Franck

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Alfred Colling

FRANCK EDIZIONI ACCADEMIA

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FRANCK di

ALFRED COLLING

EDIZIONI ACCADEMIA

Titolo originale dell’opera Edita dalla Casa Julliard di Parigi CÉSAR FRANCK OU LE CONCERT SPIRITUEL Traduzione di Michele Margadonna Note e cronologia di Alfredo Mandelli

Copyright © 1979 by Edizioni Accademia Milano

Capitolo primo

Passato vivente

Esistono musicisti la cui vita appare così piena di amori tu­ multuosi e sottili intrighi, solcata da molti viaggi, densa di pa­ tetiche nostalgie, devastata da vergognose miserie e tormenti fisici, impacciata dai troppi onori, così echeggiante di gelosie e litigi che se ne potrebbe agevolmente narrare la storia senza dire una parola della loro musica. Un’impresa del genere, a rischio di suonare falsa contro ogni autenticità, sarebbe assolutamente inconcepibile nel caso di Cesar Franck. Non perché quest’uomo abbia avuto una vita apparente­ mente semplice - dico « apparentemente », dato che le sue vicende personali rivelano, a chi sa leggere nel destino umano, vari aspetti drammatici - ma perché Franck era soprattutto un taciturno, per quanto prodigo di cordiale affabilità ed era in ogni caso alieno a rivelare anche con gl’intimi la propria vita interiore, gli interrogativi e le certezze del suo spirito. A cosa gli sarebbero servite le parole quando possedeva il dono impagabile della musica? Franck ha in sé risolto ed espresso la interiorità musicale e nel tempo stesso animistica anche se l’intera sua opera ha impiegato tanto tempo per rivelarsi e tro­ vare la propria perfezione.

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Si parla spesso dell’oscura elaborazione di un’opera venuta alla luce solo quando l’autore ebbe raggiunto e superato i cin­ quantanni, e se ne parla come di un mistero. Il mistero è tutto qui: la musica di Francfc toccò il vertice il giorno in cui que­ st’anima conobbe là putezza delle cose della terra e del cielo. Le composizioni franckiane emanano un calore patetico che si riverbera spìritualihente in ogni direzione. I giovani disce­ poli di allora raccolsero questo messàggio musicale e circonda­ rono il loro maestro di uh affetto senza limiti. Quando qual­ cuno di codesti allievi si smarriva poi meandri di aridi e me­ schini tentativi d’ispirazione o di difficili applicazioni tecnicointerpretative, al maestro bastavà dire: « Venga a Saihte-Clotilde *, le insegnerò ». E la luce cominciava a brillare. Sin dalle prime pagine di questo libro mi sono proposto di esaminare gli aspetti più essenziali della personalità morale e artistica di Franck dal punto di vista più elevato. Ma la sua vita nel quadro propriamente dell’arte ha preteso un fuoco che non calasse, ma bruciasse sempre più forte senza estinguersi, un ardore alleato al metodo e alla tecnica. Osservata, giorno per giorno, questa vita sembra dare la pre­ valenza a pÒsizioni mentali di attendismo a qualcosa di prov­ visorio. Bisogna perciò arrivare all’estremo della parabola per ritrovare in tutto il suo splendore la magnificenza della con­ clusione. Ciò avverrà quando avremo visto questo musicista esitare fra più strade, subire lunghe tirannie, liberarsene a poco a poco; rinchiudersi nuovamente nel silenzio, forgiare pezzo per pezzo le armonie che esprimeranno il suo molteplice de­ stino. Quando lo avremo visto lottare, soffrire, amare, appli­ carsi come un artigiano e infiammarsi come ùn arcangelo, sol­ tanto allora potremo dire: fu un testimonio dello Spirito e com­ pose della bella musica perché avevà un’anima bella. Un’altra considerazióne ritengo opportuna: un.artista, ancor più degli altri uoihini, subisce l’influsso del suo passato atavico. Gli antenati di Franck, come vedremo, hanno lasciato al loro 1 In questa chiesa parigina Franck fu titolare di un grande organo Cavaillé-Coll (cfr. a pag. 49).

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PASSATO VIVENTE

discendente un retaggio di elementi psicologici molto complessi che possono spiegarci almeno in parte l’indole e successiva­ mente le manifestazioni tangibili del carattere del musicista. A tal proposito Ernest Closson2 giustamente osserva che Césat Franck ricevette nel nascere un apporto di sangue tedesco, in­ diretto e lontano da parte del padre, vivo e fresco per parte di madre. Anche i luoghi della prima giovinezza hanno inciso spiri­ tualmente sulla personalità di Franck piu di quanto egli poteva supporre. Gli avi del nostro erano austriaci. Abbandonata la patria, avevano peregrinato attraverso la Germania fino al du­ cato di Limbqurg, dove avevano preso residenza. Li ritroviamo a Moresnet, Montzen, Bambusch, Gemmenich. Verso la metà del XVI secolo, un Johann Franck dirigeva le miniere impe­ riali di Chiamine. Altri Franck subentrarono nell’importante ufficio. E tutti, quando non prendevano moglie a Moresnet o a Montzen, andavano a cercarsi una sposa in Olanda o in Ger­ mania. Bartholomé Franck, nonno paterno di Cesar, non si era sot­ tratto a quella tradizione; sua moglie infatti, Isabelle Randaxe, era nativa di Noorbeck, nel Limbourg olandése. Come il padre, Bartholomé Franck era un uomo industrioso e pur dirigendo le sue fattorie, esercitava svariate e antichissime funzioni: pro­ curatore di giustizia a Gemmenich, membro della corte di giu­ stizia di Saint-Hubert, scabino della giustizia di Teuven, con­ sigliere dell’alta corte del cantone di Limbourg, borgomastro e precettore di Gemmenich... Abitava in quest’ultima città, nella frazione di Volkerich, in una casa solida come una for­ tezza, avuta in eredità da Stephan-Joseph Franck, dove nac­ quero sei bimbi, l’ultimo dei quali, Nicolas-Joseph, sarebbe stato il padre di Cesar. Costui, dopo aver studiato presso i Gesuiti di Aquisgrana, ritornò in questa cittadina quando il 24 agosto 1820, sposò Marie-Catherine-Barbe Frings o Fries, nativa del luogo. 2

Closson, Les origines germaniques de César Franck et les accointances de la jeune école franqaise. S. I. M., aprile 1913 (N. d. A.).

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Capitolo secondo

La scelta della musica

Con Nicolas-Joseph Franck, la migrazione verso l’Occidente si accentuò. Infatti molto tempo prima di sposarsi, costui aveva lasciato Gemmenich, dove si parlava una specie di basso-tede­ sco, il « platt », per stabilirsi a Liegi, grande città vallone, nella quale l’influsso germanico veniva affievolendosi di fronte a quello francese, impetuoso e schietto, sensibile e ironico. Nicolas Franck affatto alieno alla cultura e all’intellettua­ lismo era avido di denaro e il carattere dei suoi compatrioti gli era parso troppo pesante, e ligio a procedure sociali anti­ quate. A Liegi dunque conobbe Michel Frésart, abilissimo agente di cambio scrupoloso al massimo con la clientela. Fu assunto e pochi mesi dopo svolgeva già le sue mansioni di vice agehte con piena soddisfazione del principale. A Liegi e alla Sauvenière, nacquero due bambini: César-Hubert-Auguste, deceduto ben presto e César-Auguste-Guillaume-Hubert. Ritorniamo ora al nostro personaggio. Si ha notizie che Ce­ sar Franck iniziò il regolare corso di studi a sette anni e a tal proposito si conserva del materiale scolastico, il quaderno di aritmetica, piuttosto voluminoso per il fatto che i fogli sono 11 11

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ricavati da carta da disegno. Gli esercizi scritti con la mas­ sima pulizia e diligenza si susseguono, divenendo ben presto piu difficili: calcoli in moneta di Liegi, di Brabante, d’Olanda, Prussia, moltiplicazioni all’italiana e alla tedesca, frazioni... La «carta assorbente, sottilissima, asciutta, è rimasta inserita alla pagina 132. Sempre in quel periodo, Cesar iniziò lo studio del solfeggio, e questa decisione fu favorita da una singolare coincidenza. L’agente di cambio Michel Frésart aveva interrotto la sua at­ tività finanziaria e la Reale Scuola di Musica di Liegi, fondata il 9 giugno 1828 per decreto del re Guglielmo I d’Olanda, si era installata nell’edificio dell’ex banca. Il nostro giovinetto doveva ben presto divenire un assiduo alunno. Il corpo insegnanti era eccellente: Joseph Daussoigne, nipote di Méhull, che aveva insegnato armonia al Conserva­ torio di Parigi, dirigeva la Scuola Reale; nell’ordine seguivano Dieudonné Duguet, maestro di cappella, Wanson violinista e il pianista Jalheau. Trascorso un anno, durante il quale Cesar fu impegnato nel ripeti torio degli studi elementari, non appena la Scuola si tra­ sformò in Conservatorio Reale, seguì i corsi regolari come uditore. Non passò molto tempo che il piccolo allievo, guidato, da Duguet, ottenne un premio di solfeggio, (il primo del resto, che il Conservatorio di Liegi assegnava). Successivamente, Antoine Jalheau gli fece vincere il primo premio di pianoforte per una buona esecuzione dell’« adagio » e del « finale » della Sonata in fa diesis minore di Hummel. Passò allora nella se­ zione di Daussoigne che, come dicevamo più sopra, insegnava armonia e contrappunto. Meticoloso, come sua abitudine, Franck conservò il grosso fascicolo di carte nel quale durante quattordici mesi compilò gli esercizi che lo addestravano alla tecnica dei suoni. Il con­ trappunto è agile, docile; secondo un principio di Daussoigne,

1 Louis Joseph Daussoigne-Méhul (1790-1875), compositore e insegnante; era nipote e figlio adottivo del compositore Étienne Méhul (1763-1817) autore del Joseph, uno dei piu autorevoli compositori del suo tempo.

