettura ἀποδικῶ: ma il verbo non trova paralleli convincenti (non è tale l’ unica occorrenza comica nota, vd. Σb α 1827 ἀποδικεῖν· ἀντὶ τοῦ ἀπολογεῖσθαι. οὕτως Ἀντιφάνης [fr. 303]), tanto che possono condividersi le parole di van Herwerden 1882, p. 71: «cui verbo non nisi in iudicio locus est». Mervyn Jones 1958, p. 238 propone in via dubitativa ὑπολάβω sulla base di Σ υ 150 (Cyr.) ὑπολαβών· ὑπονοήσας ἢ ἀποκριθεὶς ἢ ἀντειπών, ἀντικρούσας; Hsch. υ 678 ὑπολαβών· ὑπονοήσας, νομίσας. ἀποκριθείς ecc. Edmonds, che pone tra cruces il verbo, solleva obiezioni sull’ opportunità contestuale di un verbo che significa ‘rispondere’ e congettura un improbabile ἀναμύσω (peraltro non attestato prima del IV sec. d.C.) col significato di ‘aprire le labbra’ (per parlare): «I sugg. that ἀναμύω, which elsewhere means to open the eyes, may, like its opposite συμμύω, have also been used of the lips, and that ἀποκριθῶ is a gloss on ἀναμύσω». Taillardat 1959, p. 66–67 difende il testo tràdito: «si l’ on admet avec Kock que, dans ce fragment, mulier de marito queritur, ἀποκρίνομαι donne un très bon sens: le mari posant des questions à sa femme, il est naturel qu’ elle lui réponde»; la forma ἀποκριθῶ, secondo Taillardat, va aggiunta ai vulgarismes ferecratei annotati da Schmid 1946, p. 107 n. 1. Tuttavia, che ἀποκριθῶ costituisca un vulgarisme è dubbio, cfr. Lautensach 1911, p. 236: «wenn wir schließlich die Anzahl der Verba (Activa und Deponentia) mit medialem Aorist der der Verba mit passivem Aorist bei den einzelnen Dramatikern gegenüberstellen, so erkennen wir auf dem Gebiete der Tragödie wie dem der Komödie eine allmähliche Zunahme der passiven Aoriste» (a p. 235 viene citato il nostro frammento). Nessun editore, infine, ha seguito le indicazioni di Bothe, secondo cui bisogna leggere φήσ’ ἄν in luogo di φησίν, poiché il v. 3 sarebbe «intolerbailis, ut qui omni caesura careat, qualem Pherecrati, optimo poetae, imputari nefas est». Interpretazione Il personaggio parlante si rivolge a un interlocutore riportando le parole di un terzo personaggio maschile (cfr. v. 3 οἴμοι τάλας) che non è presente sulla scena e che deve avere un rapporto stretto con il parlante stesso. Kock, seguito da Taillardat 1959, pp. 66–67, pensava a una donna che riferisce (a un’ altra donna?) le critiche del marito: la cosa è possibile, soprattutto quando si consideri il motivo topico della loquacità femminile (vd. lemma χαράδρα). Rimane inverificabile l’ ipotesi di Quaglia 2001, p. 298, secondo cui «l’ uomo […] potrebbe essere un vecchio scorbutico, forse anche lo smemorato del titolo»; è tuttavia probabile che lo speech within speech che caratterizza il frammento abbia anche lo scopo di presentare implicitamente il carattere del personaggio maschile come irascibile e incoerente. Ehrenberg 1951, p. 352, comprende il nostro frammento tra i passi che

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testimoniano della voce «loud and unpleasant» di Cleone; ma potrebbe trattarsi di una svista dovuta al fatto che, in Aristofane, χαράδρα allude all’ eloquio del politico ateniese (vd. lemma χαράδρα). Il frammento rappresenta uno degli esempi di speech within speech nell’ archaia (per Aristofane, vd. Bers 1997, pp. 115–128 e cfr. Nünlist 2002; altri ess. nei poeti frammentari sono, oltre a Pherecr. frr. 162.8–9, 11–2 e 163.2–3, Cratet. frr. 16.5–10 e 17.5, Cratin. frr. *195.3 e 342.1, Eup. frr. 1.2 e 385.5, Hermipp. fr. 2, Stratt. frr. 48.2 e 63.2). Qui il discorso nel discorso è introdotto e demarcato dal ricorrere del verbum dicendi, che costituisce un explicit quotative (per usare la terminologia proposta da Bers 1997, pp. 116–117; cfr. Nünlist 2002, p. 227) e che dunque non doveva richiedere all’ attore una particolare prova di abilità, come accade invece in altri casi di quoted speech (cfr. ad es. Cratet. fr. 16.5–10, col comm. di Perrone 2019, p. 106). 1 πνίγεται Il verbo, che nella diatesi media letteralmente significa ‘soffocare’, ‘strozzarsi’ (diversi ess. nel corpus Hippocraticum), può essere usato in senso metaforico – così come ἀπάγχω – a indicare un moto di insofferenza, d’ ira, di invidia o di repulsione nei confronti di qualcosa, ovvero «of an overwhelming emotional response» (Biles–Olson 2015, p. 302 ad Ar. V. 686); vd. Taillardat 1965, p. 212 (§ 381), secondo cui πνίγω e ἀπάγχω nella loro accezione metaforica sono pressoché sinonimi «expressifs et familiers» di ὀργίζειν/ὀργίζεσθαι. Per il verbo πνίγω, cfr. in particolare Ar. Nu. 1036 ἐπνιγόμην τὰ σπλάγχνα; Soph. fr. 314.403 [Ichneutai] ἤδη με πνίγεις καὶ σύ; com. adesp. fr. 247.5–6 ὅταν δὲ τὴν λεύκην τις αὐτῶν πρᾳέως / ἁλιακὸν εἶναι στέφανον εἴπῃ, πνίγομαι; com. adesp. fr. 903 πνίγομ’ ὅταν εὐγένειαν οὐδὲν ὢν καλῶς / λέγῃ τις, αὐτὸς δυσγενὴς ὢν τῷ τρόπῳ. / τίς γὰρ κατόπτρῳ καὶ τυφλῷ κοινωνία;. Vd. anche il composto ἀποπνίγω: Alex. fr. 16.5–7 τοὺς δ’ ἰχθυοπώλας τοὺς κάκιστ’ ἀπολουμένους / ἐπὰν ἴδω κάτω βλέποντας, τὰς δ’ ὀφρῦς / ἔχοντας ἐπάνω τῆς κορυφῆς, ἀποπνίγομαι (vd. Arnott 1996, p. 101); Antiph. fr. 169.2 ἀποπνίξεις γάρ με καινὴν πρός με διάλεκτον λαλῶν; Dem. 19.199 ἐφ’ οἷς ἔγωγ’ ἀποπνίγομαι; Luc. DMeretr. 14 ταῦτά με ἀποπνίγει; Deor. Conc. 12 καὶ ὃ μάλιστά με ἀποπνίγει; Ep. Sat. 21 ταῦτα ἡμᾶς μάλιστα ἀποπνίγει; Gall. 28 καὶ μάλιστα ἐπὶ τῷ καταράτῳ Σίμωνι ἀποπνίγομαι τρυφῶντι ἐν ἀγαθοῖς τοσούτοις; Merc. Cond. 41 τοῦτο τοίνυν ἀποπνίγει αὐτούς; Nav. 22 οἱ δὲ ἀποπνιγήσονται οἱ πλούσιοι ὁρῶντες ὀχήματα, ἵππους καὶ παῖδας ὡραίους ὅσον δισχιλίους. Per ἀπάγχω usato con lo stesso significato, cfr. il già citato Taillardat 1965, p. 212 (§ 381) e vd. il comm. di Harder 2012, II, p. 700 ad Call. fr. 85.7 Pfeiffer. La metafora del self-strangulation trova inoltre interessanti paralleli iconografici in rappresentazioni apotropaiche dello Phthonos, vd. Slane–Dickie 1993, pp. 494–496. 2 ἀποκριθῶ Sulle perplessità destate dalla forma, vd. supra, Testo. Se ἀποκριθῶ è lezione da accogliere, non bisogna necessariamente pensare, con Taillardat 1959, pp. 66–67, che il verbo significhi ‘rispondere (a una domanda)’ e scorgere dunque un’ aporia (il personaggio di cui viene riportato il discorso, infatti, non pone una domanda): ἀποκρίνομαι può infatti significare «“answer (charges), offer a (defense) speech”» (così Olson 2016, p. 262 ad Eup. fr. 228.2

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ἀποκρινοῦμαι; egli specifica che, in quest’accezione e in quella di «”answer”», il verbo «is an Atticism»), vd. ad es. Ar. Ach. 630–2 διαβαλλόμενος δ’ ὑπὸ τῶν ἐχθρῶν […] / ἀποκρίνασθαι δεῖται νυνὶ πρὸς Ἀθηναίους μεταβούλους; V. 950–1 χαλεπὸν μέν, ὦνδρές, ἐστι διαβεβλημένου / ὑπεραποκρίνεσθαι κυνός; Th. 184–6 ἐὰν γὰρ ἐγκαθεζόμενος λάθρᾳ / ἐν ταῖς γυναιξίν, ὡς δοκῶν εἶναι γυνή, / ὑπεραποκρίνῃ μου, σαφῶς σώσεις ἐμέ; Eup. fr. 228.2 πάντ᾽ ἀποκρινοῦμαι πρὸς τὰ κατηγορούμενα. Nei passi comici citati, ad ogni modo, la terminologia del poeta ricalca quella giudiziaria, cfr. Olson 2002, p. 237 ad Ar. Ach. 632 e vd. ad es. Antipho 2.4.3 διωκόμενος ἀποκρίνομαι e 6.18 ἐξ αὐτῶν τῶν λόγων τῶν τε τοῦ κατηγόρου καὶ τοῦ ἀποκρινομένου τὴν διάγνωσιν ποιεῖσθαι, dove ἀποκρίνομαι e ἀποκρινομένου hanno il sapore del tecnicismo; del resto, cfr. Harp. α 189 ἀπόκρισις· ἡ ἀπολογία e vd. anche LSJ, s. v. ἀποκρίνω IV.2, «ἀπεκρινάμην freq. in legal documents». Non va però trascurato che in diverse iscrizioni ἀποκρίνομαι è usato per indicare la comunicazione di una decisione presa in merito a una richiesta, a un’ istanza, a un annuncio formulati da ambasciatori o da altri soggetti rappresentanti di un’ istituzione o di una città: cfr. ad es. IG I3 40.47–8 (Attica, 446/5?); IG II2 141.4 (Attica, 394–386 ca.); I.Thespies 156.45 (215–208); CID 4.7.4 (Didyma, 346/5?); CID 4.99 (Delphi, ca. 200 a.C.); IG XII.4 1.90.21 (Magnesia Meand., 208 a.C.). Dai passi letterari ed epigrafici riportati, al di là della valenza tecnica che il verbo può assumere in determinati contesti, sembrano potersi ricavare delle ‘costanti’: in particolare, ἀποκρίνομαι sembra indicare la ‘replica’ di un parlante a un atto linguistico (anche, ma non necessariamente, una domanda diretta) che lo coinvolga personalmente. Lo stesso può valere nel nostro caso. 3 χαράδρα Il sostantivo significa «“trockenes Bett eines Bergstroms, (im Sommer ausgetrockneter) Sturzbach, durch fließendes Wasser verursachter Hohlweg”» (Frisk GEW, s. v. χέραδος). Per il significato di ‘torrente’, vd. Ar. V. 1034 = Pax 757 φωνὴν δ’ εἶχεν χαράδρας ὄλεθρον τετοκυίας (riferito a Cleone, Biles–Olson 2015, p. 388) e cfr. Σ χ 26 χαράδραι· αἱ διαιρέσεις, καὶ τὰ σχίσματα, καὶ χείμαρρος γῆς. παρὰ τὸ χαράσσω; Hsch. χ 171 χαράδρα· χείμαρρος ποταμός. κατάγει δὲ οὗτος παντοῖα ἐν τῷ ῥεύματι, καὶ κατασύρει. Per l’ immagine ferecratea, oltre al già citato Ar. V. 1034 = Pax 757, soccorrono Ar. Eq. 137 κεκράκτης, Κυκλοβόρου φωνὴν ἔχων (riferito a Cleone, cfr. Ach. 381; il Cicloboro è un torrente attico, cfr. Beta 2004, p. 96; Bagordo 2016, p. 192) e fr. 644 ᾤμην δ’ ἔγωγε τὸν Κυκλοβόρον κατιέναι (cfr. Bagordo 2016, pp. 189–192); vd. anche Poll. 6.146 εἰς δὲ τὸν πολλὰ οὐ μὴν κεκριμένα λέγοντα, πολυλόγος, μακρολόγος, μακρός, ἀπέραντος ἀπεραντολόγος, βόρβορος, προσκορής, κυκλοβόρος χειμάρρους χαράδρα, συρφετός κτλ. La metafora (non inconsueta: anche in Cratin. fr. 198 la voce umana è paragonata alle acque dell’ Ilisso; sull’ ambiguità di questo paragone, vd. Beta 2004, pp. 60–61 e 95) sembra essere basata sul dato fonico del ‘rombo’ di un torrente che scorre impetuoso, implicitamente paragonato alla voce umana (vd. anche Bagordo 2016, p. 189 che, a proposito di Ar. Eq. 137, citato supra, scrive «Kleons Verspottung ebenfalls eine akustische Dimension erhält»); non deve esserle estraneo, però, anche un

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senso di minaccia e sopraffazione provocato dall’ incombere di una forza cieca e incontrollabile. In tal senso, un confronto può essere stabilito con le seguenti immagini, spesso riferite ad attività belliche: Il. 4.452–6 ὡς δ’ ὅτε χείμαρροι ποταμοὶ κατ’ ὄρεσφι ῥέοντες / ἐς μισγάγκειαν συμβάλλετον ὄβριμον ὕδωρ / κρουνῶν ἐκ μεγάλων κοίλης ἔντοσθε χαράδρης / τῶν δέ τε τηλόσε δοῦπον ἐν οὔρεσιν ἔκλυε ποιμήν· / ὣς τῶν μισγομένων γένετο ἰαχή τε πόνος τε; Il. 11.492–6 ὡς δ ὁπότε πλήθων ποταμὸς πεδίονδε κάτεισι / χειμάρρους κατ’ ὄρεσφιν, ὀπαζόμενος Διὸς ὄμβρῳ, / πολλὰς δὲ δρῦς ἀζαλέας, πολλὰς δέ τε πεύκας / ἐσφέρεται, πολλὸν δέ τ’ ἀφυσγετὸν εἰς ἅλα βάλλει, / ὣς ἔφεπε κλονέων πεδίον τότε φαίδιμος Αἴας; Il. 16.390–3 πολλὰς δὲ κλιτῦς τότ’ ἀποτμήγουσι χαράδραι, / ἐς δ’ ἅλα πορφυρέην μεγάλα στενάχουσι ῥέουσαι / ἐξ ὀρέων ἐπικάρ, μινύθει δέ τε ἔργ’ ἀνθρώπων· / ὣς ἵπποι Τρῳαὶ μεγάλα στενάχοντο θέουσαι; Hdt. 3.81 ὠθέει τε ἐμπεσὼν τὰ πρήγματα ἄνευ νόου, χειμάρρῳ ποταμῷ ἴκελος (sc. ὁ δῆμος); Isoc. 15.172 διὰ γὰρ τὸ μέγεθος καὶ τὸ πλῆθος τῶν ἐνοικούντων οὐκ εὐσύνοπτός ἐστιν οὐδ’ ἀκριβής (sc. ἡ πόλις ἡμῶν), ἀλλ’ ὥσπερ χειμάρρους, ὅπως ἂν ἕκαστον ὑπολαβοῦσα τύχῃ καὶ τῶν ἀνθρώπων καὶ τῶν πραγμάτων, οὕτω κατήνεγκεν; Dem. 18.153 ὥσπερ χειμάρρους ἂν ἅπαν τοῦτο τὸ πρᾶγμ’ εἰς τὴν πόλιν εἰσέπεσε; Callisth. Olynth. FGrHist 124 F 35.63–6 τοὺς γὰρ ἀπὸ τῶν ὀρῶν χειμάρρους καταφερομένους τοσαῦτά φησι ποιεῖν ἐκρήγματα κατὰ τὸ πεδίον, ὥστε καὶ τῶν Περσῶν κατὰ τὴν φυγὴν διαφθαρῆναι λέγουσι τοὺς πλείστους ἐν τοῖς τοιούτοις κοιλώμασι; Dion. Hal. 7.50.5 ἅπαν τὸ ἀντίπαλον καὶ μὴ εἶκον ὥσπερ χειμάρρους πολὺς ἐμπεσὼν παρέσυρεν ἂν καὶ κατήνεγκεν; [Longin.] 32.1 Περὶ δὲ πλήθους [καὶ] μεταφορῶν ὁ μὲν Καικίλιος ἔοικε συγκατατίθεσθαι τοῖς δύο ἢ τὸ πλεῖστον τρεῖς ἐπὶ ταὐτοῦ νομοθετοῦσι τάττεσθαι. ὁ γὰρ Δημοσθένης ὅρος καὶ τῶν τοιούτων· ὁ τῆς χρείας δὲ καιρός, ἔνθα τὰ πάθη χειμάρρου δίκην ἐλαύνεται καὶ τὴν πολυπλήθειαν αὐτῶν ὡς ἀναγκαίαν ἐνταῦθα συνεφέλκεται; Plu. Mor. 11.324b-c οὗτος (sc. ὁ Ῥωμαίων μέγας δαίμων) Ἀννίβαν τὸν Καρχηδόνιον, φθόνῳ καὶ ταῖς πολιτικαῖς ἔχθραις μηδενὸς οἴκοθεν ἐπιρρέοντος ὥσπερ χείμαρρον ἐξέχεε καὶ κατανάλωσε περὶ τὴν Ἰταλίαν; [Plu.] Mor. 8.5f ὅ γε μὴν πόλεμος χειμάρρου δίκην πάντα σύρων καὶ πάντα παραφέρων μόνην οὐ δύναται παιδείαν παρελέσθαι; App. BC 1.8.64 οἷα χειμάρρους ἐς τὴν ἀγορὰν ἐμπεσὼν (sc. Ὀκτάουιος) ὤσατο μὲν διὰ μέσων τῶν συνεστώτων καὶ διέστησεν αὐτούς; 3.2.12 ἀξιολόγῳ πλήθει, αὐξομένῳ μᾶλλον ἑκάστης ἡμέρας οἷα χειμάρρῳ; Epict. Gnom. 1 ὁ τύχῃ βίος συμπεπλεγμένος ἔοικε χειμάρρῳ ποταμῷ· καὶ γὰρ ταραχώδης καὶ ἰλύος ἀνάμεστος καὶ δυσέμβατος καὶ τυραννικὸς καὶ πολύηχος καὶ ὀλιγοχρόνιος; Q. Smyrn. 2.345–54 Ὡς δ’ ὅτ’ ἀπὸ μεγάλων ὀρέων ποταμὸς βαθυδίνης / καχλάζων φορέηται ἀπειρεσίῳ ὀρυμαγδῷ, / ὁππότε συννεφὲς ἦμαρ ἐπ’ ἀνθρώποισι τανύσσῃ  / Ζεὺς κλονέων μέγα χεῖμα, περικτυπέουσι δὲ πάντῃ / βρονταὶ ὁμῶς στεροπῇσιν ἄδην νεφέων συνιόντων / θεσπεσίων, κοῖλαι δὲ περικλύζονται ἄρουραι / ὄμβρου ἐπεσσυμένοιο δυσηχέος, ἀμφὶ δὲ μακραὶ / σμερδαλέον βοόωσι κατ’ οὔρεα πάντα χαράδραι· / ὣς Μέμνων σεύεσκεν ἐπ’ ᾐόνας Ἑλλησπόντου / Ἀργείους, μετόπισθε δ’ ἐπισπόμενος κεράιζε; 2.472–5 ὁππότε δὴ κελάδοντες ἐνιπλήθονται ἔναυλοι  / ὕδατος ἐσσυμένοιο, βρέμει δ’ ἄρα πᾶσα χαράδρη / ἄσπετον, οἳ δ’ ἄρα πάντες ἐπιτρομέουσι νομῆες /

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χειμάρρους; 14.5 χειμάρροις ποταμοῖσιν ἐοικότες (sc. Ἀργεῖοι). Anche in base ai passi citati, si può pensare che la metafora ferecratea potesse avere una sfumatura ‘bellica’, ovvero che l’ impeto verbale del personaggio parlante (una donna?) potesse essere dipinto come qualcosa di minaccioso e incontrollabile. Altre attestazioni comiche di χαράδρᾳ sono in Chion. fr. 2 καὶ μὴν μὰ τὸν Δί’ οὐδὲν ἔτι γέ μοι δοκῶ / ἄγνου διαφέρειν ἐν χαράδρᾳ πεφυκότος (cfr. Bagordo 2014a, pp. 45–48, in particolare p. 45: «es geht wohl um jemanden, der sich von irgendwelchen überraschenden Ereignissen überwältigt sieht»); Telecl. fr. 1.4 οἴνῳ γὰρ ἅπασ’ ἔρρει χαράδρα (cfr. Bagordo 2013, pp. 60–62); Antiph. fr. 158 τῶν Πυθαγορικῶν δ’ ἔτυχον ἄθλιοί τινες / ἐν τῇ χαράδρᾳ τρώγοντες ἅλιμα καὶ κακὰ / τοιαῦτα συλλέγοντες 〈ἐν τῷ κωρύκῳ〉. La condanna della loquacità femminile (se qui il personaggio parlante è una donna) è topica, cfr. ad es. Semon. fr. 7.90–1 West2; Thuc. 2.45.2; Eur. Heracl. 476–7, Hipp. 394–9; Men. fr. 820; [Men.] Sent. 139; Finglass 2011, p. 226 ad Soph. Ai. 293. κατελήλυθεν In riferimento a un fiume, cfr. LSJ, s. v. κατέρχομαι I.2, che cita Hdt. 2.19 (κατέρχεται ὁ Νεῖλος πληθύων) e Thuc. 4.75 (κατελθόντος αἰφνιδίου τοῦ ῥεύματος). Simile l’ uso di κατιέναι in Il. 11.492 ὡς δ’ ὁπότε πλήθων ποταμὸς πεδίονδε κάτεισι e Ar. fr. 644 ᾤμην δ’ ἔγωγε τὸν Κυκλοβόρον κατιέναι (v.l. καθιέναι; cfr. Bagordo 2016, p. 192). fr. 57 (52 K.) συσκευασάμενος δεῖπνον ἐς τὸ σπυρίδιον ἐβάδιζεν ὡς †πρὸς ωφελην† 1 ἐς τὸ σπυρίδιον Meineke in ed. Ath. : ἓν τὸ σπ. A : εἰς τὸ σπ. Runkel, rec. Kock : ἐντὸς σπυριδίου Bothe 2 ὡς πρὸς ωφελην A, πρ. ωφ. cruc. Edmonds, Kassel–Austin (ὡς πρ. Ὠφέλην ediderunt Meineke, Kock) : ὡς πρ. τὸν Ὀφέλαν Schweighäuser (coll. Apollod. Car. fr. 29.2) : ὡς πρ. Ὠφελίων(α) vel ὡς πρ. Ὠφελίμην («meretricis nomen») Kaibel ap. Kassel–Austin (qui in ed. Ath. de verbo προσωφελεῖν cogitavit) : ὡς πρ. Ὠφελίαν Meineke : ὡς {πρ.} Ὀφέλαν vel εἰς {πρ.} Ὀφέλου Blaydes

Avendo sistemato il pranzo nel cestino s’ incamminava come/verso †pros ōphelēn† Ath. 8.365a οἴδασι δὲ οἱ ἀρχαῖοι καὶ τὰ νῦν καλούμενα ἀπὸ σπυρίδος δεῖπνα. ἐμφανίζει δὲ Φερεκράτης περὶ τούτων ἐν Ἐπιλήσμονι ἢ Θαλάττῃ οὕτως· «συσκευασάμενος – ωφελην». τοῦτο δὲ σαφῶς δηλοῖ τὸ ἀπὸ σπυρίδος δεῖπνον, ὅταν τις αὐτὸς αὑτῷ σκευάσας δεῖπνον καὶ συνθεὶς εἰς σπυρίδα παρά τινα δειπνήσων ἴῃ. Gli antichi conoscono anche quelli che ora sono chiamati pranzi apo spyridos. Lo rende chiaro Ferecrate nell’ Epilēsmon o Thalatta, così: «Avendo sistemato – ōphelēn†». Il pranzo

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apo spyridos significa chiaramente questo: quando uno, preparatosi il pranzo da sé e avendolo posto nel cesto (eis spyrida), vada a pranzare da qualcuno.

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Bibliografia Schweighäuser 1801–1805, III, p. 436; Porson 1812, p. 81; Runkel 1829, p. 24; Meineke FCG II.1, pp. 274–275; Bothe 1855, p. 92; Kock CAF I, p. 159; Blaydes 1890, p. 17; Edmonds FAC I, p. 284; Kassel–Austin VII, pp. 129–130; Urios-Aparisi 1992, pp. 203–204; Quaglia 2001, pp. 299–302 Contesto della citazione Nell’ ambito di una rassegna sui diversi tipi di convito presso gli ‘antichi’ – che, a sua volta, prende le mosse da considerazioni riguardanti sacrifici e banchetti (8.361e-8.365e) – Ateneo cita il frammento di Ferecrate come prova che già i palaioi conoscevano quello che i suoi contemporanei (o della sua fonte) chiamavano deipnon ἀπὸ σπυρίδος (vd. lemma ἐς τὸ σπυρίδιον). Testo Al v. 1 la forma ἐς proposta da Meineke in luogo del tràdito ἓν può essere dubitativamente mantenuta davanti a consonante, benché il dialetto attico abbia generalizzato εἰς, proposto da Runkel e stampato da Kock (sulla questione, vd. Sobolewski 1890, pp. 34–63, in particolare p. 39 sulla tradizione manoscritta dei testi attici; Threatte 1980, p. 178; Colvin 1999, p. 207; Willi 2003, pp. 234–235, in particolare p. 235, in cui si specifica che, tra le occorrenze di ἐς in commedia, «only the prevocalic cases are significant»). Con Edmonds e Kassel–Austin, stampo tra cruces la lezione πρὸς ωφελην del ms. A: se infatti un nome Ὠφέλην (così stampano Meineke e Kock) non risulta attestato, nessuno dei vari tentativi fatti per emendare il testo può dirsi pienamente convincente. È comunque probabile che la lezione ωφελην celi un nome di persona (vd. Interpretazione) e in questo senso il tentativo di Schweighäuser (πρὸς τὸν Ὀφέλαν) sembra a tutta prima trovare un sostegno in Apollod. Car. fr. 29 καινόν γέ φασι Χαιρεφῶντ’ ἐν τοῖς γάμοις / ὡς τὸν Ὀφέλαν ἄκλητον εἰσδεδυκέναι. / σπυρίδα λαβὼν γὰρ καὶ στέφανον, ὡς ἦν σκότος, / φάσκων παρὰ τῆς νύμφης ὁ τὰς ὄρνεις φέρων / ἥκειν, δεδείπνηχ’, ὡς ἔοικεν, εἰσπεσών; tuttavia, è probabile che l’ Ofela di cui si fa menzione nel frammento attribuito ad Apollod. Car. vada identificato con il condottiero macedone Ofella, morto nel 309 a.C., cfr. almeno A. Rimedio in Ateneo II, p. 588 n. 4. Kaibel ap. Kassel–Austin VII, p. 130 propone Ὠφελίμην, da intendersi come nome di un’ etèra; il nome è effettivamente attestato ad Atene nel IV sec. a.C. (LGPN II, s. v. Ὠφελίμη). Interpretazione Nel frammento il parlante descrive le azioni di un personaggio maschile che, sistemato del cibo in un cestino, si è incamminato verso un luogo che non possiamo determinare (vd. Testo) per partecipare a un deipnon. Che dietro le cruces possa celarsi un «meretricis nomen», come ipotizzato da Kaibel, non è improbabile, dal momento che la commedia ferecratea aveva forse al centro un simile

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personaggio femminile (vd. Introduzione) e considerando che, in commedia, non mancano testimonianze riguardanti deipna e simposi organizzati presso la casa di un’ etèra: cfr. ad es. Nicostr. Com. fr. 20 (qui, secondo Nesselrath 1990, p. 320, «erhält jemand, wohl eine Dienerin, den Auftrag bei verschiedenen Hetären des wirklichen Lebens dies und das für ein bevorstehendes Festmahl zu borgen»); Ter. Andr. 58–62 (da cui si ricava che dei giovani banchettano apo symblolōn presso un’ etèra). Se così fosse, il personaggio di cui vengono descritte le azioni potrebbe essere l’ amante di un’ etèra. 1 συσκευασάμενος Anche altrove il verbo è usato in riferimento a un deipnon che viene posto in una cesta, vd. Ar. V. 1250–1 ὅπως δ’ ἐπὶ δεῖπνον εἰς Φιλοκτήμονος ἴμεν. / παῖ παῖ· τὸ δεῖπνον, Χρῦσε, συσκεύαζε νῷν (cfr. anche Ar. Ach. 1096 ξύγκλῃε καὶ δεῖπνόν τις ἐνσκευαζέτω, su cui vd. Olson 2002, p. 338). Come ricordano Biles–Olson 2015, p. 446, «the sense of the compound is “pack up”, “bundle together”». δεῖπνον Vd. comm. ad fr. 50. ἐς τὸ σπυρίδιον Il sostantivo σπυρίδιον è diminutivo di σπυρίς, ‘cesto’, ‘paniere’; in commedia, cfr. Alex. fr. 275.3 κοκκυμήλων σπυρίδα πεπόνων; Antiph. fr. 34.1–2 (A.) ἐν ταῖς σπυρίσι δὲ τί ποτ’ ἔνεστι, φίλτατε; / (B.) ἐν ταῖς τρισὶν μὲν χόνδρος ἀγαθὸς Μεγαρικός; Diph. fr. 60.7 εἰς σπυρίδα μάζας ἐμβαλεῖς, ἀλλ’ οὐ φακῆν; com. adesp. fr. 1014.5–6 […] τὴν [σ]πυρίδα ταύτην ἐν [ἧι / ἐνταῦθα τοὺς ἄρτους ἐκόμισας ἀπόφερε. Per la forma σπυρίχνιον, vd. Poll. 7.174. Il deipnon ἀπὸ σπυρίδος (di cui il presente frammento sarebbe un esempio, secondo Ateneo, cfr. Contesto della citazione) era un banchetto al quale ciascuno dei convitati contribuiva portando delle vivande: vd. Arr. Epict. 4.10.21 καὶ σπυρίσιν δειπνίσαι; Hsch. α 6648 ἀπὸ σπυρίδος δειπνεῖν, ἢ δειπνίζειν· τὸ ἀντὶ δείπνου ἀργύριον καὶ μερίδα (Meineke : μέρ(αι?) H : μέρη Musurus) ἐν σπυρίδι λαβεῖν, ἢ δοῦναι; cfr. A. Marchiori in Ateneo II, p. 913 n. 1. Vd. anche Iuv. 3.249–50 Nonne uides quanto celebretur sportula fumo? / Centum conuiuae, sequitur sua quemque culina, col comm. di Tränkle 1978, pp. 170–172. A un simile modello di banchetto sembrano conformarsi in tutto o in parte Ar. Ach. 1085–6 ἐπὶ δεῖπνον ταχὺ / βάδιζε τὴν κίστην λαβὼν καὶ τὸν χοᾶ (cfr. Olson 2002, p. 334); V. 1250–1 (citato supra, al lemma συσκευασάμενος); Xen. Mem. 3.14.1 ὁπότε δὲ τῶν συνιόντων ἐπὶ δεῖπνον οἱ μὲν μικρὸν ὄψον, οἱ δὲ πολὺ φέροιεν, ἐκέλευεν ὁ Σωκράτης τὸν παῖδα τὸ μικρὸν ἢ εἰς τὸ κοινὸν τιθέναι ἢ διανέμειν ἑκάστῳ τὸ μέρος. οἱ οὖν τὸ πολὺ φέροντες ᾐσχύνοντο τό τε μὴ κοινωνεῖν τοῦ εἰς τὸ κοινὸν τιθεμένου καὶ τὸ μὴ ἀντιτιθέναι τὸ ἑαυτῶν· ἐτίθεσαν οὖν καὶ τὸ ἑαυτῶν εἰς τὸ κοινόν. καὶ ἐπεὶ οὐδὲν πλέον εἶχον τῶν μικρὸν φερομένων, ἐπαύοντο πολλοῦ ὀψωνοῦντες. 2 ἐβάδιζεν Il verbo è «exceedingly common in comedy […] and is also used in related genres. […] is presumably colloquial» (Olson 2002, p. 176). In un contesto simile, vd. Ar. Ach. 1085–6 ἐπὶ δεῖπνον ταχὺ / βάδιζε.

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fr. 58 (53 K.) τὸν ἱδρῶτα καὶ τὴν ἄρδαν ἀπ’ ἐμοῦ σπόγγισον τὸν ἱδρῶτα καὶ τὴν Eust.1 : τὴν μὲν Eust.2 Bothe

ἄρδαν Eust.2 : ἀρδαλίαν Eust.1

σφόγγισον

Toglimi il sudore e la sporcizia con la spugna Eust. in Il. 2.560.20–561.2 Παυσανίας δέ φησιν (α 144), ὅτι ἀρδάνια κεράμων γάστραι ἀπὸ τοῦ ἄρδειν τὰ βοσκήματα. προετίθεντο δέ, φησί, τῶν θυρῶν. εἰ δὲ καὶ ὁ ἄρδαλος καὶ τὸ ἀρδαλῶσαι καὶ ἡ ἀρδαλία ἐκ τοῦ τοιούτου γίνεται ῥήματος, οὐκ ἔστι σταθερῶς ἐπικρῖναι. τέως δὲ κατὰ Παυσανίαν Φερεκράτης ποιεῖ τινα ἐκμασσόμενον ἀπὸ πυρετοῦ, λέγοντα «τὸν ἱδρῶτα καὶ τὴν ἀρδαλίαν ἀπ’ ἐμοῦ σπόγγισον». Pausania afferma (α 144) che gli ardania (sono) le pance dei vasi, da ardein, ‘abbeverare’, il bestiame. Erano posti, dice, davanti alle porte. Se anche ardalos, ardalōsai e ardalia vengono da tale parola, non è possibile stabilirlo con certezza. Ad ogni modo, secondo Pausania Ferecrate rappresenta un tale che, frizionato a causa della febbre, dice «toglimi il sudore e l’ ardalia con la spugna». Eust. in Od. 2.73.39, 2.73.46–74.1 Ἀριστοφάνης ὁ γραμματικὸς (fr. 18 Slater) καὶ ἄλλας ἐκτίθεται καινοφώνους λέξεις […]. συνάπτει δὲ τούτοις ξενικὸν καὶ τὸ (ἄρδα καὶ add. Slater) ἀρδαλῶσαι ἤγουν μολύναι, προφέρων καὶ τὸ «τὴν μὲν ἄρδαν ἀπ’ ἐμοῦ σπόγγισον»· καὶ τὸ «Αἰγύπτιος θοιμάτιον ἠρδάλωσέ μου» (Philem. fr. 62). Il grammatico Aristofane (fr. 18 Slater) cita anche altre parole inusitate […]. A ciò aggiunge come inconsueto anche ardalōsai, ovvero ‘sporcare’, citando anche (il verso) «toglimi la sporcizia con la spugna» e (il verso) «Un Egiziano mi sporcò il mantello» (Philem. fr. 62).

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Bibliografia Meineke FCG II.1, p. 276; Bothe 1855, p. 93; Kock CAF I, pp. 159–160; Conti Bizzarro 1988–1989, pp. 270–271; Kassel–Austin VII, p. 130; Urios-Aparisi 1992, p. 205; Quaglia 2001, pp. 302–305; Auhagen 2009, pp. 53–54 Contesto della citazione Il frammento ferecrateo è citato per due volte da Eustazio nell’ ambito di excursus ‘etimologici’ e ‘glossografici’, a partire da due fonti diverse: nel commento all’ Iliade, infatti, la fonte di Eustazio è una discussione di Pausania (α 144) su termini sicuramente (ardania) o possibilmente (ardalos, ardalōsai e ardalia) derivati dal verbo ardein. Nel commento all’ Odissea, il vescovo di Tessalonica fa invece riferimento a una lista di parole inconsuete tratte

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dall’ opera Περὶ τῶν ὑποπτευομένων μὴ εἰρῆσθαι τοῖς παλαιοῖς di Aristofane di Bisanzio (fr. 18 Slater)91. Testo Eustazio cita due volte il frammento ferecrateo in maniera scorretta o incompleta, tanto che il verso corretto si ricostruisce solo combinando entrambe le citazioni. σπόγγισον è stato corretto da Bothe in σφόγγισον, forma che rispecchierebbe la pronuncia attica: vd. IG II2 1283.18 (Attica, 263/2 a.C.) σφ〈ό〉γγους; Threatte 1980, p. 469. Tuttavia, nei comici attici è la forma σπ- a essere attestata dai mss., vd. Ar. Th. 247 (dove, in luogo σπ- di R, Austin–Olson 2004, p. 135 accettano σφ- di Elmsley); Ra. 482; fr. 59; Cratet. fr. 17.7; Theopomp. Com. fr. 40.1. Secondo Hiersche 1964, p. 208, «das bedeutet also, daß die aspirierten Formen von σπόγγος und seiner Sippe von Aristophanes selbst nicht verwendet worden sind […]. Die Form mit σφ- konnte sich offenbar erst im sogenannten Großattischen und in der Koine durchsetzen. In Athen selbst scheint sie um 400 v. Chr. noch nicht in die Schriftsprache eingegangen zu sein». Non è dunque prudente accogliere a testo σφόγγισον di Bothe92 (cfr. anche Quaglia 2001, p. 304: egli nota che «non è possibile stabilire se si trattasse di un personaggio originario dell’ Attica o meno» e dunque non è opportuno correggere il testo). Interpretazione Un personaggio febbricitante (probabilmente un uomo, vd. Eust. in Il. 2.561.1 ἐκμασσόμενον ἀπὸ πυρετοῦ, λέγοντα) ordina a un altro di togliergli il sudore e la sporcizia dal corpo con una spugna. Il frammento è stato assegnato da Meineke all’ Epilēsmōn ē Thalatta sulla base di Erot. α 139 ἄρδαλον· ῥύπον ἢ μολυσμόν. καὶ γὰρ τὸ μολῦναι ἢ ῥυπᾶναι ἀρδαλῶσαι λέγεται καὶ ἄρδαλος ἄνθρωπος ὁ μὴ καθαρῶς ζῶν. μέμνηται τῆς λέξεως καὶ Φερεκράτης (Canter in Par. suppl. gr. 1013, f. 19v : Φερεκύδης codd.) ἐν Θαλάττῃ καὶ Φιλήμων ἐν Πανηγύρει. In verità, la lexis discussa da Eroziano è ἄρδαλος, non ἄρδα (e nemmeno ἠρδάλωσε di Filemone), «ma appare abbastanza evidente che il riferimento è al medesimo luogo menzionato anche da Eustazio: la contemporanea presenza delle stesse citazioni di Ferecrate prima e di Filemone poi sia in Eroziano che in Eustazio mostra che i due ricorsero con ogni probabilità ad una fonte comune» (Quaglia 2001, p. 303); tale fonte comune sarà Aristofane di Bisanzio, vd. Contesto della citazione e cfr. Slater 1986, p. XV. Secondo Urios-Aparisi (che ricorda come in nessuna scena aristofanea compaiano personaggi febbricitanti; paragonabile sarebbe forse solo Lamaco che, in Ar. Ach. 1191ss., entra in scena ferito) si può immaginare un personaggio sdraiato 91 92

Per le citazioni da Aristofane di Bisanzio in Eustazio, cfr. Slater 1986, pp. XIV-XV. Più in generale, sul metodo di Eustazio, vd. ultimamente Cullhed 2016, pp. 2–9, 11–33. Diverso è il caso di Pherecr. fr. 28.4, in cui Kassel–Austin accettano la correzione σφόνδυλον di Meineke FCG V.1, p. 26 in luogo del tràdito σπ-, vd. Hiersche 1964, p. 204 («wir können wohl mit einer gewissen Sicherheit die Form σφ- dem Attischen zuschreiben»); cfr. Threatte 1980, p. 469.

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a letto (forse con l’ aiuto dell’ ekkyklēma) come all’ inizio delle Nuvole. In effetti, un’ ambientazione del genere non è improbabile; piuttosto che fare riferimento alle Nuvole, tuttavia, potremmo pensare a una scena di sapore para-tragico, vd. infra e cfr. Ar. Ach. 407 (Euripide entra in scena su una lettiga, forse per mezzo dell’ ekkyklēma), Th. 96 (simile entrata in scena di Agatone; vd. Austin–Olson 2004, p. 84, con bibliografia). L’ identità del personaggio che pronuncia la battuta è ignota. Si può almeno avanzare l’ ipotesi che a parlare sia l’ epilēsmōn che dà il titolo alla commedia: febbre e smemoratezza, infatti, sono tra i sintomi di alcune malattie, vd. ad es. Hp. Coac. 157 (5.618.4–7 Littré); Ep. 3.3.6 (3.82.2 Littré), 3.3.17 (3.138.11 Littré). L’ ordine poteva essere rivolto a un’ etèra, secondo Conti Bizzarro93. Che le parole siano invece indirizzate a un medico94 è poco probabile non solo perché spesso in commedia il medico «ha caratteri di vanagloria e presunzione tali da rendere improbabile una simile confidenza» (Quaglia 2001, p. 305: egli ricorda tuttavia che il medico pubblico godeva di scarsa considerazione, cfr. ad es. Pherecyd. Com. fr. 4.11–2) ma anche perché, a mio avviso, le azioni da svolgere non sono sufficientemente qualificate per farci pensare che a compierle dovesse essere necessariamente uno ‘specialista’; in Hp. Acut. 18 (2.366.8–10 Littré), una prescrizione medica affine a quella del nostro frammento (κεφαλὴν μέντοι ἀνεξηράνθαι χρὴ ὡς οἷόν τε μάλιστα ὑπὸ σπόγγου ἐκμασσομένην) può essere messa in pratica da θεραπεύοντες, come specificato poco prima. Chiunque sia il personaggio incaricato degli ordini, non è impossibile che Ferecrate mirasse alla detorsio di scene tragiche in cui una persona cara accudisce un infermo, come avviene in Eur. Or. 217–36, in cui Elettra si prende cura di Oreste, fraternamente eseguendo i comandi dell’ eroe malato. Una particolare consonanza tra il nostro frammento e la scena dell’ Oreste, peraltro, è ai vv. 225–6 (ὦ βοστρύχων πινῶδες ἀθλίων (Diggle : ἄθλιον codd. et Σmbvc) κάρα, / ὡς ἠγρίωσαι διὰ μακρᾶς ἀλουσίας), in cui la ἀλουσία, come in Ferecrate, è segno distintivo della condizione del malato. ἄρδαν Il sostantivo significa ‘sporcizia’, ‘lordura’: cfr., oltre al già citato Erot. α 139, Gal. Gloss. α 149 ἄρδα〈λο〉ς· ῥύπος τις καὶ ἀκαθαρσία· καὶ ἀρδαλῶσαι τὸ ῥυπᾶναι; Hsch. α 7085 ἄρδα· μολυσμός; Phot. α 2796 ἄρδα καὶ ἄρδαλος· τὸ μόλυσμα. καὶ ἀρδαλῶσαι τὸ μολῦναι ἀσχημόνως. Non si tratterà di una parola ‘straniera’ (così Conti Bizzarro 1988–1989, p. 271 e Quaglia 2001, p. 303): in Eust. 93

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Lo studioso ritiene inoltre che il nostro frammento si possa collegare con Pherecr. fr. 169 (σκέψαι δέ μου / τὸ μέτωπον, εἰ θέρμην ἔχουσα τυγχάνω), dove a parlare è una donna: come già accennato, tuttavia, Eustazio, la nostra fonte, usa dei participi maschili per riferirsi al personaggio parlante. Secondo Quaglia 2001, p. 304 «non è impossibile […] che tra le figure coinvolte ci fosse quella di un medico» (lo studioso porta a confronto anche Pherecr. fr. 85, dove si leggerebbe «l’ intervento […] di un esperto di medicina se non di un medico professionista»; ciò, tuttavia, è poco probabile, vd. il comm. ad loc. di Franchini 2020, pp. 18–23.

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in Od. 2.73.46 (= Ar. Byz. fr. 18, vd. Contesto della citazione) l’ aggettivo ξενικόν deve intendersi come riferito a una lexis inusitata (vd. ad es. Aristot. Po. 1458a22 ξενικὸν δὲ λέγω γλῶτταν καὶ μεταφορὰν καὶ ἐπέκτασιν καὶ πᾶν τὸ παρὰ τὸ κύριον) ovvero a un uso linguistico «non-standard nell’ attico classico» (Favi 2017, p. 232 ad Rhinton. fr. 25). L’ etimologia di ἄρδα rimane tuttavia oscura, vd. Frisk GEW, s. v. ἄρδα: «die semantisch mögliche Anknüpfung an ἄρδω “benetzen” […] wird durch die Kürze des anlautenden ἀ- in ἄρδα erschwert»; cfr. anche Hsch. α 4795 ἀνεδάρδανε· ἀνεμόλυνε. δαρδάνει γὰρ μολύνει, δ 259 δάρδα· μόλυσμα (Latte : μέλισσα H) e δ 261 δαρδαίνει· μολύνει, vd. Frisk GEW, s. v. δαρδαίνει; Beekes 2010, s. v. ἄρδα («it is simply loss of δ- through dissimilation, or does the interchange δ/ zero point to a substrate word?»). σπόγγισον Per l’ uso della spugna, vd. Perrone 2019, pp. 114–115 (ad Cratet. fr. 17.7): «rispetto allo strigile, la spugna era più adatta a corpi delicati, ai malati e agli anziani» (cfr. Hp. Acut. 18 [2.366.8–10 Littré]); Pellegrino 2015, p. 66 ad Ar. fr. 59. fr. 59 K.–A. ἐνεχυριμαῖός ἐστί τις παρά σοι χιτών C’ è un qualche chitone in pegno/pignorato a casa tua Phot. ε 910 ἐνεχυρασίαν· Ὑπερείδης ἐν τῷ κατὰ Αὐτοκλέους (fr. nov.). «ἐνεχυριμαῖός  – χιτών»· Φερεκράτης Ἐπιλήσμονι. Enechyrasian: Iperide nel Contro Autocle (fr. nov.). «C’ è – tua»: Ferecrate nell’ Epilēsmōn.

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Bibliografia Kassel–Austin VII, p. 130; Urios-Aparisi 1992, p. 206; Quaglia 2001, pp. 305–306; Auhagen 2009, pp. 53–54 Contesto della citazione Il frammento è conservato nel ‘nuovo’ Fozio ed è citato per via dell’ aggettivo ἐνεχυριμαῖος, riferibile al lemma iperideo ἐνεχυρασίαν. Secondo Tsantsanoglou 1984, pp. 31–32, è possibile che la fonte di Fozio sia l’ Antiatticista, dal momento che Iperide «is one of the Antiatticista’ s favourite orators» (per i motivi illustrati da Ermogene Id. 2.11 p. 397, ll. 3–4 Rabe ἴδιον δὲ Ὑπερείδου τὸ καὶ ταῖς λέξεσιν ἀφειδέστερόν πως καὶ ἀμελέστερον χρῆσθαι). A integrazione del ragionamento di Tsantsanoglou si può aggiungere che Frinico, il cui rapporto con l’ Antiatticista è certo anche se non sempre ben determinabile (cfr. Valente 2015, pp. 52–55), censura l’ aggettivo ἐνεχυριμαῖος (Phryn. Ecl. 342, vd. lemma ἐνεχυριμαῖος).

Ἐπιλήσμων ἢ Θάλαττα (fr. 59)

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Interpretazione Il parlante fa riferimento a un chitone impegnato (dal parlante stesso o da altri?) presso un personaggio presente sulla scena, a cui è rivolta la battuta. Non è escluso che la frase sia interrogativa, come suggeriscono Kassel–Austin. In alternativa, con Quaglia, «si può supporre che l’ uso di τις fosse ironico e che la persona loquens sapesse benissimo a quale abito si riferiva». Il chitone potrebbe essere un pegno a garanzia di un prestito di modestissima consistenza oppure l’ ultimo (e meno prezioso) dei beni pignorati a un debitore insolvente o, più difficilmente, un bene dato in luogo degli interessi maturati su un debito (vd. lemma ἐνεχυριμαῖος). Il debitore in questione doveva comunque essere giunto a una condizione di estrema povertà (come suggerisce Urios-Aparisi, che cita Ar. Nu. 179 con il comm. di Dover 1968, pp. 118–119)95, anche se non possiamo indovinarne le cause; al più, si può pensare che egli potesse aver contratto debiti per motivi diversi da quelli che solitamente portavano gli Ateniesi a chiedere prestiti – «ransoms, funerals, dowries, fines and the like», per dirla con Millett 1991, p. 59. L’ indebitamento dell’ ignoto personaggio, detto altrimenti, potrebbe essere stato causato da circostanze vergognose o risibili, magari dalla pretesa di fingere o mantenere un tenore di vita inadatto a uno status sociale non elevato e/o da una passione maniacale (si pensi allo Strepsiade delle Nuvole aristofanee, che si indebita per le velleità ‘ippiche’ del figlio). Dato il titolo della commedia (vd. Introduzione), poi, si può almeno avanzare l’ ipotesi che la rovina economica del personaggio fosse dovuta alla volontà di mantenere un’ amante (cfr. già Auhagen 2009, pp. 53–54). ἐνεχυριμαῖος Secondo Phryn. Ecl. 342 ἐνεχυριμαῖα οὐδεὶς τῶν δοκίμων εἶπεν – εἰ δὲ τῶν ἠμελημένων τις, “οὐ φροντὶς Ἱπποκλείδῃ” –, ἐνέχυρα δέ, anche se altrove il grammatico, come ricorda Tsantsanoglou 1984, p. 32, non censura affatto gli aggettivi con terminazione -ιμαῖος (vd. PS 6.6, 109.9 e cfr. anche 92.6). Lungi dall’ essere un «volgarismo» (vd. già Quaglia 2001, p. 306), -ιμαῖος caratterizza un piccolo gruppo di aggettivi per lo più afferenti alla sfera giuridica – e comunque di uso tecnico, cfr. Chantraine 1933, p. 49 (§ 41). Per quanto riguarda la forma attestata in Ferecrate, essa ricorre anche nel proverbio βοῦς ἐνεχυριμαῖος τὰ πολλὰ ἔξω βλέπει, vd. Cohn 1887, p. 75 (nr. 30) e Bühler 1987, p. 163 (nr. 6) e pp. 367–368 (addendum ad p. 163). L’ aggettivo indica ciò che è dato in pegno ovvero il bene pignorato. Per quanto riguarda la commedia, cfr. Ar. Pl. 450–1 ποῖον γὰρ οὐ θώρακα, ποίαν δ’ ἀσπίδα / οὐκ ἐνέχυρον τίθησιν ἡ μιαρωτάτη (sc. Πενία); Antiph. fr. 75.11–2 (Λα.) οἶσθ’ οὖν ὅπως δεῖ τοῦτό σ’ ἐκπιεῖν; (Α.) ἐγώ; / κομιδῇ γε. (Λα.) πῶς; (Α.) ἐνέχυρον ἀποφέροντά 〈σου〉; Alex. fr. 7 ἐγὼ δέδωκα γάρ τι ταύταις; εἰπέ μοι. / (B.) οὐκ ἀλλ’ ἀπέδωκας, ἐνέχυρον δήπου λαβών (con Arnott 1996, p. 72); Hermipp. fr. 29 τόν τε κότυλον πρῶτον ἤνεγκ’ ἐνέχυρον τῶν γειτόνων (con Comentale 2017, p. 126);

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Lo studioso fa riferimento anche a Pherecr. fr. 123, non necessariamente pertinente, vd. Franchini 2020, pp. 154–155.

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Men. Epit. 502 ἐνέχυρον λαβών (con Furley 2009, p. 185). Vd. anche Dover 1968, pp. 97–98 ad Ar. Nu. 34–5, dove probabilmente χἄτεροι τόκου / ἐνεχυράσεσθαί φασιν significa che i creditori intendono riscuotere gli interessi sottoforma di pignoramenti; Ussher 1973, p. 153 ad Ar. Ec. 567 dove μὴ ‘νεχυραζόμενον φέρειν può indicare il divieto di pignorare i beni dei debitori o quello di «“harrying” (φέρειν) the debtor». Confrontabile col nostro frammento è forse com. adesp. fr. 1089.2–4, dove ad essere ἐνέχυρα sono probabilmente ἱμάτια e χρυσία.

fr. 60 (54 K.) ὅστις παρέθηκε †κράνην κράνην VΓ, cruc. Koster : κρανί’ ἢ τραχήλια Meineke ed. min., rec. edd. : κρανία Marzullo ap. Conti Bizzarro : κρανί’ ἀκανθώδη dub. Olson

Chi/chiunque servì/serve †un cranio Schol. VΓ Ar. V. 968d (καὶ τραχήλι’ ἐσθίει) τὰ κεφάλαια τῶν ἰχθύων, ὡς ἀκανθώδη. καὶ Φερεκράτης ἐν ’ Επιλήσμονι· «ὅστις (Meineke : επιπολῆ (sic) μονόστις V : ἐπιστολῆ μονιός τις Γ : ἐπιστολῇ μόνιός τις Ald) – κρανία». (E mangia trachēlia) le teste dei pesci, in quanto spinose. Anche Ferecrate nell’ Epilēsmōn: «chi/chiunque – cranio».

Metro Incerto

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Bibliografia Runkel 1829, p. 24; Meineke FCG II.1, p. 275; Meineke ed. min. I, p. 97; Kock CAF I, p. 160; Kassel–Austin VII, p. 131; Urios-Aparisi 1992, p. 207; Conti-Bizzarro 1990–1993, pp. 85–86; Quaglia 2001, pp. 306–308; Olson 2014b Contesto della citazione Lo scolio ad Ar. V. 968 (in cui vengono descritti i magri pasti del cane Labete) fa riferimento a uno dei possibili significati di τραχήλια (oppure di ἀκάνθας del v. successivo? vd. infra) parafrasato con τὰ κεφάλαια τῶν ἰχθύων; la seguente citazione ferecratea serve a corroborare tale interpretazione, anche se il testo del frammento, così come pervenutoci, non ci permette ulteriori affermazioni. Testo Il sostantivo κράνην è forse corrotto, come già notava Runkel. Meineke propose dapprima di sostituire κράνην con τραχήλια (dando al verso un ritmo anapestico), soluzione che, secondo Conti Bizzarro 1990–1993, p. 86, «ha il vantaggio di salvare i τραχήλια, chiosati nello scolio» (ma vd. infra). Nell’ editio minor,

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Meineke congetturò invece κρανί’ ἢ 〈τραχήλια〉 restituendo così un trimetro giambico e rinunciando all’ idea, implicita nella proposta precedente, della sinonimia di κράνην e τραχήλια. Quest’ ultima soluzione è stata accolta dagli edd. successivi. Da ultimo, tuttavia, Olson 2014b ha proposto di leggere dubitativamente κρανί’ ἀκανθώδη, supponendo che ὡς ἀκανθώδη dello scolio non si riferisca ai τραχήλια di Ar. V. 968, ma (p. 402) «is more easily understood as in origin a separate gloss […] on τὰς ἀκάνθας» del v. successivo, che lo scolio intenderebbe dunque erroneamente come «“fish-heads”» (con il termine ἀκάνθας Aristofane potrebbe intendere in verità «“the vertebrae”, sc. of butchered animals», come suggerisce Olson 2014b, p. 403 o «“the backbones” of any animals or fish», secondo Biles–Olson 2015, p. 368). Secondo questa spiegazione, insomma, sarebbe esistita una glossa separata del tipo τὰς ἀκάνθας· τὰ κεφάλαια τῶν ἰχθύων, ὡς ἀκανθώδη. Ma si può anche supporre che un anonimo commentatore vedesse in τραχήλια e ἀκάνθας aristofanei, rispettivamente, le ‘teste’ e le ‘lische’ di pesce, giustificando l’ equivalenza τραχήλια = κεφάλαια τῶν ἰχθύων a partire 1) dal possibile significato di ‘scarti di cibo’ che τραχήλια poteva assumere secondo alcuni commentatori (vd. schol. Ar. V. 968b τὰ ἀποβαλλόμενα τῶν ὄψων); 2) dal ‘punto fermo’ del vocabolo ἄκανθα, che in effetti anche altrove significa ‘lisca’ (vd. DGE, s. v. ἄκανθα II.1; Arnott 1996, p. 169 ad Alex. fr. 49.2–4 ricorda che ἄκανθα può essere usato anche per significare altre parti acuminate dei pesci, come le carene e i raggi spinosi delle pinne, cfr. anche Alex. fr. 138.2–3 con Arnott 1996, p. 400) e, dunque, a differenza di τραχήλια, non necessitava di particolari spiegazioni. Per quanto riguarda l’aggiunta ὡς ἀκανθώδη, essa può essere dovuta alla necessità di giustificare ulteriormente l’ equivalenza τραχήλια = κεφάλαια τῶν ἰχθύων, forse a partire da una paretimologia da τραχύς (vd. ad es. Plu. Mor. 32e τραχυτάταις ἀκάνθαις; Mor. 138d τραχυτάτης ἀκάνθης; cfr. Hsch. τ 1293 τράχηλος· αὐχὴν τραχύς. σκληρός (Schmidt, ut ordinem servet : τραχύς· σκληρός separatim ed. Cunningham s. v. τ 1293); EM 563.5 καὶ τράχηλος, παρὰ τὸ τραχύ; 764.42–5 τράχηλος: παρὰ τὴν τραχύτητα· ὀστῶδες γὰρ τὸ μέρος τοῦτο· […] ἢ παρὰ τὸ τραχὺς καὶ τὸ ἧλος, ὁ τραχεῖς ἥλους ἔχων). Tutto ciò implica che la citazione ferecratea non deve necessariamente aver contenuto un’ occorrenza di τραχήλια o di ἄκανθα (vel simm.): potrebbe semplicemente darsi che nel passo di Ferecrate fosse servita una testa di pesce come vivanda; ciò avrà costituito, agli occhi dell’ ignoto commentatore, un buon parallelo per giustificare a posteriori l’ equivalenza τραχήλια = κεφάλαια τῶν ἰχθύων in Aristofane96. Ad ogni modo, a necessitare di un interpretamentum era proprio τραχήλια del v. 968, come mostrano gli altri scholl. ad loc. che, significativamente, citano anche materiale trovato ἐν τοῖς ὑπομνήμασι97. 96

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Per queste ragioni, non mi sembra affatto un «controsenso» (Quaglia 2001, p. 307 n. 62) la proposta di Marzullo ap. Conti Bizzarro 1990–1993, p. 86 di leggere ὅστις παρέθηκε κρανία. schol. Ar. V. 968a (vet Tr) καὶ τραχήλι’ ἐσθίει: τὰ ἄκρα καὶ τὰ εὐτελῆ κρέα. ΓLhAld; 968b (vet Tr) ἐν τοῖς ὑπομνήμασι γέγραπται περὶ τῶν ΓAld τραχηλίων οὕτως· “τὰ

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Interpretazione Il dettato del frammento lascia aperte due possibilità: 1) l’ ignoto parlante si riferisce a qualcuno che ha effettivamente servito una vivanda; 2) oppure formula una massima espressa con l’ aoristo gnomico (per ὅστις, ἥτις, ὅ τι in simili frasi, cfr. LSJ, s. v. ὅστις, ἥτις, ὅ τι I). In ogni caso, non è chiaro se vi fosse un riferimento a un cibo di scarto (come a tutta prima il contesto della citazione farebbe pensare) o, al contrario, a una pietanza prelibata, come la testa di un pesce (vd. lemma †κράνην). παρέθηκε Il verbo significa, in contesti simposiali e culinari, ‘servire’ cibo o bevande, vd. Pherecr. frr. 32 τοὐψάριον τουτὶ παρέθηκέ τις ἡμῖν e 125 μηδέποτ’ ἰχθύν, ὦ Δευκαλίων, μηδ’ ἢν αἰτῶ παραθῇς μοι (con Franchini 2020, p. 161) e cfr. ad es. Il. 23.810 καί σφιν δαῖτ᾽ ἀγαθὴν παραθήσομεν ἐν κλισίῃσιν; Ar. Eq. 57 αὐτὸς παρέθηκε τὴν ὑπ’ ἐμοῦ μεμαγμένην (sc. μᾶζαν), Xen. An. 4.5.31 οὐκ ἦν δ᾽ ὅπου οὐ παρετίθεσαν ἐπὶ τὴν αὐτὴν τράπεζαν κρέα ἄρνεια. †κράνην Dietro questo raro sostantivo98 si nasconde verosimilmente il riferimento a parti edibili di un pesce, dato il contesto della citazione (vd. supra). In particolare, è possibile che Ferecrate parlasse di κρανία/κεφάλαια vel simm.: le teste di pesce sono spesso menzionate in commedia come vivanda prelibata, vd. Ar. fr. 380.1; Call. Com. fr. 6.1; Sannyr. fr. 3; Eub. fr. 109.4; Antiph. frr. 45.2, 77.2, 130.4; Amphid. fr. 35.2; Anaxandr. fr. 31.1–2; Anaxil. fr. 20.1; Eriph. fr. 3.2–3; Sotad. Com. fr. 1.5; Alex. fr. 159.4–5; Arched. fr. 3.299; cfr. anche Archestr. frr. 19.1, 21.1, 23.3–5, 27.3, 34.1–2 Olson–Sens (col comm. di Olson–Sens 2000, pp. 89 e 94); Matro fr. 1.31, 53–5 Olson–Sens; Lucil. 50 Marx; Enn. fr. var. 43 Vahlen (= 28.10 Courtney).

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ἀποβαλλόμενα τῶν ὄψων, ὡς μικρὰ κλέπτοντος αὐτοῦ”· πεπλάνηται δέ. VΓAld (col. 1) ἔστι γὰρ τραχήλιον ὀστράκιόν τι βραχὺ τελέως, παραπλήσιον τοῖς κυρηβίοις· λέγονται δὲ καὶ ἀρσενικῶς οἱ Ald τράχηλοι. ἔστι δὲ εὐτελὲς προσόψημα V [προσέψημα ΓAld] ἐν λοπαδίσκοις V [λοπαδίοις ΓAld] σκευαζόμενον. VΓAld (col. 2) τὸ τραχήλιον εὐτελές τι ἐστι προσέψημα ἐν λοπαδίοις κατασκευαζόμενον, παραπλήσιον τοῖς κυρηβίοις· λέγονται δὲ καὶ ἀρσενικῶς οἱ τράχηλοι. Lh; 968c (Ald) τουτέστι πιτύροις, τοῖς ἀπὸ τῶν κριθῶν ἀποβρέγμασι, τοῖς ἀχύροις. Sul sintagma ἐν τοῖς ὑπομνήμασι vd. Schmidt 1854, pp. 283–286; Strecker 1884, p. 75 credeva che in schol. Ar. V. 968b fosse contenuta un’ interpretazione risalente a Eufronio (fr. 138 Strecker). Attestato per la prima volta nel VI sec. d.C. nello Pseudo-Cesario, Ἐρωταποκρίσεις 30.29 Riedinger, se si esclude Hsch. κ 3944 [κράνα· κεφαλή] (non l. in H, v.l. gl. 754); vd. anche LBG, s. v. κράνα per le attestazioni bizantine. In Amphid. fr. 16.1 i ῥαχιστὰ κρανίων μέρη appartengono probabilmente ad animali di terra, non a pesci, vd. Papachrysostomou 2016, p. 117. Baton. fr. 5.16–8 presenta un’ ambiguità illustrata da Kassel–Austin IV, p. 34.

Ἐπιλήσμων ἢ Θάλαττα (fr. 61)

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fr. 61 (55 K.) †ὠλεν ὀβελίαν σποδεῖν, ἄρτου δὲ μὴ προτιμᾶν ὠλεν A : ὤφειλεν vel -έ ς’ Meineke ed. min. : εἴωθεν vel ἔοικεν Kock : ὅλην (sic; lege ὅλον)

μὲν Palmer : ὅλον τὸν Ceccarelli : ἔδει μὲν Headlam : 〈a〉 ὧδέ μ’ Desrousseaux : ὠλέν’ (ὀβελιῶν pro ὀβελίαν scripto) Bothe : ὁ δεῖν’ (inserto δεῖ post ὀβ.) Lobeck σποδεῖν Dobree ap. Porson–Dobree : σποδιν A

†ōlen ciancicare il pane allo spiedo (obelias) e non curarsi del pane (artos). Ath. 3.111b ὁ δὲ ὀβελίας ἄρτος κέκληται ἤτοι ὅτι ὀβολοῦ πιπράσκεται, ὡς ἐν τῇ Ἀλεξανδρείᾳ, ἢ ὅτι ἐν ὀβελίσκοις ὠπτᾶτο. Ἀριστοφάνης Γεωργοῖς (fr. 105)· «εἶτ’ ἄρτον ὀπτῶν τυγχάνει τις ὀβελίαν». Φερεκράτης Ἐπιλήσμονι· «ὠλεν – προτιμᾶν». ἐκαλοῦντο δὲ καὶ ὀβελιαφόροι οἱ ἐν ταῖς πομπαῖς παραφέροντες αὐτοὺς ἐπὶ τῶν ὤμων. Σωκράτης ἐν ϛ’ Ἐπικλήσεων (FHG IV, p. 499, fr. 15) τὸν ὀβελίαν φησὶν ἄρτον Διόνυσον εὑρεῖν ἐν ταῖς στρατείαις. Il pane obelias ha questo nome o perché si vende a un obolo, come ad Alessandria, o perché veniva cotto con piccoli spiedi (obeliskois). Aristofane nei Contadini (fr. 105): «e se uno si trovi a cuocere un pane obelias». Ferecrate nell’ Epilēsmōn: «†ōlen – pane». Erano anche chiamati obeliaphoroi coloro che nelle processioni li portavano sulle spalle. Socrate nel sesto libro delle Epiklēseis (FHG IV, p. 499, fr. 15) dice che Dioniso inventò il pane allo spiedo durante le campagne militari.

Metro Incerto (tetrametro giambico catalettico?)

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Bibliografia Porson–Dobree 1820, p. 78; Runkel 1829, p. 23; Fritzsche 1835a, pp. 73–74; Lobeck 1837, p. 192 n. 6; Meineke FCG II.1, p. 274; Meineke ed. min., p. 96; Bothe 1855, p. 92; Kock CAF I, p. 160; Palmer 1882, p. 335; Papabasileios 1889, pp. 192–193; Headlam 1899, p. 5; Desrousseaux 1942, p. 50; Edmonds FAC I, p. 226; Kassel–Austin VII, p. 131; Urios-Aparisi 1992, pp. 207–209; Quaglia 2001, pp. 308–310; Ceccarelli 2017–2018, pp. 138–139 Contesto della citazione Nell’ ambito di un lungo elenco di varietà di pane (3.108f-114e), Ateneo menziona quello chiamato obelias, citando come autorità Aristofane (fr. 105) e Ferecrate. Testo Come notato già dai primi editori, «l’ inizio del frammento è corrotto» (Perusino 1968, p. 108) ed è probabile che il verso sia un tetrametro giambico catalettico mancante della prima sillaba. In questo senso si sono orientati gli sforzi di diversi studiosi, che pure non sono giunti a formulare congetture del tutto soddisfacenti, anche se diverse sono state le soluzioni volte a restituire un verbo servile in luogo del corrotto ὠλεν (ὤφειλεν vel -έ ς’ Meineke ed. min.; εἴωθεν vel ἔοικεν Kock; ἔδει μὲν Headlam). Ultimamente, vd. Ceccarelli, che riprende la

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congettura di Palmer (ὅλον μὲν) modificandola in ὅλον τὸν: «ὅλος nel senso qui richiesto si costruisce, in posizione predicativa, con l’ articolo davanti al nome (cfr. ad es. Plat. Symp. 219c o Xen. An. 4. 2. 4) – inoltre l’ opposizione classica μέν ~ δέ qui ha poco senso, ove il δέ da solo ben introduce, appunto, il Witz successivo». Una simile correzione, tuttavia, è destinata a rimanere incertissima (vd. anche Interpretazione), tanto più che essa non è facilmente giustificabile dal punto di vista paleografico. σποδεῖν in luogo del tràdito σποδιν è correzione di Dobree accolta dagli editori; vd. tuttavia Kaibel ap. Kassel–Austin: «quomodo panis opponi possit pani subassato non capio. videntur ἄρτοι ὀβελίας et σποδίτης […] memorari in talem fere sensum αἰνεῖν μὲν ὀβελίαν, σποδίτου δὲ μὴ προτιμᾶν» (a pane cotto sotto la cenere aveva pensato anche Papabasileios, 1889, p. 192). Come si evince dalle parole di Kaibel appena citate, anche il tràdito ἄρτου crea problemi: si può almeno pensare che si tratti di una glossa che ha sostituito il nome di un pane che veniva contrapposto all’ obelias. Interpretazione Il dettato e il senso del frammento sono oscuri. È probabile che il personaggio parlante facesse riferimento a una opposizione tra pane obelias e un altro tipo di pane: a tale proposito, l’ obiezione di Kaibel («quomodo panis opponi possit pani subassato non capio») può essere superata se ammettiamo, come accennato supra, che ἄρτου è una glossa sostituitasi al nome di un pane che veniva, per motivi ignoti, contrapposto all’ obelias. Proprio la menzione dell’obelias potrebbe rimandare ad attività cultuali ed essere legata al mondo contadino, vd. lemma ὀβελίαν. In particolare, se fosse provata la correlazione suggerita già da Crosby 1955 tra Antesterie e obeliaphoroi, si potrebbe supporre un simile contesto festivo per il nostro frammento. Ad ogni modo, il pane obelias sembra legato al culto di Dioniso, stando alle nostre fonti, tanto che già Fritzsche 1835a, p. 70 scriveva «nobis quidem magnopere placet, istum panem cum pompa et obeliaphoris ad ruralia Dionysia conjicere». Ciò, peraltro, permetterebbe almeno di ipotizzare che il frammento appartenesse alla scena finale della commedia; né il metro – probabilmente un tetrametro giambico catalettico, cfr. tra gli altri Perusino 1968, p. 108 – né il tema della ‘grande abbuffata’ (cui forse rimanda il verbo σποδεῖν, vd. lemma) osterebbero a tale ipotesi. Un doppio senso osceno (sulla base dell’ ambiguità del verbo σποδεῖν, vd. lemma) è stato ipotizzato da Fritzsche 1835a, pp. 73–74, secondo cui il termine obelias doveva far allusione a un personaggio, Ofelia, presumibilmente citato in fr. 57 (ma vd. comm. ad loc.). Anche Ceccarelli 2017–2018, p. 138 (che corregge il tràdito ὠλεν in ὅλον τὸν, vd. Testo) individua un senso osceno nel nostro frammento: «ὅλον τὸν ὀβελίαν σποδεῖν, ἄρτου δὲ μὴ προτιμᾶν, “ingoiare l’ intero spiedino di pane…ma non curarsi del pane!”. Qui il senso del frammento si perderebbe se non ci si figurasse l’ ὀβελίας come uno spiedo (in legno) con avvolto del pane intorno, di forma evidentemente fallica, visto il patente senso sessuale del Witz, che poggia sul valore ambiguo di σποδεῖν, ‘sbattere’, ben attestato in Aristofane, ma qui con

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valore affatto diverso, quello cioè di una fellatio: valore sessuale derivato da quello egualmente figurato dello σποδεῖν […] di Pax 1306». Tuttavia, σποδεῖν nel senso di fellare non trova altre attestazioni ed è più semplice pensare, allo stato delle nostre conoscenze, che i significati figurati di ‘triturare (masticando)’ e ‘sbattere’ (in senso osceno) siano entrambi derivati indipendentemente dal significato proprio di σποδεῖν (vd. lemma). Cfr. comunque il problematico Ar. Ach. 834–5 (con Olson 2002, p. 280) ὦ χοιρίδια, πειρῆσθε κἄνις τῶ πατρὸς / παίειν ἐφ’ ἁλὶ τὰν μάδδαν, αἴ κά τις διδῷ, che, similmente al nostro frammento, potrebbe nascondere un doppio senso osceno costruito a partire da metafore culinarie (ὀβελίαν ~ μάδδαν) e da verbi ambigui (σποδεῖν ~ παίειν). ὀβελίαν Stando ad Ateneo e alle fonti lessicografiche (sulle quali vd. da ultimo Fiori 2022, pp. 243–247), il pane obelias era così chiamato perché cotto allo spiedo (obelos) oppure per via del suo prezzo (un obolos). Quest’ ultima spiegazione, accolta ad es. da Ampolo 1989, p. 207, potrebbe trovare un’ apparente giustificazione nell’ effettivo prezzo del pane e nella sua stabilità nel tempo (ancora Ath. 3.111b segnala che il prezzo del pane ad Alessandria è di un obolo). Cfr. tuttavia Collin-Bouffier 2008, p. 106 n. 71: la studiosa fa notare che, se davvero il prezzo di un obolo fosse uno standard per il pane, «il paraît peu pertinent de distinguer ce pain des autres: on préfèra alors la traduction du pain cuit à la broche (obélos)». In effetti, con Ceccarelli 2017–2018, p. 135, si può pensare che il prezzo sia «un elemento troppo generico per identificare un particolare tipo di pane; peraltro, dando un fugace sguardo all’ elenco di Ateneo, non si trova un confronto in tal senso: i pani, infatti, sono identificati per ingredienti dell’ ammasso, forma alla fine della cottura o modo di cuocerli» (vd. anche Bagordo 2022, p. 18). Inoltre, vd. Hp. Vict. 42 (6.540.9–12 Littré) αὐτῶν δὲ τῶν ἄρτων οἱ μέγιστοι τροφιμώτατοι, διότι ἥκιστα ἐκκαίονται ὑπὸ τοῦ πυρὸς τὸ ὑγρόν· καὶ οἱ ἰπνῖται ἄρτοι τροφιμώτεροι τῶν ἐσχαριτῶν καὶ ὀβελιέων, διότι ἧσσον ἐκκαίονται ὑπὸ τοῦ πυρός, passo altrimenti trascurato, da cui si evince che il pane obelias veniva abbrustolito in misura maggiore rispetto al pane ipnitēs, la cui cottura avveniva al forno. Da confrontare è anche la spiegazione di Phot. ο 8 ὀβελίας ἄρτος· περιπεπλασμένος μακρῷ ξύλῳ καὶ οὕτως ὀπτώμενος· γίνεται δὲ παραμήκης καὶ γαστρώδης. Del resto, l’ obiezione secondo cui un pane lievitato difficilmente può essere cotto su di uno spiedo (così Ehrenberg 1951, p. 223 n. 1) è superabile, se pensiamo che il pane obelias poteva essere impastato senza lievitazione, cosa che peraltro doveva avvenire di frequente (vd. Ceccarelli 2017–2018, p. 136, con bibliografia). In alternativa, si può confrontare, con Fritzsche 1835a, p. 72, Ath. 8.333f τούτοις δὲ οἱ θυσιάζοντες ἐμβάλλουσιν ἀπαρχὰς τῶν θυσιαζομένων ἐπὶ ξυλίνων ὀβελίσκων ἀναπείροντες κρέα ἑφθὰ καὶ ὀπτὰ καὶ μάζας καὶ ἄρτους: il passo offrirebbe una spiegazione diversa del termine obelias, ma pur sempre riferibile a obelos. Per quanto riguarda invece il collegamento obelias  – obolos, esso dipende probabilmente da Ar. fr. 456 (= Antiatt. ο 25) ὀβολίας ἄρτους· τοὺς ὀβολοῦ πωλουμένους. Ἀριστοφάνης Πελαργοῖς, dove ὀβολίας è forse un gioco di parole

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(oppure una corruttela), vd. Fritzsche 1835a, p. 69; Kock CAF I, p. 505; Kassel– Austin III.2, p. 243; Fiori 2022, pp. 246–247, con bibliografia. Diverse fonti sottolineano la grandezza del pane obelias (ma verosimilmente solo di quello ‘sacro’, come sospetta Ceccarelli 2017–2018, p. 137; vd. infra), vd. Poll. 6.75 ὀβελίαι δ’ ἄρτοι […] ἐκ μεδίμνου ἑνὸς ἢ δυοῖν ἢ τριῶν τὸ μέγεθος, δι’ ὀβελίσκων τινῶν εἰργμένους, ἀφ’ ὧν καὶ τοὔνομα e cfr. il già citato Phot. ο 8 ὀβελίας ἄρτος· περιπεπλασμένος μακρῷ ξύλῳ καὶ οὕτως ὀπτώμενος· γίνεται δὲ παραμήκης καὶ γαστρώδης. Tuttavia, in Polluce non è sicuro che la pericope ἐκ μεδίμνου ἑνὸς ἢ δυοῖν ἢ τριῶν τὸ μέγεθος significhi pani pesanti «qualcosa come 50, 100 o 150 Kg» (Nicosia 2011, p. 346): Fritzsche 1835a, p. 68 intende il passo come riferito al volume del pane («panem magnitudine tantum et mensura»)100, non all’ effettiva quantità di cereale necessaria alla sua fabbricazione. Che l’ obelias fosse un pane ‘sacro’ è testimoniato da Poll. 6.75 ὀβελίαι δ’ ἄρτοι οὓς εἰς Διονύσου ἔφερον οἱ καλούμενοι ὀβελιαφόροι e da Phot. ο 6 (= Paus. Gramm. ο 1) ὀβελίας ἄρτος: ὁ ἐπὶ ὀβελῶν ὀπτώμενος· λέγονται δὲ καὶ ὀβελιαφόροι, οἱ ἐν τοῖς Διονυσίοις τοὺς ὀβελίας ἄρτους αἴροντες· ἐτάσσετο δὲ ἡ λέξις ἐπὶ τῶν ἐργατῶν καὶ ἀγροίκων. Secondo Fritzsche 1835a, p. 68, il pane obelias era portato in processione «Dionysiis […], forsitan ruralibus, quae Atheniis quoque sub Lenaeorum nomine agebantur». Inoltre, cfr. Socrate di Ceo (FHG IV, p. 499 fr. 15) in Ath. 3.111b, secondo cui sarebbe stato proprio Dioniso durante le sue ‘campagne militari’ in Oriente a inventare il pane obelias. La connessione tra pane obelias e Dioniso è stata approfondita anche sulla base della pittura vascolare, vd. Crosby 1955; van Hoorn 1951, p. 42, che identifica altre immagini del pane obelias raffigurate sui choes fabbricati in occasione delle Antesterie101. la qualifica di obeliaphoroi doveva essere legata a particolari categorie sociali: vd. infatti il già citato Phot. ο 6 ὀβελίας ἄρτος: […] λέγονται δὲ καὶ ὀβελιαφόροι, οἱ ἐν τοῖς Διονυσίοις τοὺς ὀβελίας ἄρτους αἴροντες· ἐτάσσετο δὲ ἡ λέξις ἐπὶ τῶν ἐργατῶν καὶ ἀγροίκων. A tale proposito, cfr. Fritzsche 1835a, p. 70 «[…] et Photius locutionem ὀβελίας ἄρτος rusticis operisque assignat […]. Nobis quidem magnopere placet, istum panem cum pompa et obeliaphoris ad ruralia Dionysia conjicere: vix enim credibile sit, locutionem ὀβελίας ἄρτος in proverbium vertisse de pane agricolarum»102.

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Lo studioso definisce «nugae» la ‘parafrasi’ tzetziana di Polluce in Tz. H. VII 7.145.768 ὄντας ἀπὸ μεδίμνου τε ἢ δύο ἢ τριῶν δε. Vd. ultimamente Thompson 2008; per possibili rappresentazioni dell’ obelias e degli obeliaphoroi, oltre al già citato Crosby 1955, pp. 80–81, cfr. Pickard-Cambridge 1968, p. 213 (con fig. 84); Taplin 1993, pp. 9, 73, 76, 116; Wilkins 2000, pp. 335–336. Nicosia 2011, p. 343 traduce ergatai e agroikoi con «operai e contadini», così come Fritzsche aveva parlato di «rusticis operisque». Non è escluso, tuttavia, che qui ergates possa significare chi lavora i campi, «the peasant-farmers» (così Olson 1998, p. 201 ad Ar. Pax 632 κἀνθάδ’ ὡς ἐκ τῶν ἀγρῶν ξυνῆλθεν οὑργάτης λεώς); vd. anche Men. fr. *14 ἐγὼ δ’ ἄγροικος, ἐργάτης, σκυθρός, πικρός, / φειδωλός. Se così fosse, potremmo

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Alcune testimonianze suggeriscono che l’ obelias (ma forse non la sua variante ‘sacra’ dalle grandi dimensioni) fosse considerato un cibo umile e sobrio, in contrapposizione più o meno esplicita alla sfarzosa mensa dei ricchi: vd. Ph. Alex. De spec. leg. 2.20 πλούτου δὲ ταῦθ’, ὡς ἔοικεν, ἐπίδειξις οὐκ ἔστι μᾶλλον ἢ ἀλαζονείας καὶ ἀκρασίας. καίτοι τῶν ἐν ταῖς μεγάλαις ἡγεμονίαις οὐκ ὀλίγοι μέχρι νῦν εἰσιν οἳ παμπληθεῖς ἔχοντες παρασκευὰς καὶ χορηγίας ἀφθόνους, ὥσπερ ἐξ ἀενάου τινὸς πηγῆς πλούτου ῥέοντος αὐτοῖς ἀδιαστάτως, ὅμως ἐφ’ ἃ καὶ οἱ πένητες ἡμεῖς ἔστιν ὅτε τρέπονται, κεραμεᾶς κύλικας καὶ ὀβελίας ἄρτους καὶ ἐλαίας ἢ τυρὸν ἢ λάχανα προσόψημα, καὶ θέρους μὲν περίζωμα καὶ λεπτὴν ὀθόνην, χειμῶνος δὲ χλαῖναν ἀρραγῆ καὶ στιφρὰν καὶ τὰ πρὸς τὴν κοίτην ἔστιν ὅτε χαμαίστρωτα, πολλὰ χαίρειν φράσαντες κλίναις ἐλεφαντίναις ἢ χελώνης ἢ χρυσοῦ πεποιημέναις καὶ στρωμναῖς ἀνθοβαφέσι καὶ ἐσθῆσιν ἁλουργίσι καὶ πεμμάτων μελιπήκτων περιεργίαις καὶ τραπεζῶν πολυτελείαις; Longus 1.16.4 ἀρκεῖ δέ μοι ὁ τυρὸς καὶ ἄρτος ὀβελίας καὶ οἶνος λευκός, ὅσα ἀγροίκων πλουσίων κτήματα; Tz. Ep. 19.36 ὀβελίαν ἄρτον ᾑρετισάμην καὶ ὕδωρ ἐσθίειν μετ’ ἀπράγμονος βιοτῆς ἢ ταῖς Σαρδαναπάλου τρυφαῖς ἁβρῶς διαζῆν καὶ περιρρεῖσθαι τῷ πλούτῳ ὀχλοχαρεῖ καὶ θορυβώδει τῷ βίῳ103. A questi passi si può aggiungere Poll. 6.72 οἱ μὲν κριβανῖται οἱ δ’ ὀβελίαι, κόλλικες, κόλλαβοι, ναστοί, ἄμυλοι, κολλῦραι, ζυμῆται, σησαμῖται, χαρίσιοι, καχρυδίαι· οἱ δ’ ἔτι φαυλότεροι πιτυρίαι: qui il pane obelias è implicitamente considerato φαῦλος, ‘ordinario’, ‘povero’. Altre attestazioni comiche di obelias sono in Ar. fr. 105 (vd. Kassel–Austin III.2, p. 80; Ceccarelli 2017–2018, pp. 133–139; Bagordo 2022, pp. 17–18); Nicophon. fr. 6.2 (vd. Pellegrino 2013, pp. 40–41). Per quanto riguarda Agora XXI B 12.2 ὀ]βελίαι ΔΔ̣[— e B 14.4 ὀ]βηλίαι, nonostante la traduzione «loaves» tentata dall’ editore, si potrebbe trattare di varianti della forma obeleiai, riferita a oggetti di difficile identificazione attestati in IG II2 1631.409, 1672.310, 1695.14–5, cfr. LSJ Suppl., s. v. ὀβελεία. σποδεῖν Il verbo significa letteralmente «“to crush and pound”» (Olson 1998, p. 311); con il significato di ‘broyer, mâcher’, il verbo è attestato, oltre che nel presente frammento, in Ar. Pax 1306. Per metafore simili, cfr. Taillardat 1965, pp. 88–89 (§§ 138–142). σποδεῖν ha anche un senso osceno (= βινεῖν) ricorrente in commedia, vd. Ar. Th. 492; Ec. 113, 908, 942, 1016; cfr. Taillardat 1965, p. 103 (§ 193); Henderson 1991, p. 172 (§ 313).

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intendere il sintagma τῶν ἐργατῶν καὶ ἀγροίκων come una dittologia indicante appunto i lavoratori dei campi. Anche Longus 1.16.4, citato infra, suggerisce che il pane obelias (forse non solo nella sua variante ‘sacra’) dovette essere associato alla agroikia, cfr. anche Ceccarelli 2017–2018, p. 139. Cfr. Tz. H. 7.145.761–9 ἐγὼ μὲν ἄρτον ἔλεξα ἐνταῦθα ὀβελίαν / τὸν ῥυπαρὸν καὶ εὐτελῆ, τάχα καὶ πιτυρίαν. / πρὸς Κόμοδον Ἰούλιος γράφων δὲ Πολυδεύκης / πῇ μὲν τοιοῦτον καὶ αὐτὸς τοῦτον κατονομάζει, / ὁ καχρυδίας ἄρτος μοι λέγων καὶ ὀβελίας. / πάλιν φησί που ἀλλαχοῦ, ἄρτοι δὲ ὀβελίαι, / οὓς Διονύσῳ ἔφερον οἱ ὀβελιαφόροι, / ὄντας ἀπὸ μεδίμνου τε ἢ δύο ἢ τριῶν δε, / ἐμπεπαρμένους ὀβελοῖς. ὅθεν τὴν κλῆσιν ἔσχον.

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προτιμᾶν Come indicato già da Lobeck 1837, p. 192 n. 6, il verbo preceduto da una negazione non significa ‘preferire’, bensì ‘curarsi, preoccuparsi di’ (= φροντίζειν); cfr. ad es. Aesch. A. 1415; Eur. Med. 343; Hipp. 48; Ar. Ach. 27, Ra. 655, Pl. 883. In particolare, per la costruzione col genitivo, «a peculiarly Attic construction» (Fraenkel 1950, III, p. 802), vd. Aesch. A. 1672 μὴ προτιμήσῃς ματαίων τῶνδ’ ὑλαγμάτων; Eur. Alc. 761–2 τῶν ἐν Ἀδμήτου κακῶν / οὐδὲν προτιμῶν; Ar. Pl. 883 οὐδὲν προτιμῶ σου; Thuc. 8.64.5 τῆς ἀπὸ τῶν Ἀθηναίων ὑπούλου εὐνομίας (B, schol., Dion. Hal. : ὕπουλον αὐτονομίαν AFME2Bpc [αὐτονομίας Bmg] : ὕπουλον εὐνομίαν C) οὐ προτιμήσαντες; Pl. Lg. 770d-e τῶν δ’ ἄλλων ὁπόσα ἐμπόδια τούτοις μηδὲν προτιμῶν φανεῖται μηδ’ ὁστισοῦν; schol. Ar. Pl. 883a οὐδὲν προτιμῶ σου MEΘNLutAld: ἀντὶ τοῦ V “οὐ φροντίζω σου”· RVMEΘNBarbLutAld ἡ φράσις ἀττική. RVN; 883b εἴρηται τὸ “προτιμᾶν” ἐπὶ τοῦ “λόγον ἔχειν” RVMEΘNBarbLutAld καὶ “ἐπιστρέφεσθαι”. VMEΘNBarbLutAld (cfr. anche Phryn. PS 103.8; Phot. π 1399 = Su. π 2885).

fr. 62 (56 K.) τοῖς σοῖσι συνὼν κορακινιδίοις καὶ μαινιδίοις Intrattenendoti con i tuoi piccoli korakinoi

e le tue menole

Ath. 7.308f-309a ὑποκοριστικῶς δὲ ὠνόμασεν αὐτοὺς Φερεκράτης ἐν Ἐπιλήσμονι· «τοῖς – μαινιδίοις». Ferecrate nell’ Epilēsmon li nominò (sc. i korakinoi) con il diminutivo: «intrattenendoti – menole».

Metro Dimetri anapestici? Vd. Interpretazione.

llkkl kklkkl llkkl

Bibliografia Meineke FCG II.1, p. 274; Kock CAF I, p. 160; Kassel–Austin VII, p. 131; Urios-Aparisi 1992, pp. 209–210; Quaglia 2001, pp. 310–312 Contesto della citazione Il frammento, insieme ad altri, è riportato da Ateneo come testimonianza riguardante il korakinos nell’ ambito di un lungo catalogo alfabetico di pesci (7.277c-330b). Interpretazione Il parlante si rivolge direttamente a un personaggio maschile (vd. il participio συνών) di cui sembrano evincersi le più che modeste abitudini alimentari: infatti, «coracini (marini certe) et maenides inter contemptissimos pisces numerabantur» (Kock; vd. lemma κορακινιδίοις). Delle intenzioni del

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parlante nulla sappiamo: possiamo solo sospettare un intento denigratorio nei confronti dell’ interlocutore, di cui si voleva forse porre in risalto la povertà o i gusti poco raffinati (del resto, cfr. Antiph. fr. 69, in cui forse un agroikos viene deriso per le sue preferenze culinarie, tra le quali spiccano proprio le mainides, vd. Konstantakos 2004, pp. 19–29; Konstantakos 2005b, pp. 14–15). In effetti, l’ aggettivo possessivo σοῖσι riferito ai poco pregiati pesci pare suggerire un distacco del parlante nei confronti delle modeste passioni ittiche dell’ uomo apostrofato, un distacco venato forse di sottile ironia: si considerino il verbo σύνειμι nella sua (espressiva?) accezione di ‘mangiare’ (vd. infra) e i diminutivi, che hanno forse funzione ipocoristica (vd. lemma κορακινιδίοις), al fine di sottolineare l’ idilliaco rapporto dell’ ignoto personaggio con le sue amate ‘leccornie’. A tale proposito, mi sembra improbabile vedere un senso osceno nel frammento, come ipotizza UriosAparisi (seguito da Quaglia) sulla base dell’ accezione erotica di σύνειμι (vd. LSJ, s. v. σύνειμι II.2): stando ai confronti con locuzioni consimili, è pressoché certo che qui συνών si riferisca al mangiare – quasi che il pasto fosse un tête à tête con il cibo. Semmai, dunque, si potrebbe credere che il linguaggio erotico possa essere stato reimpiegato a significare metaforicamente le attrazioni della gola: tuttavia, nessuna conclusione può essere a mio avviso raggiunta in merito, dal momento che non abbiamo certezze sul valore diafasico di σύνειμι = ‘mangiare’, vd. lemma συνών. Il testo consta di una sequenza di metra anapestici, probabilmente non lirici, a giudicare dal contenuto; piuttosto, si tratterà di ‘dimetri’104 recitati o recitativi, che spesso sono usati, in commedia, nei cataloghi – e in particolar modo nei cataloghi di cibi (come potrebbe darsi per il nostro frammento, che poteva forse contenere una più nutrita lista di varietà ittiche poco pregiate)105, cfr. Nesselrath 1990, pp. 267–280; Millis 2015, pp. 136–137 ad Anaxandr. fr. 28. Nulla di preciso, tuttavia, si può dire sull’ originaria collocazione del frammento, dato che i ‘dimetri anapestici’, almeno in Aristofane, compaiono «ora in successione immediata a lunghe serie di tetrametri anapestici catalettici (soprattutto negli pnige della parabasi e degli epirremi di agoni), ora in forma indipendente» (Martinelli 1997, p. 159)106. συνών Il verbo pare suggerire l’ immagine del pasto «comme un tête à tête de l’ homme avec les aliments», non estranea alla «imagination populaire» di altre culture, vd. Taillardat 1965, pp. 87–88 (§ 137) e cfr. Eup. fr. 42.3 καὶ ξυνεγιγνόμην

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Utilizzo il termine ‘dimetri’ per fare riferimento a una Schreibkonvention, piuttosto che a una realtà metrica, vd. West 1977, pp. 89–94; Nesselrath 1990, p. 269 n. 74. Non si può escludere, peraltro, che la lista continuasse con altri diminutivi, Chantraine 1933, p. 71 (§ 54), secondo cui l’ accumulazione di termini con suffisso -ίδιον è «un procédé de style» (egli cita Anaxandr. fr. 28). Difficile valutare le occorrenze dei ‘dimetri anapestici’ nei frammenti comici. Tuttavia, per quanto riguarda la commedia di mezzo, cfr. Nesselrath 1990, p. 269: «auch die inhaltliche Analyse der anapästischen Mese-Fragmente […] führt zu dem Ergebnis, daß wenigstens einige von ihnen selbständige, für sich herausgehobene Partien des Stücks und keine bloßen Anhängsel waren».

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(Hermann : ξυνεγινόμην Heph.A Σ : ξυνεγενόμην Heph.I) ἀεὶ τοῖς ἀγαθοῖς φάγροισιν (vd. Olson 2017, p. 173); Eup. fr. 99.41–3 τὸ χαλκίον / θέρμαινέ θ’ ἡμῖν καὶ θύη πέττειν τινὰ / κέλευ’, ἵνα σπλάγχνοισι συγγενώμεθα («a seemingly colloquial way of saying “let us eat”», secondo Olson 2017, p. 347; vd. infra); Telecl. fr. 40 ξυγγενέσθαι διὰ χρόνου †λιπαρείτω μου / δρυπεπέσι μάζαις καὶ διασκανδικίσαι† (vd. Bagordo 2013, pp. 191–192). Vd. anche Ar. Eq. 806 στεμφύλῳ εἰς λόγον ἔλθῃ, con il comm. di van Leeuwen 1900, p. 147: «etiam verba προσειπεῖν (salutare) βούλομαι τὰς ἀμπέλους [Ar. Pax 557] et similia conferri possunt, neque hinc alienum est φροντίσι συγγίγνεσθαι [Ar. Eq. 1291 (lyr.)]»; a tale proposito, van Leeuwen 1900, p. 220 porta a confronto anche espressioni come Ar. Nu. 1399 ὡς ἡδὺ καινοῖς πράγμασιν καὶ δεξιοῖς ὁμιλεῖν; 1404 γνώμαις δὲ λεπταῖς καὶ λόγοις ξύνειμι καὶ μερίμναις; V. 1460 ξυνόντες γνώμαις ἑτέρων (lyr.); Ra. 959 οἰκεῖα πράγματ᾽ εἰσάγων, οἷς χρώμεθ’, οἷς ξύνεσμεν; Aesch. Pers. 176–7 πολλοῖς μὲν αἰεὶ νυκτέροις ὀνείρασιν / ξύνειμ’ (vd. Garvie 2009, p. 114); Eur. HF 599 καλῶς· παρελθὼν νῦν πρόσειπέ θ’ ἑστίαν. Il regesto stilato da van Leeuwen, che può contribuire a illuminare anche il nostro frammento, merita un approfondimento. Se in tutti i passi riportati dallo studioso gli oggetti astratti e concreti sembrano essere come personificati, si possono tuttavia scorgere anche importanti differenze. Da una parte, infatti, vi sono espressioni che riguardano oggetti concreti e sembrano di uso colloquiale: esse ricorrono in commedia e in Eur. HF 599107. A questo tipo appartiene la locuzione ferecratea in esame108. D’ altro canto, in tragedia, nelle parti liriche della commedia (Ar. Eq. 1291; V. 1460), nel discorso ‘sofistico’ di Fidippide (Nu. 1339, 1404) e nella tirata euripidea delle Rane (v. 959, in cui si noti il tricolon abundans οἰκεῖα […] οἷς χρώμεθ’, οἷς ξύνεσμεν – forse con effetto di climax ascendente), i verbi – talvolta circostanziati da avverbi di tempo – hanno il significato di ‘essere abituati’, ‘avere confidenza con’ e si usano per lo più con concetti astratti e/o oggetti immateriali, spesso per indicare l’ idea di «dwelling with something unpleasant» (Finglass 2018, p. 271); si tratta evidentemente di espressioni proprie di uno stile sostenuto (e dunque parodiche, nel caso delle attestazioni comiche)109. È però difficile capire se le espressioni riguardanti oggetti concreti (e attestate soprattutto in commedia) appartengano a un linguaggio espressivo (pur nell’ ambito di un registro colloquiale, come si è detto) oppure siano semplicemente

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Nel medesimo verso, peraltro, c’ è un uso colloquiale dell’ avverbio καλῶς, vd. Collard 2018, p. 118. Un esempio più tardo è Ael. VH 2.38 νόμος καὶ οὗτος Μασσαλιωτικός, γυναῖκας μὴ ὁμιλεῖν οἴνῳ, in cui ὁμιλεῖν οἴνῳ potrebbe echeggiare l’ uso dei modelli attici. Ai passi riportati da van Leeuwen, possiamo aggiungere Soph. El. 599–600 ἔκ τε σοῦ κακοῖς / πολλοῖς ἀεὶ ξυνοῦσα, OT 303 οἵᾳ νόσῳ σύνεστιν; Eur. fr. 1079.3 ταύτῃ τῇ νόσῳ ξυνὼν ἀνήρ. Finglass 2018, p. 271 porta a confronto anche Soph. Ph. 1022 ζῶ σὺν κακοῖς πολλοῖς τάλας, OT 337–8 ὀργὴν ἐμέμψω τὴν ἐμήν, τὴν σὴν δ᾽ ὁμοῦ / ναίουσαν οὐ κατεῖδες e il problematico 1206–7 τίς †ἐν πόνοις τίς ἄταις ἀγρίαις† / ξύνοικος ἀλλαγᾷ βίου;.

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espressioni idiomatiche ovvero ‘metafore spente’ (e dunque prive di una particolare rilevanza stilistica). Al più, si può notare che τοῖς σοῖσι […] κορακινιδίοις nel nostro frammento (con aggettivo possessivo e diminutivo forse ipocoristico, vd. infra) e τοῖς ἀγαθοῖς φάγροισιν nel citato Eup. fr. 42.3 sembrano accrescere la portata ‘affettiva’ dell’ immagine del tête à tête espressa dal verbo. κορακινιδίοις Il termine korakinos (derivante da κόραξ mediante il suffisso -īno-, produttivo nella formazione di nomi di animali e in particolare di pesci al livello del «vocabulaire familier», vd. Chantraine 1933, p. 204, § 158) era usato per designare diversi tipi di pesce (Ath. 7.312a τῶν κορακίνων· πολλὰ γὰρ καὶ τούτων γένη), vd. Thompson 1947, pp. 122–125. Si trattava di pesci di scarso pregio, vd. Ar. Lys. 560 ὅταν ἀσπίδ’ ἔχων καὶ Γοργόνα τις κᾆτ᾽ ὠνῆται κορακίνους; Amphid. fr. 22 ὅστις κορακῖνον ἐσθίει θαλάττιον / γλαύκου παρόντος, οὗτος οὐκ ἔχει φρένας (con Papachrysostomou 2016, p. 144); Archestr. fr. 20.3 τών φαυλοτάτων κορακίνων (con Olson–Sens 2000, p. 93). Vd. anche Epich. fr. 41.1; Philyll. fr. 12.3 (con Orth 2015, p. 211); Alex. fr. 18 (con Arnott 1996, pp. 103–104); Mensim. fr. 4.33 (con Mastellari 2020, p. 417)110. In Philyll. fr. 26 e Anaxandr. fr. 34.11 i korakinoi sono menzionati insieme alle mainides, come nel frammento ferecrateo. La stessa forma κορακινιδίοις, nella stessa sede metrica, compare nel problematico Anaxandr. fr. 28.1 così come testimoniatoci da Ath. 7.329e (che riporta i primi due versi del frammento), mentre in 3.105f (in cui sono testimoniati anche i due versi successivi) la lezione del cod. A è καριδαρίοις: Millis 2015, p. 135, che sceglie di mettere a testo proprio κορακινιδίοις, ammette la possibilità che il testo del primo verso in Ath. 7.329e possa essere stato influenzato dal nostro frammento, citato in 7.309a, o da Archipp. fr. 27, citato in 7.329b. Non sappiamo dunque se quella ferecratea sia l’ unica occorrenza della forma diminutiva; ad ogni modo, i diminutivi vengono usati spesso con nomi di animali e di cibi, un procedimento tipico della lingua familiare (e ricorrente in commedia) per esprimere, a seconda dei contesti, un senso propriamente diminutivo, uno peggiorativo o ancora uno vezzeggiativo, ipocoristico, vd. Chantraine 1933, pp. 65–68 (§ 51) e (specificamente sul suffisso -ίδιον) pp. 70–71 (§ 54). μαινιδίοις Per la forma diminutiva, vd. lemma κορακινιδίοις. La μαινίς è identificata con la Spicara maena L. = Maena vulgaris Cuv. (vd. Thompson 1947, pp. 153–155; cfr. comunque Ath. 7.313a Σπεύσιππος δ’ ἐν δευτέρῳ Ὁμοίων [fr. 15a Tarán] ὅμοιά φησιν εἶναι τῇ μαινίδι βόακα καὶ σμαρίδας). Si tratta di un pesce di poco valore, come appare dalle occorrenze comiche, vd. Ar. Ra. 985, fr. 258, Philyll. fr. 26 (con Orth 2015, p. 254), Eub. fr. dub. 148.6, Anaxandr. fr. 34.12, Antiph. frr. 27.5, 69 (con Konstantakos 2004, p. 23; Konstantakos 2005b, pp. 14–15), 130.8,

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Ar. fr. 550 μελανοπτερύγων κορακίνων, sebbene occorra assieme alle altre testimonianze sul korakinos raccolte in Ath. 7.308d-309b, fa probabilmente riferimento a degli uccelli, vd. da ultimo Bagordo 2020, pp. 126–127.

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191.2; cfr. anche Machon. frr. 35.5 e 18.420 Gow; Telet. Περὶ συγκρίσεως πενίας καὶ πλούτου 41.9 Hense καὶ βαδίσας ἐνίοτε πρὸς τὴν κάμινον οὗ τὰ χαλκεῖα, τῶν μαινίδων ἀπόπυριν ποιήσας, περιχέας ἂν ἐλᾴδιον καθίσας ἠρίστησε.

fr. 63 (57 K) Schol. VΓ Ar. V. 544b θαλλοφόρους γὰρ ἔφη βουλόμενος τοὺς γέροντας δηλῶσαι, ἐπειδὴ ἐν τοῖς Παναθηναίοις οἱ γέροντες θαλλοὺς ἔχοντες ἐπόμπευον […]. μνημονεύει τοῦ ἔθους Κρατῖνος μὲν ἐν Δηλιάσιν (fr. 33), Φερεκράτης δὲ ἐν Ἐπιλήσμονι ( Ἐπιλήσμοσιν V : ἐτιλήσμοσιν Γ). Disse infatti thallophoroi (portatori di ramoscelli) volendo indicare gli anziani, poiché alle Panatenee gli anziani sfilavano in processione tenendo dei ramoscelli […]. Menziona quest’ usanza Cratino nelle Dēliades (fr. 33) e Ferecrate nell’ Epilēsmōn.