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LA SCELTA DELLA MUSICA

diviene armonia a poco a poco con l’incontrarsi e il sovrap­ porsi di linee formanti, nel loro incontrarsi, accordi sempre più vari, più ricchi. Il ragazzo fece ben presto progressi anche con Daussoigne. Accenneremo ora al suo singolare sistema di stesura degli eser­ cizi. Non faceva uso di carta stampata. Tracciava i righi del pentagramma col tiralinee, come ai tempi di Bach. I titoli sono scritti con grafia impeccabile, sottolineati da un’ampia firma che racchiude nei suoi stravaganti arabeschi un diesis. E poiché l’armonia gli fornisce a poco a poco la chiave del sentimento musicale, Cesar compone delle Variazioni su un’aria del Pré aux Clercs 2, un O Salutaris, una romanza Biondo Febo, la Splendente Aurora... che, dopotutto, non sono altro che la copia di un’opera ignota. Per noi, che consideriamo la musica come lo sfogo più se­ greto é~ immediato cfell’anima, pochi atti rivestono un signi­ ficato spirimal'g'plU solènne della scelta da parte di una creatura uftiana dal Quale non sì torna più indietro e dov? autentico compimento sempre piu si sprofonda neH’infinito dèlia verità e deli amore. Senza dubbio Ma Cesar Lranck non a^eva ancora definito questa scelta. Suo padre gli aveva impo­ sto la musica; era una ben strana decisione da parte di un uomo del genere. Autoritario, ambizioso, come mai quest’uomo divenuto agente di cambio, preoccupato solo di far soldi, non indiriz­ zava i propri figli verso professioni che fruttassero denaro? Il fatto è che proprio lui conosceva certe attività e sapeva di con­ seguenza come fossero subordinate a specifiche difficoltà non sempre superabili. A Nicolas Franck era stata magnificata la carriera alla quale certi strumentisti possono aspirare. Vi aveva intessuto sopra molti sogni, con la mentalità tipica agli avari e ai despoti. Aveva subito pensato a Mozart. Ma questo sommo musicista apparteneva già alla storia. C’era però un nome di un giovane promettente artista che già faceva parlare di sé in modo lusin2

Opera di Louis Hérold (1791-1833), a suo tempo in voga.

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ghiero; un giovanotto snello, dalla pettinatura fanciullesca, dalla bocca femminea, dallo sguardo d’aquila: Franz Liszt. Il prodigioso bambinetto a nove anni aveva suonato nel pa­ lazzo del principe Esterhazy. A dodici, si era esibito in un con­ certo alla Redoutensaal di Vienna, alla presenza di Ludwig van Beethoven e di quattromila spettatori. L’anno appresso, il prin­ cipe imperiale gli concedeva il permesso di suonare all’Opera Italiana di Parigi, dove Giuditta Pasta3 l’amica di Stendhal, gli accordava la propria partecipazione. E via di questo passo, da una città all’altra, fra una pioggia di denari e di lusinghe. Il re Giorgio IV, monarca obeso e cadente, sotto le volte di Windsor aveva pronunciato parole inebrianti come queste: « Non ho mai sentito niente di simile. Questo ragazzetto su­ pera Cramer e Moschèles ». Nicolas Franck, aveva dunque deciso che i propri figli sa­ rebbero stati dei musicisti, dei virtuosi. Ciononostante, vi era un particolare che imbrogliava le carte all’intrigante: César manifestava discreta attitudine per il disegno. Pur sbrigando puntualmente gli esercizi pianistici impostigli dai maestri e resi piu pesanti dal padre, il ragazzo riempiva molte e molte pa­ gine di figure o paesaggi, di cui purtroppo non è rimasto che un esemplare, concepito proprio per testimoniare la bravura del nostro giovinetto. Si tratta della riproduzione a matita di un ritratto di Méhul. Per quanto privo di originalità, dà tuttavia l’impressione di fedeltà assoluta al soggetto e merita perciò una certa atten­ zione. I pareri furono indubbiamente diversi. Musica o dise­ gno, disegno 0 musica? Il padre preferiva soltanto il successo. Daussoigne-Méhul fece oscillare la bilancia dalla parte della musica. Cesar Franck conservò in ogni caso il ritratto di un musicista che stimava molto; né mai piu compose altri disegni. César Franck fu avviato alla carriera di concertista. Liegi, città natale, era la sede più indicata per il battesimo del suo

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Celeberrima cantante italiana (1797-1865); interpretò parti sia di so­ prano sia di contralto; famosa nel Tancredi di Rossini, fu anche prota­ gonista della Norma di Bellini.

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LA SCELTA BELLA MUSICA

primo concerto. Seguirono Lovanio e Bruxelles. Nella capitale del Belgio nascente, la consumata furberia di Nicolas Franck riuscì ad introdurre il ragazzo alla presenza del re. Questo vec­ chio generale dell’armata dello Zar fu forse sensibile alla ese­ cuzione del Gran Rondò e delle Variazioni sull’aria del Pré aux Clercs? Più di ogni altra cosa, Leopoldo si commosse all’età del pianista. Il re si mostrò, insomma, attento e generoso. Nella tecnica pianistica Cesar Franck usava la stessa diligente scrupolosità che usava in ogni altra cosa. Non risulta tuttavia che egli abbia provato, nei suoi primi contatti con il pubblico, il profondo travaglio che rivela un’autentica vocazione musi­ cale. La stessa benevolenza del re non sembrò scuoterlo in modo sensibile. È piu facile pensare che il nostro giovinetto fosse rimasto più lusingato dall’incontro con una ragazzina che aveva qualche mese meno di lui e che si chiamava Pauline Gar­ da. Costei era nativa dell’America del Sud, dove suo padre Manuel del Popolo Vicente Garda4 l’aveva avviata alla tec­ nica della tastiera. Suonava benissimo anche lei, ma senza troppa convinzione artistica. Il suo destino volgeva altrove: verso il canto, calda e divina espressione della voce umana. Sua sorella, Maria Malibran, la incitava a coltivare quest’arte. Pauline Garda si dedse ben presto per questa fraterna insi­ stenza. Un giorno troveremo la nostra giovane nelle vesti di una celebrata artista di canto: Pauline Viardot. Alcuni mesi più tardi Pauline Garda lasdò Bruxelles per ignota destina­ zione e l’innocente flirt con Cesar finì nel nulla. Il nostro gio­ vane musidsta partì per Aquisgrana, cittadina troppo vicina a Gemmenich perché la famiglia dei Franck non vi si recasse ad applaudire le sue interpretazioni e composizioni.

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I Garda furono una dinastia spagnola di cantanti e di maestri di canto, da Manuel del Popolo Vicente (1775-1832) ad Albert (1875-1946). Fa­ moso è il trattato di canto di Manuel Patrido (1805-1906), che era bari­ tono e inventò il laringoscopio.

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Capitolo terzo

Presentimento del genio

Una volta rientrato a Liegi, Cesar Franck si mise a lavorare tranquillamente, in vista della medaglia d’onore. Intanto era stato nominato ripetitore - all’età di tredici anni - e insegnava affabilmente a quattro mediocri alunni. Ma all’improvviso suo padre prese un’inaudita decisione: la famiglia avrebbe lasciato la casa di via Table-de-Pierre, acqui­ stata a caro prezzo, i mobili sarebbero stati venduti e ci si sarebbe trasferiti a Parigi per far varcare a Cesar ed a Joseph le soglie del più celebre Conservatorio del mondo. Cesar sapeva già che il padre non ritornava mai sulle deci­ sioni prese, ma l’entusiastica gioia di muoversi verso un san­ tuario di arte e di gloria vinse ogni rimpianto. La famiglia Franck arrivò dunque a Parigi sul far. deH’estate. 1835, e prese domicilio in rue Montholon. Di lì a qualche giorno Nicolas Franck si presentò con i figli al Conservatorio di Parigi, dove si ripetè una scena prodottasi dodici anni prima. Il 12 dicembre 1823, Adam Liszt, conducendo per mano il piccolo Franz tutto stordito e tremante, aveva varcato l’atrio prospiciente la rue Faubourg-Poissonnière. Un usciere li aveva 17

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introdotti al cospetto di Cherubinil. Uno sguardo glaciale, po­ che parole secche avevano spezzato il loro slancio, distrutto le loro speranze: l’entrata al Conservatorio era vietata agli stranieri. Si trattò della stessa accoglienza, delle stesse parole, dello stesso sbigottimento. Ma Nicolas Franck era più tenace, più deciso di Adam Liszt. Sull’esempio del padre di Franz, il si­ gnor Franck pensò di affidare Cesar a qualche sapiente mae­ stro il cui insegnamento particolare sostituisse i corsi del Con­ servatorio ed iniziò senza por tempo in mezzo le pratiche necessarie per la naturalizzazione francese. In attesa, occorreva scegliere un maestro per César ed es­ sergli bene accetti. Su consiglio del violinista Lambert Massart, Nicolas Franck chiese a Daussoigne-Méhul una raccomanda­ zione per Reicha, il quale* accettò di completare l’educazione musicale del piccolo Franck. Anton Reicha, ceco d’origine, dapprima naturalizzato tede­ sco, poi francese, possedeva una personalità della quale non sarebbe stato possibile trovare l’uguale, al momento. Era stato flautista dell’Orchestra Elettorale di Bonn, dove Beethoven aveva a suo tempo suonato la viola. A una profonda cono­ scenza della tecnica tedesca univa il dono tutto francese del­ l’esposizione, della chiarezza e della logica. Una sorta di genio l’apparentava inoltre a Bach: il genio del canone e della fuga, il genio capace di ridonare un’espressione a quegli astratti stampi che solo un arido scolasticismo aveva reso rigidi. L’autorità di Reicha era inoltre indiscussa. Professore al Con­ servatorio per volontà di Luigi XVIII, impartiva lezioni - fatto unico - a vari colleghi, cui si aggiungevano artisti già maturi: i violinisti Baillot e Habeneck, il cornista Dauprat, l’oboista

1 Luigi Cherubini (1760-1842), grande compositore, precursore di Bee­ thoven e dei romantici, sebbene nato a Firenze, aveva preso la citta­ dinanza francese; dal 1822 fu direttore del Conservatorio, e fu inflessibile nell'osservare i regolamenti (salvo, a volte, aggirarli se fosse possi­ bile, per senso di musicale giustizia; cfr. a pag. 21).

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PRESENTIMENTO DEL GENIO

Vogt, il flautista Guillou...2. Anche Berlioz e Liszt erano ri­ corsi a lui per preziosi consigli. Gli uni come gli altri si sottomettevano alla sua rigorosa di­ sciplina, meditavano sulle sue penetranti relazioni, esploravano, senza esaurirne tutte le idee, il suo Trattato di Alta Composi­ zione Musicale. Questa era la guida alla quale Cesar Franck veniva affidato. E fu un evento cosi felice, che non vi si può scorgere l’opera del caso, ma un disegno della Provvidenza. Il fanciullo inaugurò dunque, il 24 giugno 1835, un nuovo quaderno di esercizi musicali. Preparato dalle eccellenti lezioni di Daussoigne-Méhul, penetrò subito nel vivo della materia; praticò il doppio contrappunto, passò ai «canoni scientifici», cercò risposte ai soggetti e tracciò esposizioni di fughe, prese appunti per ulteriori sviluppi. Tutte cose che, per lui, erano nuove solo a metà; ciononostante, contenevano una singolare ricchezza, vivificate com’erano dall’eccezionale insegnamento di Reicha. All’inizio del mese di ottobre apparve una menzione, mo­ desta e trionfale nello stesso tempo: « Ganti miei, da accom­ pagnare »: il maestro aveva acconsentito che l’allievo lavorasse su temi tratti dalla propria fantasia. Contemporaneamente, César si credette autorizzato a prati­ care di nuovo la composizione libera; dedicò al fratello Joseph una Prima Grande Sonata per pianoforte, concepita secondo la prima maniera di Beethoven; realizzò, sempre per pianoforte, una Prima Grande Fantasia in fa, che si svolge in un sol tempo. Beninteso, queste attività erano strettamente sorvegliate da parte di Nicolas Franck. Sempre perseguitato dal fantasma Liszt, costui aveva deciso che il figlio avrebbe abbandonato gli studi per dare concerti. Ancor prima della fine del 1835, César dava un recital al Ginnasio Musicale. Senza dire una parola, il figlio si inchinava alla volontà paterna. Ma il quaderno su cui César Franck registrava i propri studi

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Emmanuel, César Franck.

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con Reicha si chiude improvvisamente. Il 25 maggio 1836 il maestro corresse ancora una fuga a quattro voci e a tre sog­ getti. Poi una annotazione e una firma racchiudono il dramma della morte: Fine del lavoro con il sig. Antoine Reicha, pro­ fessore al Conservatorio; morto in rue du Mont-Blanc, n. 50, il 26 maggio 1836: César-Auguste Franck. Ciò che Reicha aveva posto in germe nella sensibilità di Franck, era di un valore incalcolabile: il senso e il gusto della modulazione, dell’architettura, dell’adattabilità della musica alle forme più sottili. Cosa fece César Franck dopo la morte dello stimatissimo maestro? Lo si ignora con esattezza. Solo con se stesso, do­ vette seguire gli impulsi del proprio temperamento. È verosi­ milmente di questo periodo quella Sinfonia per grande orche­ stra (op. 13) che Franck non diede mai alle stampe, ma che doveva apprezzare a sufficienza se, molto più tardi, intitolava la celebre sinfonia in re: Seconda Sinfonia. Forse, e per parte mia sono propenso a crederlo, cominciò a pensare, se non ad abbozzare, i tre Trii per pianoforte, violino e violoncello di cui ci occuperemo fra poco. Intanto, la cittadinanza francese per Nicolas Franck si fa­ ceva attendere. Il Conservatorio restava un regno proibito. Ogni altro individuo avrebbe abbandonato il progetto. Lui, l’uomo di Gemmenich, continuava a darsi da fare. Il 22 set­ tembre 1837 finì per spuntarla. E Cherubini ne fu informato immediatamente: il 4 ottobre, César e Joseph facevano il loro ingresso da via Bergère. César vi entrava per studiare con tre insegnanti: Zimmermann, pianista fuoriclasse e cuore eccellente; Leborne, suc­ cessore di Reicha alla cattedra di contrappunto e fuga, e, un po’ più tardi, Benoist, che da trent’anni insegnava impertur­ babile l’organò su uno strumento dalle canne tutte ammaccate. Per la terza volta, sotto la supervisione di Leborne, Franck inaugurò un quaderno scolastico. In effetti, aveva ben poco da imparare; Reicha gli aveva insegnato una volta per tutte ciò di cui aveva bisogno. Tuttavia con la stessa diligenza, egli al20

PRESENTIMENTO DEL GENIO

lineò su duecento pagine complessi esercizi. Tiersòt3, che li ha analizzati, conclude: « Il tutto è scritto con una naturalezza che sembra denotare nel musicista un’assoluta congenialità con i problemi posti ». Osservazione che va dritta al cuore delle cose: la natura di Franck era affatto congeniale ai generi che Bach e Beethoven avevano illuminato di una spiritualità so­ vrana. Le stesse prove che, successivamente, Franck sostenne al Conservatorio furono alla pari del loro alto livello e dimostra­ rono — non ancora in pieno rigoglio - qualche dote sorpren­ dente che doveva lasciate una durevole impronta. Nel 1838, Zimmermann lo presentò al concorso di piano; Cesar eseguì il Concerto in si minore di Hummel, poi passò alla prova di lettura a prima vista — una fuga -, e senza aspettare il se­ gnale d’inizio, la decifrò trasponendola tutta di una terza piu in basso. Presiedeva Cherubini il quale notoriamente era equo, ma formalista. Egli si sentì diminuito nella propria autorità e rifiutò allo scolaro « indisciplinato » il primo premio. Apprezzò invece l’ottima esecuzione del pianista istituendo un Grande Premio d’onore e facendoglielo assegnare, fatto unico negli an­ nali del Conservatorio di Parigi. Due anni dopo, Cesar concorse al primo premio di fuga. Cherubini aveva fornito il soggetto di una fuga vocale a quat­ tro parti. Il concorrente trattò il tema egregiamente e poi ag­ giunse due controsoggetti intensamente lirici le cui combina­ zioni, di volta in volta rinnovate da un dovizioso contrap­ punto, finirono per erigere un vero e proprio monumento so­ noro. Per farsene un giudizio, non c’è che da consultare il qua­ derno delle fughe che Franck adoperava agli esami. Un primo premio decretato all’unanimità sanzionò questo nuovo successo. In questo periodo Franck venne ammesso al corso di Fran­ cois Benoist, primo organista della Cappella del Re. Il pro­ fessore non lo interessava affatto, ma il luogo e lo strumento 3

Tiersot, Les ceuvres inédites de César Franck, in « Revue musicale », dicembre 1922 (N. d. A.).