Bibliografia Meineke FCG II.1, p. 276; Urios-Aparisi 1992, p. 210; Bianchi 2016, pp. 187–188; Quaglia 2001, pp. 312–313 Contesto della citazione Lo scolio ad Ar. V. 542–3 (σκωπτόμενοι δ’ ἐν ταῖς ὁδοῖς θαλλοφόροι / καλούμεθ’, ἀντωμοσιῶν κελύφη) spiega il significato e la connotazione del composto θαλλοφόροι nel passo aristofaneo (su cui vd. MacDowell 1971, p. 205: «selection would be meant as an honour; but our phrase implies that, because only the very old were selected, calling an old man “olive-bearer” was a regular sarcastic joke implying that he was no longer fit to do anything else»). Cratino e Ferecrate sono citati perché avrebbero fatto riferimento all’ usanza ateniese di scegliere alcuni anziani che partecipassero alla processione panatenaica tenendo un ramoscello – un uso che, stando proprio al nostro scolio, era variamente discusso in antichità: dalla nostra fonte veniamo infatti a sapere che secondo Dicearco (fr. 86 Wehrli) anche le donne anziane, un tempo, erano tra i thallophoroi, ma la notizia è smentita dal nostro scolio grazie al riferimento a Xen. Smp. 4.17 (su cui vd. infra) e Philoch. FGrHist 328 F 9 (che, peraltro, indica in Erittonio l’iniziatore dell’ usanza del thallophorein: vd. tuttavia il comm. ad loc. di Jones 2016). Interpretazione Come ricorda Bianchi 2016, p. 187, «non vi è indizio che i due commediografi [sc. Ferecrate e Cratino] avessero utilizzato l’aggettivo θαλλοφόρος […], né che essi deridessero i vecchi come in Ar. Vesp. 542/3–544/5, cui è relativo lo scolio, l’ unica altra attestazione in commedia di θαλλοφόρος». In effetti, la nostra fonte afferma solamente che Cratino e Ferecrate fecero riferimento all’ usanza (ἔθος) degli anziani ateniesi di sfilare in processione durante le Panatenee portando un ramoscello, nonostante Quaglia 2001, p. 313, secondo cui «l’ uso di un vocabolo specifico come θαλλοφόροι attesta con certezza che la commedia si occupava di loro [sc. degli anziani]». Tuttavia, un pur vago suggerimento per la comprensione del frammento potrebbe arrivare dalla notizia di Senofonte (Smp. 4.17–8) sui criteri di scelta dei thallophoroi: θαλλοφόρους γὰρ τῇ Ἀθηνᾷ τοὺς

Ἐπιλήσμων ἢ Θάλαττα (fr. 63)

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καλοὺς γέροντας ἐκλέγονται, ὡς συμπαρομαρτοῦντος πάσῃ ἡλικίᾳ τοῦ κάλλους, in cui il contesto (insieme con la pericope ὡς συμπαρομαρτοῦντος πάσῃ ἡλικίᾳ τοῦ κάλλους) ci assicura che qui si parla di κάλλος in senso estetico, pace Jones 2016 secondo cui «Xenophon […] identifies the old men as “kaloi”, i.e. aristocratic» (vd. a tale proposito il comm. di Huß 1999, pp. 237–238 al passo senofonteo: «in dem Beispiel, das er [sc. Kritobulos] nun heranzieht, fehlt allerdings die sexuelle Konnotation, die dem Begriff in seinem Munde sonst anhaftet; die καλοὶ γέροντες sind eher etwas wie “stattliche” alte Männer»). Ora, la commedia ferecratea, dato il titolo, doveva avere tra i protagonisti un Epilēsmōn, uno ‘smemorato’: può darsi che questi fosse un uomo anziano e che a lui fosse rivolto (non sappiamo se scherzosamente, a indicare la sua presunta avvenenza) il termine thallophoros. Del resto, cfr. Bianchi 2016, p. 188 ad Cratin. fr. 33: «possibile […] che gli anziani thallophoroi qui menzionati fossero gli stessi che competevano per bellezza nel fr. 30 K.–A. [εἴ τις δ᾽ ὑμῶν κάλλει προκριθῇ]». Sull’ usanza greca di portare ramoscelli in processione, vd. Tresp 1934, coll. 1215–1225; Bianchi 2016, p. 187, con bibliografia. Il ramoscello portato durante le Panatenee era probabilmente quello di ulivo, vd. Bianchi 2016, p. 187 e cfr. Hsch. θ 55 θαλλοφόρος· ὁ πομπεύων Ἀθήνησι, καὶ ἐλαίας κλάδον φέρων.

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Ἰπνὸς ἢ Παννυχίς (Ipnos ē Pannychis)

(“La cucina o Pannychis/La festa notturna”) Bibliografia Meineke FCG I, p. 83; Kock CAF I, p. 160; Brandes 1886, p. 33; Bender 1904, p. 44; Breitenbach 1908, pp. 161–162; Terzaghi 1912, pp. 29–32; Edmonds FAC I, p. 228; Geissler 1969, pp. XVI, 52–53; Kassel–Austin V, p. 238; Kassel–Austin VII, p. 132; Urios-Aparisi 1992, pp. 211–213; Quaglia 2001, pp. 314–321; Auhagen 2009, p. 54 Titolo Il doppio titolo è attestato in test. i e fr. 70; il solo Pannychis ricorre in fr. 72; negli altri frammenti l’ unico titolo è Ipnos (in Su. α 2814 = fr. 67, Ἱστῷ è probabilmente un errore, ma non possiamo escludere che si trattasse di un’ altra commedia ferecratea dal titolo Istos: a ciò, infatti, non osta il fatto che non abbiamo altre commedie omonime; già Terzaghi 1912, pp. 29–30 nota come ciò valga anche per Ipnos, ma possiamo aggiungere il caso di Epilēsmōn). Sulle ragioni del doppio titolo, valgono gli argomenti usati nell’ Introduzione a Epilēsmōn ē Thalatta, alla quale rimando; mi limito a notare che anche nel presente caso il doppio titolo potrebbe significare (in ordine di maggiore probabilità): 1) un’ unica commedia che ricevette uno dei due titoli per essere posta in relazione con altre pièces omonime (vd. infra); 2) una commedia che ebbe una diaskeuē, non necessariamente da parte dello stesso autore, con un titolo diverso; 3) due commedie diverse, come pensava Bender 1904, p. 44, ma vd. Terzaghi 1912, p. 30: «oltre che per le difficoltà cui si andrebbe incontro circa il numero dei drammi ferecratei, la cosa non è molto possibile, data la doppia e relativamente ampia citazione di Ateneo [sc. fr. 70]». Dunque non possiamo sapere con certezza quale dei due fosse il titolo ‘originale’, né se Pannychis servisse a creare una analogia con le omonime commedie di Eubulo e Ipparco (a cui può aggiungersi Alex. Pannychis ē Erithoi) o non fosse piuttosto stato affiancato dal meno equivoco Ipnos per non creare confusione con le pièces dei suddetti autori111. Ad ogni modo, il titolo Ipnos indica nel caso ferecrateo la ‘cucina’, come dimostra test i. Pannychis, invece, può essere inteso in due modi. Se è nome comune, si riferirà a una veglia festiva pubblica o privata in cui le donne giocavano il ruolo principale (vd. Parker 2005, p. 166); altrimenti, si può pensare al nome di un’ etèra, cfr. Luc. DMeretr. 9; Petron. 25.1; Jos. BJ 1.511 (cfr. anche Henderson 1991, pp. 157–158 [§ 241] sul significato erotico del verbo παννυχίζειν in commedia). Contenuto Il doppio titolo e i frammenti non ci consentono di ricostruire, nemmeno a grandi linee, la trama della commedia. Un ruolo importante potrebbe aver avuto una cucina (ipnos, per l’ appunto) e, forse, il tema del cibo (come suggeri-

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Dubbi sulla connessione tra gli Agrypnuntes di Nevio e le commedie che hanno per titolo Pannychis sono espressi da Spaltenstein 2014, pp. 44–45.

Ἰπνὸς ἢ Παννυχίς

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scono Urios-Aparisi 1992, p. 211 e Quaglia 2001, p. 315): si può supporre che il fuoco e la fuliggine del fr. 66 siano proprio quelli della cucina. Più difficile è cercare di comprendere a chi o a che cosa alludesse il titolo Pannychis: potrebbe trattarsi di un nome di etèra, vd. Titolo e cfr. altri possibili Hetärenstücke ferecratei come Epilēsmōn ē Thalatta, Koriannō e Petalē (vd. Nesselrath 1990, p. 319 n. 97). Ma non si può affatto escludere che pannychis indichi in realtà una festa notturna, come vuole Breitenbach 1908, pp. 161–162: egli ricorda che in fr. 72 è citato il cottabo kataktos (vd. comm. ad loc.). Ora, una relazione tra cottabo e pannychis si trova in Call. fr. 227 Pfeiffer e, prima, nel problematico Critias fr. 8.8–10 Gentili–Prato, in cui i cori femminili in occasione delle pannychides sono menzionati subito prima del cottabo kataktos (lo stesso di cui parla Ferecrate in fr. 72, dunque): παννυχίδας θ’ ἱερὰς θήλεις χοροὶ ἀμφιέπωσιν, / πλάστιγξ θ’ ἡ χαλκοῦ θυγάτηρ ἐπ’ ἄκραισι καθίζῃ / κοττάβου ὑψηλαῖς κορυφαῖς Βρομίου ψακάδεσσιν (su questi versi, cfr. da ultimo Bernsdorff 2020, II, p. 831: «this close connection [sc. delle pannychides] with the world of the symposium remains remarkable: it could be explained by the possible sympotic character of female festivals […]. Apart from this, a syncretism of the religious spheres of Dionysus and Demeter […] may also be influential in our text. The context does not necessarily suggest that these choruses took place at a special occasion in which it was allowed for women and men to celebrate together or that they were purely private»). Si pensi, d’ altro canto, che le veglie festive potevano offrire diversi spunti comici: le nocturnae pervigilationes in onore di nuove divinità erano tra gli obiettivi polemici di Aristofane nelle sue Hōrai (Cic. Leg. 2.37 = Ar. Hōrai test 2; cfr. Bagordo 2020, p. 183); lo stupro durante una pannychis, poi, è motivo topico della commedia e della letteratura successive (vd. ad es. Men. Sam. 38–49, Epit. 1118–20 e cfr. Parker 2005, pp. 172, 182–183); del resto, non è inutile ricordare Ael. NA 7.19 (= Men. test. 124) τὰ μικρὰ μειράκια τὰ τοῦ Μενάνδρου τὰ ἐν ταῖς παννυχίσιν ἀκόλαστα (già citato da Kock CAF III.2, p. 274), dal momento che in fr. 70 (e forse in fr. 68) Ferecrate menziona proprio dei giovinetti. Secondo Quaglia 2001, pp. 315–316, pannychis potrebbe riferirsi alla veglia in occasione di riti iniziatici; ora, «poiché il fr. 64 K.-A. della commedia chiamava in causa l’ ateniese Pulizione, la cui abitazione fu al centro dello scandalo conseguente la profanazione dei misteri eleusini, è lecito domandarsi se la commedia non fosse dedicata, almeno in parte, a tali eventi»112; su una simile ipotesi, vd. comunque infra, Datazione. Va infine ricordato un altro possibile scenario al quale può rimandare il titolo Pannychis: infatti, secondo Bravo 1997, p. 7, alcune fonti ci permettono di inferire l’ esistenza di un particolare tipo di festeggiamenti privati che doveva consistere «nel congiungere una pannychis delle donne di alcune famiglie amiche e un symposion degli uomini delle stesse famiglie, all’ interno di

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Similmente già Geissler 1969, p. 52 n. 1: tuttavia, lo studioso respinge la supposizione, dal momento che Ferecrate non avrebbe composto commedie ‘politiche’, ma vd. infra.

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uno stesso locale sacro»; lo studioso ipotizza appunto che la pannychis ferecratea potesse essere di questo tipo (vd. Bravo 1997, p. 24 n. 16). L’ ipotesi di un pervigilium dalla connotazione femminile ha avuto fortuna anche per via della supposizione di Kock I, p. 160, secondo cui il fr. 70 suggerisce che il coro della commedia fosse composto da donne (cfr. anche Quaglia 2001, p. 319): rimangono tuttavia diversi dubbi in merito, vd. comm. ad fr. 70. Alla commedia non erano estranei temi sociali e politici: il fr. 70 descrive un uomo datosi al commercio di profumi, la cui bottega è divenuta un luogo di ritrovo (e di corruzione, stando agli accenti indignati di chi parla) per i giovani (una categoria sociale che doveva forse essere oggetto di altre considerazioni: nel fr. 68 è forse descritto un pais o un efebo che prende un bagno e non è escluso che il contesto sia quello della paidotribikē). Il riferimento alla casa di Pulizione (fr. 64), uomo della cerchia di Alcibiade che ospitò la parodia dei misteri, poi, ci lascia vedere come, a dispetto di quanto affermano alcune fonti antiche (seguite da diversi studiosi moderni), i temi politici e l’ attacco personale potessero avere spazio nelle commedie di Ferecrate (vd. ultimamente Napolitano 2021). Nulla si può dire, invece, sull’ ignoto personaggio del fr. 65, che secondo Edmonds doveva essere Nicia; proprio quest’ ultimo, stando allo studioso, sarebbe l’ uomo descritto in fr. 67, le cui parole, tuttavia, potrebbero bene adattarsi a un personaggio politico non più vivente al tempo della rappresentazione della commedia (vd. comm. ad loc.). Datazione La menzione della casa di Pulizione soggetta a ipoteca in fr. 64 ha fatto pensare al terminus ante quem del 415 per datare la commedia, vd. Brandes 1886, pp. 33 e Körte 1938, col. 1987: infatti, dopo la confisca conseguente allo scandalo dei Misteri (vd. fr. 64, con il comm. ad loc.), la casa non avrebbe più potuto essere gravata da ipoteca. L’ argomento, accettato anche da Geissler 1969, p. XVI (sebbene in prima istanza lo studioso propendesse per una datazione alle Lenee del 414, «wo der Prozeß des Alkibiades und seiner Kumpane eben entschieden war» [p. 52]) è plausibile, anche se non decisivo, vd. comm. ad loc.; cfr. inoltre Urios-Aparisi 1992, p. 213, secondo cui il fr. 64 «could be also understood in the way of a joke in the context of an exclamation about something total impossible and incredible to see or an expression of bewilderment about the possession of a vain character being mortgaged». Edmonds credeva di poter fissare l’ anno della rappresentazione al 415 sulla base della presenza – solo presunta, e senza validi argomenti – di Nicia nella commedia (vd. frr. 65 e 68): vd. però Quaglia 2001, pp. 320–321, che evidenzia i problemi cronologici che tale ipotesi comporta: «secondo una testimonianza registrata da Plutarco […], la mutilazione delle erme avvenne in una notte di novilunio a breve distanza dalla partenza per la Sicilia; la datazione più probabile è tra il 22 e il 23 maggio del 415. Poiché secondo Tucidide VI 28 le accuse relative alla parodia dei riti di Eleusi iniziarono a diffondersi dopo il sacrilegio perpetrato contro le erme, si dovrà pensare che di Pulizione in associazione allo scandalo

Ἰπνὸς ἢ Παννυχίς (test. i)

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si cominciasse a parlare tra la fine di maggio e i primi di giugno del medesimo anno. In quel periodo, però, i due festival drammatici del 415 erano già terminati». Ancor meno probabile è l’ ipotesi alternativa formulata da Edmonds, quella cioè di una datazione al 413, «allorché Nicia chiese di essere esonerato dal comando della spedizione in Sicilia: a questa circostanza avrebbe potuto far riferimento, secondo Edmonds, il fr. 65 K.-A. Il riferimento a Nicia è però parimenti labile e anche in questo caso i tempi non coincidono, in quanto nel 413 lo scandalo della parodia dei misteri eleusini si era già concluso e la casa di Pulizione era già divenuta di proprietà pubblica» (Quaglia 2001, p. 321). Riserve possono essere formulate, infine, anche sulla proposta cautamente avanzata da Quaglia di un terminus post quem da fissare al 421: secondo lo studioso, infatti, i termini μαγέραινα e ἰχθυοπώλαινα in fr. 70 potrebbero far pensare all’ insegnamento di Protagora, che risiedeva ad Atene ancora nel 421, anno della rappresentazione dei Kolakes di Eupoli; tuttavia, non è necessario pensare a dottrine sofistiche per spiegare i due neologismi comici, vd. comm. ad fr. 70.

test. i Harp. ι 14 ἰπνός· Λυκοῦργος ἐν τῷ Κατὰ Λυκόφρονος (fr. 13 Conomis). μέρος τι τῆς οἰκίας οὕτω καλεῖται, τὸ λεγόμενον παρ’ ἡμῖν μαγειρεῖον· ἔστι γοῦν δρᾶμα Φερεκράτους Ἰπνὸς ἢ Παννυχίς, ἐν ᾧ δηλοῦται τοῦτο, ὅτι μέρος τῆς οἰκίας ἐστί. λέγεται δὲ κυρίως ἰπνὸς ἡ κάμινος, ὅθεν καὶ ἰπνοπλάθους τινὰς ονομάζουσιν. Ipnos: Licurgo nell’ orazione Contro Licofrone (fr. 13 Conomis). Così si chiama una parte della casa, quella che noi diciamo mageireion (‘cucina’): c’ è per l’ appunto un’ opera teatrale di Ferecrate, Ipnos o Pannychis/La festa notturna, in cui viene chiarito ciò, che è una parte della casa. Propriamente, si dice ipnos il forno (kaminos): da qui, ad alcuni si dà il nome di ipnoplathoi (‘che lavorano [sc. la terracotta] servendosi del forno’).

Contesto Arpocrazione cita il doppio titolo della commedia ferecratea in riferimento all’ occorrenza del sostantivo ipnos col significato di ‘cucina’ in Licurgo. Anche altrove Arpocrazione, che dipende probabilmente dal lessico di Giuliano, stando alla ricostruzione di Alpers 1981, pp. 120–123, ricorre alle citazioni comiche a fini argomentativi e dimostrativi: altre menzioni di Ferecrate, in particolare, si trovano in Harp. β 27 (fr. 158), κ 15 (fr. 24), κ 72 (fr. 142), μ 25 (Metallēs test. i). Interpretazione Dalla testimonianza di Arpocrazione si evince che l’ ipnos del titolo ferecrateo non era un forno, ma la cucina di una casa (secondo un uso metonimico attestato anche altrove, vd. ad es. Ar. V. 837): essa doveva avere un ruolo rilevante nella commedia, vd. Introduzione.

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fr. 64 (58 K.) οὐχ ὁρᾷς τὴν οἰκίαν τὴν Πουλυτίωνος κειμένην ὑπόβολον; Πουλυτίωνος Meineke : Πολυτ- Phot., Et.Gud., Eust. : Πολιτ- Et.Sym. : Πολιτῖνος Et.Gen. ὑπόβολον codd. : ὑπώβολον Salmasius (qui etiam de καὶ ὑπόβολον et ἐνυπόβολον cogitavit), rec. edd. fere omnes

Non vedi che la casa di Pulizione è soggetta a ipoteca? Phot. υ 176 (= Et.Gen. B s. v. ὑπόβολον, unde EM 781.34 = Et.Sym. cod. V fol. 191r et ap. EM 2187D ∼ [Zonar.] 1779 ∼ Et.Gud. 585.31) ὑπόβολον (-βολλον gac)· ὑποκείμενον πρὸς δάνειον καὶ τόκον. Φερεκράτης Ἰπνῷ· «οὐχ – ὑπόβολον;». Hypobolon: ipotecato per un prestito a interesse. Ferecrate nell’ Ipnos: «non – ipoteca?». Eust. in Od. 1.41.13–16 (p. 184.13–17 Cullhed) ἐκεῖθεν καὶ ὑπόβολον οὐ μόνον τὸ παρὰ νομικοῖς, ἀλλὰ καὶ τὸ ὑποβεβλημένον ἤγουν ὑποκείμενον πρὸς δάνειον καὶ τόκον, εἴτε ἀγρὸς εἴτε οἶκος εἴτε ἄλλο τι. Φερεκράτης. οὐχ’ ὁρᾷς τὴν οἰκίαν τὴν Πολυτίωνος κειμένην ὑπόβολον; δῆλον δὲ ὅτι καὶ ἕτερον ἦν ὑπώβολον ἐκτεῖνον τὴν προπαραλήγουσαν, καὶ δηλοῦν τὸ ὑποκείμενον ἐπὶ ὀβολιμαίῳ τόκῳ. Da lì (ballein) (viene) hypobolon, non solo quello che si trova presso gli esperti di diritto, ma anche ciò che è hypobeblēmenon, cioè ipotecato per un prestito a interesse, sia esso un campo, una casa o qualcos’ altro. Ferecrate: «non vedi – a ipoteca?». È chiaro che c’ era un altro hypōbolon con la terzultima sillaba lunga che significa ciò che è sottoposto al tasso di interesse di un obolo (obolimaios tokos).

Metro tetrametri trocaici (ma vd. Testo)

lkll lkll lkklk lkl kkkl

Bibliografia Salmasius 1639, pp. 585–586; Porson 1812, p. 295; Runkel 1829, p. 27; Meineke FCG II.1, pp. 277–278; Bothe 1855, pp. 93–94; Cobet 1858b, p. 477; Kock FAC I, p. 161; Fine 1951, pp. 171–177; Edmonds FAC I, pp. 228–229; Sommerstein 1986, pp. 105–106; Kassel–Austin VII, p. 132; Urios-Aparisi 1992, pp. 214–215; Quaglia 2001, pp. 321–324 Contesto della citazione Come supposto da Erbse, la glossa foziana è probabilmente derivata dal lessico atticista di Pausania (Paus. Gramm. υ 14), dato il confronto con Eustazio (nel testo eustaziano, εἴτε ἀγρὸς εἴτε οἶκος εἴτε ἄλλο τι è con buona probabilità un’ aggiunta di Eustazio. Similmente, sembra frutto di un autoschediasmo ciò che segue, δῆλον δὲ ὅτι καὶ ἕτερον ἦν ὑπώβολον ἐκτεῖνον τὴν προπαραλήγουσαν, καὶ δηλοῦν τὸ ὑποκείμενον ἐπὶ ὀβολιμαίῳ τόκῳ), vd. Testo.

Ἰπνὸς ἢ Παννυχίς (fr. 64)

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Testo Sulla forma Πουλυτίωνος, introdotta da Meineke in luogo del tràdito Πολυτίωνος, vd. Quaglia 2001, p. 322 n.31: «Come rilevato da Meineke, […] la forma corretta del nome è quasi certamente Πουλυτίωνος, che è quella attica [sic; vd. lemma τὴν οἰκίαν / τὴν Πουλυτίωνος] […]. La forma corretta appare essere Πουλυτίωνος e la struttura metrica del passo di Ferecrate era probabilmente quella proposta da Kassel e Austin. Deve quindi essere corretto anche il tràdito ὑπόβολον». Quest’ ultima inferenza, tuttavia, non può dirsi certa. Infatti, anche trascurando l’ improbabile opzione della forma tràdita Πολυτίωνος, può darsi il caso di due tetrametri trocaici (οὐχ ὁρᾷς τὴν οἰκίαν τὴν Πουλυτίωνος κειμένην / ὑπόβολον) dei quali il primo presenta, nel terzo metron, la realizzazione con due brevi di un elemento breve, soluzione non sconosciuta alla commedia (vd. Martinelli 1997, p. 128 e cfr. com. adesp. fr. 1063.15, dove la sostituzione serve a collocare nel verso un nome proprio, similmente a quanto avviene forse nel nostro caso; per la realizzazione con due brevi di un elemento breve in coincidenza con nomi propri, vd. anche Eur. IA 882, Or. 1535). Dunque, la scelta fra il tràdito ὑπόβολον e la congettura ὑπώβολον di Salmasius113 e Porson, dettata dal confronto con Eustazio (cfr. Contesto della citazione e vd. infra), dovrà essere basata su criteri che non siano metrici. A sostegno di ὑπόβολον già Runkel portava Poll. 3.85 τὸ δὲ ὑπόχρεων χωρίον ἐλέγετο καὶ ὑπόβολον (corretto in ὑπώβολον da Porson). Inoltre, Eustazio introduce il frammento ferecrateo con queste parole: ἐκεῖθεν καὶ ὑπόβολον οὐ μόνον τὸ παρὰ νομικοῖς, ἀλλὰ καὶ τὸ ὑποβεβλημένον ἤγουν ὑποκείμενον πρὸς δάνειον καὶ τόκον, εἴτε ἀγρὸς εἴτε οἶκος εἴτε ἄλλο τι. La pericope riportata (forse derivata in ultima analisi da Pausania, vd. Contesto della citazione) lascia pensare che il testo ferecrateo letto da Eustazio fosse ὑπόβολον e che la precisazione δῆλον δὲ ὅτι καὶ ἕτερον ἦν ὑπώβολον ἐκτεῖνον τὴν προπαραλήγουσαν, καὶ δηλοῦν τὸ ὑποκείμενον ἐπὶ ὀβολιμαίῳ τόκῳ sia dovuta a un autoschediasmo dello stesso vescovo (che, poco oltre, scrive ἐξ αὐτοῦ [sc. ὑποβάλλειν] δὲ καὶ ὑπόβολον οὐ μόνον τὸ νομικόν, ὡς ἐρρέθη, ἀλλὰ καὶ τὸ ἐπὶ τόκῳ ἐνεχυρασθέν, ὡς καὶ αὐτὸ προγέγραπται; secondo Cullhed 2016, p. 185 «Eust. ipse differentiam inter ὑπόβολον et ὑπώβολον posuit»)114, tanto più che ἐπὶ ὀβολιμαίῳ τόκῳ desta perplessità, vd. lemma ὑπόβολον. Giova ricordare, infine, che negli scritti ‘giuridici’ τὸ ὑπόβολον significa «Mannesgabe» (LBG, s. v.). Interpretazione Un parlante si rivolge a un altro personaggio, forse indicando (vd. lemma οὐχ ὁρᾷς) la casa di Pulizione (in cui ebbe luogo la parodia dei Misteri ad opera di Alcibiade e altri, vd. infra), probabilmente soggetta a ipoteca. 113 114

Lo studioso, in alternativa, pensava a un non altrimenti attestato ἐνυπόβολον: «quae pignerata est, ἐνυπόβολος recte dicitur, quia ὑπόβολον pignus ipsum appellatur». Spesso, in Eustazio, simili osservazioni sono introdotte da δῆλον ὅτι: vd. ad es. Eust. in Il. 1.201.5–8 γράφεται δὲ διὰ τοῦ κ (sc. ἱστοδόκη), διότι τὰ παρὰ τὸ δέχω οὕτω προάγονται Ἰωνικῶς, οἷον ξεινοδόκος, δουροδόκη, ἱστοδόκη· ἤδη δὲ καὶ Ἀττικῶς. […] δῆλον δὲ ὅτι κοινωνία τις ἦν τῇ παλαιᾷ Ἰάδι καὶ Ἀτθίδι (dove il ragionamento è dovuto a Eustazio, secondo van der Valk in app.).

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Di solito si accetta il terminus ante quem del 415 per la commedia ferecratea, dal momento che la casa di Pulizione doveva essere sotto ipoteca prima della confisca conseguente allo scandalo dei Misteri (vd. Introduzione). Ciò è probabile; tuttavia, la situazione descritta nel nostro frammento potrebbe essere simile, in linea di principio, a SEG 12.100 (Attica, 367/6): qui una casa confiscata e messa in vendita è gravata da precedenti ‘ipoteche’115 e ai creditori viene riconosciuta la somma dovuta. In ogni caso, è probabile che Ferecrate considerasse Pulizione indebitato già prima dello scandalo dei Misteri. Il poeta comico avrà inteso fare riferimento allo smodato stile di vita di Pulizione (similmente già Quaglia 2001, p. 323 n. 35) – tanto più che la sua casa era considerata di grande valore, vd. lemma τὴν οἰκίαν / τὴν Πουλυτίωνος; peraltro egli doveva far parte della cerchia di Alcibiade, che fu costantemente indebitato a causa della sua passione per i cavalli da corsa e per altri piaceri, come ricorda Thuc. 6.12.2 e 6.15.3 (vd. Gomme– Andrews–Dover 1970, pp. 237 e 244). Sul possibile motivo dell’ indebitamento di Pulizione, in particolare, si può confrontare Cratin. fr. 81 (= schol. VΔ Luc. JTr. 48, p. 83.20 Rabe) εἰς δὲ στιγματίαν αὐτὸν (sc. Καλλίαν) Κρατῖνος κωμῳδεῖ ὡς ἕνα τῶν κατάχρεων Θρᾴτταις. οἱ γὰρ δανειζόμενοι τὰς κτήσεις ὑπετίθεσαν καὶ ἐπέγραφον αὐτὰς πρὸς τὸ γινώσκεσθαι ὅτι ὑποθῆκαί εἰσιν […]. κωμῳδεῖ δὲ αὐτὸν Κρατῖνος καὶ ὡς Φώκου γυναῖκα μοιχεύσαντα καὶ τρία τάλαντα δόντα εἰς τὸ μὴ κριθῆναι. Callia (che deve essere il minor) è costretto a ipotecare la casa per aver commesso adulterio, cfr. Kock CAF I, pp. 110–111 e Fine 1951, p. 171; in effetti, «the seducer might be held for ransom», come ricorda Phillips 2013, p. 104 (cfr. [Dem.] 59.65, in cui si parla di un riscatto di trenta mine). Del resto, Alcibiade è attaccato da Ferecrate (fr. 164) per essere omnium mulierum vir; tale battuta sembra implicare la pratica della moicheia, cioè «the kind of sex that is considered unacceptable» (Wolicki, p. 140) o meglio «illicit consensual sex between a man and a woman» (Phillips 2013, p. 103); cfr. anche Eup. fr. 171; com. adesp. fr. 123. 1 οὐχ ὁρᾷς Urios-Aparisi si chiede se la casa fosse rappresentata «by one of the doors which formed part of the staging of the play»; tuttavia, la domanda posta dal personaggio parlante potrebbe avere valore di didascalia scenica, cfr. ad es. Ar. Pax 538, 543, 545, 548. Ad ogni modo, le proprietà soggette a ipoteca (vd. lemmi κειμένην e ὑπόβολον) dovevano essere contrassegnate da horoi, come ricorda già Edmonds («tablets were affixed to show this, cf. Dem. 41.6»). Vd. anche Cratin. fr. 81 (citato supra, vd. Interpretazione), dove stigmatias potrebbe indicare chi ha ipotecato una casa (cfr. Fine 1951, p. 171); Menandro (fr. 77.6) definisce astikton una proprietà non soggetta a ipoteca, vd. Kassel–Austin VI.2, pp. 82–83. Poco probabile sembra l’ ipotesi di Urios-Aparisi 1992, p. 214, secondo cui il parlante potrebbe indicare la propria casa o quella di un personaggio che non sia Pulizione: in questo caso bisognerebbe intedere «“don’ t you see the house of

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Vd. Crosby–Young 1941; Harrison 1968, pp. 270–271; Finley 1952, pp. 111–113. Alle linee 14–5 si usa il verbo ὑποκεῖσθαι, su cui vd. lemma κειμένην.

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a “Poulytion” on mortgage” (since the character considers himself as a rich man and influential)». Egualmente poco probabile è intendere il verbo nel senso di «to discern, perceive» (LSJ). 1–2 τὴν οἰκίαν / τὴν Πουλυτίωνος Poche le testimonianze riguardanti Pulizione [PA 12154], noto per aver ospitato nella sua casa la parodia dei misteri eleusini, vd. Andoc. 12.12 καὶ ἤγαγον θεράποντα Πολεμάρχου· Ἀνδρόμαχος αὐτῷ ὄνομα ἦν. ἐπεὶ δὲ ἐψηφίσαντο αὐτῷ τὴν ἄδειαν, ἔλεγεν ὅτι ἐν τῇ οἰκίᾳ τῇ Πουλυτίωνος γίγνοιτο μυστήρια· Ἀλκιβιάδην μὲν οὖν καὶ Νικιάδην καὶ Μέλητον, τούτους μὲν αὐτοὺς εἶναι τοὺς ποιοῦντας, συμπαρεῖναι δὲ καὶ ὁρᾶν τὰ γιγνόμενα καὶ ἄλλους, παρεῖναι δὲ καὶ δούλους; 12.14 οἶσθα οὖν μηνύσαντα Ἀνδρόμαχον τὰ ἐν τῇ οἰκίᾳ τῇ Πουλυτίωνος γιγνόμενα; Isoc. 16.6 οὗτοι δ’ ἐν τῇ Πουλυτίωνος οἰκίᾳ συνδειπνοῦντες τὰ μυστήρια ποιήσειαν. Stando a Plutarco, egli avrebbe svolto un ruolo attivo, assumendo la funzione di dadouchos, vd. Plu. Alc. 19.2 Ἀλκιβιάδου καὶ τῶν φίλων κατηγοροῦντας. ἔλεγον δὲ Θεόδωρον μέν τινα δρᾶν τὰ τοῦ κήρυκος, Πουλυτίωνα δὲ τὰ τοῦ δᾳδούχου, τὰ δὲ τοῦ ἱεροφάντου τὸν Ἀλκιβιάδην, τοὺς δ’ ἄλλους ἑταίρους παρεῖναι καὶ θεᾶσθαι, μύστας προσαγορευομένους; Mor. 621c 3 Ἀλκιβιάδης δὲ καὶ Θεόδωρος τελεστήριον ἐποίησαν τὸ Πολυτίωνος συμπόσιον ἀπομιμούμενοι δᾳδουχίας καὶ ἱεροφαντίας; P.Lond.Lit. 123.23–8 (= P.Oxy. 3.411; TM64743) και τις εμη | νυσε περι των μεν | Ερμων ουδεν φασκω‾ | δε εξορχησασθαι τα | μυστηρια εν τη Που | λυτιωνος οικια το‾ | Αλκιβιαδην. Hatzfeld 1951, p. 112 n. 5 crede che Pulizione potesse essere un meteco (la cosa è data per scontata in Prandi 1992 e Bearzot 2021, p. 78–80): «la forme ionienne du nom de ce personnage semble indiquer un étranger […]. D’ autre part on notera que, dans l’ εἰσαγγελία de Thessalos, il [sc. Poulytion] est, seul, nommé sans patronymique et sans démotique; que, quoique le Mystères aient eu lieu dans sa maison, son nom n’ a pas été retenu par la Commission d’ enquête (Andoc. I, 13), pas plus que celui des esclaves qui assistaient à la parodie; qu’ enfin Diodore, XIII, 2, confondant d’ ailleurs la déposition d’ Andromachos et celle de Diocleidès […], sait quand même qu’ on avait vu Alcibiade, avec d’ autres, entrer dans la maison d’ un métèque». Ora, l’ argomento basato sulla «forme ionienne du nom» non può essere accolto: ad Atene potevano trovarsi, l’ una accanto all’ altra, forme come Πολυδάμας e Πουλυδάμας, vd. Threatte 1980, p. 218. Per quanto riguarda invece l’ assenza di Pulizione dalla lista di Andromaco, vd. MacDowell 1962, p. 72: «probably his name should be restored in the text. […] That he was a metic may well be true; but that is not an adequate explanation of his omission, for Kephisodoros the metic is included in the list in 15». Tuttavia, è innegabile che gli altri argomenti abbiano un certo peso. In particolare, è significativa la testimonianza di Diodoro: è vero che essa sembra confondere l’ episodio della mutilazione delle Erme e quello della profanazione dei Misteri mescolando insieme (come sostiene Hatzfeld) le deposizioni di Andromaco e Dioclide; bisogna però tenere conto che, secondo Meister 1967, p. 62, qui Diodoro dipenderebbe da materiale raccolto da Eforo. Se Hatzfeld coglie nel segno, potremmo pensare che Pulizione fosse solo un «tenant» (Sommerstein 1986, p. 106), ma in questo caso egli non avrebbe potuto ipotecare

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una casa non di sua proprietà. Rimarrebbe allora la possibilità che, pur essendo un meteco, Pulizione avesse ottenuto il privilegio della oikias egktēsis, ovvero il diritto di acquistare una casa (spesso concesso con la prossenia, vd. ad es. Thalheim 1905; Hommel 1932, col. 1422)116. La casa di Pulizione era inglobata, al tempo di Pausania, nel portico che fiancheggiava il lato settentrionale del dromos, primo settore della via delle Panatenee che conduceva all’ angolo nord-occidentale dell’ Agorà: vd. Paus. 1.2.5 ἡ δὲ ἑτέρα τῶν στοῶν ἔχει μὲν ἱερὰ θεῶν, ἔχει δὲ γυμνάσιον Ἑρμοῦ καλούμενον· ἔστι δὲ ἐν αὐτῇ Πουλυτίωνος οἰκία, καθ’ ἣν παρὰ τὴν ἐν Ἐλευσῖνι δρᾶσαι τελετὴν Ἀθηναίων φασὶν οὐ τοὺς ἀφανεστάτους (cfr. Wycherley 1957, pp. 20–21). È sinonimo di abitazione lussuosa in [Pl.] Erx. 394b-c εἰ δέ τις τὴν Πουλυτίωνος οἰκίαν κεκτημένος εἴη καὶ πλήρης εἴη χρυσίου καὶ ἀργυρίου ἡ οἰκία, οὐκ ἂν δεηθείη οὐδενός; 440b ἐν δὲ Σκύθαις τοῖς νομάσιν εἴ τις τὴν Πουλυτίωνος οἰκίαν κεκτημένος εἴη, οὐδὲν ἂν πλουσιώτερος δοκοῖ εἶναι ἢ εἰ παρ’ ἡμῖν τὸν Λυκαβηττόν. 2 κειμένην Per la cosa impegnata o ipotecata, di solito si usa ὑποκεῖσθαι (cfr. ad es. Harrison 1968, p. 255); tuttavia, cfr. Hsch. κ 2015 κεῖσθαι· ὑποκεῖσθαι ἐνέχυρα, significato che possiamo assumere anche qui, tanto più che il participio è accompagnato da ὑπόβολον, su cui vd. infra. ὑπόβολον il significato dell’ espressione è ricavabile da Poll. 3.85 τὸ δὲ ὑπόχρεων χωρίον ἐλέγετο καὶ ὑπόβολον; nel nostro frammento l’ aggettivo indicherà dunque una casa ipotecata. La congettura ὑπώβολον posa sulla spiegazione data da Eustazio, δῆλον δὲ ὅτι καὶ ἕτερον ἦν ὑπώβολον ἐκτεῖνον τὴν προπαραλήγουσαν, καὶ δηλοῦν τὸ ὑποκείμενον ἐπὶ ὀβολιμαίῳ τόκῳ, che tuttavia ha l’ aria di essere un autoschediasmo, vd. Testo. Del resto, già Salmasius, che pure congetturò ὑπώβολον, riteneva inconsistente la spiegazione di Eustazio: «nam esset sextantarium foenus Romanorum, quale nusquam Graecis eo tempore usitatum fuisse liquet, cum minima usura earum quae tunc in usu, fuerit centesima, quae sex sextantes habuit». All’ obiezione di Salmasius si può ribattere che l’ obolo di interesse non potrebbe che essere giornaliero, cfr. gli obolostatai di cui parla ad es. Ar. Nu. 1155 (con Mastromarco 1983, p. 417: «“coloro che prestano ad un interesse giornaliero di un obolo per mina”; vale a dire, a un interesse del 60%!»)117. Tuttavia, in questo caso dovremmo immaginare un bene immobile ipotecato per un prestito che si presume a brevissima scadenza, perché del 60% (un tasso e una scadenza che si addicono semmai a beni mobili di valore molto inferiore a una casa di lusso come

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Problematica è la testimonianza di Su. ε 1851 ἐξωρχησάμην· πρὸς ὃν ἐξωρχησάμην τὰ τέως ἀνέκπυστα. ἐξεφαύλισα, κατέπαιξα. καὶ αὖθις· ὁ δὲ μεθυσθεὶς ἐν τῇ οἰκίᾳ Πουλτίωνος [sic ed. Adler] τοῦ παρασίτου τὰ μυστήρια ἐξωρχήσατο. ἀντὶ τοῦ ἐξεμυκτήρισεν, ἔκπυστα ἐποίησεν, su cui vd. Prandi 1992, pp. 4–8. Vd. già Böckh 1886, p. 160. Normalmente, gli interessi erano calcolati su base mensile, vd. ad es. Ar. Nu. 756 e cfr. Dover 1968, p. 94 ad Ar. Nu. 17–8.

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quella di Pulizione): la sola via per salvare una simile interpretazione sarebbe quella di pensare a un’ espressione iperbolica. Fine 1951 ritiene che ὑπώβολον (la correzione sarebbe pressoché certa «for metrical reasons»: ma vd. Testo) fosse un gioco di parole su ὑπόβολον (da mantenere dunque nel già citato Poll. 3.85), a significare che la casa di Pulizione valeva ‘meno di un obolo’ (infatti ὑπό in composizione ha spesso «a diminutive or qualifying effect»). Si potrebbe obiettare che le fonti ci assicurano che la casa di Pulizione era lussuosa, ma Fine ritiene «almost certain» che la commedia ferecratea non possa essere datata prima del 415, «in view of the notoriety which Poulytion and his house acquired as a result of the Mysteries scandal»: dunque, conclude lo studioso, la casa di Pulizione avrebbe perso il suo valore dopo essere stata confiscata: «when the Poletai auctioned off his property, it was sold for a great deal less than its intrinsic value» e, del resto, «superstitious fears may well have affected the bidding». Anche accogliendo a testo l’ incerta congettura ὑπώβολον, gli argomenti di Fine non sarebbero cogenti. Innanzitutto, non è affatto detto (anzi, è probabile il contrario) che la commedia risalga al 415 o agli anni successivi: Pulizione poteva essere già noto agli Ateniesi per le sue amicizie e per il suo stile di vita (vd. già Quaglia 2001, p. 322). Inoltre, con buona pace dello studioso, non mi sembra che la battuta ferecratea non trovi altre spiegazioni plausibili: l’ effetto comico doveva essere suscitato proprio dal fatto che, per ripagare enormi debiti (dovuti probabilmente a motivi ‘scandalosi’, vd. Interpretazione), Pulizione aveva dovuto ipotecare financo la sua lussuosa casa. Infine, l’ interpretazione di Fine è poco convincente anche per motivi semantico-sintattici: l’autore rifiuta (ingiustamente, a mio avviso) l’ equivalenza κεῖσθαι = ὑποκεῖσθαι, per la quale vd. lemma κειμένην; al tempo stesso, la sua parafrasi ha più di una lacuna («don’ t you see that magnificent house of Poulytion lying there, worth about an obol»): egli dà a ὑπώβολον un senso attributivo, quando invece ci si attende un predicativo di κειμένην, che peraltro nel testo non è affatto accompagnato da un avverbio di luogo (there). fr. 65 (59 K.) τὶ οὐκ ἐπανεχώρησα δεῦρο κἀπέδραν; τὶ οὐκ Σ : οὐκ Phot. : ἀντὶ τοῦ Su. Phot.

ἐπανεχώρησα Bekker : -αν Σ, Su. : ἀπανεχώρησαν

Perché non tornai qui e non fuggii? Σb α 1661 (Phot. α 2309; Su. α 2983) ἀπέδρα· καὶ τὸ πρῶτον πρόσωπον ἀπέδραν. «τί – κἀπέδραν;» Φερεκράτης Ἰπνῷ. Μένανδρος Θετταλ( ) (fr. 173)· «εἶτ’ ἀπέδραν μόνος». Apedra: (è attestata) anche la prima persona apedran. «Perché – fuggii?», Ferecrate nell’Ipnos. Menandro nella Thettal() (fr. 173): «poi fuggii da solo».

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Bibliografia Runkel 1829, p. 27; Meineke FCG II.1, p. 279; Kock CAF I, p. 161; Edmonds FAC I, pp. 228–229; Conti Bizzarro 1988–1989, pp. 271–272; Kassel– Austin VII, p. 133; Urios-Apaisi 1992, p. 215; Quaglia 2001, p. 324–325; Storey FOC II, p. 451 Contesto della citazione Il frammento di Ferecrate è citato da Σb α 1661 per illustrare l’ uso della prima persona singolare dell’ aoristo radicale atematico ἀπέδραν. La fonte di Σb (da cui derivano Phot. α 2309 e Su. α 2983) è atticista: vd. Phryn. PS 16.9; Moer. α 80; Orus A 11 (Ael. Dion. α *156); [Hdn.] Philet. 103. Interpretazione Il parlante 1) si pente di non essere fuggito, in passato, nel posto in cui ora si trova (si tratterebbe in tal caso di un monologo con una domanda rivolta a sé stesso); oppure 2) spiega a qualcuno i motivi della sua mancata fuga: in questo secondo caso, la domanda potrebbe anticipare la richiesta dell’ interlocutore e introdurre la giustificazione di un comportamento inusuale. Rimane tuttavia una difficoltà: perché il parlante dovrebbe dire (o rimpiangere) di non essere fuggito nel posto in cui ora si trova (così si evince dall’ avverbio δεῦρο)? In assenza di indizi cospicui sulla trama e sui personaggi della commedia, non è prudente intervenire sul testo; si è tentati, tuttavia, di correggere il tràdito τὶ οὐκ in τί οὖν: in tal modo, potremmo pensare che il parlante, con un’ interrogativa dalla valenza pragmatica, si accinga a spiegare i motivi della sua fuga. Non è semplice, comunque, capire la relazione dei due verbi tra loro: si può pensare a un hysteron proteron (vd. la traduzione di Storey: «why didn’ t I run away and come back here?»), oppure a un’ endiadi: in effetti, καί ha talvolta la funzione ‘epesegetica’ di meglio determinare un sintagma o una proposizione precedente (cfr. Kühner–Blass II, pp. 246–247): non è allora azzardato pensare che ἀπέδραν possa meglio connotare le modalità della ‘ritirata’ indicata dal precedente ἐπανεχώρησα – i due verbi, insomma, significherebbero un ‘ritirarsi fuggendo (di nascosto)’ (vd. lemmi ἐπανεχώρησα e ἀπέδραν). Il frammento è caratterizzato, secondo Urios-Aparisi, dall’uso di un lessico militare; cfr. anche Quaglia 2001, p. 325: «a questo primo verbo [sc. ἐπανεχώρησα], appartenente al lessico militare, seguiva l’ esplicito accenno ad una meno onorevole fuga (ἀπέδραν), sortendo un probabile effetto di aprosdoketon». Che ἀπέδραν dovesse creare un effetto di aprosdoketon, in verità, è molto dubbio, dal momento che il precedente ἐπανεχώρησα può significare anche ‘battere in ritirata’, vd. lemma ἐπανεχώρησα. Secondo Conti Bizzarro 1988–1989, p. 272, le parole potrebbero essere pronunciate da un disertore o da uno schiavo (vd. lemma ἀπέδραν); l’ obiezione di Quaglia, secondo cui «il tono interrogativo del passo tende piuttosto a far pensare che chi pronunciava queste parole non fosse realmente scappato», non è dirimente: chi pronuncia la battuta, ad esempio, potrebbe essere uno schiavo che si pente di

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non essere fuggito (senza contare che, se la fuga del personaggio parlante non fosse realmente avvenuta, l’ avverbio δεῦρο farebbe difficoltà, come notato supra). Edmonds ipotizza che le parole possano essere pronunciate da Nicia dopo essere stato sollevato dal comando della spedizione in Sicilia nel 414 (cfr. Thuc. 7.8.1–2): egli, secondo Edmonds, doveva essere un personaggio della commedia stando al fr. 67, dal quale, tuttavia, nulla di simile sembra potersi evincere con sicurezza. ἐπανεχώρησα Il verbo è tipico del lessico militare; indica in genere il ritorno delle truppe da spedizioni o battaglie non necessariamente andate a buon fine – vd. infatti i seguenti casi, in cui il significato è quello di ‘battere in ritirata’: Thuc. 4.44.2–3 ἡ δὲ ἄλλη στρατιὰ τούτῳ τῷ τρόπῳ οὐ κατὰ δίωξιν πολλὴν οὐδὲ ταχείας φυγῆς γενομένης, ἐπεὶ ἐβιάσθη, ἐπαναχωρήσασα πρὸς τὰ μετέωρα ἱδρύθη; Xen. HG 7.1.28 ἐπεὶ δ’ ἐβοήθησαν οἱ Ἀρκάδες καὶ οἱ Ἀργεῖοι, ἐπαναχωρήσας (sc. Ἀρχίδαμος) ἐστρατοπεδεύσατο ἐν τοῖς ὑπὲρ Μηλέας γηλόφοις; cfr. anche Poll. 6.184 ταὐτὸν δ’ ἐστὶν ἀναφυγή, ἀποφυγή, ἀναφορά, ἀναχώρησις, ἀποστροφή. ἀναφυγεῖν, ἀποφυγεῖν, ἀνενεγκεῖν, ἀναχωρῆσαι ἐπαναχωρῆσαι. καὶ ἀναθέσθαι δὲ ἐπὶ τοῦ αὐτοῦ. Solitamente il verbo è riferito a gruppi di uomini in armi o ai loro rappresentanti (generali ecc.). Ciò fa per lo meno sospettare che anche nel nostro frammento il parlante possa essere parte di un insieme di uomini impegnati in una ‘missione’ comune. Si consideri, in tal senso, Ar. Ec. 28–9 φέρε νυν ἐπαναχωρήσω πάλιν, / μὴ καί τις ὢν ἀνὴρ ὁ προσιὼν τυγχάνῃ: qui Prassagora, impegnata in una ‘spedizione’ che dovrebbe contemplare la presenza delle altre donne ateniesi, alla vista di possibili ‘nemici’ (gli uomini) decide di ritirarsi (cfr. Ussher 1973, p. 76: «she is thinking of “beating a retreat”»). ἀπέδραν Il verbo ἀποδιδράσκω significa ‘fuggire’ (spesso con una connotazione di furtività, vd. LSJ, s. v.) ed è «ben testimoniato nella poesia comica e in prosa, ma piuttosto raro in tragedia (l’ unico esempio noto è rappresentato da Soph. Aj. 167)» (Stama 2014, p. 257 ad Phryn. Com. fr. 46.3). È spesso usato in riferimento a schiavi (cfr. ad es. Pl. Pr. 310c; Xen. Mem. 2.10.1; IG II2 584), disertori (cfr. ad es. Xen. An. 5.6.34) ed evasi (cfr. ad es. Pl. Cri. 53d). fr. 66 (60 K.) ἀνέπλησα τὠφθαλμὼ πάλης φυσῶν τὸ πῦρ ἀνέπλησα : -σο Naber

Ho riempito gli occhi di cenere soffiando sul fuoco. Eust. in Il. 3.370.19–21 πάλη δὲ κυρίως κατὰ Αἴλιον Διονύσιον (π 5) λεπτότατον ἄλευρον, καὶ (ἡ add. Erbse) τέφρα. Φερεκράτης Ἴπνῳ· «ἀνέπλησα – πῦρ».

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Palē (significa) in senso proprio, secondo Elio Dionisio (π 5), ‘farina di grano finissima’ e ‘cenere’. Ferecrate nell’ Ipnos: «ho riempito – fuoco».