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gli piacevano, benché la sala fosse indicibilmente antiquata e l’organo, a sole due tastiere, si rivelasse piuttosto asmatico. Non importa: la gracile sonorità delle canne deformi lo aiutava a fantasticare ed a lavorare. Fu ben presto padrone della tec­ nica organistica. E fin dal 1841 concorse #1 premio d’organo. Le due prime prove: accompagnamento del canto fermo4 ed esecuzione di un brano d’organo con pedale, si svolsero nor­ malmente. Ma la terza e la quarta diedero luogo a un episodio del tutto insolito. Su due temi forniti dalla giuria, Franck do­ veva improvvisare una fuga, e successivamente un pezzo libero in forma di sonata. A questo punto, in una di quelle folgora­ zioni che illuminano lo spirito di ogni improvvisatore e con­ trappuntista nato, César arrivò a discernere un rapporto del tutto casuale esistente fra il tema della fuga e quello del pezzo libero; invece di svolgerli successivamente, egli li fuse in un unico tessuto musicale e li sviluppò amplificandoli e arricchen­ doli senza sosta, fino al momento in cui la giuria, che non vi capiva niente, lo congedò senza esprimere il giudizio. Benoist intervenne energicamente a difesa del candidato. Dopo varie esitazioni, quei signori, fra i quali mancava Cherubini, conces-, sero un secondo premio d’organo. In definitiva, tre concorsi e tre conferme del fatto che egli non era un virtuoso, bensì un musicista entusiasmato dalle pro­ prie capacità sorprendenti che preannunciavano il genio. Ma questi studi, queste prove, questi successi, se non li si considerasse con cautela rischierebbero di farci dimenticare il compositore. E quest’ultimo esisteva, e realizzava nel campo della creazione musicale cose ancor più stupefacenti. Non aveva che diciotto anni; e tuttavia portava a termine tre trii per pia­ noforte, violino e violoncello, già messi in cantiere da vario tempo. ‘ Col passare degli anni, il giudizio su queste opere è dive-

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Ossia di un motivo gregoriano, che non dovrebbe avere accompagna­ mento; ma, per usi di chiesa, si era studiata una speciale armonizzazione adatta al suo carattere.

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nuto unanime. Si ammette giustamente che il secondo trio, in­ titolato Trio de salon da Franck stesso, non offre che un in­ teresse molto relativo; l’equilibrio vi è precario e l’influenza di Schubert e di Weber troppo evidente. Tuttavia nel terzo tempo « minuetto in sol minore » traspare una affettuosa sem­ plicità ed anche gli improvvisi accordi dell’« allegro » finale ci sfiorano il cuore come soavi carezze. Il terzo Trio occupa il secondo posto nell’apprezzamento degli intenditori. È un trio romantico, più chiaramente appas­ sionato del secondo, le cui prospettive si allargano su un più vasto orizzonte. Fin dalle prime battute, il pianoforte rivela una trama di un cromatismo accentuato. Per tutto il pezzo, del resto, il tessuto pianistico mostrerà una effettiva ricchezza armonica, con incontri e accostamenti leggeri e fuggevoli che scuotono l’immaginazione e la sensibilità. L’« adagio », benché ultra-classicheggiante, non manca di una certa interiorità, ar­ ricchita dal sottile sfavillio del violino che cesella le frasi a proprio piacere. Quanto al « finale », non è il caso di parlarne qui, dato che non risulta composto nello stesso periodo degli altri tempi che lo precedono. Ma in tutto ciò si agitano motivi che ritornano, si arrestano, si sviluppano con la sconcertante insistenza di Franck, insistenza di un’anima che vuole, a ogni costo, farsi ascoltare. Ciononostante, il « vero » trio di Franck, nel 1840, è il primo Trio, in fa diesis minore. Se il secondo è un trio ro­ mantico, il primo è un trio ciclico. Qui qualcuno si rallegrerà della cosa, altri no. Perché? La forma ciclica risaliva al XVI se­ colo e, nelle intenzioni o in qualche frammentaria realizzazione, si era insinuata in Bach, Rust5, Beethoven, Schubert, Schu-

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Friedrich Wilhelm Rust (1739-1796); a tredici anni suonava a memoria tutti i preludi e le fughe di Johann Sebastian Bach. Dedicatosi intera­ mente alla musica dopo aver studiato legge, fu allievo anche di Philipp Emanuel Bach. Visse per qualche anno in Italia, e fu Hof-musikdirektor a Dessau, la sua città. Come compositore è noto soprattutto in seguito ad una polemica sorta nel 1912 a proposito delle sue Sonate per pia­ noforte, nelle quali Vincent d’Indy volle vedere delle « profezie » pre-

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mann, allo stesso modo in cui il cromatismo aveva cantato sotto le dita di Frescobaldi e di Monteverdi. Franck prendeva dunque quel che gli tornava utile là dove 10 trovava. E chi poteva contestargli il diritto di trarne il mag­ gior profitto? Ne fece buon uso in questo trio, sostenuto es­ senzialmente da due temi. Il tema della vita, ritmico, conti­ nuamente risorgente, continuamente rinnovato, quasi aggres­ sivo, avvincente; quello dello spirito, impalpabile, forte della propria certezza e purezza. Si dirà che Franck non mirava tanto in alto. Ma l’istinto, in un essere superiore, soprattutto a diciotto anni, va spesso al di là dell’intelligenza. I due temi sono bellissimi. Il tema della vita, in note uguali all’inizio, proclama la propria durezza, la propria ostinazione. 11 tema dello spirito prende invece un dolce cammino a scale ascéndenti e discendenti, si pensa al respiro di un bimbo nel sonno accompagnato da un lamento tenero e sussurrato. Dall’« andante con moto », primo tempo, allo « scherzo » a due trii, creato dal Beethoven dei Quartetti X e XIV, all’« al­ legro maestoso » del « finale », il progresso è costante. I temi della vita e dello spirito persistono, ma contrapposti o intrec­ ciati in una trama via via piu piena, spiegata interamente, per risolversi nella chiarità della tonalità di fa diesis maggiore, che sempre sarà per Franck la grande tonalità della luce e del giu­ bilo celeste. L’importanza di questi tre trii è dunque considerevole da un duplice punto di vista: musicale e spirituale. Per quanto grandi siano stati geni come Bach, Beethoven, Schubert, nessuno di essi aveva sentito con tanta precisa acu­ tezza il potere espressivo della forma ciclica. Qui Franck ab­ bozza il piano sul quale innalzerà le sue sublimi architetture. Questo, in un’epoca in cui i compositori volgevano le spalle tanto alla musica da camera che alla sinfonia. Vincent d’Indy beethoveniane dal punto di vista dello sviluppo formale, mentre secondo il Neufeldt esse sarebbero state « modernizzate » ad arte da un nipote dello stesso Rust.

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PRESENTIMENTO DEL GENIO

non esita a scrivere: « Con il Trio iti fa diesis minore, Franck creava un’opera di cui non si sarebbe potuto allora trovare l’eguale in nessun altro paese del mondo »6, Donde la svolta che questi trii determinano nella storia dell’arte musicale. Essi svolgono un ruolo altrettanto fondamentale per quel che riguarda la vita interiore di Franck. In fin dei conti, è con essi che egli compie da se stesso quella scelta della musica alla quale, secondo noi, è legato un così alto significato spirituale. Ed egli lo sa tanto bene die, passando sopra alla produ­ zione anteriore, mettendo da parte Due melodie per pianoforte (op. 15) e una Seconda Sonata, anch’essa per pianoforte (op. 18), accanto alla parola Trio, scrive l’aurorale e pudico « op. 1 ». Dei successi al Conservatorio, della propria giovanile mae­ stria, egli non era affatto orgoglioso. Aveva l’animo modesto, dolce, apparentemente tranquillo di sua madre. Sognava nel suo intimo, senza che si arrivasse a sapere fin dove giunge­ vano i suoi sogni. Sempre puntuale, metodico, minuzioso, sia con il lavoro musicale che con i doveri religiosi. Obbediva a quel tiranno di suo padfe che, non appena ottenuto il premio d’onore, lo aveva introdotto al Collegio dei Gesuiti di Vaugirard per darvi delle lezioni e aveva organizzato l’uno dopo l’altro due concerti da Erard e alla Salle Chantereine.

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D’Indy, La première manière de César Franck, in « Revue de musico­ logie », febbraio 1923 (N. d. A.).

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Capitolo quarto

La dolorosa obbedienza

Nicolas Franck aveva capito anche lui l’importanza dei Trìi, ma in un senso tutto diverso. Si era reso conto che il figlio aveva loro dedicato molto tempo, e riteneva che i risultati do­ vessero esser pari alio sforzo. Tanto per cominciare, un giorno, chiesto a Cesar il manoscritto dei Trii, gli ordinò di scrivere in prima pagina: « A Sua Maestà Leopoldo I, re dei Belgi »; alla dedica seguiva rinterminabile firma: « César-Auguste Franck, di Liegi ». Poi, riandando col ricordo al palazzo nel quale il sovrano si era degnato di ascoltare il figlio, si abban­ donava a sogni stravaganti. Con Parigi a portata di mano, sarebbe stato insensato non sollecitarne il giudizio che, agli occhi di Nicolas Franck, do­ veva risolversi in danaro e considerkzione. I Trii non parvero impressionare il pubblico in modo particolare. Da parte sua, Cesar non sembrò affliggersene; con la mancanza di fretta che gli conosciamo, egli preparava il « Prix de Rome », ultima tappa della sua carriera musicale scolastica. Nicolas Franck pensò molto semplicemente che i Trii non avevano avuto successo per il fatto che il Re, cui erano dedi­ cati, non li aveva ascoltati. E ancora una volta riprese la de27

FRANCK

cisione un po’ pazza del 1835: abbandonò Parigi come aveva abbandonato Liegi otto anni prima. Reclutato un eccellente violoncellista da aggiungere a César e a Joseph, Nicolas Franck presentò la richiesta a Leopoldo I. Il re ricordava perfetta­ mente il fanciullo che gli aveva suonato il Gr,an rondò ; ac­ cordò la propria benevola attenzione a quelle tre opere la cui portata oltrepassava di gran lunga le sue capacità di compren­ sione, e una lettera di ringraziamento con una medaglia d’oro attestarono se non altro la sua buona volontà. Ma il miracolo che, non si sa troppo bene perché, Nicolas Franck si aspettava, non si produsse. La prova decisiva ebbe luogo il 5 agosto 1843, alla Grande Harmonie di Bruxelles; il pubblico era numerosissimo. I Trii furono accolti da certuni con indifferenza, dagli altri con malagrazia. La collera del pa­ dre di César fu spaventevole. Davanti al figlio ventenne, che chinava in silenzio la testa, il vecchio diede libero sfogo al proprio rancore, ail disprezzo per quella musica che non si pro­ cacciava i favori del pubblico. E dato che Liszt dava un con­ certo proprio nella capitale belga, gli gettò in viso il nome di quell’idolo. — Va’ a riascoltarlo. Prendilo a modello. E chiedigli che cosa pensa dei tuoi Trii. Ancora in questo caso, il risultato non fu quello che Ni­ colas Franck si aspettava. César ascoltò Franz con la crescente convinzione che non sarebbe mai riuscito ad eguagliare l’im­ pareggiabile pianista ungherese, ma come compositori i due si capirono a meraviglia. Liszt il generoso, Liszt il magnifico, il Liszt che si ritrova su tutte le vie del genio esaminò a fondo i Trii e - primo ed unico - ne comprese le bellezze. « Non c’è niente da toccare nel primo e nel secondo, dichiarò, il terzo contiene in potenza un quarto trio, il suo “finale" è di per sé Una entità effettiva. Fatene un bel trio, e lo suonerò volen­ tieri ». 1 1 Franz Liszt fu tra i primi a intuire li grandezza di Wagner (lo aiutò anche materialmente) e piu volte presentò al pubblico musiche già re­ spinte altrove, e oggi ritenute validissime.

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LA DOLOROSA OBBEDIENZA

Di quella accoglienza, di quella conversazione César Franck riportò un’impressione positiva. Il consiglio di Liszt occupò a lungo il suo spirito, facendone scaturire le idee che avrebbero realizzato il progetto dell’amico: sostituire un nuovo « finale » al terzo Trio, trasformare il « finale » esistente in trio completo. Poco ci importa l’ordine nel quale Franck realizzò il lavoro. Certo è che il « finale » del terzo Trio, per tono e stile, appare molto diverso dall’« allegro » e dall’« adagio » composti pre­ cedentemente. Franck vi rivela molti aspetti del suo tempera­ mento fino ad allora sconosciuti: tema lungamente preparato e progressivamente spiegato, inversione dei soggetti, combina­ zioni espressive, processo esaustivo consistente nel trasportare più volte di seguito una frase al semitono superiore, il che dà un’impressione di pienezza attinta per gradi. Come osserva Jardillier2, lo spirito di Beethoven è veramente presente in que­ sto brano. Per quanto riguarda il quarto Trio, conseguentemente alla sua origine, esso si svolge in un tempo solo e prende a pre­ stito dalla sonata la sua forma, ma per dilatarla, per conferirle originalità, se è lecito esprimersi cosi. Franck vi ricerca l’unità nell’opposizione; due temi, l’uno dei quali non è che l’altra faccia del primo, si affrontano, si fondono, si annullano, si ri­ petono senza mai assomigliarsi del tutto, cooperano alla na­ scita di un motivo nuovo, molto largo, molto lirico, per il quale l’autore richiede la « più grande espressione ». E questo Trio è ancora un’ascesa; si conclude con forza, maestosamente, nella trionfale semplicità del tema iniziale, tornato infine alla sua nu­ dità originaria. Anche la dedica è quasi regale: « Al mio amico Franz Liszt ». Cosi com’è, quest’opera composta di quattro trii riveste, ri­ peto, un significato musicale e spirituale insieme: César Franck ha sbozzato il primo gradino nell’ordine della bellezza e della verità. Esso non rientrava nei piani di Nicolas Franck. Ma il ri2

Jardillier, La tnusique de chambre de César Franck (N. d. A.).

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spetto nei confronti di Liszt era così grande, che Nicolas non ebbe il coraggio di vietare il lavoro consigliato da Franz. Se ne consolò presto, d'altronde, per l’appoggio che Liszt fornì presso i signori Schuberth. Questa casa di Lipsia accettò in effetti di pubblicare i Tra, a condizione che si raccogliesse un numero sufficiente di sottoscrittori. Nicolas Franck si ritrovò nel proprio elemento; riuscì ad allineare su quattro grandi fogli in pergamena centosettantatré firme. Ed è davvero un docu­ mento singolare quello in cui, come se fossero state vergate ieri, si ritrovano vicine le firme di Liszt, Meyerbeer, Chopin e Donizetti; ci sono anche Marmontel e il marchese di Louvois, Auber e la principessa Beigioioso, Ambroise Thomas e la con­ tessa Résia d’Indy, nonna del futuro Vincent d’Indy. Ma in fondo Nicolas Franck non aveva cessato di odiare i Tra. Di fronte a un profitto .in fin dei conti abbastanza magro, la vanità soddisfatta non poteva durare molto. Non appena essa si dileguò, riapparve l’idea fissa, l’ossessione autoritaria: César doveva innalzarsi al piu alto livello fra i virtuosi com­ positori. E dato che l’impresa aveva possibilità di successo sol­ tanto a Parigi, ancora una volta fu presa la strada della capi­ tale abbandonata un anno prima. Quali sarebbero state le possibilità di successo di Franck contro un Liszt, uno Chopin, un Thalberg, un Kalkbrenner? 3 Liszt possedeva un tale amore per il pianoforte, un tal genio della tastiera da trasfigurare anche le musiche più misere. Li­ bero nella vita come nel suo inimitabile rubato, Chopin dif­ fondeva tra il pubblico una sì arcana poesia da soggiogarlo a sua insaputa. Thalberg e Kalkbrenner, oltre ad avere un ef­ fettivo talento, amavano il loro mestiere, usavano abili accor3

Sigismund Thalberg (1812-1871) e Friedrich Kalkbrenner (1788-1849), entrambi compositori e pianisti, le cui brillantissime carriere li porta­ rono a competere (secondo il pubblico del momento) con Liszt e Chopin. A quest'ultimo, ventenne, Kalkbrenner avrebbe voluto dare un lungo corso di lezioni. Di Thalberg si diceva che tra i virtuosi della tastiera era « il primo », mentre Liszt era « il solo ». Tutti e due eccellevano nel genere virtuosistico brillante, con dovizia di « Grandi Fantasie » com­ poste da loro stessi su motivi d’opera.