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Bibliografia Runkel 1829, p. 28; Bothe 1855, p. 94; Naber 1880, p. 29; Kaibel ap. Kassel–Austin VII, p. 133; Conti Bizzarro 1988–1989, p. 272; Urios-Aparisi 1992, p. 216; Quaglia 2001, pp. 325–327 Contesto della citazione Discutendo il significato di παιπαλόεσσα, Eustazio ne dichiara l’ etimologia da palē; quest’ ultimo termine è illustrato facendo ricorso all’ autorità di Elio Dionisio, citato forse in maniera compendiaria: infatti, il grammatico doveva distinguere tra un significato proprio (leptotaton aleuron) e uno traslato, tephra, garantito dalla citazione ferecratea. Testo Secondo Naber «praestat nisi fallor eliminare activum verbum et rescribere ἀνέπλησο, quod praeterea ipsa rei natura flagitatur». Tuttavia, per la costruzione del verbo attivo con acc. indicante una parte del corpo del soggetto senza pronome possessivo e il genitivus rei, vd. Ar. Byz. Epit. 2.552.4 καὶ 〈νίτ〉ρου τὰς χεῖρας ἀναπλήσαντες; Jos. AJ 20.123 σποδοῦ τὰς κεφαλὰς ἀναπλήσαντες; cfr. anche Charond. Προοίμια νόμων p. 62.25 Thesleff μηδὲ ἀναπιμπλῇ τὴν ψυχὴν ἀναιδείας καὶ μιασμάτων. Interpretazione Il personaggio parlante ha riempito i suoi occhi di cenere soffiando sul fuoco per avvivarlo. La scena si svolge forse in cucina, come ha notato Kaibel, anche sulla base del titolo Ipnos (vd. Introduzione e lemma φυσῶν τὸ πῦρ): in tal caso si può pensare che il parlante fosse un cuoco o un suo aiutante. Urios-Aparisi ha suggerito anche un possibile contesto sacrificale, dato il titolo alternativo Pannychis (vd. Introduzione). πάλης Il termine, oltre a significare ‘farina’, ‘fior di farina’ (è questo il significato proprio della parola secondo Elio Dionisio, fonte del nostro frammento), può essere usato per indicare qualsiasi materiale polverizzato, come apprendiamo dallo stesso frammento ferecrateo e da analoghi usi di paipalē e paspalē, parole correlate a palē (l’etimo è incerto: si può pensare a una connessione col verbo πάλλω, oppure con il lat. pollen, puls; vd. Frisk GEW, s. vv.; Lejuene 1987, pp. 151 (§ 150), 228 (§ 237); Beekes 2010, s. vv.; cfr. Pellettieri 2020, pp. 300–302). In letteratura, se si esclude il nostro frammento, palē è confinato alla prosa medica, vd. Hp. Mul. 110 (8.236.11 Littré) πάλη ἀλφίτου. Per quanto riguarda le attestazioni lessicografiche, vd. Philox. Gramm. *270 Theodoridis a. Or. 135.35 πεπάλη· πάσω πάλη καὶ ἀναδιπλασιασμῷ πεπάλη. b. Et.Gen. AB s. v. πεπάλη (ex Orione), unde EM 661.10: πεπάλη· τὸ λεπτὸν τοῦ ἀλεύρου, ὅπερ δύναται ἐπιπάσσεσθαι διὰ τὴν λεπτότητα. παρὰ τὸν πάσω μέλλοντα πάλη […]· καὶ γὰρ ὁ εἰς σω μέλλων τὴν σω συλλαβὴν τρέπει εἰς λη […]. οὕτως οὖν καὶ πάσω πάλη καὶ κατὰ ἀναδιπλασιασμὸν παπάλη καὶ τροπῇ τοῦ α εἰς

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ε πεπάλη. οἱ δὲ Ἀττικοὶ πασπάλη λέγουσι κατὰ πλεονασμὸν τοῦ σ; Erot. π 61 πάλη ἀλφίτου· πάλη λέγεται τὸ λευκότατον καὶ λεπτότατον τοῦ ἀλφίτου; Poll. 7.21 τῇ δ’ ἀρτοπώλιδι ἀνήκει ἄλευρα, ἄλφιτα ὀλῦραι, ζειαί, σεμίδαλις, χόνδρος, κρίμνα, πάλη, ἀφ’ ἧς καὶ τὸ πάλημα, σταίς, μᾶζα; Hsch. ε 4149 ἐπάλυνεν· ἐλεύκανεν. ὕγρανεν, ἀνέδευσεν. ἢ ἐπεπάσθη. ἢ ἀπὸ τῆς πάλης, ἐλεύκανε χιόνι; π 164 πάλην· ἄλευρα. καὶ σποδός. τὸ λεπτότατον τοῦ ἀλεύρου; Phot. π 593 πεπαλαγμένος· μεμολυσμένος· ἔνθεν καὶ πάλη διὰ τὸ μολύνεσθαι τῇ κόνει; cfr. Eust. in Il. 3.4.9–15. φυσῶν τὸ πῦρ Si impone il confronto con Dionys. Com. fr. 2.16 φυσᾶν τὸ πῦρ: qui a parlare è un cuoco che si rivolge a uno schiavo di nome Simias; l’ attività di alimentare il fuoco soffiando è considerata tra quelle che qualunque ὀψοποιός potrebbe fare, a differenza di quelle più complesse che caratterizzano il ruolo del μάγειρος, cfr. Nesselrath 1990, pp. 305–306 e Orth 2020, p. 320 ad loc., che cita anche Anaxipp. fr. *1.12 («aus einem Vortrag eines Kochs über Innovationen seiner Vorgänger und Lehrer») πῦρ τ’ ὀξὺ καὶ μὴ πολλάκις φυσώμενον; Henioch. fr. 4.7–8 ἔτνος κυάμινον διότι τὴν μὲν γαστέρα / φυσᾷ, τὸ δὲ πῦρ οὔ; da confrontare è anche Philippid. fr. 16 ὁ φανὸς ἡμῖν οὐκ ἔφαινεν οὐδὲ ἕν. / :: ἔπειτα φυσᾶν δυστυχὴς οὐκ ἠδύνω;.

fr. 67 (61 K.) ὁδ’ ἔστ’ ἐφ’ οὗ ποτ’ ἦν ὁ πυρὸς ἄξιος ὁδ’ ἔστ’ ἐφ’ οὗ ποτ’ ἦν ὁ Porson : ὁ δὲ στέφους πετεινὸς codd. : ὁ δ’ ἐστί που πετεινοὶς Wesseling («si periclitari velis, numeris suis facile restituetur»; ὁ δὲ πυρός ἐστι τοῖς πετεινοῖς ἄξιος tempt. Toup)

Questi è colui ai cui tempi il grano era a buon mercato Su. α 2814 ἄξιος: τὸ εὔωνος. Φερεκράτης Ἱστῷ· «ὁ δὲ στέφους πετεινὸς πυρὸς ἄξιος». Axios: a buon mercato. Ferecrate nell’ Istos: «questi – mercato».

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Bibliografia Wesseling 1731, p. 250; Toup 1790, I, pp. 64–65; Porson 1815, p. 184; Runkel 1829, p. 28; Meineke FCG II.1, p. 279; Edmonds FAC I, pp. 228–229; Kassel–Austin VII, p. 133; Conti Bizzarro 1988–1989, p. 273; Urios-Aparisi 1992, pp. 216–217; Quaglia 2001, pp. 327–328 Contesto della citazione La fonte della Suda si serve del verso ferecrateo per illustrare uno dei significati di ἄξιος. L’ equivalenza ἄξιος = εὔωνος, del resto, è segnalata da diversi lessici e scolii, cfr. Valente ad Antiatt. α 13.

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Pherekrates

Testo In seguito agli infruttuosi tentativi di Wesseling e Toup (per i quali rimando senz’ altro all’ apparato critico), il testo dei mss. è stato corretto, con ragionevole certezza, da Porson. Interpretazione Il parlante si riferisce probabilmente a un personaggio maschile presente sulla scena, come sembra evincersi da ὁδ’118. Si tratta forse di un uomo che ha svolto funzioni di governo (ἐφ’ οὗ rimanda, anche se non necessariamente, a formule come ἐπì τοῦ δείνου ἄρχοντος vel simm.) in un passato (impossibile dire se recente o remoto, vd. infra) in cui il prezzo del grano era modico – probabilmente in virtù del buon governo del personaggio stesso. Non è da escludere, insomma, una nostalgica laudatio temporis acti; si sarebbe anzi tentati di portare a paragone quelle commedie che mettevano in scena, come redivivi oppure come ombre dell’ Ade, illustri personaggi del passato. La battuta sembra presupporre una situazione di difficoltà economico-politica, tanto che alcuni studiosi hanno tentato di ricondurre il nostro frammento a una precisa ‘congiuntura’: Urios-Aparisi 1992, p. 217 menziona Thuc. 7.28.1 ἥ τε τῶν ἐπιτηδείων παρακομιδὴ ἐκ τῆς Εὐβοίας, πρότερον ἐκ τοῦ Ὠρωποῦ κατὰ γῆν διὰ τῆς Δεκελείας θάσσων οὖσα, περὶ Σούνιον κατὰ θάλασσαν πολυτελὴς ἐγίγνετο· τῶν τε πάντων ὁμοίως ἐπακτῶν ἐδεῖτο ἡ πόλις, καὶ ἀντὶ τοῦ πόλις εἶναι φρούριον κατέστη, che sembra implicare l’ aumento del prezzo del grano in seguito all’ occupazione di Decelea nel 413 (Hopper 1979, p. 79; Moreno 2007, pp. 117–122; ma vd. Westlake 1948; cfr. Gomme–Andrews–Dover 1970, p. 406 e Hornblower 2008, p. 592; vd. anche Quaglia 2001, p. 328). Dal canto suo, Edmonds credeva – senza addurre solidi argomenti – che uno dei personaggi della commedia fosse Nicia. Tuttavia, simili tentativi mi sembrano destinati all’insuccesso: in ogni epoca l’ andamento dei prezzi del grano poté costituire un buon termometro dei problemi economici, oltre che un facile argomento di conversazione119 (soprattutto dal momento che «it is […] very unlikely that any sort of “normal” or “customary” price existed», come nota Moreno 2007, p. 326; vd. comunque Bresson 2000, pp. 183–210), cfr. ad es. Men. Phasm. 2 πῶς εἰσιν οἱ πυροὶ [κατ’ ἀγορὰν ὤνιοι;]; Thphr. Char. 3.3, εἶτα δὴ προχωροῦντος τοῦ πράγματος λέγειν ὡς πολὺ πονηρότεροί εἰσιν οἱ νῦν ἄνθρωποι τῶν ἀρχαίων, καὶ ὡς ἄξιοι γεγόνασιν οἱ πυροὶ ἐν τῇ ἀγορᾷ; Ter. Andr. 746 annona carast; Petron. 44.1 nemo curat, quid annona mordet. ἄξιος Per ἄξιος = ‘a buon prezzo’, cfr. Cobet 1860, pp. 344–351 e vd. ad es. Ar. Eq. 644–5 ἐξ οὗ γὰρ ἡμῖν ὁ πόλεμος κατερράγη,  / οὐπώποτ’ ἀφύας εἶδον ἀξιωτέρας; 672 ᾔσθοντο τὰς ἀφύας παρ’ ἡμῖν ἀξίας; 894–5 τὸν καυλὸν οἶσθ’ ἐκεῖνον / τοῦ σιλφίου τὸν ἄξιον γενόμενον; V. 491 νῦν δὲ πολλῷ τοῦ ταρίχους

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L’ idea di Marzullo che ὁδ’ possa essere riferito a ἐνιαυτός è riportata laconicamente in Conti Bizzarro 1988–1989, p. 273 senza argomenti a sostegno. Non so a che cosa sia dovuta «l’ impressione» di Quaglia 2001, p. 328 che qui «appaia in scena un politico contemporaneo».

Ἰπνὸς ἢ Παννυχίς (fr. 68)

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ἐστὶν ἀξιωτέρα (sc. ἡ τυραννίς); Eub. fr. *9.1–3 Ζῆθον μὲν ἐλθόνθ’ ἁγνὸν ἐς Θήβης πέδον / οἰκεῖν κελεύει· καὶ γὰρ ἀξιωτέρους / πωλοῦσιν, ὡς ἔοικε, τοὺς ἄρτους ἐκεῖ; Lys. 22.8 ἡγούμενος συμφέρειν ὑμῖν τοῖς παρὰ τούτων ὠνουμένοις ὡς ἀξιώτατον τούτους πρίασθαι; 11 ἴσως δ’ ἐροῦσιν, ὥσπερ καὶ ἐν τῇ βουλῇ ὡς ἐπ’ εὐνοίᾳ τῆς πόλεως συνεωνοῦντο τὸν σῖτον, ἵν’ ὡς ἀξιώτατον ὑμῖν πωλοῖεν; 22 ἂν οὖν τούτων καταψηφίσησθε, τά τε δίκαια ποιήσετε καὶ ἀξιώτερον τὸν σῖτον ὠνήσεσθε· εἰ δὲ μή, τιμιώτερον. Per quanto riguarda la lessicografia, vd. le numerose testimonianze raccolte e ordinate da Valente ad Antiatt. α 13. fr. 68 (62 K.) ἤδη μὲν ᾤαν λούμενος προζώννυται ἤδη FSBCL : ἥβης Naber ᾤαν ABCL : ωναν FS : ᾤα susp. Meineke, rec. Quaglia λούμενος Toup, rec. Bekker in Polluce, Kock, Kaibel : λουμένῳ BCL : λουομένω FS : λουμενοι (sic) A : λουμένη Blaydes : λουμένων Bothe προζώννυται codd. : προζώννυτε Bentley, rec. Meineke ed. min., Kassel–Austin

Ora egli, lavandosi, si annoda sul davanti una pelle di pecora. Poll. 10.181–2 τὸ μέντοι δέρμα ᾧ ὑποζώννυνται αἱ λουόμεναι γυναῖκες ἢ οἱ λούοντες αὐτάς, ᾤαν λουτρίδα ἔξεστι καλεῖν, Θεοπόμπου εἰπόντος ἐν Παισὶν (fr. 38) «τὴν δὲ περιζωσάμενος ᾤαν λουτρίδα, / κατάδεσμον ἥβης περιπέτασον». Φερεκράτης δὲ ἐν Ἰπνῷ καταλέγων τὰ ἐργαλεῖα τῆς παιδοτριβικῆς, «ἤδη – προζώννυται». οὕτω δὲ τὴν μηλωτὴν ἐκάλουν, ἴσως ἀπὸ τῆς ὄιος. La pelle con cui si cingono (i fianchi) le donne che si lavano o coloro i quali le lavano può essere detta ōa loutris, dal momento che Teopompo dice nei Paides (fr. 38) «cingendoti di questa ōa loutris, / avvolgila intorno come fascia per il pube». Ferecrate nell’Ipnos, elencando gli strumenti per la ginnastica, «ora – pecora». Così chiamavano la pelle di pecora, forse da ois, ‘pecora’.

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Bibliografia Toup 1790, IV, p. 400; Meineke FCG II.1, p. 279; Bentley 1842, I, p. 291; Meineke ed. min. I, p. 99; Bothe 1855, p. 94; Kock CAF I, p. 161; Naber 1880, p. 29; Blaydes 1890, p. 18; Edmonds FAC I, pp. 228–229; Conti Bizzarro 1988–1989, pp. 273–274; Kassel–Austin VII, p. 134; Urios-Aparisi 1992, pp. 217–219; Quaglia 2001, pp. 329–333 Contesto della citazione Polluce cita il frammento ferecrateo insieme a Theopomp. Com. fr. 38 come testimonianza del termine ōa (‘pelle di pecora’) riferito a un costume da bagno. Nel paragrafo successivo, il lessicografo riporta Hermipp. fr. 56, in cui una ōa viene usata come maktra per impastare il pane.

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Pherekrates

Per l’ apparente difficoltà causata dalla notizia secondo cui l’ ōa loutris sarebbe stato un costume da bagno per lo più femminile, vd. Interpretazione. Testo Meineke ed. min. e Kassel–Austin accolgono ἤδη μὲν ᾤαν λουμένῳ προζώννυτε di Bentley (lettera CXXIII Wordsworth a Hemsterhuis del 9 giugno 1708): ma non abbiamo notizia di addetti alla vestizione di chi prendeva un bagno; altre testimonianze ci lasciano pensare, piuttosto, che l’ operazione di cingersi della pelle di pecora fosse svolta in autonomia dal bagnante (cfr. Theopomp. Com. fr. 38 τηνδὶ περιζωσάμενος ᾤαν λουτρίδα, / κατάδεσμον ἥβης περιπέτασον). Inoltre la costruzione di ζώννυμι o composti alla forma attiva + acc. dell’ indumento e dat. della persona che viene rivestita, benché plausibile, non è attestata, a quanto mi consta. In alternativa, si potrebbe pesare a ἤδη μὲν ᾤαν λούμενοι προζώννυτε, magari come ordine impartito da un παιδοτρίβης, vd. Interpretazione. Tuttavia, quest’ ultima proposta ha l’ inconveniente, rispetto alle altre avanzate in passato, di introdurre due correzioni anziché una, oltre a presentare una forma attiva del verbo che lascia perplessi. Del resto, ἤδη μὲν ᾤα λουμένῳ προζώννυται, suggerito da Meineke come mera possibilità e recepito da Quaglia 2001, p. 333, non convince, data la rarità delle occorrenze al passivo dei verbi ζώννυμι e composti. Sembra dunque più prudente accogliere ἤδη μὲν ᾤαν λούμενος προζώννυται di Toup (seguito da Bekker in Poll., Kock e Kaibel). Blaydes, che porta a confronto Theopomp. Com. fr. 38 e Hermipp. fr. 76, scrive ἤδη μὲν ᾤαν λουμένη προζώννυται, introducendo un femminile non convincente (Vd. Interpretazione). Interpretazione Il parlante descrive probabilmente (vd. Testo) l’ azione di qualcuno che indossa una pelle di pecora (ōa) e prende un bagno, forse dopo aver praticato dell’ attività fisica. Infatti, dalla nostra fonte sappiamo che la menzione dell’ ōa nel frammento ferecrateo era parte di un catalogo di strumenti necessari alla paidotribikē: il contesto deve dunque essere quello dell’ allenamento fisico dei paides (cfr. ad es. Dover 1968, pp. LIX-LX) o, al più, degli ephēboi (cfr. Aristot. Ath. 42.3); sul ruolo del paidotribēs, vd. ad es. Pl. Grg. 452b σὺ δὲ δὴ τίς εἶ, ὦ ἄνθρωπε, καὶ τί τὸ σὸν ἔργον; “παιδοτρίβης,” φαίη ἄν, “τὸ δὲ ἔργον μού ἐστιν καλούς τε καὶ ἰσχυροὺς ποιεῖν τοὺς ἀνθρώπους τὰ σώματα”; Pl. Alc. 1 107e εἰ οὖν βουλεύοιντο Ἀθηναῖοι τίσιν χρὴ προσπαλαίειν καὶ τίσιν ἀκροχειρίζεσθαι καὶ τίνα τρόπον, σὺ ἄμεινον ἂν συμβουλεύοις ἢ ὁ παιδοτρίβης;; vd. Miccolis 2017, pp. 306–308 ad Archipp. fr. 58, con bibliografia. Si può solo immaginare che il catalogo fosse in qualche modo collegato a un’ apologia dell’ educazione tradizionale, di cui l’ allenamento fisico era parte (cfr. le parole del Discorso Migliore in Ar. Nu. 973–4). Secondo Poll. 7.66 e 10.181, l’ ōa loutris era indumento femminile, ma anche gli uomini la indossavano quando facevano il bagno con le donne, cfr. Ginouvès 1962, pp. 223–224. Ciò crea un problema, forse solo apparente: se il nostro frammento ha davvero a che fare con l’ educazione fisica, essa andrà intesa come rivolta ai fanciulli (o agli efebi) piuttosto che al sesso femminile. In base al nostro frammento, dunque, dovremmo ritenere che le informazioni date da Polluce siano inesatte;

Ἰπνὸς ἢ Παννυχίς (fr. 69)

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ma, a ben vedere, il lessicografo distingue tra gynaikes e andres, mentre Ferecrate doveva appunto descrivere il bagno di un pais o di un efebo. ἤδη μέν Non possiamo sapere se in questo caso μέν fosse ‘autonomo’ oppure «preparatory» (vd. Denniston 1954, p. 369) e dunque legato a ciò che seguiva. Stante il suo possibile valore incettivo (vd. Denniston 1954, pp. 382–384), non si può escludere che qui la particella servisse a marcare il passaggio da una sezione a un’ altra del catalogo di cui ci parla la nostra fonte (vd. Interpretazione). ᾤαν Probabilmente derivato da ὄϊς, ‘percora’ (cfr. Frisk GEW, s. v.; ma vd. Beekes 2010, s. v.), il sostantivo poteva indicare un tessuto di pelle di pecora (vd. IG III.3, App. pp. II–III [= SIG 1259.6; Atene, IV sec. a.C., lettera privata] στέγασμα, εἴ τι βόλεστε, ἀποπέμψαι ἢ ὤας ἢ διφθέρας ὡς εὐτελεστάτας καὶ μὴ σισυρωτάς), come un ‘costume’ (qui e in Hermipp. fr. 76, con Comentale 2017, p. 307), un ‘orlo’ per proteggere i bordi dei mantelli (vd. ad es. Ar. fr. 223, con Cassio 1977, p. 83, e cfr. Poll. 7.62; da questo significato deriva anche il senso di ‘bordo’ in generale, cfr. LSJ, s. v. II.2) e persino un tessuto usato come maktra per impastare il pane (vd. Hermipp. fr. 56, con Comentale 2017, p. 227). Per la grafia oscillante (ᾤα, ὤα, ᾦα, ὦα, οἶα, ὄα), vd. [Hdn.] GG III.1, p. 303.13; GG III.2, p. 557.27; Lex. Mess. (Orus, Π. ὀρθογρ.) fol. 283r 22, ap. Rabe 1892, p. 411; Theognost. Can. 634, p. 106.5–8 Cramer; 637, p. 106.24–25 Cramer; Eust. in Od. 2.156.35–45 (cfr. anche Eust. in Il. 3.301.24–25). προζώννυται il verbo, attestato solo qui e in Gloss. 2.417.45 (= procingo), significa «gird oneself in front, as with an apron» (LSJ, s. v. προζωννύω).

fr. 69 (63 K.) σκηνὴ περίερκτος περιβόλοις κάνναισι περίερκτος ABCL : περίεκτος FS περιβόλοις Runkel, rec. edd. : περίβολος codd. : del. Dindorf in ThGL, prob. Conti Bizzarro κάνναισι BC : -εσι FSAL : -αισιν ἦν e. g. Kock

La/una tenda attorniata da canne che corrono attorno Poll. 10.183 κάνναι δὲ πλεγμάτιόν τι ἐστίν, οὗ μέμνηται ἐν Σφηξὶν Ἀριστοφάνης (v. 394)· «οὐ μή ποτέ σου παρὰ τὰς κάννας οὐρήσω». καὶ Φερεκράτης ἐν Ἰπνῷ «σκηνὴ – κάνναισι». Le kannai sono una sorta di struttura a intreccio, menzionata da Aristofane nelle Vespe (v. 394): «non piscerò più presso il tuo recinto di canne». Anche Ferecrate nell’ Ipnos: «la/ una – canne».

Metro Incerto

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Bibliografia Runkel 1829, p. 27; Meineke FCG II.1, p. 280; Kock CAF I, p. 161; Conti Bizzarro 1988–1989, pp. 274–275; Kassel–Austin VII, p. 134; Urios-Aparisi 1992, pp. 220–221; Quaglia 2001, pp. 333–335 Contesto della citazione Polluce cita il frammento di Ferecrate a proposito del termine kannai, che può indicare una struttura fatta di materiali vegetali intrecciati tra loro; il lessicografo adduce a tale proposito anche la testimonianza di Ar. V. 394, in cui le kannai costituiscono il recinto del santuario di Lico. Testo Secondo Dindorf, περίβολος dei manoscritti è glossa che spiega l’ hapax περίερκτος. Tuttavia, περίβολος in funzione di aggettivo ricorre solo una volta in Euripide, a quanto ne sappiamo: difficilmente potrebbe essere stato usato per chiarire il significato di un termine altrettanto raro. Runkel ha dunque riferito l’ aggettivo al seguente κάνναισι: la sua correzione περιβόλοις è stata accolta da più parti. Interpretazione Un parlante ignoto descrive in modo enfatico (se non parodico, vd. lemmi περίερκτος e περιβόλοις) una skēnē recintata da canne intrecciate tra loro. Secondo Urios-Aparisi, che fa riferimento al fr. 18 (γέρροις ἀποσταυροῦνται), il termine σκηνή (‘tent’, ‘booth’, vd. LSJ s. v.) potrebbe rimandare a un ambito militare (simile ambientazione lo studioso ipotizza per il fr. 65, vd. comm. ad loc.). Conti Bizzarro, senza validi argomenti, sostiene invece che «nel frammento comico si tratterà […] della σκηνή drammatica e del περίβολος [sostantivo!], in cui si svolgevano gli agoni lenei»120. Secondo Quaglia 2001, p. 335, che prende le mosse dai labili argomenti di Conti Bizzarro, «la σκηνή in questione […] poteva essere la scena drammatica, che l’ autore definiva semplicemente περίερκτος κάνναισι»; occorrerebbe dunque «riferire il passo alla prassi teatrale». Al contempo, lo studioso ipotizza che Ferecrate descrivesse un luogo sacro. Alla comprensione del frammento potrebbe forse giovare il confronto con Eur. Ion 1133 ἀτοίχους περιβολὰς σκηνωμάτων, riferito alle ‘pareti’ della tenda di Ione posta nel santuario di Delfi. Non è impossibile che la skēnē descritta nel nostro frammento fosse un’ architettura effimera (tenda, padiglione) posta nel recinto di un santuario e che il verso ferecrateo presupponesse un contesto festivo (che sarebbe in linea con uno dei titoli della commedia – Pannychis: vd. Introduzione). A tale proposito, vd. l’ abbondante documentazione in Goldstein 1978 e cfr. Martin 2018, p. 430 ad Eur. Ion 1132b-66a: «public tents (or pavilions), temporary structures in precincts equivalent to permanent banquet halls, are a regular presence at Greek festivals. They accommodate public dinners where meat from sacrifices is consumed but also serve as cities’ meeting points for negotiations and places of representation»; lo studioso ricorda ad esempio le ricche tende di Temistocle 120

Peraltro, secondo lo studioso, περίβολος è qui «termine tecnico dell’ archeologia teatrale» che va espunto, con Dindorf, in quanto «nota di un lettore attento, cui non sfuggiva che in questo luogo di Ferecrate si parla, appunto, del recinto, in cui si svolgevano gli agoni drammatici».

Ἰπνὸς ἢ Παννυχίς (fr. 70)

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e Cimone a Olimpia (cui si accenna in Plu. Them. 5.3) e la tenda ‘persiana’ eretta dagli Efesii in onore di Alcibiade per la sua vittoria olimpica del 416 ([Andoc.] Alc. 4.30 τούτῳ σκηνὴν μὲν Περσικὴν Ἐφέσιοι διπλασίαν τῆς δημοσίας ἔπηξαν; cfr. anche Plu. Alc. 12.1, con Verdegem 2010, pp. 173–174). Non è da escludere, insomma, che la menzione della skēnē avvenisse in relazione a qualche personaggio in vista. περίερκτος Si tratta di un hapax di alta caratura stilistica: vd. infatti la forma ‘epica’ -ερκτος (< ἔργω, att. εἴργω) e cfr. Aesch. Ch. 446 ἄφερκτος (lyr.). περιβόλοις L’ unica altra occorrenza dell’ aggettivo è Eur. IA 1477 στέφεα περίβολα (lyr.). κάνναισι Letteralmente ‘canne’ (Arundo Donax L.); per estensione il termine indica qui «matting woven out of reeds and used as fencing» (Olson 2016, pp. 233–234 ad Eup. fr. 218.4; cfr. Biles–Olson 2015, p. 214 ad Ar. V. 394). fr. 70 (64 K.) κᾆτα μυροπωλεῖν τί μαθόντ’ ἄνδρ’ ἐχρῆν καθήμενον ὑψηλῶς ὑπὸ σκιαδείῳ, κατεσκευασμένον συνέδριον τοῖς μειρακίοις ἐλλαλεῖν δι’ ἡμέρας; αὐτίκ’ οὐδεὶς οὔτε μαγείραιναν εἶδε πώποτε οὔτε μὴν οὐδ’ ἰχθυοπώλαιναν 1 κᾆτα μυροπωλεῖν Casaubon : καταμ- A μαθοντ’ A : παθ- Dobree ἄνδρ’ ἐχρῆν Erfurdt : ἀνδεχρην A : ἄνδρα χρῆν Platnauer 2 σκιαδίῳ A : corr. Erfurdt 3 συνέδριον Hermann : -ον οὗ A : -ι’ οὗ Erfurdt ἐλλαλεῖν Dobree : ἐλάλει A : ἵν’ ἐλάλει Hermann : τοῦ λαλεῖν Fritzsche : (-σιν) λαλεῖν vel συλλαλεῖν Meineke (συλλ- rec. Kaibel ap. Kassel– Austin) : διαλαλεῖν Cobet, prob. Nauck : ἐκλαλεῖν Conti Bizzarro 5 οὔτε μὴν οὐδ’ Dindorf in ed. Ath. : οὐ μὴν οὐδ’ A : οὐ μὴν οὐδεὶς Erfurdt : οὐ μὴν οὐδέ γ’ Hermann : οὐδὲ μὴν οὐδ’ Meineke, in v. 4 quoque οὐδὲ traditum esse opinatus; a quo in eundem errorem inductus ἀλλ’ οὐ μὴν οὐδ’ Kock (coll. Il. 23.441)

E poi, che bisogno c’ era (bell’idea!) che un uomo vendesse profumi seduto in alto sotto un parasole – un luogo di riunione fornito ai giovinetti per chiacchierare tutto il giorno? Ad esempio, nessuno vide mai una cuochessa e neppure una pescivendolessa Ath. 13.612a-b καλόν γε τὸ τέλος τῆς εὐδαιμονίας τῷ φιλοσόφῳ ἡ μυρεψικὴ τέχνη ἀκόλουθός τε τῇ Σωκράτους φιλοσοφίᾳ, ἀνδρὸς τοῦ καὶ τὴν {τοιαύτην} (del. Kaibel) χρῆσιν τῶν μύρων ἀποδοκιμάσαντος, Σόλωνος δὲ τοῦ νομοθέτου οὐδ’ ἐπιτρέποντος ἀνδρὶ τοιαύτης προίστασθαι τέχνης (fr. 73b Ruschenbusch)· διὸ καὶ Φερεκράτης ἐν Ἰπνῷ ἢ Παννυχίδι φησίν·

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Pherekrates

«κᾆτα – ἡμέρας»; εἶθ’ ἑξῆς φησιν· «αὐτίκ’ – ἰχθυοπώλαιναν». ἑκάστῳ γὰρ γένει ἁρμόζοντα δεῖν εἶναι καὶ τὰ τῆς τέχνης. È proprio una bella cosa, come ideale di perfetta felicità per il filosofo, l’ arte della profumeria, e perdipiù coerente con la filosofia di Socrate, un uomo che disapprovò perfino l’ uso dei profumi, mentre Solone il legislatore, per parte sua, neppure permetteva che un uomo esercitasse una simile arte (fr. 73b Ruschenbusch): perciò anche Ferecrate nell’ Ipnos ē Pannychis dice: «e poi – giorno?», poi, di seguito, dice: «ad esempio – pescivendolessa». Infatti, anche le arti devono essere appropriate a ciascun sesso.

Metro Eupolidei

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Bibliografia Erfurdt 1812, p. 444; Dobree, 1833, p. 347; Hermann 1816, p. 580; Runkel 1829, p. 26; Meineke FCG II.1, pp. 276–277; Bothe 1855, p. 93; Fritzsche 1855, p. 12; Cobet 1867, p. 235; Kock CAF I, p. 162; Nauck 1894, pp. 68–69; Platnauer 1942, p. 5; Edmonds FAC I, pp. 230–231; Da Costa Ramalho 1950; Kassel–Austin VII, pp. 134–135; Conti Bizzarro 1988–1989, pp. 275–276; UriosAparisi 1992, pp. 221–229; Quaglia 2001, pp. 335–344 Contesto della citazione Nell’ ambito di una discussione sui filosofi (tra Mirtilo, letterato, e Cinulco, filosofo, da 610b), Ateno cita un brano di Lisia (fr. 1 Carey) su Eschine di Sfetto (test. 35 Pentassuglio), detto il socratico, che avrebbe cercato di darsi al commercio di profumi, attività stigmatizzata dallo stesso Socrate (vd. Xen. Smp. 2.3–4) e, prima ancora, da Solone (fr. 73b Ruschenbusch). A conferma di tale giudizio negativo, Ateneo cita dunque il frammento di Ferecrate. Non è però affatto sicuro che il comico avesse in mente il divieto solonico: probabilmente, quest’ ultimo non va interpretato come legge suntuaria, né va inteso come il tentativo di affidare l’ arte della profumeria alle sole donne; piuttosto, «das Verbot dient […] der Sicherung der Ernährung des Landes» (Ruschenbusch 2014, p. 142), dal momento che per produrre profumo c’ era bisogno di coltivare un gran numero di fiori (diversamente Sondhaus 1909, pp. 58–59; cfr. Leão–Rhodes 2015 ad Sol. fr. 73b Ruschenbusch). Testo Su v. 1 μαθοντ’ di A (παθ- Dobree), vd. lemma τί μαθόντ’. ἄνδρ’ ἐχρῆν di Erfurdt in luogo del tràdito ἀνδεχρην è soluzione che sembra ben conciliarsi con il contenuto del frammento (vd. Interpretazione). Per la forma ἐχρῆν, vd. Barrett 1964, pp. 361–362 ad Eur. Hipp. 1072–3. Al v. 3, A presenta συνέδριον οὗ […] ἐλάλει, forse un tentativo di rendere perspicuo il testo (vd. lemma ἐλλαλεῖν) e/o di far fronte a una corruttela. Tra le

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soluzioni proposte, la più economica mi sembra quella di Dobree (accolta anche da Kassel–Austin), sebbene ἐλλαλεῖν non abbia attestazioni all’ infuori di Ph. Alex. De mut. nom. 204. In alternativa si potrebbe pensare a -σιν λαλεῖν di Meineke; lo stesso studioso propose συλλαλεῖν, accolto da Kaibel ap. Kassel–Austin (συλλαλεῖν è sicuramente attestato solo a partire dal III sec. a.C., con un significato non pregnante, vd. LSJ, s. v.). Al v. 5 οὔτε μὴν οὐδ’ di Dindorf in luogo di οὐ μὴν οὐδ’ A non fa difficoltà: vd. Xen. Smp. 1.15; Cyr. 4.3.12, 5.4.11 (ma vd. Meineke FCG II.1, p. 277: «οὔτε Attici, quantum memini, non dicunt ante μήν»). Interpretazione Le due parti del frammento sono in metro eupolideo e si possono attribuire a un intervento dialogico del coro o forse alla parabasi della commedia (dato il contenuto e il tono polemico). Il parlante si scaglia contro chi, pur essendo un uomo, ha intrapreso il commercio dei profumi: tale attività, che offre ai giovani occasione di chiacchiera e di ozio (vd. infra), è presentata infatti come tipicamente femminile (così, del resto, lasciano intendere le parole di Ateneo a commento del passo – ἑκάστῳ γὰρ γένει ἁρμόζοντα δεῖν εἶναι καὶ τὰ τῆς τέχνης). Non siamo sicuri che il parlante si riferisca a una persona realmente esistita; peraltro, i versi pervenutici dovevano essere preceduti da altre considerazioni (vd. lemma κᾆτα) e forse erano parte di una argomentazione più ampia su temi di morale e di costume. Topica è la caratterizzazione delle botteghe dei profumieri come luoghi per uomini (spesso giovani) sfaccendati e dediti alla chiacchiera (vd. Olson 2016, pp. 247–248 ad Eup. fr. 222.2, con numerosi esempi); ciò vale anche per le botteghe dei barbieri e per altri ergasteria, vd. la bibliografia e i passi riportati in Diggle 2004, pp. 319–320 (ad Thphr. Ch. 11.8) e cfr. Lewis 1995. In particolare, il confronto si impone con Pherecr. fr. 2 λουσάμενοι δὲ πρὸ λαμπρᾶς ἡμέρας / ἐν τοῖς στεφανώμασιν οἱ δ ἐν τῷ μύρῳ / λαλεῖτε περὶ σισυμβρίων κοσμοσανδάλων τε e Ar. Eq. 1375–6 τὰ μειράκια ταυτὶ λέγω τἀν τῷ μύρῳ, / ἃ τοιαδὶ στωμύλλεται καθήμενα. Sembra dunque chiaro che i profumieri hanno, per chi parla, un ruolo socialmente dannoso. È tuttavia difficile cercare di connotare con più precisione il personaggio (o comunque ‘il tipo’) descritto. Si è pensato che sia un sofista, per diversi motivi, nessuno dei quali decisivo: 1) Ateneo cita, prima del nostro fr., un passo di Lisia su Eschine di Sfetto (vd. Contesto della citazione); ma non c’ è necessariamente connessione tra i due brani; 2) la prossemica dell’ignoto profumiere, forse seduto in posizione elevata, pare suggerire un confronto con l’ immagine comica che di Socrate ci restituisce Aristofane in Nu. 218–34, in cui il filosofo appare in scena sospeso in aria in un tarros (così Conti Bizzarro 1988–1989, p. 275); ma tale confronto non è convincente, vd. lemma ὑψηλῶς (quanto allo stare seduti, cfr. Ra. 1491–5 χαρίεν οὖν μὴ Σωκράτει / παρακαθήμενον λαλεῖν, / ἀποβαλόντα μουσικὴν / τά τε μέγιστα παραλιπόντα / τῆς τραγῳδικῆς τέχνης); 3) gli hapax dei vv. 4–5 (μαγείραιναν e ἰχθυοπώλαιναν) sono stati messi a confronto con Ar. Nu. 666 ἀλεκτρύαινα (vd. in particolare Quaglia 2001, pp. 342–343): ma

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questo neologismo è usato dal Socrate aristofaneo come femminile in opposizione al maschile ἀλέκτωρ nell’ ambito di un scientific discourse (vd. Willi 2003, pp. 96–117), in particolare nel contesto di una ‘lezione di grammatica’ che risente delle speculazioni linguistiche di Protagora (su cui vd. Corradi 2012, pp. 133–175); Ferecrate, invece, non sembra voler parodiare un gergo tecnico o una particolare dottrina; piuttosto, egli vuole enfatizzare la distinzione dei ruoli sociali di uomini e donne, vd. lemma μαγείραιναν … ἰχθυοπώλαιναν. L’ indignazione stessa del parlante ci suggerisce che gli uomini dediti alla profumeria non dovevano essere un’ eccezione; di ciò siamo certi, almeno per quel che riguarda il IV sec.: si pensi al Perone citato più volte nelle commedie di Anassandride, Antifane e Teopompo (PAA 772900; cfr. Millis 2015, pp. 197–198 ad Anxandr. fr. 41.1) o a Eschine di Sfetto in Lys. fr. 1 Carey (su cui vd. Contesto della citazione); vd. inoltre Hyp. Ath. 9; SEG 25.180.30–1 (Attica, 330–322 a.C.) Ἕρμωνα ἐμ Πειραεῖ οἰκοῦντα | μυροπώλην (ma ll. 33–4 Ἁβροσύνην ἐμ Πειραεῖ οἰκ[οῦ]- | σαν μυρόπωλιν). La visione dell’ arte della profumeria come occupazione femminile può dipendere o comunque essere connessa al tema della tryphē, del lusso, cfr. Polyzel. fr. 12 χὠ μαινόμενος ἐκεινοσὶ Διονύσιος / χρυσοῦν ἔχων χλίδωνα καὶ τρυφήματα / ἐν τῷ μύρῳ παρ’ Ἀθηναίων βαυκίζεται (con Orth 2015, pp. 355–362); Ath. 12.552f Ἡρακλείδης δὲ ὁ Ποντικὸς ἐν τῷ περὶ ἡδονῆς (fr. 44 Schütrumpf) Δεινίαν φησὶ τὸν μυροπώλην διὰ τρυφὴν εἰς ἔρωτας ἐμπεσόντα καὶ πολλὰ χρήματα ἀναλώσαντα, ὡς ἔξω τῶν ἐπιθυμιῶν ἐγένετο, ὑπὸ λύπης ἐκταραχθέντα ἐκτεμεῖν αὑτοῦ τὰ αἰδοῖα, ταῦτα πάντα ποιούσης τῆς ἀκολάστου τρυφῆς. Non possiamo affermare, tuttavia, che il personaggio descritto da Ferecrate fosse dedito alla tryphē o fosse addirittura effeminato (vd. lemma ὑπὸ σκιαδείῳ). Ancor meno possiamo dire su colui che pronunciava questi versi. Kock, portando a confronto Ar. Th. 785–845, ritiene che si trattasse di un coro femminile e conclude «ac chorus mulierum Παννυχίδι optime convenit». Tuttavia, la rappresentante del coro in Ar. Th. propone un confronto tra uomini e donne al fine di dimostrare la superiorità di queste, anche in attività tradizionalmente riservate agli uomini (cfr. Austin–Olson 2004, pp. 262–263); diversamente, nel frammento ferecrateo la divisione dei ruoli tra i sessi sembra essere ribadita con nettezza. In più, la profumeria, vista come arte femminile, è connotata negativamente: tale rappresentazione sarebbe singolare se attribuita proprio a una donna. In alternativa, si può pensare a un coro composto da anziani fustigatori dei nuovi costumi, nell’ ottica di un tipico scontro generazionale (a tale proposito, una pur debole spia dell’ anzianità della persona loquens potrebbe essere il termine μειρακίοις, vd. lemma). 1 κᾆτα Cfr. DGE, s. v. εἶτα c.3: «en interr. o exclam. expr. sorpresa, indignación, ironía, etc., como conclusión después de enunciar varios hechos». μυροπωλεῖν L’ unica altra occorrenza del verbo è in Ar. fr. 856 (vd. Bagordo 2018, p. 48). In Ar. Ec. 841, le μυροπώλιδες non vendono profumi, ma «are on duty to facilitate the diners, since shopkeepers […] would presumably have closed for the occasion» (Ussher 1973, p. 191).

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τί μαθόντ’ Espressione colloquiale (vd. Olson 2002, pp. 278–279; Olson 2014a, p. 151) attestata altrove in commedia, vd. Ar. Ach. 826 (μαθών codd. : παθών anon. in ed. a. 1670), Nu. 402 (μαθών RVKs.l.L : παθών EKi.l.NΘγρ), V. 251, Lys. 599 (μαθών codd. : παθών Fl. Christianus), Pl. 908; Eup. frr. 193.4 (μαθών codd. : παθών Anon.), 392.3 (μαθόντες codd. : παθόντες Wakefield et Valckenaer ap. Gaisford in ed. Stob. I, 1822, p. 126); Nicol. Com. fr. 1.17 (μαθών codd. : παθών Meineke ed. min.); Men. Dysc. 110. L’ espressione ha lasciato perplessi diversi studiosi (bibliografia in Kassel– Austin V, p. 414 ad Eup. fr. 193.4) per vari motivi, riassunti da Hermann 1830, p. L: 1) il significato di μανθάνω non sarebbe conciliabile con tutte le occorrenze di τί μαθών; 2) negli ess. riportati, essa potrebbe essere sostituita da τί παθών; del resto, 3) anche in altri casi παθών e μαθών sono variae lectiones. Tuttavia, tali motivi non sembrano cogenti. Innanzitutto il significato dell’ espressione τί μαθών non può essere ricercato solamente a partire dalle varie accezioni del verbo μανθάνω; bisognerà tenere conto del carattere quasi formulare che τί μαθών assume a causa della sua valenza pragmatica, cfr. Kühner–Gerth II, p. 519: «die fragenden Ausdrücke: τί μαθών und τί παθών drücken immer eine Verwunderung und Missbilligung aus, und unterscheiden sich ursprünglich so, dass der erstere Absichtlichkeit, der letztere Absichtslosigkeit oder Zufälligkeit bezeichnet»121. Va poi detto che τί μαθών è attestato nei migliori mss. di Aristofane (come ricorda Starkie 1897, p. 163) e si trova anche in autori come Elio Aristide e Flavio Filostrato: scartarlo come una facile corruttela di τί παθών non è prudente, come già aveva concluso Schmid 1893, p. 156. Al più, si dovrà tenere in conto che, al contrario di τί μαθών, τί παθών trova conferma in espressioni come τί πάσχεις vel simm. (cfr. Collard 2018, pp. 93–94, 124). καθήμενον Nel nostro caso, lo star seduti potrebbe essere connotato nel senso di «sit doing nothing, lie idle», «lead a sedentary, obscure life» (LSJ, s. v. κάθημαι). A tale proposito, cfr. il già ricordato Ar. Ra. 1491–2 χαρίεν οὖν μὴ Σωκράτει / παρακαθήμενον λαλεῖν, vd. Interpretazione. 2 ὑψηλῶς Dopo quella ferecratea, la prima occorrenza dell’ avverbio si ha in Dion. Hal. Comp. 18.148. L’ avverbio fa pensare, secondo Conti Bizzarro, alla posizione elevata che Socrate occupa nel Pensatoio in Nu. 218–34; lo studioso crede dunque, anche in virtù di questo particolare, che l’ uomo descritto nel nostro frammento sia un filosofo, ‘cattivo maestro’ della gioventù ateniese. Similmente Quaglia 2001, p. 342: «l’ avverbio […] fa qui probabilmente riferimento all’ arroganza di simili cattivi maestri e designerà ad un tempo una posizione elevata […] e la presunzione che da quella posizione di superiorità deriva»; cfr. anche Urios-Aparisi 1992, p. 224: «this is the normal position with which the intellectuals (Socrates but also the dithyrambic poets) are depicted». Tuttavia, Socrate era rappresentato così 121

Sulla possibilità che τί παθών e τί μαθών siano espressioni eufemistiche, vd. Fox 1880, p. 354; Schmid 1893, p. 156.

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perché impegnato a osservare il cielo, un’ attività che ne doveva significare l’ astrattezza di intellettuale ozioso, rinchiuso in un luogo ‘altro’ rispetto all’ esperienza quotidiana – il phrontistērion; l’ ignoto personaggio ferecrateo, invece, è ritratto nel contesto dell’ agorà ed è censurato per la sua condotta pratica – darsi al commercio di beni suntuari associati al mondo femminile e, al contempo, fornire ai giovani un pretesto per chiacchierare oziosamente e disertare le palestre. Rimane da capire, tuttavia, per quale motivo l’ ignoto uomo descritto dal personaggio ferecrateo sia seduto ‘in alto’: Urios-Aparisi 1992, p. 224 ipotizza che egli faccia ciò «in order to control his products and the clients who come to buy them», ma si tratta di un’ ipotesi destinata a rimanere tale122. In alternativa, si è pensato che l’ avverbio possa significare ‘in modo superbo, presuntuoso’: ma solitamente (e al contrario di quanto accade qui) è il contesto a rendere immediatamente chiara tale accezione metaforica di ὑψηλός, vd. ad es. Soph. Ai. 1230; Eur. Hipp. 730; Pl. R. 494d. ὑπὸ σκιαδείῳ Qui e altrove (cfr. Kassel–Austin VII, p. 651 ad Stratt. fr. 59), la forma σκιάδειον è garantita dal metro. Normalmente, σκιάδειον indica un ‘parasole’; non si può escludere, tuttavia, che nel presente caso si possa trattare di «a larger shade-casting device under which several people can gather and business can be conducted, i. e. a “canopy”» (Olson 2014a, p. 243 ad Eup. fr. 481)123. In tal senso, cfr. anche Urios-Aparisi 1992, p. 225 con riferimento ai gerra, «wattled screens or booths» (LSJ, s. v. γέρρον II) usati nell’ agorà, vd. Dem. 18.169 e cfr. Harp. γ 8; Hsch. γ 440, 441, 443. Non possiamo dunque affermare che lo skiadeion sia segno di effeminatezza nel nostro frammento, sebbene il parasole sia spesso associato al genere femminile: oltre alla skiadiskē di Artemone in Anacr. PMG 388 (con la discussione di Bernsdorff 2020, II, pp. 583 e 602–603), vd. ad es. Ar. Av. 1508, 1549–1551 (con Dunbar 1995, p. 698); Th. 823 (con Austin–Olson 2004, p. 272); Stratt. fr. 59 (con Orth 2009, p. 242)124; Dion. Hal. 7.9.4; Poll. 10.127. Uno σκιάδειον è incluso nella lista dei beni degli Ermocopidi in IG I3 422.159 (cfr. Pritchett–Pippin 1956, pp. 209–210; Miller 1992, p. 92). Per le rappresentazioni vascolari dei parasole, vd. almeno Miller 1992; Bernsdorff 2020, p. 583, con bibliografia.

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Si è tentati di fare riferimento a Thphr. Od. 4.40 διαφθείρει δὲ τὰ μύρα καὶ ὥρα θερμὴ καὶ τόπος καὶ ὁ ἥλιος ἂν τεθῶσι· διὸ καὶ οἱ μυροπῶλαι ζητοῦσι τὰς οἰκίας ὑπερῴους καὶ μὴ προσηλίους ἀλλ’ ὅτι μάλιστα παλισκίους· ἀφαιρεῖται γὰρ τὰς ὀσμὰς ὁ ἥλιος καὶ τὸ θερμὸν καὶ ὅλως ἐξίστησι τῆς φύσεως μᾶλλον τοῦ ψυχροῦ; ma qui Teofrasto parla di oikiai, non di ergastēria. Hsch. σ 970 (σκιάδια· σκηνοπήγια. ἔστι δὲ τόπος, ἐν ᾧ τὰ μειράκια ἐκαθέζετο) potrebbe dipendere proprio da Ferecrate (vd. Hansen in ed.): in tal senso, il lemma al plurale non è una difficoltà, vd. ad es. Bossi–Tosi 1979–1980, p. 9. Più che dubbio il caso di Eup. fr. 481 (Phot. σ 327) σκιὰς καὶ σκιάδειον· ἐν ᾧ ὁ Διόνυσος κάθηται. οὕτως Εὔπολις, in cui probabilmente σκιάδειον era in origine un interpretamentum di σκιάς, vd. Olson 2014a, pp. 242–244.

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2–3 κατεσκευασμένον / συνέδριον Secondo Kock CAF I, p. 162, κατεσκευασμένον «participium medii est»; similmente Urios-Aparisi 1992, p. 225 («it may indicate a personal interest of this perfume-seller in this meeting»). Vd. tuttavia Pl. Prt. 317d 5 βούλεσθε οὖν, ὁ Καλλίας ἔφη, συνέδριον κατασκευάσωμεν, ἵνα καθεζόμενοι διαλέγησθε; (difficilmente il passo platonico dipenderà dal nostro frammento, come vuole Conti Bizzarro 1988–1989, p. 277); Cass. D. 46.6.2 συνέδριον δέ τι κατασκευάσας ἐνταῦθα ὥσπερ αἱ πόρναι τὸν δώσοντά τι ἀεὶ ἀναμένεις; cfr. anche Eup. fr. 192.149 σὺ τὸ συνέδριον σκεύαζε. Ciò induce a credere che κατεσκευασμένον / συνέδριον possa essere un nominativus pendens. Se è così, συνέδριον qui significherà il luogo di incontro e non la riunione, cfr. Gomme–Sandbach 1973, pp. 163–164 ad Men. Dysc. 177. τοῖς μειρακίοις Per i meirakia menzionati in un contesto simile, cfr. Ar. Eq. 1375–6 τὰ μειράκια ταυτὶ λέγω τἀν τῷ μύρῳ, / ἃ τοιαδὶ στωμύλλεται καθήμενα; Nu. 1052–4 ταῦτ’ ἐστὶ ταῦτ’ ἐκεῖνα, / ἃ τῶν νεανίσκων ἀεὶ δι’ ἡμέρας λαλούντων / πλῆρες τὸ βαλανεῖον ποιεῖ, κενὰς δὲ τὰς παλαίστρας. Il termine meirakion (diminutivo di meirax, su cui vd. Bianchi 2016, p. 352 ad Cratin. fr. 60), è attestato a partire dalla seconda metà del V sec., perlopiù in commedia e nella prosa attica, ma non in tragedia: è pertanto considerato un «attic colloquialism» (Biles–Olson 2015, p. 302; Ar. Eq. 556–7 μειρακίων θ’ ἅμιλλα λαμ- / πρυνομένων ἐν ἅρμασιν può essere spiegato come uso enfatico, vd. infra). Indica chi è «young enough to still belong in school (e. g. Ar. Nu. 916–17; Epicr. fr. 10.9–11), but old enough to be having sexual adventures (e. g. Ar. Pl. 975–91)» (Olson 2014a, pp. 33–34 ad Eup. fr. 333.2), in un’ età compresa all’ incirca tra i 13/14 e i 20 anni: cfr. Orth 2015, p. 160 ad Philyll. fr. 5.2; Bagordo 2016, p. 193 ad Ar. fr. 637. Men. fr. 494 παῖς γέγον’, ἔφηβος, μειράκιον, ἀνήρ, γέρων sembra presentare una determinazione dell’ età ancora più ristretta (tra i 18 e i 20 anni o poco più, cfr. Gomme–Sandbach 1973, p. 140 ad Men. Dysc. 27). Ma non sempre è possibile stabilire un confine netto tra meirakion e altri termini che designano classi d’ età: su incongruenze e sovrapposizioni in questo genere di nomi, vd. ad es. Napolitano 2012, p. 230 n. 629, con bibliografia. Talvolta, poi, meirakion sembra riflettere il punto di vista di parlanti che si riferiscono in modo enfatico a persone più giovani, senza che l’ età di queste sia ben determinata; tale enfasi può assumere varie sfumature di senso, dal vezzeggiativo al dispregiativo. Cfr. ad es. Ar. Eq. 556–7 μειρακίων θ’ ἅμιλλα λαμ- / πρυνομένων ἐν ἅρμασιν (con Neil 1901, p. 84: «at the Panathenaea the chariot races […] seem to have been open only to men […]; yet μειρακίων is plainly emphatic here»); V. 686–8 καὶ πρὸς τούτοις ἐπιταττόμενος φοιτᾷς, ὃ μάλιστά μ’ ἀπάγχει, / ὅταν εἰσελθὸν μειράκιόν σοι κατάπυγον, Χαιρέου υἱός, / ὡδὶ διαβάς, διακινηθεὶς τῷ σώματι καὶ τρυφερανθείς (Bdelicleone parla di un personaggio che percepisce un synēgorikon, una paga da procuratore; in Ach. 680 è un neanias a svolgere il ruolo di procuratore: sembra dunque chiaro che in casi simili meirakion non si riferisce a una ben determinata classe d’ età; piuttosto, va notato che, nei passi citati, uomini maturi o anziani polemizzano genericamente contro i neōteroi che esercitano

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funzioni politiche, vd. Biles–Olson 2015, p. 302; Olson 2014a, pp. 33–34 ad Eup. frr. 104.2 e 333.2); Av. 1440–1 ὅταν λέγωσιν οἱ πατέρες ἑκάστοτε / τῶν μειρακίων ἐν τοῖσι κουρείοις ταδί (qui probabilmente i padri parlano dei loro giovani figli, vd. Dunbar 1995, p. 681); Pl. 975 (a parlare è una donna anziana). ἐλλαλεῖν δι’ ἡμέρας Per l’ espressione, cfr. Ar. Nu. 1503 τῶν νεανίσκων ἀεὶ δι’ ἡμέρας λαλούντων. L’ infinito ἐλλαλεῖν andrà inteso come finale-consecutivo, vd. Schwyzer–Debrunner, p. 363 e cfr. ad es. Xen. Cyr. 4.3.12 σχολή γε ἡμῖν μανθάνειν. L’ onomatopeico λαλεῖν significa ‘chiacchierare’, spesso con connotazione negativa, in riferimento a un parlare eccessivo e/o ozioso, inutile, caratteristico di alcune categorie sociali (sofisti, poeti come Euripide, donne, schiavi, sicofanti ecc.): vd. Dover 1993, p. 22; Beta 1990, pp. 49–66; Olson 2017, p. 420 ad Eup. fr. *116; anche altrove indica i discorsi di giovani sfaccendati, rovinati da cattivi maestri, vd. Interpretazione e lemma τοῖς μειρακίοις. 4–5 μαγείραιναν … ἰχθυοπώλαιναν I due femminili sono costruiti ad hoc mediante il suffisso -αινα, a sua volta originatosi da un suffisso -nya, che ha contribuito, tra l’ altro, alla formazione di femminili a partire da nomi maschili tematici, vd. ad es. θέαινα e cfr. Chantraine 1933, pp. 107–108. Quest’ ultimo nota che spesso -αινα è servito a creare nomi di animali, soprattutto animali disprezzati; ma il valore dispregiativo di -αινα, sostenuto anche da Fraenkel 1954–1955, pp. 44–45, rimane dubbio: vd. Da Costa Ramalho 1950; López Eire 2002, pp. 58–59; Willi 2003, p. 100 n. 9 e p. 171. Un simile gioco si trova anche in Ar. Lys. 184 Σκύταινα; Ec. 713 κηρύκαινα: con Willi 2003, p. 171, si può affermare che, sia in Ferecrate che in Aristofane, «both the lack and the exaggeration of distinctively feminine forms linguistically reinforce gender roles». Meno probabile che il suffisso -αινα serva a creare un’ ambiguità, come vuole Chantraine 1933, p. 107 («le suffixe évoque à la fois le terme noble θέαινα et les noms d’ animaux en -αινα; le poète joue sur deux tableaux»): infatti, sostiene Peppler 1918, p. 179, μαγείραινα potrebbe essere formazione analogica a partire da θεράπαινα (ἰχθυοπώλαινα in luogo dell’ atteso μυρόπωλις, a sua volta, sarebbe dovuto alla volontà di creare una rima, un jingle – cfr. Peppler 1918, p. 177). Fraenkel 1954–1955, pp. 44–45 ha ragione nel precisare che, a proposito del nostro fr., non c’ è bisogno di pensare a una dipendenza di Aristofane da Ferecrate o viceversa. Per altre occorrenze del suffisso -αινα in commedia, vd. Pherecr. fr. 186 ἀνδροκάπραινα καὶ μεθύση καὶ φαρμακίς (con Urios-Aparisi 1992, pp. 510–511); Hermipp. fr. 9 ὦ σαπρὰ καὶ πασιπόρνη καὶ κάπραινα (con Comentale 2017, pp. 78–79); Phryn. Com. fr. 34 ὦ κάπραινα καὶ περιπολὰς καὶ δρομάς (con Stama 2014, pp. 209–213).