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LA DOLOROSA OBBEDIENZA

gimenti. Nelle composizioni per pianoforte, Thalberg aveva adottato una formula: collocava il canto al centro e lo circon­ dava di fugaci arpeggi, producendo un effetto estremamente brillante. Kalkbrenner aveva curato e perfezionato per anni il suo personalissimo tocco. Con Logier, aveva inventato il chiroplasto, un apparecchio che teneva il polso sollevato per fa­ vorire l’attacco perpendicolare della nota, e che aveva in se­ guito semplificato per farne una specie di « guida-mano » 4. Franck poteva ritenersi sconfitto in anticipo. Cionondimeno obbedì al padre, la cui tattica dopo il ritorno da Bruxelles era cambiata. César aveva ricominciato a dar lezioni dai Gesuiti di Vaugirard e in casa sua, in rue Laffitte 43, organizzava ogni mercoledì una « matinée » musicale su invito, cui la critica, com’è naturale, veniva ampiamente invitata. Franck suonava con impegno, ma senza partecipazione, incapace di appassio­ narsi e di far appassionare gli altri al virtuosismo e al tipo di musica che esso comporta. Un critico ha ottimamente riassunto l’impressione che il Franck d’allora, giudicato dall’esterno, pro­ duceva: « Questo giovanotto ha del talento, ma un talento meccanico. È padrone della tastiera, la usa fin dove e come vuole. È cristallino, preciso, incisivo... ». Non è facile indovinare la presenza di un’anima in un indi­ viduo che non fa nulla per mostrarla. Ma non era questa la faccenda piu grave. Nicolas Franck vo­ leva che il figlio, secondo la moda del momento, divenisse un virtuoso-compositore. Il vecchio non faceva distinzioni fra il virtuosismo e le creazioni destinate a favorirlo. Una volta tra­ scorso, in omaggio a Liszt, il periodo di indulgenza, si dimo­ strò intrattabile sul problema della composizione. Con una brutalità che non ammetteva repliche, aveva costantemente proibito a César ogni tipo di musica che non risultasse utile per i concerti. E Nicolas Franck era davvero un uomo terribile. Un ritratto inedito, riportato nel libro di Maurice Kunel5, lo mette cru4 5

Dumesnil, La musique romantique frangaise (N. d. A.). Kunel, César Franck (N. d. A.).

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FRANCK

definente in rilievo: gli occhi pallidi dallo sguardo fisso e in­ sostenibile, le labbra chiuse sulla mascella contratta, un mento dalla punta aggressiva mal dissimulata dalla bianca barba, il pugno chiuso sulla magra gamba proclamano la sua durezza, il suo egoismo, la sua inflessibilità. Cesar Franck era dunque condannato a scrivere Ricordo di Aquisgrana, Fantasia su Gulistan, Fantasia su due arie po­ lacche, Duetto a quattro mani su « Lucile » di Grétry, senza contare i capricci, i duetti concertanti e le trascrizioni di cui non si trova traccia nel catalogo delle opere. Di certo, dopo i Trii, egli aveva tratto un respiro compo­ nendo Ruth, l’egloga biblica. Come per i Trii, Nicolas Franck aveva nutrito infatti grandi speranze in questo oratorio, visto che l’oratorio aveva nonostante tutto qualche vincolo di pa­ rentela con il teatro, cioè con la forma d’arte o pseudo-arte che andava in Francia per ia maggiore. E in questo caso Ni­ colas Franck non si era ingannato del tutto. Erard si era in­ teressato all’opera: per la prima esecuzione aveva riunito un uditorio splendido: Meyerbeer, Spontini, Liszt, Moschelès, Halévy, Adam, Alkan... A sua volta, Liszt aveva pregato Ary Scheffer d’insistere presso il signor de Montalivet, affinché la sala del Conservatorio venisse accordata al giovane amico per una seconda esecuzione. Quest’ultima aveva avuto luogo il 4 gennaio 1846, in condizioni eccezionalmente favorevoli: ottantatré strumentisti, settanta coristi, i migliori artisti dell’Opéra Comique. Una grande carriera sembrava profilarsi. Ma Liszt, che possedeva un’esperienza degli esseri umani, aveva già notato, a proposito di Ruth, la totale incapacità da parte di Franck a fare i propri interessi. Il compositore non aveva fatto un gesto per accrescere i propri vantaggi artistici. Sembrava non sospettare nemmeno che il successo implica una certa continuità. E il silenzio era calato ben presto sull’egloga biblica e sul suo autore. Franck si trovava ora con le spalle al muro, come si dice. Con i Trii, aveva optato per la musica. Con la musica, aveva preso partito per le cose dell’anima. E suo padre, piu che mai preso dal miraggio del virtuosismo, gli proibiva di dedicarsi 32

LA DOLOROSA OBBEDIENZA

alla vera musica. Cosa fare? Rinunciare alla propria anima? Infrangere .l’autorità paterna? Né l’uno, né l’altro. César non era di quelli che si ribellano 0 cedono. Fece come l’onda, che aggira l’ostacolo prima di lo­ gorarlo. Sospirò qua e là la propria afflizione. Cercò un rifugio. E lo trovò. Come scolara in un pensionato di rue des Martyrs, Franck aveva avuto una ragazza il cui carattere e la cui intelligenza musicale lo avevano veramente affascinato. Le aveva prodigato consigli con cura tutta particolare, prolungando le lezioni an­ che quando il tempo era ormai scaduto, sia ch’egli si recasse in casa di lei, sia che quest’ultima venisse da lui, in rue Laffitte, dove d’altronde partecipava alle audizioni settimanali, e dove un giorno avrebbe suonato la difficile Ballata op. 9 dèi suo premuroso ed eccezionale insegnante. Félicité Saillot proveniva da un’illustre famiglia. La chia­ mavano Félicité Desmousseaux, dal nome del teatro apparte­ nente ai genitori, i Desmousseaux. Il padre recitava la parte di « padre nobile » alla Comédie-Fran^aise, con la quale aveva anche rapporti d’affari; la madre, ancor più dotata di talento, svolgeva il ruolo di confidente tragica e di matrona con un’au­ torevolezza che non stupiva nessuno: la Desmousseaux faceva parte di quella famosa dinastia di Battisti che aveva regnato sulla Casa di Molière. Félicité preferiva la musica al teatro. La madre, sensibile, liberale, essa stessa buona musicista per giunta, ne rispettava 1 gusti. Questa attrice dal cuore materno aveva ben presto concepito un affetto per il pianista di cui aveva indovinato l’onestà, la purezza dell’animo. Il fatto che César Franck avesse ricopiato per la figlia la grande fuga che un tempo gli aveva fruttato il primo premio, non era stato per lei un motivo di celia o di sarcasmo. E Franck non aveva potuto nascondere il dolore che l’avida intransigenza del padre gli causava, né il tragico imbarazzo in cui si trovava. La signora Desmousseaux lo aveva ascoltato, compreso. Da quel giorno, il giovanotto aveva potuto alternare una parte del tempo dedicato all’iiisegnamento, con la composizione. 33

FRANCK

L’atmosfera che l’artista stabilisce a poco a poco nel luogo dove ha l’abitudine di creare, Franck poteva riviverla in casa dei Desmousseaux. Lui, sempre cosi calmo, approfittava avida­ mente di quegli istanti, troppo brevi e come sottratti a una specie di maledizione; l’anima gli si illuminava, nella libertà, ed egli componeva dei pezzi brevi - soprattutto melodie - a seconda del tempo che aveva a disposizione. Cosi compose L’ange et l’enfant, su versi di Reboul. Que­ sta melodia non ha alcuna pretesa d’impressionare per la sua varietà o i suoi elementi pittorici; su un accompagnamento fluente e monotono allo stesso tempo, essa scorre delicata­ mente, modulando a seconda dei sentimenti suscitati nel cuore dell’artista. Quattro accordi - i primi e i soli che vi si riscon­ trano - ne formano la conclusione, accordi sereni nonostante le funebri parole: « Pauvre mère, ton fils est mort »; la to­ nalità di si maggiore rispecchia la 'luminosità delle eterne dimore... Ma Franck commise l’imprudenza di portare a casa il ma­ noscritto de L’ange et l’enfant. Il padre lo vide e andato su tutte le furie lo stracciò rabbiosamente, con odio. Ancora una volta Franck chinò la testa, diviso fra due do­ veri ai suoi occhi ugualmente imperiosi: l’obbedienza al padre, la libertà della propria anima. Il caso era veramente penoso; cionondimeno, Cesar non ne provò amarezza. Dava con ciò prova di un eccezionale autocontrollo: spesso, nella vita, gli sarebbe capitato di soffrire, senza per questo mai provarne acrimonia, senza che le sue ferite morali venissero ammorbate dal veleno di una violenta reazione. Un nuovo sentimento, per la verità, gli comunicava fre­ schezza e calore nello stesso tempo: l’amore. L’interesse, la sollecitudine per Félidté Desmousseaux si erano mutati in un ardente attaccamento. Di quella ragazza avrebbe fatto sua mo­ glie. Il suo turbamento si rivela nella scelta dei poemi, delle dediche. È il caso di Souvenance, su parole di Chateaubriand, offerto a Pauline Viardot, il cui ricordo gli si era impresso nella memoria dopo l’incontro di Bruxelles, di L’émir de Bengador, omaggio alla signora Boutet de Monvel, di Le sylphe, 34

LA DOLOROSA OBBEDIENZA

d’Alexandre Dumas, e Robin Gray di Florian, dedicati a Claire Brissaud, cugina di Fólicité. È il caso di Nimon, di Musset. È infine e soprattutto il caso di Aimer, il cui tema grazioso e appassionato è preso da Méry, che comincia con accordi di chitarra e si conclude con arpeggi. Indiscutibilmente César era innamorato. E poiché non fa­ ceva più distinzione fra la propria musica e il proprio cuore, la musica, come il cuore, assumeva accenti amorosi. Tempi nuovi battevano alle porte. Tutto ciò era troppo evidente per sfuggire a Nicolas Franck, che sentì la propria tirannia minacciata. Nei confronti della signorina Desmousseaux il vecchio si lasciò andare a una sce­ nata che, nelle intenzioni offensive, superava quelle di ieri e di sempre. César barcollò sotto la violenza del colpo, ne soffrì atrocemente. Fu sua madre, la buona e pacifica madre, a con­ sigliargli la rottura col genitore: e César se ne andò.