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fr. 71 (65 K.) ὑποζυγίοις ἀλοάσαντ’ εὐθὺς ἐκποιῆσαι ὑποζυγίοις Σb, Phot. : -γιοι Su. AGIT : -γιον Su. SM ἁλοάσαντ’ Phot. Sz codd. : ἐμπολῆσαι van Herwerden : ἐκπονῆσαι Marzullo ap. Conti Bizzarro2

ἐκποιῆσαι

Dopo aver trebbiato con gli animali da soma, subito dar via (?) Σb α 919 (= Phot. α 1020; Su. α 1305) ἀλοάσαντα· ἐν τῷ α. Φερεκράτης Ἰπνῷ (ἴπνω B, Phot. : ἵπποι Su. (AGT) : ἵππον Su. (M))· «ὑποζυγίοις – ἐκποιῆσαι». τὸ δὲ συγκόψαι πληγαῖς ἀλοῆσαι ἐν τῷ η. Aloasanta: con a. Ferecrate nell’ Ipnos: «dopo – via». Diversamente, ‘riempire di botte’ (si dice) aloēsai, con ē.

Metro Il verso (klkklkkll|lklkll) è un ‘asinarteto’ ovvero un dicolon composto da un enoplio e un itifallico (il cosiddetto archilocheo: bibliografia in Bianchi 2016, pp. 94–95; Olson 2016, pp. 15–16): esso ricorre anche altrove in commedia, vd. Ar. V. 1518–1537; Cratin. frr. 11, 32, 62, 360; Eup. frr. 148, 250, 317; Diph. fr. 12; com. adesp. fr. 1105.70–103. Bibliografia Runkel 1829, p. 28; Meineke FCG II.1, pp. 278–279; van Herwerden 1855, pp. 9–10; Kock CAF I, p. 162; Edmonds FAC I, pp. 230–231; Conti Bizzarro 1988–1989, p. 277; Kassel–Austin VII, pp. 135–136; Urios-Aparisi 1992, pp. 230–231; Conti Bizzarro 1990–1993, p. 86; Quaglia 2001, pp. 344–346 Contesto della citazione La citazione di Σb α 919 (= Phot. α 1020; Su. α 1305) risale a una fonte atticista (Oro, secondo Alpers: vd. Orus B 8) che doveva utilizzare il verso ferecrateo come locus classicus per distinguere due verbi: uno, il cui participio è ἀλοάσαντα, col significato di ‘trebbiare’ (vd. lemma ἀλοάσαντ’), l’ altro, ἀλοῆσαι, con il significato di συγκόψαι πληγαῖς, ‘riempire di botte’ (cfr. anche Phryn. PS 25.10, citato infra; Philemo Gramm. 355 ἁλοάσ[σ]ομαι ἐφ ἅλωνος, da cui dipende Thom. Mag. 8.2 ἀλοάσω, οὐχ ἁλοήσω). Testo Per la forma psilotica ἀλοάσαντ’ (ἁλοάσαντ’ Phot. Sz), vd. Phryn. PS 25.10 ἀπαλοᾶν: διὰ τοῦ π γράφοντες οἱ Ἀττικοὶ δῆλον ποιοῦσιν, ὅτι καὶ τὴν ἄλω καὶ τὸ ἀλοᾶν ψιλοῦσιν. καὶ ἀλοάσουσι δὲ διὰ τοῦ α, ἀλλ’ οὐχὶ διὰ τοῦ η. σημαίνει δὲ τὸ ἀλοᾶν καὶ τὸ ἐπιτρίβειν τύπτοντα· ἔνθεν καὶ πατραλοίας καὶ μητραλοίας, ὁ τὸν πατέρα καὶ τὴν μητέρα ἀλοῶν, ὅ ἐστι τύπτων καὶ ἐπιτρίβων. La distinzione in Ammon. 27 (ἁλοᾶν καὶ ἀλοιᾶν διαφέρει. ἁλοᾶν μὲν γὰρ δασέως τὸ ἐπὶ τῆς ἅλω πατεῖν καὶ τρίβειν τοὺς στάχυας, ἀλοιᾶν δὲ ψιλῶς τὸ τύπτειν. Ἀριστοφάνης (Ra. 149)· ‘†ἡ† μητέρ’ ἠλοίησεν †ἡ† πατρὸς †ἀγαθόν†’, ἀφ’ οὗ καὶ μητραλοίαν φαμὲν καὶ πατραλοίαν) è fatta a posteriori, cfr. Vessella 2018, p. 141. In luogo di ἐκποιῆσαι dei mss., van Herwerden proponeva ἐμπολῆσαι col significato di ‘vendere’ (vd. ad es. in Ar. Pax 1201; Xen. An. 7.5.4), ma una simi-

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le congettura ha come postulato la bontà dell’ interpretazione di Meineke, cosa niente affatto dimostrata (vd. Interpretazione). ἐκπονῆσαι di Marzullo ap. Conti Bizzarro 1990–1993, p. 86 è basato sul confronto con Xen. Cyr. 8.2.5 καὶ τὰ παρὰ βασιλεῖ σῖτα πολὺ διαφερόντως ἐκπεπόνηται, in cui, tuttavia, τὰ σῖτα non indica il frumento, bensì ‘i cibi’. Interpretazione Secondo Meineke «sententia haec est: iumentis frumentum terere tritumque statim vendere». Problematico rimane però il significato di ἐκποιῆσαι, vd. Testo e cfr. lemma. Per la trebbiatura per mezzo di animali, vd. Xen. Oec. 18.3–4 ὑποζυγίῳ ἁλοῶσι τὸν σῖτον. […] καὶ ὑποζύγιά γε καλούμενα πάντα ὁμοίως, βοῦς, ἡμιόνους, ἵππους. Οὐκοῦν, ἔφη, ταῦτα μὲν ἡγῇ τοσοῦτον μόνον εἰδέναι, πατεῖν τὸν σῖτον ἐλαυνόμενα;, con il commento di Meyer 1975, p. 155 n. 142; Pomeroy 1994, p. 332; cfr. anche Il. 20.495–7; Call. Cer. 20. Il passo senofonteo, come già notato da Conti Bizzarro 1990–1993, p. 86, basta a inficiare l’ argomentazione di Kaibel ap. Kassel–Austin, che intendeva invece «frumentum vix tritum tradere iumentis», sostenendo che gli animali di cui si parla non possono essere definiti hypozygia nel momento della trebbiatura e che dunque il dativo ὑποζυγίοις deve dipendere dal verbo ἐκποιῆσαι. Sulla scorta di Kaibel, Urios-Aparisi crede possibile che «the sentence is applied in the form of a proverb […] meaning “to waste efforts”» (p. 230): alla luce di quanto appena detto, l’ ipotesi è quantomeno dubbia, sebbene rimanga la possibilità che l’ infinito aoristo ἐκποιῆσαι sia spia di una formulazione proverbiale. Dato il metro ‘archilocheo’ (vd. Metro), a pronunciare il verso potrebbe essere il coro, ma nulla può dirsi sull’ originario contesto del frammento (un’ ode parabatica, come forse in Cratin. fr. 360? L’ esodo, come in Ar. V. 1518–37?). ἀλοάσαντ’ Il verbo può assumere significati metaforici, cfr. Taillardat 1965, pp. 88–89 (§ 138); Müller 1974, pp. 250–253; Bagordo 2018, pp. 135–136 (ad Ar. fr. 932). In questo caso, tuttavia, il senso è quello proprio di ‘trebbiare’ (cfr. Frisk GEW, s. v. ἀλωή), vd. Contesto della citazione. La forma con ā non sarà un dorismo (così in DGE, s. v. ἀλοάω); piuttosto, vanno confrontate forme come ἠκροᾱσάμην, ἀθρόᾱ ecc., vd. Lejeune 1955, p. 206 (§ 224); vd. anche Ar. Eq. 62 μεμακκοᾱκότα (v.l. -ηκότα: qui l’ oscillazione mostrata dai mss. potrebbe essere antica) e cfr. Choerob. GG IV.2, p. 162.25 (∼ EM 202.3) Ἰστέον δὲ ὅτι τὰ παραληγόμενα τῷ ο πέντε εἰσίν· καὶ τὰ μὲν δύο τῷ η παραλήγονται κατὰ τὸν μέλλοντα, οἷον βοῶ βοήσω, γοῶ γοήσω, τὰ δὲ δύο τῷ α, οἷον ἀκροῶ ἀκροάσω (ἐξ οὗ τὸ ἀκροῶμαι καὶ ἀκροάσομαι), μακκοῶ μακκοάσω (μακκοῶ δέ ἐστι τὸ μωραίνω), τὸ δὲ ἓν διφορεῖται, οἷον ἀλοῶ ἀλοᾷς ἀλοάσω 〈καὶ ἀλοήσω〉. Phryn. PS 25.10 (vd. Contesto della citazione) prescrive un futuro ἀλοάσουσι, su cui cfr. Vessella 2018, p. 141: «Phrynichus is also prescribing a form of the future stem that must have been marginal in Attic literature. The LSJ does not record it (but lists a number of futures in -η): the future stems in ἀλοη- (both active and passive), which Phrynichus rejects, must have been common only from the Hellenistic

Ἰπνὸς ἢ Παννυχίς (fr. 72)

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period on and are in fact the ones found in the LXX (Is. 41.15.2, Je. 5.17.5, Jd. 8.7.2). A reaction against the usage of Hellenistic and Christian authors may explain why Phrynichus prescribed a future ἀλοάσουσι». ἐκποιῆσαι Fino al V sec. il verbo è relativamente raro, soprattutto alla forma attiva. Nel nostro caso, inoltre, non si riesce a capire se ἐκ- indichi allontanamento (anche metaforico, vd. LSJ, s. v. ἐκποιέω I) o completamento dell’ azione (LSJ, s. v. ἐκποιέω III), anche se è probabile che quest’ ultima sfumatura non fosse presente in Attico, vd. Cassio 2012, p. 259, a proposito di Antiatt. ε 39 e Phot. ε 464. Ad ogni modo, solo a partire da testi giuridici tardi (vd. ad es. Cod. Just. 1.5.17.1) ἐκποιέω è sicuramente attestato col significato di ‘alienare’, ‘vendere’ postulato da Meineke (vd. Interpretazione).

fr. 72 (66 K.) Schol. VΓ Ar. Pac. 1242b μέμνηται δὲ καὶ Φερεκράτης ἐν Παννυχίδι τῶν κυμβείων καὶ τοῦ κατακτοῦ κοττάβου. Anche Ferecrate nella Pannychis ricorda i kymbeia e il cottabo kataktos.

Bibliografia Meineke 1822, p. 19; Meineke FCG II.1, p. 280; Meineke ed. min. I, p. 99; Edmonds FAC I, pp. 230–231; Kassel–Austin VII, p. 136; Urios-Aparisi 1992, p. 231; Quaglia 2001, pp. 346–348 Contesto della citazione Lo scolio aristofaneo tratta del cottabo kataktos; oltre a ricordare Ferecrate, cita anche Hermipp. fr. 48.5–6. Interpretazione Il κατακτὸς κότταβος è una delle due varianti di base del gioco del cottabo (su cui vd. Olson 1998, pp. 139–140 ad Ar. Pac. 343–4; Campagner 2002, pp. 112–115; Pütz 2007, pp. 177–180): come ricorda Comentale 2017, p. 198 (ad Hermipp. fr. 48.5), esso «è un gioco da simposio che consiste nel lanciare gocce di vino (λάταγες) verso un disco (πλάστιγξ) in bilico su un’ asta (ῥάβδος) fino a farlo rovesciare su un altro recipiente (μάνης) collocato più in basso». È impossibile ricavare indicazioni attendibili sulla commedia ferecratea a partire dal presente frammento, anche se una relazione tra cottabo e veglia notturna (pannychis) è attestata altrove, vd. Introduzione. Rimane comunque la possibilità di stabilire una connessione tra cottabo e mondo delle etère (se il titolo Pannychis va interpretato come nome proprio, vd. Introduzione): sul nesso cottabo-Afrodite e sulle conseguenze che un cottabo sregolato può avere sugli animi dei νεανίαι μεθυσοκότταβοι (Ar. Ach. 525), vd. ad es. Campagner 2002, pp. 117–121. Che la pericope τῶν κυμβ(ε)ίων καὶ τοῦ κατακτοῦ κοττάβου potesse costituire un trimetro giambico pensò Meineke 1822, p. 19, ricredendosi in seguito. κυμβείων Non è affatto detto che κυμβείων stia per κυμβίων, come vuole Edmonds (che corregge il testo tràdito). Al di là delle frequenti oscillazioni tra

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-ιον e -ειον, quest’ ultimo è suffisso molto produttivo in tutta la storia del greco, cfr. Chantraine 1933, pp. 60–61: esso indica l’ affinità e l’ appartenenza, ma nel nostro caso può anche darsi che κυμβεῖον sia formazione analogica basata sul tipo ἄγγος : ἀγγεῖον. κυμβίον/κυμβεῖον deriva da κύμβη/κύμβος, termine di etimologia incerta che indica un recipiente (vd. Beekes 2010, s. v. κύμβη 1). Alcune testimonianze lasciano sospettare che si tratti di un Wanderwort di origine pre-greca utilizzabile, al di là del suo significato originario, come catacresi indicante oggetti cavi: vd. infatti Soph. fr. 127 (dove κύμβη = ‘imbarcazione’; di qui il latino cymba/cumba, che pure Plin. Nat. 7.208 indica come fenicio); EM 545.27 (κύμβη = ‘testa’; stesso significato ha κύβη in EM 543.22, vd. Beekes 2010, s. v. κύμβη 2); Hsch. κ 4634 (κύπη = ‘imbarcazione’). Non è semplice determinare forma, funzione e grandezza del κυμβίον/κυμβεῖον, data la (apparente?) contraddittorietà delle testimonianze: vd. Ath. 11.481d–482e; cfr. Millis 2015, p. 47 ad Anaxandr. fr. 3.2; Orth 2020, p. 375 ad Dionys. Com. fr. 5.3. Altre attestazioni comiche si trovano in Theopomp. Com. fr. 32; Anaxandr. frr. 3.2., 33.2; Ephipp. frr. 9.2, 16.5; Epig. fr. 5.3; Alex. frr. 2.6, 100.1, 111.1; Philem. fr. 87.2; Hipparch. fr. 1.6.

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Κοριαννώ (Koriannō) (“Coriannò”)

Bibliografia Bergk 1838, 299–302; Meineke FCG I, pp. 83–84; Kock CAF I, pp. 162–163; Bechtel 1902, p. 105; Breitenbach 1908, p. 114; Radermacher 1924, pp. 38–39; Hauschild 1933, pp. 11–14; Wehrli 1936, p. 28; Körte 1938, col. 1988 ll. 12–32; Oeri 1948, pp. 14–15; Edmonds FAC I, pp. 236–237; Urios-Aparisi 1992, pp. 48–49, 232–234; Auhagen 2009, pp. 49–52; Storey FOC II, p. 453 Titolo Polluce e la Suda trasmettono il titolo al plurale, ma si tratterà di un errore, cfr. Meineke FCG I, pp. 83–84. Da Ath. (test 2) sappiamo che Koriannō era un’ etèra che dava il nome alla pièce, come accade in altri casi (anche in Ferecrate, vd. le introduzioni a Epilesmōn ē Thalatta e a Ipnos ē Pannychis); è impossibile dire se il personaggio fosse un’ invenzione del poeta o meno. Il nome potrebbe essere parlante e richiamare il koriannon (coriandrum sativum), pianta che avrebbe bisogno di molta acqua per sopravvivere, stando a Thphr. HP 7.1.3: così Bechtel 1902, p. 105 (cfr. anche Henry 1985, p. 16 n. 3), che suggerisce un implicito paragone tra la pianta e l’ etèra a causa della passione di quest’ ultima per il bere (vd. infra). Contenuto I frammenti superstiti non ci permettono di ricostruire, nemmeno a grandi linee, una trama. Come suggerisce il titolo, una o più etère possono aver avuto una parte importante: a tale proposito, si può pensare che le scene di interni testimoniate dai frr. 73–6 rappresentassero la casa di Coriannò o di una sua amica. È poi difficile dire se i frammenti in questione siano davvero tutti appartenenti a una stessa scena, come pure da più parti si è ipotizzato125 – senza contare che l’ identificazione dei personaggi coinvolti è incertissima (anche a causa di problemi riguardanti la distribuzione delle battute nel fr. 76): l’ unico menzionato per nome è una Glice, ma non è possibile capire se si tratti di un’ etèra amica di Coriannò (così Hauschild 1933, p. 13 n. 29). Né è facile capire se il personaggio che in fr. 76.4 dice ὦ μάμμη sia la figlia di Glice oppure una serva. Per quanto riguarda i motivi comici presenti nei frammenti, Ferecrate giocava a più riprese con il topos della «muliercularum vinolentiam» (Kock), vd. comm. ad frr. 75–6. Il fr. 77 mostra probabilmente un alterco (anch’ esso topico) tra un giovane e un vecchio, rivali in amore: ma è solo ipotizzabile che i due siano padre e figlio e che si contendano le grazie di Coriannò. Ad ogni modo, la decrepitezza 125

Vd. ad es. il tentativo di ricostruzione di Auhagen 2009, p. 51, che si rifà a Kock e a Hauschild: «Wenn man annimmt, daß die vier Fragmente eng zusammengehören, könnte man sie folgendermaßen verbinden: Die Hetäre Glyke, Koriannos Freundin, läßt sich ein Tischchen und etwas zu essen und trinken bringen; die Szene spielt nach Kock vor ihrem Haus […]. Außerdem verlangt sie nach gerösteten Feigen […]. Die vom Bade kommende Korianno gesellt sich zu ihr […], bestellt durstig Wein und besteht auf einem großen Becher. Als der ihr gebracht wird, beschwert sie sich bei Glyke, daß der Inhalt untrinkbar sei, wodurch sie ihre Trunksucht offenbart».

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intellettiva e fisica di un personaggio (lo stesso del fr. 77, verosimilmente) doveva essere derisa in termini che sono tipici della commedia, vd. frr. 78–9. Inoltre, Storey FOC II, p. 453 si domanda se il fr. 83 possa essere una scena di bottino simile a quella di Eup. fr. 162 (ma potrebbe anche trattarsi di una distribuzione di beni alimentari, vd. comm. ad loc.). Nel fr. 84, infine, il poeta si rivolge agli spettatori per bocca del corifeo annunciando una sua invenzione, gli anapesti ‘compiegati’, di difficile valutazione, vd. comm. ad loc. Datazione Non ci sono elementi utili alla datazione, come già notava Geissler 1969, p. 53 n. 1. Edmonds FAC I, pp. 236–237 suggerisce che la novità degli anapesti ‘compiegati’ (fr. 84) possa essere indizio di una datazione precedente ai Kolakes di Eupoli (421. a.C.), data la presenza di ferecratei in Eup. fr. 175: la cosa è però improbabile, vista l’ estrema incertezza dell’ interpretazione metrica del fr. 84, vd. comm. ad loc.

test i Su. κ 2084 (codd. ArFGVM) Κοριαννοῖ. Φερεκράτης κέχρηται (Φερεκράτης. κ. om. F, in cett. codd. ex α 2782 vel τ 809 additum ducit Adler) Koriannoi (dat. sing.). Lo usa Ferecrate.

Interpretazione La promozione a frammento della voce della Suda sembra sconsigliabile: già Adler sospettava che essa fosse stata creata a partire da altre voci (α 2782 oppure τ 809). Se è così, tuttavia, anche lo statuto di testimone sembra inadeguato: in effetti, in quelli che paiono due casi analoghi, Kassel–Austin non includono Su. κ 2327 (Κραπατάλλοις Φερεκράτης λέγει) e μ 1443 (Μυρμηκανθρώποις Φερεκράτης γράφει) tra i testimoni delle omonime commedie ferecratee.

test ii Ath. 13.567c καὶ ἄλλα δὲ πολλὰ […] δράματα ἀπὸ ἑταιρῶν (ἑτέρων A) ἔσχε τὰς ἐπιγραφάς, Θάλαττα Διοκλέους, Φερεκράτους Κοριαννώ, Εὐνίκου ἢ Φιλυλλίου Ἄντεια, Μενάνδρου δὲ Θαὶς καὶ Φάνιον, Ἀλέξιδος Ὀπώρα, Εὐβύλου Κλεψύδρα. E molte altre […] commedie ebbero il nome da etère, la Thalatta di Diocle, la Koriannō di Ferecrate, l’ Anteia di Eunico o di Filillio – ancora, di Menandro sono Thais e Phanion, di Alessi l’ Opōra, di Eubulo la Klepsydra.

Κοριαννώ (fr. 73)

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fr. 73 (67 K.) (Α.) φέρε δὴ κατακλινῶ· σὺ δὲ τράπεζαν 〈ἔκ〉φερε, καὶ κύλικα κἀντραγεῖν, ἵν’ ἥδιον πίω. (Β.) ἰδοὺ κύλιξ σοι καὶ τράπεζα καὶ φακοί. (Α.) μή μοι φακούς, μὰ τὸν Δί’, οὐ γὰρ ἥδομαι· ἢν γὰρ τράγῃ τις, τοῦ στόματος ὄζει κακόν. 1–2 om. CE 1 ἔκφερε Kock : φέρε A : εἴσφερε Dobree : μοι φέρε Toup : πρόσφερε vel ἅμα φέρε Desrousseaux 5 στόματος CE : -χος A

(A.) Dunque, adesso mi stendo: tu porta fuori una tavola e una coppa e qualcosa da sgranocchiare, così che io beva con più gusto. (B.) Eccoti la coppa, la tavola e delle lenticchie. (A.) No, le lenticchie no, per Zeus! Proprio non mi piacciono: se uno le mangia, infatti, manda cattivo odore dalla bocca. Ath. 4.159e τὰ περὶ τῆς φακῆς λεχθέντα χλευάζουσιν, ἐν νῷ ἔχοντες τὰ εἰρημένα Φερεκράτει ἐν Κοριαννοῖ (fab. nom. om. CE)· «φέρε – κακόν». Si fanno beffe di quanto detto intorno alla zuppa di lenticchie poiché hanno in mente ciò che Ferecrate dice nella Koriannō: «Dunque – bocca».

Metro Trimetri giambici

kklkkk l|kkkl klkk lkkkl kl|kl klkl klkl l|lkl klkl llkl klk|l klkl llkl l|lkkk klkl

Bibliografia Dobree 1833, p. 306; Toup 1790, II, p. 328; Bergk 1838, pp. 299–300; Meineke FCG II.1, pp. 280–281; Kock CAF I, p. 163; Desrousseaux 1942, p. 87; Körte 1938, col. 1988, l. 31; Kassel–Austin VII, p. 137; Conti Bizzarro 1988–1989, pp. 277–278; Urios-Aparisi 1992, pp. 235–238 Contesto della citazione In Ath. 4.156d Cinulco riporta un lungo passo della lettera di Parmenisco a Molpide (FGrHist 590 T 1) in cui si descrive un banchetto che, tra le pietanze, contempla piatti a base di lenticchie che vengono accompagnati con copiose citazioni letterarie; a queste si aggiungono altre citazioni ad opera dello stesso Cinulco. È proprio quest’ ultimo che, non riscuotendo il plauso degli altri commensali, commenta il loro atteggiamento di disprezzo nei riguardi della sua erudizione in materia di lenticchie: essi sono forse assimilabili a quel personaggio ferecrateo che detesta le lenticchie a causa del loro effetto sull’ alito.

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Testo L’ integrazione di Kock (〈ἔκ〉φερε) è forse la più plausibile tra quelle proposte, vd. Interpretazione. εἴσφερε di Dobree è suggerito da Ar. V. 1216 e Ra. 518 (cfr. Alex. fr. 89.1), che tuttavia si riferiscono ad azioni che non si svolgono sulla scena (così Urios-Aparisi 1992, p. 236). Interpretazione Il frammento mostra un personaggio (A) desideroso di bere del vino accompagnandolo a un cibo; sdraiandosi (probabilmente su una klinē), ordina pertanto il ‘necessario’ al personaggio B (che sarà di condizione servile): una kylix e una trapeza. Si tratta di strumenti tipicamente simposiali; ma A sembra voler bere in solitudine (v. 2 ἵν’ ἥδιον πίω) e non a margine di un banchetto. Che il dispiegamento di un tale apparato sia un’ affettazione di ricchezza (Urios-Aparisi 1992, p. 235)? Sia come sia, la semplicità del vitto, che consiste di un umile piatto di lenticchie (vd. lemma φακοί), sembra contraddire quanto precede, come notato da diversi studiosi. Si è pensato che tale discrasia tra la povertà della pietanza e la presunta raffinatezza dei modi affettata da A sia alla base del rifiuto di quest’ultimo di mangiare le lenticchie (vd. infra); ma va detto che il vero motivo di tale diniego è espresso proprio da A: le lenticchie rovinano l’ alito. Ignoriamo l’ identità di A ma, in base agli altri frammenti che mettono in ridicolo la bibacitas femminile, si può supporre che si tratti di una donna (Coriannò stessa?) che si rivolge a una serva (B): così Bergk 1838, p. 300, che indica A come hera meretrix. Urios-Aparisi 1992, p. 235 concorda con l’ ipotesi di Bergk, soprattutto perché «women are generally depicted in Aristophanes as drinking at home»: in effetti, la bevuta solitaria di A parrebbe suggerire un contesto simile. Peraltro, avere un alito fresco potrebbe essere stata una priorità femminile: a tale proposito, vd. lemma τοῦ στόματος ὄζει κακόν. Di diverso avviso è Kaibel ap. Kassel–Austin VII, p. 137, secondo cui A sarebbe un giovane ventosus, amante di Coriannò, appena arrivato dall’ Asia (cfr. fr. 74.3). Secondo Conti Bizzarro 1988–1989, pp. 277–278, A è un’ etèra che vuole «evidenziare dinanzi al cliente il livello della propria condizione sociale» rifiutando sdegnosamente le lenticchie offertele. A dire il vero, però, non è affatto detto che il dialogo tra A e B (ammesso che si tratti rispettivamente di un’ etèra e della sua serva) si svolga davanti a un terzo personaggio. Infatti, A sembra voler bere in solitudine, senza dissimulare né la sua propensione alla crapula né il vero motivo per cui rifiuta di mangiare lenticchie (un accorgimento preso forse in vista di un possibile incontro): tutto ciò non aiuta a ipotizzare la presenza di un cliente da ammaliare. Non è semplice capire come si svolgesse l’ azione. L’ imperativo 〈ἔκ〉φερε serve da didascalia scenica: al v. 3, il personaggio B mostra di aver eseguito l’ ordine impartitogli. Urios-Aparisi ipotizza una pausa tra il v. 2 e il v. 3, durante la quale il primo personaggio si sdraia e il secondo va a prendere gli oggetti per portarli in scena. Ciò è possibile; in alternativa, possiamo pensare che il frammento consti di due parti (vv. 1–2 e vv. 3–5) originariamente separate da una pericope di testo la cui consistenza non è determinabile. Si può anche avanzare l’ ipotesi che B non fosse ancora visibile ai vv. 1–2: cfr. Pherecr. fr. 44 e Ar. Nu. 19, in cui il personaggio

Κοριαννώ (fr. 73)

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a cui viene intimato di portare un oggetto (il verbo è ἐκφέρειν) ancora non si trova sulla scena (cfr. Dover 1968, p. 94 e vd. comm. ad Pherecr. fr. 44)126. Possiamo insomma immaginare che il personaggio B entri in scena solamente dopo che A ha pronunciato i vv. 1–2. Un ostacolo è però costituito dall’ allocutivo σὺ δέ (v. 1). Sull’ ambientazione possiamo dire ancora meno: si può pensare alla casa di una donna (come accennato supra); è solo un’ ipotesi quella di Kock, secondo cui «scaena non in cubiculo, sed in aula vel in aulae peristylio est». φέρε δὴ κατακλινῶ φέρε (δή), similmente a ὅρα δή, ἄγε δή ecc., è elemento pragmatico della conversazione che chiama in causa l’ interlocutore o il locutore stesso: «it is an encouragement of varying urgency for self or others» (Collard 2018, p. 95; cfr. López Eire 1996, p. 98–99; Biles–Olson 2015, p. 101) e spesso precede un imperativo o un congiuntivo (è il caso di κατακλινῶ), ma può anche introdurre un’ interrogativa, vd. Denniston 1954, pp. 216–217; Collard 2018, pp. 95–97. Può essere usato dal locutore nell’ atto di realizzare un proposito, come avviene nel nostro caso: cfr. Ar. Pax 959 φέρε δή, τὸ δαλίον τόδ’ ἐμβάψω λαβών; Hdt. 2.14.2 φέρε δὴ νῦν καὶ αὐτοῖσι Αἰγυπτίοισι ὡς ἔχει φράσω; Andoc. 1.47 φέρε δή, καὶ τὰ ὀνόματα ὑμῖν ἀναγνώσομαι τῶν ἀνδρῶν ὧν ἀπέγραψεν […] Κριτίας; Isae. 8.30 φέρε δή […], νῦν ἤδη τοῦτο ἐπιδείξω; vd. anche Cratin. fr. 58 φέρε νύν σοι / καταπυγοσύνην […] ἀστράψω Ξενοφῶντος; Archipp. fr. 49 φέρε καθίζωμ’ ἐνθαδί. κατακλινῶ indicherà qui l’ atto di sdraiarsi su una klinē, cfr. Ar. Eq. 98 ἐγὼ δὲ κατακλινήσομαι; V. 1208–10 παῦ’· ἀλλὰ δευρὶ κατακλινεὶς προσμάνθανε / ξυμποτικὸς εἶναι καὶ ξυνουσιαστικός. / Φι. πῶς οὖν κατακλινῶ; φράζ’ ἁνύσας; vd. anche Pl. Smp. 175a, 176a, 213e, 222e; Xen. Smp. 1.13, 2.23. κἀντραγεῖν Per la costruzione 〈ἔκ〉φερε, / […] κἀντραγεῖν, vd. il comm. ad Pherecr. fr. 45.1, lemma δώσων πιεῖν. Il semplice τραγεῖν del v. 5 non è altrimenti attestato (vd. infra), mentre sono numerose le occorrenze di τρώγειν, verbo che, come nota Chadwick 1996, pp. 287–290 p. 288, significa «take repeated small bites at, nibble, gnaw. […] It is not the object that defines the use, but the kind of eating. […] It is predominantly used of consuming dessert after dinner, something which is usually taken in small quantities and eaten raw, especially to accompany drinks» (cfr. anche Olson 2014a, p. 38; Biles–Olson 2015, p. 279). Lo studioso spiega il τράγῃ del v. 5 sostenendo che le lenticchie di cui si parla siano crude (p. 289: «the reason for not using φάγῃ here must be the implication that lentils if eaten raw will make one’ s breath smell bad»; similmente già Neil 1901, p. 14) – ma la cosa non sembra possibile, vd. lemma φακοί. Non è semplice determinare la differenza tra il verbo composto e il semplice τράγῃ del v. 5. Essa sarebbe dovuta, secondo Taillardat 1965, p. 86 (§ 132) allo 126

In Pl. Com. 71.1–2 la divisione delle battute tra i personaggi non è sicura e non si può essere assolutamente certi che il personaggio a cui viene ordinato di portare le tavole per il simposio sia già in scena o non compaia piuttosto solo dopo aver ricevuto l’ ordine. In Ar. fr. 545.1 φέρε del ms. A è stato integrato variamente (〈ἔκ〉φερε Kock : 〈εἴσ〉φερε Porson): l’ imperativo, comunque, non fa da didascalia scenica.

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«usage courant qui consiste à faire l’ économie d’ un préverbe quand il vient d’ être exprimé». Ciò è di per sé plausibile: mi limito in questa sede a rimandare alla bibliografia raccolta in Watkins 1967 e Finglass 2018, p. 204; si tenga però a mente il monito di Renehan 1969, p. 85: «by the very nature of this phenomenon, one cannot always determine where it is operative». Più dubbio è quanto Taillardat sostiene a proposito di ἐντραγεῖν, che costituirebbe la forma normale dell’ aoristo di τρώγειν («on “conjugait” donc τρώγω τρώξομαι ἐνέτραγον»). Ciò è parzialmente in contraddizione con quanto lo studioso afferma subito dopo: in ἐντραγεῖν, il preverbio ἐν-, che dà l’ idea della «rapidité» (come avviene con ἐμφαγεῖν), si adatterebbe a un tema aoristico. Ma se davvero ἐν- aggiunge al verbo l’ idea di rapidità, cosa ben possibile (vd. infra), bisogna ammettere che l’ aoristo ἐντραγεῖν ha un significato sensibilmente diverso rispetto a quello ‘neutro’ del presente τρώγειν e non ne può rappresentare un vero e proprio ‘sostituto’; d’ altra parte, il parallelo di ἐμφαγεῖν, portato dallo stesso Taillardat, ci autorizzerebbe a formulare un ragionamento analogico del tipo φαγεῖν : ἐμφαγεῖν = x : ἐντραγεῖν127. Alla luce di quanto detto, non è impossibile che la differenza tra il verbo composto al v. 1 e il semplice al v. 5 risieda non nella tendenza ‘indoeuropea’ cui accennava Taillardat, ma nel diverso coinvolgimento del soggetto parlante nei confronti di quanto egli stesso enuncia: infatti, il personaggio A esprime la propria voglia di cibo (di qui forse l’ uso di ἐν-, a caratterizzare emotivamente l’ azione di mangiare); poi motiva il rifiuto del piatto di lenticchie descrivendone l’ effetto su chi le mangi (per fare ciò ‘basta’ il verbo semplice). In effetti, nelle sue prime testimonianze ἐντραγεῖν sembra essere usato espressivamente per poi annacquarsi fino a significare semplicemente ‘mangiare’; se Phryn. Com. fr. 26 κἀντραγεῖν σικύδιον è un frammento troppo esiguo per trarre utili informazioni a proposito (ma va comunque notato il diminutivo σικύδιον, che potrebbe indicare una modalità espressiva del parlare), si considerino Ar. Eq. 50–1 ὦ Δῆμε, λοῦσαι πρῶτον ἐκδικάσας μίαν, / ἐνθοῦ, ῥόφησον, ἔντραγ’, ἔχε τριώβολον, dove l’ accumulo verbale rende bene l’ idea delle interessate premure del Paflagone nei confronti di Demo e V. 611–2 φάγε τουτί, / ἔντραγε τουτί, pronunciato da Filocleone che smaschera le ipocrite ‘moine’ della figlia, imitandone gli stratagemmi retorici – peraltro, in questo passo è proprio l’ accostamento con φάγε a suggerirci che ἔντραγε potesse essere un suo sinonimo espressivo. Si veda poi Theopomp. Com. fr. 6 ἀλλ’ ἔντραγε / τὴν σηπίαν τηνδὶ 127

Devono aver ingenerato confusione tanto le osservazioni di Kock CAF III, p. 43 («scilicet comici quidem numquam dicebant ἐντρώγειν, sed semper τρώγειν, numquam quod sciam τραγεῖν, sed ἐντραγεῖν») quanto le parole di LSJ, s. v. ἐντραγεῖν («prop. aor. 2 inf. of ἐντρώγω, used in Att. as regul. aor. of τρώγω»): vd. infatti Stama 2014, p. 175, secondo cui ἐντραγεῖν è «impiegato in Attico come forma suppletiva dell’ aoristo atematico [sic] di τρώγω» (segue il riferimento a Kock, a LSJ e a Neil 1901, p. 14, il quale, ad ogni modo, afferma che «the rule as stated by Kock […] is too sweeping» e cita proprio Pherecr. fr. 73.5 τράγῃ); Biles–Olson 2015, p. 279: «the compound provides the aor. for simplex τρώγω».

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λαβοῦσα καὶ τοδὶ / τὸ πουλυπόδειον: qui non si può dire con sicurezza se il verbo sia usato in maniera espressiva, ma va comunque notato che esso esprime un’ esortazione accompagnata da gesti, come sembrano suggerire i deittici. A proposito di Anaxandr. fr. 59 ἐὰν λούσησθέ νυν / ῥάφανόν τε πολλὴν ἐντράγητε, παύσεται / τὸ βάρος, διασκεδᾶτε τὸ προσὸν νῦν νέφος / ἐπὶ τοῦ μετώπου, Millis 2015, p. 290, ricordando che il verbo significa «‘nibble’ rather than ‘eat’», afferma che esso «might be used here to express the only sort of eating the addressee is capable of when hungover»; tuttavia, ciò sembra smentito dalla ‘grande quantità’ di cavolo che il parlante prescrive e proprio questo pare un indizio buono per pensare che anche qui il verbo possa essere usato espressivamente. Per quanto riguarda l’ associazione tra τρώγω e πίνω in contesti simposiali, cfr. Sol. fr. 38.1–3 West2 (= 32.1–3 Gentili–Prato) πίνουσι· καὶ τρώγουσιν οἱ μὲν ἴτρια / οἱ δ’ ἄρτον αὐτῶν, οἱ δὲ συμμεμιγμένους / γούρους φακοῖσι, con Noussia-Fantuzzi 2010, p. 505; Dem. 19.196–7 ἐπειδὴ δ’ ἧκον εἰς τὸ πίνειν, εἰσάγει τιν’ Ὀλυνθίαν γυναῖκα, εὐπρεπῆ μέν, ἐλευθέραν δὲ καὶ σώφρονα, […]. ταύτην τὸ μὲν πρῶτον οὑτωσὶ πίνειν ἡσυχῇ καὶ τρώγειν ἠνάγκαζον οὗτοί μοι δοκεῖ. φακοί Le lenticchie sono tra i tragēmata che accompagnano il simposio nel già citato Sol. fr. 38.3 West2 (= 32.3 Gentili–Prato). Il termine φακός non si riferirà al legume crudo (così An.Ox. III, p. 253.11–6): vd. Olson 2014a, pp. 109–110 (ad Eup. fr. 378). Tuttavia, non è necessario supporre, con Urios-Aparisi, che qui φακοί significhi la zuppa di lenticchie, solitamente chiamata φακῆ (su cui cfr. Pherecr. fr. 26.1 e vd. Orth 2017, p. 144, con bibliografia; va comunque notato che la zuppa di lenticchie era considerata un piatto povero: vd. Ar. Pl. 1004 ἔπειτα πλουτῶν οὐκέθ’ ἥδεται φακῇ; Antiph. fr. 185.5–6 ῥοφεῖν φακῆν ἐσθ’ ἡδὺ μὴ δεδοικότα, / μαλακῶς καθεύδειν ἄθλιον δεδοικότα). μή μοι φακούς L’ espressione (forse accompagnata da un gesto di diniego) è colloquiale, cfr. Collard 2018, pp. 70–71. Non è detto che la costruzione sia da intendersi come ellittica sulla scorta di proposizioni come μή μοι δίδου, μή μοι καθίστη, μή μοι πρόσφερε, μή μοι γένοιτο ecc., come solitamente si fa (cfr. Kühner–Gerth I, pp. 329–330; Dover 1968, pp. 155–156; Mastronarde 1994, p. 300; Arnott 1996, pp. 383–384; Biles–Olson 2015, p. 428; Collard 2018, pp. 70–71). Casi come il nostro, come Soph. Ant. 577 μὴ τριβὰς ἔτι ecc. (altri ess. in Collard 2018, pp. 70–71; Mastronarde 1994, p. 300) possono essere forse ridotti a un denominatore comune: in particolare, μή potrebbe costituire il nucleo di un enunciato volitivo non verbale variamente espandibile (ad es. mediante elementi rafforzativi: nel nostro caso il pronome personale, che andrà inteso come dativo etico, cfr. già Mastronarde 2002, p. 325; Papachrysostomou 2021, p. 208); l’ oggetto attorno al quale si focalizza il timore/rifiuto espresso dalla negazione risulterà comprensibile in vari modi (si consideri, comunque, che contesto e mimica possono contribuire in tal senso): può essere sottinteso (ad es. perché contenuto in una precedente domanda, vd. Ar. Lys. 922 ποία ψίαθος; μή ’ μοιγε) oppure venire espresso al nominativo (ad es. Eur. Med. 964 μή μοι σύ; Phoen. 532 μὴ σύ γ’), all’ accusativo

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(nel nostro caso e altrove), all’ infinito (vd. Ar. Nu. 433 μὴ ’ μοιγε λέγειν γνώμας μεγάλας· οὐ γὰρ τούτων ἐπιθυμῶ)128. Per quanto riguarda la commedia, altri ess. di μή μοι ‘ellittico’ oltre a quelli citati sono Ar. Ach. 345 ἀλλὰ μή μοι πρόφασιν, ἀλλὰ κατάθου τὸ βέλος; Ar. Eq. 19 μὴ ’ μοιγε, μὴ ’ μοί, μὴ διασκανδικίσῃς; Nu. 84 μὴ ’ μοιγε τοῦτον μηδαμῶς τὸν ἵππιον; V. 1179 μὴ ’ μοιγε μύθους; 1400 μὰ Δία μὴ ’ μοιγ’, ὦ μέλε; Ephipp. fr. 21.3 ἰχθῦς φρονοῦντας, ὦ πάτερ. μή μοι βρέφη; Alex. fr. 132.1 μὴ προφάσεις ἐνταῦθά μοι, μηδ’ οὐκ ἔχω; fr. 177.13–4 Α. ὀπτάνιον ἔστιν; Β. ἔστι. Α. καὶ κάπνην ἔχει; / Β. δηλονότι. Α. μή μοι δῆλον. τοῦ στόματος ὄζει κακόν Per la costruzione col gen. indicante la provenienza del cattivo odore, cfr. ad es. Ar. Ach. 852; Ec. 524. Chi pronuncia la battuta esprime forse una preoccupazione ‘femminile’ legata a finalità erotiche: a tale proposito, Conti Bizzarro rimanda alla prescrizione solonica richiamata in Plu. Sol. 20.4, Mor. 138d, 279f (= Sol. fr. 127a-c Ruschenbusch) secondo cui la sposa doveva coricarsi assieme al marito dopo aver mangiato una mela cotogna (cfr. Manfredini–Piccirilli 1977, pp. 226–227; Ruschenbusch 2014, p. 110). Si pensi poi ad Ar. Th. 494–6, dove si denuncia la presunta abitudine delle donne di masticare aglio, «either to remove any fear that someone else might have wanted to kiss them […] or to cover the smell of perfume […] or of sex» (Austin–Olson 2004, p. 203). In tal senso, vd. forse anche Eup. fr. 7 προσένεγκέ μοὐγγὺς τὸ στόμ’ ὀσφρέσθαι τὸ σόν, che tuttavia potrebbe riferirsi ad altro, cfr. il comm. ad loc. di Olson 2017, pp. 115–116.

fr. 74 (68 K.) ἀλλ’ ἰσχάδας μοι πρόελε τῶν πεφωγμένων. οὐκ ἰσχάδας οἴσεις τῶν μελαινῶν; μανθάνεις; ἐν τοῖς Μαριανδυνοῖς ἐκείνοις βαρβάροις χύτρας καλοῦσι τὰς μελαίνας ἰσχάδας. 1 πρόελε τῶν Ath. : προελέτω Σ, Phot., Et.Gen., Et.Sym., EM πεφωγμένων Σ, Et.Gen. A : -ον Et.Gen. B : -ας Phot., Et.Sym. CV : πεφωσμένων Ath. (codd. EM varie corrupti) 2 οὐκ ἰσχ. οἴσεις Ath. : οἶσ’ (vel δὸς) ἰσχ. μοι Blaydes 3 :: ἐν Meineke ἐν mss. : ἢν dub. Meineke2 βαρβάροις Ath. : -ως van Herwerden

Su, tirami fuori dei fichi secchi, di quelli tostati.

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Secondo Dover 1968, p. 155, si può intendere sia «‘don’ t 〈talk〉 to me about speaking on important proposals’ or […] ‘Please don’ t talk about proposals’»: lo studioso preferisce la prima possibilità, con un imperativo sottinteso. A mio avviso, applicando quanto detto supra, si può intendere «sentenziare alla grande? Lungi da me!», senza bisogno di postulare un verbo sottinteso.

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Vuoi portare i fichi secchi, di quelli neri? Capisci? Nella terra dei Mariandini, quei barbari, chiamano chytrai i fichi secchi neri. Ath. 14.653a ὅτι δὲ καὶ πεφωσμένας ἰσχάδας ἤσθιον Φερεκράτης δείκνυσιν ἐν Κοριαννοῖ λέγων οὕτως· «ἀλλ’ – πεφωσμένων». καὶ μετ’ ὀλίγα δέ· «οὐκ – ἰσχάδας». Che mangiavano anche i fichi secchi tostati, lo mostra Ferecrate nella Koriannō, dicendo così: «Su – tostati», e poco dopo: «Vuoi – neri». Σ φ 240 (= Phot. z [ap. Kassel–Austin], Et.Gen. AB, EM 803.32, Et.Sym.)  φωγύναι· τὸ φρύγειν. «ἀλλ’ ἰσχάδας μοι προελέτω πεφωγμένων». φωγύναι: ‘tostare’. «Su – tostati».

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Bibliografia Bergk 1838, p. 300; Meineke FCG II.1, p. 281; Meineke ed. min. I, p. 100; Bothe 1855, pp. 94–95; Kock CAF I, pp. 163–164; Blaydes 1896, p. 21; van Herwerden 1903, p. 21; Kassel–Austin VII, pp. 137–138; Urios-Aparisi 1992, pp. 239–241. Contesto della citazione Nell’ ambito di una trattazione sui fichi secchi attici vengono menzionati Dinone (FGrHist 690 F 12), Alessi (fr. 122), Linceo (frr. 13 e 17 Dalby), Fenicide (fr. 2), Filemone (Sul dialetto attico, a proposito dei fichi secchi detti Egilidi, che sarebbero i migliori dell’Attica), Teopompo comico (fr. 12), Aristofane (fr. 681), Egesandro (fr. 43, FHG IV, p. 421), Ferecrate e Panfilo (fr. 31 Schmidt). Ferecrate è citato a testimonianza del fatto che i fichi secchi potevano anche essere tostati. La Synagogē (cod. B), Fozio (in un lemma del cod. z ancora inedito) e Et.Gen. (risalenti all’ espansione della Synagogē nota come Σ’’’) citano il primo verso del frammento di Ferecrate come locus classicus nell’ ambito di quella che, originariamente, potrebbe essere stata una più ampia discussione, forse di matrice atticista, su φώγω e altri verbi consimili: in effetti, il lemma φωγύναι non corrisponde al verbo usato da Ferecrate e ciò fa pensare che la discussione originale fosse più ampia; inoltre, vd. Σ φ 213 (= Phot. [z] ∼ Sud. φ 736) φρώγειν· φρύγειν, Ἀττικῶς (cfr. Hsch. φ 1081 φώγειν· φρύγειν). Testo Al v. 1 Kassel e Austin accolgono πεφωγμένων dei lessici in luogo di πεφωσμένων di Ath. (che tuttavia ha un parallelo comico in Stratt. fr. 9.2, vd. Orth 2009, p. 82), vd. Contesto della citazione.

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Al v. 2 οἶσ’ (oppure δὸς) ἰσχάδας μοι fu proposto da Blaydes per evitare l’ anapesto strappato: tuttavia, per quanto riguarda il trimetro comico, l’ argomento non è cogente e il testo tràdito va mantenuto, vd. ad es. Martinelli 1997, pp. 108–110. Al v. 3 Meineke ed. min. I, p. 100 propose di leggere ἢν e di considerare la proposizione come interrogativa, ma in tal caso non si vedrebbe quale possa essere la funzione dei dativi che seguono. Al v. 4 van Herwerden potrebbe cogliere nel segno preferendo l’ avverbio βαρβάρως al tràdito βαρβάροις, che manca dell’ articolo. Interpretazione Il parlante chiede a un servo originario della Mariandinia che si trova probabilmente fuori scena (vd. lemma πρόελε) di portare dei fichi secchi neri. Poco dopo (ma non sappiamo quanti versi separassero gli attuali vv. 1 e 2), lo stesso parlante sprona di nuovo il servo a eseguire l’ ordine: ciò ci fa pensare a una difficoltà del servo, che viene evidentemente commentata ai vv. 3–4 (sempre dallo stesso parlante o, al più, da un terzo personaggio, come pensava Meineke, ipotizzando un cambio di battuta al v. 3), con la considerazione ironica che presso i Mariandini i fichi secchi neri devono avere il nome di chytrai. Tale battuta lascia intendere che il servo, invece dei fichi, aveva portato in scena una pentola, fraintendendo l’ ordine datogli (così già Meineke)129. Nulla di preciso può dirsi sulla collocazione del frammento, sebbene già Bergk vedesse un legame col fr. 73: a parlare sarebbe lo stesso personaggio che, dopo aver rifiutato le lenticchie, chiede al servo dei fichi. 1 ἰσχάδας Ischas è il fico secco, che poteva essere servito tra i tragēmata: vd. Dalby 2003, pp. 143–144, con ulteriore bibliografia. πρόελε Il verbo potrebbe fare da didascalia scenica, alludendo forse a una dispensa da cui i fichi devono essere tirati fuori: cfr. Ar. Th. 419 con Austin–Olson 2004, p. 185; vd. anche Men. Sam. 229–30, in cui si fa riferimento a una dispensa da cui Demea prende (προαιρῶν) delle provviste. Se così fosse, potremmo immaginare che lo schiavo si trovasse, o per lo meno si recasse, fuori scena per eseguire l’ ordine espresso al v. 1. 1–2 τῶν πεφωγμένων … τῶν μελαινῶν A proposito di questi genitivi partitivi, vd. da ultimo Orth 2017, 120 con bibliografia, che rimanda ad Ar. Pax 1154, frr. 18, 27, 143, Cephisod. fr. 4.1. Nel nostro caso, essi occupano la periferia destra della frase e assolvono alla funzione di specificare ulteriormente il topic della frase stessa (vd. ad es. Ruiz Yamuza 2017, con bibliografia) – una strategia comunicativa che potrebbe rivelare l’ intento di riprodurre i modi del parlato. È però difficile dire

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Fuori strada Urios-Aparisi 1992, pp. 239: egli pensa a un possibile doppio senso osceno negli ultimi due versi (iskas = sesso femminile, chytra = deretano) «implying that this mistake is normal in Mariandynia since they all are homosexual and confuse one part with the other». Ma il passo che dimostrerebbe l’ equivalenza chytra = deretano ([Luc.] Asin. 6) è da intendersi in realtà in tutt’ altro modo (chytra = sesso femminile, cfr. proprio Adams 1982, p. 86, citato ma frainteso da Urios-Aparisi).

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se si tratti davvero di un uso enfatico, come afferma Urios-Aparisi 1992, p. 240, senza ulteriori specificazioni. 2 οὐκ … οἴσεις Ingiunzioni di questo tipo (interrogativa con οὐ + fut. ind.) sono proprie della lingua colloquiale (vd. López Eire 1996, pp. 61–62, con diversi esempi aristofanei, e Collard 2018, p. 53) e hanno la funzione di vincolare il destinatario a compiere un ordine formulato indirettamente per mezzo di una domanda, vd. Denizot 2011, pp. 471–483. Il «tono severo y amenazador» (López Eire 1996, p. 61) di tale costruzione, presente anche nel mostro frammento, dipende probabilmente dal contesto e dal destinatario: vd. infatti Eur. Med. 1151, Andr. 757, Supp. 1066, dove «a tone of a gentler remonstrance or appeal may be detected» (Mastronarde 2002, p. 354). Come ricorda Denizot 2011, p. 471, in Aristofane una ventina di occorrenze di οὐ + fut. ind. costituiscono la riformulazione di un ordine esplicito dato pochi versi prima: così accade anche nel nostro caso. Per οὐκ … οἴσεις come ordine impartito a un servo, vd. forse anche Anaxipp. fr. 6.4 οὐ μὴ πρότερον οἴσεις (Villebrune : νεύσεις A), θεοῖσιν ἐχθρὲ σύ, / τὸ λεβήτιον· τἀκ τοῦ νίτρου· πάλιν ὑστερεῖς. 3 ἐν τοῖς Μαριανδυνοῖς ἐκείνοις βαρβάροις I Mariandini erano una popolazione stanziatasi nella regione costiera meridionale del Mar Nero, attorno alla città di Eraclea Pontica, cui, da un certo momento in poi, si sottomisero diventandone tributari (cfr. da ultimo Olson 2016, p. 479 con bibliografia). Non sappiamo se un servo della Mariandinia potesse essere caratterizzato in qualche modo particolare: di non grande aiuto è l’ enigmatico Hsch. μ 280 μαριανδυνίζεις· εἰρωνεύεις, che potrebbe essere collegato al canto scoptico di cui parla Hsch. μ 279 (Μαριανδυνὸς θρῆνος· δαιμονίως γὰρ περὶ τοὺς θρήνους σπουδάζουσιν. ἄλλοι εἶδος ᾠδῆς τωθαστικῆς τὸν Μαριανδυνόν, ὡς Λιτυέρσαν) e di cui non abbiamo altre notizie, cfr. Ruge 1930, col. 1748 ll. 11–13. Kaibel ricavava da questo accenno ai Mariandini la presenza in scena di un giovane ventosus appena arrivato dall’ Asia e amante di Coriannò: a tale proposito, cfr. commento ad fr. 73.

fr. 75 (69 K.)  ἐκ τοῦ βαλανείου γὰρ δίεφθος ἔρχομαι, ξηρὰν ἔχουσα τὴν φάρυγα. (Β.) δώσω πιεῖν. (A.) γλίσχρον γέ μοὐστὶ τὸ σίαλον νὴ τὼ θεώ. (Β.) †εἰ λάβω κυρισοι† τὴν κοτυλίσκην; (A.) μηδαμῶς· μικράν γε. κινεῖται γὰρ εὐθύς μοι χολή, ἐξ οὗπερ ἔπιον ἐκ τοιαύτης φάρμακον. ἐς τὴν ἐμήν νυν ἔγχεον τὴν μείζονα 1 δίεφθος Casaubon : -θορὸς A Casaubon γε Dobree : τέ A

2 φάρυγγα A : corr. Toup μοὐστὶ Dindorf : μου A

3 γλαισχρον A : corr. θεῷ A 4 εἰ λάβω

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κυρισοι A : θέλεις λάβω σοι Casaubon : ἀλλ’ ἢ (ἦ) λάβω σοι Dobree : φέρ’ εἰ λάβω σοι Bergk : λάβ’ ὦ κορίσκη Fiorillo : λάβ’, ὦ Συρίσκε Cobet : λάβω κόρη σοι Meineke2 (de Κοριαννοῖ cogitaverat Meineke1) : τί; λάβω, κόρη, σοι Jacobs (unde τί λάβω κόρη σοι; Meineke in ed. Ath.) : τί λάβω κεράσαι σοι; Kock (‘γκεράσαι Ellis) : τί λάβω; κεράσω σοι Kaibel in ed. Ath. (κεράσω λαβών σοι Toup1), βούλῃ κεράσω σοι id. ap. Kassel–Austin : εἰ, κυρία, σοι Edmonds («εἰ with δοίην to be supplied [or omitted through interruption?]») κοτυλίσκην Ath.2 1 : κυλίσκην Ath. post μηδαμῶς interpunxi 7 εἰς A ἐμὴν A : μέλην Naber (vid. Kaibel ad Ath. vol. III, p. 72.9 μέλη: «non fuit vasculi nomen; deceptus Athenaeus vel potius Panphilus ipse») νυν Cobet, rec. Kock : νῦν A

Infatti arrivo completamente cotta dal bagno pubblico, con la gola secca. (B.) Ti do da bere. (A.) Ho proprio la saliva indurita, per le due dee! (B.) †…† la kotyliskē? (A.) No di certo: è piccola! Davvero mi si smuove la bile, da quando ho bevuto una medicina da tale coppa. Versa dunque in questa mia più grande. Ath. 11.481a (κύλιξ) Φερεκράτης Κοριαννοῖ· «ἐκ – μείζονα». Ferecrate nella Koriannō: «Infatti – più grande». Ath. 11.479b (κοτύλη) κοτυλίσκην δ’ εἴρηκε Φερεκράτης ἐν Κοριαννοῖ· «τὴν κοτυλίσκην μηδαμῶς». Ferecrate nella Koriannō disse kotyliskē: «la kotyliskē? (A.) No di certo».

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Bibliografia Casaubon 1600, p. 505; Toup 1790, I, p. 358; Toup 1790, II, pp. 554–555; Fiorillo 1803, pp. 34–35; Jacobs 1809, p. 260; Dindorf 1827, II, p. 1078; Runkel 1829, p. 30; Bergk 1838, p. 300; Meineke FCG II.1, pp. 281–282; Dobree 1833, p. 333; Meineke ed. min. I, p. 100; Bothe 1855, p. 95; Cobet 1858a, p. 23; Naber 1880, p. 31; Kock CAF I, p. 164; Ellis 1885, p. 294; Edmonds FAC I, p. 107; Conti Bizzarro 1988–1989, pp. 279–280; Kassel–Austin VII, p. 138; Urios-Aparisi 1992, pp. 242–245; Storey FOC II, p. 456

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Contesto della citazione Ateneo cita il presente frammento nell’ ambito di un catalogo alfabetico di coppe potorie, dapprima in relazione alla kotylē (solo una parte del v. 4), poi in riferimento alla kylix. Testo Al v. 4, mantengo le cruces così come prudentemente indicate da Kassel– Austin, dal momento che nessuna tra le tante congetture avanzate mi pare decisiva. Allo stato attuale del testo, in verità, non è nemmeno possibile assegnare con certezza le battute del verso, dal momento che a parlare potrebbe essere un personaggio di condizione servile che si rivolge (in tono interrogativo?) alla padrona, oppure la padrona stessa, che dà un ordine al personaggio B (vd. le congetture di Fiorillo e Cobet). Tuttavia, μηδαμῶς alla fine del verso indica probabilmente un cambio di battuta, come notano proprio Kassel–Austin in app. In ogni caso, la corruttela potrebbe nascondere un verbo all’ infinito (su tutte, si veda la proposta di Kock, τί λάβω κεράσαι σοι;, per la quale lo studioso rimanda a Pherecr. fr. 137.5 ῥεύσονται σφῶν ἀρύτεσθαι, cfr. Franchini 2020, p. 191) o un vocativo (un nome di persona? Si è pensato anche alla forma Κοριαννοῖ, che doveva essere usata nel corso della commedia, vd. test. i). Ai vv. 4–5 interpungo dopo μηδαμῶς. μικράν γε, infatti, avrà valore predicativo rispetto alla coppa appena menzionata dal personaggio B (vd. anche Storey FOC II, p. 456, che traduce «no, it’ s too little»). Anche altrove il solo μηδαμῶς nega una domanda o un’ affermazione precedente ed è seguito dalla spiegazione del diniego: vd. ad es. Ar. Lys. 821–2 (Γυ.) τὴν γνάθον βούλει θένω; / (Γε.) μηδαμῶς· ἔδεισά γε. Interpretazione Una donna, forse entrando in scena (vd. il verbo ἔρχομαι), lamenta di avere la gola secca, adducendo a motivo una permanenza nei bagni pubblici (vd. lemma 1 βαλανείου). Si tratta di un pretesto per chiedere al personaggio B una coppa di vino: non però la kotyliskē, bensì un recipiente più grande. A tale proposito, si noti che la richiesta formulata dalla donna doveva apparire decisamente insolita rispetto alle normali abitudini potorie: una coppa più grande si chiedeva infatti solo in alcune circostanze, in momenti di transizione, «when a dinner was followed by a bout of heavy drinking» (Arnott 1996, p. 325). Del resto, la smodata passione delle donne per il bere è motivo topico della commedia: vd., in proposito, comm. ad fr. 76; Ussher 1973, pp. 73–74; Arnott 1996, p. 504; Austin– Olson 2004, p. 231. Che da una kotyliskē la donna abbia bevuto una medicina (con conseguenze spiacevoli) ha tutta l’ apparenza di una scusa per giustificare la cospicua bevuta a cui ella si appresta. Dai pochi versi superstiti, dunque, emerge la figura di una donna (Koriannō?) dedita ad abitudini che il pubblico avrebbe considerato poco oneste per il genere femminile: in tal senso è probabilmente da considerare la frequentazione dei bagni pubblici (vd. lemma βαλανείου)130. Il frammento è stato messo in relazione con i frr. 73, 74 e 76, vd. anche Introduzione. 130

Data la presenza di espressioni avvicinabili al gergo tecnico della medicina (vd. già Conti Bizzarro 1988–1989, p. 279), Urios-Aparisi sospetta che il personaggio A sia una incantatrice che si esprime in modo pseudo-scientifico. L’ idea mi pare improbabile;

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1 βαλανείου Si tratta di un bagno pubblico (bibliografia in Papachrysostomou 2016, p. 56), come suggerisce il termine stesso (vd. Ginouvès 1962, p. 184; Urios-Aparisi 1992, pp. 242–243) e come lascia intendere l’ affermazione della parlante che, trovandosi in un contesto casalingo, dichiara appunto di provenire dal balaneion. Che una donna potesse frequentare i bagni pubblici è probabile: vd. Ginouvès 1962, pp. 220–224 (che tuttavia non cita il frammento ferecrateo). L’ affermazione contenuta nei Dissoi logoi 2.3 – secondo cui per una donna prendere un bagno a casa è bene, mentre è turpe farlo nella palaistra – non è immediatamente confrontabile con quanto detto dal personaggio A, che parla invece di balaneion: tuttavia, poteva essere diffusa una generale diffidenza nei confronti delle donne che facevano il bagno in un luogo pubblico. Che tale pratica fosse malvista, sembrerebbe del resto suggerito proprio dalla caratterizzazione del personaggio A (vd. Interpretazione). Difficile è capire se la frequentazione del balaneion da parte del personaggio A avesse a che fare con la prostituzione: i passi citati da Ginuvès per dimostrare la presenza di prostitute nei bagni pubblici non mi sembrano affatto decisivi, almeno per quanto riguarda il V sec. a.C. Molto più tarde sono le testimonianze di Ateneo 13.590f (secondo cui la cortigiana Frine non usava bagni pubblici: ciò lascia supporre, secondo Ginouvès 1962, p. 223 n. 2, che fosse abituale farlo per le donne della sua condizione) e Mart. 3.93.14 (su cui vd. il commento di Fusi 2006, p. 531). Per i bagni come oggetto di valutazioni moralistiche, vd. Ar. Nu. 991, 1044–6, 1053–4, com. adesp. fr. 133, [Dem.] 50.35, Ginouvès 1962, pp. 216–217; Papachrysostomou 2016, p. 56. δίεφθος Solo in questo caso l’ aggettivo ha un referente umano, acquistando così una forte carica espressiva e colloquiale (ciò non è motivo per dubitare della forma, congetturando un improbabile διψήσασ’, come fa Conti Bizzarro 1988–1989, p. 279); altrove, esso è sempre riferito al cibo (le occorrenze nel corpus Hippocraticum non fanno eccezione e non è opportuno portare a confronto l’ aggettivo ἑφθός col significato di ‘languido’ in Hp. Epid. 4.16 [5.154.11 Littré] ecc., come fa Urios-Aparisi 1992, p. 243): vd. ad es. Pherecr. fr. 113.14 e Telecl. fr. 51 (in entrambi i casi si parla di ἀκροκώλια, vd. anche Poll. 6.59). Sui bagni caldi come (inutile) lusso, vd. Ar. Nu. 1044–6, Hermipp. fr. 68.2, com. adesp. fr. *555, cfr. Ginouvès 1962, pp. 216–217; Comentale 2017, p. 283. 3 γλίσχρον […] σίαλον L’ aggettivo, che si ritrova altrove in commedia solo in senso figurato, γλίσχρος occorre per lo più nella trattatistica medica a tecnica. Per la connessione con σίαλον, vd. Hp. Coac. 371 (5.662.12 Littré) τὰ ἐκ κυνάγχης πτύαλα γλίσχρα; 407 (5.676.9–10 Littré) πτύελα γλίσχρα; Morb. 2.26 (7.40.13–4 Littré) ἡ δὲ φάρυγξ ἔσωθεν σιάλου γλίσχρου ἔμπλεως; 2.53 (7.80.23 Littré) τὸ

piuttosto, la donna, interessata a descrivere in modo espressivo i sintomi della sua sete, fa riferimento a un immaginario diffuso e immediatamente comprensibile al pubblico, vd. lemma κινεῖται γὰρ εὐθύς μοι χολή.

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σίαλον γλίσχρον καὶ πουλύ, καὶ ἡ φάρυγξ ξηρή; Int. 1 (7.166.18 Littré) σίαλον πολλὸν ἀποπτύει ὑγρόν, ἐνίοτε δὲ καὶ γλίσχρον. νὴ τὼ θεώ Si tratta di un ‘assertive idiom’ (Willi 2003, p. 13) riferito a Demetra e Persefone. Tale espressione doveva essere tipicamente femminile, a giudicare dalle testimonianze comiche (per un regesto delle quali vd. Franchini 2020, p. 137, con bibliografia) e da quelle lessicografiche, come Phryn. Ecl. 166 νὴ τὼ θεώ· ὅρκος γυναικῶν· οὐ μὴν ἀνὴρ ὀμεῖται, εἰ μὴ γυναικίζοιτο e Phot. μ 147 μὰ τὼ θεώ (Ar. Ec. 155)· γυναικεῖος ὅρκος· δυϊκῶς δὲ ὀμνύουσι τὴν Κόρην καὶ τὴν Δήμητραν· ἀνδράσι δὲ οὐ πρέπει τοῦτον ὀμνύναι. 4 κοτυλίσκην Diminutivo di kotylos/kotylē, vd. anche Ar. Ach. 459 κοτυλίσκιον e fr. 395 κοτυλίσκος (sull’ alternanza -ίσκη/-ίσκος, cfr. Arnott 1991, pp. 187–189). Si tratta di una coppa potoria il cui nome è attestato fin dai poemi omerici (Il. 22.494; Od. 15.312, 17.12). A causa della contraddittorietà delle testimonianze erudite (vd. Ath. 11.478b-479c), non è possibile assegnare a tale coppa una forma precisa, né è chiaro se i diversi riferimenti comici alla sua preziosità debbano essere presi seriamente, vd. Leonard 1922; Orth 2013, p. 155; Pellegrino 2015, pp. 70–71; Comentale 2017, pp. 125–126; Orth 2017, pp. 4178–420. 5 κινεῖται γὰρ εὐθύς μοι χολή Per l’ espressione, cfr. (con il verbo alla diatesi attiva) Ar. V. 403–4 εἰπέ μοι, τί μέλλομεν κινεῖν ἐκείνην τὴν χολήν, / ἥνπερ ἡνίκ’ ἄν τις ἡμῶν ὀργίσῃ τὴν σφηκιάν;; Men. Epit. 1126–7 σύ μοι χολὴν / κινεῖς παθαινομένη; Baton. fr. 7.3 ἐμοὶ δήπουθε κινοῦσιν χολὴν κτλ.; vd anche Eur. Med. 99 κινεῖ κραδίαν, κινεῖ δὲ χόλον. L’ immagine potrebbe trarre origine dalla medicina, «where various types of physical suffering and discomfort are linked to disturbances in the level or condition of the χολή» (Biles–Olson 2015, p. 217). Per χολή nel senso di ‘rabbia’, vd. Austin–Olson 2004, p. 197, con bibliografia. 7 τὴν ἐμὴν … τὴν μείζονα L’ espressione sottintende il riferimento a un termine indicante una coppa potoria, come kylix. Tuttavia, come ricorda Arnott 1996, p. 325 (con bibliografia), «the use of the feminine adjective on its own nominally or adverbially is so widespread in ancient Greek that at times all consciousness of ellipse seems to have been lost».

fr. 76 (70 K.) (A.) ἄποτος, ὦ Γλύκη. (Γλ.) ὑδαρῆ ’ νέχεέν σοι; (A.) παντάπασι μὲν οὖν ὕδωρ. (Γλ.) τί ἠργάσω; πῶς ὦ κατάρατε 〈δ’〉 ἐνέχεας; (Β.) δύ’ ὕδατος, ὦ μάμμη. (Γλ.) τί δ’ οἴνου; (Β.) τέτταρας. (Γλ.) ἔρρ’ ἐς κόρακας. βατράχοισιν οἰνοχοεῖν σε δεῖ. 1 ἄποτος Meineke : ἀποτες A : ἀποτός ἐστ’ Bergk 2 ὑδαρῆ ’ νέχεέν σοι Erfurdt : -ην ἐνέχεεν σοι A παντάπασι μὲν οὖν A (μὲν οὖν om. CE, Eust.) : πανταχῶς μὲν οὖν Kock : παντάπασιν οὖν Bernhardi 3 ἠργάσω Kassel–Austin : εἰρ- ACE, Eust. ὦ

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κατάρατε 〈δ’〉 ἐν- Meineke : ὦ κατάρατε ἐν- ACE, Eust. : ὦ κατάρατ’ αὔτ’ ἐν- Dobree : ὦ κατάρατ’ ἄρ’ ἐν- Kaibel ap. Kassel–Austin (in ed. Ath. de ὦ σὺ κατάρατ’ ἐν- cogitaverat) : ὦ καταράτοτ’ ἐν- (debuit καταρατότατ’) Erfurdt : ἡ κατάρατος, ἐν- Bothe : ὦ κατάρατ’ ἐπεν- Edmonds 4 τί δ’; οἴνου; Kock τέτταρα (sc. μέρη) Blaydes 5 βατράχοισιν Erfurdt : -οις ACE, Eust. σ’ ἔδει van Herwerden

(A.) Imbevibile, Glice! (Gl.) Te lo ha versato annacquato (sc. il vino)? (A.) No, è proprio acqua! (Gl.) Che hai fatto? In che proporzioni lo hai versato, maledetto/a? (B.) Due parti d’ acqua, mammina. (Gl.) E quante di vino? (B.) Quattro. (Gl.) Va’ alla malora! È alle rane che devi servire il vino! Ath. 10.430e Φερεκράτης δ’ ἐν Κοριαννοῖ δύο ὕδατος πρὸς τέσσαρας οἴνου, λέγων ὧδε· «ἀποτες – δεῖ». Ferecrate nella Koriannō (menziona) due misure d’ acqua contro quattro di vino, dicendo così: «imbevibile – vino». Ath. Epit. 10.430e (CE) Φερεκράτης δέ που φησί· «παντάπασι – δεῖ». Ferecrate in un passo dice: «no, – vino». Eust. in Od. 1.335.31–34 Φερεκράτης δέ φασι πλάσας τινὰ εἰπόντα ὡς «παντάπασιν ὕδωρ εἰργάσω». καὶ ἐρωτηθέντα, «πῶς ὦ κατάρατε;» ποιεῖ ἀποκρινάμενον τὸ «ἐνέχεας δύο ὕδατος ὦ μάμμη». πρὸς δὲ τὸ ὕδατος τέτταρα κατὰ δέ τινας οἴνου τέτταρα, ἐρρέθη τὸ «ἔρρ’ ἐς κόρακας, βατράχοις οἰνοχοεῖν σε δεῖ». Ferecrate finge che qualcuno dica: «hai reso (la bevanda) tutta acqua». E il personaggio – interrogato così: «in che modo, maledetto?» – lo fa rispondere così: «hai versato due parti d’ acqua, mammina». Riguardo alle quattro misure d’ acqua (secondo alcuni quattro misure di vino), viene detto così: «va’ alla malora, è alle rane che devi servire il vino».

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〈xlkl xlk〉kk klkl kklkkk l|lkkk klkl klkl l|lkkl kkkkl kkkkl ll|kl llkl llkkl kklk|l kklkl

Bibliografia Dobree 1833, p. 326; Bergk 1838, pp. 300–301; Meineke FCG II.1, pp. 282–283; Bothe 1855, p. 95; Bernhardi 1871, p. 247; van Herwerden 1882, p. 71; Kock CAF I, pp. 164–165; Blaydes 1890, p. 18; Edmonds FAC I, pp. 232–233; Conti Bizzarro 1988–1989, pp. 280–281; Kassel–Austin VII, p. 139; Urios-Aparisi 1992, pp. 246–248; Olson 2007, p. 309

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Contesto della citazione Il presente frammento è citato da Ateneo nell’ ambito di una discussione sulle miscele di vino e acqua, vd. ultimamente Papachrysostomou 2021, pp. 110, 116. Eustazio, che cita dall’ epitome di Ateneo (vd. Kassel–Austin VII, p. 139), fraintende gravemente il significato dei versi e non è utile ai fini dell’ interpretazione. Testo Al v. 2, sulla scorta di Bernhardi, Kock propose πανταχῶς per evitare l’anapesto strappato nel quinto piede: ma non è prudente intervenire, vd. la casistica raccolta in White 1912, pp. 45–48 (non cogenti sono però i confronti, proposti da Kassel–Austin, con frr. 74.2 e 77.1). Al v. 3, Kassel–Austin scrivono ἠργ- anziché εἰργ- dei manoscritti: la correzione, già proposta da van Herwerden 1903, p. 18 al fr. 173, è corroborata dalle testimonianze epigrafiche, vd. Threatte 1996, p. 472. Al v. 5, σ’ ἔδει di van Herwerden, in luogo di σε δεῖ dei mss., è appetibile (cfr. ad es. Kühner–Gerth I, pp. 204–205) e darebbe alla battuta il carattere di «unfulfilled obligation» (Olson 2007, p. 101). Tuttavia, l’ intervento non è strettamente necessario: il parlante potrebbe ironicamente ingiungere, a chi ha servito il vino annacquato, di sfruttare pienamente la sua attitudine in futuro, facendo da coppiere alle rane. Preferisco dunque mantenere, sia pure in via dubitativa, il testo tràdito. Al v. 4, τέτταρα (sc. μέρη) proposto da Blaydes non è necessario, vd. ad es. Anacr. PMG 409, con Bernsdorff 2020, II, p. 676. Interpretazione I personaggi in scena sono tre, uno dei quali è una donna o una fanciulla (di condizione libera o servile?) chiamata Glice: tale nome, piuttosto comune, non aiuta a stabilire l’ identità del personaggio (vd lemma Γλύκη). Al v. 4, una donna, forse anziana, viene apostrofata come ‘μάμμη’, ma ciò non ci autorizza a supporre che in scena vi siano una madre e una figlia, dal momento che l’ appellativo potrebbe essere usato in generale nei confronti di una persona più anziana, senza legami di parentela con il locutore, vd. lemma μάμμη. Non è esclusa la presenza di Coriannò, né quella di un uomo. Date le poche informazioni di cui disponiamo, l’ assegnazione delle battute è destinata a rimanere congetturale; quella da me stampata si trova in Kassel–Austin (ed è accettata da Olson 2007, p. 309). Di seguito riporto le proposte avanzate dagli altri studiosi (a esclusione di quella di Kock, palesemente errata, dal momento che il primo verso è assegnato a Glice), nessuna delle quali mi pare decisiva: Bergk e Meineke: (A.) ἄποτος, ὦ Γλύκη. (B.) ὑδαρῆ ’ νέχεέν σοι; (A.) παντάπασι μὲν οὖν ὕδωρ. (B.) τί ἠργάσω; πῶς ὦ κατάρατε 〈δ’〉 ἐνέχεας; (Γλ.) δύ’ ὕδατος, ὦ μάμμη. (B.) τί δ’ οἴνου; (Γλ.) τέτταρας. (B.) ἔρρ’ ἐς κόρακας. βατράχοισιν οἰνοχοεῖν σε δεῖ. Bothe: (A.) ἄποτος, ὦ Γλύκη. (B.) ὑδαρῆ ’ νέχεέν σοι; (A.) παντάπασι μὲν οὖν ὕδωρ.

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τί ἠργάσω; πῶς ὦ κατάρατε 〈δ’〉 ἐνέχεας; (Γλ.) δύ’ ὕδατος, ὦ μάμμη. (A.) τί δ’ οἴνου; (Γλ.) τέτταρας. (A.) ἔρρ’ ἐς κόρακας. βατράχοισιν οἰνοχοεῖν σε δεῖ. Edmonds: (ΓΡΑΥΣ) ἄποτος, ὦ Γλύκη. (Γλ.) ὑδαρῆ ’ νέχεέν σοι; (Γρ.) παντάπασι μὲν οὖν ὕδωρ. (Γλ.) τί ἠργάσω; πῶς ὦ κατάρατε 〈δ’〉 ἐνέχεας; (ΠΑΙΣ) δύ’ ὕδατος, ὦ μάμμη. (Γλ.) τί δ’ οἴνου; (Πα.) τέτταρας. (Γλ.) ἔρρ’ ἐς κόρακας. βατράχοισιν οἰνοχοεῖν σε δεῖ. Secondo Urios-Aparisi, se si accetta l’ assegnazione delle battute proposta da Kassel–Austin, allora il primo parlante del nostro frammento potrebbe coincidere con il primo parlante del fr. 75, il cui personaggio B sarebbe identificabile con Glice – ciò a patto di riconoscere una continuità tra i due frammenti, come voleva Kock, che integrava exempli gratia il primo verso del presente frammento (: : καὶ δὴ κέκραται. πρόσφερ’. : :). La scena rappresentata sembra quella di un simposio. Un personaggio si lamenta, interrogato da un altro, del vino annacquato. Tuttavia, chi ha servito la bevanda dichiara di aver miscelato due parti d’ acqua e quattro di vino, una proporzione che verosimilmente sarà parsa del tutto fuori dal comune al pubblico. Ciò nondimeno, la battuta finale lascia intendere che i bevitori, o meglio le bevitrici, ritengono la bevanda troppo leggera: una simile costatazione è in effetti consona al topos comico dell’ incoercibile passione delle donne per il vino, vd. lemma δύ’ ὕδατος […] τέτταρας. La battuta finale, come accade in altri frr., potrebbe essere la detorsio comica di un proverbio, vd. comm. ad fr. 43 e cfr. Urios-Aparisi 1992, p. 34. 1 Γλύκη Si tratta di un nome piuttosto diffuso ad Atene, vd. PAA IV, pp. 294–295. Ciò, peraltro, rende meno appetibile l’ ipotesi di Urios-Aparisi 1992, p. 247, secondo cui il nome è «easily related to wine as ὁ γλυκύς was the name for ‘sweet wine’». 2 ὑδαρῆ Riferito al vino, in commedia ha un senso per lo più dispregiativo, come ricorda Arnott 1996, p. 651 ad Alex. fr. 228.4, che cita anche, oltre al nostro fr., Alex. fr. 232, Antiph. fr. 25, Ephipp. fr. 11.2; vd. anche Diph. fr. 57 e cfr. Papachrysostomou 2021, pp. 118–119. μὲν οὖν In questo e in altri casi (vd. Denniston 1954, pp. 475–476), μὲν οὖν è usato da un parlante per sostituire un’ espressione più decisa a quanto è stato appena affermato da un interlocutore. 3 ὦ κατάρατε L’ insulto (anche nelle forme παγκατάρατε e τρισκατάρατε, rispettivamente in Ar. Lys. 588 e Men. Epit. 1080) compare diverse volte in Aristofane, in Euripide, negli oratori classici e nella prosa successiva (vd. Wankel 1976, II, p. 967 ad Dem. 18.209; Dickey 1996, pp. 172 e 290; Olson 2007, p. 183; Papachrysostomou 2016, pp. 198–199). Rispetto al suo valore etimologico originario (‘oggetto di una maledizione’), il termine ha, qui e altrove, una caratterizzazione

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più debole e colloquiale, vd. Battezzato 2018, pp. 168–169; Collard 2018, p. 48 (vd. però Napolitano 2022, pp. 108–110, secondo cui l’ epiteto in Pherecr. fr. 155.8, riferito a Cinesia, mantiene la sua accezione originaria). 4 δύ’ ὕδατος […] τέτταρας Il vino veniva normalmente mescolato con acqua, in proporzioni variabili (berlo assoluto era considerato da barbari, vd. ad es. Anacr. PMG 356b con Bernsdorff 2020, II, pp. 432–433 e Ar. Ach. 75 con Olson 2002, pp. 94–95). Le diverse proporzioni sono illustrate da Ath. 10.426b–427a, 430a–431b (che include anche il nostro frammento) e Plu. Mor. 657b-e; vd. anche van Leuwen 1900, p. 204, con un’ utile raccolta di passi comici e non. Un’ idea dell’ enormità della situazione descritta nel nostro frammento si può forse avere qualora si pensi che una bevanda fatta di una parte di acqua e una di vino poteva essere considerata troppo forte, stando ad alcune fonti (com. adesp. fr. 101.12 – ma vd. Kassel–Austin VIII, p. 35 in app.; Alex. fr. 59 con Arnott 1996, p. 183; Eup. fr. 299 con Olson–Seaberg 2018, pp. 14–15), mentre da altre apprendiamo che una miscela di tre parti d’ acqua e una di vino era ritenuta equilibrata (vd. West 1978, p. 308 ad Hes. Op. 596). Va detto però che le proporzioni potevano dipendere anche dal tipo di vino – l’ aggettivo πολυφόρος, in effetti, era usato per indicare il vino che poteva ‘sostenere’ molta acqua, vd. van Leuwen 1900, p. 204; Olson 2017, p. 114 ad Eup. fr. 6. Il vino servito dall’ ignoto coppiere del nostro frammento, ad ogni modo, è tutt’ altro che annacquato, pur sembrando tale alle donne (ma non possiamo portare a confronto Alc. fr. 346.4 Voigt, in cui probabilmente si parla di due parti d’ acqua e una di vino e non il contrario, vd. da ultimo Bernsdorff 2020, II, p. 675 n. 139). Quello delle donne dedite al bere in maniera smodata è un topos comico (vd. Arnott 1996, p. 504 e Olson 2007, p. 309, con diversi ess.), i cui prodromi sono forse già visibili in Anacreonte (PMG 427, vd. Bernsdorff 2020, II, p. 741). ὦ μάμμη Il termine potrebbe essere usato dal parlante o in riferimento alla propria madre (ma vd. Dover 1968, p. 257: «hardly ‘mummy’, for the speaker has been mixing wine and is addressed as ὦ κατάρατε»), oppure a una donna che deve essere blandita (la padrona? Così Urios-Aparisi 1992, p. 248, che tuttavia rimanda a Theoc. 15.60, non pertinente, e a Conti Bizzarro 1988–1989, p. 283, secondo cui la battuta è «chiaramente» pronunciata da una «più giovane compagna» che risponde a un’ etèra più anziana). In ogni caso, si potrebbe trattare di una donna anziana, vd. Dickey 1996, pp. 77–81 e cfr. Men. Dysc. 495; Theoc. 15.60, con Gow 1950, II, p. 283 (che cita Hsch. μ 1279 μήτηρ· [ἡ] πρεσβυτάτη πᾶσα). ἐς κόρακας L’ imprecazione, già attestata in Archil. fr. 196a.31 West2, trae probabilmente origine dal fatto che «condizione particolarmente miserevole era reputata il rimanere insepolti, pasto per fiere e rapaci», ma fu variamente spiegata in antichità, vd. Tosi 2018, p. 1038 (n° 1537; per altre simili imprecazioni entrate nella tradizione paremiografica, vd. ad es. Bühler 1999, p. 288). Come nel presente caso, ἐς κόρακας segnala spesso la reazione immediata di un parlante nei confronti di un interlocutore inopportuno o comunque di un agente disturbatore (vd. ad es. Ar. Ach. 864, in cui Diceopoli scaccia via dei flautisti paragonati a

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vespe, probabilmente accompagnando coi gesti la sua imprecazione). Cfr. anche Mastellari 2019, p. 308. Sulla grafia ἐς, oltre a Arnott 1996, p. 264 (con bibliografia), vd. Bühler 1982, pp. 218–219, che cita la testimonianza di Elladio in Phot. Bibl. cod. 279 535b.2–6 Bekker ὅτι οἱ Ἀττικοὶ κατά τι πάτριον ἔθος οὐ χρῶνται τῇ ει διφθόγγῳ ἐν τῷ λέγειν ἐς κόρακας ἢ ἐς μακαρίαν, ἀλλ’ ἄνευ διχρόνου ἐκφωνοῦσι τὴν πρόθεσιν· ἐπὶ δὲ τῶν ἄλλων ἁπάντων καὶ τοῦ διχρόνου καὶ χωρὶς τοῦ διχρόνου τὴν πρόθεσιν λέγουσιν (vd. anche Thom. Mag. 145.11–12; cfr. Phot. β 47 = Su. β 75 = Paus. Gramm. β 1). βατράχοισιν […] δεῖ Il naturale legame tra rane e acqua è variamente sottolineato in commedia e nella tradizione paremiografica. Se Aristophon. fr. 10.3 ὕδωρ δὲ πίνειν βάτραχος e Zenob. vulg. II.79 (~ Diogenian. III.58, Prov. Bodl. 236 Gaisford; cfr. schol. Luc. Pisc. 9, p. 132.9 Rabe) βατράχῳ ὕδωρ· […] ἐπὶ τῶν ταῦτα διδόντων οἷς χαίρουσιν οἱ λαμβάνοντες si basano sulla passione delle rane per l’ acqua (vd. Olson 2007, p. 309; Orth 2020, p. 98), diverso è il significato di un detto come βατράχοις οἰνοχοεῖς· πρὸς τοὺς ταῦτα παρέχοντας ὧν οὐ χρῄζουσιν οἱ λαμβάνοντες (Zenob. vulg. II.78 ~ Diogenian. III.57, Prov. Bodl. 235 Gaisford, Macar. II.75, Apostol. IV.78; cfr. Su. β 191), che si inserisce nel filone paremiografico di denuncia delle azioni inutili (ampia rassegna in Tosi 2018, pp. 403–415). Per quanto riguarda il significato della battuta ferecratea in relazione alle testimonianze appena riportate, si può pensare che essa si basi sulla naturale passione delle rane per l’ acqua, come avviene in Aristophon. fr. 10.3 ecc. In tal caso, però, si dovrà constatare l’ affinità (per non dire l’ identità) formale tra il dettato ferecrateo e quello di Zenob. vulg. II.78 ecc., in cui l’ accento, come detto, è sull’ inutilità dell’ azione descritta: vd. infatti Orth 2020, p. 98, secondo cui quella ferecratea è «eine Klage über die nach Ansicht der Sprecherin zu schwache Weinmischung, die inhaltlich besser zu den antiken Erklärungen von βατράχῳ ὕδωρ passt als zu denen von βατράχοις οἰνοχοεῖς». Dal canto loro, studiosi come Meineke e Conti Bizzarro hanno suggerito che la battuta, originariamente ferecratea, sia entrata nella tradizione paremiografica. In tal caso, bisogna supporre che i paremiografi abbiano stravolto il senso della battuta ferecratea, accostandola indebitamente a quei detti che denunciano l’ inutilità di un’ azione. Si può però tentare un’ altra spiegazione. È possibile che Ferecrate attui qui una detorsio comica di un detto preesistente riferito alle azioni inutili (e testimoniatoci dalla tradizione paremiografica), applicandolo in maniera incongrua a una situazione diversa e facendo leva sull’ altrettanto proverbiale propensione delle rane per l’ acqua. Si spiegherebbe così, da un lato, l’ identità della battuta ferecratea con il detto testimoniato dai paremiografi (senza dover pensare a un fraintendimento di questi ultimi); d’ altro canto, si avrebbe un parallelo con Pherecr. fr. 43, in cui probabilmente il significato di un proverbio viene stravolto a fini comici (vd. comm. ad loc.). δεῖ Cfr. Barrett 1964, pp. 164–165 ad Eur. Hipp. 41, secondo cui δεῖ progressivamente sostituisce χρή nell’ indicare un bisogno o una necessità che non abbiano «requirements of morality».

Κοριαννώ (fr. 77)

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fr. 77 (71 K.) ἀπαρτὶ μὲν οὖν ἐμοὶ μὲν εἰκός ἐστ’ ἐρᾶν, σοὶ δ’ οὐκέθ’ ὥρα μὲν οὖν cod. : γοῦν Bernhardi

Al contrario: è a me che si addicono gli amori, mentre per te non è più il momento Σb α 1637 ἀπαρτί· παρ’ Ἡροδότῳ σημαίνει τὸ ἀπηρτισμένως καὶ ἀκριβῶς· (2.158.4). παρὰ δὲ τοῖς κωμικοῖς τὸ ἐκ τοῦ ἐναντίου. Φερεκράτης Κραπατάλλοις· (fr. 98). Κοριανοῖ· «ἀπαρτὶ – ὥρα». Πλάτων Κλεοφῶντι· (fr. 59). τάχα δὲ ὁ Τηλεκλείδης ὁμοίως τῷ Ἡροδότῳ κέχρηται· (fr. 39). μήποτ’ οὖν τὸ μὲν πλῆρες καὶ ἀπηρτισμένον ὅταν σημαίνῃ, ὀξυτονεῖται, τὸ δὲ ἐναντίον βαρύνεται. Aparti: in Erodoto significa ‘perfettamente’ e ‘esattamente’: (2.158.4). Nei comici, significa ‘al contrario’. Ferecrate nei Krapataloi: (fr. 98). Nella Koriannō: «al contrario – momento». Platone (comico) nel Cleofonte: (fr. 59). Forse Teleclide lo usa in maniera simile a Erodoto: (fr. 39). Forse ha l’ accento acuto quando significhi ‘completamente’ e ‘perfettamente’ e l’ accento grave quando invece significhi ‘contrario’.

Metro Trimetri giambici

klkkl klk|l klkl llkl k〈lkl xlkl〉

Bibliografia Bergk 1838, p. 299; Meineke FCG II.1, pp. 284–285; Bothe 1855, p. 96; Bernhardi 1871, p. 260; Kock CAF I, p. 165; Blaydes 1896, p. 21; Edmonds FAC I, pp. 234–235; Kassel–Austin VII, pp. 139–140; Conti Bizzarro 1988–1989, pp. 282–283; Urios-Aparisi 1992, p. 249 Contesto della citazione L’ espansione della Synagogē contenuta nel cod. B cita il presente frammento insieme a Pherecr. fr. 98 e a Pl. Com. 59, spiegando che in questi ἀπαρτί significa ‘al contrario’, mentre Telecl. fr. 39 viene dato come probabile esempio del significato ‘esattamente’, altrimenti attestato in Erodoto (cfr. Bagordo 2013, pp. 188–189). La dottrina è comunque revocata in dubbio sulla base della possibilità che i due significati diversi corrispondano in realtà a due forme diverse, distinte dall’ accento. La questione di ἀπαρτί/ἀπάρτι è trattata anche in altre fonti: – Erot. α 12 ἀπαρτί· ἀντὶ τοῦ ἀπηρτισμένως καὶ παντελείως καὶ ὁλοκλήρως; – Gal. 15.593.3–4 Kühn τὸ ἀπαρτὶ καὶ παρὰ τοῖς Ἀττικοῖς συγγραφεῦσιν ἐπὶ τοῦ ἀπηρτισμένωϛ εἴρηται καὶ παρ’ αὐτῷ τῷ Ἱπποκράτει; – Gal. Gloss. α 125 ἀπαρτί (desinentiam -ως postea add. A2: unde ἀπαρτίως praebent codd. recc.)· ἀπηρτισμένως καὶ ἀκριβῶς. Διοσκουρίδης δὲ | ἔφη ὅτι καὶ

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Pherekrates

πᾶν τοὐναντίον δηλοῖ, ὡς ἐν τῷ Περὶ διαίτης ὀξέων, ἐν οἷς φησι· ‘καὶ ὡς ἐπὶ τὸ πολὺ ἀπαρτὶ ἐν τοῖσι τοιούτοισι καιροῖσι μεταβάλλουσιν εἰς τὰ ῥοφήματα’· ἐμοὶ δὲ καὶ ταύτῃ δοκεῖ τὸ ἀπηρτισμένως τε καὶ ἀκριβῶς δηλοῦν. ὅτι δὲ καὶ οἱ Ἀττικοὶ τὸν αὐτὸν τρόπον χρῶνται τῷ ὀνόματι, μυρία παραδείγματα διὰ τῶν μακρῶν (Perilli : μικρῶν vel σμικρῶν codd., edd.: ἡμετέρων Garofalo) ὑπομνημάτων ἔχεις. [Hdn.] GG III.1, p. 506.13–14 τὸ δὲ ἀπαρτί παρ’ Ἀθηναίοις ὀξύνεται; Antiatt. α 68 ἀπαρτί (edd. : ἀπάρτι C)· ἀντὶ τοῦ ἄρτι ἀπὸ 〈τοῦ〉 νῦν. Πλάτων Σοφισταῖς (fr. 155); Hsch. α 5815 ἀπαρτί· ἀπηρτισμένως ἀκριβῶς. Αἰσχύλος Ἀθάμαντι; Ioann. Alex. 37.10–11 Dindorf (176.3–4, p. 152 Xenis) τὸ δὲ ἀπαρτὶ παρ’ Ἀθηναίοις ὀξύνεται; Phot. α 2267 ἀπαρτί· τοῦτο παρὰ τοῖς Ἀττικοῖς ὀξυτόνως. σημαίνει δὲ τὸ ἀπηρτισμένον. Εὔπολις καὶ Ἡρόδοτος; Su. α 2928 ἀπαρτί: ἐπίρρημά ἐστιν ὡς ἀμογητί, παρὰ τὸ ἀπηρτισμένον καὶ πλῆρες. Ἡρόδοτος (2.158.4)· «ἀπὸ τούτου εἰσὶ στάδιοι οʹ ἀπαρτί». καὶ Φερεκράτης ἐν Κραπατάλλοις (fr. 98)· «φράσον μοι ἀπαρτὶ δήπου προλαβεῖν». καὶ Ἀριστοφάνης Πλούτῳ (Pl. 388)· «τοὺς δεξιοὺς καὶ τοὺς σώφρονας ἀπαρτὶ πλουτῆσαι ποιήσω»; Lex. Vind. α 153 Guida ἀπαρτί· ἀντὶ τοῦ ἀπὸ τοῦ νῦν. Ἀριστοφάνης (Pl. 388)· «ἀπαρτὶ ποιήσω πλούσιον». schol. Ar. Pl. 388a ἀπαρτί: ὀξυτόνως, ἀντὶ τοῦ VM ἀπηρτισμένως. VMEΘN MatrBarbAld ἐπίρρημα δέ ἐστιν, ὡς ‘ἀμογητί’· παρὰ τὸ ‘ἀπηρτισμένον’  – καὶ πλῆρες. κέχρηται δὲ αὐτῷ Ἡρόδοτος λέγων (2.158.4)· «ἀπὸ τούτου εἰσὶ στάδιοι, ‚α ἀπαρτί»· RVMEΘBarbAld καὶ Φερεκράτης ἐν Κραπατάλοις· […]; schol. Ar. Pl. 388b ἀπαρτί] συνωνυμεῖ ἡ λέξις 〈ἡ ἄρτι〉 (con. Schneider)· ἔσθ’ ὅτε γὰρ καὶ χρονικὸν ἐπίρρημα δηλοῖ, VMEΘBarbAld ὡς καὶ Καλλίμαχος (fr. 609 Pfeiffer)· VMEΘBarbAld «ἄρτι θέναρ βάλλει» (Schneider : ἄρτιθεν ἀβραλλεῖ M : ἄρτιθεν ἃ βράλλει V), καὶ ὁ Πλάτων, ἐπὶ τοῦ ‘νῦν’ (Ly. 215c)· «ἤδη ποτέ του ἤκουσα λέγοντος, καὶ ἄρτι ἀναμιμνήσκομαι…» VM ταῦτα ἐκ τῶν Διδύμου· περὶ διαφορᾶς λέξεως (fr. I.3, p. 20 Schmidt = °3 Coward–Prodi). V;

Premesso che il quadro è complicato dalle speculazioni antiche sull’ esatto significato dell’ avverbio ἄρτι (vd. ad es. Phryn. PS 17.3–9; Lobeck 1820, pp. 18–21; Herenn. Phil. α 33 Palmieri, con l’ abbondante apparato di loci similes), le testimonianze riportate permettono di farci un’ idea delle fonti a disposizione del testimone del frammento ferecrateo. La discussione su ἀπαρτί/ἀπάρτι doveva essere piuttosto antica (come accenna Olson 2014a, p. 195; cfr. anche Rutherford 1881, p. 72, secondo cui la voce della Synagogē «bears the marks of being by an early and able hand»): infatti Eroziano, che dedicava una voce all’ avverbio nel suo lessico ippocratico (il poco che possiamo leggere è frutto di epitome), Dioscoride (altro esegeta del lessico ippocratico citato da Galeno) e Didimo, citato dallo schol. Ar.

Κοριαννώ (fr. 77)

153

Pl., avevano tra le loro fonti ultime anche filologi dell’ età ellenistica131. In particolare da Didimo potrebbero aver attinto gli atticisti, che dovettero occuparsi del problema: in effetti, Antiatt. α 68, difendendo ἀπαρτί = νῦν in Platone comico, lascia intendere che tale significato doveva essere rifiutato dagli atticisti più rigorosi (vd. Valente 2015, pp. 59; cfr. Willi 2010, p. 508). Questi ultimi avranno costatato che nei poeti dell’ archaia il significato ‘al contrario’ è attestato diverse volte, prescrivendolo come attico: questa loro dottrina è probabilmente adombrata nella ‘selezione’ di citazioni comiche contenute in Σb α 1637 (vd. Cunningham 2003, p. 56; peraltro, anche la citazione di Erodoto può spiegarsi in un contesto atticista, vd. ad es. Valente 2015, p. 54 n. 319). Ricapitolando: forse già i filologi dell’ età ellenistica trattavano la questione di ἀπαρτί/ἀπάρτι e le loro discussioni possono essere state riprese da Eroziano e Didimo; quest’ ultimo pare essere la fonte ultima dello scolio aristofaneo (cfr. anche Su. α 2928) e forse di Σb α 1637 – ma per quest’ ultimo testimone, tuttavia, c’ è probabilmente da supporre la mediazione di un atticista ‘di stretta osservanza’. Testo La proposta di Bernhardi – γοῦν in luogo del tràdito μὲν οὖν – è dovuta alla volontà di evitare l’ anapesto strappato: vd. però quanto già notato ad fr. 76.2. Il doppio μέν non crea del resto problemi, come sottolineano Kassel–Austin, che portano a confronto Eup. fr. 429. Interpretazione Gli studiosi concordano nel ritenere che i frr. 77, 78 e 79 rappresentino l’ alterco tra due rivali in amore, forse padre e figlio. Al centro della contesa potrebbe essere la Coriannò che dà il titolo alla commedia di Ferecrate. Sul motivo topico della rivalità padre-figlio in commedia, che qui sarebbe declinata nel senso della rivalità amorosa, Kassel–Austin rimandano a Wehrli 1936, pp. 56–69. Meineke riteneva che il fr. 166 (ὦ Ζεῦ πολυτίμητ’, ἆρ’ ἀκούεις ἅ σε [Phot. b, z α 816 : ἅ Σb α 811 : ἅ με Meineke] λέγει / ὁ πανοῦργος υἱός;) contenesse la risposta del padre, ma la sua integrazione (με) si è dimostrata errata alla luce di Phot. α 816 e la sua ipotesi va rifiutata, come notano Kassel–Austin VII, p. 188 ad loc. 131

Sulle fonti di Eroziano, vd. Perilli 2015; su quelle di Dioscoride, vd. Perilli 2017, p. 104. Il problematico schol. Ar. Pl. 388 (vd. Pfeiffer 1949, II, pp. 416–417; Bagordo 2013, p. 189) attribuisce a Didimo un trattato περὶ διαφορᾶς λέξεως (fr. I.3, p. 20 Schmidt = °3 Coward–Prodi) non altrimenti noto, tanto che Dindorf emendò il titolo, facendolo coincidere con quello, testimoniato anche altrove, di περὶ διεφθορυίας λέξεως. A tale proposito, non mi sembrano giustificati i dubbi di Schmidt 1854, pp. 412–413, che, accettando l’ emendamento di Dindorf, relega comunque lo scolio nell’ indice, non ritenendo di doverlo annoverare tra i frammenti appartenenti al trattato περὶ παρεφθορυίας/διεφθορυίας λέξεως perché non rispondente ai contenuti di un’ opera così intitolata. Infatti: 1) un titolo come περὶ διαφορᾶς λέξεως, benché non testimoniato altrove, si sposa bene con la questione relativa all’ esistenza di due parole diverse che si differenziano solo per l’ accento; 2) se anche il titolo fosse da emendare in περὶ διεφθορυίας λέξεως, non si vede perché la questione della differenza tra ἀπαρτί e ἀπάρτι non potesse essere trattata in un’ opera simile.

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Pherekrates

ἀπαρτὶ Sull’ uso e i possibili significati dell’ avverbio, vd. Contesto della citazione e cfr. Lobeck 1820, pp. 18–21; Rutherford 1881, pp. 70–72; Pirrotta 2009, pp. 149–150; Bagordo 2013, pp. 188–189; Olson 2014a, p. 196; Valente 2015, p. 102. A proposito dell’ occorrenza ferecratea in questione, Olson 2014a, p. 196 dichiara di preferire agli altri il significato ‘hereafter, henceforth’. Ciò non può essere escluso; tuttavia, non è prudente, in assenza di altri dati, ignorare l’ indicazione del nostro testimone (che espressamente dà all’ avverbio il significato di ‘al contrario’) – inoltre, come ricorda Sicking 1883, p. 29, «temporalis illa significatio nunc nusquam alibi invenitur quam apud sacros scriptores» (vd. ad es. Ev.Matt. 23.39, 26.29, 26.64, Ev.Jo. 13.19, 14.7). μὲν οὖν In questo caso, non possiamo essere certi di quale sia la valenza pragmatica di μὲν οὖν. Tuttavia, il pronome σοί, il contenuto della battuta e il probabile significato di ἀπαρτί (‘al contrario’) inducono a credere che che μὲν οὖν abbia un valore avversativo rispetto a quanto è stato appena argomentato da un altro personaggio (vd. Denniston 1954, p. 475).

fr. 78 (72 K.) ὑοσκυαμᾷς ἀνὴρ γέρων ὑο- z, Su. : υἱο- g

γέρων 〈ὤν〉 Porson in ed. Phot.