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Capitolo quinto

Anni oscuri, anni fecondi

César Franck partì a mani vuote, senza denaro, né libri, né musica, né pianoforte. Affittò una camera in rue Bianche e, pur cercando i mezzi per assicurarsi una modesta vita solita­ ria, soddisfece la propria sete di creazione dedicandosi alla elaborazione di un ampio affresco musicale. Gliene aveva fornito l’argomento Victor Hugo, con una delle poesie che componevano Les feuilles d’automne. L’epigrafe era veramente atta ad infervorare Franck: O altitudo, aveva scritto il poeta in testa a Ce qu’on entend sur la montagne. La mae­ stosità dei primi versi, il clamore immenso e confuso, la mu­ sica ineffabile e grave che essi evocano lo trasportavano lette­ ralmente sulla cima donde si domina l’universo e si percepi­ scono le voci infinite che ne emanano. In un movimento lento, una misteriosa atmosfera si crea, caratterizzata dagli accordi dei violini sulle tranquille note te­ nute dei bassi. Poi, aiutato dalle successive entrate degli stru­ menti ad arco, un canto tenta di liberarsi. Ma cede impotente e si perde di fronte al persistente chiaroscuro delle vaghe ar­ monie delle prime misure. Tuttavia, un trasalimento nuovo percorre l’orchestra. 37

FRANCK

I valori raddoppiano e precipitano; nel cuore delle profon­ dità sonore si forma un disegno che, girando in qualche modo su se stesso, si slancia e si trascina appresso le « parti » su­ periori. Lo slancio è dato. Un’agitazione febbrile e triste s’im­ possessa di tutte le « parti », agitazione che pure conserva una certa lentezza, simile a quella che si prova nei sogni, dove le cose si agitano continuando a restare immobili per metà: moti contrari, sincopi, modulazioni, spinte cromatiche... Sulla montagna, il musicista sente la più melanconica delle melodie: il mormorio degli uomini. Qui, il musicista mostra la propria indipendenza di fronte al poeta, c’è contraddizione fra il « crescendo » che conduce questa lenta agitazione al suo acme, e l’idea del poeta: mor­ morio degli uomini. Ma la contraddizione non è che apparente, perché, nella sua disperazione, il mormorio degli uomini è terribilmente potente. Quanto alla sostanza, il musicista resta fedele al poeta. In ef­ fetti, alla voce afflitta degli uomini, Victor Hugo oppone quella serena, felice della Natura. E Franck vi ritrova l’antitesi cor­ rispondente a una profonda tendenza della propria personalità. A questo punto è il clarinetto ad esporre il canto della pace e dell’amore. I violini e i bassi insistono nel far sentire, con dei battiti inquieti, l’agitazione dell’uomo. Insiste anche il clari­ netto; di modulazione in modulazione, esso si innalza finché sboccia l’inno tenero e glorioso a un tempo. A partire da questo momento, Franck ha posto i suoi temi. Come il poeta, ormai, egli sente e unifica: Le chant de la Nature au cri du geme humaìn... Alternativamente le due voci domineranno nel vento che sale i declivi della montagna. Poi, all’improvviso, un vasto silenzio, quale solo la montagna ne conosce; per l’ultima volta, spoglio, nudo, si fa udire il canto d’amore. E Franck, con un senso già acquisito della grandezza, chiama a raccolta i suoi motivi e li proietta nel cielo della musica. 38

ANNI OSCURI, ANNI FECONDI

Che storia curiosa! Cinque anni prima, con i Trii — e par­ ticolarmente con il Trio in fa diesis minore - aveva creato un’opera non paragonabile ad altre nella sua epoca. Oggi, in un campo piu vasto, ripete l’impresa. Povero, isolato, lavorando senza intenzione di pubblicare, unicamente per il proprio per­ fezionamento di uomo e di artista, realizza quel che intorno a lui nessuno ha ancora realizzato: con Ce qu’on entend sur la montagne, egli crea veramente il poema sinfonico. Chi, nel 1846, poteva offrire a Franck la chiave di una for­ mula simile? Un solo musicista: Berlioz. Ma Tiersot1 osserva che nulla autorizza a pensare che Franck abbia assistito ai con­ certi di Berlioz. Quel che è certo è che Ce qu’on entend sur la montagne è anteriore di dieci anni al primo dei « Symphonische Dichtungen » di Liszt, ispirato proprio dallo stesso poema di Hugo. Ciononostante, Liszt è considerato come l’inventore del poema sinfonico2. In realtà, da infiniti punti di vista, Franck è un uomo scon­ certante. Scolaro esemplare, ha trasformato tre concorsi in tre fatti altamente rivoluzionari. Abbandonato al suo estro, im­ mette nella musica innovazioni sorprendenti. Sembra lanciato sulla strada in cui i novatori combattono a gran grida e gran gesti. Ed eccolo farsi invece silenzioso, nella misura in cui si può considerare Ce qu’on entend sur la montagne come incom­ piuto, inedito, una volta rotto il silenzio. Franck tace per due ordini di motivi, che sembrano l’uno all’altro estranei, e sono invece intimamente legati. Tace perché si sposa. Tace perché riflette su se stesso. Vista la feroce opposizione del padre,* César ha dovuto aspet­ tare il venticinquesimo anno, di età per sentirsi in grado di co­ municargli rispettosamente l’annuncio ufficiale del suo matri-

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Tiersot, Op. cit. L’idea di musica descrittiva è vecchia quanto la storia della musica. A Liszt si suole attribuire la priorità nell’aver concepito lavori orche­ strali in un sol tempo, con « programma » letterario, e nell’averli chia­ mati « poemi sinfonici ». Berlioz compose la Fantastique nel 1830.

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FRANCK

monio. E lo strano uomo si è piegato con un ragionamento da bigotto: se le sue proteste non sono servite a niente, significa che la Santa Vergine e i santi rendono lecito quel matrimonio. La cerimonia ebbe luogo in Notre-Dame-de-Lorette il 22 feb­ braio 1848, il primo giorno dei moti rivoluzionari, e i due gio­ vani dovettero passare attraverso una barricata con l’aiuto de­ gli insorti per giungere in chiesa. Dovettero ugualmente su­ perare varie difficoltà per far ritorno a casa loro, una volta ter­ minato il pranzo di nozze. Il nuovo appartamento di rue Bianche era molto piccolo, ma se non altro Franck vi si sentiva in casa propria. E accanto alla giovane moglie, rifletteva sulla vita, sulla musica, sul fu­ turo. La rivoluzione aveva grandemente commosso il suo animo generoso. Egli aveva sentito trascorrere una folata di aspira­ zioni a lungo soffocate e desiderava viverle intensamente senza preoccuparsi della politica. Aveva in mente un coro maschile a tre voci: l'Uguaglianza, che non scrisse; abbozzò un Inno alla Patria, di stile elevatissimo dove, dopo un importante pre­ ludio orchestrale, maestoso e nobile, si faceva udire un coro di voci gravi: gli Anziani, un coro di Giovani, un coro di Donne (ma quest’ultimo rimase un progetto, e non venne mai scritto). Per Franck la rivoluzione non fu che un incidente. Appena tornata la calma, egli ritornò ai suoi problemi fondamentali: la vita, la musica, lo spirito. Sua moglie aspettava un bimbo. Franck aveva su di sé la responsabilità di altre vite. L’idea che ci si possa sottrarre, magari solo nelle intenzioni, a un così chiaro dovere, non gli passava nemmeno un istante per la mente. Provvedere ai bisogni della compagna prescelta, as­ sicurare l’esistenza dei piccoli cui si è data la vita, erano per Franck doveri sacri a tal punto che non era neppure il caso di discuterli. Ed immediatamente egli organizzò il proprio lavoro per risolvere queste urgenti necessità. Le risorse erano ristrettissime. L’abate Dorcel, vicario di Notre-Dame-de-Lorette, amico della famiglia Desmousseaux, lo aveva fatto nominare organista di quella parrocchia. Ma l’im­ piego era retribuito male. Restavano le lezioni, pure poco red­ ditizie; per fortuna, si moltiplicavano abbastanza in fretta. 40