Deliri come se avessi preso il giusquiamo, alla tua età. Phot. υ 58 (= Su. υ 123; Et.Gen. B s. v. ὑοσκυαμᾶν, unde EM 777.18, Et.Sym. cod. V fol. 189v et ap. ThGL VIII, p. 102A) ὑοσκυαμᾶν (gpcz : -ῶν gac?)· μεμηνέναι· παραπαίειν. Φερεκράτης Κοριαννοῖ (-οῖς Su. G, EM)· «ὑοσκυαμᾷς – γέρων». Hyoskyamān (‘essere sotto l’ effetto del giusquiamo’): essere folli; delirare. Ferecrate nella Koriannō: «sei – età».

Metro Trimetro giambico

klkkl klkl

Bibliografia Bergk 1838, p. 295; Meineke FCG II.1, p. 284; Bothe 1855, p. 96; Kock CAF I, p. 165; Edmonds FAC I, pp. 234–235; Kassel–Austin VII, p. 140; Conti Bizzarro 1988–1989, p. 283; Urios-Aparisi 1992, p. 249 Contesto della citazione Fozio e la Suda riportano il frammento ferecrateo come locus classicus per il verbo ὑοσκυαμᾶν; cfr. Hsch. υ 209 ὑοσκυαμᾷς (Heinsius : ὑοσκιαμεῖς H)· μαίνει ἀπὸ τῆς πόας, anch’ esso probabilmente dipendente da Ferecrate, e vd. anche Phot. υ 59 (= EM 777.17) ὑοσκύαμος· ὃν οἱ πίνοντες μαίνονται.

Κοριαννώ (fr. 79)

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Testo L’ integrazione 〈ὤν〉 di Porson non è necessaria: a tale proposito, Edmonds porta a confronto il fr. 79 (vd. anche fr. 87; Ar. Th. 941; Cratet. fr. 16.2; Pl. Cri. 53d; cfr. Schwyzer–Debrunner, pp. 614–615). Kock, che accettava l’ integrazione di Porson, completava il trimetro con καὶ σαπρός (evidentemente sulla scorta di Ar. Pax 698 ὅτι γέρων ὢν καὶ σαπρὸς κτλ.). Interpretazione Il parlante si rivolge in maniera insultante a un uomo anziano, che potrebbe essere lo stesso apostrofato al fr. 77 (vd. comm. ad loc.). Le proprietà del giusquiamo sono note a Xen. Oec. 1.13 (τὸν ὑοσκύαμον καλούμενον […], ὑφ’ οὗ οἱ φαγόντες παραπλῆγες γίγνονται), vd. Stadler 1914. Sul confronto con Call. Com. fr. 35 ἑλλεβοριᾶν, proposto da Kassel e Austin, vd. Ortoleva 2014, pp. 282–284; Bagordo 2014, p. 210 ad loc. Il fatto che per noi il verbo ὑοσκυαμᾶν sia un hapax non ci autorizza a ritenere sicura la sua invenzione da parte di Ferecrate (come fa Conti Bizzarro): in effetti, secondo Urios-Aparisi, il verbo «may have belonged to familiar Attic». fr. 79 (74 K.) Σb α 1442 (= Phot. α 2017; Su. α 2547) ἀνόδοντον· Κοριαννοῖ (Bachmann : Κοριάννοις codd.) Φερεκράτης (Φερ. Κορ. Phot. b)· «ἀνὴρ γέρων ἀνόδοντος ἀλήθει». Anodonton (sdentato): Ferecrate nella Koriannō: «un uomo vecchio sdentato (anodontos) macina». Poll. 2.96 (FS, A, BC) ὁ δὲ ὀδόντα μὴ ἔχων νωδός (vd. Phryn. Com. fr. 85) […]. ἀνόδοντα δ’ αὐτὸν καλεῖ Φερεκράτης (ἀνόδοντος ὡς Φερ. BC). Chi non ha un dente (è detto) nōdos (vd. Phryn. Com. fr. 85) […]. Ferecrate lo chiama anodonta. Hsch. α 5235 ἀνόδοντος· ὀδόντας οὐκ ἔχων. Anodontos: che non ha i denti.

Bibliografia Jungermann ap. Lederlinus–Hemsterhuis 1706, p. 1261; Lobeck 1820, p. 151; Bergk 1838, p. 295; Meineke FCG II.1, p. 285; Bothe 1855, p. 96; van Herwerden 1855, pp. 11–12; Kock CAF I, pp. 165–166, 168; Blaydes 1896, p. 21; Edmonds FAC I, pp. 234–235; Rehrenböck 1985, pp. 73–77; Kassel–Austin VII, p. 140; Urios-Aparisi 1992, pp. 250–251; Franchini 2020, pp. 28–29 Contesto della citazione Data la coincidenza tra Σb α 1442, Phot. α 2017 e Su. α 2547, la voce doveva già trovarsi nella prima espansione della Synagogē (Σ’, cfr. Cunningham 2003, pp. 13–14) ed era probabilmente trattata dagli atticisti: a tale proposito, vd. anche la testimonianza di Poll. 2.96.

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Pherekrates

Testo Dato il ricorrere dell’ espressione ἀνὴρ γέρων in fr. 87.3, Meineke credeva che i due frammenti fossero in realtà identificabili e che il fr. 87 fosse stato assegnato ai Krapataloi per un errore nel testo di Polluce (testimone del fr. 87); quanto ad ἀλήθει, esso doveva inizialmente costituire l’ inizio di una nuova glossa. Dello stesso avviso è Rehrenböck 1985, p. 74: questi aggiunge che la figura del vecchio sarebbe stata centrale nella Koriannō (vd. frr. 77 e 78; ma la cosa non mi pare decisiva, vd. lemma ἀνόδοντος). Da ultimo, Franchini 2020, pp. 28–29 si mostra scettico a riguardo e ricorda come uno stesso sintagma potesse comparire in due commedie diverse, rimandando a Hunter 1983, p. 175. Di seguito riporto gli interventi di maggiore momento sul testo del nostro frammento. Lobeck 1820, p. 151, che pensava a un possibile esametro dattilico, integrava δὲ prima di γέρων. Bernhardy ap. Knoch 1835 p. 114, riconosceva invece un trimetro giambico e correggeva ἀλήθει in ἄληθες (con punto interrogativo)132. Blaydes proponeva la seguente sistemazione: ἀνήρ ἀνόδοντος ὢν / γέρων ἀλήθει. Van Herwerden, a sua volta, correggeva ἀλήθει restituendo ἀλλ’ ἔνθες, oppure ἀλλ’ ἐντίθει (egli credeva che il nostro frammento coincidesse con fr. 87.3). Nessuno degli interventi proposti può dirsi decisivo. Non è però prudente dire che il testo non dà senso, come voleva Meineke: infatti, ἀλήθει potrebbe essere usato metaforicamente e significare una modalità del mangiare, vd. già Kock CAF I, pp. 165–166 e cfr. immagini simili in Taillardat 1965, pp. 88–89; a un possibile senso osceno pensa Urios-Aparisi 1992, p. 251, che rimanda a carm. pop. PMG 869 con Campbell 1967, pp. 448–449 (Meineke, come già Bergk 1838, p. 295, obiettava anche che ἀλήθει non è verbo attico, ma vd. lemma ἀλήθει). ἀνόδοντος L’ epiteto di ‘sdentato’ è frequentemente usato, in commedia, per designare scherzosamente un personaggio anziano, vd. i passi raccolti in Stama 2014, p. 361. Non stupirebbe, insomma, trovarlo applicato a due personaggi diversi in due commedie differenti: l’ identità tra il presente frammento e il fr. 87, postulata da Rehrenböck anche a partire dalla coincidenza lessicale, dunque, non può dirsi dimostrata con certezza. Per quanto riguarda la forma ἀνόδοντος, essa ha l’ aspetto di un doppione (forse estemporaneo? Vd. Sommer 1948, pp. 93 e 102) del più diffuso νωδός (dal privativo *ν(ε)- e ὀδών/ὀδούς, con allungamento in composizione e passaggio alla declinazione dei temi in -o-, cfr. στράβων > στραβός, vd. Solmsen 1909, pp. 29–34; Schwyzer, p. 431; Frisk GEW, s. v.)133. ἀλήθει Il verbo è condannato da Phryn. Ecl. 121 (cfr. Lobeck 1820, p. 151). Inoltre, vd. Pherecr. frr. 10.3 e 197.2, in cui si trovano ἤλουν e ἀλέσαι. Ciò, tuttavia, 132

133

Nella sua edizione della Suda, Bernhardy proponeva di tenere distinti i frr. 79 e 87 come possibili testimoni di due forme diverse usate da Ferecrate, rispettivamente ἀνόδους e ἀνόδοντος. Moer. ν 13 prescrive νωδός come forma ‘attica’, probabilmente basandosi sulle occorrenze comiche del termine, che tuttavia è attestato altrove, in poesia e in prosa, vd. Stama 2014, p. 361.

Κοριαννώ (fr. 80)

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non basta a escludere che il verbo ἀλήθει fosse effettivamente attestato in Ferecrate: Kassel e Austin portano a confronto infatti Antiatt. α 46 ἀλήθειν· οὐκ ἀλεῖν (οὐ 〈μόνον〉 ἀλεῖν con. Lobeck). La testimonianza dell’ Antiatticista (su cui vd. Sicking 1883, pp. 22–23) potrebbe suggerire che il verbo ἀλήθειν si trovasse, sia pure come forma rara o isolata, in qualche autore attico – forse proprio Ferecrate, come crede Slater 1976, p. 241, secondo cui la glossa potrebbe risalire ad Aristofane di Bisanzio. Va comunque detto che il verbo è attestato in autori non attici, soprattutto dall’ età ellenistica in poi, vd. Rehrenböck 1985, pp. 76–77.

fr. 80 (75 K.) ἀδράφαξυν ἕψουσ’, εἶτ’ ὀκλὰξ καθημένη. ἀδρ- Phot. : ἀνδρ- Σb : ἀτρ- Meineke

Bollendo il bietolone, poi, accovacciata sulle ginocchia (?) Σb α 378 (= Phot. α 387) ἀδράφαξυς· τὸ λάχανον, ὅπερ οἱ πολλοὶ (παλαιοὶ Phot.) ἀνδράφαξυν (Σb, Phot. z : ἀδρPhot. b) καλοῦσιν. Κοριανοῖ Φερεκράτης (Φερ. Κοριανοί Phot. z : Φερ. Κοριανεί Phot. b)· «ἀδράφαξυν – καθημένη». Adraphaxys: la verdura, che la moltitudine chiama andraphaxys. Ferecrate nella Koriannō: «bollendo – ginocchia».

Metro Trimetro giambico

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Bibliografia Meineke FCG II.1, pp. 285–286; Bothe 1855, p. 96; Kock CAF I, p. 166; Edmonds FAC I, pp. 234–235; Conti Bizzarro 1988–1989, pp. 284–285; Kassel–Austin VII, pp. 140–141; Urios-Aparisi 1992, pp. 252–253 Contesto della citazione I due testimoni risalgono all’ espansione Σ’’’ della Synagogē e dipendono da una fonte atticista, come suggerisce anche la terminologia usata: infatti, presso gli atticisti, πολλοί indica perlopiù la massa degli indotti in opposizione ai πεπαιδευμένοι e/o agli autori canonici – ma una simile etichetta poteva essere usata in maniera sensibilmente diversa a seconda dei casi, vd. Matthaios 2013, pp. 95–105; Matthaios 2015, pp. 298–304. A tale proposito, cfr. Eust. in Il. 2.56.7–9 (che, stando a Erbse, dipenderebbe da Elio Dionisio, vd. Ael. Dion. α 38) φασὶ δὲ καὶ τὸ ἁδράφαξυς δασύνεσθαι. ἔστι δὲ εἶδος λαχάνου, τὸ κοινῶς χρυσολάχανον, ὅπερ ἡ πλείων χρῆσις διὰ τοῦ τ ἀτράφαξυν λέγει, ὡς καὶ ὁ Κωμικὸς δηλοῖ ἐν τῷ «ψευδατραφάξυος πλέα». Secondo Erbse 1950, p. 27, che si basa sulla testimonianza di Eustazio già citata, ἀτράφαξυς deve essere «die richtige Vulgärform» e come tale dovrebbe essere accolta nel testo dei nostri testimoni

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in luogo di ἀνδράφαξυν (Σb, Phot. z) o ἀδράφαξυν (Phot. b). Ciò, tuttavia, non mi pare sicuro. Infatti, Eustazio indica ἀτράφαξυς come πλείων χρῆσις: il dotto vescovo di Tessalonica usa questa espressione, in casi ‘ancipiti’ o comunque in presenza di forme alternative, per riferirsi alla variante più attestata nell’ ambito di un insieme ben definito di fonti ‘accreditate’ – che si tratti di manoscritti, di autori antichi o degli stessi poemi omerici, compulsati per verificare l’ usus del poeta. Si considerino i seguenti passi: – in Il. 1.215.25–216.1 τὸ δὲ ἁρμοῖ ἐπίρρημα, ὃ δηλοῖ τὸ νεωστί, διφορεῖται μὲν κατὰ τοὺς παλαιούς, ἡ δὲ πλείων χρῆσις δασύνει αὐτὸ [Συρακουσίων ὂν κατὰ τὸν Τεχνικόν. ἁρμὸς γάρ, φησίν, ἁρμοῦ ἁρμῷ καὶ συστολῇ ἁρμοῖ κατὰ τὸ ἔξω ἐξοῖ καὶ ἔνδον ἐνδοῖ παρὰ Θεοκρίτῳ.]; – in Il. 1.600.25 τὸ δὲ ἔμεναι νῦν μὲν ἁπλοῦν ἔχει τὸ μ καὶ μετ’ ὀλίγα ἐν τῷ «λώβην τ’ ἔμεναι», κατωτέρω δὲ διπλάζει αὐτὸ ἐν τῷ «πρόμον ἔμμεναι» καὶ ἔστι πλείων ἡ χρῆσις αὕτη πανταχοῦ; – in Il. 2.69.13–16 τὸ ὀκνεῖν δὲ ἰστέον ὅτι κἂν Ὅμηρος ἐπὶ τοῦ ὀκνηλῶς ἔχειν ἔταξεν, ἵνα ᾖ ὀκνεῖν τὸ οὐκ ὀνεῖν ἤγουν μὴ ἐνεργεῖν, ἀλλ’ ἡ πλείων χρῆσις τῶν μεθ’ Ὅμηρον ἐπὶ φόβου τὸν ὄκνον τίθησι, καὶ ἔστι πολλὴ ἡ χρῆσις παρὰ τῷ Σοφοκλεῖ (la nota su Sofocle risale a Eustazio stesso secondo van der Valk: ad ogni modo, ‘coloro che vengono dopo Omero’ non sono generici parlanti greco, ma autori come Sofocle); – in Il. 2.245.7–9 τὸ δὲ ὤσατο νῦν μὲν Ἀττικῶς προηνέχθη κατὰ πάθος, πλείων δὲ ἡ χρῆσις τοῦ ἐνεργητικοῦ, τοῦ ὦσε δηλαδή; – in Il. 2.463.13–14 ὅτι δὲ τὸ ἔτης ἡ πλείων χρῆσις ψιλοῖ, ἀλλαχοῦ προρρηθὲν εὑρεθήσεται (cfr. in Il. 2.311.13–19, sull’ opportunità di scrivere ἔτης con spirito dolce o aspro: a favore della prima soluzione sono citati, attraverso fonti intermedie, anche Eschilo e Euripide; cfr. anche la dottrina erodianea in schol. A Il. 6.239); – in Il. 2.814.1–2 πλείων δὲ παρὰ τοῖς ὕστερον ἡ χρῆσις τοῦ ἁλοίη ὥσπερ καὶ τοῦ δοίη (per scrittori successivi a Omero vengono qui intesi gli autori attici, presso i quali si trovano le forme ἁλοίη ecc., come nota van der Valk in app.); – in Il. 3.34.35–36 παρὰ δὲ ἑτέροις καὶ κρόσφος καλεῖται ἢ γρόσφος διὰ τοῦ γ, εἰ καὶ ἡ πλείων χρῆσις ἑλεπόλεως εἶδος οἶδε τὸν γρόσφον (cfr. van der Valk in app.); – in Il. 4.557.8–9 ὥστε βαλεῖν λέγεται καὶ τὸ ἁπλῶς εὐστοχῆσαι, κἂν μὴ διακύψῃ τὸ βέλος ἐντός. πλείων δ’ ὅμως ἡ ἑτέρα χρῆσις (van der Valk in app. attribuisce la notazione a Eustazio, come anche nel caso di in Il. 4.578.3–4); – in Il. 4.753.18–20 ἴσως δὲ προϋπόκειται τοῦ θρυλλίσσειν τὸ θρυλλῷ, ἐξ οὗ καὶ ὁ κατὰ φήμην καὶ ὄχλον θρύλλος. ταῦτα δὲ ἡ πλείων χρῆσις δι’ ἑνὸς λ οἶδε προφέρειν (cfr. anche LSJ, s. v. θρῦλος); – in Od. 1.34.38–39 (= 156.11–12 Cullhed) Λέγει δὲ καὶ ὅτι τὸ χεῖρας νίπτεσθαι ἀφ’ οὗ χέρνιβα καὶ χερνίπτεσθαι, ἡ πλείων χρῆσις, κατὰ χειρὸς εἴωθε λέγειν καὶ κατὰ χειρῶν (qui Eustazio si rifà ad Ath. 9.408e, che a sua volta risale ad Aristofane di Bisanzio, vd. Slater 1989; Bagordo 2013, pp. 57–59);

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– in Od. 1.153.10–11 εἰ γὰρ καί τινες βούλονται γράφειν ἔχαδε λόγῳ δευτέρου ἀορίστου, ἀλλ’ ἡ πλείων χρῆσις τῶν ἀντιγράφων, κέχαδεν αὐτὸ οἶδεν; – in Od. 1.236.32 πλείων ἡ χρῆσις τοῦ ἀπήνη ἐνταῦθα ἤπερ τοῦ ἅμαξα, διὰ τὸ καιριώτατον; – in Od. 2.32.22–23 Ὅτι ἐν τῷ, Νείκεον ἄλλοθεν ἄλλον ἐπισταδὸν, ἀντὶ τοῦ ἑστηκότως, εἴ πέρ ἐστιν οὕτω ἓν ἀνθ’ ἑνὸς φράσαι. πλείων δὲ ἐν ἄλλοις ἡ χρῆσις τοῦ ἐπισταδὸν ἀντὶ τοῦ ἐπιστημόνως; – in Od. 2.239.4–6 διφορεῖται δὲ τοῦ ἀεικείας ἡ παραλήγουσα, ὡς καὶ ἐν Ἰλιάδι. πλείων δὲ χρῆσις ἡ διὰ διφθόγγου, ὡς ἀπὸ τοῦ ἀεικὴς ἀεικεῖα. ἔχει δὲ λόγον καὶ ἡ διὰ ἰῶτα γραφὴ διὰ τὸ ἐκ τῆς ἀεικίας τὴν αἰκίαν γίνεσθαι. In tutti questi casi, la variante ‘maggiormente usata’ è solitamente quella da considerarsi normale e, talvolta, è addirittura quella preferibile. Comunque, Eustazio non usa mai il sintagma πλείων χρῆσις per riferirsi a una «Vulgärform» in contrapposizione a una forma raccomandata e non è possibile proporre un paragone con i πολλοί, la ‘moltitudine’, di cui parla la fonte della Synagogē. Se ciò è vero – e se Eustazio ha, nel passo che ci interessa, una fonte atticista –, allora possiamo dire a fortiori che l’ esempio aristofaneo (Ar. Eq. 630) è allegato da Eustazio (o dalla sua fonte) per sostenere la variante ἀτράφαξυς, non per condannarla. Insomma, ἀτράφαξυς non era la forma vulgär, ma semmai quella prescritta dalla fonte atticista di Eustazio e della Synagogē. Rimane comunque aperta la questione di quale forma fosse effettivamente attestata nel frammento di Ferecrate qui discusso. A riguardo, ci sono due possibilità: 1) nel testo di Ferecrate si trovava ἀτράφαξυς, dunque ἀδράφαξυς è una corruttela che ha finito per coinvolgere il lemma stesso della Synagogē: ma va comunque detto che ἀδράφαξυς è testimoniato anche altrove e non si può escludere che 2) in Ferecrate potesse comparire una forma ἀδράφαξυς, minoritaria rispetto a ἀτράφαξυς, ma pur sempre tollerata dagli atticisti meno severi, che al passo di Ferecrate si sarebbero anzi richiamati per corroborare la loro dottrina. In entrambi i casi, la forma ἀνδράφαξυς doveva essere quella rifiutata perché diffusa presso la ‘moltitudine’ di chi deviava dai modelli attici (o comunque, di chi era escluso dalla cerchia dei πεπαιδευμένοι). Testo Su ἀδράφαξυν, corretto in ἀτράφαξυν da Meineke, vd. Contesto della citazione. Interpretazione Una donna è descritta nell’ atto di cuocere della verdura (forse spia di un misero pasto, come suggerisce Urios-Aparisi 1992, p. 252) e poi di sedere in ginocchio. Secondo Conti Bizarro, la donna (Coriannò o qualche ‘collega’) potrebbe essere intenta a preparare un «intruglio dannoso alla salute», ma il confronto con Plin. Nat. 20.83, che descrive alcune controindicazioni dell’atriplice, non è in alcun modo probante. ἀδράφαξυν Si tratta dell’ Atriplex hortensis L. Le varianti della forma (ἀδρ-, ἁδρ-, ἀτρ-, ἀνδρ-; -φαξ, -φαξυς, -φαξις) non si spiegano solamente con l’ etimo-

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logia popolare (cfr. ἀνήρ e ἁδρός; vd. Strömberg 1940, p. 160) e ne denunciano la probabile origine pregreca, come spiega Beekes 2010, s. v. ἀτράφαξυς. ὀκλὰξ L’ avverbio deriva da ὀκλάζω (vd. Frisk GEW e Beekes 2010, s. v.; è possibile che alla base del verbo vi sia un sostantivo come ὀκλάς, varia lectio accolta da Maas e Kidd in Arat. 517 in luogo di ὀκλάξ, vd. Kidd 1997, p. 364). ὀκλάξ è attestato qui per la prima volta. Secondo Ardizzoni 1958, p. 235, esso ricorre nella koinè: tuttavia, le sue attestazioni sono scarse e perlopiù limitate alla prosa medica; le occorrenze in Ap. Rh. 3.1308 e in Luc. Lex. 11 fanno piuttosto pensare a un uso dotto, come potrebbe essere quello dell’ atticizzante Ael. NA 14.5 (vd. Schmid 1893, p. 212). Vd. comunque Phot. ο 180 ὀκλάξ· οὕτως καὶ οἱ Ἀττικοὶ λέγουσιν ὡς ἡμεῖς (in cui ἡμεῖς potrebbe riferirsi ai parlanti dotti del tempo [della fonte] di Fozio?). ὀκλάξ significa forse lo stare accovacciati sulle calcagna: in effetti, Gal. 3.253.14 Kühn distingue ὀκλάξ e γνύξ (‘ginocchioni’) come due posizioni differenti, entrambe permesse dalla presenza della rotula. Vd. però Ap. Rh. 3.1308, dove ὀκλάξ è probabilmente sinonimo di γνύξ (v. 1310; vd. Ardizzoni 1958, p. 235; cfr. anche v. 1313 γούναισν ἐν προτέροισι). Vd. anche Hsch. ο 477 *ὀκλάξ· ἐπικεκαμμένως (AS); Su. ο 111 ὀκλὰξ καθήμενος· ἀντὶ τοῦ ἐπὶ γόνυ; Eust. in Od. 2.84.24 ὀκλὰξ καθῆσθαι τὸ ἐπὶ γόνυ; schol. D Il. 13.281/Zs μετοκλάζει. μετακαθίζει ἐπ’ ἀμφοτέρους πόδας· ὀκλὰξ γάρ ἐστι τὸ ἐπὶ γόνυ. ὅ ἐστιν, ἐγκλίνει τὰ γόνατα, διὰ δειλίαν μετακαθίζων; schol. Luc. Lex. 11, p. 199.10 Rabe ὀκλὰξ δὲ ἀντὶ τοῦ ἐπὶ γόνυ καμφθείς.

fr. 81 (76 K.) κατάχεον αὐτῆς κἀνύδρευσαι τὸν κάδον καὐτῆς Su. : κᾳὖθις Wesseling (suo Marte, u. v.)

ἀνύδρευσαι Wesseling

τῷ κάδῳ Wesseling, Blaydes

Versale sopra il secchio (?) e riempilo d’ acqua Σb α 1545 (= Phot. α 2152; Su. α 2782) ἀνυδρεύσασθαι· ἀντλῆσαι ὕδωρ. «κατάχεον – κάδον», Κοριαννοῖ (Σb, Su. A a. c. : -ν(ν)οῖς Su., Phot.) Φερεκράτης. Anydreusasthai: attingere acqua. «Versale – acqua», Ferecrate nella Koriannō.

Metro Trimetro giambico

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Bibliografia Wesseling 1731, pp. 249–250; Runkel 1829, p. 32; Meineke FCG II.1, p. 286; Kock CAF I, p. 166; Blaydes 1890, p. 19; Edmonds FAC I, pp. 234–235; Kassel–Austin VII, p. 141; Urios-Aparisi 1992, p. 253; Storey FOC II, p. 459

Κοριαννώ (fr. 81)

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Contesto della citazione L’ accordo tra i testimoni permette di far risalire il lemma all’ espansione della Synagogē detta Σ’. Si può solo sospettare che la fonte ultima (un atticista?) citasse il frammento ferecrateo come locus classicus dell’ uso transitivo del verbo ἀνυδρεύσασθαι nel significato ‘riempire d’acqua un recipiente’. In effetti, nell’unica altra attestazione del verbo, così come nella prima parte del nostro testimone, ἀνυδρεύσασθαι significa ‘attingere l’ acqua (dal pozzo)’: vd. Hsch. α 5555 ἀνυδρευόμενος· ἐκ φρέατος ἀντλῶν. In alternativa, si può pensare che la fonte della Synagogē volesse chiarire la natura del primo elemento del composto verbale: cfr. ἀνύδρευτος, ‘privo d’ acqua’. Testo La congettura di Wesseling (κᾳὖθις ἀνύδρευσαι) è dettata dalla volontà di correggere la sequenza apparentemente invertita delle azioni ordinate dal parlante che, stando all’ attuale stato del testo, ingiunge prima di versare (dell’ acqua, verisimilmente) e poi di riempire il secchio: ma l’ assenza di ulteriori indizi e l’ ambiguità sintattica del frammento (vd. lemma κατάχεον) suggeriscono di mantenere il testo tràdito. Blaydes (ma vd. già Wesseling 1731, p. 250) propose di correggere τὸν κάδον in τῷ κάδῳ, portando a confronto il problematico Men. fr. 229 ([A.] οἱ δ’ ἁρπάσαντες τοὺς κάδους 〈τοὺς〉 στρογγύλους / ὕδρευον ἀνδρειότατα †κἠπόλις† πάλιν. / [B.] ἤντλουν λέγειν δεῖ καὶ κάδους οὐ δεῖ λέγειν, ἀλλ’ ἀντλιαντλητῆρας). Tuttavia, la correzione rischia di essere una banalizzazione, vd. Contesto della citazione). Interpretazione Il personaggio parlante impartisce degli ordini, forse a un servo. Non possiamo sapere chi o che cosa stia per essere cosparso (di acqua?): a tale proposito, servono a poco i rimandi di Kock a Xenarch. fr. 7.16 e Anaxipp. fr. 8.3. κατάχεον Spesso il verbo è costruito con il genitivo indicante ciò che viene cosparso di qualcosa (anche in senso metaforico) e l’ accusativo riferito all’ oggetto versato (un liquido ecc.). Nel nostro frammento è possibile che τὸν κάδον vada inteso sia come oggetto di κατάχεον che di κἀνύδρευσαι (cfr. ad es. Kühner–Gerth II, p. 564; Wilamowitz 1895, II, pp. 62–63; Kiefner 1964, passim): vd. Urios-Aparisi 1992, p. 253, che ipotizza un uso metonimico di τὸν κάδον a significare ‘l’ acqua contenuta nel secchio’; Storey traduce «draw some water and pour the jar over her» (implicitamente ammettendo un hysteron proteron nel testo greco?). Per καταχέω + τὸν κάδον, cfr. Aristid. 282.23 Jebb (= 47.41.3 Lenz–Behr) τῇ δὲ ἐπιούσῃ κάδους τινὰς ἔδει καταχέασθαι (καταχεάσαι Festugière 1969, p. 123), che tuttavia è così tradotto da Behr 1981, p. 284: «it was necessary to overturn some casks» (cfr. LSJ, s. v. καταχέω 2b). κἀνύδρευσαι Il verbo è testimoniato altrimenti solo da Hsch. α 5555 ἀνυδρευόμενος· ἐκ φρέατος ἀντλῶν, vd. Contesto della citazione. κάδον Si tratta di un «ordinary word» indicante il secchio per attingere l’ acqua da un pozzo, vd. il sopra citato Men. fr. 229 e cfr. Headlam 1922, p. 235 ad Herond. 5.11.

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fr. 82 (77 K.) πάντως γάϱ εἰσι τῶν φίλων ἑνός γέ του Senza dubbio: sono (3a p. pl.) di uno tra gli amici Phot. τ 398 (= Su. τ 809) του (Su. : τοῦ Phot.)· ϰαὶ ἐπὶ θηλυϰοῦ τάττεται, ὥσπεϱ τό τινος (Phot. gzac : τὸ τινός Phot. zpc : τὸ τίνος Su.). ᾽Aϱιστοφάνης ᾽Aμφιαϱάῳ (fr. 25)· […]· ἐπὶ δὲ οὐδετέϱου Δαναΐσιν (fr. 257)· […]· ἐπὶ δὲ ἀϱϱενιϰοῦ Kοϱιαννοῖ (Phot. zpc, Su. : Kοϱιάνοί dupl. acc. Phot. g : Kοϱιάνοι Phot. zac) Φεϱεϰϱάτης· «πάντως – του». Tou: Si usa anche per il femminile, come tinos. Aristofane nell’ Anfiarao (fr. 25): […]. [È usato] per il neutro nelle Danaidi (Ar. fr. 257). Ferecrate [lo usa] per il maschile nella Koriannō: «senza – amici».

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Bibliografia Meineke FCG II.1, p. 286; Runkel 1829, p. 31; Kock CAF I, p. 166; Edmonds FAC I, pp. 234–235; Kassel–Austin VII, p. 141; Urios-Aparisi 1992, p. 254 Contesto della citazione Come nota Orth 2017, p. 149, l’ accordo tra i testimoni lascia pensare che la voce risalga all’espansione Σ’’ della Synagogē, vd. Cunningham 2003, pp. 13–14, 29 n. 39. Cfr. Et.Gen. ΑΒ s. v. τοῦ (ap. Theodoridis in app. ad Phot. τ 398)· […] τάσσεται δὲ ϰαὶ (ϰαὶ om. B) ἐπὶ ἀϱσενιϰοῦ ϰαὶ θηλυϰοῦ ϰαὶ οὐδετέϱου (hinc [Zonar.] 1737). Vd. anche schol. Soph. Ai. 290b οὔτε του ϰλύων· ὥσπεϱ παϱ᾽ Aἰολεῦσι τὸ ὅτινα ϰοινόν ἐστι ϰατὰ γένος, οὕτω ϰαὶ παϱὰ τοῖς ᾽Aττιϰοῖς τὸ του, ὅταν οὕτως συντάσσηται, ϰοινῶς λέγεται. τῶν φίλων ἑνός γέ του Vd. Kassel e Austin, che portano a confronto Ar. fr. 278.2 ἐν τῶν φίλων τῶν σῶν ἑνί. A proposito della forma di pronome indefinito του (= τινος), Willi 2003, p. 244 ricorda che in Aristofane, «τινός (12) and τινί (11) have already overtaken του (9) and τῳ (9)»; tuttavia, le forme ‘brevi’ predominano nelle iscrizioni fino a circa il 350 a.C., cfr. Threatte 1996, pp. 340–342. Per l’ uso di γε «determinative and intensive», anche associato ai pronomi, vd. Denniston 1954, pp. 115–116, 122–123. Il corsivo da me usato nella traduzione indica che l’ enfasi è posta sul pronome, pur senza specificare esattamente la valenza contestuale di γε, destinata a rimanere incerta.

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fr. 83 (78 K.) πᾶς δ’ ἀνὴρ ἔσαττε τεῦχος ἢ κόικ’ ἢ κωρύκους ἢ κόικ’ ABCL : ἥκω FS

ἢ κωρύκους ABCL : om. FS : ἢ κώρυκον Blaydes

Ogni uomo riempiva un vaso (?) o un canestro di foglie di palma o delle bisacce di cuoio Poll. 10.179 (codd. FS, ABCL) εἴη δ’ ἂν καὶ κόιξ ἕν τι τῶν πλεγμάτων, ὃν οἱ μὲν Δωριεῖς κόιν καλοῦσιν, ὡς Ἐπίχαρμος Πίθωνι (fr. 112) […], οἱ δὲ Ἀττικοὶ κόικα, ὡς Φερεκράτης Κοριαννοῖ «πᾶς – κωρύκους (κ. om. FS)». σαφῶς (om. FS) δὲ αὐτὸ Ἀντιφάνης ἐν Βομβυκιῷ (fr. 64) δηλοῖ, εἰπὼν […]. Si può dire che anche il koïx sia tra gli oggetti che sono intrecciati, chiamato koïn (acc. sing.) dai parlanti dorico, come fa Epicarmo nel Pithōn (fr. 112) […], mentre i parlanti attico lo chiamano koïka (acc. sing.), come Ferecrate nella Koriannō: «ogni – bisacce di cuoio». Lo dimostra chiaramente Antifane nel Bombykios, dicendo (fr. 64) […].

Metro Il verso è probabilmente un tetrametro trocaico catalettico; tuttavia, Blaydes notava che è anche possibile ricostruire un trimetro giambico (πᾶς δ’ ἀνὴρ / ἔσαττε τεῦχος ἢ κόικ’ ἢ κωρύκους). Nel primo caso, avremmo lklk lklk | lkll lkl; nel secondo lkl / klkl k|lkl llkl. Bibliografia Meineke FCG II.1, p. 286; Kock CAF I, p. 166; Blaydes 1890, p. 19; Edmonds FAC I, pp. 234–235; Kassel–Austin VII, p. 142; Urios-Aparisi 1992, pp. 254–255 Contesto della citazione Il decimo libro dell’ Onomastikon di Polluce tratta di strumenti vari (σκεύη): in una sezione dedicata ai recipienti, c’ è una breve discussione sugli oggetti intrecciati, tra cui il koix. Il frammento di Ferecrate è presentato come prova del fatto che in attico l’ acc. sing. è koïka, a differenza del dorico koïn, illustrato da un frammento di Epicarmo. A chiarire il significato del termine sarebbe, secondo Polluce, un frammento di Antifane (ma vd. lemma κόικ’). Testo Blaydes correggeva il tràdito κωρύκους in κώρυκον; ma l’ intervento non è necessario, vd. ad es. Eur. Ba. 699–700 αἱ δ’ ἀγκάλαισι δορκάδ’ ἢ σκύμνους λύκων / ἀγρίους ἔχουσαι λευκὸν ἐδίδοσαν γάλα. Interpretazione Il parlante descrive un avvenimento probabilmente accaduto fuori scena. È impossibile dire di che cosa venivano riempiti i recipienti elencati: si può pensare a cibi o a materia prima per la loro preparazione; cfr. Ar. Lys. 1209–12 ὅστις οὖν βούλεται τῶν πενήτων ἴτω / εἰς ἐμοῦ σάκους ἔχων καὶ κωρύκους, ὡς λήψεται πυ- / ρούς. Per un simile elenco di contenitori, vd. Epich. fr. 112 ἢ θύλακον βόειον ἢ κόιν φέρειν / ἢ κωρυκίδα, citato proprio dalla nostra fonte. Urios-Aparisi sostiene che la lista dei recipienti inizia da un nome generico, τεῦχος, per poi proseguire con due nomi che individuano determinati tipi di re-

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cipienti: in questo modo, il parlante riuscirebbe a dare l’ impressione di riferirsi a ogni sorta di contenitore. Tuttavia, tale effetto si può ottenere anche elencando oggetti in maniera non ordinata (vd. ad es. Lausberg 1998, pp. 298–302); inoltre, è verisimile che il contesto suggerisse il significato specifico da dare a τεῦχος (vd. ad es. Xen. HG 1.7.11, dove τεῦχος indica un vaso per la farina). κόικ’ Su κόιξ, ‘palma’ e ‘cesto fatto di foglie di palma intrecciate’ (Hsch. κ 3231 κόικες· ἐν Αἰθιοπίᾳ φοινίκων εἶδος. καὶ τὰ πεπλεγμένα ἐκ τῶν φύλλων τοῦ δένδρου σκεύη, φορμοί), vd. da ultimo Olson 2023, pp. 245–246 ad Antiph. fr. 64 ἀγγεῖον ἀλφιτηρὸν ὁ (ὁ Poll. ABC : ἢ Poll. FS) κόιξ ἐστίν, in cui la varia lectio rende incerto se il koix sia davvero un recipiente per la farina d’ orzo. fr. 84 (79 K.) ἄνδρες, πρόσσχετε τὸν νοῦν ἐξευρήματι καινῷ, συμπτύκτοις ἀναπαίστοις. πρόσσχετε Hermann : πρόσχετε Heph. I, schol.2 : προσέχετε Heph. AD, schol.1 A (om. C), rec. Kassel–Austin 2 καὶ νῶ Heph. A

Spettatori, prestate attenzione all’ ultima trovata, gli anapesti compiegati. Hephaest. 32.9–12 Consbruch ἑφθημιμερὲς δὲ τὸ καλούμενον Φερεκράτειον «ἄνδρες – ἀναπαίστοις». C’ è poi l’ eftemimere (sc. antispastico), il cosiddetto ferecrateo: «spettatori – compiegati». Hephaest. 55.7–12 Consbruch καὶ τὸ ἐκ τῶν ἀντισπαστικῶν δὲ καταληκτικῶν διμέτρων δικατάληκτον, ὃ Φερεκράτης ἑνώσας σύμπτυκτον ἀνάπαιστον καλεῖ ἐν τῇ Κοριαννοῖ· «ἄνδρες – ἀναπαίστοις». C’ è poi il dicataletto costituito da dimetri antispastici catalettici, che Ferecrate nella Koriannō combina assieme e chiama anapesto compiegato: «spettatori – compiegati». (Trad. Palumbo Stracca) Schol.A (AC) Hephaest. 32.10, p. 143.1–4 Consbruch ἀντισπαστικὸν ἑφθημιμερές, ὃ καλεῖται Φερεκράτειον ποδῶν ἁπλῶν τριῶν καὶ συλλαβῆς· ἄνδρες νοῦν. ἐκ Κοριανοῦς. Verso antispastico eftemimere, che (sc. Efestione) chiama ferecrateo, composto da tre piedi semplici e una sillaba: «spettatori – attenzione». Dalla Koriannō. Schol.A (K2 I M) Hephaest. 55.9–11, p. 161.9–16 Consbruch σύμπτυκτον ἀνάπαιστον: οὐχ ὅτι ἐξ ἀναπαίστου σύγκειται, ἀλλ’ ἔοικεν ἐν παραβάσει αὐτῷ κεχρῆσθαι ὁ Φερεκράτης μετὰ τὸ κομμάτιον ἐν τῷ καλουμένῳ ἀναπαίστῳ, εἰ καὶ στικὸν εἴη

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τὸ μέτρον. ἄνδρες, πρόσχετε τὸν νοῦν: ἡ γὰρ τελευταία τε τὸν νοῦν κατακλεὶς ἀντισπαστική ἐστιν, ὅ ἐστιν ἀντίσπαστος παρὰ συλλαβὴν τὴν βραχεῖαν, ἥτις λείπει. Symptykton anapaiston: non perché il verso sia anapestico, ma, a quanto pare, perché Ferecrate lo ha usato nella parabasi dopo il kommation nel cosiddetto anapesto – sempre che il metro non sia anapestico. Andres, proschete ton noun: la chiusa ‘-te ton noun’ è una clausola antispastica, ovvero un antispasto senza la sillaba breve, che manca.

Metro Si tratta forse di gliconei catalettici, cioè di ferecratei (il nome deriva proprio dal presente frammento) di forma lllkkll. Sussistono tuttavia due possibilità: le sequenze metriche 1) compongono versi ‘asinarteti’, come del resto dichiara Efestione134 (sul termine e sul concetto stesso di asinarteto, vd. Lucarini 2013, con bibliografia); oppure, 2) formano tre versi distinti. A favore della seconda ipotesi è, tra gli altri, Gentili 1952, p. 46: «i tre versetti […] sono in verità […] dei veri e propri ferecratei, cioè dei gliconei catalettici. […]. Molto probabilmente l’ espressione ἐξευρήματι καινῷ […] è scherzosa e non seria; la ‘nuova invenzione’, che ha tutta l’ aria di uno scherzo comico, consiste nell’ aver scritto tre gliconei catalettici di forma tale da essere intesi, apparentemente, come particolari anapesti, cioè anapesti ‘ripiegati’ che sono, in sostanza, veri spondei» (similmente Gentili– Lomiento 2003, pp. 52–53)135. Dal canto suo, Dale 1968, pp. 61–62 pensa a degli hexamakra anapestici formalmente identici ai ferecratei, mentre Kassel e Austin propongono il paragone con i tre ferecratei di Eup. fr. 175 (su cui vd. Napolitano 2012, pp. 125–126). Secondo Parker 1997, p. 516, inoltre, «it seems clear that there was an anapestic colon of this form [sc. lllkkll] […] and that the catalectic form of the gliconic […] is distinct, and should never have been called ‘pherecratean’». Lucarini 2013, p. 67 ha poi sostenuto che nel nostro frammento «gli asinarteti vengono solo giustapposti (cfr. ένώσας, παραλαμβάνηται στίχου): è evidente che si tratta solo di un fatto grafico, che i metricisti credevano necessario spiegare». Palumbo Stracca, invece, accoglie come sostanzialmente fededegna l’ interpretazione ‘asinartetica’ testimoniata da efestione: secondo la studiosa, però, le stesse parole di Ferecrate obbligano a considerare le sequenze come tripodie anapestiche accoppiate e non come dicola eolo-coriambici136. Ultimamente, Di Virgilio 2021, 134

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A tale proposito, i due passi efestionei che riportano il frammento di Ferecrate non sono in contraddizione tra loro: Efestione insisteva dapprima sull’ interpretazione antispastica delle unità metriche, per poi ricordare che il poeta comico diede forma a degli asinarteti unendo degli antispasti. Sulla rarità dei ferecratei stichici, ad ogni modo, vd. Zimmermann 1985, p. 148; Napolitano 2012, p. 124 n. 307. Vd. Palumbo Stracca 1979, p. 65: «all’ atto dell’ esecuzione, ferecrateo e tripodia anapestica si diversificano profondamente, e non è possibile confondere i due ritmi»; cfr. Koster 1925, pp. 362–363, che ricostruisce dei versi asinarteti «per metarrhythmisin ex anapaestis confecti nec eolice scandendi». Ķiķauka 1931–1933, che interpreta i versi alla luce della teoria logaedica, non vede contraddizione tra il termine ‘anapesti’ usato da Ferecrate e i gliconei catalettici. Per altre interpretazioni ‘asinartetiche’, vd.

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Pherekrates

p. 95 ha proposto un parallelo tra gli ‘anapesti compiegati’ di Ferecrate e il problematico Ar. V. 323 ἀλλ’ ὦ Ζεῦ μεγαβρόντα (parte di una monodia), che, «con la sua forma ambigua […] sembra doversi analizzare proprio come colon ‘cerniera’, con funzione ‘modulante’» nel passaggio agli anapesti veri e propri (Ar. V. 324–33; vd. già Di Virgilio 2020, p. 59). La questione porta con sé anche quella dall’ interpretazione del termine symptyktos: stando a schol. rec. Pi. O. 4 II.1, p. 107 Boeck, esso indicherebbe la realizzazione spondaica di piedi anapestici. Non è però affatto detto che la terminologia tecnica dello scolio bizantino sia sovrapponibile a quella usata da Ferecrate (così già Crusius 1888, pp. 198–199); inoltre, secondo Palumbo Stracca, è immetodico privilegiare una fonte bizantina rispetto alla testimonianza di Efestione (vd. anche Parker 1997, p. 60–61). La studiosa crede che «l’ espressione σύμπτυκτοι ἀνάπαιστοι alluda proprio a questa tecnica di associazione dei cola, che, unita alla fissità dello schema di entrambi e alla cesura costante, dava l’ impressione di poter ‘ripiegare’ il verso, e di avere quindi due sequenze ‘sovrapponibili’ l’ una all’ altra, con un ritmo ritornante» (Palumbo Stracca 1979, p. 66). Per parte sua, Parker 1997, p. 61, pur sottolineando la scarsa affidabilità delle testimonianze antiche, crede che sia possibile intendere symptyktos come riferito a «some kind of syncopation» (il che, aggiunge lo studioso, farebbe pensare a un «full dimeter, rather than to a tripody»). In alternativa, si può anche pensare a Diph. fr. 90.2 ἄρν’ ἐς μέσον σύμπτυκτον, da cui si ricava per symptyktos il significato di ‘cucito’137 – il che lascerebbe forse spazio all’ interpretazione ‘dicolica’138. Bibliografia Hermann 1816, pp. 603–604; Kolster 1829, pp. 41–42; Fritzsche 1835b; Meineke FCG II.1, pp. 283–284; Bothe 1855, pp. 95–96; Kock CAF I, pp. 166–167; Crusius 1888; Wilamowitz 1921, p. 62 n. 4; Koster 1925, pp. 353–365; Schroeder 1929, p. 37; Ķiķauka 1931–1933; Gentili 1952, pp. 45–46; Edmonds FAC I, pp. 236–237; Koster 1962, p. 151; Dale 1968, pp. 61–62; Korzeniewski 1968, pp. 98–99; Sifakis 1971, pp. 34–35; Palumbo Stracca 1979, pp. 63–66; Kassel–Austin

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Crusius 1888 (che propone un poco probabile ἄνδρες, πρόσχετε τὸν νοῦν kkl | kk ἐξευρήματι καινῷ, / συμπτύκτοις ἀναπαίστοις kkl | kklylylu); Edmonds FAC I, p. 236–237 (che crede di poter stabilire una cronologia relativa per la Koriannō basandosi sui ferecratei di Eup. fr. 175 [Kolakes?]: ma per l’ interpretazione metrica e il possibile contesto di questo frammento eupolideo vd. Napolitano 2012, pp. 124–126). Vd. Meineke FCG IV, p. 419: «agnus […] primum, ut farciri posset, dissectus ac postea rursum consutus erat», spiegazione accolta da Kock e da Kassel–Austin. Cfr. anche Dover 1993, p. 290 ad Ar. Ra. 799, dove il significato di πλαίσια ξύμπτυκτα (v.l.) non è certo (telai pieghevoli?). Altri studiosi interpretano symptyktos in maniera diversa: secondo Crusius 1888: p. 200 «der Ausdruck σύμπτυκτος soll wohl nichts anderes bezeichnen, als eine ungewöhnlich lange dauernde Binnenpause»; Korzeniewski 1968, pp. 98–99 crede che symptyktos indichi «das Aufsaugen der letzten Doppelkürze wie im katalektischen anapästischen Dimeter».

Κοριαννώ (fr. 84)

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VII, pp. 142–143; Urios-Aparisi 1992, pp. 256–259; Parker 1997, pp. 60–61 e 516; Gentili–Lomiento 2003, pp. 52–53; Lucarini 2013, p. 67; Di Virgilio 2020, p. 59; Di Virgilio 2021, p. 95; Elice 2021 Contesto della citazione Il frammento di Ferecrate è citato da Efestione dapprima come testimonianza di antispasti, poi come esempio di versi asinarteti: tra le due definizioni non deve esserci contraddizione, vd. Metro. Cfr. Anon. Vat. 192 συμπτυσομένων δὲ πάλιν τῶν τοῦ ἀναπαίστου δύο βραχέων εἰς μίαν μακρὰν γίνονται σύμπτυσται ἀνάπαιστοι, τὸ ὅλον σπονδιακόν; schol. Ald. Ar. Nu. 563a τὸ δυοκαιδέκατον ἀντισπαστικὸν δίμετρον καταληκτικόν, τὸ καλούμενον φερεκράτειον, ἑφθημιμερὲς ἐξ ἐπιτρίτου τετάρτου καὶ βακχείου, ὡς ἔχει τὰ Φερεκράτους· «ἄνδρες  – ἀναπαίστοις»; Sacerd. GL 6.515.21–3 de pherecratio monoschematisto symptycto. pherecratium trimetrum, quod quidam symptycton, alii anapaesticum dicunt, monoschematistum est: semper enim spondeo, dactylo, spondeo percutitur. Testo Kassel e Austin scelgono la variante προσέχετε richiamandosi a Dover 1968, p. 174 ad Ar. Nu. 575, secondo cui «the aorist aspect is inappropriate to the sense of the expression» (cfr. anche Wankel 1976, II, pp. 865–866). Tuttavia, vd. Pl. Tht. 198b τῷ δὲ δὴ ἐντεῦθεν ἤδη πρόσσχες τὸν νοῦν; si considerino poi gli altri versi (o cola). Accolgo dunque, sia pure in via dubitativa, πρόσσχετε di Hermann. Interpretazione Le parole, rivolte verosimilmente dal poeta al pubblico, hanno carattere ‘metapoetico’, anche se non possiamo capire l’ entità della novità annunciata (scherzosa o meno che sia, vd. Metro e lemma πρόσσχετε τὸν νοῦν). Tale novità, comunque, è probabilmente riferita ai versi stessi con cui il poeta richiama l’ attenzione del pubblico, e non ai versi che dovevano seguire, come voleva Hermann (argomentazione in Dale 1968, p. 61 n. 2 e Palumbo Stracca 1979, p. 65). Secondo Kolster 1829, pp. 41–42 i versi superstiti sono riferibili al kommation. ἄνδρες In questo caso significherà ‘spettatori’, vd. i confronti proposti da Kassel–Austin ad loc. πρόσσχετε τὸν νοῦν Cfr. Ar. Eq. 503–4 ὑμεῖς δ’ ἡμῖν προσέχετε τὸν νοῦν / τοῖς ἀναπαίστοις e Ar. Av. 684 ἄρχου τῶν ἀναπαίστων, che introducono gli anapesti della parabasi. Vd. anche Wankel 1976, II, pp. 865–866. ἐξευρήματι καινῷ L’ espressione ricorre anche altrove e non è necessario pensare che abbia valore ironico; piuttosto, si impongono i paralleli con Ar. V. 1053, in cui τοὺς ζητοῦντας / καινόν τι λέγειν κἀξευρίσκειν è detto delle invenzioni dei poeti, e Amphid. fr. 14.2, in cui il καινὸν ἐξεύρημα è un tipo di aulos, invenzione che rende orgoglioso il parlante, vd. Papachrysostomou 2016, p. 102 (che opportunamente richiama il tradizionale motivo del πρῶτος εὑρετής). La stessa studiosa raccoglie altri passi in cui ἐξεύρημα ed espressioni simili hanno connotazione positiva (il che, si intende, non avviene sempre: vd. ad es. Eup. fr. 385.6 Παλαμηδικόν γε τοῦτο τοὐξεύρημα καὶ σοφόν σου, un verso apertamente ironico, cfr. Olson 2014a, p. 130).

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Bibliografia Per gli autori antichi, seguo il sistema di abbreviazioni adottato da LSJ, con le seguenti eccezioni: Aesch. = Eschilo; Ap. Rh. = Apollonio Rodio; Aristot. = Aristotele; Cass. D. = Cassio Dione; Diod. Sic. = Diodoro Siculo; Diog. Laer. = Diogene Laerzio; Dion. Hal. = Dionigi di Alicarnasso; Eur. = Euripide; Jos. = Josephus; Ph. Alex. = Filone di Alessandria; Philemo Gramm. = Filemone (lessicografo); Sext. Emp. = Sesto Empirico; Soph. = Sofocle; Thuc. = Tucidide; Xen. = Senofonte. Nomi di autori e testi latini sono abbreviati secondo il Thesaurus linguae Latinae. Per i papiri e le iscrizioni, seguo rispettivamente le abbreviazioni della checklist di Papyri.info (https://papyri.info/docs/checklist) e dell’ Association Internationale d’ Épigraphie Grecque et Latine (https://aiegl.org/grepiabbr.html). Le abbreviazioni dei titoli dei periodici sono quelle in uso nell’ Année Philologique. Edizioni I frammenti degli autori comici sono citati secondo Kassel–Austin, quelli dei tragici secondo TrGF. Riporto di seguito le edizioni di riferimento delle commedie di Aristofane, dei testimoni, dei lessici e degli scolii. Ammon.: Ammonii qui dicitur liber de adfinium vocabulorum differentia. Edidit Klaus Nickau, Lipsiae 1966 Antiatt.: vd. Valente 2015 Ar. Ach.: vd. Olson 2002 Ar. Eq.: Aristophanes. Fabulae. Recognovit brevique adnotatione critica instruxit N. G. Wilson, I, Oxonii 2007 Ar. Lys.: vd. Henderson 1987 Ar. Nu.: vd. Dover 1968 Ar. Ra.: vd. Dover 1993 Ar. Th.: vd. Austin–Olson 2004 Ath.: Athenaei Naucratitae Dipnosophistarum libri XV. Recensuit Georgius Kaibel, I–III, Lipsiae 1887–1890 EM: Etymologicum Magnum […] recensuit et notis variorum instruxit Thomas Gaisford, Oxonii 1848 Erot.: Erotiani vocum Hippocraticarum collectio cum fragmentis. Recensuit Ernst Nachmanson, Upsaliae 1918 Et.Gen.: Etymologicum magnum genuinum. Symeonis etymologicum, una cum magna grammatica. Etymologicum magnum auctum. Synoptice ediderunt Franciscus Lasserre – Nicolaus Livadaras, I–II (α 1–β 312), Roma-Ἀθῆναι 1976–1992 Et.Gud.: Etymologicum Graece linguae Gudianum. Edidit Fr. G. Sturz, Lipsiae 1818 Et.Sym.: vd. Et.Gen. Eur.: Euripidis fabulae. Edidit J. Diggle, I–III, Oxonii 1981–1994

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Indices Index fontium Antiatt. θ 13: fr. 46 Antiatt. ρ 1: fr. 55 Ath. 3.96b: fr. 50 Ath. 3.111b: fr. 61 Ath. 4.159e: fr. 73 Ath. 6.262b: Δουλοδιδάσκαλος test. i Ath. 7.305f-306b: fr. 43 Ath. 7.308f-309a: fr. 62 Ath. 8.365a: fr. 57 Ath. 9.396c: fr. 49 Ath. 10.430e: fr. 76 Ath. 11.479b: fr. 75 Ath. 11.480b: fr. 45 Ath. 11.481a: fr. 75 Ath. 13.567c: Κοριαννώ test. ii Ath. 13.612a-b: fr. 70 Ath. 14.653a: fr. 74 Ath. 15.699f: fr. 44 Ath. Epit. 10.430e: fr. 76 Et.Gen. AB, s.v. Θήσειον: fr. 46 Eust. in Il. 2.560.20–561.2: fr. 58 Eust. in Il. 3.370.19–21: fr. 66 Eust. in Od. 1.41.13–16 (p. 184.13–17 Cullhed): fr. 64 Eust. in Od. 1.335.31–34: fr. 76 Eust. in Od. 2.73.39, 2.73.46–74.1: fr. 58 Harp. ι 14: Ἰπνὸς ἢ Παννυχίς test. i Hephaest. 32.9–12: fr. 84 Hephaest. 55.7–12: fr. 84 Hsch. α 5235: fr. 79 Phot. α 1508: fr. 53

Phot. α 1733: fr. 52 Phot. ε 910: fr. 59 Phot. τ 398: fr. 82 Phot. υ 58: fr. 78 Phot. υ 176: fr. 64 Poll. 2.96: fr. 79 Poll. 3.80: Δουλοδιδάσκαλος test. ii Poll. 6.59: 144 Poll. 10.54: fr. 54 Poll. 10.179: fr. 83 Poll. 10.181–2: fr. 68 Poll. 10.183: fr. 69 Σ φ 240: fr. 74 Σb α 378: fr. 80 Σb α 919: fr. 71 Σb α 1415: fr. 51 Σb α 1442: fr. 79 Σb α 1545: fr. 81 Σb α 1637: fr. 77 Σb α 1661: fr. 65 Σb α 1890: fr. 47 Σb α 2269: fr. 48 schol. Ar. Pac. 1242b: fr. 72 schol. Ar. V. 544b: fr. 63 schol. Ar. V. 968d: fr. 60 schol. Ar. V. 1034a: fr. 56 schol. Hephaest. 32.10: fr. 84 schol. Hephaest. 55.9–11: fr. 84 Su. α 2814: fr. 67 Su. κ 2084: Κοριαννώ test. i

Index locorum Ael. Ep. 15: 28 NA 7.19: 101 NA 11.23: 19 NA 14.5: 160 VH 2.38: 96 n. 108

Ael. Dion. α 38: 157 α *156: 110 α 190: 39 π 5: 111, 112 φ 20: 49

190 Aesch. A. 1415: 94 A. 1672: 94 Ch. 446: 119 Ch. 918: 31 Pers. 176–7: 96 fr. **78a.23: 22 fr. **78c.54: 22 fr. *182: 47 n. 68 [Aesch.] Pr. 23: 53 Pr. 628: 21 Pr. 1039: 34 Aeschin. Socr. test. 35 Pentassuglio: 120 Agora XXI B 12.2: 93 XXI B 14.4: 93 Alc. fr. 346.4: 149 Alc. Com. fr. 22.2: 41 fr. 25: 50 Alex. fr. 2.6: 130 fr. 7: 85 fr. 16.5–7: 75 fr. 18: 97 fr. 25.4: 27 fr. 27.7: 50 fr. 59: 149 fr. 84.1: 49 fr. 89.1: 134 fr. 100.1: 130 fr. 111.1: 130 fr. 115.15: 50 fr. 115.16: 50 fr. 116: 26 fr. 122: 139 fr. 124: 30 n. 47 fr. 132.1: 138 fr. 138.2–3: 87 fr. 159.4–5: 88 fr. 177.13–4: 138 fr. 178.11–2: 51 fr. 228.4: 148 fr. 232: 148 fr. 275.3: 80

Indices Amips. fr. 7.2: 50 Ammon. 27: 127 Amphid. fr. 14.2: 167 fr. 16.1: 88 n. 99 fr. 22: 97 fr. 35.2: 88 An.Ox. III, 253.11–6: 137 Anacr. PMG 356b: 149 PMG 388: 124 PMG 408.1–2: 41 PMG 409: 147 PMG 427: 149 Anaxandr. fr. 3.2: 130 fr. 28: 95 fr. 28.1: 97 fr. 31.1–2: 88 fr. 32.2: 130 fr. 34.11: 97 fr. 34.12: 97 fr. 40.6: 48 fr. 41.1: 122 fr. 42.40: 49 fr. 42.44: 51 fr. 42.46: 49 fr. 59: 137 Anaxil. fr. 19.4: 50 fr. 20.1: 88 fr. 22.18–9: 70 Anaxipp. fr. *1.12: 113 fr. *1.33: 49 fr. *1.38: 50 fr. 6.4: 141 fr. 8.3: 161 Andoc. 1.47: 135 12.12: 107 12.14: 107 [Andoc.] Alc. 4.30: 119 Anon. Vat. 192: 167

Index locorum Antiatt. α 13: 113 α 46: 157 α 68: 152, 153 ε 39: 129 ο 25: 91 Antiph. fr. 25: 148 fr. 27.5: 97 fr. 27.15–18: 20 fr. 34.1–2: 80 fr. 45.2: 88 fr. 64: 164 fr. 69: 95, 97 fr. 75.11–2: 85 fr. 77.2: 88 fr. 92: 40 fr. 104: 49 fr. 130.3: 49 fr. 130.4: 88 fr. 130.8: 97 fr. 158: 78 fr. 169.2: 75 fr. 170.5: 49 fr. 181.4: 49 fr. 183.1–2: 50 fr. 185.5–6: 137 fr. 188.6: 48 fr. 191.2: 98 fr. 214: 41 fr. 221.4: 49 fr. 233.5: 49 Antipho 2.4.3: 76 6.18: 76 Antipho Soph. T 9 Pendrick: 19 n. 21 VS 87 B 44B col. II: 14 n. 12 AP 7.339.7–8: 30 Ap. Rh. 3.1308: 160 3.1310: 160 3.1313: 160 Apollod. FGrHist 244 F 105: 54 FGrHist 244 F 109b: 17, 20 Apollod. Car. fr. 29: 79

Apost. IV.78: 150 VII.18: 22 VIII.25: 18 App. BC 1.8.64: 77 BC 3.2.12: 77 Ar. Ach. 27: 94 Ach. 75: 149 Ach. 102: 61 Ach. 172–3: 25 Ach. 257: 26 Ach. 258: 60 Ach. 296: 21 Ach. 305: 21 Ach. 345: 138 Ach. 381: 76 Ach. 407: 83 Ach. 458: 32 Ach. 459: 145 Ach. 525: 129 Ach. 630–2: 76 Ach. 640: 73 Ach. 680: 125 Ach. 747: 41 Ach. 764: 41 Ach. 795–6: 51 Ach. 826: 123 Ach. 834–5: 91 Ach. 852: 138 Ach. 864: 149 Ach. 881: 48 Ach. 881–94: 48, 49 Ach. 891–4: 49 Ach. 962: 49 Ach. 1001: 25 Ach. 1040–1: 51 Ach. 1043–5: 49 Ach. 1085–6: 80 Ach. 1096: 80 Ach. 1100: 48 Ach. 1125: 51 n. 73 Ach. 1191: 82 Av. 13: 14 Av. 241: 24 Av. 448–50: 25 Av. 684: 167 Av. 757: 34

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192 Ar. [cont.] Av. 827: 15, 54 n. 79 Av. 1440–1: 126 Av. 1467: 35, 36, 37 Av. 1508: 124 Av. 1549–51: 124 Av. 1579–90: 50 Av. 1600–1: 60 Av. 1626–7: 60 Av. 1705: 45 Ec. 28–9: 111 Ec. 113: 93 Ec. 142: 27 Ec. 306–7: 30 Ec. 447: 60 Ec. 524: 138 Ec. 567: 86 Ec. 606: 48 Ec. 651–2: 47, 48 Ec. 713: 126 Ec. 739: 19 Ec. 841: 122 Ec. 842: 48 Ec. 908: 93 Ec. 942: 93 Ec. 1016: 93 Ec. 1169–75: 46 Eq. 19: 138 Eq. 50–1: 136 Eq. 57: 88 Eq. 62: 128 Eq. 98: 135 Eq. 137: 76 Eq. 188: 21 Eq. 282–3: 48 Eq. 340: 45 Eq. 367–81: 46 Eq. 411: 40 Eq. 428: 52 n. 75 Eq. 441–56: 46 Eq. 472–3: 61 Eq. 484: 52 n. 75 Eq. 503–4: 167 Eq. 556–7: 125 Eq. 595–610: 66 Eq. 630: 159 Eq. 644–5: 114 Eq. 672: 114

Indices Ar. [cont.] Eq. 706: 28 n. 43 Eq. 722: 21 Eq. 806: 96 Eq. 843: 21 Eq. 870: 45 Eq. 894–5: 114 Eq. 911–40: 46 Eq. 1177: 48 Eq. 1187: 26 Eq. 1236: 40 Eq. 1311–2: 35 Eq. 1312: 34 Eq. 1316–34: 55 Eq. 1373: 20 Eq. 1375–6: 121, 125 Lys. 184: 126 Lys. 366: 40 Lys. 382–6: 46 Lys. 465–6: 32 Lys. 560: 97 Lys. 574–6: 67 Lys. 587–8: 67 Lys. 588: 148 Lys. 599: 123 Lys. 713: 33, 34 Lys. 821–2: 143 Lys. 922: 137 Lys. 1063: 52 n. 76 Lys. 1189–90: 60 Lys. 1209–12: 163 Nu. 17–8: 108 n. 117 Nu. 19: 134 Nu. 34–5: 86 Nu. 84: 138 Nu. 129: 70 Nu. 179: 85 Nu. 218–34: 121, 123 Nu. 263–74: 55 Nu. 291–7: 55 Nu. 402: 123 Nu. 433: 138 Nu. 518–62: 39 Nu. 575: 167 Nu. 628–9: 70 Nu. 666: 121, 122 Nu. 675: 21 Nu. 726: 21

Index locorum Ar. [cont.] Nu. 756: 108 n. 117 Nu. 790: 70 Nu. 916–7: 125 Nu. 966–72: 37 Nu. 991: 144 Nu. 1036: 75 Nu. 1044–6: 144 Nu. 1052: 45 Nu. 1052–4: 125 Nu. 1053–4: 144 Nu. 1055: 108 Nu. 1089–104: 46 Nu. 1355–79: 37 Nu. 1379: 45 Nu. 1386–90: 46 Nu. 1399: 96 Nu. 1404: 96 Nu. 1444: 45 Nu. 1445–51: 46 Nu. 1503: 126 Pax 14: 41 Pax 49: 30 Pax 59: 64 Pax 123: 40 Pax 256: 40 Pax 29: 64 Pax 374: 41 Pax 538: 106 Pax 543: 106 Pax 545: 106 Pax 548: 106 Pax 551: 25 Pax 632: 92 n. 102 Pax 644–5: 61 Pax 698: 155 Pax 715–7: 52 Pax 757: 76 Pax 959: 135 Pax 1005–9: 49 Pax 1014: 49 Pax 1060: 45 Pax 1143: 27 Pax 1153: 26 Pax 1156: 27 Pax 1201: 127 Pax 1306: 93 Pl. 288: 64

Ar. [cont.] Pl. 413: 24 Pl. 450–1: 85 Pl. 320: 41 Pl. 610: 73 Pl. 883: 94 Pl. 894: 48 Pl. 908: 123 Pl. 975: 126 Pl. 975–91: 125 Pl. 1004: 137 Pl. 1139–43: 41 Ra. 103: 32 Ra. 410: 32 Ra. 482: 82 Ra. 510: 50 Ra. 517: 48 Ra. 518: 134 Ra. 610–1: 32 Ra. 655: 94 Ra. 693–4: 34 Ra. 720: 59, 61 Ra. 745: 32 Ra. 750–1: 32 Ra. 799: 166 n. 137 Ra. 985: 97 Ra. 959: 96 Ra. 971–91: 46 Ra. 1491–5: 121, 123 Th. 73: 72 Th. 96: 83 Th. 184–6: 76 Th. 247: 82 Th. 315: 20 Th. 381: 64 Th. 419: 140 Th. 492: 93 Th. 494–6: 138 Th. 644: 32 Th. 785–845: 122 Th. 823: 124 Th. 941: 155 Th. 1227: 39 V. 13–53: 18, 19 V. 219: 24 V. 251: 123 V. 254: 40 V. 323: 166

193

194 Ar. [cont.] V. 394: 118 V. 403–4: 145 V. 415: 21 V. 427: 66 V. 491: 114, 115 V. 542–3: 98 V. 611–2: 136 V. 676: 51 V. 686–8: 125 V. 837: 103 V. 950–1: 76 V. 959: 36 V. 989: 36 V. 1034: 76 V. 1048: 34 V. 1053: 167 V. 1073: 66 V. 1161: 24 V. 1168: 24 V. 1179: 138 V. 1181: 21 V. 1208–10: 135 V. 1216: 134 V. 1216–7: 26 V. 1250–1: 80 V. 1460: 138 V. 1460: 96 V. 1503: 40 V. 1518–37: 127, 128 fr. 2: 24 fr. 8: 24 fr. 59: 82 fr. 105: 93 fr. 128.3: 52 n. 75 fr. 139: 26 fr. 216: 29 n. 45 fr. 223: 117 fr. 258: 97 fr. 278.2: 162 fr. 333.3: 49 fr. 333.5: 50 fr. 360: 48 fr. 380.1: 88 fr. 395: 145 fr. 449: 49 fr. 456: 91, 92 fr. 467: 37

Indices Ar. [cont.] fr. 475: 33, 35 fr. 520.4: 50 fr. 520.5: 50 fr. 545.1: 135 n. 126 fr. 550: 97 n. 110 fr. 577: 33, 35 fr. 581.3: 50 fr. 591.60–61: 18, 22 fr. 591.63–64: 22 fr. 616: 32, 34 fr. 637: 125 fr. 644: 76, 78 fr. 681: 139 fr. 695: 48 fr. 702: 49 fr. 735: 57 fr. 856: 122 Ar. Byz. Epit. 2.474.1–11: 56 Epit. 2.474.3–4: 57 Epit. 2.552.4: 112 fr. 368 Slater: 26 Arat. 517: 160 Arched. fr. 3.2: 88 Archestr. fr. 14.5: 51 fr. 19.1: 88 fr. 20.3: 97 fr. 21.1: 88 fr. 23.3–5: 88 fr. 27.3: 88 fr. 34.1–2: 88 fr. 55.1: 49 fr. 60.6: 27 Archil. fr. 196a.31 West2: 149 Archipp. fr. 22: 64 fr. 27: 97 fr. 49: 135 fr. 58: 116 Aristid. 282.23 Jebb (= 47.41.3 Lenz–Behr): 161

Index locorum Aristot. Ath. 42.3: 116 Ath. 50.2: 63 HA 581a 5: 50 Po. 1458a22: 84 Pol. 1255b 22: 12 Rh. 1412a 35: 21 fr. 84: 66 Aristophon. fr. 2.1: 50 fr. 7.2: 47 fr. 10.3: 150 Aristox. fr. 97 Wehrli: 38 Arr. Epict. 4.10.21: 80 Artemid. 1.50: 19 2.14: 22 3.62: 20 4.23: 20 Ath. 1.11d: 47 n. 68 3.94c-96e: 43 3.105f: 97 3.106e-108a: 50 3.111b: 92 4.156d: 133 4.182f: 38 7.287a: 20 7.306a: 20 7.308d-309b: 97 n. 110 7.309a: 97 7.312a: 97 7.313a: 97 7.329b: 97 7.329e: 97 8.333f: 91 8.339b-c: 20 8.358d: 69 8.366d-f: 11 9.408e: 158 9.408e-f: 26 10.426b-427a: 149 10.430a-431b: 149 11.478b-479c: 145 11.481d-482e: 130 11.486f-487a: 29

Ath. [cont.] 11.496f: 69 n. 86 12.552f: 122 13.567c-d: 70 13.590f: 144 14.662f-663a: 51 14.663c: 69 n. 86 Axionic. fr. 6.14: 48 Baton. fr. 5.16–8: 88 n. 99 fr. 7.3: 145 Call. Cer. 20: 128 fr. 85.7: 75 fr. 227: 101 fr. 440: 69 n. 86 Call. Com. fr. 6.1: 88 fr. 9: 29 n. 46 fr. 35: 155 Callisth. Olynth. FGrHist 124 F 35.63–6: 77 Cass. D. 39.39.3–4: 60 46.6.2: 125 Charond. Προοίμια νόμων p. 62.25: 112 Chion. fr. 2: 78 Choerob. GG IV.2, p. 162.25: 128 Cic. Leg. 2.37: 101 CID 4.7.4: 76 4.99: 76 Cod. Just. 1.5.17.1: 129 com. adesp. fr. 101.12: 149 fr. *120.2: 27 n. 41 fr. 123: 106 fr. 133: 144 fr. 139: 34 n. 51 fr. 247.5–6: 75 fr. *555: 144 fr. 903: 75

195

196 com. adesp. [cont.] fr. 1014.5–6: 80 fr. 1063.15: 105 fr. 1073.11–3: 51 fr. 1089.2–4: 86 fr. 1105.70–103: 127 Crates Theb. SH 349.1–2: 57 Cratet. fr. 1.2–3: 41, 42 fr. 16.2: 155 fr. 16.5–10: 75 fr. 16.7: 26 fr. 17.5: 75 Fr. 17.7: 82 Cratin. fr. 11: 127 fr. 30: 99 fr. 32: 127 fr. 58: 135 fr. 60: 125 fr. 62: 127 fr. 76: 15, 58, 60 fr. 132: 30 fr. 81: 106 fr. 171.50: 49 fr. *195.3: 75 fr. 198: 76 fr. 257.2: 20 fr. 301: 27 fr. 331: 21 fr. 342.1: 75 fr. 360: 127, 128 Critias fr. 8.8–10 Gentili–Prato: 101 fr. B 6.2 West2: 26 TrGF 43 F 14: 21 Crobyl. fr. 7.2: 50 Ctes. FGrHist 688 F 16.36, p. 473, l. 5: 40 Cyr. Al. MPG 74.613.7–9: 26 Dem. 9.16: 73 9.17: 73 18.153: 77 18.169: 124

Indices Dem. [cont.] 18.258–9: 63 19.196–7: 137 19.199: 75 21.30: 73 21.86: 73 23.171: 73 27.10: 60 27.38: 73 31.3: 73 39.38: 73 57.55: 73 [Dem.] 35.22: 73 43.82: 51 50.35: 144 59.65: 106 Demon. FGrHist 327 F 1: 43, 50 Dicaearch. fr. 86: 98 Did. fr. I.3, p. 20 Schmidt = °3 Coward–Prodi: 153 n. 131 Dinon FGrHist 690 F 12: 139 Diod. Sic. 3.69.3: 56 19.101.3: 67 36.2.4: 67 Diog. Trag. TrGF 45 F 1.9: 38 Dion. Hal. 7.9.4: 124 7.50.5: 77 Comp. 18.148: 123 Diogenian. III.57: 150 III.58: 150 VII.76: 22 Dionys. fr. 2.16: 113 fr. 3.10: 48 fr. 5.3: 130 Diph. fr. 7: 69 n. 86 fr. 9: 69 n. 86 fr. 12: 127

Index locorum Diph. [cont.] fr. 57: 148 fr. 60.7: 80 fr. 90.2: 49, 166 Dissoi Logoi 2.3: 144 2.6: 60 Dromon. fr. 2.3: 26 Ecphantid. fr. 1: 43, 50 EM 127.1–6: 37 451.40: 34 451.52: 35 543.22: 130 545.27: 130 563.5: 87 764.42–5: 87 802.56–7: 49 Emp. VS 31 B 100.8–9: 40 Enn. fr. var. 43: 88 Ephipp. fr. 3.7: 49 fr. 3.9: 49 fr. 9.2: 130 fr. 11.2: 148 fr. 13.3: 51 fr. 16.5: 130 fr. 21.3: 138 Epich. fr. 32.7–8: 27 fr. 41.1: 97 fr. 54: 49 fr. 112: 163 Epicr. fr. 10.9–11: 125 Epict. Gnom. 1: 77 Epig. fr. 5.3: 130 fr. 5.4: 30 fr. 7: 57 Epilyc. fr. 7: 30

Ephipp. fr. 3.5: 51 fr. 3.11: 26 Eriph. fr. 3.2–3: 88 Erot. α 12: 151 α 139: 82 π 61: 113 Et.Gen. α 1044: 37 s.v. θησειότριψ: 35 s.v. τοῦ: 162 Et.Sym. α 1260: 35 Eub. fr. *9.1–3: 115 fr. 23: 50 fr. 34: 49 fr. 36.3–4: 49 fr. 63.3: 50 fr. 63.5: 49 fr. 64.1: 49 fr. 75.5: 49 fr. 109.4: 88 fr. 117.5–8: 48 fr. 148.4: 49 fr. 148.6: 97 fr. *150.8: 26 Eup. fr. 1.2: 75 fr. 6: 149 fr. 7: 138 fr. 42.3: 95, 96 fr. 88: 38 fr. 99.41–3: 96 fr. 99.86: 61 fr. 123: 61 fr. 148: 37, 127 fr. 148.4: 38 fr. 162: 62, 132 fr. 167: 63 fr. 171: 106 fr. 175: 132, 165 fr. 192.149: 125 fr. 192.164: 60 fr. 193.4: 123 fr. 220.3: 73 n. 90

197

198 Eup. [cont.] fr. 223: 35, 36, 37 fr. 228.2: 76 fr. 229: 35 n. 53 fr. 250: 127 fr. 299: 149 fr. 317: 127 fr. 326: 37 fr. 333.2: 125 fr. 378: 137 fr. 385.5: 75 fr. 385.6: 167 fr. 392.3: 123 fr. 398: 37 fr. 429: 153 fr. 481: 124 Eur. Alc. 542: 34 Alc. 761–2: 94 Andr. 662: 34 Andr. 757: 141 Ba. 365: 34 Ba. 699–700: 163 Cyc. 336: 27 Cyc. 583–4: 42 El. 343–4: 34 El. 932–3: 34 Hec. 466–72: 56 Hel. 871–2: 60 Hel. 915–6: 60 Hel. 922–3: 34 Hel. 972: 60 Heracl. 476–7: 78 HF 599: 96 Hipp. 41: 150 Hipp. 48: 94 Hipp. 394–9: 78 Hipp. 730: 124 IA 830: 34 IA 882: 105 IA 1477: 119 Ion 1133: 118 IT 674: 34 Med. 99: 145 Med. 343: 94 Med. 964: 137 Med. 1151: 141 Or. 106: 34

Indices Eur. [cont.] Or. 217–36: 83 Or. 1535: 105 Phoen. 532: 137 Supp. 201: 73 n. 89 Supp. 1066: 141 fr. 374: 30 fr. 883: 33, 34 fr. 1079.3: 96 n. 109 [Eur.] Rh. 863: 21 Eust. in Il. 1.201.5–8: 105 n. 114 in Il. 1.215.25–216.1: 158 in Il. 1.600.25: 158 in Il. 2.56.7–9: 157 in Il. 2.69.13–16: 158 in Il. 2.245.7–9: 158 in Il. 2.311.13–19: 158 in Il. 2.463.13–14: 158 in Il. 2.561.1: 82 in Il. 2.814.1–2: 158 in Il. 3.4.9–15: 113 in Il. 3.34.35–36: 158 in Il. 3.89.8–10: 66 in Il. 3.301.24–5: 117 in Il. 4.557.8–9: 158 in Il. 4.578.3–4: 158 in Il. 4.690.4–8: 39 in Il. 4.753.18–20: 158 in Od. 1.34.38–39 (= 156.11–12 Cullhed): 158 in Od. 1.41.13–16 (p. 184.13–17 Cullhed): 105 in Od. 1.153.10–11: 159 in Od. 1.236.32: 159 in Od. 2.32.22–23: 159 in Od. 2.73.46: 84 in Od. 2.84.24: 160 In Od. 2.156.35–45: 117 in Od. 2.239.4–6: 159 Gal. 3.253.14: 160 15.593.3–4: 151 Gloss. α 125: 151, 152 Gloss. α 149: 83 Gloss. 2.417.45: 117

Index locorum Greg. Cypr. III.8: 18, 22 Harp. α 189: 76 β 27: 103 γ 8: 124 κ 15: 103 κ 72: 103 μ 25: 103 Hatzopoulos, Macedonian Institutions II 40.18–23: 59 [Hdn.] GG III.1, p. 303.13: 117 GG III.1, p. 506.13–14: 152 GG III.1, p. 537.11: 29 GG III.1, p. 543.23: 28, 29 GG III.2, p. 557.27: 117 Philet. 103: 110 Hdt. 1.183.2: 42 1.155.4: 38 2.14.2: 135 2.19.1: 78 2.96.21: 50 3.11.3: 27 3.81: 77 4.64.1: 27 4.172.4: 30 4.191.16–192.1: 50 5.63.1: 35 7.140.1: 35 Hegesand. fr. 43, FHG IV, p. 421: 139 Henioch. fr. 2.2: 41 fr. 4.7–8: 113 Heraclid. fr. 2.42 Müller: 51 Heraclid. Pont. fr. 44 Schütrumpf: 122 Herenn. Phil. α 33: 152 Hermipp. fr. 2: 75 fr. 9: 126 fr. 29: 85 fr. 44.2: 30 fr. 46.2: 50

Hermipp. [cont.] fr. 48.5–6: 129 fr. 56: 115, 117 fr. 63.6: 50 fr. 68.2: 144 fr. 76: 116, 117 Hermog. Id. 2.11: 84 Hes. Op. 596: 149 h. Hom. Cer. 401–2: 56 Hipparch. fr. 1.6: 130 Hom. Il. 1.239: 20 Il. 2.298: 34 Il. 4.346: 26 Il. 4.452–6: 77 Il. 8.232: 26 Il. 9.673: 45 Il. 10.544: 45 Il. 11.492: 78 Il. 11.492–6: 77 Il. 16.390–3: 77 Il. 20.495–7: 128 Il. 22.494: 145 Il. 23.88: 40 Il. 23.810: 88 Od. 4.336: 41 Od. 6.100: 40 Od. 6.207: 20 Od. 6.306: 55 Od. 15.312: 145 Od. 17.12: 145 Od. 20.69: 51 Od. 20.149–50: 63, 64 Hp. Acut. 18: 83 Art. 37: 21 Coac. 157: 83 Coac. 371: 144 Coac. 407: 144 Ep. 3.3.6: 83 Ep. 3.3.17: 83 Epid. 4.16: 144 Int. 1: 145 Morb. 2.26: 144

199

200 Hp. [cont.] Morb. 2.53: 144, 145 Mul. 70: 21 Mul. 110: 112 Vict. 42: 91 Hsch. α 700: 65 n. 84 α 702: 65 n. 84 α 4795: 84 α 5555: 161 α 5815: 152 α 6441: 37 α 6445: 37 α 6648: 80 α 7085: 83 γ 440: 124 γ 441: 124 γ 443: 124 δ 259: 84 δ 261: 84 ε 4149: 113 θ 55: 99 κ 2015: 108 κ 3231: 164 κ 3944: 88 n. 98 κ 4634: 130 μ 279: 141 μ 280: 141 μ 1279: 149 ο 477: 160 π 164: 113 σ 970: 124 n. 123 τ 1211: 49 τ 1293: 87 υ 209: 154 υ 678: 74 φ 145: 24 φ 1081: 139 χ 171: 76 χ 787: 60 Hyp. Ath. 9: 122 IG I3 40.47–8: 76 I3 341.6: 58 n. 83 I3 355.26: 62 I3 370.13–14: 61 I3 403.66: 60

Indices IG [cont.] I3 422.159: 124 I3 1192.150: 71 I3 1508: 28, 29 II2 141.4: 76 II2 380: 63, 65 II2 584: 111 II2 1034.7–8: 54, 55 II2 1034.11–2: 55 II2 1180: 65 II2 1283.18: 82 II2 1631.409: 93 II2 1672.310: 93 II2 1695.14–5: 93 III.3, App. pp. II-III: 117 V.1 1390.82–4: 33 XII.41.90.21: 76 Ioann. Alex. 37.10–11 Dindorf: 152 Isae. 6.34: 21 8.30: 135 Isoc. 15.172: 77 16.6: 107 I.Thespies 156.45: 76 Iuv. 3.249–50: 80 Jos. AJ 20.123: 112 BJ 1.511: 100 Juba FGrHist 275 F 15: 38 Leucon. fr. 1: 15, 58 Lex. Mess. fol. 283r 22: 117 Lex. Vind. α 153: 152 [Longin.] 32.1: 77 Longus 1.16.4: 93 Luc. DMeretr. 9: 100 DMeretr. 14: 75 Deor. Conc. 12: 75

Index locorum Luc. [cont.] Ep. Sat. 21: 75 Gall. 28: 75 Lex. 11: 160 Merc. Cond. 18: 28 Merc. Cond. 41: 75 Nav. 22: 75 Nigr. 22: 28 [Luc.] Asin. 6: 140 n. 129 Asin. 41.15: 62 Asin. 41.25: 60, 62 Lucil. fr. 50: 88 Lync. fr. 13 Dalby: 139 fr. 17 Dalby: 139 Lys. 12.10–11: 61 22.8: 115 22.11: 115 22.22: 115 fr. 1: 120, 122 Macar. II.75: 150 III.81: 22 Machon. fr. 18.420: 98 fr. 35.5: 98 Mart. 3.93.14: 144 Matro fr. 1.31: 88 fr. 1.53–5: 88 Men. Dysc. 27: 125 Dysc. 110: 123 Dysc. 495: 149 Epit. 502: 86 Epit. 1080: 148 Epit. 1118–20: 101 Epit. 1126–7: 145 Phasm. 2: 114 Sam. 38–49: 101 Sam. 229–30: 140 fr. 14: 92 n. 102 fr. 77.6: 106 fr. 224.5: 49, 51

Men. [cont.] fr. 224.13: 49 fr. 229: 161 fr. 302: 30 fr. 335.1: 30 fr. 494: 125 fr. 820: 78 [Men.] Sent. 139: 78 Metag. fr. 2.1: 21 fr. 6.6: 49 fr. 6.9: 48 Mnesim. fr. 4.13: 49 fr. 4.15: 49 fr. 4.33: 97 fr. 4.41: 49 fr. 4.47: 49 fr. 4.57: 21 Mnesith. Ath. fr. 40 Bertier: 43, 50 Moer. α 80: 110 θ 14: 21 n. 27 λ 5: 24 ν 13: 156 n. 133 ψ 13: 26 Molpis FGrHist 590 T 1: 133 Nicol. Com. fr. 1.17: 123 Nicostr. Com. fr. 1.3: 48 fr. 5: 48 fr. 20: 80 Nicophon. fr. 6.2: 93 Novum Testamentum Act. Ap. 16.22.3: 67 2 Ep. Cor. 11.25.1: 67 Ev. Jo. 13.19: 154 Ev. Jo. 14.7: 154 Ev. Matt. 23.39: 154 Ev. Matt. 26.29: 154 Ev. Matt. 26.64: 154 Oribas. 3.29.12: 45

201

202 Orus A 11: 110 B 8: 127 Pamphilus Alexandrinus fr. 31 Schmidt: 139 P.Flor. II 112 fr. C col. I, ll. 63–64: 22 P.Lond.Lit. 123.3–8: 107 Paus. 1.1.3: 65 1.2.5: 108 1.17.2: 34 Paus. Gramm. α 19: 65 n. 84 β 1: 150 ε 5: 66 ο 1: 92 υ 14: 104 Petron. 25.1: 100 44.1: 114 Ph. Alex. De spec. leg. 2.20: 93 Pherecr. fr. 2: 121 fr. 6: 37 fr. 10: 19 fr. 10.3: 156 fr. 16: 23 fr. 18: 118 fr. 26.1: 137 fr. 28.4: 82 n. 92 fr. 32: 88 fr. 33: 41 fr. 70.1: 63 fr. 73.1–2: 30 fr. 75.1–2: 28, 30 fr. 76.5: 23 fr. 87: 155, 156 fr. 98: 151 fr. 107: 43 fr. 113: 47 fr. 113.8: 49 fr. 113.10: 48 fr. 113.12: 49 fr. 113.14: 43, 144 fr. 113.16: 50

Indices Pherecr. [cont.] fr. 113.23: 50 fr. 113.28: 52 fr. 117: 20 fr. 123: 85 n. 95 fr. 125: 88 fr. 137.5: 143 fr. 137.10: 49, 50 fr. 144: 64 fr. 152.3: 32 fr. 166: 153 fr. 155: 37 fr. 155.4–5: 36 fr. 155.8: 149 fr. 162.8–9: 75 fr. 162.11–2: 75 fr. 163.2–3: 75 fr. 164: 106 fr. 169: 83 n. 93 fr. 183: 47 fr. 186: 126 fr. 190: 47 fr. 190.1: 48 fr. 197.2: 156 fr. 232: 36 fr. *286.1: 72 fr. 287: 23 Pherecyd. Com. fr. 4.11–2: 83 Philem. fr. 87.2: 130 fr. 113.2: 51 Philemo Gramm. 355: 127 Philippid. fr. 16: 113 Philoch. FGrHist 328 F 9: 98 FGrHist 328 F 119: 58 FGrHist 328 F 177: 34 Philox. Gramm. *270: 112 Philoxen. PMG 836b.37–8: 45, 51 Philyll. fr. 5.2: 125 fr. 12.3: 97 fr. 26: 97

Index locorum Phoenicid. fr. 2: 139 Phot. α 816: 153 α 1511: 63 α 2267: 152 α 2545: 35 α 2546: 37, 38 α 2796: 83 α 2956: 38 α 2957: 38 β 47: 150 ε 464: 129 ε 971: 66 ι 175: 65 μ 147: 145 ο 6: 92 ο 8: 91, 92 ο 180: 160 π 593: 113 π 1399: 94 υ 59: 154 Bibl. cod. 279 535b.2–6: 150 Phryn. Ecl. 78: 73, 74 Ecl. 121: 156 Ecl. 166: 145 Ecl. 342: 84, 85 PS 6.6: 85 PS 16.9: 110 PS 17.3–9: 152 PS 22.10–11: 63 PS 25.10: 127, 128 PS 75.6–7: 21 n. 27 PS 87.1: 24 PS 92.6: 85 PS 103.8: 94 PS 109.9: 85 Phryn. Com. fr. 2: 36 fr. 26: 136 fr. 34: 126 fr. 39: 63 fr. 39.2: 65 fr. 70.2: 29 n. 45 Pi. I. 7.39: 21 O. 6.97: 21 Pae. 2.73: 73 n. 89

Pl. Alc. 1 107e: 116 Alc. 2.149b: 74 Cri. 53d: 111, 155 Euthd. 272c: 11 Grg. 452b: 116 Lg. 125a: 11 Lg. 770d-e: 94 Phd. 86e: 21 Phd. 111a: 50 Phdr. 242c: 21 Pr. 310c: 111 Prm. 130d: 21 Prm. 135b: 21 Prt. 317d: 125 R. 399c: 38 R. 494d: 124 Smp. 175a: 135 Smp. 176a: 135 Smp. 213e: 135 Smp. 222e: 135 Tht. 187d: 21 Tht. 198b: 167 [Pl.] Alc. 2 149b: 74 Erx. 394b-c: 108 Erx. 440b: 108 Pl. Com. fr. 40: 66 fr. 59: 151 fr. 71.1–2: 135 n. 126 fr. 71.13: 38 fr. 138: 37 fr. 146: 49 Plaut. Asin. 133–5: 70 Truc. 568–9: 70 Plb. 6.33.4: 64 Plin. 7.208: 130 20.83: 159 Plu. Alc. 2.2: 40 Alc. 12.1: 119 Alc. 19.2: 107 Caes. 32: 73 n. 90 Cat. Ma. 4.6: 64 Cim. 1.4: 28

203

204 Plu. [cont.] Mor. 11.324b-c: 77 Mor. 15b-c: 22 Mor. 32e: 87 Mor. 138d: 87, 138 Mor. 279f: 138 Mor. 621c: 107 Mor. 657b-e: 149 Mor. 692b-693e: 30 Sol. 20.4: 138 Them. 5.3: 119 Thes. 36.2: 34 Thes. 36.4: 34 [Plu.] Mor. 8.5f: 77 Poll. 3.80: 12 3.85: 105, 108 6.55: 51 6.72: 93 6.75: 92 6.95: 26, 30 6.100: 29 6.103: 24 6.146: 76 6.184: 111 7.21: 113 7.62: 117 7.66: 116 7.103: 60 7.104: 61 7.174: 80 8.16: 66 9.89: 60 9.90: 60 9.91: 60 9.99: 39 10.53–54: 66 10.108: 30 10.127: 124 10.181: 116 Polyzel. fr. 12: 122 Posidipp. 16.3: 50 Procop. Hist. Secr. 15.16: 11 Prov. Bodl.

Indices Procop. [cont.] 235: 150 236: 150 Ps. Caes. 30.29: 88 n. 98 Ptol. Diff. voc. 390.34 Palmieri: 24 Q. Smyrn. 2.345–54: 77 2.472–5: 77 14.5: 77 Σ α 1827: 74 υ 150: 74 φ 213: 139 χ 26: 76 Σb α 1637: 153 Sacerd. GL 6.515.21–3: 167 Sannyr. fr. 3: 88 schol. Ap. Rh. 1.1294–5: 28, 29 schol. Ar. Av. 82b: 22 Av. 1467: 37 Eq. 137c: 45 Eq. 364a: 49 Nu. 563a (Ald.): 167 Pl. 131a.α (rec.): 61 Pl. 388a: 152 Pl. 388b: 152 Pl. 883a-b: 94 Ra. 611a-b: 31 Ra. 725c: 61 V. 352b: 22 V. 427a: 66 V. 968a-c: 87 n. 97 V. 968b: 87 schol. Eur. Hec. 467 Schwartz: 14, 54, 55 schol. Il. 6.239 (A): 158 13.281 (D): 160 13.353 (bT): 68 n. 85 23.881a1 (A): 39

Index locorum schol. Luc. JTr. 48: 106 Lex. 11: 160 Pisc. 9: 150 schol. Pi. O. 4 II.1: 166 schol. Soph. Ai. 290b: 162 SEG 10.38b.11–4: 59 12.100: 106 25.180.30–1: 122 25.180.33–4: 122 Semon. fr. 7.27–42: 70 fr. 7.90–1: 78 Septuaginta 3 Ki. 22.38: 26 Ru. 2.17: 67 Sext. Emp. P. 2.31: 61 SIG 1259.6: 117 Simon. PMG 543.7–9: 41 PMG 553.2: 41 Socr. Cous FHG IV, p. 499 fr. 15: 92 Sol. fr. 73b Ruschenbusch: 120 fr. 127a-c Ruschenbusch: 138 fr. 38.1–3 West2: 137 Soph. Ai. 167: 111 Ai. 293: 78 Ai. 473: 34 Ai. 1230: 124 Ant. 511: 34 Ant. 577: 137 El. 599–600: 96 n. 109 El. 989: 34 OC 1422–3: 34 OT 19–20: 65 OT 303: 96 n. 109 OT 337–8: 96 n. 109 OT 1206–7: 96 n. 109 Ph. 108: 34 Ph. 369–70: 40

Soph. [cont.] Ph. 721–2: 50 Ph. 816: 24 Ph. 1022: 96 n. 109 Ph. 1041: 24 fr. 127: 130 fr. 177.1: 21 fr. 239: 38 fr. 314.403: 75 fr. 412.1: 38 fr. 763.2: 27 n. 41 fr. 1055: 21 Soran. p. 188.17 Rose: 52 Sotad. Com. fr. 1.5: 88 Str. 17.823c: 19 Stratt. fr. 9.2: 139 fr. 11.2: 48 fr. 45.3: 48 fr. 48.2: 75 fr. 59: 124 fr. 63.2: 75 fr. 73: 56 Su. α 2141: 58 α 2928: 152, 153 β 75: 150 β 191: 150 δ 1155: 68 ε 1851: 108 n. 116 θ 369: 35 κ 2327: 132 μ 1443: 132 ο 111: 160 π 2885: 94 σ 256: 22 φ 865: 49 Telecl. fr. 1.4: 78 fr. 1.8: 51 fr. 1.12: 50 fr. 39: 151 fr. 40: 96 fr. 51: 144

205

206 Telet. Περὶ συγκρίσεως πενίας καὶ πλούτου 41.9: 98 Ter. Andr. 58–62: 80 Andr. 746: 114 Theoc. 4.58: 45 15.60: 149 15.116: 55 [Theoc.] 25.177: 45 Theogn. 1.627: 34 1.888–9: 34 1.1128: 27 Theognost. Can. 634, p. 106.5–8: 117 Can. 637, p. 106.24–5: 117 Theoph. fr. 8.2–3: 50 Theopomp. Com. fr. 6: 136, 137 fr. 12: 139 fr. 32: 130 fr. 38: 115, 116 fr. 40.1: 82 Thom. Mag. 8.2: 127 145.11–12: 150 Thphr. Char. 2.9: 65 n. 84 Char. 3.3: 114 CP 1.19.4: 67 CP 5.4.2: 67 HP 7.1.3: 131 Od. 4.40: 124 n. 122 Thuc. 2.13.4–5: 61 2.40.1: 14 n. 11 2.45.2: 78 4.44.2–3: 111 4.52.3: 60 4.75.1: 78 6.8.2: 59 6.12.2: 106 6.14.1: 59 6.15.3: 106

Indices Thuc. [cont.] 7.8.1–2: 111 7.28.1: 114 8.64.5: 94 8.76.5: 60 Timae. FGrHist 566 F 146b.9–10: 64 FGrHist 566 F 164.28: 56 Timachidas fr. 22 Matijašić: 31 trag. adesp. fr. 90: 63 fr. 447: 34 Triphiod. 96: 56 n. 82 346: 56 Tz. Ep. 19.36: 93 H. 7.145.761–9: 93 n. 103 H. VII 7.145.768: 92 n. 100 [Verg.] Cir. 31: 56 Xen. An. 2.1.22: 74 An. 3.1.39: 21 An. 4.5.31: 88 An. 5.6.34: 111 An. 7.5.4: 127 Cyn. 6.1: 66 Cyr. 1.3.9–10: 30 Cyr. 4.3.12: 126 Cyr. 5.1.17: 21 Cyr. 6.1.19: 21 Cyr. 7.1.1: 27 n. 42 Cyr. 8.2.5: 128 HG 1.7.11: 164 HG 7.1.28: 111 Hier. 9.1: 21 Mem. 2.10.1: 111 Mem. 3.14.1: 80 Mem. 4.2.2: 11 n. 2 Oec. 1.13: 155 Oec. 18.3–4: 128 Smp. 1.13: 135 Smp. 2.3–4: 120 Smp. 2.23: 135 Smp. 4.17–8: 98, 99

Index verborum Xenarch. fr. 7.16: 161 Xenocr. Aphr. 27: 22 Xenoph. fr. 1.10 Gentili–Prato: 51

Zenob. II.78: 150 II.79: 150 III.70: 22 IV.30: 65 n. 84

Index verborum ἀγαθέ/ἀγαθή: 21, 22 ἀγοράζω: 19, 20 αἰσχρός: 32 ἄκανθα: 87 ἀλήθω: 156, 157 ἀλοάω: 127, 128, 129 ἀνά: 64, 65 ἀναψηφίζω: 59, 60 ἀνόδοντος: 156 ἀπαρτί/ἀπάρτι: 152, 153, 154 ἄνθος: 55, 56 ἀνύω: 24 ἄξιος: 114, 115 ἀπάγχω: 75 ἀποδιδράσκω: 111 ἀποκρίνω: 73, 74, 75, 76 ἀπολιβάζω: 35, 37 ἀπονίζω: 26 ἄρδα: 83, 84 ἀστράγαλος: 39 Ἀσωτοδιδάσκαλος: 11 ἀτράφαξυς (e varianti): 157, 158, 159, 160 βαδίζω: 80 γαλαθηνός: 41 γε: 20, 28, 162 γεροντοδιδάσκαλος : 11, 12 γλίσχρος: 144, 145 γνύξ: 160 δέ: 66 διανίζω: 26 δύσφθαρτος: 23 δυσφορέω: 72 ἐγκεντρίς: 66 εἶτα: 122 ἐκποιέω: 129 ἐμπίνω: 27 ἐνεχυριμαῖος: 84, 85, 86

ἐπαναχωρέω: 111 ἐς/εἰς: 79 ἐς κόρακας: 149 εὔδουλος: 12, 16 εὐέκκριτος: 23 ζώννυμι: 116 ἠθμός: 28, 29 θράττω: 21, 72, 73 ἰχθυοπώλαινα: 121, 122, 126 κάθημαι: 123 καί: 38 καὶ δῆτα: 48 κακόχυμος: 23 κατάγω: 53, 54, 57 κατακλίνω: 135 κατάρατος: 148, 149 καταχέω: 161 κατέρχομαι: 78 κεῖμαι: 108 κόιξ: 163, 164 κοτυλίσκη: 145 κύμβη/κύμβος: 130 κυμβίον/κυμβεῖον: 130 λαλέω: 126 λύχνος: 24 λυχνοῦχος: 24 μαγείραινα: 121, 122, 126 μάλα: 32 μἀλλά: 31, 32 μάμμη: 149 ματτύη: 51 μειράκιον: 125 μέν: 117 μὲν οὖν: 148, 154 μέρος: 52 μηδαμῶς: 143 μή μοι: 137, 138

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Indices

μόριον: 52 μυροπωλέω: 122 μυρόπωλις: 122 νωδός: 156 ξαίνω: 54 n. 79 ξενικός: 84 ὀβελίας: 91, 92, 93 ὀκλάξ: 160 οὐ(κ) + ind. fut.: 37, 141 παίζω: 39, 40 πάλη: 112 παντοδαπός: 56, 57 πάνυ: 21 παρασκευάζω: 47 παρατίθημι: 88 περίβολος: 118, 119 περίερκτος: 118, 119 περιφέρω: 73 πλήθει πολλά: 50, 51 πνίγω: 75 ποτε: 24 προζωννύω: 117 πρός: 20 προτιμάω: 94 ῥαβδίζω: 67 σκηνή: 118, 119 σκιάδειον: 124 σκώληξ: 57

σπογγίζω/σφογγίζω: 82 σποδέω: 90, 91, 93 σπυρίδιον: 80 σύμπτυκτος: 166 συνέδριον: 125 σύνειμι: 95, 96 συσκευάζω: 80 ταράσσω: 21 n. 27 τέλεια/-εα: 41 τέμαχος: 48 τί μαθών/τί παθών: 123 τρώγω: 135, 136 τυραννοδιδάσκαλος: 11 ὑοσκυαμάω: 155 ὑπάρχω: 48 ὑπόβολον: 105, 108, 109 ὑπόκειμαι: 108 ὑπωβολον: 105, 108, 109 ὑψηλός/ὑψηλῶς: 123, 124 φακός: 137 φέρε (δή): 135 φέρε τί ποιεῖ;: 73 φώγω: 139 φύρω: 73 χαράδρα: 72, 76, 77, 78 χρυσίον: 59, 60, 61, 62 χωρίς: 45 ᾤα: 117

Index rerum agorà, agorai: 63, 64, 65 akrokōlia: 43 Alcibiade: 105, 106, 119 allocuzione: 21, 22 anapesti: 95, 132, 164, 165, 166 strappati: 140, 147, 153 anguilla: 48, 49 Antesterie: 90, 92 aoristo passivo: 74 Arrēphoroi: 54 n. 77 astragalos: 39, 40 asinarteti: 127, 165 atticismo: 21 n. 27, 53, 58, 67, 76, 84, 104, 110, 127, 139, 153, 155, 156, 157, 159, 161

balaneia: 144 Callescro: 32, 33 cibo: 12, 45, 46, 47, 48, 49, 50, 51, 52, 100, 101 Cimone: 119 Cleone: 75, 76 colloquialismi: 51, 137, 141, 144 commedia di mezzo: 14 motivi tipici: 131, 132, 143, 148, 149, 153 nuova: 14 composti: 11 cottabo: 101, 129, 130 deipnon: 47, 48, 79, 80 diaskeuē: 69

Index rerum didascalie sceniche: 24, 134, 140 diminutivi: 97 Diocle: 68, 69, 71 Dioniso: 92 dittonghi: 41 ekkyklēma: 83 epirremi: 46, 55 Ergastinai: 54 n. 77 etère: 14, 70, 83, 100, 101, 131, 134, 144 ēthmos: 30 eupolidei: 59, 64, 120, 121 ferecratei: 164, 165, 166 genitivo partitivo: 57, 140 giochi di parole: 20, 40, 42, 52, 90, 91, 92, 95, 109, 140 n. 129 giusquiamo: 155 grano prezzo del: 114 iambykē: 38 infiniti iussivi: 25, 26 intensificazione: 51, 64 Iperbolo: 58 kithara: 36 kitharos: 17, 18, 19, 20, 22, 23 kondylos: 39, 40 korakinos: 97 kotyliskē: 145 kylix: 25, 29 Lamaco: 82 laudatio temporis acti: 114 lingua d’uso: 22 logaedi: 165 n. 136 lychnos: 24 lychnouchos: 24 lyra: 36, 37, 38 Mariandinia: 141 metaniptron: 29 Misgola: 20 Misteri eleusini: 101, 102, 103, 106 musica: 36, 37, 38

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Nicia: 102, 103, 111, 114 nominativus pendens: 125 ōa: 115, 116, 117 obeliaphoroi: 90 Paapis: 15, 58 Panatenee: 15, 54 pannychis: 100, 101, 102 parabasi: 59, 64, 128, 167 parodia: 34, 83, 118, 119 participio futuro: 27 pēktis: 38 Phthonos: 75 pluralis maiestatis: 46 pnigos: 46, 47 pragmatica linguistica: 21, 22, 64, 123, 134 profumieri: 121, 122 Protagora: 103, 122 proverbi: 18, 22, 23, 148, 150 Psammetico: 15, 58 Pulizione: 101, 102, 103, 105, 106, 107, 108, 109 Sacas: 30 sacrifici: 41 schiavi: 11, 12, 13, 14, 19, 30, 33, 46, 47, 63, 67, 83, 110, 113, 126, 134, 140, 141, 161 Schlaraffenland: 12, 47, 50, 52 simposio: 29, 134 skēnē: 118, 119 sofisti: 12, 103, 121, 126 sogni: 18, 19, 20 speech within speech: 74, 75 Temistocle: 118, 119 thallophoroi: 98, 99 Thēseion: 33, 34, 35 titoli: 11, 68, 69, 70, 100, 131 trigōnos: 36, 37, 38 tryphē: 14, 122 vino miscelato con acqua: 149