ANNI OSCURI, ANNI FECONDI

Cesar Franck dovette dunque lavorare enormemente per gua­ dagnare il pane quotidiano. Ogni mattino alle otto, partiva da rue Bianche per recarsi, ai quattro angoli di Parigi, in collegi, istituti, domicili privati di allievi a insegnare solfeggi e pia­ noforte. Lo si vedeva al Collegio dei Gesuiti di Vaugirard — già come un vecchio habitué — al collegio Rollin, al Collegio degli Agostini dell’Assunzione - in Faubourg Saint-Honoré ad Auteuil in un istituto destinato alle fanciulle del bel mondo. Capitava di frequente che la lezione avesse luogo all’ora di pranzo; e Franck sgranocchiava un frutto continuando la le­ zione all’alunno. Se un momento di respiro gli era accordato all’ora del pasto, prendeva un caffè con panna e un dolce in qualche caffè o in una cremeria. Tutto ciò era molto faticoso. Ma il compimento di un do­ vere compreso appieno e serenamente accettato conferisce allo spirito una libertà quasi assoluta. Quando vi sembra di avere ormai dato tutto, il poco che vi resta vi appartiene in modo così esclusivo, da acquistare un valore incalcolabile. Durante le lunghe peregrinazioni per Parigi, Franck aveva riflettuto a lungo. Non aveva nulla da rimproverarsi di fronte ai suoi; si era liberato del virtuosismo e delle sue servitù: se arrivava a riservarsi un po’ di tempo per comporre, leggere, sognare, sa­ rebbe andato molto lontano, molto in alto. Lo sapeva perché era disinteressato, animato da un’intima energia, da un sublime impegno. Aveva dunque cominciato col consacrare le proprie serate, vale a dire circa due ore, a ciò che chiamava « il tempo della meditazione ». Ma spesso era veramente stanco. Non riusciva a liberarsi sempre da una certa tensione dei nervi che ostaco­ lava le sue lente ricerche. Oppure lo spirito, come stanco di attendere, negava il nutrimento spirituale. Allora Franck cambiò tattica; collocò il proprio fantasticare creativo all’inizio della giornata, fra le cinque e mezzo e le sette e mezzo del mattino. Lavato dal sonno, si sentiva allegro e pulito. Vedeva chiaro; il lavoro prendeva il suo vero signi­ ficato di missione, al di sopra gli atti quotidiani. Componeva, leggeva, meditava. 41

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Si ammette comunemente che dopo la straordinaria fioritura dei Trii, fino alla comparsa delle opere della maturità, Franck non abbia scritto niente di importante. La cosa è esatta se ci si limita alle pagine pubblicitarie. Ma non lo è piu se si con­ siderano gli inediti e le pagine postume. Ne abbiamo avuto la prova con Ce qu’on entend sur la montagne. Inoltre, Franck si dedicava a ogni sorta di esperienze e ri­ cerche puramente tecniche che non lasciano maggior traccia delle prove dell’alchimista in laboratorio. Egli voleva cono­ scere tutti i segreti della propria arte, e come i compagnons del Medio Evo, compiva un misterioso viaggio attraverso i grandi paesaggi della musica. Talvolta faceva scoperte sorpren­ denti, molto spesso di carattere particolare, circoscritto. E senza trascurare i buoni artigiani di secondo piano, ritornava instancabilmente ai suoi dèi, cioè a Bach e Beethoven. Bach non finiva di stupirlo. Un felicissimo evento favoriva Franck nella penetrazione dell’opera del Cantor; la fondazione della Bach-Gesellschaft a Lipsia. Progressivamente, le sublimi pagine coperte d’ombra tornavano alla luce. E Franck non ces­ sava di nutrirsi di quella rivelazione. Trovava così la via at­ traverso la quale Giovanni-Sebastiano aveva camminato verso il genio: la sottomissione alle regole piu obbliganti, la padro­ nanza progressiva e sovrana di esse, poi il loro superamento, e l’inestimabile libertà che esse conferiscono a coloro che le rispettano e insieme se ne affrancano dominandole. Ecco il punto al quale egli voleva pervenire come tecnico. E doveva dirlo più tardi a uno dei suoi scolari: « Bach scavalcava deli­ beratamente la regola quando essa gli era d’impaccio. Ma lo faceva coscientemente e non perché non potesse fare altrimenti. Coloro che sanno possono tutto »3. Sono persuaso che Franck, nei mattutini colloqui con il suo Erard4, si dedicava ancora al contrappunto, alla fuga, come ai tempi di Reicha. 3

Vierne, Mes souvenirs (N. d. A.). I pianoforti Erard furono a lungo, coi Pleyel e i Gaveau, i migliori di Francia e tra i più rinomati nel mondo. Probabilmente, l’Erard a grande coda di Franck era dello stesso tipo posséduto da Wagner (« il cigno nero ») e da Verdi.

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ANNI OSCURI, ANNI FECONDI

Quanto a Beethoven, egli lo sentiva vicinissimo a sé. Bach era il sole, Beethoven la terra e l’acqua viva. Sentiva il vecchio leone di Vienna come il suo immediato predecessore. Era lui e nessun altro che bisognava continuare. E continuare a suo­ nare P« adagio » della Sonata in re (op. 10, n. 3) che gli inon­ dava il cuore di emozione. Gli capitava di riandare con la memoria ai concorsi al Con­ servatorio. Con quale agevolezza aveva trionfato! Cominciava a diffidare terribilmente della propria facilità. Si manteneva aperto a tutte le novità, purché fossero ge­ nuine. Doveva essere uno dei primi, insieme a Liszt, a com­ prendere ed amare la musica di Wagner. E mentre si nutriva di musica tedesca, la chiarezza francese - meglio ancora, la chiarezza parigina - lo penetrava a poco a poco. La migrazione, cominciata nel XV secolo, partita dal­ l’Austria e dalla Germania per il paese di Moresnet, da Moresnet per Liegi, da Liegi per Parigi, era terminata. Qui, e da nessuna altra parte, il suo genio doveva trovare l’equilibrio. Con i Trii, Franck aveva praticato la musica da camera; con la Sinfonia e Ce qu’on entend sur la montagne (l’una e l’altra inediti), aveva abbordato la musica sinfonica; con Ruth, l’ora­ torio. Mentre approfondiva Bach componeva musica da chiesa, con fortuna assai varia. Organista a Notre-Dame-de-Lorette prima e a Saint-Jean-Saint-Fran^ois poi, maestro di cappella a Sainte-Clotilde e titolare del grande organo della basilica, egli perpetuava volentieri l’antica tradizione in base alla quale il « cantor » forniva la musica alla propria chiesa. A una Messa solenne per solo basso ed organo, aggiunse dei mottetti, delle antifone e dei cantici. Qui gli inediti hanno larga parte. Dal 1849 figura un Sub tuum a due voci. Alcuni pezzi, di stile familiare, quasi popolaresco e pur squisito, lo mostrano in­ cline a un’affettuosa semplicità: O Gloriosa, per esempio, o il Tendre Marie. Ha una predilezione per le voci gravi; sullo sfondo opulento del coro e dell’organo si stacca un Justus ut palma florebit cantato da un basso profondo. Si prova nel co­ rale con Gratia super gratiam. Per la prima volta, osa far sen43

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tire Gesù in un Sinite parvulos, cui succede il coro Laudate pueri... Ma l’opera che domina questa produzione di musica chie­ sastica resta la Messa a tre voci, per soprano, tenore e basso, con accompagnamento d’organo, arpa, violoncello e contrab­ basso, espressamente scritta per Sainte-Clotilde, e ripresa, riela­ borata in seguito a varie riprese. Del Gloria e dello stesso Credo, non è il caso di parlare. In compenso, il Kyrie, il Sanc­ tus e VAgnus scintillano di placide luci; il Kyrie è come do­ rato dal riflesso di un paradiso ancora lontano; il Sanctus si solleva un istante sull’Osanna e, colto da subitanea stanchezza, si risolve nell’adorabile melanconia del Benedictus; YAgnus Dei, di una purezza angelica, ripete tre volte - l’una in tona­ lità maggiore, l’altra in minore - l’invocazione liturgica, pre­ ludio al Dona nobis pacem, così sereno e insieme colmo di speranza, anche se i bassi si attardano nel tema iniziale. La preghiera si conclude con un